L'agiografia cristiana antica. Testi, contesti, pubblico 9788837224417

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L'agiografia cristiana antica. Testi, contesti, pubblico
 9788837224417

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LETTERATURA CRISTIANA ANTICA collana diretta da Enrico Norelli

Nuova serie 23

Strumenti

AD ELE M O NACI CASTAG NO

A Giorgio, Niccolò e Ilaria che amano la storia e le storie

L’agiografia cristiana antica Testi, contesti, pubblico

MORCELLIANA

© 2010 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 - 25121 Brescia

INTRODUZIONE

Prima edizione: settembre 2010

In copertina:

Il martirio di Sant’Ignazio in una miniatura del x-xi secolo (particolare)

Con il contributo della Fondazione Banca San Paolo di Brescia

FONDAZIONE I BANCA SAN PAOLO DI BRESCIA

www.morcelliana.com

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore posso­ no essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla S1AE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4. della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dell’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS. SLSI e CNA, CONFARTIGIANATO, CASART1GIANI. CLAAI e LEGACOOP il 17 novembre 2005. Le riproduzioni ad uso differente da quello per­ sonale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, via delle Erbe n. 2, 20121 Milano, telefax 02.809506. e-mail [email protected]

ISBN 978-88-372-2441-7 Tipografia La Grafica s.n.c. - Vago di Lavagno (Vr)

Le ricerche sulla storia e la letteratura legate al culto dei santi stanno vivendo una stagione particolarmente felice con numerosissime iniziative scientifiche a livello di strumenti generali, di edizioni critiche e studi monografici. Per il periodo antico, che è l ’ambito di mia competenza, non esiste però, a mia conoscenza, uno studio di insieme sullo sviluppo com ­ plessivo della letteratura agiografica sia in ambito occidentale, sia orien­ tale, abbastanza ampio da dare spazio ad un’esposizione dei principali testi agiografici ordinati e analizzati da una prospettiva interessata a co­ glierne i nessi con i diversi contesti storici1. Oggetto del volume è il discorso agiografico antico che definisco come l ’insieme di strategie retoriche e forme letterarie che tramandano in modo narrativo la memoria di ciò che uomini e donne, ritenuti incarnare un idea­ le di perfezione, hanno compiuto durante la loro vita e anche dopo la morte2. Con questa definizione ho inteso evitare classificazioni troppo rigide di contenuto e di genere letterario che non mi sembrano in grado di esprimere in modo soddisfacente l ’articolazione e i cambiamenti di una letteratura e di pratiche cultuali in tumultuoso sviluppo e differenziazione soprattutto per quanto riguarda il periodo preso in considerazione. Nella prospettiva che ho adottato perde rilevanza la distinzione, ad esempio, fra biografico e agiografico sulla base della presenza più o meno invasiva dei miracoli, criterio che troppo spesso costituisce una comoda scorciatoia per tracciare periodizzazioni o per mettere ai margini della ricerca storica i testi agiografici3. ' 1 Esistono profili molto sintetici all’interno di presentazioni più generali: R. Aigrain,

L’hagiographie: ses sourc.es, ses méthodes, son histoire. Aver un complément bibliographique par R. Godding. Reproduction inchangée de l ’édition originale de 1953, Bruxelles 2000; R. Gregoire, Manuale di agiologia. Introduzione alla letteratura agiografica, 2. ed., Fabriano 1996; F. Scorza Barcellona, Le origini, in Storia della santità, Roma 2005, pp. 19-89; A. Kleinberg, Storie di santi. Martiri, asceti, beati nella formazione dell’Occidente, tr. it. Bologna 2007 (Paris 2005). 2 Sono stata aiutata a formulare questa definizione dagli studi di Av. Cameron, Rethoric and Empire. Development of Christian Discourse, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1991, p. 5; M. Van Uytfanghe, V hagiographie: un “geme" chrétien ou antique tardifì, in «Analecta Bollandiana» 111(1993), pp. 135-188; S. Boesch Gajano, L'agiografia, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda antichità e alto Medioevo (Settimane di Spoleto 45), Spoleto 1998, pp. 797-843. 2 L’arguto rimprovero che Walter Berschin muoveva alla medievistica può valere anche per il periodo precedente. Lo studioso le rimproverava di aver distinto tra vite di santi e biografie sulla base

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Un autore antico faceva riferimento al quadro dei generi normato dalla retorica e definiva la sua opera a partire da quello: riteneva pertanto di scrivere, secondo le circostanze e suoi scopi, una lettera, un encomio, una “storia” (ισ τορία ), un bios4. La presenza o meno dei miracoli e la loro incidenza dipendevano dall’occasione, dal pubblico cui intendeva rivol­ gersi, dai modelli che voleva adottare. Da questo punto di vista, il bios di Origene all’interno della Storia ecclesiastica di Eusebio ha lo stesso dirit­ to di cittadinanza aU’intemo del discorso agiografico tardoantico della Vita di Antonio che invece fa largo uso dei miracoli e l ’interesse consiste piuttosto nel cercare di comprendere i motivi di tale diversità. E se è pos­ sibile osservare dal tv secolo in poi una sempre più spiccata presenza dei miracoli ritenuti l’indispensabile segno della santità, è anche vero che si continuò a descrivere e celebrare persone eccezionali senza ricorrere ai miracoli: basti pensare alla Vita di Paola di quello stesso Gerolamo cui dobbiamo altre Vite ricche di signa o alla Vita di Agostino, alla Vita di Onorato di Arles, alla Vita di Fulgenzio e, se pure con qualche concessio­ ne, alla Vita di Epifanio di Ennodio. L’ambito di maggiore approfondimento è la tradizione cristiana, ma questo non implica artificiose e fuorvianti delimitazioni a priori fra ciò che è giudaico, pagano o cristiano. Nella fase più antica il discorso agiografico sui martiri, così importante per gli sviluppi successivi, si radicò nella riflessione, da una parte, di ebrei rimasti fedeli alla legge e ebrei seguaci di Gesù e, dall’altra, di pagani sulla “morte eroica”. N e ll’età suc­ cessiva, pur nella diversità irriducibile delle rispettive pratiche di vita, cre­ denze e fedi, ci furono significative interazioni e scambi fra i diversi grup­ pi religiosi sul tema degli uomini divini. I pagani e i cristiani che fra m e IV secolo si confrontavano «in a war o f biography»5 scrivendo Vite di figu­ re eccezionali condividevano, nella stragrande maggioranza dei casi, la stessa formazione retorica, si erano nutriti degli stessi testi letterari, erano mossi spesso dagli stessi scopi apologetici. Il volume si concentra sui testi e sui loro autori e tenta di rispondere a domande quali: da quali circostanze storiche nasce un testo agiografico?

di un concetto di santità messo a punto attraverso le varie fasi del processo di canonizzazione, pro­ cesso in cui un elemento essenziale è il miracolo, e di essersi poi liberata “della mostruosa massa” del materiale agiografico per concentrarsi su una piccola scelta di Vite di imperatori (Biographie und Epochenstil im lateinischen Mittelalter, Bd. i: Von der Passio Perpetuae zu den Dialogi Gregors des Grossen. Bd. il: Merowingische Biographie. Italien, Spanien und die Inseln im fruhen Mittelalter, Stuttgart 1988, Bd. I. p. 17). 4 E. Giannarelli, La biografia cristiana antica: strutture problemi, in G. Luongo (ed.), Scrivere di santi. Atti del 2. Convegno di studio dell’Associazione italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia, Napoli, 22-25 ottobre 1997, Roma 1998, pp. 49-69. 5 Cameron, cit., p. 145.

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A quali gruppi dà voce? Come interagisce con il contesto culturale e teo­ logico? A quale pubblico intende rivolgersi? Come tutti questi elementi s’intersecano con la scelta dei contenuti e delle forme letterarie? Uno dei più grandi studiosi dei testi agiografici del secolo scorso - il Delehaye6 usava l ’espressione «coordinate agiografiche» per esprimere le informa­ zioni necessarie —il luogo di deposizione del corpo del santo e il mese e il giorno in cui la Chiesa ne celebrava l ’anniversario - per poterne stabi­ lire l ’identità storica. Questo libro vuole invece richiamare l ’attenzione sulle coordinate agiografiche del testo, cercando di chiarire di volta in volta la sua posizione all’interno dell’ascissa e dell’ordinata delle proble­ matiche storiche di un luogo e tempo specifici. È un modo di affrontare la materia che ha tentato di accogliere l ’invi­ to a lasciare sullo sfondo le tipologie con le loro m orfologie e a «concen­ trarsi sulla risemantizzazione cui esse vanno incontro nel divenire della società»7. Mira, insomma, a mettere in luce le specificità, le differenze, le soluzioni di continuità e si affianca ai numerosi, e importanti studi che hanno rinnovato questo campo di studi affrontandolo dal punto di vista di tematiche più generali. M i riferisco ai numerosi saggi sulla storia dei modelli agiografici; sull’intersezione dei testi agiografici con la costruzio­ ne di identità sociali; sulla storia d ell’ascetismo; sulla storia di genere, sulla storia del culto dei santi. Richiamare l ’attenzione sulle particolari condizioni in cui matura un testo agiografico significa anche favorire una maggiore consapevolezza dei rischi connessi ad una concezione positivi­ stica di esso, là dove viene utilizzato singolarmente per ricostruire una data figura storica o, insieme ad altri testi agiografici, per interpretare la cultura, la mentalità, la società di un periodo storico. Non mi riferisco, naturalmente, a quel tipo di positivismo che sfociava nell’apologetica, cioè nella devota accettazione della “verità storica” del santo e delle sue gesta, ma ad un tipo di positivismo meno esplicito che si insinua anche nelle ricerche più avvertite e sofisticate della ricerca storica contempora­ nea. Questa mi sembra anche l ’indicazione emergente dalla riflessione m etodologica sugli studi di Peter Brown sutt’holy man8; studi che, sebbe-

6 H. Delehaye, Cinq legons sur la méthode hagiographique, Bruxelles 1934, p. 13. Gran parte delle sue ricerche sono ancora fondamentali: Les saints stylites (Subsidia hagiographica 14), Bruxelles-Paris 1923; Sanctus. Essai sur le culte des saints dans Vantiquité (Subsidia Hagiographica 27), Bruxelles 1927; Les origines du culte des martyrs, Paris 1933; Étude sur le Légendier romain. Les saints de novembre et de décembre, Bruxelles 1936; H. Delehaye, Le Passions des Martyrs et les genres littéraìres, Deuxième édition, revue et corrigée, Bruxelles 1966. 7 A. Benvenuti, Una memoria in progress, in G. Luongo (ed.), Scrivere di santi. Atti del 2. Convegno di studio dell’A ssociazione italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia, Napoli, 22-25 ottobre 1997, Roma 1998, p. 518. 8 P. Brown, The Rise and Function ofthe Holy Man in Late Antiquity, in Id., Society and thè Holy

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ne fin da loro apparire discussi9, hanno esercitato una grande influenza sia n ell’attirare l ’attenzione degli storici sulla letteratura agiografica10, sia nel proporre nuove piste di ricerca e chiavi di lettura. In quel volume a più voci si sottolineava l ’importanza della consapevolezza delle “trappole” presenti n ell’antica narrativa11 e la necessità di considerare accanto alla funzione dell ’holy man anche la funzione dei testi che lo raccontano. Nel trarre conclusioni sulla funzione degli uomini divini nel mondo tardo anti­ co, non si dovrà prima di tutto tenere presente che «most o f our literary evidence about holy men com es from texts that were written by ascetics them selves»12? Esistono evidentemente numerosi studi monografici dedicati a singoli autori e testi che affrontano le domande che mi stanno a cuore, studi di cui mi sono nutrita cercando di leggere e metabolizzare il più possibile di una bibliografia immensa. La novità di questo libro non consiste tanto nelle domande cui si è tentato di dare risposta, quanto nella sistematicità con cui esse sono state rivolte ai testi agiografici appartenenti ad un lunghis­ simo arco temporale. Questa scelta implica inevitabilmente una perdita di profondità nelle singole parti, ma offre nello stesso tempo l ’opportunità di cogliere le traiettorie dei testi sul lungo periodo, le reinterpretazioni, le interazioni fra di loro e con i diversi contesti culturali, le logiche di tra­ sformazione del discorso agiografico e dei suoi linguaggi nelle mutate condizioni storiche. La scelta di prendere in considerazione soltanto la tradizione greca e latina riflette il limite delle mie competenze linguistiche, anche se non na­ scondo la gravità di tale limite soprattutto per quanto riguarda l ’area egi­ ziana e siriaca dei secoli v e vi. Anche per quanto riguarda l ’area di lin­ gua greca e latina questi due secoli hanno segnato un enorme sviluppo dei testi agiografici fra i quali è stato necessario operare delle scelte. Il volume è organizzato in nove capitoli. Il primo prende in esame testi redatti fra l ’ultimo quarto del i secolo e il primo decennio del π secolo che ruotano intorno alla morte di figure eccezionali. Quella di Eleazaro e della in Late Antiquity, London 1982, pp. 103-152; P. Brown, Il culto dei santi. L'origine e la diffusione di una nuova religiosità, tr. it., Torino 1983 (London-Chicago 1981). 9 J. Fontaine, Le culte des saints et ses implicatìons sociologiques. Réflexions sur un récent essai de Peter Brown, in «Analecta Bollandiana» 100(1982), pp. 17-41. 10 J. Howard-Johnston-P.A. Hayward (eds.), The Cult o f Saints in Late Antiquity and thè Middle Ages. Essays on thè Contribution of Peter Brown, Oxford 1999. Cfr. in particolare i contributi di P. Rousseau, Ascetics as Mediators and thè Teachers, pp. 45-59 e di P.A. Hayward, Demystifying thè Role ofSanctìty in Western Christendom, pp. 115-142. 11 A. Cameron, On Deflning thè Holy Man, in J. Howard-Johnston-P.A. Hayward (eds.), The Cult of Saints in Late Antiquity and thè Middle Ages. Essays on thè Contribution of Peter Brown, Oxford 1999, p. 32. 12 Rousseau, Ascetics, cit., p. 51.

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madre con i suoi sette figli (iv Maccabei)', di Gesù nel resoconto del Vangelo di Marco-, di Stefano negli Atti degli Apostoli di Luca; di Seneca descritta da Tacito. Testi provenienti da tradizioni apparentemente molto distanti - e non solo geograficamente - fra di loro, ma che rivelano inve­ ce incroci fecondi e contiguità culturali e invitano a ripensare la questio­ ne delle “origini” non solo della letteratura dedicata ai martiri, ma anche dell’ideologia di cui essa è portatrice. Il secondo capitolo è dedicato appunto allo sviluppo del discorso agio­ grafico sui martiri e mette in luce i numerosi nodi interpretativi legati agli Atti e Passioni dei martiri: le fasi della progressiva creazione di un lessi­ co specializzato; i problemi di metodo che nascono dall’utilizzazione di questo tipo di documentazione storica. L’analisi dei testi più antichi e databili con una certa sicurezza cerca poi di chiarirne la specificità all’in­ terno del discorso cristiano più generale e il loro articolarsi con la dialet­ tica interna alle diverse Chiese cristiane. Lo spazio concesso alla voce femminile è un altro tratto specifico, che viene preso in considerazione. Gli Atti e le Passioni più antichi offrono l ’opportunità di osservare attra­ verso quali fasi si è fissato il modello agiografico cristiano più potente, anzi forse l ’unico, se si riflette sul fatto che anche i modelli che via via si aggiunsero rivendicarono per sé il nome di “martire”. Una creazione assai contrastata all’intemo dei gruppi cristiani (qual è il “vero” martire?) e che non cessa affatto con la fine delle persecuzioni; anzi da questa prende un nuovo slancio per sostanziare di sé il discorso storiografico di Eusebio di Cesarea che assume dei temi e ne tralascia altri per costruire e ricostruire, dopo le defezioni della persecuzione dioclezianea, l ’onore della Chiesa rileggendo la figura del martire attraverso la lente mitizzante dei valori classici dell’eroismo e della filosofia. Le Vitae dei santi costituiscono una parte così rilevante dei testi agio­ grafici da indurre in certi casi l ’errata convinzione che essi coincidano tout court con l ’agiografia considerata, proprio per questa ragione, come un genere letterario e non, come sarebbe più corretto, un insieme molto differenziato di forme letterarie. Si è naturalmente discusso molto sul­ l ’origine e, per così dire, la data di nascita della biografia cristiana: se, ad esempio, fissarla alla metà del ili secolo con la Vita e Passio Cypriani o alla metà del secolo successivo con la Vita di Antonio di Atanasio di Alessandria. M oltissimo si è anche scritto sui modelli ellenistici che sono alla base delle Vitae. Tutti questi problemi si presentano sotto una luce diversa se, in luogo di troppo rigide distinzioni fra biografia greco-roma­ na e agiografia cristiana, consideriamo il discorso agiografico tardo anti­ co come un discorso comune a pagani e cristiani; un discorso in cui sia possibile individuare interazioni, scambi con momenti di latenza, ma

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anche di incrocio esplicito. Di questa problematica si occupa il terzo capi­ tolo che dedica una prima parte all’illustrazione di alcune Vite dei filoso­ fi di autori pagani del π e in secolo. Non si comprende infatti il tumultuo­ so sviluppo delle Vitae sanctorum a partire dalla seconda metà del iv seco­ lo se non si tiene conto del successo di questa letteratura presso il pubbli­ co colto pagano nei due secoli precedenti. N ella ricca produzione biogra­ fica della prima età imperiale e tardoantica in cui spiccano Vitae di Imperatori, generali, sofisti e filosofi, sono soprattutto questi utimi a costi­ tuire il quadro di riferimento privilegiato per gli autori cristiani. Il bios dedicato al filosofo esaltava, più che gli aspetti dottrinali, la forma di vita incarnata dal filosofo stesso, presentato com e un modello di perfezione etica, un ideale che si colorò sempre di più di valenze religiose, via via che si riconoscevano al filosofo poteri e caratteristiche sovrumane. Gli scrittori cristiani, da parte loro, fin dal il secolo, presentavano il cristiane­ simo come “vera filosofia” e il “filosofo” cristiano com e “martire”, la cui testimonianza era costituita dalla sua vita pura dal peccato, dal suo inse­ gnamento e dalla fede. Il primo sviluppo della biografia cristiana si radicò in un clima di con­ correnza, ad extra, contendendo ai pagani la figura del filosofo quale am­ bito vettore di propaganda dei valori cristiani e, ad intra, com e sostegno a figure precise o a modelli di perfezione che non si esaurivano con il mar­ tirio. Questo aspetto emerge con sufficiente chiarezza già con Clemente Alessandrino e alla metà del ili secolo nella Vita e Passione di Cipriano, già trattati nel secondo capitolo. A questi si aggiungono, nella seconda parte del terzo capitolo, gli scritti biografici di Eusebio affrontati come altrettanti nodi di scambio e interazione con la biografia pagana. Eusebio costruisce le sue biografie, in senso negativo, in consapevole rifiuto delVholy man pagano maturato attraverso la critica della Vita di Apollonio di Tiana, e, in senso positivo, sull’esaltazione d ella paideia, dell’ascesi e del martirio come elementi irrinunciabili dell’ideale di perfezione. Rispetto alla proposta eusebiana, la Vita di Antonio di Atanasio, con cui si apre il quarto capitolo, presenta elementi di continuità - l ’ascesi, la stilizzazione martirologica - ma anche elementi di rottura: il rifiuto della paideia, l ’uso del taumaturgico e del miracolistico, l ’adozione di modali­ tà narrative risalenti alla tradizione pitagorica; mutamenti, le cui ragioni sono ricercate sia nel mutato orizzonte teologico in cui matura lo scritto di Atanasio, sia negli scopi che egli si prefiggeva. La Vita di Antonio - nei modi e nei contenuti - era fortemente innova­ tiva. Tale novità fu metabolizzata più lentamente in Oriente che in Oc­ cidente. N ell’ultimo quarto del IV secolo, gli autori di lingua greca cono­ scono la Vita di Antonio, ma producono bìoì molto diversi da quella, sia

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risemantizzando attraverso il linguaggio martiriale il genere tradizionale d ell’elogio funebre, sia percorrendo strade autonome. Le Orazioni di Gre­ gorio di Nazianzo e le Vitae di Gregorio di Nissa sono, per un verso, testi­ moni importanti della creazione di pratiche narrative relative alla costru­ zione di una santità diversa da quella martiriale pur utilizzando un lin­ guaggio nutrito dalla Bibbia e dalle Passioni dei martiri, per l ’altro, attra­ verso l ’esaltazione di figure appartenenti alla rete delle relazioni familia­ ri o amicali, rivelano quanto la santità e il discorso che ne narrava l ’incar­ nazione in quelle figure fossero entrati a far parte della legittimazione del potere politico e religioso di quella stessa rete. A scesi e paideia, uso molto sobrio del miracoloso sono i caratteri salienti del discorso agiografico dei Cappadoci; fa eccezione la Vita di Gregorio il Taumaturgo che anticipa lo sviluppo che il modello vescovile conoscerà soprattutto in Occidente pre­ sentando il ritratto di un vescovo carismatico patrono della città. Il quinto capitolo ha come tema l ’Occidente negli ultimi due decenni del iv secolo e i primi due del secolo successivo. Ne è protagonista un gruppo di raffinati letterati, culturalmente om ogeneo, i primi tre in stretto contatto reciproco: Gerolamo, Paolino di Nola, Sulpicio Severo e, più appartato, Prudenzio. Sono i decenni in cui matura gradualmente la con­ versione dell’aristocrazia occidentale e la produzione agiografica si inse­ risce con autorevolezza in questo processo prospettando modelli di eccel­ lenza e valori cristiani con linguaggi e forme letterarie tradizionali e fami­ liari a quello stesso pubblico. Il discorso agiografico più articolato è quel­ lo di Gerolamo che mette insieme una nutrita schiera di medaglioni agiografici di “monaci” donne e uomini; filo comune è il dialogo-competizio­ ne con la Vita di Antonio e l ’ambizione di ricostruire per tasselli successi­ vi la “vera storia” delle origini del monacheSimo. Gli Inni dedicati da Paolino di Nola a Felice possono essere letti com e un percorso di distru­ zione e reintegrazione: dopo aver abbandonato la patria, le ricchezze, gli onori, le ambizioni letterarie, Paolino ricomincia dalla tomba di Felice e la rende con i suoi Inni, i suoi edifici, il gruppo di asceti che vi abita un centro di attrazione per «la parte migliore del genere umano». Le opere di Sulpicio dedicate a Martino delineano un percorso analogo: dopo il ritiro a Primuliacum, egli si dedica interamente a Martino, monaco e vescovo carismatico illetterato, diventandone l ’infaticabile sostenitore in vita e in morte. Prudenzio, dopo una vita spesa a servizio dell’Impero, celebra con i suoi versi i martiri come coloro che hanno assicurato a Roma il trionfo sul paganesimo, l ’ultimo che le mancava e quello essenziale per mantene­ re Vimperium per sempre. Con il sesto capitolo torniamo in Oriente e alle Storie monastiche che redatte fra la fine del iv fino al v i i costituiscono, per così dire, la spina dor­

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sale della produzione agiografica greca di questi secoli, anche se non mancano Vite dedicate a personaggi singoli, come Pacomio e le due Melania. Attraverso le diverse Storie monastiche si profilano monacheSi­ mi, intenzionalità letterarie, pubblici diversi, dalle prime - la Storia dei monaci in Egitto, la traduzione e il riadattamento latino che ne fece Rufino e la Storia lausiaca di Palladio - che raccontano l ’Egitto, per poi passare alla historia monastica di Cirillo che ricostruisce la fondazione e rifondazione del monacheSimo palestinese, all ’Historia religiosa di Teodoreto di Cirro che sfrutta tutte le possibilità espressive della retorica per rendere comprensibili ad un pubblico colto e greco le performances stra­ ordinarie degli asceti siriaci, fino al Prato di Giovanni M osco dei primi decenni del vii secolo. Sono Storie certo lette da monaci, composte da monaci o da chierici, ma che non si rivolgono soltanto a loro e non parla­ no soltanto di loro: con il procedere del tempo l ’intento di descrivere il ri­ tratto il più possibile informato di una certa regione, lascia spazio non solo alla frantumazione territoriale, ma anche alla frantumazione dei sog­ getti: non solo monaci, ma anche vescovi, laici, donne; non solo esempi positivi, ma anche negativi. Da realtà concreta di cui si vuole conoscere il più possibile per imitarli, ma più spesso per ammirarli, i monaci diventa­ no piuttosto serbatoi di racconti edificanti da utilizzare in più occasioni e da diversi mediatori alfabetizzati con cui si cerca di comunicare con una voluta semplificazione del linguaggio. Il mezzo secolo che va dall’ultimo quarto del iv secolo ai primi duetre decenni del v secolo fu caratterizzato da una grande creatività agiografica che, anche grazie a traduzioni, viaggi, contatti culturali, era frutto di un’intensa circolazione di persone e di idee fra Oriente e Occidente. Nei centocinquant’anni successivi, le migrazioni dei popoli provenienti dal nord e dall’est e la diversa incidenza che esse ebbero nella vita delle Chie­ se nelle differenti regioni del Mediterraneo occidentale rallentarono i con­ tatti e dettarono in un certo senso l ’agenda dello sviluppo del discorso agiografico nella direzione di una sempre più marcata regionalizzazione. Il settimo, ottavo e nono capitolo sono appunto dedicati al discorso agiografico latino dei secoli v-vi rispettivamente in Africa, Italia e Gallia. In Africa - cui è dedicato il settimo capitolo - la crisi donatista prima, le persecuzioni attuate dai vandali ariani dopo, costituiscono lo sfondo di un discorso agiografico che ha com e fuoco principale la memoria dei mar­ tiri: quelli più antichi - Perpetua e Cipriano - oggetto di imitazione e con­ tesa fra gruppi diversi; e quelli più recenti: i martiri donatisti, vittime dei cattolici, e i martiri cattolici vittime dei vandali. I Libelli miraculorum raccolti da Agostino raccontano il tentativo di controllare e interpretare il moltiplicarsi dei miracoli intorno alla reliquie del protomartire Stefano;

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miracoli invece assenti nelle due Vite dedicate ad Agostino e Fulgenzio che ripropongono il modello del vescovo monaco colto in grado di mobi­ litare la resistenza sotto i colpi della persecuzione e indicare nuove vie di armonizzazione e convivenza fra istituzioni monastiche e vescovi. Il capitolo successivo si concentra sull’Italia. Pur subendo l ’invasione e la stabilizzazione di popoli di fede ariana, qui non ci furono persecuzio­ ni così vaste e durature com e l ’Africa; il discorso agiografico che ha per oggetto questa regione è però frammentato, come frammentata era la si­ tuazione politica nelle diverse regioni. La Vita di Ambrogio è scritta in Africa alla vigilia dell’invasione vandalica, mentre l ’Italia aveva già cono­ sciuto le distruzioni degli Unni. È una Vita che guarda con nostalgia ad un passato di gloria di cui Ambrogio di Milano, vescovo potentissimo, con i miracoli e i successi contro gli ariani e presso la corte imperiale è il cam­ pione: un’immagine verso cui la Vita di Agostino, scritta qualche anno do­ po nello stesso ambiente, reagisce sia pure implicitamente. Con la Vita di Epifanio, vescovo di Pavia, Ennodio cerca di ritagliare un ruolo importan­ te al vescovo com e consigliere del re nella breve stagione della tolleranza teodoriciana. In una Roma che ospitava le tombe di Pietro e di Paolo meta di frequentatissimi pellegrinaggi, colpisce la scelta di raccontare signa et virtutes di santi contemporanei che sono oggetto dei Dialoghi di Gregorio Magno. Scritti in un’Italia impoverita e devastata dalle guerre, fanno parte di un più vasto progetto pastorale, intenzionalità segnalata anche dalla scelta della forma dialogica che li distingue dalle Storie monastiche orien­ tali cui pur sembra essersi ispirato. La tradizione agiografica gallica, che è oggetto dell’ultimo capitolo, è la più ricca dell’Occidente latino. La ripartizione geografica dei testi se­ gnala i cambiamenti geopolitici avvenuti in quest’area. Un primo gruppo è collegato al Sud ed in particolare ad Arles diventata la città più importan­ te della Gallia da quando, a seguito dell’aggravarsi delle invasioni barbari­ che, vi era stata trasferita da Treviri la prefettura del pretorio. Quasi in con­ temporanea con l ’accresciuta importanza politica di Arles, Onorato comin­ cia la sua vita monastica a Lérins dando inizio ad un’istituzione con la quale, in un modo o nell’altro, sono legati tutti i testi agiografici apparte­ nenti a questo primo gruppo. Nel secolo circa che separa la Vita di Ono­ rato dalla Vita di Cesario di Arles il discorso agiografico di area provenza­ le presenta al suo interno alcuni caratteri costanti —intima connessione se non vera e propria supremazia del modello di santità monastico su quello episcopale, interesse per le questioni dottrinali, carattere colto —ma anche trasformazioni, soprattutto nel diverso peso attribuito ai miracoli del santo vivo e ex tumulo, a mano a mano che ci si allontana dagli scritti collegati alla prima generazione di Lérins e che modelli diversi — come la Vita di

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Ambrogio - diventano fonte di ispirazione e di imitazione nel delineare la figura vescovile. Sono testi che entrano nel vivo nel dibattito teologico e disciplinare direttamente ricostruendo eventi, personaggi o situazioni o, indirettamente, plasmando il proprio racconto su quei problemi e propo­ nendo una sorta di teologia in azione. Collegati ancora a Lérins, attraverso il passaggio di uno dei fondatori a Lione, i monasteri del Giura occupano una posizione più defilata, lontana dalle grandi strade di comunicazione fra il Sud e il Nord della Francia; il discorso agiografico che ne racconta la sto­ ria della fondazione e rifondazione ci restituisce Fimmagine di un mona­ cheSimo dai caratteri originali, focalizzato sull’esperienza ascetica e misti­ ca ispirata dai testi del primo monacheSimo e caratterizzato dalla teorizza­ zione della separatezza fra cenobio ed episcopio. Con l ’affermazione della supremazia dei Franchi il baricentro politico si sposta a Nord e con esso anche la produzione agiografica legata princi­ palmente a Poitiers con Venanzio Fortunato e a Tours con il suo vescovo Gregorio. Nella prima fase la presenza di re barbari ariani, pur con qual­ che episodio di frizione, aveva favorito di fatto l ’indipendenza del clero cattolico dal potere politico, e il tema del rapporto fra i due poteri era rimasto piuttosto ai margini del discorso agiografico provenzale. Nella fase successiva, caratterizzata dal dominio dei re franchi cattolici, il rac­ conto agiografico accompagna questo mutato quadro dei rapporti. Se prima era monopolizzato dalla figura vescovile, ora affronta altri soggetti - come la santità reale e la celebrazione dei loca sancta - più strettamen­ te legati a ll’attualità; soggetti che si prestavano meglio a far interagire il racconto della praesentia del santo con il mondo dei potentes.

Ringraziamenti Desidero esprimere il mio ringraziamento al gruppo di colleghi e collaboratori con cui ho condiviso negli anni di preparazione di questo libro innumerevoli oc­ casioni di studio e di discussione che mi sono state di grande aiuto: Claudio Gianotto, Giovanni Filoramo e Natale Spineto; Roberto Alciati, Maria Chiara Giorda, Andrea Nicolotti, Rosa Maria Parrinello e Fabrizio Vecoli. Un ringraziamen­ to sentito anche al personale della Biblioteca di Scienze Religiose «E. Peterson» per la generosa disponibilità con cui ha facilitato in ogni modo il mio lavoro.

CAPITOLO PRIMO

1. Morire per la Legge La rielaborazione di una narrazione più antica riguardante l ’esecuzio­ ne di Eleazaro e di una madre con i suoi sette figli voluta dal re di Siria Antioco iv Epifane; la descrizione dei Vangeli e degli Atti di Luca rispet­ tivamente del processo e della morte di Gesù e di Stefano; le lettere scrit­ te da Ignazio, vescovo di Antiochia, durante il viaggio verso Roma ove si aspettava di essere condannato a morte a causa della sua fede; il racconto di Tacito del suicidio di Seneca sono testi redatti tra la seconda metà del I secolo e i primi due decenni del π secolo dell’era cristiana. Se si guarda alle circostanze storiche e agli interessi che riflettono, al livello culturale che esprimono, all’eterogeneità dei pubblici cui sono rivolti, ai generi let­ terari cui appartengono, appaiono e sono profondamente diversi. Tuttavia, da un altro punto di vista, presentano almeno un tratto comune: esplorano le modalità, le ragioni, le conseguenze di un morire particolare - “nobi­ le” - che, per quanto effetto di un potere soverchiante, non è presentato come disfatta e resa, ma, al contrario, com e vittoria. Sono racconti para­ dossali che invitano i propri lettori a guardare oltre l ’evidenza quotidiana dei rapporti di forza e a riflettere invece sulla forza delle convinzioni e sulla loro importanza al fine di preservare, in condizioni estreme, l ’iden­ tità del gruppo che le condivide1*. Il primo testo, iv Maccabei, consiste in una riscrittura di racconti più antichi accolti nella Bibbia cristiana (/ e il Maccabei). Questi narrano la rivolta vittoriosa degli Ebrei di Palestina contro il re di Siria Antioco iv Epifane sotto la guida dei tre fratelli Giuda, Gionata e Simone - sopran­ nominati Maccabei - rivolta ispirata dal tentativo di introdurre in quella regione i costumi e la religione ellenici e di impedire in vari modi 1 osser­ vanza della Legge e il culto nel tempio di Gerusalemme (175-135 a.C.). iv Maccabei riprende un episodio che precedette la rivolta vera e propria:

1 J.W. van Henten-A. Wénin, Martirio e morte nobile nel giudaismo e nelle fonti dell’antico ebraismo ellenistico, in II martirio volontario. Una storia condivisa nell ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam , in «Cristianesimo nella storia» 27(2006), pp. 31-66; T. Baumeister, La teologia del mar­ tirio nella Chiesa antica, Torino 1995.

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la morte dello scriba Eleazaro e quella di sette fratelli con la loro madre, torturati e messi a morte per aver rifiutato di nutrirsi di carni vietate dalla loro religione. L’autore anonimo di questo testo, redatto in lingua greca, secondo alcuni prima del 70, secondo altri alla fine del i sec., non è per nulla interessato alla guerra vittoriosa dei tre fratelli, ma si concentra su quell’unico episodio con l ’intento di mettere in luce la perfetta coinciden­ za dell’ideale filosofico del dominio delle passioni con la Legge giudai­ ca2. Secondo iv Maccabei la «ragione è la sovrana assoluta delle passio­ ni»3; Dio ha creato l ’uomo e, in lui, le passioni e «su di esse collocò come su un trono (...) l ’intelletto sacro e sovrano e impose ad esso una legge, adeguandosi alla quale avrebbe esercitato un potere regale improntato a temperanza, giustizia, bontà e fortezza»4. La vittoria sul timore del dolo­ re e della morte dei nove personaggi al centro del racconto non è che l ’il­ lustrazione di questi principi; il capofila è Eleazaro «di stirpe sacerdotale, profondo conoscitore della legge, di età avanzata e noto per la sua nomea di filosofo»5. Egli compare davanti al “tiranno” Antioco in persona che cerca di convincerlo a mangiare carne di maiale vietata agli ebrei {Lev 11,17) sottolineando la sproporzione fra la ragionevolezza della richiesta (è insensato astenersi dai doni della natura) e la gravità delle conseguen­ ze del suo rifiuto (la tortura e la morte). N ella lunga ed eloquente risposta Eleazaro rimane fermo nel suo rifiuto: ogni trasgressione della Legge ha la stessa gravità perché ogni sua imposizione deriva da Dio e intende edu­ care gli uomini alla temperanza e alla pietà6. Le guardie del re tentano allora di piegarlo con la fustigazione e le percosse, ma il vecchio «quasi venisse torturato in sogno» non muta il suo proposito. Coperto di sangue crolla a terra, ma «la sua ragione rimane diritta e inflessibile»; «E come un nobile atleta, il vecchio, pur subendo i colpi, vinceva i suoi carnefici»7. A questo punto alcuni cortigiani cercano di convincerlo ad accettare alme­ no la finzione di mangiare carne di maiale. Eleazaro rifiuta sdegnosamen­ te anche questo: «Sarebbe insensato se noi, che abbiamo vissuto fino alla vecchiaia una vita secondo verità e che manteniamo intatta l’opinione su questa vita, adeguata allo 2 Di ambiente antiocheno secondo C. Kraus Reggiani (ed.), 4 Maccabei. Commentarla storico ed esegetico a ll’Antico e al Nuovo Testamento, Supplementi, Genova 1992 (di cui ultilizzo la traduzio­ ne); di ambiente romano secondo Quarto libro dei Maccabei, testo, traduzione, introduzione e com­ mento a cura di G. Scarpat. Con una nota storica di G. Firpo, Brescia 2006, pp. 65-66. 3 tv Maccabei 1,13. 4 iv Maccabei 2,21-23. 5 iv Maccabei 5,4. 6 iv Maccabei 5,27; 36-37. 7 iv Maccabei 6,5.10.

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spirito della legge, ora cambiassimo e divenissimo proprio noi modello di empie­ tà per i giovani (...) Sarebbe una vergogna se prolungassimo la nostra vita per bre­ ve tempo e in questo breve tempo provocassimo la derisione generale per la no­ stra viltà e non ci battessimo fino alla morte in difesa della nostra Legge divina»8. Alla fine Eleazaro viene fatto salire sul rogo, «arso ormai fino alle os­ sa», ha ancora la forza di pronunciare una preghiera: «Tu sai, mio Dio, che potevo salvarmi e invece muoio in mezzo ai supplizi a cau­ sa della legge. Sii propizio al tuo popolo, mostrandoti soddisfatto della punizio­ ne che per esso subiamo. Fa’ che il mio sangue sia mezzo di purificazione per loro e accogli la mia anima in cambio delle loro anime»9. Il testo passa a narrare la morte dei sette fratelli e della loro madre seguendo lo stesso canovaccio di dialoghi, torture e morte. Nei lunghi di­ scorsi m essi in bocca ai protagonisti vengono ribadite le stesse idee: il tiranno può togliere loro la vita, ma non danneggiarli «perché noi, grazie a questo supplizio e alla nostra sopportazione, riporteremo i premi riser­ vati alla virtù e saremo accanto a Dio, in nome del quale soffriamo»; «un tormento eterno» attende invece il tiranno10; accettare di morire coincide con la sconfitta della tirannia11. Il racconto del supplizio della madre per­ mette all’autore di aggiungere temi nuovi: ella, «più forte di un uomo in atti e in parole», non solo sopporta tutte le torture inflitte ai figli, ma rie­ sce a dominare la passione più forte: l ’amore materno: «Non distolse alcuno di loro dall'affrontare la morte, né si afflisse per loro co­ me se stessero morendo, ma quasi avesse d’accaio la mente e rigenerasse tutti e sette i suoi figli per Timmortalità, li esortava a morire supplicandoli di mori­ re per la pietà»12. Diversamente dal racconto più antico che attribuiva al coraggio e al valore militare dei tre fratelli Maccabei la vittoria su Antioco, secondo il Nostro, sono proprio i più deboli per sesso e per età ad aver sconfitto il tiranno, non solo in senso simbolico, ma anche nella realtà: «grazie al san­ gue di quei pii e all’espiazione attuata con la loro morte, la provvidenza divina salvò Israele, prima oppresso»13.

8 iv Maccabei 6,18-21. 9 iv Maccabei 6,27-29. 10IV Maccabei 9,8-9. 11IV Maccabei 11,24-25. 12IV Maccabei 14,12-13.15. 13 iv Maccabei 17,22.

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Siamo di fronte ad un’orazione (pronunciata o forse soltanto scritta) di circostanza: l ’autore si è infatti assunto il compito di elogiare coloro che «in questo giorno» (nella festività aloro dedicata?) «sono morti per la loro kalokagathia» - cioè per la loro nobile virtù14. Chi scrive sa usare i mezzi espressivi della retorica e si rivolge ad un pubblico colto in grado di com­ prendere e apprezzare l ’eclettismo fdosofico tipico di quel periodo che mescolava motivi platonici e stoici. La censura di quelle parti del raccon­ to più antico riguardante la rivolta armata è un chiaro segno che nel rispol­ verare quegli antichi «atleti della Legge» l ’intento non è quello di raffor­ zare una comunità assediata da una minaccia esterna; si tratta piuttosto di rafforzare la fedeltà alle proprie tradizioni, presentandole nei panni più attuali e socialmente prestigiosi della filosofia. In questo l ’anonimo auto­ re si colloca nello stesso solco dell’opera esegetica di Filone di A les­ sandria o del Contro Apione di Giuseppe Flavio, autori contemporanei che cercarono i punti di contatto fra giudaismo e paideia greca, esplorando quel territorio accidentato, ove la gelosa custodia della propria identità religiosa e nazionale si confrontava con una cultura anch’essa entrata a far parte del proprio bagaglio mentale e spingeva dunque a valorizzare conti­ nuità, rapporti, somiglianze. iv Maccabei corregge la sua fonte su due punti che meritano di essere sottolineati: l ’insistenza sul tema del premio ultraterreno destinato a que­ sti coraggiosi combattenti della Legge, un premio adombrato da espres­ sioni quali «stare con D io » 15, «ricongiungersi ai padri»16 e fondato sull’af­ fermazione dell’immortalità d ell’anima17, mentre in ti Maccabei il premio consiste nella resurrezione (// Mac 7,9). Il secondo punto riguarda il con­ cetto di morte espiatoria: nella preghiera di Eleazaro sul rogo riportata sopra egli viene definito α ντί ψ ύ χ ο ς, «dato in cambio» della vita di altri, colpevoli di avere assecondato Antioco e di essersi macchiati di empietà, malgrado lo scriba, come i suoi compagni, siano personalmente innocen­ ti da tali colpe. N ell’efficacia di tale espiazione è importante l ’elemento del sangue come m ezzo propiziatorio. In u Mac 7,37.38, invece, i fratelli si riconoscono coinvolti nelle colpe del popolo, pur continuando a consi­ derare la propria morte come propiziatoria della cessazione della giusta ira di Dio.

14 iv Maccabei 1.10. 15IV Maccabei 7,19. 16IV Maccabei 5,37. 17 iv Maccabei 14,6.

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2. « Versare il sangue per molti» Un gruppo di testi redatti n ell’ultimo quarto del i sec. e dunque coevi a iv Maccabei descrivono il processo e l ’esecuzione di un altro ebreo: Gesù. Fra i Vangeli di Marco, Matteo e Luca, mi limiterò a brevi osserva­ zioni sul primo, perché più antico (fu redatto intorno al 70 d.C.) e fonte, insieme ad altre tradizioni, degli altri due18. I capp. 14-16 narrano gli av­ venimenti che preparano l ’arresto di Gesù, il processo prima davanti al sinedrio, poi di fronte al Procuratore romano della Giudea Pilato, la fla­ gellazione, la sua crocifissione e infine la sepoltura. L’ultimo capitolo contiene l ’annuncio della resurrezione di Gesù fatta alle donne da parte di un giovane vestito di bianco. Circa quarant’anni anni separano il raccon­ to evangelico dagli avvenimenti; in questo lungo arco di tempo i suoi seguaci, in un primo momento dispersi dopo la morte del maestro giusti­ ziato come un criminale comune, avevano avuto modo di riflettere sul significato di quella morte alla luce di quanto ritenevano di aver visto, sentito e creduto durante la predicazione di Gesù e dopo la crocifissione. Sulla base di tradizioni scritte o orali preesistenti, il racconto evangelico presenta sia gli avvenimenti sia l ’interpretazione di essi alla luce della fede in Gesù Cristo in quanto Messia. In questo senso Gesù viene descrit­ to com e perfettamente consapevole di quanto gli capiterà di lì a poco: sa di dover morire (Me 14,8) per compiere quanto la Scrittura afferma su di lui (14,21); sa dove è già pronta la stanza che accoglierà lui e i discepoli per la cena pasquale (14,15) e chi fra i discepoli lo tradirà e lo rinneghe­ rà {Me 14,18.31). Spiega anche perché dovrà morire: benedicendo il cali­ ce di vino dice che si tratta «del suo sangue dell’alleanza versato per molti» (14,24) e, come si legge in un altro punto: «infatti il Figlio dell’uo­ mo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria la vita in riscatto per molti» (10,45). Mentre i diversi tentativi messi in campo dai capi religiosi del popolo ebraico non riescono a trovare prove della sua colpevolezza, è lui stesso a offrire il motivo della propria condanna quan­ do, alla domanda del sommo sacerdote: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?», risponde «Lo sono» aggiungendo una breve profezia sul suo ritorno nella gloria (14,62). Dopo la morte, è un osservatore esterno, un soldato che aveva assistito alla sua agonia, a riconoscerne la divinità: «Davvero quest’uomo era figlio di Dio» (15,39). L’idea del valore espiatorio della morte di un innocente è l ’unico punto di contatto del Vangelo di Marco con il racconto di iv Maccabei; per il resto

18 Cfr. la recente sintesi: G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica, Bologna 2002.

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non potrebbero essere più diversi: il maestro Eleazaro affronta i supplizi anche con l ’intento di offrire un esempio di coerenza ai discepoli e quan­ do arriva il loro turno essi ne seguono l ’esempio fino in fondo; Gesù è inve­ ce completamente abbandonato dai suoi e muore tra persone ostili. Tutti i personaggi di iv Maccabei pronunciano discorsi eloquenti; anzi potremmo dire che il prolungamento inverosimile delle torture è funzionale all’inser­ zione del maggior numero possibile di discorsi in difesa delle tesi dello scritto. Gesù parla solo tre volte: quando ammette di essere il Figlio del­ l ’uomo; quando risponde ambiguamente «tu lo dici» a Pilato che gli chie­ deva se era il re dei Giudei (Me 15,2); quando, prima di spirare, grida in aramaico: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Me 15,34). Un grido di disperazione e di sofferenza, la stessa angoscia dimostrata an­ che nel Getsemani, quando Gesù è «preso da terrore» (14,33). Siamo agli antipodi dell’autocontrollo assoluto dei personaggi di ivMaccabei che non mostrano nessuna debolezza e arrivano a sfidare i loro carnefici. Manca il lessico della gara e della gloria che IV Maccabei condivide con la seconda sofistica, l ’indirizzo letterario egemone in quel periodo. Le sofferenze subite da Gesù non suscitano nei presenti nessuna ammi­ razione, ma soltanto disprezzo, beffe, percosse, sputi; invece, la morte dei personaggi di tv Maccabei è circondata dall’ammirazione dei presenti, per­ fino di quella dei carnefici: è uno spettacolo che ha come spettatori «il mondo e l ’umanità»: «Chi non ammirò gli atleti della legge divina? Chi non rimase colpito e impressionato?»19. Anche il nemico è diverso: non Pilato, il funzionario romano che avrebbe potuto accollarsi il ruolo del tiranno, ma i capi del popolo ebraico e il popolo stesso, mentre l ’autore del Vangelo mostra l ’autorità romana restia a condannare Gesù, per quanto alla fine consenziente. E questo è la spia di un contesto polemico intragiudaico, fra ebrei che hanno creduto in Cristo e ebrei che invece ancora atten­ dono il messia e svolgono un ruolo attivo nella persecuzione dei primi. 3. Morire per Cristo È appunto il racconto dell’uccisione di un ebreo credente in Cristo da parte di altri ebrei il terzo testo su cui mi soffermerò: si tratta d ell’uccisio­ ne di Stefano narrata nei capp. 6 e 7 degli Atti degli Apostoli il cui autore, Luca, è anche autore del terzo Vangelo. Stefano non fa parte della cerchia dei Dodici, ma insieme ad altri sei viene nominato dagli Apostoli per compiti di tipo amministrativo, anche se, nel seguito del racconto, egli 19 iv Maccabei 17,14-17.

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appare piuttosto nelle vesti di predicatore eloquente e ispirato. Luca pre­ senta Stefano com e taumaturgo che parla con “sapienza” e “spirito” ed è per questo vittima delle trame di membri di una sinagoga cui facevano capo ebrei provenienti da città ellenistiche. In un primo tempo, cercano di affrontare Stefano in una discussione, in seguito, con l ’accusa di blasfe­ mia contro M osè e contro D io, riescono a trascinarlo davanti al sinedrio. Davanti a quel tribunale, l ’accusa è ora di riferire le parole di Gesù sulla distruzione del tempio e di voler cambiare le leggi dei padri. Alla doman­ da cruciale del sommo sacerdote: «Le cose stanno veramente così?», Stefano risponde con un eloquente discorso cui l ’autore degli Atti affida il compito di chiarire - in rapporto alla comune appartenenza al giudaismo - chi sono in realtà persecutori di Stefano e chi sono invece coloro che hanno creduto in Gesù. La differenza fra gli uni e gli altri consiste nel diverso atteggiamento riguardo allo Spirito di D io che è nei profeti e che li fa agire in nome suo: i primi discendono da quegli ebrei che hanno resi­ stito alla volontà del Signore che si esprimeva attraverso le azioni di Mosè; gli hanno disobbedito e hanno costruito il vitello d ’oro, hanno per­ seguitato i profeti che preannunciavano il Giusto «di cui ora voi siete stati traditori e assassini» (7,52). Lo Spirito Santo abita invece in Stefano che non solo ha avuto fede in Gesù, ma arriva a vederlo in visione: «Ecco, vedo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta in piedi alla destra di Dio» (7,55). Sono queste parole a scatenare i suoi nemici che «trattolo fuori dalla città lo lapidarono». Stefano muore pregando il Cristo di accogliere il suo spirito e di non addossare ai suoi persecutori il peccato che stavano commettendo. È importante rilevare che la prima descrizione della morte di un segua­ ce di Gesù a causa della sua fede in lui ripercorre il canovaccio narrativo della morte di quest’ultimo anche a costo di incoerenze non trascurabili: è stato notato20*, ad esempio, che la scena del processo è posticcia rispetto alla scena della lapidazione che doveva essere nella fonte di Luca; potreb­ be trattarsi di un intervento redazionale proprio suggerito dal desiderio di assimilare la morte di Stefano a quella di Gesù. N ella visione di Stefano, inoltre, si avvera la profezia pronunciata da Gesù davanti al sommo sacer­ dote (Me 14,62; Le 22,69). Il volto di Stefano appare ai suoi giudici «come il viso di un angelo» (6,15), vale a dire trasfigurato dalla gloria di D io con un richiamo al racconto evangelico della trasfigurazione di Gesù (Le 9,29). Infine la preghiera di Stefano riecheggia quelle di Gesù sulla croce nella versione di Luca (23,34.46). 20 G. Schneider, Gli Atti degli Apostoli (Commentario teologico del Nuovo Testamento), Brescia 1985, parte i, pp. 579 ss.

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Gli Atti degli Apostoli sono separati dagli eventi che raccontano da circa cinquanta anni: il parallelismo fra la morte di Stefano e quella di Gesù, che Luca intreccia alla trama stessa del racconto, ci informa sul punto di vista di Luca e della sua cerchia di lettori, non certo su quello di Stefano. Le Lettere21 di Ignazio invece offrono l ’occasione di apprendere dalla viva voce di chi è ben deciso a versare il proprio sangue per la fede i propri timori e ragioni. Secondo Eusebio di Cesarea22, Ignazio fu vescovo di Antiochia nel periodo in cui era Imperatore Traiano (97-117) e nel primo decennio del il secolo venne imprigionato e trasferito a Roma per essere giudicato dalla giustizia imperiale com e in quel tempo era richiesto dalla legge per colo­ ro che possedevano la cittadinanza romana. Durante il penoso viaggio scrisse le sette lettere che rappresentano gli unici suoi scritti che possedia­ mo. Composte durante le soste a Smime e nella Troade, sono indirizzate - a parte una inviata a Policarpo vescovo di Smime - a varie Chiese dell’Asia Minore. Lo stile particolarissimo, appassionato con punte di entusiasmo mistico, non deve far perdere di vista che le lettere non raccol­ gono lo sfogo di sentimenti e opinioni private, ma erano destinate alla let­ tura pubblica ed entravano nel merito dei conflitti interni e delle deviazio­ ni dottrinali presenti nelle Chiese destinatarie. Le tinte forti con cui Ignazio descrive la sua prigionia, quasi un’anticipazione delle sofferenze future, l ’insistenza accalorata con cui mostra la sua determinazione nel voler morire, sono anche funzionali a fondare la sua autorità, a legittima­ re la funzione di arbitro dei conflitti all’interno di Chiese che hanno già una loro gerarchia. Per questo afferma più volte che morire per Cristo significa diventare «vero discepolo»23; egli ancora non lo è, ma si trova in una situazione tale da partecipare già a quella condizione di assoluta auto­ rità. Così si rivolge ai romani, che potrebbero darsi da fare per evitargli la morte come talora accadeva:

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succeda - come a qualcuno - che, intimorite, neppure lo toccarono; se si mostras­ sero restìe, io le costringerò con la forza. Siate buoni! Ora comincio a essere un vero discepolo. Nessuna cosa visibile ed invisibile mi impedisca di raggiungere Gesù Cristo. Il fuoco e la croce, le belve e gli strazi, le ferite, gli squarci, le slo­ gature, le mutilazioni, lo stritolamento di tutto il corpo, i più malvagi tormenti del demonio vengano su di me, purché io raggiunga Gesù Cristo»24. Ignazio non utilizza ancora il termine martirio in senso tecnico. Designa il destino che lo attende a Roma come «sostenere la lotta con le fiere»; «soffrire»; «morire per D io»25. Egli concepisce la morte che lo attende come inizio della vera vita e come un atto di consapevole imita­ zione della morte di Cristo: «Bello per me è morire per unirmi a Gesù Cristo, piuttosto che regnare fino ai confini della terra. È lui che cerco, lui che è morto per noi; è lui che io voglio, lui che è risuscitato per noi. Il mio parto è vicino. Perdonatemi fratelli; non impedi­ temi di vivere, non vogliate che io muoia... Lasciate che io riceva la luce pura, poiché quando sarò giunto là sarò veramente uomo. Concedetemi di essere un imitatore (μιμητήν) della passione del mio Dio»26. Ignazio ritiene che le sue sofferenze attuali e future siano un bene non soltanto per lui, ma anche per le Chiese. Per esprimere l ’idea che la sua condizione di incatenato per Cristo sia una forma di offerta sostitutiva e propiziatoria per la soluzione positiva dei contrasti e delle deviazioni dot­ trinali in cui si dibattono i suoi destinatari egli utilizza, come iv Maccabei, il termine άντίψυχον27. Tuttavia Ignazio non afferma altrettanto chiara­ mente che la sua morte sia in grado di purificare i peccati: questa funzio­ ne è ora di Cristo, la cui passione può essere imitata, ma non certo per quanto riguarda gli stessi effetti salvifici. 4. La morte del filosofo

«Sto già lottando con le fiere dalla Siria a Roma, per terra e per mare, di notte e di giorno, legato a dieci leopardi, cioè il plotone dei soldati. Se li benefico diven­ tano peggiori. I loro maltrattamenti sono per me un allenamento, ma non per que­ sto sono giustificato. Possa godere delle altre belve preparate per me; bramo che si gettino subito su di me! Io le alletterò, perché mi divorino in un istante, e non 21 J.B. Lightfoot (ed.), The Apostolic Fathers, Part n, London 1889 (2 ed.), rist. anast. Hildesheim-New York 1973. Una recente m essa messa a punto sui principali nodi critici è Ch. Munier, Où en est la question d ’Ignace d ’Antioche? Bilan d ’un siècle de recherches 1870-1988 , in «A.N.R.W.» il, 27, 1, 1993, pp. 359-484 e C. Trevett, A Study oflgnatius o/Antioch in Syria and Asia , Lewiston-Queeston-Lampeter 1992. 22 Storia ecclesiastica 3, 33.36. 23 Lettera agli Efesini 1.3; Lettera ai Tralliani 5.

Se potessimo ricostruire con precisione le date, potremmo immagina­ re l ’arrivo di Ignazio a Roma, mentre Tacito (55 d.C. - 124/126? d.C.) stava componendo gli Annales dedicati alla storia politica e militare del­ l ’Impero romano negli anni fra il 69 al 96 d.C. Il punto di vista di Tacito era quello di un senatore romano e di un alto funzionario d ell’Impero che, 24 Lettera 25 Lettera 26 Lettera 27 Lettera

ai Romani 5. agli Efesini 1; Lettera ai Romani 8. ai Romani 6,1-3. agli Efesini 21,1; Lettera agli Smirnesi 10, 2; Lettera a Policarpo 2, 3; 6, 1.

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pur rimpiangendo l ’antica libertas repubblicana, riteneva ormai il gover­ no di uno solo un’inevitabile necessità. Questo tuttavia non gli impedì di vedere e descrivere con amara lucidità le debolezze, l ’incapacità politica, le passioni sfrenate, la corruzione degli Imperatori e della loro cerchia familiare, gli effetti devastanti della tirannia su una classe dirigente imme­ more delle antiche virtù di onore, dignità, autocontrollo. Non mancavano però le eccezioni e fra queste Seneca, il filosofo stoico, già maestro di Nerone, che venne accusato di aver preso parte alla congiura di Pisone per uccidere l ’Imperatore. Tacito descrive dettagliatamente le ultime drammatiche ore. Quando arrivò l ’ordine di porre fine alla vita, Seneca rimase imperturbabile. Gli venne impedito di scrivere il testamento ed egli, rivolgendosi agli amici presenti, li consolò dicendo che «lasciava loro in eredità l ’unica cosa rimastagli, ch ’era però la più bella: l ’immagine della propria vita. Se non l ’avessero dimenticata, avrebbero avuto in premio di una così costante amicizia la gloria che deriva dalle virtù»28. Dopo essersi tagliato le vene, nell’estremo momento, non gli venne meno l ’eloquenza e chiamò i suoi scrivani per dettare un testo che quando Tacito redigeva gli Annali era tal­ mente conosciuto da fargli ritenere inutile riportarlo. Il racconto si soffer­ ma, con la precisione d ell’anatomopatologo, sulla descrizione della mor­ te: dalle vene del braccio il sangue non defluiva abbastanza in fretta e fu necessario aprire quelle delle gambe e delle ginocchia. Anche così la morte tardava e Seneca chiese ad un amico il veleno «con cui si estingue­ vano in Atene i condannati da pubblico giudizio». Ormai la circolazione sanguigna era troppo lenta perché il veleno fosse efficace e il filosofo domandò allora di essere immerso in una vasca d ’acqua calda per facili­ tarla e «spruzzandone i servi più vicini, disse ancora che offriva quella libagione a Giove liberatore». Fu trasferito infine in un bagno a vapore e lì infine spirò. La narrazione di Tacito erige un monumento alla coerenza fra vita e filosofia: una filosofia che insegnava il dominio delle passioni, il distacco da tutto ciò che non dipendeva dall’esercizio della virtù, la libertà dal timore della morte, la liceità del suicidio quando le condizioni di vita diventavano intollerabili. Il caso di Seneca dimostrava che perfino sotto la tirannia più feroce era possibile mostrarsi fedele ai propri princìpi. Come la morte di Gesù dava significato a quelle di Stefano e Ignazio, così dietro il racconto di Tacito si profila un’altra morte: quella di Socrate, anch’egli vittima di una tirannia. Il riferimento al Fedone di Platone emer­ ge in più punti del testo. Il veleno richiesto da Seneca per accelerare la 28 Annali 15, 62, 1 (tr. A. Arici, Torino 19692).

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morte è la cicuta, lo stesso di Socrate. Il filosofo ateniese prima di morire raccomandò agli amici e discepoli presenti di sacrificare un gallo ad Asclepio, il dio medico, in quanto con la morte il filosofo è liberato dalla malattia di questa vita29. Seneca, dal canto suo, offre simbolicamente il proprio sangue come libagione a “Giove liberatore”. Muore, come So­ crate, attorniato dagli amici cui rivolge parole di conforto e discorsi di commiato ricordando loro i punti essenziali della sua filosofia. Tacito non è il solo ad essersi ispirato al Fedone per descrivere la morte del suo eroe: Plutarco, un suo contemporaneo, si comporta in modo simi­ le per descrivere il suicidio di Catone l’Uticense, anch’egli stoico e oppo­ sitore della tirannia. Entrambi si ispiravano a tradizioni riguardanti le mor­ ti di uomini illustri che facevano parte del bagaglio culturale di ogni buon retore. Lo stesso Seneca fornisce all’amico Lucilio un certo numero di exempla di valorosi che sono morti per la patria o per salvaguardare la loro libertà interiore30, tra cui quella di Socrate e Catone l ’Uticense. L’apo­ logetica cristiana ricorrerà agli stessi exempla per sostenere il diritto dei martiri cristiani ad ottenere la stessa ammirazione. Circolavano anche scritti appositamente dedicati all’argomento, per noi perduti, ma i cui tito­ li sono ricordati, tra gli altri, da Plinio il Giovane che in una sua lettera menziona un’opera di Caio Fannio dedicata agli «exitus occisorum aut relegatorum a Nerone» e un’altra di Titinio Capitone, Exitus illustrium virorum. Verso la metà del in sec. d.C. Diogene Laerzio ricorda una raccolta di τελ ευ τα ί (= morti) attribuendola ad Ermippo di Smime, un autore del m sec. a.C.31. Si tratterebbe dunque di un genere molto antico, ma che nel i sec. d.C. venne rivitalizzato dall’intreccio con la filosofia stoica sia per la rilevanza che in essa aveva il tema della meditazione sulla morte, sia per la presenza fra gli stoici di molti oppositori alla tirannia il cui coraggio nell ’affrontare l ’ora estrema poteva essere un’efficace leva propagandistica per la stessa scuola stoica e per l ’aggregazione del dissenso politico. 5. Giudaismo? Cristianesimo? Ellenismo? Ho fin qui evitato di proposito di servirmi del termine martirio, perché nei testi che abbiamo analizzato l ’espressione non compare con il signifi­ cato che ora le attribuiamo. Tuttavia essi aprono prospettive interessanti per comprendere nella giusta luce un problema che affiora sovente nella 29 Fedone 118 a. 30 Lettera a Lucilio 24. 31 A. Ronconi, Exitus illustrium virorum, in Reallexicon fiir Antike und Christentum, Bd. vi, Stuttgart 1966, pp. 1258-1268.

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bibliografia dedicata allo studio scientifico della letteratura “specializza­ ta” dedicata ai martiri cristiani. Il problema è quello delle “origini”; le “origini” di una forma letteraria e dell’ideologia di cui essa è espressione. W.H.C. Frend, in uno studio del 1965 che rimane un punto di riferimen­ to, in chiusura alla parte dedicata allo studio del martirio nel giudaismo, affermava che nessun altra religione aveva dato una così grande importan­ za al martirio a tal punto da poter essere definita «a religion o f martyrdom». Aggiungeva che a partire dal regno di Antioco iv Epifane e dalla fissazione dell’ideale del martirio nel testo di te il Maccabei cominciaro­ no a diffondersi le idee che avrebbero influenzato profondamente la Chiesa antica: «Senza i Maccabei e senza Daniele difficilmente sarebbe stata concepibile una teologia cristiana del martirio»32. E pur ammettendo che nel mondo ellenistico contemporaneo vi era una crescente enfasi sul valore del sacrificio di se stessi per la filosofia o la nazione, al termine di una breve presentazione dei passi principali, lo studioso inglese conclude­ va che se si considera il martirio come testimonianza resa a D io «i cri­ stiani si ispirarono quasi esclusivamente a modelli giudaici»33. A ll’estremo opposto, troviamo la posizione di G.W. Bowersock espressa in un volume più recente del 1995, che pur non essendo parago­ nabile al primo per ampiezza di indagine, ha però suscitato un certo dibat­ tito in quest’ambito di studi. Dopo aver trattato degli Atti dei martiri, afferma che il cristianesimo doveva i suoi martiri ai mores e alla struttura dell’Impero e non alla cultura del Vicino Oriente semitico ove il cristia­ nesimo era nato. Osserva inoltre che lo stesso termine “martire”, nel senso che la tradizione gli attribuì, com e vedremo fra breve, a partire dalla se­ conda metà del π secolo, non avrebbe nulla a che fare con il giudaismo e con la Palestina, mentre sarebbe profondamente influenzato dalle tradi­ zioni, il linguaggio, i gusti culturali del mondo greco-romano34. Sarebbe fuori luogo ora analizzare in dettaglio le rispettive argomen­ tazioni; mi interessa sottolineare come, per quanto discordi nelle tesi di fondo, ambedue mostrino la stessa sicurezza nel ritenere di poter distin­ guere nettamente ciò che è “giudaico”, “cristiano” e “ellenistico”. La bre­ ve panoramica dei testi che ho presentato ci mette di fronte ad un panora­ ma ben più complesso.

32 W.H.C. Frend, Martyrdom and Persecution in thè Early Church, Oxford 1955, p. 31. 33 Ibi, p. 65. 34 G.W. Bowersock, Martyrdom and Rome, Cambridge 1995, p. 28. M. Rizzi, Martirio cristiano e protagonismo civico: rileggendo “Martyrdom & Rome” di G.W. Bowersock, in C. Bearzot-A. Barzanò (eds.), Modelli eroici dall'antichità alla cultura europea, Roma 2003, pp. 317-340; E. Zocca, Modelli-martirio-santità: un rapporto multidirezionale, in «Adamantius» 14 (2008), pp. 378-381.

Capitolo primo

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Non c ’è dubbio che l ’autore di iv Maccabei fosse un ebreo fedele alla sua tradizione religiosa; tuttavia era anche un retore che si esprimeva in greco, con forti simpatie verso la filosofia stoica; da essa prendeva gli strumenti concettuali per presentare la morte di Eleazaro e degli altri come espressione della ragione filosofica. La virtù stoica del dominio del­ le passioni acquistata attraverso l ’esercizio della ragione rendeva possibi­ le la sottomissione alla Legge che richiedeva di vivere con temperanza e, se necessario, di morire con coraggio pur di non tradirla. Ora l ’autore di iv Maccabei non ci appare più (a prescindere dal livello artistico della rea­ lizzazione letteraria) così lontano da Tacito, che presenta la morte di Seneca come modello della morte “razionale” del filosofo. Non mancano del resto interpretazioni che vedono il racconto del Fedone sullo sfondo anche di iv Maccabei35. Va anche notato che iv Maccabei e gli Annali pre­ sentano anche analogie letterarie nella scelta delle azioni drammatiche e dei temi; la messa in scena della morte, per esempio, comporta per entrambi la presenza di discorsi che hanno il compito di richiamare i prin­ cipi fondamentali che ispirano l ’agire dell’eroe; vi è lo stesso gusto maca­ bro nel rappresentare in dettaglio le sofferenze. Non si vuole certo affer­ mare una dipendenza fra i due testi, ma soltanto sottolineare com e la con­ divisione di una stessa tradizione culturale in cui si era affermato un certo modo di descrivere la morte di grandi uomini e di filosofi abbia prodotto testi che presentano - pur nella loro diversità di pubblici e di intenti molte analogie36. Se una netta distinzione fra giudaismo ed ellenismo appare complica­ ta, le cose sono, se possibile, ancora più difficili per quanto riguarda il giudaismo e il cristianesimo. Come ho già sottolineato, il modo di Marco di raccontare la morte di Gesù non potrebbe essere più diversa da iv Maccabei, tuttavia ambedue i testi danno la stessa risposta ad una doman­ da cruciale: perché Eleazaro e Gesù non si sono sottratti alla morte? Ambedue ritengono che la loro morte abbia valore espiatorio, per il primo, dei peccati del popolo ebraico, il secondo - almeno nella versione di Marco - ritiene necessario versare il proprio sangue “per molti”. L’idea è nella Bibbia (Is 53,12), il libro che era alla base della vita e della rifles­ sione religiosa degli ebrei di lingua greca e aramaica, quelli che avevano creduto in Gesù e quelli che non vi avevano creduto.

35T. Rajak, Dyingfor thè Law: The Martyr's Portrait, in M.J. Edwards-S. Swain (eds.), Portraits. Biographical Representation in thè Greek and Latin Literature ofthe Roman Empire, Oxford 1997, pp. 39-67. 36 Una selezione di testi in J.W. van Henten-F. Avemarie, Martyrdom and Noble Death, LondonNew York 2002.

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L’autore del racconto della morte di Stefano - fra gli evangelisti colui che sembra avere avuto una più solida formazione letteraria - utilizza moduli narrativi della storiografia grecoromana; ne è un segno la perfor­ mance oratoria di Stefano; com e per Seneca quella di Socrate, la morte di Stefano allude ad un’altra morte che la illumina e le dà senso: quella di Gesù, a sua volta presentata all’interno di una “lista” di altre morti illustri che servono a distinguere gli ebrei traditori di M osè e assassini dei profe­ ti, da quegli altri vittime, ma eredi del vero giudaismo. Le Lettere di Ignazio rappresentano un caso a parte in quanto non sono un testo narrativo; sono state riportate soltanto perché offrono l ’opportu­ nità rara di apprendere dalla viva voce di un vescovo che si appresta a morire per Cristo le sue opinioni sull’argomento. N elle Lettere osservia­ mo una mescolanza di temi ancora diversa: accanto al tema della morte per Cristo come imitazione consapevole della sua passione, persiste l ’idea che la propria morte serva com e scambio per il miglioramento della vita interna delle chiese. Ma il riferimento non può che rimanere generico, perché la funzione espiatoria è assolta dalla morte di Cristo e non vi può essere competizione su questo punto. Siamo di fronte ad una pluralità di interpretazioni e di intrecci di fron­ te ai quali, come sostiene Daniel Boyarin che ha esplorato il giudaismo rabbinico di età imperiale37, sarebbe più corretto ragionare non in termini di influenza, ma di interazione, non di polemica, ma di scambio, non di opposizione canonico/non canonico, ma guardando alla dinamica costan­ te fra cultura orale e scritta, fra religioso e secolare. In tale prospettiva i confini fra i diversi gruppi religiosi vengono continuamente rinegoziati sulla spinta degli eventi e degli incontri nello spazio sociale delle città meditarrenee, della preparazione culturale personale, del particolare punto di vista da cui si guarda alla tradizione che si ritiene di condividere. In effet­ ti, è una forzatura non solo pensare al giudaismo, al cristianesimo e all’el­ lenismo come realtà chiaramente distinguibili, ma anche pensare ciascu­ na di essa come entità monolitiche e uniformi.

37 D. Boyarin, Dyingfor God. Martyrdom and thè Making ofChristianity and Judaism, Stanford 1999; J.W. van Henten, The Martyrs as Heroes of thè Christian People. Some Remarks on thè Continuity between Jewish and Christian Martirology, with Pagan Analogies, in M. Lamberigts-P. van Deun (eds.), Martyrium in Multidiscìplinary Perspective. Memorial Louis Reekmans, Leuven 1995, pp. 303-322.

CAPITOLO SECONDO

1. Testimoni, martiri, confessori: la formazione di un lessico specializzato Nella ricorrenza forse del primo anniversario del martirio del proprio vescovo Policarpo1, la Chiesa di Smime inviò una lettera alla Chiesa di Filom elio contenente il resoconto degli avvenimenti. Policarpo era morto il 22 o 23 febbraio del 156 o del 157, secondo la data ritenuta più proba­ bile. Questo testo riveste un’importanza particolare: è il testo più antico della letteratura cristiana dedicato a tale argomento e conterrebbe la prima attestazione del significato di martirio nel senso in cui oggi lo intendiamo: una testimonianza di fede che implica non solo la confessione di fede a parole, ma anche azioni precise: sofferenze e morte2. Si tratta di una spe­ cializzazione rispetto all’uso comune. Nel linguaggio giudiziario e storio­ grafico, i termini martyreo, martyria, martyrion, martys avevano a che fare con l ’accertamento dei fatti, attraverso il ricorso a testimoni o a pro­ ve. In ambito religioso significava una professione di fede. Ad esempio secondo Isaia 43,10.13 nella versione greca dei LXX, martyres sono colo­ ro che testimoniano l ’unicità di Dio. Gli smimesi iniziano il loro racconto con queste parole che meritano di essere riportate estesamente: «Vi abbiamo scritto, fratelli, per narrarvi la vicenda di quanti hanno testimoniato ( martyresantas ) e del beato Policarpo che, com e se vi m ettesse un sigillo, con la sua testimonianza (martyria ) pose fine alla persecuzione. Infatti, quasi tutti gli avvenimenti precedenti ebbero luogo, affinché il Signore potesse mostrarci dal­ l ’alto quale sia la testimonianza secondo il Vangelo».

' Martirio di Policarpo 18, 3. Atti e Passioni dei martiri. Introduzione di A.A.R. Bastiaensen. Testo critico e commento a cura di A.A.R. Bastiaensen, A. Hilhorst, G.A.A. Kortekaas, A.P. Orban, M.M. van Assendelft. Traduzioni di G. Chiarini, G.A.A. Kortekaas, G. Lanata, S. Ronchey, Milano 1987, di cui utilizzo, con qualche modifica, la traduzione. Sulle principali questioni critiche: B. Dehandschutter, The Martyrium Polycarpi: a Century of Research, in «A.N.R.W .» 27,1, pp. 585-622. 2 Sulla storia del lessico martiriale: H. Delehaye, Sanctus. Essai sur le calte des saints dans l'antiquité, Bruxelles 1927, pp. 76-121; B. Dehandschutter, Le martyre de Polycarpe et le developpement de la conception du martyre au deuxième siede, in Studia Patristica xvil, 3, Leuven 1993, pp. 659668; E. Zocca, Modelli-martirio-santità: un rapporto multidirezìonale, in «Adamantius» 14 (2008), pp. 378-394.

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E poco oltre: «Beate e nobili sono dunque tutte le testimonianze (martyria) che si sono verifi­ cate secondo la volontà di Dio. Perché bisogna che noi si sia molto prudenti e si attribuisca a Dio il potere su tutto. Infatti, chi potrebbe non ammirare il loro coraggio, la loro pazienza e il loro amore verso il Signore? Lacerati dalle sferze a tal punto che si poteva vedere la costituzione della carne fino alle vene interne e alle arterie, essi resistevano a tal punto che anche gli spettatori piangevano per la compassione; e sono giunti a tal punto di coraggio, da non emettere parola, né lamenti, dimostrando a tutti noi che in quell’ora, mentre erano sottoposti a tortu­ ra, i valorosissimi testimoni di Cristo erano assenti dalla carne o, meglio, era pre­ sente il Signore che s’intratteneva con loro. Prestando attenzione alla grazia di Cristo essi disprezzavano le torture di questo mondo e con una sola ora si procu­ ravano la vita eterna»3. Ho usato volutamente espressioni quali “testimone”, “testimonianza”, perché, ricorrendo ai termini “martirio” e “martire” che nel nostro lin­ guaggio sono così strettamente ed esclusivamente collegati al versamento di sangue, si suggerisce inevitabilmente uno stadio dello sviluppo della dottrina e del linguaggio sui martiri che, come è stato osservato4, potreb­ be non essere pienamente ancora quello del testo relativo a Policarpo. Pur ammettendo in questa fase ancora una certa ambivalenza, non c ’è dubbio però che, rispetto ai testi del i sec., qui la “testimonianza” includa e non sia soltanto una premessa del versamento di sangue, come invece leggia­ mo ad esempio nei Vangeli, negli Atti degli Apostoli e ne\VApocalisse. Mi riferisco in particolare all’annuncio di Gesù ai discepoli che sarebbero stati consegnati ai sinedri, percossi nelle sinagoghe, processati davanti ai governatori «per rendere testimonianza (martyria) davanti ad essi» (Mt 10,18-20; Me 13,9; Le 21,13). Lo stesso racconto del processo di Gesù è il resoconto di una “testimonianza” (Me 13,63) sfociata nella tortura e nel­ la morte. L’autore degli Atti degli Apostoli afferma che «si versava il san­ gue di Stefano, tuo (se. del Signore) testimone» (At 22,20). L ’Apocalisse colloca «sotto l ’altare (se. del tempio celeste) le anime di coloro che sono stati uccisi a causa della parola di Dio e della testimonianza da loro data» (Ap 6,9). Sempre nell’Apocalisse, coloro che «sono stati decapitati a causa della testimonianza di Gesù e la parola di Dio sono destinati al regno millenario escatologico» (Ap 20,4).

3 Martirio di Policarpo 1, 1; 2, 1-3. Buschmann, Das Martyrium des Polycarp (Kommentar zu den apostolischen Vàtem), Gòttingen 1998, pp. 100-101; E. Zocca, Dai santi al santo: un percorso storico-linguistico intorno all'idea di santità, Africa romana, secc. 2-5 , Roma 2003.

4 G.

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L’inclusione semantica che osserviamo nella Lettera degli Smirnesi è frutto di un lento processo in cui un parallelismo costante di esperienze, di significati e di usi linguistici veniva coagulandosi in unico termine e in un unico concetto. Se lo sfondo più generale di tale maturazione era il dia­ logo con altri gruppi religiosi sul tema della morte eroica, spingevano nella stessa direzione anche questioni interne. Fra queste, la pressione esercitata dal confronto con una pluralità di interpretazioni relative alla martyria in quanto imitazione consapevole di quella di Cristo. Gli Smimesi insistevano sul fatto che la testimonianza di cui scrivevano era avvenuta «secondo il Vangelo»5; i martyres sono discepoli e imitatori del Signore6; sottolineare le sofferenze dei martiri e legarle più strettamente alla martyria significava affermare anche per questa via che la sofferenza e la morte di Cristo era state reali e non apparenti come insistevano alcu­ ni gruppi attivi in Asia Minore contro cui si era battuto anche Ignazio di Antiochia7. Accanto ad essi e forse in parte coincidenti, altri gruppi gno­ stici o gnosticizzanti mettevano in discussione che la testimonianza mani­ festa della propria fede dovesse necessariamente aggiungersi a quella interiore. In questo senso sottolineare come le sofferenze facessero parte integrante della martyria, significava insistere sulla necessaria coerenza fra fede e azioni. Una sottolineatura questa, come ho già notato, che era il vanto e stru­ mento di propaganda delle scuole filosofiche nel primo secolo e che nelle Dissertazioni di Epitteto, un filosofo stoico che sotto l ’Imperatore D o ­ miziano (81-96) fu costretto insieme ad altri intellettuali ad abbandonare Roma, si riflette proprio n ell’uso non infrequente dello stesso gruppo di termini legati alla martyria del filosofo. Secondo Epitteto, il saggio è “testimone” della filosofia quando mostra una coerenza assoluta fra vita e dottrina anche se ciò implica la prigione e l ’esilio8. Anche in questo caso non intendo indicare origini o influenze, quanto sottolineare la traccia di una possibile osm osi fra ambienti culturali solo a ll’apparenza separati. In un testo di poco successivo (177) viene usata una terminologia per certi versi ancora simile a quello della Lettera degli Smirnesi, però con elementi di novità che accompagnano una maggiore articolazione del­ l ’esperienza delle Chiese sotto la pressione delle persecuzioni. Si tratta della Lettera dei cristiani di Lione e Vienna (in Gallia) indirizzata ai fra5 Martirio di Policarpo 1, 1; 19, 1. 6 Martirio di Policarpo 19, 3. 7 A. Falcetta, From Jesus to Polycarp: Reflections on thè Origins of Christian Martyrdom, in II martirio volontario. Una storia condivisa nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam, in «Cristia­ nesimo nella storia» 27(2006), pp. 86 ss. 8 Dissertazioni i, 29, 56; ni, 24, 111-113.

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telli d ’Asia e di Frigia con il resoconto di quanto loro avvenuto durante la persecuzione. In un punto non meglio precisabile di questa lettera di cui possediamo soltanto le ampie citazioni presenti nella Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, si afferma: «A tal punto si fecero seguaci e imitatori di Cristo (...) che pur partecipando di tale gloria e avendo testimoniato non una, né due, ma tante volte, anche venendo riportati in carcere dopo ripetute esposizioni alle belve, pur avendo il corpo cosparso di ustioni, lividure e ferite, essi non si proclamarono da soli martyres, né ci permettevano di chiamarli con questo titolo, anzi muovevano aspri rimpro­ veri se qualcuno di noi, per lettera o a voce li definiva tali. Volentieri infatti cede­ vano la denominazione di testimonianza al “testimone fedele e veritiero” (Ap 3,14) e “primogenito tra i morti” {Ap 1,5) e origine della vita in Dio (cfr. Ap 3,15) e, ricordando i martyres che li avevano preceduti, dicevano “Quelli sono già mar­ tyres, quelli che, avendo confessato (év τη ομολογία), Cristo considerò degni di essere assunti in cielo, suggellando con la loro morte la testimonianza (αυτών διά τής εξόδου την μαρτυρίαν), noi invece siamo mediocri e umili confesso­ ri (ομόλογοι)”. E tra le lacrime invocavano i confratelli pregando che si facesse­ ro fervide preghiere perché fosse concesso loro di raggiungere la perfezione»9. Una lettura di questo testo avulso dal resto delle Lettera potrebbe sug­ gerire di essere di fronte ad una evidente specializzazione della termino­ logia: i martyres sarebbero esclusivamente coloro che hanno versato il sangue, mentre gli omologoi sarebbero quelli che hanno confessato la loro fede davanti all’autorità e dato prova di determinazione e coraggio nel sopportare le torture che tale dichiarazione implicava. C ’è chi ha osserva­ to che in altri punti del testo vengono considerati già appartenenti alla schiera eletta dei martiri coloro che avevano confessato10, anche se questo potrebbe significare soltanto che chi scriveva conosceva già l ’esito di tale confessione11. In ogni caso, la martyria è qui presentata come una pro­ gressione che comprende momenti distinti: vi è la confessione - «la con­ fessione ( omologia) della martyria»12 - e la morte: «la testimonianza della morte»13 che riecheggia la frase messa in bocca a quei cristiani che rifiutavano per sé il titolo di martyres. Ad ambedue i momenti può appli­ carsi il termine di testimonianza, ma essa non può essere perfetta senza la morte di chi ha testimoniato. 9 Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 5, 2, 2-3. 10 Storia ecclesiastica 5, 1, 10.16.24.29. Cfr. J. Ruysschaert, Les “martyrs” et les “confesseurs” de la Lettre des Églises de Lyon et de Vienne, in Les martyrs de Lyon (177), Paris 1978, pp. 155-166. 11 V. Saxer, Bible et hagiographie. Textes et thèmes bibliques dans les Actes des martyrs authentiques des premiers siècles, Beme-Frankfurt am Main-New York 1986, p. 6. 12 Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 5, 1, 11. 13 Ibi, 5, 1, 36: τα μαρτυρία τ ή ς εξόδου αυτών.

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U n ’ultima precisazione è necessaria a proposito di omologoi·. in que­ sto contesto è un apax e nel suo significato abituale - essere d ’accordo, esprimersi con le stesse parole - non dà senso. La tradizione manoscritta ha avvertito l’incongruenza e i diversi ms. hanno tentato di correggere il termine ritenuto corrotto con altri che sembravano dare più senso14. È possibile che qui il termine venga utilizzato com e sem plice deriva­ zione da omologia che viene citata poco prima; di qui la traduzione “con­ fessori”. Tuttavia questo uso rischia di riverberare sul testo un significa­ to tecnico successivo, legato al termine ο μ ο λ ο γ η τή ς, e di far propria in modo acritico la prospettiva di Eusebio di Cesarea che, dopo aver larga­ mente citato la Lettera, conclude distinguendo chiaramente, fra le vitti­ me della persecuzione di Lione e Vienna, i martiri - coloro che erano morti a causa della confessione - dai confessori che invece erano soprav­ vissuti ad essa. Eusebio, in effetti, scriveva in un momento in cui il lessico del marti­ rio era definitivamente fissato; già dal ili sec. i martiri erano nettamente distinti dai confessori (in latino confessores) come attesta una lettera di Cipriano, vescovo di Cartagine (248-258), che, durante la persecuzione di D ecio (250-251), raccomanda ai propri fedeli di occuparsi della sepoltura di coloro che hanno «gloriosamente confessato il Signore» e però sono morti in carcere e li esorta a segnare il giorno della loro morte per poter­ ne celebrare la memoria insieme a quella dei martiri. La preoccupazione pastorale di Cipriano nei confronti di una situazione in cui i confessori non ricevevano l ’attenzione dovuta, lo spingeva a mettere in ombra le dif­ ferenze fino ad affermare che la «gloria del martirio» era perfetta anche nel caso in cui la morte sopraggiungeva prima di compiere il martirio desiderato15. N ello stesso tomo di tempo, Origene (185-261?) faceva notare come l ’uso biblico del termine martys si fosse trasformato nell’uso delle Chiese: «Chiunque rende testimonianza alla verità, sia a parole, sia a fatti o adoperando­ si in qualche modo in favore di essa, si può chiamare a buon diritto “testimone”. Ma il nome di “testimoni” in senso proprio (se. martiri), la comunità dei fratelli, colpiti dalla forza d’animo di coloro che lottarono per la verità o la virtù fino alla morte, ha preso la consuetudine di riservarlo a quelli che hanno reso testimonian­ za al mistero della vera religione con l’effusione del sangue, mentre il Salvatore chiama con il nome di “testimone” (cfr. Is 43,10; At 1,8) chiunque rende testimo­ nianza alle verità annunziate intorno a lui»16. 14 Cfr. apparato dell’edizione critica di E. Schwartz, Leipzig 1903, voi. i, p. 428. 15 Cipriano di Cartagine, Lettera 12, 1.2. 16 Origene, Commento al Vangelo di Giovanni 2, 34, 210 (tr. E. Corsini, Torino 1968).

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Va però anche sottolineato (e in fondo anche le osservazioni origeniane vanno in questo senso) che, per quanto la distinzione fosse chiara, ciò non significa che essa venisse applicata ovunque con la stessa precisione e spesso Γ appellativo onorifico di martys veniva attribuito anche ai con­ fessori. Fra π e in secolo registriamo anche un ampliamento del significato della testimonianza/martirio. Esso emerge con chiarezza negli Stronfiati di Cle­ mente Alessandrino (150-215?). Questi sviluppi maturarono in un clima culturale in cui si scontravano interpretazioni diverse sul martirio in quan­ to testimonianza di fede resa davanti alle autorità e in quanto versamento di sangue. Vi era chi, come gli gnostici, toglievano ogni valore salvifico aifi una e all’altro. Ritenevano, infatti, che il martirio com e imitazione della morte di Cristo non avesse senso, in quanto egli non era venuto per offrir­ si in sacrificio e per espiare i peccati dell’umanità, ma per sconfiggere le potenze demoniache che dominano il mondo. Lo gnostico, chiamato a te­ stimoniare la sua fede proprio davanti all’autorità terrena che egli riteneva demoniaca, si sentiva autorizzato a nascondere la sua vera identità - cioè l ’appartenenza al mondo divino - che, sola, gli garantiva la salvezza. D ’altro canto, l ’esaltazione e la venerazione da cui i martiri erano circon­ dati, rischiava di spingere in un cono d ’ombra altri modelli di perfezione che esigevano una valorizzazione e un riconoscimento sociale - e la con­ seguente leadership - all’interno delle Chiese al cui interno erano sempre più numerose le persone in possesso di un'approfondita educazione lette­ raria e filosofica. Mi riferisco ai modelli di perfezione predicati dalle scuo­ le filosofiche implicanti pratiche ascetiche quali il distacco dalle cose sen­ sibili, l ’esercizio della razionalità, il dominio delle passioni17. Su questo sfondo dominato dal conflitto delle interpretazioni Clemente difende con­ tro gli gnostici la validità della martyria come testimonianza davanti al giu­ dice e morte conseguente, ma afferma che essa può indicare anche l ’intera forma di vita, se conforme a determinate condizioni: «Se dunque la confessione in Dio è testimonianza, ogni anima che abbia eserci­ tato la propria condotta di vita in purezza e con conoscenza di Dio e abbia ubbi­ dito ai comandamenti, è martire con la vita e con la parola in qualunque modo si allontani dalla vita, versando quale sangue la fede per tutta la vita e soprattutto nella morte»18.

17 P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, nuova ediz. ampliata Torino 2005. 18 Clemente Alessandrino, Stromati 3, 15,3; cfr. Marco Rizzi, Martirio cristiano e protagonismo civico: rileggendo “Martyrdom & Rome” di G.W. Bowersock, in C. Bearzot-A. Barzanò (eds.). Modelli eroici dall’antichità alla cultura europea, Roma 2003, pp. 317-340 e M. R izzi, Il martirio come pragmatica sociale in Clemente Alessandrino, in «Adamantius» 9(2003), pp. 60-66.

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Per quanto maturata in circostanze storiche specifiche, l ’idea che una vita di perfezione morale e religiosa potesse essere definita come martirio trovò un terreno fertile già nel corso del in secolo e soprattutto nel iv per descrivere e sostenere la diffusione di altri modelli di santità. 2. Atti e Passioni dei martiri: una breve panoramica La raccolta di testi più usata per l ’affidabilità filologica e per l ’ampiez­ za e perspicuità del commento è quella di Herbert Musurillo19. Essa copre l ’arco cronologico che va dalle persecuzioni del π secolo fino a quella di Diocleziano e comprende 28 documenti che fieditore considerava «i più attendibili» o, nei casi più dubbi, almeno «estremamente importanti e istruttivi»20*. Pur segnalando le acquisizioni più recenti della ricerca, pren­ derò l ’edizione di Musurillo com e punto di partenza per offrire una prima descrizione dei testi più sicuramente databili e su cui tornerò più volte nel corso di questo capitolo. È necessaria una precisazione preliminare. N ell’indice dei testi sele­ zionati dall’editore si alternano due titoli: Atti e Passioni. Il primo è riser­ vato a quei documenti che contengono testi brevi e drammatici, basati sul dialogo del martire con il magistrato e privi di sviluppi descrittivi. Le Passioni, invece, accanto al processo, danno ampio spazio a considerazio­ ni didattiche e teologiche. Tuttavia se si va a vedere i titoli tramandati dalla tradizione notiamo che la distinzione non è così rigida. Nella stra­ grande maggioranza dei casi gli stessi termini μαρτύριοη e passio titola­ no testi appartenenti sia all’uno sia all’altro tipo, eccetto quelli relativi al processo di Cipriano, Acta proconsularia, e a quelli di Massimiliano e di Marcello, Acta. La tradizione manoscritta riflette l ’uso antico che utiliz­ zava per uni e per gli altri i titoli di martyria o passiones o gesta. L’esposizione di questa breve panoramica dei testi seguirà un criterio geografico che consente, m eglio di quello cronologico adottato dal Mu­ surillo, di radicarli nel loro contesto storico e di metterne in luce le dipen­ denze reciproche. 19 The Acts ofthe Christian Martyrs, Oxford 1972; altre edizioni critiche, oltre a quella citata so­ pra (η. 1): R. Knopf-G. Kriiger-G. Ruhbach, Ausgewàhlte màrtyrakten, Neubearbeitung der Knopfschen Ausgabe von G. Kriìger. Vierte Auflage mit einem Nachtrag von G. Ruhbach, Tiibingen 1965. Presentazioni generali: H. Delehaye, Les Passions des martyrs et les genres littéraires, Deuxième édition, revue et corrigée, Bruxelles 1966. Sulla tradizione latina: W. Berschin, Biographie und Epochenstil im lateinischen Mittelalter, Bd. i: Von der Passio Perpetuae zu den Dìalogi Gregors des Grossen, Stuttgart 1988, pp. 33-110; F. Scorza Barcellona, Agli inizi dell’agiografia occidentale, in G. Philippart (sous la direction de), Hagiographies. Histoire Internationale de la litte'rature hagiographique latine et vernaculaire en Occident des origines à 1550, t. ili, Turnhout 2001, pp. 17-97. 20 Musurillo, cit., xii.

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2.1. Oriente. Asia minore La Lettera della Chiesa di Smime descrive le vicende che portarono all’arresto e poi alla morte di Policarpo. In un primo momento, aderendo alla richiesta dei suoi, egli fugge dalla città e si rifugia in campagna. Là, mentre è immerso nella preghiera, ha una visione che gli permette di pro­ fetizzare la propria morte sul rogo. Fuggito anche da questo suo primo nascondiglio, si trasferisce in un altro podere; ma il tradimento di un servo lo fa scoprire. A questo punto Policarpo, pur avendo una via di fuga, deci­ de di farsi prendere. Dopo aver di nuovo pregato a lungo, viene issato su un asino e riportato in città. Prima di arrivarvi, viene sottomesso ad un primo interrogatorio da parte del capo della polizia Erode che cerca di persuaderlo a sacrificare. Policarpo rifiuta e viene introdotto nello stadio per comparire davanti al proconsole che tenta anch’egli di indurlo a giu­ rare sulla fortuna d ell’Imperatore. Dopo un breve colloquio, il proconso­ le ordina all’araldo di annunciare alla folla che Policarpo ha confessato di essere cristiano. I gentili e gli ebrei presenti si scatenano e chiedono a gran voce che sia arso vivo. Una volta acceso il rogo, le fiamme si dispon­ gono a vela intorno al suo corpo, così che viene ordinato di ucciderlo con la daga. Secondo l ’attestazione di tutta la tradizione ms greca e latina, dal suo corpo uscì una colomba e un fiotto di sangue che spegne il fuoco. Gli ultimi capitoli (17-20) descrivono il tentativo degli ebrei di Smime di impedire che i cristiani ottengano i resti di Policarpo. Il centurione fa cre­ mare il corpo, ma i cristiani ne raccolsero le ossa «più preziose di rare gemme e più pure dell’oro» e - continua il testo - «in quel luogo radu­ nandoci in esultanza e letizia ogni volta che ci sarà possibile, ci consenti­ rà il Signore di festeggiare la ricorrenza del martirio a memoria di quanti hanno affrontato la stessa lotta e a esercizio e preparazione di quanti l ’af­ fronteranno in futuro»21. Furono dodici i cristiani che, compreso Policarpo, morirono in quella persecuzione, ma il racconto - a parte un breve medaglione martirologico dedicato a Germanico - si concentra sulla testi­ monianza di Policarpo. La Chiesa di Smirne sembra aver avuto un’attenzione particolare nel produrre e nel tramandare i testi relativi ai suoi martiri più illustri: accan­ to al Martirio di Policarpo e a una Vita di Policarpo che però la maggio­ ranza degli studiosi ritiene redatta nel iv secolo22, troviamo il Martirio di

Pionio. 21 Martirio di Policarpo 18, 2-3. 22 Lo studio di A. Stewart-Sykes, The Life ofPolycarp. An Anonimous “Vita" from Third Century Smyrna, Sydney 2002, ha però di recente riaperto la questione, proponendo una datazione più antica.

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Il redattore afferma di seguire uno scritto lasciato dallo stesso martire «in memoria del suo insegnamento»23. Il Martirio si presenta come un testo composito: una parte dello stesso Pionio, sacerdote e retore di spic­ co, comprendente, oltre ai lunghi discorsi che il martire rivolge alla folla n ell’agorà e poi in prigióne davanti ai suoi fratelli nella fede, anche il resoconto dei due processi sostenuti n ell’agorà e poi davanti al proconso­ le. In questa parte si fa riferimento all’esistenza di documenti processuali che sarebbero stati alla base del racconto di Pionio24. C ’è poi l ’intervento di un redattore anonimo cui dobbiamo certamente il prologo e la descri­ zione della morte avvenuta nello stadio, ma che ha ritoccato tutto il testo, sia trasformando il racconto in terza persona, sia sottolineando il collega­ mento della vicenda di Pionio con quella di Policarpo25: Pionio morì sul rogo il 12 marzo del 250 come è indicato dal Martirio stesso26. È un’in­ dicazione che si scontra con quella di Eusebio che lo riferisce all’epoca di Marco Aurelio27. La bibliografia più recente dà credito alla datazione del martirio nel 250 e ritiene risalente al in secolo anche la redazione soprat­ tutto sulla base della ricchezza e affidabilità delle informazioni sulla topo­ grafia di Smirne e i vari aspetti della vita cittadina28. Gli Atti di Carpo, Papilo e Agatonice, giustiziati a Pergamo, contengo­ no il resoconto del loro processo in forma di verbale giudiziario; Eusebio aveva inserito nella sua raccolta delle testimonianze sugli antichi martiri29 un documento che li riguardava. Il testo greco e il testo latino in nostro possesso divergono su più punti ed è difficile chiarirne i rapporti recipro­ ci. Il testo, inoltre, non reca nessuna indicazione utile per la datazione: Eusebio30 li colloca al tempo di Marco Aurelio mentre la recensione lati­ na li colloca durante la persecuzione di Decio.

23 Martirio di Pionio 1,1. 24 Martirio di Pionio 9, 1; 19, 1. 25 Pionio è arrestato il giorno dedicato alla festa di Policarpo, «il giorno del grande sabato»: Martirio dì Pionio 2, 1; è definito come Policarpo «uomo apostolico»: 1, 1 e Martirio di Policarpo 16,2: «Maestro apostolico». 26 Martirio di Pionio 23. 27 Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 4, 15, 46-47. 28 Le martyre de Pionios, prétre de Smyrne, édité, traduit et commenté par L. Robert, Washington 1994. 29 Cfr. infra, n. 154. 30 Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 4, 15, 48.

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2.2. Alessandria Per quanto riguarda il periodo precedente alle persecuzioni dioclezianee, Alessandria è poco rappresentata. N ella sua Storia ecclesiastica31, Eusebio riferisce ampiamente del martirio di Potamiena, una giovane alessandrina che insieme alla madre Marcella, fu condannata al rogo in­ torno al 208 dopo aver sopportato torture spaventose e quello di Basilide, un soldato che, dopo aver assistito al martirio di Potamiena, si rifiutò di fare un giuramento e fu pertanto individuato com e cristiano e condannato alla decapitazione. Diversamente da quanto avviene in altri casi, Eusebio non precisa su quali documenti si sia basato per narrare questi eventi. Sulla persecuzione dioclezianea in Alessandria abbiamo la lettera32 che Filea vescovo di Thmuis scrive alla sua Chiesa dal carcere per rac­ contare le sofferenze dei martiri che erano con lui. Le ultime fasi del pro­ cesso cui fu sottoposto lo stesso Filea - prima a Thmuis, poi ad A les­ sandria. - sono conservate dagli Atti di Filea di Thmuis la cui com plica­ ta tradizione merita un discorso a parte che farò tra breve. Gli Atti pre­ sentano Filea com e un dignitario di Alessandria33; lo stesso magistrato che lo interroga afferma che Filea è in grado di mantenere non solo se stesso e la sua fam iglia ma l ’intera città di Thmuis e che per questo lo ha risparmiato fino a quel momento34. L’elevata condizione sociale di Filea si riflette anche nel livello del dialogo con Culciano, il magistrato che lo interroga. Questi appare essere almeno vagamente informato sulle cre­ denze cristiane. Le risposte del vescovo trasformano il processo in un’apologià delle principali dottrine cristiane: il rifiuto dei sacrifici; la resurrezione e la divinità di Gesù. Un tema ricorrente è la difesa della ra­ zionalità del comportamento di Filea, difesa anche con il ricorso all’e­ sempio di Socrate, che non tradì le sue convinzioni, malgrado le pressio­ ne degli amici e dei congiunti35.

31 Eusebio, Storia ecclesiastica 6, 5. 32 Tramandata sempre da Eusebio, Storia ecclesiastica 8, 10. 33 Atti di Filea, Papiro Bodmer 1. 34 Atti di Filea, Papiro Bodmer 15. 35 Atti di Filea, Papiro Beatty 7.

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2.3. Occidente. Le Chiese africane36 Da quest’area proviene il gruppo più numeroso di testimonianze di cui il più antico, gli Atti dei martiri di Scillium (una borgata della Numidia) è anche il primo documento cristiano di lingua latina che possediamo. Un gruppo di dodici martiri compaiono davanti al proconsole Saturnino il 17 luglio del 180: il dialogo avviene principalmente fra il magistrato e Sperato. Pur rifiutandosi di giurare per il genio delflmperatore e dichia­ rando la propria fede nel Dio unico, Sperato afferma di avere osservato le leggi romane in materia di onestà e di pagamenti dei tributi. Il magistrato non gli consente di esporre il contenuto della propria fede, ma cerca di offrire l ’occasione di un ripensamento proponendo una sospensione. I martiri rifiutano proclamandosi cristiani e Saturnino emette la sentenza condannando tutti alla pena capitale. «Dissero tutti: “Siano rese grazie a D io” e subito furono decollati per il nome di Cristo. Amen», sono le ulti­ me parole degli Atti. Della Passione di Perpetua e Felicita possediamo una recensione lati­ na e una greca; fra gli studiosi prevale la convinzione che la Passione sia stata redatta originariamente in latino, ad eccezione della visione di Sa­ turo. Si tratta di un testo composito che riunisce documenti di diversa pro­ venienza: il diario di prigionia scritto da Perpetua, la descrizione della visione redatta da Saturo, suo compagno di martirio; i testi di raccordo di un compilatore (anonimo, malgrado i tentativi di identificarlo con Ter­ tulliano) che redige il prologo, l ’epilogo e racconta il martirio di Perpetua e dei suoi compagni37. La Passio non indica esplicitamente né il luogo, né la data del martirio; dall’allusione all’anniversario di Cesare Geta (7,13; 16,2) ricaviamo che il martirio ebbe luogo molto probabilmente nel 203 a Cartagine. Dopo un’introduzione su cui torneremo, la scena si apre sull’arresto di un grappo di cristiani fra cui appunto Felicita (di condizione servile?) con il marito Revocato e una giovane madre di 22 anni, Vibia Perpetua: «di buona famiglia, ben istruita, degnamente maritata». Ella ha ancora il pa­ dre, la madre, due fratelli, di cui uno catecumeno come lei e un figlio che sta ancora allattando38. Il racconto prosegue con le parole di Perpetua; in modo semplice e toccante ella descrive l ’insistenza del padre per farla rin-

36 Presentazioni generali: V. Saxer, Afrique latine, in Hagiographies cit., 1 . 1, Tumhout 1994, pp. 25-95. 37 Passion de Perpétue et de Félicite suìvi des Actes, introduction, texte critique, traduction, commentaire et texte par J. Amat (SC 417), Paris 1996, pp. 51-78. 38 Passione di Perpetua 1-2.

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negare, il suo battesimo, il primo angoscioso contatto con la prigione, la preoccupazione per il figlio che le viene però concesso di allattare. Gran parte del suo racconto è dedicato alle sue visioni durante la prigionia: nella prima Perpetua vede una scala cui sono appesi strumenti di tortura e su cui può salire soltanto calpestando un draco enorme. In cima l ’aspetta un giardino e un uomo anziano in veste di pastore che le dà da mangiare un boccone di formaggio. È lei stessa a fornirne la chiave di interpretazio­ ne: «Comprendemmo di stare per soffrire e cominciammo a non riporre ormai nessuna speranza nel mondo»39. Un altro penoso incontro con il padre e il breve processo sfociato nella condanna alle fiere, precede la nar­ razione di altre due visioni che riguardano il fratellino Dinocrate morto per malattia in tenera età. Nella prima le appare lacero, deturpato in volto, assetato, che cerca di bere da una vasca dall’orlo troppo alto. Perpetua allora prega per lui ed ecco che nella seconda visione Dinocrate le appa­ re in buona salute che gioca con l ’acqua e si disseta: «Qui mi svegliai ella dice - e compresi che era stato liberato dalla pena»40. L’ultima visio­ ne di Perpetua riguarda il combattimento con un Egizio, il demonio, che ella affronta coraggiosamente nell’arena riportando la vittoria: «Compresi che non era contro le fiere che avrei dovute combattere, bensì contro il demonio, ma sapevo che avrei vinto»41. Qui cessa il racconto di Perpetua. La Passione prosegue con la visione di Satiro del giardino meraviglioso che li attende e d ell’incontro con un vescovo e un sacerdote che si getta­ no ai loro piedi. Dal capp. 15 fino alla fine si descrive il parto di Felicita in carcere; la sua gioia di non dover essere separata da Perpetua nel momento cruciale del martirio: «Gioiva di aver partorito senza danno e di poter combattere contro le fiere, passando da sangue a sangue, dall’oste­ trica al reziario, decisa di ottenere dopo il parto un secondo battesimo»42. Sopravvissuti ad un primo scontro con le fiere, i martiri sono condannati ad essere uccisi con la spada. Dopo Perpetua e i suoi compagni, subì il martirio a Cartagine anche Cipriano vescovo di quella città (f 258), una delle figure più rappresenta­ tive della Chiesa del suo tempo. Il dossier che lo riguarda è tra i più ric­ chi di testimonianze. Vi fanno parte gli Acta in cui la critica ha individua­ to tre strati redazionali: i capp. 1,1-2,1 riportano la prima udienza in cui Cipriano compare davanti al proconsole Aspasio Paterno il 30 Agosto del 257. Il magistrato fa riferimento agli editti degli Imperatori Valeriano e

39 Passione di 40 Passione di 41 Passione di 42 Passione di

Perpetua Perpetua Perpetua Perpetua

4, 10. 8, 4. 10, 14. 18, 3.

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Gallieno che ordinavano di riconoscere i riti romani e incalza Cipriano chiedendogli cosa ha da dire: «Sono cristiano e un vescovo —risponde Cipriano —. Non riconosco nessun altro Dio all’infuori dell’Unico e Vero che ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che essi contengono. Questo è il Dio che noi cristiani serviamo con zelo, a cui giorno e notte eleviamo preghiere per noi, per tutto il genere umano e per la salu­ te degli Imperatori»43. Il magistrato, prendendo atto della sua determinazione e dopo un inu­ tile tentativo di indurlo a denunciare i presbiteri, condanna Cipriano al­ l ’esilio. La seconda parte (2,1-5) funge da raccordo con il secondo proces­ so: questa volta Cipriano compare davanti al proconsole Galerio Massimo che lo accusa di aver cospirato contro Roma e i suoi riti e lo condanna alla decapitazione (3-4). La terza parte racconta la morte e la sepoltura. Gerolamo attribuisce al diacono Ponzio, che avrebbe condiviso l ’ulti­ mo anno di vita di Cipriano, la stesura della vita et passio Cypriani44 re­ datta verosimilmente nel 259-260. L’autore si presenta come testimone degli eventi, ma deriva gran parte delle sue informazioni, per quanto riguarda la vita, dalle opere stesse di Cipriano e, per quanto riguarda la descrizione del processo e della morte, dagli Atti di Cipriano. Va anche rilevato che si tratta di una Vita sui generis in quanto il testo si presenta diviso in due parti di analoga ampiezza. La prima narra la vita di Cipriano soltanto a partire dal momento della sua conversione (248) concentrando­ si principalmente sulla sua figura di vescovo, spesso contrastato all’inter­ no della sua chiesa e alle prese con gravi divisioni interne, e la seconda è dedicata al processo e alla morte. La Passio Mariani et Jacobi e la Passio Montani et Ludi raccontano l ’arresto di due gruppi di martiri, rispettivamente a Lambesa e a Cartagine nella primavera del 259. Entrambi i testi danno largo spazio alle visioni che hanno per oggetto il martirio stesso, giardini bellissim i e fonti di acque cristalline, o altri martiri che incoraggiano i fratelli nella fede anco­ ra in carcere. Dalle visioni emergono preoccupazioni molto concrete: nella Passio Montani et Ludi , Flaviano afferma di aver avere interrogato Cipriano stesso per sapere se nel momento fatale si soffre molto. La rispo­ sta, che riflette ed esplicita osservazioni simili che si trovano in testi più antichi45, è rassicurante: «È un’altra carne quella che soffre, quando lo

43 Atti di Cipriano 1, 2. 44 Gli uomini illustri 68. 45 Cfr. infra, p. 81.

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spirito è in cielo. Il corpo non avverte nessun dolore, quando l ’anima si è votata interamente al Signore»46. Nella Passio Mariani, Emiliano trova modo di spiegare, tramite una sua visione, che i premi celesti riservati ai martiri sono diversi, graduati sulla base delle difficoltà della vittoria47. Gli Atti di Massimiliano riportano le fasi del processo di un giovane che rifiuta di prestare servizio militare e che per questo venne giustiziato a Teveste nel 295. Anche gli Atti di Marcello di Tangeri e gli Atti di Cassiano di Tangeri riguardano martiri militari che furono giustiziati nel 298. La Passione di Felice di Thibiuca racconta com e il vescovo sia stato arrestato in seguito al primo editto di Diocleziano che ordinava la conse­ gna delle Scritture e dei libri liturgici. Il processo avvenuto a Cartagine nel 303 è tutto incentrato sul rifiuto di Felice di consegnare i libri e termi­ na con la sua condanna a morte per ordine del proconsole Annio Annulino. Davanti allo stesso magistrato comparve l ’anno successivo Crispina di Tagora; gli Atti che la riguardano riferiscono nella forma del verbale giudiziario lo svolgimento del processo in cui la donna si rifiuta di sacrificare agli dèi e per questo viene condannata alla decapitazione. A questo corpus di documenti già consistente devono aggiungersi la Passione di Gallonio, recentemente scoperta, riguardante un gruppo di cristiani arrestati per aver violato il primo di editto di Diocleziano del 303 che comprendeva, oltre alla consegna dei libri sacri, anche il divieto delle assemblee liturgiche. Altri testi già noti, esclusi dalla raccolta di Musurillo, sono ora sostenuti da una diversa valutazione della loro atten­ dibilità. Mi riferisco a testi quali la Passione dei martiri di Thuburbo e quella dei Martiri di Abitina. Un discorso a parte, che farò più avanti, me­ ritano le cosiddette Passioni donatiste48. Gli Atti e le Passioni d ell’Africa latina consentono di rilevare l ’in­ fluenza che i testi martirologici più antichi hanno avuto su quelli succes­ sivi. La struttura così originale della Passio Perpetuae che Musurillo defi­ niva: «The archetype o f all later Acts o f Christian Martyrs»49 e gli Atti di Cipriano hanno lasciato, per esempio, un segno profondo sulla Passio Mariani e la Passio Montani sotto più aspetti: ripresa di temi e forme nar­ rative (le visioni) e concezioni martirologiche50. La quantità e l ’antichità delle Passioni africane appare ancora più rimarchevole se paragonata ai pochissimi testi relativi alle altre Chiese e si spiega sia per il rilievo tutto particolare attribuito al martirio in quella Chiesa anche successivamente 46 Passione di Montano 21, 4. 47 Passione di Mariano 8. 48 Cfr. infra, pp. 295 ss. 49 Musurillo, cit., xxv. 50 Analisi dettagliata in Saxer, Afrique latine, cit., pp. 43 ss.

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alla persecuzione dioclezianea51, sia alla luce della loro precoce utilizza­ zione liturgica che ne ha favorito la tradizione. N el Canone 36 del Con­ cilio di Ippona d ell’8 ottobre 393 si vieta di leggere in Chiesa letture diverse dalla Scrittura, ad eccezione però delle Passioni dei martiri nel giorno in cui si celebra il loro anniversario. La predicazione sui martiri di Agostino, vescovo di quella Chiesa, (t 430), contiene numerose testimo­ nianze in proposito52. 2.4. Roma Riferiti a questa Chiesa non abbiamo che tre documenti, di cui soltan­ to due vere e proprie Passioni. La scomparsa di Atti e Passioni è avvenu­ ta già in epoca antica, favorita dagli usi liturgici della Chiesa romana molto più cauta di quella africana. In una lettera del 598 ad Eulogio vesco­ vo di Alessandria che gli aveva domandato le gesta martyrum di cui Eu­ sebio di Cesarea aveva compilato una raccolta, Gregorio Magno era co­ stretto ad ammettere che prima di ricevere la lettera, non sapeva nulla sul­ la raccolta eusebiana e di non averla trovata né nell’archivio della Chiesa di Roma, né nelle altre biblioteche della città. La Chiesa romana possede­ va soltanto «raccolti in un unico codice i nomi di quasi tutti i martiri le cui passioni sono distinte per giorno e quotidianamente celebriamo in loro onore le solennità delle messe», nomi corredati soltanto dall’indicazione del luogo e del giorno della passione53. Al tempo di Gregorio la ricorren­ za della passione dei martiri, per quanto celebrata solennemente, non implicava l ’uso della lettura della Passio. Questo coincide con quanto afferma il Decreto Gelasiano, compilato in Gallia o nell’Italia settentrio­ nale nel vi sec., ma che è ritenuto espressione degli usi della Chiesa roma­ na. N ella sezione dedicata ai libri ammessi, si afferma che a Roma, secon­ do un’antica consuetudine, le Passioni dei martiri non venivano lette in chiesa, sia perché si ignorava chi le avesse scritte, sia perché su molte di esse gravavano dubbi di ortodossia. Tolomeo e Lucio sono i martiri romani più antichi di cui sia rimasta memoria. La loro vicenda è ricordata da Giustino, su cui torneremo fra breve, nella sua Apologia54 del cristianesimo indirizzata a ll’Imperatore 51 Cfr. infra, p. 296. 52 F. De Gaiffier, La lecture des Actes des Martyrs dans la prière liturgique en Occident. A propos du Passionaire hispanique, in «Analecta Bollandiana» 72(1954), pp. 143-145. V. Saxer, Morts,

martyrs, reliques en Afrique chrétienne aux premiers siècles. Les témoignages de Tertullien, Cyprien et Augustin à la lumière de Γarcheologie africaine, Paris 1980, pp. 200-208. 53 Ep. vm, 2. 54 Apologia 2, 2.

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Marco Aurelio. Tolomeo è vittima dell’odio di un marito che attribuisce alla conversione della m oglie al cristianesimo le proprie disavventure coniugali. Tolomeo era stato infatti il maestro di costei. Il caso di Lucio è quello di tanti altri racconti martirologici: durante il processo espresse apertamente il suo sdegno e gli venne rivolta la fatale domanda: sei anche tu cristiano? D all’inevitabile risposta affermativa conseguì l ’arresto e la condanna. Poco tempo dopo, lo stesso narratore di questi eventi subì il martirio. Giustino, insieme a Policarpo e naturalmente Cipriano, è uno dei pochi martiri di cui possediamo scritti e informazioni biografiche. Fu una per­ sonalità di rilievo della Chiesa romana impegnata nella difesa del cristia­ nesimo, nella lotta contro le eterodossie, nella polemica antigiudaica: in un passo autobiografico55 afferma di aver frequentato le principali scuole filosofiche del suo tempo prima di aderire al cristianesimo com e alla «vera filosofia» e una traccia di queste affermazioni sono presenti anche negli Atti, quando durante l ’interrogatorio Giustino sostiene di essersi dedicato allo studio di tutte le dottrine filosofiche, ma di aver aderito sol­ tanto alle «vere dottrine dei cristiani»56. Giustino, insieme ad altri marti­ ri, fu giustiziato a Roma, durante la prefettura di Rustico e dunque tra il 163 e il 168; il testo contenente gli Atti riguardanti il processo ci è perve­ nuto in tre recensioni greche; la media, contenuta nel manoscritto più anti­ co, è quella che gode di maggior credito. La differenza più cospicua riguardo alla più breve è un accenno alla sepoltura dei corpi. La terza aggiunge anche la descrizione delle torture inflitte ai martiri prima della decapitazione. Ad Apollonio Eusebio dedica un capitolo della sua Storia ecclesiasti­ ca-, lo presenta com e un uomo colto e dedito alla filosofia. Tradito da un servo, dovette presentarsi davanti a Tigidio Perennio che sappiamo essere stato prefetto del pretorio fra il 183 e il 185. Il martire pronunciò davanti al Senato una «dottissima apologia» che tuttavia non gli risparmiò la con­ danna a morte per decapitazione. Eusebio inoltre rimanda il lettore alla sua raccolta degli antichi martiri per conoscere «le parole del suddetto giudice, le risposte che diede all’interrogatorio di Perennio e tutta la dife­ sa sostenuta davanti al Senato»57. Gli Atti di Apollonio, che ci sono stati tramandati in tre versioni: greca, armena e latina, delineano la figura di Apollonio in modo coerente con la presentazione di Eusebio. Nel suo discorso di fronte al Senato, Apollonio presenta il cristianesimo com e una

55 Dialogo con Trifone 2-3. 56 Atti di Giustino, ree. B, 2. 57 Eusebio, Storia ecclesiastica 5, 21.

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forma di vita filosofica che insegna il dominio sulle passioni e stabilisce un paragone fra i martiri e i giusti della tradizione greca facendo l ’esem ­ pio di Socrate e citando Platone a conferma che proprio questo è il desti­ no dei giusti nel mondo58. Tuttavia l ’ampiezza del suo discorso, che tocca tutti i temi dell’apologetica cristiana coeva (critica ai sacrifici di sangue, assimilazione degli dèi ai demoni, critica alla venerazione delle statue), lo rende poco verosimile. Inoltre gli Atti presentano Apollonio come aposto­ lo, con il misterioso soprannome di “Saccea”; indicano come luogo di provenienza Alessandria e presentano Perennio come proconsole in Asia. Gli Atti sovrappongono all’Apollonio romano, l ’Apollo menzionato da At 18,24 che era appunto di Alessandria e da questa identificazione deriva anche il cambiamento del luogo del supplizio. Gli Atti divergono dal rac­ conto di Eusebio anche sulle modalità della morte: Perennio comanda che vengano fratturate le gambe ad Apollonio, (mentre Eusebio riporta l ’epi­ sodio com e riguardante il servo che lo aveva denunciato) e in questo pare consistere il martirio di Apollonio59. 2.5. La Gallia Il documento più importante è la Lettera dei martiri di Lione e Vienna inviata «ai fratelli d ’Asia e di Frigia» il cui testo integrale era stato inse­ rito nella raccolta dei martiri antichi redatta dallo stesso Eusebio6061e per noi perduta. Parti di questa lettera (mescolate con passi di altre?) sono stati poi inserite nella Storia ecclesiastica61. Il racconto è focalizzato sulle terribili sofferenze subite dai cristiani nel 17762, sul loro coraggio nel sop­ portarle e sul loro atteggiamento ispirato dall’umiltà e dal perdono verso coloro che, in un primo momento, avevano abiurato, ma che, in seguito, proprio grazie all’intervento dei martiri, affrontarono il martirio a loro volta. Chiamati a rispondere, oltre che della loro religione, anche delle ac­ cuse di incesto e cannibalismo, i martiri furono oggetto delle torture più atroci e di ripetute aggressioni da parte della folla. Il racconto non manca di soffermarsi su personaggi di eccezionale coraggio come Vettio Epagato che tentò di difenderli dall’accusa di empietà. Interrogato se fosse cristia­

58 Atti di Apollonio 40. 59 Sull’intricata questione: V. Saxer, Martyrium Apollonii Romani. Analyse structurelle et problèmes d ’autenticité, in «Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia» 5556(1982-1984), pp. 265-298. 60 Storia ecclesiastica 5, praef., 2. 61 Storia ecclesiastica 5, 1-2, 4. 62 Secondo la datazione più probabile e ricostruibile tramite Eusebio: cfr. T.D. Barnes, Eusebius and thè date of Martyrdoms, in Les martyrs de Lyon (177), Paris 1978, pp. 137-248.

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no, confessò la sua fede e «si unì alla schiera dei martiri»63. Blandina, una giovane schiava, resistette ai più atroci tormenti senza indietreggiare dalla sua confessione di fede: «Sono cristiana e da noi non si fa niente di ma­ le!»64. Anche Santo sotto i peggiori supplizi non aggiunse null’altro alla semplice confessione di fede. Il vescovo Potino, novantenne, minato nel fisico dall’età, ma forte neH’anima, confessò di essere cristiano e soppor­ tò coraggiosamente quei tormenti che lo portarono alla morte in carcere. Di Blandina, Santo, Attalo, Pontico, condannati alle fiere, viene poi de­ scritta nei dettagli la terribile morte. Rispetto ad altri temi - la descrizione delle sofferenze, i tentativi dei confessori di far recedere coloro che avevano abiurato dalla loro posizio­ ne, la sottolineatura d ell’atteggiamento mite dei martiri riguardo a costo­ ro - il momento processuale è poco rilevato, ma questo, come è stato osservato, può dipendere dal fatto che il redattore aveva interesse a met­ tere in ombra che, a partire da un certo momento, i cristiani vennero chia­ mati in giudizio non per la loro religione, ma perché accusati di crimini comuni. In un contesto in cui cerca di valorizzare il ruolo “cattolico” reci­ tato dai martiri lionesi nella polemica contro il montanismo, Eusebio pre­ senta com e proveniente dalla stessa graphé, il racconto di un sogno avuto da Attalo dopo il primo combattimento n ell’anfiteatro. In esso gli viene rivelato che un suo compagno di prigionia - Alcibiade - non si compor­ tava bene astenendosi dal cibo e dando scandalo agli altri. Eusebio poi attribuisce agli stessi martiri un testo in cui essi raccomandano il presbi­ tero Ireneo al papa Eleuterio. Esso comprendeva anche una lista dei mar­ tiri delle Chiese in cui era specificato quali di essi erano stati decapitati, quali esposti alle belve, quali morti in carcere e quali invece erano soprav­ vissuti alle prove. L’interpretazione complessiva della lettera cambia molto se si accetta­ no o meno questi ultimi due testi come parti integranti di essa. Secondo Nautin65, sarebbe stato proprio Ireneo il redattore della lettera scritta per combattere il rigorismo (non necessariamente montanista) delle chiese d’Asia; più recentemente Lòhr ritiene, invece, che questi siano stati colle­ gati artificialmente alla Lettera vera e propria che sarebbe estranea alle tematiche rigoriste66.

63 Storia ecclesiastica 5, 1, 11. 64 Storia ecclesiastica 5, 1, 19. 65 P. Nautin, Lettres et écrivains chrétiens des i r et me siècles , Paris 1961, pp. 33-61. 66 W.A. Lohr, Der Brief der Gemeinden von Lyon und Vienne (Eusebius, h.e. V, 1-2[4]), in Oecumenica et Patristica. Festschrifi W. Schneemelcher, Chambéry-Genève 1989, pp. 135-149. Si basa sulla ricostruzione delle varie fasi del processo di Saumagne Ch. ( t) et Meslin M., De la legan­ te' du procès de Lyon de l ’année 177, in «A.N.R.W.» n, 23, 1 (1979), pp. 316-339.

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3. Il problema dell’“autenticità” Le principali raccolte moderne di testi relativi ai martiri portano nel titolo il temine Atti. È una denominazione che, com e già sappiamo, non riflette la terminologia antica, ma segue la tradizione inaugurata dalla rac­ colta di testimonianze sui martiri curata da Thierry Ruinart che nel 1689 pubblicò gli Acta primorum martyrum sincera et selecta, la prima raccol­ ta che, mettendosi già con il titolo nel solco degli Acta sanctorum dei Bollandisti, faceva propri i metodi filologici e storici dello studio scienti­ fico dei testi agiografici: «Dopo i testi delle Sacre Scritture - scriveva in apertura della sua Praefatio generalis - che gli uomini di Dio ispirati dallo Spirito Santo ci lasciarono, non ci deve essere per noi nulla di più santo e più antico degli originali ed autentici Atti dei martiri che la veneranda antichità ci ha conservato integri fino ad oggi. Dal momento che, come affermano le Sacre Scritture (se. Me 13,11), le loro parole davanti alle autorità sono state pronunciate per ispirazione divina, ne consegue che le loro risposte alle domande delle autorità contenute nei loro Atti debbano a ragione considerarsi come oracoli divini. Né devono essere accolte con minore devozione le loro azioni, soprattutto i martìri, che non avrebbero potuto essere intrapresi, né portati a compimento senza l’impulso dello Spirito santo»67. Gli Acta, dunque, contenevano le parole e le azioni dei martiri; la con­ vinzione che fossero primigenia et genuina era fondata sulla certezza che essi riproducessero due tipi di fonti “autentiche”. In primo luogo, i verba­ li ufficiali dei processi —gli acta, appunto, secondo il significato del ter­ mine nel latino giuridico - che i cristiani avrebbero cercato in ogni modo di procurarsi e le relazioni di testimoni oculari alle varie fasi del processo che, mischiati nel pubblico, avrebbero preso nota di tutto - parole e fatti - per redigerli poi in bella forma e consegnarli ai vescovi o a chi svolge­ va tale compito per essere vagliati, approvati e diffusi. In secondo luogo, le descrizioni redatte dai martiri stessi dei processi e delle sofferenze da loro subite prima del martirio, conservate e tramandate ad opera di fratel­ li nella fede. La raccolta del Ruinart comprendeva centoventiquattro fra Atti e docu­ menti di altro genere relativi ai martiri ordinati secondo l ’ordine cronolo­ gico della data del martirio a cominciare da quello Giacomo fino ai mar­ tiri della fine del iv sec., vittime di pagani non ancora convertiti a Cri­ stianesimo ormai diventato religione dell’Impero. 67 Th. Ruinart, Acta primorum martyrum sincera et selecta, Paris 1689; n. ed.: Ratisbonae 1859,

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La raccolta di Herbert Musurillo ne contiene, come già detto, soltanto ventotto. Le ragioni del drastico ridimensionamento sono molteplici. Alcune sono di semplice opportunità editoriale, altre riguardano gli scopi immediati della selezione del Ruinart. Egli intendeva rintuzzare le critiche dei cristiani riformati al culto cattolico dei martiri; gran parte della sua praefatio è dedicata alla confutazione dell’opera di H. D odwell il cui tito­ lo - De paucitate martyrum, Oxonii 1684 - e la tesi principale: «la folla dei santi martiri che la Chiesa cattolica celebra (...) non sono altro che favole di monaci oziosi che le hanno divulgate impudentemente fra il volgo», suggeriscono già da soli i motivi della scelta così generosa del Ruinart. La ragione principale risiede però nella progressiva emancipazio­ ne della ricerca storica dagli intenti apologetici e nell’affinamento delle tecniche di indagine filologica e critica che hanno reso assai più proble­ matico il concetto di autenticità sulla base dei criteri formulati dal Rui­ nart68. Contro di essa, Geffkens, all’inizio del secolo scorso69, faceva nota­ re che la comparazione fra gli Atti dei martiri e le procedure legali dei processi non aveva senso poiché la conoscenza di tali procedure dipende­ va appunto dagli Atti stessi. Tuttavia, non mancano studi successivi, come quelli di Giuliana Lanata70, che insistono sul rapporto fra letteratura martirologica e i documenti processuali. In tempi più recenti, lo studio di papiri giuridici ha in parte colmato la lacuna segnalata da Geffkens, resti­ tuendoci alcuni testi da cui - per quanto in modo frammentario - si può avere una conoscenza diretta dei modi di registrazione degli atti proces­ suali, come della loro evoluzione fra π e iv secolo. Questo ha consentito di condurre, su basi metodologicamente più corrette, il confronto fra la forma del commentarius (questo era il nome tecnico del verbale giudizia­ rio) ricostruita sulla base dei papiri e alcuni testi martirologici. Questo tentativo è stato condotto, per esempio, da Bisbee71, in riferimento agli Atti di Giustino, al Martirio di Policarpo e agli Atti di Ignazio (da lui rite­ nuti contenere un nucleo del n sec.). I risultati contengono spunti interes­ santi che però incoraggiano alla prudenza: gli Atti di Giustino (soprattut­ to nella recensione B) paiono derivare dal commentarius, ma rispetto ad esso manca gran parte del formulario caratteristico. Il Martirio di Policar­ po rivela rilevanti rimaneggiamenti. In effetti tutta la situazione proces­

68 Un bilancio: B. Dehandschutter, Hagiographie et histoire. À propos des actes et des passions des martyrs , in M. Lamberigts-P. van Deun (eds.), Martyrium in Multidisciplinary Perspectìve. Memorial Louis Reekmans, Leuven, Un. Pr. 1995, pp. 295-301. 69 J. Gefcken, Die christliche Martyrien, «Hermes» 54 (1919), pp. 481-505. 70 G. Lanata, Gli Atti dei martiri come documenti processuali, Milano 1973. 71 G.A. Bisbee, Pre-Decian Acts of Martyrs and Commentarli, Dissertation Harvard University, 1986.

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suale ivi descritta è poco plausibile: il processo nello stadio; la mancanza dell’interrogatorio, la mancanza della sentenza da parte del funzionario e altri elementi più secondari. Il fatto che gran parte dei commentarii ci siano stati restituiti da papi­ ri che appartenevano a privati rafforza però quanto emerge da alcuni testi cristiani a favore della circolazione di copie dei verbali processuali. La testimonianza più affidabile è quella relativa al primo processo di Ci­ priano, le cui copie circolavano in Africa subito dopo il processo72. Sul rapporto fra copia del verbale e successiva riutilizzazione di essa in altri contesti il caso di Dionigi, vescovo di Alessandria ( t 264 o 265) è particolarmente significativo: nella lettera scritta per difendere l ’integrità del suo comportamento durante la persecuzione di Valeriano (257) e in quella precedente di D ecio (251), Dionigi riporta un breve riassunto del suo colloquio con il magistrato e, di seguito, per rafforzare la veridicità di quanto sostenuto, anche «le parole stesse dette da entrambi quali furono annotate»73. Delehaye ha analizzato in modo magistrale le due versioni che, se a prima vista sembrano completarsi vicendevolmente, lette sepa­ ratamente con maggiore attenzione lasciano un’impressione molto diver­ sa sia riguardo ai fatti sia riguardo alla caratterizzazione dei personaggi. Dionigi sostiene che il prefetto Emiliano avrebbe insistito a farlo abiura­ re, mentre dagli atti del processo egli appare piuttosto indifferente, anzi tollerante verso le credenze degli imputati a patto che essi rispettino le divinità romane. Inoltre nel suo resoconto Dionigi non fa menzione delle affermazioni di lealtà riguardo agli Imperatori, che invece sono riportate dal verbale ufficiale. Se i due resoconti ci fossero giunti separatamente osserva il Delehaye - non avremmo esitato ad accusare Dionigi di avere alterato i fatti o di avere reso male l ’andamento d ell’udienza. E tuttavia, scrivendo la lettera, egli era così poco consapevole di allontanarsi dalla verità, da corroborare la sua esposizione con un documento per cui sarem­ mo tentati di condannarlo74. Dal confronto emerge con chiarezza quanta cautela sia necessaria nell ’utilizzare i resoconti cristiani anche quelli indicati come Atti proconso­ lari che sembrano riprodurre “fedelmente” l ’andamento del processo. La semplicità della loro forma letteraria che sembra dare una maggiore garanzia di autenticità poteva in realtà favorire le imitazioni e le interpo­ lazioni. Gli Atti di Massimo che contengono un breve e asciutto resocon­ to del processo godettero in passato della massima fiducia, ma sono ora

72 Cipriano, Lettera 77, 2, 1. 73 In Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 7, 11, 2 74 Delehaye, Les Passions, cit., 307 e Lanata, cit., pp.

ss. 180-181.

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considerati tardivi, molto interpolati75 e pertanto esclusi dalle raccolte più recenti. A ll’estremo apposto i due interrogatori contenuti negli Atti di Cipriano ( t 258), appaiono quanto più vicino ci sia ad una trascrizione fedele dei documenti ufficiali. In altri casi, l ’attento esame dei documen­ ti rivela uno stadio della tradizione del testo vicina a quella primitiva, ma con interventi di rielaborazione letteraria già consistenti. È il caso degli Atti dei martiri scillitani. Alcune incongruenze fanno ipotizzare che il re­ dattore cristiano abbia, in certi casi, accorciato il documento di cui dispo­ neva, in altri casi, aggiunto in vista dell’utilizzazione liturgica come testi­ monia il finale già citato767. 3.1. Problemi di datazione e pluralità di tradizioni La letteratura martirologica presenta diversi ostacoli alla comprensio­ ne storica. Una prima difficoltà risiede nella datazione: la datazione del martirio e la datazione del racconto di tale martirio. Salvo rare eccezioni, i redattori degli Atti e Passioni o non sono interessati a fornire punti di riferimento cronologici assoluti oppure lo sono troppo e per questo talvol­ ta diventano sospetti. Ad esempio, il Martirio di Policarpo77 - fra i testi cui Hippolyte Delehaye riservava «une place d’honneur»78 in quanto rite­ nuti più storicamente affidabili - afferma che la ricorrenza del martirio deve essere ancora celebrata e possiamo forse dedurne che la redazione è avvenuta entro il primo anno dopo la morte di Policarpo o comunque in una data molto ravvicinata. Sulla data del martirio sono state avanzate, però, diverse ipotesi il 155/6 il 166/7 o il 177, anche se la prima sembra godere di maggior credito79. I documenti su cui disponiamo elementi sicuri per stabilirne la data di redazione sono in definitiva pochi: la Passione di Perpetua e Felicita, che è citata da Tertulliano nei primi anni del ili, è stata quindi redatta subito dopo gli avvenimenti80; gli Atti di Cipriano, almeno quelli relativi al pri­ mo interrogatorio, vennero fatti circolare quasi in presa diretta, quando ancora era vivo Cipriano. Se il presbitero Ireneo citato in chiusura della Lettera dei martiri di Lione è lo stesso che sarebbe diventato vescovo di quella città, avremmo anche in questo caso un elemento a conforto di una 75 Status quaestionis in Lanata, cit., p. 84. 76 Cfr. supra, p. 39; Saxer, Afrique latine, cit., pp. 35-39. 77 Martirio di Policarpo 18, 3. 78 H. Delehaye, Les légendes hagiographiques, Bruxelles 1906, p. 113. 79 Su questa come su altre questioni discusse del Martirio di Policarpo'. Dehandschutter, The Martyrium, cit. 80 Tertulliano, Sull’anima 55, 4.

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stesura del documento molto vicino agli avvenimenti. In altri casi, la testi­ monianza di Eusebio rappresenta per lo meno un termine ante quem: riguardo agli Atti di Carpo e Papilo, di Apollonio, di Pionio, sappiamo che egli aveva letto e raccolto la documentazione che a loro si riferiva anche se non siamo in grado di verificare in che misura tale documentazione corrisponda agli Atti in nostro possesso. Un altro ostacolo è rappresentato dal fatto che di molti testi esistono tradizioni plurime i cui rapporti reciproci sono spesso oggetto di valuta­ zioni divergenti. Riprendiamo l ’esempio del Martirio di Policarpo. A c­ canto al testo greco recensito nelle edizioni critiche, vi è quello tramanda­ to da Eusebio di Cesarea81. Le due tradizioni differiscono in molti punti: come interpretare tali divergenze? Bisogna pensare che ciò che manca nel testo citato da Eusebio, sia stato aggiunto in un secondo momento della tradizione? E nei punti in cui convergono, bisognerà concludere di trovar­ si di fronte ad uno stadio della tradizione più vicina al testo primitivo o piuttosto di fronte ad una contaminazione fra le due tradizioni testuali av­ venute nei secoli successivi a Eusebio? La comparazione fra le due tradi­ zioni ha posto la questione anche da un altro punto di vista: viene sottoli­ neato che Eusebio non solo cita, ma cita riscrivendo. Di conseguenza là dove Eusebio differisce, questo non significa di per sé che segua un testo diverso: potrebbe semplicemente adattare lo stesso testo ai propri fini comunicativi. Un altro caso interessante riguarda Agatonice che compare negli Atti di Carpo e Papilo: nel testo greco la donna compare alTimprovviso verso la fine del racconto. Trascinata dall’ammirazione per il coraggio dimo­ strato da Carpo e Papilo, si distende da sola sul palo per essere messa al rogo. Curiosamente il popolo la esorta ad avere pietà di suo figlio (mai nominato prima) ed esprime una forte disapprovazione per l ’ingiusta sen­ tenza (di un processo di cui non si fa parola). La tradizione latina, invece, riportali processo durante il quale alla donna vengono ricordati i figli che - secondo un motivo agiografico spesso ripetuto - ella affida alla provvi­ denza divina. Quando viene consegnata agli esecutori della sentenza (debitamente riferita) e svestita per essere messa sul rogo, il popolo espri­ me il proprio dolore. La recensio latina è più breve e quindi potrebbe far pensare ad un riassunto di quella greca; però sul processo di Agatonice il racconto è più ampio: in questo potrebbe avere avuto un ruolo l ’imbaraz­ zo suscitato dal gesto di Agatonice che a un certo punto potrebbe essere stato avvertito come un vero suicidio. Ma, d ’altra parte, neppure la recen-

81 Storia ecclesiastica 4, 15.

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sio greca è coerente, in quanto l ’accenno alla sentenza implicita nel grido della folla rimane incomprensibile. Il caso di Filea, vescovo di Thmuis in Egitto, martirizzato nel 306 (305?), è rappresentato da un dossier tra i più interessanti e significativi. Il primo a dare un resoconto succinto del processo e della morte è Eusebio di Cesarea a pochissimi anni di distanza, intorno al 3 1 182. Tra il 310 e il 350 vengono confezionati due papiri - Papiro Bodmer (= Bo) e il Papiro Chester Beatty (= Be) - che contengono un resoconto dettagliato di una parte del processo che si svolse a più riprese. Fra di essi ci sono molte dif­ ferenze di contenuto e di stile. Per quanto non possa considerarsi una copia pura e semplice del protocollo ufficiale del processo, Be che risali­ rebbe al 310-350 ha un’elaborazione letteraria meno accentuata di Bo, datato fra il 320 e il 350, che sembra correggere il primo in molti dettagli dando complessivamente un ritratto di Filea più “agiografico”. Accanto alla tradizione greca, c ’è quella latina costituita in primo luogo dalla tra­ duzione latina del testo di Eusebio eseguita da Rufino (403) discordante da quello eusebiano nella ridondante parafrasi retorica e nel collegare in un unico racconto due episodi che nella Storia ecclesiastica erano separa­ ti: il martirio di Filea e quello di Filoromo. In tempi recentissimi, la tradi­ zione si è arricchita di un altro testimone: la versione etiopica che, secon­ do il suo editore83, sarebbe la traduzione di un testo greco molto vicino a Be, di cui colmerebbe alcune lacune importanti, oltre che spostare la data­ zione tradizionale del 306 al 4 febbraio del 305. In questa complessa tra­ dizione, è significativo notare che, n ell’arco di pochi decenni, il resocon­ to del martirio di Filea era già soggetto ad adattamenti, se non nei tratti più importanti, almeno in vari aspetti di minore importanza. Il grado di attendibilità storica è talvolta giudicato sulla base di una precomprensione degli stadi di sviluppo della letteratura dedicata ai mar­ tiri. Sotto tale profilo, un documento privo di abbellimenti retorici, di lun­ ghi discorsi, che dà poco o nessuno spazio a elementi miracolosi, a rac­ conti inverosimili riguardo ai supplizi e alla relativa sopportazione dei martiri viene giudicato più affidabile di un altro in cui tali aspetti sono invece rilevanti. N elle sue linee generali il ragionamento ha una sua vali­ dità in quanto sono proprio questi aspetti a prevalere nella letteratura martirologica più tarda del v e vi sec. com e ha ben m esso in luce il Delehaye la cui distinzione fra Passioni storiche e Passioni epiche è ancora utilizza­ ta84. Tuttavia anche questa strada non è priva di insidie. Un esem pio può 82 Storia ecclesiastica 8, 9, 6-8. 83 A. Bausi, La versione etiopica degli Acta Phileae nel Gadla Samathat, Genève 2001. 84 Delehaye, Les Passions, cit., pp. 172 ss.

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essere illuminante: dopo aver esposto le caratteristiche principali di quel­ la letteratura martirologica tarda, il Delehaye osservava che, se si prescin­ de dall’elemento miracolistico, iv Maccabei presenta tutte le caratteristi­ che che danno alle passioni epiche la loro fisionomia così riconoscibile: lunghi discorsi del persecutore, altrettanto lunghe risposte delle vittime, torture spaventose etc. L’osservazione rimane a margine n ell’economia complessiva del libro, ma è tale da costituire un cuneo in grado di sbilan­ ciare l ’intera costruzione che si basa su una netta separazione fra gli Atti dei martiri più antichi e storicamente attendibili da quelli più tardi. Come sappiamo, iv Maccabei è un testo molto antico del primo secolo d.C.; una volta accantonata l ’idea che giudaismo, cristianesimo ed ellenism o siano state realtà facilmente circoscrivibili e separate, si deve ammettere che il modello letterario di una passione epica era già una presenza efficace nel­ l ’ambiente in cui operava l ’autore del Martirio di Policarpo. In effetti la ricerca contemporanea ha lavorato molto su questo testo per dimostrare i numerosi punti di contatto con i testi martirologici giudaici, in particola­ re con iv Maccabei: il commento di Buschmann85 al Martirio di Policarpo termina con una tabella sinottica ove su colonne parallele dedicate ai prin­ cipali testi martirogici giudaici e cristiani dei primi due secoli si possono contare ben 44 possibili punti di contato con iv Maccabei fra cui vengono segnalate corrispondenze di temi e elementi formali con il Martirio di

Policarpom. Ancora il Martirio di Policarpo offre spunti interessanti per compren­ dere la complessità dei problemi cui si va incontro quando si cerca di sta­ bilire l ’autenticità e/o l ’attendibilità di un testo a partire da un insieme di elementi precostituiti ritenuti caratteristici di un certo periodo storico e non di altri. Il caso del miracolo della colomba che esce insieme al san­ gue dal costato di Policarpo quando viene trafitto è estremamente signifi­ cativo: malgrado tutti i testimoni della tradizione greca e latina siano con­ cordi nel tramandare l ’episodio, gli editori e gli studiosi preferiscono eli­ minarlo come elemento miracoloso interpolato in un momento successi­ vo, fidandosi del testo citato da Eusebio che non lo riporta. In effetti, se un racconto così curioso fosse autentico, cioè, già presente nella tradizio­ ne più antica, questo rifletterebbe un’ombra consistente sull’affidabilità del racconto ritenuto in generale piuttosto aderente ai fatti.

85 Citato supra, n. 4. 86 Somiglianze da interpretarsi, più che a favore di un’influenza diretta, nel senso di una circola­ zione di idee e problemi cui i diversi gruppi religiosi tentavano di dare risposte autonome: E. Zocca, Il modello dei sette fratelli “maccabei” nella più antica agiografia latina, in «Sanctorum» 4(2007), pp. 101-127.

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Ma Eusebio, come ho già accennato, non si limita a citare il testo e d ’altra parte, secondo una ricerca recente, l ’episodio della colomba, non è affatto un elemento estraneo, ma è parte integrante di una com plessa rete di riferimenti biblici tesa a presentare Policarpo come “alter Christus”, dal cui fianco sgorgò sangue e acqua, come ora dal corpo del vescovo sangue e una colomba che n ell’esegesi coeva di M t 3,11 è associata all’acqua e allo Spirito. Non solo dunque l ’episodio della colomba risalirebbe al reda­ zione più antica del testo, ma sarebbe di questo una chiave interpretativa importante87. N elle diverse fasi della ricerca sul M a rtirio d i P olicarpo, sono stati giudicati ostacolo al pieno riconoscimento d ell’autenticità del testo molti elementi che sembravano riflettere uno stadio dello sviluppo del culto successivo al il sec.: il tema del martirio com e imitazione di Cristo, la pre­ senza di tratti miracolosi considerati caratteristici della produzione agiografica successiva; il cap. 18 in cui compare il culto del martire, accom ­ pagnato inoltre da considerazioni riguardanti il rapporto fra tale venera­ zione e quella dovuta a Cristo. Le soluzioni via via adottate sono state o la teoria dell’interpolazione88 oppure la proposta di una datazione più tarda dell’intero testo89. Molti di questi problemi interpretativi restano ancora aperti; tuttavia, l ’indirizzo prevalente della ricerca attuale e non solo sul M a rtirio d i P olicarpo è la consapevolezza sempre più chiara che la rielaborazione agiografica del martire è molto antica, intimamente lega­ ta alle prime descrizioni della morte per Cristo e - com e vedremo presto - sorretta da intenti di volta in volta edificanti, dottrinali, liturgici. 3.2. M a rtìri a pocrifi Quand'anche uno dei testi fin qui considerati si dimostrasse del tutto o in parte non attendibile riguardo agli eventi narrati, esso rimarrebbe co­ munque un documento storico riguardo al periodo in cui è possibile collo­ carne la redazione almeno approssimativamente. Può essere interrogato per mettere in luce la pluralità delle interpretazioni sul martirio, i conflit­ ti e gli scambi cui esse davano luogo, la costruzione dialettica dell’identi­ tà cristiana e d ell’identità di genere, la creazione di una struttura narrati87 R. Cacitti, ΤΟ ΚΑΤΑ ΕΐΑ ΓΓΕΛ ΙΟ Ν MAPTTPION. Narrazione storica e struttura liturgica nel ciclo agiografico smirneo, in La narrativa cristiana antica. Codici narrativi, strutture formali, schemi retorici, Roma 1995, pp. 217-236. 88 H. von Campenhausen, Bearbeitungen und Interpolationen des Polykarpmartyrìums, in Id., Aus der Friihzeit des Christentums. Studien zur Kirchengeschichte des ersten und zweiten Jahrhunderts, Tiibingen 1963, pp. 253-301. 89 S. Ronchey, Indagine sul martirio di san Policarpo, Roma 1990.

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va in grado di interpretare la violenza sociale e la sofferenza ingiusta90. Per questi e altri aspetti, gli A tti e le Passioni dei martiri di cui abbiamo discusso finora non possono essere studiati separatamente da altri raccon­ ti di martirio che, per quanto per altri versi manifestamente inattendibili, appartengono allo stesso periodo storico e che, per la loro grande diffusio­ ne, potevano attivare meccanismi di dialogo e scambio con altri racconti dello stesso tipo. M i riferisco agli A tti91 apocrifi di Paolo, Pietro, Tommaso e Andrea che sono stati redatti tra la metà del π secolo e la prima metà del in e che descrivono in modo avvincente le avventure, i viaggi e le imprese straor­ dinarie degli Apostoli con schemi narrativi semplici ed efficaci assim ila­ bili a quelli della novellistica antica92. L’Apostolo appare soprattutto come un missionario taumaturgo esorcista che, a causa dei successi della sua predicazione di un cristianesimo intransigente, finisce per essere sot­ toposto ad un processo e poi m esso a morte. Per quanto il racconto degli A tti d eg li A p o sto li canonici non dica nulla sulla morte degli Apostoli, neppure di Pietro e Paolo che ne sono i protagonisti, già agli inizi del π sec. c ’era chi affermava che gli Apostoli fossero tutti morti martiri93. I testi di cui parliamo colmavano questa lacuna narrativa dando largo spa­ zio a racconti di martirio. Il più famoso, anche per il successo iconogra­ fico, è forse quello di Pietro. Come gli altri eroi di questi racconti, Pietro predica una forma di conversione al cristianesimo che richiedeva anche l ’adesione alla castità. Un gruppo di donne, mogli e concubine di perso­ naggi influenti, aderiscono con entusiasmo al m essaggio d ell’Apostolo e questo crea un certo disappunto fra i loro uomini che si accordano per liberarsi di Pietro. L’Apostolo viene avvertito da una sua discepola del pericolo imminente e decide di fuggire da Roma. Sulla porta della città incontra il Signore cui Pietro chiede: «Dove vai Signore?» Dalla risposta l ’A postolo intuisce che è venuto per lui il momento di affrontare la morte in croce. Viene arrestato e condannato alla crocifissione per ateismo.

90 È la prospettiva dello studio di E.A. Castelli, Martyrdom and Memory, New York-Chichester 2004, pp. 10-32. 91 L’identità di titolo con gli Atti dei martiri potrebbe creare qualche confusione: gli Atti apocri­ fi degli Apostoli imitano la forma letteraria degli Atti degli Apostoli canonici. “Atti” è qui traduzione del greco praxeis (azioni) non di acta nel senso di documenti ufficiali caratteristico del latino giuri­ dico. Sugli Atti apocrifi: Écrits apocryphes chrétiens sous la direction de R Geoltrain et J.D. Kaestli, t. il, Paris 2005. 92 È indirizzo critico che risale allo studio di R. Sòder, Die Apocryphen Apostelgeschichten und die romanhafte Literatur der Antike, Stuttgart 1935; il giudizio tende ad essere più sfumato e a ricom­ prendere fra i modelli letterari anche i Vangeli diventati canonici: C.M. Thomas, The Acts of Peter, Gospel Literature and Ancient Nove!. Rewriting thè Past, Oxford 2003, pp. 3-13. 93 Policarpo di Smime, Lettera 9.

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Pietro chiede però di essere crocifisso a testa in giù e, dopo aver pronun­ ciato lunghi discorsi, alla fine muore e viene sepolto94. Gli A tti d i Paolo, redatti intorno al 150, contengono ben due racconti di martirio: quello, mancato, di Tecla, giovane bellissim a che abbandona il suo fidanzato in seguito alla predicazione di Paolo per abbracciare insie­ me alla fede in Cristo anche l’ideale della castità, e il martirio di Paolo che chiude la narrazione. Il fidanzato di Tecla fa imprigionare l ’Apostolo, ma la fanciulla, dopo aver corrotto le guardie, lo segue in prigione. Il gover­ natore libera l ’Apostolo non senza avergli fatto dare una bella dose di fru­ state, ma trattiene Tecla che per il suo silenzio davanti al governatore viene condannata al rogo al quale però sfugge miracolosamente. Arrestata una seconda volta, sempre a seguito di una denuncia da parte di un inna­ morato deluso, viene condannata a lottare contro le bestie: una prima volta viene legata su una leonessa feroce, ma questa si mette a leccarle i piedi; una seconda volta le vengono lanciati contro leoni e orsi che, però, si mettono a combattere fra di loro; una terza volta, destinata ad essere divorata dalle foche in una vasca d ’acqua, vi si getta spontaneamente con le parole: «nel nome di Gesù sono battezzata nel mio ultimo giorno»95, e con un gesto inaudito si somministra da sola quel battesimo che Paolo le aveva negato. Le foche fanno una brutta fine, fulminate dal lampo di luce che si sprigiona dal contatto dell’acqua con il corpo nudo e bellissimo della fanciulla. Una quarta volta viene legata per i piedi a due tori resi folli di dolore con ferri roventi applicati ai genitali, ma un fuoco apparso all’improvviso brucia le corde liberando Tecla. Il governatore alla fine si arrende e Tecla può ritornare da Paolo e in seguito recarsi a Seleucia ove, dopo aver operato molte conversioni, «si addormentò»96. Il racconto del martirio di Paolo non è meno straordinario: condannato alla decapitazio­ ne, dal collo privato della testa uscì latte invece di sangue e, dopo la morte, risuscitò per operare altre conversioni. Non è possibile neanche sfiorare la complessità dei problemi relativa alla tradizione di questi testi su cui disponiamo di pochi elementi certi riguardanti gli autori, il loro pubblico, l ’ambiente che li ha prodotti; baste­ rà qui sottolineare che, in certi casi, il racconto del martirio ha avuto, già nella fase più antica, una circolazione autonoma rispetto al resto del testo e questo può essere un segno che agli occhi di un lettore antico esso pote­ va essere assimilato agli altri racconti di martirio. Possiamo precisarne meglio i rapporti reciproci? È un aspetto che soltanto di recente ha susci­

94 Atti dì Pietro 33-40. 95 Atti di Paolo 4,8. 96 Atti di Paolo 4,18.

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tato l ’interesse degli studiosi; riguardo gli A tti di A ndrea, si è sottolineato com e essi presentino gran parte di quegli elementi che il Delehaye ritene­ va caratteristici della produzione agiografica più tarda: presenza massic­ cia d ell’elemento miracolistico; presentazione del martire com e superu­ mano; sovrabbondanza di discorsi; stereotipizzazione dei personaggi; in­ differenza totale per i fatti storici; iterazione inverosimile delle prove cui sottoposti i martiri97. Tutte osservazioni che potrebbero adattarsi perfetta­ mente agli A tti di Pietro o di Paolo su cui ci siamo soffermati. Ciò che qui interessa sottolineare è che anche questo tipo di documentazione mette in crisi la distinzione del Delehaye fra passioni storiche e passioni leggenda­ rie, soprattutto se le si considera espressione di fasi successive del discor­ so agiografico relativo ai martiri. Se si abbandonano le distinzioni artifi­ ciose del tipo canonico/non canonico oppure giudaismo/cristianesimo, si nota che gli A tti apocrifi, come già osservavo per tv M a ccabei, scompagi­ nano questa visione; sono la prova, infatti, di come quel modo di raccon­ tare i martiri fosse antico. 4. A utori e p u b b lico e ragioni d e l raccontare L’arco di tempo in cui sono stati redatti gli A tti e le Passioni più anti­ chi, fu un periodo di grande e tumultuosa creatività culturale: nelle Chiese cristiane apparvero personalità di spicco in grado di dominare la filosofia, la retorica, le tecniche filologiche di edizioni di testi e in grado di misu­ rarsi da pari a pari con i contemporanei pagani, eterodossi, ebrei. Le loro opere di grande impegno speculativo, esegetico e apologetico comincia­ rono ad essere lette e conosciute anche al di fuori delle cerehie cristiane: sto pensando a Giustino, Clemente Alessandrino, Origene in ambito gre­ co, a Minucio Felice, a Tertulliano e a Cipriano in ambito latino: tutti maestri capaci - sia pure con declinazioni diverse - di raffinatezza di scrittura e pensiero. Collocati su questo sfondo, gli A tti e le Passioni d ei m artiri colpisco­ no per alcune caratteristiche specifiche. E una letteratura che, per conte­ nuti e linguaggi, poteva essere compresa e apprezzata attraverso la lettura o l ’ascolto anche da un pubblico più largo e che potrebbe ora essere defi­ nita “di consumo”, per distinguerla da quella pensata e rivolta esclusivamente ai più colti98. 97 A. Hilhorst, Apocryphal acts as martyrdom texts, in N.J. Bremmer (ed.), The Apocryphal Acts of John, Kampen 1995, pp. 1-14 e il numero monografico: Tradizioni apocrife e tradizioni agiogra­ fiche. Fonti e ricerche a confronto, in «Sanctorum» 4(2007), pp. 7-149. 98 M. van Uytfanghe, L’hagìographie antique tardive: une littérature populaire?, in La “démocra-

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È una letteratura programmaticamente rivolta all’interno delle comu­ nità cristiane. Sono rari i riferimenti a testi o personaggi non appartenen­ ti alla tradizione giudaico cristiana. Essi si trovano in quei testi che riferi­ scono (o ricostruiscono) affermazioni di persone appartenenti ad un ceto sociale elevato: come vedremo fra breve Pionio oppure il vescovo Filea che menziona Socrate, com e colui che, pur di salvare la sua anima, non arretrò davanti alla morte". Negli Atti e le Passioni dei martiri il rapporto fra autore e testo assume tratti specifici. In certi casi, anche se talvolta ne viene menzionato il no­ me, la personalità di colui che compone e detta il testo rimane nel cono d’ombra di una scena in cui compare in primo piano la comunità ecclesia­ le, come soggetto collettivo in grado di garantire la veridicità di quanto è successo, di tramandarne la memoria e di interpretarlo. In altri casi, sono il martire e/o la martire stessi che contribuiscono alla com posizione del testo e provvedono che poi sia completato con il racconto della morte. Nella società antica il diritto alla parola - pronunciata o scritta - era rico­ nosciuto soltanto ad una schiera ristretta di uomini che vi era preparata da un lungo e costoso apprendistato. Qui lo stesso diritto matura in circostan­ ze e luoghi del tutto particolari che ci aiutano a comprendere perché in questi scritti la compattezza delle gerarchie di genere, sociali e ecclesia­ stiche opponga una resistenza minore alla rappresentazione culturale di avvenimenti riguardanti persone - laici, donne, persone di condizione ser­ vile - marginali, in qualche caso, consentendo loro di prendere la parola in prima persona. Con questo naturalmente non intendo dire che negli Acta e le Passiones tali gerarchie vengano ignorate: per esempio, non si può non notare che dei dodici che con Policarpo subirono il martirio, sol­ tanto di lui - vescovo - la comunità si ricorda in special m odo99100. Nella Passione di Perpetua e Felicita, è Perpetua - anche a prescindere dal suo diario - che nel racconto d ell’anonimo è presentata come figura dominan­ te e questo non è estraneo al fatto che fosse lei in quel gruppo di martiri ad appartenere ad un ceto sociale elevato. Nel periodo che separava l ’arresto dalla morte, la persona che aveva confessato la sua fede o stava per farlo godeva di una considerazione e una venerazione tutta speciale: la si riteneva già partecipe della gloria di Cristo e del mondo celeste101, eppure in grado di parlare ancora a questo mondo

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con l ’autorità derivante dal rapporto strettissimo con lo Spirito e con Cri­ sto stesso. Di qui il particolare significato di ogni loro atto e parola rite­ nuti, pertanto, meritevoli di essere riportati. Inoltre in quel periodo, che poteva essere di qualche giorno, ma anche di mesi e anni, i futuri martiri non erano affatto separati dalla comunità dei fratelli: la prigione o altri luoghi di reclusione come le miniere erano luoghi di aggregazione, di in­ segnamento, di preghiera, di lettura delle Scritture e di produzione di testi. Tali scambi non avvenivano solo fra coloro che erano in attesa di giudizio o di esecuzione, ma anche con i fratelli e le sorelle che, con mance gene­ rose, riuscivano ad entrare nei luoghi di detenzione oppure a stabilire scambi epistolari. La solidarietà e la continuità di comunicazione fra l ’intemo e l ’esterno del carcere non è solo testimoniata da fonti cristiane che potremmo sospettare interessate a fornire un quadro idealizzato della si­ tuazione, ma anche da una fonte pagana ostile ai cristiani precedente alla metà del π sec. (quindi precedente alla più antica Passio in nostro posses­ so!). Luciano di Samosata metteva in ridicolo la sollecitudine dei cristia­ ni riguardo a Peregrino nell’opera satirica La morte di Peregrino, un per­ sonaggio qui presentato com e un ciarlatano, ma che altre fonti antiche ritengono un filosofo102.1 cristiani della Palestina lo consideravano la pro­ pria guida spirituale e quando fu arrestato si adoperarono per liberarlo; non essendoci riusciti, se ne presero cura in ogni modo: «Fin dal primo mattino si potevano vedere anziane vedove e orfanelli in attesa davanti alla prigione, mentre i loro capi, corrotti i custodi, riuscivano persino a passare la notte aO’interno del carcere, insieme con lui. Qui dentro venivano ser­ viti pasti variati e si dava lettura ad alta voce dei loro libri cristiani; il nobile Peregrino - così infatti veniva chiamato - ebbe presso di loro il nome di “nuovo Socrate”» 103.

tisation de la culture” dans l ’Antiquité tardive, «Antiquité tardive» 9(2001), pp. 207-209; per l ’allar-

Il carcere dunque era anche un luogo di insegnamento e di produzione di testi ai quali i martiri collaboravano attivamente o si vuole far credere che abbiano attivamente collaborato: Perpetua, su cui torneremo tra breve, scrive in carcere il suo diario di prigionia; Satiro una sua visione; Flaviano si fa carico per conto dei fratelli che condividevano il carcere con lui di scrivere una lettera a nome di tutti contenenti fatti e visioni, lettera inseri­ ta poi nella Passio e completata con la narrazione degli eventi successi­ vi104; l ’anonimo redattore della Passio Mariani dice di aver ricevuto man-

gamento della letteratura di consumo fra n e in secolo, cfr. nello stesso numero monografico; G. Ca­ vallo, L'altra lettura. Tra nuovi libri e nuovi testi, pp. 131.135. Cfr. anche Saxer, Afrique latine, p. 86. 99 Cfr. supra, p. 38; riferimenti al mito greco anche nella Lettera dei Martiri di Lione·. Storia ecclesiastica 5, 1, 14. 100 Martirio di Policarpo 19. 101 Cfr. supra, pp. 81 s.

102 F. Ruggiero, La follia dei cristiani. La reazione pagana al cristianesimo nei secoli ì-v, Roma 2002, pp. 100-109. 103 La morte di Peregrino 11-13. Cito la traduzione di C. Ghirga, Milano 2004. 104 Passione di Montano, cfr. supra, p. 41.

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dato per questo dai martiri; Pionio lascia uno scritto che viene ripreso nel M artirio che lo riguarda; i quaranta martiri militari di Sebaste, che duran­ te la persecuzione dioclezianea, si rifiutarono di apostatare, per mano di uno di loro, scrivono in carcere il loro testamento spirituale e le disposi­ zioni riguardo ai loro corpi105. Al di là di queste considerazioni generali, va detto che ogni racconto di martirio ha motivazioni e cerca interlocutori suoi propri all’interno del­ le Chiese. Chi racconta, sia pure con diversi gradi consapevolezza, è por­ tatore di una precompresione del morire per la propria fede che gli deriva dalla cultura religiosa dell’ambiente in cui vive. Scrive, inoltre, sotto la spinta delle questioni che via via si ponevano all’intemo delle Chiese: co­ me si deve comportare il “vero” martire? Che conseguenze bisogna trarre dalla convinzione che le parole dei martiri sono ispirate dallo Spirito? Sono sullo stesso piano della Scrittura? Quale posto attribuire al martire laico in una Chiesa che si andava progressivamente strutturando intorno all’episcopato monarchico? Non possiamo qui che soffermarci su alcuni casi, la cui tradizione testuale è meno incerta di altri. 4.1. // Martirio di Policarpo e il Martirio di Pionio È interessante notare che il m edium adottato dalle Chiese di Smirne e di Lione sia stato una lettera. Si trattava di un genere circondato da un pre­ stigio particolare nelle Chiese cristiane dei primi due secoli. Paolo l ’ave­ va utilizzato per mantenere viva la sua presenza e il suo insegnamento presso le comunità cristiane che aveva fondato o che intendeva visitare. La venerazione che circondò le Lettere paoline raccomandò in seguito tale forma letteraria anche nei casi in cui la forma della lettera non era che una cornice per dare smalto apostolico e particolare autorità ad un messaggio di interesse generale destinato ad una lettura pubblica in contesti lontani da quello che lo aveva visto nascere. La lettera diventò insomma veicolo di forme letterarie di altra natura: om elie (vedi la L ettera a g li ebrei), apo­ logie (L ettera a D io g n etó ) o trattati esegetici (vedi la L ettera dello P seudo B arn aba) o, com e in questo caso, di racconti di martirio. Per quanto il racconto degli Sm im esi sia presentato come la risposta ad una richiesta della Chiesa di Filom elio di conoscere gli avvenimenti e si menzioni il nome di chi ha redatto il memoriale e di chi lo ha copiato106, 105 Testamento dei quaranta martiri di Sebaste 1,3; sui martiri militari: H. Delehaye, Les légendes grecques des saints militaires, Paris 1909; G. Crescenti, Obiettori di coscienza e martiri militari nei primi cinque secoli del Cristianesimo, Palermo 1966 e oltre pp. 372 s. 106 Passione di Policarpo 20, 1.2.

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la lettera si presenta come espressione di tutta una Chiesa che chiede di essere trasmesso anche «ai fratelli più lontani», per diventare patrimonio della memoria collettiva utilizzando la rete fragile, ma non per questo meno efficiente, dei contatti fra le diverse Chiese. Se diamo credito all’ap­ pendice aggiunta al M artirio di P olicarpo in un secondo tempo, è possi­ bile seguire il tragitto di una copia di questa lettera da Smime alla Gallia negli archivi del vescovo di Lione Ireneo e da Lione a Corinto e di qui di nuovo a Smime, dove un certo Pionio l ’avrebbe trovata, per ispirazione dello stesso Policarpo, ormai polverizzata dal tempo e poi ricopiata107108. Ho già citato l ’esordio della L ettera 109·; mi limito a richiamare l ’atten­ zione su alcuni aspetti. Il martire imitatore del Signore è una strattura interpretativa che, al mo­ mento della redazione di questo documento, è già tradizionale; si noterà tuttavia che essa viene fatta valere in riferimento ad un evento specifico: il differimento del martirio che viene fatto rientrare - con all’allusione ai fatti precedenti - nel disegno educativo del Signore su come deve essere la te­ stimonianza «secondo il Vangelo»109: finalizzata non solo alla propria sal­ vezza, ma anche a quella dei fratelli. L’episodio di Quinto serve a rafforza­ re il modello positivo di Policarpo, mostrando appunto l ’esito disastroso di un comportamento opposto a quello di Policarpo. Quinto, «Frigio e arriva­ to dalla Frigia solo da poco», prima si autodenuncia e persuade altri fratel­ li a farlo, poi, m esso alla prova, ritratta: «È perciò fratelli che non lodiamo quanti si consegnano di propria iniziativa: non è questo che insegna il Vangelo»110. Solo dopo quest’episodio, inizia il racconto su Policarpo e di come egli sia stato persuaso a nascondersi in un primo tempo. Nel testo sono numerosi gli spunti impliciti ed espliciti che suggerisco­ no un parallelismo fra Policarpo e Cristo: la sua cattura fu come quella di Cristo causata da un traditore per cui il testo richiama «il castigo di Giu­ da»111; le circostanze della cattura come le parole da lui pronunciate ricor­ dano quelle di Gesù; per entrare in città viene issato su un asino, la cattu­ ra e la morte avviene fra il venerdì e il «grande sabato»112. Tuttavia l ’a­ spetto della passione di Cristo su cui il redattore insiste è che il martirio di Policarpo (come la morte di Cristo) è stata espressione della volontà di 107 È un’appendice molto discussa cfr. H.Y. Gamble, Books and Readers in thè Early Church, New Haven-London 1995, pp. 110-116. 108 Cfr. supra, p. 29. 109 Concetto ribadito anche alla fine. Martirio di Policarpo 19, 1. 110 Martirio di Policarpo 4; cfr. A.R. Birley, Voluntary Martyrs in thè Early Church: Heroes or Heretics?, in II martirio volontario. Una storia condivisa nell'ebraismo, nel cristianesimo e nel­ l ’islam, in «Cristianesimo nella storia» 27(2006), pp. 99-128. 111 Martirio di Policarpo 6, 2. 112 Martirio di Policarpo 7, 1.

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Dio e non del singolo individuo. La datazione della Lettera è troppo anti­ ca per poter vedere un intento antimontanista; è possibile che essa discu­ tesse atteggiamenti entusiastici che più tardi avrebbero caratterizzato, in­ siem e ad altri elementi, il montanismo il cui epicentro era proprio la Fri­ gia da cui proveniva Quinto113. U n’altra molla importante del racconto di martirio è la necessità di ricordare come preparazione ed esercizio per quanto potrà accadere anche in seguito; in un momento in cui il martirio era un esito, non frequente, ma pur sempre possibile della propria scelta religiosa, il racconto di mar­ tirio assume anche un aspetto pedagogico: plasmare i comportamenti, suggerire cosa fare e cosa dire davanti all’autorità, arginare l ’ansia e l ’an­ goscia di fronte alla prova, offrire un sostegno efficace ad una pratica ripe­ tibile nel tempo in grado di riunire nel presente vicino alla tomba del mar­ tire il passato e il futuro: «E in questo luogo (se. la tomba di Policarpo) radunandoci in esultanza e letizia, ci consentirà il Signore di festeggiare la ricorrenza del suo martirio a memoria di quanti hanno affrontato già la stessa lotta e ad esercizio e preparazione di quanto raffronteranno»114.

Alla seconda metà del m secolo, come ho già accennato, appartiene il

Martirio di Pionio. Pionio è presbitero e personaggio di rilievo non solo nella comunità cristiana, ma anche negli ambienti che contano della città, com e dimostrano i numerosi tentativi di notabili e autorità di persuaderlo ad abiurare. Smime, oltre che ospitare una comunità ebraica importante, era una delle capitali della retorica del tempo; Pionio stesso è presentato com e un retore in grado di avere la meglio nei dialoghi con i personaggi che intervengono n ell’azione. Sullo sfondo di una Chiesa minacciata dalle defezioni, dalle denunce interne, dalla presenza concorrenziale della Sinagoga cui i cristiani di Smirne, sotto la pressione della persecuzione, erano tentati a rivolgersi, i discorsi di Pionio toccano tutti i registri retorici: l ’invettiva, l ’apologià, il lamento, la dimostrazione esegetica e razionale molto complessa, temi na­ turalistici. Pionio stesso o chi per esso vuole offrire un panorama com ple­ to della sua predicazione, nell’intento di lasciare a chi resta i propri logoi da studiare e da imitare suggerendo, inoltre, quando gli sembra di propor­ re un compito troppo difficile, anche strategie alternative115. 113 S. Ronchey, Indagine sul martirio di san Policarpo, Roma 1990, ipotizza una data di compo­ sizione molto più tarda, il iv secolo, che però non ha convinto la maggior parte degli studiosi. 114 Martirio di Policarpo 18, 3; cfr. Dehandschutter, Le martyre, cit., pp. 659-668. 115 Martirio di Pionio 14, 15.

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Pionio, prima che martire, è maestro; questo aspetto è preponderante non solo nei discorsi e nei numerosi dialoghi riportati nel testo, ma anche nel modo in cui Pionio vede se stesso in rapporto a Cristo: «Per quanto mi riguarda, per obbedire al m io maestro preferisco morire piuttosto di trasgredire le sue parole e combatto per non abbandonare ciò che prima ho appreso e in seguito insegnato»116.

Altri temi rimangono volutamente in ombra e fra questi colpisce la mancanza della descrizione talora compiaciuta delle torture e del loro effetto sul corpo del martire. Il fatto è intenzionale perché, per quanto Pionio, prima della condanna, venga percosso e torturato per indurlo al­ l ’abiura, il testo sottolinea la sua gioia nel constatare, prima di salire al rogo, che il suo corpo era rimasto integro e inviolato. Anche durante il supplizio del rogo, l ’attenzione del lettore è attirata sulla sua ironia, sul suo volto pieno gioia, sulla dolcezza della sua morte117. Collocato sullo sfondo delle altre Passioni e in particolare di quella di Policarpo che era certamente conosciuta e letta a Smirne, lo scritto lascia­ to da Pionio presenta dunque tratti originali: non intende mostrare come i deboli - in senso fisico o sociale - possano vincere l ’avversario superan­ do il timore della sofferenza e della morte, vuole piuttosto mostrare come la stessa battaglia possa essere sostenuta da un maestro cristiano colto e combattivo anche sul terreno dello scontro retorico e argomentativo con le autorirà trattate da una posizione di parità. Il prologo e le osservazioni conclusive che il redattore anonimo ha aggiunto allo scritto per offrire al lettore una chiave interpretativa dello stesso mettono bene in luce questo cambiamento di prospettiva, soprattut­ to quando afferma che, rispetto ai santi di cui Paolo raccomanda di tra­ mandare la memoria al fine di fortificare coloro che vogliono imitare «le cose migliori», Pionio merita di essere ricordato ancora di più poiché «quando dimorava in questo mondo convertì molti dall’errore com e uomo apostolico dei nostri giorni e quando infine fu chiamato dal Signore e rese testimonianza lasciò questo scritto a nostra ammonizione affinché avessi­ mo ora ricordo del suo insegnamento»118. Il confronto con quanto gli Smimesi dicono a conclusione della vicen­ da terrena di Policarpo è illuminante: anche Policarpo prima di essere martire è stato un «maestro apostolico e profetico»119. L’accento, però, cade sul martirio «secondo il Vangelo» che viene proposto come modello 116 Martirio 117 Martirio 118 Martirio 119 Martirio

dì Pionio 4, 7. di Pionio 21. di Pionio 1, 1-2. di Policarpo 16, 2.

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da imitare120 nelle ultime righe di un racconto in cui, per altro, la didaskalia ha scarso rilievo: Policarpo in effetti prega molto, ma, a parte il collo­ quio con il magistrato, non tiene alcun discorso. L’anonimo redattore del ih sec., invece, se cerca, per un verso, di stabilire collegamenti con la figu­ ra di Policarpo121 nell’intento di collocarlo accanto al vescovo nel “santorale” della chiesa di Sm im e122, per l ’altro, propone un modello diverso in cui è la didaskalia a costituire il fuoco del racconto. Il Martirio di Pionio non aspira a essere considerato un testo ispirato dallo Spirito e, com e tale, destinato ad una lettura liturgica e comunitaria; cerca i suoi lettori all’interno di una cerchia colta e socialmente non mar­ ginale che preferisce all’esibizione del sangue e dei corpi straziati le performances legate alla parola; all’entusiasmo carismatico il rigore degli argomenti. Una cerchia dalle cui fila erano già usciti martiri (si pensi a all’apologià pronunciata da Apollonio davanti al Senato romano), ma che cercava anche in altre città dell’Impero un’adeguata rappresentazione let­ teraria123. Sia pure da punti di vista e contesti culturali diversi, il Martirio di Pionio condivide con un testo coevo - la Vita e Passione di Cipriano lo stesso disagio di fronte ad un’esaltazione del martirio come carriera ouverte aux talents indipendente dalle consolidate gerarchie culturali e istituzionali: il Martirio di Pionio pone l ’accento su lla paideia e la dida­ skalia, l ’opera di Ponzio sottolinea di Cipriano gli stessi aspetti in quanto intrinsecamente legati alla carica episcopale. 4.2. La Passione di Perpetua e Felicita La Passione di Perpetua e Felicita, com e ho già detto, è un testo com ­ posito; tuttavia il fatto che Tertulliano lo citi a poco tempo di distanza dalla morte dei martiri rende verosimile la pretesa del redattore di essere un testimone dei fatti124. In altre parole, il prologo (e il breve epilogo che ne riprende il tema principale) non fanno figura di aggiunta posticcia ad un corpo estraneo rappresentato dagli scritti di Perpetua e di Saturo. Siamo piuttosto in presenza di un gruppo di persone che condividono, almeno in larga parte, i motivi dell’agire e dello scrivere. Mi soffermerò su Perpetua che è la protagonista125. La sua iniziativa di scrivere quanto le 120 Martirio di Policarpo 19, 1. 121 Cfr. per esempio Martirio di Pionio 2. 122 Cfr. il già citato studio di Cacitti. 123 Rizzi, Martirio, cit., pp. 317-340. L. Pernot, Saint Pionios, martyr et orateur, in G. Freyburger-L. Pernot (eds.), Du héros pai'en au saint chrétìen , Paris 1997, pp. 111-124. 124 Passione di Perpetua 1, 6. 125 Profilo complessivo: E. Prinzivalli, Perpetua, la martire, in A. Fraschetti (ed.), Roma alfem-

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stava accadendo va compresa sullo sfondo dell’interesse verso i sogni e le visioni presente in alcuni ambienti della Chiesa cartaginese e di cui l ’in­ vito rivolto da Tertulliano ai fedeli di annotare con cura le visioni di cui Dio può gratificare i fedeli è una spia significativa126. Tale invito è un tas­ sello d ell’adesione di Tertulliano al montanismo dove l ’esaltazione di esperienze estatiche e visionarie fonti di «nuove profezie» ispirate dallo Spirito si sposava con l ’esaltazione entusiastica del martirio. Elementi che si possono trovare anche nella Passio e, in effetti, la sua relazione con il montanismo è questione molto dibattuta. La bibliografia più recente pre­ ferisce parlare, più che di vero e proprio montanismo, di premontanismo, di un clima particolare caratterizzato dall’accentuazione della presenza dello Spirito giustificata sulla base degli Atti degli Apostoli e della predi­ cazione paolina127. L’oggetto principale della scrittura di Perpetua sono le sue visioni col­ legate da parti narrative - arresto, avvenimenti in carcere, processo, con­ trasti con il padre - che le preparano. Tutto è messo in moto dall’autoconsapevolezza di essere in grado di avere un rapporto del tutto particolare con lo Spirito a partire dal suo battesimo in carcere: è lo Spirito che le fa comprendere che per lei è possibile richiedere solo la grazia di saper resi­ stere al dolore128. La giovane donna è consapevole di poter «parlare con Dio», di chiedere e ottenere la grazia delle visioni e di saperne interpreta­ re il significato, di poter chiedere e ottenere al Signore la salvezza del fra­ tellino Dinocrate. Alla fine del suo diario Perpetua esprime l ’aspettativa che quanto ha scritto sia completato da altri129; un completamento necessario non tanto per assolvere fino in fondo ai compiti di cronaca, quanto piuttosto per legittimare e confermare quanto le sue parole hanno fatto intendere ed anticipato. Per questo l ’anonimo redattore che raccoglie il testimone della narrazione della morte di Perpetua e degli altri, si presenta come un ese­ cutore testamentario e pone anche la sua fatica sotto l ’emblema dello Spirito Santo: «Poiché lo Spirito ha permesso e, permettendolo, ha voluto che venisse posta per scritto anche la cronaca relativa ai fatti del circo, noi, seppure indegni di aggiun­ gere qualcosa alla descrizione di una gloria tanto grande, alleghiamo qui ad ese-

minile, Roma-Bari 1994, pp. 153-186. J.E. Salisbury, Perpetua’s Passion. The Death and Memory of a Young Roman Woman, Routledge 1997. 126 Sull’anima 9, 4. 127 Amat (SC 417), cit., 40. 128 Passione di Perpetua 3, 5. 129 Passione di Perpetua 10, 15.

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cuzione d ell’ordine o m eglio delle volontà testamentarie della santissima Per­ petua una testimonianza della sua forza e sublimità d ’anim o»130.

La descrizione della morte di Perpetua riprende in due punti essenzia­ li il racconto della stessa. Appena battezzata ella aveva chiesto la grazia di non soffrire e nell’arena affronta un primo assalto di una vacca ferocissi­ ma agendo senza accorgersi di nulla: «così intenso era stato il suo rapi­ mento nell’estasi e nello Spirito», commenta il narratore131. Saturo, che nella prima visione di Perpetua la precedeva sulla scala simboleggiante il martirio, la precedette anche nei fatti, morendo per primo132. N e ll’ultima visione ella aveva compreso di dover combattere contro il demonio e che ne sarebbe uscita vittoriosa: risparmiata dalla vacca viene condannata alla iugulazione, ma il gladiatore inesperto non riesce ad ucciderla al primo colpo; è lei allora a guidare la sua mano contro la propria gola. Un gesto di coraggio virile, tante volte osservato durante i giochi gladiatori133 che il redattore interpreta ( forse per attutirne l ’arditezza?) alla luce della lotta contro il demonio: «È da credere che una donna siffatta non avrebbe potu­ to essere uccisa se essa stessa non l ’avesse voluto: tanto grande era il timore che incuteva allo spirito immondo!». Il documentum del redattore dunque conferma con i fatti quanto Per­ petua aveva chiesto ed anticipato, dimostrando la fondatezza dell’auto­ consapevolezza carismatica di Perpetua: nella sua vicenda visioni e mar­ tirio sono aspetti connessi di un’unica grafia. Se non nella forma134, alme­ no per il contenuto, la voce di Perpetua e quella di Saturo convergono senza sostanziale soluzione di continuità con quella del redattore135, le une e l ’altra presentate come ispirate dallo Spirito. Tutte queste idee confluiscono nel prologo. Gli antichi esempi di fede («vetera exempla fidei») - esordisce l ’anonimo redattore - sono stati m es­ si per scritto in onore di Dio e per conforto per l ’uomo: perché allora non scrivere anche le nuove testimonianze che possono servire gli stessi sco­ pi? Se vengono ritenute di minore autorità rispetto a quelle antiche per il rispetto che suscita l ’antichità in se stessa, anch’esse un giorno - continua l ’anonimo - diventeranno antiche: 130 Passione di Perpetua 16, 1. 131 Passione di Perpetua 20, 8. 132 Passione di Perpetua 21, 8. 133 Amat (SC 417) cit., 261. 134 Sulla discontinuità fra lo stile del redattore (un “demi-lettré” che si sforza di fare opera lette­ raria alla maniera degli scrittori sacri) e quello di Perpetua: J. Fontaine, Aspects et problèmes de la prose d ’art latine au tip siècle, Torino 1968, p. 75. 135 Questo aspetto è particolarmente sottolineato da E. Corsini, Proposte per una lettura della Passio Perpetuae, in Forma futuri. Studi in onore del Cardinale Michele pellegrino, Torino 1975, pp. 481-541.

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«Noi che riconosciamo e onoriamo com e parimenti contenute nella promessa divina sia le nuove profezie, sia le nuove visioni e che consideriamo le altre mani­ festazioni della potenza dello Spirito com e parte della Scrittura su cui si edifica la Chiesa (...) sentiamo il dovere di scriverle e di proclamarle tramite la lettura pubblica ( lectione) a gloria di D io » 136.

A differenza delle Lettere esaminate prima che si presentano come documenti di una comunità ecclesiale che si rivolge ad altre Chiese, la Passione di Perpetua è il m essaggio di un gruppo di fedeli alla propria Chiesa a cui vuole offrire un quadro interpretativo degli eventi che valga per quelli che erano stati presenti e che sono ancora fra il pubblico, ma anche per le generazioni a venire137. In un momento in cui il canone delle Scritture non aveva ancora raggiunto la sua forma definitiva e potevano ancora sussistere margini di discussione, l ’anonimo redattore difende il diritto a scrivere nova documenta e a pretendere per essi una lettura litur­ gica e comunitaria. Lo fa con una veemenza polemica tale da fare qualche luce sulle resistenze che all’inizio del ni sec. potevano circondare la reda­ zione delle Passioni quando esse veicolavano opinioni potenzialmente sovversive riguardo al principio autoritativo di antichità, principio larga­ mente condiviso e utilizzato nello stesso tom o di tempo sia nella polem i­ ca fra gruppi religiosi diversi - ebrei, cristiani e pagani - sia in quella intraecclesiale fra gruppi di diverso orientamento teologico138. E specialmente quando affrontavano il rapporto con la Scrittura; un rapporto com ­ plesso che accompagna costantemente lo sviluppo del discorso agiografi­ co assumendo due aspetti distinti: il ruolo recitato dai testi agiografici nella cristianizzazione accanto o in concorrenza con la Bibbia e l ’autoco­ scienza dell’agiografo riguardo alla relazione della sua opera con la Bib­ bia139. Un altro punto delicato, soprattutto se paragonato agli altri docu­ menti esaminati sopra, poteva essere, ad esempio, l ’esaltazione della fi­ gura di Saturo140, anch’egli presentato come visionario illuminato dallo Spirito Santo che si era consegnato spontaneamente alle autorità, secondo una prassi esaltata all’interno dei gruppi di entusiasti, ma scoraggiata e condannata dalle gerarchie ecclesiastiche. In tempi successivi, le reazioni di Agostino alla lettura della Passio sono illuminanti delle questioni e

136 Passione di Perpetua 1, 1-6. 137 Passione di Perpetua 21, 11. 138 T. Sardella, Strutture temporali e modelli di cultura: rapporti tra antitradizionalismo storico e modello martiriale nella Passio Perpetuae et Felicitatis, in «Augustinianum» 30(1990), pp. 259-278. 139 M. Van Uytfanghe, Le calte des saints et l'hagiographie: les avatars d ’une relation ambigue, in Santi e demoni nell ’alto medioevo occidentale (Settimane di Studio del Centro italiano di studi sull ’alto Medioevo 36) Spoleto 1989, pp. 155-202. 140 Passione di Perpetua 4, 1.

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imbarazzi che continuava a suscitare: precisa che non è Scriptum141; sot­ tolinea che dall’episodio di Dinocrate non può essere dedotta la conces­ sione del perdono del peccato originale ai bambini morti prima del batte­ sim o142; giustifica la preminenza accordata alle donne sugli uomini con il fatto che il loro trionfo è più eclatante a causa della fragilità femminile143.

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«Se a gente del popolo (plebei) e a catecumeni i nostri maggiori hanno sentito il dovere di rendere così alto onore - appunto per la venerazione dello stesso mar­ tirio - da darci per scritto una narrazione diffusa e, quasi direi, esauriente della loro passione (...) sarebbe intollerabile che si passasse sotto silenzio la passione di Cipriano, sacerdote e martire così illustre, il quale anche senza martirio seppe essere nostro maestro, e che non divenisse manifesto quant’egli fece mentre era ancora in vita»145.

4.3. «Perfecta corona»: Vita e passione di Cipriano La Vita et Passio Cypriani si differenzia dalle altre Passiones fin qui considerate per la parte dedicata agli avvenimenti che precedono la passio vera e propria; per questo motivo, il problema della sua classificazio­ ne aH’intemo dei generi letterari è stato oggetto di molte discussioni so­ prattutto in ordine alla questione se debba essere considerata o meno la prima biografia cristiana144. L’aspetto che qui interessa è il motivo che ha spinto Ponzio ad ampliare il suo discorso agiografico su Cipriano acco­ gliendo nel suo racconto anche una parte della vita. Bisogna innanzitutto tenere presente che nei cinquant’anni che separano la Passione di Per­ petua dalla Vita e passione di Cipriano, i martiri e i confessori - soprat­ tutto in una Chiesa come quella africana di carattere rigorista - erano stati al centro di discussioni accese e persino di scismi. L’elezione di Cipriano all’episcopato e la sua fuga da Cartagine al tempo della persecuzione di Decio avevano suscitato gravi divisioni e critiche; inoltre durante il suo episcopato era venuto in piena luce il nodo del rapporto fra il potere del vescovo che in quei decenni stava assumendo caratteri sempre più spicca­ ti di un episcopato monarchico fondato sulla successione apostolica e il potere del martire confessore che reclamava lo stesso potere su un fonda­ mento diverso di tipo carismatico. Il prologo è molto esplicito riguardo alle finalità che si propone. Fin dalle prime battute, Cipriano è presentato come vescovo e uomo di lette­ re: i suoi scritti, da soli, - afferma Ponzio - sono sufficienti a garantirne il ricordo «usque ad finem mundi»; egli vuole però presentare opera et merita, per tramandarne una memoria non solo legata all’ammirazione letteraria, ma per proporre un modello da imitare:

141 Agostino, Sulla natura e origine dell'anima 1, 10, 12. 142 Agostino, Sulla natura e origine dell’anima 3, 9, 12. 143 Agostino, Sermone 282, 3. 144 Come sosteneva A. von Hamack, Das Leben Cyprians von Pontius. Die erste christliche Biographie, Leipzig 1913; status quaestionis: in Vita di Cipriano. Vita di Ambrogio. Vita di Agostino, a cura di Ch. Mohrmann e A.A.R. Bastiaensen, traduzioni di L. Canali-C. Carena, Milano 1975, xivXVI.

Alla fine del racconto questi temi vengono ripresi sinteticamente: Cipriano, esempio di ogni virtù, fu il primo vescovo africano a morire martire «primo di tale schiera dopo gli apostoli». A ben guardare, il mar­ tirio di Cipriano non rischiava affatto di essere dimenticato dal momento che prima dello scritto di Ponzio, circolavano già nella Chiesa di Cartagine gli Acta relativi alle due fasi del processo di Cipriano. Certo, paragonati alla Passione di Perpetua e di Felicita cui Ponzio fa certamen­ te riferimento citando «plebei et catecumini»146, gli Atti proconsolari molto sobri e privi di visioni - a parte un accenno alla premonizione della morte147 - potevano non apparire sufficienti ad assicurare a Cipriano una preminenza nel culto e nella venerazione dei fedeli. Per questo egli insi­ ste sul fatto che quella di Cipriano è perfecta corona che riunisce carica episcopale, virtù e martirio che entrano così a far parte del discorso agio­ grafico dando vita ad una forma letteraria originale che troverà ulteriori sviluppi in Eusebio di Cesarea148. L’opera di Ponzio appare ispirata dal desiderio di rafforzare agli occhi del «beatus ecclesiae populus»149 il pre­ stigio del sacerdozio presentando non solo un martire, ma anche un vesco­ vo: ne ricorda infatti la continentia, la vendita dei propri beni a favore dei poveri, il soccorso alla città colpita da una grave pestilenza, il portamen­ to dignitoso e lo stile di vita alieno dagli estremi opposti dell’ostentazio­ ne del lusso o della povertà. Operazione riuscitissima se consideriamo le numerose testimonianze epigrafiche e archeologiche della diffusione del culto di Cipriano anche fuori Cartagine e, di contro, la scarsità di simili testimonianze a proposito del gruppo di martiri di Perpetua che parrebbe non aver oltrepassato Cartagine150*. 145 Vita di Cipriano, pref. 2. 14ΐ J. Aronen, Indebtedness to Passio Perpetuae in Pontius ’ Vita Cypriani. in «Vigiliae Christianae» 38(1984), p. 69. 147 Atti di Cipriano, 2, 1 (ree. 1.2 ed. Bastiaensen). 148 E. Jurissevich, Le prologue de la Vita Cypriani versus le prologue de la Passio Perpetuae et Felicitatis: de la prééminence du récit de la vie et du martyre d ’un évèque sur le récit de la passion de simples catéchumèmes et lai'ques, in A. D ’Anna-C. Zamagni (eds.), Cristianesimi nell’antichità: fonti, istituzioni, ideologie a confronto, Ziirich-New York 2007, pp. 131-148. 149 Vita di Cipriano 18, 5. 150 Y. Duval, Loca sanctorum Africae. Le culte des martyrs en Afrique du IV au vip siècle, Roma 1982, t. it, p. 683.

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Confrontato con i racconti di passione fin qui analizzati lo scritto di Ponzio rivela, inoltre, un autore con ambizioni letterarie che conosce e padroneggia i m ezzi espressivi della retorica151. Il prologo ne è intessuto: professione di incapacità rispetto alla grandezza del soggetto da trattare, ma impossibilità di resistere alle pressioni che lo costringono a scrivere; imbarazzo di fronte al numero delle cose da dire. Costellano inoltre il testo le esclamazioni retoriche; le synkriseis, cioè, i confronti del suo eroe con personaggi biblici e con Cristo; i più usati espedienti formali152. Più che alla lettura pubblica nella riunione liturgica dedicata alla festa del santo (a questo scopo - va ricordato - sarebbero stati sufficienti gli Acta), il testo si rivolge ad un pubblico di letterati di cui asseconda il gusto. Le preoccupazioni di Ponzio sono condivise anche da altri testi prove­ nienti dalla stessa Chiesa, quale, ad esempio, la Passio Mariani et Jacobi. La morte di questi martiri è quasi contemporanea a quella di Cipriano, tut­ tavia le due Passioni, scritte in un momento non precisabile, dimostrano anche la piena assimilazione della lezione ciprianea soprattutto per quan­ to concerne il ruolo dei martiri nella compagine istituzionale della Chiesa africana del ni secolo e gli scopi che in essa deve assolvere il racconto di martirio. L’autore anonimo della Passione di Mariano si presenta come amico intimo e esecutore di fiducia della volontà esplicita dei martiri Mariano e Giacomo, rispettivamente diacono e lettore, di farsi tramite presso i fratelli del loro martirio per incitare il “popolo di D io” a seguire il loro esem pio153. Ma è un esempio che i martiri - e qui si nota la presa di distanza da ciò che da una prospettiva episcopale era considerato una manifestazione di pericoloso protagonismo - propongono all’insegna della verecundia, della humilìtas, della modestia, lontanissimo, cioè, da ogni ambizione personale. 5. Storia ecclesiastica e martirio: Eusebio di Cesarea Tra la fine del in sec. e i primi due decenni del iv appaiono le prime due raccolte di testi martirologici per iniziativa di Eusebio di Cesarea. La prima, dal titolo di Των μαρτύρων σ υ να γω γή 154 (Raccolta di martiri) o di Των αρχαίω ν μαρτύρων αναγραφή (Descrizione di antichi marti-

151 H. Montgomery, Pontius’Nita S. Cypriani and thè Making ofa Saint, «Symbolae Osloenses» 71(1996), pp. 195-215. 152 Ponzio, Vita e martirio di San Cipriano, a cura di M. Pellegrino, Alba 1955, pp. 75-83; Berschin, cit., Bd. i, pp. 57-65. 153 Passione di Mariano e Giacomo 1. 154 Storia ecclesiastica 5, pref. 2.

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ri)155, è definita com e una narrazione storica e dottrinale (ιστορική δ ιδ α ­ σκαλική δ ιή γη σ ι? ). Consisteva in una raccolta di atti e passioni relative alle persecuzioni del n e ni secolo che - insieme ai Chronici Canones faceva parte dell’accurato lavoro di documentazione in vista della reda­ zione della Storia ecclesiastica. Infatti Eusebio indica proprio ne «i gran­ di uomini che, secondo le circostanze, hanno attraversato per lei (se. la parola di Dio) la prova del sangue e delle torture e le testimonianze (martyria) del nostro tem po»156 uno dei grandi temi della sua Storia. Questa prima raccolta eusebiana è perduta eccetto quanto è stato con­ servato nella Storia ecclesiastica. È verosimile che una parte almeno della prefazione sia stata utilizzata come prefazione al v libro della Storia157. Anche se non possiamo saperlo con certezza queste parole meritano co­ munque di essere riportate perché illuminano la prospettiva eusebiana nel raccontare i martiri antichi, com e quelli a lui contemporanei: «Altri autori di opere storiche (ιστορικά? διηγήσεις) tramandarono per iscrit­ to solamente vittorie di guerra, trionfi sui nemici, eroismi di comandanti e valo­ re di soldati lordi di sangue e di delitti infiniti in nome dei figli, della patria e degli altri loro beni; invece il nostro racconto (διηγηματικός λόγο?) sulla società di Dio registrerà su tavole imperiture quanti sostennero guerre pacifiche per la pace dell’anima e in esse diedero prova di coraggio più per la verità che per la patria, più per la religione che per i loro cari, proclamando in ricordo eterno la resisten­ za opposta da coloro che lottarono per la religione, il loro coraggio nelle soffe­ renze, il trionfo sui demoni, la vittoria sugli avversari invisibili e la corona che infine essi riportarono»158.

È subito evidente il cambiamento di prospettiva: lo sfondo su cui ven­ gono collocati e a partire da dove vogliono essere giudicati i martyria non è più interno alla tradizione giudaico-cristiana: «il martirio secondo il Van­ gelo» per gli Sm im esi o i «vetera exempla fidei» secondo il redattore della Passione di Perpetua o i precedenti racconti di martirio come per Ponzio. La storia di Eusebio sui martiri reclama il proprio diritto a esistere nel­ l ’orizzonte storiografico dei contemporanei159. N e assume il linguaggio, ma con significati diversi: com e gli storici pagani, anche Eusebio narrerà

155 Storia ecclesiastica 5, 21, 5; altre menzioni di questa raccolta in 4, 15, 47; 5, 4, 3. 156 Storia ecclesiastica 1, 1,2. 157 R.M. Grant, Eusebius as Church Historian, Oxford 1980, pp. 116-117. 158 Storia ecclesiastica 5, praef. 3. 159 I Martiri della Palestina rivelano una prospettiva analoga quando, ad esempio, mettono in luce la libertà di espressione di una donna che rimprovera il giudice per la sua ingiustizia, «mostran­ dosi ben superiore a coloro che combatterono per la libertà di cui i Greci si vantano» (Martiri della Palestina 8, 6).

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di guerre, trionfi, vittorie, del coraggio e del sangue, però finalizzati non alla realizzazione di paricolarismi politici, ma al successo di valori che i cristiani ritengono universali quali Y eu sebeia, il politeu m a di Dio. La seconda opera è / m a rtiri d e lla P alestin a che costituisce ora l ’ap­ pendice al libro decimo della Storia e c c le sia stic a , ma che, in una prima redazione dell’opera, era stata collocata, forse dallo stesso Eusebio, alla fine dell’ottavo libro che copre gli avvenimenti dall’inizio della persecu­ zione fino alla morte di Galerio avvenuta nel 311. Qui Eusebio intende offrire un quadro sommario delle persecuzioni nelle differenti regioni della parte orientale dell’Impero nella consapevolezza di non poter fare di più dal momento che non era stato un testimone oculare di quegli avveni­ menti: solo costoro - egli afferma - possono narrare dettagliatamente «i combattimenti degli uomini che in tutto il mondo hanno lottato per la fede divina»16016. In Palestina era stato invece un testimone diretto e per questo promette un altro scritto su ll’argomento, I m a rtiri d ella Palestina appun­ to, opera di cui abbiamo due recensioni composte tra il 311 e il 314: la recensione breve in greco è quella tramandata insieme alla Storia eccle­ sia stic a 161; quella più lunga ci è pervenuta in una versione siriaca di cui possediamo anche significativi frammenti in greco. I rapporti fra le due redazioni sono discussi, ma entrambe risalirebbero allo stesso Eusebio. Per cogliere nella giusta luce le modalità peculiari con cui ne / m arti­ ri d e lla P alestina è declinato il discorso agiografico va innanzitutto sottolineato che Eusebio intendeva scrivere una narrazione storica, διήγ η σ ι ς 162. Le regole del genere che i grammatici definivano come narra­ zione di cose avvenute e di come sono avvenute163 richiedevano la tratta­ zione delle persone, le azioni, il luogo e il tempo, il modo e la causa delle azioni stesse. In ossequio al genere, il racconto di Eusebio riporta con pre­ cisione date, luoghi, nomi di funzionari e di martiri e si dipana dall’apri­ le del 303 fino all’editto di Galerio del 311, intrecciando i martìri consu­ mati in varie città della regione con i principali eventi politici che influen­ zavano l ’andamento delle persecuzione. La struttura del racconto è rigida­ mente annalistica anche a costo di “spezzare” in capitoli diversi la vicen­ da di uno stesso martire o gruppi di martiri; cosa che sconcerta e confon­ de il lettore moderno, ma che rientrava nelle aspettative del lettore antico che dalla narrazione storica si attendeva veder esposti insieme gli avveni­ menti che si producevano nello stesso tempo164. È sempre il genere lette­ 160 Storia ecclesiastica 8. 13, 7. 161 Quando non è precisato diversamente cito da questa. 162 Martiri della Palestina 12. 163 Quintiliano, La formazione dell’oratore 4, 2, 2. 164 Cfr. C. Markschies, Eusebius als Schriftsteller: Beobachtungen zum sechsten Buch der Kir-

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rario prescelto a richiedere gli sviluppi di carattere biografico. Sulle per­ sone su cui è m eglio documentato, tali sviluppi raggiungono un’ ampiez­ za non trascurabile: il martire viene presentato non solo a partire dal momento della cattura, ma dalla nascita e inserito in una rete di rapporti con altri martiri. N e I m artiri d e lla P alestina, la prospettiva di Eusebio è quella di uno spettatore di un periodo convulso, denso di eventi tragici che scrive (e rivede) la sua opera quando il cambiamento inaspettato della politica imperiale riguardo al cristianesimo gli impone un ripensamento dei qua­ dri interpretativi fino allora adottati e la ricerca di nuove forme espressi­ ve. È un momento in cui è urgente introdurre nuovi temi e mettere in secondo piano altri. Il processo con la confessione di fede sono relegati sullo sfondo, mentre viene dato il massimo rilievo alle torture subite dai martiri e alla loro straordinaria resistenza al dolore. La determinazione con cui Eusebio squaderna davanti al lettore l ’intero armamentario delle torture non arretra neppure davanti ai particolari più atroci165. Per esem ­ pio, Afflano ancor prima di comparire davanti al giudice, fu percosso e disteso con i piedi nei ceppi; dopo la confessione di fede, gli lacerarono i fianchi più volte «sino alle ossa e alle viscere», poi gli avvolsero i piedi con panni di lino intrisi d ’olio e gli dettero fuoco: «Quali sofferenze sop­ portò il beato martire superano, mi pare, ogni discorso: il fuoco, infatti, avendo ammorbidito le carni, penetrava fino alle ossa, a tal punto che gli umori del corpo si disciolsero come cera e colarono a goccia a goccia»166. Riportato in carcere, viene sottoposto ad altri maltrattamenti e infine, do­ po un ulteriore rifiuto a sacrificare, condannato a morte e gettato in mare. L’intero libro è disseminato di episodi altrettanto raccapriccianti. L’ecce­ zionale eroismo dei martiri palestinesi viene sottolineato non solo con la descrizione dettagliata dell’accumulo delle torture, ma anche con la loro «novità»167 rispetto ad un inventario già nutrito ed efferato. Merita di essere sottolineato che anche in testi precedenti non erano mancate descrizioni di torture prolungate e crudeli (basti pensare al marti­ rio di Blandina nella L ettera d ei m artiri di Lione, oppure a certe Passioni africane, come quella di Mariano e Giacomo), tuttavia questo aspetto assu­ me nello scritto di Eusebio un tale rilievo e sistematicità che per trovarne di simili bisogna risalire ai racconti su Eleazaro e i sette fratelli maccabei. chengeschichte, in A. Monaci Castagno (ed.), La biografia di Origene fra storia e agiografia, Verucchio 2004, pp. 40-47. 165 Giustamente già il Lazzati indicava come tratto caratteristico di quest’opera eusebiana il “ma­ cabro”: G. Lazzati, Gli sviluppi della letteratura sui martiri nei primi quattro secoli. Con appendice di testi, Torino 1956, p. 74. 166 Martiri della Palestina 4 ,1 2 . 167 Martiri della Palestina 2, 3.

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Il racconto di 2 Maccabei 6-7 faceva parte della Bibbia cristiana e già Origene nc\YEsortazione al martirio l ’aveva ampiamente utilizzato per de­ scrivere il martirio cristiano, opera che Eusebio conosceva bene. N e I mar­ tiri della Palestina, per esempio, il martire Romano che, sentendo di esse­ re condannato al supplizio «tutto nuovo» del taglio della lingua, la sporge con coraggio ai suoi carnefici, ricorda l ’azione analoga di uno dei fratelli maccabei168, iv Maccabei amplificava ancora di più questo aspetto, ampli­ ficazione finalizzata a mostrare - nella resistenza alla sofferenza e nel do­ minio delle passioni - la coincidenza fra giudaismo e filosofia. Anche molti martiri descritti da Eusebio vestono - perfino in senso letterale - l ’abito del filosofo. Come Porfirio che, in tale abbigliamento, avanza verso il patibolo, con calma impartisce ai suoi le sue ultime vo­ lontà e con volto raggiante, malgrado le fiamme, non pronuncia parola se non l ’invocazione del nome di Gesù169. Panfilo, mentre i carnefici gli fanno cerchio intorno e lo torturano, «filosofava secondo il proprio pen­ siero; com e se fosse senza carne e senza corpo, pareva che non fosse sen­ sibile alle sofferenze»170. L’insensibilità del martire era un topos anche nelle Passioni (cfr. per esem pio Perpetua) ed era connesso al rapporto intimo che il martire nel momento supremo aveva con Cristo171; I marti­ ri della Palestina tendono invece a presentare la morte del martire anche com e esito di un ethos filosofico. Il racconto di Eusebio, inoltre, specifica spesso che in molti casi i mar­ tiri andarono incontro volontariamente alla morte talvolta con gesti pla­ teali e provocatori: lo stesso Afflano cerca di impedire al governatore Urbano di compiere il sacrificio, sia trattenendogli la destra, sia esortan­ dolo ad abbandonare «l’errore»172. Suo fratello Edesio, non sopportando più l ’ingiustizia dei funzionari contro i cristiani, aggredisce con atti e pa­ role il giudice173; un’altra vergine senza nome, vedendo la crudeltà dei giudici verso una compagna nella fede e nella scelta di vita, osa rimpro­ verarli aspramente174. Ad un lettore antico non sfuggiva che simili com ­ portamenti bastavano, ancor prima della confessione di fede, a condanna­ re a morte i protagonisti. L’esaltazione di questi comportamenti contrasta con il giudizio severo esplicito o implicito su analoghi comportamenti di autodenuncia che ab­

168 Martiri della Palestina 2, 3 e 2Mac 7,10. 169 Martiri della Palestina 11, 19. 170 Martiri della Palestina 11, 12. 171 Su questo punto, cfr. anche infra, p. 81 172 Martiri della Palestina 4, 8. 173 Martiri della Palestina 5, 3. 174 Martiri della Palestina 8, 6.

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biamo rilevato in testi precedenti, di cui tra l ’altro anche Eusebio si fa por­ tavoce quando nella Storia ecclesiastica si riferisce ai martiri montanisti. Ma nel momento in cui Eusebio scrive (e riscrive) I martiri della Pale­ stina, la minaccia montanista non ha più mordente, mentre è più urgente esaltare con ogni mezzo il coraggio di quei martiri in anni in cui le defe­ zioni degli stessi capi delle Chiese furono talmente numerose da non poter essere del tutto taciute; lo stesso Eusebio vi fa riferimento più volte con toni drammatici sia in apertura del libro ottavo della Storia ecclesiastica sia alla fine de I martiri della Palestina, dichiarando, in quella, di voler riportare «soltanto le cose che sono di utilità prima a me e poi ai poste­ ri»175 e, in questa: «Penso che raccontare queste cose (se. le defezioni dei capi, il disonore, i dissen­ si fra gli stessi confessori) non mi si addica; m i scuso e mi astengo. Invece tutto quello che è venerabile e di buona fama, secondo la parola divina, ritengo che dirlo, scriverlo e presentarlo agli uditori fedeli, sia quanto mai appropriato alla storia dei beati martiri»176.

Al comportamento aggressivo del martire corrisponde un ritratto dei funzionari anch’esso diverso, nella sua sistematicità, da quello che Eu­ sebio poteva leggere nelle Passioni più antiche. Qui i rappresentanti dell’Impero appaiono talvolta distaccati, altre volte preoccupati di evita­ re la condanna alla pena capitale. Il vero antagonista del martire nelle Passioni c il demonio. N ell’azione drammatica m essa in scena da Eusebio invece non c ’è più spazio per la lotta del martire contro il dem o­ nio che - nel racconto se non nella prospettiva teologica di fondo177 rimane un personaggio di secondo piano, lasciando la scena agli espo­ nenti del potere imperiale. Il funzionario tipo de I martiri della Palestina è, com e Urbano, un sadico «inventore di tormenti» e «di punizioni inau­ dite»178; oppure dà di sé uno spettacolo indecoroso n ell’esercizio delle sue funzioni, com e quel magistrato che pronuncia le sentenze com e un avvinazzato ingiuriando vecchi e vergini179; oppure fa figura di uno sciocco; oppure appare, come quello che si accanisce contro un giovanis­ simo servo di un martire di cui aveva osato reclamare il corpo, «una belva, anzi più selvaggio di una belva»180. Anche in questo caso non si

177 Storia ecclesiastica 8, 2, 3. 176 Martiri della Palestina 12. 177 Unico accenno in Martiri della Palestina 13, 9-10. 178 Martiri della Palestina 7, 4. 179 Martiri della Palestina 5, 3. 18° Martìri della Palestina 11, 16.

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tratta di una novità assoluta, piuttosto d ell’uso sistematico di una “tesse­ ra” già tradizionale ora usata per comporre un diverso disegno. In effet­ ti, Eusebio poteva leggere le stesse affermazioni nella Lettera dei marti­ ri lionesi che presentano i pagani e i magistrati furenti, crudeli, genti bar­ bare e selvagge, prive di senno umano181. Eusebio costruisce un dittico in cui al coraggio, alla fermezza, alla compostezza, alla fdantropia del martire vengono contrapposte la ferini­ tà, l ’ottusità, l ’indecorosità, l ’irrazionalità del magistrato. Il martire rea­ lizza così l ’ideale dell’eroe cristiano la cui battaglia è per la religione e, nello stesso tempo, per la civiltà. La morte di coloro che intervenivano in difesa dei fratelli svelando la loro identità di cristiani è presentata anche com e conseguenza della ribellione alla degenerazione di un sistema di quei valori - l ’umanità, il decoro, la natura, l ’onore - in cui Vélite greco­ romana pagana e, in larga misura, cristiana - si riconosceva. Nel discorso agiografico di Eusebio viene completamente rovesciata la polarizzazione presente fino a quel momento nella polem ica anticristiana: i pagani con­ sideravano nemici del genere umano i seguaci di Gesù, un criminale con­ dannato alla croce e li accusavano di rifiutare i culti che garantivano la prosperità dell’Impero ritenendo tale rifiuto irrazionale. Nella prospettiva eusebiana il martire «sovrumano»182 che, prima, virilmente protesta (non per sé ma per il trattamento inferto ad altri) e, poi, sopporta con il sorriso sulle labbra sofferenze inaudite, è l ’antitipo del magistrato che è «inuma­ n o»183 in quanto respinto nella ferinità, nelfantium ano. La luce negativa sotto cui sono presentati gli esponenti del potere im­ periale è, però, limitata al periodo della persecuzione in cui Eusebio vede la principale causa dei disordini e delle divisioni politiche; la fine della persecuzione coincide con il ristabilimento della pace184. Eusebio reinter­ preta in senso martirologico un argomento già tradizionale dell’apologe­ tica cristiana che vedeva nella pacificazione d ell’Impero sotto Augusto l ’opera della Provvidenza divina che, in questo modo, avrebbe preparato un quadro politico favorevole alla diffusione del critianesimo com e reli­ gione di ambizioni universalistiche. La condanna di Eusebio riguarda per­ tanto una fase particolare e non il potere imperiale in se stesso che, del resto, i provvedimenti favorevoli ai cristiani rivelavano com e strumento della realizzazione del piano divino di D io sulla storia. La tipizzazione del martire non giunge ad un punto tale da cancellare i caratteri individuali come, del resto, richiedeva Vistoria. Lo si constata 181 Storia ecclesiastica 5, 1, 57-58. 182 Martiri della Palestina 4. 13. 183 Martiri della Palestina 8, 6. 184 Martiri della Palestina 3, 5-6.

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soprattutto in quelle parti in cui Eusebio descrive le vicende di coloro che appartenevano alla cerchia di Panfilo, suo venerato maestro. Di Afflano, il primo ad affrontare il martirio e che - afferma Eusebio - «abitava con noi», non viene raccontata, come abbiamo già visto, solo la sua indomita battaglia per la corona del martirio, ma anche il bios, la vita, seguendo lo schema tradizionale: la patria (proveniva da Gagae, in Licia); la famiglia (discendeva da una famiglia ricca); l ’educazione (studi superiori a Berito); ethos (era casto e superiore alle passioni della giovinezza). Ritornato in patria, Afflano abbandona la sua famiglia per seguire le «leggi di Cristo» e si reca a Cesarea, ove si dedica completamente allo studio della Scrittura: si preparava così - afferma Eusebio - al martirio che di lì a poco avrebbe subito nella stessa città185. Il martirio di Panfilo e dei suoi compagni offre l ’occasione di presen­ tare personalità e ruoli diversi della Chiesa: in primo luogo Panfilo, pre­ sbitero, che arriva a quel momento dopo una vita caratterizzata da ogni virtù, dal disprezzo del mondo, dalla distribuzione dei suoi beni ai pove­ ri, dalla condotta filosofica e dalla sua ascesi e, soprattutto, dalla dedizio­ ne assoluta allo studio della Scrittura. Nella recensione breve le notizie su Panfilo sono stringate e Eusebio se ne scusa rimandando i lettori ai tre libri di Memorie che ha scritto su lui. La recensione lunga che, per questa sezione è stata tramandata sia in greco, sia nella traduzione siriaca, è più generosa di dettagli biografici e aggiunge «Egli si mostrava com e vero martire di Dio anche prima della fine ultima della sua vita»186. Del gruppo di dodici martiri guidati da Panfilo, Eusebio si diffonde in particolar modo su Valente, un diacono anziano, istruito sulla Scrittura che sapeva a memoria; su Paolo particolarmente sostenuto dallo Spirito divino; su Porfirio, un adolescente servo di Panfilo, che aveva avuto un’educazione degna di tal uomo. Inoltre, Seleuco che, da valoroso solda­ to, diventa emulo «dei maggiori asceti» e si occupa delle vedove e dei poveri come un padre e un patrono; Giuliano di costumi pio, leale fedele e ispirato dallo Spirito Santo. Il racconto insiste sulla lealtà, l ’affetto, la fedeltà che regna fra di loro. Viene notato, inoltre, come questo gruppo sia rappresentativo di tutte le componenti della Chiesa: giovani, vecchi, colti, incolti, ma «in tutti albergava lo stesso coraggio sovrumano e strenuo»187. Gli uni di famiglia nobile, onorati del sacerdozio e del diaconato, di importanti cariche nel­ l ’esercito, gli altri di condizione modesta e servile188: in essi - aggiunge 185 Martiri della Palestina 4, 3-15. 186 Martiri della Palestina 11, ree. B (gr.). 187 Martiri della Palestina, ree. B c (gr.). 188 IbiJ.

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Eusebio - non mancava nulla di quanto si trova nelle organizzazioni umane, erano in compendio il tipo perfetto della comunità ecclesiastica189. Come una lira multicorde, sotto il tocco di quel musico espertissimo che è il Verbo di Dio, modulavano, con la confessione, un’unica melodia in vista del compimento del loro martirio a onore del D io d ell’universo190. L’insistenza di Eusebio sul numero dodici è forse lo sviluppo di uno spunto presente nel Martirio di Policarpo che faceva parte della sua prima raccolta. Policarpo - vi si legge - fu il dodicesim o a soffrire il martirio a Smirne, ma «solo lui è ricordato in ogni luogo e da tutti anche dai paga­ ni»191. Eusebio invece consegna ai fedeli che leggeranno la sua storia il ritratto di questo coro di dodici martiri com e l ’immagine della «vera Chie­ sa», la vera erede dei patriarchi, dei profeti e degli apostoli192; un’imma­ gine, insomma, in grado di oscurare le fratture, i tradimenti, i dissensi del­ le Chiese e di apparire com e un nucleo identitario forte cui guardare per affrontare i nuovi compiti che li attendono. A quali fedeli Eusebio in particolare si rivolgeva? Con la scelta di una forma letteraria “alta” - la storia - e con l ’insistenza su alcuni temi Euse­ bio voleva rivolgersi in particolare ai cristiani colti - sacerdoti e laici - ai quali egli attribuiva un’importanza decisiva per il successo della Chiesa sia nel passato (e questo l ’aveva raccontato nella Storia ecclesiastica), sia nel futuro. In effetti, se il suo racconto aveva volutamente lasciato spazio alla rappresentazione dell’eroismo di tutte le categorie di genere, età, censo, cultura è altrettanto vero che l ’accento cade su alcune figure esal­ tate per la loro “filosofia”, cioè, la loro forma di vita ascetica, la cultura secolare, lo studio e la conoscenza della Bibbia, suggerendo che proprio queste qualità le hanno rese fedeli a Cristo fino al martirio (a differenza di tanti altri!), anzi martiri prima del versamento di sangue. Concentrando i riflettori su questa cerchia il cui prestigio - non si deve dimenticare - si riverbera sullo stesso Eusebio che vi apparteneva e che la racconta, egli disegna il ritratto della nuova leadership in grado di traghettare la Chiesa in un tempo in cui il coraggio fisico forse non sarebbe stato più così necessario.

1811 Ibi, f. 190 Ibi, g. 191 Martirio di Policarpo 19. 192 Martiri della Palestina 11.

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6. Un linguaggio comune: le parole dei martiri Il discorso agiografico sui martiri dal Martirio di Policarpo fino a / martiri della Palestina utilizza differenti generi, Lettere, Atti, Passioni, racconti storici e, all’interno di tali generi, si avvale di una molteplicità di forme letterarie - visioni, discorsi, verbali processuali, esegesi - dando voce a interpretazioni diverse non solo dell’esperienza del martirio, ma anche del fatto stesso di scrivere su di esso. L’aver fin qui richiamato l ’attenzione sull’accentuato polimorfismo, rischia di lasciare in ombra un aspetto altrettanto importante: 1’esistenza di un linguaggio comune, aspetto che emerge già dalla trattazione prece­ dente, ma che qui merita di riprendere brevemente, anche perché è un lin­ guaggio largamente condiviso - con gli opportuni aggiustamenti - anche dal discorso agiografico successivo. N elle parole dei martiri di fronte ai magistrati romani sono individua­ bili tre fuochi principali. In primo luogo, la dichiarazione di fede nel­ l ’unico Dio che esprimeva il fatto essenziale nel contrasto fra i cristiani e l ’Impero. Sperato, portavoce del gruppo di martiri di Scili si dichiara servo del Dio «che nessuno uomo ha visto né può vedere con i suoi occhi»193; Giustino afferma «di essere devoto al D io dei cristiani dall’ori­ gine unico autore della creazione di tutto il m ondo»194. Più spesso le parole dei martiri riprendono o alludono ad Atti 4,24 sul Dio unico, «creatore del cielo, della terra, del mare e di tutto ciò che si trova in essi» (che è a sua volta una citazione di Es 20,11): così A pollonio195 e Pionio196. Cipriano afferma: «Sono cristiano e vescovo e non riconosco altri dei, ma l ’unico vero Dio che ha fatto il cielo, la terra il mare e tutto ciò che si trova in essi» 197. Le stesse parole sono attribuite al vescovo Filea198. La confessione di fede monoteista si trova declinata talvolta con un linguaggio filosofico e viene arricchita da una critica del politeismo più o meno ampia che riecheggia i temi più diffusi d ell’apologetica paga­ na coeva: assurdità d ell’adorazione di idoli fatti da mano d ’uomo; iden­ tificazione degli dèi pagani con i demoni. Un secondo fuoco è la proclamazione della fede nella divinità di Cristo talvolta accompagnata da brevi dimostrazioni; nel Martirio di Policarpo, il martire afferma che Gesù Cristo, in quanto Figlio diletto e benedetto ha 193 Atti dei Martiri di Scili 6. 194 Atti di Giustino 2, 5. 195 Martìrio di Apollonio 2. 196 Martirio di Pionio 16. 197 Atti di Cipriano 1. 198 Atti di Filea (Papiro Bodmer) 12.

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fatto conoscere il Padre, è Salvatore, Figlio Unigenito di D io199. Nella sua confessione di fede, Giustino dice di credere nel Figlio di Dio, Gesù Cri­ sto la cui venuta era stata già annunciata dai profeti200. Filea aggiunge alFargomento profetico, anche quello dei miracoli di Cristo201. «Sono cristiano/a» è l ’altra dichiarazione che caratterizza la confessio­ ne del martire. Rispondendo così al magistrato che, seguendo la procedu­ ra, gli chiedeva il nome, il martire intendeva declinare ciò che riteneva la sua identità autentica. La risposta allude non solo all’appartenenza del martire alla sua patria celeste, ma anche alla sua risocializzazione all’in­ terno di una comunità altra da quella rappresentata dal magistrato: così Carpo: «Il mio primo e più importante nome è “Cristiano”, ma se chiedi il mio nome nel mondo è Carpo». Alla domanda se avesse dei figli, il suo compagno Papilo risponde: «Molti», alludendo ai suoi figli spirituali202. Santo dei martiri lionesi si limitava a dire: «Sono cristiano», rifiutandosi di rispondere alle altre domande di rito: «Questo e soltanto questo dichia­ rava, quale nome, cittadinanza e stirpe». Quando il funzionario chiede a Ierace, compagno di Giustino, chi sia­ no i suoi genitori, egli risponde: «Cristo è il mio vero padre e la mia fede in lui è mia madre»203. Il motivo letterario trova la sua massima espansio­ ne con I martiri della Palestina nel racconto del processo subito da Pan­ filo e dai suoi compagni: quando viene chiesto loro come si chiamano, affermano di chiamarsi Elia, Geremia, Isaia, Samuele e Daniele: «Mostra­ vano così - commenta Eusebio - che essi erano il giudeo segreto, l ’auten­ tico e puro Israele di Dio». Alla domanda di quale fosse la loro patria ri­ sposero Gerusalemme, pensando - chiosa ancora il narratore - alla Geru­ salemme celeste. A questo punto il giudice si agita, domanda spiegazioni supplementari, li fa torturare per sapere dove è questa città (un giudice di Cesarea di Palestina!), temendo che i cristiani abbiano fondato in qualche luogo una città nemica dei Romani204. È l ’approdo di un motivo letterario che, partito come espressione dell’unione intima e personale del martire con Cristo e del senso di appartenenza ad una nuova comunità, diventa funzionale alla polemica con il giudaismo e all’esaltazione della figura del martire a spese del magistrato romano che qui, per i motivi che ho già illu­ strato sopra205, è presentato come uno sciocco.

199 Martirio di Policarpo 14, 1.3; 19, 2; 20, 2. 200 Atti di Giustino 2, 5. 201 Atti di Filea (Papiro Bodmer) 8. 202 Martirio di Carpo (ree. gr.). 203 Atti di Giustino 4, 8. 204 Martiri della Palestina 11,8. 205 Supra, p. 75.

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6.1. L’esperienza del martirio La confessione di fede nella divinità di Cristo e la concezione del mar­ tirio come imitazione di Cristo sono le strutture ideologiche di fondo in cui si colloca il legame personale e fortissimo con Cristo che il martire esprime nei vari momenti della sua prova. I martiri di Smirne, sopportan­ do senza un gemito i tormenti, dimostravano che «in quell’ora, (...) erano assenti dalla propria carne, o meglio che il Signore era presente a parlare con essi»206. Policarpo, invitato dal magistrato a maledire il nome di Cristo, risponde: «Sono ottantasei anni che lo servo, e mai mi ha fatto torto. Come posso bestemmiare il mio re e salvatore?»207. In seguito chie­ de ai suoi carnefici di non inchiodarlo dicendo: «Colui che mi dà il fuoco da sopportare, mi darà anche la forza di resistere al fuoco»208 (se. senza cercare di divincolarsi). Nei documenti più antichi, la presenza di Cristo accanto al martire e nel martire durante il martirio è un tema costante, perfino più frequente del tema dell’imitazione di Cristo. Fra i martiri lionesi, Santo fu così orri­ bilmente torturato con ferri roventi applicati sulle parti più sensibili che il suo corpo non pareva più un corpo d ’uomo e ciononostante rimase fermo nella sua confessione: «rinfrescato e fortificato dalla celeste sorgente di acqua viva sgorgante dal seno di Cristo»; «Cristo soffriva in lui»; le tortu­ re successive, «per grazia di Cristo», invece di atterrarlo definitivamente lo guarirono209. N egli Atti latini di Carpo, Papilo dice al magistrato che «non soffre perché c ’è chi lo conforta; colui che tu non puoi vedere sof­ fre in me»210. Quando Blandina fu sospesa ad un palo per essere divorata dalle belve, la sua figura sembrava ai compagni aver forma di croce. Il suo coraggio e le sue preghiere crearono un clima di intensa esaltazione fra coloro che attendevano a loro volta il martirio: nella giovane videro «con gli occhi del corpo» il Cristo che era crocifisso per loro «che li induceva a credere che se si ha fede in Lui, chiunque patisca per la gloria di Cristo ha comunanza perenne con il D io vivente». Nel momento del supplizio finale, la stessa Blandina «era rivestita di Cristo, il grande e invincibile atleta»211 e, scaraventata in aria più volte da un toro, «non avvertì quanto le succedeva, per la speranza e la fermezza in ciò che credeva e perché in colloquio con Cristo»212. 206 Martirio di Policarpo 2, 2. 207 Martirio di Policarpo 9, 3. 208 Martirio di Policarpo 13, 3. 209 In Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 5, 1, 22-24. 210 Atti di Carpo (ree. lat.) 3. 211 In Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 5, 1, 41.42. 212 Ibi, 5, 1,56.

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Nella Passione di Perpetua, Felicita soffre molto durante il parto in carcere, mentre affronta con gioia il martirio, perché - come le fa dire il redattore anonimo - nel parto era lei a soffrire, ma nell’arena «sarà un altro a soffrire al mio posto, perché io subirò il martirio per lui». Perpetua, in estasi e rapita dallo Spirito, subisce il primo assalto delle fiere senza accorgersene213. Nella Lettera dei martiri di Lione l ’unione del martire con Cristo si fonda sull’amore reciproco, nella Passio Perpetua lo stesso motivo è im­ plicito nel simbolismo matrimoniale: Perpetua incede nell’arena «da vera sposa di Cristo»214. La presenza di Cristo accanto al martire e nel martire era segnalata in modo evidente per i lettori di quegli antichi testi anche dal modo in cui essi descrivevano la loro espressione. I martiri lionesi notano che coloro che avevano confessato apparivano rianimati, camminavano lieti, con una espressione di maestà piena di grazia, le loro catene apparivano come gli ornamenti di un abito da sposa, emanavano il buon odore di Cristo; gli apostati invece camminavano ad occhi bassi, dimessi, brutti a vedersi, pieni di confusione215. In genere il martire va verso il martirio con il volto radioso, pieno di gioia216. Già il Pastore di Erma descriveva accuratamente la differenza tra colui che albergava nel proprio cuore lo spirito di giustizia e colui che invece albergava gli spiriti malvagi: il primo, allegro, mite, calmo, il secondo tri­ ste, collerico, inquieto; soprattutto la gioia era un segno infallibile della presenza divina217. 6.2. Paradossi e antinomie: forza!debolezza È stato notato che il linguaggio agiografico è un linguaggio antitetico e antinomico che si costruisce intorno ad opposizioni binarie218; voglio ora richiamare l ’attenzione sulle antitesi maggiormente rapprentative del discorso agiografico sui martiri e che da questo passano al discorso agiografico successivo.

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La prima è sicuramente l ’opposizione vittoria/sconfitta. L’uso di meta­ fore militari e atletiche non era una novità; faceva parte dei mezzi espres­ sivi di ogni buon retore, tv Maccabei219 già presentava Eleazaro com e un «atleta della legge». L’uso sistematico del linguaggio militare e atletico offre qui, come nei racconti dei martiri di Cristo, una rappresentazione del martirio che tenta di captare in favore di esso i valori socialmente condi­ visi della vittoria atletica e militare. La Lettera dei martiri lionesi offre un punto di osservazione privilegiato per osservare attraverso quali mezzi espressivi viene stabilito il collegamento della retorica della lotta e della vittoria al fatto bruto - all’apparenza inconciliabile - della morte di per­ sone condannate come criminali comuni da un potere schiacciante e invincibile. Il “luogo” che rende possibile un tale rovesciamento di signi­ ficato è il corpo dei martiri220. Ho già accennato alla particolare impostazione del racconto che fin dalle prime battute colloca gli eventi nel quadro di uno scontro cosm ico fra il Nemico, il diavolo, descritto come un accorto generale che prepara con largo anticipo le sue truppe e la sua strategia, e Cristo, presentato co­ me l ’amorevole regista degli avvenimenti che succedono «ai santi». Le violenze subite dai cristiani, la loro estromissione dalla vita pubblica, la cattura, il processo, le torture e infine la morte sono altrettante fasi della «grande lotta»221, della «più grande battaglia»222. 1 protagonisti sono «no­ bili atleti» e «nobili combattenti»223, anche in questo imitatori di Cristo «il grande e invincibile atleta»224. Nella lotta danno prova della loro «poten­ za»225. L’esito dello scontro è, per i martiri, il trionfo226, la corona; essi sono «vincitori di tutte le battaglie»227, di contro i loro persecutori, che pensavano «di vincere D io», sono sconfitti228. Un altro testo di fondamentale importanza è la Passione di Perpetua che a distanza di qualche decennio e in diverso ambito culturale ripropo­ ne lo stesso paradosso, oltre che con la retorica della lotta e della vittoria, con il simbolismo visionario: l ’ultima visione di Perpetua precede la sua morte nell’arena e, nello stesso tempo, le offre gli strumenti per compren­ 219 Per la presenza di iv Maccabei a Lione: L.F. Pizzolato-C. Somenzi, I sette fratelli Maccabei nella Chiesa antica (l’Occidente, Milano 2005, p. 6. 220 B.D. Shaw, BodylPower/Identity: Passions of thè Martyrs, in «Journal o f Early Christian

213 Passione di Perpetua 15, 6; 20, 8. 214 Passione di Perpetua 18, 3. 215 In Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 5, 35. 216 Martirio di Pionio 4, 1; 2 2 ,4 . Cfr. R. Cacitti, “Ti έστι. οτι èyéX aaas”. Le motivazioni della gioia del martirio nel cristianesimo antico, in C. Mazzucco (ed.), Riso e comicità neI Cristianesimo antico, Alessandria 2007, pp. 569-592. 217 Erma, Pastore, Precetti 42, 1. 218 M. van Uytfanghe, La formation du language hagiographique en Occident latin, in «Cassiodorus» 5(1999). p. 158.

Studies» 4(1996), pp. 269-316. 221 In Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 5, 1, 11.40.51. 222 Storia ecclesiastica 5, 2, 6. 223 Storia ecclesiastica 5, 1, 17.19.36. 224 Storia ecclesiastica 5, 1, 42. 225 Storia ecclesiastica 5, 2, 4. 226 Storia ecclesiastica 5, 1, 29. 227 Storia ecclesiastica. 5, 2, 7. 228 Storia ecclesiastica 5, 1, 58.63.

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derla nella sua natura autentica. Se gli spettatori non vedranno che l ’estre­ mo disonore di una donna di nobili condizioni, condannata da un tribuna­ le regolare, alla pena capitale come una criminale comune, lei sa che ciò che accadrà realmente sarà tutt’altro. Nella visione, Perpetua vede se stes­ sa entrare nell’arena fra la folla eccitata. Le si fa incontro un egiziano, dal­ l ’aspetto ripugnante attorniato dai suoi assistenti. Ma anche Perpetua non è sola: le sta accanto il diacono Pomponio e dei giovani di b ell’aspetto. «Fui spogliata e divenni maschio»; la preparano all’incontro massaggian­ dola d ’olio; prima dell’inizio del combattimento il lanista - simbolo di Cristo giudice? - con in mano un ramo verde dai pomi d ’oro la avverte che, se sarà sconfitta, sarà uccisa con la spada, ma, se vincerà, riceverà il ramo. Il combattimento, descritto molto realisticamente come possiamo constatare dall’iconografia ceramistica antica, termina con il tipico gesto di vittoria di Pepetua che calca con il piede la testa del suo avversario. Ella può così ricevere il ramo e il bacio della pace. «Qui mi svegliai. Compresi che non era contro le fiere che avrei dovuto combattere, bensì contro il Demonio, ma sapevo che avrei vinto»229. 6.3. Virile/femminile Una seconda opposizione è rappresentata dalla coppia forza/debolezza che qui tratterò in relazione ad un’altra coppia oppositiva: virile/femminile. Nella mentalità greco-romana la fortitudo-àvò p ela era considerata l ’emblema della mascolinità. Se alcune scuole filosofiche com e gli stoici e più tardi i neoplatonici ritenevano possibile la conquista femminile delle virtù del saggio, ciò non riusciva a mettere in crisi la rappresentazione della natura femminile com e debole, incapace di assumere un atteggia­ mento coraggioso di fronte alla morte e alla sofferenza fisica e morale. Valgano per tutte le parole di Cicerone che, riflettendo sul dolore e lodan­ do la resistenza ad esso dei soldati, dei gladiatori e dei filosofi, osservava: «La parola virtus deriva da vir, cioè uomo. Ora ciò che caratterizza un animo viri­ le è soprattutto la fortezza, che ha due aspetti fondamentali: disprezzare la morte e disprezzare il dolore. Bisogna dunque acquisire queste due capacità, se voglia­ mo possedere la virtù o meglio se vogliamo essere davvero uomini, dal momen­ to che il termine virtus è stato preso appunto dal nome vir, cioè uomo»230.

229 Passione di Perpetua 10, 14. 230 Tuscoiane 2, 18, 43, citato da A. Gramaglia, li femminile nella cultura classica e cristiana , in G. Galli, Interpretazione e personificazione. Personificazioni e modelli del femminile, Genova 1988 pp. 17-164.

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Il fatto evidente che fin dalle prime persecuzioni documentate le donne cristiane accettavano di soffrire e morire per la loro fede sollecitò la ricer­ ca di modelli letterari in grado di raccontare la resistenza al dolore e il coraggio delle donne cristiane partendo e, in qualche caso, rimanendo all’interno dello stesso stereotipo di genere. Già Plinio il Giovane, nel 111 governatore del Ponto, nella lettera inviata all’imperatore Traiano per sol­ lecitare da lui disposizioni riguardo alle procedure da applicare ai cristia­ ni, affermava che molte donne, di ogni condizione sociale, rischiavano l ’arresto e la condanna e che aveva già sottoposto ad interrogatorio due schiave, da lui definite ministrae (diaconesse) come persone ben informa­ te sui gruppi cristiani. Negli Atti e Passioni di cui ci stiamo occupando, le martiri sono piuttosto numerose: mi limiterò a trattare di quei testi la cui tradizione è più sicura e che, per la loro ampiezza, consentono di farsi un’idea precisa degli aspetti principali della questione. Nella Lettera dei martiri di Lione occupa un posto preminente la figu­ ra di Blandina. A ll’inizio la donna è presentata da due punti di vista con­ correnti. Da una parte, gli occhi degli uomini in generale che la vedono «di poco pregio, brutta, disprezzabile» e quelli dei fratelli e della sua padrona terrena che dubitava di lei, vedendo «la debolezza del suo corpo». D all’altra, il punto di vista di Cristo, che la ritiene degna di «una grande gloria da parte di Dio», perché vede in lei l ’amore verso Dio che si espri­ me non solo a parole, ma con la forza nei fatti. Sottoposta a torture crude­ li, Blandina, definita «nobile atleta», dimostra di essere in possesso di una forza tale da ribaltare la situazione iniziale: ora sono i suoi carnefici a dichiararsi vinti231, senza riuscire a smuoverla dalla sua confessione di fe­ de che è anche una difesa dalle accuse terribili rivolte ai critiani: «Sono critiana; noi cristiani non facciamo nulla di male»232. In seguito Blandina, insieme ad alcuni compagni, viene mandata una prima volta n ell’anfitea­ tro per essere divorata dalle belve e viene legata ad un palo: è a questo punto che i compagni vedono in lei, non più la giovane schiava insignifi­ cante, ma Cristo stesso che li incoraggia a resistere. Blandina viene rispar­ miata dalle belve e toma in carcere: il commento del redattore ritorna sul paradosso rappresentato da una donna «piccola, debole e disprezzabile» che rivestita di Cristo, il grande e invincibile atleta, riusciva a sopraffare più volte l ’Avversario e ottenere la corona dell’immortalità. Blandina è stata risparmiata - si osserva —quella prima volta per esse­ re di sprone ai fratelli e così avviene durante l ’ultimo combattimento in cui incoraggia e assiste il quindicenne Pontico. A questo punto la figura 231 Storia ecclesiastica 5, 1, 17.18. 232 Storia ecclesiastica 5, 1, 19.

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di Blandina subisce un’altra trasformazione: com e la madre dei Maccabei incita prima i figli ad affrontare la morte e poi vi si sottomette ella stessa con indomito coraggio, così Blandina accompagna e sostiene tutte le sof­ ferenze dei fratelli e poi le patisce essa stessa: lei, nata di condizione ser­ vile, è ora definita «madre di nobile stirpe». Attraverso i tre momenti della passione di Blandina il racconto disegna una crescita che non è di Blandina, ma di coloro che assistono alla sua passione: all’inizio la giudicano secondo i parametri estetici e sociali del “mondo” e quindi colgono Blandina in ogni sua marginalità: è donna, è schiava, ha un fisico insignificante (il che per una donna ha sempre la sua importanza!). In un secondo momento, la vedono com e un nobile atleta; in seguito vedono in lei Cristo stesso. A ll’ultimo, dopo aver colto la sua “vera” natura, cioè essere l’immagine di Cristo atleta e crocifisso, lo sguardo può ritornare a considerarla in quanto donna, ma in modo profon­ damente mutato: Blandina ha ora acquisito uno statu s prestigioso: lei, schiava trascurabile, appare nelle veste della donna libera, madre di molti figli, come l’eroica madre dei Maccabei. Mentre la L ettera d e i m a rtiri d i L ion e ci informa sul punto di vista di chi aveva assistito al martirio di Blandina, nella P assione d i P erpetua - e in questo, ripeto, è un documento eccezionale - parla Perpetua stessa che descrive il suo combattimento che precede quello reale, ma che di questo costituisce il paradigma interpretativo. Nella visione d ell’Egiziano233, Perpetua si vede mutare genere per lottare contro di lui: «e fui fatta ma­ schio»234. La frase consente più di una chiave lettura: la sensibilità fem ­ minile di Perpetua si ritrae di fronte all’immagine di se stessa nuda che, di fronte alla folla, impegna un corpo a corpo con un atleta maschio. Se­ condo una tipica situazione onirica a combattere contro l ’Egiziano è lei e nello stesso tempo non è lei. Inoltre, per Perpetua divenire maschio espri­ me un desiderio di emancipazione, sulla base della convinzione largamen­ te condivisa per cui il prestigio di una donna non è compatibile con la sua femminilità e che questa vada superata per ottenere il premio sospirato della corona del martirio. La metafora del cambiamento di sesso è presente ne I m artiri della P alestin a, dove è però è declinato secondo modalità proprie che diverran­ no tradizionali nella letteratura successiva: una vergine di Gaza, donna secondo il corpo, ma «virile n ell’animo» si ribella al giudice che vuole condannarla alla prostituzione e perciò viene torturata. A questo punto ap­ pare un’altra donna di nome Valentina che, come la precedente, aveva 233 Riportata supra, p. 84. 234 C. Mazzucco, “E fili fatta maschio”. La donna nel Cristianesimo primitivo , Torino 1989.

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abbracciato la verginità, «ben superiore agli eroi che combatterono per la libertà vantati dai greci». Anch’essa come Blandina all’apparenza esterio­ re è insignificante e disprezzabile, ma ha un animo virile, prende una deci­ sione superiore alle proprie forze e rimprovera aspramente il giudice235. Ambedue muoiono fra supplizi atroci. N el racconto eusebiano il paradosso dell’apparente debolezza femmi­ nile che nel martirio disvela la sua autentica natura di forza, viene inter­ pretato sullo sfondo dell’opposizione filosofica corpo/anima. Il corpo di Valentina è debole, ma non la sua anima che è virile. Questa particolare prospettiva era assente sia nel racconto su Blandina in cui è la presenza di Cristo accanto o in lei a spiegare il comportamento antinomico della mar­ tire, sia nelle parole di Perpetua. Il racconto eusebiano (separato dagli altri da più di un secolo) tiene conto degli sviluppi teologici del in sec. relativi al tema maschile/femminile di cui la riflessione origeniana rappresenta l ’esempio più strutturato e influente in particolare proprio per Eusebio. Origene contrapponeva l ’uo­ mo esteriore, la cui appartenenza di genere è decisa dalla fisiologia, al­ l ’uomo interiore, la cui appartenenza di genere dipende da qualità mora­ li: è “virile” l ’anima che dimostra di possedere le virtù, è “femminile” quella che non le possiede. In altre parole, rimane invariato lo stereotipo di genere che associa alla natura femminile significati negativi e alla natu­ ra maschile quelli positivi, ma tale stereotipo non opera più all’interno della fisiologia, ma dell’etica. Non diversamente da Origene, Porfirio (f 304), il filosofo neoplatonico, allievo di Plotino, in una lettera di direzio­ ne spirituale inviata alla moglie le raccomanda: «Perciò, o che tu sia di sesso maschile o di sesso femminile, non occuparti troppo del corpo e non vedere in te una femmina... Fuggi tutto ciò che nella tua anima si compor­ ta da femmina, com e se avessi addosso il corpo di un uomo»236. Questo significa che per Eusebio almeno di fronte al martirio ogni dif­ ferenza di genere sia superata? Non si può non notare che se Eusebio esal­ ta le martiri mettendone in risalto la virilità dell’animo, quando celebra il coraggio di Afflano, una persona a lui molto cara, non lo definisce virile, ma «sovrumano»237! Un secondo elemento de I m artiri della Palestina che merita di essere notato è l ’importanza assunta dal tema della verginità all interno del rac­ conto di martirio, mentre tale elemento è assente negli altri racconti più antichi: di cinque donne martiri tre sono vergini e due di esse aggravano

235 Martiri della Palestina 3, 5-6. 236 Porfirio, Lettera a Marcella 33 (tr. A.R. Sodano, Milano 1993). 237 Martiri della Palestina 4, 13.

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la loro situazione processuale proprio per motivi legati alla difesa della loro verginità. L’intreccio di questi temi non è inedito: è già ben presente nel il secolo negli Atti apocrifi di Paolo e Tecla. Anche nella vicenda di Potamiena (raccontata però molto più tardi, dallo stesso Eusebio238), mar­ tire alessandrina d ell’inizio del ni sec., si intreccia il motivo della difesa della verginità con il martirio. Inoltre compare in una forma particolar­ mente interessante nel Banchetto di Metodio di Olimpo ove viene stabili­ to un parallelo fra martirio e verginità: anche le vergini hanno subito il martirio, non quello che si esaurisce nel breve momento della sofferenza fisica, ma sostenendo tutta la vita «il combattimento olimpico» per la castità, sopportante i duri tormenti legati a quella scelta. Per questo le ver­ gini meritano, com e i martiri, «i posti migliori» nel mondo celeste239. Potremmo sintetizzare dicendo che la vergine è una martire e le marti­ ri sono sempre più spesso vergini; in ambedue le formulazioni si avverte un restringimento delle possibilità aperte alle donne di raggiungere o per meglio dire - di ottenere il riconoscimento d ell’eccellenza da chi le racconta: le donne sposate come Perpetua o Felicita o semplici laiche come Blandina ancorché “virili” saranno sempre più rare in una chiesa orientata all’esaltazione della verginità240.

Alla fine, quando già Pionio è sospeso alla macchina che lo tortura, il proconsole gli domanda: «Perchè hai fretta di morire? E il martire: Non di morire, ma di vivere»242. N e ll’orchestrare il tema, il testo sembra tene­ re presente la critica pagana ai martiri cristiani. Celso, che verso la metà del n secolo scrisse un’opera polemica contro il giudaismo e il cristiane­ simo intitolata Discorso vero, osservava che i cristiani «offrono sconside­ ratamente il loro corpo alle torture e alla crocifissione»; essi «non amano la vita»243. N el nucleo essenziale, però, il Martirio di Pionio esprime un’antino­ mia costantemente presente nella letteratura martirologica: ciò che agli occhi dei pagani appare come morte irrazionale, per il cristiano è vita. Il magistrato che interroga Giustino, per esempio, gli dice ad un certo punto: «Se non obbedite sarete giustiziati». E Giustino risponde: «Noi preghia­ mo di essere salvati, dopo essere stati giustiziati»244. Nei momenti crucia­ li, il martire appare concentrato sulla vita che lo aspetta e non sull’evento più vicino della morte. È ritratto con gli occhi rivolti al cielo (come Ste­ fano del resto) e le sue parole riguardano sempre la vita eterna che egli attende come premio. Se menziona le sofferenze, lo fa commisurandole appunto all’eternità del premio (e anche della pena, in caso di abiura). I martiri della Chiesa di Smime,

6.4. Vitaìmorte

«Sprezzavano i tormenti terreni, acquistandosi in una sola ora, la vita eterna. Ed era per essi frescura il fuoco dei loro disumani carnefici: poiché avevano chiaro dinanzi agli occhi di sottrarsi così a quello eterno che mai si spegne e guardava­ no, con la vista del cuore, ai beni che sono in serbo per coloro che hanno saputo resistere, beni che orecchio non udì, né occhio vide, né mai pervasero il cuore dell’uomo (cfr. / Cor 2,9), ma che ad essi il Signore lasciava intravedere, poiché non più uomini erano, ma angeli ormai»245.

L’illustrazione retoricamente più efficace di questa antinomia è il

Martirio di Pionio. Polemone, in un estremo tentativo di dissuadere Pionio dal suo comportamento che lo porterà alla morte, afferma: «“E bello vivere e vedere la luce del sole!” E Pionio: “Aifermo anch’io che è bello vivere, ma migliore è quel vivere cui aspiriamo noi altri. Ed è bella la luce, ma più bella la luce vera. E tutto questo, certo, è bello, ma noi lo fuggiamo non per volontà di morte, né per odio per le opere di Dio, ma conoscendo la magnifi­ cenza d’altre e sublimi cose disprezziamo queste che ci irretiscono”»241.

238 Cfr. supra, p. 38. 239 Metodio di Olimpo, Banchetto 7, 3; la letteratura dedicata alla “storia delle donne” è vastis­ sima: mi limito a segnalare alcuni studi recenti di carattere generale: U. Mattioli, Astheneia e andreia. Aspetti della femminilità nella letteratura classica, biblica e cristiana, Parma 1983; Id. (ed.), La donna nel pensiero cristiano antico, Genova 1992; E. Clark, Reading Renunciation. Ascetism and Scripture in Early Christianity, Princeton 1999; K.E. Bprresen, A immagine di Dio. Modelli dì gene­ re nella tradizione giudaica e cristiana, tr. it. Roma 2001. 240 Ancora di più nel secolo successivo: V. Burrus, Reading Agnes: thè Rhetoric of Gender in Ambrose and Prudentius, in «Journal o f Early Christian Studies» 3 (1995), pp. 25-46. 241 Martirio di Pionio 5, 4-5.

Più asciuttamente, Narzalo dei martiri di Scili, dopo la condanna alla pena capitale, afferma: «O ggi stesso siamo martiri in cielo: grazie a D io»246. Le visioni dei martiri africani che riguardano in molti casi il mondo paradisiaco declinano in altro modo lo stesso tema: la morte del martire altro non è che l ’acquisto della vita vera.

242 Martìrio di Pionio 20, 5. 243 L’opera è perduta, ma il Contro Celso di Origene la cita ampiamente (Contro Celso 8, 54). 244 Atti di Giustino, ree. A, 5, 5. 245 Martìrio di Policarpo 2, 3. 246 Atti dei Martiri scillitani 15.

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L’agiografia cristiana antica

6.5. E segesi, catechesi, raccon ti Per quanto riguarda il periodo più antico, potrà forse apparire sorpren­ dente una così forte comunanza di temi e di linguaggio in testi separati da un così breve intervallo di tempo e da grandi distanze geografiche e cul­ turali. La centralità della Bibbia nella catechesi e nella liturgia costituiva una forte spinta all’omologazione nella formazione di un patrimonio sim­ bolico comune; ad essa - che i cristiani leggevano nella traduzione dei Settanta - vennero aggiungersi gli scritti delle prime cerehie dei seguaci di Cristo. Per esempio: Sperato, dei martiri di Scili, si presentò davanti al magistrato portando con sé una cassetta contenente le Lettere paoline247. Nelle Chiese circolavano inoltre una gran numero di Vangeli, Atti degli Apostoli, Apocalissi, da cui con un un lento processo emersero quelli con­ siderati canonici. Gran parte di essi riflettevano e strutturavano per le ge­ nerazioni successive quelle esperienze di persecuzione che, a partire dalla figura fondante di Cristo, avevano contraddistinto fin dai primi momenti i credenti in Gesù. La presenza di questi testi sullo sfondo degli A tti e le Passioni più antiche non è sotto forma di citazioni dirette (ad eccezione della L ettera dei martiri di Lione che è un testo più “lavorato” retoricamente), quanto di assimilazione di temi e linguaggio248. Pensiamo alle Lettere paoline così dense di metafore tratte dal gergo guerriero ed atleti­ co e così fortemente condizionate dall’esperienza dei contrasti e delle per­ secuzione subite dal loro autore nella sua lunga opera di apostolo, oppure alle profezie sulle persecuzioni future dei seguaci di Cristo presenti nei Vangeli249. A loro volta i primi A tti e Passioni circolarono nelle Chiese sia come resoconti venerabili delle testimonianze dei martiri, sia come impliciti modelli da seguire in circostanze analoghe. Si sviluppò anche una lettera­ tura protrettica pensata proprio per fornire un sostegno ai futuri e possibi­ li martiri. Il caso dell’Africa latina è illuminante: durante la persecuzione di D ecio (251), la prima a colpire duramente e in modo generalizzato tutte le Chiese dell’Impero, Fortunato (sacerdote e forse vescovo anch’egli) chiese a Cipriano di suggerigli una catechesi efficace per rafforzare l ’ani­ mo dei fratelli ad affrontare le persecuzioni. Cipriano com pose appunto ΓΑ Fortunato destinato alla formazione di quel clero cui appartenevano anche gran parte dei redattori delle P assioni. È interessante notare come gran parte dei temi, corredati da citazioni bibliche, consigliati da Cipriano

247 Atti dei Martiri scillitani 12. 248 Saxer, Bible , cit. 249 Cfr. ad esempio Me 10,29-30; 13,9-11 e paralleli.

Capitolo secondo

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trovino rispondenza nella letteratura martirologica precedente e successi­ va. Il vescovo di Cartagine consigliava di iniziare con la dimostrazione che gli idoli non sono divinità. Si doveva proseguire con la dimostrazione che si deve adorare un solo Dio, poi con l ’illustrazione delle minacce di morte da Lui rivolte a chi abiura. I punti successivi riguardavano la racco­ mandazione di non anteporre nessun interesse e legame terreno ad imita­ zione di Cristo che ha versato il sangue per gli uomini. Era necessario inoltre ricordare il giudizio e il castigo per chi viene meno e il fatto che le persecuzioni sono state predette così come l ’odio verso i cristiani. Per ultimo si doveva prospettare la speranza e la ricompensa per il martirio sottolineando che tale ricompensa è un premio gran lunga superiore alle sofferenze sopportate250. Dichiarazione di fede monoteistica, critica degli idoli, menzione dei castighi futuri, forte sottolineazione della speranza escatologica sono i punti forti della comunanza di linguaggio che contraddistingue i racconti di martirio; comunanza che è naturalmente da intendersi in modo dialet­ tico: nell’insegnamento di Cipriano confluisce la catechetica, la riflessio­ ne sulla Scrittura, le esperienze e le modalità di racconto dei secoli prece­ denti ed esso sistematizza e struttura non solo la scrittura successiva sui martiri, ma verosimilmente il modo stesso in cui i cristiani si disponeva­ no ad affrontare l ’esperienza del martirio.

250 Cipriano, A Fortunato 4.

CAPITOLO TERZO

1. La c ritica epicurea degli uom ini divini: la Vita di Demonatte e A les­ sandro il falso profeta di Luciano d i SamosataS A ll’inizio del 900, nello studio di insieme dedicato alla biografìa gre­ co-romana, F. Leo12 ritenne di poterne indicare l ’origine - la scuola peripatetica fra iv e in secolo - , le principali tappe di sviluppo e la classifica­ zione delle forme: l ’una, schematica e poco elaborata stilisticamente, sarebbe espressione della ricerca filologica e antiquaria e dedicata preva­ lentemente a figure illustri della vita intellettuale, l ’altra, più curata dal punto di vista letterario, dedicata a re, uomini di stato e generali sarebbe stata sviluppata dai peripatetici. Dopo un secolo di ricerche che hanno saggiato sotto molti aspetti la tenuta del paradigma interpretativo del Leo, il quadro generale appare profondamente mutato; per quanto riguarda le origini, la biografia appare molto più antica e risalirebbe al vi o al v seco­ lo a.C. e le sue forme si presentano più intricate e difficilmente riducibili a schemi fissi. La variabilità del discorso biografico in rapporto alle spe­ cifiche funzioni che esso assume in precisi contesti storici e nell’ambito dei diversi sistemi letterari sembra ora il punto di vista più fruttuoso da adottare in quest’ambito di studi3. La distinzione fra biografia greco-ro­ mana e agiografia cristiana è stata abbandonata a favore di una prospetti­ va che considera il discorso agiografico4*tardo antico comune a pagani e cristiani, anche se permane l ’idea che il discorso agiografico cristiano na­ sca improvvisamente con la Vita d i A ntonio di Atanasio, mentre questa,

1 Per la redazione del capitolo III. ho rielaborato due miei articoli precedenti: A. Monaci Castagno, Pagani e cristiani nello specchio della biografia, in A. Monaci Castagno (ed.), La biogra­ fia di Origene fra storia e agiografia, Verucchio 2004, pp. 51-109 e Ead., Le trasformazioni del discorso agiografico da Eusebio a Atanasio , in «Annali di Storia dell’Esegesi» 23(2006), pp. 45-65. 2 F. Leo, Griechisch-romische Biographie nach ihrer litterarischen Form, Leipzig 1901. Sul dibattito successivo: La biographie antique (Entretiens sur l ’Antiquité classique, XLtv), VandoeuvresGenève 1998, pp. 119-146. 3 I. Gallo, Problemi vecchi e nuovi della biografia greca, Napoli 1990, p. 11. 4 M. van Uytfanghe, L ’hagiographie: un “genre" chrétien ou antique tardi/?, in «Analecta Bollandiana» 111(1993), pp. 135-188; L. Canetti, Biografia, agiografia e persona. Una genealogia del discorso biografico, in Id., Il passero spennato. Riti, agiografia e memoria dal Tardoantico al Medio­ evo, Spoleto 2007, pp. 63-84.

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com e dirò tra poco, è in realtà già il frutto di un dialogo com plesso fra pagani e cristiani che affonda le sue radici nelle discussioni sulla figura di Gesù e sui Vangeli che i primi lettori pagani considerarono alla stregua di biografie. Mentre la letteratura martirologica, com e abbiamo visto, era il frutto di incroci culturali che comprendevano il giudaismo dei primi due secoli, in età rabbinica il discorso agiografico giudaico intraprese strade diverse dalla biografìa, una forma letteraria che neH’ebraismo si manife­ stò solo in età moderna5. La produzione biografica greco-romana si infittisce a partire dall’età imperiale. Accanto alle biografie dedicate agli uomini illustri in ambito politico o militare, vi erano quelle dedicate ai poeti, agli storici, agli orato­ ri, ai filosofi. Pur riguardando la stessa categoria di persone, potevano dif­ ferire notevolmente dal punto di vista della forma letteraria: basti pensare all’opera biografica di due autori contemporanei, Plutarco (50-120? 127?) e Svetonio (n. 50/70, m. 140/150). Questi, nell’opera dedicata alle Vite dei C esari, sceglie - anche se non così rigidamente come affermava il Leo una struttura da lui adottata anche per una raccolta di biografie di letterati - G li uom ini illustri in gran parte perduta - che prevedeva l ’esposizione divisa in tre parti: Luna comprendente un breve profilo biografico ordina­ to cronologicamente, l ’altra organizzata per rubriche dedicata ad illustrare le virtù o i vizi del soggetto con una scelta di fatti o detti scelti a d hoc. Cenni sulla morte o ai fatti successivi ad essa completavano il racconto. Plutarco, invece, dispone la propria materia in modo molto differente: di una produzione biografica certamente più vasta, possediamo 50 biogra­ fie, 42 delle quali nella forma delle Vite p a ra lle le , ripartite cioè in coppie comprendenti un personaggio greco e uno romano. L’esposizione segue di solito uno schema cronologico: una prima parte contiene la nascita, la patria, la famiglia, la bellezza e le altre qualità fisiche, il carattere e le qua­ lità innate, l ’educazione e le doti intellettuali, cioè i principali aspetti della vita di un individuo fino al momento in cui si affaccia alla vita pubblica. Seguono una parte centrale più cospicua che comprende le imprese in quanto rivelatrici di un carattere e descritte secondo una schema non sem­ pre rigidamente cronologico; infine una terza parte, più breve, dedicata alla morte. Disseminate nei prologhi di alcune Vite plutarchee troviamo alcune dichiarazioni di principio sul genere biografico e sul suo rapporto con la 5 J. Baumgarten, Il saggio, il giusto e il pio: i racconti agiografici ebraici, Roma 2007, p. 23. Materiali biografici riguardanti i rabbini poi confluiti nel Talmud potevano essere conosciuti dagli autori cristiani: è quanto sostiene S. Weingarten, The Saint’s Saint. Hagiography and Geography in Jerome, Leiden-Boston 2005, a proposito di Gerolamo che se ne sarebbe ispirato per alcuni episodi della Vita di Paolo (pp. 16-75).

Capitolo terzo

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storia; affermazioni tanto più preziose in quanto nei manuali dei gramma­ tici antichi in cui venivano elencate le caratteristiche specifiche dei gene­ ri letterari, non si trovano analoghe trattazioni per la biografia. Lo stesso termine biografia non compare prima del vi secolo e nei titoli di scritti contenenti biografìe compare talvolta il termine bios. Per Plutarco, lo scopo del b io s consiste nel mettere davanti ai lettori «il ricordo dei migliori e dei più illustri», di modo che osservandoli come davanti a uno specchio sia possibile assimilare la propria vita alle loro virtù6. L’oggetto proprio è V ethos del personaggio, cioè le sue virtù, e le azioni - p ra x eis - sono riferite soltanto in funzione del primo. Ciò che interessa il biografo è decifrare attraverso le azioni «i segni deH’anima». A tal fine, l ’aneddoto, il motto di spirito, i discorsi contano di più del reso­ conto dettagliato delle azioni in cui consiste invece il compito proprio della storia7. La biografia non rinuncia però alla pretesa di verità: le belle azioni devono essere illustrate quanto è più possibile aderendo al vero anche riportando gli aspetti meno edificanti senza tuttavia sottolinearli, «con un atteggiamento di indulgenza verso la natura umana che non ci presenta alcun carattere completamente buono e in tutto e per tutto incli­ ne alla virtù»8. Nel grande alveo della tradizione biografica greco-romana, furono le biografie dei filosofi - centrate sull’eccellenza morale e sulla coerenza fra vita e dottrina - a costituire un punto di riferimento privilegiato per gli autori cristiani, tanto più che il volto del filosofo tendeva ad assumere sempre di più i caratteri propri dell’uomo divino. Le numerose biografie dedicate a filosofi fra t e in secolo rispondevano ad una grande varietà di bisogni e di intenti fra cui è possibile individuare temi e problemi trasver­ sali. Un nodo importante era costituito dalla difesa di una particolare filo­ sofia in un contesto di confronto e polemica fra scuole filosofiche o inter­ pretazioni diverse di una stessa tradizione9*. Questa difesa gravitava intor­ no ad alcune questioni fondamentali: chi può fregiarsi del titolo di uomo divino? E l ’adesione a quale filosofia è il modo più efficace per raggiun­ gere quella condizione? Nella Vita d i D em on atte, ad esempio, Luciano di Samosata (120 ca180?) presenta la figura del suo maestro critico di tutte le scuole in nome di una pratica filosofica e di un genere di vita caratterizzati, in senso nega­

6 Tim.-Paul. Aem , pref. 1. 7 Vita di Alessandro Magno, pref. 1 ,1 -2 8 Vita di Cimone, pref. 9 C.H. Talbert, Biographies of Philosophers and Rulers as Instruments o f Religious Propaganda in Mediterranean Antiquity, in «A.N.R.W.» 18, 2 (1978), pp. 1619-1651. R. Goulet, Histoire etmystère. Les Vies de philosophes de Vantiquìté tardive , in La biographie antique, cit., pp. 217-257.

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tivo, dal rifiuto delle apparenze, della ciarlataneria, dell’ipocrisia, dell ’ascesi inumana e incivile e, in senso positivo, dall’adesione ad un ecclettismo morale trasversale alle diverse scuole filosofiche, ma che trovava n ell’epicureismo la sua pietra d ’angolo10. Attraverso diversi episodi, ciascuno dedicato - senza però alcuna siste­ maticità - ad illustrare un aspetto particolare, di Demonatte vengono m esse in luce la suprema tranquillità d’animo, la comprensione interioriz­ zata di ciò che costituisce il vero bene, come unica garanzia della libera­ zione dal bisogno e dal timore, l ’esaltazione dell’amicizia, la comprensio­ ne della sofferenza altrui, la mitezza nei rapporti interpersonali, l ’onestà, il disinteresse per la gloria e la ricchezza, la libertà di espresssione davan­ ti ai potenti, la mancanza di timore verso la morte. Così Luciano riassu­ me la vita di Demonatte: «V isse un p o’ meno di cent’anni, senza malattie, senza dolore, senza sollecitare o chiedere nulla a nessuno, rendendosi utile agli amici e senza avere avuto mai un nem ico... Verso la fine, quando era già m olto anziano mangiava e dormiva in qualunque casa ove fosse entrato per caso senza essere invitato e i suoi ospiti rite­ nevano l’evento com e l ’apparizione di un dio e com e l’arrivo di un buon demo­ ne nella loro casa»11.

Il ruolo recitato dal modello di Demonatte nella prospettiva lucianea viene compreso meglio se lo consideriamo parte di un dittico che com ­ prende VAlessandro o il falso profeta12. Nel tramandare la memoria di un personaggio così negativo, Luciano è consapevole di rompere con la tra­ dizione che considera la scrittura biografica veicolo efficace di esempi morali, ma nello stesso tempo Luciano è convinto della necessità di por­ tare alla luce almeno una parte dell’«indescrivibile massa di sterco» rap­ presentata dalla vicenda di Alessandro, un abile e spregiudicato avventu­ riero che trasformò un’oscura cittadina della Paflagonia - Abunotico - in un centro di grande rinomanza, meta di affollati pellegrinaggi e sede di un oracolo famoso di cui testimonianze archeologiche e numismatiche docu­ mentano la sopravvivenza per circa un secolo al suo fondatore. Alessandro - racconta Luciano - era di umile origine, ma di aspetto prestante e di intelligenza vivissima; la sua formazione - una paideia rovesciata — avvenne al seguito di maestri impresentabili: un ciarlatano medico, allievo di Apollonio di Tiana, che trasmise ad Alessandro i truc10 R. Koch, Commentpeut-on ètre dieu? La sede d ’Épicure, s.l. 2005, pp. 153-196. 11 Vita di Demonatte 63. 12 Luciano di Samosata, Alessandro o il falso profeta. Introduzione di D. Del Corno, traduzione e note di L. Campolunghi, Milano 1992.

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chi imparati dal maestro, in seguito, il mago Cocconas con l ’aiuto del quale riuscì a convincere gli abitanti di Abunotico a costruire un tempio e a designare Alessandro come oracolo e sacerdote di quel tempio dedicato ad Asclepio. Alla base dell’intero raggiro c ’era un ingegnoso stratagem­ ma con cui Alessandro, utilizzando un innocuo serpente di dimensioni gigantesche spacciato per Asclepio in persona, accreditava se stesso come oracolo del dio. Luciano guida il suo lettore nell’officina magica del suo eroe: descrive minuziosamente tutti i trucchi e gli artifici utilizzati da Alessandro per dif­ fondere la fama dell’oracolo ben al di là del Ponto e per guadagnarsi l ’ap­ poggio di patroni potenti. Alessandro è presentato come un abile co­ municatore, in grado di manipolare i simboli religiosi per inventarsi una genealogia divina: ora è Asclepio, ora Apollo, ora è Pitagora reincarnato. In un mare di credulità e dabbenaggine, Alessandro incontra pochi ostaco­ li: i cristiani e i seguaci di Epicuro accomunati nell’accusa di “ateismo”. Contro gli epicurei, Alessandro orchestra una campagna diffamatoria e perfino un rogo pubblico delle Sentenze capitali del maestro13. Il racconto si chiude con la morte di Alessandro, ucciso da una cancrena, e un’ultima menzione di Epicuro, di cui l ’opera di Luciano ha voluto vendicare la memoria, come un uomo «di natura veramente sacra e divina, l ’unico che sia riuscito a conoscere il bene con verità e che l ’abbia trasmesso agli altri, diventando un liberatore per chi ha seguito la sua dottrina»14. Demonatte e Alessandro rappresentano modelli antitetici: il primo illu­ stra l ’ideale epicureo della liberazione dal timore e dal dolore come l ’uni­ ca strada che consenta all’uomo di condividere la condizione di felicità propria del dio e dunque di diventare a sua volta divino, il secondo non rappresenta soltanto il tipo del profeta, del guaritore ispirato, dell’inviato dalla divinità con poteri eccezionali15, ma anche, per così dire, uno schie­ ramento filosofico: fra gli amici e sostenitori di Alessandro sono annove­ rati «i seguaci di Platone, di Crisippo e di Pitagora», mentre l ’inflessibile Epicuro era il suo acerrimo nemico, «perché la sua scuola se la rideva di quei presunti miracoli considerandoli trovate puerili»16. Ambedue i tipi erano presenti nel mondo di Luciano, ma nonostante la sua satira sferzan­ te, fu il secondo a incassare consensi più ampi, sostenuto dalla rinascita del pitagorismo e dall’interesse per quella forma di vita in età imperiale17*.

13 Alessandro 47. 14 Alessandro 61. 15 Alessandro 40. 16 Alessandro 25. 17 C. Macris, Autorità carismatica, direzione spirituale e genere di vita nella tradizione platoni­ ca, in G. Filoramo, Storia della direzione spirituale, voi. i. L’età antica, Brescia 2006, pp. 75-102.

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1.1. La Vita di Apollonio di Tiana f r a tau m atu rgia e filo so fia

N ell’A lessan dro o il fa ls o p ro feta Luciano metteva Apollonio di Tiana fra i cattivi maestri dell’oracolo di Abunotico, facendosi portavoce di un giudizio su Apollonio non certo positivo. Benché la tradizione su Apollonio - a favore o contro di lui - sia ric­ chissima e si estenda dal π secolo fino al ix secolo bizantino, possiamo sol­ tanto affermare su di lui che fu una figura di filosofo e retore del i secolo d.C., seguace della filosofia pitagorica e autore - se la notizia di Porfirio è affidabile - di una Vita d i P ita g o ra 18. Nella biografia dell’Imperatore Se­ vero Alessandro (figlio di Settimio Severo) contenuta ne\V H i sto ria Augu­ sta, si racconta che questo Imperatore tenesse nel proprio larario oltre alle immagini degli Imperatori deificati e dei suoi avi, anche le effigi di certi «santi spiriti», tra cui Apollonio, Cristo, Abramo e Orfeo19. E alla cerchia dei Severi si ricollega la Vita d i A po llo n io scritta fra 217 e il 244 da Flavio Filostrato, uno dei retori più importanti del suo tempo, per esaudire la richiesta di Giulia Domna, moglie d ell’Imperatore Settimio Severo. Nel prologo dichiara di basarsi sui ricordi di viaggio di Damis, uno dei primi discepoli di Apollonio; sugli scritti di Apollonio stesso (quali le Lettere che però sono ritenute non autentiche); su tradizioni da lui raccolte durante i suoi viaggi nelle città che conservavano memorie su di lui. Sempre nel pro­ logo dichiara l ’intenzione di restituire l ’immagine del “vero” Apollonio, da alcuni accusato di essere un mago e in effetti questa interpretazione di Apollonio è presente in fonti appartenenti al π secolo20. Il racconto di Filostrato percorre le tappe principali della vita di Apol­ lonio: la conversione al pitagorismo; i viaggi in Babilonia, India, Egitto per apprendere dai saggi di quelle terre i loro saperi esoterici; lo scontro con il tiranno, prima impersonato da Nerone, poi da Domiziano, la prigio­ nia e la liberazione miracolosa e infine il ritorno in Grecia per concluder­ si con la morte avvenuta, secondo alcuni, in modo naturale, secondo altri, nel modo riservato agli uomini divini che risalivano nei cieli. La narrazio­ ne è intessuta di descrizioni di luoghi esotici e mitici, palazzi, paesaggi, foreste, fiumi, eventi curiosi, fatti straordinari con cui la vicenda biogra­ fica ha poco a che fare, ma che rivelano l ’intento di scrivere un’opera di

18 E.L. Bowie, Apollonius ofTyana: Tradition andReality, in «A.N.R.W.» 16, 2 (1978), pp. 16531699 (con bibliografia e status quaestionis). M. Dzielska, Apollonius ofTyana in Legend and History, Roma 1986; Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, a cura di D. Del Como, Milano 1978; A. Billaut, L'univers de Philostrate , Bruxelles 2000. 19 Historia Augusta, Vita di Severo Alessandro 39, 2. 20 W. Speyer, Zum Bild des Apollonios von Tyana bei Heiden und Christen, in «Jahrbuch fiir Antike und Christentum» 17(1974), pp. 47-62.

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intrattenimento che fin dal titolo - Τα έ ς τ ο ν Τ υανέα Ά πολλώ νιον - si collega al romanzo ellenistico21. La Vita di A pollon io descrive quello che da questo momento in poi rap­ presenterà anche agli occhi dei suoi critici l ’uomo divino per definizio­ ne22. La sua nascita è accompagnata da sogni e segni23. Apollonio possie­ de una grande bellezza fisica2* non soggetta al decadimento della vecchia­ ia232567e precocità intellettuale20. Abbraccia la vita pitagorica22 e un regime di vita ascetico che implica l ’astensione dalla carne e dal vino e la prati­ ca della continenza28. Assume un particolare aspetto; non porta calzature e si veste di lino perché rifiuta vesti fatte con pelli di animale, porta i ca­ pelli lunghi poco curati29. La sua giornata è scandita dalla preghiera e dal­ l ’insegnamento30 impartito a un piccolo gruppo di compagni che lo ac­ compagnano nei primi spostamenti31. Apollonio possiede inoltre capacità straordinarie. Un racconto in particolare ci fa capire come nell antichità esistessero repertori di miracoli - forse quelle aretalogie, cioè raccolte di miracoli, per noi perdute - da cui gli scrittori, indipendentemente dallo loro ideologia, potevano attingere. Filostrato racconta ad un certo punto che, mentre Apollonio insegnava, un giovane si mise a ridere sguaiata­ mente. Apollonio riconobbe immediatamente in lui la presenza di un demone malvagio e con il solo sguardo indusse il demone ad urlare di spa­ vento e a giurare che non si sarebbe introdotto in alcun altro uomo. Apol­ lonio gli ordinò di dare un segno della sua uscita dal giovane. Il demone promise di far cadere una statua, cosa che infallibilmente avvenne32. Negli

21 Del Corno, cit., p. 27. . . , . „■ , 22 U n ’utile raccolta di materiali che va dal i. a.C. al v sec. d.C. e costituite ancora da L. Bieler, ΘΕΙΟΣ ANHP. Das Bild des “gottlichen Menschen” in Spdtantike und Fruhchristentum, Bti. 1- 11, Wien 1935-1936' D.S. du Toit, Theios Anthropos. Zur Verwendung von θείος άνθρωπος und sinnverwandten Ausdrttcken in der Literatur der Kaiserzeit, Tiibingen 1997 introduce una penodizzazione nell’utilizzazione e nel significato di quella espressione; relativamente ad Apollonio. Ph. Hanus

Ròle des ensembles spatio-temporels dans la structuratìon d ’une figure de l homme divin. L exemple de la Vie d ‘Apollonios de Thiane, in M. Guglielmo-G.F. Gianotti (eds.). Filosofia stona, immaginario mitologico, Torino 1997, 181-193; Id., Apollonios de Tyane et la tradition du theios aner , in «Dialogues d’histoire ancienne» 24(1998), pp. 200-231, 229. 23 Vita di Apollonio 1,5. 24 Vita di Apollonio 1,7. 25 Vita di Apollonio 8, 29; il saggio è sempre uguale a se stesso anche nel corpo.

26 Vita di Apollonio 1,7. 27 Vita di Apollonio 1 ,7 . _ 28 Vita di Apollonio 1,13: Filostrato nota che Apollonio supera lo stesso Pitagora che ammetteva i rapporti sessuali con la propria moglie. . 29 yita di Apollonio 1, 8; altre descrizioni del regime ascetico in 6, 11; 1 aspetto estenore di Apollonio è uno dei capi di accusa contro di lui: 8, 5. 30 Vita di Apollonio 1, 16. 31 Vita di Apollonio 1, 18. 32 Vita dì Apollonio 4, 21.

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A tti d i P ietro - un testo presumibilmente redatto in greco nel π secolo33 -

mentre 1 Apostolo stava pronunciando un discorso, un giovane si mise a sghignazzare. Anche Pietro riconobbe subito in lui la presenza di un demone malvagio cui ordinò di uscire e di mostrarsi ai presenti. Allora il giovane afferrò una grande statua di marmo e la frantumò34. Le azioni straordinarie di Apollonio non si limitano agli esorcismi: egli profetizza, guarisce, resuscita, conosce tutte le lingue, addomestica gli animali, riesce ad essere in più luoghi contemporaneamente35367,ottiene suc­ cesso e riconoscimento presso il grande pubblico e onori divini mentre è ancora in vita. Ma chi è in fondo Apollonio per Filostrato? Una prima definizione in senso negativo è che Apollonio non è un mago, anzi la dimostrazione di questo punto era uno dei motivi principali che lo spingevano a scrivere di lui36; una definizione in senso positivo - S o p h o sl Dio? Demone? Sem i­ dio? Immortale? —non è altrettanto immediatamente evidente in quanto Filostrato circonda il suo eroe da una pluralità di giudizi che però non si alternano a caso, ma rispondono ad un’attenta sceneggiatura che va tenu­ ta presente. Le azioni straordinarie di Apollonio suscitano nei testimoni meraviglia e ammirazione che li inducono a riconoscere in lui una natura divina. Damis è compagno di Apollonio nei suoi viaggi fino alla vecchia­ ia, all inizio del loro sodalizio, quando Apollonio gli rivela di conoscere le lingue e i pensieri inespressi, Damis «guardò a lui com e un demone»33; quando, a causa di Domiziano, Apollonio è in prigione, Damis lo vede liberarsi miracolosamente dai ceppi e riconosce che la natura di Apollonio è «divina e superiore» all umana38. In Egitto la folla lo ammira come un dio e gli tributa gli onori opportuni3^ l ’Imperatore Domiziano rimane col­ pito a ll’aspetto di Apollonio e pensa che sia un demone40. Nel demandare agli altri il riconoscimento della sovrannaturalità del suo eroe, Filostrato per non fa che sfruttare un topica piuttosto comune: negli A tti degli A p o sto li la gente di Listra che assiste ai miracoli di Paolo grida: «Gli dèi sono scesi fra noi in carne umana!» (A t 14,12). Dopo

33 Cfr. supra, p. 55. 34 Atti di Pietro 11. 35 Soltanto alcuni esempi: profezia: 4, 18; 4, 24; 5, 11; guarigioni: 4, 45; conoscenza delle lin­ gue: 1 .1 9; rapporto con gli animali: 6, 43. Una presentazione sistematica in: F.Ch. Baur, Apollonius von Tyana und Christus, rist. an., Hildesheim-Ziirich-New York 2000, pp. 29-44; G. Anderson, Philostratus. Biography and Belles Lettres in thè Third Century A.D., London 1986 pp. 135-154. ’ 36 Vita di Apollonio 1,2. 37 Vita di Apollonio 1, 19. 38 Vita di Apollonio 7. 38. 39 Vita di Apollonio 5, 24. 40 Vita di Apollonio 7, 32.

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Filostrato, Giamblico che, com e vedremo fra breve, respingeva recisa­ mente la tesi della divinità di Apollonio, tuttavia ricorre allo stesso strata­ gemma letterario per descrivere la straordinaria impressione suscitata da Pitagora: i marinai con cui com pie il viaggio in Egitto pensano che sia un demone divino41 e lo stesso i suoi discepoli di Crotone42. Viceversa Filostrato affida ad Apollonio il compito di smentire il rac­ conto della sua genealogia divina e di chiarire il significato della perce­ zione divina che di lui avevano i suoi contemporanei: ad Apollonio infat­ ti viene attribuita l ’affermazione di essere figlio di Apollonio (così si chia­ mava il padre), togliendo implicitamente credibilità ai racconti su una sua nascita straordinaria43. Inoltre, durante il processo davanti a Domiziano, quando gli viene rivolta l ’accusa: «Perché gli uomini ti chiamano dio?», Apollonio risponde: «Perché ogni uomo che è ritenuto buono ottiene il titolo di dio», esprimendo la convinzione che «dal dio provengano le virtù e che coloro che hanno parte siano prossimi agli dèi e quasi divini». Gli uomini buoni - conclude - hanno dunque qualche cosa divino e come dio regna sull’universo dandogli un ordine, così l ’uomo buono ha un univer­ so che dipende da lui: l ’universo costituito dalle anime ignare di discipli­ na per le quali è necessario allora un uomo che si curi di imporre loro 1 or­ dine «com e un dio mandato dalla sapienza»44. Mito e interpretazione razionalistica si intrecciano costantemente nello scritto di Filostrato; accade lo stesso per quanto riguarda i poteri tauma­ turgici di Apollonio che, talvolta, sono presentati senza alcun commento accreditando la superumanità di Apollonio, in altri casi, invece, sono accompagnati da considerazioni che tendono a ricondurre le sue azioni nell’alveo di ciò che è umanamente possibile. Per esempio, Filostrato riconduce le capacità profetiche al regime di vita di Apollonio che lo rende puro e privo di colpa45. Altre volte cerca di introdurre spiegazioni naturali di fatti straordinari: così avanza l ’ipotesi di morte apparente per dar conto dell’unico miracolo di resurrezione compiuto da Apollonio46. Le tre diverse versioni della morte di Apollonio —una naturale, le altre due in linea con quanto ci si aspettava da un uomo divino - rivelano la stessa pluralità di interpretazioni. Per quanto sia verosimile che le parole di Apollonio su se stesso e su come debba essere considerato l ’uomo divino esprimano m eglio il punto

41 Vita pitagorica 3, 16. 42 Vita pitagorica 6, 30. 43 Vita di Apollonio 1 ,6 . 44 Vita di Apollonio 8, 5. 43 Vita di Apollonio 3, 42; 6, 11. 46 Vita di Apollonio 4, 45.

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di vista di Filostrato, questi preferisce creare intorno ad Apollonio una pluralità di voci e testimonianze. L’intreccio fra l ’Apollonio divino in quanto uomo buono e Γ Apollonio divino in quanto demone, dio, immor­ tale è lo stesso che si osserva nelle scuole filosofiche che rendevano ai propri fondatori il culto dovuto ad un dio: il bios del sapiente, la sua cul­ tura, le sue dottrine servivano a stimolare fra i migliori Limitazione, ma erano il culto e il mito a tener viva la memoria e ad attirare nuovi adep­ ti47. Va inoltre ricordato che Filostrato doveva confrontarsi con una mitiz­ zazione già molto spinta del personaggio presente nel suo ambiente, in un momento in cui esisteva già un culto di Apollonio48 al quale proprio la corte severiana sembrava essere interessata ed è verosimile che la biogra­ fia, com e sappiamo essere avvenuto per tante di vite di santi cristiani, po­ tesse essere funzionale a renderne ragione o a svilupparlo. In altre parole, l ’ambiguità di cui Filostrato circonda l ’identità del suo personaggio consentiva una fruizione diversificata della sua opera sia da parte di coloro che nei tratti di Apollonio in quanto uomo divino non ve­ devano nuli'altro che una godibilissima metafora, una particolare modali­ tà di racconto del potere divinizzante della filosofia, sia da parte di chi voleva trovare in essa conferme a fini devozionali. 1.2. Porfirio biografo: la Vita di Pitagora e la Vita di Plotino Porfirio di Tiro (233 ca., f ca. 305) è una figura chiave sia della storia del neoplatonismo sia dello scontro fra cristianesimo e cultura filosofica greca nell’ultimo terzo del m sec. Discepolo di Plotino ed editore delle E nneadi, scrisse —fra numerosi altri scritti —anche il Contro i cristian i, opera per noi perduta ma i cui contenuti possono essere almeno in parte ricostruiti dalle numerose confutazioni e reazioni che suscitò fra le cer­ ehie colte cristiane. Anche se non si volesse dar credito ad Eusebio di Cesarea quando sostiene che la persecuzione dioclezianea sarebbe stata ispirata dalle pressioni di gruppi di intellettuali, bisogna tuttavia ricono-

47 Talbert, cit., 1640. 48 Oltre all’espisodio di Severo Alessandro già citato, sappiamo che Caracalla edificò un sacra­ no ad Apollonio nel 215 in una data molto vicina alla composizione della Vita di Apollonio ; secondo la Vita di Aureliano presente nell Historia Augusta, Apollonio sarebbe apparso in sogno all'Im­ peratore mentre stava assediando Tiana; l’imperatore lo riconosce perché aveva visto la sua immagi­ ne in numerosi templi (Hist. Aug., Aurei.)·, cfr. Dzielska, cit., pp. 56 ss. Le testimonianze sono tarde, ma esistono anche evidenze epigrafiche rinvenute in Turchia appartenenti ad un’epoca più vicina. L’epigrafe con le diverse sue interpretazioni e ulteriore bibliografia in Eusèbe de Césarée, Contre Hiéroclès, introduction, traduction et notes par M. Forrat; texte grec établi par E. des Places (SC 333) Paris 1986. p. 218.

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scere che essa è stata preceduta non solo da un inasprimento della propa­ ganda anticristiana, ma anche da un salto di qualità della stessa, sia nel senso della serietà della documentazione e pericolosità d ell’attacco, come dimostra appunto il Contro i cristian i, sia nel senso della saldatura fra apologetica pagana e potere politico, come dimostra VAm ico d ella verità di Sossiano Ierocle su cui tornerò più avanti. Porfirio fu un intellettuale “impegnato” che si batté per difendere i valori della p a id e ia greca e, attra­ verso di essa, il primato della tradizione filosofica pitagorico-platonica quale erede della sapienza mitica e religiosa dei greci e di altri popoli anti­ chi. A ll’interno della sua cerchia cercò di far prevalere un’interpretazione della filosofia del suo maestro come la sola autentica erede di quella pla­ tonica e insieme espressione della razionalità filosofica contro forme di sapienza religiosa che si presentavano com e superiori ad essa: in primo luogo, la teurgia nella forma propugnata da Giamblico e, sullo sfondo, il cristianesimo. Quanto possediamo dei suoi scritti biografici si iscrive in questo secondo aspetto dell’impegno porfiriano; in effetti sia la Vita di P ita g o ra , sia la Vita di P lotin o fanno parte di progetti editoriali più vasti che hanno sullo sfondo tematiche interne alla scuola. La prima era parte della S toria filo so fica in quattro libri, per noi per­ duta, ma che, com e sappiamo per via indiretta, doveva contenere oltre alla Vita di P ita g o ra , anche una Vita di Socrate e di Platone, oltre ad altri auto­ ri appartenenti al canone delle a u ctoritates della cultura greca. Omero, Esiodo, Empedocle. Platone, ultimo, chiudeva l ’opera che intendeva ap­ punto presentarlo come il punto di arrivo della filosofia che con lui avreb­ be ormai raggiunto l ’apice del proprio sviluppo e la piena rivelazione della verità49. N ella Vita d i P ita g o ra è riconoscibile una struttura che, pur con incon­ gruenze e ripetizioni, cerca di coniugare il racconto cronologico con un esposizione più sistematica organizzata per argomenti. N ella prima parte50 vengono illustrate le tappe principali della vita di Pitagora dalla nascita fino alla sua permanenza in Italia. Porfirio non manca di riportare la tra­ dizione della nascita di Pitagora da Apollo, ma si schiera a favore di una nascita naturale da Mnesarco. La formazione di Pitagora è illustrata attra­ verso i numerosi viaggi che egli compie presso diversi popoli —i caldei, i fenici, i magi, gli egiziani - da cui apprende le diverse discipline, la mate­ matica, la geometria, lo studio del cielo e la forma di vita. Il ritorno nella

49 M. Zambon, Porfirio biografo di filosofi, in Monaci Castagno (ed.), La biografia, cit., pp. 117142. 50 Vita di Pitagora 1-32; Porphyre, Vie de Pythagore, texte et traduction par E. des Places, Paris 1982.

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Ionia, a Samo, conclude la sua formazione e da questo momento Pitagora appare soprattutto com e un maestro, fondatore di scuole filosofiche, pri­ ma a Samo e poi, quando in questa città si instaura un potere tirannico in­ conciliabile con la libertà del filosofo, in Italia. Durante la permanenza in Italia sono collocati i fatti straordinari che spingono i discepoli e gli spet­ tatori a vedere in Pitagora un dairnon: ammansisce bestie feroci, è in gra­ do di comunicare con gli animali, profetizza, è presente contemporanea­ mente in luoghi diversi, rivela la sua natura sovrumana e viene riconosciu­ to come la reincarnazione d ell’eroe Euforbo e come Apollo Iperboreo5'. In questi capitoli la Vita paga il debito dovuto alla tradizione dello theios aner che Porfirio leggeva nelle sue fonti; suo, invece, è l ’accento su ciò che per lui è il tratto autenticamente divino di Pitagora: la sua cono­ scenza superiore. Soltanto Pitagora - afferma Porfirio - intendeva l ’armo­ nia universale proveniente dal movimento delle sfere e degli astri e aveva capacità superiori agli altri uomini «nel vedere, nell’intendere, nel pensa­ re»^. La parte centrale55 della Vita è dedicata a illuminare gli aspetti prin­ cipali della sua forma di vita e del suo insegnamento: viene descritta la giornata di Pitagora, il regime alimentare, la religiosità, le raccomanda­ zioni che rivolgeva ai discepoli, le pratiche della scuola, i modi di inse­ gnare, le principali dottrine. N ell’ultima parte54 si riprende il filo cronolo­ gico con la descrizione della rovina della scuola di Crotone determinata da un terribile incendio in cui morirono quasi tutti i discepoli di Pitagora, e secondo alcuni, Pitagora stesso. Se, per certi versi, la Vita di Pitagora può apparire una raccolta di ma­ teriali eterogenei55, appesantita da riferimenti eruditi e da dettagli pedanti e talvolta cucita in modo approssimativo, per altri versi, essa fa emergere il ritratto ideale del filosofo, come appunto lo vedeva Porfirio: un uomo dalla cultura enciclopedica, rappresentativa non solo di quella greca, ma anche di quei popoli —arabi, caldei, ebrei, egiziani —che si riteneva depo­ sitari di una sapienza antica quanto prestigiosa, un uomo rispettoso dei culti tradizionali, ad eccezione dei sacrifici di sangue, fondatore di una scuola e maestro di una forma di vita moderatamente ascetica tesa al distacco dalle passioni, dedicata allo studio e finalizzata alla contempla­ zione delle realtà intelligibili; una vita in cui, però, vi era spazio per la

51 U n’altra contraddizione del racconto di Porfirio, che all’inizio della Vita si era schierato a favo­ re d ell’interpretazione naturalistica della nascita di Pitagora! 52 Vita di Pitagora 30. 53 Vita di Pitagora 33-53. 54 Vita di Pitagora 54-60; l ’opera termina con una lacuna. 55 Porfirio cita numerosi scritti dedicati a Pitagora, tra cui appunto la Vita di Pitagora di Apollonio di Tiana.

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poesia, il canto, la musica, la danza, l ’esercizio fisico, l ’impegno politico, l ’amicizia e il rispetto dei legami familiari in consapevole opposizione ai modelli di perfezione cristiani. Di ben diversa compattezza e originalità è la Vita di Plotino che, scrit­ ta com e premessa alle Enneadi di cui egli stesso era l ’editore56, ha come fonte principale —oltre agli scritti dello stesso Plotino —1 esperienza diret­ ta di Porfirio che frequentò la scuola romana di Plotino fra il 263 e il 268. La Vita fu composta, come ci informa lo stesso Porfirio, nel 301 a trent’anni dalla morte del maestro e, sotto certi aspetti, rappresenta una fase dello scontro con Giamblico intorno al problema decisivo per la filosofia neoplatonica di quale fosse il modo di assimilazione al divino, se la cono­ scenza razionale o la teurgia. In senso strettamente biografico, è una Vita sui generis che esaurisce il racconto dalla nascita alla morte nei primi tre capitoli. L’intera sua vicen­ da è racchiusa fra il celebre incipit - «Plotino il filosofo del nostro tempo dava l ’impressione di vergognarsi di essere in un corpo. Per questo atteg­ giamento non voleva raccontare nulla delle sue origini, della sua famiglia e della sua patria»57 - e le ultime parole di Plotino che riassumono lo scopo del sua filosofia: «Far risalire il divino che è in noi nel divino che è nel Tutto»58. Porfirio, pur mostrando di conoscerle, si sottrae alle convenzioni del genere per giungere il più velocemente possibile a raccontare ciò che meglio conosce e che veramente gli sta a cuore: l ’attività della scuola a Roma, gli allievi, il metodo di insegnamento, le attestazioni di stima come le accuse e le discussioni che hanno riguardato Plotino, la sua attività let­ teraria, l ’enumerazione dei suoi scritti. Gli aspetti, cioè, di cui è stato direttamente testimone, mentre per gli eventi antecedenti e successivi alla sua permanenza nella scuola dipende dalle testimonianze di altri. Porfirio ha costruito la sua biografia con l ’intento di presentare un mo­ dello filosofico di uomo divino, secondo quanto ha sostenuto la Cox59? D illon60 ha recentemente sottolineato che Porfirio non evita di menziona­ re anche gli aspetti poco positivi del suo Maestro e, complessivamente, soprattutto quando riferisce i suoi ricordi personali, non presenta episodi 56 II titolo esatto è: La vita di Plotino e l ’ordine dei suoi scritti. 57 Vita di Plotino 1. 58 Vita di Plotino 2; J. Pepin, La dernière parole de Plotin, in Porphyre, La vie de Plotin, t. i; Travaux préliminaires et index grec complet; t. n: Études d ’introduction, texte grec et traduction fran5aise, commentaire, notes complémentaires, bibliographie, Paris 1982; 1992, t. u, pp. 355-385. 59 Biography in Late Antiquity. A Quest for thè Holy Man, Berkeley-Los Angeles-London 1983. Su questo studio cfr. infra. 60 J. Dillon, Holy and not so Holy: on thè Interpretation of Late Antique Biography, in B. McGing-J. Mossman (eds.), The Limits ofAncient Biography, Oakville 2006, pp. 155-167.

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sovrannaturali o che potevano apparire improbabili agli occhi di un pub­ blico tardo antico. Tuttavia egli non rinuncia del tutto a servirsi di raccon­ ti su Plotino che potevano alimentare quell’alone di divinità di cui i bio­ grafi amavano circondare, com e si è visto61, i maestri delle varie scuole filosofiche, episodi inoltre che potevano venire utili anche a suggerire in modo simbolico la superiorità del saggio sui demoni e l ’inutilità di quel­ le pratiche religiose che la teurgia invece riteneva essenziali62. L’oracolo di Apollo su Plotino e il commento di Porfirio suggellano il ritratto di Pio­ tino com e il filosofo dolce, buono, dall’anima pura, sempre attento a sot­ trarsi ai «flutti amari» di questa vita e ad elevarsi, attraverso la meditazio­ ne, al dio primo e trascendente e di unirsi a lui nell’esperienza estatica63. 1.3. La Vita pitagorica di Giamblico Coma la Vita di Pitagora anche la Vita pitagorica di Giamblico (n. sot­ to Gordiano, fra il 238 e il 244 e m. intorno al 320) fa parte di un progetto letterario più vasto concepito secondo intenti molto diversi da quelli di Porfirio. La Vita pitagorica era il primo di dieci libri che avevano per oggetto la scuola pitagorica e che erano organizzati in modo da costituire un itinerario progressivo di conoscenza e di adesione. La Vita pitagorica e il secondo libro Protrettico introducevano il discepolo alle nozioni più fa­ miliari e comuni, mentre i libri successivi fornivano una summa delle dot­ trine pitagoriche. Non c possibile precisare la data di composizione del te­ sto, l ’ampiezza del progetto fa pensare alla piena maturità, al periodo suc­ cessivo al ritorno di Giamblico in Siria da Roma dove aveva soggiornato per qualche tempo e aveva avuto modo di conoscere e frequentare Porfirio. Lo scritto di Giamblico non dipende da quello di Porfirio e quanto hanno in comune proviene dall’utilizzazione delle stesse fonti, anche se sfruttate in misura differente e all’interno di un’architettura narrativa diversa64. Per Giamblico, la filosofia pitagorica non era una fase dello sviluppo della filosofia antica, era semplicemente la filosofia che, attualizzata e reinterpretata, doveva essere abbracciata in quanto m eglio rappresentativa

61 Cfr. supra, nota 9. 62 Si tratta di tre episodi, avvenuti in tempi diversi, ma accorpati in unico capitolo: Vita di Plotino 10: la grandezza d ell’anima di Plotino stoma gli attacchi di un mago; la sua anima è accompagnata da un dio e non da un daimon-, rifiuto di Plotino di partecipare ad un pellegrinaggio. 63 Vita di Plotino 22-23. 64 Per Giamblico, si tratta soprattuto di Nicomaco di Gerasa e della Vita di Pitagora di Apollonio di Tiana; cui dovrebbe aggiungersi una terza fonte anonima di carattere più erudito: sulla status quaestionis cfr. Giamblico, La vita pitagorica, a cura di M. Giangiulio, Milano 2001 (2 ed.) (da cui cito) pp. 46-54.

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di quell’unica sapienza di cui le filosofie platonica ed aristotelica, le tra­ dizioni religiose orientali e l ’orfismo non sarebbero state che espressioni e rivelazioni. Il titolo segnala un’altra importante differenza: l ’intento principale non è quello biografico, ma la descrizione di una forma di vita, di una disci­ plina che fa parte integrante del magistero di Pitagora tramandato ai disce­ poli e che costituisce l ’identità del gruppo che la pratica. Si tratta deìpytagoreios tropos tou biou, secondo l ’espressione di Platone nell unico punto dei suoi scritti in cui accenna a Pitagora65. E questo colloca l ’opera di Giamblico nella problematica filosofica dei diversi generi di vita con l ’in­ tenzione di mostrare come la vita pitagorica coincida con il genere di vita più alto, la vita contemplativa: «Comunque, tutti i loro precetti relativi al fare o non fare una determinata cosa mirano al divino. E questo è il principio ordinatore dell’intero loro m odo di vive­ re, nonché il senso della filosofia dei pitagorici: porsi al seguito della divinità»66.

Da questa differente impostazione consegue anche una diversa distri­ buzione del materiale sia pure all’interno di una struttura espositiva simi­ le: dei trentasei capitoli che la compongono, le parti di carattere più em i­ nentemente biografico sono all’inizio67, dalla nascita fino all arrivo a Crotone, e alla fine68, in cui si descrive la dispersione della scuola di Pi­ tagora e la morte del filosofo stesso. La parte centrale, molto più ampia e particolareggiata di quella di Porfirio, è dedicata al magistero pitagorico essoterico, con ampio spazio lasciato ai discorsi che Pitagora avrebbe pro­ nunciato a diverse categorie di persone: i giovani, i governanti, i ragazzi e le donne69. Rispetto a Porfirio, Giamblico riserva una maggiore attenzio­ ne alle donne pitagoriche: descrive l ’eroismo di Timica che quando viene torturata si stacca la lingua con un morso pur di non rivelare al tiranno gli insegnamenti segreti della scuola70 e riporta nel catalogo dei pitagorici il nome di diciassette donne71. L’ultima parte dell’opera contiene l ’esposi­ zione sistematica delle virtù del filosofo: in primo luogo la pietà religio­ sa, la sapienza, la giustizia, la temperanza, la fortezza, l ’amicizia72.

65 Repubblica 600 a-b. 66 Vita pitagorica 86. 67 Vita pitagorica 2-6. 68 Vita pitagorica 35-36. 69 Vita pitagorica 7-11. 70 Vita pitagorica 31, 194 71 Vita pitagorica 36, 267. 72 Vita pitagorica 28-34.

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Giamblico fa precedere la sua narrazione da un’invocazione agli dèi; si tratta di un elemento topico, però egli non si ferma alla convenzione e parte di qui per chiarire che cosa è per lui la fdosofia. Afferma che gli dèi devono essere invocati perché la fdosofia «che prende il nome dal divino Pitagora» è stata in origine trasmessa dagli dèi e gli uomini non possono impadronirsene se non attraverso di essi. Dopo gli dèi - continua Giam­ blico - adotteremo Pitagora come «guida e padre della divina filosofia»73. Più avanti, quando arriva a discutere le diverse tradizioni sulla nascita di Pitagora, tra cui quella che lo voleva frutto dell’unione di Apollo con la madre Partenide, Giamblico afferma nettamente che questo non è assolu­ tamente ammissibile e aggiunge: «Tuttavia nessuno potrebbe contestare che l ’anima di Pitagora sia stata inviata agli uomini muovendo dal segui­ to di Apollo, vuoi quale compagna (συνοπαδόν) del dio, vuoi a questi unita da un più stretto rapporto»74. La trama che rende intelligibile il testo è il mito del Fedro75 che presenta le anime in cielo al seguito della schie­ ra degli dèi e dei demoni guidata da Zeus. La divinità e l ’eccezionaiità dell’anima di Pitagora, dunque, come quel­ la di Plotino è segnalata dall’essere compagna di un dio. Ma, secondo Giamblico, la prima si trova in un corpo per volere divino ed è stata invia­ ta con la missione di rivelare agli uomini la filosofia. In un certo senso, nel racconto di Giamblico, tutto è dato fin dall’inizio: la divinità e la filosofia che non può che essere rivelata. In questo modo Giamblico reinterpreta in senso filosofico una tradizione arcaica presente nelle sue fonti che consi­ derava Pitagora una figura divina. U n’esegesi analoga è osservabile più avanti, quando Giamblico cita Aristotele, Sulla filosofia pitagorica. Qui veniva riportato che, fra le dottrine più segrete, i seguaci di Pitagora custo­ divano la distinzione degli esseri viventi razionali in tre categorie: dio, gli uomini e Pitagora. Nel dar ragione di tale distinzione, Giamblico ancora una volta fa leva sul Pitagora rivelatore di ogni conoscenza ed educatore dell’umanità, suggerendo indirettamente che la distinzione pitagorica non avesse a che fare con la natura di Pitagora ma esprimesse la straordinaria e meritata ammirazione suscitata dall’opera di Pitagora76. È interessante inoltre notare che troviamo il tema d ell’invio delle anime, com e vedremo più avanti, anche nel Contro Ierocle di Eusebio di Cesarea utilizzata con fini analoghi: per spiegare in che senso si può par­ lare di “uomo divino” senza scadere nelle “favole” che Filostrato raccon­ ta a proposito di Apollonio. Non intendo certo sostenere un rapporto diret­ 73 Vita pitagorica 1. 74 Vita pitagorica 2, 9. 75 Fedro 246e-248; 253 b. 76 Vita pitagorica 6 ,3 1 -3 2 .

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to fra i due testi, intendo solo sottolineare - anticipando ciò che spero sarà più chiaro in seguito - che essi, verosimilmente scritti nello stesso tomo di tempo, rivelano una circolazione e competizione di idee e mezzi pole­ mici che attraversano i diversi schieramenti occupati dalle stesse questio­ ni chiaramente connesse: chi può essere definito “divino e come lo si può diventare. 2. La critica cristiana deU’“uomo divino”: il Contro Ierocle di Eusebio di

Cesarea Luciano di Samosata menzionava di sfuggita anche i cristiani fra i nemici di Alessandro, il falso profeta77: è possibile che egli volesse rife­ rirsi semplicemente al loro rifiuto degli oracoli pagani (e quindi anche di Alessandro) in una regione - il Ponto - in cui essi già dal tempo del­ l ’Imperatore Traiano avevano richiamato l ’attenzione delle autorità roma­ ne. La critica di Eusebio di Cesarea nei riguardi di Apollonio di Tiana affrontata sistematicamente nel Contro Ierocle ci aiuterà a comprendere anche altre ragioni dell’ostilità dei cristiani nei confronti di quell’insieme di rappresentazioni che noi moderni riassumiamo n ell’ espressione “uomo divino” e, nello stesso tempo, offrirà una chiave per comprendere meglio il suo lavoro di biografo. Sossiano Ierocle fu un alto funzionario imperiale impegnato nella lotta contro i cristiani su due fronti: quello istituzionale nelle vesti di governa­ tore della Bitinia quando si scatenò la persecuzione di Diocleziano e quel­ lo culturale perché proprio in quegli anni com pose il Φ ιλαλήθης, Amico della verità™. Il testo è perduto ma possiamo ricostruirne in parte il con­ tenuto sulla base del V libro delle Divine Istituzioni di Lattanzio e del Contro Ierocle di Eusebio. L’opera di Ierocle, come Celso nel secolo precedente e come Porfirio nel suo Contro i cristiani, si soffermava sui dati biografici di Gesù e della sua cerchia per far risaltare la marginalità e perfino la devianza culturale

77 Alessandro 25. 78 Eusèbe de Césarée, Contre Hiéroclès. introduction, traduction et notes par M. Forrat; texte grec établi par E. des Places (SC 333), Paris 1986. Forrat, pp. 20-26 affronta tutti i problemi relativi al per­ sonaggio e all’opera discutendo le diverse testimonianze letterarie ed epigrafiche: Ierocle fu governa­ tore di Paimira nel 297, vicario di diocesi, governatore della Bitinia intorno al 303, prefetto d’Egitto dal 310 al 311. Il Filalete sarebbe stato scritto prima del 303 e reso pubblico a Nicomedia sempre nel 303 davanti ad un circolo di intellettuali e amici dell’Imperatore; G. Rinaldi, Prefetti d ’Egitto e cri­ stiani. Note prosopografiche, in G. Gnoli-G. Sfameni Gasparro, Potere e religione nel mondo indo­ europeo tra ellenismo e tarda-anticità, Roma 2009, pp. 321-325. Cfr. anche Eusebio di Cesarea, Contro Ierocle, introduzione, traduzione e note di A. Traverso, Roma 1997.

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e sociale sua e del suo movimento. Inoltre istituiva un paragone fra i mira­ coli di Gesù e quelli di Apollonio di Tiana con Γ intento di dimostrare che costui ha compiuto miracoli più grandi di Gesù, ma che i greci sono più saggi dei cristiani in quanto non l ’hanno considerato dio. Nella Vita di Apollonio non si faceva nessun riferimento a Gesù, tutta­ via, già a partire dal π secolo, una componente importante del dibattito fra pagani e cristiani era stata la questione se la credenza nella divinità di Ge­ sù potesse o meno essere assimilata alla credenza dei pagani negli “uo­ mini divini”. Dopo aver citato, fra altri “uomini divini” Pitagora, Orfeo, Eracle, Asclepio, i Dioscuri, Celso79 chiedeva perché i cristiani non accet­ tassero di onorarli com e dèi, mentre consideravano Gesù divino, anche se non aveva fatto nulla di notevole80.1 pagani criticavano i racconti evange­ lici ritenendoli oscuri, contraddittori e menzogneri soprattutto a proposi­ to degli eventi eccezionali della biografia di Gesù ( la nascita da una ver­ gine, i miracoli, la resurrezione) e rifiutavano ogni tipo di analogia fra i loro eroi e Gesù, un uomo di umili origini, di patria sconosciuta, di nes­ suna cultura e che per di più era stato condannato dalla giustizia romana a morire come un criminale. Su questo sfondo è comprensibile dunque il confronto esplicito propo­ sto da Sossiano Ierocle nel suo Amico della verità, confronto in cui anche la cronologia - Apollonio era ritenuto quasi un contemporaneo di Gesù giocava a favore. L’opera di Sossiano Ierocle ebbe una parte di rilievo anche nella fortu­ na successiva della Vita di Apollonio di Tiana, soprattutto nel suo propor­ re Apollonio in diretta concorrenza con Gesù. In effetti n ell’ultimo quar­ to del iv secolo, in Oriente, Eunapio la considerò un modello per le sue Vite di filosofi e sofisti, presentati come holy menM\ in Occidente, fu tra­ dotta in latino da Virio Nicom aco Flaviano, uno dei protagonisti, insieme a Vettio Agorio Pretestato e Quinto Aurelio Simmaco, della reazione pa­ gana della fine del iv secolo che si concluse con la sconfitta di Eugenio al Frigido. La traduzione di Nicom aco fu rivista in seguito più volte; l ’ulti­ ma fu quella di Sidonio Apollinare82. Ritorniamo ora al Contro Ierocle di Eusebio. Eusebio lo compone ve­ rosimilmente nel 303 ο 3 1283; e lo dedica ad un destinatario anonimo che

79 Autore del Discorso vero, composto intorno al 170, citato e confutato più tardi da Origene nel Contro Celso. Non è sicuro che fosse lo stesso Celso a cui Luciano ha dedicato VAlessandro. 80 Origene, Contro Celso 1, 67. 81 Eunapio di Sardi, Vite di filosofi e sofisti, a cura di M. Civiletti, Milano 2007, nn 69- 255- n 235. 82 Dzielska, cit., pp. 153-183. 83 A. Kofsky, Eusebius ofCaesarea against Paganism, Leiden-Boston-Kòln 2000, pp. 69-71.

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è rimasto colpito dal paragone fra Cristo e Apollonio: è un cristiano colto che oltre all’Amico della verità ha letto la Vita di Apollonio visto che l ’argomentazione di Eusebio la dà talvolta per conosciuta84 e che forse potrebbe procurarsi e leggere il Contro Celso di Origene, dal momento che Eusebio rimanda il suo lettore a quell’opera per la confutazione degli aspetti del trattato di Ierocle che non riguardano il paragone Gesù-Apollonio85. Dal momento che per Eusebio tale aspetto costituisce 1 unica parte originale d ell’opera, questa viene quasi subito lasciata da parte per passare all’esame dello scritto di Filostrato. Come osserva giustamente Forrat86, il tratto originale del Contro Ierocle consiste nell’aver applicato alla Vita di Apollonio lo stesso metodo di critica letteraria e storica che intellettuali com e Celso e più tardi Porfirio avevano impiegato per legge­ re i Vangeli e gli altri racconti biblici. Secondo Eusebio, Filostrato non è stato in grado di condurre uno studio rigoroso sulla storia di Apollonio87; si dice disposto a considerare l ’«uomo di Tiana» come un sophos e nell ’annoverarlo fra i filosofi, ma non può accettare che venga descritto ri­ correndo a “favole” (μ υ θ ο λ ο γ ία ς ), perché Apollonio apparirebbe piut­ tosto nelle sembianze di un mago, cui è stato affibbiato uno stile di vita pitagorico com e una maschera88. Filostrato vuole presentare Apollonio come «un essere divino superiore a un filosofo, in una parola com e un essere di natura sovrumana»89, come «un uomo divino» e per questo sempre secondo Eusebio che qui riassume i punti che gli sembrano più perspicui - gli attribuisce « l’apparenza e la maschera di un demone del mare»90 raccontando l ’apparizione di Proteo alla madre e le circostanze eccezionali del parto, facendo dire inoltre ad Apollonio, come se questi fosse di natura divina, di conoscere tutte le lingue senza averle imparate, affermando che, nel tempio di Asclepio, il Tianeo «godeva della stima del dio e possedeva fin dalla fanciullezza un dono innato e naturale di prescienza e che, per la sua stessa nascita, era un essere assolutamente sovrumano»91. Ma egli cade in continue contraddizioni gettando discredito su ll’Apollonio saggio, filosofo, uomo di buon senso e abile nelle cose del mondo.

«4 Sul destinatario (forse fittizio) e sul pubblico in generale cfr. Forrat, cit., p. 69.

^ Contro Ierocle 1. „ . 86 Op. cit., pp. 67-68 e A. Mendelson, Eusebius and Posthumous Career of Apollomus of lyana, in H.W. Attridge-G. Hata, Eusebius, Christianity and Judaism, Leiden-New York-Koln 1992, pp. 510522. 87 Contro Ierocle 4. 88 Contro Ierocle 5; 48. 89 Contro Ierocle 7. 90 Contro Ierocle 8. 91 Contro Ierocle 8.

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Alla fine dell’esame del primo libro della Vita di Apollonio, Eusebio così riassume il suo punto di vista: «Per quanto mi riguarda, sono dispostissimo a credere tutto ciò che è probabile e conforme alla verità e se anche qualche particolare possa essere stato ingigantito in modo eccessivo per lodare un uomo buono, sono pronto a ritenerlo credibile ed accettabile, eccettuato solo ciò che è favoloso e improbabile»92. Filostrato è dunque un mythologos9ì che con le sue “favole”94 ha reso improbabile il suo eroe. È evidente che l ’attacco di Eusebio si fonda su un’interpretazione unilaterale e perfino fuorviarne della Vita di Apollonio che, com e ho accennato sopra, contiene una stratificazione di temi molto più complessa di quanto sostiene Eusebio riguardo alla questione d ell’uo­ mo divino. Il polemista cristiano, inoltre, puntella le sue critiche con affer­ mazioni generali riguardanti sia la superiorità di Gesù su Apollonio, sia le possibilità che gli uomini hanno di entrare in contatto con le realtà divine. Anche se avesse compiuto qualche prodigio, l ’Apollonio raccontato da Filostrato non sarebbe comunque “divino” nel senso in cui lo è Gesù. Secondo Eusebio, la divinità del Salvatore è dimostrata, oltre che dai miracoli, dal fatto di essere stato annunciato dai profeti, di aver converti­ to moltissimi al suo insegnamento; di aver avuto discepoli autentici pron­ ti a morire per la sua dottrina; di aver salvato con la sua divinità e virtù l ’intero mondo; il suo potere divino e misterioso ha prevalso alla fine sui suoi persecutori e ancora oggi - continua Eusebio - attraverso l ’invoca­ zione del suo nome sono sconfitti i demoni che assalgono le anime e i corpi degli uomini. D ’altro canto, sempre secondo Eusebio, l ’Apollonio di Filostrato non è “divino” neanche nel senso in cui, secondo una prospettiva cristiana, qualcuno potrebbe divenire theios. Non è infatti possibile a un uomo esse­ re divino nel senso di riuscire a superare i limiti fissati dalle immutabili leggi della natura. Tutti gli esseri viventi - continua Eusebio - sono sog­ getti a questi limiti invalicabili. Talvolta - aggiunge - Dio invia alcuni uomini: «I più vicini tra coloro che gli stanno intorno per salvare e sostenere gli uomini di quaggiù; e se a uno di questi venisse concesso, dopo aver purificato la sua mente e dissipato la nube della sua mortalità, potrà essere considerato veramen­ te divino, recante nell’anima l’immagine di un grande dio. Certamente un tal per92 Contro Ierocle 12. 93 Contro Ierocle 34. 94 II termine μυθολογία compare spesso: 24; 7; 36.

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sonaggio farà avanzare il genere umano permettendo di vedere anche alle gene­ razioni future l ’opera della divinità eterna, offrendo un esempio della natura ispi­ rata da Dio non inferiore alla sculture tratte dalla materia senza vita. In questo modo la natura umana può entrare in comunione con quella divina, ma altrimen­ ti non le è possibile oltrepassare i suoi limiti, né con un corpo praticare Γarte degli uccelli, né, quando si è uomini, mescolarsi con le cose degli dèi»95. Nel delineare la figura di questi διδάσκαλοι σω τηρία?96 - uomini cioè investiti da Dio di una missione speciale a causa delle loro qualità e che sono riconoscibili per l ’influenza che riescono ad esercitare sull inte­ ro genere umano, con un’attività di tipo rivelativo, didascalico o paradig­ matico senza menzione dell’elemento taumaturgico97 - Eusebio si fa por­ tavoce dell’ideale di perfezione platonico reinterpretato in senso cristiano ad Alessandria da Clemente e, soprattutto, da Origene989*. Ciò che interes­ sa qui tenere presente è che l ’angolatura particolare — il confronto fra Gesù e Apollonio - da cui Eusebio considera la Vita di Apollonio lo impe­ gna a prendere le distanze da quella particolare modalità di racconto, infatti, se da un punto di vista cristiano, soltanto a Cristo, pienamente diouomo, sono legittimamente riferibili i racconti - nascita prodigiosa, mira­ coli, ascensione al cielo —usati da Filostrato per rendere conto dell uomo divino, la stessa strada non è percorribile per raccontare il bios di un eroe cristiano. Nella critica della Vita di Apollonio e nel dibattito fra cristiani e pagani su Gesù e gli uomini divini dovranno dunque essere ricercate le radici della biografia eusebiana, costruita sul consapevole rifiuto del tau­ maturgico e miracolistico e, in senso positivo, sull esaltazione della paideia, l ’ascesi e il martirio come elementi irrinunciabili dell ideale di per­ fezione. Gli scritti biografici di Eusebio costituiscono un capitolo della sua produzione letteraria piuttosto trascurato su cui invece ora conviene soffermarsi. 2.1. Biografie eusebiane: Origene e Costantino Nel fare l ’inventario dei diversi significati attribuiti al termine agio­ grafia”, Guy Philippart" registrava anche “vita di santo/a” e “azione di

95 Contro Ierocle 6. 96 Ibidem. 97 [fa[detri 9» Come ha dimostrato l’analisi dettagliata di M. Kertsch, Tradìtionelle Rhetorik und Phìlosophie in Eusebius ' Antirrhetikos gegen Hierokles, in «Vigiliae Christianae» 34 (1980), pp. 145-171. 99 Philippart, Hagiographes et hagiographie, hagiologes et hagiologies: des mots et des concepts, in «Hagiographica» 1(1994), pp. 1-16.

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redigere una vita di santo/a”. È un uso errato e frequente che merita qui di essere menzionato solo perché è un’efficace testimonianza di quanto que­ sto particolare genere letterario sia stato quantitativamente e qualitativa­ mente importante neH’ambito del discorso agiografico a tal punto da inge­ nerare la convinzione che “agiografia” coincidesse di fatto con le Vitae sanctorum. Il rilievo delle Vitae sanctorum nello sviluppo di tale discorso attraverso i secoli fino all’età contemporanea, spiega anche la vivacità delle discussioni degli studiosi sull’origine della biografia cristiana. Malgrado i tentativi di von Hamack di attribuire la priorità alla Vita e pas­ sione di Cipriano10°, lo scettro è generalmente ancora attribuito alla Vita di Antonio scritta da Atanasio, vescovo di Alessandria101. Negli studi che discutono questo problema è raro leggere una riflessione approfondita sul ruolo di Eusebio di Cesarea. È un fatto singolare se si tiene conto che egli è autore di numerosi scritti biografici: le già menzionate Memorie su Panfilo in tre libri; l ’Apologià per Origene in sei libri, di cui i libri i i - v i erano dedicati alla vita e alle opere di Origene, la cosiddetta Vita di Costantino. Le prime due opere sono perdute, ma possiamo farci un’idea abbastanza precisa del loro contenuto, per quanto riguarda Panfilo, dalle due recensioni de I martiri della Palestina e, per quanto riguarda Origene dal libro vi della Storia ecclesiastica, per gran parte dedicato al racconto del suo biosi02. L’inclinazione di Eusebio per il racconto biografico nasceva dal suo interesse verso l ’apologetica che si realizzò in un’intensa attività di pro­ paganda e di difesa della fede cristiana dagli attacchi sempre più informa­ ti e circostanziati dei pagani. Eusebio conosceva bene gli autori che con­ futava ed era consapevole dell’importanza che stava assumendo la biogra­ fia n ell’esaltazione di dottrine filosofiche e stili di vita che potevano entra­ re in competizione con il particolare tipo di cristianesimo colto e militan­ te che gli stava a cuore. Il suo interesse per la biografia nasce, in parte, dal desiderio di contendere agli avversari un genere di successo e, nello stes­ so tempo, di reinterpretarlo in senso cristiano. In secondo luogo, Eusebio, pur non ignorando la distinzione dei gene­ ri letterari, riteneva che il racconto biografico avesse diritto di cittadinan­ za nella narrazione storica. Le sue opinioni in fondo non erano molto 100 Cfr. supra, p. 68. 101 G.J.M. Bartelink, Die literarische Gattung der Vita Antonii. Struktur und Motive, in «Vigiliae Christianae» 36(1982), pp. 38-62; C. Mohrmann, introduzione, in La Vita di Antonio, testo critico e commento a cura di G.J.M. Bartelink, traduzione di P. Citati e S. Lilla, Milano 1998(6), pp. vii- lxvii. 102 È il termine usato da Eusebio in Storia ecclesiastica. La storia della redazione del bios di Origene è questione dibattuta: status quaestionis in É. Junod, L 'Apologie pour Origène de Pamphile et Eusèbe et les développements sur Origène dans le livre VI de / ’Histoire ecclésiastique, in Monaci Castagno (ed.). La biografia, cit., pp. 183-200.

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diverse da quelle dei suoi colleghi pagani che, a partire dal n secolo d.C., scrivevano le Vite dei Cesari, con l ’intento di illustrare attraverso quelle i diversi periodi storici103. Fra gli argomenti principali della sua Storia ecclesiastica, Eusebio aveva indicato espressamente la sua intenzione di raccontare accanto agli avvenimenti anche i protagonisti della sua storia, gli Apostoli, i vescovi, gli ambasciatori della parola divina, gli eretici104. Se la “Vita di Origene” presente nel libro vi non ha rivali per ampiezza, tuttavia, dove dispone di informazioni, Eusebio dà sempre un certo spazio a notizie biografiche. Queste, come si è visto, hanno un grande rilievo anche ne\Yistoria sui Martiri della Palestina. Il racconto della vita di Origene (185? - 261?) occupa 22 dei 46 capi­ toli del libro vi della Storia ecclesiastica. Il rapporto fra il libro vi della Storia ecclesiastica e l ’Apologia di Panfilo è questione dibattuta resa complicata dalle revisioni successive della Storia ecclesiastica. La narra­ zione è interrotta da capitoli dedicati a notizie su altri personaggi e fatti contemporanei agli eventi della vita di Origene, secondo, del resto, quan­ to richiedeva Γ ίσ τ ο ρ ία 105. Esso costituisce una delle fonti principali per la ricostruzione della fi­ gura storica di Origene e in questo senso è stato molto studiato106. Mi limiterò a ricordare che Eusebio aveva a disposizione una ricca documen­ tazione di prima mano costituita dalle opere stesse di Origene, da un un ampio archivio di lettere scritte o ricevute da lui e da documenti di con­ temporanei del Maestro alessandrino. Secondo il suo stile, Eusebio lavo­ ra sugli interstizi degli eventi, sceglie e miscela in modo sapiente la sua documentazione per ricostruire un profilo di Origene che può essere stu­ diato anche come espressione di un momento particolare dello sviluppo del discorso agiografico. Da questo secondo punto di vista, molto meno trattato, la “Vita di Origene —nella redazione che ci e stata tramandata appare caratterizzata principalmente da due elementi: da una parte, per i motivi che abbiamo appena chiarito, il rifiuto consapevole e ideologica­ mente orientato del taumaturgico, dall’altra l ’integrazione fra il modello del filosofo e quello del martire.

103 Aspetto particolarmente affrontato da A. Dihle, Die Entstehung der historischen Biographie, Heidelberg 1987; sulla “vita Origenis”, 77 ss. P. Cox, Biography in Late Antiquity. A Quest for thè Holy Man , Berkeley-Los Angeles-London 1983, la accosta alla Vita di Plotino di Porfirio ritenendo ambedue i testi espressione della tipologia dell’uomo divino; ho criticato tale impostazione in Monaci Castagno, Pagani e cristiani..., pp. 55-64. 104 Storia ecclesiastica 1, 1, 1-2. 105 Cfr. supra, p. 72. . i°6 p Nautin, Origène. Sa vie et son oeuvre, Paris 1977 e l ’aggiomamento di G. Donvai, Est-il légitime d'éclairer le Discours de remerciement par la Lettre à Gregoire et réciproquement? Ou la tentation de Pasolini, in Monaci Castagno, La biografia, cit., pp. 9-32.

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Questo appare evidente fin dai primi capitoli dedicati all’infanzia; la dichiarazione di apertura: «Di Origene mi pare degno di memoria anche ciò che gli avvenne fin dalle fasce»'0? dimostra che il suo biografo ha in mente le convenzioni del genere: quello delle “fasce” è un topos che intende segnalare che avvenimenti eccezionali hanno rivelato fin dalla culla il carattere o il destino di personaggi illustri'0». Ma l ’eccezionaiità di Origene è messa in luce in particolare a partire dal tema del martirio: nel momento più drammatico (se. sotto Alessandro Severo, 202 d.C.), egli, ancora giovanissimo, arde dal desiderio del martirio. Dopo l ’arresto del padre Leonida, a nulla valgono le suppliche della madre con cui cerca di trattenerlo a casa. Origene rimane fermo nel suo proposito a tal punto che la madre si vede costretta a nascondergli i vestiti per impedirgli di uscire. Allora Origene scrive una lettera al padre dove gli dice: «Guardati bene dal cambiar consiglio a causa di noi». La scelta di aprire con un aneddoto così gustoso, accompagnato da un bon mot non è affatto casua­ le, ma ricorda la lezione di Plutarco che valorizzava l ’aneddoto, il motto di spirito, la frase celebre, i discorsi più del resoconto dettagliato delle azioni del personaggio per illustrare il carattere, Vethos del personaggio, le sue virtù1071810910. Dopo questa apertura ad effetto Eusebio riprende in mano il filo cro­ nologico della narrazione: l ’educazione impartita ad Origene, ma «prima ancora»"0, la lettura e lo studio della Scrittura in cui il fanciullo, dando prova di precocità intellettuale e anticipando il tipo di interpretazione di cui sarà massimo maestro, già vedeva significati più profondi di quello letterale. Questa parte, che più di altre risente delle convenzioni proprie del genere biografico, si chiude con un altro aneddoto che sottolinea la particolare vicinanza di Origene allo Spirito: il padre Leonida che, stupi­ to e com m osso dall’eccezionaiità del figlio, si accosta a lui dormiente, gli denuda il petto e lo bacia nella convinzione che uno spirito divino alber­ gasse in quello. Quando Leonida muore martire, Origene ha diciassette anni e la re­ sponsabilità della famiglia privata ora dei suoi beni. Grazie anche alla pro­ tezione di una donna facoltosa, riesce a completare i suoi studi e a diveni­ re grammatico provvedendo così ai bisogni suoi e della famiglia. Paral­ lelamente Origene diventa anche un appassionato maestro di dottrina cri­ stiana per i pagani e crea una cerchia di discepoli, alcuni dei quali affron­ 107 Storia ecclesiastica 6, 2, 2. 108 E. Norelli, Il vi libro dell’Historia Ecclesiastica. Appunti di storia della redazione: il caso deU’infanzia e dell’adolescenza di Origene, in Monaci Castagno (ed.), La biografia, cit., p. 157. 109 Vita di Alessandro, pref. 1. 1-2. 110 Storia ecclesiastica 6, 2, 8.

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tano con coraggio il martirio. Eusebio sottolinea come Origene li assistet­ te con straordinario coraggio fino all’ultimo dichiarando con gesti platea­ li la sua identità di cristiano: solo la mano della provvidenza - osserva Eusebio - che aveva per lui altri disegni lo salvò dal martirio'". La sua fama di maestro si diffonde, molti accorrono da lui e Demetrio, vescovo di Alessandria, gli affida la «scuola di catechesi»"2: un compito impegnativo che impone scelte radicali. Come più tardi altri faranno con le loro ricchezze, Origene rinuncia alla sua biblioteca di testi letterari per riceverne in cambio quattro oboli al giorno per i suoi bisogni. Alla pover­ tà volontaria si aggiunge la vittoria sulle passioni con severe pratiche ascetiche: dormiva per terra, camminava a piedi scalzi, si asteneva dal vino, mangiava solo lo stretto necessario, trascorreva la notte immerso nello studio della Scrittura. Il racconto di Eusebio, che non possiamo qui seguire in dettaglio, pro­ segue ricordando il gesto audace di Origene, che per mettersi al riparo da ogni maldicenza in quanto maestro anche di donne, si autoevira; la con­ sacrazione sacerdotale di Origene da parte dei vescovi di Cesarea in Pa­ lestina e Gerusalemme; la rottura con il vescovo di Alessandria Demetrio, il trasferimento di Origene a Cesarea, il suo arresto durante la persecuzio­ ne di D ecio, le torture che gli furono inflitte e infine la morte avvvenuta secondo Eusebio a Tiro. Nel tracciare il profilo del Maestro alessandrino, Eusebio non manca di ricordare le sue opere, soffermandosi in particola­ re sul suo contributo allo studio filologico del testo biblico e sui suoi Commenti alle Scritture. Fa soltanto una breve m enzione"3 del trattato I principi - che conteneva le sue tesi più speculative e che era già al tempo di Eusebio l ’opera sua più discussa e contestata. Del resto, il pensiero di Origene è il grande assente di questo bios. L’ampio spazio della Storia ecclesiastica dedicato ad illustrare la vita di Origene non si spiega soltanto con la ricchezza della documentazione che Eusebio aveva a disposizione; egli era mosso da diversi motivi alcuni di natura più personale, altri di carattere generale. Eusebio era legato alla figura origeniana attraverso Panfilo, suo maestro e padre spirituale. Panfilo aveva dedicato tutta la vita alla missione di perpetuare e difende­ re la memoria di Origene. Sacerdote della Chiesa di Cesarea di Palestina, aveva cercato di riunire nella biblioteca vescovile di quella città 1 opera omnia origeniana che nei pochi decenni trascorsi dalla morte del grande 111 Storia ecclesiastica 6 ,4 ,1 . _ 112 La scuola di Alessandria è un altro tema molto dibattuto della biogratia origeniana: status quaestionis: M. Rizzi, Scuola di Alessandria, in A. Monaci Castagno (ed.), Origene. Dizionario, Ro­ ma 2000, pp. 437-440. 113 Storia ecclesiastica 6, 24, 3.

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alessandrino si era già dispersa o rischiava di perire completamente per il cattivo stato di conservazione dei manoscritti. Inoltre Eusebio aveva col­ laborato attivamente con Panfilo, già in prigione, per la stesura delVApologia di Origene di fronte agli attacchi rivolti contro la sua teologia da altri confessori. Gli si rimproveravano le sue dottrine audaci su vari aspetti della teologia, l ’aver operato un connubio troppo stretto fra cristia­ nesimo e filosofia greca, l ’interpretazione allegorica della Scrittura, la sua insubordinazione al vescovo. La narrazione di Eusebio è costruita per far fronte a tali accuse: lascia da parte gli aspetti dottrinali, sottolinea l ’e­ norme contributo filologico di Origene alla comprensione del testo scritturistico e valorizza la cultura biblica come preponderante rispetto alla filosofia negli scritti e nella vita stessa di Origene (egli ha affrontato lo studio della Scrittura prima di cominciare il cursus degli studi tradiziona­ li e ritiene che la cultura greca sia propedeutica alla piena comprensione di questa), presenta sotto una luce sfavorevole Demetrio e nello stesso tempo dà il massimo rilievo a tutti gli altri vescovi che hanno mostrato di considerare Origene un maestro. Affermavo prima che il tratto saliente di questa biografia è l ’integra­ zione fra il modello del filosofo che godeva di un grande prestigio socia­ le nella società tardo antica e quello del martire114 su cui si fonda il pre­ stigio e l'invincibilità della Chiesa. L’Origene di Eusebio (come Apol­ lonio) è un filosofo, la cui filosofia è specificata dalla coerenza fra azioni e discorsi, da un regime di vita ascetico, dall’insegnamento. Come un caposcuola Origene organizza il curriculum studiorum, attribuisce ruoli ai propri discepoli, sceglie il metodo di studio115, riceve gli omaggi tradizio­ nali dovuti alla sua posizione: i colleghi lo onorano dedicandogli le pro­ prie opere e sottoponendogli per l ’approvazione i propri lavori116. Tutte queste attività si intrecciano continuamente con il martirio cercato, inse­ gnato e infine, almeno in parte, subito. In un certo senso, il martirio legit­ tima il bios di Origene in un momento in cui proprio questo è oggetto di forti contestazioni, ma il pieno sviluppo letterario di esso accanto al rac­ conto delle sofferenze subite, suggerisce che proprio quel bios è in grado di preparare l ’individuo a realizzare l ’ideale supremo. Non bisogna inoltre trascurare il fatto che la battaglia per Origene ha sullo sfondo un nodo importante che potremmo definire politico, in quan­ to dà voce a interessi di particolari gruppi all’interno delle Chiese. Eu­ sebio affida al suo Origene il compito di dimostrare il ruolo insostituibile 114 C. Mazzucco, Il modello martiriale nella “ Vita di Origene ” di Eusebio, in Monaci Castagno (ed.), La biografia, cit., pp. 207-255. 115 Storia ecclesiastica 6, 19, 12-13; 6, 31, 1. 116 Storia ecclesiastica 6, 19, 1.

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della paideia nell'accelerare l ’osmosi fra cristianesimo e i gruppi dirigen­ ti politici e culturali dell’Impero. La vita del Maestro alessandrino o, per m eglio dire, le scelte operate da Eusebio all’interno del materiale che ave­ va a disposizione, è la dimostrazione che tale osm osi era un processo posi­ tivo già in atto: ancorché indifferente ai beni e alle glorie del mondo, Origene viene rappresentato al centro di una rete di rapporti sociali che coin­ volgono gli strati più alti della società imperiale: la dama alessandrina che l ’accoglie ancora giovanissimo, il ricchissimo Ambrogio che ne finanzia l ’attività letteraria, il legato d ’Arabia Sesto Fumio Iuliano che lo manda a chiamare con tutti gli onori117, la madre dell’Imperatore Mamea118 che «considerò importante essere degnata di una sua visita»; Giulio Africano, storico e letterato famoso, anch’egli legato alla corte119, l ’imperatore Fi­ lippo e la m oglie Severa. Lo stesso didaskaleion alessandrino è raffigura­ to come un luogo di attrazione e di proselitismo per le élites alessandrine.

La Vita di Costantino. Composta nel 337, due anni dopo la morte di Costantino, è un’opera destinata ad un pubblico misto di pagani e cristia­ ni che ha di mira gli ambienti di corte e gli stessi figli di Costantino cui Eusebio fa riferimento all’inizio elogiandone la perfetta imitazione del padre Costantino. Non interessa qui seguire in dettaglio le numerose que­ stioni sollevate a proposito di questo testo per quanto riguarda la stratifi­ cazione redazionale e il genere letterario. È stato notato che segue per la gran parte lo schema del logos basilikos fissato da Menandro di Laodicea, ma se ne distanzia per l ’esposizione delle praxeis in senso cronologico e per l ’inclusione di documenti storici, aspetto che avvicina la Vita Co­ stantini al modo che ebbe Eusebio di concepire il racconto storico120. Co­ me altre di Eusebio, è un’opera originale perché nuovo era anche il pro­ blema che doveva affrontare: raccontare la vita del primo Imperatore cri­ stiano. Egli scelse di rappresentarla ritagliando all’interno degli argomen­ ti tradizionali delle biografie imperiali - l ’attività legislativa, politica e militare - un settore particolare: le azioni di Costantino che avevano atti­ nenza con la fede e la religione121. N ei quattro libri che costituiscono la Vita di Costantino, Eusebio presenta la “conversione” di Costantino come 117 Storia ecclesiastica 6, 19, 15. 118 Storia ecclesiastica 6, 2 \, 3. 119 Egli fu incaricato dall’Imperatore Alessandro Severo di organizzare la biblioteca del Pantheon: J.R. Vieillefond, Les “Cestes” de Julius Africanus: étude d ’ensemble des fragments Uvee édition, traduction et commentare, Florence-Paris 1970, pp. 13 ss. 120 Sulle questioni: Eusebio di Cesarea, La vita di Costantino, a cura di L. Tartaglia, Napol 20012, pp. 13-21; Eusebius, Life of Constantine, introduction, translation and commentary by A. Cameron-S.J. Hall, Oxford 1999, pp. 27-34. 121 Vita di Costantino 1, 11, 1-2.

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un evento puntuale nel tempo, ispirata direttamente da Dio e coincidente con la vittoria su M assenzio122, costruendo così il mito di un Costantino cristiano fin dall’inizio. Trasforma la lotta per la conquista del potere imperiale nello scontro titanico fra due religioni, il paganesimo e il cristia­ nesimo e, a partire dalla conquista del potere, descrive Costantino come attivamente impegnato, alTintemo della Chiesa, nel promuovere la con­ cordia teologica e nel sostenere in ogni modo la diffusione e il rafforza­ mento delle strutture ecclesiastiche e, all’esterno, com e l ’implacabile per­ secutore e distruttore dei culti pagani123. A tale proposito è interessante notare che Eusebio ricorda la distruzione del tempio di Asclepio ad Aigai: «Ad un suo solo cenno - racconta Eusebio - quell’edificio che aveva suscitato la meraviglia e Γammirazione di nobili filosofi fu abbattuto ad opera d ell’esercito, e insieme con esso rovinò anche colui che vi si na­ scondeva dentro, né demone, né dio, piuttosto un guastatore di anime, la cui frode era durata per molti e lunghi anni»12! i n questo com e in altri casi, le affermazioni trionfalistiche di Eusebio sulla scomparsa di culti e templi sono smentite da altre fonti storiche, però forse egli aveva un moti­ vo in più per riferire questo episodio: al tempio di Asclepio ad Aigai, co­ me si ricorderà, era legata una memoria di Apollonio di Tiana che in quel luogo vi avrebbe tenuto una scuola. La menzione, ora sarcastica, dei «no­ bili filosofi» che l ’avevano ammirato ha tutto il sapore di una resa di conti definitiva con quella figura che soltanto pochi anni prima gli avversari del cristianesimo avevano osato paragonare a Cristo stesso. Averii Cameron ritiene che la Vita di Costantino presenti l ’Imperatore com e un “uomo divino”, un eroe , uno theios anhr indicato com e tale da segni divini125. Dobbiamo concludere che la Vita di Costantino costituisca un’inversione di tendenza riguardo agli altri scritti biografici di Eusebio? Va subito notato che egli racconta la vita di Costantino dall’ infanzia alla morte seguendo le convenzioni letterarie in misura maggiore di quanto non avesse fatto negli scritti biografici precedenti126. Più che in questi ulti­ mi, inoltre, Eusebio sottolinea lo specialissim o rapporto del suo personag­ 122 II tema della conversione di Costantino è stato ed è tuttora al centro di un’appassionata discus­ sione storiografica. Status quaestionis in A. Marcone, Pagano e cristiano. Vita e mito di Costantino, Roma-Bari 2002; A. Fraschetti, La conversione fra Roma pagana e Roma cristiana, Roma-Bari 2004; M. Amerise, Il battesimo di Costantino il Grande. Storia di una scomoda verità, Stuttgart 2005. 123 Temi presenti anche negli altri discorsi elogiativi dedicati a Costantino: Eusebio di Cesarea, Elogio di Costantino. Discorso per il trentennale. Discorso regale, introduzione, traduzione e note di M. Amerise, Milano 2005. 124 Vita di Costantino 3, 56, 1-2. 125 Cameron, cit., p. 31. 126 La famiglia: (1, 13-16) il carattere (1 ,1 2 , 3); l'aspetto di Costantino viene descritto più volte (1, 19, 2); la sua straordinaria bellezza e robustezza che si mantennero integre fino all’età avanzata (4, 53); la cultura, gli studi retorici (1, 19, 2).

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gio con Dio: già nella prima fanciullezza è un’ispirazione divina a sugge­ rirgli un comportamento cristiano ancor prima di diventarlo; un’altra rive­ lazione lo salva da una congiura di palazzo127. C ’è naturalmente la famo­ sa visione del «segno luminoso della croce» accompagnata dall’iscrizio­ ne «Con questo vinci»128. Ma tutta la vita di Costantino è costellata da rivelazioni e visioni che lo sostengono in momenti decisivi per 1 Impero e la Chiesa129. Tuttavia per valutare questi elementi di novità nella loro giu­ sta luce, è indispensabile tenere presente che agli occhi di Eusebio che aveva potuto vedere di persona le terribili sofferenze dei martiri durante la persecuzione dioclezianea e, in un breve volgere di anni, i cambiamenti radicali successivi alla politica religiosa costantiniana, tutti questi eventi avevano un che di meraviglioso e potevano apparire di per sé come thaumata, cioè miracoli. Paragonando la situazione dei cristiani prima di Costantino a quella degli ebrei, sotto il dominio degli egiziani al tempo di M osè, Eusebio osserva: «Questa antica storia che al volgo viene narrata com e una favola, ha già nel pas­ sato riempito gli orecchi di tutti; ma ora quello stesso Dio, che è riconosciuto tale anche da noi, ha concesso il dono di farci assistere di persona ad evidenti mira­ coli, ben più grandi di quelli contenuti nelle favole e per noi, che di recente ne siamo stati spettatori, tali miracoli risultano più veritieri di qualsiasi racconto»130.

La comprensione provvidenzialistica di tali avvenimenti e il sentimen­ to sincero di meraviglia nel vedere la mano di Dio a ll’opera nelle diverse vicende di Costantino o nei provvedimenti da lui emanati a favore dei cri­ stiani sono lo sfondo a partire dal quale valutare Tincidenza del prodigio­ so nel racconto eusebiano. Analizzando più in dettaglio quali “miracoli compie Costantino, essi consistono soltanto n ell’amplificazione e/o varia­ zione sul tema della visione riguardante il segno della croce mentre non compaiono racconti relativi ad altri tipi di miracoli. Se poi leggiamo la Vita Costantini cercando di stabilire in che misura il ritratto dell’Imperatore, corrisponda a quello degli uomini «veramente divini» che Eusebio ha tratteggiato nel Contro Ierocle in polemica con il ritratto di Apollonio di Tiana offerto da Filostrato, notiamo che anche qui Costantino viene esaltato come modello di virtù e, per questo, scelto da Dio com e maestro per l ’umanità. Mi limito a citare solo il prologo che dà il tono a quanto segue: 127 Vita di 128 Vita di 129 Vita di 130 Vita di

Costantino Costantino Costantino Costantino

1, 20, 1-2. 1, 28-29. 1, 47, 2; 2, 12, 2. 1, 12, 2.

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«Anche D io stesso, da Costantino sempre venerato, diede di tutto ciò conferma con evidenti segni, ponendosi propizio al suo fianco al principio, durante e alla fine del l ’Impero e fu D io che propose al genere umano Costantino quale maestro esemplare di pietà ( eusebeia ) religiosa»131.

Come ha ben mostrato Marilena Am erise132, per Eusebio, l ’Imperatore cristiano non è una figura divina in terra, ma un uomo scelto da D io per la sua particolare eusebeia e com e tale assimilabile alle altre figure bibli­ che che in passato - come ad esempio M osè - strinsero un patto con Dio; un uomo che è immagine del Logos, non come effetto di una partecipa­ zione ontologica alla sua natura divina, ma grazie alle sue virtù. Degli uomini «veramente» divini, Costantino possiede anche altri trat­ ti: la cultura, lo studio della Scrittura133. Non manca neppure il tema del martirio. Riferito a Costantino il termine non avrebbe potuto certo conser­ vare il significato collegato al versamento di sangue oppure all’ascesi come «vero martirio» che pur Eusebio non ignorava134, ciononostante tutto l ’operato dell’Imperatore viene interpretato alla luce della martyria: «(Dio) fece di Costantino un maestro che a gran voce testimoniò agli orecchi di tutti di conoscere il vero Dio e di detestare l ’errore delle false divinità»135. Tale dichiarazione riecheggia la confessione dei martiri nei racconti di martirio. In questo senso, in quanto maestro della vera religione, è “martire/testimone” e protettore e amico dei martiri effettivi, aspetto che Eu­ sebio non manca mai di sottolineare nel corso della sua opera136. Certamente un personaggio come Costantino riluttava ad essere inse­ rito in una forma biografica che invece attagliava perfettamente a Origene e Panfilo; tuttavia anche per lui - non senza qualche esito involontaria­ mente com ico - Eusebio ha cercato di presentare quella convergenza fra modello filosofico e modello martiriale che a suo avviso distingue l ’uomo “veramente divino”, come ha cercato di mantenere la sua modalità di rac­ conto al riparo dagli eccessi favolistici di un Filostrato.

131 Vita di Costantino 1 ,4 , 1. 132 Amerise, cit., pp. 33-67. 133 Vita di Costantino 4. 29. 134 Cfr. supra , p. 77. 135 Vita di Costantino 1, 5. 136 Vita di Costantino 2, 21.35.40; 3, 48; 4, 23.

CAPITOLO QUARTO

l. Il iv secolo: mutamenti istituzionali e sviluppo del culto dei santi Se la venerazione e il prestigio dei martiri all’interno delle Chiese cri­ stiane erano molto antecedenti al iv secolo, fu però in questo secolo che il culto assunse quelle forme e quella visibilità che accompagneranno la storia del cristianesimo anche nei secoli successivi. Nel rendere ragione almeno a grandi linee di questo fenomeno storico, è necessario tenere presente l ’intreccio fra gli elementi di lunga durata ben precedenti al iv secolo e quelli, circostanziati nel tempo, della politica religiosa imperiale1. „ Nel “secolo breve” che va dal 311 al 380 il cristianesimo (quello meeno) si trasforma da religione perseguitata a religione ufficiale dell’Impero. L’editto di Galerio emanato a Sardica il 30 aprile del 311 consentiva ai cri­ stiani di celebrare i loro culti e di ricostruire le loro chiese. Inoltre rivolge­ va loro la richiesta di pregare per la salvezza dell’Imperatore e dell Impero; veniva così ammesso il fallimento della persecuzione dioclezianea e con­ temporaneamente il cristianesimo veniva riconosciuto come una religione lecita utile allo stato. Nel 313 Costantino e Licinio si incontrarono a Mila­ no in occasione delle nozze dello stesso Licinio con la sorella del primo: la politica religiosa concordata fra di loro è impropriamente nota come “editto” di Milano. I due Augusti - ma l ’iniziativa e la forza di imporla era di Costantino - confermarono il contenuto dell’Editto di Galerio di due anni prima e si accordarono su un certo numero di norme che integravano quel decreto. Il 27 febbraio del 380, Teodosio i, emanò un editto che impo­ neva «a tutti i popoli» di vivere nella religione «che il divino apostolo Pietro ha trasmesso ai romani» e che è «seguita dal Pontefice Damaso e da vescovo di Alessandria»2. N ello stesso editto, che conteneva una confessio­ ne di fede sulla divinità del Padre, del Figlio e dello Spinto Santo, si chia­ riva inoltre a quale tipo di cristianesimo (quello meeno) si dovesse aderire, 1 Sintesi generali- Ch. Pietri, Vévolution du calte des saints aux premiers siècles chrétiens: du tém oin^m ntercesseu^in Lesfònctions des saints dans le monde Occidental (uf-xt.r siede), Ecole f r a n o s e de Rome 1991, pp. 15-36. M. van Uytfanghe■ L’origine, C e s s a r e , cul,e deS saints. Quelques repères pour un débat re'ouvert, in «Cassiodorus» 2(1996), pp. 143-190. 2 Codice Teodosiano xvi, 1, 2.

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l ’unico che potesse fregiarsi del titolo di “cattolico”, mentre gli altri orien­ tamenti teologici erano considerati eretici e perseguibili dal braccio arma­ to dalla legge. Dal 380 si infittiscono i provvedimenti antipagani fino a quelli del 392 che proscrivevano di fatto il paganesimo3. Nella prima parte di questo periodo la figura più incisiva è stata senza dubbio quella di Costantino. Eusebio, di cui possediamo più resoconti di quegli anni decisivi, presenta lo scontro fra Costantino e i suoi nemici politici, come uno scontro fra il paganesimo e il cristianesimo e suggeri­ sce che la “conversione” di Costantino fu un evento puntuale nel tempo, ispirata direttamente da Dio e coincidente con la vittoria di Costantino su Massenzio. Il tema della “conversione” di Costantino è stato ed è tuttora al centro di un’appassionata discussione storiografica4; qui interessa solo sottolineare che la sua politica religiosa a favore dei cristiani, per quanto all’inizio assai prudente nelle dichiarazioni generali, fu invece da subito molto incisiva nelle scelte concrete. Già negli accordi di Milano, come risulta da documenti successivi, si annunciava la svolta filocristiana che Costantino intendeva dare alla propria politica religiosa: da una parte, mentre si garantiva a tutti la libertà di professare i loro culti al fine di pro­ piziare all’Impero «qualunque divinità ci sia nelle sede celeste»5, dall’al­ tra, si davano dettagliate disposizioni sul trattamento dei beni e degli immobili appartenenti alle Chiese. Confiscati durante le persecuzioni, questi dovevano immediatamente essere restituiti senza nessun compen­ so; allo stesso 313 risale la concessione d ell’immunità da ogni onere verso lo stato per i sacerdoti; è di qualche anno più tardi la concessione della possibilità di appellarsi al tribunale di un vescovo contro un precedente verdetto emanato da un giudice ordinario e la sanzione della necessità del riposo domenicale - il giorno sacro dei cristiani - prescrivendo la cessa­ zione in quel giorno di ogni attività giudiziaria. Meritava ricordare questi provvedimenti perché su questo sfondo è possibile comprendere due aspetti decisivi dei futuri sviluppi del culto dei martiri e dei santi: da una parte, le Chiese ebbero così possibilità di con­ centrare nelle proprie mani grandi ricchezze che le mettevano in grado di realizzare su ampia scala programmi di edilizia religiosa e di organizzare fastose liturgie, dall’altra, i privilegi concentrati sulla figura del vescovo e 3 Codice Teodosiano xvt, 10, 12. 4 Status quaestionis, in A. Fraschetti, La conversione fra Roma pagana e Roma cristiana, RomaBari 2004; A. Marcone, Pagano e cristiano. Vita e mito dì Costantino, Roma-Bari 2002; R. Markus, Transformations ofLate Antiquity, in P. Rousseau-E. Papoutsakis (eds.), The Transformations ofLate Antiquity: Essays for Peter Brown, Ashgate 2009, pp. 1-13. 5 In una circolare inviata dai due Augusti ai governatori provinciali ed esposta pubblicamente da Licinio ad Antiochia. 11 documento è citato da un autore cristiano: Lattanzio, Sulla morte dei perse­ cutori 48, 2-6.

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l ’importanza da lui assunta all’intemo della società tardo antica impresse­ ro una forte accelerazione all’osm osi tra i gradi più alti della gerarchia delle Chiese e le classi aristocratiche dalle cui file già a partire dalla se­ conda metà del iv secolo e ancor di più in seguito uscirono i vescovi delle città più importanti dell’Impero. È dai ceti aristocratici che il culto dei santi riceverà un forte impulso, sia sotto forma di concrete iniziative, sia sotto forma di sostegno culturale ed è —bisogna aggiungere —anche attra­ verso il culto dei martiri che questi ceti riuscirono a imporre o a rafforza­ re la loro presa sulla società6. Costantino diede l ’esempio di come l’evergetismo tradizionale poteva essere riorientato in un Impero cristiano. Questo importante meccanismo insieme politico ed econom ico che nella città antica redistribuiva sotto forma di donazioni, di organizzazione di giochi, di costruzioni pubbliche le ricchezze delle grandi famiglie che ne ricavavano in cambio prestigio e potere, venne almeno in parte reindirizzato verso le Chiese. Costantino costruì molto: a Roma ovviamente, dove creò lungo le strade di accesso ad essa un anello di costruzioni imponenti: la Basilica Lateranense conce­ pita come la cattedrale dei cristiani di Roma e la Basilica di S. Croce; fece inoltre erigere numerose chiese presso i cimiteri ipogei che custodivano le tombe di martiri illustri: san Lorenzo, sant’Agnese, i santi Marcellino e Pietro Diacono e sopra un sacrario precedente che commemorava gli apo­ stoli Pietro e Paolo situato ad catacumbas. Tutte queste chiese sorgevano fuori dalle mura di Roma e su proprietà imperiali di cui Costantino pote­ va disporre senza dovere fare i conti con l ’aristocrazia romana allora pre­ valentemente pagana. Tuttavia, dal momento che si presentavano con una struttura architettonica tipica dell’edilizia civile - la basilica - rivaleg­ giando con questa per splendore di marmi, mosaici arredi e per ricchezza di dotazioni per il loro mantenimento7, implicitamente rivendicavano uno

status ufficiale. Ma Costantino non si limitò a Roma: costruì edifici destinati al culto cristiano a Gerusalemme e in Palestina nei luoghi che si riteneva legati a passaggi fondamentali della vita di Gesù; a Costantinopoli, a Tiro, ad An­ tiochia, a Eliopoli, ad Aquileia. La stragrande maggioranza di questi edi­ fici vengono definiti dalle fonti antiche martyria, indicando con uno stes­ so termine sia l ’edificio che ospitava il corpo di un martire (che è il signi­ ficato che prevarrà in seguito), sia quello che sorgeva sui luoghi santi 6 punto m esso particolarmente in luce da P. Brown, tl culto dei santi. L origine e la diffusione di una nuova religiosità , tr. it. Torino 1983 (London 1981). 7 R. Krautheimer, Tre capitali cristiane. Topografia e politica, tr. it. Torino 1987; sui monumen­ ti costantiniani cfr. anche Ch. Pietri, Roma Christiana. Recherches sur VÉglise de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Sixte ili (311-344), 2 t., Roma 1976, t. I, pp. 40 ss.

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della Palestina legati alla memoria di Cristo. Una spiegazione suggestiva di quest’uso linguistico è avanzata da André Grabar: i martyria sarebbe­ ro i “testimoni” di una epifania divina, quella del Figlio di D io nei luo­ ghi santi e quella di Dio nei corpi santi8. La credenza in una particolare ed efficace presenza di Dio in determinati luoghi o corpi o oggetti potreb­ be essere una chiave interpretativa importante per comprendere il vasto programma costantiniano di costruzioni religiose: con esse egli intende­ va moltiplicare i segni della potenza di Dio, di quella virtus che riteneva a ll’origine dei propri successi militari e politici e fondamento della pro­ sperità dello stato9. Soltanto con i successori di Costantino e, in particolare, con Costanzo il, il culto dei martiri acquistò un posto di primo piano come fondamento della prosperità d ell’Impero e della salute degli Imperatori10. Sulla vene­ razione delle tombe dei martiri da parte di Costanzo π abbiamo più di una testimonianza: lo storico pagano Ammiano Marcellino vi fa cenno sarca­ sticamente più volte1*; secondo Sulpicio Severo, Costanzo n avrebbe asso­ ciato alla protezione di un martire l ’esito vittorioso di una battaglia12; allo stesso Imperatore sarebbe inoltre da attribuire la traslazione a Costan­ tinopoli delle reliquie di Timoteo, Andrea e Luca13. Prima si ha notizia soltanto di quella del corpo di Babila che, per iniziativa di Gallo (nomina­ to Cesare nel 351 -354), fu portato dalla città di Antiochia a Dafne per con­ trastare in quel luogo la presenza di un oracolo pagano. In seguito le tra­ slazioni di reliquie per arricchire il tesoro di Costantinopoli furono una pratica frequentemente adottata dagli Imperatori14, ma all’inizio la deci­ sione imperiale dovette apparire ai contemporanei tanto più significativa, in quanto proibita dalla legislazione tradizionale che considerava un grave crimine la violazione delle tom be15. Se la generosità di Costantino - anche per le obiettive difficoltà attra­ versate dall’Impero - non fu uguagliata dagli Imperatori successivi, a par­

8 A. Grabar, Martyrium. Recherches sur le culle des reliques et l ’art chrétien antique, t. Hi, Paris 1946, t. i, pp. 28-31. 9 F. Heim, Virtus. Idéologie politique et croyances religieuses au ΙΨ siècle, Beme-Frankfurt/M.New York-Paris 1991, pp. 35-63. 10 E. Bozóky, La politique des reliques de Constantin à Saint Louis, Paris 2006. 11 Le storie xxi, 16, 18; xviil, 7, 7; xix, 3, 1. 12 Cronaca II, 38, 5. 13 Paolino di Nola, Carmi 19, 321-329, ma attribuisce l'episodio erroneamente a Costantino. 14 H. Delehaye, Les origines du culte des martyrs, Paris 1933, pp. 51-57. 15 Tale legislazione fu ripresa da una costituzione di Teodosio i (386) in cui si fa esplicito riferi­ mento ai corpi dei martiri e che recita: «Nessuno disseppelisca un corpo portandolo altrove, nessuno divida il corpo di un martire, nessuno ne faccia commercio»; nel 439 confluì poi nel Codice Teodosiano (IX, 17, 7); cfr. L. Canetti, Frammenti di eternità. Corpi e reliquie tra Antichità e Medioevo Roma 2002, pp. 28-32.

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tire dalla metà del iv secolo, l ’evergetismo imperiale fu accompagnato e sempre più spesso sostituito da quello dei vescovi coadiuvati dalle fami­ glie più importanti delle città. Si può fare l ’esempio di Damaso, vescovo di Roma dal 366 al 384, che nell’intento di affermare il primato della Chiesa di Roma condusse su più fronti un vasto programma politico-religioso di esaltazione delle tombe dei martiri considerate un puntello essenziale di tale primato. Del pro­ gramma damasiano facevano parte sia la ricerca dei sepolcri di cui si era persa memoria, sia i numerosi interventi di monumentalizzazione delle tombe presenti nelle catacombe con la creazione di percorsi per incanala­ re opportunamente il flusso dei pellegrini, sia la com posizione degli elo­ gia martyrum in versi, incisi poi elegantemente su grandi lastre marmoree dal più famoso calligrafo del tempo: Furio Filocalo16. Un altro esempio significativo riguarda un’altra capitale d ell’Impero, Milano, ed è legata alla figura di Ambrogio. Di famiglia senatoria e altis­ simo funzionario imperiale fu vescovo di quella città dal 374 al 398 e agì con grande successo sia a favore della corrente nicena, sia in difesa delle prerogative della Chiesa dalle ingerenze imperiali. Anche Ambrogio fu un grande costruttore di chiese; delle cinque chie­ se milanesi risalenti al iv secolo, tre sono di fondazione ambrosiana, la Basilica Ambrosiana, la Basilica delle Vergini o San Simpliciano, la Ba­ silica degli Apostoli o San Nazzaro; tutte - in consapevole concorrenza con le fondazioni costantiniane a Roma - furono innalzate fuori dalle mura su aeree cimiteriali, nei pressi (ad eccezione della Basilica ambro­ siana) delle principali strade di accesso alla città e furono provviste di reli­ quie di santi, frutto, talvolta, di doni imperiali, ma anche di “fortunati” ritrovamenti, come quello dei corpi di Gervasio e Protasio raccontato con dovizia di particolari dallo stesso Ambrogio che ne fu il protagonista17. Una rete sempre più fitta di martyria, consacrati da reliquie di martiri o da memorie di eventi e personaggi del Nuovo come dell’Antico Testa­ mento, si ramificò lungo le strade dell’Impero, nei dintorni delle città per poi estendersi anche all’interno di esse rimodellandone l ’urbanistica, poi­ ché, sempre più spesso, i nodi di questa rete vennero a coincidere e a cam­ biare di segno a luoghi sacri delle religioni preesistenti. Lo stesso periodo vide la formazione di un’altra rete altrettanto ramificata costituita dai luo­ ghi ove i monaci risiedevano: eremitaggi, gruppi di celle, cenobi, in

16 C. Cadetti, Damaso /, santo, in Enciclopedia dei Papi, Roma 2000, voi. i, pp. 349-372, J. Fontaine, Damaso poeta teodosiano. L'immaginario poetico degli Epigrammata, in Id„ Letteratura tardoantica. Figure e percorsi, Brescia 1998, pp. 175-201. 17 Lettera 22; su questi eventi cfr. infra, p. 323.

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Egitto, in Palestina, in Siria, in Cappadocia, in Italia, in Gallia. N ella real­ tà geografica i nodi di queste reti spesso si sovrapponevano e comunque venivano percepiti come espressione di un'unica trama di santità dai pel­ legrini che dall’Occidente si recavano in Oriente e che includevano nel grand tour sia la visita ai monaci o ai luoghi resi celebri da monaci famo­ si, sia i loca sancta veri propri legati alle memorie di eventi e personaggi biblici e dei martiri. Il diario di viaggio tenuto da Egeria - una nobildonna forse spagnola —che visitò i luoghi santi fra il 381 e il 384 è un documento eccezionale in proposito: ne possediamo soltanto le parti relative alla permanenza a Gerusalemme e all’arrivo a Costantinopoli come ultima tappa di terra sulla via del ritorno in patria, tuttavia Egeria accenna a visite precedenti compiute in Egitto, ad Alessandria e nella Tebaide18. Le sue pagine lascia­ no intravedere una donna dotata di senso critico e di una approfondita cul­ tura religiosa nutrita dalla Bibbia e da testi extrabiblici, in grado di espri­ mersi con colore ed efficacia in un latino privo di riferimenti alla cultura letteraria, ma profondamente influenzato da linguaggio biblico19. Il rac­ conto di viaggio è una lettera per le sue “sorelle” lontane e il termine potrebbe designare, più che una comunità monastica, un circolo di donne devote e di ceto sociale elevato, simili ad altri di cui abbiamo notizia a partire dalla seconda metà del iv secolo soprattutto a Roma2». N e ll’anno che rimase nella città santa, Egeria viaggiò sia verso il Sinai, sia verso la Siria, mossa dal desiderio di visitare «loca sancta et monasteria»21: le due realtà coincidevano quasi ovunque. Sul Sinai22, nei luoghi di Giuseppe23, sul monte Nebo24, nel giardino di Giovanni Battista25, nei luoghi del pro­ feta Elia2627, presso la tomba di Giobbe e il pozzo di Giacobbe22, accanto

18 Egeria, Pellegrinaggio in terra santa, a cura di N. Natalucci, Bologna 1999, 7,1; 9,6; sulla rico­ struzione della parte perduta del viaggio: Egèrie, Journal de voyage (Itìneraire), introduction, texte critique, traduction, notes, index, cartes par P. Maraval. Valerius du Bierzo, Lettre sur la bienhereuse Egerie par M.C. Diaz Y Diaz, Paris 1982, pp. 56-117; L. Lugaresi, «In spirito e verità»: luoghi santi e pellegrini nel cristianesimo antico, in M. Mengozzi, Pellegrini e luoghi santi dall'Antichità al Medioevo, Cesena 2000, pp. 19-50; J. Soler, Écritures du voyage. He'ritages et inventions dans la littérature latine tardive, Paris 2005, pp. 359-396; B. Bitton-Ashkelony, Encountering thè Sacred. The Debate on Christian Pilgrimage in Late Antìquity, Berkeley-Los Angeles-London 2005. 19 C. Mazzucco, Bibbia e simbolo nella Peregrinatio Egeriae, in «Quaderni del Dipartimento di Filologia, Linguistica e Tradizione classica “Augusto Rostagni”» n.s. 5(2006), pp. 211-234. 20 Cfr. infra, pp. 179 s. 21 Pellegrinaggio 3, 11. 22 Pellegrinaggio 3, 4. 23 Pellegrinaggio 1,1. 24 Pellegrinaggio 10,9-11. 25 Pellegrinaggio 15, 6. 26 Pellegrinaggio 16, 3. 27 Pellegrinaggio 21, 3.

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alle memorie bibliche, Egeria trova i monasteria, cioè, gli eremi, le celle e i monaci che spesso divengono guide e compagni dei suoi viaggi. Ad essi si aggiungono i martyria. A Charris la connessione fra memoria bibli­ ca, culto dei martiri e monacheSimo si addensa nella stessa costruzione: con le pietre della casa di Abramo era stata costruita una chiesa e all in­ terno venne collocato il martyrium del monaco Elpidio28, morto martire. Egeria arrivò lì nel giorno della festa del martire e racconta la gioia inat­ tesa di incontrare i monaci che, lasciate le loro celle, si erano radunati nel­ la chiesa per l ’occasione: «santi e veri uomini di Dio, della cui fama e della cui vita avevamo sentito parlare in terre lontane e che non avrei mai pensato di incontrare»29. Ormai sulla via del ritorno, Egeria visitò la chie­ sa fortificata che ospitava il martyrium «molto bello» di Tecla e «innume­ revoli celle di uomini e donne»30. In ogni tappa in luoghi biblici Egeria leggeva il passo scritturistico cor­ rispondente. Durante visita ai martyria di Tommaso e Tecla lesse i testi che ne descrivevano le imprese e la morte. Si diresse in seguito in Siria e Mesopotamia per vedere «i santi monaci che si diceva fossero lì numero­ sissimi e conducessero una vita tanto ammirevole da poter essere difficil­ mente descritta»31, come prima era andata nella Tebaide per visitare - ci informa un lettore antico del Pellegrinaggio nella sua forma completa32 i cenobi e gli eremitaggi dei monaci. I luoghi, le costruzioni, le persone visitati da Egeria sono strettamente legati ai testi e ai racconti che danno loro significato: la Bibbia, i testi agiografici, le notizie giunte in Occidente su questa forma di vita allora ancora poco conosciuta. La rete di loca sancta, di martyria, di monasteria presuppone e molti­ plica una rete di testi che rappresentano, interpretano, costruiscono le di­ verse forme di santità. Se nella prima metà del iv secolo soltanto alcune personalità di spicco come Eusebio di Cesarea e Atanasio di Alessandria dedicarono una parte delle loro energie intellettuali al discorso agiografico, i decenni che vanno dall’ultimo quarto del secolo fino agli anni venti del v secolo furono caratterizzati, in Oriente e in Occidente, da una vera e propria esplosione di scritti agiografici che videro impegnati in prima persona il fior fiore delle guide intellettuali e istituzionali delle Chiese.

28 N on altrimenti noto, forse una vittima delle persecuzione di Sapore li. 29 Pellegrinaggio 20, 6. 30 Pellegrinaggio 23, 2. 31 Pellegrinaggio 17, 1. 32 Si tratta di Valerio cui dobbiamo anche il nome dell’autrice che manca nel testo tramandato.

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2. La Vita di Antonio di Atanasio vescovo di Alessandria Subito dopo la morte di Antonio, fra il 356 e il 362” , Atanasio com ­ pose la Vita di Antonio334. L’impressione che quest’opera esercitò sui con­ temporanei e sulla tradizione successiva fu grandissima; nel ventennio successivo alla sua com posizione ci furono due traduzioni latine, una ano­ nima e molto letterale3536e la seconda, più stilisticamente curata ed esegui­ ta secondo i canoni delle traduzioni antiche più attente al senso che alla fedeltà alla lettera del testo, fu eseguita da Evagrio di Antiochia, che ebbe contatti con figure significative del tempo quali Damaso e Gerolamo. Ci sono note anche successive traduzioni in siriaco, in copto saidico, in ar­ meno, georgiano e paleoslavo35. N elle sue Confessioni Agostino afferma di aver sentito a Milano da Ponticiano il racconto della storia dell’eremi­ ta egiziano e di come la lettura della Vita di Antonio avesse provocato a Treviri l ’immediata conversione di due funzionari imperiali37. In Oriente, nel 380, Gregorio di Nazianzo, pronunciando l ’elogio funebre di Ata­ nasio, ha parole di elogio nei confronti della Vita di Antonio che egli con­ siderava «una regola monastica sotto forma di racconto»38. Gli elementi principali del successo furono, da una parte, la fama del suo autore, uno dei vescovi più potenti e discussi del suo tempo, che lottò con grande coraggio contro l ’arianesimo e che, per questo, fu più volte allontanato dalla sua sede episcopale in un periodo in cui gli Imperatori concedevano la loro protezione alternativamente ora ai niceni, ora agli antiniceni. Un altro elemento è che Atanasio riuscì a narrare in modo nuovo e accattivante una forma di vita — quella monastica —che già da alcuni decenni si stava affermando in Egitto e quasi simultaneamente e in modo indipendente in altre parti dell’Impero, ma che fino a quel momento non aveva trovato ancora una rappresentazione letteraria adeguata39. Egli intuì il bisogno profondo di essere istruiti ed educati ascoltando una storia av­ vincente e riuscì a sfruttare a proprio vantaggio la presenza di un ampissi­

33 A. Martin, Athanase d ’Alexandrie et l ’Église d ’Égypte au /V siede (328-373), Rome 1996, p. 826. 34 Se la tradizione antica è concorde nel ritenere Atanasio l ’autore della Vita di Antonio ,’ questo è stato più volte contestato e altrettante volte riammesso nella storia della ricerca: status quaestionis in N. Kwok-kit N g, The Spirituality o f Athanasius. A Key fo r Proper Understanding ofthis Important Church Father, Bem-Berlin-Frankfurt am Main-New York-Oxford-Wien 2001, p. 206. 35 H. Hoppenbrouwers, La plus andenne version latine de la Vie de saint Antoine de saint Athanase. Etude de critique textuelle, Nimègue 1960. 36 Athanase d ’Alexandrie, Vie d ’Antoine par G.J.M. Bartelink (SC 400), Paris 1994, pp. 95-101. 37 Confessioni 8, 15. 38 Orazione 21, 5. 39 J.E. Goehring, The Origins o f Monasticism, in Id„ Ascetics, Society and thè Desert. Studies in Early Egyptian Monasticism , Harrisburg, PA 1999, pp. 13-35.

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mo pubblico già esistente; lo stesso pubblico che apprezzava gli Atti apo­ crifi, le Vite dei filosofi, il romanzo ellenistico. Il prestigio e 1 ammirazio ne che circondavano il nome di Atanasio fra i che contemporanei (niceni, of coursel), servì a sdoganare questo modo di raccontare e a render o adottabile anche fra gli intellettuali e letterati cristiani più raffinati. La ricchezza della documentazione sull’Egitto cristiano tardo antico e sullo stesso Atanasio ha consentito di mettere alla prova su più aspetti l ’affidabilità storica del suo racconto su Antonio. Uno snodo importante della ricerca è stato il riconoscimento dell’autenticità di sette lettere m copto che già la tradizione antica attribuiva ad Antonio40*: da esse emerge la figura di un padre spirituale il cui insegnamento - platomzzante e influenzato dalla teologia origenista e dunque collegato in qualche manie­ ra alla scuola alessandrina - consisteva nell’invito ripetuto a «conoscere se stessi» e nel concepire la salvezza come un ritorno dell’uomo alla sua natura originale e spirituale, una figura pertanto assai diversa dal tauma­ turgo poco colto presentato dalla pagina atanasiana . Una lettera del 356 inviata da Serapione ai discepoli di Antonio per con­ solarli della sua morte contiene l ’invito a seguirne l ’esempio, ma la brevità, unita allo stile retorico e il linguaggio convenzionale paneginstico, non consentono di arricchire in modo univoco la figura storica di Antonio ad eccezione della testimonianza a favore del suo antiananesimo, confermato oltre che dalla Vita di Antonio, anche dalle Lettere. In generale, si può affermare che quanto più progredisce la conoscenza su Atanasio e sul cri­ stianesimo alessandrino ed egiziano del iv secolo sulla base di fonti lette­ rarie e papirologiche, tanto più appare chiaro come la figura di Antonio sia pure nel rispetto di alcuni tratti essenziali - sia stata consapevolmente costruita per adeguarla alla strategia atanasiana a diversi livelli42. Si tratta di una costruzione molto accurata: dopo un prologo su cui ritorneremo, i capp. 1-2 percorrono per sommi capi i loci classici del bios\ la patria, la famiglia, l ’educazione, il carattere. Antonio era egiziano (cioè copto) e di famiglia nobile, benestante e cristiana43; era naturalmente un

« “τ Γ Z n e T o f » . Antony. Origenist Theology. Monastic Tradition and thè Making ofthe Saint, Lund 1990; L. Brottier, Antoine Termite à travenl es^ u rc es anciennes. des regards divers sur un modèle unique, in «Recherches augustmiennes» 43(1997), PP^ 15 * 42 M . Tetz, Athanasius und die Vita Antoni;, in «Zeitschnft Neutest. W issen sc£ ^ 9 8 2 ) pp. 1 30· il volume di E. Wipszycka, Moines et communautes monastiques en Egypte ( ’ W s o v le 2009 mette in dfseussione la realtà storica di diversi punti: il « e c c i t o de ^ — io ,< £ 227-237); la realtà geografica (248-265); il racconto delle persecuzione d' Mass ^ 48 427 280). Ead., Éiudes sur le christianisme dans VEgypte de PP' 48’ 432. D. Brakke, Athanasius and thè Politics of Ascetism, Oxford 1995, pp. 203-2 . 43 Sozomeno sostiene che il luogo di nascita di Antonio fu Roma, 1 attuale Qiman el Arus. Wipszycka, Moines, cit., pp. 250-251.

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bambino speciale: sottomesso, ubbidiente, non amava i giochi. Quando fu il momento, si rifiutò di allontanarsi dalla propria casa per «apprendere le lettere»; amava frequentare la casa del Signore e ascoltava attentamente le letture bibliche. Atanasio sottolinea questo aspetto per preparare gli avve­ nimenti narrati nel cap. seguente. A lla morte dei genitori, Antonio ha di­ ciotto anni ed è proprio l ’ascolto «nella casa del Signore», del versetto che dice: «Se vuoi essere perfetto, va’ vendi tutto ciò che possiedi e dallo ai poveri» (Mt 19,21), a segnare una prima svolta della sua vita. Si libera infatti dei suoi beni, lasciando una piccola rendita alla sorella. In questo momento decisivo, Antonio viene rappresentato saldamente inserito in un contesto ecclesiastico e liturgico. L’ascolto di un altro versetto biblico che raccomanda di non preoccuparsi per il domani (Mt 6,34) lo induce a ri­ nunciare anche a queste risorse economiche e ad affidare la sorella a delle vergini. Il cap. 3 inaugura la sezione (3-14) dedicata alle diverse fasi della vita ascetica di Antonio: prima nella sua casa, poi ai bordi del villaggio, cerca contatti con altri che conducevano lo stesso genere di vita per trar­ re da ciascuno il meglio; lavora, prega in continuazione, continua a esse­ re attento alle letture della Bibbia durante le liturgie. E in questo periodo che subisce un primo attacco del demonio44 la cui strategia è minuziosa­ mente descritta: per prima cosa il maligno cerca di insinuarsi nei suoi pen­ sieri suggerendogli la nostalgia di quei beni a cui ha rinunciato: gli affet­ ti familiari, la casa, il buon cibo, la carriera; in seguito si presenta sotto forma di donna per farlo cadere nella lussuria. Infine, scacciato dai pen­ sieri di Antonio, assume la forma di un bambino nero che gli parla con voce umana. Nel dialogo che si svolge fra i due, il primo ammette la pro­ pria disfatta e la propria identità: è lo spirito di fornicazione e Atanasio per bocca di Antonio dà la chiave interpretativa dell’episodio: «Sei ben disprezzabile; infatti hai uno spirito nero e sei debole come un bambino: ormai non mi devo più preoccupare di te»45. L’affermazione che apre il cap. 7 «questo è il primo combattimento di Antonio contro il diavolo» la­ scia intendere che altri seguiranno. L’asceta decide infatti di accrescere il proprio isolamento e la propria ascesi: si allontana dal villaggio ed eleg­ ge come propria abitazione una tomba46. Il diavolo lo aggredisce ancora con un manipolo di demoni che l ’attaccano fisicamente nel suo rifugio

44 O. Munnich, Les démons d'Antoine dans la Vie d ’Antoine in Ph. Walter (ed ) Saint Antoine entre mythe et legende, Grénoble 1996, pp. 95-110; D. Brakke, Demom and thè Making ofthe Monk Spiritual Combat m Early Christianity, London 2006, pp. 23-47. L’insistenza sulla debolezza del demonio può essere un riferimento obliquo alla demonologia e antropologia dei manichei presenti in ambiente egiziano (Vita di Antonio 68, 1). 45 Vita di Antonio 6, 4. 46 Vita di Antonio 8, 1 ss.

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lasciandolo com e morto. Vedendo la resistenza di Antonio, scatena allora i suoi demoni sotto forma di cani, leoni, orsi, leopardi, tori, serpenti, vipe­ re scorpioni e lupi. Ma Antonio, ancora una volta esce vittorioso dalla lotta. Gli eventi raccontati subito dopo ci fanno capire che siamo di ronte ad uno snodo importante del racconto. «Come Antonio levò lo sguardo, vide che il tetto era come aperto e che un rag­ gio di luce scendeva fino a lui. I demoni erano scomparsi all improvviso subito cessò il dolore del corpo e la casa era nuovamente intatta. Antonio senti che st nore lo aiutava e tmsse un sospiro di sollievo; liberato dai dolori domandava alla visione che gli era apparsa: “Dov’eri? Perche non sei apparso fin dall miao per porre fine alle mie sofferenze?” E gli giunse una voce: Antonio, ero la. Ma aspettavo per vederti combattere; poiché hai resistito e non ti sei lasciato vince­ re, sarò sempre il tuo aiuto e farò sì che il tuo nome venga ricordato ovunque . Antonio - precisa il suo biografo - ha ora 35 anni. La scena e descrit­ ta con un linguaggio raffinato che accosta la visione di Antonio alla scena del battesimo di Cristo4» e la sua lotta alla lotta dei martiri che, com e ab­ biamo visto, avviene in presenza di Cristo. Questa seconda vittoria prece­ de un ulteriore inasprimento della sua ascesi e l ’inizio di un mo ο 1 vi a fino a quel momento non adottato da nessuno4®. Antonio decide infatti di inoltrarsi «verso la montagna»47*4950 oltre il fiume, ove fissa la sua dimora in un forte abbandonato dove resta rinchiuso 20 anni superando vittoriosa­ mente altri attacchi del diavolo. Quando, cedendo alle insistenze dei suoi familiari e di coloro che volevano imitare la sua ascesi, Antonio esce e si offre allo sguardo dei presenti suscita grande ammirazione. «Il suo corpo aveva l’aspetto abituale e non era né ingrassato per mancanza di esercizio fisico, né dimagrito a causa dei digiuni e della lotta c0"tr01 ^ n tale e quale l’avevano conosciuto prima che si ritirasse in solitudine. E anche i suo spirito era puro; non appariva triste, né svigorito dal piacere, ne dominato dal riso e dall’afflizione»51. Torneremo fra breve su queste parole che ricordano da vicino il lin­ guaggio usato per descrivere l ’aspetto di Pitagora. L’uscita di Antonio dal

47 Vita di Antonio 10, 1-3. Cito la traduzione: Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio. Antonio

abat4’8 num» 35(1999), pp. 561-573. 49 Vita di Antonio 11,2. 50 Vita di Antonio 11,2. 51 Vita di Antonio 14, 3-4.

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forte segna la conquista di un grado più alto di perfezione. È una conqui­ sta acquisita per gradi e in luoghi diversi: più Antonio si sottrae ai luoghi abitati e si inoltra nel deserto, più riesce a sconfiggere le tentazioni e a purificarsi fino a rendere il suo corpo ideale ricettacolo della presenza di­ vina. Il tema del viaggio spirituale d ell’anima che Origene aveva così su­ perbamente descritto interpretando allegoricamente le diverse tappe del popolo eletto nel deserto (Num 27)52, s ’incarna nel racconto atanasiano in una vicenda concreta, drammatica, che spinge all’azione. Il grado di per­ fezione raggiunto viene rimarcato con le prime guarigioni che il Signore attraverso di lui compie fra i presenti53, inoltre, da questo momento in avanti, Antonio è presentato prevalentemente com e maestro, padre spiri­ tuale e taumaturgo con un raggio d ’azione a tutto tondo: fra i monaci, nel­ la Chiesa alessandrina, verso i pagani, nella società. Come Cristo, Antonio inizia la vita pubblica dopo la sconfìtta della tentazione diabolica. L Antonio maestro, non tanto di dottrina, quanto di vita spirituale, occupa una lunga sezione (15-43) interamente dedicata al discorso che Antonio avrebbe pronunciato in egiziano su richiesta dei suoi fratelli. Le due sezioni sono intimamente collegate: nella prima sono descritte le esperienze di Antonio, nella seconda l ’insegnamento che esse emanano e legittimano. Antonio - e per mezzo di lui Atanasio - tocca tutti temi della vita ascetica: Antonio prospetta la beatitudine eterna che può essere acquistata «a buon prezzo», cioè con una breve vita terrena dedicata all ascesi; essere virtuosi — aggiunge —non è difficile, in quanto si tratta di mantenere l’anima nel suo stato naturale, perché è stata creata bella e retta54. Bisogna per questo saper combattere contro i demoni e conoscere tutte le loro strategie. Antonio rimanda a chi è più grande di lui l ’insegna­ mento sulla natura e i diversi tipi di demoni, ma rivendica per sé il com ­ pito di insegnare come combatterli perché è un sapere che può essere inse­ gnato soltanto da chi ne ha fatto esperienza. Insiste poi sulle astuzie dei demoni, i loro travestimenti, i mille stratagemmi e sulle armi che devono essere usate contro di lui: il digiuno, la preghiera, il segno di croce, le pra­ tiche ascetiche. Come ho detto, Antonio parla davanti ai monaci, tuttavia il discorso non si rivolge soltanto a loro, ma anche «ai cristiani»55 che de­ vono persuadersi che il potere del diavolo è, alla prova dei fatti, inconsi­ stente e che i successi nell’ascesi lo indeboliscono ulteriormente. Il con­ 52 G. Bonfrate, Origene: viaggio di parole, in II viaggio dell’anima a cura di M. Simonetti e P. Boitani, Milano 2007, pp. 463-531; Kwok, cit., pp. 223-236; pp. 267-269; sui rapporti fra Atanasio e Origene cfr. infra, p. 141. 53 Vita di Antonio 14, 5. 54 Vita di Antonio 20, 6. 55 Vita di Antonio 22, 2; 24, 5; 28, 7; 41, 2.4; 42, 7.

Capitolo quarto certo viene ribadito e drammatizzato dalla ripetizione di un’immagine che segna il crescendo dei successi dell’asceta: quando Antonio elegge a pro­ pria dimora una tomba, l ’attacco del demonio è giustificato dal suo timo­ re di essere attaccato nel proprio territorio paventando che «Antonio facesse del deserto la città d ell’ascesi»56. Dopo la seconda lotta e il narra­ tore che osserva: «E così da quel momento ci furono dimore di solitari sui monti e il deserto divenne una città di monaci che avevano abbandonato 1 loro beni e riproducevano la vita della città celeste»57. Infine, dopo il lungo discorso sulla debolezza del diavolo, è questi stesso che appare ad Antonio ammettendo amaramente: «Non ho più luogo, né dardo, né citta, ovunque ci sono cristiani; oggi anche il deserto si è riempito di monaci»53. Un ultimo spostamento di Antonio “verso il deserto interiore” è segui­ to da altri combattimenti contro il diavolo e i demoni malvagi: ma il rac­ conto è di tenore diverso dai precedenti: più che mostrare le varie fasi di un vero e proprio combattimento, il racconto è funzionale ormai a dimo­ strare la perfetta padronanza di sé d ell’asceta: «Confidava nel Signore com e il monte Sion, il suo spirito era incrollabile e calmo a tal ΡυΙ* ° che i demoni fuggivano e le bestie selvagge, come è scritto (se. Giob 5,23), si rappacificavano con lui»59. . . . L’illustrazione più efficace del dominio di Antonio sui demoni sono le guarigioni che nella seconda parte dell’opera (capp. 48 ss.) punteggiano il racconto di Atanasio. Ogni miracolo è accompagnato dalla precisazione che non è Antonio a compierlo, ma il Signore che opera in lui in quanto ha raggiunto un grado tale di purificazione da meritare di accogliere 1 azione divina di Cristo. A partire dalla fine della reclusione nel forte, Atanasio presenta il suo eroe in azione nella sfera pubblica: durante la persecuzione di Massimino Daia (305), lo vediamo ad Alessandria, mentre assiste apertamente e con grave pericolo personale i martiri, egli - precisa Atanasio allineando la posizione di Antonio con quella divenuta “ortoddossa” - «desiderava il martirio, ma non voleva consegnarsi»60. Risparmiato dalla provvidenza che voleva renderlo «maestro di molti»61, ritorna al suo eremo e si dedica ad un’ascesi ancora più rigorosa: «e in quel luogo - aggiunge Atanasio ogni giorno egli era martire della coscienza e combatteva nelle lotte della fede»62. Il vescovo alessandrino pone così su Antonio la corona del mar56 Vita di Antonio 8, 2. 57 Vita di Antonio 14, 7. 58 Vita di Antonio 41, 4. 59 Vita di Antonio 51, 5. 60 Vita di Antonio 46, 2. 61 Vita di Antonio 46, 6. 62 Vita di Antonio 47, 1.

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tirio, seguendo del resto Γ ampliamento che la nozione di martire aveva già subito nei due secoli precedenti63. In un momento non meglio precisato - ma nel racconto successivo all’episodio precedente - Antonio ritorna ad Alessandria per dimostrare contro le menzogne diffuse dagli ariani - la sua piena ortodossia nicena. Qui egli insegna al popolo «che il Figlio di D io non è una creatura e che non è divenuto dal nulla, ma è eterno, Verbo e Sapienza della sostanza del Padre»64. Molti pagani - precisa Atanasio - si recavano in chiesa doman­ dando di vedere «1 uomo di Dio. Tutti in effetti lo chiamavano così»65. Il Signore, attraverso Antonio, ne libera parecchi dai demoni; molti pagani chiedono di toccarlo e parecchi si convertono. Prima di tornare al suo ere­ mo Antonio libera una bambina da un demone impuro, impietosito dalla richiesta della madre che lo interpella con il titolo di «uomo di D io»66. L ortodossia nicena di Antonio è sottolineata anche più avanti: l ’eremita vede in visione 1 attacco degli ariani alle Chiese nicene, ma profetizza anche il rientro dei presuli niceni nelle loro sedi67. Del resto Antonio è mostrato come profeta anche in altre circostanze: prevede con largo anti­ cipo alcune visite68; la morte di un altro eremita69 e naturalmente - come già i martiri - la propria70. Un altro momento fortemente rilevato dell’azione pubblica di Antonio sono le discussioni avute a più riprese con filosofi pagani che lo vanno a trovare per mettere in ridicolo la sua fede: i discorsi di Antonio riecheg­ giano i temi principali dell’apologetica cristiana rivolta ai pagani: difesa dell incarnazione, dei miracoli di Cristo come prove della sua natura divi­ na, della croce, critica dell’idololatria, identificazione degli dèi pagani con i demoni. Ma il tema che sta più a cuore al biografo di Antonio è la dimostrazione della superiorità della fede attiva, di cui il bios di Antonio è il modello, sulle dimostrazioni razionali dei filosofi. È questa fede atti­ va che si manifesta nel mondo con il disprezzo della morte a causa di Cristo, con la decisione di tante vergini di mantenere il proprio corpo puro da ogni contaminazione, con i miracoli operati nel nome di Cristo che ha riempito il mondo di fedeli; i sillogism i dei filosofi, invece, non riescono ad arginare il declino e Γ impoverimento della loro religione. N el raccon­ to di Atanasio, i filosofi si ritirano sconfitti, ammirati dalla sapienza di 63 Cfr. supra, p. 34. 64 Vita di Antonio 69, 3. 65 Vita di Antonio 70, 2. 66 Vita di Antonio 7 1 ,1 . 67 Vita di Antonio 82. 68 Vita dì Antonio 62. 69 Vita di Antonio 60. 70 Vita di Antonio 89.

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Antonio, ancorché “illetterato” e, ancor di più, dai miracoli compiuti da Cristo attraverso l ’eremita71. Nei capitoli che precedono le circostanze della morte di Antonio, Ata­ nasio riassume le sue molteplici qualità: il discernimento degli spiriti77, la possibilità di comprendere gli infiniti stratagemmi usati dai demoni lo mettevano in grado di guarire le malattie delle anime e dei corpi; egli era «medico dell’Egitto»73 e «padre»74. N egli ultimi capitoli75 dedicati alla descrizione della morte di Antonio, Atanasio insiste sul rifiuto dell’eremita degli onori funebri riservati dagli “Egiziani” ai corpi dei martiri. Essi non li sotterrano ma, dopo averli im­ balsamati, li depositano su dei letti e li tengono presso di loro; Antonio, invece, seguendo l ’esempio dei profeti e dello stesso Signore, vuole esse­ re seppellito e ordina ai due discepoli che abitavano presso di lui e lo ser­ vivano da 15 anni, di nascondere a tutti il luogo della sepoltura. Prima di morire, Antonio lascia il suo mantello e una tunica «al vesco­ vo Atanasio» e un’altra tunica al vescovo Serapione. Il lascito richiama quello di un altro «uomo di Dio» (IRe 17,24) - il profeta Elia - che scel­ se il suo discepolo Eliseo gettandogli sopra il proprio mantello (IRe 19 19) Quando Elia venne rapito in cielo, il suo mantello dotato di pote­ ri straordinari venne raccolto da Eliseo (2Re 2,12). Con l ’episodio del mantello, Atanasio, che per la prima volta cita il proprio nome, indica un’elezione che è anche un passaggio di consegne e rifinisce un aspetto del bios di Antonio che già precedentemente non aveva mancato di sottolineare: l ’assoluta umiltà e obbedienza dell’eremita riguardo alla gerar­ chia ecclesiastica76.

71 Vita di Antonio 72-80. , . 77 F. Vecoli, Lo Spirito soffia nel deserto. Carismi, discernimento e autorità nel monacheSimo egi­

ziano antico, Brescia 2006, pp. 45-100. 73 Vita di Antonio 87, 3. 74 Vita di Antonio 88, 3. 75 Vita di Antonio 89-91. . ___ 76 Vita di Antonio 67,1-2; sul rapporto fra monaci e sacerdozio meno conflittuale di quanto molti studiosi ritengano, cfr. le osservazioni metodologiche di E. Wipszycka, Les recherete!

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rali decisa in ogni particolare da Gregorio, si intrecciano due racconti di miracoli di guarigione184, il primo riguardante la stessa Macrina, l ’altro un’altra persona. L’epilogo è ancora dedicato ai miracoli di Macrina, que­ sta volta per aferesi: Gregorio dice di non volerli narrare tutti, per non tur­ bare gli eventuali lettori «troppo carnali» e di poca fede. «Maestra di vita, una madre dopo nostra madre», così Gregorio defi­ nisce Macrina in una lettera185 contenente un altro breve ritratto della so­ rella. In effetti la Macrina di Gregorio donna virile, vergine, martire, mae­ stra ispirata dallo Spirito Santo186, è il centro da cui partono tutti i fili che fanno della famiglia di Gregorio una famiglia di “santi”. La loro santità è «un vanto della stirpe»187 conseguito in un modo che non mette in crisi i meccanismi tradizionali di autorappresentazione delle élites. La scelta monastica di Macrina e di Emmelia non entra in contraddizione con la sal­ vaguardia e la gestione tradizionali del patrimonio e dei valori familiari. La stessa Macrina, pur scegliendo di vivere personalmente in modo molto frugale, non aliena i propri beni, ma li dà da gestire ad una terza persona. La trasformazione graduale della casa di famiglia ad Annisoi in un mona­ stero avviene compiutamente, stando a Gregorio, soltanto dopo che Macrina ebbe portato a termine il suo compito di materfamilias, compito che svolgeva con e per la madre Emmelia. Nel momento in cui Basilio era ormai scomparso e restavano Gregorio e Pietro a fronteggiare gli eventi tempestosi - politici e religiosi - della Chiesa di Cappadocia, la Vita di Macrina poteva costituire un sostegno non di poco prestigio. Per ottenere questo effetto Gregorio ha forse “ritoccato” questo ritratto di famiglia: per esempio, da nessuna altra fonte apprendiamo che la conversione all’asce­ tismo di Basilio fosse stata ispirata da Macrina, mentre nella Vita di Macrina è evidente la volontà di stabilire una genealogia lineare della santità che da Emmelia passa a Macrina e da questa a Basilio senza lascia­ re spazio all’intervento di altri. Faccio riferimento alla figura di Eustazio188, da antico maestro ormai divenuto nemico ed eretico, la cui proposta di monacheSimo radicale, ostile alla proprietà, alle soglie socia­ li, alle differenze di genere, ai legami familiari viene sottoposta ad una sorta di damnatio memoriae. 184 Sul parallelismo dei miracoli di Macrina con quelli narrati da Gregorio di Nazianzo a propo­ sito delle donne della sua famiglia: G. Luck, Notes on thè Vita Macrinae hy Gregory ofNyssa, in Spira (ed.), The Biographical Works, cit., pp. 21-32. 185 Epìstola 19, 2. G. Girardi, Basilio di Cesarea e il culto dei martiri nel IV secolo. Scrittura e tradizione, Bari 1990, pp. 153-154. 186 Vita di Macrina 17.18.19 187 A proposito di Macrina: Vita di Macrina 22; a proposito di Basilio: Vita dì Macrina 14. 188 G. Dagron, Le monachisme à Costantinople ju sq ’au concile de Chalcedonie (451), in «Travaux et Mémoires» 4(1970), pp. 246-253; Fatti, Nei panni, cit.

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4.1. La Vita di Gregorio Taumaturgo; discorso agiografico e mito di fon­

dazione di una città cristiana Negli stessi anni (380?) Gregorio di Nissa pronunciò a Neocesarea un «elogio spirituale» in onore di Gregorio più tardi definito “Taumaturgo (210/213 - 270/275), fondatore della Chiesa di quella città. L’orazione, tenuta davanti ai fedeli riuniti, fu certamente rivista e ampliata in vista della pubblicazione in quanto le sue dimensioni eccedono di molto la lun­ ghezza di un panegirico. Per questo si fa tradizionalmente riferimento a questo testo come ad una Vita, lasciando in ombra la sua primitiva appar­ tenenza al genere encomiastico. Fino ad anni recenti, si è pensato che fra i testi più sicuri per ricostrui­ re la dottrina e la vita di Gregorio vi fossero il Discorso di ringrazia­ mento a Origene e la professione di fede riportata, com e si vedrà fra bre­ ve, nella Vita. Entrambi sono ora molto contestati189. Per quanto riguar­ da la ricostruzione del personaggio storico, la Vita del N isseno non sem­ bra conoscere direttamente il Discorso di ringraziamento. Conosce la tradizione che considerava Gregorio il Taumaturgo allievo di Origene, ma colloca questo evento ad Alessandria e la inserisce in una vicenda biografica che non ha nulla a che fare con quella descritta dal Discorso di ringraziamento. Sembra ignorare la notizia di Eusebio di Cesarea e non sa nulla dell’azione di Gregorio fuori dal Ponto190. Non fa menzione di testi scritti e sembra fondarsi soprattutto su tradizioni locali, libera­ mente adattate e interpretate e forse anche su ricordi personali. Come afferma B asilio, la nonna Macrina aveva ascoltato l ’insegnamento del Taumaturgo e l ’aveva tramandato ai nipoti191. Lo stesso Basilio ritornò più volte sul personaggio tratteggiandone il profilo di grande vescovo, che si batté contro le eresie e il paganesimo192. In ogni caso è soprattut­ to grazie a questo panegirico e le sue numerose traduzioni latine, siria­ che, arabe, armene che il culto del Taumaturgo potè diffondersi anche fuori dal Ponto193.

189 G. Dorivai, Est-il légitime d ’éclairer le “Discours de remerciement” par la “Lettre à Grégoire” et réciproquement? Ou la tentation de Pasolini, in A. Monaci Castagno (ed.), La biografia di Origene fra storia e agiografia, Verucchio 2004, pp. 10-26; la sintesi di M. Simonetti, Gregorio il Taumaturgo e Origene, in D. Clausi-V. Milazzo, Il giusto che fiorisce come palma. Gregorio Tauma­ turgo fra storia e agiografia, Roma 2007, pp. 19-30; e quella di M. Rizzi, Ancora sulla paternità d ell'“Encomio di Origene”: spunti geografici e storico-sociali, pp. 73-86. 190 Partecipò al Concilio di Antiochia nel 264: Eusebio, Storia ecclesiastica 7, 28, 1. 191 Lettera 204, 6. 192 Lettera 28, 1-2. 193 W. Telfer, The Cultus ofSt. Gregory Thaumaturgus, «Harvard Theological Review» 29(1936), pp. 225-334 (rist. singola); sulle traduzioni antiche: Gregorio di Nissa, Vita di Gregorio Taumaturgo,

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Il proemio pone questo discorso in una netta contrapposizione con l ’encom io tradizionale, attaccando le favole che in quel genere letterario servivano ad esaltare l ’eroe e e la città: «Quelli infatti stimano di gran pregio e degne di essere ricercate le ricchezze, la stirpe, la gloria, la potenza nel mondo, le leggende che celebrano i fondatori delle loro città (...) A mio parere invece vi è una sola patria degna di essere onorata, il paradiso, prima sede del genere umano (...) un solo splendore della stirpe, la parentela con Dio, la quale non avviene da sé (...) ma per libera scelta»*194. Si tratta, come spesso avviene, di una presa di distanza che non mira affatto alla soppressione di questi argomenti, ma piuttosto alla loro sosti­ tuzione con altri adatti a fornire ad una città cristiana e ai suoi fedeli un racconto delle origini all’altezza di quelli tradizionali. E lo stesso Gregorio a suggerire le articolazioni del testo: una prima parte riguarda la giovinezza195 e la conversione al cristianesimo: il giova­ ne Gregorio studia ad Alessandria la filosofia non cristiana, ma rimane deluso dalla diversità delle dottrine e abbraccia la fede arrivando al batte­ simo con «nessuna macchia di peccato». Gregorio il Taumaturgo, come già Gregorio il Vecchio196, si comportavano da cristiani prima di esserlo: è questo un topos adatto a descrivere il passato non cristiano di una clas­ se dirigente di recente conversione. Una seconda fase segue Gregorio fino all’elevazione all’episcopato. Gregorio abbandona gli studi di filosofia e, dopo un periodo trascorso nella scuola di Origene, ritorna a Neocesarea, ma invece di mettere a frut­ to la sua cultura nella carriera profana, si rifugia in solitudine «per stare solo con D io»197. Malgrado la sua resistenza, il Vescovo di Amasia lo no­ mina vescovo di Neocesarea, una città - afferma il suo biografo - in cui vi erano soltanto diciassette cristiani198. Prima di assumersi il gravoso compito della predicazione, Gregorio vuole che la verità gli sia rivelata tramite una visione. Gli appaiono l ’evangelista Giovanni e la Madre del Signore che gli illustrano «il mistero della vera religione», dettandogli un simbolo di fede trinitaria che Gregorio mise subito per scritto e che il suo biografo riporta per intero con le parole: «E fino ad oggi il popolo di quel­

traduzione, introduzione e note a cura di L. Leone, Roma 1988, p. 14, da cui cito; E. Giannarelli, Donne, bambini, vescovi e santi: fedeli eccellenti dì Gregorio il Taumaturgo. Tradizioni e linee di let­ tura di un personaggio, in D. Clausi-V. M ilazzo (eds.), Il giusto, cit., pp. 171-184. 194 Vita di Gregorio il Taumaturgo, ed. Heil 5, 10 ss. 195 Vita di Gregorio il Taumaturgo, ed. Heil 11, 24. 196 Cfr. supra, p. 153. 197 Vita di Gregorio il Taumaturgo, ed. Heil 14, 11 ss. 198 Vita di Gregorio il Taumaturgo, ed. Heil 16, 12.

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la città, che è rimasta immune, da ogni eretico errore, è istruito di questo insegnamento»1" . A questo punto, formato completamente nella sapienza profana, come in quella divina, confortato da rivelazioni che - in un periodio di dissensi - garantiscono l ’ortodossia dell’insegnamento, Gregorio può abbandona­ re la sua solitudine e dirigersi in città per cominciare la “lotta” della sua vita episcopale che è l ’oggetto della terza parte del testo200. In essa seguia­ mo le sue mirabolanti performances taumaturgiche tese a combattere il paganesimo e a diffondere la fede cristiana con la costruzione di Chiese. Il suo successo in città è da subito straordinario: come un novello Pita­ gora, lo vediamo arringare le folle con discorsi mirati alle diverse catego­ rie di persone: m ogli, figli, anziani, liberi e servi, ricchi e poveri. Il vesco­ vo appare fin da subito un fautore d ell’ò p ói'oia, della concordia sociale, ottenuta per il tramite dei poteri miracolistici. È anche protettore della prosperità della città con un miracolo che impedisce al fiume di devasta­ re le campagne, è guaritore, esorcista. Infine - elevando all’episcopato un carbonaio - è un illuminato pastore della Chiesa in grado di scegliere i suoi vescovi coadiutori non con i criteri del mondo - cioè la ricchezza, la fama, l ’eloquenza - ma le virtù morali. L’ultima parte riguarda il racconto degli eventi della persecuzione (quella di D ecio 249-251); guardando a ciò che era meglio per la sua comunità Gregorio decide di lasciare la città: la sua fuga è coperta dalla protezione divina - il che, per inciso, suggerisce la legittimazione divina di una scelta non proprio eroica. Anche nel suo rifugio dà prova dei suoi poteri straordinari di chiaroveggenza. Al suo ritorno - afferma Gregorio «istituì alcuni festeggiamenti, in onore dei martiri che avevano combattu­ to per la fede». È interessante il motivo che l ’agiografo attribuisce a tale comportamento tutto ricondotto alla sua sapienza pastorale: «Accorgendosi che il popolo ingenuo ed inesperto rimaneva nell’errore del culto idolatrico per i piaceri del corpo che ne derivavano, per raggiungere quanto più possibile ciò che era la cosa più importante, il passaggio cioè dalle sciocche superstizioni a Dio, permise loro che nelle feste commemorative dei santi marti­ ri si dessero alla gioia e al divertimento. Pensava infatti che, con il passare del tempo, un giorno gli uomini spontaneamente avrebbero cambiato per una vita più giusta, anche perché la fede contribuiva a dimostrarlo. Ciò si verificò di fatto per la maggior parte degli uomini che passarono dai piaceri materiali del corpo a forme spirituali di letizia»201. 199 Vita di Gregorio il Taumaturgo, ed. Heil 17, 22. 200 Vita di Gregorio ilTaumaturgo, ed. Heil 19, 20. 201 Vita di Gregorio ilTaumaturgo, ed. Heil 53, 9.

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Sono parole che, mentre offrono un mito di fondazione al culto dei martiri della Chiesa cappadoce, nello stesso tempo, ci lasciano intravede­ re la preoccupazione comune a tanti agiografi e teologhi cristiani riguar­ do alla persistenza di pratiche funerarie non cristiane durante le liturgie presso le tombe dei martiri e alla conseguente scarsa consapevolezza teo­ logica della differenza202. Le parole di Gregorio esprimono, oltre che un obliquo rimprovero ai fedeli, la prospettiva con cui un vescovo del iv secolo poteva guardare al successo del culto dei martiri che egli stesso si adoperava a promuovere: un m ezzo per ampliare il consenso religioso, in una prospettiva, però, di progresso di fede che avrebbe epurato tale culto degli aspetti più sensibili. Il Taumaturgo muore raccomandando ai suoi discepoli di non acquista­ re una tomba privata; il particolare, inserito da Gregorio come ulteriore prova del rifiuto dei beni terreni da parte del santo, intendeva forse giusti­ ficare il fatto che a Neocesarea non ci fosse nessuna reliquia di Gregorio, né alcuna tomba legata al suo nome, mentre esistevano altri oggetti, luo­ ghi, persone tradizionalmente legati alla memoria del santo che Gregorio non manca di registrare: il luogo dove vi era un lago miracolosamente essiccato dal vescovo e ora rigoglioso di culture; il “Bastone”, cioè l ’al­ bero cresciuto dal bastone piantato da Gregorio per fermare la piena del fiume; il Simbolo di Fede di Gregorio, la discendenza di quel M usonio che aveva ospitato Gregorio al suo primo ingresso in città, la chiesa che fece costruire. Attraverso l ’illustrazione della vita di Gregorio il Taumaturgo, il discorso agiografico si fa tramite della fissazione aulica dei memorabilia cittadini, contribuendo così alla costruzione culturale di una città cristia­ na, in grado di far dimenticare l ’“altra” città, quella pagana che Gregorio aveva trovato all’inizio del suo episcopato. Tutta la vicenda di questo santo si iscrive nella constatazione che a Neocesarea all’inizio c ’erano soltanto diciassette cristiani, mentre poco prima di morire Gregorio riuscì a trovare soltanto diciassette pagani203. Egli è un apostolo che, in un’età di grandi conflitti dottrinali, ha ricevuto direttamente da Dio il simbolo di fede ed è rimasto fedele a tale insegnamento, garantendo l ’ortodossia della Chiesa che a lui si ricollega. La sua vicenda serve a Gregorio di Nissa per delineare un modello sacerdotale più adatto al iv secolo che al tempo proprio del Taumaturgo204; un modello in cui è possibile leggere in controluce la parabola esistenziale di un Basilio; un modello che riuniva

202 Canetti, cit., pp. 139-148. 203 Vita di Gregorio il Taumaturgo, ed. Heil 53, 24. 204 R. Fox Lane, Pagani e cristiani, tr. it., Roma-Bari 1991, pp. 560-591.

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con successo aspetti che tendevano a competere e apparire inconciliabili nel mondo di Gregorio: la paideia pagana e la paideia cristiana; il deside­ rio di una vita solitaria esclusivamente concentrata su D io e l ’azione pastorale incisiva radicata nella difesa d ell’ortodossia nicena. I testi dedicati a celebrare figure di vescovi fin qui esaminati sono tanto più interessanti quanto rappresentativi di un modello agiografico vescovile che ebbe in seguito in Oriente scarso rilievo sia pure con qual­ che significativa eccezione fra cui la Vita di Porfirio vescovo di Gaza ( f 420) scritta da Marco il Diacono e focalizzata - com e la Vita del ve­ scovo di Neacesarea - sulla lotta di Porfirio contro il paganesimo im pe­ rante a Gaza, lotta che egli vince grazie ai miracoli e all’appoggio im pe­ riale205 e le Vite di Pietro l ’Iberico e Severo di Antiochia focalizzate sul­ la loro opposizione alle decisioni del Concilio di Calcedonia in materia cristologica206. 5. Predicazione e celebrazione dei martiri I Cappadoci, come la maggior parte dei vescovi di quel periodo, si adoperarono molto per diffondere il culto dei martiri e delle reliquie a par­ tire da quelli locali, ma anche con Γ accogliere nel calendario liturgico delle loro Chiese la commemorazione di martiri di altre regioni207. Un momento importante della liturgia dedicata al martire era il panegirico pronunciato in suo onore e se chi parlava aveva fama di essere un bravo retore, il discorso era atteso spesso con molta impazienza da un pubblico assai esigente e appassionato dei logoi. I più noti predicatori del tempo si lamentavano spesso di questo aspetto del pubblico orientale: «Vogliono oratori e non sacerdoti» si lamentava Gregorio di Nazianzo208. Giovanni Crisostomo, un po’ più tardi, ad Antiochia si doleva continuamente delle intemperanze del pubblico di fronte a om elie già sentite o deludenti209. La convergenza fra strategia episcopale di incremento del culto dei martiri e passione per l ’eloquenza da parte del pubblico è il motivo per cui i panegirici dei martiri fossero un genere particolarmente frequentato

205 Marc le diacre, Vie de Porphyre évèque de Gaza , Texte établi, traduit et commenté par H. Grégoire-M.A. Kugener, Paris 1930. 206 Cfr. infra, p. 258, n. 131. 207 Sul culto dei martiri in Cappadocia, oltre ai testi già citati: P. Maraval, Lieux saints et pèlerinages d'Orient. Histoire et géographie. Des origines à la conquète arabe, Paris 1985, pp. 88-91; 363-379.

208 Orazione 42, 24. 209 A. Olivar, La predìcación cristiana antigua, Barcelona 1991, pp. 834-850.

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nella tradizione orientale. Talvolta, inoltre, la liturgia dedicata al martire non prevedeva la lettura di Passioni, com e, per esempio, è attestato per la Chiesa africana dalla predicazione sui martiri di Agostino. In questo caso il predicatore poteva dare per conosciuti la figura del martire e i principa­ li eventi del martirio e sviluppare le sue considerazioni a partire da qual­ che punto in particolare della vicenda senza sentirsi obbligato a ripropor­ re l ’intero racconto. Nel caso in cui, invece, la liturgia non prevedeva la lettura della Passio, toccava al predicatore l ’onere di illustrare di fronte all’assemblea la figura del o della martire, raccontando il suo martirio e, ove avesse qualche notizia, anche la vita prima del martirio. Per esempio, risulta chiaramente dal Panegirico di Gregorio di N issa in onore dei XL martiri che le letture del giorno comprendevano un passo dal Libro di Giobbe, dai Proverbi e un terzo dall’A postolo210. Si tratta di una letteratura vastissima che - solo per limitarci al iv seco­ l o - annovera, oltre ai tre Cappadoci, Giovanni Crisostomo ( t 404) e Aste­ rio di Amasea (vescovo 378-395)211 e che appare molto omogenea nelle sue linee generali che rimangono pressoché invariate anche nei due seco­ li successivi e di cui si può ricavare un’idea generale a partire dalla pro­ duzione dei Cappadoci212. La struttura letteraria di fondo è quella del panegirico che viene in soccorso al predicatore, quando le informazioni di cui dispone sono poche e incerte. L’omelia pronunciata da Basilio in onore di Marnante è un caso tipico. Il vescovo la pronunciò nella basilica dedicata a questo santo che godeva di una grande venerazione in Cappadocia e in particolare a Cesarea. Malgrado il successo del suo culto, Ba­ silio non sapeva molto di lui oltre al fatto che era stato un pastore, ma l ’en­ com io prevedeva tra i suoi mezzi espressivi la tecnica dell’amplificazio­ ne. In questo modo Basilio potè costruire a partire del dettaglio sull’umi­ le condizione sociale di Marnante un lungo sviluppo sulla povertà, l ’umil­ tà, la semplicità del personaggio ed esortare l ’assemblea a seguirne l ’esem pio di distacco dalle cose dal mondo. Un altro topos sempre con­ nesso al panegirico era il confronto della figura da lodare con altre simi-

210 In lode dei XL Martiri, PG 46, c. 749 B. Ma non è sempre così, soprattutto a partire dal seco­ lo successivo: Maraval, Lieux, cit., p. 217. Per lO ccidente, cfr. infra, pp. 300 s. 211 Più in dettaglio: H. Delehaye, Le Passions des martyrs et les genres littéraires, Deuxième édition, revue et corrigée, Bruxelles 1966 (i ed. 1921), pp. 141-169; sui discorsi di Giovanni Crisostomo sui martiri: St. John Chrysostom, The Cult ofthe Saints edd. by W. Mayer-B. Neil, New York 2006 e G. Luongo, Agiografia martiriale antiochena, in Atti dell’vili Simposio Paolino: Paolo fra Tarso e Antiochia. Archeologia!Storia! Religione, a cura di L. Padovese, Roma 2004, pp. 173-196; G. Luongo, I panegirici di Giovanni Crisostomo sulle sante martiri antiochene, in Atti dell’XI Simposio Paolino: Paolo fra Tarso e Antiochia. Archeologia!Storia! Religione, a cura di L. Padovese, Roma 2008, pp. 236-255. 212 Analisi dei singoli sermoni nel già citato Bernardi, La prédication.

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li: e Basilio assimila Marnante ad altri pastori famosi delle Scritture fino ad arrivare al Buon Pastore213. Il caso di Marnante è un caso limite, perché l ’omelia a lui dedicata non contiene nemmeno la descrizione del suo martirio, tuttavia, anche in altri casi le risorse del mestiere vengono in aiuto al predicatore non solo nel col­ mare le lacune deH’informazione, ma anche nel costruire culturalmente in modo omogeneo la memoria collettiva riguardo alle persecuzioni e alle gesta dei martiri. La persecuzione è sempre presentata come accuratamen­ te organizzata e devastante. Annunciata da un editto, viene immediatamente resa esecutiva da magistrati crudelissimi che subito squadernano sotto gli occhi della popolazione inorridita tutti i mezzi dei futuri tormenti: spade, fuoco, bestie, strumenti di tortura per stirare le membra, selle di ferro in fuocate, gli uncini per lacerare i corpi. Gli stessi magistrati si mettono a caccia dei cristiani gettando panico e confusione nella popolazione214. La fase del processo è occasione per lunghi discorsi che servono ad orientare l ’attenzione dell’ascoltatore sui significati del martirio che vanno oltre il martirio stesso. Per esempio, l ’orazione dedicata ai martiri Macca­ bei che Gregorio di Nazianzo considera cristiani ante litteram è costituita in gran parte dai discorsi dei personaggi del resto già abbondanti nel testo originario su cui Gregorio dice di basarsi; da questi discorsi, com e dai sup­ plizi dettagliatamente descritti, viene tirata la lezione del dominio delle passioni attraverso la ragione215. Nel panegirico in lode dei XL martiri di Sebaste, Basilio amplifica la primitiva confessione «sono cristiano», fino a comprendere una lezione di vita cristiana sulla necessità di disprezzare il mondo, di perseguire i “veri” beni che aprono al godimento della vita eter­ na, abbandonando quelli apparenti di breve durata216. In breve, i discorsi dei martiri durante il processo o al momento della morte sono i “luoghi” in cui il predicatore riesce a trarre dalle passiones dei martiri lezioni morali adatte ad un tempo senza martirio. In questo senso, in modo paradossale, proprio la panegiristica sui martiri accompagna il processo di ampliamen­ to e risemantizzazione del martirio come sacrificio di sé protratto nel tempo mediante il dominio delle passioni, ampliamento che metteva a disposizione di altri tipi di santità sia una strumentazione espressiva già collaudata, sia l ’enorme prestigio goduto dai martiri nelle Chiese217.

213 Omelia in onore di San Marnante, PG 31, pp. 589 ss. 214 Gregorio di Nissa, Vita di Gregorio il Taumaturgo: descrizione molto simile nel Panegirico in onore di San Gordio di Basilio PG 31, ce. 493-495. 215 Orazione 15. 216 In onore dei XL Martiri 4. 217 Questo punto è ben sottolineato da Robert A. Markus, La fine della cristianità antica, (Cambrigde 1990), tr. it. Roma 1996, p. 41.

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I supplizi dei martiri sono un altro punto forte dei panegirici; descritti con precisione di dettagli verosimilmente ispirati dalla prassi penale romana218, tendono a costruire un eroe completamente indifferente al dolore, che affronta i tormenti ridendo, che in ogni momento appare com­ pletamente padrone di sé: una figura stilizzata che si ripete identica come il suo antagonista, il magistrato sempre ottusamente crudele. La panegiristica dedicata ai martiri è il punto di arrivo di un processo di riscrittura dei martyria iniziato già da Eusebio di Cesarea219 e non è irrilevante notare che proprio alla seconda metà del iv secolo risalgono i panegirici più anti­ chi in onore dei Maccabei220, la cui morte era stata già raccontata a varie riprese con dovizia di torture e di discorsi. Dal punto di vista del rapporto fra discorso agiografico e storia, anche la panegiristica più antica - cui spesso dobbiamo le uniche informazioni disponibili - ha un valore limitato per motivi legati sia ad un’obiettiva carenza di informazioni, sia alle caratteristiche del genere dell’encomio. In effetti, anche se le Chiese, forse già dal π secolo, ma sicuramente dal m, conservavano e si scambiavano liste di martiri e confessori e comincia­ vano a fissare i primi calendari liturgici221, questo non implicava affatto anche la raccolta e la conservazione sistematica dei racconti relativi alle passioni. La persecuzione dioclezianea durata ca. dieci anni e avvenuta in più ondate, per un verso, distrusse molti testi, per l ’altro, ostacolò la rac­ colta della documentazione relativa ai martiri più recenti. Nella Chiesa postcostantiniana, per poter essere adeguatamente sviluppato, il culto dei martiri richiedeva di mettere a disposizione dei fedeli una quantità di informazioni più ampia della semplice menzione del nome, della data e del luogo che si trovavano nei calendari: pochi si sarebbero accontentati delle parole di Ambrogio: «Appellabo martyrem. Praedicavi satis»222. Tra la fine del iv e inizio del v secolo la discrepanza fra informazioni effetti­ vamente disponibili e necessità pastorali per sostenere la devozione susci­ tava qualche proccupazione o precisazione223. C ’era, insomma, una gene­ rale penuria di informazioni cui venne in soccorso l ’abilità retorica.

218 D. Gródzynski, Tortures mortelles et catégories sociales. Les summa supplicia dans le droit romain aux IIP et SV- siècles , in Du chàtiment dans la cité. Supplices corporels et peine de mori dans le monde antique, Rome 1984, pp. 261-403. 219 Cfr. supra, p. 73. 220 D i Gregorio di Nazianzo e di Giovanni Crisostomo. 221 Sulle fonti liturgiche: R. Grégoire, Manuale di agiologia. Introduzione alla letteratura agio­ grafica, Fabriano 19962, pp. 113-135. 222 Le vergini 1 , 2 . 223 Agostino, Omelia 315, 1 afferma che a stento trovava gesta da leggere durante le solennità dei martiri; Prudenzio, Peristephanon 1, 75-78: l ’odio dei magistrati si accanisce anche sui documenti del processo che vengono fatti sparire.

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Tuttavia, nello stesso tempo, il genere dell’encom io recitò un ruolo non secondario nella censura di informazioni ove esse pur sarebbero state disponibili: era in effetti una delle sue regole più osservate quella di evi­ tare accuratamente la menzione di luoghi, fatti, momenti precisi, fonti.

CAPITOLO QUINTO

1. Gerolamo agiografo Il periodo che va dall’ultimo quarto del iv secolo fino ai primi due decenni del v fu indubbiamente uno dei più creativi con personalità di prima grandezza per censo, per cultura, per visibilità sociale, spesso col­ legate da reti di rapporti di sostegno, di stima e conoscenza reciproca e che dominanarono sulla scena della vita culturale e religiosa. Fra queste si distinguono, nella produzione di testi agiografici, Gerolamo, Paolino di Nola, Sulpicio Severo e Prudenzio1. Gerolamo attraversa da protagonista tutti gli eventi più importanti della Chiesa del suo tempo; se la sua fama è legata soprattutto alle tradu­ zioni bibliche, ai commenti esegetici e alla sua attività di pungente pole­ mista, non fu da meno come agiografo, campo in cui si distinse per origi­ nalità e abbondanza di scrittura2. Di origine dalmata, com e tanti giovani provenienti da famiglie abba­ stanza benestanti da procurare ai figli più dotati un’ottima educazione retorica per avviarli ad una brillante carriera, dopo gli studi letterari a Ro­ ma, si recò a Treviri per cercare fortuna presso la corte imperiale intorno al 370. Qui, ove la permanenza di Atanasio e del suo seguito aveva fatto conoscere le prime esperienze monastiche e, com e più tardi apprendiamo da Agostino3, la Vita di Antonio induceva conversioni all’ascetismo, Ge­ rolamo maturò la decisione di abbracciare l ’ideale monastico. N el 374 si

1 Un profilo sintetico: M. Van Uytfanghe, La typologie de la sainteté en Occident vers la fin de l ’Antiquité (avec une attention spéciale aux modèles bibliques), in G. Luongo (ed.), Scrivere di santi. Atti del il Convegno di studio d ell’Associazione italiana per lo studio della santità, dei culti e del­ l ’agiografia, Napoli 22-25 ottobre 1997, Roma 1998, pp. 17-48. - Per una presentazione generale della figura di Gerolamo: J.N.D. Kelly, Jerome, London 1975; S. Rebenich, Jerome, London-New York, 2002; A. Fiirst, Hieronymus. Askese und Wissenschaft in der Spdtantike, Freiburg-Basel-Wien 2003, con bibliografia ragionata (283-323); come agiografo: M. Fuhrmann, Die Monchgeschichten des Hieronymus. Formexperimente in erzjdhlender Literatur, in Christianisme etformes littéraires de l ’Antiquité tardive en Occident, Vandoeuvres-Genève 1977, pp. 41-99; W. Berschin, Biographie und Epochenstil im lateinischen Mittelalter, Bd. i: Von der Passio Perpetuae zu den Dialogi Gregors des Grossen, Stuttgart 1988, pp. 137 ss.; A.A.R. Bastiaensen, Jéróme hagiographe, in Hagiographies, t. i, Tumhout 1994, pp. 97-123 con bibliografia. 3 Cfr. supra, p. 130, n. 37.

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mise in viaggio verso Antiochia in compagnia di quell’Evagrio che, pro­ prio in quegli anni, aveva tradotto o stava traducendo la Vita di Antonio in un latino elegante, rendendola un testo più adatto a diffondere l ’ideale ascetico fra un pubblico colto e moltiplicandone il successo letterario. Fra il 375-377, lo troviamo nel deserto che si estendeva a pochi km a sud della città di Calcide: un periodo piuttosto breve, ma che in anni successivi con­ sentirà a Gerolamo di presentarsi nelle vesti di eroico eremita in lotta con­ tro la tentazioni in condizioni di vita estreme4 e che nelle sue Lettere coeve appare, certo, di isolamento dalla vita della grande città, ma alacre di studi e di contatti culturali, trascorso in una proprietà di campagna del­ l ’amico e patrono Evagrio5. A ll’inizio del 380 è a Costantinopoli con Paolino di Antiochia che, in vista del Concilio indetto da Teodosio nel maggio del 381, sperava di trovare appoggi per la propria causa. Voleva infatti che il Concilio lo riconoscesse com e unico vescovo niceno di An­ tiochia, ai danni di M elezio, anch’egli niceno ed eletto vescovo della stes­ sa città. Le cose andarono diversamente perché, malgrado la morte di M elezio, il Concilio gli preferì Flaviano. Nei due anni che rimase a Co­ stantinopoli, Gerolamo ebbe contatti con Gregorio di Nazianzo, Gregorio di N issa e importanti personalità àt\V entourage dell’Imperatore Teodosio che nutrivano un particolare interesse per la vita ascetica6. N el 382 si recò Roma ancora con Paolino di Antiochia e Epifanio di Salamina, che inten­ devano trovare appoggi presso il vescovo di Roma Damaso. Mentre que­ sti ripartirono ancora sconfitti qualche m ese dopo, Gerolamo restò fino al 385 guadagnandosi l ’appoggio e l ’amicizia di Damaso. Grande esegeta, monaco e profondo conoscitore di testi e esperienze orientali, Gerolamo aveva tutte le carte in regola per suscitare ammirazione e interesse in quei circoli aristocratici, in cui erano già diffusi, al momento del suo arrivo, pratiche di vita ascetica e un vivo interesse per la conoscenza appro­ fondita della Bibbia. Diventò la guida spirituale di alcune dame dell’alta aristocrazia romana come Paola e la figlia di questa Eustochio e strinse legami con molte altre. Anche se amava primeggiare e rivendicare un ruolo esclusivo di padre spirituale riguardo ad alcune dame in particolare, nella realtà, negli ambienti romani la competizione era molto spinta e Gerolamo era uno dei tanti sacerdoti e asceti che lottavano per affermarsi nelle cerehie familiari che contavano, quelle cerehie che, attraverso la struttura tradizionale del patronato, erano in grado di diffondere, sostene-

4 Lettera 22, 7. 5 11 monaco prigioniero 2. 6 S. Rebenich, Hieronymus und sein Kreis. Prosopographische und sozialgeschichtliche Untersuchungen, Stuttgart 1992, pp. 115-140.

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re e, se necessario, difendere l ’opera letteraria e il suo autore7. Da questa competizione Gerolamo uscì sconfitto. Dopo la morte di Damaso gli ven­ ne a mancare il puntello indispensabile per restare in una città in cui le sue critiche feroci alla decadenza del clero, le sue amicizie femminili delle grandi famiglie senatorie avevano suscitato preoccupazioni e maldicenze. N el 385 toma in Oriente, seguito a ruota da Paola e da Eustochio. Da Antiochia, partirono insieme per il grand tour: la Terra santa, Alessandria, l ’Egitto monastico. Dal 386 fino alla morte avvenuta nel 420 Gerolamo diresse a Betlem me una comunità monastica maschile, mentre, poco lon­ tano, Paola e, dopo la sua morte (404), la figlia Eustochio guidarono una comunità monastica femminile. 1.1. La Vita di Paolo e la ricostruzione delle origini del monacheSimo Il primo profilo agiografico risale agli anni di permanenza nel deser­ to di Calcide8; abbiamo un termine ante quem nella lettera inviata a Paolo di Concordia nel 377 che era accompagnata appunto dalla Vita di Paolo. Mentre loda la sua vecchiaia ancora giovanile e gli chiede alcuni codici di autori cristiani, in attesa di questi, Gerolamo gli invia come dono il suo scritto con un commento che, citando Orazio, strizza l ’occhio alla cultu­ ra del suo destinatario, nello stesso momento in cui fa professione di semplicità: «Intanto a te Paolo, che sei anziano, ho inviato un Paolo ancor più vecchio. Su quest’opera mi sono affaticato a lungo; ne ho semplificato lo stile per renderlo ac­ cessibile a coloro che sono privi di cultura. Ma non so come mai: anche se ora è piena d’acqua, la bottiglia conserva l’odore del liquido che conteneva all’inizio»9. Questa Vita presenta molti aspetti singolari: in primo luogo, non è una Vita nel senso letterale del termine: essa contiene - come avverte il suo autore nel prologo - «qualche notizia intorno alla nascita e alla morte di Paolo», figura dalla storicità assai discussa di cui Gerolamo è finora l ’uni­ co testimone10. Con questo racconto Gerolamo si affaccia sulla scena let­ 7 Un quadro godibilissimo di questa competizione, naturalmente presentato prò domo sua si può leggere nella Lettera 22. 8 A. De Vogiié, Histoire littéraire du mouvement monastique dans l ’Antiquité, Premère Partie: Le monachisme latin, voi. 1, Paris 1991, p. 153. 9 Lettera 10, 3; Orazio, Lettere 1, 2, 69-70: utilizzo la traduzione: Gerolamo, Le Lettere, Intro­ duzione, traduzione e note di S. Cola, 4 voli., Roma 1996; 1997; 1997; 1997. 10 Status quaestionis in Gerolamo, Vite degli eremiti Paolo, Ilarione e Malco. Introduzione, tra­ duzione e note a cura di R. Degórski, Roma 1996, pp. 17-19. Trois Vies de moines (Paul, Malchus, Hilarion), introduction par P. Lerclerc, E.M. Morales, A. De Vogué. Texte critique par E.M. Morales.

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teraria occidentale impressionata dalla Vita di Antonio con una novità assoluta: presentare l ’“inventore” della vita monastica del deserto che afferma Gerolamo - non è, come molti pensano, Antonio, ma Paolo di Tebe, come sostengono due discepoli di Antonio stesso. Il racconto è diviso in due parti principali: nella prima (capp. 2-6) si narra che Paolo avrebbe avuto 16 anni durante la persecuzione di Decio e Valeriano. Erede di un’ingente fortuna dopo la morte dei genitori, per sfuggire la persecuzione, riparò in una sua villa lontana dalla città. In se­ guito, temendo di essere denunciato dal cognato che mirava ad impadro­ nirsi delle sue ricchezze, si rifugiò in una località desertica sui monti, ove trovò una grotta al cui interno si apriva un grande vestibolo a cielo aper­ to. Una palma gli procurava cibo e vesti e una fonte limpidissima di che dissetarsi. Qui decise di fermarsi e «vi passò in preghiere e solitudine tutta la vita». Nei capp. 7-16 si narrano le due visite di Antonio a Paolo; la prima avvenne quando quest’ultimo aveva 113 anni e Antonio 90. Una visione avvertì Antonio che «nel deserto vi era un altro molto migliore di lui e che doveva mettersi in cammino per visitarlo». Dopo un viaggio drammatico in cui Antonio trovò la strada grazie alle indicazioni di ani­ mali m itologici - un ippocentauro e un satiro - i due monaci si incontra­ rono e Paolo, presentendo la sua morte chiese ad Antonio di andare al suo monastero e di tornare con il mantello che Atanasio aveva donato ad Antonio e in cui Paolo desiderava che il suo corpo fosse avvolto nella sepoltura11. Antonio obbedì, ma quando arrivò per la seconda volta al suo eremo lo trovò già irrigidito dalla morte nella sua posizione solita di pre­ ghiera. Due leoni scavarono la fossa destinata ad accoglierne il corpo e, dopo la sepoltura, Antonio ritornò al suo monastero portando con sé la tunica di Paolo, che - precisa Gerolamo - indossava durante le feste solenni di Pasqua e di Pentecoste. Come il mantello di Antonio passato ad Atanasio, così la tunica di Paolo rende Antonio suo erede e - di conse­ guenza - secondo nella genealogia del genere di vita monastico12. Prima di Paolo, non vi erano che Elia e Giovanni Battista ritenuti i precursori del ritiro nel deserto. Così infatti Gerolamo fa esclamare ad Antonio, quando i suoi monaci lo interrogano sulla sua assenza: «Guai a me peccatore, che falsamente porto il nome di monaco. Ho visto Elia, ho visto Giovanni nel deserto e davvero ho visto Paolo in paradiso»13. A ll’ultimo capitolo che Traduction par P. Ledere (SC 508), Paris 2007. Un’analisi interessante della Vita di Paolo in S. Weingarten, The Saint's Saint. Hagiography and Geography in Jerome, Leiden-Boston 2005, pp. 4275: Gerolamo avrebbe utilizzato materiale haggadico poi confluito nel Talmud gerosolimitano e babi­ lonese relativo al Rabbino Shim’on BarYohai. 11 Qui il racconto di Gerolamo è in contraddizione con la Vita di Antonio , cfr. supra, p. 137. 12 Vita di Paolo 16. 13 Vita di Paolo 13.

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contiene un’invettiva contro il lusso, segue un breve epilogo in cui l ’auto­ re si rivolge direttamente al lettore chiedendogli di ricordarsi di lui - di Gerolamo - peccatore e nello stesso tempo emulo di Paolo. Il successo letterario di questo breve scritto geronimiano è stato gran­ dissimo: se ne conoscono diverse traduzioni greche, una copta, una siria­ ca e una etiopica; nel mondo latino è stata molto letta e ammirata fino all’età umanistica14. Un successo largamente meritato dal momento che Gerolamo dà prova della sua capacità di mescolare legandoli diversi gene­ ri letterari in una lingua intessuta di citazioni bibliche com e di autori lati­ ni non cristiani: Seneca, Cicerone, Floro. N e sono un esempio i racconti di martirio con cui viene preparata - e giustificata - la fuga di Paolo dalla città. Se, per un verso, Gerolamo sembra aver fatto tesoro della lezione di Eusebio di Cesarea nel ridurre il racconto di martirio al tema delle tortu­ re raccontate con particolari agghiaccianti, per l ’altro, lo arricchisce del­ l ’elemento erotico. Un episodio, in particolare, potrebbe essere conside­ rato un piccolo cammeo della letteratura erotica di tutti i tempi: un giova­ ne viene condotto in un amenissimo giardino e legato con ghirlande di rose ad un letto di piume; gli si avvicina una meretrice la quale comincia ad accarezzargli il collo «e - che è scelleraggine solo a dirlo - a palpargli con le mani i genitali, affinché dopo aver eccitato il corpo alla libidine, la svergognata, vincitrice, potesse sdraiarsi sopra di lui». Ma il giovane, per ispirazione divina, si trancia la lingua con un morso e - come un’eroina pitagorica - la sputa in faccia a colei che lo baciava, spegnendo con l ’atro­ cità del dolore il fuoco della libidine15. Ci sono le peripezie di viaggio - quasi un elemento costante nel di­ scorso agiografico sugli uomini divini - con l ’introduzione di elementi esotici e meravigliosi attraverso la descrizione degli incontri con figure esotiche e mitologiche. Animali più verosimili, come i due leoni o il corvo che nutre i due asceti, sono protagonisti di altrettanti miracoli. Ci sono elementi bucolici nella descrizione d ell’eremo di Paolo (come del resto già nella Vita di Antonio)16. La Vita di Paolo colloquia costantemente e sottilmente con la Vita di Antonio n ell’intento di mettere in luce con ogni m ezzo la superiorità del 14 C. Del Com o, La fortuna delle Vite genonimiane fra medioevo e umanesimo, in corso di pub­ blicazione in «Adamantius» 16(2010). 15 P. Hamblenne, Traces de biographies grecques “paiennes” dans la Vita Palili de Je'róme, in Cristianesimo latino e cultura greca sino al sec. tv. xxi Incontro di studiosi dell’antichità cristiana, Roma 1993, pp. 209-234. 16 Per i paralleli fra i viaggi e gli animali presenti nelle Vitae geronimiane e nella Vita di Apol­ lonio di Piana e le Vitae di Pitagora: Fuhrmann, cit., pp. 72-73; la mescolanza come caratteristica di Gerolamo scrittore: J. Fontaine, L'estetica letteraria della prosa di Gerolamo fino alla sua partenza per l'Oriente, in Id., Letteratura tardoantica. Figure e percorsi, tr. it., Brescia 1998, pp. 203-226.

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primo sul secondo. La conversione all’ascetismo, inizio per Antonio di infinite prove e scontri con i demoni, è per Paolo quasi una trasformazio­ ne naturale della sua indole già dall’inizio «appassionato amante di D io»17. Paolo diviene perfetto senza lotta e, verrebbe da dire, senza dure prove ascetiche se si esclude l ’isolamento e la preghiera. Nulla distrae Paolo dalla preghiera, mentre Antonio lavora e prega: stabilire l ’anteriori­ tà di questa forma di vita rispetto all’altra segna un punto a favore per il tipo di monacheSimo colto di cui Gerolamo sarà il rappresentante più noto dei suoi tempi. Il ritratto geronimiano di Antonio è ben diverso da quello ieratico offerto dalla Vita di Antonio: qui l ’asceta conserva del filosofo l ’a­ spetto indefettibilmente sereno, epifania del suo assoluto controllo sulle passioni, là è propenso alle lacrime e ai lamenti18 e non sembra sempre padrone della situazione: rincontro con l ’ippocentauro lo lascia “stupe­ fatto”19. È il narratore a prospettare le possibili spiegazioni senza per altro prendere posizione per nessuna delle due: se la bestia, cioè, sia una figu­ ra del diavolo oppure uno di quegli animali mostruosi che abitano il deser­ to. Se si pensa all’importanza rivestita dal discernimento degli spiriti n ell’Antonio atanasiano, diventa chiaro lo scarto che lo separa da quello di Gerolamo. Questi mostra Antonio in situazioni quotidiane non prive di qualche sfumatura comica: quando toma per la seconda presso Paolo, la sua posizione irrigidita dalla preghiera lo trae in inganno, pensa che sia ancora vivo e si mette a pregare accanto a lui. Constatatane la morte, comincia a preoccuparsi perché non ha nessun attrezzo per scavare la fossa e Gerolamo ce lo ritrae impegnato a vagliare tutte le possibili alter­ native, fino all’arrivo dei due leoni. Di contro Paolo, appare sempre sicu­ ro di sé, sa sempre perfettamente quello che succede e succederà, guida i comportamenti di Antonio, si comporta com e un retore consumato20. Nel racconto geronimiano Antonio fa figura di uomo semplice armato di una fede incrollabile che lo salva da situazioni da cui non saprebbe trar­ si di impaccio: è, in fondo, il comportamento che, dal punto di vista di un uomo coltissimo che scrive per essere ascoltato da tutti, ma apprezzato da un pubblico di letterati, ci si poteva aspettare da un uomo santo, certo, ma che Atanasio aveva tenuto a presentare come illetterato. Paolo, invece, era «eccezionalmente istruito nelle lettere, sia greche che egiziane»21 e Gero­ lamo costruisce un personaggio che agisce di conseguenza. Letta al di 17 Vita di Paolo 4. 18 Vita di Paolo 8; 12; 14. 19Anche questo episodio è un omaggio alla Vita di Antonio 53. 20 P. Ledere, Antoine et Paul: métamorphose d ’un héros, in Y-M. Duval (ed.), Jéróme entre l ’Occident et l ’Orient, Paris 1988, pp. 257-265; De Voglie, cit., pp. 164-165. 21 Vita di Paolo 4.

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fuori del contesto per cui la Vita di Antonio era stata prodotta e pensata, l ’insistenza atanasiana sul rifiuto di Antonio della cultura costituiva una nota falsa, una pietra di inciampo nei processi di identificazione e imita­ zione o di semplice ammirazione generati dalle notizie sulle prime espe­ rienze monastiche. Gerolamo, a sua volta monaco coltissim o, celebrando l ’istruzione di Paolo, fa cessare questa dissonanza. 1.2. Ritratti di donne: Lea e Asella Durante il soggiorno romano, Gerolamo scrive i profili biografici di due donne, Lea ( t 384)22 e Asella23 (nata poco prima del 334 e morta dopo il 404/405)24, che con la Vita di Macrina, rappresentano le più antiche Vite dedicate a donne. Insieme alle Vitae di Paola (n. 347, m. 404) e Marcella (n. fra il 339-346, m. dopo il 410) di cui ci occuperemo più avanti, sono da considerarsi i testi più rappresentativi di una galleria di personaggi femminili ben più nutrita25. Si tratta di un gruppo di donne unite reciprocamente da legami di sta­ tus, forse anche di sangue, certamente di scelta di vita, con cui la vita di Gerolamo fu intimamente connessa a partire dagli anni del soggiorno romano. Nella capitale entrò in contatto con gruppi di donne appartenen­ ti a grandi famiglie senatorie che praticavano forme diverse di ascetismo domestico. I primi due testi risalgono al 384 e sono due lettere che Ge­ rolamo indirizza a pochi giorni di distanza alla stessa persona: Marcella. Dalla pagina geronimiana emerge un sintetico ritratto di Lea che, vedo­ va26, «si era convertita completamente al Signore» fino al punto di diven­ tare «capo di monastero» (monasterii princeps) e «madre di vergini» (mater virginum), espressioni che in questa fase sono da intendere nel senso che Lea era la figura di riferimento di un gruppo di donne che risiedeva­ no insieme27. Dopo aver vestito in passato morbide vesti - racconta Ge­ rolamo - logorava le sue membra con il rude sacco, non curava il suo aspetto, si nutriva di un cibo grossolano e passava le notti in preghiera. Um ile e sottomessa, educava le compagne più con l ’esempio che con i

22 Gerolamo, Lettera 23; PCBE n, T. 1, 1268. 23 Gerolamo, Lettera 24; PCBE i, 199. 24 De Vogiié, cit., pp. 341-357. 25 Lista completa in Berschin, cit., Bd. i, pp. 144-146; P. Laurence, Jéróme et le nouveau modèleféminin. La conversion à la “vie parfaite’’, Paris 1997. F.E. Consolino, Tradizionalismo e trasgres­ sione nell’élite senatoria romana: ritratti di signore fra la fine del IV e l ’inizio del IV secolo, in R. Lizzi (ed.), Le trasformazioni delle élites in età tardoantica, Roma 2006, pp. 65-139. 26 Questa informazione è deducibile da Lettera 23, 1. 27 Lettera 23, 2.

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suoi discorsi. Tra queste comites vi erano certamente le schiave di casa28. In tutte le sue azioni, «fuggiva l ’ostentazione della sua eccezionalità per non ricevere in questa vita la sua ricompensa»2930. Nella sua brevità, questo medaglione biografico è interessante perché contiene in nuce molti temi che saranno sviluppati più estesamente altrove: il linguaggio antitetico con cui Gerolamo descrive la situazione paradossale di chi, pur apparte­ nente all’aristocrazia, rinuncia ai privilegi della sua condizione; il model­ lo di una perfezione femminile che unisce a un ruolo di guida spirituale la rinuncia della parola. L’intento che spinge Gerolamo a scrivere una seconda lettera a Mar­ cella dedicata ad A sella è la volontà di completare il dittico della perfe­ zione femminile con il ritratto di una vergine che praticava una forma di ascetism o più vicino all’eremitismo. La superiorità di A sella rispetto a Lea è implicita nel modo utilizzato da Gerolamo per introdurne la vita; per dare una maggiore solennità all’entrata in scena di A sella ricorre a moduli narrativi tipici sia della Bibbia, sia della biografia grecoromana: la nascita è accompagnata da un sogno premonitore del padre ove essa appare vergine sotto una campana di cristallo durissimo; sceglie molto precocemente di rimanere vergine e di sottoporsi a una vita di solitudi­ ne e mortificazione. Soltanto A sella inoltre è additata ad esem pio da seguire. L’impegno di Gerolamo a favore della verginità è stato costante e ap­ passionato; poco prima prima aveva scritto il Contro Elvidio 30 che, oltre a difendere la verginità di Maria post partum, sosteneva vigorosamente la superiorità della verginità sul matrimonio, una superiorità che prolungava i suoi effetti anche nell’aldilà garantendo ai vergini un premio maggiore di quello riservato agli sposati; tesi ribadite, nello stesso anno in cui scri­ ve di Asella, nella Lettera a Eustochio31, e che suscitarono critiche e dif­ fidenze dottrinali nei riguardi di Gerolamo. Si noti inoltre che proprio in questa lettera, il cui intento era quello di fornire ad Eustochio, la figlia di Paola, argomenti per rafforzare il suo propositum di rimanere vergine, Gerolamo aveva offerto, tra l ’altro, una presentazione complessiva delle forme di vita monastica, individuando n ell’eremitismo una forma più per­ fetta e successiva a quella praticata nella vita cenobitica32. Nella descri­

28 Cfr. Lettera 23, 2 ove non si fa cenno ad un’eventuale liberazione degli schiavi e si mette l ’accento sull’atteggiamento di Lea. 29 Lettera 23, 2. 30 G. Rocca, V 'Adversus Helvidium" di san Gerolamo nel contesto della letteratura asceticomariana del secolo tv, Bem-Berlin-Frankfurt am Main-New York-Paris-Wien 1998. 31 Lettera 22, 20-23. 32 Lettera 22, 36.

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zione dell’ascesi di Asella il modello della Vita di Antonio si fa percepire in più punti: A sella vive chiusa in una cellula, una stanza della casa pater­ na; non incontra mai nessuno e trascorre il tempo pregando, recitando i Salmi, lavorando con le mani. Esce, vestita grossolanamente, solo per v i­ sitare le tombe dei martiri, godendo di non essere riconosciuta da nessu­ no; pratica un digiuno rigorosissimo; in mezzo alla città tumultuosa continua Gerolamo - ella ha trovato heremum monachorum33. Il ritratto fisico di Asella ricorda la compostezza e l ’autocontrollo dell’ideale aristo­ cratico, lo stesso adoperato per descrivere Antonio: «Nulla è più gioioso della sua serietà, nulla più severo della sua allegria, nulla di più triste del suo sorriso, nulla di più soave della sua tristezza. Il suo pallore indi­ ca la sua continenza, eppure non sa di ostentazione. Il suo parlare è silenzioso e il suo silenzio è eloquente, il suo incedere non è precipitoso, né lento, il suo con­ tegno non varia mai, non si preoccupa dell’eleganza, ma la sua mancanza di ricer­ catezza è la vera eleganza»34. Infine Asella, come Antonio, anche in età avanzata, ha un fisico sano, non minato dai lunghi anni di ascesi. 1.3. L ’historia castitatis di Malco Ai primi anni della vita monastica35 a Betlemme risalgono altri due profili di monaci: Malco e Ilarione. Gerolamo cita gli scritti ad essi dedi­ cati in quest’ordine nella lista delle sue opere che compare ne Gli uomini illustri36 e, in mancanza di altri elementi sicuri in grado di sovvertirne l ’ordine cronologico, è opportuno seguire le indicazioni dell’autore. La prima non è una Vita nel senso tradizionale del termine. Gerolamo le assegna il titolo: Il monaco prigioniero e la considera - come afferma nell’epilogo - un «storia della castità» scritta per i casti con l ’intento di esortare i vergini a custodire la verginità37. Il racconto di Gerolamo è l ’u­ nica testimonianza che possediamo su Malco. Il prologo rivela il contesto fortemente polemico che fa da sfondo a questo parvum opus3S. Sulla scor­ ta verosimilmente degli scritti storici di Eusebio di Cesarea che conosce­ va bene, Gerolamo manifesta l’intenzione di scrivere anche lui una storia 33 Lettera 24, 4. 34 Lettera 24, 5. 35 Fiirst, cit., p. 290 propone il periodo 388-393. 36 Gli uomini illustri 35, 4. 37 II monaco prigioniero 1 1 ,1 . 38 II monaco prigioniero 1 ,2 .

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della Chiesa che, fino «agli Imperatori cristiani», avrebbe ripercorso gli stessi temi di quella eusebiana, ma che a partire da quel momento avreb­ be dovuto mostrare il venir meno delle virtù che l ’avevano fatta grande. Una storia dunque di decadenza e di forte impronta polemica che non venne mai scritta e di cui la vicenda di Malco è presentata come un eserci­ zio preparatorio: per togliere la ruggine da una lingua - dice Gerolamo che ha dovuto tacere per lungo tempo a causa di certi vituperatores. La vicenda è narrata in prima persona da Malco, «siro di nazionalità e di lingua» che, ormai vecchio, racconta le sue peripezie a Gerolamo che in un villaggio di nome Maronia vicino al deserto di Calcide si era incuriosi­ to notando una coppia di vecchi piissimi su cui circolavano delle storie. Il giovane Malco decise di farsi monaco e di recarsi nel deserto della Calcide per sottrarsi alle nozze. In quel luogo trascorse qualche tempo fra altri monaci e affidato alla loro direzione. D ecise ad un certo punto di tor­ nare in patria con l ’intenzione di utilizzare la modesta eredità in parte per donare ai poveri, in parte per fondare un monastero, in parte per le sue spese. L’abate cercò di dissuaderlo facendogli intravedere al fondo del suo proposito una tentazione diabolica, ma il giovane partì lo stesso e sulla strada venne fatto prigioniero dai saraceni. In seguito, insieme con una muliercula39 —una donnetta —passo al servizio di una famiglia che gli as­ segnò il compito di pascolare il bestiame nel deserto: qui - dice Malco «Mi nutrivo di formaggio e di latte, pregavo di continuo, cantavo i Salmi che ave­ vo imparato al monastero. Mi dilettavo della mia prigionia e rendevo grazie al de­ creto di Dio di essere divenuto nel deserto quel monaco che avrei mancato di essere in patria»40. Ma i suoi padroni, pensando di premiarlo per la sua fedeltà, gli diede­ ro in sposa proprio quella muliercula compagna di prigionia: Malco non vorrebbe e accampa scuse; alla fine, per aver salva la vita, accetta. Rima­ sto solo con la donna, ritrovò il coraggio e decise di porre fine alla pro­ pria vita con la spada: sarebbe stato un martire, non per il nome di Dio co­ me gli antichi testimoni, ma per la castità. A questo punto con un colpo di scena la donna gli rivelò lo stesso disgusto per le nozze e i due decisero di rimanere insieme come fratello e sorella. Dopo un certo tempo, si insi­ nuò in Malco la nostalgia per la vita nel convento e l ’osservazione della vita alacre e concorde delle formiche lo spinse a fuggire4!. La coppia si

39 11 monaco prigioniero 4. 40 II monaco prigioniero 5, 3. 41 II monaco prigioniero 7, 3.

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diede alla fuga e dopo peripezie mirabolanti, salvati in extremis dalle ma­ ni dei loro inseguitori da una leonessa che li sbrana, riescono a porsi in salvo. Malco ritorna al monastero di prima e la donna viene affidata a delle vergini42. In questa breve storia ricca di colpi di scena e così ben raccontata, Gerolamo dimostra di aver m esso a frutto la lezione del romanzo elleni­ stico i cui temi principali erano gli amori contrastati di due giovani con l ’inevitabile happy end43, i viaggi, gli inseguimenti, i prodigi che avevano per protagonisti gli animali. Una forma letteraria che aveva già ispirato gli Atti degli Apostoli apocrifi che, fra π e in secolo, ne avevano utilizzato numerosi motivi letterari mettendoli però al servizio dell’ideale della ver­ ginità44. L’historia castitatis di Gerolamo si pone nella stessa scia: la sce­ na di quella che avrebbe dovuto essere la prima notte di nozze, in cui avviene fra M alco e la muliercula una vera e propria agnitio - anche que­ sto ingrediente indispensabile del romanzo come di alcuni racconti apo­ crifi - in quanto “si riconoscono” come seguaci della verginità, ne ricor­ da un’analoga, descritta dagli Atti di Tommaso, dove due giovani sposi, nella privacy della loro prima notte, decidono di rimanere vergini45. Non va neppure dimenticato che nello stesso periodo anche la vicenda di un romanzo di ispirazione neoplatonica, le Etiopiche di Eliodoro terminava non con le nozze, ma con la consacrazione della coppia a Elios e Selene ed esaltava la castità come valore assoluto. È stato osservato che ne II monaco prigioniero « l’attenzione è tuttta rivolta a un tema assolutamente nuovo nella letteratura monastica: la figu­ ra femminile accanto al monaco»46, tema di cui vengono sottolineati gli echi autobiografici del rapporto che legò per ca. venti anni Gerolamo a Paola. In effetti nel momento in cui Gerolamo scriveva, il contubernium fra M alco e la muliercula presentava molti tratti comuni con quello di Gerolamo e di Paola. Essi vivevano in comunità monastiche distinte, ma così vicine da consentire un rapporto quotidiano e dunque il perdurare di quell’amicizia in D io protetta - come afferma ad un certo punto Malco «dal muro della consapevolezza della nostra pudicizia»47, amicizia, so­ prattutto negli anni romani assai criticata, ma di cui il racconto di Malco difendeva la possibilità.

42 II monaco prigioniero 10, 3. 43 Sulla presenza di elementi romanzeschi: E. Coleiro, St. Jerome’s Lives ofHermits, in «Vigiliae Christianae» 11(1957), pp. 161-178. 44 Cfr. supra, pp. 54-57. 45 Atti di Tommaso 13. 46 Degórski, cit., 30. 47 II monaco prigioniero 9.

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Se collocato sullo sfondo degli Atti apocrifi degli Apostoli, la novità dello scritto geronimiano appare però meno evidente, mentre esso lascia intravedere con chiarezza le trasformazioni dello sguardo sul ruolo fem ­ minile nel passaggio dal ii-iii secolo aU’ultimo quarto del iv secolo. L’au­ tonomia e il protagonismo sociale di Tecla ha lasciato il posto ad un don­ na che l ’autore non fa mai uscire dall’anonimato e a cui viene attribuita la parola e l ’iniziativa una sola volta - per altro indispensabile per il prose­ guimento del dramma - quando, per impedire a M alco di suicidarsi, si rivela disposta a morire piuttosto che a rinunciare alla castità e propone di considerarla come coniugem pudicitiae48. La novità del racconto geroni­ miano rispetto alla rielaborazione dei motivi del romanzo greco già pre­ senti nei racconti apocrifi sulle peripezie degli Apostoli consiste nell’ave­ re m esso al centro della vicenda un monaco, per di più cenobita. Questo gli ha consentito di intrecciare la difesa della verginità con l ’esaltazione della vita monastica e di veicolarne con efficacia una particolare declina­ zione, in un momento di accelerato sviluppo e pluralità di esperienze. Malco dopo la sua decisione di farsi monaco, si era diretto “ad eremum Chalcidos” - come Gerolamo ! - e lì si era inserito in una comunità mona­ stica sotto la guida di un abbas. Quando ricorda quel periodo, Malco ha nostalgia del contubernium monachorum, della guida dell’abate e prende la decisione di tornare alle celle del monastero, dove il «lavoro è comune, non esiste nulla che sia proprietà di qualcuno e tutte le cose sono di tutti»49. La citazione delle parole con cui Luca in Atti 4,32 crea il mito potente di una Chiesa delle origini in cui regna la concordia e la comu­ nanza dei beni, è utilizzata da Gerolamo per descrivere la vita monastica e per costruire a sua volta il mito del monacheSimo - e di quel monache­ Simo che Gerolamo stava vivendo a Betlemme - come vero erede della Chiesa primitiva, in un contesto ecclesiastico che fin dalle prime battute del racconto è presentato com e un contesto di decadenza e di abbandono degli ideali primitivi.

favore numerosi argomenti: Gerolamo cita fra le sue fonti un encomio riguardante Barione contenuto in una lettera dell’amico Epifanio di Salamina, città d ell’isola di Cipro in cui il monaco dimorò nell’ultima parte della sua vita; inoltre un miracolo di Barione, non contenuto nella Vita di Gerolamo è narrato da Sozomeno - nato nei dintorni di Gaza - nella sua Storia ecclesiastica5X. B contributo decisivo a favore della storicità del personaggio è venuto però dagli scavi archeologici: nel 2003 una équipe di archeologi francesi e palestinesi ha identificato il luogo della sepoltura di Barione con Todiema Umm el-‘Armr grazie al rinvenimento di un’i­ scrizione: «Che attraverso la preghiera e l ’intercessione del nostro santo padre Barione riceviamo pietà» e della tomba che sorgeva sul luogo della sua cella52. Dopo un breve prologo in cui Gerolamo presenta la sua impresa e il suo eroe sotto una luce epica - citando, in un breve volgere di righe, Sal­ lustio, Alessandro Magno, Achille e Omero - i primi sette capp. raccon­ tano la nascita e l ’educazione di Barione, la sua decisione di diventare mo­ naco dopo aver conosciuto Antonio, il ritorno in patria, la vendita dell’ere­ dità patema, la scelta del deserto in completa solitudine in luogo infesta­ to dai briganti, le sue lotte contro le tentazioni dei sensi, la dieta severis­ sima cui si sottoponeva. Già in questa prima parte viene anticipato il tema della fuga dalla folla che costituirà la molla narrativa di tutto quanto suc­ cede in seguito: Barione lascia Antonio perché non può tollerare la folla che assedia continuamente il monaco che Gerolamo presenta già celeber­ rimo in tutto l ’Egitto quando Barione aveva 15 anni, cioè intorno al 305. I capp. 8-14 sono dedicati ai miracoli. È la volta, poi, dell’Barione fon­ datore - per quanto suo malgrado - di monasteri e nelle vesti di guida spi­ rituale dei numerosissimi eremitaggi che sorgono nella zona (capp. IS­ IS). Dal cap. 19 inizia il racconto delle peregrinazioni di Barione, che all’età di 63 anni, è preso da «incredibile desiderio conversationis antiquae»53, cioè, della solitudine di cui aveva goduto nei primi tempi. In

1.4. La Vita di Barione e le origini del monacheSimo a Gaza

A.A.R. Bastiaensen e J.W. Smit, introduzione di Ch. Mohrmann, Milano 1998 (iv ed.), pp. xi-xliii da cui cito. 51 Storia ecclesiastica 5, 15. 52 R. Elter-A. Hassoune, Le monastère de saint Hilarion: les vestiges archéologiques du site de Umm el-‘Amr, in C. Saliou (éd.), Gaza dans l ’Antiquité tardive, Salerno 2005, pp. 13-40. B. BittonAshkelony-A. Kofsky, The Monastic School ofGaza, Leiden-Boston 2006, pp. 8-15, che però non cita lo studio precedente. Dal monacheSimo palestinese provengono altre Vite di monaci: la Vita di Cantone, presentato come cofondatore insieme a Ilarione, è un testo tardo della seconda metà del vi secolo, scritto da un monaco del monastero di Caritone; la Vita di Pietro l ’Iberico, monaco e poi vescovo monofisita di Maiuma ( t 491), scritta da Giovanni di Beth Rufìna (f dopo il 515), suo disce­ polo e suo successore nella carica vescovile; cfr. R.M. Parrinello, Comunità monastiche a Gaza. Da Isaia a Doroteo (rv-vt secolo), Roma 2010, pp. 11-23. 53 Vita di Ilarione 19, 1.

B timore espresso da Gerolamo che la sua Vita di Barione venisse denigrata come quella di Paolo si è dimostrato fondato, se si considera come una fase piuttosto lunga della ricerca sia stata caratterizzata da un totale scetticismo sulla storicità di questa figura5051. Tuttavia essa ha a suo 48 II monaco prigioniero 1. 49 Ibidem. 50 Vita di Martino. Vita di Ilarione. In memoria di Paola, testo critico e commento a cura di

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effetti era continuamente assediato da «vescovi, presbiteri, stuoli di chie­ rici e di eremiti, di dame cristiane: grandis temptatiol»54, da una folla di gente comune, com e di alti funzionari pubblici. Si riunirono diecimila persone - precisa Gerolamo - per cercare di dissuaderlo dalla sua decisio­ ne di partire: Barione riesce a sottrarsi soltanto con la minaccia di lasciar­ si morire di fame e di sete. Dopo aver visitato alcuni vescovi esiliati dall’Imperatore Costanzo favorevole all’arianesimo, ritorna in Egitto, do­ ve visita la dimora di Antonio. D all’Egitto passa in Libia, da qui a Pachino in Sicilia e poi a Epidauro in Dalmazia, infine a Cipro. Ovunque si ripete la stessa storia: dopo un primo periodo di solitudine, la notizia della pre­ senza del santo e dei suoi poteri si diffonde, accorrono le folle che lo costringono a cambiare luogo. Con il progredire della narrazione, i mira­ coli di Barione diventano sempre più strabilianti: a Epidauro, libera la popolazione da un drago enorme e salva la città da un maremoto, a Cipro libera in una volta sola duecento indemoniati. Vorrebbe fuggire anche da qui, ma un suo discepolo, Esichio, lo convince a trasferirsi in una zona inaccessibile dell’isola, dove Barione può finalmente godere della solitu­ dine tanto agognata: lo rallegra in modo particolare la vicinanza dei rude­ ri di un antico tempio pagano e i numerosi demoni che lo abitano, «per­ ché avrebbe avuto vicino avversari con cui lottare»55. Il racconto si chiu­ de con le ultime volontà di Barione che lascia ad Esichio tutte le sue ric­ chezze: il Vangelo, che egli stesso aveva copiato, la camicia di sacco, una cocolla e il mantello, e la raccomandazione di essere immediatamente sepolto. Esichio, saputa la notizia della morte, con uno stratagemma rie­ sce a trafugare il corpo e riportarlo a Maiuma, nel monastero fondato da Barione, distrutto da Giuliano, poi ricostruito, in cui invano - quando era ancora vivo - avevano cercato di far tornare Barione. Per la prima volta vediamo che una Vita si arricchisce del culto post mortem: Gerolamo vi accenna in un modo che forse è un omaggio al ve­ scovo cipriota Epifanio, amico ed alleato nella contesa origenista che infuriava proprio in quegli anni: «Ancora oggi potresti vedere che è viva tra i palestinesi e i ciprioti una straordi­ naria contesa, in quanto gli uni pretendono di avere il corpo di Barione, gli altri lo spirito. E comunque in entrambi i luoghi avvengono ogni giorno grandi mira­ coli; ma di più nell’orticello di Cipro, forse perché a quel luogo egli volle più bene»56.

54 Vita di Ilarione 20, 2. 55 Vita di Ilarione 3 1 ,5 . 56 Vita di Ilarione 33, 3-4.

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La Vita di Ilarione, con la Vita di Paolo, per quanto diverse per impe­ gno compositivo e contenuti, potrebbero essere lette come parti com ple­ mentari di un unico progetto: come espressioni, cioè, dell’intento di Gerolamo di ricostruire le origini del monacheSimo e di presentare se stesso come l ’Omero di questa nuova epica, contendendone il primato ad Atanasio. Se nella Vita di Paolo aveva sostenuto che, rispetto al monache­ Simo egiziano, Antonio dovesse essere considerato soltanto princeps nominis e non princeps rei come Paolo stesso, la Vita di Ilarione celebra il monaco di Tabatha come fondatore del monacheSimo palestinese. «Non esistevano ancora sedi di anacoreti in Palestina e nessuno in Siria aveva conosciuto un anacoreta prima del venerabile Barione. Egli fu il primo che istituì e insegnò questo modo di vivere e questa ascesi in quella provincia. Il Signore Gesù aveva in Egitto il vecchio Antonio e in Palestina aveva Barione, più giova­ ne di quello»57. La concordia di intenti e di forma di vita, la venerazione con cui nella

Vita di Paolo veniva descritto il rapporto fra Paolo, più anziano, e Anto­ nio, più giovane, traspare anche dalla descrizione del rapporto fra Antonio e Barione. Gerolamo, come Atanasio, descrive un santo che progredisce. A ll’inizio Barione è discepolo di Antonio e ne osserva e ne imita attenta­ mente il comportamento; dopo aver superato la prova del deserto e esse­ re diventato un celebre taumaturgo, è riconosciuto da Antonio come pro­ prio filius e vengono stabilite le rispettive aeree di influenza58. Alla morte di Antonio, la gente vede in Barione il successore del beato Antonio59. L’immagine che Gerolamo vuole comunicare ai suoi colti lettori latini è quella di un monacheSimo che si diffonde dall’Egitto alle altre regioni, per il tramite di una successione di asceti e guide spirituali - Paolo, Antonio, Barione - che si legittimano reciprocamente e che condividono la stessa forma di vita. La Vita di Antonio condiziona la Vita di Ilarione anche sotto altri aspet­ ti; tutto il testo di Gerolamo è sotteso da una dialettica di imitazione-com­ petizione che lo lega a quello di Atanasio: questi, ispirandosi alle Vite dei filosofi, aveva fissato per il suo eroe l ’età di 55/6 anni, come completamen­ to del periodo di perfezionamento morale e inizio, per così dire, della vita pubblica; Gerolamo, altrettanto puntiglioso nel comunicare la cronologia

57 Vita di Ilarione 8, 1; al tempo di Gerolamo, Gaza era nella provincia Palaestina Prima, conti­ nuava però ad essere chiamata anche Siria i cui confini al tempo della conquista romana si estende­ vano dal fiume Tauro a nord, all’Arabia ad est, all’Egitto al sud. 58 Vita di Ilarione 15, 1. 59 Vita di Ilarione 22, 4.

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delle varie tappe del progresso di Ilarione, indica per lo stesso evento l ’età di 22 anni. Nella sua prima lunga permanenza nel deserto Ilarione abitava una capanna di giunchi e di foglie; per le sue anguste dimensioni e ricor­ dandosi che Antonio aveva dimorato in una tomba. Gerolamo tiene a pre­ cisare che « l’avresti detta una tomba più che una casa»60. Se l’ultimo spo­ stamento di Antonio fu ispirato dal desiderio di isolamento, anche Ilarione si sposta per la stessa ragione, ma le tappe si moltiplicano portandolo da un capo all’altro del Mediterraneo: un vero «taumaturgo in viaggio»61. I miracoli di Ilarione sono più numerosi e iperbolici di quelli di Antonio e, sganciati dalla griglia interpretativa forte di Atanasio, nel racconto di Gerolamo assumono una funzione epidittica, di illustrazione delle imprese di Ilarione. I demoni talvolta imitano le parole di quelli della Vita di Antonio62', ma sono quasi sempre più numerosi e loquaci fino all’incongruenza, come quel demone che, a Roma, rivela ad un indemoniato la pre­ senza di Ilarione in Sicilia, collaborando così al successo dell’esorcismo e alla propria cacciata per mano dell’eremita raggiunto nell’isola63. La prossimità dei due testi aiuta però a coglierne su alcuni punti diffe­ renze sostanziali che dipendono dal fatto che lo sguardo di Gerolamo è interno al mondo monastico. Su un tema assai delicato come quello dei rapporti con le gerarchie ecclesiastiche e gli anacoreti, il silenzio della Vi­ ta di Ilarione è piuttosto significativo: gli unici vescovi con cui Ilarione ha contatti volontari sono Draconzio e Filone, vescovi confessori, cioè, esiliati per la loro ortodossia nicena. D el primo si aggiunge che «fu incre­ dibilmente consolato dalla presenza di un uomo (se. Ilarione) così gran­ de»64. Le gerarchie ecclesiastiche sono poi menzionate fra le migliaia di altre persone che accorrono da Ilarione «per ricevere il pane e l ’olio bene­ detto»65 utilizzati poi per compiere miracoli66. Ilarione, per quanto di fede nicena, non pronuncia discorsi in merito e, se si prescinde da una sua vi­ sione piuttosto enigmatica riguardante come quella di Antonio67 «chiese sconvolte e gli altari di Cristo calpestati»68, non scende a fianco dei vesco­ vi n ell’agone teologico. A venire in primo piano sono piuttosto i rapporti fra i diversi anacore­ ti. Diversamente da Antonio, i cui discepoli costituiscono lo sbiadito fon­ 60 Vita di Ilarione 61 L’espressione è 62 Vita di Ilarione 63 Vita di Ilarione 64 Vita di Ilarione 65 Vita di Ilarione 66 Vita di Ilarione 67 Vita di Antonio 68 Vita di Ilarione

4 ,1 . di Berschin, Bd. i, cit., p. 143. 25, 1. 26, 1-3. 22, 10. 20, 2. 22, 6. 82. 20, 5.

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dale delle sue imprese, Ilarione viene dipinto spesso in una situazione di contrasto di interessi riguardo ai suoi discepoli: non vogliono che parta, una volta partito, vorrebbero che ritornasse indietro, se si nasconde lo inseguono e tali contrasti sono talvolta occasione di riflessioni edificanti: come succede n ell’episodio riguardante il discepolo Adriano, che dopo aver tentato di riportare Ilarione in Palestina, offende gravemente il mae­ stro: Gerolamo precisa che dopo non molto tempo «imputridì nella leb­ bra» e questo lo dice «per incutere paura a coloro che disprezzano il loro maestro»69. Un altro nodo era costituito dal rapporto fra il possesso della ricchez­ za e la scelta di vita monastica. Gerolamo insiste sulla necessità di non mantenere nulla della ricchezza precedente: Ilarione non riservò per sé assolutamente nulla della ricchezza ereditata per essere ligio alla forma di vita evangelica descritta da Atti 4,32 ss.70 e come padre spirituale degli eremiti palestinesi, ha parole dure contro quegli eremiti che ricavano e accumulano il surplus derivante dalle loro attività econom iche71. 1.5. Ancora due donne: Paola e Marcella Separata dai primi due testi dedicati a donne da circa vent’anni, la Vita di Paola è contenuta in una lettera inviata alla figlia Eustochio, poco dopo la morte della madre (n. 347 - m. 404). Appartiene dunque al genere let­ terario dell’orazione funebre e ne rispetta le articolazioni tradizionali72. Gerolamo è consapevole delle regole del genere73 e se, per un verso, gioca fino in fondo le potenzialità espressive insite nel dedicare un discorso di apparato destinato a celebrare grandi magistrati ad una donna asceta che si è ritirata volontariamente dalla scena pubblica abbracciando una vita di mortificazione e di povertà, dall’altro, la commistione fra biografìa e autobiografia, il pubblico immediato cui si rivolge - Eustochio, figlia ma in quel momento anche guida di una comunità di ascete private della loro madre spirituale - lo porta ad arricchire gli schemi tradizionali di nuovi contenuti e, talvolta, a violarli. Il racconto si sviluppa ordinatamente; è lo stesso Gerolamo a rimarcar­ ne le parti principali: i primi sei capp. accompagnano Paola fino al mo­ mento in cui decide di troncare i legami con la sua famiglia e a partire per

69 Vita di Ilarione 24, 4. 70 Vita di Ilarione 2, 6. 71 Vita di Ilarione 18, 1 s. 72 Cfr. supra, pp. 151-152. Su Paola PCBE, t. 73 Lettera 108, 3, 1; 15, 1.

ii ,2,

1617-1626; su Marcella ibi, 1357-1362.

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Gerusalemme accompagnata dalla figlia Eustochio; i capp. 7-14 descrivo­ no il suo viaggio per mare fino ad Antiochia e via terra fino a Geru­ salemme, poi in Egitto e di qui di nuovo a Betlemme, dove decise di fer­ marsi e fondare cellulas ac monasterias. Gerolamo passa poi a descrive­ re le virtù di Paola: l ’umiltà, la generosità, la pazienza nelle persecuzioni causate dai suoi nemici, la fortezza nelle malattie (capp. 15-19). Il suo profilo di madre spirituale del monastero da lei fondato e l’austerità della sua ascesi occupano i capp. 20-22; la sua ortodossia, soprattutto riguardo alle questioni sollevate alla controversia origenista, è illustrata dai capp. 23-25. Il cap. 26 conclude il quadro dell’eccellenza di Paola elogiandone la grande cultura biblica (conosceva a memoria le Scritture), il desiderio di conoscere, la grande competenza linguistica (Paola, come la figlia Eustochio avevano appreso l ’ebraico); malgrado la sua cultura, Paola dice Gerolamo - era lenta nel discorrere, pronta all’udire, memore di quel precetto: «Ascolta, Israele, e taci»74. A ll’inizio del cap. 27 cade un’altra cesura: Gerolamo è arrivato a de­ scrivere gli ultimi momenti di Paola: assistita dalla figlia e dallo stesso Gerolamo, muore da par suo recitando i Salmi, davanti ai vescovi di Ge­ rusalemme e di moltre altre città, una moltitudine di sacerdoti, di vergini e di monaci. Dopo la descrizione dei funerali e le parole di consolazione rivolte ad Eustochio, Gerolamo, memore di Damaso, riporta le due iscri­ zioni da lui composte per Paola, l ’una per il sepolcro di lei ospitato sotto la chiesa accanto alla grotta del Signore, l ’altra sulle porte della grotta; entrambi riprendono il senso delle parole iniziali della Vita da cui è rac­ chiusa la vicenda di Paola: «Stirpe dei Gracchi, prole degli Scipioni, erede di Paolo, di cui trae il nome, vera e autentica progenie di Mecia Papiria, madre dell’Africano, preferì Betlemme a Roma e scambiò i palazzi splendenti d’oro con la miseria della rozza creta»75. Letto sullo sfondo dell’epistolario che ci ragguaglia sugli anni romani di Gerolamo e sui rapporti che egli conservò con quegli ambienti anche negli anni successivi, il tratto che più colpisce è l ’assenza sia del gruppo di donne con cui Paola aveva condiviso e maturato la sua scelta di vita ascetica e con cui si era mantenuta in contatto durante la permanenza a Betlemme, sia di Gerolamo stesso che tanta parte aveva avuto nella vicen­ da. Il trapasso di Paola da moglie obbediente ai doveri coniugali ad asce­ ta dedita interamente al Signore coincide con la morte del marito Tos-

74 Lettera 108, 26, 1. 75 Lettera 108, 1 ,1 .

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sozio: «Dopo che le morì lo sposo, lo pianse così da morirne quasi ella stessa e si volse a servire il Signore così da sembrare di averne desidera­ to la morte»76. N el discorso agiografico dedicato ad una vedova troviamo anche altrove espressioni analoghe: Paolino di Nola - qualche anno prima - nel descrivere la situazione analoga di Melania che aveva abbandonato Roma dopo la morte del marito del marito e dei due figli - osservava: «attraverso le perdite dell’amore umano, concepì l ’amore di Dio: fu resa infelice per diventare beata»77. Questo non significa che per alcune donne un lutto grave non potesse indurre una svolta esistenziale, intendo solo sottolineare com e il modo di Gerolamo di descrivere tale svolta fosse a quel tempo tradizionale e, per così dire, atteso dal pubblico cui si rivolge­ va. La decisione di lasciare Roma viene ricondotta all’influenza del­ l ’esempio dei due vescovi Epifanio di Salamina e Paolino di Antiochia, obliterando completamente il ruolo di Gerolamo, che era giunto nella ca­ pitale al seguito dei due. La presenza di Gerolamo accanto a Paola è regi­ strata molto più avanti nel racconto, in quella parte che illustra le virtutes di Paola. Egli prende la parola in prima persona per attribuirsi il ruolo di colui che aveva cercato di mitigare il radicalismo dell’ascesi di Paola: le pratiche di mortificazione del corpo e l ’eccessiva generosità nel distribui­ re ai poveri le sue ricchezze78. Un rigore per cui alcuni la ritenevavano pazza79 e che per Gerolamo sono espressione di una volontà autonoma della donna. Gerolamo si mostra consapevole che l ’insistenza con cui egli ritorna su questo aspetto rischia di violare le regole del genere della laudatio trasformandola in una vituperatio, ma protesta di dire cose vere e di volere scrivere la storia, non un panegirico80. Se collochiamo questo aspetto sullo sfondo delle critiche81*rivolte a Gerolamo per il ruolo avuto n ell’incoraggiare l ’adesione all’ascetismo di Paola e della figlia Blesilla, morta appena ventenne anche perché indebolita dalle veglie e dai digiuni, comprendiamo meglio com e - censurando la propria presenza nel raccon­ to di quegli anni e prendendo le distanze da alcuni tratti di Paola - nella sua ricostruzione persino aspetti autobiografici e anche autoapologetici. Lo stesso intento è avvertibile a proposito di un altro aspetto al cui propo­ sito Gerolamo sottolinea l ’autonomia di Paola: l ’uso troppo generoso del­ le ricchezze e i debiti lasciati alla figlia Eustochio, prove della serietà del­

76 Lettera 108, 5, 1. 77 Lettera 29, 8. Su Melania cfr. oltre, pp. 251-261. 78 Lettera 108, 15, 1.6; 18, 2; 21, 2. 79 Lettera 108, 19, 5. 80 Lettera 1 0 8 ,2 1 ,5 . 81 Tali critiche si leggono tra le righe delle stesse lettere di Gerolamo, in particolare quella indi­ rizzata a Paola per consolarla della morte di Blesilla (Lettera 39, 6).

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l ’adesione di Paola alla povertà evangelica, ma anche, nello stesso tempo, rifiuto di ogni responsabilità e - forse - richiesta non poi così velata dì aiuto economico. Va ricordato, infatti, che la lettera è indirizzata ad Eustochio, ma Gerolamo scrive per un pubblico più vasto che comprende certamente il gruppo di donne ascete con cui Gerolamo era rimasto in contatto e che erano state testimoni di quegli anni e quella parte della famiglia di Paola rimasta a Roma: il figlio Tossozio e la moglie Leta. Un seconto aspetto che merita di essere rilevato è che nel consegnare la historia di Paola, Gerolamo celebra la memoria di una fondatrice di istituzioni monastiche una maschile, l ’altra femminile di cui viene descrit­ to 1 orafo82: la divisione delle vergini - che provenivano da diverse provin­ ce e da diversi ceti sociali —in tre gruppi e monasteri, ciascuno dei quali aveva a capo una “madre”, separati per il lavoro e i pasti, ma uniti nella preghiera; il lavoro, la giornata scandita da cinque momenti di preghiera in cui cantavano i Salmi, l ’abito comune, l ’assoluta separazione da contatti con gli uomini. Radicando un orafo monasterii nel discorso agiografico de­ dicato ad una fondatrice e guida di un’istituzione monastica, Gerolamo ne fissa anche per il futuro il modello prescrittivo, prolungandone oltre la morte la funzione di direzione spirituale che aveva rivestito in vita. Sotto questo aspetto, la Vita di Paola esprime una coerenza profonda con il ten­ tativo di Gerolamo di ricostruire, attraverso alcune figure di fondatori, una storia e insieme una classificazione del monacheSimo a lui contemporaneo. Nel ritratto di Paola che emerge dalla pagina geronimiana è interes­ sante notare il ruolo recitato dalla Scrittura: a partire dal momento in cui lascia Roma, tutto ciò che la riguarda viene illustrato tramite il testo scritturistico: del suo viaggio, Gerolamo afferma di voler rammentare soltanto i luoghi biblici83 e le parole attribuite a Paola sono composte quasi esclusivamente da citazioni bibliche. Si tratta di un uso della Bib­ bia che, nella sua sistematicità ed estensione, va m olto oltre quello già tradizionale che consisteva n ell’assimilare i comportamenti e le azioni dei santi a figure bibliche e che era stato utilizzato dallo stesso Gerolamo nei suoi altri scritti agiografici. Si tratta piuttosto di un’esegesi in forma di narrazione: tutto ciò che Paola dice o fa costituisce, per così dire, un’esegesi drammatizzata della Bibbia, quasi un pre-testo per la sua cen­ tralità. La Vita di Paola sconfina continuamente nel commentario esege­ tico. Questa singolare contaminazione dei generi appare agli occhi di noi moderni un modo di mortificare l ’individualità della donna, tuttavia, potrebbe essere considerata nello stesso tempo, com e l ’estremo omaggio 82 Lettera 108, 20, 1 ss. 83 Lettera 108, 8, 1.

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del grande biblista a ll’allieva prediletta che aveva posto al centro della sua vita la meditazione e lo studio della Bibbia84. L’ultimo profilo, come ho già accennato, è dedicato a Marcella (n. 339-346 - m. 410), donna di altissimo rango, conosciuta durante la perma­ nenza di Gerolamo a Roma e che rimase in stretto contatto con lui e con Paola anche durante la permanenza a Betlemme a tal punto che le lettere inviate a Marcella erano talmente numerose da richiedere di essere raccol­ te in un libro a parte85. Scritto a due anni di distanza dalla sua morte «per ricordarne la memoria» su richiesta della vergine Principia, prima sua discepola e poi erede spirituale, il profilo biografico di Marcella presenta molti tratti in comune con quelli precedenti dedicati a vedove: Marcella è anzi rappresentata come il modello della «viduitas Christiana»86, caratte­ rizzata da un grande amore per le Scritture, stile di vita casto e frugale, ascesi moderata, generosità verso i poveri, umiltà sottolineata soprattutto mettendo in luce il suo rifiuto di violare la norma apostolica che vietava alle donne l ’insegnamento (ITm 2,12). Ricordando gli anni trascorsi insieme a Roma, Gerolamo loda la modestia della donna che, se interro­ gata, rispondeva in modo da non presentare la sua opinione personale come propria, ma come di Gerolamo o di qualcun altro, per non dare l ’im­ pressione «di recare ingiuria al sesso virile e ai sacerdoti che talvolta l ’in­ terrogavano su problemi oscuri»87. Una modestia, tuttavia, di cui poco oltre non appare più traccia, quando Gerolamo rievoca il contributo attivo di Marcella nella denuncia pubblica degli origenisti. Un omaggio all’alto profilo culturale di Marcella è il collegamento che - solo per lei - Gero­ lamo stabilisce fra la sua ascesi e l ’esercizio filosofico della praeparatio mortis che apparteneva agli esercizi spirituali della filosofia antica descrit­ ti così bene dagli studi Pierre Hadot88. In un momento non meglio precisabile - ma dopo la partenza di Gero­ lamo da Roma - Marcella si ritirò con Principia in un suo palazzo nella periferia di Roma: «Avevate scelto la campagna per starvene com e in un deserto»89 - afferma Gerolamo che non accenna alla presenza accanto a

84 C. Mazzucco, Donna e cultura nel cristianesimo antico, in I. Loiodice-F. Pinta Minerva (eds.), Donne tra arte, tradizione e cultura, Foggia 2006, pp. 373-377. 85 Gerolamo, Gli uomini illustri 135, 3. Sulle lettere indirizzate a Marcella cfr. A. Cain, Letters of Jerome: asceticism, biblical exegesis, and thè construction of Christian authority in late antiquity, Oxford 2009, pp. 68-98. 86 Lettera 127, 3. 87 Lettera 127, 7. 88 P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, nuova ed. ampliata, Torino 2005. 89 Lettera 127, 8.

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loro di altre sorelle. Come la sua amica Lea, Marcella non diede vita ad un’istituzione monastica. Scelse un’esperienza ascetica domestica, sepa­ rata dal secolo, in quanto rifiutò un secondo vincolo matrimoniale e la vita di società connessa al suo rango, ma rimase una presenza attiva della Chiesa romana, sia da un punto di vista spirituale, sia dal punto di vista della sua vita interna di carattere dottrinale. L’aspetto più interessante di questo breve testo risiede, nelle conside­ razioni sulla storia del movimento ascetico femminile a Roma. Gerolamo presenta Marcella come l ’iniziatrice fra le nobili romane di quel propositum monachorum, che - è quanto afferma Gerolamo90 - ella aveva appre­ so da Atanasio che le aveva fatto conoscere la vita del beato Antonio, i monasteria di Pacomio nella Tebaide e la disciplina delle vergini e delle vedove. Marcella poi avrebbe poi diffuso questi ideali in una cerchia di donne, tra cui naturalmente Paola e Eustochio. Negli studi su Gerolamo, quando si fa riferimento a Gerolamo agiogra­ fo o alle sue Vite di monaci, di solito si prendono in esame soltanto i testi relativi a Paolo, Malco e Ilarione. Se si assume il punto di vista che il miracolo sia un aspetto essenziale d ell’agiografia, i suoi scritti dedicati alle ascete romane non avrebbero diritto di cittadinanza all’intemo di una presentazione complessiva di Gerolamo agiografo. Questo, per esempio, è il punto di vista assunto consapevolmente da Fuhrmann che afferma che il miracolo è «ein Grundelement aller Hagiographie»91. Questa non è la mia prospettiva: ritengo che il discorso agiografico, in quanto illustrazio­ ne di un ideale di perfezione in forma di racconto, non possa fare a meno dei ritratti di Paola, Marcella, Lea e Asella, anche se molto diversi dalle Vite dedicate agli eremiti e privi d ell’elemento miracoloso e taumaturgi­ co. Riflettendo su questo punto, Van Uytfanghe si chiede se questo non significhi che la taumaturgia fosse ritenuta da Gerolamo più adatta ad una letteratura di edificazione popolare di carattere romanzato e leggendario92. Il problema è che gli scritti dedicati a Paolo, Malco e Ilarione non sem­ brano essere destinati ad un pubblico diverso da quello colto e aristocra­ tico degli amici/che e corrispondenti di Gerolamo. Va anche notato che la taumaturgia non è l ’unico elemento distintivo: manca anche il tema della lotta contro le passioni e i relativi sviluppi demonologici. Mancano dun­ que due passaggi fondamentali del discorso agiografico sulla santità

90 Ma al momento dell'arrivo di Atanasio in Roma (340) Marcella era appena nata1 91 Cit„ p. 63. 92 M. Van Uytfanghe, La controverse biblique et patristique autour du miracle et ses répercussions sur Γhagiographie dans l'Antiquité tardive et le haut Moyen Age latin, in Hagiographie, cultures et societés. r^-xifi siècles. Actes du Colloque organisé à Nanterre et à Paris (2-5 mai 1979), Paris 1981, p. 215.

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monastica maschile. È evidente che Gerolamo disponeva per gli uni di un modello letterario cui adeguarsi, mentre per le altre questo modello era ancora in via di assestamento: Gerolamo potrebbe aver conosciuto la Vita di Macrina di Gregorio di Nissa e le Orazioni di Gregorio di Nazianzeno dedicati alle donne della sua famiglia, in cui l ’elemento del miracolo è molto discreto e manca del tutto il tema della lotta contro i demoni delle passioni. In generale, si può osservare che, pur scrivendo di donne - cosa che comunque rappresentava una novità e una violazione dei canoni lette­ rari del tempo - , vi è una certa riluttanza a presentarle come potenti taumaturghe nello spazio pubblico. Nei ritratti di queste ascete aristocratiche romane, agiva il modello aristocratico femminile della matrona univira9ì e questo limitava la possibilità di adattamenti del modello maschile; la salvaguardia della dignitas e AcWhonos rendeva possibile raccontare sol­ tanto il passaggio dal ruolo di madre e m oglie integerrima a quello di ve­ dova continente e suggeriva evidentemente di evitare pericolosi passaggi quali il racconto delle tentazioni carnali. Al di là delle differenze, Gerolamo mostra in tutti i suoi scritti dedica­ ti ad asceti ed ascete del suo tempo una profonda continuità di interessi; non alludo soltanto alla trasversalità inevitabile di temi, ma intendo la coerenza con cui n ell’arco di due decenni ha costruito —servendosi del discorso agiografico - una griglia interpretativa delle più significative esperienze ascetiche del suo tempo stabilendo genealogie, pertinenze, re­ gole di comportamento, diventando con Rufino di Aquileia9394, uno dei pri­ mi storici del movimento monastico e venendo così a colmare il vuoto presente nella Storia Ecclesiastica di Eusebio. 2. Paolino di Nola: un «muto Bellerofonte» In una lettera consolatoria indirizzata ad un amico colpito da lutti familiari e rovesci econom ici e nel tentativo di esortarlo ad abbracciare la vita ascetica, Gerolamo, com e altri fra i più influenti e noti personaggi del tempo: Sulpicio Severo95, Ambrogio96, indicava in Paolino un esempio, fra i più illustri, della conversione di un aristocratico alla vita ascetica: «Non puoi neppure trovare un motivo di scusa nel fatto che sei un nobile e che le ricchezze per te sono un onere. Guarda quel santo di Pammachio e quel sacerdo­ 93 Consolino, Tradizionalismo, cit., pp. 134-139. 94 Nel 401 Rufino cominciò a tradurre in latino la Storia Ecclesiastica di Eusebio aggiungendo due libri che giungevano fino ai suoi tempi e in cui veniva dato spazio anche al monacheSimo. 95 Vita di Martino 25, 4-5. 96 Lettera 6, 27, 3.

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te della fede ardentissima che è Paolino: a Dio non hanno offerto soltanto le ric­ chezze, hanno dato se stessi. Sei ricco e onorato? Anch’essi Io sono, anzi proprio perché da ricchi e notabili che erano si sono fatti poveri e senza gloria, sono ora più ricchi e più in vista, perché è per Cristo che sono poveri e nell’ombra»97. Paolino era nato a Bordeaux intorno al 355 da una grande famiglia senatoria; ben nato, meglio educato (fu allievo del poeta e retore Ausonio, il precettore del futuro imperatore Graziano), protetto da una rete di appoggi familiari e patronali in grado di procurargli le più alte cariche, fu governatore della Campania fra il 380 e il 381. Maturò la svolta descritta da Gerolamo nel decennio successivo denso di esperienze spirituali e di eventi tragici: la morte violenta del fratello per motivi poco chiari, ma che rischiò di far perdere la vita e i beni allo stesso Paolino; l ’abbandono della Gallia per la Spagna; il battesimo; il matrimonio con Terasia, una nobildonna spagnola molto devota; il battesimo; la morte d ell’unico figlio Cel­ so ancora bambino; la consacrazione al sacerdozio dopo che ebbe rese pubblica la rinuncia ai suoi beni; l ’intenzione di abbracciare insieme alla moglie una vita ascetica e ritirata dal mondo. Accompagnato dalla moglie ritornò in Campania ove possedeva delle proprietà e si stabilì a Cimitile, località situata nell’area settentrionale del suburbio di Nola, nei pressi del­ la tomba del martire Felice, riprendendo - a suo dire - le fila di un lega­ me già stretto nella fanciullezza e riaffermato durante il suo governatora­ to. Qui nel «monasterium martyris»98, Paolino si dedicò interamente al servizio di Felice e del suo santuario, conducendo una vita di austero ascetismo, dedita alla preghiera e alle celebrazioni liturgiche e, nello stes­ so tempo, intensa di studi biblici, di produzione intellettuale, di contatti e di scambi". N egli anni che separano l ’arrivo a Cimitile dalla morte (431), Paolino costruì intorno a Felice una rete di testi e di edifici che si illumi­ nano e si celebrano a vicenda100.

Lettera 118. 5; su Paolino le sintesi più recenti sono: D.E. Trout, Paulinus ofNola. Life Letters and Poems, Berkeley-Los Angeles-London 1999; S. Mratschek, Der Briefivechsel des Paulinus von Nola. Kommunikation und soziale Kontakte zwischen christlichen Intellektuellen, Gottingen 2002, (con ampia bibliografia ragionata e appendici prosopografiche); cfr. inoltre: Atti del Convegno: xxxi cinquantenario della morte di S. Paolino di Nola (431-1981), Roma 1982; G. Luongo (ed.), Anchora Vitae: Atti del u Convegno Paoliniano nel xvi centenario del ritiro di Paolino a Nola, Napoli 1998. 98 Lettera 5, 15; sul genere di vita monastica di Paolino a Nola: De Vogiié, cit., t. iv, Paris 1997, pp. 159-167, S. Pricoco, Paolino nolano e il monacheSimo del suo tempo, in Anchora Vitae, cit., pp. 59-92. Per l ’epistolario paolino ho utilizzato la seguente traduzione: Paolino di Nola, Le lettere, a cura di G. Santaniello, 2 v o lt, Napoli-Roma 1992; per i Carmi, la traduzione di A. Ruggiero, Roma 1990. 99 Cfr. Mratschek, cit., pp. 185 ss. 100 H.G. de la Portbarré-Viard, Descriptions monumentales et discours sur l ’édification chez Paulin de Noie. Le regard et la lumière (epist. 32 et carm. 27 et 28), Leiden-Boston 2006.

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Le lettere scambiate fra Ausonio e Paolino e risalenti agli ultimi anni del soggiorno spagnolo conservano bene lo smarrimento del maestro di fronte alla scelta incomprensibile di un “figlio” la cui eloquenza poetica non aveva eguali fra la gioventù romana101, che consentiva lo smembra­ mento del suo patrimonio102, sembrava essere diventato estraneo alla sua stessa lingua e, come un Bellerofonte triste, muto, vagava per luoghi iso­ lati, evitando il contatto con gli uomini103. Paolino, dal canto suo, rispon­ dendo anch’egli in versi e modulando i diversi metri secondo il contenu­ to, dimostrava di non aver dimenticato l ’arte sua, ma nello stesso tempo affermava di non volere tornare ad occuparsi delle Muse: «Ora una forza nuova mi agita l’anima, un D io più grande ed esige costumi diversi»: l ’ab­ bandono delle «favole dei poeti, dell’arte dei retori», delle cure e le agita­ zioni del secolo per dedicarsi esclusivamente a Cristo, quel Cristo aggiungeva Paolino - che aveva amato in lui anche ciò che aveva appreso dagli studi e dall’esempio di Ausonio «così da meritare di appartenere a Cristo, pur rimanendo di Ausonio»104. Scrivendo al poeta Giovio qualche anno dopo, Paolino indicherà nella contemplazione delle realtà divine e nella purezza dei costumi le premesse indispensabili dell’ispirazione poe­ tica cristiana105. 2.1. / Carmina natalicia in onore di Felice Fedeltà alla poesia come m ezzo espressivo in grado di veicolare con­ tenuti cristiani in quelle cerehie educate da Virgilio e dagli altri classici latini è una strada percorsa anche da altri fra iv e v secolo: basti pensare a Giovenco e a Proba106. Questi tuttavia scelsero come proprio oggetto le Scritture; Paolino - nei suoi Carmina natalicia in onore di Felice - seguì piuttosto l ’ispirazione di Damaso che, come ho già accennato, dedicò molte energie all’abbellimento delle tombe dei martiri romani e fu il pri­ mo a metterne in versi l ’elogio, nell’intento di fondare un’epica cristiana in grado di contrastare anche sul piano culturale quanto i circoli aristocra­ tici pagani coevi stavano producendo a sostegno della loro tradizione107. D el resto, nel recinto della tomba di Felice, Paolino poteva leggere un’i­ scrizione su una lastra di marmo composta dallo stesso Damaso che in 101 Lettera 19, 33. 102 Lettera 23, 70.115. 103 Lettera 25, 70 ed. M. Jasinskj, Paris, s.d. 104 Carme 10. 105 Carme 22, 4-20. 106 J. Fontaine, Naissance de la poesie dans l'Occident chrétien, Paris 1981, pp. 161-176. 107 F.A. Poglio, Gruppi di potere nella Roma tardo-antica (350-395), Torino 2007, p. 150.

L’agiografia cristiana antica sette esametri aveva voluto esprimere un ringraziamento al confessore e lasciare un ricordo della sua visita108. Paolino reinterpretò in senso cristiano il genere classico del carmen natalicium, cioè il discorso pronunciato in occasione del compleanno che prevedeva un proemio, la lode del giorno, l ’encom io della famiglia, del­ l ’educazione e delle gesta del festeggiato. In ambito latino la festa del compleanno rivestiva anche un significato religioso in quanto coincideva con la festa del genius del festeggiato, cioè di quella divinità che dal momento della nascita l ’aveva in tutela e a cui, n ell’occasione, si rivolge­ vano anche atti di culto. Naturalmente, nel caso di Felice, il carme natali­ zio non celebrava la nascita terrena, ma quella celeste, cioè il giorno della sua sepoltura, il giorno - come osserva Paolino riprendendo un topos già tradizionale - in cui i santi «si liberano dai vincoli della vita mortale e nascono a Dio nel regno dei cieli»109. Ogni anno, dal 395 al 409, Paolino dedicò un carme in onore di Felice nel giorno del suo anniversario che cade il 14 gennaio. Compose il primo quando era ancora in Spagna, ma sul punto di partire per Cimitile: Felice «di meriti e di nom e»110 è salutato com e confessore, ma «elevato come martire alla gloria del cielo senza spargimento di sangue» e Paolino pre­ senta se stesso e i suoi come «consacrati a Cristo» che chiedono la prote­ zione per il viaggio e il permesso, una volta giunti a destinazione, di poter servire nella sua dimora111. Il natalicium successivo vede Paolino ormai istallato a Cimitile, grato a Felice per l ’esito favorevole del viaggio e pie­ no di ammirazione per la varietà dei popoli giunti a Cimitile nel giorno della festa del confessore. In questo inno Paolino getta le basi per presen­ tare l ’intera sua vita come strettamente intrecciata alla figura di Felice di cui vanta di essere devoto già da quindici anni, da quando cioè «pubblica­ mente si era consacrato a F elice»11213.Il carme d ell’anno successivo contie­ ne sviluppi significativi di alcuni temi d ell’anno prima: se nel Carme 13 Paolino ammirava la plebs discolor e le urbes innumerae113 richiamate dalla festa, qui —riprendendo il famoso catalogo del VEneide riguardante il concorso dei guerrieri italici per combattere a fianco di Enea114 - squa­

108 Epigrammata Damasìana, recensuit et adnotavit A. Ferma, Città del Vaticano 1942, pp. 213215; U. Reutter, Damasus, Bischof of Rom, Tiibingen 2009, pp. 119-121. 109 Carme 21 secondo la numerazione dell’edizione critica di G. Hartel, Pragae-VindobonaeLipsiae 1893 e nat. 13, vv. 170-175. 110 U n’eco damasiana? «Corpore mente animo pariterque et nomine Felix», così iniziava riscri­ zione di Damaso. 111 Carme 12 {nat. 1), 25-30. 112 Carme 13 (nat. 2), 5-10. 113 Carme 13 (nat. 2), 24-25. 114 Eneide 7,647-817; questo ha suscitato dubbi sulla storicità di tale concorso di popolo a Ci-

Capitolo quinto derna l ’intero repertorio dei popoli attirati dalla tomba di Felice; mentre là N ola era inferiore solo a Roma che ospitava le reliquie di Pietro e Paolo, qui si erge imagine Romae. Là Paolino presentava, per così dire, le sue credenziali di devoto di Felice, qui presenta i suoi carmina come labor che chiede a Felice di poter svolgere ogni anno115; là Felice appariva come intercessore di preghiere rivolte a Dio, qui viene sottolineata la virtus del martire, la sua potentia nel liberare i suoi fedeli dai demoni che li tormen­ tano e il legame con la città che ne accoglie nella tomba pia ossa. I due carmi successivi116, rispettivamente del 398-399 sono dedicati al racconto continuato della vita di Felice, scelta che si comprende meglio sullo sfondo della devota e amichevole competizione con Sulpicio Severo che proprio l ’anno prima aveva composto la Vita di Martino. Paolino la ricevette nello stesso anno e dedicò i due natalicia successivi all'“elogio” di Felice117. Per quanto un culto di Felice fosse radicato a Cimitile fin dal m seco­ lo, Paolino era il primo a raccontarne la vita, senza però fare cenno alcu­ no alle sue fonti che verosimilmente erano tradizioni orali. Secondo il rac­ conto di Paolino, Felice, di padre siro stabilitosi in Italia, percorre tutti i gradi del cursus honorum della carriera ecclesiastica: da lettore, diviene esorcista e poi sacerdote. Durante una persecuzione (forse quella di Decio?), mentre il vescovo M assimo fugge dalla città, Felice rimane in città e viene arrestato; nel racconto della prigionia del martire, Paolino si rive­ la un attento lettore delle Passioni: com e il martire Eutichio celebrato da un’epigrafe di Dam aso118, Felice viene torturato con catene e ceppi, con cocci di vetro sparsi sul giaciglio, ma le sue sofferenze sono alleviate dal fatto che «Cristo soffre con lui ed è unito a lui»119. Come Pietro, viene liberato miracolosamente dalla prigione e corre in aiuto del vescovo che nel frattempo sta per morire di fame e di sete nel suo rifugio. Felice si carica in spalla il vescovo e per un certo tempo si nascondono, fino a quando —per il merito acquistato da Felice —ritorna la pace. Durante una seconda persecuzione, Felice riesce ad evitare la cattura grazie ad alcuni miracoli con cui D io gli manifesta una speciale protezione: un ragno tesse

mitile: cfr. I. Aulisa-L. Carnevale, Il pellegrinaggio rurale alla tomba di s. Felice a Nola , in «Annali di Storia dell’esegesi» 22(2005), pp. 122-123. 115 Carme 14 {nat. 3), 116-119. 116 Carme 15 e 16 {nat. 4 e 5). 117 Questa datazione è messa in discussione da J. Desmouillez, Paulin de Noie . Etudes chwnologiques (393-397), in «Recherches Augustiniennes» 20(1985), pp. 35-64; che anticipa di un anno la stesura di Carme 15. 118 Epigrammi 21, 5; G. Luongo, Lo specchio dell agiografo.' S. Felice nei carmi xv e xvi di Paolino di Nola , Napoli 1992, pp. 55-60. 119 Carme 15 (nat. 4), 185-190.

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una tela provvidenziale che nasconde l ’ingresso del suo rifugio; riesce a sopravvivere sei mesi in un altro nascondiglio grazie ad un’anziana che gli porta da mangiare e ogni volta si dimentica di averlo fatto, viene disseta­ to da una pioggia miracolosa etc. Una volta cessata la persecuzione, Felice rifiuta l ’episcopato e la restituzione dei beni e muore povero. Di questo ritratto, in cui Paolino profonde tutta la sua abilità retorica per dare una certa consistenza al personaggio, sono stati sottolineati i molti echi echi a u to b io g ra fici120. Come Felice, Paolino è uno straniero. La synkrisis —questa figura d ell’elogio con cui l ’elogiato veniva paragonato a figure eroiche o bibliche - fra Felice e suo fratello con Giacobbe ed Esaù per mostrare come da un unico ceppo possano nascere uomini così diversi, potrebbe adombrare la vicenda fra Paolino stesso e suo fratello; e altrettanto si potrebbe dire d ell’insistenza sul disprezzo della ricchezza di Felice e la sua scelta per la povertà; forse anche l ’insistenza sul rispetto di Felice del cursus honorum e la pedanteria con cui espone i motivi del suo rifiuto dell’episcopato - dopo la morte di M assimo - a favore di un certo Quinto che era più anziano di lui nel sacerdozio di soli sette giorni, po­ trebbe nascondere qualche allusione alla situazione di Paolino, in quel momento e per lunghi anni ancora (verrà nominato vescovo solo dieci anni dopo fra il 409 e il 413), sacerdote. Se nel poema deO’anno precedente la celebrazione annuale di Felice era definita un lahor e un desiderium, nel poema pronunciato nel 401 essa è diventata una norma derivante da un sacro diritto121 e il tema è presen­ tato da Paolino come completamento dei precedenti; dopo aver narrato patria, genus, acta fino alla morte, è ora il momento di narrarne la sepol­ tura e le gesta dopo la morte, cioè i miracoli che avvengono accanto al suo sepolcro: «Infatti dal tempo in cui per la prima volta questo giorno chiuse nel sepolcro con fine beata Felice e affidò il corpo alla terra e lo spirito al cielo, da allora quasi ogni giorno appare illuminato dalle opere del confessore di D io e Cristo mostra che egli vive anche senza il Corpo per far vedere che rimane più grande in morte la virtù dei santi che in vita la forza dei cattivi122 (...) I celesti godono dell’anima di Felice, noi del corpo; là vive lo spirito delfanim a potente, qui il suo merito»123.

Paolino non si limita a descrivere quanto avviene presso la tomba di Felice, ma cerca di indirizzarne l ’interpretazione: il culto delle reliquie, 120 Luongo, Lo specchio , cit., pp. 66-94. 121 Carme 18 (nat. 6), 1. 122 Carme 18 (nat. 6), 85-91. 123 Carme 18 (nat. 6), 106-108.

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ancorché diffuso, presentava alla riflessione teologica un gran numero di problemi: che significato potevano avere, ad esempio, i pellegrinaggi ad sanctos, verso i loca santorum che ospitavano le reliquie, quando erano le anime dei santi a intercedere presso Cristo? I frammenti dei corpi santi avevano la stessa potentia dei corpi interi? Negli ultimi decenni del iv secolo, si erano levate alcune voci critiche verso il culto delle reliquie; alle obiezioni aveva cercato di rispondere Vittricio, vescovo di Rouen con un trattato, La lode dei santi, che rappresenta - nella tradizione latina - l ’uni­ co tentativo di dare una sistemazione teorica ai numerosi quesiti teologi­ ci. Per quanto Vittricio sia stato un corrispondente di Paolino, non è pos­ sibile stabilire se Paolino abbia letto o meno l ’opera di Vittricio, dal mo­ mento che le sue precisazioni, pur echeggiando gli stessi problemi, riman­ gono sulle generali124. Paolino precisa che ad agire non sono i corpi, ma la divitus grada infusa nella membra sante125 e che dai corpi santi dotati di un misterioso seme di vita immortale emana il profumo salutare della loro anima vittoriosa che è una medicina potente per gli infermi126. Dalla tomba di Felice non sgorgano solo miracoli, ma anche edifici: prima dell’arrivo di Paolino, essa è stata fons di edifìci spaziosi127, cinque basiliche di cui il poeta elogia la vastità, ma, nello stesso tempo, l ’insuf­ ficienza per accogliere tutti i fedeli; con questo breve cenno, Paolino an­ nuncia ciò che effettivamente compirà fra il 402 e 403. L’ultima parte deifi/«no che racconta come Felice abbia restituito ad un contadino i buoi che gli erano stati rubati - inaugura la celebrazione dei miracoli compiu­ ti da Felice a Nola, tema cui è dedicato anche il settimo natalicium. Il natalicium successivo prende spunto dalla discesa dei Goti in Italia per sviluppare il tema del patronato di Felice in favore della città128; il momento è gravido di angoscia e Paolino, ispirandosi alla Bibbia, ricorda le numerose circostanze in cui Dio, servendosi dei suoi profeti e santi, è intervenuto in situazioni che parevano disperate per salvare il suo popolo: per questo Paolino invita a confidare in Felice, come a un patrono in grado di ottenere da Cristo una protezione speciale «per le nostre contrade»: «Come n ell’assira Babilonia Daniele con la preghiera vincitore domò i

124 B. Beaujard. Le culte des saints en Gaule. Les premiers temps. D ’Hilaire de Poitiers à la fin du VP siècle, Paris 2000, pp. 61-72. 125 Carme 18 (nat. 6), 155. 126 Carme 18 (nat. 6), 188-189. 122 Carme 18 (nat. 6), 175-180. 128 Sul tema: A.M. Orselli, Il santo patrono cittadino: genesi e sviluppo del santo patrono citta­ dino nella letteratura latina cristiana, Bologna 1965; sulla storia della ricerca sullo sviluppo del culto del santo patrono cittadino; A.M. Orselli, Il santo patrono cittadino fra tardo antico e alto medioevo, in La cultura in Italia fra tardo antico e alto medioevo , Roma 1981, pp. 771-784. C. Leonardi-A. D egl’Innocenti, I santi patroni. Modelli di santità, culti e patronati in Occidente, Roma 1999.

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leoni, così per te i barbari feroci siano domati da Cristo vittorioso e ai tuoi piedi giacciano prigionieri»129. Tra i dona di Felice non ci sono soltanto miracoli di guarigione, ma anche prove della protezione del santo riguardo al suo santuario e agli atti di culto in suo onore: è il caso del natalicium del 4 0 5 13°, dove, tra l ’altro, si narra il furto e il miracoloso ritrovamento, per opera di Felice, di una croce particolarmente venerata. Il natalicium dell’anno successi­ vo raccoglie tre miracoli che hanno per oggetto animali offerti in voto a Felice: c ’è un ingordo padrone che nasconde, sottraendola ai poveri, una parte del porco offerto a Felice; un altro maiale, anch’esso destinato a essere sacrificato in onore di Felice, viene abbandonato per strada perché troppo grasso e trova da solo la strada per la basilica del santo; infine una giovenca ribelle, che era sfuggita ai suoi padroni, li segue a Cimitile per farsi immolare131. In un certo senso, sono doni di Felice e della sua tomba - «fonte di edi­ fici» — anche le costruzioni di Paolino che rimodellano profondomente quelli precedenti e che sono descritti dettagliamente nei natalicia del 403 e 404 dal punto di vista architettonico e simbolico: le tre porte che intro­ ducono al tempio del confessore simboleggiano la Trinità; il fatto che tutti gli edifici sono collegati allude all’unione del corpo mistico di Cristo che è la Chiesa132. Fra i dona di Felice ve ne sono di meno tangibili e più spirituali come quelli narrati nel natalicium del 407 tutto dedicato ai doni di Felice a Paolino stesso: i suoi amici che hanno abbracciato con lui la vita ascetica; l ’assistenza continua dimostrata in tutte le fasi della sua vita che qui viene interamente ripercorsa e reinterpretata alla luce del rapporto di intima fi­ ducia e di protezione con il Confessore che con mano misericordiosa e provvidenziale lo ha condotto a essere quello che è, un’asceta interamen­ te dedito a Felice: «padre», «custode»133, «mia forza, nemico dei miei peccati e amico della mia salvezza»134. Al di là dell’apparente varietà di temi, i carmina natalicia rivelano dunque una compattezza insospettabile. Vita e doni: tra questi due poli è costruito il discorso agiografico di Paolino. La vita del confessore in cui 129 Carme 130 Carme 131 Carme 132 Carme

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( nat. 8), 255-258. {nat. 11). (nat. 12). (nat. 9), 455-462; oltre allo studio cit. alla n. 100, cfr. T. Lehmann, Paulinus No-

lanus und die Basìlika Nova in CimitileiNola. Studien zu einem zentralen Denkmal der spdtantikfriihchristlichen Architektur, Wiesbaden 2004. 133 Carme 21 (nat. 13), 414. Sul ricchissimo lessico della relazione spirituale con Felice: G. Luongo, Paolino testimone del culto dei santi, in Id. (ed.), Anchora Vitae, cit., pp. 321-333. 134 Carme 21 (nat. 13), 446.

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in trasparenza si fa leggere anche quella passata e presente di Paolino e i doni di Felice da cui sgorgano e ricevono significato anche i doni di Paolino, costmttore di chiese e poeta. I suoi edifici con i cortili, le sale di ricevimento, i portici e le fontane ricordavano le ville suburbane dell’éli­ te tardoantiche e i suoi poemi, per quanto intessuti di citazioni ed esempi scritturistici e interamente dedicati ai vari aspetti della santità, continua­ vano l ’arte di Ausonio. 2.2. Circoli di lettori I Carmina natalicia sono stati concepiti per una destinazione liturgica connessa alle celebrazioni della festa del santo? Pur riconoscendo che potevano essere apprezzati in tutta la loro raffinatezza formale e ricchez­ za di rimandi da un pubblico di letterati, Jacques Fontaine rifiuta l ’idea che siano stati riservati ad una piccola cerchia ascetica di privilegiati135. A suo avviso, costituirebbe ostacolo a tale ipotesi l ’importanza attribuita ai miracoli più ingenui. Va notato che il pubblico colto non disprezzava l ’elemento del meraviglioso: per esempio Nicom aco Flaviano, che ricoprì altissime cariche istituzionali fra il 391 e il 394 e che apparteneva alla cer­ chia dei Simmaci, eseguì una traduzione latina della Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato136. Inoltre i Carmina natalicia appartengono al perio­ do in cui Paolino era sacerdote; la predicazione, a maggior ragione in una circostanza così importante riguardante un martire il cui culto e relativa celebrazione erano già di lunga tradizione, spettava al vescovo. E se il vescovo vi avesse rinunciato a favore di un sacerdote così importante (cosa rara in Occidente, almeno in questo periodo), apparirebbe ancora più singolare che Paolino non facesse mai cenno alla presenza del presu­ le che pur non doveva mancare. Per Paolino, come per Gerolamo, l ’accettazione della dignità sacerdo­ tale non significò affatto anche l ’accettazione di compiti e di una prospet­ tiva pastorali. Come osserva giustamente Luongo137, i natalicia termina­ rono con l ’ascesa all’episcopato di Paolino; nei circa vent’anni di episco­ pato continuò certamente a celebrare la festa di Felice adempiendo all’ob­ bligo pastorale della predicazione e, ciononostante, nulla è rimasto di tale predicazione, segno anche questo che la predicazione episcopale non costituiva la naturale prosecuzione di una prassi omiletica già consolida­ ta nel periodo precedente. 135 Fontaine, Naissance, cit., p. 172, n. 305. 136 Dzielska, cit., pp. 169-170. 137 Luongo, Lo specchio , cit., pp. 45-46.

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Un Inno, in particolare, ci fa gettare uno sguardo nella cerchia di let­ tori di Paolino: il 14 gennaio del 407 sono accanto a lui, riuniti «nel grem­ bo di Felice» come suoi dona. Si tratta di Aproniano, «anziano senatore della Curia, uomo nuovo in Cristo» e sua moglie Avita, nipote o cugina di Melania senior, una coppia che - secondo la notizia di Palladio138 - pro­ prio Melania durante il suo soggiorno romano (400) aveva persuaso a vivere nella continenza; i loro figli Asterio e Eunomia, entrambi consacra­ ti a Dio; ci sono inoltre Piniano, anch’egli di stirpe illustre e console cri­ stiano, con la sua sposa, Melania junior, che già a questa data avevano deciso di comune accordo di dedicarsi all’ascetismo e di dare ai poveri le loro enormi ricchezze; la madre di lei Albina (nuora di Melania senior) e, naturalmente, Terasia la moglie di Paolino. Nominato a parte come deci­ mo, senza alcuna qualificazione, Emilio che è forse il vescovo di Benevento omonimo, citato da un altro Carme139. È una cerchia di aristocratici, legati da rapporti di parentela, colti e atti­ rati dagli ideali ascetici, che ricorda quella che emerge dalle lettere di Gerolamo, anche se allineata su un fronte opposto rispetto alla crisi origenista140. Essi risiedevano abitualmente a Roma, ma Paolino aveva coltiva­ to assiduamente i rapporti con la capitale fin dai primi anni del suo inse­ diamento a Cimitile e vi andava ogni anno in occasione della festa degli Apostoli Pietro e Paolo, dedicandosi equanimamente agli impegni sacri e alle «innumerevoli visite» agli amici, come afferma lo stesso Paolino in una lettera del 3 9 8 141. Questi incontri avevano importanti risvolti cultura­ li: verosimilmente, proprio quell’anno, Paolino aveva portato a Roma la Vita di Martino di Sulpicio Severo. N el Gallo, opera su cui tornerò più avanti, è ricordato che proprio Paolino fece conoscere negli ambienti romani la Vita di Martino decretandone un successo letterario così gran­ de che i librarii facevano fatica a tener dietro alle richieste di copie che venivano acquistate a qualunque prezzo142. Ancora sulle visite romane di Paolino, conta Sulpicio Severo per dif­ fondere proprio il Gallo, scritto qualche tempo dopo la Vita di Martino'43. Si ricorderà che nel gennaio del 398 Paolino aveva composto il natalicium dedicato alla prima parte della vita di Felice: è dunque verosimile che 138 Cfr. infra, pp. 253-255. 139 Carme 25, 210; su questi personaggi: PCBE i: Albina 2, pp. 75-77; Turcius Apronianus, pp. 171-172; Asterius l. p. 206; Avita, pp. 228-229; Eunomia, p. 686; voi. Il: Melania 2, pp. 1483-1490; Valerius Severus Pinianus 2, pp. 1798-1802. 140 Sui disimpegno di Paolino nella questione: M. Simonetti, Cultura e religiosità in Italia attra­ verso l'epistolario di Paolino, in Luongo, Anchora vitae, cit., pp. 25-26. 141 Lettera 17, 2. 142 Gallo 1, 23, 4. 143 Gallo 3, 17, 3.

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Paolino abbia fatto leggere ai suoi amici romani non solo l ’opera di Sulpicio, ma anche la propria, come del resto è presumibile facesse ogni anno. Anno dopo anno, la lettura dei natalicia, non solo a Roma, ma anche in Galli a144 e certamente ovunque fossero i prestigiosi amici con cui Paolino intrattenne una fitta corrispondenza - Agostino in Africa; Am­ brogio e i suoi successori a Milano, Gerolamo a Gerusalemme —trasferi­ va il santuario di Felice dalla periferia al centro della rete dei loca sanctorum e restituiva al suo devoto costruttore e poeta un ruolo pubblico altret­ tanto rilevante di quello abbandonato con la conversione. Una lettera del .400, indirizzata all’amico Severo, aggiunge ulteriori elementi riguardo al pubblico dei testi agiografici e alla loro efficacia nel sostenere e nel costruire la fama di Felice (e del suo autore). In questa let­ tera Paolino tratteggia un breve profilo di Melania senior (la nonna della Melania menzionata sopra) e ne descrive l ’arrivo a Nola, dopo alcuni lustri trascorsi a Gerusalemme145. Il motivo dichiarato è ancora l ’amiche­ vole competizione con Severo con il quale vuole sdebitarsi del dono della Vita di Martino: «quel tuo libro così famoso e per l ’eloquenza del suo stile»146, inviandogli in cambio il ritratto di una donna “virile”. M a il fuoco principale del racconto di Paolino è l ’arrivo di Melania a Cimitile, scortata dai figli e dai nipoti che l ’avevano accolta al suo sbarco a Napoli per accompagnarla a Roma, non prima di aver fatto una devia­ zione per raggiungere Nola: lei, vestita di stracci, a cavallo di un ronzino, gli altri, “opulenti”, honorati senatori, su carrozze ondeggianti, carri dora­ ti, cavalli carichi di finimenti preziosi «sotto il cui peso la via Appia gemeva e rifulgeva»147. A l seguito di Melania, attirata da Paolino e dal santuario di Felice, in un certo senso, Roma si riversa a Cimitile, accolta dal suo dominus nel tugurium nostrum, una povera casa però - come afferma Paolino con malcelata soddisfazione - in grado di accogliere tutti in un’oasi di silenzio e preghiera. L’ultima parte della lettera apre una prospettiva interessante sulla circo­ lazione dei testi agiografici. Descrivendo l ’ascesi di Melania, Paolino ne aveva già sottolineato l ’amore per la lettura che le rendeva soffice il duro giaciglio su cui dormiva; ora comunica all’amico di avere letto ad alta vo­ ce la Vita di Martino in presenza della donna che era studiosissima, inte­ ressatissima a “storie” di quel tipo. E nello stesso modo - aggiunge - si era 144 Lettera 28, 6 indirizzata a Severo era accompagnata da un Natalicium. 145 Sulle due Melania, cfr. infra, pp. 251 ss. 146 Lettera 29, 6; sull’epistolario, oltre al già citato S. Mratschek, cfr. C. Conybeare, Paulinus noster. Self and Symbols in thè Letters of Paulinus ofNola, Oxford 2000. 147 Lettera 29, 12.

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comportato poco prima con Niceta di Remesiana, durante la sua prima visita a Cimitile. Parole certamente dettate dalla cortesia e dall’ammirazio­ ne per l ’amico letterato, ma che attendevano, sulla base di un galateo ari­ stocratico condiviso, reciprocità per la Vita che la stessa lettera conteneva, una Vita che, a sua volta, avrebbe veicolato a Primuliacum e ovunque fosse ricopiata e diffusa Γ immagine di un monaco letterato sui generis, dominus di un “monastero” in grado di attirare il fior fiore dell’aristocrazia - spiri­ tuale e sociale - del tempo. Nel natalicium 13, facendo il bilancio della sua vita, Paolino pronuncia parole che esprimono bene la complessità dell’iti­ nerario percorso verso la perfezione, itinerario in cui la rinuncia e il distac­ co sembrano stemperarsi in una sostanziale continuità: «Quando ero proclamato senatore che cosa avevo di sim ile a ciò che posseggo ora che sono detto povero? Ecco per me attraverso tante basiliche del martire bene­ detto, ampie negli spazi, sublimi nei tetti, splendide in alto nei soffitti a volta, bagnate dalle acque e coronate di portici, da ogni parte insiem e e dovunque tutto ciò che in questi luoghi in nome del beato Felice è onorato, celebrato, posseduto in tutti gli spazi è casa mia. Infatti che la casa di Felice sia anche casa mia, dal momento che egli mi affida la giusta direzione di ciò che gli appartiene, lo dimo­ stra anche la mia audacia nel compimento di questi doveri, perché ho accolto dei compagni nella dimora ospitale ed ora tutti con pari diritto occupiam o i beni di Felice e siamo nutriti com e figli che voi conoscete raccolti nel seno di F elice»148.

3. Sulpicio Severo avvocato di Martino La parte più consistente delle notizie su Sulpicio Severo si trova nelle lettere inviategli da Paolino di Nola in un arco di tempo che va dal 395 al 404. Più giovane, appartenente ad una famiglia ricca, anche se non altret­ tanto importante, Sulpicio Severo era un brillante avvocato, la cui fortuna personale era stata accresciuta da un vantaggioso matrimonio con una famiglia consolare. Dopo la morte della m oglie, «repentino inpetu»149 de­ cise di abbandonare la sua carriera, vendere a beneficio dei poveri le sue proprietà, mantenendo soltanto i possedimenti di Primuliacum (un luogo non m eglio precisato fra Tolosa e Narbona), ove si stabilì per condurre una vita ascetica lontana dal mondo, verosimilmente in compagnia con la suocera Bassula che con la sua liberalità ne sostenne la produzione lette­ raria150 e l ’attività di edilizia sacra che Severo, al pari di Paolino a Nola,

148 Carme 21 (nat. 13), 458-469. 474-479; cfr. Trout, cit., pp. 154-155; 197 ss. 149 Lettera 5, 5-7; 24, 1-4; 1, 1. 150 Lettera 5, 6; 31, 1.

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sviluppò a Primuliacum costruendo un battistero e una seconda basilica che ospitava il corpo di Claro, sacerdote e discepolo di Martino. Non conosciamo la data della morte; Gennadio, che scrive nel v secolo, lo pre­ senta ancora vivo dopo il 407, anno in cui i Germani invasero e devasta­ rono la zona151. Come Paolino nei riguardi di Felice, anche Severo, dopo la conversio­ ne all’ascetismo, si dedicò tutto a Martino, vescovo di Tours, su cui scris­ se, fra il 393 e il 404, una Vita, tre Lettere e il Gallo. Visti da una certa lontananza e con una prospettiva sinottica, gli scritti agiografici di Paolino e di Sulpicio appaiono intrecciati in una rincorsa di emulazione reciproca: Sulpicio completa la Vita di Martino nel 397; nel 398 e 399 Paolino com ­ pone la Vita di Felice; nell’anno successivo ne descrive la morte e il fune­ rale e i dona, fra cui soprattutto i miracoli cui sono dedicati i Natalicia successivi. Dal canto suo, Sulpicio, dopo la morte di Martino avvenuta nel 397, nella seconda e terza lettera descrive la morte e i funerali di Martino e nel Gallo aggiunge a quelli già raccontati dalla Vita altri miracoli di Martino. Uno sguardo più ravvicinato rivela una differenza fondamentale: Sulpicio racconta di una persona che conosce personalmente e che è anco­ ra viva quando termina la Vita. In effetti Sulpicio si recò a Tours per visi­ tare Martino fra il 393 e 394, ma aveva avuto modo di ammirarne la san­ tità già da prima, se lo scopo di quel viaggio era anche quello di racco­ gliere materiale per la Vita che aveva intenzione di scrivere152. A decidere la svolta esistenziale di Sulpicio avvenuta nel 395, avrà concorso, oltre quella di Paolino di poco precedente, anche il contatto con le comunità monastiche fondate da Martino, soprattutto quella di Marmoutier, a poca distanza da Tours, di cui facevano parte anche nobili colti che pure accet­ tavano uno stile di vita severo e dalle cui file uscivano i vescovi153. In una Gallia ancora poco abituata alla presenza di monaci e che aveva assistito alla condanna ecclesiastica d ell’asceta Priscilliano e alla sua decapitazio­ ne com e eretico, lo stile di vita molto austero e la storia personale di

151 Gli uomini illustri 19; Gennadio aggiunge anche altre notizie: Sulpicio era sacerdote e «in senectute sua» si fece attrarre dal pelagianesimo, da cui poi in seguito si sarebbe allontanato, man­ tenendo però il silenzio come forma di penitenza per questo suo errore, ma queste notizie sono discusse. 152 Vita dì Martino 25, 1. Utilizzo la seguente edizione e traduzione: Ch. Mohrmann (ed.), Vita di Martino. Vita di Ilarione. In memoria di Paola, testo critico e commento a cura di A.A.R. Bastiaensen e J.W. Smit, traduzioni di Luca Canali e Claudio Moreschini, Milano 1975; Sulpice Sevère, Vie de Saint Martin, introduction, texte et traduction par J. Fontaine, t. 1-3 (SC 133,134,135), Pans 1967, 1968, 1969; Sulpicio Severo, Vita di San Martino, introduzione, testo, traduzione e commento a cura di F. Ruggiero, Bologna 2003. 153 Vita di Martino 10, 8.

L’agiografia cristiana antica Martino suscitavano ostilità e sospetti che si estesero anche alla Vita di Martino e che ne richiesero puntualizzazioni e supplementi. Tutte queste circostanze fanno sì che l ’opera agiografica di Sulpicio si intrecci, non solo con le scelte fondamentali della sua vita, ma anche con gli eventi della Chiesa gallica contemporanea e di tutto ciò dia un resoconto di parte appassionato e polemico. 3.1. Il “ciclo” martiniano La Vita si articola in quattro sezioni: si apre con una lettera dedicato­ ria indirizzata a Desiderio e con un prologo su cui torneremo (cap. 1); seguono le due sezioni più corpose (2-10; 11-24) preannunciate nel pro­ logo: «Dunque comincerò a scrivere la vita del santo Martino, quale fu la sua condotta prima dell’episcopato e durante l ’episcopato». Ambedue le sezioni sono organizzate in trittici om ogenei al loro interno per gli argo­ menti e l ’ampiezza154. La prima sezione di carattere cronologico accom­ pagna Martino dalla nascita fino all’elezione all’episcopato (capp. 2-9). Fino al cap. 4 è narrata la fase militare: nato in Pannonia, ma cresciuto a Pavia, Martino proveniva da una famiglia di condizione sociale “non infi­ ma ’, e pagana. Figlio di un militare che aveva iniziato la carriera dai gra­ dini più bassi, anch’egli intraprese la carriera militare. Ma - secondo Severo - non volontariamente, perché la sua aspirazione era piuttosto quella di dedicarsi al servizio di Dio: a dieci anni decise di diventare cate­ cumeno, a dodici desiderò “il deserto”, ma a quindici fu costretto ad entra­ re nell’esercito, in cui servì in modo tale da essere creduto «non miles, sed monachus». A questo periodo viene fatto risalire l ’episodio - fra i più famosi e rappresentati artisticamente - del dono di metà della sua clami­ de ad un povero (cap. 3) e una prima visione di Cristo vestito della clami­ de donata, visione in seguito alla quale Martino decide di farsi battezza­ re155. Il modo in cui viene descritto il congedo dall’esercito, rivela Sul­ picio come attento lettore delle Passioni dei martiri militari: «Io sono sol­ dato di Cristo - dice Martino all’Imperatore - combattere non mi è le­ cito». Il “tiranno” - la scena si svolge alla vigilia di una battaglia - lo ac­ cusa di vigliaccheria, ma Martino si offre di andare incontro alle schiere nemiche armato solo della fede in Cristo. I nemici, il giorno dopo, si con­ segnano all’Imperatore senza combattere: «Chi potrebbe dubitare - escla154 Come ha messo in luce il commento di Fontaine, t. i (SC 133), pp. 59-96. 155 A questo episodio e alla sua fortuna sono dedicati i contributi del xiv* centenaire de la mort de Martin, in «Mémoires de la Société archéologique de Touraine» 63(1997); fra questi: J. Fontaine, Le partage du manteau dans la Vita Martini de Sulpice Sevère, pp. 27-39.

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ma Sulpicio - che questa sia stata davvero una vittoria di quell’uomo san­ to, a cui fu concesso di non essere mandato inerme in battaglia?»156. Nei capp. 5-8 sono raccontate le peregrinazioni di Martino: prima a Poitiers presso il vescovo Ilario che lo nomina esorcista, poi in Italia dai suoi con l ’intento di convertirli al cristianesimo; passando le Alpi comin­ cia l ’opera di apostolato e converte al cristianesimo e all’ascetismo dei briganti che volevano attentare alla sua vita. A Milano avviene un primo incontro con il diavolo che lo avverte della sua intenzione di ostacolare ogni sua attività futura. Dopo aver convertito la madre, passa nell’Illirico dove combatte i vescovi ariani. Ma qui non ha fortuna: perseguitato e pic­ chiato, ritorna in Gallia a Poitiers, ora però in mano degli ariani. Decide allora di tornare a Milano e comincia una prima esperienza monastica. Viene cacciato anche da qui e si stabilisce nell’isola di Gallinaria, insie­ me ad un sacerdote. Il ritorno di Bario a Poitiers provoca anche il ritorno di Martino che anche qui si stabilisce in un monasterium non lontano dalla città, a Ligugé, questa volta in compagnia di un catecumeno di cui è guida spirituale e che è il protagonista del primo miracolo di resurrezione ope­ rato dalle preghiere di Martino: «Da questo momento per la prima volta, la rinomanza dell’uomo beato risplendette: così chi era già da tutti ritenu­ to santo, fu anche ritenuto potente e veramente simile agli apostoli»157. L’elezione all’episcopato (capp. 9-10) è presentata come voluta dal popolo e da Dio, ma osteggiata dai vescovi che ritenevano indegno della carica un uomo «dall’aspetto miserando, dall’abbigliamento sordido e dalla capigliatura arruffata»158. Martino è un vescovo che continua a col­ tivare lo stile di vita e le virtù monastiche, prima vivendo in una piccola cella addossata alla chiesa di Tours, poi ritirandosi a due miglia della città, a Marmoutier, seguito da molti altri. I monaci di Marmoutiers vivevano in celle separate, ma si riunivano per la preghiera e il pasto che interrompe­ va il digiuno; si astenevano dal vino, come da ogni attività lavorativa159*, ad esclusione della copiatura di libri, lavoro riservato ai più giovani, men­ tre gli altri si dedicavano esclusivamente alla preghiera. Tutto era messo in comune. La sezione successiva (capp. 11-24) in episcopatu è anch’essa organiz­ zata in trittici che non seguono più uno sviluppo cronologico: nel primo (capp. 11-15) si narrano le virtutes di Martino nella sua opera di cristia­

156 Vita di Martino 4, 7. 157 Vita di Martino 7, 7. 158 Vita di Martino 9. 3. 159 È il punto di maggior distanza dal monacheSimo egiziano anacoretico e cenobitico: cfr. A. De Vogiié, Histoire litte'raire du rrwuvemeni monastique dans VAntiquité, Premère Panie: Le monachisme latin, t. 4, pp. 46-49.

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nizzazione delle campagne; nel secondo (16-19) sono descritti gli esorci­ smi e le guarigioni di Martino (16-19); l ’ultimo (21-24) racconta le nume­ rose circostanze in cui il dono del discernimento degli spiriti lo mette in grado di riconoscere e sconfiggere le trame dei demoni. I tre paragrafi di chiusura (25-27) contengono il resoconto della visita a Tours di Sulpicio e un breve ritratto ricapitolativo di Martino di cui si esalta la mitezza, l ’amore e la misericordia al fine di far apparire ancora più screditati i suoi detrattori e persecutori che, «benché estremamente pochi non furono altro che vescovi»160. Le tre Lettere - uniche rimasteci di una produzione epistolare certa­ mente più vasta, come testimoniano le numerose missive di Paolino indi­ rizzate a Sulpicio - rappresentano il completamento della Vita e, in alcu­ ni ms, tramandate insieme ad essa. L’occasione della prima è l ’increduli­ tà suscitata dalle virtutes di Martino messe in dubbio a partire da una cir­ costanza precisa. Il vescovo aveva rischiato di morire in un incendio e questo mal si addiceva al ritratto di potente taumaturgo diffuso da Sul­ picio. Questi ripercorre tutto l ’evento paragonando il suo eroe agli Apo­ stoli Pietro e Paolo e ai pericoli da loro corsi n ell’opera di evangelizzazio­ ne; presenta Martino come evangelizzatore della Gallia e, ponendo l ’inte­ ro episodio sullo sfondo del racconto biblico dei tre giovani nella fornace salvati dalla preghiera (Dan 3), colora il santo di Tours di valenze martirologiche in modo più esplicito di quanto avesse fatto nella Vita e ne pre­ para il culto proprio in quanto martire. L’approdo di questa tendenza è la lettera successiva che è stata giusta­ mente definita come un manifesto di canonizzazione161 di Martino. La Lettera si apre con la descrizione di una visione di Sulpicio. Il santo gli appare vestito di una tunica bianca - come appunto l ’Apocalisse ritrae coloro che sono stati uccisi per la parola di D io (Ap 6,11), - con il volto radioso e la capigliatura brillante. Reca nella mano destra la Vita scritta da Sulpicio di Martino, lo benedice e poi risale attraverso il cielo aperto pren­ dendo posto fra gli Apostoli, i profeti e i martiri, seguito da Claro, un suo discepolo di cui Sulpicio aveva tessuto le lodi già nella Vita. Martino viene anche indicato come patrono e intercessore davanti al tribunale di Dio di chi lo pregherà. L’ultima Lettera è dedicata agli ultimi giorni del santo mentre si trova­ va in visita pastorale a Candes: Martino muore attorniato dai fratelli e, malgrado le sue sofferenze fisiche, non si concede la minima deroga al rigore abituale del suo ascetismo. La descrizione del funerale è il trionfo 160 Vita di Martino 27, 3. 161 F. Ghizzoni, Sulpicio Severo, Roma 1983, p. 186.

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di Martino: folle di monaci e monache e di gente comune accompagnano il suo corpo da Candes a Tours con un corteo che viene paragonato ai trionfi antichi, mettendo in luce, nel contempo, com e diversamente da quelli, il premio sia il Paradiso e non la dannazione eterna. Al “ciclo” martiniano appartiene un’opera in forma di dialogo nota sotto il titolo di Dialoghi, ma che il suo autore - stando all’affermazione di Gerolamo162 - volle intitolare Gallo dal nome di uno dei protagonisti del dialogo stesso163. La forma letteraria richiama i dialoghi in villa cice­ roniani. La scena si svolge a Primuliacum in due giornate; la prima parte della prima giornata è occupata dal racconto di Postumiano sul lungo viaggio compiuto in Oriente che l ’ha portato prima a Cartagine e fra i mo­ naci della Cirenaica, poi ad Alessandria e a Betlemme presso Gerolamo e infine fra i monaci della Tebaide — cenobiti ed eremiti — dotati di doni eccezionali di cui vengono esaltati l ’ascesi e i miracoli (i libro). In questa parte Postumiano racconta di aver incontrato un vecchio asceta che nel suo eremo in Egitto leggeva la Vita di Martino; dopo aver appreso che Po­ stumiano era un amico dell’autore, il vecchio manifesta il desiderio di apprendere gli episodi che nella Vita si affermava essere stati tralasciati164. Per questo n ell’ ultima parte della giornata (il libro) e nella successiva (in libro) prende la parola Gallo - un discepolo di Martino - che narra una lunga serie di episodi della vita di Martino: miracoli e altri fatti che ne testimoniano il coraggio pastorale in difesa della sua gente contro la fero­ cia e l ’avidità dei potenti165 e il suo senso della giustizia nell’intercedere presso l ’Imperatore Massimo contro le persecuzioni dei priscillianisti166. I vari miracoli sono raccontati senza alcun criterio di spazio, di tempo o di argomento e l ’insieme appare molto meno strutturato della Vita. Alla fine Sulpicio congeda i presenti raccomandando a Postumiano, in procin­ to di ripartire per l ’Oriente di portare con sé anche quest’opera per farla conoscere ovunque —in Africa, a Nola, in Egitto —com e del resto aveva fatto per la Vita Martini. Anche se caratterizzati da diverso impegno letterario, Sulpicio presen­ ta questi scritti com e parti di un edificio innalzato alla memoria di Martino. Nel prologo della Vita dichiara di aver operato una scelta fra le virtutes del suo eroe per evitare il fastidium generato da uno scritto trop­

162 Gerolamo, Commento su Ezechiele 11, 36, 1. 163 Sulpice Sevère, Gallus. Dialogues sur les “vertus” de Saint Martin (SC 510). Introduction, texte critique. traduction et notes par J. Fontaine, avec la collaboration de N. Dupré, Paris 2006. 164 Gallo 1, 23, 7; il racconto fa venire in mente l ’episodio analogo raccontato da Ponticiano ad Agostino e da questi inserito nelle Confessioni 8, 15. 165 Gallo 3, 4, 1 ss. 166 Gallo 3, 11-13.

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po lungo167, e a questa affermazione si riferisce la prima Lettera per giu­ stificare di aver tralasciato l ’episodio d ell’incendio168. Nella seconda Let­ tera, la Vita riappare in modo aulico nella mano destra dello stesso Mar­ tino169: la cornice apocalittica della visione suggerisce un’analogia con il piccolo libro di Ap 10,2 e circonda il libellus di Sulpicio di un’aura sacra, rivelando, come ha sottolineato il Fontaine, l ’intenzione di presentarlo come un’apocalisse martiniana, di cui proprio Sulpicio sarebbe il profe­ ta17017. Le parole del prologo sono ancora menzionate nel Gallo, per giusti­ ficare il racconto delle virtutes di Martino taciute nella Vita™. La stessa Vita del resto recita una parte di rilievo nel racconto di viaggio di Postumiano che afferma di aver constatato quanto fosse già conosciuta e ammirata a Cartagine, ad Alessandria, in Egitto172, Nel disegnare il modello di santità di Martino «potens (...) et vere apostolicus»173, anzi 1 unico, fra 1 episcopato gallico in cui «apostolica auctoritas permanebat»174, martire senza versamento di sangue, vescovo esem ­ plare e, però, nelle varie fasi rimasto sempre costantemente monaco, le Lettere e il Gallo sviluppano e amplificano temi e stilizzazioni già tutti presenti nella Vita, pur riflettendo momenti diversi della dialettica di Sulpicio con l ’ambiente gallico: nelle Lettere, che intendono mettere le basi per il culto di Martino, è la stilizzazione martirologica a venire in primo piano, perché solo questa —in quel momento —poteva efficacemen­ te promuoverne il culto. Il Gallo mette al centro il monacheSimo e proiet­ ta Martino sullo sfondo di quello che ad un Occidentale della fine del iv secolo doveva apparire un imprescindibile metro di paragone: il monache­ Simo egiziano, naturalmente nella sua versione idealizzata, già mediata da altri testi. La superiorità di Martino rispetto a quello viene stabilita pro­ prio a partire da una sua fragilità, il fatto cioè che fosse stato un vescovo. È sufficiente leggere la Lettera di Gerolamo ad Eliodoro che aveva abban­ donato il deserto per tornare in patria e diventare vescovo, per compren­ dere com e le due cose potessero apparire inconciliabili, proprio agli occhi di chi nello stesso Gallo era elogiato per l ’alto profilo culturale e asceti­ co 175. Sulpicio - che qui parla in prima persona - ribalta a favore del suo 167 Vita di Martino 1, 8. 168 Lettera 1,8. 169 Lettera 2, 3. 170 Fontaine (SC 135), t. in, p. 1196. 171 Gallo 1, 23, 7. 172 Gallo 1 ,2 3 , 1-8. 173 Vita Martino 7, 7. 174 Vita Martino 20, 1. 175 Gerolamo, Lettera 14; Gallo 1, 7, 3-9, 5. Sulla freddezza dì Gerolamo verso Sulpicio, cfr Stancliffe, cit., pp. 297 ss.

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eroe questa possibile critica. La santità di Martino non è affatto compara­ bile a quella degli asceti egiziani; privato della quiete del deserto e in m ezzo alla folla, fra gli attacchi e le persecuzioni, ha condotto la sua lotta in condizioni più sfavorevoli e nondimeno, ha compiuto miracoli più grandi di quegli asceti, operando addirittura delle resurrezioni176. Nel Gal­ lo un certo parossismo elogiativo —a un certo punto Postumiano arriva a dire che Martino non è comparabile a nessun monaco e a nessun vesco­ vo177 - va di pari passo con l ’inasprimento delle critiche ai chierici e ai ve­ scovi che «soli non conoscono» Martino178 e questo dà una misura delΓacuirsi dell’ostilità circostante sia nei confronti di Martino sia del suo agiografo. La proiezione della figura di Martino in un teatro più vasto di quello gallico può far parte del tentativo di spezzare l ’isolamento del gruppo martiniano; in Gallia Martino era uno straniero, di scarsa o nessu­ na cultura e poteva apparire com e un allucinato visionario; la sua rilettu­ ra, invece, sullo sfondo degli exploits ascetici e taumaturgici del monache­ Simo egiziano, che nel mondo latino suscitavano curiosità e ammirazione, poteva ben servire a dame una chiave diversa di comprensione. 3.2. Storia e discorso agiografico Accanto alla Vita di Antonio, la Vita di Martino è uno dei più impor­ tanti testi agiografici della tarda antichità latina; a differenza del primo, fu all’origine del culto di uno dei santi più rappresentati e venerati in tutto l ’Occidente e, naturalmente, soprattutto in Francia ove divenne il patrono della monarchia. E tuttavia gli inizi furono molto contrastati com e testi­ monia la Vita di Martino e gli altri scritti martiniani; inoltre, per quanto non manchino indizi di un culto della sua memoria nei decenni immedia­ tamente successivi alla sua morte, soltanto a partire dalla seconda metà del v secolo si ha un vero rilancio della sua figura e del suo culto attraver­ so il vescovo Perpetuo uomo di azione e di cultura, che operò per fare di Tours, sotto l ’egida di Martino, una grande metropoli religiosa179. M o­ bilitò gli ingegni letterari del suo tempo e dietro suo suggerimento Paolino di Périgueux scrisse un poema in sei libri dedicato a Martino (462-464), basato sull’opera di Sulpicio e su un componimento dello stesso Perpetuo dedicato ai miracoli compiuti da Martino dopo la morte. Alla fortuna del

176 Gallo 1, 24-25. 177 Gallo 1, 26, 1. 178 Gallo 1, 26, 3; critiche al clero gallico nella Vita di Martino: 20, 1; 27, 3. 179 L. Pietri, La ville de Tours du IV au vie siècle: naissance d'une d té chrétienne, Ecole frammi­ se de Rome 1983, pp. 137-140.

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culto di Martino in età merovingica è legata, invece, l ’altra trasposizione in versi di Venanzio Fortunato180 e l ’intero dossier agiografico - il Martinellus - conobbe una nuova stagione in età carolingia sotto gli auspici di A lcuino181. Questa latenza della memoria durata qualche decennio ha rafforzato, almeno in una stagione della ricerca su Martino182, il giudizio di sostan­ ziale inaffidabilità della ricostruzione della figura di Martino soprattutto per quanto riguarda l ’eccezionaiità taumaturgica e ascetica. Sulpicio presenta la Vita come “storia”. In effetti, fra le tradizioni cul­ turali d ell’antichità classica con cui colloquia, è soprattutto la storiografia a recitare una parte di primo piano. Questo è ben visibile fin dal prologo in cui Sulpicio intreccia un dialogo consapevole con il prologo della Con­ giura di Catilina di Sallustio. Sallustiano (ma non solo) è il tema della gloria perenne derivante dall’opera letteraria a chi agisce e a chi raccon­ ta, com e anche lo scopo di offrire alle future generazioni un esempio di virtù da imitare183. Alla perennis memoria, Sulpicio contrappone il valore cristiano della perennis vita che si deve conquistare con il vivere «piamen­ te, santamente, religiosamente». In tale prospettiva egli colloca anche il proprio scrivere che aspira non alla «vana memoria» degli uomini, ma al premio eterno di Dio che terrà conto anche di chi si è adoprato per non lasciare in ombra chi dovesse essere imitato184. Sulpicio si presenta dun­ que com e storico e, sempre nello stesso prologo, pretende di non aver scritto nulla che non fosse «noto ed accertato»185. A proposito del Gallo afferma che, se pur scritto in forma di dialogo per alleggerire il fastidium dei lettori, egli ha m esso al primo posto la «veridicità della storia»186. Tali dichiarazioni sono spesso ribadite sottolineando il rapporto diretto fra Martino e il suo biografo che ne avrebbe raccolto più volte le confiden­ ze187, oppure citando testimoni188. Altrettanto frequenti sono i riferimenti a episodi di incredulità non solo fra gli avversari di Martino, ma anche fra

180 S. Labarre, Le manteau partagé. Deux métamorphoses poétiques de la Vie de Saint Martin chez Paulin de Périgueux (Ψ s.) et Venance Fortunat (vie s.), Paris 1998. 181 Sulle diverse immagini di Martino nei diversi momenti: N. Gauthier, L ’e'tat des recherches martiniennes, in X IV centenaire, cit., pp. 17-27; M. Vielberg, Der Monchsbischof von Tours im “Martinellus". Zur Form des hagiographischen Dossiers und seines spatantiken Leitbilds, BerlinNew York 2006. 182 Legata allo studio di E.-C. Babut, Saint Martin de Tours, Paris s.d. (1912); storia della ricer­ ca martiniana in Stancliffe, St. Martin, cit., pp. 316 ss. 183 Sul prologo, oltre al commento al passo di Fontaine, cfr. Berschin, cit., Bd. i, pp. 196 ss. 184 Vita di Martino 1, 6. 185 Vita di Martino 1, 9. 186 Gallo 3, 5, 6. 187 Vita di Martino 24, 8; Lettera 1, 14; Gallo 2, 13, 4. 188 Gallo 3. 5, 5.

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i suoi discepoli: alcuni, per esempio, reagivano con scetticismo di fronte alle visioni di santi, di angeli e di demoni che egli sosteneva di avere189. I nodi più difficili sono da una parte la cronologia, dall’altra i miraco­ li. Per quanto riguarda la prima, stando ai racconti di Sulpicio, Martino avrebbe avuto venti anni quando nel 356 chiese il congedo dal servizio militare190 e settanta quando incontrò l ’Imperatore Massimo e sua mo­ glie191, cioè fra il 385 e il 388. Secondo la prima indicazione, Martino sarebbe nato nel 336, mentre secondo l ’altra, intorno al 315: vent’anni di scarto sulla cui interpretazione, malgrado i numerosi tentativi, la critica è tuttora divisa. Il punto essenziale è la durata del servizio militare di Mar­ tino: solo cinque anni come sostiene Sulpicio o venticinque che coincide­ rebbero con la durata normale della ferma militare a quei tempi? I fauto­ ri della datazione di nascita nel 315 rilevano la delicatezza di questo pas­ saggio all’interno della ricostruzione sulpiciana: un servizio militare così protratto dopo il battesimo, costituiva un grave ostacolo ad ogni rivendi­ cazione di santità, soprattutto se si pensa al divieto di ammettere nel clero militari o ex militari formulato dal terzo canone del Concilio romano del 386. È dunque probabile - anche sulla base della constatazione dell’alto grado di stilizzazione martirologica dell’episodio del congedo - che qui Sulpicio abbia accorciato il periodo in un’ottica apologetica. D ’altro canto, vi è chi, citando episodi coevi, non ritiene del tutto impossibile il congedo anticipato di Martino, la cui età matura renderebbe più plausibi­ li episodi successivi della Vita192. Sui miracoli, soprattutto Fontaine ha approfondito da par suo la que­ stione se e con quale metodologia i racconti di Sulpicio possano essere, almeno in parte, sollevati dall’accusa di essere frutto di una impostura cosciente organizzata da Sulpicio a scopi propagandistici; le sue ricerche, ulteriormente approfondite dalla Stancliffe, sono preziose per aiutare il lettore moderno a riformulare in modo più com plesso la dicotomia fra realtà e finzione193. I racconti di Sulpicio - come del resto quelli di un buon numero di agiografi di cui ci occuperemo in seguito - sono frutto di passaggi successivi di cui il primo è rappresentato dalla soggettività di Martino stesso e dal modo in cui egli stesso interpretava gli eventi che gli

189 Gallo 2, 13 ,7 . 190 Cfr. supra, p. 208. 191 Gallo 2, 7, 4; cfr. Vita di Martino 20, 1 ss. 192 La cronologia “bassa” è stata sostenuta da Fontaine, t. il (SC 134), pp. 515 ss. e raccoglie con­ sensi maggiori; per la cronologia “alta”: Stancliffe, cit., pp. 112 ss. 193 Problema interpretativo dei testi agiografici che è al centro di numerosi studi: cfr. la rassegna critica di A. Volpato, Il miracolo nella recente ricerca storica, in Id. (ed.), Monaci, ebrei, santi. Studi per Sofia Boesch Gajano, Roma 2008, pp. 109-145.

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accadevano e li raccontava; un secondo passaggio era costituito dalla cer­ chia dei monaci di Marmoutier che vedevano la loro guida spirituale già in una prospettiva idealizzata, mitica, filtrata attraverso modelli narrativi monastici scritti e orali; l ’ultimo passaggio - rappresentato da Sulpicio ha perfezionato la metamorfosi iniziata nella coscienza religiosa dei primi testimoni allungando, scegliendo, avviluppando gli eventi con le diverse stilizzazioni martirologica, monastica, apostolica, biblica. 3.3.

Continuità e originalità

Sulpicio ha certamente presente sia la Vita di Antonio nella traduzione evagriana, sia gli scritti agiografici di Gerolamo fino a quel momento pub­ blicati: la Vita di Paolo e la Vita di Barione. I punti più sicuri di contatto con la prima sono i capitoli sull’infanzia e alcuni racconti che hanno per protagonisti il diavolo e i demoni194. La Vita Pauli affiora soprattutto nel Gallom : non si dimentichi che Postumiano racconta di aver visitato, oltre ai monasteri del «beato Antonio», il luogo dove aveva vissuto Paolo «primus eremita»196, segno che nella cerchia di Sulpicio la tesi di Gerolamo sulla priorità di Paolo su Antonio era conosciuta e i luoghi creduti di Paolo ritenuti una tappa obbligata del grand tour dell’Egitto monastico. I punti di contatto con la Vita di Barione si trovano soprattutto nel prologo: come Gerolamo, Sulpicio colloquia con Sallustio e avanza il tema della gloria dell’eroe legata all’opera letteraria e come lui cita ad un certo punto Omero197 come metro di paragone di un’ispirazione poetica che per quan­ to grande non è in grado di esprimere la grandezza dei due eroi cristia­ n i198. Gerolamo è presente nel Gallo soprattutto con la sua Lettera a Eustochio che conteneva una critica molto aspra a sacerdoti e a certi tipi di monaci. Pur con questi debiti, la Vita di Martino rimane un testo originale e irri­ ducibile alla tradizione precedente e questo sia da un punto di vista forma­ le, sia dal punto di vista del modello di santità. Dal primo punto di vista, nessuna delle Vite precedenti raggiunge un così alto grado di progettualità letteraria e dopo di essa lo ritroviamo soltanto nella Lettera geronimiana dedicata a Paola199. Dal secondo punto di vista, l ’originalità consiste nel194 Stancliffe, cit., p. 92. 195 Punti di contatto testuali: Vita di Paolo 6 e Vita di Martino 25, 7; Gallo 1, 15, 1: Stancliffe, p. 324. 196 Gallo 1, 17, 1. 197 Altri punti: Vita di Ilarione 23 e Vita di Martino 17, 7. 198 Vita di Martino 26, 3; Vita di Ilarione 1, 4. 199 Anche se le interpretazioni sono diverse: per Stancliffe, cit., p. 89 (status quaestionis) e

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l ’aver ricollocato l ’ideale di perfezione monastica nel mondo e n ell’aver rappresentato non un monaco, divenuto suo malgrado vescovo, ma, riuniti in un’unica persona, il vero monaco e il vero vescovo. Tale parallelismo, fra sacerdozio e monacheSimo, fra pratiche pastorali e pratiche ascetiche, caratterizza la ricostruzione sulpiciana della figura di Martino fin dall’ini­ zio. La precocissima vocazione di Martino al servizio di D io contiene già tale parallelismo e anticipa il suo destino futuro: «L’animo suo sempre pro­ teso verso le celle degli eremiti e verso la Chiesa, già nell’età puerile medi­ tava ciò che in seguito compì religiosamente»200. La persona verso cui si dirige subito dopo il battesimo non è un padre spirituale come Antonio o Ilarione, ma un vescovo che lo lega alla gerarchia ecclesiastica. Il primo episodio narrato in seguito alla nomina all’esorcistato è la conversione dei briganti e della madre dal paganesimo. L’accostamento fra i due fatti da parte di un biografo esplicitamente molto selettivo come Sulpicio è del tutto comprensibile sullo sfondo delle credenze demonologiche del tempo che stabilivano una stretta relazione fra religione pagana e invasione demo­ niaca. L’episodio è un primo assaggio di quanto Martino farà successiva­ mente come vescovo impegnato nella distruzione di templi e riti pagani, in una lotta a tutto campo contro la superstitio201. La scelta eremitica con il ritiro nell’isola di Gallinaria è presentata com e soluzione dettata da una situazione ecclesiale in cui il partito ariano è preponderante e che, malgrado i numerosi tentativi di Martino, non offre alcun spiraglio di azione. Tuttavia anche nell’isola di Gallinaria condivi­ de il suo isolamento con un prete202 e il suo primo miracolo di resurrezio­ ne ha per oggetto un catecumeno e sfocia nel battesimo di costui203. Nel punto della Vita che segna il passaggio fra la prima e la seconda parte, Sulpicio tiene a sottolineare la chiave di lettura di tutto quanto verrà nar­ rato in seguito, precisando che Martino «perseverava con assoluta fermez­ za ad essere l ’uomo che s’era mostrato in precedenza. La medesima umil­ tà nel suo cuore, la medesima povertà nel suo abito e così pieno di auto­ rità e di grazia, compiva il suo ufficio episcopale, tuttavia in modo da non tralasciare la condotta e le virtù monastiche»204. Nei suoi frequenti spostamenti legati all’attività pastorale Martino viene accompagnato da monaci205, ma è la Chiesa, più del monastero a far Ghizzoni, cit., p. 84 prevarrebbe il modello svetoniano; di diverso avviso: Fontaine, 1.1 (SC 133), pp. 65-66. 200 Vita di Martino 2, 4. 201 Vita di Martino 11,5. 202 Vita di Martino 6, 5. 203 Vita di Martino 7, 1-5. 204 Vita di Martino 10, 2. 205 Vita di Martino 13, 7.

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da sfondo a molti suoi miracoli206 e frutto della sua intensa opera di cri­ stianizzazione è la fondazione sia di Chiese, sia di monasteri207. Il tentativo così precoce - rispetto alla diffusione del monacheSimo nel mondo latino - di armonizzare l ’ideale monastico con quello sacerdotale è un tratto autentico dell’esperienza storica di Martino che non fu il solo, più o meno negli stessi anni, a porsi su quella strada: basti ricordare, sem ­ pre in Occidente - l ’istituzione a Vercelli da parte del vescovo Eusebio di un monastero destinato ad accogliere i chierici di quella città e di fare dell ’esperienza monastica una sorta di vivaio per il sacerdozio e forse non è un caso che il maestro di Martino, Ilario di Poitiers, sia stato compagno di esilio in Oriente dello stesso Eusebio208. Aver reso questo aspetto la chia­ ve di lettura dell’intero ciclo martiniano ne costituisce il tratto specifico: nella Vita di Antonio, il monaco e il vescovo abitavano luoghi separati ed esercitavano autorità diverse, la prima carismatica, la seconda legata alla successione apostolica; quando si incontrano nella pagina atanasiana è solo per ribadire la gerarchia - la dipendenza del primo dal secondo —e il reciproco sostegno. Nella Vita di Ilarione l ’autorità sacerdotale era per lo più ignorata e, se citata, serviva ad esaltare il monaco. Anche Martino, in quanto vescovo, deriva la sua autorità dalla successione apostolica, ma in modo diverso dagli altri vescovi: i suoi meriti lo hanno reso degno dei do­ ni spirituali manifestati dalle sue virtutes allo stesso modo in cui gli Apo­ stoli erano fondatori, guide di Chiese e, insieme, taumaturghi209. Intrecciata alla rappresentazione della perfezione sacerdotale e mona­ stica di Martino e parte costitutiva di essa è la rappresentazione di una rete di rapporti ideali fra i gruppi e i poteri della società e Chiesa galliche. Riguardo ai potenti, Martino difende la virtù tradizionale della constantia e la sacerdotalis dignitas210 e frequenta le stanze del potere secolare sol­ tanto se mosso dal desiderio di salvare vite umane211. L’evergetismo di ricchi laici a favore dei monaci viene rifiutato in nome di una visione che vorrebbe il monastero sottratto a tali influenze per dipendere solo dal sostentamento offertogli dalla Chiesa212. E naturalmente i numerosi episo­ di che esaltano l ’umiltà, la povertà, la modestia, lo slancio pastorale di Martino costituiscono altrettanti spunti espliciti e impliciti per criticare il clero gallico di cui viene tracciato un quadro desolante, con alcune ecce­

206 207 208 209 210 211 212

Vita di Martino 16, 4; 18, 3; così anche in Gallo 2, 1, 1; 3, 6. Vita di Martino 13, 9. De Vogiié, cit., t. 4, p. 28. Gallo 3, 17, 6. Vita di Martino 20, 1. Gallo 3, 11, 1 ss. Gallo 3, 14, 6.

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zioni che coincidono, quasi sempre, con i sacerdoti usciti dalla scuola di Martino. Nonostante tali critiche, la Chiesa nelle sue varie componenti istituzionali ritornò al centro del discorso agiografico e questo aiuta a comprendere l’influenza esercitata dall’opera sulpiciana sulla generazio­ ne successiva di chierici latini che si dedicarono a raccontare la santità sacerdotale213. 3.4. Un pubblico di asceti e letterati Una lettura incrociata di Paolino nolano e di Sulpicio offre una ricca m esse di informazioni sulle pratiche di lettura e di diffusione dei testi agiografici. Paolino, come si è visto, è una sorta di agente letterario del­ l ’opera sulpiciana: con solide e influenti amicizie romane, in rapporto epi­ stolare costante con i vescovi e gli studiosi più importanti del suo tempo, è uno dei tramiti più importanti per la Vita Martini e per il Gallo verso l ’Italia e l ’Illirico. Per sincera amicizia e lungimiranza letteraria Sulpicio aveva inserito in entrambi gli scritti grandi elogi nei riguardi di Paolino, la cui fama poteva così essere accresciuta dalla gloria di Martino e del suo autore214. Da parte loro, gli scritti di Sulpicio aprono numerosi scorci sui suoi let­ tori in Gallia e sull’atmosfera culturale di Primuliacum215. Un primo scor­ cio è offerto dai dedicatari delle opere: la Vita si apre con una breve lette­ ra dedicatoria indirizzata a Desiderio: «Fratri carissimo», «decus bonorum et sanctorum». Al di là dei luoghi comuni, si intravede un lettore esi­ gente e affamato di libri che è tanto vicino a Sulpicio da condividerne gli ideali e che riscuote la sua fiducia come “porta” verso la pubblicazione. E lo stesso Desiderio che richiese a Paolino un approfondimento ad un dif­ ficile passo scritturistico216 e a cui Gerolamo dedicò la sua traduzione del Pentateuco e che, qualche anno dopo, nel 405 trasmise allo stesso Gero­ lamo l ’opera di Yigilanzio contrario all’ascetismo e al culto dei santi217. La Vita si rivolge in particolare a «tutte le persone sante»218, ai conver­ titi all’ascetismo e fra questi, come dimostrano l ’attenzione allo stile e la fitta trama di riferimenti ai grandi autori della cultura latina, soprattutto

213 P. Rousseau, Ascetics, Authority, and thè Church in thè Age of Jerome and Cassian, Oxford 1978, pp. 161-165. 214 Vita di Martino 25.4; Gallo 3, 17, 3-5. 215 R. Alciati, Monaci, vescovi e scuola nella Gallia Tardoantica, Roma 2009, pp. 41-62. 216 Paolino di Nola, Lettera 43. 217 Questa identificazione è più incerta. 218 Vita di Martino 27, 5.

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alle persone colte, secondo un indirizzo costante dell’attività letteraria di Sulpicio che, nel prologo di un’altra sua opera, le Cronache, dichiara di destinarla «a istruire gli ignoranti e a persuadere i colti»219. Le tre lettere sono indirizzate a tre intimi della cerchia di Primuliacum: Eusebio; Aurelio e Bassula. Il primo è presbitero mentre riceve la lettera, ma vescovo quando di lui si parla nel Gallo220. Essendo l ’unico caso di vescovo citato in modo positivo, era forse uno di quei monaci di Marmoutiers destinati poi a ricoprire la carica episcopale, come si afferma nella Vita. Vi è poi il diacono Aurelio che ricompare nel Gallo221 come sacerdote e infine Bassula che appare qui non tanto come colei che ha incoraggiato e poi sostenuto la scelta ascetica di Sulpicio, ma nelle vesti più tradizionali di esigente patrona che provvede generosamente a tutto quanto è necessario per favorire la creatività dell’artista, ma che è impa­ ziente di averne l ’anteprima e lo incalza suggerendogli gli argomenti da trattare, appunto, la morte di Martino. Bassula era in quel momento a Treviri e di là continuava a tenere d ’occhio Sulpicio attraverso i suoi nota­ rli lasciati a Primuliacum per assisterlo: tutto quanto egli detta, ancor prima che assuma una forma definitiva, viene mandato alla signora e Sulpicio se ne duole scherzosamente, un p o’ per finta, un po’ per davve­ ro, come avviene spesso fra autori e editori222. Per quanto possiamo ben immaginare che Martino fosse stato spesso oggetto di discussione fra i suoi discepoli e sostenitori, è poco verosimile che il Gallo sia il rendiconto fedele di un dialogo veramente accaduto. Tuttavia, anche se, nei dettagli, la caratterizzazione del pubblico che assi­ ste al dialogo o vi partecipa è parte integrante della cornice letteraria, i personaggi rappresentano per così dire un campione della reale cerchia di Primuliacum, né d ’altra parte avrebbe potuto essere diversamente per un’opera che avrebbe circolato in primo luogo proprio all’interno della cerchia stessa. Gli attori principali sono, oltre a Sulpicio, Postumiano e Gallo. Il primo è un uomo molto colto, dotato di larghi mezzi finanziari che gli offrono la possibilità di compiere lunghi e iterati viaggi in Oriente. Come altri resoconti di viaggi di aristocratici latini testimoniano, essi si muovevano con servitù al seguito e con una buona scorta di oro per poter­ ne fare dono ai monaci o ai vescovi che li accoglievano. Postumiano è

219 Cronache, pref. 2. 220 Gallo 2, 9. 5. 221 Lettera 3, 1, 4. 222 Sul patronato letterario nei primi secoli: A. Monaci Castagno, Origene e Ambrogio: l ’indipen­ denza dell'intellettuale e le pretese del patronato, in Origeniana Ottava. Origen and thè alexandrian Tradition. Papers of thè 8th International Origen Congress, Pisa, 27-31 August 2001 edited by L. Perrone, Leuven 2003, voi. i, pp. 165-193.

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m osso dal desiderio di visitare i loca sanctorum223·, è curioso del modo in cui i santi vivono e delle loro regole di vita; ne condivide per qualche tempo la vita e li ammira, ma con la consapevolezza di non essere in grado ad abbracciarne il propositum224. È Postumiano che, portando con sé la Vita di Martino di Sulpicio e moltiplicandone le copie, la diffonde ovunque vada; si impegna nella propaganda di Martino e dell’ascetismo rigoroso, ma non si spinge fino al punto di far proprio fino in fondo lo stesso stile di vita. Da questo punto di vista, ha molti tratti in comune con Sulpicio stesso che ammette di non aver vissuto «in modo da poter esse­ re esem pio degli altri», ma si riconosce il merito «di non aver lasciato in ombra chi dovesse essere imitato»225. In effetti Sulpicio non entrò a far parte del monasterium di Marmoutiers e mantenne la sua indipendenza anche da quello di Paolino, malgrado avesse promesso di raggiungerlo e malgrado tale comportamento avesse raffreddato per un certo tempo i rap­ porti fra i due. La presenza a Primuliacum di servitù226 e di segretari, la cena offerta agli ospiti che assistono al racconto di Gallo sono indizi a favore del permanere a Primuliacum di uno stile vita in cui l ’ascesi si stemperava nelle tradizioni aristocratiche romane227. L’altro protagonista, Gallo, è uno scholasticus22%, un professionista del­ la retorica che ha lasciato le scuole229 per diventare monaco al seguito di Martino e che illustra le sue gesta mettendo a frutto la sua preparazione. Tra gli altri che accorrono numerosi per assistere ai racconti, di alcuni si riferisce nome e qualifica: sei appartengono a vario titolo alla gerarchia ecclesiastica e quattro sono monaci, tutti discepoli di Martino, alcuni fin dalla fanciullezza. Fra i saeculares che accorrono curiosi di ascoltare le virtutes di Martino, soltanto due vengono ammessi e si tratta di due alti funzionari dell’amministrazione provinciale romana, tutti gli altri vengono respinti perché ritenuti spinti non dalla religio, ma dalla curiositas230. Si tratta evidentemente di un campione di persone realmente gravitan­ ti a vario titolo intorno a Primuliacum; un campione, però, selezionato per dare maggiore affidabilità alle testimonianze e rompere l ’isolamento del gruppo martiniano, mostrandone l ’alto profilo culturale e sociale e insi­ stendo sulla presenza di ecclesiastici in un momento che pare di partico­ lare isolamento e difficoltà. D i queste si fa portavoce nel Gallo soprattut223 Gallo 1, 3, 2. 224 Gallo 1, 16, 1. 225 Vita di Martino 1, 6. 226 Gallo 2, 14, 5; 3, 17, 1. 227 Ghizzoni, cit., p. 64. 228 Gallo 1, 27, 5. 229 Gallo 2, 1, 1. 230 Gallo 3, 1, 6.

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to Sulpicio che allude a defezioni, persecuzioni e abbandoni. Si è tentato di intravedere sullo sfondo dell'aggravarsi della situazione la presenza di Vigilanzio che era tornato dall’Oriente in Gallia dopo il 395: sarebbe stato costui ad attaccare il culto dei martiri, il celibato, le donazioni ai poveri del patrimonio da parte dei ricchi convertiti, ad essere il convitato di pie­ tra di questo dialogo da considerarsi allora com e un Contro Vigilanzio231. NeH’accomiatarsi dai presenti, come ho già detto, Severo dà mandato a Postumiano, che di lì a poco sarebbe tornato in Oriente, di diffondere il Gallo in modo da far conoscere come l ’Europa, con il solo Martino, non fosse per nulla inferiore «né all’Egitto, né all’intera Asia»232. La Vita di Antonio terminava anch’essa con un catalogo di regioni occidentali ove il nome di Antonio sarebbe stato già conosciuto. Con il presentare Martino campione d ’Europa, Severo lo mette in competizione con Antonio nell ’aspirare alla stessa fama universale. Si trattava ovviamente di un’impre­ sa difficile: la Vita di Antonio, che era stata tradotta in latino ben due volte, trovava più facilmente lettori in Occidente, mentre gli scritti di Sulpicio non potevano che rivolgersi ai latini residenti in Occidente o a Greci bilin­ gui, un pubblico, però, che poteva essere non del tutto trascurabile. Il vec­ chio asceta incontrato da Postumiano nel deserto egiziano che leggeva la Vita di Martino è forse un artificio retorico per mettere in moto il raccon­ to delle virtutes di Martino, tuttavia non è inverosimile che in Oriente vi fosse un pubblico ascetico in grado di apprezzare gli scritti sulpiciani: Gerolamo aveva tradotto dal greco i Pacomiana per i monaci latini resi­ denti a Canope, in Nitria e nella Tebaide. Le fondazioni monastiche di Occidentali dovevano costituire altrettanti fuochi di diffusione della cul­ tura latina e attrazione di monaci e monache latini. La stessa Egeria rac­ conta che a Gerusalemme, durante le solennità, le letture venivano tradot­ te in latino, da fratelli e sorelle che conoscevano entrambi le lingue233. 4. Il Peristephanon di Prudenzio Quando Aurelio Prudenzio Clemente aggiunse alla raccolta dei suoi poemi una prefazione e un epilogo, era un uomo di 57 anni in vena di bilanci; preso da sentimenti di vanità e di timore riguardo al giudizio di

231 Fontaine, (SC 510), cit., p. 45. Sugli avversari del culto dei martiri in Gallia: Beaujard, Le culte des saints en Caule , cit., pp. 93-101. 232 Gallo 3, 17, 7. 233 Pellegrinaggio in terra santa 47, 4-5. B. Rochette, Le latin dans le monde grec. Recherches sur la diffusion de la langue et des lettres latines dans le provinces helle'nophones de l'Empire romain, Bruxelles 1997, pp. 151-152.

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D io che sentiva prossimo, affermava di essere nato «sotto il consolato di Salia»234, ripercorreva le fatiche scolastiche, le intemperanze giovanili, le accese battaglie forensi, gli incarichi importanti di amministratore di due città, l ’impegno come funzionario di alto rango alla corte imperiale. Dal momento che nessun contemporaneo parla di lui o fa riferimento alle sue opere, è esclusivamente dall’esile trama di questa sorta di confessio peccatorum che dipendiamo per ricostruire le tappe salienti della vita di Prudenzio. Nato nel 348 e, dunque, quasi contemporaneo di Paolino e Sulpicio Severo, era spagnolo, forse di Calagurris, città romanizzata già da qualche secolo che poteva vantare fra i suoi figli più illustri Quin­ tiliano. Apparteneva sicuramente all’aristocrazia provinciale, se potè godere di un’istruzione approfondita e fare una carriera brillante, assecon­ data dall’ascesa al potere di Teodosio, anch’egli spagnolo, che affidò tanti incarichi di prestigio ai suoi conterranei. Della cerchia teodosiana condi­ vise gli stessi interessi: lotta contro il paganesimo, devozione personale al culto dei martiri, apprezzamento dell’ascetismo. È possibile che il ritiro da ogni incarico pubblico sia da ricondurre alla morte di Teodosio avve­ nuta nel 395 o a qualche anno prima. Tradizionalmente la stesura dei diversi inni viene collocata fra il ritiro dalla vita pubblica e il 404235. Sulla base di queste scarne informazioni è già possibile cogliere i trat­ ti salienti che accomunano le vite di Paolino e di Prudenzio. In primo luogo, l ’ambiente sociale e geografico: quell’area intorno ai Pirenei, il nord della Spagna e l ’Aquitania teatro delle vicende di Priscilliano, di Martino, Sulpicio Severo. Altri tratti assimilanti sono: la formazione reto­ rica, la partecipazione al governo della cosa pubblica, il ritiro caratteriz­ zato dall’attività letteraria di carattere religioso che sceglie la poesia come veicolo privilegiato di espressione. Se il ritiro di Prudenzio seguì la morte di Teodosio, avvenne negli stessi anni della conversione di Paolino: ne condivise anche le scelte ascetiche? N e ll’epilogo, idealmente al termine della sua fatica poetica, Prudenzio esprime la speranza di avere infine guadagnato nella dimora di Dio un proprio posto; altri - dice Prudenzio hanno immolato a Dio i doni di una coscienza innocente e casta, altri ancora si sono privati delle loro ricchezze per sollevare i poveri, noi abbia­ mo offerto il sacrificio dei nostri versi «perché manchiamo di santità e non possiamo fare nulla per i poveri»236. La ricerca di una perfezione spiritua­ le che, per alcuni aristocratici del tempo, si espresse anche con una cesu­

234 Prefazione 24. 235 Non mancano ipotesi diverse: M. Roberts, Poetry and Cult o f thè Martyrs. The Liber Peri­ stephanon of Prudentius, Ann Arbor Michingam 1993, pp. 2-3. 236 Epilogo, vv. 1-11.

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ra volontaria e radicale con lo status precedente, non sembra essere stata dunque la via di Prudenzio. Poco o nulla possiamo sapere di positivo237 sul suo modo di tradurre nel quotidiano il programma spirituale annuncia­ to nella Prefazione vv. 34-42: «Ebbene, sul finire della vita, l ’anima peccatrice si spogli della sua stoltezza, che celebri D io almeno con il canto, se non è in grado di farlo con i suoi meriti. Che trascorra i giorni in preghiere ininterrotte, che nessuna notte passi senza cantare il Signore, che combatta contro gli eretici, che esponga la fede cattolica, che cal­ pesti i culti delle genti, che porti alla rovina i tuoi idoli, o Roma; che consacri un poema ai martiri, che lodi gli apostoli».

Con questi versi Prudenzio fa riferimento anche ai diversi poemi238 incorniciati dalla Prefazione e da\VEpilogo e va notato come la lode di martiri sia considerata sullo stesso piano della preghiera, della lotta al­ l ’eresia, dell’esposizione dottrinale. Il Peristephanon239 raccoglie 14 com posizioni su 13 martìri; l’ottavo canto contiene soltanto l ’iscrizione per un battistero sorto su un luogo di martirio. I diversi comportamenti variano di lunghezza e metro poetico; accolgono, come ho già accennato, un’iscrizione, una lettera (Perist. 11) indirizzata al vescovo Valeriano di Calagurris, un dramma destinato alla lettura240. Al di là della varietà formale, la presentazione dei martìri segue quasi ovunque lo stesso schema tripartito con la parte centrale narrativa prece­ duta da un’introduzione e seguita da una conclusione dedicate al luogo della passione e alla descrizione del culto. Tutti terminano con preghiere rivolte ai martiri a favore della città o del poeta stesso. Gli Inni si caratte­ rizzano anche per una certa omogeneità nella stilizzazione dei protagoni­ sti. Martire e persecutore non sono rappresentati come individui, ma come personificazioni del bene e del male. Il martire è un eroe epico che com237 Fontaine. Naìssance, cit., p. 181, ritiene che il caso di Prudenzio sotto l'aspetto dello stile di vita sia assimilabile a quelli di Sulpicio Severo e Paolino di Nola; più prudente di W. Evenepoel, Prudence et la conversion des aristocrats romains, in «Augustinianum» 30(1990), pp. 31-44. 238 Allusioni nell’ordine a: Cathemerinon\ Hamartigenia; Apotheosis; Contro Simmachum-,

Peristephanon (Le corone). 239 Roberts, Poetry , cit.; J.F. Petruccione, Prudentius's Use o f thè martyrological Topoì, Ann Arbor 1985; P.-Y. Fux, Les sept Passions de Prudence (Peristephanon 2.5.9.11-14). Introduction générale et commentaire, Fribourg 2003. 240 “Tragoedia” è definita da Prudenzio: Peristephanon 10, 113; W. Ludwig, Die christliche Dichtung des Prudentius und die Transformation der ktassische Gattungen, in Christianisme etformes litte'raires de l ’antiquité tardive en Occident (Entretiens sur l ’Antiquité classique, 23), Genève 1977, pp. 303-363: sulla base di considerazioni di forma e di contenuto propone un ordinamento di­ verso sia degli Inni all'interno del Peristephanon. sia delle opere all'interno della raccolta prudenziana.

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batte contro un tiranno descritto da termini quali furor , vesania, trux, barbarus. Il martire non è una vittima: cerca il martirio e provoca il suo per­ secutore, talvolta con battute sarcastiche. Lorenzo, condannato ad essere bruciato a fuoco lento sulla graticola, quando il prefetto ordina di girarlo dall’altra parte, esclama: «È cotto; mangia e assaggia se è m eglio crudo o arrostito!»241. Eulalia di Merida sputa sul magistrato che, invitandola a pensare al dolore arrecato alla sua famiglia, vorrebbe risparmiarle il peg­ gio242. La resistenza fisica al dolore del martire è celebrata attraverso la descrizione dettagliata di torture e umiliazioni. La sua gloria è direttamen­ te proporzionale al numero e all’intensità delle torture subite243. Valga per tutti la descrizione quasi da manuale chirurgico d ell’asportazione della lingua di Romano, anche se questo non gli impedisce di pronunciare un ennesimo e prolisso discorso contro il paganesimo244. Sotto questo aspetto Prudenzio continua, portandolo al parassimo e diventando a sua volta un modello imitatissimo, quel modo di rappresen­ tare il martirio che era stato già di Eusebio di Cesarea (senza i miracoli) e che, com e si ricorderà, trova nei racconti sulla morte dei Maccabei una fonte di ispirazione. Non è un caso, ad esempio, che il plot dell’inno più lungo dedicato al martirio di Romano faccia spazio al suo interno ad una vicenda ispirata proprio ai Maccabei con la messa in scena del martirio di una madre e un bambino245. La plausibilità del racconto non è fra le maggiori preoccupazioni di Prudenzio che, tuttavia, dipende da tradizioni già largamente leggendarie e frutto di contaminazioni fra figure diverse: il caso che più colpisce è YInno 13 dedicato a Cipriano di Cartagine. La ricchezza della documen­ tazione latina relativa al suo martirio, la fama letteraria collegata a scritti largamente conosciuti, il fatto che fosse un vescovo, la cui festa si trova­ va già inserita nel Calendario liturgico romano, redatto da Furio Filocalo già dalla metà del iv secolo, sono tutti elementi che avrebbero potuto faci­ litare una maggiore conoscenza storica del personaggio. Prudenzio, inve­ ce, lo confonde con Cipriano di Antiochia, un mago dongiovanni poi pen­ titosi e convertitosi al cristianesimo. Non inventa ex novo, perché la stes­ sa confusione era già stata fatta da Gregorio di Nazianzo in un suo pane­

241 Peristephanon 2, 405-407. 242 Peristephanon 3, 127-130. 243 Sui precedenti (Damaso e Lucrezio) delle enumerazioni prudenziane di attrezzi di tortura e pene, cfr. Roberts, Poetry, cit., pp. 56-57. 244 Peristephanon 10, 886-911; W. Evenepoel, Le martyr dans le Liber Peristephanon de Prudence, in «Sacris Erudiri» 36(1996), pp. 5-35. 245 L.F. Pizzolato-C. Somenzi, I sette fratelli Maccabei nella Chiesa antica d ’Occidente, Milano 2005.

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girico del 379246, segno dunque dell’esistenza di una leggenda da cui entrambi dipendono, forse facilitata nel suo diffondersi dal fatto che dalla documentazione più antica sul vescovo africano non emergeva nulla riguardo al periodo precedente alla conversione. Espressione di un culto dei martiri in piena espansione, il Peristephanon, a differenza delle raccolte eusebiane, concede un posto di rilievo al culto postumo del martire: il pellegrinaggio alla sua tomba; i miracoli ottenuti; il luogo di culto. Alla descrizione delle varie fasi della festa degli apostoli Pietro e Paolo e dei loro luoghi di culto è dedicato tutto il poema dodicesimo. Prudenzio vi aveva assistito in occasione di un viaggio com ­ piuto a Roma247, viaggio intervallato da altre visite alle tombe dei marti­ ri, come quella di Cassiano a Imola. I versi dedicati al pellegrinaggio alla tomba di Ippolito248 con il catalogo dei vari popoli che convergono a Roma, tra cui anche i fedeli di Nola, ricorda quello descritto da Paolino di Nola alla tomba di Felice249, senza che tuttavia sia possibile stabilire i rap­ porti reciproci, a causa dell’impossibilità di datare la redazione dei singo­ li canti della raccolta prudenziana. Un tratto caratteristico è lo spazio dedicato alla descrizione di pictae imagines presenti accanto alla tomba del martire: l ’immagine di Cassiano che lo ritrae coperto di ferite, circondato dai suoi ex-allievi che lo trafig­ gono con gli stili utilizzati, fino a quel momento, per scrivere sulle loro tavolette250 e l ’immagine di Ippolito (su cui tornerò fra breve) che ne raf­ figurava il martirio nel momento in cui legato a due cavalli selvaggi veni­ va trascinato al galoppo attraverso sentieri impervi e così dilaniato. Il pit­ tore ne aveva raffigurato il sangue e le membra sparse in m ezzo alle fron­ de degli alberi e le rocce aguzze con il corteo dei suoi fratelli in lacrime che percorrevano la stessa strada cercando di riunire pietosamente le pre­ ziose reliquie251. Tutti gli Inni terminano con invocazioni che esprimono una grande fede nel potere intercessorio del martire, potere che si fonda sul fatto che Cristo non potrebbe rifiutare nulla a coloro che l ’hanno testimoniato a prezzo della propria vita252. Prudenzio sottolinea con insistenza il legame

246 Orazione 24. 247 Peristephanon 9, 1-5. 248 Peristephanon 11, 189 ss.; si tratta dell’Ippolito presbitero romano e non dell’eresiarca Ippo­ lito come sostiene Fux, cit., p. 345. 249 Cfr. supra, p. 198, η. 114. 250 Peristephanon 9, 5 ss.; A. Rousselle, Sources iconographiques perdues: les premières images des martyrs, «Cassiodorus» 2(1996), pp. 223-224. 251 Peristephanon 11, 150 ss.: sull’interazione fra testi e immagini fra iv e v sec.: L. Grigg, Making Martyrs in Late Antiquity, Norfolk 2004. 252 Peristephanon 1, 19-24 .

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speciale che lega il martire alla città che ne accoglie le spoglie o gli ha dato i natali soprattutto nella prima parte ove sono concentrati i martiri della sua terra di origine. Le reliquie dei martiri costituiscono la ricchez­ za e un titolo di gloria per la città che li ospita253. L’Inno dedicato ai di­ ciotto martiri di Saragozza si apre con una scena apocalittica: alla fine del mondo, quando D io verrà per giudicare le genti, da ogni parte del mondo le città si presenteranno davanti a Cristo con offerte costituite dalle reli­ quie dei loro martiri: fra tutte brillerà Saragozza con la sua martyrum tur­ ba254 inferiore solo a Roma. A differenza di Paolino che, com e si ricorde­ rà, invoca il patronato di Felice per stornare da Nola il pericolo dell inva­ sione gotica, Prudenzio sembra vedere nel patronato dei martiri e nella loro praesentia all’interno della città un modo per declinare, cristianiz­ zandolo, l ’orgoglio civico tradizionale. N ella sua prospettiva che rimane quella, come vedremo fra breve, di un governatore di città fiducioso nella tenuta istituzionale dell’Impero, le reliquie dei martiri non svolgono nel presente un ruolo attivo nella protezione della città da nemici esterni e/o da calamità. Tale ruolo è riservato al momento escatologico, quando inter­ verranno alla fine dei tempi per risparmiare alle “loro” città, nel catacli­ sma universale, le sofferenze più penose. Nella tipologia del patrono cit­ tadino messa a punto da Alba Maria Orselli che distingue il patrono defen­ sor dal patrono advocatus255, il martire prudenziano assume quest’ultima funzione e parla a favore della città e dei singoli nel tribunale escatologi­ co davanti a Cristo giudice. 4.1. Romano e cristiano L’analisi dell 'Inno undicesimo dedicato ad Ippolito condotta da Martha Malamud ha sottolineato come la descrizione delPimmagine del martirio di Ippolito segua dappresso quella d ell’eroe mitico omonimo che recava il proprio destino fatale iscritto nel suo stesso nome e com e sia significativa del modo, affiorante anche in altri Inni, tipicamente pruden­ ziano di elaborare la sintesi fra tradizione classica e cristiana: Γ Ippolito del Peristephanon sarebbe la più tardiva incarnazione di un mito pagano cui si riconosce ancora validità nel raffigurare all’opera, risemantizzandole, le forze della dissoluzione e della ricomposizione dei contrasti256.

253 Peristephanon 1, 4-6; 3, 1-10; 5, 156 ss. 254 Peristephanon 4, 58 ss. e 6, 157-159. 255 A.M. Orselli, Il santo patrono, cit., p. 43. 256 M.A. Malamud, A Poetics of Transformatìon. Prudentius and Classical Mythology, Oxford 1989, pp. 79-113.

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Il martire costituisce un ponte per intrecciare in modo caratteristico il rapporto fra cristianesimo e paganesimo anche sotto un altro aspetto, più squisitamente politico. È il caso del Lorenzo prudenziano che mostra come i martiri potessero sostenere la fede in Roma aeterna251. Il Peristephanon si riallaccia al Contro Simmaco sia per la presenza m assiccia della polemica contro il paganesimo, sia per l ’esaltazione della Roma cristiana. Il Contro Simmaco, a distanza di più di vent’anni dai fatti e in un Impero che la corte voleva ormai esclusivamente e intollerantemente cristiano, riprendeva la famosa controversia sull’altare della Vittoria. Q uell’altare che Valentiniano π aveva fatto togliere dal Senato e che Simmaco, uno dei senatori pagani più in vista, aveva cercato di fare riammettere, incontran­ do l’opposizione del vescovo di Milano Ambrogio. Nella Relatio indiriz­ zata all’Imperatore, Simmaco, tra gli altri argomenti, aveva sostenuto il legame inscindibile tra la potenza di Roma e il culto degli dèi tradiziona­ li. Ambrogio aveva risposto affermando che essa dipendeva soprattutto dal valore degli eserciti258. Prudenzio, dal canto suo, pur riprendendo gran parte degli argomenti del vescovo milanese, traeva le estreme conseguen­ ze dal modo in cui i cristiani guardavano all’Impero ormai da secoli, come indispensabile strumento del progetto provvidenziale divino finalizzato alla conversione del cristianesimo di un mondo unificato politicamente e culturalmente da Roma259. N ella rielaborazione prudenziana d ell’episo­ dio, la conversione di Roma, lungi dal metterne in pericolo le sorti, segna­ va piuttosto un nuovo inizio; pentita d ell’aver versato il sangue dei marti­ ri, rinnovata e giovane, essa poteva guardare fiduciosa ad un futuro in cui non vi sarebbe stato limite né di tempo né di spazio al suo imperium260. A tale concezioni il Peristephanon aggiunge ulteriori elementi. I mar­ tiri sono visti com e quell’avanguardia eroica che con il proprio sangue ha procurato a Roma l ’unica vittoria che le mancava: la vittoria contro gli dèi e questo nella certezza profetica della futura sconfitta definitiva del paga­ nesimo ottenuta anche grazie alla loro intercessione261. In apertura delVlnno dedicato al martire romano Lorenzo, leggiamo:

257 F. Paschoud, Roma aetema. Etudes sur le patriotisme romain dans l'Occident latin à l ’époque des grandes invasions, Rome 1967. 258 Ambrogio, Lettera 18. Sul clima culturale nelle cerehie aristocratiche pagane in quegli anni: A. Cameron, Paganism and Literature in Late Fouth Century Rome, in Christìanisme et formes littéraires, cit., pp. 1-40. 259 Contro Simmaco 2, 566-599: la “concordia” stabilita da Roma fra i popoli ha reso possibile la venuta di Cristo e l ’accettazione del suo annuncio. 260 Contro Simmaco 1, 541-543 che nel celebrare Roma aetema riprende Virgilio, Eneide 1, 278279. 261 Peristephanon 2, 453-460.

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«Roma, antica madre dei templi pagani, ormai devota a Cristo, vittoriosa sotto il comando di Lorenzo, riporti il trionfo sui riti barbari. Avevi vinto i re superbi, avevi imbrigliato i popoli, ora imponi il giogo del comando agli idoli mostruosi. Questa sola gloria mancava alle insegne della città togata: la gloria di domare l’immondo Giove, non con le forze tumultuose di un C osso, di un Camillo, o di Cesare, ma con la battaglia non incruenta del martire Lorenzo»262263.

Il martire diventa un eroe civico che nel conseguire la vittoria di Cristo concorre alla grandezza di Roma cristiana e che è raffigurato nella sua dimora ultraterrena come consul peren n isi della Roma celeste. Il sangue sacro dei martiri immolato nello spazio cittadino mette in fuga i demoni; nelYurbs piata Cristo può dimorare in tutte le piazze, è dovunque264. N el concorso di tutti alla tomba del martire, il popolo accan­ to ai senatori, i cittadini accanto agli stranieri265, le feste dei martiri diven­ tano il segno visibile della concordia e reinventano in senso cristiano le feste e le cerimonie che nella Roma pagana assolvevano allo stesso com ­ pito. In tale prospettiva l’esaltazione dei martiri è parte dell’esaltazione di Roma aeterna266 nella breve stagione precedente ai disastri che i popoli barbarici infliggeranno alla Gallia, alla Spagna e perfino a Roma nei primi anni del v secolo. 4.2. Intenzionalità e pubblico Espressione di estremo virtuosismo poetico, influenzato da una pro­ fonda familiarità con Orazio e Virgilio267, come della letteratura martirologica precedente - Atti apocrifi, Passioni - , il Peristephanon è conside­ rato dal suo autore come il frutto di una pratica santificante del tempo, una sorta di esercizio spirituale in grado di procurargli i meriti per poter aspi­ rare ad un posto nella dimora di Dio. Gli Inni non sono proposti come una fonte di modelli cui adeguare il proprio comportamento, sono visti piut­ tosto come offerte268 ai martiri per ottenerne l ’intercessione. U n ’interces­ sione relativa al momento presente come emerge dall’invocazione a Lorenzo: 262 Peristephanon 2, 1-16. K. Thraede, Rom und Martyrer in Prudentius, Peristephanon 2, 1-20, in Romanitas et Christianìtas, Amsterdam-London 1973, pp. 317-327. 263 Peristephanon 2, 559-560. 264 È riferito a Saragozza: Peristephanon 4, 65-72. 265 Peristephanon 2, 513-520; e l i , 199-202. 266 Paschoud, cit., pp. 222-233. 267 Fontaine, Naìssance, cit., p. 185; Roberts, Poetry, cit., pp. 92-93; A.V. Nazzaro, L'innografia cristiana latina, in Y. Lehmann (ed.), L ’hymne antique et son public, Tumhout 2007, pp. 568-571. 268 peristephanon 3, 202-205; 6, 160-162.

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«E fra costoro (cioè i romani, primi destinatari della sua protezione), tu che sei Γornamento di Cristo ascolta un poeta di campagna che confessa i suoi errori e che ammette le sue azioni. Riconosco e so che è indegno di essere esaudito da Cristo stesso, ma può ottenere la guarigione attraverso il patronato dei martiri. Ascolta benigno Prudenzio che, colpevole, ti supplica: è schiavo del suo corpo scioglilo dalle catene del secolo!»269. Oppure essere richiesta nel momento del giudizio: «Vorrei che in quel giorno il Re ottimo mi riconoscesse da lontano, fra i capri alla sua sinistra (Mt 25,33) e che alla preghiera di Romano dicesse: Romano lo domanda: fa passare questo capro alla mia destra, sia rivestito di una pelle di agnello»270. Le «ghirlande intrecciate di versi dattilici» offerte a Eulalia271 o «i dol­ ci endecasillabi» offerti a Fruttuoso272 per impetrarne l ’aiuto misericorde si prestavano ad offrire spunti di meditazione devota e di godimento este­ tico a cerehie ristrette di lettori simili, almeno da un punto di vista cultu­ rale, a quelle riunite a Primuliacum o a Nola; la stessa cerchia, forse coin­ cidente con la sua domus, per cui era stato scritto anche il Cathemerinon che qualcuno propone di considerare una sorta di «liturgia domestica»273. Non mancano, tuttavia, negli Inni prudenziani alcuni indizi che ci con­ sentono di allargare la nostra prospettiva: YInno undicesimo è dedicato al vescovo Valeriano di Calagurris che Prudenzio presenta vivamente inte­ ressato ad avere notizia sui martiri i cui corpi riposano nella capitale. L’entusiasmo con cui celebra Saragozza «nostra»274 con i suoi diciotto martiri ha indubbiamente a che fare con il fatto che Valeriano appartene­ va ad una famiglia illustre di quella città275. Lo spazio concesso ai marti­ ri romani nel Peristephanon può essere m esso in relazione all’adempi­ mento della richiesta di Valeriano. Il poeta inoltre non considera la curio­ sità di Valeriano fine a se stessa: dopo la descrizione del martirio di Ippo­ lito, del luogo di culto, della grande affluenza alla sua festa, esprime voti che tale martire venga inserito nel calendario liturgico locale «fra la festa di Cipriano o di Chelidonio e quella di Eulalia»276. Si ricorderà che a Che269 Peristephanon 2, 573-584; cfr. anche 5, 557-560. 270 Peristephanon 10, 1136-1140. 271 Peristephanon 3, 202-205. 272 Peristephanon 6, 160-162. 273 F. Heim, Prudence et sa domus de la haute Vallèe de l ’Èbre, vers 400, in Lehmann, L ’hymne cit., pp. 597-608. 274 Peristephanon 4, 141. 275 Peristephanon 4, 79-80. 276 Peristephanon 9, 231 -238.

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lidonio e Emerito era dedicato il primo inno. In esso leggiamo un partico­ lare interessante: il funzionario avrebbe distrutto chartulas per impedire che i posteri serbassero memoria attraverso i libelli del tempo e dei parti­ colari della passione277. La festa dei martiri faceva dunque già parte del calendario liturgico di quella Chiesa, ma essa non ne possedeva la passio­ ne; l ’Inno di Prudenzio, su suggerimento del vescovo e su un’esile trama di tradizioni orali, forse veniva a colmare tale lacuna. Il primo inno è di lunghezza contenuta (120 versi) e poteva ben prestarsi ad essere utilizza­ to nel contesto liturgico della celebrazione della festa dei due martiri278. L’iscrizione per un battistero279 legato alla memoria di due martiri è un altro indizio che collega la poesia di Prudenzio ad un progetto ecclesiasti­ co di valorizzare l ’importanza del culto dei martiri nella vita religiosa di quella Chiesa sfruttando il talento letterario280. N el presentare il culto dei martiri in tutti i suoi aspetti devozionali, li­ turgici e artistici, nel sottolinearne l ’enorme successo, nel mostrare come i martiri e le loro reliquie recitassero una parte di primo piano nell’Impero che si voleva romano e cristiano, il Peristephanon assolveva il compito di rappresentare culturalmente un aspetto della fede cristiana le cui radici risalivano molto indietro nel tempo, ma che, nella sua espansione accele­ rata soprattutto a partire dall’ultima parte del iv secolo, poteva considerar­ si per certi aspetti recente e bisognosa di essere descritta e raccontata con modalità adeguate alla spiritualità e ai linguaggi delle élites, spesso di recente cristianizzazione.

277 Peristephanon 1 79-81; nel caso di Romano si riferisce che il prefetto fece rapporto all Im­ peratore trasmettendogli i volumina contenenti le varie fasi del martirio, e quest’ultimo li avrebbe m essi negli archivi; ma da un’espressione ambigua di Prudenzio, sembra di dedurre che questa docu­ mentazione fosse scomparsa (Peristephanon 10, 1111-1115). r ■ , 278 Con questo non intendo affermare la destinazione originalmente liturgica di tutti gli Inni pru­ denziani che soltanto nei secoli successivi furono utilizzati a tale scopo: cfr. Fontaine, Naissance, cit., PP 279 Che esso sorgesse a Calahora non si deduce dall’iscrizione, ma soltanto dal titolo tramandato, ma non unanimemente, dalla tradizione manoscritta. 280 Fontaine, Naissance, cit., pp. 180-181.

CAPITOLO SESTO

1. Storie di monaci egiziani: Pacomio, il «monaco perfetto» Nella realtà storica Antonio e Pacomio furono fra i principali protago­ nisti della fioritura dei diversi monacheSimi in Egitto nei primi decenni del iv secolo; tuttavia, le Vite che ne narrarono gli eventi e gli insegnamen­ ti ebbero un peso molto diverso nello sviluppo del discorso agiografico successivo. Come si è visto nel capitolo precedente, il personaggio di Antonio toccò corde sensibili negli ambienti più inaspettati. Prima fra gli Occidentali che fra gli Orientali destò immediato interesse fra letterati e aristocratici di grande levatura che videro in questo eroe solitario, le cui gesta straordinarie erano ambientate in un deserto ideale, la possibilità di realizzare le proprie aspirazioni spirituali e di coniugare 1 ideale evange­ lico con Pistinto profondo di distinzione, di eccellenza connesso alla loro condizione sociale. Nulla di più distante dall’ideale comunitario ed egua­ litario di Pacomio o dalla costrittività e complessità di ruoli e di regole della koinonia più tarda rispecchiantesi nella Regola di S. Pacomio tradot­ ta da Gerolamo. In Occidente la Vita di Pacomio fu riscoperta molto più tardi, nella Roma del vi secolo attraverso la traduzione di Dionigi il Pic­ colo. Quanto al discorso agiografico greco, Pacomio e le istituzioni mona­ stiche furono conosciute prevalentemente attraverso la versione, che rite­ niamo oggi priva di affidabilità, della Storia lausiaca. Secondo gli studi di Draguet, Palladio avrebbe utilizzato la traduzione greca di una fonte copta che non conservava un rapporto diretto con la koinonia pacomiana1. Malgrado questo, i capitoli della Storia lausiaca restano i passi più famo­ si d ell’agiografia pacomiana: basti pensare all’episodio dell’angelo che consegna a Pacomio una tavola di bronzo recante incisa la Regola che poi Palladio cita largamente. Riportando questa fonte, Palladio, che scrive nel 420, dà prova di non aver avuto nessuna conoscenza diretta delle istituzio­ ni pacomiane, né di altri documenti provenienti da esse: eppure aveva ri­ sieduto in Egitto per molto tempo, non solo nel Nord, ma anche ad

1 Storia lausiaca 32-34; R. Draguet, Le chapitre de HL sur les Tabennésiotes dérive-t-il d ’une source copte?, in Muséon 57(1944), pp. 53-145; 58(1945), pp. 15-95.

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Antinoe nella Tebaide: questo, in fondo, è un segno della scarsa circola­ zione delle Vite di Pacomio fuori dall’ambiente ristretto della koinonia. Antonio era da poco uscito «dai penetrali» del forte quando un giova­ ne di venti anni, Pacomio, «nato nella Tebaide da genitori pagani»2, venne catturato per servire nelle legioni romane che avrebbero dovuto combat­ tere nella guerra fra Licinio e Massimino Daia (312-313). Durante il viag­ gio e nella dura condizione di prigioniero ebbe modo di venire in contat­ to con i cristiani di Tebe che lo colpirono per la pietà che mostravano ver­ so tutti, inclusi gli stranieri3. Rilasciato dall’esercito, si recò nel villaggio di Chenoboskion dove fu istruito nella religione cristiana e ricevette il bat­ tesimo; qui trascorse tre anni e maturò il proposito di diventare monaco. Per questo si mise al seguito di Paiamone e, fino alla fondazione della prima koinonia a Tabennesi (nel 323 o 324), condusse una vita anacoreti­ ca accanto al suo padre spirituale e, dopo la morte di questi, con il propro fratello Giovanni. Alla prima fondazione si aggiunsero altri monasteri, anche femminili, che ospitavano centinaia di asceti, fondati sulla vita comunitaria e sul lavoro. A Tabennesi giunse intorno al 329, un giovane ventenne: Teodoro (n. 309 - m. 368). Questi proveniva da una famiglia già cristiana e di ele­ vata condizione sociale e aveva già vissuto in monastero. Apprezzandone la profonda cultura religiosa e le qualità spirituali, Pacomio gli affidò compiti di grande responsabilità fino a farlo apparire agli occhi dei mem­ bri più anziani e autorevoli della koinonia il proprio erede naturale. A lui infatti essi si rivolsero nel momento in cui Pacomio sembrava sul punto di morire e Teodoro accettò la loro designazione a successore di Pacomio. Ma il santo sopravvisse e giudicò colpevole il comportamento di Teodoro che fu privato delle sue cariche e allontanato. N el 346, sul letto di morte, designò a succedergli Petronio che gli sopravvisse soltanto due mesi e che, a sua volta, designò Orsiesi. L’autorità di questi, però, venne dura­ mente contestata e fu costretto a lasciare la guida dei monasteri nelle mani di Teodoro che li resse per diciotto anni4. Questi, a grandi linee, i principali avvenimenti al centro delle Vite di Pacomio che sono arrivate fino a noi in differenti dialetti copti5, in arabo6, 2 Vita prima g. 2; Bo 3. 3 Vita prima g. 4; Bo 7. 4 Sui principali problemi della cronologia: G. Gould, Pachomian Sources Revisited, in Studia Patristica xxx, Leuven 1997, pp. 202-217. 5 Sahidico, che era anche il dialetto parlato da Pacomio, e bohairico: L.-T. Lefort, Les Ves coptes de s. Pachóme et de ses premìers successeurs, Louvain 1943. 6 E. Amélineau, Vie de Pakhóme in Monumentspour servir à l'histoire de l ’Égypte chrétienne au iv* sìècle: histoire de Saint Pakhóme et des ses communaute's, in «Annales du Musée Guimet» 17(1889), pp. 335-711.

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in greco7. Secondo lo stemma ricostruito, in particolare da Veilleux8, alforigine della Vita prima greca, di quelle in Bohairico e in Arabo vi sarebbe stata una Vita copta, per noi perduta, a sua volta frutto di una com ­ pilazione di due testi distinti, l ’uno dedicato a Pacomio e l ’altro a Teo­ doro. Malgrado i numerosi punti ancora discussi, non sembra che fra i testi ritenuti più affidabili - la Vita prima greca e quella bohairica - sia possibile stabilire un rapporto di filiazione. Di conseguenza appare sensa­ to il principio metodologico proposto da Philip Rousseau, dare fiducia agli episodi riferiti dalla Vita bohairica (= Bo) e da quella greca, specialmente se presenti anche in quella araba; essere moderatamente prudenti se presenti solo nella Vita bohairica «and distincly nervous if it is found only in thè Vita prima»9. Una chiave interpretativa importante per comprendere le biografie su Pacomio e, fra queste, la Vita prima greca su cui ci soffermeremo in par­ ticolare, è che tutte risalgono - secondo la periodizzazione proposta da G oehring- all’intervallo di tempo che va dal 346 al 400 e consegnano al lettore un ritratto della koinonia pacomiana e dei suoi principali protago­ nisti che riflette più l ’avvenuta normalizzazione della forma di vita e degli insegnamenti sotto l’autorevole guida di Teodoro che la situazione al tempo di Pacomio; situazione su cui, per altro, disponiamo di pochissimi documenti - Lettere e Istruzioni - di edificazione spirituale. La raccolta di precetti e regolamenti che Gerolamo tradusse in latino con il titolo Regola di Pacomio è un insieme eterogeneo redatto in occasioni diverse e messo insieme probabilmente da Orsiesi. Nemmeno questa può essere dunque considerata diretta espressione della spiritualità pacomiana né della vita della koinonia della prima generazione10. Nella Vita prima g., dopo un breve prologo (capp. 1-2) su cui tornerò fra breve, soltanto quattro capitoli accompagnano Pacomio fino alla deci­ sione di farsi monaco; è riferito un episodio della sua infanzia che, lodan­ do il modo in cui Pacomio bambino di famiglia pagana rifiuta di parteci­ pare agli atti di culto, lascia indovinare un certo imbarazzo della fonte riguardo all’educazione pagana di Pacomio. Oggetto della sezione 6-24 è l ’apprendistato monastico di Pacomio e gli eventi che lo portano a matu­ rare la decisione di «accettare coloro che venivano da lui»11, attribuendo

7 F. Halkin, Sancii Pachomii vitae grecae, Bruxelles 1932. 8 A. Veilleux, Pachomian koinonia, Kalamazoo 1980, voi. 1, p. 17. 9 Ph. Rousseau, Pachomius. The Making ofa Community in Fourth-Century Egypt, Berkeley-Los Angeles-London 1985, p. 44. . 10 Cfr. la raccolta: Pacomio e i suoi discepoli, Regole e scritti, introduzione, traduzione e note a cura di L. Cremaschi della Comunità di Bose, Magnano 1988. 11 Vita prima g. 24; Bo 24.

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loro un abito e «introducendoli gradatamente alla vita monastica» e «istruendoli secondo le scritture». Dal cap. 25 al cap. 116 dedicato alla mor­ te di Pacomio, il racconto giustappone due filoni narrativi che raccontano entrambi di una crescita: il successo della koinonia pacomiania che si con­ cretizza nella fondazione di altri monasteri e nella creazione di un gruppo dirigente e il progresso spirituale ed istituzionale di Teodoro, che fa la sua comparsa già dal cap. 25 e che uscirà di scena solo nel cap. 148 che ne descrive la morte. Di lui viene sottolineato il particolare legame con Pa­ com io che si manifesta fin d alfin izio del loro rapporto: Teodoro gli asso­ migliava a tal punto da diventare «come un figlio vero». Ancor giovane, gli viene ordinato da Pacomio di insegnare agli anziani12; a trent’anni viene nominato economo a Tabennesi13. L’ultima parte (117-150) raccon­ ta la crisi e la sua normalizzazione sotto la guida di Teodoro e si conclu­ de con la citazione della Lettera che Atanasio aveva spedito ad Orsiesi per consolare i fratelli della morte di Teodoro (368) e per approvare l ’investi­ tura di Orsiesi a unica guida della koinonia pacomiana. 1.1. «In memoria dei padri che ci hanno fatti crescere»: discorso agiogra­ fico e istituzione Il redattore giustappone le sue fonti senza preoccuparsi di armonizzar­ le: episodi e insegnamenti in forma dialogica ora riferiti a Pacomio, ora a Teodoro si alternano senza una logica apparente; vari aspetti disciplinari e spirituali della koinonia illustrati da episodi di vita monastica rompono in continuazione la trama cronologica del racconto. Malgrado questo, nel­ l ’ordito del racconto, si fanno notare alcuni fili che rivelano il progetto ideologico perseguito. Uno di questi è senza dubbio la preoccupazione di posizionare Paco­ mio e la sua koinonia all’interno del quadro com plessivo del patriarcato alessandrino e dei differenti monacheSimi che alla fine del iv secolo ave­ vano già attenuto riconoscimenti e grande prestigio. Così, fin dal prologo, viene avanzata un’interpretazione complessiva dell’affermarsi del mona­ cheSimo particolarmente favorevole alla vicenda personale di Pacomio che divenne cristiano e poi monaco molto più tardi di Antonio, dopo la grande persecuzione di Diocleziano. Pur senza togliere alcun primato ad Antonio e ad Am m one14, secondo la Vita prima, i monaci sono da consi12 Vita prima g. 77; Bo 78. 13 Vita prima g. 78; Bo 78. 14 Ammone di Nitria (295 -337) considerato, nelle fonti antiche, insieme ad Antonio e Pacomio, il terzo grande fondatore del monacheSimo egiziano: Palladio, Storia lausìaca 7, 6; 8. Atanasio, Vita di Antonio 60.

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derarsi successori dei martiri non soltanto perché condividono con questi ultimi l ’imitazione di Cristo crocifisso, ma perché sarebbe stato proprio lo spettacolo delle vittorie dei martiri (durante la persecuzione dioclezianea) ad aumentare le conversioni al cristianesimo e, con queste, la diffusione dei monasteri e dei luoghi per gli asceti15. La Vita prima g. ritorna sullo stesso tema in seguito alla morte di Pacomio, quando alcuni fratelli in viaggio per Alessandria fanno una sosta per far visita ad Antonio che nel 346 è ancora vivo: dopo aver appreso la notizia della morte di Pacomio, l ’anacoreta esprime la certezza che «aven­ do accettato il servizio di guidare un grande numero di fratelli, egli ora percorre la strada degli apostoli». Zaccheo, uno dei fratelli pacomiani, fa però osservare che è piuttosto Antonio ad essere considerato «la luce del mondo», «onorato dai re che rendono gloria a Dio a causa sua». La rispo­ sta di Antonio sviluppa le affermazioni del prologo: la sua scelta anacore­ tica ha solo motivazioni storiche. Egli lascia intendere che quando diven­ ne monaco vi erano pochi monaci che si prendevano cura della propria anima e nessun cenobio che pensasse alla salvezza delle altre anime16. Più avanti, Teodoro riferisce una sentenza di Pacomio: «Nella nostra generazione in Egitto vedo tre autorità che Dio ha incrementato per l’utilità degli esseri razionali: il vescovo Atanasio, l ’atleta di Cristo che ha lottato per la fede fino alla morte, il santo abate Antonio, modello perfetto della vita anacoretica e questa comunità - koinonia - che è un modello per tutti colo­ ro che vogliono riunire le anime secondo Dio e assisterle fino a condurle alla perfezione»17. È possibile che queste parole contengano l ’eco autentica dell’atteggia­ mento di Pacomio: rispetto verso Γ Atanasio testimone della fede e cam­ pione dell’ortodossia nicena e, nello stesso tempo, un forte senso di indipendenza: Pacomio rifiutò la consacrazione a sacerdote durante una visi­ ta di Atanasio nei monasteri pacomiani18 e non si recò mai ad Alessandria. Tale indipendenza venne però meno dopo la sua morte e le Vite riflet­ tono questo cambiamento; ne è prova evidente il modo con cui si chiude la Vita, con la citazione integrale della lettera con cui il potente vescovo alessandrino dà la sua approvazione alla nomina di Orsiesi e gli chiede di tenerlo informato su tutto quanto avviene nei monasteri a lui sottoposti19. 15 Vita prima g. 1; Bo 1. 16 Vita prima g. 120; l’episodio è molto più sviluppato in Bo 126-129 ove Antonio proclama la superiorità di Pacomio su se stesso. 17 Vita prima g. 136; Bo 134. 18 Vita prima g. 27: per l ’eucarestia invitava un prete: non c ’erano sacerdoti fra i monaci. 19 Vita prima g. 150. Sull’atteggiamento di Pacomio verso la gerarchia episcopale, E. Wipszyc-

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Complementare alla preoccupazione di chiarire il posto della koinonia pacomiana a ll’interno della mappa del monacheSimo egiziano, è l ’in­ tento di richiamarne e definirne l ’identità radicandola nel momento ori­ ginario e nella spiritualità del fondatore. Prima ancora di istruirsi nella fede e ricevere il battesimo Pacomio promette solennemente «al Signore di adorarlo, amare tutti gli uomini e di servirli secondo il suo comanda­ mento»20. Nel cenobio appena istituito, a chi notava con meraviglia che Pacomio si incaricava di tutti i lavori più pesanti ed umili, egli ripondeva: «Fratelli, lottate per ottenere ciò per cui siete stati chiamati: studiate i Salmi e gli insegnamenti degli altri libri e soprattutto il Vangelo. Io trovo la mia pace nel servire Dio e voi»21. Servire gli altri non è dunque considerato l ’inizio del cammino di perfezione, ma il segno specifico del monaco perfetto. Sottolineando lo stupore dei primi discepoli della koinonia di fronte al comportamento di Pacomio, il testo vuole segnalarne la distanza dalla prassi usuale secondo cui accanto agli asceti solitari vi era sempre la figura del giovane monaco che, oltre che apprendere gli insegnamenti spirituali, serviva il suo maestro in ogni necessità. Il soste­ gno reciproco materiale e spirituale per realizzare il comando evangelico della carità fraterna è tema al centro di molti racconti e insegnamenti sia quando vengono richiamati i comportamenti di Pacomio verso gli anzia­ ni, i malati, i bambini, i fratelli caduti in peccato, sia quando si fa riferi­ mento all’insieme di precetti e provvedimenti che regolavano l ’ascesi. Pacomio imponeva gradualmente il distacco dai legami e dai beni e un’ascesi moderata nel vestire, nel mangiare, nella rinuncia al sonno22. La com petizione era scoraggiata e l ’esem pio degli altri aiutava a raggiunge­ re i diversi traguardi ascetici. Un altro punto più volte sottolineato è l ’importanza della meditazione sulla croce. Il monaco è colui che tiene costantemente davanti ai suoi o c­ chi il Cristo crocifisso: Paiamone si rifiuta di mangiare un cibo condito con l ’olio, proprio pensando alle sofferenze della croce23; più avanti, pen­ sando alle sofferenze dei martiri, rifiuta di curarsi24; Pacomio sopporta di tenersi le spine conficcate nei piedi pensando a Cristo crocifisso25: «Sulla ka, Les recherches sur le monachisme égyptien, 1997-2000, in M. Immerzeel-J. Van der Vliet, Coptìc Studies ori thè Threshold o fa New Millennium, voi. n, Leuven-Paris-Dudley, Ma 2004, pp. 842-848; su Atanasio e Pacomio: L.W. Bamard, Athanasius and thè Pachomians, in Studia Patristica xxx, cit., pp. 3-11. 20 Vita prima 21 Vita prima 22 Vita prima 23 Vita prima 24 Vita prima 25 Vita prima

g. g. g. g. g. g.

5. 24. 55. 7. 13 11.

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9^0

resurrezione - egli dice - ricordate che il corpo crocifisso del Signore è come noi e dal momento che è risuscitato anche noi risorgeremo»26. Pacomio era un carismatico come Antonio? Le Vite presentano fin dal­ l ’inizio un Pacomio guidato da visioni che nei momenti cruciali gli indi­ cano la direzione da seguire o i pericoli imminenti27. Lo presentano come guaritore di indemoniati28 e dotato del dono del dioratikon che consisteva nella capacità di giudicare i caratteri, di discernere la qualità degli spiriti e dei pensieri se suggeriti da potenze positive o negative. Riguardo al pos­ sesso di questo dono si era dovuto difendere davanti ai vescovi nel sino­ do di Latopoli29, un episodio piuttosto misterioso in cui Pacomio rischiò di morire accoltellato, se i fratelli non lo avessero protetto. A interessare qui è l ’apologià pronunciata da Pacomio che collega strettamente il dio­ ratikon all’inabitazione del Signore in chi è santo e diventa tempio di Dio secondo le parole di 2Cor 6,16: «Il Signore può abitare in voi, in tutti e anche in Pacomio, se Pacomio fa la sua volontà»30. Nella difesa di Pa­ com io l ’accento cade sulla santità come premessa indispensabile del dono da parte di Dio, più che sul riferimento a fatti e circostanze precise. E nella stessa direzione vanno anche gli altri - pochi - racconti di guarigio­ ni, subito accompagnati da insegnamenti sulla maggiore importanza della guarigione spirituale: questa è segno e miracolo più grande31. A llo stesso modo la visione più grande è quella che vede il Dio invisibile nell uomo visibile, diventato suo tempio32. La Vita prima g. - e solo questa - contiene anche spunti molto interes­ santi sulle motivazioni della scrittura agiografica: esse non si trovano dove di solito ce le aspettiamo, cioè nel prologo, ma disseminate nello scritto. In una sezione riguardante le lotte contro i demoni sostenute durante il periodo trascorso accanto a Paiamone, l ’anonimo si sente in dovere, una prima volta, di chiarire le sue fonti: egli le ha apprese dagli antichi padri che avevano trascorso accanto a Pacomio un tempo sufficiente e che le avevano ascoltate dalla sua viva voce e aggiunge «Noi non saremo in grado di scrivere la maggior parte delle cose che abbiamo ascoltato, ma solo una parte»33. Più avanti, dopo aver raccontato le guarigioni di Paco-

26 Vita prima g. 56. 27 Vita prima g. 5; 12; 102; anche Orsiesi ha una visione che lo spinge a lasciare il comando a Teodoro: ibi, 129; idem Teodoro secondo la Vita bohairica 144. F. Vecoli, Lo Spirito soffia nel deser­ to. Carismi, discernimento e autorità nel monacheSimo egiziano antico, Brescia 2006, pp. 109-141. 28 Vita prima g. 41-44. 29 Vita prima g. 112. 30 Ibidem. 31 Vita prima g. 47. 32 Vita prima g. 48. 33 Vita prima g. 10.

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mio e riferito la preghiera - «Sia fatta la tua volontà, non la mia» (Mt 26, 42) - che egli rivolgeva al Signore per la salute di qualcuno l ’anonimo redattore rimette in campo il problema delle sue fonti attraverso la doman­ da di un interlocutore fittizio: «Per prima cosa egli deve ricordare che noi abbiamo ascoltato dagli antichi padri queste cose che abbiamo esaminato scrupolosamente»; e «costoro l ’avevano appreso dallo stesso santo quan­ do egli insegnava loro come dovevano pregare»34. Il problema delle fonti viene ancora ripreso in modo più circostanziato più avanti: «Abbiamo scritto queste cose, com e abbiamo già detto, ma non lo abbiamo cono­ sciuto nella carne, abbiamo però visto quelli del suo tempo che erano stati con lui e che, sapendo queste cose con accuratezza, ce le hanno spiegate dettagliatamen­ te. E se qualcuno dicesse: “Perché costoro non hanno scritto la sua vita?” noi rispondiamo che non li abbiamo ascoltati parlare spesso sullo scrivere, sebbene stessero con lui, com e con il loro padre. Ma forse non era ancora il momento opportuno. Quando vedemmo che era necessario per non dimenticare compietamente ciò che avevamo ascoltato sul m onaco perfetto, nostro padre con tutti i santi, abbiamo m esso per scritto poche cose fra le m olte»35.

L’atto della scrittura è circondato da un’ansia particolare: con esso si prende atto che il modo degli «antichi padri» di tramandare insegnamen­ ti e eventi mette in pericolo la memoria, intesa soprattutto com e tradizio­ ne controllata degli stessi. Sia dal punto di vista d ell’oggetto, sia del sog­ getto che scrive, la scrittura urta la spiritualità monastica che rifugge dal peccato di orgoglio e sente come pericoloso e negativo ogni atto terreno: «Abbiamo fatto questo - si specifica —non per lodarlo, perché egli non ha bisogno di lodi terrene: egli è ora con i suoi padri, ove vi è la vera lode»36. La decisione di scrivere il bios di un santo può indurre a vedere diffe­ renze di merito là dove esse non possono esserci: «Anche se gli uomini non hanno scritto le vite di tutti i perfetti, il Signore ha scritto su di loro». E ancora: «Non abbiamo scritto per amore della scrittura», ma per la m e­ moria - si dice ancora - e seguendo l ’esem pio di altri santi. Viene ricor­ dato allora come alcuni avessero registrato per scritto gli insegnamenti di Pacom io sulla Scrittura; com e Atanasio avesse scritto la Vita di Antonio su richiesta dei fratelli, come lo stesso Pacomio quando era ancora vivo avesse dettato non solo discorsi e norme per la costruzione dei monaste­ ri, ma anche lettere di carattere mistico: «Non per metterci sullo stesso piano» - si scusa ancora l ’anonimo redattore - ma perché, «com e figli, 34 Vita prima g. 46. 35 Vita prima g. 9. 36 Vita prima g. 98.

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desideriamo ardentemente conservare la memoria dei padri che ci hanno fatto crescere»37. N ella Vita bohairica è Teodoro che difende — con argomenti molto simili, ma più fondati biblicamente - di fronte ai capi dei monasteri riuni­ ti l ’idea di mettere per scritto la vita di Pacomio, in un momento in cui la koinonia sembra stare per dimenticare le regole e gli insegnamenti del padre spirituale e fondatore38. Le Vite sono offerte, dunque, alla lettura e alla meditazione di quella cerchia monastica e di questa registra i timori e le forti resistenze di fron­ te all’idea di passare dalla tradizione orale al bios. Una cerchia monastica che, dopo aver attraversato momenti di grave crisi istituzionale e spiritua­ le, deve ritrovare, attraverso la memoria controllata del proprio passato e il contatto con insegnamenti selezionati dei padri fondatori, un nuovo slancio e una maggiore omogeneità. Si tratta di una storia, certo idealiz­ zata, ma che non nasconde le difficoltà degli inizi, le crisi, perfino i gravi insuccessi dei padri: si pensi alla degradazione di Teodoro o ai fallimenti di Orsiesi o alle rivolte e alle insubordinazioni dei monaci. Una storia, si può aggiungere, tutta interna alla koinonia pacomiana e all’ambito dei suoi problemi, senza ambizioni di recitare un ruolo sullo scenario più ampio della Chiesa universale; ben diverso apparirà l ’intreccio fra mona­ cheSimo e storia della Chiesa nella ricostruzione di Cirillo di Scitopoli del monacheSimo palestinese attraverso le Vite dei suoi fondatori. 2. Raccolte di vite monastiche: Storia dei monaci in Egitto Le moderne interpretazioni sullo sviluppo del monacheSimo hanno m esso bene in luce come esso sia stato un fenomeno sin dall’inizio multicentrico: le varie forme di monacheSimo in Egitto, in Palestina, in Cappadocia, in Siria non possono essere considerate in un’ottica genealogica, come la generazione dal ceppo egiziano delle altre forme di monacheSi­ mo che sarebbero state successive e ispirate dal modello egiziano, oltre tutto, al suo interno fortemente differenziato. Per il monacheSimo siriaco basterà menzionare Giacomo di Nisibi che scelse l ’eremo verso il 280 più o meno negli stessi anni di Antonio (stando alla cronologia atanasiana)39*.

37 Vita prima g. 99. 38 Vita bohairica 194.196. Cfr. il commento di Ph. Rousseau, cit., pp. 46-48. 39 A. Vòòbus, History of Ascetism in thè Syrian Orient. A Contribution to thè History of Culture in thè Near East. i, Louvain 1958, p. 141. Una sintesi ancora utile: D J . Chitty, The Desert a City. An lntroduction to thè Study ofEsyptian and Palestinian Monasticism under Christian Empire, LondonOxford 1966.

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L’immagine dell’Egitto com e culla del monacheSimo è frutto di una costruzione culturale molto precoce di cui monaci e viaggiatori letterati del iv secolo si fecero infaticabili propagandisti. Fra essi, indubbiamente, come abbiamo visto, primeggia Gerolamo che si ritagliò, nel panorama molto competitivo della seconda metà del iv secolo, il ruolo di storico del movimento monastico, stabilendo primati, genealogie, classificazioni. Ma non fu il solo. Molti personaggi illustri, sull’onda delle informazioni sem­ pre più strabilianti che filtravano in Occidente, come nelle altre regioni orientali, si dirigevano verso l ’Egitto per visitare i monaci: Basilio si recò in Siria e in Egitto intorno al 360. Lo stesso fece Giovanni Cassiano che dopo una prima esperienza monastica a Betlemme restò in Egitto per più di dieci anni fino al 399. Melania senior, dopo aver abbandonato Roma (373), fece una sosta di sei mesi sul monte di Nitria «aggirandosi per il deserto e interrogando i santi»40. In seguito si diresse a Gerusalemme, ove sul Monte degli Olivi fondò un monastero e lì rimase per molti anni anche Rufino di Aquileia. Costui, amico fraterno di Gerolamo fino allo scoppio della crisi origenista e poi da lui trattato come acerrimo nemico, si recò in Egitto qualche anno dopo: «Vengo a sapere - gli scrive Gerolamo nel 375 quando anco­ ra i loro rapporti erano ottimi - che ti sei inoltrato nelle solitudini dell’Egitto, che vai visitando i conventi dei monaci e circoli fra codesta famiglia celeste che abita sulla terra»41. In effetti Rufino si fermò in Egitto dal 373 al 380, prima a Nitria, presso il grande Macario, e poi presso Di­ dimo il Cieco ad Alessandria. Egeria, come si ricorderà, visitò alcuni monaci del Sinai e, poco dopo (385-386), Paola in compagnia di Gerola­ mo visitò i monasteri del deserto di Nitria, prima di andare a Betlemme dove fondò i due monasteri di cui abbiamo già parlato. Palladio (n. 363364, m. 420-430), nativo della Galazia, rimase in Egitto negli anni 388399, la maggior parte dei quali trascorsi nel deserto di Nitria e delle Celle, ove divenne discepolo di Evagrio Pontico. Postumiano, protagonista del Gallo, aveva visitato i monaci più di una volta. Il monastero di Melania sul Monte degli Olivi appare in qualche misu­ ra come un luogo di raccolta, conservazione e costruzione di memorie legate ai monaci di Egitto: è da qui che Evagrio Pontico - dopo essere stato ospitato e guarito da Melania senior e dietro suo consiglio - si dires­ se verso Nitria e le Celle dove sarebbe diventato una guida spirituale del monacheSimo origenista e ove rimarrà fino alla morte. Dallo stesso luogo si afferma che partirono i sette monaci che fra il 394 e il 395 trascorsero 40 Palladio, Storia lausiaca 46, 2. 41 Lettera 3, 1.

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circa sei mesi in Egitto e che su richiesta dei fratelli raccontarono il modo di vivere di quei monaci che avevano avuto modo di incontrare o di cono­ scere attraverso le parole di altri. Tale racconto —la Storia dei monaci — venne poi tradotto in latino da Rufino intorno al 404, in un periodo in cui era tornato in Italia al seguito di Melania. Lo stesso Palladio - autore a sua volta di una raccolta di storie sui monaci: la Storia lausiaca - era molto legato al Monte degli Olivi e a Melania stessa: egli ci racconta di aver tra­ scorso tre anni presso Innocenzo42, presbitero “del monte Olivi” prima di recarsi in Egitto, trovando appoggi nella rete di amicizie monastiche che erano già di Melania, per altro protagonista di molti racconti di Palladio43. Se il legame fra il monastero del Monte degli Olivi e i monaci d ’Egitto risaliva dunque alla visita di Melania senior è possibile che la spinta a redigere le memorie di quelli come di altri incontri fosse anche espressio­ ne del desiderio di sostenere i monaci origenisti, in grandissima difficol­ tà, dopo la decisione del vescovo di Alessandria Teofilo, di cacciarli dall’Egitto. Del resto, in quei drammatici momenti molti monaci furono aiutati e nutriti da Melania44. È quanto sostiene Gerolamo, acerrimo nemi­ co di Origene (a partire dal 397) e delforigenism o, che si scagliò sulla Storia dei monaci, da lui ritenuta opera di Rufino, accusandolo di m esco­ lare personaggi dall’ortodossia ineccepibile, come Giovanni di Licopoli, con altri eretici per farli accettare di soppiatto: «Pure questi (se. Rufino) ha scritto un libro che si potrebbe intitolare “Sui mona­ ci”; vi fa una lunga lista di coloro che non lo sono mai stati o di altri che sono stati origenisti e che certissimamente sono stati condannati dai vescovi, com e Amm onio, Eusebio, Eutimio e lo stesso Evagrio, senza contare Or e Isidoro e altri non pochi che sarebbe stucchevole elencare»45.

La Storia dei monaci in Egitto46* , la traduzione piuttosto libera con ag­ giunte che ne fece Rufino nel 403 o 404, e la Storia lausiaca di Palladio di Elenopoli sono documenti di capitale importanza per ricostruire la fase più antica del monacheSimo egiziano. Redatti nei primi due decenni del v secolo hanno avuto una trasmissione molto complessa. L’enorme succes­

42 Storia lausiaca 44, 1. 43 Cfr. B. Flusin, Pallade d ’Hélénopolìs, in Dictionnaire de Spiritualité , t. xn (1984), cc. 113131; su Melania cfr. sotto. 44 Cfr. p. 253. 45 Lettera 133, 3. , . 46 È il titolo più usato, ma non l ’unico tramandato: cfr. Historia Monachorum in Aegypto. Edition critique du texte grec par A.-J. Festugière, Bruxelles 1961, p. 5 (apparato critico). Una presenta­ zione generale di questi tre testi in E. Wipszycka, Moines et communautés monastiques en Egypte (ix^- viiF siècles), Varsovie 2009, pp. 11-18.

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so di queste prime raccolte si riflette nel gran numero di lingue in cui furo­ no tradotte e ritradotte in varie combinazioni. Il carattere di questi testi costituiti da serie di medaglioni biografici che potevano essere agevol­ mente spostati, soppressi, aggiunti e l ’intrecciarsi di memorie personali con altri resoconti (orali o scritti come i Detti dei padri del deserto47) che costituivano un serbatoio comune cui i vari testi attingevano, rendono as­ sai difficili da districare i rapporti reciproci. Queste prime raccolte mona­ stiche - ma lo stesso si potrebbe affermare per molti testi agiografici - so­ no “testi vivi” per usare una felice espressione di Christine Mohrmann48. Gli studi di Butler49 e di Festugière50 cui dobbiamo rispettivamente l ’edi­ zione critica della Storia lausiaca e del testo greco della Historia monachorum in Aegypto hanno contribuito a districare un gran numero di que­ stioni accertando la priorità del testo greco sul testo latino, riconosciuto come traduzione di Rufino e mettendo a punto la recensione della Storia lausiaca, tra le molte tramandate, cui dare maggior credito. Le due edizio­ ni, pur non essendo considerate, per vari motivi, edizioni definitive, sono però ritenute le migliori di cui disponiamo. Nel prologo della Storia dei monaci in Egitto, l ’autore dichiara di rac­ contare un viaggio compiuto insieme ad altri sei fratelli. L’autore anoni­ mo dice di esaudire la richiesta della «pia fraternità» che vive sul Monte degli Olivi, desiderosa di conoscere per imitarli il modo di vivere dei mo­ naci di Egitto, la loro grande carità e ascesi, il loro totale distacco dal mondo, il silenzio, la pazienza nella pratica delle virtù. Prima di inoltrar­ si nella descrizione dei singoli personaggi, l ’autore suggerisce al lettore le coordinate di fondo in cui collocare e interpretare i racconti successivi. Egli inaugura il suo racconto con il richiamo alla venuta di Cristo, perché i monaci seguono il suo insegnamento e lo imitano a tal punto da essere considerati i «nuovi profeti» degni di accogliere la potenza divina, la stes­ sa concessa da Dio ai profeti e agli apostoli. La cornice costruita dal nar47 E. Schulz-Flugel, The Function o/Apophtegm ata in Vitae and Itineraria, in Studia Patrìstica xvin, Leuven 1989, pp. 281-291. 48 Palladio, La Storia lausiaca, testo critico e commento a cura di G.J. Bartelink, introduzione di Ch. Mohrmann, traduzione di M. Barchiesi, Milano 1974, p. ix. 49 C. Butler (by), The Lausiac History of Palladius, voi. ι: Λ Criticai Discussion together with Notes on Early Egyptian Monachìsm, Cambridge 1898; voi. il: The Greek Text edited with fntroduction and Notes, Cambridge 1904; l ’edizione di G.J. Bartelink, cit. supra , tiene conto anche delle critiche mosse nel tempo a Butler. Le mie citazioni sono tratte da questa edizione. Cfr. inoltre Pallade d’Hélénopolis, Histoire Lausiaque, introduction, traduction et notes par N. Molinier, Abbaye de Bellefontaine 1999. Un aggiornato status quaestionis in F. Vecoli, cit., pp. 35-39. Il testo di Rufino è in PL 21. Cfr. anche: Rufino di Aquileia, Storia di monaci, traduzione, introduzione e note di G. Trettel, Roma 1991. 50 Historia monachorum in Aegypto. Édition critique du texte grec et traduction annotée par A-J. Festugière, Bruxelles 1971. G. Frank, The Memory ofthe Eyes: Pilgrìms to living Saints in christian late Antiquity, Berkeley 2000, pp. 38-61.

Capitolo sesto ratore è intessuta di riferimenti al passo paolino dei carismi ( ICor 12-14): i monaci compiono «guarigioni, prodigi, miracoli» (ICor 12,9); hanno una fede che sposta le montagne ( ICor 13,2)51. Allusioni al passo paolino sono l ’insistenza sull’equivalenza dei monaci con i profeti e gli apostoli e il tema dell 'agape, della carità che ispira ogni comportamento dei mona­ ci ( ICor 13). La presenza dei monaci diffusa in ogni villaggio e città dell’Egitto e della Tebaide è come un muro di difesa e attraverso le loro preghiere i popoli trovano sostegno in D io52. È interessante notare che quanto si stava affermando nelle fonti coeve a proposito della presenza delle reliquie dei martiri che diffuse ovunque avrebbero tutelato il territorio e i suoi abitanti qui viene riferito alle presen­ ze vive dei monaci. Inoltre la stilizzazione del monaco come «martire della coscienza» è quasi del tutto assente; nella Storia dei monaci, il monaco è rappresentato come il profeta e l ’apostolo della «nostra generazione», co­ me verrà ribadito più avanti a proposito di Apollo53. Sullo sfondo è forse da leggersi anche una presa di distanza esplicita da quella posizione piutto­ sto diffusa che riteneva l’epoca dei carismi conclusa con l ’età apostolica54. Non è sicuro che il racconto descriva un viaggio realmente accaduto. In effetti presenta alcune anomalie. Il viaggio è descritto risalendo e non discendendo il Nilo, come forse sarebbe stato più naturale per un gruppo proveniente dalla Palestina; inoltre la tappa di Ossirinco non trova una collocazione plausibile nella successione dell’itinerario. La questione più spinosa però riguarda la storia della redazione del testo. Per Èva SchulzFlugel, sarebbe frutto di un collage di testi precedenti, il che evidentemen­ te esclude la storicità del viaggio55. La prima tappa è Licopoli dove il gruppetto incontra Giovanni cui viene dedicato il racconto più lungo; il viaggio prosegue poi seguendo il corso del N ilo con alcune puntate aH’intemo. Arrivati alla foce, deviano verso il deserto di Scete e Nitria e infine visitano i monaci di D iolcopolis. I trentasei capitoli molto disom ogenei per lunghezza e forme narrative56*

51 Storia dei monaci, prol. 9. 52 Storia dei monaci, prol. 10. Sull’attendibilità delle affermazioni e sulla specificità di questi gruppi monastici, cfr.: D. Moschos, Kontinuitat und Umbruch in mittelagyptischen Monchsgruppen nach der Historia Monachorum in Aegypto, in «Zeitschrift fiir Antikes Christentum» 12(2008), pp. 267-285. 53 Storia dei monaci 8, 8. 54 Cfr. Vecoli, cit., pp. 205-228. 55 Rufinus, Historia monachorum sive de Vita sanctorum Patrum, hrsg. E. von Schulz-Flugel, Berlin-New York 1990, pp. 8-10. Favorevole alla storicità del viaggio: The Lives of thè Desert Fathers. Introduction by B. Ward, trans, by N. Russel, Oxford-Kalamazoo 1981, pp. 4-11. 56 Tale diversità è stata ricondotta a quattro gruppi diversi che lascerebbero intravedere altrettan­ te fonti da cui il redattore anonimo avrebbe composto l’opera: Schulz-Flugel, cit., pp. 8-10.

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sono dedicati a uno o più personaggi. Il quadro com plessivo è caratteriz­ zato da una grande varietà di forme di vita: dalla clausura totale del m o­ nastero di Isidoro circondato da mura e a quella deH’eremita Elia che per 70 anni visse in solitudine in un deserto inaccessibile57 a forme eremiti­ che più aperte ai contatti esterni, fino alfitineranza continua adottata da Giovanni «che passava senza tregua da un luogo a ll’altro nei deserti»58. I visitatori sono attenti osservatori d ell’abito, della quantità e qualità del cibo, delle pratiche ascetiche, di cui però criticano quelle più estreme e stravaganti com e gravarsi di catene e non tagliarsi i capelli59. Il lavoro è onnipresente, mentre si accenna raramente ad attività di studio e di copia­ tura di testi, anche se la conoscenza della Scrittura è menzionata come il livello più alto d ell’ascesi60. N ei capitoli più lunghi le descrizioni cedo­ no il passo ai discorsi edificanti dei monaci, come nel caso di quello lun­ ghissim o di Giovanni di Licopoli intessuto di exempla e tutto dedicato ai pericoli spirituali della vita monastica e agli atteggiamenti che il mona­ co deve assumere61. Alcuni tratti caratteristici meritano di essere ricordati. In primo luogo, va rilevata l ’insistenza sui segni e i miracoli. Talvolta il possesso di un carisma particolare diventa il principio ordinatore del racconto dedicato a quel monaco: per esempio, Giovanni di Licopoli si distingueva per il dono della profezia62, Or per quello di cacciare i demoni63. La precisazione di quali e quanti miracoli accompagna il monaco quasi sempre fin dal suo primo apparire sulla scena. Pur sottolineando che è Dio a compiere il miracolo attraverso il monaco, la possibilità di compiere miracoli è con­ siderato segno infallibile e quasi meccanico della perfezione del monaco e parte dell’eredità che egli riceve dal suo maestro spirituale: i cinquecen­ to monaci appartenenti al monastero di A pollo erano in grado di com pie­ re «segni e miracoli»64. Pitirione, terzo successore di Antonio, dopo Am­ inone «giustamente ricevette l ’eredità dei loro carismi»65. Un secondo aspetto specifico è l ’importanza accordata alla partecipa­ zione al sacrificio eucaristico: tra gli altri insegnamenti, Apollonio, abate di un monastero di cinquecento monaci, afferma che, se è possibile, i monaci dovrebbero partecipare ogni giorno al sacrificio eucaristico per 57 Storia 58 Storia 59 Storia 60 Storia 61 Storia 62 Storia 63 Storia 64 Storia 65 Storia

dei monaci 7. dei monaci 13, 3. dei monaci 8, 59. dei monaci 10, 7. dei monaci 1, 20-63. dei monaci 1, 1.2. dei monaci 2, 6. dei monaci 8, 2. dei monaci 15, 2.

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«la remissione dei peccati»66. L’abate Or, guida di eremitaggi di mille monaci, dopo aver pregato con i suoi ospiti e aver loro spiegato le Scrit­ ture, li invita a partecipare alla “santa liturgia”: «È infatti costume presso i grandi asceti di non avvicinarsi al cibo carnale, prima di aver offerto all’anima il nutrimento spirituale costituito dalla comunione con Cri­ sto»67. Il monaco Eleno compie un miracolo per assicurare ad alcuni suoi fratelli la presenza di un sacerdote e rendere così possibile la partecipa­ zione alla sinassi domenicale68. L’importanza di tale partecipazione per la salvezza dei monaci è illustrata in particolare da un episodio riguardante Eulogio che può essere considerato un piccolo trattato di ortodossia dot­ trinale sulle condizioni di purità necessarie per accostarsi rettamente alla comunione69. Connesso al rilievo dato alla sinassi liturgica è il tipo di rap­ porto fra monacheSimo e sacerdozio che emerge dai racconti: i monaci palestinesi, arrivati ad Ossirinco, constatano con ammirazione che la città dentro e fuori le mura è piena di monasteri e vengono accolti dal vescovo che è presentato come la guida di diecimila monaci e ventimila vergini70. Sono sacerdoti, oltre che asceti e abati, i protagonisti di numerosi raccon­ ti: Copre71, A pelle72, Eulogio73, Serapione74; Dioscoro75; Piammone76; Apollonio (diacono)77. Nel quadro disegnato dalla Storia dei monaci carisma e istituzione - due realtà che la sociologia religiosa di ispirazione weberiana è incline a con­ siderare in costante concorrenzialità78*- sembrano dunque convivere sen­ za tensioni. Anche in questo senso la politeia dei monaci egiziani poteva essere presentata come la realizzazione di una nuova età apostolica, un’età di cui l ’esegesi antica dei testi neotestamentari - a differenza di quella moderna attenta a ricuperare il pluralismo teologico e i conflitti di poteri —esaltava la concordia interna, l ’ortodossia dottrinale, la pacifica compre­ senza, perfino la spontanea germinazione delle strutture e le prerogative della Chiesa gerarchica dai carismi e dall’insegnamento apostolici.

66 Storia dei monaci 8, 57. 67 Storia dei monaci 2, 8. 68 Storia dei monaci 12, 6-9; sinassi domenicale anche a Nitria: 20, 7. 69 Storia dei monaci 16; e 20, 1-2. 70 Storia dei monaci 5, 6. 71 Storia dei monaci 10, 1. 72 Storia dei monaci 13, 1. 73 Storia dei monaci 16,1. 74 Storia dei monaci 18, 1. 75 Storia dei monaci 20, 1. 76 Storia dei monaci 25, 1. 77 Storia dei monaci 19, 1. 78 Influenzando e talvolta fuorviando la comprensione storica: cfr. le osservazioni di Wipszycka, Les recherches, cit., pp. 831-855.

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2.1 .L a Storia lausiaca di Palladio: una guida spirituale per laici? Per certi aspetti la Storia lausiaca può essere accostata alla Storia dei monaci: è, per larga parte, il resoconto dei viaggi e delle esperienze fatte dall’autore fra i monaci di Egitto; egli, come si ricorderà, era legato al monastero del Monte degli Olivi; la forma letteraria - una silloge di me­ daglioni monastici - è simile; hanno un certo numero di racconti in comu­ ne79, come comune, anche se nel testo di Palladio meno ideologicamente inquadrato, è il tema dei miracoli e delle lotte contro i demoni. Per altri versi, sono raccolte profondamente diverse. Palladio la com ­ pone nel 419-420 quando è vescovo di Aspuna e si trova «nel trentatree­ sim o anno di comunione con i fratelli e di vita monastica, il ventesim o di episcopato e il cinquantaseiesimo della sua esistenza»: così afferma egli stesso nel prologo d ell’opera disseminata di numerosi riferimenti autobiografici a cominciare dal periodo giovanile, quando poco più che ven­ tenne, dalla nativa Galazia, si era recato in Palestina ove trascorse tre anni sul Monte degli Olivi presso un prete asceta di nome Innocenzo80. In seguito si recò in Egitto e lì rimase fino al 399 facendo diretta espe­ rienza della vita monastica in diversi luoghi: le Solitudini; Nitria e Celle, dove diventò discepolo di Evagrio Pontico. Ritornato in Palestina, si fer­ mò un anno presso il monaco Posidonio a Betlemme. In seguito, dopo un periodo piuttosto turbolento causato dal tentativo di difendere Giovanni Crisostomo per l ’appoggio dato ai monaci scacciati dal Teofilo di A les­ sandria, fu esiliato in Egitto, questa volta ad Antinoe, nella Tebaide e da qui, quando ebbe fine l ’opposizione contro Giovanni Crisostomo ( t 407), ritornò in Galazia. Era necessario richiamare, sia pure a grandi linee le vicende biografi­ che d ell’autore, in quanto è proprio la loro successione cronologica a for­ nire la chiave per comprendere il principale criterio ordinatore dei raccon­ ti che seguono —almeno a grandi linee —le tappe delle esperienze mona­ stiche di Palladio. I primi capitoli (1-6) sono dedicati al soggiorno in Alessandria presso il sacerdote Isidoro e poi nelle Solitudini sotto la dire­ zione spirituale di Doroteo. I capitoli successivi trattano dei monaci della Nitria (7-15) e del deserto di Scete (16-35). Dal cap. 36, dedicato a Po­ sidonio e ambientato in Palestina, il filo cronologico si ingarbuglia e i rac­ conti sembrano succedersi senza un ordine logico. Un caso macroscopico è costituito dal cap. 38 - che ha le caratteristiche di una vera e propria Vi­ ta - dedicato al suo maestro spirituale Evagrio e che avrebbe dovuto com79 Or; Macario l ’Egiziano; Amoun di Nitria; Macario di Alessandria; Ammonio di Nitria. 80 Storia lausiaca 44.

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parire nella sezione dedicata ai monaci della Nitria. A partire dal capitolo 58, sembra riprendersi il filo cronologico con racconti su personaggi conosciuti ad Antinoe nel periodo del suo esilio, ma ancora il filo si smar­ risce presentando personaggi relativi a luoghi lontani fra di loro. L’ultimo capitolo (71) è sul «fratello che è vissuto con me dalla giovinezza fino ad oggi», cioè all’autoritratto spirituale di Palladio stesso che è riuscito a rea­ lizzare l ’ideale dell’imperturbabilità, delVapatheia, evagriana riguardo al cibo, alle ricchezze, alla vanagloria, agli impulsi sessuali e questo dopo aver affrontato la prova dei demoni «mille e più volte»81. La Storia lausiaca è dunque frutto di memorie, proprie e altrui, sedi­ mentate attraverso lunghi anni che vengono richiamate per un pubblico che non è, almeno n ell’intenzionalità dell’autore, di soli monaci. L’opera è dedicata a Lauso, gran ciambellano —una delle quattro principali cari­ che dell’Impero - sotto gli Imperatori Arcadio e Teodosio n, lo stesso per­ sonaggio il cui nome spunta da un altro scritto agiografico di circa 30 anni dopo, la Vita di Melania junior, nipote della grande Melania. È Lauso, com e prefetto della città, ad accogliere Melania a Costantinopoli come conveniva al suo rango82. Il suggerimento dato a Lauso di diventare, pro­ prio attraverso «la raccolta di memorie santa e utile», «guida di te stesso, di coloro che sono con te e sotto di te e per i piissimi Imperatori»83, fa pen­ sare che Palladio contasse su di lui per diffondere la sua opera fra i laici dell’alta società costantinopolitana. Palladio propone la sua opera come un testo di direzione spirituale per uomini e donne che, pur essendo attirati dall’ideale ascetico o soltanto curiosi, sono rimasti nel mondo e che, pertanto, devono essere aiutati a comprendere nella giusta luce l ’eroismo ascetico di molti racconti. Il pro­ logo orienta l ’attenzione del lettore non sulle straordinarie performances dei padri del deserto, ma su argomenti per loro di più immediata applica­ bilità. Mi riferisco ai temi caratteristici della tradizione filosofica degli esercizi spirituali: la meditazione, il rifugio nell’interiorità, la preghiera, il ricordo costante della morte come m ezzo per sconfiggere le passioni. L’appello al logos divino che si trova in ciascuno come unica guida per distinguere il bene dal male accompagna la precisazione che la conquista deìl’apatheia non è legata infallibilmente a comportamenti obiettivi quali l ’astensione dal cibo, dal vino, dai rapporti sessuali o altre opere asceti-

81 Storia lausiaca 71, 1; sulla struttura letteraria cfr. A. Wellhausen, Die lateinische Obersetzung der Historia lausiaca des Palladius. Textausgabe mit Einleitung, Berlin-New York 2003, pp. 19-41. 82 Vita di Melania (gr.) cap. 52; nel cap. 41 della Vita latina, Lauso è menzionato com e suo bene­ fattore; cfr. infra, p. 261. 83 Storia lausiaca, prol. 3.

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che. Giovanni Battista - osserva Palladio - praticava l ’astinenza, ma Gesù beveva il vino: «perché in realtà non il mangiare, né l ’astinenza sono gran cosa ( Gal 5,6), ma la fede che attraverso l ’amore si esplica nelle opere»84. In questa prospettiva che svincola il raggiungimento dello scopo essenzia­ le - Yapatheia - da comportamenti precisi, le storie dei monaci possono fornire materiali efficaci anche per l ’edificazione di coloro che non scel­ gono la strada del deserto. Coerentemente, Palladio sottolinea nello stesso prologo i pericoli con­ nessi alle pratiche ascetiche, là dove esse sono adottate per emulazione, per desiderio di apparire e per orgoglio. La particolare prospettiva da cui Palladio invita il suo pubblico a riflet­ tere sulla sua Storia, ne illumina alcuni tratti specifici. Molti racconti, ad esempio, riguardano episodi o figure negative; essi trovano la loro giusti­ ficazione nell’econom ia complessiva d ell’opera nelfindicare i comporta­ menti da evitare e la lezione applicabile anche fuori dal deserto viene spesso richiamata esplicitamente alla fine del racconto. Valente, ad esem ­ pio, ritenendo di essere depositario di particolari rivelazioni divine, si in­ superbì a tal punto da isolarsi dagli altri monaci, da rifiutare i misteri e da non accettare il rapporto di dipendenza riguardo al suo superiore. I padri lo curarono tenendolo legato e incatenato per un anno. «È necessario aggiunge Palladio - inserire nel mio modesto libro anche le vite di uomi­ ni come questo per rafforzare l ’animo di quanti leggeranno (...) in tal modo, se mai accadrà ai miei lettori di compiere qualche nobile azione, essi non si insuperbiranno per la loro virtù»85. La caduta e il successivo pentimento di una vergine sono narrati «perché non abbiamo a provare disprezzo verso coloro che si pentono»86; la storia del presbitero ingiusta­ mente calunniato serve a ricordare «di perseverare nelle preghiere e di conoscerne la loro potenza»87. Parte di questo progetto di direzione spirituale delle élites è senza dub­ bio l ’insistenza sul tema dell’uso retto delle ricchezze che, nella prospetti­ va di Palladio, significa la loro utilizzazione per i poveri e per i monaci: in alcuni racconti88 esalta chi sottrae ai propri eredi naturali ricchezze per quegli scopi; comportamento che, malgrado rari esempi illustri e mille vol­ te citati dalle fonti cristiane coeve, non doveva certo essere molto diffuso. Un altro aspetto caratteristico è lo spazio concesso alla santità femmi­ nile, del tutto assente nella Storia dei monaci di Egitto. Si tratta un grup­ 84 Storia 85 Storia 86 Storia 87 Storia 88 Storia

lausiaca, prol. 13. lausiaca 25, 6; cfr. anche 26 sull’orgoglio di Erone; 27: la superbia di Tolomeo. lausiaca 69, 3. lausiaca 70, 5. lausiaca 6; 14; 66.

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petto di donne appartenenti all’alta aristocrazia tra cui spiccano, oltre alle due Melania su cui tornerò fra breve, Olimpiade che, rimasta vedova in giovane età, divenne diaconessa e figlia spirituale del Crisostomo. La cosa qui è comprensibilmente taciuta e il breve ritratto, che anche sotto altri aspetti è un capolavoro di diplomazia, presenta una “vergine” - ma Olimpiade era stata sposata - generosissima con i poveri, che «catechiz­ zò molte donne, parlò sempre con rispetto ai presbiteri, onorò i vescovi e fu ritenuta degna di confessare la verità». Con tale linguaggio martirologico Palladio alludeva alle persecuzioni cui fu sottoposta dopo l ’esilio del Crisostomo proprio da parte della corte89. Non mancano anche figure di badesse di conventi o semplici monache tra cui è commovente il ricordo di quella vergine che prima di morire lasciò a Palladio, «al vescovo che è qui in esilio», la copia del commento di Clemente di Alessandria al libro di Amos90. Anche altrove viene sottolineata l ’approfondita cultura biblica di alcune ascete91. Con lo spazio dedicato al monacheSimo femminile, Palladio onorava certo il debito di gratitudine nei riguardi di Melania e della sua cerchia, ma non dobbiamo dimenticare la presenza nella corte di Teodosio n di due donne molto influenti: la sorella Pulcheria anch’essa consacratasi alla verginità e la coltissima moglie Eudocia, autrice di scritti a carattere religioso, fra le non molte donne d ell’antichità di cui ci siano pervenute le opere92. 3. Melania senior e Melania junior: due patrizie romane a Gerusalemme Abbiamo già constatato com e fra gli aristocratici tardoantichi la santi­ tà monastica fosse contagiosa, soprattutto all’interno della stessa famiglia: fu il caso di Macrina e dei suoi fratelli, di Paola e di Blesilla e Eustochio, sue figlie, cui si aggiungerà nella generazione successiva un’altra Paola. Ci occuperemo ora di un altro caso di santità familiare: Melania senior e Melania junior rispettivamente nonna e nipote, entrambe di grande perso­ nalità, coltissime, fondatrici di monasteri. A differenza dei primi due esempi la cui vicenda è ricostruibile prevalentemente attraverso le parole di Gerolamo, le imprese delle due Melarne trovarono un’eco più vasta nei contemporanei. 89 Su Olimpiade esiste una breve vita della metà del v secolo: R. Teja, Olimpiade la Diaconessa, tr. it. Milano 1997. 90 Storia lausiaca 60. 91 Storia lausiaca 55, 3. 92 C. Mazzucco, Donna e cultura nel cristianesimo antico , in I. Loiodice-F. Pinto Minerva (eds.), Donne tra arte, tradizione e cultura, Foggia 2006, pp. 385-391.

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È opportuno richiamare sinteticamente alcuni punti di riferimento cro­ nologici. Melania senior nacque intorno al 340 da un’illustre famiglia senatoria e venne maritata con un esponente di un’altra grande famiglia romana, Valerio Massimo, da cui ebbe tre figli. Dopo aver perduto nell’ar­ co dello stesso anno il marito e due figli, Melania rimase vedova all’età di 22 anni con l ’unico figlio Publicola, il padre di Melania junior. Nel 373 Melania abbandonò Roma alla volta di Alessandria dove si fermò qualche tempo per visitare i monaci egiziani. N el 376 si recò a Gerusalemme dove fondò un monastero femminile e restò per circa 25 anni per poi tornare a Roma nel 400. Qui rimase pochi anni e, dopo una sosta in Sicilia, Melania andò in Africa presso Agostino, per poi tornare a Gerusalemme dove morì presumibilmente prima del 40893. La nipote Melania nacque intorno al 380 da Valerio Publicola e Albina; come era in uso nell’aristocrazia, venne data in sposa giovanissima a Piniano (398) da cui ebbe una figlia subito dopo e un figlio intorno al 404; dopo la morte di entrambi i figli e del padre fra il 404 e il 405 decise, di intesa con il marito, di abbracciare la vita ascetica. Vendette una parte consistente delle sue proprietà e, dopo alcuni anni trascorsi in Sicilia e in Africa a Tagaste, nel 417 si recò a Gerusalemme, da cui partì quasi subi­ to per recarsi con il marito in Egitto. A partire dal ritorno in città, Melania si dedicò ad una vita di ascesi e isolamento. Dopo la morte della madre Albina (431), fondò un monastero femminile e, dopo la morte di Piniano (432), uno maschile. Melania morì nel dicembre del 43994.

La nonna Melania. Il primo a scrivere di Melania senior fu Paolino di Nola nella lettera inviata a Sulpicio che conteneva, accanto ad altri argo­ menti, il resoconto della visita della monaca a Cimitile95. Paolino sfrutta in ogni possibile modo il paradosso fra l ’altissima stirpe di Melania e l ’umiltà della sua scelta di vita, ricorrendo ad un linguaggio antitetico lar­ gamente tradizionale. Per giustificare il suo attardarsi sulla stirpe di Melania, afferma di non seguire i precetti della retorica, ma piuttosto di imitare il Vangelo di Luca che per tessere gli elogi di Giovanni Battista ne illustra la nobiltà della stirpe e premette al racconto della vita di Gesù la sua genalogia96. Come per tutte le sante vedove, un nodo delicato è rap­ presentato dal matrimonio e dal comportamento riguardo ai figli. Come le altre, Melania, subisce le nozze e dopo la morte “provvidenziale” del ma­ rito e di due figli, rimane con un solo figlio, Valerio Publicola. «Am93 PCBE, t. il, 2, pp. 1480-1483. ^ I b i.p p . 1483-1490. 95 Cfr. supra, p. 205. 96 Lettera 29, 7-8.

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maestrata da queste prove», Melania «rivestì se stessa e suo figlio della conoscenza salutare, in modo da amare il suo bambino trascurandolo e custodirlo allontanandolo da sé»97 per affidarlo, non ai propri parenti, ma - dice Paolino - a Cristo, prima di partire per Gerusalemme. Il linguaggio volutamente ambiguo di Paolino che intesse una com pli­ cata quanto acrobatica comparazione biblica con Anna che consacra a Dio il figlio Samuele ( ISam 1 ss.), lascia in un cono d ’ombra ciò che possia­ mo ricostruire da altre fonti. Secondo Palladio, che ha conosciuto perso­ nalmente Melania e che scrive circa venti anni dopo Paolino98, Melania partì da Roma parecchi anni dopo della morte del marito, quando il figlio aveva ormai circa 14 anni, lasciandolo affidato ad un tutore99 e, secondo il racconto di Gerolamo, erede di tutte le sue ricchezze100. Melania conti­ nuò ad essere sostenuta finanziariamente dal figlio Publicola anche a Gerusalemme. Una così saggia amministrazione del patrimonio familiare - in linea del resto con quanto tradizionalmente ci si poteva attendere da una matrona romana101 - mal si adattava all’intonazione martiriale del ritratto di Paolino, che presenta Melania attaccata dal «dragone»102 che le scaglia contro i parenti e dipinge la sua partenza com e una rottura radica­ le dalla sua vita precedente, già da subito orientata verso Gerusalemme. Il racconto di Paolino viene poi a trattare delle virtutes di Melania; vir­ tutes in senso etico, in quanto ne viene esaltato il coraggio, il desiderio di soffrire per la fede, la misericordia, e virtutes anche nel senso di miracoli accentuando con opportuni accorgimenti retorici l ’eccezionaiità di eventi per altri versi del tutto spiegabili alla luce del rango e delle ricchezze di Melania: prima ancora di essere arrestata per aver protetto dei sostenitori del credo niceno, si presenta spontaneamente davanti al giudice e la sua sola presenza lo induce alla venerazione e all’ammirazione della donna che viene prosciolta. In un altro episodio, la generosità di Melania nutre per tre giorni cinquemila monaci che erano ricercati dall’autorità, con un gesto che viene comparato al miracolo di Gesù della moltiplicazione dei pani (Mi 14,20)103*. Più denso di riferimenti a date, personaggi, circostanze precise è il pro­ filo offerto da Palladio in due capitoli della Storia lausiaca', il primo ac­ 97 Ibi, 29, 8. 98 Storia lausiaca 55: Palladio accompagnò Melania in un secondo viaggio in Egitto; nel 404/5 fu suo ospite quando si recò a Roma per perorare la causa di Giovanni Crisostomo. 99 Storia lausiaca 46, 1. 100 Gerolamo, Lettera 39, 5. 191 F.E. Consolino, Tradizionalismo e trasgressione nell'élite senatoria romana: ritratti di signo­ re fra la fine del tv e Tinizio del v secolo , in R. Lizzi (ed.), Le trasformazioni delle élites in età tardoantica, Roma 2006, pp. 65-139; pp. 75-84. i°2 Lettera 29, 10. 193 Ibi, 11.

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compagna Melania fino alla soglia della sua partenza da Gerusalemme: Melania, dopo aver provveduto al futuro del figlio, parte alla volta di A lessandria ancora come una gran signora accompagnata dalle sue ricchez­ ze e dai suoi domestici. Sono proprio queste ricchezze che le consentiran­ no negli anni successivi di elargire protezione, ospitalità, sostegno a m o­ naci, sacerdoti, pellegrini e di fondare un monastero con cinquanta mona­ che. Il filo del racconto è ripreso più avanti, con la partenza di Melania da Gerusalemme, motivata dalle sue preoccupazioni riguardo alla nipote M e­ lania junior, che progettava anch’essa di separarsi dal mondo; secondo Palladio: «presa dal timore che gli sposi soccombessero all’influsso di un cattivo insegnamento o di un’eresia o di una vita sregolata, salì in fretta su una nave ...e salpata da Cesarea in venti giorni giunse a Rom a»104. Sempre stando a Palladio, nel poco tempo che restò a Roma, Melania cercò di convertire Γ aristocrazia romana ad abbandonare il secolo per dedicarsi all’ascetismo e indica in lei la principale artefice alla conversione asceti­ ca di Aproniano e sua m oglie e di Melania junior e Piniano suo marito. Dopo un passaggio in Sicilia e a Ippona, con le vendite degli ultimi posse­ dimenti, Melania ritornò a Gerusalemme, dove morì poco dopo «lascian­ do un monastero e le rendite che ne coprivano le spese»105. Un dettaglio a prima vista pedante, ma che invece elogia l ’attuazione di un modello di evergetismo cristiano “sostenibile”, condiviso anche dai vescovi africani che più tardi raccomanderanno a Melania junior e a Piniano, anch’essi di passaggio in Africa, di non dare ai monasteri soldi, presto dissipati, ma di regalare beni durevoli come un edificio o una rendita106. Le prospettive da cui Paolino e Palladio guardano a Melania sono dunque profondamente diverse: per il primo la donna era una santa viva di cui intendeva celebrare Vadventus a Cimitile. A questo scopo erano sufficienti pochi tratti a tinte forti giocati sul contrasto fra Γ effimera glo­ ria del mondo e la gloria vera derivante dal distacco dei beni terreni: il distacco clamoroso e subitaneo da tutte le ricchezze e tutti gli affetti; il “martirio” volontario subito nel proprio corpo e quello subito dai fami­ liari o funzionari. Palladio - in accordo con una tendenza generale della sua opera - è interessato ad offrire il ritratto di un’asceta e benefattrice di sacerdoti e monaci che ha perseguito con coraggio una strada propria, ma restando all’interno di un quadro tradizionale, senza rompere con la sua famiglia. È diverso anche il rilievo politico attribuito alla donna: in Paolino, gli in-

104 Storia lausiaca 54, 3. 105 Storia lausiaca 54, 6. 106 Geronzio, Vita di Melania (G) 20.

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terventi di Melania a favore dei niceni sono trasformati in una prova di coraggio martiriale o di poteri prodigiosi. In Palladio, invece, vengono riconosciuti come atti di coraggio politico in un momento in cui l ’autori­ tà imperiale perseguitava i cattolici e questo nel quadro di un’azione co ­ stante a favore d ell’ortodossia che la vide impegnata accanto a Rufino nel­ la soluzione dello scisma di Paoliniano107. Pur rimanendo fedele, com e vedremo fra poco, alla memoria di Origene e a quella di Rufino di Aquileia coinvolto in prima persona nella crisi origenista che da Gerusalemme arrivò a dividere la Chiesa romana, Pal­ ladio fa solo un ambiguo accenno a questi avvenimenti quando si riferi­ sce ai motivi del ritorno di Melania. Se la donna tornò a Roma per dare man forte a Rufino, con lo scopo di guadagnare appoggi aristocratici alla sua causa108, l ’impresa non ebbe buon esito in quanto l ’elezione di Ana­ stasio i e le pressioni esercitati su di lui da altri gruppi aristocratici porta­ rono alla condanna delle tesi origeniste10910. Paolino e Palladio ci tramandano un’immagine diversa anche sotto il profilo culturale: per Paolino Melania è dedita soltanto alla Scrittura e, nei momenti di riposo, alle Vite dei santi™, Palladio ci offre un quadro molto più dettagliato e nel contempo rivolge un com mosso om aggio alla donna e ai suoi maestri: «Allora mutò le notti in giorni e percorse ogni opera degli antichi commentatori. Di Origene lesse trecento miriadi di righe; di Gregorio, Stefano, Pierio, Basilio e di alcuni altri dottissimi autori venticinque miriadi. E non li lesse sem plicem en­ te, né com e capitava, ma percorse con faticoso impegno ogni libro sette o otto volte. Per questo essa potè liberarsi da quella che è falsamente detta sapienza e della grazia di quei libri fare ali al proprio volo: nutrita di buone speranze, ella si trasformò in un uccello spirituale e compì il balzo fino a Cristo»111.

Melania junior: la nipote. Paolino di Nola aveva incontrato Melania junior almeno due volte: la giovane donna era sicuramente accanto al marito e al padre nel dare il benvenuto alla nonna al suo ritorno in Italia, nel 400, inoltre ella con la sua più ristretta cerchia familiare era a Cimitile in occasione della celebrazione del natalicium di F elice112 nel 407. Tut­ tavia è soltanto Palladio a scrivere di lei.,N e ricorda con riconoscenza l ’ospitalità quando insieme ad una nutrita delegazione, Palladio era anda­ 107 Storia lausiaca 46, 3-6. 108 Tra cui Marcella lodata da Gerolamo, cfr. supra, pp. 193 s. A. Pollastri, Anastasio i, santo, in Enciclopedia dei Papi, voi. l, s.l. Roma 2000, pp. 381-384. 110 Cfr. supra, p. 205. 111 Storia lausiaca 55, 3. 112 Cfr. supra, p. 202.

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to a Roma a perorare la causa di Giovanni Crisostomo113. Il suo racconto si ferma con l ’arrivo di Melania in Africa. Coerentemente a quanto aveva affermato a proposito dei motivi che avevano spinto la nonna a tornare in Italia, Palladio riconduce la vocazio­ ne ascetica della giovane Melania all’influenza della nonna e, nel breve capitolo dedicato alla giovane Melania, sviluppa in particolare due temi: le circostanze della rinuncia al sesso da parte dei due coniugi e il modo con cui si liberarono dalle sue ricchezze. Nella perorazione alla castità rivolta al marito, Melania afferma di essere l ’erede dello zelo della nonna, tuttavia agli occhi dei contemporanei - e forse anche agli occhi del suo sfortunato marito - il suo caso doveva apparire certamente ben diverso. Ella non era vedova com e tutte le donne fino a quel momento ritenute degne di essere celebrate da una biografia e come queste libera di lascia­ re il mondo. Altre coppie avevano fatto lo stesso passo: si pensi a Paolino e Terasia, ma in questo caso - almeno nell’unica ricostruzione della vicen­ da che possediamo - tutto è presentato come frutto della volontà di Pao­ lino stesso. Soltanto alcune eroine degli Atti apocrifi avevano avuto l ’ar­ dire di interrompere i rapporti matrimoniali! Palladio allude ad una lunga lotta fra i due, conclusasi con l ’interven­ to divino che «m osso a com passione per il giovane infuse anche a lui il desiderio di lasciare il m ondo»114. Anche per quanto riguarda le ricchez­ ze, il caso di Melania presentava aspetti peculiari: si trattava di un patri­ monio enorme per il quale non ci sarebbero stati eredi e la cui dispersio­ ne poteva alterare equilibri delicati fra l ’aristocrazia romana. Palladio non si sofferma su questi avvenimenti e fa cenno soltanto al rifiuto della libertà da parte di alcuni schiavi che preferirono passare al servizio del fratello. Quella di Melania - come apprendiamo dal racconto di Geronzio ben più dettagliato - fu veramente una «carità eversiva»115, ma l ’e­ sposizione di Palladio tende a smussare gli spigoli e a far rientrare il suo caso a ll’interno di un evergetismo cristiano tanto più lungimirante in quanto di poco precedente al sacco di Roma di Alarico: «Tutte queste ric­ chezze e il quadruplo di queste ella riuscì a strapparle “dalla bocca del leone” (2Tm 4,17) Alarico, grazie alla propria fede»116 e il modo in cui le distribuì sono lodate com e espressione di «saggezza riguardo al fardello delle ricchezze»117.

113 Storia lausiaca 61, 7. 114 Storia lausiaca 61, 3. 115 A. Giardina, Carità eversiva: le donazioni di Melania la Giovane e gli equilibri della socie­ tà tardo romana, in «Studi storici» 29(1988), pp, 127-142. 116 Storia lausiaca 61, 5. 117 Storia lausiaca 61, 6.

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Palladio ebbe contatti tutto sommato limitati con Melania la Giovane; come altre ascete di quella sezione della Storia lausiaca, ella è ricondot­ ta al magistero spirituale della nonna11819. Una familiarità incomparabilmente maggiore ispira la Vita ài Mela­ nia™, il cui autore, fin dalle prime righe, definisce Melania junior «madre ammirevole»120; afferma di essere un testimone oculare di molti fatti che la riguardano121 ed è destinatario delle ultime parole della santa che gli affida la cura dei monasteri «perché quando ero viva nella carne, tu eri colui che portava il peso e la cura di tutti e in tutto mi aiutavi»122. Le testi­ monianze di Cirillo di Scitopoli123 e della Vita di Pietro l ’Iberico consen­ tono di individuare in costui Geronzio ( t 484), un sacerdote che guidò i monasteri di Melania e che fu uno dei leader mofisiti più in vista della reazione alle decisioni di Calcedonia124. Possediamo due Vite di Melania, una in greco e 1 altra in latino, che si corrispondono a grandi linee, ma che presentano significative differenze. La questione più dibattuta riguarda il rapporto fra i due testi; nella fase attuale della ricerca prevale l ’idea che la Vita greca e la Vita latina siano da considerare due recensioni indipendenti e con molta probabilità con­ temporanee del testo primitivo, che sarebbe stato composto in greco, come farebbero pensare numerosi indizi, fra il 452 e il 45 3 125. Geronzio dedica l ’opera ad un «sacerdote santo», senza mai menzio­ narne il nome e Clark126 ritiene che non si possa trattare del vescovo di Gerusalemme, Giovenale, mai citato nella Vita, ma che si debba cercare piuttosto fra coloro che, anche dopo Calcedonia, rimasero fedeli (come Geronzio) al monofisimo e ipotizza un riferimento al vescovo di Eleuteropoli oppure a Teodosio che occupò la cattedra vescovile per 20 mesi, scacciandone Giovenale che poi vi fu rimesso a forza per ordine impena­ le. Conforta questa ipotesi la Vita latina che si differenzia da quella greca nei punti in cui questa fa collegamenti fra Melania e il monofisismo. Storia lausiaca 56; 57. ori, „ . 119 y le de Sainte Mélanie, texte grec, introduction, traduction et notes par D. Gorce (SC 90), Parts 1962. Gérontios, La Vie latine de sainte Mélanie, edition critique, traduction et commentane par P. Laurence, Jérusalem 2002. The Life of Melania thè Younger, introduction, translation and commentary by E.A. Clark, Lampeter 1984. Utilizzo la traduzione di L. Campagna in corso di pubblicazione ringraziandola per averla potuta consultare. . ·, 120 Vita di Melania (G), Prol. 12. Sul confronto della Vita di Melania con il romanzo di Cantone di Afrodisia: P. Laurence, Gérontios et la Vie de Sainte Mélanie. Hagiographie et roman, in B. Pouderon (par), Les personnages du roman grec, Lyon 2001, pp. 309-327. 121 Vita di Melania (G) 10. 122 Vita di Melania (G) 68. 123 Storie dei monaci 2, 25.45 ( Vita di E u t i m i o ) . ...................... -, 124 Tutta la questione, che presenta numerosi nodi critici è dibattuta da Clark, cit., pp. 1-/3, Laurence, cit., pp. 118-122. 125 Laurence, Gérontios, cit., pp. 135-141. 126 Cit., pp. 18-19.

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Geronzio sottolinea a più riprese la determinazione con cui Melania teneva lontana dalla sua cerchia l ’eresia e va imputata a tale preoccupa­ zione dottrinale la lacuna più appariscente del suo racconto che non fa il benché minimo cenno all’influenza della nonna la cui memoria a Geru­ salemme era ancora troppo legata all’eretico Origene. In questa luce acquista un particolare significato il rilievo dato ai rapporti fra Melania junior e la cugina Paola, nipote della Paola, sodale e compagna di Ge­ rolamo. Secondo Geronzio, Melania fu la guida spirituale di Paola, fra le poche persone ad essere ammessa alla sua presenza durante il periodo di ritiro gerosolimitano, «portandola da una grande vanità e da una menta­ lità romana a una grande umiltà»127. E Paola era presente accanto al­ l ’asceta nel momento del trapasso128. Va anche notato che effettivamente il gruppo di Piniano, Melania e Albina aveva già da prima rapporti ami­ chevoli con la cerchia di Gerolamo dal momento che questi in una lette­ ra inviata ai vescovi africani, aggiunse i saluti «dei nostri santi figli A l­ bina, Piniano e M elania»129. Completano il ritratto di stretta ortodossia altri silenzi che riguardano i contatti della coppia con persone e dottrine “scismatiche” e “eretiche”: i donatisti, durante la permanenza in Africa; i pelagiani, nei primi tempi a Gerusalemme130, e il rapporto intrattenuto con Pietro l ’Iberico. Come ap­ prendiamo dalla Vita, arrivata a noi in traduzione siriaca scritta da un suo discepolo Giovanni Rufo131, Pietro, prima di diventare uno degli esponen­ ti più importanti della resistenza alle definizionie cristologica di Calcedonia, era stato accolto da Melania a Gerusalemme nel 437-39 e ricevette dalle mani di Geronzio, che allora già guidava il monastero del Monte de­ gli Olivi, l ’abito monastico. Se la Vita di Melania è stata composta fra il 452 e il 453, in quegli anni Geronzio militava ancora fra i monofisiti. Tuttavia ha ritenuto evidentemente prudente svincolare la memoria di M e­ lania da un conflitto durissimo nella sua fase più acuta e incerta. In modo non sempre ordinato, Geronzio costruisce il racconto intorno a tre nuclei principali che rappresentano altrettante fasi della vita della 127 Vita di Melania (G) 40. 128 Vita di Melania (G) 68. 129 Lettera 143, 2. 130 Clark, cit., pp. 114; 145. 131 Petrus der Iberer, Ein Charakterbild zur Kirchen-und Sittengeschichte des Fiinften Jahrunderts: syrische Obersetzung des fiinften Jahrhunderts, hrsg. von R. Raabe, Leipzig 1895, insie­ me alla Vita di Severo - Vie de Sevère par Zacharie le Scholastique, édition et traduction par M.A Kugener (PO 2.1), Paris 1907 - e alla Vita di Isaia —E.W. Brooks, Vitae virorum apud monophysitas celeberrimorum (CSCO 7-8) - costituiscono i testi principali di un’agiografia anticalcedoniana con tratti culturali e religiosi specifici: J.-E. Steppa, John Rufus and thè World Vision of Anti-Chalcedonian Culture, Piscataway 2005 (2 ed. rev.), e C.B. Horn, Ascetism and Christological Controversy in Fiflh-century Palestine: thè Career o f Peter thè Iberian, Oxford 2006.

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donna: la prima (capp. 1-33) arriva fino alla partenza dall’Africa. Qui so­ no narrate le «mirabili lotte»132 di Melania «donna virile», le stesse di al­ tre donne sante che combatterono per vedersi riconosciuto il diritto di condurre una vita casta e quello di «lasciare il mondo». Malgrado il tradi­ zionalismo del linguaggio, dalla pagina di Geronzio emerge, però, una vicenda tutta peculiare. Palladio allude brevemente ad una lunga lotta fra Piniano e Melania, decisa dall’intervento misericordioso di Dio. Geronzio racconta invece di una Melania talmente prostrata dal rifiuto di Piniano di interrompere i rapporti matrimoniali da arrivare al punto di morirne: per poterla conservare in vita, Piniano accetta di vivere con lei in castità133. Dopo questo momento di rinuncia, ma anche di riaffermazione del lega­ me di coppia, Melania e Piniano appaiono sempre a fianco a fianco nell ’affrontare le lotte successive contro il volere dei genitori, dei parenti, dei magistrati cittadini. Insieme si recano dal l ’Imperatrice Serena per chiede­ re il suo appoggio quando gli schiavi insorsero contro la decisione di con­ cedere loro la libertà; insieme ricevono la stessa visione rassicurante circa l ’esito dei loro sforzi134; insieme si recano in Sicilia e poi in Africa ; insie­ me decidono la gradualità dell’ascesi135, insieme arrivano a Gerusalemme. Come è stato già osservato136, Melania è ribelle rispetto alla sua classe di appartenenza, ma non riguardo al marito: una volta accettato 1 ideale esi­ gente di castità e povertà egli rimane il suo kyrios e despotes137138, secondo la tradizione romana. Pur riservando il ruolo di leader spirituale a M e­ lania, Geronzio celebra una coppia santa, la cui presenza emerge anche da altre testimonianze coeve: di Paolino di Nola, come ho già ricordato; e di Rufino di Aquileia che dedica a Piniano e al suo religiosus coetus138 la tra­ duzione delle Omelie sui Numeri di Origene. Mentre altri testi celebrano l ’abbandono dello status sociale e dei pos­ sedimenti in modo tanto entusiastico quanto ambiguo nei dettagli, qui l ’alienazione delle richezze viene descritta come un processo lungo e con­ trastato non soltanto nelle sue ricadute sociali nei rapporti all’interno della famiglia e della società romana, ma anche nei suoi aspetti psicologici, di lotta interiore contro il dubbio radicale o contro la nostalgia per la bellez­ za che le ricchezze malgrado tutto contribuiscono a creare: sono lotte sen­ tite - ci dice Geronzio - dalla viva voce di Melania. Ella ricorda - dopo 132 Vita di Melania (G), prol., 39. 133 Vita di Melania (G) 6. 134 Vita di Melania (G) 16. 135 Vita di Melania (G) 9; i capp. 6-21 hanno com e protagonisti entrambi e l’azione è sempre descritta alla terza persona plurale. 136 Consolino, Tradizionalismo, cit., p. 135. 137 Vita di Melania (G) 1; ripreso in 49; cfr. anche Palladio, Storia lausiaca 61, 2. 138 Origene, Omelie sui Numeri, prol.

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aver raccolto una somma enorme per i poveri - di aver sentito il nemico sussurrarle nei suoi pensieri: «Di che qualità è il regno dei cieli che si compra con tali ricchezze?139». U n ’altra volta sono dei bagni meraviglio­ si, illeggiadriti da marmi preziosi, da cui è possibile godere la vista del bosco, degli animali e del mare adomato di vele ad aprire una breccia al demonio. Certo, sullo sfondo del racconto di questa tentazione è possibi­ le intravedere quella cui fu sottoposto il giovane Antonio, ma proprio que­ sto individua un tratto peculiare: diversamente dalle donne sante di Gregorio di Nissa o di Gerolamo di cui non è ricordata nessuna tentazio­ ne, Geronzio non adotta modalità differenti di narrazione per una donna, ritenuta anche in questo talmente virile, da poter sopportare senza danno un confronto diretto con la tentazione. AH’intemo di questa sezione Geronzio introduce una cesura: «Col pro­ gredire nelle virtù la santa, che percepiva di essersi alleggerita un p o’ del peso delle ricchezze e di aver compiuto l ’opera di Marta, com inciò suc­ cessivamente ad imitare anche Maria, la quale è stata lodata nel vangelo come colei che ha scelto la parte buona»140. Parole che introducono la par­ te (capp. 21-33) dedicata a delineare la spiritualità di Melania: i suoi eser­ cizi ascetici; la profonda cultura; il suo programma di studio della Scrit­ tura e di lettura delle vite dei padri; l ’esecuzione di copie dei testi sacri. La seconda sezione (capp. 34-49), com e la prima, distingue gli eventi dalle virtutes. Racconta di grandi cambiamenti nella vita di Melania: il primo è legato alla morte della madre Albina, che l ’aveva accompagnata fino a quel momento. Dopo un anno, trascorso in isolamento in una cella, Melania si fece edificare un monastero ove si rinchiuse con novanta ver­ gini che Piniano vi aveva condotto. Impose al cenobio la clausura assolu­ ta e nominò una igumena che lo dirigesse: lei «si dedicava solamente alla preghiera e al servizio dei santi». La parte successiva (capp. 41-48) illu­ stra le qualità di Melania come guida spirituale ed è dedicata agli insegnamenti impartiti alle sorelle in cui, accanto all’esaltazione delle tradiziona­ li virtù monastiche, è caratteristico l ’accento posto su ll’importanza della liturgia - e in particolar modo la psalmodia continua - nella spiritualità e nella vita quotidiana delle monache. Alla morte di Piniano, Melania rimase rinchiusa in regime ascetico ancora più rigoroso per quattro anni nell ’Apostoleion che aveva fatto costruire e che accoglieva le spoglie della madre e di Piniano. N ell’ultima parte si ripete lo stesso schema: un primo gruppo di capi­ toli (capp. 49-58) è dedicato agli avvenimenti: mentre prima era sempre 139 Vita dì Melania (G) 17. 140 Vita di Melania (G) 22.

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sotto l ’attenta tutela della madre e del marito, dopo la morte di entrambi, Melania ritorna nel mondo e l ’ambiente in cui la vediamo muoversi, rive­ rita ed ammirata da tutti, non è più il monastero, ma la corte e le persona­ lità che ruotano intorno ad essa. Melania decide di recarsi a Costantino­ poli con l ’intenzione di convertire al cristianesimo lo zio Volusiano che si trovava presso la corte imperiale e lì ha occasione di rispondere alle domande «sull’empia dottrina di Nestorio» che gli ponevano dall’alba fi­ no al tramonto «donne di senatori e altri uomini brillanti»141; di ammae­ strare le imperatrici e lo stesso Teodosio142. In seguito abbandona ancora Gerusalemme per andare incontro all’imperatrice Eudocia a Antiochia: Eudocia riconosce in Melania la propria madre spirituale e le preghiere della monaca ottengono la guarigione dell’Imperatrice. Il secondo gruppo di capitoli è dedicato ai semeia, «fra i tanti - dice Geronzio - che il Signore operò tramite Melania»143; ma i miracoli in senso proprio sono soltanto due guarigioni che Melania opera applicando alle malate reliquie di altri santi, seguiti da altri discorsi edificanti della santa alle monache. Melania muore della bella morte dei santi, attorniata dalle monache e dai monaci, ma soprattutto dai sacerdoti e vescovi a cui ella ha sempre tenu­ to in modo particolare, e viene consegnata alla tomba interamente rivesti­ ta di abiti o oggetti appartenuti ad altri santi144. N ell’ultima parte della sua vita, libera dai legami familiari, Melania riacquistò dunque un ruolo pubblico di sostegno all’“ortodossia , ruolo che essa svolse nella società che contava e in cui per nascita aveva con­ servato il diritto di essere accolta e di farsi ascoltare. Ma quale ortodos­ sia? L’“ortodossia” di Melania non è definita in termini positivi, ma come opposizione a Nestorio, un’ortodossia che, in definitiva, nel momento in cui Geronzio scriveva, poteva significare per i lettori monofisiti anche il monofismo: nella loro prospettiva, infatti, i calcedoniani non erano altro che nestoriani. 4. Un elogio del monacheSimo siriaco: la Storia religiosa di Teodoreto di

Cirro Se i monaci d’Egitto, di Palestina, di Cappadocia, della Gallia aveva­ no trovato già a partire dall’ultimo quarto del iv secolo scrittori di alto profilo culturale in grado di diffonderne la fama, il multiforme mondo 141 Vita di Melania 142 Vita di Melania 143 Vita di Melania 144 Vita di Melania

(G) (G) (G) (G)

54. 56. 59. 69.

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monastico della Siria mesopotamica di lingua siriaca dovette attendere ancora qualche decennio, fino al 4 4 4 145, quando il vescovo di Cirro com ­ pose la sua Storia philothea, secondo il titolo più frequentemente usato dal suo autore che la indica talvolta anche come Storia dei monaci, oppu­ re Vita ascetica, oppure Vite dei santiu6. Nato intorno al 393 probabilmente ad Antiochia da una famiglia di ori­ gine siriaca di alta condizione sociale, anche se non aristocratica, Teodoreto ricevette un'approfondita educazione greca che, unita alla cono­ scenza della Bibbia, gli permise di diventare uno degli autori ecclesiasti­ ci più prolifici e protagonista di primo piano nelle controversie cristologi­ che del suo tempo. Alla morte dei genitori trascorse una decina di anni di vita cenobitica in uno dei monasteri di Nikertai, dopo aver venduto tutti i suoi beni147. Nominato nel 423 vescovo di Cirro, rimase fedele al suo stile di vita monastico, pur adoperandosi a costruire opere pubbliche per mi­ gliorare le condizioni di vita materiali della propria diocesi. Vi rimase fino alla morte avvenuta fra il 458 e il 466, a parte una breve parentesi (449451) in cui fu esiliato quando il concilio di Efeso del 449 volle imporre l ’assoluzione di Eutiche, la cui teologia era stata avversata dal Nostro. Fu un vescovo calcedoniano, ma durante il Concilio di Calcedonia, fu co­ stretto a pronunciare una condanna esplicita di Nestorio, per allontanare da sé il sospetto di eresia. La varietà della sua produzione letteraria ricorda quella di Eusebio di Cesarea: Teodoreto si dedicò all’apologetica, all’esegesi, ai trattati teolo­ gici e, come il suo illustre predecessore che ritenne di dedicare agli eroi del suo tempo, cioè ai martiri, uno scritto apposito da affiancare alla sua Storia ecclesiastica, anche Teodoreto aggiunse alla sua Storia ecclesiasti­ ca un’opera dedicata agli straordinari «eroi e atleti della virtù»148 vissuti o che vivevano «in Oriente»149. Lo scritto abbraccia trenta notizie (le ultime due dedicate a tre figure femminili) su settantacinque personaggi delle regioni intorno ad Antio­ chia, Cirro, la Calcide e Apamea. Le notizie, di lunghezza ineguale, si succedono con un ordine non sempre seguito con coerenza. La cesura più importante è senza dubbio rappresentata dall’inizio del cap. xxi, in cui si 145 P. Canivet, Le monachisme syrien selon Théodoret de Cyr, Paris 1977, p. 82. 146 Théodoret de Cyr, Histoire des moines de Syrie (SC 234; 257), introduction, texte critique, traduction et notes par P. Canivet et A. Leroy-Molinghen, tt. 2, Paris 1977; 1979; Theodoret o f Cyrrus, A History ofthe Monks ofSyria, Translated with an Introduction and Notes by R.M. Price, Kalamazoo 1985; una sintesi recente è: T. Urbainczyk, Theodoret o f Cyrrus. The Bishop and thè Holy Man, Ann Arbor 2002. 147 Teodoreto, Lettera 113. 148 Storia religiosa, prol. 1. 149 Storia religiosa, prol. 9.

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afferm a di aver raccontato fin o a quel m o m en to la politela di a sc eti d efu n ­ ti e d i v o le r p ro seg u ire con q u e lli ancora in vita, p rin cip io cu i T eodoreto è rim asto p o i fe d e le ad e c c e z io n e di d ue n o tiz ie in titolate ad asceti g ià d e c e d u ti150. A n n u n cia an ch e di v o le r segu ire criteri di carattere g eo g r a fi­ c o , m a l ’in cr o cio d el criterio cr o n o lo g ic o co n q u e llo g e o g r a fico dà lu o g o ad altre in c o e r e n z e 151. N o n è n e ll'in te n z io n i d ell A u tore com p orre una storia sistem a tica d el m on ach eS im o siria co , g li sta p iù a cu o re offrire un quadro su ffic ien te m en te articolato d ei vari m o d i di v ita ad ottati152, an ch e se le n o tiz ie p iù n u m erose e d iffu se so n o d ed ica te agli anacoreti.

Le singole notizie si succedono secondo uno schema simile che rag­ gruppa la materia per «rubriche»153: dopo un breve proemio, i primi due paragrafi contengono in forma sintetica il profilo biografico del personag­ gio fino alla scelta monastica e la descrizione della sua disciplina ascetica; più sviluppata è la parte riguardante l ’eventuale fondazione di monasteri, le virtù e i miracoli (non sempre in quest’ordine), la descrizione della mor­ te e della sepoltura concludono i capitoli. Nel caso di fondatori di mona­ steri la notizia continua con la descrizione dell ’asketike politela dei disce­ poli più importanti. Il metodo espositivo, che raggmppa sotto un unico argomento episodi avvenuti in momenti diversi, rende spesso difficile 1 in­ dividuazione della cronologia assoluta dei singoli episodi e personaggi. Come molti altri agiografi, Teodoreto intreccia alla descrizione delle vite dei monaci molti ricordi autobiografici: è un modo per rafforzare la credibilità della sua Storia, in quanto l ’autopsia - l ’essere un testimone dei fatti - era ritenuta un requisito essenziale dell’affidabilità dell’istoria. Non aver seguito le «leggi dell’encomio», aver conosciuto personalmente gli asceti o aver raccolto su di loro notizie da testimoni degni di fiducia sono gli aspetti su cui insiste di più fin dalle prime battute154 per ottenere la fidu­ cia dei suoi lettori riguardo a queste figure straordinarie che abbracciano un secolo e mezzo della storia monastica della Siria: da Giacomo di Nisibi, un anacoreta che fissò la sua dimora sui monti vicini intorno al 280 e che poi divenne vescovo di quella città intorno al 308, a Pietro il Galata che, recluso in una tomba vicino ad Antiochia, guarì la madre di Teodoreto da una doppia malattia, la vanità femminile e l ’infermità agli occhi155; da Macedonio, soprannominato «il mangiatore d ’orzo» dall’alimento che per quarant’anni fu l ’unico suo cibo, a Goubba, che in siriaco significava ci­

150 Storia religiosa 22 e 24. 151 La questione è analizzata in dettaglio da Canivet, Le monachisme syrien , cit., pp. 83-86. 152 Sommario in Storia religiosa 27, 1. 153 Cfr. supra, p. 94. 154 Storia religiosa , prol. 9; 11. 155 Storia religiosa 9, 8.

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sterna, dai luoghi che normalmente sceglieva per esercitare la sua ascesi. Proprio alle preghiere di Macedonio la madre di Teodoreto ritenne di es­ sere debitrice per l ’unico suo figlio, avuto dopo lunghi anni di sterilità156. Fra gli asceti ancora viventi, la figura destinata a colpire di più i con­ temporanei e a trovare numerosi imitatori157 era senza dubbio quella di Si­ meone il giovane (per distinguerlo da Simeone il vecchio la cui vita è rac­ contata in un capitolo precedente158), un pastore che, prima di trovare nel­ la sommità di una colonna la sua dimora definitiva, era passato attraverso altre forme di vita monastica rivelatesi via via sempre inadeguate al suo radicalismo ascetico159. La notizia che lo riguarda - malgrado le dichiara­ zioni del prologo - ha una struttura encomiastica molto più accentuata delle altre. Il periodo giovanile di Sim eone ricorda per certi aspetti Antonio160: Simeone maturò la sua conversione alFascetismo ascoltando in chiesa il passo di Luca sulla beatitudine promessa a coloro che su que­ sta terra piangono e i “guai” minacciati a coloro che invece “ridono” (Le 6,2.25). Dopo aver trascorso due anni in un asketerion nelle vicinanze (400-402), rimase per dieci anni nel monastero di Taleda da cui venne allontanato perché refrattario a seguire le indicazioni dei superiori che lo invitavano a limitare la sua ascesi; nei tre anni successivi dimorò in soli­ tudine in una casetta presso Telanissos (oggi Der Sim ’an), per poi stabi­ lirsi sulla cima della montagna sovrastante il borgo vivendo esposto alle intemperie in un luogo delimitato da un muro circolare secondo il modo di vivere anche di altri asceti e ascete raccontati da Teodoreto: gli ipetri161. Per sfuggire all’assedio delle folle - afferma Teodoreto - che accorreva­

156 Storia religiosa 13. 157 L’esempio di Simeone suscitò numerose vocazioni in Siria e altrove dando vita ad un feno­ meno di lunga durata: cff. H. Delehaye, Les saints stylites (Subsidia hagiographica 14), BruxellesParis 1923, che contiene l ’edizione critica delle Vite di Daniele (Costantinopoli t 493), Alipio (pres­ so Adrianopoli in Paflagonia, vii sec.), Luca ( t 979) e Simeone il giovane (presso Antiochia t 592); I. Pena-P. Castellana-R. Femandez, Les stylites syriens, Jérusalem-Milano 1975. 158 Storia religiosa 6. 159 Su Simeone possediamo una Vita siriaca e un’altra in lingua greca di un certo Antonio, che si presenta come un discepolo di Simeone, composte dopo la morte dello stilita. Le tre Vite, pur coinci­ dendo nella struttura cronologica più generale, differiscono profondamente e paiono indipendenti Luna dall’altra cfr. The Lives ofSymeon Stylite, translated with an Introduction by R. Doran, Spencer, Massachussets 1992. Per un confronto: S. Ashbrook Harvey, The Sense o fa Stylite: Perspectives on Simeon thè Elder, in «Vigiliae Christianae» 42(1988), pp. 376-394 e B. Flusin, Syméon et les philologues, ou la mori du stylite, in C. Jolivet-Lévy-M. Kaplan-J.-P. Sodini (eds.), Les Saints et leur sanctuaire à Byzance. Textes, images et monuments, Paris 1993, pp. 1-19. 160 Teodoreto aveva probabilmente letto il testo di Atanasio: cfr. Teodoreto, Storia ecclesiatìca 4, 21, 6; 4, 27, 4. 161 Come Marone (cap. 16) o Abba che durante l ’invemo si mette all’ombra e d’estate sta al sole considerando le vampate di calore come “zefiri” (4, 12) o Giovanni che sceglie un crinale esposto ai venti e fa tagliare un albero che gli avrebbe potuto offrire un qualche riparo (23, 1). Più in dettaglio I. Pefia-P. Castellana-R. Femandez, Les reclus syriens, s.d., pp. 34-35.

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no da lui per toccarlo e ricevere le sue benedizione, decise di salire su una colonna alta all’inizio 6 cubiti, poi 22 e infine 36 cubiti (circa 16 m). In cima alla colonna, Simeone doveva per forza disporre di uno spazio di lar­ ghezza maggiore del diametro della colonna se alternava alla posizione eretta numerosi piegamenti senza perdere l ’equilibrio162*. Secondo calcoli che incrociano le informazioni di Teodoreto con quelle della Vita siriaca, Simeone sarebbe salito sulla prima colonna nel 422 e sull’ultima nel 429. Nel momento in cui Teodoreto scriveva presumibilmente la notizia che lo riguardava, Simeone stava sulla colonna da più di venti anni e vi sarebbe rimasto fino alla sua morte avvenuta nel 459. Il luogo non distava da Cirro che circa 50 km e Teodoreto fu senza dubbio un assiduo visitatore di Simeone, a giudicare dalla ricchezza di informazioni riguardanti il perio­ do “stilita”: «Sta in piedi giorno e notte sotto gli occhi di tutti, poiché aveva fatto togliere le porte e distruggere non poco della cinta muraria162, sta davanti a tutti, spettacolo nuovo e paradossale, ora in piedi per lungo tempo, ora piegandosi frequentemen­ te per offrire a D io la sua adorazione... Piegandosi tocca sempre con la fronte i piedi: in effetti il suo stomaco che riceve nutrimento una sola volta alla settima­ na e in piccola quantità, permette alla schiena di piegarsi facilm ente»164.

Per quanto venga presentata come una scelta di isolamento dalle folle, la scelta della colonna «assegna allo stilita una posizione al contempo centrale e marginale»165: egli occupa uno spazio separato, ma visibilissi­ mo; sta solo sulla colonna, ma ha bisogno di una rete di appoggio e di mediatori. Simeone rimaneva perciò al centro di una vita sociale e reli­ giosa intensissim a166: ai piedi della colonna e comunicanti con lo stilita per mezzo di una scala, un certo numero di monaci provvedevano ai suoi bisogni e si facevano tramite delle richieste dei numerosissimi visitato­ ri: Simeone infatti sottraeva alcune ore della sua giornata alla preghiera e le dedicava (dalla nona ora al tramonto) ad esortare i presenti, a esau-

162 Una piattaforma che sorreggeva una struttura in legno?: discussione in I. Pena-P. Castellanali. Femandez, Les stylites syriens, cit., pp. 39-42; iconografia: pp. 180 ss. Sui gesti, da una prospetti­ va antropologica: G.A. Gilli, Arti del corpo. Sei cosi di stilitismo, Cavallermaggiore 1999. 163 Si tratta della cinta che circondava la base della colonna. 164 Storia religiosa 26, 22. 165 Gilli, cit., p. 21. 166 Sulfimportanza assunta dagli asceti nelle zone rurali della Siria: P. Brown, The Rise and Function of thè Holy Man in Late Antiquity, in Id., Society and thè Holy in Late Antiquity, London 1982, pp. 103-152, che ha influenzato moltissimo la ricerca successiva sullo stesso tema. Una reazio­ ne al paradigma interpretativo di P. Brown è: H.J.W. Drijvers, Hellenistic and Orientai Origins, in S. Hackel (ed.), The Byzantine Saint, London 1981, pp. 25-36: il santo com e imago Christi.

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dire le richieste particolari riguardanti guarigioni, a porre pace fra diver­ si contendenti167. Le pratiche ascetiche di Simeone - un digiuno protratto per 40 giorni, la sopportazione di gravi ferite infestate da vermi, l ’astinenza completa dal sonno, le catene con cui si martoriava le carni - perfino la singolarità della sua dimora non rappresentano affatto un unicum nel panorama del monacheSimo siriaco descritto dalla Storia religiosa : Eusebio, ad esem­ pio, aggiunse alle 125 libbre di catene di ferro che già portava com e peni­ tenza, anche quelle del suo maestro Marciano e del suo condiscepolo Agapito per un totale di 250 libbre equivalenti a più di 80 kg! Zebinas non volle adottare questa forma di penitenza per non cadere nella vanagloria, ma di notte e quando non era visto pregava portando sulle spalle un’enorme radice di quercia168. È interessante notare che in altri ambienti monastici sim ili performances non incontravano ovunque lo stesso gradimento: Apollonio, padre di cinquecento monaci nella Tebaide, non approvava coloro che si caricavano di catene e portavano i capelli lun­ ghi perché vi vedeva una volontà di ostentazione, mentre raccomandava il digiuno e la pratica del bene in segreto169. Baradate visse per lungo tempo in una cassa in cui non poteva che stare curvo; la cassa, per di più, era costruita in modo che le sue pareti fos­ sero largamente sconnesse: in questo modo Baradate poteva aggiungere ai disagi subiti dagli ipetri anche la pena di una reclusione in un luogo così ristretto. Obbligato dal vescovo di Antiochia ad abbandonare la cassa, decise di stare sempre in piedi, con le mani levate verso il cielo, intera­ mente coperto da una pelle che gli lasciava liberi solo il naso e la bocca170. Talelaio si costruì una sorta di cilindro ove poteva stare soltanto seduto con la testa incassata fra le ginocchia, lo sospese a dei pali e vi rimase per dieci anni171. N ell’opera di Teodoreto sono riferite molte stravaganze ascetiche, tut­ tavia, al di là dei singoli episodi che in molti casi potrebbero riflettere la leggenda creatasi nelle diverse comunità monastiche riguardo al gruppo dei fondatori e/o degli asceti di riferimento, il rigorismo ascetico descrit­ to da Teodoreto riflette un carattere originario e peculiare della fase più antica del monacheSimo siriaco che è testimoniato anche da altre fonti siriache. E la Storia religiosa è affidabile anche nel registrare il carattere contemplativo dell’ascetismo siriaco che, nella ricerca di uno stato di per167 Storia 168 Storia 169 Storia 170 Storia 171 Storia

religiosa 26, 25-26. religiosa 24, 6. dei monaci in Egitto 8, 59. religiosa 27, 2. religiosa 28, 3.

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petua comunione con Dio attraverso la preghiera, non annetteva —sia pure con qualche rara eccezione, sottolineata in senso positivo da Teodoreto172 - alcun valore al lavoro nell 'iter di perfezione, considerandolo anzi una minaccia sia alla povertà del monaco, sia all’aspirazione di condurre già su questa terra una «vita angelica»173. Rigorismo ascetico e preghiera appartengono naturalmente anche ai movimenti monastici di altre regioni, ma il grado di intensità con cui furo­ no praticati in Siria ne costituisce un tratto specifico le cui origini vanno ricercate nei secoli precedenti, nella diffusione in queste regioni di un cri­ stianesimo di impronta fortemente dualistica e rigorista174. 4.1. Uno «spettacolo nuovo e paradossale» L’espansione del movimento monastico fu accompagnata non solo da entusiastiche adesioni, ma anche da aspre critiche. Proprio in Antiochia, in difesa dei templi contro cui si scagliava, soprattutto nelle campagne, la forza distruttiva dei monaci, si levò la voce autorevolissima di Libanio che li accusava di ipocrisia, parassitismo sociale, sottolineando l ’assurdità della loro pretesa di presentarsi come filosofi, quando erano gente di infi­ ma condizione sociale priva di ogni istmzione e ostile ad essa175. Il discor­ so di Giovanni Crisostomo, già figura di spicco nella Chiesa di quella città, Contro coloro che denigrano la vita monastica, prese spunto da una rivolta della cittadinanza contro i monaci la cui propaganda aveva convin­ to i giovani antiocheni ad abbracciare quella forma di vita e si rivolgeva sia ai genitori pagani, sia a quelli cristiani per dimostrare la superiorità della “filosofia monastica” sulla paideia greca. Anche se non mancavano asceti provenienti da strati sociali privilegiati, in grado di esprimersi in greco come in siriaco, che divennero in seguito fondatori di importanti centri monastici, il quadro complessivo emergente dalla Storia religiosa, che concede un’attenzione maggiore agli anacoreti, ci mette a contatto prevalentemente con l ’ambiente rurale e con persone appartenenti agli strati più umili della società, in grado di esprimersi solo in siriaco176.

172 Storia religiosa 10. 173 Canivet, Le monachisme, cit., pp. 217 ss. 174 Oltre agli studi già citati: S. Brock, Early Syrian Ascetism, in Id., Syriac Perspectives on Late Antiquity, Aldershot 1984, I, pp. 1-19; A.J. Festugière, Antioche paterne et chrétienne. Libanius, Chrysostome et les moines de Syrie, Paris 1959, p. 307; P. Escolan, Monachisme et Église. Le mona­ chisme syrien du ive au vip siede: un monachisme charismatique, Paris 1999. 175 Orazione 30, 11.26-28.31. 176 Storia religiosa 13: Macedonio rivolge ai funzionari romani un discorso in siriaco; cfr. 14; 17. Diversa era la situazione dei monasteri, che svolsero un’importante opera di mediazione della cultu­

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Questo sfondo va tenuto presente per comprendere la strategia comu­ nicativa di Teodoreto che, profondamente partecipe e informato sulle esperienze eremitiche della sua regione, intendeva avvicinarle e renderle plausibili agli occhi di un pubblico formato dalla paideia, non necessa­ riamente di soli greci, ma certamente costituito da persone che attribui­ vano valore e autorità soltanto a quella tradizione177 e alle quali Teodo­ reto presta spesso sentimenti di incredulità o di perplessa disapprovazio­ ne riguardo a quanto sta per raccontare178179. Per far conoscere i suoi eroi sceglie la forma letteraria deìVeuphemiam , quella forma letteraria, cioè, che Γ autorizzava a mettere in ombra le mancanze e i fallimenti. In effet­ ti, la Storia religiosa, a differenza delle altre raccolte monastiche, mette in scena eroi soltanto positivi che, fin dalle prime battute del prologo, egli si sforza di presentare com e solidamente inseriti e nella tradizione greca e in quella biblica. La Storia è offerta al lettore come un monumento imperituro alla me­ moria di quegli atleti ed eroi della virtù cui i greci innalzavano statue e adottando un linguaggio platonico - come “farmaco della memoria”, che vuole collocarsi a fianco e in concorrenza con i grandi generi letterari clas­ sici, com e la poesia, la storia, la tragedia e la commedia. L’oggetto proprio sarebbero «i combattimenti segreti e le lotte invisibili» degli asceti e dun­ que la loro forma di vita che «è maestra di filosofia e che cerca di eguaglia­ re il modo di vivere celeste»180. Il tema del combattimento invisibile intro­ duce le tradizionali citazioni paoline (Ef 6,12 s.) sui «nemici invisibili», cioè, le potenze malvagie contro cui il cristiano deve lottare per mortifica­ re il corpo e ridurlo in schiavitù (ICor 9,27). Il quadro antropologico e il linguaggio con cui viene descritta la lotta sono largamente debitori di im­ magini e temi platonici181, ma subito dopo Teodoreto ritorna a Paolo intro­ ra greca in ambito siriaco: P. Peeters, Le tréfonds orientai de Vhagiographìe bymntine (Subsidia hagiographica 26), Bruxelles 1950, pp. 49-70 e passim ; S. Brock, Greek and Syriac in Late Antique Syria, in Id., From Ephrem to Romanos. Interactions between Syriac and Greek in Late Antìquity, Aldershot 1999, i. pp. 149-160. 177 Teodoreto era di lingua e formazione greca ma in grado di comprendere e esprimersi in siria­ co: cfr. F. Millar, Theodoret ofCyrrhus: A Syrian in Greek Dress?, in H. Amirav-B. Ter Haar Romeny (eds.), From Rome to Constantinople. Studies in Honour o f Averii Cameron, Leuven-Paris-Dudley 2007, pp. 117-121; la domanda è «fundamentally misleading» (124): Quanto conosciamo - Millar afferma - dell’opera di Teodoreto è pienamente coerente con la sua nascita in una città in cui «high culture was entirely Greek, and where all attested public discourse, whether pagan or Christian (...) were conducted in Greek»; perciò sarebbe più opportuno pensare a lui «as a Greek for whom Syrian dress was a significant, but not thè most important, pari of his wardrobe» (125). 178 Storia religiosa 9, 11; 26, 1. 179 Sul carattere panegirico dell’opera: C. Gaspar, An Orientai in Greek Dress: thè Making of a Perfect Christian Philosopher in thè Philotheos Historia o f Theodoret of Cyrrhus, in «Annual of Medieval Studies at Central European University» 14(2008). pp. 205-210. 180 Storia religiosa , prol. 3. 181 Cfr. commento di Canivet al passo, SC 234, pp. 152-153.

Capitolo sesto ducendo il tema dei carismi ( ICor 12,8 ss.), doni dello Spirito, di cui que­ sti formidabili combattenti si sono resi degni attraverso l ’esercizio della loro volontà182. Ed è appunto alla luce della diversità di tali carismi che viene spiegata la scelta di non aver composto un elogio collettivo, ma rac­ conti separati e selettivi del modo di vivere dei diversi asceti. N el prologo troviamo un altro tema in cui Platone e Paolo appaiono intimamente intrecciati: è la definizione degli asceti come «amanti arden­ ti della bellezza divina che hanno scelto di compiere e soffrire tutto volen­ tieri per il loro amato»183: qui Teodoreto preferisce avvalersi di espressio­ ni (ερ α σ τή ς, έρώ μευος) che, per quanto già risemantizzati in senso cri­ stiano, derivavano dal lessico platonico. Il breve cenno anticipa uno spun­ to che verrà ripreso ampiamente nel breve trattato Sulla carità (agape) che è da considerarsi una sorta di epilogo della Storia religiosa184, tutto dedi­ cato a spiegare da dove questi splendidi combattenti attingevano l ’impul­ so che fece loro superare i limiti della natura umana e raggiungere le vette della filosofia. E tale principio è visto appunto n ell’amore di D io, qui illu­ strato, tra altri passi biblici, ricorrendo a passi paolini sull’agape (Rm 8,35-36). Il prologo e l ’epilogo intendevano offrire dunque ai lettori cristiani di cultura greca una prospettiva per così dire familiare da cui guardare per comprendere gli asceti siriaci; una prospettiva che, per certi versi, viene mantenuta nel resto dell’opera, per altri, invece, non poteva che essere di­ sattesa. La coincidenza del bios di questi asceti con l ’ideale atletico e filo­ sofico - coincidenza per altro già tradizionale - mantiene un ruolo cen­ trale e specifico in quanto si traduce in scelte lessicali sistematiche ed esclusive. Per descrivere il fenomeno monastico adotta la terminologia tecnica con cui nella tradizione greca si descriveva il mondo dell’attività sportiva e dell’insegnamento filosofico: coloro che, attirati dalla fama di Giuliano, vogliono diventare suoi discepoli e vivere con lui «lo supplica­ no di dividere la sua palestra e di passare il resto della loro vita a lui sot­ tomessi, come a un allenatore e a un istruttore atletico»185.1 monasteri so­ no «luoghi di meditazione filosofica»: phrontisteriam -, il modo di vivere di alcuni asceti è indicato con diatribe 187; i monaci intorno ad uno stesso

182 Storia religiosa, prol. 5. 183 Ibidem. 184 La discussione in Canivet, cit., pp. 87-102. ,85 Storia religiosa 2, 3; 4, 2, 5, 10. 186 Storia religiosa 3, 4; 4, 2; 26, 4. 187 Storia religiosa 14, 5; per il vocabolario delle scuole filosofiche G. Dorivai, Origene et ses disciples, in G. Filoramo (ed.), Maestro e discepolo. Temi e problemi della direzione spirituale tra vi a.C. e vii secolo d.C., Brescia 2002, pp. 166-179.

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asceta sono thiasotai e phoitetaim . Come ho già ricordato, la penetrazio­ ne del lessico delle scuole filosofiche nei testi cristiani come conseguen­ za della definizione, prima del cristianesimo, poi del monacheSimo, come “vera filosofia” era già tradizionale, ma nella Storia religiosa è accom­ pagnato anche dall’esclusione del lessico monastico che era già - almeno in parte - formato: per esempio, Teodoreto non utilizza quasi mai i termi­ ni monaco e monastero per i quali preferisce ricorrere a delle perifrasi18189. Fa parte della stessa strategia comunicativa tesa a presentare gli asceti siriaci come filosofi, il rilievo dato al possesso di qualità fisiche e spiri­ tuali che appartenevano all’ideale del saggio greco come lo abbiamo de­ scritto nelle Vite dedicate a Pitagora e ripreso da Atanasio nella Vita di Antonio19°: interessante è il ritratto di David che dirigeva un monastero a Teleda, raccontato sulla base di ricordi personali di Teodoreto: «Durante tutta la settimana trascorso presso di lui, non lo vedemmo mai cambiare aspetto, né avere l ’espressione ora distesa, ora accigliata, e parimenti il suo sguar­ do non era talvolta duro, talvolta affabile, ma i suoi occhi esprimevano sempre la stessa compostezza e da soli bastavano a provare la serenità del suo animo»191.

Teodoreto, poi, non manca di sottolineare fra le virtù degli asceti anche le altre qualità filosofiche: il senso della misura, la dolcezza, l ’equità, la mitezza192. N e ll’esaltare il monaco com e “vero filosofo”, la Storia religiosa offre un robusto puntello e completamento alla tesi di fondo dell’opera apologetica più importante di Teodoreto: la Terapeutica

delle malattie greche. Per altri versi, rispetto agli intenti espressi dal prologo, non si può non notare che la cornice paolina appare inadatta a contenere i temi effettiva­ mente trattati ed è subito dimenticata nel vivo dei racconti. Nulla hanno a che fare gli exploits ascetici dei monaci siriaci con il richiamo paolino rivolto a tutti a cristiani di lottare contro la carne; eppure sono questi ad occupare il centro del racconto. I «nemici invisibili» e le «lotte invisibili» che, al seguito di Ef 6,12 avrebbero dovuto costituire l ’oggetto dei raccon­ ti, lo sono in modo molto mediato. Tutta l ’enfasi è sulla fisicità dell’ascesi, non sulla lotta interiore193. Atanasio, dopo aver lungamente descritto le 188 Storia religiosa 10,2. 189 Cfr. il commento di Canivet, SC 257, p. 277, n. 3 e Canivet, Le monachisme, cit., p. 273. 190 Cfr. supra, p. 133, n. 51. 191 Storia religiosa 4, 10; il ritratto ricorda quello di Antonio: cfr. supra, p. 133. 192 Storia religiosa 4, 5; 11,2; 12, 5 e passim. 193 Price, cit., xxxii; D. Hombergen, The Second Origenist Controversy. A New Perspective ori Cyril o f Scythopolis’Monastic Biographies as Historical Sources for Sixth-Century Origenism, Roma 2001, pp. 355-357.

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lotte - anche fisiche - di Antonio contro i demoni, lo consegnava ai suoi lettori fisicamente integro, perfino attraente fin n ell’estrema vecchiaia. Per gli eroi di Teodoreto - con l ’unica eccezione appena menzionata di Davide non c ’è fine alle pratiche di automortificazione; i loro corpi con­ torti esprimono un’inumanità fisica che si fa segno visibile d ell’avvenuto superamento dei limiti della natura umana. Lo sfasamento fra le intenzioni espresse nelle “soglie” che compren­ dono il testo e questo stesso è riconduncibile alla particolare situazione del suo autore rispetto al mondo che descrive; un mondo vissuto dall’in­ terno fin dall’infanzia e profondamente ammirato e venerato, ma che egli non solo è in grado di guardare dall’esterno, ma che vuole guardare dal­ l ’esterno per farsene mediatore. In effetti, se, per un verso, Teodoreto cerca di mobilitare l ’ammirazione dei suoi lettori intorno a tali performances sottolineando a più riprese «lo spettacolo nuovo e paradossale» che esse offrono, dall’altro, proprio la consapevolezza di tale paradossali­ tà e delle critiche che essa suscitava, lo spingeva a offrirne una spiegazio­ ne in grado di attutirne Γ irriducibilità a tutto quanto fino a quel momento si era visto e scritto sulle diverse esperienze monastiche. Il capitolo dedicato a Simeone lo stilita è emblematico: una prima volta si afferma che egli salì sulla colonna per sottrarsi al contatto fisico della folla che cercava di toccare il suo mantello di pelle; poi la decisione di passare a colonne sempre più alte viene ricondotta —utilizzando la cele­ berrima immagine platonica del volo d ell’anima —al desiderio di «volare verso il cielo e di abbandonare la dimora terrena». Subito dopo Teodoreto, accennando alla necessità di mettere a tacere le lingue dei critici, si espo­ ne esplicitamente in prima persona, affermando che, a suo avviso, la deci­ sione di Simeone è frutto di un’ispirazione da parte di Dio che, come ha già fatto in passato per alcuni profeti, prescrive nuovi modi di vivere o gesti paradossali per attirare verso di Lui persone che altrimenti non si sarebbero convertite. La plausibilità di questa spiegazione è poi sorretta dall’enumerazione delle conversioni di pagani — Ismaeliti, Saraceni, Persiani - ottenute dalla colonna di Simeone: «Tale è il beneficio che sgorga dalla colonna di cui ci si fa beffa, così intensa è la luce di divina conoscenza che essa irraggia nella mente dei barbari!»194. Teodoreto non manca di registrare l ’approvazione dei vescovi195 come quella, per esempio, di Acacio di Berea riguardo a Eusebio. Questi, per essersi distratto un giorno a guardare dei contadini, decise di non guarda­ re più nulla di ciò che lo circondava e per accompagnare la sua decisione 194 Storia religiosa 26, 14. 195 Su questo aspetto: Urbainczyk, cit., pp. 114-147.

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da qualche costrizione esterna che gliela ricordasse, si impose un mar­ chingegno di ferro che lo obbligava a guardare sempre per terra; alla richiesta di spiegazioni per una così singolare postura, Eusebio rispose che si trattava di uno stratagemma per evitare che il demonio gli facesse guerra su cose importanti quali la temperanza e la giustizia; cose in cui l ’eventuale sconfitta sarebbe stata mortale. La sua postura, insomma, costituiva insieme una sfida e un diversivo per il dem onio196. Teodoreto, che aveva appreso l ’espisodio dallo stesso Acacio, ricorda l ’approvazione di quest’ultimo; ed egli stesso approva Talelaio, interrogato sui motivi della sua clausura in un cilindro sospeso197, come a suggerire - insieme alle motivazioni di tale stravaganza - che i combattimenti di questi asce­ ti, lungi da costituire motivo di scandalo e di disordine, erano da conside­ rarsi fenomeni perfettamente integrati e integrabili n ell’organizzazione ecclesiastica, di cui anzi si dimostravano puntelli fortissimi nel caso di contrasti contro il potere imperiale198 o della lotta contro l ’eresia199. 5. Il monacheSimo palestinese: Cirillo di Scitopoli, un giovane monaco al

servizio dell’istituzione Le vicende che portarono Cirillo di Scitopoli a narrare le vicende dei padri fondatori del monacheSimo palestinese del deserto di Giuda in cui egli stesso militava, sono ricavibili dalle sue Storie monastiche20°: nato presumibilmente intorno al 525 in una famiglia facoltosa, le cui fortune econom iche dipendevano almeno in parte dai servigi resi all’episcopato della città di Scitopoli, entrò nella Chiesa come lettore e nel 543 prese l ’abito monastico dalle mani d ell’abate Giorgio in un monastero vicino a Scitopoli201. Nella cerchia familiare, che era anche quella del vescovo, Cirillo ebbe occasione di acquisire una solida cultura biblica e teologica e di conoscere alcuni monaci di cui poi racconterà la vita: Saba che, in visi­ ta a Scitopoli, vide in lui ancora bambino un proprio discepolo202; i disce­ poli di Giovanni l ’Esicasta che lo misero in contatto con questo vescovo asceta, il quale divenne mentore e guida spirituale di Cirillo quando, d’ac­

196 Storia religiosa 4, 7. 197 Storia religiosa 28, 4. 198 Storia religiosa 13, 7-8: Macedonio che scende dal suo eremo in Antiochia per impedire la strage ordinata dall’imperatore Teodosio t a seguito di una rivolta dei cittadini. 199 Storia religiosa 26, 27. 200 In alcuni mss., il titolo di monachike istoria deutera precede la Vita di Saba·. Kyrillos von Skythopolis, hrsg. von E. Schwartz (TU 49.2), Leipzig 1939, p. 85. 201 Vita di Eutimia, prol. 202 Vita di Saba 75.

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cordo con lo stesso abate Giorgio, si recò a Gerusalemme con l’intenzio­ ne di partire poi di lì per andare ad «abitare nel deserto»203. Per motivi diversi non riuscì a realizzare questa sua aspirazione per lungo tempo. Rimase infatti nel cenobio fondato da Eutimio nei dieci anni successivi: un periodo particolarmente travagliato dalle aspre divisioni che investiro­ no i monasteri della Palestina nei quali si fronteggiavano i monaci origenisti e ortodossi. Il quinto concilio ecumenico ove l ’origenismo fu con­ dannato implicò l ’espulsione dei monaci origenisti dai monasteri che ven­ nero ripopolati da monaci ortodossi. Fra questi, per volontà e interessa­ mento di Giovanni, c ’era Cirillo che potè allora abbandonare il cenobio per andare nella Nuova Laura (554-556)204 ove com pose le Vite di Eutimio e di Saba. Da qui - attraverso la mediazione di Giovanni - passò alla Grande Laura dove si fece costruire una cella in cui abitare. Morì presu­ mibilmente poco dopo il 559. Un delizioso racconto ci illumina sulle difficoltà incontrate da questo giovane monaco nel portare a buon fine la sua opera: già da tempo stava appuntando su fogli sparsi le testimonianze su Eutimio e Saba - i padri fondatori di quel monacheSimo di cui lo stesso Cirillo aveva abbracciato la regola - , ma essi stentavano a comporsi ordinatamente e con stile, mal­ grado la sua ardente di volontà di assecondare la richiesta di Abba Giorgio di Scitopoli che sarà il dedicatario d ell’opera e, soprattutto, di Giovanni l ’Esicasta da cui aveva ottenuto gran parte delle informazioni205. In preda allo scoraggiamento, stava per abbandonare l ’impresa quando fu colto da un sonno profondo ed ecco apparigli «i santi padri Eutimio e Saba» e sentì che questi diceva al primo: «Ecco dunque Cirillo, tiene in mano i suoi appunti su di te, mostra lo zelo più caldo e tuttavia, dopo tante pene e fati­ che, non può trovare inizio alla sua opera». Eutimio, in seguito alla richie­ sta di Saba di concedergli «la grazia della parola salutare», tirò fuori dalla sua veste un vaso di alabastro e inumidì tre volte le labbra di Cirillo con un olio più dolce del miele che era «davvero la manifestazione della paro­ la divina»206. Al risveglio Cirillo fu naturalmente in grado di scrivere il prologo e di portare a termine il racconto della vita di Eutimio per poi pas­ sare in un secondo logos a narrare della vita di Saba.

203 Vita di Giovanni 20. L’inventario di tutti i passi autobiografici in Schwartz, cit., p. 271. 204 Vita di Saba 90. 205 Vita di Saba 21; Cirillo di Scitopoli, Storie monastiche del deserto di Gerusalemme, traduzio­ ne di R. Di Baldelli-L. Mortari; note di L. Mortali, introduzione di L. Perrone, Abbazia di Praglia 1990; Cyril o f Scytopolis, The Lives ofthe Monks of Palestine, tr. by R.M. Price; introd. and notes by J. Binns, Kalamazoo, Mich. 1991. 206 Vita di Eutimio 60.

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L’episodio, che suscita un’immediata simpatia in tutti coloro che hanno sperimentato la difficoltà del passaggio fra la raccolta di materiali e la loro composizione letteraria, è tutt’altro che ingenuo: oltre a mettere in campo i soliti luoghi comuni di inadeguatezza personale, Cirillo riven­ dica alla sua opera letteraria una particolare autorevolezza: essa non solo raccoglie le testimonianze più affidabili sui fatti, ma la stessa “retorica” che le rende disponibili al lettore è frutto dell’ispirazione diretta dei padri di cui racconta la vita. Le Vite di Eutimio e Saba sono presentate com e un prolungamento della loro azione post mortem, al pari dei miracoli che continuavano ad avvenire presso la tomba di Eutimio. Le sette Vite di monaci composte da Cirillo non sono state tramandate come opera unitaria, ma a gruppi o separatamente attraverso raccolte di vite monastiche e menologi. Non vi è dubbio che le Vite di Eutimio e Saba siano state concepite insieme, come, tra l ’altro, dimostra il sogno di Cirillo. L’intenzione di comporre la Vita di Giovanni l ’Esicasta si trova annuncia­ ta nella Vita di Saba207 e la frase d ’inizio della Vita di Giovanni lascerebbe intendere che Cirillo la considerasse la prima di un logos destinato poi ad accogliere altre Vite. Alcuni riferimenti presenti nelle Vite di Ciriaco208 e Abramio209 che rimandano a quanto già detto nelle Vite di Eutimio e Saba, farebbero pensare che, nell’intenzione dell’autore, non dovessero essere lette indipendentemente210. Ad esclusione delle Vite di Eutimio, Saba e Giovanni, le altre, molto più brevi, potrebbero essere state concepite come discorsi encomiastici da leggere o pronunciare nella ricorrenza della morte del santo, secondo un uso monastico già tradizionale211 e che è alla base di tanta produzione agiografica di genere biografico. La formazione del loro autore, avvenuta fra l ’episcopio e il monaste­ ro, si riflette profondamente nell’opera che è intessuta di rimandi a testi della tradizione ascetica e monastica. L’inventario redatto da Flusin212 comprende centoventi luoghi d ell’opera in cui Cirillo copia o è stato diret­ tamente influenzato dal testo di un altro autore; inventario che già Flusin non riteneva esaustivo e che, infatti, è stato ulteriormente ampliato dallo

207 Vita di Saba 21. 208 Vita di Ciriaco 1. 209 Vita di Abramio 3. 210 B. Flusin, Miracle et histoire dans l ’ceuvre de Cyrille de Scythopolis, Paris 1983, pp. 32-35; più in generale: B.R. Voss, BerUhrungen von Hagiographie und Historiographie in der Spàtantike, in «Friihmittelalterliche Studien» 4(1970), pp. 53-69. 211 Lo stesso Cirillo alla fine della Vita di Giovanni (che era ancora in vita) si scusa di aver scel­ to solo qualche episodio con queste parole: «Tutte queste imprese valorose, lascio narrare ad altri autori. Poiché so bene che dopo la sua morte sarà un obbligo per molti, come è naturale, descrivere i combattimenti etc.» (ibi. 27). 212 Ibi, pp. 41 ss.

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studio di Binns213. Nella “biblioteca” di Cirillo troviamo, tra altri, la Vita di Pacomio, la Storia lausiaca di Palladio, La Vita e i miracoli di Santa Tecla, gli Apoftegmi dei padri, la Storia ecclesiastica di Teodoro il Let­ tore, N ilo d’Ancira, 1Orazione in memoria di Basilio di Gregorio di Nazianzio, la Storia religiosa di Teodoreto di Cirro. Di contro non vi è nessuna citazione o riferimento alla paideia greca e il linguaggio con cui si riferisce alle realtà istituzionali e spirituali del monacheSimo - ad eccezione di qualche rara menzione della “filosofia” monastica - utilizza un lessico autonomo senza più nessun com plesso di inferiorità rispetto a quella tradizione. La presenza della Bibbia è massic­ cia; non solo nei modi tradizionali del discorso agiografico - paragoni fra il santo e figure di spicco della tradizione biblica e racconti di miracoli che ricordano quelli dell’Antico e del Nuovo Testamento - ma nel lin­ guaggio stesso che rivela una personalità plasmata dallo studio e dalla recitazione a memoria del testo sacro che filtra per inconsapevole osmosi nella narrazione di Cirillo214. Le Vite sono una fonte insostituibile per la storia del monacheSimo che si sviluppò n ell’area compresa fra Gerusalemme e il mar Morto; un’area che racchiude in poco spazio ecoambienti diversissimi: la costa, il deserto, la steppa. L’ambiente geografico offriva la possibilità di inse­ diamenti monastici di diverso tipo, dal completo isolamento in una delle numerose grotte, alla forma di vita semianacoretica della laura, alla vita comune del cenobio. Le Vite coprono un arco temporale ampio che va dal 405, anno d ell’arrivo di Eutimio à Gerusalemme, al 558, anno in cui muore Giovanni l ’Esicasta: fu un periodo di tumultuoso sviluppo e gran­ de espansione del fenomeno monastico su cui, prima di Cirillo, abbiamo rare testimonianze215. Sono testi di ampiezza e impegno incomparabili: delle 242 pagine nel­ l ’edizione di Schawrtz, le Vite di Eutimio e Saba ne occupano le prime 194, mentre quella di Teognio soltanto due. Le prime due hanno hanno una struttura molto simile216 e tutte raccontano vicende sotto molti aspet­ ti analoghe. Tutti i protagonisti venivano da fuori e avevano maturato una vocazione religiosa prima di recarsi a Gerusalemme. Eutimio era di Melitene, metropoli dell’Armenia. Divenne lettore e poi presbitero della sua Chiesa e, per la sua precoce perfezione ascetica, gli venne affidato dal vescovo il compito di governare i monaci dei dintorni. Saba proveniva da 213 J. Binns, Ascetici and Ambassadors ofChrist. The monasteries o f Palestine 314-631, Oxford 1994, pp. 57-66. 214 Esempi in Binns, cit., p. 62. 215 Palladio, Storia lausiaca 48. 216 Binns, cit., pp. 151-153.

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un villaggio della Cappadocia e fu monaco cenobita per dieci anni; Gio­ vanni l’esicasta veniva da Nicopoli in Armenia ed era stato eletto vesco­ vo di Colonia. Ciriaco proveniva da Corinto e, nipote di vescovi, era let­ tore nella Chiesa ove era nato. Teodosio era cappadoce ed era cantore del­ la sua Chiesa e fin dall’infanzia apprese a memoria il Salterio e le Scrit­ ture; Teognio proveniva dalla Cappadocia, divenne igumeno di un mona­ stero sul Monte degli Olivi e poi vescovo di Betilio, una città sulla co­ sta217. Abramio era di Emesa in Siria e divenne igumeno di un monastero. Erano tutti - potremmo dire - uomini di successo; persone in cui la per­ fezione morale acquisita attraverso la lotta contro le passioni e la vocazio­ ne religiosa si accompagnava ai riconoscimenti istituzionali e questo in una prospettiva - organica all’istituzione e caratteristica di Cirillo - che celebrava la coincidenza fra gerarchia visibile e gerarchia spirituale. Era proprio il loro successo, con i fastidi ineluttabili che comportava, a spin­ gere questi uomini già santi verso Gerusalemme e tale svolta è descritta quasi ovunque con gli stessi termini: «L’amico di Dio e nemico della glo­ ria Eutimio uscì dalla città e fuggì verso Gerusalemme desideroso di abi­ tare il deserto che le è prossimo»218. Saba «è preso dal desiderio gradito a Dio di raggiungere la città santa e di vivere da solitario nel deserto vici­ no»219. Tali formule stereotipate rendono conto di un passaggio che nel­ l ’economia del racconto non è al centro del discorso agiografico di Ci­ rillo, tutto incentrato sul periodo palestinese della vita dei suoi eroi. Gerusalemme era il luogo in cui tutti convergevano per venerare i luo­ ghi sacri e da cui partivano per altre destinazioni monastiche: Eutimio venne accolto dalla laura di Faran ove visse per cinque anni, fino al momento in cui, durante una permanenza nel deserto, scoprì un’ampia caverna e vi si stabilì insieme a un suo discepolo; qui accolse un primo gruppo di novizi, base di avvio, a sua volta, di numerose altre fondazioni monastiche. Dopo una breve permanenza in un monastero della Città Santa, Saba chiese ad Eutimio di essere ammesso alla sua laura, ma que­ sti lo indirizzò, a causa della sua troppo giovane età, al cenobio di Teoctisto ove restò per diciassette anni. In seguito visse per quattro anni in diversi luoghi desertici, fino a quando una visione gli indicò il luogo dove avrebbe trovato una caverna ove abitare e ove avrebbe costruito la Grande Laura, la prima delle sue otto fondazioni monastiche220.

217 Su Teodosio e Teognio possediamo anche altre due Vite, scritte rispettivamente da Teodoro di Petra (Die heilige Theodosios, Lepzig 1890) e Paolo di Elusa (Vita Teognii) ed. par I. Van den Gheyn, in «Analecta Bollandiana» 10 (1891), pp. 78-113. 218 Vita di Eutimio 5. 219 Vita di Saba 6; Vita di Giovanni 4; Vita di Ciriaco 3. 220 Meticolosamente enumerate in Vita di Saba 58.

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N e ll’arco delle loro lunghissime vite, i monaci raccontati da Cirillo sono spesso in movimento e i loro spostamenti - indici non tanto di una progressione spirituale, quanto di una loro crescita istituzionale - , costi­ tuiscono la struttura narrativa delle Vite. In effetti se Eutimio e Saba nei loro spostamenti fondano monasteri e diventano igumeni degli stessi e archimandriti, per gli altri personaggi narrati da Cirillo, che arrivano in Palestina dopo di loro, sono proprio le fondazioni di quelli a costituire i luoghi di passaggio e di permanenza. Ho già accennato al fatto che al momento del loro arrivo in Palestina, gli eroi di Cirillo sono già santi: per questo la lotta contro le passioni, con i suoi risvolti demonologici, costituisce una parte molto limitata dei rac­ conti di Cirillo che è più interessato a dare il massimo rilievo a tutto quan­ to riguarda le origini, lo sviluppo, gli eventi memorabili, le tradizioni del­ l ’istituzione monastica. Sottolinea la fedeltà alle regole tramandate dai fondatori come, ad esempio, l ’uso osservato dai monaci più sperimentati - originale del monacheSimo palestinese - di trascorrere il periodo quare­ simale lontano dalla laura o dal cenobio in luoghi completamente isolati; o la regola di non accettare monaci troppo giovani all’interno della laura221; o la pratica del lavoro e l ’adozione di un’ascesi severa, ma rego­ lata e calibrata sul comportamento della comunità di appartenenza, nel rifiuto di performances individuali: «Eutimio diceva: “La buona astinenza è di restare, all’ora del pasto, poco al di sotto del bisogno, di custodire il cuore e di lottare in segreto contro le passioni nascoste: quanto alle armi del m onaco, esse sono la meditazione, il discernimen­ to degli spiriti, la temperanza e l ’obbedienza secondo D io”»222.

Sono le tradizioni, presumibilmente, che Saba, in punto di morte, tra­ mandò per scritto ai suoi monaci223. I carismi di guarigione, di discernimento, di profezia sono spesso colti nelle loro ricadute istituzionali. Il primo miracolo di Eutimio a favore del piccolo Terebone, oltre a convertire la sua famiglia e un gran numero di barbari al cristianesimo, legò alla laura di Eutimio, allora ai primi passi, una famiglia potente e ricca che con le sue donazioni contribuì in modo determinante alla costruzione e all’ampliamento del monastero224. E così avvenne anche per le fondazioni successive il cui sostentamento e svilup­ po è presentato come conseguenza dei carismi di Eutimio che attiravano 221 222 223 224

Vita di Saba 29. Vita di Eutimio 9. Vita di Saba 76. Vita di Eutimio 10.

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donazioni e aiuti di ogni genere225.1 miracoli post mortem che avvenivano presso la sua tomba non sfuggivano alla stessa prospettiva di protezione e consolidamento del monastero: persone guarite dal santo ritornavano ogni anno nell’anniversario della loro guarigione per offrire un banchetto ai monaci226; un ladro che aveva rubato l ’urna d’argento saldata sopra la lapi­ de che ricopriva il corpo di Eutimio, rimase bloccato all’uscita227; le cister­ ne del cenobio si riempirono d ’acqua a seguito di una pioggia improvvisa e fuori stagione, grazie all’intervento di Eutimio228. Anche Saba opera direttamente o è fatto oggetto di eventi miracolosi o soltanto inaspettati che proteggono o danno avvio alle sue numerose fondazioni monastiche229. Le Vite danno inoltre un grande rilievo all’ortodossia dottrinale dei suoi eroi: Eutimio era ammirato per il suo zelo riguardo ai dogmi della Chiesa e per il suo odio assoluto riguardo alle eresie di cui Cirillo si pre­ mura di illustrare il dettagliato catalogo - Mani, Origene, Ario, Sabellio, Nestorio, Eutiche - e il contraddittorio da lui sostenuto con esponenti del­ l ’opposizione in difesa della definizione di Calcedonia230. Nella Vita di Ciriaco, il monaco interrogato proprio dal nostro Cirillo, espone gli «erro­ ri» degli origenisti231. Un nucleo tematico costante di queste Vite è inoltre l ’intreccio fra isti­ tuzione monastica e sacerdozio sotto il duplice aspetto dell’integrazione della gerarchia sacerdotale con la gerarchia monastica nelle laure e nei cenobi palestinesi e dei rapporti di sostegno reciproco fra monasteri ed episcopato gerosolimitano nella com plessa partita che vide schierati, oltre ai monaci di opposti orientamenti dottrinali, il potere imperiale nei diver­ si momenti favorevole ora agli uni, ora agli altri. Come ho ricordato, i santi monaci arrivano a Gerusalemme con l ’inten­ zione «di abitare il deserto», tuttavia Gerusalemme con i suoi luoghi santi rimane comunque al centro del racconto di Cirillo. In primo luogo, come sede dell’altro potere, quello episcopale, che accompagna, incoraggia e legittima le iniziative degli eroi di queste vite, difendendone - come nel caso di Saba232 —l ’autorità all’interno dello stesso mondo monastico per­ 225 Vita di Eutimio 12.16-18 e passim. 226 Vita di Eutimio 54; 57. 227 Vita di Eutimio 42.59. 228 Vita di Eutimio 44. 229 Solo qualche esempio: Vita di Saba 45.46.66.67; dopo la morte a protezione del monastero e dei suoi frequentatori: 78-82; sui miracoli, oltre allo studio di Flusin, già citato, cfr. Binns, cit., pp. 218-244. 230 Vita di Eutimio 26-27. 231 Vita di Ciriaco 12-14. 232 B. Flusin, Saint Sabas: un leader monastique à l ’autorité contestée , in A. Camplani-G. Fi­ loramo (eds.), Foundations of Power and Conflicts ofAuthority in Late Antique Monasticìsm , LeuvenParis 2007, pp. 195-216.

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corso da profonde quanto dolorose lacerazioni. E un potere che viene a sua volta sostenuto in momenti cruciali: di grande effetto mediatico, se non nei fatti, ma certo nel testo che li ricostruisce, è, ad esempio, l ’intervento di Saba e Teodosio, l ’uno archimandrita degli anacoreti, l ’altro dei cenobi della Palestina, accanto al vescovo Giovanni contro l ’Imperatore. È un mo­ mento drammatico dello scontro fra i monaci favorevoli alle decisioni in materia cristologica del concilio di Calcedonia e il partito anticalcedonese, capeggiato - con l ’appoggio dell’Imperatore Anastasio - da Severo vesco­ vo di Antiochia. Anastasio ha appena ordinato la scarcerazione di Gio­ vanni, vescovo di Gerusalemme, sulla base della promessa da parte sua di accettare di entrare in comunione con Severo, invece Giovanni si presenta con Saba e Teodosio nella chiesa gremita da diecimila monaci e, di fronte al rappresentante dell’Imperatore, i tre pronunciano dall’ambone la con­ danna di chi non accettava Calcedonia. Il fatto poi che fosse un monaco e non il vescovo ad esclamare: «Se qualcuno non accetta i quattro concili come i quattro vangeli sia scomunicato»233, è sintomatico di un altro aspet­ to che percorre il racconto emiliano anche in altri luoghi: nella difesa del­ l ’ortodossia, come in altre questioni d ’importanza vitale per la prosperità della Chiesa gerosolimitana, la parte che i monaci aspiravano a recitare, non era soltanto quella di attori di secondo piano, ma di protagonisti, come è ben messo in evidenza nella ricostruzione degli altri interventi, questa volta dei soli Saba e Teodosio, presso l ’autorità imperiale. Sono loro a ri­ vendicare a Gerusalemme un m olo universale, come madre di tutte le Chiese che, avendo accolto per prima la predicazione di Cristo e degli apo­ stoli, ha poi saputo mantenere integra e inviolata la fede234. 5.1 .L e Vite dei monaci fra storia del monacheSimo e storia ecclesiastica Cirillo approdò al «monastero del grande Eutimio» - trasformato dopo la sua morte da laura in cenobio - nel luglio del 544235. Qui fu testimone di alcuni miracoli che avvenivano presso la sua tomba e - stando al suo racconto - venne preso dalla curiosità di sapere di più sul genere di vita e sulle virtù del santo. Eutimio era morto nel 474, dunque da settanta anni; la ricerca su Eutimio si intrecciava inevitabilmente con quella su Saba che era stato un suo discepolo in quanto le fonti principali erano costituite dai monaci più anziani custodi di memorie su Eutimio e compagni di lotta e di ascesi di Saba. Fra questi spicca il contributo di Giovanni l ’Esicasta236, 233 234 235 236

Vita di Vita di Vita di Vita di

Saba 56. Saba 57. Eutimio 49. Saba 21.

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il vero deus ex machina della vita come delle Vite di Cirillo. Giovanni ancora vivo quando Cirillo componeva la Vita su di lui —era arrivato alla Grande Laura di Saba nel 491237 e vi era rimasto con qualche intervallo per cinquantasette anni238. Cirillo sostiene di aver cominciato a raccogliere materiale già dal 544; tuttavia la redazione delle Vite di Eutimio e Saba avvenne soltanto dieci anni dopo, quando gli eredi del monacheSimo calcedonese e antiorigenista di Eutimio e Saba ripresero il possesso dei monasteri dei padri; un momento dunque di massima solennità sottolineata - nell’epilogo della Vita di Saba - da un sapiente mosaico di citazioni bibliche tratte da Isaia, dall’Esodo e da alcuni Salmi storici tutti riguardanti la promessa fatta da D io al suo popolo di liberarlo dai suoi nemici. Con l ’insediamento di Ci­ rillo nella Nuova Laura - insediamento propiziato dallo stesso Giovanni si chiude anche l ’esilio personale di Cirillo che, solo ora, può realizzare la sua aspirazione alla solitudine, per quanto ancora relativa, della laura e avverare la profezia di Saba su di lui239: abitare nel deserto, dopo dieci anni di vita cenobitica. In questo momento cruciale della storia collettiva e personale, le Vite di Cirillo possono offrire ordine e senso alle azioni dei padri e agli even­ ti anche traumatici che avevano caratterizzato la vita delle loro fondazio­ ni, interpretando le une e gli altri come altrettante fasi del progetto di Dio su di loro. L inizio della narrazione non poteva allora che coincidere con l ’incar­ nazione, cioè, con l ’inizio della storia della salvezza che poi prosegue con l’invio degli apostoli, dei martiri e, da ultimo, dei monaci che ne continua­ no, con il sacrificio di se stessi, l ’opera illuminatrice240: incipit ripreso con le debite modifiche dalla Vita di Pacomio241, ma che richiama un altro incipit famoso: quello della Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea in cui la narrazione prende le mosse dalla trattazione sulla natura di Cristo e dalla sua incarnazione. Se i monaci fanno parte del piano provvidenziale di D io riguardo all’umanità, la loro vita deve essere narrata in modo da mostrare come gli eventi che li riguardano, accuratamente collocati nel tempo, siano altrettanti punti di inserzione con quel piano divino. La cro­ nologia del santo è la griglia in cui sono inseriti con la massima precisio­ ne possibile la successione degli Imperatori, gli eventi della Chiesa uni­ versale come i concili, le successioni episcopali della Chiesa gerosolimi237 Vita di Giovanni 5. 238 Vita di Giovanni 28. 239 Cfr. supra, p. 272, n. 202. 240 Vita di Eutimio, prol. 241 Vita di Pacomio (G l).

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tana: tutto ciò che avviene, avviene in un preciso momento della vita del santo e com e essa concorre alla realizzazione di un disegno provvidenzia­ le. Si sottolinea, per esempio, che la nascita di Eutimio coincise con la morte di Valente, l ’Imperatore ariano, e con l ’inizio di un periodo di pace per le Chiese242. Il suo ingresso nell’ordine sacerdotale, avvenne contem­ poraneamente alla salita al trono di Teodosio i243. In generale, gli eventi decisivi nella vita dei monaci sono ricondotti all’iniziativa divina244, in certi casi, per il tramite di visioni o di altri segni245. La biografia si allarga a comprendere la storia della Chiesa di un’inte­ ra regione e de\Yistoria assume il metodo: la precisione cronologica e geografica, la citazione circostanziata dei testimoni, dei documenti, delle successioni dei vescovi e degli igumeni e dei monasteri. La contaminazio­ ne fra bios e istoria non è una novità assoluta; anzi, come si ricorderà, si trova agli inizi del discorso agiografico cristiano: la Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea comprendeva il bios di Origene. Tuttavia qui il rac­ conto biografico era ospitato in una griglia che lo sovrastava e da cui dipendeva, mentre, nelle Vite di Eutimio e Saba, sono gli altri avvenimen­ ti a inserirsi nella trama cronologica del santo. Q u esto ca p o v o lg im e n to di prospettiva è il vero elem en to di n ovità d e lle Vite di C irillo , soprattutto se co n sid era te su llo sfo n d o d el rapporto fra Storia ecclesiastica e Storie dei monaci246. Fra i m o tiv i c h e sp in g ev a ­ n o a raccontare i vari m onacheSim i, c ’era il p rob lem a ch e le Storie eccle­ siastiche scritte d o p o E u se b io di C esarea avevan o ricevu to da lui la lista d e g li argom enti sp e c ific i d e l g en ere247; ta le lista - soltan to in parte per m o tiv i cr o n o lo g ici - non co n tem p la v a il m onacheSim o. S ocrate ( t 4 5 0 c a .), c h e d ed ica un ca p ito lo d ella sua Storia al m on ach eS im o eg izia n o , d im ostra la c o n sa p e v o le z z a ch e lo sc h e m a eu se b ia n o n on era p iù su ffi­ cie n te p er abbracciare il ru o lo effettiv o e l ’im portanza rivestiti dai vari m on ach eS im i a lT in tem o d e lla C hiesa; co n tin u a tuttavia a ritenere tale ar­ g o m en to non p ertinente a lla Storia ecclesiastica e rim anda a lla letteratu­ ra sp ec ia liz za ta , n el ca so s p e c ific o a lla Storia lausiaca di P a lla d io 248. N e ­ g li stessi anni, soltan to S o z o m e n o , c o n sa p ev o le di in novare, so sten n e esp licita m en te ch e g li in izi e lo sv ilu p p o d ei m onacheSim i fa ce v a n o parte

242 Vita di Eutimio 2. 243 Vita di Eutimio 3. 244 Talvolta introdotta con la formula “Dio si compiacque di...” Vita di Eutimio 8.16.43. 245 Vita di Saba 15.18.31. 246 B. Flusin, Un hagiographe saisi par l ’histoire: Cyrille de Scytopolis et la mesure du temps, in J. Patrich (ed.), The Sabaite Heritage in thè Orthodox Church from thè Fiflh Century to thè Present, Leuven 2001, pp. 119-126. 247 Enumerati nel prologo della Storia ecclesiastica di Eusebio. 248 Socrate, Storia ecclesiastica 4, 77-80.

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della Storia ecclesiastica249. In alcuni si fece strada la convinzione che questo nuovo soggetto non poteva ridursi a una breve presentazione di figure eccezionali, ma bisognava dare spazio ai discepoli, alla storia suc­ cessiva delle fondazioni monastiche e al loro intreccio con la vita genera­ le delle Chiese. Alla base della scelta percorsa di Teodoreto di Cirro di comporre, accanto ad una Storia ecclesiastica, una Storia religiosa dedi­ cata alle vite dei monaci dell’Oriente, vi furono certamente anche queste considerazioni. Va inoltre aggiunto che le Vite di Cirillo esprimono il punto di vista della parte vincente dopo lotte che durarono per più di un secolo. Redatto dopo Vhappy end, il resoconto smussa, tace, sottolinea, abbellisce gli avvenimenti con lo scopo di mostrarli fin d alfinizio preordinati all’esito che effettivamente avevano avuto. Gli studi sulla Chiesa di Palestina nello stesso arco di tempo coperto dalle Vite, hanno messo in luce com e la rice­ zione delle decisioni del Concilio di Calcedonia sia stata contrastata e fati­ cosa, com e abbia implicato nelle varie fasi prudenze e tentativi di conci­ liazione con i monaci anticalcedonesi che godevano in certi momenti del­ l ’appoggio imperiale250. Cirillo tenta invece di dare un quadro molto più compatto e concorde dei comportamenti dei monaci calcedonesi e del­ l ’episcopato gerosolimitano, retrodatando a quegli anni una nettezza di posizioni e convinzioni teologiche che appartennero piuttosto ad un perio­ do successivo. La stessa ricostruzione della questione origenista che inve­ stì direttamente le fondazioni monastiche di Saba a tal punto da costrin­ gerlo ad abbandonarle più volte tende ad essere reticente in più punti e a attribuire ai suoi successori un ruolo eccessivo negli eventi che portarono alla condanna nel v Concilio ecum enico del 553251. Del resto, la redazione dell’opera non guardava soltanto al passato, era intesa anche per aiutare il passaggio della soglia cruciale di un nuovo ini­ zio: scacciati i monaci origenisti, la Nuova Laura venne ripopolata da cen­ toventi monaci, sessanta dei quali provenienti dalla Grande Laura, cioè da un’altra fondazione di Saba, e sessanta provenienti da altri monasteri orto­ dossi del deserto palestinese. Questa rifondazione doveva essere accom­ pagnata da una rifondazione memoriale in grado di porre costantemente sotto gli occhi di tutti da dove venivano e chi avrebbero dovuto essere.

249 Sozomeno, Storia ecclesiastica 1, 18-20; G.C. Hansen, Le monachisme dans l ’historiographie, in B. Pouderon-Y.-M. Duval, L’historiographie de l'Église des premiers siècles , Paris 2000, pp. 139-148. 250 L. Perrone, La Chiesa di Palestina e le controversie cristologiche. Dal concilio di Efeso (431 ) al secondo concilio di Costantinopoli (553), Brescia 1980, pp. 88 ss. 251 Hombergen, cit., pp. 368-371.

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6. Il Prato di Giovanni Mosco «Ho raccolto fra loro (se. i santi) i fiori più belli e da questo prato purissimo ho ricavato una corona intrecciata che voglio offrire a te, fidelissim o figlio, e attra­ verso te a tutti gli uomini. È per questo motivo che ho chiamato il m io libro Prato: per la gioia che dà la sua fragranza e per il bene che può fare a chi lo legge»252.

Sono le parole che Giovanni M osco colloca all’inizio appunto del Pra­ to o Prato spirituale secondo l ’integrazione che leggiamo in alcuni testi­ moni della tradizione manoscritta. In quel momento si trovava a Co­ stantinopoli ove era giunto dopo circa quarantacinque anni di vita asceti­ ca spesi nelle istituzioni monastiche in Palestina (568/579), nel Sinai (580/581-590/9), ancora in Palestina e Siria ( fino al 606), di nuovo in Egitto ad Alessandria (fino al 614). A differenza di Cirillo di Scitopoli e dei monaci da lui raccontati che pure si spostavano spesso da un’istituzio­ ne monastica a ll’altra, le peregrinazioni di Giovanni riflettevano l ’estrema precarietà di tempi in cui le laure e i cenobi della Palestina e della Siria dovettero affrontare l ’urto devastante delle invasioni prima persiana e poi araba. Dopo la morte di Giustiniano, la situazione di pace e sicurezza, che traspaiono dalle ultime righe della Vita di Saba di Cirillo di Scitopoli, era cambiata radicalmente. N el breve volgere di qualche decennio vennero prese e saccheggiate Antiochia (565), Gerusalemme (614), Alessandria (617), ancora Gerusalemme (634). Alle vicende politiche e militari si intrecciavano i contrasti dottrinali tra calcedoniani e monofisiti; a questi pose fine la conquista araba che con il sottrarre all’Impero Bizantino il controllo della Siria, della Palestina e dell’Egitto sancì il distacco di queste regioni già largamente monofisite dalla Chiesa calcedoniana. Dedicatario del Prato è Sofronio, discepolo e fedele compagno di viaggi di Giovanni e futuro patriarca di Gerusalemme. Era con lui anche a Costantinopoli e fu proprio a Sofronio - secondo quanto leggiamo nel breve profilo biografico che in parte della tradizione manoscritta accom ­ pagna il Prato253 - che Giovanni, sentendosi prossimo alla fine, affidò il suo libro contenente «i modi di vivere {politeiai) graditi a D io dei santi padri», raccomandandogli inoltre di riportare il suo corpo sul Sinai o, se la cosa fosse stata resa impossibile dai “barbari”, nel monastero di San

252 Giovanni M osco, Il prato, presentazione, traduzione e commento di R. Maisano, Napoli 20022. P. Pattenden, Ioannes Moschos, TRE 17(1987), pp. 140-144. 253 Integrato e corretto dalle rare informazioni presenti nel Prato, costituisce la fonte di quasi tutto quanto sappiamo su di lui: edizione critica del prologo in H. Usener, Der heilige Tychon, Leipzig-Berlin 1907, pp. 91-93. Iohannes Moschus, Pratum spirituale, PG 87, cc. 2852-311.

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Teodosio, ove aveva iniziato la sua vita ascetica. E qui fu seppellito vero­ similmente nel 634. Il Prato raccoglie brevi storie su monaci - ma non mancano vescovi e laici illustri254 - di cui si ricordano detti, episodi edificanti, miracoli; soltan­ to raramente Giovanni si presenta come testimone; è piuttosto colui che registra racconti fatti da altri monaci da lui incontrati nei vari monasteri. «Ci raccontava abba Leonzio del cenobio del nostro santo padre Teodosio...»255 è Γ incipit di quasi tutti i racconti che poi proseguono in prima persona. Le 219 notizie si succedono, come già notava Γ anonimo autore del prologo, non secondo un ordine logico di tipo geografico, ma «sulla base delTaffinità di argomento»256. A dire il vero, questo criterio è seguito in modo inter­ mittente. Gruppi sempre piuttosto ristretti di racconti possono essere acco­ munati dal fatto che si riferiscono ad uno stesso luogo o sono narrati dalla stessa persona o contengono riferimenti ad uno stesso personaggio, ma il passaggio da un gruppo di narrazioni ad un altro è brusco, senza un ordine apparente. Il fuoco delle brevi narrazioni è poi costituito da un detto o un breve dialogo del protagonista, detto che contiene - diremmo oggi - la “morale”. Sotto questo aspetto il Prato rivela una stretta parentela con la let­ teratura degli apoftegmi che nutrivano la spiritualità monastica del tempo e che circolavano almeno sotto due forme: una, alfabetica, secondo i nomi dei padri del deserto di cui erano riportati i detti, l ’altra, anonima e ordinata per temi, contiene sviluppi narrativi più ampi con l ’aggiunta di notizie di carat­ tere biografico e con i racconti dei miracoli257. M esso a confronto con le precedenti raccolte di Storie monastiche, il Prato presenta alcuni tratti specifici che riflettono la particolare difficoltà del momento storico: in molti racconti affiora il tema del declino istituzio­ nale e spirituale del monacheSimo contemporaneo paragonato alla flori­ dezza di cui godeva precedentemente e all’eroismo ascetico dei padri, sug­ gerendo che i due aspetti fossero strettamente collegati: «Ahimè figlioli, abbiamo rovinato il nostro angelico modo di vivere!» esclama un anziano, constatando l ’incapacità dei più giovani a praticare la castità, l ’umiltà, a sopportare la sofferenza. «Siamo stanchi» gli risponde il discepolo. «Cre­ dimi figlio mio —ribatte l ’anziano —il nostro fisico è paragonabile a quel­ lo degli atleti olimpici! È la nostra anima ad essere stanca»258. La distru-

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zione di Scete nel 577 ad opera dei Mazici viene così commentata da parte di abba Teodoro di Alessandria: «I monaci hanno perduto la Scete per la loro natura», ben diversa da quella degli anziani, lodati per la loro carità, ascesi, capacità di discernimento259. Per quanto il miracolo sovrabbondi, non tutte le storie hanno un lieto fine e anche il carisma monastico soccombe alla violenza dei tempi: i M azici uccisero molti monaci e molti ne fecero prigionieri in vista di un riscatto che in molti casi non potè essere pagato completamente. Abba Leone che era riuscito a racimolare soltanto un terzo della cifra richiesta per liberare tre confratelli anziani e malati, si offrì al loro posto: «I barba­ ri allora presero lui e le monete e lasciarono andare i tre anziani. Per un tratto di strada abba Leone andò insieme ai barbari, poi si sentì stanco ed essi lo decapitarono»260. Se la devozione alla Vergine e alla sua icona è spinta in primo piano dalle controversie dottrinali261, essa non è tuttavia l ’unico personaggio femminile di questa raccolta che concede uno spazio notevole alla donna, specialmente se paragonato alle precedenti raccolte monastiche di Teodoreto di Cirro e di Giovanni di Scitopoli. N elle storie di Giovanni M osco incontriamo, invece, una santa reclusa262; una giovane che decide di vive­ re nel deserto per difendere la sua verginità263; una donna costretta a pro­ stituirsi per necessità, ma che poi dimostra di essersi convertita e di pos­ sedere poteri straordinari264; una sposa fedele che con la sua castità e la protezione divina riesce a pagare i debiti del marito e a tirarlo fuori dal carcere265. E se il rifiuto di contatti con il corpo femminile è una caratte­ ristica del monaco perfetto anche da morto - per ben quattro volte la terra che aveva già accolto il corpo di abba Tommaso, rigettò il corpo di una donna che era stata seppellita sopra di lui!266 - Giovanni M osco racconta anche di una donna che, al tentativo di stupro da parte di un giovane monaco arresosi alla lussuria, reagì con il ricondurlo sulla retta strada pro­ spettandogli le terribili conseguenze, tra cui, tra l ’altro, anche l ’eventuali­ tà di mantenerla per il resto della sua vita, come dettava allora il costu­ me267. Inoltre alcune storie raccolgono i racconti fatti da donne268. 259 Prato 54 cfr. H. Chadwick, John Moschus and his Friend Sophronius thè Sophist, «Journal o f Theological Studies» 25(1974), pp. 60-62. 260

254 Gregorio Magno: Prato 147; 151; 192; Atanasio, vescovo di Alessandria: Prato 197-198; Cosma, uno maestro di Alessandria: Prato 171-172. 255 Prato 4. 256 Prol., Usener, 92, 35. 257 Sul rapporto con gli Apophtegmata e bibliografia relativa: J.S. Palmer, El monacato orientai en el Pratum spirituale de Juan Mosco, Madrid 1993, pp. 344-345. 258 Prato 168 e 52; 162.

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prato 1 1 2 .

261 Cfr. E. Perette, Mariologia patristica, in A. Quacquarelli (ed.), Complementi interdisciplina­ ri di patrologia, Roma 1989, pp. 738-741. 262 Prato 170. 263 Prato 179. 264 Prato 186. 265 Prato 189. 266 Prato 88. 267 Prato 39. 268 Prato \21.

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Un lettore bizantino del Prato - il patriarca Fozio (metà ix sec.) - tro­ vava lo stile del libro “più umile” e “più rozzo” di una raccolta di apoftegmi letta subito prima, ma riconosceva che « l’uomo intelligente che ama Dio non può certo dire che questa raccolta è noiosa»269. Il successo di que­ sto testo con le numerose traduzioni - latina270, georgiana, araba, etiopi­ ca271 - fa capire che il giudizio di Fozio venne largamente condiviso. Le ricerche sulla lingua del Prato, che potrebbero aprire nuove prospettive sulla cultura d ell’autore e sul suo pubblico, si arenano sullo scoglio della mancanza di un’edizione critica affidabile272; il testo presente nella Patrologia Greca non prende in considerazione il testimone più importan­ te della tradizione e l ’edizione annunciata da tempo da Pattenden, uno stu­ dioso che ha dato un contributo così importante per la ricostruzione della tradizione manoscritta, non è purtroppo ancora uscita273. In generale, è però innegabile com e la lingua del Prato appaia semplice e prossima al linguaggio quotidiano274. Questa considerazione unita all’impianto narra­ tivo degli episodi che ripropone un modulo eminentemente orale potreb­ bero indurre a giudicare il Prato come un testo popolare sia per quanto riguarda l ’autore, sia i destinatari. Tuttavia, come ha ben mostrato Mai­ sano275, vi sono due elementi che orientano in una diversa direzione: lo stile del prologo che rivela in Giovanni M osco uno scrittore in grado di esprimersi in un registro molto più colto in senso retorico e l ’ambiente culturale che fa da sfondo ai rari episodi di carattere autobiografico: G io­ vanni mostra ammirazione per abba Cosma, un monaco di grande cultura dedito allo studio, di cui viene ricordata una frase che valorizza proprio questo atteggiamento nei riguardi dei grandi del passato: «Quando ti im­ batti in un pensiero di Sant’Atanasio e non hai un foglio sotto mano, scri­ vilo sul vestito!»276. In Alessandria, Giovanni e Sofronio sono in contatto con il sofista Stefano, persona coltissima e famosa non solo per la sua cul­ tura religiosa e, mentre attendono di essere ricevuti, ingannano l ’attesa leggendo libri277. A Giovanni si rivolgevano altri monaci per ottenere 269 Fozio, Biblioteca, codice 199. 270 Citata da Paolo Diacono e dunque anteriore al ix sec. 271 Palmer, cit., p. 50. 272 Così osservava P. Pattenden (in «The Classical Review» 33 [1983], pp. 119-122) a proposito deH’unico studio disponibile sull’argomento: E. Mihevc-Gabrovec, Études sur la syntaxe de Johannes Moschos, Lubiana 1960. 273 P. Pattenden, The Text of thè “Pratum Spirituale", in «Journal o f Theological Studies» n s 26(1975), pp. 38-74. 274 Palmer, cit., p. 49. 275 R. Maisano, Tradizione orale e sviluppi narrativi nel Prato di Giovanni Mosco, in «Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata» n.s. 38(1984), pp. 3-17, ripreso nell’Appendice della sua tradu­ zione (cit., pp. 295-305). 276 Prato 40. 277 Prato 77.

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esemplari del Nuovo Testamento278. Sofronio, suo discepolo, che gli fu fedele compagno in quasi tutti i suoi spostamenti, era fine letterato e teo­ logo279. Inoltre molti altri racconti rivelano l ’importanza dei libri, non solo biblici, e la loro presenza fra i monaci del Prato che lo hanno reso una fonte importante per studiare la storia del libro280. Come i Dialoghi di Gregorio Magno in Occidente, il Prato può essere considerato espressione di una cultura letteraria alta che assume consape­ volmente un registro narrativo semplice per poter arrivare - com e afferma Giovanni nel suo elegante prologo - “a tutti” attraverso la lettura o l ’a­ scolto di mediatori alfabetizzati. Egli non intendeva rivolgersi soltanto ai monaci: il confronto su punti precisi fra apoftegmi e rielaborazione di Giovanni, rivela che il suo intervento tende a spiegare e a esplicitare (e tal­ volta banalizzare) il significato del detto281, con il fine di rendere piena­ mente fruibile questa letteratura fuori dall’ambiente monastico in cui la piena comprensione era assecondata da esperienze comuni e dall’insegna­ mento orale dei più anziani. 7. Miracoli e santuari A partire dal v secolo, sia in oriente, sia in occidente, i miracoli diven­ gono oggetto di un discorso a loro esclusivamente dedicato e che ha come centro di interesse, non più l ’illustrazione della vita di un santo, ma la sua azione post mortem legata ad un luogo particolare: il luogo santo, il san­ tuario282 che ne ospita le reliquie e che per questo diventa meta di un pel­ legrinaggio283. Dal v al v i i sec. vengono composte diverse raccolte miracoli greche che si riferiscono ad altrettanti culti: la martire Tecla nei pressi di Seleucia

278 Prato 134. 279 Sofronio scrisse in collaborazione con Giovanni Mosco una biografia di Giovanni l ’Elemosiniere, vescovo di Alessandria, che non possediamo; dello stesso personaggio, protagonista, tra l ’altro di alcuni racconti del Prato, abbiamo la biografia scritta da Leonzio, vescovo di Neapoli:

Three Byzantine Saints. Contemporary Biographies of St Daniel thè Stylite, St Theodore ofSykeon and St John thè Almsgiver, translated from thè Greek by E. Dawes and N.H. Baynes. Su Sofronio cfr. sotto, p. 289. 280 O. Kresten, Scrittura e libro nei testi agiografici dei secoli vi e vii, in G. Cavallo, Libri e let­ tori nel mondo bizantino, Bari 1982, pp. 21-35. 281 Maisano, cit., pp. 302-303. 282 A. Vauchez (sous la direction de), Lieux sacrés, lieux de culte, sanctuaires. Approches terminologiques, méthodologiques, historiques et monographìques, Ecole Framjaise de Rome 2000. 283 U n ’utile presentazione generale sono ancora gli studi di H. Delehaye, Les premiers libelli miraculorum, in «Analecta Bollandiana» 29(1910), pp. 427-433; Id., Les recueils antiques des miracles des saints, in «Analecta Bollandiana» 43(1925), pp. 5-85; Id., L ’ancienne hagiographie byzanti­ ne. Les sources, les premiers mode les, la formation des genres. Conférences prononeées au Collège

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in Isauria*284; Teodoro il cui corpo era conservato a Euchaita nel Ponto285; Ciro e Giovanni a Menouthis, non lontano da Alessandria286; Mena nel celebre santuario sulle rive del lago di Mareotis287 anch’esso non lontano dalla stessa città; Cosma e Damiano nella chiesa a loro dedicata a Co­ stantinopoli288; Terapone nella chiesa dedicata alla Vergine della stessa città289; Artemio nella chiesa di S. Giovanni sempre a Costantinopoli290; Demetrio, patrono di Tessalonica291. Sono raccolte di tenore molto differente per quanto riguarda gli autori e i problemi critici legati alla loro tradizione. La Vita e i miracoli di Santa Tecla è un testo anonimo, ma aderente ad un progetto letterario coerente, ancorché protratto per alcuni decenni. Chi scrive è ispirato dalla santa e da un non altrimenti noto Acacio; è un retore professionista cui è stato affidato il compito di riscrivere gli Atti di Paolo e Tecla292. A partire dal V secolo in molti altri loca sactorum si arruolarono i talenti lettterari più promettenti per dare un nuovo lustro alle passioni e alle vite dei santi più antichi. Erodoto, Tucidide, Omero, Esiodo sono gli autori con cui pompo­ samente l ’Anonimo paragona l ’opera dedicata ad una martire di cui fin de France en 1935. Textes publiés par B. Joassart et X. Lequeux, Bruxelles 1991, pp. 51-68; con l ’aggiornamento di R. Boutros, L’hagiographie des saints thérapeutes: une source pour l ’histoire religieuse des pèlerinages en Égypte, in A. Boud’Hors-C. Louis (par), Études coptes x. Douzième journée d’études (Lyon, 19-21 mai 2005), Paris 2008, pp. 229-248. 284 G. Dagron, Vie et Miracles de Sainte Thècle. Texte grec, traduction et commentaire, Bruxelles 1978. 285 Ed. critica in Acta Sanctorum, novem. voi. IV, pp. 55-72; Crisippo prete di Gerusalemme morto nel 479 scrisse un encomio del martire che ne descriveva la passione e i miracoli. 286 Sofronio, amico di Giovanni M osco (cfr. supra, p. 287, n. 279) e più tardi patriarca di Geru­ salemme scrive all’inizio del vii secolo; Sophrone de Jérusalem, Miracles de saints Cyr et Jean (BHL 1477-79), traduction commentée par J. Gascou, Paris 2006. Panégyrìques des saints Cyr et Jean, par P. Bringel, Tumhout 2008, pp. 19-22: sulle fonti di Sofronio e sulle Vitae dei due martiri che sono alla base del panegirico e della raccolta dei miracoli. 287 Miracula s. Mena, prima edizione a cura di I. Pomjalovskij, Petropoli 1900; sulla questione dei rapporti fra testo greco, copto e arabo cfr. J.-M. Sauget, Menna, in Bìbliotheca Sanctorum, voi. ix, coll. 324-342. 288 L. Deubner, Kosmas und Damian, Leipzig 1907, rist. Stuttgart 1980; il culto costantinopoli­ tano aveva presto eclissato quello sviluppatosi a Cirro, luogo del loro martirio che ne conservava i corpi. L’edizione del Deubner narra 48 prodigi, la cui parte più antica risale ai secc. vi-vu; G. Luongo, tl “dossier ” agiografico dei santi Cosma e Damiano, in S. Leanza (ed.), Sant’Eufemia di Aspromonte. Atti del convegno di studio per il bicentenario dell’autonomia (Sant’Eufemia di Aspromonte 14-16 dicembre 1990), Soveria Mannelli 1997, pp. 33-89. 289 Laudatio in miracula Sancii Hieromartyris Therapontis, in L. Deubner, De incubatione capi­ ta quattuor, Lipsiae 1900, pp. 113-134, redatto nella prima metà del vii sec. mentre gli slavi e gli avari assediavano Costantinopoli. 290 V.S. Crisafulli-J.W. Nesbitt, The Miracles ofSt. Artemius. A Collection of Miracles Stories by an Anonymous Author o f Seventh-Century Byzantium, Leiden-New York-Koln 1997; raccolta redatta nel vii sec. 291 P. Lemerle, Les plus anciens recueils des miracles de Saint De'me'trius, 1. 1: Le texte, t. il: Com­ mentaire, Paris 1979; 1981. 292 Cfr. p. 55.

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dalle prime righe si esalta il posto di assoluto rilievo nella storia della sal­ vezza. Quella salvezza che dal Figlio preesistente si è realizzata n ell’incarnazione e che fu portata avanti dagli Apostoli e dai martiri fra cui Ste­ fano è il protomartire e Tecla la prima delle donne293. L’anonimo svolge il suo compito onestamente con minimi adattamenti, salvo in punto crucia­ le necessario per dare ragione del fatto che il santuario non possedeva il corpo della santa. Si tratta del racconto della morte di di Tecla, che, se­ condo l ’Anonimo, «scese ancora viva sotto terra, secondo la volontà di Dio che la fece aprire per accoglierla» nel luogo appunto dove si trovava l ’altare della chiesa a lei dedicata294. Secondo una versione amplificata della leggenda, Tecla lasciò dietro di sé il suo velo295 che era appunto la reliquia conservata nella chiesa. La seconda parte dell’opera è dedicata ai miracoli raccolti in un arco di tempo che va dal 430 al 470. L’autore è un devoto della santa; le attribuisce il merito di avergli risparmiato la scomu­ nica comminatagli dal vescovo Basilio di Seleucia cui non risparmia cri­ tiche feroci. Spesso il racconto dei miracoli si m escola con le vicende per­ sonali dell’autore che si ritiene un perseguitato dall’autorità ecclesiastica oppure con veri e propri pettegolezzi piccanti su fatti di attualità. Così non si fa scrupolo di informarci dettagliatamente su di una dama ricca di anni e di figli che pur avendo ottenuto dalla santa la grazia di distogliere il marito dalle attrattive delle altre donne, alla morte di costui si era presto consolata con un prestante stalliere296. Protagoniste frequenti di questi racconti sono le donne che ottengono guarigioni, la salvaguardia della lo­ ro castità, il recupero di oggetti preziosi, la bellezza per riconquistare il marito, la capacità di leggere. In netto contrasto con il ritratto dell’algida e invincibile vergine della Vita, si tratta di donne che evidentemente non la consideravano un modello da imitare essendo, per la maggior parte, tutte dedite a compiti e speranze terreni e assecondate in questo da Tecla. Anche i thaumata di Ciro e Giovanni sono un’opera letteraria unitaria; l ’autore ci è già noto: è Sofronio, l ’amico e compagno di viaggio di Gio­ vanni M osco e futuro patriarca di Gerusalemme. Anch’egli retore, Sofro­ nio ama impregnare le azioni miracolose dei santi «with a gentle rain of golden words»297 e dare un ordine preciso ai settanta racconti di miracoli che sono divisi in tre gruppi secondo la provenienza geografica dei mira­ colati: prima gli alessandrini, poi gli egiziani, i libici e infine tutti gli altri. 293 Vita e miracoli di S. Tecla 1. 294 Vita e miracoli di S. Tecla 28. 295 Dagron, Vie et Miracles, cit., pp. 48-49. 296 Vita e miracoli di S. Tecla 20. 297 P. Brown, Gregory ofTours: Introduction, in K. Mitchell K.-l. Wood, The World o f Gregory of Tours, Leiden-Boston-Kòln 2002, p. 8. Profilo biografico in Ch. von Schonborn, Sophrone de Jérusalem. Vie monastique et confession dogmatique, Paris 1972, pp. 53-98.

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Le altre raccolte hanno invece un carattere composito e spesso la reda­ zione è avvenuta in fasi successive: così accade per i miracoli compiuti da Demetrio, di cui una prima tronche fu redatta nel primo quarto del v i i sec. dal vescovo Giovanni di Tessalonica e una seconda, a qualche decennio di distanza, da un anonimo che utilizzava materiali ancora risalenti a Giovanni298. La natura seriale dei racconti si prestava per altro a continue modifiche, rimaneggiamenti, aggiunte in una rielaborazione continua che rende la ricostituzione del testo originale irta di difficoltà e forse nemme­ no auspicabile. Ad esempio, l ’edizione del Deubner dei miracoli di Co­ sma e Damiano si fonda su venticinque manoscritti profondamente diver­ si per ordine, numero e tipo di miracolo299. Quali le fonti di questi testi? In qualche caso, la scrittura agiografica si radica, come spesso avviene nel discorso agiografico, in un’esperienza personale; lo abbiamo visto per l ’Anonimo di Tecla. Anche Sofronio in­ trattiene a lungo i suoi lettori sulla sua guarigione di una malattia agli oc­ chi300. L’aver sperimentato personalmente i poteri taumaturgici predispo­ neva a dare fiducia ai racconti raccolti nella cerchia dei testimoni oculari, di frequentatori abituali e del personale addetto al santuario, oppure dal­ l ’ascolto delle letture pubbliche di racconti di miracoli, come afferma l’autore del prologo della quinta serie di miracoli, dell’edizione del Deubner301. U n ’altra possibile fonte potevano essere gli ex voto lasciati nella chie­ sa: Sofronio trascrive un’iscrizione che ricordava un miracolo di guarigio­ ne di un cieco: n ell’iscrizione si specificava, di seguito, il nome, la città di provenienza, la malattia, la durata della permanenza presso il santuario e la guarigione avvenuta. Il capitolo che Sofronio dedica alla descrizione del miracolo e che a prima vista potrebbe sembrare più ricco di informa­ zioni, in realtà, non è che l ’amplificazione retorica delle informazioni contenute nell’iscrizione302. È l ’unico caso in cui è possibile un confron­ to del genere, ma si può immaginare che anche in altri casi gli ex voto sotto forma di iscrizioni o di immagini303 potessero costituire una fonte per le raccolte. La raccolta dei miracoli di Demetrio di Tessalonica sem­ bra presupporre un pubblico costituito dall’assemblea dei fedeli304, dalla

298 Lemerle, cit., pp. 32-33; 44-45. 299 E. Giannarelli, / cristiani, la medicina, Cosma e Damiano, in E. Giannarelli, Cosma e Da­ miano dall'Oriente a Firenze, Firenze 2002, p. 43. 300 Ciro e Giovanni 70. 301 Deubner, Kosmas, cit., p. 179. 302 Ciro e Giovanni 69; come ha ben mostrato Delehaye, Recueils, cit., pp. 21-22. 303 Ciro e Giovanni 28. 304 Miracoli di S. Demetrio 7.

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Chiesa devota305 e questo induce a pensare che la raccolta avesse all’ori­ gine alcune omelie dedicate ai miracoli di Demetrio306. Le raccolte si differenziano per il diverso rilievo dato ad alcune tipolo­ gie di miracoli: alcune hanno un carattere nettamente specialistico e sono dedicate a racconti di guarigione: è il caso di Cosma e Damiano, due mar­ tiri su cui circolavano racconti molto diversi, ma concordi nel ritenerli due medici cristiani che prestavano le loro cure gratuitamente e che per que­ sto erano definiti “anargiri”. Leggende tarde, sviluppatesi a seguito del successo del santuario di Menouthis (più tardi Abukir), fanno anche di Ciro un medico anargiro e i racconti raccolti da Sofronio riguardano solo guarigioni. Lo stesso avviene nella raccolta dei miracoli di Terapone e Artemio: a proposito di quest’ultimo si può parlare di un’iperspecializzazione in guarigioni di ernie testicolari o inguinali. Le guarigioni avvenivano per il tramite della pratica dell’incubazione che continuava l ’uso pagano307 e che troviamo attestata in molti altri san­ tuari orientali308. Sono particolarmente evidenti le somiglianze con quan­ to ci hanno tramandato le stele del santuario di Asclepio ad Epidauro sugli iamata, le guarigioni compiute dal dio, e i Discorsi sacri di Elio Aristi­ de309. I pellegrini si recavano presso la chiesa che ospitava le reliquie e in luoghi appositi - a ll’interno del recinto, sotto i portici, in ospizii - trascor­ revano una o più notti, talvolta anche mesi ed anni. Se le loro preghiere venivano ascoltate, nel sonno erano visitati - in molti casi nel vero e pro­ prio significato medico del termine - dai santi che o intervenivano diret­ tamente sulla parte malata operando o manipolandola in qualche modo o suggerivano rimedi che, se seguiti scrupolosamente, portavano alla guari­ gione. Molti di questi rimedi erano davvero stravaganti: Cosma e Damia­ no ordinano ad un paralitico di fare violenza ad una giovane muta310; ad un altro, che soffriva di disturbi urologici, ingiungono di bere una pozio­ ne contenente peli strappati dal “giovane Cosma”. Lo sventurato scopre con sollievo che il nome corrispondeva ad un agnello offerto al santo, quando lo stesso animale gli si pianta davanti e si fa tosare in modo da poter attuare l ’ordine del santo311. Ciro e Giovanni prescrivono ad un gio305 Miracoli di S. Demetrio 5. 306 Lemerle, cit., p. 36. 307 L. Deubner, De incubatione capita quattuor, Lipsiae 1900, pp. 75 ss. 308 Cfr. V. Déroche, Pourquoi écrivait-on des recueils des miracles? L’exemple des miracles de Saint Artémios, in C. Jolivet-Lévy-M. Kaplan-J.-P. Sodini (eds.), Les Saints, cit., p. 95. Lista di réminescences” pagane in Delehaye, Recueils, cit., p. 70; J.M. Sansterre, Apparitions et miracles à Menouthis: de Vincubation paienne à l ’incubation chrétienne, in A. Dierkens (ed.), Apparitions et miracles, Bruxelles 1991, pp. 69-84. 309 A. Gramaglia, Guarigioni e miracoli, Torino 1995, pp. 4-44. 310 Cosma e Damiano 24. 3,1 Cosma e Damiano 3.

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vane sofferente di emicranie ricorrenti di dare uno schiaffo al primo uomo incontrato su una determinata strada; ma la sfortuna sembra accanirsi sul giovane che deve assolvere le sante prescrizioni proprio con un soldato armato di tutto punto. Questi reagisce allo schiaffo assestando un tremen­ do colpo di bastone sulla testa del giovane che, proprio per questo!, gua­ risce312. Più spesso i santi prescrivono impiastri e bevande confezionate con la cera dei ceri votivi o con altri materiali che siano venuti in contat­ to con il “luogo” santo313. La stranezza dei rimedi vuole indubbiamente assolvere i santi medici dall’accusa di operare guarigioni avvalendosi delle normali conoscenze mediche apprese da Ippocrate e Galeno, come Sofronio fa dire ad un medico che si prendeva gioco dei santi31*. Tuttavia vi è forse qualche cosa di più nell’insistenza sulla superiorità dei santi guaritori sui medici. La concorrenza fra taumaturgia e medicina era un tema largamente presente già dalle origini della tradizione cristiana. Si ricorderà, ad esempio, che nella guarigione delTemorroissa, il contatto con il mantello di Gesù rie­ sce là dove i medici e le cure dispendiose da essi prescritte avevano falli­ to (Me 5,25). In quei contesti culturali che hanno una qualche nozione di “natura”, la conflittualità fra taumaturgia e medicina è funzionale ad esprimere la concorrenza fra il punto di vista di coloro che ammettono una spiegazione degli eventi secondo leggi naturali e coloro che invece credo­ no nella possibilità di una loro sospensione ad opera di figure in qualche modo divine. A partire dal vi secolo questo contrasto assunse una confi­ gurazione specifica che emerge con maggiore chiarezza quando si con­ frontino le raccolte di miracoli con i trattati coevi di Quaestiones et responsiones e se ne tenti una lettura complessiva in grado di metterne in luce le possibili interazioni. Molti interrogativi, cui tali trattati intendeva­ no rispondere, esprimevano serie riserve sul potere dei santi sostenendo che i miracoli non provavano la santità; che le malattie, le guarigioni e la morte avevano cause naturali; che le anime dei santi non potevano abban­ donare la liturgia celeste ed essere presenti vicino alle loro tombe o nelle loro chiese come qualcuno poteva dedurre da tanti racconti di miracoli che mostravano i santi guaritori talora “assenti” dai loro santuari per ope­ rare guarigioni altrove e, talora, ritornarvi di gran carriera per salvare in extremis qualcuno315. D ’altro canto, i dubbi sul potere dei santi e sulle 3,2 Ciro e Giovanni 18. 313 Una casistica accurata in Delehaye, Les recueils, cit., pp. 24-29. 31^ Ciro e Giovanni 30, cfr. P. Maraval, Fonction pédagogique de la lìttérature hagiographiqite d ’un lieu depèlerinage: l ’exemple des Mìracles de Cyr et Jean, in Hagiographie, Cultures et Sociétés. tv-xu siècles, p. 385. 315

G. Dagron, L ’ombre d ’un doute: Vhagiographie en question, VF-XF siècle , in A. Cutler-S.

Capitolo sesto modalità del loro intervento affiorano dai libelli stessi, nei numerosi mira­ coli di punizione o nell’episodio narrato da Sofronio di cui è protagonista una donna, Atanasia, che si rifiuta di tributare il culto a quei martiri la cui passio non sia sorretta da documenti affidabili316. In tale prospettiva, i dubbi e la reazione ad essi vanno letti alla luce del duro confronto sulle immagini che avviene nello stesso periodo. Con la critica delle immagini, il movimento riformatore dell’iconoclasmo portava al centro del dibattito opposte interpretazioni sulla tradizione religiosa, sulla distinzione fra sacro e profano, sul ruolo sociale ed econom ico delle Chiese e investiva questioni che coinvolgevano profondamente anche il ruolo dei santi. Fra i libelli di cui ci occupiamo, alcuni non riguardano santi guaritori: Teodoro è presentato da Crisippo come patrono di coloro che hanno subi­ to un danno ingiusto. Demetrio è soprattutto il santo patrono di Tessalonica; nel prologo alla prima parte, Giovanni, vescovo di Tessalonica, dichiara di voler raccontare, dopo qualche guarigione che dà l ’impressio­ ne di essere un tributo indispensabile al genere, la prostasia, il patronato esercitato dal santo «nostro concittadino» nei confronti della città nei suoi momenti più drammatici: carestie, guerre civili, peste, attacchi dei barba­ ri, eventi descritti con una tale ricchezza di dati da rendere questa raccol­ ta una fonte di grande valore storico317. Nella seconda parte della raccol­ ta, la preminenza della cronaca sull’intento agiografico è ancora più evi­ dente: nella minuziosa ricostruzione d ell’assedio di Tessalonica da parte degli Sclaveni, l ’intervento miracoloso di Demetrio si riduce ad un’appa­ rizione in clamide bianca sulle mura della città e sul mare318. Eccetto quest’ultimo caso, in cui è il vescovo della città che prende l ’iniziativa di celebrare la gloria e la potenza del santo patrono secondo una prassi comune all’episcopato tardoantico, i libelli della tradizione greca, se paragonati a libelli analoghi della tradizione occidentale - vedre­ mo i casi delle raccolte di miracoli presso i santuari del protomartire Ste­ fano in Africa settentrionale e Libri miraculorum di Gregorio di Tours appaiono espressione di interessi più diversificati e meno legati all’inizia­ tiva dei capi delle Chiese locali. Questo dipende solo in parte dalla diver­ sa posizione del santuario rispetto alla città sede del vescovo: per esem ­ pio, vi sono tre raccolte che riguardano chiese di Costantinopoli, ma nes­ suna di esse è riconducibile all’iniziativa episcopale. Il caso della raccolFranklin (eds.), Homo Byzantinus. Papers in Honor o f Alexander Kazhdan, in «Dumbarton Oaks Papers» 46 (1992), pp. 59-69. 316 Ciro e Giovanni 29. 317 E, in effetti, in questo senso viene studiata da Lemerle, cit. Sul culto di Demetrio: R. Cormack, Writing in Gold. Byzantine Society and its Icons, London 1985. 318 Miracoli di Demetrio 11,1.

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ta dei miracoli di Artemio può gettare qualche luce su come l ’iniziativa di comporre raccolte di miracoli poteva inserirsi aH’interno di una discreta quanto reale concorrenza di culti non solo aH’intemo della stessa città, ma anche all’interno della stessa chiesa. Le reliquie di Artemio giacevano nella cripta della chiesa di Giovanni battista dell’Oxia nella capitale impe­ riale; il secondo titolare della chiesa era la martire Febronia; Artemio dun­ que aveva qualche fatica a ritagliarsi un posto nella devozione. L’autore della raccolta lo fa con discrezione: legando i suoi interventi ad una “spe­ cializzazione” molto circoscritta e mostrando implicitamente l ’appro­ vazione degli altri santi che, in alcune visioni notturne, appaiono congiun­ tamente ad Artemio319.

CAPITOLO SETTIMO

1. Ecclesia martyrum, conventicula traditorum1: le Passioni donatiste I due secoli che separano la fine della persecuzione dioclezianea dalla riconquista bizantina dei territori africani occupati dai vandali furono as­ sai tormentati. Lo scisma fra Chiesa cattolica e Chiesa donatista (secondo la denominazione ad essa attribuita dai suoi nemici) causò non solo dissi­ di insanabili, ma anche stragi e distruzioni quando accanto alla prima intervenne il potere imperiale per imporre con la forza l ’unità e quando il movimento violento dei cinconcellioni2 si riconobbe nello spirito apoca­ littico di martirio della Chiesa donatista ed agì, talvolta, di concerto con essa nel colpire i cattolici. N el 429 L’Africa settentrionale fu invasa dai vandali che passarono lo stretto di Gibilterra con donne, vecchi e bambi­ ni al seguito, attirati da quella terra che - secondo uno storico di quell’in­ vasione3 —era «tranquilla e in pace», «bella e fiorente», ma che in realtà era usurata dai dissensi interni sia di natura religiosa, sia politica4.1 van­ dali erano ariani e da subito colpirono soprattutto le proprietà ecclesiasti­ che e il clero, mirando ad indebolire progressivamente la presa della Chie­ sa cattolica sulle popolazioni latina e autoctona. In ambedue le fasi al disaccordo ecclesiologico e teologico si intrecciarono contrasti di natura sociale, politica ed etnica in un groviglio che le fonti antiche raramente lasciano trasparire con chiarezza e che hanno dato adito a interpretazioni storiche differenti dei principali attori coinvolti5*. Il discorso agiografico di quest’area racconta e interpreta questi avvenimenti e pur collocandosi nel

1 Passione di Saturnino e Dativo 22. 2 Una recente messa a punto: B.D. Shaw, Who were thè Circumcellions? in A.H. Merrills, Vandals, Romans and Berbers. New Perspectives on Late Antique North Africa, Aldershot- Burlington

319 Miracoli di S. Artemio 38; Déroche, cit., pp. 98-103.

20082, pp. 227-258. 3 Vittore di Vita, Storia della persecuzione vandalica in Africa 1,1. 4 P. Courcelle, Histoire littéraire des grandes invasions germaniques, Paris 19643, p. 117. 5 Sul donatismo e i circoncellioni, status quaestionis in R. Cacitti, Furiosa turba. I fondamenti religiosi dell’eversione sociale , della dissidenza politica e della contestazione ecclesiale dei Circon­ cellioni d ’Africa, Milano 2006, pp. 9-38. N. Duval, L'Afrique dans VAntiquité tardive et lapériode byzantine: l'évolution de l ’architecture et de Pari dans leur environnement, in «Antiquité Tardive» 14(2006), pp. 119-164. Y. Modéran, La Notitia provinciarum et civitatum Africae et l ’histoire du royaume vandale , in «Antiquité Tardive» 14(2006), pp. 165-186.

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solco della tradizione per quanto riguarda le forme letterarie adottate -

passiones, vitae, historiae - presenta notevoli peculiarità. La devozione ai martiri e le pratiche che la esprimevano rivestirono sempre un particolare rilievo nella Chiesa africana le cui diverse com po­ nenti - laici e gerarchia ecclesiastica - si trovarono talvolta in com petizio­ ne e in conflitto. A ll’esaltazione di martiri laici entusiasti e visionari - co­ me Perpetua e suoi compagni - considerati altrettante manifestazioni visi­ bili d ell’opera dello Spirito Santo nella Chiesa degli ultimi tempi, tentò di introdurre un certo correttivo la Vita e Passione di Cipriano che, con il presentare la figura di un vescovo e letterato oltre che martire, intendeva riorientare la devozione del popolo. I martiri più antichi rimanevano par­ ticolarmente vivi nella memoria dei fedeli in quanto la lettura delle Pas­ sioni, a differenza di quanto avveniva in altre Chiese, era annualmente riproposta alla venerazione durante la liturgia6. U n ’altra spia dell’importanza speciale rivestita dal culto dei martiri nel­ la spiritualità africana è che proprio dalla documentazione relativa a que­ st’area emergono con molto anticipo rispetto ad altre regioni attestazioni relative alla sepoltura ad sanctos e al culto delle relique. Di ambedue gli episodi sono protagoniste due donne d ell’alta società. La prima è Pom­ peiana, una ricca matrona, che riuscì a portare a Cartagine il corpo di un martire militare per sotterrarlo accanto a quello di Cipriano, presso il suo palazzo, nel luogo che soltanto tredici giorni dopo, accolse il corpo della stessa Pompeiana7. La seconda è Lucilla cui, nel 300, l ’arcidiacono Ceciliano rifiutò l ’eucarestia, in quanto la donna, prima di accostarsi al sacra­ mento, aveva l ’abitudine di baciare le ossa di un martire non vindicatus, espressione che potrebbe significare non riconosciuto dalla Chiesa8. Questo sfondo aiuta a comprendere la particolare gravità che in quella Chiesa durante e dopo la persecuzione dioclezianea assunse la questione dell’atteggiamento da tenere riguardo a coloro, soprattutto vescovi e pre­ sbiteri, che si erano sottratti al martirio consegnando i libri sacri come 6 F. De Gaiffier, La lecture des Actes des Martyrs dans la prière liturgique en Occident. A propos du Passionaire hispanique, in «Analecta Bollandiana» 72(1954), pp. 143-145. D all’indagine si­ stematica di C. Lambot, Les sermons de Saint Augustin pour lesfétes de martyrs, in «Analecta Bol­ landiana» 67(1949), pp. 249-266 risultano complessivamente sette menzioni a passioni diverse lette prima della predicazione agostiniana. 7 Passione di Massimiliano ; i fatti narrati si riferiscono al 295; ma non è sicuro quando sia stato redatto il testo e soprattutto il finale che contiene queste informazioni. Per una presentazione com­ plessiva della letteratura martirologica coeva cattolica e donatista: V. Saxer, Afrique latine, in G. Philippart (sous la direction de), Hagiographies. Hìstoire Internationale de la littérature hagìographique latine et vernaculaire en Occident des origines à 1550, t. i, Tumhout 1994, pp. 52-66. 8 Ottato di Milevi 1, 16. W.H.C. Frend, From Donatisi Opposition to Byzantìne Loyalism: The Cult o f Martyrs in North Africa 350-650, in A.H. Merrils (ed.), Vandals, Romans and Berbers. New Perspectives on Late Antique North Africa, Aldershot-Burlington 20082, pp. 259-269.

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richiedevano gli editti imperiali, i cosiddetti traditores. Il rifiuto della le­ gittimità dell’elezione di Ceciliano a vescovo di Cartagine cui venne con­ trapposta quella di Maiorino, antico collaboratore di Ceciliano, ma signi­ ficativamente anche domesticus di quella Lucilla di cui abbiamo parlato poco sopra, diede l ’avvio alla presenza nell’Africa del nord di due Chiese, di cui quella donatista nel momento di massima espansione era largamen­ te maggioritaria in gran parte del Nord Africa9. La Chiesa donatista - dal nome del suo vescovo più illustre, che suc­ cesse a Maiorino - si proclamava l ’unica vera Chiesa, autentica erede della Chiesa dei martiri i cui membri erano pronti e aspiravano al marti­ rio com e i loro progenitori prima di Costantino, una sete di martirio che non arretrava nemmeno davanti al suicidio. Chiesa dei martiri, dunque, ma anche “assemblea” - collecta - pura dal peccato che preservava la purità liturgica astenendosi da ogni rapporto contaminante con i cattolici e con il potere imperiale che li appoggiava, sostenendo tale separazione con la ri proposizione del modello biblico dell’antico Israele che si manteva puro e fedele a Dio in m ezzo alle nazioni che praticavano l ’idolatria10. Entrambi i temi emergono chiaramente dalle Passioni sicuramente donatiste in cui esaltazione dei martiri, ricostruzione dei fatti che avevano cau­ sato lo scisma, esposizione e propaganda delle proprie tesi sono strettamente intrecciate11*. La Passione dei martiri di Abitina racconta le vicende relative a un gruppo di cinquantadue martiri, tra cui diciotto donne, durante la persecu­ zione dioclezianea. Il redattore, che scrive a circa un secolo di distanza dai fatti, sia pure partendo ex actis publicis, e che si dichiara concittadino dei martiri, è mosso, oltre che dal desiderio di ricordare il loro eroismo, anche dall’intenzione di reinterpretare il passato per dare fondamento e legitti­ mità alla Chiesa, per lui, cattolica e per impegnarne il comportamento anche per i tempi a venire: questo tempo di scisma - dice nell’epilogo ci ammonisce ad aggiungere «i decreti dei martiri alle loro così numero­ se e belle confessioni». I decreta sarebbero stati stabiliti durante un con-

9 Su Ceciliano, Maiorino e Donato come sugli altri personaggi citati in questo capitolo: cfr. gli art. corrispondenti in A. Mandouze (ed.), PCBE, 1 . 1; sulla storia del donatismo è ancora utile: W.H.C. Frend, The Donatisi Church. A Movement of Protest in Roman North Africa, Oxford 1952; sintesi aggiornata: S. Lancel-J.S. Alexander, Donatistae, in Augustinus-Lexicon, v. 2, fase. 3/4, Basel 1999, pp. 606-638. 10 M.A. Tilley, The Bible in Christian North Africa. The Donatisi World, Minneapolis 1997 le cui tesi principali sono riassunte in: Ead., Sustaining Donatisi Self-Identity: from thè Church of thè Martyrs to thè Collecta ofthe Desert, in «Journal o f Early Christian Studies» 5(1997), pp. 21-35. 11 P. Mastandrea, Passioni di martiri donatisti (BHL 4473 e 5271), in «Analecta Bollandiana» 113(1995), pp. 39-88. F. Scorza Barcellona, L’agiografia donatista, in M. Marin-C. Moreschini (eds.), L'Africa cristiana, Brescia 2002, pp. 125-151.

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cilium tenuto in prigione dai martiri stessi, ispirati dallo Spirito Santo che dava loro la chiaroveggenza sul futuro; un futuro in cui si sarebbe tentato di costringere la Chiesa dei martiri ad unirsi con quella dei «traditori»: perciò i martiri - sempre secondo l ’acceso redattore di questa Passione che scriveva dopo la promulgazione degli editti di Costantino e Costante - prescrissero di tenersi lontani da ogni impurità con la seguente minac­ cia: «Se qualcuno entra in comunione con i traditori, non parteciperà con noi al regno dei cieli»12. Nel 316/317 Costantino promulgò «una legge severissima»13 contro i donatisti che imponeva la confisca delle loro Chiese e comminava l ’esilio ai loro capi. Malgrado gli attacchi che seguirono immediatamente a tale provvedimento, durante il suo regno, la Chiesa donatista crebbe di nume­ ro e di influenza. Soltanto con Costante, si arrivò ad applicare con determi­ nazione la legge di Costantino contro i donatisti. Il decreto di Costante che aboliva la Chiesa donatista e imponeva il passaggio immediato dei suoi be­ ni alla Chiesa cattolica diede avvio ad una una vera e propria persecuzio­ ne dei donatisti. A questi avvenimenti si riferiscono la Passione di Isacco e Massimiano e la Passione di Marculo14 che subirono il martirio nel 347. Quest’ultima spicca fra le altre per coerenza interna e livello culturale. Scritta in un momento vicino ai fatti si riferisce a eventi confermati anche da altre testimonianze storiche. Ne è protagonista Marculo, un vescovo della Numidia, che guidò una delegazione —effettivamente avvenuta —di vescovi donatisti presso Macario che insieme a Paolo aveva la responsabi­ lità di applicare la politica di unità voluta da Costante. Imprigionato e tor­ turato, venne poi portato a Nova Petra e qui ucciso con la spada e precipi­ tato da una rupe con 1 intento di disperderne i resti e di renderli inaccessi­ bili. Grazie all’intervento divino - racconta la Passio - i venti fecero pla­ nare il corpo che invece di sfracellarsi sulle rocce arrivò a terra come «su morbidi cuscini». Secondo Agostino, il volo di Marculo15 nascondeva in realtà un suicidio, dal momento che molti circoncellioni - considerati dal vescovo cattolico discepoli di Marculo - sceglievano di darsi la morte get­ tandosi nel vuoto proprio durante la persecuzione di Macario. La propa­ ganda cattolica sfruttò questo gesto per denigrare i donatisti, denunciando 12 Passione dei martiri dì Abitina 21. Cfr. J.-L. Maier, Le dossier du donatisele, 1 . 1: Des origìnes à la mori de Constance II (303-361); t. li: De Julien l ’Apostat à Saint Jean Damascène (361-750) Berlin 1987; 1989. T. i, pp. 57-59. 13 La fonte è Agostino, Lettera 105, 2, 9. 14 Maier, cit., pp. 256-290. 15 Cui si aggiunge il “volo” di Vittoria (Passione dei martiri di Abitina 17) e quello di Secunda {Passione delle vergini di Thuburbo 4) (di cui questo sarebbe l ’unico tratto sicuramente donatista). Contro le praecipitatorum congregationes ’ (se. i circoncellioni e i donatisti), contrapposti all’auten­ tico martirio di Cipriano: Agostino, Sermone 313/E.

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un peccato là dove quelli vedevano - sulla scorta della Scrittura e delle visioni dei martiri riguardo ai voli celesti dell’anima —una forma di marti­ rio che anticipava il volo cosm ico dell’anima dal «secolo al Regno»16. In linea con il costume di una Chiesa in cui i laici hanno sempre reci­ tato e reclamato un ruolo attivo, la Passio lascia spazio al ruolo dei fede­ li nel promuovere il culto dei martiri. Sono proprio i fedeli che, seguendo una nube luminosa che segnalava il luogo dove si era posato il corpo del martire, riescono a trovarlo e lo seppelliscono. L’iscrizione «memoria domni Marchuli» trovata nei resti della basilica di Ksar el Kelb può esssere una traccia del culto di questo vescovo. Ma la difficoltà di distinguere dal punto di vista architettonico le chiese donatiste da quelle cattoliche e i dubbi relativi all’interpretazione di questa stessa iscrizione hanno di recente reso più incerta ridentificazione17. L’Autore della Passio possiede una solida cultura letteraria e religiosa e sembra rivolgersi in particolare al pubblico dei fedeli che ascolteranno la lettura di questa Passio nella ricorrenza del martirio. Il prologo cita per prima 1’utilitas che i popoli derivano dall’ascolto della lettura delle Pas­ sioni dei martiri e riprende - mutatis mutandis - l ’affermazione del redat­ tore della Passione di Perpetua che riteneva giusto aggiungere alle testi­ monianze antiche, anche quelle più recenti, con l ’unica differenza che mentre i martiri più antichi dovevano lottare contro il «furore dei pagani» asserviti al diavolo, i più recenti hanno lottato contro la traditorum rabies schiava dell’Anticristo18. L’altro modello letterario che ha ben presente è la Passio et vita Cypriani e come questa fa precedere il racconto del mar­ tirio da un sintetico profilo biografico che ha molti punti di contatto con quello di Cipriano: come lui, Marculo fu educato all’esercizio della reto­ rica e abbandonò i tribunali per dedicarsi a Cristo. Come Ponzio, l’autore intende disegnare il profilo di un vescovo modello, ma diversamente da lui attribuisce molta più importanza al martirio, come indispensabile documentum19 per tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica; insiste sulla di­ gnità e l ’imperturbabile calma con cui Marculo affronta gli avvenimenti, sulla sua dedizione alla preghiera, sull’osservanza del digiuno prima della celebrazione eucaristica, sulla pacatezza dei suoi discorsi tutti concentra­ ti sulle lodi di D io e sulla gratitudine per il martirio20. 16 Così Cacitti, cit., 93 ss. 17 Y. Duval, Loca sanctorum Africae. Le calte des martyrs en Afrique du n* au v if sìècle, t. 1, pp. 158-160; t. 2, p. 705, Roma 1982; A. Michel, Aspects du calte dans les e'glises de Numidie au temps d ’Augustin: un état de la question, in S. Lancel, Saint Augustin. La Numidie et la societé de son temps, Bordeaux 2005, pp. 95; 102-104. 18 Passione di Marculo 1. 19 Passione di Marculo 16. 20 Passione di Marculo 5; 8.

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Il modello delle Passioni donatiste è la più antica letteratura martirologica africana, anzi i donatisti si ritenevano i veri eredi di figure quali Perpetua e Cipriano; per altri versi, riflettono quel gusto per i particolari raccapriccianti e Γ amplificazione dei supplizi che, pur essendo già pre­ sente fin dalle origini, tende ad affermarsi sempre di più nel corso del iv secolo e seguenti. Connessa a questa tendenza era anche la rappresenta­ zione dei funzionari romani come sadici insensati assimilati al mondo ani­ male o ai barbari. Questo tipo di rappresentazione doveva però rivestire per i donatisti un significato tutto particolare e attuale perché, a differen­ za delle altre Passioni che si continuavano a scrivere in altri regioni dell ’Impero, solo nelle Chiese donatiste colpite dai decreti imperiali quel potere continuava ad essere considerato contaminante, nemico, vero e proprio braccio armato d ell’Anticristo. 2. Controllo ecclesiastico e propaganda religiosa: i Libelli miraculorum Gli ultimi anni del iv secolo e l ’inizio del v furono segnati dall’inasprimento della legislazione antidonatista e funestati da gravi disordini. Se la persistenza di Chiese donatiste è documentata per tutta la durata dell’oc­ cupazione vandalica soprattutto nelle zone più interne della Numidia, non vi è dubbio che il Concilio del 411 a Cartagine, che si concluse con la sen­ tenza del giudice imperiale Flavio Marcellino in favore dell’unità cattoli­ ca, costituì un punto di svolta nei rapporti di forza fra le due Chiese. Agostino, eletto vescovo di Ippona nel 391, fu un testimone e un pro­ tagonista di assoluto rilievo in questi eventi. Al confronto aspro e protrat­ to nel tempo con i donatisti, un confronto in cui l ’identificazione dei veri martiri recitava, come si è visto, una parte di primo piano, è legato il cambiamento dell’atteggiamento di Agostino riguardo al culto dei mar­ tiri. D all’interesse tiepido nel periodo precedente al ritorno in Africa, egli passò ad un’attiva e costante azione pastorale volta sia a purificare le devozioni dei martiti da quelle pratiche paganeggianti che potevano ricor­ dare troppo da vicino il culto degli dèi, sia alla definizione del “vero” mar­ tirio da lui collegato strettamente all’appartenenza alla Chiesa cattolica21. Nel 415 fu ritrovato in Palestina il corpo del protomartire Stefano; parte delle sue reliquie furono portate in Occidente da Orosio e furono accompagnate ovunque da numerosi miracoli: a Minorca suscitarono la 21 J. Den Boeft, «Martyres sunt, sed hominesfuerunt». Augustine on Martyrdom, in Fructus Cen­ tesim a. Mélanges offerts à Gerard J.M. Bartelink. Dordrecht 1989, pp. 115-124; M. Pellegrino, Chiesa e martirio in Sant’Agostino, in Id., Ricerche patristiche (1938-1980), Torino 1982, pp. 597-

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conversione degli ebrei d ell’isola; numerose guarigioni avvennero anche in Africa ove, prima a Calama e a Uzala (418) e poi ad Ippona (425), ven­ nero edificate memoriae per ospitare le reliquie22. Gli scritti agostiniani di quegli anni registrano un importante cambiamento nel suo atteggiamento riguardo ai miracoli; come molti altri prima e dopo di lui, Agostino, fino a quel momento, aveva sostenuto che i miracoli si erano conclusi con l ’età apostolica, proprio perché funzionali alla prima diffusione della fede in Cristo. Tuttavia l ’entusiamo dei fedeli per i miracoli che avvenivano pres­ so le reliquie di Stefano lo portò a maturare la convinzione che i miraco­ li contemporanei - quando e dove si verificavano per un misterioso dise­ gno divino - potevano essere valorizzati per lo stesso fine: diffondere e rafforzare la fede in Cristo23. A lla confluenza dell’entusiasmo devozionale dei fedeli con la sapien­ te regia dei vescovi è legata una nuova —almeno per l ’Occidente - forma letteraria del discorso agiografico: i libelli miraculorum. Uno di questi libelli è riportato integralmente all’intemo di un’omelia tenuta, secondo la datazione più condivisa, nel 425 (o 426). Essa fa parte di un insieme di quattro sermoni che, grazie ai tachigrafi che li registrarono, ci consentono quasi di partecipare in diretta agli avvenimenti e di osservare il meccani­ smo di redazione dei libelli. Il giorno di Pasqua, presso la memoria dedicata a S. Stefano, un uomo, tormentato da parecchio tempo da un tremito continuo, venne risanato. Agostino nel sermone brevissimo dello stesso giorno lo indica ai fedeli e dice: «Siamo soliti ascoltare le relazioni sui miracoli operati da D io per le preghiere del beato martire Stefano. Il libellus che lo riguarda è la sua presenza (...) E il suo aspetto a rendere palese il miracolo»24.

Il giorno successivo, in un sermone altrettanto breve, annuncia di aver appreso dall’uomo alcune cose che i fedeli devono conoscere e promette 22 V. Saxer, Morts, martyrs, reliques en Afrique chrétienne aux premiers siècles. Les témoignages de Tertullien, Cyprien et Augustin à la lumière de Varcheologie africaine, Paris 1980, pp. 245279; Y. Duval, Le culle des reliques en Occident à la lumière du De Miraculis, in Les Miracles, cit. n. sotto, pp. 47-67; Ead., Sur la genèse des libelli miraculorum, in «Revue d’Études Augustiniennes» 52(2006), pp. 97-112. 23 A. Fraisse, La théologie du miracle dans la Cité de Dieu et le témoignage du De miraculis Sancti Stephani, in Lancel (ed.), Saint Augustin, cit., pp. 131-143 e T.J. Van Bavel, The Cult of Martyrs in St. Augustine: Theology versus Popular Religion?, in M. Lamberigts-P. Van Deun (eds.), Martyrium in Multidisciplinary Perspective. Memorial Louis Reekmans, Leuven, Un. Pr. 1995, pp. 351 -362; S. Lancel, Saint Augustin et le miracle, in Les Miracles de Saint Etienne: recherches sur le recueil pseudo-augustinien (BHL 7860-78619), avec édition critique, traduction et commentaire par J. Meyers, Tumhout 2006, pp. 69-77. 24 Sermone 320.

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di stendere una relazione d ell’accaduto e di leggerla n ell’assemblea del giorno dopo25. Il martedì dopo Pasqua invita a presentarsi davanti ai fede­ li sia l ’uomo risanato sia la sorella ancora affetta dallo stesso male: « l’uno cui è stata elargita la grazia e l ’altra per cui bisogna implorare la grazia»26 e fa leggere il iibellus. Il resoconto conteneva con dovizia di riferimenti a luoghi, nomi, circostanze precise l ’antefatto del miracolo e il miracolo stesso. In questo caso si trattava di dieci fratelli che erano stati colpiti dalla stessa malattia, dopo essere stati maledetti dalla loro madre che si era ritenuta offesa da uno di loro. Dopo il suicidio della madre, essi abbandonarono la patria per disperdersi in luoghi diversi alla ricerca della guarigione; Paolo - così si chiamava l ’uomo - e la sorella Palladia visitarono molti luoghi santi, finché guidati da più sogni in cui apparve loro lo stesso Agostino, approdarono a Ippona presso la m emo­ ria di Stefano. Dopo quindici giorni Paolo - nel giorno di Pasqua - otten­ ne la guarigione. La lettura del Iibellus verosimilmente davanti agli stessi fedeli che il giorno prima erano stati testimoni della guarigione di Paolo aveva lo scopo di proporre l ’interpretazione ecclesiastica di quell’evento. Il libellus è costruito in effetti in modo tale da comunicare un’efficace illustra­ zione del pensiero di Agostino: il miracolo come espressione della imper­ scrutabile volontà di D io che opera per il tramite dello Spirito Santo, quando e dove vuole per intercessione del martire che ha ottenuto tale po­ tere proprio per l ’intensità della fede27. Dopo la lettura del Iibellus, Agostino riprese la parola per trarre qual­ che considerazione edificante e per ringraziare D io di averlo voluto in qualche modo partecipe alla vicenda. Sta per illustrare i miracoli avvenu­ ti ad Uzala dove vi era un’altra memoria di Stefano, quando è interrotto da esclamazioni di giubilo «Deo gratias! Christo laudes» che provengo­ no dalla memoria di Stefano. Si fa avanti n ell’abside Palladia, anch’essa miracolosamente guarita. Agostino ringrazia Dio, ma è costretto a porre termine al sermone. Il giorno dopo commenta l ’accaduto e riprende il racconto di un miracolo compiuto a Uzala sempre per intercessione di Stefano. Il libro xxii della Città di Dio scritto uno o due anni dopo questi even­ ti offre ulteriori elementi per cogliere il quadro com plessivo in cui era maturata l ’iniziativa agostiniana di far redigere e raccogliere i libelli miraculorum. Egli era giunto alla convinzione che, com e i miracoli nar­

25 Sermone 321. 26 Sermone 323, 1, 27 La città di Dio 22, 9.

Capitolo settimo rati dai Vangeli inducevano la fede in Cristo, così i miracoli compiuti presso le memoriae dei martiri potevano raggiungere lo stesso effetto; dopo aver narrato gli eventi riguardanti Paolo e Palladia egli si chiede: «Che cosa c ’era nei cuori di quegli uomini esultanti - cioè dei fedeli di Ippona presenti - se non la fede del Cristo per la quale Stefano aveva ver­ sato il sangue?»28. Ma come rendere durevoli nel tempo questi effetti? Infatti - continua Agostino - se i miracoli evangelici erano continuamente richiamati alla memoria dei fedeli attraverso la lettura liturgica dei testi canonici, i mira­ coli che avvenivano presso le memorie dei martiri avevano una diffusione molto limitata e se raccontati al di fuori della ristretta cerchia di persone che vi avevano assistito, senza l ’avvallo di nessuna autorità, stentavano ad ottenere fiducia29. Di qui l ’iniziativa di far redigere i libelli relativi ai miracoli avvenuti a Ippona, dopo Γ arrivo delle reliquie di Stefano e di farli leggere in chiesa30. In soli due anni, dal 425 al 427, i libelli presenti negli archivi di Ippona erano ormai una settantina, anche se i miracoli erano stati molto più numerosi; inoltre Agostino tentò di dare alla sua iniziativa un carattere più organico facendo in modo che anche ad Uzala il vescovo Evodio adottas­ se la stessa pratica31. A Calama, ove era vescovo Possidio, anch’essa sede di una memoria di Stefano, i libelli sarebbero stati ancora più numerosi. Dietro queste iniziative si coglie una strategia concertata di edifici e testi intesa a lanciare e radicare nella pietà africana il culto di un martire così antico e prestigioso da poter entrare a far parte della fitta e contesa geo­ grafia dei luoghi santi africani; un martire, però, in un certo senso “nuo­ vo”, che la Chiesa cattolica poteva gestire in esclusiva a sostegno e legit­ timazione della sua politica di unificazione e di apostolato. Proprio ai miracoli compiuti presso la memoria di Stefano a Uzalis è dedicata inoltre l ’opera in due libri che un anonimo scrisse dietro richie­ sta di Evodio. Il racconto si apre con la descrizione άο\Υadventus delle reliquie di Stefano a Uzalis e prosegue con alcuni miracoli relativi a visio­ ni, guarigioni, resurrezioni, liberazione di prigionieri avvenuti con l ’inter­ cessione di Stefano. Anche in quella Chiesa venivano lette, in occasione della festa del santo, le historiae dei miracoli. Se alla lettura era presente il beneficiario o la beneficiaria del miracolo, lo si faceva salire i gradini che conducevano al pulpito e i fedeli potevano toccarli e constatare con i

28 La città di Dio 22, 8, 23. 29 La città di Dio 22, 8, 1. 30 Altri riferimenti alla lettura di libelli: Sermone 286, 8. 31 La città di Dio 22, 8, 22.

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propri occhi la guarigione in modo tale che «attraverso l ’ascolto e la vista la fiamma dell’amore di Dio penetrava il cuore di tutti i presenti»32.

3. La Vita di Agostino di Possidio tra biografia e autobiografia A Possidio33, discepolo, amico e compagno delle numerose battaglie sostenute a favore della Chiesa cattolica africana contro donatisti e pelagiani, dobbiamo il profilo biografico di Agostino, «una delle più belle bio­ grafie d ell’antichità»34. N elle ultime righe della sua opera, che è anche l ’unica che possediamo e gli sia stata attribuita, Possidio afferma di aver vissuto con Agostino per quarant’anni familiariter ac dulciter, senza l ’a­ marezza di un dissenso35. In effetti, fin dal 391, Possidio aveva fatto parte del monastero fondato da Agostino presso la Chiesa di Ippona36 che ospi­ tava, oltre ai laici, i chierici della stessa Chiesa. Il monastero episcopale di Ippona formò molti vescovi africani e, fra questi, anche Possidio che diventò presule della Chiesa di Calama (397). Qui, come racconta nella stessa Vita, rischiò più volte la sua vita sotto gli attacchi prima dei dona­ tisti, poi dei pagani. Nel 429 fu testimone dell’arrivo dei vandali in Nu­ midia e delle innumerevoli atrocità com messe contro la popolazione civi­ le senza distinzione di sesso e di età e contro i sacerdoti e le Chiese37. D o­ po l ’occupazione di Calama si rifugiò a Ippona che, per quanto sotto asse­ dio, ancora resisteva e fu presente alla morte di Agostino che avvenne il 28 agosto del 430. È possibile che Possidio sia stato mandato in esilio con altri vescovi africani nel 43738. Nel prologo Possidio afferma di voler narrare «la vita e i costumi del­ l ’ottimo vescovo Agostino predestinato e a suo tempo manifestato»39. L’adozione dello schema “vita et mores” potrebbe far pensare al modello

32 / miracoli di Santo Stefano 2, 1; G. De Nie, Oculata fides: Imaging Miracles in Early FifthCentury Uzalis, in Studia patristica x l , Leuven-Paris-Dudley, Ma 2006, pp. 21-36. 33 E.T. Hermanowicz, Possidius of Calama. A Study of thè North African tipiscopate. Oxford

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svetoniano, ma il contesto in cui Possidio operava era prevalentemente ecclesiastico e ispirato dai modelli vescovili presenti nella più antica lette­ ratura africana, nelle opere e nell’azione concreta di Agostino40. Il raccon­ to procede per tre blocchi narrativi41: i capp. 1-18 accompagnano Agostino dalla nascita fino alla crisi pelagiana. Il secondo (capp. 19-27,6) ne illustra il comportamento nei diversi ambienti e circostanze del suo episcopato: il suo operato com e pastore, giudice e predicatore; la discrezione nei rappor­ ti con i potenti; la modestia del vestire, la moderazione dell’ascesi, la gene­ rosità verso i poveri e gli ospiti, la scarsa considerazione per gli aspetti eco­ nomici della gestione ecclesiastica a favore dei compiti inerenti allo studio e alfinsegnam ento. L’ultima parte (capp. 27,7-31,11) raccoglie i ricordi di Possidio relativi agli ultimi mesi e alla morte di Agostino. Narrare la vita di un uomo che aveva parlato tanto di sé richiedeva delle scelte: le Confessioni di Agostino erano un racconto dettagliato della sua vita fino al battesimo, perciò Possidio si richiama a quell’opera42 per giustificare la compressione in soli due capp. di tutto quanto precede il ritorno in Africa, cosa che gli consente - tra l ’altro - di fare dell’Agostino monaco e vescovo il vero focus di tutta la narrazione. Le Retractationes, fra le ultime opere di Agostino (426/427), sono anch’esse in un certo senso autobiografiche in quanto sottoponevano ad un severo esame, so­ prattutto di carattere dottrinale, i suoi scritti principali, criticandoli e cor­ reggendoli là ove gli appariva necessario. Con quest’opera Agostino in­ tendeva lasciare un ritratto intellettuale di sé coerente agli esiti cui era per­ venuta nel frattempo la sua riflessione teologica. Possidio fa riferimento a quest’opera43, ma - come talvolta accadeva44 - decise di aggiungere al1’opusculum della Vita anche un indiculus45, un indice di tutti gli scritti di Agostino. N ella sua intenzione le due parti avrebbero dovuto circolare insieme, cosa che non avvenne nella tradizione che le copiò spesso sepa­ ratamente. Al di là delle discrepanze che pur ci sono fra la ricostruzione biografica di Possidio e la ricchissima messe di dati ricavabili dallo stes­ so Agostino e dai documenti contemporanei46, vi è dunque da parte di Possidio l ’intento di completare e rispettare il ritratto che lo stesso Ago-

2008. 34 Walter Berschin, Biographie und Epochenstil im lateinischen Mittelalter, Bd. i: Von der Passio Perpetuae zu den Dialogi Gregors des Grossen, Stuttgart 1988, p. 226. 35 Vita di Agostino 31,11, cito con qualche modifica la traduzione di Vita di Cipriano. Vita di Ambrogio. Vita di Agostino, a cura di Ch. Mohrmann e A.A.R. Bastiaensen, traduzioni di L. CanaliC. Carena, Milano 1975. 36 Vita di Agostino 15,1. 37 Vita di Agostino 28, 5. 38 PCBE, t. i, pp. 890-896. 39 Vita di Agostino, prol. 1. Possidio, Vita di S. Agostino , a cura di M. Pellegrino, Alba 1955, p. 20, M. Pellegrino, S. Agostino visto dal suo primo biografo Possidio, in Id., Ricerche patristiche (1938-1980), Torino 1982, pp. 139-156.

40 Possidio, Vita di S. Agostino, Catalogo di tutti i libri, sermoni e lettere del vescovo Sant’Agostino, a cura di E. Zocca, Milano 2009, p. 76. 41 Mohrmann, cit., pp. xliv- xlv. 42 Vita di Agostino pref. 5. 43 Vita di Agostino 28, 1. 44 Basti pensare alla Vita di Plotino premessa da Porfirio all’edizione delle Enneadi. 45 Vita di Agostino 18, 10; Γ indiculus è ora in Zocca, cit. 46 Pellegrino, S. Agostino visto dal suo primo biografo Possidio, cit., pp. 142-144; A.A.R. Bastiaensen, The Inaccuracies in thè Vita Augustini of Possidius, in Studia Patristica xvt, 2, Berlin 1985, pp. 480-486.

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stino aveva lasciato di sé, ma, nello stesso tempo, approfittando del fatto di poter rimandare il lettore ad Agostino stesso, egli ha gioco nel valoriz­ zare della figura agostiniana gli aspetti che ritiene, più di altri, significa­ tivi. In primo luogo, si tratta di salvaguardare la memoria di Agostino e di metterla al riparo dalle critiche ancorandola ai fatti oggettivi che Possidio cita così volentieri47: decisioni conciliari, verbali di atti pubbli­ ci, liste di trattati con cui il pensiero di A gostino poteva essere apprezza­ to con agio in tutta la sua profonda complessità. Occorre notare che delle numerose battaglie condotte da Agostino, Possidio non riserva a tutte lo stesso trattamento. Alla crisi pelagiana, per esem pio, viene attribuito un rilievo minore48. Del resto, la posizione assunta da Agostino a favore della grazia e della predestinazione, per quanto vincente, suscitava per­ plessità e sospetti negli stessi ambienti monastici49. In secondo luogo, attraverso Agostino, Possidio intendeva rivolgersi ai suoi contemporanei in un momento cruciale. 3.1. Un esempio “vivente” nell’Africa occupata La Vita fu redatta fra il 432 e il 437, dopo la morte del comes del­ l ’Africa Bonifacio50, che aveva fallito il tentativo di contrastare l ’invasio­ ne dei vandali e quando, prendendo atto della sconfitta, l ’Impero aveva stretto un patto con Genserico re dei vandali cui veniva ceduta gran parte della Numidia. Un momento dunque in cui le Chiese delle Numidia ave­ vano di fronte la drammatica prospettiva di un’occupazione duratura del loro territorio da parte di un re ariano che intendeva eliminarle o ridurle all’impotenza. La figura di Agostino aveva molto da dire in queste circostanze e per più di un motivo. In primo luogo perché Possidio lo vedeva come l ’uomo della riscossa e del risollevamento della Chiesa africana, una figura, dun­ que, che incoraggiava a coltivare la speranza anche nei momenti apparen­ temente più bui. La prima parte del racconto di Possidio è appunto la sto­ ria di tale riscossa; con i successi di Agostino contro «donatisti, manichei e pagani» - dice Possidio - la Chiesa cattolica in Africa com inciò a solle­ vare la testa mentre prima «giaceva calpestata e oppressa»51. Una volta nominato vescovo, con la sua incessante attività di predicatore e pubblici­

47 E.T. Hermanowicz, Possidius ofCalama, cit., p. 20, sottolinea la mentalità legale di Possidio. 48 Vita di Agostino 18, 1-5. 49 Su questo punto cfr. infra, p. 386. 50 Vita di Agostino 28, 12. 51 Vita di Agostino 7, 2.

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sta, la Chiesa «rampollava e cresceva»52; dal suo monastero si irradiarono chierici e vescovi, fondatori a loro volta di monasteri analoghi che molti­ plicarono ovunque gli effetti salutari dell’insegnamento di Agostino53. La svolta della situazione della Chiesa cattolica a seguito del Concilio di Cartagine viene ricondotta all’azione di Agostino54 che - come Possidio afferma a conclusione di questa sezione della Vita - ebbe da Dio il dono di cogliere il frutto delle sue fatiche a Ippona come in altre parti d ell’Africa «dove vide rampollare e moltiplicare, sia per opera sua, sia di altri vescovi da lui provveduti, la Chiesa del Signore»55. Agostino, inoltre, era riuscito con la Città di Dio ad elaborare una ri­ sposta di alto profilo teologico allo shock provato da molti davanti al sac­ cheggio di Roma ad opera dei Visigoti guidati da Alarico del 410. Il modo con cui - stando al racconto di Possidio - reagì all’invasione dei vandali è del tutto coerente con la visione della storia espressa nella Città di Dio; una visione in cui il dolore causato dalla perdita del potere terreno è del tutto ridimensionata di fronte alla persistenza della città divina presente in chi ha fede. Sotto l ’urto dell’invasione vandalica, Agostino continuava a guardare alla città divina presente nelle anime e il suo esempio poteva incoraggiare soprattutto i capi alla sorveglianza e alla resistenza: «Di fronte alla m anifestazione di questa atrocissima violenza e devastazione quell’uomo di D io non sentiva e pensava com e gli altri uomini: considerava gli avvenimenti più addentro e con maggiore profondità; in essi prevedeva soprattut­ to i pericoli o la morte delle anime»56.

E su questi piangeva - continua Possidio - traendo consolazione dal detto di Plotino: «Non sarà saggio chi giudicherà gran cosa la caduta del legname e delle pietre e la morte dei mortali»57. Il penultimo capitolo della Vita riporta la lettera di Agostino ad Onorato vescovo di Thiabe, che si era rivolto a lui per avere indicazioni su com e dovesse comportarsi il clero di fronte alParrivo dei nemici; lette­ ra in cui Agostino gli ricordava con fermezza i suoi doveri riguardo alle popolazioni che in nessun caso avrebbero dovuto essere lasciate prive del­ la guida sacerdotale. La lunghissima citazione interrompe il ritmo del rac­ conto degli ultimi giorni di Agostino e Possidio ne è consapevole in quan-

52 Vita di Agostino 9 ,1 . 53 Vita di Agostino 11, 1-4. 54 Vita di Agostino 13, 5. 55 Vita di Agostino 18, 7. 56 Vita di Agostino 28, 6. 57 Vita di Agostino 28, 11 e Città di Dio π, 2; Plotino, Enneadi 1, 4, 7.

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to sente il bisogno di precisare: «Questa lettera ho voluto inserire nel mio scritto, perché assai utile e necessaria ai vescovi di Dio e ai chierici»58. E proprio alle guide istituzionali e morali delle Chiese africane sembra rivolta in particolare la Vita di Agostino·, in questo senso vanno anche i fre­ quenti inviti di Possidio a consultare i documenti relativi ai diversi mo­ menti delle battaglie agostiniane in favore della d ell’«unità e la pace» del­ la Chiesa cattolica, vale a dire, gli atti dei dibattiti pubblici posseduti dagli archivi ecclesiastici e naturalmente gli stessi scritti di Agostino. L’indiculus che —nelle intenzioni di Possidio —avrebbe sempre accompagna­ to la Vita sarebbe dovuto servire soprattutto a questo: «Leggendolo, chi preferisce la verità divina alle ricchezze temporali potrà sce­ gliere a suo piacimento cosa leggere e conoscere, per poi richiederlo, da trascri­ vere, alla biblioteca della Chiesa di Ippona, dove forse potrà trovare esemplari più corretti, oppure ricercarlo altrove, a suo piacimento: trovatolo, lo trascriva e lo tenga per sé, e lo presti senza gelosia a chi lo chiede per trascriverlo»59.

Queste parole chiudono la parte del testo dedicato alla vita; e con un riferimento ai libri e alle biblioteche Possidio pone fine al suo racconto indicando proprio in esse l ’autentica eredità lasciata da Agostino, quelle biblioteche in cui i fedeli «lo trovano sempre vivo»60. Se letta sullo sfondo del discorso agiografico coevo, la Vita di Agostino colpisce per lo scarso rilievo che in essa assume l ’elemento miracolistico: vi è un cenno assai discreto all’efficacia delle sue preghiere per allontana­ re i demoni da alcuni posseduti e un episodio relativo alla sua ultima malattia: venne avvicinato da un tale che gli portò un ammalato e gli chie­ se di imporgli le mani per guarirlo e Agostino rispose che se avesse potu­ to, avrebbe guarito prima di tutto se stesso. Il suo visitatore affermò allo­ ra di aver avuto una visione che in sogno gli annunciava la guarigione se fosse andato da Agostino a farsi imporre le mani. «Saputo ciò, (se. A go­ stino) non indugiò a farlo, e subito il Signore fece allontanare da lui l ’in­ fermo risanato». Queste parole, che orientano l ’attenzione del lettore non su Agostino che è il primo ad ammettere la sua impotenza, ma sul Signore che è l ’unico artefice della guarigione, sono fedeli allo spirito con cui il vescovo di Ippona organizzò la raccolta dei libelli miraculorum, uno spi­ rito di abbandono alla volontà divina, là dove essa per imperscrutabili motivi si rivela per il tramite, in questo caso, non di un martire in senso stretto, ma di chi com e il martire, ha testimoniato con tutta la sua vita la 58 Vita di Agostino 29, 2. 59 Vita di Agostino 18, 10. 60 Vita di Agostino 3 1 ,6 -8 .

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sua fede in Lui. In questo modo Possidio, con discrezione, riverbera sul­ l ’Agostino morente la stessa aura di santità. Mancano tuttavia nella Vita di Agostino quegli elementi che nelle Vitae sanctorum sono rivelatori d ell’intenzione di promuovere il culto: la men­ zione del luogo della sepoltura, dei miracoli che vi avvengono. Del resto - com e è stato notato6162 - un Agostino taumaturgo avrebbe enfatizzato troppo la perdita dell’uomo, mentre si voleva incoraggiare con un esem ­ pio attuabile di vescovo-monaco comportamenti atti a superare il momen­ to attuale. Va inoltre notato che la scelta di Possidio, per quanto minorita­ ria non è affatto isolata soprattutto in Africa: prima vi è la Vita e passione di Cipriano e dopo vi sarà com e vedremo fra breve, la Vita di Fulgenzio di Ruspe. Anche fuori dall’Africa non mandano alcuni casi: la Vita di Origene nella Storia Ecclesiastica di Eusebio, la Vita di Paola di Gerolamo e la Vita di Onorato di Arles di Ilario. 4. La Storia della persecuzione vandalica in Africa: martiri “romani” e persecutori “barbari ”

U Historiapersecutionis Africanae Provinciae62 è l ’unica fonte di noti­ zie sul suo autore: nel prologo afferma di esaudire la richieste di un alto personaggio (forse Eugenio di Cartagine) discepolo di Diadoco (di Foticea?), che, desideroso di comporre una historia, gli aveva richiesto di in­ dicargli breviter gli avvenimenti accaduti in Africa «debaccantibus Arianis»6364. Da altri cenni apprendiamo che si trovava a Cartagine fra il 480 e il 484 e si presenta a più riprese come testimone dei terribili avvenimenti di quegli anni. I numerosi riferimenti biblici, l ’inserimento della citazio­ ne completa del libellus de fide letto dai vescovi cattolici nel corso della disputatio64 fra vescovi cattolici e ariani voluta dal re vandalo, inducono a ritenere Vittore un colto esponente del clero cartaginese nel momento in 61 L.I. Hamilton, Possidius Augustine and Post-Augustinian Africa, in «Journal o f Early Christian Studies» 12(2004), p. 105. 62 Ed. critica: Victoris Episcopi Vitensis Historia persecutionis Africanae Provinciae, recensuit Petschenig M. (CSEL vii), Vindobonae 1881; Vittore di Vita, Storia della persecuzione vandalica in Africa, traduzione, introduzione e note a cura di S. Costanza, Roma 1981, da cui cito; cfr. Victor of Vita, History of thè Vandal Persecution, translated with notes and introduction by J. Moorhead, Liverpool 1992; Histoire de la persecution vandale en Afrique-, suivie de La passion des sept martyrs; Registri des provinces et des cite's d ’Afrique. Textes établis, traduits et commentés par S. Lancel, Paris

2002 . 63 D. Shanzer, Intentions and Audiences: History, Hagiography, Martyrdom, and Confession in Victor ofVita’s Historia Persecutionis, in A.H. Merrills (ed.), Vandals, Romans and Berbers, cit., pp. 271-290, ipotizza successive revisioni; sul periodo storico; Merrills, Vandals, Romans and Berbers, cit., pp. 1-28. 64 Storia della persecuzione vandalica 2, 53.

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cui redigeva la sua Storia, cioè, negli ultimi mesi del governo di Unirico che morì nel dicembre del 48465. I tre libri della Storia abbracciano un periodo di ca sessantanni, dal­ l ’ingresso dei vandali in Africa fino agli eventi contemporanei di Vittore, cioè l ’estate del 484 che segna il culmine delle sofferenze dei cattolici di Africa, schiacciati dalla persecuzione scatenata da Unirico e da una care­ stia che colpì la regione. I diversi momenti dell’occupazione vandalica non hanno lo stesso rilievo; il primo libro copre il regno di Genserico e termina con la sua morte (429-477); il secondo gli avvenimenti del regno di Unirico dal 477 al 484, e il terzo libro - che è anche il più lungo - gli avvenimenti compresi fra il febbraio del 484 e l ’estate dello stesso anno. Memore della lezione della Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, lodata e conosciuta attraverso la traduzione rufìniana66, la narrazione di Vittore segue il genere deWhistoria quando cita documenti ufficiali e ri­ porta con precisione date, luoghi, nomi di funzionari, di martiri e di con­ fessori e, per questo, rappresenta un documento prezioso per ricostruire la storia del regno vandalico di Africa. Come Eusebio, inoltre, fa spazio a numerosi racconti di martirio che rendono questa Storia anche un docu­ mento dello sviluppo della letteratura martirologica67. Nel primo libro la narrazione si struttura in due parti principali: la prima dà un quadro generale delle conseguenze d ell’invasione vandalica. Vittore insiste sul fatto che furono presi di mira le chiese, le basiliche dei santi, i monasteri, i cimiteri, più che le città; più le gerarchie ecclesiasti­ che e i cittadini illustri che la gente di modesta condizione, in una ricerca forsennata di oro e oggetti prezioni che utilizzava le torture più atroci per raggiungere lo scopo. Le parole: «Ma si sa che vi furono moltissimi mar­ tiri e una ingente e grandissima moltitudine di confessori»68 segnano il passaggio alla seconda parte ove Vittore narra casi singoli. Ad aprire il dossier martirologico è un vero e proprio romanzo cristiano che ricorda quello di Malco narrato da Gerolamo69; ne sono protagonisti Martiniano e Massima servi di un Vandalo che decide di unirli in matrimonio. Questa

65 Vi sono diverse interpretazioni sulle parole con cui Vittore inizia la Storia: «Sono già passati cinquantanove anni (...) dal giorno in cui quel crudele e feroce popolo dei vandali toccò il territorio delle miserevole Africa». Dal momento che gli ultimi eventi narrati sono quelli relativi all’estate del 484, secondo Vittore, l ’ingresso dei vandali in Africa risalirebbe al 425 e non al 429; cfr. C. Courtois, Victor de Vita et son oeuvre , Alger 1954, p. 17 e Costanza, cit., pp. 12-13. 66 Storia della persecuzione vandalica 3, 61; sull’influenza di Eusebio e Rufino: G. Zecchini, Ricerche di storiografia latina tardoantica, Roma 1993, pp. 216-217. 67 L’influenza dei testi martirologici è particolarmente sottolineata da Lancel, Histoire, cit., p. 51. 68 Storia della persecuzione vandalica 1, 30; sul tema dei confessori: cfr. Shanzer, cit., pp. 282285. 69 Cfr. supra, p. 181.

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volta è la donna consacrata a Cristo a convincere «nei segreti silenzi della camera da letto»70 il marito ad abbracciare lo stesso genere di vita; vi è la fuga presso un monastero; la caccia, la cattura, la tortura. La vendetta divina si abbatte sul vandalo e sulla sua famiglia; allora Genserico, men­ tre lascia libera Massima di vivere in un monastero di donne, consegna Martiniano e i suoi fratelli al re pagano dei Mauri. Qui però i fratelli ope­ rano molte conversioni fino a suscitare le ire di Genserico che li condan­ na a morte. Legati con i piedi a cavalli lanciati al galoppo e straziati dalle asperità del terreno, morirono mentre s ’incoraggiavano l ’un l ’altro71. Nel terzo libro, la galleria di martiri e confessori - quasi tutti di alta condizione sociale - si dilata ulteriormente: la nobile Dionisia che viene esposta nuda al ludibrio e che - seguendo le orme della madre dei M ac­ cabei - prima di morire incoraggia e sostiene il figlioletto a sopportare il martirio72; Servo, nobile cittadino della città di Tuburbi, prima, viene ba­ stonato, poi, tirato con una carrucola e così trascinato in giro per la città, mentre «veniva scorticato dai sassi taglientissimi al punto che la pelle del corpo si staccava»73; la matrona Vittoria resiste alle insistenze dei suoi e affronta intrepidamente le torture che vorrebbero convincerla a convertir­ si all’arianesimo74; il proconsole di Cartagine Vittoriano «il più ricco nel territorio di Africa» paga con il martirio il rifiuto di rinnegare la propria fede75. Vittore insiste molto sulla resistenza del martire o confessore di fronte agli affetti familiari, un tema ricorrente nel discorso agiografico martirologico, da Perpetua in poi, ma qui caricato di effetti patetici. I miracoli hanno una parte rilievo. Nei racconti sui confessori, vi sono strumenti di tortura che inspiegabilmente diventano inefficaci o ferite che si risanano, nell’intento di spiegare al lettore il motivo per cui torture così efferate non si concludessero con la morte. In relazione ai martiri, vengo­ no citati miracoli che avvengono nei luoghi della morte dei santi forse con l ’intenzione di arricchire di nuovi nomi e luoghi la devozione fortissima degli africani verso i martiri. È interessante notare, però, che il Mar­ tirologio di Cartagine che ricorda le date della depositio di martiri e ve­ scovi fino a Eugenio (morto nel 505) non contiene nessun nome delle vit­ time della persecuzione vandalica, per quanto alcuni di questi martiri siano menzionati anche da altre fonti76*. 70 Storia della persecuzione vandalica 1,31. 71 Storia della persecuzione vandalica 1, 38. 72 Storia della persecuzione vandalica 3, 22. 73 Storia della persecuzione vandalica 3, 25. 74 Storia della persecuzione vandalica 3, 26. 75 Storia della persecuzione vandalica 3, 27. 76 Courtois, Victor, cit., p. 81: si tratta di Laetus e dei sette monaci di Capsa, di cui esiste una Passio (testo in appendice all’edizione critica della Storia).

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Come per Eusebio, il martire è un eroe sovrumano che un potere inu­ mano e ferino non riesce piegare. In età costantiniana, il martire così pre­ sentato tendeva ad accentuare (e ad anticipare almeno nel discorso agiografico) la soluzione di continuità fra l ’Impero pagano e Impero cristiano; nc\VHistoria persecutionis serve soprattutto a costruire e ad intrecciare in modo inscindibile lo scontro fra ortodossia ed eterodossia con lo scontro fra civiltà, barbari/ariani e romani/cattolici77. L’amplificazione delle sof­ ferenze dei cristiani niceni, ricca di particolari patetici che facevano appello ai sentimenti e al senso dell’onore romano, costituiva una leva potente per ritrarre un quadro di forti contrasti, là dove esisteva una real­ tà assai più complessa e articolata, sia dal punto di vista religioso, sia più strettamente politico. Vi erano certo romani cattolici, ma come si legge bene nella filigrana del racconto di Vittore anche cattolici barbari; cristia­ ni donatisti, manichei, cattolici non latini etc, com e fra i romani di rango e cultura non mancavano persone, com e il poeta Draconzio, che cercava­ no presso la corte dei re vandali spazi di valorizzazione adeguati78. Inoltre, fuori dall’Africa, c ’era chi, come Salviano di Marsilia e proprio riferen­ dosi alla situazione di Cartagine occupata dai vandali, aveva tratteggiato la polarità romani/barbari in tutt’altro modo. Per Salviano, i barbari ave­ vano ristabilito quella moralità di costumi che i romani avevano perduto da tempo79. Le parole con cui Vittore termina il racconto degli orrori subi­ ti dai cattolici illustrano bene il suo punto di vista ostile verso ogni poli­ tica di dialogo e compromesso: «E voi che amate i barbari e che talvolta li lodate a vostra condanna, considerate ora il loro nome e comprendetene i costumi. Avrebbero forse potuto essere chia­ mati con altro nome, se non con quello di barbari, dal momento che è loro appro­ priato il vocabolo di ferocia, di crudeltà e di terrore? M a per quanti blandimenti tu possa fare ad essi, per quanti servigi possa tu offrire loro per farteli buoni, essi non sanno far altro che invidiare i romani (...) Desiderano offuscare lo splendore e la nobiltà del nome romano e desiderano solo che nessuno dei romani viva»80.

Ed è pensando ai romani cattolici, cioè ai bizantini e ad un loro possi­ bile intervento in Africa, che Vittore scrive la sua Historia. Di qui l ’appel-

77 S. Costanza, “Uandali-Arriani" e “Romani-Catholici” nella Historia Persecutionis Africanae di Vittore di Vita, in Oikoumene. Studi in onore del Concilio Ecumenico Vaticano ir, Catania 1964 pp 223-241. 78 Sulla continuità delle istituzioni romane in età vandalica: F. d o v e r , The Symbiosis ofRomans and Vandali in Africa, e Le culte des empereurs dans l ’Afrique Vandale, in Id., The Late Roman West and thè Vandali, Aldershot 1992, vi, pp. 1-22; x, pp. 57-73. 79 Salviano di Marsiglia, Il governo di Dio 1, 65-8, 25. 80 Storia della persecuzione vandalica 3, 62.

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lo finale rivolto a tutti «i cattolici», agli angeli di venire a condividere il pianto suH’«Africam desolatam» e il rimpianto che questo appello non sia stato accolto da nessuno «a partibus Orientis»81. L’appello accorato di Vittore dovette attendere molto tempo prima di essere accolto, ma la fama che la sua Storia procurò ai romani confessori e, qualche volta, martiri non fu del tutto inutile: l ’Imperatore Giustiniano avrebbe deciso lo sbar­ co in Africa dopo aver visto in sogno proprio uno di costoro, il vescovo Leto condannato al rogo dal re Unifico che lo spronava in quel senso82. 5. La Vita di Fulgenzio di Ruspe: “Africanae Ecclesiae doctor praedestinatus ” Come Possidio, l ’Autore della Vita Fulgentii83 si presenta come disce­ polo di Fulgenzio, convinto a indossare abiti monacali e a condividerne la vita nel monastero da lui fondato in Sardegna all’epoca del suo esilio (508). È un uomo colto che sa utilizzare tutti i procedimenti retorici per ottenere l ’effetto cercato84. Con loro abitava anche Feliciano, allora già sacerdote, e, in seguito, divenuto vescovo di Ruspe (534) e, com e tale, destinatario della Vita. Il rilievo dato alle circostanze dell’elezione di Feliciano85 inducono a pensare a una data di redazione molto vicina a tale avvenimento. Le vicende di Fulgenzio e della sua famiglia nell’Africa occupata pos­ sono essere considerate come un’illustrazione e - insieme - un correttivo del quadro volutamente fosco fornitoci da Vittore: con la caduta di Car­ tagine nel 439, il nonno di Fulgenzio, un senatore, fu costretto come molti altri a imbarcarsi alla volta dell’Italia «per salvare la sua vita, dopo aver perso i suoi beni»; tuttavia, i suoi figli, tra cui il padre di Fulgenzio, tor­ narono a un certo punto in Africa e riottennero - per concessione regia una parte dei loro beni, non più a Cartagine, nella proconsolare, ma nella 81 Storia della persecuzione vandalica 3, 64-68; così legge M. Petschenig; J. Moorhead legge­ rebbe piuttosto “patribus”, secondo una lezione presente in parte della tradizione. 82 Vittore di Tonnena, Chron. A. 534, citato da Courcelle, cit., p. 220. 83 L’attribuzione tradizionale a Ferrando di Cartagine è contestata da A. Isola, Sulla paternità della Vita Fulgentii, in «Vetera Christianorum» 23(1986), pp. 63-71, argomenti che hanno indotto anche la bibliografia più recente a dubitarne, ripresi anche in Vita di s. Fulgenzo di Ruspe, tr. it. a cura di A. Isola, Roma 1999, traduzione che utilizzo. Sulla Vita Fulgentii'. A. De Vogiié, Histoire littéraire du mouvement monastique dans l ’Antiquìté, Premère Partie: Le monachisme latin, t. 9: De Césaire d ’Arles à Gre'goire de Tours (525-590), Paris 2005, pp. 49-83; Walter Berschin, Biographie und Epochenstil im lateinischen Mittelalter, Bd. t: Von der Passio Perpetuae zu den Dialogi Gregors des Grossen, Stuttgart 1988, pp. 235-240. 84 Ferrand, diacre de Carthage, Vie de Saint Fulgence de Ruspe, texte établi et traduit par P.G.-G. Lapeyre, Paris 1929, p. XLvm. 85 Vita di Fulgenzio 29.

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Bizacena, a Telepte. Qui Fulgenzio ricevette un’educazione approfondita: il suo biografo ricorda con qualche compiacimento che la madre - imma­ ginando forse per lui una carriera diplomatica presso la corte - non volle che studiasse la letteratura latina, prima di aver imparato a memoria «tutto Omero e in parte Menandro». La nomina di Fulgenzio a procuratore l ’alto funzionario incaricato di riscuotere le tasse per conto del re - è un segno della politica vandalica di collaborazione amministrativa con gli illustres romani. La decisione di abbandonare il suo status per entrare nel monastero fon­ dato da un vescovo in esilio, Fausto, è la prima “fuga” di una vita che fu realmente all’insegna dell’inquietudine e scarsa adattabilità alle circostan­ ze86: che senso infatti avrebbe avuto inventarsi questi abbandoni improv­ visi che gli stessi suoi intimi giudicavano severamente87? L’autore ha però scelto di porli in primo piano nella sua ricostruzione e di far leva su di essi per mettere in luce un modo particolare di intendere la vita monastica, come si capirà meglio fra breve. Per questo forse la ripartizione classica in vita et mores adottata da Possidio per la Vita di Agostino viene abban­ donata per preferire una struttura narrativa che segue il filo cronologico. Senza che questo corrisponda a cesure intenzionali presenti nel testo, si possono individuare diversi cicli narrativi88 che riproducono lo stesso schema: stabilizzazione e allontanamento. Ogni volta che Fulgenzio sem­ bra approdare ad un porto sicuro, ecco che egli stesso o circostanze ester­ ne lo portano altrove rimettendo in moto il filo narrativo. Nel primo ciclo (capp. 1-8) si com pie il passaggio fra colto e stimato rappresentante del­ l ’aristocrazia a monaco e infine ad abate, costretto dalle circostanze a cambiare monastero più di una volta a causa delle persecuzioni prima ariane, poi berbere. In un racconto in cui la demonologia non ha nessun rilievo, questa prima sezione è dedicata al racconto della conquista della perfezione spirituale attraverso il felice superamento di numerose prove: la «prima tentatio»89 è rappresentata dalla madre che cerca di farlo desi­ stere dalla scelta monastica; la seconda è rappresentata dalla ricchezza di cui si spoglia in favore della madre e del fratello90, fino al coronamento della perfezione tramite la pratica di un’ascesi severa e le percosse subite per la fede cattolica che fanno di Fulgenzio un confessore nella fede. Un episodio in particolare illustra bene la difficoltà dei tempi: incalzati dalle

incursioni dei Mauri, Fulgenzio e Felice, con i loro monaci, abbandonano la provincia per trovare rifugio nel territorio di Sicca, ma qui vengono per­ seguitati dagli ariani e decidono pertanto di tornare nella loro provincia «preferendo aver com e vicini i Mauri piuttosto che sopportare i m olestis­ simi ariani»91. Questa parte si conclude con la fondazione del monastero vicino Medidi, ma “repentinamente” Fulgenzio -conquistato dalla lettura delle Istituzioni e delle Conferenze di Cassiano92 - decide di lasciarlo per recarsi in Egitto: «Egli era spinto da due desideri - afferma la Vita - prima di tutto rinunciare a essere abate per vivere sotto l ’autorità altrui, in secon­ do luogo, sottomettersi a regole ascetiche più severe»93. Inizia dunque un nuovo ciclo (capp. 8-16) punteggiato da viaggi - a Siracusa, a Roma - , da nuove fondazioni monastiche, fino alla travaglia­ ta consacrazione a vescovo di Ruspe, ove fonda un altro monastero in cui abitare e continuare il proprio stile di vita ascetico. Questa volta è un provvedimento di esilio del re Trasamondo a portarlo fuori dall’Africa (508) e farlo approdare in Sardegna ove si rivelano pienamente le sue doti intellettuali e retoriche e diventa il portavoce dei sessanta vescovi esiliati con lui in Sardegna. Qui rimarrà fino al 523, a parte una breve parentesi in cui toma in Africa richiamato dal re Trasamondo per affrontare un dibattito teologico. Durante la permanenza in Sardegna, Fulgenzio è raffigurato come la vera guida intellettuale del gruppo di sessanta vescovi in esilio: fonda due monasteri, si dedica all’insegnamento, alla stesura di scritti antiariani e antipelagiani (capp. 17-26). La salita sul trono di Hilderico sancisce la fi­ ne delle persecuzioni e Fulgenzio, dopo un’accoglienza trionfale a Carta­ gine e in ogni tappa del suo viaggio, ritorna a Ruspe e qui riprende ad abi­ tare nel monastero cui affida la guida all’amico Felice richiamato in quel­ la città già dal momento della consacrazione episcopale. Fulgenzio tenta di sottrarsi un’ultima volta alle cure pastorali per vivere in solitudine con pochi compagni in un monastero da lui fondato sull’isola di Cercina, ma, richiamato in città dal popolo, muore tra la desolazione della cittadinanza che pretende che il suo corpo venga seppellito nella basilica, onore con­ cesso per la prima volta (capp. 26-29). Con un linguaggio nutrito dalla riflessione agostiniana sulla grazia e dalla polemica antipelagiana, Possidio aveva iniziato la sua Vita manife-

86 M. Simonetti, Note sulla Vita Fulgentii, in «Analecta Bollandiana» 100(1982), p. 280. 87 Cfr. infra, pp. 315-316. 88 C. Leyser, “A Wall protecting thè City": Conflict and Autority in thè Life of Fulgentius of Ruspe, in A, Camplani-G. Filoramo (eds.), Foundations of Power and Conflicts o f Authority in LateMonasticism, Leuven-Paris 2007, pp. 182-183. 89 Vita di Fulgenzio 4. 96 Vita di Fulgenzio 5.

91 Vita di Fulgenzio 7. 92 Sono le opere che Fulgenzio porta con sé nel suo viaggio verso l ’Egitto: Vita di Fulgenzio 8; l ’autore della Vita si sarebbe ispirato alle vicende dell’abate Pinufio che, pur essendo abate di un gran­ de monastero del Delta, entrò segretamente come novizio nel monastero di Pacomio a Tabennesi: Leyser, cit., p. 185. 93 Vita di Fulgenzio 8.

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stando l ’intenzione di narrare quanto aveva visto e udito «sulla vita e i costumi dell’ottimo vescovo Agostino, predestinato e a suo tempo presen­ tato»94. Anche Fulgenzio viene presentato com e «dottore predestinato della Chiesa africana»95, la cui vicenda fin dagli inizi è posta sotto il segno di Agostino: è infatti la lettura di alcune pagine agostiniane sui Salmi a fornire a Fulgenzio la spinta decisiva a rendere pubblica la sua scelta monastica96. E, come Agostino, Fulgenzio è presentato come uomo di grande cultura e abilità retòriche straordinarie, come leader monastico ed ecclesiastico che lavora in ogni circostanza per garantire l ’unità e la pace nel monastero e nella Chiesa. Una personalità, dunque, in grado di racco­ gliere il testimone dell’eredità dei due grandi vescovi africani d ell’epoca prevandalica: Agostino e Aurelio, primate di Cartagine97 e, insieme a co­ storo, di costituire un punto di riferimento in un momento in cui la Chiesa cattolica africana, riconquistata dai bizantini, doveva affrontare il compi­ to della ricostruzione di un tessuto ecclesiale ancora resistente, ma pro­ fondamente usurato dalle persecuzioni durate circa un secolo. Fulgenzio sembra munito di tutte le carte in regola per recitare un ruolo così rilevante: proveniva da una famiglia di illustres di Cartagine e, per quanto personalmente avesse fatto una scelta di povertà, la rete di patronato e di conoscenze che sempre accompagnava tale condizione sociale continua a trasparire in più punti del racconto: Felice compagno di ascesi e di tante vicende, era un suo amico di gioventù98; un vescovo aria­ no che era stato in rapporti di familiarità con lui e la sua famiglia lo invi­ ta a denunciare il prete ariano che lo aveva fustigato99; ricchi esponenti della buona società africana gli fanno ingenti donativi per le sue fondazio­ n i100; egli stesso possiede sufficienti risorse per costruire monasteri101. Il prestigio inerente alla cultura e all’abilità retorica in grado di contrastare efficacemente l ’eresia, è rafforzato - rispetto all’Agostino di Possidio dall’adozione di pratiche ascetiche severissime e dalla corona del martirio (sebbene parziale). Come Ippona cadde ad opera dei vandali solo dopo la morte di Agostino, Ruspe venne risparmiata per un certo tempo dalle incursioni dei Mauri, da Fulgenzio «la cui vita costituì per i suoi concit­

94 Vita dì Agostino, prol. 1. 95 Vita di Fulgenzio 10. 96 Vita di Fulgenzio 2; sull’influenza delle Confessioni su questo racconto: P. Courcelle, Trois récits de conversion au VP siècle, dans la lignee des Confessions de saint Augustin, in «Historisches Jahrbuch» 76(1958), p. 453. 97 Vita di Fulgenzio 18. 98 Vita di Fulgenzio 5. 99 Vita di Fulgenzio 7. 100 Vita di Fulgenzio 10. 101 Vita di Fulgenzio 24.

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tadini un muro»102. Come Agostino, Fulgenzio non è un taumaturgo, ma diversamente da Possidio, l ’autore della Vita Fulgentii ne teorizza il moti­ vo quando - ricordandosi forse delle parole di Cassiano e di Ilario a pro­ posito di Onorato - ci informa che fu proprio Fulgenzio a non desiderare questo dono perché «i miracoli (mirabilia) non attribuiscono agli uomini la giustizia, ma la notorietà»103. Insieme ad elementi di forte e consapevolmente costruita continuità e dialogo con la Vita di Agostino, la Vita di Fulgenzio persegue motivi suoi propri in un quadro profondamente mutato dei rapporti fra monacheSimo ed episcopato. Se nella Vita di Agostino, il monastero - sotto il diretto controllo del vescovo - era il luogo dove si formavano sacerdoti e dove i sacerdoti continuavano a vivere, esempi viventi della possibile armoniz­ zazione dei due generi di vita, la Vita Fulgentii riflette e, insieme, intende rendere normativo, proprio con l ’esempio di Fulgenzio, equilibri diversi. Stando al racconto della Vita, il ritorno di Fulgenzio a Ruspe, dopo ca. ventiquattro anni di esilio, coincise con un vero e proprio disciplinamento di tutti gli aspetti religiosi di quella città: preferì tornare a vivere nel monastero, ma lasciò per scritto che lo faceva per affetto e non per assu­ merne la guida che lasciava interamente nelle mani dell’abate e amico Felice. Con questo documento - continua la Vita - toglieva ogni possibi­ lità di contestazione ai suoi successori, poiché nulla andava anteposto all’interesse dei monaci104. Come accadeva a Ippona, Fulgenzio sceglieva i propri sacerdoti fra i monaci del monastero, in modo da facilitare la con­ cordia, però fece costruire una casa «con la massima cura» destinata al vescovo e stabilì che i preti non abitassero lontano dalla chiesa (e quindi non più nel monastero come nel modello istituzionale agostiniano) e col­ tivassero l ’orto con le proprie mani (e quindi fossero in grado di provve­ dere personalmente al proprio sostentamento). N e disciplinò minuziosa­ mente i doveri sacerdotali: i digiuni, i tempi del ministero liturgico. La persecuzione vandalica che colpiva le gerarchie ecclesiastiche ave­ va com e conseguenza la dispersione dei monasteria episcopalia, anche se i monaci in quanto tali, salvo rare eccezioni, non furono presi di mira105. Tale pressione protratta per così lungo tempo, se, come dice Vittore, aveva reso l ’Africa, prima sostenuta dai «cunei» di tante chiese e adorna di tanti ordini di sacerdoti, ora «abbandonata e negletta»106, di fatto aveva aperto 102 Vita di Fulgenzio 28. 103 Vita di Fulgenzio 22 e Cassiano, Conferenze 15, 2; per Onorato di Arles cfr. infra, pp. 360 ss. 104 Vita di Fulgenzio 7. 105 Significativamente, fra i martiri e confessori menzionati dalla Storia di Vittore vi è un solo gruppo di monaci, appartenente al monastero episcopale di Capsa: 3,41. 106 Storia della persecuzione vandalica 3, 67.

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uno spazio per esperimenti monastici di altro tipo. La vicenda stessa di Fulgenzio, che fonda nelle sue peregrinazioni ben sei monasteri, è illumi­ nante: inizia la sua carriera monastica in un monastero fondato e guidato da un vescovo in esilio e la termina da vescovo con il riconoscimento for­ male del diritto al monastero di autogovernarsi107. Questi spazi di autono­ mia e sviluppo dovettero poi confrontarsi con il rientro dei vescovi o comunque con la normalizzazione della vita istituzionale ecclesiastica dopo la fine della persecuzione. N el Concilio di Cartagine del 525, dieci anni prima della data presumibile della stesura della Vita Fulgentii, un abate della Bizacena, Pietro, aveva dovuto difendere - e con successo davanti a Bonifacio, vescovo di Cartagine l ’autonomia del proprio mona­ stero contro Liberato, primate della Bizacena108. L’Autore della vita è un monaco che ha condiviso l ’esilio di Fulgen­ zio per poi tornare a Ruspe al suo seguito e presumibilmente approdare al monastero d ell’abate Felice cui, non a caso, questa Vita riserva quasi il ruolo di coprotagonista, compagno della prima ora di Fulgenzio, che, all'occorrenza, sa richiamarlo al suo dovere109 e che la fine del racconto ritrae com e abate di un monastero distinto dall’episcopio. La Vita è dedi­ cata a Feliciano, ma non adempie una richiesta; non è Feliciano che pre­ me per salvare dall’oblio la vita di Fulgenzio, è il suo discepolo monaco che si sceglie questa m issione. Afferma di voler narrare la vita di un gran­ de vescovo, ma il baricentro del suo racconto è l ’esaltazione del monaco e del monastero com e unico luogo di pace, di concordia, di studio e di insegnamento110. Anche il dedicatario della Vita, Feliciano, aveva fatto parte della cer­ chia di Fulgenzio e doveva la sua contrastata elezione a vescovo di Ruspe a quel Daziano, nel 533 primate della Bizacena, che era stato il membro più ragguardevole di quel gruppo di vescovi esuli in Sardegna che scelse com e proprio portavoce Fulgenzio111. A questa cerchia di «sapientes»112, che aveva conosciuto personalmente Fulgenzio e ne aveva m esso a frutto i talenti teologici e retorici e che ora è in prima fila nella riorganizzazio­ ne e normalizzazione della vita ecclesiale della Bizacena, viene rivolto l ’invito a seguire l ’esempio di Fulgenzio richiamando alla memoria di tutti il modo in cui egli aveva vissuto: la sua predilezione per un ideale

107 Vita di Fulgenzio 27. 108 Courtois, Les Vandales, cit., pp. 307-309; PCBE, p. 873 (Petrus). 109 Vita di Fulgenzio 13: interviene presso il vescovo Fausto per farlo richiamare nel suo mona­ stero, dopo un’altra fuga. 110 Vita di Fulgenzio 2.19. n i PCBE, t. 1, pp. 266-267. 112 Vita di Fulgenzio 29.

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monastico esigente, il suo desiderio di essere sottomesso agli ordini degli altri, piuttosto che comandare; il suo rispetto per il diritto del monastero di dirigere i propri affari interni, pur nella collaborazione reciproca per il bene della Chiesa: «Che tu - sono le parole rivolte a Feliciano con cui ter­ mina la Vita - viva felicemente, in modo non indegno di un predecessore tanto grande!»113.

113 Ibidem.

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1. La Vita di Ambrogio di Paolino di Milano: un vescovo carismatico Pur facendo presentire in lontananza la presenza minacciosa dei barba­ ri, i Carmina natalicia di Paolino di N ola rappresentavano un mondo ancora al sicuro, in cui un aristocratico convertito aH’ascetismo poteva coltivare i suoi ideali spirituali e letterari, circondato da una cerchia di amici fidati e solidali e dalla bellezza di un angolo della Campania che egli stesso aveva potuto plasmare a proprio piacimento. L’ultimo dei Car­ mina natalicia è del 409; la discesa in Italia di Alarico e la presa di Roma è d ell’anno successivo e lo stesso Paolino dovette assistere alla deva­ stazione di Nola e fu fatto per un certo tempo prigioniero1. In seguito, Ro­ ma e l ’Italia divennero terra di passaggio e di conquista degli unni di Attila, dei vandali, degli ostrogoti di Teodorico, dei bizantini, dei longo­ bardi. La mancanza di stabilità e la frammentazione politica si riflette nei principali testi agiografici dello stesso periodo, ciascuno dei quali, nel continuo cambiamento della situazione politica, appare isolato dagli altri nel tentativo di proporre la propria lettura degli eventi attraverso l ’esalta­ zione di modelli di santità profondamente diversi. Il primo testo di cui ci occuperemo riguarda una figura chiave della sto­ ria della Chiesa del rv secolo: Ambrogio, vescovo di Milano, vissuto in periodo in cui l ’Italia faceva ancora saldamente parte dell’Impero Romano. Paolino, che ne è l ’autore, aveva conosciuto il vescovo milanese pre­ sumibilmente a Firenze, ove il secondo si era recato per evitare l ’usurpatore Eugenio2; in effetti solo dal ritorno di Ambrogio a Milano (394), Paolino compare al suo fianco come suo notarius: stenografa sotto detta­ tura3, si occupa della corrispondenza4, è presente alla morte di Ambrogio

1 Agostino, La città di Dio 1, 10; Gregorio Magno, Dialoghi 3, 1 (racconto dell’esilio di Paolino in Africa per opera dei vandali con evidente anacronismo). 2 Vita di Ambrogio 27, 1 ; il nome di Paolino: ibi 56. Paolino di Milano, Vita di S. Ambrogio, intro­ duzione, testo critico e note a cura di M. Pellegrino, Roma 1961, da cui cito. Per comodità, riprendo la divisione in paragrafi da Vita di Cipriano - Vita di Ambrogio - Vita di Agostino, ed. A.A.R. Bastiaensen, tr. L. Canali-C. Carena, Milano 1975. 3 Vita di Ambrogio 42, l . 4 Vita di Ambrogio 49, 1.

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(397). Dopo aver trascorso qualche tempo a Milano, nel 405 è a Firenze e nel 411 a Cartagine impegnato in veste di accusatore nel processo contro il pelagiano Celestio. Agostino lo menziona come «il diacono Paolino»5 e, secondo un’altra fonte è «Paulinus diaconus defensor et procurator ecclesiae Mediolanensis»6, cioè colui che amministra i beni della Chiesa milanese in Africa. Durante il processo già ricordato, Paolino presentò un libellus contenente i principali capi di accusa contro Celestio7. Per la data di redazione esistono due possibilità nel 412 o nel 4228, fra cui è preferi­ ta la seconda9. Paolino era ancora in Africa, quando com pose l ’opera10. La Vita, scritta dietro richiesta di Agostino, è organizzata secondo lo schema classico di vita et mores. Dopo il prologo su cui tornerò, i capp. 3-37 accompagnano Ambrogio dalla nascita fino agli ultimi giorni; segue una sezione dedicata al suo profdo morale e spirituale (capp. 37-44); la morte e i funerali (capp. 45-48) e alcuni miracoli post mortem (capp. 4954) terminano l ’opera. A ll’interno della sezione biografica, gli anni precedenti all’elezione a ll’episcopato (373 o 374), cioè, all’incirca i primi trentacinque anni di vita sono trattati in due soli capitoli, comunque preziosi in quanto Paolino è 1 unica fonte in proposito. D ’altro canto, Ambrogio venne ac­ clamato vescovo ancora prima di essere battezzato e Paolino, come Pon­ zio a proposito di Cipriano e Sulpicio per Martino, preferisce non dilun­ garsi su questo periodo. Secondo una tradizione biografica consolidata, esso è significativo per l ’econom ia com plessiva della vita solo per que­ gli aspetti che annunciano l ’eccezionaiità e santità futura. Ad esempio, lo sciame d ’api che si posa sul volto di Ambrogio bambino e che poi si so l­ leva a grande altezza, facendo esclamare al padre: «Se questo bambino vivrà, sarà qualche cosa di grande»11. Oppure quando, imitando il com ­ portamento di alcuni vescovi in visita, Ambrogio bambino porge anch egli la destra da baciare alla madre e alla sorella affermando che sa­ rebbe diventato vescovo12. L’educazione e la splendida carriera di Am ­ 5 Agostino, La grazia di Cristo e il peccato originale 2, 3.8. 6 Predestinato 1, 88. 7 A. Paredi. Paulinus ofMilan , in «Sacris Erudiri» 14 (1983), pp. 206-230; É. Lamirande, Paulin de Mìlan et la Vita Ambrosii, Paris-Montréal 1983, pp. 38-41. 8 Per il riferimento a «Giovanni che è ora prefetto»: Vita di Ambrogio 31, 5. 9 Soltanto Lamirande, Paulin, cit., pp. 21-24, propende per il 412; cfr. da ultimo E. Zocca, La "Vita Ambrosii” alla luce dei rapporti fra Paolino, Agostino e Ambrogio, in L.F. Pizzolato-M. Rizzi (eds.), Nec timeo mori. Atti del Congresso intemazionale di studi ambrosiani nel xvi centenario della morte di sant’Ambrogio, Milano 1998, pp. 803-826, che aggiunge nuovi elementi alla datazione più tarda. 10 Vita di Ambrogio 5 1 ,2 ; 54, 2. 11 Vita di Ambrogio 3, 4. 12 Vita di Ambrogio 4, 1.

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brogio, da avvocato a governatore delle province di Liguria e di Emilia, narrata in un solo breve capitolo, prepara la sezione della sua elezione all’episcopato, cui Paolino dà un grande rilievo (capp. 6-9,3). E infatti in questa veste che Ambrogio si trova a Milano per sedare i tumulti che accompagnavano la nomina del nuovo vescovo, dopo la morte del prede­ cessore ariano Aussenzio. Il grido di un bambino - «Ambrosium episcopum!» —che risuona nella chiesa in cui erano presenti ariani e cattolici raccoglie il consenso generale. Il governatore fa di tutto per sottrarsi all’elezione cercando, senza alcun successo, di rendersi inviso alla popo­ lazione: esercita con estrema durezza - applicando la tortura —la sua fun­ zione di giudice; proclama di volersi dedicare alla filosofia; fa entrare delle prostitute in casa. Neppure queste azioni, così violentemente in contrasto con l ’etica cristiana predicata e con i requisiti richiesti ad un candidato all’episcopato, e i due tentativi di fuga riescono a stornare la nomina a vescovo, voluta anche dall’Imperatore Valentiniano. Infine Ambrogio si arrende e dopo otto giorni fu ordinato vescovo «summa gra­ fia et laetitia cunctorum». A far da cerniera fra il racconto dell’elezione e l ’illustrazione dell’ope­ rato di Ambrogio vescovo è il primo di una lunga serie di miracoli: una paralitica guarisce toccando gli abiti di Ambrogio, mentre egli prega e le impone le mani. Il miracolo - secondo Paolino - avvenne a Roma ove Ambrogio si recò nel 382 in occasione di un Concilio; messo in questo punto il racconto è cronologicamente fuori posto13, però risponde all’in­ tento di presentare il «Domini sacerdos», già dai suoi primi passi, come un apostolo14. Nella guarigione romana il racconto è modellato sui rac­ conti evangelici della guarigione della paralitica e dell’emorroissa (cfr. Mt 9,2.20); più avanti, Ambrogio compie un miracolo di resurrezione; questa volta il modello è Eliseo, il discepolo di Elia15. Altri miracoli accompagnano Ambrogio impegnato nella lotta contro gli ariani. Malgrado le trame ordite dai suoi potenti nemici, umani - come l ’imperatrice Giustina e i suoi alleati — o demoniaci, Ambrogio riesce sempre a salvarsi proprio grazie allo scudo virtuale della protezione divi­ na: è il caso per esempio della vergine ariana che cerca di afferrarlo per gli abiti e, severamente redarguita dal vescovo, muore subito dopo16. L’mventio dei corpi dei martiri Gervasio e Protasio e i miracoli che ne segui­ rono è presentato com e un momento cruciale della lotta contro gli ariani 13 II paragrafo successivo ricorda eventi del 376. 14 Vita di Ambrogio 10, 2. 15 Vita di Ambrogio 28, 2. 16 Vita di Ambrogio 12; altri esempi: 18, 20, 3. Sono solo alcuni esempi dei numerosi miracoli di punizione: analisi in Lamirande, Paulin, cit., pp. 111-125.

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che mettevano in dubbio sia l ’identità dei corpi, sia l ’autenticità degli esorcismi che sarebbero stati organizzati a bella posta17. Ai successi contro gli ariani si aggiungono quelli ottenuti da Ambrogio nell’ambito dei rapporti con l ’Imperatore Teodosio; successi descritti dalla prospettiva di una teologia politica che voleva l ’autorità secolare sot­ tomessa all’autorità spirituale della Chiesa18. Si tratta delle due «victoriae»19 su Teodosio, una prima volta nella questione della sinagoga di Callinico: Teodosio fu costretto a ritirare il provvedimento con cui si obbli­ gava il vescovo del luogo a riedificare la sinagoga e a punire i monaci che 1 avevano distrutta. Una seconda volta, quando obbligò l ’Imperatore a pubblica penitenza a seguito d ell’eccidio di Tessalonica. Il tema cruciale della vittoria toma poco più oltre a proposito di Eugenio che aveva osato riammettere i culti pagani e la sua sconfitta al Frigido ad opera di Teo­ dosio. «Ma il Signore, che suole proteggere la sua Chiesa, scagliò dal cielo il suo giudizio e trasferì la vittoria definitiva al religioso Imperatore Teodosio»20. «Il venerabile vescovo era poi uomo di grande astinenza e di molte veglie e fatiche e macerava il corpo con quotidiano digiuno»21, sono le parole con cui Paolino inaugura la parte dedicata ai mores\ tuttavia l ’ac­ cento non è sull’ascetismo, ma cade in particolare su due temi: sul modo in cui Ambrogio esercitava e intendeva la sua funzione sacerdotale, citan­ do in particolare la sua resistenza fisica «in rebus divinis» e sul tema della ricchezza. Paolino ricorda che Ambrogio, una volta nominato vescovo, per seguire «come soldato nudo e senza impaccio» l ’esempio di Cristo, aveva donato alla Chiesa milanese i suoi poderi, riservandone però l ’usu­ frutto alla sorella, e tutto l ’oro e l ’argento22. Ricchezze di cui in qualità di vescovo Ambrogio continuò a disporre e che gli furono utili più volte per perseguire i suoi scopi, se - com e viene affermato più avanti - Ambrogio provava una profonda amarezza constatando T«avaritia» soprattutto dei potenti. Era infatti per lui un «gravissimus labor» intervenire presso di loro, «perché tutto si comprava a prezzo»23. Ambrogio muore subito dopo aver ricevuto «il corpo del Signore» come viatico per la sua anima che ora - afferma Paolino - è in compagnia 17 Così era già in Ambrogio che l ’aveva descritta dettagliatamente nella Lettera 22 inviata alla sorella Marcellina. 18 Prospettiva che Paolino derivava dal resoconto degli stessi episodi da parte dello stesso Ambrogio (Lettere 40.41). 19 Vita di Ambrogio 24, 3. 20 Vita di Ambrogio 3 1 ,3 . 21 Vita di Ambrogio 38, 1. 22 Vita di Ambrogio 3 8 ,4 . 23 Vita di Ambrogio 4 1 ,1 .

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di Elia «giacché al pari di Elia, anch’egli non ebbe mai riguardo di parla­ re ai re e ai potenti di ogni grado, a causa del timore di D io»24. I numerosi miracoli e prodigi successivi alla morte sviluppano temi già ben presenti nel racconto precedente. Come, da vivo, il raggio di azione di Ambrogio non era affatto limitato alla Chiesa milanese, così, anche dopo la morte, egli continua ad essere presente, per così dire, sulla scena intemazionale: appare ad alcuni monaci orientali; rassicura i cittadini di Firenze assediati dai barbari; in Africa appare al generale M ascezel pro­ nosticandogli la vittoria contro Gildone e suggerendogli dove attaccare battaglia25. Da vivo, Ambrogio era custodito, anche a sua insaputa, dalla protezione divina che si incaricava di abbattere e punire i suoi nemici; nello stesso modo, da morto, la sua memoria viene difesa contro i suoi detrattori: in questa cornice viene presentata la morte cruenta di due criti­ ci di Ambrogio avvenuta in Africa. E sui detrattori di Ambrogio, come già quello di Sulpicio sui nemici di Martino, si chiude il racconto di Paolino. 1. 1./ / ‘‘canone ” agiografico di Paolino Paragonata all’importanza del m olo recitato da Ambrogio nella storia della Chiesa e dell’Impero nell’ultimo quarto del iv secolo e alla ricchez­ za della documenti che la testimoniano26, la Vita di Ambrogio colpisce sfa­ vorevolmente per le sue lacune: il silenzio sui rapporti di Ambrogio con l ’Oriente; sulla sua partecipazione a concili importanti; sul suo ruolo con­ tro Gioviniano e nella questione di Priscilliano; e, cosa ancora più singo­ lare, sui rapporti con Agostino. Paolino cita fra le proprie fonti la sorella di Ambrogio, Marcellina27, ma non fa alcun cenno al fratello Satiro. Am­ brogio scrisse molto a sostegno della verginità, ma, nel delineare i mores di Ambrogio, il tema è quasi del tutto assente. A parte una manciata di Lettere, Paolino utilizza e forse conosce poco l ’opera letteraria di Am­ brogio che non recita alcun m olo nell’esaltazione del personaggio. Viene criticata inoltre —a parte 1’aulicità del prologo —la modestia dei suoi m ez­ zi espressivi: le ripetizioni, le frequenti sospensioni del filo cronologico28.

24 Vita di Ambrogio 47, 3. 25 Vita di Ambrogio 51, 1. 26 Documenti per altro riconducibili ad Ambrogio stesso; da questa constatazione parte N.B. McLynn, Ambrose of Milan. Church and Court in a Christian Capital, Berkeley-Los AngelesLondon 1994, per ridimensionare l ’importanza storica di tale figura; discussione in G. Visonà, Lo “status quaestionis" della ricerca ambrosiana, in Pizzolato-Rizzi (eds.), Nec timeo mori, cit., pp. 31-72. 27 Vita di Ambrogio 1, 3. 28 Pellegrino, cit., pp. 20-21.

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D ’altro canto, forse non è solo per ossequio all’usuale topos retorico della modestia dell’autore che nel prologo, dopo aver menzionato alcune delle sue fonti, accenna all’incompletezza delle sue informazioni29. A c­ cettando l ’invito di Agostino di redigere la Vita di Ambrogio, Paolino che in fondo gli era stato accanto per soli tre anni - si era caricato di un compito difficile da assolvere, soprattutto stando in Africa, separato dagli archivi della Chiesa milanese ove avrebbe potuto attingere informazioni per un ritratto più completo del vescovo. Prima di lui (402 o 403) soltan­ to Rufino aveva tracciato un profilo di Ambrogio, sia pure a grandi linee, nei due libri che aveva aggiunto di suo alla traduzione della Storia eccle­ siastica di Eusebio per farla arrivare fino ai suoi giorni. Senza alcun ricor­ so al miracoloso, Rufino si occupa di Ambrogio a più riprese: racconta la sua elezione all’episcopato30, lo scontro vittorioso con Giustina31, l ’episo­ dio della penitenza pubblica di Teodosio32; lo defisce «muro e torre soli­ dissima della Chiesa»; nella sua resistenza a Giustina-Gezabele, lo consi­ dera «ripieno della forza di Elia e della grazia di D io»33 e spiega il suo successo in quello scontro con i digiuni, le veglie continuate e le preghie­ re con cui Ambrogio ottenne che Dio si facesse «difensore suo e della Chiesa»34. Paolino aveva sotto mano questo testo35 e lo ha utilizzato non solo su punti circoscritti di dipendenza testuale, ma anche per aspetti più generali che poi ha molto sviluppato e arricchito di vari episodi: il para­ gone Ambrogio-Elia e la presentazione di Ambrogio com e campione della Chiesa universale. Tuttavia per Paolino Ambrogio non è soltanto questo: «Pochi giorni prima che si mettesse a letto, mentre stava dettando il com m ento al Salmo x l iii e io scrivevo e osservavo, d ’un tratto una fiamma a guisa di un pic­ colo scudo coprì la sua testa e a poco a poco gli entrò per la bocca com e uno che entra in casa sua; dopo ciò la sua faccia diventò com e neve (cfr. Le 9,28-29); poi il volto riprese l’aspetto consueto»36.

29 Vita di Ambrogio 2 ,1 . 30 Storia ecclesiastica 2 ,1 1 . 31 Vita di Ambrogio 2, 15-16. 32 Vita di Ambrogio 2, 18: qui però senza nessun riferimento ad Ambrogio, ma facendo un riferi­ mento generico «ai vescovi di Italia»; Rufino tace anche sull’episodio di Callinico: G. Zecchini, Ambrogio nella tradizione storiografica tardoantica, in Pizzolato-Rizzi (eds.), Nec timeo mori, c i t , pp. 93-106. 33 Storia ecclesiastica 2, 15. 34 Vita di Ambrogio 2, 16. 35 La dimostrazione in Pellegrino, cit. 36 Vita di Ambrogio 42, 1-2.

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Paolino rimane impietrito e il diacono Casto, cui riferisce 1 accaduto, gli legge gli Atti degli Apostoli e gli spiega che «ha visto venire in Ambrogio lo Spirito Santo». Qualsiasi cosa avesse visto Paolino, il suo racconto rende bene l ’idea di com e egli voleva ricordare e fosse ricordato il suo vescovo: come l ’uomo della «grafia»37, un apostolo e profeta poten­ te, abitato dallo Spirito che godeva in ogni azione di una particolare pro­ tezione divina. Scritta circa venticinque anni dopo la morte di Ambrogio, la Vita rac­ coglie, oltre che i ricordi personali di Paolino, già di per sé interessato agli aspetti carismatici del suo vescovo e quindi propenso a raccogliere le testimonianze in questo senso38, le tradizioni che su di lui si erano forma­ te in cerehie che coltivavano lo stesso tipo di memoria. Per esempio, più che da Marcellina come dichiarato nel prologo39, da persone rimaste in contatto con le vergini che stavano intorno a Marcellina e che ne condivi­ devano la scelta di vita; mi riferisco a Candida, sorella di una di quelle vergini che - afferma Paolino - «ora, già avanzata in età, dimora a Car­ tagine, vive anch’essa nella medesima professione»40, dunque a portata di mano e in grado di riferire quanto aveva appreso dalla propria sorella. A quest’ultima Ambrogio fanciullo tese la mano per il bacio dovuto al vescovo che sarebbe stato e ancora a lei Ambrogio, divenuto vescovo, ricordò l ’episodio41. Oppure la cerchia familiare del senatore D ecenzio di Firenze. In quella casa Ambrogio aveva compiuto il miracolo della resur­ rezione di un loro bambino. Ambrogio scrisse un libellus sull’accaduto «affinché venisse a conoscere, leggendo, ciò che l ’età infantile non gli permetteva di sapere»42. Paolino precisa di non aver trovato menzione del­ l ’accaduto fra gli scritti Ambrogio. Dovette, quindi, aver avuto notizia dell’esistenza di tale libellus solo 10 anni dopo quando si recò a Firenze e potè apprenderlo da Pansofia, la madre del bambino risuscitato, insieme ad altri prodigi compiuti da Ambrogio dopo la morte nella stessa casa43. Paolino ha presente una sorta di «canone»44*agiografico: 37 Paolino di Milano, Vita di Sant’Ambrogio, a cura di M. Navoni, Cinisello Balsamo 1996, p. 42. 38 Alcune testimonianze sono state raccolte da Paolino quando era ancora a Milano: Severo il cieco guarito dai corpi dei martiri Gervasio e Protasio, era rimasto a prestare servizio presso la Chiesa milanese (14, 2); il generale Mascezel portato alla vittoria proprio da una visione di Ambrogio (51, 2); un altro cieco risanato dalle reliquie dei martiri, ma guidato dalla visione di Ambrogio che al mo­ mento era già morto (52). 39 Vita di Ambrogio 1, 3. 40 Vita di Ambrogio 4 ,1 . 41 Vita di Ambrogio 9, 4. 42 Vita di Ambrogio 28, 3. 43 Vira di Ambrogio 50. 44 Così Walter Berschin, Biographie und Epochenstil im lateinischen Mittelalter, Bd. i: Von der Passio Perpetuae zu den Dialogi Gregors des Grossen, pp. 213-214: principali punti di contatto con la Vita di Martino.

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«Tu mi esorti, o venerabile padre Agostino, a scrivere io pure la vita del beato Ambrogio, vescovo della chiesa milanese, come i beati uomini Atanasio vescovo e Gerolamo prete scrissero le vite dei santi Paolo e Antonio vissuti nel deserto, come anche Severo, servo di Dio, raccontò quella del beato Martino, venerabile vescovo della chiesa di Tours»45. In queste Vite l ’esaltazione della santità del personaggio era appunto perseguita con il ricorso a prodigi e miracoli e Paolino segue la stessa stra­ da. Rispetto a questi modelli, egli introduce però una novità: mentre Ata­ nasio, Gerolamo e lo stesso Sulpicio Severo, che pur parlava di un vesco­ vo, ponevano al centro un modello di santità monastica e martiriale, Pao­ lino rinuncia a tali stilizzazioni. Libero da qualsiasi intento paradigmati­ co e preoccupato solo di creare intorno ad un vescovo criticato un’aura di intangibile e minacciosa sacralità, ci presenta il tipo del vescovo, per così dire, allo stato puro, raffigurandolo com e un potente carismatico46. 1.2. L'Ambrogio di Agostino e quello di Paolino Fu Agostino, dunque, a richiedere a Paolino una Vita di Ambrogio. L indicazione - malgrado il singolare silenzio sulla permanenza di A go­ stino a Milano - è plausibile per più motivi. Agostino condivideva con Paolino non soltanto la critica del pelagianesimo, ma anche l ’interesse per i testi agiografici. In una breve lettera indirizzata allo stesso Paolino, de­ clina con eleganza il suo invito a redigere «nostro sermone» gli Atti dei martiri, affermando di preferirli nella loro forma originale giuridica. A g­ giunge inoltre di aver letto e apprezzato i gesta martyrum redatti da Am­ brogio in tarda età, ma solo perché il vescovo milanese aveva potuto aggiungere a quanto già si sapeva particolari inediti, cosa che a lui invece non sarebbe stato possibile47. Oltre al desiderio comprensibile di sapere di più su ll’uomo cui sentiva di dover tanto nella propria evoluzione spiritua­ le, 1 iniziativa era collegata anche al fatto che Pelagio stava utilizzando il prestigio di Ambrogio a favore della propria causa. Questi - stando ad Agostino - elogiava il vescovo milanese come esponente della “Romana fides , di cui nessuno aveva osato criticare né la fede, né l ’interpretazione

45 Vita di Ambrogio 1, 1 ; la dipendenza letteraria in special modo da quest’ultima è analizzata da Berschin, cit., pp. 213-214. 46 Secondo L. Cracco Ruggini, Vescovi e miracoli, in Vescovi e pastori in epoca teodosiana, Ro­ ma 1997, voi. i, pp. 27-29, fedele anche in questo al modo in cui Ambrogio cercò di costruire un alone carismatico intorno alla figura vescovile. 47 Lettera 29; se la datazione della Vita è del 422, è possibile che la Lettera preceda la Vita di

Ambrogio.

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delle Scritture48. In effetti, l ’insistenza di Ambrogio su temi etici e asceti­ ci, le sue idee sul libero arbitrio e la grazia, formulate in un momento in cui non era ancora sorta la questione pelagiana, potevano prestarsi a pun­ tellare le idee di Pelagio e per questo in correlazione alla fase più acuta di quella controversia Agostino moltiplicò nelle sue opere i riferimenti ad Ambrogio49. Alcuni aspetti della Vita di Paolino possono essere collegati alla pole­ mica antipelagiana. Fin dagli inizi della riflessione cristiana sullo Spirito, la santità è sempre stata connessa a un dono speciale dello Spirito Santo, tuttavia Paolino declina il tema in forma radicale e inaudita nei discorsi agiografici precedenti. La santità di Ambrogio, in effetti, non è frutto, come nel caso di Antonio e Martino di un eroico sforzo ascetico, ma coin­ cide con l ’accoglimento della grazia santificante del battesimo; né è oggetto di racconto “agonistico” il modo con cui tale grada viene mante­ nuta integra: «Il santo Ambrogio - si limita a dire Paolino - 50 (...) progre­ dendo in umiltà, custodì la grazia che il Signore gli donava e cresceva ogni giorno nella fede e nell’amore davanti a D io e agli uomini {Le 2,51)». La grada di cui è fatto oggetto Ambrogio è un aspetto insistito e costante del racconto. La moderazione della sua ascesi, la carità riguardo ai pecca­ tori confessi51 sono anche tratti che potevano contribuire a mettere al ripa­ ro Ambrogio da un affrettato arruolamento alla causa pelagiana. La Vita di Ambrogio, sebbene non immediatamente, ebbe un successo straordinario sia in Occidente, sia in Oriente attraverso una traduzione del vil-ix secolo52. Viene però da chiedersi se fu all altezza delle attese di Agostino. La Vita di Agostino, scritta qualche anno dopo, lascia intrave­ dere le reazioni di Agostino e del suo ambiente. Paolino narra che Sti­ licene, preoccupato che la scomparsa del grande vescovo avrebbe deter­ minato la rovina dell’Italia, chiese ad Ambrogio ormai in fin di vita di pre­ gare per vivere più a lungo: «Non ho vissuto in mezzo a voi - rispose - in tal modo che mi debba vergognare di vivere, né temo la morte, perché abbiamo un Signore buono»53. Ormai già ammalato e prossimo alla mor­ te, Agostino ripete con ammirazione la frase di Ambrogio, ma è preoccu­ pato che possa essere compresa in un senso pelagiano per lui ormai “ere­ tico”. La frase di Ambrogio poteva far pensare, in effetti, che egli nutris­ 48 Agostino, La grazia di Cristo I, 46. 49 V. Grossi, Sant'Ambrogio e Sant’Agostino. Per una rilettura dei loro rapporti, in PizzolatoRizzi (eds.), Nec timeo mori, cit., p. 424; Zocca, La “Vita Ambrosii”, cit., p. 814. 50 Vita di Ambrogio 16, 3. 51 Vita di Ambrogio 39. 52 P. Courcelle, Recherches sur saint Ambroise: "Vies” anciennes, culture, iconographie, Paris 1973. 53 Vita di Ambrogio 45.

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se speranza di salvezza proprio sulla base della consapevolezza della pro­ pria integrità morale. Per questo Agostino precisa che Ambrogio non temeva la morte non perché riponesse una fiducia eccessiva nei suoi co ­ stumi immacolati, ma solo perché confidava - per il giudizio finale - nella bontà divina54. In piena coerenza con l ’idea che il giudizio finale dipenda dalla volontà di Dio è il modo in cui Agostino volle trascorrere le ultime ore: domandò che venissero trascritti e appesi alla parete della sua stanza i Salmi di argomento penitenziale e ordinò di essere lasciato solo a leg­ gerli e a pregare fra fiotti di lacrime55. Nei colloqui degli ultimi giorni con i suoi intimi Agostino raccoman­ da di osservare alcune norme date da Ambrogio che riguardavano il modo appartato in cui un “uomo di D io” dovesse stare nel mondo: «non richie­ dere mai mogli per nessuno, non raccomandare chi voleva un posto pub­ blico, non accettare, in patria, inviti a pranzo»56. Sono norme che per un verso, richiamano i mores di Agostino, celebrati da Possidio quando, fra l ’altro, ricorda il suo rifiuto di scrivere lettere di raccomandazioni, perché, «i potenti, a pregarli, poi premono», per l ’altro, fanno intravedere un Ambrogio preoccupato dei pericoli che potevano derivare da una m esco­ lanza incauta d ell’uomo di D io con gli interessi e le abitudini del mondo: un Ambrogio ben diverso da quello di Paolino che agisce da politico sulla scena politica per realizzare un Impero cristiano. È interessante inoltre ricordare che proprio negli anni in cui Paolino redigeva la sua Vita, Agostino era impegnato nella stesura della Città di Dio. Entrambi i testi sono scritti dopo il 410, ma reagiscono in modo opposto all’enorme impressione causata dalla presa di “Roma eterna” e cristiana ad opera di Alarico dopo un assedio durato due anni; occupazio­ ne, in fondo, durata pochi giorni e tutto sommato di significato militare e politico non decisivo, ma vissuta come un trauma, come la fine di un’epo­ ca: «Roma è assediata —dice Gerolamo nella Lettera dedicata alla memo­ ria di Marcella —la voce mi muore in gola e i singhiozzi interrompono le parole mentre detto. La città che aveva occupato l ’universo intero cade sotto l ’occupazione nemica, anzi muore di fame prima che di spada»57. Nella Città di Dio, Agostino, elaborando un netto distacco dagli avve­ nimenti, si svincolava dalla teologia politica tradizionale che metteva al centro 1 idea di un Impero oggetto di una particolare protezione divina proprio in quanto cristiano, mentre l ’Ambrogio di Paolino rimaneva all interno di questa teologia e la «rovina dell’Italia», lungi da suscitare 54 Vita di Ambrogio 27, 6. 55 Vita di Agostino 31, 2. 56 Vita di Ambrogio 27, 4-5: è sconosciuta la fonte da cui Agostino trae queste regole. 57 Lettera 127, 12.

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ripensamenti, spunta dalle sue pagine solo come occasione di una lamen­ tano sulle conseguenze dell’avidità umana58 o come profezia post eventum59, poco più di un utile sfondo per celebrare la potente figura del ve­ scovo carismatico. Nel leggere la Vita di Paolino, possiamo indovinare in Agostino lo stesso malcontento con cui avrà letto le Storie di Orosio. Questi, su com­ missione di Agostino, avrebbe dovuto raccogliere le “prove” degli altri disastri abbattutisi sulla Roma pagana per dimostrare che il sacco di Ro­ ma —com e sostenevano i pagani e cominciavano a dubitare anche alcuni cristiani —non fosse dovuto all’abbandono dei culti tradizionali. M a Oro­ sio scrisse poi una storia diversa, una storia universale che celebrava l ’e­ poca dell’Impero cristiano come il settimo giorno, la domenica d ell’uma­ nità; e Agostino, pur senza citarlo, non mancò di criticarlo per questo60. 2. Ennodio di Pavia e la Vita di Epifanio: due vescovi al passo con i tempi L’«interitus Italiae»61 che Stilicone pronosticava al capezzale di Am­ brogio morente e che il suo biografo, ancora per poco al sicuro, guardava dalle coste dell’Africa, era invece la tragica realtà con cui Magno Felice Ennodio dovette confrontarsi fin da bambino. Per quanto nato (473/474) da una famiglia che aveva dato alla Gallia funzionari importanti, la prima parte della sua vita, trascorsa a Pavia, fu segnata da lutti e rovesci di for­ tuna, sempre alla ricerca di protezioni importanti per poi approdare alla carriera ecclesiastica sotto la guida di Epifanio di Pavia (494), percorren­ done i diversi gradini fino ad arrivare sul trono episcopale di Pavia nel 514. In seguito, fino alla morte avvenuta nel 521, compì importanti amba­ sciate per conto del pontefice romano presso Costantinopoli62. L’abilità retorica e la formazione giuridica, unita ad una costante ed abile opera di tessitura di relazioni sociali a Roma e a Ravenna, con le grandi famiglie senatorie, il pontefice romano, con la corte ostrogota63*,lo portarono a partecipare da protagonista o testimone autorevole ad eventi importanti: fu nel 494 al seguito del vescovo di Pavia Epifanio in una 58 Vita di Ambrogio 4 1 ,1 . 59 Vita di Ambrogio 45, 1. 60 La città di Dio 18, 52. 61 Vita di Ambrogio 45, 1. « C. Sotinel, Magnus Felix Ennodius, in PCBE , t. 2, 1, pp. 620-632. Le notizie sulla prima parte della vita di Ennodio provengono principalmente dall’Eucharisticon, un’opera autobiografica con cui egli volle, seguendo le orme delle Confessioni di Agostino, sottolineare il passaggio ad una vita più impegnata in senso cristiano. 63 Ch. Pietri, Aristocratie et société clericale dans l ’Italie chrétienne au temps d ’Odoacre et de Théodéric, in «Mélanges de l’École Fransaise de Rome», Antiquité 93 (1981), pp. 438-441.

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ambasceria voluta da Teodorico presso il re Burgundo Gundebado per la liberazione dei prigionieri; lo troviamo a Roma nel 502 accanto a Lo­ renzo, vescovo di Milano, in occasione del concilio che si pronunciò a favore della legittimità dell’elezione a pontefice di Simmaco, contro r e ie ­ zione di Lorenzo; per difendere le decisioni di tale concilio scrisse il Libellus prò synodo64. È del 507 il panegirico in onore di Teodorico, letto in sua presenza o soltanto inviatogli, in cui il re - che si era pronunciato a favore di Simmaco - viene celebrato come restauratore della pace della Chiesa, iniziatore di una nuova età dell’oro, strumento della provvidenza, artefice della “reparatio Romae”, destinato a dominare sul mondo intero65. Questi eventi furono accompagnati da una produzione letteraria inten­ sissima e variegata tutta concentrata tra il 502 e il 513: opuscoli, discorsi, lettere, poesie di soggetto religioso e profano e perfino licenzioso66. Numerosi sono i componimenti dedicati a soggetto milanese: vescovi, santi, monumenti67. Del resto, dopo la morte di Epifanio (494), Ennodio andò a risiedere proprio a Milano, ove fece parte del clero milanese e ove forse sperò, ma senza successo, di essere eletto vescovo alla morte di Lorenzo (508). La Vita di Epifanio68 è fra le opere più significative di Ennodio sia per il contributo alla conoscenza degli eventi storici di quel periodo, sia per l ’originalità del suo discorso agiografico. La Vita non ha un dedicatario e questo è un fatto singolare all’interno di una produzione letteraria quasi tutta stimolata e orientata all’allarga­ mento della sua rete sociale. Un motivo probabile è che essa sia la versio-

64 S. Gioanni, Les élites italiennes, l ’autorité pontificale et la romanité au de'but du VF e s. L'engagement d ’Ennode de Pavie, in E. D ’Angelo (ed.), Atti della Seconda Giornata Ennodiana, Napoli 2003, pp. 39-52. 65 L. Navarra, Contributo storico di Ennodio, in «Augustinianura» 14 (1974), p. 320. 66 K. Smolak, Considerazioni sull’epitalamio dì Ennodio (Carm. 1,4), in Atti della Terza Gior­ nata Ennodiana (Pavia, 10-11 novembre 2004), Pisa 2006, pp. 155-168. 67 Profilo complessivo e letterario più recente: S.A.H. Kennell, Magnus Felix Ennodius. A Gentleman ofthe Church, Ann Arbor 2000. Cfr. inoltre: D. Di Rienzo, Gli studi ennodiani dal 1983 al 2003, in «Bollettino di studi latini» 34, 1(2004), pp. 152-155: rassegna sulla Vita di Epifanio e la

Vita di Antonio. 68 Ennodio, Vita del beatissimo Epifanio vescovo della città pavese a cura di M. Cesa, Como 1988, da cui cito. Sulla Vita di Epifanio'. S.J.B. Barnish, Ennodius’ Life o f Epiphanius and Antony. Two M odelsfor thè Christian Gentleman, in Studia Patristica XXIV, Leuven 1993, pp. 13-19; C. Sotinel, Les ambitions d ’historien d ’Ennode de Pavie: La Vita Epiphanii, in La narrativa cristiana antica: codici narrativi, strutture formali e schemi retorici, Roma 1995, pp. 585-605. Ennodio aveva già dedicato ad Epifanio un inno in occasione del suo trentesimo anno di sacerdozio (Carm. 1,9, numerazione Vogel 43). A Ennodio dobbiamo anche la breve Vita di Antonio, il ritratto di un mona­ co, di origine pannonica e discepolo di Severino, eremita sulle Alpi e infine approdato al monastero di Lérins (Vita Antonii monachi Lirinensis op. 4, Vogel 240); A. D e Vogiié, Histoire lìttéraìre du mouvement monastique dans l ’Antìquité, Premère Partie: Le monachisme latin, t. 8, Paris 2003 pp 189-200.

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ne ampliata di un elogio funebre pronunciato in una ricorrenza della morte di Epifanio69. Dopo un breve prologo, la Vita presenta una struttu­ ra cronologica scandita nella prima parte (7-50) dalle tappe della carriera ecclesiastica di Epifanio: nato a Pavia, da una famiglia «della piu pura nobiltà», che aveva già dato un vescovo e confessore alla Chiesa di M i­ lano, all’età di otto anni è lector, viene ammesso poco dopo nel gruppo degli excerptores, a diciotto è suddiacono, a venti diacono, a ventotto ve­ scovo per designazione del vescovo di Pavia, Crispino, che 1 aveva segui­ to e guidato dall’inizio. Il progresso delle sue qualità morali va di pari passo con l ’avanzamento della sua carriera: ogni tappa istituzionale è accompagnata dall’illustrazione dei mores che anticipano i motivi della promozione successiva: a otto anni lector apprende con facilità la steno­ grafia; promosso excerptor, Epifanio si distingue per la sua abilità e la sua maturità: «in età giovanile meditava pensieri degni di un vecchio»70, sot­ tomesso ai superiori, ubbidiva agli anziani ed era gentile con i coetanei, da suddiacono, si dimostra nemico della «contesa» e, per quanto percos­ so a sangue da un prepotente, rimane padrone di sé e reprime l ’ira7172. Raggiunto il diaconato, Crispino gli affida Γ amministrazione dei beni della chiesa e la cura dei poveri «volendo sapere in anticipo quale vesco­ vo preparasse per il futuro»77. Ennodio si diffonde sulla celebrazione della sua castità e dedizione allo studio della Scrittura73. Dopo 1 elezione al­ l ’episcopato, Ennodio illustra le «leges» che Epifanio si impose nella sua nuova carica: la pratica del digiuno, ma differente da quello monastico che prevedeva solo il pasto serale, mentre Epifanio per non interferire con gli obblighi anche di ospitalità inerenti alla sua carica, decide di mangia­ re solo a pranzo; stabilisce di ottemperare i doveri liturgici in modo scru­ polosissim o e di dedicare tempo e cura dei bisognosi74. Come si vede, un programma piuttosto moderato, in linea del resto, con la stilizzazione complessiva del personaggio aliena dall’utizzazione di motivi monastici o martirologici. Questa parte è largamente debitrice alle convenzioni del genere. Basti pensare ad esempio al tema - per così dire - dei prodigi in culla: anche su quella di Epifanio compare una «luce divina» profetica della sua grandez­ 69 P u r senza riferirsi alla Vita di Epifanio, l ’elogio funebre sarebbe alla base di molte vite di vescovi occidentali: M. Heinzelmann, Neue Aspekte der biographischen und hagiographìschen Literatur in der lateinischen Welt (1.-6. Jarhundert), in «Francia» 1(1973), pp. 27-44. 70 Vita di Epifanio 10. 71 Vita dì Epifanio 22-25. 72 Vita di Epifanio 27. 73 Vita di Epifanio 28-31; cfr. B. Marotta Mannino, Spunti narrativi biblici nelle Vitae di Ennodio, in La narrativa cristiana antica, cit., pp. 607-624. 74 Vita di Epifanio 47-50.

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za futura75. Tuttavia non mancano anche tratti originali: mi riferisco allo sviluppo inusuale che ha il motivo — topico nella tradizione biografica antica pagana e cristiana76 - dell’esaltazione della bellezza fisica. Ennodio vi dedica ben cinque paragrafi77: le guance, la bocca ben disegnata, la fronte, le mani, il timbro virile della voce sono esaltati a tal punto che lo stesso Ennodio si sente in dovere di giustificarsi menzionando sia il moti­ vo già classico del corpo specchio dell’anima, sia alludendo alle norme bibliche ed ecclesiastiche che regolavano l ’accesso al sacerdozio solo a persone prive di difetti fisici. Le caratteristiche fisiche di Epifanio riman­ dano ad una «bellezza funzionale» adeguata «alle esigenze comunicative relazionali di un vescovo»78, complementare diremmo, all’esaltazione an­ cora più insistita delle virtù retoriche del vescovo pavese. Quando i nobi­ li liguri - temendo una guerra tra il patrizio Ricimero e l ’Imperatore bi­ zantino Antemio - scongiurano il primo di mandare un’ambasceria di pace, indicano in Epifanio un mediatore efficace proprio per il suo aspet­ to79 e per l ’efficacia della sua abilità retorica, paragonata a quella dei più potenti incantesimi: «Quando ha cominciato a parlare —aggiungono —il parere di chi lo ascolta dipen­ de dalla sua volontà; se gli si concede di perorare colui che aveva deciso di addur­ re scuse perde la sua facoltà di farlo»80.

L’aspetto e l ’eloquenza - e, significativamente, non la fama delle sue virtù ascetiche - ne decretano il successo diplomatico nell’ambasceria presso l ’Imperatore Antemio, come in tutte le altre m issioni diplomatiche. I discorsi di Epifanio e dei suoi illustri interlocutori occupano gran parte della seconda parte della Vita (51-191) e sviluppano una teologia politica chiara quanto banale: al vincitore di turno si ricorda che «le armi non custodiscono i confini dell’impero, se il Signore viene offeso»81, ai vinti si ricorda che là dove c ’è la vittoria e il regno, si manifesta la volon­ tà di Dio che stabilisce sulla terra un «vicarius»82 della Sua potestà ad imi­ tazione del regno celeste. Una lezione, certo, più facile da seguire in

75 Vita di Epifanio 8; il tema della luce declinato in mille modi accompagna costantemente la menzione di Epifanio, il cui nome in greco significa appunto “splendore”. 76 Cfr. supra, pp. 63, 99, 133. 77 Vita di Epifanio 13-17. 78 V. Neri, La bellezza del corpo nella società tardoantica. Rappresentazioni visive e valutazioni estetiche tra cultura classica e cristianesimo, Bologna 2004, p. 185. 79 Vita di Epifanio 54. 80 Vita di Epifanio 55. 81 Vita di Epifanio 86. 82 Vita di Epifanio 71 (parole di Epifanio ad Antemio).

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momenti di stabilità politica, ma meno utile in tempi di bruschi cambia­ menti di vertice e di aspra competizione per il potere quali toccarono in sorte ad Epifanio. Tuttavia, TEpifanio di Ennodio grazie alla sua «dulcedo» e alla «reverenda» di cui godeva, fu la persona intorno a cui «anche i combattenti mantennero la concordia e la cui pace non era toccata da guerre»83. N ello stesso modo Ennodio ci presenta un Epifanio rispettato sia da Odoacre, sia dal suo nemico Teodorico che addirittura lo venerava. A partire dal momento in cui Teodorico, «per volontà dell’imperatore celeste», arriva in Italia con il suo esercito, diventa il coprotagonista della Vita e gli elogi di cui viene colmato il re ostrogoto sono secondi soltanto a quelli dedicati al vescovo: Teodorico è colui «del quale nessuno, dopo il trionfo, vide la spada sguainata, colui che pose termine contemporanea­ mente alla guerra e alTardimento del suo esercito»84. Epifanio ne vanta «la superiorità su tutti gli imperatori per la giustizia, l ’abilità in guerra, l ’amo­ re verso i sudditi»85. E se nella pace teodoriciana non mancarono prov­ vedimenti gravosi riguardo ai romani assoggettati, Ennodio è attento a dare voce alle ragioni del re, il cui volere è modificato solo dall’intervento di Epifanio che lo richiama alla giustizia più alta del perdono o agli obblighi di riconoscenza verso Dio che l’ha favorito nella lotta contro i suoi nemi­ ci. In questo quadro idilliaco c ’è un’assenza vistosa: l ’arianesimo di Teodorico che non viene mai menzionato a suo riguardo86. Del resto egli attuò una politica di tolleranza e non ingerenza e il paragone con quanto invece stava accadendo in Africa sotto il dominio vandalico, poteva ali­ mentare l ’illusione che fosse possibile una convivenza pacifica duratura87. Grande tessitore di concordia e mediatore di pace dell’intera regione, Epifanio non perde di vista la salvezza della sua città. Dovette far fronte all’invasione e saccheggio di Pavia ad opera di Odoacre88, poi per mano dei Rugi89, ma - osserva il suo biografo - la città riesci a risollevarsi gra­ zie «all’appoggio di quest’unica fortissima colonna»90.

83 Vita di Epifanio 114; Ennodio si riferisce al momento in cui Teodorico si rifugiò con l ’eserci­ to entro le mura di Pavia, per difendersi dalle truppe di Tuia. 84 Vita di Epifanio 120. 85 Vita di Epifanio 143. 86 II contrasto emerge un’unica volta, quando Epifanio rifiuta con una scusa di sedere alla tavo­ la contaminata dalla presenza dei «suoi (se. di Eurico) sacerdoti», (cioè ariani, ma Ennodio non lo dice esplicitamente): ibi , 92. 87 Pietri, Aristocratie, cit., pp. 417-467; T. Sardella, Società, chiesa e stato nell’età di Teoderico. Papa Simmaco e lo scisma laurenziano, Soveria Mannelli 1996. 88 Vita di Epifanio 96. 89 Vita di Epifanio 118. 90 Vita di Epifanio 100 e ibi 110.

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Nel viaggio di ritorno verso Pavia dalla sua ultima missione Epifanio cade ammalato e muore serenamente a Pavia pronunciando massime bi­ bliche; Ennodio si riferisce al suo corpo con l ’espressione di «reliquiae sanctae»91, tuttavia non dà informazioni né sul luogo della sepoltura, né sui miracoli post mortem. Ennodio non intendeva promuoverne il culto, anche se poi, forse proprio grazie alla Vita scritta da lui, il culto ci fu a tal punto da causarne il trafugamento del corpo a Hildesheim nel x sec.92. Va anche osservato che i miracoli hanno uno spazio assai ridotto nel­ l ’economia complessiva del testo: solo cinque episodi, di cui due - la luce divina che appare sulla culla e sulla salma - non sono altro che una con­ cessione alle regole del genere biografico. I due racconti di guarigioni di indemoniati ritraggono Epifanio nelle funzioni sacerdotali di routine che recita semplicemente una «modica orario»93 o una «benedictio»94, senza imposizione delle mani come avrebbe richiesto la prassi liturgica del1 esorcismo. Un altro racconto proclama «grandissimo miracolo»95 il fatto che durante la ricostruzione di una chiesa, il crollo improvviso di un muro non avesse fatto vittime fra gli operai. Una parte altrettanto marginale recita l ’intervento diabolico menzionato a proposito della caduta del muro già ricordato e a proposito della ribellione di Odoacre96. La peculiarità di questo tratto della Vita di Epifanio risalta maggior­ mente se collocata a fianco alla coeva Vita di Severino di Eugippio (n. prima del 482 - m. dopo il 533)97. Eugippio la com pose quando era abate nel monastero del Castellum Lucullanum (Pizzofalcone, presso Napoli) (511). Qui, grazie alla generosità deH’«illustrissima femina» Barbaria98 si stabilì la comunità monastica fondata da Severino nel Norico dopo aver abbandonato quella regione di fronte alla recrudescenza delle inva­ sioni barbariche e in quel monastero furono portate le spoglie di Severino. Severino ( f 482), dopo aver abbracciato la vita eremitica e per divina ispirazione, giunse sui confini danubiani e com pì un apostolato trentennale di conversione al cristianesimo, di difesa delle popolazioni locali, di fondazione di monasteri. Egli è spesso descritto da Eugippio, che fu un suo discepolo, nelle vesti di mediatore fra romani e barbari ma, diversamente da Epifanio, in quanto taumaturgo e profeta, fa leva proprio 91 Vita di Epifanio 196. 92 J.-C. Picard, Le souvenir des évèques. Se'pultures, listes épìscopales et culte des évéques en Italie du Nord des origines au V1 siècle, Rome 1988, p. 649. 93 Vita di Epifanio 105. 94 Vita di Epifanio 177. 95 Vita di Epifanio 103. 96 Vita di Epifanio 95. 97 PCBE 2,1, pp. 676-678. 98 Vita di Severino, 46, 2.

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sui carismi per difendere le popolazioni. Le sue parole ai potenti sono «oracoli»99 cui si deve obbedienza se non si vuole incorrere nell’immancabile punizione di Dio. 2.1 .La «lama delle parole» Abbiamo notato anche in altre Vitae, non solo dedicate a vescovi, la stessa marginalità o assenza di racconti di miracoli. N ella Vita di Epi­ fanio il miracolo arretra non tanto per lasciare il campo al realismo nar­ rativo100, quanto per trasferire sulla potenza della parola le funzioni assolte dal miracolo in altri racconti agiografici. L’eloquenza di Epifanio crea intorno a lui la stessa stupefatta ammirazione che circonda la per­ formance del taumaturgo. L’eloquenza, com e il gesto taumaturgico, in­ terviene nella storia per cambiarne radicalmente il corso: dopo aver ascoltato Epifanio, Leone, il consigliere romano di Eurico, «era preso dal così grande miracolo del suo discorso da credere che parole di tal gene­ re potessero espugnare la mente (...) anche se avesse chiesto qualcosa contro giustizia»101. In un altro opuscolo - la Paraenesis didascalica Ennodio fa pronunciare alla Retorica queste parole «Che uno sia colpe­ vole o santo proviene dalla nostra bocca; mentre parliamo, la libertà (se. di chi ascolta) è tenuta prigioniera»102. Le affermazioni di Ennodio ripresentano in forma radicale un tema già presente nella tradizione. Il tema del potere “magico” della parola è anti­ co quanto la retorica stessa, sia in un contesto autopromozionale, sia in un contesto di critica alla sua capacità di manipolare le coscienze. Fra i cri­ stiani retoricamente preparati, la stessa fiducia nel potere della parola ve­ niva talvolta declinata in contesti che riflettevano sulla sparizione dei cari­ smi nella Chiesa dei loro giorni: ad esempio, Giovanni Crisostomo, soste­ neva che la retorica cristiana, in quanto persuadeva e convertiva, rivestiva nella Chiesa contemporanea la stessa funzione svolta dai miracoli nella Chiesa apostolica103. Si noterà che Leone, l ’interlocutore di Epifanio, è un Romano; R Brown ha dimostrato come nel mondo tardoantico la retorica, lungi dall’essere resa superflua dalla struttura autocratica del potere, rice­ veva da questa situazione nuovi compiti. Grazie ad essa e alla condivisio­ ne di una cultura comune, i rapporti fra governanti ed e'iites, per quanto

99 Eugippio, Vita di Severino 5, 1.3. 8. 100 Così Navarra, Contributo, cit., pp. 326-333. 101 Vita di Epifanio 89. 102 Opuscoli 6. 103 Giovanni Crisostomo, Omelie su 1 Corinti 6, 2.

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squilibrati dal punto di vista della forza, trovavano un terreno comune di intesa e di compromesso reso nobile appunto dai logoi: «I governanti cedevano, non tanto perché erano spesso insicuri, male informati o facil­ mente corruttibili, ma piuttosto perché erano stati conquistati dalla vera grazia e dalla saggezza di discorsi accuratamente elaborati»104. Il raccon­ to di Epifanio è l ’ultimo di questo tipo; nell’agiografia successiva105 r in ­ contro del santo con i potenti barbari non passa più attraverso il discorso persuasivo, ma solo attraverso l ’epifania del sacro, del santo stesso, che con la sua sola presenza riporta la sua vittoria sul barbaro. Il modo in cui il discorso agiografico continua ad alimentare l ’illusione e la speranza che il santo potesse esssere l ’unico baluardo ancora possibile ove la persua­ sione e il diritto non potevano più nulla, riflette bene i mutamenti della situazione politica e culturale. Da un certo punto di vista, la Vita di Epifanio, scritta da colui che gli fu accanto per un lungo periodo e che partecipò ad alcune sue imprese, potrebbe rientrare nel gruppo delle Vitae uscite dalla cerchia immediata del vescovo e scritte da personaggi la cui fama postuma rimase quasi esclusivamente legata a quelle. Ennodio ebbe invece un profilo culturale e politico autonomo e la Vita di Epifanio è qualche cosa di più di una vita episcopale scritta da un chierico. Anche questo naturalmente: affermando nel prologo di parlare davanti a coloro che furono anche testimoni ocula­ ri dei fatti, Ennodio si riferiva sicuramente alla cerchia ecclesiastica mila­ nese e pavese, a cui lo stesso Ennodio appartenne in fasi diverse della sua vita. La celebrazione di Epifanio veniva poi ad aggiungersi agli altri suoi componimenti dedicati ad altri vescovi milanesi e pavesi, com e pietra angolare della costruzione della memoria delle Chiese locali, un processo che conobbe nel v secolo una significativa accelerazione come è testimo­ niato dall’infittirsi delle Vite vescovili e della documentazione relativa alle sepolture e alle liste episcopali106. L’esaltazione di Pavia attraverso Epifanio e l ’esaltazione dell’operato di un vescovo, in quanto diretto essenzialmente alla difesa materiale della città sono aspetti significativi di questa Vita e riflettono una mutata situa­ zione politica in cui tocca ora al vescovo di adempiere quei compiti di tutela della città, che prima erano svolti dalle magistrature cittadine, una tutela che diventa un tratto essenziale del modello di santità episcopale107. Tuttavia la prospettiva di Ennodio va oltre l ’ambito della Chiesa locale e 104 P. Brown, Potere e cristianesimo nella tarda antichità, tr. it., Roma-Bari 1995, p. 44. 105 Cfr. oltre, p. 379. 106 Cfr. lo studio di Picard citato sopra. 107 A.M. Orselli, Il santo patrono cittadino: genesi e sviluppo del patrono del santo patrono cit­ tadino nella letteratura latina cristiana, Bologna 1965.

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dalla provincia vuole parlare al centro. Egli ha disegnato un modello di santità nuovo, plasmato dalla sua sensibilità e dalla sua valutazione del momento storico a lui contemporaneo più che dal discorso agiografico precedente. In effetti Epifanio possiede molti tratti in comune con quanto sappiamo di Ennodio: l ’ammirazione per Teodorico; le capacità diploma­ tiche; soprattutto l ’esaltazione dell’eloquenza. Nel dare uno spazio così rilevante ai discorsi come motivo principale dei successi di Epifanio, Ennodio intendeva dare voce a quello che riteneva potesse essere il ruolo proprio e di altri esponenti come lui della tradizione culturale romana nella nuova situazione politica italiana, in un momento in cui la presenza dell’Impero bizantino sembrava tramontata per lasciare spazio ad un dure­ vole dominio barbarico. Ennodio, come altri intellettuali della sua generazione, pensava al ruolo, insomma, di chi avrebbe potuto stare accanto al re per aiutarlo a realizzare la reparatio Romae, ad attuare il recupero dei barbari alla romanitas dei cui valori etici e culturali Vorator chierico era presentato com e l ’interprete più efficace e affidabile. Alla pacificazione delle armi, avrebbe dovuto seguire la conquista culturale per il tramite della parola. In uno dei rari casi in cui interviene nel racconto, Ennodio esorta il suo lettore a considerare quanto «la lama della parole fu più tagliente del ferro: l ’eloquenza espugnò colui al quale le spade si sottomisero»108. Era però un modello di santità troppo legato ad una congiuntura poli­ tica di breve durata per avere fortuna e in effetti la Vita di Epifanio non lasciò quasi traccia nella letteratura agiografica successiva109; il «ferro» - quello reale - di lì a poco, con la riconquista bizantina e poi con l ’arri­ vo dei longobardi, avrebbe reso palese tutta la fragilità delTottimismo ennodiano. 3. Gregorio Magno e I miracoli dei padri italiani E all’Italia devastata e impoverita dalle guerre in cui i longobardi erano stabilmente insediati, ci riconducono i «Quattro libri dei dialoghi di papa Gregorio sui miracoli dei padri italiani»110. Nato a Roma intorno al 540 da una famiglia aristocratica che aveva già dato un pontefice, Gregorio appro108 ylia rfj Epifanio 177. 109 Cesa, cit., pp. 34-35. n ° Principali edizioni commentate: Grégoire le Grand, Dialogues, introduction, bibliographie et cartes; texte critique et notes par de A. De Vogiié, traduction par P. Antin (SC 251, 260, 265), Paris 1978; 1979; 1980. Gregorio Magno, Storie di santi e diavoli, testo critico e traduzione a cura di M. Simonetti, introduzione e commento a cura di S. Pricoco, 2 v o li, Milano 2005; 2006 (da cui cito, con qualche modifica).

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dò alla stessa carica dopo essere passato attraverso i fasti di una carriera secolare importante, la conversione alla vita monastica, la fondazióne di monasteri, la cooptazione nel clero romano, la successiva permanenza a Costantinopoli come apocrisiaro del papa, il ritorno a Roma e la definitiva rinuncia alla vita contemplativa del monaco per accettare suo malgrado il peso del governo della Chiesa romana quando tra la popolazione, già pro­ vata dai saccheggi e dalle distruzioni dalle guerre bizantine e gotiche e cir­ condata dai longobardi, infuriava un’epidemia di peste111. Un ritratto di Gregorio, appena nominato vescovo di Roma, è nei Libri historiarum di Gregorio di Tours; questi ne loda la rinuncia agli onori del mondo: «Egli che prima era solito a incedere nella città indossando una trabea tessuta di seta e di gemme sfavillanti, si consacra al servizio dell’al­ tare del Signore». Celebra lo stile di vita ascetico; l ’alto profilo culturale affermando che nella grammatica, la dialettica e la retorica «nella stessa città di Roma non era reputato secondo a nessuno»112; ha parole di ammi­ razione per il coraggio e la fermezza con cui il papa - predicando e coin­ volgendo tutti gli ordini della popolazione in una liturgia collettiva di ri­ chiesta di misericordia per la peste - riuscì a trasformare la disperazione in un esperienza religiosa comunitaria. Risuona nelle parole del vescovo di Tours il modo ormai topico di raccontare la conversione dell’aristocratico all’ascetismo, tuttavia esse mettono in luce tratti essenziali della persona­ lità del grande Papa romano quale essa emerge dalle sue opere esegetiche e dall’immenso epistolario che accompagna gli anni del suo pontificato; una personalità impregnata dalla spiritualità monastica e da una profonda cultura unita a grandi capacità pastorali, organizzative, diplomatiche. Collocata su questo sfondo, un’opera come i Dialoghi (593/94) pro­ grammaticamente dedicata ai «signa» colpisce per la discontinuità con gli altri scritti gregoriani. Il tentativo di ridurre tale discontinuità ha dato luogo ad atteggiamenti e soluzioni molto diversi che vanno dal m iscono­ scimento della paternità gregoriana, all’emarginazione dei Dialoghi come opera di carattere “popolare”, al tentativo di ricuperarli, ma solo come favole edificanti di cui sia necessario decodificare il “vero” significato morale o teologico113. 111 Cfr. da ultimo i profili di R.A. Markus, Gregory thè Great and his World, Cambridge 1997 e S. Gajano Boesch, Gregorio Magno. Alle origini del Medioevo, Roma 2004, pp. 21-138; Ead., Gregorio 1, santo, in Enciclopedia dei Papi, voi. i, Roma 2000, pp. 546-574; bibliografie ragionate: R. Godding, Bibliografia di Gregorio Magno (1890-1989), Roma 1990; R. Godding, Tra due anniversari: Gregorio Magno alla luce degli studi recenti (1991-2003), in Gregorio Magno nel xiv Centenario della morte (Roma 22-25 ottobre 2003), Roma 2004, pp. 89-106; F.S. D ’Imperio, Gregorio Magno. Bibliografia per gli anni 1980-2003, Firenze 2005. 112 Noti anche come Storia dei Franchi 10,1. 113 Boesch Gajano, Gregorio Magno, cit., pp. 151-157.

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Clark è fermamente convinto che i Dialoghi siano opera di un anoni­ mo falsario della fine del v i i secolo. Avrebbe attinto dagli archivi del Laterano brani di scritti autenticamente gregoriani e li avrebbe cuciti con un repertorio di miracoli su figure di santi. Anche l ’ultimo suo volume pubblicato al termine di una ricerca più che ventennale114, non ha convin­ to gran parte dei più autorevoli specialisti del settore115, né sembra che dalle recenti numerose iniziative scientifiche in occasione del xiv cente­ nario di Gregorio Magno siano emersi nuovi elementi significativi116. E, tuttavia, dal confronto con i lavori dello studioso inglese si è venuta via via affinando una rinnovata comprensione dei Dialoghi che tende a met­ terne in luce la non univocità e i diversi livelli di fruizione nel tentativo di risolvere le difficoltà che essa continua a porre ai suoi lettori. La forma letteraria è quella del dialogo fra lo stesso Gregorio e il dia­ cono Pietro «legato a me - afferma Gregorio - fin dalla prima giovinezza dalla più grande familiarità e mio collaboratore nello studio della Scrittura»117. La stessa forma letteraria, come si ricorderà, era stata scelta da Sulpicio Severo per illustrare con nuovi racconti i miracoli di Martino. Nei Dialoghi, a parte il prologo, mancano però quegli elementi - descri­ zione di luoghi, tempi, personaggi - inerenti all’ambientazione della cor­ nice letteraria. L’inizio del primo libro allude ad una durata del dialogo su più giorni118, ma, in seguito, benché si accenni alla necessità di una pausa di silenzio, non si fa più menzione di una precisa scansione cronologi­ ca119. Alla fine del terzo libro si annuncia semplicemente l ’oggetto del quarto senza più alcun riferimento alla collocazione del dialogo in una cornice temporale120. È del tutto differente, rispetto ai Dialoghi sulpiciani, anche la funzionalità della forma dialogica all’intemo dell’economia complessiva dell’opera. Là gli interventi dei presenti erano prevalente­ mente narrativi e concorrevano, ciascuno per la sua parte, a difendere la memoria di Martino e i libri già scritti su di lui, qui il dialogo, ancorché fittizio, è utilizzato in modo didattico per ampliare e indirizzare la com­ 114 F. Clark, The «Gregorian» Dialogues and thè Origins of Benedictine Monasticism, LeidenBoston 2003; séguito di F. Clark, The Pseudo-Gregorian Dialogues, 2 voli., Leiden 1987. 115 Cfr. la recensione di S. Pricoco, Le rinnovate proposte di F. Clark sull’atetesi dei Dialogi di Gregorio Magno, in «Rivista di Storia del Cristianesimo» 1(2004), pp. 149-174, ora anche n ell’Edi­ zione dell’opera, voi. i, pp. 381-410. Sulle discussioni suscitate dal primo libro di Clark, cfr. la prima bibliografia già citata di Godding, pp. 118-119 e il contributo del 2004 citato sopra. 116 Almeno quelle finora pubblicate: vedere gli Atti di Roma 2004; A. D egl’Innocenti, Dialogorum libri tv, in Scrittura e storia. Per una lettura delle opere di Gregorio Magno, Firenze 2005, p. 257: elenco delle recensioni agli studi di Clark. 117 Dialoghi, prol. 2. 118 Dialoghi, 1, prol. 8. Ί9 Dialoghi 1, 1 2 ,7 ; 2, 3 8 ,5 . 120 Dialoghi 3, 38, 5.

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prensione del lettore su quanto è appena stato raccontato. Le domande di Pietro sollevano vere e proprie quaestiones che danno al suo interlocuto­ re lo spunto per sviluppi di carattere spirituale, teologico ed esegetico: il ruolo del maestro spirituale121; l ’importanza d ell’umiltà122; il significato del silenzio imposto da Cristo intorno ai suoi miracoli123. E poi ancora: che cosa vuol dire «abitare con se stesso»124? Che cosa conoscono i san­ ti125? Lo spirito profetico abita sempre con loro o solo a tratti126? Come si compiono i miracoli: solo con la volontà o con le preghiere127? I santi pos­ sono tutto ciò che vogliono128? Perché i miracoli avvengono anche dove non ci sono i corpi santi129? Qual è il significato delle piccole imperfezio­ ni morali dei santi130? Qual è il più grande dei miracoli131? Il gioco delle parti è ben visibile fin dal prologo. Gregorio ritrae se stesso in un momento di depressione. Si rifugia in «secretum locum» per dare sfogo alla sua amarezza: le incombenze legate ai suoi incarichi lo tur­ bano e gli fanno dolorosamente rimpiangere la quiete del monastero dove era occupato solo dalla meditazione delle cose celesti. Anche quando, dopo essersi disperso «fuori di sé», cerca di tornare in se stesso, sente di ritornarvi diminuito. Il suo dolore si aggrava se paragona la sua attuale condizione alla «vita di alcuni» che piacquero a Dio «per la loro vita riti­ rata». Allora Pietro, prendendo spunto, qui come nel resto dei Dialoghi, da un’espressione pronunciata da Gregorio, dice di non sapere se in Italia la vita di alcuni «abbia brillato di miracoli» e esprime l ’opinione che pur non mancando boni viri o essi non hanno compiuto signa et virtutes o sono rimasti avvolti nel silenzio. Gregorio afferma di conoscerne, invece, moltissimi e Pietro lo invita a raccontare e a interrompere lo studio della Scrittura «perché con essa si viene a sapere come raggiungere e preserva­ re la virtù, mentre con il racconto dei miracoli veniamo a conoscere come questa, una volta raggiunta e preservata, si manifesti apertamente»132. Fin dal loro primo apparire sulla scena i due ruoli sono abilmente diversificati: com e in altri luoghi dei Dialoghi133, l ’accento di Gregorio 121 Dialoghi 1, 1,5. 122 Dialoghi 1, 5, 3. 123 Dialoghi 1, 9, 7. 124 Dialoghi 2, 3, 5. 125 Dialoghi 2, 16, 3. 126 Dialoghi 2, 21, 3. 127 Dialoghi 2, 30, 2. 128 Dialoghi 2, 32, 4. 129 Dialoghi 2, 38, 2. 130 Dialoghi 3, 14, 11. 131 Dialoghi 3, 17, 6.8. 132 Dialoghi 1, prol. 9. 133 Tema sviluppato in Dialoghi 2, 3, 9.

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cade sul «secretum locum»; sulla secretior vita dei perfetti, sulla contrap­ posizione fra interiorità/esteriorità. Pietro, invece, insiste su ciò che è manifesto e rifulge della vita dei boni viri. È l ’inizio di una dialettica fra il visibile e l ’invisibile, fra i miracoli e le virtù, fra «Scriptura» e «narratio signorum» che alla fine del primo libro viene articolata completamen­ te: «In che modo - domanda Pietro - si può dimostrare che ci sono alcu­ ni che pur non facendo miracoli, non differiscono da quelli che li fanno?». È nella Scrittura che Gregorio indica la soluzione, mostrando che la «narratio signorum» non può essere disgiunta dalla riflessione sulla Bibbia e deve accompagnarsi e riferirsi costantemente a questa. L’Apostolo Pietro - osserva - ha camminato sull’acqua, mentre Paolo vi ha fatto naufragio, tuttavia «non è diverso il loro merito in cielo», al che Pietro conclude: «Ecco che ho compreso perfettamente che si deve ricer­ care la vita e non i segni. Ma proprio il far miracoli è testimonianza di buona condotta di vita». Virtù e miracoli, Scrittura e racconto sono i fili che, intrecciati dall’abile Gregorio/Pietro, costituiscono l ’ordito della santità e d ell’opera. La forma dialogica e la sua funzione didattica sono i più evidenti ele­ menti unificanti del testo che, per quanto riguarda i contenuti, presenta una forte disomogeneità nei temi, nella distribuzione del materiale fra i diversi libri e bruschi cambiamenti di direzione a tal punto da far pensare a «un progetto in continua evoluzione, che si sia venuto modificando in tempi diversi e sotto la spinta di ragioni e considerazioni sopravvenu­ te»134. Il primo libro in dodici capitoli racconta dei miracoli riferiti a figu­ re attive in località vicino a Roma e, dove è possibile precisare, vissuti tutti nella prima metà del v i secolo. Il secondo libro è molto più lungo (trentotto capitoli) ed è il più famoso dei Dialoghi. Interamente dedicato ad una figura di importanza fondamentale del monacheSimo occidentale Benedetto da Norcia - è la fonte più antica che possediamo su di lui. Al pari degli altri libri, l ’interesse è centrato sui miracoli, più che sulla vita intesa com e racconto biografico, anche se in questo libro si racconta un personaggio dalla nascita alla morte. La marginalità dell’interesse biogra­ fico è chiaramente attestata dal fatto che gli eventi precedenti all’adesio­ ne alla vita monastica sono tutti compressi nel prologo con rapidi cenni alle nobili origini, agli studi liberali a Roma subito abbandonati. Egli afferma Gregorio - nel desiderio di piacere a Dio, si ritirò dal mondo «sapientemente ignorante e saggiamente incolto»135.

134 Cfr. Simonetti nell’Introduzione, p. 21; per Boesch Gajano, Gregorio, cit„ i Dialoghi sono “un’opera meditata e organicamente strutturata” (p. 85); anche De Vogiié è sulla stessa linea. 135 Dialoghi 2, prol. 1.

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È interessante notare che Benedetto ha la capacità di compiere mira­ coli fin da subito: con la preghiera ripara un vaglio spezzato dalla sua nu­ trice, sua compagna nella prima fase del suo ritiro dal mondo. Compie un signum e impartisce insegnamenti spirituali a laici ancor prima di aver completato il proprio perfezionamento morale che avviene solo dopo aver superato la tentazione della carne136. Gregorio racconta che gli abi­ tanti del luogo del primo ritiro di Benedetto appendono il vaglio all’in­ gresso della chiesa «in modo che sia loro sia i loro discendenti potesse­ ro conoscere quanto era stato già perfetto Benedetto quando si era inizia­ to alla vita religiosa»137. Da una parte, siamo di fronte ad un racconto che dimostra l ’attenta let­ tura della Vita di Antonio138 e la ricezione del suo modello progressivo (il rifiuto delle litterae, la tentazione della carne, la gradualità della separa­ zione dal mondo: prima con la nutrice presso una chiesa, poi da solo nella grotta a Subiaco, infine abate a Cassino), dall’altra, se ne allontana in un punto cruciale: il momento biografico in cui compare per la prima volta il miracolo e l ’insegnamento, aspetti che nel testo di Atanasio erano presen­ tati com e frutto del perfezionamento dello sforzo ascetico. Questo mutamento non è casuale, ma è riconducibile al ripensamento del modello narrativo atanasiano alla luce degli esiti dello scontro fra Agostino e Pelagio. Anche se Gregorio, per altri versi molto influenzato da Agostino, se ne distacca proprio nel modo meno radicale di concepire la predestinazione139, tuttavia la crisi pelagiana aveva reso dottrinalmente sospetto un racconto che stabilisse in modo troppo diretto e esplicito un rapporto consequenziale fra meriti e grazia, fra ascesi e carisma, e ciò non poteva non richiedere un aggiustamento dei modi tradizionali di raccon­ tare la carriera di un santo. Ma il modello progressivo della Vita di Antonio permane; in effetti, la completa vittoria sulle tentazioni della carne e sullo spirito malvagio che le suggeriva segna comunque una svolta: da questo momento Benedetto diventa «maestro di virtù»140 e abate di monasteri per i discepoli che si riuniscono intorno a lui. Una prima sezione (capp. 3-8) racconta appunto

136 Dialoghi 2, 2; 2, 3, 1. 137 Dialoghi 1, 1, 2; 1, 1, 8: dopo essersi ritirato nella grotta di Subiaco e diventato famoso, rice­ veva cibo dai visitatori e in cambio impartiva insegnamenti spirituali. 138 J. Petersen, The Dialogues o f Gregory thè Great in theìr Late Antique Cultural Background, Toronto 198, p. 157. 139 Dialoghi 1, 8, 5: ad una domanda di Pietro sul rapporto fra meriti, preghiera e predestinazio­ ne Gregorio risponde non senza qualche debolezza teologica: «Anche la predestinazione al regno eterno è stata disposta da Dio onnipotente in modo che gli eletti vi giungano con fatica, così che chie­ dendo meritino di ricevere ciò che prima dei secoli D io onnipotente ha disposto di donare». 140 Dialoghi 2, 2, 3.

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il profilo di Benedetto come guida di monasteri vicino a Subiaco, le diffi­ coltà da lui incontrate, sia con i suoi stessi monaci recalcitranti ad adotta­ re la forma di vita così severa, sia con l ’autorità ecclesiastica, invidiosa della sua fama di asceta e taumaturgo. La seconda parte (capp. 9-35) è dedicata ai miracoli compiuti a Cassino. La fondazione del monastero di Cassino è preceduta dalla distruzione di un tempio e di un altare dedicati ad Apollo e con la loro sostituzione, rispettivamente, con un oratorio in onore di Martino141 e un altro in onore di Giovanni Battista. Altri miraco­ li aiutano la nuova fondazione monastica e i monaci che la abitano. Con il capitolo 12 iniziano i miracoli cognitivi: «In quel tempo l ’uomo di Dio com inciò ad essere dotato di spirito profetico, per cui prediceva ciò che sarebbe accaduto e annunciava a chi era presso di lui fatti che si verificavano lontano»142. Benedetto vede le debolezze che i monaci vorrebbero tenergli nascoste e in questo senso il carisma diventa un completamento del suo magistero spirituale143. Vede inoltre ciò che il futuro riserva al re barbaro Totila: «Entrerai a Roma, passerai il mare, regnerai nove anni e nel decimo morirai»144. E a Roma: «Roma non sarà distrutta dai barbari, ma andrà in rovina da se stessa, fiaccata da tempeste, fulmini, uragani ter­ remoti». E la verità di questa profezia - aggiunge Gregorio - è ora più chiara della luce «dato che ora noi vediamo abbattute le mura della città, rovinate le case, distrutte le chiese dalla bufera e gli edifici, già fatiscenti per lunga età, cadono a terra in un crescendo di rovine»145. Benedetto pro­ fetizza fra le lacrime anche la distruzione del suo stesso monastero di Cassino ad opera dei longobardi affermando di aver ottenuto da D io la sal­ vezza dei fratelli146. Inframmezzati ai signa profetici ci sono racconti di guarigione, tra cui anche un miracolo di resurrezione. Benedetto (come Antonio147) tocca il culmine del dono dello Spirito nella visione cosm ica che è anche l ’ultimo miracolo raccontato: «Tutto il mondo, com e raccolto sotto un solo raggio di sole, fu portato davanti ai suoi occhi»148*.Tocca a Gregorio, di fronte ai dubbi di Pietro, spiegare, alludendo alle esperienza estatica di Paolo

141 Pour cause·. Martino, da vescovo, era stato molto attivo per estirpare culti pagani dalle cam­ pagne, cfr. supra, pp. 209-210; così anche Benedetto: 2, 19, 1. Per l ’influenza del ciclo di Martino: Petersen, cit., pp. 11-119. 142 Dialoghi 2, 11,3. 143 Dialoghi 2, 12, 13, 18, 19,20. 144 Dialoghi 2, 15, 1. 145 Dialoghi 2, 15, 3. 146 Dialoghi 2, 17, 1. 147 Vita di Antonio 65. 148 Dialoghi 2, 35, 3; P. Courcelle, La Vision cosmique de Saint Benoit, in «Revue des études augustiniennes» 13(1967), pp. 97-117.

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(2Cor 12), come l ’anima che contempli D io riesca a liberarsi dalla finitu­ dine dei sensi corporali, e «rapita fuori di sé» riesca almeno in parte a par­ tecipare della visione divina. Sul finire del libro Gregorio accenna alla regola scritta da Benedetto per i monaci «esemplare per la descrizione, brillante per la forma». La cita soltanto per ricordare che accanto ai miracoli che l ’hanno reso famoso in tutto il mondo, Benedetto si era distinto anche per dottrina. Non vi attri­ buisce grande importanza né qui, né nel resto dell’opera ove il canone di riferimento del comportamento di Benedetto e dei suoi monaci non è la regola, ma la Scrittura. D ’altro canto, la ricerca ha m esso in luce come la Regola - tutt’altro che invenzione dello stesso Benedetto che dipendeva dal cosiddetto Maestro - si diffuse e com inciò ad esercitare la sua influen­ za soltanto a distanza di due secoli149. N el libro dedicato a Benedetto la Scrittura ha una presenza quantitati­ vamente più rilevante ed è un aspetto su cui si intende richiamare l ’atten­ zione del lettore in modo speciale. Questo è il senso del sommario a chiu­ sura del primo gruppo di miracoli. D ice Pietro: «È m eraviglioso quello che dici, tale da lasciare stupefatti. Vedo infatti n ell’ac­ qua che scaturisce dalla roccia M osè, n ell’am ese di ferro che toma a galla dal profondo dell’acqua riconosco Eliseo, nel cam m ino sull’acqua Pietro, nell’obbe­ dienza del corpo Elia, nel dolore per la morte del nem ico Davide. Sto constatan­ do che quest’uomo è stato dotato dello spirito di tutti i giusti»150.

Benedetto muore, come l ’eremita Paolo raccontato da Girolamo, con le mani alzate al cielo mentre prega e viene seppellito nell’oratorio dedi­ cato a Giovanni Battista. Quando Gregorio dettava i Dialoghi, quest’ora­ torio era in rovina come il resto del monastero; è per questo che l ’unico racconto di miracolo post mortem viene legato alla grotta di Subiaco, l ’unico luogo di Benedetto ancora in grado di diventare “memoria” di lui e calamitare i fedeli151. La presenza di Benedetto fuori dal monastero è limitatissima: esce per recarsi al vicino oratorio di Giovanni Battista per pregare152; nei campi per

149 Status

quaestionis n ell’introduzione al commento dei Dialoghi, cit.,

l i - l v ii

(a

cura di S.

Pricoco).

150 Dialoghi 2, 8, 8; sul riferimento alla Bibbia com e motivo unificante del secondo libro: M. Zelzer, Vir Domini Benedictus unius spiritum habuit. La struttura interna del libro secondo dei Dialoghi di San Gregorio Magno, in La narrativa cristiana antica, cit., pp. 635-643. 151 Dialoghi 2, 38, 1. Per l ’intreccio di tali questioni con il problema d ell’autenticità cfr. Pricoco, cit., voi. i, pp. 390-391. 152 Dialoghi 2, 30, 1.

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lavorare153, a far visita (una volta l ’anno) alla sorella Scolastica anche lei monaca: e in questo caso è la volontà di D io e non la sua a tenerlo presso di lei fino al giorno dopo154. Malgrado questo, il modello monastico che impersona non è estraneo al mondo esterno al monastero. Il suo potere è l ’unico argine a quello devastante e terribile dei barbari: lo spavento che provano di fronte alla sua virtus profetica non li induce alla conversione, ma mitiga la loro crudeltà155; è un potere che mostra tutta la sua durezza nel colpire la trasgressione, ma che ha compassione e soccorre il pove­ ro156, il peccatore pentito, colui che piange per la perdita di una persona cara157. È un potere che si esercita nel mondo rurale, in modo separato, ma non in contrapposizione con il potere sacerdotale158. Nel terzo libro i limiti temporali e geografici si allargano: compaiono santi come Paolino di Nola di due secoli precedenti159 e, quando il raccon­ to si focalizza di nuovo sulla contemporaneità, tratta di santi di luoghi più lontani dell’Italia settentrionale e meridionale fino a sconfinare in Africa con i racconti relativi ai vescovi cui i vandali tagliano la lingua160; in Spagna con la storia del “martirio” del principe visigoto Ermenegildo161. C ’è una maggiore varietà nella tipologia del racconto che non si limita ai signa: la stessa vicenda di Paolino di Nola, ostaggio dei barbari in Africa e poi liberato a seguito del riconoscimento della sua identità e delle virtù dimostrate, non ha nulla di miracoloso; com e non hanno propriamente a che fare con i signa i racconti di martirio per mano dei longobardi162. Nel terzo libro l ’aspetto didattico si amplia fino a coincidere con un lungo capitolo dedicato all’importanza spirituale della compunzione163. Il libro termina con la visione terrificante di Redento cui appare tra la veglia e il sonno il martire Eutichio che pronuncia tre volte parole spaventose: “Vie­ ne la fine di tutta la carne”. «Ben presto —aggiunge Gregorio —la crudele gente dei longobardi, uscita dalla sua terra, ha infierito sul nostro collo, e nella nostra terra la popolazione, che

153 Dialoghi 2, 32, 1. 154 Dialoghi 2, 33. 155 Dialoghi 2, 15, 2; 2, 31. 156 Dialoghi 2, 27.28. 31. 157 Dialoghi 2, 32, 3. 158 Dialoghi 2, 16; G. Cracco, Ascesa e ruolo dei “Viri D ei” nell’Italia di Gregorio Magno, in Hagiographie, cultures et societés. tV -xtf siècles. Actes du Colloque organisé à Nanterre et à Paris (2-5 mai 1979), Paris 1981, pp. 283-297. 159 Dialoghi 3, 1. 160 Dialoghi 3, 32. 161 Dialoghi 3, 31. 162 Dialoghi 3, 27; 28. 163 Dialoghi 3, 34.

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prima era numerosa e fitta com e cresce una m esse di spighe, è stata sterminata. Le città sono state saccheggiate, le fortezze abbattute, le chiese incendiate, di­ strutti anche i monasteri sia m aschili che fem minili. I campi sono rimasti privi di chi li coltivi, la terra è deserta. Nessun proprietario l ’abita più e le bestie occupa­ no i luoghi prima abitati dagli uomini. Non so cosa avvenga nelle altre parti del mondo: ma in questa terra che abitiamo il mondo non annuncia ma manifesta con tutta evidenza la sua fine»164.

Tuttavia, com e avviene anche in altri scritti, il tema della vicinanza della fine è la leva per rafforzare un m essaggio di riforma morale: un mondo così distrutto «ci grida di non amarlo» e dunque spinge a pensare al destino ultraterreno, «ai beni eterni»165. La sconsolata lettura della situazione contemporanea serve a segnare una cesura importante aH’intemo dei Dialoghi: Gregorio dichiara di aver ancora tanto da raccontare sulle gesta degli “eletti”, ma annuncia senza dare ulteriori spiegazioni la sua intenzione di passare ad altro: «Ma li tac­ cio perché mi affretto ad altri argomenti»166. Pietro invita Gregorio a rispondere allora a coloro che dubitano sulla sopravvivenza dell’anima dopo la morte167. Il tema può sembrare davvero un «ad alia festinare» co­ me dice lo stesso Gregorio, ma, se guardiamo ad altre Vitae, notiamo che talvolta il santo è sollecitato a pronunciarsi sullo stesso argomento: così Antonio che discute con alcuni visitatori sullo stato e il luogo dell’anima dopo la morte168 e prima ancora, anche la Vita di Apollonio di Tiana si chiudeva con l ’apparizione d ell’uomo di Dio ad un giovane che aveva messo in dubbio l ’immortalità dell’anima169. La formazione e l ’om olo­ gazione delle dottrine relative alla sopravvivenza delle anime dei santi e ai luoghi da esse occupate dopo la morte era cruciale per lo sviluppo della dottrina dell’intercessione dei santi170 e questo spiega l ’interesse per tali

164 Dialoghi 3, 38, 3. 165 C. Dagens, Saint Grégoire le Grand. Culture et expérience chrétiennes, Paris 1977, pp. 379384. Né il frequente richiamo alla fine vicina impedì a Gregorio di prendere efficaci misure di carat­ tere organizzativo ed economico: M. Rouche, Grégoire le Grand face à la situation économique de son temps, in J. Fontane-R. Gilet-S. Pellistrandi (Actes publiés par), Grégoire le Grand, Chantilly, 1519 Septembre 1982, Paris 1986, pp. 41-68. 166 Dialoghi 3, 38, 5. 167 Dialoghi 3, 38, 5. 168 Vita di Antonio 66, 2. 169 Cfr. supra, p. 101. 170 M. Van Uytfanghe, Platonisme et eschatologie chrétienne. Leur symbiose graduelle dans les passions et les panegyriques des martyrs et dans les biographies spirituelles ( ii- iv siècles). Première partie: Les Actes et le Passions “sincères", in Fructus Centesimus. Mélanges offerts à Gerard JM. Bartelink, Dordrecht 1989, pp. 343-362; Deuxième partie: Les Passions tardives, in L. Holtz-J.-C. Fredouille (eds.), De Tertullien aux Mozarabes, Mélanges offerts à Jacques Fontaine, t. i, Paris 1992, pp. 69-95.

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argomenti. Tuttavia, nei Dialoghi - per altro per nulla interessati, con la sola eccezione di Benedetto, al tema dei miracoli post mortem - il tema dell’immortalità d ell’anima diventa l ’argomento di un intero libro, men­ tre i santi, con i loro miracoli e le loro virtù, spariscono. Un tale sviluppo non è più funzionale al discorso agiografico, ma diventa a sé stante dando voce e risposta a perplessità e dubbi che Gregorio sapeva presenti fra il suo pubblico171. È il libro più lungo ove, dopo una prima parte dedicata all’esposizione dottrinale, si susseguono racconti di visione di anime che salgono in cielo; di morti che tornano a raccontare i luoghi ultraterreni di punizione nel fuoco eterno e di penitenza neWignis purgatorius, dell’im­ portanza del sacrificio eucaristico dei vivi per alleviare le pene delle anime di coloro che in vita non si sono macchiati di gravi colpe172. 3.1.

Fede nei miracoli e precisione notarile

I Dialoghi conobbero un enorme successo di pubblico anche fuori dal­ l ’area di lingua latina grazie alle numerose traduzioni che ne vennero fatte in greco, nella lingua anglosassone fra l ’vm e il ix secolo e poi nelle altre lingue volgari di tutta Europa e anche in arabo173. Di questo straordinario successo che l ’invenzione della stampa amplificò ulteriormente, fu un vet­ tore importante senza dubbio il secondo libro dedicato a Benedetto che non poteva mancare in nessun monastero di quell’ordine o che si ispiras­ se alla sua Regola. Ma non fu il solo: offrendo una grande varietà di fatti, personaggi, mescolanza di racconti straordinari e di insegnamenti morali e spirituali, i Dialoghi influenzarono l ’immaginario medievale dell’aldilà, sostennero l ’uso delle m esse di suffragio per i defunti, offrirono ai chieri­ ci un catalogo di exempla sempre rinnovabile attraverso la predicazione. Il repertorio gregoriano174 dei signa è immenso e si dispone su un conti­ nuum che va dal miracolo di liberare un orto dai bruchi175, al vino e al pane che, benché scarsi, riescono a nutrire una moltitudine176; da un orso che si fa pastore delle pecore di un eremita177 a un serpente che protegge

171 M. Van Uytfanghe, Scepticisme doctrinal au seuil du Moyen Àge? Les objections du diacre Pierre dans les Dialogues de Grégoire le Grand, in J. Fontaine-R. Gilet-S. Pellistrandi (Actes publiés par), Grégoire le Grand, Chantilly, 15-19 Septembre 1982, Paris 1986, pp. 315-326. 172 Dagens, cit., pp. 401-429. 177 Di cui alcune sono state studiate in P. Chiesa (ed.), I “Dialogi” di Gregorio Magno. Tradizioni del testo e antiche traduzioni, Firenze 2006. 174 Un repertorio ragionato in Pricoco, cit., voi. 2, pp. 516-523. 175 Dialoghi 1, 9, 15. 176 Dialoghi 1 ,9 , 3 -4 3 ,5 7 ,5 -7 . 177 Dialoghi 3, 13, 3-4.

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dai ladri l ’orto di un monastero178; dalla liberazione dal diavolo di una monaca che l ’aveva ingoiato insieme ad una foglia di lattuga non benedet­ ta179 alle guarigioni di infermità gravi fino al miracolo di resurrezione. Numerosi sono anche i miracoli punitivi in difesa di persone, luoghi sacri, oggetti sacri. Morti, malattie, spavento, visioni terrificanti si abbattono su chi osa mancare di rispetto anche se ancora bambino180. A prima vista contrastante con questa lussureggiante presenza del meraviglioso è la precisione notarile con cui Gregorio registra ogni vol­ ta da chi ha appreso il miracolo fornendo nella stragrande maggioranza di casi l ’identità e le circostanze della testimonianza. È un topos del pro­ logo di ogni opera agiografìca quello di menzionare l ’affidabilità delle proprie fonti, tuttavia nei Dialoghi ciò assume sistematicità e precisio­ ne specifiche. Dopo una minuziosa analisi sui miracoli dei Dialoghi intesa a verificare se in qualche caso Gregorio dipendesse da fonti letterarie, McCready181 giunge alla conclusione che, se in rari casi il dubbio può sussistere, non ci sarebbero dipendenze testuali: Gregorio credeva nei miracoli che raccon­ tava e voleva che anche gli altri vi credessero, cercando e raccogliendo quello che ai suoi occhi erano testimonianze attendibili dei “fatti”. Un epi­ sodio, in particolare, aiuta a comprendere l ’articolazione fra fatto, testi­ mone e miracolo. Riguarda lo stesso Gregorio testimone dei miracoli di Eleuterio182. Questi, abate di un monastero di Spoleto, aveva vissuto nel monastero di Gregorio a Roma e si era distinto per la sua semplicità e compunzione. Per questo Gregorio, che in quel momento non poteva adempiere il digiuno del sabato di Pasqua perchè gravemente sofferente di stomaco, chiese che Eleuterio pregasse perché gli fosse consentito di­ giunare. Eleuterio si mise a pregare fra le lacrime e, terminata la preghie­ ra, continua Gregorio, «il mio stomaco ricevette tanta forza che io mi dimenticai completamente del cibo e del m io stomaco». Riuscì così a digiunare fino al giorno successivo. Gregorio considera l ’accaduto effetto dell’efficacia della preghiera di Eleuterio e conclude di conseguenza che «riguardo ad Eleuterio erano veri anche tutti i fatti ai quali non avevo assi­ stito»183, cioè un miracolo di risurrezione e la guarigione di un bambino indemoniato narrati poco prima.

178 Dialoghi 1, 2, 3-4. 179 Dialoghi 1 ,4 ,7 . 180 Dialoghi 4, 19, 2-4. 181 W.D. McCready, Signs of Sanctity. Miracles in thè Thought o f Gregory The Creai, Toronto 1989. 182 Dialoghi 3, 33; McCready, cit., pp. 202-205. 183 Dialoghi 3, 33, 9.

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Gregorio non vedeva, dunque, alcun salto qualitativo fra il momenta­ neo sollievo dei suoi dolori di stomaco e una resurrezione. Dal suo punto di vista, ogni miracolo è una manifestazione dell’opera di Dio e della san­ tità della persona attraverso cui Dio agisce. Una volta riconosciuta come tale, la presenza di Dio non ammette gerarchie e valutazioni. L’averne constatato personalmente uno, dunque, lo spinge a dare credito agli altri sui quali, testimoniati solo dai fratelli di Eleuterio e da Eleuterio stesso, aveva fino a quel momento evidentemente sospeso il giudizio. È interes­ sante notare inoltre che la predisposizione di Gregorio a considerare mira­ colo un evento che ai nostri occhi potrebbe sembrare del tutto marginale non implicava tuttavia un’acritica accettazione di tutte le testimonianze. L’attendibilità dei testimoni è data dal loro profilo morale e dal ruolo che rivestono: su quarantasei testimoni citati, vi sono soltanto tre laici, mentre gli altri sono sacerdoti e più spesso monaci184. L’accuratezza con cui Gregorio registra le circostanze e le identità — spesso storicamente attestate da altre fonti - potrebbe aver fatto tesoro dell’esempio di Agostino. La presenza di Agostino in Gregorio è discreta quanto a riferimenti espliciti, ma profonda. De Vogué185 sottolinea come dietro il quarto libro dei Dialoghi si intraveda l ’ultimo libro di La Città di Dio dedicato al­ l ’escatologia con il dossier di miracoli a riprova della resurrezione di Cri­ sto. N el libro xxn, come si ricorderà, Agostino precisa cause e modalità della raccolta sistematica di libelli relativi ai miracoli che avvenivano presso i diversi martyria che ospitavano le reliquie del protomartire Stefa­ no. Era un progetto in cui trovavano espressione diverse esigenze: la con­ servazione della memoria del miracolo; la sua “certificazione” ecclesiasti­ ca che ne sosteneva l ’attendibilità e insieme la corretta interpretazione, la necessità di puntellare i principali dogmi della fede cristiana. N el racco­ gliere un dossier di miracoli finalizzato all’insegnamento morale e peda­ gogico più che alla promozione del culto dei santi e dei loca sancta italia­ ni, il papa romano sembra essersi ispirato più ad Agostino che a Gregorio di Tours che nei suoi Libri dei miracoli stava, negli stessi anni, erigendo un monumento alla praesentia dei santi nei luoghi di culto della Gallia.

184 Tavola dettagliata dei testimoni di Gregorio in McCready, cit., pp. 261-271. 185 De Vogué, cit., SC 251, 116.

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3.2. Rapporti con la produzione agiografica coeva Un certo numero di interventi di Pietro pongono l ’accento sulla con­ temporaneità alternando esclamazioni di ammirazione - «sono stupendi i miracoli dei nostri tempi!»186 con domande del tipo: «come mai di questi uomini non ce ne sono più?»187. Naturalmente le une e le altre permetto­ no al narratore di rimettersi in cammino dopo ogni pausa e di illustrare appunto i «nova miracula»188 e le gesta dei «moderni patres»189. Fatta la parte della retorica, l ’insistenza sulla contemporaneità è interessante su più piani e comprenderne i riferimenti impliciti aiuta a mettere meglio a fuoco i Dialoghi. Il lavoro esegetico secolare sui testi evangelici e la lettura di essi nel ciclo liturgico delle Chiese si era spesso misurato con il tema dei miraco­ li compiuti da Gesù e dagli Apostoli. La fede nella veridicità storica di quei racconti, da un lato, e, dall’altro, la percezione diffusa che i tempi successivi a quelli apostolici fossero del tutto o in gran parte privi di tali eventi, aveva spinto gli esegeti e i predicatori ad elaborare la teoria che i miracoli narrati dai Vangeli e dagli Atti degli Apostoli erano stati il segno distintivo della Chiesa apostolica, di una Chiesa che, altrimenti, non avrebbe potuto operare conversioni, tali e tanti erano gli ostacoli che si paravano dinnanzi allo sparuto gruppo di Apostoli privi di ogni risorsa e cultura. La necessità dei miracoli, però, sarebbe venuta meno con il radi­ camento del cristianesimo n ell’Impero, con il rafforzarsi delle sue istitu­ zioni, con la diffusione ovunque della Scrittura, sia sotto forma di predi­ cazione, sia attraverso lo sviluppo di una letteratura ad essa dedicata in grado di convertire e persuadere. Questa convinzione era stata espressa, come si ricorderà, anche da Agostino e lo stesso Gregorio in un’omelia pronunciata nel 59 0 190 afferma che, se i miracoli erano necessari per i primi passi della fede cristiana, ora: «sono molti coloro all’interno della Chiesa che malgrado la vita virtuosa non fanno i miracoli che ci si atten­ derebbe da loro perché un miracolo esterno è inutile se manca di effetti neH’interiorità»191, cioè se non conduce alla conversione che ora, in una Chiesa pienamente sviluppata, è assicurata da altri mezzi. Si noterà che qui, come in altri passi di contenuto analogo, Gregorio non esclude la possibilità che potesse esserci ancora qualcuno in grado di 186 Dialoghi 3, 5, 5. 187 Dialoghi 1, 12, 4. 188 Dialoghi 1, 7, 4. 189 Dialoghi 3, 25, 3. 190 Grégoire le Grand, Homélies sur l ’Évangile , Texte latin, introduction, traduction et notes par R. Étaix t-C. Morel t-B . Judic, Livre i: Homélis i-xx (SC 485), Paris 2005, p. 90. 191 Omelie sui Vangeli 1, 4, 3.

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compiere miracoli ed è dunque da ridimensionare il grado di incompati­ bilità fra queste affermazioni e il progetto perseguito dai Dialoghi di rac­ cogliere appunto i nova miracula', progetto di pochi anni successivo alla pubblicazione di quelle Omelie. Al pari di Agostino che, a un certo punto, cambiò atteggiamento e com inciò a raccogliere i Libelli miraculorum, anche Gregorio mutò la propria valutazione sulla quantità di miracoli compiuti dai suoi contemporanei. In tale prospettiva i Dialoghi dovevano servire anche a contrastare nelle cerehie più teologicamente avvertite quella teoria ormai secolare e autorevole della sparizione o rarefazione dei miracoli successivi all’età apostolica, una teoria in grado di conciliare lo scetticismo riguardo ai miracoli contemporanei con la fede in quelli nar­ rati dai Vangeli. La prospettiva di Gregorio è invece diversa: quel suo accostare costantemente personaggi e miracoli della Scrittura ad eventi analoghi relativi ai viri Dei italici ha lo scopo di stabilire una continuità fra i tempi apostolici e la contemporaneità costruendo un circolo erme­ neutico di inveramento reciproco da cui era difficile uscire senza venir meno alla stessa fede nei miracoli evangelici. Miracoli nuovi, dunque, ma anche miracoli di santi “vivi”; la scelta può apparire singolare se si considera compiuta dal vescovo di Roma, della città, cioè, che in santuari sontuosi, meta di pellegrini provenienti da tutto l ’Occidente, ospitava le reliquie, fra tanti altri famosi, di Pietro e Paolo. I martiri romani e gli eroi dei Dialoghi si sfiorano una sola volta, quando è narrato un miracolo di guarigione compiuto nella «chiesa di Pietro» da A conzio, un uomo santo e guardiano di quella chiesa, ma Gre­ gorio aggiunge subito: «Se dovessimo ricordare tutto ciò che si e verifica­ to nella sua (se. di Pietro) chiesa, dovremmo tacere senza dubbio su tutto il resto. Perciò è necessario che il nostro racconto ritorni ai padri dei nostri tempi la cui vita ha portato luce nelle province d ’Italia»192. Questo non significa che la fama dei viri Dei italiani venga costruita a danno di quella dei martiri193. Episodi di persecuzione e martirio non sono del tutto assenti dai Dialoghi, che narrano di quaranta contadini e quattrocento prigionieri passati a fil di spada dai longobardi per non essersi voluti piegare a culti idolatrici194*, ma essi interessano non di per se stessi, ma per affermare che i viri Dei, monaci e sacerdoti, la cui vita intera è stata un martirio «in occulto» avrebbero avuto certamente il

192 Dialoghi 3, 25, 3. 193 Sulla personale devozione ai martiri di Gregorio e il suo operato a sostegno del culto dei mar­ tiri: Gregorio Magno, Storie di santi e diavoli, cit., voi. u, pp. 415-416 . 194 Dialoghi 3, 27-28. Questo non significa che Roma sia esclusa dai Dialoghi e dal raggio di azione degli uomini di Dio (De Vogué, SC 251, pp. 64-65; Boesch Gajano, Gregorio Magno, cit., pp. 192-193.

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coraggio di affrontare il martirio «in publico», là dove se ne fosse offer­ ta l ’occasione, se «laici di modesta condizione»195 che percorrevano «latas huius saeculi vias»196 erano riusciti a meritarlo. Martiri dei nostri giorni sono dunque i martiri «in publico» vittime dei longobardi, ma anche i viri Dei la cui vita è un martirio interiore; a differenza dei primi, i viri Dei sono però martiri di cui si può raccontare la vita. I miracoli che si compivano presso le tombe dei martiri potevano, a rigor di termini, essere rubricati come nova miracula, ma soltanto i miracoli compiuti dai «moderni patres» offrivano la possibilità di intrecciare nella narratio, «miracula» e «vita», i segni e le virtù. Nella programmatica esclusione dei miracoli dei martiri romani e delle loro passioni è da vedere una consapevole presa di distanza riguardo alle numerosissime Passioni apocrife di martiri romani com e sostiene Sofia Boesch Gajano?1971 Gesta martyrum romani198, i cui testi più antichi furo­ no composti fra il v e vi sec., presentano molti tratti comuni messi in luce soprattutto dagli studi di D elehaye199: pieni di anacronismi storici, danno larghissimo spazio al miracoloso, ai supplizi protratti contro ogni verosi­ miglianza, a ritratti stereotipati dei funzionari romani. Prodotte dall’am­ biente clericale romano, queste leggende, a m ezzo fra la biografia, il ro­ manzo e le Passioni, disegnano la figura del martire com e eroe sovruma­ no di cui si può soltanto ammirare l ’indomabile coraggio e l ’indistruttibi­ le resistenza fisica. Queste passioni apocrife furono condannate dal De­ creto pseudogelasiano che le escludeva dalla lettura liturgica in quanto sospette di eresia, ma godettero di una grandissima fortuna letteraria e nei secoli successivi vennero inserite nelle letture liturgiche delle feste dei martiri e passarono nei martirologi200. Nella storia della ricerca gregoria­ na, la valutazione del rapporto dei Dialoghi con questi testi è mutata via via che appariva sempre più insostenibile il carattere “popolare” dei Dialoghi dal punto di vista sia del contenuto, sia dello stile letterario. Così dalle tesi di Dufourcq che riteneva i Dialoghi in forte sintonia, addirittura dipendenza e complementarietà rispetto ai Gesta martyrum, la ricerca è ora orientata a sottolineare le differenze di stile, di scopi, di contenuti, di

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cultura biblica e anche là dove entrambi narrano episodi simili, ciò sem­ bra dipendere dalla condivisione di tradizioni comuni più che costituire un ’accertabile dipendenza letteraria201. Se iI focus dei Dialoghi è l ’intreccio di virtutes e miracoli, i martiri “di sangue” - quelli passati di cui Roma custodiva i corpi e quelli contempo­ ranei - non potevano dunque avere un posto di rilievo in quest’opera. M odelli letterari di riferimento più pertinenti sono piuttosto le raccolte di Vitae patrum. In ambiente romano era disponibile la Vita di Pacomio tra­ dotta da Dionigi il Piccolo per Proba, la figlia di Simmaco; più in genera­ le il pubblico latino poteva rifarsi ai racconti sui padri del deserto di cui sono disseminate le Conferenze di Cassiano, agli Apophtegmata patrum latinorum, alla Storia dei monaci di Egitto, tradotta da Rufino di Aquileia, che, come ho già accennato, dava un grandissimo rilievo ai segni e mira­ coli, fino a fare del possesso di un particolare carisma il principio ordina­ tore del racconto202. A queste traduzioni si aggiungeva anche quella della Storia lausiaca di Palladio203. Durante la permanenza a Costantinopoli, Gregorio, sulla cui conoscenza della lingua greca ora nessuno più dubi­ ta204, potè aver avuto modo di conoscere le raccolte monastiche orientali e, in particolar modo, la Storia religiosa di Teodoreto di Cirro con cui sono ravvisabili paralleli precisi205. Queste raccolte, dedicate prevalente­ mente ad una regione, potevano suggerire l ’idea che anche l ’Italia ne meritasse una appositamente dedicata. E com e in quelle i luoghi dei viri Dei sono i deserti, le montagne, le campagne isolate, anche i Dialoghi pri­ vilegiano una cornice dell’azione prevalentemente non urbana. Attirando l ’attenzione sui patres italici Gregorio avra inteso colmare una lacuna tanto più visibile se confrontata con la vicina Gallia se si pensa che Gregorio di Tours nel 593 terminava l ’ambizioso programma agiografico, in gran parte celebrativo della Gallia, cominciato nel 576 con le prime Vitae patrum e proseguito con gli otto libri dedicati ai miracoli dei marti­ ri e dei confessori206.

195 Dialoghi 3, 26, 9. A. De Vogiié, «Martyrium in occulto». Le martyre du temps de paix chez Grégoire le Grand, Isidore de Séville et Valerius du Bierzo, in Fructus Centesimus, cit., pp. 125-140. 196 Dialoghi 3, 28, 2. 197 Boesch Gajano, Gregorio, cit., pp. 206-211. 198 A. Dufourcq, Étude sur les Gesta Martyrum romains, voli. 1-4, Paris 1900-1910; voi. 5, Roma

201 Analisi dettagliata, oltre che in Boesch Gajano, cit., in Petersen, cit., pp. 73-89. 202 Cfr. supra, p. 246. 203 J. Gribomont, Panorama des influences orientales sur l ’hagiographie latine, «Augustinianum» 24(1984), pp. 7-20; W. Berschin, Medioevo greco-latino da Gerolamo a Niccolò Cusano, tr. it. 1989, p p . 105-106; 115. . 204 Malgrado le affermazioni esplicite in senso contrario di Gregorio presenti nélVEpistolario (Ep 11, 55; 7, 29), ora attribuite a motivi di carattere politico: G.J.M. Bartelink, Pope Gregory thè Great’s Knòwledge ofGreek, in J.C. Cavadini (ed.), Gregory thè Great. A Symposium, Notre-Dame-

1988. 199 H. Delehaye, Elude sur le Légendier romain. Les saints de novembre et de décembre, Bruxelles 1936. 200 J. Petersen, The Dialogues of Gregory thè Great in their Late Antique Cultural Background, Toronto 1984, p. 65.

London 1995, pp. 117-136. . . . . 205 Tra cui le storie di Martino Teremita (Dialoghi 3, 16, 2) e Simeone lo stilita (Storia religiosa 26, 16, 2): elenco in Petersen, cit., pp. 181-188. 206 R. Godding, Il Liber vitae patrum di Gregorio di Tours e l ’origine dei Dialoghi di Gregorio Magno, in G. Luongo (ed.), Scrivere di santi. Atti del 2. Convegno di studio dell’Associazione italia­

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3.3. Cerehie di lettori mediatori «Dilectissimus filius meus Petrus diaconus»207, con queste parole Gregorio presenta il suo interlocutore; si tratta di una figura storica che, do­ po aver svolto per conto della Chiesa romana importanti incarichi am­ ministrativi in Sicilia e in Campania, ritornò a Roma e fu nominato diaco­ no, cioè alla carica amministrativa più importante della gerarchia ecclesia­ stica208. Gregorio dice anche che era legato a lui fin dalla prima giovinez­ za da un rapporto familiare e che era socius nello studio della Scrittura. Questi tratti non sono scelti a caso: chiunque nell’antichità avesse ricevu­ to una buona educazione retorica conosceva le regole della prosopopea che imponevano all’autore di rispettare il carattere del personaggio facendolo agire, pensare, parlare di conseguenza. Il cenno alla familiarità fra i due prepara il lettore a non scandalizzarsi davanti alla franchezza di alcune domande; il riferimento all’«investigatio» comune della Scrittura apre la strada alle tante richieste esegetiche di Pietro. Non è da trascurare il fatto che Gregorio abbia scelto come proprio interlocutore un uomo appartenen­ te alla gerarchia ecclesiastica, per dare - certo - rilievo ed autorevolezza al dipanarsi dell’azione, ma anche per indicare - attraverso un’opera che ri­ porta il dialogo fra un vescovo e il suo diacono —una cerchia preferenzia­ le di lettori: i chierici appunto che, com e ben dice la Boesch Gajano «il pontefice ritiene di dover convincere, com e forse prima ha convinto se stesso, della veridicità e del significato di quello che narra»209. La forma letteraria dell’opera in cui il racconto non era mai separato dalla sua inter­ pretazione suggeriva ai chierici non solo come potevano essere compresi i «nova miracula», ma anche contenuti e modelli pedagogici che si poteva­ no poi adottare e ripetere nella prassi pastorale. Il punto di vista non pote­ va che essere quello del chierico romano colto permeato dalla mentalità aristocratica del ceto di appartenenza. Si coglie nei Dialoghi il senso di su­ periorità riguardo ai laici di bassa condizione sociale21021, un senso di supe­ riorità che arriva a venarsi di disprezzo riguardo ai rustici21>. Il tema della «dotta ignoranza», così sottolineato nel caso di Benedetto212, è comprensi­ bile solo se chi scrive ha in mente una cerchia di lettori che ha bisogno di giustificazioni per accettare la piena dignità religiosa dell’illetterato. na per lo studio della santità, dei culti e deU’agiografia, Napoli, 22-25 ottobre 1997, Roma 1998, pp 107-128. 207 Dialoghi 1 ,1 ,2 . 208 pricoco, cit., p. 228. 209 Boesch Gajano, cit., p. 263. 210 Cfr. supra, p. 354, n. 195. 211 Boesch Gajano, cit., p. 258. 212 Cfr. supra, p. 343, n. 135.

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Per certi versi la lingua e lo stile dell’opera riflettono questa destina­ zione. Alla fine del prologo, Gregorio afferma di riportare fedelmente le testimonianze raccolte, ma di aver dovuto, in certi casi, limitarsi a ripor­ tare il senso dei racconti, non le parole stesse: «Se infatti avessi voluto riferire le parole di tutti, lo stile di chi scrive non avrebbe potuto adattar­ si a espressioni di uso popolare»213. L’analisi stilistica dei Dialoghi rivela in effetti che nel redigere l ’ope­ ra Gregorio non ha rinunciato ai mezzi espressivi tipici di uno stile lette­ rario colto214. Inoltre, quando Gregorio introduce un termine appartenen­ te al linguaggio popolare, sente il bisogno di scusarsi o di spiegarlo. Rea­ gendo a posizioni precedenti che consideravano i Dialoghi un’opera “po­ polare” nel contenuto, nell’espressione e nella destinazione, D e Vogué, ad esempio, è convinto che da un punto di vista letterario essi non siano per nulla inferiori agli altri scritti di Gregorio215. Ciononostante testimoni autorevoli della tradizione manoscritta - del resto così ampia che fino a questo punto nessuna delle edizioni critiche disponibili si basa su un esa­ me esaustivo di tutti i manoscritti - presentano numerose forme lessicali, morfologiche e sintattiche che si allontanano sia da un linguaggio colto, sia dalla correttezza grammaticale. Per risolvere questo rompicapo inter­ pretativo, l ’editore più recente - Manlio Simonetti - propone di prendere in considerazione l ’ipotesi che in certi casi Gregorio abbia voluto di pro­ posito usare un linguaggio “basso” «per adeguare anche la forma al con­ tenuto agiografico, certamente più “popolare” rispetto a quello delle altre sue opere»216. Salvo rare eccezioni, il livello culturale del clero ai tempi di Gregorio non era tale ormai da rendere superfluo tale adeguamento. Richiamare l ’attenzione sui «patres italici», cioè - con pochissime ec­ cezioni - sui monaci e sacerdoti che la perfezione ascetica ha reso meri­ tevoli di compiere miracoli, significava inoltre offrire un importante com ­ pletamento al Liber regulae pastoralis. Composto da Gregorio all inizio del suo pontificato (390/91) e rivolto in particolare ai vescovi, delineava il modello ideale del pastore. Ai Dialoghi veniva affidato, invece, il com ­ pito di mostrare e documentare la perfezione morale in azione incarnata da vescovi, sacerdoti e monaci contemporanei le cui virtutes - nel dupli­ ce senso del termine latino di virtù morali e miracoli - erano proposte all’imitazione e all’ammirazione. La presenza dei monaci - maggioritaria nei Dialoghi - completava il quadro istituzionale della Chiesa cui Gre213 Dialoghi 1, prol. 10. 214 Come ad esempio l’uso delle clausole: K. Brazzel, The Clausolae in thè Works o f St. Gregory

thè Great, Washington D.C. 1939. 215 De Vogiié, cit., SC 251, pp. 31-36. 216 Gregorio Magno, Storie di santi e diavoli, cit., p. lxxv.

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gorio intendeva sia proporre modelli di comportamento, sia restituire pre­ stigio e credibilità mediante l ’esaltazione della gesta di quei personaggi che nei tempi presenti ne rappresentavano la parte migliore. I Dialoghi richiamavano la Regola pastorale anche da un altro punto di vista: en­ trambi riflettono uno stesso cambiamento nella riflessione ormai secolare sulle qualità e prerogative della figura sacerdotale. I primi trattati - Il sa­ cerdozio di Giovanni Crisostomo, VApologetico di Gregorio Nazianzeno, I ministeri di Ambrogio, ne misero a fuoco l ’identità: requisiti, compiti, la posizione rispetto alle altre componenti della Chiesa. In seguito la rifles­ sione si focalizzò sul tema della comunicazione: a fare da apripista fu La catechesi dei principianti di Agostino (400), che si poneva il problema di come comunicare la fede a pubblici diversi per preparazione religiosa e culturale e suggeriva alcuni esempi pratici di discorsi da utilizzare secon­ do le circostanze; la Regola pastorale arrivò ad un grado di specializza­ zione comunicativa tale da prevedere un’ampia casistica di comportamen­ ti del pastore modulati sui differenti tipi di pubblico. I Dialoghi sono sulla stessa sintonia d ’onda: insegnare ad insegnare, mostrare come si dovesse dar credito ai miracoli autorevolmente certificati, alla luce di quali quadri teologici comprenderli, come si potevano utilizzare a sostegno dell’inse­ gnamento dottrinale e morale217, anche utilizzando un registro stilistico adatto alla materia.

CAPITOLO NONO

1. Un gruppo affiatato: i vescovi-monaci di Le'rins La descrizione entusiastica del monastero fondato da Martino a Marmoutiers conteneva anche un riferimento ai molti che, usciti da quel formidabile vivaio, erano diventati vescovi: «Infatti - si chiedeva Sulpicio Severo - quale città o chiesa non vorrebbe per sé un sacerdote uscito dal monastero di Martino?»1. È forse da ricollegare all’incerta fortuna di que­ sto santo nei decenni immediatamente successivi alla sua morte e ai gravi disordini legati all’invasione dei vandali il fatto che di costoro non cono­ sciamo che un nome: Eros, divenuto vescovo di Arles. Per buona parte della prima metà del v secolo la storia della cristianizzazione della Gallia è invece legata al centro monastico di Lérins da cui uscirono non meno di dodici vescovi che, dopo una permanenza in quel cenobio, andarono a go­ vernare le Chiese di Arles, di Troyes, Riez, Valence, Lione, Ginevra, Vence, Cimiez2. Sempre sulla costa mediterranea era stato fondato da Cassiano il monastero di S. Vittore di Marsiglia, anch’esso vivaio di vescovi; in tempi dominati dall’incertezza politica e militare il monastero divenne un porto sicuro e desiderabile per esponenti d ell’aristocrazia gallica e, insieme, un trampolino di lancio per altri incarichi prestigiosi3. Gli scritti e la spiritua­ lità del monacheSimo difeso da Cassiano furono di grande importanza per Lérins e la stima e l ’apprezzamento fu reciproca se Cassiano dedicò le sue Conferenze, oltre che a Leonzio, vescovo di Fréjus, anche ad Onorato, Eucherio ed Elladio monaci di Lérins. L’ideale di santità monastica di Cas­ siano ispirato all’umiltà, all’obbedienza, alla moderazione, alla messa in secondo piano della taumaturgia, all’esaltazione del monaco come vero 1 Vita di Martino 10, 8. ... _ 2 S. Pricoco, L'isola dei santi: il cenobio di Lerino e le origini del monacheSimo gallico, Roma 1978; R. Nouailhat, Saints et patrons. Les premiers moines de Le'rins, Paris 1988; R. Niimberg,

217 Un esempio di tale utilizzazione è fornito da Gregorio stesso nelle Omelie sui Vangeli, ove compaiono tredici racconti ripresi nel iv libro dei Dialoghi.

Askese als sozialer Impuls. Monastisch-asketische Spiritualitat als Wurzel und Triebfeder ^ f aler Ideen und Aktivitciten der Kirche in Sudgallien im 5. Jahrhundert, Borengasser-Bonn 1988; sul discorso agiografico: F.E. Consolino, Ascesi e mondanità nella Gallia tardoantica. Studi sulla figura del Vescovo nei secoli rv-vi, Napoli 1979. , , „ , 3 B. Beaujard, Le calte des saints en Caule. Les premiers temps. D ’Hilaire de Poitiers a la fin du vF siècle, Paris 2000, pp. 35-40.

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martire ha profondamente influenzato il discorso agiografico di coloro che erano stati formati o avevano conosciuto Onorato4. Il gruppo lerinese colpisce per la sua grande omogenità, in primo luo­ go, culturale: i loro scritti —non solo agiografici —rivelano il possesso di una cultura retorica e biblica approfondita; tutti arrivano a Lérins da luo­ ghi “altri” che spesso non ci è dato conoscere e gran parte di loro sono le­ gati - oltre che dall’esperienza comune monastica - da rapporti di paren­ tela e di amicizia. La «spettacolare proliferazione»5 del gruppo lerinese è stata sostenu­ ta da un’abbondante produzione di testi agiografici ove la celebrazione della figura dei fondatori si mescola alla celebrazione d ell’istituzione monastica attraverso la m essa a fuoco della sua spiritualità e della sua forma di vita67. 1.1 .L a Vita di Onorato di Arles Il testo più antico e fondamentale per ricostruire gli inizi del monache­ Simo lerinense è la Vita di Onorato di Arles1·, ne è autore Ilario, suo suc­ cessore sulla cattedra episcopale della stessa città. La Vita, per quanto verosimilmente ritoccata e rivista, ha alla base un discorso pronunciato in occasione della prima ricorrenza della morte di Onorato (431) di fronte al pubblico di fedeli; in una cornice liturgica, dunque, che vuole com m em o­ rare una vita esemplare, ma che, nello stesso tempo, reinterpreta e si pone su una linea di continuità con la pratica sociale imperiale della laudatio funebris degli illustres, degli alti funzionari, dei senatori come di altre per­ sonalità pubbliche, di significato e scopi eminentemente politici8, spesso di celebrazione della gens cui il defunto o la defunta apparteneva. Anche sotto questo profilo, come vedremo subito, il discorso di Ilario reinterpre­ ta una pratica sociale diffusa e attesa nel suo ambiente. N el momento in cui pronuncia l ’elogio, Ilario è un giovane vescovo di trent anni che deve la sua folgorante carriera —soltanto tre anni prima era il tipico figlio di buona famiglia, colto e spensierato con ambizioni seco­

4 Ibi, pp. 101-104. 5 Pricoco, L ’isola, cit., p. 11. 6 Profilo sintetico: R. Barcellona-S. Pricoco, Riflessioni per un itinerario agiografico: da Lerino a Gregorio Magno, in A. D egl’Innocenti-A. De Prisco-E. Paoli (eds.), Gregorio Magno e l'agiogra­ fia fra iv e vti secolo, Firenze 2007, pp. 107-136. 7 Hilaire d’Arles, Vie de Saint Honorat. Introduction, texte critique, traduction et notes par M D. Valentin (SC 235), Paris 1977. 8 M. Heinzelraann, Neue Aspekte der biographischen und hagiographischen Literatur in der lateìnischen W elt(l.-6. Jarhundert), in «Francia» 1(1973), p. 37.

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lari adatte al suo rango - proprio ad Onorato di cui è anche parente: que­ sto aspetto è fortemente rilevato già dall’inizio: «E non avrò timore che si possa pensare che io parli forse troppo favorevolmen­ te di uno dei m iei, perché, oltre al fatto che è im possibile dire qualche cosa di inferiore alle sue virtù, non c ’è nessuno che non lo annoveri fra i suoi, che non l ’abbia sentito e creduto suo»9.

La Vita di Onorato è un testo molto colto in senso secolare, agiografi­ co, biblico10. Ilario è consapevole di ciò che i presenti si apettavano da una laudatio ispirata ai valori cristiani. In essa il riferimento alla nobiltà della famiglia deve essere accompagnato da particolari precauzioni e Ilario si limita a fare soltanto un breve cenno alla nobilitas della sua famiglia «arri­ vata fino al consolato»11 per poi concentrarsi sulla «adolescentia» di Onorato, segnata dalla lotta contro la sua famiglia che si opponeva alla sua precoce vocazione religiosa e al battesimo. Con il battesimo Onorato assume, anche esteriormente, l ’aspetto di un asceta: si taglia i capelli, rifiuta gli abiti del suo rango e adotta i l pallium, l ’abito degli schiavi e dei filosofi che era già stato di Martino12; ai colori deH’incamato giovanile sebentra il pallor del digiuno, alla spensieratezza giovanile sostituisce la gravitas. Come nella Vita di Martino, il culmine della conversione coin­ cide con un episodio narrato con una decisa stilizzazione martiriale. La famiglia rifiuta la trasformazione di Onorato che lo ha reso estraneo ai suoi e pone in atto una «persecutio»: di qui la rivolta aperta del giovane che, riecheggiando le confessioni dei martiri, afferma di essere figlio di Dio padre13. Da questo momento (400?) inizia una nuova fase; il fratello maggiore Venanzio ne condivide la vita ascetica consacrata esclusivamente a Dio, in un primo tempo ancora in patria ove la loro conversatio - costituita da pratiche ascetiche, ma anche di insegnamento, di consolazione fisica e spirituale dei loro devoti tra cui anche i vescovi - è definita da Ilario una sorta di «privatus episcopatus»; la notazione è interessante perché serve a preparare il terreno per l ’episcopato vero di Onorato e perché suggerisce la forte connessione fra i due ruoli che è un tratto caratterizzante del grup­ po lerinese, com e lo era stato di Martino, ma rispetto a questi con una

9 Vita di Onorato 3, 3; richiama l ’attenzione sui legami di sangue anche in chiusura, cfr. infra, n. 10 Inventario di citazioni o riferimenti in Nouailhat, cit., pp. 56-59. 11 Vita di Onorato 4 ,2 . 12 Gallo 2, 3, 2. 13 Vita di Onorato 8, 4.

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forte valorizzazione del possesso di una cultura in grado di diffondere e sostenere gli ideali monastici. La sezione seguente (capp. 10-14) descrive il viaggio dei due fratelli, cui viene associato Caprasio come guida spirituale, verso 1O riente nel tentativo di sfuggire alla claritas - la fama raggiunta - e alla ricerca di santi da cui prendere esempio. Ma il viaggio termina in Grecia dove muore Venanzio e - dice Ilario - la provvidenza porta colui che «il desi­ derio del deserto» aveva sottratto alla patria al «deserto vicino alla nostra città». Siamo nei primissimi anni del 400 e Onorato rimarrà a Lérins fino al 427 o 428. Seguono i capitoli dedicati alla fondazione del monastero; l ’isola del minuscolo arcipelago di Lérins che ai nostri occhi appare com e un incan­ tevole e incontaminato angolo di paesaggio mediterraneo è descritta da Ilario - anche Gerolamo aveva descritto così l ’isola della costa dalmata scelta dall’amico e asceta Bonoso14 —come un luogo spaventoso, disabi­ tato, arido, abitato da serpenti. Onorato, in accordo con il vescovo di Fréjus, vi si installa e, unica concessione al meraviglioso in tutto il discor­ so, la sua venuta mette in fuga i serpenti e fa sgorgare l ’acqua; l ’isola fio­ risce di costruzioni: la chiesa e gli edifici destinati agli asceti provenienti dai luoghi più diversi15. Ma il discorso di Ilario trascorre rapidamente dal prodigioso allo spirituale e la trasformazione dell’isola è ritenuta segno della ben più decisiva trasformazione delle anime che avviene sotto la guida spirituale di Onorato che - diversamente da Circe capace di trasfor­ mare gli uomini in animali - riesce a trasformare belve in uomini attraver­ so la parola di Cristo16. Il filo cronologico si interrompe per lasciare spazio alle virtutes di Onorato, soprattutto come padre spirituale del monastero e per celebrarne le doti di scrittore (capp. 18-22)17. Ilario lo riprende subito dopo conce­ dendo spazio alle circostanze della propria conversione. Perché Onorato di cui Ilario ci ha narrato fin qui le lotte contro la famiglia, la vendita dei beni, l ’abbandono della patria, vi toma ad un certo punto per cercare di convincere proprio un suo parente a seguirlo nell’isola? Un Onorato - è da aggiungere - accostato ad Abramo per avere come lui abbandonato la patria, la casa e i parenti18? Ilario non lo dice e si limita a presentare l ’in­ tera vicenda com e un «merito» di Onorato e conseguenza della sua preoc­ cupazione per la salvezza spirituale di Ilario. Il giovane vescovo che, 14 Gerolamo, Epistola 3, 4. 15 Vita di Onorato 17, 4. 16 Vita di Onorato 17, 6. 17 Vita di Onorato 18-22. 18 Vita di Onorato 12, 2.

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diversamente da Onorato, non poteva vantare una lunga carriera monasti­ ca, è d ’altra parte consapevole che il suo racconto ha a che fare con il «iudicium»19 che i presenti hanno della degnità della sua persona ad occu­ pare quel ruolo istituzionale. Mettendosi sulla scia delle Confessioni di Agostino20, Ilario raffigura se stesso come un giovane colto e raffinato che aspira a godere delle gioie del secolo e che, in un primo assalto, resiste agli argomenti e alle lacrime di Onorato: «Vici pessima victoria» - escla­ ma Ilario citando Gerolamo21. E tuttavia, presto si realizza la profezia di Onorato che di fronte alla duritia di Ilario aveva affermato: «Ciò che tu non mi concedi, me lo concederà D io»22. Il dissidio interiore che Ilario descrive ispirandosi alle Confessioni è, in fondo, di breve durata, solo due giorni! Quando Cristo stesso si sostituisce ad Onorato nel chiamarlo alla conversione, Ilario cede: «È così, è così che la preghiera di un santo ripor­ ta i fuggitivi, mette il giogo agli ostinati»23. L’esaltazione del ruolo della grazia rivela l ’allineamento di Ilario sulle posizioni antipelagiane e, nello stesso tempo, riverbera su di lui la legitti­ mazione di una chiamata divina di cui la conversione e stata soltanto il primo passo e che è sfociata n ell’elezione all’episcopato di Ilario stesso24. Ancora la grazia è invocata per dare ragione dell’elezione episcopale di Onorato avvenuta nel 427 o 428: «Chi se non D io ha voluto 1 elezione di un uomo che veniva da così lontano e che era così poco conosciuto?»25. U n’elezione burrascosa, successiva all’assassinio del predecessore Pa­ troclo e di cui era ancora vivo il ricordo delle passioni e delle divisioni se, nelle breve sezione che Ilario dedica alle virtutes di Onorato vescovo, ne viene celebrato l ’operato in favore della concordia, e la dispensatio delle ricchezze frutto di donazioni che i suoi predecessori avevano ingiusta­ mente accumulato. Del resto, Ilario presenta la sua stessa elezione inseri­ ta nello stesso piano divino compiutosi attraverso un Onorato nesciens, espressione ripetuta due volte, quasi a voler allontanare e rendere poco significativo quanto di progettualità umana certamente vi dovette essere: «Lo vedo: è per voi infatti - dice Ilario rivolgendosi ai fedeli - che D io mi gene­ rò (cfr. 1 Cor 4,15) attraverso di lui, è per voi che egli mi ha preparato, malgrado la mia indegnità; è per voi che egli, senza saperlo, mi ha cercato con tante fati­

le Vita di Onorato 23, 2. 20 Consolino, Ascesi, cit., p. 58. 21 Vita di Onorato 23, 6; Gerolamo, Il monaco fuggitivo 3. 22 Vita di Onorato 23, 5. 23 Vita di Onorato 23, 7. 24 Vita di Onorato 36, 1. 25 Vita di Onorato 25, 2.

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che; è per voi che egli mi ha istruito in ogni modo con così vigile sollecitudine e cura, cercando in me e la vena della fede e quella del suo sangue; è per voi che si diede pena scrivendomi, allungando di molto il suo giro per venire a trovarmi, riuscendo - non oso dire senza saperlo - ma forse con prescienza, a farmi allon­ tanare dall’isola, alla quale ero tornato per amore del deserto, dopo averlo lascia­ to agli inizi del suo episcopato; tutto questo per darmi una patria nel vostro amore vicino al luogo della sua tomba»26. Nella lunga sezione (capp. 29-39) dedicata alla morte e alle esequie di Onorato, dopo i temi topici —i discorsi sul letto di morte, il trapasso sere­ no, la bellezza del suo volto, il cordoglio delle autorità presenti e di tutti i cittadini - Ilario riassume in breve gli elementi salienti della santità; una santità che non ha bisogno di miracoli: «Il tuo merito non ebbe bisogno di essere provato dai miracoli»; «tutta la tua vita è un perpetuimi signum» — esclama Ilario27 che arriva a sostenere che fu proprio Onorato a supplica­ re Cristo di non fare miracoli. Una santità, quella di Onorato, connotata dall'ortodossia dottrinale in materia trinitaria, dalla capacità di comunicarla efficacemente ai fedeli28 e, tratto fortemente insistito, strettamente legata al martirio d ell’ascesi, reinterpretata però in un modo che aspira ad apparire composta e integra­ bile nello schema classico della gravitas e del decus. Dal modo in cui Ilario tratteggia in breve l ’ascesi di Onorato indoviniamo il tentativo di combinare due estetiche diverse: quella aristocratica che non può pre­ scindere dai valori del decus, della misura e quella, ormai altrettanto potente, monastica che amava rappresentare il corpo d ell’asceta macera­ to e crocifisso: «La pace ha i suoi martiri. Tu infatti sei stato testimone di Cristo per tutto il tempo che hai dimorato nel corpo. Pur conservando la bellezza dei tratti, una croce quotidiana ha consumato lo stupendo vigore della tua adolescenza indebo­ lito dal continuo rigore dell’astinenza e ridotto alla magrezza che vediamo. Una croce che, tuttavia, sempre hai assunto senza esagerazioni degne di biasimo, fug­ gendo sempre gli eccessi e il desiderio di gloria che le accompagna»29.

26 27 28 29

Vita di Vita di Vita di Vita di

Onorato Onorato Onorato Onorato

36, 37, 38, 37,

2. 1.2. 3. 3.

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1.2. La Vita di Onorato letta e reinterpretata nel monastero Di quanche decennio successiva è l ’omelia dedicata allo stesso Ono­ rato, pronunciata da Fausto vescovo di Riez30. Di origine britannica, era arrivato a Lérins nel 424 e ne divenne in seguito abate fra il 433 e il 460. Fu vescovo di Riez a partire dal 460, dopo la morte di Massimo, anche questi un lerinese che aveva guidato il monastero subito dopo Onorato. Fu figura energica e influente all’interno del cristianesimo gallico, per esser­ si opposto coraggiosamente alle mire espansionistiche dei visigoti e per aver combattuto il loro arianesimo venne esiliato nel 476 e potè tornare a Riez solo nel 485, ove restò fino alla morte avvenuta ca dieci anni dopo. L’omelia di Fausto che risale verosimilmente verso la fine del suo periodo monastico è una laudatio pronunciata in occasione della ricorren­ za della morte del santo, ma qui il pubblico è costituito dai monaci e il testo offre spunti interessanti per cogliere come Onorato era visto e pro­ posto all’interno del cenobio. La laudatio di Fausto si basa sulla Vita di Onorato di Ilario cui fa espli­ cito riferimento come a un testo che i monaci conoscevano e leggevano e tuttavia la corregge o la propone sotto una diversa luce in più punti. Ilario aveva accennato a Caprasio com e al pater che aveva accompagnato Onorato e il fratello in Oriente, ma in seguito non aveva fatto cenno alla sua presenza e al ruolo da lui rivestito a Lerins. Fausto invece restituisce a Caprasio un ruolo importante nella fondazione del monastero, accostan­ do Onorato e Caprasio alle figure di M osé ed Aronne che portarono i figli di Israele fuori dall'Egitto e che li precedevano come le due colonne di fuoco, Fausto costruisce una collegialità decisionale fondata su una per­ fetta complementarietà di ruoli: entrambi governavano, ma l ’uno (Onorato) con il comando, l ’altro con il consiglio, l ’uno assolveva i com ­ piti pastorali, l ’altro viveva in solitudine dedito alla sola preghiera. Una preghiera che, come quella di M osé, aveva il potere di respingere 1 assal­ to di Amalec, cioè del diavolo, contro i monaci31. La valorizzazione della figura di Caprasio, al di là del ruolo effettivo rivestito nella fondazione e nella vita di Lérins32, serve a Fausto per collegare all’origine della storia del monacheSimo lerinense la vocazione contemplativa impersonata ap­ punto da Caprasio. 30 Fausto di Riez, In depositione sancii Honorati episcopi, CChL 101 A, ed. Fr. Glorie, Tumholti 1971, pp. 773-780; sulla figura complessiva: R. Barcellona, Fausto di Riez interprete del suo tempo. Un vescovo tardoantico dentro la crisi dell’impero, Soveria Mannelli 2006, pp. 151-160. 31 Omelia 5. 32 Fu comunque una figura importante: ne parlano anche Eucherio, Lode del deserto 42, e la Vita

di Ilario scritta da Onorato di Marsiglia.

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Dopo aver illustrato ai suoi monaci i punti essenziali dell’insegnamen­ to di Onorato - ortodossia, obbedienza, umiltà - Fausto passa a ricordare 1 industria di Onorato, cioè la sua attività. Anche qui è possibile notare uno scarto rispetto alla Vita di Onorato-, per quanto sobria riguardo ai miraco­ li, non c ’è dubbio che Ilario lasci trasparire un certo disagio, avvertibile sia nel modo insistito e iperbolico con cui giustifica tale mancanza33, sia dal risalto concesso ai prodigi dei serpenti e dell’acqua. Il richiamo di Fausto ai miracoli spirituali della conversione è molto più severo e, in qualche modo, sprezzante per coloro che invece ammirano quelli sensibili: «Ammettiamo che per alcuni la storia dei serpenti sia da ammirare: per noi inve­ ce sono altre le cose da ammirare e proclamare: le belve spirituali che riuscì a uccidere in questo luogo, dell’indole selvaggia di quanti orsi e lupi egli riuscì a trasformare la ferinità in nuova mansuetudine; di quanti addomesticò il leone del­ l ’ira e d ell’invidia»34.

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della rinuncia; il vescovo è Aronne per il suo sacerdozio, il monaco è M osè che introduce il suo popolo nel deserto e che gli dà i praecepta della regola apostolica, prendendoli dalla regola dei padri egiziani38. La laudatio di Onorato è per Fausto un’occasione per focalizzare la meditazione dei suoi monaci sulle figure dei fondatori e concentrare la loro attenzione su quanto restava di loro a\Yinterno all istituzione mona­ stica e poteva alimentare la loro spiritualità, senza per questo volere allu­ dere ad una concorrenza fra monastero ed episcopato; questo aspetto è estraneo allo spirito lerinese soprattutto nel caso in cui l ’episcopato si radicasse nell’eperienza monastica e a questa rimanesse fedele, come era stato il caso di Onorato, oppure di Massimo prima abate e poi vescovo cui Fausto, suo successore nell’una e nell’altra carica, dedica un altro panegi­ rico che esalta appunto la figura del m onaco-vescovo39. 1.3. «Arbor paradisi fecunda»: la Vita di Ilario di Onorato di Marsiglia

Ilario aveva attribuito un grande rilievo alla presenza in Arles della tomba di Onorato: egli ringraziava Dio di avergli concesso con l ’elezione all’episcopato il dono di rimanere vicino alla sua tomba35; la grada che ne proveniva ispirava fiducia nei fedeli: «Siamo assolutamente certi del pa­ tronato celeste di colui le cui ossa abbiamo seppellito in questo luogo»36. Le parole di Fausto vanno in tutt’altra direzione: «Non dobbiamo credere, carissimi fratelli, che di lui possediam o meno, in quan­ to la città di Arles ha rivendicato a sé il pegno del suo sacro corpo. Si tengano pure il tabernacolo della sua anima presente nelle sue ceneri, noi possediam o la sua stessa anima presente nelle sue virtù: si tengano le ossa, noi i meriti; pensia­ m o che presso di loro sia rimasto ciò che appartiene alla terra, noi sforziam oci a tenere con noi ciò che appartiene al cielo (...), si prendano costoro ciò che è chiu­ so dentro la tomba, noi ciò che è racchiuso dal paradiso»37.

Il rapporto fra l ’Onorato vescovo di Arles e l ’Onorato fondatore di Lérins si sviluppa poi in un modo che lascia intravedere come Fausto con­ cepiva il rapporto fra le due istituzioni: entrambi sono «vigna di Cristo», ma il monastero ne costituisce il fondamento, l ’episcopato la sommità; il vescovo è Giacobbe per i meriti pastorali, il monaco è Abramo che, per aver abbandonato la sua terra e la sua gente, è modello della perfezione 33 Cfr. supra, p. 362. 34 Omelia 8. 35 Vita di Onorato 36, 1 e supra, n. 26. 36 Vita di Onorato 35, 4. 37 Vita di Onorato 72, 12.

Nella breve notizia dedicatagli da Gennadio40, Onorato è descritto come predicatore eloquente e scrittore di vite di santi, tra cui appunto la Vita di Ilario “nutritoris sui”41. Prima di diventare vescovo, Onorato è stato monaco, forse nel monastero che Ilario volle subito fondare ad Ar­ les42, come sembra di poter dedurre da alcuni dettagli relativi a quel monastero e alla regola che vi si rispettava riportati nella stessa Vita43. Redatta fra il 470 e il 480, quando Onorato era già vescovo, la Vita di Ilario, rivela, pur in tono minore, anche nel suo autore la conoscenza dei mezzi espressivi della retorica. Come la Vita di Onorato, si presenta come un encom io44 pronunciato alla presenza di domini e pontifices45\ tuttavia, il frequente ricorso a lunghe citazioni della Vita di Onorato di Ilario e di altri autori fanno pensare ad un intento più apologetico che veramente celebrativo, ad uno scritto concepito per la lettura e presentato come un discorso, più che a un discorso veramente pronunciato46. Dichiara nel pro-

38 Ibidem. 39 Fausto di Riez, Homilia de sancto Maximo episcopo et abbate, CChL 101, ed. Fr. Glorie, Turnholti 1970, pp. 401-412; su questo Barcellona-Pricoco, Riflessioni, cit., pp. 123-127. 40 Gli uomini illustri 100; la discussione sull’identità d ell’autore della Vita in Honorat de Marseille, La vie d ’Hilaire d'Arles, texte latin de S. Cavallin, introduction, traduction et notes par P.-A. Jacob (SC 404), Paris 1995, pp. 11-23. 41 Vita di Ilario 2. 42 Vita di Ilario 10. 43 Vita di Ilario 11.20. 44 Vita di Ilario 33. 45 Vita di Ilario 1. 46 Berschin, Biographie, cit., Bd. i, p. 247.

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logo di voler narrare «la vita di Ilario, mio proprio padre, monaco ecce­ zionale, vescovo eminente, maestro eccellente». Il racconto segue coeren­ temente questo programma dando però alle diverse fasi della vita di Bario rilievo diverso: 5 capp. (capp. 3-7) alla conversione; un solo cap. al mona­ co; ben 17 al vescovo (capp. 9-25). Dopo un prologo (capp. 1-2) contenente le solite dichiarazioni di mo­ destia, Onorato, che evidentemente non sa o non vuole aggiungere nulla alla parte autobiografica della Vita di Bario, apre il suo racconto con la conversione; ne riprende testualmente le parole, ma introduce alcune pre­ cisazioni che lasciano trapelare l ’intento di sottolineare l ’ortodossia di Bario sul problema della grazia. Per esempio alla frase di Bario - «In sua assenza (se. di Onorato), Cristo conduce a termine in me la sua parte e, due giorni dopo, con le preghiere di Onorato la mia ostinazione è soggio­ gata grazie alla misericordia di Dio»47, Onorato sente il bisogno di preci­ sare: «La grazia divina precede l ’arbitrio dell’uomo e lo cambia in me­ glio»48. Con la morte di Agostino, il contrasto che si era creato fra la sua dottrina della predestinazione e i monaci di Lérins si era assopito; ma la questione era tornata a riaccendersi a causa di Lucido, un sacerdote di Riez (condannato nel Concilio di Arles del 472), sostenitore di un rigido predestinazionismo. Contro di lui era intervenuto Fausto di Riez che, pur tenendo fermo il ruolo preminente della grazia, lasciava un certo margine alla libera iniziativa deB’uomo49. Un altro passaggio problematico era costituito dall’elezione all’episco­ pato di Bario. Nella Vita di Onorato, Bario aveva riservato uno spazio notevole al racconto degli ultimi momenti del suo maestro. Pur ritaglian­ do per sé un ruolo importante nelle diverse fasi del suo trapasso, Bario aveva presentato la sua elezione non com e frutto della designazione di Onorato, ma com e espressione della volontà di Dio fatta propria dai fede­ li davanti ai quali pronunciava il suo discorso: «Dio amorevole, spronan­ dovi ad eleggermi malgrado la mia pochezza mi ha concesso di non allon­ tanarmi dalla sua tomba50». A circa cinquant’anni dall’avvenimento, Onorato offre d ell’elezione di Bario un racconto più ricco di informazio­ ni e con ampie concessioni al meraviglioso. Onorato di Arles, cedendo alle insistenze dei presenti, sul punto di morte avrebbe indicato con il dito come suo successore Bario; questi però fugge «ad heremi secreta», ma la potenza divina repente infiamma l ’animo di Cassio, forse magister mili-

47 Ilario, Vita di Onorato 23, 7; per il contesto cfr. supra, pp. 362-363. 48 Vita di Ilario 6; cfr. Jacob, SC 404, cit., p. 42. 49 Barcellona, Fausto, cit., pp. 39 ss. 50 Ilario di Arles, Vita di Onorato 36, 1.

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tum e lo spinge a braccare Bario come “spiritalis praeda” fino a catturar­ lo. Bario però non si rassegna ad accettare la carica prima di aver ottenu­ to un segno della volontà divina in proposito. Ed esso infallibilmente arri­ va sotto forma di una candida colomba che resta posata sul suo capo manifestando a tutti la dignità del futuro vescovo. Il racconto ricorda l ’elezione di Ambrogio con cui ha in comune la fuga; il nascondimento; l ’intervento d ell’autorità; l ’accostamento con epi­ sodi evangelici (là il processo, qui il battesimo) che suggeriscono l ’assi­ milazione del santo a Cristo; il battesimo e la consacrazione sacerdotale immediatamente precedenti all’elezione vescovile. Nel narrare della co­ lomba, personificazione dello Spirito Santo, Onorato si è forse ricordato dell’episodio simile narrato da Paolino di Milano51. Con un linguaggio mitologizzante e a tratti ambiguo, Onorato tenta di rendere canonicamen­ te accettabile un’elezione che non lo era né nelle premesse - i canoni vie­ tavano la designazione di parenti; inoltre Bario, al momento dell’elezione, non era ancora sacerdote e, per di più, era estraneo alla Chiesa di Arles — né nella situazione concreta52. Dalla pagine dedicate al periodo episcopale emerge il ritratto di un vescovo intraprendente ed autoritario. Gli infiniti storici ripetuti con insi­ stenza in un sommario della sua attività: «instituere monasteria, aedifica­ re tempia, digna sacerdotia consecrare (...) Suscipere orphanos, confirma­ re monachos, accersire saeculares, institutione sua pontifìces ordinare»53 rendono bene l ’idea di una progressione che non si ferma davanti a nes­ sun ostacolo. Rigidus, terribilis con i superbi e i vanagloriosi Bario era umilissimo con i perfetti. E a dimostrazione di questo, Onorato alterna racconti di miracoli che illustrano l ’uno o l ’altro aspetto: miracoli puniti­ vi com e l ’incendio di una parte di Arles per punire comportamenti inade­ guati della popolazione durante le liturgie54 seguiti dal racconto di un altro miracolo ove Onorato guarisce il diacono Cirillo offrendosi di prendere su di sé la sua sofferenza55. I miracoli - di guarigione, discernimento, profezia - sono una presen­ za importante all’interno di questa vita: un elemento di novità rispetto alla tradizione agiografica lerinese più antica con cui comunque si ricerca con-

51 Cfr. supra, p. 323. 52 Da una frase per noi ambigua (Vita di Ilario 9), ma il cui significato doveva apparire chiaro ai contemporanei, si comprende che, per occupare la sede di Arles, Ilario dovette scacciare un vescovo precedente: cfr. Jacob, SC 404, cit., p. 109. 53 Vita di Ilario 11 «Fondava monasteri, costruiva chiese, consacrava degni sacerdoti (...) A c­ coglieva gli orfani, incoraggiava i monaci, convocava i laici, nominava vescovi formati da lui». 54 Vita di Ilario 16-20. 55 Vita di Ilario 20.

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sapevolmente un punto di contatto là dove si fa menzione della guarigio­ ne deH’“uomo interiore” prima e accanto a quella del corpo di una donna cieca56, ma in linea con il modello episcopale carismatico della Vita di Ambrogio, seguita anche nel modo in cui viene raccontata l ’indipendenza e il coraggio di Ilario rispetto alle autorità secolari. Mutatis mutandis, il vescovo di Arles che sospende la celebrazione eucaristica quando nella Chiesa entra il prefetto seguito dai suoi ufficiali, un prefetto che egli sape­ va in stato di peccato, ricorda l ’episodio analogo riguardante Ambrogio e l ’Imperatore Teodosio57. L’attaccamento ai doveri episcopali - soprattutto alla predicazione - è fortemente sottolineato: è interessante notare che fra i meriti episcopali viene lodata la capacità di saper parlare in modo efficace a pubblici diver­ si: ai «corda rusticorum» com e alle persone istruite. Segno della ricezio­ ne agiografica di un tema che, per quanto già presente nella predicazione cristiana dei primi secoli, nella chiesa tardoantica diventa con Agostino oggetto di una trattatistica apposita. Non è un caso se, poco più sotto, il termine di paragone dell’eloquenza di Ilario è proprio Agostino: «Si Augustinus post te fuisset, iudicaretur inferior»58. La Vita di Onorato conserva, diversamente dal modello episcopale am­ brosiano, una forte impronta monastica: Onorato torna più volte su que­ sto aspetto59: i digiuni, l ’aspetto emaciato, le veglie, le preghiere e - trat­ to specifico - il lavoro: «Dopo aver preparato sedia e tavola, venivano portati il libro e le reti in presen­ za di un segretario. Il libro nutriva fiamma, la mano correva nell’intrecciare velo­ cemente le maglie; le dita del segretario si muovevano all’unisono e l ’occhio per­ correva la pagina»60.

Reti al posto dei cesti, un vescovo che legge, detta e rilegge61 al posto del monaco che recita a memoria i Salmi, un notarius al posto del giova­ ne monaco figlio spirituale: nulla meglio di questa scena racconta il senso di attaccamento e di discepolanza spirituale che questo vescovo-asceta nutriva riguardo ai padri egiziani. N ello stesso tempo, non potrebbe esse­ re più eloquente sull’effetto quasi surreale causato dal trasporto di quel­ l ’ideale in un episcopio della Gallia del v secolo e più illuminante riguar­

56 Vita di Ilario 16. 57 Vita di Ilario 13 e supra, p. 324. 58 Vita di Ilario 14. 59 Vita dì Ilario 23.24. 60 Vita di Ilario 15. 61 Come viene aggiunto subito dopo.

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do all’ostilità che tale trasposizione suscitava fra i vescovi occidentali. Il pontefice romano Celestino, nel 428, si fece portavoce di tali critiche sca­ gliandosi contro coloro che «hanno portato con sé nella Chiesa quelle cose che avevano osservato in un altro genere di vita» e che «vestiti di pal­ lio e con la cintura ai fianchi credono di essere fedeli alla Scrittura non nello spirito ma secondo la lettera». È uno stile di vita condiviso da tanti vescovi della Gallia - aggiunge il Papa - mentre «noi (se. i vescovi) dob­ biamo distinguerci dal popolo e da tutti gli altri, per la dottrina, non per l ’abito, per la condotta, non per il modo di vestire, per la purezza della mente, non per il modo di vivere»62. Quando Onorato scrive, qualche decennio dopo, questo modello di episcopato monastico doveva essere ancor meno compreso se prima di descrivere la scena, Onorato ne previe­ ne l ’effetto sui suoi lettori dichiarando di stare per raccontare inaudita e se, durante il racconto della visita di Ilario a Caprasio a Lérins, Onorato tiene a sottolineare con un aneddoto 1’ abilità di Ilario di esaltare in quel­ la circostanza «sacerdotii dignitatem»63. Nella Vita di Ilario l ’intento apologetico accompagna come un sotto­ fondo la laudatio; questo è avvertibile chiaramente già nel coro di testimo­ nianze illustri e favorevoli che Onorato mette in campo più volte per dimo­ strare l ’affidabilità del suo racconto. Si tratta di una cerchia di retori e poeti artesiani che avevano conosciuto e celebrato le virtù di Ilario, cui si aggiun­ ge l ’autorevole voce di Eucherio, monaco e vescovo di raffinata cultura. E l ’intento apologetico è ancora più avvertibile nei capitoli dedicati all’epi­ sodio più spinoso, cioè, allo scontro con il pontefice romano Leone a seguito della deposizione di due vescovi Chelidonio di Besangon e Proiecto e della loro sostituzione con altri due vescovi scelti da Ilario64. Su questo affaire esiste una cospicua documentazione da cui emerge con chia­ rezza sia la fondatezza delle accuse rivolte ad Ilario di essersi arrogato diritti che non aveva sia il tentativo da parte del pontefice romano di riaf­ fermare le prerogative della sede romana sulla Gallia, anche ricorrendo al braccio secolare65. Con un uso sapiente del chiaroscuro che lascia in un cono d ’ombra gli aspetti più discutibili, Onorato cerca di presentare Ilario come il difensore della dignità e purezza del sacerdozio contro ogni com ­ promesso. E strettamente connessa a tale chiave di lettura della figura di Ilario è la visione premonitrice della sua morte: egli si vede celebrare i 62 Epistola ai vescovi di Vienne e Narbona 4, 1, 2 cfr. commento e traduzione in T. Sardella-C. D ell’Osso (eds.), Decretali, concili romani e canoni di Serdica, in A. Di Beradino (ed.), I canoni della Chiesa antica , voi. π, 1, Roma 2008, p. 167. 63 Vita di Ilario 12. 64 Vita di Ilario 21. 65 Consolino, Ascesi, cit., p. 66.

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misteri vestito con i magnifici abiti sacerdotali di Aronne66. Una tradizio­ ne esegetica già molto antica vedeva nello splendore e ricchezza di questi abiti l ’allegoria delle virtù sacerdotali: Ilario- Aronne è il tipo del perfetto sacerdote. Nella stessa visione, Ilario vede Ravennio, suo figlio spirituale, avvicinarsi allo stesso altare per celebrare i misteri: riconosce dunque in lui il suo successore e capisce che è arrivata la sua ora. Nella descrizione della morte, dei lunghi discorsi edificanti che l ’accompagnano, del cordoglio vivissim o dei suoi fedeli che l ’assolvono dall’«ingiusta accusa»67, Onorato celebra ancora una volta Ilario come «arbor paradisi fecunda»68 i cui doni sono visibili in diversi luoghi nei vescovi e nei sacerdoti che ha formato e consacrato: da parte di Onorato, anch’egli suo discepolo e vescovo, una dichiarazione orgogliosa di appartenenza ad una scuola e ad una posterità spirituale e la proclamazione del diritto a conquistare la supremazia visibi­ le dopo aver raggiunto quella spirituale e culturale. 1.4. Martiri romani e culto delle reliquie: Eucherio di Lione Nei testi fin qui considerati, una solidissima catena di santità lega il monaco, il vescovo e il martire; non stupisce quindi che ad un altro lerinese dobbiamo la Passione dei martiri di Agaune69, una passione molto diversa da quelle che si continuavano a comporre sull’onda dello svilup­ po del culto dei martiri in tutto l ’Impero, caratterizzate dall'enfatizzazio­ ne dei supplizi dei martiri e infarcite di eventi meravigliosi. L’autore è Eucherio di Lione «Uom o di grandissimo merito e di ingegno acutissimo, ricolmo di scienza, fiume di eloquenza, di molto superiore ai grandi vescovi del suo tempo», come lo definisce Claudiano Mamerto70, altro esponente di quella raffinata cultura gallica che caratterizza ancora, pur tra mille difficoltà dovute al declino d ell’organizzazione imperiale del­ l ’insegnamento superiore, la Gallia della seconda metà del v secolo. Eucherio era arrivato al cenobio di Lérins, poco dopo la fondazione, accompagnato dalla moglie Galla e dai due figli, anch’essi destinati a ll’episcopato. Si installò con la famiglia nell’isola più piccola di Lero e, dopo aver accarezzato l ’idea di recarsi presso i grandi asceti d ell’Egitto, rimase fra i monaci lerinesi fino alla sua nomina a vescovo di Lione avve-

66 Vita di Ilario 25. 67 Vita di Ilario 28. 68 Vita dì Ilario 30. 69 Utilizzo l ’edizione: Passio Acaunensium Martyrum , in Passiones Vitaeque Sanctorum aevi merovingici, edidit B. Krusch (MGH, SRM in), Berlin 1896, pp. 20-41. 70 Lo stato dell'anima 2,9.

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nuta prima del 441. Appartenente ad un ceto sociale molto elevato71, Eucherio si dedicò alla diffusione dell’ideale monastico componendo opere di carattere ascetico —Lode del deserto ; Il disprezzo del mondo — che ebbero una larga diffusione. La Passione racconta del martirio di una legione romana - la legione tebea - composta da 6600 uomini che preferirono essere uccisi piuttosto che levare le armi contro i cristiani com e era stato ordinato dall’Impe­ ratore Massimiano. Secondo il racconto di Eucherio i fatti sarebbero avvenuti, dunque, durante la persecuzione di Diocleziano. I problemi sto­ rici e filologici sollevati dalla Passio sono numerososissimi; nella lettera che in alcuni manoscritti l ’accompagna, indirizzata ad un vescovo Silvio o Salvio non altrimenti conosciuto, Eucherio afferma di considerarla un’offerta ai martiri che da luoghi e province diversi già ricevevano dai fedeli offerte in oro e in argento. Si trattava, quindi, di un culto già noto di martiri le cui vicende fino a quel momento erano state tramandate oralmente. Infatti Eucherio afferma di aver raccolto le notizie «ab idoneis auctoribus»72 che affermavano a loro volta di averle ricevute dal vescovo Isacco di Ginevra che le avrebbe apprese da Teodoro, il primo vescovo di Octodurum (Martigny), nel cui territorio si trovava appunto il luogo del martirio della legione romana. Alla fine della Passio, si dice inoltre che il ritrovamento dei corpi avvenne quasi un secolo dopo, in seguito a una rivelazione a Teodoro73 che fece costruire sul luogo un chiesa. Di Teodoro sappiamo che fu un vescovo contemporaneo di Ambrogio cui dobbiamo altri ritrovamenti di corpi martiri più famosi: Gervasio, Protasio, Vitale e Agricola, Nazario74. Contemporaneo di Teodoro era anche Vittricio vescovo di Rouen, che fece molto per diffondere il culto delle reliquie dei martiri75. L’inventio di Teodoro si colloca nel quadro della diffusione del culto dei martiri com e vettore di cristianizzazione delle regioni settentrionali e alpine della Gallia che fino a quel momento erano rimaste ai margini. M eno evidente è il motivo per cui un vescovo lionese prese l ’iniziati­ va di raccontarne le vicende76. È possibile che a richiamare l ’attenzione sui martiri tebei avesse contribuito proprio il figlio di Eucherio, Salonio,

71 Sulle ipotesi della sua appartenenza al ceto senatorio: Pricoco, L’isola, cit., pp. 46-47. 72 Krusch, cit., pp. 39-40. 73 Passione dei martiri di Agauno 16. 74 Paolino di Milano, Vita di Ambrogio 14. 29.32. 75 A Vittricio dobbiamo il trattato La lode dei santi che tenta una teologia delle reliquie: Beaujard, cit., pp. 61-72. 76 Eucherio non fa riferimento alla Passio come adempimento di una richiesta fattagli da qual­ cuno.

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che era vescovo di Ginevra nello stesso periodo, successore di quel1 Isacco già nominato. La Chiesa di Ginevra era depositaria di memorie relative a quei martiri e interessata a trovare un talento letterario in grado di valorizzarli e di imporli all’attenzione; un’iniziativa imitata da altri vescovi della Gallia che ricorsero alla penna di illustri letterati per scri­ vere o riscrivere vite di santi in grado di rivitalizzare un culto, come il caso di Martino insegna77. Il portavoce di questa «angelica legio» - il pri­ micerio Maurizio - fa una confessione di fede in D io padre creatore di tutte le cose e nella divinità del Figlio. La necessità di legare i martiri alla confessione nicena potrebbe avere di mira la situazione concreta creata­ si dalla conquista della Sabaudia da parte dei burgundi ariani78. Ho già accennato all’originalità della Passione di Eucherio nel quadro più vasto della produzione di passioni “epiche” i cui caratteri generali sono stati così bene descritti dal Delehaye79. La Passione dei martiri di Agaune contiene spunti di originalità anche se giudicata sullo sfondo della tipologia specifica delle Passioni militari80. Prudenzio, ad esempio, solo pochi decenni prima, aveva narrato nel Peristephanon la passione di due martiri militari: Emerito e Chelidonio della legio gemina di stanza in Spagna che vengono uccisi per aver rigettato i vessilli imperiali a causa della fede81. Come nel caso dei martiri di Agauno, anche di questo marti­ rio non c ’era memoria scritta, in quanto gli Atti - dice Prudenzio - erano andati perduti. Il poeta, della cui lealtà riguardo all’Impero non si può dubitare, celebra il loro coraggio declinando il racconto secondo lo sche­ ma tradizionale in cui il rifiuto del sacrificio agli dèi si accompagnava all’obiezione di coscienza derivante dall’ostilità nei confronti del servizio militare, soprattutto perché richiedeva l ’uccisione dei nemici. Quando l ’Impero divenne cristiano e sempre pù gravemente esposto alle invasioni barbariche, tali posizioni si mitigarono pur conservando l ’antico divieto per i chierici e per i monaci82 e pur continuando il servizio militare ad essere fonte di imbarazzo e di censure quando si dovesse dimostrare la santità del personaggio in gioco83. Eucherio, invece, presenta la vicenda di Maurizio e dei suoi compagni in una luce diversa e più adatta a riflet­ tere sia il mutato atteggiamento della Chiesa sia l ’estrema difficoltà dei

77 Cfr. infra, p. 412. 78 Beaujard, cit., p. 112. 79 Cfr. supra, p. 52. 80 Pricoco, cit., pp. 222-244. 81 Prudenzio, Peristephanon 1. 82 E. Pucciarelli (ed.), I cristiani e il servizio militare. Testimonianze dei primi tre secoli, Firenze 1987, pp. 3-67. 83 Cfr. supra, p. 215.

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tempi. È quanto emerge dal discorso che Maurizio pronuncia davanti a Massimiano; accanto ai temi tradizionali dell’obbedienza a ll’autorirà imperiale condizionata dalla superiore obbedienza dovuta a D io, Eucherio mette in bocca al legionario anche una valutazione positiva del mestiere delle armi nella difesa dello Stato: «Questa nostra destra sa combattere contro gli empi e i nem ici, non sa strazia­ re i pii e i cittadini. N oi ricordiamo di aver preso le armi a difesa dei cittadini e non contro di loro. Abbiamo sempre combattuto per la giustizia, per la pietà, per la salvezza degli innocenti e fino ad ora è stata questa la ricom pensa per i pericoli»84.

Mentre nelle Passioni militari è frequente la scena del soldato che mentre confessa la fede getta le armi, dalla pagina di Eucherio emerge Γimmagine del legionario che fino all’ultimo rifiuta di apparire come un rebellis: «E ora non ci spinge alla ribellione neppure l ’estremo bisogno della vita, non ci ha armato contro di te, o imperatore, neppure quella disperazione che nei perico­ li dà luogo ad una forza immensa. Ecco abbiamo in mano le armi e non resistia­ mo, perché preferiamo morire piuttosto che uccidere, morire innocenti piuttosto che vivere colpevoli»85.

Questi aspetti della Passione di Eucherio sono tanto più significativi di una sua intenzionalità precisa in quanto la tradizione ci ha tramandato una recensione anonima della stessa Passione, denominata convenzionalmen­ te X dall’editore Krusch e biforcata in due rami principali X (1) e X (2) e che riproduce la Passio eucheriana soltanto nell’ultima parte (capp. 1319)86; merito del Dupraz87 è di aver dimostrato che non si tratta di una riscrittura, ma di una nuova com posizione che utilizza una tradizione diversa da quella di Eucherio. Sull’aspetto che ci interessa la Passio ano­ nima, successiva a quella di Eucherio e attribuibile ad un membro del clero di Agaune, dà una versione diversa dei motivi del massacro della Legione. La Passio anonima situa il martirio dei Tebei nel contesto della rivolta dei bagaudi contro i romani; convocati da Massimiano ad Octodurum e obbligati a fare un giuramento solenne che implicava sacrifici agli dèi, i soldati si rifiutarono e per questo furono massacrati. N egli anni

84 Passione 9. 85 Passione 9. 86 Krusch, cit., pp. 26-28. 87 L. Dupraz, Les Passions de S. Maurice d ’Agaune, Fribourg 1961.

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in cui Eucherio scriveva la sua Passio, i bagaudi, le cui fila erano alimen­ tate da popolazioni locali immiserite dal disordine politico e dal fiscali­ smo oppressivo, malgrado le sconfitte subite negli scontri frontali con l ’esercito imperiale, rimanevano attivi con azioni di guerriglia nell’arco alpino e continuavano a rappresentare una minaccia sia per i latifondisti romani, sia per i nuovi padroni germanici, i burgundi88. Nel racconto di Eucherio i bagaudi spariscono; così Maurizio e suoi compagni possono apparire senza alcuna ambiguità baluardo armato con­ tro i nemici e difesori dei cives e, nello stesso tempo, testimoni coraggio­ si della fede cristiana. La Passione di Eucherio termina con il racconto di due miracoli avve­ nuti nella chiesa costruita da Teodoro, uno di guarigione di una «mater familias» di casato illustre e l ’altro, di punizione, riguardante un operaio pagano impegnato nella costruzione della chiesa. Da questo punto di vista, la Passione di Eucherio rompe con il tradizionale riserbo lerinense riguardo al taumaturgico e inaugura una tendenza sempre più evidente nei successivi testi agiografici. 2. La Vita di Germano di Auxerre di Costanzo di Lione Su Costanzo, presbitero della Chiesa di Lione, abbiamo poche notizie. Fu certamente una figura di alto profilo culturale se un vescovo e lettera­ to raffinato come Sidonio Apollinare lo riteneva un eccellente poeta89, un abile oratore90, un profondo conoscitore della Bibbia91. Sidonio lo definifisce «dominus maior», appellativo che può esprimere l ’omaggio di un allievo al proprio maestro. È ancora a Sidonio che dobbiamo l ’unica data sicura che lo riguarda: il 475, quando già anziano Costanzo si recò in aiuto di Sidonio a Clermont, ove la sua presenza riuscì a calmare i fedeli provati dall’assedio dei Goti di Eurico. La sua formazione sacerdotale avvenne sotto la guida di Eucherio e questo gli consentì certamente di partecipare all’ambiente di alto profilo culturale di quella Chiesa. Godette di grande considerazione anche da parte del successore di Eucherio - Paziente - che si avvalse d ell’abilità poetica di Costanzo per realizzare le epigrafi che avrebbero ornato l ’al88 Per una nuova interpretazione: cfr. R. Van Dam, Leadership and Community in Late Antique Gaul, Berkeley-Los Angeles-London 1985, pp. 25-56; L. Cracco Ruggini, Bagaudi e santi innocen­ ti: un'avventura fra demonizzazione e martirio, in E. Gabba (ed,), Tria corda. Scritti in onore di Arnaldo Momigliano, Como 1983, pp. 137-140. 89 Sidonio Apollinare, Lettera 2, 10, 3. 90 Lettera 9, 16, 1. 91 Lettera 7, 18, 4.

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tare della chiesa di Lione. Lo stesso Paziente «ordinò» a Costanzo di redigere la Vita di Germano92', Vita che, per volere del vescovo Censurio di Auxerre, in un secondo momento e forse in forma più ampia, venne fatta circolare anche al di fuori dall’ambiente lionese, come apprendiamo dalle due lettere indirizzate ai vescovi che precedono la Vita. La ricerca­ tezza letteraria della Vita Germani riflette il suo radicadimento in questa cerchia colta di vescovi che ne stimolarono la stesura e ne sono i primi destinatari93. La stessa doppia committenza di Paziente e Censurio lascia indovinare fra le due sedi rapporti piuttosto stretti che risalivano all’am­ biente lerinese94. La Vita Germani conobbe un grande successo: ispirò la Vita di Epi­ fanio e la Vita di Radegonda di Venanzio Fortunato. Altri agiografi, meno abili ne copiarono interi capitoli adattandoli ad altri santi, e si pensò, ad un certo punto, di fame una versione in versi com e era in uso in quel periodo95. Costanzo la compone fra il 480 e il 494, a qualche decennio di distanza dalla morte di Germano avvenuta nel 448. A differenza delle altre Vite vescovili uscite dalla cerchia di intimi o discepoli, Costanzo non aveva conosciuto il suo eroe e, cosa piuttosto rara per un agiografo, non dichiara quali siano state le sue fonti ed è avarissimo di riferimenti crono­ logici assoluti. Costruisce il suo racconto con metodo procedendo a blocchi narrativi internamente coerenti. Il primo accompagna Germano dalla nascita all’episcopato (capp. 1-6). Diversamente dagli altri vescovi provenzali fin qui esaminati, Germano non era passato attraverso una fase monastica: nato in una famiglia importante di Auxerre, ricevette un’educazione reto­ rica, rivestì incarichi politici, si sposò con una donna all’altezza del suo rango. In questi primi capitoli è sensibile Γ influenza della Vita di Am­ brogio cui viene giustapposto, come vedremo fra breve, in modo mecca­ nico il modello vescovile monastico cha caratterizza il discorso agiogra­ fico gallico a partire dalla Vita di Martino. L’importanza assunta dal tema della grazia nel dibattito teologico coevo affiora nel modo di narrare i cambiamenti radicali della vita di Germano: quanto in essa appariva dis­

92 Constance de Lyon, Vie de saint Germain d ’Auxerre, par R. Bonus, (SC 112), Paris 1965. 93 M. Miele, La Vita Germani di Costanzo di Lione: realtà storica e prospettive storiografiche nella Gallia del quinto secolo (Atti della Accademia Nazionale dei Lincei), Roma 1996, p. 146; un breve profilo anche in C. Leonardi, Modelli di santità fra secolo v e vii, in Santi e demoni nell’Alto Medioevo occidentale (secoli v-xi), Spoleto 1989, pp. 262-265. 94 Costanzo sottolinea il rapporto di rispetto e di venerazione che legò Germano a Ilario di Arles (Vita di Germano 23). Altro collegamento alla familia lerinese: Germano si recò una prima volta in Britannia accompagnato da Lupo di Troyes, che aveva sposato la sorella di Bario Di Arles (cfr. E.A. Thompson, Saint Germans of Auxerre and thè End of Roman Britain, Woodbridge 1984, pp. 1-6). 95 Più dettagliatamente Borius, SC 112, cit., pp. 46-49.

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sonante con il modello monastico viene riassorbito con qualche forzatura in un’ottica predestinazionista: «L’eloquenza - osserva Costanzo - lo pre­ parava alla predicazione, la dottrina giuridica alla giustizia, la compagnia della moglie alla testimonianza della castità»96. Se il discorso agiografico antico è in generale indifferente alla psicologia del cambiamento, la fedel­ tà alla dottrina agostiniana della grazia favoriva, se possibile, una mecca­ nicità ancora più spinta: tutto avviene all’improvviso, in ossequio alla volontà divina, alla grazia. Così Germano è eletto all’unanimità vescovo e, all’improvviso cambia il suo stile di vita: lui che, a differenza degli altri vescovi, non era mai stato monaco, assume uno stile di vita rigorosamen­ te ascetico, trasformando la sua vita «in un lungo martirio»97. Continua a vivere con la sua sposa, ma in continenza98; distribuisce le sue ricchezze ai poveri, consuma solo il pasto serale che consiste in “cenere” e “pane d ’orzo”. Veste il cilicio sulla pelle e, sopra, cappuccio e tunica estate e in­ verno99; dorme vestito sulla cenere appena contenuta da assi di legno, con un solo corto mantello a far da coperta. La sezione successiva (capp. 2, 7-11) è interamente dedicata ai mira­ coli. La narrazione di miracoli è un obiettivo importante di questa Vita che fin dal prologo allude al numero grandissimo dei miracoli compiuti da Germano100. Malgrado questo, la sobrietà delle prime Vite lerinesi rimane un modello con cui confrontarsi: quando Costanzo precisa che i miracoli di Germano non avevano origine dalla presunzione, ma dalla misericor­ dia, mostra forse di aver presente quel punto della Vita di Onorato ove si dice che Onorato per modestia aveva pregato D io di non compiere i mira­ coli. I miracoli sono presentati come vittorie sui demoni che suscitano malattie, istigano furti, infestano case abbandonate101. Come accade an­ che nelle altre Vite, la lotta contro i demoni non compare più nel momento “formativo” del santo: anche questo, come ho già avuto modo di notare, appare una caratteristica del discorso agiografico che segue la crisi pelagiana: la dottrina della grazia scoraggiava a rappresentare la santità come frutto dello sforzo ascetico conseguito attraverso una dura lotta contro i demoni dei peccati. Vengono poi celebrati i successi di Costanzo nella lotta contro l ’eresia e com e patronus delle popolazioni nei confronti del potere politico. I due viaggi in Britannia per sconfiggere l ’eresia pelagiana (capp. 12-18; 25-27) 96 Vita di 97 Vita di 98 Vita di 99 Vita di 100 pref

Germano 1. Germano 4. Germano 3. Germano 4.

101 Vita di Germano 8-10.

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rappresentano un motivo di grande interesse di questa Vita anche se il rac­ conto, soprattutto se paragonato alle m issioni successive, appare «cloudy and indistinct»102. Come molti vescovi del suo tempo, Germano si spende nella protezio­ ne dei suoi fedeli. In veste di «defensor civitatis» si reca ad Arles per ottenere dal prefetto della Gallia uno sgravio dei tributi. Il funzionario rimane dapprima colpito dalla «nobiltà del suo viso, dalla cultura dei suoi discorsi, dall’autorevolezza della sua predicazione»103104e definivamente convinto da un miracolo di guarigione compiuto a favore della propria moglie. Germano interviene a favore degli abitanti del Tractus armoricanus, una vasta regione dell’Ovest della Francia, dalle foci della Garonna a quelle della Senna e che comprendeva anche i territori di Tours, Orléans e, appunto, Auxerre. Si tratta di un episodio della rivolta dei bagaudi che si erano ribellati ad Ezio che allora governava sulla Gallia (capp. 28-34). Secondo il racconto di Costanzo - che talvolta confonde date e personaggii°4 _ Ezio, non potendo venire a capo della rivolta, li abbandonò agli Alani, comandati da Goar «ferocissimus rex». Il modo con cui Germano interviene è largamente topico: da solo muove incontro alle schiere bar­ bare armate fino ai denti e prendendo le briglie del cavallo di Goar gli impedisce di proseguire: «Deo imperante», la ferocia lascia il posto alVadmiratio, alla reverenda: le armi cedono per lasciare il campo alla trat­ tativa. Germano si impegna con Goar a chiedere all’Imperatore o a Ezio la grazia che il re barbaro aveva accordato e per questo si dirige presso la corte a Ravenna105. Il suo viaggio - narrato con ricchezza di particolari attraverso la Gallia, le Alpi, Milano - è naturalmente accompagnato da altri miracoli. L’arrivo a Ravenna è trionfale: i dignitari, i vescovi, la stes­ sa imperatrice fanno a gara per compiacerlo in tutto ed egli non riparmia i suoi interventi miracolosi fra cui una resurrezione e la liberazione dei prigionieri106. I molti miracoli, tuttavia, non impediscono il fallimento della m issio­ ne di Germano e la morte lo coglie a Ravenna107. L’ultima parte della Vita (capp. 43-46) descrive le esequie e l ’ordinata e gerarchica spartizione dei suoi effetti personali fra le autorità:

102 Thompson, Saint Germanus, cit., p. 39. 103 Vita di Germano 24. 104 Ricostruzione in Borius, SC 112, c it , pp. 99-103. 105 Vita di Germano 28. 106 Vita di Germano 36. 107 Vita di Germano 42.

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«L’imperatrice (se. Galla Placidia) prese il sacchetto delle sante reliquie108, il vescovo Pietro rivendicò (se. Pietro Crisologo) il cappuccio e il cilicio di sotto; i sei vescovi che lo avevano assistito durante la permanenza a Ravenna si divisero ciò che restava: il pallio, la cintura, la tunica, il corto mantello»109. Dopo il viaggio di ritorno trionfale il corpo di Germano viene ricevu­ to in patria come «patronum proprium» e viene seppellito nella sua città dove però - afferma Costanzo - continua a vivere con i suoi quotidiani miracoli e la sua gloria110. Nella prefazione, Costanzo insiste sul tema del silenzio che fino a quel momento ha circondato la figura di Germano, del resto ormai scomparsa da qualche decennio; se possiamo comprendere i motivi che muovevano Censurio per rendere pubblica la Vita Germani - si trattava di una gloria della propria Chiesa che ne ospitava anche le reliquie - , la richiesta di Paziente che la sollecitò per primo non è, a prima vista, altrettanto comprensibile. La Vita Germani propone il ritratto di un vescovo dinamico «che era soddisfatto - chiosa l ’agiografo - solo di non starsene mai tranquillo sen­ za aver nulla da fare»111; un vescovo prima di tutto missionario: Uario di Arles - afferma Costanzo - lo venerava come un «apostolo»112. È un apo­ stolato che non si rivolge ai pagani - che pur non dovevano mancare - , ma contro l ’eresia pelagiana. Sappiamo che, nello stesso tom o di tempo in cui veniva composta la Vita, la questione era stata riportata all’ordine del giorno proprio da Fausto di Riez che cercò di ottenere dal sinodo di Arles e poi da quello di Lione una condanna ancora più decisa di Pelagio. Egli trovò una sponda proprio in Paziente e la Vita Germani poteva contribui­ re a rinforzare la causa antipelagiana. D ’altro canto, l ’eresia non era pre­ sente soltanto in Britannia; la stessa Lione poteva essere considerata un terreno di missione se consideriamo che i burgundi che regnavano sulla città erano ariani. Sappiamo che Paziente, al pari di Sidonio, cercò di tro­ vare un modus vivendi che, se escludeva accomodamenti di carattere dot­ trinale, evitava lo scontro sul piano politico113. Pur senza scagliarsi aper­ tamente contro l ’arianesimo, la Vita Germani poteva ricordare discreta­ mente ai suoi lettori come quel vescovo compisse i miracoli in nome della Trinità114 e pieno dello Spirito Santo, anche questo nodo decisivo del con­ fronto fra niceni e ariani115. 108 II sacchetto contenente reliquie dei martiri che Germano era uso portare sempre su di sé: 1,4. 109 Vita di Germano 43. 1,0 Vita di Germano 46. 111 Vita Germani 29. 112 Vita Germani 23. 113 Sidone Apollinare, Epistola 6, 12, 3. 114 Vita Germani 13; 15. 115 M iele, cit., pp. 199-207.

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La Vita Germani propone ai contemporanei in filigrana anche un modo di gestire il confronto con il potere politico e militare: Germano vince con le armi della fede e della preghiera: è un patronus in grado di difendere i suoi fedeli dall’avidità delle autorità e di intercedere per loro presso la corte con le armi dei suoi poteri taumaturgici e la sua eloquenza. Ciò che 10 muove è la carità cristiana che rimane rispettosa dei valori d ell’ordine e d ell’obbedienza imposta dall’autorità in carica, una posizione di separa­ zione degli ambiti e di richiesta implicita di rispetto reciproco che vedre­ mo formalizzato nella Vita di Cesario di Arles. Con la Vita Germani, inoltre, il modello vescovile viene, in un certo senso, adeguato ai tempi: pur ispirandosi alla Vita Martini, non poteva essere approvato il rapporto conflittuale con gli altri vescovi, mentre è un punto di forza della ricostruzione di Costanzo l ’accordo, l ’ammirazione e 11 consenso che egli suscita negli altri vescovi; né poteva essere sentito pienamente consonante all’interno di una cerchia di sacerdoti coltissimi, l ’ascetismo incolto di Martino. La Vita di Ambrogio sembra essere stata fonte di ispirazione per i primi due capitoli della Vita Germani116, ma il modello del rapporto con il potere, come l ’aveva interpretato Ambrogio, non poteva essere più riproposto. 3. La Vita di Cesario di Arles secondo i vescovi La Vita di Cesario di Arles 117 è una delle fonti principali su questo importante vescovo. È stata scritta subito dopo la morte di Cesario (fra il 542 e il 549) da un gruppo di suoi discepoli e collaboratori: i vescovi Ci­ priano di Tolone, Firmino vescovo di Uzès e Vivenzio di cui non è possi­ bile indicare la sede; il sacerdote Messiano e il diacono Stefano. Ai primi tre dobbiamo il primo libro, agli altri il secondo, con un chia­ ro passaggio di consegne fra i due gruppi: al termine del primo libro i vescovi chiedono al presbitero Messiano e al diacono Stefano che erano stati al servizio di Cesario «ab adolescentia»118 di unire al loro opusculum anche le loro testimonianze. Le due parti si differenziano, oltre che per l ’ampiezza - la prima è quasi il doppio dell’altra - anche per i temi trat­ tati. Il primo libro è dedicato prevalentemente ad un racconto diacronico che accompagna Cesario dalla nascita fino agli ultimi anni del suo episco-

116 Bonus, SC 112, cit., p. 5; diversamente Miele, cit., p. 201. 117 Vita Sancii Caesarii episcopi Arelatensis (BHL 1508-1509). Introduzione, testo critico, tra­ duzione e commento di E. Bona, Amsterdam 2002, di cui utilizzo la traduzione e l ’approfondito com ­ mento. 118 Vita di Cesario 1, 1; 1, 63.

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pato, mentre il secondo consiste principalmente in una raccolta di miraco­ li compiuti da Cesario in vita e dopo la morte. A Messiano e a Stefano viene anche lasciato il compito di descrivere la morte del vescovo. Salvo qualche eccezione, in entrambi i libri non è possibile districare l ’apporto dei singoli autori dall’insieme, malgrado i numerosi tentativi fatti in pro­ posito119. N el redigere la Vita di Cesario gli autori dimostrano di avere presenti altri testi agiografici: gli scritti di Sulpicio Severo su Martino, la Vita di Ambrogio, la Vita di Agostino, la Vita di Onorato e la Vita di Ba­ rio 120 e, naturalmente, gli scritti di Cesario a cui attingono di frequente. Accanto agli argomenti tradizionali - le fonti, inadeguatezza degli autori rispetto all’oggetto della narrazione etc. - il prologo rivela che la Vita fu sollecitata dalla vergine Cesaria, seconda badessa del monastero femminile fondato da Cesario, dopo Cesaria, sorella del vescovo. Di que­ sta seconda Cesaria - anch’essa, come suggerisce il nome, forse parente del vescovo - la Vita tesse un breve elogio: «Le succedette (se. a Cesaria senior) l ’attuale Cesaria, la cui opera con le compa­ gne a tal punto eccelle che, fra salmodie, digiuni e veglie e letture, le vergini di Cri­ sto approntano belle copie dei libri sacri, avendo come maestra la madre stessa»121.

Alla committenza di Cesaria è da ricondurre il rilievo con cui vengo­ no ricordati il motivo della fondazione del monastero - adomare e difen­ dere la Chiesa e la città di Arles con «virginum choris»122; la regola di clausura che lo reggeva123; il luogo di sepoltura della sorella Cesaria124; il commiato da esse poco prima di morire125. Al di là degli espliciti, ma spo­ radici, riferimenti al monastero femminile, Cesaria avrà inteso, d ’accordo con quella parte del clero favorevole a Cesario che gli era stato più vicino e che ne promuoveva il culto, proporre a futura memoria una reinterpreta­ zione della figura di Cesario, di un vescovo, cioè, che da vivo aveva dovu­ to scontrarsi con ostilità e accuse spesso provenienti dal suo stesso clero e la cui morte lasciava il monastero privo di un appoggio importante, mal­ grado - come ci informano Messiano e Stefano nel secondo libro Cesario l ’avesse affidato nel suo testamento «ai vescovi suoi successori e al resto del clero», nonché, per il tramite di lettere, alle autorità secolari126. 119 Bona, cit., p. 17. 120 Ibi, pp. 25-30; lo stile: 30-32 . 121 Vita di Cesario 1, 59. 122 Vita di Cesario 1, 28. 123 Vita di Cesario 1, 28; 35. 124 Vita di Cesario 1, 59. 125 Vita di Cesario 2, 47. 126 Ibidem.

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Il primo libro riserva soltanto sette paragrafi alla narrazione dei primi trent’anni di vita di Cesario: dopo un’infanzia all’insegna della santità già a sei anni distribuiva i suoi vestiti ai poveri - a diciassette chiede di es­ sere ammesso nel clero, ma dopo soli due anni - trascorsi come lectorl - , decide di rendersi “straniero” non soltanto ai parenti ma anche alla patria127 e si ritira a Lérins. La permanenza di Cesario in questo monastero che, a distanza di quasi un secolo dalla sua fondazione, continuava ad attirare gio­ vani di talento e a formarli per l ’episcopato, dovette essere piuttosto lunga128. In quel luogo certamente Cesario acquisì l ’approfondita cultura biblica che traspare dalle sue omelie e che è spesso celebrata dalla Vita. Tuttavia i suoi biografi dedicano a questo periodo soltanto tre paragrafi. Pur senza mancare di richiamare la fedeltà di Cesario allo stile di vita monastico sulla linea degli ideali di Lérins, l ’interesse di questa Vita è tutto focalizzato sul periodo dell’episcopato, a cominciare con la ricostruzione dettagliata degli avvenimenti che lo portarono - monaco e straniero - a ricoprire tale carica129. Fra gli episodi di questi primi anni ad Arles, uno in particolare anticipa il carattere più dintintivo dell’azione pastorale del futu­ ro vescovo. Appena giunto nella città provenzale vien accolto sotto la pro­ tezione di una coppia di aristocratici che, constatandone le doti morali e intellettuali, decidono di fargli studiare retorica. Il giovane un giorno si addormenta sul libro che stava studiando e ha una terribile visione: vede la spalla e il braccio abbandonati sul libro avvolti nelle spire di un serpente. Da qui la decisione di abbandonare gli studi retorici130. Il sogno di Cesario richiama l ’altro, più famoso, di Gerolamo in cui egli si vede preso a staffilate dal Giudice-Cristo per essere “ciceroniano, non cristiano” e in cui promette di non prendere più in mano nessun libro profano131. Tuttavia, se Gerolamo fu del tutto infedele a tale promessa e continuò a cercare i suoi lettori nei circoli aristocratici nutriti di cultura classica, Cesario dedicherà gran parte dei suoi sforzi alla promozione del m essaggio cristiano fra i semplici utilizzando forme espressive efficaci a raggiungere lo scopo. La “rinuncia” di Cesario è qui il segno eloquente di un contesto culturale assai mutato, ove il pericolo maggiore per l ’annun­ cio cristiano, che non può prescindere da un livello di istruzione sia pure elementare, non è più la concorrenza con la cultura classica e profana, ma deriva piuttosto dalla caduta del livello culturale delle élites e dal venir meno anche di quei pochi in grado di istruire il popolo. 127 Vita di Cesario \, 5. 128 Verosimilmente dal 489-495 circa. 129 Vita di Cesario 1, 8-15. 130 Vita di Cesario 1, 9. 131 Gerolamo, Epistola 22, 30.

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N ell’elezione all’episcopato, pur attraverso il velo delle reticenze e abbellimenti agiografici, vediamo entrare in gioco gli stessi elementi formazione monastica a Lérins e parentela - che erano stati decisivi nel caso di Onorato e Ilario. Infatti Eone, vescovo di Arles, “scopre”, ad un certo punto, che Cesario è suo parente e compatriota132 e da questo mo­ mento la sua carriera è velocissima, diventa diacono, sacerdote, poi abate in un monastero di Arles e infine - con una successione attentamente pre­ parata da Eone - vescovo. Dal cap. 15 inizia la narrazione dell’episcopato di Cesario. Gli aspetti cui i vescovi danno rilievo sono: la sua dedizione e assiduità nella predi­ cazione; l ’attenzione come «spiritalis medicus» alle esigenze spirituali e intellettuali di ciascuno; la sollecitudine per l ’istruzione dei laici e l ’insi­ stenza con cui richiamava il clero a questo dovere. Su questo tratto - della cui storicità il corpus delle omelie di Cesario è una viva testimonianza133 - la Vita ritorna spesso anche più avanti134. Gli autori mostrano un Cesario altrettanto attivo nello spronare i suoi vescovi e chierici ad approfondire lo studio e la comprensione della Scrit­ tura. A quanto pare, con scarso successo stando alle parole dei suoi agiografi che qui eccezionalmente fanno riferimento a ricordi personali. Rac­ contano infatti che Cesario spiegava la parola di D io e incalzava il suo pubblico chiedendo poi cosa ricordasse: «Coloro che ascoltavano (...) - lo dico con sudore e grande verocondia - in molti di fronte a lui, furono sco­ perti aver sùbito dimenticato, mentre, ed è peggio, pochi avevano potuto ripetere in forma sommaria il discorsetto che era stato loro offerto»135. Come ho già accennato, durante il suo lunghissimo episcopato, Ce­ sario si trovò più volte in situazioni difficili di cui i vescovi cercano di offrire una ricostruzione favorevole al loro eroe, in certi casi sorvolando sugli aspetti più spinosi, in altri casi mettendo avanti i suoi poteri straor­ dinari. Durante l ’episcopato quarantennale di Cesario, Arles passò di ma­ no tre volte: all’inizio regnavano i visigoti di Alarico, in seguito gli ostro­ goti di Teodorico che riuscirono a rintuzzare un primo tentativo congiun­ to dei burgundi e dei franchi di impadronirsi della città, in ultimo, a par­ tire dal 536/537, i franchi sotto la guida di Childeberto. Le difficoltà per

132 Vita di Cesario 1, 10. 133 Cui la Vita fa riferimento 1.55. Cfr. Cesario d ’Arles, Predicare la Parola. Scelta di sermoni sull’amore per la Scrittura e la predicazione. Introduzione, traduzione e note a cura di E. Bona, Comunità di Bose 2000, p. 20. 134 Vita di Cesario 1, 54-55, ove si menziona l ’iniziativa di Cesario di concedere anche ai presbi­ teri e ai diaconi di predicare leggendo ad alta voce om elie composte da altri esortando i vescovi a fare altrettanto quando occorreva. 135 Vita di Cesario 1, 62; episodio simile in 1, 52.

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Cesario nascevano, prima ancora che dalla diversità di fede - i visigoti e gli ostrogoti erano ariani - , dall’essere nato nei territori soggetti ai bur­ gundi e dunque esposto al sospetto di tradimento da parte prima dei v i­ sigoti136 e poi dei goti137. Il racconto è piuttosto lacunoso e mette in om ­ bra più di un passaggio. Gli agiografi - con la tranquillità derivante dal v i­ vere ormai sotto il dominio franco e cattolico - presentano gli eventi come frutto dell’istigazione diabolica, della ferocia dei barbari “eretici” e della perfidia dei giudei contro cui Cesario riesce ad avere la meglio con i suoi carismi. Tuttavia la Vita lascia indovinare che le accuse nascevano proprio dall’interno della Chiesa arlesiana e riguardavano l ’uso improprio delle ricchezze della mensa vescovile utilizzate con eccessiva larghezza sia per il riscatto dei prigionieri, malgrado che dal v secolo questo compito fosse sempre menzionato fra le virtutes specifica della santità vescovile138, sia per la fondazione di monasteri. Uaccusatio non meglio precisata a seguito della quale Cesario fu con­ dotto sub custodia a Ravenna alla corte di Teodorico riguardava verosi­ milmente proprio l ’uso ritenuto improprio delle ricchezze della Chiesa139 anche se gli agiografi indicano il demonio come l ’occulto regista di tutto e si limitano a raccontare la vittoria di Cesario com e ottenuta dalla sua sola presenza; appena Teodorico lo vide - essi raccontano - esclamò: «D io non abbia pietà di coloro che hanno fatto subire inutilmente un viaggio così lungo a un uomo di tale innocenza e santità. Prova che uomo sia il fatto che, entrato a salutarmi, fui interamente scosso da un tremito. Vedo (...) un volto d’an­ gelo, vedo un uomo degno degli Apostoli: giudico un delitto pensare qualcosa di male di un uomo così venerabile»140.

Il racconto dei vescovi si fa più preciso nel narrare i miracoli compiu­ ti da Cesario a Ravenna e del suo successo a Roma presso il papa Sim ­ maco che gli concesse non solo gli onori che si addicono ad un metropo­ lita, ma anche il privilegio straordinario di indossare il pallio e, ai suoi chierici, la dalmatica, «secondo l ’uso della Chiesa romana»; privilegio 136 Vita di Cesario 1, 21. 137 Vita di Cesario 1, 29. 08 F. Graus, Die Gewalt bei den Anfàngen des Feudalismus und die “Gefangenenbefreiungen" der merowingischen Hagìographie, in «Jahrbuch fiir Wirtschaftsgeschichte» 2(1961), pp. 61-99. La liberazione dei prigionieri era un modo per ottenere conversioni di massa al cristianesimo? Sulle diverse interpretazioni di Vita Caesarii 1, 32-33: D. De Giorgio, Cesario di Arles e la redemptio dei captivi infideles, in «Cristianesimo nella storia» 26(2005), pp. 671-682. 139 Vita di Cesario 1, 36; nelle accuse, stando ad altre fonti dell’epoca, non era estranea la fon­ dazione del monastero femminile: cfr. il commento di Bona, pp. 272-273. 140 Vita di Cesario 1, 36; su questo modo di narrare rincontro del santo con il re, cfr. supra, pp. 337-338.

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che l ’anno successivo si concretizzerà nel riconoscimento del ruolo di vi­ cario papale per la Gallia e la Spagna141. Risultato più prosaico, ma non meno importante della visita romana, è l ’entità delle ricchezze - ottomila solidi d’oro! - con cui Cesario toma ad Arles142. Su questo dettaglio si chiude la lunga sezione (1,21-43) dedicata a ricostruire - nello specchio trasfigurante del discorso agiografico - il pro­ filo politico di Cesario: non dissipatore delle ricchezze, ma artefice del be­ nessere della sua Chiesa e del prestigio istituzionale presso Roma; non tra­ ditore a favore della propria gente, ma vescovo leale e imparziale che pre­ gava il Signore per «la pace dei popoli e la sicurezza della città»143 e che: «Insegnò sempre, ivi e ovunque che la Chiesa deve “restituire a Cesare ciò che è di Cesare e a D io ciò che è di D io” (Mt 22,21): obbedire, per l ’appunto secondo l ’insegnamento dell’A postolo, ai re e governanti (cfr. Rm 13,1-7) quando impar­ tiscono ordini giusti»144.

L’ultima parte affronta il tema d ell’ortodossia di Cesario a proposito della grazia; questione che in Gallia aveva suscitato accese discussioni a partire da Onorato145. Pose termine a questa lunga controversia il Concilio di Orange (529) presieduto proprio dallo stesso Cesario, che fece prevale­ re un agostinismo moderato in grado di conciliare la dottrina agostiniana del peccato e del primato della grazia con la vocazione universalistica alla salvezza che il libero arbitrio può concorrere a realizzare. Sullo sfondo di tale agostinismo, che lasciava un certo margine di azio­ ne alla volontà umana al fine del conseguimento della perfectio o, forse ancor più, per l ’assopirsi della controversia, risulta più comprensibile un tratto specifico di questa Vita, specialmente se paragonata al discorso agiografico più antico della stessa area: nel dipanarsi degli avvenimenti la grazia - pur sporadicamente menzionata - rimane in secondo piano ri­ spetto alla volontà di perfezione morale e alle decisioni pastorali e politi­ che del protagonista.

141 Bona, Vita Sancii Caesarii, cit., p. 285. 142 Vita di Cesario 1, 43. 143 Vita di Cesario 1, 21. 144 Vita di Cesario 1, 22. 145 S. Gioanni, Moines et évéques en Caule aux V et vte siècles: la controverse entre Augustin et le moines provenfaux, in «Médiévales» 38(2000), pp. 149-161.

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3.1. La Vita di Cesario di Arles secondo i sacerdoti Berschin ha sottolineato Γ«architettura gerarchica di questa Vita»: il primo libro, scritto da vescovi, affronterebbe la figura del vescovo da una prospettiva ecclesiastico-politica; il secondo, scritto da chierici di grado inferiore, in una Kammerdienerperspektive146. Se i punti di vista sono dif­ ferenti, i rapporti che collegano le due parti dell’opera rimangono molto stretti. I primi affermano di voler narrare vita e conversatio\ i secondi con­ ve rsa ti e virtutes. Come nella prima parte non mancano affatto le virtutes (nel duplice significato rivestito dal termine), la seconda completa il racconto della vita narrando la morte di Cesario e i miracoli compiuti dopo la morte. Il filo più robusto che le lega è che sono ambedue frutto di un gruppo di autori che persegue con coerenza lo stesso scopo. Il secon­ do libro, pur ricorrendo quasi esclusivamente ai miracoli, non è che l ’illu­ strazione attraverso i ricordi personali degli autori e le testimonianze da loro raccolte, di quanto nel primo libro i vescovi hanno già detto sui com ­ portamenti e sulle virtù di Cesario. Se i primi esaltavano l ’umiltà del ve­ scovo, i secondi la esemplificano raccontando come il vescovo fosse tal­ mente umile che, dopo la preghiera o il gesto taumaturgici, fuggiva prima che la guarigione si com pisse per non esporsi all’opportunità di vantar­ si147. Se i vescovi insistevano sulla preghiera continua del santo, i chieri­ ci ricordano un episodio della loro vita comune con Cesario che lo mostra concentrato sulla preghiera e la meditazione della Scrittura perfino duran­ te il sonno148. Lo stesso avviene anche per l ’altro tema fortemente rileva­ to nel primo libro: il riscatto dei prigionieri149. Anche su altri temi le due parti si completano: il significato spirituale della “bellezza” di Cesario150; la regola di clausura del monastero femminile menzionata nel primo libro e illustrata con un miracolo nel secondo151. I miracoli di guarigioni avvengono prevalentemente attraverso il con­ tatto con oggetti usati dal santo mentre questi è ancora vivo: il mantello con riferimento all’episodio evangelico deH’emorroissa (Le 8,43-48 e pa­ ralleli)152; il tessellus153, un indumento non meglio identificato che Ce­ sario portava a contatto di pelle; il suo bastone154; la sua sella155. Il narra146 Berschin, Biographie, cit., Bd. t, p. 250. 147 Vita di Cesario 2, 3. 5. 148 Vita di Cesarlo 2, 3. 5. 6. 149 Vita di Cesario 2, 8. 9. 150 Vita di Cesario 2, 35. 151 Vita di Cesario 2, 26. 152 Vita di Cesario 2, 12. 153 Vita di Cesario 2, 13. 154 Vita di Cesario 2, 22. 155 Vita di Cesario 2, 25.

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tore che qui sembra essere Messiano, prendendo atto della guarigione avvenuta, osserva ad un certo punto: «e il vestiario del Servo del Signore ebbe già quel potere che si sa avere anche dopo il suo trapasso»156. L anticipo trova puntuale realizzazione nella sezione dedicata ai mira­ coli post mortem, anche questi collegati in qualche modo agli indumenti di Cesario o a tessuti venuti in contatto con la salma o a frammenti di essi che diluiti (“lavati”) in acqua venivano somministrati ai malati sotto forma di bevande. E sono ancora i vestimento di Cesario ad essere al cen­ tro del parapiglia scatenatosi durante le esequie. È singolare che si parli di reliquie soltanto in riferimento ai vestiti senza menzionare il corpo di Cesario e i miracoli compiuti da esso, pur citandone il luogo di sepoltura: «nella Basilica di santa Maria da lui fondata, in cui vengono deposte le sacre spoglie delle monache del suo monastero»157. D i solito le raccolte di miracoli post mortem sono legate alla promozione della devozione verso un santo e del locum che ne accoglie le spoglie. Bisogna dire inoltre che chi redige questi racconti afferma di essere in possesso di tali reliquie e di manipolarle per somministrare le pozioni guaritrici; in questo caso la pro­ mozione della devozione verso il santo, veicolata dal racconto, va di pari passo con la promozione del gruppo ristretto che possiede i vestimento. Merita di citare un racconto che ha per protagonista un Franco che solle­ cita tale bevanda: «Subito tornammo entrambi indietro (se. il Franco e il narratore, forse Messiano) e una volta che, entrati nella m ia cella (in cellula mea) ci fummo lavati entrambi le mani, tirai fuori una tela di lino con cui era stato asciugato il santo corpo del dolce buon signore. N e presi dunque una piccola parte per dargliela e il Franco con grande rabbia, m i disse. “Via, o uomo, perché menti? Ho sentito dire che quell uomo benedetto non adopero stoffe di lino, ma panni, che io voglio lavare e tramite 1 acqua bere . Allora io dissi fra le lacrime: “D ici bene, è vero ciò che hai sentito; ma con questo è stato pulito il corpo del santo al suo trapasso”. (...) Subito che l ’ebbe ricevuto ottenne dal Signore la salute»158.

Il racconto, narrato in prima persona, contiene molti dettagli interes­ santi sulla preparazione delle reliquie e i gesti purificatori che richiedeva. Si noterà anche che il luogo in cui si conservavano queste reliquie non era la chiesa, ma la cella del narratore, un luogo semiprivato. Tutta la gestio­ ne delle reliquie sembra avvenire al di fuori del controllo del vescovo di Arles che la Vita non menziona mai. Un silenzio che potrebbe trovare una 156 Vita di Cesario 2, 15. 157 Vita di Cesario 2, 50. 158 Vita di Cesario 2, 42.

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spiegazione nella situazione creatasi dopo la morte di Cesario, soprattut­ to con il passaggio del potere vescovile dalle mani di Assaunzio (542546), ancora scelto fra il clero locale, ad Aureliano (546-551), designato direttamente dal re. Il passaggio incruento di Arles dai Goti ai Franchi se­ gnò Tinizio del declino d ell’importanza della città provenzale come cen­ tro politico ed ecclesiastico a vantaggio di città della Gallia settentrionale come Tours. Il re franco Childeberto, oltre a imporre Aureliano, fondò altri monasteri, sia maschili, sia femminili, che pur non rappresentando una diretta minaccia alle fondazioni monastiche già esistenti, entravano in competizione con queste, com e destinatarie di risorse e donazioni159160. 4. Le Vite dei padri del Giura Nel quadro della produzione agiografica gallica le Vite dei Padri del Giura160 presentano caratteri peculiari: attraverso le biografie di tre abati narrano la storia di settantacinque anni del monacheSimo cenobita di quel­ la regione. Sono biografie di monaci che restano monaci e che spendono la loro esistenza nella fondazione, sviluppo e rifondazione di monasteri. La stessa scrittura agiografica è parte di questo processo in quanto, nel ricostruire a posteriori genealogie e continuità, offre un’immagine coeren­ te della realtà monastica contemporanea, in grado di forgiare a propria immagine anche altre istituzioni monastiche. La data presumibile in cui Romano abbandonò la casa e la sua fami­ glia per stabilirsi fra le foreste e le valli del Giura, alla confluenza di due fiumi, Bienne e Tacon, è il 435. Il fratello Lupicino lo raggiunse dopo un certo tempo, lo coadiuvò nella guida dei monasteri - oltre a Condat, venne fondato un altro monastero maschile a Lauconne e un secondo, femmini­ le, a La Balme - e gli successe alla sua morte avvenuta nel 460; Lupicino fu abate fino al 480. Dal 490 al 512-514 ci fu l ’abbaziato di Eugendo. Se si considera la fondazione della laus perennis nel Monastero di Agaune, avvenuta il 22 settembre del 515, com e termine post quem161, le Vitae sono state scritte immediatamente dopo, oppure al più tardi nel 520.

159 W.E. Klingshim, Caesarius of Arles. The Malting of a Christian Community in Late Antique Gaul, Cambridge 1994, pp. 261-264. 160 Vie des Pères du Jura. Introduction, texte critique, lexique, traduction et notes par F. Martine (SC 142), Paris 1968. Ai primi due - Romano e Lupicino - Gregorio di Tours ha dedicato una delle biografie poi raccolte nelle Vite dei Padri (cfr. infra, p. 415). Le differenze notevoli esistenti fra le due fonti fanno pensare che Gregorio avesse utilizzato una fonte indipendente. 161 La questione è discussa in De Vogiié, cit., t. vm , p. 126; Sigismondo volle fondare un mona­ stero in cui presso la tomba dei martiri tebei si cantassero in modo ininterrotto, di giorno e di notte, i salmi. A questo uso liturgico fanno riferimento le Vite degli Abati di Agaune, un breve testo dedicato

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Il testo è dedicato a due monaci - Giovanni e Armentario - del mona­ stero di Agaune, il primo è introdotto da una espressione generica sugge­ rita dal nome162. Con una frase piuttosto oscura, l ’Anonimo adombra anche un rapporto di filiazione fra Condat e questo monastero di Agaune che probabilmente era un piccolo monastero precedente alla grande fon­ dazione del re burgundo Sigismondo appena convertito al cattolicesimo. Le Vite vennero inviate ad Agaune accompagnate da una compilazione di testi monastici normativi che lo stesso Anonimo aveva redatto dietro indi­ cazione di Marino in quel momento abate di Lérins163. Le Vitae e gli Instituta che li accompagnano si pongono insomma all’interno di un pro­ getto di regolazione della vita monastica del cenobio di Agaune sotto il doppio patronato dei centri di Lérins e del Giura. Accade di frequente che la narrazione della vita di un santo dia spazio all’autobiografia; non è il caso purtroppo dell’Autore del nostro testo che lascia trasparire la sua presenza molto sporadicamente: afferma di essere entrato nel monastero di Condat «adhuc puerulus»164; di aver avuto collo­ qui privati «secretissim e»165 con Eugendo, il che lascia presumere un rap­ porto piuttosto stretto. Nella richiesta dell’estrema unzione da parte di Eugendo a «uno dei fratelli»166 si è vista una discreta allusione all’Autore che, quindi, sarebbe stato uno dei monaci sacerdoti presenti nel monaste­ ro. Sulla base di questa supposizione si è anche proposta l ’identificazione con il sacerdote Vivenziolo residente a Condat e destinano di una lettera del vescovo Avito di Vienne167. Benché composta da tre opuscula nettamente distinti, l ’opera è stata concepita unitariamente: il prologo, tutto giocato sulla parabola dell’ami­ co importuno di Le 5-8, permette di stabilire un legame pieno di signifi­ cato fra i tre pani richiesti, simbolo della Trinità, e le tre Vitae, alimento spirituale necessario per la vita monastica168. La menzione della Trinità allude all’unità sostanziale che lega le tre Vitae ed è, nello stesso tempo, una discreta affermazione del credo niceno in un momento e in luogo di dominio burgundo e ariano. L’unità d ell’opera è costruita attraverso una oculata ripartizione del materiale fra le tre parti che sono costruite come ai tre primi abati (Vitae Sanctorum Abbatum Acaunensium, ed. B. Krusch, Berlin 1919 [MGH, Scr. Rer. Mer. vii], pp. 329-336). 162 VP] 1, 2: come quello dell’Evangelista su Cristo, il capo di Giovanni è posato sulla tomba di San Maurizio, il martire della Legione Tebea, il secondo è presentato come un un recluso che vive nella sua cella all’interno della cinta del monastero. 163 VPJ 3, 179. 164 VPJ 2, 78. 165 VPJ 2, 133. 157.175. 166 VPJ 3, 175. 167 De Voglie, cit., t. vai, pp. 123-126. 168 y p j ^ 2: «theoretica conversatio».

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anelli di un’unica catena narrativa: nella Vita di Romano si danno infor­ mazioni sulla biografia di Lupicino che lo raggiunge n ell’eremo e lo af­ fianca nella fondazione dei tre monasteri. La Vita di Lupicino, di conse­ guenza, non ha uno sviluppo cronologico, ma è dedicata quasi interamen­ te all’illustrazione della forma di vita e degli exercitia di Lupicino. L’ul­ tima parte, la Vita di Eugendo è collegata strettamente alle altre due in quanto in questa l ’Autore mantiene la promessa, fatta all’inizio, di rac­ contare oltre a «actus vitamque» anche «la regola»169. I tre protagonisti sono, nello stesso tempo, complementari e fortemen­ te tipicizzati. Romano è il tipo del fondatore carismatico: «Prima di lui - afferma l ’Anonim o ricordandosi delle parole di Gerolamo a pro­ posito di Ilarione170 - in questa provincia, assolutamente nessun monaco, facen­ do una professione religiosa, si era votato alla solitudine e all’osservanza comu­ nitaria»171.

Per questo l ’Autore si ispira alla Vita di Paolo172 e alla Vita di Anto­ nio173 nei capitoli che ne descrivono la conversione e la scelta dell’eremo. Pur nel rispetto del modello monastico di Antonio che prevedeva lettura, preghiera e lavoro, qui l ’accento cade soprattutto su quest’ultimo come caratteristica del “vero” monaco che si mantiene con il proprio lavoro174. Lupicino, invece, è soprattutto l ’abate che con mano ferma guida e svi­ luppa l ’istituzione monastica. Si distingue per la severità della sua ascesi e, a tale riguardo, viene invocato di nuovo il paragone con l ’ascesi dei «padri orientali e egiziani»175. Siamo agli antipodi dell’estetica della san­ tità tante volte notata nelle Vite vescovili: Lupicino si veste di una tunica fatta di pelli raccogliticce di diversi animali: «non solo informe ed ispida, ma resa ignobile da quella multiforme miseria»176; indossa un cappuccio miserrimo, porta calzature di pelle soltanto per recarsi alla corte per inter­ cedere presso i potenti, altrimenti indossa “soccos” di legno; di notte, quando fa particolarmente freddo, si riveste di cortecce di quercia tenute

169 VPJ 1, 4; 3, 174. 170 Cfr. supra, p. 187. 171 VPJ 1, 5. 172 VPJ 1, 7 che instaura un paragone esplicito fra Romano e il Paolo geronimiano. 173 VPJ 1,11: come Antonio nella prima fase della sua vita monastica si recava presso degli an­ ziani per apprendere, così Romano, nel monastero lionese di Sabino, aveva appreso «perfectionis flosculi» prima di ritornare al suo paese (ma la collocazione cronologica di questi avvenimenti è incer­ ta; nel cap. 12 il paragone tra Romano e Antonio è esplicito). 174 VPJ 1, 10. >75 VPJ 2, 65. 176 VPJ 2, 63.

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insieme malamente e fatte riscaldare un po’ vicino al fuoco177. Oltre alla rinuncia, usuale nel monacheSimo, della carne e del vino, Lupicino rifiu­ tava l ’olio, il latte, le uova e perfino l ’acqua. Ma l ’Anonimo, che si ricor­ da di aver proposto ad esem pio dei suoi fratelli questa “trinità” di santi, si sente obbligato a precisare che non è sua intenzione promuovere l ’imita­ zione di queste pratiche ascetiche, perché soltanto alcuni hanno ricevuto da Dio la grazia di tale virtù. A queste considerazioni si riallacciano le lunghe pagine dedicate ad episodi che illustrano gli inconvenienti di pra­ tiche ascetiche troppo rigorose e i modi talora miracolosi, talora soltanto terapeutici, con cui Lupicino le scoraggiava nei suoi monasteri178. A differenza di Romano, il raggio d ’azione di Lupicino raggiunge i luoghi dei potenti del secolo; la sua parrhesia davanti a Chilperico gli valse la sua ammirazione; assunse la difesa del conte Agrippino contro il re burgundo e riuscì a liberarlo dal carcere. Sono miracoli cui ci hanno abituato le Vitae vescovili; è interessante, tuttavia, notare che le modalità sono profondamente diverse: se, come si legge nella Vita Germani, in sua presenza «le catene si aprono, le sbarre di ferro si spezzano»179, qui Lupicino ottiene lo stesso risultato attraverso un inasprimento della sua ascesi e il prigioniero, avvertito da una visione, individua un passaggio nascosto nella sua cella e riesce a fuggire1811. Nella guida dei monasteri i due fratelli sono presentati perfettamente complementari: la misericordia di Romano piissimus e trancfuillissimus era bilanciata dalla maggiore severità di Lupicino; il primo lasciava ai fratelli una certa libertà nello sce­ gliere il grado di pratiche ascetiche; il secondo pretendeva da tutti ciò che l ’«aiuto di Dio rendeva possibile»181. Eugendo è il rifondatore con accentuati tratti mistici e visionari che non si allontana mai dal monastero di Condat. È presentato fin dalle prime righe com e «beatorum patrum Romani ac Lupicini in religione discipulus». E, però, una discepolanza sui generis, perché in realtà Eugendo, nato a ll’incirca nel 490, entrò nel monastero di Condat all’età di sette anni, quando erano trascorsi già molti anni dalla morte di Lupicino (circa diciassette se questa è avvenuta intorno al 480). Ciò che sta a cuore a ll’Anonimo è la costruzione di una genealogia ideale in grado di stabili­ re una filiazione diretta fra i due fondatori e Eugendo, colui che ha inno­ vato profondamente la forma di vita e la regola del monastero, nell’inten­ to di legittimare tali innovazioni sostenendone l ’assoluta continuità con la 177 VPJ 2, 65. 178 VPJ 2, 72. 179 VPJ 1, 36. 18° VPj 21 102 . 181 VPJ 1, 17.

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tradizione precedente. Per questo scopo, le visioni sono un elemento essenziale, quelle visioni appunto che costituivano l ’oggetto dei colloqui riservati che Eugendo intratteneva con il suo biografo. I santi che appaio­ no via via nelle visioni non sono gli stessi: fino all’assunzione della cari­ ca abbaziale, egli è guidato da Romano e Lupicino. Essi sono i due reli­ giosi che, ancora bambino, gli rivelano il suo futuro di abate182 e che gli trasmettono le insegne dell’autorità abbaziale183. Una volta divenuto aba­ te, Romano e Lupicino lasciano il campo a santi più importanti: Martino, innanzitutto, anche lui un santo visionario che conversa con angeli e santi184 e gli apostoli che lo aiutano nei momenti difficili dei suoi compi­ ti di abate: «La sua anima pura da cui erano stati scacciati i vizi era tal­ mente potente che conversavano con lui e gli apparivano i beati apostoli di Cristo, Pietro, Paolo, sant’ Andrea e il vescovo Martino, uomo aposto­ lico e illustre»185. Anche per Eugendo non mancano riferimenti che lo collegano ad Antonio soprattutto per quanto riguarda il suo volto. Mai triste, mai in preda al riso, sempre lieto, Eugendo, «tempio di Cristo»186 manifestava anche esteriormente la presenza divina nel suo intimo187. Collocato Eugendo al centro di questa rete di santi che riconduce ogni suo atto alla figura dei fondatori, ai monaci più prestigiosi della tradizio­ ne orientale e occidentale - Antonio e Martino - e agli apostoli, il raccon­ to può affrontare il tema della rifondazione del monastero. Un incendio distrusse il monastero di Condat costituito da celle individuali: Eugendo fece costruire un asilo e un refettorio comuni in cui i monaci potessero dormire e mangiare insieme; a nessuno fu concesso di possedere qualche cosa senza condividerla, nessuno poteva ricavare un profitto personale dalle loro attività, eccetto la preghiera e la lettura188. Questa regola costituiva una novità sia riguardo agli usi precedenti di Condat, sia riguardo alle altre regole «di Basilio, vescovo della capitale della Cappadocia, dei santi padri di Lérins, di Pacomio, antico abate della Siria (sic!), o quelle più recenti del venerabile Cassiano», tutte regole afferma l ’Anonimo - «che noi continuiamo a leggere, ma seguiamo que­ sta, perché introdotta in funzione del clima dei luoghi e delle esigenze del lavoro» e perché più adatta aWinfirmitas della debolezza gallica189. 182 VPJ 3, 121-124.125. 183 VPJ 3, 135-137. 184 Cfr. supra, p. 215, n. 189. 185 VPJ 3, 152.157. 186 VPJ 3, 125. 187 VPJ 3, 168: cfr. supra, p. 145, n. 110. 188 VPJ 3, 170-173. 189 VPJ 3, 174; qui secondo Martine, SC 142, cit., ci sarebbe un’importante lacuna corrispon-

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Per cogliere meglio le peculiarità delle Vite dei Padri del Giura, può essere utile accostarlo alle Storie dei monaci di Cirillo di Scitopoli, di poco successivo, anch’esso focalizzato sul tema della fondazione e rifon­ dazione di un monacheSimo regionale. Entrambi raccontano di monaci carismatici i cui miracoli sono spesso di sostegno all’istituzione monastica; nelPAnonimo, più che in Cirillo, il gesto taumaturgico dell’abate si staglia sullo sfondo di una comunità che viene descritta nel suo insieme come depositaria di doni straordinari190, del resto all’intemo di una rappresentazione complessivamente encomia­ stica della vita comunitaria191 in cui i dissensi, pur non taciuti, si risolvo­ no rapidamente grazie soprattutto alla sapienza abbaziale di dirigere le anime. I monasteri del Giura conoscono abbandoni, ma non scismi: la contesa non nasce mai dal dissenso dottrinale, ma solo da questioni ricon­ ducibili al modo di condurre e di organizzare la vita dei monaci. In en­ trambi i testi i demoni sono all’opera nelle malattie che vengono guarite o nel dissenso, ma non sono mai sono rappresentati come antagonisti del monaco impegnato nella conquista della perfezione; la lotta contro le pas­ sioni degli “abati” palestinesi come quelli del Giura non interessa i loro biografi che li rappresentano già santi al loro prima apparire sulla scena. Il punto di maggior distanza è nel modo in cui i due agiografi conside­ rano il ruolo del monacheSimo nella Chiesa a loro contemporanea. In Cirillo la biografia si allarga fino a comprendere la storia ecclesiastica di un’intera regione e dell’istoria egli assume il metodo espositivo; nelle Vite dei Padri del Giura mancano riferimenti cronologici esterni in grado di collocare la storia dello sviluppo dei monasteri in un quadro più ampio e di significarne per quel quadro l ’importanza. Il rapporto fra gerarchie monastiche e ecclesiastiche appare del tutto diverso. L’Anonimo menzio­ na raramente i vescovi e il loro ruolo n ell’economia del racconto è quello di esprimere ammirazione e riconoscimenti agli abati: a Besan 9on, Ilario di Arles consacrò Romano sacerdote e pronunciò nell’occasione un elo­ gio restituendolo al monastero carico di onori, ma l ’ammirazione per Romano non risparmia ad Ilario un giudizio severo da parte dell’Anonimo che a proposito della questione di Chelidonio e ritiene illegittime le pre­ tese di Ilario «che voleva rivendicare un potere monarchico sulla Gallia»192. Un altro episodio che vede protagonista, accanto a Romano, un

dente alla citazione della Regola vera e propria; di diverso avviso D e Vògiié (cit., t. vili, p. 117); sui testi presenti a Condat: R. Alciati, Monaci, vescovi e scuola nella Gallia tardoantica, Roma 2009 pp. 133-149. 190 VPJ 1, 51; 3, 148. 191 VPJ 2, 112. 192 VPJ 1 ,1 8 .

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vescovo è quello che riguarda un miracolo di guarigione di lebbrosi per il quale Romano viene assimilato all’altro fondatore monastico, Martino di Tours193. In quest’episodio il vescovo di Ginevra con il collegio sacerdo­ tale e la cittadinanza accoglie il monaco trionfalmente: Romano, per quanto attirato in città con uno stratagemma, benedice tutti e li esorta a convertirsi alla vita monastica, ma poi ritorna subito al monastero, convin­ to che le seduzioni del secolo e le frequentazioni umane lo rendessero impuro194. Il rapporto fra gerarchia ecclesiastica e monastero è rappresen­ tato com e un rapporto fra mondi che si rispettano, ma che vivono in sfere separate. Questo non è privo di implicazioni nel modo in cui nei monaste­ ri del Giura si pose fin dall’inizio e si trasformò il rapporto fra chierici e monaci: Romano fu anche sacerdote; ma non Lupicino e neppure Eugendo, sotto la cui reggenza i sacerdoti presenti nel monastero erano tenu­ ti in disparte: assolvevano la loro funzione sacramentale, ma non interfe­ rivano con la direzione delle coscienze che spettava solo all’abate195. D ’altro canto, in questa rappresentazione del rapporto fra monastero ed episcopio, può aver avuto un ruolo il desiderio di difendere con la m emo­ ria dei padri fondatori il monastero dalle ingerenze vescovili a proposito della successione a Eugendo, come parrebbe di poter dedurre dalla lette­ ra del vescovo Avito già citata, ove si invita Yivenziolo a intervenire per porre fine ai dissensi dei fratelli196. 5. Una santa regina nella Gallia merovingia: Radegonda secondo Venan­ zio Fortunato “Poeta occasionale” è la definizione più spesso ripetuta dall’inizio del secolo scorso197 fino agli studi più recenti198 a proposito di Venanzio For­ tunato che trovò in Gallia presso la corte dei re franchi e nelle sedi episco­ pali più importanti chi richiedeva il suo talento letterario e sapeva apprez­ zarlo per celebrare le più diverse circostanze private, politiche e religiose e per interpretare al meglio le ambizioni e le tensioni presenti nella socie­ tà. Nato fra il 530-540 a Valdobbiadene vicino Treviso, Fortunato studiò a Ravenna giurisprudenza e retorica; lasciò l ’Italia nel 565, a suo dire, per rendere omaggio alla tomba di Martino e, seguendo un itinerario piutto-

VPJ 1,46. 194 VPJ 1, 50. 195V7M3, 151. 196 Cfr. Alciati, cit., pp. 139-140. 197 W. Meyer, Der Gelegenheitsdichter Fortunata Berlin 1901. 198 G.W. Judith, Venantius Fortunatus: a Latin Poet in Merovingian Gaul, Oxford 1992, p. 5.

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sto tortuoso e improbabile199, approdò a Metz nel 566 «in singolare e feli­ cissima concomitanza»200 con la solenne celebrazione delle nozze del re dei franchi Sigiberto con Brunichilde. L’incontro e i versi che lo celebra­ rono segnarono l ’inizio di un lungo sodalizio con la corte franca e gli esponenti più importanti dell’episcopato gallico; sodalizio che, grazie soprattutto all amicizia con Radegonda e Gregorio di Tours, lo porterà prima alla consacrazione sacerdotale e poi sulla cattedra episcopale di Poitiers nel 593 ove rimase fino alla morte avvenuta nel primo decennio del vii secolo201. Tra le numerose Vitae scritte da Fortunato, tra cui anche quella in versi di Martino di Tours202, la Vita di Radegonda, composta subito dopo la morte della santa203, merita una speciale attenzione per più motivi. Essa costruisce, com e è stato notato, «un véritable archètype de la saintété royale fémmine»204 ed è seguita, a distanza di pochi decenni, da un’altra Vi­ ta scritta dalla monaca Baudonivia. Il confronto fra le due Vite offre un’opportunità rara di approfondimento sia della figura di Radegonda, sia delle problematiche storiche che stanno alla base dei due distinti discorsi agiografici205. A seguito della conquista della Turingia da parte dei franchi Rade­ gonda (n. 520 - m. 587) fu portata in Gallia e, dopo una permanenza ad Aities ove ricevette un’istruzione, si sposò con Clotario, re dei franchi e figlio di Clodoveo. Lo stesso re fu causa della morte del fratello di Ra­ degonda, episodio che pose fine ad un matrimonio vissuto verosimilmen­ te con scarso entusiasmo. Radegonda ottenne dal vescovo Medardo di

199 Su questo viaggio: cfr. la prefazione ai primi sette libri di Carmi e la sua Vita di Martino in versi, iv, pp. 621-701; status quaestionis in Judith, cit., pp. 26-27. 200 Venanzio Fortunato, Opere/1 a cura di S. Di Brezzano, Roma 2001, p. 19 (di cui utilizzo le traduzioni). 201 L. Pietri, Venance Fortunat et ses commanditaires: un poète italien dans la société gallo-franque, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto medioevo occidentale, Settimane di Studio del Centro italiano di studi su ll’alto Medioevo 39, Spoleto 1992, voi. il, pp. 729-754. 202 Per una presentazione generale di queste Vite: Judith, cit., pp. 106-131; Consolino Ascesi cit pp. 130-167. ’ 203 Meyer, cit., p. 23. M. Cristiani, La saintété féminine du Haut Moyen Àge, in Les fonctions des saints dans le monde Occidental (iiF-xitp siede), A ctes du colloque organisé par l ’École fran5aise de Rome avec le concours de l ’Université de Rome La Sapienza, Rome, 27-29 octobre 1988, Rome 1991, p. 397. 205 Edizione critica in De Vita Sanctae Radengundis libri duo, ed. B. Krusch, Berlin 1988 (MGH Scr. Rer. Mer. il), pp. 364-395; Venanzio Fortunato, Vite dei Santi Ilario e Radegonda di Poitiers. Traduzione, introduzione e note a cura di G. Palermo, Roma 1989. Studi: F.E. Consolino, Due agiografi per una regina: Radegonda di Turingia fra Fortunato e Baudonivia, in «Studi storici» 29(1988), pp. 143-159; S. Gàbe, Radegundis: sancta, regina, anelila. Zum Heiligkeitsideal der Radegundisviten von Fortunatus und Baudonivia, in «Francia» 16(1989), pp. 1-30; J. Kitchen, Saints’Lives and thè Rhetoric of Gender: Male and Female in Merovingian Hagiography, New York-Oxford 1998, pp.

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Noyon l ’ordinazione a diaconessa e, più tardi, si ritirò a Poitiers in un monastero da lei costruito. Fu molto attiva nel promoveme il prestigio e l ’autonomia: ottenne dall’Imperatore una particella della Santa Croce da cui il convento di Poitiers prese il nome (nel 569); adottò la Regola fem ­ minile scritta da Cesario, che svincolava il monastero dalla dipendenza dal vescovo del luogo per sottoporlo alla tutela di un vescovo scelto dalla badessa. Questi gli eventi principali della vita di Radegonda com e è possibile ricostruirli, oltre che dai due testi citati, anche dagli scritti di Gregorio di Tours che ne officiò i funerali206 e che di lei parla sovente in termini elo­ giativi anche nelle sue Storie. L’amicizia ventennale che legò Fortunato a Radegonga - dal 567 anno in cui arrivò a Poitiers fino alla morte della regina (587) - è testimoniata dai numerosi carmi a lei dedicati. Le fu a fianco, con i suoi versi, nei momenti più significativi della vita del monastero: quando, in occasione dell’ambasceria mandata da Sigiberto per ottenere la reliquia della croce, si trattò di presentare alla corte costantinopolitana la figura di Radegon­ da207 e quando, aH’arrivo della reliquia a Poitiers, toccò al poeta dare mag­ gior lustro all’evento con due celeberrimi Inni processionali che, messi in musica, furono presto accolti dalla liturgia della Chiesa latina208. Rade­ gonda si affidò ancora alla vena poetica di Fortunato per tentare di riallac­ ciare i rapporti con l ’unico parente rimastole, il cugino Amalafredo, con un Inno, Sulla distruzione della Turingia, in cui ripercorre le sofferenze e i lutti patiti prima di entrare in monastero209. Altri componimenti più brevi celebrano: il legame spirituale fra il poeta, la cara mater, Radegonda, e la soror dulcis Agnese, che era sua discepola e badessa del monastero della Santa Croce210; i doni generosi che provenivano dal monastero: una sco­ della d ’argento ricolma di carni, un vassoio di marmo con ortaggi cospar­ si di m iele211; lo splendore di una tavola imbandita, cosparsa di rose dalle mani abilissime della «sorella» Agnese per renderla degna della «madre» Radegonda212. Sullo sfondo di questa quotidianità raffinata nelle cose e nei sentimenti in cui si intuisce anche nel monastero il perdurare di costu­ mi e usi regali, il ritratto di Radegonda martire e tortrix - torturatrice 206 II resoconto dei funerali e dei miracoli che l ’accompagnarono in Gregorio di Tours, Libro sulla gloria dei confessori 104; altre notizie su Radegonda: La Gloria dei martiri 5: sui miracoli com­ piuti dalla reliqua della croce; Storie 3, 4; 6, 29; 7, 36; 9, 2 . 207 Carmi Vili, 1. 298 Carmi n, 2. 6. 209 Appendice ai Carmi, 1. 210 Carmi xi, 6-7 .Vita di Radegonda i, 33: menzione della badessa, ma senza citarne il nome. 211 Carmi xi, 10. 212 Carmi XI, 11.

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disegnato nella Vita sorprende per certe sue durezze ascetiche che nel discorso agiografico antico, trovano paralleli soltanto nei racconti di Teodoreto di Cirro. L ultimo omaggio a Radegonda fu la Vita che la riguardava, scritta nel1 intento di «portare in pubblico»213 episodi ed esperienze di una lunga familiarità, in un momento in cui il monastero da lei fondato stava attra­ versando gravi difficoltà. Dopo la morte di Radegonda, seguita quasi subi­ to da quella di Agnese, la vita del convento era stata turbata dalla ribellio­ ne di due principesse merovingie che reclamavano il diritto di guidare il monastero al posto della badessa Leubovera, eventi narrati in tutta la loro drammaticità da Gregorio di Tours nelle Storie214. La pace fu infine ripor­ tata, ma soltanto dopo disordini, occupazioni di chiese, scontri armati, grazie all’intervento congiunto del re e dei vescovi fra i quali anche Meroveo di Poitiers e Gregorio di Tours al quale lo stesso Fortunato si era rivolto invocandone l ’intervento per porre fine al nefas, al sacrilegio215216in memoria dei sacri vincoli con la defunta regina Radegonda, «mia santa signora, tua figlia, o piuttosto tua madre»215. Pur trovandosi di fronte al compito mai affrontato fino a quel momen­ to di narrare la vita di una santa regina, Fortunato aveva a disposizione alcuni modelli cui ispirarsi, citati espressamente nel Carme già menziona­ to che conteneva un profilo della santa. Il ritratto è del tutto convenziona­ le, adatto a rappresentare di fronte alla corte costantinopolitana la richie­ dente —una regina “barbara” —nei panni di una santa matrona e martire cristiana, ma interessante nel punto in cui rivela a partire da quali letture Fortunato comprendeva Radegonda e costruiva il proprio discorso agio­ grafico su di lei: «Parca nel cibo da superare Eustochio, nel bere sobria più di Paola, l ’insegna­ mento di santa Fabiola l ’ha istmita a curare le ferite; nel suo zelo fa rivivere Melania, nella sua pietà Blesilla; può eguagliare per i suoi voti Marcella; per il suo spirito di servizio ricorda Marta; per le lacrime Maria; vuole nelle veglie im i­ tare Eugenia, nei patimenti Tecla. Ella reca nei suoi affetti tutto ciò che si loda in queste donne: riconosco i segni delle loro antiche azioni che ho appreso dalle mie letture»217. 213 Vita di Radegonda, prol.; S. Boesch Gajano, L'agiografia di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato e il suo tempo. Convegno internazionale di studio, Treviso 2003, p. 113. Gregorio di Tours, Storie 9, p. 39; 10, p. 15. Tutta la vicenda in cui Fortunato e, soprattutto, Gre­ gorio di Tours hanno recitato una parte di rilievo è ricostruita da M. Reydellet, Tours et Poitiers: les relations entre Grégoire de Tours et Fortunat, in N. Gauthier-H. Galinié (eds.), Grégoire de Tours et l ’espace gaulois, Actes du Congrès Intenational, Tours 3-5 novembre 1994, Tours 1997, pp. 165-167. 215 Carme vili, 12. 216 Carme vm, 12°. 217 Carmi vm, 1, vv. 41-48.

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Le geronimiane Paola, con le figlie Eustochio e Blesilla; Marcella e Fabiola218, la Melania di Paolino di N ola219 fanno parte di quella cerchia aristocratica di vedove e vergini che avevano abbandonato la gloria del secolo per acquistare la gloria di Dio. Le loro vicende, l ’autorevolezza e la fama dei loro biografi potevano costituire una solida base da cui parti­ re per descrivere e rendere comprensibile una vicenda almeno per certi versi simile. Eugenia e Tecla erano due martiri protagoniste di due leggen­ de che conobbero un’enorme fortuna sia in Oriente sia in Occidente e che si assomigliavano soprattuto per l ’intreccio fra martirio ed erotismo. Entrambe le donne subirono patimenti e persecuzioni per aver voluto sot­ trarsi ai loro pretendenti in modi spesso rocamboleschi, anche se solo Eugenia subì poi davvero il martirio220. Nella ricostruzione di Fortunato il martirio è una chiave di lettura importante in momenti cruciali della vita di Radegonda: all’inizio, quan­ do ancora bambina manifesta il suo desiderio di diventare martire, «se i tempi l ’avessero concesso». Un desiderio - osserva Tagiografo - che trovò la sua realizzazione nella persecuzione subita dalle persone - fami­ liari e cortigiani - che le erano più vicine e quando riuscì infine a rinchiu­ dersi nel monastero. Momento che coincise con un inasprimento delle sue pratiche di mortificazione. «In se ispa tortrix», torturatrice di se stessa, Radegonda meditava, dal momento che non era più tempo di persecuzio­ ni, di «rendersi martire da se stessa» e così, durante una Quaresima, si cinse il corpo con catene di ferro in modo tale che fu necessario incidere la carne per rimuoverle; in un’altra Quaresima fece arroventare due lami­ ne di ferro che recavano incise la Croce e se le applicò in due parti diver­ se del corpo; in un’altra occasione ancora, sempre nello stesso periodo penitenziale, si fece preparare un catino pieno di carboni ardenti e segre­ tamente vi pose sopra le sue membra fino al punto di provocare ustioni profonde: «Senza parlare nasconde i buchi, ma la putrefazione del sangue rendeva manifesto ciò che la voce nella sofferenza non rivelava»221. Tutto questo avveniva «in cellula», perché durante la Quaresima la santa si ritirava dalla vita comunitaria, come apprendiamo - anche qui con una certa sorpresa —da due biglietti “galanti” di Fortunato, uno di conge218 Gerolamo, Lettera 39. 77 e supra, cap. v. 219 Cfr. supra, cap. vi. 220 Su Eugenia: H. Delehaye, Étude sur le Légendier romain. Les saints de novembre et de dicembre, Bruxelles 1936, 171-186. L’influenza della Passio di Eugenia è sottolineata da J.M.H. Smith, Radegundis peccatrix: Authorization of Virginity in Late Antique Gaul, in P. Rousseau-E. Papoutsakis (eds.), The Transformation ofLate Antiquity: Essaysfor Peter Brown, Ashgate 2009, pp. 317-322. Su Tecla cfr. supra, pp. 56-57. 221 Vita di Radegonda 26; anche prima di chiudersi in convento la Quaresima era caratterizzata da particolare pratiche: indossava il cilicio sotto le versi regali cfr. ibi, 6.

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do, 1 altro di saluto per il ritorno di Radegonda, ove il poeta si concentra sul tema convenzionale della tristezza che coglie l ’amante quando l ’ama­ ta si nasconde alla sua vista e sulla gioia di rivederla tornare con la prima­ vera «radianti lumine vultus»222. Se nei capp. 25-26 l ’immagine martiriale di Radegonda tocca il suo apice, anche nei capp. precedenti Fortunato si era soffermato a descrivere la durezza delle penitenze cui si sottoponeva: ancora sposa di Clotario, chiedeva il permesso di alzarsi con il pretesto di una necessità fisica e, una volta uscita dalla camera, in un luogo appartato pregava, dopo essersi tolta il cilicio, prosternata sul pavimento gelido, quasi raggiungendo il rigor mortis e - aggiunge Fortunato con un’accentuata stilizzazione martiriale - «incurante dei tormenti del corpo, con la mente rivolta al paradiso, rite­ neva lieve ciò che sopportava, soltanto per non essere diminuita davanti a Cristo»223. Con il cap. 26 si chiude la serie degli episodi della sua ascesi e inizia­ no i miracoli (capp. 27-38); ma le due serie non hanno una successione cronologica e l ’acquisto dei carismi è svincolato dal raggiungimento della perfezione ascetica che è data tutta fin dall’inizio. Radegonda fa miracoli anche prima del periodo monastico, perfino da laica come Fortunato tiene a sottolineare224 e da diaconessa225. Il modello di Tecla agisce implicitamente anche in un altro punto cru­ ciale del racconto: quando Fortunato affronta l ’argomento spinoso dell’ ordinazione a diaconessa e il conseguente abbandono della condizione regale: a differenza delle aristocratiche celebrate da Gerolamo, Radegon­ da non era una vedova e, abbandonando il marito, andava contro il detta­ to evangelico (Rm 7,20; ICor 7,39). Il modello di Tecla, di questa marti­ re così venerata anche in Occidente e volitiva a tal punto da autosomministrarsi il battesimo226, può aver ispirato il modo con cui Radegonga forza la decisione del vescovo di imporle le mani222. Fortunato si è ricordato della Fabiola228 geronimiana nel mettere in luce il rapporto particolare fra Radegonda e i poveri e malati; a differen­ za delle altre aristocratiche - com e dice argutamente Gerolamo - «gene­

222 Carmi vili, 10, v. 1 e vili, 9. 223 Vita di Radegonda 5. 224 Vita di Radegonda 11. 225 Vita di Radegonda 28; diversamente Kitchen, cit., p. 120. 226 Atti di Paolo 34. 227 Vita di Radegonda 12: la regina richiese al vescovo Medardo di Noyon di essere ordinata dia­ conessa, ma questi di fronte al divieto evangelico e all’atteggiamento aggressivo dei cortigiani esitò: allora Radegonda entrò nella sagrestia, indossò l ’abito monacale e, avanzando verso l ’altare, lo richia­ mò rudemente ai suoi doveri pastorali. 228 Più che di Martino come afferma invece: Cristiani, cit., pp. 405-407.

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rose di borsa non di mano» - Fabiola si occupava personalmente dei mala­ ti per cui aveva fondato un hospitium: vi portava a spalle malati di lebbra e di cancrena; disinfettava ferite in suppurazione, imboccava personal­ mente «quei cadaveri viventi»229. L’importanza del contatto fisico con i poveri è un tratto significativo ed autentico della santità di Radegonda230. Il ritratto geronimiano di Fabiola ha semplicemente facilitato a Fortunato il compito di “riconoscerlo” e rappresentarlo in un modo che ne fa risaltare anche la specificità rispetto al modello: la cura che la regina dedica ai malati, ripetuta in giorni della settimana - il mercoledì e sabato - di particolare rilevanza liturgica e con i medesimi gesti, appare com e un grande rituale di penitenza e purifica­ zione di cui è lei la celebrante231: lava e cura le sorelle ammalate232, come prima di entrare in monastero, lavava i poveri, pulendo la sporcizia e net­ tando le ferite dal pus, le croste, la scabia, la tigna; li cospargeva d ’olio, li rivestiva e dava loro da mangiare servendoli di persona233; accoglie donne malate di lebbra e bacia loro il volto234. Martirio e miracoli sono i fuochi principali del testo di Fortunato, di cui però anche i silenzi meritano di essere notati. Pur essendole stato v ici­ no per vent’anni Fortunato è assente dalla Vita di Radegonda. Era a fian­ co di lei anche durante uno degli eventi più importanti della vita del mona­ stero da lei costruito: la richiesta e l ’arrivo della reliquia della croce, in cui lo stesso Fortunato aveva recitato un ruolo non secondario. Tale evento - come apprendiamo da Gregorio di Tours235 e da Baudonivia - aveva suscitato l ’ostilità del vescovo di Poitiers, Meroveo, che si era rifiutato di andare ad accogliere la reliquia come sarebbe stato suo compito; per questo motivo Radegonda si rivolse di nuovo al re Sigi­ smondo perché consentisse ad Eufronio, vescovo di Tours, di sostituirsi a Meroveo. E fu ancora un vescovo di Tours - questa volta Gregorio - a celebrare le esequie di Radegonda e a consacrare la chiesa che ne avreb­ be accolte le spoglie perché - come afferma Gregorio - Meroveo era lon­ tano in visita alle sue parrocchie236: segno evidente che il contrasto non fu affatto ricomposto nei decenni che seguirono. Si può facilmente indovina-

229 Gerolamo, Lettere 77, 6. 230 G. de Nie, Fatherly and Motherly Curing in Sixth-Century Gaul: Saint Radegund’Mysterium, in Ead., Word, Image and experience. Dynamics o f Miracle and Self-Perception in Sixth-Century Gaul, Aldershot 2003, xm, pp. 53-86. 231 Cristiani, cit., p. 409. 232 Vita di Radegonda 23; 24. 233 Vita di Radegonda 17. 234 Vita di Radegonda 19; cfr. anche 4. 235 Storie 9, 40. 236 Libro sulla gloria dei confessori 104.

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re com e Γ arrivo in città di reliquie237 così importanti che avrebbero attira­ to nella chiesa del monastero pellegrini e donazioni, un monastero per di più protetto dal re, fosse visto dal vescovo come una minaccia al prestigio della chiesa cattedrale che ospitava le reliquie di Ilario di Poitiers e una diminuzione anche del proprio prestigio238. Non bisogna dimenticare che fra i primi e più noti testi agiografici di Fortunato c ’è la Vita di Ilario di Poitiers dedicata a Pascenzio, vescovo di Poitiers prima di Meroveo, che l ’aveva sollecitata nell’intento di promuovere il culto di un patrono della sede episcopale239. Lasciare in ombra il ruolo di Radegonda (e il proprio) nell aver portato in città un’altra potente reliquia, significava ricondurre la memoria di lei sui binari più tradizionali dell’eroismo ascetico e lasciare in un cono d ’ombra quel contrasto fra episcopato e monastero che negli anni che seguirono la morte di Radegonda era scoppiato con inusitata vio­ lenza. Nel momento in cui scriveva la Vita, Fortunato era un prete della diocesi240 di Meroveo (t nel 591) e questi stava adoperandosi insieme ad altri vescovi per il ritorno alla normalità dopo la ribellione delle principes­ se merovingie e non era certo il caso di ricordare un contrasto che la gra­ vità degli eventi presenti aveva contribuito a superare. 5.1.

... e secondo Baudonivia

Il monastero e la vita che vi si conduceva era un altro aspetto trascu­ rato dal racconto di Fortunato. Questi aveva m esso in rilievo soltanto alcuni episodi utili a completare il quadro di perfezione ascetica e di per­ fetta umiliazione della monaca regina che svolgeva con puntiglio i servi­ zi più umili e disgustosi e si occupava delle sorelle malate. Ma il mona­ stero in quanto tale restava solo lo sfondo sbiadito delle performances ascetiche. Si comprende allora il motivo che spinse, poco dopo l ’anno 600, la badessa Dedimia del monastero della Santa Croce a richiedere alla monaca Baudonivia, che era stata allevata nel monastero della Santa Croce «fin dalla culla», di aggiungere alla Vita di Fortunato, un secondo libro, non per ripetere - dice troppo modestamente Baudonivia nel breve prologo -

237 Da Costantinopoli erano state inviate anche altre reliquie e copie preziose di libri sacri (Bau­ donivia, Vita di Radegonda II, 16). 238 J.C. Edwards, Their Cross to Bear: Controversy and thè Relic ofthe True Cross in Poitiers, in «Essays in Medieval Studies» 24 (2007), pp. 65-77. 239 D. Fiocco, L immagine del vescovo nelle Vìtae Sanctorum du Venanzio Fortunato, in «Augustinianum» 41(2001), pp. 213-230. 240 Carme vili, 12. Cfr. per l’intera questione: Judith, cit., pp. 212-214.

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«quanto il vescovo Fortunato, uom o apostolico, ha già detto, ma per aggiungere ciò che per non essere prolisso ha tralasciato, com e egli stesso ha spiegato, dicen­ do: “basti una breve narrazione dei miracoli della beata, affinché non venga a noia l ’abbondanza, né si reputi troppo breve, quando da pochi racconti si riesce a riconoscere la grandezza”»241.

N ei ventotto brevi capitoli che compongono l ’opera, Baudonivia man­ tiene in effetti quanto promesso: sulla base di ricordi personali o memo­ rie monastiche242 o testimonianze di altri243 riferisce miracoli, segni o azioni rimarchevoli compiuti da Radegonda in vita e dopo la morte244. Tuttavia il suo racconto contiene anche altro e, pur con risorse lettera­ rie molto più modeste245, porta in piena luce il ruolo di Radegonda come fondatrice del monastero e guida spirituale di esso. Soltanto Baudonivia ricorda che il monastero fu costruito, per ordine di Clotario, dal vescovo Pienzio di Poitiers e dal duce Austrapio e che Ra­ degonda volle nominare una badessa per essere sottomessa ai suoi ordini e per essere più libera di dedicarsi interamente a Dio246. Il racconto degli eventi che portarono Radegonda a chiudersi nel monastero è molto più ric­ co di dettagli e lascia trasparire - come è stato notato - una tendenza filo­ monarchica, del resto comprensibile a ll’interno di un monastero di fonda­ zione regia e che ospitava fanciulle appartenenti alla nobiltà merovingia247. Mentre la Radegonda di Fortunato, per quanto «nata e nupta regi­ na»248, abbandona del tutto le sue prerogative regali e appare tutta concen­ trata nelle pratiche di mortificazione e cura degli altri, la Radegonda di Baudonivia non rinuncia affatto al suo ruolo politico: dal monastero «de pace sofficità, de salute patriae curiosa»249 svolge compiti di mediazione di conflitti nelle tormentate vicende familiari della dinastia franca; né, per quanto sottomessa formalmente alla badessa, cessa per questo di tenere fermanente in mano le redini del monastero. Radegonda ne promuove il

241 Baudonivia, Vita di Radegonda n, prol. con citazione tratta dalla Vita di Fortunato, 39. 242 Baudonivia, Vita di Radegonda 2: «diciamo ciò che abbiamo udito e testimoniamo ciò che abbiamo visto». 243 Nella parte riguardante le esequie di Radegonda e i miracoli che l ’accompagnarono Baudoni­ via dipende dal racconto di Gregorio di Tours, cfr. supra, p. 401, n. 236. 244 Baudonivia, Vita di Radegonda 2: Radegonda fa bruciare un tempio ove i franchi rendevano un culto pagano; 11; 12; 15: guarigioni e signa compiuti nel monastero. 245 Per esempio, Baudonivia utilizza frasi prese di peso da altri testi agiografici proprio nel pro­ logo, la parte tradizionalmente più curata: «Scribere nesciens, quascumque legerat vitas sanctorum expoliavit» osserva l ’editore Krusch, p. 360. 246 Baudonivia, Vita di Radegonda 5. 247 Consolino, Due agiografi, cit., p. 155. 248 Venanzio Fortunato, Vita di Radegonda 4. 249 Baudonivia, Vita di Radegonda 10.

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prestigio cercando di procurarsi reliquie: dell’apostolo Andrea250, il dito mignolo del martire Mammete251 il cui corpo riposava a Gerusalemme e infine quelle della croce252. È significativo il paragone istituito a tale proposito fra Tinventio cru­ cis di Elena, madre di Costantino, con l ’acquisto della reliquia della croce da parte di Radegonda e ancora più significative sono le parole attribuite alla regina turingia con cui ella convince Sigiberto a chiedere dall’Im­ peratore la reliquia «per la salvezza della patria e per la stabilità del suo regno»253. Baudonivia ricorda che la permanenza delle reliquie della croce nel monastero lo rendono un luogo sacro per la monarchia franca in quan­ to da esso emana una speciale protezione per le sorti del regno. Per quanto non manchino riferimenti all’ascetismo254, Baudonivia mette in luce soprattutto il suo molo di esempio e di guida spirituale: Radegonda non imponeva nulla che non facesse lei per prima255; metteva al centro della vita comunitaria la lettura, la meditazione, la predicazione. Qui Baudonivia si ispira alla Vita di Cesario, sia plagiandone delle frasi intere256, sia raffigurando Radegonda n ell’atto di sollecitare le sorelle a fare domande sulle letture257, così come faceva Cesario258. In questo senso Baudonivia restituiva alla Radegonda di Fortunato, isolata nel suo eroi­ smo terribile, tratti più umani ed imitabili. Come ho già accennato, dopo la morte di Radegonda, seguita quasi subito da quella di Agnese, il prestigio del monastero derivante dalla fon­ dazione reale e dalla presenza delle reliquie aveva subito un duro colpo. Il modo con cui Fortunato aveva rievocato Radegonda, non poteva soddi­ sfare del tutto il monastero. Passato da poco quel periodo burrascoso, la badessa Dedimia avrà voluto ricordare, attraverso l ’esempio di una mona­ ca regina che aveva accettato di sottomettersi all’autorità di un’altra ba­ dessa, com e nobiltà e umiltà cristiana potessero convivere e dare frutti sia al regno, sia al monastero. Questo secondo libro nato all’intemo del monastero guarda al centro, ma non perde di vista la realtà locale. La presenza di Radegonda aveva

250 Baudonivia, Vita di Radegonda 13. 251 Baudonivia, Vita di Radegonda 14. 252 Baudonivia, Vita di Radegonda 16. 253 Baudonivia, Vita di Radegonda 16; facendo proprio un paragone che era stato già fatto da Gregorio di Tours. 254 Baudonivia, Vita di Radegonda 8; Baudonivia non menziona gli episodi più estremi, senza però sconfessarli in quanto rimanda a quanto Fortunato ha già detto in proposito. 255 Baudonivia, Vita di Radegonda 9. 256 Baudonivia, Vita di Radegonda 8 ; Vita di Cesario I, 24. 257 Baudonivia, Vita di Radegonda 9. 258 Cfr. supra, p. 384.

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arricchito Poitiers, che già ospitava la tomba di Ilario, di due altri loca sanctorum. Da viva aveva portato nella chiesa del monastero le reliquie della croce; da morta riposava nella chiesa di Santa Maria e Baudonivia riporta molti miracoli avvenuti presso il suo sepolcro. N el primo caso Baudonivia, ricordando le guarigioni compiute dalla reliquia della croce, esalta la grandezza del dono di Radegonda a «questa città»259. N el secon­ do caso, reclama per la tomba della santa regina un uguale diritto alla venerazione: è quanto suggerisce il racconto di due donne vessate dai demoni che, dopo aver richiesto invano aiuto presso la tomba di Bario, entrano nella chiesa di Santa Maria e lì vengono liberate: «Alcuni - con­ clude salomonicamente Baudonivia - vengono liberati nella basilica del santo; altri si dirigono presso la basilica della sovrana Radegonda, affin­ ché, come erano uguali nella grazia, così apparisse uguale anche nel pote­ re di fare miracoli»260. 6. Gregorio di Tours: «Virtù di santi e stragi di popoli» Al termine delle Storie, Gregorio descrive la successione dei vescovi di Tours, dal primo - Catiano - fino al diciannovesimo, egli stesso, trat­ teggiando di tutti un breve profilo: di sé ricorda di aver ricostruito più ampia e più bella di prima la chiesa cattedrale di Tours e di averla arric­ chita con numerose reliquie; di aver restaurato le pareti della basilica di Martino restituendole l ’antico splendore con affreschi; di averle costruito accanto un battistero; di aver consacrato in numerose località del territorrio di Tours chiese e oratori dotandoli di reliquie. «Ho scritto poi - aggiunge - dieci libri di Storie, sette libri di Miracoli, un libro attorno alle Vite dei Padri ; ho commentato il trattato del Salterio in un libro; ho redatto anche un libro sugli uffici ecclesiastici»261.

Il solenne autoritratto episcopale, risalente a poco prima della morte avvenuta nel 594, rappresenta il punto di arrivo di una carriera vescovile dagli inizi molto contrastati. Quando Tours fu al centro delle rivendicazio­ ni incrociate da parte dei figli di Clotario, uno di loro, Sigiberto, fece con­ sacrare vescovo Gregorio dal vescovo Remigio di Reims (573), cercando 259 Baudonivia, Vita di Radegonda 16. 260 Baudonivia, Vita di Radegonda 27. 261 Storie 10, 31 ; cito la traduzione di Gregorio di Tours, Storia dei Franchi, a cura di M. Oldoni, Milano 1981; l ’edizione critica delle opere di Gregorio è: B. Krusch, Georgii Florentii Gregorii epi­ scopi Turonensis libri o d o miraculorum, in MGH, SRM 7, Appendix. Tomus i, Hannover e Leipzig 1920.

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con questa mossa di sostenere le proprie rivendicazioni sulla città contro Chilperico. E proprio Chilperico, una volta impadronitosi della città, di­ venne uno dei principali nemici di Gregorio. Soltanto dopo la sua morte avvenuta nel 584, egli potè rinsaldare il proprio potere e diventare uno dei vescovi più importanti della Gallia262. A ll’inizio giocava a suo sfavore an­ che un altro elemento. Benché appartenesse ad una famiglia che - come ebbe a difendersi Gregorio stesso - aveva rapporti di parentela con tutti i vescovi di Tours eccetto cinque263, non era un sacerdote di quella città e, prima dell’elezione, aveva avuto con Tours soltanto rapporti sporadici. Nato a Clermont nel 538, era vissuto prevalentemente in Alvemia, dove la sua famiglia di origine senatoria aveva possedimenti. L’educazione di Gre­ gorio, rimasto orfano di padre ancora fanciullo, fu affidata in tempi suc­ cessivi a tre vescovi: Gallo, vescovo di Clermont; Nicezio, vescovo di Chalon; Avito vescovo di Clermont. A quest’ultimo Gregorio attribuirà in particolare la responsabilità di non averlo «reso dotto con l ’elegante lettu­ ra degli autori secolari»264, ma di averlo sollecitato soltanto agli «ecclesia­ stica scripta». La famiglia di Gregorio - come deduciamo da accenni spar­ si nelle sue opere - vantava tra i propri antenati quel Vettio Epagato ricor­ dato fra i martiri di Lione265 e aveva avuto un ruolo di rilievo nel promuo­ vere il culto di Giuliano di Brioude, di Gregorio di Langres (nonno della madre) e di Benigno di Digione; una famiglia dunque che nutriva una par­ ticolare devozione per le reliquie dei santi ed educava i figli a sviluppare una sensibilità e un interesse speciali verso queste pratiche devozionali. Il legame fra queste iniziative e le com plesse strategie di controllo del territorio da parte sia delle grandi famiglie di origine gallo-romana e dei vescovi che, pur provenendo in modo cospicuo dalle prime, avevano poi proprie ambizioni e prerogative da difendere sia dei re franchi è così significativo che una prosopografia dei santi e dei loro culti sarebbe un elemento indispensabile per comprendere i rapporti fra i diversi gruppi aristocratici ed ecclesiastici della Gallia del vi secolo266. Nella ricostruzione di questa complessa trama di rapporti, le Storie e le raccolte di miracoli sono complementari nell’offrire una messe ricchissima

262 Un profilo generale in: M. Heinzelmann, Gregory of Tours. History and Society in thè Sixth Century, tr. ing. Cambridge 2001. 263 Storie 5, 49. 264 Vite dei Padri 2, pref. 265 Vite dei Padri 6, 1. 266 R. Van Dam, Saints and their Miracles in late Antique Gaul, Princeton 1993, p. 67. Sul­ l ’argomento cfr. anche R. Van Dam, Leadership and Community, cit., pp. 203-300. L. Pietri, Calte des saints et religiosìté politique dans la Gaule du V* et du VP siècle, in Les fonctions des saints dans le monde oeddental (uf-xuP siècle), Actes du colloque organisé par l ’École fran£aise de Rome avec le concours de l ’Université de Rome La Sapienza, Rome, 27-29 octobre 1988, Rome 1991, pp. 353-369.

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di dati, malgrado possano apparire, di primo acchito, distinte per oggetto e forma letteraria. La loro stesura accompagna tutto l ’episcopato e ne costi­ tuisce uno dei puntelli più efficaci di rafforzamento. N ell’arco di circa un ventennio Gregorio continua a rivedere, aggiungere, moltiplicare i riman­ di interni mano mano che prosegue nella contemporanea stesura di più scritti. Dei dieci libri delle Storie, i primi quattro, che narrano la storia da Adamo fino al 575, sono stati composti dal 576 al 580 e soltanto il primo non è dedicato soltanto alla Gallia; gli altri si concentrano esclusivamente su quest’area e ne seguono da vicino le tormentate vicende dal 576 fino al 591, interrompendole bruscamente con il battesimo di Clotario267. Nello stesso periodo Gregorio continuava a registrare e pubblicare successiva­ mente i miracoli compiuti per la quasi totalità sul suolo gallico nei loca sancta di Martino; di Giuliano; dei Confessori e dei Martiri e, nello stesso tempo, andava raccogliendo e pubblicando separatamente le Vite dei padri che, in seguito, intorno al 592, furono raccolte in un unico libro. A ll’unità di tempo, l ’attualità, e di luogo, la Gallia, si aggiunge l ’in­ treccio dei contenuti; nelle Storie la presenza di santi, miracoli, prodigi è rilevante e programmaticamente voluta268: «Accadono cose giuste e male­ dette», afferma Gregorio nella prefazione generale delle Storie. C ’è la «feretas gentium», il «regum furor», Chiese devastate dagli eretici e Chiese in cui la fede è viva e Gregorio non ha potuto tacere «le lotte degli uomini cattivi e la vita di coloro che hanno vissuto rettamente». Più avanti, all’ini­ zio del secondo libro che arriva fino alla morte di Clodoveo, Gregorio approfondisce la sua riflessione sul senso di questo intreccio: «Prose­ guendo l ’ordine dei tempi, ricordo in modo sparso e confuso sia le virtù dei santi, sia le stragi dei popoli». La presenza nella storia di elementi antitetici è per lui un fatto obiettivo, che non è “irrazionale” raccontare in quanto perfettamente in linea con le historiae della Bibbia e quelle narra­ te da «Eusebio, Severo e Gerolamo e Orosio». La mescolanza della città di D io con quella terrena n ell’attesa della fine dei tempi è l ’oggetto pro­ prio delle sue Storie e la loro la struttura profonda269. Entrare più detta­ gliatamente nel dibattito storiografico che ha innovato la nostra compren­ sione delle Storie di Gregorio270 sarebbe qui fuori luogo; ciò che interes­ sa sottolineare è il comune orizzonte in cui si collocano e le Storie e i Libri dei miracoli·, negli uni e negli altri Gregorio si ritiene testimone di 267 Sulle fasi redazionali, cfr. Heinzelmann, Gregory o f Tours, p. 115. 268 S. Boesch Gajano, Il santo nella visione storiografica di Gregorio di Tours, in Gregorio di Tours, Todi 1997, pp. 29-91. 269 Così Heinzelmann, cit., pp. 94-152. 270 Status quaestionis in Heinzelmann, cit., pp. 1-6; P. Brown, Gregory of Tours: Introduction, in K. Mitchell-I. Wood, The World of Gregory of Tours, Leiden-Boston, Koln 2002, pp. 2-28.

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quello stesso intreccio di bene e di male di cui furono testimoni re, come Samuele e Davide, e profeti, com e Elia ed Eliseo, che compirono grandi miracoli fra il popolo di Israele, mentre lo stesso popolo era colpito da uccisioni e disgrazie271. 6.1. Libri dei miracoli

La gloria dei confessori. Più nota della lista presente nelle Storie ripor­ tata sopra, è quella che leggiamo nel prologo de La gloria dei confessori (GQ: «N el primo libro ho riportato alcuni dei miracoli compiuti dal Signore, dai santi Apostoli e dagli altri martiri, miracoli che sono rimasti sconosciuti fino ad oggi e che Dio si degna di aumentare ogni giorno per accrescere la fede dei fedeli; infat­ ti sarebbe stato oltremodo inopportuno che essi fossero consegnati a ll’oblio. N el secondo abbiamo scritto sui miracoli di San Giuliano. I libri dedicati ai miracoli di San Martino sono quattro. Il settimo contiene la vita di alcuni beati. Ho scrit­ to un ottavo libro sui miracoli dei confessori»272.

L’ordine, com e ho già accennato, non è quello cronologico: la stesura de La gloria dei martiri ( GM) avvenne infatti fra il 585 e il 588273; e nep­ pure riflette l’ordine della raccolta completa delle sue opere, raccolta che, come sostengono gli studiosi della tradizione manoscritta, non venne mai pubblicata274; è piuttosto un ordine di dignità; si comincia con i miracoli del Signore, poi attraverso Maria, Giovanni Battista, gli Apostoli si arriva ai martiri nel senso più stretto. In quanto martire Giuliano è prima di Martino che è - in senso tecnico - un confessore, tuttavia è il patrono di Tours e i quattro libri a lui dedicati rappresentano il cuore dell’opera agiografica di Gregorio; l ’ultimo libro riguarda gli altri confessori. Dei centosei brevi capitoli che fanno parte della Gloria dei martiri, i primi sono dedicati al Salvatore. La menzione della sua nascita a Be­ tlemme offre subito il destro di raccontare del miracolo accaduto presso il

271 Gregorio di Tours, Storie 2, pref. Soprattutto gli studi di G. De Nie, Views from a ManyWindowed Tower: Studies o f Imagination in thè Works o f Gregory of Tours, Amsterdam 1987 e Ead., Gregory of Tours’ Smile: Spiritual Reality, Imagination and Earthly Events in thè “Histories", in Ead., Word, cit., vili, pp. 68-95, hanno m esso in luce l ’importanza della cultura biblica per compren­ dere l’opera di Gregorio. 272 GC, prol. 273 Gregory o f Tours, Glory o f thè Martyrs, Translated with an introduction by R. Van Dam, Liverpool 1988, p. 4. 274 P. Bourgain-M. Heinzelmann, L ’oeuvre de Grégoire de Tours: la dijfusion de manuscrits, in N. Gauthier-H. Galinié (eds.), Grégoire de Tours, cit., p. 317.

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pozzo da cui Maria a Betlemme attingeva l ’acqua. Così avviene anche in seguito: gli elementi biografici sono ricordati soltanto nella misura in cui sono ricollegabili alle reliquie che da essi traggono origine: la colonna cui Gesù venne legato per la fustigazione, circondata da strisce di tessuto, è fonte di altrettante reliquie275: «Tutto ciò che tocca il sacro corpo diventa santo»276. La tunica e la lancia del Signore non sono da meno277. At­ traverso le reliquie che arrivano in Occidente, Gregorio può abbandonare il passato e i luoghi di origine, per occuparsi di ciò che gli sta più a cuore: l ’attualità e la Gallia. È il caso della croce, che lo conduce a Radegonda e ai miracoli compiuti a Poitiers278, o il caso di Maria. Di lei Gregorio rac­ conta le circostanze straordinarie della morte: il Signore venne una prima volta a prendere la sua anima e ad affidarla poi all’angelo Michele; venne poi una seconda volta a prenderne il corpo dalla tomba: «Egli ordinò che si portasse in una nuvola il suo corpo in paradiso ove ora Maria, con l ’as­ sunzione del corpo, esulta con i suoi eletti e gode per l ’eternità dei beni che non hanno termine»279. Questo capitolo è la prima formulazione in Occidente dell’assunzione del corpo di Maria280; inoltre l ’inserimento di Maria nel libro dedicato ai martiri è segno che Gregorio utilizza il termi­ ne in senso lato, come denominazione di eccellenza. I racconti fluttuano senza un ordine apparente nel tempo e nei diversi luoghi, legati dal tenue legame del riferimento ad un personaggio dei tem­ pi apostolici. Da personaggi dell’età apostolica, Gregorio passa poi a par­ lare dei martiri delle persecuzioni. La geografia dei martiri è limitata alla Gallia, l ’Italia e la Spagna. Fra i martiri africani è ricordato solo Cipriano e l ’Oriente è presente soltanto per i tempi apostolici. La passione e la vita del martire restano sullo sfondo e resta sullo sfondo anche la lezione morale che, nei tempi successivi alla fine delle persecuzioni storiche, di solito accompagna la celebrazione della memoria dei martiri. Soltanto alla fine Gregorio recupera il tema del martire come modello da imitare nel dominare i vizi e le attrattive del secolo. Tuttavia la “lezione” è introdot­ ta da una storia - una donna che accumula grandi ricchezze fìngendosi una santa - che illustra l ’antitipo del martire e il recupero appare postic­ cio rispetto all’insieme del libro i cui veri interessi battono altrove281.

275 GM 6. 276 Ibidem. 277 GM 7. 278 GM 5. 279 GM 4. 280 Sulla scorta di una fonte scritta, il libro dello Pseudo-Melitone sul Transito di Maria, secondo Krusch, cit., p. 489, n. 6 o un’altra tradizione orientale, Van Dam, Glory ofThe Martyrs, p. 22, n. 5. 281 Diversamente Van Dam, Saints, cit., p. 12.

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La passione e i miracoli di San Giuliano (VJ). Il completamento del libro su La passione e i miracoli di San Giuliano (VJ) risale a qualche anno prima, intorno al 580282; sulla passione, come era da attendersi, Gre­ gorio dice poco e quel poco anche intessuto di luoghi comuni: nato nella città di Vienne, il martire Giuliano «venne donato» aH’Alvem ia e, mentre stava ancora a Vienne con Ferreolo, «già emanava il profumo del marti­ re». Patì il martirio a Brioude, dove si era recato in un primo momento per adempiere l ’ordine del Signore (Mt 10,23), non per timore della morte, ma per affrontare il martirio lontano dai suoi, che avrebbero potuto impe­ dirlo. Rifugiatosi presso una vedova, alla fine si offrì ai persecutori che lo decapitarono: egli - dice Gregorio - fu diviso in tre parti: il corpo rimase a Brioude, la testa fu portata a Vienne dove venne inumata insieme al corpo di Ferreolo, anch’esso martire, mentre «la sua anima beata fu accol­ ta da Cristo, suo creatore»283. I capitoli che seguono sono dedicati allo sviluppo del culto martire sti­ molato non dal vescovo del luogo, ma dall’iniziativa di una matrona spa­ gnola che, ricevuta dal santo la grazia della liberazione del marito dalla pena di morte inflittagli dall’Imperatore Massimo (383), fece costruire una basilica sulla tomba del martire. Una prima sezione del libro (4-31) racconta i miracoli avvenuti a Brioude, di cui alcuni legati alla guarigio­ ne di membri della propria famiglia284; il padre di Gregorio era specialmente devoto al santo e si recava in pellegrinaggio a Brioude con tutta la famiglia: durante la celebrazione della sua festa il santo guarì il fratello di Gregorio e lui stesso. Una devozione ereditata e coltivata dallo stesso Gregorio spinto a scrivere dall’«amor patroni»285 un’opera il cui incipit, riportato da un solo ms, ma giudicato autentico286, recita: «qui comincia il libro sulla gloria del martire Giuliano, mio patrono particolare». Con il cap. 32 si inaugura la serie di miracoli legati alla disseminazione delle reliquie a Reims; in una non meglio specificata città dell’Oriente287, a Lim oges288, a Pem ay289, a Tours290, dove è ancora Gregorio, agli inizi dif­ ficili del suo episcopato, a sviluppare il culto e a legarlo a quello di Mar­ tino. Fiducioso nel praesidium del martire, Gregorio preleva una parte delle frange del mantello che copriva la tomba; ma ecco che alcuni mona­ 282 Gregory of Tours, The Suffering and Miracles o f thè Martyr St. Julian, tr. ingl. in Van Dam,

Saints, cit., p. 163. 283 VJ 1. 284 VJ 23. 285 y j

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ci di Tours le chiedono per la loro chiesa edificata in onore di Giuliano «per consacrarla con i suoi miracoli». «Ma io - dice Gregorio - presa di nascosto la cassetta (se. delle reliquie), sul far della notte mi affretto alla chiesa del beato Martino». In un contesto in cui spesso i martiri fanno capire a colpi di miracoli il consenso o il rifiuto al prelevamento di loro reliquie, Gregorio lascia intendere chiaramente che il suo comportamento non proprio limpido riscuoteva l ’approvazione del martire: «M i ha riferito un fedele che in quel momento assisteva da lontano, che quando entrammo nella basilica vide una luce immensa discendere dal cielo sulla basili­ ca e poi in certo qual modo entrarvi dentro»291.

Le reliquie negate ai monaci della sua città che con una chiesa dedica­ ta al martire e fornita delle sue reliquie avrebbero potuto creare un polo di culto forse in grado di fare ombra alla basilica di Martino, vennero inve­ ce concesse ad una chiesa del territorio di Tours292. È l ’ultimo racconto del libro; corredato dall’immancabile miracolo che avvenne in quella chiesa, esso apre uno spiraglio sul modo in cui un vescovo poteva avvalersi del possesso delle reliquie per il controllo sul territorio decidendo all’interno di esso la distribuzione dei loca sancta. Le parole conclusive sono ancora dedicate al particolare rapporto di Gregorio con Giuliano: «Meditando su questi miracoli, il lettore comprenda che in nessun altro m odo può salvarsi, se non ricorrendo all’aiuto dei martiri amici di Dio. Da parte mia, prego per la misericordia divina, attraverso la difesa del martire Giuliano, affinché stan­ do davanti a D io nelle vesti di avvocato possa vincere la causa del suo discepolo ed io possa completare il corso di questa vita senza l’impedimento di alcuna mac­ chia, conservare in m odo irreprensibile quanto ho confessato nel battesimo, eser­ citandomi nella fede e custodendola virilmente fino alla fine di questa vita. Am en»293.

I quattro libri sui miracoli di Martino. Martino entra piuttosto tardi nella vita di Gregorio; prima d ell’episcopato, egli menziona un solo pel­ legrinaggio presso la tomba del santo, avvenuto nel 563, quando grave­ mente ammalato ottenne la guarigione insieme ad un suo chierico, anche lui fra la vita e la morte294. La devozione di quel tempo si trasformò in

4

286 Krusch xiii n. 4 (1951).

287 VJ33. 288 y j 4 1 - 4 5 .

289 VJ 50. 290 VJ 34.

411

291 Ibidem. 292 VJ 32. 293 VJ 50. 294 VM 1, 32.

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intraprendente e infaticabile attività di sostegno e diffusione soltanto con l ’episcopato e questo in linea con la tradizionale politica dei suoi prede­ cessori Eufronio e soprattutto Perpetuo. Quest’ultimo ( f 491 ) - a detta di Paolino di Périgueux - era riuscito a trasformare Tours nella «città di Martino»295 con una vera e propria offensiva mediatica a tutto campo. Co­ struì una nuova chiesa di S. Martino fuori delle mura che divenne, a sca­ pito della chiesa cattedrale, sede delle più importanti celebrazioni liturgi­ che. Fece eseguire inoltre nuovi affreschi dedicati a Martino; compose una prima raccolta di suoi miracoli che venne trasposta in versi sempre da Paolino; normò il calendario liturgico che destinava - caso unico - alla celebrazione di Martino ben due date: il 4 novembre che festeggiava r e ie ­ zione all’episcopato e Γ 1 1 novembre come dies natalis296. Dei quattro libri dedicati a Martino (De virtutibus S. Martini = VM), il primo copre il periodo precedente al 573, data in cui Gregorio comincia la stesura dell’opera protrattasi poi fino al 593297. È il libro più breve ed eterogeneo; in 40 capitoli percorre i miracoli martiniani avvenuti nel v sec. rifacendosi sia a fonti scritte - com e Sulpicio Severo298 o Paolino di Nola299 - sia a tradizioni orali: come quella relativa ad Ambrogio che, ad­ dormentatosi sull’altare fra l ’imbarazzo generale, avrebbe visto in sogno la morte di Martino; una scena resa celebre dal mosaico che l ’illustra nella basilica ambrosiana di Milano300. Scopo dell’opera sono le «virtutes post obitum actae», tuttavia Gre­ gorio ricorda anche le tappe salienti della vita di Martino. Questo brevis­ sim o riassunto (solo sette righe dell’edizione critica!) è però interessante per due motivi: in primo luogo, è scomparso qualsiasi riferimento al Martino monaco. La promozione di Martino a santo di riferimento della Gallia passò attraverso una profonda trasformazione della sua immagine di monaco vescovo su cui invece si erano focalizzati gli scritti sulpiciani: si ricorderà, per esempio, com e Martino avesse ad un certo punto soste­ nuto che con l ’episcopato fosse dimuita la sua capacità di compiere mira­ coli301. Gregorio porta a compimento una trasfomazione già iniziata con Perpetuo la cui istituzione di una doppia festa era finalizzata a dare il mas­

295 Paolino di Périgueux, Vita di Martino 5, 295. 296 Storie 10, 31 (vi); e VM 1 ,6 . 297 M. Heinzelmann, Une source de base de la littérature hagiographique latine: le recueil de mìracles, in Hagiographie, cultures et societés. rV-xiF siècles. Actes du Colloque organisé à Nanterre et à Paris (2-5 mai 1979), Paris 1981, pp. 235-259. 298 VM 1, 1 299 VM 1, 2. 300 yj\j ^ 5 ^naturalmente Ambrogio morto nel 397, difficilmente avrebbe potuto vedere la morte di Martino avvenuta nel 401. 301 Gallo 2, 4, 1.

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simo risalto al vescovo taumaturgo. Si può notare la stessa metamorfosi nella contemporanea trasposizione in versi della Vita di Martino e del Gallo ad opera di Venanzio Fortunato che fu un prezioso alleato del vescovo turonense nella diffusione del culto di Martino302. In secondo luogo, pur nell’estrema stringatezza, Gregorio riesce a far emergere chiaramente la sua specifica concezione di Martino, com e alter Christus, la cui nascita e morte hanno diritto a figurare fra le date della storia universale, con riferimenti cristologici molto più pregnanti rispetto all’usuale modello cristologico del martire303: «Mentre il mondo già declinava, la gloria luminosa di Martino signore, risplen­ dendo su tutta la terra, sorgeva com e un nuovo sole (...); nato presso Sabaria in Pannonia, viene inviato con l ’aiuto di Dio a salvare la Gallia».

Martino «sol novus» contiene già un riferimento cristologico al «sole di giustizia» (MI 3,20); l ’accostamento fra le due figure, prima accenna­ to, si dispiega completamente quando Gregorio nota che la morte di Martino avvenne di domenica: «Si giudica che fu segno di non poco meri­ to il fatto che il Signore lo accogliesse in Paradiso, nello stesso giorno in cui il Redentore, signore vittorioso degli inferi, fosse risorto»304. I libri ii-iv sono più compatti: la parte preponderante dei racconti ri­ guarda i miracoli compiuti presso la tomba di Martino, miracoli che ve­ nivano registrati dai notarli della basilica e che costituiscono il dossier principale su cui Gregorio basa i suoi racconti, talvolta abbreviando, tal­ volta introducendo, episodi avvenuti fuori Tours. È un dossier a ragione definito un vero e proprio «joumal de pèlerinage»305 che, con la sua ric­ chezza di informazioni sulla provenienza geografica dei pellegrini, con­ sente di ricostruire il perimetro - ampio, ma tutto sommato regionale della diffusione del culto di Martino306. Dai frequenti cenni di cronologia relativa e assoluta è stato possibile ricostruire l ’ossatura cronologica dei diversi libri (il secondo raccoglie i miracoli registrati fra il 573 e il 581, il terzo fra 581 e il 587, il quarto fra il 588 e il 593) e dei diversi episodi all’interno dei singoli libri seguendo il filo conduttore delle celebrazioni delle feste di Martino durante le quali avveniva il maggior numero dei miracoli. I libri diventano a mano a mano 302 A.V. Nazzaro, La Vita Martini di Sulpicio e la parafrasi esametrica di Venanzio Fortunato, in Venanzio Fortunato e il tempo, cit., pp. 180-181. 303 Si veda inoltre la cronologia universale che conclude le Storie 10, 31. 304 yM 3 ; cfn anche cronologia universale che conclude le Storie 10, 31. 305 G.-M. Oury, Le miracle dans Grégoire de Tours, in Histoires des miracles, Angers 1983, p. 8. 306 Analisi statistica in L. Piétri, Le pèlerinage martinien de Tours à l ’époque de l ’évéque Grégoìre, in Gregorio di Tours, Todi 1973, pp. 93-140.

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più brevi e i racconti più stringati fino a lasciar trasparire nella loro asciut­ tezza, quello che doveva essere il formulario dei notarli: «Un cieco, pri­ vato della vista da molto tempo viene nella stessa festa (se. di Martino). Dopo aver pregato, mentre era in piedi accanto al sacro sepolcro, subito gli si aprono gli occhi e si rallegra per la vista riacquistata»307. Il riferimento frequente ad avvenimenti politici contemporanei, l ’as­ sunzione in certe sezioni di una datazione di tipo annalistico, l ’intreccio, attraverso le celebrazioni delle solennità martiniane, con la vita religiosa di Tours e, inevitabilmente, con i principali avvenimenti dell’episcopato di Gregorio, sono tutti fattori che aprono, per così dire, questi libri alla stessa compenetrazione tra storia e agiografia, che abbiamo già notato nelle Storie. Gregorio volle che i primi tre libri fossero composti rispetti­ vamente dal numero simbolico di 40, 60, 60 (Mt 13,23)308; non riuscì evi­ dentemente a portare a termire l ’ultimo che finisce improvvisamente e senza alcuna conclusione con il cap. 47.

Le Vite dei Padri. Un miracolo, narrato in GM, illustra con molta chia­ rezza i motivi che potevano spingere un vescovo a comporre Vite di santi o a cercare Passioni di martiri309. Un semplice lector è preposto alla sor­ veglianza di un piccolo oratorio che accoglie le spoglie del martire Pa­ troclo, su cui però non è disponibile nessuna «historia passionis» e per questa ragione il suo culto non ha molto successo. Il chierico riesce a pro­ curarsi e a copiare una Passio di Patroclo ottenuta da un viaggiatore di passaggio, la porta al vescovo che però non gli crede e lo accusa di aver­ la composta di sua fantasia. In seguito, però, la Passio viene confermata da un miracolo e il culto comincia a godere di maggior seguito: presto, al posto del piccolo oratorio, viene edificata una basilica e il popolo celebra devotamente ogni anno la festa del martire. Gregorio dà inoltre la sua interpretazione sui motivi d ell’iniziale disinteresse: «Era costume degli incolti venerare con maggior dedizione quei santi di cui possono rilegge­ re le lotte»310. Le Vitae (VP) sono state scritte in tempi diversi a partire dal 574 fino al 592/93, anno in cui Gregorio le riunisce in un’unica opera con l ’aggiun-

3°7 νΆί 3, 5; su questa caratteristica formale di tanti racconti: cfr. Henzelmann, Une source, cit. 308 VM 2, 60. 309 Gregory o f Tours, Life of thè Fathers, translated with an introducion by E. James, Liverpool 1985. A. Monaci Castagno, Il vescovo, l'abate e l ’eremita: tipologia della santità nel Liber Vitae Patrum di Gregorio di Tours, in L'agiografia latina nei secoli iv- vii, in «Augustinianum» 24 (1984), pp. 235-264. C. Leyser, “Divine Power Flowed from his Book": Ascetic Language and Episcopal Authority in Gregory of Tours’s Life o f thè Fathers, in K. Mitchell-I. Wood, The World, cit., pp. 281-294. 310 GAZ 63.

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ta di una prefazione e con Γ inserzione di una serie di rimandi interni che complica non di poco l ’individuazione della cronologia delle Vitae. Gre­ gorio sembra aver raccolto le Vitae principalmente sulla base d ell’area di culto: il primo gruppo (1-15) infatti riguarda santi che operarono preva­ lentemente nel territorio di Clermont; il secondo gruppo (15-20) è focalizzato sul territorio di Tours, con l ’unica eccezione del vescovo N icezio di Treviri. La raccolta narra vita e, soprattutto, miracoli di sei vescovi, dieci abati e cinque reclusi, tutti vissuti nel vi secolo, ad eccezione del vescovo Illidio di Clermont (t 384/385) e degli abati della seconda metà del v secolo, Romano e Lupicino. Le fonti di Gregorio sono molteplici: ai ricordi personali e alle tradizioni familiari si aggiunge ciò che ha visto personalmente: miracoli avvenuti presso le tombe, ma anche visite ai santi ancora viventi, e testimonianze raccolte da altri. Le VP offrono un cam­ pione ristretto, ma significativo, dei diversi modelli di santità presenti nella stessa area e nello stesso tempo. Gregorio presenta ciascun modello con caratteristiche particolari. Dei vescovi sottolinea l ’alta condizione sociale: Gallo di Clermont, Gregorio di Langres, N icezio di Lione proven­ gono da famiglie senatorie311; Quinziano di Clermont è nipote di un ve­ scovo312; di N icezio di Treviri esalta la grande cultura313. Gli abati e gli eremiti provengono, invece, da famiglie talvolta libere e di condizioni mo­ deste, in altri casi, di condizione servile da cui il santo riesce a fatica ad emanciparsi314. I diversi modelli si differenziano per le virtù, non nel senso di un’alterità radicale, ma nel senso di un arricchimento progressivo di qualità nel passare dal modello più semplice dell’eremita a quelli più complessi del­ l ’abate e del vescovo. Le virtù dell’eremita su cui si insiste di più sono l ’ascetismo, l ’umiltà, la dedizione assoluta a Dio che esclude ogni altro tipo di attività315. Gli abati aggiungono a queste virtù la capacità di guida­ re i monaci a loro sottoposti: Gregorio apprezza in particolare la severi­ tà316. Attribuisce grande valore al possesso di un certo grado di cultura, anzi essa diventa un motivo agiografico non trascurabile nella costruzio­ ne letteraria della Vita: Brachione, di condizione servile, riesce ad impa­

311 Rispettivamente: VP 6, 1; 7, 1; 8, 1; nel linguaggio di Gregorio il termine sehator poteva rife­ rirsi sia a discendenti delle famiglie senatoriali imperiali sia ai curiales, sia a ricchi proprietari terrie­ ri che non discendevano da nessuno dei gruppi precedenti. 312 VP 4, 1. 313 VP 17, 1. 314 VP 5, 1; 11, 1; 1 2 ,2 ; 16, 1. 315 VP 10, 1; 11, 2; 12, 1; 13, 1 etc. Soltanto di Lupicino (VP 18) vengono riferite pratiche asce­ tiche estreme: portava costantemente sulla testa una pietra pesantissima e per vincere il sonno aveva conficcato due spine su un bastone che teneva sempre sotto il mento. 316 VP 12, 3.

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rare a leggere di nascosto copiando le lettere che sui muri d ell’oratorio accompagnano le immagini degli apostoli e interrogando furtivamente i giovani chierici sul significato di questa o quella lettera317. Raggiunto poi Emiliano nel suo eremo impara a memoria il Salterio e quando questi muore, Brachione è pronto a succedergli alla guida del monastero. Patro­ clo, che da piccolo era stato destinato dai suoi alla custodia del bestiame, riesce a conquistarsi faticosamente una cultura e lo troviamo ad un certo punto nelle vesti di organizzatore di una scuola rurale318. Il «culmen sanctitatis»319 viene toccato solo dai vescovi. Essi, certo, condividono con gli eremiti e gli abati le stesse virtù: Gregorio di Langres, per esem pio, era tanto assiduo nei digiuni, nelle preghiere e nelle elem o­ sine «da risplendere come un nuovo eremita»320. Ma Gregorio ritorna più spesso sulle virtù peculiari fra cui in primissimo piano: la «sancta libertas», la mancanza di timore verso i potenti della terra di cui il vescovo sa arginare la prepotenza verso il povero e la Chiesa e denunciarne i pecca­ ti321. Connessa alla sancta libertas è la virilitas, il criterio di valore utiliz­ zato più spesso da Gregorio per giudicare gli uomini e gli eventi. L’esal­ tazione della santa libertà dei vescovi rimanda alla teologia politica del­ l ’autore che fa dire a N icezio di Treviri: «Il re mi ha strappato al monaste­ ro per essere consacrato a questo gravoso incarico (se. l ’episcopato). Si faccia dunque la volontà di Dio, infatti sarò di ostacolo all’adempimento della volontà del re se rivolta al male»322. La sancta libertas deve però essere bilanciata dalla patientia, la capa­ cità di sopportare le ingiurie in nome di un bene comune e superiore; qua­ lità antitetiche, ma entrambi necessarie per affrontare con successo i rap­ porti spesso burrascosi con i grandi signori laici e con il clero sottoposto, come Gregorio aveva appreso nei suoi rapporti con i potenti in cui alter­ nò mom enti di intransigenza, come la difesa del diritto di asilo della chie­ sa, a momenti di maggiore flessibilità323. La stessa “specializzazione” dei diversi modelli di santità emerge an­ che dai dossier di miracoli e di altri signa che costituiscono buona parte

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delle VP. La lotta contro i demoni è un motivo agiografico importante nel­ le Vitae degli eremiti: soltanto loro combattono con le tentazioni, mentre nelle altre Vitae il demonio è una minaccia esterna, vinta senza dramma­ ticità dal gesto taumaturgico. Superate le tentazioni, gli eremiti compiono miracoli che però riguardano l ’orizzonte limitato della clausura «intra secreta silvarum» com e Patroclo324, o in una celletta presso la basilica di Martino, come Monegonda325. Fonti che sgorgano miracolosamente, cibo che compare all’improvviso sono miracoli la cui funzione è quella di difendere, talvolta incrementare o ribadire lo stato di reclusione del santo. I miracoli degli abati hanno un raggio d ’azione più vasto, ma ancora limitato alla vita e all’incremento del monastero o alla fondazione di altri monasteri. Se si escludono i miracoli di guarigione, compiuti da vivi o più spesso ex tumulo e che hanno per beneficiari singoli laici, Gregorio ripor­ ta un unico caso in cui una virtus ha come beneficiario una comunità più vasta di quella del monastero: è il caso d ell’intervento di Porziano a favo­ re degli abitanti del territorio di Clermont fatti prigionieri da Teodorico326. La potentia dei vescovi si dispiega in campi assai più vasti: liberano prigionieri327, contrastano le prepotenze dei grandi signori laici328, proteg­ gono la città e il territorio, dalle calamità naturali, dalle distruzioni delle armi329 e dall’esosità delle tasse330, promuovono il culto di altri santi e sono severissimi guardiani della reverentia dovuta ai santi331. La diversificazione dei tipi di santità si accompagna con la definizione di un modello di rapporti fra i diversi protagonisti: il VP è chiarissimo per quanto riguarda il rapporto fra vescovi ed eremiti: uno di questi, Friardo, sentendosi in punto di morte, manda a chiamare il vescovo Felice di Nan­ tes che, però, essendo occupato, lo prega di aspettare, così il santo eremi­ ta ottenne da Dio di rimanere ancora vivo a lungo per poter abbracciare il suo vescovo prima di morire332; in un altro episodio è lo stesso Gregorio che vieta a Leobardo di allontanarsi dalla cella che occupava nel monaste­ ro fondato da Martino a Marmoutiers333. A l vescovo tocca di visitare l ’ere­ mita, di raccoglierne le confidenze, di dirigerne la vita spirituale, in piena continuità con quanto è raccontato nelle Storie: valga per tutti il caso di

317 VP 12, 2 . 318 VP 9, 1. y p 2, 1: così Gregorio definisce l ’onore dell’episcopato. VP 7, 2. 321 Come Nicezio di Treviri VP 17, 1. 322 Ibidem. Cfr. sulla teologia politica di Gregorio M. Reydellet, Pensée et pratique politiques chez Grégoire de Tours, in Gregorio di Tours, 10-13 ottobre 1971, pp. 173-205; E. Magnou-Nortier, Exìste-t-il line géographie des courants de pensée dans le clergé de Gaule au VP siècle?, in GauthierGalinié (eds.), Grégoire de Tours, cit., pp. 138-167. 323 Come Gallo di Clermont, paragonato a Mosè per la pazienza dimostrata verso il suo clero tur­ bolento e maleducato: VP 1, pref. 319 320

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324

VP 9 ,2 VP 9 ,2 VP 5, 2 327 VP 7 ,3 8, 10 328 VP 5, 3 17 ,5 329 VP 4, 2 6 , 2 . 330 VP 2 , 1 331 VP 7, 5 8, 5. 332 VP 10, 4. 333 VP 2 0 ,3 . 325 326

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Vulfilaico, l ’unico stilita occidentale, che fu convinto proprio da Gregorio a tornare alla vita comune334. Le Vitae ordinano le diverse espressioni della santità in un modello for­ temente gerarchizzato che destina a ciascuno determinate virtù, determi­ nati miracoli, determinate funzioni e luoghi per esercitarli: è un quadro profondamente diverso da quello offerto, per esempio, dai Dialoghi di Gregorio Magno che riservavano ai monaci compiti di leadership nei riguardi delle comunità locali e periferiche335. In un’epoca in cui i vesco­ vi spesso venivano assassinati dai potentes laici o venivano deposti e dura­ mente contestati dal loro stesso clero, le Vitae esaltano la dignità episco­ pale circondandola di un’aura sacra, potenziando il prestigio di Martino epìscopus, celebrando la potentia posseduta da alcuni di loro e ancora pre­ sente attraverso le loro reliquie. Per la rarità della presenza femminile nel discorso agiografico della Gallia merita un cenno la Vita di Monegonda336: una donna sposata e una madre felice che matura la sua conversione a una vita di rinuncia e di iso­ lamento dopo la perdita delle due figlie. Nel concedere molto spazio alla narrazione del dolore della donna, Gregorio manifesta una sensibilità di­ versa da quella emergente da racconti analoghi dedicate a donne aristocra­ tiche - Paola, Melania senior e junior - che pure maturavano la loro scel­ ta di distacco dalla famiglia a seguito di lutti familiari. Qui il dolore, de­ scritto da uomini che avevano fortemente introiettato il modello dell’iperturbabilità stoica rafforzata dalla speranza cristiana nella vita ultraterrena, era completamento assorbito nell’ottica provvidenzialistica com e evento necessario alla realizzazione dell’aspirazione alla vita monastica. M o­ negonda invece arriva alla scelta monastica soltanto come via di scampo da un lutto che la sta distruggendo. Va notato inoltre un altro elemento che testimonia la soluzione di continuità rispetto ai modelli precedenti: M one­ gonda come Radegonda e, nel secolo precedente, Genoveffa di Parigi337 non proviene dalle famiglie gallo-romane, ma è di origine barbarica.

334 L tf 8, 15. 335 Cfr. supra. cap. 8, n. 153. 336 VP 19; cfr. in generale: Kitchen, Saints’Lives, cit., pp. 108-114. 337 Beaujeard, Le culte, cit., pp. 297-298. Su Genoveffa, una vergine che quando Attila assediò Parigi si distinse per aver sostenuto la resistenza della città, esiste una Vita composta intorno al 520 in tre recensioni: discussione dei problemi di datazioni e attendibilità storica in: M. Heinzelmann-JC. Poulin, Les Vies anciennes de sainte Geneviève de Paris. Etudes critiques, Paris-Genève 1986. Gregorio di Tours ne racconta un miracolo di risurrezione e ricorda la sua abilità di guarire la febbre e il luogo della sepoltura nella basilica dei Santi Apostoli (Storie 4,10; GC 89).

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4 ly

La Gloria dei confessori (GC). «I confessori di Cristo che il tempo della persecuzione non condusse al martirio, pur di essere ritenuti degni di D io, divennero persecutori di se stessi e si crocifis­ sero con molteplici rinunce per vivere, attraverso la mortificazione delle membra, solo per Colui di cui l ’Apostolo disse: “Io non vivo più, ma in me vive Cristo”

oGal 2,20)»338. È la definizione ormai classica che giustifica la scelta di dedicare un libro anche ai confessori. Tuttavia, il più delle volte, Gregorio sa poco o nulla sulle pratiche ascetiche; è, com e al solito, tutto concentrato sui mira­ coli, meglio se ex tumulo', sono infatti questi a testimoniare infallibilmen­ te sulla raggiunta qualifica di confessore di colui che giace sulla tomba. GC fu composto fra il 587/588, ma, com e gli altri, venne fatto ogget­ to di aggiunte e revisioni in tempi diversi. Il libro comincia con un mira­ colo causato dall’invocazione dei nomi degli angeli: nella sistemazione finale dei suoi scritti Gregorio ha voluto costruire un parallelismo con il libro dedicato ai martiri che iniziava con le virtutes di Cristo. Un altro pa­ rallelismo, questa volta implicito, è costituito dai capp. 4-12 dedicati alle virtutes legate a luoghi e oggetti legati al Martino, in analogia ai capitoli di GM dedicati alle reliquie connesse a Cristo, a Maria e agli Apostoli. Il cancello presso il cui il santo riposò339, il sasso su cui si era seduto340, la cappella in cui aveva pregato341, l ’albero che aveva tolto dalla strada fa­ cendo un semplice segno di croce342, la vigna che aveva piantato e il cui vino ha la capacità di guarire34334, individuano una rete di loca sancta3AA precisamente identificati nel territorio di Tours e che suggeriscono l ’idea di una sorta di Gerusalemme gallica. La stragrande maggioranza dei 106 capp. riguardano la contempora­ neità e un numero ristretto di città e Chiese della Gallia. Erano le zone che Gregorio conosceva meglio: il territorio di Poitiers e quello di Tours: «a notably parochial book», come lo definisce Van Dam345*.

338 VP 2, pref. 339 GC 5. 340 GC 6. 341 GC 8. 342 GC 1. 343 GC 10. 344 Sulla distinzione fra loca sanctorum , luoghi in cui riposano le reliquie dei santi e loca sancta legati a passaggi occasionali dei santi cfr. L. Pietri, Grégoire de Tours et la géographie du sacre, in Gauthiers-Galinié (eds.), Grégoire de Tours. cit., pp. 111-114. 345 Gregory o f Tours, Glory ofthe Confessors. Translated with an introduction by R. Van Dam, Liverpool 1988; un solo personaggio orientale: lo stilita Simeone: GC 26.

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Tra i personaggi la cui qualifica è chiaramente individuabile e che sono i protagonisti di uno o più capitoli, la categoria più numerosa è rappresen­ tata dai chierici: vescovi in primo luogo (40) e presbiteri (7). È interessan­ te notare, però, che al secondo posto, dopo i vescovi, troviamo le donne (13), che sopravanzano gli abati (8) e i reclusi (7 capp.). Un altro elemento che merita di essere sottolineato per la sua rarità alfin tem o del discorso agiografico antico è l ’esaltazione del legame coniugale come valore a sé stante, indipendentemente dalla presenza o meno della scelta di continenza e sottolineato dal miracolo con cui i co­ niugi morti in tempi diversi sono riuniti nella tomba, come quel senatore che, defunto da tempo, leva il braccio per abbracciare la moglie nel mo­ mento in cui il corpo di lei veniva deposto nello stesso sarcogago: «Il popolo colmo di ammirazione [...] conobbe la loro castità, il loro timore in D io e l ’amore che c ’era stato fra loro nel secolo, se si erano così abbrac­ ciati nel sepolcro»346. I racconti si susseguono senza un ordine apparente, anche se quelli riguardanti una stessa tipologia di persone tendono ad aggregarsi in pic­ coli gruppi internamente omogenei, ma intervallati da altri racconti347. Come e forse più dei precedenti, questo libro dipende da ricordi persona­ li e familiari legati a quel «loca sancta circumire», praticato fin da bambi­ no accanto al padre348, poi in prima persona349 e inoltre raccomandato co­ me pratica santificante350. 6.2.

«Haec sunt certae reliquiae...» (VJ 41 )

Agli occhi dei lettori colti nutriti dal linguaggio biblico, alcuni raccon­ ti di miracoli potevano certamente assumere ulteriori e più spirituali signi­ ficati351; tuttavia , il Vescovo di Tours afferma più volte di considerare suo compito precipuo riferire miracoli che «vede» «ogni giorno»352 con l ’in­ tenzione di sostenere e rafforzare la fede nei miracoli compiuti dai santi e da Martino in particolare quando erano ancora in vita353.1 miracoli spiri-

346 GC 41; cfr. anche lo stesso motivo narrativo, ma di una coppia che aveva rinunciato all’unio­ ne carnale: GC 31; amore di coppia anche GC 64. 347 Es. donne: capp. 62; 63; 64; 102; 103; 104; vescovi: capp. 60-79 348 GC 39. 349 GC 96. 350 GC 58. 351 Secondo la proposta di G. De Nie, History and Miracle: Gregory 's Use ofMetaphor, in Ead., Word, cit., ix, pp. 261-279. 352 VM 2, 60. 353 VM 1, prol.

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tuali di trasformazione interiore sono appena sfiorati354; quelli di interces­ sione per il perdono dei peccati ricevono un certo rilievo, ma sono i mira­ coli di guarigione che avvengono sotto i suoi occhi a rassicurarlo sul fatto che - nel momento del giudizio - la potentia del santo potrà intervenire a favore dei fedeli355. N ell’immenso repertorio costituito dai Libri miraculorum, la stragran­ de maggioranza è costituita dai miracoli di guarigione dei pellegrini pres­ so le tombe dei santi. Fra questi Gregorio stesso, le cui dettagliate descri­ zioni dei propri innumerevoli disturbi sono superate soltanto dai Discorsi sacri con cui Elio Aristide rendeva omaggio alle guarigioni di A sclepio356. La potentia del santo opera presso le tombe attraverso qualsiasi ogget­ to che abbia avuto una qualche relazione con il santo: l ’olio delle lampa­ de sospese sul sepolcro, la polvere grattata dalla tomba, un frammento dell’abito indossato durante la visita al santuario357, un pezzo di corda della campana della chiesa358, le foglie e la scorza di un albero cresciuto sul sepolcro359. Non mancano i miracoli funzionali al ristabilimento dell’ortodossia360 o - ma più raramente - alla conversione dal paganesimo361. Se il singolo racconto di miracolo raramente contiene un insegnamen­ to morale, i numerosissimi miracoli di punizione e/o di preservazione, che riguardano i tempi e i luoghi santi, disegnano, nell’insieme, un’etica del­ l ’uso del sacro, di com e, cioè, sia necessario «cultum reverentes reddere amicis D ei»362. Con i miracoli vengono difesi l ’integrità delle reliquie e lo stretto lega­ me con un luogo particolare: quando il vescovo di Torino mandò il suo arcidiacono a prendere le reliquie di Giovanni Battista a Saint Jean de Maurienne - la chiesa infatti cadeva sotto la sua giurisdizione - , il pove­ retto si ammalò e morì dopo aver toccato il reliquiario363. Altri miracoli individuano e segnalano i loca sanctorum malgrado l ’incuria o l ’ignoran­ za degli uomini: è il caso del martire Benigno che, sepolto in un sarcofa­

354 VM 2 ,6 0 . 355 VM 4, prol. 356 Fra i tanti: VM 2, 60; 3, 1. 60; 4, 1. 357 VM 1, 13. 358 VM 1, 28. 359 GM 1, 78. 360 Ariani: GC 13.14-, Ebrei: GM 1, 9; pagani: VJ 5. 361 Sui problemi posti da tale penuria: Y Hen., Paganism and Superstitions in thè Time of Gregory of Tours: une question mal poséel, in K. Mitchell-I. Wood (eds.), The World of Gregory o f Tours, cit., pp. 229-240. 362 VM 4, prol. 363 GM 13.

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L’agiografia cristiana antica

go che sembrava contenere il corpo di un pagano, non riceveva dal vesco­ vo del luogo - Gregorio di Langres - gli onori dovuti, pur operando numerosi miracoli a favore dei rustici. Anzi, malgrado il motiplicarsi dei miracoli, il vescovo ne ostacolava il culto, fino a quando il martire gli apparve in sogno rimproverandolo acerbamente. Altri miracoli e Γ arrivo a Langres deli’historia passionis del martire portarono poi alla costruzio­ ne di una grande basilica sulla cripta del martire364. Un altro caso, fra i tanti che si potrebbero citare365, è quello delle due vergini le cui tombe giacevano fra gli sterpi esposte alle intemperie e che con ripetute visioni, minacce e miracoli ottennero un piccolo oratorio e la benedizione del vescovo di Tours Eufronio366: sono i miracoli che indicano infallibilmen­ te la presenza di «divinum aliquid»367. E interessante notare la differenza con la prospettiva espressa dai Li­ belli miraculorum agostiniani: questi li riteneva un sostegno vigoroso alla fede nel Cristo risorto, mentre il vescovo di Tours li considerava, in primo luogo, prove della manifestazione della potentia di un santo nei loca sancta. I miracoli difendono i loca sanctorum in un mondo violento che non teme i santi e dubita dei miracoli368: la ricchezza della basilica del marti­ re Giuliano a Brioude suscita la cupidigia dei soldati di Teodorico che stanno attraversando TAlvemia. Entrano con l ’astuzia nella basilica ove si erano rifugiati gli abitanti con i loro averi, ne rubano i tesori, ma vengo­ no presto raggiunti dall’ira divina a tal segno che Teodorico stabilisce che da allora in poi non ci si potesse avvicinare in armi a meno di sette miglia alla basilica del santo369. Martino, un santo che, come si ricorderà, aveva osato contrapporsi all’Imperatore, è particolarmente efficace nel difende­ re res suas dai potenti di turno: è il caso di Cariberto che «odiava i chie­ rici, trascurava le chiese di D io, disprezzava i vescovi» e rivendicò per sé una proprietà appartenente alla basilica di Martino; non potendola ottene­ re in base al diritto diede ordine che vi si facessero pascolare i cavalli. «Vindex est enim Deus velociter servorum suorum» - osserva Gregorio e infatti i cavalli vennero resi folli e molti perirono e lo stesso Cariberto «divina iussione» morì. Con il suo successore Sigiberto, la proprietà ritor­ nò «in dominio Sancti Martini»370.

364 GM 50. 365 GM 64; 103; 34. 366 GC 18. 367 GC 35. 368 q m 23-24: l’incredulità e la temerarietà del re Teodegesilo che non crede al miracolo lo con­ ducono alla morte «perché osò investigare il segreto della potenza divina». 369 VJ 13. 370 VM 1, 29.

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