Tutto sociologia : schemi riassuntivi, quadri di approfondimento [3a ed.] 9788841863275, 8841863277

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Tutto sociologia : schemi riassuntivi, quadri di approfondimento [3a ed.]
 9788841863275, 8841863277

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SOCIOLOGIA SCHEMI RIASSUNTIVI, QUADRI DI APPROFONDIMENTO

Per memorizzare rapidamente i concetti-guida della sociologia. Le teorie e i metodi d’indagine. Studiare in sintesi l’interazione tra individuo, gruppi e società; la stratificazione sociale; le istituzioni culturali e politiche; il mondo che cambia e la società multietnica.

TUTTO

Studio



Riepilogo



Sintesi

LO STUDIO I METODI E LE TEORIE DELLA SOCIOLOGIA, DALL’INTERAZIONE ALLA STRATIFICAZIONE SOCIALE, DALLE ISTITUZIONI ALLA SOCIETÀ DELLA GLOBALIZZAZIONE - BRANI ANTOLOGICI DI APPROFONDIMENTO - SCHEDE SUI PROTAGONISTI DELLA RICERCA SOCIOLOGICA E GLOSSARIO DEI TERMINI LA SINTESI INTRODUZIONE AI CAPITOLI PER INQUADRARE GLI ARGOMENTI SCHEMI RIASSUNTIVI PER LA RICAPITOLAZIONE DELLE NOZIONI CHIAVE - TEST PER L’AUTOVERIFICA DELL’ APPRENDIMENTO

TUTTO Studio Riepilogo Sintesi

SOCIOLOGIA SCHEMI RIASSUNTIVI, QUADRI Di APPROFONDIMENTO

SETTORE DIZIONARI E OPERE DI BASE

Testi: Lucia Demartis Revisione: Romano Solbiati Editing e impaginazione: Studio 3, Milano Copertina: Marco Santini

ISBN 978-88-418-6925-3

© 1998 Istituto Geografico DeAgostini - Novara Redazione: corso della Vittoria 91, 28100 Novara Sito internet: www.deagostini.it terza edizione, maggio 2010 prima edizione elettronica, marzo 2011

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, elettronico, meccanico o in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le copie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto all’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 941, n. 633. Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected], sito web www.aidro.org

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enomeni diversi come la globalizzazione dei mercati, l’affermarsi di società multietniche, l’incidenza dei mass media su costumi e mentalità, le nuove tipologie di propaganda politica, hanno fatto sì che lo studio dei valori, dei comportamenti e dei mutamenti sociali sia diventato essenziale per la comprensione del mondo nella sua estrema complessità. Da qui lo sviluppo eccezionale della sociologia, con i suoi strumenti sempre più aggiornati e completi di analisi interdisciplinare. Negli ultimi anni anche in Italia le facoltà universitarie di sociologia si sono moltiplicate, e oltre a ciò lo studio della sociologia è diventato un elemento formativo imprescindibile in numerosi altri corsi di laurea, oltre che nei licei d’indirizzo psico-pedagogico e negli istituendi licei delle scienze sociali. Tutto Sociologia è uno strumento agile che consente al lettore di penetrare all’interno del dibattito sociologico più recente. A un capitolo in cui si tracciano le linee essenziali delle principali teorie e della metodologia di ricerca della sociologia, segue l’analisi dei modi di esistenza delle collettività umane e dei rapporti individuo-collettività. Un’articolata serie di capitoli sulle istituzioni descrive la funzione dei quadri sociali fondamentali (la famiglia, la scuola, i mass media, la religione, lo Stato). Particolare attenzione è dedicata allo studio del cambiamento sociale e delle trasformazioni che attualmente più coinvolgono le società occidentali (la società postindustriale, società anziane e esplosione demografica, globalizzazione e società multietniche). Concludono l’opera due strumenti per facilitare la comprensione del testo: le schede sui protagonisti della ricerca sociolgica e un glossario con le parole chiave della disciplina.

Guida alla consultazione Sintesi introduttiva al capitolo

Riquadro di approfondimento

7 - Classi e stratificazione sociale

3 La socializzazione

IL CONCETTO DI CLASSE

Per socializzazione si intende il processo mediante il quale gli individui e i gruppi apprendono e interiorizzano le norme culturali e i valori propri del contesto sociale di appartenenza. Si tratta di un processo elaborativo che dalla prima infanzia si estende all’età adulta secondo fasi e modalità differenti. La socializzazione si distingue in primaria (legata all’infanzia e allo sviluppo psicofisico e in stretta relazione con la famiglia) e secondaria (dipendente in particolare dall’assunzione di un ruolo lavorativo). L’assimilazione delle modalità culturali del proprio orizzonte sociale talvolta fallisce dando origine a fenomeni di devianza.

3.1 Il problema

Qual è l’origine degli elementi comuni di una società?

Analizzando il concetto di cultura si è visto come esso veicoli norme di comportamento, ma anche conoscenze, valori, significati, comuni a una pluralità di individui. La vita stessa della società è legata a questa condivisione di elementi, che per perdurare nel tempo richiede non solo un’accettazione esterna, frutto di coercizione, ma anche di essere accompagnata da un’accettazione per così dire interiore. Individui diversi devono acquisire abilità complesse, un linguaggio comune, un comune modo di relazionarsi, di comunicare e di comportarsi, pena l’impossibilità della stessa vita sociale. Ma se la presenza di questi elementi comuni è ciò che garantisce la continuità del nostro vivere sociale, in che modo questi stessi elementi hanno origine? Come è possibile che individui differenti per intelligenza, inclinazioni, prestanza fisica ecc. riescano a condividere con gli altri tutti quegli aspetti che costituiscono la nostra vita quotidiana? Attraverso quale processo la società garantisce la propria esistenza consentendo ai nuovi nati di accettarne le regole e i modelli, non solo perché imposti, ma in quanto sentiti come naturalmente parte di sé?

“Le diverse classi e sottoclassi non sono divise da steccati: alcune zone sono terra di nessuno ed esiste una certa mobilità sociale, che presumibilmente è tanto maggiore quanto più rapido è il processo di sviluppo economico. [...] Se si considera la distribuzione del reddito per classe o sottoclasse, il valore di massima frequenza (moda) decresce passando dalla classe economicamente più elevata alle altre; ma occorre tener presente che, per certi aspetti, può esservi comunanza d’interessi e quindi solidarietà fra gli strati più elevati o, al contrario, fra quelli più bassi delle diverse classi e sottoclassi, dove il con-

superiore di élite (possidenti, cioè chi vive delle rendite delle sue proprietà fondiarie e immobiliari, imprenditori e dirigenti d’alto livello, cioè coloro che possiedono o controllano direttamente le risorse produttive), una classe media abbastanza numerosa di professionisti e impiegati delle categorie superiori e una classe ancora più numerosa di operai dell’industria e di lavoratori dell’agricoltura e del terziario con scarsa qualificazione. ■ Dai ceti alle classi

La rivoluzione industriale

3.2 Cultura e socializzazione I modelli culturali presentano la caratteristica essenziale di non essere inscritti nel patrimonio genetico dell’essere umano, ma di dover essere appresi da parte di ogni nuovo nato a seconda delle caratteristiche della società in cui egli deve vivere. Gli studi di Sigmund Freud e dei suoi discepoli, di Mead e della psicologia dell’età evolutiva hanno evidenzia-

L’impulso decisivo alla dissoluzione delle società aristocratiche europee, fondate sul rapporto con la proprietà terriera e sull’appartenenza per nascita alla nobiltà, fu dato verso la metà del ’700 dalla rivoluzione industriale, che impose il sistema manifatturiero e un vertiginoso aumento della produzione di beni materiali. La rapida diffusione e il dinamismo del sistema di produzione industriale fondato sul controllo del capitale monetario condussero a una ridefinizione delle posizioni e dei valori sociali preesistenti. Se nella società di ceti il potere delle élite si basava soprattutto sul rango sociale ereditato dalla famiglia, l’avvento del sistema industriale ridusse ogni differenza sociale a fattori economici e all’effettivo controllo personale della “ricchezza”. In questo modo nella società industriale e capitalistica la complessa stratificazione per ceti si polarizzò drasticamente nell’antagonismo tra due classi fondamentali: la borghesia, detentrice della ricchezza e dei mezzi di produzione, e il proletariato, che traeva il suo sostentamento dalla vendita della sua forza lavoro. Questo antagonismo, entro il

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Note a margine per la rapida individuazione e memorizzazione dei temi principali

cetto di alto o basso è riferito naturalmente al reddito. Tuttavia, da un punto di vista più ampio di quello strettamente economico si debbono considerare i legami dovuti al tipo di cultura, al modo di vita e all’ambiente. […] Per distinguere le diverse classi sociali il reddito è dunque un elemento importante, ma non tanto per il suo livello, quanto per il modo attraverso cui si ottiene; tale modo si riflette nell’ambiente e nel tipo di cultura ed è condizionato dalla storia precedente della società di cui le classi costituiscono parti integranti”. (P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 1974; pp. 25-26.)

Testo con le parole e i concetti chiave evidenziati in nero

Linea ideale che divide in due parti la pagina; nella parte superiore si trovano le risposte indicate nei test di verifica con la lettera a; in quella inferiore le risposte suggerite con la lettera b

Il volume è diviso in 12 capitoli sui metodi, le teorie, le discipline, le grandi aree tematiche della sociologia. Il testo è articolato in modo da favorire l’inquadramento generale dei temi e la memorizzazione rapida dei tratti salienti degli autori, della loro poetica e delle opere. I singoli capitoli sono aperti da un cappello introduttivo, che fornisce un rapido inquadramento generale dell’argomento trattato. Le frequenti note a margine permettono la rapida individuazione dei temi principali e agevolano

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Suggerimenti bibliografici

Domande di verifica della preparazione

Schema riassuntivo

7 - Classi e stratificazione sociale

quella dei macellai, si diedero nuovi nomi e rifiutarono di sposarsi con gli appartenenti alla casta originale. Spesso gli status ascritti, in particolare l’etnia, il genere o l’età, sono usati per giustificare una discriminazione che blocca la mobilità individuale. Di conseguenza, alcuni gruppi trovano indispensabile organizzarsi per ottenere una mobilità di gruppo. Questa strategia ha preso forma in numerosi movimenti, come i movimenti dei neri negli Stati Uniti, il movimento femminista, i gruppi di pressione politica dei pensionati. I successi di queste iniziative dimostrano che gli effetti di uno status ascritto possono essere modificati, almeno in parte, attraverso un impegno collettivo.

PER UN APPROFONDIMENTO ●

7 - Classi e stratificazione sociale segue

Il ceto

Il ceto è una condizione sociale fondata su una situazione giuridica e individuata in base al prestigio.

La classe

La classe è il sistema più diffuso nelle società industrializzate; si basa sulle differenze economiche presenti tra gli individui.

LE TEORIE SULLA STRATIFICAZIONE

La stratificazione sociale è stata oggetto di analisi da parte di differenti teorie.

Le teorie del conflitto

Le teorie del conflitto (si rifanno a Marx) ritengono che l’origine della diseguaglianza sia da ricercare nella divisione in classi, a sua volta determinata dal possesso dei mezzi di produzione. Secondo Weber, oltre alla sfera economica svolgono un ruolo importante anche la cultura e la politica.

La teoria funzionalista

La teoria del funzionalismo considera invece la stratificazione come derivante dall’esigenza, propria di ogni società, di collocare e motivare gli individui nella struttura sociale.

La teoria evolutiva

La teoria evolutiva di Lenski tende a conciliare teorie del conflitto e funzionalismo sostenendo che la stratificazione è funzionale alla società per la produzione e la conservazione delle risorse fondamentali, ma che le risorse eccedenti le necessità della sopravvivenza sono distribuite attraverso un conflitto tra gruppi in competizione.

La teoria reputazionale

Secondo la teoria reputazionale, si determina l’appartenenza di una persona a una particolare classe in base alla posizione assegnatale da altri membri della comunità.

LA DISEGUAGLIANZA

La diseguaglianza è una conseguenza diretta della stratificazione. Mentre in alcune società più semplici la diseguaglianza sociale può essere causata esclusivamente dalle diverse caratteristiche individuali, nelle società più articolate sono interi strati sociali ad avere uno status superiore o inferiore rispetto ad altri.

Tipi di diseguaglianze

Povertà e schiavitù, differenze di razza, genere ed età sono alcune delle più evidenti manifestazioni della diseguaglianza sociale.

LA MOBILITÀ SOCIALE

La mobilità sociale può essere individuale o collettiva.

Mobilità individuale

Riguarda un singolo individuo; può essere verticale (da una classe più bassa a una più alta o viceversa) oppure orizzontale (non si cambia posizione sulla scala gerarchica). È particolarmente presente in quelle società che privilegiano gli status acquisiti.

Mobilità collettiva

La mobilità collettiva si verifica nelle società in cui prevalgono gli status ascritti: in queste situazioni, infatti, la mobilità tende a essere collettiva, ossia di gruppo.

F. Alberoni, Classi e generazioni, Il Mulino, Bologna 1973

Analizza il rapporto tra stadi della vita e divisione del lavoro. ● R.

Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, Laterza, Bari 1963

Riesamina criticamente la teoria delle classi di Marx alla luce delle trasformazioni avvenute nelle società industriali avanzate. ●

R. Girod, Diseguaglianza diseguaglianze, Il Mulino, Bologna 1979

Studia i rapporti tra la mobilità sociale e i diversi fattori che stanno alla base delle diseguaglianze sociali. ●

A. Heat, La mobilità sociale, Il Mulino, Bologna 1981

Presenta le principali teorie sulla mobilità sociale, dagli autori classici come Marx e Pareto ai contemporanei come Bendix, Lipset, Blau e Duncan. ●

P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 1974

Ricostruisce il concetto di classe attraverso l’analisi della struttura della società italiana, descritta come “società dei ceti medi”.

SCHEMA RIASSUNTIVO IL PROBLEMA

Le società sono strutturate secondo gerarchie che danno origine a status differenti.

Gli status

Esistono status dominanti (che hanno il predominio sugli altri), status ascritti (indipendenti dall’azione dell’individuo) e acquisiti (conquistati dall’individuo nel corso dell’esistenza).

Il ruolo

Gli status, a loro volta, determinano il ruolo, ossia il comportamento che relativamente allo status occupato l’individuo deve avere.

I TIPI DI STRATIFICAZIONE

La stratificazione sociale può essere per casta, ceto, classe.

La casta

La casta è il sistema più chiuso; l’appartenenza a una determinata casta dipende dalla nascita (un esempio di stratificazione per caste è il sistema indiano).

DOMANDE DI VERIFICA 1. Quali sono le principali tipologie di stratificazione? Par. 7.3 2. Cosa si intende col termine status? 125b 3. Quale spiegazione della stratificazione dà la teoria del conflitto? 131b-132

4. In quale modo la teoria evolutiva cerca di sintetizzare funzionalismo e conflittualismo? 135a 5. Quali casi di schiavitù sono presenti nelle società contemporanee? 138b-139a 6. Cos’è la “differenza di genere”? 141-143

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la loro ricapitolazione. All’interno del testo sono evidenziati in carattere nero più marcato i concetti e le parole che è particolarmente utile ricordare. I capitoli sono conclusi da schemi riassuntivi che espongono in sintesi i lineamenti di fondo degli autori o delle scuole. Le domande di verifica consentono di controllare autonomamente la propria preparazione rimandando, con i numeri in neretto a fianco, alle pagine (ed eventualmente alla metà alta e a quella bassa) in cui si trovano gli argomenti della domanda. All’interno dei capitoli sono presenti brevi brani antologici e riquadri di approfondimento che arricchiscono l’esposizione principale. Sintetici suggerimenti bibliografici aiutano chi vuol saperne di più. In appendice schede sui Protagonisti della ricerca sociologica e un glossario delle Parole chiave della sociologia forniscono un ulteriore strumento per la comprensione del testo.

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Indice 1 La sociologia: metodi e teorie 9 1.1 Il problema 9 1.2 Definizione e ambito 10 • La nascita della sociologia 11 • La scientificità 12 • L’interdisciplinarietà 13 1.3 I metodi di ricerca 13 • L’indagine per campione 14 • La ricerca di laboratorio 15 • Il lavoro sul campo 16 • La ricerca storica 16 • La ricerca comparata 16 1.4 Le teorie 16 • Micro e macrosociologia 17 • Funzionalismo 17 • Le teorie del conflitto 19 • Strutturalismo 20 • Teorie dell’azione 21 • La sociologia della conoscenza 23 • La sociologia fenomenologica 24 • La teoria dell’agire comunicativo 24 • La teoria dei sistemi 25 2 Cultura e società 29 2.1 Il problema 29 2.2 La specie umana 29 • I comportamenti complessi 31 • L’evoluzione 32 2.3 Le culture 33 2.4 Società a confronto 35 • Il caso degli Arapesh e Mundugumor 36 2.5 Perché le culture? 36 • La spiegazione funzionalista 37 • Le teorie ecologiche 37 2.6 La natura della cultura 38 • Gli elementi fondamentali della cultura 39 • La cultura come sistema integrato e dinamico 41 2.8 Gli universi culturali 42 • Cultura e personalità 43 3 La socializzazione 46 3.1 Il problema 46 3.2 Cultura e socializzazione 46 • L’esperienza dell’altro 47 • Le norme 48 • La socializzazione primaria 48 • La socializzazione secondaria 50 • Le fasi della socializzazione 50 3.3 Socializzazione e sviluppo della personalità 51 • Personalità, ambiente, pulsioni 51 • La fiducia 53

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• L’autonomia 53 • L’iniziativa 54 • L’operosità 54 • L’identità e la dispersione 54 • Intimità, generatività, integrità dell’“Io” 55 3.4 Le agenzie di socializzazione 55 • La famiglia 55 • La scuola 57 • Il gruppo dei pari 57 • I mass-media 58 • Altre agenzie 59 60 3.5 La socializzazione imperfetta • La mancata socializzazione primaria 61 • I bambini allevati in condizioni di isolamento 62 • La risocializzazione 62 4 L’interazione sociale 66 4.1 Il problema 66 4.2 La vita quotidiana 66 •La routine 67 • Strutture dell’interazione 68 • Tipizzazioni 69 • L’interazione come rappresentazione 69 4.3 Universi culturali e decodificazione 70 • Il simbolismo 71 • La funzione comunicativa e partecipativa dei simboli 72 4.4 La comunicazione 73 • L’implicito nel processo comunicativo 74 4.5 La comunicazione non verbale 75 • Espressioni volontarie e involontarie 76 4.6 Il linguaggio 77 • Il linguaggio come istituzione sociale 78 • L’estrinsecità e l’oggettività del linguaggio 79 • Il potere coercitivo del linguaggio 79 • La storicità del linguaggio 80 4.7 Comunicazione e potere 80 4.8 Comunicazione interculturale 81 5 Gruppi e organizzazioni 84 5.1 Il problema 84 5.2 La formazione dei gruppi 84 • Le categorie sociali 85 5.3 Gruppi primari e secondari 86 • Gruppi primari 86 • Gruppi secondari 87 • Le dimensioni del gruppo 88 5.4 Leadership e comunicazione 90 • Stili di leadership 91 • Comunicazione e struttura del gruppo 92 5.5 Il gruppo di riferimento 93

• “In-groups” e “out-groups” 94 5.6 Il gruppo di pressione 94 5.7 Gruppi e organizzazioni 95 • Gruppi formali e informali nelle organizzazioni 96 • Modelli di organizzazioni 97 5.8 La burocrazia 98 • La burocrazia secondo Weber 99 • Gruppi informali e burocrazia 101 6 Conformismo e devianza 104 6.1 Il problema 104 6.2 Il ruolo della norma 104 • Tipologie di relazione con le norme 105 6.3 Il conformismo 107 6.4 Il controllo sociale 108 6.5 L’anomia 109 6.6 La devianza 110 • Devianza e criminalità 111 6.7 Le teorie sulla devianza 111 • La spiegazione biologica 112 • Le teorie psicologiche 113 • Anomia e devianza 113 • Devianza e subculture 114 • “Labeling theory” 116 • La funzionalità della devianza 117 6.8 La delinquenza giovanile 118 • La situazione italiana 118 6.9 I malati mentali 120 • La diagnosi 120 6.10La deistituzionalizzazione 121 7 Classi e stratificazione sociale 125 7.1 Il problema 125 7.2 Gli status 125 7.3 I diversi tipi di stratificazione 126 • Le caste 126 • I ceti 128 • Le classi 129 • Dai ceti alle classi 130 7.4 Le teorie sulla stratificazione 131 • Le teorie del conflitto 131 • La stratificazione sociale secondo Max Weber 133 • La teoria funzionalista 134 • La teoria evolutiva 135 • La teoria reputazionale 136 7.3 La diseguaglianza 136 • La povertà 137 • La schiavitù 138 • Razzismo e xenofobia 139 • Diseguaglianze generazionali 141 7.6 Genere sessuale e diseguaglianza 141 • Le diverse prospettive sulle differenze di genere 142 7.7 La mobilità sociale 143 • Mobilità individuale 143 • Mobilità collettiva 145

8 La famiglia 148 8.1 Il problema 148 8.2 I diversi tipi di famiglia 148 • I contadini irlandesi 149 • Gli abitanti delle Trobriand 149 • Il kibbutz israeliano 150 8.3 Le teorie sulla famiglia 150 • La teoria funzionalista 150 • Le teorie conflittualiste 152 8.4 Strutturazione della famiglia 153 • Forme di matrimonio 155 • Modelli di autorità nella famiglia 156 157 • La residenza familiare • Discendenza ed eredità 157 • Il partner preferenziale 158 • Il tabù dell’incesto 158 8.5 La famiglia occidentale 159 • Famiglia, amore e matrimonio 160 • La scelta del partner 161 8.6 I cambiamenti nella famiglia 162 • Il rapporto marito-moglie 162 • Il rapporto genitori-figli 163 • La crisi della famiglia fondata sul matrimonio 164 • Il divorzio 165 8.7 Le nuove famiglie 165 • Le famiglie ricostituite 165 • Le famiglie con un solo genitore 166 • Le famiglie di fatto 166 9 La scuola 170 9.1 Il problema 170 9.2 Scuola e società 170 • I cambiamenti 170 9.3 La scuola di massa 172 9.4 Integrazione e controllo sociale 172 • L’obbligo scolastico 174 • La selezione 175 • L’innovazione 175 • Le funzioni latenti della scuola 175 9.5 La scuola nelle teorie del conflitto 175 • Il credenzialismo 176 • Il complesso rapporto con il sistema economico 177 9.6 Istruzione e mobilità sociale 177 9.7 Istruzione e diseguaglianza 178 • Teoria del deficit 178 • Teoria della differenza 179 • Il capitale culturale 179 9.8 La descolarizzazione 180 9.9 L’alfabetizzazione 181 • L’alfabetizzazione nel Terzo Mondo 181 • L’alfabetizzazione in Europa 182 9.10La situazione italiana 183 • I mutamenti legislativi 184 • La scuola italiana dal secondo dopoguerra ai giorni nostri 185

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10 Mass media 190 10.1 Il problema 190 10.2 La comunicazione mass mediale 190 10.3 Qualche cenno storico 191 10.4 Gli sviluppi 193 10.5 Gli effetti dei mass media 194 10.6 Le teorie sui mass media 196 • La scuola di Francoforte: la teoria critica 196 • Edgard Morin: l’approccio culturale 196 • Teoria dell’egemonia 197 • La scuola struttural-funzionalista 198 • Il ruolo degli opinion leader 198 • La legittimazione sociale 199 10.7 Il monopolio dell’informazione 200 • La stampa 200 • Televisione e media elettronici 201 10.8 Pubblicità e propaganda 202 10.9 La mediatizzazione della politica 203 11 La religione 206 11.1 Il problema 206 11.2 L’esperienza religiosa 207 • Il sacro 207 • Il sacro e il profano 208 • Sacro, profano e sociologia della religione 208 11.3 Il processo di istituzionalizzazione 209 • Le credenze 209 • I riti 210 • L’etica 210 • L’organizzazione 211 11.4 Tipi di organizzazione religiosa 211 • La Chiesa 211 • La setta 212 11.5 La classificazione delle religioni 212 • La religiosità primitiva 213 • La religiosità arcaica 213 • Le religioni storiche 214 • La religione protomoderna 214 • La religiosità moderna 214 11.6 Istituzionalizzazione e grandi religioni 215 • Il cristianesimo 215 • Islam ed ebraismo 215 • L’induismo 216 • Il buddhismo 216 11.7 Le funzioni della religione 216 11.8 Teorie sociologiche sulla religione 217 • Durkheim e il funzionalismo 217 • Weber: religione ed etica del capitalismo 219 • L’approccio fenomenologico alla religione 220 12 Lo Stato e il sistema politico 223 12.1 Il problema 223 12.2 Politica e società 223

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• L’autonomia della politica 224 • Il “sistema politico” 224 12.3 I diversi tipi di Stato 225 • Le forme dello Stato 226 12.4 Lo Stato moderno 226 • Dallo Stato assoluto allo Stato costituzionale 227 12.5 Perché lo Stato 228 • La prospettiva funzionalista 228 • Lo Stato del benessere 229 • La prospettiva conflittualista 230 12.6 La democrazia 230 12.7 Condizioni che favoriscono la democrazia 233 • La struttura dello Stato 233 • Lo sviluppo economico 234 234 • Le strutture intermedie • La leadership 235 235 • Conflitto e tolleranza • L’accesso all’informazione 236 12.8 Il controllo del potere 236 • Le teorie delle “élite” 236 • La teoria pluralista 238 12.9 Rappresentanza e partecipazione 238 • I partiti politici 240 13 Il mondo che cambia 244 13.1 Il problema 244 13.2 I fattori del cambiamento 244 • L’ambiente fisico 244 • La popolazione 245 • La cultura 245 • Comportamento collettivo e movimenti sociali 246 13.3 La modernizzazione 246 • Il capitalismo industriale 247 • Il sistema politico 247 • I fattori culturali 248 13.4 La società postindustriale 249 • I fattori del postindustriale 249 13.5 Società anziane ed esplosione demografica 251 • L’andamento demografico 251 • Società anziane 252 • Problemi dell’invecchiamento della popolazione 254 • Società giovani 255 13.6 Globalizzazione e società multietniche 256 • Le migrazioni internazionali 257 • Le cause dell’emigrazione 258 • Le difficoltà d’asilo 258 • Vecchie e nuove migrazioni: il caso USA 260 13.6 Società multiculturali 261 Protagonisti della ricerca sociologica 265 Le parole chiave della sociologia 283

1 La sociologia: metodi e teorie L’insieme di abitudini e stili di vita che caratterizzano la nostra esistenza affonda le sue radici in un sistema sociale sul quale la sociologia si interroga; sia secondo un approccio macrosociale (quali sono i modelli delle società?), sia da un punto di vista microsociale (quali sono i rapporti di interazione tra gli individui?). Nata in ambito positivista per opera del francese Comte, la ricerca sociologica ha elaborato procedure metodologiche e sistemi teorici propri, atti a garantire l’adeguatezza dell’analisi. La complessità dello statuto epistemologico della disciplina si mostra nel vivace dibattito tra gli esponenti delle principali teorie sociologiche.

1.1 Il problema La nostra vita quotidiana è costantemente caratterizzata nel rapporto con altri individui dalle regole, dalle convenzioni, dal linguaggio, dalle abitudini che condividiamo con essi e dalle aspettative che reciprocamente nutriamo nei confronti del comportamento altrui. La nostra esistenza risulterebbe certamente assai più difficile se in ogni relazione con altri uomini dovessimo ogni volta stabilirne i codici, le modalità comunicative, le regole. Viviamo invece all’interno di sistemi che percepiamo come “familiari”; sistemi all’interno dei quali siamo in grado di prevedere le risposte che il nostro comportamento può provocare: ci è noto, per esempio, che se ci appropriamo di qualcosa senza pagarla, andremo incontro a sanzioni, ma allo stesso modo sappiamo che certe espressioni di cortesia possono generare nell’interlocutore reazioni differenti da altre reputate scortesi; ci stupiamo se le nostre difficoltà personali lasciano indifferente un sacerdote, ma riteniamo normale se ciò accade con un commerciante. Ancora, ci è noto che dobbiamo rivolgerci con determinate formule linguistiche a un superiore e con altre a un amico, che dobbiamo guidare stando a destra, che nonostante sia caldo non possiamo presentarci in ufficio col costume da bagno ecc. Ora, fino a quando questo “sistema familiare” viene percepito come naturale, non c’è ragione di interrogarsi intorno a esso. La sociologia nasce invece nel momento in cui ci si pongono domande come: “Ma perché questo sistema?”, “Come si è formato?”, “Quali implicazioni ha sulla vita degli individui che ne partecipano?”, “Perché questa formalizzazione e non altre?”.

Rapporti sociali, regole, convenzioni

Le domande della sociologia

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1 - La sociologia: metodi e teorie L’IMMAGINAZIONE SOCIOLOGICA In un celebre libro, C. Wright Mills parla dell’immaginazione sociologica come della capacità di “riflettere su se stessi liberi”. Liberi dai cliché, dalle abitudini e dai comportamenti familiari che col tempo hanno assunto, ai nostri occhi, la parvenza di connaturali all’esistenza, non solo nostra, ma di tutta la specie umana. Così, l’analisi di un gesto spontaneo come quello di bere una tazzina di caffè può rivelare la presenza di profonde influenze sociali. La tazzina di caffè a metà mattina o dopo pranzo non è infatti solo un atto alimentare, ma ha un valore simbolico nel quadro dei riti sociali quotidiani, tanto che spesso il rituale è più importante della bevanda stessa. “Andare a prendere un caffè” non significa solo assumere una determinata bevanda, ma recarsi al bar o comunque fare una pausa per scambiare due chiacchiere. Così la risposta negativa alla richiesta di “bere un caffè” può provocare

nell’interlocutore un risentimento incomprensibile, se non rapportato alla dimensione comunitaria del rito. Approfondendo l’analisi dovremmo notare che il caffè, a causa del contenuto di caffeina, esercita un’azione sul sistema nervoso; è pertanto una droga socialmente accettabile al pari dell’alcol. Non è così per altre culture, che invece tollerano il consumo di marijuana, ma disapprovano quello di caffè e alcol. L’abitudine all’uso del caffè, inoltre, è relativamente recente e presuppone un determinato sviluppo sociale ed economico. Come è noto, il consumo di massa della bevanda è legato all’espansione coloniale europea e all’esportazione del prodotto coltivato nelle piantagioni di Sud America e Africa. La bevanda rimanda allora a un insieme di rapporti internazionali e a un determinato sistema di scambi e accordi commerciali affermatisi storicamente.

1.2 Definizione e ambito

Le definizioni più diffuse

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Nel corso della storia sono state date numerose definizioni di sociologia, ognuna delle quali sottolinea aspetti differenti dell’interazione umana. Una tale pluralità di definizioni è indice della dinamicità della disciplina e della sua capacità di ripensare continuamente il proprio oggetto secondo diverse prospettive. Le definizioni più diffuse sono quelle di studio empirico dei modelli o delle uniformità rilevabili nel comportamento sociale dell’individuo; di scienza che studia le costanti, le strutture obiettive e le funzioni delle unità viventi che partecipano alla vita in comune degli uomini; di studio dei rapporti sociali e delle loro conseguenze nel loro manifestarsi nei gruppi, nelle strutture sociali e nel mutare delle strutture. Nonostante i diversi approcci sottesi a queste definizioni, in esse risulta comune il riferimento ai rapporti tra gli uomini e agli ordinamenti e strutture sociali in cui tali rapporti si costituiscono, lo studio degli atteggiamenti dominanti e delle motivazioni razionali che gli uomini ne danno (le ideologie), l’analisi dei gruppi minoritari e delle nuove forme di riconoscimento, la ricerca degli elementi costanti del vivere sociale all’interno delle variazioni storiche.

1 - La sociologia: metodi e teorie ■ La nascita della sociologia Il contesto storico in cui la disciplina nasce è caratterizzato dagli sconvolgimenti provocati dalla rivoluzione industriale. Non è infatti un caso che la sociologia si affermi innanzi tutto in contesti come quello tedesco, francese, inglese e statunitense dove più profondamente si era radicata l’industrializzazione, con i conseguenti stravolgimenti dei modi di vita, di ruolo, ma anche di collocazione sociale e di valori, tipici delle epoche precedenti. Da un lato, dunque, è la crisi, nel senso di messa in discussione degli equilibri consolidati, a spingere la nascita di una riflessione su fenomeni spesso dati per scontati. Dall’altro la fiducia (talvolta anche acritica) nei confronti di un metodo scientifico grazie al quale le scienze naturali avevano raggiunto sviluppi eccezionali e prodigiose applicazioni alla vita quotidiana (basti pensare a invenzioni come il telegrafo o la locomotiva). Le scienze sociali sorgono appunto come tentativo di rendere oggetto di indagine rigorosa anche ambiti tradizionalmente legati a discipline umanistiche considerate spesso impenetrabili al rigore delle scienze naturali. La sociologia è dunque una delle scienze più giovani: la sua nascita viene normalmente fatta risalire all’espressione “sociologia” usata nel 1824 da Auguste Comte per designare la scienza della società in sostituzione della fisica sociale. In realtà, nonostante le analisi del contesto sociale precedano di gran lunga quella data (si pensi, per esempio, all’opera di Hobbes o ancor prima a quelle di Platone e Aristotele), è soltanto a partire dal XIX secolo che si impone l’esigenza di una disciplina scientifica che concentri il proprio ambito di indagine sui fenomeni sociali e sulla struttura delle relazioni sociali. Va precisato che il concetto di “scientificità” ha attraversato nel corso del tempo notevoli variazioni e ciò non solo all’interno delle cosiddette scienze esatte, ma ancor più all’interno delle scienze sociali. Secondo l’indicazione di Comte, l’oggetto della ricerca scientifica, e pertanto anche quello della sociologia come

Industrializzazione e nascita della sociologia

Auguste Comte

I PROBLEMI DELLA SOCIOLOGIA “A mio avviso, tre problemi principali dominano la ricerca teorica ed empirica in sociologia generale. Si possono enunciare nei seguenti termini. Come si spiega che le collettività umane esistono e si mantengono? E, correlativamente, come si rapporta l’in-

dividuo alle collettività? Come si organizzano o si strutturano i quadri sociali della vita umana? Come si produce e si spiega il cambiamento, l’evoluzione delle società umane?” (Guy Rocher, Introduzione alla sociologia generale, SugarCo, Milano 1980; p.10.)

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1 - La sociologia: metodi e teorie

scienza, deve essere ridotto al “positivo”, ossia alle affermazioni controllabili sulla base dei fatti. Ciò implica la ricerca di qualcosa di verificabile, mediante cui poter identificare le leggi che colgono le relazioni costanti e i comportamenti regolari dei fenomeni, a loro volta comprensibili solo facendo ricorso a strumenti scientifici.

Il ruolo dello storicismo tedesco

La modificazione del concetto di scientificità

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■ La scientificità L’identificazione positivistica del metodo scientifico con il metodo delle scienze naturali viene però criticata già nel corso dell’800 dallo storicismo tedesco, che – distinguendo le scienze della natura dalle scienze storico-sociali, o scienze dello spirito – rivendica la validità di forme di sapere diverse da quelle di tipo “scientifico”, imprescindibili per comprendere l’azione umana. Acquistano così importanza scientifica concetti come quelli di “esperienza vissuta” (Erlebnis) e “comprensione” (Verstehen), poiché si ritiene che la comprensione dei fenomeni umani implichi necessariamente l’interpretazione delle motivazioni e degli effetti che li hanno determinati dall’interno. Sarà innanzi tutto Max Weber (1864-1920) a orientare la ricerca sociologica in questa direzione. Con lo sviluppo della fisica e della filosofia della scienza, anche la distinzione tra scienze dello spirito e scienze della natura è divenuta meno netta, proprio a causa delle modificazioni che il concetto di scientificità è andato assumendo. Se in ambito positivista si poteva ritenere la scienza fisica come indagine obiettiva dei fatti, allo stato attuale una tale concezione sembra per lo meno ingenua. La fisica dei quanti di Max Planck, le teorie della relatività di Albert Einstein, il principio di indeterminazione di Heisenberg hanno portato a una revisione del rapporto teoria-fenomeno. La teoria viene sempre più ritenuta uno strumento di conoscenza parziale, un elemento attivo di costruzione della realtà , che procede attraverso la selezione di fattori e di rapporti tra fattori considerati significativi in base a criteri relativamente arbitrari e non più come strumento di conoscenza oggettiva della realtà. Oggigiorno si è propensi a ritenere che la conoscenza proceda per approssimazioni che possono essere sostituite o modificate nel tempo, cogliendo di volta in volta corrispondenze relative tra dati di esperienza e forme di misurazione. Come nelle altre scienze, lo statuto scientifico della sociologia comporta il ricorso a metodi di indagine sistematici, all’analisi di dati e alla formulazione di teorie alla luce delle prove empiriche e delle argomentazioni teoriche, ma diversamente dalle scien-

1 - La sociologia: metodi e teorie LA NUOVA SCIENTIFICITÀ DELLA SOCIOLOGIA “L’atteggiamento monista del naturalismo verso le procedure metodologiche è stato sostituito da una concezione pluralista circa le regole e procedure della scienza. L’individuazione di leggi di validità universale ottenute per via di verificazione non è più considerata lo scopo unico ed esclusivo delle scienze sociali, ma l’attenzione si è spostata sulla costruzione della teoria come principale obiettivo della scienza. Un approccio rappresentazionale della conoscenza è stato sostituito da un’impostazione dove il linguaggio ha un ruolo centrale nel processo di conoscenza e nella sua costituzione. Si modifica contem-

poraneamente l’atteggiamento verso la percezione e l’osservazione, con l’accento messo sul ruolo della teoria. Le teorie sono a loro volta costrutti discorsivi e i dati, sia quantitativi sia qualitativi, assumono il ruolo di garanti delle argomentazioni nel processo di costruzione di teoria. La scienza come campo di argomentazione e come sistema aperto alla discussione implica in modo crescente l’accettazione della sua dimensione multiparadigmatica e multimetodologica.” (Alberto Mielucci, Verso una sociologia riflessiva, ricerca qualitativa e cultura, Il Mulino, Bologna 1998; pp. 30-31.)

ze naturali esso deve anche tener conto della particolarità dei fenomeni umani: vale a dire la loro complessità, la difficoltà a ridurli in termini quantitativi, l’importanza che in essi rivestono elementi come le motivazioni e i significati. ■ L’interdisciplinarietà Nell’analisi sociologica non solo è costante il riferimento alle altre scienze umane (per esempio, i rimandi all’antropologia e alla psicologia sono frequentissimi), ma anche ad ambiti apparentemente distanti come l’epistemologia e la matematica (utilizzata per lo più in riferimento all’indagine statistica), alla demografia e all’economia. Ciò deriva dalla particolare complessità dei processi sociali, che investono appunto settori diversi, non indagabili secondo l’ottica di un’unica disciplina. L’approccio interdisciplinare consente invece di penetrare aspetti differenti, così da ottenere una visione di insieme più adeguata della complessità dei fenomeni.

Scienze umane, epistemologia, statistica ed economia

1.3 I metodi di ricerca Secondo un certo filone storiografico, gli studiosi di scien- Scienze sociali ze sociali vengono distinti in “quantitativi” e “qualitativi”, “quantitative” in base al fatto che nelle loro indagini si servano per lo più e “qualitative” di dati ridotti a numero (come nel caso delle statistiche) o di elementi non quantificabili (come, per esempio, i valori). In realtà, nonostante sussista effettivamente la predilezione da parte di alcune scuole sociologiche a utilizzare prevalentemente gli uni o gli altri, nella maggior parte dei casi le due metodologie si integrano reciprocamente al fine di ot13

1 - La sociologia: metodi e teorie

tenere una conoscenza in qualche modo obiettiva dei processi sociali (è questa forse l’esigenza primaria dei “quantitativi”), senza comunque perdere di vista le peculiarità irriducibili dei fenomeni umani. All’interno della preferenza per alcuni piuttosto che per altri strumenti di indagine, nel corso del tempo la sociologia ha comunque elaborato un insieme di tecniche atte a consentire l’analisi dei rapporti sociali.

La definizione della “popolazione”

Individuare il campione

Il questionario

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■ L’indagine per campione Utilizzata per la prima volta verso la metà dell’800 da Charles Booth per studiare la povertà a Londra, e dal sociologo francese Frédéric Le Plav per studiare le classi lavoratrici francesi, l’indagine per campione si è perfezionata sino a divenire un mezzo sistematico per acquisire dati sul comportamento, gli atteggiamenti o le opinioni degli individui, interrogando un gruppo rappresentativo di essi. Oggi l’indagine per campione è forse lo strumento più diffuso nelle scienze sociali, poiché può essere utilizzato sia per descrivere i fatti sociali, sia per spiegarli. Si inizia definendo con attenzione il gruppo di soggetti che si intende studiare (la cosiddetta “popolazione”), in modo da individuarne gli elementi caratterizzanti. Il motivo della campionatura deriva infatti dall’impossibilità di analizzare gruppi troppo numerosi e dalla conseguente necessità di riferirsi a un campione più ridotto, che rechi però in sé tutti i caratteri tipici della popolazione di riferimento, così da consentire conclusioni valide per l’intera popolazione. Come è facilmente intuibile, l’attendibilità dei risultati è strettamente legata alla rappresentatività del campione stesso, ossia all’aderenza che questo presenta con la popolazione. Data l’importanza del metodo, sono state elaborate complesse procedure di campionamento atte a consentirne una corretta identificazione: ci si è accorti che l’elemento fondamentale non è tanto l’ampiezza del campione quanto il fatto che in esso siano presenti tutti gli elementi tipici del gruppo a cui si riferisce. Per sondare l’opinione degli individui dei quali è stata operata la campionatura, i ricercatori si servono spesso di questionari strutturati, non strutturati e semistrutturati. Il questionario strutturato prevede l’uso esclusivo o prevalente di risposte fisse precodificate ed è particolarmente idoneo nel caso di indagini su campionature molto ampie. Il questionario non strutturato fa invece ricorso a domande aperte, sollevando questioni a cui l’intervistato deve sforzarsi di dare una risposta il più possibile personale e non condizionata dall’ottica del ricercatore. Il questionario semistruttu-

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rato, infine, viene formulato in modo da lasciare una certa libertà alle risposte dell’intervistato, seppure all’interno di griglie prestrutturate dal ricercatore. Un altro metodo ampiamente utilizzato in sostituzione, o Le interviste spesso accanto al questionario, è l’intervista, che può essere effettuata anch’essa in modo strutturato e semistrutturato o come colloquio in profondità, cioè come libera narrazione dell’esperienza dell’intervistato. ■ La ricerca di laboratorio Alla fine dell’800, sulla scia dei risultati raggiunti dai laboratori di psicologia sperimentale, nacquero le prime ricerche sociologiche di laboratorio; un ambiente controllato veniva infatti ritenuto utile per studiare le relazioni tra piccoli gruppi di persone, poiché risultava più semplice isolarne le variabili. Questo metodo è tuttora largamente usato per studiare fenomeni come la leadership, i modelli di cooperazione e di competizione ecc. La maggior parte del lavoro in laboratorio assume la forma dell’esperimento: il ricercatore comincia con un’ipotesi, per esempio che il rischio di essere espulsi dal gruppo stimoli atteggiamenti conformisti. Si dividono i soggetti in due gruppi omogenei: il gruppo sperimentale e il gruppo di controllo. Si espone quindi il primo dei gruppi alla variabile indipendente (cioè la condizione che si pensa provochi un certo risultato), mentre il gruppo di controllo non viene esposto a questa variabile al fine di poterne valutare l’incidenza. Nel caso in cui si intendesse, per esempio, verificare gli effetti che l’integrazione razziale scolastica produce sugli atteggiamenti degli studenti bianchi nei confronti delle persone di colore, il ricercatore dovrà innanzi tutto dividere gli studenti in due gruppi omogenei di cui verrà registrato l’atteggiamento razziale. Verranno quindi inseriti all’interno di uno dei due gruppi (nel gruppo sperimentale) degli studenti di colore; dopo un periodo sufficientemente lungo si misurerà di nuovo l’atteggiamento degli studenti bianchi nei confronti di quelli di colore, confrontando infine i risultati con quelli emersi dalla misurazione degli atteggiamenti del gruppo di controllo, ossia degli studenti del gruppo in cui non era stata inserita la variabile dell’integrazione. Il grande merito degli esperimenti è quello di consentire l’isolamento e il controllo degli elementi che si suppongono causare un determinato fenomeno. È stato talora obiettato che l’artificiosità della situazione che si viene a creare in laboratorio ne potrebbe condizionare la validità. Da qui la tendenza da parte di numerosi studiosi di effet-

Le procedure sperimentali della ricerca di laboratorio

Utilità e limiti delle procedure sperimentali in sociologia

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1 - La sociologia: metodi e teorie

tuare esperimenti sul campo. Nell’esperimento sul campo il ricercatore cerca di controllare le condizioni che influiscono sia sul gruppo sperimentale, sia su quello di controllo in un ambiente più specifico, come una scuola, un ospedale o una fabbrica. Tuttavia, a causa della presenza di fattori non controllabili, gli esperimenti sul campo danno spesso risultati meno nitidi di quelli in laboratorio.

Uno dei metodi principali della ricerca sociologica

■ Il lavoro sul campo Introdotto intorno agli anni ’20 del ’900 dai sociologi dell’università di Chicago (la celebre Scuola di Chicago) per studiare le condizioni reali in cui viveva la gente, il metodo richiede il trasferimento dei ricercatori presso gli ambienti oggetto di indagine al fine di consentire l’osservazione diretta dei comportamenti abituali degli individui. Il lavoro sul campo è rimasto uno dei metodi principali di ricerca sociologica. Esso offre infatti la possibilità di accedere direttamente alla vita sociale e di vagliare con maggiore attendibilità i risultati dell’indagine, grazie al confronto con la vita reale delle persone studiate. Le informazioni raccolte in questo modo sono contemporaneamente più ampie e più articolate di quelle ottenute con un’indagine tramite questionario. ■ La ricerca storica I tedeschi Ernst Troeltsch e Max Weber introdussero la ricerca storica tradizionale all’interno della sociologia. Secondo il metodo della ricerca storica, ancora ampiamente utilizzato, le osservazioni sull’interazione degli esseri umani nella società vengono collocate all’interno di una prospettiva temporale fornita dalle fonti storiche. ■ La ricerca comparata Condividendo l’esigenza comparativa già presente in Weber, la ricerca comparata si fonda sull’analisi parallela di fenomeni culturali propri di ambiti sociali differenti (rituali religiosi, sistemi economici, atteggiamenti legati a ruoli particolari ecc.), in modo da coglierne i fattori che costituiscono la causa delle differenze nella struttura e nella tendenza degli avvenimenti.

1.4 Le teorie La sociologia comprende al suo interno una notevole pluralità di orizzonti teorici tutti tesi a rendere ragione nel modo più efficace possibile dei problemi inerenti alle relazioni sociali. Una prima generale distinzione è quella tra mi16

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crosociologia e macrosociologia. Nonostante l’inevitabile livello di imprecisione racchiusa in ogni classificazione che tenda a riunire teorie diverse, possiamo tentare una sommaria classificazione dei principali modelli sociologici attualmente più diffusi distinguendoli in funzionalismo, teorie del conflitto, strutturalismo, teorie dell’azione, sociologia della conoscenza, sociologia fenomenologica, teoria dell’agire comunicativo, teoria dei sistemi sociali. ■ Micro e macrosociologia La distinzione prende il via dalla considerazione che le persone nascono all’interno di una serie di strutture sociali che ne influenzano il comportamento. L’interesse dei macrosociologi verte appunto sull’analisi dei rapporti tra le diverse parti della società e sui processi attraverso i quali questi modelli cambiano. La macrosociologia ha pertanto come oggetto di indagine le grandi configurazioni sociali: stratificazioni, classi, generazioni, intere società storiche. Un principio fondamentale della macrosociologia è che le società storiche nella loro totalità posseggono caratteristiche attraverso le quali si distinguono dalle parti che le compongono. La microsociologia si occupa invece del comportamento, all’interno di uno spazio ridotto (microsociale), di persone che sono tra loro in rapporto immediato di interazione e soprattutto dei piccoli gruppi (face-to-face groups), concentrando l’attenzione sull’interazione tra individui. Benché storicamente i due approcci abbiano di fatto costituito ambiti di ricerca separati, attualmente si tende sempre più a considerarli orizzonti complementari di ricerca. Da qui l’affermazione del termine “meso” o “mesosociologico” per indicare l’intersezione di micro e macrosociologia.

Oggetto della macrosociologia

Oggetto della microsociologia

■ Funzionalismo La concezione funzionalistica della società e della struttura sociale trae origine dal pensiero di Herbert Spencer, che paragonava le società agli organismi viventi e riteneva che La società come le loro varie parti costituissero sistemi che, a loro volta, organismo vivente operavano insieme come un tutto funzionante. Come i diversi organi e sistemi di un corpo complesso sono differenziati, allo stesso modo le parti di un’unità sociale complessa ed evoluta tendono a differenziarsi tra loro: si viene, per esempio, differenziando la religione rispetto alla politica, il lavoro rispetto alla vita familiare ecc. Ogni parte di una società o di un corpo vivente ha una funzione; quanto più queste funzioni differiscono, tanto più è difficile per una parte sostituirne un’altra. Il risultato finale, tanto per gli orga-

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Durkheim

L’antropologia

Lo strutturalfunzionalismo

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nismi che per le società, è un tutto costituito da parti interdipendenti. Questo concetto di sistema è uno dei principi fondamentali del funzionalismo. Se fu Spencer a gettare le basi del funzionalismo, fu invece Emile Durkheim a utilizzare per primo questo quadro concettuale per lo studio della società; partendo dalla considerazione che la società sia costituita da parti diverse che reciprocamente contribuiscono al funzionamento generale, per spiegare il complesso delle relazioni umane è necessario mostrarne la funzione nell’ordinamento della società. Ciò che si deve determinare, sostiene Durkheim, è se vi sia corrispondenza tra il fatto considerato e i bisogni generali dell’organismo sociale e in che cosa consista questa corrispondenza, senza preoccuparsi se essa sia o no intenzionale. Secondo questa prospettiva, anche fenomeni come quelli della devianza, lungi dall’essere considerati patologici, risultano elementi necessari alla coesione sociale. Il modello proposto da Durkheim risulterà di estremo interesse per l’antropologia culturale, che con autori come Bronislaw Malinowski e Radcliffe Brown, seppure in modi differenti, riprende l’impostazione funzionalista per spiegare gli obblighi normativi di tipo giuridico, morale e religioso propri dei diversi contesti sociali. Vengono così ricercate, all’interno delle “comunità primitive”, le funzioni indispensabili alla preservazione e alla coesione della cultura del gruppo e le condizioni necessarie alla stessa aggregazione comunitaria. Nel corso degli ultimi decenni il concetto di funzionalismo ha subìto una ridefinizione in senso strutturale a opera di famosi studiosi quali Talcott Parsons, Robert Merton e Kingsley Davis. Un determinato sistema di azione può essere esaminato, secondo Parsons, come unità, sia dal punto di vista del suo rapporto con l’esterno, sia da quello dei problemi che nascono dalla sua organizzazione interna. Inoltre il sistema d’azione può essere considerato relativamente agli scopi che esso in quanto “sistema” persegue. A suo parere ogni società, o più astrattamente ogni sistema sociale, deve rispondere a quattro imperativi funzionali: 1. il perseguimento di fini (goal attainment); 2. la stabilità normativa latente (è la funzione che assicura i valori); 3. l’adattamento all’ambiente (sia fisico, sia sociale); 4. l’integrazione (è la funzione che consente il reciproco equilibrio degli elementi del sistema). Le variabili strutturali, combinandosi diversamente tra loro, permettono di articolare una complessa tipologia delle varie forme di azione e dei diversi tipi di aspettative. Al di là delle peculiarità proprie del pensiero dei diversi au-

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tori, i principali presupposti dello strutturalfunzionalismo Presupposti possono essere così schematizzati: dello struttural● una società è un sistema di parti tra loro interrelate; funzionalismo ● i sistemi sociali tendono a essere stabili, perché sono dotati al loro interno di meccanismi di controllo e di integrazione; ● le disfunzioni esistono, ma tendono a risolversi o comunque a essere integrate nel sistema nel lungo periodo; ● il mutamento è di solito graduale; ● l’integrazione sociale è prodotta dal consenso di gran parte dei membri della società rispetto a un certo insieme di valori; sistema di valori che costituisce l’elemento più stabile del sistema sociale. ■ Le teorie del conflitto Se da un lato condividono col funzionalismo l’idea di totalità dei fenomeni sociali, le teorie del conflitto concepiscono tale totalità non come sistema in equilibrio, bensì come un processo in continua trasformazione, il cui movimento è connesso alle contraddizioni oggettive concrete che emergono dalla realtà sociale. L’unità funzionale fondata sul controllo morale e normativo delle spinte devianti proprie dell’agire individuale, oggetto della teoria funzionalista, nelle prospettive del conflitto viene intesa piuttosto come il risultato provvisorio di un processo storico, nel quale vanno affermandosi di volta in volta determinate strutture materiali (forze e modi di produzione) e determinate forze sociali (classi). Seppure appartenenti a schieramenti politici differenti, i sociologi del conflitto si rifanno, talvolta condividendone l’orizzonte di riferimento, più spesso su posizioni di revisione critica, quando non addirittura polemica, all’opera di Marx e di Engels e in particolare ai concetti da essi introdotti di struttura e sovrastruttura, lotta di classe e alienazione. Come è noto, Marx ed Engels ritenevano che la struttura della società sia costituita dai rapporti economici tra le classi, a loro volta in relazione dialettica a causa del possesso o meno dei mezzi di produzione. I sistemi culturali, ideologici e istituzionali derivano da questi rapporti e vengono pertanto indicati col termine di sovrastruttura. La società umana è così concepita come scenario di una lotta tra le classi, talvolta manifesta altre volte sotterranea. Tra i tanti autori riconducibili alla teoria del conflitto ricordiamo Georg Simmel (secondo il quale il conflitto porta all’integrazione sociale poiché acuisce il senso dei confini e contribuisce all’identità del gruppo, provocando la centra-

Differenze tra funzionalismo e teorie del conflitto

Il riferimento critico a Marx ed Engels

Gli esponenti della teoria del conflitto 19

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Dahrendorf

Touraine

Presupposti della teoria del conflitto

Il contributo dell’antropologia

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lizzazione del gruppo e la ricerca di alleati), e più recentemente Gerhard Lenski, Randall Collins, Alain Touraine e Ralf Dahrendorf. Dahrendorf ha rielaborato la teoria marxiana sostenendo che all’interno dei gruppi stratificati, anche nelle società socialiste, le differenze di maggior rilievo non sono quelle tra proprietari dei mezzi di produzione e proletari, ma quelle tra impiegati e lavoratori manuali e tra gruppi simili. Dahrendorf definisce le classi come determinate da fattori politici, e in particolare dall’ineguale distribuzione dell’autorità. La società, da questo punto di vista, viene mantenuta insieme non da valori condivisi, ma dalla forza e dalla coercizione. Nell’analisi azionistica elaborata da Alain Touraine rivestono invece un ruolo di primo piano i movimenti sociali, ritenuti ambiti strategici in seno ai quali nascono e si esplicitano i nuovi valori: all’interno dei movimenti sociali e tramite essi gli “attori” innovatori e quelli conservatori organizzano la loro azione e cercano di influenzare la storia sociale. I principali presupposti della teoria contemporanea del conflitto possono essere così sintetizzati: ● il cambiamento, il conflitto e la coercizione sono gli elementi fondamentali per comprendere le società; ● la struttura sociale si basa sul dominio di alcuni gruppi da parte di altri; ● ciascun gruppo sociale è accomunato da una serie di interessi di cui può essere o meno consapevole; ● quando gli individui diventano consapevoli dei loro interessi comuni possono diventare una classe sociale; ● l’intensità del conflitto di classe dipende dalla presenza di determinate condizioni politiche e sociali (come la possibilità di formare libere associazioni), dalla distribuzione dell’autorità e delle ricompense, nonché dal grado di apertura del sistema delle classi. ■ Strutturalismo Differentemente dalle teorie sinora considerate, lo strutturalismo non ha dato luogo a una scuola sociologica vera e propria, ma – in quanto metodo di analisi che si è affermato in diverse discipline, che vanno dalla linguistica alla psicologia all’antropologia – ha influenzato profondamente numerose teorie sociologiche contemporanee. Il modello di una struttura costante della lingua, come sistema di differenze tra i suoi diversi elementi considerati nella loro solidarietà sincronica, introdotto dal linguista Ferdinand de Saussure e sviluppato da Roman O. Jakobson, costituisce il riferimento primario dello strutturalismo an-

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tropologico di Lévi-Strauss. Va innanzi tutto chiarito che la struttura di cui parla Lévi-Strauss può essere colta solo andando oltre i contenuti manifesti delle norme sociali, attraverso la costruzione di modelli formali analoghi a quelli matematici. La struttura non è infatti un dato concreto, direttamente osservabile, bensì qualcosa di nascosto all’interno delle realtà osservate. La struttura è allora un modello teo- Il concetto rico, costruito dal ricercatore, la cui funzione non è la sem- di struttura plice descrizione, quanto la capacità di rendere ragione dei fenomeni analizzati. In questo senso essa non è immediatamente percepibile da chi è inserito all’interno di una determinata dinamica sociale, così come chi parla non è normalmente cosciente della struttura formale della sua stessa lingua: occorre cogliere la struttura inconscia sottostante a ogni istituzione o a ogni usanza, per ottenere un principio di interpretazione valido per altre istituzioni e altre usanze. Partendo dalla dimensione soggettiva dell’agire umano, le teorie strutturaliste considerano l’unità sociale come il risultato dell’agire individuale e intersoggettivo. In altre parole, il concetto di struttura a cui si riferisce Lévi-Strauss è un modello tecnico molto astratto, che si pone al di là delle coscienze dei soggetti attori e che il ricercatore scopre sia con l’osservazione del reale sia per deduzione logica. Sintetizzando, diremo che la struttura: ● presenta il carattere di un sistema, in quanto una qualsiasi modificazione di uno degli elementi che la compongono comporta la modificazione di tutti gli altri; ● appartiene a un gruppo di trasformazioni ognuna delle quali corrisponde a un modello della stessa famiglia, in modo che l’insieme di tali trasformazioni costituisca un gruppo di modelli; ● le proprietà indicate consentono di prevedere come reagirà il modello nel caso della modificazione di uno dei suoi elementi; ● il modello deve essere costruito in modo tale da spiegare il funzionamento dei fatti osservati. ■ Teorie dell’azione Le teorie dell’azione focalizzano l’attenzione sui rapporti Campi d’indagine di interazione individuale, sui significati che le persone at- delle teorie tribuiscono alle loro azioni e sull’origine sociale di questi dell’azione significati. Tali teorie vengono spesso classificate nell’ambito della microsociologia proprio a causa dello scarso interesse da esse nutrito nei confronti delle grandi sistematizzazioni. I ruoli, le istituzioni, gli universi simbolici propri delle culture vengono qui considerati all’interno della loro ge-

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L’agire dotato di senso

L’interazionismo simbolico

Valori e comportamento sociale

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nesi processuale e comunque sempre in considerazione delle ripercussioni che hanno sull’interazione dei soggetti. Il grande riferimento di queste teorie è l’opera dello psicologo sociale americano George Herbert Mead. Tuttavia, già nel pensiero di Max Weber erano presenti degli elementi che diverranno centrali nello sviluppo di questo filone di ricerca. A partire da Max Weber (1864-1920), si introduce l’idea che la sociologia, oltre a quello di determinare leggi e regole, abbia come compito specifico quello di comprendere l’atteggiamento degli individui che partecipano alle formazioni sociali: queste infatti sono formate da esseri umani che agiscono sulla base di una razionalità cosciente. L’analisi sociale deve pertanto cogliere il senso implicito all’azione individuale e il riferimento che tale senso implicito ha rispetto all’atteggiamento di altri individui. Secondo la teoria weberiana, infatti, l’agire sociale è con-determinato dal senso veicolato dalle forme culturali. Le forme culturali (dette anche forme simboliche) costituiscono forme codificate e dotate di senso che, una volta interiorizzate dai soggetti, formano la base del reciproco relazionarsi e co-determinarsi delle diverse azioni di ciascun individuo, a partire dalla previsione degli effetti che esse produrranno sugli altri. L’espressione “interazionismo simbolico” è stata coniata dal sociologo statunitense Herbert Blumer per designare la teoria elaborata da George Herbert Mead, poi ripresa da importanti sociologi come Blumer stesso ed Erving Goffman (nella sua teoria del sociale come rappresentazione scenica). Alfred Lindesmith, Howard Becker ed Edwin Schur applicano invece l’interazionismo all’analisi della devianza. Sociologi come William Isaac Thomas e Charles Horton Cooley considerano la ricerca sociale come analisi degli atteggiamenti e dei valori che influenzano il comportamento sociale. Nel caso di Cooley si afferma la complementarietà di individui e società: l’identità individuale (o “Sé”) ha origine sociale e si forma nelle relazioni a-faccia-a-faccia all’interno dei gruppi primari; il “Sé” si basa sulla reazione a ciò che l’“Io” ritiene essere la sua immagine per gli altri, in quanto elementi costitutivi della realtà sociale. Se la struttura materiale del rapporto organismo biologico-ambiente naturale è il presupposto dei processi di costituzione del senso e del soggetto, la società umana è soprattutto un fenomeno di comunicazione mediante forme simboliche codificate dell’agire che garantiscono l’interazione umana. Con la simbolizzazione, che si realizza nelle diverse forme di linguaggio, si verifica l’emergere dei significati comuni (cioè condivisi da più individui), tramite cui il senso del gesto in-

1 - La sociologia: metodi e teorie

dividuale viene a essere universalizzato sullo sfondo di un contesto generale di riferimento, che Mead chiama l’“al- L’“altro tro generalizzato”. L’“altro generalizzato” è un fattore di im- generalizzato” portanza cruciale anche per la mente dell’individuo; solo assumendo l’atteggiamento dell’altro generalizzato verso se stesso l’individuo riesce a pensare nei termini di quei simboli astratti che costituiscono la mente razionale dell’adulto. Le parole sono degli universali che suscitano negli individui un atteggiamento comune; questa implicazione di universalità non esisterebbe se non ci fosse una certa struttura mentale che assume l’atteggiamento di tutti: vale a dire una specie di specchio globale in cui ogni singolo coglie le proprie espressioni per dar loro un significato generale. ■ La sociologia della conoscenza L’espressione sociologia della conoscenza, coniata negli anni ’20 del XX secolo da Max Scheler, dopo la ripresa e la diffusione operata in ambito anglosassone da Karl Mannheim ha avuto numerosi seguaci, quali Theodor Geiger e Werner Stark. I sociologi che si rifanno a questa corrente, sebbene con modalità e rielaborazioni personali, condividono l’idea di Scheler secondo cui il complesso delle conoscenze uma- Conoscenza ne è dato nella società come un a priori rispetto all’espe- ed esperienza rienza individuale: la conoscenza fornisce all’esperienza in- individuale dividuale un ordine di significato che, sebbene sia relativo a una particolare situazione socio-storica, viene percepito dal soggetto come il modo naturale di vedere il mondo. MEAD: LA MENTE COME FATTO SOCIALE “È assurdo considerare la mente unicamente dal punto di vista dell’organismo umano individuale. Infatti, sebbene abbia il suo centro lì, essa è essenzialmente un fenomeno sociale: anche le sue funzioni biologiche sono essenzialmente sociali. L’esperienza soggettiva dell’individuo deve essere, perciò, messa in relazione con le attività naturali, sociobiologiche del cervello, al fine di fornire una spiegazione accettabile della mente. E ciò può essere raggiunto solo a patto di riconoscere la natura sociale della mente. La povertà dell’esperienza individuale che sia costretta in condizioni d’isolamento dai processi di esperienza sociale – dal suo ambiente sociale – dovrebbe risultare evidente e necessaria. Perciò

noi dobbiamo considerare la mente come un prodotto e un’elaborazione nell’ambito del processo sociale e della matrice empirica delle interazioni sociali. Noi dobbiamo, in altre parole, approfondire la nostra esperienza individuale dal punto di vista degli atti sociali che coinvolgono le esperienze dei singoli individui separati in un contesto sociale nel cui ambito questi stessi individui interagiscono fra loro. I processi di esperienza che il cervello umano rende possibili vengono resi tali solo per un gruppo d’individui che interagiscono tra loro, solo per gli organismi individuali che siano membri di una società.” (G.H. Mead, Mente, Sé e Società, Giunti, Firenze 1966; p.150.)

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1 - La sociologia: metodi e teorie

Da qui l’interesse rivolto all’analisi della storia delle idee e all’indagine sui presupposti conoscitivi della scienza sociale.

L’osservazione del “mondo della vita”

■ La sociologia fenomenologica Elaborata dal sociologo tedesco Alfred Schütz sulla base della filosofia di Husserl, e diffusasi in ambito statunitense, la sociologia fenomenologica ha dato origine a numerosi sviluppi contemporanei: a essa si ispirano sociologi come Peter L. Berger e Thomas Luckman e, nelle rielaborazioni dell’etnometodologia, Harold Garfinkel e Aaron Cicourel. Secondo Schütz l’analisi sociale deve partire dall’osservazione dell’esperienza del mondo quotidiano (mondo della vita), dell’atteggiamento naturale degli individui così come esso si manifesta nella comunicazione (all’interno di segni e simboli) e nelle istituzioni sociali. Il “mondo della vita” costituisce infatti l’ambito in cui i soggetti si trovano inseriti all’interno di schemi interpretativi che strutturano lo svolgimento della vita quotidiana. Le usanze, i significati, i valori, le conoscenze tipiche della cultura di appartenenza, ma anche lo stesso linguaggio, costituiscono un mondo organizzato all’interno del quale si muove l’agire quotidiano. Schütz sottolinea l’importanza dei sistemi dei segni, primo fra tutti il linguaggio, per la costituzione del mondo sociale, individuando chiaramente l’oggetto di base della sociologia nel rapporto tra azione e forme di mediazione simbolica e mostrando che la realtà sociale è il prodotto delle rappresentazioni e delle interazioni dei membri della società stessa.

■ La teoria dell’agire comunicativo Jürgen Habermas, sociologo e filosofo tedesco appartenente alla scuola di Francoforte (scuola filosofica di ispirazione marxista a cui appartengono Adorno, Horkheimer e Marcuse), è il fondatore della teoria dell’agire comunicativo. Habermas tenta di sviluppare una teoria globale dell’azione sociale, nei suoi aspetti soggettivi, strutturali ed evolutivi. Oltre a numerosi rimandi a diverse correnti filosofiche e psicologiche, i richiami sociologici maggiormente presenti nel pensiero di Habermas sono la teoria dell’azione di Weber, l’interazionismo simbolico di Mead, la sociologia fenomenologica di Schütz, il funzionalismo e l’etnometodologia di Garfinkel e Cicourel. In Habermas l’agire viene considerato nei termini di un’interazione che si costiL’agire si fonda sulla comunicazione tuisce in base a regole fondate nella comunicazione linguistica; da qui l’interesse nei confronti dei modelli univerlinguistica sali dell’agire che strutturano la comunicazione linguistica come un insieme di dire e di fare (universali pragmatici). Va

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1 - La sociologia: metodi e teorie

comunque precisato il carattere duplice della comunicazione. Se la comunicazione è indirizzata alla produzione di convinzioni finalizzate al consenso nei confronti del potere costituito, l’interiorizzazione di forme ideologiche codificate provoca nel soggetto forme comunicative sistematicamente distorte. È comunque all’interno del rapporto comunicativo che devono essere colti i presupposti generali impliciti di razionalità e verità che, se esplicitati, consentono di distinguere la comunicazione distorta da quella autentica. Da qui la possibilità di un agire comunicativo orientato alla comprensione, che si contrappone all’agire orientato al successo e finalizzato al perseguimento di interessi. Nell’analisi del concetto globale di società, si riscontra la contrapposizione tra mondo della vita e sistema di azioni. Mentre il mondo della vita corrisponde alla prospettiva di soggetti partecipanti a processi di interpretazione, il sistema di azioni risponde a esigenze funzionali alla riproduzione stabile della società e risulta articolato in sottosistemi, tra cui il settore economico e il settore politico amministrativo. Lo sforzo è allora quello di elaborare, sulla base dei presupposti impliciti in ogni comunicazione, una teoria che consenta di dedurre dalla logica del linguaggio corrente il principio di un discorso razionale come regola necessaria di ogni discorso reale. Al tempo stesso debbono essere prese in esame le strutture del sistema di dominio dell’organizzazione della produzione e la modificazione delle immagini linguistiche del mondo che esse producono.

Il duplice carattere della comunicazione

Mondo della vita e sistema di azioni

■ La teoria dei sistemi La teoria generale dei sistemi, elaborata dall’epistemologo Ludwig von Bertalanffy e arricchitasi degli apporti di molteplici discipline (cibernetica, psicologia, biologia, tecniche dei sistemi meccanici ecc.), ha avuto profonde ripercussioni in ambito sociologico, dando vita ad approcci che vanno dal neofunzionalismo di Niklas Luhmann alla teoria strategica e sistemica dell’organizzazione di Michel Crozier ed Erhard Friedberg alla teoria dello scambio di George C. Homans, Peter Blau e Richard Emerson. La teoria generale dei sistemi ricorre al concetto matemati- Il concetto co di funzione (relazione di interdipendenza tra variabili di- di sistema verse) sulla base del quale essa esamina i rapporti che vengono a stabilirsi di fatto tra gli elementi diversi del sistema considerato. Col termine sistema si intende una realtà complessa i cui elementi interagiscono reciprocamente, secondo un modello di circolarità in base al quale ogni elemento condiziona l’altro ed è da esso a sua volta condizio-

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1 - La sociologia: metodi e teorie

La parte e il tutto

Sistema dinamico

Teoria dei sistemi sociali

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nato. Il significato di ogni singolo elemento non va pertanto ricercato nell’elemento stesso, quanto nel sistema di relazioni in cui esso è inserito. Va inoltre notato che, diversamente dalla prospettiva funzionalista, che considerava il sistema sociale come unità già data, nella teoria dei sistemi si ritiene che il sistema derivi da un processo di selezione messo in atto dall’osservatore che, in base ai propri interessi scientifici, prende in considerazione determinati elementi e non altri. Il sistema non va pertanto inteso come qualcosa che esiste nella realtà, quanto piuttosto come un’elaborazione teorica, sulla cui base è possibile rendere ragione di determinati fenomeni. La considerazione dei fenomeni nel loro reciproco rapportarsi fa sì che i sistemi non siano qualcosa di statico, ma in costante evoluzione (o involuzione) dinamica. Va notato che tale dinamica è particolarmente presente nei sistemi in cui sono più frequenti le relazioni con l’ambiente circostante (sistemi aperti). Le nuove istanze che via via si presentano nell’ambiente danno origine a variazioni dinamiche che tendono a riportare l’insieme a una situazione di nuovo equilibrio. Secondo Luhmann, tanto il sistema che l’ambiente vanno intesi come parte determinata di una complessità indeterminabile: il mondo. È questo l’insieme delle illimitate possibilità, che come tale non può mai essere circoscritto e che comprende sia l’ambiente (l’insieme delle possibilità determinabili presenti in una situazione concreta), sia il sistema, (prodotto determinato, costituitosi in base all’effettiva selezione di alcune delle possibilità determinabili dell’ambiente e alla negazione di quasi tutte le altre). Il sistema sociale serve a mediare il rapporto uomo-mondo, altrimenti reso estremamente difficoltoso dalla complessità del mondo stesso. Il sistema sociale infatti semplifica la complessità, innanzi tutto stabilendo una differenza tra un dentro e un fuori, e quindi strutturando il proprio ambito di senso. Si formano così, all’interno del mondo, come delle isole a complessità ridotta: i sistemi sociali, il cui grado di complessità varia secondo lo sviluppo e la capacità di selezione e di organizzazione strutturale dei sistemi stessi. Dato che i sistemi sociali si costituiscono in base a un senso condiviso, l’analisi dei processi comunicativi si pone come essenziale all’interno della stessa ricerca sociale.

1 - La sociologia: metodi e teorie

PER UN APPROFONDIMENTO ●

R. Collins, Quattro tradizioni sociologiche, Zanichelli, Bologna 1996

Presenta le principali tradizioni sociologiche raggruppate in quattro grandi scuole. ●

F. Crespi, Le vie della sociologia, Il Mulino, Bologna 1985

Fornisce i riferimenti storico-culturali e gli elementi concettuali essenziali della conoscenza sociologica. ● F.

Ferrarotti, L’ultima lezione. Critica della sociologia contemporanea, Laterza, RomaBari 1999

La frontiera tra sociologia e le altre scienze sociali diviene di giorno in giorno più labile. ●

M. Livolsi, La sociologia: problemi e metodi, Teti Editore, Milano 1980

Sociologi diversi si confrontano sugli indirizzi e i principali problemi della sociologia contemporanea. ● A. Mielucci, Verso una sociologia riflessiva, ricerca qualitativa e cultura, Il Mulino, Bologna 1998

Riflessione teorico-epistemologica aggiornata sul dibattito e sul ruolo dei metodi qualitativi nella ricerca sociale.

SCHEMA RIASSUNTIVO GLI INTERROGATIVI DELLA SOCIOLOGIA

La sociologa indaga il complesso campo delle relazioni umane. Gli interrogativi fondamentali della ricerca sociologica per Rocher sono: come si spiega che le collettività umane esistono e si mantengono? E correlativamente, come si rapporta l’individuo alle collettività? Come si organizzano o si strutturano i quadri sociali della vita umana? Come si produce e si spiega il cambiamento, l’evoluzione delle società umane?

LA NASCITA DELLA SOCIOLOGIA

Nata nel 1824 in ambito positivista per opera di Comte, la sociologia si pone innanzi tutto come ricerca scientifica, prendendo inizialmente a modello le scienze naturali e la loro pretesa oggettività. Con lo storicismo tedesco e la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, la conoscenza sociologica viene a essere inglobata all’interno di queste ultime. La peculiarità dei fenomeni umani, si sostiene, non può essere spiegata secondo i metodi delle scienze naturali; essa richiede l’elaborazione di metodologie appropriate capaci di comprendere il senso dell’agire umano. Il suo carattere scientifico I recenti sviluppi delle scienze fisiche e dell’epistemologia hanno modificato il concetto stesso di scienza, a cui non è più attribuito il carattere di riflessione oggettiva. La distinzione tra scienze sociali e scienze naturali è pertanto attualmente assai meno marcata. Rimane tuttavia la complessità propria dell’agire umano, che richiede attenzioni a dimensioni “soggettive” normalmente trascurate dalle altre discipline. La collaborazione strettissima con le altre scienze sociali (in particolare antropologia e psicologia sociale) e più generalmente con altre discipline (come la linguistica, la matematica, la statistica ecc.) conferisce alla sociologia una dimensione interdisciplinare, attualmente ritenuta imprescindibile. GLI STRUMENTI DI RICERCA

La sociologia si serve di dati empirici e di teorie. Relativamente ai primi essa ha elaborato diversi metodi di ricerca.

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1 - La sociologia: metodi e teorie segue

A causa della vastità dell’ambito sociale, i dati vengono raccolti su un gruppo più ridotto di individui omogeneamente rappresentativi (il campione). La raccolta delle informazioni sul campione può venire effettuata mediante questionari (strutturati o non strutturati). Esperimenti di laboratorio Consentono di isolare con una certa precisione la variabile in questione. Vengono utilizzati per studiare fenomeni quali i rapporti di cooperazione, di conformismo, devianza ecc. Esperienza sul campo Mediante il coinvolgimento dello sperimentatore nella situazione di vita quotidiana di un determinato gruppo, permette la comprensione di fattori altrimenti non rilevabili. Ricerca storica Consente la comparazione del fenomeno sociale oggetto d’analisi con situazioni verificatesi in altri periodi storici. Ricerca comparata Consiste nell’analisi di modelli di comportamento simili all’interno di contesti sociali differenti. Analisi per campione

I MODELLI TEORICI Funzionalismo Teorie del conflitto Strutturalismo Teorie dell’azione Sociologia della conoscenza Teoria dell’agire comunicativo Sociologia fenomenologica Teoria dei sistemi sociali

Obiettivo dei molteplici modelli teorici attualmente più presenti nell’ambito sociologico è rendere ragione nel modo più efficace possibile dei problemi inerenti alle relazioni sociali. Con gli sviluppi dello struttural-funzionalismo, il funzionalismo considera gli elementi sociali in interrelazione reciproca. Le teorie del conflitto considerano gli elementi sociali (per esempio, classi) in rapporto dialettico. Riprende il concetto di struttura elaborato dalla linguistica (ciò che è essenziale, permanente, formale e solidale) e lo applica ai fenomeni culturali. Comprendono molteplici teorie (interazionismo simbolico, teoria della rappresentazione scenica ecc.), accomunate dall’interesse per i processi di microinterazione individuale. La sociologia della conoscenza ritiene che l’esperienza individuale sia condizionata dall’ordine e dal significato fornitole dai modelli sociali. Teoria globale dell’azione sociale, analizza i modelli universali dell’agire che strutturano la comunicazione linguistica. La sociologia fenomenologica riprende alcuni concetti della fenomenologia di Husserl (mondo della vita, empatia ecc.) e concentra l’attenzione sull’esperienza del mondo quotidiano. Applica all’analisi sociale la teoria dei sistemi elaborata in ambito epistemologico da Bertalanffy. Sulla base del concetto matematico di funzione, vengono esaminati i rapporti che si vengono a costituire tra gli elementi dei sistemi sociali.

DOMANDE DI VERIFICA 1. Qual è l’ambito di studio della sociologia? 10a 2. Quali metodologie di ricerca utilizza? 14-16 3. Per quale motivo si effettua la ricerca sul campo? 16a 4. Quali sono attualmente le principali teorie so-

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ciologiche? 17-26 5. Qual è il significato dei termini macrosociologia e microsociologia? 17 6. Degli approcci teorici, quali appartengono alla macrosociologia e quali alla micro? 17a

2 Cultura e società Le abitudini, le conoscenze, le regole, le visioni del mondo, ma anche le istituzioni, i manufatti, i riti, i costumi, le tradizioni propri di un determinato contesto sociale (in altre parole tutto ciò che la ricerca sociologica designa col temine cultura) incidono profondamente sul modo di essere degli individui che a tale contesto partecipano. La relazione umana con l’ambiente viene a strutturarsi, infatti, sulla base di modelli culturali appresi, più o meno formalizzati, elaborati dalla società in cui l’individuo si trova ad agire e mediante i quali è possibile istituire un rapporto di interazione con altri esseri umani, rapporto che non si limita alla condivisione di atteggiamenti esteriori, ma riguarda anche un comune modo di concepire la realtà.

2.1 Il problema La straordinaria capacità di adattamento degli esseri umani consente loro di sopravvivere all’interno degli habitat più diversi ed estremi. Così la presenza umana si attesta tra i ghiacci artici, nelle foreste, nei deserti, presso paludi, su isole brulle ecc. Per quanto ci risulta, in nessun’altra specie animale si riscontra qualcosa di simile: esistono animali che sopravvivono ai rigori polari, ma sarebbero incapaci di sfuggire alle insidie che un differente habitat presenta. Così un uccello maestoso e potente come l’aquila non riuscirebbe a sopravvivere in un deserto privo di qualsiasi forma di vita; né un elefante su picchi innevati. L’uomo sì. Ma in cosa risiede questa peculiarità umana? Secondo i sociologi è da ricercarsi in quella che essi indicano col termine cultura. Gli esseri umani, dicono i sociologi, non nascono forniti di modelli di comportamento rigidi, seppure complessi, che permettono di sopravvivere in habitat particolari, ma devono invece apprendere e scoprire dei modi di adattamento a condizioni ambientali estremamente differenti. Questi modi di vita appresi, che vengono modificati e trasmessi da una generazione all’altra, costituiscono appunto la cultura. Nel parlare comune il termine viene utilizzato come sinonimo di gusti raffinati nel campo dell’arte, della letteratura o della musica, ma in sociologia il significato del termine è assai più esteso e comprende l’intero modo di vivere di una società. In questo senso chiunque faccia parte di una società possiede una cultura indipendentemente dal grado di istruzione formale conseguito.

Ambiente e adattamento

La cultura è la forma di adattamento peculiare dell’uomo

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2 - Cultura e società

Nella realtà, a quanto afferma Clifford Geertz, esseri umani non acculturati non esistono, non sono mai esistiti, né possono esistere. Senza la cultura non potrebbero infatti sopravvivere né il singolo individuo né la società umana. Perché questa affermazione non rimanga vuota è necessario rivolgere lo sguardo alle peculiarità della specie umana.

2.2 La specie umana L’stinto

Uomo e istinto

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Nella maggior parte degli esseri viventi il comportamento è legato all’istinto, vale a dire a modelli tramandati dall’informazione genetica che ne indirizzano la condotta al fine di consentirne la sopravvivenza all’interno di habitat particolari. Così, le migrazioni degli uccelli, le rotte dei salmoni che dal mare risalgono i fiumi per deporvi le uova, il letargo degli orsi ecc. sono tutti fenomeni legati a tendenze innate che dirigono con precisione l’agire degli individui appartenenti a quella determinata specie. L’importanza della componente istintiva è palese: essa consente reazioni rapide e funzionali che sostengono la sopravvivenza delle specie in questione. Il limite di ciò consiste invece nella rigidità del comportamento istintivo, che rende tale comportamento inadeguato di fronte a repentini cambiamenti ambientali. Nell’accezione della biologia e della sociologia, un istinto è un modello di comportamento complesso geneticamente determinato. Sono istintivi, per esempio, i rituali di corteggiamento, le rotte migratorie, le complesse procedure di costruzione della tana o del nido. Una conferma viene dagli esperimenti di Williams (1972) sull’uccello tessitore del Sud Africa: gruppi di tali animali sono stati allevati per cinque generazioni in un luogo privo dei materiali normalmente usati per la costruzione del nido. Reinseriti nell’ambiente originario, si dimostrarono però capaci di scegliere, tra i tanti materiali a disposizione, stecchi e peli particolari con cui edificavano nidi della stessa forma di quelli tipici della loro specie. Negli esseri umani non si riscontra nulla di simile: i comportamenti ereditari si riducono per lo più ai riflessi primitivi e ad alcuni bisogni fondamentali. Per esempio, i neonati compiono l’atto di succhiare se viene loro offerto un capezzolo o una tettarella, ma anche la punta di un dito (riflesso di suzione); i bambini piccoli tendono in alto le braccia per afferrarsi a un sostegno e ritirano bruscamente la mano se capita loro di toccare una superficie che scotta. Non solo: ha un fondamento biologico il nostro bisogno di nutrirci, di avere un’attività sessuale e di mantenere la temperatura corpo-

2 - Cultura e società

rea a certi livelli. Ma nonostante tale sostrato ereditario, sia i riflessi sia i bisogni vengono ben presto inseriti all’interno di sistemi culturali che ne modificano radicalmente le manifestazioni. Così il bisogno di cibo diviene il bisogno di determinate pietanze (di spaghetti e non di formiche arrosto, per esempio) e si struttura secondo orari ben definiti che hanno poco a che vedere con il bisogno originario. Gli esseri umani, inoltre, riescono a controllare anche i propri bisogni fondamentali secondo modalità che non sembrano avere riscontro tra gli animali. Così, per esempio, i mistici riescono a digiunare per periodi di tempo molto lunghi, oppure certi individui possono scegliere il celibato per una parte o per la totalità della propria esistenza, mentre altri possono contraddire deliberatamente l’istinto di sopravvivenza compiendo azioni che sanno suicide. ■ I comportamenti complessi Ma se la trasmissione genetica riguarda solo comportamen- La trasmissione ti semplici o predisposizioni elementari, in che modo av- dei comportamenti viene la trasmissione dei comportamenti complessi? complessi Per comprendere abilità come camminare, parlare, costruire un rifugio e la maggior parte dei comportamenti umani, bisogna risalire ai processi di apprendimento e socializzazione, mediante i quali le vecchie generazioni trasmettono alle nuove non solo modalità operative, ma anche modelli etici, estetici e relazionali in genere. Sempre in riferimento alla natura della nostra specie, va inoltre rilevata l’estrema lentezza con cui gli esseri umani acquisiscono le abilità necessarie alla propria sopravvivenza. Mentre la maggior parte degli animali diviene indipendente dopo un tempo relativamente breve, il periodo di dipendenza degli umani dura anni e anni. Per limitarci agli animali più vicini all’uomo da un punto di vista evolutivo, basti pensare che i piccoli di scimmia hanno un periodo di dipendenza dalla madre che va da 1 a 3 settimane e raggiungono l’età della piena indipendenza sociale tra i 12 e i 18 mesi; le scimmie antropomorfe (quelle più simili a noi) dipendono totalmente dalla madre per un periodo che va da 3 a 6 mesi, ma raggiungono l’età dell’indipendenza sociale poco dopo l’anno di vita, età in cui il piccolo di uomo è ancora totalmente dipendente. Questo lungo periodo di dipendenza tipico della nostra specie dà però al bambino la possibilità di acquisire moltissime informazioni, che in seguito gli permetteranno di scegliere, in presenza di situazioni ambientali eterogenee, i modelli di comportamento più adeguati.

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2 - Cultura e società

Anche se il prolungamento dell’infanzia è un elemento comune a tutto il genere umano, tuttavia la sua durata, il tipo di educazione, le attività che si ritengono relative all’infanzia stessa e le informazioni offerte alle giovani generazioni possono presentarsi in modi totalmente differenti in società diverse. In effetti, la trasmissione culturale avviene per lo più attraverso modelli di riferimento che l’ambiente sociale (dapprima la famiglia e quindi il rapporto con gli altri individui del gruppo) fornisce al bambino. Dai primati all’“Homo sapiens”

Il ruolo della cultura nella comparsa dell’uomo

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■ L’evoluzione Secondo le teorie evoluzionistiche, gli antenati degli esseri umani sarebbero dei primati, cioè scimmie, dall’andatura eretta, da cui col passare del tempo sarebbero derivati i diversi tipi di ominide, cioè di esseri affini ai primati e ormai appartenenti alla famiglia umana. Dai ritrovamenti dei paleontologi sappiamo però che questi esseri, pur somaticamente assai simili all’attuale specie umana, se ne differenziavano per l’inferiore livello intellettivo. A lungo si è ritenuto che l’evoluzione abbia man mano modificato alcuni caratteri di questi antichi nostri progenitori sino a dar vita a un genere di ominidi caratterizzati da una massa cerebrale più grande, assai più intelligenti dei predecessori, capaci di creare utensili: l’Homo sapiens. In realtà, dalle scoperte compiute nella seconda metà degli anni ’50 in Tanganica, è emerso che l’utilizzo di utensili precede la comparsa dell’uomo attuale: già nel Pleistocene (ossia almeno un milione di anni prima della comparsa dell’Homo sapiens) venivano forgiati utensili di pietra. Gli studiosi sono attualmente concordi nel ritenere che la comparsa dell’uomo derivi non tanto da un processo biologico – che aumentando la massa cerebrale avrebbe consentito ad alcuni individui l’invenzione di utensili e di forme comunicative più elaborate – quanto piuttosto da uno sviluppo culturale che in qualche modo è stato antecedente all’evoluzione della specie umana. L’uso di strumenti e l’elaborazione di codici linguistici, insieme alla formazione di comunità sociali, svolsero quasi certamente un ruolo di rilievo nel processo evolutivo. Tali elementi conferirono agli antenati della specie umana capacità di sopravvivenza superiori a quelle di altri animali. I gruppi che ne disponevano erano in grado, rispetto a quelli che ne erano privi, di esercitare sull’ambiente un controllo molto più incisivo: gli ominidi capaci di costruire e utilizzare armi e dotati di migliori sistemi di comunicazione ebbero maggiore probabilità di organizzare spedizioni di caccia efficaci, riuscendo a prevalere anche su predatori che da un punto di vista fisico erano cer-

2 - Cultura e società COSTUMI E REGOLE IGIENICHE “Il ritmo e l’orientamento dell’evoluzione biologica dell’uomo sono determinati in amplissima misura dalle forme di cultura adottate nei vari luoghi, e dai costumi adottati in passato o tuttora prevalenti [...]. Come potrebbe essere altrimenti? È la cultura di un gruppo che determina i limiti geografici che esso si assegna o subisce, i rapporti di amicizia o di ostilità che mantiene coi popoli vicini e, come conseguenza, I’importanza relativa degli scambi genetici che grazie ai matrimoni misti

permessi, favoriti o vietati potranno stringersi tra questi [...]. C’è dell’altro: le regole igieniche praticate da ogni società, e l’importanza e l’efficacia relative alle cure applicate a ogni malattia o insufficienza, permettono o impediscono in gradi diversi la sopravvivenza di determinati individui e la propagazione di un materiale genetico che altrimenti sarebbe sparito prima.” (Claude Lévi-Strauss, Razza e cultura, in Lo sguardo lontano, Torino, Einaudi 1984; pp. 18-19.)

tamente più dotati. Quel primo embrione di cultura rese così alcuni ominidi dei soggetti adatti alla sopravvivenza, malgrado la loro natura debole e destinata altrimenti a soccombere. Con l’apparizione della specie umana vera e propria L’“Homo sapiens (Homo sapiens sapiens), lo sviluppo culturale divenne sem- sapiens” pre più intenso, tanto da rendere tale specie infinitamente distante anche dagli antenati a lei più prossimi e somaticamente simili e consentirle la realizzazione di imprese del tutto impraticabili da un punto di vista puramente naturale. La produzione culturale ormai inscindibile con l’essere umano fa sì che non siamo più vittime indifese dell’ambiente: creiamo il nostro ambiente sociale inventando e condividendo le regole e i modelli di comportamento che disciplinano la nostra vita e utilizziamo la nostra conoscenza appresa per modificare l’ambiente naturale. Ciò che rende possibile un tale prodigio è la trasmissione culturale e la vita sociale che ne deriva. Se non ci fosse una cultura trasmessa dal passato, ogni nuova generazione dovrebbe risolvere i problemi più elementari ricominciando ogni volta da zero: sarebbe costretta a escogitare un sistema sociale, a inventare un linguaggio, a scoprire il fuoco, la ruota e così via.

2.3 Le culture La dimensione appresa dei fenomeni culturali si contrappone alla rigidità delle risposte di derivazione congenita. Mentre i comportamenti istintivi sono pressappoco uguali in tutti gli individui della stessa famiglia (poiché ogni organismo è dotato degli stessi meccanismi), la cultura è un bene collettivo al quale gli individui partecipano secondo modalità differenti. Inoltre, anche se l’attività culturale è sempre combi33

2 - Cultura e società

Pluralità dei modelli culturali

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nata con riflessi, abitudini, impulsi e attività istintive, e nasce all’interno di determinate condizioni ambientali, in essa sono presenti dimensioni difficilmente riducibili allo stretto determinismo imposto dall’ambiente. Si può dire che la cultura sia il prisma attraverso il quale l’uomo percepisce la realtà e che egli utilizza per adattarsi alla realtà e per controllarla. Tuttavia, proprio a causa della sua plasticità, la cultura non fornisce un unico modello, ma una pluralità di modelli di comportamenti spesso assai diversi tra loro. Antropologi e sociologi, ma ancor prima viaggiatori, mercanti e missionari, hanno più volte sottolineato la presenza di modi di vita molto diversi da quelli ai quali siamo abituati e che difficilmente possiamo definire “naturali”. Se infatti normalmente si ignora la dimensione culturale del proprio “mondo”, poiché con l’abitudine siamo portati a considerare naturali e inevitabili anche i comportamenti di più diretta derivazione sociale, nel caso di consuetudini, credenze e modi di vita più distanti la capacità di osservazione diviene più acuta. Così gli studi degli antropologi costituiscono un repertorio prezioso per l’indagine sociologica, che tramite essi riesce a cogliere caratteri altrimenti difficilmente osservabili. Valori e norme di comportamento differiscono ampiamente da cultura a cultura, contrastando spesso in modo radicale con ciò che i membri delle società occidentali considerano normale. In Occidente, per esempio, si mangiano i vitelli, ma non i cuccioli del gatto e del cane, considerati invece prelibatezze in altre parti del mondo. Gli ebrei non mangiano il maiale; gli indù invece sì, ma rifiutano la carne bovina. Gli occidentali considerano il bacio come un normale aspetto del comportamento sessuale, ma in molte altre culture questa pratica è sconosciuta o giudicata disgustosa. In molti paesi musulmani il volto e i capelli femminili vengono rigorosamente coperti e in alcuni casi (come nell’attuale Afghanistan) totalmente nascosti da un abito-sacco (il burka) provvisto solo di una specie di rete in prossimità degli occhi e del naso. Le donne occidentali sono libere di acconciare i capelli come meglio credono ed espongono liberamente allo sguardo altrui il proprio volto e il corpo, ma, tranne situazioni eccezionali, tengono il seno coperto. Presso diverse popolazioni africane che serbano i costumi tradizionali, invece, il seno femminile viene normalmente esibito senza che ciò crei il minimo imbarazzo o provochi scandalo. Le differenze culturali non riguardano solo aspetti che potrebbero sembrare marginali, ma penetrano nelle dimensioni etiche più profonde, così da investire anche valori morali fondamentali.

2 - Cultura e società

Nell’Occidente moderno, per esempio, l’omicidio volontario dei neonati e dei bambini viene considerato un crimine abominevole, mentre nella cultura tradizionale cinese le femmine venivano di frequente strangolate alla nascita, essendo considerate un peso per la famiglia.

2.4 Società a confronto Le diverse culture presentano sovente caratteri fortemente L’allevamento contrastanti già nelle procedure di allevamento dei nuovi dei neonati nati. In molte società i neonati sono avvolti in rigide bende o chiusi in intelaiature di legno o cuoio a forma di culla che ne immobilizzano gli arti, mentre in altre culture si incoraggia la libertà di movimento del neonato. Analogamente, è possibile che vengano forniti assistenza e nutrimento non appena il piccolo piange per fame, o, viceversa, a intervalli regolari prestabiliti o decisi a seconda del giudizio e della disponibilità della madre. L’allattamento al seno materno, poi, può variare secondo la cultura di appartenenza da pochi mesi a molti anni, oppure può mancare del tutto. In alcune culture al neonato si fornisce un’alimentazione supplementare fin dalle prime settimane: il cibo può essere introdotto nella bocca del bambino dopo essere stato masticato dalla madre o lasciato al piccolo perché ci giochi prima di mangiarlo; in altre culture, invece, l’ulteriore nutrimento può essere del tutto assente. Analogamente lo svezzamento può avvenire bruscamente (come nel caso in cui i capezzoli materni vengono spalmati di sostanze amare), oppure essere rinviato a lungo fino alla nascita di un fratello. In alcune culture, inoltre, il contatto fisico tra bambino e madre è continuo, in altre invece molto limitato. Ancora: il controllo dei bisogni corporali differisce molto nei diversi raggruppamenti umani sia per l’età in cui avviene, sia per l’importanza che esso riveste. In alcune soI SIOUX Tra i Sioux che serbano la cultura tradizionale già prima che il bimbo venga al mondo si forma intorno a lui un clima di affettuosa aspettativa: le donne ricercano le erbe e le bacche migliori con cui verrà preparato un succo dolce che riempirà un rudimentale biberon fatto con un budello di bufalo e che costituirà il primo nutrimento del neonato. Viene quindi scelta una donna che avrà il compito di stimolare con un dito la suzione del piccolo e

somministrargli questo suo primo alimento. Nel frattempo, due donne succhiano le mammelle della madre per facilitare la montata lattea e favorire l’allattamento del nuovo nato, riducendo al bimbo la fatica della suzione. Da questo momento il piccolo verrà nutrito non appena ne manifesterà il bisogno. L’allattamento solitamente dura tre o quattro anni a meno che non sia interrotto da una nuova gravidanza.

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2 - Cultura e società

cietà i bambini vengono spinti alla competizione, in altre ciò è ritenuto assolutamente disdicevole ecc. ■ Il caso degli Arapesh e Mundugumor Il confronto fra Dagli studi dell’antropologa statunitense Margaret Mead una società pacifica sulla vita tradizionale delle tribù Arapesh e Mundugumor e una guerriera della Nuova Guinea si colgono una serie di comportamenti totalmente divergenti. Mentre gli Arapesh costituiscono una società pacifica fondata sulla cooperazione (lavorano insieme la terra, ignorano la guerra e sono turbati da qualsiasi forma di aggressività), i Mundugumor vivono in un costante stato di guerra. Il bambino Arapesh è allevato ed educato in modo da diventare un adulto mite e gentile. Viene allattato fino all’età di tre anni e i genitori cercano di non avere un altro figlio finché quello precedente non abbia circa due anni. I bambini sono trattati con molto amore e presi in braccio e attaccati al seno non appena strillano. Nel caso in cui si verifichino litigi tra coetanei, questi vengono separati, ma non puniti. Presso i Mundugumor il nucleo familiare è costituito da un maschio con otto o dieci mogli, acquisite in cambio di una sorella, o di una figlia. In questo modo si generano rapporti di ostilità e competizione tra padre e figlio, che vengono ulteriormente rafforzati dall’usanza di trasmettere l’eredità paterna alla figlia e da questa al figlio maschio. Inoltre, mentre all’interno delle comunità Arapesh i bambini vengono abituati a non far male agli altri, ma a sfogare la propria collera picchiando sul suolo o in qualche altro modo impersonale, nei piccoli Mundugumor si stimola invece l’aggressività, tanto che i bimbi di natura mite vengono destinati a occupare un posto secondario e subordinato rispetto a quelli più aggressivi. Il bimbo Mundugumor nasce in un ambiente ostile e talvolta viene ucciso al momento della nascita. I bambini non sono guardati con simpatia dai genitori: sin da piccoli essi vengono lasciati da soli in uno scomodo cesto. La madre allatta rimanendo in piedi, dimostrando scarsissimo affetto per il bambino e affrettandosi a riporlo nel cesto non appena possibile; man mano che crescono, i fanciulli vengono sempre più soffocati da una serie continua di proibizioni.

2.5 Perché le culture? L’atteggiamento più diffuso e forse più spontaneo di fronte a modi di vita così lontani è quello di ritenerli stranezze prive di senso, frutto di individui primitivi e comunque infe36

2 - Cultura e società

riori. Da atteggiamenti di questo genere si sono sviluppate le teorie etnocentriche (che considerano la propria cultura come l’unica possibile), che sociologi e antropologi hanno cercato di arginare con sistemi teorici che spiegassero i motivi delle diversità culturali. Tra i tanti, ci soffermeremo a esaminarne due particolarmente rilevanti: il funzionalismo e l’approccio ecologico. ■ La spiegazione funzionalista Sin dai primi decenni del ’900, diversi studiosi (come Malinowski e Radcliffe-Brown e più recentemente Parsons e Merton) hanno introdotto il concetto che la cultura di un popolo è un insieme complesso, i cui elementi hanno senso solo all’interno della rete di relazioni in cui sono inseriti e che a loro volta consentono di mantenere. Secondo tale approccio, società e cultura formerebbero un sistema di parti interdipendenti, all’interno del quale ogni aspetto è funzionale all’ordine sociale complessivo. Sulla scorta di questa impostazione, si può dire che per comprendere il significato di un singolo elemento culturale è necessario rapportarlo all’insieme di cui partecipa, altrimenti esso risulterà assurdo, o al limite compreso all’interno di significati che non gli appartengono. La spiegazione di un tratto culturale particolare implica pertanto l’analisi delle funzioni che esso svolge per l’intero sistema. In base a quest’ottica, la danza in onore del sole, celebrata presso i Cheyenne, non rappresentava l’abitudine assurda di un popolo poco sviluppato, ma rivestiva un’importanza particolare per la sopravvivenza sociale di tale popolazione. La stranezza del rituale riguardava la periodicità dell’avvenimento, durante il quale si riunivano i diversi gruppi della tribù, che in questo modo erano costretti a trascurare le attività produttive con conseguente danno economico. Anche qui l’analisi funzionalista tende a scorgere la causa in relazione al sistema generale: la danza costituiva per l’intera tribù uno scopo comune, che forniva l’occasione per ristabilire o rafforzare i legami sociali e contribuiva a sviluppare il sentimento di appartenenza a un unico popolo in tutti gli individui, altrimenti frazionati in gruppi dispersi.

Gli aspetti culturali sono funzionali al mantenimento della società nel suo complesso

■ Le teorie ecologiche Altri autori (come J. Steward, W.J. Bennett e M. Harris) pre- La cultura, risposta feriscono tentare di comprendere le diversità culturali sul- all’ambiente la base dell’analisi delle richieste che l’ambiente (inteso come clima, territorio ecc.) pone ai vari raggruppamenti umani e sottolineano l’importanza delle tecniche elaborate

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2 - Cultura e società DETERMINISMO TECNICO-AMBIENTALE E TECNICO-ECONOMICO “Io credo che alla strategia darwiniana corrisponda, nel campo dei fenomeni socioculturali, il principio del determinismo tecnico-ambientale e tecnico-economico. Secondo questo principio, tecnologie analoghe applicate ad ambienti analoghi tendono a produrre un analogo ordinamento del lavoro nella produzione e nella distribuzione: questo, a sua volta, produce tipi analoghi di raggruppamenti sociali che giustificano e coordinano le proprie attività

Funzione adattiva della cultura

per mezzo di analoghi sistemi di valori e di credenze. Tradotto nella strategia della ricerca, il principio del determinismo tecnico-ambientale e tecnico-economico assegna la priorità allo studio delle condizioni materiali della vita socioculturale, più o meno come il principio della selezione naturale dà il primo posto allo studio dei diversi gradi di successo nella riproduzione.” (M. Harris, L’evoluzione del pensiero antropologico, Il Mulino, Bologna 1971; p. 7.)

dai singoli raggruppamenti umani al fine di garantire la sopravvivenza sociale all’interno di determinati habitat. Gli elementi culturali, insomma, andrebbero concepiti innanzi tutto come funzione adattiva a particolari condizioni ambientali che impongono al raggruppamento umano vincoli e possibilità. Per Steward, per esempio, “la necessità di guadagnarsi la vita in un dato ambiente, utilizzando congegni e metodi specifici per procurarsi, trasportare e preparare il cibo e altri beni essenziali, ha costituito un limite alla dispersione o al raggruppamento della popolazione e alla composizione degli insediamenti umani, influenzandone profondamente molte modalità di comportamento”. Secondo questa prospettiva, il nomadismo tipico delle culture beduine, la limitatezza degli arredi delle loro dimore, l’abitudine a lavarsi di rado e utilizzando poca acqua, la stessa immagine del paradiso, concepito come luogo fresco dove scorrono acque e abbondano i frutti, sono direttamente riconducibili all’aridità del territorio in cui essi vivono, alla necessità di vagare di oasi in oasi alla ricerca di foraggio per gli animali e alla conseguente necessità di dimore facilmente smontabili e ricostruibili velocemente, prive dunque di ciò che non è strettamente necessario. Si comprende inoltre come una società nomade e dedita alla pastorizia abbia elaborato una religione in cui non sono presenti divinità marine o spiriti dei boschi, ma un dio pastore del gregge umano.

2.6 La natura della cultura La vita degli esseri umani è scandita da abitudini, modelli, conoscenze, ma anche da manufatti e strumenti di lavoro, attraverso i quali essi forgiano il proprio mondo. La cultura comprende infatti ogni attività umana, sia conoscitiva, sia 38

2 - Cultura e società

affettiva o conativa (che concerne, cioè, l’agire in senso stretto) e i prodotti a questa legati. Alcuni sociologi di area tedesca (Ferdinand Tönnies, Alfred Cultura e civiltà Weber ecc.) e alcuni americani (tra i quali Robert McIver e Robert K. Merton) affiancano al termine cultura quello di civiltà, attribuendo al primo le dimensioni più disinteressate e spirituali della vita collettiva (per esempio, l’arte, la letteratura ecc.) e al secondo gli aspetti più materiali (per esempio, le tecnologie, gli strumenti di produzione ecc.). La maggior parte degli studiosi, però, tende ormai a utilizzare unicamente il termine cultura, volendo così sottolineare l’interdipendenza spirituale e pratica propria dei contesti umani. La cultura viene così a designare sia prodotti fisici (monumenti, oggetti particolari, pali totemici, libri, case ecc.), sia altre realtà che potremmo definire ideali (come valori, credenze, linguaggi, sistemi politici ecc). Per sottolineare la presenza di entrambe le dimensioni, i sociologi preferiscono attualmente parlare di cultura materiale e cultura non materiale, intendendo col primo termine tutti gli elementi tangibili (manufatti, attrezzi, abitazioni ecc.) e nel secondo caso le conoscenze, gli elementi valoriali, normativi ecc. Ancora una volta la distinzione è però meramente concettuale, poiché le dimensioni materiali sono nella realtà strettamente dipendenti da quelle non materiali e viceversa. La presenza nella società italiana di ciondoli a forma di croce, per esempio, indica certamente una dimensione materiale della cultura, che però esprime un determinato credo religioso in cui si afferma il sacrificio sulla croce della divinità (pertanto un elemento non materiale), ma al contempo la presenza di quell’oggetto fortifica il credo in quella particolare dottrina, incidendo così a sua volta sugli elementi non materiali. ■ Gli elementi fondamentali della cultura Volendo penetrare la questione dei fondamenti della cultura è necessario soffermarsi su alcuni aspetti essenziali a ogni forma di cultura. In primo luogo va considerato il collegamento esistente tra Modificazione cultura e azione individuale: è attraverso l’esame dei com- dell’individualità portamenti individuali che si può rintracciare una determinata cultura, ma questi a loro volta sono possibili solo in relazione a quella (per gli esempi v. par. 2.3). I modi di pensare, sentire e agire propri di un determina- Formalizzazione to contesto culturale possono darsi in un modo altamente formalizzato (come nel caso di un rituale o di un codice di leggi), ma anche in realtà con un livello medio o mini-

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2 - Cultura e società SGUARDO E CULTURA Vera Birkenbihl cita l’esempio di un’insegnante che interroga negli occhi una scolaresca composta da allievi tedeschi, turchi, iraniani e portoricani. Lo stesso gesto può avere significati diversi e quindi ingannare.

Condivisione

Apprendimento

Infatti, quando i tedeschi abbassano gli occhi intendono di solito esprimere una consapevolezza di colpa, mentre i portoricani con lo stesso gesto vogliono esprimere rispetto verso l’autorità dell’insegnante.

mo di formalizzazione (come nel diritto consuetudinario, per quanto riguarda certe regole di educazione, o le relazioni tra amici di lunga data). Nel caso di comportamenti fortemente formalizzati, il comportamento richiesto è relativamente rigido, ma in cambio gli individui possono prevedere con una certa precisione la reazione al proprio comportamento; al contrario, negli altri casi, al minore rigore corrisponde un maggiore sforzo interpretativo da parte dell’individuo stesso. Un ulteriore aspetto assolutamente centrale della cultura risiede nel fatto che questa è condivisa da una pluralità di individui. Perché si possa parlare di cultura globale è infatti necessario che alcuni modi d’essere e di agire siano considerati ideali o normali da un numero sufficiente di persone, divenendo così regole di vita che hanno acquistato carattere collettivo e dunque sociale. Una quarta caratteristica della cultura riguarda le modalità di apprendimento. Gli elementi culturali non sono infatti frutto di processi ereditari, ma vengono trasmessi grazie all’apprendimento. Questo aspetto ha a che fare con i diversi livelli di accesso alle risorse culturali presenti tra gli individui di ogni so-

CULTURA, SUBCULTURA, CONTROCULTURA Normalmente si distingue tra cultura (in riferimento a quanto condiviso da una società globale) e subcultura per indicare una parte della cultura generale della società, caratterizzata da valori, norme e stili di vita propri e distinti. Come esempio di subcultura possiamo pensare a quella dei punk o a quella degli ultras; oppure, anche se su dimensioni più ridotte, a quella che si riscontra tra i militari, tra le bande dei ragazzi di strada ecc. Si parla invece di controcultura nel caso in

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cui una subcultura, che si trova in disaccordo radicale rispetto alla cultura dominante, respinga consapevolmente alcune delle norme sociali più importanti. Il movimento giovanile del ’68 è un buon esempio di controcultura moderna: sia l’ala hippy sia quella politica “militante” hanno sfidato tutta una serie di norme e di valori, compresi quelli centrati sull’obbedienza all’autorità, sul successo, sul comfort materiale e sulle restrizioni sessuali, ritenute centrali dalla cultura occidentale.

2 - Cultura e società

cietà. Come è stato evidenziato da Liton, non è necessario che l’individuo conosca e usi tutto il patrimonio della cultura a cui appartiene: per esempio, non vi è alcuna necessità che ogni cittadino sappia tutto ciò che deve fare un sindaco, ma è sufficiente che egli abbia un’idea anche vaga di quali ne siano le funzioni. All’interno di un medesimo universo culturale bisogna distinguere pertanto le competenze specifiche, che rientrano nel bagaglio individuale, e le conoscenze generali comuni a tutti i cittadini. Più precisamente, si preferisce parlare di universali della cultura in riferimento all’elemento comune di valori, idee, principi, costumi, conoscenze, mentre sono chiamati aspetti speciali i caratteri della cultura che competono a determinate categorie. Oltre a questi elementi ne esistono poi altri (per esempio, tecniche, ideali, ecc.) all’interno dei quali l’individuo può operare una scelta: sono questi i cosiddetti aspetti alternativi. Va infine precisato che ogni soggetto può affrontare secondo modalità proprie i diversi comportamenti sociali e che questi elementi individuali possono entrare a far parte del patrimonio comune. Si può dire che gli aspetti approvati e spesso obbligatori della cultura sono quelli universali e speciali, mentre gli alternativi ne costituiscono la parte facoltativa. Nei periodi storici come il nostro, in cui avvengono fortissime trasformazioni culturali, le alternative possono diventare così numerose da ridurre a dimensioni minoritarie gli aspetti universali e speciali. ■ La cultura come sistema integrato e dinamico Bisogna inoltre rilevare che gli elementi culturali costituiscono un insieme integrato all’interno del quale ogni aspetto determina il modo di essere degli altri ed è da questi modificato: le credenze, i comportamenti, le conoscenze e le altre caratteristiche di una cultura tendono infatti a completarsi le une con le altre, fino a integrarsi in un insieme complesso. Ciò significa che quando intervengono cambiamenti in un settore della cultura si generano mutamenti in altri settori della stessa. Va precisato che le relazioni tra i diversi elementi culturali generalmente non hanno niente di necessario, non scaturiscono, cioè, da un ragionamento logico e razionale che li impone come necessari; sono piuttosto legami e rapporti percepiti soggettivamente come tali dai membri di una società. La coerenza di una cultura è dunque soprattutto una realtà vissuta soggettivamente dai membri di una società. Da quanto sin qui affermato si comprende che la cultura Sistema dinamico non è qualcosa di statico, ma proprio a causa dell’interdi-

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2 - Cultura e società CULTURA E CAMBIAMENTO “Nelle società industriali moderne i vari elementi non sono ben integrati. Le società industriali sono per lo più di grandi dimensioni e comprendono gruppi che hanno modi di vita differenti. La loro cultura è relativamente eterogenea e spesso esistono notevoli divergenze nei valori. Il cambiamento sociale e culturale avviene rapidamente e in modo irregolare, col risultato che le diverse componenti della

cultura devono adattarsi costantemente ai cambiamenti che avvengono in altre parti. Il fatto che le culture tendano a essere integrate spesso non è evidente fin quando il cambiamento che si verifica in una parte non provoca disorganizzazione nelle altre parti o non genera una diffusa resistenza al cambiamento.” (Ian Robertson, Sociologia, Zanichelli, Bologna 1993; p. 71.)

pendenza degli elementi che la costituiscono essa si ristruttura continuamente modificando gli usi e i costumi e così anche i valori, i precetti morali, la visione del mondo e le norme che regolano i rapporti tra gli individui... Non solo forti peculiarità individuali possono apportare elementi di innovazione (si pensi alle scoperte scientifiche, a quelle tecnologiche, alle novità introdotte nella lingua di un popolo da scrittori o poeti, a quelle introdotte dagli artisti, alle nuove religioni ecc.), ma anche elementi apparentemente neutri (per esempio, nuovi strumenti di produzione, di comunicazione ecc.) hanno il potere di destabilizzare l’ordine sociale preesistente e promuovere la formazione di nuovi equilibri.

2.8 Gli universi culturali Da un punto di vista sociologico, la funzione principale della cultura è quella di riunire una pluralità di persone in un unico insieme sociale, al cui interno anche fattori oggettivi come i legami di sangue e la coabitazione nello stesso territorio vengono reinterpretati e organizzati secondo modalità e significati propri della cultura stessa. Così, i legami di sangue diventano legami di parentela, vengono estesi e articolati da regole e proibizioni, dalle leggi che stabiliscono i matrimoni permessi e quelli proibiti, dalle norme che regolano i rapporti tra persone di uno stesso gruppo di parentela ecc. A partire dai legami biologici di sangue, gli uomini hanno elaborato attraverso la cultura forme di parentela molto varie. La stessa cosa avviene relativamente alla coabitazione nel territorio o alla divisione del lavoro, che la cultura modella mediante concetti come quelli di patria, proprietà, classe sociale ecc. Va tenuto presente che non si tratta di semplice elaborazione ideale: una volta elaborato il 42

2 - Cultura e società

concetto di proprietà, il territorio non è più lo stesso, ma diviene qualcosa di mio o di tuo, qualcosa per cui combattere o da difendere. In definitiva, allora, l’elaborazione cul- La cultura costruisce turale non riguarda mere astrazioni, ma la costruzione di universi mentali un universo mentale, morale e simbolico comune a una e simbolici pluralità di persone, grazie al quale, e attraverso il quale, queste persone possono comunicare tra loro, condividere il senso della realtà e sentirsi parte di uno stesso universo che li sorpassa e li tiene uniti attraverso valori, modelli e significati. ■ Cultura e personalità Gli universi culturali non riguardano solo la strutturazio- Funzione formativa ne esteriore della vita degli individui (con modelli di rela- della personalità zione, abitudini, riti ecc.), ma plasmano la stessa persona- individuale lità interiore. Sul piano psicologico, la cultura svolge allora una funzione formativa delle personalità individuali, offrendo modi di pensare, conoscenze e pregiudizi, proibizioni e canali privilegiati di espressione dei sentimenti, mezzi per soddisfare i bisogni fisici e così via. Il bambino che nasce e cresce in una cultura particolare (nazionale, regionale, di classe ecc.), è destinato ad apprezzare certi cibi e a consumarli in un certo modo, a esprimere le proprie emozioni in determinate maniere, a piangere o trattenere i sentimenti, a sposarsi secondo certi riti, a muoversi gesticolando o rimanendo rigido ecc. Se lo stesso bambino, al momento della nascita, fosse stato trasferito e inserito in un’altra cultura, probabilmente avrebbe apprezzato altri cibi, avrebbe espresso le proprie emozioni diversamente, si sarebbe sposato con riti diversi e via di questo passo. LA DISTANZA SPAZIALE Anche la distanza spaziale che spontaneamente poniamo tra noi e l’interlocutore è un tratto tipico del nostro universo culturale. Al riguardo Edward Hall distingue quattro dimensioni principali che definiscono le norme del comportamento nello spazio. La distanza intima è lo spazio minimo, che può essere anche annullato dal contatto fisico, che si stabilisce nei rapporti di intimità. La distanza personale si riferisce invece a quello spazio nel quale ammettiamo le persone con le quali conversiamo, ma evitiamo il contatto diretto. La sua di-

mensione varia considerevolmente da cultura a cultura, oltre che a livello individuale. I rapporti formali sono invece mantenuti a una distanza sociale. Infine, la distanza pubblica si stabilisce quando un individuo singolo si rivolge a un gruppo. Esistono precise regole culturali che fissano le modalità di gestione dello spazio fra sé e gli altri, anche se la scelta della distanza è raramente intenzionale, mentre è solitamente determinata da percezioni di disagio e imbarazzo, quando queste sono negative, o di scioltezza e disinvoltura, quando sono positive.

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2 - Cultura e società

Bisogna precisare che, nonostante la cultura eserciti un’influenza fortissima sugli individui, essa va intesa non come una struttura rigida, quanto piuttosto come una realtà che viene assimilata secondo modalità particolari, tipiche dell’individualità di ciascuno. Si verifica così che il medesimo universo culturale comprenda modi di assimilazione e di declinazione differenti. PER UN APPROFONDIMENTO ●

F. Crespi, Azione sociale e pluralità culturale, Angeli, Milano 1992

Sociologi diversi si confrontano sul rapporto tra culture e azione sociale. ●

N. Elias, La civiltà delle buone maniere, Il Mulino, Bologna 1982

Si analizzano i processi di trasformazione che hanno portato alla costituzione delle abitudini che riteniamo “naturali”. ●

W. Griswold, Sociologia della cultura, Il Mulino, Bologna 1997

Introduce ai diversi approcci di questa complessa branca della sociologia. ●

P. Rossi, Il concetto di cultura, Einaudi, Torino 1970

Esamina il concetto di cultura attraverso le pagine dei principali antropologi. ●

G. Wallnöfer, Pedagogia interculturale, Bruno Mondadori, Milano 20000

Traccia un’analisi approfondita degli attuali confini teorici dell’educazione interculturale.

SCHEMA RIASSUNTIVO IL PROBLEMA

La cultura consente agli esseri umani di adattarsi agli ambienti più diversi modificando, e talvolta trasgredendo, l’istintività del comportamento che condiziona in modo rigido le altre specie animali.

I COMPORTAMENTI COMPLESSI

I comportamenti complessi, che riguardano non solo modalità operative ma anche modelli etici, estetici e relazionali, non dipendono dalla trasmissione genetica, bensì sono gradatamente appresi e assimilati dagli individui attraverso processi di socializzazione e di trasmissione culturale.

CHE COS’È LA CULTURA

La cultura comprende ogni attività umana, conoscitiva, affettiva e relativa al campo dell’azione, condivisa da una pluralità di individui in determinati contesti. I vari elementi culturali costituiscono un insieme integrato, in cui ogni aspetto determina il modo di essere degli altri ed è da questi condizionato. Attraverso la cultura l’uomo percepisce la realtà e la controlla. Valori e norme di comportamento differiscono da cultura a cultura, sia per quanto riguarda aspetti marginali delle abitudini, sia per quanto riguarda la dimensione etica profonda.

Le teorie sulla cultura

Per il funzionalismo ogni elemento culturale è comprensibile solo in reazione alla funzione che esso svolge nell’insieme culturale di cui fa parte. Ciò permette di comprendere il senso di comportamenti culturali apparentemente insensati dal punto di vista di un diverso insieme culturale. Per la teoria ecologica le diversità culturali dipendono dalle differenti richieste dell’ambiente naturale (del clima, del terreno ecc.) a cui gli uomini devono dare risposta.

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2 - Cultura e società segue

CULTURA E CIVILTÀ

Il termine cultura implica elementi sia materiali, sia spirituali; i caratteri a essa essenziali sono: la modificazione dell’individuo, la veicolazione tramite apprendimento, l’essere condivisa da una pluralità di individui, il costituire un sistema integrato e dinamico. La cultura fornisce l’universo mentale, morale e simbolico comune a una pluralità di persone, grazie al quale, e attraverso il quale, queste persone possono comunicare tra loro, condividere il senso della realtà e sentirsi parte di un universo comune che li sorpassa e li tiene uniti attraverso valori, modelli e significati.

DOMANDE DI VERIFICA 1. Perché Geertz sostiene che non esistono esseri umani non acculturati? 30a 2. Quali sono i caratteri dell’istinto? 30a 3. I bisogni primari vengono modificati dalla cultura? In che senso? 30b-31a 4. Come avviene la trasmissione culturale? 40b 5. Indica alcuni modelli educativi propri di differenti culture e spiega in che misura contribuiranno alla formazione degli individui. 35-36

6. Quali spiegazioni dei fenomeni culturali vengono date dall’approccio funzionalista? 37 7. In che senso gli elementi di una cultura costituiscono un insieme integrato? 41b 8. Cosa significa affermare che la cultura è un sistema dinamico? 41b 9. In che senso la cultura può “formare” gli individui? 43b

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3 La socializzazione Per socializzazione si intende il processo mediante il quale gli individui e i gruppi apprendono e interiorizzano le norme culturali e i valori propri del contesto sociale di appartenenza. Si tratta di un processo elaborativo che dalla prima infanzia si estende all’età adulta secondo fasi e modalità differenti. La socializzazione si distingue in primaria (legata all’infanzia e allo sviluppo psicofisico e in stretta relazione con la famiglia) e secondaria (dipendente in particolare dall’assunzione di un ruolo lavorativo). L’assimilazione delle modalità culturali del proprio orizzonte sociale talvolta fallisce dando origine a fenomeni di devianza.

3.1 Il problema

Qual è l’origine degli elementi comuni di una società?

Analizzando il concetto di cultura si è visto come esso veicoli norme di comportamento, ma anche conoscenze, valori, significati, comuni a una pluralità di individui. La vita stessa della società è legata a questa condivisione di elementi, che per perdurare nel tempo richiede non solo un’accettazione esterna, frutto di coercizione, ma anche di essere accompagnata da un’accettazione per così dire interiore. Individui diversi devono acquisire abilità complesse, un linguaggio comune, un comune modo di relazionarsi, di comunicare e di comportarsi, pena l’impossibilità della stessa vita sociale. Ma se la presenza di questi elementi comuni è ciò che garantisce la continuità del nostro vivere sociale, in che modo questi stessi elementi hanno origine? Come è possibile che individui differenti per intelligenza, inclinazioni, prestanza fisica ecc. riescano a condividere con gli altri tutti quegli aspetti che costituiscono la nostra vita quotidiana? Attraverso quale processo la società garantisce la propria esistenza consentendo ai nuovi nati di accettarne le regole e i modelli, non solo perché imposti, ma in quanto sentiti come naturalmente parte di sé?

3.2 Cultura e socializzazione I modelli culturali presentano la caratteristica essenziale di non essere inscritti nel patrimonio genetico dell’essere umano, ma di dover essere appresi da parte di ogni nuovo nato a seconda delle caratteristiche della società in cui egli deve vivere. Gli studi di Sigmund Freud e dei suoi discepoli, di Mead e della psicologia dell’età evolutiva hanno evidenzia46

3 - La socializzazione

to l’importanza dei processi attraverso cui le norme sociali L’interiorizzazione vengono interiorizzate dal bambino così da divenire parte delle norme sociali della sua stessa vita psichica. Mediante l’educazione e per tutta la sua esistenza, l’essere umano sviluppa abitudini, tendenze e bisogni la cui conformità alle norme costituisce la risposta desiderata. Fin dalla nascita, l’essere umano non solo interagisce con il proprio corpo e con il suo ambiente fisico, ma anche con gli altri esseri umani. Sin dall’inizio la biografia dell’individuo coincide con la storia dei suoi rapporti con gli altri; e questo perché anche le componenti non sociali dell’esperienza infantile vengono mediate dagli altri individui e, tramite loro, dall’esperienza sociale. Per fare un esempio, la sensazione di fame di un neonato può essere soddisfatta solo mediante un’azione da parte di altre persone. Spesso il disagio fisico o la sua scomparsa vengono provocati da azioni compiute da altri: così, probabilmente l’oggetto dalla superficie piacevolmente liscia viene messo nelle mani del bambino da qualcuno; e, con molta probabilità, se il bimbo si bagna sotto la pioggia è perché qualcuno l’ha lasciato all’aperto senza alcun riparo. ■ L’esperienza dell’altro Quasi ogni aspetto della vita del neonato coinvolge altri esseri umani: la sua esperienza degli altri è determinante per tutta la sua esistenza. Sono gli altri che creano i modelli at- I modelli traverso i quali il neonato percepisce il mondo, ed è solo con cui percepiamo grazie a questi modelli che l’organismo riesce a stabilire un il mondo rapporto stabile con il mondo esterno, non soltanto con il mondo sociale, ma anche con l’ambiente fisico. Questi stessi modelli interessano anche l’organismo, interferendo con il suo funzionamento. Sono gli altri, per esempio, che stabiliscono i modelli secondo i quali viene soddisfatta la richiesta di cibo del bambino, e così facendo agiscono sul funzionamento del suo organismo. La dimostrazione più evidente di ciò sta nell’orario dei pasti: se il bambino mangia a certe ore e solamente a quelle, l’organismo è costretto ad adattarsi a tali orari ed è proprio questo adattamento che ne determina i mutamenti di funzionamento. Quello che accade in ultima analisi è che non soltanto il bambino mangia a una certa ora, ma che alla stessa ora il bambino ha fame. Perciò la società non soltanto impone i suoi modelli sul comportamento infantile, ma giunge a organizzare i suoi bisogni organici primari. Analoghe osservazioni si possono fare per ciò che riguarda l’evacuazione, il sonno e altri processi fisiologici vitali. Ovviamente, culture differenti for-

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3 - La socializzazione I DUE TIPI DI SOCIALIZZAZIONE Secondo il sociologo italiano F. Ferrarotti la socializzazione primaria sarebbe per propria natura non utilitaria, costituendo un valore in sé e per sé. La socializzazione secondaria avrebbe invece carattere strumentale, riguardando i ruoli e le fun-

zioni che l’individuo è chiamato a ricoprire o a svolgere nella società. La socializzazione secondaria avverrebbe attraverso le istituzioni intese a favorire lo sviluppo dell’individuo come realtà autonoma e autosufficiente.

niranno condizionamenti differenti e diversi modelli sociali. Il processo attraverso il quale il bambino diviene gradualmente una persona consapevole di se stessa, in grado di utilizzare efficacemente le capacità specifiche della cultura in cui è nato, è appunto la socializzazione. La trasmissione delle norme sociali tra le generazioni

La socializzazione nell’infanzia

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■ Le norme La socializzazione è il processo che consente la trasmissione di norme sociali da una generazione all’altra. Le norme, a loro volta, rappresentano uno dei più importanti elementi di coesione e di riproduzione culturale di un gruppo umano. La loro trasmissione può manifestarsi tanto nelle forme tradizionali dell’educazione (familiare, scolastica), quanto come socializzazione politica o religiosa, cioè in forme in cui la comunicazione fra generazioni non ha necessariamente carattere anagrafico. Inoltre la socializzazione può svilupparsi come interiorizzazione di regole e principi, producendo nel soggetto il desiderio di conformarsi ai modelli, ai valori, agli stessi stili di vita del gruppo a cui appartiene, ma può anche essere il prodotto di una complessa interazione sociale, dello sforzo dell’individuo di accordare la propria immagine a come egli la percepisce e alle aspettative della società. ■ La socializzazione primaria La modellizzazione operata dal rapporto con l’altro riguarda sia la prima socializzazione, che l’individuo intraprende nell’infanzia e attraverso la quale diventa un membro della società, sia ogni successivo processo che introduca un individuo già socializzato in nuovi settori del mondo oggettivo della sua società. Si distingue così la socializzazione primaria dalla socializzazione secondaria. Va da sé che la prima è solitamente quella più importante, costituendo la struttura fondamentale di ogni ulteriore socializzazione. Ogni individuo nasce infatti all’interno di una determinata struttura sociale, dove incontra le persone che hanno cura della sua socializzazione e mediante le quali egli accoglie un determinato mondo culturale. Si può dire che le persone importanti

3 - La socializzazione

per il bambino, e tramite le quali avviene il suo processo di mediazione culturale, formano il piccolo veicolandogli un mondo culturale da esse selezionato. Una caratteristica tipica della prima socializzazione è l’influenza della vita emotiva. Come è stato fatto notare dalla psicologia infantile freudiana, il bambino si identifica con le persone che influiscono su di lui secondo modalità emozionali. La socializzaLA SOCIALIZZAZIONE SECONDO G.H. MEAD Per Mead l’individuo è un prodotto socia- bambino la capacità di dare ai propri atti e le: una persona non nasce infatti con un pensieri il medesimo significato che vi at“Sé”, che si forma nei processi dell’espe- tribuirebbero gli altri membri della società: rienza e dell’attività sociale. Per Mead, il poco alla volta il bambino costituisce una “Sé” si articola in due parti, l’“Io” e il “Me”. personalità, un “Sé”. Assumendo il ruolo L’“Io” è la risposta dell’organismo agli at- dell’altro durante la fase del gioco libero, i teggiamenti degli altri: parenti o amici (i bambini costruiscono poco alla volta un cosiddetti altri significativi ) o la società nel “Me”; ogni volta che si vedono con gli ocsuo complesso. Il “Me” è un concetto di chi di un altro si fanno l’idea del loro “Sé” se stessi che risulta dai giudizi degli altri e si esercitano a reagire a questa impressignificativi, nonché di altri membri della sione. Nel corso della terza fase, quella del società; si forma man mano che l’indivi- gioco organizzato, il bambino impara ad asduo matura e assorbe gli atteggiamenti e sumere i ruoli di diverse persone contemi modi di agire organizzati dagli altri. Quan- poraneamente. Secondo Mead, questo do pensiamo a noi stessi, l’oggetto del no- processo di apprendimento si verifica stro pensiero è il “Me”; l’“Io” pensa al “Me” quando il bambino partecipa a giochi in cui e reagisce a esso esattamente come nei ogni partecipante deve avere in sé l’atteggiamento di tutti gli altri partecipanti a quel confronti degli altri. Questo processo di genesi del “Sé” si ve- determinato gioco. Il bambino deve imparifica, secondo Mead, in tre fasi distinte. La rare quel che ci si aspetta non più da una prima è l’imitazione: in questa fase i bam- sola persona, ma da un intero gruppo. Quebini imitano il comportamento degli adulti sti diversi atteggiamenti e aspettative cosenza capire quello che stanno facendo; stituiscono un punto di vista composito, un per aiutare papà e mamma a preparare il “altro generalizzato”, sulla base del quale il pranzo, il bambino afferra a caso un pez- bambino può giudicare il proprio comporzo di carne o qualche carota. La seconda tamento. In una squadra di calcio, per è la fase del gioco libero, durante la quale esempio, ciascun giocatore segue una seil bambino comincia a sostenere veri e rie di regole e di idee che sono comuni alpropri ruoli: il dottore, il vigile, il pilota di la squadra e al tipo di gioco; questo “altro auto da corsa, il maestro. L’agire come generalizzato” fornisce al giocatore non qualcun altro richiede un’operazione men- solo un senso del proprio “Sé” nella squatale che è nuova per il bambino: l’assun- dra, ma anche una serie di idee sulla nazione del ruolo dell’altro. Questo concetto tura dell’attività della squadra stessa. Parfondamentale si riferisce alla capacità di tecipando a giochi organizzati, i bambini vedersi dal punto di vista degli altri; un acquisiscono poco alla volta la capacità di bambino, per esempio, può giocare al apprendere i valori di gruppi più ampi fino maestro e dire a se stesso di star fermo, ad arrivare ad assorbire gli standard della per assumere subito dopo la parte di uno loro società, con i vari modelli di comporscolaro irrequieto. Questo spostamento tamento: a questo punto hanno raggiunto continuo da un ruolo a un altro forma nel lo sviluppo del “Sé”, o personalità.

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La funzione del linguaggio

Un insieme di socializzazioni parziali

zione primaria, infatti, avviene solo tramite l’identificazione con l’altro importante. Grazie all’identificazione con le persone che si curano di lui e degli atteggiamenti che hanno nei suoi confronti, il bambino diventa capace di acquistare un’identità soggettivamente coerente e di aver coscienza di sé. Ciò che più di ogni altra cosa è necessario interiorizzare è il linguaggio. Grazie al linguaggio, e per mezzo di esso, vari schemi motivazionali e interpretativi vengono acquisiti come istituzionalmente definiti. Tramite la veicolazione delle parole il soggetto introietta dei significati condivisi dalla propria collettività. ■ La socializzazione secondaria Il processo di socializzazione non si conclude con l’infanzia, ma si protrae durante tutto il corso dell’esistenza. La formazione primaria viene infatti a modificarsi sulla base dell’introiezione da parte del soggetto di “sottomondi” istituzionali, ossia dei sistemi di conoscenza relativi al ruolo al quale il soggetto stesso è legato. La socializzazione secondaria sta allora a indicare un insieme di socializzazioni particolari (professionale, religiosa, politica, associativa ecc.) che hanno momenti e modalità specifiche e contribuiscono alla formazione complessiva della personalità sociale dell’individuo. L’addestramento a un lavoro, per esempio, implica un processo di socializzazione secondaria. Talvolta questi processi di socializzazione si rivelano piuttosto superficiali, nel senso che non richiedono profondi cambiamenti nell’individuo (è il caso di chi venga preparato per diventare, per esempio, architetto); altre volte, invece, comportano profondi mutamenti (si pensi, per esempio, a chi viene preparato per la vita sacerdotale). In questi ultimi casi l’intensità, anche emotiva, della socializzazione secondaria può essere simile a quella vissuta nell’infanzia. Un processo di socializzazione secondaria può comprendere anche il processo attraverso il quale un individuo estraneo alla cultura di una determinata società ne apprende i caratteri fondamentali a livello di valori e norme, di linguaggio, di stili di vita, di abilità e di competenze richieste. Infine, seppure a livelli di intensità minore, la socializzazione secondaria può verificarsi anche in ambiti di esperienza diversi, come nel caso di variazione di status sociale, variazione di luogo di residenza, introduzione in un nuovo giro di amicizie ecc. ■ Le fasi della socializzazione Le diverse nozioni di socializzazione possono essere combinate entro un modello di sviluppo nel tempo. Da questo

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punto di vista si distingue una socializzazione della prima infanzia, condotta principalmente nel nucleo familiare, una socializzazione scolare e, infine, un progressivo processo di socializzazione in età adulta per adeguarsi a ruoli culturalmente definiti. Nelle complesse società contemporanee si sviluppano agenzie di socializzazione sempre più differenziate e specializzate: sedi di formazione politica o sindacale, istanze di preparazione tecnico-funzionale a mansioni varie, ma anche socializzazione attraverso i media, a cominciare dalla televisione, che impone modelli di consumo e rappresentazioni sociali (di desiderabilità, autorità, prestigio ecc.). Come si è visto, la nozione di socializzazione ha applicazioni molto estese. Ma a partire dagli anni ’50 e ’60, una certa Critiche alla visione enfasi sull’onnipotenza della socializzazione come stru- deterministica mento di riproduzione della società è stata oggetto di criti- della socializzazione che e contestazioni. Studiosi critici verso le tesi strutturalfunzionalistiche hanno sottolineato come la socializzazione possa solo influenzare, più che determinare, i comportamenti individuali. La scuola interazionista, poi, ha evidenziato il carattere non unidirezionale del rapporto fra individuo e agenzie di socializzazione (famiglia, scuola, gruppo dei pari ecc.), contribuendo ad affermare una rappresentazione più aperta del fenomeno, in cui la personalità, le convinzioni e i comportamenti individuali non sono più intesi come il prodotto preordinato e assolutamente coerente di una strategia di socializzazione.

3.3 Socializzazione e sviluppo della personalità Lo studio del rapporto tra cultura e sviluppo della personalità si è sempre più diffuso negli ultimi decenni del ’900 grazie anche all’adozione di raffinate tecniche di ricerca, che hanno contribuito a creare un campo di interesse comune per sociologia, antropologia culturale, psicologia e psichiatria. Nell’analisi della formazione della personalità socia- Una ricerca le, l’indagine sociologica fa pertanto costante ricorso alle interdisciplinare altre discipline, e in particolare a quelle psicologiche. Va precisato che il concetto di personalità non deve essere inteso come un prodotto in sé concluso, bensì come un processo di transizione continua, di mutamento e di sviluppo. ■ Personalità, ambiente, pulsioni Per la teoria psicoanalitica elaborata da Sigmund Freud, le pulsioni originarie dell’essere umano sono in costante contrasto con le istanze estetiche, etiche e morali che l’individuo

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ha introiettato dall’ambiente sociale e che sono venute a costituirne la coscienza morale. Sulla base di questa concezione, Erik Erikson ha esteso l’ambito della dimensione psicosociale, mostrando come la maturazione della personalità subisca un processo di strutturazione dinamica nell’interazione con l’ambiente sociale. Lo sviluppo dell’individuo è caratterizzato secondo Erikson da conflitti che scaturiscono da esigenze opposte, e la necessità di superare tali crisi porta l’individuo ad affrontare un preciso compito evolutivo. Se tale compito viene risolto positivamente l’individuo acquista la sicurezza necessaria per poter affrontare le prove successive, mentre l’eventuale fallimento potrà originare atteggiamenti e comportamenti non integrati, cioè non consoni alle aspettaLe fasi tive della società. Per Erikson è l’ambiente, soprattutto l’amdell’incontro-scontro biente sociale, cioè il rapporto con gli altri, che può rinforfra personalità zare o inibire i comportamenti; la personalità, quindi, è e ambiente sempre il risultato di un incontro-scontro con l’ambiente. Il processo di evoluzione della personalità copre l’intera esistenza secondo fasi di età (Erikson ne individua otto) che corrispondono a tappe educative dell’integrità dell’“Io”. Ciascuna delle otto fasi ruota intorno a un problema o un momento di crisi specifico. Il passaggio da una fase alla successiva avviene quando il problema è stato risolto, sia pure in modo incompleto; ciascuna fase opera sulla base delle capacità, delle risorse e della maturità acquisite nelle fasi precedenti. Erikson si rifà in larga misura al modello freudiano delle fasi orale, anale, fallica e genitale, ma considerate in una prospettiva meno biologica e più sociale; inoltre afferma che le risoluzioni a cui si arriva in ciascuna fase non sono necessariamente permanenti: le scelte di vita fondamentali influenzano ma non determinano il modo in cui le persone affrontano e cercano di risolvere ciascuna singola crisi. La personalità si forma attraverso un processo di socializzazione che ha inizio sin dalla nascita. Fin dal momento in cui abbandona il benessere della vita uterina, il bambino è costretto a svolgere una lunga e complessa serie di apprendimenti per cercare di ristabilire, almeno parzialmente, l’equiIl controllo librio perduto. Egli deve apprendere a inibire e a controllare delle pulsioni l’urgenza delle pulsioni istintive. Deve acquistare la capacità istintive di trasferire l’energia pulsionale da una meta immediata e socialmente non desiderabile, e spesso proibita, a un surrogato che la società ritiene utile (l’insopprimibile bisogno di attività motoria viene organizzato come attività ludica nella scuola materna). Anche la pulsione sessuale si distribuisce in infiniti rivoli di scelte esistenziali che vanno dall’emotività all’amore, all’arte, alla scienza, alla solidarietà uma52

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na e civile. Inoltre deve apprendere numerosi schemi d’azione (atteggiamenti emotivi, forme di comportamento adattativo), che costituiscono utili segnali di sicurezza nei rapporti interpersonali (dimostrarsi esultante per un regalo, saltare, piagnucolare per attirare l’attenzione): insomma, l’“Io” assume una struttura personale stabile quando riesce a convertire l’energia pulsionale in strutture (atteggiamenti, disposizioni, comportamenti) psicosociali. ■ La fiducia La prima struttura psicosociale che il bambino apprende La prima struttura è la fiducia, poiché il primo compito dell’“Io” è la ricerca di psicosociale un modello duraturo per la risoluzione del conflitto fondamentale tra fiducia e sfiducia. Con il latte, egli incorpora la madre e ogni cosa connessa sia con essa, sia con l’alimentazione. Il senso di benessere che ne deriva rende accettabile al bambino il mondo oggettuale circostante: questo è la base sulla quale ogni individuo costruisce il suo mondo psichico. Il benessere fisico di questo primo periodo dipende pure dal buon livello delle stesse funzioni motorie: respirazione, digestione, sviluppo motorio e sensoriale costituiscono altrettante strutture fisiologiche dalle quali dipende il modo di aver fiducia, poiché si ha tanta più fiducia quanto più si riesce a controllare la realtà esterna. Perciò Erikson definisce questo periodo orale-respiratorio-sensoriale, per la prevalenza di strutture fisiologiche incorporative del reale: il bambino è sicuro e ha fiducia in sé e negli altri per la quantità e la qualità della sicurezza che ha ricevuto. La carenza di fiducia, viceversa, rende insicuri e paurosi, con tutte le conseguenze relative. ■ L’autonomia La seconda struttura psicosociale è l’autonomia. Si tratta La seconda struttura di una capacità psichica che il bambino acquisisce princi- psicosociale palmente dalla maturazione dell’apparato neuromuscolare. Dopo i due anni il bimbo si muove autonomamente, come pure è capace di regolare le sue funzioni muscolari; allo stesso modo in cui controlla il suo sistema neuromuscolare, estende il controllo affettivo nell’ambiente. Anzi, nel dare (i suoi bisogni) e nel ricevere (affetto) cerca di imporre le proprie norme (il piacere), anziché accettare quelle della realtà esterna (le prime abitudini igieniche, sociali e comportamentali). La crisi da fronteggiare in questa fase è il conflitto tra autonomia e vergogna e dubbio e coincide con la punta massima di cocciutaggine e di sfida dell’autorità; nel medesimo tempo si tratta della fase in cui i genitori cerca-

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no di solito di addestrare il bambino al controllo degli sfinteri. Richieste troppo pressanti in quest’area possono instillare un forte senso di vergogna e di disistima in un bambino, minando i suoi tentativi di raggiungere l’autonomia e l’autodeterminazione. La terza struttura psicosociale

La quarta struttura psicosociale

La quinta struttura psicosociale

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■ L’iniziativa La terza struttura psicosociale subentra quando il bambino mette alla prova la sua capacità di essere autonomo: è il momento dell’iniziativa, che emerge con la capacità di produrre qualcosa di proprio (imitazione differita, gioco simbolico) anche e soprattutto sul piano dell’immaginazione. Favorito dall’acquisizione del linguaggio, dalla possibilità di staccarsi dagli oggetti reali e di sostituirli con l’immagine mentale, il bambino si identifica con tutto ciò che gli serve per alimentare la sua personalità. Si tratta di incoraggiare le esplorazioni del bambino, che altrimenti potrebbero essere ostacolate da un senso di colpa. Erikson definisce questa fase come caratterizzata da una duplice tensione: lo spirito di iniziativa e il senso di colpa. ■ L’operosità La quarta struttura psicosociale coincide con l’inizio dell’attività scolastica. Si tratta del periodo che Freud ha chiamato di latenza, durante il quale la sessualità è sopita (6-10 anni), perché distratta dalla socializzazione. Nella formazione della personalità confluiscono elementi diversi, ma tutti di carattere interpersonale e sociale. La scuola, prima che un centro di trasmissione culturale, viene vissuta dallo scolaro come un’organizzazione sociale istituzionalizzata. L’apprendimento scolastico tende ad assumere, in questa prospettiva, una funzione socializzante e non soltanto conoscitiva e mentale. Il bisogno di socializzarsi e di divenire parte integrante del corpo sociale costituisce una grande forza motivazionale. Una mancata riuscita di questo processo lascia nel bambino un senso di inadeguatezza rispetto al proprio ruolo. ■ L’identità e la dispersione La quinta stagione, o momento formativo della personalità psicosociale, abbraccia il periodo della preadolescenza e dell’adolescenza. Erikson individua nel quinto e nel sesto stadio due dimensioni contrapposte: l’identità e la dispersione dell’identità nella pubertà, e l’intimità-solidarietà e l’isolamento nell’adolescenza. Per un’adeguata maturazione della personalità emerge nell’adolescente il bisogno di un’identificazione più complessa di quella familiare svolta dal

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bambino e più sfaccettata di quella iniziata durante il periodo della scuola primaria. Nell’adolescente la ricerca del “Sé” trova la sua via nel gruppo. Sotto il profilo fisico le pulsioni sessuali si organizzano in modo adulto e dal punto di vista sociale si avvia il processo di ricerca di una collocazione socioprofessionale. L’adolescente deve acquisire il senso della propria individualità e trovare un posto nella società; un insuccesso in questa fase può compromettere i successivi tentativi di scelta di lavoro, di amici e di partner. ■ Intimità, generatività, integrità dell’“Io” Dopo l’adolescenza vi sono ancora, secondo Erikson, tre mo- Gli stadi menti in cui avviene la formazione della personalità: la gio- della vita adulta ventù, l’età adulta e la maturità, che costituiscono altrettanti stadi. Il sesto stadio è caratterizzato dall’intimità (e, come aspetto negativo, dall’isolamento) e consente alla sessualità di raggiungere il suo scopo biologico, cioè la procreazione. Il settimo stadio è caratterizzato dalla generatività (e, come aspetto negativo, dalla stagnazione): l’avere dei figli e il prendersi cura di loro è un fatto che sta alla base di un più ampio interesse all’uso delle proprie risorse in modo utile e creativo. L’ottavo è caratterizzato dall’integrità dell’“Io” (o, in caso contrario, dalla disperazione); si sposta la propria attenzione all’interesse per l’umanità, non solo in generale ma anche nel caso particolare, e verso una prospettiva di vita che consente di accettare anche il proprio passato.

3.4 Le agenzie di socializzazione Si definiscono agenti di socializzazione i contesti sociali all’interno dei quali avvengono significativi processi di socializzazione. Nelle società occidentali contemporanee questi sembrano essere soprattutto la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, i mezzi di comunicazione di massa. ■ La famiglia Certamente il sistema familiare può assumere molte forme diverse, il complesso dei contatti sperimentati dal bambino non è affatto omogeneo da cultura a cultura. La madre è in Il ruolo materno genere la persona più importante nella prima infanzia, anche se la divisione dei ruoli all’interno della famiglia varia notevolmente nelle diverse culture, ma la natura del rapporto tra madre e bambino dipende dalla forma e dalla regolarità dei loro contatti. Ciò è a sua volta condizionato dal carattere dell’istituzione familiare e dal rapporto che quest’ultima ha con altri gruppi sociali.

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Il luogo della socializzazione precoce

Fondamentale agente di socializzazione

Rapporto tra famiglia e istituzioni sociali

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Nelle società occidentali contemporanee, gran parte della socializzazione precoce avviene all’interno di un contesto familiare ristretto. La maggioranza dei bambini italiani trascorre oggi i primi anni di vita in un’unità domestica composta da madre, padre e forse uno o due altri figli. In molte altre culture, invece, anche zie, zii e nipoti sono spesso parte di una medesima unità familiare e contribuiscono allo svezzamento dei bambini. Del resto, anche all’interno delle società occidentali il contesto familiare può assumere molte forme diverse. I bambini possono essere allevati da un solo genitore, oppure affidati a due soggetti che svolgono la funzione di madre e due che assumono quella di padre (i genitori divorziati e i loro nuovi partner). Inoltre, una quota consistente di donne sposate lavora oggi fuori casa. Al di là delle differenti tipologie, le famiglie rimangono comunque agenti di socializzazione fondamentale a partire dalla prima infanzia fino almeno all’adolescenza, fungendo anche da essenziale forma di collegamento tra loro e le varie generazioni. Sarebbe però sbagliato pensare al processo di socializzazione familiare come a un processo unilaterale. Il bambino, e persino il neonato, reagiscono a questo processo, vi partecipano e vi collaborano in vario grado. La socializzazione è sempre, in vario grado, un processo reciproco, nel senso che coinvolge non solo il socializzato ma anche il socializzante. Di norma i genitori riescono a educare, più o meno compiutamente, i loro figli secondo i modelli generali stabiliti dalla società e da essi stessi desiderati. Ma anche i genitori vengono trasformati, talvolta radicalmente, dall’esperienza della maternità e della paternità, le quali si configurano per loro come processi di socializzazione a nuovi ruoli. Le famiglie hanno una propria diversa collocazione all’interno delle istituzioni sociali più ampie. Nella maggior parte delle società tradizionali, l’appartenenza familiare determina in buona misura la posizione sociale dell’individuo per tutto l’arco della vita. Nelle odierne società occidentali, invece, la posizione sociale non è ereditata dalla nascita. Tuttavia la classe sociale di appartenenza della famiglia influisce profondamente sui modelli di socializzazione, in quanto influisce sui modelli di educazione e disciplina, sui valori e le aspettative. È facile notare l’influenza dei diversi tipi di retroterra familiare se pensiamo, per esempio, alla vita di un bambino appartenente a una famiglia nera povera, che abita in un fatiscente sobborgo urbano degli Stati Uniti, in confronto a quella di un bambino nato in una ricca famiglia bianca residente in un quartiere di professionisti benestanti. Nelle attuali società occidentali pochi bambini ovviamente

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adottano senza riserve il punto di vista dei genitori. L’esistenza stessa di diversi agenti di socializzazione porta a molte divergenze tra il punto di vista dei bambini e degli adolescenti e quello della generazione a cui appartengono i genitori. ■ La scuola Alla scuola le moderne società occidentali hanno assegnato il compito istituzionale di socializzare i giovani addestrandoli all’apprendimento di particolari abilità e alla condivisione di un universo di valori. La scolarizzazione è un processo formale, che prevede un preciso curriculum di studi, con lo svolgimento di determinati programmi. Ma la scuola è agente di socializzazione anche in modo più sottile. Accanto al curriculum formale, a condizionare l’apprendi- Curriculum formale mento esiste quello che alcuni sociologi hanno chiamato e curriculum occulto “curriculum occulto”, implicito nei contenuti delle attività scolastiche. Ci si aspetta che i bambini imparino a essere quieti in classe, puntuali alle lezioni, che osservino le norme della disciplina scolastica. Essi sono chiamati ad accettare e a rispondere all’autorità degli insegnanti. Le reazioni degli insegnanti, inoltre, influiscono sulle aspettative che i bambini hanno nei confronti di se stessi, condizionandoli ad autovalutarsi con gli stessi criteri applicati dagli insegnanti. Fuori dall’ambito familiare i bambini imparano a obbedire a qualcuno non per l’amore o la protezione che questi gli offre, bensì perché così è richiesto da un sistema sociale che impone l’adesione alle sue regole. Il comportamento personale entra in tal modo a far parte di un sistema di registrazione sociale che consente al bambino di diminuire la sua dipendenza dai modelli familiari e di costruire legami entro un più ampio orizzonte sociale. È per lo più nell’esperienza scolastica che si costruiscono i gruppi di pari, che sono a loro volta importanti agenzie di socializzazione. ■ Il gruppo dei pari Un altro agente di socializzazione è il gruppo dei pari. Si tratta di un gruppo di soggetti della stessa età che condividono un rapporto di amicizia. In alcune culture, e particolar- I gruppi dei pari nelle mente nelle società tradizionali di piccole dimensioni, i società tradizionali gruppi dei pari sono formalizzati nei gradi di età. Ciascuna generazione ha certi diritti e responsabilità e spesso cerimonie e riti segnano il passaggio di un individuo da un grado di età all’altro. In particolare, in molte società preindustriali il passaggio dall’infanzia all’età adulta avviene col momento della pubertà, è molto brusco e spesso è contrassegnato da una cerimonia sociale di iniziazione. Tracce di tali

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Il gruppo dei pari nelle società industriali

Un veicolo per informazioni e stili di vita

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cerimonie, che segnano il cambiamento di ruolo di un giovane, sono presenti anche nelle nostre società: per esempio, nei ricevimenti per il compimento della maggiore età, o negli scherzi che le matricole sono costrette a subire. Nelle moderne società occidentali in genere i gruppi di pari non sono rigidamente organizzati per gruppi di età associati allo svolgimento di particolari funzioni; ciononostante, anche in tali società il gruppo dei pari è un importante agente di socializzazione, che esercita una particolare influenza nella tarda infanzia e nell’adolescenza. Si tratta di fasi in cui gli individui conquistano un’identità relativamente stabile, spesso attraverso una reazione negativa nei confronti dei modelli appresi in famiglia e nella scuola. Il gruppo dei pari risulta allora importante in quanto propone nuove norme e valori, all’interno di una dinamica interattiva tra eguali. In tale dinamica la socializzazione si svolge al di fuori di ogni disegno preordinato: i bambini e i ragazzi possono scegliere gli amici e dialogare con loro su argomenti per lo più intrattabili in famiglia e a scuola, staccandosi così dall’influenza di questi due ambiti. Questi rapporti sono più democratici di quelli tra genitori e figli. Il termine “pari” indica soggetti “eguali” e i rapporti di amicizia tra bambini tendono a essere ragionevolmente egualitari. Essendo fondati sul mutuo consenso, piuttosto che sulla dipendenza, com’è tipico della situazione familiare, i rapporti tra pari prevedono un intenso scambio di dare e avere, in un contesto di interazione all’interno del quale le regole di condotta possono essere messe alla prova ed esplorate. I rapporti tra pari rimangono spesso importanti per tutta la vita. Nel lavoro e in altri contesti i gruppi informali di persone della stessa età rivestono di solito un’importanza durevole nella formazione delle opinioni e del comportamento individuale. ■ I mass-media La caratteristica dei mezzi di comunicazione di massa – giornali e riviste, radio e televisione, cinema, reti telematiche – è di raggiungere un largo pubblico senza richiedere un contatto personale tra l’emittente e i destinatari dei messaggi. I mass-media non forniscono solo informazioni da cui gli individui rimarrebbero altrimenti esclusi, offrono modelli di ruolo e rappresentano stili di vita. Attraverso soprattutto la pubblicità, non soltanto persuadono i consumatori a gradire le offerte del mercato, ma anche esaltano il valore sociale di certe qualità, come la bellezza, il successo, la ricchezza, la giovinezza ecc. I mass-media riflettono prontamente e in note-

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vole misura contribuiscono a costruire i mutamenti delle norme e dei valori sociali e ne consentono l’estensione a masse che non ne sono immediatamente protagoniste. Certamente i mass-media, dalla carta stampata alla radio, sono stati e continuano a essere anche in grado di influenzare atteggiamenti e opinioni di un pubblico sempre più vasto. Ma oggi la televisione si propone addirittura come agenzia di socializzazione, in grado di far concorrenza, nella costituzione di una mentalità sociale comune, alla scuola, anche perché mediamente un bambino, nelle moderne società industrializzate, trascorre più tempo davanti al televisore che a scuola. La televisione incoraggia un comportamento passivo: non appena i programmi pongono interrogativi che richiedono riflessione e concentrazione, si cambia canale. L’esposizione alla televisione pare riduca la soglia media di attenzione dei bambini. Nei paesi industrializzati la grandissima maggioranza delle famiglie possiede almeno un televisore, ma oltre a ciò la televisione sembra diventare sempre più l’unico mezzo di comunicazione universalmente diffuso e in grado, grazie ai collegamenti via satellite, di diffondere in ogni parte del mondo i medesimi modelli culturali. Perfino tra le culture più tradizionali ben poche sfuggono completamente all’azione dei mass-media elettronici. La comunicazione elettronica è accessibile anche a coloro che sono completamente analfabeti e nei paesi più isolati e non industrializzati accade frequentemente di trovare persone che possiedono un televisore. Tra i media elettronici un altro strumento di cui si dovrà sempre più tener conto in futuro come potenziale agenzia di socializzazione è la rete telematica, alla quale sono connessi ormai milioni di utenti di tutte le parti del mondo, anche se attualmente con una decisa prevalenza degli statunitensi. Nella rete gli utenti dialogano in un inglese ibrido, che sta diventando sempre più un linguaggio transnazionale, raggruppati in vari tipi di comunità: newsgroup, chat-lines, comunità di interesse che si formano e si sciolgono con rapidità. In rete vengono elaborate nuove forme di comportamento, che non tengono conto, per esempio, del genere sessuale e nemmeno dell’identità sociale dei soggetti, adatte a un mezzo che, contrariamente agli altri mass-media, permette una comunicazione diretta ma non un contatto fisico tra gli utenti.

La televisione: una decisiva agenzia di socializzazione a livello planetario

La rete telematica

■ Altre agenzie Oltre alla famiglia, alla scuola, al gruppo dei pari, ai massmedia, esistono tanti altri agenti di socializzazione quanti so-

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3 - La socializzazione MERTON: LA SOCIALIZZAZIONE AL SUCCESSO Nella celebre analisi della cultura americana, vista come veicolatrice dell’ideale del successo economico, Robert Merton afferma: “Dire che la mèta del successo monetario è caratteristica della cultura americana è dire soltanto che gli americani sono bombardati da ogni parte da precetti che affermano il diritto e il dovere di tenere ferma questa mèta anche a costo di ripetute frustrazioni. Rappresentanti influenti della società rinforzano tale valore culturale. La famiglia, la scuola, e il luogo di lavoro – i maggiori enti che formano la struttura della personalità e trasmettono miti comuni tra gli americani – forniscono l‘intensa disciplina necessaria a un individuo se deve mantenere intatta

Il ruolo dell’ambiente di lavoro

una mèta che rimane esclusivamente al di là del raggiungimento, se egli deve essere motivato dalla promessa mai adempiuta di una ricompensa. [...] I genitori servono come una cintura di trasmissione dei valori e gli scopi dei gruppi di cui essi fanno parte, soprattutto della loro classe sociale o della classe con cui si identificano. E le scuole sono naturalmente l’istituzione ufficiale per la continuazione dei valori dominanti, con i loro testi che implicitamente o esplicitamente affermano che ‘l’educazione porta all’intelligenza e conseguentemente al successo nel lavoro e nel guadagno’”. (Robert Merton, Teoria e struttura sociale, Il Mulino, Bologna 1959; pp. 193-194.)

no i gruppi, o contesti sociali, in cui l’individuo trascorre una parte significativa della propria vita: gruppi religiosi, organizzazioni giovanili, l’esercito, associazioni di vario tipo, partiti politici ecc. Ognuno di questi agenti può proporre valori e modelli di comportamento diversi e spesso in conflitto reciproco. Anche l’ambiente lavorativo è certamente un ambito in cui si svolgono processi di socializzazione, sebbene soltanto nelle società industriali avvenga che grandi quantità di persone “vadano a lavorare”, che raggiungano cioè ogni giorno luoghi di lavoro completamente separati dalle abitazioni. Nei paesi industrializzati, il fatto di “andare a lavorare” per la prima volta segna generalmente nella vita di un individuo un passaggio molto significativo. L’ambiente lavorativo pone spesso problemi prima sconosciuti e può richiedere notevoli modificazioni del modo di pensare e del comportamento di una persona.

3.5 La socializzazione imperfetta Va tenuto presente che il rapporto tra agenti di socializzazione e individuo è da intendersi come reciproca interazione e non come semplice accettazione passiva. Se è vero, cioè, che l’individuo viene modificato dagli elementi culturali da lui appresi, è altrettanto vero che questi vengono fatti propri secondo modalità di rielaborazione individuale. La conseguenza di ciò è l’impossibilità di una “socializzazione perfettamente riuscita”. Questa “imperfezione” del pro60

3 - La socializzazione

cesso consente a sua volta lo spazio alle peculiarità individuali ed è pertanto di rilevanza essenziale e decisamente positiva. A volte, però, le carenze della socializzazione stan- Possibili fallimenti no a indicare ambiti in cui gli agenti tipici della socializ- delle agenzie zazione falliscono o semplicemente omettono il proprio di socializzazione compito. Si verificano così situazioni che possono avere conseguenze gravissime per i soggetti implicati. Ciò può verificarsi tanto durante la socializzazione primaria, quanto durante quella secondaria. In questi casi si generano condizioni che implicano, seppure a livelli diversi, l’isolamento del soggetto. Data la priorità della socializzazione primaria, gli effetti più evidenti dell’insuccesso sono riscontrabili in essa. Ciò non toglie comunque che anche una carente socializzazione secondaria produca effetti devastanti. ■ La mancata socializzazione primaria Osservazioni sperimentali e studi di diverso tipo, condotti anche su primati superiori, hanno accertato che la mancata socializzazione primaria, e in particolare la mancanza di interazione sociale con gli adulti e soprattutto con la madre durante l’infanzia, ha effetti pesantemente negativi sullo sviluppo delle capacità di base e della personalità, e quindi in generale sulla vita dell’individuo. Pare che in assenza di questo tipo di socializzazione si resti quasi sprovvisti di personalità, incapaci di affrontare anche le più semplici avversità. Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, furono scoperti in I bambini selvaggi India, in Francia e in altri paesi alcuni casi di bambini vissuti in isolamento da altri esseri umani, il cui comportamento sembrava assomigliare più a quello degli animali che a quello deSCIMMIE ALLEVATE IN CONDIZIONI DI ISOLAMENTO Alcuni studi mostrano che, in assenza di socializzazione, certi tipi di scimmie superiori non riescono a sviluppare un normale comportamento sociale, sessuale, emotivo o materno. In particolare, Harry Harlow ha condotto una serie di esperimenti sugli effetti dell’isolamento nelle scimmie Rhesus. Gli animali allevati in isolamento si comportavano in modo simile a quello di un essere umano psicotico. Si mostravano paurosi e ostili nei confronti delle altre scimmie, non cercavano di interagire con loro, erano schive e apatiche, né riuscivano ad accoppiarsi. Se una scimmia femmina allevata fin dalla nascita in isolamento viene fe-

condata artificialmente, essa diventa una madre priva di affetto, che non cerca mai o quasi mai di curare la sua prole. In un esperimento, Harlow assegnò a dei cuccioli di scimmia tenuti in isolamento due sostituti di madre, una metallica con dentro un poppatoio e una di stoffa soffice, ma senza poppatoio. I cuccioli preferivano la “madre” soffice, che invitava agli abbracci, rispetto all’altra che li nutriva: il sostituto di affetto sembrava loro più importante del cibo. Per analogia, è probabile che anche nell’uomo gli effetti dell’isolamento possano essere simili. Alcune osservazioni sperimentali sembrano confermarlo.

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3 - La socializzazione

gli esseri umani. In tutti i casi segnalati i bambini non sapevano parlare, reagivano con paura od ostilità di fronte agli esseri umani, procedevano gattoni e dilaniavano voracemente il cibo. Pare che tutti i tentativi di socializzarli abbiano avuto scarso successo e che tutti quanti questi bambini sono morti in giovane età.

Il caso di Ann

■ I bambini allevati in condizioni di isolamento Meno uniformi sono i dati relativi a bambini intenzionalmente allevati in condizioni di isolamento dalle loro famiglie. Un caso, verificatosi negli Stati Uniti e studiato da Kingsley Davis, è emblematico di molti altri simili di cui è ricca la letteratura sociologica. Ann, in quanto figlia illegittima era stata occultata alla vista del mondo e rinchiusa in una soffitta e venne liberata solo all’età di sei anni. Aveva ricevuto un minimo di cure fisiche, ma praticamente non aveva avuto alcuna opportunità di interazione sociale. Quando venne trovata non sapeva né parlare, né camminare, né tenersi pulita, né nutrirsi da sola. Era completamente apatica, inespressiva e indifferente nei confronti degli esseri umani. I ricercatori che lavorarono con lei credettero in un primo tempo che fosse sorda e forse anche cieca. Davis commenta: “Ci trovammo di fronte a un essere umano a cui mancavano sei anni di socializzazione. Le sue condizioni mostravano che le risorse puramente biologiche di cui disponeva, operando da sole, contribuivano in ben scarsa misura a fare di lei una persona completa”. I tentativi di socializzare Ann ebbero un successo limitato. Quando quattro anni e mezzo dopo la bambina morì, aveva imparato a dire qualche parola e a utilizzare qualche espressione, ma non delle frasi complete. Aveva imparato anche a usare i dadi da costruzione, a infilare le perline di una collana, a lavarsi mani e denti, a seguire le istruzioni e a trattare affettuosamente una bambola. Imparò a camminare, ma correva in modo goffo. Al momento della sua morte, a quasi undici anni, aveva raggiunto il livello di socializzazione di un bambino di due o tre anni. ■ La risocializzazione Accanto ai fenomeni appena riportati, va almeno fatto un accenno ai processi di risocializzazione, vale a dire alla brusca rottura con le forme culturali precedentemente introiettate dall’indivuduo e l’assimilazione da parte di questo di norme e valori totalmente diversi. Essa si realizza di solito quando le persone si trovano parzialmente o totalmente isolate in un ambiente diverso. Questi processi si verificano

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3 - La socializzazione LA RISOCIALIZZAZIONE IN CAMPO DI CONCENTRAMENTO Un drammatico esempio in proposito ci viene offerto dall’analisi operata da Bruno Bettelheim sull’esperienza di “rieducazione” da egli stesso subita all’interno dei campi di concentramento nazisti. L’iniziazione avveniva con una serie di torture, sevizie e umiliazioni inflitte ai nuovi arrivati e proseguiva con la vita stessa del campo. “Le modificazioni desiderate – sostiene Bettelheim – furono indotte esponendo i prigionieri a situazioni estreme appositamente create, che li obbligarono ad adattarsi completamente e con la massima rapidità. [...] Quando l’adattamento alla situazione del campo aveva raggiunto la fase finale, il prigioniero si trovava ad aver cambiato la sua personalità al punto da accettare e far propri certi valori delle SS.” Si verificavano così, nel comportamento dei prigionieri da più tempo nel campo, fenomeni altrimenti paradossali. “La soddisfazione che alcuni vecchi pri-

gionieri provavano se riuscivano a stare perfettamente sull’attenti durante i due appelli giornalieri (che spesso duravano ore, e sempre sembravano interminabili) si può solo spiegare col fatto che avessero accettato incondizionatamente e fatti propri i valori della Gestapo. Questi prigionieri traevano motivo di orgoglio dall’essere dei duri come le SS. L’identificazione con i loro carnefici arrivava al punto di emularne le attività del tempo libero. Uno dei passatempi preferiti delle guardie consisteva nel vedere chi riusciva a sopportare più a lungo percosse senza emettere un lamento. Questo gioco veniva copiato da alcuni dei vecchi prigionieri, come se non avessero comunque ricevuto abbastanza percosse e abbastanza a lungo da non aver bisogno di ripetere l’esperienza tra compagni.” (Bruno Bettelheim, Sopravvivere, Feltrinelli, Milano 1981; p. 83).

spesso nelle istituzioni totali (v. a p. XXX), quei luoghi dove gli individui vengono confinati per un periodo della loro vita e dove essi, oltre a essere separati dal resto della società, si trovano sotto il controllo pressoché assoluto di una gerarchia ufficiale.

PER UN APPROFONDIMENTO ●

E. Becchi, Il bambino sociale, Feltrinelli, Milano 1979

Una raccolta di contributi di studiosi di varie discipline. ●

V. Cesareo, Socializzazione e controllo sociale, Franco Angeli, Milano 1979

Ampia analisi dei processi di socializzazione e dei problemi a essi inerenti. ●

F. Crespi, Azione sociale e pluralità culturale, Franco Angeli, Milano 1992

Studiosi diversi si confrontano sul rapporto tra socializzazione e cultura.

M. Morcellini, Passaggio al futuro. Formazione e socializzazione tra vecchi e nuovi media, Franco Angeli, Milano 2000



Esamina l’emergere di nuove modalità di socializzazione.

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3 - La socializzazione

SCHEMA RIASSUNTIVO IL PROBLEMA

I modelli culturali vengono trasmessi mediante apprendimento e interiorizzazione: il processo è detto socializzazione. Ha inizio con la prima infanzia e prosegue per tutta l’esistenza dell’individuo.

L’INFANZIA E LA SOCIALIZZAZIONE PRIMARIA

La vita stessa del neonato dipende dal rapporto con gli individui che lo accudiscono e al contempo ne soddisfano e regolano i bisogni. Grazie a questi individui (gli altri importanti) il piccolo accoglie i modelli sociali attraverso cui percepire il mondo e organizzare gli stessi bisogni organici (fame, sonno ecc.), apprende le forme di comunicazione, i valori e gli stili di vita del proprio contesto sociale. La socializzazione primaria consente al bambino di divenire membro della società. Costituisce il sostrato di ogni futura forma di socializzazione. Avviene mediante un processo di identificazione con l’altro importante, in cui ha ampio spazio il coinvolgimento emotivo. In questa fase l’individuo prende coscienza di sé attraverso gli atteggiamenti che gli altri importanti hanno nei suoi confronti.

LA SOCIALIZZAZIONE SECONDARIA

La socializzazione secondaria riguarda quei processi di socializzazioni particolari (professionale, religiosa, politica, associativa ecc.), che con momenti e modalità specifiche contribuiscono alla formazione complessiva della personalità sociale. Si parla di socializzazione secondaria anche nel caso in cui un individuo estraneo a un determinato contesto culturale ne assimila le norme, il linguaggio, i valori ecc.

LO STUDIO DELLE FASI

Lo sviluppo della personalità mediante la socializzazione costituisce un ambito privilegiato di ricerca interdisciplinare in cui rivestono particolare importanza i contributi della psicologia. Gli studi di E. Erikson sullo sviluppo psicosociale costituiscono un riferimento di primaria importanza. Partendo da un approccio psicoanalitico, rielaborato in una visione psicosociale, Erikson ritiene che la strutturazione degli impulsi individuali avvenga, sulla base del rapporto con l’ambiente sociale, secondo 8 stadi, che vanno dal primo (la fiducia) all’integrità (qualora non sia raggiunta, alla dispersione) dell’“Io”.

DELLA SOCIALIZZAZIONE

LE AGENZIE DI SOCIALIZZAZIONE

Per garantire la socializzazione, le società elaborano degli ambiti deputati alla socializzazione (le agenzie di socializzazione) degli individui. Nelle contemporanee società occidentali, gli agenti di socializzazione principali sono: la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, i mass-media.

La famiglia

La famiglia si occupa della socializzazione dalla prima infanzia sino almeno all’adolescenza. Agente fondamentale, consente anche il collegamento tra generazioni.

La scuola

La scuola ha il compito istituzionale di socializzare i giovani addestrandoli all’apprendimento di particolari abilità e alla condivisione di valori comuni.

Il gruppo dei pari

Il gruppo di pari è costituito da coetanei in rapporto di amicizia. Esercita particolare influenza nella tarda infanzia e nell’adolescenza, proponendo nuove norme e valori all’interno della dinamica tra eguali.

I mass-media e le altre agenzie

I mass-media, sempre più importanti, veicolano non solo informazioni, ma anche modelli di comportamento e universi valoriali. Tra le altre agenzie di socializzazione ricordiamo i gruppi religiosi, le associazioni, i gruppi di lavoro, i partiti politici.

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3 - La socializzazione segue

LA SOCIALIZZAZIONE IMPERFETTA

La socializzazione normalmente non è un processo totalizzante: essa va intesa nell’interazione di individuo e contesto sociale. Non avviene meccanicamente. Esistono delle patologie del processo, sia nel senso della carenza (è il caso dei bambini selvaggi e dei bambini allevati in condizioni di isolamento), sia nel senso della totalizzazione (certi casi di risocializzazione).

DOMANDE DI VERIFICA 1. Cosa si intende per socializzazione? 46a 2. Quali sono gli aspetti principali della socializzazione primaria? 48b-49 3. Quali sono gli aspetti principali della socializza-

zione secondaria? 50 4. Cosa si intende per agenti di socializzazione? 55b 5. Quali sono i principali? 55b 6. Spiega il concetto di risocializzazione. 62b

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4 L’interazione sociale L’esperienza che l’individuo ha della società si configura concretamente come l’insieme dei rapporti intrattenuti con le persone che lo circondano. Si tratta di un insieme di azioni e reazioni (da qui il termine interazione), mediante le quali gli esseri umani entrano tra loro in relazione, comunicano, si giudicano, collaborano ecc. Di queste interazioni, alcune si presentano come eventi eccezionali, altre, e sono la maggioranza, costituiscono azioni di routine, che si ripetono cioè nella vita di tutti i giorni. L’analisi di queste ultime costituisce l’ambito privilegiato delle microsociologie, secondo cui è possibile cogliere le radici più profonde dei fenomeni sociali solo nell’analisi del rapporto diretto (face to face) tra i soggetti.

4.1 Il problema Le coordinate spazio-temporali della vita sociale

Viviamo in un mondo sociale che presenta codici, regole, ma anche una determinata struttura spazio-temporale. Esistono, per esempio, luoghi dove occorre tenere un comportamento non necessario altrove, luoghi ai quali si può accedere o no. Allo stesso modo esistono giorni considerati “normali” e altri sacri, momenti in cui mangiare, altri per riposarsi e lavorare, altri ancora in cui far festa e così via. La vita individuale si trova inserita all’interno di un determinato ordine sociale sin dalla prima infanzia, in modo talmente coinvolgente e inconsapevole che tale ordine è percepito come se facesse parte della stessa natura delle cose. Ma da dove nasce questo sistema strutturale? In altre parole: esiste un “punto zero” dell’agire umano da cui partire per indagare la complessità dei fenomeni sociali?

4.2 La vita quotidiana Il sociologo tedesco Alfred Schütz introdusse per primo l’espressione “vita quotidiana” per indicare l’insieme di azioni, rapporti, conoscenze e credenze familiari all’interno dei quali si svolge la quotidianità dell’esistenza. Si tratta di un insieme di microrelazioni, normalmente date per scontate perché ritenute ininfluenti. Azioni come il chiacchierare con la propria madre, l’acquistare pane e latte, il recarsi in ufficio o il salutare la portinaia, sono spesso ritenute “normali” e pertanto non degne di nota, diversamente dalle azioni straordinarie (come sarebbero l’incontro con un divo del66

4 - L’interazione sociale

lo spettacolo o l’elezione a una carica pubblica), che si considerano invece importanti. L’assunto delle microsociologie (indipendentemente dal- La vita quotidiana la diversità di metodi e di impostazioni teoriche) è che, con- come fondamento trariamente al pensare comune, proprio questi rapporti fa- della vita sociale miliari costituiscano l’elemento fondamentale dell’esperienza sociale. Se, infatti, il comportamento dei soggetti è comprensibile solo sullo sfondo delle specifiche istituzioni e dell’ordine istituzionale nel suo insieme, a cui tale comportamento fa riferimento, esso va altresì inquadrato entro la reciprocità del rapporto. Infatti, sia le istituzioni, sia l’ordine istituzionale sono a loro volta percepiti come reali in tanto in quanto essi sono rappresentati da individui e situazioni esperite nella vita quotidiana. ■ La routine Il carattere forse più evidente della vita quotidiana è la ripetitività di azioni, pensieri, comportamenti. Le azioni che compiamo ogni giorno sono in buona parte prevedibili; non solo relativamente al proprio comportamento, ma anche e soprattutto rispetto a quello altrui. È possibile prevedere l’orario a cui è stata puntata la sveglia, la reazione di fastidio che seguirà al suono di questa, le raccomandazioni materne che ogni giorno accompagnano l’uscita di casa, il buongiorno del giornalaio, la frase scortese del collega “scorbutico”, l’affabilità dell’amica “carina” e così via. Come è facile intuire, se è vero che questa prevedibilità degli avvenimenti ne riduce drasticamente l’interesse, va tuttavia rilevato che proprio grazie a questa prevedibilità è possibile conservare l’energia necessaria ad affrontare possibili eventi straordinari. In altre parole, se ogni volta che acquisto il giornale dovessi temere di essere picchiato, baciato, schernito o ignorato dal giornalaio; se ogni volta che punto la sveglia dovessi riflettere sull’opportunità di puntarla a un’ora piuttosto che a un’altra, anche un’azione così semplice diverrebbe faticosissima e pertanto alla lunga non praticabile. La ripetizione e la prevedibilità dei comportamenti, invece, stimolano risposte automatiche, poco impegnative per il soggetto. Così alla domanda “Come stai?” segue l’automatico “Bene, grazie!”, nonostante la complessità della situazione in cui il soggetto in questione si trova a vivere. Non solo: diventano automatismi le operazioni che quotidianamente si compiono prima di uscire di casa, il percorso per giungere al lavoro, il modo con cui relazionarsi con Tizio e Caio ecc. È tale l’importanza di questo ripetere azioni, pen-

La ripetitività e la prevedibilità

La previdibilità come risparmio di energia

Il valore degli automatismi

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4 - L’interazione sociale

sieri e comportamenti che senza tale ripetizione non si potrebbe verificare di fatto nessun tipo di transazione continua, dal momento che le persone che si incontrano dovrebbero ogni volta ridefinire tutti i termini del loro rapporto e delle loro contrattazioni.

L’analisi etnometodologica delle strutture dell’interazione sociale

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■ Strutture dell’interazione La ripetitività della vita quotidiana comporta la formazione di una serie di strutture che regolano l’interazione degli individui. Si tratta di reti di modelli ricorrenti, talvolta esplicite, più spesso semplicemente sottintese, in base alle quali le persone si comportano nelle situazioni loro consuete. Al riguardo sono particolarmente preziose le ricerche condotte da Harold Garfinkel e dai suoi allievi. Secondo una metodologia particolare (l’etnometodologia), la scuola di Garfinkel rileva la struttura normativa dell’interazione sociale fingendo di ignorarne gli aspetti impliciti. In questo modo emergono le “aspettative inespresse”, sulla cui base viene normalmente organizzata la comunicazione. Un esperimento piuttosto famoso è quello in cui si chiede a degli studenti volontari di sollecitare ripetutamente chiarimenti qualora venga rivolta loro una domanda del tipo “Come stai?”, infrangendo così il tacito accordo che limita la richiesta a un numero assai ristretto di informazioni. Questo atteggiamento, apparentemente innocuo, ha dato luogo a situazioni di forte imbarazzo e spesso di litigio. Si veda, per esempio, il seguente caso: “A (agita la mano amichevolmente): Come stai? B: Come sto rispetto a che cosa? Alla salute, ai soldi, alla scuola, al lavoro, alla tranquillità mentale... A (rosso in viso e improvvisamente fuori di sé): Senti, cercavo solo di essere gentile! Francamente non me ne importa un accidente di come stai.” Un altro celebre esperimento nel campo dell’etnometodologia è quello in cui, sempre a studenti volontari, viene richiesto di comportarsi con i propri genitori come se questi fossero degli albergatori. Gli studenti si rivolgono quindi ai genitori dando loro del lei, chiedono il permesso di poter aprire il frigorifero ecc., proprio come se fossero in presenza di estranei. Data la vivacità delle reazioni, prima di incredulità, quindi di rabbia, suscitate da un tale comportamento, solo pochi volontari sono riusciti a proseguire la farsa sino ai 30 minuti stabiliti. La violazione delle norme di comportamento “normali”, in pratica, ha fortemente compromesso la possibilità di interazione sociale.

4 - L’interazione sociale ■ Tipizzazioni Quando un individuo ne incontra un altro è consapevole non solo del fatto che il proprio comportamento sarà oggetto di interpretazione, ma anche che l’“altro” con cui entrerà in relazione avrà reazioni diverse a seconda del proprio modo di essere. Ciò significa che allo stesso stimolo (per esempio, una richiesta di denaro) seguiranno reazioni differenti da parte di interlocutori diversi. Da qui la necessità di riuscire in qualche modo a prevedere e prevenire l’azione altrui. Si tratta, in altre parole, di avere una conoscenza dell’interlocutore nel più breve tempo possibile. Per rispondere a quest’esigenza i soggetti si servono normalmente, e per lo più in modo inconsapevole, delle tipizzazioni che l’esperienza sociale fornisce loro, del genere: commerciante scozzese, signorina svedese, ma anche semplicemente studente, uomo, prete ecc. Tali tipizzazioni tendono a modellare l’interazione creando aspettative e riserve, che verranno messe in discussione solo se contraddette dal comportamento del soggetto in questione. Si nota allora che nel rapporto diretto le tipizzazioni tendono a perdere la dimensione anonima, mentre tendono a rafforzarla quanto più aumenta la distanza fra i soggetti.

La tipizzazione come strumento di previsione del comportamento

■ L’interazione come rappresentazione Va rilevato che i soggetti dell’interazione non solo partecipano alle azioni e reazioni che essa comporta, ma ne sono TIPIZZAZIONI E INTERAZIONE SOCIALE “Le tipizzazioni dell’interazione sociale diventano progressivamente anonime via via che si allontanano dalla situazione dell’incontro diretto. Ogni classificazione implica naturalmente un’incipiente anonimia: se io classifico il mio amico Henry come un membro della categoria X (per esempio, come un inglese) ipso facto interpreto almeno certi aspetti della sua condotta come risultanti da questa tipizzazione: per esempio, i suoi gusti in fatto di cibi sono tipicamente inglesi, come i suoi modi, certe sue reazioni emotive ecc. Ciò implica, però, che queste caratteristiche e azioni del mio amico Henry siano pertinenti a chiunque rientri nella categoria di inglese; in altre parole, io percepisco questi aspetti del suo modo di essere in termini anonimi. Ciononostante, fino a

che il mio amico Henry è disponibile nella pienezza dell’espressività dell’incontro diretto, infrangerà costantemente il mio tipo di inglese anonimo e si manifesterà come un individuo unico e perciò atipico, vale a dire come il mio amico Henry. L’anonimia del tipo è ovviamente meno suscettibile a questo genere di individualizzazione quando l’incontro diretto è cosa del passato (il mio amico Henry, l’inglese, che ho conosciuto quando ero studente di college) o è di un genere superficiale e fugace (l’inglese con cui ho avuto una breve conversazione in treno) o non ha mai avuto luogo (i miei concorrenti in affari in Inghilterra).” (P.L. Berger e T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna 1969; p. 54.)

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4 - L’interazione sociale

La necessità di influenzare la situazione

L’analisi dell’interazione su un modello drammaturgico

consapevoli. Secondo Erving Goffman, proprio a causa della consapevolezza che gli individui hanno di influenzare con le proprie azioni la definizione che gli altri danno della situazione, essi si comportano come se recitassero una parte. Così, sostiene Goffman, a volte l’individuo agisce in modo del tutto calcolato e si esprime in una determinata maniera solo per dare agli altri un’impressione favorevole di sé. Altre volte, invece, il soggetto attua una serie di comportamenti per calcolo, pur essendone solo relativamente consapevole; altre volte ancora si esprime intenzionalmente e coscientemente in un determinato modo soprattutto perché la tradizione del suo gruppo o il suo status sociale lo richiedono. Altre volte, infine, le tradizioni implicite nel ruolo sociale dell’individuo lo conducono a dare una determinata impressione nonostante egli non ne sia consapevole. D’altro canto, poiché gli osservatori sono consapevoli della finzione del soggetto, essi tenderanno a interpretare quanto esplicitamente comunicato dal soggetto stesso sulla base delle espressioni che questo lascia trasparire. L’interazione sociale viene pertanto ad assumere le sembianze di una rappresentazione teatrale dove i soggetti implicati recitano al tempo stesso come attori e spettatori l’uno nei confronti dell’altro. Il contesto in cui si svolge l’azione funge a sua volta da spazio scenico. Secondo Goffman l’applicazione del modello drammaturgico all’analisi dei rapporti tra gli individui, consente di cogliere il sottile gioco di finzioni e smascheramenti, di stacchi e cambiamenti di scena tramite i quali gli individui tendono a controllare l’impressione suscitata nell’interlocutore.

4.3 Universi culturali e decodificazione Un aspetto a questo punto va necessariamente chiarito, ossia che le azioni umane non derivano tanto dall’oggetto che le ha stimolate o a cui esse mirano, quanto dal significato che a tale oggetto viene attribuito. La difesa di un telo colorato, per esempio, qualora esso venga definito una “bandiera”, può assumere una rilevanza tanto grande da comportare il volontario sacrificio di molteplici vite umane. Ancora, lo stesso gesto (per esempio, un colpo sulla spalla) provoca azioni diverse a seconda che sia inteso come pacca amichevole, segno di scherno o urto accidentale. Il gesto significativo Si tratta di ciò che G.H. Mead definisce “gesto significativo” distinguendolo dal gesto automatico. Nel caso del gesto significativo, allo stimolo non segue immediatamente la risposta, ma l’interpretazione che ne valuta l’intenzio70

4 - L’interazione sociale RAPPRESENTAZIONE SOCIALE E RAPPRESENTAZIONE TEATRALE “Un personaggio rappresentato in teatro non è per certi versi reale, né ha lo stesso tipo di conseguenze reali che può avere il personaggio costruito da un imbroglione; ma il mettere in scena con successo questi due tipi di figure non corrispondenti a realtà implica l’uso di tecniche reali, quelle stesse che servono alle persone comuni per sostenere la loro situazione sociale. Quanti sono impegnati in interazioni faccia a faccia sul palcosceni-

co di un teatro devono ottemperare alle esigenze di base delle situazioni reali: devono, cioè, mantenere una definizione della situazione sul piano espressivo, ma questo avviene in circostanze tali da facilitare lo sviluppo di una terminologia appropriata allo studio dei compiti di interazione che noi tutti condividiamo.” (E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969; p. 291.)

nalità. A questo proposito chi interpreta l’azione cercherà di porsi “nei panni dell’altro”. Va rilevato che il processo di significazione proprio della specie umana è dotato di una portata universale; il significato non viene cioè riconosciuto unicamente dal singolo soggetto, ma da un intero gruppo sociale. Così all’interno delle società occidentali, per esempio, il regalare un anello con brillante sta a significare le intenzioni matrimoniali di chi ha fatto il dono. ■ Il simbolismo Nel momento in cui qualcosa (si tratti di un evento, un’azione, un oggetto) non indica unicamente se stessa, ma rimanda a un significato altro da sé (per esempio, il telo colorato che significa la propria terra, la patria ecc.), essa viene detta simbolo. Ora, poiché l’apprendimento dei significati dei simboli avviene tramite l’interazione sociale, i loro significati sono comprensibili da tutti i membri del medesimo ambito sociale. In ultima analisi si può pertanto affermare che è proprio la conoscenza condivisa dei simboli che consente di interagire sulla base di una comprensione delle azioni e intenzioni altrui. Il fatto forse più straordinario dell’interazione è che intere collettività siano concordi nell’attribuire il medesimo significato a un determinato oggetto o a una certa azione. La capacità tipicamente umana di comprendere e tramandare ad altri individui il rapporto tra significante e significato (cioè la condizione di decodificazione dei simboli) deriva sia dal processo di evoluzione fisica della specie, che ne ha consentito lo sviluppo di certe parti fisiologiche (come il cervello, la scatola cranica ecc.), sia dallo sviluppo sociale, che ha consentito la preservazione e la trasmissione del patrimonio simbolico via via elaborato dai singoli. Mediante

La conoscenza condivisa dei simboli

La trasmissione del patrimonio simbolico

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4 - L’interazione sociale

l’interazione sociale, infatti, l’uomo ha migliorato le capacità di gestire i simboli, mentre la società è sempre più divenuta la depositaria dei simboli accumulati.

Simboli di status sociale

La “memoria collettiva”

Simboli religiosi

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■ La funzione comunicativa e partecipativa dei simboli L’attenzione della sociologia nei confronti dei simboli è rivolta soprattutto alla funzione comunicativa e a quella di partecipazione. Come avremo modo di approfondire nel paragrafo successivo, infatti, gli individui comunicano grazie a simboli, cioè a realtà che rimandano a un significato comune noto a entrambi gli interlocutori (il simbolo linguistico “luna”, per esempio, consente la comunicazione dei parlanti dal momento che a entrambi è noto il suo riferimento al satellite terrestre). Oltre a questo importantissimo compito, i simboli ne svolgono un altro altrettanto importante per la vita sociale: rafforzano i legami di appartenenza tra gli individui, consentendo la sopravvivenza della comunità secondo le modalità che la caratterizzano. Simboli come la Statua della Libertà, la bandiera della propria nazione, la nazionale di calcio ecc., quando rappresentano concretamente delle collettività, rinforzano il senso di solidarietà degli appartenenti. Altre volte accade che le simbolizzazioni rafforzino l’organizzazione interna della società evidenziandone la scala gerarchica e le differenze di status sociale. Simboli di questo genere possono considerarsi le diverse categorie di automobili, il tipo di residenza, la località di vacanza, il tipo di sport praticato, l’appartenenza a un determinato club, addirittura il possesso di una particolare marca di magliette. Esistono poi simboli che formano quella che Maurice Halbwachs definisce “memoria collettiva”, cioè l’insieme dei grandi personaggi mitizzati, delle date e dei luoghi carichi di ricordi e ritenuti particolarmente significativi dagli individui di una società. È qualcosa che spesso ha poco a che vedere con l’attività dello storico: non è detto che la memoria collettiva riguardi tutti gli avvenimenti e i personaggi succedutisi nella vita di un popolo o di una comunità. Essa è piuttosto una selezione deformata di date, avvenimenti e personaggi, cari a una certa collettività. Proprio per la presenza di simboli pregnanti di senso e di affettività comunitarie, la memoria collettiva è ritenuta uno dei più potenti fattori di solidarietà sociale. Una forte funzione partecipativa è presente anche nel simbolismo religioso e, seppure in modo differente, in quello magico. Luoghi sacri, paramenti, gesti particolari ecc. contribuiscono a rafforzare nel fedele il senso di appartenenza a un gruppo, una setta, una comunità.

4 - L’interazione sociale

4.4 La comunicazione L’interrelazione umana è resa possibile dalla comunicazione che si viene a creare tra gli individui. Ma perché questa possa verificarsi è necessario che siano presenti alcuni fattori: l’emittente (la fonte della comunicazione), il ricevente (il destinatario dell’informazione), il messaggio (ciò che si vuole comunicare), il medium (il canale che consente il trasferimento dell’informazione). Va inoltre aggiunto che tanto l’emittente che il ricevente devono condividere uno stesso sistema di codifica e decodifica, così da essere in grado di trasmettere e ricevere il messaggio. È necessario, cioè, che esista un accordo tra emittente e ricevente circa l’interpretazione simbolica e conseguentemente intorno ai significati ai quali la codificazione si riferisce. Si noti che, data la complessità del simbolismo umano, ciò implica non solo la conoscenza comune del medesimo codice, ma anche la capacità di comprendere il contesto più ampio di senso, spesso sottinteso, a cui il simbolismo si riferisce. Così, per esempio, il verbo “apparecchiare” indica cose diverse a seconda che lo mettiamo in relazione a una festa o al pasto quotidiano. Un altro elemento da considerare è il disturbo, cioè quella serie di rumori talvolta fisici (come nel caso di una telefonata con brusio), altre volte psicologici (per esempio, un forte stato emotivo), che ostacolano la corretta ricezione del messaggio. Infine, un altro elemento notevolmente importante è il feedback, cioè l’effetto di risposta al messaggio. Nella realtà, infatti, è molto raro che si verifichi una comunicazione unidirezionale; per lo più si assiste invece a intrecci di flussi comunicativi che si influenzano reciprocamente. Anche nel caso di un relatore e del pubblico presente alla conferenza, la comunicazione non procede a senso unico: il pubblico seguirà in silenzio o in modo distratto, chiacchiererà o interverrà con domande, guarderà l’orologio oppure rivolgerà lo sguardo all’oratore. Tutti questi messaggi a loro volta avranno un effetto sull’oratore, che verrà così rinforzato o svilito, o innervosito, con la conseguente variazione nei messaggi successivi, che a loro volta provocheranno una reazione circolare. Affinché il processo comunicativo possa svolgersi regolarmente è inoltre necessaria, da parte di entrambi gli interlocutori, una preconoscenza della situazione o della persona o almeno della funzione esercitata dall’interlocutore. Solo a questa condizione sarà infatti possibile

I fattori della comunicazione

Il sistema di codifica e decodifica

Il disturbo

Il feedback

La preconoscenza

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4 - L’interazione sociale

eliminare i rumori di disturbo, distinguendoli da quanto invece essenziale al processo di comunicazione. Non solo: la conoscenza del contesto sociale (per esempio, dell’ambito familiare o lavorativo all’interno del quale si svolge il processo) consente all’emittente di rivolgersi al destinatario adeguandosi al suo livello comunicativo mediante l’utilizzo, per esempio, di termini ed espressioni appropriate. Barriere Si noti, inoltre, che normalmente le comunicazioni precomunicative sentano diversi aspetti ridondanti: esse ripetono, cioè, e ridondanza talvolta anche con codici diversi (per esempio, si acdella comunicazione compagna un rimprovero con un determinato gesto della mano), lo stesso messaggio più volte. Ciò avviene al fine di superare le barriere che si frappongono tra emittente e ricevente (le barriere comunicative), la cui natura può essere di tipo tecnico (come nel caso di cessazione o eccesso di segnali ottici o acustici), psichico (pregiudizi, immagine di sé ecc.) e socioculturale (modalità comunicative diverse a causa dell’appartenenza a diversa cultura, status, ruolo ecc.).

Un esempio di comunicazione implicita

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■ L’implicito nel processo comunicativo Anche situazioni assolutamente banali, espresse con linguaggio semplice e noto, possono risultare equivoche o incomprensibili qualora l’ascoltatore non sia a conoscenza dell’implicito a cui esse si riferiscono. Di ciò è un esempio il seguente dialogo riportato da Garfinkel. “Marito: Oggi Dana è riuscito a mettere la moneta nel parkimetro senza essere preso in braccio. Moglie: L’hai portato nel negozio di dischi? Marito: No, dal calzolaio. Moglie: A che fare? Marito: Mi sono comperato dei lacci per le scarpe. Moglie: Ci sono anche i tuoi mocassini che hanno bisogno dei tacchi.” A prima vista, frasi sconnesse, prive di senso, in realtà risultano chiarissime per gli interlocutori. È infatti dato per scontato che Dana sia il figlio di chi parla e che il fatto di riuscire a mettere la moneta nel parkimetro sia il segno dell’aumento di statura del bimbo, il quale non era mai riuscito nell’impresa perché troppo piccolo. La moglie, a sua volta, intuisce dalla risposta del marito che egli si è recato in una determinata zona dove sono presenti parkimetri e pensa che la zona in questione sia quella davanti al negozio di dischi. Il riferimento al calzolaio, fatto dal marito, ricorda infine alla moglie la necessità di risuolare i mocassini.

4 - L’interazione sociale

4.5 La comunicazione non verbale Sguardi, gesti, movimenti del corpo, smorfie e quant’altro fungono da indicatori di significato, consentendo agli individui di comprendere sentimenti, pericoli, emozioni, informazioni. La comunicazione non verbale accompagna di regola il linguaggio verbale (vuoi come sostegno, vuoi talvolta fornendo informazioni contrastanti); più raramente essa si presenta come unica forma comunicativa. Con un cenno del capo si può dare o negare approvazione; con un movimento della mano si comunica l’“arrivederci”; se si strizza l’occhio ci si dichiara d’accordo; con l’inchino si riconosce l’autorità altrui e così via. Nell’analisi del linguaggio non verbale ci si è spesso chiesti se esso sia uguale per tutti gli esseri umani. Secondo gli studi di Irenaus Eibl-Eibesfeldt, in tutti gli esseri umani si riscontrano non solo espressioni fondamentali quali il riso e il pianto, ma anche numerosi altri segnali non verbali costanti. Così l’ira viene generalmente manifestata attraverso l’apertura degli angoli della bocca, l’aggrottamento degli occhi, i pugni serrati e i piedi che pestano il terreno e, a volte, colpiscono oggetti. L’universalità di tali comportamenti sarebbe innata oppure dovuta a condizioni comuni nella prima infanzia, che hanno incanalato l’apprendimento secondo le stesse modalità. Anche secondo Ardrey esistono gesti che si possono riscontrare in tutte le razze e le popolazioni, come, per esempio, il muovere le mani verso il naso o il toccarsi i capelli in momenti di perplessità e di imbarazzo. Se tuttavia consideriamo i condizionamenti sia psicologici sia culturali che intervengono nella comunicazione non verbale, possiamo comprendere che la facoltà di esprimersi non verbalmente è sì universale, ma la sua funzione e il suo significato variano a livello individuale, culturale e linguistico. Se infatti alcuni aspetti della comunicazione non verbale sono comuni a tutte le culture (tutti i membri della specie umana usano a scopo comunicativo il volto, gli arti, la postura, la voce), non tutti gli esseri umani ricorrono agli stessi segnali con la medesima frequenza e con la medesima ricchezza espressiva. I segnali non verbali veicolano gli stessi messaggi in tutte le culture (le emozioni, gli atteggiamenti interpersonali, le informazioni su di sé), sia pure in modo diverso. Secondo l’ipotesi di Paul Ekman, le espressioni universali tipiche delle emozioni fondamentali, che dipendono dall’attivazione di determinati muscoli facciali, sono soggette all’influenza dell’ambiente culturale che controlla le circostanze che le suscitano, le regole per manife-

Le costanti universali della comunicazione non verbale

La variabilità della comunicazione non verbale

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4 - L’interazione sociale

starle e le conseguenze che ne derivano. Nelle società occidentali si presta, per esempio, maggiore attenzione ai movimenti della testa e delle mani che a quelli delle gambe.

Componenti inconsce della comunicazione non verbale

Gli stili della comunicazione non verbale

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■ Espressioni volontarie e involontarie I movimenti del corpo, delle mani e della testa e le variazioni della voce che accompagnano l’espressione verbale sono spesso azioni inconsapevoli e involontarie; tali azioni rispondono comunque a codici di comportamento predeterminato e comprensibile a chi appartiene alla stessa cultura del parlante. L’insieme degli atteggiamenti non verbali è in parte appreso culturalmente, in parte risulta da processi psicologici, tanto generali quanto individuali. Anche per questi ultimi esistono norme convenzionali che determinano le circostanze e i limiti entro i quali i movimenti del corpo e la tonalità della voce debbono essere tenuti. A causa della loro immediatezza e spontaneità, i messaggi non verbali, siano essi consapevoli o inconsapevoli, tendono a rivelare il vero pensiero, se non addirittura a svelare i sentimenti inconsci di chi li esprime. Per questo motivo il messaggio non verbale può confermare o rafforzare quello verbale, ma può anche risultare incongruente rispetto a ciò che viene espresso attraverso le parole. Nell’interazione possono cioè verificarsi diverse possibilità: l’emittente può essere consapevole o meno; può avere l’intenzione di comunicare, o non averla affatto; il suo comportamento non verbale può essere di per sé significativo, indipendentemente dalla consapevolezza o intenzione. Comunque sia, l’insieme dei gesti è solo parzialmente prodotto a livello individuale, poiché esso è generalmente condiviso dai membri di una stessa cultura o di una stessa comunità linguistica. Indipendentemente dal linguaggio, la comunicazione non verbale consente al soggetto di esprimere emozioni, di offrire un’immagine di sé e del proprio corpo e di stabilire il tipo di relazione che egli vuole avere con l’interlocutore. Sono stati anche individuati vari stili della comunicazione non verbale, i quali verrebbero utilizzati a seconda del tipo di messaggio che si desidera comunicare. Come avviene nella comunicazione verbale, anche un messaggio non verbale può essere diretto o indiretto; elaborato o succinto; personale o contestuale, quando è rivolto a un preciso individuo o al suo ruolo; strumentale o affettivo, se è prevalentemente orientato verso l’agente o il ricevente. Tali variazioni hanno significati culturali e possono dunque ricoprire funzioni diverse in culture diverse. La postura, per esempio, è un segnale prevalentemente involontario, poiché essa è stretta-

4 - L’interazione sociale L’IMPOSSIBILITÀ DI NON COMUNICARE “L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro. Dovrebbe essere ben chiaro che il semplice fatto che non si parli o che non ci si presti attenzione reciproca non costituisce eccezione a quanto è stato appena asserito. L’uomo che guarda fisso davanti a sé mentre fa colazione in una tavola calda affollata, o il passeggero d’aereo che

siede con gli occhi chiusi, stanno entrambi comunicando che non vogliono parlare con nessuno né vogliono che si rivolga loro la parola, e i vicini di solito “afferrano il messaggio” e rispondono in modo adeguato lasciandoli in pace. Questo, ovviamente, è proprio uno scambio di comunicazione nella stessa misura in cui lo è una discussione animata.” (P. Watzlawick, H. Beavin, D.D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio 1971; p. 42.)

mente connessa allo stato emotivo di tensione e rilassamento del soggetto. Esistono, peraltro, diversità culturali nei modi di stare in piedi, stare seduti, distendersi o inginocchiarsi, che sono regolamentati da convenzioni sociali precise. Anche il contatto oculare ha significati diversi, a volte opposti, nelle varie culture. Esso può essere evitato, in forma di rispetto, oppure incoraggiato come segnale di sincerità. Gli arabi si avvicinano molto di più gli uni agli altri durante un incontro e si fissano negli occhi con maggiore intensità di quanto non facciano, per esempio, i giapponesi, i quali a loro volta, attribuiscono particolare importanza e significato a determinati rituali come la cerimonia del tè.

4.6 Il linguaggio Tra le diverse forme di comunicazione, quella riconosciuta Efficacia e flessibilità come mezzo espressivo più efficiente e flessibile è il lin- del linguaggio guaggio verbale. La comunicazione umana in quanto tale è infatti resa possibile per definizione solo dal complesso sistema di simboli verbali costitutivi del linguaggio, mentre gli altri sistemi di segni, usati in via sussidiaria, possono svolgere una funzione di complemento. Rispetto ai gesti o agli oggetti, le parole hanno il grande vantaggio di poter essere prodotte con estrema facilità e di consentire il riferimento a realtà non presenti nell’hic et nunc. Se è infatti vero che i segnali acustici possono designare gli stati d’animo provati dal soggetto in un deteminato momento (come nel caso di un urlo di dolore), nel caso del linguaggio vero e proprio le espressioni vocali (le parole) sono integrate in un sistema di segni oggettivamente accessibile. Le parole sono dunque tali se ca77

4 - L’interazione sociale

La funzione di classificazione del linguaggio

Il linguaggio, modello regolatore della condotta individuale

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paci di rimandare a significati comuni ai parlanti; significati cui esse rimandano arbitrariamente, sulla base di convenzioni sociali. Grazie alla flessibilità che gli è propria, il linguaggio può immagazzinare le esperienze e i significati più diversi e distanti, consentendo così il riferimento a situazioni sia geograficamente, sia storicamente assai remote. La comunicazione verbale risulta inoltre particolarmente idonea a richiamare significati elaborati: per suo tramite è infatti possibile veicolare concetti frutto di astrazione logica e che non si riferiscono immediatamente a un oggetto o a una situazione empirica data (si pensi a termini come funzione, logaritmo, punto). Un’altra importante funzione del linguaggio riguarda la classificazione: le esperienze vengono cioè raggruppate in categorie generali, all’interno delle quali anche le esperienze più personali acquistano la capacità di essere comprese da altri individui. Come è facilmente intuibile, nel momento in cui le esperienze vengono classificate perdono le proprie peculiarità divenendo anonime, perché simili alle altre che rientrano all’interno dello stesso raggruppamento. Così il sentimento del tutto personale provato per la scomparsa di una certa persona cara, una volta classificato come “dolore” risulta assimilato ad altri stati d’animo solo parzialmente simili a quanto concretamente esperito. In questo modo si vengono a perdere le peculiarità dell’esperienza, ma in cambio si guadagna la possibilità di comunicare, seppure parzialmente, delle esperienze altrimenti inesorabilmente confinate nell’ambito della propria interiorità. Pertanto, nonostante la perdita di intensità, le esperienze individuali vengono continuamente classificate secondo ordini generali di significato, riconosciuti come tali dalla collettività. ■ Il linguaggio come istituzione sociale Alcuni sociologi, come Peter e Brigitte Berger, concordano nel ritenere che il linguaggio sia l’istituzione sociale per eccellenza. Con questa espressione essi intendono affermare il fatto che la comunicazione verbale umana costituisce il modello regolatore che la società impone alla condotta individuale. Così inteso, il linguaggio costituirebbe una sorta di programma imposto dalla società al comportamento degli individui, su cui si radicherebbero le altre istituzioni. Sin dalla prima infanzia, quando il bambino apprende le prime parole, egli assimila automaticamente il mondo di significati sociali veicolati dal simbolismo verbale e tramite questi forma il proprio modo di concepire la realtà. Oggettivando e stabilendo relazioni significative, il linguaggio struttura infatti

4 - L’interazione sociale

anche l’ambiente umano del bambino e gli fornisce la possibilità di riconoscere i ruoli come modelli ricorrenti. ■ L’estrinsecità e l’oggettività del linguaggio Nel momento in cui un individuo esprime verbalmente Estrinsecità qualcosa, questo qualcosa (che prima di essere espresso risultava interiore) assume una qualità e dimensione “esterna” che in origine non possedeva: diviene cioè una realtà partecipabile a più individui e dotata di vita propria, ormai indipendente dal soggetto stesso. Il carattere di “oggettività” inerente alla comunicazione ver- Oggettività bale umana si riferisce a due aspetti tra loro correlati. Da una parte si riferisce all’insieme di regole e forme che preesistono alla soggettività dei parlanti e in cui questi si trovano immersi, da qui il fatto che si possa parlare in modo scorretto o corretto. Dall’altra parte, esso si riferisce alla capacità propria della lingua di esternare e oggettivare il pensiero e le esperienze. Quando, infatti, il flusso dell’esperienza viene codificato nella parola, esso diviene qualcosa di statico e accessibile allo stesso soggetto anche col mutare dell’esperienza personale. L’esperienza diviene in qualche modo stabile e, tramite la parola, richiamabile alla mente e rapportabile ad altre esperienze. Il linguaggio ha il potere di oggettivare la realtà dal momento che esso consente di bloccare il fluire dell’esperienza in qualcosa di permanente e condivisibile dagli altri. Questo processo di oggettivazione, tipico del linguaggio, risulta particolarmente evidente nell’intelligenza infantile. Al riguardo Jean Piaget parla di realismo infantile, cioè dell’identificazione di parola e realtà. Un caso citato dallo stesso Piaget è quello di un bambino a cui era stato chiesto se il sole si sarebbe potuto chiamare in un altro modo. Il piccolo aveva con decisione negato questa possibilità e, sollecitato a dare una spiegazione, dopo un breve imbarazzo aveva risposto: “Beh, guardalo!”. ■ Il potere coercitivo del linguaggio Non è possibile parlare una lingua senza accettarne la terminologia, le regole sintattico-grammaticali, il simbolismo. Nonostante qualche piccola variazione individuale, come gli intercalare, l’intonazione ecc., una lingua si presen- La struttura ta come una struttura predeterminata a cui i parlanti de- predeterminata vono sottostare, pena l’incomunicabilità. Questa dimen- della lingua sione coercitiva si traduce non solo nella presenza di norme linguistiche vincolanti che regolano la comunicazione, ma anche in notevoli conseguenze dal punto di vista sociale. Così il ragazzo che parla in modo sgrammaticato verrà proba-

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4 - L’interazione sociale

bilmente deriso dai compagni, oppure avrà quasi sicuramente scarse possibilità di lavoro. Sarebbe erroneo ritenere che il linguaggio appropriato a ogni circostanza sia quello indicato dalle grammatiche. Si possono verificare infatti situazioni in cui il linguaggio sia di tipo gergale e segua regole differenti da quelle ufficiali (come, per esempio, nelle caserme o nelle subculture) ed eserciti allo stesso modo di quello “ufficiale” un potere coercitivo sui parlanti. ■ La storicità del linguaggio Va infine fatto notare che, accanto agli elementi sinora rilevati, e che potrebbero far pensare a una dimensione statica del linguaggio, sia le parole, sia i significati ai quali esse rimandano sono condizionati storicamente. Esiste cioè un’evoluzione linguistica che comporta non solo l’introduzione di termini nuovi e il lento decadere di altri, ma anche il modificarsi del significato dello stesso termine nel corso del tempo, e talvolta in modo radicale: si pensi, per esempio, al termine “cattedra”, che attualmente rimanda al “banco dell’insegnante”, mentre per secoli essa ha significato “sedia dell’autorità”. Dominazioni, vicende storiche, esperienze culturali e scientifiche e in generale tutte le variazioni di significati che nel corso del tempo le generazioni si sono comunicate lasciano la traccia nei simboli verbali propri di una determinata società, consentendo così alle nuove generazioni di accedere a un patrimonio comune, che le loro esperienze contruibuiranno ad accrescere.

4.7 Comunicazione e potere È tramite la comunicazione che possono nascere e svilupparsi i diversi sistemi sociali. Normalmente si distingue Comunicazione tra la comunicazione interna a un determinato gruppo o sointrasistemica cietà (comunicazione intrasistemica) e quella che si svole intersistemica ge tra gruppi o società (comunicazione intersistemica). Secondo Niklas Luhmann l’importanza della comunicazione è tale che i sistemi sociali possono essere interpretati come puri sistemi di comunicazione. Anche se per lo più si parla di comunicazione al singolare, va rilevato che in ogni società sono presenti diversi flusFlussi comunicativi si comunicativi, spesso reciprocamente assai distanti tra e rapporti di dominio loro. La struttura comunicativa non è infatti la stessa per ogni membro della società, ma riproduce fedelmente i rapporti di dominio peculiari di un determinato contesto sociale. Il privilegio di poter accedere a determinate informazioni, così come il distanziamento dei livelli decisionali 80

4 - L’interazione sociale

mediante numerosi livelli intermedi di comunicazione, costituiscono in modo manifesto gli strumenti di accesso al potere. È stato inoltre rilevato che, ogniqualvolta si verifichi una trasmissione di competenze comunicative al di là della classe di appartenenza, si determina anche un libero flusso di informazioni che mette in discussione la struttura del potere. Per questo motivo le società democratiche tendono a realizzare dei meccanismi intesi a garantire la diffusione dei flussi comunicativi, consentendo la partecipazione a questi da parte di larghi strati di popolazione. Così il libero flusso dell’informazione, l’istituzionalizzazione di mezzi di comunicazione di base, la scolarizzazione di massa ecc. sono altrettanti strumenti messi in atto al fine di ridurre le barriere comunicative.

4.8 Comunicazione interculturale A causa di molteplici fattori (che vanno dall’internazionalizzazione dei mercati ai flussi migratori; dalla diffusione dei viaggi aerei allo sviluppo dei sistemi telematici), nelle società contemporanee si verificano sempre più frequentemente occasioni di comunicazione tra individui appartenenti a contesti culturali diversi. Questo fenomeno pone alla luce le difficoltà insite nella co- La difficoltà municazione tra individui appartenenti ad ambiti culturali di comunicazione diversi. Infatti, mentre da un lato la comunicazione è resa tra culture diverse possibile dal possesso di un codice linguistico comune (l’inglese, divenuto il vero esperanto), dall’altro lato essa viene ostacolata dalla diversità di contesti, abitudini, convinzioni ecc. a cui i parlanti inevitabilmente si riferiscono. Le differenze tra i modelli e le strutture di comunicazione legati alle singole culture comportano necessariamente delle difficoltà di comprensione e la nascita di equivoci. Nel tentativo di superare o almeno mitigare questi ostacoli, in diversi stati si è introdotta la figura del “traduttore culturale”, ossia di un individuo socializzato nei due sistemi culturali, in grado di comprendere e spiegare i significati che un certo evento, o gesto, o espressione, ha nei contesti culturali a confronto.

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4 - L’interazione sociale

PER UN APPROFONDIMENTO ● P.L.

Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna 1969

Imposta, secondo la prospettiva della sociologia della conoscenza, l’esame del rapporto dialettico tra istituzioni e interazione quotidiana.

P.L. Berger, B. Berger, Sociologia, La dimensione sociale della vita quotidiana, Il Mulino, Bologna 1977



Un’introduzione all’analisi sociale a partire dalla vita quotidiana.

G. Fele, Etnometodologia. Introduzione allo studio delle attività ordinarie, Carocci, Roma 2002



Discute in maniera sintetica quale può essere il contributo dell’etnometodologia all’analisi dei processi d’interazione sociale. ●

E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1986

Attento esame dell’interrelazione umana secondo la metafora della rappresentazione teatrale. ●

D. Morris, L’uomo e i suoi gesti, Mondadori, Milano 1978

Analizza in modo accessibile e piacevole il linguaggio non verbale. ● P. Watzlawick, H. Beavin, D.D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio 1971

Esamina i procedimenti comportamentali, cioè pragmatici, tipici delle relazioni interpersonali.

SCHEMA RIASSUNTIVO LE INTERAZIONI SOCIALI LATENTI NELLA VITA QUOTIDIANA

Attraverso l’analisi dei rapporti che gli individui hanno nella quotidianità è possibile rintracciare gli elementi fondamentali della vita sociale. È nella quotidianità che la ripetizione dei gesti crea strutture stabili di comportamento. Queste ultime sono spesso tacitamente sottese all’interazione umana, ma comunque sempre presenti. Gli studi promossi dall’etnometodologia di Garfinkel mostrano le difficoltà che vengono a crearsi qualora le regole di relazione siano ignorate.

Tipizzazioni e parti

Nell’incontro diretto con l’altro, gli individui fanno uso di tipizzazioni mutuate dal proprio contesto sociale, per prevedere le reazioni altrui. La dimensione anonima delle tipizzazioni è inversamente proporzionale alla durata dello scambio diretto (tanto maggiori sono il tempo e l’intensità del rapporto face to face, tanto minore sarà l’importanza della tipizzazione). Secondo Goffman, nel momento in cui si relazionano con gli altri i soggetti umani tendono a recitare una parte al fine di sollecitare una particolare impressione nell’interlocutore. La relazione umana viene analizzata pertanto secondo un modello drammaturgico tendente a distinguere: parti, stacchi, scene ecc.

UNIVERSI CULTURALI E DECODIFICAZIONE

L’interrelazione umana è caratterizzata dalla presenza di un complesso sistema simbolico. Gli individui, infatti, come rilevato da G.H. Mead, non si limitano a reagire agli stimoli, ma ne interpretano il significato; i gesti umani sono pertanto “gesti significativi”. Ora, il significato a cui essi rimandano viene appreso sin dalla prima infanzia mediante i processi di socializzazione; tramite questi, la società trasmette al singolo i significati propri della collettività di appartenenza e viene così a creare le condizioni per la comunicazione tra individui diversi.

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4 - L’interazione sociale segue

I simboli e le loro funzioni I simboli sono realtà (verbali, materiali, gestuali ecc.) che rimandano a un significato altro da sé. La loro presenza nelle società umane non solo consente la comunicazione tra i soggetti, ma ne rafforza il senso di partecipazione a una medesima collettività. Così esistono simboli che rinforzano il senso di solidarietà (la bandiera, lo stemma ecc.); altri ribadiscono la scala gerarchica e conseguentemente gli status degli individui (possesso di particolari marche di macchine, frequentazione di club esclusivi ecc.); altri formano la “memoria collettiva” di un determinato raggruppamento sociale (eroi, luoghi particolari, avvenimenti ecc.); altri ancora rafforzano i legami di appartenenza mediante il riferimento a un credo comune (è il caso del simbolismo religioso). LA COMUNICAZIONE E I SUOI ELEMENTI

Perché si verifichi un processo di comunicazione è necessario che siano presenti: emittente, ricevente, messaggio, codice, canale. Accanto a questi elementi vanno considerati: il contesto (l’ambito fisico o sociale al cui interno si svolge la comunicazione), il disturbo (rumori fisici o metaforici che disturbano la corretta ricezione del messaggio), il feedback (la reazione dell’interlocutore e l’influenza che essa esercita sull’emittente).

La comunicazione non verbale

La comunicazione può essere di tipo non verbale o di tipo verbale. La prima presenta dei fattori elementari comuni in tutti gli esseri umani (per esempio, la presenza del riso o del pianto per indicare gioia o dolore), ma utilizza gesti ed espressioni secondo codici differenti: lo stesso gesto (per esempio, dondolare lateralmente il capo) può avere significati differenti (indica assenso o dissenso a seconda delle culture).

Il linguaggio verbale

Il linguaggio verbale è la forma comunicativa privilegiata nelle interazioni umane; consente il riferimento a significati distanti nello spazio e nel tempo e a significati astratti. Data la sua capacità di veicolare all’individuo i significati comuni di un determinato contesto sociale, esso viene ritenuto da diversi sociologi l’istituzione per eccellenza. Come ogni altra istituzione, il linguaggio possiede infatti il carattere dell’estrinsecità (una volta che qualcosa viene espresso verbalmente diviene come esterno al soggetto), l’obiettività (la parola ha il potere di reificare pensieri e sensazioni), il potere coercitivo (regole ben definite a cui è necessario adeguarsi;senso di vergogna e derisione in chi non lo padroneggia), la storicità (variazione dei termini e dei significati sulla base della storia della società).

DOMANDE DI VERIFICA 1. Perché le microsociologie indagano la “vita quotidiana”? 67a 2. In che senso le tipizzazioni intervengono nel comportamento interpersonale? 69a 3. Quali sono i caratteri essenziali della comunicazione umana? 73 4. Quale ruolo riveste l’implicito all’interno di una

comunicazione? 74b 5. Quali sono i caratteri del simbolo più importanti per la ricerca sociologica? 72a 6. Quali sono i caratteri principali del linguaggio verbale? 77b-78 7. In che senso culture diverse possono dare origine a “errori” di comunicazione? 81b

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5 Gruppi e organizzazioni Il gruppo sociale è un insieme di persone che entrano in rapporto reciproco, sulla base di valori o interessi comuni, venendo a costituire un’unità sociale identificabile anche dall’esterno, strutturata secondo norme di comportamento proprie. I bisogni e i valori del gruppo si traducono in uno o più scopi che il gruppo persegue. A seconda delle dimensioni e del tipo di rapporto più o meno intimo tra i membri, si hanno gruppi primari o gruppi secondari. Mentre l’analisi dei gruppi primari è tradizionalmente ambito di studio della microsociologia, la macrosociologia si è occupata di indagare i gruppi secondari. Tra questi spiccano le organizzazioni, di cui una delle forme più studiate a partire da Max Weber è la burocrazia.

5.1 Il problema Tra le forme di interazione che influenzano in modo sensibile la nostra vita sociale e la costruzione della nostra identità vanno annoverate le relazioni che intratteniamo con gli altri in qualità di membri dei numerosi gruppi di cui facciamo parte. Rientrano in questa categoria sia le relazioni con gli altri membri del gruppo, sia i rapporti con coloro che appartengono a gruppi diversi dal nostro, ma che possono rappresentare dei punti di riferimento, positivi o negativi, per i nostri valori e comportamenti sociali. La sociologia ha sviluppato, con approcci e metodologie differenti, l’analisi tipologica dei gruppi, da quelli che interessano un ristretto numero di individui alle grandi organizzazioni, ciò al fine di comprendere quali rapporti intercorrono tra i membri dei gruppi, tra i gruppi e il processo di socializzazione, tra l’appartenenza al gruppo e l’identità sociale, tra i gruppi e le istituzioni sociali globali. L’analisi dei gruppi è talmente rileLa sociologia come vante per la sociologia contemporanea che la stessa so“scienza dei gruppi” ciologia è stata definita “scienza dei gruppi”.

5.2 La formazione dei gruppi Per i motivi più disparati, che possono andare dall’attrazione sessuale alla ricerca di soluzione di bisogni complessi, gli esseri umani entrano in relazione tra loro formando insiemi più o meno strutturati e di varia natura. Ciò comporta sempre e comunque la creazione di uno spazio sociale in un ambiente fisico, all’interno del quale i singoli individui si 84

5 - Gruppi e organizzazioni

distribuiscono in ruoli attraverso un processo di differenziazione, dando così vita a forme diverse di rapporti sociali. Tali forme si possono distinguere in base alla loro origine, alla quantità di individui coinvolti nel rapporto, al tipo di relazione che questi individui intrattengono tra loro, alle funzioni che essi devono svolgere, agli scopi che devono raggiungere e così via. Tenendo presenti questi parametri di distinzione, le forme di associazione tra gli uomini si possono distinguere in aggregati, gruppi, organizzazioni, categorie sociali, caste, ceti, classi. ■ Le categorie sociali Le categorie sociali sono la risultante di una costruzione teorica mediante la quale il sociologo raggruppa idealmente in una stessa “unità sociale” individui con caratteristiche comuni, così da poterli studiare. Esempi di categorie sociali possono essere i giovani disoccupati, i bambini in età pre-scolare, i single ecc. Non importa che i soggetti in questione intrattengano rapporti tra loro, importa invece che la caratteristica che li accomuna sia interessante dal punto di vista sociologico, cioè sia adeguata allo scopo che il sociologo si propone di raggiungere. Per l’indagine sociologica la categoria sociale forse più importante è quella di “massa”. Con questo termine, nonostante le diverse accezioni, si in- La massa tende un insieme di individui che hanno come caratteristica comune un comportamento uniforme relativamente a determinati stimoli. La nozione di massa non va confusa con il concetto di folla. Il termine “folla” connota infatti non La folla una caratteristica comune a più individui, bensì una semplice vicinanza fisica, la quale agisce, in particolari condizioni, da stimolo di comportamenti omogenei, indotti da processi di imitazione meccanica. Nella folla mancano rapporti gerarchici e rapporti di azione reciproca in qualche modo istituzionalizzati e regolati. Perciò la folla è un esempio di ag- Gli aggregati gregato, ovvero di un insieme di individui caratterizzato dalla pura prossimità fisica e non organizzato secondo strutture e funzioni. Altri esempi di aggregati possono essere gli spettatori in una sala cinematografica, i viaggiatori in attesa di un treno ecc. Secondo la definizione di Erving Goffman gli aggregati sono: “assembramenti di individui in interazione non focalizzata”. Dunque, le persone che compongono l’aggregato restano estranee le une alle altre, al punto che nell’aggregato non si dà il senso dell’“altro” come persona, ma solo come individuo indifferenziato. Le relazioni sociali all’interno dell’aggregato sono pertanto molto limitate e per lo più di carattere provvisorio, poiché gli individui pos-

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5 - Gruppi e organizzazioni

Differenze fra aggregato e gruppo

sono entrare e uscire da un aggregato senza che ciò modifichi sostanzialmente il loro stile di vita e la loro posizione sociale. L’aggregato si distingue dal gruppo per la sua casualità, per la mancanza di struttura e soprattutto per la differenza qualitativa delle relazioni interpersonali che il gruppo rende possibili. Certamente, però, all’interno dell’aggregato possono svilupparsi dei gruppi e in molti casi l’aggregato stesso si evolve in gruppo; può accadere, per esempio, che da un aggregato di studenti che si trovano insieme casualmente all’inizio di un corso si formino uno o più gruppi.

5.3 Gruppi primari e secondari Caratteristiche fondamentali dei gruppi

Definizione

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Secondo Robert Merton, in generale l’esistenza di un gruppo viene determinata da tre caratteristiche: ● i membri del gruppo interagiscono in modo strutturato, condizionati da norme e secondo ruoli più o meno formalizzati; ● i membri del gruppo sviluppano un sentimento di appartenenza al gruppo, tale da costituire una barriera nei confronti degli “altri”, coloro che non appartengono al gruppo; ● il gruppo viene percepito come tale dagli estranei, acquista cioè un’identità pubblica. Queste caratteristiche accomunano gruppi di tipo estremamente diverso: quattro amici che vanno regolarmente a giocare a tennis la domenica, una famiglia, gli studenti di un seminario, i dipendenti di uno stabilimento della FIAT. Tutti questi insiemi di persone possono essere descritti come gruppi, ma mentre gli amici e la famiglia costituiscono gruppi primari, i dipendenti FIAT sono un gruppo secondario e il gruppo di studenti può appartenere a entrambe le tipologie. ■ Gruppi primari L’espressione “gruppo primario” è stata coniata da Charles Cooley per definire un gruppo costituito da un numero limitato di persone che interagiscono immediatamente e in modo diretto e personale (contatto face to face). Sempre secondo Cooley i gruppi primari sono caratterizzati da uno stile di vita fortemente comunitario; contatto personale e vita in comune favoriscono lo sviluppo di un forte sentimento di identificazione reciproca, un sentimento del “noi” che permette a ciascun membro del gruppo di sentirsi diverso da qualsiasi individuo non appartenente al gruppo. Sono le relazioni strette di tipo personale, quindi, quelle che permettono una forte integrazione tra i membri del gruppo; affinché tali relazioni, che sono o divengono per lo

5 - Gruppi e organizzazioni GRUPPO PRIMARIO E IDENTITÀ COLLETTIVA “Per gruppi primari si intendono quei grup- la sua volontà in questo modo di sentire. pi caratterizzati da un’intima associazione Non si deve pensare che l’unità del gruppo e cooperazione. Essi sono primari in pa- primario sia unità puramente di armonia e recchi sensi, ma soprattutto in quanto svol- di amore. Essa è sempre un’unità differengono una funzione fondamentale nella for- ziata e di solito competitiva, che ammette mazione della natura sociale e degli idea- l’affermazione individuale e varie passioni li degli individui. Il risultato di un’associa- tendenti all’appropriazione; ma queste paszione intima è — dal punto di vista psico- sioni vengono socializzate dalla simpatia e logico — una certa fusione delle indivi- rientrano, o tendono a rientrare, sotto la didualità in un insieme comune, tale che sciplina di uno spirito comune. L’individuo l’“Io” proprio di ciascuno è costituito, al- può essere ambizioso, ma l’oggetto princimeno per molti aspetti, dalla vita comune pale della sua ambizione sarà un posto dee dallo scopo del gruppo. Forse il modo siderato nella considerazione degli altri; egli migliore di descrivere questo carattere si manterrà pertanto fedele a criteri comudell’insieme è di dire che esso è un “noi”; ni di servizio e di lealtà. Anche il ragazzo diesso implica una specie di simpatia e di scute con i compagni per un posto nella identificazione reciproca per la quale il ter- squadra ma, al di sopra di tali dispute, pone mine “noi” rappresenta l’espressione na- la gloria comune della sua classe.” turale. L’individuo vive sentendosi parte (Charles H. Cooley, L’organizzazione sociadell’insieme e trova gli scopi principali del- le, Edizioni di Comunità, Milano 1963; p. 23.)

più di tipo affettivo, si diano, è necessario che il numero dei membri del gruppo sia limitato. Circa le dimensioni del gruppo primario esistono opinioni diverse. Secondo Georg Simmel il numero minimo di individui di un gruppo primario sarebbe tre, poiché una relazione duale mancherebbe del sentimento di sovrapersonalità tipico del gruppo. Secondo altri sociologi, invece, anche due innamorati si può dire che costituiscano un gruppo primario. Cooley, che intendeva studiare l’importanza dei gruppi per il processo di socializzazione, individuava il modello principale di gruppo pri- Esempi di gruppi mario nella famiglia. Si ritiene, peraltro, che anche molti al- primari tri gruppi primari possano svolgere un ruolo significativo nel processo di socializzazione: gruppi di pari, gruppi sportivi, gruppi religiosi, circoli di vario tipo ecc. ■ Gruppi secondari Mentre un gruppo primario è composto da un numero ridotto di individui, che mediante un rapporto interpersonale di tipo affettivo sviluppano un forte sentimento di identificazione collettiva, il gruppo secondario è composto Definizione da un numero elevato di membri le cui relazioni interpersonali sono affettivamente neutre; inoltre, in questo tipo di gruppo i rapporti tra il singolo e gli altri membri del gruppo sono di tipo strumentale, cioè funzionali al conseguimento di uno scopo. Perciò in un gruppo secondario gli in-

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5 - Gruppi e organizzazioni

Le organizzazioni

dividui sono importanti per la funzione che essi svolgono e non come persone in quanto tali. La qualità dei rapporti tra i membri di un gruppo secondario è definita in base alla presenza di un ordinamento oggettivo, cioè di una serie di regole che organizzano la struttura del gruppo in modo impersonale e distribuiscono le funzioni dei diversi componenti. Esempi di gruppi secondari sono le organizzazioni: aziende, istituzioni ospedaliere, apparati militari, scuole, università e amministrazioni pubbliche ecc. Si noti che i confini tra gruppi primari e secondari non sono sempre ben determinabili; spesso piccoli gruppi, all’inizio del loro formarsi, non sono ancora primari perché le relazioni interne sono ancora indirette e affettivamente neutre: per esempio, un gruppo di studenti che segue un seminario può essere descritto all’inizio del corso come un gruppo secondario, al termine come un gruppo primario. D’altro canto, all’interno di un’organizzazione come una fabbrica o un reparto ospedaliero possono formarsi numerosi gruppi informali che possono diventare gruppi primari.

■ Le dimensioni del gruppo Come si è notato, una delle caratteristiche qualificanti dei gruppi primari risiede nel limitato numero dei membri. Si tratta in realtà di una condizione importante, ma non sufficiente, dal momento che anche un gruppo secondario in particolari circostanze può essere composto da poche persone; inoltre, ciò che connota specificamente un gruppo primario è la natura dei rapporti che intercorrono tra i membri. Sulla Il numero determina base di questa premessa il numero dei membri torna a esil tipo di rapporto sere importante in considerazione del fatto che per un grupinterpersonale po primario è essenziale che il rapporto tra i membri sia personale. Georg Simmel fu il primo a intuire che l’interazione all’interno del gruppo è legata alle dimensioni del gruppo stesso, e a sottolineare l’interesse che riveste per la ricerca sociologica l’analisi dei rapporti tra i membri del gruppo. Studi condotti da Robert Bales a partire dagli anni ’50, e sviluppati successivamente da numerosi altri sociologi, hanno mostrato, ricostruendo per lo più in laboratorio dinamiche di gruppo frequenti nella vita quotidiana, quali siano i processi fondamentali che avvengono nei piccoli gruppi. In primo luogo è emerso che quanto più piccolo è il gruppo tanto più intensa diventa l’interazione tra i suoi membri. La reLa diade lazione in assoluto più intensa è quella duale: i suoi membri devono necessariamente tener conto l’uno dell’altro poiché il gruppo può essere distrutto dall’allontanamento di uno di essi. L’interazione in questo caso deve essere stretta, re-

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5 - Gruppi e organizzazioni

golare, positiva; perciò la diade è il tipo di gruppo potenzialmente più gratificante e al tempo stesso più fragile. L’ingresso nel gruppo di una terza persona porta con sé la consapevolezza della possibile persistenza del gruppo stesso nonostante la perdita di uno dei membri, ma introduce una situazione sostanzialmente diversa; il terzo membro può infatti svolgere differenti ruoli: può mediare in modo neutrale, può conquistare uno dei due per aggredire l’altro, può allearsi ora con l’uno ora con l’altro, può diventare oggetto di desiderio per entrambi oppure per uno solo degli altri membri. Quando, per esempio, a una coppia nasce il primo figlio, questi può rafforzare il legame tra i genitori o al contrario allontanarli, provocando gelosie e conflitti, e può giungere a manipolare le relazioni affettive della famiglia. Nella triade, inoltre, ognuno dei membri può, a turno, ignorare gli altri senza disgregare il gruppo. L’ulteriore aumento della dimensione influenza in vari modi le relazioni nel gruppo. Normalmente i gruppi un po’ più numerosi (cinque o sei membri) sono più produttivi delle diadi e delle triadi, poiché i problemi possono essere affrontati attraverso discussioni da più punti di vista. Gruppi di questa dimensione sembrano ideali per condurre a buon termine lavori che richiedono decisioni collettive. È improbabile che in tali gruppi le discussioni si arenino; inoltre, gli eventuali dissenzienti non si sentono isolati dalla maggioranza. Nei gruppi fino a sette membri tutti possono partecipare alla discussione; oltre questa soglia è probabile che si formino sottogruppi. Lo stile della conversazione diventa sempre più impersonale col crescere delle dimensioni del gruppo, perché i membri non possono nei loro discorsi tenere presenti le aspettative degli individui specifici, ma devono costruire un linguaggio formale, tale che possa adattarsi alle esigenze di tutti i membri del gruppo. In particolare, quando il gruppo supera la decina di unità, diventa impossibile che tutti i membri prendano parte alla conversazione se uno tra loro non si assume il compito di coordinarla. Dunque più aumenta il numero dei membri più aumentano le esigenze di organizzazione interna e lo stimolo al coordinamento degli sforzi in relazione agli obiettivi da raggiungere. Perciò la crescita rapida delle dimensioni di un gruppo provoca problemi: l’interazione diventa sempre più complicata quanto più il gruppo cresce ed è normale che i membri iniziali, temendo che le norme di organizzazione e di comunicazione interna già sviluppate dal gruppo possano essere minacciate, si oppongano all’ingresso di nuovi membri. È difficile che nei gruppi nu-

La triade

I gruppi più numerosi

La formazione di sottogruppi

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5 - Gruppi e organizzazioni

merosi tutti i membri abbiano un’eguale capacità di influenza sulle decisioni: si distribuiscono all’interno del gruppo i ruoli di leader e gregario.

5.4 Leadership e comunicazione La figura del leader

In qualsiasi gruppo, anche in quelli che vorrebbero evitarlo, emerge la figura del leader. Quanto più il gruppo aumenta di dimensioni tanto più tale figura assume importanza: i membri tendono a parlare meno tra loro e di più con il leader, il quale a sua volta tende a riferirsi al gruppo come a un’unità, piuttosto che a ciascuno dei membri. La comunicazione nel gruppo ha quindi il suo perno nel leader, il quale a sua volta gestisce la trasmissione delle informazioni. Il leader è tale in quanto più degli altri membri riesce a influenzare le decisioni del gruppo anche senza essere formalmente investito di una particolare autorità. Probabilmente la capacità di dirigere il gruppo è determinata da una serie di qualità, che vanno da un maggiore quoziente di intelligenza a una maggiore capacità di intrattenere relazioni sociali a una maggiore fiducia in se stesso, ciò che comporta una maggiore rapidità e sicurezza nell’assumere decisioni. Possono essere caratteristiche influenti anche qualità fisiche quali l’aspetto piacevole e una maggiore altezza rispetto alla media del gruppo. Gli esperimenti In alcuni esperimenti ormai considerati classici e risalenti sulla leadership agli anni ’50, Robert Bales e Philip Slater hanno cercato di comprendere i motivi per i quali certe persone vengono individuate come leader dai membri del gruppo. Gli sperimentatori formarono piccoli gruppi di studenti universitari di sesso maschile. In ogni sessione di lavoro ciascun gruppo era invitato, dopo averne discusso per 40 minuti, a prendere una decisione collettiva rispetto a un certo problema. Al termine dell’incontro veniva chiesto ai partecipanti di fare una graduatoria rispetto alle seguenti domande: 1. chi ha proposto le idee migliori? 2. chi ha cercato di guidare la discussione in modo costruttivo? 3. chi è più simpatico? Dopo alcuni incontri venne posta la domanda conclusiva: 4. considerando tutte le sessioni di lavoro, quale membro del gruppo è emerso come leader? I risultati della ricerca evidenziarono l’esistenza di due diversi tipi di leadership, entrambi presenti nei piccoli grupIl leader strumentale pi: un leader di tipo strumentale, che propone iniziative e spinge i membri del gruppo a realizzarle, e un leader di ti90

5 - Gruppi e organizzazioni

po espressivo, che riesce a ridurre al minimo i conflitti nel Il leader espressivo gruppo e a creare solidarietà fra i membri. Bales e Slater hanno definito questi due tipi di leader rispettivamente: “lo specialista delle idee” e “lo specialista della simpatia”. Si è notato che in genere un gruppo appena formato tende a far coincidere i due tipi di leadership nella stessa persona. Ma ben presto, e inevitabilmente, questa persona, che dirige il lavoro del gruppo, perde popolarità e simpatia ed emerge un altro membro del gruppo che assume il ruolo di leader espressivo. Si è anche rilevato che i due leader interagiscono più tra loro che con il resto del gruppo, formando per lo più una coalizione implicita: si dividono in sostanza i compiti, essendo l’aspetto strumentale, rivolto a un obiettivo esterno, e quello espressivo al benessere emotivo interno, entrambi indispensabili alla vita e al successo del gruppo. Secondo Margaret Phillips, che ha tentato di generalizzare i risultati ottenuti da Bales e Slater, la duplicità della leadership è essenziale e rappresenta rispettivamente le caratteristiche della “paternità” (il leader strumentale) e della “maternità” (il leader espressivo). Ovviamente, ambedue i leader possono essere uomini o donne, dipende dal tipo di gruppo a cui appartengono. ■ Stili di leadership Diversi sono i modi di esercitare concretamente la leadership a livello strumentale. In genere si distinguono tre stili: il leader autoritario, che I leader autoritari, si limita a dare ordini; il leader democratico, che cerca il democratici consenso della maggioranza del gruppo sulle sue iniziative; e laissez-faire il leader laissez-faire, che si preoccupa meno di dirigere, ma più di far emergere dal gruppo le iniziative. Non esiste in astratto una leadership migliore, e tanto meno una leadership buona o una cattiva. Dipende dalle situazioni culturali, dalle circostanze e dai compiti che il gruppo deve svolgere. Per esempio, se è vero che i leader autoritari sono per lo più meno efficaci di quelli democratici nei paesi dell’Occidente industrializzato, poiché fanno sorgere conflitti che inceppano il funzionamento del gruppo, può essere vero che in culture non democratiche, nelle quali ci si attende come normale una leadership autoritaria, l’atteggiamento democratico del leader paralizzi l’attività del gruppo. D’altro canto, in situazioni d’emergenza un leader autoritario può risultare più efficace, poiché in tali situazioni conta molto la rapidità di decisione. Perciò, la leadership nell’esercito, e in genere nelle strutture di pronto intervento, è tipicamente autoritaria.

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5 - Gruppi e organizzazioni

I modelli di comunicazione: il cerchio e la ruota

La partecipazione alla soluzione dei problemi

Decisione e conflittualità 92

■ Comunicazione e struttura del gruppo Nei piccoli gruppi, ma per altri aspetti anche in quelli di grandi dimensioni, l’efficacia del potere decisionale si intreccia sia con la gestione delle comunicazioni interne, sia con la ripartizione dei ruoli. Harold Leavitt, studiando le direzioni dei flussi di informazione nei piccoli gruppi e gli effetti che questi flussi esercitano sulle decisioni, ha constatato che alcuni modelli di comunicazione sono più efficaci di altri. Un gruppo di cinque persone può attivare, secondo i risultati di queste ricerche, differenti tipi di modelli di circolazione dei messaggi, tra i quali i due diametralmente opposti sono il cerchio e la ruota. Nel modello a cerchio nessun membro del gruppo prevale e la comunicazione si trasmette dall’uno all’altro circolarmente. È il metodo di trasmissione che garantisce meno l’efficienza del gruppo. Al contrario, nella struttura a ruota, dove il leader si configura come il mozzo di una ruota i cui raggi sono le linee di comunicazione, i membri non comunicano tra loro, ma ciascuno di essi comunica con il leader. Pare sia questo il modo che permette maggiore efficienza. Si deve sempre comunque tenere presente che il modello di comunicazione più efficace varia a seconda delle caratteristiche del gruppo e del problema da risolvere. In ogni caso, si è costantemente notato che le persone che si trovano più coinvolte dai processi interni di comunicazione tendono a essere più soddisfatte e a mantenere più alto il proprio livello di partecipazione al gruppo rispetto a quelle che rimangono ai margini. Quando i problemi che il gruppo deve risolvere sono a soluzione obbligata, cioè hanno una sola soluzione esatta, il contributo di tutti i membri al processo di decisione migliora la probabilità di risolvere il problema, in particolare quando la ricerca della soluzione richiede competenze diversificate. Quando però i problemi da risolvere sono a soluzione libera, non hanno cioè una soluzione esatta e verificabile immediatamente, allora la decisione presa in comune può anche essere peggiore di quella presa in autonomia dal leader. In ogni caso, qualunque sia il meccanismo del processo decisionale, pare che spesso i gruppi siano disposti ad assumere decisioni più rischiose di quanto i loro membri sarebbero individualmente disposti ad accettare. Ciò avviene forse perché nel gruppo si determina, inconsapevolmente, una ripartizione di responsabilità, la qual cosa consente a ciascun membro di diminuire il senso di colpa che normalmente segue una decisione errata. Spesso le decisioni di gruppo avvengono dopo dibattiti, antagonismi e lacerazioni interne tra i membri. Dopo aver

5 - Gruppi e organizzazioni

raccolto e analizzato e valutato i dati relativi al problema da risolvere, il gruppo deve compiere una scelta. In questo momento si formano per lo più delle coalizioni e la maggioranza impone la sua opinione su una o più minoranze. Ciò può provocare tensioni e difficoltà; pertanto, a questo stadio del processo decisionale spesso ne segue un altro che corrisponde a uno sforzo generale teso a recuperare l’armonia e la solidarietà del gruppo.

5.5 Il gruppo di riferimento Ciascun individuo appartiene a un numero cospicuo di gruppi piccoli o grandi, dei quali condivide, a un diverso livello di intensità e partecipazione, le norme. Si tratta sempre di gruppi che esercitano una pressione che spinge i soggetti ad adeguarsi alle norme che li regolano. Anche se spesso l’orientamento normativo di un individuo è condizionato dall’integrazione nel proprio gruppo (o gruppo di appartenenza), non sempre i membri di un gruppo si percepiscono come “appartenenti” al gruppo, almeno a livello di vissuto psicologico. Talvolta l’appartenenza a un certo gruppo, soprattutto nel caso di grandi gruppi o di organizzazioni, dipende solo da una determinata situazione sociale, per cui può accadere che il membro di un gruppo si ispiri, per quanto riguarda il proprio ideale di vita e di comportamento, alle regole e ai valori di altri gruppi, detti “gruppi di riferimento”, di cui vorrebbe far parte. Ciò accade, per esempio, al laureando o al giovane assistente che assume l’atteggiamento del professore, o all’operaio capo reparto che si riferisce al ruolo dell’imprenditore. Si tratta per lo più del tentativo, compiuto dagli individui, di ridurre le distanze sociali assumendo, talvolta in modo esasperato, i caratteri del gruppo al quale si vorrebbe appartenere. Questa speranza di mobilità sociale può anche esprimersi, però, assumendo come gruppo di riferimento un gruppo distante nello spazio e nel tempo, o addirittura mai esistito, come un gruppo di eroi mitici. Ciò che conta è che il gruppo di riferimento costituisca un ideale alle cui norme e valori l’individuo commisura il proprio comportamento e di cui fa propri i fini, le opinioni e i pregiudizi. L’aspirazione a far parte di un gruppo di riferimento del quale non si è membri è stata definita da Merton “socializzazione anticipata”; essa si dà quando le norme del gruppo di riferimento orientano il comportamento del soggetto nella vita quotidiana. Oltre a questi gruppi di riferimento “positivi”, che possono essere, per ciascun individuo, più o meno numerosi a se-

Un gruppo ideale a cui si riferiscono valori e comportamenti

Gruppi di riferimento positivi 93

5 - Gruppi e organizzazioni

conda delle situazioni e dei momenti della vita, possono esiGruppi di riferimento stere gruppi di riferimento “negativi”, nei confronti dei negativi quali si sviluppa una situazione di conflitto. I loro valori sono considerati come ciò che non si deve perseguire e che si deve contrastare; in tal modo, per confronto si costruisce una misura del proprio comportamento sociale, con contronorme e contro-aspettative relative a quelle del gruppo di riferimento negativo. ■ “In-groups” e “out-groups” La rilevanza dei gruppi di riferimento positivi e negativi sottolineata da Merton prende le mosse da alcune teorie elaborate in precedenza sul fenomeno dei gruppi. Ai rilievi di George Herbert Mead sulla concezione dell’altro significativo, secondo cui l’individuo costruisce una concezione di se stesso sempre per via indiretta, attraverso la mediazione del gruppo a cui appartiene, Merton ha applicato la distinzione proposta da William Graham Sumner tra in-group (gruppo di noi) e out-group (gruppo dei loro). Sumner aveva sostenuto che l’identificazione col gruppo di appartenenza era facilitata dal ripudio dell’out-group, ritenuto estraneo e nemico. In relazione all’out-group, al rifiuto delle norme e dei valori che lo caratterizzano, l’in-group diventa parametro di riferimento per i comportamenti dei membri. Ma mentre Sumner intendeva soprattutto mostrare la relazione tra concordia interna al gruppo di appartenenza e ostilità nei confronti degli altri gruppi, Merton ha evidenziato che in certe condizioni gli out-group possono anche essere poli positivi di riferimento; la teoria dei gruppi di riferimento ha perciò la funzione di analizzare quali condizioni rendono l’outgroup un polo positivo oppure negativo di riferimento.

5.6 Il gruppo di pressione Gruppi di interesse

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I sociologi definiscono “gruppi di interesse” quelle collettività (che possono non essere gruppi in senso stretto, ma anche categorie professionali, raggruppamenti etnici, frazioni di classi sociali ecc.) che si mobilitano per difendere i propri specifici interessi nei confronti della società in generale o dello Stato e si organizzano in varie forme di associazione per la tutela e l’affermazione di tali interessi. Tra i gruppi di interesse (che possono essere finalizzati al perseguimento di obiettivi anche assai differenti), una posizione di rilievo occupa il “gruppo di pressione”. Questo presenta infatti la caratteristica specifica di perseguire gli interessi del gruppo intervenendo in vario modo sui centri di po-

5 - Gruppi e organizzazioni

tere, fino a esercitare un’azione di pressione, appunto, sulle istituzioni governative e su quelle politiche più in generale. Il suo scopo è quindi quello di influenzare il processo delle decisioni politiche, di volta in volta con minacce di sanzioni o promesse di servizi o ricompense. Il gruppo di Differenze tra gruppi pressione si distingue nettamente dal partito politico in di pressione e partiti quanto esso rappresenta interessi omogenei, quelli del “gruppo”, mentre il partito, almeno tendenzialmente, si riferisce a gruppi eterogenei, promuovendo l’integrazione e l’armonizzazione degli interessi della comunità dei cittadini. Inoltre, il partito ha come obiettivo primario l’assunzione di responsabilità pubbliche, mentre il gruppo di pressione agisce attraverso le autorità già costituite dai processi politici. L’esistenza dei gruppi di pressione è ormai legittimata nei sistemi politici complessi dell’Occidente industrializzato, e va probabilmente collegata con la complessità della società moderna e della sua struttura economica, nonché con la forte differenziazione degli interessi collettivi conseguente alla specializzazione nella produzione e distribuzione dei beni e dei servizi, fenomeni tutti, questi, a cui si sommano le differenziazioni etniche, religiose e culturali tipiche di una società laica e pluralista.

5.7 Gruppi e organizzazioni Nella società industrializzata contemporanea sono certa- Il predominio mente dominanti i gruppi secondari, cioè le organizza- dei grandi gruppi zioni impersonali di varia natura e le grandi burocrazie. secondari Ciò a causa di un complesso processo di trasformazione sociale che ha visto l’affermarsi della rivoluzione industriale, dell’urbanizzazione, delle società per azioni. I gruppi primari conservano comunque un peso rilevante, che in questi ultimi anni appare in costante crescita. Esercitano infatti un’influenza spesso cruciale nel collegare gli individui con le strutture formali e impersonali della società. I piccoli gruppi, dove i contatti tra i membri sono diretti, quando si collegano a gruppi di grandi dimensioni, o addirittura sorgono dentro di essi, aggiungono a questi flessibilità (aggirando rigidità burocratiche e interpretando le norme), risolvono il conflitto tra l’esigenza di contatti personali e quotidiani e il formalismo dell’organizzazione, soddisfano esigenze emotive che gruppi secondari funzionalmente orientati su determinati obiettivi non possono colmare. In realtà, le grandi istituzioni religiose, militari, educative e imprenditoriali per il loro funzionamento dipendono in gran parte dai piccoli gruppi primari. 95

5 - Gruppi e organizzazioni

L’organizzazione

Gruppi formali

Gruppi informali

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■ Gruppi formali e informali nelle organizzazioni Caratteri principali dei gruppi secondari sono, come si è detto, il numero elevato di membri, la relativa impersonalità delle relazioni tra essi, la regolamentazione oggettiva di tali relazioni, il fatto che il gruppo si costituisca per raggiungere un determinato scopo. L’organizzazione è quindi, in generale, un sistema operativo dove le persone interagiscono occupando ruoli formalizzati in vista di realizzare certi scopi e perciò, a seconda della sua complessità, si articola in un certo numero di gruppi che possiamo definire “gruppi formali”. Nel gruppo formale i ruoli dei membri non sono determinati dalle loro preferenze, bensì dalle strategie che l’organizzazione adotta per raggiungere i propri fini. Dunque, nel gruppo formale le relazioni tra i membri sono di tipo strettamente strumentale. Si è notato, però, dai risultati di indagini condotte già negli anni ’30 presso gli stabilimenti della Western Electric Company di Hawtorne presso Chicago, che la produttività del lavoro dipende più dalla soddisfazione dei bisogni sociali di ciascun membro del gruppo, cioè dallo sviluppo di relazioni sociali emotivamente gratificanti sul piano personale, che non dai meccanismi controllabili a livello organizzativo, come, per esempio, i premi di produzione. Ciò comporta che si sviluppino regolarmente, all’interno delle organizzazioni, anche gruppi informali, che posseggono caratteristiche simili a quelle dei gruppi primari (rapporto face to face, integrazione affettiva tra i membri, sentimento del “noi”). Sono solo condizioni esterne che differenziano i gruppi informali da quelli primari: i gruppi informali si costituiscono all’interno di strutture formalizzate, di ruoli, compiti e norme definiti in precedenza, che condizionano inevitabilmente le relazioni tra i membri. In casi particolari, quali le condizioni estreme di un esercito in guerra, o la convivenza in uno spazio limitato, come una nave, i gruppi informali assumono un ruolo decisivo nel funzionamento delle organizzazioni di cui fanno parte. George Homans, studiando i gruppi sociali a bordo di una piccola nave da guerra, ha evidenziato come, oltre ai gruppi relativi alle suddivisioni gerarchiche (ufficiali, sottufficiali, equipaggio), esistessero gruppi informali funzionali (cannonieri, macchinisti, radiotelegrafisti ecc.), ognuno dei quali si era dotato di un gergo specifico e di contrassegni propri e impiegava una serie di espressioni peggiorative nei confronti degli altri gruppi. Una famosa ricerca coordinata da Samuel E. Stouffer sul soldato americano ha studiato come si alterino le relazioni sociali nelle unità militari impegnate per lungo tempo in zone di guerra: gli ufficiali tendono, per esempio, a integrarsi con gruppi informali

5 - Gruppi e organizzazioni

di soldati, la coesione dei quali garantisce lealtà e disciplina al di là dell’osservanza di regole e ordini superiori. ■ Modelli di organizzazioni Nel mondo preindustriale, la strutturazione e lo sviluppo dei sistemi sociali si sono a lungo basati sulla consuetudine e sul costume, dal momento che le famiglie allargate e i più estesi rapporti di parentela riuscivano a provvedere ai bisogni essenziali, dall’alimentazione all’istruzione. Nel mondo contemporaneo industrializzato, invece, la soddisfazione di esigenze sempre più complesse richiede un notevole grado di coordinamento di attività e risorse, funzione assolta dalle organizzazioni. Per poter svolgere tale funzione le organizzazioni devono essere progettate, vale a dire dotate di strutture (che vanno dalle regole di funzionamento, divisione dei ruoli e del lavoro, agli edifici e agli ambienti fisici appositamente costruiti) che consentano di realizzarne al meglio gli scopi. Schemi di progettazione organizzativa sono stati formalizzati in alcuni famosi modelli, cioè in elaborazioni teoriche che dicono non solo che cosa è un’organizzazione, ma anche come questa dovrebbe essere per raggiungere determinate finalità. All’inizio del ’900, relativamente soprattutto alle organizza- La direzione zioni industriali, F.W. Taylor ha proposto il modello della “di- scientifica rezione scientifica”, che si fonda sulla rigorosa distinzione gerarchica tra le funzioni direttive e quelle esecutive, e implica la parcellizzazione, oltre che la specializzazione delle mansioni lavorative. L’efficienza dell’organizzazione dipende dalla precisa previsione del funzionamento dei suoi membri: i ruoli sono perfettamente definiti, il controllo è centralizzato, gli incentivi sono di carattere economico. Al taylorismo si contrappone nettamente il modello delle Le relazioni umane “relazioni umane”, nato dalle ricerche già ricordate compiute tra il 1927 e il 1932 a Hawtorne tra i dipendenti della Western Electric. Tali esperimenti mettevano in rilievo il peso esercitato sulla produttività dalla dimensione psicologica, anche se questo di per sé non escludeva la possibilità di organizzare scientificamente, cioè attraverso un’assoluta previsione di tutti i fattori, il lavoro. Secondo questo modello, si deve lasciar spazio agli aspetti non razionalizzabili dell’organizzazione del lavoro. Da qui lo sviluppo, attraverso la successiva ricerca sociologica, di un quadro teorico complesso, che comprende l’indagine tramite test sui sentimenti e sulle inclinazioni nella formazione e nell’attività dei gruppi, la funzione della leadership democratica, la tematica delle motivazioni nei gruppi e in generale l’analisi delle

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5 - Gruppi e organizzazioni

Il modello strutturalefunzionale

“relazioni” umane nell’organizzazione. In quest’ultima accezione, le “relazioni umane” comprendono lo studio dei processi di cooperazione, di comunicazione, di decisione e lo studio della “spontaneità sociale”, cioè di quei rapporti tra i membri del gruppo che non coincidono con le norme della struttura formale, ma che costituiscono un importante fattore di successo rispetto agli obiettivi. Più recentemente è emerso un ulteriore modello di organizzazione, che si può definire strutturale-funzionale, che raccoglie e sintetizza le precedenti proposte nel concetto di sistema strutturato e finalizzato. Questo modello deriva dagli studi di T. Parsons, per il quale le organizzazioni sono unità sociali deliberatamente costruite e ricostruite per raggiungere fini specifici. Adottando una visione dinamica delle loro finalità, le organizzazioni possono essere considerate come strutture che si autoconservano attraverso l’adattamento, l’integrazione e lo sviluppo, analogamente a quanto avviene per gli organismi viventi. Le organizzazioni sono dei sistemi cooperativi, un insieme di soggetti che interagiscono con l’ambiente in modo da porsi reciprocamente come strumenti per raggiungere una finalità comune. Solo tenendo conto di tale sistema vivente cooperativo, e della dinamica dei suoi bisogni, si possono analizzare la razionalità dell’insieme, il rapporto fra gli individui che lo compongono e le norme variabili che lo regolano.

5.8 La burocrazia

Definizione

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Molte organizzazioni moderne hanno natura burocratica. La parola burocrazia vuol dire, alla lettera, “potere dei funzionari”. Il termine venne in effetti usato inizialmente in riferimento al potere dei funzionari statali, ma in seguito fu esteso alle grandi organizzazioni in generale: oltre che enti statali, aziende commerciali, sindacati, università ecc. In questo senso lato si intende per burocrazia una struttura gerarchizzata che opera seguendo regole precise. Attualmente la parola burocrazia è quasi sinonimo di inefficienza ed evoca lunghe file agli sportelli, montagne di certificati inutili, regolamenti incomprensibili, risposte evasive o addirittura sbagliate, insomma la cinica indifferenza di una macchina impersonale nei confronti delle esigenze e dei bisogni dei cittadini. Eppure, la burocrazia è una struttura funzionale alla produzione di grandi quantità di lavoro e può essere considerata, almeno a livello di modello ideale, la forma più efficiente di organizzazione finora realizzata. Dal punto di vista storico la burocrazia si presenta come una

5 - Gruppi e organizzazioni

forma organizzativa che sorge quando la società deve gestire attività complesse (dalla riscossione delle tasse alla distribuzione dei servizi ecc.) e dunque soprattutto all’inizio dell’età moderna, allorché nascono gli stati nazionali, anche se sono esistite burocrazie nell’antico Egitto, nella Cina imperiale, nell’Impero romano. È però soprattutto nel ’700 e Rivoluzione nell’800, con la rivoluzione industriale, che la burocrazia si industriale afferma anche al di là dell’ambito dell’amministrazione sta- e burocrazia tale. Le grandi fabbriche richiedono sistemi sempre più complessi di gestione delle risorse, delle spese, della forza lavoro; si moltiplica così la tendenza a suddividere ogni attività in una serie di compiti limitati, costruendo macchine burocratiche che a loro volta generano burocrazia: per gestire un problema relativo al funzionamento di una struttura burocratica si creano nuove strutture burocratiche, avviando un processo tendenzialmente interminabile. ■ La burocrazia secondo Weber Si deve soprattutto al sociologo e filosofo Max Weber lo studio della burocrazia come fenomeno tipico dell’epoca moderna. Weber individua nel processo di razionalizzazione della società l’aspetto che qualifica più di ogni altro la modernità. Tale processo consiste in una trasformazione radicale, attraverso la quale i metodi di produzione, i rapporti sociali e le strutture culturali tradizionali, caratterizzati da modi spontanei e basati sulla pratica personale, vengono sostituiti da procedure sistematiche, precise e calcolate razionalmente. Ciò permette innanzitutto di applicare le regole in modo imparziale: mentre, per esempio, nel mondo premoderno la giustizia veniva direttamente amministrata dal capo o dagli anziani del villaggio, e in gran parte dipendeva dalle relazioni personali, nelle società moderne le leggi sono applicate secondo regole definite e in modo tendenzialmente impersonale. Del resto, questo processo di razionalizzazione si manifesta in quasi ogni aspetto della vita sociale: dal passaggio dalla bottega artigianale all’industria, dal piccolo negozio all’ipermercato e così via. Tutto ciò provoca secondo Weber un notevole aumento di produttività, insieme con una sorta di “disincanto” del mondo, che perde in creatività e bellezza quanto guadagna in efficienza. La burocrazia è appunto, per Weber, una forma particolarmente pervasiva, e per certi aspetti pericolosa, di tale processo di razionalizzazione, giacché essa implica direttamente la gestione non tanto di oggetti, macchine o procedure, quanto piuttosto di esseri umani, i quali devono essere organizzati per conseguire finalità specifiche. Per analizzare

Razionalità e imparzialità

Gestione di esseri umani

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5 - Gruppi e organizzazioni

Elementi fondamentali della burocrazia

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i tratti tipici della burocrazia, Weber utilizzò il concetto di “tipo ideale”, che è una rappresentazione delle caratteristiche essenziali di un fenomeno sociale costruita a partire dall’osservazione dei casi reali. Il tipo ideale di burocrazia è quindi un modello di burocrazia, che nella sua interezza non corrisponde precisamente ad alcuna situazione storica specifica, sempre suscettibile di variazioni accidentali, ma permette di confrontare forme di burocrazie diverse sulla base dei loro caratteri comuni. Il tipo ideale di burocrazia consta secondo Weber di alcuni elementi fondamentali. ● La netta divisione del lavoro, cioè la distribuzione delle attività necessarie agli scopi dell’organizzazione in modo fisso tra i diversi uffici. Ciò permette di impiegare sempre personale specializzato e di renderlo responsabile dello svolgimento del proprio lavoro. ● L’ordine gerarchico all’interno dell’organizzazione. Ogni ufficio è sottoposto alla supervisione di un ufficio superiore, ogni funzionario deve rendere conto del proprio lavoro a un superiore. L’ambito dell’autorità di ciascuno deve essere definito precisamente. ● Il funzionamento di tutte le operazioni è governato da un sistema di regole scritte, che ha lo scopo di assicurare l’uniformità dello svolgimento di ogni compito al di là della persona che effettivamente lo svolge. ● Il funzionario deve escludere i sentimenti personali (principio di impersonalità). Svolge il suo compito in modo imparziale e distaccato, considerando in modo impersonale i dipendenti e il pubblico. Non si ha a che fare con individui, ma con casi di lavoro. ● L’impiego nella burocrazia costituisce una carriera, è basato su qualifiche tecniche, su un sistema di promozioni generalmente prevedibile basato sia sul merito, sia sull’anzianità, ma non su favoritismi personali, è protetto dal licenziamento arbitrario. ● Il luogo di lavoro e generalmente tutto ciò che riguarda l’attività dell’ufficio (per esempio, documenti che vanno sempre conservati in originale o in copia) deve essere separato completamente dall’abitazione e in generale dalla sfera della vita privata del funzionario (separatezza della sfera pubblica). ● L’ufficio è una “professione”; per eseguirla sono richiesti un corso di studi determinato e prove di qualificazione prescritte come condizione preliminare per l’assunzione. ● Nessun membro dell’organizzazione deve possedere le risorse materiali con le quali opera. I lavoratori della burocrazia sono separati dal controllo dei loro mezzi di lavoro (separatezza dei beni materiali).

5 - Gruppi e organizzazioni BUROCRAZIA E SPERSONALIZZAZIONE “La burocratizzazione offre soprattutto la maggiore possibilità di attuazione del principio della divisione del lavoro amministrativo in base a criteri puramente oggettivi, con l’attribuzione dei singoli compiti a funzionari preparati in modo specialistico, che si qualificano sempre di più con il continuo esercizio. In questo caso, l’adempimento ‘oggettivo’ significa in primo luogo un adempimento ‘senza riguardo alla persona’ in base a regole prevedibili. ‘Senza riguardo alla persona’ è però anche la parola d’ordine del ‘mercato’, e in generale di ogni sforzo diretto a perseguire interessi economici. La realizzazione conseguente del potere burocratico comporta il livellamento dell’’onore’ di ceto, e quindi, se non viene contemporaneamente limitato il principio della libertà di mercato, il dominio universale della ‘situazione di classe’. Se tale conseguenza del potere burocratico non si è manifestata ovunque parallelamente alla misura della burocratizzazione, ciò ha la sua base nella diversità dei possibili princi-

pi di copertura del fabbisogno delle comunità politiche. Anche per la burocrazia moderna, questo secondo elemento – le ‘regole prevedibili’ – ha però un’importanza veramente predominante. La caratteristica della civiltà moderna, e specialmente la sua struttura tecnico-economica, esige proprio questa ‘calcolabilità’ dell’effetto. La burocrazia nel suo pieno sviluppo si trova anche, in senso specifico, sotto il principio della condotta sine ira ac studio (senza ira e amore). La sua specifica caratteristica, gradita al capitalismo, ne promuove lo sviluppo in modo tanto più perfetto quanto più essa si ‘disumanizza’, e ciò vuol dire che consegue la sua struttura propria, a essa attribuita come virtù, che comporta l’esclusione dell’amore e dell’odio, di tutti gli elementi affettivi puramente personali, in genere irrazionali e non calcolabili, nell’adempimento degli affari d’ufficio.” (Max Weber, Economia e società, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1961, vol. II; p. 289.)

Secondo Weber un’organizzazione di questo tipo è adatta a controllare in modo molto efficace la produttività di un grande numero di individui, in quanto essa elimina, o quantomeno limita, il capriccio individuale nelle decisioni, assicura complessivamente una buona competenza media dei lavoratori, riduce le possibilità di corruzione (sulla quale erano per lo più basati i sistemi più tradizionali di gestione dell’amministrazione) e riduce anche la prassi di ottenere un incarico per legami di parentela o amicizie personali.

L’efficacia della burocrazia nella società contemporanea

■ Gruppi informali e burocrazia L’analisi di Weber assegna un ruolo fondamentale alle relazioni formali e all’azione di gruppi formali nella struttura burocratica, al punto che un’organizzazione risulta tanto più burocratizzata quanto più i suoi compiti sono precisati in modo dettagliato, cioè quanto più è formalizzata. Per Weber, quindi, la burocrazia è un insieme strutturato di gruppi formali. Weber non aveva invece tenuto conto delle relazioni informali che si stabiliscono tra i piccoli gruppi all’interno della struttura burocratica. Ora è proprio la presenza e l’azione di questi gruppi informali che permette alla burocrazia

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5 - Gruppi e organizzazioni

Il gruppo informale garantisce la flessibilità

di operare con una certa flessibilità. In uno studio ormai classico sulla Dinamica della burocrazia, Peter M. Blau ha analizzato le relazioni informali all’interno di un ufficio statale, tra i cui compiti rientrava l’accertamento di violazioni delle imposte sul reddito. Blau notò che i funzionari non si rivolgevano, per i casi dubbi, ai diretti superiori, come previsto dalle regole, ma ai loro colleghi di pari livello, ottenendo così i consigli di cui avevano bisogno per affrontare i problemi, che venivano effettivamente risolti con particolare efficacia. In tal modo tra funzionari di pari livello si stabilivano rapporti di lealtà e fiducia reciproca tipici del gruppo primario, mentre il singolo funzionario riduceva l’ansia provocatagli dal lavoro solitario: in altri termini, il gruppo aveva sviluppato procedure informali che andavano a vantaggio dell’efficienza dell’organizzazione. In realtà, in tutte le burocrazie e a tutti i livelli si sviluppano reti informali, e anzi ricerche recenti hanno rilevato che la struttura formale della burocrazia genera sempre rapporti e pratiche informali. Basti pensare ai livelli di vertice, dove i legami personali hanno una fortissima rilevanza sull’assunzione delle decisioni. La burocrazia ha certamente bisogno di un certo grado di flessibilità e l’efficienza dei lavoratori è maggiore quando essi hanno la possibilità di svolgere le loro funzioni in modo informale, ciò che contribuisce a rendere più soddisfacente l’ambiente di lavoro. In generale, è tuttavia molto difficile, se non impossibile al di fuori dei casi concreti, stabilire se le procedure informali favoriscano o limitino l’efficienza delle strutture.

PER UN APPROFONDIMENTO R.K. Merton, Contributi alla teoria del comportamento secondo i gruppi di riferimento. Nuovi sviluppi della teoria dei gruppi di riferimento e della struttura sociale, in Teoria e struttura sociale, Il Mulino, Bologna 1992; pp. 363-623



È la formulazione classica della teoria dei gruppi di riferimento, che ancora oggi viene per lo più impiegata nella ricerca sociologica. ●

F. Mattioli, Introduzione alla sociologia dei gruppi, Seam, Roma 1998

Analizza i processi che all’interno dei gruppi influenzano il comportamento dei membri. ●

A. Etzioni, Sociologia dell’organizzazione, Il Mulino, Bologna 1967

È un testo ormai classico di teoria delle organizzazioni, con un’analisi critica delle principali teorie. ●

F. Ferraresi, A. Spreafico (a cura di), La burocrazia, Il Mulino, Bologna 1975

Un’antologia dei testi più importanti del dibattito teorico sulla burocrazia.

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5 - Gruppi e organizzazioni

SCHEMA RIASSUNTIVO IL PROBLEMA

Un gruppo è un insieme di persone ciascuna delle quali interagisce secondo modelli di comportamento allo scopo di conseguire determinati obiettivi, si ritiene membro del gruppo ed è considerata tale dagli altri.

GRUPPI PRIMARI

Il gruppo primario è caratterizzato da una interazione intensa, da un contatto diretto e da un numero piccolo di membri; il gruppo secondario è caratterizzato da scarsi contatti personali tra i membri, l’interazione tra i quali è relativa al conseguimento di un obiettivo specifico.

E SECONDARI

LA LEADERSHIP Il leader strumentale e il leader espressivo Lo stile della leadership

In ogni gruppo è sempre presente una qualche forma di stratificazione sociale, che si esprime in forme, più o meno esplicite, di dominio. Esistono sempre due figure di leader nei piccoli gruppi: il leader strumentale, che provvede al funzionamento del gruppo rispetto agli obiettivi da raggiungere, e il leader espressivo, che provvede a conservare il benessere emotivo tra i membri del gruppo. Lo stile della leadership può essere autoritario, democratico o permissivo. Ognuna di queste forme può risultare più efficace delle altre a seconda delle circostanze e dell’ambiente culturale in cui il gruppo si sviluppa.

IL GRUPPO DI RIFERIMENTO

L’azione individuale non è orientata soltanto dal gruppo al quale l’individuo appartiene (gruppo di appartenenza), ma anche dal gruppo, o dai gruppi, che incarna le sue aspirazioni (gruppo di riferimento).

IL GRUPPO DI PRESSIONE

Quando un gruppo nasce e si sviluppa per lo scopo preciso di difendere e propagandare gli interessi dei suoi membri, si parla di gruppo di interesse. Si dice gruppo di pressione il gruppo di interesse che agisce in vario modo sulle istituzioni politiche.

LE ORGANIZZAZIONI

Le organizzazioni sono grandi gruppi secondari che si costituiscono sulla base di considerazioni impersonali in vista dell’ottenimento di certi scopi e si danno norme precise per raggiungerli. Gruppi formali e informali All’interno delle organizzazioni esistono gruppi formali, di natura prettamente strumentale, e gruppi informali, che nascono per rispondere ai bisogni sociali degli individui all’interno delle organizzazioni, hanno caratteristiche simili a quelle dei gruppi primari e incidono notevolmente sui fondamenti formali (norme, sanzioni, status ecc.) delle organizzazioni. LA BUROCRAZIA

Il tipo più rilevante di organizzazione nel mondo moderno è la burocrazia, che è, secondo Max Weber, la gestione organizzata di esseri umani per conseguire finalità specifiche.

DOMANDE DI VERIFICA 1. Quali sono le caratteristiche fondamentali di un gruppo primario? 86b 2. Quali tipi di leader esistono e per quali motivi? 90b-91a 3. Quali sono i principali modelli di comunicazione nel gruppo primario? 92a 4. Qual è la differenza tra gruppo di riferimento positivo e gruppo di riferimento negativo? 93b-94a

5. Quali sono le principali funzioni dei gruppi nella società contemporanea? Par. 5.7 6. Quali sono i principali modelli di organizzazioni individuati dalla ricerca sociologica? 97-98a 7. Perché per Weber la burocrazia è un fenomeno tipico della modernità? 101b 8. Come agiscono i gruppi informali nelle strutture burocratiche? 102

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6 Conformismo e devianza Conformismo e devianza sono aspetti diversi del medesimo problema. All’interno di qualunque contesto sociale occorrono norme che disciplinino il comportamento individuale, ma la presenza di tali norme implica, inevitabilmente, che i comportamenti difformi dalla norma siano definiti devianti. L’atteggiamento delle società nei confronti della devianza si è venuto modificando nel corso del tempo anche grazie al contributo della ricerca sociologica. Per secoli si è pensato che l’unico modo di rispondere a fenomeni di devianza, di qualunque entità, fosse di tipo repressivo e di esclusione dalla comunità. Oggi il tentativo è di comprendere i comportamenti devianti anche all’interno delle condizioni sociali e culturali in cui si manifesta, senza limitarsi a isolare chi mostra una condotta deviante, ma tendendo a recuperarlo alla comunità.

6.1 Il problema Ladri, prostitute, individui deformi, assassini, ragazze-madri, portatori di handicap, malati mentali, truffatori, giovani delinquenti hanno costituito per secoli una categoria di esseri “inferiori”, relegata nelle diverse “corti dei miracoli”. Il termine devianza riporta alla mente immagini di sofferenza ed emarginazione presenti, seppure in modi diversi, all’interno di ogni società. Ma quali sono le origini di questo fenomeno? Perché si riscontra in società per altri aspetti tanto differenti? Esiste una funzionalità della devianza alla società stessa? Chi sono i devianti? Quali sono gli effetti degli strumenti di controllo sociale impiegati nei loro confronti?

6.2 Il ruolo della norma Già nei livelli più elementari di interazione sociale sono presenti regole, norme, leggi implicite o esplicite che regolano il comportamento degli individui. La società umana non potrebbe infatti sussistere se non esistessero dei canoni di comportamento che disciplinano l’azione dei soggetti. La sopravvivenza di una società, dunque, richiede che siano messe in atto strategie che consentano l’assimilazione delle norme proprie di quel contesto sociale e garantiscano l’adeguamento a esse da parte dei suoi membri. Va notato che il valore delle norme non è sempre lo stesso, così come l’eventuale violazione delle norme non ha sem104

6 - Conformismo e devianza

pre la stessa importanza. Attraversare la strada al di fuori delle strisce pedonali, per esempio, costituisce senz’altro un’infrazione, ma normalmente tale infrazione viene considerata meno grave del commettere, poniamo, un furto. Alcune norme richiedono un comporatamento tassativo (fermarsi al semaforo rosso), altre sono invece elastiche e consentono diversi comportamenti (per esempio, l’abbigliamento da indossare in discoteca può variare notevolmente). Normalmente si distingue tra due grandi raggruppamenti: mores (costumi) e folkways (usi). Con il termine folkways si indicano gli usi più consuetu- Folkways e mores dinari di una società, quelle che, se disattese, provocheranno una forte reazione di disapprovazione nei confronti del responsabile dell’infrazione. Esempi di mores, invece, sono le leggi che riguardano la proibizione dell’omicidio o dello stupro, o quelle che regolano la proprietà privata e la tutela dei minori. Si tratta in questo caso di norme essenziali su cui si fonda la coesione stessa della società e senza le quali si rischierebbe il dissolvimento della vita sociale. Non tutte le norme presenti all’interno di un raggruppamento umano hanno perciò la stessa natura: talvolta, infatti, si può incorrere in regole meno importanti, la cui violazione non implica ripercussioni particolarmente gravose per l’autore dell’infrazione. Per esempio, il fatto di andare al lavoro con un abito da sera costituisce un tipo di infrazione che probabilmente si tenderà a reprimere con lo scherno o il richiamo da parte degli altri, ma non ha le stesse conseguenze dell’andare al lavoro nudi. Nel primo caso si tratta infatti di violare un folkway, mentre nel secondo uno dei mores (si infrange, infatti, la morale sessuale). I casi di folkways sono molteplici: si mangia con le posate, si indossano scarpe uguali (e non, poniamo, una di un colore diverso da quello dell’altra), di mattina si saluta con la frase “buon giorno” e non “buona notte” ecc. Normalmente i sistemi legislativi perseguono chi infrange i mores, mentre l’infrazione dei folkways può generare scherno, disprezzo, ironia, ma anche riso o indifferenza. ■ Tipologie di relazione con le norme I rapporti che gli individui hanno nei confronti del sistema normativo, escludendo le peculiarità individuali, sono riducibili ad alcune tipologie essenziali che elenchiamo di seguito. Ortodossia. Indica un tipo di integrazione di dipendenza me- Ortodossia diante la quale il soggetto accetta un sistema normativo rigido, adeguandovisi totalmente e tendendo a riprodurlo fedel-

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6 - Conformismo e devianza

mente. L’alto livello di stabilità sociale, sostenuto sia dai comportamenti, sia dai valori da cui quelli derivano, generalmente viene messo in forte crisi da variazioni storiche impreviste. Routine Routine. È un tipo di integrazione passiva relativamente a strutture di tipo rigido in soggetti che riproducono automaticamente i modelli normativi dominanti. Questa situazione presenta scarsa adattabilità alle eventuali variazioni ambientali, ma assicura una notevole stabilità al sistema. Oltranzismo Oltranzismo. Il rapporto tra soggetto e struttura si presenta in modo conflittuale, senza però comportare uno stravolgimento alternativo della situazione, dal momento che l’atteggiamento del soggetto si configura come un tentativo di perfezionare la struttura stessa. Devianza sintomale Devianza sintomale. Indica un rapporto di contestazione passiva nei confronti di un sistema normativo assunto dall’individuo come privo di alternative. La contestazione del soggetto si manifesta in modo inconsapevole mediante disturbi fisici e psichici, suicidio, tossicodipendenza ecc. Conformismo Conformismo creativo. È un tipo di integrazione che si vecreativo rifica all’interno di strutture flessibili, là dove l’adesione alla struttura consente un massimo di adattabilità nel rapporto con i problemi che il sistema sociale deve di volta in volta risolvere. Adattabilità Adattabilità. In questo caso è assente la dimensione creativa propria della tipologia precedente; l’individuo appare comunque malleabile e si adatta di volta in volta alle esigenze della struttura. Riformismo Riformismo. È una tipologia di relazione che si verifica all’interno di strutture flessibili. In tali contesti, infatti, il comportamento volto al perfezionamento delle strutture stesse non assume il carattere dell’oltranzismo, ma si pone come trasformazione graduale che non crea generalmente eccessive tensioni. Nella prassi il riformismo dà origine a comportamenti assai simili a quelli del conformismo creativo. Eccentricità Eccentricità. È una tipologia di comportamento deviante non sorretto da valori alternativi consapevoli, né da prese di posizione attive, che si verifica all’interno di strutture flessibili. In queste situazioni, diversamente da quanto accade in contesti normativi rigidi, il comportamento eccentrico può manifestarsi senza provocare gravi conseguenze. Strumentalizzazione Strumentalizzazione. Si tratta di una relazione che si instaura qualora non vi sia corrispondenza tra valori e rappresentazioni del soggetto e valori e rappresentazioni delle strutture dominanti. La strumentalizzazione si verifica mediante l’utilizzo da parte del soggetto dell’insieme normativo per il perseguimento dei propri fini. 106

6 - Conformismo e devianza

Ritualismo formale. Tale relazione si manifesta in quei casi in cui, pur in assenza di una corrispondenza tra valori individuali e collettivi, l’individuo accetta passivamente il contesto normativo. In questi casi il tipo di adesione può risultare puramente apparente, con un livello di integrazione conseguentemente assai debole. Ribellione. In questo caso la non-corrispondenza tra valori individuali e collettivi trova espressione esplicita in un’azione di contestazione delle strutture. Ciò dà luogo a comportamenti di esplicita opposizione, il cui successo, a causa del carattere rigido delle strutture, appare assai incerto. Devianza reattiva. Riguarda la situazione in cui il soggetto è cosciente della discrepanza tra i propri valori e quelli del contesto normativo, ma manifesta la propria protesta non in modo esplicito, bensì con comportamenti reattivi come scarso rendimento, tensione latente, scontento ecc. Opportunismo. È un tipo di rapporto che esprime una noncorrispondenza tra soggetto e strutture, le quali vengono tuttavia utilizzate per il perseguimento di fini individuali. Diversamente dalla strumentalizzazione, tale comportamento si verifica all’interno di strutture flessibili. Indifferenza. È un insieme di comportamenti non partecipativi che si possono manifestare nell’accettazione di strutture flessibili. Conflitto. Si verifica nelle situazioni in cui la flessibilità delle strutture consente agli individui di esplicitare azioni miranti a trasformare i rapporti sociali e le stesse strutture. Assenteismo. Si tratta di una forma attenuata di conflitto possibile all’interno delle strutture flessibili. Può manifestarsi in forme non drammatiche di comportamento deviante.

Ritualismo formale

Ribellione

Devianza reattiva

Opportunismo

Indifferenza Conflitto Assenteismo

6.3 Il conformismo Di fronte alla miriade di norme che regolano la nostra vi- L’interiorizzazione ta sociale, la maggior parte delle persone tende a confor- delle norme sociali marsi, ad adattare cioè il proprio comportamento a quanto richiesto dall’interazione comunitaria. Questo adattamento alla norma avviene per lo più in modo “naturale”, in particolare grazie ai processi di socializzazione, mediante i quali l’individuo assimila e interiorizza le norme del contesto sociale. In tal modo, le regole non vengono percepite come qualcosa di imposto, ma come comportamenti normali. Attraverso la socializzazione, infatti, i bambini diventano in buona parte adulti il cui comportamento segue “naturalmente” le regole della società, senza che questa debba continuamente esercitare una pressione esterna. 107

6 - Conformismo e devianza CONFORMITÀ E NON CONFORMITÀ “La conformità è buona o cattiva? Presa nel suo più semplice significato, questa domanda è assurda, ma le parole portano con sé dei significati valutativi. [...] Essere chiamato conformista è in un certo qual modo come essere considerato una persona ‘inadeguata’: viene in mente una fila di impiegati della Madison Avenue con il loro vestito di flanella grigia, il cappello a tesa rialzata, la valigetta diplomatica, fatti tutti con lo stesso stampo e che dicono tutti assieme ‘Tiriamo su la bandiera e vediamo chi è che la saluta’. [...] Guardando le cose un po’ più da vicino, scor-

I difetti di socializzazione

giamo un’incoerenza tra il modo in cui la nos tra società sembra giudic are la conformità (gioco di squadra) e la non conformità (la devianza). [...] Il non conformista può essere lodato dagli storici o venire immortalato nei film o nella letteratura molto tempo dopo che la sua non conformità si è manifestata, ma non viene di solito molto stimato, sul momento, da quelle persone alle cui richieste si è rifiutato di aderire [...].” (Elliot Aronson, Conformità, in Elementi di psicologia sociale, Franco Angeli, Milano 1977; p. 28.)

Benché estremamente rilevante, tuttavia la socializzazione non è mai un processo perfetto. Ciò significa che all’interno di una pluralità di individui esisteranno sempre alcuni soggetti su cui il processo di socializzazione non è risultato efficace e che pertanto tenderanno a trasgredire le norme comuni. Inoltre, come si è già accennato nel Capitolo 3, la socializzazione deriva dall’interazione tra fattori sociali e le peculiarità soggettive del singolo individuo, ragione per cui, solitamente, il livello di conformità alla regola non è mai totale anche nei casi non ritenuti devianti.

6.4 Il controllo sociale

I tre tipi di controllo sociale

Isolamento 108

La consapevoleza della necessità di norme comuni e insieme dell’“imperfezione” della socializzazione fa sì che ogni raggruppamento umano metta in atto dei meccanismi tendenti a preservare la propria integrità mediante dei sistemi di controllo sociale. Questi sistemi possono essere di tre tipi: interni diretti, che si manifestano come senso di colpa, vergogna e imbarazzo da parte di chi viola una norma; interni indiretti, quali l’affetto e in generale l’attaccamento emotivo agli altri e il desiderio di non perdere la loro considerazione; esterni, comprendenti i diversi tipi di sorveglianza esercitati da individui a ciò preposti per scoraggiare la trasgressione delle norme comuni (si pensi all’azione di polizia e carabinieri, ai controlli stradali ecc.). Secondo Parsons tre sono i modelli essenziali di controllo sociale: l’isolamento, l’allontanamento e la riabilitazione. L’isolamento implica l’allontanamento del deviante dal gruppo senza che ciò preveda alcuna forma di riabilitazio-

6 - Conformismo e devianza

ne. L’allontanamento, invece, limita i contatti tra il devian- Allontanamento te e la società, ma per un periodo di tempo limitato, consentendo un eventuale reinserimento del soggetto all’interno del tessuto sociale. La riabilitazione, infine, è un pro- Riabilitazione cesso tendente a reintrodurre l’individuo deviante all’interno del contesto sociale a condizione che egli accetti il ruolo e le norme di comportamento assegnatigli (un caso di riabilitazione è la psicoterapia).

6.5 L’anomia Il concetto di anomia (letteralmente, assenza di norme) è stato introdotto da É. Durkheim nel 1893, nell’opera La divisione sociale del lavoro, per descrivere la situazione di disagio e profondo malessere che si verifica in una società qualora le norme sociali siano in conflitto, deboli o assenti. Già in Durkheim il termine presenta anche Dimensioni una dimensione soggettiva (Il suicidio, 1897): se da un la- oggettiva to l’anomia indica uno stato oggettivo connesso con un e soggettiva determinato contesto sociale, dall’altro lato essa si riferisce a una situazione psicologica di crisi, condizionata dal modo di essere del sistema sociale. In generale, dunque, il termine anomia connota uno stato di frustrazione e di mancanza di punti di riferimento e valori in cui possono trovarsi tanto gli individui quanto la società nel suo complesso. Ciò comporta una situazione di estrema gravità, sia per il soggetto, sia per la società, in cui viene a smarrirsi il legame tra individuo e collettività come conseguenza del venir meno degli elementi comuni, che consentivano l’unità del corpo sociale e del disorientamento dei singoli, che finiscono per trovarsi privi di qualsiasi orientamento e in balia dei propri stati soggettivi, con il conseguente disgregarsi del tessuto sociale. Il fatto è che le norme sociali hanno una funzione di rilievo nel regolare la vita individuale: esse consentono infatti al singolo di sapere cosa gli altri si aspettano da lui, consentendogli, a sua volta, LE SANZIONI “Le sanzioni possono essere positive (l’offerta di una ricompensa per la conformità) o negative (la punizione di un comportamento non conforme). Inoltre, possono essere formali o informali. Una sanzione formale si ha in presenza di un gruppo o di un agente il cui compito sia

quello di assicurare il rispetto di un determinato complesso di norme. Le sanzioni informali sono reazioni meno organizzate e più spontanee alla mancata conformità.” (A. Giddens, Sociologia, Il Mulino, Bologna 1991; p. 120.)

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6 - Conformismo e devianza

di formulare delle previsioni sul comportamento degli altri. Come vedremo nel paragrafo 6.6, già Durkheim, ma più recentemente Robert Merton, hanno elaborato una teoria secondo cui lo stato di anomia sarebbe una delle principali cause della devianza.

6.6 La devianza

Carattere culturale e storico della devianza

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Si parla di devianza, e conseguentemente di deviante, con riferimento a comportamenti mediante i quali individui o gruppi violano le norme di una società. Va precisato, però, che non tutti coloro che infrangono una qualsiasi regola possono essere considerati “devianti”, ma solo coloro che non rispettano norme e aspettative sociali importanti e che in conseguenza di ciò divengono oggetto di valutazione negativa da parte di un grande numero di persone. Da ciò discende che, proprio perché relativa al concetto di norma e in particolare di quanto viene ritenuto “norma importante”, la devianza non può essere considerata come qualcosa di “oggettivo”, ma è sempre tale solo all’interno di un contesto normativo e di conseguenza relativamente a un determinato sistema culturale. Così non solo i comportamenti considerati devianti presso un determinato popolo possono non esserlo presso un altro, ma anche all’interno della medesima società lo stesso comportamento può essere giudicato deviante in una determinata epoca e non esserlo in un’altra. L’analisi delle devianze nel passato o in altri contesti geografico-culturali genera spesso incredulità e stupore. Sembrano assurdi non solo i processi (e le conseguenti atroci persecuzioni) tardorinascimentali nei confronti delle streghe, ma, per rimanere su un terreno certamente più frivolo, anche la censura e lo sdegno nei confronti dei primi baci cinematografici. Le norme e i valori mutano col tempo, per cui comportamenti ritenuti devianti in un determinato periodo storico (come, per esempio, andare all’università in maglione e jeans prima del 1968), possono essere considerati anche a distanza di pochi anni del tutto normali. La devianza, sostiene Smelser, “è relativa alle aspettative sociali”, aspettative che a loro volta mutano e si modificano sulla base del divenire storico e sociale. Una definizione precisa di cosa sia oggettivamente deviante è pertanto poco plausibile. Tuttavia, nonostante i diversi contesti sociali, dagli studi condotti da Brown negli anni ’50 sembrerebbe che in tutte le culture esistano alcuni comportamenti (come l’incesto e lo stupro di una donna sposata) che vengono ritenuti unanimemente devianti. In ogni caso il concetto di devian-

6 - Conformismo e devianza

za implica una difformità dalle regole del gruppo, e conseguentemente la riprovazione da parte del gruppo stesso, e reazioni personali e collettive tendenti a isolare, correggere o curare chi compie l’infrazione. ■ Devianza e criminalità Molto spesso la sociologia della devianza si è occupata dei fenomeni criminali, generando in molti l’idea erronea di un’identificazione tra criminalità e devianza. In realtà, se è vero che la criminalità fa parte della devianza, i due fenomeni tuttavia non coincidono. La criminalità, infatti, si riferisce a quelle attività che infrangono non una qualsiasi norma, ma la legge e che sono soggette alle punizioni applicate dai magistrati in quanto rappresentanti dello stato. Il termine devianza è invece più ampio e comprensivo non solo dei fenomeni criminali, ma anche di altri comportamenti, come il suicidio, l’alcolismo, la malattia mentale ecc. Secondo S. Dinitz esistono cinque categorie di devianza e con- Le categorie seguentemente di devianti: di devianza ● la devianza come contrasto rispetto al prevalente modello fisico, fisiologico o intellettivo (è il caso degli individui deformi e dei minorati psichici); ● la devianza come infrazione delle norme religiose e ideologiche e che rifiuta l’ortodossia (è il caso degli eretici e dei dissidenti); ● la devianza come infrazione delle norme giuridiche (è il caso dei ladri e degli assassini); ● la devianza come comportamento difforme dalla definizione culturale di salute mentale (è il caso degli individui psicopatici e dei nevrotici); ● la devianza come rifiuto dei valori culturali dominanti (è il caso degli hippy o dei punk). Secondo questa definizione, quanto normalmente indicato col termine criminalità altro non è se non uno dei diversi aspetti di un fenomeno più ampio.

6.7 Le teorie sulla devianza Ma perché si verifica la devianza? Quali sono i motivi per cui determinati comportamenti si discostano dai valori comuni e subiscono le sanzioni inflitte ai devianti? La ricerca di una causa al fenomeno della devianza è antica: i primi tentativi di indagine sono stati di tipo biologico; da questi la ricerca sociologica si è nel tempo allontanata, concentrando la propria attenzione su fattori di ordine sociale e culturale. 111

6 - Conformismo e devianza

Devianza e struttura fisica secondo Sheldon

Un tentativo di spiegazione cromosomica

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■ La spiegazione biologica Anche se i tentativi compiuti in passato (da Broca prima e quindi da Lombroso) di rintracciare i segni della devianza in determinati caratteri somatici (per lo più del cranio), e di ritenere la tendenza criminale come carattere geneticamente appreso, sono attualmente ritenuti privi di qualsiasi fondamento scientifico, tuttavia anche recentemente la tesi secondo cui la criminalità sarebbe influenzata dalla costituzione biologica è stata ripetutamente sostenuta in varie forme (nel 1977 da Eysenk e ancor più recentemente dai lavori di Mednick e collaboratori, del 1987). Numerose ricerche si sono concentrate sull’analisi dell’albero genealogico di famosi criminali al fine di rintracciare elementi che consentissero di individuare l’ereditarietà del fenomeno; tuttavia, in questi studi non si riesce a mostrare l’incidenza che i fattori ambientali hanno avuto nella formazione della personalità degli individui in questione: bambini cresciuti in ambienti degradati e con modelli di comportamento che stimolavano il furto non avevano certo le stesse probabilità di integrazione di chi fosse vissuto in un ambiente agiato, con modelli tradizionali. Intorno agli anni ’40, William A. Sheldon riprese comunque l’idea dell’influenza biologica sulla devianza presentando tre tipi principali di struttura fisica umana: mesomorfi, ectomorfi ed endomorfi. Secondo Sheldon i mesomorfi, muscolosi e attivi, avevano maggiori probabilità di diventare criminali rispetto ai soggetti più magri (ectomorfi) o più grassi (endomorfi). Nonostante il successo suscitato da questa impostazione, rimane valida l’obiezione secondo cui la presenza di persone muscolose e attive tra i criminali non è sufficiente per dimostrare una correlazione tra caratteri fisici e tendenza criminale: gli individui del tipo muscoloso potevano essere attratti dall’attività delle bande criminali perché offriva loro l’opportunità di sfruttare le proprie doti atletiche. Secondo studi svolti verso la fine degli anni ’70, alcuni ricercatori (per esempio, Cowen) hanno ritenuto di poter collegare le tendenze criminali alla presenza di un particolare gruppo di cromosomi. Sembrava infatti che da indagini condotte tra i prigionieri nelle carceri di massima sicurezza si registrasse un’alta percentuale di individui nel cui patrimonio genetico risultava un cromosoma Y in più rispetto a quanto non si verifichi normalmente (1 su 100, rispetto a 1 su 1000 della popolazione complessiva). Questi dati non sono però stati confermati da ulteriori ricerche effettuate nella stessa direzione. Sono poi sorti numerosi dubbi sull’attendibilità di risultati condotti su campioni esigui e

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poco rappresentativi. Nonostante sia possibile che alcuni caratteri biologici possano creare una sorta di predisposizione a compiere determinati reati, tuttavia allo stato attuale non si registrano prove conclusive relativamente al rapporto diretto tra ereditarietà e azione criminale. ■ Le teorie psicologiche Riprendendo vari concetti del pensiero di Freud, diversi au- La devianza tori hanno cercato di spiegare i fenomeni criminali in ter- come psicopatia mini di “psicopatia”, “degenerazione” e in generale come legati a problemi di ordine psichico. Spesso questi studiosi hanno cercato di rintracciare la causa della devianza in situazioni familiari patogene relative all’infanzia del soggetto. In considerazione di ciò, il comportamento delinquenziale non sarebbe altro che l’espressione sintomatica delle tensioni provocate da situazioni familiari pregresse e mai superate dal soggetto. Nonostante la pluralità dei modelli interpretativi, la maggioranza delle indagini condotte in questo campo tende a ricondurre le radici della devianza a conflitti non risolti, a processi di identificazione psicologica, a meccanismi reattivi ecc. accaduti in particolari situazioni dell’infanzia e dell’adolescenza del soggetto. In questo senso si sono sviluppate numerose ricerche tendenti a verificare secondo quali modalità alcuni fattori come la carenza di cure materne (R. Spitz, J. Bowlby, E. Erikson), la disgregazione familiare (F.I. Nye, H. Rodman e P. Grams), l’assenza della figura paterna (R.G. Andry, T. Grygier), la disciplina familiare (W.Mc Cord, S. Glueck) possano contribuire alla formazione di una personalità asociale. ■ Anomia e devianza Sulla base della rielaborazione del concetto durkheimiano DEVIANZA E FIGURA MATERNA In un celebre studio effettuato nella “Child Guidance Clinic” di Londra, John Bowlby confrontò un gruppo di 44 ladri minorenni con un gruppo di 44 ragazzi di uguale età e sesso che presentavano disturbi di altro tipo. Dall’esame risultò che il 40% dei ladri aveva subìto nei primi cinque anni di vita un lungo e duraturo periodo di separazione dalla madre; mentre nel gruppo di controllo solo al 5% era capitata un’esperienza analoga. Risultava poi assai rilevante il rapporto tra la priva-

zione materna e l’indifferenza affettiva registrata nel gruppo dei ladri e assente in quello di controllo. Infine, Bowlby osservò la presenza di una correlazione anche tra gravità del comportamento antisociale e separazione materna: il 61% dei ladri recidivi aveva subìto una tale esperienza contro il 14% dei ladri occasionali. Secondo lo studioso, quanto più è precoce l’età in cui avviene la separazione dalla madre tanto maggiore sarà il danno subìto dal bambino.

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Il conflitto tra fini approvati e mezzi disponibili

di anomia, Robert Merton ha sviluppato una teoria che considera la devianza come un prodotto delle situazioni anomiche. Quando, sostiene Merton, all’interno della società sorge un conflitto tra fini socialmente approvati e mezzi socialmente approvati disponibili, nel soggetto si genera uno stato di conflitto che ne favorirà la devianza. In altre parole, viviamo società che proclamano la ricchezza e il successo economico come mete supreme, ma che al contempo offrono i mezzi legali per raggiungere tali mete solo a un’esigua minoranza. La spinta al successo e al benessere economico viene sentita dunque come necessità sociale, ma per gli individui esclusi dai mezzi socialmente approvati una tale meta risulta irraggiungibile. Il furto e la truffa si presentano allora come espedienti per ottenere quanto è reso costantemente desiderabile da parte della società. Analizzando il processo di socializzazione degli americani, Merton rileva come questo si fondi sul valore del successo e sulla denigrazione (mediante la definizione di “fallito”) di quanti non lo raggiungono. A livello individuale, tuttavia, il perseguimento del successo non viene accompagnato dalla capacità di accettare come unici strumenti possibili quelli ammessi dalla società, per cui quando tali strumenti risultano inaccessibili nel soggetto si viene a creare una situazione di profondo disagio (anomia). ■ Devianza e subculture Secondo diversi autori, per comprendere i fenomeni devianti è necessario esaminare i fattori culturali e di valori ai quali il deviante fa riferimento. I primi studi intrapresi in questa direzione furono quelli di Clifford Shaw e Henry

MERTON: TIPOLOGIE DI ADATTAMENTO INDIVIDUALE ALL’ANOMIA Secondo Robert Merton, di fronte a una situazione anomica gli individui reagiscono in base a modalità differenti, che egli raggruppa in cinque tipologie: conformità, innovazione, ritualismo, rinuncia, ribellione. Conformità Consiste nell’accettazione sia delle mete culturali, sia dei mezzi previsti dalla società per raggiungerle (è il caso degli yuppies). Innovazione Comporta che il soggetto aderisca alle mete indicate dalla società, ma non ai mezzi prescritti (è il caso di chi ruba, imbroglia ecc.).

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Ritualismo Implica che l’individuo rinunci alle mete, ma rimanga fedele alle norme sui mezzi (è il caso del burocrate ossessionato da procedure prive di significato). Rinuncia Comporta che l’individuo non segua più né i fini né i mezzi indicati dalla società (è il caso dei barboni e dei tossicodipendenti cronici). Ribellione È una reazione per cui mete e mezzi proposti dalla società vengono rifiutati e sostituiti con altri (è il caso del movimento degli hippy degli anni ‘60 del XX secolo, di certi gruppi politici ecc.)

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McKay, che nel 1929 effettuarono un’imponente ricerca sul tasso di delinquenza nella città di Chicago. Dopo aver suddiviso la città in cinque zone concentriche, Shaw e McKay calcolarono il rapporto tra il numero di coloro che avevano commesso reati e la popolazione totale della zona considerata. Dalla ricerca emergeva che il tasso di delinquenza così ottenuto diminuiva quanto più ci si allontanava dal centro cittadino. Qui risiedevano in prevalenza immigrati di diverse provenienze, mentre nelle aree semiperiferiche risiedevano gli operai specializzati e, in quelle ancora più esterne, i ceti medi. I ricercatori scoprirono inoltre che i tassi di delinquenza erano assai simili a quelli registrati a partire dal 1900, nonostante gli abitanti delle diverse zone e la stessa composizione etnica si fossero modificati nel corso degli anni. Secondo i due sociologi la spiegazione andava ricercata nei diversi contesti valoriali presenti nelle aree. In alcuni quartieri erano infatti presenti regole e valori favorevoli a certe forme di devianza, che venivano di volta in volta trasmessi ai nuovi membri del gruppo. Riprendendo questo tipo di analisi, Edwin Sutherland ha elaborato la teoria “dell’associazione differenziale”. In base a tale teoria si assume che “un individuo diventa delinquente a causa del prevalere di definizioni favorevoli alla violazione della legge rispetto a definizioni sfavorevoli a tale violazione”. Ciò significa che all’interno dei diversi gruppi della medesima società possono essere presenti sistemi culturali differenti, i quali incoraggiano comportamenti considerati devianti dalla società nel suo complesso. Va da sé che gli individui che crescono all’interno di questi sistemi risulteranno molto più predisposti alla devianza di chi appartiene a contesti sociali diversi. Le origini della devianza andrebbero pertanto ricercate nei processi di socializzazione che normalmente si verificano all’interno di piccoli gruppi e dei quali l’individuo finisce per accogliere norme e valori. Un fattore determinante nella formazione della personalità individuale sarebbe non tanto il contatto con le istituzioni astrattamente intese, quanto piuttosto il rapporto effettivo istituito dal soggetto con individui particolari, bande e gruppi. Un’implicazione di questa teoria è stata evidenziata dai sociologi Cohen e Nisbet, per i quali la devianza tenderebbe a diffondersi in quelle società (tipo le metropoli occidentali) in cui sono presenti diverse subculture. In questo caso, infatti, diversamente da quanto accade nelle piccole comunità, la disomogeneità culturale provocherebbe delle difficoltà nella trasmissione dei comportamenti approvati dalla società.

La teoria dell’associazione differenziale

Ruolo delle subculture

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È deviante il comportamento definito tale

Devianza primaria

■ “Labeling theory” Sinora abbiamo visto teorie che hanno concentrato l’attenzione su fattori biologici e psichici del deviante, oppure sul contesto socioculturale in cui il deviante vive. Secondo un’impostazione che risale a Howard Becker e che prende il nome di labeling theory (cioè teoria dell’etichettamento), il nucleo dei processi devianti è da rintracciare nelle norme che definiscono un determinato comportamento come lecito o deviato. In sé, sostiene Becker, nessun comportamento è deviante, ma lo diviene nel momento in cui esso viene definito tale. Il problema diviene allora quello di capire quali gruppi sociali definiscono qualcosa come lecito o deviante e per quali fini. L’analisi della devianza manifesta allora i rapporti di potere vigenti in una determinata società. È infatti chi detiene il potere reale a imporre la propria definizione di norma, etichettando chi non vi si attiene come outsider. Accade così che le regole di definizione della devianza e i contesti a cui esse si applicano vengono stabiliti per lo più dai ricchi per i poveri, dagli uomini per le donne, dagli anziani per i giovani e dalle maggioranze etniche per i gruppi minoritari. Molti bambini, per esempio, fanno cose come entrare nel giardino degli altri, rompere finestre, rubare frutta o marinare la scuola. Ma questi comportamenti vengono considerati diversamente a seconda del contesto in cui si verificano. Così il medesimo fatto può essere considerato una “monelleria” in un quartiere borghese, un sintomo di devianza in una zona proletaria. Questa diversa considerazione non rimane però priva di conseguenze: un individuo, una volta etichettato come delinquente, verrà considerato e trattato come tale, aumentando in tal modo la distanza con il resto della società. In proposito Edwin Lemert parla di devianza primaria. A questo primo momento della trasgressione segue, infatti, una vol-

LO STIGMA “Quando quell’estraneo è davanti a noi, può darsi che ci siano le prove che egli possiede un attributo che lo rende diverso dagli altri [...] un attributo meno desiderabile. Concludendo si può arrivare a giudicarlo come una persona cattiva, o pericolosa, o debole. Nella nostra mente, viene così declassato da persona completa [...] a persona segnata, screditata. Tale attributo

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è uno stigma. [...] Crediamo naturalmente che la persona con uno stigma non sia proprio un umano. Partendo da questa premessa, pratichiamo diverse specie di discriminazione, grazie alle quali gli riduciamo, con molta efficacia, anche se spesso inconsapevolmente, le possibilità di vita.” (E. Goffman, Stigma, l’identità negata, Laterza, Bari 1970; p. 17.)

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ta che il soggetto stesso ha accolto l’etichetta di deviante e si percepisce dunque come tale, la devianza secondaria, un Devianza secondaria atteggiamento, cioè, che radicalizza la propensione trasgressiva del soggetto in questione. Da queste teorie trae spunto una critica alle istituzioni preposte a controllare il comportamento deviante: in altri termini, riformatori e prigione avrebbero come effetto il passaggio dell’individuo alla devianza secondaria. Da qui l’affermazione di Edwin Lemert secondo cui non è la devianza a richiedere il controllo sociale, ma è il controllo sociale a generare la devianza. ■ La funzionalità della devianza Già Durkheim aveva sostenuto la funzionalità sociale della devianza. Essa servirebbe infatti a rafforzare la coscienza collettiva e in tal senso a sollecitare l’unità della società. Sulla base di questa impostazione si sono sviluppati numerosi studi. Così A.K. Cohen ha esaminato le modalità tramite le quali i comportamenti devianti facilitano il funzionamento della vita sociale. Cohen ritiene che qualora si verifichino casi di eccessiva burocratizzazione, e conseguentemente la formazione di apparati burocratici rigidi e non più rispondenti agli obiettivi per i quali erano stati creati, l’atteggiamento deviante, inteso come non-conformazione e infrazione alle regole, consente il recupero degli obiettivi altrimenti resi irraggiungibili dalla struttura burocratica stessa. Inoltre, qualora le norme siano in contrasto con determianti bisogni, la devianza riduce la frustrazione dei soggetti e limita l’affermazione delle forze tendenti a modificare queste stesse norme. Mediante la punizione dei comportamenti definiti devianti, la società riafferma le proprie regole precisandone aspetti che altrimenti resterebbero vaghi e al contempo fornisce un rinforzo a chi agisce in modo conforme. Spesso la devianza ha costituito la spia del disagio sociale e della presenza di un’organizzazione sociale difettosa: per esempio, le rivolte nelle carceri possono essere sintomatiche dell’arretratezza del sistema carcerario. In ogni caso, la definizione di un comportamento, o di un individuo, come deviante ha la conseguenza di sollecitare la coesione del gruppo. Il deviante viene infatti concepito come nemico sul quale la collettività concentra i sentimenti di frustrazione e insoddisfazione. Egli diviene in questo modo il capro espiatorio di tensioni indipendenti da se stesso. Questa nozione di capro espiatorio riferita a quel particolare tipo di deviante che è il criminale è stata sostenuta da D. Chapman, secondo cui il criminale è il capro espiatorio di una società che ha

Devianza come risposta a una società rigidamente burocratizzata

Il concetto di capro espiatorio

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6 - Conformismo e devianza

bisogno di trasferire su qualcosa di esterno l’aggressività generata dai suoi stessi sistemi.

6.8 La delinquenza giovanile Tra le tante manifestazioni della criminalità, un fenomeno particolarmente studiato è quello della delinquenza giovanile. Esiste infatti un rapporto diretto tra criminalità ed età giovanile: numerose ricerche dimostrano che la criminalità, dopo un picco di massima frequenza nell’adolescenza o nella prima età adulta, tende a diminuire e diviene quasi irrilevante dopo una certa età. Il fenomeno è stato riscontrato in diverse aree geografiche. Così, mentre negli USA studiosi come Sutherland e Mannheim hanno rilevato che l’età alla quale vengono commessi con maggior frequenza reati (in particolare quelli più gravi), si concentra tra i 18 e i 19 anni, da ricerche condotte in Norvegia è emerso che il picco di maggior criminalità si colloca tra i 13 e i 14 anni d’età. In Svezia è stato inoltre calcolato che la più alta probabilità di commettere reati si trova nella fascia d’età compresa fra 15 e 18 anni, seguita dalle fasce 18-21 e 21-25 anni. In Germania il picco di criminalità corrisponde alla fascia di età tra i 21 e i 25 anni, mentre in Francia si colloca corrispondenza dei 19 anni (J. Selosse). Ancora: in Gran Bretagna la metà dei colpevoli di infrazioni gravi sono giovani tra i 10 e i 21 anni, la maggior parte dei quali non supera i 14 anni; studi compiuti relativamente alla situazione italiana, infine, indicano che il picco della delinquenza si colloca tra i 18 e i 21 anni. Un altro aspetto della criminalità giovanile riguarda la tipologia dei reati. Sulla base dell’analisi delle curve di distribuzione dell’età dei delinquenti a seconda dei diversi reati commessi, emerge che i reati contro la proprietà riguardano individui più giovani rispetto ai reati contro la persona. A sostegno di ciò, W.A. Lunden ricorda che nel 1961 il 61% dei ladri d’auto arrestati negli USA aveva meno di 18 anni, mentre nella stessa fascia di età solo l’8,3% era stato condannato per omicidio. Diminuzione della criminalità giovanile

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■ La situazione italiana Dalle statistiche ufficiali si può osservare che in Italia, nel decennio tra il 1974 e il 1983, il numero dei minori denunciati per delitti rispetto ai quali l’autorità giudiziaria ha iniziato l’azione penale ha subìto una diminuzione. Si è infatti passati dai 24.687 minori denunciati nel 1974 ai 21.182 del 1983, con una punta massima di 25.570 nel 1978. Ora, sulla base

6 - Conformismo e devianza

del confronto di questi dati con quelli dei decenni precedenti, emerge che, mentre fino al 1961 si è avuto un costante aumento dei minori denunciati, nei decenni successivi il fenomeno ha mantenuto una relativa stabilità, con una leggera tendenza alla diminuzione. Relativamente alla tipologia dei reati commessi, si può inoltre rilevare che dal 1974 al 1983 è stata rilevata una progressiva diminuzione dei reati contro la persona e dei reati sessuali, mentre risulta incrementato il numero delle rapine. La relativa costanza del fenomeno non è tuttavia osservabile se si considerano separatamente le varie regioni italiane; in linea di massima si può dire che i reati contro la persona sono relativamente più frequenti nelle regioni meridionali, mentre i reati contro il patrimonio, e in particolare il furto, sono più frequenti nelle regioni settentrionali. Inoltre va osservato che i minori condannati rappresentano circa il 20% dei giudicati nel periodo 1977-1981 e che, nonostante negli ultimi anni sia diminuito il numero di denunce nei confronti di minori, sono tuttavia, sia pure relativamente, aumentate le condanne (si è passati dalle 3167 del 1977 alle 4068 del 1981). Analogamente a quanto accade per i crimini commessi dagli adulti, anche nel caso di quelli giovanili la percentuale femminile (5%) rimane assai più modesta di quella maschile; mentre per quanto riguarda il titolo di studio solo un’esigua minoranza ha conseguito un diploma di scuola media superiore: la maggior parte degli individui ha il diploma elementare e di media inferiore, o anche, per una percentuale considerevole, nessun titolo. Da una ricerca condotta da Fornari nel 1976 a Torino, emergeva che dei 125 minori detenuti nella Sezione di Custodia “Ferrante Aporti” buona parte apparteneva al proletariato e al sottoproletariato e, in un’alta percentuale di casi, proveniva da famiglie numerose. Molti inoltre erano nati nel Sud e nelle isole (56%), oppure nati nel Nord ma figli di immigrati meridionali. Infine, quasi la metà dei casi (40%) aveva subìto prima del provvedimento carcerario almeno un ricovero in un istituto assistenziale e quasi tutti avevano avuto esperienze lavorative precoci. Risultati assai vicini a quelli di Fornari risultano dalla ricerca di Carrer e Pallanca su 1032 minori sottoposti a procedimenti penali dal Tribunale per i Minori di Genova. Le ricerche risultano concordi nel rilevare che i ragazzi sottoposti a misure rieducative o penali sono caratterizzati da una deprivazione economica e culturale e appartengono ai gruppi sociali più sfavoriti.

Tipi di reato

Delinquenza giovanile e condizione sociale

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6 - Conformismo e devianza LA COSTRUZIONE SOCIALE DELLA DEVIANZA Poletti schematizza i diversi momenti del processo di formazione della devianza come segue: ● devianza primaria, ossia occasionale comportamento del soggetto considerato non conforme al modello di azione sociale; ● punizioni sociali; ● ulteriore possibile devianza primaria; ● superamento della soglia di tolleranza sociale (limite entro cui la società tol-

lera la non conformità senza ancora definirla devianza), che si concretizza nella stigmatizzazione del soggetto come deviante; ● devianza secondaria, ossia il rafforzamento della propria non conformità come reazione allo stigma ricevuto e alle punizioni subite. (F. Poletti, Le rappresentazioni sociali della delinquenza giovanile, La Nuova Italia, Firenze 1989.)

6.9 I malati mentali L’acquisizione del concetto di malattia mentale

La schizofrenia

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Un’altra faccia della devianza riguarda la malattia mentale, considerata un ambito di emarginazione per eccellenza. Solo da due secoli a questa parte si è acquisito il concetto di malattia in riferimento ai disturbi psichici, che venivano normalmente considerati come segni di possesso demoniaco e di degenerazione morale. La mutazione della considerazione del fenomeno ha generato tipologie diverse di intervento, che sono passate da forme di ghettizzazione coatta a tentativi di cura presso particolari strutture ospedaliere (gli ospedali psichiatrici). A proposito degli ospedali psichiatrici, a partire dagli anni ’70, si è venuto sviluppando un dibattito intorno all’efficacia di tali istituzioni e circa le modalità di intervento da esse adottate. Uno degli aspetti che colpiva i sociologi e gli psichiatri riformatori era il fatto che degli individui ospedalizzati (spesso in giovane età) solo una percentuale minima veniva dimessa. Erano piuttosto frequenti i casi di individui ospedalizzati bambini e dimessi defunti. ■ La diagnosi Gli psichiatri dividono i disturbi mentali in due grandi raggruppamenti: psicosi e nevrosi. Delle due categorie, quella considerata più grave è la prima, poiché comporta un disturbo del senso di realtà. La schizofrenia è la forma di psicosi più nota e coloro a cui è stata diagnosticata costituiscono una parte consistente dei pazienti degli ospedali psichiatrici. I sintomi della patologia riguardano scissione della personalità, allucinazioni (visive o acustiche), discorsi apparentemente illogici e sconnessi, manie di grandezza o di persecuzione e la mancanza di reattività alle situazioni e agli avvenimenti dell’ambiente circostante.

6 - Conformismo e devianza

A differenza delle psicosi, la maggior parte dei disturbi nevrotici non impedisce ai soggetti lo svolgimento di un’esistenza normale. La principale caratteristica comportamentale classificata come nevrosi sono le ossessioni; per esempio, si può verificare che una persona sia colta da un eccesso di ansia al momento di incontrare degli estranei, oppure al pensiero di attraversare una piazza, di uscire di casa ecc. I sintomi della nevrosi includono talvolta le attività compulsive (attività non necessarie, ma che l’idividuo si sente costretto a svolgere: per esempio, controllare venti volte di aver spento il gas, rifare il letto dieci volte ecc). In un ambito così delicato e problematico, le diagnosi risultano spesso ambigue e talvolta inesatte. Sulla base di questa ipotesi, D.L.Rosenhan condusse negli anni ’70 un celebre studio su diversi centri di cura di malattie mentali degli Stati Uniti, facendo presentare nei diversi ospedali del paese otto individui sani di mente che dichiaravano di soffrire di allucinazioni acustiche. Una volta introdotti all’interno della struttura, gli otto sperimentatori ripresero il comportamento normale, non manifestando alcun segno di squilibrio. Nonostante ciò, essi furono trattenuti per un tempo compreso da 7 a 22 giorni e dimessi con la diagnosi di “schizofrenia in regresso.”

Le nevrosi

L’ambiguità della diagnosi di malattia mentale

6.10 La deistituzionalizzazione Le critiche nei confronti di quelle che vennero definite “istituzioni totali”, sviluppatesi durante gli anni ’60, ebbero il merito di diffondere un atteggiamento critico nei confronti di strutture (quali ospedali psichiatrici e riformatori) del cui operato la maggior parte della gente era abituata a rimanere alLE TERAPIE I metodi fisici storicamente utilizzati nella terapia della schizofrenia comprendono la terapia dello shock insulinico, sostituito più tardi dall’elettroshock, e la lobotomia prefrontale (recisione chirurgica delle connessioni cerebrali alterate). L’elettroshock provoca nel paziente una breve ma intensa crisi convulsiva, seguita da una perdita della memoria che dura per settimane o mesi. Dopodiché ci sarebbe in teoria un ritorno alla normalità. Questa procedura, benché criticata e giudicata da molti un’inutile tortura, è ancora in uso. La lobotomia fu adot-

tata per la prima volta nel 1935 dal neurochirurgo portoghese Antonio Egas Monitz e diffusa poi in molti paesi. Per quanto i primi effetti sembrassero positivi, risultò presto evidente che molti pazienti mostravano un notevole deterioramento delle capacità intellettuali e sviluppavano una personalità apatica. Così, già a partire dagli anni ‘50, la tecnica venne rifiutata. Sempre negli stessi anni furono scoperti nuovi farmaci capaci di placare il comportamento schizofrenico. Attualmente le cure farmacologiche risultano in assoluto le più praticate.

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6 - Conformismo e devianza

Le istituzioni totali

l’oscuro. Così, a partire dagli anni ’70 nei principali paesi europei si è assistito a un profondo cambiamento nella concezione e nell’organizzazione degli istituti di custodia. Buona parte dei malati mentali e dei portatori di handicap fisico è stata dimessa e si è cercato di sostituire i riformatori e le carceri minorili con strutture più flessibili inserite nell’ambiente sociale. In altre parole si è preso atto delle critiche secondo cui le case di rieducazione, così come le prigioni e gli ospedali psichiatrici, di fronte a individui dal comportamento deviante non ne favorivano il reinserimento, ma si limitavano a renderne manifesto il ruolo. In questo modo, trattando il soggetto come diverso si instaura un rapporto che, sosteneva lo psichiatra Franco Basaglia, non ha nulla di terapeutico, dato che perpetua l’oggettivazione del paziente, fonte essa stessa di regressione e di malattia. Nel caso dei malati mentali, i lunghi periodi di ospedalizzazione rendono infatti il paziente incapace di reinserimento nell’ambiente originario. Gli individui vissuti a lungo all’interno di istituzioni totali (secondo la definizione di Goffman, luoghi di “residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società... – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato”), divengono essi stessi istituzionalizzati, ossia incapaci di concepire un modo di vita difforme da quello dell’istituzione. Il risultato dell’istituzione, invece della cura e della rieducazione, sarebbe pertanto quello di approfondire la discriminazione e il baratro tra individuo deviante e società.

PER UN APPROFONDIMENTO ●

F. Basaglia, L’istituzione negata, Einaudi, Torino 1968

È il manifesto del movimento dell’antipsichiatria italiana, da cui ha preso avvio la legge di riforma delle strutture psichiatriche. ●

G. Bettin, La devianza e il controllo sociale, CEDAM, Milano 2004

Sintesi dei diversi approcci sociologici al problema della devianza. ●

E. Goffman, Stigma, L’identità negata, Laterza, Bari 1970

Testo di riferimento ormai classico, analizza il problema della stigmatizzazione sociale come strumento di discriminazione. ●

E. Goffman, Asylums, Einaudi, Torino 1972

Accurata analisi delle “istituzioni totali”, ricco di esemplificazioni, ipotesi e schemi interpretativi. ●

W. Orsi, S. Battaglia, Disagio e devianza giovanile oggi, Franco Angeli, Milano 1990

Approfondisce le tematiche della devianza riferendole ai problemi giovanili.

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6 - Conformismo e devianza

SCHEMA RIASSUNTIVO IL PROBLEMA

Come nel caso dell’interazione personale, anche nel caso dei rapporti sociali è necessaria la presenza di un sistema normativo che regoli i comportamenti dei soggetti.

Tipi di norma

Le norme presenti in una società possono essere distinte in due grandi categorie. Il termine folkways (usi) indica l’insieme di norme più esplicitamente relative alle abitudini di una determinata cultura e ritenute meno importanti. Mores (costumi) sono le norme ritenute essenziali, la cui infrazione colpisce i valori fondamentali della comunità e rispetto a cui si prevedono gravi sanzioni.

IL CONTROLLO SOCIALE

Accanto ai processi di socializzazione, per tutelare il proprio sistema normativo la società ha elaborato diverse forme di controllo sociale: di tipo interno (diretto e indiretto) ed esterno (forze dell’ordine, polizia, vigili urbani ecc.). Secondo la catalogazione di Parsons, le tipologie di intervento adottate nei confronti dei devianti sono: l’isolamento, l’allontanamento e la riabilitazione.

DEVIANZA E CRIMINALITÀ

La devianza riguarda i comportamenti mediante i quali individui o gruppi violano le norme importanti di una società.

Tipi di devianza

Secondo S. Dinitz l’azione deviante può darsi come: contrasto rispetto al prevalente modello fisico, fisiologico o intellettivo (è il caso degli individui deformi e dei minorati psichici); infrazione delle norme religiose e ideologiche (è il caso degli eretici e dei dissidenti); infrazione delle norme giuridiche (è il caso dei ladri e degli assassini); comportamento difforme dalla definizione culturale di salute mentale (è il caso degli individui psicopatici e dei nevrotici); rifiuto dei valori culturali dominanti (è il caso dei bohémien e degli hippy).

Criminalità

La criminalità è dunque solo una delle tante manifestazioni della devianza.

Teorie sulla devianza

Teorie biologiche: sono le più antiche e ricercano le cause della devianza in fattori biologici ereditari. Dalle prime impostazioni (come quella di Lombroso), si è passati a elaborazioni piuttosto complesse (come quella di Cowen), basate sull’analisi dei cromosomi (nel caso specifico, Cowen rileva la presenza tra i criminali di un cromosoma Y in più rispetto agli altri individui). Teorie psicologiche: si rifanno principalmente alle teorie freudiane. Esse ricercano la causa della devianza in conflitti non risolti, processi di identificazione, meccanismi reattivi ecc., verificatisi in particolari situazioni dell’infanzia e dell’adolescenza. Teorie dell’anomia: sulla base della rielaborazione del concetto durkheimiano di anomia, Merton ha sviluppato una teoria che considera la devianza come effetto del conflitto, interno alla società, tra fini socialmente approvati e mezzi socialmente approvati disponibili. L’individuo, pur condividendo i valori e i fini della società, non sempre ha i mezzi per perseguirli; si crea allora una spaccatura tra individuo e sistema culturale. Teorie delle subculture: sottolineano, all’interno della medesima società, la presenza di differenti sistemi valoriali e culturali. La devianza non sarebbe dunque assoluta, ma relativa ad altri parametri di riferimento, diversi da quelli del gruppo di cui ci si sente parte. Teorie dell’etichettamento: si fondano sull’analisi di Beker secondo cui il nucleo dei processi devianti è da rintracciare nelle norme che definiscono un determinato comportamento lecito o deviato. È l’etichettamento di un comportamento

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6 - Conformismo e devianza segue

come deviante a renderlo tale. Lemert sostiene che, accanto alla devianza primaria (atto di trasgressione), vada considerata la devianza secondaria, ossia l’assunzione della definizione di sé come deviante da parte del soggetto. Teorie della funzionalità: secondo una prospettiva che risale a Durkheim (attualmente sostenuta da autori come A.K. Cohen), la devianza sarebbe funzionale al sistema sociale. Essa infatti rafforza la coscienza collettiva e, conseguentemente, l’unità della società. LA DELINQUENZA GIOVANILE

Un caso di comportamento deviante particolarmente significativo è quello della delinquenza giovanile. Da molte ricerche effettuate in diverse aree geografiche emerge che i picchi più alti di criminalità sono relativi proprio all’età giovanile. Le ricerche risultano concordi nel rilevare che i ragazzi sottoposti a misure rieducative o penali sono caratterizzati da una deprivazione economica e culturale e appartengono ai gruppi sociali più sfavoriti.

I MALATI MENTALI

Un’altra grande categoria di devianti è quella dei malati mentali. I disturbi psichici vengono solitamente distinti in nevrosi (disturbi meno gravi e che non compromettono in modo radicale l’esistenza normale) e psicosi (disturbi gravi). La diagnosi della malattia mentale, come rilevato dal celebre esperimento di Rosenhan, non è mai priva di ambiguità.

LA DEISTITUZIONALIZZAZIONE La ricerca sociologica si è occupata di questo ambito in particolare in relazione alla critica nei confronti delle “istituzioni totali”, sviluppatesi per tutti gli anni ‘60 del XX secolo. Ospedali psichiatrici, riformatori, strutture carcerarie risultavano infatti, secondo molti studiosi, centri che aumentavano la distanza tra soggetto e società e, lungi dall’agevolarlo, impedivano il processo di reinserimento. Gli individui vissuti a lungo in tali strutture divenivano col tempo persone istituzionalizzate, ossia incapaci di concepire un modo di vita difforme da quello dell’istituzione.

DOMANDE DI VERIFICA 1. Quali sono le differenza tra folkways e mores? 105 2. Cosa si intende col termine “anomia”? 109 3. Perché molti sociologi parlano di produzione sociale della devianza? 110 4. Qual è il significato delle espressioni devianza primaria e devianza secondaria? 116b-117a

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5. Che significato ha il termine “stigma” riferito agli individui devianti? 116b 6. In che senso si distinguono devianza e criminalità? 111 7. Cosa si intende con l’espressione “istituzione totale”? 122b

7 Classi e stratificazione sociale

Il concetto di stratificazione sociale serve a descrivere le diseguaglianze che sono presenti in qualsiasi società. La stratificazione è infatti concepibile come diseguaglianza strutturata fra raggruppamenti sociali differenti. In altri termini, le differenze sociali che si presentano secondo una scala gerarchica basata su diversi gradi di potere, di ricchezza, di prestigio, o altro, si depositano, secondo una metafora geologica, una sull’altra come strati di rocce diverse. Si possono distinguere tre sistemi fondamentali di stratificazione: casta, ceto e classe. Questi sistemi si trovano talora congiunti l’uno all’altro, anche se nelle società industrializzate contemporanee il concetto di classe sociale è certamente quello che permette di descrivere meglio la struttura della stratificazione.

7.1 Il problema L’organizzazione sociale implica gerarchie, status e ruoli differenti, che a loro volta comportano condizioni diverse di vita, talvolta anche radicali. Fenomeni come la povertà e la schiavitù, le differenze di genere, di età e di razza sono dipendenti da tali gerarchizzazioni. La ricerca sociale si interroga innanzi tutto su quale sia l’origine della gerarchia in questione e quale funzionalità essa esplichi nei confronti di determinati gruppi o della società nel suo insieme. Non solo, ma qualora si individuassero le condizioni sociali che generano le differenze sociali ci si potrebbe interrogare sull’inevitabilità di queste condizioni o vagliarne le possibili alternative.

7.2 Gli status La posizione sociale di un individuo o di un gruppo al- Definizione l’interno del sistema di relazioni che formano la struttura sociale viene definita come status. Il concetto di status è stato inizialmente impiegato in senso giuridico, allo scopo di indicare l’insieme dei diritti e dei doveri connessi a una determinata posizione sociale (di cittadino, di straniero, di schiavo ecc.). Questo significato è ripreso anche dalla sociologia ed è strettamente collegato al concetto di 125

7 - Classi e stratificazione sociale

Il ruolo

Status e prestigio

Status ascritti e acquisiti

ruolo, che viene appunto definito, per esempio, da B. Linton come l’aspetto dinamico o esecutivo dello status, oppure come l’insieme dei diritti e dei doveri connessi a un particolare status. Il termine status è usato anche per indicare il prestigio assegnato a ciascuna posizione nella stratificazione sociale e rinvia all’idea di gerarchia e di diseguaglianza sociale. Lo status implica dunque condizioni di vantaggio o di svantaggio relativo, che possono dipendere da un insieme di fattori (per esempio, prestigio, ricchezza, potere ecc.) Esistono status ascritti (presenti fin dalla nascita), come quelli relativi allo status familiare o al sesso, e status acquisiti (ottenuti durante l’esistenza dell’individuo), come quelli relativi alle prestazioni professionali. I sistemi di stratificazione possono essere chiusi o aperti. In un sistema chiuso i confini esistenti fra gli strati sono chiari e definiti e non è possibile a nessuno cambiare il proprio status. In un sistema aperto, invece, i confini fra gli strati sono flessibili. È possibile per gli individui cambiare il proprio status attraverso sforzi o insuccessi personali, per esempio guadagnando o perdendo denaro o sposandosi con una persona di diverso status.

7.3 I diversi tipi di stratificazione

Variabilità della stratificazione

Il criterio della nascita

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Si possono distinguere tre sistemi fondamentali di stratificazione: casta, ceto e classe. Questi sistemi si trovano talora congiunti l’uno all’altro. Ovviamente, i sistemi di stratificazione variano fortemente da una società all’altra e all’interno di una stessa società si evolvono nel tempo. Le differenze risultano evidenti, per esempio, mettendo a confronto la diseguaglianza sociale strutturata delle società occidentali moderne con quelle dell’Europa feudale o dell’antica Roma. ■ Le caste Tra le grandi differenziazioni sociali che si riferiscono allo spazio sociale, le caste occupano una posizione particolare, sia perché il criterio della differenziazione, che è la nascita, è un dato immodificabile, sia perché la casta è tra le forme dell’organizzazione sociale quella che presenta la più totale chiusura nei confronti del mondo esterno. Nella casta (il termine deriva dal portoghese casta, che significa razza oppure stirpe pura) non si può entrare e si esce solo con la “perdita della casta”, che è una forma di degradazione e di emarginazione. Il sistema di stratificazione sociale di tipo

7 - Classi e stratificazione sociale

chiuso è detto anche “sistema di casta”. Poiché la posizione sociale di un individuo è determinata esclusivamente dalla nascita, lo status di tale persona corrisponde ovviamente a quello dei suoi genitori. In questo caso si dice che lo status dell’individuo è “ascritto”, perché lo status viene attribuito al soggetto in forza di fattori sui quali egli non esercita alcun controllo. Caratteristica comune dei sistemi di casta è costituita dall’endogamia: agli individui di un gruppo è consentito sposarsi solo con individui dello stesso gruppo. L’endogamia contribuisce a conservare i confini fra gli strati sociali impedendo la confusione che nascerebbe qualora una persona avesse i propri natali da genitori appartenenti a caste diverse. La casta è perciò una forma di organizzazione sociale in base alla quale gli individui ottengono per nascita un determinato status e, in forza di prescrizioni ritualizzate sul piano religioso, restano per sempre appartenenti allo stesso strato sociale e devono adempiere determinate funzioni per la società. Il sistema di casta annulla praticamente la mobilità sociale e presenta un tipo di stratificazione nel quale la distanza sociale è spiccata. Le caste, a seconda del “valore” che è loro riconosciuto, sono inserite in una gerarchia. Spesso, se non sempre, sussiste fra le caste un legame di interdipendenza economica. I membri di una

Il sistema di casta

La caratteristica dell’endogamia

Un sistema senza mobilità

LE CASTE INDIANE “Uno dei più antichi e più complessi sistemi di stratificazione sociale è costituito dal sistema castale indiano. In esso si distinguono quattro gruppi principali (o varna): i Brahmini (la casta dei sacerdoti), gli Kshatriya (la casta dei guerrieri), i Vaishya (la casta dei mercanti) e gli Shudra (la casta dei contadini, servitori ecc.). Ciascuna di queste caste si suddivide in sottocaste (dette ati), il cui numero, attorno ai primi anni del ‘900, ammontava a circa 2300. [...] La stabilità di un sistema siffatto – che nonostante la differenziazione interna ha mantenuto per millenni la propria stratificazione in quattro caste principali – non sarebbe neppure ipotizzabile senza l’influsso determinante delle concezioni religiose. L’origine mitica delle caste è descritta nei Veda, soprattutto nel Libro di Manu, ove la si fa risalire alla creazione del mondo per opera di Brahma. Vi si legge

infatti che dalla sua bocca Brahma fece uscire i Brahmini, dalle sue braccia gli Kshatriya, dalle sue gambe i Vaishya e dai suoi piedi gli Shudra. La casta inferiore, nata dai piedi, è stata creata apposta per servire le altre. Questa legittimazione mitica ha tratto poi la propria forza di persuasione dalla teoria della reincarnazione e del karma. Stando a questa dottrina, ogni persona occupa nella società quella posizione concreta che ha meritato con le azioni e le opere prestate in una vita anteriore. Solo con l’accettazione della posizione che gli spetta per nascita l’individuo può crearsi un karma favorevole e, con esso, la possibilità di una vita successiva che sia migliore dell’attuale.” (P. Meyer, Diseguaglianza sociale, in Introduzione alla sociologia, a cura di H. Reimann, Il Mulino, Bologna 1996; pp. 60-62.)

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7 - Classi e stratificazione sociale

casta si considerano – e vengono anche considerati dai membri delle altre caste – come elementi relativamente omogenei di un sistema, le cui singole parti si distinguono reciprocamente a seconda della collocazione e del rango. Un tipico sistema di casta a base religiosa è quello indiano, ma anche discriminazioni razziali, quali, per esempio, l’apartheid che vigeva in Sudafrica, possono, secondo alcuni sociologi, dar vita a una stratificazione sociale di casta. Definizione

I ceti in Europa

Ceti e mobilità sociale

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■ I ceti Secondo Max Weber il ceto indica il rango dell’individuo e dello strato al quale egli appartiene e soprattutto lo “stile di vita” che unisce tutti gli appartenenti al medesimo strato. Ciò che caratterizza il ceto è quindi lo stile di vita. Esso costituisce una piattaforma comune di comportamenti e di modi di pensare, a loro volta molto spesso garantiti da leggi e da convenzioni. La presenza dei ceti ha caratterizzato la storia dell’Europa dal periodo feudale all’età moderna. In generale, il ceto superiore era composto dall’aristocrazia e dalla piccola nobiltà. Il clero formava un altro ceto, con uno status inferiore ma con importanti privilegi di varia natura. Altri ceti fondamentali sono stati la grande e media borghesia cittadina, la piccola borghesia, che nel corso soprattutto del XIX secolo si differenziò nettamente per stile di vita dalla grande borghesia e dalla media borghesia delle professioni liberali, e i contadini. In ognuno di questi ceti erano rilevabili, all’interno delle varie società e in determinati periodi storici, atteggiamenti, abitudini, valori, forme di educazione e di trasmissione culturale, regole di comportamento – in sintesi, “stili di vita” – piuttosto omogenei, anche se all’interno di ciascun ceto esistevano rilevanti differenze di ricchezza e di responsabilità politiche e sociali. Diversamente da quanto avviene nel caso delle caste, tra i ceti sono tollerati sia un certo grado di mobilità individuale, sia la possibilità di contrarre matrimoni con membri di altri ceti. Così, per esempio, nel Medioevo l’abilità nelle armi o l’ingresso in un ordine religioso poteva consentire l’accesso a un ceto diverso da quello di nascita, mentre nell’età moderna i borghesi potevano comprare titoli nobiliari. Anche se è possibile operare ulteriori distinzioni entro la stratificazione sociale basata sui ceti (per esempio, fra ceti di nascita e ceti professionali), la cosa ha scarsa rilevanza ai fini della ricerca sociologica, poiché nella società contemporanea dell’Occidente industrializzato l’organizzazione per ceti è venuta progressivamente scomparendo. Oggi è infatti difficile – considerata l’enorme complessificazione dei

7 - Classi e stratificazione sociale

rapporti sociali e l’elevata mobilità sociale – riuscire ancora a isolare e a definire lo “stile di vita” di un determinato ceto professionale o nobiliare. ■ Le classi Le classi sono quegli insiemi di individui che occupano una posizione simile nella struttura economico-sociale, o adempiono a una stessa funzione nell’organizzazione sociale e sono in grado, in determinate situazioni, di agire unitariamente. Lo stretto legame con il controllo delle risorse materiali e dei mezzi di produzione differenzia le classi dagli altri sistemi di stratificazione sociale fin qui considerati, nei quali risultano in genere più importanti i fattori non-economici, come, per esempio, la religione nel caso del sistema di caste indiano, o il valore militare e la nascita nel caso del ceto nobiliare del Medioevo. Ancora nell’età moderna un nobile poteva essere più povero di un borghese, eppure conservare un proprio “stile di vita” e un potere sociale differente. Inoltre, i sistemi di classe sono di solito più fluidi degli altri tipi di stratificazione e i confini tra le classi sono per lo più sfumati e incerti. Non esistono restrizioni formali al matrimonio fra membri appartenenti a classi diverse e la mobilità sociale è piuttosto diffusa. Inoltre, mentre nelle caste e nei ceti le diseguaglianze si esprimono soprattutto nelle relazioni personali di obbligo e dovere tra inferiore e superiore, nelle classi, invece, le diseguaglianze si fondano soprattutto su legami di natura impersonale, quali il reddito e le condizioni di lavoro. Il sistema di classe è quindi un tipo di sistema relativamente aperto, in cui lo status è almeno in parte acquisito, poiché esso dipende in qualche misura da fattori sui quali il soggetto esercita un certo controllo. Non bisogna peraltro dimenticare che nelle società in cui vigono soprattutto le distinzioni di classe esiste pur sempre anche una quota consistente di status predefiniti. Anche nei sistemi più aperti, infatti, capita con frequenza che un certo numero di individui resti intrappolato in una certa classe a causa di caratteristiche, come il colore della pelle o la povertà dei genitori, sulle quali egli non esercita alcun controllo. I sistemi di classe si riscontrano in quasi tutte le società, sia agricole sia industriali. Nelle società agricole, come quelle che esistevano nell’Europa feudale e che esistono ancor oggi in alcune parti del mondo, troviamo generalmente due classi principali, una molto ricca costituita dai proprietari terrieri e una molto povera di contadini. Nelle società industriali esistono per lo più tre classi fondamentali: una classe

Definizione

Classi e mobilità sociale

Le classi nelle società agricole e nelle società industriali

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7 - Classi e stratificazione sociale IL CONCETTO DI CLASSE “Le diverse classi e sottoclassi non sono divise da steccati: alcune zone sono terra di nessuno ed esiste una certa mobilità sociale, che presumibilmente è tanto maggiore quanto più rapido è il processo di sviluppo economico. [...] Se si considera la distribuzione del reddito per classe o sottoclasse, il valore di massima frequenza (moda) decresce passando dalla classe economicamente più elevata alle altre; ma occorre tener presente che, per certi aspetti, può esservi comunanza d’interessi e quindi solidarietà fra gli strati più elevati o, al contrario, fra quelli più bassi delle diverse classi e sottoclassi, dove il con-

cetto di alto o basso è riferito naturalmente al reddito. Tuttavia, da un punto di vista più ampio di quello strettamente economico si debbono considerare i legami dovuti al tipo di cultura, al modo di vita e all’ambiente. […] Per distinguere le diverse classi sociali il reddito è dunque un elemento importante, ma non tanto per il suo livello, quanto per il modo attraverso cui si ottiene; tale modo si riflette nell’ambiente e nel tipo di cultura ed è condizionato dalla storia precedente della società di cui le classi costituiscono parti integranti”. (P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 1974; pp. 25-26.)

superiore di élite (possidenti, cioè chi vive delle rendite delle sue proprietà fondiarie e immobiliari, imprenditori e dirigenti d’alto livello, cioè coloro che possiedono o controllano direttamente le risorse produttive), una classe media abbastanza numerosa di professionisti e impiegati delle categorie superiori e una classe ancora più numerosa di operai dell’industria e di lavoratori dell’agricoltura e del terziario con scarsa qualificazione.

La rivoluzione industriale

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■ Dai ceti alle classi L’impulso decisivo alla dissoluzione delle società aristocratiche europee, fondate sul rapporto con la proprietà terriera e sull’appartenenza per nascita alla nobiltà, fu dato verso la metà del ’700 dalla rivoluzione industriale, che impose il sistema manifatturiero e un vertiginoso aumento della produzione di beni materiali. La rapida diffusione e il dinamismo del sistema di produzione industriale fondato sul controllo del capitale monetario condussero a una ridefinizione delle posizioni e dei valori sociali preesistenti. Se nella società di ceti il potere delle élite si basava soprattutto sul rango sociale ereditato dalla famiglia, l’avvento del sistema industriale ridusse ogni differenza sociale a fattori economici e all’effettivo controllo personale della “ricchezza”. In questo modo nella società industriale e capitalistica la complessa stratificazione per ceti si polarizzò drasticamente nell’antagonismo tra due classi fondamentali: la borghesia, detentrice della ricchezza e dei mezzi di produzione, e il proletariato, che traeva il suo sostentamento dalla vendita della sua forza lavoro. Questo antagonismo, entro il

7 - Classi e stratificazione sociale

quale si iscrivevano i rapporti delle classi intermedie, ha dominato per quasi due secoli la struttura delle società industriali, costituendone la fondamentale condizione dinamica. Negli ultimi decenni si è affermata nei paesi più avanzati la Le classi cosiddetta “società postindustriale”: il settore industriale, nella società pur mantenendo altissimi livelli produttivi, ha perso il suo “postindustriale” predominio e la gran parte delle forze lavoro, del reddito nazionale e dei rapporti economici politici e sociali sono collegati al settore terziario (servizi pubblici, commercio, finanza, assistenza socio-sanitaria, ricerca scientifica, educazione, impiego del tempo libero). Nella nuova società si stanno ridisegnando le classi e i loro fondamenti, sempre più legati all’accesso alle conoscenze. Emerge così un’élite di “lavoratori della conoscenza”, di contro alla massa degli esclusi dai saperi necessari alla gestione sempre più complessa dei processi economici, sociali e politici.

7.4 Le teorie sulla stratificazione I sociologi si sono interrogati a lungo sulle cause essenziali della stratificazione sociale e hanno elaborato alcune importanti teorie basate su dati storico-economici e sull’analisi delle dinamiche sociali. Si sono sviluppate così le teorie del conflitto (per le quali la stratificazione sociale non svolge una funzione vitale indispensabile alla sopravvivenza del sistema sociale), a cui si oppongono le teorie funzionaliste, secondo le quali, al contrario, l’esistenza delle diseguaglianze sociali è un fatto non solo inevitabile, ma necessario al buon funzionamento della società. Più recentemente si sono sviluppate sia una teoria evolutiva (che cerca di combinare elementi del funzionalismo con elementi delle teorie del conflitto per spiegare i motivi per cui alcuni tipi di società siano più stratificati di altri), sia una teoria reputazionale, che legge la stratificazione in relazione alla dinamica dei riconoscimenti sociali.

Del conflitto Funzionaliste

Evolutiva Reputazionale

■ Le teorie del conflitto I teorici del conflitto ritengono che le diseguaglianze esistano perché i gruppi che se ne avvantaggiano sono in grado di difendere la propria posizione sociale dagli attacchi degli altri gruppi, in una situazione di conflitto continuo. Ispiratore di questa tendenza teorica è stato Karl Marx. Secondo Marx la base delle classi risiede nella sfera eco- La concezione nomica e dipende dal modo di produzione (che include la di Marx tecnologia, la divisione del lavoro, le relazioni tra gli individui e il sistema produttivo), il quale a sua volta determina

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7 - Classi e stratificazione sociale

Le classi nel capitalismo

Il conflitto di classe

l’organizzazione di ogni struttura sociale in una certa fase storica. Per esempio, il feudalesimo è una fase in cui l’agricoltura costituisce la base dell’organizzazione economica: un nobile possiede terreni che vengono coltivati da servi della gleba. Nella fase capitalistica, chi possiede i mezzi di produzione corrisponde salari ai lavoratori, i quali usano il danaro ricevuto per acquistare i beni e i servizi di cui hanno bisogno. In ogni tipo di organizzazione economica una classe dominante controlla i mezzi di produzione (le fabbriche, le materie prime ecc.) e, conseguentemente, la vita di un’altra classe sociale: in una società di tipo feudale i nobili controllano i servi della gleba; in una società capitalistica la borghesia (che possiede i mezzi di produzione) controlla il proletariato (gli operai). In particolare, la società industriale e borghese è caratterizzata dal contrasto fra capitale e lavoro salariato, ossia fra proletariato e borghesia. I proprietari dei mezzi di produzione (i capitalisti) sfruttano i lavoratori salariati e, in misura crescente, anche altri gruppi sociali, costituitisi per effetto della dinamica del sistema industriale. Come conseguenza di ciò, il contrasto interno alla società capitalistica viene polarizzandosi come conflitto fra due classi antagoniste. Va precisato che il concetto di classe in Marx si riferisce a raggruppamenti omogenei di persone, vale a dire che hanno lo stesso livello di istruzione, lo stesso livello di consumo, le stesse abitudini sociali, gli stessi valori e le stesse credenze, la stessa concezione della vita e del mondo. Le classi sono potenzialmente dei soggetti collettivi che vivono e pensano in modo simile e che costituiscono delle forze sociali, degli attori storici, capaci in certe condizioni di condurre un’azione unitaria. Il concetto marxiano di classe presuppone che nella società esistano delle diseguaglianze oggettive e che queste abbiano un’origine economica. Per Marx la stratificazione di classe non rinvia all’opinione soggettiva degli individui circa il loro status sociale, ma a condizioni materiali che consentono ad

IL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA 1848 “La storia di tutta la società, svoltasi fin qui, è storia delle lotte delle classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, maestri capi delle arti e artigiani addetti alla campagna, in una parola, oppressi ed oppressori, stettero continuamente in contrasto tra loro e sostennero una lotta non mai inter-

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rotta, a volta palese a volte dissimulata; una lotta che è sempre finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la totale rovina delle classi in contesa.” (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Newton Compton, Roma 1994; p. 19.)

7 - Classi e stratificazione sociale

alcuni, rispetto ad altri, di avere un maggiore accesso ai beni materiali, culturali e sociali in genere. Da ciò discende che Lo sfruttamento la struttura fondamentale del rapporto tra classi dominanti e subordinate in qualsiasi fase della storia è costituita dallo sfruttamento delle une sulle altre, mentre la forma assunta da questo sfruttamento è determinata dal modo di produzione prevalente in una data società. ■ La stratificazione sociale secondo Max Weber Weber ritiene che le fonti delle diseguaglianze e i principi fondamentali della stratificazione sociale vadano ricercati non solo nell’ambito dell’economia, ma anche nella sfera della cultura e in quella della politica. Mentre nella sfera economica gli individui si uniscono sulla base di interessi materiali comuni, formando le classi sociali, nella sfera della cultura essi seguono comuni interessi ideali e danno origine ai ceti; nella sfera politica, infine, gli individui si associano in partiti o in gruppi di potere per il controllo dell’apparato di dominio. Dunque, secondo Weber non solo la classe, ma anche il ceto e il gruppo di dominio sono fattori essenziali per la comprensione dei processi di stratificazione. Il concetto di ceto, e più in particolare di condizione di ceto acquista perciò in Weber fondamentale importanza. Un ceto è composto da individui che hanno in comune un medesimo stile di vita (parlano in modo simile, scelgono lo stesso tipo di abbigliamento, frequentano le stesse feste, passano, per esempio, il fine settimana in barca a vela o davanti al televisore, o bevono lo stesso tipo di liquori ecc.) ed è quindi espressione del grado di partecipazione individuale al “prestigio” sociale. Questo prestigio, però, non è dato solo dalla ricchezza, cioè dal possesso di beni materiali, ma anche da altri fattori. Per esempio, i docenti universitari, i sacerdoti e alcuni funzionari statali possono godere di maggior prestigio del proprietario di un cinema o di un bar, anche se percepiscono un reddito talvolta inferiore rispetto a questi. Un capomafia può essere molto ricco, ma il suo prestigio sociale, al di fuori del suo gruppo di appartenenza, è nullo. Secondo Weber, solo la condizione di ceto può assicurare una comune base all’agire. L’attenzione va quindi posta sui fattori anche psicologici, che determinano sia le condizioni dell’agire individuale, sia la suddivisione stessa delle persone in gruppi sociali di diverso rango e prestigio; ciò, beninteso, senza trascurare la struttura economica, che resta pur sempre la base per la comprensione della stratificazione sociale. L’elemento costitutivo dell’essere sociale non è insomma per Weber semplicemente l’appartenenza di classe,

Fattori economici, culturali e politici

La condizione di ceto

Condizione di ceto e azione sociale

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7 - Classi e stratificazione sociale

quanto piuttosto l’insieme di tradizioni, abitudini e idee che ogni individuo, quale appartenente a un ceto, si vede indicate come fondamento del proprio agire. Ciò, d’altra parte, non significa che la condizione di ceto vada pensata come indipendente da quella di classe, giacché condizione di ceto e condizione di classe stanno fra loro in un rapporto che si gioca a più livelli.

Le classi come strumento della motivazione sociale

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■ La teoria funzionalista Il dibattito sulla stratificazione sociale da parte dei teorici funzionalisti ha avuto inizio nel 1945, con la pubblicazione dell’articolo di K. Davis e W.E. Moore Some principles of stratification. La loro tesi di fondo è che “la principale necessità funzionale che spiega la presenza universale della stratificazione è precisamente l’esigenza sentita da ogni società di collocare e motivare gli individui nella struttura sociale”. Ciò significa che l’esistenza della stratificazione sociale è per i funzionalisti un fatto non solo inevitabile, ma anche necessario al buon funzionamento della società stessa, poiché questa svolge delle “funzioni vitali”, indispensabili alla sopravvivenza del sistema sociale. All’interno di ogni società esistono alcune mansioni che richiedono speciali capacità (per esempio, gli stregoni o i sacerdoti in alcuni sistemi sociali, oppure la burocrazia in altri ecc.) e che hanno una maggiore “importanza funzionale” di altre, perché appunto contribuiscono più di altre all’equilibrio e al funzionamento del sistema sociale nel suo insieme. A ciò si aggiunga che non solo esistono poche persone dotate dei requisiti necessari per svolgere le mansioni indicate sopra, ma che queste stesse mansioni possono essere ricoperte a prezzo di un oneroso addestramento (con i relativi sacrifici). Ora, per spingere alcune persone capaci a compiere tali sacrifici, bisogna che a queste persone siano corrisposte delle ricompense “materiali” e “morali” adeguate; occorre cioè fare in modo che le posizioni (funzionalmente importanti) che queste persone occuperanno godano di un livello di reddito e di prestigio maggiore rispetto alle altre. Secondo questa prospettiva la stratificazione si struttura come un’offerta differenziale di varie posizioni, ciascuna dotata di una propria misura di prestigio, la quale fa sì che gli individui, a seconda della posizione in cui si collocano, diventino socialmente diseguali. Il sistema dei valori sociali diventa così anche il fondamento del sistema della stratificazione, in quanto contiene al suo interno anche i criteri per la definizione e l’assegnazione delle posizioni sociali.

7 - Classi e stratificazione sociale ■ La teoria evolutiva L’approccio evolutivo proposto da Gerhard Lenski cerca di combinare elementi propri sia della teoria del conflitto, sia della teoria funzionalista, nel tentativo di spiegare perché alcuni tipi di società siano più stratificati di altri. A parere di Lenski, hanno ragione i funzionalisti quando sostengono che le risorse fondamentali per la sopravvivenza di una società vengono prodotte e conservate collocando nei ruoli sociali più importanti gli individui più dotati. Ma Lenski sostiene anche che le risorse che eccedono le necessità della sopravvivenza sono distribuite attraverso un conflitto tra gruppi in competizione. Per esemplificare come ciò avvenga Lenski ricostruisce l’evoluzione della stratificazione sociale mostrando come le forme che la stratificazione assume dipendano dai mezzi di produzione economica. Nel passaggio storico dalle società di caccia-raccolta a quelle orticole a quelle pastorali e infine a quelle agricole, si assiste a un progressivo accumulo di surplus produttivo. Emerge quindi progressivamente un’élite dominante che avanza pretese su queste risorse eccedenti e per effetto di ciò la società si divide in strati che hanno un accesso differenziato alla ricchezza e alle altre ricompense. Le rigide divisioni iniziali, tipiche delle società agricole, vengono successivamente indebolite dall’industrializzazione, la quale non solo richiede una forza lavoro qualificata e mobile, ma esige anche, in linea di principio, che non sussistano impedimenti all’utilizzazione dei talenti individuali. Nelle prime fasi dell’industrializzazione, quando i contadini si trasformano in forza lavoro operaia urbana, le differenze tra ricchi e poveri sono profonde, situazione, questa, ancor oggi prevalente nei paesi meno industrializzati. Nelle società industriali avanzate, invece, si sviluppano numerose nuove occupazioni e il tasso di mobilità sociale cresce: diminuiscono così le dimensioni della classe inferiore, mentre la classe media si allarga rapidamente, perché tutta la società partecipa, sia pure in misura diseguale, alla divisione della crescente ricchezza prodotta dall’industrializzazione. Con ciò gli Stati diventano più democratici e nuove istituzioni sociali, come l’assistenza pubblica e la tassazione progressiva, limitano l’eccesso di diseguaglianze nella ricchezza. La teoria di Lenski non è rigida: variabili indipendenti, come le minacce provenienti dall’esterno o il ruolo particolare di certi leader, possono influenzare il modo in cui i sistemi di stratificazione si sviluppano. Comunque, egli pensa che in generale la tendenza di lungo periodo di tutte le società industriali porti a una diminuzione delle dise-

Sintesi fra teoria del conflitto e teoria funzionalista

L’evoluzione della stratificazione sociale

Le variabili esterne della stratificazione

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7 - Classi e stratificazione sociale

guaglianze sociali. La teoria di Lenski spiega inoltre come mai le diseguaglianze siano spesso più marcate di quanto occorra perché esse siano funzionali: una volta che la stratificazione si è installata in una società, infatti, i gruppi privilegiati si valgono dei loro privilegi per acquisirne altri.

La collocazione di classe è il prestigio che viene attribuito

Potere, privilegio, prestigio

■ La teoria reputazionale Tutte le teorie esaminate finora sostengono che la stratificazione sociale sia il risultato degli aspetti economici e sociali della realtà. La teoria di W. Lloyd Warner è invece basata sul metodo reputazionale, per il quale l’appartenenza di una persona a una particolare classe è determinata in base alla posizione che alla persona è assegnata da altri membri della comunità. Altri ricercatori si sono concentrati sui motivi del prestigio accordato a particolari occupazioni. Nel 1977, analizzando 85 studi sul prestigio delle varie occupazioni provenienti da 53 paesi, Donald J. Treiman trasse la conclusione che i criteri di valutazione del prestigio relativo al lavoro sono molto simili in tutto il mondo e che un’elevata divisione del lavoro è molto simile in tutte le società. A causa di tale elevata divisione del lavoro, alcune persone possiedono e controllano un maggior numero di risorse rispetto ad altre, dando luogo a gerarchie di potere. Ora, in tutte le società al potere sono associati dei privilegi: le persone che occupano posizioni di rilievo godono spesso di influenza politica, che possono usare più o meno direttamente a loro vantaggio. Perciò, poiché al potere e al privilegio è dovunque attribuito un alto valore, le attività che forniscono potere e privilegi godono di un elevato prestigio in tutte le società.

7.3 La diseguaglianza La stratificazione comporta la diseguaglianza

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La nozione di stratificazione sociale è, come si è accennato sopra, strettamente connessa a quella di diseguaglianza. Dire che la società è stratificata significa, infatti, che in essa si manifestano differenze di potere, di ricchezza, di reddito, di cultura, di speranze di vita, di stili di vita e così via, ossia nella società vigono diverse forme di diseguaglianza. Analizzare la stratificazione sociale vuol dire quindi anche studiare come l’appartenenza a una casta, a un ceto, ma soprattutto, nel mondo industrializzato, a una classe sociale influenzi la vita degli individui e dei gruppi. In tutte le società individui e gruppi tendono a distinguersi gli uni dagli altri e a trattare in modo diverso coloro che hanno certe caratteristiche rispetto a coloro che ne sono privi. I fattori in base ai quali vengono operate queste distinzioni

7 - Classi e stratificazione sociale

possono essere di ordine biologico, economico o culturale. Così, alcune società sottolineano la distinzione tra vecchi e giovani o tra maschi e femmine; altre accentuano la differenza di religione, oppure il colore della pelle, o la forza fisica, o il livello di istruzione. Il risultato di tutte queste differenziazioni è la diseguaglianza sociale, cioè la differenziazione degli accessi alle ricompense sociali (come il denaro, il potere, il prestigio). La diseguaglianza sociale pare essere un fenomeno comune a tutte le società conosciute, grandi o piccole, presenti o passate. Ma, mentre in alcune società più semplici la diseguaglianza sociale può essere causata esclusivamente dalle diverse caratteristiche individuali (forza, abilità, intelligenza, bellezza ecc.), nelle società più articolate sono interi strati sociali ad avere uno status superiore o inferiore rispetto ad altri. Questa diseguaglianza, insita nella struttura sociale, viene trasmessa da una generazione all’altra.

I fattori della diseguaglianza

Diseguaglianza individuale e di strato sociale

■ La povertà La povertà può essere definita innanzi tutto in termini di reddito: in tal caso si distingue la povertà come privazione assoluta, cioè come mancanza dei mezzi per soddisfare i bisogni fondamentali, dalla povertà come privazione relativa, cioè come incapacità di mantenere il tenore di vita medio della società a cui si appartiene. I bisogni fondamentali riguardano le cure mediche, l’alimentazione, l’abitazione e il vestiario. Per lo più, l’analisi che intende la povertà come privazione assoluta si limita a sta- Povertà assoluta bilire il livello di reddito annuale al di sotto del quale un individuo o una famiglia mancano dei mezzi necessari alla sopravvivenza. Negli Stati Uniti, assumendo come base il reddito medio familiare del 1981 di 22 388 dollari, la Social Security Administration ha fissato nel 1982 la linea (o soglia) della povertà di una famiglia non rurale composta da quattro persone al livello di 9 287 dollari. Tale soglia viene determinata calcolando come reddito minimo di sussistenza il costo di un’alimentazione sufficiente in “condizioni di emergenza o temporanee” e quindi moltiplicando la cifra per tre, in modo da coprire gli altri bisogni essenziali. Il calcolo viene corretto in relazione alle dimensioni della famiglia, del luogo di residenza e di altri fattori. Per la famiglie contadine, per esempio, la soglia è bassa, perché si presume che spendano meno per l’abitazione e che producano una parte dei cibi che consumano. Il concetto di povertà relativa introduce nel calcolo altre va- Povertà relativa riabili che si riferiscono al normale tenore di vita della so-

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7 - Classi e stratificazione sociale

Fattori non economici della povertà

cietà di riferimento. Per esempio, la fornitura domestica dell’energia elettrica si può considerare come non assolutamente necessaria per la maggioranza della popolazione mondiale che non ne dispone, mentre è ritenuta una necessità nelle società industrializzate. Il reddito che segnala la povertà viene cioè determinato relativamente agli altri redditi e non alla capacità assoluta di acquisto. Tale approccio implica che il problema della povertà sia da leggersi insieme a quello della stratificazione sociale. Ma la povertà non è valutabile soltanto in relazione al reddito. Una teoria multidimensionale della povertà deve porre, accanto alla dimensione economica, altre variabili solo in parte dipendenti dal reddito, quali le condizioni di salute, di istruzione, di lavoro, le relazioni familiari ecc., e deve altresì tener conto della marginalità, vale a dire di quel particolare complesso di relazioni che i gruppi sociali più deboli sviluppano come autodifesa dando luogo al sorgere della “cultura della povertà”.

■ La schiavitù La forma estrema La schiavitù è la forma estrema di diseguaglianza, in cui aldella diseguaglianza cuni individui sono privati della libertà personale e divengono proprietà di altri individui. Le condizioni legali del possesso di schiavi variano storicamente in modo considerevole da una società all’altra. Talora gli schiavi erano privati di quasi tutti i diritti sanciti dalla legge (come nel Sud degli Stati Uniti fino al 1865), in altri casi ricoprivano una posizione sociale più simile a quella del servo, come nell’Europa medievale. Variabili sono pure i tipi d’occupazione storicamente destinati agli schiavi. Per esempio, a Roma e nella Grecia antica la massa degli schiavi era impiegata in lavori particolarmente faticosi; una minoranza, tuttavia, occupava posizioni di responsabilità, tanto che alcuni schiavi erano istruiti e lavoravano come amministratori pubblici, mentre molti altri erano addestrati per lavori artigianali specializzati. Gli appartenenti a queste due ultime categorie giungevano spesso ad accumulare ricchezze e a emanciparsi, diventando a loro volta proprietari di schiavi. Le forme tradizionali di schiavitù si sono rivelate, al confronto con le economie moderne, scarsamente produttive, comportando un controllo costante e costoso e l’uso di metodi brutali di punizione, causa di ricorrenti tensioni e rivolte. In quasi tutte le società contemporanee la schiavitù è illegale. Nelle stesse società industriali e postindustriali stanno peraltro emerNuove forme gendo, e costituiscono un notevole problema sociale, nuodi schiavitù ve forme di schiavitù di fatto. È il caso delle prostitute che

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7 - Classi e stratificazione sociale

dai paesi africani e da quelli dell’Est europeo emigrano nei paesi occidentali, ed è anche il caso dei bambini e ragazzi emigrati dalle stesse zone che vengono sfruttati per la raccolta di elemosina, o ancora dei bambini e ragazzi che nei paesi asiatici, ma non solo in quelli, vengono fatti lavorare nelle fabbriche in condizioni pratiche di schiavitù. ■ Razzismo e xenofobia Il termine “razzismo” indica, in senso lato, un atteggiamento di intolleranza sociale che porta un individuo o un gruppo a non accettare l’esistenza di individui e gruppi con modi di pensare e di agire differenti dai propri. Se questa forma di intolleranza è stata spesso presente nella storia dell’umanità, è invece relativamente recente e specifica della cultura occidentale una concezione biologica del razzismo, basata sul pregiudizio pseudoscientifico che esistano razze “superiori” e razze “inferiori”. Al razzismo in genere si accompagna la xenofobia. Questa è un’esasperazione dell’etnocentrismo, cioè della propensione a ritenere che gli usi e i costumi della propria comunità (i cui membri possono anche appartenere a razze diverse) siano superiori a quelli di qualsiasi altra e si concreta in un atteggiamento di forte avversione verso i membri delle altre comunità. Intolleranza, razzismo e xenofobia si sono variamente intrecciati nella storia degli ultimi secoli, avendo come radice comune il pregiudizio di una qualche “superiorità” del proprio gruppo d’appartenenza rispetto agli altri (“superiorità” della propria religione, del proprio sistema politico, di razza, etnia o, semplicemente, di sistema di vita). Tale pregiudizio fondamentale può avere cause storico-economiche (per esempio, il pregiudizio etnico e razziale è stato funzionale al dominio coloniale e perciò propagandato a giustificazione dello sfruttamento delle popolazioni dominate); cause socio-economiche, per cui in momenti di difficoltà, soprattutto quando particolari ceti sociali subiscono situazioni di frustrazione, determinati gruppi umani variamente individuabili (ebrei, neri, omosessuali, drogati, immigrati) sono pensati come la causa del malessere; cause psicologico-culturali, quali i pregiudizi connessi all’integralismo religioso o politico, o alla diffusione di determinati stili di vita, autoritari, egocentrici, egoistici, consumistici, assai rigidi nei confronti dell’accoglienza del diverso e del rispetto delle differenze. Ovviamente, cause storiche, economiche, sociali, culturali e psicologiche sono per lo più legate tra loro in modo inestricabile. Determinate situazioni sociali favoriscono l’insorgenza del pregiudizio: l’eterogeneità (razziale, religiosa, linguistica) della struttura so-

Il razzismo biologico

Situazioni che favoriscono il pregiudizio razziale 139

7 - Classi e stratificazione sociale

Il rifiuto della differenza

ciale; l’incremento rapido della mobilità sociale; la tendenza all’aumento numerico di un gruppo di minoranza; il controllo dell’informazione da parte di gruppi interessati, per vari motivi, alla diffusione del pregiudizio. Il confine tra razzismo e xenofobia è in realtà assai labile e le più recenti ricerche tendono a ridurlo, dando una definizione di razzismo che non si fonda soltanto sulla persuasione di differenze biologiche tali da giustificare una presunta superiorità o inferiorità razziale. Certamente l’alterità inquieta e la differenza sconcerta e preoccupa, oltre, talvolta, a sedurre. Quindi, il contatto con il diverso è inevitabilmente carico di tensione emotiva. Non è però il contatto difficile con il diverso a costituire razzismo, bensì una certa interpretazione della differenza, in gran parte dipendente da un contesto sociale e culturale. Si ha razzismo quando la differenza è utilizzata a proprio favore e a danno dell’altro, in modo che essa produca ineguaglianza e subordinazione (sociale, economica, politica ecc.). Da qui la definizione di razzismo adottata da Albert Memmi: “Il razzismo è la valorizzazione, generalizzata e definitiva, di differenze, reali o immaginarie, a vantaggio dell’accusatore e ai danni della vittima, al fine di giustificare un’aggressione o un privilegio”. La differenza è quindi usata al fine di dominare il diverso, e dunque il razzismo si traduce in una serie di comportamenti di oppressione e aggressione. Apice del razzismo è la produzione di un discorso capace di persuadere il diverso a cui si riferisce di essere realmente “inferiore”.

IL CASO DELL’APARTHEID IN SUDAFRICA Un tipico caso di razzismo, che è stato al tempo stesso causa di rigida stratificazione sociale prossima al sistema di casta, è quello della segregazione razziale (apartheid) basata sul colore della pelle vigente in Sudafrica fino ai primi anni ’90 del ‘900. Gli abitanti del Sudafrica sono stati ufficialmente classificati per oltre quarant’anni, tra il 1948 e il 1992, come membri di uno di quattro gruppi razziali: bianchi, di razza mista, asiatici e negri. Tali gruppi erano ordinati secondo una gerarchia che assegnava ai bianchi il massimo e ai negri il minimo delle ricompense. Una severa segregazione divideva i gruppi: ogni gruppo aveva i propri

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quartieri residenziali, i propri ospedali, le proprie scuole ecc. Il reddito dipendeva direttamente dal colore: un insegnante bianco, per esempio, guadagnava più di un insegnante negro a parità di qualificazione e di anni di servizio. Il matrimonio o i contatti sessuali tra le razze erano illegali e anche molte altre forme di rapporti interrazziali erano proibite dalla legge o dai costumi. Prima dell’abolizione della schiavitù, il sistema di segregazione razziale in vigore negli Stati Uniti, specialmente nel Sud, era abbastanza simile: lo status era ascritto in base al colore e i matrimoni fra i membri dei due strati erano vietati.

7 - Classi e stratificazione sociale ■ Diseguaglianze generazionali Con il termine ageism i sociologi indicano la discrimina- “Ageism” zione operata nei confronti di un gruppo di età. In generale, qualsiasi gruppo di età può essere discriminato e il ruolo sociale dei diversi gruppi di età varia moltissimo da una società all’altra. Mentre le società preindustriali hanno quasi sempre assicurato agli anziani posizioni di potere e prestigio, ciò non avviene nelle società industrializzate contemporanee, dove la discriminazione d’età o generazionale riguar- La discriminazione da per lo più proprio gli anziani. A parere di Robert Butler, degli anziani che ha coniato il termine ageism, questo “riflette un disagio profondamente radicato da parte dei giovani e degli adulti, un rifiuto personale e una repulsione per la vecchiaia, la malattia e l’invalidità e una paura dell’impotenza, dell’inutilità e della morte”. A tale disagio si accompagna la costruzione di una serie di stereotipi negativi sugli anziani, che costituiscono vere e proprie norme informali che regolano la comunicazione sociale e influenzano lo stesso atteggiamento di vita e le aspettative sociali dell’anziano. Probabilmente ciò dipende dal fatto che, nelle società ad alto livello tecnologico, la produzione della ricchezza è dovuta in gran parte alla crescita costante e rapidissima delle conoscenze. Per vari motivi, tra i quali la carenza di una formazione permanente, da tale crescita di conoscenze rimane escluso l’anziano, il cui patrimonio di esperienza accumulata è considerato sorpassato. A ciò s’aggiungano fenomeni quali la disoccupazione e sottoccupazione giovanile, che tendono a far avvertire gli anziani come superflui rispetto alle necessità produttive. A completare il quadro concorrono altresì i mutamenti sociali che hanno coinvolto la famiglia, non più allargata ma mononucleare, estromettendo l’anziano dal ruolo di capofamiglia e anche, spesso, dalla coabitazione con figli e nipoti. Il processo di urbanizzazione isola questi anziani in quartieri spesso privi di strutture di socializzazione, oppure li marginalizza in case di riposo. Così, la discriminazione degli anziani prende la forma di una stratificazione sociale per età, che come la stratificazione etnica è trasversale rispetto agli altri tipi di stratificazione sociale.

7.6 Genere sessuale e diseguaglianza Tutte le società distinguono i propri membri in base al sesso e rispetto a questo si attendono comportamenti diversi e l’assunzione di differenti ruoli. In generale, ci si attende Gli stereotipi che gli uomini siano più competitivi, impazienti, aggressivi, su uomini e donne critici e le donne più inclini alla cooperazione, accomodan141

7 - Classi e stratificazione sociale

La discriminazione nei confronti delle donne

La prospettiva funzionalista

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ti e premurose. Si presume anche che gli uomini si concentrino sui simboli esteriori del successo, mentre le donne si sentano gratificate dalla consapevolezza di aver fatto un buon lavoro. Per quanto nelle società dell’Occidente industrializzato questi stereotipi stiano iniziando a disintegrarsi, da essi si può facilmente dedurre quanto possa essere radicata la diseguaglianza sociale tra uomini e donne. In tutte le società conosciute, alle donne è negato un uguale accesso alle ricompense sociali rispetto agli uomini; talvolta ciò avviene sulla base di un’inferiorità di status considerata semplicemente evidente e naturale, e tramandata come tale a livello culturale. In realtà, certi comportamenti considerati tipicamente maschili o femminili non sono in relazione necessaria con il sesso biologico, bensì dipendono da precisi processi, studiati dalla psicologia dell’età evolutiva e dalla psicologia sociale (processi di imitazione, rinforzo e autosocializzazione), attraverso i quali i bambini imparano a presentarsi come “maschi” o “femmine”. In tal modo integrano l’identità di genere (il sentirsi maschi o femmine, che può non coincidere col sesso biologico) con l’ideale di genere, cioè con le aspettative culturali che esistono riguardo ai comportamenti maschili e femminili. In tal modo i bambini arrivano a considerare i loro comportamenti come “naturali” per il semplice fatto di essere maschi o femmine. ■ Le diverse prospettive sulle differenze di genere La prospettiva funzionalista ha spiegato la differenziazione dei ruoli sessuali, che è piuttosto simile nella maggior parte delle società, con la loro funzionalità all’efficienza della società. In altri termini, una società è tanto più efficiente quanto più i suoi membri sono socializzati allo svolgimento di ruoli particolari. In questo senso la differenza sessuale diventa un mezzo per stabilire la divisione del lavoro. Il fatto che la femmina partorisca, e dopo il parto debba prendersi cura della prole, la rende inadatta a determinati compiti – di caccia, difesa, pastorizia ecc. – e la costringe ai lavori domestici. Conseguentemente la femmina dipenderà dal maschio per il nutrimento e la protezione e ciò indurrà il maschio ad assumere una posizione di dominio. Questo meccanismo si struttura in modo così profondo nel configurare la differenza dei ruoli sociali come fatto spontaneo che la dipendenza dall’uomo verrà accettata dalla donna come cosa “naturale”. Secondo Talcott Parsons e Robert Bales questa divisione di ruoli rimane fondamentale anche nelle società moderne basate sulla famiglia nucleare, per il cui buon funzionamento rimane necessaria la presenza di due adulti specializzati in ruoli

7 - Classi e stratificazione sociale

specifici: un ruolo “strumentale”, di rapporto con l’esterno, svolto dal padre, e un ruolo “espressivo”, che si concentra sui rapporti interni alla famiglia, svolto dalla madre. In realtà, mentre in un passato anche recente i ruoli sessuali erano chiaramente delineati (gli uomini lavoravano per mantenere la famiglia, le donne accudivano la casa e si occupavano dei figli), oggi tali ruoli, analogamente all’ideale di genere, sono in continua trasformazione. Perciò i teorici del conflitto ritengono che i tradizionali ruoli sessuali possano essere stati funzionali in una società preindustriale, ma non abbiano un tale senso nelle società moderne, le quali, anzi, impedendo alla metà della popolazione di svolgere un ruolo protagonista nella vita produttiva, vanno incontro a disfunzioni notevoli. In proposito Randal Collins ha sostenuto che la diseguaglianza sessuale, come le altre forme strutturate di diseguaglianza, si basa su un conflitto di interessi: la differenza sessuale viene cioè sfruttata dal gruppo dominante per conservare i privilegi di status acquisiti. Sempre da questo punto di vista, la diseguaglianza sociale di matrice sessuale è strettamente connessa alla diseguaglianza economica, poiché la ricchezza, fonte essenziale di status, consente per lo più di acquisire potere e prestigio. Dunque, sarà conquistando una parte più rilevante nella vita economica e produttiva che le donne potranno ottenere gradualmente posizioni di maggiore uguaglianza. D’altro canto, le politiche per le pari opportunità (come si chiamano le politiche per garantire alle donne pari opportunità di promozione sociale rispetto agli uomini), che di recente si stanno sviluppando nelle società industrializzate di democrazia avanzata, puntano anche alla conquista diretta del potere politico da parte delle donne, attraverso la riserva di quote nelle liste elettorali ai vari livelli politici e amministrativi, nella consapevolezza che potere e prestigio giocano un ruolo almeno altrettanto rilevante della ricchezza nella configurazione dello status sociale.

La prospettiva dei teorici del conflitto

Le politiche per le pari opportunità

7.7 La mobilità sociale L’espressione mobilità sociale designa in genere il passaggio di un individuo o di un gruppo da uno strato sociale a un altro. È perciò necessario distinguere la mobilità individuale dalla mobilità collettiva. ■ Mobilità individuale La mobilità individuale riguarda i cambiamenti nella posizione di un individuo all’interno del sistema di stratificazione. Ta-

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7 - Classi e stratificazione sociale

Mobilità verticale e mobilità orizzontale

Le ricerche sulle cause della mobilità individuale

La resistenza alla mobilità

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le mobilità può essere verticale, cioè definire il passaggio da uno status inferiore a uno superiore o viceversa, oppure orizzontale, cioè descrivere un cambiamento della posizione di un individuo che non influisce sul suo status sociale (una persona che passa dalla vendita di immobili alla vendita di polizze assicurative cambia semplicemente lavoro, non status sociale).La mobilità può dipendere dalla riorganizzazione della struttura sociale, che può offrire per vari motivi maggiori opportunità di mobilità (è avvenuto negli ultimi anni che l’industria dell’informatica abbia offerto grandi opportunità di mobilità sociale a giovani programmatori), oppure dall’avvento di un nuovo sistema di stratificazione, che può affermarsi in modo graduale attraverso, per esempio, una politica di riforme sociali, oppure in modo drammatico, attraverso una rivoluzione o una guerra. Le ricerche sulla mobilità individuale hanno fra l’altro tentato di rispondere alla domanda circa quali siano le cause per cui una persona ha più probabilità di un’altra di raggiungere una condizione sociale superiore. La conclusione a cui si è pervenuti è che si tratta per lo più di cause sulle quali l’individuo può esercitare uno scarso controllo. Alcune cause vanno in gran parte ricondotte alla classe di origine, come il livello di istruzione e il tipo di alimentazione ricevuto durante l’infanzia, l’ambiente che si frequenta e le relazioni interpersonali che questo rende possibili; altre cause sono relative a fattori incidentali, quali l’aspetto fisico e un elevato quoziente di intelligenza. Appaiono cause rilevanti anche la disponibilità a ritardare il matrimonio e a differire la gratificazione immediata in vista di obiettivi di lungo termine, la residenza in un’area urbana anziché rurale e fattori del tutto fortuiti, quali gli incontri non prevedibili. Nelle società che privilegiano lo status acquisito la mobilità tende a essere individuale. Gli Stati Uniti costituiscono un esempio tipico di questa situazione e, anche se nella vita quotidiana esistono distinzioni di classe basate sullo status ascritto, il sistema incoraggia la mobilità individuale verso l’alto. I miti più diffusi sono quelli che descrivono il passaggio dalla povertà alla ricchezza, come le storie di chi si fa strada con intelligenza e tenacia. In realtà, una caratteristica della diseguaglianza sociale, alla quale gli Stati Uniti non sfuggono, è la resistenza al cambiamento. Da un punto di vista macrosociale, infatti, si nota che nella società statunitense le diseguaglianze di reddito sono, in termini percentuali, rimaste sostanzialmente costanti nell’ultimo ventennio del ’900. La lieve attenuazione della diseguaglianza, ottenuta negli anni ’60 e ’70 dai programmi governativi mirati all’assi-

7 - Classi e stratificazione sociale CLASSI E MOBILITÀ SOCIALE “Una mobilità tra generazioni diverse sembra pienamente compatibile con la formazione di classi e con il conflitto di classe. [...] Il caso di società nelle quali sussista un elevato grado di mobilità all’interno della stessa generazione è un po’ più complicato. [...] Quando l’individuo può cambiare la sua appartenenza di classe con tutta libertà, o è perfino obbligato a cambiarla di tanto in tanto (quando, per esempio, l’operaio può diventare un imprenditore solo che lo voglia, o quando ogni membro della comunità deve diventare sindaco almeno una volta), ci troviamo in presenza di un tipo di mobilità intra-generazionale che ren-

de impossibile la formazione di classi e il conflitto di classe. In questo caso l’appartenenza a una classe diventa un fatto accidentale oppure meramente temporaneo. Benché sussista ancora una struttura dei ruoli di autorità del tipo dei quasi-gruppi, l’avvicendamento continuo di coloro che occupano tali ruoli rende impossibile l’organizzazione di gruppi di interesse che difendano o attacchino la legittimità delle strutture di autorità: non vi è quindi alcun conflitto di classe, né vi è classe in senso stretto.” (R. Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, Laterza, Bari 1963.)

stenza sociale, è stata riassorbita dall’aumento della diseguaglianza prodotta nel decennio successivo dalla politica economica liberista dell’amministrazione Reagan. Sempre negli Stati Uniti, come si ricava da ricerche compiute da Tyree e Smith sulla comparazione dei redditi del 1789 e del 1969 a Philadelphia, la distribuzione della ricchezza (che, a differenza del reddito, include anche altri beni: proprietà, azioni ecc.), è addirittura rimasta praticamente invariata nei quasi duecento anni considerati: sulla fine del XVIII secolo, come sulla fine del XX, le classi imprenditoriali e professionali godevano, in termini percentuali, di maggiore ricchezza rispetto alle classi operaie e impiegatizie. ■ Mobilità collettiva Quando le istituzioni sociali si basano prevalentemente su elementi ascritti (genere, età, etnia, origini familiari), la mobilità tende a essere collettiva, ossia di gruppo. Uno dei mi- La mobilità collettiva gliori esempi di sistema di stratificazione basato su posizioni nel sistema ascritte è il sistema delle caste dell’India. Nonostante il siste- delle caste ma annullasse di fatto la mobilità individuale, interi gruppi riuscivano a modificare il proprio status e livello di prestigio sociale. Come ha dimostrato una ricerca di J.H. Hutton, la mobilità collettiva era resa possibile dalla frammentazione di una casta in due o più sottocaste: per esempio, i Khatiks, originariamente casta di macellai, si frammentarono gradualmente in una serie di sottocaste di macellai di suini, muratori, fabbricatori di corde e fruttivendoli. Queste nuove caste, che consideravano la propria occupazione più prestigiosa di

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7 - Classi e stratificazione sociale

quella dei macellai, si diedero nuovi nomi e rifiutarono di sposarsi con gli appartenenti alla casta originale. Spesso gli status ascritti, in particolare l’etnia, il genere o l’età, sono usati per giustificare una discriminazione che blocca la mobilità individuale. Di conseguenza, alcuni gruppi trovano indispensabile organizzarsi per ottenere una mobilità di gruppo. Questa strategia ha preso forma in numerosi movimenti, come i movimenti dei neri negli Stati Uniti, il movimento femminista, i gruppi di pressione politica dei pensionati. I successi di queste iniziative dimostrano che gli effetti di uno status ascritto possono essere modificati, almeno in parte, attraverso un impegno collettivo.

PER UN APPROFONDIMENTO ●

P. Busetta e E. Giovannini (a c. di), Capire il sommerso, Liguori, Napoli 1998

Un’analisi del lavoro irregolare al di là dei luoghi comuni. ● R.

Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, Laterza, Bari 1963

Riesamina criticamente la teoria delle classi di Marx alla luce delle trasformazioni avvenute nelle società industriali avanzate. ●

R. Girod, Diseguaglianza diseguaglianze, Il Mulino, Bologna 1979

Studia i rapporti tra la mobilità sociale e i diversi fattori che stanno alla base delle diseguaglianze sociali. ●

A. Heat, La mobilità sociale, Il Mulino, Bologna 1981

Presenta le principali teorie sulla mobilità sociale, dagli autori classici come Marx e Pareto ai contemporanei come Bendix, Lipset, Blau e Duncan. ●

P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 1974

Ricostruisce il concetto di classe attraverso l’analisi della struttura della società italiana, descritta come “società dei ceti medi”.

SCHEMA RIASSUNTIVO IL PROBLEMA

Le società sono strutturate secondo gerarchie che danno origine a status differenti.

Gli status

Esistono status dominanti (che hanno il predominio sugli altri), status ascritti (indipendenti dall’azione dell’individuo) e acquisiti (conquistati dall’individuo nel corso dell’esistenza).

Il ruolo

Gli status, a loro volta, determinano il ruolo, ossia il comportamento che relativamente allo status occupato l’individuo deve avere.

I TIPI DI STRATIFICAZIONE

La stratificazione sociale può essere per casta, ceto, classe.

La casta

La casta è il sistema più chiuso; l’appartenenza a una determinata casta dipende dalla nascita (un esempio di stratificazione per caste è il sistema indiano).

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7 - Classi e stratificazione sociale segue

Il ceto

Il ceto è una condizione sociale fondata su una situazione giuridica e individuata in base al prestigio.

La classe

La classe è il sistema più diffuso nelle società industrializzate; si basa sulle differenze economiche presenti tra gli individui.

LE TEORIE SULLA STRATIFICAZIONE

La stratificazione sociale è stata oggetto di analisi da parte di differenti teorie.

Le teorie del conflitto

Le teorie del conflitto (si rifanno a Marx) ritengono che l’origine della diseguaglianza sia da ricercare nella divisione in classi, a sua volta determinata dal possesso dei mezzi di produzione. Secondo Weber, oltre alla sfera economica svolgono un ruolo importante anche la cultura e la politica.

La teoria funzionalista

La teoria del funzionalismo considera invece la stratificazione come derivante dall’esigenza, propria di ogni società, di collocare e motivare gli individui nella struttura sociale.

La teoria evolutiva

La teoria evolutiva di Lenski tende a conciliare teorie del conflitto e funzionalismo sostenendo che la stratificazione è funzionale alla società per la produzione e la conservazione delle risorse fondamentali, ma che le risorse eccedenti le necessità della sopravvivenza sono distribuite attraverso un conflitto tra gruppi in competizione.

La teoria reputazionale

Secondo la teoria reputazionale, si determina l’appartenenza di una persona a una particolare classe in base alla posizione assegnatale da altri membri della comunità.

LA DISEGUAGLIANZA

La diseguaglianza è una conseguenza diretta della stratificazione. Mentre in alcune società più semplici la diseguaglianza sociale può essere causata esclusivamente dalle diverse caratteristiche individuali, nelle società più articolate sono interi strati sociali ad avere uno status superiore o inferiore rispetto ad altri.

Tipi di diseguaglianze

Povertà e schiavitù, differenze di razza, genere ed età sono alcune delle più evidenti manifestazioni della diseguaglianza sociale.

LA MOBILITÀ SOCIALE

La mobilità sociale può essere individuale o collettiva.

Mobilità individuale

Riguarda un singolo individuo; può essere verticale (da una classe più bassa a una più alta o viceversa) oppure orizzontale (non si cambia posizione sulla scala gerarchica). È particolarmente presente in quelle società che privilegiano gli status acquisiti.

Mobilità collettiva

La mobilità collettiva si verifica nelle società in cui prevalgono gli status ascritti: in queste situazioni, infatti, la mobilità tende a essere collettiva, ossia di gruppo.

DOMANDE DI VERIFICA 1. Quali sono le principali tipologie di stratificazione? Par. 7.3 2. Cosa si intende col termine status? 125b 3. Quale spiegazione della stratificazione dà la teoria del conflitto? 131b-132

4. In quale modo la teoria evolutiva cerca di sintetizzare funzionalismo e conflittualismo? 135a 5. Quali casi di schiavitù sono presenti nelle società contemporanee? 138b-139a 6. Cos’è la “differenza di genere”? 141-143

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8 La famiglia Già a partire dalla seconda metà dell’800, quando il sempre più rapido sviluppo dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione trasforma la qualità e le modalità dei rapporti quotidiani, affiora la consapevolezza che il modello di famiglia prevalente all’epoca non è qualcosa di dato una volta per sempre, che ha cioè a che fare con la natura umana in quanto tale, ma è un’istituzione suscettibile di mutare a seconda della struttura, della cultura e del grado di sviluppo tecnologico della società di riferimento. La ricerca sociologica tenta di dare sistematicità a questa consapevolezza, in primo luogo attraverso lo studio dei diversi modelli familiari, cioè dei modi in cui le diverse società organizzano i rapporti tra i sessi e tra le generazioni, e quindi cercando di individuare una struttura portante dell’istituzione “famiglia” e di analizzarne le funzioni sociali. Al riguardo, nella storia della sociologia emergeranno due quadri teorici principali: l’approccio funzionalista, che pensa la famiglia come fondamentale agenzia di controllo sociale delle pulsioni e di socializzazione primaria, e la teoria del conflitto, che vede nella famiglia il luogo di scontro tra i sessi e tra genitori e figli. L’analisi sociologica attuale rende conto del recente affermarsi di tipologie familiari tradizionalmente ritenute atipiche o del tutto assenti; è il caso delle cosiddette nuove famiglie (famiglie di fatto, famiglie ricostituite, famiglie con un solo genitore), la cui presenza sempre più massiccia si impone all’interno dei paesi industrializzati.

8.1 Il problema I tipi di rapporti familiari esistenti nelle varie culture rendono evidente un fatto riscontrato spesso dai sociologi, ossia che alcuni elementi che una cultura ignora o non valorizza possono costituire la norma in un’altra cultura. Dinnanzi a tipi di famiglia assai distanti da quelli che siamo abituati a considerare, e che si riscontrano sia in continenti lontani (come l’Africa, l’Asia, l’Oceania), sia all’interno delle stesse società industriali, ci si chiede se sia possibile identificare dei caratteri tipici, comuni ai diversi tipi di famiglia, e quali siano le cause del loro manifestarsi in maniere tanto difformi.

8.2 I diversi tipi di famiglia I modi in cui la famiglia svolge i compiti che le sono propri possono essere assai diversi. Esistono situazioni in cui anche nelle nuove famiglie vige la supremazia dei genitori del 148

8 - La famiglia

marito, oppure quella dei parenti della moglie; possiamo trovare famiglie che si concentrano sull’educazione dei figli, oppure altre nelle quali la gestione della prole è completamente affidata a strutture esterne e così via. La famiglia non La grande varietà muta solo nel tempo e nello spazio, ma è anche diversa di modelli di famiglia da una classe sociale all’altra e da un gruppo etnico o socioculturale all’altro all’interno di una medesima società. Inoltre, ciascuna famiglia individuale cambia essa stessa col tempo, lungo quello che è stato definito ciclo della famiglia. ■ I contadini irlandesi Tra i contadini dell’Irlanda occidentale studiati da Arensberg e Kimball, e presso i quali vigeva l’organizzazione familiare tradizionale, i genitori del marito mantenevano il controllo Il controllo economico e la gestione della divisione del lavoro delle dei genitori nuove famiglie. I beni dei genitori (la fattoria, la casa ecc.) del marito venivano trasmessi dal padre al figlio, ma finché il padre era vivo serbava il controllo su tutte le attività della famiglia, mentre la madre sovrintendeva alle attività domestiche e lavorative della nuora. La moglie, completamente mantenuta dalla famiglia del marito, era anche completamente soggetta all’autorità dei suoceri. Il sistema assicurava la sussistenza agli anziani, dava ai giovani il sostegno economico necessario per la costruzione della nuova famiglia e consentiva così la trasmissione delle tradizioni e delle competenze. ■ Gli abitanti delle Trobriand Al contrario, tra gli abitanti delle Isole Trobriand, in Nuova Guinea, studiati da Malinowski, era previsto che la moglie La responsabilità venisse mantenuta dalla sua famiglia d’origine e non dal della famiglia marito. In questa società l’uomo doveva sposare la figlia del- della moglie la sorella del proprio padre. La nuova famiglia riceveva almeno metà del proprio sostentamento economico dal fratello della moglie, il quale così facendo preparava di fatto la ricchezza di suo figlio. Questa tradizione garantiva inoltre che nella vecchiaia un padre potesse contare su suo figlio e sulla moglie di questo. Lo zio materno era anche responsabile dell’educazione dei figli della sorella, per cui, a differenza dei contadini irlandesi che mantenevano un completo controllo sui loro figli, il marito delle Trobriand non aveva alcuna autorità sulla propria prole. I padri trobriandesi accudivano comunque i loro figli, nutrendoli e pulendoli; perciò questi restavano spesso affezionati al genitore maschio, anche se un legame biologico tra il padre e la madre non era preso in considerazione dagli abitanti dell’arcipelago melanesiano, i quali credevano che il marito non fosse in

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8 - La famiglia

alcun modo collegabile con i figli della moglie. Secondo la cultura locale la gravidanza si verificava solo quando uno spirito parente di una donna sposata faceva entrare nel suo corpo uno spirito bambino.

La comunità educa i bambini e garantisce il loro sostentamento

■ Il kibbutz israeliano Una struttura familiare molto differente da quelle appena esaminate caratterizza il kibbutz israeliano. Il kibbutz nasce in Israele dalla volontà di abolire la proprietà privata e le istituzioni a essa legate, quindi anche la famiglia nucleare. Nel kibbutz fin dalla nascita i bambini mangiano e vanno a scuola nella casa dei bambini. Essi dormono con i loro genitori, i fratelli e le sorelle (in passato la casa dei bambini li ospitava anche durante la notte) e trascorrono con loro il tempo libero e le vacanze, ma l’educazione e le attività quotidiane sono gestite da baby-sitter e insegnanti nominati dal kibbutz. Il kibbutz tende a garantire ai bambini delle fonti di sicurezza emozionale ed economica a cui la famiglia nucleare non è in grado di provvedere. Anche i membri più anziani traggono naturali vantaggi dall’organizzazione del kibbutz: sono incoraggiati a non abbandonare il loro lavoro, ma al tempo stesso sanno che nei periodi di malattia o di invalidità le loro esigenze economiche e sanitarie possono essere soddisfatte. Il matrimonio continua comunque a svolgere una funzione importante: offre la possibilità di avere rapporti sessuali e “produce” bambini. In genere le coppie del kibbutz sono molto affezionate ai loro figli e questi sentimenti sono ricambiati. Dal momento poi che i genitori non controllano i loro figli dal punto di vista sociale ed economico, è meno probabile che il rapporto tra genitori e figli venga deteriorato da punizioni o sanzioni.

8.3 Le teorie sulla famiglia Le principali prospettive di analisi e di interpretazione della famiglia sono state fornite dal funzionalismo e dalla teoria del conflitto. ■ La teoria funzionalista Poiché l’uomo è un “animale sociale”, per comprendere il carattere universale della famiglia dobbiamo considerare le funzioni che questa istituzione svolge, sia nel mantenere l’ordine della società nel suo insieme, sia nell’assicurare la sopravvivenza degli individui. La teoria funzionalista analizza appunto la famiglia in rapporto ai bisogni sociali che essa soddisfa. Parsons sostiene, per esempio, che la famiglia nucleare sia nata come risposta

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8 - La famiglia

alle esigenze del sistema economico della società industriale. Tale sistema è infatti incompatibile con la famiglia complessa tradizionale, in quanto esso funziona reclutando le persone in base non alle caratteristiche ascritte ma a quelle acquisite e provoca perciò una forte mobilità geografica e sociale della popolazione. Le funzioni fondamentali svolte generalmente dalla famiglia sono: il controllo della sessualità, la sostituzione dei membri sociali tramite la procreazione, la socializzazione, la collocazione in uno status sociale dei propri membri, la cura e protezione dei bambini, alcune funzioni di produzione economica e di controllo della spesa. Innanzi tutto la famiglia esercita un controllo sulla sessualità. Tutte le società prevedono forme di regolamentazione dell’attività sessuale; anche se i modelli di tale regolamentazione sono assai differenziati, il matrimonio e il sistema familiare rappresentano sempre uno strumento atto a regolamentare il comportamento sessuale stabilendo con chi e a quali condizioni i soggetti possono accoppiarsi. Un’altra funzione della famiglia è quella di “produrre” i nuovi membri della società. Nessuna società potrebbe sopravvivere a lungo se ogni generazione non sostituisse se stessa: la famiglia serve a tale scopo poiché rappresenta uno strumento stabile, istituzionalizzato, mediante il quale la sostituzione generazionale può aver luogo grazie alla presenza di individui ben definiti nei ruoli sociali. La famiglia è la principale agenzia di socializzazione primaria. I genitori ripongono generalmente una particolare attenzione nel controllare il comportamento dei figli, nel trasmettere a questi il linguaggio, i valori, le norme e le credenze propri della loro cultura. Ciò soddisfa l’esigenza sociale fondamentale di trasmissione culturale. La famiglia fornisce il contesto in cui i bambini per la prima volta incontrano altre persone, apprendendo regole di comportamento, ruoli, linguaggio e in generale gli aspetti che caratterizzano la cultura sociale. Nella società moderna molte di queste funzioni socializzanti sono state assunte da altre istituzioni, come la scuola, la Chiesa o i mezzi di comunicazione di massa. Tuttavia, la famiglia resta sempre il primo e il più importante agente della socializzazione umana. La nascita legittima nell’ambito di una famiglia conferisce agli individui una posizione stabile nella società. Dalla famiglia d’origine, detta dai sociologi “di orientamento”, si ereditano non soltanto oggetti materiali, ma anche lo status sociale. I bambini hanno bisogno di calore, cibo, protezione e affetto: la famiglia, per l’intimità che la caratterizza, generalmente

I bisogni sociali soddisfatti dalla famiglia

Il controllo della sessualità

La procreazione

Agenzia di socializzazione primaria

Il conferimento dello status La cura dei bambini 151

8 - La famiglia LA FAMIGLIA COME BASE DEL SISTEMA SOCIALE “L’approccio struttural-funzionale considera la famiglia come un sottosistema sociale, uno dei molteplici componenti del sistema sociale, che svolge certe funzioni per la società. D’altra parte, l’approccio struttural-funzionale considera anche la famiglia come composta da individui che agiscono in funzione di una rete di status e di ruoli il cui significato è quello di mantenere il sistema familiare e, attraverso questo, l’intero sistema sociale. Lo studio della famiglia include pure le aspettative dei ruoli di altri membri della famiglia, le disposizioni soggettive, i gruppi di riferimento, le definizioni di situazioni e i meccanismi di mantenimento del sistema, in breve tutti gli elementi che agiscono come mediatori per trasformare la struttura familiare in comportamento aperto. Così, l’approccio struttural-funzionale è ora un

La funzione economica

Le tensioni della famiglia

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approccio microfunzionale che considera i comportamenti specifici di famiglie singole, ora un approccio macrofunzionale interessato alla famiglia in quanto utile esempio teorico per un’analisi delle istituzioni. Gli studi di sociologia familiare che utilizzano questo approccio considerano generalmente la famiglia come un sistema aperto alle influenze esterne e alle transazioni con le altre agenzie sociali (la scuola, i mezzi di lavoro, i mercati ecc.), o ancora come un sistema che interferisce con altri sottosistemi all’interno della famiglia (diade marito-moglie, fratrie ecc.). [...] Fra gli autori che hanno utilizzato questo approccio si possono citare Talcott Parsons, Kingsley Davis, Robert Merton, Geerges Homans e Marion Levy.” (M. Andrée, Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna 1973; pp. 21-22.)

soddisfa, o comunque soddisfa in genere meglio di altre istituzioni sociali, queste esigenze. Di estrema importanza è infine la funzione economica svolta dalla famiglia. In tutte le società conosciute la famiglia svolge un ruolo economico fondamentale: nelle società contadine e artigiane è un’unità di lavoro cooperativo; nelle società industriali, dove quasi tutto il lavoro viene svolto fuori casa, è comunque all’interno della famiglia che si prendono le decisioni su come si debba spendere il denaro e queste decisioni hanno un’influenza enorme sull’economia nazionale. ■ Le teorie conflittualiste Mentre i funzionalisti studiano la famiglia nei termini dei bisogni sociali che essa soddisfa, i teorici del conflitto considerano la famiglia come un’unità nella quale sono continuamente in gioco tensioni di diverso genere. Il matrimonio, per esempio, può diventare un ambito in cui ciascun partner cerca di controllare l’altro; la nascita dei figli può provocare lotte di potere all’interno della famiglia; tra fratelli si possono scatenare liti per l’eredità; la socializzazione può essere gestita in modo tale da rafforzare i poteri sociali esistenti; sul piano economico i rapporti tra marito e moglie possono diventare una lotta per il controllo delle proprietà ecc.

8 - La famiglia

Proprio il conflitto di potere tra uomini e donne all’inter- Il conflitto di potere no della famiglia è uno dei problemi più spesso studiati dai tra i sessi teorici del conflitto. La famiglia pare infatti essere l’istituzione sociale in cui più che in ogni altra si svolge la lotta quotidiana tra i sessi: non solo tra marito e moglie, ma anche tra fratello e sorella. Già Friedrich Engels aveva sostenuto che il matrimonio rappresenta “la prima forma di lotta di classe che appare nella storia [...] in cui il benessere e lo sviluppo di un gruppo vengono acquisiti attraverso la miseria e l’oppressione di un altro”. I rapporti tra i coniugi nel matrimonio, affermava Engels, sono il modello sul quale si sono fondate le altre forme di oppressione, e in particolare quella tra capitalisti e proletari. Questa idea è stata sviluppata fra gli altri da Randall Collins, il quale ritiene che all’origine della lotta per il potere sia la forza fisica maggiore degli uomini, che permette a questi di avanzare diritti sessuali sulle donne. Il matrimonio sarebbe allora originariamente un contratto che impone il rispetto di questa pretesa. Infatti, in società come quelle feudali, per esempio, dove è l’istituzione familiare e non tanto lo Stato che controlla in ultima istanza la politica, le donne sono più sfruttate. Del resto, il principio che le mogli fossero una proprietà dei mariti era proprio dell’antico diritto romano ed è rimasto nelle democrazie moderne, parzialmente e sotto forme diverse, quasi fino ai giorni nostri. Fino agli anni ’60 del ’900, per esempio, in alcuni stati degli USA alle donne sposate non era riconosciuta la capacità giuridica di stipulare contratti o di contrarre crediti senza il consenso scritto del marito. Ma il fatto che le donne si siano trovate in una posizione subordinata in tutti i sistemi familiari del passato non significa che la struttura familiare sia di per sé ingiusta. In alcune società industriali avanzate, infatti, stanno emergendo forti tendenze dirette a stabilire la parità tra i coniugi. Per effetto delle lotte dei movimenti femministi, e soprattutto perché oggi spesso le donne lavorano e hanno un reddito proprio, attualmente nelle società occidentali le donne si trovano, all’interno della famiglia, in una migliore posizione di contrattazione.

8.4 Strutturazione della famiglia Nonostante le differenti tipologie della famiglia, i sociologi hanno comunque tentato di definire le strutture fondamentali comuni a tale istituzione. A parte la distinzione operativa di base tra famiglie di orien- Famiglie tamento e di procreazione (le prime sono quelle in cui si na- di orientamento sce; le seconde quelle in cui si entra da adulti e dove viene e di procreazione 153

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I cinque tipi di famiglia

allevata una nuova generazione di bambini), la tipologia delle famiglie oggi più utilizzata da gran parte dei demografi, degli storici e dei sociologi è quella proposta da Peter Laslett e dal Cambridge Group for the Study of Population. Secondo Laslett i modelli familiari sono riassumibili in cinque tipi: solitario, nucleare, senza struttura coniugale, estesa, multipla. Le famiglie dei solitari sono quelle costituite da una sola persona. La famiglia nucleare è quella formata da una sola unità coniugale (marito, moglie, con o senza figli). Le famiglie senza struttura coniugale sono formate da persone con altri rapporti di parentela (per esempio, un fratello e una sorella non sposati). La famiglia estesa è costituita da più di due generazioni appartenenti allo stesso ceppo parentale, che vivono nella stessa casa o nello stesso plesso di abitazioni. Capo di tutta la famiglia è di solito il maschio più anziano, mentre tutti gli adulti partecipano in varia misura all’allevamento dei bambini e all’esecuzione di altri compiti. La famiglia multipla è composta da due o più unità coniugali. A seconda del legame esistente fra queste due unità, si parla di multipla verticale (per esempio, marito, moglie, figlio e moglie di quest’ultimo) oppure orizzontale (per esempio, due o più fratelli che vivono insieme con le rispettive mogli). Si parla infine di famiglie complesse quando si considerano insieme le estese e le multiple. Uno dei meriti della tipologia di Laslett è di far ri-

LA FAMIGLIA NUCLEARE “Più che una struttura di tipo speciale, o un insieme di sistemazioni domestiche, la famiglia nucleare è uno stato spirituale. Esso ha poco a che fare con il problema della convivenza di varie generazioni. […] Né lo si può intendere con l’ausilio di diagrammi di parentela e cifre sulla composizione familiare. Ciò che realmente distingue la famiglia nucleare – padre, madre, figli – da altri modelli di vita familiare della società occidentale è lo speciale senso di solidarietà che separa l’unità domestica dalla comunità circostante. I membri di tale unità sentono di avere molte più cose in comune fra loro che con chiunque altro al di fuori di loro e di godere di un clima emotivo privilegiato, che essi devono proteggere da

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intrusioni esterne mediante privacy e isolamento. [...] Le differenze di classe rivelano il nucleo attorno al quale era destinata a cristallizzarsi la famiglia moderna. Nucleo che non fu l’amore romantico: perché, come si è visto, i ceti inferiori furono i primi a sperimentare la grande avanzata del lato romantico e della sessualità che fece breccia nella coscienza moderna. Né, d’altro canto, si verificò presso alcuna classe, alta o bassa che sia, che i sentimenti romantici sopravvivessero ai primi anni della discorde realtà coniugale. Invece, la famiglia nucleare si formò piuttosto intorno alla relazione madre-bambino.” (E. Shorter, Famiglia e civiltà, Rizzoli, Milano 1978; p. 197.)

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ferimento solo alla regola di residenza dopo le nozze e alla composizione della famiglia e di non presupporre relazioni di autorità nella famiglia. ■ Forme di matrimonio Tra i contadini irlandesi, gli abitanti delle Trobriand e nei kibbutzim israeliani abbiamo trovato una sola forma principale di matrimonio, quella monogamica, ossia il matrimonio circoscritto a un solo uomo e a una sola donna. Esistono però altre forme di matrimonio. Il matrimonio è poligamico quando una persona si sposa simultaneamente con due o più persone dell’altro sesso. Il matrimonio poligamico è detto poliginia se è l’uomo ad avere più di una moglie; se invece è la moglie ad avere più di un marito, si chiama poliandria. Anche se presso la maggior parte delle società vige la poliginia (matrimonio con più donne), complessivamente la maggioranza degli uomini ha una sola moglie, sia perché le società che adottano la monogamia comprendono la massa della popolazione mondiale, sia perché il numero delle donne non è sufficiente per permettere la pratica della poliginia su larga scala neppure nelle società che adottano questa forma di matrimonio. La poliginia è sempre meno diffusa nei paesi musulmani (nei quali è pure espressamente consentita dal Corano, che recita testualmente: “Sposa delle donne a tua scelta, due o tre o quattro”), dove attualmente è praticata per lo più da coloro che occupano le posizioni sociali più elevate. È invece ampiamente diffusa nell’Africa subsahariana, dove la quota degli uomini sposati che ha più di una moglie va dal 12 al 40% del totale, a seconda dei paesi. Ciò che rende possibile la poliginia in quest’area è la forte differenza (circa 10 anni) che intercorre fra l’età al matrimonio degli uomini e quella delle donne. Nell’Africa subsahariana, infatti, le donne si sposano intorno ai quindici anni, mentre gli uomini intorno ai venticinque. Inoltre, a causa della forte differenza di età e dell’alto tasso di mortalità presente in queste società, le mogli restano vedove molto presto. Poche invece sono le società che adottano la poliandria (matrimonio con più uomini). Le più note e studiate sono quelle del Tibet e dei toda dell’India (i quali, praticando l’infanticidio femminile, si trovano ad avere un forte soprannumero di maschi). Presso tali società è diffusa la famiglia poliandrica fraterna, che si forma quando una donna sposa contemporaneamente due o più fratelli e va a vivere con loro; una volta sposati, i fratelli hanno gli stessi diritti e gli stessi obblighi verso la prole e la moglie comune: i fratelli de-

Famiglia monogamica e famiglia poligamica

La poliginia

La poliandria

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8 - La famiglia FORME DI MATRIMONIO E FATTORI ECONOMICI Vi sono fattori che incoraggiano una forma di matrimonio piuttosto che un’altra? Alcuni ricercatori hanno messo in luce l’importanza delle forze economiche in specifiche società. In generale, nelle società dell’Africa subsahariana la poliginia è diffusa perché consente vantaggi di carattere economico. Per un uomo dell’Africa subsahariana sposare più donne significa avere più figli e ciò comporta da un lato un maggior prestigio, dall’altro il poter disporre di più terra. In un sistema dove la coltivazione delle piante alimentari spetta per lo più alle donne, mentre l’abbattimento degli alberi per preparare nuovi appezzamenti di terra è compito dei giovani, l’uomo di una famiglia poliginica riesce a produrre molto più di quello che ha una sola moglie. D’altra parte, poiché le mogli devono dedicarsi sia alla coltivazione sia ai lavori domestici, l’arrivo di una nuova moglie può essere visto con favore dalle altre donne,

in quanto ciò comporta la riduzione del loro carico di lavoro. Tra i ciukci, il “popolo delle renne” della Siberia nord-orientale, la poliginia è giustificata dalle esigenze poste dall’allevamento seminomade: un uomo ha bisogno di tante mogli quante sono le mandrie di renne da governare. Anche a proposito della poliandria si fa ricorso a spiegazioni di tipo economico. Nel Tibet, per esempio, la proprietà terriera di una famiglia viene trasmessa a tutti i figli in comune, e non divisa in appezzamenti che potrebbero non essere grandi abbastanza per mantenere la famiglia di ciascuno, perciò i fratelli come hanno in comune la terra così hanno in comune anche la moglie. Naturalmente, quella economica è solo una spiegazione parziale; anche altri fattori sono importanti. Per esempio, la poliginia costituisce una soluzione quasi obbligata per le donne che vivono in società che perdono molti uomini a causa della guerra.

vono tutti lavorare per sostenere la famiglia, mentre la moglie deve svolgere i compiti domestici per tutti e, per quanto riguarda i rapporti sessuali, deve trascorrere a turno una notte con uno dei fratelli. Famiglia patriarcale

Famiglia coniugale intima

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■ Modelli di autorità nella famiglia La maggior parte dei sistemi in cui le famiglie estese rappresentano la norma, come l’Irlanda contadina, sono famiglie patriarcali; simili modelli di dominanza maschile sono tradizionali e spesso sanciti dalla legge in Thailandia, Giappone, Iran, Brasile e in molti altri paesi. Si definisce come patriarcale un tipo di famiglia contrassegnata da una rigida separazione dei ruoli fra i suoi membri, sulla base del sesso e dell’età, e da relazioni di autorità fortemente asimmetriche fra marito e moglie, genitori e figli, suocere e nuore. Nella famiglia patriarcale i genitori influiscono considerevolmente sulla scelta del coniuge e, anche dopo il matrimonio, il legame fra lo sposo e i genitori conserva una notevole importanza. Nelle società industrializzate contemporanee, per effetto dell’ingresso di un crescente numero di donne nel lavoro, si è assistito a uno spostamento dal sistema familiare patriarcale verso un sistema egualitario, dove, cioè, potere e

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autorità sono divisi abbastanza equamente tra marito e moglie. Se si tiene conto dei rapporti di autorità e di affetto esistenti fra i familiari, cioè dei modi con cui questi interagiscono, si può contrapporre alla famiglia patriarcale quella coniugale intima, cioè quella forma di famiglia che presenta un sistema di ruoli più flessibile, meno legato al sesso e all’età, e all’interno della quale le relazioni di autorità sono più simmetriche. Esistono infine sistemi familiari di tipo matriarcale, in cui Famiglia matriarcale l’autorità spetta alla moglie e alla madre; sistemi del genere sono però rarissimi: anche nelle Isole Trobriand, dove la discendenza si calcola attraverso la linea femminile, le mogli non dominano i mariti. ■ La residenza familiare La famiglia è detta matrilocale quando la nuova coppia va ad abitare con i genitori della sposa; patrilocale quando la coppia va a vivere con i genitori dello sposo. Attualmente è sempre più diffusa la consuetudine di formare una famiglia nucleare che va a stabilirsi in una propria residenza. Si parla in questo caso di famiglia neolocale, che è Famiglia neolocale quello decisamente dominante nelle società industriali moderne. La residenza neolocale, che rappresenta la norma per tutto l’Occidente, ed è in genere collegata con la monogamia e la presenza di ruoli economici egualitari per uomini e donne, è invece piuttosto rara nelle società non industrializzate: le coppie appena sposate si spostavano in una nuova residenza soltanto in 17 delle società studiate da Murdock. La residenza patrilocale emergeva da questo studio come la più comune nelle società che praticavano la poliginia, la guerriglia, la schiavitù e la caccia e raccolta. La residenza matrilocale era invece la norma nelle società in cui le donne avevano diritto alla proprietà terriera. ■ Discendenza ed eredità Si distinguono per lo più due sistemi principali di discendenza: bilaterale e unilineare. Il sistema familiare più comune nel mondo occidentale si basa sulla discendenza bilaterale e si riscontra in circa il 40% delle culture attualmente esistenti. In esso il gruppo di parentela (chiamato parentado) è formato da tutti i discendenti di una persona, attraverso sia la linea maschile, sia quella femminile. Nella discendenza unilineare, invece, il gruppo di parentela è formato da tutti coloro che discendono da un antenato comune in linea esclusivamente maschile o femminile. Un gruppo di discendenza è detto patrilineare quando l’anello di congiunzione è solo

Discendenza bilaterale Discendenza unilineare... ... patrilineare 157

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... matrilineare Trasmissione ereditaria

Esogamia ed endogamia

maschile, anche se, ovviamente, al gruppo possono appartenere anche delle donne (cioè fanno parte del gruppo i figli e le figlie dei figli, ma non quelli delle figlie, e così via, di un antenato maschio). Si parla invece di rapporti di discendenza matrilineare quando l’anello di congiunzione è esclusivamente femminile. Le forme principali di trasmissione ereditaria della proprietà sono tre. Nel sistema patrilineare la discendenza e l’eredità seguono la linea maschile della famiglia; i congiunti della madre non sono considerati parenti e alle femmine non spetta alcun diritto di successione nella proprietà. Nel sistema matrilineare accade l’inverso e la proprietà si trasmette solo in linea femminile. Nel sistema bilaterale la discendenza e l’eredità seguono sia la linea maschile, sia quella femminile e la proprietà si trasmette tanto ai maschi quanto alle femmine. ■ Il partner preferenziale Le regole che stabiliscono che gli individui si devono sposare al dl fuori di certi gruppi sono dette regole di esogamia. Le regole di endogamia prescrivono invece il matrimonio all’interno di determinati gruppi. L’utilità dell’esogamia consiste nel favorire il formarsi di alleanze tra gruppi diversi. Al contrario, i gruppi religiosi, razziali ed etnici praticano spesso l’endogamia, che viene usata come strumento per conservare la coesione del gruppo. Casi noti di società endogamiche sono l’India, dove esiste una forte pressione sociale che porta a sposarsi con una persona della stessa casta onde evitare essere contaminati dal contatto con caste più basse, e i paesi arabi, nei quali la prescrizione per la donna è di sposarsi con un parente prossimo, possibilmente con il figlio dello zio paterno (regola del matrimonio fra cugini paralleli patrilaterali). Anche molti altri gruppi etnici, come gli afroamericani e gli ebrei, sono essenzialmente endogamici, pur accettando in una certa misura anche i matrimoni esogamici. ■ Il tabù dell’incesto Se i termini endogamia ed esogamia vengono usati in riferimento alla famiglia, allora la regola che i membri dello stesso nucleo familiare devono sposarsi all’esterno è ampiamente diffusa. Nelle società occidentali le relazioni sessuali e i matrimoni fra sorella e fratello, madre e figlio e padre e figlia sono definiti incesto e condannati. Il tabù dell’incesto si applica quasi universalmente ai rapporti tra genitori e figli e tra fratello e sorella, con l’eccezione delle famiglie regnanti dell’antico Egitto, delle antiche monarchie delle Hawaii e de-

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gli Inca e di alcune tribù africane. Al di là di questi casi, i limiti del tabù variano in modo considerevole da una cultura all’altra. In quasi tutte le società dell’Occidente è vietato il matrimonio di una persona con i genitori, i nonni, lo zio o la zia, il fratello o la sorella e il nipote o la nipote. Il tabù dell’incesto è stato spiegato in diversi modi. Alcuni Le spiegazioni l’hanno ricondotto al fatto che le unioni fra consanguinei so- al tabù dell’incesto no biologicamente pericolose perché generano figli con minori probabilità di sopravvivenza o con tare ereditarie. Altri hanno invece posto l’accento sui vantaggi sociali e culturali del tabù stesso. Da questo punto di vista il tabù dell’incesto previene le rivalità e i conflitti all’interno della famiglia. Se l’incesto fosse ammesso, un padre potrebbe essere, per esempio, sia l’amante sia l’educatore della figlia e questa diventerebbe la rivale della madre. Inoltre il tabù impedisce la confusione dei ruoli all’interno della famiglia: se esso non ci fosse, i nati dell’unione padre-figlia sarebbero al tempo stesso figli e nipoti del loro padre e la famiglia risulterebbe a tal punto disorganizzata che riuscirebbe difficilmente a sopravvivere. In terzo luogo, il tabù dell’incesto garantisce che la prole si sposi entro altre reti di parentela, dando vita così a più ampie alleanze sociali ed economiche. Infine, il tabù dell’incesto, in quanto ha l’effetto di obbligare le persone a formare legami con gruppi esterni per ottenere i partner matrimoniali, tende a diffondere e quindi a preservare una cultura tra membri di vari gruppi, anziché tra quelli di uno solo. Un solo piccolo gruppo potrebbe infatti essere facilmente spazzato via da una malattia o da altre calamità. In questo modo, se uno qualsiasi di questi gruppi dovesse estinguersi, la sua tradizione culturale potrebbe sopravvivere negli altri.

8.5 La famiglia occidentale La tipica famiglia occidentale è monogamica (una persona può avere un solo coniuge fin quando dura il matrimonio) ed è più spesso endogamica che esogamica: anche se in questi ultimi anni la situazione sta cambiando, la maggioranza delle persone si sposa ancora nell’ambito del proprio gruppo razziale, etnico, religioso e anche all’interno della classe sociale di appartenenza. Inoltre, la famiglia occidentale è per lo più di tipo nucleare, anche se può capitare che facciano parte della famiglia il nonno, la nonna o altri parenti, ed è neolocale, vale a dire che gli sposi vanno ad abitare da soli, in una casa diversa da quella delle rispettive famiglie di origine. Dal punto di vista dei rapporti di autorità,

Una famiglia monogamica, endogamica, nucleare e neolocale

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Rapporti di tipo egualitario

Storicità della ricerca dell’amore

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la famiglia occidentale è sempre più spesso di tipo egualitario, anche se in parte è ancora patriarcale: le donne, pur godendo della parità giuridica con l’uomo e pur contando sempre di più, non hanno tuttavia ancora raggiunto un’effettiva parità all’interno della famiglia per autorità e mansioni. Ciò si rivela, per esempio, nella persistenza di un elemento chiaramente patrilineare: per lo più, la moglie aggiunge al proprio il cognome del marito e i figli assumono quello del padre. Infine, la famiglia occidentale è bilaterale: vengono ritenuti parenti i congiunti sia del marito sia della moglie e la proprietà si trasmette sia ai figli sia alle figlie. Ovviamente, rispetto a questo modello ideale e dominante ci sono state e ci sono nel mondo occidentale delle eccezioni. Tipiche a questo proposito sono le comuni sorte negli anni ’60 e ’70 del ’900, che praticavano forme comunitarie di famiglia allargata. ■ Famiglia, amore e matrimonio Gli italiani, i francesi, gli americani e altri popoli occidentali ereditano, come abbiamo detto, un insieme di idee sull’amore che fanno parte della cultura occidentale, idee che plasmano le attese delle persone quando cominciano una relazione e che contribuiscono a definire questa stessa relazione. Prima confinata a ristrettissime élite, a partire dal XVIII secolo la ricerca dell’amore diventa, per complessi motivi culturali e sociali, un momento cruciale nella crescita personale. Per le sempre più numerose donne della borghesia in espansione, che incominciavano a restare a casa mentre gli uomini lavoravano altrove e a godere di una parte “libera” del loro tempo, l’amore concentrava in un solo evento determinante tutti i problemi riguardanti la sopravvivenza, la mobilità e il successo, che stavano diventando d’importanza critica per la stessa classe media. L’amore romantico è quindi una caratteristica culturale tipica delle società industrializzate contemporanee. Esso è massicciamente sostenuto e rappresentato in varie forme di cultura popolare attraverso libri, periodici, fumetti, canzoni, film e TV. La sua importanza sociale consiste nel fatto che, come ha sostenuto William Goode, svolge alcune funzioni fondamentali atte a conservare l’istituzione della famiglia nucleare. Innanzi tutto la dedizione reciproca implicata dall’amore romantico aiuta i giovani partner ad allentare i vincoli con le rispettive famiglie di orientamento, facilitando il passaggio dalla famiglia di origine a una nuova famiglia di procreazione nucleare e neolocale. Inoltre, l’amore romantico offre alla coppia un sostegno affettivo nelle difficoltà che deve affrontare per

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dar vita a un nuovo tipo di vita autonomo in assenza o lontananza di parenti. L’amore romantico non è necessario in una famiglia estesa o multipla, nella quale l’aiuto dei parenti consente di affrontare e risolvere gli eventuali problemi. Anzi, in famiglie non nucleari l’amore romantico può risultare disfunzionale, perché può distrarre la coppia dall’osservare gli obblighi più generali verso gli altri parenti. Infine, l’amore romantico costituisce un incentivo a sposarsi in un mondo dove il matrimonio non è più guidato dalle condizioni familiari e sociali, ma è oggetto di una libera scelta. ■ La scelta del partner In generale, nelle società occidentali il processo di selezione del partner è di tipo omogamico: ci si sposa per lo più con una persona simile dal punto di vista della caratterizzazione sociale. Tale somiglianza riguarda soprattutto la classe sociale, il livello di istruzione, la religione e il gruppo etnico di appartenenza. Ciò sottolinea che la stratificazione sociale è ancora un dato socialmente determinante la struttura delle società industrializzate dell’Occidente. La maggioranza delle persone abita ancora in aree segregate dal punto di vista della classe, intrattiene quindi rapporti con persone prevalentemente della stessa classe, manifesta gusti e interessi definiti secondo parametri di classe. Ciò comporta che spesso i coniugi abbiano anche lo stesso livello di istruzione e una simile provenienza professionale. I matrimoni interconfessionali sono generalmente rari. Le persone si sposano all’interno della loro fede religiosa perché chi ha in comune una fede tende anche a condividere i medesimi valori, classe sociale e tipo di residenza. Ma anche le pressioni sociali contro i matrimoni interreligiosi costituiscono un fattore da non sottovalutare. I genitori e i parenti possono opporsi a un matrimonio misto perché temono che l’altro coniuge possa introdurre elementi estranei nella cultura di famiglia. Infine, la maggior parte delle Chiese sono restie ai matrimoni tra esponenti di due fedi diverse, perché si suppone possano condurre a discordie sul tipo di educazione religiosa da impartire ai figli e rappresentare una minaccia per la rispettiva fede dei coniugi. Anche i matrimoni interrazziali sono ancora rari e spesso sanzionati da disapprovazione sociale. La percentuale di matrimoni interrazziali è molto più bassa anche di quella dei matrimoni misti dal punto di vista religioso. In genere, quanto più è piccolo un gruppo tanto più è alto il suo tasso di matrimoni interrazziali. La ragione della bassa percentuale di matrimoni interrazziali è chiara. Per quanto riguarda gli

Una scelta condizionata dalla stratificazione sociale

Matrimoni interconfessionali

Matrimoni interrazziali

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Stati Uniti, per esempio, se le leggi che proibivano questi matrimoni (soprattutto nel Sud) sono state abolite definitivamente dalla Corte Suprema nel 1967, le pressioni della famiglia e della comunità impediscono spesso a persone di razze diverse di sposarsi.

8.6 I cambiamenti nella famiglia L’evoluzione storica in Europa

L’aumento dell’occupazione femminile 162

L’odierno modello occidentale, relativamente omogeneo, di famiglia, è il risultato di un’evoluzione storica complessa. Nell’Europa preindustriale la vita familiare era strutturata principalmente secondo due modelli: quello aristocratico e quello contadino e artigiano. In una famiglia aristocratica la ricchezza si basava sulla proprietà terriera e la vita familiare ruotava intorno al consumo e al divertimento. La maggior parte delle famiglie contadine e artigiane erano invece unità produttive, i cui membri cooperavano nella coltivazione, nella filatura e tessitura. L’avvento della rivoluzione industriale, tra il XVIII e il XIX secolo, modifica radicalmente questo assetto. Attraverso complessi meccanismi di ristrutturazione sociale emerge, a partire dalla metà dell’800, una forma di mentalità e di struttura familiare che si potrebbe definire “borghese” e che diventa di fatto in generale il modello da imitare. È un modello di famiglia nucleare che si basa sulla distinzione tra casa e luogo di lavoro, sulla dominanza del marito-capofamiglia, unico produttore di reddito, e sulla delega alla moglie della gestione della vita domestica e dell’educazione dei figli. Le successive politiche riformatrici degli stati democratici e i mutamenti delle strutture economiche di produzione, consumo e ridistribuzione del reddito hanno consentito da un lato la riduzione della possibilità da parte delle famiglie di trasmettere automaticamente onori, status e ricchezza alle generazioni successive, dall’altro, favorendo l’accesso delle donne al mondo del lavoro, hanno consentito di rendere la struttura familiare sempre più egualitaria. La vita familiare è stata sostanzialmente modificata dal consolidarsi di un complesso sistema assistenziale e previdenziale che ha assorbito molti degli obblighi che i membri di una famiglia avevano tra loro e con i loro parenti. ■ Il rapporto marito-moglie Uno dei cambiamenti di più vasta portata verificatosi nell’ultimo quarto del ’900 nei paesi industrializzati è stato l’aumento dell’occupazione femminile. L’occupazione di entrambi i genitori nel mondo del lavoro può comportare del-

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le tensioni anche forti nella famiglia. Rhona e Robert Rapoport hanno chiamato questo processo “conflitto da sovraccarico”. Per esempio, un marito o una moglie che tornano dal lavoro e trovano una casa disordinata, i bambini che strillano e il frigorifero vuoto sono sottoposti a notevoli tensioni. Marito e moglie sempre più spesso sono prede di un “conflitto di identità” nel cercare di svolgere i loro ruoli tradizionali. Infatti, anche se i matrimoni con due carriere stanno diventando sempre più comuni, la divisione del lavoro in base al sesso è profondamente radicata nella vita familiare occidentale, anche se è meno rigida nelle famiglie dove la donna è più istruita dell’uomo. In generale, comunque, l’aumentata partecipazione delle donne al mondo del lavoro ha esteso la pressione femminile per la conquista di uno status eguale nella famiglia.

Il “conflitto da sovraccarico”

Il “conflitto d’identità”

■ Il rapporto genitori-figli Un’altra area della vita familiare dove negli ultimi decenni sono intervenute numerose trasformazioni è stata quella del rapporto tra genitori e figli. I motivi di contrasto sono molti, da quelli più banali (l’ora in cui, la sera, rientrare a casa) a quelli più sostanziali (la scelta del partner matrimoniale). Lo scontro generazionale, particolarmente avvertito du- Lo scontro rante gli anni ’60 del ’900, fu una delle cause del movimen- generazionale to del ’68. Nonostante ciò, le ricerche compiute agli inizi degli anni ’70 da Bowerman e Behr hanno riscontrato che gli adolescenti cresciuti in famiglie in cui i genitori hanno inLA NUOVA INFANZIA “Ma l’evoluzione verso una socializzazione dei servizi svolti dalla famiglia incide in maniera particolare sulla condizione del bambino. È indubbio che il bambino è sempre meno ‘in famiglia’, e questo sia per ragioni di istruzione, sia perché la donna esce dalla casa e quindi di necessità se ne occupa meno. Questo bambino sarà diverso da quello delle generazioni precedenti, la presenza dei genitori sarà a volta a volta meno importante o più desiderata (in maniera più o meno struggente) proprio perché si tratterà di genitori assenti. Nei limiti in cui non sarà possibile procurare al bambino validi sostituti affettivi dei genitori, la condizione del bambino sarà di maggiore insicurezza psicologica, con una maggiore tendenza al-

la nevrosi. Sarà inoltre, da adulto, un uomo diverso, con un altrettanto diverso atteggiamento verso la famiglia di origine e l’istituzione familiare. Comunque, lo scarico del bambino sulla società è una realtà e spinge in questa direzione anche il fatto che il bambino è meno centrale, meno importante nella vita della nuova coppia, anche se (per ragioni biologiche e psicologiche fondamentali) non può essere ‘sradicato’. Comunque, la coppia ha una vita sessuale, ludica, affettiva molto articolata e non necessariamente centrata sul bambino.” (S. Acquaviva, La famiglia nella società contemporanea, in AA.VV, Ritratto di famiglia degli anni ‘80, Laterza, Roma-Bari 1981; pp. 24-25.)

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8 - La famiglia

fluenza e ruoli abbastanza simmetrici tendono ad adottare i valori e le opinioni dei loro genitori. Ciò invece non si verifica nelle famiglie dove il potere è nelle mani di un solo genitore. Da questo punto di vista i conflitti genitori-figli sembrano dovuti più a difetti propri delle famiglie come agenzie di socializzazione che a influssi sociali esterni.

Fattori demografici sintomo della crisi

Il ruolo del cambiamento della condizione femminile

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■ La crisi della famiglia fondata sul matrimonio Nell’ultimo trentennio del ’900 si sono manifestati numerosi fattori di mutamento, che nei paesi occidentali hanno posto in crisi il modello tradizionale di famiglia coniugale (il quale si sta invece paradossalmente diffondendo con notevole forza nei paesi asiatici). Alcuni fattori demografici, che documentano efficacemente tale crisi, sono stati recentemente riassunti dalla sociologa Anna Laura Zanatta: “il calo e il ritardo dei matrimoni; l’aumento delle convivenze (o famiglie di fatto, o unioni libere); l’aumento delle separazioni e dei divorzi; l’aumento delle famiglie con un solo genitore; l’aumento delle famiglie ricostituite (in cui almeno uno dei coniugi o partner proviene da una precedente unione); l’aumento delle famiglie unipersonali (composte da una sola persona); il calo complessivo delle nascite; l’aumento delle nascite fuori dal matrimonio”. Si tratta di fenomeni che testimoniano un cambiamento complessivo della mentalità, un mutamento culturale in atto che coinvolge la struttura familiare e che esprime, nell’attuale pluralismo dei suoi modelli, l’affermazione di un sempre maggiore pluralismo culturale dentro la stessa società. Per esempio, il calo del numero dei matrimoni, l’aumento delle convivenze e delle famiglie unipersonali e il calo della natalità possono essere almeno in parte connessi al cambiamento, a cui si è già accennato, della condizione sociale della donna (per la quale la condizione sociale di casalinga e madre ha perso attrattiva) e alla conseguente richiesta da parte di questa di autonomia e di eguaglianza rispetto all’uomo. La donna, insomma, ha sempre meno bisogno del matrimonio per realizzare la propria identità e sente come sempre più costrittivo il peso di una difficile conciliazione tra vita di lavoro e vita familiare. Inoltre, il lavoro e la conseguente maggiore autonomia economica consentono alle donne un maggior potere contrattuale all’interno della famiglia. Questo aspetto, se da un lato provoca tensioni rispetto alle aspettative del partner – spesso non disposto ad abdicare ai privilegi che gli venivano assicurati dalla divisione tradizionale dei ruoli – dall’altro lato dà alle donne la garanzia economica ritenuta necessaria per poter divorziare.

8 - La famiglia ■ Il divorzio Il fenomeno sociale che con più forza evidenzia la crisi della famiglia coniugale è il divorzio. La possibilità, legalmente riconosciuta, di divorziare fa parte ormai della mentalità comune dell’Occidente industrializzato, se si eccettuano gruppi sempre più ristretti che la escludono per motivi religiosi. Un tempo il divorzio veniva considerato come una sanzio- Evoluzione ne contro il coniuge che si era macchiato di una colpa. Dap- del concetto prima esso veniva concesso solo in caso di adulterio. Nel cor- di divorzio so degli anni ’70 il sistema del divorzio-sanzione è stato abbandonato e sostituito da quello del divorzio-fallimento. Perché oggi un tribunale decreti la rottura di un matrimonio non è più necessaria la colpa di uno dei due coniugi: basta che fra marito e moglie vi siano delle “differenze inconciliabili” che rendano la convivenza “intollerabile”. Forse l’affermarsi di questa mentalità è dovuto proprio al rafforzamento dell’autonomia individuale nel campo dei sentimenti e degli affetti, oltre che delle scelte, che è culminata nell’affermazione dell’amore romantico. Se il matrimonio è un’alleanza di interessi in cui i sentimenti sono privi di rilievo, e la famiglia è relativamente un’azienda economica e di potere, è la conservazione stessa degli interessi che cementa l’unione. Ma quando al posto dell’interesse subentra la speranza di felicità, le aspettative dei singoli si collocano su un terreno molto più instabile e rischioso.

8.7 Le nuove famiglie Le mutate condizioni socioculturali, hanno contribuito a dare origine a tipologie familiari nuove, assai differenti da quelle tradizionali. ■ Le famiglie ricostituite Le famiglie ricostituite di oggi, sorte dopo un divorzio, sono La famiglia in realtà molto diverse sia da quelle create dopo la vedovan- con genitori za, sia dalla famiglia coniugale classica. Mentre un tempo la divorziati ricostituzione della famiglia significava la sostituzione del partner e, qualora vi fossero figli, del genitore scomparso, oggi la sostituzione del partner comporta l’aggiunta di un genitore. Dopo il divorzio, in nove casi su dieci i figli vengono affidati alla madre. Se la madre si risposa, i figli avranno un secondo padre, un padre “sociale”, con il quale passeranno più tempo che con il primo, biologico, e che probabilmente contribuirà più del padre biologico al loro mantenimento. Se la madre metterà al mondo un altro figlio, essi avranno un fratello “uterino”. Se poi si risposa anche il pa-

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dre biologico, acquisteranno una seconda madre ed eventualmente un nuovo “fratellastro”. Acquisteranno inoltre “quasi zii” e “quasi nonni”, cioè i fratelli e i genitori del secondo padre e della seconda madre e molti altri parenti. In generale, la caratteristica di fondo della famiglia ricostituiUna famiglia ta dopo un divorzio è di avere dei confini più incerti e ambidai confini più incerti gui di quella coniugale, in termini sia biologici, sia giuridici. L’ambiguità di confini delle famiglie ricostituite dipende dal grado della loro complessità strutturale, cioè dalla storia coniugale dei due adulti che l’hanno formata. Quando entrambi hanno alle spalle almeno un matrimonio e un divorzio e portano con sé almeno un figlio, la nuova famiglia che creano è strutturalmente molto complessa. Lo è invece poco quando uno solo dei due adulti è stato sposato senza aver avuto figli. Le ricerche finora condotte mostrano che le seconde nozze sono ancora più fragili delle prime, cioè che le persone divorziate che si risposano divorziano nuovamente con una frequenza maggiore di quelle che si sposano per la prima volta. Ciò può avvenire sia perché sono più disposte a ricorrere al divorzio qualora il matrimonio sia infelice, sia perché la qualità del rapporto che nasce con le seconde nozze è spesso più difficile da gestire di quello delle prime nozze, sia perché le famiglie ricostituite sono strutturalmente più complesse e hanno confini più ambigui, sia infine perché non sono ancora pienamente istituzionalizzate. ■ Le famiglie con un solo genitore La novità delle “famiglie con un solo genitore” è che oggi esse sono provocate non solo dalla vedovanza ma, sempre più spesso, dal divorzio o dalla separazione legale o di fatto, o dalla nascita di un figlio fuori dal matrimonio. Spesso sono frutto di una scelta e non di cause fortuite. Perciò, prevalentemente, non si presentano più come famiglie “incomplete” o “spezzate”, proprio perché non hanno come modello la famiglia tradizionale. Per lo più i sociologi considerano famiglia con un solo genitore quella in cui un solo genitore, indipendentemente dalla sua condizione, vive con un figlio minorenne. Tale definizione permette di concentrare l’attenzione sul fenomeno più rilevante dal punto di vista sociale, che comporta l’espansione numerica di queste famiglie. Spesso si tratta di madri sole con figli piccoli, con i connessi problemi di difficoltà economica e sociale che ciò implica. ■ Le famiglie di fatto La diffusione delle famiglie di fatto, sempre più rapida nel mondo occidentale anche in quei paesi, come l’Italia, dove

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esse sono ancora sanzionate socialmente, testimonia un forte cambiamento del costume. La famiglia di fatto (o more uxorio) è definita dal sociologo Marzio Barbagli come “la situazione di due persone (di solito, ma non necessariamente, di sesso diverso) che vivono insieme sotto uno stesso tetto come sposi, senza essere uniti da matrimonio”. Queste famiglie tendono a configurarsi per lo più come “unioni sperimentali” che nascono da una forma di reazione alla crescente instabilità coniugale, ma stanno anche diventando sempre più spesso un’alternativa al matrimonio, e non una sua premessa. Nascono spesso dalle esigenze delle donne, soprattutto di quelle con un alto livello di istruzione e con un’attività professionale. La natura fluida e flessibile della famiglia di fatto permette loro di mettere più facilmente in discussione la divisione dei ruoli basata sul genere, di ottenere maggiori spazi per l’attività di lavoro extradomestico, di rimandare il momento della nascita del primo figlio. Accade sempre più frequentemente che i conviventi nelle famiglie di fatto contraggano il matrimonio dopo la nascita di un figlio. Ciò modifica Una radicale radicalmente la concezione del matrimonio, che da rito di modifica dell’idea passaggio all’età adulta si trasforma in conferma e consoli- di matrimonio damento di una sperimentata vita di coppia. LA “CONVIVENZA” “Se i matrimoni diminuiscono o sono rimandati, viceversa in molti paesi occidentali sono in aumento le convivenze non matrimoniali. Questo tipo di soluzione, insieme sentimentale e abitativa, non è certo un’invenzione recente, ma nuovo è il significato a essa attribuito dagli individui e il grado di riconoscimento sociale e di legittimazione i cui gode. [...] In taluni paesi europei la presenza di convivenze matrimoniali è tanto consistente e stabilizzata da apparire sempre meno una devianza sociale per quanto tollerata, tendendo invece a divenire un comportamento socialmente ‘normale’. Occorre in particolare distinguere dagli altri paesi europei, e anche dagli Stati Uniti, il caso della Svezia e della Danimarca, e in misura minore della Norvegia. [...] Anche se il modello ma-

trimoniale è ancora sufficientemente forte da motivare una porzione consistente delle convivenze a trasformarsi prima o poi in matrimoni, in questi paesi esso sembra aver mutato di posizione nell’ordine simbolico: né legittima l’inizio della convivenza, né interviene dopo la nascita di figli. Piuttosto, sembra assumere il significato di sanzione o riconoscimento a posteriori. Come osserva, per esempio, Trost, da rito di passaggio sembra divenire sempre più un rito di conferma, neppure molto necessario. La coabitazione va assumendo a sua volta tratti di istituzione sociale, anche con parziali riconoscimenti legali (rispetto all’accesso alla casa, ai diritti reciproci e così via).” (C. Saraceno, Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna 1988; pp. 106-107.)

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8 - La famiglia

PER UN APPROFONDIMENTO ●

T. Parsons, R.F. Bales, Famiglia e socializzazione, Mondadori, Milano 1974

È il classico della teoria funzionalista sulla famiglia. Analizza funzioni e mutamenti delle strutture familiari. ●

W.J. Goode, Famiglia e trasformazioni sociali, Zanichelli, Bologna 1985

Pubblicato la prima volta nel 1962, è ancora oggi lo studio di riferimento per la comparazione dei modelli di famiglia. Tratta della famiglia nei paesi occidentali confrontandola con quella dei paesi arabi, africani, asiatici. Esamina inoltre l’influenza esercitata sui modelli familiari dal processo di industrializzazione. ●

E. Durkheim, Per una sociologia della famiglia, Armando Editore, Roma 1999

Un’analisi dei principali riferimenti paradigmatici di sociologia della famiglia, con particolare attenzione ai contributi classici. ● P.

Donati, e P. Di Nicola, Lineamenti di sociologia della famiglia, Carocci, Roma 2002

Un utile approfondimento dei grandi schemi concettuali utilizzati per lo studio della famiglia. ● M. Barbagli, Provando e riprovando. Famiglia, matrimonio e divorzio in Italia e in altri paesi occidentali, Il Mulino, Bologna 1990

Tratta le trasformazioni del modello familiare avvenute nei paesi occidentali nell’ultimo quarto del ‘900, con particolare riguardo all’Italia. ●

A.L. Zanatta, Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna 1997

Fornisce, in una sintesi rapida ma aggiornata e precisa, la mappa delle nuove tipologie familiari (famiglie di fatto, ricostituite, con un solo genitore), dedicando particolare attenzione alla situazione italiana. ● C. Saraceno, M. Naldini, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, Il Mulino, Bologna 1998

Tratta il tema sempre più rilevante degli interventi legislativi relativi alle nuove forme di famiglia.

SCHEMA RIASSUNTIVO IL PROBLEMA

I modi di intendere la famiglia e il matrimonio sono molteplici e relativi alle culture delle diverse società. È assai difficile trovare un denominatore comune delle differenze.

LE TEORIE SULLA FAMIGLIA

Le principali prospettive di analisi e di interpretazione della famiglia sono state fornite dal funzionalismo e dalla teoria del conflitto.

Il funzionalismo

La teoria funzionalista studia la famiglia in rapporto ai bisogni sociali che soddisfa. Secondo questa prospettiva, le funzioni fondamentali svolte dalla famiglia sono: il controllo della sessualità, la sostituzione dei membri sociali, la socializzazione, la collocazione in uno status sociale dei propri membri, la cura e protezione dei bambini, alcune funzioni di produzione economica e di controllo della spesa.

Il conflittualismo

I teorici del conflitto considerano la famiglia come un ambiente sociale in cui sono continuamente in gioco lotte di vario genere, per l’affermazione dell’identità personale e per il controllo dell’economia familiare.

STRUTTURAZIONE

I modelli fondamentali di famiglia proposti da Peter Laslett e generalmente accettati dai sociologi sono riassumibili in cinque tipi: famiglia del solitario, nucleare, senza struttura coniugale, estesa, multipla.

DELLA FAMIGLIA

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8 - La famiglia segue

I fattori strutturanti

Forme di matrimonio, luogo di residenza della nuova famiglia, modi dell’autorità nella famiglia, tipi di discendenza e di eredità, modalità di scelta del partner sono gli aspetti che contribuiscono a determinare a livello sociologico i modelli fondamentali di famiglia.

LA FAMIGLIA OCCIDENTALE

La tipica famiglia occidentale è di tipo nucleare, è fondata sull’amore romantico e sulla cura dei figli ed è tendenzialmente egualitaria, pur conservando alcuni tratti patriarcali.

Le nuove famiglie

A partire dagli anni ’70 del ’900 il modello occidentale di famiglia sta subendo una crisi notevole. La rivendicazione di un ruolo sociale più autonomo da parte delle donne, la maggiore richiesta generale di una vita intima più libera da vincoli, il diffondersi del divorzio hanno portato alla diffusione di nuovi tipi di famiglie (famiglie di fatto, famiglie ricostituite, famiglie con un solo genitore).

DOMANDE DI VERIFICA 1. Quali sono i principali modelli familiari? 154 2. Cosa differenzia l’approccio funzionalista da quello della teoria del conflitto relativamente allo studio della famiglia? 150b e 152b 3. Quali sono le fondamentali forme di matrimonio? 155

4. Da cosa è condizionata la scelta del partner? 161 5. Perché esiste il tabù dell’incesto? 158-159 6. Quali sono le cause della crisi del modello di famiglia coniugale? 164

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9 La scuola Con il procedere dell’industrializzazione la scuola assume sempre più importanza come agenzia di formazione culturale, sino a proporsi in alcuni casi come esperienza globalizzante. Funzionalisti e teorici del conflitto hanno esaminato il fenomeno, evidenziando i primi la funzionalità che tale istituzione svolge all’interno dei diversi contesti sociali (trasmissione culturale, integrazione, mobilità sociale ecc.) e i secondi le diseguaglianze di classe che la scuola tenderebbe ad alimentare. Alfabetizzazione e scolarizzazione di massa (sia primaria, sia superiore), ma anche abbandoni scolastici e disoccupazione intellettuale costituiscono aspetti differenti di un medesimo problema, a cui i diversi Stati si rapportano secondo modalità che variano sulla base di condizioni politiche, economiche, culturali, storiche e geografiche.

9.1 Il problema Secondo Durkheim le istituzioni scolastiche assolvono allo scopo di sviluppare negli individui quelle doti e quelle capacità che risultano coerenti con l’assetto e con le modalità del sistema sociale di appartenenza. Ma in quale modo? Data la stretta relazione che intercorre tra apparato scolastico e contesto sociale, come si configura questo rapporto? Non solo: esistono sistemi scolastici che rispondono in maniera più pertinente di altri alle esigenze sociali? E, ancora: la scolarizzazione di massa obbedisce veramente a un’esigenza di giustizia sociale, o in realtà è solo una facciata attraverso la quale il sistema economico si impone a strati sempre più ampi di popolazione?

9.2 Scuola e società

Le differenze con le società del passato 170

Nelle società complesse la trasmissione culturale richiede la presenza di istituzioni specializzate, appositamente deputate allo scopo. Così, accanto alla famiglia, nelle società industriali moderne ha assunto sempre più peso l’istituzione scolastica, il cui compito è appunto quello di trasmettere alle giovani generazioni le conoscenze, le abilità e i valori della società. Si può peraltro affermare che il ruolo dell’istruzione rappresenti una discriminante tra le società del passato e le moderne società industriali. Infatti, mentre nelle società preindustriali l’istruzione riguardava generalmente

9 - La scuola

la trasmissione di uno stile di vita, nelle società industriali, invece, l’entità crescente di conoscenze accumulate, l’applicazione sistematica della scienza alla produzione e la complessità della divisione del lavoro hanno fatto sì che la formazione tecnica prevalesse sulle altre dimensioni dell’educazione. Inoltre, mentre nelle società del passato venivano trasmessi uno stile di vita relativamente immobile e un insieme di conoscenze relativamente stabili, la conoscenza scientifica che viene trasmessa dalla scuola moderna è in continuo progresso. Non solo le conoscenze scientifiche tendono a mutare rapidamente, ma lo stesso tessuto sociale, l’organizzazione economica, le abilità richieste e i valori di riferimento si presentano come estremamente variabili. Da qui l’emergere dell’esigenza, sconosciuta ai vecchi sistemi scolastici, di fornire agli individui la capacità di sapersi adattare a un mondo in continua trasformazione. ■ I cambiamenti A partire dagli anni ’50 del ’900, l’accesso alle istituzioni educative di grado medio e superiore si è estesa a classi sociali normalmente escluse da ogni tipo di formazione oltre quella elementare. Contemporaneamente, è aumentata la percentuale di impiegati, tecnici, ricercatori e di personale qualificato richiesto dal mercato del lavoro. In generale, le organizzazioni produttrici di beni e servizi Le richieste hanno rivelato una crescente propensione ad assumere del mercato persone istruite anche per svolgere compiti relativamente del lavoro elementari. In proposito diverse ricerche di area funzionalista hanno messo in luce come esista una connessione positiva tra grado di sviluppo economico di un paese, livello medio di istruzione della sua popolazione e presenza, all’interno di questa, di forze di lavoro con un alto livello di qualificazione tecnico-scientifica. Altre indagini hanno inoltre evidenziato come, a parità di provenienza sociale, il livello di scolarità raggiunto dai singoli esercita un’influenza rilevante sulle loro prospettive di inserimento e successo professionale. Come vedremo nei paragrafi seguenti, queste analisi non sono condivise da tutti i ricercatori, alcuni dei quali sottolineano la presenza di fenomeni come la disoccupazione intellettuale e le disparità di successo scolastico tra le diverse classi sociali. D’altro canto, secondo i funzionalisti lo sviluppo dell’istruzione rappresenta una conseguenza della maggiore qualificazione professionale richiesta dagli sviluppi tecnologici. Il passaggio storico da società basate sul settore primario (agricoltura e allevamento, soprattutto) ad altre che si fon-

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9 - La scuola

dano sull’industria e sempre più sul terziario (servizi) comporta la preparazione di personale sempre più qualificato, capace di svolgere i nuovi compiti richiesti dalle mutate esigenze economiche. Non solo la richiesta di qualificazione aumenta man mano che si procede dal settore primario al secondario, al terziario, ma anche all’interno dei diversi settori si verificano fenomeni di razionalizzazione produttiva che richiedono un aumento delle competenze professionali. Il caso forse più emblematico al riguardo è dato dalla multinazionale nel campo della ristorazione rapida (fast food) Mc Donald’s, in cui anche un’attività semplice come la preparazione e la vendita di hamburger viene pianificata e affrontata scientificamente.

9.3 La scuola di massa Dall’educazione d’élite alla scuola di massa

Il caso degli Stati Uniti

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Il connotato forse più importante del sistema scolastico attuale è costituito dalla sua massificazione. Mentre nei secoli passati l’istruzione è sempre stata appannaggio di poche classi privilegiate, attualmente ogni paese (compresi quelli del Terzo Mondo) tende ad allargare l’istruzione alla totalità della popolazione. Grazie a questa politica l’analfabetismo è quasi totalmente scomparso nei paesi industrializzati, anche se in questi stessi paesi si presentano nuovi problemi come l’abbassamento del livello scolastico, la disoccupazione intellettuale ecc. Va precisato che la tendenza generalizzata all’aumento della scolarizzazione si attua con modalità differenti, tese da un lato a preservare il livello delle competenze e dall’altro a facilitare il reale accesso all’istruzione alle fasce di popolazione più svantaggiate. Nel processo di scolarizzazione gli Stati Uniti hanno anticipato notevolmente gli sviluppi europei. Si pensi, per esempio, che mentre nel 1900 circa il 7% degli americani aveva conseguito il diploma di scuola media superiore, nel 1920 la cifra era salita al 17%, nel 1940 al 50% e oggi supera l’80%. Ciò mentre in Europa solo il 20% dei giovani tra i sedici e i diciassette anni frequenta ancora la scuola e soltanto il 10% di tutti i giovani continua gli studi iscrivendosi all’università. Negli Stati Uniti è cresciuta rapidamente anche la percentuale di graduates (diplomati) che frequentano l’università: dal 4% del 1900 al 16% del 1940 al 57% degli anni ’80. Il tasso di scolarità universitaria del 1980 vede l’Italia in una posizione intermedia rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale, col 25,1%: lo stesso della Francia, superiore a quello del Regno Unito (20,1%) e della Spagna (23,2%),

9 - La scuola

ma inferiore a quello della Germania (27,6%). Decisamente più alto è il tasso del Canada (36,0%). I valori dei paesi in via di sviluppo sono invece nettamente inferiori. Va notato che questi valori risultano relativamente significativi se non sono correlati al tipo di organizzazione scolastica e alla situazione economica del paese. Per esempio, il numero dei laureati di un dato paese può risultare inferiore a quello degli altri paesi, ma essere di fatto eccessivo per il sistema economico di quel paese. Bisogna inoltre considerare che alcuni paesi industrializzati come la Gran Bretagna e la Francia hanno generalmente puntato sulla valorizzazione degli alti livelli di istruzione, anche se ciò ha comportato la chiusura dell’accesso agli studi superiori agli studenti meno capaci. Fino alla fine degli anni ’60 (la contestazione del ’68, come è noto, ha avuto numerose ripercussioni sui sistemi scolastici) gli studenti britannici dovevano sostenere al termine della scuola elementare un difficile esame e sulla base dei risultati riportati venivano indirizzati verso due tipi di scuole molto diverse: le secondary modern schools (per una preparazione di tipo tecnico-professionale) e le grammar schools (di impostazione umanistico-classica, frequentate da pochi giovani che per lo più proseguivano gli studi all’università). Un altro dato piuttosto significativo e da tenere in considerazione riguarda la percentuale di abbandoni rispetto alla popolazione scolastica. Il fenomeno viene indicato con il termine drop out, che designa appunto quanti non riescono a rispondere alle richieste del sistema scolastico. Questo dato risulta particolarmente elevato nelle università italiane; basti pensare che tra il 1970 e il 1983 l’università italiana ha prodotto 922 000 laureati a fronte di 1 744 000 abbandoni: quasi due abbandoni per ogni laureato. Qualcosa di simile si rileva anche presso il sistema universitario francese: nell’anno accademico 1977-78 le lauree conferite erano pari a un terzo dei neoiscritti del 1974. Il fenomeno risulta assai più contenuto nel Regno Unito e in Germania.

I casi inglese e francese

Gli abbandoni scolastici

9.4 Integrazione e controllo sociale La scuola non trasmette solo istruzione, ma anche le idee Uno strumento e i valori che regolano il comportamento degli individui. di socializzazione In questo senso essa perfeziona il processo di socializzazione iniziato dalla famiglia, venendo a costituire un importante strumento di controllo sociale interiorizzato dagli individui. Attraverso i processi educativi, infatti, le nuove generazioni apprendono le norme sociali, le punizioni relative al173

9 - La scuola

Gli esempi storici

La relazione con la stratificazione sociale

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le diverse infrazioni di tali norme e vengono istruite sulla loro posizione, e sui doveri a essa relativi, all’interno di una determinata gerarchia. Va inoltre considerata l’incidenza che i mutamenti storici (di tipo economico, politico, ma anche religioso e ideologico) esercitano sull’istituzione stessa. Sia i contenuti, sia le metodologie di insegnamento sono infatti relativi a un determinato contesto storico e valoriale, di cui sono espressione e che a loro volta contribuiscono a rafforzare. Il fenomeno risulta particolarmente evidente nei periodi di transizione politica, allorché un regime subentra a un altro. Tali periodi sono regolarmente accompagnati da nuovi programmi di studio, nuovi libri di testo, nuovi rapporti gerarchici e disciplinari. Storicamente le diverse civiltà hanno elaborato sistemi scolastici assai differenti. Così, mentre presso gli ateniesi del V secolo a.C. si insegnavano la retorica e la filosofia, a Roma l’obiettivo primario era la formazione di leader politici e militari. Durante il Medioevo, nell’Europa cristiana l’istruzione era in funzione dell’insegnamento religioso, mentre nel Rinascimento venivano privilegiate le lettere e gli studi classici. Allo stato attuale troviamo alcuni sistemi, come quello italiano, in cui si dà ancora notevole spazio alla formazione di tipo umanistico, ma nella maggior parte dei paesi industrializzati si preferisce accentuare l’istruzione tecnico-scientifica. ■ L’obbligo scolastico La scuola non trasmette soltanto i valori e le idee di una società, ma anche la struttura sociale: società con un sistema sociale sostanzialmente chiuso spesso optano per una scuola d’élite, mentre le democrazie solitamente promuovono una scolarizzazione più diffusa. Nella maggior parte dei paesi occidentali l’istruzione è obbligatoria fino ai sedici anni di età (in Italia l’obbligo scolastico solo recentemente è stato innalzato a quindici anni). Questo lungo periodo consente la trasmissione di informazioni, modelli di comportamento, valori che permettono l’integrazione del soggetto nel contesto sociale. Ciò risulta particolarmente prezioso all’interno delle società multietniche, o caratterizzate dalla presenza di diverse subculture, dove le disparità culturali potrebbero ostacolare l’interazione sociale. In questi casi la scolarizzazione può contribuire a integrare i giovani membri di queste minoranze nell’ambito di una cultura comune, incoraggiando lo sviluppo di una società relativamente omogenea fondata su valori condivisi da tutti.

9 - La scuola ■ La selezione È stato spesso rilevato che, accanto alla funzione di integrazione sociale, l’istituzione scolastica opera come filtro di selezione. Se nelle società industriali l’istruzione è una via di accesso importante al successo professionale ed economico, le valutazioni e la selezione operata dalla scuola costituiscono un elemento importante nella valutazione che l’individuo riceverà dal mercato del lavoro. Col conferimento di titoli e punteggi, la scuola indirizza alcune persone verso determinati settori (per esempio, corsi professionali) e altre in settori differenti (per esempio, facoltà universitarie), il che influenzerà profondamente la vita futura degli individui.

L’istruzione come strumento di promozione sociale

■ L’innovazione Sarebbe riduttivo non considerare la reciprocità della relazione scuola-società. Se infatti è vero che la scuola nasce per veicolare idee, valori e conoscenze già elaborate, è anche vero che in questa azione essa stimola non solo l’assimilazione, ma anche la modificazione, la riflessione e l’ampliamento del sapere. Le istituzioni educative aggiungono nuove conoscenze e nuove abilità all’eredità culturale del passato. Ciò dipende da due aspetti: da un lato, l’esperienza educativa stimola la curiosità intellettuale e il pensiero critico; dall’altro, le ricerche scientifiche elaborate in ambito universitario accrescono il patrimonio scientifico. ■ Le funzioni latenti della scuola Accanto alle funzioni sinora esaminate, la scuola ne svolge altre nascoste. Per esempio, ultimamente in Italia si è spesso parlato di “area di parcheggio” per indicare l’azione di ammortizzatore sociale svolta dalla scuola nei confronti della disoccupazione giovanile. Altre volte si è sottolineato come le scuole svolgano anche una funzione di baby-sitting, in quanto aiutano i genitori nell’accudire i figli e permettono loro di lavorare fuori casa. Le scuole superiori e le università, poi, consentono ai giovani dei due sessi di conoscersi, favorendo la formazione di coppie provenienti da contesti familiari abbastanza simili. All’interno della scuola e delle università, inoltre, lo scambio tra coetanei consente lo sviluppo di quella che viene normalmente definita “cultura giovanile”.

“Area di parcheggio” Baby-sitting

Formazione della cultura giovanile

9.5 La scuola nelle teorie del conflitto Le analisi sociologiche che si rifanno alle teorie del conflit- La scuola espressione to tendono a proporre una visione critica dei sistemi scola- dei conflitti di classe stici in quanto ritenuti l’espressione dei conflitti di classe. 175

9 - La scuola

Semplificando tale approccio, si può dire che le istituzioni scolastiche siano l’espressione di una cultura (quella della classe dominante) che viene per loro tramite perpetuata rafforzando i privilegi e la stratificazione vigenti. Questa prospettiva è stata recentemente sostenuta da Samuel Bowles e Herbert Gintis, i quali ritengono che l’istituzione scolastica rafforzi il sistema capitalistico con una duplice azione. Da un lato la scuola diffonderebbe l’idea secondo cui il successo economico dipende esclusivamente dal possesso di determinate capacità e competenze; dall’altro, però, invece di tali competenze, la scuola veicolerebbe modalità comportamentali di sottomissione e disciplina funzionali alla divisione gerarchica del lavoro. Quest’ultimo aspetto spiegherebbe il motivo per cui la scuola tende in genere a premiare atteggiamenti passivi e a non incoraggiare quelli creativi e trasgressivi. A causa della stretta corrispondenza tra gerarchia scolastica e gerarchia del mondo del lavoro, il sistema scolastico stimolerebbe inoltre la socializzazione al rispetto e alla sottomissione, in misura tanto più significativa quanto maggiori sono le probabilità che lo studente vada a svolgere un lavoro poco qualificato. Così come i lavoratori possono fare ben poco rispetto alle mansioni che svolgono, allo stesso modo gli studenti non hanno alcun potere sul loro curriculum. Inoltre, secondo Bowels e Gintis, sia l’istruzione sia il lavoro sono attività puramente strumentali, che vengono svolte non per il piacere o il senso di realizzazione che procurano, ma per ottenere premi (il voto a scuola, il salario in azienda), o per evitare conseguenze spiacevoli (la bocciatura in un caso, il licenziamento nell’altro). Infine, la frammentazione tipica del mondo del lavoro corrisponderebbe nella scuola alla competizione incoraggiata dai voti. Le credenziali educative controllano l’accesso alle professioni

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■ Il credenzialismo Molti sociologi, tra cui recentemente Collins, ritengono che le professioni (occupazioni particolarmente qualificate e retribuite, come quella dell’avvocato, del medico ecc.) tendono a monopolizzare il diritto di fornire determinati servizi (come, per esempio, prescrivere un medicinale o curare un malato) e a mantenere tale diritto, controllando l’accesso alla professione, attraverso l’uso di credenziali educative. Lo scopo principale dei titoli di studio elevati non sarebbe quindi relativo alle competenze acquisite, quanto alla selezione dei nuovi membri al fine di preservare i guadagni e il prestigio di questi gruppi privilegiati. Non solo, ma poiché ciò che unisce i componenti di un ceto è una cultu-

9 - La scuola

ra comune, l’istruzione esercita un notevole ruolo nel trasmettere e consolidare tale cultura comune indipendentemente dalle abilità professionali veicolate. Così, la conoscenza di certe discipline, come per esempio il latino e la cultura classica, sarebbe relativa al retroterra culturale comune capace di rafforzare l’appartenenza al ceto. ■ Il complesso rapporto con il sistema economico Il rapporto tra scuola e sistema economico è stato spesso considerato in senso rigidamente unilineare. Vi sono stati tuttavia alcuni sociologi che hanno cercato di mostrare la complessità dei fenomeni. Recentemente N. Poulantzas ha criticato la concezione funzionalista che vede nella scuola lo strumento della mobilità e della valorizzazione sociale. Secondo Poulantzas due momenti caratterizzano la continuità della divisione in classi della società: i profondi dislivelli di qualificazione fra gli individui e la conseguente collocazione nelle gerarchie di classe. Ora, le differenze di qualificazione non si producono solo all’interno della scuola, che molto raramente riesce a colmare gli svantaggi di partenza, ma anche sul posto di lavoro e nella formazione professionale, così come il mercato del lavoro ha un ruolo fondamentale nella possibilità di promozione sociale. È perciò un errore ritenere la scuola responsabile di una definitiva suddivisione di classe degli individui.

Le critiche di Poulantzas alla teoria funzionalista della scuola

9.6 Istruzione e mobilità sociale La tesi funzionalista secondo cui esisterebbe un rapporto diretto tra istruzione e mobilità sociale è tuttora oggetto di discussione. Nonostante le numerose ricerche condotte in proposito, si riscontrano sull’argomento risultati controversi. Per esempio, gli studi di Anderson condotti su ricerche effet- Gli studi di Anderson tuate negli Stati Uniti, Gran Bretagna e Svezia giungono alla conclusione che esiste un legame assai labile tra istruzione e posizione sociale. Sulla base del confronto tra posizione sociale e titolo di studio di padre e figlio, egli rilevò come il fatto di aver ottenuto un titolo di studio superiore a quello del proprio padre non garantisse di per sé il raggiungimento di una posizione sociale più elevata e, all’inverso, un grado di istruzione inferiore non conducesse necessariamente a un abbassamento del proprio status. Tuttavia, que- Le critiche sti risultati sono interpretabili in diverse maniere; è stato det- ad Anderson to, per esempio, che il modo con cui Anderson ha classificato la posizione sociale e il titolo di studio tenderebbe a ridurre artificiosamente l’ampiezza dei processi di mobilità so177

9 - La scuola

ciale e l’intensità del loro legame con l’istruzione. Va notato che, accanto a conclusioni come quelle descritte, altri studi sono giunti a risultati di carattere opposto. Secondo un’importante indagine condotta sulla mobilità sociale negli Stati Uniti da Peter Blau e Otis Duncan, per esempio, si è rilevato che il fattore più importante in grado di influenzare la probabilità che il figlio raggiunga uno status superiore a quello del padre è dato dalla quantità di istruzione ricevuta.

9.7 Istruzione e diseguaglianza

Classe sociale e tasso di insuccesso scolastico

Uno dei principali motivi che hanno spinto le democrazie a favorire la scolarizzazione di massa è stata la convinzione secondo cui solo mediante l’elevazione del livello di istruzione sarebbe stato possibile diminuire le diseguaglianze sociali. In realtà, nonostante gli sforzi fatti in quella direzione, si sono registrati diversi elementi che hanno messo in dubbio l’ipotesi iniziale. Da numerose statistiche si è appreso, per esempio, che il tasso di insuccesso scolastico ha un rapporto con la classe sociale di appartenenza, il che significa che quanto più elevata è la classe di appartenenza tanto maggiori saranno le probabilità di successo e di continuazione degli studi e viceversa. Naturalmente questo dato ha originato numerose chiavi interpretative, che hanno indagato l’ambiente domestico in senso fisico (spazi) in cui gli studenti si trovano a vivere, il contesto culturale e linguistico, i modelli di riferimento, le carenze economiche e così via. ■ Teoria del deficit Secondo i teorici del deficit, la causa del cattivo rendimento scolastico dei giovani delle classi più disagiate va ricerca-

LE DIFFERENZE LINGUISTICHE NELL’INDAGINE DI BERNSTEIN Secondo una celebre indagine condotta da Basil Bernstein sul linguaggio parlato dalla classe media e dalla classe operaia, nella prima si riscontra l’utilizzo di forme sintattiche complesse e di molti termini (codice elaborato), mentre nella seconda i termini sono pochi e le forme sintattiche elementari (codice ristretto). Tali modelli di linguaggio, ripetuti giornalmente per un periodo di anni, fornirebbero una maggiore stimolazione mentale per il bambino della classe media, che risulterebbe così avvan-

178

taggiato anche relativamente alla resa scolastica. Bernstein sostiene infatti che le differenze di classe nei modelli di linguaggio spiegano in parte le differenze nei risultati scolastici. In primo luogo, le lezioni a scuola sono condotte in un codice elaborato e ciò mette il bambino di classe operaia in una posizione di svantaggio. In secondo luogo, il codice ristretto riduce le possibilità degli alunni di classe operaia di acquisire alcune delle abilità, come analizzare e descrivere, richieste dal sistema scolastico.

9 - La scuola LA PROFEZIA CHE SI AUTOADEMPIE Un interessantissimo studio condotto alla fine degli anni ‘60 del ‘900 dagli psicologi Robert Rosenthal e Leonora Jacobson dimostrò l’esistenza di un rapporto assai stretto fra aspettative degli insegnanti ed effettiva resa scolastica dell’alunno. Prendendo alcuni nominativi a caso, i ricercatori spiegarono alle maestre che da un nuovo test di intelligenza era emersa la superiorità intellettuale di quei bambini. “Dopo il primo anno dall’esperimento si riscontrò una significativa aspettativa di profitto, specialmente consistente per i bambini messicani, il cui vantaggio fu evidente nei punteggi di Q.I. Dopo il secondo anno, quando questi bambini ebbero una maestra diversa, i più piccoli persero il vantaggio dell’effetto-

aspettativa, ma i più grandi lo mantennero.” (R. Rosenthal, L. Jacobson, Pigmalione in classe, Franco Angeli, Milano 1972). Non solo: interrogate in proposito, le maestre erano concordi nel ritenere quei bambini come più felici, più curiosi, più simpatici, meglio adattati e più affezionati degli altri. I dati della ricerca mostrarono tuttavia che ciò avvenne non tanto perché i docenti dedicavano più tempo e maggiori energie ai ragazzi considerati più dotati, quanto piuttosto perché le aspettative dei docenti furono probabilmente comunicate in maniera involontaria mediante sguardi, tono di voce, domande, che influivano sulla concezione di sé del bambino e conseguentemente sul suo rendimento.

ta nelle carenze proprie del contesto familiare di appartenenza. Nelle classi più basse, infatti, diversamente da quanto accade per la classe media, si riscontrerebbero carenze di tipo linguistico e cognitivo, ma anche valori differenti da quelli richiesti dalla scuola, che pregiudicherebbero la resa scolastica. ■ Teoria della differenza La causa dei fallimenti e dei ritardi scolastici non andrebbe ricercata nelle carenze familiari del ragazzo, quanto nei deficit delle istituzioni scolastiche, che opererebbero, seppure involontariamente, delle discriminazioni nei confronti dei bambini provenienti dalle classi più basse. L’origine del cattivo rendimento deriverebbe pertanto dalle aspettative che in quel senso hanno maturato gli insegnanti. ■ Il capitale culturale Pierre Bourdi ritiene che gli studenti delle classi agiate abbiano mediamente un miglior profitto scolastico perché le famiglie trasmettono loro un insieme di conoscenze e di valori e di atteggiamenti nei riguardi della cultura (capitale culturale) che facilitano il rendimento scolastico. Questa eredità culturale viene tramandata tramite la semplice vita in famiglia ed è pertanto ritenuta “naturale” dall’individuo. Il processo induce così a pensare che le diseguaglianze sociali siano dovute alle doti individuali, cioè siano innate. Un al-

Le famiglie agiate trasmettono un “capitale culturale”

179

9 - La scuola IVAN ILLICH: LE DISEGUAGLIANZE SCOLASTICHE “Dovrebbe essere ovvio che, anche quando abbia a disposizione scuole di eguale livello, il bambino povero ha raramente la possibilità di tener dietro al ricco. Possono frequentare scuole di pari qualità e cominciare alla stessa età, ma ai bambini poveri mancano in gran parte le occasioni didattiche che sono normalmente a disposizione del bambino della media borghesia. Questi vantaggi vanno dalle conversazioni e dai libri che ci sono in casa ai viaggi durante le vacanze e

a una diversa coscienza di se stessi, e per il bambino che ne gode valgono sia a scuola sia fuori. Perciò, sin quando le sue possibilità di progredire o di apprendere dipenderanno dalla scuola, lo studente più povero rimarrà generalmente indietro. I poveri hanno bisogno di imparare e non di ottenere un certificato attestante l’assistenza ricevuta per le loro presunte insufficienze.” (I. Illich, Descolarizzare la società, Mondadori, Milano 1972; p. 29.)

tro elemento da non sottovalutare è che i valori trasmessi dalla scuola sono molto simili a quelli delle classi agiate.

9.8 La descolarizzazione

La posizione di Ivan Illich

180

La riflessione sulle problematiche legate all’espandersi della scolarizzazione ha dato origine anche ad atteggiamenti molto critici rispetto all’intervento delle istituzioni nel campo dell’istruzione. Tra questi risulta particolarmente interessante la posizione di Ivan Illich, secondo cui l’espansione della scolarizzazione di massa aumenterebbe la dipendenza delle classi e dei paesi più poveri nei confronti delle classi e dei paesi più ricchi. Le leggi che attualmente impongono l’estensione dell’obbligo scolastico da sei a dieci anni anche nei paesi più poveri dell’America Latina hanno come effetto, sostiene Illich, quello di generare l’idea che per il cittadino medio un’istruzione adeguata sia quella indicata dal modello nordamericano, benché la possibilità reale di andare a scuola per un periodo così lungo sia riservata di fatto a un’esigua minoranza. Le spese per l’istruzione sarebbero in realtà ingenti stanziamenti di denaro pubblico investiti per una minoranza (chi davvero può permettersi di trascorrere tanti anni a scuola) e utili per far accettare sempre più volentieri dalla maggioranza il controllo sociale. Dal punto di vista educativo, la proposta di Illich si presenta come alternativa e prevede la sostituzione del sistema scolastico con una serie di reti e di servizi di riferimento che permettano ai cittadini l’accesso diretto alle informazioni e alle competenze necessarie per la formazione. Si tratterebbe, insomma, di eliminare l’obbligo di utilizzo della struttura scolastica, formalmente uguale per tutti, ma sostanzialmente as-

9 - La scuola

sai differente, per poter utilizzare opportunità educative diversificate secondo i bisogni e gli interessi di ogni individuo.

9.9 L’alfabetizzazione Il processo di alfabetizzazione (cioè l’acquisizione della capacità di leggere e scrivere) riguarda innanzi tutto la diffusione dell’istruzione elementare. Anche al riguardo va rilevata l’enorme discrepanza tra la situazione dei paesi del Terzo Mondo e quella dei paesi industrializzati. ■ L’alfabetizzazione nel Terzo Mondo Negli ultimi trent’anni del ’900 anche nella maggior parte dei paesi del Terzo Mondo si sono registrati notevoli sforzi in funzione di un’espansione del sistema formativo; tuttavia, esistono ancora nazioni in cui circa la metà dei bambini non riceve un’istruzione formale e in cui si registrano altissime percentuali di evasione dall’obbligo scolastico e di analfabetismo. Ovviamente la carenza di alfabetizzazione impedisce gli sviluppi di ogni forma ulteriore di istruzione. Durante l’epoca coloniale, l’idea dominante era che l’istru- Il ruolo zione dovesse essere ridotta al minimo e destinata even- dei regimi coloniali tualmente a una piccola élite locale più vicina agli interessi dei colonizzatori. Spesso si riteneva, poi, che l’istruzione potesse dare adito a ribellioni e comunque a una minore docilità da parte degli abitanti delle colonie. In ogni caso il tipo di sistema scolastico proposto dalle potenze coloniali era assai simile a quello vigente nella madrepatria, non soltanto in relazione alla metodologia, ma anche ai contenuti. Si verificava, così, che si dovessero studiare la storia, la geoL’AUTONOMIA SCOLASTICA: L’ESPERIENZA USA La maggior parte dei paesi ha un sistema scolastico centralizzato; il che significa uniformità di programmi e di curricoli, reclutamento a livello nazionale degli insegnanti e omogeneità nella loro retribuzione. Accanto a questa struttura statale, in molti paesi vi è la possibilità di optare per forme private di istruzione, spesso gestite da ordini religiosi. Attualmente si registra un ampio dibattito sia sul ruolo accentratore dello Stato, sia sulle forme di finanziamento delle scuole private. Un sistema che si distacca notevolmente dal “modello” accentrato è quello degli

Stati Uniti, dove l’istruzione è gestita a livello locale dalla comunità che ne usufruisce. Da un punto di vista economico i singoli Stati forniscono il 40% dei finanziamenti, il governo federale il 10% e il resto proviene dai distretti scolastici locali, che attingono soprattutto dalle imposte locali. Questo tipo di organizzazione consente una maggiore aderenza dell’istruzione alle esigenze del territorio, ma presenta il limite di offrire maggiori opportunità alle zone più ricche, e pertanto capaci di generare maggiori finanziamenti, rispetto a quelle più povere.

181

9 - La scuola

grafia e la lingua di paesi diversissimi e remoti, ignorando invece ciò che riguardava la propria realtà locale. Gli africani istruiti nelle colonie britanniche, per esempio, conoscevano i nomi delle dinastie inglesi, leggevano Milton e Shakespeare, ma nulla che riguardasse la propria cultura. Come ovvio, tali sistemi scolastici risultavano poco produttivi per la popolazione locale e di fatto ottenevano il risultato di aumentare il controllo sociale da parte dei colonizzatori. Un altro aspetto tipico del sistema scolastico coloniale è la sproporzione dell’istruzione universitaria rispetto a quella primaria e secondaria. In altre parole, proprio perché pensato in vista di un’élite che continua i propri studi sino al livello universitario, il sistema scolastico risulta da un lato assolutamente carente a livello elementare e secondario, dall’altro eccessivo (a livello universitario) in relazione allo scarso sviluppo industriale. L’alfabetizzazione Negli ultimi decenni del ’900 numerosi paesi hanno cercadelle popolazioni rurali to di intensificare l’educazione della popolazione rurale incontrando moltissimi ostacoli, che vanno dalla carenza di risorse economiche al limitato numero di insegnanti alle difficoltà relative alle vie di comunicazione. Spesso si sono cercati sistemi che riuscissero a ovviare a questi problemi. In alcuni paesi si è tentato di utilizzare radio e televisione per trasmettere programmi didattici. In altri, come per esempio l’India, si sono incentivati gli interventi di selfhelp education, tramite cui le persone con un minimo di istruzione o con competenze professionali vengono incoraggiate a trasmettere queste competenze ad altri individui durante il proprio tempo libero. Si cerca di individuare pratiche educative capaci di tener conto della condizione reale del territorio e della popolazione, al fine di ottenere quei risultati che il sistema scolastico tradizionale non riesce a raggiungere. ■ L’alfabetizzazione in Europa Nella maggioranza dei paesi dell’Unione Europea l’obbligo scolastico riguarda la fascia di età che va dai sei ai sedici anni. Vi sono tuttavia delle eccezioni: in alcune nazioni si inizia prima (è il caso di Irlanda del Nord, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Lussemburgo e Grecia); in altre si prosegue sino ai diciotto anni (Belgio e Danimarca). In Danimarca l’obbligo scolastico inizia a sette anni; in Italia solo recentemente è stato elevato dai quattordici ai quindici anni. Comune è la distinzione tra scuola materna (pre-school), elementare (primary) e secondaria (secondary), ma non sempre i tempi sono gli stessi. Per esempio, in Danimarca la scuola se-

182

9 - La scuola

condaria inizia a sedici anni. Nella maggioranza dei casi, comunque, la scuola primaria termina a dodici anni. Un aspetto piuttosto importante da notare riguarda la for- La formazione mazione degli insegnanti: nonostante le differenze da pae- degli insegnanti se a paese, gli insegnanti dei diversi gradi di istruzione (primaria e secondaria) ricevono un livello di formazione più omogeneo che non in Italia. Solo da pochi anni, infatti, il solo diploma magistrale non è più sufficiente per l’insegnamento primario e solo adesso iniziano a nascere facoltà universitarie per la formazione di insegnanti di scuola primaria. Nella maggior parte dei paesi industrializzati l’istruzione Obbligo e gratuità elementare non soltanto è obbligatoria, ma è anche gratuita ed è finanziata mediante un prelievo fiscale imposto, sia pure secondo modalità diverse, a tutti i cittadini indipendentemente dal fatto che abbiano o meno dei figli. Ci si è da tempo resi conto che per rendere effettivo l’obbligo scolastico è necessario che questo sia sorretto da interventi pubblici, e non assicurato unicamente tramite sanzioni legali.

9.10 La situazione italiana In Italia ancora nel 1871, cioè dieci anni dopo l’unità, gli analfabeti rappresentavano il 68,8% della popolazione superiore ai sei anni di età. Per decenni l’analfabetismo ha rappresentato un serio problema nazionale, anche se la legge Coppino prima (1887) e la legge Orlando poi (1904) ribadirono l’obbligo scolastico. Ancora agli inizi del ’900 il fenomeno riguardava quasi la metà della popolazione superiore ai sei anni d’età ed era prevalentemente radicato al sud della penisola: l’analfabetismo continuò a rappresentare per decenni una delle maggiori piaghe sociali del paese, particolarmente nelle aree meno sviluppate del Mezzogiorno. Mentre infatti il tasso di scolarità nel Nord raggiungeva il 96% e nel Centro l’88%, nel Meridione la percentuale si fermava al 62% e nelle Isole al 58%. Nonostante il fenomeno si sia lentamente estinto, le differenze regionali permangono: ancora nel 1981, infatti, all’1% di analfabeti in Piemonte e Veneto si contrappongono il 6,1% di analfabeti in Sicilia e il 9,6% in Calabria. Nel tempo si è assistito a un’evoluzione delle modalità di intervento pubblico per salvaguardare l’istruzione elementare: si è passati dalla semplice imposizione di sanzioni ai contravventori ad azioni nei confronti dei più poveri (patronati scolastici ecc.) a interventi mirati a tutti gli studenti indipendentemente dal reddito (per esempio, i libri gratuiti a tutti i bambini della scuola elementare).

I tassi di analfabetismo

Le disposizioni contro l’evasione dell’obbligo scolastico

183

9 - La scuola Tabella 1

L’evoluzione dei tassi di scolarità in Italia

Elementare*

1951

1961

1971

1981

1991

118,0

111,7

108,0

100,5

99,5

Media inferiore*

30,5

60,5

90,4

105,1

107,0

Media superiore*

10,3

21,3

44,3

51,7

67,3

2,9

4,3

13,1

14,3

17,1

Università**

* Il dato è superiore a 100 per la presenza di rientri scolastici di persone non incluse nella fascia di età. ** Tasso calcolato solo sugli studenti in corso.

La scolarizzazione di massa

La legge Casati

La legge Daneo-Credaro

184

Si può propriamente parlare di scolarizzazione di massa in Italia solo a partire dagli anni ’50 e ’60. Relativamente alla massificazione dell’istruzione secondaria, invece, bisogna aspettare la fine del decennio seguente: tra il 1961 e il 1981 si assiste a un notevolissimo aumento nella frequenza all’istruzione media superiore (si passa infatti dal 21,3% al 51,7% del totale della popolazione in età corrispondente). L’aumento degli iscritti nella secondaria superiore ha comportato una redistribuzione della popolazione scolastica, che si è riversata non tanto sui licei classici, ma in parte sul liceo scientifico e in maniera considerevole sugli istituti tecnici e professionali. ■ I mutamenti legislativi La variazione nella frequenza degli studenti italiani ai diversi livelli di istruzione è strettamente legata a mutamenti di carattere economico e politico-legislativo. Se da un lato il fenomeno è certamente collegato all’estendersi dell’industrializzazione, e in generale alle mutate esigenze economiche, dall’altro esso risulta in stretta relazione con le politiche e le variazioni legislative conseguenti. La legge Casati (1859), così chiamata dal nome del ministro del governo del Piemonte che ne aveva curato la stesura, costituisce l’origine del sistema scolastico italiano. Essa prevedeva che, una volta assolto l’obbligo scolastico di quattro anni (due di scuola inferiore e due di superiore), lo studente si trovasse a scegliere tra un ramo classico e uno tecnico nettamente distinti. Il primo era pensato per chi avrebbe continuato gli studi all’università; il secondo, dopo tre anni di scuola tecnica, consentiva l’iscrizione all’istituto tecnico e da una sezione di questo l’accesso ad alcune facoltà scientifiche. Il passaggio decisivo verso l’espansione pressoché generalizzata dell’istruzione elementare si è avuto con la legge Daneo-Credaro (1911), con la quale gran parte delle scuole di base (sino a quel momento dipendenti dai comuni) fu affidata allo Stato. Questo provvedimento rese possibile lo

9 - La scuola

sviluppo dell’edilizia scolastica, una migliore distribuzione delle scuole sul territorio e l’istituzione delle scuole serali e festive per adulti, il cui scopo era la riduzione del tasso di analfabetismo. I risultati di questi interventi si rivelarono positivi: infatti nel 1921, cioè dieci anni più tardi, il numero degli analfabeti era calato considerevolmente. La riforma a cui per molti aspetti fa ancora riferimento la La riforma Gentile scuola italiana è comunque quella introdotta dal ministro-filosofo Giovanni Gentile nel 1923. Per la prima volta in Italia veniva istituita, all’interno del sistema scolastico, l’attuale scuola materna (resa statale solo nel 1968), affidata ai comuni e ai privati; si creavano altresì gli istituti magistrali, deputati alla formazione degli insegnanti, e le scuole speciali per i portatori di deficit sensoriali; si innalzava inoltre l’obbligo scolastico ai quattordici anni d’età. La riforma prevedeva che, dopo le elementari, il ciclo si differenziasse in vari indirizzi: ginnasio-liceo, liceo scientifico, istituto magistrale, istituto tecnico e scuola complementare. I licei consentivano l’iscrizione a tutte le facoltà universitarie, l’istituto tecnico a economia e commercio e a statistica, l’istituto magistrale unicamente alla facoltà di magistero; la scuola complementare non consentiva alcun accesso universitario. Le variazioni introdotte dal regime fascista tesero da un lato ad aumentare l’accentramento del sistema scolastico, dall’altro a sottolineare la distinzione tra un curriculum pensato per le classi medio-superiori e un altro per la classe operaia. Così, dopo le elementari ci si poteva iscrivere, una volta superato un esame, alla scuola media (nata dalla fusione del triennio inferiore del ginnasio, del tecnico e del magistrale), da cui si poteva accedere ai licei, all’istituto tecnico e all’istituto magistrale, oppure alla scuola di avviamento professionale, che non consentiva sbocchi universitari. Solo chi aveva frequentato il liceo classico poteva iscriversi a qualsiasi facoltà universitaria, mentre gli altri ordini di studi, compreso il liceo scientifico, erano vincolati a particolari facoltà. ■ La scuola italiana dal secondo dopoguerra

ai giorni nostri La caduta del fascismo e l’avvento al potere delle forze democratiche comportarono un ripensamento del sistema educativo, teso a ridurre la dicotomia classista che ispirava l’ordinamento scolastico precedente. Nacquero così la leg- La scuola media ge di riforma del 1962, che, abolendo la distinzione tra scuo- unica la media e avviamento professionale, istituiva una scuola 185

9 - La scuola CRITICHE ALLA SCUOLA D’ÉLITE: L’ESPERIENZA DELLA SCUOLA DI BARBIANA Un testo ormai classico, che ha dato un grande apporto alla riflessione sulla dimensione realmente educativa della scuola italiana dell’obbligo, è stato Lettera a una professoressa, libro nato dall’esperienza scolastica innovativa di don Lorenzo Milani a Barbiana. “Vediamo un po’ a chi giova che la scuola sia poca. Settecentoquaranta ore l’anno sono due ore al giorno. E il ragazzo tiene gli occhi aperti altre quattordici ore. Nelle famiglie privilegiate sono quattordici ore di assistenza culturale di ogni genere. Per i contadini sono quattordici ore di solitudine e silenzio a diventare sempre più timidi. Per i figlioli degli operai so-

Gli organismi collegiali

La riforma delle elementari L’autonomia scolastica

186

no quattordici ore alla scuola dei persuasori occulti. Specialmente le vacanze estive hanno l’aria di coincidere con precisi interessi. I figlioli dei ricchi vanno all’estero e imparano più che d’inverno. I poveri il primo ottobre hanno dimenticato quel poco che sapevano a giugno. Se son rimandati a settembre non possono pagarsi le ripetizioni. In genere rinunciano a presentarsi. Se son contadini danno una mano per le faccende grosse dell’estate, senza aggravio di spesa per la fattoria.” (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1988; p. 69.)

media unica, e la legge dell’11 dicembre 1969, che liberalizzava l’accesso universitario a ogni diplomato. L’esigenza di una scuola in cui le diverse componenti avessero maggiore spazio e potessero contribuire al miglioramento della didattica diede origine ai decreti delegati del 1974, che istituirono gli organismi collegiali per la gestione democratica della scuola e introdussero la possibilità di sperimentazione, sia curriculare sia didattica, all’interno delle scuole di ogni ordine e grado. Nel giugno 1990 furono emanati i nuovi programmi della scuola elementare, che rivedono la didattica e i curricula dell’istruzione primaria, istituiscono l’insegnamento modulare, introducono una specializzazione per area del corpo insegnante. La legge del 15 marzo 1997, infine, consente piena autonomia organizzativa e didattica alle singole istituzioni scolastiche, lasciando allo Stato il controllo di quelle funzioni che richiedono una guida unitaria (per esempio, il perseguimento di determinati obiettivi). Come si può desumere dall’analisi dei provvedimenti legislativi riportati, il sistema scolastico italiano si presenta come un insieme spezzettato, dove i diversi ordini di scuola si riferiscono a riforme parziali, elaborate in periodi differenti secondo logiche e obiettivi talvolta contrastanti. Costituisce una vergogna tutta italiana l’avere un’istruzione secondaria superiore dipendente in buona parte da programmi che risalgono al 1923, in netto contrasto (per obiettivi, metodologie, finalità) con quelli dell’istruzione secondaria inferio-

9 - La scuola Tabella 2

Struttura della popolazione italiana per livello di istruzione 1951

1961

1971

1981

1991

laureati

1,0

1,3

1,8

2,7

3,6

diplomati

3,3

4,3

6,9

11,5

18,2

licenza medio-inferiore

5,9

9,6

14,4

23,8

30,7

76,9

76,5

71,4

58,8

45,4

licenza elementare e alfabeti senza titolo

re, a loro volta incongruenti con i più recenti ordinamenti dell’istruzione elementare. Si è tentato di porre rimedio a questo stato di cose con l’e- I tentativi di riforma laborazione da parte di una commissione parlamentare (commissione Brocca) di un piano di riforma, applicato parzialmente nell’ambito delle scuole sperimentali. Attualmente si sta elaborando un progetto di riforma generale dell’istruzione (riforma Berlinguer), che entrerà in vigore a partire dal 2001. La recente sostituzione del vecchio esame di maturità con il nuovo esame di Stato (in vigore dall’anno scolastico1998-99) tende a predisporre l’attività scolastica all’interno di questa ottica di riforma. PER UN APPROFONDIMENTO L. Benadusi, “Scuola riproduzione mutamento”, Sociologia dell’educazione a confronto, La Nuova Italia, Firenze 1984



Attento esame delle diverse dimensioni della sociologia dell’educazione. ●

A. Cobalti, Sociologia dell’educazione, Franco Angeli, Milano 1983

Esamina le principali teorie sulla scuola.

P. Landri e L. Queirolo Palmas (a c. di), Scuole in tensione. Un’indagine sulle micropolitiche della scuola dell’autonomia, Milano, Franco Angeli 2004



Presenta l’evoluzione del sistema scolastico italiano, i problemi e il dibattito pedagogico e politico. ●

H.J. Graff, Alfabetizzazione e sviluppo sociale in occidente, Il Mulino, Bologna 1986

Raccoglie studi diversi sul tema dello sviluppo dell’alfabetizzazione dal Medioevo ai giorni nostri. ● R. Moscati (a cura di), La sociologia dell’educazione in Italia, Zanichelli, Bologna 1992

Fornisce un quadro complessivo delle diverse tematiche relative alla sociologia dell’educazione così come sono state affrontate negli ultimi decenni in Italia.

187

9 - La scuola

SCHEMA RIASSUNTIVO IL PROBLEMA

La scuola risponde al bisogno tipico delle società complesse di trasmissione culturale mediante istituzioni specializzate. L’istituzione scolastica trasmette infatti ai membri di una società le conoscenze, i valori, le modalità di comportamento che le sono propri e senza i quali verrebbe compromesso il processo di integrazione individuale. La velocità con cui le moderne società si modificano spinge la scuola a porsi nuovi obiettivi, come quello di formare personalità capaci di adattarsi a situazioni ed esigenze diverse.

LA SCUOLA DI MASSA

Il passaggio storico da società fondate sul settore primario ad altre che si fondano sull’industria e sempre più sul terziario, con la conseguente richiesta di personale qualificato, ha fatto sì che a partire dagli anni ’50 accedessero all’istruzione primaria e a quella secondaria ampie fasce di popolazione. È questo il fenomeno della scuola di massa.

Le singole situazioni

Le politiche di scolarizzazione differiscono da Stato a Stato, presentando situazioni di altissima scolarizzazione (come quella USA), altre che si attestano su livelli medio-alti (paesi dell’Europa occidentale), altre ancora in cui è tuttora ampiamente diffuso l’analfabetismo (paesi del Terzo Mondo). Alcuni paesi presentano un modello di istruzione centralizzato (per esempio, la Francia), altri decentralizzato (per esempio, gli USA).

INTEGRAZIONE

La scuola non trasmette solo istruzione, ma anche i modelli di comportamento di un determinato contesto sociale. Essa esercita così un controllo sociale di tipo interiore, poiché gli individui tendono a far propri i modelli appresi. Tramite la scuola gli individui assimilano anche la struttura sociale e i comportamenti relativi al proprio ruolo e con ciò anche un patrimonio culturale comune, venendo così favoriti nell’integrazione. Le altre funzioni della scuola sono: selezione (con diplomi e voti preseleziona il personale per il mercato del lavoro), innovazione, funzioni latenti.

E CONTROLLO SOCIALE

LE TEORIE DEL CONFLITTO

I teorici del conflitto esaminano l’istituzione scolastica come espressione delle classi e del sistema economico dominanti. Bowles e Gintis ritengono che la scuola rafforzi il sistema capitalistico, diffondendo l’idea secondo cui il successo economico dipende esclusivamente dal possesso di determinate capacità e competenze, e veicolando, invece, modalità comportamentali di sottomissione e disciplina funzionali alla divisione gerarchica del lavoro.

LE TEORIE FUNZIONALISTE

La tesi funzionalista, che pone un rapporto diretto tra livello di istruzione e status sociale, è stata confermata da numerose ricerche, posta in dubbio da altre. Il rapporto sembra infatti modificato da diversi fattori, tra cui lo status sociale della famiglia di provenienza. Le ricerche sull’insuccesso scolastico hanno evidenziato che esso è statisticamente più probabile negli appartenenti alle classi più basse.

La teoria del deficit

Secondo i teorici del deficit, la causa di ciò va ricercata nelle carenze proprie del contesto familiare di appartenenza.

Le teorie della differenza

Secondo le teorie della differenza, nei deficit delle istituzioni scolastiche; secondo altri ancora nell’insieme di conoscenze, valori e atteggiamenti nei riguardi della cultura trasmessi dalle famiglie.

LA DESCOLARIZZAZIONE

Ivan Illich ritiene che nelle nostre società la scuola tenda a divenire globalizzante e a escludere ogni altra forma di insegnamento. L’istruzione formale è inevitabilmente

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9 - La scuola segue

ineguale per ricchi e poveri e non fa che accentuarne le differenze: si tratta dunque di descolarizzare la società e di riferirsi alle reti di istruzione più consone ai propri interessi. Nonostante gli sforzi compiuti, in buona parte del Terzo Mondo si registrano altissimi tassi di analfabetismo. In molti paesi si cercano modalità operative innovative capaci di limitare la portata del problema, che affonda le sue radici nei sistemi educativi coloniali. IL CASO ITALIANO

Sebbene con piccole differenze, l’obbligo scolastico nei paesi europei va dai sei ai sedici (quindici in Italia) anni di età. In Italia l’analfabetismo ha costituito un grande problema per lungo tempo, problema al quale si è cercato di ovviare con diverse leggi (Casati, Coppino, Orlandi). In ogni caso, si può parlare di scolarizzazione di massa solo a partire dagli anni ’50. Le leggi principali del sistema scolastico italiano sono: legge Casati (1859), riforma Gentile (1923), legge della nuova scuola media unificata (1962), legge di liberalizzazione degli accessi universitari (1969), decreti delegati (1974), nuovi programmi della scuola elementare (1990), legge dell’autonomia scolastica (1997), sostituzione del vecchio esame di maturità con il nuovo esame di Stato (in vigore dall’anno scolastico1998-99), riforma Berlinguer (in vigore dal 2001).

DOMANDE DI VERIFICA 1. Quali sono i cambiamenti sociali che hanno richiesto un’espansione del sistema scolastico? Par. 9.2 2. Che cos’è la scuola di massa? Che cosa significa drop out? 172, 173b 3. In che senso la scuola esercita un controllo sociale? 173b

4. Quali sono le funzioni “latenti” della scuola? 175b 5. Quali sono i principali problemi dell’alfabetizzazione nei paesi del Terzo Mondo? 181-182 6. Come si è evoluta la legislazione scolastica italiana? Mediante quali leggi? 184b-185-186187

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10 Mass media Collegamenti telematici e satellitari, sistemi elettronici e a stampa non solo sono ormai parte integrante dell’economia della società, ma della società stessa abbracciano i valori, le conoscenze, i sistemi normativi, in una parola la cultura. Gran parte delle transazioni monetarie, infatti, avvengono ormai tramite un computer, così come l’acquisizione di notizie, modelli di comportamento, valori e conoscenze viene sempre più assunta tramite i nuovi mezzi di comunicazione via rete. L’esistenza di mezzi capaci di mettere in contatto, spesso in tempo reale, una grande quantità di individui è il prodotto di condizioni scientifiche, storiche e sociali da cui tali mezzi in qualche modo dipendono, ma che essi stessi contribuiscono a modificare. La loro nascita in un contesto di industrializzazione avanzata ha a sua volta contribuito a rafforzare alcuni caratteri del sistema postindustriale, come, per esempio, l’affermarsi di bisogni funzionali a determinate strategie di marketing. Analogamente, nel campo della comunicazione politica, le novità conseguenti all’avvento dei mass media sono tali da rendere oggi improponibili candidati nel passato giudicati eccellenti.

10.1 Il problema L’avvento di forme di comunicazione potenti come quelle rappresentate dai mass media ha suscitato una serie di interrogativi sulle possibilità di manipolazione dell’informazione da parte di chi detiene la proprietà di tali mezzi, sugli effetti che questi producono nel pubblico (a cui la comunicazione è rivolta come a un insieme indifferenziato di individui), sull’analisi dei contenuti da essi trasmessi. Ci si è chiesti quali caratteri specifici connotino la comunicazione di massa; se a essa siano legati effetti positivi come la diffusione dell’informazione, o tendenze inevitabilmente manipolatorie della pubblica opinione; come la comunicazione di massa incida sulle forme tradizionali di comunicazione; se essa sia portatrice di sviluppo e innovazione, o non piuttosto di un atteggiamento di quieta passività.

10.2 La comunicazione mass mediale Per comunicazione di massa si intende ogni processo di produzione e trasmissione di informazioni (suoni, immagini, dati ecc.) capace di raggiungere in modo simultaneo, o comunque in un brevissimo tempo, una grande massa 190

10 - Mass media

di individui in differenti situazioni spaziali. I mezzi di comunicazione di massa sono strumenti che, per usare un’espressione di McLuhan, consentono di estendere le potenzialità del corpo umano in modo da rendere possibile una comunicazione estesa, che oltrepassa i vincoli spazio-temporali riuscendo così a veicolare la medesima informazione a masse di individui. Come è noto, l’espressione “mezzi di comunicazione di massa” è normalmente usata in riferimento a stampa, cinema, pubblicità e sempre più con riferimento ai media elettronici: radio, televisione e reti telematiche. Peculiarità di questi ultimi è la possibilità di rendere fruibile in tempo reale l’informazione a individui distanti migliaia di chilometri. Sino a qualche anno fa, sin quando non avevano preso piede grandi reti telematiche come Internet, si era soliti attribuire ai mass media il carattere di comunicazione a una via. Mentre nei processi di comunicazione individuale tra emittente e ricevente si verifica un processo di feedback (cioè una reale integrazione tra emittente e ricevente), nel caso della comunicazione radiofonica, televisiva ecc. la risposta del ricevente risulta quasi assente o limitata a occasioni sporadiche (per esempio, trasmissioni con interventi dal pubblico). Con lo sviluppo dei sistemi digitali, e in generale dell’informatizzazione, si è però riusciti a dar vita a media interattivi, in cui più persone dalle diverse parti del globo possono comunicare reciprocamente in tempo reale. In questo caso, allora, il carattere di unidirezionalità della comunicazione e gli aspetti a essa conseguenti (passività del ricevente ecc.) vengono ampiamente ridotti.

Una comunicazione al di là dei vincoli spazio-temporali

Emittente e ricevente nelle comunicazioni di massa

10.3 Qualche cenno storico L’espressione “comunicazione di massa” comincia a essere utilizzata diffusamente durante la seconda guerra mondiale negli Stati Uniti, in seguito all’intensificarsi delle trasmissioni radiofoniche utilizzate come strumento di guerra psicologica contro le popolazioni nemiche, oltre che di informazione e propaganda per le popolazioni amiche. In realtà, già nei primi decenni del ’900 erano stati compiuti degli studi sull’effetto che particolari forme comunicative avevano su ampie fasce di popolazione. Al riguardo risultano pioneristici gli studi compiuti, tra il 1918 e il 1920, da Thomas e Znaniecki (ll contadino polacco in Europa e in America), che esaminano il ruolo della stampa nella disorganizazione e riorganizzazione di comunità rurali in Polonia. Sempre nei primi decenni del ’900 furono compiute analisi

La nascita del termine

Le prime ricerche sociologiche

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10 - Mass media

Il ruolo dei totalitarismi

sulle possibilità di pressione esercitate dalla stampa sul sistema politico. L’ambito di quelle che attualmente denominiamo comunicazioni sociali si delinea comunque in maniera decisa negli anni ’30 per effetto dell’impiego massiccio di giornali, radio e cinema, utilizzati a fini di propaganda da parte dei regimi fascista e nazista e del comunismo sovietico. Così, per esempio, in Italia si assistette alla diffusione del cinema da parte del governo fascista con la creazione di Cinecittà e all’incentivazione di programmi cinematografici di propaganda sia diretta, come i cinegiornali dell’Istituto Luce, sia indiretta, come i colossal inneggianti ai valori propugnati dal regime. Il crescente ricorso, come strumenti di propaganda, a stampa (compresi i fumetti), cinema e soprattutto trasmissioni radiofoniche (il caso esemplare fu quello di “Radio Londra”) focalizzò l’attenzione durante la seconda guerra mondiale sui nuovi media e sull’importante ruolo da essi esercitato a livello di pubblica opinione. La rapidissima diffusione della televisione a partire dagli anni ’50 negli Stati Uniti e in Europa, l’espansione della pubblicità e degli studi motivazio-

LA PROPAGANDA RADIOFONICA “L’arrivo della radio rafforza le strategie internazionaliste della propaganda governativa. Un paese, in particolare, si distingue in questo campo, l’Unione Sovietica, che a partire dal 1929 dà il via a regolari trasmissioni in tedesco e in francese e l’anno seguente in inglese e olandese. È questo il logico prolungamento di una strategia di esportazione della rivoluzione formulata nel 1921, durante il III congresso dell’Internazionale comunista, in un documento programmatico chiamato ‘Tesi sull’organizzazione e la struttura dei partiti comunisti’. La creazione di una struttura centrale mondiale come il Komitern permette di gettare le basi di una formidabile rete di ‘comunicazione internazionale’, di cui i partiti fratelli sono i relais e i punti d’appoggio. Nel 1923, lo Stato-partito riorganizza la propria agenzia di stampa, che prende il nome di Tass. A partire dal 1931, anche la Chiesa romana si dota di un mezzo di comunicazione poliglotta, Radio Vaticana. È dalla Germania, però, che prende definitiva-

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mente slancio l’internazionalizzazione della radio. Il potere nazista inventa il concetto di ‘guerra psicologica’, che era un leitmotiv di Mein Kampf, e lo applica alla sua politica estera. Nel 1933 viene inaugurata la stazione radio a onde corte di Zeesen, nelle vicinanze di Berlino, le cui trasmissioni sono indirizzate alle numerose comunità di emigrati tedeschi; la stazione trasmette anche in inglese in direzione degli Stati Uniti. Tre anni più tardi, durante i giochi olimpici di Berlino, avrebbe trasmesso in diretta in ventotto lingue. Nel 1935 Mussolini e il fascismo danno prova della stessa precocità nell’uso propagandistico della radio trasmettendo in arabo verso l’Africa e il Medio Oriente. Nel 1936, durante la guerra civile spagnola, l’utilizzo della radio in lingua straniera da parte dei contendenti lascia presagire il ruolo strategico di questo nuovo mezzo di propaganda.” (Armand Mattelart, La comunicazione globale, Editori Riuniti, Roma 1998; pp. 6263.)

10 - Mass media LA “RIVOLUZIONE” DEI MASS MEDIA “Inserendo con i media elettrici i nostri corpi fisici nei nostri sistemi nervosi estesi, istituiamo una dinamica mediante la quale tutte le tecnologie precedenti, che sono soltanto estensioni delle mani, dei piedi, dei denti e dei controlli termici del corpo – tutte queste estensioni, comprese le città – saranno tradotte in sistemi d’informazione. La tecnologia elettromagnetica richiede dall’uomo una docilità profonda e la quiete della meditazione, come si addice a un organismo che ha ora il cervello fuori dal cranio e i nervi fuori della pelle. L’uomo deve servire la sua tecnologia elettrica con la stessa fedeltà da servomeccanismo con la

quale serviva la sua canoa, la sua tipografia e tutte le altre estensioni dei suoi organi fisici. Ma con la differenza che le tecnologie precedenti erano parziali e frammentarie, mentre quella elettrica è totale e compatta. Il consenso, o la coscienza esterna, è ora necessario quanto la consapevolezza personale. Con i nuovi media comunque è possibile immagazzinare e trasformare tutto, e quanto alla velocità non esistono più problemi. Non sono possibili ulteriori accelerazioni senza superare la barriera della luce.” (Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano 1981; p. 63.)

nali a essa collegati, gli sviluppi dei settori di marketing all’interno delle aziende, la ricerca di nuove strategie per attirare il consenso politico di ampie fasce di elettori fecero sì che si sviluppasse un ricco dibattito sui mass media, le loro possibilità persuasorie e la liceità circa il loro uso.

10.4 Gli sviluppi Gli sviluppi delle comunicazioni di massa sono strettamente legati ai progressi scientifici e tecnologici, che hanno consentito non solo il perfezionamento delle tecniche di trasmissione e ricezione dei messaggi, ma anche la progressiva riduzione di costi e dimensioni degli apparecchi stessi. Per avere un’idea dell’estensione del fenomeno, basti pensare che nel 1990 si contavano nel mondo, su cinque miliardi di abitanti, oltre un miliardo di apparecchi radio e settecento milioni di televisori. A questo livello va inoltre registrato il potere di contatto Potere di contatto (cioè di individui colpiti dal messaggio) dei media elettronici. Così, mentre un giornale quotidiano, raggiunge al massimo pochi milioni di lettori al giorno (il quotidiano italiano più letto vende poco più di 700 000 copie), la radio consente nello stesso istante di veicolare informazioni a decine di milioni di individui. Ancora più impressionanti sono i livelli di audience (o indice d’ascolto) registrati dalle tra- L’audience smissioni televisive, che all’interno dei principali paesi europei possono raggiungere 30-40 milioni di persone e in Eurovisione superano il centinaio di milioni. Vi sono infine programmi televisivi, trasmessi nei diversi continenti via sa193

10 - Mass media

tellite, che hanno già superato il miliardo di ascoltatori. Come abbiamo già accennato, un tale sviluppo è legato ai progressi della tecnica, ma anche agli stanziamenti economici rivolti da Stati, partiti o singoli individui ai fini della creazione del consenso e dagli investimenti delle aziende, che intendono così promuovere i propri prodotti con opportune campagne pubblicitarie.

10.5 Gli effetti dei mass media

Le agenzie di manipolazione simbolica

Ampliamento del pubblico

Diffusione culturale

Incidenza sul linguaggio 194

Come è stato evidenziato da McLuhan, i media producono determinati effetti non solo sulla base dei contenuti da essi trasmessi, ma anche in relazione al proprio modo di essere. In altre parole, un determinato messaggio nel momento in cui viene codificato per poter essere trasmesso dalla televisione, poniamo, piuttosto che dalla stampa, non è più lo stesso, ma subisce un processo di modificazione attuato appunto dal mezzo che ne consente la fruizione. Analizzando dunque le funzioni dei mezzi di comunicazione di massa in quanto tale, Larsen ha elaborato una classificazione che tende a evidenziarne gli effetti principali. ● L’affermazione dei mass media e la loro capacità di veicolare non solo notizie, ma universi di senso ha fatto sì che si generassero delle aziende (agenzie di pubblicità e/o di propaganda, uffici di pubbliche relazioni, centri di produzione radiofonica e televisiva ecc.) specializzate nella gestione e nella manipolazione dei simboli. ● La capacità dei mass media di superare le barriere spazio-temporali, consentendo la pressoché immediata comunicazione a individui siti in zone geografiche lontanissime, ha notevolmente allargato il pubblico e l’uditorio di qualsiasi messaggio, provocando, al tempo stesso, un ampliamento di orizzonti nell’individuo ricevente. Questo “ampliamento del pubblico” deve essere tenuto presente ogniqualvolta si intenda comunicare un messaggio, sia valutando la comprensibilità del messaggio stesso da parte di tutto o buona parte del pubblico, sia essendo ben consapevoli che il messaggio in questione non sarà l’unico recepito dal ricevente. ● La comunicazione di massa ha accelerato i processi di diffusione culturale, consentendo anche agli individui geograficamente più isolati di conoscere modelli di vita, esperienze, atteggiamenti e valori propri dei contesti urbani. ● Un altro effetto di notevole importanza è l’incidenza delle comunicazioni di massa sul linguaggio scritto e parlato. Se da un lato hanno contribuito all’uniformazione delle

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lingue nazionali, dall’altro hanno operato uno svecchiamento del linguaggio, sia scritto sia orale, mediante l’introduzione di neologismi e la semplificazione delle forme sintattico-grammaticali. ● È stato più volte notato il potere che i media esercitano nella creazione di fama, status e autorevolezza. I mezzi di comunicazione di massa, infatti, accrescono o diminuiscono il prestigio, la fama, l’autorità di cui godono una persona, un gruppo, un’associazione, un movimento o un partito politico, non solo per ciò che i media dicono di essi, ma per il semplice fatto di concedere o negare loro un certo spazio nei propri programmi. Questo concetto viene ben esemplificato da Roger Ailes (consulente media dei presidenti USA Nixon e Bush): “Metti che dei due candidati sul palco uno si sgola per la crisi mediorientale e l’altro nel frattempo mette il piede in fallo e cade rovinosamente sul pubblico; ebbene, solo quest’ultimo sarà nei telegiornali quella sera.” ● La possibilità di trasmettere molteplici informazioni corredate di immagini ha accresciuto l’importanza dei tratti esterni dell’immagine personale quali l’aspetto, la voce, l’abito, il modo di parlare ecc. L’immagine dell’individuo viene pertanto a dipendere fortemente da questi fattori, tradizionalmente non ritenuti essenziali per un politico o per un uomo d’affari. ● Tra gli effetti della comunicazione mass mediale, alcuni autori hanno considerato la modificazione di alcune strutture della famiglia. Per esempio, la riduzione del ruolo dell’autorità parentale, compromessa dalla presentazione di modelli operativi indicati come soluzione di problemi domestici; il rafforzamento dello status dei figli minori; la formazione di nuovi bisogni in relazione a un’ampia gamma di possibili prodotti. ● L’aumentata visibilità dei beni materiali ha stimolato secondo molti la nascita di nuovi bisogni e modificato i desideri e il comportamento di acquisto nei confronti di una gamma sempre più ampia di prodotti.

L’incidenza sulla notorietà

L’immagine personale

L’impatto sulla famiglia

Il consumismo

MEDIA E AZIENDA “[…] diventa sempre più importante tutto l’insieme dei collegamenti che un’azienda ha con l’esterno, sia in termini di telecomunicazioni tradizionali come il telefono o il telex, sia in termini di nuovi servizi. Le reti per la trasmissione dati, i nuovi servizi telematici diventano infrastrutture oggi utili e domani indispensabili per lo svolgimento di un’atti-

vità economica. Analogamente aumenterà in modo esponenziale il flusso di informazioni che entra in azienda dall’esterno, da banche dati, da servizi videotex, dai propri clienti o fornitori, da una molteplicità di fonti che andranno gestite e indirizzate.” (M. Gambaro, Informazione, mass media e telematica, Clup, Milano 1988; p. 278.)

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10.6 Le teorie sui mass media L’analisi sui mass media condotta dalle diverse scuole sociologiche risente non solo dei differenti presupposti teorici, ma anche assai frequentemente delle condizioni storiche e politiche in cui il pensiero sociologico si è sviluppato. Così, avvenimenti storici apparentemente privi di alcun collegamento con il tema della comunicazione (per esempio, il crollo dell’URSS, la caduta del muro di Berlino ecc.) hanno modificato radicalmente l’ottica di analisi. C’è da chiedersi se oggi siano ancora plausibili le prospettive che storicamente si sono contrapposte sull’argomento e che Umberto Eco ha brillantemente definito degli “Apocalittici” (sociologi che sottolineano la portata manipolatrice dei mass media) e degli “Integrati” (sociologi che accentuano le dimensioni positive dei fenomeni mass mediali).

Strumenti capitalistici della manipolazione delle coscienze

■ La scuola di Francoforte: la teoria critica Secondo autori come T.W. Adorno, M. Horkheimer, W. Benjamin, H. Marcuse e J. Habermas, l’analisi sui mass media deve essere condotta all’interno di quella più ampia sul sistema sociale industriale e postindustriale di cui essi sono parte integrante. L’analisi dei mezzi di comunicazione di massa risulta così essere inerente a un aspetto specifico del rapporto individuo-società, vale a dire ai meccanismi di manipolazione della coscienza individuale tramite i quali il sistema capitalistico si impone sulla coscienza individuale. Nel nome del benessere economico l’uomo rinuncia alla propria libertà individuale divenendo facile preda delle mode consumistiche e uniformando il proprio comportamento a quello della massa. Da qui l’affermarsi di fenomeni quali il conformismo e il mimetismo, tipici delle società attuali. All’interno di questa prospettiva la funzione primaria dei mezzi di comunicazione di massa è allora quella di diffondere i valori del consumo, indicando come desiderabile, bella, necessaria, ma anche artistica, ora questa ora quella merce. In questo modo la società industriale riesce a perpetuare se stessa, creando al contempo negli individui un consenso interiore che ne assicura la fedeltà. ■ Edgard Morin: l’approccio culturale L’analisi proposta da Morin focalizza l’attenzione sul tipo di cultura trasmesso dai mezzi di comunicazione di massa e sulle mutate esigenze socioeconomiche che hanno portato ampie fasce di popolazione ad accedere all’industria culturale. I mass media, dunque, da un lato rispondono alle nuo-

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ve esigenze di fasce di popolazione tradizionalmente escluse dai processi culturali; dall’altro, però, proprio perché rivolti a un pubblico indifferenziato, essi veicolano una cultura di massa, cioè contenuti omogeneizzati indipendentemente dalla loro specificità. In questo modo non solo l’informazione si riduce a semplice cronaca, ma di quest’ultima vengono privilegiati gli aspetti scandalistici ed eccezionali, a loro volta accentuati dalla tendenza sempre più sviluppata di presentare le notizie “a effetto” e in forme che creino spettacolo. La cultura di massa si presenta pertanto con una tendenziale omogeneizzazione dei contenuti diffusi, nei quali l’immaginario mima il reale e il reale assume i colori dell’immaginario. Proprio a causa di quest’ultimo aspetto, si provoca nel pubblico una difficoltà a pervenire a una valutazione obiettiva del messaggio, la cui realtà si confonde con dimensioni immaginarie. Inoltre si verifica un atteggiamento di diffusa deresponsabilizzazione, derivante dall’incapacità di distinguere la dimensione ludica da quella reale. Infine, mentre da un lato, attraverso la categoria dell’immaginario, la cultura di massa tende a far ritenere in qualche modo possibile tutto ciò di cui l’individuo avrebbe bisogno e non possiede, dall’altro essa propugna mete irraggiungibili e pertanto solo immaginarie. ■ Teoria dell’egemonia Diversi autori di impostazione marxista (per esempio, Althusser e Poulantzas) hanno esaminato la comunicazione mass mediale in funzione dei sistemi ideologici che questa, a loro parere, servirebbe a perpetuare e a rendere accettabili anche da parte di chi ne subisce le conseguenze politiche, sociali ed economiche. L’ideologia, considerata da tali autori come una forma di definizione distorta della realtà e delle relazioni di classe (cioè come un inganno consistente nel far passare una concezione immaginaria degli individui con le reali condizioni di esistenza, al fine di ottenere il consenso di chi altrimenti si opporrebbe all’ingiustizia del sistema economico), troverebbe all’interno dei mezzi di comunicazione di massa un fertile terreno di sviluppo e veicolazione. Da qui l’esigenza, sentita dagli studiosi che si riferiscono a questo indirizzo, di condurre un’analisi semiologica e strutturale delle modalità utilizzate dalla comunicazione mass mediale per raggiungere un tale fine. Le comunicazioni di massa, essi affermano, sono caratterizzate dalla spettacolarizzazione delle informazioni e dall’omogeneizzazione dei contenuti proposti. La tendenza sempre più diffusa a trasformare in intrattenimento le notizie, di qualsiasi natura esse siano, confondendo informazione e spettacolo, momento ludico e

Industria della cultura di massa

Deresponsabilizzazione e difficoltà a distinguere tra reale e immaginario

Funzione ideologica dei mass media

Spettacolarizzazione delle informazioni

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dramma, ha come effetto quello di creare negli spettatori un atteggiamento di deresponsabilizzazione generalizzato. Non solo, ma il bombardamento di informazioni di ogni genere, tipico dei mass media, lungi dallo stimolare processi di selePassività e consenso zione critica dell’informazione, finisce per creare nel recettore uno stato di stordimento apatico e di tacito consenso. I mass media finiscono così per esercitare un ruolo di primo piano all’interno della perpetuazione dei rapporti sociali determinati dagli interessi del blocco storico dominante, nonostante essi si mostrino per lo più come neutrali e del tutto indipendenti da specifici interessi politico-economici. Va infine rilevato che all’interno di questa prospettiva non desta preoccupazione solo la progressiva concentrazione delle testate giornalistiche nelle mani di precisi gruppi economicofinanziari, quanto il monopolio che alcuni di essi sembrano essere avviati a esercitare sulle diverse fonti di informazione (radio, televisione, editoria, cinema ecc.), dando così origine a nuove e a più complesse forme organizzative e produttive. L’efficacia del messaggio

L’analisi del contenuto simbolico

■ La scuola struttural-funzionalista Gli autori che si riferiscono a questa corrente analizzano le comunicazioni di massa partendo dall’esame del livello di efficacia e di comprensione di uno specifico messaggio presso il pubblico. Un primo filone, iniziato negli anni ’50 con gli studi di B. Berelson, ha portato alla distinzione tra contenuti “palesi” e “latenti”. Si è potuto verificare, infatti, che gli elementi oggettivi e reali di un medesimo messaggio possono essere recepiti, interpretati e decodificati in maniera differente da pubblici diversi, accentuando certi aspetti e ignorandone o interpretandone diversamente altri. Il termine latente (di chiara provenienza psicanalitica) starebbe appunto a indicare la presenza di schemi interpretativi propri del ricevente, sulla base dei quali avviene la decodifica e pertanto l’interpretazione del messaggio. Da qui la necessità dell’emittente di considerare il messaggio veicolato suscettibile di interpretazione difforme da quella desiderata. L’analisi del contenuto simbolico, delle valenze emotive della comunicazione mediale, le peculiarità comunicative dei singoli mezzi (della stampa o della televisione, per esempio) costituiscono allora l’ambito privilegiato di indagine di questa direzione di ricerca. ■ Il ruolo degli opinion leader Un secondo filone di ricerca, rappresentato da autori come E. Katz, B. Berelson, P.F. Lazarsfeld, ha studiato l’atteggiamento degli elettori e l’influenza esercitata su di essi dai

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mass media e dai rapporti interpersonali. È emerso così il fatto che la presunta capacità persuasoria dei media non è di- La mediazione degli retta, ma mediata da individui riconosciuti come opinion “opinion leaders” leaders, cioè persone ritenute punti di riferimento relativamente a questioni specifiche (per esempio, i sacerdoti relativamente alla morale). I messaggi veicolati dai mass media verrebbero quindi recepiti da questi gruppi e solo successivamente da essi stessi diffusi tramite relazioni interpersonali. Un simile approccio tende innanzi tutto a ridimensionare la portata persuasoria e conseguentemente manipolatoria dei mezzi di comunicazione di massa, sottolineando come tali mezzi non possano essere considerati gli unici responsabili dei comportamenti collettivi. ■ La legittimazione sociale Dagli studi compiuti da autori come P.F. Lazarsfeld e R.K. Merton sul ruolo esercitato dai mass media nel processo di legittimazione sociale di singoli individui o sistemi politici, si rileva che i mass media tendono a consolidare e ad accrescere Prestigio e presenza (o a limitare e indebolire) il prestigio e l’autorità di persone nei media od organizzazioni pubbliche per il solo fatto di dedicare loro uno spazio più o meno ampio. I mass media eserciterebbero inoltre una funzione normativa; i modelli da essi veicolati (o deplorati) costituirebbero punti di riferimento per gli individui. Infine, un altro aspetto in contrasto con le visioni più ottimistiche del fenomeno è quello secondo cui l’esposizione continua a notizie di ogni genere, lungi dal produrre L’IMPORTANZA DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA “Che i media siano importanti è una delle ipotesi alla base di questo libro e si basa sulle seguenti affermazioni: a) I mezzi di comunicazione sono un’industria in fase di crescita e di mutamento; essa fornisce occupazione, beni, servizi e consente l’esistenza di una serie di attività a essa correlate; sono anche un’istituzione a sé, dotata di regole e norme che la collegano alla società e alle altre istituzioni sociali. L’istituzione dei media è a sua volta regolata dalla società. b) I mezzi di comunicazione di massa sono una fonte di potere: un mezzo di controllo, di gestione e di innovazione della società che può essere utilizzato al posto della forza o di altre risorse.

c) I media forniscono uno spazio (o arena) in cui svolgono con intensità sempre crescente gli affari della vita pubblica, nazionali e internazionali. d) Essi costituiscono spesso il luogo dei processi culturali, sia per quanto concerne l’arte e le forme simboliche, sia per le tendenze, la moda, gli stili di vita e le norme. e) I media sono divenuti una fonte dominante di definizioni e immagini della realtà sociale per i singoli individui, ma anche collettivamente per gruppi e società; esprimono valori e giudizi normativi connessi inscindibilmente alle notizie e all’intrattenimento.” (Denis McQuail, Le comunicazioni di massa, Il Mulino, Bologna 1989; p. 11.)

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una maggiore attenzione, produce una diffusa indifferenza anche nei confronti delle situazioni più strazianti.

10.7 Il monopolio dell’informazione Un grande tema che sta sempre più attirando l’attenzione non solo dei sociologi della comunicazione, ma anche dei politici e dei comitati di difesa dei consumatori, è relativo al La concentrazione controllo dei mezzi di comunicazione di massa da parte di del controllo pochi proprietari, o talvolta uno solo. I mezzi di comunisui media cazione di massa, infatti, necessitano di ingenti somme di capitale per l’acquisto di macchinari sempre più sofisticati e la retribuzione di personale altamente specializzato. Ciò implica l’esclusione dal mercato di quanti, non potendo competere economicamente, si trovano impossibilitati a garantire il livello di informazione (spesso spettacolarizzata), e comunque di risposta all’esigenza del pubblico, offerti dai grandi network. In questo modo si verifica il graduale assorbimento di testate giornalistiche, stazioni radiofoniche, reti televisive da parte di società che finiscono per assumere così il controllo dell’informazione. La risposta pubblica Data la delicatezza della questione, i singoli Stati hanno dato vita da un lato a reti nazionali, il cui compito (almeno teorico) è di salvaguardare una certa obiettività di informazione; dall’altro a norme legislative tendenti a ostacolare i monopoli dell’informazione (o almeno limitarne l’affermazione). ■ La stampa I primi grandi monopoli dell’informazione si sono storicamente affermati nell’ambito dell’editoria. In molti paesi, infatti, la proprietà dei quotidiani, dei settimanali e delle case editrici è concentrata nelle mani di poche aziende, che finiscono così per controllare il tipo di pubblicazioni, le notizie e in generale la veicolazione dell’informazione nel paese. Il fenomeno, manifestatosi negli anni ’20 e ’30 in Gran Bretagna in seguito all’affermarsi dei giornali a diffusione di masIL CASO MURDOCH Un esempio del fenomeno è dato dall’imprenditore australiano Rupert Murdoch, oggi proprietario di 55 testate giornalistiche in Australia e di 110 presenti in tutto il mondo (compresi il “New York Post” e il “Times” di Londra). Possiede inoltre 51 reti televisive negli Stati Uniti, una per ogni Stato com-

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preso Portorico, e la Pox Broadcasting, che le riunisce in uno dei quattro network nazionali. È proprietario di case di produzione cinematografica come la Twentieth Century Fox, di importanti case editrici (tra cui la Harper Collins) e di una sessantina di stazioni televisive nei cinque continenti.

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sa, si è successivamente esteso a spazi geografici sempre più ampi. Così, i nomi di Lord Northcliffe, Beavenbrook e Kemsely indicano imperi editoriali dell’informazione britannica, mentre Springer e Hersant sono fenomeni assai simili, rispettivamente in Germania e in Francia. Relativamente alla situazione degli Stati Uniti va ricordato Il caso degli USA che, mentre nella maggior parte dei paesi occidentali sono presenti diverse testate nazionali, che per lo più si fanno portavoce di posizioni politiche differenti, negli USA i giornali sono locali. Ciò non significa, però, una maggiore diffusione di punti di vista differenti; infatti, i giornali locali sono per oltre il 70% di proprietà di grosse società che ne controllano la politica editoriale. Si noti, infine, che all’inizio del ’900 erano oltre 500 le città statunitensi in cui erano presenti testate giornalistiche concorrenti, ma nel 1984 esse si erano ridotte a poco più di 30: soltanto nel 3% delle città americane ci sono giornali concorrenti. Il che significa che la pubblicazione dei quotidiani locali è diventata un’impresa in regime di monopolio. In molti paesi (per esempio, in Norvegia) il governo ha elaborato un progetto per distribuire equamente gli investimenti tra i giornali che rappresentano le varie posizioni politiche presenti nel paese. L’effetto ottenuto è stato quello di aumentare la presenza di testate concorrenti. Non sempre, però, le politiche svolte in questo senso dai diversi Stati riescono a raggiungere i risultati desiderati. ■ Televisione e media elettronici Il problema del monopolio dell’informazione si presenta in tutta la sua imponenza nei confronti dei media elettronici e in particolare della televisione. Questo mezzo, infat- Un mezzo pervasivo ti, non solo ha la proprietà di contattare contemporaneamente una quantità enorme di individui, ma presenta anche i tempi più alti di esposizione: cioè il tempo medio dedicato dagli spettatori alla fruizione della televisione è di molte volte superiore a quello rivolto agli altri mezzi di informazione. Non solo: se relativamente alla stampa si presentavano costi di gestione assai elevati, quelli relativi alle emittenti televisive sono molto più alti. Come è stato più volte rilevato, il medium televisivo non veicola solo notizie, ma modelli di comportamento, universi valoriali, in altre parole prospettive culturali generali, all’interno delle quali i membri delle società moderne interpretano e organizzano l’informazione. Accanto al medium televisivo, si stanno sempre più diffon- Le reti telematiche dendo reti telematiche (come Internet) capaci di veicolare un’enorme quantità di informazioni, in riferimento alle

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10 - Mass media

quali il ricevente opera delle selezioni sulla base dei propri interessi e può porsi in modo interattivo. Per quanto i problemi relativi al monopolio dell’informazione siano in questo caso assai differenti da quelli tradizionali, poiché si tratta di una miriade di emittenti in rete, tuttavia essi si ripropongono sotto forma di monopolio dei sistemi informatici atti a consentire la navigazione in rete.

10.8 Pubblicità e propaganda

Differenza tra propaganda e pubblicità

Le comunicazioni di massa hanno costituito sin dal loro primo affermarsi un campo di notevole interesse per i settori economici e politici. Mediante questi strumenti è infatti possibile veicolare l’informazione a grandi fasce di popolazione. Importante, al riguardo, è la comunicazione commerciale, quella cioè che tende a orientare il comportamento di acquisto nei confronti di un determinato prodotto di marca e che prende il nome di pubblicità (advertising). Invece, si parla di propaganda in riferimento a quelle comunicazioni tendenti non tanto a influenzare il comportamento d’acquisto, quanto l’atteggiamento nei confronti di particolari posizioni politiche, temi, questioni; in altre parole, all’orientamento dell’opinione. L’affermazione della televisione ha apportato notevoli mutamenti, sia all’interno della comunicazione commerciale, sia nel modo di far politica. Nel primo caso, infatti, sono stati agevolati i processi di creazione dell’immagine del prodotto di marca, che mediante il supporto televisivo ha saputo, nei casi più felici, trasmettere un insieme di significati che trascendono il prodotto stesso e lo investono di un valore particolare, rendendolo assai più attraente (si pensi, per esempio, all’accostamento di una certa marca di pasta

LA CREAZIONE DELL’IMMAGINE “Tutta la ‘Forza Tranquilla’ (lo slogan della sua prima campagna presidenziale, nel 1981) di François Mitterand stava nella sua istintiva capacità di non cadere nella trappola della mediocrità. [...] François Mitterand è stato il primo mutante: è diventato media. Egli ha, sicuramente per primo, compreso il punto nodale di questa mutazione, nel rapporto dialettico e passionale che si stabilisce con l’opinione pubblica: le azioni contano, ma conta ancor di più l’au-

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ra simbolica che esse creano. Il Presidente ha colto questa evidenza: il cittadino non è un consumatore razionale della politica. A differenza di un bene di consumo, un uomo di potere non si vende per dei plus di prodotto, ma per dei plus di immagine. [...] Tutte le volte che ha potuto, egli ha fatto della sua presenza un’apparizione e del suo portamento un simbolo.” (J. Séguéla, La parole de Dieu, Albin Michel, Paris 1995; p. 406.)

10 - Mass media

con l’atmosfera calda e accogliente della famiglia). Qualcosa di simile si è verificato anche nell’ambito della comunicazione politica, che ha dovuto rivedere le vecchie impostazioni per adeguarsi alle richieste dei nuovi media.

10.9 La mediatizzazione della politica A partire dagli anni ’60 si è venuto affermando un processo di “mediatizzazione della politica”, secondo il quale oggi l’azione politica pubblica avviene all’interno dello spazio mediatico, o dipende in misura rilevante dall’azione dei media. Ciò ha operato una sorta di rivoluzione all’interno delle strategie di comunicazione utilizzate in precedenza, stimolando nei candidati una particolare attenzione nei confronti della propria immagine mediatica. L’immagine di un candidato veicolata a milioni di persone per risultare convincente richiede infatti caratteri assai diversi da quelli funzionali per un ristretto pubblico di addetti ai lavori. L’ex premier inglese Margaret Thatcher, per esempio, che all’inizio della sua carriera politica aveva un look poco ricercato e parlava con l’accento nasale degli aristocratici, si accorse che un aumento di popolarità avrebbe richiesto una variazione di stile e di pronuncia. Così, sotto la guida di un noto consulente di PR, prese lezioni di dizione, cambiò l’impostazione e il timbro della voce, scelse i vestiti e l’acconciatura dei capelli con più attenzione. Nonostante si sia consapevoli del fatto che il mezzo televisivo non è l’unico strumento di propaganda, tuttavia allo stato attuale esso è divenuto imprescindibile, proprio a causa della sua forza espressiva e della capacità di raggiungere segmenti di popolazione altrimenti irraggiungibili. Autori come Cayrol hanno considerato la televisione come palcoscenico privilegiato sul quale avviene l’esibizione del candidato, la cui abilità consiste nel “dare l’impressione” di sincerità, competenza, onestà ecc. Un individuo corretto e preparato, ma impacciato dinanzi alla telecamera, poco fotogenico e poco brillante nelle espressioni risulta pertanto meno idoneo di chi ha abilità opposte. La capacità di interessare l’uditorio, creando con esso un coinvolgimento emotivo, diviene allora un requisito essenziale per la buona riuscita elettorale. Un altro aspetto spesso rilevato dai sociologi della comunicazione politica è quello per cui la “personalizzazione” della leadership politica investe direttamente la strategia dell’immagine, poiché, se l’immagine personale è diventata una risorsa cruciale per il successo della comunicazione elettorale, essa mette in se-

I media spazio dell’azione politica

La televisione palcoscenico privilegiato

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10 - Mass media

condo piano i fattori non personali (come l’ideologia di riferimento, l’appartenenza a un partito ecc.). Infine, la spettacolarizzazione tipica della comunicazione mass mediale obbliga anche il politico ad adeguarsi adottando il linguaggio dello spettacolo, fatto di battute a effetto più che di articolate argomentazioni razionali. PER UN APPROFONDIMENTO ● M.L. De Fleur, S.J. Ball-Rokeach, Teorie della comunicazione di massa, Il Mulino, Bologna 1995

Un’indagine recente e aggiornata sulle teorie della comunicazione mass mediale. ●

A. Mattelart, La comunicazione globale, Editori Riuniti, Roma 1996

Esamina l’avvento delle nuove tecnologie mass mediali e della costruzione di reti informative transnazionali. ● M. McLuhan, E. McLuhan, La legge dei media. Le nuove scienze, Edizioni Lavoro, Roma 1994

Un approccio ormai classico rivisto sulla base dei mutamenti attuali. ●

D. McQuail, Sociologia dei media, Il Mulino, Bologna 1996

Compendio delle più recenti ricerche di comunicazione di massa, indica possibili linee di riflessione e di indagine adeguate alla multiforme realtà tecnologica e culturale dei nuovi media. ●

G. Mazzoleni, La comunicazione politica, Il Mulino, Bologna 1998

Brillante e aggiornatissima analisi dell’utilizzo dei mass media nella comunicazione politica. ●

A. Mattelart, Storia della società dell’informazione, Einaudi, Torino 2002

Le molteplici contaminazioni del concetto di società dell’informazione sono l’espressione di una nuova progettualità sociale. ●

M. Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi, Milano 2002

Il passaggio al capitalismo informazionale: dal mainframe a un sistema informativo aperto e acefalo dotato d’infinite possibilità di accesso.

SCHEMA RIASSUNTIVO CHE COSA SONO I MASS MEDIA

ORIGINI E SVILUPPI DEI MEDIA

GLI EFFETTI DELLA COMUNICAZIONE DI MASSA

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Con l’espressione “mezzi di comunicazione di massa” si fa riferimento a strumenti come il cinema, la stampa, la pubblicità, la radio, la televisione, capaci di veicolare l’informazione a una pluralità di individui dispersi su un vasto spazio e per lo più non in rapporto tra loro. Storicamente il fenomeno si è affermato intorno agli anni ’30 del ’900 (in seguito all’impiego di giornali, radio e cinema utilizzati a fini di propaganda dai regimi fascista e nazista), si è esteso durante la seconda guerra mondiale, è esploso intorno alla metà del secolo con l’avvento della televisione. Secondo Larsen, gli effetti dei mezzi di comunicazione di massa sono: lo sviluppo di agenzie di manipolazione simbolica, l’ampliamento del pubblico destinatario della comunicazione, la diffusione culturale, lo svecchiamento del linguaggio, la capacità di accrescere o diminuire la fama degli individui, l’accentuazione dei caratteri personali e l’attenzione all’immagine, la modificazione di alcuni caratteri della famiglia, l’aumentata visibilità dei beni materiali.

10 - Mass media segue

LE TEORIE SUI MEDIA

L’ampio dibattito sui mass media è riconducibile a diversi filoni di ricerca.

La teoria critica

La teoria critica (T.W. Adorno, M. Horkheimer, J. Habermas ecc.) si sofferma sulla portata ideologica e manipolatrice dell’opinione pubblica.

L’approccio culturale

L’approccio culturale (E. Morin) focalizza l’attenzione sul contenuto della comunicazione mass mediale (la cultura di massa) e sugli effetti prodotti nel pubblico.

La teoria dell’egemonia

La teoria dell’egemonia (Althusser e Poulantzas) conduce un’analisi semiologica e strutturale della comunicazione mass mediale, al fine di smascherarne la portata ideologica.

La scuola struttural-funzionalista

La scuola struttural-funzionalista (P.F. Lazarsfeld, B. Berelson, R.K. Merton ecc.) analizza la comunicazione mass mediale secondo molteplici direzioni: il tipo di ricezione che il pubblico ha del messaggio; la portata simbolica del messaggio; i caratteri tipici del mezzo; il ruolo esercitato dai rapporti microsociali nella percezione del messaggio mass mediale; la legittimazione sociale prodotta da questi mezzi; gli effetti in termini di consapevolezza critica prodotti nel pubblico.

IL MONOPOLIO DELL’INFORMAZIONE

Il controllo dei mezzi di comunicazione di massa da parte di pochi, o talvolta un solo proprietario, è un fatto riscontrato già al primo affermarsi dei mass media. Le tendenze monopolistiche di questi canali di comunicazione si sono manifestate inizialmente nel settore della stampa, per poi estendersi alle emittenze radio e televisiva.

PUBBLICITÀ E PROPAGANDA

L’affermazione della comunicazione mass mediale ha apportato notevoli mutamenti, sia all’interno della comunicazione commerciale, sia nel modo di far politica. In entrambi i casi si sono sviluppati dei processi di creazione dell’immagine del prodotto commerciale e del partito o del candidato politico in questione.

DOMANDE DI VERIFICA 1. Quali sono gli aspetti principali della comunicazione mass mediale? 190b-191 2. Quali sono gli aspetti peculiari delle diverse teorie sulle comunicazioni di massa? Par. 10.6 3. Quali sono i caratteri indicati da McQuail a so-

stegno dell’importanza della comunicazione mass mediale? 199b 4. In che senso l’avvento dei mass media ha modificato la comunicazione politica tradizionale? 203

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11 La religione La rilevanza del fenomeno religioso è attestata non solo storicamente, dal momento che in tutte le società conosciute è sempre esistita una qualche forma di religione, ma è convalidata anche dal punto di vista sociologico, che prende in considerazione la grande diffusione delle religioni nel mondo contemporaneo. Le previsioni secondo cui il fenomeno religioso avrebbe subìto un declino inarrestabile, di pari passo con l’avanzare dei processi di secolarizzazione della modernità, sembrano infatti essere smentite dalla recente rinnovata espansione della religione anche nei paesi industrializzati. L’analisi sociologica ha cercato di indagare il fenomeno religioso considerandone la sua funzionalità alla società o a particolari gruppi dominanti, la sua capacità di facilitare l’integrazione sociale, l’incidenza sul sistema economico-politico.

11.1 Il problema Se la religione è un fenomeno presente in tutte le società umane, quale tipo di funzione esercita al loro interno o al fine della loro conservazione? Tra i tanti modi di manifestarsi della religiosità, ve ne sono alcuni più funzionali di altri alle condizioni imposte dagli attuali sistemi economico-sociali? O forse sono questi ultimi a derivare da particolari modi di manifestarsi della religione? LA RELIGIOSITÀ IN ITALIA “Tra i vari comportamenti religiosi ve ne sono alcuni che il mutamento di questi ultimi decenni non solo non ha scalfito, ma sembra aver caricato di particolare significatività. Si tratta dei comportamenti che, per i cattolici, sono legati alla celebrazione eucaristica, cioè la partecipazione alla messa e alla comunione. Questo tipo di pratica, che mette al centro la figura di Cristo, è un po’ il cardine dell’espressione religiosa comunitaria della Chiesa cattolica e su questo fronte sembrano non esserci cedimenti da oltre un quarto di secolo. Anzi, la crescita progressiva di coloro che si accostano all’altare per ricevere la comu-

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nione (massima nelle metropoli) fa pensare che stia cambiando il significato che si dà a tale importante celebrazione liturgica. L’accostarsi alla mensa è considerato sempre più come un atto essenziale di chi prende parte a quel rito, come l’espressione di un’unione con Dio e con i fratelli e non come una barriera che divide chi è degno e chi non lo è. Indirettamente, quindi, si avverte il superamento di un tipo di religione in cui prevale l’immagine di un Dio riservato a chi è senza peccato.” (C. Lanzetti, I comportamenti religiosi in Italia, in V. Cesareo e altri, La religione in Italia, Mondadori, Milano 1995; pp. 94-95.)

11 - La religione

I fenomeni religiosi sono una serie di credenze e di pratiche L’approccio relative all’ambito del sacro. Il sacro, che è fonte dell’espe- sociologico rienza religiosa, non può essere di per sé oggetto dell’a- alla religione nalisi sociologica, la quale non può né affermarne la trascendenza, né ridurlo a fenomeno unicamente umano. La sociologia provvede piuttosto a indagare i motivi per cui gli uomini sono sensibili al sacro e lo fa a partire dalle differenze tra i fenomeni religiosi. La religione, infatti, è un’istituzione universale, ma le forme che assume sono eterogenee. I credenti possono adorare gli dei, gli antenati o i totem, possono praticare meditazioni solitarie, rituali frenetici o solenni preghiere. La grande varietà del comportamento e delle credenze religiose rende assai difficile dare una definizione della “religione”. Anche alcune presunte costanti si sono rivelate inapplicabili man mano che il fenomeno religioso veniva approfondito e studiato nelle diverse società. Ci sono religioni che non riconoscono l’esistenza di un essere supremo, altre che ignorano la credenza negli dei, altre ancora che non si pongono il problema dell’origine dell’universo e della vita. Secondo alcune religioni gli dei non si interessano delle facende umane. Altre non dicono quasi niente sulla vita ultraterrena e molte non stabiliscono alcun nesso tra la moralità dell’individuo e ciò che lo attende dopo la morte. Al fondo del fenomeno religioso sembra sussista sempre un rinvio al “sacro”, ambito, questo, al quale è necessario che la ricerca sociologica faccia riferimento, nonostante la sua incompetenza in materia, per comprendere le modalità secondo cui il senso religioso si istituzionalizza.

11.2 L’esperienza religiosa Il termine “sacro” compare a proposito dell’esperienza religiosa in diversi contesti. Ne avvicineremo il significato per approssimazioni successive. ■ Il sacro Il termine “sacro” viene usato innanzi tutto per indicare La sfera del divino la sfera del divino. Infatti, a qualsiasi tipo di divino appartiene un ambito peculiare ed esclusivo sottratto alla quotidianità, che perciò provoca particolare stupore. La ricerca sociologica si riferisce spesso al concetto di sacro elaborato da Rudolph Otto in un saggio del 1917, intitolato appunto Il sacro. Otto ha evidenziato come il sacro non sia precisamente definibile (il sacro “si può soltanto provocare, destare, come tutto ciò che viene dallo spirito”), eppure sia alla base del fenomeno religioso in generale. Il sacro stesso è però

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11 - La religione

Il sacro come realtà straordinaria e separata

Il sacro, diversa percezione delle cose

Gli effetti dell’apparizione del sacro

L’origine sociale della religione

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un fenomeno complesso: all’origine di ogni religione esiste un elemento irrazionale, la percezione di una realtà straordinaria, che Otto definisce il “numinoso”, separata e profondamente diversa da quella profana e capace di suscitare sentimenti contrastanti. Il numinoso si presenta come tremendo e affascinante insieme, allo stesso tempo infonde timore e fiducia. Questo elemento irrazionale originario, che sintetizza gli opposti, viene quindi razionalizzato costituendo da un lato le idee di morale, giustizia e legge, dall’altro l’immagine del dio misericordioso e provvidente. L’ambito del sacro è costituito, complessivamente, dal rapporto tra l’originario irrazionale e la sua razionalizzazione. ■ Il sacro e il profano Successivamente a Otto, Mircea Eliade, studiando la religiosità delle popolazioni arcaiche nel saggio Il sacro e il profano del 1957, ha messo in luce che la differenziazione tra sacro e profano avviene attraverso le cose quotidiane, non in alternativa a esse: “Nella manifestazione del sacro un oggetto qualsiasi diviene un’altra cosa, senza cessare di essere se stesso [...]; per coloro che hanno un’esperienza religiosa, tutta la natura può rivelarsi come sacralità cosmica”. Si possono, cioè, avere due esperienze diverse dello stesso mondo, una di tipo sacro e una di tipo profano, e l’analisi della prima coincide con la descrizione dei caratteri universalmente posseduti dall’homo religiosus. Sempre secondo Eliade l’apparizione del sacro ha diversi effetti: stabilisce un centro nel caos del mondo fisico, dal quale tutto l’universo viene regolato e ordinato acquistando un orientamento; pone l’uomo al centro del mondo e in comunicazione con il divino; ordina il tempo attraverso periodiche feste sacre, che riattualizzano un passato mitico permettendo all’uomo di parteciparvi; consente all’uomo di concepire gli eventi naturali come simbolici, cioè come eventi dotati di un significato ulteriore a quello che apparentemente manifestano, un significato che rende presente un messaggio divino. ■ Sacro, profano e sociologia della religione Il sociologo Émile Durkheim, nella sua fondamentale opera dedicata a Le forme elementari della vita religiosa (1912), fa uso della distinzione tra sacro e profano allo scopo di mostrare, attraverso approfondite analisi empiriche in campo etnico, l’origine “sociale” della religione. I fenomeni religiosi vengono creati all’interno di una società per conferire coesione alla società stessa. La religione è per Durkheim “un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sa-

11 - La religione

cre, cioè separate e interdette, le quali uniscono in un’unica comunità morale, chiamata Chiesa, tutti quelli che vi aderiscono”. Il sacro, quindi, inteso come ciò che possiede qualità Il sacro straordinarie e potenzialmente pericolose e a cui ci si può ac- e la dimensione costare solo attraverso un certo rituale (cioè una procedura ecclesiastica formale, come la preghiera, l’incantesimo o la purificazione cerimoniale), sta alla radice del fenomeno religioso, ma da esso non può essere disgiunto il carattere ecclesiale, ossia la sua organizzazione istituzionale. Per Durkheim, dunque, la religione è una serie di credenze e di pratiche condivise da una comunità; al contrario, le credenze individuali di un soggetto riguardanti il soprannaturale non costituiscono una religione se non sono istituzionalizzate e condivise.

11.3 Il processo di istituzionalizzazione La religione può strutturarsi secondo due fondamentali momenti: lo stato nascente e l’istituzionalizzazione. Per stato nascente si intende un’esperienza originaria caratterizzata dalla manifestazione del sacro. Tale esperienza può essere collettiva o personale, è sovente legata a figure carismatiche e consiste spesso nello sperimentare concretamente la vita e i valori di una fede all’interno di una comunità solidale di credenti. Lo stato nascente è per lo più caratterizzato dalla straordinarietà e dal coinvolgimento totale del soggetto o dei soggetti che vi partecipano. Affinché l’esperienza religiosa possa distendersi nella quotidianità e assicurare una durata ai valori di cui è portatrice, anche al di là dell’influsso diretto dei suoi fondatori, essa deve organizzarsi, istituzionalizzarsi, così da regolare e controllare la crescita numerica dei fedeli e instaurare relazioni stabili con le istituzioni sociali. Tale processo di istituzionalizzazione comprende quattro livelli principali tra loro strettamente connessi. Essi riguardano 1. le credenze, 2. il culto, 3. l’etica, 4. l’organizzazione religiosa. In ciascuno di questi settori vengono elaborate definizioni, regole, programmi, che danno continuità storica all’esperienza religiosa, conservandola nei suoi tratti essenziali all’interno degli inevitabili adattamenti ai quali il divenire storico delle società in cui si manifesta la costringe.

Lo stato nascente di una religione

I quattro livelli di istituzionalizzazione

■ Le credenze Per quanto concerne le credenze, si assiste in genere a un passaggio dal mito, cioè dalla narrazione di un evento primo e fondativo di una religione – il quale evoca nei fedeli un’intensa partecipazione emotiva – a una rappresentazio-

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11 - La religione

L’elaborazione del mito

Modelli per comunicare con la divinità

Riti di passaggio

Un sistema di comportamenti distintivo

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ne sistematica delle credenze fondamentali presenti nel mito originario. L’elaborazione di tali credenze struttura una proposta di fede culturalmente comunicabile e chiaramente distinguibile da altre affini e prevede non solo l’organizzazione razionale e cognitiva dei contenuti di fede, ma anche, in rapporto a questi, la costruzione di atteggiamenti di fedeltà, accettazione e sudditanza che entrano a costituire i rapporti comunicativi tra i fedeli. Attraverso tutto questo processo la fede assume la forma di una dottrina. ■ I riti Il processo di istituzionalizzazione investe altresì il tentativo di comunicare con la divinità: le azioni individuali e collettive vengono regolate da modelli specifici di culto, che contribuiscono anche a ordinare i rapporti tra i membri del gruppo. Si elaborano riti per celebrare e commemorare gli avvenimenti fondamentali della storia sacra, vengono costruiti luoghi appositi che favoriscono lo svolgimento di tali riti e viene disciplinato il comportamento dei fedeli di fronte agli oggetti sacri. Particolarmente importante è la costituzione di riti di passaggio, che attribuiscono significati simbolici a particolari fasi o decisioni della vita, come la nascita, il divenire adulto, lo sposarsi, l’evento della morte. Questi riti permettono di inserire la biografia individuale in una storia sacra, ordinando la storia sociale di un popolo. Rientrano nell’ambito del processo di ritualizzazione anche la pratica di penitenze e le richieste di perdono per i peccati commessi, cioè le funzioni di purificazione e di espiazione, che svolgono un ruolo di controllo e insieme di integrazione sociale. ■ L’etica Norme, precetti, comandamenti vengono progressivamente messi a punto attraverso un processo di definizione per lo più aperto alla ricerca di una congruenza con le variabili culturali e sociali. In tal modo il gruppo dei fedeli consolida un sistema di comportamenti, cioè un costume, una morale, che assume il valore di un carattere distintivo. Il comportamento del fedele è relativo al tipo di fede professata. Esso si configura come obbedienza ai comandi della divinità, nel caso in cui la religione in questione riconosca l’esistenza di una o più realtà sacre con cui l’uomo deve cercare di entrare in relazione; prende invece l’aspetto di un predominante percorso etico in quelle religioni non fondate innanzi tutto sul riconoscimento di una divinità, ma piuttosto su un ideale di liberazione interiore, di ascesi, di autocontrollo.

11 - La religione ■ L’organizzazione L’istituzionalizzazione delle forme di associazione dei fedeli è in relazione diretta col crescere del numero dei fedeli e con la conseguente nascita di nuove comunità. Per evitare che, guadagnando diffusione, la fede-dottrina si frantumi, vengono in genere riconosciute come dotate di autorità alcune figure con particolare carisma, capaci di porsi come sicuro punto di riferimento dei fedeli. L’individuazione del- Un’autorità l’autorità permette insomma di conservare l’unità del per conservare gruppo religioso. Inoltre, con l’aumento delle dimensioni l’unità del gruppo del gruppo emergono esigenze di specificazione, articolazione e coordinazione dei ruoli. Alcuni saranno destinati a interpretare i testi sacri, altri a compiere gli atti di culto, altri ancora a diffondere la fede, altri infine a trasmetterla alle nuove generazioni e così via. Nell’ampia categoria dei credenti emergono così figure specifiche che assolvono compiti propriamente religiosi, le quali da un lato testimoniano con la loro condotta di vita la professione di una certa fede, dall’altro dirigono la massa dei fedeli.

11.4 Tipi di organizzazione religiosa La distinzione fondamentale a livello dell’organizzazione Distinzione della religione, almeno nelle società industrializzate del- tra Chiesa e setta l’Occidente, è quella tra Chiesa e setta. Una Chiesa è un’organizzazione che ha forti legami con la società nel suo complesso e che cerca di operare al suo interno; una setta, per contro, tende a respingere il resto della società e può richiedere ai suoi membri un impegno ben definito o una conversione alle sue credenze e pratiche. La chiesa e la setta si collocano alle due estremità opposte dello spettro religioso, al cui interno rientrano quasi tutte le religioni organizzate; forse la più rilevante tra queste forme intermedie è la confessione. ■ La Chiesa La chiesa è una potente organizzazione burocratizzata, dotata di una gerarchia di funzionari a tempo pieno e talvolta sostenuta dall’appoggio, stipulato attraverso appositi concordati, dello Stato. Spesso si entra a far parte di una Chiesa per appartenenza sociale, in quanto cioè semplicemente “si nasce”, per esempio, cattolici. Nella chiesa propriamente detta si differenziano le confes- La confessione sioni religiose (come battisti, metodisti ecc.) che si distinguono come organizzazione ma riconoscono una base dottrinale e di fede comune e sono diffuse nei paesi pro-

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11 - La religione

testanti. Come la Chiesa, le confessioni hanno una struttura gerarchica, con un clero appositamente addestrato, e si caratterizzano come istituzioni consolidate e “rispettabili”. Per quanto possano trovarsi in competizione, le confessioni hanno generalmente un atteggiamento di reciproca tolleranza. ■ La setta La setta è un gruppo meno organizzato dal punto di vista formale e spesso trae origine da una scissione avvenuta nell’ambito di una Chiesa. Generalmente recluta i suoi membri attraverso la conversione e circoscrive la cerchia degli adepti a coloro che danno costante prova di impegno di fede. La setta si trova a un livello di “rispettabilità” sociale inferiore rispetto alla Chiesa e alla confessione. Spesso intollerante verso le altre organizzazioni religiose, la setta è dogmatica e pratica una rigida osservanza delle norme di fede basata su un’interpretazione letterale delle scritture sacre. In genere non ha un clero appositamente addestrato e i suoi riti mettono in primo piano l’emotività, la spontaneità e la partecipazione dell’intera comunità. Le sette sono organismi dinamici. Le sette, infatti, si costituiscono continuamente separandosi dalla Chiesa e si estinguono quando perdono l’intensità della convinzione che le aveva animate; o si convertono mutando spesso i caratteri originari.

11.5 La classificazione delle religioni La varietà dei tipi di religione è la più ampia e i sociologi hanno proposto diversi metodi per classificarle. Weber classificò le religioni in base al loro diverso approccio alla salvezza e al diverso punto focale del loro credo. Secondo questa tipologia, per esempio, il confucianesimo è caratterizzato da un approccio mistico alla vita di questo mondo, mentre il cattolicesimo ha un approccio ascetico, in quanto ha come punto focale non questo mondo, ma quello che il fedele si guadagna nell’aldilà. I cinque tipi Più di recente, dopo aver studiato informazioni e materiali secondo Bellah provenienti da culture di tutto iI mondo, Robert Bellah ha classificato le religioni, tanto quelle del passato quanto le attuali, in cinque tipi fondamentali: la religione primitiva, la religione arcaica, la religione storica, la religione protoUn criterio evolutivo moderna, la religione moderna. Ciascuno di questi tipi evidenzia una forma di religione più complessa e per certi aspetti può essere inteso come una fase di una storia delSecondo Weber

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11 - La religione

l’evoluzione delle forme di religiosità. Bellah sottolinea peraltro che tali fasi non descrivono tutte le religioni, dal momento che alcune possono avere tratti che appartengono a due o anche più tipi, ma soprattutto che i tipi più semplici di religione non sempre si evolvono in quelli immediatamente più complessi, bensì possono regredire a quelli ancora più semplici oppure saltare delle fasi intermedie. Per Bellah, inoltre, il passaggio da una fase all’altra non implica minimamente l’idea di “progresso”: le religioni più elaborate non sono migliori di quelle più semplici. ■ La religiosità primitiva Le religioni totemiche australiane descritte da Durkheim rappresentano bene la religione primitiva, in cui gli elementi che costituiscono e circoscrivono l’ambiente sono spiegati e interpretati come esseri simbolici a cui dare un nome. Attraverso questa operazione è possibile operare un primo processo di distinzione, e quindi di comprensione, delle forze della natura. A questo livello il sistema di simboli rappresenta “il tempo del sogno”, un tempo fuori dal tempo, Il “tempo del sogno” abitato da figure ancestrali umane e animali, più forti dei mortali e spesso eroiche. Questo tempo del sogno è strettamente legato al mondo reale: ogni gruppo sociale, ogni atto umano e persino ogni roccia e ogni albero entrano in rapporto con esso attraverso il rito, in esso assumono il ruolo di una figura del sogno e rappresentano la storia di quel mondo. Non vi sono, in questo tipo di religiosità, sacerdoti che mediano tra gli spiriti e gli esseri umani, né vi sono organizzazioni religiose. Impegnandosi nel rituale, gli individui rinnovano i legami con il gruppo, rinforzando la solidarietà sociale. ■ La religiosità arcaica Nelle religioni arcaiche, che comprendono i culti di gran Dei che controllano parte dell’Africa e della Polinesia, nonché le più antiche re- gli eventi del mondo ligioni del Medio Oriente, dell’India e della Cina, le figure mitiche diventano dei, acquistano determinatezza e controllano attivamente gli eventi del mondo. Anche se non avviene in modo completo, si accentua comunque la separazione, quasi assente nelle religioni primitive, tra mondo umano e mondo divino. Ora gli uomini devono comunicare con gli dei per mezzo di rituali di adorazione e sacrificio e non possono più identificarsi con essi. Vi sono sacerdoti, ma questi non guidano ancora gruppi organizzati di seguaci: si limitano a eseguire i rituali, che ancora una volta servono genericamente a potenziare la solidarietà sociale.

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11 - La religione

Le religioni dei libri sacri

Monoteismo

Accesso alla salvezza senza mediazione sacerdotale

Individualizzazione del vivere la religione

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■ Le religioni storiche Nelle religioni storiche, che emergono con lo sviluppo della scrittura e che vengono depositate in libri ritenuti sacri, uomini e divinità occupano ormai regni del tutto diversi. Il regno della divinità è infinitamente migliore di questo mondo; l’obiettivo essenziale della religione diventa così il raggiungimento di una vita migliore dopo la morte. L’oggetto di adorazione non è più un insieme di dei, ma piuttosto un dio unico, creatore e reggitore dell’universo. Gli errori personali non possono più essere assolti grazie soltanto a un rituale di identificazione o di sacrificio: gli esseri umani sono portatori di debolezze radicali, che possono essere cancellate solo col concorso della grazia e dell’obbedienza. Implicito nell’idea di ricerca della salvezza, emerge un senso dell’identità e della responsabilità personale chiaramente strutturato; al di sotto della mutevole realtà della vita quotidiana esiste una vera identità, che può agire in modo libero per scegliere il bene o il male. Per mediare i rapporti tra gli esseri umani e il soprannaturale si rende necessaria un’organizzazione religiosa separata e autonoma dalle altre istituzioni sociali. ■ La religione protomoderna La religione protomoderna raggruppa la religiosità peculiare alle diverse Chiese riformate che nascono a partire dalla Riforma protestante del XVI secolo. Per questa religiosità l’accesso alla salvezza non avviene più attraverso la mediazione sacerdotale e l’organizzazione ecclesiastica e nemmeno, in prima istanza, attraverso le pratiche virtuose e le opere; avviene, piuttosto, grazie alla sola fede, una qualità eminentemente personale che rinforza il concetto di un’identità capace di pensiero e azione indipendenti. ■ La religiosità moderna La religione moderna, infine, è caratterizzata dall’emergere di una pluralità di agenzie religiose e da una sempre maggiore individualizzazione del modo di vivere la religione. Essa rappresenta l’evoluzione del fenomeno religioso nelle società industrializzate dell’Occidente, dove non è più configurabile un unico insieme di simboli religiosi che descriva il significato dell’esistenza. Molti fra coloro che frequentano una Chiesa non sono fedeli alle dottrine di tale Chiesa, ma le interpretano alla luce dell’esperienza quotidiana. Perciò, molte organizzazioni religiose hanno allentato i codici morali, dando per scontato che i membri siano responsabili individualmente. Inoltre, le religioni organiz-

11 - La religione

zate non hanno più il monopolio sui tentativi di rispondere alle questioni di fondo dell’esistenza. Significati che una volta tendevano a unire intere società, o grandi segmenti di esse, diventano ambito di intervento dell’individuo.

11.6 Istituzionalizzazione e grandi religioni Si possono classificare i tipi di religione anche in relazione alle modalità del loro diventare istituzioni, cioè in relazione con lo sviluppo del sistema dottrinale, del sistema dei culti e della dimensione etica, sviluppo che è connesso a un certo ambiente culturale e sociale e alle sue richieste. Ovviamente, i grandi sistemi religiosi sviluppano tutte le componenti – dottrinali, cultuali, etiche – ma ognuno di essi accentua un elemento rispetto agli altri, dando origine a forme e strutture organizzative molto differenti, che si originano nel rapporto tra i fini propri delle varie religioni e i condizionamenti e le richieste dell’ambiente. ■ Il cristianesimo A tale proposito, si può evidenziare come il consolidamento di un sistema dottrinale e la richiesta di adesione intellettuale a esso risultino fondamentali e vincolanti presso alcune religioni che si sono sviluppate in Occidente. In particolare, nel cristianesimo emerge l’importanza di un solido corpo di credenze dogmatiche, soggette inizialmente a controversie e ridefinizioni anche in contatto con gli influssi filosofici propri della cultura occidentale. ■ Islam ed ebraismo In altre religioni, che hanno trovato diffusione in un differente sistema culturale, è prevalsa l’attenzione a un sistema di norme. Nella religione ebraica la volontà di Dio si presenta come una serie di norme derivate dalla legge (la Torà) consegnata da Dio stesso al suo popolo attraverso un intermediario umano (Mosè), e non divino come nel cristianesimo. Da ciò una maggiore attenzione posta dall’ebraismo alle regole che ordinano la vita di questo mondo e un’inferiore tensione verso una salvezza ultraterrena. Tali norme fondano l’identità del popolo e la loro osservanza santifica la comunità. Nell’Islam, come nel cristianesimo, il sistema delle credenze risulta precisamente articolato, ma è incluso e necessariamente testimoniato nella prassi, che si esprime in un pre ciso apparato di pratiche rituali (preghiera, elemosina, digiuno nel periodo del Ramadan, pellegrinaggio alla Mecca e a Medina) che scandiscono la vita del credente.

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11 - La religione

Il sistema dei culti

Le caste

Religione morale, priva di trascendenza

■ L’induismo In altre religioni prevale il sistema dei culti. Questo è il caso dell’induismo (che però dovrebbe essere considerato come un complesso di religioni connesse tra loro, piuttosto che come un’unica fede), il quale si propone come mezzo per superare una condizione umana, considerata in realtà apparente e transitoria, segnata dalla sofferenza. Aspetto fondamentale dell’induismo è il sistema delle caste, fondato sulla credenza che ciascun uomo abbia per nascita una particolare posizione all’interno di una gerarchia definita in termini sociali e rituali, posizione che riflette la natura delle rispettive attività di vite precedentemente vissute. Per ciascuna casta esiste un diverso complesso di doveri e di prescrizioni rituali che informano la vita quotidiana del fedele (abluzioni, letture di testi sacri, recitazioni di preghiere, sacrifici rituali ecc.) e il destino di ciascuno nella sua vita successiva dipende principalmente dal modo in cui si attiene a tali doveri. ■ Il buddhismo Altre religioni si caratterizzano per una forte tensione morale, anche priva di prospettive di trascendenza. Le cosiddette religioni etiche orientali, il buddhismo, il confucianesimo e il taoismo, sono prive di dei ed enfatizzano ideali etici che pongono l’individuo in relazione con l’armonia e l’unità naturale dell’universo. Al buddhismo, per esempio, risultano estranee la credenza in un dio signore dell’universo e redentore, in un’anima immortale, o nel valore salvifico della fede. L’uomo, piuttosto, può sfuggire al ciclo delle reincarnazioni, e quindi alla sofferenza, attraverso la rinuncia al desiderio. Il cammino verso la salvezza consiste in una vita di autodisciplina e meditazione, che culmina col raggiungimento di uno stato di completa liberazione (nirvana). Condizione privilegiata per percorrere il cammino che conduce alla liberazione è l’appartenenza alla comunità dei virtuosi.

11.7 Le funzioni della religione Un senso per l’esistenza

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In generale, la religione tenta di offrire un senso ai problemi ultimi dell’esistenza e un sostegno psicologico in momenti gravi e delicati della vita. Oltre a ciò è anche evidente che la storia di molte società non sarebbe comprensibile senza tener conto delle religioni che le percorrono, in quanto queste cercano incessantemente di modellare la società in conformità con il credo di cui sono depositarie. E tale

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operazione può essere compiuta o coinvolgendo direttamente anche il potere politico, come è avvenuto con l’Islam e il cristianesimo, oppure semplicemente orientando i rapporti sociali sulla base della propria peculiare visione della realtà (è il caso, per esempio, dell’induismo e in genere delle religioni orientali). La religione, però, svolge anche precise funzioni sociali, Le funzioni sociali che sono state evidenziate da Émile Durkheim e in seguito sono diventate oggetto dell’analisi sociologica. In primo luogo la religione funziona come una specie di “cemento” sociale. Offre valori e credenze comuni che costituiscono la base del vincolo comunitario. Spesso, inoltre, un valore rafforza valori e norme di importanza cruciale per la vita sociale, contribuendo a mantenere il controllo da parte della società sul comportamento dell’individuo e portando l’individuo a indirizzare verso fini socialmente positivi energie anche potenzialmente distruttive. Infine, i valori religiosi offrono un criterio morale sulla base del quale l’assetto della società può essere valutato ed eventualmente criticato. Per esempio, valori come solidarietà, fratellanza, pace, tipici di alcune religioni, possono diventare motivi di trasformazione della società. Data l’essenzialità di queste funzioni, ogni società, come ha sottolineato Durkheim, richiede l’esistenza di alcuni insiemi di credenze condivise. È vero, però, che oggi in alcune società altri sistemi di credenze possono porsi come equivalenti funzionali della religione. Certe ideologie politiche, soprattutto quelle totalitarie, la fiducia indiscriminata nel progresso scientifico e tecnologico si configurano per alcune loro funzioni sociali in modo simile alla religione.

11.8 Teorie sociologiche sulla religione Dal punto di vista delle teorie sociologiche sulla religione ci limitiamo a compendiare i tre maggiori approcci: quello di É. Durkheim (ripreso dai funzionalisti), quello di M. Weber e quello fenomenologico. ■ Durkheim e il funzionalismo Émile Durkheim ha cercato di mostrare, nella sua opera fon- Durkheim damentale del 1912 dedicata a Le forme elementari della vita religiosa, l’origine unicamente sociale della religione. Durkheim sostiene che la religione è “un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre, cioè separate e interdette, le quali uniscono in un’unica comunità morale, chiamata Chiesa, tutti quelli che vi aderiscono”. Secondo

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11 - La religione

I funzionalisti

questa interpretazione, la religione riflette e insieme rinforza la struttura della società alla quale i suoi membri appartengono. In qualsiasi società vi sono interessi e credenze diversi; la religione promuove l’integrazione o l’unità, ricollocando interessi e credenze in un insieme di significati condivisi dalla collettività. Questa funzione unificatrice è evidente in modo particolare nella pratica dei rituali, dove in modo visibile e pubblico gli interessi vitali della società vengono simbolicamente innalzati verso il regno del sacro. La teoria della religione di Durkheim può essere vista come una sorta di circolo, che ha nella struttura sociale l’inizio e la fine. La società organizza le esperienze umane; le persone cercano una spiegazione di questa influenza in qualcosa di ulteriore rispetto alle loro reciproche relazioni e conseguentemente sviluppano religioni che riassumono la struttura della loro società. Per esprimere queste credenze religiose le persone elaborano dei rituali, i quali hanno l’effetto di consolidare il gruppo e le sue credenze controllando il comportamento dei membri e complessivamente rinforzando la struttura della società. A partire dalle idee di Durkheim, e grazie a un intenso lavoro di ricerca svolto soprattutto a partire dagli anni ’30 dalla corrente funzionalista, si sviluppa una concezione sempre più rigorosamente organicistica della religione (considerata non tanto per ciò che essa è, ma per come agisce sulla società), che viene pensata in generale come una risposta culturale – costituita da credenze, valori, norme, simboli, modalità associative e di socializzazione ecc. – al rischio della perdita di equilibrio psichico da parte dell’individuo e al rischio di disgregazione del gruppo e della società a esso connessa. Per T. Parsons, per esempio, la reli-

RELIGIONE E CIVILIZZAZIONE “Noi parliamo una lingua che non abbiamo fatta; ci serviamo di strumenti che non abbiamo inventato; invochiamo diritti che non abbiamo istituito; a ogni generazione viene trasmesso un tesoro di conoscenze che essa non ha raccolto da sola e così via. Noi siamo debitori di tutti questi beni della civiltà alla società; e se generalmente non vediamo da quale origine li abbiamo ricevuti, sappiamo almeno che non sono opera nostra. Sono essi che conferiscono all’uomo la sua fisionomia personale tra tutti gli esseri; perché l’uomo è ta-

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le per il fatto di essere civilizzato. Egli non poteva quindi sfuggire al senso che esistano fuori di lui cause agenti da cui gli derivano gli attributi caratteristici della sua natura, cioè potenze benevole che lo assistono, lo proteggono e gli assicurano una sorte privilegiata. A queste potenze egli doveva necessariamente attribuire una dignità in rapporto con l’alto valore dei beni che egli attribuiva loro.” (É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Edizioni di Comunità, Milano 1963; p. 234.)

11 - La religione

gione è un insieme di orientamenti cognitivi, cioè un sistema di credenze istituzionalizzate che ha il potere, per la sua pervasività rispetto al senso complessivo dell’esistenza, di orientare l’intero comportamento dell’individuo. La religione è vista, in quest’ottica, come un’istituzione universale che influenza in profondità la struttura dell’azione sociale, e quindi gli ambiti dell’economia e della politica. ■ Weber: religione ed etica del capitalismo L’autore che già prima dello sviluppo del modello funzionalistico ha pensato con molta forza teorica l’intreccio determinato tra religione, economia e politica è stato Max Weber. Weber ha dedicato un’imponente mole di scritti, notevoli per erudizione e ampiezza di orizzonti, allo studio del fenomeno religioso, che viene da lui considerato luogo di verifica essenziale del processo, proprio dell’Occidente, di razionalizzazione della vita. In generale, tale processo avviene con il perfezionamento del rapporto tra mezzi e fini dell’azione, mediante l’eliminazione degli aspetti irrazionali tramite il calcolo e la programmazione. Weber lo ravvisa anche nell’evoluzione storica e sociale delle religioni, precisamente nella sistemazione e chiarificazione delle idee sul sacro. Figure protagoniste di questa razionalizzazione sono il sacerdote e il profeta, che orientano attraverso esse l’azione concreta degli individui. Ovviamente, non tutti i tipi di religione sono altrettanto adatti a esprimere il processo di razionalizzazione. Al riguardo Weber elabora una tipologia dettagliata delle forme storiche della religione, giungendo alla conclusione generale che sia possibile valutare gli effetti sociali di una religione in relazione alla metafisica e alla conseguente etica che la informano. Sulla base della propria metafisica e della propria etica, ogni religione promuove un atteggiamento mentale e quindi funge da potente causa di dinamismo e differenziazione sociale. Weber ha verificato la tesi dell’incidenza della religione sul sistema economico-politico nel famoso saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, in cui ha sostenuto che l’etica della religione protestante, in particolare calvinista (per la quale se “il successo viene a coronare un comportamento razionale, sobrio e determinato, del tipo non orientato all’acquisizione mondana, tale comportamento viene interpretato come segno del favore divino”), sia in connessione significativa con la motivazione di fondo dell’imprenditore capitalista e che tale affinità strutturale abbia permesso il consolidamento e la diffusione del capitalismo.

Luogo di razionalizzazione della vita

Gli effetti sociali della religione derivano dalla sua etica Religione ed economia

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11 - La religione I “VALORI” ETICI DEL PROTESTANTESIMO “L’ascesi protestante intramondana agì violentemente contro il godimento spensierato del possesso, restrinse il consumo, specialmente il consumo di lusso. Invece, ebbe l’effetto psicologico di liberare l’attività lucrativa dalle inibizioni dell’etica tradizionalistica, spezzò le catene che avvincevano la ricerca del guadagno, in quanto non solo la legalizzò, ma ritenne fosse voluta direttamente da Dio. [...] Ma, cosa ancora più importante: l’apprezzamento religioso del lavoro professionale laico indefesso, continuo, sistematico, come mezzo ascetico supremo e sommo, e insieme come comprova più sicura e visibile della rinascita della persona e dell’au-

tenticità della sua fede, doveva infine essere la più potente leva dell’espansione di quella concezione della vita che qui abbiamo chiamato ‘spirito’ del capitalismo. E se ora mettiamo insieme quella restrizione del consumo con questo scatenarsi dell’attività lucrativa, è ovvio il risultato esterno: formazione di capitale condizionata da coazione ascetica al risparmio. Gli ostacoli che si opponevano al consumo del profitto realizzato dovevano necessariamente giovare al suo impiego produttivo: come capitale investito.” (M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1994; pp. 229-231.)

■ L’approccio fenomenologico alla religione Relativamente alla religione, la scuola fenomenologica prende spunto dagli studi del filosofo Max Scheler, che tendono a ricondurre la sociologia della religione alla sociologia della conoscenza, e dalle ricerche di storia delle religioni compiute negli anni ’30 da van der Leeuw. Più recentemente questo approccio è stato ripreso con forza dai sociologi T. Luckmann e P.L. Berger. Nel libro La religione invisibile, del 1963, che costruisce fra l’altro un’interessante critica alla metodologia della sociologia della religione, Thomas Luckmann studia l’incidenza del fenomeno religioso nell’ambito dei significati soggettivi e intersoggettivi e in base a questi ricostruisce i fenomeni sociali. Lo studio della religione può quindi essere estremamente utile, come già per Durkheim e Weber, per comprendere il rapporto individuo-società. RELIGIONE E INTERSOGGETTIVITÀ “La religione affonda le sue radici in un fondamentale fatto antropologico: il trascendimento della natura biologica da parte degli organismi umani. Il potenziale umano individuale necessario per il trascendimento si realizza, originariamente, nei processi sociali basati sulla reciprocità di situazioni faccia a faccia. Questi processi portano alla costruzione di concezioni del mondo oggettive, all’articolazio-

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ne di universi sacri e, in determinate circostanze, alla specializzazione istituzionale della religione. Le forme sociali della religione si basano pertanto su ciò che, in un certo senso, è un fenomeno religioso individuale: l’individuazione della consapevolezza e della coscienza nella matrice della intersoggettività umana.” (N. Luckmann, La religione invisibile, Il Mulino, Bologna 1969; p. 95.)

11 - La religione

Secondo P.L. Berger, che si muove su posizioni simili a quelle di Luckmann, la religione “ha un ruolo fondamentale nella costruzione di un mondo umano [...] e in questa costruzione essa si presenta come un universo simbolico di significato che legittima la struttura della società”. PER UN APPROFONDIMENTO ●

N.Luckmann, La religione invisibile, Il Mulino, Bologna 1969

Si tratta di un contributo teorico fondamentale, che tenta di esaminare l’emergere nell’età contemporanea di una nuova coinvolgente forma di religione “privata” e dei suoi riflessi sulla società. ●

F. Ferrarotti e altri, Forme del sacro in un’epoca di crisi, Liguori, Napoli 1978

Studia gruppi quali i carismatici e il Rinnovamento nello Spirito per mostrare le forme della diffusione del senso del sacro nella società contemporanea. ●

D. Pizzuti (a cura di), Sociologia della religione, Borla, Roma 1985

Significativi sociologi italiani presentano una rassegna critica dei più importanti studi di filosofia della religione pubblicati negli ultimi trent’anni del ’900. ●

E. Pace, Il regime della verità, Il Mulino, Bologna 1990

Analizza il fenomeno del fondamentalismo religioso nel mondo islamico e in quello protestante, con cenni al mondo dell’ebraismo e dell’induismo, e il fenomeno dell’integralismo cattolico. ●

V. Cesareo e altri, La religione in Italia, Mondadori, Milano 1995

Esamina i comportamenti religiosi degli italiani a diversi livelli, dalla religiosità popolare al rapporto individuo-Chiesa alla preghiera personale. ●

J-P. Willaime, Sociologia delle religioni, Il Mulino, Bologna 1996

Esamina i contributi classici della sociologia sul tema della religione e il passaggio da una sociologia “religiosa” confessionalmente orientata a una sociologia “delle religioni”. Dà conto dei fenomeni recenti: nuovi movimenti, fondamentalismi, sincretismi. ●

M.I. Macioti (a c. di), Immigrati e religioni, Napoli 2000

Non più un paese solo cattolico. Oltre ad altri cristiani, vi sono in Italia musulmani, induisti, buddhisti e altro ancora.

SCHEMA RIASSUNTIVO IL PROBLEMA

La sociologia non indaga il fenomeno religioso in sé, ma piuttosto lo studia per quanto in esso si configura come costruzione sociale e per gli effetti che esso produce sulla società.

IL SACRO

Essenziale per comprendere il fenomeno religioso in generale è il riferimento alla nozione di “sacro” e alla distinzione tra sacro e profano, fissate dagli storici della religione Rudolph Otto e Mircea Eliade. Il sociologo Émile Durkheim, nella sua fondamentale opera dedicata a Le forme elementari della vita religiosa, si è servito della distinzione tra sacro e profano per mostrare l’origine “sociale” della religione.

LA RELIGIONE COME STRUTTURA SOCIALE

La religione si struttura nella società in due fondamentali momenti: lo stato nascente e l’istituzionalizzazione.

Lo stato nascente

Per stato nascente si intende un’esperienza originaria caratterizzata dalla manifestazione del sacro.

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11 - La religione segue

L’istituzionalizzazione

Il processo di istituzionalizzazione comprende quattro livelli principali interconnessi, che riguardano rispettivamente le credenze, il culto, l’etica e l’organizzazione.

Tipi di organizzazione religiosa

I tipi fondamentali di organizzazioni religiose sono la chiesa, la confessione religiosa e la setta.

CLASSIFICAZIONE

I sociologi hanno proposto molti modi di classificare le religioni. Il modello attualmente più seguito dai ricercatori è quello ideato da Robert Bellah, che ha classificato le religioni, tanto quelle del passato quanto quelle attuali, in cinque tipi fondamentali: la religione primitiva, la religione arcaica, la religione storica, la religione protomoderna, la religione moderna. Ciascuno di essi evidenzia una forma di religione più complessa e per certi aspetti può essere inteso come una fase di una storia dell’evoluzione delle forme di religiosità.

DELLE RELIGIONI

LE FUNZIONI SOCIALI DELLA RELIGIONE

Le funzioni sociali della religione sono numerose e fondamentali. Soprattutto, la religione offre valori e credenze comuni, che costituiscono la base del vincolo comunitario, e fornisce un criterio morale sulla base del quale l’assetto della società può essere valutato ed eventualmente criticato.

LE TEORIE SOCIOLOGICHE SULLA RELIGIONE

Le più rilevanti teorie sociologiche sulla religione, che hanno orientato la ricerca nel ’900, sono quelle di É. Durkheim e di M. Weber.

Durkheim

Durkheim coglie nella religione la funzione sociale fondamentale di costruzione dell’unità e dell’identità morale della collettività.

Weber

Weber evidenzia l’intreccio determinato tra religione, economia e politica.

L’approccio fenomenologico

Le più recenti teorie di Berger e Luckmann sottolineano l’importanza della religione nei processi di simbolizzazione che costituiscono l’essere sociale dell’uomo.

DOMANDE DI VERIFICA 1. In cosa consiste l’approccio sociologico alla religione? 207a 2. Quali sono i momenti fondamentali dell’esperienza religiosa? Par. 11.2 3. In cosa consiste il processo di istituzionalizzazione della religione? 209b

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4. Quali sono i modelli fondamentali di organizzazione della religione? Par. 11.4 5. Quali sono secondo Bellati i cinque tipi fondamentali di religione? 212b 6. In che senso secondo Weber la religiosità è connessa all’economia? 219b

12 Lo Stato e il sistema politico Non sempre la politica si è espressa e si esprime nella forma dello Stato. Organizzazioni politiche che si fondano su sistemi di fedeltà personali, come il sistema feudale, istituzioni complesse come le póleis greche o l’impero romano, sistemi tribali di vario tipo, hanno poco a che vedere con quella forma di organizzazione politica che è lo “Stato moderno”. Inoltre, secondo molti studiosi lo Stato come si è configurato nel corso dell’età moderna sarebbe oggi in crisi, non riuscirebbe più a gestire efficacemente lo spazio politico. Tuttavia, non si è ancora affermato un tipo di organizzazione politica effettivamente diversa dallo Stato. Per la comprensione della società contemporaneae rimane perciò ancora essenziale analizzare il senso e la funzione dello Stato come istituzione che organizza il governo sociale della cosa pubblica, cercando di ricostruirne l’ossatura, i suoi rapporti con i principali attori sociali, le sue resistenze ai mutamenti.

12.1 Il problema Quando si parla di educazione alla partecipazione politica o ci si interroga sulla riforma dello “Stato del benessere” o sulla crisi della “forma partito”, quando ci si chiede in che misura uno Stato sia veramente “democratico” e quale sia il reale rapporto tra i cittadini e il potere, allora si apre la do- L’organizzazione manda sull’organizzazione dello spazio politico. A tale do- dello spazio politico manda la ricerca sociologica cerca di rispondere dal proprio punto di vista, innanzi tutto mirando a chiarire che cosa connoti lo Stato (inteso come istituzione che nelle nostre società ha il compito primario di organizzare lo spazio politico), sia in base alle funzioni che esso svolge, sia in relazione alle strutture sociali in cui si realizza.

12.2 Politica e società Originariamente, nella filosofia classica (per esempio, in Ari- La “politiké” greca stotele) la parola greca politiké indicava l’ambito stesso della vita collettiva, un vivere associato in comunione, una comunità nella quale i cittadini gestivano il bene comune tramite rapporti faccia a faccia. L’ambito del politico era insomma l’ambito stesso del sociale e la gestione del potere era di tipo orizzontale, con una base della piramide molto allargata e un vertice molto basso. Le cose mutano radicalmente già in epoca romana, quando la civitas (termine la223

12 - Lo Stato e il sistema politico

La “civitas” romana

La distinzione tra politico e sociale

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tino che traduce il greco pòlis) acquista delle dimensioni che sorpassano di gran lunga la possibilità del “vivere politico” consentito dalla pòlis greca. La civitas romana si configura come una civilis societas, comunità di cittadini, organizzata giuridicamente, e la sfera della politicità tende a definirsi (almeno ai tempi di Cicerone, che definiva la civitas come l’aggregazione umana fondata sul consenso della legge) come sfera della giuridicità. Non emerge ancora, però, e non emergerà nemmeno durante il Medioevo (epoca in cui la politica è vista in chiave teologica ed è associata indissolubilmente all’etica), quella proiezione verticale che lega l’idea di politica, cioè di gestione della cosa pubblica e del bene comune, all’idea di potere, di comando, né si ritrova l’idea correlativa di uno Stato sovraordinato alla società. ■ L’autonomia della politica È solo nell’età moderna che la sfera della politica acquista una sua autonomia. Se ne trova testimonianza, per esempio, nell’opera di Machiavelli, dove la politica comincia a distinguersi rispetto alla morale e alla religione. Ma per trovare l’istituzione di una diversità tra sfera della politica e sfera della società, che implica la distinzione tra Stato e società, si deve attendere il progressivo affermarsi di un’economia autoregolata, processo che si viene compiendo durante il ’700. Economisti come Adam Smith e David Ricardo, mostrando come la vita economica sia dotata di propri principi di organizzazione, evidenziano altresì quanta parte della vita associata non sia regolata e regolabile dalle leggi dello Stato. Inoltre il costituzionalismo liberale, da Locke a Montesquieu, riducendo la discrezionalità dello Stato, amplia lo spazio e la legittimità di una vita sociale autonoma. Per effetto dei profondi mutamenti politici, economici e sociali intervenuti nel ’700 in Europa, la società della prima metà dell’800 si viene configurando come una realtà talmente autonoma e distinta dalla politica da diventare, con Comte, l’oggetto di una scienza propria, la sociologia, appunto. Al tempo stesso anche la sfera del politico assume un’autonomia sempre più spiccata, configurandosi come diversa non solo dalla sfera della morale, della religione, del diritto e dell’economia, ma anche dalla sfera del sociale. Dalla dimensione orizzontale che la caratterizzava originariamente, e che è diventata l’ambito del sociale, la sfera della politica si sopraeleva e si restringe, denotando la sfera dell’attività di legislazione e governo, in pratica quanto appartiene all’azione dello Stato.

12 - Lo Stato e il sistema politico ■ Il “sistema politico” Già verso la fine del XIX secolo interviene un altro essenziale mutamento: la massificazione e, in qualche caso, la democratizzazione della politica. Le masse entrano stabilmente nella sfera della politica cambiandola in profondità: se il processo decisionale resta all’interno dello Stato e della sua organizzazione, i processi politici che portano a determinare le decisioni travalicano la sfera dello Stato e delle sue istituzioni. Ciò che da questo momento in poi deve essere pensato è il concetto di “sistema politico” come un complesso insieme di elementi (partiti, sindacati, gruppi di pressione ecc.) che influenza e per certi aspetti comprende lo Stato. A una concezione verticale della politica (intesa come insieme di processi decisionali che appartengono a una sfera autonoma e separata dalla società e che su questa influiscono) si ricollega così l’originaria dimensione orizzontale della politica, dando luogo a un complesso sistema di costante interazione tra processi sociali e processi politici. In tale sistema le decisioni politiche (che possono riguardare diversi ambiti – l’economia, la religione, il costume ecc. – e per lo più si esprimono sotto forma di leggi) sono decisioni che provengono da spinte collettive, da attori sociali, e che assumono la forma della politica in quanto istituzionalizzate da un personale collocato in sedi politiche (parlamento, governo ecc.). L’autonomia della sfera politica permane anche negli odierni paesi democratici in cui le decisioni riflettono richieste provenienti dalla società, poiché le istituzioni politiche entro le quali si concludono i processi decisionali sono comunque chiaramente distinguibili dalle altre istituzioni.

La massificazione della politica

Interazione tra processi sociali e processi politici

12.3 I diversi tipi di Stato Lo Stato (inteso come istituzione distinta dalla società, dotata di un apparato politico con personale specializzato che ha come fine la gestione del potere per la cura della cosa pubblica, il controllo del territorio e la regolazione della convivenza civile attraverso l’elaborazione e l’applicazione delle leggi e l’uso della forza di coercizione) non è certo un fe- Lo Stato, nomeno universale e necessario per la vita sociale. Giu- creazione storica stamente l’antropologo George Murdock scrive in pieno XX secolo: “per il 99% del tempo che l’uomo ha abitato la Terra ha vissuto, ha prosperato e si è sviluppato senza dar vita ad alcuna sorta di organizzazione statuale, e appena 100 anni fa metà dei popoli del mondo – non della popolazione, metà delle tribù e delle nazioni – regolava ancora la propria esistenza esclusivamente attraverso controlli informali, sen225

12 - Lo Stato e il sistema politico

za l’aiuto delle istituzioni politiche”. In realtà, la maggioranza delle società esistite nel corso della storia, per esempio le comunità di caccia e raccolta e le piccole comunità di agricoltori, erano società senza Stato. Non cadevano nel caos poiché disponevano di meccanismi informali di governo, per mezzo dei quali riuscivano a formulare le decisioni riguardanti la comunità e a gestire i contrasti. Le decisioni venivano generalmente prese nell’ambito dei gruppi familiari e, quando i diversi gruppi si trovavano in disaccordo su questioni di fondo, si dividevano per poi eventualmente ricombinarsi con altri gruppi.

Definizione della “forma di Stato” moderno

■ Le forme dello Stato Lo Stato è una fra le tante modalità storiche dell’associarsi umano, che si sviluppa da unità minime, come la coppia, alla famiglia più o meno allargata a gruppi di vario genere che funzionano come agenzie di socializzazione a gruppi organizzati socialmente e talvolta giuridicamente come i villaggi primitivi, le città-stato ecc., fino a giungere agli Stati dinastici, agli Stati nazionali, agli Stati federali e agli imperi sovranazionali. Attualmente la “forma” dello Stato indica una struttura a elevata complessità (la struttura organizzativa, dal punto di vista giuridico-amministrativo, della società), dotata di sovranità sul suo territorio. Tale sovranità è costituita sostanzialmente da tre poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – e a seconda delle forme di esercizio di tali poteri, cioè degli attori che gestiscono la sovranità, lo Stato può essere di tipo monarchico, oligarchico o democratico. L’organizzazione formale dello Stato diventa sempre più un sistema di controlli e bilanciamenti reciproci tra poteri e l’idea stessa di sovranità acquista, almeno nei moderni Stati costituzionali, per lo più forma astratta e impersonale: Stato, nazione, popolo o classe possono essere “sovrani”, ma sempre meno possono essere concreti individui a incarnare la sovranità.

12.4 Lo Stato moderno Lo Stato moderno determina precisamente i confini della propria giurisdizione, esercita attraverso un governo centrale la stessa forma di dominio su tutto il territorio, chiarisce la propria concezione della sovranità, diffonde tra tutti i cittadini (e non solo tra le classi dominanti) la consapevolezza dell’appartenenza a una nazione, cioè a una comunità culturale, dota i cittadini di diritti e doveri comuni. Questa forma di potere compare in Europa, in forme diverse che subiscono una rapida evoluzione, tra Medioevo ed età mo226

12 - Lo Stato e il sistema politico

derna e successivamente nel Nordamerica, mentre nella maggior parte del continente africano e di quello asiatico si sviluppa soltanto durante il ’900. ■ Dallo Stato assoluto allo Stato costituzionale Dal punto di vista storico l’idea moderna di Stato emerge dalla visione medievale della politica come res publica christiana e communitas communitatum (comunità delle comunità) nella forma dell’assolutismo monarchico, secondo cui il sovrano ha la prerogativa di creare nuovo diritto, anche in contrasto con le leggi tradizionali. Per questa sua prerogativa il sovrano si sottrae dal controllo dei vari “corpi” sociali (ceti, stati, corporazioni, gilde ecc.) e dei loro parlamenti e, sciolto da tali vincoli, può promuovere riforme legislative e imprimere alla società un forte dinamismo economico. Proprio la crescita cospicua della dimensione economica, lo sviluppo di attori sociali detentori di nuovi tipi di ricchezza, l’aumento della stratificazione sociale e della dinamica interna alla società, consentite dalla politica dei sovrani assoluti, comportano a partire dalla fine del XVII secolo in Gran Bretagna l’emergere della società civile come soggetto politico con cui la sovranità è costretta a confrontarsi. Tale confronto vede l’affermarsi del costituzionalismo, che è riconoscimento delle funzioni (e perciò dei diritti e delle libertà) della società civile rispetto allo Stato. Nel caso della Gran Bretagna ciò significa la legittimazione di un “modo di essere storico”, cioè di una tradizione di diritti e libertà delle comunità che avevano formato la nazione britannica. In seguito, durante il ’700, il costituzionalismo si afferma in Nordamerica e in Francia. Gli Stati Uniti si costituiscono come nazione autonoma fondandosi come repubblica (res publica), cioè come una comunità che ha alla sua base non tanto legami di natura privata, quanto piuttosto un atto di volontà generato da un sistema di rappresentanza, il quale è costituente in quanto realizza una propria organizzazione politico-giuridica che non rinvia a una precedente tradizione. La carta costituzionale assume in questo contesto per la prima volta una funzione creativa: fonda e struttura uno spazio politico. Qualcosa di simile, ma insieme di più radicale per la sua pretesa di regolare non solo lo spazio politico ma anche la società civile, avviene in Francia con la rivoluzione, che rifonda completamente il sistema politico costruendo attraverso il potere costituente una nuova identità dello Stato. I successivi sistemi politici costituzionali, che fonderanno la loro identità in un patto costituente e in una carta costituzionale, si riferiranno in vario modo ai modelli originari inglese, americano e francese, che hanno aper-

L’emergere della società civile come soggetto politico

L’affermarsi del costituzionalismo

Le costituzioni americana e francese

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12 - Lo Stato e il sistema politico LO STATO DI DIRITTO “L’antico regime si è dissolto per la sua incapacità di far convivere in maniera accettabile e accettata la sfera di libertà delle varie componenti della società civile con la sfera di regolamentazione e di produzione della decisione propria del sistema politico che governa quella società. Il nuovo regime si è costituito producendo un sistema in grado di far convivere le due sfere che abbiamo ricordato. Esso ha anzitutto stabilito che la sfera di libertà dei soggetti della società civile dovesse essere stabilita e tutelata in maniera forte: i soggetti potevano essere solo gli individui oppure anche le comunità? I soggetti dovevano essere considerati eguali per legge o ci si poteva far carico di promuovere l’eguaglianza cercando di compensare le differenti dislocazioni dei sogget-

ti nella società? I soggetti potevano essere tutti gli uomini per caso presenti all’interno di un certo spazio politico o solo quelli che in esso si erano costituiti come suoi cittadini? Sebbene le soluzioni a tali dilemmi creino differenze non piccole e diano luogo a sistemi tra loro non esattamente coincidenti, rimane in tutti un principio unificante. Persino i regimi tirannici che si instaurano in paesi di tradizione costituzionale occidentale fanno ricorso a un sistema di diritti fissati e garantiti per legge (per un numero limitato di soggetti e magari con criteri di flessibilità interpretativa che consentano facili manipolazioni: ma nessuno rinuncia a definirsi come uno ‘Stato di diritto’).” (P. Pombeni, Lo stato e la politica, Il Mulino, Bologna 1997; pp. 22-23.)

to lo spazio politico contemporaneo perseguendo quegli equilibri che consentono la convivenza tra libertà e diritti delle varie componenti sociali, la “società civile”, e la sfera di regolamentazione e decisione propria dello Stato.

12.5 Perché lo Stato

Come lo Stato si serve del potere

Rispetto ai concetti di potere e autorità lo Stato può essere definito come quella parte della società che ha il potere, la forza e l’autorità per allocare le risorse e i servizi del sistema sociale. La teoria del conflitto e quella funzionalista offrono due diverse interpretazioni del modo in cui gli Stati si servono del potere. I teorici del conflitto sottolineano la concorrenza tra vari gruppi per risorse limitate, mentre i funzionalisti mettono piuttosto in rilievo gli aspetti cooperativi del potere politico. Nel primo orientamento viene sottolineato come la vita politica sia lacerata da tensioni interne, nel secondo approccio i conflitti vengono considerati in funzione della realizzazione di un sistema politico integrato. ■ La prospettiva funzionalista Il funzionalismo giustifica la distribuzione diseguale del potere tra i membri della società in ragione del raggiungimento degli obiettivi sociali complessivi. La vita politica, anziché nella lotta tra le classi per il controllo delle risorse, consistereb-

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12 - Lo Stato e il sistema politico

be in una serie di processi cooperativi e decisionali inscindibili tra loro. In particolare, Parsons ritiene che siano i valori sociali a dar forma allo Stato e non viceversa: i valori della società determinano gli obiettivi che il sistema politico persegue. Di conseguenza il governo è considerato innanzi tutto uno strumento più o meno efficace per raggiungere tali valori. Le relazioni fra i sottosistemi sociali, come il governo o l’economia, sono relazioni di scambio e in quanto tali implicano rapporti di cooperazione e di contributo ai fini comuni, non rapporti di mero dominio e sottomissione. Parsons ammette che i governi possano ricorrere a sanzioni negative per assicurare l’obbedienza dei cittadini, ma preferisce sottolineare gli effetti positivi di tale obbedienza, come la fiducia nella legittimità del governo e nei suoi valori sociali. In questo senso un ruolo centrale è svolto in ogni società dai processi di socializzazione, i quali consentono di comunicare alle nuove generazioni il sistema di valori della società nel suo complesso, compresi modalità e obiettivi dei processi politici. Complessivamente, dal punto di vista funzionalista la posizione dominante dello Stato nelle società moderne si spiega in riferimento alle funzioni che esso svolge, grazie alle quali si conserva la complessiva compattezza del sistema sociale. Tali funzioni, che ruotano tutte intorno alla funzione essenziale e onnicomprensiva della conservazione della compattezza e dell’ordine sociale, sono soprattutto: ● l’imposizione delle norme: lo Stato si assume il compito di codificare, attraverso l’attività legislativa, le norme più rilevanti. Esso garantisce l’osservanza di queste norme applicando a chi le viola delle sanzioni. Il diritto penale definisce e reprime le forme di devianza e di criminalità, quello civile definisce e tutela i diritti degli individui e dei gruppi; ● l’arbitrato nei conflitti: lo Stato opera come mediatore fra gli interessi in conflitto per l’assegnazione delle risorse, istituendo gli strumenti necessari per comporre le dispute; ● la programmazione: una società complessa come quella moderna rende necessari molteplici interventi diretti dello Stato, nell’ambito dell’economia, della formazione, dell’assistenza ecc. Per porre mano a politiche uniformi e coerenti, le decisioni devono essere prese a un livello relativamente centralizzato; ● i rapporti internazionali: lo Stato è responsabile dei rapporti politici, economici e militari con gli altri paesi.

I valori sociali danno forma allo Stato

Le funzioni dello Stato

■ Lo Stato del benessere Una delle più vistose funzioni dello Stato contemporaneo, faticosamente conquistata attraverso innumerevoli lotte socia-

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La sicurezza sociale

La crisi dello Stato sociale

Il “comitato esecutivo” della classe dominante

li e in seguito consolidata dai sistemi politici democratici dell’Occidente, è quella di assicurare la “sicurezza sociale”, ovvero le principali condizioni materiali per una sufficiente qualità della vita dei cittadini. Queste condizioni (salute, istruzione, tutela delle “età deboli” come infanzia e vecchiaia, sussidi per gli strati più poveri e diseredati ecc.) sono entrate nella sfera dei diritti che lo Stato deve garantire e quindi sono considerate diritti di cittadinanza (anzi, oggi è aperta la discussione se tali diritti non debbano essere intesi come fondamentali e quindi tutelati indipendentemente dalla cittadinanza, cioè dell’appartenenza alla comunità politica). Le garanzie offerte dallo “Stato sociale” si configurano, almeno parzialmente, come un sistema di ridistribuzione del reddito, che ha come fonte primaria la proporzionalità del prelievo fiscale. Oggi risulta evidente che i costi dello Stato sociale implicano, anche a causa della grande espansione delle burocrazie dei servizi sociali e del malfunzionamento di questi servizi, una pressione del prelievo fiscale eccessiva, in gradi diversi, rispetto alle risorse complessive di molti Stati. La necessaria riforma dello Stato sociale appare uno degli snodi più difficili per quasi tutti i sistemi politici delle economie avanzate. ■ La prospettiva conflittualista Il conflittualismo considera lo Stato come uno strumento la cui comparsa e la cui esistenza sono dirette a salvaguardare gli interessi delle classi sociali dominanti. La teoria dello Stato più importante nell’ambito della prospettiva del conflitto è senz’altro quella marxista, secondo la quale il modello economico di produzione prevalente in una società influenza il carattere della sua cultura e la sua struttura sociale. In tutte le società coloro che controllano i mezzi della produzione compongono la classe dominante, perciò le istituzioni sociali sono sempre funzionali alla conservazione della stratificazione sociale esistente. Lo Stato altro non è che il “comitato esecutivo” della classe dominante, che ne tutela gli interessi permettendole di appropriarsi del plusvalore prodotto dalla forza lavoro. In questa prospettiva la liberazione delle classi subalterne dall’oppressione e dallo sfruttamento è possibile solo attraverso una lotta politico-sociale che permetta loro di appropriarsi dell’apparato del potere, in modo da configurare un nuovo assetto della vita economica e sociale.

12.6 La democrazia Uno degli aspetti più importanti dello sviluppo dello Stato moderno è il suo legame con la democrazia. “Democrazia” è 230

12 - Lo Stato e il sistema politico

una parola di derivazione greca che significa “potere del popolo”. Il termine implica innanzi tutto un principio di legittimità: il potere è legittimo soltanto quando deriva dal po- Il consenso criterio polo e si fonda sul suo consenso. Al riguardo si pongono fa- di legittimità cilmente due problemi: che cosa si intenda per “popolo” e attraverso quali meccanismi il popolo possa manifestare il suo consenso. Il popolo non deve essere concepito come un’entità collettiva o una totalità organica, della quale sarebbe difficile se non impossibile accertare il consenso, bensì come pluralità discreta, o insieme di individui dei quali è necessario accertare il consenso attraverso determinate procedure. POPOLO E DEMOCRAZIA “Possiamo vedere il popolo come un semplice aggregato numerico di individui che, per ragioni politiche e amministrative, vengono considerati come unità distinte e socialmente separate; un aggregato che riceve forma e significato soltanto dalla natura dello Stato e delle sue leggi. Oppure possiamo considerare il popolo come indistinguibile da una cultura e i suoi membri come inseparabili dalle famiglie, dai sindacati, dalle chiese, dalle professioni e dalle tradizioni che, in effetti, costituiscono una cultura. In ogni teoria politica della democrazia la differenza tra i due modi di considerare il popolo è grande e decisiva. Sostanzialmente, quando viene concepita in termini puramente politici, quali sorgono da un vasto aggregato di individui socialmente separati e politicamente integrati, la “volontà” del popolo è una cosa. Quando viene concepita nei termini delle unità sociali e delle tradizioni culturali, nelle quali i giudizi politici, come ogni altro, sono in effetti formati e rafforzati, la “volontà” del popolo è una cosa molto diversa. Nel primo caso il concetto di democrazia politica deve inevitabilmente poggiare con forza sullo Stato e sui suoi organismi formali di funzione e di controllo. Le unità di amministrazione diventano necessariamente individui atomistici, astrattamente concepiti e scissi dai contesti culturali. Quando il popolo è considerato in questo modo, il problema principale della teoria e dell’amministrazione democratica, anzi-

ché diventare il più vasto problema di distribuzione della funzione e dell’autorità nella società, diventa piuttosto la scoperta del mezzo con il quale l’essere umano è messo a contatto anche più stretto con il popolo nella sua interezza politica e, in pratica, con la struttura amministrativa formale dello Stato. Omettendo il riferimento ad altre associazioni, che nella società sono fonti di autorità e di soddisfacimento di vaste esigenze, e concentrando invece l’attenzione nella massa politica astratta, questa idea del popolo diventa amministrativamente impegnata, sin dall’inizio, a una concezione dello Stato potenzialmente totalitario. Nel secondo caso, invece, lo Stato emerge come una soltanto delle associazioni nell’esistenza dell’uomo. Egualmente importante per una teoria democratica basata su questa prospettiva è l’intera pluralità delle altre associazioni. Le associazioni intermedie e i gruppi sociali spontanei che compongono la società, più che particelle politiche atomizzate, diventano le unità prime della considerazione teorica e pratica. L’obiettivo principale della democrazia politica è allora quello di rendere armoniose ed efficaci le svariate realtà di gruppo esistenti nella società, anziché quello di sterilizzarle nell’interesse di una comunità politica monistica.” (R.A. Nisbet, La comunità e lo Stato. Studio sull’etica dell’ordine e della libertà, Edizioni di Comunità, Milano 1957; pp. 338-339.)

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La democrazia ateniese

La democrazia rappresentativa

L’evoluzione delle democrazie

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Propriamente, un sistema di governo integralmente democratico non è mai esistito. Forse la democrazia praticata ad Atene nel IV secolo a.C. si è avvicinata più di ogni altra alla realizzazione della democrazia: il popolo (dêmos) ateniese, quando si radunava, funzionava come una “assemblea cittadina”, in cui i membri della comunità, cioè alcune migliaia di cittadini (con l’esclusione, però, di numerose migliaia di schiavi e di persone, che pure lavoravano e commerciavano in Atene ma non erano “cittadini” ateniesi), esprimevano la loro approvazione o il loro dissenso rispetto a proposte formulate da alcuni di loro. L’esercizio reale della democrazia, a parte questo appariscente aspetto collettivo, era garantito da una rapida rotazione delle cariche pubbliche affidata al caso. Probabilmente questo tipo di governo ha rappresentato il massimo esercizio concepibile della forma diretta della democrazia. La democrazia greca ha ben poco a che vedere con la democrazia che si afferma nell’epoca moderna, la quale non è fondata sulla partecipazione, bensì sulla rappresentanza e quindi presuppone non l’esercizio bensì la delega del potere. Non è quindi un sistema di autogoverno, ma un sistema di limitazione e di controllo del governo. La democrazia in senso letterale è una forma di governo impossibile per lo Stato moderno: le odierne società politiche comprendono infatti un eccessivo numero di persone e soprattutto sono estremamente complesse. Il reale governo di tutti a turno richiederebbe un’eccezionale acquisizione di competenze e un altissimo assorbimento di tempo e di energie. Per quanto alcuni aspetti della democrazia partecipativa conservino una certa rilevanza anche nelle società moderne (la prassi referendaria, per esempio, secondo la quale una decisione dipende dalle opinioni espresse dalla maggioranza su una particolare questione, costituisce una forma di democrazia partecipativa che viene regolarmente utilizzata a livello nazionale in alcuni paesi europei), la democrazia attualmente possibile è una democrazia rappresentativa, nella quale gli elettori scelgono i rappresentanti che avranno il compito di prendere le decisioni politiche. Normalmente il diritto di scegliere tra diverse alternative presuppone l’esistenza di altri diritti, quali la libertà di parola e di associazione. Il termine democrazia, quindi, nelle nostre società descrive solo parzialmente una situazione; più che altro descrive un ideale di partecipazione politica che lo Stato dovrebbe, in vari modi, favorire. Ciò implica che la qualità democratica di una società non possa essere intesa come un’entità statica: tra l’800 e il ’900 assistiamo a un’evoluzione della democra-

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zia e anche oggi ci troviamo di fronte a forme diverse di democrazia. Poiché la democrazia è innanzi tutto un sistema politico organizzato in modo da attribuire potere al popolo, il suo tratto distintivo consisterà nei metodi che salvaguardano tale attribuzione. Ma, se ci riferiamo alle attuali democrazie occidentali, si possono usare anche parametri più ampi. In alcuni Stati, infatti, “democrazia” implica un modo di vivere e di pensare: è democrazia sociale, cioè massimiz- Democrazia sociale zazione dell’uguaglianza di status e di opportunità, e im- e democrazia plica la costruzione di strumenti che rendano reale, e non formale soltanto formale, il diritto di partecipazione alle scelte politiche. In altri paesi, invece, dove la democrazia non è ancora efficiente o addirittura solida (molti paesi dell’est europeo, per esempio, o dell’America Latina) il sistema politico può essere qualificato democratico in ragione dei suoi meccanismi. L’accento cade perciò sulla partecipazione formale e la garanzia delle libertà politiche, che comprendono libere elezioni, la presenza di più partiti in competizione, un governo che rappresenti la volontà politica espressa dal corpo elettorale. L’attuale frontiera della democrazia minima, che con gran fatica cerca di imporsi anche in numerosi paesi dell’Africa e dell’Asia, è rappresentata da un governo costituzionale, e non discrezionale, in grado di assicurare libertà politica, sicurezza personale e imparzialità della giustizia. Insomma, la democrazia rappresentativa è un sistema politico storicamente recente, raro e fragile.

12.7 Condizioni che favoriscono la democrazia Alla luce di quanto detto sopra, devono essere prese in considerazione quali siano le condizioni che in varia misura consentano alla democrazia di pervenire a uno sviluppo compiuto. ■ La struttura dello Stato Se il potere è diffuso e nessun gruppo riesce a raggiungerne il monopolio, le prospettive della democrazia si accrescono. Perciò per molto tempo, anche se ormai esistono democrazie efficienti con sistemi unicamerali, i costituzionalisti hanno considerato il bicameralismo un’impor- Bicameralismo tante condizione di garanzia del sistema democratico. An- e rotazione cor più del bicameralismo, la rotazione dei poteri sembra dei poteri essere un elemento propriamente costitutivo delle democrazie, anche se di diritto nulla vieta che un partito continui a ottenere una maggioranza assoluta su basi competitive, e

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Separazione dei poteri, suffragio universale

che quindi un sistema democratico possa funzionare senza ricambio di forze al governo. Un altro elemento che appare essenziale alla democrazia è l’esistenza di una dialettica tra maggioranza e opposizione, ovvero occorre che sia garantita almeno la possibilità di un’opposizione parlamentare non semplicemente ostruzionistica. È anche rilevante la separazione, prevista dalle costituzioni di numerose democrazie, dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario in altrettanti organi che si controllano reciprocamente. Infine, quello che sembra attualmente essere il marchio distintivo minimo della democraticità di un sistema è l’esistenza di libere elezioni a suffragio universale. ■ Lo sviluppo economico L’instaurarsi di un sistema politico democratico è facilitato da alcune condizioni. Innanzi tutto da un certo grado di sviluppo economico. Seymur Martin Lipset ha addirittura affermato che “più un paese è opulento, tanto maggiori sono le probabilità che appoggi un regime democratico”. Lipset, in sostanza, rileva l’esistenza di una correlazione, che ha motivazioni complesse, tra il livello di sviluppo economico e la presenza di istituzioni democratiche. Anche se la situazione economica di per sé non è determinante per l’avvento della democrazia, sembra ragionevole sostenere che una situazione economica favorevole possa almeno condizionare positivamente la crescita della democrazia. Infatti, un’economia avanzata è quasi sempre legata all’urbanizzazione e all’alfabetizzazione della popolazione, circostanze che comportano l’aspettativa da parte della popolazione di una qualche forma di partecipazione alla vita politica. Inoltre, i sistemi a economia avanzata sono per lo più socialmente articolati e basati su un’influente presenza della classe media e tendono pertanto a essere politicamente più stabili. Privi dell’endemica instabilità provocata dalle rivendicazioni sociali di masse di oppressi, tali sistemi possono permettersi di offrire ai loro cittadini alcune alternative politiche senza temere lacerazioni traumatiche del corpo sociale. Al contrario, in società in via di sviluppo, dove classi marginali di diseredati hanno dimensioni enormi, le classi dominanti oppongono una forte resistenza all’estensione della partecipazione politica. ■ Le strutture intermedie Una tesi inizialmente sostenuta da Tocqueville e quindi da Durkheim, e più recentemente ripresa da W. Kornhauser, sostiene come essenziale per lo sviluppo della democrazia la

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presenza attiva nella società di “strutture intermedie”, co- Un elemento vitale stituite da poteri autonomi rispetto al governo, come sin- del sistema dacati e Chiese, e da associazioni di volontariato e grup- democratico pi organizzati di vario tipo. Tale infrastruttura di organismi e istituzioni costituisce un elemento vitale del sistema democratico, da un lato esercitando un’essenziale funzione di controllo sui poteri dello Stato, dall’altro svolgendo funzioni sociali che assorbono una parte del potere che lo Stato in loro assenza dovrebbe esercitare direttamente, dall’altro ancora favorendo la partecipazione dei cittadini. I controlli che gruppi e associazioni possono esercitare sono di tipo diverso: dalla promozione di leggi che limitano l’esercizio del potere statale alla promozione di strumenti costituzionali adatti a porre in stato di accusa coloro che ricoprono delle cariche pubbliche alla promozione della libertà di critica, attraverso stampa e altri mezzi di comunicazione di massa, alla creazione, infine, di norme informali tanto forti da stabilire le “regole del gioco” socialmente valide, delle quali le leggi devono tener conto. ■ La leadership Oltre alle condizioni economiche e sociali, vi sono anche condizioni più strettamente politiche che influenzano lo sviluppo e soprattutto l’effettività della democrazia. Una di queste, di estrema importanza, è la natura della leadership, la sua L’importanza efficienza e la sua capacità di gestire gli scontri interni allo della leadership Stato, fra interessi di classi diverse, e i rapporti di eventuale conflittualità con altri Stati. Certamente la democrazia ha maggiori possibilità di sopravvivere in una società in cui esiste un generale consenso sui valori fondamentali e un diffuso impegno nei confronti delle istituzioni politiche esistenti. Tale consenso, però, dipende soprattutto dalla capacità di mediazione della leadership, che deve essere in grado di regolare il flusso delle domande sociali senza provocare una sproporzione fra aspettative e capacità di soddisfarle. ■ Conflitto e tolleranza Ovviamente società nelle quali sono storicamente presenti conflitti profondi, di carattere per esempio religioso o razziale, sono tendenzialmente instabili e hanno maggiori difficoltà a sviluppare e mantenere un processo democratico. Spesso il governo democratico si fonda sulla ricerca di compromessi fra interessi e opinioni contrastanti. Se le divisioni sono tanto laceranti da non permettere alcun accordo, crescono normalmente le pressioni affinché il governo diventi “forte”, in modo tale da soddisfare almeno una delle

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La “dittatura della maggioranza”

Uno strumento fondamentale della democrazia

istanze in conflitto, e in ogni caso da conservare l’ordine sociale. È difficile inoltre, per una società che vive forti conflitti, mantenere quella tolleranza alle critiche e alle opinioni dissenzienti fondamentale per l’esistenza della democrazia. In proposito, un grave pericolo per la democrazia è la cosiddetta “dittatura della maggioranza”. In certi casi la vita politica può strutturarsi in modo tale che un consistente gruppo sociale – per esempio, gli afroamericani negli Stati Uniti – si trovi nella condizione di essere sempre in minoranza. In tali casi risulta essenziale, oltre che alla dialettica democratica anche alla stabilità dello Stato, che il governo tenga conto delle richieste delle minoranze. Ancor più in generale, il tentativo di sopprimere semplicemente il dissenso provoca per lo più come risultato che i gruppi dissenzienti, sentendosi esclusi dal normale svolgersi del processo politico, adottino forme di protesta tali da mettere in pericolo la struttura democratica dello Stato. ■ L’accesso all’informazione Per compiere scelte politiche liberamente, in modo da esercitare consapevolmente il loro potere, è necessario che i cittadini possano avere accesso a sufficienti e precise informazioni. Se ai cittadini viene negato l’accesso alle informazioni necessarie per scegliere, o se tali informazioni sono rese false o fuorvianti, se insomma viene negata la libertà di stampa e d’informazione, la partecipazione politica si riduce a una finzione. È quindi fondamentale alla democrazia che i mezzi di comunicazione di massa non siano sottoposti a censura, che l’informazione non sia manipolata, che ai cittadini sia riconosciuto il diritto di esprimersi e di informarsi.

12.8 Il controllo del potere In un regime democratico il potere politico spetta al popolo, che attraverso libere elezioni lo delega ai propri rappresentanti. In realtà, non tutti i rappresentanti possono gestire la stessa quota di potere, che spesso resta concentrato nelle mani dei vertici politici; inoltre, ciascun rappresentante può essere influenzato nelle proprie decisioni da centri di potere estranei alla libera scelta degli elettori. ■ Le teorie delle “élite” All’inizio del XX secolo alcuni importanti studiosi di scienze sociali già si ponevano il problema del controllo del potere nelle democrazie. Per esempio, Robert Michels rilevava che in qualsiasi organizzazione la concentrazione del po-

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tere era un fattore indispensabile dal punto di vista dell’efficienza; Vilfredo Pareto sottolineava l’inevitabile e costante presenza di élite del potere in tutte le società, in tutte le comunità, in tutte le organizzazioni e riteneva essenziale che il sistema politico si mantenesse “aperto”, tale cioè da consentire la “circolazione delle élite”. Queste tesi sono applicabili ancora oggi alle moderne democrazie di massa dei paesi industrializzati? Gli elettori riescono veramente a influenzare le decisioni politiche? Nel famoso libro L’élite del potere, del 1956, C. Wright Mills L’esempio sostiene che negli Stati Uniti la politica è dominata da una ri- americano stretta e potente élite formata dalle persone che presiedono le maggiori organizzazioni: la burocrazia pubblica, le grandi corporations e le forze armate. Il capitalismo avanzato esige che si prendano decisioni fortemente coordinate e di ampia portata, quindi i dirigenti delle grandi organizzazioni sono costantemente in contatto e spesso assumono in modo informale decisioni di rilievo politico e sociale. Come hanno confermato anche recenti e accurate ricerche, questa élite del potere è composta da persone con un’estrazione sociale molto simile: sono nati in America da genitori americani, provengono da aree urbane, sono in prevalenza protestanti, hanno frequentato gli stessi college, provengono in maggioranza dagli stati dell’Est, si conoscono personalmente e hanno atteggiamenti, valori e interessi molto simili. Con LA TEORIA DI WRIGHT MILLS “Nonostante l’ostracismo di cui è fatto oggetto ogni atteggiamento intelligente negli affari pubblici, nonostante l’immoralità del successo e il prevalere dell’irresponsabilità organizzata, gli uomini che appartengono agli ambienti più altolocati hanno veramente a loro completa disposizione i settori istituzionali che stanno sotto il loro controllo. Il potere di queste istituzioni, effettivo o potenziale, sta tutto nelle loro mani, in quanto sono loro che prendono personalmente le decisioni di maggior peso. Questo attributo accresce il prestigio della loro posizione e delle loro persone stesse; tutto attorno alle cariche più alte del potere si stende una fascia di prestigio che avvolge i dirigenti politici, i ricchissimi, gli ammiragli e i generali. L’élite di una data società incarna il prestigio di tutta quella

società, anche nel più modesto dei suoi membri. Inoltre poche sono le persone che godendo di una siffatta autorità possono resistere a lungo alla tentazione di basare almeno una parte della loro immagine sulla voce altisonante della collettività che essi stessi dirigono. Il capo che agisce come rappresentante del suo popolo, del suo gruppo economico, del suo esercito finisce in breve tempo per considerare se stesso e tutto quel che dice e pensa come espressione della gloria accumulata nel tempo dalle grandi istituzioni con le quali egli si identifica. Quando parla in nome del suo paese o della sua causa, tutto un passato di gloria riecheggia nelle sue orecchie.” (C. Wright Mills, La élite del potere, Feltrinelli, Milano 1970; p. 334.)

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I tre livelli di potere

i loro rapporti costituiscono un “direttorio intrecciato” che coordina iniziative e attività. Direttamente sotto questa élite, che opera in modo informale e invisibile, esiste un livello intermedio di gestione del potere, costituito dal settore legislativo, dai gruppi d’interesse e di pressione e dagli opinion leader locali. A un terzo e più basso livello si colloca la massa dei cittadini non organizzati.

■ La teoria pluralista Altri studiosi, come per esempio David Riesman, hanno invece evidenziato, a differenza di Mills, il carattere pluralistico della struttura del potere negli Stati Uniti, accentuando i fattori di differenziazione, più che quelli di convergenza, esistenti tra le organizzazioni e i gruppi che esercitano influenza politica. David Riesman, per esempio, nega l’esistenza di un’élite del potere coordinata e afferma, al conUna pluralità trario, l’esistenza di una pluralità diversificata e bilanciata di gruppi di interesse di gruppi di interesse, ciascuno dei quali si appropria di un diritto di veto che esercita sulle proposte sgradite. In tal modo si apre una competizione tra gruppi organizzati, sempre relativa ai singoli problemi, nella quale nessun gruppo è favorito in misura rilevante rispetto agli altri. E per prevalere cerca alleanze tra la massa degli individui non organizzati, la quale può quindi esercitare un certo potere di indirizzo sulle decisioni politiche.

12.9 Rappresentanza e partecipazione La democrazia moderna è un sistema politico fondato sulla rappresentanza. Infatti, come già abbiamo rilevato, la democrazia partecipativa è impossibile come modalità di governo sistematica delle società di grandi dimensioni, in quanto la guida di una società complessa richiede specializzazione. Ciò implica la stretta connessione tra rappresentanza e partecipazione politica: in che senso si deve intendere la rappresentanza per garantire l’effettiva partecipazione dei cittadini alle scelte politiche? Nelle società complesse sorgono al riguardo diversi probleLa necessità di un’organizzazione mi: per esempio, lo sviluppo di una politica di massa, legato all’idea di una generale partecipazione democratica, rende burocratica necessaria l’organizzazione burocratica. La fornitura di servizi assistenziali, sanitari e di istruzione esige sistemi amministrativi permanenti e di grandi dimensioni. Scrive in proposito Max Weber: “È ovvio che il grande Stato moderno, perdurando nel tempo, deve sempre più fondarsi, da un punto di vista tecnico, su una base semplicemente burocratica; 238

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e ciò in modo tanto maggiore quanto più esso è grande, e soprattutto quanto più è o diviene una grande potenza”. La democrazia rappresentativa pluripartitica è quella forma Democrazia politica che più di altre consente, sempre a parere di Weber, rappresentativa di garantire i cittadini nei confronti di processi decisionali pluripartitica arbitrari da parte dei capi politici, da un lato, e una completa appropriazione del potere da parte delle grandi organizzazioni burocratiche dall’altro. Affinché i sistemi democratici raggiungano da questo punto di vista un qualche grado di efficacia, è necessario, a parere di Weber, che si reaDONNE E PARTECIPAZIONE POLITICA “L’applicazione alla dimensione di genere del concetto di cittadinanza consente [...] quattro acquisizioni generali. La prima acquisizione è che la determinazione della cittadinanza avviene in sede prepolitica (nel diritto civile, di famiglia, del lavoro ecc.). Del resto, se il nostro modello di trasformazione dei diritti di cittadinanza ‘si mette in moto’ quando mutano le relazioni di potere sociale, esso deve prevedere che, in condizioni di stasi o in caso di mutamento seguito da strategie stabilizzatrici, tali relazioni vengano protette innanzi tutto in loco, in sede sociale, attraverso norme e prassi prepolitiche. [...] Nel caso specifico del genere, tale azione tende a proteggere il modello di potere familiare maschile ‘in sede’, nella famiglia, e a trasferirlo in altri ambiti in modo da consolidarlo. [...] La seconda acquisizione è che anche la cittadinanza apparentemente democratica che si pretende di tutti è sempre soprattutto di qualcuno, non è perfettamente neutra. Di volta in volta, studiosi e studiose hanno creduto di individuare una discriminazione sovraordinata, fondante rispetto alle altre: di classe, di genere, di area di sviluppo, di razza. Era la democrazia non neutrale che ogni volta si riscopriva e si riscopre. Le discriminazioni sono molte e plurali, come molte e plurali sono le linee di conflitto da attivare per il conseguimento di una democrazia di tutti, e ricche di contenuti e di attori le alleanze che ne conseguono. [...] La terza acquisizione è una specificazione della precedente: i criteri

assunti in passato come legalmente discriminanti (sesso, reddito, istruzione ecc.) continuano a operare nelle democrazie contemporanee, a costituire barriere di fatto all’esercizio reale dei diritti politici e, per certi versi, anche di quelli sociali. Ha ragione Carole Pateman quando accusa gli studi tradizionali di cultura politica di valutare alla stregua di accadimenti naturali fenomeni di assenteismo e di apatia da parte di gruppi emarginati, fenomeni che devono invece essere studiati e interpretati anche come esiti di discriminazioni. La quarta acquisizione è che la cittadinanza affievolita – che è propria di certi gruppi e che è rilevata dalla seconda e dalla terza acquisizione – non si spiega solo in termini di minori dotazioni sociali, ma anche e soprattutto attraverso la relazione di minore congruenza tra attività e risorse degli svantaggiati, da una parte, e regole e organizzazione, sia della politica sia del welfare, dall’altra. L’esclusione opera prima a livello prepolitico che a livello politico. Poi, in quest’ultimo ambito, agisce non solo attraverso una limitazione delle risorse, ma anche attraverso la scelta di regole che svalorizzano ulteriormente sul mercato politico la capacità di acquisto delle già scarse risorse degli esclusi. [...] Il caso donne ci suggerisce di estendere il concetto di regole di traduzione al modo in cui si organizza la carriera politica.” (G. Zincone, Da sudditi a cittadini. Le vie dello Stato e le vie della società civile, Il Mulino, Bologna 1992; pp. 187-189.)

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12 - Lo Stato e il sistema politico

lizzino due condizioni. In primo luogo, devono esserci dei partiti che rappresentino interessi differenti e che esprimano diverse ideologie. Se le politiche proposte dai partiti concorrenti sostanzialmente si eguagliano, agli elettori è negata una vera possibilità di scelta. Weber, quindi, respinge l’idea che i sistemi monopartitici possano essere, in senso proprio, democratici. In secondo luogo, sono necessari leader politici dotati di sufficiente creatività e capacità di decisione per sottrarsi al peso soffocante della burocrazia. ■ I partiti politici Certamente la situazione della rappresentanza è mutata relativamente alla progressiva affermazione, avvenuta soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, dei partiti politici (e per alcuni aspetti dei sindacati), che si soI partiti luogo no imposti come luoghi in cui si concentrano le aspiraziodella partecipazione ni politiche dei cittadini, e quindi si sono sostituiti al Parlamento come luogo reale della rappresentanza. I cittadini, attraverso le elezioni, in misura forse più palese nei sistemi proporzionali, ma in realtà anche nelle varie forme di maggioritario, non scelgono primariamente una certa persona, bensì il candidato di un certo partito. A dominare i meccanismi della partecipazione politica nei paesi democratici sono oggi per lo più i sistemi di partito, al punto che risulta difficile immaginare una democrazia senza partiti. Evoluzione dei partiti Il “partito”, pensato nel XVIII secolo, per esempio da Edmund Burke, semplicemente come “corpo di individui uniti per promuovere l’interesse nazionale sulla base dei principi che hanno determinato la loro alleanza”, acquista gradualmente nel corso del XIX secolo la consistenza di una realtà associativa basata su legami di partecipazione e militanza, connessa a movimenti sociali, capace di trasmettere senso di appartenenza e di ottenere obbedienza. L’avvento delle masse sulla scena politica e il relativo allargarsi della base elettorale segna la definitiva vittoria di questo tipo di forma-partito, che diventa per i cittadini momento essenziale di partecipazione alla vita politico-istituzionale. L’allargamento del suffragio aveva progressivamente eliminato il meccanismo naturale di controllo che le comunità esercitavano sui loro pochi eletti e aveva reso necessaria la creazione di nuovi strumenti di conquista e controllo del consenso. I partiti politici, anche per costruirsi come macchine elettorali, elaborano programmi sempre più precisi, scelgono i propri rappresentanti, ne controllano l’attività: si costruiscono come grandi organizzazioni che hanno propri sistemi di produzione, vendita e consumo di idee, informa-

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12 - Lo Stato e il sistema politico PARTITI E SISTEMA POLITICO IN ITALIA “All’inizio degli anni ‘90 il sistema politico italiano è entrato in una fase di transizione turbolenta. Tutti i fattori che avevano prodotto una duratura stabilità politica, spesso confinante coll’immobilismo, sono stati messi in discussione. La Costituzione italiana, fino a tempi recenti eccessivamente omaggiata a parole, per quanto spesso violata nella pratica, è diventata oggetto di severe critiche. Un consenso abbastanza diffuso è stato raggiunto sulla necessità di profonde revisioni, ma non su quali revisioni e su quali procedure che a esse conducano. I partiti italiani, attori dominanti della politica, hanno subìto un improvviso declino, con particolare riferimento alla loro capacità di incanalare stabilmente i voti. Sono emersi nuovi movimenti, gruppi e attori politici. Già organizzata dai partiti e nel loro ambito, la società italiana ha cominciato a esigere e manifestare libertà di movimento. È diventata più autonoma, più critica, più frammentata e, in qualche caso, più par-

ticolaristica e corporativa. [...] Cosicché, negli anni ‘90 tutto: le istituzioni, i partiti, le coalizioni di governo, la società appaiono sulla soglia del mutamento. Il sistema politico italiano, una repubblica democratica che è durata per quarantacinque anni, è giunta al termine della sua traiettoria storica nel bel mezzo della scoperta di un’ampia rete di corruzione. Ciononostante, parecchie forze politiche e socioeconomiche che mirano alla conservazione del potere acquisito rimangono abbastanza forti. La loro forza politica unitamente alle preoccupazioni per un futuro sconosciuto rendono piuttosto difficile la transizione a una Costituzione diversa, a un sistema politico rinnovato, a un’altra repubblica. L’esito della transizione è ancora del tutto incerto.” (G. Pasquino, Italia: Un regime democratico in trasformazione, in AA.VV., a cura di J.M. Colomer, La politica in Europa. Introduzione alle istituzioni di quindici paesi, Laterza, Roma-Bari 1995; pp. 242-243.)

zioni e propaganda. Gradatamente i partiti accrescono anche le loro potenzialità di educazione delle masse alla partecipazione politica, diventano agenzie di selezione di élite e di distribuzione del potere. Ovviamente, il loro successo varia a seconda dei paesi ed è in relazione alla loro struttura (di partito di massa o di partito di quadri ecc.), ma in generale i partiti politici hanno svolto, almeno tra gli anni ’50 e gli anni ’70 del XX secolo un ruolo fondamentale di integrazione sociale e di produzione della classe dirigente in quasi tutte le nazioni occidentali. Durante gli ultimi La crisi dei partiti vent’anni del secolo, però, la funzione sociale dei partiti si è allentata: forse la crisi delle ideologie, delle visioni generali del mondo, la frammentazione delle classi, il successo della televisione, che permette la comunicazione diretta col singolo utente-elettore, hanno diminuito il peso del partito come mezzo di formazione e acculturazione politica.

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12 - Lo Stato e il sistema politico

PER UN APPROFONDIMENTO N. Bobbio, M. Bovero, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Il Saggiatore, Milano 1979



Segue lo sviluppo dei modelli teorici di Stato nella filosofia politica da Hobbes a Marx, mettendo in rilievo il rapporto Stato-società civile. ● AA.VV. (a cura di J.M. Colmer), La politica in Europa. Introduzione alle istituzioni di quindici paesi, Laterza, Roma-Bari 1992

È un’utile guida ai sistemi politici dei paesi europei; esamina regole elettorali, struttura dei partiti, tipi di parlamenti, ruolo delle burocrazie e processi di riforme in atto. ● G. Zincone Da sudditi a cittadini. Le vie dello Stato e le vie della società civile, Il Mulino, Bologna 1992

Valuta il modello democratico di Stato in relazione ai diritti di cittadinanza, con particolare attenzione ai diritti delle donne e degli immigrati extracomunitari. ●

A. Barbera, C. Fusaro, Il governo delle democrazie, Il Mulino, Bologna 1997

Ricostruisce la storia e illustra la tipologia delle principali forme di governo democratiche. ●

P. Pombeni, Lo stato e la politica, Il Mulino, Bologna 1997

Introduce allo studio dell’evoluzione storica dello Stato moderno, mettendo in rilievo il problema del controllo del potere e della rappresentanza, la funzione dei partiti e i problemi attuali dello “Stato del benessere”. ●

G. Sartori, Elementi di teoria politica, Il Mulino, Bologna 2002

I concetti politici fondamentali rivisti alla luce della sociologia. ●

M. Duverger, Sociologia della politica, Sugarco, Milano 1987

Un classico del pensiero politico e della sociologia politica in favore del bipartitismo quale garanzia della democrazia. ●

G: Pirzio Ammassari, L’Europa degli interessi, EuRoma-La Goliardica, Roma 2003

L’intreccio tra interessi economici e dinamiche sociali nella nuova Europa a 25.

SCHEMA RIASSUNTIVO IL PROBLEMA

Solo nell’età moderna la sfera della politica acquista una sua autonomia.

LO STATO

Parallelamente all’autonomia del politico emerge in Europa, in forme diverse che subiscono una rapida evoluzione, lo Stato moderno.

La “forma” Stato

Attualmente la “forma” dello Stato indica una struttura a elevata complessità (la struttura organizzativa, dal punto di vista giuridico-amministrativo, della società), dotata di sovranità sul suo territorio.

Le caratteristiche dello Stato

Rispetto ai concetti di potere e autorità lo Stato può essere definito come quella parte della società che ha il potere, la forza e l’autorità per allocare le risorse e i servizi del sistema sociale.

LE TEORIE SULLO STATO

La teoria del conflitto e quella funzionalista offrono due diverse interpretazioni del modo in cui gli Stati si servono del potere. I teorici del conflitto sottolineano la concorrenza tra vari gruppi per risorse limitate, mentre i funzionalisti mettono piuttosto in rilievo gli aspetti cooperativi del potere politico.

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12 - Lo Stato e il sistema politico segue

LA DEMOCRAZIA

Uno degli aspetti più importanti dello sviluppo dello Stato moderno è il suo legame con la democrazia. Per il sistema democratico il potere è legittimo soltanto quando deriva dal popolo e si fonda sul suo consenso.

Il problema del controllo del potere

Relativamente al problema del controllo del potere nelle democrazie C. Wright Mills afferma, prendendo come esempio gli Stati Uniti, che la politica è dominata da una ristretta e potente élite formata dalle persone che presiedono le organizzazioni più potenti. Altri studiosi, tra cui David Riesman, sostengono una visione più pluralista della gestione del potere nelle democrazie.

I partiti politici

A dominare i meccanismi della partecipazione politica nei paesi democratici sono oggi per lo più i sistemi di partito, i quali hanno svolto nel secondo dopoguerra un ruolo fondamentale di integrazione sociale e di produzione della classe dirigente in quasi tutte le nazioni occidentali. Oggi le tradizionali forme di partito sono in crisi e si è alla ricerca di altri strumenti di mediazione e integrazione politica.

DOMANDE DI VERIFICA 1. Come può essere definita la “forma Stato”? 226b 2. Quali sono le principali funzioni dello Stato? 229b 3. In che cosa consistono le differenze tra teoria funzionalista e teoria del conflitto per quanto riguarda la loro concezione dello Stato? 228b e 230b

4. Come si configura la teoria delle élite del potere di Wright Mills? 237b 5. Quali sono le condizioni che favoriscono l’avvento e lo sviluppo della democrazia? Par. 12.7 6. In che senso i partiti politici influenzano la libertà degli elettori? 240

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13 Il mondo che cambia Per cambiamento sociale si intende ogni variazione nel tempo dei modelli culturali, della struttura e del comportamento sociale. Si tratta di un processo inevitabile, che investe ogni società umana. Ciononostante, esistono momenti storici in cui le modificazioni si susseguono più lentamente e altri in cui mutamenti radicali si succedono con rapidità sconcertante. Un dato tipico dell’età attuale è rappresentato dalla rapidità con cui avvengono i cambiamenti. Questo fluire incessante e velocissimo di modelli di comportamento, relazioni, organizzazioni, sistemi di produzione, valori di riferimento, forme di comunicazione costituisce una sfida con cui la ricerca sociologica deve rapportarsi, avendo il coraggio di rivedere teorie e sistemi ritenuti definitivi e di proporre nuovi modelli di interpretazione.

13.1 Il problema Il cambiamento investe anche le popolazioni più sperdute

Al fenomeno del rapido cambiamento sociale oggi non si sottraggono neanche le popolazioni più sperdute. In esse si ritrovano, seppure in modi diversi, gli effetti dell’occidentalizzazione: sistemi di produzione, merci, mezzi di comunicazione e organizzazioni politiche di tali società subiscono l’influenza di modelli di comportamento a loro estranei, che alterano le strutture tradizionali. Il mutamento non investe solo le società industrializzate, ma si propaga in un processo di globalizzazione che finisce per coinvolgere tutte le società. Ma quali cause determinano il passaggio da alcune forme di organizzazione ad altre? Perché questo cambiamento repentino di stili di vita che si sono tramandati nei secoli di generazione in generazione?

13.2 I fattori del cambiamento Tra i fattori maggiormente implicati nel processo di mutamento sociale la ricerca sociologica ha individuato l’ambiente fisico, la popolazione, la cultura, i movimenti collettivi. Spesso si distingue tra fattori di mutamento endogeni (generati, cioè, dalla stessa società) ed esogeni (provenienti dall’esterno). ■ L’ambiente fisico L’ambiente fisico influenza fortemente le condizioni di vita di una società: il clima, il tipo di terreno, fertile o impro-

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13 - Il mondo che cambia

duttivo, l’altitudine, la prossimità dell’acqua e molti altri fattori stimolano l’affermarsi di società che basano il proprio sostentamento su economie e, più in generale, su organizzazioni differenti. L’ambiente non determina il tipo di società, ma contribuisce fortemente al suo modo di essere. Così, le calamità dovute a eventi naturali, come inondazio- Catastrofi naturali e ni, maremoti, eruzioni vulcaniche, terremoti, carestie ecc., mutamenti climatici possono divenire fonte di profonde trasformazioni sociali. Tali calamità connesse a eventi naturali possono, per esempio, essere la causa di flussi migratori e questi a loro volta generare la modificazione di strutture consolidate di altri paesi. Non solo le grandi calamità hanno il potere di favorire il mutamento della società, ma anche variazioni apparentemente più innocue, come per esempio l’innalzamento di qualche grado di temperatura in certe regioni montane, e la conseguente difficoltà all’innevamento naturale e l’aumento delle precipitazioni, possono contribuire pesantemente al modificarsi dei sistemi economici e conseguentemente delle attività a essi collegate. ■ La popolazione L’incremento o il decremento demografici possono co- Popolazione stituire altrettanti fattori di mutamento. Qualora la popo- e risorse lazione aumenti senza che aumentino in egual misura le risorse disponibili, può verificarsi penuria di cibo e di beni. In conseguenza di ciò si possono generare disordini, guerre e nuove strategie di sostentamento, legate sia a diverse abitudini alimentari e a nuove tecniche di produzione, sia a fenomeni di tipo migratorio. Le variazioni demografiche influenzano il mutamento sociale anche qualora si verifichi una diminuzione della popolazione. In questo caso può succedere che il numero dei giovani non sia più sufficiente per mantenere la popolazione anziana; se il decremento demografico si protrae nel tempo, inoltre, l’eccessivo invecchiamento della società può comportarne l’estinzione. Un altro aspetto importante della popolazione è la presenza equilibrata di maschi e femmine, che può essere modificata radicalmente non solo da fattori genetici, ma anche da eventi come guerre e conflitti. ■ La cultura È stato rilevato, innanzi tutto da Max Weber, il ruolo che va- I valori lori, ideali politici e fedi religiose possono avere sulla vita e sul destino di una società. L’importanza attribuita dal protestantesimo al lavoro e al differimento della gratificazione, sostiene appunto Weber, ha creato un ambiente favorevole

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13 - Il mondo che cambia

Le conoscenze tecnico-scientifiche

alla nascita del capitalismo in Europa. I casi in cui gli aspetti ideali generano società diverse, nel bene e nel male, sono innumerevoli, tanto che non si riesce neanche a ipotizzare un qualsiasi movimento di trasformazione sociale che non sia sorretto da forti spinte morali o religioso-valoriali. L’incidenza della cultura non si limita però a questo aspetto: le conoscenze tecnico-scientifiche possono infatti modificare radicalmente la vita di intere popolazioni. Scoperte come la penicillina o invenzioni come l’energia elettrica hanno dato origine a condizioni di vita impensabili in precedenza. I mezzi di trasporto possono spostare merci o persone intorno al mondo nel giro di poche ore e i moderni mezzi di comunicazione consentono la trasmissione culturale spesso in tempo reale, con le ripercussioni che tutti conosciamo nella vita di società originariamente diversissime. ■ Comportamento collettivo

L’incidenza delle personalità

e movimenti sociali Un altro elemento estremamente rilevante ai fini del cambiamento sociale è costituito dall’azione umana. Comportamenti collettivi e movimenti sociali possono infatti modificare radicalmente il modo di essere di una società. Al riguardo va rilevata l’incidenza che forti personalità possono esercitare all’interno di comportamenti e movimenti. Il comportamento collettivo (i tumulti, le manie, le mode) e i movimenti sociali (come quelli che si propongono di attuare riforme o rivoluzioni) rappresentano il tentativo da parte della gente di cambiare il proprio ambiente sociale. Si pensi, per esempio, ai movimenti di liberazione femminile, a quelli per la conversione religiosa, ai movimenti per i diritti umani.

13.3 La modernizzazione Il processo di rapido cambiamento tipico delle società attuali è iniziato circa duecento anni fa con il fenomeno che prende il nome di modernizzazione. Con questo termine si intende il processo di cambiamento economico e sociale Il ruolo dell’industrializzazione determinato dall’introduzione del modo di produzione industriale in una società preindustriale. Il fenomeno, iniziato nelle società occidentali, si è esteso rapidamente a tutte le società umane, modificandone radicalmente modi di vita, organizzazione, sistemi valoriali. Questo cambiamento, avvenuto nelle società europee nel giro di diverse generazioni, è stato introdotto assai più rapidamente nei paesi meno sviluppati, con conseguenze spesso sconvolgenti. 246

13 - Il mondo che cambia ■ Il capitalismo industriale L’affermarsi dell’industria ha generato la possibilità di produrre una considerevole eccedenza di merci, creando così un sistema economico caratterizzato dalla continua espansione della produzione e da una crescente accumulazione della ricchezza, assai diverso dai sistemi produttivi tradizionali, i cui livelli di produzione erano prevalentemente statici. Il capitalismo, reso possibile dagli sviluppi tecnologici che avevano consentito la produzione industriale delle merci, a sua volta incentiva gli ulteriori sviluppi della tecnologia produttiva. L’incremento del progresso scientifico e delle sue applicazioni in chiave tecnologica genera un sistema produttivo la cui portata innovativa è infinitamente superiore a quella dei sistemi tradizionali. Un esempio particolarmente chiaro è fornito dallo sviluppo dei sistemi informatici, di giorno in giorno più maneggevoli, economici e potenti. Gli elaboratori, che negli anni ’60 erano patrimonio unicamente di grossi centri di ricerca o importanti multinazionali e occupavano intere stanze, sono oggi sostituiti da normali personal computer. La maggior parte delle merci prodotte nel passato era di produzione locale e solo in rari casi proveniva da luoghi lontani (per esempio, le sete dell’Oriente). La produzione attuale si sviluppa invece su scala internazionale non solo per quanto riguarda le materie prime o i diversi componenti prodotti in diverse zone del globo, ma anche con riferimento al mercato sempre più esteso su scala planetaria. È normale, per esempio, che i produttori di seta comaschi acquistino tessuti orientali, li colorino con fantasie alla moda e li rivendano negli Stati Uniti. Prodotti “tipicamente italiani” come capi di abbigliamento di marca vengono per lo più fabbricati nei paesi del Terzo Mondo e rivenduti a una clientela internazionale. Lo spazio delle antiche industrie nazionali si riduce sempre più a favore di grosse catene capaci di sfruttare i vantaggi che i sistemi legislativi, il costo del lavoro e la presenza di materie prime offrono nelle diverse parti del globo. Come è noto, una tale rivoluzione produttiva ha avuto numerose ripercussioni su diverse dimensioni del vivere sociale. Ha incentivato il processo di urbanizzazione, con le conseguenze sociali a esso legate (ridotti spazi abitativi, famiglia mononucleare ecc.). Tutto ciò ha comportato una revisione delle istituzioni e dei rapporti sociali tra gli individui.

Espansione continua della produzione L’innovazione tecnologica

L’internazionalizzazione dei mercati

L’urbanizzazione

■ Il sistema politico Un altro elemento importante nel processo di modernizzazione è costituito dagli sviluppi politici. Nei sistemi politici

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13 - Il mondo che cambia

Intervento statale nell’economia

La cultura di massa

Secolarizzazione e individualismo religioso

I valori democratici

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moderni il processo decisionale promuove e orienta il cambiamento sociale molto più che in epoche precedenti, stimolando o bloccando il progresso economico e culturale di un paese. Le società industrializzate si caratterizzano per l’elevato grado di intervento statale a livello economico e per la grande percentuale di popolazione impiegata nei settori terziario e quaternario, per lo più a carattere pubblico. Accanto al rafforzamento dello Stato, nei paesi a industrializzazione avanzata si è registrata l’affermazione di sistemi politici democratici, diversamente da quanto avviene nelle società in cui il processo di modernizzazione è più recente; in queste ultime, infatti, la gestione del potere è spesso nelle mani di oligarchie indipendenti dal voto popolare. Secondo autori come Howard e Giddens, mediante il potere militare e la guerra i paesi occidentali hanno esercitato un’influenza in ogni angolo del mondo e ciò ha consentito una diffusione globale degli stili di vita occidentali. ■ I fattori culturali Anche i fattori culturali hanno avuto una forte incidenza sui processi del cambiamento sociale in epoca moderna. Sempre di più si tende a parlare di cultura di massa; i processi culturali, infatti, non sono per lo più circoscritti a piccoli ambiti locali, ma sono diffusi internazionalmente e a tutti gli strati sociali dai mass media e dallo sviluppo dei trasporti. La scienza, inoltre, a causa degli effetti che le sue applicazioni esercitano sulla vita economica degli individui, si afferma come una delle istituzioni più importanti, stimolando un atteggiamento di fiducia nel progresso tecnologico e nelle procedure di razionalizzazione. Relativamente al fenomeno religioso, si assiste da un lato a un processo di secolarizzazione, dall’altro al pullulare di sette e nuovi movimenti, spesso in contatto tra loro a causa della multiculturalità che i paesi stanno venendo ad assumere. In ogni caso, si riscontra sempre meno la presenza di un’unica religione ufficiale come elemento centrale del sistema di credenze della società. Si modificano inoltre i valori e gli atteggiamenti personali. Le persone sono più orientate verso il cambiamento, si sviluppano un maggiore individualismo e una riduzione dei processi di identificazione con la collettività. Va inoltre rilevata l’importanza che ideali come quelli di libertà, eguaglianza e partecipazione democratica hanno avuto nella formazione dei grandi processi di cambiamento sociale dell’età moderna. Questi ideali, affermatisi inizialmente in Occidente, si sono sempre più diffusi nelle diverse parti del mondo.

13 - Il mondo che cambia

13.4 La società postindustriale Secondo molti autori, l’industrializzazione costituisce un importante momento di sviluppo, ma oggi è superato da una fase successiva denominata postindustriale o postmoderna. Nella nostra epoca, infatti, gli elementi peculiari dell’età moderna sono venuti assumendo connotati talmente diversi da quelli originari da non consentire l’utilizzo del medesimo nome per denotare la nuova fase. Con il concorso dell’automazione, che ne ha enormemente accresciuto la produttività pro capite, la maggior parte della popolazione non è attualmente più occupata nell’industria ma nel settore dei servizi. Ciò non significa che la produzione industriale sia venuta meno, significa piuttosto che accanto alla produzione industriale si sono venute affermando altre forme di reddito derivanti appunto dal terziario. I rapporti politici ed economici, le relazioni sociali e la cultura appaiono assai meno condizionati dall’industrializzazione; il confronto non è più tra classe operaia e capitalisti, ma si presentano nuove forme di dinamica sociale. Dal punto di vista della stratificazione sociale, almeno nelle società postindustriali avanzate si assiste inoltre a un notevole incremento delle classi medie. La globalizzazione dei mercati tipica del sistema capitalistico avanzato – sollecitata dai mezzi di comunicazione di massa, dalla facilità dei trasporti e dai flussi migratori che dai paesi più poveri affluiscono in quelli di più antica industrializzazione – dà luogo a società multietniche entro le quali è sempre più difficile trovare elementi capaci di accomunare gli individui che le compongono. ■ I fattori del postindustriale Sembra che la tendenza verso una società postindustriale poggi su due fattori principali. Il primo è rappresentato dal mutamento della struttura occupazionale delle società industriali avanzate. Il fatto che buona parte della popolazione attiva sia occupata nel terziario, sia cioè coinvolta nella produzione di servizi, sollecita la richiesta di professionalizzazione. Il lavoro terziario viene ritenuto più gratificante di quelli industriale e agricolo; vengono incentivati lo spirito di iniziativa e le capacità individuali; sempre meno il lavoratore si sente parte di una classe in opposizione a quella padronale. Secondo Daniel Bell si passa da un sistema fondato sulla produzione di merci a quello della produzione del sapere. Gli individui che svolgono lavori impiegatizi di elevato livello sono infatti specializzati nella produzione di informazione e sapere. L’infor-

L’espansione dei servizi

Nuove dinamiche sociali

Globalizzazione e società multietniche

Mutamento della struttura occupazionale e dei ruoli sociali

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13 - Il mondo che cambia

L’obsolescenza dei metodi di lavoro tradizionali

I nuovi soggetti politici

mazione sistematica e coordinata (il sapere codificato) rappresenta la principale risorsa strategica delle società attuali. Questa centralità dell’informazione comporterebbe, sempre secondo l’analisi di Bell, una revisione della gerarchia sociale, i cui vertici sarebbero sempre più occupati da chi detiene il controllo dell’informazione (scienziati, informatici, economisti, ingegneri e professionisti di vario tipo). Il secondo fattore è rappresentato dall’innovazione economica, che rende obsoleti i metodi di lavoro tradizionali grazie ai progressi dell’ingegneria elettronica, cosicché all’interno delle fabbriche le catene di montaggio vengono sempre più sostituite da macchinari che sotto il controllo di un computer seguono le diverse fasi di lavorazione del prodotto. Il ruolo dell’operaio diviene dunque quello del tecnico specializzato che supervisiona il lavoro dei macchinari. Al riguardo Blauner rileva che i tassi di alienazione di queste occupazioni risultano notevolmente inferiori a quelli dell’industria tradizionale. Come è noto, questa minore necessità di manodopera può comportare un beneficio in termini di maggiore disponibilità di tempo libero, ma può anche implicare un aumento della disoccupazione. Secondo Alain Touraine la caratteristica peculiare della società postindustriale non è tanto relativa al tipo di produzione, quanto piuttosto alla nascita di nuovi soggetti-attori del-

LA SOCIETÀ DEI DIVERSI “Le prime esplosioni rivoluzionarie del mondo moderno intendevano creare una società di uguali e di puri, liberati sia dalla miseria che dal dominio dei padroni. Questi movimenti, spesso millenaristi o messianici, come i moti rivoluzionari europei del XII e XIII secolo, dai levellers inglesi alla Convenzione montagnarda francese, cercavano di instaurare un potere popolare assoluto ed egualitario e di abolire i privilegi. Ma oggi nessun movimento societario può più soggiacere a un così marcato utopismo; occorre che l’azione collettiva si metta direttamente al servizio di una nuova figura del Soggetto. In società completamente permeate e costantemente trasformate dalla loro storicità e dalla loro capacità di prodursi e mutarsi, il Soggetto non può più investire se stesso e quindi alienarsi in un ordine, in una comunità o in un potere po-

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litico. Il Soggetto va considerato così com’è, nella sua lotta contro i poteri che dominano gli universi della strumentalità e dell’identità, e non più come principio fondatore di un ordine nuovo che abolirebbe la storia, approdando al proprio compimento o risalendo alle sue radici. Questo rovesciamento di prospettiva disorienta chiunque cerchi ancora di porre un movimento popolare al servizio della costruzione di un partito politico e, soprattutto, di un potere comunitaristico. Ormai nei paesi più industrializzati, gli unici movimenti societari che possano esistere sono le azioni collettive rivolte direttamente all’affermazione e al sostegno dei diritti del Soggetto, della sua libertà e dell’eguaglianza.” Alain Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?, Il Saggiatore, Milano 1998; p. 106.)

13 - Il mondo che cambia

la scena politica. La linea del conflitto – sostiene Touraine – non verte più esclusivamente, come accadeva in passato, sulla distribuzione del reddito, bensì per lo più sull’orientamento e sulla formazione delle decisioni che attengono alla programmazione generale della società relativamente alla gestione dell’istruzione, dei trasporti, dei mezzi di comunicazione, dell’amministrazione pubblica e in generale di tutti gli aspetti essenziali della vita sociale. Il conflitto così inteso vede impegnati nuovi attori storici (donne, studenti, minoranze etniche ecc.) nei confronti delle diverse forme di potere.

13.5 Società anziane ed esplosione demografica Uno degli aspetti più contraddittori della nostra epoca è dato dal fortissimo incremento demografico registrato nei paesi del Terzo Mondo di pari passo con l’incremento nullo o il saldo negativo della natalità nei paesi ricchi. Ci troviamo attualmente di fronte a società poverissime, la cui popolazione (spesso costituita prevalentemente da bambini e adolescenti) è in continua crescita, e ad altre società dove la percentuale di anziani tende a crescere più velocemente rispetto alle altre fasce di età. Portiamo due esempi. In Brasile, paese relativamente povero, la maggioranza degli abitanti ha un’età inferiore ai 25 anni (il gruppo di età più consistente è quello al di sotto dei 5 anni) e l’età media è in continuo ribasso, dal momento che un gran numero di giovani donne dà alla luce un numero sempre maggiore di bambini. In una società ricca come quella italiana (all’interno della quale continua a sussistere una differenza tra i dati del nord e quelli del sud del paese) il 15% della popolazione è costituito da persone di età superiore ai 65 anni, mentre il tasso di fecondità è di 1,19 figli per donna. ■ L’andamento demografico Secondo la teoria della transizione demografica, l’anda- La teoria mento demografico delle società attraversa tre fasi fonda- della transizione mentali. Una prima in cui l’elevata fecondità (connessa ai demografica valori delle società tradizionali e alla mancanza di mezzi di contraccezione) è in qualche modo bilanciata dagli alti livelli di mortalità provocati da malnutrizione, malattie, guerre, così che il numero degli individui di una popolazione risulta sostanzialmente stabile. Nella seconda fase la mortalità declina man mano che il benessere economico aumenta, grazie ai progressi della medicina e dell’assistenza sanitaria. In questa fase gli alti livelli di fecondità non sono accompa-

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13 - Il mondo che cambia

Fattori culturali e religiosi

Il caso irlandese

gnati da una mortalità diffusa. Si verificano, pertanto, le condizioni che consentono un rapido incremento esponenziale della popolazione. Nella terza fase ai bassi livelli di mortalità si accompagnano altrettanto bassi livelli di fecondità. È questa una fase tipica delle società di più antica industrializzazione, laddove le mutate condizioni socioeconomiche consentono da un lato un notevole innalzamento dell’età, mentre dall’altro spingono gli individui ad avere meno figli. Benché la teoria della transizione risulti utile nell’analisi di molti processi, essa non riesce tuttavia a spiegarne altri. Non si riesce a comprendere, per esempio, perché in periodi di piena espansione industriale si siano verificati momenti di esplosione demografica in paesi altamente industrializzati (si pensi, per esempio, al baby boom italiano durante gli anni ’60 del ’900). Mentre, d’altro canto, ci si è resi conto che la sola presenza del sistema economico industriale non basta a ridurre il livello di fecondità. È chiaro che, accanto alle questioni di ordine economico e alle esigenze sociali, rivestono un ruolo di primo piano fattori di ordine culturale e religioso. Se è vero che ancora in molti paesi una numerosa prole costituisce una sorta di “pensione per la vecchiaia”, altrimenti priva di qualsiasi garanzia, mentre in altri paesi sono rilevanti altri fattori (come il costo che in termini di carriera e di livello economico ha sulla famiglia l’arrivo di un nuovo nato), è pur vero che l’accettazione o meno del controllo delle nascite non è riducibile unicamente a queste dimensioni. Al riguardo sono piuttosto interessanti le statistiche relative al livello di fecondità della popolazione irlandese. Più che il ceto sociale o il tipo di lavoro svolto dal capofamiglia, pare che sul tasso di fecondità degli irlandesi incida in modo radicale il tipo di religione professata. ■ Società anziane Mentre molti paesi in Africa, Asia e America Latina si dibattono nei problemi relativi all’eccessiva giovinezza della popolazione e al suo aumento esponenziale, nei paesi occidentali si verifica un sempre maggiore aumento della percentuale di anziani rispetto alle altre fasce di età. Per esempio, si pensi che in Gran Bretagna l’età media all’inizio del XX secolo si aggirava intorno ai 23 anni, settant’anni dopo era di 28 e vent’anni dopo si aggirava intorno ai 32, mentre secondo stime ha raggiunto i 35 anni nel 2001. Va precisato che all’interno di questi dati, stimati sulla base della media dell’età di tutti gli individui del paese, è compreso anche un notevole aumento del gruppo dei molto anziani, che si stima destinato ad aumentare ulterior-

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mente. Altro fattore molto importante è rappresentato dalla durata della vita: negli anni ’50 in Italia la vita media degli uomini era di 54 anni, mentre nel 1981 la durata media della vita è salita a 71 anni per gli uomini e a 78 anni per le donne. Il che ovviamente significa un notevole innalzamento del numero degli anziani rispetto al passato. Come giustamente rilevato da Riley, a questa maggiore presenza quantitativa di anziani non corrisponde altrettanta considerazione nei loro confronti; nelle società attuali, infatti, il prestigio tradizionalmente attribuito agli anziani tende a venire meno, così come gli importanti compiti da essi esercitati nelle società premoderne. Nelle società odierne è dominante una mentalità giovanilistica, che vede appunto nella giovinezza e nei caratteri a essa relativi i modelli a cui aspirare. Nei confronti degli anziani si praticano invece delle forme di discriminazione, dal momento che essi non sono più ritenuti produttivi e l’esperienza da loro accumulata durante il corso della vita spesso è considerata obsoleta. Come si è già considerato al cap. 7, i sociologi utilizzano sempre più il termine ageism, che indica un atteggiamento discriminante nei confronti delle fasce di età anziane. Va tuttavia rilevato che, man mano che aumenta il peso percentuale della popolazione anziana, cresce altresì l’attenzione verso gli anziani da parte della pubblicità che considerano tale segmento di pubblico come formato da possibili clienti (si pensi al grande mercato dei viaggi organizzati, a quello dei sanitari ecc.). Analoga attenzione verso l’elettorato anziano mostra il potere politico. A quest’ultimo proposito risulta particolarmente interessante il ruolo di gruppo di pressione esercitato dagli anziani negli Stati Uniti. Il concetto di vecchiaia, considerata come fascia d’età composta da soggetti titolari di determinati diritti e obblighi, è tipico delle società moderne. Solo recentemente, infatti, e all’interno dei paesi più avanzati, si afferma il diritto al pensionamento e l’obbligo a non svolgere l’attività lavorativa oltre una certa soglia di età. Nelle società passate non esisteva nulla di simile: gli individui continuavano l’attività lavorativa finché ne avevano la forza e per il resto erano affidati all’assistenza dei figli. In realtà, data la brevità della vita dei ceti popolari, situazioni di assistenza prolungata erano piuttosto rare rispetto alla maggioranza della popolazione. Una delle grandi conquiste del movimento operaio è stato il diritto alla pensione, cioè l’assicurazione del lavoratore di poter interrompere, raggiunta una certa età, l’attività lavorativa continuando a percepire una retribuzione. Ancora alla fine degli anni ’20 del ’900, in paesi di antica industrializ-

La discriminazione degli anziani

La vecchiaia

Il pensionamento

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13 - Il mondo che cambia

I problemi del pensionamento

Tempo libero o tempo vuoto?

Il ritardo nell’inserimento dei giovani

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zazione come la Gran Bretagna più della metà degli uomini oltre i 65 anni continuava l’attività lavorativa. Attualmente, seppure con retribuzioni e modalità differenti, la pensione di vecchiaia risulta un diritto acquisito da tutti i paesi sviluppati. In molti paesi l’età prevista per l’astensione obbligatoria dal lavoro varia a seconda che si tratti di lavoratori di sesso maschile o femminile (in Gran Bretagna, per esempio, si va dai 60 per le donne ai 65 per gli uomini), in altri questo periodo è diversificato a seconda della professione svolta (in Italia, per esempio, ancora oggi i professori universitari possono continuare a esercitare sino ai 72 anni), in altri ancora (è il caso degli Stati Uniti) l’età dell’astensione obbligatoria è stata abolita. Se è vero che la pensione costituisce un grande segno di civiltà e un diritto irrinunciabile per ogni Stato che voglia attualmente dirsi civile, è altrettanto vero che alla pensione sono collegati diversi problemi di ordine psicologico, economico e sociale. Lasciare il proprio posto di lavoro implica spesso per il pensionato la perdita dei rapporti sociali che al posto di lavoro erano legati, il cambiamento di abitudini acquisite nel corso di una vita, la sensazione di essere inutili a se stessi e agli altri. Inoltre, all’interno di società che pongono il proprio valore fondamentale nel lavoro, il pensionamento comporta spesso una perdita di status e della relativa considerazione sociale. Spesso, infine, il tempo libero tanto atteso viene percepito dal pensionato come spazio vuoto da colmare e le conoscenze e abilità apprese durante il corso della vita sembrano non avere più alcuna utilità sociale. Accanto a questi aspetti, per i pensionati spesso si aggiungono problemi di carattere economico: nonostante si registri la presenza anche di pensioni molto alte, sovente la loro entità economica è inferiore al reddito precedente; si verifica così che considerevoli percentuali di individui anziani vivano in condizioni prossime alla soglia di povertà. ■ Problemi dell’invecchiamento della popolazione Le nostre società presentano dunque una crescente sproporzione in termini percentuali tra popolazione attiva e popolazione non attiva. Dato l’elevato livello di competenza richiesto dall’evoluzione sociale, e data la carenza di posti di lavoro, si tende a ritardare sempre più l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Nelle società occidentali si verifica dunque da un lato un notevole prolungamento della speranza di vita degli anziani, e pertanto del periodo durante il quale gli anziani devono essere mantenuti dalla collettività dopo l’uscita dal mondo del lavoro, dall’altro l’au-

13 - Il mondo che cambia

mento notevole degli anni che precedono l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Come ovvio, i costi sociali di I costi sociali un tale sistema, dall’assistenza sanitaria all’istruzione agli apparati previdenziali e assistenziali, tendono ad assorbire una quantità di risorse economiche sempre maggiore e sempre meno sostenibile finanziariamente da nazioni il cui reddito è prodotto da una minoranza di individui adulti in età lavorativa. Da qui i processi di revisione della previdenza sociale in cui molti Stati (tra cui l’Italia) si trovano impegnati. ■ Società giovani L’introduzione della medicina occidentale in paesi dall’altissima natalità ha dato luogo in tali paesi a un incremento demografico rispetto ai cui effetti le popolazioni si sono trovate del tutto impreparate. Mentre, infatti, in Occidente i progressi della medicina e i cambiamenti dovuti all’industrializzazione si sono venuti affermando nel corso di duecento anni, nel caso dei paesi sottosviluppati ciò è accaduto nel giro di una cinquantina d’anni. In paesi già fortemente provati dal colonialismo occidentale e con redditi pro capite tra i più bassi del globo, un tale aumento della popolazione costituisce un ostacolo enorme agli interventi di sviluppo economico. Se, infatti, all’interno di paesi con crescita demografica zero, per incrementare dell’1% il reddito pro capite è necessario investire dal 3 al 5% del reddito nazionale, in situazioni in cui la crescita demografica è del 3% annuo per raggiungere lo stesso risultato è necessario investire il 20% del reddito. Investimenti di tale portata in paesi poveri rimangono ovviamente utopici. Un altro aspetto causato dal brusco incremento demografico nei paesi a basso livello di reddito è stato la forte modificazione della composizione della struttura della popolazione. Gran parte dei paesi del Terzo Mondo sono contrassegnati da società giovanissime, in cui i bambini sono costretti già in tenera età a procacciarsi di che vivere. In società dove la sproporzione tra bambini e adulti è accentuata (in Messico, per esempio, il 45% degli abitanti ha meno di quindici anni d’età) e il problema più urgente è riuscire a sopravvivere, le possibilità relative alla trasmissione del sapere e delle abilità complesse dagli adulti ai nuovi nati risultano estremamente ridotte. Si danno numerose situazioni dove molti bambini sopravvivono commettendo piccoli furti, cibandosi di scarti, lavorando in strutture prive di alcun diritto (è il caso delle miniere d’oro del Sudamerica, delle fabbriche di tappeti dei paesi orientali, dell’arruolamento forzato in reparti particolari dell’esercito in certi pae-

L’incremento demografico ostacolo allo sviluppo

Un’infanzia allo sbaraglio

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13 - Il mondo che cambia

si africani), o dandosi alla prostituzione. Ennew, in uno studio del 1986, rileva che il destino di questi bimbi è diventare “disoccupati o senzatetto, o entrambe le cose insieme”.

13.6 Globalizzazione e società multietniche La circolazione È esperienza quotidiana quella di bere caffè dell’America Lamondiale delle merci tina, utilizzare un computer fabbricato in Asia, mangiare banane provenienti dall’Africa, pompelmi di Israele, formaggio olandese. Sempre più spesso ci capita di scoprire che anche la frutta più casalinga è, per esempio, di provenienza australiana. Ciabattine cinesi, magliette e microchip made in Corea, cacao brasiliano sono prodotti decisamente all’ordine del giorno e che fanno parte dell’esperienza di chiunque. La globalizzazione Questo è certamente un aspetto macroscopico di quel feeconomica nomeno che prende il nome di globalizzazione e che secondo Edgar Morin trae origine dalla scoperta delle Americhe. Ma la globalizzazione va oltre. Tutti sappiamo che il crack finanziario di una grossa azienda orientale può far tremare le borse di paesi distanti centinaia di migliaia di chilometri, che le avventure sentimentali di un capo di Stato possono incidere pesantemente sull’economia internazionale, che l’oscillazione del prezzo di un prodotto si riflette sui settori più diversi. L’incremento o decremento di un determinato settore economico in un angolo anche remoto della Terra ha riLa globalizzazione percussioni a catena su tutti gli altri. Non solo: anche i conpolitica flitti politici non riguardano più unicamente gli Stati al cui interno si verificano, ma rischiano di avere ripercussioni diverse sugli altri Stati. L’esempio più evidente al riguardo è stato fornito dai due conflitti mondiali prima e dalla guerra fredda poi. Nella seconda metà del XX secolo tensioni di paesi lontani come il Vietnam hanno catalizzato l’attenzione delLA GLOBALIZZAZIONE “In questo secolo ci sono state guerre, guerre mondiali, il che significa che nell’era planetaria l’unificazione si attua principalmente nel conflitto e nell’atrocità. In altri termini siamo tutti solidali, ogni mattina ciascuno di noi prende un tè che viene dall’India o un caffè che proviene dalla Colombia, oppure indossa un maglione fatto a Taiwan con una maglietta di cotone egiziana o indiana; si ascoltano le infor-

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mazioni su una radio fabbricata in Giappone e tutto il giorno, compreso a tavola dove giungono frutti esotici, tutto il giorno, in qualche modo, viviamo senza saperlo una vita planetaria. Siamo come un momento di un ologramma dove ciascuno porta in sé il microcosmo.” (Edgard Morin, Ripensare la politica, in AA.VV., Le tribù della terra: orizzonte 2000, Edizioni Cultura della Pace, 1991; p. 60.)

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l’opinione pubblica mondiale per i significati e le implicazioni che in essi si riscontravano. Episodi apparentemente lontani come la sovrappopolazione cinese, la persecuzione dei curdi o la miseria africana si ripercuotono immediatamente sui Paesi ricchi con le ondate migratorie di centinaia di migliaia di disperati, con le ricadute che, sul mercato del lavoro e sulle strutture sociali ed economiche del paese, ciò comporta. Le imprese economiche ragionano sempre più in vista di un mercato mondiale, pronte a coglierne umori e tendenze. Le stesse campagne pubblicitarie devono stare attente a non urtare la suscettibilità di culture tanto diverse. ■ Le migrazioni internazionali I flussi migratori sono presenti da sempre nella storia del genere umano. Fin dalla preistoria, infatti, i gruppi umani hanno abbandonato ambienti inospitali per cercarne di più propizi. Tuttavia l’ampia estensione e le modalità specifiche che connotano le migrazioni attuali rendono il fenomeno particolarmente rilevante nella nostra epoca. Questo scorcio di millennio è stato contrassegnato da movimenti di popolazione sempre più ampi, da una parte all’altra del globo. I rifugiati in tutto il mondo sono passati negli ultimi quarant’anni dai meno di 2 milioni del 1965 ai circa 15 milioni attuali, cifra che non comprende vari milioni di palestinesi, bosniaci e altri gruppi di esuli che non sono formalmente riconosciuti come rifugiati. Secondo gli organismi internazionali, il numero complessivo degli individui che hanno lasciato il proprio paese in cerca di scampo dal terrorismo politico, dai conflitti armati e dalle violazioni dei diritti umani allo stato attuale supera i 120 milioni. Le dimensioni crescenti delle migrazioni internazionali si manifestano dal punto di vista sia numerico, sia geografico. In effetti, dalla fine della guerra fredda quasi nessun paese del mondo è stato risparmiato dal fenomeno. Anche in paesi, come l’Albania e in generale l’Est europeo, dove era vietato l’espatrio si registrano attualmente grosse correnti migratorie verso le aree più sviluppate dell’Occidente. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), in Giappone gli arrivi annuali di cittadini stranieri, per esempio, sono balzati da meno di 60 mila nel 1987 a oltre 160 mila nel 1990, mentre il numero di quanti sono rimasti nel paese dopo la scadenza del visto è passato da meno di 50 mila nel 1987 a più di 250 mila nel 1992. L’esodo dall’Albania verso l’Italia (non solo di cittadini albanesi, ma anche di immigrati illegali provenienti da paesi lontanissimi, come la Cina) ha raggiunto livelli tali che le autorità italiane e albanesi hanno

Una costante della storia umana

Il problema dei rifugiati

Le dimensioni quantitative

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13 - Il mondo che cambia

Le nuove destinazioni

La povertà e i conflitti

Il ruolo dei media e dei trasporti

Il problema dell’identità politico-culturale

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dovuto avviare operazioni militari per far cessare il traffico attraverso l’Adriatico. L’OIL ritiene che oltre cento Stati possano oggi essere classificati come paesi di forte immigrazione o emigrazione. Va precisato che circa un quarto di tali paesi invia e riceve allo stesso tempo gruppi rilevanti di migranti, fenomeno che ha fatto sparire la vecchia distinzione tra paesi di emigrazione, di immigrazione e di transito. Ai paesi meta tradizionale di migrazione, come il Nordamerica, l’Australia e l’Europa, si sono attualmente aggiunti i paesi del Medio Oriente produttori di petrolio e recentemente alcuni paesi dell’Asia orientale e il Sudafrica. ■ Le cause dell’emigrazione In un mondo dove le differenze di reddito diventano sempre più marcate e dove alla rapidità dell’incremento demografico non corrisponde un pari aumento delle possibilità lavorative, in un mondo travagliato da guerre e violazioni dei diritti umani non sorprende il fatto di assistere a forti migrazioni di uomini, donne e bambini in cerca di migliori condizioni di esistenza. Tuttavia, benché diversi fattori come quelli menzionati aiutino a prevedere i processi migratori, questi ultimi non possono essere spiegati unicamente tramite divari economici e guerre, ma dipendono anche da altre variabili. La recente espansione della rete mondiale delle telecomunicazioni contribuisce a veicolare in paesi in cui la stessa sopravvivenza è messa in discussione le immagini (spesso falsate, ma comunque verosimili) di situazioni di facile prosperità (è il caso, per esempio, del ruolo esercitato dalle trasmissioni televisive italiane in Albania). Inoltre, l’espansione dei mezzi di trasporto rende possibili migrazioni un tempo inimmaginabili. Infine, l’esistenza di reti di trafficanti internazionali, la cui occupazione consiste nel trasferimento (spesso clandestino o destinato allo sfruttamento) di individui disposti a tutto pur di riuscire a raggiungere migliori forme di vita, accentua le possibilità migratorie di molti individui. ■ Le difficoltà d’asilo In proposito sostengono J. Habermas e C. Taylor: “[...] l’afflusso degli immigranti modifica la composizione sociale della popolazione anche sotto l’aspetto etico-culturale. È perciò lecito chiedersi se il desiderio d’insediamento da parte dei nuovi immigranti non trovi il suo limite nel diritto di una collettività politica a conservare integra la propria forma di vita politico-culturale. In altri termini, visto che l’ordinamento democratico complessivo ha sempre comunque una

13 - Il mondo che cambia

sua pregnanza etica, noi possiamo chiederci se il diritto all’autodeterminazione non includa anche un diritto ad affermare l’identità della nazione, un diritto da far valere anche contro gli immigrati nel caso in cui essi minacciassero una forma di vita politico-culturale storicamente ereditata”. È noto che tutti i paesi del mondo mantengono le porte aperte agli emigranti provenienti da altre parti del globo, purché questi abbiano specializzazioni molto richieste, capitali sostanziosi da investire o stretti legami familiari nel paese di destinazione. La situazione diviene però estremamente difficile qualora manchino le caratteristiche descritte. Mentre, infatti, nei trent’anni successivi al secondo conflitto mondiale il boom economico che ha investito Europa, Nordamerica e Oceania faceva sì che vi fossero ampie richieste di manodopera, specialmente per i lavori meno specializzati, consentendo così l’ingresso nel paese a un ingente numero di individui provenienti da regioni quali il Nordafrica, l’Europa meridionale, il subcontinente indiano e i Caraibi, le mutate condizioni attuali hanno visto ridursi drasticamente il numero dei permessi di soggiorno. Allo stato attuale il fabbisogno di immigranti poco qualificati è scomparso, soprattutto nell’Europa occidentale, per diversi motivi tra cui: ● la fine del boom del dopoguerra e il successivo rallentamento della crescita economica; ● il declino delle industrie tradizionali, che occupavano molta manodopera, e l’introduzione di nuove tecnologie, che necessitano di un minor numero di lavoratori manuali; ● l’aumento della disoccupazione e il fatto che i datori di lavoro possono soddisfare le restanti necessità di manodopera non specializzata impiegando donne e personale non dichiarato. Per questi e altri motivi, durante gli anni ’70 e ’80 la maggior parte dei paesi industrializzati ha introdotto leggi sempre più restrittive relativamente all’ingresso di lavoratori stranieri. Contemporaneamente, in molti paesi del Terzo Mondo crescevano le pressioni all’emigrazione. Per molti individui, pertanto, le uniche possibilità sono state quella di entrare o restare clandestinamente in un altro paese, oppure di aggirare le normali restrizioni all’immigrazione chiedendo lo status di rifugiato. Nonostante l’ovvia difficoltà di ottenere dati precisi sull’immigrazione clandestina, l’OIL indica una cifra di 30 milioni di persone, di cui 4,5 milioni nei soli Stati Uniti. Un numero consistente di immigrati clandestini è presente anche in Germania, in Italia e in Spagna (500 mila in ognuno di tali paesi), in Giappone (for-

Immigrazione e mercato del lavoro

La minor richiesta di immigrati poco qualificati

L’immigrazione clandestina

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13 - Il mondo che cambia

se 300 mila), in Francia (200 mila), in Corea del sud e a Taiwan (100 mila in ciascun paese), in Australia e in Nuova Zelanda (fino a un massimo di 100 mila in totale). ■ Vecchie e nuove migrazioni: il caso USA Come fa notare Smelser, il maggiore movimento intercontinentale nella storia del mondo che ci è dato conoscere è L’immigrazione stata la migrazione dall’Europa verso gli Stati Uniti verifieuropea catasi soprattutto nel XIX secolo e all’inizio del XX. Se il territorio degli USA al momento dell’indipendenza (1776) contava poco più di 3 milioni di coloni, grazie al forte flusso immigratorio successivo al 1819, la popolazione nel 1900 raggiungeva circa 48 milioni di persone, di cui 36 milioni immigrati dall’Europa. Un effetto diretto del flusso immigratorio è stato quello di aumentare la popolazione del paese, sopperendo alla carenza di manodopera. L’immigrazione ha anche avuto vari effetti indiretti. Innanzi tutto è stata una forza importante nel passaggio degli Stati Uniti da paese rurale a paese urbano. Il primo insediamento degli immigrati era nelle città. Qui essi diventavano una riserva di forza lavoro a buon mercato, consentendo ai lavoratori locali di indirizzarsi verso professioni e attività più qualificate. Gli immigrati, inoltre, avevano spesso famiglie molto più numerose rispetto a quelle della popolazione del luogo, ma dopo una o due generazioni anch’essi cominciavano ad avere meno figli. Tra gli effetti indiretti dell’immigrazione bisogna notare anche l’innalzamento del tasso di mortalità, dovuto alle cattive condizioni igienico-sanitarie e di alimentazione in cui gli emigrati versavano. Così, il tasso di mortalità degli immigrati urbani, insieme con l’alto tasso di mortalità dei neri del Sud, contribuì a far crescere il tasso di mortalità nazionale più di quanto sarebbe stato prevedibile in un paese con uno standard di vita generalmente alto. Per avere un’idea dell’imponenza del fenomeno, si pensi che dai censimenti del 1910, 1920 e 1930 si desume che il numero di italiani della prima o della seconda generazione nella città di New York era superiore al numero di abitanti di Roma; mentre fra il 1900 e il 1940 a New York vivevano più irlandesi della prima e della seconda generazione che non a Dublino e negli anni ’50 vivevano a New York più ebrei che in Israele. La pluralità culturale Questi ultimi elementi introducono al problema delle condizioni di coabitazione di culture così differenti, problema che in ambito europeo si inizia a sentire come tale solo di recente. Questa pluralità culturale ha arricchito la vita sia culturale, sia politica ed economica degli Stati Uniti, ora

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13 - Il mondo che cambia HABERMAS: IL DIRITTO DI IMMIGRAZIONE “Ma chi ha, in generale, un diritto alla immigrazione? Esistono buone ragioni morali per un diritto giuridico individuale all’asilo politico. [...] la gran massa di coloro che intendono emigrare è sempre stata formata [...] sia da immigranti in cerca di lavoro, sia da profughi in fuga dalla povertà, i quali cercano nel loro insieme di sottrarsi alla miseria sofferta in patria. [...] Il punto di vista morale non ci consente di esaminare questo problema soltanto dalla prospettiva degli abitanti di società abbienti e pacifiche: dobbiamo anche assumere il punto di vista di coloro che in continenti stranieri cercano fortuna, vale a dire una vita degna di essere vissuta (non protezione dalle persecuzioni politiche). Per un diritto di tipo morale sono adducibili buone ragioni. Di solito gli uomini non abbandonano la loro patria d’origine senza una impellente necessità; a provare il loro bisogno d’aiuto può bastare il fatto stesso della fuga. L’obbligo a prestare aiuto nasce dalle sempre più strette interdipendenze della società planetaria. [...] Inoltre ricadono sul Primo mondo obblighi speciali derivanti dalla storia del-

la colonizzazione e dallo sradicamento di culture regionali per mano della modernizzazione capitalistica. Infine, si può addurre il fatto che nel periodo tra il 1800 e il 1960 gli europei hanno rappresentato la percentuale di gran lunga più alta, con il loro ottanta per cento, di tutti i movimenti intercontinentali di emigrazione. [...] Questo esodo dall’Europa [...] migliorò decisamente la situazione economica dei paesi d’origine. [...] Ragioni di questo tipo – pur non giustificando la concessione di un diritto individuale all’immigrazione che sia azionabile sul piano giuridico – ci obbligano sul piano morale a praticare una politica dell’immigrazione di tipo liberale, che apra la nostra società agli stranieri e ne controlli l’ingresso a misura delle capacità che sono a nostra disposizione. [...] Nelle società europee, in calo demografico e comunque costrette per motivi economici all’importazione di forza-lavoro, le possibilità di accoglienza non sono di certo ancore esaurite.” (J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998; pp. 101-103.)

amalgamando meglio i diversi elementi etnici, ora facendo prevalere quelli di un determinato gruppo o dell’altro; è il caso dei tedeschi in Pennsylvania, nel Wisconsin e nel Missouri; degli irlandesi a New Orleans; degli scandinavi nel Minnesota; dei messicani nel Nuovo Messico, in Arizona, nel Texas e nella California meridionale.

13.6 Società multiculturali Come sostiene Amy Gutmann, “Oggigiorno varie istituzioni Il problema pubbliche (enti governativi, scuole, facoltà umanistiche) sono delle minoranze severamente criticate per il fatto di non riconoscere o rispettare le identità culturali particolari di alcuni cittadini. Negli Stati Uniti il punto focale di questa controversia è costituito in genere dai problemi degli afroamericani nativi e delle donne; ma all’elenco si potrebbero aggiungere altri gruppi e, se viaggiassimo intorno al mondo, l’elenco stesso cambierebbe. Ciononostante è difficile, attualmente, trovare una società demo261

13 - Il mondo che cambia

L’impreparazione delle democrazie nazionali

cratica o democratizzante che non sia teatro di controversie importanti sul problema se (e come) le sue istituzioni pubbliche debbano o non debbano riconoscere l’identità delle minoranze culturali e di quelle svantaggiate. Che cosa significa per dei cittadini come noi, con identità culturali diverse basate spesso sull’etnia, la razza, il sesso o la religione, riconoscersi uguali? Uguali per il trattamento politico che riceviamo? Per l’istruzione che le scuole danno ai nostri figli? Per i programmi e le politiche sociali delle facoltà umanistiche?”. Queste affermazioni compendiano il dibattito attualmente in corso all’interno della sociologia, della filosofia, della politica e del diritto riguardo il comportamento che i governi dovrebbero tenere nei confronti di società sempre più multiculturali. Se fino a vent’anni fa il problema sembrava riguardare unicamente paesi come gli Stati Uniti, il Canada e, seppure in maniera inferiore, la Francia, attualmente ne sono investiti molti altri Stati, il cui numero è destinato a crescere. La presenza all’interno di un medesimo paese di gruppi di diversa provenienza geografica, religiosa e linguistica, con abitudini, sistemi di valori e modi di vita infinitamente distanti, crea una situazione rispetto a cui le democrazie occidentali, sorte all’interno degli stati nazionali, non si trovano

ACCETTARE LE DIFFERENZE “Le differenze nate dalla diversità delle lingue, dei miti, delle culture etnocentriche hanno occultato agli uni e agli altri l’identità bio-antropologica comune. Lo straniero appare agli arcaici come dio o demone. Il nemico dei tempi storici viene ucciso oppure ridotto in schiavitù, diventa strumento animato. Le chiusure protettive di ogni cultura ripiegata su se stessa durante la diaspora dell’umanità hanno ormai effetti perversi nella nostra era planetaria: la maggior parte dei frammenti di umanità oggi comunicanti sono divenuti inquietanti e ostili gli uni agli altri per il fatto stesso di questa comunicazione: differenze prima ignorate hanno preso la forma di stranezze, follie o empietà, fonti di incomprensione e di conflitti. Le società si percepiscono come specie rivali e si annientano a vicenda. Le religioni monoteiste sterminano i loro dei politeisti e ogni dio sovrano combatte il suo concorrente portando i suoi fedeli alla morte e all’assas-

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sinio. La nazione e l’ideologia hanno edificato nuove barriere, suscitano nuovi odi. Cessano di essere umani l’islamico, il capitalista, il comunista, il fascista. Da qui la necessità primordiale di disoccultare, di rivelare, nella sua diversità e attraverso la sua diversità, l’unità della specie, l’identità umana, gli universali antropologici. Possiamo ritrovare e realizzare l’unità dell’uomo. Questa, perduta nella diaspora dell’Homo sapiens attraverso continenti e isole, è stata più negata che riconosciuta nell’era planetaria. Dobbiamo ritrovarla, non in una omogeneizzazione che ‘buldozerizzerebbe’ le culture, ma, al contrario, attraverso il pieno riconoscimento e il pieno sbocciare delle diversità culturali, la qualcosa non impedirebbe che processi di unificazione e di ridiversificazione fossero all’opera a livelli più ampi.” (Edgar Morin, Anne Brigitte Kern, Terra-Patria, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994; p. 52.)

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preparate. Da un lato si sperimenta con immediatezza la difficoltà nel confronto col “diverso” e si teme la messa in discussione di elementi fondamentali del proprio vivere; dall’altro il confronto è sempre più inevitabile e, dall’esperienza della storia passata, fonte di reciproco arricchimento. Dinnanzi a gruppi di immigrati dotati di caratteristiche culturali ben definite ci si chiede se sia legittima la pretesa di assimilarli nella cultura del paese ospitante, con la conseguente riacculturazione dei nuovi arrivati; o se invece non si debbano trovare delle nuove forme politiche e legislative tese a garantirne il riconoscimento. Secondo l’interpretazione liberale, la politica si deve fondare sull’universalismo delle norme giuridiche: cioè norme che non tengono conto dei caratteri specifici – in questo caso delle particolari culture – degli individui che sottostanno a esse. Gli autori comunitaristi (come Charles Taylor) propongono invece un modello che si fondi sul riconoscimento dei diversi modelli culturali collettivi. Secondo questi autori è necessario partire dal riconoscimento delle differenze di gruppi e appartenenze culturali. Jürgen Habermas ritiene che sia necessario investigare una terza via capace sia di valorizzare i diritti culturali, sia di salvaguardare elementi essenziali transculturali. Da un lato, infatti, i valori culturali hanno diritto al riconoscimento politico in quanto costitutivi delle identità collettive, dall’altro, secondo Habermas, la valorizzazione delle diversità socioculturali va sempre riferita a una prassi fondata su criteri costituzionali universalistici e transculturali.

Assimilazione o riconoscimento delle differenze

La terza via di Habermas

PER UN APPROFONDIMENTO ●

R. Boudon, Il posto del disordine, Il Mulino, Bologna 1985

Un’analisi critica delle più importanti teorie del mutamento.

R. Dahrendorf, Libertà attiva. Sei lezioni su un mondo instabile, Laterza, Roma-Bari 2003



La ricostruzione della convivenza umana nel mondo globalizzato del dopo 11 settembre 2001 non può prescindere dalla libertà. ●

C. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Anabasi, Milano 1993

Profondo dibattito sulle attuali possibilità di riconoscimento delle differenze di gruppi e appartenenze culturali. ● A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?, Il Saggiatore, Milano 1998

Attraverso l’analisi della società contemporanea delinea un percorso capace di dar vita a una comunità aperta agli scambi con l’altro. ●

A. Touraine, La società postindustriale, Il Mulino, Bologna 1970

Testo ormai classico per il concetto di società postindustriale.

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13 - Il mondo che cambia

SCHEMA RIASSUNTIVO I FATTORI DEL CAMBIAMENTO Tra i fattori maggiormente implicati nel processo di cambiamento sociale i sociologi hanno individuato: la popolazione, l’ambiente fisico, la cultura, i movimenti collettivi. LA MODERNIZZAZIONE

La modernizzazione è il processo di cambiamento economico e sociale determinato dall’introduzione del modo di produzione industriale in una società preindustriale. Iniziata nelle società occidentali circa duecento anni fa, la modernizzazione ha assunto una portata mondiale. Capitalismo industriale, sistema politico e fattori culturali hanno contribuito a dare origine a una società radicalmente diversa da quelle che l’avevano preceduta.

LA SOCIETÀ POSTINDUSTRIALE

Secondo numerosi studiosi, alla modernità sta subentrando una nuova fase denominata postindustriale. Accanto alla produzione industriale, si instaurano altre forme di reddito derivanti dal terziario. I rapporti politici ed economici, le relazioni sociali e la cultura appaiono assai meno condizionati dall’industrializzazione; si presentano nuove forme di dinamica e conflitto sociale; si incrementa il numero degli individui appartenenti alla classe media. La globalizzazione tipica del sistema capitalista avanzato, sollecitata dai mezzi di comunicazione di massa, dalla facilità dei trasporti e dai flussi migratori che dai paesi più poveri affluiscono in quelli di più antica industrializzazione, dà luogo a società multietniche in cui è sempre più difficile trovare elementi capaci di accomunare gli individui che le compongono.

Globalizzazione e società multietniche

LE MIGRAZIONI

Il problema della coesistenza etnica

Fattori quali l’enorme incremento demografico di Asia, Africa e America Latina e il calo della natalità dei paesi ricchi aumentano ulteriormente lo squilibrio di condizioni di vita tra le diverse parti del mondo. I movimenti migratori costituiscono uno dei tentativi messi in atto da fasce sempre più numerose di popolazione di accedere a più umane condizioni di vita. I problemi legati alla convivenza di individui provenienti da culture assai diverse hanno dato origine a un ampio dibattito in cui il concetto di rappresentanza delle diverse culture si confronta con l’esigenza di garantire valori considerati essenziali.

DOMANDE DI VERIFICA 1. Quali sono i principali elementi implicati nei processi di cambiamento sociale? Par. 13.2 2. Che cosa si intende col termine “modernizzazione”? Quali sono i fattori che la caratterizzano? 246b-247-248 3. Che cos’è la società postindustriale? 249

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4. Come si possono spiegare i concetti di incremento e calo demografico in riferimento alla situazione di alcuni Paesi? 252 5. Perché si parla di globalizzazione? 256b-257 6. Quali sono i principali problemi relativi alle società multietniche? 261b

Protagonisti della ricerca sociologica Dagli studi giovanili dedicati ai fenomeni del consumo di massa, del di- Francesco Alberoni vismo, dell’urbanesimo, è andato via via concentrando la propria at- Piacenza 1929 tenzione sui movimenti collettivi e le loro dinamiche. Recuperando cri- sociologo italiano ticamente suggestioni di M. Weber e della Scuola di Francoforte, ha indagato i movimenti sociali di massa con Statu nascenti (1968), Movimento e istituzione (1970) e altri studi che analizzano la dialettica fra fasi di libera e creativa costituzione di interessi e valori collettivi e i successivi processi che ne producono la trasformazione in istituzioni sociali dotate di norme, vincoli e gerarchie (il paradigma dell’istituzione ecclesiastica è in questo senso estensibile alla formazione dello Stato, dei partiti politici ecc.). Un significativo aggiornamento di queste problematiche è in Genesi (1989) e in L’arte del comando (2002), che ha fatto seguito a una serie di pubblicazioni costituenti una sorta di moderno “trattato delle passioni” (da Innamoramento e amore, 1979 a La speranza, 2001). Studioso di estrazione culturale cattolica, si è cimentato in numerose ricerche in tema di comunità, mutamento sociale, crisi dello Stato sociale e nuove forme di emarginazione, sviluppando anche un’interessante linea di ricerca teorica. Si deve soprattutto ad Ardigò l’attenzione recente della sociologia italiana per la scuola fenomenologica e il tema dei “mondi vitali” di A. Schütz. Fra i suoi lavori più significativi Crisi di governabilità e mondi vitali (1980), Per una sociologia oltre il postmoderno (1988) e Volontariato e globalizzazione (2001).

Achille Ardigò San Daniele del Friuli 1921 sociologo italiano

È uno fra i più rappresentativi ricercatori della sociologia della conoscenza e della religione. Ha formulato, complessivamente, l’ipotesi che la società sia il prodotto oggettivato e istituzionalizzato delle attività di interazione degli uomini durante la loro vita quotidiana. Ha sviluppato nella sua opera più significativa, La realtà come costruzione sociale (scritta con A. T. Luckmann, 1966), un’interpretazione dei processi che producono la percezione collettiva del mondo sociale. A questa percezione si connettono le più complesse interazioni fra individui e gruppi. Strumento privilegiato della comunicazione è il linguaggio, ma è la vita quotidiana nella sua interezza a dover essere posta per Berger al centro di un’efficace osservazione sociologica. È autore con H. Kellner di studi sulla frammentazione dell’identità delle persone nelle società tardo industriali. Opere principali, oltre a quella già citata: Invito alla sociologia. Una prospettiva umanistica (1963), Un brusio di angeli (1969), Sociologia (con S. Berger, 1976); L’interpretazione sociologica (1989, con H. Kellner), La desecolarizzazione del mondo (1999).

Peter L. Berger Vienna 1929 sociologo statunitense di origine austriaca

Ha fornito importanti contributi allo sviluppo delle metodologie del- Raymond Boudon la ricerca sociale. Contro le suggestioni delle “teorie sistematiche” e in Parigi 1934 polemica con i modelli ispirati a una visione ideologica della società, sociologo francese ha proposto un’originale variante dell’individualismo metodologico, inteso come approccio circoscritto e sempre verificabile sul piano empirico ai singoli temi oggetto dell’osservazione del sociologo. Boudon ha elaborato un modello che permette di spiegare i singoli casi di mutamento (anche quelli che riguardano l’intero sistema sociale) in relazione al contesto sociale e interattivo entro cui si verificano. In parti-

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Protagonisti della ricerca sociologica colare Boudon ritiene che le azioni individuali degli attori sociali, componendosi tra loro, producano degli effetti non previsti, anche se non necessariamente indesiderabili. Tali conseguenze sono una fonte importante di cambiamento sociale e vincolano il ricercatore a un’attenta analisi della situazione in atto per comprendere quali siano i fattori di mutamento realmente agenti. Fra le sue opere maggiori: Metodologia della ricerca sociologica (1974), Effetti “perversi” dell’azione sociale (1977), La logica del sociale (1980), Il posto del disordine (1985), L’ideologia. Origine dei pregiudizi (1991), A lezione dai classici (2000). Pierre Bourdieu Parigi 1932-2002 sociologo francese

Ha privilegiato costantemente l’analisi dei fenomeni legati alla “riproduzione sociale”, dando coerenza interpretativa allo studio delle trasformazioni culturali nelle società di massa e dei nuovi compiti dell’educazione. Ha sviluppato un complesso progetto di “critica sociale del gusto”, centrato sull’osservazione degli stili di vita delle diverse classi sociali. Bourdieu ha incentrato la sua ricerca specialmente sull’analisi delle motivazioni alla base delle scelte di consumo, individuando due ordini di cause: la classe sociale di appartenenza, che deriva dal reddito e dal tipo di lavoro, e il capitale culturale, che dipende dall’istruzione. Su questo punto ha osservato come il sistema culturale di ciascuna classe influenzi i bisogni degli individui e da qui ha definito il concetto di “stile di vita”, nel quale convergono atteggiamenti, consumi e impiego di oggetti da parte dei vari gruppi sociali. Bourdieu ha ricostruito così una mappa sociale, nella quale ogni gruppo si distingue per i beni che usa e per come li usa. Tra le sue opere: I delfini (1972), La distinzione (1979), Risposte: per un’antropologia riflessiva (1991).

Auguste Comte Montpellier 1798 Parigi 1857 filosofo e sociologo francese

È considerato il fondatore del positivismo e l’iniziatore della sociologia con la pubblicazione del Corso di filosofia positiva (1832-42) e di altre due due opere fondamentali, il Sistema di politica positiva o trattato di sociologia (1851-54) e il Catechismo positivista (1852), in cui formulò la legge dei tre stadi della storia umana (teologico, metafisico, positivo) e un originale modello di riclassificazione delle scienze. Per primo Comte sviluppa, nel quadro di un approccio sistematico, il concetto di sociologia intesa come nuova scienza della società e al tempo stesso come approdo logico del processo evolutivo della conoscenza scientifica. La “nuova scienza” s’inscrive, per Comte, in un ambizioso progetto che muove dalla matematica per toccare l’astronomia, la fisica, la chimica, la biologia fino alla sociologia, appunto, escludendo tutte le discipline non passibili di produrre risultati verificabili e “oggettivi”. Il disegno comtiano è peraltro attraversato da una vena di misticismo e di moralismo che finisce per rappresentare la sociologia come una sorta di nuova religione dell’umanità, di cui l’intellettuale-sociologo è il sacerdote. Questa religiosità laica è alla base della legge dei tre stadi di sviluppo dell’umanità, rielaborazione di impronta scientistica di vecchie concezioni cicliche ed evoluzionistiche della storia, riscattate in nome dell’idea positivistica di progresso. Il primo stadio (teologico) è connotato dall’idea di una diretta e costante presenza del sovrannaturale nell’ordine dei fenomeni naturali e degli eventi storici; prevalgono l’ordine monarchico-aristocratico, il potere militare e le culture politiche dell’assolutismo, inteso come espressione di una volontà divina. Il secondo stadio (metafisico) si accompagna, invece, alla ricerca delle cause invisibili dei fenomeni, producendo insieme la scienza moderna e un ordine politico fondato sull’identità di cultura e di sangue (nazionalismo) e sul po-

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Protagonisti della ricerca sociologica tere dei giuristi. Solo nel terzo stadio (positivo), con l’avvento della società industriale, l’umanità può affrancarsi dalle eredità della tradizione e della superstizione per volgersi allo studio delle cause ultime e all’affermazione della nozione di scienza positiva. Scienza che, da un lato, si caratterizza come individuazione dei nessi e delle sequenze sistematiche operanti dietro l’apparente casualità dei fenomeni naturali, mentre dall’altro consente all’umanità, liberata dalle tenebre della pseudo-scienza metafisica, di assicurarsi il controllo e il dominio razionale sulle energie primarie: il potere deve passare agli scienziati. La fisica sociale (o sociologia) eredita la funzione di organizzazione del sapere propria della filosofia, trasformandola però in qualcosa di più compiuto e sistematico, dal momento che la nuova scienza studia tanto l’ordine sociale (con la statica) quanto il mutamento (con la dinamica). La visione mistica di Comte si accentua con gli anni, portandolo a pontificare sulla nuova religione dell’umanità, incentrata sul culto del Grande Essere e su un nuovo martirologio profano, sino a giungere alle soglie della costruzione di un vero e proprio movimento esoterico. Un approdo intellettuale per certi aspetti sconcertante, che non può però cancellare la grande intuizione di Comte, che per primo coglie l’importanza sociale della scienza, descrivendo l’incipiente società industriale come realtà dominata dal calcolo, dalla razionalità tecnica, dalla cultura degli specialismi professionali e dal continuo processo di trasformazione delle strutture e delle relazioni fra gli uomini. Partendo dal presupposto evoluzionistico di una relazione organica tra Charles H. Cooley società e individuo, ma rigettando il determinismo psicologico, esa- Ann Arbor 1864-1929 minò importanti fenomeni sociali, come gli aspetti dell’organizzazione, sociologo statunitense la comunicazione, lo spirito democratico, le classi sociali, le istituzioni, la volontà pubblica. Nell’opera Organizzazione sociale, del 1909, Cooley sostenne una teoria organica della società: la società è un tutto, composto da parti differenziate, che si rende visibile e stabile attraverso le organizzazioni e le istituzioni. Organizzazioni e istituzioni svolgono infatti una funzione positiva di integrazione sociale, incarnando al tempo stesso i processi di identificazione degli individui. Individui e società sono complementari: l’identità individuale ha origine sociale e si forma nelle relazioni faccia a faccia all’interno dei “gruppi primari”, basati sull’incontro ravvicinato, sulla familiarità e sulla cooperazione. Tra le opere: La natura umana e l’ordine sociale (1902), Organizzazione sociale (1909), Il processo sociale (1918). Docente all’Università di Perugia, è studioso molto sensibile al rap- Franco Crespi porto fra filosofia e scienze sociali. Ha dedicato importanti ricerche e Trezzo d’Adda 1930 analisi ai significati simbolici dell’azione sociale e al ruolo del sogget- sociologo italiano to nei movimenti di azione collettiva. Fra i suoi lavori principali Esistenza e simbolico (1978), Le vie della sociologia (1985), Azione sociale e potere (1989), Il pensiero sociologico (2002). Critico del marxismo dogmatico, Dahrendorf ridimensiona drasticamente l’importanza della lotta di classe come conflitto fra soggetti collettivi definiti dal possesso o meno dei mezzi di produzione. Anzi, la classe nel senso di Marx o in quello, più restrittivo, di Weber gli sembra come uno dei numerosi possibili gruppi d’interesse attivi in una società complessa. Il conflitto è perciò descritto principalmente da Dahrendorf come competizione fra gruppi sociali per la conquista di porzioni di

Ralf Dahrendorf Amburgo 1929 sociologo e politologo tedesco naturalizzato inglese

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Protagonisti della ricerca sociologica quella merce scarsa e distribuita in modo disarmonico che è l’autorità. La relazione fra comando e obbedienza si rivelerebbe perciò assai più forte e decisiva nel produrre gerarchie e diseguaglianze di quella legata al possesso economico delle risorse. In questo senso, se si differenzia criticamente dal marxismo e dal conflittualismo radicale di parte della sociologia europea postbellica, Dahrendorf polemizza però anche con l’indirizzo struttural-funzionalistico nordamericano e con il suo principale teorico, T. Parsons. A questi, preoccupato soprattutto delle ragioni dell’equilibrio e dell’ordine all’interno del sistema sociale concepito come una sorta di organismo vivente e interconnesso, Dahrendorf oppone una visione intrinsecamente positiva del conflitto come elemento dinamico e rivelatore della vitalità di una società. In anni recenti si è dedicato a un’appassionata rivisitazione delle ideologie, sviluppando l’idea di un nuovo liberalismo progressista. Importanti i suoi contributi alla tematica europeistica. Sue opere principali sono: Classi e conflitto di classe nella società industriale (1957), Homo sociologicus (1964); Conflitto e libertà (1972), La libertà che cambia (1975), Il conflitto sociale nella modernità (1988), Riflessioni sulla rivoluzione in Europa (1990), Dopo la democrazia (2001). Émile Durkheim Épinal 1858 - Parigi 1917 sociologo francese

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La sua produzione scientifica lo colloca fra i massimi esponenti delle rinnovate scienze sociali europee. Durkheim rivendica anzitutto l’autonomia di contenuti e di metodi della sociologia rispetto alla tendenza a estendere allo studio degli uomini in società le regole e le leggi di proprie delle scienze naturali. Critico del biologismo, afferma il primato del “fatto sociale” anche nei confronti della psicologia, dimostrando come persino fenomeni tradizionalmente indagati a partire dalla sfera della soggettività debbano essere interpretati muovendo dalla loro configurazione sociologica. Esemplare è in materia la ricerca Il suicidio del 1897, che dimostra con rigore statistico il nesso fra declino della solidarietà e del sentimento di appartenenza comunitaria (anomia) e propensione a un tipo di suicidio “anomico”, appunto, del tutto diverso dal suicidio “altruistico” (basato sul sacrificio di sé motivato da una totale identificazione con i valori del gruppo) e da quello “egoistico”, prodotto di una disperata rivolta contro il rifiuto (tipico il suicidio d’amore). E a Durkheim appartiene la prima compiuta definizione del concetto di anomia come situazione di crisi del sistema di norme e valori capace di garantire la coesione di un aggregato sociale. Una crisi a cui sarebbero particolarmente esposte proprio quelle società della modernità industriale caratterizzate da un’accentuata divisione del lavoro e specializzazione delle funzioni. Al centro della teoria di Durkheim è, insomma, una visione complessa dell’evoluzione sociale, fuori delle ingenuità e degli schematismi della vecchia sociologia positivistica che tende a ricondurre al fatto sociale la stessa coscienza individuale. La società si presenta quindi, nell’approccio di Durkheim, come un insieme superindividuale, a forte connotazione etica e in cui la dimensione delle norme e delle istituzioni ha un ruolo centrale. In questa prospettiva, le relazioni fra soggetto individuale e aggregato sociale possono essere regolate da forme di solidarietà “meccanica” (legami primari di tipo familiare o comunitario, come nelle società primitive o tradizionali) o, viceversa, da dinamiche secondarie, connesse alla divisione del lavoro e a più articolate funzioni sociali (solidarietà “organica”). Critico verso tutte le pretese di individuare leggi dello sviluppo storico, Durkheim inaugura anche attraverso importantissimi studi etnoantropologici sul mito, il totemismo e la ritualità nelle comunità primitive australiane un

Protagonisti della ricerca sociologica indirizzo di indagine particolarmente attento al significato delle funzioni sociali. Al suo insegnamento si richiameranno infatti, seppure criticamente e con significative distinzioni di metodo, numerosi sociologi ed etnologi di scuola funzionalistica. Tra le opere: Sulla divisione del lavoro sociale (1893), Le regole del metodo sociologico (1895), Il suicidio (1897), Le forme elementari della vita religiosa: il sistema totemico in Australia (1912), Educazione e sociologia e L’educazione morale (postume, 1922 e 1925). Ha introdotto nel dibattito scientifico italiano, attraverso un’opera Franco Ferrarotti spesso polemica di traduzione, divulgazione e aggiornamento critico, Palazzolo Vercellese 1926 alcuni dei grandi classici del pensiero sociologico (da T. Veblen alla ri- sociologo italiano lettura critica di M. Weber). Negli anni ’50 e ’60 ha condotto ricerche sulle trasformazioni del lavoro, il sindacalismo, le comunità, nonché contributi nel campo della sociologia urbana, in particolare relativamente al caso romano e ai fenomeni di nuova emarginazione. In seguito ha concentrato il proprio interesse sulle forme della religiosità e le loro trasformazioni in un’epoca di secolarizzazione. Di rilievo anche la produzione orientata alla proposta di nuove metodologie di ricerca, con il recupero del metodo biografico, degli strumenti qualitativi e il perfezionamento della tecnica delle storie di vita. Fra le sue opere, La protesta operaia (1955), Max Weber e il destino della ragione (1965), Il paradosso del sacro (1983), Una teologia per atei (1984), L’Italia in bilico (1990), L’ultima lezione (1999). Studioso dei problemi del mondo del lavoro e delle relazioni indu- Luciano Gallino striali, ha offerto importanti contributi di ricerca in tema di effetti so- Torino 1927 ciali dell’automazione e di nuova qualità della produzione. Di rilievo sociologo italiano sono anche i contributi allo studio del fenomeno dell’ingovernabilità nella società italiana in una stagione di crisi. Tra i suoi lavori, Personalità e industrializzazione (1968), Della ingovernabilità (1987), L’incerta alleanza (1992), sui rapporti tra scienze umane e della natura, e Il costo umano della flessibilità (2001). È considerato il padre dell’indirizzo sociologico della etnometodologia, Harold Garfinkel che si configura come una specificazione della sociologia della cono- Newark, New Jersey, 1917 scenza, poiché il suo interesse si concentra sulle modalità con cui gli sociologo statunitense attori sociali attribuiscono significati alle azioni proprie e altrui nell’ambito delle molteplici situazioni di interazione sociale. L’etnometodologia parte dal presupposto che l’ordine con cui la vita sociale si svolge sia il prodotto delle azioni co-ordinate dei partecipanti, basate sulle conoscenze di senso comune che essi condividono in quanto membri di un medesimo contesto culturale. A differenza della sociologia tradizionale, l’etnosociologia non cerca di fornire spiegazioni astratte e generali del funzionamento della società, né cerca di garantire i propri risultati con il ricorso alla scientificità dei metodi, ma propone di concentrarsi sui singoli episodi di interazione sociale e di osservare i metodi concretamente usati dai membri di una società per definire in modo comune ciò che sta accadendo nell’interazione in corso. Garfinkel, in particolare, ritiene che le comunicazioni fra individui e gruppi sociali, dal linguaggio al sistema delle norme e delle obbligazioni, non siano mai esplicite e di decifrazione intuitiva come l’apparenza suggerirebbe. Il compito del sociologo sarà quello, perciò, di svelare le regole non dichiarate che presiedono ai nostri comportamenti della vita quotidiana. Particolare interesse viene così rivolto ai linguaggi non verbali,

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Protagonisti della ricerca sociologica dalla mimica all’abbigliamento, dalle strategie di seduzione o di competizione al gioco, sino alla costruzione di situazioni (happening) in cui il normale andamento delle relazioni di gruppo viene artificialmente sconvolto. È allora possibile svelare, dalla reazione dei soggetti interessati all’evento imprevisto che destruttura la routine, la trama sotterranea che regola il nostro sistema di valori e di convenzioni. Tra le sue opere principali, Studi di etnometodologia (1967, aggiornato nel 2002). Anthony Giddens 1938 sociologo britannico

Ha elaborato la teoria della strutturazione, che considera le mutue relazioni tra struttura sociale e azione evitando l’accento preminente sul ruolo della struttura, come nel caso del funzionalismo da Durkheim a Parsons, o dell’azione, come nella sociologia di derivazione weberiana. Ha successivamente studiato la società contemporanea e le sue trasformazioni, mettendo in luce gli elementi di debolezza delle teorie del postmoderno e vedendola piuttosto come una radicale, e talvolta paradossale, realizzazione della “tarda modernità”, alla cui base starebbero la trasformazione del modo di concepire il tempo e lo spazio, la sfera delle relazioni intime e della sessualità, nonché delle forme di costituzione dell’identità individuale. Tra le sue opere: Nuove regole del metodo sociologico (1976); Le conseguenze della modernità (1990); La trasformazione dell’intimità (1992), La terza via (2001).

Erving Goffman Manville, AlbertaCanada, 1922 - Filadelfia 1982 sociologo statunitense

Critico di tutte le teorie sistematiche, in particolare del funzionalismo statunitense del secondo dopoguerra, ha privilegiato nella sua produzione scientifica l’osservazione dei fenomeni e dei comportamenti collettivi, attribuendo un ruolo privilegiato alla vita quotidiana. Esponente dell’interazionismo simbolico, concepisce la vita sociale come uno scenario in cui si agitano ruoli e interpretazioni di ruolo che, se correttamente indagati, gettano luce sulla più complessa e sotterranea trama delle relazioni sociali, rivelandone spesso la latente violenza. I risultati della sua ricerca sul campo nelle isole Shetland, tra il 1949 e il 1951, sono stati raccolti nel suo primo libro, La vita quotidiana come rappresentazione, in cui presentò un approccio drammaturgico allo studio dell’agire sociale: le interazioni sono descritte come rappresentazioni teatrali svolte da un’équipe di attori a beneficio di un pubblico. Successivamente condusse studi sulla vita quotidiana all’interno di ospedali psichiatrici, considerati istituzioni totali; gli esiti di queste ricerche, pubblicati in Asylums, influirono sulle teorie dell’antipsichiatria. Quindi concentrò l’interesse sulle situazioni quotidiane di interazione faccia a faccia, cercando di mettere in luce quali regole esplicite e implicite governino tali comportamenti. Le ultime ricerche asssumono come oggetto di analisi le varie forme di comunicazione umana. Opere principali: La vita quotidiana come rappresentazione (1959), Asylums (1961), Stigma (1963), Analisi di frame (1974), Forme del parlare (1981).

Jürgen Habermas Gummersbach 1929 filosofo e sociologo tedesco

Ha sviluppato, con originali contributi, le premesse teorico-critiche della Scuola di Francoforte. Nella sua vasta produzione scientifica, il tradizionale impianto filosofico è costantemente fatto reagire con l’osservazione empirica dei fenomeni sociali. Centrale è la preoccupazione di Habermas per il declino di quella sfera pubblica (intesa come partecipazione degli individui e dei gruppi alle grandi scelte collettive) che, nelle società del capitalismo maturo, gli sembra lasci il posto a una sottile e diffusa manipolazione dei valori e delle coscienze. Da qui un interesse particolare per la funzione assolta dal linguaggio e dalla comu-

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Protagonisti della ricerca sociologica nicazione nelle complesse relazioni sociali della modernità. La sua teoria dell’agire comunicativo si pone così come occasione di emancipazione politica e intellettuale della razionalità: una razionalità discorsiva capace di contrapporsi al dominio della tecnologia. Habermas vede la causa delle deviazioni patologiche della razionalità nella tendenza tipica dell’età contemporanea, per cui i settori funzionali della società (settore economico e settore politico-amministrativo) “colonizzano” il mondo della vita (la sfera della vita quotidiana degli individui dove si rielabora e trasmette la cultura), e le procedure comunicative dell’intesa sono sostituite con la coazione degli imperativi derivanti dall’economia e dal potere burocratizzato, i quali riducono gli attori sociali al ruolo di membri dell’organizzazione produttiva o di clienti dell’amministrazione. Il rimedio consiste nell’aumentare l’efficacia delle relazioni intersoggettive rese autonome dai condizionamenti funzionali. Fra le sue opere: Teoria e prassi. Studi sociofilosofici (1963), Conoscenza e interesse (1968), Tecnica e scienza come “ideologia” (1968), La crisi della razionalità nel capitalismo maturo (1973), Teoria dell’agire comunicativo (1981-86), Il discorso filosofico della modernità (1985), Fatticità e valore (1992), Il futuro della natura umana (2001). È considerato, con Peter M. Blau, il principale esponente della scuola di pensiero denominata “sociologia dello scambio”. Per Homans è essenziale l’analisi del piccolo gruppo. Grazie a tale analisi è possibile individuare la trama di relazioni ricorrenti in ogni comportamento collettivo, cioè che nega la possibilità di un approccio puramente “sociologico”. Un punto chiave della posizione di Homans, che interpreta i rapporti di scambio nei termini della psicologia comportamentista, è la “proposizione sulla razionalità”, secondo cui l’attore sceglie il comportamento che ha il più grande valore di utilità moltiplicato per la probabilità di ottenerla. Ciò conduce alla costruzione di una teoria della scelta razionale che applica i principi della teoria economica al comportamento sociale. Fra i suoi principali lavori, Il gruppo umano (1950), Il comportamento umano nelle sue forme elementari (1961).

George Homans Boston, Massachusetts, 1910 - Cambridge, Massachusetts 1989 sociologo statunitense

È considerato il fondatore dell’antropologia strutturale, che interpreta i Claude Lévi-Strauss fatti sociali come messaggi e sistemi di comunicazione assumendo co- Bruxelles 1908 me guida dell’indagine antropologica il concetto di struttura quale “si- antropologo francese stema di relazioni latenti nell’oggetto”. Scopo delle scienze umane e sociali è allora elaborare modelli idonei a svelare le regole “latenti” che condizionano il comportamento umano. A tal fine l’antropologia si deve ispirare alla linguistica, nel presupposto che si dia una stretta corrispondenza di strutture formali tra sistemi sociali e sistemi linguistici. Con l’analisi strutturale Lévi-Strauss applica una trattazione matematico-linguistica ai fatti sociali, dalla quale deve derivare la formulazione della logica interna ai modelli culturali. Identificando tale logica si può, a suo avviso, pervenire a una conoscenza autentica del corpo sociale, ottenendo in tal modo di anticipare osservazioni o addirittura di prevedere col ragionamento fatti che potranno poi essere verificati. Particolare importanza ha l’applicazione del metodo strutturalistico allo studio dei miti. Tra le opere: Le strutture elementari della parentela (1947); Tristi tropici (1955); Antropologia strutturale (1958); Il totemismo oggi (1962); Il pensiero selvaggio (1964); Mitologica: I, Il crudo e il cotto (1964), II, Dal miele alle ceneri (1966), III, L’origine delle buone maniere a tavola (1968), IV, L’uomo nudo (1974); Lo sguardo da lontano (1983); Storia di Lince (1991), Ascoltare, guardare, leggere (1999).

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Protagonisti della ricerca sociologica Thomas Luckmann Rappresentante della sociologia fenomenologica, ha pubblicato, con Jesenice, Slovenia, 1927 P. Berger, La realtà come costruzione sociale (1966), in cui presenta sociologo statunitense come complementari il punto di vista di M. Weber, secondo il quale la società è il prodotto dell’agire sociale degli individui reciprocamente orientati, e quello di E. Durkheim, secondo il quale i fatti sociali sono esterni e coercitivi rispetto all’individuo. Questi due diversi approcci separano i due momenti di un processo in realtà unico, tramite cui si costituisce la società quale originaria attribuzione di significati, che vengono successivamente istituzionalizzati dai soggetti nelle loro interazioni sociali: solo i significati istituzionalizzati vengono percepiti come sociali. Luckmann si è dedicato anche a studi di sociologia della religione, che ha analizzato come forma di agire sociale mediante la quale gli individui entrano in una relazione privata e socialmente invisibile con ciò che percepiscono come esterno alla loro vita quotidiana (La religione invisibile, 1969; La situazione religiosa in Europa, 1999). Niklas Luhmann Luneburgo 1927 Bielefeld 1998 sociologo tedesco

È considerato il capofila dell’indirizzo sistemico, o neofunzionalistico, per il quale è necessario indagare la società a partire dalla sua rete di funzioni e di articolazioni. Per Luhmann la ricerca sociale e giuridica ha come compito primario quello di favorire la riduzione della complessità, opera, questa, necessaria a garantire la governabilità di sistemi politici e sociali sempre più complessi. Al riguardo Luhmann ha proposto di pensare la società come un oggetto capace di autodescriversi, essendo la società un sistema autopoietico. In quanto sistema, la società può distinguersi dal proprio ambiente; in quanto autopoietica, è in grado di riprodurre autonomamente gli elementi di cui si compone, assicurando le condizioni della propria esistenza. L’elemento base della società è costituito dalla comunicazione: ogni comunicazione può produrre nuova comunicazione, anche quando quest’ultima si presenta come negazione della prima. Da queste basi Luhmann ha sviluppato un’analisi articolata dello sviluppo della società e della continua crescita della sua complessità. Fra le numerose pubblicazioni: Illuminismo sociologico (1970), Potere e complessità sociale (1975), Sistemi sociali (1984), La scienza della società (1990) Osservazione del moderno (1992).

Karl Mannheim Budapest 1893 Londra 1947 sociologo tedesco

La sua attività di ricerca fu prevalentemente rivolta alla sociologia della conoscenza, cioè all’analisi della conoscenza studiata in rapporto a fattori sociali. Nella sua opera, infatti, la ricerca sui fondamenti del conoscere rinvia sistematicamente ai soggetti del sapere e ai condizionamenti sociali ai quali essi sono esposti. Da questo punto di vista, acquistano rilievo due problematiche centrali nella riflessione di Mannheim: l’ideologia e l’identità politica e sociale degli intellettuali moderni, sviluppate nella sua opera più significativa, Ideologia e Utopia (1929). L’ideologia è per Mannheim la giustificazione, socialmente percepita, dello stato di cose esistente; a differenza dell’analisi di Marx, però, essa definisce politiche tutte le culture, anche quelle eversive, che inevitabilmente degenerano nel dogmatismo. La tensione creativa verso il cambiamento è invece presente nell’utopia, che configura il bisogno di futuro rinvenibile nelle quattro forme di mentalità utopica (chiliastica, liberal-umanitaria, conservatrice, social-comunista). Ma il destino dell’utopia è per Mannheim condizionato dalla capacità degli intellettuali aclassisti non sottoposti, a differenza che in Antonio Gramsci, a rigidi vincoli di appartenenza a una condizione socio-economica di elaborare un’autonoma visione

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Protagonisti della ricerca sociologica critica della politica e della società. Visione che dovrebbe favorire la democratizzazione fondamentale della società in cui gli intellettuali operano. L’analisi di Mannheim, sensibile al marxismo e allo storicismo, ma critico verso i loro esiti culturali, è stata oggetto di controverse interpretazioni. Una riflessione più orientata in senso teoretico è presente in Sociologia della conoscenza (1940). Altre opere: L’uomo e la società in un’epoca di ricostruzione (1935), Sociologia sistematica (postumo, 1957). La filosofia di Marx sta all’origine della teoria sociologica del conflitto. Con Marx il significato rivoluzionario e innovativo del conflitto sociale viene collegato da un lato alla critica della filosofia idealistica e, dall’altro, ai caratteri della trasformazione concretamente indotta dai rapporti di produzione (rivoluzione industriale, impiego produttivo delle tecnologie, formazione di nuove classi antagonistiche). Il conflitto di classe esprime e comprende per intero l’antagonismo sociale fondamentale che oppone capitalisti e lavoratori salariati, ma è insieme lo strumento della risoluzione di tali antagonismi. La formazione filosofica di Marx è segnata soprattutto da G.W.F. Hegel e da L. Feuerbach. Il primo è sottoposto a un’analisi serrata nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (probabilmente 1841-43, ma pubblicata postuma nel 1927), nella quale insieme alla denuncia della pretesa subordinazione della “società civile” allo “Stato politico”, si smaschera la “mistificazione” logica che porta all’inversione del rapporto tra “soggetto” e “predicato”: il momento della universalità astratta diviene il soggetto e viceversa il concreto è ridotto a predicato o attributo da essa derivato (per esempio, la “persona” è dedotta dalla “personalità”; il “sovrano”, dalla “sovranità”). Per dirla con il Marx di qualche anno dopo, come l’idea universale di frutto deriva dai frutti concretamente esistenti che sono “questa” mela o “questa” pera, altrettanto ogni concetto è sempre predicato di realtà individuali. Bisogna subito precisare che Marx considerò l’essere individuale contrapposto all’astratta idea hegeliana, sempre nella relazione sociale o sotto il profilo della sua “essenza generica”. Questo punto di vista lo portò, anche nella critica della religione come “coscienza capovolta del mondo”, a dare la preminenza all’effettiva contraddizione storicosociale tra le classi come radice di ogni “autoestraneazione umana”. La divisione in classi antagoniste ha come base la divisione diseguale del lavoro. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 (editi sempre nel 1927) Marx poté così vedere nell’individualismo capitalisticoborghese e nella proprietà privata la “conseguenza necessaria” della “alienazione”, o espropriazione (sia come attività, sia nel suo prodotto) del lavoro dell’operaio, quando invece il lavoro stesso, in quanto espressione della “attività libera e consapevole” di ogni essere umano in un contesto di appartenenza sociale, dovrebbe realizzare la sintesi tra i fini individuali e quelli collettivi della specie. Al raggiungimento di tale meta è preposta la società comunista, che si prefigge pure la piena integrazione di uomo e natura, cioè “il naturalismo compiuto dell’uomo e l’umanismo compiuto della natura”. Nell’Ideologia tedesca (redatta con Engels fra il 1845 e il 1846, ma pubblicata integralmente solo nel 1932) Marx espone la concezione materialistica della storia: “Ciò che gli individui sono coincide immediatamente con la loro produzione, tanto con ‘ciò’ che producono quanto col modo ‘come’ producono”, ovvero “ciò che gli individui sono dipende dalle condizioni materiali della loro produzione”. Il motore della trasfor-

Karl Marx Treviri 1818 Londra 1883 filosofo ed economista tedesco

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Protagonisti della ricerca sociologica mazione storica risiede allora nello sviluppo delle forze produttive, o “struttura”, e nel fatto che esse entrano in contraddizione con i rapporti sociali già costituiti, con l’assetto di potere e con le idee dominanti (“sovrastruttura”). L’approccio marxiano è precisato nelle Tesi su Feuerbach, le quali sottolineano che la realtà non è un oggetto separato dell’attività umana e che si tratta di mettere in atto un processo di “autotrasformazione” attraverso la “prassi rivoluzionaria”; di qui la celebre XI tesi, secondo cui “i filosofi hanno soltanto diversamente ‘interpretato’ il mondo, ora si tratta di ‘trasformarlo’”. Il tema è ripreso e ampliato nel Manifesto del Partito Comunista (scritto con Engels nel 1848), dove si afferma che le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto sopra idee o principi astratti, ma “sono soltanto espressioni generali di una lotta di classe che già esiste, di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi”. Sulla base di tale considerazione Marx si dedicò all’analisi specifica dell’economia politica. L’indagine marxiana prende le mosse dalla forma capitalisticoborghese della produzione della ricchezza, caratterizzata dal fatto che il mezzo per crearla è diventato il “lavoro in generale” (“non lavoro manifatturiero, né commerciale, né agricolo, ma tanto l’uno quanto l’altro”), e quindi si presta a essere impiegato come pura forza lavoro da offrire e acquistare come una merce. Marx pone l’accento sul carattere storico e transitorio del modo di produzione capitalistico, considerato solo come una tappa verso un sistema economico più avanzato, che dovrà nascere però dalle contraddizioni insite nello stesso meccanismo dell’accumulazione capitalistica della ricchezza, basata sullo sfruttamento del lavoro salariato e sulla crescita del proletariato come forza antagonistica destinata a superare la dominazione borghese. La critica al sistema economico capitalistico non può essere perciò disgiunta dalla comprensione organica del nesso che governa le sue componenti: produzione, distribuzione, scambio e consumo (Per la critica dell’economia politica, 1859 e la relativa Introduzione, del 1857, ma edita nel 1903 e in redazione più corretta nel 1939). Da qui sorge l’esigenza da parte di Marx di compiere un’analisi storica e sistematica dell’economia politica in generale e di quella capitalistica in particolare, analisi realizzata nella sua maggiore opera Il Capitale. Critica dell’economia politica. Esso si focalizza dapprima sull’analisi dell’economia politica classica per realizzare una vera e propria “anatomia” del sistema capitalistico. La forma capitalistico-borghese della produzione della ricchezza è caratterizzata dal fatto che il mezzo per crearla è diventato il “lavoro in generale”, cioè il lavoro che prescinde da ogni sua caratteristica particolare e si presta a essere impiegato come pura forza lavoro da offrire e acquistare come merce. Marx concorda con gli economisti classici (A. Smith, D. Ricardo) nel ritenere la società borghese come la più complessa organizzazione di produzione. Tuttavia, ciò che non accetta degli economisti classici, e critica come “ideologia”, è l’attribuzione di una validità assoluta ed eterna a questi caratteri della società capitalisticoborghese, la quale altro non è che il risultato di un processo storico, di per sé mai definitivo. Questa sottolineatura del carattere storico del modo borghese di produzione apre la strada a un’economia di tipo diverso e a una compiuta teoria della rivoluzione proletaria. Infatti, dalla trattazione “scientifica” della merce – del suo valore come derivante dallo scambio dei beni secondo le astratte quantità di lavoro in essi contenute, del plusvalore come porzione del valore prodotto eccedente il salario corrisposto al lavoratore per riprodursi come forza lavoro e inca-

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Protagonisti della ricerca sociologica merata come profitto, dei prezzi – Marx giunge a formulare la previsione del crollo del capitalismo sotto la pressione della crisi economica (diminuzione del tasso di profitto e sovrapproduzione) e della crisi sociale (povertà crescente e proletarizzazione generalizzata), grazie alla presa di coscienza e all’attiva azione rivoluzionaria degli sfruttati. È uno dei più importanti rappresentanti del pragmatismo statunitense ed è considerato il padre dell’interazionismo simbolico. Il concetto chiave della psicologia sociale di Mead è quello del sé (Self), cioè l’immagine che un individuo si forma di se stesso e che nasce dall’interazione sociale. L’individuo al di fuori del gruppo sociale è una pura astrazione e la società è un processo continuo costituito dall’insieme delle azioni che favoriscono la sopravvivenza del gruppo e dall’insieme dei significati attribuiti alle azioni stesse e comunicati reciprocamente dai membri di un gruppo. La coesione sociale si basa sul fatto che all’interno di un gruppo sociale ogni individuo si forma un sé stabile, che è il risultato dell’interazione dell’individuo con gli altri. All’interno dell’individuo Mead distingue tra “io” e “me”. Il me consiste di atteggiamenti, opinioni e modi di risposta alle situazioni, condivisi dagli altri membri del proprio gruppo di appartenenza, definito “altro generalizzato”. L’io è la componente privata, personale del sé. Il dialogo interno tra io e me conduce alla costruzione sociale del sé, secondo tre stadi: la pre-rappresentazione, o gioco imitativo; la rappresentazione, o assunzione di ruoli nel gioco simbolico; l’interiorizzazione dell’altro generalizzato. Con la socializzazione il sé impara a interpretare il valore simbolico dei gesti significativi per gli altri (per esempio, nel linguaggio) e a reagirvi. Tra le opere, pubblicate postume: Filosofia del presente (1932), Mente, sé e società (1934), Filosofia dell’atto (1938).

George H. Mead South Hadley, Massachusetts, 1863 - Chicago 1931 filosofo e sociologo statunitense

Si è formato alla scuola dello struttural-funzionalismo, di cui interpreta criticamente l’analisi del sistema sociale, differenziandosi dall’eccessivo formalismo del modello di T. Parsons. Merton ha portato l’attenzione del funzionalismo sul principale assunto metodologico della scuola di Chicago, secondo cui se un individuo definisce reale una certa situazione, essa sarà reale nelle sue conseguenze. Questo teorema, che secondo Merton dà luogo alle “profezie che si autoadempiono”, permette di comprendere quei fenomeni risultanti dall’aggregazione e dall’interpenetrazione delle azioni individuali di molti attori e costituisce un importante elemento in comune con la tesi della tradizione fenomenologica per cui la realtà sociale è il prodotto della costruzione interattiva tra gli attori sociali. In particolare, si deve a lui quell’analisi funzionale che, distinguendo le funzioni latenti da quelle manifeste (celebre l’esempio della danza della pioggia come manifestazione rituale degli indiani hopi), consente una lettura più penetrante dei comportamenti collettivi. In base a questa distinzione, per conoscere un fenomeno si devono mettere in luce gli effetti da esso realmente prodotti e che spesso non corrispondono alle aspettative socialmente riconosciute e attribuite al fenomeno stesso. Contro il grezzo empirismo di chi riduceva tutta la ricerca sociologica alla ricerca sul campo, e contro i rischi di astrazione teoretica del funzionalismo alla Parsons, Merton sostenne che solo la ricerca empirica può far emergere le funzioni latenti di un’azione o di un fenomeno e contribuire così alla riformulazione più adeguata della teoria che riguarda tale fenomeno. Tra le opere: Teoria sociale e struttura sociale (1949), Sulla sociologia teorica (1968); Sociologia della scienza (1973), Le tradizioni socio-

Robert K. Merton Filadelfia 1910 New York 2003 sociologo statunitense

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Protagonisti della ricerca sociologica logiche da generazione a generazione (1980), Ricerca sociale qualitativa e quantitativa (1979). Edgar Morin Parigi 1921 sociologo e filosofo della scienza francese

Studioso della crisi della modernità, ha indagato il sistema della comunicazione e della produzione culturale di massa, ma anche le implicazioni sociali del nuovo orizzonte dischiuso dalla teoria dei sistemi e dalle più recenti acquisizioni scientifiche. La sua teoria della complessità rappresenta uno sforzo di sintesi epistemologica, di cui è testimonianza la monumentale opera sul Metodo, iniziata nel 1973 e giunta al IV volume (1991). Il pensiero di Morin si ispira alla teoria generale dei sistemi, secondo cui tutto il reale è scomponibile in unità di organizzazione autonome, dette appunto sistemi. Ogni sistema si autoregola in base a leggi proprie e realizza un fine autonomo, riducendo la complessità dell’ambiente esterno. In campo epistemologico Morin ha sostenuto che occorre applicare al pensiero scientifico lo stesso paradigma che viene usato per interpretare l’organizzazione sociale. Fra le altre sue opere: Il cinema o l’uomo immaginario (1956), L’industria culturale (1962), Terza-Patria (1983), I sette saperi necessari all’educazione (1999) e Connettere le conoscenze (2000).

Vilfredo Pareto Parigi 1848 - Cèligny, Ginevra, 1923 economista e sociologo italiano

È considerato il fondatore della teoria delle élite. I suoi maggiori contributi nel campo della teoria economica, dove fu un seguace del marginalismo di L. Walras, furono molteplici: l’elaborazione del concetto di utilità (ofelimità) ordinale e l’applicazione delle curve d’indifferenza; la teoria del commercio internazionale basata sul sistema di mercati intercomunicanti; infine, il cosiddetto ottimo paretiano, vale a dire un criterio per stabilire quando, dato un certo ammontare di risorse, esso sia stato utilizzato al meglio. Il nucleo del suo pensiero sociologico è contenuto nell’importante Trattato di sociologia generale (1916). Le intuizioni di Pareto sulla società come sistema che tende all’equilibrio hanno avuto influenza sullo struttural-funzionalismo, e in particolare su T. Parsons. Pareto classificò tutte le azioni sociali o come logiche o come non logiche (ma non per questo insensate). Le azioni logiche presentano uno stretto legame tra ciò che è nell’intenzione dell’attore e ciò che si realizza oggettivamente. Le azioni il cui fine oggettivo differisce da quello soggettivo costituiscono la categoria delle azioni non logiche. Fra queste Pareto incluse gli atti riflessi, le condotte rituali e sacrificali, gli atti eroici, rivoluzionari ecc. Questa categoria di azioni non logiche costituisce per Pareto l’oggetto di studio proprio della sociologia. Inoltre Pareto sviluppò il concetto di élite di governo e la teoria della circolazione delle élite, destinate a grande fortuna nella successiva letteratura politologica. Per élite di governo Pareto intese tutti coloro che partecipano all’esercizio del potere e che, affermandosi esclusivamente in forza delle proprie qualità personali, sono soggetti alla legge della circolazione delle élite. In questo modo, i vecchi gruppi dirigenti sono continuamente sostituiti da nuove élite provenienti dagli strati sociali inferiori. Questo processo appartiene alla fisiologia del sistema politico e, qualora la circolazione individuale dei ruoli di governo risultasse ostruita, o fosse in qualche modo artificiosamente contrastata, si aprirebbe la possibilità di una circolazione collettiva del potere, ossia di un processo rivoluzionario di massa con cui salirebbe al potere una nuova èlite (classe o partito rivoluzionario). Opere più importanti: Corso di economia politica (1896-97), Manuale di economia politica (1909), Trattato di sociologia generale (apparso in italiano nel 1916 e in francese nel 1917-19).

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Protagonisti della ricerca sociologica È considerato forse il massimo esponente dell’indirizzo sociologico dello struttural-funzionalismo, a cui fornisce l’apporto di una complessa teoria generale dell’azione. Secondo Parsons, l’azione sociale è tendenzialmente coerente con i significati che il soggetto agente (sia esso un singolo individuo o un gruppo, una comunità, un’organizzazione, un’intera civiltà) ricava dalla propria relazione con il mondo esterno e che sviluppa in un quadro di regole, norme e valori (cioè entro una cultura). Il sistema di azione sociale assume perciò la struttura del sistema culturale (gli altri sistemi o contesti di riferimento sono per Parsons quello biologico e quello psichico). I modelli culturali sono gli elementi strutturali del sistema di azione, ma il sistema rinvia alle funzioni e alla loro articolazione per dinamiche di adattamento, di perseguimento dei fini, di integrazione e di latenza. Sulla base di questo schema di massima è possibile analizzare a due livelli il sistema sociale: come società propriamente intesa, organizzata in analogia con un modello cibernetico, e come azione. Il sistema sociale non va considerato come un sistema di rapporti tra individui, ma tra diverse posizioni sociali, che costituiscono lo “status” del soggetto, a cui si connettono le sue attività, che ne determinano il “ruolo”. Lo status definisce dunque una posizione sociale in un sistema considerato come struttura ed è perciò indipendente dalla personalità del singolo. La macchinosità del modello e il suo profilo biologistico (che ha di fatto riproposto l’obsoleta analogia fra sistema sociale e organismo vivente) hanno però stimolato critiche teoriche e metodologiche concentratesi soprattutto sulla pretesa parsonsiana di dar vita a un’interpretazione globalistica e compiuta del sistema sociale. Di qui il progressivo declino della fortuna scientifica del pensiero di Parsons, dopo la lunga egemonia esercitata nella sociologia accreditata negli anni ’40 e ’50. Tra le opere principali: La struttura dell’azione sociale (1937), Il sistema sociale (1951), Economia e società (con N. Smelser, 1956), Saggi di teoria sociologica pura e applicata (1959), Struttura sociale e personalità (1964), Teoria sociologica e società moderna (1967).

Talcott Parsons Colorado Springs 1902 Monaco di Baviera 1979 sociologo statunitense

È considerato il fondatore della sociologia fenomenologica. Nel 1932 pubblicò la sua prima importante opera, La fenomenologia del mondo sociale. Nel 1938 lasciò l’Austria per sottrarsi al nazismo e si trasferì a New York. L’interesse di Schütz fu principalmente volto a specificare l’oggetto di studio della sociologia a partire dal presupposto che conoscenza e realtà sociali sono il prodotto delle esperienze intersoggettive degli individui. Secondo Schütz lo studio dell’intersoggettività non può essere condotto con i metodi della filosofia, poiché non si può identificare alcuna legge astratta sul funzionamento della conoscenza. La sociologia può pertanto concentrarsi solo sullo studio dei metodi empirici con cui l’intersoggettività viene creata e mantenuta. La possibilità di una conoscenza intersoggettiva sembra fondarsi su una serie di tipizzazioni che danno luogo a insiemi omogenei di significati (“province finite di significato”), ovvero tutte quelle regole, nozioni, concezioni, ricette, informazioni relative ai vari campi del sapere, che gli individui imparano dai loro predecessori o da analoghe esperienze del loro passato. L’insieme di questi elementi costituisce un patrimonio di conoscenza condivisa, che rappresenta la versione di realtà accettata dai soggetti appartenenti a un medesimo contesto sociale. Tra le sue opere, Saggi sociologici (1971, postumi).

Alfred Schütz Vienna 1899 New York 1959 sociologo austriaco naturalizzato statunitense

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Protagonisti della ricerca sociologica Georg Simmel Berlino 1858 Strasburgo 1918 filosofo e sociologo tedesco

Studioso, fra l’altro, di estetica e di filosofia della storia, sviluppò un’opera di ampio respiro, che da alcuni decenni è oggetto di un’intensa e favorevole rivisitazione da parte dei sociologi. La sua fortuna scientifica si spiega infatti con la costante battaglia intellettuale condotta da Simmel nei confronti del positivismo di Comte e, contemporaneamente, dello spiritualismo tedesco. Contro le teorie dei “Grandi Sistemi” e contro quelle tendenti a considerare unico e irripetibile ogni accadimento storico (e perciò mai generalizzabile in chiave sociologica), Simmel afferma il concetto di interazione come elemento portante della stessa struttura sociale: un gruppo sociale (una famiglia, un partito politico, una comunità religiosa ecc.) è tale in quanto esprime e raccoglie significati e rapporti sedimentatisi nel tempo attraverso interazioni fra i suoi componenti. Di qui il metodo della sociologia formale, attenta a cogliere la specificità delle situazioni e, insieme, gli elementi ricorrenti e comparabili di ogni sistema d’interazione (per esempio, una relazione “clientelare” abbastanza simile è rinvenibile in sistemi politici assai lontani nel tempo e nello spazio e assai differenti culturalmente). Quello che varia sono le situazioni in cui le relazioni formali si producono. Analogamente, determinati tipi sociali (celebre è la rappresentazione dello “straniero”) vengono percepiti e interpretati in maniera simile da società e contesti molto differenti. Importanti sono anche i contributi di Simmel alle teorie del conflitto e assai originale la sua analisi della formazione di un’economia monetaria proposta come alternativa alla teoria del valore di K. Marx. Fra le sue opere: Introduzione alla scienza morale (1892-93), Filosofia del denaro (1900), Sociologia (1908), Problemi fondamentali della sociologia (1917).

Neil J. Smelser Kahoka, Missouri, 1930 sociologo statunitense

Ha sviluppato analisi originali del mutamento sociale e della modernizzazione, contribuendo a innovare il filone di ricerca che fa capo a T. Parsons e alla scuola struttural-funzionalistica. Si deve a Smelser un ambizioso tentativo di costruire una vera e propria teoria dei comportamenti collettivi. In particolare, ha rivolto il suo interesse da un lato all’applicazione e allo sviluppo della ricerca sociologica nell’ambito dell’analisi delle istituzioni economiche, del comportamento collettivo e del mutamento sociale e, dall’altro, al rapporto tra personalità e struttura sociale. Sulla base di tali ricerche ha elaborato un modello di interpretazione della nascita dei movimenti sociali secondo cui qualsiasi comportamento collettivo può avere luogo solo a condizione che si verifichi una sequenza di fattori altamente specifici, quali: una predisposizione strutturale, una tensione sociale, la crescita e la diffusione di una credenza generale, un fattore precipitante, la mobilitazione degli attori, la mancanza o l’inadeguatezza del controllo sociale. Con il suo maestro T. Parsons ha pubblicato Economia e società (1956). Fra le altre sue opere: Teoria del comportamento collettivo, (1962), Sociologia della vita economica (1963), I metodi comparativi nelle scienze sociali (1976), Sociologia (1981), aggiornato nel 1996.

Herbert Spencer Derby 1820 Brighton 1903 filosofo e sociologo britannico

È considerato tra i maggiori esponenti del positivismo evoluzionista. Nel quadro di una progettata elaborazione di una teoria generale del progresso umano e dell’evoluzione cosmica e biologica, Spencer si propose già dal 1860 l’idea di un vasto e compiuto Sistema di filosofia generale, di cui le sue opere successive costituiscono l’intera articolazione e la progressiva applicazione alle più vaste e diverse branche del sapere: Primi principi (1862); Principi di biologia (1864-67), Principi di psicologia (1870-72), Principi di sociologia (1876-96). A queste ope-

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Protagonisti della ricerca sociologica re vanno aggiunti numerosi lavori minori non direttamente rientranti nello schema generale: La classificazione delle scienze (1864), Educazione (1861), L’uomo contro lo Stato (1844). Già dai primi saggi, comunque, emerge con estrema chiarezza l’impostazione fondamentale del pensiero spenceriano, che pone l’evoluzione come la legge universale della vita e del cosmo, secondo un movimento progressivo dall’omogeneo all’eterogeneo, da forme più semplici a forme sempre più differenziate e complesse. Poste così le basi fondamentali della sua filosofia, Spencer attende alla stesura del suo vasto sistema come unificazione di scienza e filosofia; la prima giunge alle leggi e alle generalizzazioni dei dati; la seconda è la conoscenza stessa al suo più alto grado di generalità, che unifica così i portati delle singole scienze a sistema generale dell’universo. Nel movimento dell’evoluzione, che è la legge stessa del passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo, si manifesta il processo di un continuo passaggio dalla dispersione all’integrazione, alla concentrazione, dall’incoerenza alla coerenza: “da un’omogeneità indefinita e incoerente a un’eterogeneità definita e coerente”. Il tutto in modo necessario, ma secondo una necessità che Spencer interpreta in una prospettiva ottimistica, scorgendo dunque nel processo biologico e umano la stessa legge del cosmo, che è diretta a uno scopo finale buono e positivo. La stessa legge spiega lo sviluppo della psiche umana individuale e dell’organismo sociale. Lo sviluppo sociale umano, il cui studio descrittivo è il compito essenziale della sociologia, è lento, ma necessario e inarrestabile, in quanto il suo movimento è quello stesso dell’evoluzione cosmica; esso non abbisogna quindi di particolari sforzi per la sua realizzazione, sforzi che anzi finirebbero per sconvolgere temporaneamente le leggi dell’evoluzione e del progresso. Così, per Spencer, il più alto atteggiamento etico per l’uomo è di accettare coscientemente quelle leggi che regolano la vita sua e del suo ambiente, secondo un generale criterio di “adattamento”. La sua dottrina sociologica è fondata sul concetto di opposizione fra due forme sociali: la “comunità” (Gemeinschaft) e la “società” (Gesellschaft). Tönnies si riferisce da un lato alle società antiche, nelle quali vede dominare il momento comunitario, e dall’altro alle società industriali, in cui prevale il momento societario. La comunità, caratteristica del mondo preindustriale, è basata su legami di vicinanza e di consanguineità; è un raggruppamento spontaneo, naturale, che preesiste all’individuo. La società, invece, costituisce un raggruppamento sociale volontario, fondato sul contratto e sull’adesione dei membri, e nasce da valutazioni di convenienza e di opportunità (interessi economici, culturali ecc.). Espressione della società sono gli stati moderni, le grandi città e le fabbriche, dove gli individui vivono separati ed estraniati gli uni dagli altri. Tönnies riteneva che nella società sia impossibile raggiungere un insieme di valori generalmente condiviso: gli individui e le classi agiscono in modo egoistico e indipendente, dando luogo a un ordine sociale basato sulla composizione di interessi alternativi e non sul consenso. Fra le sue opere: Comunità e società (1887), L’essenza della sociologia (1907), Studi e critiche sociali (1926), Introduzione alla sociologia (1931).

Ferdinand Tönnies Oldenwort, Schleswig, 1855 - Berlino1936 sociologo tedesco

È stato fra i promotori della ricerca sociologica applicata alle trasformazioni culturali indotte dall’innovazione tecnologica. Avviò alla fine degli anni ’50 un impegnativo programma di ricerca sulla condizione operaia e sui mutamenti intervenuti nell’identità sociale dei lavorato-

Alain Touraine Hermanville-sur-Mer, Calvados, 1925 sociologo francese

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Protagonisti della ricerca sociologica ri salariati. La sua sociologia dell’azione si rivolge successivamente soprattutto all’analisi dei movimenti collettivi: celebri le ricerche sul ’68 in Francia, sul “Cile popolare”, sull’esperienza di Solidarno´s´c in Polonia e sui movimenti antinucleari in quanto portatori di storicità. Con questo concetto Touraine intende sottolineare il carattere intenzionale di produzione di significato (in senso culturale) e di identità dell’azione collettiva. Ma in una fase più recente Touraine si è rivolto prevalentemente all’osservazione degli attori sociali, rivalutando ruoli e funzioni della soggettività in una stagione di radicale trasformazione dei paradigmi etici e ideologici. Questa stagione è quella della società postindustriale, a cui Touraine ha dedicato uno studio centrato sulla distinzione fra paradigma emergente e classico modello della società industriale (produzione di beni simbolici e immateriali contro produttività industriale; strategie della comunicazione contro coercizione, rivendicazione dei diritti soggettivi contro appartenenze ideologiche ecc.). L’enfasi particolare di Touraine sull’importanza dell’azione non si definisce come teoria generale, ma soprattutto come programma di ricerca adottato non solo dal sociologo, ma anche dai soggetti sociali che egli studia. Con lo stesso metodo Touraine ha esaminato i nuovi movimenti sociali come il femminismo e l’ambientalismo. Fra le opere: Trattato di sociologia del lavoro (1961; in collaborazione con G. Friedmann e P. Naville), Sociologia dell’azione (1965), Produzione della società (1973), La società post-industriale (1979), Il ritorno dell’attore (1984), Critica alla modernità (1992), Libertà, uguaglianza, diversità (1997) e Come liberarsi dal liberalismo (1999). Max Weber Erfurt 1864 - Monaco di Baviera 1920 sociologo tedesco

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I suoi classici contributi alla metodologia delle scienze sociali costituiscono una radicale alternativa rispetto a tutti gli approcci precedenti (evoluzionismo sociale, utilitarismo ecc.), che concepivano la società, nella sua storia passata e futura, come un’entità globale dal significato univoco, pretendendo di poter dedurre le leggi del divenire sociale dalla lettura di questo significato. Secondo Weber la sociologia non può imperniarsi, in quanto scienza autonoma, su ragionamenti deduttivi a partire da presunte verità assolute, ma in quanto scienza “comprendente”, basata cioè sulla “comprensione” (verstehen), è chiamata a interpretare criticamente la realtà sociale in termini di ipotesi suscettibili di controllo e di verifica concreta. Il suo oggetto non sono la società e la storia intese come un tutto, ma l’agire sociale dotato di senso, vale a dire quei comportamenti individuali, influenzati dai comportamenti altrui, ai quali coloro che li pongono in essere attribuiscono uno specifico significato soggettivo. Le scienze sociali devono attenersi al principio della “libertà” dai valori (religiosi, filosofici, ideologici). Le scienze sociali, infatti, non possono stabilire quali valori siano giusti in assoluto, ma possono solo accertare quali conseguenze derivino per l’individuo e per la società da azioni coerenti con determinate credenze. In questa chiave il più noto tra gli studi weberiani di sociologia religiosa individua nell’ascetismo, nell’individualismo e nell’attivismo mondano predicati dalla morale protestante (specie calvinista) la mentalità che ha favorito in modo determinante l’avvento del capitalismo. Altrettanto fondamentali i contributi di Weber in fatto di sociologia economica. Egli teorizza la coesistenza, in ogni società, di tre forme di stratificazione distinte, anche se interagenti (le classi, i partiti politici e i ceti), fondate rispettivamente sulle differenze nella distribuzione della proprietà, del potere e del prestigio. Nella burocrazia, di cui analizza rigorosamente le caratteristiche peculiari, Weber

Protagonisti della ricerca sociologica intravede la forma di organizzazione razionale per eccellenza, vale a dire la sola rispondente ai fini delle società industriali. Celebre la sua tipologia del potere, che può assumere tre forme (autorità razionalelegale, tradizionale e carismatica) a seconda che la sua legittimità poggi sulla fede nel diritto, nella consuetudine, o nelle eccezionali virtù attribuite a un individuo. Opere principali: L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-05), L’etica economica delle religioni mondiali (1916), La politica e la scienza come professioni (1919), Economia e società (1922, postuma). È considerato l’iniziatore della sociologia critica statunitense, che si contrappone alla concezione funzionalista, accusata di difendere e perpetuare il vigente ordine politico ed economico della società. In opposizione ai funzionalisti, Wright Mills evidenziò gli aspetti costrittivi e di manipolazione insiti nella società statunitense, le forti discriminazioni sociali nascoste dall’aspetto democratico del sistema politico dominante e lo strapotere dei grandi gruppi economici. Si occupò inoltre degli elementi conflittuali della società, interpretandoli non tanto come disfunzioni sociali devianti, quanto come sintomi di un disagio più vasto e profondo. A Wright Mills si deve in sostanza una spietata analisi della sociologia accademica accreditata, divisa fra le suggestioni delle grandi teorie sistematiche, come nel modello di T. Parsons, e una pratica empirica di basso profilo e di scarsa capacità innovativa. Tendenze che confluiscono per Wright Mills in una visione apologetica del sistema sociale, ignorandone le nuove diseguaglianze, i fenomeni di massificazione e manipolazione delle coscienze, la concentrazione del potere in ristrette élite. Potere, insomma, che viene esercitato in forme apparentemente democratiche, ma sostanzialmente sottratto a qualunque possibilità di controllo. Originali e corrosive risultano le ricerche da lui dedicate alla nuova classe media statunitense in Colletti bianchi. Le classi medie in America (1951), ai detentori del potere sociale reale in L’élite del potere (1956), come pure i polemici contributi alla teoria sociologica in L’immaginazione sociologica (1959).

Charles Wright Mills Waco, Texas, 1916 New York 1962 sociologo statunitense

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Le parole chiave della sociologia Acculturazione, processo di trasformazione dei modelli culturali che si determina quando gruppi con diversa tradizione di lingua, comportamenti, norme e valori entrano in un contatto diretto e continuativo. Si ha acculturazione per imposizione di modelli egemoni, per assimilazione selettiva di modelli, ma anche per adozione temporanea di specifici elementi culturali. L’acculturazione riguarda le dinamiche di ogni società, anche quelle cosiddette evolute, nei rapporti di assimilazione o di rigetto, di civilizzazione o di dominio nei confronti di differenti culture, di minoranze etniche, di immigrati stranieri. Adattamento, processo mediante il quale un sistema (o un individuo) si adegua a un determinato ambiente naturale o sociale. Il termine, ripreso dalla teoria dell’evoluzione delle specie, è utilizzato per spiegare il modo in cui gli individui cercano di adeguare le proprie aspettative e il proprio comportamento ai sistemi sociali complessi in cui si trovano a vivere. Agenti socializzatori, persone, gruppi od organizzazioni che fanno parte di un’istituzione o di gruppi strutturati attraverso i quali si realizza la socializzazione (per esempio, la famiglia, il gruppo dei pari o i mass media). Altro generalizzato, espressione con cui si indica il complesso astratto dei ruoli e degli atteggiamenti assunti dagli altri significativi per il soggetto (per esempio, le figure parentali), mediante i quali l’individuo interiorizza le aspettative e le norme di condotta che la società prescrive. Altro significativo, termine che si riferisce alla persona che, in virtù dell’investimento emotivo e della stretta relazione con un determinato individuo, esercita un effetto modellante sulla personalità di quest’ultimo, incidendo profondamente nel suo processo di socializzazione. Ambiente, insieme delle condizioni di vita di un organismo. L’espressione “ambiente so-

ciale” sta a indicare l’insieme degli elementi costitutivi di un determinato sistema di relazione interpersonale. Anomia, condizione della società in cui i valori culturali, le norme, i rapporti sociali sono assenti, deboli o conflittuali. Nell’accezione prevalente il termine designa uno stato oggettivo, empiricamente accertabile. Secondo Merton l’anomia si verifica quando esiste una netta discrepanza tra finalità culturali del gruppo o classe dominante e i mezzi istituzionalizzati per raggiungere tali finalità. Approccio drammaturgico, espressione introdotta da Erving Goffman, relativamente al proprio metodo di indagine, che consiste nel considerare l’interrelazione sociale come rappresentazione teatrale. Secondo tale metodo l’agire degli individui viene analizzato come quello di attori che recitano una parte. Approccio ecologico, metodo che analizza i fenomeni sociali considerandoli nel contesto complessivo dell’ambiente naturale e antropico. Automazione, sistema di organizzazione del lavoro e della produzione che consente alle macchine stesse di provvedere a regolare e a controllare un processo produttivo. Autorità, potere, diversamente manifestato ed esercitato da parte di qualcuno o qualcosa, di influire su qualcun altro o qualcos’altro. Il termine può indicare tanto l’ascendente naturale o acquisito, quanto il diritto di ordinare qualcosa e subordinare qualcuno per garantire beni e vantaggi ad altri, o per ottenere riconoscimento e obbedienza a un potere. Il concetto di autorità investe vari campi dei rapporti umani (la famiglia, le strutture sociali e organizzative, le istituzioni). Borghesia, l’insieme delle classi che nella società capitalistica occupano posizioni di potere e di prestigio economico e sociale. Burocrazia (etimologicamente: governo dei funzionari), in senso stretto designa il corpo degli impiegati dell’amministrazione statale,

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Le parole chiave della sociologia con i relativi caratteri di impersonalità, ricorso esclusivo alla norma scritta, automaticità delle procedure, resistenza al mutamento. Secondo Max Weber è possibile parlare di burocrazia quando regole astratte vincolano tanto i detentori del potere e l’apparato amministrativo quanto i dominati. Spesso il termine viene utilizzato in senso lato per designare l’apparato amministrativo di partiti, associazioni, sindacati, scuole, aziende. Capitalismo, sistema socio-economico fondato sul capitale e caratterizzato da: 1. proprietà privata dei mezzi di produzione; 2. libertà di iniziativa economica; 3. decisioni economiche decentrate, cioè affidate al mercato (alcuni preferiscono il concetto di sovranità del consumatore, cioè possibilità, anche se imperfetta, che il consumatore ha di far produrre ciò che domanda). Talvolta vengono aggiunte due caratteristiche: 4. predominio del lavoro salariato e della produzione di beni e servizi come merci; 5. preponderanza del settore industriale che si fonda sulla proprietà Carisma, v. Autorità. Casta, strato sociale chiuso a cui si appartiene per nascita e i cui confini sono mantenuti tramite l’imposizione dell’endogamia, la limitazione di attività economiche e una data cultura. L’appartenenza a una casta è riconoscibile da caratteristiche esteriori quali l’abbigliamento e il colore della pelle. Ceto, insieme di individui che condividono una condizione sociale fondata su una situazione giuridica e individuata in base al prestigio. Diversamente dalla classe sociale, che distingue gli individui unicamente sulla base della distribuzione del potere economico, il concetto di ceto presuppone che gli individui abbiano uno spiccato senso di appartenenza a un medesimo gruppo sociale. Il termine viene attualmente utilizzato per discriminare i gruppi sociali, omogenei per quanto riguarda reddito e livello di istruzione, ma diversi relativamente a provenienza sociale, professione, ambienti frequentati, territorio di residenza eccetera. Gli stessi elementi permettono anche di individuare

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diversi tipi di condotta di vita (valori, scelte di consumo, forme di partecipazione sociale e politica, modelli familiari ecc.). Classe sociale, insieme di individui che occupano una posizione simile nella struttura economico-sociale, o adempiono a una stessa funzione nell’organizzazione sociale, e sono in grado, in determinate situazioni, di agire unitariamente. Gli individui di una medesima classe possiedono in misura analoga caratteristiche rilevanti sul piano sociale (reddito, prestigio ecc.), talvolta condividono uno stile di vita comune (educazione, impiego del tempo libero ecc.). Comportamento, atto o insieme di atti osservabili in cui si manifesta l’attività di uno o più attori sociali. Il comportamento sociale è una reazione o risposta al comportamento di altri. Attuando un certo comportamento, l’individuo soddisfa i propri bisogni e preferenze secondo modalità culturali accettabili (per esempio, rispettando le aspettative di ruolo), in base alle risposte emotive (ricordi, sentimenti, timori) e alle conoscenze che egli ha della situazione in corso. Comportamento collettivo, comportamento sociale manifestato da diversi individui nel medesimo tempo e in presenza di situazioni simili o di un medesimo stimolo. Esso può riguardare individui presenti nello stesso luogo (è il caso della folla) o anche dispersi in luoghi differenti (movimenti sociali e fenomeni di moda). Comunicazione di massa, espressione con cui si designa ogni processo di produzione, trasmissione e diffusione di testi, notizie, immagini, suoni, atto a raggiungere in modo simultaneo o comunque entro brevissimo tempo un gran numero di persone separate e disperse su un vasto spazio e per lo più non in rapporto tra loro. I mezzi usati in questo tipo di comunicazione (cinema, stampa, manifesti, radio, televisione, reti informatiche) sono detti mass media (mezzi di comunicazione di massa); il contenuto della loro comunicazione viene detta cultura di massa. Comunità, indica quelle collettività in cui si riscontra un elevato grado di coesione basato su valori, interessi, norme e costumi più

Le parole chiave della sociologia o meno consapevolmente condivisi dai membri. Conflitto, tipo di interazione basata sul contrasto, più o meno cosciente, tra due o più soggetti (individuali o collettivi) o sulla incompatibilità di circostanze. Conflitto di classe, lotta che si svolge tra le classi; secondo Marx tra chi possiede la proprietà dei mezzi di produzione e coloro che non li possiedono. Conformità, comportamento di piena adesione alle norme sociali. Controcultura, subcultura in decisa opposizione (per norme, valori, comportamenti ecc.) alla cultura dominante. Coscienza di classe, consapevolezza di appartenere a una determinata classe sociale e di avere pertanto una comunanza di interessi economici e politici con gli altri membri della stessa classe. Costumi (mores), norme sociali a cui gli individui di una determinata società attribuiscono un particolare valore morale (e conseguentemente gravità nel caso di trasgressione). Crescita zero, fenomeno demografico indicante un saldo fra il tasso di natalità e quello di mortalità di una popolazione prossimo allo zero. Cultura, patrimonio intellettuale e materiale proprio di una determinata società costituito da: 1. valori, norme, definizioni, linguaggi, simboli, segni, modelli di comportamento, tecniche mentali e corporee aventi funzione cognitiva, affettiva, valutativa, espressiva, regolativa, manipolativa; 2. le oggettivazioni, i supporti, i veicoli materiali o corporei degli stessi; 3. i mezzi materiali per la produzione e la riproduzione sociale dell’uomo. Devianza sociale, comportamento (anche verbale) che si discosta dal sistema normativo, o di aspettative, o di credenze, del gruppo in cui il comportamento è messo in atto. Differenziazione sociale, processo attraverso il quale le parti (comunque definite) di una popolazione o di una collettività, sia questa una società, un’associazione, un’organizza-

zione, un gruppo oppure un sistema sociale, acquisiscono gradatamente un’identità distinta in termini di funzioni, attività, struttura, cultura, autorità, potere o altre caratteristiche socialmente significative e rilevanti. In sintesi, differenziazione sociale significa diventar differenti alla luce di categorie sociali e per cause sociali. Per estensione, sono considerati differenza sociale anche l’esito o lo stato di avanzamento dei processi di differenza sociale entro una data collettività. Discendenza matrilineare o patrilineare, modello familiare in cui la discendenza è stabilita rispettivamente in linea materna o paterna. Disuguaglianza sociale, sistema di differenze per lo più economiche e giuridiche, che impediscono agli individui un uguale accesso alle ricompense sociali. Etichettamento, teoria dell’ (labeling theory), teoria secondo cui il comportamento deviante avrebbe origine dal processo di applicazione della definizione di deviante, compiuto da parte di alcuni individui, o gruppi, potenti sul comportamento di altri più deboli. Etnocentrismo, atteggiamento di chi giudica i comportamenti e modelli culturali e subculturali altrui sulla base di quelli della propria cultura. Etnografia, disciplina che studia la cultura e i modi di vita dei diversi gruppi umani (generalmente delle società preindustriali). Etnometodologia, metodo di analisi elaborato da H. Garfinkel per studiare le norme sottese all’interazione quotidiana degli individui. Evoluzione, in biologia è il processo di derivazione delle specie viventi da forme più semplici. Per estensione il termine viene utilizzato anche in sociologia e in antropologia culturale per designare il processo attraverso il quale le società diventano più complesse. Famiglia, gruppo relativamente stabile di individui legati da vincoli di sangue, matrimonio o adozione, che vivono in una stessa abitazione e formano un’unità economica. Famiglia estesa, famiglia in cui convivono due o più generazioni di parenti. Famiglia nucleare, famiglia circoscritta ai genitori e ai figli. Folla, moltitudine di persone che si trovano

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Le parole chiave della sociologia temporaneamente in stretto contatto fisico le une con le altre (v. anche Massa, a p. XXX). Funzionalismo, importante corrente dell’antropologia sociale e culturale e della sociologia, che considera ogni società come un insieme di strutture sociali e culturali (forme istituzionali, valori, costumi, tradizioni, tecniche ecc.) tra loro interdipendenti, ciascuna delle quali fornisce un particolare contributo (funzione) a favore del mantenimento di uno o più fattori essenziali per l’esistenza e la riproduzione del sistema sociale. Quest’ultimo, a sua volta, può coincidere con l’intera società o con una parte di essa. Gruppo, insieme circoscritto di persone che hanno la possibilità di conoscersi direttamente, condividono interessi comuni oppure occupano lo stesso status sociale o ancora hanno caratteristiche personali (strutturali o acquisite) che li accomunano. Un gruppo si identifica anche per gli scopi (formali e informali) che persegue. Gruppo di appartenenza, l’insieme di coloro i quali si identificano col gruppo di cui fanno parte. Gruppo dei pari, insieme di individui che appartengono allo stesso status sociale, hanno la stessa età e interagiscono insieme. Gruppo di controllo, gruppo costituito da individui aventi caratteristiche omogenee a quelle del gruppo su cui vengono sperimentate le variabili indipendenti di un esperimento. La sua funzione è quella di consentire il vaglio di quanto provocato dalle variabili oggetto della ricerca. Gruppo di pressione, insieme organizzato di persone che nel perseguire interessi propri cerca di influenzare le decisioni politiche mediante procedure di controllo positive (incentivi) o negative (boicottaggio); ha la funzione di trasmettere la domanda politica e costituisce un corpo intermedio tra società e governo. Gruppo di riferimento, qualsiasi tipo di collettività che l’individuo mostri di tenere come riferimento (positivo o negativo) per la propria condotta. Gruppo primario, gruppo normalmente costituito da un piccolo numero di individui i cui

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membri sono legati da stretti vincoli personali, così da sviluppare un notevole senso di identità collettiva. Gruppo secondario, gruppo di dimensioni piuttosto ampie al cui interno i rapporti sono improntati a distacco e formalità. Un esempio di gruppo secondario è costituito da una categoria professionale composta da un numero elevato di individui tra i quali non sussiste alcuna forma di comunicazione immediata né alcun vincolo rilevante di affettività, bensì vigono rapporti strumentali rivolti al conseguimento di obiettivi specifici e pratici. Gruppo sperimentale, gruppo di individui su cui, nel corso di un esperimento, viene sperimentato l’influsso di una variabile indipendente. Identificazione, processo mediante il quale si assimilano a sé i tratti di un oggetto o di una persona oppure l’immagine dell’intera persona altrui. Ideologia, ogni produzione ideale distinta da quelle materiali. Nell’accezione marxista è una visione rigida e parziale della realtà, proposta in veste di falsa globalità e universalità per interessi funzionali al potere sia politico, sia economico. Integrazione sociale, coordinamento degli orientamenti all’azione tra tutti i membri di una società, che si realizza nei vari settori della struttura sociale (famiglia, sistema politico, sistema economico ecc.), con differenti gradi di intensità. Interazionismo simbolico, scuola della psicologia sociale e della sociologia statunitense che studia l’interazione tra soggetti sulla base dei significati che attraverso l’interazione essi assegnano agli oggetti e allo stesso interlocutore. Istituzionalizzazione, processo attraverso il quale si formano le istituzioni e acquistano stabilità e durata comportamenti, valori e atteggiamenti socialmente riconosciuti. Istituzione, insieme di valori, norme e consuetudini che regolano in modo stabile e indipendente dalle singole persone: 1. i rapporti sociali di un gruppo la cui attività è ritenuta finalizzata a un obiettivo socialmente rilevante;

Le parole chiave della sociologia 2. i rapporti che individui presenti e futuri hanno e avranno con tale gruppo e i loro comportamenti nei suoi confronti. Istituzione totale, luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato. Il carattere inglobante e totalizzante di queste istituzioni è simbolizzato nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno. Massa, moltitudine che nei moderni sistemi sociali partecipa nel suo insieme sia alle attività di produzione, distribuzione e consumo di merci e servizi, sia alle varie attività culturali e politiche. Mobilità sociale, processo attraverso il quale singoli individui o specifici gruppi cambiano la propria posizione sociale all’interno dello stesso strato o classe sociale (mobilità orizzontale), o passando a uno strato più elevato o inferiore (mobilità verticale). Modernizzazione, l’insieme dei processi di trasformazione economica e sociale che segnano il passaggio da società tradizionali a società moderne e il loro evolversi verso fasi di industrializzazione avanzata. Mondo della vita, termine introdotto nelle scienze sociali da A. Schutz per indicare la sfera in cui si svolge la vita quotidiana degli individui e delle loro interazioni sociali, dotata di schemi interpretativi che facilitano la vita quotidiana, significati, valori, usanze, conoscenze tipiche della cultura alla quale appartengono. Secondo J. Habermas il mondo della vita costituisce con il sistema sociale le due dimensioni in cui si articola la società: mentre il sistema sociale corrisponde alla sfera delle attività svolte secondo un principio di razionalità strumentale (settore economico e settore politico-amministrativo), il mondo della vita è il luogo in cui si attuano la rielaborazione e la trasmissione della cultura propria di una società. Movimento sociale, specie di comportamento collettivo che coinvolge una grande quantità di persone intenzionalmente volte a cam-

biare uno o più aspetti dell’ordine sociale esistente. I movimenti presentano sempre una qualche forma di organizzazione e sono sostenuti da un’ideologia. Norma sociale, insieme delle prescrizioni, anche non codificate, che regolano la vita di una collettività conformemente ai valori su cui essa si fonda. Omogamia, matrimonio tra individui che hanno caratteristiche sociali simili. Organizzazione, sistema sociale che si costituisce in base a regole di appartenenza che lo rendono riconoscibile e ne garantiscono la specificità delle strutture. Esempi sono le aziende, gli istituti, le scuole, gli ospedali. Osservazione partecipante, tecnica di indagine in cui il ricercatore prende parte alle attività degli individui oggetto di studio. Postindustriale, società, espressione che designa una situazione in cui la maggior parte della popolazione non è impiegata nell’industria, ma nel terziario. La società postindustriale è caratterizzata da fenomeni quali l’avvento dell’automazione, la forte espansione della classe media, la mutazione dei rapporti politici ed economici, l’estrema importanza anche in termini di potere della scienza. Pregiudizio, atteggiamento basato su stereotipi negativi nei confronti di individui o gruppi. Prestigio, valutazione positiva che una collettività esprime sui membri di un’altra collettività, attribuendole una posizione inferiore o superiore rispetto alle altre collettività dello stesso tipo. Profezia che si autoadempie, predizione sul comportamento futuro di un individuo, che ne influenza la condotta così da realizzarsi. Ritualismo, comportamento deviante che si manifesta quando l’individuo, pur non aderendo alle mete sociali, rimane meccanicamente fedele alle norme sui mezzi (è il caso del burocrate ossessionato da procedure prive di significato). Ruolo, sistema istituzionalizzato di aspettative connesse a una posizione sociale. La vita in società è regolata invisibilmente dalle aspettative che ciascuno ha verso gli altri e

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Le parole chiave della sociologia che gli altri hanno verso ciascun individuo; attraverso questa interazione si formano e si trasmettono le regole di comportamento ritenute adatte allo svolgimento del ruolo corrispondente alla posizione occupata dall’individuo all’interno di un gruppo, un’organizzazione, una struttura sociale, cioè in base al suo status. Secolarizzazione, perdita di centralità delle idee e delle organizzazioni religiose all’interno della società. Secondo E. Durkheim il fenomeno della secolarizzazione è un effetto della divisone del lavoro propria della società moderna, in buona parte attribuibile all’impatto dei processi di razionalizzazione e allo sviluppo del pensiero scientifico. Socializzazione, processo mediante il quale l’individuo apprende e interiorizza le norme e i valori della società di appartenenza. Parsons distingue tra socializzazione primaria e socializzazione secondaria. La socializzazione primaria è particolarmente importante nei primi anni di vita e avviene soprattutto tramite l’identificazione dell’individuo. Essa consiste nell’interiorizzazione di tutti quegli orientamenti di valore con i quali si costituisce la struttura della personalità fondamentale. La socializzazione secondaria, conseguita prevalentemente per opera dei meccanismi di imitazione, dà luogo invece alla specificazione dei valori in relazione ai ruoli da svolgere, quindi al determinarsi di variazioni nella struttura della personalità fondamentale. Società, insieme di individui accomunati da una medesima cultura e (a eccezione delle società nomadi) da un determinato territorio. I suoi membri sono coscienti della loro identità comune e intrattengono tra loro rapporti di vario tipo (parentale, economico, sociale) in misura sensibilmente più intensa e organica che verso i membri di altre società.

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Stato, massimo ordinamento normativo-giuridico che governa una società su un determinato territorio, monopolizzando su esso la funzione legislativa e l’uso della forza. Il termine indica inoltre l’insieme degli apparati prodotti da tale ordinamento al fine di svolgere e conservare la propria funzione (esercito, burocrazia). Status, posizione sociale di un individuo o di un gruppo all’interno del sistema di relazioni che formano la struttura sociale. Stigma, caratteristica negativa imposta su una persona o su un gruppo oggetto di valutazioni ostili e a causa della quale vengono considerati devianti colui o coloro che ne sono portatori. Stratificazione sociale, suddivisione della società in gruppi secondo una scala gerarchica basata su diversi gradi di potere, ricchezza, o prestigio. Subcultura, sottoinsieme di elementi culturali elaborato o utilizzato da un particolare settore di una società. Tasso di incremento demografico, misurazione statistica della differenza tra le percentuali su base annua di nascite e morti. Tasso di mortalità, misurazione statistica del numero annuo di casi di morte rapportato a mille abitanti di una determinata popolazione. Tasso di natalità, misurazione statistica del numero annuo di nati vivi rapportato a mille abitanti di una determinata popolazione. Universali culturali, i tratti e le pratiche che si riscontrano in tutte le culture conosciute. Usi (folksways), usanze e convenzioni comuni della vita quotidiana, la cui violazione non viene considerata immorale. Valore sociale, espressione che in sociologia indica il contenuto etico di una norma che regola la convivenza sociale.

SOCIOLOGIA SCHEMI RIASSUNTIVI, QUADRI DI APPROFONDIMENTO

TUTTO

Studio



Riepilogo



Sintesi

TITOLI DELLA COLLANA ARCHITETTURA - BIOLOGIA - CHIMICA - CINEMA - DIRITTO ECONOMIA AZIENDALE - ECONOMIA POLITICA E SCIENZA DELLE FINANZE - FILOSOFIA - FISICA - FRANCESE GEOGRAFIA ECONOMICA - INGLESE - LATINO - LETTERATURA FRANCESE - LETTERATURA GRECA - LETTERATURA INGLESE LETTERATURA ITALIANA - LETTERATURA LATINA LETTERATURA SPAGNOLA - LETTERATURA TEDESCA MUSICA - NOVECENTO - PSICOLOGIA E PEDAGOGIA - SCIENZE DELLA TERRA - SOCIOLOGIA - SPAGNOLO - STORIA - STORIA DELL’ARTE - TEDESCO