Lo spazio letterario di Roma antica. I testi. La poesia [Vol. 6.1] 8884026784, 9788884026781

Primo di due volumi destinati a integrare i precedenti cinque de "Lo spazio letterario di Roma antica" con un

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Lo spazio letterario di Roma antica. I testi. La poesia [Vol. 6.1]
 8884026784, 9788884026781

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LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Volume VI I TESTI: l. LA POESIA Direttore: Piergiorgio Parroni

SALERNO EDITRICE

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Nello Spazio letterario di Roma antica al centro dell'interesse è il testo, nei suoi momenti e percorsi: dalla produ­ zione alla circolazione, dalla ricezione all'attualizzazione. Del testo si seguo­ no le vicende lungo la parabola del mondo romano, quindi, oltre il Me­ dioevo e il Rinascimento, fino alle ri­ prese piu o meno consapevoli o occa­ sionali nell'età contemporanea e nella civiltà dei mass-media. Per testo, inol­ tre, non s'intende soltanto ciò che a noi moderni è giunto in seguito al processo di selezione verificatosi nel­ l'antichità (e quando sia sopravvissuto alle insidie della lunga tradizione me­ dievale) ma anche quella vasta lettera­ tura sommersa, giudicata «minore » e solitamente trascurata perché affidata a forme di tradizione orale o non lega­ ta a forme letterarie nobili. Dei testi considerati però non tanto nell'ottica limitata dei singoli autori, quanto piut­ tosto nella totalità dei generi- vengo­ no ricostruiti gli itinerari culturali, i modelli che agiscono e interagiscono, i caratteri originali e le successive strati­ ficazioni. In questa compiuta rivisita­ zione, ricevono piena luce anche i meccanismi complessi della tecnica al­ lusiva e i fenomeni d'intersezione dei generi stessi e dei modelli. I fattori unificanti della cultura romana si ac­ compagnano, lungo l'arco di una sto­ ria millenaria, a elementi di diversifi­ cazione, e lo spazio letterario di Roma antica può essere anche inteso come un insieme di spazi che interagiscono. Lo Spazio letterario di Roma antica è dunque una proposta originale di ri­ pensamento della cultura romana: in essa, il progetto, la scelta degli autori, l'elaborazione della materia, il coordi­ namento editoriale, sono il frutto di un grande impegno al fine di offrire un'opera di cui sia possibile una frui­ zione al tempo stesso continua e pluri­ dimensionale. Scritta da studiosi tra i migliori di cui oggi l'Italia possa di­ sporre, quest'opera si propone anche come laboratorio di metodologie, di sperimentazioni, di prospettive.

Volume VI I TESTI : 1 . LA POESIA Primo di due volumi destinati a in­ tegrare i precedenti cinque dello Spa­ zio letterario di Roma antica con un cor­ redo di testi tradotti e commentati, questo, dedicato alla poesia, è articola­ to in sezioni (epos, poesia didascalica, teatro, lirica, elegia, bucolica, satira, epigramma, favola), introdotte da pre­ messe che studiano ogni genere lette­ rario nella sua genesi, nelle sue carat­ teristiche, nella sua evoluzione storica. La scelta è stata condotta in modo da privilegiare i "maggiori", presenti anche con passi meno largamente no­ ti, senza per questo sacrificare i "mi­ nori", specie quando essi hanno rive­ stito un ruolo di rilievo nella storia della cultura. Le traduzioni a fronte, tutte originali, si sforzano di far rivive­ re lo spirito dell'autore antico, mentre le note introduttive e di commento non solo si propongono di fornire al­ l'utente una chiave di lettura di ciascu­ na opera letteraria, ma intendono an­ che mettergli a disposizione gli stru­ menti indispensabili ad affrontare consapevolmente problemi esegetici e critico-testuali. Ispirato agli stessi criteri, il volume dedicato alla prosa, che seguirà a breve, presenta una ana­ loga scelta di exernpla organizzati in­ torno ai grandi filoni della storiogra­ fia, della retorica e dell'oratoria, della filosofia, del romanzo, dell'epistolo­ grafia, della letteratura scientifica ed erudita. "Schede" finali degli autori antolo­ gizzati contengono dati indispensabili su vita, opere, fortuna, tradizione ma­ noscritta di ciascuno di essi e si conclu­ dono con una nota bibliografica che completa, aggiornandola, quella del quinto volume dello Spazio letterario. Un agile indice analitico permette di orientarsi rapidamente sulla vasta e complessa materia.

In copertina:

Orazio assurto fra i lyrici vates (Orazio, Carn1� 1 1

35

sg.). Città del Vaticano, Biblioteca Apo­

stolica Vaticana, Vat. Lat.

E 1.

3173 (fine XV sec.),

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA

I TESTI

Volume VI I TE STI: 1. LA PO E SIA

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA

Volume I LA PRODUZIONE DEL TESTO Volume II LA CIRCOLAZIONE DEL TESTO Volume III LA RICEZIONE DEL TESTO Volume IV L'ATIUALIZZAZIONE DEL TESTO Volume V CRONOLOGIA E BIBLIOGRAFIA DELLA LETTERATURA LATINA *

Volume VI I TESTI: 1. LA POESIA Volume VII I TESTI: 2. LA PROSA *

INTRODUZIONE ALLA FILOLOGIA LATINA

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Volume VI I TESTI: 1. LA POESIA

Direttore PIERGIORGIO PARRONI A cura di ALESSANDRO FUSI, ANGELO LUCERI, PIERGIORGIO PARRONI, GIORGIO PIRAS

S A L E RNO EDI T RI C E RO M A

ISBN

978-88-8402-678-1

Tutti i diritti riservati - Ali rights reserved Copyright © 2009 by Salerno Editrice S.r.L, Roma. Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l'adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Salerno Editrice S.r.L Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge.

PRESENTAZIONE

Tra il1989 e il19 91la Salerno Editrice proponeva con i cinque volumi de Lo spazio

letterario di Roma antica un modo nuovo e originale di affrontare la letteratura la­

tina. Per la prima volta nel campo dei nostri studi si presentava il testo letterario (e piu in generale il documento scritto) non solo in se stesso ma anche nella sua circolazione e d!ffusione (dapprima a Roma e nelle regioni circonvicine e poi via via nelle varie parti dell'impero), nella sua trasmissione in età tardo-antica e medievale e infine nella sua penetrazione e reviviscenza nelle culture nazionali daWUmanesimo all'epoca contem­ poranea, con un'ampia apertura interdisciplinare (l'ultima sezione, destinata ai "mass­ media'� si apre ai film storici ambientati nell'antica Roma e aifumetti in latino). Que­ sto ambizioso obiettivo veniva raggiunto chiamando a raccolta specialisti di varie disci­ pline, tutti indirizzati, pur nella diversità dellaformazione e degli orientamenti, ad un unico scopo, quello difar risaltare da un lato la poliedricità, dall'altro l'attualità di un mondo senza il quale non sarebbe possibile vivere con piena consapevolezza il nostro. Lo studio sincronico e insieme diacronico del testo esigeva una trattazione per gene­ ri (epos, tragedia, romanzo, ecc.), in quanto solo inseguendo la storia di questi grandi fi­ loni diventava possibile cogliere ciascun testo nel suo divenire, cioè comprendere appie­ no il rapporto di imitatio-aemulatio che lega ogni autore al proprio modello nel suo percorso evolutivo. La trattazione "per generi" comporta, come è noto, dei rischi, che tut­ tavia vale la pena di correre se si vuole pervenire alla visione globale di unfenomeno di tale complessità. A soffrire maggiormente di tale impostazione sono ovviamente alcuni grandi autori che, avendo praticato piu generi letterari, finiscono smembrati in varie se­ zioni con danno per la loro identità e per una valutazione unitaria della loro persona­ lità artistica. Un'altra dijficoltà è rappresentata da certeforzature che a volte si è costret­ ti a compiere per assegnare un'opera a un genere piuttosto che a un altro, soprattutto quando essa si pone a un "crocevia di generi'� o nel raggruppare sotto uno stesso genere opere che spesso hannofra loro af f inità meramenteformali. A questo criterio, che pur con tutti i suoi limiti ci sembra per le ragioni dette l'unico praticabile in questa prospettiva, ci siamo attenuti anche noi nel concepire e nell'orga­ nizzare due volumi antologici, l'uno destinato alla poesia (quello che vede ora la luce), l'altro alla prosa (che seguirà a breve distanza), entrambi necessario complemento della trattazione "teorica" rappresentata dallo Spazio letterario. Troppo spesso accade, specie nella pratica dell'insegnamento, di stabilire una separazione nettafra storia let­ teraria e studio dei testi, quasi che il testo con tutte le sue implicazioni (culturali, lingui9

PRES ENTAZI O NE

stiche, stilistiche, metriche, critico-testuali, ecc.) nonfosse insieme punto di partenza e punto di arrivo di ogni ricostruzione storico-letteraria. Era dunque indispensabile do­ tare lo Spazio letterario di un corredo di testi, che costituissero una spede di docu­ mentazione a sostegno e convalida di quanto li asserito. Seguendo le linee di quel precedente lavoro, al quale il presente strettamente si salda, abbiamo diviso la materia di questo primo volume in nove sezioni, dedicate rispettiva­ mente all'epos, alla poesia didascalica, al teatro, alla lirica, all'elegia, alla poesia bucoli­ ca, alla satira, all'epigramma, allajàvola. Ognuna di queste sezioni è preceduta da una nota introduttiva, che tratta a grandi linee delle caratteristiche del genere, dei suoi prin­ cipali rappresentanti, della sua evoluzione storica, ed è conclusa da una bibliografia es­ senziale. I singoli autori antologizzati sono a loro volta introdotti da una breve presen­ tazione che ne illustra l'opera e ne mette in rilievo contenuti e signifìcato. In entrambe le sezioni introduttive, ogni volta che se ne ravvisi l'opportunità, si segnalano rinvii ai precedenti volumi dello Spazio letterario: anche questo un modo per raccordare tra loro le due opere che insieme concorrono a una visione quanto piu possibile completa della grande eredità culturale di Roma antica. Lo stesso metodo vale per il secondo vo­ lume, dove la materia è organizzata nei grandi filoni della storiografia, della retorica e oratoria, della letteratura filoscifìca, del romanzo, dell'epistolografia, della letteratura tecnico-scientifìca ed erudita. Il compito piu arduo è apparso fin dall'inizio quello di operare le scelte, soprattutto per quanto riguarda i ((maggiori': tanto piu che lo spazio già esiguo loro concesso si è do­ vuto ulteriormente ridurre per non escludere i ((minori': che non era giusto sacrifìcare, anche in considerazione delfotto che essi hanno spesso avuto nella storia della cultura una fortuna notevole, talvolta perfino superiore ai loro effettivi meriti. In linea di mas­ sima ci siamo iforzati di coniugare il criterio di accostare testi noti ad altri meno noti, ma quando lo spazio tiranno non lo ha consentito abbiamo accordato la nostra priferenza a brani giudicati importanti afor meglio comprendere il signifìcato e la struttura dell'o­ pera nel suo insieme, rinundando a malincuore ad altri meritatamentejàmosi e per co­ si dire canonici (le ragioni delle scelte sono di volta in volta chiarite in una nota a piè di pagina che accompagna i singoli brani antologizzati). Laforzata ieiunitas (a dispetto della sua mole) di questa antologia non va tuttavia a scapito dei due obiettivi primari che ci siamo proposti:di '?ffnre alcuni exempla di lettura di un testo antico e insieme di susdtare curiosità che inducano l'utente ad allargare il campo delle sue conoscenze e dei suoi interessi. I passi prescelti (in genere di una certa estensione e tutti tratti dalle edizioni critiche piu autorevoli) sono accompagnati da traduzioni a fronte (tutte originali), che mirano 10

PRESENTAZIONE

ajàcilitare l'interpretazione: esse non hanno dunque alcuna pretesa di letterarietà, an­ che se si forzano di non essere né piatte né sciatte; nel caso della poesia si è adottato il criterio difar corrispondere, fin dove possibile, ogni rigo del testo italiano a un verso la­ tino in modo di renderne piu agevole la comprensione. Note a piè di pagina rendono ra­ gione delle scelte operate e riassumono il contenuto di ogni passo mettendone in luce gli aspetti salienti. Il commento, nella sua essenzialità, mira afornire una chiave interpretativa chejàc­ cia i conti da un lato con i contenuti, dall'altro con lo stato del testo, che è discusso ogni volta che esso presenti problemi esegetici e/o critico-testuali (per questo di ogni testo si fornisce l'indicazione dell'edizione critica da cui proviene e nel commento si avverte ogni volta che ce se ne distacca e se ne rende ragione}. Se in questi casi è d'obbligo per il commentatore operare delle scelte (quante volte si sarebbe stati tentati di cavarsela con un non liquet lj, si è tuttaviafotto in modo che il lettore avesse a disposizione tutti gli elementi utili ajàrsi un'opinione personale e a giudicare quindi in modo autonomo. In­ somma il commento tiene una via mediana che contempera due diverse esigenze: quel­ la difornire un aiuto immediato alla comprensione e quella di prospettare criticamente i principali problemi interpretativi che ogni testo necessariamente pone. Questo con­ sente peraltro una duplicefruizione di questa antologia: da parte di lettori meno ag­ guerriti, che si orientino prevalentemente sulla traduzione tenendo però d'occhio nel contempo il testo originale afronte e ricorrendo, quando necessario, alle principali note esplicative, e da parte di un pubblico piu specializzato, avvezzo fin dagli studi univer­ sitari ad affrontare direttamente il testo e a considerarlo una realtà tutt'altro che codifì­ cata, ma in qualche modo in fieri. Per costoro la traduzione sarà uno strumento inter­ pretativo con cuijàre necessariamente i conti, ma da integrare di volta in volta col com­ mento filologico-erudito. In esso, sia detto per inciso, non mancano neppure qua e là spunti originali, che ci auguriamo non ifuggano agli "addetti ai lavori'� Chiudono i due volumi "schede" degli autori antologizzati in ciascuno di essi, di­ sposte in ordine alfàbetico. In questo modo il lettore si trova a disporre di un repertorio difocile consultazione che gli consente di avere a portata di mano una serie di notizie indispensabili alla comprensione dell'autore studiato (vita, opere, fortuna, tradizione manoscritta}. Ogni scheda si conclude con una nota bibliografica, che integra e aggiorna quella contenuta nel v volume dello Spazio letterario. Il lavoro di questo primo volume è stato cosi suddiviso: Alessandro Fusi ha curato Tibullo, Properzio, Ovidio (Amores, Heroides, Metamorfosi, Tristia}, satira, epigramma,jàvola; Angelo Luceri la poesia bucolica, l'epica post-virgiliana, la poesia di tarda età imperiale; Giorgio Piras, che si è occupato anche della revisione e della uni11

PRE SENTAZIONE

formazione complessiva, Ennio, Virgilio, il teatro, Catullo, Orazio lirico. A chi scrive, si deve, oltre al coordinamento generale, la sezione relativa alla poesia didascalica. Strumenti essenziali allafruizione di un'opera come questa sono gli indici. Nel nostro caso per non appesantire ulteriormente il volume si è deciso di dotarlo di un solo indice complessivo, redatto da Giorgio Piras, che comprende nomi propri antichi, mgomenti di rilievo e, oltre ai passi antologizzati, quelli per i quali la discussione offra qualche contributo all'interpretazione. Le abbreviazioni bibliografiche, in gran parte le stesse già adottate nei primi cinque volumi, sono riportate per comodità del lettore nelle pagine seguenti. PIERGIORGIO PARRONI

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ABB REVIAZIONI BIB LIO G RAFI C HE*

Anthologia Latinasive Poesis Latinae supplementum, edd. F. Buecheler­ A. Riese, pars r. Carmina in codicibus scripta, 1-2, ree. A. Riese, Leip­ zig, Teubner, 1894-19062 (rist. Amsterdam, Hakkert, 1972-1973) . Anthologia Latina, r. Carmina in codicibus scripta, ree. D.R. Shackleton ALSh. B. Bailey, 1. Libri Salmasiani aliorumque carmina, Stuttgart, Teubner, 1982. Aufitieg und Niedergang der romischen Welt. Geschichte und Kultur Roms ANRW im Spiegel der neueren Forschung, hrsg. H. Temporini-W Haase, 1-, Berlin (poi Berlin-New York), de Gruyter, 1972- (in continuazio­ ne). Bieler, Dichter L. Bieler, Nachaugusteische nichtchristliche Dichter, II. Romische Dichtung von Hadrian bis zum Ausgang des Altertums. Bericht iiber das Schrijttum derJahre 1926-1935, in« Lustrum », a. II 1957, pp. 207-93. CIL Corpus inscriptionum Latinarum, 1-, Berlin (poi Berlin-New York), Reimerus (poi de Gruyter), 1853- (in continuazione). CLE Anthologia Latina sive Poesis Latinae supplementum, edd. F. Buecheler­ A. Riese, pars II. Carmina Latina epigraphica, 1-2, conlegit F. Bueche­ ler, Leipzig, Teubner, 1895-1897; III. Supplementum, ed. E. Lom­ matzsch, ivi, id., 1926 (rist. Amsterdam, Hakkert, 1972) . Comicorum Romanorum praeter Plautum et Syri quaeJeruntur sententias CRF Jragmenta, ree. O. Ribbeck, Leipzig, Teubner, 18983 (« Scaenicae Ro­ manorum poesisJragmenta », n) . Die romische Satire Die romische Satire, hrsg. J. Adamietz, Darmstadt, wBG, 1986. DMP Disiecti membra poetae. Studi di poesia latina inframmenti, a cura di V. Tandoi, I-III, Foggia, Atlantica, 1984-1988. Dramatische Wéildchen: Festschrijtfiir Eckard Lifèvre zum 65. Geburtstag, Dramatische Wéildchen hrsg. E. Stirk-G. Vogt-Spira, Hildesheim, Olms, 2000. EACL B. Munk Olsen, I.:étude des auteurs classiques latins aux XJe et XJJe siècles, r. Catalogue des manuscrits classiques latins copiés du JXe au XJJe siècle: Api­ cius:fuvenal, Paris, CNRS, 1982; n. Catalogue [ . . . ]: Livius-Vitruvius, 1985; IIIIL Les classiques dans les bibliothèques médiévales, 1987; m/2. Addenda et corrigenda. Tables, 1989. EO Orazio: Enciclopedia Oraziana, I-III, Roma, 1st. della Enciclopedia Italiana, 1996-1998. Enciclopedia Virgiliana, 1-v12, Roma, 1st. della Enciclopedia Italiana, EV 1984-1991. AL R.

Le riviste sono indicate secondo il sistema abbreviativo utilizzato nell'Année Philologique, cui si rimanda per lo scioglimento delle sigle. •

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ABBREVIA Z I O N I B I B LI OG RAFICHE

Filologia eforme letterarie FPLBl.

Filologia e forme letterarie: studi qfferti a F. Della Corte, 1-v, Urbino,

Univ., 1987. Fragmenta poetarum Latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium, post W. Morel novis curis adhibitis ed. C. Buechner, edit.

tertiam auctam cur. J. Blansdorf, Leipzig, Teubner, 1995. FPLBii.

Fragmenta poetarum Latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium, post W. Morel novis curis adhibitis ed. C. Buechner,

Leipzig, Teubner, 1982. GGM

Geographi Graeci minores, e codicibus recogn. prolegomenis ann. in­ dicibus instr. [ . ] C. Mullerus, I-m, Parisiis, Didot, 1855-1861 (rist. Hildesheim, Olms, 1965). Grammatici Latini, ex ree. H. Keilii, I-VII + Supplementum, Leipzig, . .

GL

Teubner, 1855-1880.

Handbuch der lateinischen Literatur der Antike, hrsg. R. Herzog-P.L. Schrnidt, I. Die archaische Literatur: Von den Arifà'ngen bis Sullas Tod: Die vorliterarische Periode und die Zeit von 240 bis 78 v. Chr., hrsg. W. Suerbaum, Munchen, Beck, 2002; IV. Die Literatur des Umbruchs: Von der romischen zur christlichen Literatur (11 7-283 n. Chr), hrsg. K. Sall­ mann, 1997; v. Restauration und Erneuerung: Die lateinische Literatur von 284 bis 374 n. Chr., hrsg. R. Herzog, 1989. Hofmann-Szantyr J.B. Hofmann-A. Szantyr, Lateinische Syntax und Stilistik, Munchen, Beck, 1965 (riv. 1972).

HLL

Iambic Ideas

Iambic Ideas: Essays on a Poetic Traditionfrom Archaic Greece to the Late Roman Empire, ed. A. Cavarzere-A. Aloni-A. Barchiesi, Lanham

ILS

Inscriptiones Latinae selectae, ed. H. Dessau, I-III, Berlin, Weidmann,

(Md.), Rowman and Littlefìeld, 2001. 1892-1916.

Incontri triestini MGH,AA

Otto PL PLLS

PLMBaeh.

Incontri triestini difilologia classica, a cura di L. Cristante et al., Trieste, Univ., 2003- (in continuazione). Monumenta Germaniae historica, Auctores antiquissimi, I-xv, Berlin, Weidmann, 187 7-1919. A. Otto, Die Sprichwiirter und sprichwiirtlichen Redensarten der Romer, Leipzig, Teubner, 1890 (rist. Hildesheim, Olms, 1962) . Patrologiae cursus completus [ ... J. Series Latina [ . . . ], accuranteJ.P. Mi­ gne, I-CCXXI, Parisiis, Garnier etJ.P. Migne, 1844-1865 (con varie ri­ Stan1pe). Papers cf the Liverpool Latin Seminar, Liverpool, Cairns, 1977-1986; poi Papers cf the Leeds International Latin Seminar, Leeds, Caìrns, 1990- (in continuazione). Poetae Latini minores, ree. em. Ae. Baehrens, I-v, Leipzig, Teubner, 1879-1883.

PLMVoll.

Poetae Latini minores, ed. F. Vollmer, I-v, Leipzig,Teubner, 1910-1923.

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ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

Prefazioni, prologhi, Prefaziom; prologhi, proemi di opere tecnico-scientifiche latine, a cura di C. Santini-N. Scivoletto, r-n, Roma, Herder, 1990-1992. proemi ReallexikonJur Antike und Christentum. Sachworterbuch zur Auseinan­ RAC dersetzung des Christentum mit der antiken Welt, hrsg. Th. Klauser-E. Dassmann, 1-, Stuttgart, Hiersemann, 1950- (in continuazione). Paulys Real-Encyclopiidie der classischen Altertumswissenschafi, hrsg. G. RE Wissowa et al., r-xxrv + IA-XA +xv Supplemente, Stuttgart (poi Miin­ chen), Metzler (poi Drukkenmiiller), 1893-1978. ROL Remains of Old Latin, ed. transl. by E.H. Warmington, 1-rv, Cam­ bridge (Mass.), Harvard Univ. Press, 1935-1940 (con varie ristam­ pe). Studies in Latin Literature and Roman History, ed. C. Deroux, r-xrv, SLLRH Bruxelles, Latomus, 1979-2008. Stoicorum veterum Jragmenta, collegit l. ab Arnim, I-III, Leipzig, SVF Teubner, 1903-1905; rv, ivi, id., 1924 (con varie ristampe; trad. it. a cura di R. Radice, Milano, Rusconi, 1998) . ThlL Thesaurus linguae Latinae, 1-, Leipzig (poi Berlin-New York), Teub­ ner (poi de Gruyter), 1900- (in continuazione). S. Timpanaro, Contributi difilologia e di storia della lingua latina, Ro­ Trmpanaro, ma, Ateneo, 1978. Contributi Trmpanaro, Nuovi S. Timpanaro, Nuovi contributi di filologia e storia della lingua latina, Bologna, Pàtron, 1994. contributi R. Tosi, Dizionario delle sentenze latine egreche, Milano, Rizzoli, 1991. Tosi, Dizionario Traina, Poeti latini A. Traina, Poeti latini (e neolatini). Note e saggifilologici, 1-v, Bologna, Pàtron, 1975-1998 (r2, 1986) . Tragicorum Romanorum Jragmenta, ree. O. Ribbeck, Leipzig, Teub­ TRF ner, 18973 ( « Scaenicae RomanorumpoesisJragmenta », r) . Texts and Transmission. A Survey ojthe Latin Classics, ed. by L.D. Rey­ 1T nolds, Oxford, Univ. Press, 1983. *

AvvERTENZA sm TESTI. - I segni critici adottati nel testo latino e nella traduzione so­ no quelli consueti nella tradizione ecdotica: le parentesi uncinate (< >) segnalano le in­ tegrazioni degli editori, le parentesi quadre ([]) porzioni di testo ritenute non genuine e da espungere, le cruces (t t) quelle non sanabili, tre asterischi ( ) una lacuna ricono­ sciuta ma non colmata. •••

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I L'E PO S

NOTA INT RODU T TIVA

Considerato il genere piu solenne e importante, l'epica, assieme al teatro, si pone agli inizi della storia della letteratura latina "ufficiale" e la attraversa tut­ ta: gli esiti sono vari a seconda degli autori e dei periodi ma le caratteristiche principali mostrano costanti ed elementi comuni che risalgono ai modelli gre­ ci, a cominciare dal fatto stesso di avere un ruolo centrale già nella fase origi­ naria, anzi di giustificare essa stessa, con la sua esistenza, una comunicazione letteraria socialmente e ideologicamente rappresentativa dei valori civili e umani piu generali e condivisi. Stabile è la sua collocazione ai vertici del siste­ ma letterario ed educativo per rilievo dei temi trattati (politici e religiosi) e so­ lennità della realizzazione, mai messi in discussione e semmai rifiutati in toto come scelta individuale. Se il modello per eccellenza è fornito dai poemi omerici e del ciclo epico, è di grande peso nell'epica latina la predilezione ellenistica per gli aspetti storici e celebrativi (assenti in quanto tali nell'epica america) e un certo interesse per storie e leggende locali: nel riprendere tali aspetti i primi epici romani si rive­ lano i rappresentanti di una letteratura veramente "ellenistica", come sempre piu è stato chiarito nella storia degli studi. Omero svolge una funzione esem­ plare costante, talvolta però a livello indiretto attraverso la mediazione delle opere degli esponenti ellenistici del genere o addirittura il tramite degli stessi poeti epici romani (degli uni e degli altri in molti casi non ci restano che scarse tracce e della complessa rete di intrecci e di influenze ci rimangono solo indi­ zi), questi ultimi modelli a loro volta dei continuatori latini del genere epico. Questi caratteri si spiegano bene con la realtà storica in cui nasce la letteratura latina, quella di una città che si affaccia come potenza emergente nel quadro politico mediterraneo a seguito delle vittorie contro i Cartaginesi. Il nuovo ruolo assunto spinge alla celebrazione della propria storia, antica e gloriosa, e tende a ricondurne le origini ad un quadro mitico di ampia portata; il canto de­ gli eventi e delle gesta del popolo romano non può prescindere dal modello omerico ed esige una solennità comunicativa da conseguire secondo valori e modalità già riconosciute nella letteratura greca, il quadro di riferimento per tutte le popolazioni che si affacciavano sul mare comune e soprattutto per Ro­ ma, che sin dalle origini era stata profondamente influenzata dalla cultura el­ lenica (--- I pp. 133-35) . La grande svolta è costituita dall'adozione della lingua latina che porta con sé anche l'assorbimento e la rielaborazione di stilemi e ca19

I · L'EPOS

ratteristiche di canti epici preletterari già diffusi in ambito italico, poi retro­ spettivamente (e nazionalisticamente) celebrati come fasi antichissime della letteratura romana. Se il peso maggiore deve essere senz'altro attribuito all'in­ fluenza greca, non vanno sottovalutate la capacità individuale e la creatività dei primi iniziatori romani del genere, veri e propri pionieri, dotti e consapevoli, che ebbero il merito di conquistare uno spazio sociale nuovo alla creazione ar­ tistico-letteraria. La derivazione greca del genere è evidente nella sua prima attestazione di rilievo, l'Odusia di Livio Andronico, una traduzione latina dell' Odissea di cui ri­ mangono scarsi frammenti, sufficienti però a caratterizzarla come "traduzio­ ne artistica" da Omero, parziale rielaborazione del testo greco e adattamento ad un nuovo contesto culturale oltre che linguistico. Notevole la capacità di Andronico di maneggiare la lingua e di dare caratteristiche nuove al poema omerico, in particolare con lo scopo di conferire al testo latino un tono solen­ ne e arcaicizzante, secondo una sensibilità tutta "post-omerica" e alessandrina ma forse anche per influenza di tradizioni epico-celebrative autoctone, da cui potrebbe essere del resto derivato quel gusto per gli effetti fonici che è cosi pe­ culiare dell'epica e della letteratura latina delle origini. Questo aspetto espres­ sivo si lega ad una certa drammatizzazione e alla ricerca di toni patetici, cosi come accade nella tragedia contemporanea, e costituisce un modello operan­ te anche nelle realizzazioni epiche successive. La solennità del dettato è dovu­ ta anche all'adozione dell'antico metro saturnia al posto dell'esametro omeri­ co e greco, un ulteriore elemento di arcaismo, compensato - per cosi dire - da sicuri influssi dell'epica ellenistica piu recente e raffinata (--+ n pp. 103-6). La storia romana si affianca alla narrazione mitologica secondo un com­ plesso rapporto causale e simbolico nel poema epico neviano, il Bellum Poeni­ cum, primo esempio di epica latina originale incentrato sulla narrazione degli eventi della prima guerra punica. I.;apparato mitologico costituisce la naturale premessa agli avvenimenti storici e si lega ad essi profondamente, con un nes­ so che solo in alcuni casi sarà sciolto nell'epica latina. Notevole pure la vici­ nanza, non solo cronologica, dei fatti cantati da Nevio, il quale prese anche parte in prima persona alla guerra. Già in questo si può cogliere in nuce quella tendenza peculiare dell'epica romana alla compartecipazione del narratore agli eventi cantati (in questo caso addirittura - o, se vogliamo, ancora - biogra­ fica; anche Ennio e Virgilio si dedicheranno alla narrazione epica successiva­ mente all'esperienza personale di conflitti bellici, interni o esterni), fonte di quel soggettivismo che spesso è stato notato nei poemi latini e che ne costituì20

NOTA INTRODUTTIVA

sce un momento di sensibile distacco dall'epica greca piu autorevole (--->- I pp. 133-35). Per tutto il periodo repubblicano furono gli Annales di Ennio a costituire il modello per eccellenza del poema epico nazionale romano, soppiantato rapi­ damente il tentativo neviano con una visione complessiva della storia romana. Anche in Ennio troviamo una grande attenzione rivolta alla contemporaneità come contrappeso narrativo e strutturale rispetto al canto delle origini miti­ che, ma è forse una visione ideologicamente piu solida della storia di Roma a renderne esemplare la realizzazione, sempre nell'ambito di una forte influen­ za dell'epica e della letteratura ellenistica. Di forte impatto deve essere stata anche la personalità del poeta che, con grande consapevolezza artistica e lette­ raria, si autorappresenta come l'erede latino di Omero (anzi la sua reincarna­ zione), ispirato direttamente dalle Muse greche, e fa i conti con la tradizione epica latina precedente dichiarandone, e di fatto sanzionandone, il supera­ mento (--->- I p. 125). Non mancano le innovazioni espressive, in primis l'adozio­ ne dell'esametro omerico, di qui in avanti costitutivo del genere, e l'insistita ri­ cerca di realizzazioni nuove e originali dal punto di vista narrativo e del detta­ to: l'autorevolezza esercitata sull'epica successiva non deve offuscare il caratte­ re sperimentale di molte soluzioni e la dottrina letteraria e filosofica del suo autore. Con Ennio si può dire che l'epica a Roma acquisisce le sue caratteristiche definitive, la storia romana ne diviene l'oggetto privilegiato, ma l'influsso gre­ co è evidente dal punto di vista generale e delle forme. Una strada diversa sarà quella seguita da Lucrezio che darà vita a un grande poema epico-filosofico di natura didascalica lontano dall'epica narrativa (anche se i debiti enniani sono manifesti). Piu difficile per il resto seguire la storia del genere in età repubbli­ cana a causa della scomparsa della maggior parte dei testi: solo degli Annales abbiamo un numero consistente di frammenti (prova della sua fortuna), men­ tre si dovrà aspettare l'Eneide per poter leggere per intero un poema epico lati­ no. Rispetto delle forme tradizionali e tentativo di innovazione sono gli estre­ mi entro cui si dovettero muovere e che cercarono di conciliare in vari modi i poeti che scelsero di cimentarsi con questo genere autorevole. Cicerone cantò le gesta di Mario e le proprie in poemi epici di buona fattura ma non destinati a grande fortuna. Furono soprattutto i rappresentanti delle nuove tendenze poetiche vissuti tra II e I secolo a.C. a tentare strade nuove, piu dotte e raffina­ te rispetto a quelle percorse dai predecessori e piu vicine ad esempi ellenistici. Abbiamo frammenti di poemi di Furio Bibaculo e di Varrone Atacino e ai poe21

I · L 'E P O S

ti nuovi si deve l'introduzione del cosiddetto « epillio », l'epos breve di tradi­ zione alessandrina che sfrutta per lo piti temi erotici e personali - secondo la tendenza piti generale di questa poesia - con la ricerca di strutture e realizza­ zioni rare e raffinate. Il c. 64 di Catullo ne è la prima testimonianza conserva­ ta, ma sappiamo di poemetti di questo genere opera di poeti vicini a Catullo e ai neoteroi (Calvo, Cinna, Valeria Catone, Cornificio) e ce ne restano poi alcu­ ni esempi nell'Appendix Vergiliana ( Culex, Ciris, e forse anche il Moretum); piti discussa è l'assegnazione all'epillio dell'episodio di Aristeo nel IV libro delle Georgiche. Le mutate condizioni politiche create dalla nascita del principato diedero nuovo impulso al genere epico, che fu guardato sempre con favore dalla pro­ paganda augustea, ma - probabilmente anche per questo motivo - molti dei piti raffinati poeti del periodo se ne tennero a distanza e rifiutarono di impe­ gnarvisi direttamente (pochi frammenti rimangono della produzione epica di poeti minori come Domizio Marso, Albinovano Pedone o Cornelio Severo). La grande eccezione è rappresentata dall'Eneide, andata subito incontro ad un cosi grande successo da soppiantare rapidamente i poemi precedenti nell'inte­ resse del pubblico e anche nella pratica dell'insegnamento scolastico (--+ n pp. 441, 446-48). Il poema è di tale ricchezza e profondità che non può essere sem­ plicisticamente considerato come espressione della ideologia del principato, nonostante l'evidente esaltazione della storia romana e con essa dell'esito au­ gusteo dei conflitti e delle tensioni precedenti. Su tutto domina l'idea etica­ mente forte della pietas del protagonista - la cui figura è alla base dell'unitarie­ tà del poema-, l'adesione ad un progetto fatale di realizzazione di una missio­ ne e di un complesso di valori che si mostrano come ancora condivisibili da parte del poeta e del pubblico cui si rivolge. Non mancano dubbi e ripensa­ menti ma sembrano rientrare nella necessaria ambiguità e incertezza del cor­ so della storia, anche per l'evidente circostanza che ai lettori essi si manifesta­ no post eventum e non mettono in discussione l'esito finale. Virgilio si muove sulle coordinate già neviane di mito e di storia ma lo fa con una strategia di in­ tegrazione tra i due piani frutto di una prospettiva temporale e simbolica piti complessa e con risultati piti organici (--+ I pp. 125-27). Il ricorso alla narrazione mitica gli permette di arricchire i punti di vista (compresi quelli degli sconfit­ ti), spesso partecipati soggettivamente dal narratore che tende ad immedesi­ marsi con i personaggi o comunque a dare spazio alle voci anche piti discor­ danti. Al mero descrittivismo subentra una simpatia che mette in evidenza af­ fetti e sentimenti, spesso con un'intensificazione patetica ereditata anche dalla 22

NOTA I NTRODUTTIVA

tradizione tragica e pure dalle esperienze liriche neoteriche. Sul piano espres­ sivo un certo classicismo e un'attenta cura per la temperanza formale e la giu­ sta misura tendono a uniformare le influenze della tradizione epica preceden­ te (Ennio e Lucrezio in particolare) con il risultato dì uno stile in cui le emo­ zioni sono trattenute nell'ambito dì un dettato chiaro ed efficace, passibile di increspature piti o meno lievi a seconda delle situazioni e dei sentimenti e tal­ volta anche dì ambiguità e di forzature mai ricercate di per se stesse. Un tale risultato difficilmente poteva essere raggiunto da altri battendo le stesse strade e i continuatori del genere pi ti avvertiti non poterono non cerca­ re altre soluzioni. Un'adesione al programma augusteo superficiale si può av­ vertire ancora nelle Metamoifosi ovidìane (il richiamo ad Augusto incornicia la narrazione), che privilegiano l'elemento puramente meraviglioso insito nel patrimonio mitologico greco-latino. Tutti i suoi aspetti vengono ridotti alla di­ mensione fantastica della trasformazione, vero e unico elemento di coesione di questo poema continuo dall'approccio universale e cosmologico, refrattario alle strutture e alle architetture rigide e ricche di senso dell'epica tradizionale (il metro è epico ma manca l'unitarietà di tempo, luogo, azione, persona). Il te­ ma è già esiodeo ma sono le realizzazioni ellenistiche a fornire ispirazione e a suscitare la straordinaria capacità ovidiana di narrare e di dare concretezza vi­ siva alle fantasie piti "barocche" e suggestive, stimolando nel lettore ulteriori completamenti immaginativi. Una notevole fluidità espressiva (importante l'influsso dei neoteroi e delle tecniche retoriche piti sottili) accompagna la fan­ tasia del poeta e consente un gioco continuo tra realtà ed illusione, sogno e concretezza figurativa. Solo l'atteggiamento distaccato del narratore (l'ironia, seppure spesso nella sua declinazione tragica, è un elemento che permea il poema) poteva probabilmente consentire una tale varietà di racconto che non solo muta di continuo il pnnto di vista ma ammette il patetico senza scivolare nel tragico e richiede di frequente la complicità compiaciuta del lettore (_,.I pp.131-32). Simile levità di impegno non sembra avere paragoni tra i poeti epici dell'e­ tà giulio-claudia, quando anzi la narrazione epica - influenzata naturalmente in maniera significativa dall'esempio virgiliano- affronta con serietà e profon­ dità la descrizione dì vicende mitiche o storiche dì grande spessore emotivo e ideologico; prevale una certa disillusione pessimistica nei confronti della real­ tà storica contemporanea e la tendenza a volgersi indietro, verso il passato, mi­ tico o storico. Tutta la tragicità del momento politico si ritrova nella Guerra d­ vile, o Farsaglia, dì Lucano, un poema epico che narra la fase finale dello scontro 23

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tra Cesare e Pompeo. Nonostante il discusso elogio di Nerone contenuto nel proemio sembra evidente la tendenza filorepubblicana dell'autore, che si lega ad una visione cupa e pessimistica delle vicende umane e della storia di Roma sui cui grava senza possibilità di redenzione il nifas delle guerre civili. Il mo­ dello virgiliano è rovesciato anche dal punto di vista espressivo: è evidente la ricerca dell'effetto retorico e patetico, di uno stile ricco di contrasti e sostan­ zialmente "anticlassicista" (il pathos non conosce momenti di pausa e cesure equilibratrici). Il narratore non è distaccato dal racconto e non esita ad espri­ mere opinioni e prese di posizione personali dal forte impatto retorico (Quin­ tiliano, Inst. or., x 1 90: Lucanus ardens et concitatus et sententiis clarissimus, 'Lucano acceso e impetuoso e brillantissimo nelle massime'). Per la prima volta sono del tutto eliminati nell'azione l'apparato mitologico e le scene divine; risaltano concezioni filosofiche di origine stoica, anche se non mancano interventi di forze irrazionali e magiche che consentono al poeta di venire incontro a certo compiacimento per le scene macabre e orrorifiche paragonabili a brani delle tragedie senecane. Rappresentano una linea di maggiore continuità con l'epica virgiliana alcu­ ni poeti epici di età flavia le cui creazioni ci sono giunte sostanzialmente inte­ gre, accumunati proprio dal chiaro riferimento a Virgilio come punto di par­ tenza per i loro poemi, sebbene non manchino differenze importanti e nuovi confronti diretti con la produzione letteraria greca. Tra di essi sembra avere la priorità cronologica Valeria Fiacco che nelle Argonautiche (in otto libri, ma in­ complete) ha ripreso, ampliandola, la materia mitica cantata da Apollonia Ra­ dio e a Roma già tentata in un perduto poema di Varrone Atacino. Evidente l'influenza virgiliana sul piano strutturale e nella raffigurazione dell'eroe pro­ tagonista, Giasone - anch'egli, come Enea, ispirato dalla guida divina -, men­ tre l'amata Medea sembra risentire anche dell'influenza tragica ed elegiaca. Piu in generale si può affermare che il mito argonautico viene avvertito come parte di un'evoluzione storica globale che porterà all'impero romano. Nella Tebaide Stazio ha recuperato la struttura generale dell'Eneide (in dodi­ ci libri con una bipartizione tra tema romanzesco e guerresco), ma non c'è una dimensione ideologica predominante e dal punto di vista stilistico si avverte il gusto per l'insolito (orrido o romanzesco) frequente nella poesia dell'epoca. Incompleta è invece l'Achilleide che mostra una propensione per toni piu leg­ geri rispetto all'opera maggiore e rivela una diffusa influenza ovidiana. Imitatore piu pedissequo di Virgilio è stato invece Silio Italico che nei suoi Punica (in 17 libri) riprende l'idea della provvidenzialità della missione di Ro24

NOTA INTRODUTTIVA

ma, destinata a sconfiggere gli avversari Cartaginesi; pur se storico nell'argo­ mento il poema dà largo spazio anche agli interventi divini secondo il model­ lo epico piu tradizionale. La pluralità delle figure serve a Silio a esemplare ca­ ratteri e comportamenti: una concezione etica unitaria domina la narrazione delle vicende decisive per la sorte di Roma. Silio Italico è l'ultimo rappresentante dell'epica fino alla tarda età imperia­ le (a parte la cosiddetta Alcesti di Barcellona) quando si avranno altri importanti sviluppi del genere, in direzione della celebrazione panegiristica unita alla narrazione epico-mitologica: di questa tendenza encomiastica abbiamo esem­ pi illustri in Claudiano ( Carmina maiora) , uno degli ultimi esponenti della tra­ dizione poetica e letteraria antica, e, nel secolo successivo, in Merobaude e in Sidonio Apollinare ( Carmina; composizioni poetiche sono anche nelle sue Let­ tere; del VI secolo è invece la Iohannis dell'africano Flavio Cresconio Corippo). Una vera e propria "epica biblica" nasce con Giovenco (IV secolo), il "Virgilio cristiano", che compone con buona tecnica classica una parafrasi poetica dei Vangeli influenzata in particolare dallo stile virgiliano. A questa tardiva e nuo­ va tipologia dell'epica, che trae argomento dai testi biblici, appartiene il Car­ men Paschale di Sedulio (V sec.). Piu in generale di epica cristiana possiamo par­ lare invece nel caso della Psychomachia di Prudenzio (IV sec.), che verte sul te­ ma della educazione dell'anima, rappresentata simbolicamente mediante la descrizione delle battaglie vittoriose condotte dalle virtli contro i vizi. Il poe­ ma, preceduto da un inno a Cristo, emula l'esempio virgiliano con uno stile ricco e ambizioso che mira alla creazione di una dimensione nuova del detta­ to poetico: l'unione tra epica narrativa e didascalica si realizza cosi sul piano dell'allegoria. Immagini e tecniche epiche vengono utilizzate a scopo di eleva­ zione spirituale, non senza ambizioni e invenzioni di notevole letterarietà (nella sua opera poetica sono compresi vari generi e temi della poesia pagana). Il suo classicismo cristiano rimarrà a lungo un modello poetico di riferimento nella poesia latina medievale. BIBLIOGRAFIA. Studi generali e introduzioni: R. HauBler, Das historische Epos der Grie­ chen und Romer bis Vergil. Studien zum historischen Epos der Antike, Heidelberg, Winter, 1976-1978; W. Schetter, Das romische Epos, Wiesbaden, Athenaion, 1978; E. Burck (cur.), Das romische Epos, Darmstadt, WBG, 1979; AJ. Boyle (cur.), Roman Epic, London-New York, Routledge, 1993; D. Quint, Epic and Empire: Politics and Generic Formfrom Virgil to Milton, Princeton, Univ. Press, 1993; S.M. Goldberg, Epic in Republican Rome, New York-Oxford, Oxford Univ. Press, 1995; M. von Albrecht, Roman Epic: An Interpretative Introduction, Lei den-Boston-Koln, Brill, 1999; A. Perutelli, La poesia epica latina. Dalle ori­ gini all'età dei Flavi, Roma, Carocci, 2000. 25

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· L'EPO S

Tradizione epica:J. Tolkiehn, Omero e lapoesia latina, trad. it. e note a cura di M. Scaf­ fai, Bologna, Pàtron, 1992; A. Ronconi, Interpreti latini di Omero, Torino, Bottega d'Era­ smo, 1973; Ch.R. Beye, Ancient Epic Poetry: Homer, Apollonius, Virgil: with a Chapter on the Gilgamesh Poems, Wauconda (111.), Bolchazy-Carducci, 2006. Epica arcaica: W Suerbaum, Untersuchungen zur Selbstdarstellung alterer réimischer Dich­ ter. Livius Andronicus, Naevius, Ennius, Hildesheim, Olms, 1968; Id., Zum Umjàng der Bii­ cher in der archaischen lateinischen Dichtung: Naevius, Ennius, Lukrez und Livius Andronicus auj Papyrus-Rollen, in « ZPE », a. xcn 1992, pp. 153-73; S.M. Goldberg, Early Republican Epic, in J.M. Foley (cur.), A Companion to Ancient Epic, Oxford, Blackwell, 2005, pp. 429-39. Livio Andronico. Rassegna bibliografica: U. Carratello, Questioni nuove e antiche su Li­ via Andronico, in « G IF », a. XXXVIII 1986, pp. 125-40. Edizioni complessive: M. Lenchan­ tin de Gubernatis (Torino, Paravia, 1937); ROL, n pp. 1-43 (con trad. ingl. e note); U. Carratello (Roma, Cadmo, 1979, con trad.); A. Traglia (Torino, UTET, 1986, con trad. e note). Odusia: FPL, 8-19 Bl.; S. Mariotti, Livio Andronico e la traduzione artistica. Saggio critico ed edizione deiframmenti dell"Odyssea: Urbino, Univ., 19862• Lessico: A. Cavazza-A. Resta Barrile, Lexicon Livianum et Naevianum, Hildesheim-New York, Olms, 1981. Studi: A. Traina, V&rtit barbare. Le traduzioni poetiche da Livio Andronico a Cicerone, Roma, Ateneo, 19742, pp. 11-28; G. Broccia, Ricerche su Livio Andronico epico, Padova, Antenore, 1974; K. Buchner, Livius Andronicus und die erste kiinstlerische Ubersetzung der europiiischen Kultur, in « SO », a. uv 1979, pp. 37-70; G. Erasmi, The Saturnian and Livius Andronicus, in « Glotta », a. LVII 1979, pp. 125-49; IJ. Livingston, A Linguistic Commentary on Livius Andronicus, Lon­ don-New York, Routledge, 2004; A. Perutelli, Liv. Andr. Odusia 1, in « Philologus », a. CXLIX 2005, pp. 162-63. Nevio. Edizioni complessive: ROL, n pp. 45-156 (con trad. ingl. e note); E.V. Mar­ morale (Firenze, La Nuova Italia, 19502, con note); Traglia (ed. cit.). Bellum Poenicum: FPL, 20-39 Bl.; S. Mariotti, Il 'Bellum Poenicum' e l'arte di Nevio. Saggio con edizione deifram­ menti, terza ed. a cura di P. Parroni, Bologna, Pàtron, 2001; M. Barchiesi, Nevio epico. Sto­ ria, interpretazione, edizione critica deiframmenti, Padova, CEDAM, 1962 (con trad. e ampio comm.); W Strzelecki (Leipzig, Teubner, 1964); A. Mazzarino (Messina, Peloritana, 19692). Lessico: Cavazza-RestaBarrile, cit. Studi: W Strzelecki, De Naeviano 'Belli Puni­ ci' carmine quaestiones selectae, Krak6w, Nakl. Polsk. Akad. Umiejçtnosci, 1935; Id., Naevius and Roman Annalists, in « RFI C », a. XCI 1963, pp. 440-58; V. Buchheit, Vergil iiber die Sen­ dung Roms. Untersuchungen zum 'Bellum Poenicum' und zur .;.teneis', Heidelberg, Winter, 1963; M. Barchiesi, Personaggi neviani (Dite, Amulio}, in « RFIC », a. XCI 1963, pp. 302-22; P. Frassinetti, La struttura del 'Bellum Poenicum', in « RIL », a. cm 1969, pp. 237-63; U. Hub­ ner, Zu Naevius' 'Bellum Poenicum', in « Philologus », a. cxvi 1972, pp. 261-76;]. Safare­ wicz, Remarques sur la langue desfragments épiques de Naevius, in « Meander », a. xxxv 1980, pp. 15-25. Età augustea. Rassegna bibliografica: A. Cozzo lino, Trent'anni di studi suipoeti epici mi­ nori d'età augustea (1956-1985), in pÉveç O:U't"Q rnovm· l't"OÌO ù' ii�-to: ljluxl]v 'tE XO:Ì eyxeoç Ef;Épuo' O:Ì.XIltlV, 'e poggiando il piede sul petto strap­ pò la lancia dal corpo, il pericardio la segui: cosi assieme strappò la vita e la punta dell'asta') e poi a sua volta Ettore dal cadavere di Patroclo (862 sg.: ù6pu X&Àxeov ti; wmÀfiç l Etpuoe Ààl; npoo�OO;, 'l'a­ sta di bronzo dalla ferita strappò premendo con il piede'), mentre in Virgilio è lo sconfitto - con ef­ fetto maggiormente "patetico" - a tirarsi via la lancia mortale (cosi anche Carrùlla a XI 816: Il/a ma­ nu moriens telum trahit) . Nonostante il richiamo omerico (Il., XVI 504 cit.) e il fatto che vulnus torna al v. 488, la lezione vulneredei codici piu autorevoli pare preferibile a corpore (si potrebbe trattare di un errore "di anticipazione" con il v. 744: eduxit corpore telum) e a pectore tramandati da alcuni mano­ scritti perché indica con precisione la via dell'uscita del sangue e della vita menzionata nel v. sg. + 488. Corruit in vulnus: cfr. Lucrezio, IV 1049: cadunt in vulnus. - sonitum . . . dedere: cfr. Ennio, Ann., 415 Vahlen2 (411 Skutsch): concidit et sonitum simul insuper arma dederunt e l'omerico aptiPTtOTJ ùè -ceuxt tn' o:thQ, 'rimbombarono le arrrù sopra di lui' (Il., IV 504 e altrove). + 489. terram hostilem: Enea, sbar­ cando dal suo viaggio fluviale, aveva definito la terra italica inimica (x 295 sg.). + 490. Quem . . . adsis61

I · L 'EPOS « Arcades, haec » inquit « memores mea dieta referte Evandro: qualem meruit, Pallanta remitto. Quisquis honos tumuli, quidquid solamen humandi est, largior. Haud illi stabunt Aeneia parvo hospitia ». Et laevo pressit pede talia fatus exanimem rapiens immania pondera baltei impressumque nefas: una sub nocte iugali caesa manus iuvenum foede thalamique cruenti, quae Clonus Eurytides multo caelaverat auro; quo nune Turnus ovat spolio gaudetque potitus. Nescia mens horninum fati sortisque futurae et servare modum rebus sublata secundis! Turno tempus erit magno cum optaverit emptum intactum Pallanta, et cum spolia ista diemque oderit. At socii multo gemitu lacrimisque impositum scuto referunt Pallanta frequentes. O dolor atque decus magnum rediture parenti, haec te prima dies bello dedit, haec eadem aufert, cum tamen ingentis Rutulorum linquis acervos!

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tens: è uno dei versi dell'Eneide lasciati incompiuti da Virgilio: alcuni manoscritti lo completano con le parole sic oreprojàtur, 'cosi dice'. I;immagine rimanda a quella di Ettore che si rivolge a Patro­ cio morente (Il., xvi 829 sgg.). + 497-98. una sub nocte iugali. . . thalamique cruenti: la scena incisa sulla cintura di Pallante (impressum nifas) rappresenta l'uccisione dei mariti da parte delle Danaidi du­ rante la notte di nozze. Il mito, piuttosto diffuso in età augustea, dà modo qui a Virgilio di simbo­ leggiare la morte precoce di Pallante e anche di prefigurare quella altrettanto precoce di Turno; vd. G .B. Conte, Il balteo di Fallante: modelli antropologici e reton'ca letteran'a, in Ilgenere e i suoi confini. Cin­ que studi sulla poesia di Virgilio, Torino, Einaudi, 1980, pp. 96-108; M.CJ. Putnam, Virgil's Danaid ek­ phrasis, in « ICS », a. XIX 1994, pp. 171-89 (= Virgil's Epic Designs: Ekphrasis in theAeneid, New Haven­ London, Yale Univ. Press, 1998, pp. 189-207). -jòede: al centro del verso, è da riferire sia a caesa che a cruenti. + 499. Clonus Eurytides: il nome di questo artista compare solo qui. + 500. quo nunc. . . potitus: ancora un altro rinvio a Ettore che esulta nell'indossare le armi di Achille sottratte a Patroclo (Il., xvm 131 sg.: "Ex1:wp l aù1:òç exwv Wf.LOWtv - I p. 482) . Ad avvicinare a Lucrezio l'autore dell'Aetna è lo spirito razionale che è a fondamento dell'operetta, il de­ siderio di far luce sui fenomeni della natura indagandone le cause con rigore scientifico (quello che poi fa anche Seneca nelle Naturales quaestiones) , ma non è certo assente Virgilio, il quale, come è noto, è stato considerato da alcuni ad­ dirittura autore dell'Aetna, nonostante non manchino accenni polemici pro­ prio contro di lui, indirettamente accusato di occuparsi di ciò che la terra pro­ duce invece di indagare i misteri che essa nasconde nel suo seno (266 sgg.). Virgilio, che aveva trattato nel m libro delle Georgiche dell'allevamento del bestiame, spianò in un certo senso la strada a chi estese l'indagine agli uccelli, come il contemporaneo Emilio Macro (a lui si devono due libri di Ornithogo­ nia) , a Grattio (--->- I p. 304) , di poco posteriore, che si interessò di cani da caccia (del suo Cynegeticon ci resta un ampio frammento di 541 versi), all'autore degli Halieutica, un poemetto sui pesci del Mar Nero, attribuito da alcuni a Ovidio (ne sopravvivono 134 versi), e piu tardi (III sec.) a Nemesiano, anch'egli autore di un Cynegeticon, di cui sono giunti fino a noi 325 versi (--->- I p. 308) . Sempre sul­ la scia di Virgilio si muove Columella (--->- I pp. 302-3) , contemporaneo di Serre­ ca, che compose il x libro del De re rustica in esametri, dichiarando esplicita­ mente nella prefazione di voler completare le Georgiche, manchevoli a suo av­ viso di quella trattazione sulla coltivazione degli orti che il Mantovano, per to-

II · LA POESIA DIDAS CALICA

gliersi d'impaccio, aveva detto di lasciare in eredità ai suoi continuatori (ut poe­ tids numeris explerem georgici carminis omissas partis, quas tamen et ipse Vergilius signifì­ caveratposteris se memorandas relinquere; cfr. Virgilio, Georg., IV 147 sg.). All'interes­ se per il mondo naturale possiamo far risalire anche la poesia didascalica che ha per oggetto la descrizione della terra (---+ I pp. 481-82) : in epoca tarda {IV sec.) il già ricordato Avieno tenta una traduzione "artistica" della Periegesi di Dionigi {tradotta anche, ma piu pedestremente, da Prisciano) e scrive un poemetto sulle coste dell'Impero (Ora maritima). Alla poesia didascalica, e propriamente al filone mitologico-etiologico, si possono ricondurre per certi versi i Fasti di Ovidio, una specie di trattato in di­ stici elegiaci {la scelta del metro non è certo irrilevante) sul calendario romano, le cui ricorrenze rappresentavano un condensato della storia di Roma, e perciò dovevano offrire a Ovidio un ampio materiale di fatti storici o leggendari, di miti, di culti, di riti e di tradizioni da illustrare poeticamente, attraverso la ri­ cerca dell'origine, cioè della causa prima di ciascuno, seguendo le orme della poesia etiologica alessandrina {si pensi agli Aitia di Callimaco e, a Roma, alle cinque "elegie romane" del IV libro di Properzio). Un altro settore che offri materia alla poesia didascalica è quello delle artes. Un esempio illustre può considerarsi l'Arspoetica di Orazio, che è una specie di trattato di teoria della letteratura in forma epistolare e che per la sua natura del tutto particolare con difficoltà riusciamo ad accomunare ad altri prodotti che riguardano aree affini (--+ I p. 279), come la grammatica e la metrica, illustrate in versi da Terenziano Mauro (da collocare verosimilmente tra la fine del II sec. e gli inizi del III sec.), la retorica, che costituisce l'argomento del tardo {non pri­ ma del IV sec.) e anonimo Carmen defiguris vel schematibus (AL, 485 R.), la me­ trologia presa a soggetto da Remio Favino nel suo De ponderibus et mensuris (AL, 486 R.) e perfino l'ars medica, rappresentata dal Liber medicinalis di Q. Sereno, vissuto all'epoca dei Severi. Un particolare aspetto della poesia didascalica è quello relativo alla sua pa­ rodia. Il primo esempio a Roma possono considerarsi gli Hedyphagetica di En­ nio (« qualcosa come "buoni bocconi" » ---+ I pp. 481-82; vd. anche I p. 283) , un poemetto gastronomico in esametri esemplato su un'opera consimile (Hedy­ patheia) di Arche strato di Gela {IV sec. a.C.). Ma chi diede nuovo vigore a que­ sto filone della poesia didascalica fu Ovidio con l'Ars amatoria, che ricalca in modo giocoso le orme dell' ars oratoria, con i Remedia amoris, che insegnano a li­ berarsi dalla passione, e con i MedicaminaJacieiJemineae, un prontuario di ricet­ te assai minuziose sul modo di rendere liscia la pelle, togliere le macchie, rav-

NOTA INTRODUTTIVA

vivare il colorito del volto, ecc. Tutte e tre queste opere sono in distici elegiaci, un metro che, come si è già notato a proposito dei Fasti, non era propriamente quello della poesia didascalica e che quindi già di per sé rende problematica la loro appartenenza al genere di cui qui si tratta. Ma, come si è visto in questa ra­ pida rassegna, la poesia didascalica si presenta a noi in forme molto diversifica­ te, che abbiamo fatto rientrare con qualche forzatura sotto un'unica categoria perché si avesse un'idea di come i poeti antichi, piu grandi e meno grandi ma quasi sempre con fini artistici e non meramente utilitaristici, siano riusciti a fa­ re oggetto della loro poesia argomenti che a noi oggi, tardi eredi della cultura romantica, sembrano francamente inconcepibili (� r p. 279) . Eppure questa poesia, in varie forme e con diversi esiti, ebbe una straordinaria vitalità e una sorprendente fortuna lungo un percorso che si snoda dalla Grecia arcaica al tardo-antico. BIBLIOGRAFIA. W Kroll, Lehrgedicht, in RE, XII 2 (1925), coll. 1842-47; E. Pi::ihlmann, Charakteristika des romischen Lehrgedichts, in ANRW, nr 1 (1973), pp. 813-901; B. Effe, Dich­ tung und Lehre, Untersuchungen zur Typologie des antiken Lehrgedichts, Mtinchen, Beck, 1977 ( « Zetemata », 69); A. Dalzell, The Criticism ofthe Didactic Poetry. Essays on Lucretius, Virgil, and Ovid, Toronto (Ont.), Univ. Press, 1996; A. Perutelli, Il disagio del poeta didascalico, in « MD », n. XLVII 2001, pp. 67-84; K. Volk, The Poetics ofLatin Didactic, Oxford-New York, Oxford Univ. Press, 2002.

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I I L POEMA C O S M O LO G I C O - F I LO S O F I C O

1 . LUCREZIO E LA CONCEZIONE EPICUREA DELL'UNIVERSO Il De rerum natura di Lucrezio espone in sei libri, ciascuno di oltre mille versi (il quinto, ìl piti lungo, ne conta 1457), la dottrina di Epicuro relativa all'origine dell'u­ niverso e al destino dell'uomo. Il fine dell'opera è chiaro sin dalle prime battute del poema. Epicuro è presentato come il salvatore che ha sollevato l'umanità schiaccia­ ta dal peso della religio e l'ha aiutata a riconquistare la sua dignità nella consapevo­ lezza che la divinità è del tutto estranea alla creazione (- I pp. 289-91). Tutto ha una causa naturale, a cominciare da certi fenomeni (brontolio del cielo, fulmini), che a lungo sono stati interpretati come segni di minacce divine e vanamente hanno in­ timorito gli uomini. Nulla nasce dal nulla, e nulla nasce per intervento della divini­ tà. La vita di ogni essere è prodotta dall'aggregarsi di elementi primordiali (gli ato­ mi), che sono eterni, la morte dal loro dissolversi e dal ritorno di ciascuna cosa alle particelle elementari della materia. A Memmio, dedicatario dell'opera, il poeta di­ ce di non temere di iniziarsi ai principi di un'empia dottrina; empi sono piuttosto coloro che, intimoriti dalla religio, hanno compiuto misfatti come il sacrificio di Ifi­ genia, immolata per propiziare la partenza della flotta di Agamennone alla volta di Troia (- I p. 287). Se gli uomini vedessero nella morte la fine dei loro travagli (107 sg. : si certam finem esse viderent l aerumnamm homines) potrebbero in qualche modo opporsi alle superstizioni e alle minacce dei vati. Dunque, oltre alla ratio che presie­ de alle cose celesti, è necessario indagare quale sia la natura dell'anima e dell'animo, anche se il compito che il poeta si è assunto non è facìle per la povertà della lingua latina e la novità dell'argomento (139: propter egestatem linguae et rerum novitatem). Ma, se gli dei sono estranei alla creazione e alle sorti dell'umanità, come si giustifica l'a­ lato inno a Venere con cui si apre il poema? È un'annosa questione che ha dato ori­ gine a interpretazioni contrastanti, di cui non si può dar conto qui in breve. Diremo semplicemente che Venere è esaltata da un lato come forza vivificatrice della natu­ ra, dall'altro, opposta a Marte, come ispiratrice di pace. Il I libro prosegue mostrando come in natura esistano due elementi, gli atomi e il vuoto, dove i primi si muovono liberamente. Il vuoto esiste anche all'interno del­ le cose create, ma non all'interno degli atomi, che sono, oltre che invisibili, solidi, e, in quanto tali, eterni. Sono essi dunque gli elementi primordiali, e non il fuoco di Eraclito, né l'aria di Anassimene, né l'acqua di Talete, né, come secondo un'opinio­ ne popolare, la terra, né infine tutti questi elementi insieme, come vorrebbe, fra gli altri, Empedocle (di cui si tesse peraltro un ispirato elogio). A questa condanna non sfugge neppure la dottrina della "omeomeria" di Anassagora (ancora una volta il 1 72

I · IL POEMA C O S MOLOGICO -FILO S O F I C O

poeta si rammarica di non trovare un termine corrispondente in latino), perché le particelle della stessa sostanza che andrebbero a formare le cose sono da lui imma­ ginate divisibili all'infinito e soggette a distruzione, mentre nulla può tornare al nulla. Prima di concludere con la dimostrazione dell'infinità dell'universo (964: non habet extremum, caret ergofine modoque), Lucrezio ribadisce i suoi intenti (931 sg.: artis l religionum animum nodis exsolvere pergo, 'mi propongo di liberare l'animo dagli

stretti legami dei timori religiosi') ed enuncia i principi della sua poetica, ricorren­

do alla celebre sirnilitudine del medico che cosparge di miele « gli orli del vaso » per ingannare i fanciulli e indurii a sorbire la salutare pozione (--+ r pp.

286 sg.).

Nel rr libro, dopo l'esaltazione dell'imperturbabilità del saggio epicureo che guarda dall'alto il vano affannarsi dei mortali dietro falsi scopi, Lucrezio riprende la questione dottrinale relativa al moto degli atomi, causa della nascita e della morte di ogni cosa (62 sg.: quo motu genitalia materiai l corpora res variasgignantgenitasque resol­ vant, 'per opera di quale moto gli elementi generatori della materia creino le diver­ se cose e, dopo averle create, le dissolvano'). Gli atomi cadono nello spazio infinito e non si incontrerebbero mai se non declinassero leggermente dal loro percorso. Si tratta della teoria del

clinamen (292: exiguum clinamen principiorum), che rappresenta

una deroga dal rigido meccanicismo di Democrito. Per poter dare origine ai vari esseri gli atomi debbono avere forme molteplici, ma non infinite; infinite, perché

(525-27: distan­ tia cum sit lJormarumfinita, necesse est quae similes sint l esse irifìnitas, 'mentre la differen­ za fra le forme [degli atomi] è limitata, è necessario che siano illimitate quelle che sono simili fra loro'). I.:aggregarsi di atomi, ad evitare che si generino mostri, è ne­ cessario che avvenga certa ratione (710) . Al loro disgregarsi sopravviene la morte, che colpisce le creature, non i loro elementi costitutivi (1002 sg.: nec sic interemit mors res ut materiai l corpora conficiat, sed coetum dissipat ollis, 'la morte non distrugge le cose in

possano piu facilmente incontrarsi, sono invece quelle simili fra loro

modo da annientare gli elementi della materia, ma dissolve la loro aggregazione').

In sostanza la natura produce tutto spontaneamente senza l'intervento di "superbi

(1090-92: quae bene cognita si teneas, natura videtur l libera continuo do­ minis privata superbis l ipsa sua per se spante omnia dis agere expers, 'il che se bene intendi,

padroni", gli dei

la natura (ti) appare subito libera, priva di superbi padroni, fare tutto lei stessa, da sola, spontaneamente, senza l'intervento degli dei'). Il m libro, che si apre con un nuovo elogio di Epicuro, è dedicato a chiarire la na­ tura dell' animus e dell'anima. I.:animo, o mente, ha sede nella parte centrale del pet­ to, mentre l'anima è diffusa in tutto il corpo. Entrambi sono di natura corporea e strettamente connessi fra loro. Gli atomi che compongono l'animus sono minutis­ simi, levigati e rotondi, e anche l'anima consta di particelle minuscole. Animus e ani­

ma sono formati inoltre da una sintesi di altri elementi: un lieve vento (tenuis aura, ventus), calore (vapor, calar), aria (aer) e una quarta sostanza senza nome (241 sg.: quar­ ta . . . natura . . . omnino nominis expers), di cui non esiste nulla di piu sottile e che è una 173

I l · LA POESIA DIDASCALICA

specie di propulsore delle sensazioni e del pensiero. I; animus è dominantior ad vitam (397) rispetto all'anima, ma entrambi sono soggetti al disfacimento e alla morte. Dunque l'uomo morendo cesserà di esistere, non proverà piu alcun dolore e quin­ di non potrà dirsi infelice: sarà privato, è vero, delle gioie della vita, ma non ne po­ trà avvertire il rimpianto (904 sg.: tu quidem ut es leto sopitus, sic eris aevi l quod superest cunctis privatu' dolori bus aegris, 'tu certo una volta assopito nel sonno della morte sarai per il resto del tempo privo di ogni penoso dolore'). Egli, consapevole che la vita non è data a nessuno in possesso, ma in uso (971: vita . . . mancipio nulli datur, omnibus usu), deve accettare la morte con la stessa serenità degli uomini grandi che lo hanno preceduto (fra questi non poteva mancare ancora una volta Epicuro). Dopo aver ribadito i principi della sua poetica con le stesse parole del I libro (l'i­ terazione è una delle caratteristiche del linguaggio lucreziano) , il poeta tratta nel IV libro della teoria dei simulacra. Secondo tale dottrina la superficie delle cose emana quasi delle membrane (31 sg.: quasi membranae summo de corpore rerum l dereptae); è per questo che ci possono apparire in stato di veglia o di sonno simulacra di persone scomparse che ci incutono terrore, ma non si tratta di anime sfuggite all'Acheron­ te perché nulla rimane di noi dopo la morte. La teoria dei simulacra serve anche a spiegare le varie sensazioni corporee, da quelle visive a quelle uditive, gustative e olfattive. I simulacra poi non si distaccano solo dai corpi e dalle cose, ma si formano anche spontaneamente nell'aria ( 736: partim sponte sua quaefiunt aere in ipso) e si pos­ sono variamente mescolare fra loro in modo da assumere anche l'aspetto di esseri favolosi e mai esistiti, come Centauri, Scilla, Cerbero. La descrizione del meccani­ smo delle sensazioni ha come esito la negazione di ogni finalismo : gli organi e le membra non furono creati per svolgere una determinata funzione, ma è la funzio­ ne che si sviluppò dopo che furono creati gli organi (840 sg.: omnia denique membra l anteJuere, ut opinor, eorum quamJoret usus). Una lunga sezione (907-1036) è poi dedica­ ta a spiegare il sonno e il sogno di uomini e animali; essa, attraverso l'accenno ai so­ gni erotici degli adolescenti (1030-36) , segna il passaggio alla parte finale dedicata alla trattazione dell'amore, di cui si descrive con ricchezza di particolari e crudezza di linguaggio, la forza rovinosa. La condanna che investe l'amore come passione dissennata e causa di infìniti affanni si attenua negli ultimi versi in cui si rappresen­ ta un rasserenante e un po' malinconico quadretto di felicità familiare. Ancora un elogio di Epicuro, liberatore dai veri mostri che affliggono l'umanità (non quelli inutilmente sconfitti da Ercole), inaugura il v libro, che si apre con una visione sconsolata del mondo, destinato come l'uomo e tutte le creature, a perire. Credere che esso sia stato creato dagli dei eterno e a beneficio degli uomini è pura follia (165: desiperest). Se cosi fosse infatti l'uomo non dovrebbe lottare fin dalla na­ scita con una natura ostile, che insidia di continuo la sua vita con pericoli e malattie. Il mondo è frutto di una casuale aggregazione di atomi, che si disposero in base al loro peso e alla loro qualità: al centro si addensarono gli elementi piu pesanti, i piu

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I · IL POEMA C O S M O L O G I CO-FILO SOFICO

leggeri si levarono verso l'etere. Dopo aver parlato delle possibili cause dei moti de­ gli astri e di altri fenomeni naturali, il discorso si accentra sulla comparsa dell'uomo sulla terra e sulla lunga e faticosa storia della sua emancipazione dallo stato ferino. La scoperta dei vantaggi del vivere associato, del fuoco, del linguaggio furono le prime tappe di questa lenta evoluzione, che ebbe però amare contropartite: la guer­ ra, la corsa al denaro, al potere, a tutto ciò che minaccia la serenità dell'animo. A turbare gli uomini intervenne poi la religio con i suoi riti nefandi. La verapietas a cui deve ispirarsi il sapiens non consiste dunque nel frequentare i templi nei giorni fe­ stivi ma nel poter guardare tutto con mente serena

(1203: pacata posse omnia mente

tueri). Nell'ultima parte si torna sugli effetti negativi della civilizzazione, che indu­ ce l'uomo a consumare l'esistenza in inutili travagli (1431: semper . . . in curis consumit inanibus aevum), e si riafferma il valore della vera ratio, unico strumento capace di in­ nalzarci alle soglie della luce (1455: ratio . . . in luminis erigit oras). I..:ultimo libro, inaugurato ancora da un elogio di Epicuro, tratta dapprima delle cause che producono i fulmini, per dimostrare quanto sia vano riconoscervi i segni di un'arcana volontà divina (382: indicia occultae divum . . . mentis). La riprova è costi­ tuita dalla casualità dei loro bersagli: essi non colpiscono i malvagi ma gli innocen­ ti e addirittura templi e statue degli dei. Si passa quindi a indagare le cause dei ter­ remoti, delle piene del Nilo, dei supposti aditi dell'Averno come Cuma per dimo­ strare ancora una volta la naturalità di tutti questi fenomeni. Si esamina quindi la caratteristica di alcune fonti dalle singolari proprietà e poi quella del magnete. La sezione finale è dedicata alle cause dei morbi, da cui si trapassa alla descrizione del­ la peste di Atene, che conclude il poema con un grandioso scenario di morte.

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II · LA POESIA DIDAS CALICA

DE RERUM NATURA I

1-158

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas, alma Venus, caeli subter labentia signa quae mare navigerum, quae terras frugiferentis concelebras, per te quoniam genus omne animantum concipitur visitque exortum lumina solis: te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus summittit flores, tibi rident aequora ponti placatumque nitet diffuso lumine caelum. Nam simul ac species patefactast verna diei et re serata viget genitabilis aura favoni, aeriae primum volucres te, diva, tuumque signifìcant initum perculsae corda tua vi. Inde ferae pecudes persultant pabula laeta et rapidos tranant amnis: ita capta lepore te sequitur cupide quo quamque inducere pergis. Denique per maria ac montis fluviosque rapacis frondiferasque domos avium camposque virentis omnibus incutiens blandum per pectora amorem effìcis ut cupide generatim saecla propagent. Quae quoniam rerum naturam sola gubernas

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De remm natura. l due passi che si propongono qui alla lettura sono particolarmente significativi sia dal punto di vista poetico che da quello concettuale: la parte introduttiva del poema (I 1-158) e la sezione riguardante l'emancipazione dell'uomo dall'originario stato ferino (v 925-1090). Nella prima, oltre il celebre inno a Venere e il primo elogio di Epicuro, sono enunciati i principali temi che verranno poi trattati nel corso del poema, nella seconda è rappresentata l'infelice condizione dell'uomo primitivo, che, in ossequio alla concezione epicurea, non vive in un mitico eden, ma in un ambiente selvaggio e ostile, da cui progressivamente impara a difendersi dando cosi l'avvio al­ la storia del suo incivilimento (� I p. 291). Il testo seguito è quello dell'edizione con commento e traduzione inglese di C. Bailey (Oxford, Univ. Press, 1947). Nei rari casi in cui non ne condividia­ mo interamente o parzialmente le scelte ne diamo ragione in nota. I 1-158. Protasi delpoema. Dopo il celebre inno a Venere, il poeta si rivolge a Memmio, dedicata­ rio del poema, e gli espone il contenuto dell'opera. Segue l'elogio di Epicuro, che per primo ha avuto il coraggio di liberare gli uomini dai terrori instillati nel loro animo dalla religione. La sua

I · IL POEMA COSMOLOGICO-FILOSOFICO

LA NATURA I 1-158

Madre degli Eneadi, piacere degli uomini e degli dei, alma Venere, che sotto gli astri che trascorrono in cielo popoli il mare animato di navi e le terre feraci di frutti, poiché per tuo mezzo ogni specie vivente si forma e, nata, vede la luce del sole: te, o dea, te fuggono i venti, te e il tuo arrivo le nubi del cielo, per te l'artefice terra fa spuntare profumati fiori, per te ridono le distese marine e il cielo rasserenato risplende di luce diffusa. Ché appena si schiude il sembiante primaverile del giorno e disserrato acquista vigore il soffio fecondatore di zefiro, dapprima gli uccelli dell'aria dànno segni di te, dea, e del tuo ingresso, colpiti nell'intimo dal tuo vigore. Poi le fiere e gli armenti si sbrigliano nei campi fecondi e guadano fiumi dalla rapida corrente: cosi preso dal tuo fascino ognuno ardentemente ti segue ovunque ti appresti a condurlo. Infine per mari e monti e fiumi impetuosi e frondose dimore di uccelli e verdi campi in tutti instillando nel petto il dolce amore fai si che bramosi propaghino le generazioni secondo le specie. Poiché tu sola governi la natura delle cose

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non è da considerarsi empietà, empia è piuttosto la religione in nome della quale si sono compiu­ ti crimini orrendi come il sacrificio di Ifìanassa, immolata dal padre Agamennone per propiziarsi la partenza alla volta di Troia. Dunque per non essere tentati di prestare orecchio alle minacce dei sacerdoti è necessario indagare la struttura dell'universo e anzitutto la natura dell'anima, anche se questo non sarà un compito agevole per la naturale povertà della lingua latina e la novità dell'ar­ gomento. La ricerca proverà che ogni cosa si compie senza l'intervento degli dei. 2. alma: l'aggettivo, connesso con alere, vale 'datrice di vita'. Già attributo di Venere in Plauto (Rud., 694), torna in Virgilio (Aen., 1 618; x 332), Orazio e Ovidio. + 3· navigerum . . .Jrugiferentis: que­ sti aggettivi composti sono tipici dello stile lucreziano e probabilmente di derivazione arcaica. Es­ si tendono progressivamente a sparire in età augustea. + 15.jerae pecudes: è molto probabile cheferae pecudes costituisca un nesso asindetico. Vesatto ordine dei versi è restituito nel codice Laurenziano (vd. p. 818). -pecudespersultant pabula: le frequenti allitterazioni di sapore arcaico sono una caratte­ ristica del linguaggio lucreziano (c&. 24: sociam studeo scribendis, ecc.). 1 77

II · LA POESIA DIDASCALICA

nec sine te quicquam dias in luminis oras exoritur neque fìt laetum neque amabile quicquam, te sociam studeo scribendis versibus esse, quos ego de rerum natura pangere conor Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni omnibus ornatum voluisti excellere rebus. Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem. Effìce ut interea fera moenera militiai per maria ac terras omnis sopita quiescant. Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors armipotens regit, in grernium qui saepe tuum se reicit aeterno devictus vulnere amoris, atque ita suspiciens tereti cervice reposta pascit amore avidos inhians in te, dea, visus eque tuo pendet resupini spiritus ore. Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto circumfusa super, suavis ex ore loquellas funde petens placidam Romanis, incluta, pacem. Nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo possumus aequo animo nec Memmi clara propago talibus in rebus communi desse saluti. Omnis enim per se divum natura necessest immortali aevo summa cum pace fruatur semota ab nostris rebus seiunctaque longe.

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22. luminis oras: locuzione enniana (Ann., 114; 131 Vahlen2 109; 135 Skutsch), ripresa da Virgilio (Georg., II 47; Aen., VII 66o). Orae, che può valere anche 'regioni', indica qui piuttosto i 'confini' che separano le tenebre dalla luce. + 26. Memmiadae nostro: Lucrezio è costretto a ricorrere al pattoni­ mico perché Memmio non sarebbe entrato nell'esametro. Si tratta quasi certamente di Gaio Mem­ rnio, pretore nel 58 a.C. e subito dopo governatore in Bitinia, dove ebbe al suo seguito Catullo e Cinna. Cicerone (Brut., 247) ne parla come di un conoscitore della letteratura greca e un oratore brillante, Ovidio (Trist., II 433 sg.) e Plinio il Giovane (Epist., v 3 5) lo ricordano come autore di car­ =

mi erotici. Queste qualità letterarie gli avranno valso la dedica di Lucrezio, anche se sempre da Ci­

cerone (Fam., XIII 1) sappiamo della sua ostilità verso gli Epicurei al punto di voler edificare una ca­ sa sui resti di quella di Epicuro. + 29. militiai: si osservi la desinenza arcaica del femm. sing. in -ai (bi­ sillabo costituito da due lunghe) anziché in -ae (monosillabo lungo): analogamente, piti avanti, pa­ triai (41) , Triviai (84), Iphianassai (85), animai (112). Arcaica è anche la forma moenera per munera (an­ che al v. 32). + 32. Mavors: arcaico per Mars. + 38. corporesancto: può legarsi anche a circumjusa: 'mentre

I · IL POEMA COSMOLOGICO-FILOS OFICO

e senza di te nulla si affaccia alle divine soglie della luce e nulla senza di te esiste di fiorente e gioioso, te ambisco ad avere alleata per scrivere i versi che tento di comporre sulla natura delle cose

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per la cara stirpe di Memmio, che tu, dea, hai voluto in ogni occasione eccellesse di ogni merito adorno. Tanto piu dunque, dea, concedi grazia perenne ai miei detti. Intanto fa' in modo che le feroci imprese guerresche ovunque per mare e per terra sopite trovino quiete.

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Tu sola infatti puoi dare soccorso ai mortali con pace serena, poiché alle feroci imprese di guerra presiede Marte in armi possente, che spesso si abbandona sul tuo grembo vinto dall'eterna ferita d'amore, cosi, col bel collo reclino, levando lo sguardo

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sazia d'amore gli avidi occhi anelando a te, dea, e dal tuo labbro pende il respiro di lui che giace supino. Tu, divina, mentre lo cingi cosi abbandonato sul tuo corpo santo, effondi dalla tua bocca soavi parole chiedendo per i Romani, gloriosa, una placida pace.

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Infatti né posso con animo sereno compiere questo lavoro in un tempo non sereno per la patria, né l'illustre progenie di Memmio può in tale evenienza mancare alla comune salvezza. Ogni natura divina deve infatti di necessità godere di per sé di una vita immortale in pace assoluta,

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lontana dalle nostre vicende e del tutto isolata. lo cingi del tuo corpo santo'. + 40. placidam . . . pacem: rappresenta l'ideale dell'atarassia epicurea. + 41. patriai tempore iniquo: difficile dire a quali avvenimenti si alluda. Si è pensato agli anni turbolenti successivi al 59 a.C. o all'inizio delle ostilità &a Cesare e Pompeo. + 44-49. Questi versi, che ritor­ nano in n 646-51, sono stati a lungo espunti secondo il suggerimento dell'umanista Michele Ma­ rullo nell'editio luntina di P. Candido (Firenze, 1512). Oggi, sulla scorta di Bignone e Diels, si tende ad accoglierli, anche se non c'è dubbio che il salto logico rispetto ai versi precedenti e a quelli che seguono è notevole. Per questo alcuni hanno sospettato una lacuna oltre che dopo il v. 49 (come Bailey nell'edizione del 1947 che seguiamo, non in quella del 19222, dove si predilige l'espunzione) anche dopo il v. 43· La divinità epicurea, come si sa, vive « lontana dalle nostre vicende », ma che Lucrezio dica questo ex abrupto (e per di piu con un enim) subito dopo aver invocato Venere e chie­ sto il suo aiuto sembra abbastanza incredibile. Se questi versi stavano anche qui dovevano certa­ mente essere inseriti in un contesto piu ampio e complesso, in cui dopo l'iniziale entusiasmo Lu­ crezio era maliconicarnente indotto a riflettere sull'indifferenza divina alle cose umane. Né dopo questa ipotetica riflessione poteva, altrettanto ex abrupto, "tornare" a Memmio.

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II · LA POESIA D IDAS CALICA

Nam privata dolore omni, privata periclis, ipsa suis pollens opibus, nihil indiga nostri, nec bene promeritis capitur nec tangitur ira. ***

Quod superest, vacuas auris semotum a curis adhibe veram ad rationem, ne mea dona tibi studio disposta fìdeli, intellecta prius quam sint, contempta relinquas. Nam tibi de summa caeli ratione deumque disserere incipiam et rerum primordia pandam, unde omnis natura creet res auctet alatque quove eadem rursum natura perempta resolvat, quae nos materiem et genitalia corpora rebus reddunda in ratione vocare et semina rerum appellare suemus et haec eadem usurpare corpora prima, quod ex illis sunt omnia primis. Humana ante oculos foede cum vita iaceret in terris oppressa gravi sub religione, quae caput a caeli regionibus ostendebat horribili super aspectu mortalibus instans, primum Graius homo mortalis tollere contra est oculos ausus primusque obsistere contra, quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti murmure compressit caelum, sed eo magis acrem irritat animi virtutem, effringere ut arta naturae primus portarum claustra cupiret. Ergo vivida vis animi pervicit et extra processit longe flammantia moenia mundi atque omne immensum peragravit mente animoque, unde refert nobis victor quid possit oriri, quid nequeat, finita potestas denique cuique quanam sit ratione atque alte terminus haerens. Quare religio pedibus subiecta vicissim

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so. : la lacuna è supplita sulla base della citazione riferibile a questo verso pre­ sente negli Scoli Veronesi a Virgilio, Georg., m 3· + 55· rerum primordia: Lucrezio evita il grecismo "ato­ mi". + 57. eadem: neutro plurale che riprende liberamente omnis res, piuttosto che nominativo rife­ rito a natura. + 58. rebus: questo dativo svolge le funzioni di un genitivo e non va dunque emendato 180

I · IL POEMA CO SMOLOGI CO-FILO S O F I CO

Immune da ogni dolore, immune da pericoli, potente di autonoma forza, non bisognosa in nulla di noi, non si lascia allettare dai meriti né è sfiorata dall'ira. ***

Ora resta che tu rivolga sgombre orecchie e mente sagace

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scevra d'ogni altro pensiero alla vera dottrina, affinché i miei doni per te predisposti con devota passione tu non li abbia a sdegnare prima ancora di averli compresi. Per te della legge sovrana che presiede al mondo e agli dei prenderò a trattare e rivelerò i primordi delle cose,

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dai quali la natura crea tutti gli esseri, li accresce e li nutre e ai quali la natura quegli stessi riporta dopo averli distrutti, e che noi nell'esporre la nostra teoria siamo soliti chiamare materia e corpi generatori delle cose o designare semi delle cose o definire quegli stessi

6o

corpi primi, giacché da quei primi elementi tutto deriva. Mentre la vita umana vergognosamente giaceva sotto gli occhi di tutti sulla terra schiacciata dal peso della religione, che mostrava il suo capo dalle plaghe celesti incombendo dall'alto sui mortali con orribile aspetto,

65

per la prima volta un uomo della Grecia ardi sollevarle di contro i suoi occhi mortali e per primo apporle resistenza, lui che né il mito degli dei né i fulmini né il cielo col suo mormorio minaccioso riusd a piegare, ché anzi stimolò maggiormente il suo acuto talento si che concepi il desiderio

70

di squarciare per primo i saldi serrami delle porte della natura.

E cosi il vivace vigore della sua mente ebbe la meglio, e si spinse lontano, oltre le barriere fiammeggianti del cosmo, e col pensiero perlustrò tutta quanta la sconfinata immensità, da cui vincitore ci ha rivelato che cosa può sorgere alla vita,

75

che cosa non può, per quale ragione infine ogni cosa ha un preciso potere e dei limiti radicati in profondo. Per questo, rovesciate le sorti, la religione gettata sotto i piedi

in rerum (cf p. es. v 1405: aderant solacia somno). + 62-79. Si tratta del primo elogio di Epicuro. Gli al­ tri aprono il m, il v e il VI libro. + 70. irritat: perfetto contratto con a lunga, come in VI 587: disturbat urbis. + 73-Jlammantia moenia mundi: si allude alla sfera del fuoco, cioè all'etere.

181

II

·

LA P O E S IA DIDASCALICA

obteritur, nos exaequat victoria caelo. Illud in his rebus vereor, ne forte rearis impia te rationis inire elementa viamque indugredi sceleris. Quod contra saepius illa religio peperit scelerosa atque impia facta. Aulide quo pacto Triviai virginis aram Iphianassai turparunt sanguine foede ductores Danaum delecti, prima virorum. Cui simul infula virgineos circumdata comptus ex utraque pari malarum parte profusast, et maestum simul ante aras adstare parentem sensit et hunc propter ferrum celare ministros aspectuque suo lacrimas effundere civis, muta metu terram genibus sumrnissa petebat. Nec rniserae prodesse in tali tempore quibat, quod patrio princeps donarat nomine regem. Nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras deductast, non ut sollemni more sacrorum perfecto posset clara cornitari Hymenaeo, sed casta inceste nubencli tempo re in ipso hostia concideret mactatu maesta parentis, exitus ut classi felix faustusque daretur. Tantum religio potuit suadere malorum. Tutemet a nobis iam quovis tempore vatum terriloquis victus dictis desciscere quaeres. Quippe etenim quam multa tibi iam fingere possunt somnia, quae vitae rationes vertere possint fortunasque tuas omnis turbare timore! Et merito. Nam si certam finem esse viderent aerumnarum homines, aliqua ratione valerent religionibus atque minis obsistere vatum.

So

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82. indugredi: arcaismo per ingredi, comodo metricamente. Lucrezio lo usa ancora in IV 318 e 367. + 84. Triviai . . . aram: Trivia, la dea dai tre volti (Artemide in terra, Selene in cielo, Ecate nel mondo sotterraneo) era particolarmente venerata nei trivi. + 85 . Iphianassai: Lucrezio adotta per Ifigenia la

forma omerica Iphianassa (Il., IX 145) e di proposito ignora l'altra versione del mito, resa celebre da Euripide, secondo la quale Ifigenia sarebbe stata salvata da Artemide, che al momento del sacrifi­ cio l'avrebbe prodigiosamente sostituita con una cerva. + 86. prima virorum: Lucrezio ama locuzio-

I · I L POEMA C O S MOLOGICO-F I LO SOFICO

è calpestata, noi la vittoria pone alla pari del cielo. Trattando di questo io temo che tu possa forse pensare

So

di iniziarti ai principi di un'empia dottrina

e di incamminarti per una via scellerata. Ché anzi al contrario pili spesso proprio la religione fu madre di scelleratezze e empietà. Cosi in Aulide l'ara della vergine Trivia oscenamente contaminarono col sangue di Ifìanassa

85

eletti duci dei Danai, i piu insignì fra tutti. Non appena l'infula sacra cinta d'intorno alle virginee ciocche le ricadde ugualmente sull'una e l'altra gota, e non appena scorse il padre dolente ritto presso l'altare e vicino a lui i sacerdoti che celavano il ferro

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e il popolo che alla sua vista grondava di pianto muta per il terrore a terra ricadde piegandosi sulle ginocchia. Né in quel momento poteva esser d'aiuto alla sventurata l'aver dato per prima al sovrano il nome di padre.

Infatti sollevata da mani virili fu condotta tremante

95

all'altare, non perché adempiuta la consueta usanza dei riti si potesse seguirla in corteo con fiaccole e canti d'Imene, ma perché pura impuramente, proprio in tempo di nozze, cadesse vittima mesta per il massacro voluto dal padre, affinché una fausta e felice partenza fosse data alla flotta.

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A un male si grande poté indurre la religione. Ma proprio tu prima o poi, vinto da terribili detti di vati, cercherai di staccarti da me. Davvero quante sciocchezze ti sanno inventare, tali da poter sovvertire il tuo modo di vita

105

e turbare con il terrore in tutto la tua condizione! Ed è naturale. Se infatti gli umani vedessero un termine certo del loro patire, saprebbero opporsi in un modo o nell'altro alle vane credenze e alla minacce dei vati.

ni di questo tipo: cf. p. es. 1 315: strafa viarnm; 340: sublima caeli, ecc. + 87. infula: la benda sacra che cin­ geva il capo dei sacerdoti e delle vittime. È il primo segnale che rende Ifigenia consapevole del suo destino. + 97· Hymenaeo: Imeneo o Imene, il dio delle nozze, celebrato con canti durante la deductio della donna (corteo dalla casa paterna a quella dello sposo). Qui la deductio della sposa è invece ad aras (vv. 95 sg.).

II · LA POESIA DIDASCALICA

Nunc ratio nulla est restandi, nulla facultas, aeternas quoniam poenas in morte timendum. Ignoratur enim quae sit natura animai, nata sit an contra nascentibus insinuetur et simul intereat nobiscum morte dirempta an tenebras Orci visat vastasque lacunas an pecudes alias divinitus insinuet se, Ennius ut noster cecinit, qui primus amoeno detulit ex Helicone perenni fronde coronam, per gentis Italas hominum quae clara clueret; etsi praeterea tamen esse Acherusia tempia Ennius aeternis exponit versibus edens, quo neque permaneant animae neque corpora nostra, sed quaedam simulacra modis pallentia miris; unde sibi exortam semper florentis Homeri commemorat speciem lacrimas effundere salsas coepisse et rerum naturam expandere dictis. Quapropter bene cum superis de rebus habenda nobis est ratio, solis lunaeque meatus qua fìant ratione, et qua vi quaeque gerantur in terris, tunc cum primis ratione sagaci unde anima atque animi constet natura videndum, et quae res nobis vigilantibus obvia mentis terrifìcet morbo adfectis somnoque sepultis, cernere uti videamur eos audireque coram, morte obita quorum tellus amplectitur ossa. Nec me animi fallit Graiorum obscura reperta

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112-16. Sono esposte le principali teorie sull'anima: nasce e muore col corpo (Epicuro), preesiste al corpo perché immortale (Platone), sopravvive nel regno dei morti (credenza popolare), trasmigra in altri corpi (Pitagora). - pecudes alias: si osservi il "pleonasmo illogico": gli uomini non apparten­ gono alle pecudes. + 117. Ennius: Ennio, l'autore degli Anna/es, è il poeta nazionale (noster) , ma anche il poeta caro a Lucrezio. La novità della sua poesia (primus) consiste principalmente nell'aver in­ trodotto l'esametro nella poesia latina, abbandonando il saturnio dei suoi predecessori. + 120. Ache­ rusia tempia: propriamente 'spazi, regioni dell'Acheronte', ma nella traduzione si è conservato il la­ cinismo, già presente in Foscolo (1 Sepolcri, 43 sg.: « errar vede il suo spirto l fra 'l compianto de' templi Acherontei »). + 124-25. Homeri . . . speciem: nel proemio degli Anna/es Ennio narrava di esser­ si addormentato e di aver sognato Omero (o meglio il suo simulacrum) , che gli rivelava di essere tra­ srnigrato in lui. Per l'epicureo Lucrezio tali simulacra non sono anime provenienti dall'Ade, ma

I · IL POEMA CO SMOLO G I CO-FILOSOFICO

Ora invece non c'è alcun mezzo, alcuna possibilità di resistere,

110

giacché pene eterne dobbiamo temere morendo. Si ignora infatti quale sia la natura dell'anima, se abbia un inizio o al contrario s'insinui in ciascuno che nasce e se perisca insieme con noi dalla morte dissolta o scenda a vedere il buio dell'Orco e le sue desolate paludi,

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ovvero s'insinui per volere divino in altri animali, come cantò il nostro Ennio che primo dall'ameno Elicona recò una ghirlanda di fronde perenni, destinata a brillare di splendida fama fra le italiche genti; per quanto però Ennio narra inoltre in versi immortali

120

che vi sono templi Acherontei,

dove non sopravvivono le anime né i nostri corpi, ma quasi fantasmi mirabilmente pallidi; egli racconta che emerso di lf il simulacro di Omero sempre fiorente abbia cominciato a versare lacrime amare

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e a spiegare con le parole la natura delle cose. Perciò a fondo dobbiamo dar conto delle cose celesti, quale sia la causa dei moti della luna e del sole e qual forza governi ogni cosa qui sulla terra, e anzitutto dobbiamo scrutare

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con ingegno sagace di che consti l'anima e la natura del pensiero, cosa sia ciò che venendoci incontro atterrisce le menti allorché siamo svegli ma infermi ovvero sepolti nel sonno, cosi che ci sembra di vedere di fronte a noi o di ascoltare coloro le cui ossa dopo la morte stringe nel suo amplesso la terra.

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Né sfugge al mio animo che è duro chiarire

"membrane" vaganti che si distaccano dai corpi dei viventi, come si spiega nel IV libro (vd. sopra, p. 174) . - laaimas ljfundere salsas: sull'interpretazione del perché delle lacrime di Omero si è aperta una lunga diatriba. È probabile che Omero pianga per la commozione e la gioia di aver finalmen­ te trovato un degno erede in Ennio. Salsus è quasi certamente epiteto ornante. Sul problema da ul­ timo M. Agosti, Le �alsae lacrimae'di Omero: Ennio come Callimaco, in « Aufidus », n. xxxv 1998, pp. 3740, al quale si rimanda anche per la ricca bibliografia sull'argomento. + 131. unde . . . videndum: la na­ tura dell' animus e dell'anima è indagata nel m libro: l'animus coincide con la mens e ha sede nella parte centrale del petto (m 140: media regione in pectoris haeret), l'anima è diffusa per tutto il corpo (m 143: per totum dissita corpus). Ma animus e anima sono strettamente avvinti fra loro si da formare una stessa natura (m 136 sg.: nunc animum atque animam dico coniuncta teneri l inter se atque unam naturam wrificere ex se).

185

II · LA POESIA DIDASCALICA

difficile inlustrare Latinis versibus esse, multa novis verbis praesertim cum sit agendum propter egestatem linguae et rerum novitatem; sed tua me virtus tamen et sperata voluptas

140

suavis amicitiae quemvis efferre laborem suadet et inducit noctes vigilare serenas quaerentem dictis quibus et quo carmine demum clara tuae possim praepandere lumina menti, res quibus occultas penitus convisere possis.

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Hune igitur terrorem animi tenebrasque necessest non radii solis neque lucida tela diei discutiant, sed naturae species ratioque. Principium cuius hinc nobis exordia sumet, nullam rem e nilo gigni divinitus umquam. Quippe ita formido mortalis continet omnis, quod multa in terris fieri caeloque tuentur, quorum operum causas nulla ratione videre possunt ac fieri divino numine rentur. Quas ob res ubi viderimus nil posse creari de nilo, tum quod sequimur iam rectius inde

perspiciemus, et unde queat res quaeque creari et quo quaeque modo fiant opera sine divom.

v 925-1090 At genus humanum multo fuit illud in arvis

925

durius, ut decuit, tellus quod dura creasset, et maioribus et solidis magis ossibus intus 140-42. me . . . suadet: suadeo con l'accusativo è già in Terenzio (Hec., 481) e sopravvive in Virgilio (Aen., x 9 sg.). + 152-53. multa . . . quorum operum: cioè: multa opera . . . quorum, con attrazione del so­ stantivo nel caso del relativo. + 155-58. I:ordine esatto dei versi è stato restituito dall'umanista Mi­ chele Marullo nell'editio luntina di P. Candido (Firenze, 1512) .

v 925-1090. Emancipazione delgenere umano dallo statoferino. Come sappiamo da Diodoro (1 8 11-12) , Epicuro immaginava la condizione umana delle origini non diversa da quella degli animali. I:uo­ mo primitivo viveva nudo e isolato, si cibava di frutti spontanei della terra, non conosceva né l'a­ gricoltura né il fuoco, era esposto al pericolo di morire precocemente di stenti. Siamo dunque ben 186

I



IL POEMA C O S M O L O G I C O - F I L O S OFICO

le oscure scoperte dei Greci con versi latini, anzitutto perché molte cose bisogna trattare con parole nuove, per la povertà della lingua e la novità dei concetti; ma tuttavia il tuo valore e lo sperato piacere

140

della tua dolce amicizia mi induce a sopportare ogni fatica e mi sprona a vegliare durante le notti serene ricercando con quali parole e quali versi alfine io possa disserrare ai tuoi occhi la luce, con cui tu possa a tua volta indagare ciò che giace nascosto in profondo.

145

Dunque questo terrore e queste tenebre della mente è necessario che non i raggi del sole e i luminosi dardi del giorno disperdano, ma lo spettacolo e l'interpretazione della natura. Il suo fondamento per noi prenderà inizio di qui, e cioè che mai nulla nasce dal nulla per volere divino.

150

Di certo il terrore possiede tutti i mortali poiché vedono in terra e in cielo accadere molti fenomeni di cui non possono in alcuna maniera scorgere le cause e pensano che a produrli sia il volere divino.

Perciò quando sapremo che nulla può crearsi dal nulla allora avremo piu chiaro ciò che perseguiamo e da dove possa ogni cosa essere creata e in che modo ciascuna si compia senza intervento divino.

156 157 158 155

V 925-1090

Ma il genere umano di allora vivendo fra i campi fu molto piu duro,

925

come era giusto, poiché la dura terra l'aveva creato, e all'interno piantato su ossa piu grandi e piu salde, lontani dal mito poetico dell'età dell'oro. Lucrezio sulle orme del maestro accentua probabilmen­ te di suo certi aspetti drammatici dell'esistenza primitiva e la contrappone a quella civilizzata ma degenere dei suoi tempi. Segue poi le progressive tappe dell'emancipazione della stirpe umana dallo stato ferino, soffermandosi in particolare sull'origine del linguaggio (-+ 1 p. 291) . 925. At: l'avversativa iniziale segna una contrapposizione con quanto precede. Il poeta, che nei versi precedenti ha negato l'esistenza dei giganti, ora osserva che se gli uomini primitivi non ave­ vano proporzioni abnormi erano tuttavia di corporatura ben piu solida di quella dell'uomo civi­ lizzato. + 926. durius. . . decuit. . . dura: si osservi l'allitterazione (per altri esempi cfr. 964: violenta viri vis, ecc.) e il poliptoto.

II



LA POESIA DIDAS CALICA

fundatum, validis aptum per viscera nervis, nec facile ex aestu nec frigore quod caperetur nec novitate cibi nec labi corporis ulla.

930

Multaque per caelum solis volventia lustra vulgivago vitam tractabant more ferarum. Nec robustus erat curvi moderator aratri quisquam, nec scibat ferro molirier arva nec nova defodere in terram virgulta neque altis

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arboribus veteres decidere falcibu' ramos. Quod sol atque imbres dederant, quod terra crearat sponte sua, satis id placabat pectora donum. Glandiferas inter curabant corpora quercus plerumque; et quae nune hiberno tempore cernis

940

arbita puniceo fieri matura colore, plurima tum tellus etiam maiora ferebat. Multaque praeterea novitas tum florida mundi pabula dura tulit, miseris mortalibus ampia. At sedare sitim fluvii fontesque vocabant,

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ut nunc montibus e magnis decursus aquai claru' citat late sitientia saecla ferarum. Denique nota vagis silvestria tempia tenebant nympharum, qui bus e scibant umori' fluenta lubrica proluvie larga lavere umida saxa,

950

umida saxa, super viridi stillantia museo, et partim plano scatere atque erompere campo. Necdum res igni scibant tractare neque uti pellibus et spoliis corpus vestire ferarum, sed nemora atque cavos montis silvasque colebant

955

et frutices inter condebant squalida membra verbera ventorum vitare imbrisque coacti. Nec commune bonum poterant spectare neque ullis

928. nerois: neroi sono anche tendini e muscoli. + 931. lustra: qui lustrum non indica necessariamente uno spazio di cinque anni , ma piu genericamente un periodo indeterminato di tempo. + 936.jàlci­ bu': la -s caduca (cioè la -s finale dopo vocale breve, che "non fa posizione" e che graficamente si suole omettere e segnalare con un segno di aposttofo), frequente nell'esametto enniano, soprav­ vive ancora in Lucrezio (in questo passo ricorre, oltte che qui, ai vv. 947 e 949). + 939· Glandiferas . . . quercus: le ghiande, cibo tipico della vita primitiva, anche in Virgilio ( Georg., 1 148) sono associate ai

188

I · IL POEMA C O S M O LO GI CO -FILO S O FICO

connesso nell'intimo da nervi possenti, non facile ad essere sorpreso dal caldo e dal gelo, né da cibo inconsueto né da qualche malanno del corpo. E per molti lustri del sole trascorsi nel cielo trascinavano la vita al modo errabondo dei bruti. Nessuno era reggitore vigoroso del ricurvo aratro né sapeva dissodare i campi col ferro né immergere nel suolo nuovi virgulti né agli alti alberi recidere col falcetto i vecchi rami. Ciò che il sole e le piogge avevano dato, ciò che da sé la terra aveva prodotto quel dono bastava a placare il loro cuore. Per lo piti ristoravano il corpo fra querce ricche di ghiande; i corbezzoli che ora tu vedi nella stagione invernale al maturare farsi del colore della porpora allora la terra produceva in gran numero anche piti grandi. E inoltre allora la fiorente giovinezza del mondo produsse molti rudi alimenti, bastevoli per gli infelici mortali. E a placare la sete li invitavano fiumi e sorgenti, come ora lo scroscio dell'acqua dalle grandi montagne sonoro richiama ampiamente stirpi di fiere assetate. Infine s'impadronivano dei boscosi recessi delle Ninfe scoperti nel loro vagare, dai quali sapevano che rivoli scorrenti d'acqua bagnavano col loro copioso fluire le pietre rendendole viscide, le viscide pietre, stillanti sopra il verde muschio, e che in parte sgorgavano e prorompevano nella pianura. Non sapevano ancora trattare le cose col fuoco né servirsi di pelli e coprire il corpo con spoglie di fiere, ma abitavano boschi e cavità di monti e foreste e riparavano le scabre membra fra folte macchie costretti a sfuggire sferzate di venti e rovesci. E non potevano ancora mirare al bene comune

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corbezzoli. + 946. aquai: sul gen. femm. arcaico in -ai anziché in -ae vd. n. a 1 29. + 947· claru' citat late: è emendamento di Forbiger su claricitati a te dei manoscritti. Bailey nell'edizione del 1947 (non nel­ la seconda del 1922) segue « con molta esitazione » claricitat late di Bosius, ma daricito, frequentativo

di clarico (p resente solo in Apuleio, De mundo, 15, dove però è intransitivo e vale 'risplendo': ignes cla­ ricantes, 'fuochi risplendenti') , avrebbe quest'unica attestazione.

II · LA POE S IA DIDAS CALICA

moribus inter se scibant nec legibus uti. Quod cuique obtulerat praedae fortuna ferebat spante sua sibi quisque valere et vivere doctus. Et Venus in silvis iungebat corpora amantum; conciliabat enim vel mutua quamque cupido vel violenta viri vis atque impensa libido vel pretium, glandes atque arbita vel pira lecta. Et manuum mira freti virtute pedumque consectabantur silvestria saecla ferarum missilibus saxis et magno pondere clavae; multaque vincebant, vitabant pauca latebris; saetigerisque pares subus silvestria membra nw da> dabant terrae nocturno tempore capti, circum se foliis ac frondibus involventes. Nec plangore diem magno solemque per agros quaerebant pavidi palantes noctis in umbris, sed taciti respectabant sornnoque sepulti, dum rosea face sol inferret lumina caelo. A parvis quod enim consuerant cernere semper alterno tenebras et lucem tempore gigni, non erat ut fieri posset mirarier umquam nec diffidere, ne terras aeterna teneret nox in perpetuum detracto lumine solis. Sed magis illud erat curae, quod saecla ferarum infestam miseris faciebant saepe quietem. Eiectique domo fugiebant saxea tecta spumigeri suis adventu validique leonis atque intempesta cedebant nocte paventes hospitibus saevis instrata cubilia fronde. Nec nimio tum plus quam nunc mortalia saecla dulcia linquebant lamentis lumina vitae. Unus enim tum quisque magis deprensus eorum

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moribus . . . legibus: mores sono consuetudini non scritte, leges norme codificate. + 961. sponte . . . doctus: l'uomo di Lucrezio non è dunque l' "animale sociale" di Aristotele: la famiglia è un passo

959·

successivo (1011 sgg.). + 968. La trasposizione qui del v. 975, accolta da tutti gli editori, è opera del­ l'umanista Andrea Navagero (Venezia, 1515) . + 972-81. Per Lucrezio l'uomo primitivo è privo di

I · IL POEMA C O S MOLOGI CO-FILO S O FICO

né conoscevano l'uso di norme o di leggi vigenti fra loro. La preda che il caso gli offriva ciascuno afferrava,

960

ciascuno d'istinto ammaestrato a difendere il proprio vigore e la vita.

E Venere nelle selve avvinceva i corpi degli amanti; a rendere docile ognuna era il mutuo trasporto o la prepotente forza del maschio e la sua smisurata brama o un dono, ghiande e corbezzoli e pere succose.

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E fidando nel mirabile vigore delle mani e dei piedi inseguivano stirpi silvestri di fiere con pietre da lancio ed enorme peso di clave;

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e su molte avevano la meglio, sfuggivano a poche nascosti;

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e simili a irsuti cinghiali i corpi selvaggi

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nudi adagiavano al suolo sorpresi dal cader della notte,

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avvolgendosi intorno con foglie e rami fronzuti.

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Né con alte grida imploravano la luce del sole fra i campi

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vagando atterriti nelle tenebre notturne,

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ma in silenzio e sepolti nel sonno aspettavano

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che il sole con la sua fiaccola rosa riportasse in cielo la luce. Poiché fin da bambini erano soliti sempre vedere tenebre e luce con fase alterna prodursi, non poteva accadere che mai li cogliesse stupore o il dubbio che una notte perpetua occupasse la terra

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sottratta per sempre la luce del sole. Ma questo di piu li angosciava, che stirpi di fiere rendevano spesso molesto il riposo a quegli infelici.

E cacciati dalle loro dimore fuggivano dalle tane di pietra al sopraggiungere di uno schiumante cinghiale o di un possente leone

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e a notte fonda lasciavano tremanti ad ospiti feroci giacigli coperti di fronde.

E a quel tempo non molto piu di ora le stirpi dei mortali lasciavano fra i lamenti il dolce lume della vita. Allora infatti piu spesso uno di loro, abbrancato

990

paure superstiziose: sa per esperienza che alla notte succederà la luce del giorno e attende sereno, sprofondato nel sonno, l'arrivo dell'aurora. Manilio trattando lo stesso argomento (1 68 sgg.) parla invece di uno stupor dell'umanità primitiva di fronte al sorgere del nuovo giorno e al sopraggiun­ gere della notte.

191

I I LA POESIA DIDASCALICA ·

pabula viva feris praebebat, dentibus haustus, et nemora ac montis gernitu silvasque replebat viva videns vivo sepeliri viscera busto. At quos effugium servarat corpore adeso, posterius tremulas super ulcera taetra tenentes

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palmas horriferis accibant vocibus Orcum, denique eos vita privarant vermina saeva expertis opis, ignaros quid vulnera vellent. At non multa virum sub signis milia ducta una dies dabat exitio nec turbida p onti

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aequora lidebant navis ad saxa virosque, sed temere incassum frustra mare saepe coortum saevibat leviterque ruinas ponebat inanis, nec poterat quemquam placidi pellacia ponti subdola pellicere in fraudem ridentibus undis.

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Improba navigii ratio tum cacca iacebat. Tum penuria deinde cibi languentia leto membra dabat, contra nunc rerum copia mersat. Illi imprudentes ipsì sìbi saepe venenum vergebant, nunc dant sollertius ipsi.

1010

Inde casas postquam ac pellis ignemque pararunt, et mulier coniuncta viro concessit in unum ***

cognita sunt, prolemque ex se videre creatam, tum genus humanum primum mollescere coepit. Ignis enim curavit, ut alsia corpora frigus

1015

non ita iam possent caeli sub tegmine ferre, et Venus imminuit viris puerique parentum blanditiis facile ingenium fregere superbum. Tunc et amicitiem coeperunt iungere aventes finitimi inter se nec laedere nec violari,

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et pueros commendarunt muliebreque saedum,

993· vivo. . . busto: l'immagine di un animale come «tomba vivente" è in Ennio (139 Vahlen2 126 Skutsch), che di un avvoltoio dice heu quam crudeli condebat membra sepulcro ('ahimè in che crudele sepolcro seppelliva le membra'). Ma gli avvoltoi sono detti « sepolcri animati » già in Gorgia (fr. 82 B 5 a Diels-Kranz). + 1010. wliiS>: è supplemento del!'editio [untina (Firenze 1512). + 1012. È indi=

192

I

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IL POEMA COSM OLOGICO-FILOSOFICO

offriva pascolo vivo alle fiere, divorato dai denti, e boschi e monti e foreste riempiva di gemiti vedendo i suoi visceri vivi sepolti in un vivo sepolcro. E quelli che col corpo straziato aveva salvato la fuga piu tardi tenendo le mani tremanti sulle orribili piaghe

995

con grida angosciate invocavano il regno dei morti finché spasimi atroci li privavano della vita, senza soccorso, ignari di quali rimedi reclamassero quelle ferite. Eppure molte migliaia di armati guidati sotto le insegne non destinava a e stinzione un sol giorno né la piana marina in burrasca

1ooo

infrangeva contro gli scogli uomini e navi, ma il mare, spesso ergendosi in flutti, invano, a vuoto sfogava la sua cieca ira e poi senza offesa deponeva le inutili minacce, né le lusinghe di placide acque potevano trarre insidiando qualcuno in inganno col sorriso delle onde.

1005

I:insensata arte del navigare giaceva a quei tempi nell'ombra. Inoltre la penuria di cibo destinava allora alla morte membra estenuate, mentre ora le affoga l'eccesso di beni. Quelli senza saperlo versavano spesso a se stessi veleno, mentre ora con troppa malizia lo propinano ad altri.

1010

In seguito, dopo che si procacciarono capanne e pelli e fuoco e la donna all'uomo congiunta convenne in un solo ***

furono note, e videro la prole nata da essi, allora per la prima volta il genere umano cominciò a ingentilirsi. Infatti il fuoco fece si che i corpi intirizziti

1015

non piu potessero reggere al gelo sotto la volta celeste, e Venere fiaccò le forze, e i bambini con i loro vezzi facilmente domarono l'indole dura dei genitori. Allora i vicini cominciarono a sentire il desiderio di stringere fra loro amicizia, di non fare violenza o subirla

1020

e affidarono al mutuo rispetto le donne e i ragazzi,

spensabile ammettere la cadura di un verso, supplito exempli gratia da Munro con hospitium ac lecti socialia iura duobus ('[convenne in un solo] alloggio e le leggi nuziali del talamo ad entrambi [furo­ no note)'}. Non persuadono infatti i tentativi di salvare il testo tramandato correggendo cognitasunt in conubium (Lachmann) o coniugium {Bemays) o concubitum (Stampini). + 1019·20. amicitiem via. . .

193

II LA POESIA DIDASCALICA •

vocibus et gestu cum balbe signifìcarent imbecillorum esse aequum misererier omnis. Nec tamen omnimodis poterat concordia gigni, sed bona magnaque pars servabat foedera caste;

1025

aut genus humanum iam tum foret omne peremptum nec potuisset adhuc perducere saecla propago. At varios linguae sonitus natura subegit rnittere et utilitas expressit nomina rerum, non alia longe ratione atque ipsa videtur

1030

protrahere ad gestum pueros infmtia linguae, cum facit ut digito quae sint praesentia monstrent. Sentit enim vis quisque suas quoad possit abuti. Cornua nata prius vitulo quam frontibus extent, illis iratus petit atque infestus inurget.

1035

At catuli pantherarum scymnique leonum unguibus ac pedibus iam tum morsuque repugnant, vix etiam cum sunt dentes unguesque creati. Alituum porro genus alis omne videmus fìdere et a pennis tremulum petere auxiliatum.

1040

Proinde putare aliquem tum nomina distribuisse rebus et inde hornines didicisse vocabula prima, desiperest. Nam cur hic posset cuncta notare vocibus et varios sonitus ernittere linguae, tempore eodem alii facere id non quisse putentur?

1045

Praeterea si non alii quoque vocibus usi inter se fuerant, unde insita notities est utilitatis et unde data est huic prima potestas, quid vellet facere ut sciret animoque videret?

lari: è traduzione dalla xxxu delle Massime Capitali di Epicuro, in cui si dice che non può esservi né giustizia né ingiustizia « per quei popoli che non hanno potuto o voluto stringere patti riguardan­ ti il non danneggiare o essere danneggiati ». + 1028-90. Lucrezio segue Epicuro, secondo cui (Lette­ ra ad Erodoto, 75) « i nomi non nascevano thesei », cioè 'per convenzione', ma physei, 'per natura', in quanto erano « le stesse nature degli uomini » ad emettere suoni corrispondenti alle sensazioni, diverse da popolo a popolo e da luogo a luogo. Epicuro è però meno drastico del suo discepolo; continuando (76) precisa infatti che in un secondo tempo presso ciascun popolo furono fissate di comune accordo norme condivise per evitare ambiguità e confusioni. La formulazione della teo­ ria thesei risale a Platone, che nel Crati/o (388e-39oe) parla di un nomothetes, cioè di un 'legislatore',

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I · IL POEMA C O S MO L O GI CO-FILOS OFICO

con voci e con gesti confusamente facendo capire che era giusto che tutti avessero pietà per i deboli. Né tuttavia sempre in ogni caso poteva generarsi concordia, ma la maggior parte di loro osservava con scrupolo i patti,

1025

altrimenti fìn da allora l'intero genere umano sarebbe andato distrutto né propagandosi avrebbe potuto trasmettere fìn qui la sua specie. Poi la natura costrinse ad emettere i diversi suoni del linguaggio e la necessità foggiò i nomi delle cose in modo non diverso da come l'incapacità della lingua a parlare

1030

sembra spingere al gesto i bambini, quando fa sf che col dito mostrino le cose all'intorno. Ciascuno infatti sente fino a che punto possa impiegare le sue facoltà. Prima che al vitello siano spuntate in fronte le corna con quelle iroso s'avventa e minaccioso va all'attacco.

1035

Anche i cuccioli delle pantere e i piccoli dei leoni già si difendono con gli artigli, con le zampe e con i morsi quando ancora denti e artigli non sono del tutto formati. Vediamo poi ogni specie di uccelli fidare nelle ali e chiedere alle penne un malfermo sostegno.

1040

Pertanto è pura follia pensare che qualcuno abbia dato i nomi alle cose e che da lui gli uomini abbiano appreso la prime parole. Perché infatti costui avrebbe potuto designare con vocaboli ogni cosa ed emettere i diversi suoni del linguaggio, e altri dovremmo pensare incapaci nello stesso momento di farlo?

1045

Inoltre se anche non c'erano altri a usare il linguaggio da dove fu instillata in uno solo l'idea della sua utilità e da dove fu data a costui l'iniziale facoltà di sapere e di aver chiaro nella mente che cosa volesse fare?

che avrebbe dato il nome alle cose. Per Lucrezio supporre un simile legislatore « è pura follia » (v. 1043); è dunque evidente la sua implicita polemica con Platone. Dal v. 1043 comincia infatti una lunga difesa della teoria physei. + 1033. vis . . . suas: il plurale vis per vires è arcaismo presente anche in Sallustio (Hist., m 17 Maurenbrecher). I codici hanno vis . . . suam, e quindi alcuni editori preferi­ scono correggere vis in vim conservando suam, ma il plurale, oltre che difficilior, è riclùesto dal sen­ so (non 'forza', ma 'capacità', 'facoltà', significato quest'ultimo che vis assume solo al plurale). + 1037. unguibus acpedibus . . . morsuque: da adulti si difendono 'con denti e artigli' (1038: dentes ungues­ que: si osservi il clùasmo) , per cui unguibus ac pedibus è in sostanza un'endiadi ('con gli artigli delle zampe').

195

I l · LA P O E S IA DIDAS CALICA

Cogere item pluris unus victosque domare

1050

non poterat, rerum ut perdiscere nomina vellent. Nec ratione docere ulla suadereque surdis, quid sit opus facto, facilest; neque enim paterentur nec ratione ulla sibi ferrent amplius auris vocis inauditos sonitus obtundere frustra.

1055

Postremo quid in hac mirabile tantoperest re, si genus humanum, cui vox et lingua vigeret, pro vario sensu varia res voce notaret? Cum pecudes mutae, cum denique saecla ferarum dissimilis soleant voces variasque ciere,

1060

cum metus aut dolor est et cum iam gaudia gliscunt. Quippe etenim licet id rebus cognoscere apertis. Irritata canum cum primum magna Molossum mollia ricta fremunt duros nudantia dentis, longe alio sonitu rabie restricta minantur,

1065

et cum iam iatrant et vocibus omnia complent. At catulos blande cum lingua lambere temptant aut ubi eos iactant, pedibus morsuque petentes suspensis teneros imitantur dentibus haustus, longe alio pacto gannitu vocis adulant et cum deserti baubantur in aedibus, aut cum plorantes fugiunt summisso corpore plagas. Denique non hinnitus item differre videtur, inter equas ubi equus fiorenti aetate iuvencus pinnigeri saevit calcaribus ictus amoris

1075

et fremitum patulis sub naribus edit ad arma, et cum sic alias concussis artibus hinnit? Postremo genus alituum variaeque volucres, accipitres atque ossifragae mergique marinis fluctibus in salso victum vitamque petentes,

1080

longe alias alio iaciunt in tempore voces, et cum de victu certant praedaque repugnant. 1052. suadere . . . surdis: l'espressione "parlare ai sordi" è proverbiale (Terenzio, Heaut., 222) . + 1075. pinnigeri: alato è il dio d'amore (Eros o Cupido), anche se qui sembra soverchiante l'idea della for­ za d'amore rispetto all'intervento diretto della divinità. + 1076. ad arma: ["'agone" è certamente

I · IL POEMA COSMOLO G I CO-FILO S O FICO

Parimenti uno solo non poteva costringere molti e, una volta domati, piegarne il volere a imparare nomi di cose. Non è per nulla facile insegnare e convincere dei sordi cosa sia necessario fare; non avrebbero infatti permesso né avrebbero mai tollerato che incomprensibili suoni ne colpissero a lungo e invano le orecchie. Infine cosa c'è di tanto strano in questo, se il genere umano, dotato di voce e di lingua, chiamava con suoni diversi le cose secondo sensazioni diverse? Dal momento che le greggi prive di parola come pure le stirpi di fiere sono solite emettere voci dissimili e varie quando s'accresce la paura o il dolore o invece la gioia. Giacché proprio questo possiamo apprendere dall'evidenza dei fatti. Quando le grandi labbra pendenti dei cani molassi irate cominciano a fremere mettendo a nudo i denti feroci, contratte per la rabbia minacciano con ringhi molto diversi di quando ormai abbaiano e fanno risuonare ogni dove dei loro latrati. Ma quando dolcemente con la lingua cercano di lambire i cuccioli o quando li scuotono qua e là con le zampe e assalendoli a morsi senza affondare i denti teneramente fingono di divorarli li vezzeggiano con uggiolii in modo molto diverso di quando abbaiano lasciati soli in casa o quando col corpo appiattito cercano con guaiti di evitare le percosse. Infine non sembrano parimenti diversi i nitriti quando un giovane stallone fiorente d'età fra cavalle impazza colpito dagli sproni di amore alato ed emette fremiti dalle dilatate narici pronto all'agone di quando, come in altre occasioni, nitrisce scuotendo le membra? Infine la stirpe degli alati e i vari uccelli, gli sparvieri e le ossifraghe e gli smerghi alla ricerca di vitto e di vita fra le onde marine sulla distesa salmastra in situazione diversa lanciano gridi molto dissimili di quando lottano fra loro per il cibo e contendono per la preda.

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quello amoroso, come mggerisce il confronto con Virgilio, Georg., m 98, che allo stesso proposito usa un'espressione analoga: si quando adproelia ventum est. + 1082. praedaque: è emendamento di una mano correttrice dell'Xl sec. presente in O, rispetto a praedataque della prima mano di O e di Q,

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II · LA P O E S IA DIDAS CALICA

Et partim mutant cum tempestatibus una raucisonos cantus, cornicum ut saecla vetusta corvorumque greges ubi aquam dicuntur et imbris pascere et interdum ventos aurasque vocare. Ergo si varii sensus animalia cogunt, muta tamen cum sint, varias emittere voces, quanto mortalis magis aequumst tum potuisse dissimilis alia atque alia res voce notare!

1085

metricamente impossibile. Praedaque è lezione accolta da Bailey nella seconda edizione del 1922, ma non in quella del 1947, dove preferisce, « con qualche esitazione », praedaeque di Avanzi (Vene­ zia 1500), intendendolo come dativo ('contro la loro preda'), ma c'è chi lo spiega come nominativo

I · IL POEMA COSMOLOGICO-FILOS OFICO

Alcune specie variano i loro striduli versi col mutare del tempo come la longeva progenie delle cornacchie e gli stormi dei corvi quando si dice che invochino l'acqua e la pioggia e talvolta richiamino i venti e le brezze. Dunque se sensazioni ineguali inducono le bestie, che pure non hanno parola, a emettere voci diverse, quanto è piti naturale che potessero allora i mortali indicare or con l'una or con l'altra parola cose fra loro difformi!

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plurale ('e le loro prede resistono, si difendono'). + 1084. wrnicum. . . saecla vetusta: la longevità della cornacchia è proverbiale (Orazio, Carm., m 17 13; IV 13 24; Ovidio, Am., n 6 35).

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II · LA POE S I A D I D A S CALICA

2. LA COSMOLOGIA STOICA DI MANILIO Gli Astronomica di Manilio sono un poema in cinque libri, di cui il I, il II e il IV su­ perano i 900 esametri, mentre il m ne comprende 682 e il v (lacunoso) 745. Chi ha insistito sull'intenzione del poeta di contrapporsi a Lucrezio con un poema che spiegasse l'origine dell'universo secondo il provvidenzialismo stoico ha sospettato che l'autore avesse scritto, o almeno voluto scrivere, un sesto libro sulle orme del suo grande predecessore, ma non vi sono prove fondate in tal senso. Semmai si sa­ rebbe indotti a pensare che gli Astronomica fossero stati originariamente concepiti in quattro libri (di cui il primo a carattere introduttivo), ai quali sarebbe stato in segui­ to aggiunto il quinto, che infatti non ha la robustezza dottrinale dei precedenti. Il poeta stesso, che aveva concluso il rv libro con un solenne epilogo, all'inizio del v sembra quasi chiedere scusa al lettore di persistere nel suo intento, laddove altri si sarebbero ragionevolmente fermati (v 1: hic aliusfinisset iter). Lucrezio, nonostante l'apparente contrapposizione, è il principale modello del poema, per la struttura (proemi, epiloghi, procedimenti argomentativi), per l'originalità del tema (r 113 sg.: opus non ullis ante sacratum l carminibus), per la ricerca di una nuova terminologia tec­ nica che deve fare i conti con la patrii sermonis egestas, per le arditezze stilistiche spes­ so sconfinanti nell'oscurità. Quello che si instaura con Lucrezio è dunque un rap­ porto di aemulatio: Manilio gareggia con l'autore del De rerum natura nella costruzio­ ne di un poema nuovo nella concezione ma analogo nella finalità. Laddove Lucre­ zio aveva spiegato il mondo secondo la fisica epicurea, Manilio ne tenta una diver­ sa interpretazione alla luce dell'immanentismo e del provvidenzialismo stoico. Ac­ canto a Lucrezio sono naturalmente presenti anche i due grandi augustei Virgilio e Ovidio, in particolare per quanto riguarda la politezza formale dell'esametro e il gusto per le digressioni mitologiche. Nel I libro, dopo la dedica ad Augusto, patriae princepsque paterque (v. 7), il poeta manifesta il suo proposito di conoscere nelle intime fibre l'universo (16 sg.: impen­ sius ipsa l scire iuvat magni penitus praecordia mundi), un'impresa a cui arride il cielo (un argomento questo sul quale il poeta tornerà a piu riprese). Agli inizi della sua storia l'uomo non sapeva nulla, restava sorpreso dal sopraggiungere della notte (a diffe­ renza di quello di Lucrezio : vd. n. a De rerum natura, v 973-81) , non conosceva l'agri­ coltura né la navigazione e solo al termine di un lungo percorso di incivilimento al­ zò gli occhi al cielo per scrutare i fenomeni della natura. Qualunque sia l'origine del mondo (i quattro elementi, l'aggregarsi di atomi), non vi è dubbio che esso si ri­ vela sistemato secondo un ordine definito (148: certo digestum est ordine corpus), e que­ sto prova che il tutto è governato da uno spirito divino (250: vis animae divina regit). La regolarità delle orbite degli astri sta a dimostrare che non poté essere il caso a crearle (e qui è evidente la polemica antilucreziana). Il II libro si apre con una ri­ evocazione dei grandi poeti del passato (Omero, Esiodo) per affermare l'assoluta originalità di una poesia (n 57: nostra loquar), che per la prima volta si propone di can-

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I · IL POEMA C O S MOLOG ICO -FILO S O F I CO

tare l'universo regolato da una divina mens (n 82: deus et ratio, quae cuncta gubernat). I.;uomo può accostarsi alle cose celesti per l'elemento divino che è in lui, ma il poe­ ma degli astri è accessibile solo a chi sa aprire il suo animo al divino e non ha quin­ di la mente rivolta al denaro, al potere, al lusso. La trattazione didascalica riguarda le costellazioni dello zodiaco, i rapporti geometrici che intercorrono fra loro e le complesse dottrine che determinano la varietà dei destini degli uomini. Nel m li­ bro il poeta, dopo l'invocazione alle Pieridi, ribadisce l'originalità della sua poesia, che, messo da parte il tradizionale armamentario mitologico dell'epica, si avventu­ ra per un terreno mai battuto da altri, quello dei movimenti dei pianeti e degli astri. Il lettore non cerchi in essa la dolcezza del canto perché è la materia stessa che ri­ fiuta ogni abbellimento, paga di essere rivelata (m 38 sg.: nec dulcia carmina quaeras: l ornari res ipsa negat contenta doceri). Compito del poeta sarà quello di illustrare le in­ fluenze degli astri sulla vita degli uomini. La circonferenza zodiacale è divisa in do­ dici sortes, che presiedono alle varie attività umane (civile, militare, giudiziaria, ecc.). Il calcolo dell'influenza delle "sorti" è in relazione al momento della nascita e va effettuato con precisione e con metodi minuziosamente illustrati dal poeta. Al­ l'inizio del IV libro Manilio riflette sulla vanità di tormentarsi alla ricerca delle ric­ chezze e del successo, considerato che la nostra vita è retta dal Fato (IV 14: Fata regunt orbem). Tutto avviene per destino, come dimostra la storia di Roma, su cui ci si sof­ ferma con dovizia di esempi. Se tutto è preordinato, non per questo dobbiamo scu­ sare il male o negare riconoscimenti al bene (Iv 108 sg.: nec tamen haec ratiofocinus de­ fendere pergit l virtutemve suisJraudare in praemia donis, 'né tuttavia questa norma tende a difendere la malvagità e a defraudare di premi la virtti'). La sezione didascalica è dedicata a illustrare l'influenza dei vari segni dello zodiaco sulla vita degli uomini. Segue un excursus geografico, giustificato dal fatto che come ogni uomo cosi anche ogni regione non sfugge agli influssi celesti. Nella conclusione del libro si ribadisce che all'uomo è consentito di penetrare i segreti del cielo per lo spirito divino che è in lui e che lo accomuna agli astri (Iv 884 sg.: nostrum . . . parentem lpars sua perspicimus genitique accedimus astris, 'il nostro genitore noi, sua parte, vediamo sino in fondo e ac­ cediamo agli astri, da loro creati'). Nel v libro il poeta esordisce dicendo che altri avrebbero arrestato il loro cammino a questo punto, ma che egli non può sottrarsi alla necessità di trattare le costellazioni non appartenenti allo zodiaco, ma che pure hanno influenza sugli uomini. Ad esse è dedicato il resto del libro. Dopo una lacu­ na, di cui non è possibile valutare con esattezza l'estensione, il libro si conclude con un paragone fra l'ordinamento sociale su cui si fonda lo stato e quello degli astri vo­ luto dalla natura. Come nella res publica terrena cosi in quella celeste l'ordine è assi­ curato dalla gerarchia: se a tutti gli astri fosse stata accordata la stessa potenza il mondo perirebbe distrutto da una conflagrazione universale (---.. I pp. 306-8, 479-80) .

201

II



LA P O E S IA DIDAS CALICA

ASTRONOMICA I 474-531

Et, quo clara magis possis cognoscere signa, non varios obitus norunt variosque recursus, certa sed in proprias oriuntur singula luces natalesque suos occasumque ordine servant. Nec quicquam in tanta magis est mirabile mole quam ratio et certis quod legibus omnia parent. Nusquam turba nocet, nihil ullis partibus errans laxius aut brevius mutatove ordine fertur. Quid tam confusum specie, quid tam vice certum est? Ac mihi tam praesens ratio non ulla videtur, qua pateat mundum divino numine verti atque ipsum esse deum, nec forte coisse magistra, ut voluit credi, qui primus moenia mundi semini bus struxit minimis inque illa reso lvit; e quibus et maria et terras et sidera caeli aetheraque immensis fabricantem finibus orbes solventemque alios constare, et cuncta reverti in sua principia et rerum mutare figuras. Quis credat tantas operum sine numine moles ex minimis caecoque creatum foedere mundum? Si fors ista dedit nobis, fors ipsa gubernet. At cur dispositis vicibus consurgere signa et velut imperio praescriptos reddere cursus

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Astronomica. I passi che si propongono alla lettura riguardano rispettivamente il carattere prov­ videnziale della creazione (I 474-531) e l'enunciazione della poetica maniliana (n 57-149) , entrambi

significativi sia dal punto di vista contenutistico che formale, ma appena sufficienti a dare un'idea di una poesia di straordinaria complessità. Il testo seguito è quello di G.P. Goold (Stuttgart, Teub­ ner, 19982) . I 474-531. Provvidenzialità della creazione. I.:ordine mirabile che regola l'universo, la perfetta armo­ nia che lo governa sono la prova evidente che esso non può essere frutto di un casuale aggregarsi di atomi (qui è evidente, anche per espliciti richiami linguistici, la polemica anti-lucreziana), ma opera di una mente divina. Anzi, secondo l'immanentismo stoico, il cosmo è Dio stesso. Infatti so­ lo Dio è sempre uguale a se stesso, mentre tutto ciò che soggiace alla mortalità è destinato a muta­ re nel tempo.

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I · IL POEMA C O S MOLOG ICO-FILO S O F I CO

LA SCIENZA DEGLI ASTRI I 474-531

E perché tu possa meglio riconoscere le luminose costellazioni sappi che esse non variano i loro tramonti né i loro ritorni, ma ciascuna senza fallo spunta a mostrare la sua luce e con ordine osserva il suo nascere e il suo declinare. E in una costruzione cosi grande nulla è piu mirabile del suo principio regolatore e dell'obbedienza del tutto a leggi stabilite. In nessun luogo il numero fa danno, nulla vagando in qualche parte allarga il proprio corso o lo restringe o ne muta la norma. Che altro c'è di cosi confuso all'apparenza, di cosi certo nelle sue vicende? E a me nessun altro argomento sembra tanto evidente a dimostrare che il cosmo si volge per volontà divina e che esso stesso è Dio e che non fu la guida del caso ad aggregarlo, come pretese si credesse chi per primo le barriere dell'universo costrui di minimi elementi e in essi le dissolse; di essi sarebbero formati e mari e terre e le stelle del cielo e l'etere, che in infiniti spazi creerebbe mondi e altri ne dissolverebbe, e tutto tornerebbe al suo principio e muterebbe l'aspetto delle cose. Chi crederebbe che un'opera sf grande senza divino assenso sia creata di minimi elementi e l'universo per un cieco accordo? Se fu il caso a darci tutto questo, sarebbe il caso stesso a governarlo. Ma perché vediamo le costellazioni levarsi con ritmi stabiliti e seguire il loro corso quasi vincolate da un comando,

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476. singula: è emendamento di Bentley, mentre la tradizione manoscritta ha sidera. In effetti sorprenderebbe un mutamento di soggetto rispetto al verso precedente. + 480. errans: è congettura di L. Miiller rispetto a errant o errat dei codici. Errat sarebbe grammaticalmente difendibile, ma creerebbe difficoltà in quanto dovrebbe legarsi a laxius aut brevius, espressione che piti natural­ mente si connette a mutatove ordineJertur. + 485. ipsum esse deum: l'immanentismo stoico presuppone l'identità Dio-Mondo. - forte coisse magistra: la polemica anti-lucreziana è evidente anche dal ri­ chiamo ad espressioni lucreziane: cfr. moenia mundi (1 73, ecc.); semina rerum (1 59, ecc.); resolvit (1 57). + 489. aethera . . .Jabricantem: Cicerone sull'autorità di Aristotele dice che, come la terra, l'acqua e l'a­ ria dànno origine a vari esseri animati, cosi l'etere produce le stelle, le quali, nate in un simile am­ biente, debbono di necessità essere dotate di un'intelligenza superiore, e in ultima analisi essere considerate vere e proprie divinità: eum in aethere astra gignantur, consentaneum est in hissensum inesse et

intelle,�?entiam, ex quo tjfidtur in deorum numero astra esse ducenda (Nat. deor., n 42). 203

II

·

LA POESIA DIDASCALICA

cernimus ac nullis properantibus ulla relinqui? Cur eadem aestivas exornant sidera noctes semper et hibernas eadem, certamque fìguram quisque dies reddit mundo certamque relinquit? Iam tum, cum Graiae verterunt Pergama gentes, Arctos et Orion adversis frontibus ibant, haec contenta suos in vertice f1ectere gyros, ille ex diverso vertentem surgere contra obvius et toto semper decurrere mundo. Temporaque obscurae noctis deprendere signis iam poterant, caelumque suas distinxerat horas. Quot post excidium Troiae sunt eruta regna! Quot capti populi! Quotiens fortuna per orbem servitium imperiumque tulit varieque revertit! Troianos cineres in quantum oblita refovit imperium! Fatis Asiae iam Graecia pressa est. Saecula dinumerare piget, quotiensque recurrens lustrarit mundum vario sol igneus orbe. Omnia mortali mutantur lege creata, nec se cognoscunt terrae vertentibus annis exutas variam faciem per saecula ferre. At manet incolumis mundus suaque omnia servat, quem neque longa dies auget minuitque senectus nec motus puncto curvat cursusque fatigat; idem semper erit quoniam semper fuit idem. Non alium videre patres aliumve nepotes aspicient. Deus est, qui non mutatur in aevo. Numquam transversas solem decurrere ad Arctos nec mutare vias et in ortum vertere cursus auroramque novis nascentem ostendere terris, nec lunam certos excedere luminis orbes sed servare modum, quo crescat quove recedat,

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501. Iam tum, cum: nesso catulliano (1 5: iam tum, cum ausus es unus Italorum). + 502. Arctos et Orion: le due costellazioni sono già associate in Omero (Il., xvm 487 sg.). + 508. post exddium Troiae: richiama Virgilio, Aen., v 626: septima post Troiae exddium iam vertitur aestas. + 517. exutas . . ..forre: verso quanto mai incerto : si dubita di exutas, non tramandato concordemente, e.forre è congettura di Goold ri204

I · IL POEMA CO SMOLOGICO-FILOSOFICO

e nessuna affrettarsi o altra rimanere indietro? Perché sempre le stesse stelle ornano le notti estive e sempre le stesse le invernali, e ciascun giorno dona al cielo un definito aspetto e un altro definito ne abbandona? Già da allora, quando le graie genti rovesciarono Pergamo, l'Orsa ed Orione procedevano su rotte contrapposte, l'una paga di piegare il suo corso nel vertice del cielo, l'altro di levarsi di fronte a lei che si volgeva da opposta direzione e di correrle incontro sempre per tutto il cielo. Già potevano dalle costellazioni riconoscere i tempi dell'oscura notte, e il cielo aveva già scandito le sue ore. Quanti regni dopo la rovina di Troia sono stati sovvertiti! Quanti popoli fatti prigionieri! Quante volte la sorte per il mondo ha recato soggezione e primazia ed è tornata con diverso volto! Per quale grande impero, dimenticando il passato, ha ravvivato le ceneri troiane! Ormai la Grecia è stata sopraffatta dal destino dell'Asia. Sarebbe fastidioso enumerare i secoli passati e quante volte ritornando il sole ardente abbia percorso il cielo con le sue orbite variate. Tutto ciò che è stato creato con legge mortale muta col tempo, né la terra, col passare degli anni, s'accorge che, spogliata, ha nel tempo un aspetto che muta. Ma il cosmo resta inalterato e conserva tutte le sue parti, non lo accresce il trascorrere dei giorni o lo riduce la vecchiaia né il moto lo inclina d'un sol punto o il corso l'affatica; sarà sempre identico a se stesso perché sempre lo fu. Non ne videro uno diverso i padri, non uno diverso ne vedranno i nipoti. È Dio, che non varia nel tempo. Che mai il sole corra fino a incrociare le Orse né muti la sua strada e volga ad oriente il suo percorso e mostri il sorgere dell'aurora da terre sconosciute, che la luna non valichi le stabilite orbite di luce ma che mantenga il ritmo con cui cresce e poi scema,

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spetto a �entes �s o genus) della tradizione. Chi vuol salvare gentes deve accogliere variant dello Sca­ ligero (i codici hanno per lo pili variam). + 519. longa dies . . . senectus: Manilio fonde in questo verso Virgilio (Aen., v 783: quam nec longa dies) e Orazio ( Carm., n 16 30: longa Tithonum minuit senectus). + 527. luminis orbes: espressione lucreziana (m 410: dummodo ne corrumpas luminis orbem).

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Il · LA POE S IA DIDASCALICA

nec cadere in terram pendentia sidera caelo sed dimensa suis consumere tempora gyris,

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non casus opus est, magni sed numinis orda.

Il 57-149

Nostra loquar, nulli vatum debebimus arsa, nec furtum sed opus veniet, soloque volamus in caelum curru, propria rate pellimus undas. Namque canam tacita naturae mente potentem

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infusumque deum caelo terrisque fretoque ingentem aequali moderantem foedere molem, totumque alterno consensu vivere mundum et rationis agi motu, cum spiritus unus per cunctas habitet partes atque irriget orbem omnia pervolitans corpusque animale fìguret. Quod nisi cognatis membris contexta maneret machina et imposito pareret tota magistro ac tantum mundi regeret prudentia censum, non esset statio terris, non ambitus astris,

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erraretque vagus mundus standove rigeret, nec sua dispositos servarent sidera cursus noxque alterna diem fugeret rursumque fugaret, non imbres alerent terras, non aethera venti nec pontus gravidas nubes nec flumina pontum

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nec pelagus fontes, nec staret summa per omnis par semper partes aequo digesta parente,

530. gyris: è congettura di Housman rispetto a signis della tradizione, che pure qualche editore di­ fende. 11 57-149. Nuova materia di canto: le leggi del cosmo. Il poeta si avvia per una strada non battuta da al­

tri: canterà Dio infuso nel cosmo e tutte le sue manifestazioni.

Questo gli è concesso dalla paren­ tela che lega Dio-Mondo all'animo dell'uomo, entrambi della stessa sostanza (non stupirà dunque che le stelle abbiano tanta influenza sulla nostra vita). La veridicità del suo dire è confermata dalla regolarità di fenomeni che non possono essere casuali, ma preordinati da una mente divina. Il suo canto è rivolto da un lato alle stelle, dall'altro a quell'eletta schiera di uomini che è in grado di di­ staccarsi dai beni terreni per immergersi nella contemplazione dell'universo.

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I · IL POEMA COSMOLOGI CO-FILO S O FICO

che non cadano sulla Terra gli astri sospesi al firmamento ma consumino il tempo misurato per i loro percorsi,

530

tutto questo non è opera del caso, ma norma d'una divinità suprema.

Il

57-149

Dirò un argomento mio, a nessun vate dovrò le mie parole, il risultato non sarà un furto, ma una mia creazione, e volo verso il cielo su un carro solitario, con una nave mia batto le onde. Canterò infatti Dio che regge la natura con tacito disegno,

6o

e infuso nel cielo, nella terra e nelle acque con equilibrato accordo regge l'immensa costruzione, e come l'universo intero viva in mutua coerenza di elementi e si muova sospinto da una mente, giacché un unico spirito risiede in ogni parte e intride il mondo,

65

tutte le cose traversando a volo e lo plasma come creatura viva. Che se la compagine, intessuta di membra apparentate, non restasse salda e non obbedisse tutta quanta a un maestro preposto e la provvidenza non guidasse quel tesoro senza limiti che è il cosmo, la terra non avrebbe la sua stabilità, gli astri orbite loro

70

e la volta celeste vagherebbe senza mèta o s'irrigidirebbe per inerzia, né le sue stelle manterrebbero corsi stabiliti, né la notte con vece alterna fuggirebbe il giorno e di nuovo lo metterebbe [in fuga, le piogge non nutrirebbero la terra, non i venti l'aria, né il mare le rigonfie nubi, né i fiumi il mare,

75

né le acque marine le sorgenti, né il tutto starebbe sempre in equilibrio in ogni parte, disposto dall'equità del suo creatore in modo tale

57· orsa: è congettura del Dulcinius {Milano, 1489) rispetto a ora della tradizione. Orsa rimanda a Virgilio (Aen., x 632; XI 124). + 58-59. solo . . . curru: l'immagine della solitudine torna nel finale di questa pericope (138: sedsolus . . .). -propria rate: il topos dell'attività poetica come navigazione ha una lunga storia, che, partendo da Pindaro, arriva atttaverso Properzio (m 3 22) fino a Dante (Purg., I 1 sg.). + 61. irifusumque deum: per il concetto cfr. Cicerone, Nat. deor., I 28: deus . . . aut infixus aut irifusus . . . in mundo. + 71. erraret . . . standove: la tradizione ha haereret . . . standoque, ma haereret accanto a vagus è dif­ ficilmente sostenibile.

207

I l · LA POESIA D I D A S CALICA

ut neque deficerent undae nec sideret orbis nec caelum iusto maiusve minusve volaret. Motus alit, non mutat opus. Sic omnia toto dispensata manent mundo dominumque sequuntur. Hic igitur deus et ratio, quae cuncta gubernat, ducit ab aetheriis terrena animalia signis, quae, quamquam longa, cogit, summota recessu, sentiri tamen, ut vitas ac fata ministrent gentibus ac proprios per singula corpora mores. Nec nimis est quaerenda fides: sic temperat arva caelum, sic varias fruges redditque rapitque, sic pontum movet ac terris immittit et aufert, atque haec seditio pelagus nunc sidere lunae mota tenet, nunc diverso stimulata recessu, nunc anni spatio Phoebum comitata volantem; sic summersa fretis, concharum et carcere dausa, ad lunae motum variant animalia corpus et tua damna, tuas imitantur, Delia, vires; tu quoque fraternis sic reddis curribus ora atque iterum ex isdem repetis, quantumque reliquit aut dedit ille, refers et sidus sidere constas; denique sic pecudes et muta animalia terris, cum maneant ignara sui legisque per aevum, natura tamen ad mundum revocante parentem attollunt animos caelumque et sidera servant corporaque ad lunae nascentis cornua lustrant

So

85

go

95

100

78. sideret: emendamento di Bentley su sidera della tradizione. + 87. nimis: i codici hanno minus o mu­ nus, ma nimis di Bentley è sicuramente la soluzione pili economica. + 90-92. haec seditio . . . volantem:

le maree giornaliere, provocate dalla posizione della luna (« Delia » al v. 95) al meridiano o all'o­ rizzonte (sidere lunae) , mensili in relazione a plenilunio e novilunio (diverso . . . recessu) , annuali, de­ terminate dal solstizio e dall'equinozio (Phoebum comitata volantem) . + 93-95. concharum . . . vires: la no­ tizia è presente anche in Cicerone, Div., n 33: multa enim Stoici conligunt . . . dicunt . . . ostreisque et conchy­ liis omnibus contingere ut cum luna pariter crescant pariterque decrescant ('gli Stoici hanno raccolto molti esempi [ . . . ] dicono [ . . . ] che alle ostriche e a tutti i molluschi accade di crescere e decrescere di pa­ ri passo con la luna'). + 97-98. quantumque . . . constas: per il debito della luce lunare al sole vd. p. es. Ci­ cerone, De orat., m 178: ( videmus) ut luna accessu et recessu suo solis lumen accipiat ('[vediamo] come la lu­ na, col suo avvicinarsi e allontanarsi dal sole ne riceva la luce'). + 99-104. denique sicpecudes . . . serena: degli animali che avvertono l'arrivo delle tempeste aveva già trattato Virgilio ( Geotg., 1 375-79; 401-

208

I · IL POEMA CO SMOLOGICO-FILOSOFICO

che le acque non venissero mai meno né la terra sprofondasse né il cielo nel suo volo varcasse or piu or meno la misura. n movimento alimenta, non altera il creato. Cosi ogni cosa

So

resta distribuita in tutto il cosmo e segue il suo signore. Dunque questo Dio e la ragione che governa il tutto dalle costellazioni celesti deriva le creature sulla terra,

che, pur cosi lontane per remota distanza, tuttavia costringe ad esser percepite al punto che compartono alle genti

85

vite e destini e a ciascuno individuo un suo carattere precipuo. La prova non va cercata troppo a fondo : cosi regola i campi il cielo, cosi le varie messi dona e sottrae, cosi muove il mare e lo riversa sulla terra e lo ritrae, e questo fermento possiede la distesa ondosa, ora mosso

90

dallo splendore della luna, ora eccitato dal suo ritrarsi in direzione [opposta, ora compagno di Febo che vola lungo la sua annuale arena; cosi sommersi dalle onde e racchiusi nel carcere del guscio certi animali variano il corpo al moto della luna e imitano, o Diana, il tuo declino e il tuo riprendere vigore;

95

anche tu cosi avvicini il volto al carro del fratello e di nuovo da esso l'allontani, e quanto egli ti lasciò o ti diede, tu rendi, e sei astro per opera di un astro; cosi infine le greggi e i muti animali sulla terra, benché permangano nel tempo ignari di sé e della legge che li guida,

1oo

tuttavia quando la natura li richiama al cielo creatore innalzano la mente e osservano la volta celeste e gli astri e mondano i corpi mirando i corni della nascente luna

23), giungendo però a conclusioni diverse: Geor,�;., 1 415 sg.: haud equidem credo, quia sit divinitus illis l ingenium aut rernmfoto prudentia maior ('non credo certo perché abbiano una particolare disposizio­ ne per volontà divina o per destino una previsione maggiore delle cose'). - corpora . . . lustrant: si trat­ ta degh elefanti della Mauritania, come sappiamo da Phnio il Vecchio, Nat. hist., VIII 1: auctores sunt in Mauretaniae saltibus ad quendam amnem, cui nomen estA milo, nitescente luna novagreges eorum (elephan­ torum) descendere ibique sepurifìcantes sollemniter aqua circumspergi atque ita salutato sidere in si/vas reverti vi­ tulorumjàtigatos prae seJerentes ('alcuni autori narrano che nelle gole selvose della Mauritania bran­

chi di questi animali [elefanti] quando comincia a brillare la luna nuova scendono verso un fiume chiamato Amilo e qui purificandosi solennemente si spruzzano d'acqua e cosi, reso omaggio all'a­ stro, si rintanano nei boschi, spingendo avanti a sé i loro piccoli affaticati').

209

II · LA P O E S IA DIDAS CALICA

venturasque vident hiemes, reditura serena. Quis dubitet post haec hominem coniungere caelo,

eximium natura de dit linguamque capaxque ingenium volucremque animum, quem denique in unum descendit deus atque habitat seque ipse requirit? Mitte alias artes, quarum est permissa facultas invidiosa adeo, nec nostri munera census: [mitto quod aequali nihil est sub lege tributum, quo patet auctoris summam, non corporis, esse; mitto quod certum est et inevitabile fatum materiaeque datum est cogi sed cogere mundo] quis caelum posset nisi caeli munere nosse, et reperire deum, nisi qui pars ipse deorum est? Quisve hanc convexi molem sine fine patentis signorumque choros ac mundi flammea tecta, aeternum et stellis adversus sidera bellum [ac terras caeloque fretum subiectaque utrisque] cernere et angusto sub pectore claudere posset, ni sanctos animis oculos natura dedisset cognatamque sibi mentem vertisset ad ipsam et tantum dictasset opus, caeloque veniret quod vocat in caelum sacra ad commercia rerum? Quis neget esse nefas invitum prendere mundum et velut in semet captum deducere in orbem? Sed, ne circuitu longo manifesta probentur, ip sa fìdes operi faciet pondusque fìdemque; nam neque decipitur ratio nec decipit umquam.

105

110

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120

125

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106. Questo verso è stato supplito exempligratia da Goold per colmare la lacuna supposta dopo il v. 105. Valternativa è quella di intervenire su eximium, che Flores ha proposto di emendare in cui vires. + 112-15. Questi versi sono dai piri espunti, in quanto ritenuti frutto di interpolazione. + 120. aeter­ num . . . bellum: stellae sono i pianeti, signa le costellazioni, tra cui quelle dello zodiaco, che, non di­ versamente dai pianeti, ruotano (nel loro moto apparente) da est a ovest; poiché però il moto dei pianeti è piu lento di quello delle costellazioni essi sembrano procedere in direzione opposta e quasi scontrarsi: cfr. 1 15: signa . . . et adversos stellarum. . . cursus ('le costellazioni e le orbite opposte dei

pianeti'); 308 sg.: sidera septem lper bis sena volant contra nitentia sidera ('i sette pianeti [gli antichi inclu­ devano fra i pianeti anche il Sole e la Luna] volano con moto contrario attraverso le dodici costel-

210

I · IL POEMA COSMOLOGICO-FILO SOFICO

e presentano l'arrivo di tempeste e quando tornerà il sereno. Chi dopo ciò esiterebbe a legare l'uomo al cielo,

105

- I p. 158), di ridare vigore alle tradizioni piu schiettamente italiche fonda­ te sul mos maiorum e sul culto degli dei patrii. Ottaviano tende sempre piu a presen­ tarsi come il campione dell'Occidente e delle sue tradizioni di laboriosità industre, di spirito di sacrificio, di pietas, di vita parsimoniosa e austera, contro l'ondata dila­ gante di corruzione, di ozio imbelle, di lusso sfrenato proveniente dall'Oriente e rappresentata da Antonio, specie dopo il connubio con Cleopatra. All'indomani della battaglia di Azio (31 a.C.) la propaganda del regime presenterà il duello finale come lo scontro decisivo fra Occidente e Oriente, fra civiltà e barbarie. Questa tensione si respira già nelle Georgiche, che secondo la tradizione furono composte fra il 37 e il 3o, cioè nel periodo cruciale del conflitto fra Ottaviano e An­ tonio. Virgilio, che soffriva il dramma delle guerre civili e ne aveva subito le conse­ guenze, che amava la terra perché proveniva da una famiglia di agricoltori, che ave­ va assistito al naufragio di quegli ideali di cui Ottaviano si proclamava campione, non poteva non vedere nel progetto politico del giovane erede di Cesare una spe­ ranza di salvezza e di redenzione. Nelle Georgiche c'è un'ansia diffusa per le sorti di Roma e del suo imperium, c'è la speranza che Ottaviano saprà ricondurre la pace nel mondo, ma anche, a tratti, il timore che questo non avvenga (si veda il tragico fina­ le del r libro). Alcuni passi però hanno il carattere di profezia post eventum, per cui è quasi certo che essi siano stati ritoccati dopo Azio e dopo la vittoria definitiva di Ot­ taviano su Antonio e l'Oriente. 214

II



LA POE S IA DEL MONDO NATURALE

D'altra parte le Georgiche approfondiscono l'esperienza alessandrina già iniziata con le Bucoliche. Esse infatti si iscrivono nel filone del poema didascalico, che era stato uno dei prodotti piti tipici dell'ellenismo. Ad aprire la strada a Virgilio furono Nicandro, autore di un poema su un umile argomento tecnico, e Arato, che con i suoi Fenomeni aveva trattato di un argomento strettamente legato alla coltivazione dei campi. Risalendo poi all'epoca arcaica c'era il grande modello di Esiodo con le Opere e i giorni e i poemi sulla natura dei filosofi presocratici. Ma l'antecedente piti immediato era il De rerum natura di Lucrezio, considerato da Virgilio insuperato maestro, anche se prende da lui le distanze. Insuperato maestro anche dal punto di vista stilistico, perché la poesia delle Georgiche ha uno stile « molto spesso sublime », che « si rivela a piti riprese come la fucina dello stile epico realizzato poi nell'Enei­ de » (Pemtelli --+ I pp. 294-95) . Le Georgiche sono un poema in esametri diviso in quattro libri, lunghi ciascuno in media 550 versi. Nel I libro si affrontano le principali opere agricole, quali l'ara­ tura, l'allestimento dell'aia, la scelta del seme, ecc.; la trattazione dei pronostici del buono e del cattivo tempo, con cui si conclude il libro, serve a introdurre i prodigi che seguirono l'assassinio di Cesare, evento che apre una nubva fase di spargimen­ to di sangue fraterno. Il n libro è dedicato alla cura della vite, dell'ulivo e delle altre piante (innesto e trapianto di piante selvatiche, varie specie di piante e qualità d'u­ va, varie qualità del terreno, cure da dedicare alla vite, ecc.); la sua conclusione, che occupa il centro dell'intero poema, enuncia i fondamenti della poetica virgiliana e i rapporti della poesia georgica con quella cosmologico-filosofica di Lucrezio (-- I pp. 298-99, 480-81) . Alla "scienza della natura" perseguita da Lucrezio Virgilio con­ trappone la "scienza dei campi", piti semplice e immediata, che consiste nel vivere in armonia con la natura e in comunione con le divinità agresti, che non abitano gli intermundia, indifferenti alle sorti degli uomini come gli dei lucreziani (o epicurei), ma si degnano di scendere fra i contadini e di condividere con loro la vita di ogni giorno. Dunque la felicità non si consegue solo penetrando i misteri del cosmo e li­ berando di conseguenza l'animo dai vani terrori della morte (n 490-92: Felix qui po­ tuit rerum wgnoscere causas l atque metus omnis et inexorabilejàtum l subiecitpedibus strepi­ tumque Acherontis avari, 'Felice chi poté conoscere l'origine delle cose e calpestò ogni timore e la morte insensibile alle preghiere e lo strepito dell'Acheronte insaziabi­ le'), ma anche ricercando la pace spirituale e la tranquillità interiore attraverso una vita condotta secondo natura e in sintonia con il divino che in lei si manifesta (n 493-94:jortunatus et ille deos qui novit agrestis l Panaque Silvanumque senem Nymphasque sorores, 'fortunato anche colui che conobbe gli dei agresti, Pan, Silvano e le Ninfe so­ relle'). Se Virgilio attribuisce il mutamento di rotta a una sua inadeguatezza (n 48384: Sin has ne possim naturae accedere partis lfrigidus obstiterit circum praecordia sanguis, 'Se invece che io possa accostarmi a questi aspetti della natura [quelli affrontati da Lu­ crezio] lo impedirà il sangue che circola freddo attorno ai precordi [cioè: la mia po215

II



LA POESIA D I DAS CALICA

chezza d'ingegno]') lo fa soltanto per rendere meno stridente e polemico il distac­ co dal maestro, ma la sua nuova poetica è espressa in termini di inequivocabile chiarezza. Il m libro riguarda l'allevamento del bestiame, cioè quali criteri seguire per la scelta degli animali da riproduzione, quali precauzioni adottare verso le fem­ mine gravide, come domare i puledri, quali cure rivolgere al gregge per difenderlo dalle malattie, di cui la piu grave è la peste; è questa per il poeta l'occasione di in­ trodurre la descrizione dell'epidemia nel Norico, che conclude il libro e si ispira al celebre finale del De rerum natura di Lucrezio, che, come è noto, tratta della peste di Atene narrata anche da Tucidide. Il IV libro ha per argomento l'apicoltura, tema di grande rilievo in una civiltà che considera il miele una risorsa insostituibile e addi­ rittura un dono degli dei. A proposito del finale del IV libro Servio ci ha tramandato una notizia che conti­ nua a suscitare non poche perplessità. Secondo l'antico commentatore (Ad Bue., 10 1; Ad Georg., IV 13) il IV libro si sarebbe chiuso con l'elogio di Cornelio Gallo, il poe­ ta elegiaco amico di Virgilio celebrato anche nella x ecloga (--+ I p. 155), ma questa parte sarebbe stata in seguito soppressa per ordine di Augusto e sostituita con la fa­ vola di Aristeo, dopo che Gallo, caduto in disgrazia del principe per aver abusato, pare, della carica di prefetto di Egitto, fu costretto a togliersi la vita nel 26 a.C. Cer­ to un elogio di Gallo poteva ben inserirsi nel punto in cui Virgilio, nel trattare del­ la riproduzione degli sciami, dice che la tecnica che si accinge ad illustrare trova la sua origine in Egitto (Iv 287-94). Il fatto che la presunta prima redazione sia scom­ parsa senza traccia non è una prova in contrario, come non è una prova in contrario il fatto che Augusto abbia lasciato sopravvivere la x ecloga e non l'elogio di Gallo al­ la fine delle Georgiche. Non sappiamo di che tenore fossero queste laudes, ma esse potevano, in relazione alla carica occupata da Gallo, avere una forte coloritura po­ litica (che la x ecloga non ha), ed essere quindi diventate intollerabili dopo la cadu­ ta in disgrazia e il suicidio del destinatario. La favola di Aristeo si ricollega alle origini mitiche della rigenerazione degli scia­ mi, una volta che essi siano andati distrutti. Il pastore Aristeo, vedendo morire tut­ te le sue api, si reca dalla madre Cirene, una ninfa che abita le profondità del fiume Peneo in Tessaglia, per chiederle consiglio e aiuto. Cirene, commossa dal pianto del figlio, lo invia dal vecchio Proteo, che, dotato com'è di virtti profetiche, saprà spiegargli sicuramente la ragione della sciagura che l'ha colpito. Proteo vuol essere preso con la violenza, e Aristeo, seguendo i consigli della madre, gli tende un ag­ guato e lo lega ben stretto, mentre il vecchio cerca vanamente di sfuggirgli assu­ mendo i piu svariati aspetti. Alla fine Proteo, dopo aver inutilmente tergiversato, s'induce a parlare. Il pastore apprende cosi la verità: egli è punito con la perdita del­ lo sciame per aver provocato, pur senza saperlo, la morte di Euridice, quando co­ stei, correndo a precipizio per sfuggire alle insidie di lui, mise inavvertitamente un piede su di un serpe che le iniettò il letale veleno. Il discorso di Proteo continua con 216

II · LA POESIA DEL MONDO NATURALE

la storia dei due sposi infelici, un epillio di gusto alessandrino (� I pp. 298-99) . Al termine del racconto Proteo scompare; resta Cirene che ingiunge al figlio di cele­ brare sacrifici funebri per Orfeo ed Euridice, e di uccidere quattro giovenchi, da cui poi, sotto gli occhi stupiti di Aristeo, brulicheranno nugoli di api. In tal modo le chiuse dei vari libri rivelano una perfetta armonia compositiva: al quadro terrifi­ cante delle guerre civili del I libro si contrappone la pace agreste del n, al disfaci­ mento dei corpi distrutti dalla peste del m corrisponde nel IV la vittoria di Aristeo sulla morte dello sciame (� I p. 297) . E il tema didascalico, apparentemente dimen­ ticato, riaffìora nel finale, al quale poi è apposto, a mo' di sigillo, un epilogo di otto vers1. Non vi è dubbio che il lettore moderno sia maggiormente attratto nelle Georgi­ che dai momenti di piu elevata tensione poetica, ma anche le parti piu strettamente tecniche non sono mai aride perché ci restituiscono l'immagine di una civiltà lon­ tana, in cui precetti, tradizioni, strumenti e pratiche agricole erano momenti essen­ ziali di una vita scandita dall'alternarsi delle stagioni e dai raccolti della terra. Ovunque nel poema si avverte l'aspirazione di Virgilio a ritrovare un rapporto equilibrato con la natura, lontano dalle guerre, dagli odi fratricidi, dalla sete di ric­ chezze e di onori, a coltivare la speranza che tutto questo alla fine troverà prima o poi compimento. È con questa tensione etica che Virgilio, sulla strada aperta da Lu­ crezio, seppe dare nuova anima al genere didascalico ereditato dalla cultura ales­ sandrina (� I pp. 293-94) .

217

II



LA POESIA DIDASCALICA

GEORGICA I

438-514

Sol quoque et exoriens et cum se condet in undas signa dabit; solem certissima signa sequentur, et quae mane refert et quae surgentibus astris.

440

Ille ubi nascentem maculis variaverit ortum conditus in nubem medioque refugerit orbe, suspecti tibi sint imbres : namque urget ab alto arboribusque satisque Notus pecorique sinister. Aut ubi sub lucem densa inter nubila se se

445

diversi rumpent radii, aut ubi pallida surget Tithoni croceum linquens Aurora cubile, heu, male tum mitis defendet pampinus uvas: tam multa in tectis crepitans salit horrida grando. Hoc etiam, emenso cum iam decedit Olympo,

450

profuerit meminisse magis; nam saepe videmus ipsius in vultu varios errare colores: caeruleus p luviam denuntiat, igneus Euros; sin maculae incipiunt rutilo inmiscerier igni, omnia tum pariter vento nimbisque videbis

455

Georgica. Nel primo dei brani proposti risiede il nucleo morale e poetico delle Georgiche: l'aspira­ zione alla pace dopo le guerre civili, il ritorno alla terra per troppo tempo abbandonata e con esso il ripristino di quei valori su cui si fonda ogni comunità bene ordinata; nel secondo questo ideale tro­ va il suo modello nella società delle api, dove ciascuna opera con fervore alla realizzazione del be­ ne comune. n testo che qui si riproduce è quello di R.A.B. Mynors (Oxford, Univ. Press, 1969) .

I 438-514. Presagi diguerre dvili e speranze di pace. Nel finale del I libro Virgilio, dopo aver seguito le tracce di Arato circa i "pronostici" del buono e del cattivo tempo, si svincola dal modello per par­

lare dei prodigi che seguirono e in qualche caso precedettero l'assassinio di Cesare, un evento sconvolgente per la storia di Roma, che dovette assistere a una nuova fase di guerre civili, quando, dopo Farsalo, si era sperato che esse fossero finite per sempre. Pur nel clima delle incombenti scia­ gure l'animo del poeta si apre alla speranza e vede in Ottaviano colui che saprà riportare la pace nella travagliata repubblica. 438. Sol quoque: non solo la luna, di cui si sono narrati i "segni" nei versi che precedono (427-37) . Virgilio ricalca qui Arato, Phaen., 819-21: « poni mente al sole quando percorre il cielo da oriente a occidente. n sole dà segni ancor piu veritieri quando tramonta e quando si leva dalla estremità op­ posta ». + 441. nascentem . . . ortum: cfr. Arato, Phaen., 22-24: « il disco del sole che colpisce i campi con i suoi primi raggi non sia variegato, quando hai bisogno di un giorno sereno, né rechi con sé qual­ che segno, ma appaia completamente puro ». Virgilio, imitando Arato, volge la frase da negativa a

218

II • LA POE S IA DEL MONDO NATURALE

LE GEORGICHE

Anche il sole e quando sorge e quando si nasconde fra le onde darà dei segni; segni certissimi terranno dietro al sole sia quelli che reca al mattino sia allo spuntare delle stelle.

440

Quando, coperto da una nube, renderà variegata di oscure macchie la sua nascente ascesa e allontanerà la luce dal centro del suo disco abbi sospetto di piogge : infatti incalza dall'alto Noto, infausto per le piante e i seminati e per il bestiame. O quando sul far del giorno fra dense nubi si frangeranno i raggi

445

in varie direzioni o quando pallida sorgerà l'Aurora lasciando il croceo letto di Titone, allora male, ahimè, i tralci difenderanno le dolci uve : in gran quantità l'aspra grandine saltella sui tetti. A tutto questo, quando percorsa la volta celeste si diparte,

450

converrà ancor piu porre mente; spesso vediamo infatti vari colori andar vagando sul suo volto: un cupo azzurro annuncia pioggia, il color fuoco gli Euri; se invece ombre cominciano a mescolarsi al fiammeggiante rosso, allora a causa del vento e delle piogge insieme

455

positiva. + 442· medioque rifugerit orbe: l'impressione è che la luce rifugga dal centro del disco solare !asciandolo quasi oscuro; Arato, Phaen., 828, dice che esso per questo appare « concavo », « infossa­ to ».+ 443· ab alto: 'dall'alto (del cielo)' o 'dal profondo', cioè dalle cavità dell'antro dei venti. C'è an­ che chi intende 'dall'alto mare' (cfr. v. 456: peraltum). + 444. Notus: vento di sud, apportatore di tem­ peste (cfr. p. es. Ovidio, Met., 1 264: madidis Notus evolat alis). + 446. diversi rumpent radii: anche questa è espressione aratea (Phaen., 829: « quando dei raggi alcuni, dividendosi, colpiscono il sud, altri il nord »). + 447· Tithoni . . . cubi/e: l'immagine è omerica (cfr. Il., XI 1 sg.; Od., v 1) e torna ancora in Vir­ gilio (Aen., IV 585, Ix 460) . I.:Aurora, innamoratasi di Titone, figlio di Laomedonte, lo rapi e lo fece suo sposo ottenendo per lui il dono dell'immortalità, ma non quello dell'eterna giovinezza, per cui si ritrovò accanto un marito vecchio (per questo Dante, Purg., IX 1, la definisce con una perifra­ si « la concubina di Titone antico »). + 450. emenso . . . 0/ympo: Olympus per caelum è espressione di tradizione omerica: l'Olimpo in quanto sede degli dei può designare per estensione il cielo (cosi anche in Bue., 6 86, e Georg., m 223). + 451-57. nam saepe videmus . . . Junem: Virgilio ha qui presente Arato, Phaen., 834-37: « (osserva) se per caso un po' di rosso lo [il sole] attraversa da qualche parte, giacché spesso quando le nuvole avanzano egli si colora di rosso qua e là, o se diventa scuro; que­ st'ultimo sia per te segno di pioggia in arrivo, il rosso sempre segno di vento ». + 453· Euros: venti di sud-est, qui genericamente 'venti'. + 454· sin maculae . . . igni: il modello è ancora Arato (Phaen., 838 sg.): « se si tinge di entrambi i colori [rosso e scuro] porterà pioggia e continuerà a spirare il vento ». 219

II



LA POESIA DIDAS CALICA

fervere: non illa quisquam me nocte per altum ire neque a terra moneat convellere funem. At si, cum referetque diem condetque relatum, lucidus orbis erit, frustra terrebere nimbis et daro silvas cernes aquilone moveri. Denique, quid Vesper serus vehat, unde serenas ventus agat nubes, quid cogitet umidus Auster, sol tibi signa dabit. Solem quis dicere falsum audeat? Ille etiam caecos instare tumultus saepe monet fraudemque et operta tumescere bella; ille etiam exstincto miseratus Caesare Romam, cum caput obscura nitidum ferrugine texit, impiaque aeternam timuerunt saecula noctem. Tempore quamquam illo tellus quoque et aequora ponti obscenaeque canes importunaeque volucres

470

signa dabant. Quotiens Cydopum effervere in agros vidimus undantem ruptis fornacibus Aetnam, flammarumque globos liquefactaque volvere saxa! Armorum sonitum toto Germania caelo audiit, insolitis tremuerunt motibus Alpe s.

475

Vox quoque per lucos vulgo exaudita silentis ingens, et simulacra modis pallentia miris visa sub obscurum noctis, pecudesque locutae (infandum!); sistunt amnes terraeque dehiscunt, et maestum inlacrimat templis ebur aeraque sudant. Proluit insano contorquens vertice silvas fluviorum rex Eridanus camposque per omnis cum stabulis armenta tulit. Nec tempore eodem 458.Atsi . . . : cfr. Arato, Phaen., 825-27: « se l'ora in cui si sciolgono i buoi similmente lo trova puro e se verso sera privo di nubi fa tramontare una tenue luce, anche l'indomani ci sarà bel tempo ». + 46364. Solem . . . audeat?: l'interrogativa retorica segna il passaggio dai "pronostici" del sole relativi al tempo a quelli che annunciano guerre e sventure; i segni del sole (e di altri elementi della natura) che riguardano l'assassinio di Cesare però seguirono per lo piu quel luttuoso evento e non lo pre­ cedettero ( exstincto Caesare, 466), anche se nella rassegna non manca qualche pronostico vero e pro­ prio (vd. n. ai vv. 471-73). + 467. cum . . . texit: dell'oscurarsi del sole dopo l'uccisione di Cesare parla­ no anche altre fonti latine e greche (Tibullo, II 5 75; Ovidio, Met., xv 785 sg.; Plinio il Vecchio, Nat. hist., II 98; Plutarco, Caes., 69 3 ; Cassio Diane, XLV 17 5). + 470. obscenaeque " . volucres: anche Ovidio (Met., xv 796 sg.) e Cassio Dione (xLv 17 6) riferiscono di ululati notturni di cani; vd. inoltre piu

220

II · LA POESIA DEL MONDO NATURALE

tutto vedrai in fermento : in quella notte nessuno potrebbe indurmi ad andare per l'alto mare né da terra a sciogliere gli ormeggi. Ma se, e quando riconduce il giorno e quando alla fine lo nasconde,

limpido sarà il suo disco, senza ragione sarai atterrito dai nembi e vedrai le selve agitarsi per l'Aquilone che porta il sereno.

46o

Infine, che cosa Ve spero rechi sul tardi, da dove il vento spinga nuvole chiare, che mediti l'Austro gravido di piogge, il sole ti annuncerà con segni. Chi oserebbe chiamare menzognero il sole? Egli spesso avverte anche che sovrastano ciechi tumulti e insidie e che fremiti di guerre covano nell'ombra;

465

egli anche senti pietà di Roma poiché Cesare fu ucciso, quando il suo luminoso capo velò di fosca caligine e generazioni scellerate temettero una perpetua notte. Per quanto in quel tempo anche la terra e le distese marine e infauste cagne e malaugurosi uccelli

470

davano segni. Quante volte vedemmo sui campi dei Ciclopi fiammeggiare l'Etna traboccante dalle squarciate fornaci, e trascinar giu masse di fuoco e rocce fuse ! Risuono d'armi per tutto il cielo udi la Germania, di inconsueti moti tremarono le Alpi.

475

Anche un grido da tutti fu udito per i sacri boschi silenti, immenso, e spettri di mirabile pallore apparvero nel buio della notte, e bestie parlarono (orrore !) ; s'arrestano le correnti dei fiumi e si spalancano le terre, e dolente versa lacrime nei templi l'avorio e trasudano i bronzi.

48o

Spazzò via travolgendo nei suoi furiosi vortici i boschi il re dei fiumi, l'Eridano, e trascinò per tutti i campi gli armenti con le loro stalle. Né in quello stesso tempo avanti v. 486. Quanto agli uccelli, per Ovidio (Met., xv 791) si trattò del funesto grido del gufo, per Cassio Dione (ibi d.) di corvi che diedero segni inquietanti. + 471-73- Quotiens . . . saxa!: secondo Ser­ vio (ad loc.) Livio, citato da un libro per noi perduto, riferiva questa eruzione a un tempo antece­ dente e non successivo alla morte di Cesare. + 474-75· Armomm sonitum. . . Alpes: lo stesso prodigio in Tibullo, II 5 73 sg. e Ovidio, Met., xv 783-85. La Germania, già domata da Cesare, tornerà a ribel­ larsi (vd. v. 509) . + 475 · insolitis . . . motibus: gli antichi credevano che le montagne fossero immuni da terremoto, un pregiudizio smentito da Plinio il Vecchio, Nat. hist., n 194. + 477· simulacra . . . miris: l'e­ spressione ricorre in Lucrezio, 1 123 per definire ciò che secondo Ennio sopravvive di noi dopo la morte (vd. nota ad loc.). + 478. pecudesque locutae: anche Tibullo, II 5 78 ricorda un simile prodigio. + 480. ebur aeraque: s'intende statue d'avorio e di bronzo (sineddoche) . + 482. Eridanus: fiume mitico,

221

II · LA POESIA DIDASCALICA

tristibus aut extis fìbrae apparere minaces aut puteis manare cruor cessavit, et altae per noctem resonare lupis ululantibus urbes. Non alias caelo ceciderunt plura sereno fulgura nec diri totiens arsere cometae. Ergo inter sese paribus concurrere telis Romanas acies iterum videre Philippi;

490

nec fuit indignum superis bis sanguine nostro Emathiam et latos Haemi pinguescere campos. Scilicet et tempus veniet, cum fìnibus illis agricola incurvo terram molitus aratro exesa inveniet scabra robigine pila,

495

aut gravibus rastris galeas pulsabit inanis grandiaque effossis mirabitur ossa sepulchris. Di patrii Indigetes et Romule Vestaque mater, quae Tuscum Tiberim et Romana Palatia servas, hunc saltem everso iuvenem succurrere saeclo

500

ne prohibete. Satis iam pridem sanguine nostro Laomedonteae luimus periuria Troiae; iam pridem nobis caeli te regia, Caesar, invidet atque hominum queritur curare triumphos; quippe ubi fas versum atque nefas: tot bella per orbem,

505

successivamente identificato con il Po. I.:alluvione del Po è testimoniata anche da Cassio Dione, 496-99, la stessa immagine è impiegata nella similitu­ dine che raffigura i Danai all'assalto di Troia. + 484. fibrae . . . minaces: l'intreccio di nervi e vene al­ l'interno del fegato, da cui gli aruspici erano in grado di trarre auspici. A un simile auspicio sfavo­ revole allude anche Ovidio, Met., xv 794 sg. + 485. cruor: Ovidio, Met., xv 788, parla di una pioggia di sangue. + 487-88. serenoJulgura: i fulmini a ciel sereno, spesso negati (vd. p. es. Seneca, Nat. quaest., n 26 7: serenum sinefulmine est) , dovevano rivestire carattere di eccezionalità se Orazio fu indotto a ri­ flettere sull'esistenza degli dei proprio in seguito a un simile fenomeno (Carm., I 34 5-8; vd. sotto, pp. 478 sg.) . Cassio Dione, XLV 17 2, a questo proposito parla di fulmini ma non a ciel sereno. - co­ metae: questo fenomeno è presente anche in Tibullo (n 5 71) e Plutarco (Caes., 69 3) . + 490. iterum . . . Philippi: probabilmente Virgilio fonde insieme in un unico tragico teatro di guerre civili Filippi (in Macedonia) , sede dello scontro fra Ottaviano e Antonio da una parte e Bruto e Cassio dall'altra (42 a.C.) , e Farsalo (in Tessaglia) , dove Pompeo fu sconfitto da Cesare (48 a.C.) . Una simile confusio­ ne fra le due località si ritrova anche in Lucano (I 68o; VI 576) . + 492. Emathiam . . . campos: Emazia è nome antico della Macedonia, l'Emo è una catena montuosa che attraversa tutta la Tracia, en­ trambe localizzazioni generiche dello scenario delle guerre civili (cfr. Lucano, I 1: Bella per Ema­ thiosplus quam civilia campos; 68o: latosqueHaemi sub mpe Phi/ippos). + 497·grandia . . . ossa: c'è l'eco di un XLV 17 7· + 482-83. camposque . . . tulit: in Aen., n

222

II · LA POE S IA DEL MONDO NATURALE

nelle infauste viscere cessarono di apparire fibre minacciose o il sangue di sgorgare dai pozzi e le alte città

485

di risuonare nella notte di lupi ululanti. In nessun'altra occasione caddero piu fulmini a ciel sereno né altrettante volte rifulsero funeste comete. La conseguenza fu che Filippi vide di nuovo eserciti romani correre all'assalto l'uno dell'altro armati delle stesse armi;

490

né sembrò troppo crudele agli dei superni che per due volte l'Emazia e le vaste piane dell'Brno fossero ingrassate del nostro sangue. E certo verrà un tempo quando in quei campi un contadino solcando la terra col ricurvo aratro rinverrà giavellotti corrosi da scabra ruggine o con pesanti rastrelli colpirà vuoti elmi

495

e stupirà di fronte a enormi ossa affioranti in quei sepolcri scavati. Dei della patria Indigeti e Romolo e madre Vesta, che tuteli l'etrusco Tevere e il romano Palatino, non impedite che questo giovane almeno porti soccorso a una generazione sconvolta. Già da tempo col nostro sangue

500

abbiamo pagato abbastanza gli spergiuri della Troia di Laomedonte, già da tempo la reggia del cielo, o Cesare, ti contende a noi e lamenta che aspiri a umani trionfi, proprio là dove il male è confuso col bene: tante sono le guerre nel [mondo,

505

topos secondo il quale le generazioni passate hanno prodotto uomini piti grandi e piti forti (cfr. p. es. Virgilio, Aen., xn 900; Giovenale, 15 69 sg.). Passerà dunque molto tempo prima che il contadi­ no possa fare la sua macabra scoperta. + 498. Di patrii Indigetes: non è chiaro se si ttatti di un unico gruppo di divinità o di due gruppi distinti, gli dei protettori della patria (patrii) e gli Indigeti, che se­ condo Servio (ad loc.) sarebbero eroi divinizzati (ma per Livio, vm 9 6 sono dei autoctoni e per Paolo-Festo, p. 94 Lindsay, dei innorninati). - Romule: secondo la narrazione liviana (1 16) Romo­

lo sarebbe stato rapito in cielo nel corso di una tempesta mentte arringava l'esercito. - Véstaque ma­ ter: la dea del focolare domestico e della prosperità della famiglia. + 499. Tuscum Tiberim: il corso del Tevere si snoda in gran parte nel territorio degli antichi Etruschi (Tusci). + 500. hunc . . . iuvenem: Ot­ taviano, cosi definito anche in Bue., 1 42, era nato nel 63 a.C. Se il primo libro delle Georgiche fu scrit­ to, come si ritiene, intorno al 38 a.C., Ottaviano doveva avere all'epoca 25 anni. + 502. Laomedon­ teae . . . Troiae: Laomedonte, il fondatore di Troia, si era macchiato di spergiuro nei confronti degli dei che l'avevano aiutato nella costruzione delle mura della città non pagando loro la pattuita mer­ cede; la sua colpa ricade ora sui Romani che dei Troiani sono gli eredi. + 503-4. iam pridem . . . trium­ phos: accenno alla divinizzazione di Ottaviano ( Caesar) post mortem; nelle Bucoliche è presentato già come un dio in terra (1 6: deus haec no bis otiafecit).

223

I l · LA POESIA DIDASCALICA

tam multae scelerum facies; non ullus aratro dignus honos, squalent abductis arva colonis, et curvae rigidum falces conflantur in ensem. Hinc movet Euphrates, illinc Germania bellum; vicinae ruptis inter se legibus urbes arma ferunt; saevit toto Mars impius orbe, ut cum carceribus sese effudere quadrigae, addunt in spatia, et frustra retinacula tendens fertur equis auriga, neque audit currus habenas.

IV

510

149-227

Nune age, naturas apibus quas Iuppiter ipse addidit expediam, pro qua mercede canoros Curetum sonitus crepitantiaque aera secutae Dictaeo caeli regem pavere sub antro. Solae communis natos, consortia tecta urbis habent magnisque agitant suh legibus aevum, et patriam solae et certos novere Penatis; venturaeque hiemis memores aestate laborem experiuntur et in medium quaesita reponunt. Namque aliae victu invigilant et foedere pacto exercentur agris; pars intra saepta domorum

155

509. Euphrates . . . Germania: il fiume della Mesopotamia sta a indicare la guerra contro i Parti, affi­ data ad Antonio, che parti per l'Oriente nel39; con Germania si allude alla campagna di Agrippa, che, sempre nel 39, aveva valicato il Reno, « primo dei Romani dopo Cesare » (Cassio Dione, XLVIJI 49 3). Per la variatio nome di fiume/nome di regione vd. sotto, IV 211. + 510. vidnae . . . urbes: vi

potrebbe essere un'allusione alla guerra di Modena (43) o alla guerra di Perugia (40) o un piu ge­ nerico accenno a città italiche schierate per l'uno o per l'altro dei due contendenti. + 513. addunt in spatia: probabilmente addunt ha valore assoluto ('acquistano terreno', 'velocità') e in spatia vale 'di giro in giro' (cfr. p. es. in dies, 'di giorno in giorno'). IV 149-227. La vita delle api. La vita delle api non appare all'uomo di oggi meno meravigliosa di

quanto apparisse agli antichi, nonostante che le nostre conoscenze su di essa abbiano fatti enormi progressi. Ciò che soprattutto colpisce la fantasia del poeta è la prodigiosa organizzazione sociale dei piccoli insetti, la quale evoca alla sua mente l'immagine di una comunità perfetta, cosi lontana da quella dei suoi tempi, avvelenata dalle guerre civili. L'allegoria è evidente, anche se non un so­ lo accenno alla situazione presente viene a turbare questo "elogio delle api". Esso, iniziatosi con un

224

II · LA POE S IA DEL MONDO NATURALE

tanti i volti del delitto, nessun degno onore è reso all'aratro, incolti giacciono i campi dopo che furono allontanati i coloni, e le ricurve falci si rifoggiano in rigide spade. Da una parte l'Eufrate muove guerra, dall'altra la Germania; città fra loro vicine, rotti i reciproci patti,

510

prendono le armi; in tutto il mondo l'empio Marte infuria, come quando le quadrighe si slanciano fuori dalle sbarre, acquistano velocità a ogni giro, e invano tendendo le redini

l'auriga è trascinato dai cavalli né il carro ascolta i richiami delle briglie.

IV

149-227

Ora dunque tratterò della natura che Giove stesso diede alle api, ricompensa per aver nutrito,

150

richiamate dai sonori frastuoni e dagli strepitanti bronzi dei Cureti, il re del cielo sotto l'antro ditteo. Esse sole hanno fìgli in comune, tetti condivisi della loro città e trascorrono la vita sotto severe leggi, e sole riconoscono una patria e sicuri Penati;

155

e, prevedendo il sopravvenire dell'inverno, nella buona stagione esercitano la loro fatica e mettono in serbo provviste comuni. E alcune provvedono con vigile cura al vitto e per un accordo fra loro s'affaticano nei campi; altre al chiuso delle loro case

ricordo mitologico, termina con una interpretazione di marca platonico-stoica: c'è un soffio divi­ no che disceso dal cielo anima tutte le creature e al cielo ritorna dopo il distacco dal carcere corpo­ reo. È questo uno dei momenti piu alti della poesia georgica di Virgilio: l'umile ape industriosa si libra in cieli piu alti, diviene particella infìnitesima di quel principio immortale e incorruttibile che agita la materia inerte nel suo perenne travaglio di nascite e di estinzioni. 150-52. canoros . . . antro: Giove, appena nato, sarebbe stato sottratto alla furia divoratrice del padre Saturno dalla madre Rea, che lo avrebbe nascosto in un antro del monte Ditte nell'isola di Creta. Qui la gente dei Cureti ne avrebbe celato i vagiti agitando le !ance contro gli scudi. Richiamate da quel frastuono sarebbero accorse le api che poi avrebbero nutrito il piccolo Giove col miele. Quel­ lo che non è chiaro è come le api potessero nutrire Giove se non producevano già il miele. + 153. communis natos: le api realizzano la comunità dei figli prevista dalla Repubblica di Platone. + 158.joe­ dere pacto: in realtà non esiste una vera e propria specializzazione delle operaie. Nei primi venti giorni di vita esse provvedono a lavori interni all'alveare (pulizia, raccolta del miele dalle bottina­ trici, nutrimento delle larve, difesa dai parassiti, ecc.); successivamente escono all'aperto e diven­ tano bottinatrici. 225

II · LA POESIA D I DASCALICA

Narcissi lacrimam et lentum de cortice gluten

160

prima favis ponunt fundamina, deinde tenacis suspendunt ceras; aliae spem gentis adultos educunt fetus; aliae purissima mella stipant et liquido distendunt nectare cellas; sunt quibus ad portas cecidit custodia sorti, inque vicem speculantur aquas et nubila caeli, aut onera accipiunt venientum, aut agmine facto ignavum fucos pecus a praesepibus arcent: fervet opus, redolentque thymo fraglantia mella. Ac veluti lentis Cyclopes fulmina massis cum properant, alii taurinis follibus auras accipiunt redduntque, alii stridentia tingunt aera lacu; gemit impositis incudibus Aetna; illi inter sese magna vi bracchia tollunt in numerum, versantque tenaci forcipe ferrum:

175

non aliter, si parva licet componere magnis, Cecropias innatus apes amor urget habendi munere quamque suo. Grandaevis oppida curae et munire favos et daedala fingere tecta. At fessae multa referunt se nocte minores,

180

crura thymo plenae; pascuntur et arbuta passim et glaucas salices casiamque crocumque rubentem et pinguem tiliam et ferrugineos hyacinthos. Omnibus una quies operum, labor omnibus unus: mane ruunt portis, nusquam mora; rursus easdem vesper ubi e pastu tandem decedere campis admonuit, tum tecta petunt, tum corpora curant;

160. gluten: la resina serve a sigillare ogni fessura dell'alveare. + 162. ceras: la cera è emessa dalle ghiandole ventrali delle operaie. + 162-64. gentis . . . ce/las: questi versi, uniti ai successivi 167-69, tor­ nano quasi identici in Aen., 1 430-35, per descrivere l'operosità dei Tirii. - liquido. . . nectare: qui 'Inie­ le'; per noi il 'nettare' è il succo del fiore, che diventa miele solo dopo essere stato digerito e rigur­ gitato dalle api. + 165. adportas . . . custodia: sono le sentinelle dell'alveare, che dànno l'allarme in pre­ senza di neinici (lucertole e uccelli: cfr. vv. 13-17). Si osservino le metafore militari. Varrone, Rust., m 16 9 dice che le api ut in exerdtu vivunt. + 168. ignavum . . . arcent: secondo Columella, IX 15 1, le api cacciano i fuchi quando il Iniele è pronto. Per la scienza del tempo i fuchi sono solo parassiti, la ri­ produzione è asessuale (vd. vv. 197-201), capo dell'alveare non è la regina ma il re (vd. v. 201). + 169. thymo: pianta particolarmente gradita alle api (Varrone, Rust., m 16 14). + 171-75. alii . . .Jerrum: questi 226

II · LA POE S IA DEL MONDO NATURALE

gettano come prime fondamenta per i favi stille di narciso

16o

e densa resina estratta dalla scorza degli alberi, poi vi attaccano la viscosa cera; altre conducono fuori la prole già adulta, speranza della stirpe; altre ammucchiano miele purissimo e colmano le celle di limpido nettare; vi sono quelle a cui toccò in sorte la guardia davanti alle porte,

165

e a vicenda scrutano le acque e le nubi del cielo, o ricevono il carico dalle sopravvenute, o, schieratesi a battaglia, scacciano dalla mensa i fuchi, gregge inoperoso; ferve il lavoro e odora di timo il miele profumato. E come quando i Ciclopi ricavano senza posa i fulmini

170

dalla massa duttile di metallo, alcuni con mantici di pelle taurina aspirano l'aria e la rimandano fuori, altri tuffano in un bacino il bronzo sfrigolante; geme l'Etna per le incudini poste nel suo grembo; essi alternativamente con gran forza sollevano le braccia a tempo e rivoltano il ferro con tenaglie dalla potente morsa:

175

non diversamente, se è lecito porre a confronto piccole cose alle grandi, l'innata brama di possesso incalza le api cecropie, ciascuna in modo conforme al suo ruolo. Le anziane si prendono cura della città e di costruire i favi e di modellare le ingegnose abitazioni. Le piu giovani invece a notte inoltrata ritornano stanche,

18o

ricolme le zampe di timo; si cibano qua e là di corbezzoli, di salici azzurrini e di casia e di rosseggiante croco e di ricco tiglio e di bruni giacinti. C'è per tutte un riposo comune dalle fatiche, per tutte un lavoro comune : la mattina si precipitano fuori dalle porte, senza indugio; di nuovo

185

quando la sera le induce ad abbandonare finalmente la pastura nei campi, allora tornano a casa, allora ristorano i corpi; versi tornano quasi identici in Aen., VIII 449-53, a proposito dei Ciclopi che forgiano le armi di Enea. - stridentia . . . lacu: una tecnica impiegata per temprare i metalli in uso fìn dai tempi omerici (Od., IX 391-93). + 176. si . . . magnis: la sproporzione dell'accostamento, accentuata dalla similitudine di tono epico, è di gusto alessandrino. + 177- Cecropias . . . apes: Cecropius vale Atticus (Cecrope è il mi­ tico fondatore di Atene) : il miele attico era celebre al pari di quello siciliano. -

amor. . . habendi:

quello delle api non è da condannare (cfr. invece Aen., VIII 327), perché non è cupidigia, ma neces­ sità di possedere per donare agli altri. + 178-80. Grandaevis . . . minores: oggi sappiamo che è il contra­ rio (vd. n. a v. 158). Ma è un particolare che accentua l'analogia fra la società umana e quella delle api (vd. anche v. 201). + 187. corpora curant: la stessa espressione è riferita a Enea e ai suoi compagni in Aen., m 511.

227

II

·

LA POESIA DIDASCALICA

fìt sonitus, mussantque oras et limina circum. Post, ubi iam thalamis se composuere, siletur in noctem, fessosque sopor suos occupat artus.

190

Ne c vero a stabulis pluvia impendente recedunt longius, aut credunt caelo adventantibus Euris, sed circum tutae sub moenibus urbis aquantur excursusque brevis temptant, et saepe lapillos, ut cumbae instabiles fluctu iactante saburram,

195

tollunt, his se se per inania nubila librant. Illum adeo placuisse apibus mirabere morem, quod neque concubitu indulgent, nec corpora segnes in Venerem solvunt aut fetus nixibus edunt; verum ipsae e foliis natos, e suavibus herbis

200

ore legunt, ipsae regem parvosque Quirites suffìciunt, aulasque et cerea regna refìgunt. Saepe etiam duris errando in cotibus alas attrivere, ultroque animam sub fasce dedere : tantus amor florum et generandi gloria mellis.

205

Ergo ipsas quamvis angusti terminus aevi excipiat (neque enim plus septima ducitur aestas), at genus immortale manet, multosque per annos stat fortuna domus, et avi numerantur avorum. Praeterea regem non sic Aegyptos et ingens

210

Lydia nec populi Parthorum aut Medus Hydaspes observant. Rege incolumi mens omnibus una est; amisso rupere fìdem, constructaque mella diripuere ipsae et crates solvere favorum.

190. sopor . . . artus: cosi si credeva, ma il lavoro delle api non cessa neppure di notte. + 191. Nec vero . . . : la stessa notizia in Arato, Phaen., 1028-30. + 192. Euris: vd. n. a I 453· + 194. saepe lapillos: notizia pre­ sente anche in Aristotele (Hist. an., 626b 24 sg.) , Plinio il Vecchio (Nat. hist., XI 24) ed Eliano (Nat. an., v 13) , ma non confermata scientificamente. È possibile una confusione coll'ape muraria, che rac­ coglie granelli e pietruzze di cui si serve però per la costruzione del favo. + 200. ipsae: oggi sappia­ mo che la regina, fecondata dal fuco (o da piu fuchi) nel "volo nuziale", può generare sia larve di operaie, sia larve di fuchi (queste ultime nascono da uova che non vengono a contatto col seme maschile) . La regina nasce da una larva di operaia nutrita anche dopo il terzo giorno con gelatina reale. + 201. regem: gli antichi ignoravano che si trattava di una regina (vd. n. a v. 168) . - parvosque Quirites: le api sono assimilate a cittadini romani (vd. sopra, n. ai vv. 178-8o) . + 202. aulasque . . . regna: aula è la celletta del re, cerea regna sono le altre celle, medie per i fuchi, piccole per le operaie. In

228

I I · LA POESIA DEL M O N D O NATURALE

si leva un brusio e ronzano intorno all'ingresso e alle soglie. Poi, quando ormai si sono sistemate nei loro giacigli, si fa silenzio per tutta la notte e il sonno invade le stanche membra di ognuna.

190

E non s'allontanano troppo dalle loro dimore se incombe la pioggia o si fidano del cielo all'approssimarsi degli Euri,

ma al sicuro d'intorno presso le mura della città si provvedono d'acqua e azzardano brevi sortite e spesso prendono con sé delle pietruzze, come le navicelle malsicure per l'assalto dei flutti caricano zavorra,

195

e con esse si librano per le nubi leggere. Ti stupirai soprattutto che le api seguano questo costume, di non cedere all'accoppiamento né di abbandonarsi spossate al richiamo di Venere, né di partorire la prole con sforzi; ma da sole raccolgono i figli con la bocca da fronde, da erbe soavi,

zoo

da sole rinnovano il re e i piccoli Quiriti e ricostruiscono la reggia e i regni di cera. Spesso anche vagando fra aspre rocce si sciupano le ali e da sé vanno incontro alla morte sotto il peso del loro fardello : cosi grande è l'amore per i fiori e il vanto di produrre il miele.

205

Dunque, per quanto presto le colga il termine della vita (non ha infatti proroghe la settima estate), tuttavia la specie resta immortale e per molti anni

è assicurata la fortuna della discendenza e si contano gli avi degli avi. Si aggiunga che non cosi l'Egitto e la potente Lidia,

z1o

non i popoli dei Parti o il medo Idaspe onorano i loro re. Finché il re vive in tutte è un solo pensiero; se egli viene a mancare rompono il patto e loro stesse depredano il miele ammucchiato e distruggono la rete dei favi.

questo lavoro i maschi restano inoperosi. + 207. septima . . . aestas: le regine vivono in media 4-5 anni, le operaie dalle 6 alle 8 settimane se nascono in estate, dai 6 agli 8 mesi se nascono in autunno (per­ ché d'inverno vanno in letargo e si risvegliano a primavera pronte a iniziare di nuovo il lavoro). + 210-11. Aegyptos . . . Hydaspes: l'autorità del re delle api è paragonata a quella degli autocrati orienta­

li, con riferimento ai grandi potentati del passato (l'Egitto dei Faraoni, la Lidia di Creso, l'Impero Persiano) e del presente (il regno dei Parti). I..:Idaspe è fiume ai confini dell'India, limite estremo dell'Impero Persiano (dunque Medus vale qui 'persiano'). Per la variatio vd. I 509. + 213-14. amisso . . . jàvorum: se viene meno la regina e le operaie non fanno in tempo a nutrire una nuova regina (vd. n. a v. zoo), lo sciame si sbanda e assiste impotente al saccheggio dell'alveare. Non è esclusa un'al­ lusione alla situazione della repubblica dopo la morte di Cesare (vd. sopra, I 463-514).

229

II · LA POESIA DIDAS CALICA

Ille operum custos, illum admirantur et omnes

215

circumstant fremitu denso stipantque frequentes, et saepe attollunt umeris et corpora bello obiectant pulchramque petunt per volnera mortem. His quidam signis atque haec exempla secuti esse apibus partem divinae mentis et haustus

220

aetherios dixere; deum namque ire per omnis terrasque tractusque maris caelumque profundum; hinc pecudes, armenta, viros, genus omne ferarum, quemque sibi tenuis nascentem arcessere vitas: scilicet huc reddi deinde ac resoluta referri

225

omnia, nec morti esse locum, sed viva volare sideris in numerum atque alto succedere caelo.

217. attollunt umeris: la notizia trova conferma in Aristotele, Hist. an., 624a 29 sg., e Varrone, Rust., m 16 8. + 218. petunt . . . mortem: locuzione epicizzante (cfr. Aen., IX 401) . + 219-21. quidam . . . dixere: i filo­ sofi di ispirazione platonico-stoica. Secondo Cicerone, Sen., 78, tale concezione sarebbe stata anti­ cipata da Pitagora e i Pitagorici. Le api, in quanto predilette da Giove (vd. vv. 149 sg.), partecipano in piu alto grado della divina mens. In 1 415-23, parlando della capacità dei corvi di predire il bel tem­ po, il poeta aveva escluso ogni intervento divino spiegando il fenomeno in chiave epicurea, cioè

I I · LA POESIA DEL M O N D O NATURALE

È lui il garante di ogni lavoro, è lui che venerano, e tutte

gli stanno intorno con intenso brusio e si assiepano numerose e spesso lo sollevano sulle spalle e offrono i loro corpi alla guerra e cercano una bella morte per le ferite. Per questi indizi e sulla scorta di questi esempi alcuni dissero che nelle api c'è una parte della mente divina ed eterei affiati; giacché Dio pervade tutte le terre e le distese marine e il cielo profondo; di qui le greggi, gli armenti, gli uomini, ogni specie di fiere, ciascun essere che nasce richiama a sé il tenue spirito vitale: qui certo poi ogni creatura ritorna e, disciolta dal corpo, qui è ricondotta, né c'è spazio per la morte, ma vola viva fra le stelle e sale nell'alto dei cieli.

215

220

225

come effetto del mutamento delle condizioni climatiche. Quindi o si ammette la coesistenza in Virgilio di due concezioni diametralmente opposte o si deve pensare a un'evoluzione del suo pen­ siero. + 221-27. deum namque ire . . . caelo: evidente l'eco del panteismo stoico. - sideris in numerum: teo­ ria platonica: le anime hanno origine dalle stelle e ad esse ritornano dopo la morte ( Timeo, 39b sgg.; 90a sgg.} .

231

II · LA POESIA DIDASCALICA

2. COLUMELLA CONTINUATORE DI VIRGILIO Nel IV libro delle Georgiche dedicato alle api era naturale che Virgilio accennasse ai giardini, la cui coltura è strettamente legata alla produzione del miele. Ma il poe­

ta ha fretta di concludere il suo lavoro, deve passare ad altro: è una forma di preteri­ zione per introdurre un excursus. La digressione è presentata sotto forma di ricordo (vv. 125-27: memini me . . . vidisse) : il poeta è stato a Taranto (circostanza confermata da Properzio) e ha visto il giardino di un vecchio originario di Corico in Cilicia (anche questo è un particolare possibile: dopo la guerra contro i pirati Pompeo ne depor­ tò nel 67 a.C. un certo numero in Calabria), un giardino meraviglioso dove fioriva­ no giacinti in pieno inverno. E ciò non per un miracolo, ma per le cure assidue del suo giardiniere, che cosi aveva saputo trasformare i pochi iugeri di terreno sterile assegnatigli. {;argomento dei giardini avrebbe richiesto ben altra trattazione; per questo Virgilio si toglie d'impaccio concludendo la digressione con l'invito ad altri a completare la sua opera: vv. 147-48: verum haec ipse equidem spatiis exclusus iniquis l praetereo atque aliis post me memoranda relinquo ('ma impedito dallo spazio tiranno la­ scio questi argomenti da trattare ad altri dopo di me'). �.;invito fu raccolto all'incirca un secolo piti tardi da Columella, che compose in esametri il x libro del suo De re rustica, dedicato alla cura dei giardini e dallo stesso autore designato col titolo di De cultu hortorum (--+ I p. 303) . Scrive infatti Columella nella prefazione al x libro, rivolgendosi al dedicatario, l'amico Publio Silvino, di aver ceduto alle sue ripetute richieste di completare non in prosa (come i prece­ denti libri del trattato e secondo il suo primitivo proposito) ma in versi le parti in­ compiute del poema virgiliano, come auspicato dallo stesso Virgilio (x praif. 3) . {;intenzione di scrivere di questo argomento in versi era del resto già stata annun­ ciata alla fine del libro precedente (Ix 16 2), dove apprendiamo che a questa decisio­ ne lo aveva indotto non solo Silvino, ma anche un altro amico, Gallione, nel quale sarà da riconoscere M. Anneo Novato (detto Giunio Gallione dal nome del retore che lo aveva adottato), il piti anziano dei due fratelli di Seneca (l'altro, come si sa, è noto per essere il padre di Lucano). Novato fu proconsole d'Acaia nel 51/52 d.C. e mori suicida poco dopo Seneca nel 65 d.C. Questo dato cronologico ci può fornire qualche indicazione sulla data di pubblicazione del x libro, dato che la mancata menzione di Gallione accanto a Silvino nella prefazione al x, cosi come era avve­ nuto alla fine del libro precedente, potrebbe dipendere dal fatto che all'epoca Gal­ lione non era piti in vita. In tal caso il 65 d.C. varrebbe da terminus post quem. Di Columella non possediamo altre prove poetiche, ma lo stile alto dei prece­ denti nove libri (--+ I pp. 486; 496) lascia supporre una sua predilezione per la poesia, di cui utilizzò con ampiezza i colores. Fu grande ammiratore di Virgilio, che cita di frequente, specie nel IX libro dedicato alla cura delle api. La decisione di comporre il x libro in versi non è dunque da valutare come una stranezza, soprattutto se si considera che nel piano originario dell'opera questo doveva essere l'ultimo (l'idea 232

II · LA POESIA DEL M O N D O NATURALE

di aggiungere altri due libri, l'xi e il xn, maturò infatti in seguito, come si ricava dal­ la prefazione dell'xi libro, in cui l'autore stesso motiva le ragioni che l'hanno indot­ to a superare il numero progettato): una degna conclusione per un'opera che ri­ spetto ai precedenti di Catone e di Varrone privilegiava l'aspetto letterario su quel­ lo tecnico, pur senza pregiudizio di quest'ultimo, nell'intento di invogliare il letto­ re ad occuparsi di argomenti tanto utili quanto notoriamente inameni; l'esempio di Columella sarà fortunato: tra IV e V sec. Palladio concluse il suo Opus agriculturae con un carme sugli innesti (---+ I p. 496). La posizione del De cultu hortorum dopo il li­ bro dedicato alle api anche contenutisticamente appare la piu appropriata, dato che non diversamente da lui Virgilio - come si è visto - aveva toccato, sia pure di sfug­ gita, l'argomento dei giardini nel IV libro dedicato all'apicultura, considerato che la presenza di fiori vicino alle arnie è elemento insostituibile per la produzione del miele. Riprese virgiliane non mancano nel De cultu hortorum. Il durior aeternusque labor (v. 68) a cui è costretto chi deve preparare il terreno destinato ad accogliere le pianti­ celle, richiama il labor improbus di cui parla Virgilio ( Georg., I 145 sg.), il tempo breve che non ammette dilazioni (vv 159 sg.: invigilate viri: tacito nam tempora gressu l diffu­ giunt nulloque sono convertitur annus, 'uomini, vigilate: il tempo svanisce con passo si­ lenzioso e l'anno si volge senza far rumore') serba un'eco di Virgilio, che a proposi­ to della scelta delle giovenche per la riproduzione mette in guardia l'allevatore di non lasciarsi sfuggire il momento opportuno perché (I 66 sg.) optima quaeque dies mi­ seris mortalibus aevi lprimaJugit ('i giorni pili belli della vita per gli infelici mortali so­ no i primi a fuggire'), ma è soprattutto la poetica che avvicina Columella al suo gran­ de predecessore: l'adesione a una concezione del poema didascalico che rinuncia a indagare le rerum causae e i secretaJoedera caeli (vv 218-19) per affrontare un argomen­ to piu modesto ma non per questo immeritevole di considerazione. Se Virgilio è il principale modello di riferimento non mancano però allusioni ad altri poeti, in particolare Ovidio, ma anche Lucrezio, Tibullo, Orazio. Interessanti le consonanze con i vv 60-85 del Moretum, un'ekphrasis sull'orto di Simulo che ri­ chiama quello del senex Corycius virgiliano. Piu difficile individuare le fonti tecni­ che: oltre da un lato Virgilio stesso, dall'altro Catone e Varrone, non sappiamo da dove Columella attingesse gran parte della ricca terminologia botanica che arric­ chisce la sua opera, per cui è da presumere che si servisse di scritti per noi perduti, come quelli che Plinio il Vecchio cita per il libro X I X della Naturalis historia, dove tratta dell'argomento. .

.

.

233

I I · LA P O E S IA DIDASCALICA

DE RE RUSTICA x

194-229

Dum cupit et cupidae quaerit se iungere matri et mater facilis mollissima subiacet arvo,

195

ingenera: nunc sunt genitalia tempora mundi, nune amor ad coitus properat, nune spiritus orbis bacchatur Veneri stimulisque cupidinis actus ipse suas adamat partus et fetibus implet. Nune pater aequoreus, nune et regnator aquarum,

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ille suam Tethyn, hic polluit Amphitriten, et iam caeruleo partus enixa marito utraque nune reserat pontumque natantibus implet. Maximus ipse deum posito iam fulmine fallax Acrisioneos veteres irnitatur amores

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inque sinus matris violento depluit imbre. Nec genetrix nati nune aspernatur amorem, et patitur nexus fiammata cupidine Tellus. Hinc maria, hinc montes, hinc totus denique mundus ver agit, hinc hominum pecudum volucrumque cupido,

210

atque amor ignescit menti saevitque medullis, dum satiata Venus fecundos compleat artus et generet varias soboles semperque frequentet prole nova mundum, vacuo ne torpeat aevo. Sed quid ego infreno volitare per aethera cursu

215

passus equos audax sublimi tramite raptor?

De re rustiw. I versi che qui si propongono costituiscono una indispensabile premessa alla lettura del x libro del De re rustiw, in quanto Columella vi espone il suo programma poetico che si inseri­ sce con chiarezza nel filone inaugurato dal suo grande precursore e maestro Virgilio. Il testo se­ guito è quello curato da V. Lundstrom (Upsaliae, Almqvist & Wiksell, 1902). x 194-229. La semina e il risveglio della primavera. Nel brano proposto Columella formula la sua poetica. Sulle orme di Virgilio afferma che la sua poesia non potrà aspirare alle vette del poema di­ dascalico di ispirazione filosofico-cosmologica, ma dovrà volare piu basso accontentandosi di in­ tonare il suo canto su quelli del potator e dell'holitor. Eppure nel descrivere il ritorno della primave­ ra, stagione adatta alla semina, il poeta si abbandona per un momento al fascino del risveglio della natura con immagini che ricordano da vicino Lucrezio per poi subito rientrare, con una sorta di re­ cusatio, nei limiti che il genere prescelto gli impone.

234

II



LA POE S IA DEL MONDO NATURALE

I: AGRICOLTURA x

194-229

Finché il campo desidera e aspira a congiungersi alla madre bramosa e la madre giace benigna in massimo grado propizia sotto il campo,

195

semina: ora è il tempo fecondo dell'universo, ora l'amore s'affretta agli accoppiamenti, ora lo spirito del mondo delira per Venere e incalzato dagli stimoli della passione egli stesso mostra affetto per la sua prole e la riempie di frutti. Ora il padre delle distese marine, ora il signore delle acque,

2oo

l'uno seduce la sua Teti, l'altro Anfitrite, ed entrambe, dopo aver partorito la prole al ceruleo marito, ora dischiudono il mare e lo riempiono di creature natanti. Persino il piu grande dei numi, deposta la folgore, ingannevole imita gli antichi amori per la figlia di Acrisia

205

e si rovescia con violenti acquazzoni nel grembo della Madre. Né la genitrice ora sprezza l'amore del figlio e la Terra infiammata di passione subisce l'amplesso. Di qui i mari, di qui i monti, di qui infine l'intero universo vive la primavera, di qui il desiderio di uomini, di greggi, di uccelli,

210

e l'amore arde nella mente e infuria fin nelle viscere, finché Venere sazia riempia le membra feconde e generi diverse stirpi e sempre affolli il mondo di nuova progenie, affinché non intorpidisca per una vuota esistenza. Ma perché io, lasciando volare per il cielo con corsa sfrenata

215

i cavalli, temerario sono rapito per un alto sentiero?

194. cupit: il soggetto sembra da ricavare dal successivo alVo: il campo in superficie e la madre ter­ ra in profondità cospirano insieme in primavera a creare le condizioni ideali per accogliere il seme e farlo germogliare. + 195.facilis: non spregevolefacili, emendamento dei codici umanistici, per la ri­ spondenza che si verrebbe a creare fra mater mollissima efacili alVo. + 199. suas: forse da correggere in suos, dato che partus è di norma maschile. C'è chi preferisce partes dei codici umanistici, ma non è chiaro quali siano le 'parti' dello spiritus orbis. + 200. pater aequoreus: l'Oceano, sposo di Teti (cfr. Ovi­ dio, Fast., v 81). - regnator aquarum: Nettuno. + 201. pol/uit: Nettuno fece Anfìttite sua sposa con la violenza (cfr. Ciris, 73); non altrettanto può dirsi per Teti. + 205. Acrisioneos . . . amores: Danae, la figlia di Acrisio, che, rinchiusa in una torre, fu amata da Giove sotto forma di pioggia d'oro. + 207. nati: Giove non è figlio della Terra, ma da lei discende in quanto il padre Crono nacque dall'unione di Urano con Gea. + 216. equos: i cavalli simboleggiano la poesia: dr. Virgilio, Georg., n 542: iam tempus 235

II · LA POESIA D IDASCALICA

Ista canit, maiore deo quero Delphica laurus inpulit ad rerum causas et sacra moventem orgia naturae secretaque foedera caeli

extimulat vatem per Dindyma casta Cybeles

220

perque Cithaeronem, Nyseia per iuga Bacchi, per sua Parnasi, per amica silentia Musis Pierii nemoris, Bacchea voce frementem Delie te Paean, et te Euhie Euhie Paean. Me mea Calliope cura leviore vagantem

225

iam revocat parvoque iubet decurrere gyro et secum gracili conectere carmina filo, quae canat inter opus Musa modulante putator pendulus arbustis, holitor viridantibus hortis.

equumfumantia so/vere colla. Qui si tratta di poesia di tono elevato (volitareper aethera). Il volo del poe­ ta è assimilato a quello di Fetonte (cfr. Ovidio, Met., II 234: arbitrio volucrum raptaturequorum), audax e perciò destinato a fallire. t 217. Delphica laurus: l'alloro, sacro ad Apollo, sta qui per l'ispirazione poetica. t 218-19. rerum . . . caeli: chiara allusione a Lucrezio e alla poesia filosofico-cosmologica; una simile rinuncia è già in Virgilio, Geotg., II 490: Felix qui potuit rerum cognoscere causas. t 220. Dindyma: il monte della Frigia sacro a Cibele, la divinità venerata con culti orgiastici da sacerdoti evirati. t 221. Cithaeronem: il monte della Beozia, consacrato al culto di Dioniso. Nyseia per iuj?a Baahi: del­ le due vette del Parnaso, Nisa era sacra a Dioniso, Cirra ad Apollo. t 222. sua: s'intende iu}?a; sua si -

I I · LA POE S IA DEL MONDO NATURALE

Canta queste cose colui che l'alloro delfico con piu profonda ispirazione spinse a indagare le cause dell'universo e pungola il poeta, che riflette sui sacri riti della natura e sulle recondite leggi del cielo, attraverso il puro Dindimo di Cibele

220

e attraverso il Citerone, attraverso i gioghi del Nisa sacri a Bacco, attraverso i suoi del Parnaso, attraverso i silenzi amici delle Muse del bosco Pierio, e che grida fremendo con bacchica voce evviva te, o Delio, ed evviva te, o Evio, o Evio. Me, che divago con impegno inferiore al dovuto, la mia Calliope

225

ormai richiama e impone di correre in piccolo spazio e con lei di intrecciare con esile filo dei versi che canti durante il lavoro, mentre la Musa dà il ritmo, il potatore

che pende dagli alberi, l'ortolano nei verdeggianti orti.

riferisce a Delphica laurns, cioè ad Apollo, al quale è consacrato il Parnaso. - per amica silentia: rical­ cato sul virgiliano tadtae per amica silentia lunae (Aen., n 255). + 223. Pierii nemoris: il monte Pierio fra Macedonia e Tessaglia sacro alle Muse. + 224. Euhie: Evio è uno degli epiteti di Dioniso. + 225. mea Calliope: benché definita da Esiodo, Theog., 79, « la piti eminente delle Muse », è qui avvertita come ispiratrice di grado minore rispetto ad Apollo. - cura leviore: c'è chi lo sente come ablativo di allon­ tanamento ('che divago dal mio tema piti esile') e chi lo lega a revocat ('mi richiama con un compi­ to piti lieve').

23 7

Il

· LA P O E S I A D I D AS CALICA

3· LA CINEGETICA: GRATTI O E NEMESIANO Fra i vantaggi e i piaceri offerti dalla vita rustica, su cui si intrattiene Catone nel De senectute ciceroniano per dimostrare che essi appartengono a quelli a cui non si è costretti a rinunciare in età senile, sono annoverati anche l'aucupium e la venatio (56). La caccia dunque era considerata un'attività consueta per chi si dedicava alla colti­ vazione dei campi, cioè, almeno nei tempi piu antichi, per gran parte dell'umanità, se dai campi, come sottolinea ancora Catone, furono distolti per occuparsi della co­ sa pubblica personaggi quali Lucio Quinzio Cincinnato e Manlio Curio Dentato. Non fa dunque meraviglia che il genere didascalico, che con Virgilio si era aperto all'agricoltura, si sia piegato a includere fra i suoi terni la caccia, con tutto ciò che ad essa si riferisce: gli equipaggiamenti, gli strumenti, le tecniche di approccio alla sel­ vaggina, l'allevamento e l'addestramento dei cani e dei cavalli. Il primo esempio di questa poesia è per noi rappresentato da Grattio (---+ r p. 482), vissuto in età augustea e autore di un Cynegeticon di 541 esametri, mutilo alla fine. Di cinegetica in Grecia si era occupato in prosa Senofonte (430-355 ca.). A lui potrebbe essere ricorso Grattio per gli aspetti tecnici della disciplina o a qualche altra operetta andata perduta. Dal punto di vista letterario i suoi modelli sono naturalmente Virgilio georgico e Lu­ crezlO. Nel proemio il poeta vede nella caccia il momento in cui l'uomo, guidato da Diana e altre divinità boscherecce, superò la fase ferina della sua esistenza per af­ frontare le belve non piu con la sola forza fisica ma principalmente con la ratio; il suo proposito è di illustrare questa nobile arte e di fornire tutti gli elementi utili ad esercitarla in modo proficuo. Esordisce col parlare della preparazione delle reti e dei loro materiali, degli "spauracchi" e di altre insidie per approdare al primo excur­ sus, in cui si celebra il fondatore dell'ars venandi, il mitico Dercilo, che, istruito da Diana, fu l'iniziatore fra gli uomini dell'uso di reti e di spiedi di varia foggia. La trattazione prosegue con l'argomento principe della cinegetica, la cura dei cani: se ne descrivono le razze piu importanti per passare alle norme da seguire nel­ la ricerca della selvaggina. A questo punto si apre un altro excursus nel quale si ma­ gnifica Agnone, che, ispirato dalla divinità, seppe creare un nuovo tipo di razza ca­ nina, frutto dell'incrocio con lo sciacallo. !;occasione è propizia per parlare degli accoppiamenti, delle cure da riservare alla cagna durante la gravidanza e dopo il parto, dell'allattamento e dello svezzamento dei cuccioli. La loro alimentazione dovrà essere frugale, ad imitazione di quella degli uomini, secondo l'insegnamen­ to che ci proviene da esempi illustri del passato, sui quali il poeta si sofferma in un nuovo excursus (questo particolarmente importante, in quanto ispirato a quell'elo­ gio della paupertas e del mos maiorum che era nei disegni della restaurazione augu­ stea). Si definiscono quindi i compiti del magister catulorum e se ne descrive l'equipag­ giamento, per poi passare a una serie di precetti indispensabili a curare sia le ferite,

II · LA POESIA DEL MONDO NATURALE

anche gravi, a cui i cani possono andare incontro durante le battute di caccia, sia al­ tre malattie quali la peste e la rabbia. Ai rimedi suggeriti dall'arte veterinaria segue un cenno ad alcune pratiche apotropaiche, alle quali il poeta, che, come si è detto, ha fatto della ratio la sua guida, accorda scarso credito. Subito dopo però, a proposi­ to della scabbia, egli non si mostra insensibile ai mirabilia: narra infatti di una grotta in Sicilia, sacra a Vulcano, dalla quale defluisce, per intervento del dio invocato dal suo sacerdote, un olio di rara efficacia terapeutica, ma accessibile solo a chi è esen­ te da colpe. Altre malattie pericolose per i cani sono il tetano, che richiede una cu­ ra drastica e cruenta, la tosse, la letargia e la podagra. Ma le malattie sono cosi nu­ merose che l'uomo non deve presumere di poterle sconfiggere senza l'aiuto delle divinità dell'Olimpo, e in particolare di Diana, a cui vanno tributati i dovuti onori per attenerne la protezione. I.:ultima parte tratta dei cavalli e delle loro principali razze, ma non sappiamo quale fosse la successiva estensione del poemetto, che si arresta al punto in cui si esalta la qualità delle cavalle italiche. I:esempio di Grattio fu seguito nel III secolo da Nemesiano (--- I p. 482), autore anch'egli di un Cynegeticon. Il poemetto si apre con un lungo proemio, la cui esten­ sione (102 versi su un totale di 325) conferma l'ipotesi che l'operetta, non diversa­ mente da quella di Grattio, ci sia giunta mutila. Altre prove sono infatti la promes­ sa non mantenuta di trattare delle caratteristiche dei cani Tusd (238: mox nferam . . .) e la fine ex abrupto, quando ci si attende la descrizione di una giornata di caccia. Nel proemio Nemesiano rivendica con orgoglio l'originalità della poesia cine­ getica contrapponendola a quella ispirata ai grandi miti del passato, già ampiamen­ te trattata da una larga schiera di poeti. Si rivolge quindi ai dedicatari dell'operetta, Carino e Numeriano, per poi invocare la protezione della dea della caccia, e richia­ mare all'interesse per la poesia cinegetica quanti hanno in odio le lotte civili, le guerre, i commerci per mare (--- r pp. 308-9). Quest'ultima precisazione ci fa capire quali fossero le reali intenzioni del poeta: mentre per Grattio la caccia è un modo per tornare alle antiche virm e al mos maiorum, per Nemesiano essa è essenzialmen­ te svago, evasione, rifugio dai pericoli di una vita fondata sulla lotta per la suprema­ zia e la ricerca del guadagno. La trattazione vera e propria si apre con la menzione delle due razze di cani piu pregiate (su cui si tornerà a piu riprese in seguito), prosegue con la scelta della ma­ dre, l'accoppiamento, la selezione della prole, l'allevamento, l'addestramento, le malattie (in particolare la scabbia e la rabbia) e le relative cure. La seconda parte è dedicata ai cavalli (le varie razze, l'alimentazione, la pratica dei salassi, la strigliatu­ ra), la terza all'attrezzatura della caccia. Nemesiano ha certamente presente l'opera del suo predecessore, ma potrebbe aver attinto direttamente anche a Senofonte e Oppiano. Il suo principale modello letterario resta naturalmente il Virgilio delle Georgiche. 239

II · LA POESIA DIDAS CALICA

G RATTI CYNEGETICON

Protinus et cultus alios et debita fetae blandimenta feres curaque sequere merentem: illa perinde suos, ut erit, de lacte minores ad longam praestabit opem. Tum denique, fetae cum desunt operi, fregitque industria matres, transeat in catulos omnis tut�la relictos. Lacte novam pubem facilique tuebere maza, nec luxus alios avidaeque impendia vitae noscant: haec magno re dit indulgentia damno. Nec Inirum: humanos non est magis altera sensus,

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tollit ni ratio et vitiis adeuntibus opstat. Haec illast Pharios quae fregit noxia reges, dum servata cavis potant Mareotica gemmis nardiferumque metunt Gangen vitiisque ministrant. Sic et Achaemenio cecidisti, Lydia, Cyro:

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atqui dives eras fluminis aurea venis. Scilicet ad summam ne quid restaret habendi, tu quoque luxuriae fictas dum colligis artes et sequeris demens alienam, Graecia, culpam, o quantum et quotiens decoris frustrata paterni!

320

At qualis nostris, quam simplex mensa Camillis!

Gratti Cynegeticon. Il passo prescelto dà la misura dell'arte di Grattio, che non si limita a fornire precetti venatori, ma ambisce, sulle orme dei suoi grandi predecessori, a superare i limiti imposti dall'arida materia tecnica. Qui tra le cure per la cagna che ha appena partorito e le attenzioni per i neonati e la loro istruzione s'inserisce un elogio dellapaupertas che ha fatto grande Roma. Esso trae lo spunto dalla morigeratezza a cui vanno abituati gli animali fin dalla nascita, un confronto certo sproporzionato, ma voluto: non è difficile infatti riconoscervi l'eco del virgiliano si paroa licet com­ ponere magnis (Georg., IV 176) . Il testo riprodotto è quello di PJ. Enk (Zutphaniae, apud WJ Thie­ me & Oe, 1918). 301-36. Nascita e allevamento dei cuccioli. La cagna che ha partorito va assistita ed alimentata ade­ guatamente perché possa fare altrettanto con i suoi piccoli. Quando si passa allo svezzamento i cuccioli devono essere nutriti con latte e zuppe di cereali; ogni eccesso sarebbe dannoso, come lo è per gli uomini. La parsimonia dei grandi del passato è un modello perenne. Una volta cresciuti, i cani vanno addestrati alla caccia: per questo è bene che ubbidiscano a un solo maestro esperto ed autorevole.

II · LA POE S IA DEL MONDO NATURALE

IL

CINEGETICO DI

GRATTI O

Alla cagna che ha appena partorito presta varie cure e le dovute attenzioni e seguila con riguardo perché lo merita; essa in proporzione a come sarà trattata garantirà il latte ai suoi piccoli con una lunga assistenza. Infìne, quando le cagne sgravate vengono meno al loro compito e l'impegno ha fiaccato le madri,

305

ogni protezione passi ai cuccioli lasciati soli. Con il latte sosterrai la giovane cucciolata e una semplice zuppa, né conoscano altri lussi e i costi di una vita ingorda: una simile tolleranza tornerebbe di gran danno. Nessuna meraviglia: non ce n'è altra che corroda di piu l'umano sentire,

310

purché la ragione non la tolga di mezzo e si opponga all'assalto dei vizi.

È questa la colpa che mandò in rovina i re Farii mentre bevevano prelibato vino mareotico in coppe di gemma e raccoglievano nardo nelle regioni del Gange ed erano schiavi dei vizi. Cosf anche tu, o Lidia, cadesti in mano all'Achemenide Ciro :

315

eppure eri ricca e d'oro per le vene del tuo fìume. Certo perché insomma nessun possedimento restasse, anche tu, mentre raccoglievi le perverse arti del lusso, e, folle, imitavi le altrui colpe, o Grecia, o quanto e quante volte hai vanifìcato l'onore degli antenati!

320

E invece quale e quanto frugale la mensa dei nostri Camilli!

303. de lacte: emendamento del Sannazaro sul tràdito de/acta, da intendere con valore strumenta­ le. + 304.}ètae: corretto da Pithou (la tradizione hajètu). + 306. transeat . . . relictos: cfr. Virgilio, Georg., m 157: postpartum cura in vitulos traducituromnis. + 311. ni: congettura di Graevius per il tràdito se. + 312. Pharios . . . reges: Pharius sta per 'egiziano' (da Faro, l'isola di Alessandria) anche in Tibullo, I 3 32. + 313. cavis . . . gemmis: si tratta di coppe ricavate da pietre preziose; cfr. Virgilio, Georg., II 506: utgemma bibat ('per bere in pietre preziose'), dove Servio annota: gemmeo poculo, non gemmato. - Mareotica: il vino mareotico proviene dalla palus Mareotis presso Alessandria. Cfr. Orazio, Carm., I 37 14: men­ tem . . . lymphatam Mareotico (di Cleopatra). + 314. Gangen: il fiume per la regione (cfr. sopra, Virgilio, Georg., IV 211). + 315. Achaemenio . . . Cyro: Ciro, dell'antica dinastia degli Achemenidi, conquistò la Lidia di Creso, celebre per le sue ricchezze, nel546 a.C. + 316. : supplemento di Baehrens. - au­ rea: il principale fiume della Lidia, il Pattòlo, era aurifero. + 321. Camillis: non si tratta di un vero plu­ rale, ma sta a indicare 'uomini come Camillo' (plurale generalizzante), con allusione a Marco Fu­ rio Camillo, distruttore di Veio (396 a.C.) e salvatore del Campidoglio dall'assalto dei Galli, ai qua241

II

·

LA P O E S I A D I DASCALICA

Qui tibi cultus erat post tot, Serrane, triumphos! Ergo illi ex habitu virtutisque indole priscae imposuere orbi Romam caput, actaque ab illis ad caelum virtus summosque tetendit honores.

325

Scilicet exiguis magna sub imagine rebus prospicies, quae sit ratio, et quo fine regendae. Idcirco imperium catulis unusquc magister additur: ille dapes poenamque operamque tempcret, hune spectet silvas domitura iuventus.

330

Nec vile arbitrium est: quoicumque haec regna dicantur, ilie tibi egregia iuvenis de pube legendus, utrumque et prudens et sumptis impiger armis. Quod nisi et accessus et agendi tempora belli noverit et socios tutabitur hoste minores,

335

aut cedent aut illa tamen victoria damnost.

NEMESIANI

CYNEGETICON

1 03 -5 6

Principio tibi cura canum non segnis ab anno incipiat primo, cum Ianus, temporis auctor, pandit inocciduum bis senis mensibus aevum.

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Elige tunc cursu facilem facilemque recursu, seu Lacedaemonio natam seu rure Molosso, non humili de gente canem; sit cruribus altis,

li avrebbe anche imposto la restituzione delle mille libbre d'oro pagate dai Romani a Brenno. An­ che Orazio, Carm., 1 12 42 celebra la sua paupertas. + 322. Serrane: secondo Plinio il Vecchio, Nat. hist., xvm 2o, Gaio Attilio Regolo, console nel 257 e poi nel 250, sarebbe stato cosi detto perché « le ca­ riche assegnategli lo trovarono dedito alla semina (serentem) ». + 328. magister. Ia stessa parola impie­ gata da Virgilio, Georg., m 445 per i pastori. + 329. : supplemento di Schenkl. Nemesiani Cymgetiwn. Il passo prescelto, molto vicino per contenuto a quello proposto per Grattio, consente di apprezzare l'arte di Nemesiano rispetto a quella del suo predecessore. Ne­ mesiano si distingue per la ricerca di uno stile elevato, perseguito col ricorso agli strumenti della sua formazione classica. Si osservino, p. es., oltte ai numerosi echi virgiliani, le metonimie mitolo­ giche (121: Venus; 154: Ceres), le ricercate e spesso complicate perifrasi (104 sg. per l'anno; 123 per il

II · LA POES IA DEL M O N D O NATURALE

Quale era il tuo modo di vivere, dopo tanti trionfi, o Serrano! Furono costoro che con la loro tempra e indole di antico valore imposero al mondo la sovranità di Roma, e il valore accresciuto per loro mezzo si elevò al cielo e agli onori piu grandi.

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È chiaro, guidato da questi eccelsi esempi considera quale regola abbiano le piccole cose ed entro che limiti vadano governate. Pertanto si assegna ai cuccioli una sola guida e un solo istruttore; sia lui a regolare i pasti, i castighi, l'attività, il riposo, a lui volgano lo sguardo i piccoli destinati a dominare le selve.

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Non è potere da poco: chiunque riceva questo comando deve essere scelto fra giovani eccellenti, insieme esperto e infaticabile nell'uso delle armi. Che se non saprà come accostarsi alla fiera e quando sferrare l'attacco e non difenderà i suoi alleati impari al nemico,

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o soccomberanno o la vittoria si pagherà comunque a caro prezzo.

IL

CINEGETICO DI

NEME S IANO

103-56 Prima di tutto abbia inizio per te una cura non negligente dei tuoi cani fin dall'inizio dell'anno, quando Giano, signore del tempo, inaugura per i dodici mesi l'ininterrotto percorso.

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Scegli allora una cagna ubbidiente a slanciarsi nella corsa e al richiamo, nata nella campagna dei Lacedemoni o dei Molossi di non umile schiatta; abbia zampe diritte,

plenilunio), il rifiuto di tecnicislni (154), l'impiego di rari poetislni (105: inoaiduus; 136: luciferum . . . iubar). Il testo riprodotto è quello di P. Volpilhac {Paris, Les Belles Lettres, 1975). 103-56. Selezione della madre e della prole. Si forniscono precetti sulle caratteristiche della cagna da riproduzione, sul maschio ad essa appropriato, sull'età piu adatta per l'accoppiamento, sui criteri di selezione della cucciolata. A quest'ultimo proposito si suggerisce all'allevatore un curioso espe­ diente, che affida la scelta non alla sua consolidata esperienza ma all'infallibile istinto della madre. 107. Lacedaemonio . . . Molosso: il cane della Laconia, di cui esistevano varie specie, era considerato il piu adatto alla caccia della lepre e del cinghiale; il molosso è a noi noto prevalentemente come cane da guardia, ma dovevano esisterne anche specie impiegate nella caccia. Le due razze sono as­ sociate anche in Virgilio, Georg., m 405. + 108. non humili degente: Grattio invece suggerisce gli in243

II



LA P O E S IA DIDAS CALICA

sit rigidis, multamque trahat sub pectore lato costarum sub fine decenter prona carinam, quae sensim rursus sicca se colligat alvo, renibus ampla satis validis diductaque coxas, cuique nimis malles fluitent in cursibus aures. Huic parilem sumrnitte marem, sic omnia magnum, dum superant vires, dum laeto flore iuventas corporis et venis primaevis sanguis abundat. Namque graves morbi subeunt segnisque senectus invalidamque dabunt non firmo robore prolem. Sed diversa magis feturae convenit aetas: tu bis vicenis plenum iam mensibus acrem in Venerem perrnitte marem; sit femina, binos quae tulerit soles. Haec optima cura iugandis. Mox cum se bina formarit lampade Phoebe ex quo passa marem genitalia viscera turgent, fecundos aperit partus matura gravedo, continuo largaque vides strepere omnia prole. Sed, quamvis avidus, primos contemnere partus malueris; mox non omnes nutrire minores. Nam cibi si placitum populosos pascere fetus, iam macie tenues sucique videbis inanes pugnantesque diu, quisnam prior ubera lambat, distrahere invalidam lassato viscere matrem. Sin vero haec cura est, melior ne forte necetur abdaturve domo, catulosque probare voluntas, quis nondum gressus stabiles neque lurnina passa luciferum videre iubar, quae prodidit usus percipe, et intrepidus spectatis annue dictis.

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croci: idcirco variis miscebogentibus usum (193) . + 109. sit rigidis: cfr. Grattio, 277 sg.: siccis ego dura lacertis l crura velim ('desidererei zampe solide per muscoli asciutti'). - sub pectore lato: cfr. Grattio, 274: validis tum surgat pectus ab armis ('il petto si erga da vigorose spalle'). + 111. sicca . . . alvo: stessa raccomanda­ zione in Grattio, 271: adstricti succingant ilia ventres ('un ventre stretto cinga le viscere'). + 114. pari­ lem . . . marem: analogamente Grattio, 263: iungepares. + 115. dum superant . . . iuventas: vi si avverte l'eco di Virgilio, Georg., III 63 sg.: interea, superatgregibus dum laeta iuventas, l solve mares ('intanto, finché re­ sta alle greggi la fiorente giovinezza, libera i maschi'). + 117. graves morbi . . . senectus: ancora un richia­ mo allo stesso contesto virgiliano (Georg., III 67 sg.): subeunt morbi tristisque senectus l et labor ('soprag244

II · LA POESIA DEL M O N D O NATURALE

solide e sotto un largo petto, elegantemente incurvata verso l'estremità, distenda una robusta carena di coste, che gradatamente si restringa in un ventre magro, ampia per reni vigorose e distesa nelle anche, e che le orecchie assai morbide fluttuino nella corsa. Con questa fa accoppiare un maschio simile, altrettanto grande in tutto, finché le forze sovrabbondano, finché la giovinezza del corpo è in piena fioritura e il sangue ridonda nelle fresche vene. Subentrano infatti le penose malattie e la pigra vecchiaia e allora produrranno, per mancanza di vigore, una debole prole. Ma l'età di quella destinata a concepire sia diversa rispetto al compagno: a quaranta mesi compiuti consenti al maschio di dare libero sfogo al suo ardente desiderio; la femmina sia quella che abbia due anni. Questa è la scelta migliore per l'accoppiamento. Non appena Febe avrà dato piena forma al suo volto con la seconda luce da quando, subito il maschio, i visceri della generazione si gonfiano, la matura gravidanza apre la via ad abbondanti rampolli e subito vedi che tutto risuona di una ricca prole. Ma, per quanto sia vivo il tuo desiderio, scegli di disprezzare questa prima generazione; poi di rinunciare ad allevare tutti i piccoli. Se infatti ambisci a nutrire una numerosa cucciolata, li vedrai presto estenuati per la magrezza e privi di forza e, a lungo impegnati nella lotta per essere primi a lambire la mammella, straziare la madre esausta per il grembo spossato. Se invece ti sta a cuore che il migliore non sia ucciso o cacciato dal canile, e vuoi mettere alla prova i cuccioli, quelli che non hanno ancora un passo sicuro o i cui occhi, pur aperti, non vedono lo splendore della luce, ascolta ciò che detta l'esperienza e segui senza timore provati precetti.

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giungono i malanni e la triste vecchiaia e gli affanni'). + 122. soles: qui nel senso di 'rivoluzioni sola­ ri', cioè 'anni', mentre sol vale normalmente 'giorno' fin da Catullo, 5 4: soles oaidere et redire possunt. t 123. cum se bina . . . Phoebe: cioè al compimento di due pleniluni. t 128. mox. . . minores: dr. Grattio, 287-89: tum deinde monebo l ne matrem indocilis natorum turbafotiget, lpercensere notis iamque inde excerne­ re pravos ('poi consiglierò, affinché un'indisciplinata folla di piccoli non affatichi la madre, di esa­ minarli in base a precisi segni e a scartarne i peggiori'). + 130. macie tenues: cfr. Virgilio, Georg., III 129: ipsa autem macie tenuant. + 134. abdaturve domo: cfr. Virgilio, Geo!J?., III 96: abde domo. + 135-36. quis non­ dum . . . passa: quis sta per quibus con ellissi di sunt, nella coordinata che segue c'è variatio di costrutto: 245

II

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LA P O E S IA DIDAS CALICA

Pondere nam catuli poteris perpendere vires corporibusque leves gravibus praenoscere cursu. Quin et fiammato ducatur linea longe

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circuitu signetque habilem vapor igneus orbem, impune ut medio possis consistere circo. Huc omnes catuli, huc indiscreta feratur turba: dabit mater partus examen, honestos iudicio natos servans trepidosque periclo.

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Nam postquam conclusa videt sua germina flammis, continuo saltu transcendens fervida zonae vincla, rapit rictu primum portatque cubili, mox alium, mox deinde alium. Sic conscia mater segregat egregiam subolem virtutis amore. Hos igitur genetrice simul iam vere sereno molli pasce sero (passim nam lactis abundans tempus adest, albent plenis et ovilia mulctris), interdumque cibo Cererem cum lacte ministra, fortibus ut sucis teneras compiere medullas

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possint et validas iam tunc promittere vires.

videre con la i lunga è perfetto e passa è participio di panda. + 138-39. Fondere . . . cursu: sono i piu pe­ santi, quindi i piu robusti, quelli che, una volta cresciuti, saranno i piu veloci nella corsa. Questo precetto presuppone Grattio, 298 sg.: illius et manibus vires sit curajuturas lperpensare: levis deducetpon­ derefratres ('prenditi cura di valutarne le forze future anche con le mani: sarà lui a spodestare col suo peso i fratelli leggeri') : il peso è un'ulteriore conferma dell'eccellenza di questo cucciolo, che nei versi precedenti (290-97) è descritto come il piu sveglio e il piu vorace; dunque levis deve essere

II · LA POES IA DEL MONDO NATURALE

Potrai infatti valutare le forze di un cucciolo pesandolo e in base al peso corporeo riconoscere quelli agili nella corsa. Anzi si tracci una lunga linea che disegni un circuito di fuoco e l'ignea vampa delimiti un'adeguata circonferenza tale che tu possa senza pericolo occuparne il centro. Qui si portino tutti i piccoli, qui si conduca senza distinzione tutta la cucciolata: sarà la madre a dare una valutazione della sua prole salvando con un suo criterio i validi e quelli in pena per il pericolo. Infatti, dopo aver visto le sue creature prigioniere delle fiamme, subito valicando con un salto la barriera di fuoco che circonda l'area afferra il primo serrandolo fra le mascelle e lo porta nel canile, poi un altro, poi un altro ancora. Cosi la madre consapevole separa la progenie migliore per amore della perfezione. Questi dunque insieme con la madre quando è ormai primavera nutri di dolce siero (dovunque è arrivata la stagione che abbonda di latte e gli ovili biancheggiano di secchi ricolmi) e di quando in quando dà loro per pasto del pane col latte affinché possano riempire di robusti succhi le loro tenere viscere e fin d'ora fornire la promessa di vigorose forze.

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ace. plur. e non nom., come qualcuno ha pensato. Nemesiano, che quasi certamente dipende da Grattio, dice probabilmente la stessa cosa, con la differenza che fa coincidere il peso (e quindi la robustezza) con la futura rapidità nella corsa. + 152. molli pasce sero: cfr. Virgilio, Geot;g., m 405 sg.: ve­ locis Spartae catulos acremque Molossum lpasce seropingui ('nutri di pingue siero i veloci cuccioli di Spar­ ta e il fiero molosso'). + 154· Cererem cum !ade: una zuppa non diversa da quella che Grattio, 307 chia­ ma maza. 247

II • LA P O E S I A D I D AS CALICA

4· L'ASTRONOMIA: LE TRADUZIONI DEI FENOMENI DI ARATO L'unica opera pervenutaci del poeta greco Arato (di Soli in Cilicia), vissuto fra il 320 e il 240, i Fenomeni, ebbe a Roma una straordinaria fortuna (-+ I p. 481). n primo a darne una traduzione latina fu Cicerone quando ancora era admodum adulescens, come attesta egli stesso (Nat. deor., n 104), cioè sicuramente a meno di vent'anni, piu o meno intorno al 9o/89 a.C. Con una lettera ad Attico del 6o (n 1 11) Cicerone in­ via all'amico una traduzione dei Prognostica, cioè della seconda parte dei Fenomeni aratei (vv 733-1154), contenente i segni del buono e del cattivo tempo. Questo ha fatto pensare che a distanza di circa trent'anni Cicerone avesse ultimato la tradu­ zione giovanile (originariamente limitata ai primi 732 versi del modello greco), op­ pure che avesse spedito ad Attico una revisione della seconda parte, ma l'invio po­ trebbe anche spiegarsi con un risveglio di interesse di Attico per un'opera divenuta a distanza di tanto tempo una rarità. Cicerone doveva non disprezzare questa pri­ ma prova giovanile, al punto che la citò nel De natura deorum e nel De divinatione, che ci hanno preservato cosi diversi frammenti della traduzione della prima parte del poema di Arato andata perduta (altri frammenti sono noti da Prisciano, Lattanzio, Isidoro, ecc.). La parte conservata per tradizione diretta corrisponde ai vv 230-701 di Arato, mentre dei Pronostici abbiamo solo 6 frammenti per un totale di 27 esame­ tri, di cui 23 provengono dal De divinatione e 4 da Prisciano. Nel complesso però gli Aratea sono l'opera poetica meglio conservata di Cicerone. n confronto con Arato mostra che Cicerone si è mantenuto fedele al modello, anche nelle proporzioni. Ma poiché intende fornire ai Romani un Arato latino non rifugge dal "glossare" i nomi greci con i corrispondenti latini (p. es. v. 5: Andromedae signum, Deltoton dicere Grai; v. 222: ante Canem Graio Procyon qui nomineJertur, ecc.), se­ condo un uso già presente in Ennio (p. es. Ann., 148 Vahlen2 [= 140 Skutsch]: vento quem perhibent Graium genus aera lingua). Non mancano fraintendimenti del testo greco, imputabili alle scarse conoscenze astronomiche del giovane traduttore (- I pp. 305-6). P. es. i vv 320-21 di Arato, che introducono le costellazioni dell'emisfero australe a cominciare da Orione, sono riferiti da Cicerone all'ultima costellazione dell'emisfero boreale che precede, quella del Delfino (vv 99-101). Da questo erro­ re sono invece immuni i successivi traduttori dei Fenomeni aratei, Germanico (vv 324-27) e Avieno (vv 711-17). In qualche caso Cicerone sopprime gruppi di versi di Arato (p. es. dopo il v. 71 mancano i vv 296-99 dell'originale greco, dopo il v. 119 i vv 336-37, ecc.), in qualche altro amplifica il modello accentuandone la sobria ag­ gettivazione (p. es. in Arato, 148: « Leone », in Cicerone, fr. xxn 3: magnus Leo; in Arato, 481: « ambedue le teste dei Gemelli », in Cicerone, 254: ora Geminorum indus­ tria, ecc.) o amplificandone gli elementi descrittivi (p. es. la descrizione dello Zo­ diaco, che in Arato occupa 5 versi [545-49], in Cicerone si estende per 12 versi, uno per ogni segno zodiacale [320-31]). Un altro elemento di novità rispetto ad Arato è un accresciuto patetismo, che si manifesta nell'animazione di certe scene scano.

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I I · LA P O E S I A D E L M O N D O NATURALE

sciuta al poeta greco: p. es. l'Eridano per Arato è semplicemente « un fiume larga­ mente compianto », mentre Cicerone (vv. 145-48) s'indugia a descrivere il pianto che le meste sorelle di Fetonte sparsero per la sua morte. Insomma la traduzione di Cicerone non si cura di riprodurre la raffmatezza del modello alessandrino né si mostra interessata al contenuto scientifico dell'opera, ma riflette il gusto "espres­ sionistico" della poesia epica e tragica latina, di cui aveva dato cospicui esempi En­ nio, il poeta piti ammirato dall'Arpinate. Con la poesia astronomica si cimentò anche il fratello di Cicerone, Quinto, di cui Ausonio ci ha trasmesso un frammento di 20 versi: De signis (pp. 705 sg. Green). A sua volta Varrone Atacino (nato nel1'82 a.C. ad Atax, località della Gallia Narbo­ nese, oggi Aude) tradusse Arato in un'opera che si sarebbe intitolata Ephemeris e della quale ci restano due frammenti. Il secondo, di 7 versi (FPL, 22 BL), è versione dei vv. 942-45; 954-57 di Arato e fu imitato da Virgilio ( Georg., 1 375-87), che, come sappiamo, ebbe presente il poeta greco nella parte finale del I libro delle Georgiche (vd. pp. 218-19). Due minuscoli frammenti di Phaenomena di Ovidio ci sono tra­ smessi rispettivamente da Probo (ad Georg., I 138) e da Lattanzio (n 5 24). Dei Fenomenidi Arato ci è pervenuta invece in larga misura la traduzione di Ger­ manico. Essa, a dìfferenza degli A ratea di Cicerone, è l'opera di un letterato maturo che si sente svincolato dal modello e si prende tutte le libertà che la sua coscienza d'artista gli consente (_,. I p. 306). Germanico segue le orme di Arato descrivendo le costellazioni a partire dal polo boreale in direzione est-ovest, per passare poi a quel­ le dell'emisfero australe e ai circoli celesti, mentre l'ultima p arte è dedicata al levar­ si e al tranlOntare delle costellazioni in relazione al sorgere dei segni zodiacali (para­ natellonta). Tuttavia, dove può, arricchisce i miti relativi all'origine degli astri dando talvolta la preferenza a tradizioni piti rare, che egli poteva attingere da commenti ad Arato o da Nigidio Figulo, autore, insieme ad opere grammaticali, di scritti di teologia e di scienza della natura. P. es., al v. 532 la descrizione dello zodiaco prende avvio dall'Ariete, una successione divenuta in seguito canonica che si ritrova fra gli altri in Nigidio Figulo (fr. 89), mentre per Arato (v . 545) e per Cicerone, che lo se­ gue pedissequamente (v. 320), la serie s'inizia col Cancro. Fra le fonti di Germani­ co non poteva mancare uno dei piti grandi astronomi dell'antichità, Ipparco di Ni­ cea (II sec. a.C.}, autore di un commento ad Arato che dipende in larga misura da Eudosso di Cnido, vissuto fra la fme del V e la metà del IV sec. a.C. In piti di un ca­ so Germanico è in grado di emendare il modello proprio grazie al ricorso ad Ippar­ co. P. es., dove Arato dice (v. 258) che le Pleiadi sono sei, Germanico sulla scorta del commento di Ipparco (r 6 14) eleva il loro numero a sette (v. 259: septem tradunturnu­ mero}. Insomma tutto lascia presumere che alle spalle del suo vertere ci sia una note­ vole preparazione che si manifesta nell'intenzione di "aggiornare" il poema arateo alla luce dei progressi della scienza astronomica. Tutto questo non deve far crede­ re che Germanico fosse uno specialista di astronomia; egli fu però certamente un 249

II • LA POESIA DIDASCALICA

appassionato cultore della disciplina, e questo gli consenti di affrontare il difficile modello con una consapevolezza maggiore di quella dei suoi predecessori (� n p. 109) . Germanico si arresta alla prima parte dell'opera di Arato (Phaenomena) ; alla se­ conda parte (Prognostica) sono stati attribuiti i frammenti giunti fino a noi, che tutta­ via essendo molto lontani dall'esemplare greco sono stati anche interpretati o come una rielaborazione o come brandelli di un'opera perduta riguardante l'astronomia (astrologia) e la meteorologia. È incerto se l'ispirazione stoicheggiante che circola nel poema di Arato (provvidenzialismo e influenza delle stelle sul destino dell'uo­ mo) possa attribuirsi anche al traduttore, che ne risenti, pur non concedendo nulla al determinismo: l'eroe si conquista il cielo non perché a ciò destinato dalle stelle ma per le sue virtli individuali. Tracce dell'indipendenza dal modello sono ricono­ scibili anche altrove. Ai 110-11, p. es., parlando dei meriti della Iustitia, laddove Arato (v. 107) le aveva attribuito l'introduzione di « leggi regolatrici del popolo », Germanico sposta l'attenzione dall'aspetto per cosi dire istituzionale a quello piu propriamente morale, piu consono allo spirito romano, sottolineando come la dea attraverso nuove leggi preparava un popolo rozzo ad onesti comportamenti in ogni circostanza della vita (vd. comm. ad loc.). Cosi, dopo aver evocato la vicenda di Orione, che, colpevole di aver attentato alla castità di Diana, viene punito dalla dea col morso letale di uno scorpione, Germanico aggiunge un verso (656) non pre­ sente in Arato, che suona severo ammonimento nei confronti di chi sfida la divini­ tà macchiandosi di hybris: parcite, mortales, numquam levis ira deorum ('state attenti, mortali, l'ira degli dei non è mai leggera'). Per quanto riguarda lo stile Germanico abbandona l'intonazione arcaizzante di Cicerone e fa spazio a un linguaggio piu moderno senza alcuna preoccupazione puristica (p. es. Lyra non diventa Fides, o Pleiades non è reso con Vergiliae come in Ci­ cerone) e a una certa scioltezza espressiva. La sua lingua è intessuta di numerose re­ miniscenze poetiche che vanno da Lucrezio a Virgilio, da Ovidio a Manilio. In qualche caso si tratta del riecheggiamento di singole espressioni (p. es., uncis ungui­ bus del v. 588 sg. rinvia a Lucrezio, v 1322) , in qualche altro l'imitazione è piu evi­ dente: qui prodidit Hellen (v. 533) ricalca Ovidio, Fast., IV 715, ma soprattutto il v. 12 della prefazione: sideraque et mundi varios cognoscere motus è ispirato, non solo formal­ mente, a Manilio, 1 15: signaque et adversos stellarum nascere cursus (un chiaro esempio di "memoria incipitaria"). Nel IV secolo ad affrontare di nuovo la traduzione di Arato fu Rufìo Pesto Avie­ no (305-375 ca.). La caratteristica principale della sua traduzione è un notevole am­ pliamento del testo greco (dai 1154 esametri di Arato si passa a 1878). Tale amplifica­ tio si manifesta nell'illustrazione dell'origine di alcuni catasterismi ignoti ad Arato (p. es. Avieno, a differenza del suo modello che si dichiara incapace di risalire all'ai­ tion, connette la costellazione dell'Inginocchiato con Ercole) o nella moltiplicaziovv.

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II · LA POE S IA DEL MONDO NATURALE

ne delle possibili identificazioni di una divinità (p. es. Virgo-Iustitia è al contempo Astrea, Iside, Cerere e Tyche). Questo fa presupporre un largo debito di dipen­ denza di Avieno da fonti scientifiche e letterarie nel campo dell'astronomia e del­ l'astrologia (- n p. 113). Un'estrema sopravvivenza di Arato troviamo infine verso il termine del VII sec. in quello che è comunemente noto col nome di Aratus Latinus.

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II

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LA POESIA DIDASCALICA

GERMAN I C I

PHAENOMENA

96-139 Virginis inde subest facies, cui plena sinistra fulget spica manu maturisque ardet aristis. Quam te, diva, vocem? Tangunt mortalia si te carmina nec surdam praebes venerantibus aurem, exosa, heu! mortale genus, medio mihi cursu

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stabunt quadrupedes et flexis laetus habenis teque tuumque canam terris venerabile numen. Aurea pacati regeres cum saecula mundi, Iustitia inviolata malis, placidissima virgo, sive illa Astraei genus es, quem fama parentem

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tradidit astrorum, seu vera intercidit aevo ortus fama tui, mediis te laeta ferebas sublimis populis ne c dedignata subire tecta hominum et puros sine crimine, diva, penatis, iura dabas cultuque nova rude vulgus in omnem

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formabas vitae sinceris artibus usum. Nondum vesanos rabies nudaverat ensis nec consanguineis fuerat discordia nota, ignotique maris cursus privataque tellus grata satis, neque per dubios avidissima ventos

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spes procul amotas fabricata nave petebat

Germanici Phaenomena. L:episodio prescelto, quello della Virgo-Iustitia, dà una misura adeguata dell'arte di Germanico, della sua capacità di prendere le distanze da Arato attraverso riferimenti alla realtà romana e alla tradizione poetica latina resa evidente dalle reminiscenze di Virgilio e Ovidio. Il testo è quello di A. Le Bceuffle (Paris, Les Belles Letttes, 1975). 96-139. La costellazione della Vergine e il mito delle tre età. La Vergine, identificata con la Giustizia, nell'età dell'oro abitava fra gli uomini. Con l'avvento dell'età dell'argento si ritirò sui monti, ma fu con l'età del bronzo che la sua sede definitiva divenne il cielo. 96. indesubest: in Arato, 96 la Vergine è « sotto ambedue i piedi di Boote », il "guidatore di buoi", cioè "colui che guida il Carro". + 96-97. sinistra . . . manu: Arato, 97 dice semplicemente « in mano » (o, secondo parte della tradizione, « nelle mani »). spica: stella di prima grandezza della costella­ zione della Vergine. + 98. Quam, te, diva, vocem?: tipica movenza innodica, che prevede l'enumera­ zione dei vari attributi divini oltre naturalmente il Du-Stil. + 101. quadrupedes: l'immagine della cor­ sa del cocchio come simbolo del percorso compiuto dal poeta per portare a termine la sua opera -

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II

I



LA POE S IA DEL MONDO NATURALE

FENOMENI DI

GE RMAN I C O

96-139

Al di sotto si trova l'immagine della Vergine, nella cui mano sinistra una spiga rigonfia risplende e fiammeggia dei suoi chicchi maturi. Con qual nome invocarti, o dea? Se ti commuovono i carmi dei mortali e non porgi sorde orecchie a chi ti onora, tu che, ahimè, hai in odio il genere umano, nel mezzo del loro percorso

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si fermeranno i miei destrieri e lieto, allentate le briglie, te canterò e il tuo nume venerando sulla terra. Quando regnavi sul mondo pacificato nell'età dell'oro, Giustizia non sfiorata dal male, mitissima vergine, sia che appartenga alla stirpe di Astreo, che la fama

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tramandò padre degli astri, sia che si sia perduta nel tempo la verità sulla tua origine, tu lieta ti recavi fra la gente, pur vivendo in cielo, né disdegnando di piegare il capo per entrare nelle case degli uomini e nelle loro dimore pure ed esenti da colpa, o dea, dettavi le leggi e con nuove istituzioni preparavi un popolo rozzo

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ad onesti comportamenti in ogni circostanza della vita. Non ancora il furore aveva sguainato spade insensate né la discordia era conosciuta fra consanguinei, ignoti erano i viaggi per mare e ciascuno si contentava della sua terra, né un'insaziabile speranza fra venti incerti

115

costruita una barca cercava lontano remote

deriva da Virgilio (Georg., n 541 sg.: Sed nos immensum spatiis confecimus aequor, l et iam tempus equomfu­ mantia so/vere colla, 'Ma noi abbiamo compiuto un'immensa distesa, e ormai è tempo di sciogliere i colli fumanti dei cavalli'). Questi versi non sono presenti nel modello. + 102. tuum . . . venerabile nu­ men: alla Giustizia Augusto eresse un tempio (Ovidio, Trist., m 6 25 sg.). + 103. Aurea . . . saecula: per Virgilio il ritorno dell'età dell'oro coincide col ritorno della Giustizia (Bue., 4 6: Iam redit et virgo, re­ deunt Saturnia regna). + 105. Astracigenus: Astreo secondo Esiodo (Theog., 382) generò da Aurora « le stelle splendenti da cui il cielo è incoronato », quindi anche la costellazione della Vergine, che, identificata con Dike-Iustitia figlia di Zeus e Temi, fu per questo detta anche Astraea (cfr. p. es. Ovi­ dio, Met., I 149 sg.: Virgo caede madentes l ultima caelestum, terras Astraea reliquit, 'la Vergine Astrea ab­ bandonò per ultima fra gli dei le terre bagnate di sangue'). + 111. formabas . . . usum: Arato, 107 parla di « leggi regolattici del popolo »; Germanico sposta l'attenzione sull'aspetto morale, tipicamente romano. + 112-19. Nondum . . . rura: caratteristica rappresentazione dell'età dell'oro, per cui si veda Virgilio, Georg., I 125-28 e Tibullo, I 3 43-48.

253

II · LA POESIA D IDASCALICA

divitias, fructusque dabat placata colono spante sua tellus nec parvi terminus agri praestabat dominis signa tutissima rura. At postquam argenti crevit deformior aetas,

120

rarius invisit maculatas fraudibus urbis seraque ab excelsis descendens montibus ore velato tristique genas abscondita vitta, nulliusque larem, nullos adit illa penatis. Tantum, cum trepidum vulgus coetusque notavit, increpat:

«

125

O patrum suboles oblita priorum,

degeneres semper semperque habitura minoris, quid me, cuius abit usus, per vota vocatis? Quaerenda est sedes nobis nova, saecula vestra artibus indomitis tradam scelerique cruento ». Haec effata super montis abit alite cursu, attonitos linquens populos graviora paventis. Aerea sed postquam proles terris data, nec iam semina virtutis vitiis demersa resistunt ferrique invento mens est laetata metallo,

135

polluit et taurus mensas adsuetus aratro, deseruit propere terras iustissima virgo et caeli sortita locum, qua proximus illi tardus in occasu sequitur sua plaustra Bootes.

118. sponte sua tellus: in Arato, 113 sg. è la Virgo stessa « signora delle genti » a porgere agli uomini « tutte le cose a mille a mille ». + 122-23. ore velato tristique . . . vitta: questa raffigurazione manca in Arato. Vitta è congettura di Grotius; i codici hanno ripa, da Scaligero e Baehrens corretto in rica, 'velo' con frange. La simbologia è chiara: il velo sul volto significa l'isolamento dal mondo, la ben254

II · LA POESIA DEL MONDO NATURALE

ricchezze, e la terra benevola dava i suoi frutti al contadino spontaneamente né il confine di un piccolo campo

dava ai padroni con quel segno la sicurezza del possesso. Ma dopo che prese vigore l'età d'argento, meno nobile,

120

piu di rado ella visitò le città macchiate di frodi e a tarda ora scendendo dagli alti monti col volto coperto e le guance nascoste da una triste benda, di nessuno visitò la casa, in nessuna dimora mise piede. Soltanto, vedendo gente affannata e uomini a gruppi, li rimprovera:

«

125

O stirpe dimentica dei padri che t'hanno preceduto,

che avrai discendenti sempre piu indegni, perché nelle tue preghiere invochi me con cui non hai piu confidenza? Debbo cercarmi una nuova sede, affiderò le vostre generazioni a comportamenti sfrenati e a crimini grondanti di sangue » .

130

Detto ciò se ne andò con corsa alata sui monti, lasciando genti attonite e intimorite di mali peggiori. Ma dopo che alla terra fu data la stirpe di bronzo, né piu i semi della virtli sommersi dai vizi oppongono resistenza e i cuori si rallegrano per la scoperta del ferro,

135

e il toro avvezzo all'aratro profanò le mense, in fretta la giustissima vergine abbandonò le terre ed ebbe in sorte una regione del cielo, dove vicinissimo a lei Boote lento a tramontare segue il suo carro.

da sacra (se la restituzione è giusta) la separazione dal profano. + 136. polluit et taurns: anche per Vir­ gilio ( Georg., n 537) il cibarsi della carne di giovenchi segnò il passaggio dall'età di Saturno a quella di Giove. 255

II • LA POESIA DIDASCALICA

5· LA VULCANOLOGIA: I L POEMETTO PSEUDO-VIRGILIANO A.ETNA Non si conoscono né in greco né in latino altre opere poetiche dedicate alla vul­ canologia all'infuori dell'Aetna pseudo-virgiliana, per cui il poemetto, che consta di

645 esametri, riveste per noi un interesse del tutto particolare (-+ I p. 482) . Esso si apre con l'enunciazione dell'argomento (l'Etna e i suoi fenomeni) e con l'invoca­ zione ad Apollo da parte dell'ignoto poeta, il cui scopo non

è

quello di prestare

orecchio ai miti che l'Etna ha alimentato (Vulcano, i Ciclopi, Encelado) ma di ri­ cercare la verità

(92: in vero mihi cura). Egli passa quindi a descrivere la natura del

monte percorso da cavità e canali, attraverso i quali i venti sospingono all'esterno il materiale lavico. Prima di trattare dell'origine dei venti il poeta in un excursus espo­ ne le sue idee sulla poesia della natura che, a differenza di quella georgica di Virgi­ lio, volta al profitto del contadino avidus, deve indagare i misteri del creato. Solo co­ si l'uomo potrà realizzare il suo perfezionamento spirituale (una concezione che presuppone da un lato Lucrezio, dall'altro il Seneca delle Naturales quaestiones). La trattazione procede con una lunga disamina delle varie possibilità della for­ mazione dei venti e del loro agitarsi per passare poi alla descrizione dei loro effetti. Si enumerano quindi gli elementi che provocano gli incendi: lo zolfo, l'allume, il bitume, ma soprattutto il

molaris lapis (vv. 399 sg.), la pietra che incendiata è desti­

nata a formare la lava. Altrove fenomeni vulcanici o si sono estinti come nell'isola di Aenaria (Ischia), oppure, se ancora attivi, si manifestano in misura ridotta, come nei Campi Flegrei, che emanano zolfo dal suolo, nell'isola di Stromboli o in quella di Vulcano. Si è osservato che l'autore dell'Aetna tace del Vesuvio, il che ha fatto

pensare che il poemetto sia stato composto prima della rovinosa eruzione del 79 d.C.

Si torna, poi, all'attività dell'Etna e si descrivono i particolari dell'eruzione con paragoni che ora richiamano il movimento di un esercito all'attacco, ora quello di un fiume, ora quello di un mare in tempesta. Per dimostrare la fusibilità della pie­ tra si invoca l'autorità di Eraclito circa la potenza del fuoco, che è in grado di fonde­ re il bronzo, il piombo, il ferro, gli spissa aurea saxa (v. 545) , da cui il calore fa fluire il prezioso metallo, e forse altri minerali che giacciono nascosti nelle profondità del­ la terra. Certo il fuoco che arde nelle fornaci dell'Etna non è come quello di cui ci serviamo abitualmente, ma ha una potenza paragonabile a quella dell'etere o dei fulmini scagliati da Giove. Inoltre la sua potenza è alimentata dai forti venti interni che svolgono una funzione analoga a quella dei mantici dei fabbri. Il poeta prosegue lamentando che ci rechiamo a visitare luoghi celebrati della Grecia e dell'Asia minore, ricchi di memorie e di opere d'arte affrontando perico­ losi viaggi per terra e per mare, mentre non facciamo abbastanza conto dello spet­ tacolo mirabile che ci offre la montagna siciliana. Il poemetto si conclude con una

mirandajàbula (v. 603) , relativa a due giovani,

che, nel corso di un'eruzione dell'Etna, mentre altri si affannavano a mettere in sal-

II



LA POE S IA DEL MONDO NATURALE

vo i loro averi, corsero in aiuto dei genitori in pericolo e riuscirono nell'intento per­ ché le fiamme stesse indietreggiarono di fronte a cosi nobile esempio di pietà filia­ le. Si tratta di un racconto ben noto dalle fonti greche (da Licurgo a Pausania ad Aristotele); in latino è presente in Seneca (Ben., m 37; VI 36), ma questa dell'Aetna è la prima trattazione in versi. La vicenda è ricordata ancora da Claudiano in Carm. min., 17 (DepiisJratribus et de statuis eorum quae sunt apud Catinam) .

257

II

·

LA POESIA DIDASCALICA

AETNA 219-81 Nunc quoniam in promptu est operis natura solique, unde ipsi venti, quae res incendia pascit, cur subito cohibent vires, quae causa silenti, subsequar: immensus labor est, sed fertilis idem, digna laborantis respondent praemia curis. Non oculis salurn pecudum miranda tueri more nec effusos in humum grave pascere corpus, nosse fìdem rerum dubiasque exquirere causas, ingenium sacrare caputque attollere caelo, scire quot et quae sint magno fatalia mundo principia toccasus metuunt, ad saecula pergunt, et firma aeterno religata est machina vinclo, solis scire modum et quanto minor orbita lunae haec brevior cursu bis senos pervolat orbes, annuus ille meet, quae certo sidera currant ordine quaeve suos servent incondita motus, scire vices etiam signorum et tradita iura {sex cum nocte rapi, totidem cum luce referri) , nubila cur caelo, terris denuntiet imbres, quo rubeat Phoebe, quo frater palleat, igni, tempora cur varient anni ver, prima iuventa, cur aestate perit, cur aestas ipsa senescit autumnoque obrepit hiemps et in orbe recurrit,

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Aetna. Il passo che qui si propone è di capitale importanza per capire le ragioni profonde che presiedono alla composizione del poemetto: lo studio scientifico della natura serve a liberare il nostro animo da falsi timori. Non è difficile riconoscere in ciò la lezione di Lucrezio e Seneca. Il testo riprodotto è quello curato da F.R.D. Goodyear {Oxford, Univ. Press, 1966). 219-81. La polemica antivirgi/iana. Dopo aver spiegato la natura del suolo e il fenomeno eruttivo il poeta si accinge a chiarire l'origine del vento che provoca la fuoriuscita del materiale lavico, ma prima di entrare in argomento apre un excursus, nel quale rende ragione della sua ricerca. Non è importante, come aveva fatto Virgilio, indagare quale sia la qualità del terreno piu adatto ad ogni cultura per accrescere la produzione: compito dell'uomo non è quello di riempire i granai ma di arricchire il proprio animo con le bonae artes.

II • LA POE S IA DEL MONDO NATURALE

l:ETNA 219-81

Ora poiché è chiara la natura dell'attività vulcanica e del suolo, indagherò da dove provengano i venti, che cosa alimenti gli incendi, perché d'improvviso trattengano le loro forze, quale sia il motivo del loro quetarsi: è un'enorme impresa, ma anche feconda, degni premi ricompensano l'impegno di chi vi si affatica. Non guardare solo con gli occhi queste cose mirabili alla maniera delle bestie né proni a terra nutrire il greve corpo, conoscere la verità delle cose e indagarne le dubbie cause, render sacra la propria natura e innalzare il capo al cielo, sapere quanti e quali principi originari abbia . 1,.1mmenso uruverso t . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . e la macchina del mondo sia legata saldamente da un eterno vincolo, sapere il ciclo del sole e di quanto minore sia l'orbita della luna, come questa piu breve percorra a volo dodici orbite, mentre quello proceda per la durata di un anno, quali stelle corrano secondo una regola fissa e quali confusamente seguano movimenti [propri, sapere anche le vicende delle costellazioni e le leggi loro assegnate (sei sono rapite dalla notte, altrettante sono restituite col giorno), perché annunci nuvole al cielo, piogge alla terra il fulgore per cui Febe si colora di rosso, il fratello impallidisce, perché si alternino le stagioni, perché la primavera, prima giovinezza, muoia con l'estate, perché l'estate stessa invecchi e l'inverno si insinui nell'autunno e rinnovi il ciclo,

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224-25.pecudum . . . more: è un topos già presente in Sallustio, Cat., 1 1. + 229. Nel verso si annida una corruzione diffiàle da localizzare. + 230. machina: termine di sapore lucreziano (v 96: machina mun­ di). + 235b. Questo verso è ritenuto sospetto in quanto presente solo nel codice G. + 237. rubeat Phoe­ be: per Virgilio, Georg., I 431 (che si rifà adArato, Phaen., 803) la luna (Phoebe) quando è rossa prean­ nunàa vento: vento semper rubet aurea Phoebe; segno di pioggia è invece la luna àrcondata da oscuri­ tà (Virgilio, Georg., I 428; Arato, Phaen., 803). -fraterpalleat: per Virgilio, Georg., I 441-43 (vd. cornm. ad loc.), il sole (il fratello di Febe) dà segni di pioggia quando al mattino presenta macchie e la lu­ minosità del disco sembra allontanarsi dal centro (Arato, Phaen., 828-31, da cui Virgilio dipende, di­ ce che questa mancanza di luminosità al centro fa apparire il sole « concavo », « infossato »). 25 9

II · LA POESIA DIDASCALICA

axem scire Helices et tristem nosse cometen, Lucifer unde micet, quave Hesperus, unde Bootes, Saturni quae stella tenax, quae Marcia pugnax, quo rapiant nautae, quo sidere lintea tendant, scire vias maris et caeli praediscere cursus, quo volet Orion, quo Serius incubet index, et quaecumque iacent tanto miracula mundo non congesta pari nec acervo condita rerum, sed manifesta notis certa disponere sede singula, divina est animi ac iucunda voluptas. Sed prior haec homini cura est, cognoscere terram quaeque in ea miranda tulit natura notare: haec nobis magis adfìnis caelestibus astris. Nam quae mortali spes est, quae amentia maior, in lavis errantem regno perquirere divos, tantum opus ante pedes transire ac perdere segnem? Torquemur miseri in parvis premimurque labore, scrutamur rimas et vertimus omne profundum, quaeritur argenti semen, nunc aurea vena, torquentur fiamma terrae ferroque domantur, dum sese pretio redimant, verumque professae tum demum vilesque iacent inopesque relictae. Noctes atque dies festinant arva coloni, callent rure manus, glebarum expenditur usus: fertilis haec segetique feracior, altera viti,

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241. axem . . . Helices: l'Orsa maggiore (Helice, cosi soprannominata da Arato, 37), che ruota intorno all'asse celeste. - tristem . . . cometen: la cometa è detta tristis in quanto apportatrice di sventure. + 242. Lucifer. . . Hesperus: i due nomi di Venere, rispettivamente il mattino e la sera. - Bootes: costellazio­ ne prossima all'Orsa maggiore e per questo detta anche Arctophylax ('custode del carro'). + 243· te­ nax: Saturno è un pianeta sfavorevole (Orazio, Carm., 11 17 22 lo definisce impius) quindi tenax è sta­ to spiegato come 'ostinato', 'implacabile', oppure come equivalente a impediens, remorans, 'che osta­ cola', 'che trattiene'. + 245. caelipraediscere cursus: esemplato su Virgilio, Georg., 1 51: caelipraediscere mo­ rem. + 246. Orion: costellazione invernale (si ricordi l'inizio de La caduta di Parini: « Quando Ori:on dal cielo l declinando imperversa ») . - Serius: Siria, la stella piu luminosa della costellazione del Cane, è detta index probabilmente perché annuncia la canicola. + 250. divina . . . voluptas: vi si avver­ te l'eco di Lucrezio, n 3: iucunda voluptas, e m 28: divina voluptas. + 253. haec nobis. . . astn's : il richiamo allo studio della terra e dei suoi fenomeni sembra ispirato alla filosofia epicurea e forse contiene una punta polemica contro chi come Manilio aveva privilegiato lo studio degli astri in relazione alla vita degli uomini. + 276-78. La trasposizione di questi versi è testimoniata dalla migliore tradi-

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II · LA POE S IA DEL MONDO NATURALE

sapere l'asse di Elice e conoscere l'infausta cometa, da dove brilli Lucifero, da dove Espero, da dove Boote, quale sia il pianeta Saturno tenace, Marte pugnace, con quale stella i marinai ammainino le vele, con quale le tendano al [vento, sapere le strade del mare e prevedere l'andamento del clima, dove voli Orione, dove dimori Siria, che dà segni premonitori, e tutte le meraviglie, quante giacciono in un universo cosi smisurato, non !asciarle confuse né sepolte nel coacervo generale, ma disporre in un posto preciso ogni cosa chiara per segni sicuri è una divina e lieta gioia dell'anima. Ma questa è la principale occupazione per l'uomo, conoscere la terra e osservare quali cose mirabili ha posto in essa la natura: questa è piu affine a noi degli astri del cielo. Quale maggiore speranza per i mortali, quale maggiore follia vagando nel regno di Giove indagare sugli dei, e trascurare un'opera cosi grande davanti a noi e rovinarla per inerzia? Ci tormentiamo infelici in piccole cose e siamo schiacciati dalla fatica, scrutiamo le fenditure e sconvolgiamo ogni abisso, si ricerca il seme dell'argento, ora vene d'oro, le terre vengono afflitte col fuoco e domate col ferro, purché si riscattino col guadagno, ma quando mostrano il vero allora giacciono prive di valore e abbandonate nella miseria. Notte e giorno i contadini sollecitano i campi, le mani incalliscono nel lavoro agricolo, si valuta l'utilità dei terreni: l'uno è fertile e piu fecondo per le messi, l'altro per la vite,

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zione. scrutamur rimas . . . vena: la condanna dell'avidità umana alla ricerca di metalli preziosi nelle viscere della terra è presente anche in Seneca, il quale si chiede: 'quale ineluttabile destino ha co­ stretto l'uomo, per natura eretto verso le stelle, a raggomitolarsi e a seppellirsi da vivo e a immer­ gersi nel profondo seno della terra per scavarvi l'oro?' (Nat. quaest., v 15 3: quae tanta necessitas homi­ nem ad sidera erectum incurvavit et difodit et inJundum telluris intimae mersit, ut erueret aurum . . . ?). jlam­ ma . . . Jerroque: Plinio il Vecchio, Nat. hist., xxxm 71, dice che per scavare gallerie nelle miniere la roccia veniva frantumata con fuoco e aceto e piu spesso con pesanti magli (hos [silices] igne et aceto rumpunt, saepius vero . . . caeduntJractariis CL librasferri habentibus). + 260. arva coloni: clausola virgiliana (Georg., 1 125: ante Iovem nulli subigebant arva coloni), ricavata non a caso da un contesto in cui si esalta il lavoro dei campi, qui invece considerato di poco conto (v. 266: leves . . . causae) se posto a confron­ to con lo studio scientifico della terra e dei suoi fenomeni (in particolare il vulcanismo). Natural­ mente è una visione riduttiva del mondo georgico, qui visto nel suo aspetto strettamente utilitari­ stico. I riferimenti alle Georgiche sono in questo contesto molteplici; il piu significativo è cetta-

-

261

II • LA POESIA DIDAS CALICA

haec plantis humus, haec herbis dignissima tellus, haec dura et melior pecori silvisque fìdelis, aridiora tenent oleae, sucosior ulmis grata. Leves cruciant animos et corpora causae, horrea uti saturent, tumeant et dolea musto, plenaque desecto surgant faenilia campo: t sic avidi semper qua visum est carius istis. Implendus sibi quisque bonis est artibus: illae sunt animi fruges, haec rerum maxima merces, scire quid occulto terrae natura coercet, nullum fallere opus, non mutum cernere sacros Aetnaei montis frernitus animosque furentis, non subito pallere sono, non credere subter caelestis migrasse rninas aut Tartara rumpi, nosse quid intendat ventos, quid nutriat ignes, unde repente quies et tmultot foedere pax sit.

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mente a Georg., 11 177 sgg. {sul problema vd. C. Di Giovine, La polemica con Virgilio in .Y.etna' 260 sgg., in « RFIC », a. CIX 1981, pp. 298-303). + 269. Il verso è corrotto ed è stato variamente emendato. Goodyear inclina, fra molti dubbi, a una ricostruzione di questo tipo: sic avidis semper quidvis est ca­ rius ipsis, 'cosi agli avidi qualsiasi cosa è piti cara (a loro) di loro stessi'. + 275. non subitopallere sono: già Lucrezio aveva concepito lo studio della natura come mezzo per liberare l'animo da falsi timori, e 262

II · LA POESIA DEL MONDO NATURALE

questa terra è la piu idonea per le piante, questo suolo per le erbe, questo è duro e migliore per il bestiame e fedele alle selve, gli ulivi occupano le zone piu aride, il terreno piu ricco di succhi 265 è gradito agli olmi. Questioni di poco conto affliggono gli animi e i corpi, come riempire i granai, come le botti ribollano di mosto e come i fienili ricolmi si ergano per i campi mietuti:

t- . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ciascuno deve riempirsi di nobili arti: sono queste le biade dell'animo, questa è la piu grande delle ricompense, sapere che cosa la natura della terra racchiuda nei suoi penetrali, non adulterare alcuna delle sue opere, non contemplare muti i sacri fremiti del monte Etna e i suoi sfrenati ardori, non impallidire per un improvviso frastuono, non credere che nel [sottosuolo siano migrate le minacce celesti o si squarci il Tartaro, conoscere che cosa faccia gonfiare i venti, che cosa alimenti il fuoco, da dove all'improvviso provenga la quiete e la pace con un t. . .t patto.

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Virgilio non aveva mancato di sottolinearlo ( Georg., II 490-92: Felix quipotuit rerum cognoscere causas l atque metus omnis et inexorabilejàtum l subiecitpedibus strepitumque Acherontis avari). + 281. fmultofJoe­ dere: multo è probabilmente corrotto. Si è pensato a iuncto (Mencken), a nullo (Alzinger) o a muto (Oudin).

II · LA POESIA DIDASCALICA

6. LA GEOGRAFIA: AVIENO E LE TRADUZIONI DELLA PERIEGESI DI DIONIGI Il poema didascalico di argomento geografico, anche se ha le sue origini nella cultura ellenistica, fiorisce piuttosto tardi. È solo infatti all'epoca di Adriano (11 7-138 d.C.) che Dionigi di Alessandria (detto il Periegeta) si cimenta con questo argo­ mento scrivendo una Periegesi dell'ecumene, un poema in 1186 esametri che dopo un'introduzione di carattere generale descrive il mondo abitato seguendo il crite­ rio del periplo. I precursori di Dionigi sono un autore anonimo vissuto verosimil­ mente nel I sec. a.C., noto come Pseudo-Scimno, al quale si deve una Periegesi in tri­

(

metri giambici GGM, 1 196-237), e un altro Dionigi figlio di Callifonte (il nome è rivelato dall'acrostico presente nei versi iniziali) di età incerta, che pure in trimetri giambici ci ha lasciato una breve Descrizione della Grecia ( GGM, 1 238-43). Mentre però costoro non ebbero altro scopo che di mettere in versi la materia trattata al fi­ ne di favorirne la memorizzazione (l'adozione del verso "comico" ne

è una spia),

Dionigi il Periegeta ebbe anche intendimenti artistici. La scelta dell'esametro sta infatti a dimostrare la sua volontà di ricollegarsi alla tradizione epica e ad Arato. A rivelarci la sua natura di viaggiatore di fantasia è lo stesso poeta, che, giunto alla de­ scrizione del Mar Caspio, dice che ne parlerà al lettore pur non avendolo visto con i propri occhi, giacché

è guidato dalle Muse « che possono senza corsa errabonda (vv.

misurare il vasto mare e i monti e il continente e la strada celeste degli astri »

715-17). Si può comprendere il grande successo di un'opera cosi concepita, che, secondo i canoni dell'estetica pedagogica, insegnava una materia da sempre inamena in mo­ do piacevole, con versi conditi di reminiscenze americhe in grado di dilettare il let­ tore oltre che favorire la memorizzazione del testo. Del valore pedagogico della sua opera è d'altra parte ben consapevole lo stesso poeta, che non manca di ammo­ nire il lettore sull'opportunità di ricordare quanto egli ha appreso grazie alla sua fa­ tica (vv. 169-73, 881-85). La fortuna di quest'opera è testimoniata, oltre che dai numerosi manoscritti che la tramandano, anche da due traduzioni latine, quella di Avieno (IV sec.) e quella di Prisciano (VI sec.). La traduzione di Avieno, spesso imprecisa, ora taglia, ora am­ plifica l'originale, mettendo in luce come gli interessi del traduttore siano piti lette­ rari che scientifici, mentre la traduzione di Prisciano è molto piti pedestre, ma an­ che piti aderente al testo greco, quale ci si poteva attendere da un grammaticus. Un esempio significativo della libertà che Avieno si prende nei confronti del modello

è l'amplificazione dell'apostrofe al lettore con cui Dionigi, dopo aver parlato dei mari, introduce la descrizione della terraferma (vv. 170-73). Quella che in Dionigi è la promessa di una rappresentazione dei luoghi tale da dare a chi legge l'impressio­ ne di averli quasi visti con i propri occhi, mettendo lo nel contempo nella condizio­ ne di illustrarli a sua volta ad altri, diventa in Avieno una specie di secondo proe­ mio, in cui trovano spazio una reiterata invocazione ad Apollo, una celebrazione

Il

·

LA POESIA DEL MONDO NATURALE

dell'immortalità della poesia e una compiaciuta esaltazione della propria fatica ar­ tistica, del tutto estranea alla lettera e allo spirito dell'originale (vv. 257-62). È super­ fluo dire che di ciò non c'è traccia in Prisciano, di solito pedissequo sectatordel testo greco, se si esclude l'invocazione iniziale al Dio cristiano (vv. 1-4 , al quale egli ri­ chiede quell'aiuto che, nel solco della tradizione pagana, Avieno implora da Apol­ lo e dalle Muse (vv. 1-10 . In questo caso entrambi i traduttori amplificano il testo di Dionigi, che, senza preamboli, entra subito in medias res.

)

)

Ad Avie no si devono anche altre opere poetiche appartenenti al genere didasca­ lico, il De ora maritima in trimetri giambici e una traduzione dei Fenomeni di Arato in esametri (vd. sopra, pp. 250 sg.).

Il • LA POESIA DIDAS CALICA

AVIEN I DESCRIPTIO ORBIS TERRAE

Nunc tibi tellurem versu loquar. Incute docto, Phoebe, chelyn plectro. Musis intermina vita permanet, et memori laus semper pullulat aevo. Indefessa tuae sint mentis acumina, lector, sudorisque mei patulo bibe carmina rictu: dulcis in his haustus, meritum grave, gratia perpes. Ergo solum terraeque Libystidis ora per Austrum tenditur, Eoae procul in confinia lucis. Gades principium est. Caput huius caespitis autem artius angusto conducit litora tractu, Oceanique salurn cuneo subit; istius orae terminus immensis Arabum concluditur undis: at latus hoc terrae diffusius explicat agros, arvaque tenta patent. Haec pingui caespite tellus Aethiopum est nutrix, qui nigros propter Erembas extremi Libyae curvo sola vomere sulcant; et rursum Aethiopes soli subiecta cadenti arva tenent. Sic scissa virum gens ultima terrae incolit: hos adflant rutilae incunabula lucis, hi iam praecipitis torrentur solis habenis. Propter proceras Zephyri regione columnas

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Avieni Descriptio orbis terrae. Il breve passo che si propone dà la misura delle intenzioni artistiche di Avieno, che, allontanandosi dal modello, introduce un'invocazione a Febo e alle Muse assente in Dionigi e si rivolge al lettore non solo per sollecitame l'attenzione, ma anche per richiamarlo ad apprezzare i frutti della sua fatica poetica. Altre difformità rispetto all'originale sono messe in luce nel commento. Il testo che si riproduce è quello di P. van de Woestijne (Brugge, de Tempel, 1961). 257-90. La descrizione della Libia. Dopo la descrizione delle parti del mondo e dei mari la tratta­ zione procede dalla Libia (Mrica) seguendo l'orientamento antiorario. 261. sudoris . . . carmina: ardita espressione ellittica e metaforica. + 263. Libystidis: forma rara dell'ag­ gettivo già presente in Virgilio (Aen., v 37). - perAustrum: l'Austro, vento di sud, per indicare il pun­ to cardinale (con piu precisione la fonte parla di sud-sud-est). Avieno omette la notizia di Dionigi che attribuisce all'Africa la forma di un trapezio (v. 175). + 264. Eoae . . . lucis: altra espressione ardita con cui si designa l'Oriente, da cui proviene la luce del sole. Si osservi come le due estensioni del­ la Libia siano accostate asindeticamente. + 265. huius caespitis: cioè di Gades. + 267. cuneo: Dionigi par266

II · LA POESIA DEL M O N D O NATURALE

LA DESCRIZIONE DEL MOND O DI AVIENO

Ora col verso ti illustrerò la terraferma. Percuoti, o Febo, col sapiente plettro la lira. Senza limiti perdura la vita alle Muse e sempre la lode fiorisce nel memore tempo. Instancabile sia, lettore, l'acume della tua mente e bevi con gola spalancata i carmi frutto del mio sudore: dolce è il dissetarsene, notevole il merito, pieno il gradimento. Dunque il suolo e la costa della terra Libica verso l'Austro si distendono lontano fino alle regioni della luce orientale. Cadice è l'inizio. Il vertice poi di questa terra, abbastanza stretto, fa avanzare i lidi con una lingua sottile ed entra nell'acqua dell'Oceano con un cuneo; il confine di questa costa è delimitato dalle immense onde degli Arabi: ma questo lato della terra ampiamente distende i suoi campi ed estese si dispiegano le pianure. Questa terra dal suolo fecondo è nutrice degli Etiopi, i quali presso i neri Erembi estremi solcano col ricurvo vomere il suolo della Libia; di nuovo gli Etiopi occupano le regioni sottoposte al sole che tramonta. Cosi divisa quella stirpe di uomini abita le estreme regioni della terra: questi li sfiorano i primi raggi della luce di fuoco, questi già sono bruciati dalle briglie del sole che si precipita gili. Presso le alte colonne nella regione di Zefiro abitano

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la solo di un « promontorio appuntito » (vv. 176 sg.). + 268. immensisArabum . . . undis: il Mar Rosso. + 270-76. Haec . . . habenis: la distinzione degli Etiopi in orientali e occidentali risale a Omero ( Od., I 23 sg.: « gli Etiopi, divisi in due, gli estremi degli uomini, quelli di lperione (Sole) che tramonta e quelli di lperione che sorge »). Avieno amplifica la notizia della fonte dilungandosi sugli Etiopi oc­ cidentali, mentre Dionigi si sofferma solo su quelli orientali, limitandosi a deflnirli « una delle due popolazioni » (v. 180) . Questo, come poco dopo la caratterizzazione dei Mauri, fa pensare all'uso da parte di Avieno di un'edizione di Dionigi fornita di scolii. - Erembas: popolazione che Omero (Od., IV 84) accomuna agli Etiopi e ai Sidoni. Avieno omette il paragone di questa terra con una pelle di leopardo presente in Dionigi, 181-83 (« gli uomini la dicono (la terra degli Etiopi orientali prossimi agli Erembi) simile a una pelle di leopardo; è infatti per sua natura secca e incolta, qua e là punteggiata di macchie scure »), con evidente allusione alle rare zone verdi che intervallano le am­ pie distese desertiche. - torrentur: lezione dell'Ambrosiano preferibile a terrenturdellaprinceps, adot­ tata dall'edizione di riferimento. + 277- Zephyri regione: Zefìro è vento occidentale.

II

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LA P O E S IA DIDAS CALICA

Mauri habitant. His fluxa fìdes et inhospita semper corda rigent; trahitur duris vaga vita rapinis. Proxima se late Numidarum pascua tendunt, Massyliique super populi per aperta locorum palantes agitant. Certi laris inscia gens est: nunc in dumosas erepunt denique rupis, nunc quatiunt campos, nunc silvas inter oberrant coniugibus natisque simul; cibus aspera glando omnibus; haud ollis sulcatur caespes aratro, non his mugitus pecudum strepit. Inclita post hos moenia consurgunt Tyriae Carthaginis: illa urbs Phoenissa prius, Libyci nunc ruris alumna, paci blanda quies, et bello prompta cruento.

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278-79. Mauri . . . rigent: in Dionigi si parla solo di « stirpi della terra di Mauritania » (v. 185). + 281. Massylii: Avieno raggruppa in un unico popolo i Masesili e i Masilei della fonte greca. + 286. ollis: forma arcaica per illis presente anche in Virgilio (Aen., VI 730; vm 658). + 287-90. Inclita . . . cruento: ri­ spetto al modello Avieno sopprime l'appellativo di « porto molto amato » (v. 195) e il riferimento 268

I I · LA POE SIA DEL M O N D O NATURALE

i Mauri. Costoro hanno lealtà incerta e i loro cuori inospitali sono sempre spietati; la loro vita errabonda si trascina fra crudeli rapine. Accanto si distendono per ampio tratto i pascoli dei Numidi e inoltre vivono sparpagliati in ampie regioni i popoli Massili. È gente che non ha fissa dimora: ora si arrampicano su rupi coperte di rovi, ora calpestano i campi, ora vanno errando fra boschi in compagnia di mogli e di figli; il cibo per tutti è la rude ghianda; da loro la terra non è solcata con l'aratro, per loro non risuona muggito di greggi. Dopo costoro sorgono le mura famose della tiria Cartagine: dapprima città fenicia, ora alunna della terra libica, tranquilla quiete per la pace, ma pronta alla guerra cruenta.

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alla misurazione « con una pelle di bue » (v. 197), che sostituisce con una notazione circa il ricor­ rente pericolo di nuove guerre proveniente da Cartagine, in realtà non pili attuale dopo la distru­ zione della città nel 146 a.C. L'espressione paci blanda quies (astratto per il concreto) è linguistica­ mente piuttosto dura.

III LA POESIA M ITOLOGICO-ETIOLOGICA E I FASTI DI OVIDIO Già nelle Metamoifosi Ovidio, indagando la storia dell'umanità dal caos iniziale alla morte di Cesare, aveva messo in atto due procedimenti tipici della poesia ales­ sandrina, l'etymon e l'aition. Questa finalità è chiara fin dagli esordi: il mito di Apol­ lo e Dafne (I 452-566) si conclude infatti con la spiegazione dell'etimo di 'alloro' (in greco daphne) e dell'origine del suo valore simbolico (perché serve a coronare poe­ ti e uomini d'arme), a cui tengono dietro la magnificazione della gloria di Roma, attraverso l'accenno al percorso trionfale dei generali vittoriosi dalla via Sacra al Campidoglio, e l'indiretta esaltazione di Augusto, la cui casa sul Palatino era fian­ cheggiata appunto da due di queste piante. Storia di Roma e origine di riti si svilup­ pano qui da una vicenda che per il suo carattere elegiaco rappresenta la prima de­ roga dall'epos all'interno delle Metamoifosi. Un passo avanti Ovidio compie con i Fasti (� I p. 482), in cui l' "incrocio di gene­ ri" sarà reso piu evidente dall'abbandono del metro dell'epica, l'esametro, a favore di quello dell'elegia, il distico. Come dice giustamente A. Barchiesi (Ilpoeta e ilprin­ cipe. Ovidio e il discorso augusteo, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 44), « il poema è attra­ versato da una tensione continua fra il campo dell'elegia e quello dell'epica. È una tensione fra due campi poco puri, perché l'epos abbraccia la poesia eroica e la tradi­ zione didascalica [vd. qui p. 167], mentre nell'elegia convivono poesia erotica, mol­ to leggera, e tradizioni piu serie ». In questa luce vanno dunque visti i Fasti, che re­ stano fondamentalmente un'opera didascalica con finalità celebrative della storia di Roma e di Augusto, anche se il trattamento "giocoso" di alcuni miti ha fatto pen­ sare a un Ovidio disincantato e insincero, che si sottomette suo malgrado ai voleri del principe. In realtà egli affronta con l'impegno di cui è capace un tema che non poteva mancare di serietà in quanto riguardava il calendario liturgico di Roma, ma lo fa con lo spirito proprio dei suoi tempi. Da questo punto di vista i Fasti rappre­ sentano per noi non solo una miniera di notizie di carattere archeologico e anti­ quario, ma anche una testimonianza importante di una sensibilità nuova, di un modo originale di rivivere il pantheon e la storia di Roma. Il punto di partenza è il calendario romano, le cui ricorrenze offrivano al poeta un ampio repertorio di fat­ ti storici e leggendari, di miti, di culti, di riti e di tradizioni, da illustrare poetica­ mente attraverso la ricerca dell'origine del nome e della causa prima di ciascuno di essi. Già Callimaco aveva trattato in un poema in quattro libri, di cui restano solo frammenti, intitolato appunto Aitia ('Le cause', 'Le origini'), della derivazione di culti, miti, nomi singolari (si pensi p. es. alla Chioma di Berenice, tradotta da Catullo). A Roma Varrone Reatino aveva illustrato in un'opera prosastica di cui ci resta solo

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il titolo (Aetia) usi e costumi del mondo romano, e Properzio con le "elegie roma­ ne" del IV libro aveva aperto il campo alla poesia etio logica. Ma Ovidio è il primo a destinare a questa materia un vasto poema didascalico ispirato alla storia di Roma ricostruita attraverso le principali festività ricorrenti in ciascun mese dell'anno. Dunque nel disegno originario del poeta i Fasti dovevano essere in dodici libri, ma solo i primi sei, da gennaio a giugno, sono arrivati fino a noi. Probabilmente Ovi­ dio aveva scritto anche i restanti sei, se dobbiamo credere a quanto il poeta stesso dichiara nei Tristia (n 549 ), ma forse non ebbe il tempo o la voglia di rivederli per la pubblicazione quando la condanna di Augusto nell'8 d.C. lo costrinse a partire per le rive del Mar Nero. La data di composizione dei Fasti è da fissare in un periodo di poco posteriore al­ la conclusione del ciclo erotico (2 d.C.) e anteriore all'epoca del bando. Nel proe­ mio del n libro, che prima del rimaneggiamento (vd. sotto) doveva aprire il poema, Ovidio confronta la serietà del tema dell'opera da poco intrapresa con il carattere piu leggero delle composizioni giovanili, osservando come ora i suoi distici si ap­ prestino a prendere il largo 'con vele piu maestose' (vv. 3 sg.: nuncprimum velis, elegi, maiori bus itis: l exiguum, memini, nuper eratis opus) . Vunico indizio cronologico sicuro si ricava da un passo del IV libro (vv. 347 sg.), in cui si allude alla ricostruzione avve­ nuta nel 3 d.C. del tempio della Magna Mater sul Palatino per opera di Augusto. Dopo la catastrofe che si abbatté sul poeta i Fasti restarono lungo tempo a giace­ re. Ovidio tornò a pensare ad essi dopo la morte di Augusto (14 d.C.). Fu infatti al­ lora che cominciò a rimaneggiare il poema e sostitui la vecchia dedica ad Augusto con una nuova a Germanico, attraverso il quale forse sperava di ottenere il perdo­ no dal nuovo imperatore (vd. p. 8o6). Germanico dovette apparirgli come il perso­ naggio piu adatto a intercedere per lui presso Tiberio sia per la sua gloria militare e la sua influenza politica (era figlio di Druso, il fratello di Tiberio morto in Germa­ nia nel 9 d.C.), sia perché egli stesso poeta (di lui ci resta, come è noto, la traduzio­ ne dei Phaenomena di Arato; vd. sopra, pp. 249 sgg.). Ma la progettata rielaborazio­ ne si arrestò al primo libro perché la morte arrivò di li a non molto (t7-18 d.C.) sen­ za che gli estremi tentativi di rientrare in patria sortissero l'esito sperato. La pubbli­ cazione postuma dei Fasti si dovette forse a qualcuno che li diffuse cosi come li ave­ va lasciati l'autore, cioè con il primo libro ritoccato e gli altri cinque piu o meno se­ condo la primitiva stesura, salvo qualche occasionale intervento (p. es. in VI 666 il poeta rimpiange i tempi in cui Tivoli, vicinissima a Roma, poté essere considerata lontana terra d'esilio, un concetto che potrebbe essere stato aggiunto a Tomi, con­ siderato che ricorre anche in Pont., I 3 81 sg.). Questo spiegherebbe anche la coesi­ stenza di due proemi: all'inizio del I libro il nuovo, indirizzato a Germanico, e all'i­ nizio del n il vecchio, concepito per Augusto e forse li trasferito dall'ignoto editore perché non andasse perduto. Dei restanti sei libri, se realmente furono scritti, si perse ogni traccia. 271

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LA P O E S IA DIDASCALICA

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Idibus est Annae festum geniale Perennae non procul a ripis, advena Thybri, tuis. Plebs venit ac virides passim disiecta per herbas potat, et accumbit cum pare quisque sua. Sub Iove pars durat, pauci tentoria ponunt, sunt quibus e ramis frondea facta casa est; pars, ubi pro rigidis calamos statuere columnis, desuper extentas imposuere togas. Sole tamen vinoque calent annosque precantur quot sumant cyathos, ad numerumque bibunt. Invenies illic qui Nestoris ebibat annos, quae sit per calices facta Sibylla suo s. Illic et cantant quiequid didicere theatris, et iactant faciles ad sua verba manus,

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Fasti. Il passo che qui si propone alla lettura è particolarmente importante per comprendere l'ar­ te dei Fasti. Alle spalle c'è l'epos virgiliano, spogliato però della sua carica eroica e trasferito sul pia­ no dell'elegia. Le idi di Marzo erano un ricordo imbarazzante, e Ovidio le inaugura con una festa all'insegna di libagioni e canti scurrili in onore di Anna Pe renna, e solo dopo questo lungo raccon­ to mitologico-etiologico fmalmente al v. 697 il poeta sembra ricordarsi che in quel giorno fatidico fu ucciso Cesare (Praeteriturus eram gladios inprincipefixos). In 14 versi il poeta sbriga il tragico even­ to presentandolo « in una luce un po' estraniata » (Barchiesi, op. cit., p. u6): per bocca di Vesta sap­ piamo infatti che Cesare fu da lei sottratto agli uccisori e rapito in cielo e che di conseguenza ad es­ sere pugnalato non fu realmente lui ma la sua umbra. Rispetto al fmale delle Metamoifòsi la vicenda perde i suoi contorni storici e si trasforma in un racconto favoloso. Li Venere vorrebbe avvolgere Cesare in una nube come un eroe omerico per sottrarlo ai pugnali dei congiurati, ma Giove glie­ lo impedisce perché non si può andare contro il destino: alla dea sarà solo concesso di condurre l'a­ nima dell'eroe in cielo e trasformarla in stella perché continui a vigilare su Roma dall'alto (vv. 84042: hanc animam interea caeso de corpore raptam lJac iubar, ut semper Capitolia nostraJorumque l divus ab ex­ ce/sa prospectet Iulius aede). Il testo seguito è quello teubneriano di E.H. Alton-DE.W Wormell-E. Courtney (Leipzig, Teubner, 1988); quando ce ne allontaniamo ne diamo ragione in nota. m 523-710. Le idi di marzo: lefeste rituali di Anna Perenna e l'assassinio di Cesare. Le idi di Marzo, ben note per l'assassinio di Cesare, sono qui inaugurate praeter expectationem da una scena di festa sfre­ nata, che ricorda una divinità italica, Anna Perenna. Sulla dea circolavano vari miti, ma il principa­ le, su cui il poeta si sofferma a lungo, era quello che ne faceva la sorella di Didone, che, dopo varie peregrinazioni, approdava nel Lazio, in cui si era insediato Enea con la nuova sposa Lavinia. L'ac­ coglienza di Enea, nel ricordo di Didone (e forse di un antico amore per Anna), è amichevole, al

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III · LA POE S IA MITOLO G ICO-ETIOLOGICA E I FAS TI DI OVIDIO

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Alle Idi c'è la gioiosa festa di Anna Perenna non lontano dalle tue rive, o Tevere nato in terra straniera. La gente arriva e sparpagliata qua e là fra il verde dei prati 525 brinda, e ognuno si pone accanto alla sua donna. Una parte resta all'aperto, pochi piantano tende, vi sono di quelli che si fanno una casa di fronde coi rami; altri, dopo aver fissato in terra canne in luogo di rigide colonne, vi distendono sopra le toghe spiegate. 530 Ciò nonostante sono accaldati per il sole e per il vino e si augurano di vivere tanti anni quanti i bicchieri scolati e tengono il conto bevendo. Là troverai chi è capace di bere gli anni di Nestore e colei che per il numero delle coppe diventa Sibilla. Li cantano tutto ciò che hanno appreso a teatro 535 e agitano mani che assecondano le loro parole,

contrario di quella di Lavinia, che, rosa da immotivata gelosia, medita addirittura di ucciderla. An­ na, avvertita in sogno da Didone, fugge e finisce preda di una divinità fluviale, il Numicio, che la muta in ninfa facendola sua sposa. Fra le altre versioni del mito il poeta dà particolare risalto anche a quella secondo cui Anna, da poco diventata una dea, si fa beffe di Matte innamorato di Minerva con una falsa cerimonia nuziale nella quale si traveste da nova nupta. Questa circostanza rendereb­ be ragione dei canti licenziosi che si intonano in onore della dea e che sarebbero da connettersi con laftscennina iocatio di questo rito buffonesco. È solo sul finale che il poeta, ammonito da Vesta, ricorda la tragica ricorrenza della morte di Cesare, una nota triste in tanta festa, un ricordo su cui forse è meglio ormai non insistere troppo. 523. Annae . . . Perennae: l'etimo del nome è spiegato da Macrobio (Saturn., 1 12 6): eodem quoque mense (sci!. Martio) etpublice etprivatim ad Annam Perennam sacrificatum itur, ut annareperennareque com­ mode liceat ('nello stesso mese [scii. Marzo] si va a sacrificare in pubblico e in privato ad Anna Pe­ renna, perché sia lecito trascorrere felicemente quell'anno e molti anni ancora'). La sua festa ave­ va dunque un valore propiziatorio e si celebrava con abbondanti libagioni il 15 marzo in un bosco sacro (Marziale, IV 64 17) al primo miglio della via Flaminia, lungo il Tevere. + 524. advena Thybri: il Tevere è detto advena in quanto proviene dall'Etruria. + 533· Nestoris . . . annos: nell'Iliade (1 250 sg.) si dice che « sotto di lui si erano già estinte due generazioni di uomini ». + 534· Sibylla: Virgilio (Aen., VI 321) la dice longaeva sacerdos; Ovidio (Met., XIV 144-46) le attribuisce sette secoli già vissuti e altri tre ancora da vivere (iam mihi saecula septem l acta vides: superest . . . l ter centum messes, ter centum musta videre, 'vedi che ho già vissuto sette secoli: mi restano da vedere [ . . . ] trecento messi, trecento ven­ demmie'). Nestore e la Sibilia sono anche altrove accomunati per indicare iperbolicamente la lon­ gevità (Marziale, IX 29 1-3). + 535· quicquid didicere theatris: con allusione alle oscenità di certi spetta­ coli come il mimo e l'atellana; vd. piu avanti v. 675. 273

Il • LA P O E S I A D IDAS CALICA

et ducunt posito duras cratere choreas, cultaque diffusis saltat amica comis. Cum redeunt, titubant et sunt spectacula volgi, et fortunatos obvia turba vocat. Occurrit nuper {visa est mihi digna relatu) pompa: senem potum pota trahebat anus. Quae tamen haec dea sit, quoniam rumoribus errat fabula, proposito nulla tegenda meo. Arserat Aeneae Dido rniserabilis igne, arserat exstructis in sua fata rogis, compositusque cinis, tumulique in marmore carmen hoc breve, quod moriens ip sa reliquit, erat: PRAEBVIT AENEAS ET CAVSAM MORTIS ET ENSEM: IPSA SVA DIDO CONCIDIT VSA MANV. Protinus invadunt Numidae sine vindice regnum, et potitur capta Maurus larba domo, seque memor spretum « Thalamis tamen » inquit « Elissae en ego, quem totiens reppulit illa, fruor >> . Diffugiunt Tyrii quo quemque agit errar, ut olim amisso dubiae rege vagantur apes. Tertia nudandas acceperat area messes, inque cavos ierant tertia musta lacus: pellitur Anna domo, lacrimansque sororia linquit moenia; germanae iusta dat ante suae. Mixta bibunt malles lacrimis unguenta favillae, vertice libatas accipiuntque comas, terque « Vale » dixit, cineres ter ad ora relatos pressit, et est illis visa su besse soror. Nacta ratem cornitesque fugae pede labitur aequo moenia respiciens, dulce sororis opus.

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549-50. PRAEBUIT . . . MANU: autocitazione ovidiana: l'epitafio conclude la vn Eroide; anche nel­ l'Ars amatoria (m 39 sg.) si dice qualcosa di analogo: etjàmam pietatis habet (scii. Aeneas) tamen hospes et ensem lpraebuit et causam martis, Elissa, tuae ('ha fama di pio [Enea], tuttavia, benché ospite, fu lui a offrirti la spada e la causa della tua morte, o Elissa'). In effetti Didone si trafisse con la spada di Enea (Aen., IV 646 sg.: conscenditfuribunda rogos ensemque recludit l Dardanium). + 552. Maurus !arba: il pre­ tendente di Didone, da lei rifiutato (Aen., IV 46: despectus Iarbas). + 553· Elissae: l'appellativo cartagi­ nese di Didone, già presente in Virgilio (Aen., IV 335; 610) . + 555· Tyrii: i Cartaginesi, cosi detti dalla

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I I I · LA P OE S I A MITOLOGI CO-ETIO L O G ICA E I FASTI DI OVIDIO

e deposto a terra un cratere vi guidano attorno rustiche danze, e l'amica agghindata balla con le chiome disciolte. Al ritorno ondeggiano e sono uno spasso per la gente, e chi li incontra li chiama beati. 540 Mi sono di recente imbattuto in un tale corteo (mi sembra giusto parlarne): una vecchia alticcia trascinava un vecchio alticcio anche lui. Ma su chi sia questa dea, poiché sulla sua storia corrono varie dicerie, mi propongo di non nascondere nulla. I.:infelice Didone era avvampata per la fiamma di Enea, 545 era avvampata sul rogo eretto perché si compisse il suo destino, il suo cenere era stato deposto nell'urna e sul marmo del sepolcro c'era questo breve epitafio, che ella stessa morendo aveva lasciato:

ENEA DELLA MORTE HA FORNITO LA CAUSA E LA SPADA: DIDONE DI SUA MANO È CADUTA. Subito i Numidi assaltano il regno senza difesa,

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e il Mauro !arba occupa la reggia e ne diventa il signore, e ricordando di essere stato sprezzato dice: « lo godo del talamo di Elissa, proprio io, che tante volte ella respinse ». Fuggono i Tirii dove ognuno è sospinto dal suo cieco vagare, come [talvolta sss incerte errano le api se perdono il re. Per tre volte l'aia aveva ricevuto le messi da battere e per tre volte il mosto era andato nei cavi tini: Anna è cacciata dalla reggia, e piangente lascia le mura 56o della sorella; ma prima rende alla sorella gli onori che le sono dovuti. Le ceneri leggere bevono i profumi misti alle lacrime, e ricevono una ciocca di capelli tolta dal capo, e per tre volte disse « Addio », e per tre volte accostò le ceneri alle labbra e ve le impresse, e le sembrò di avvertire in esse la presenza della sorella. Trovata una barca e compagni di fuga scivola sulle onde a vele spiegate, 565 volgendo lo sguardo alle mura, opera cara della sorella. città di Tiro in Fenicia, da cui provenivano. + 556. amisso . . . rege: per gli antichi a capo dello sciame c'è un re, non una regina {vd. sopra, n. a Virgilio, Georg. rv 201) . + 560. iusta: gli omaggi rituali per i defunti, enumerati subito dopo: lacrime, profumi, una ciocca di capelli, la conclamatio (vale), il ba­ cio (in questo caso all'urna con le ceneri). Tagliarsi i capelli in segno di lutto e gettarli sul cadavere è uso già omerico (Il., XXIII 135 sg.: « [i Mirrnidoni] tutto il cadavere [di Patroclo] avevano ricoperto con i capelli, che gli gettavano sopra avendoli recisi »).

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II · LA POESIA D IDAS CALICA

Fertilis est Melite sterili vicina Cosyrae insula, quam Libyci verberat unda freti. Hanc petit, hospitio regis confìsa vetusto: hospes opum dives rex ibi Battus erat. Qui postquam didicit casus utriusque sororis, > ait. lussa fugit ventoque ratem committit et undis: asperior quovis aequore frater erat. Est prope piscosos lapido si Crathidis amnes parvus ager, Cameren incola turba vocat: illuc cursus erat. Nec longius abfuit inde quam quantum novies mittere funda potest: vela cadunt primo et dubia librantur ab aura: « Findite remigio >> navita dixit « aquas »; dumque parant torto subducere carbasa lino, percutitur rapido puppis adunca Noto, inque patens aequor, frustra pugnante magistro, fertur, et ex oculis visa refugit humus. Adsiliunt fluctus imoque a gurgite pontus vertitur, et canas alveus haurit aquas. Vincitur ars vento nec iam moderator habenis utitur, at votis is quoque poscit opem. lactatur tumidas exul Phoenissa per undas, umidaque apposita lumina veste tegit. Tum primum Dido felix est dieta sorori et quaecumque aliquam corpore pressit humum.

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567. Melite . . . vidna Cosyrae: Malta e Pantelleria, isole cartaginesi conquistate dai Romani (218-217 a.C.). + 570. Battus: era re di Cirene, e infatti in Silio Italico (vm 57) la stessa scena si svolge a Cirene; il soggiorno maltese di Anna è probabilmente una innovazione di Ovidio. + 574· magnas Pygmalionis opes: Pigmalione, re di Tiro e fratello di Didone, che fuggi da lui dopo che le uccise il marito Sicheo (Virgilio, Aen., 1 340-64). + 581-82. Crathidis . . . Cameren: il Crati è un fiume delBruzzio, Camere è in-

III · LA P O E S IA MITOLO G I CO-ET I O L O GICA E I FASTI DI OVIDIO

Presso la sterile Cosira c'è la fertile isola di Melite, che l'onda del libico mare flagella. A questa si dirige, fidando nell'antica ospitalità del sovrano: il suo ospite li era Batto, re dalle enormi ricchezze. Costui, dopo aver appreso le vicende delle due sorelle, « Questa terra », disse, « per quanto piccola, è tua ». E avrebbe fino alla fine rispettato il dovere dell'ospitalità; ma temette la grande potenza di Pigmalione. n sole aveva attraversato due volte le costellazioni dello zodiaco, il terzo anno correva, e deve procurarsi una nuova terra d'esilio. Arriva il fratello e la reclama con le armi. Il re, temendo l'attacco: « Noi siamo inadatti alla guerra, tu fuggi e mettiti in salvo », le dice. Al comando ella fugge e affida le vele al vento e alle onde: il fratello era piti crudele di ogni distesa marina. Presso le pescose correnti del Crati sassoso c'è un campicello, che gli abitanti del luogo chiamano Camere: là volgeva la rotta. Né distava di li piti di quanto nove volte può lanciare una fionda: ecco che cadono le vele e oscillano per il vento incerto: « Fendete le acque a forza di remi! », disse il nocchiero; e mentre si apprestano ad ammainare le vele con le funi ritorte la poppa ricurva è percossa dal Noto impetuoso, ed è risospinta in mare aperto, col pilota che invano resiste, e la terra intravista di già scompare allo sguardo. Alti si levano i flutti e il mare dai profondi abissi è sconvolto e il guscio inghiotte acque biancheggianti di schiume. I.:abilità è sconfitta dal vento né ormai il nocchiero governa le scotte, ma anch'egli invoca il soccorso con le preghiere. I.:esule fenicia è gettata qua e là fra i rigonfi marosi e nasconde gli occhi bagnati di pianto protetta da un lembo di veste. Fu allora per la prima volta che Didone fu detta felice dalla sorella e con lei ogni altra donna che prema comunque il suolo col corpo.

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vece una località non altrimenti nota. + 598. corporepressit humum: premere humum vale 'essere disteso al suolo morto', come altrove nei Fasti (rv 844; v 710) : l'invidia di Anna è dunque per chi, come la so­ rella, è già morta e per chi ha comunque il privilegio di morire sulla terraferma. Per gli antichi ri­ manere senza sepoltura significava attendere cento anni prima di varcare lo Stige e trovare pace nel regno dei morti. È per lo stesso motivo che durante la tempesta nella quale trova la morte Ceice l'e-

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II

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LA POESIA DIDASCALICA

Ducitur ad Laurens ingenti flamine litus puppis, et expositis omnibus hausta perit. Iam pius Aeneas regno nataque Latini auctus erat, populos miscueratque duos. Litore dotali solo comitatus Achate secretum nudo dum pede carpit iter, aspicit errantem, ne c credere sustinet Annam esse: quid in Latios illa veniret agros? Dum secum Aeneas, « Anna est! » exclamat Achates: ad nomen voltus sustulit illa suos. Heu, quid agat? Fugiat? Quos terrae quaerat hiatus? Ante oculos miserae fata sororis erant. Sensit, et adloquitur trepidam Cythereius heros {flet tamen admonitu motus, Elissa, tui) : « Anna, per hanc iuro, quam quondam audire solebas tellurem fato prosperiore dari, perque deos comites, hac nuper sede locatos, saepe meas illos increpuisse moras. Nec timui de morte tamen: metus abfuit iste. Ei mihi, credibili fortior illa fuit. Ne refer: aspexi non illo pectore digna volnera Tartareas ausus adire domos. At tu, seu ratio te nostris adpulit oris sive deus, regni commoda carpe mei. Multa cibi memores, nil non debemus Elissae: nomine grata tuo, grata sororis eris ». Talia dicenti {neque enim spes altera restat) credidit, errores exposuitque suos; utque domum intravit Tyrios induta paratus, incipit Aeneas (cetera turba tacet) : « Hanc tibi cur tradam, pia causa, Lavinia coniunx, est mihi: consumpsi naufragus huius opes.

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quipaggio chiama felici 'coloro cui è riservata la sepoltura' (Met., XI 539 sg.: vocat ille beatos lfunera quos maneant) . + 603. solo comitatus Achate: elemento virgiliano: anche in Aen., 1 188 Enea è rappresen­ tato in compagnia del solofidus Achates. + 611. Cythereius heros: Cytherea è uno degli appellativi di Ve­ nere; Enea è detto Cythereius in quanto figlio di Venere. + 616. illos increpuisse: nell'Eneide a sollecita-

III

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LA POES IA MITOLO G ICO-ETI O L O GICA E I FAS TI DI OVIDIO

La nave è sospinta dal vento impetuoso al lido laurente e dopo che tutti furono a terra scomparve inghiottita dai flutti. Già il pio Enea aveva ottenuto il regno e la figlia di Latino, e aveva unificato i due popoli. Mentre, in compagnia del solo Acate, lungo il lido ricevuto in dote percorre a piedi nudi un sentiero appartato, scorge una donna che vaga né credere può che si tratti di Anna: perché sarebbe arrivata sul suolo latino? Mentre Enea cosi pensa fra sé, « È Anna » grida Acate : sentendo pronunciare il suo nome, ella leva lo sguardo. Ahimè! Che fare? Fuggire? Dove cercare un abisso in cui sprofondare? Era davanti ai suoi occhi il destino dell'infelice sorella. L'eroe figlio di Citerea capi, e a lei, che è tutta tremante, cosi si rivolge (ma piange commosso al ricordo di te, o Elissa) : « Anna, per questa terra, che un tempo eri solita udire essermi data da un destino propizio, e per gli dei che mi hanno seguito e qui ora hanno una sede, ti giuro che essi spesso hanno biasimato i miei indugi. Né tuttavia paventai la morte : questo timore era lontano da me. Ahimè! Ella fu piu risoluta di quanto si potesse pensare. Non dirmi nulla: io stesso vidi la ferita indegna di quel petto quando osai varcare le tartaree dimore. Ma tu, sia che un calcolo ti abbia sospinto ai nostri lidi sia il volere di un dio, cogli i vantaggi che il mio regno ti offre. Non ho dimenticato che molto a te devo, tutto ad Elissa: gradita qui sarai per il tuo nome, gradita per quello della sorella ». A lui che cosi parlava (non altra speranza le resta) ella credette, e gli narrò il suo peregrinare. E quando fece il suo ingresso a palazzo vestita degli abiti tirii, cosi Enea esordisce, mentre ogni altro tace : « Un sacro dovere mi impone di affidare costei a te, Lavinia mia sposa: naufrago approfittai dei suoi beni.

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re la partenza di Enea non sono i Penati, ma Mercurio (Iv 265-76) o l'ombra di Anchise (Iv 351-53) . + 619-20. aspexi . . . domos: l'incontro di Enea con Didone agli Inferi è descritto in Aen., VI 450-76. - pec­ tore: parte della tradizione ha corpore (accolto nel testo di riferimento), ma il richiamo virgiliano (Aen., IV 689: itifìxum striditsub pectore vulnus) rende piu probabile la lezione pectore.

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II

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LA POE S IA DIDASCALICA

Orta Tyro est, regnum Libyca possedit in ora: quam precor ut carae more sororis ames » . Omnia promittit falsumque Lavinia volnus mente premit tacita dissimulatque fremens; donaque cum videat praeter sua lumina ferri multa, tamen mitti clam quoque multa putat. Non habet exactum quid agat: furialiter odit, et parat insidias et cupit ulta mori. Nox erat: ante torum visa est adstare sororis squalenti Dido sanguinulenta coma et « Fuge, ne dubita, maestum fuge » dicere « tectum » ; sub verbum querulas impulit aura fores. Exsilit et velox humili super arva fenestra se iacit (audacem fecerat ipse timor), quaque metu rapitur tunica velata recincta, currit ut auditis territa damma lupis, corniger hanc cupidis rapuisse Numicius undis creditur et stagnis occuluisse suis. Sidonis interea magno clamore per agros quaeritur: apparent signa notaeque pedum; ventum erat ad ripas: inerant vestigia ripis; sustinuit tacitas conscius amnis aquas. lpsa loqui visa est « Placidi sum nympha Numici: amne perenne latens Arma Perenna vocor » . Protinus erratis laeti vescuntur in agris et celebrant largo seque diemque mero. Sunt quibus haec Luna est, quia mensibus impleat annum; pars Themin, Inachiam pars putat esse bovem.

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634.fremens: ci distacchiamo dal testo teubneriano, che accoglie metus testimoniato da alcuni ma­ noscritti. Il timore non si addice a Lavinia, che invece freme d'odio (v. 637:jun'aliter odit), un odio fomentato dalla gelosia, se qui si allude alla storia d'amore fra Enea ed Anna di cui, secondo Servio Danielino (Ad Aen., IV 682), parlava Varrone. + 635. donaque eum videat: Barchiesi, op. cit., p. 154 pen­ sa che si tratti di doni di Anna ad Enea, cosa che non può escludersi non essendo espresso il desti­ natario, ma al v. 6oo si dice che la nave, una volta sbarcati i passeggeri, hausta perit, e dunque si pre­ sume che Anna non avesse nulla da offrire al suo ospite. A fare ingelosire Lavinia saranno stati dunque i doni di Enea all'intrusa. + 643. super arva: il resto della tradizione ha il corrotto super ausa, che gli editori teubneriani pongono fra cruces, pur gratificando super atva di un « fortasse recte ». + 647. corniger. . . Numicius: per l'aspetto taurino della divinità fluviale cfi-. la descrizione del Po in Vir280

I I I · LA POE S I A MITOL O G IC O -E T I O L O G I CA E I

FA STI D I OVI D I O

È originaria di Tiro, possedette un regno sulla costa libica: ti prego di amarla come s'ama una cara sorella ,>. Lavinia tutto promette, ma soffoca l'immotivata ferita né rivela il suo pensiero, ma fremendo lo dissimula; e vedendo scorrere sotto i suoi occhi doni inviati

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in gran numero, pensa che pure in gran numero siano offerti in segreto. Non ha ancora deciso che fare: odia come una Furia e medita insidie e vuole morire una volta che si sia vendicata. Era notte : davanti al letto della sorella parve ergersi Didone coperta di sangne con la chioma scomposta

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e dirle : « Fuggi, non esitare, fuggi questa casa funesta! '>; a queste parole un soffio d'aria scuote la porta che stride. Balza dal letto e dalla non alta finestra si getta pronta sui campi sottostanti: la paura le aveva infuso coraggio. E dove il timore la trascina con indosso la tunica sciolta

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corre come un daino atterrito dagli ululati dei lupi; si crede che l'abbia rapita con onde bramose il Numicio munito di corna e l'abbia nascosta nel suo placido seno. La Sidonia frattanto si cerca con grande clamore fra i campi: sono chiare le tracce e le impronte dei piedi;

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si era giunti alla riva del fiume: anche li c'erano orme; il fiume consapevole frenò le sue acque ed esse si tacquero. Sembrò che fosse lei stessa a parlare: « Io sono la sposa del mite Numicio: nascosta in un alveo perenne Anna Perenna mi chiamo ,>. Subito banchettano lieti per i campi in ogni direzione percorsi e fanno festa con abbondanti libagioni a se stessi e a quella giornata.

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Vi sono alcuni per cui Anna è la Luna, perché completa l'anno coi mesi; altri pensano che sia Temi, altri che sia l'inachia giovenca. gilio, Geo�g., IV 371 sg.: gemina auratus taurino cornua vultu l Eridanus ('l'Eridano dal volto taurino con le duplici corna dorate'). + 649. Sidonis: Anna è cosi detta da Sidone, che con Tiro è la più impor­ tante città della Fenicia, terra d'origine dei Cartaginesi. + 653. nympha: Anna non è solo diventata una ninfa fluviale, ma anche la sposa del dio che, innamorato di lei, l'ha rapita (v. 647). Per nympha nel senso di 'sposa' cfr. Her., 1 27: grataferunt nymphaepro salvis dona maritis ('le giovani spose portano grati doni per la salvezza dei mariti'). + 657. Luna: la connessione con la luna è dovuta al fatto che Anna Perenna è divinità "annuale" (vd. n. a v. 523). + 658. Themin: qui avvertita come madre delle Ore (Esiodo, Theog., 901 sg.). - Inachiam: lo, la figlia di Inaco, amata da Giove, che per sottrarla alla gelosia di Giunone la trasformò in giovenca; al termine di varie peregrinazioni giunse in Egitto, dove in seguito fu venerata come Iside (la divinità lunare).

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II · LA POE S IA DIDAS CALICA

lnvenies qui te nymphen Azanida dicant teque lavi primos, Anna, dedisse cibos. Haec quoque, quam referam, nostras pervenit ad aures fama, nec a veri dissidet illa fide. Plebs vetus et nullis etiam nunc tuta tribunis fugit et in Sacri vertice Montis erat; iam quoque quem secum tulerant defecerat illos victus et humanis usibus apta Ceres. Orta suburbanis quaedam fuit Anna Bovillis, pauper, sed multae sedulitatis anus; illa, levi Initra canos incincta capillos, fìngebat tremula rustica liba manu, atque ita per populum fumantia mane solebat dividere : haec populo copia grata fuit. Pace domi facta signum posuere Perennae, quod sibi defectis illa ferebat opem. Nunc mihi, cur cantent, superest, obscena puellae, dicere; nam coeunt certaque probra canunt. Nuper erat dea facta: venit Gradivus ad Annam, et cum seducta talia verba facit: « Mense meo coleris, iunxi mea tempora tecum; pendet ab offìcio spes mihi magna tuo. Arinifer ariniferae correptus amore Minervae uror, et hoc longa tempore volnus alo. Effìce, di studio siiniles coeamus in unum: conveniunt partes hae tibi, coinis anus » . Dixerat; illa deum promisso ludit inani, et stultam dubia spem trahit usque mora. Saepius instanti « Mandata peregimus » inquit; « evicta est: precibus vix dedit illa manus » . Credit amans thalamosque parat. Deducitur illuc

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659. Azanida: equivale ad 'arcade' (Azan è l'eroe eponimo degli arcadi Azani) ; si allude alla naiade Hagno, che insieme ad altre due ninfe avrebbe nutrito Giove in Arcadia (Pausania, vm 31 3) . + 66162. Haec . . . fama: di questa versione del mito non si conoscono altre testimonianze. + 664. Sacri . . . Montis: allusione alla prima secessione della plebe nel 493 a.C. (Livio, II 32 2) . + 667. suburbanis . . . Bo­ villis: località al XII miglio della via Appia, di cui restano rovine. + 669. mitra: copricapo orientale, già

III · LA POE SIA MITOLO GICO-ET I O L O GICA E I FAS TI DI OVIDIO

Troverai chi dica che sei, o Anna, una ninfa azanide e che tu abbia dato il primo nutrimento a Giove. 66o Anche un'altra storia, che riferirò, giunse alle mie orecchie e non si allontana dalla verosimigliamza. La plebe antica e non ancora difesa da alcun tribuna fuggi e s'era ritirata sulla sommità del Monte Sacro; i viveri che avevano portato con sé ben presto vennero meno 665 e insieme il cibo di Cerere che sovviene alle necessità umane. C'era allora una tal Anna, proveniente dal sobborgo di Boville, una vecchia povera, ma molto industriosa; ella, le bianche chiome raccolte da una mitra leggera, impastava con mano tremante rustiche focacce, 67o e cosf ancora fumanti fra la gente il mattino soleva dividerle; questa risorsa era gradita alla gente. Una volta ristabilita in patria la pace elevarono una statua a Perenna, poiché li aveva aiutati nel loro bisogno. Ora mi resta da dire perché le ragazze intonino canti impudichi; 675 infatti convengono insieme e cantano sconcezze rituali. Era da poco divenuta una dea; s'avvicina ad Anna Gradivo e dopo averla tratta in disparte le rivolge tali parole: « Tu sei venerata nel mese che è mio, ho unito il mio tempo con te; 68o una mia grande speranza dipende dai tuoi buoni uffici. Io che rivesto le armi, preso d'amore per Minerva che pure riveste le armi, ardo per lei e da lungo tempo alimento questa ferita. Fa' in modo che noi, numi affini nei gusti, possiamo congiungerci insieme: un simile ruolo ti calza, dolce vecchietta ». Cosi aveva detto; ella si prende gioco del dio con vane promesse 685 e tira in lungo la sua sciocca speranza con vaghi pretesti. A lui che spesso tornava all'attacco rispose: « Ho eseguito il mandato, ha ceduto: con fatica si è arresa infine alle preghiere >>. L'innamorato le crede e appresta il letto nuziale. Li viene introdotta

presente in Catullo, 64 68, e Virgilio, Aen., IX 616. + 675. obscena: canti apotropaici come i fescenni­ ni, che si cantavano in occasione delle nozze (lafescennina iocatio: cfr. Catullo, 61 120) . + 677- Gradi­ vus: epiteto di Matte, che secondo Festo (p. 86 Lindsay) era da connettersi congradior (agradiendo in bella ultra citroque, 'colui che muove alla battaglia dall'una e dall'altra parte').

II · LA P O E S IA D I DAS CALICA

Anna tegens voltus, ut nova nupta, suos. Oscula sumpturus subito Mars aspicit Annam: nune pudor elusum, nune subit ira, deum. Ludis amatorem; cara es nova diva Minervae, nec res hac Veneri gratior ulla fuit. Inde ioci veteres obscenaque dieta canuntur, et iuvat hanc magno verba dedisse deo. Praeteriturus eram gladios in principe fa:os, cum sic a castis Vesta locuta focis: « Ne dubita meminisse: meus fuit ille sacerdos; sacrilegae telis me petiere manus. lpsa virum rapui simulacraque nuda reliqui: quae cecidit ferro, Caesaris umbra fuit » . Ille quidem caelo positus Iovis atria vidit, et tenet in magno tempia dicata foro; at quicumque nefas ausi, prohibente deorum numine, polluerant pontifìcale caput, morte iacent merita: testes estote, Philippi, et quorum sparsis ossi bus albet humus. Hoc opus, haec pietas, haec prima elementa fuerunt Caesaris, ulcisci iusta per arma patrem.

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690. tegens voltus . . . suos: ha come nova nupta il volto coperto daljlammeum, che la rende sul momen­ to irriconoscibile. + 693. Ludis amatorem; cara es: gli editori teubneriani hanno ridetamatorem carae (lu­ dis è lezione di un diverso ramo della tradizione e cara es congettura di Ehwald), ma la soluzione adottata da Schilling e qui preferita ci sembra pili in carattere con il personaggio di Anna, che oltre a beffeggiare il dio si renderebbe cosi insieme cara a Minerva e a Venere, non poco per una dea ap­ pena assunta all'Olimpo. + 694. Veneri: secondo il mito Venere è amante di Marte. + 699. sacerdos: Cesare fu eletto Pontefice Massimo nel 63 a.C. e come tale era a capo del collegio delle Vestali. + 702. umbra fuit: qui di solito si fa terminare il discorso di Vesta, ma Barchiesi, op. cit., p. 292 n. 30

III · LA POESIA MITOLO GICO-ETIOLO G I CA E I FAS TI DI OVIDIO

69o Anna col volto velato quale sposa novella. Sul punto di coglierne i baci Marte di colpo s'accorge che è Anna: il dio ingannato è insieme assalito da ira e vergogna. Ti burli del dio innamorato; tu che da poco sei dea ti rendi cara a Minerva né alcuna cosa a Venere fu piu gradita di questa. È questo il motivo per cui si cantano antichi lazzi e oscenità 695 e si gode del fatto che costei abbia burlato un gran dio. Stavo per passare sotto silenzio le spade affondate nel principe quando cosi Vesta parlò dal casto suo focolare: « Non ti far scrupolo di ricordare; egli fu mio sacerdote; 700 me colpirono quelle mani sacrileghe con le loro armi. Fui io a rapirlo e a lasciare solo il suo simulacro: ciò che cadde sotto il ferro fu l'ombra di Cesare ». Egli infatti, posto in cielo, vide la dimora di Giove e nel grande foro ha un tempio a lui consacrato; ma quanti osando un'azione nefanda, contro il volere dei numi, 705 profanarono il capo di un pontefice perirono di meritata morte: siatene testimoni tu, Filippi, e voi delle cui ossa sparse qua e là biancheggia la terra. Questo fu l'impegno, questo il dovere filiale, questi gli esordi 710 di Augusto, vendicare il padre con una giusta guerra.

avanza il sospetto che esso continui fino al v. 710; tuttavia quello che segue ha piuttosto l'aspetto di un commento del poeta. + 704. tempia: il tempio del divus Iulius, che si ergeva nel foro, fu dedicato nel 42 a.C. e inaugurato da Augusto il 18 agosto del 29 a.C. + 707. Philippi: la città della Macedonia, dove nel 42 a.C. in due successivi scontti Ottaviano e Antonio sconfissero prima Cassio poi Bruto, che si tolsero la vita. + 710. uldsd: Orazio chiama Augusto Caesaris ultor ( Carm., 1 2 44); Augusto stes­ so nelle Resgestae (2) si vanta di essersi legittimamente vendicato dei cesaricidi (iudiciis legitimis ultus . eorumfocinus).

IV LA POESIA DELLE ARTES 1. ORAZI O E LA TEORIA DELLA LETTERATURA In una data che non è possibile stabilire con precisione, ma all'incirca intorno al 14-13 a.C., Orazio, ormai cinquantenne, lascia l'agone poetico per dedicarsi alla ri­ flessione teorica sulla letteratura. È un'attitudine questa che non è nuova nel nostro poeta. Già nella IV satira del I libro, p. es., Orazio aveva cercato di definire il genere satirico e le sue caratteristiche, ma è solo con le tre Epistole del n libro, e in partico­ lare con l'ultima ai Pisani, comunemente nota come Ars poetica (� I p. 279; n pp. 279 sg.), che egli affronta sistematicamente il problema della poesia e tenta una defini­ zione complessiva dell'attività letteraria. In Epist., n 1, indirizzata ad Augusto, il poeta esordisce affrontando una specie di querelle des anciens et des modernes: il pubblico loda gli scrittori antichi e sprezza i con­ temporanei, ma quanto tempo deve passare perché un poeta possa essere annove­ rato interpeifectos? (vv 36 sg.). Orazio se la prende col pubblico che ha gusti arretra­ ti e non sa apprezzare le novità. Traccia quindi una rapida storia della letteratura la­ tina dalle origini al momento in cui, sotto la spinta della cultura greca, fiorirono i vari generi letterari (vv 156 sg.: Graecia captaJerum victorem cepit et artes l intuiit agresti Latio, 'La Grecia conquistata conquistò a sua volta il rozzo vincitore e introdusse le arti nell'incolto Lazio'). Sull'esempio dei Greci i Romani tentarono la tragedia, ma i risultati furono mediocri per la mancanza di labor limae. Anche il giudizio sul tea­ tro di Plauto non è piu benevolo (in questo disprezzo per la letteratura arcaica è da vedere un riflesso delle concezioni imperanti nel classicismo augusteo). Del teatro poi il pubblico ama gli aspetti esteriori, le scenografie grandiose, i ricchi costumi, l'ingresso in scena di animali esotici. Augusto deve invece prestare orecchio a chi cerca il suo auditorio non nella plebaglia schiamazzante di simili spettacoli, ma nei lettori che sanno apprezzare le raffinatezze della scrittura. Tra questa schiera di poeti c'è sicuramente anche chi, come già Virgilio e Vario, sarà in grado di celebra­ re adeguatamente le sue imprese; certo non lui, Orazio, che vorrebbe sf farlo se ne avesse le forze (v. 257= si quantum cuperem possem quoque), ma non può, e quindi se ci si provasse rischierebbe il ridicolo. Con questa recusatio si conclude l'epistola, im­ prontata a urbanitas e a quel raffinato gusto per la conversazione erudita che gli con­ sentiva di eludere garbatamente le aspettative del principe. Vepistola successiva (n 2) è indirizzata a Floro, un amico letterato che nel 21-20 a.C. accompagnò Tiberio in una spedizione in Armenia allo scopo di insediare sul trono Tigrane Il, come sappiamo da Tacito (Ann., n 3 2). In questa lettera dal tono confidenziale Orazio ripercorre le principali tappe della sua vita e della sua carrie.

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IV · LA POESIA DELLE ARTES

ra poetica per giustificare la sua rinuncia a comporre poesia lirica, oberato com'è di incombenze quotidiane in una Roma sopraffatta da frastuoni diurni e notturni. Del resto al tempo d'oggi - dice il poeta - tanti pretendono di poetare e, se anche non riscuotono successo, si elogiano a vicenda. Ma chi vuole scrivere seriamente poesie deve esercitare un forte autocontrollo, saper scegliere le parole appropriate facendo un'opportuna cernita fra arcaismi e neologismi ed essere in grado di dissi­ mulare nel lusus il tormento che accompagna la creazione artistica (v. 124: ludentis speciem dabit et torquebitur). Tutto questo non è piu per lui, al quale ormai si addice la riflessione filosofica, che infatti si sviluppa per il resto dell'epistola; la conclusione, amara, ha il sapore di un addio. Rivolgendosi a se stesso Orazio dice: 'hai scherzato abbastanza, hai mangiato abbastanza e anche bevuto: è tempo di partire' (vv. 214 sg.: lusisti satis, edisti satis atque bibisti: l tempus ab ire tibi est). ];ultima epistola del n libro, indirizzata ai Pisoni e nota anche, a partire da Quin­ tiliano, come Arspoetica, è delle tre quella che ha l'aspetto di un vero e proprio trat­ tato di teoria della letteratura. Chi siano stati storicamente i destinatari della lettera non siamo in grado di dire con sicurezza, anche se sono stati fatti vari tentativi, tut­ ti piu o meno incerti, per identificarli. Quello che si può dire è che si trattava di una famiglia formata dal padre e da due figli (v. 24: pater et iuvenes patre digni), il maggio­ re dei quali doveva avere inclinazione per la poesia, se a lui Orazio si rivolge per ammonirlo che in ogni altra ars è consentito essere mediocri tranne che nella poe­ sia; per questo, se mai un giorno si indurrà a scrivere qualcosa, lo tenga nascosto nel cassetto per nove anni prima di pubblicarlo (vv. 386-90: si quid tamen olim l scripse­ ris . . . l . . . l nonum . . . prematur in annum, l membranis intus positis) e per il giudizio si ri­ volga a critici severi rifiutando gli adulatori. Orazio esordisce col dire che l'opera d'arte deve essere unitaria e che ciascun poeta deve essere in grado di scegliere il genere che pili gli s'attaglia e a questo con­ formare il suo stile. Per quanto riguarda il linguaggio l'artista sarà libero di foggiar­ selo seguendo l'uso, innovando la lingua tradizionale con nuove metafore o ricor­ rendo, sia pur parcamente, a neologismi. Anche la scelta del metro, in relazione al­ l'argomento trattato, è importante, e altrettanto deve dirsi dello stile, che deve es­ sere adeguato ai sentimenti e al carattere dei personaggi. La parte centrale è dedicata alla poesia drammatica, che già nella Poetica di Ari­ stotele aveva recitato un molo di primo piano. Piu che direttamente ad Aristotele tuttavia Orazio si rifà alla tradizione peripatetica, che ormai aveva reso di comune dominio alcuni precetti, derivati, a detta di Porfirione, dal greco Neottolemo di Pa­ rio vissuto nel III sec. a.C., del quale peraltro ben poco sappiamo: scene cruente non avvengano sotto gli occhi degli spettatori, la tragedia sia composta di cinque parti, sulla scena non agiscano mai piu di tre personaggi insieme, il coro abbia fun­ zione di attore e non divaghi su temi estranei alla trama, ma sostenga i buoni e li consigli, stia dalla parte delle leggi e della giustizia. Il dramma satiresco poi, che fin

II · LA POE S IA DIDASCALICA

dai tempi antichi fu unito alla tragedia per allentare la tensione degli spettatori, non dovrà mai scivolare verso il burlesco, ma mantenere, pur nell'intonazione giocosa, una sua dignità di composizione e di stile. Quanto ai Romani, il loro gusto non ha mai brillato per raffinatezza, se essi hanno potuto apprezzare i ritmi e le facezie plautine con fin troppa pazienza per non dire insipienza (vv. 270-72: at vestri proavi

Plautinos et numeros et l laudavere sales: nimium patienterutrumque, l ne dicam stulte). Nel­

la tragedia hanno imitato i Greci, ma senza riuscire ad eguagliarne lo stile. Il poeta

infatti non è, come voleva Democrito, un invasato o un folle, ma deve anzitutto es­ sere fornito di una seria preparazione filosofica e saper contemperare le doti natu­ rali con le conoscenze tecniche. Tra chi ritiene che debba soprattutto dilettare e chi invece pensa che debba mirare all'utilità, Orazio tiene una posizione mediana, for­ mulando un precetto divenuto famoso: omne tulit punctum qui miscuit utile dulci, l lec­

torem delectando pariterque monendo, 'ottiene il generale consenso chi mescola l'utile con il piacere artistico, dilettando il lettore e insieme istruendolo' (vv. 343-44) .

Dopo gli ammonimenti al maggiore dei Pisoni di cui s'è detto Orazio si avvia a concludere il suo discorso con una raffigurazione del poeta vesanus, che, se per caso, declamando versi "sublimi", cade in una buca o in un pozzo non merita di essere soccorso: salvarlo sarebbe come ucciderlo perché gli verrebbe sottratto l'onore di una morte famosa a cui aspira. La sua follia lo rende simile a un orso che, rotte le sbarre della gabbia, mette tutti in fuga, dotti e indotti, giacché se afferra qualcuno lo uccide recitandogli i suoi versi e non molla la presa, proprio come una sanguisuga che non lascia la pelle se non quando è sazia di sangue (vv. 475 sg.:

quem vero arripuit,

tenet occiditque legendo, l non missura cutem nisipiena cruoris hirundo).

Può stupire che Orazio abbia dato tanto risalto alla poesia drammatica, che, co­ me è noto, gli fu del tutto estranea e abbia passato sotto silenzio la lirica, che costi­ tuisce una parte cosi cospicua della sua produzione. Ciò si fa risalire alle fonti di tra­ dizione aristotelica, che fra le varie forme d'arte assegnavano il primato alla poesia drammatica, ma può anche dipendere dal rifiorire di interessi nella sua epoca per il dramma, al quale andavano anche le preferenze di Augusto, che evidentemente lo riteneva il mezzo piu efficace per colmare la distanza fra letterati e grosso pubbli­ co. In realtà però ai tempi di Orazio si doveva per lo piu ricorrere, sia per la trage­ dia che per la commedia, al vecchio repertorio della poesia scenica arcaica, avversa­ ta, come s'è detto, dal Venosino, ad essa ostile in quanto ritenuta priva di labor limae, ma soprattutto per un atteggiamento polemico nei confronti dei suoi contempora­ nei, ammiratori del passato e incapaci di apprezzare le novità. Da parte sua, se per caso si fosse dedicato al dramma satiresco, avrebbe impiegato parole e nomi inorna­ ta et dominantia, si sarebbe insomma creato un linguaggio poetico fondato su quello comune, ma tale da risultare inimitabile (vv. 234-42: non ego inornata et dominantia no­ mina solum l verbaque, Pisones, Satyrorum scriptor amabo l / ex notofictum carmen sequar, ut sibi quivis l speret idem, sudet multum frustraque laboret l ausus idem, 'da scrittore di . . .

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IV · LA POE S IA DELLE ARTES

drammi satireschi non solo prediligerò nomi e parole disadorne e in vigore, o Piso­ ni [ . . . ] partendo da poesia già nota creerò la mia, in modo tale che chi speri per sé lo stesso risultato molto sudi e invano si affatichi osando la stessa impresa'). Il pro­ getto, come si sa, non ebbe seguito, ma quanto egli dice è indicativo delle sue idee in campo letterario. Al programma augusteo Orazio si avvicina anche facendosi sostenitore, come si è visto, dell'estetica pedagogica, che non può certo dirsi caratteristica della sua poe­ sia, se si esclude l'ultima parte della sua produzione (il Carmen saeculare, le prime sei odi del m libro, alcune del Iv), in cui si sforzò di atteggiarsi a interprete del rinnova­ mento morale e civile propugnato da Augusto. La via del pindarismo, intrapresa e presto abbandonata, non era certo la piu consona ad Orazio, la cui musa, come sap­ piamo, era un'altra: quella della poesia "leggera", allusiva e sottile, che ritroviamo nelle sue composizioni migliori, nei sermones come nella produzione lirica. Al di là di queste contraddizioni l'Ars poetica oraziana fu il veicolo di idee tradi­ zionali sulla poesia formulate in precetti, che ne assicurarono la fortuna fino alla tarda antichità. Dopo l'oblio medievale, dovuto al prevalere di concezioni plato­ nizzanti, essa fu di nuovo al centro degli interessi degli umanisti, come testimonia il fiorire di commenti e traduzioni. La libertà dell'artista, che tuttavia ha il suo limi­ te nel decorum, insieme alla convenientia, all'ardo, alla dispositio, diventa il principio fondante dell'estetica rinascimentale, dove spesso l'Ars poetica si intreccia, e talvolta si confonde, con la Poetica di Aristotele.

II · LA POESIA DIDASCALICA ARS POETICA

Sumite materiam vestris, qui scribitis, aequam viribus et versate diu quid ferre recusent, quid valeant umeri. Cui lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc nec lucidus ordo. Ordinis haec virtus erit et venus, aut ego fallor, ut iam nunc dicat iam nunc debentia dici, pleraque differat et praesens in tempus omittat, hoc amet, hoc spernat promissi carminis auctor.

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In verbis etiam tenuis cautusque serendis dixeris egregie, notum si callida verbum reddiderit iunctura novum. Si forte necesse est indiciis monstrare recentibus abdita rerum, fingere cinctutis non exaudìta Cethegis

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continget, dabiturque licentia sumpta pudenter, et nova fìctaque nuper habebunt verba fidem, si Graeco fonte cadent parce detorta. Quid autem Caecilio Plautoque dabit Romanus ademptum Vergilio Varioque? Ego cur, adquirere pauca

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si possum, invideor, curo lingua Catonis et Ennì

Arspoetica. Il brano proposto all'attenzione è particolarmente interessante per la complessità dei temi dottrinali, polemici, autobiografici che vi si intrecciano. Affrontando il problema del lin­ guaggio Orazio mostra una sorprendente modernità: contro ogni rigido schematismo che tenda a limitare la libertà dell'artista si afferma il diritto del poeta di non avere altra regola che l'usus, per cui quando sente la necessità di una parola, sia essa un arcaismo o un neologismo, è autorizzato a ricorrervi senza curarsi delle fisime dei puristi. Il testo riprodotto è quello di S. Borzsak (Leipzig, Teubner, 1984). 38-72. Scelta dell'argomento e del linguaggio poetico. Per uno scrittore è importante indirizzarsi verso

il genere che gli è congeniale e saper commisurare le sue forze con il fine che si propone. Tutto il

resto verrà facilmente da sé: la limpida disposizione degli argomenti e la scelta dei vocaboli e del­ le immagini adatte. Per quanto riguarda il linguaggio ci sono due modi di innovar!o: per mezzo di accostamenti non tentati prima oppure coniando nuovi vocaboli, ma con moderazione. Le paro­ le sono come le foglie: alcune cadono, altre spuntano al loro posto e prendono vigore. È questa la sorte di tutte le cose umane. 40. Cui lecta: cui è dat. d'agente; lecta equival e a electa. + 42. Ordinis: ripresa chiastica dei due temi annunciati al v. 41:jacundia (elocutio) e ardo (dispositio). + 49· indiciis: le parole sono 'segni' (indicia) del-

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IV · LA POESIA DELLE ARTES

l:ARTE POETICA

Scegliete un argomento, voi che vi accingete a scrivere, proporzionato alle vostre forze e ponderate a lungo che cosa rifiutino, che cosa reggano le vostre spalle. A chi avrà fatto una scelta adeguata non verrà meno né l'eloquio né una disposizione perspicua. Questo sarà il pregio e la bellezza della disposizione, se non mi sbaglio, che subito dica ciò che va detto subito, molte cose rinvii e tralasci sul momento, questo prediliga, questo eviti l'autore di un carme atteso. Sottile e oculato anche nel combinar le parole, ti sarai espresso in modo originale, se un accostamento sapiente avrà ridato novità a una parola nota. Se poi è necessario esporre concetti astrusi con segni attuali, capiterà di coniare termini mai uditi dai Cetegi che indossavano il cinto, e ne sarà accordata licenza purché usata con discrezione, e inoltre parole nuove e coniate da poco acquisteranno credito, se attinte con Inisura dalla fonte greca. Perché dunque i Romani dovrebbero concedere a Cecilia e a Plauto ciò che negano a Virgilio e Vario ? E io, se posso acquisire qualcosa di nuovo sono guardato di malocchio, mentre la lingua di Catone e di Ennio

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so

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le cose. - abdita rerum: la nota costruzione dell'aggettivo sostantivato seguito dal gen. partitivo. + so. cinctutis . . . Cethegis: è dat. d'agente. I Cetegi sono un'antica famiglia romana. Cicerone (Brut., 57 sg.) ricorda un M. Cornelio Cetego, famoso oratore vissuto ai tempi di Ennio. All'epoca dei Cetegi si seguiva ancora l'antica usanza di indossare il cinctus (una specie di perizoma) sotto la toga invece della tunica. Orazio vuoi dire che chi, come i Cetegi, è cosi conservatore da perseverare nell'uso del cinctus, lo sarà anche nei confronti dei neologismi approvando solo i vocaboli consacrati dal­ l'autorità dei classici. E nel parlare di neologismi il poeta si diverte a infìlarcene uno: cinctutus ('ve­ stito di cinto') non è attestato prima di lui. + 54· Caecilio Plautoque: sia verso Cecilia Stazio che ver­ so Plauto la posizione di Orazio è poco benevola. Di Cecilia Stazio (230 ca.-168 ca. a.C.) ci restano alcuni frammenti di commedie, fra cui significativi quelli del Plocium ('La collana') per i confronti che si possono istituire con l'originale greco di Menandro. + 55· Vergilio Varioque: Vario Rufo è il poeta contemporaneo di Virgilio e di Orazio, di cui fu anche amico. Compose poemi epici e una tragedia Thyestes, lodata da Quintiliano (Imt. or., x 1 98) e ricordata nel Dialogus de oratoribus (12 6). + 55-56. Ego cur. . . invideor . . . ?: questo costrutto personale di invideor (per mihi invidetur) è uno di quei grecismi di cui il poeta sta appunto discutendo.

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II

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LA P O E S IA DIDASCALICA

sermonem patrium ditaverit et nova rerum nomina protulerit? Licuit semperque licebit signatum praesente nota producere nomen. Ut silvae foliis pronos mutantur in annos, prima cadunt: ita verborum vetus interit aetas, et iuvenum ritu florent modo nata vigentque. Debemur morti nos nostraque: sive receptus terra Neptunus dasses Aquilonibus arcet, regis opus, sterilisve diu palus aptaque remis vicinas urbes alit et grave sentit aratrum, seu cursum mutavit iniquum frugibus amnis doctus iter melius: mortalia facta peribunt, nedum sermonum stet honos et gratia vivax. Multa renascentur quae iam cecidere, cadentque quae nune sunt in honore vocabula, si volet usus, quero penes arbitrium est et ius et norma loquendi.

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59· signatum praesente nota: l'espressione richiama metaforicamente il punzone (nota) che imprime il marchio (signat) sulle monete. + 6o.foliis: probabilmente da intendere come abl. di limitazione. ­ pronos mutantur in annos: pronus, 'proteso in avanti', se ben tramandato, alluderebbe all'inarrestabile fuga del tempo. Alcuni editori seguono la congettura di Bentley privos, doveprivos equivarrebbe a singulos, come già in Lucrezio, v 274: privas mutatur in horas ('si muta di ora in ora'). Si tratta indub­ biamente di una congettura molto acuta e forse giusta. Anche se Orazio non usa altrove privus in questo senso, il riecheggiamento di un'espressione lucreziana conferirebbe alla locuzione una pa­ tina arcaica, in carattere con la solennità della chiusa di questa pericope che associa la vicenda del­ le parole a quella degli uomini. Orazio ha certo in mente la celebre similitudine america (Il., VI 146): « quale è la stirpe delle foglie, tale è quella degli uomini ». + 62. vigent(que): fra chi riteneva il linguaggio una necessità naturale (physei) e chi il frutto di una convenzione (thesei) Orazio prende posizione per la prima di queste teorie, fatta propria, fra gli altri, dagli epicurei (cfr. Lucrezio, v 1028-90). + 63-65. sive . . . opus: Neptunus è metonimia mitologica per 'mare'; gli Aquiloni sono venti di nord-est notoriamente rovinosi. Il porto artificiale a cui si allude è stato da alcuni identificato col porto di Ostia progettato da Cesare (Plutarco, Caes., 58), da altri, sulla scorta dello ps.-Acrone, col

IV · LA POE SIA DELLE ARTES

ha arricchito quella dei padri e prodotto nuovi vocaboli? Fu lecito e sempre lo sarà introdurre un termine nuovo di zecca. 6o Come le selve rinnovano le foglie al rapido volgere di ogni anno, le precedenti cadono: cosi vien meno la vecchia generazione delle parole, e quelle nate da poco, come la gioventli, fioriscono e acquistano vigore. Siamo destinati alla morte, noi e le nostre opere: sia che il mare accolto nel grembo della terra protegga le flotte dagli Aquiloni, 65 opera maestosa, o una palude a lungo sterile e adatta alla navigazione alimenta le città vicine e avverte il pesante aratro, sia che un fiume mutò il suo corso dannoso alle messi, indotto a seguire un corso migliore: le opere dell'uomo periranno, tanto meno il prestigio e il favore dei vocaboli rimarranno vivi. 70 Molte parole rinasceranno che già caddero in disuso e altre cadranno che ora sono apprezzate, se cosi vorrà l'uso, presso il quale risiede la scelta, l'autorità e la norma del dire.

portus Iulius, costruito nel 37 a.C. da Ottaviano per esercitarvi la flotta da impiegare contro Sesto Pompeo (si collegò l'Averno col Lucrino, che fu dotato di un accesso al mare), ma si tratta solo di ipotesi. + 65-66. sterilisve. . . aratrum: anche in questo caso non è sicuro che si alluda in particolare al prosciugamento delle paludi Pontine, altra impresa presente nelle intenzioni di Cesare (vd. Plu­ tarco, loc. cit.). Palus ha la sillaba finale eccezionalmente breve, il che ha fatto sospettare una cor­ ruzione. + 67-68. seu cursum. . . melius: il terzo progetto di Cesare di cui parla Plutarco (!oc. cit.) è la deviazione del corso del Tevere per liberare la campagna romana dal pericolo delle inondazioni, ma non possiamo dire se Orazio pensasse davvero a una simile impresa. Probabilmente il poeta fa una considerazione di carattere generale: se tutte le opere dell'uomo, anche le piu grandiose (regis opus, v. 65, se rettamente tramandato, andrà inteso cosi), sono destinate a perire (v. 68: mortaliajàcta peribunt), figuriamoci se le parole potranno sperare di durare per sempre. + 71. usus: è stato inteso come 'utilità' (cfr. v. 48: siforte necesse est . . .) , ma potrebbe avere anche il senso di 'uso', 'consuetudi­ ne', a cui Orazio attribuirebbe un potere assoluto, non diversamente da Quintiliano (Inst. or., 1 6 3: wnsuetudo vero certissima loquendi maj?istra). 293

II · LA POESIA DIDASCALICA 2. LA METRICA IN VERSI DI TERENZIANO MAURO

Il De litteris, de syllabis, de metris di Terenziano Mauro è un trattato di prosodia e metrica latina in versi. I metri adottati dall'autore sono vari e si alternano nel corso del lungo carme (2981 versi : nel De litteris dopo la prefazione in gliconei (1-84) quel che segue (85-278) è in sotadei, un metro che, raro già in Plauto, fa in seguito la sua sporadica comparsa solo in Varrone, Petronio e Marziale il sotadeo, che prende il nome da Sotade, un poeta alessandrino del III sec., è un quaternario ionico "a maiore" catalettico con frequente anaclasi in terza sede e varie soluzioni ; il De syllabis, per lo piu in tetrametri trocaici catalettici, si conclude con una sezione in esametri dattilici (999-1299), appunto quella in cui si discute di questo verso; in te­ trametri trocaici catalettici si apre anche il De metris (1300-456), che però a differen­ za delle prime due parti presenta una varietà straordinaria di versi, tutti quelli cioè che il poeta si propone di illustrare. Le tre parti dell'opera furono quasi certamente composte e diffuse in tempi di­ versi, per cui è probabile che ciò che ci è stato tramandato come un trattato unico sia in realtà il risultato della riunione di tre distinti trattati, accomunati dall'affinità dell'argomento. Non è possibile stabilire con sicurezza l'ordine di composizione delle tre operette, che, ideate e pubblicate separatamente, potrebbero anche essere state riunite in un secondo momento dall'autore stesso, desideroso di presentare in un unico corpus il frutto dei suoi studi grammaticali. Sta di fatto però che la pratfatio che apre la trattazione non fa riferimento con chiarezza alle tre parti che compon­

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gono l'opera, per cui non ci sono elementi sicuri per ritenere che essa sia stata serit­ ta al momento della supposta edizione definitiva. Il carme è mutilo, dato che la trattazione sui metri oraziani che conclude l'opera si arresta ai distici e non tratta i sistemi tetrastici, come in precedenza annunciato. Tale perdita è da far risalire piut­ tosto che alla morte dell'autore cosa in sé non impossibile, perché il poeta stesso dichiara di essersi accinto alla sua opera in vecchiaia alle condizioni precarie del manoscritto di Bobbio grazie al quale l'opera è giunta fino a noi. Scopo dell'autore, che si impegna su un tema cosi arduo con versi altrettanto dif­ ficili e rari, non può dirsi quello di facilitare l'apprendimento della materia, se si pensa che già s. Agostino (Util. cred., 1 7) diceva che per i tirones sarebbe stato impos­

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sibile accostarsi a Terenziano Mauro senza la guida di un maestro (nulla ìmbutus poe­ tica disciplina Terentianum Maurum sine magistro attingere non auderes). È dunque evi­ dente che il carme persegue una finalità artistica: il poeta vuole trionfare sulla ma­ teria, come è chiaro fìu dalla prefazione in cui lascia intendere che il negotium da lui intrapreso è solo all'apparenza e:cile e dignum pueris, in realtà è un cimento che im­ pegna tutte le sue forze. Egli paragona la sua fatica a quella di un vecchio atleta di cui si narrava che per restare in esercizio attingesse acqua da un pozzo stringendo solo con la punta delle dita l'esile funicella legata al secchio: sembrava che solo un'esigua parte del corpo fosse impegnata nello sforzo, mentre in realtà tutte le sue 294

I V · LA POE SIA DELLE ARTES

fibre partecipavano a quella fatica (vv. 36-39: nil magnum gerere hunc putes l et tantum in digitis opus; l cunctis visceribus tamen l occultus trepidat labor). Quali siano state le fonti di Terenziano Mauro non sappiamo. Il De litteris è stato accostato al De compositione verborum di Dionigi di Alicarnasso (I sec. d.C.), che nel XIV capitolo affronta temi abbastanza simili a quelli del nostro poeta; nel De syllabis sono avanzate alcune teorie originali che non trovano altrove riscontro nella teoria grammaticale, mentre per il De metris un accostamento possibile è ancora da un la­ to con l'opera di Dionigi di Alicarnasso (cap. xvn) dall'altro con quella di Cesio Basso (I sec. d.C.) per quanto riguarda la teoria "derivazionista" dei metri.

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II · LA POESIA DIDAS CALICA

DE LITTERIS, DE SYLLABIS, DE METRIS 279-326 Syllabas quae rite metro congruunt heroico, captus ut meus ferebat disputatas, attuli versibus, sane modo rum qua sonora levitas addita stili levaret siccioris taedium. Haec prius, Bassine fili et tu gener Novate mi, perpolite quam potestis crebriore limula, non pater tamquam socerque, sed velut sim extrarius. Intueri vas oportet an satis sit litteris singulis discreta recte quae cui est, nativitas; syllabarum, quas duabus iungimus vocalibus, num minus sit scrupulose vis reperta et prodita; consonans si praelocatur una quantum differat, una vocalis duabus praedita est si consonis; ne parum vel diligenter lucideve expresserim quanta sit quae comparatur pedibus hinc diversitas. Sermo si planus pedestri se tenet modestia, disputandi quem tenorem doctiores imperant; verba si non appetita ne c remota plurimis, sed fere communis usus et tamen non obvia, carminis servant honorem, non iacentis cantici quo supersidens trapeto signa gyris temperat. Suffìcit vitare labes et carere sordibus,

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De litteris, de syllabis, de metris. Il brano proposto dà un'idea della difficoltà in cui si imbatte il poe­ stesso dichiara, di dover esprimere in versi ciò che sarebbe già arduo esporre con parole sciolte dalla tirannia del metro (vv. 305 sg.). Altra difficoltà non lieve è quella di foggiare un linguaggio che rifugga sia il tono alto della poesia sia i modi sciatti e pede­ stri della prosa. Si tratta di una sfida, quella di aver la meglio su una materia chiaramente sorda a ri­ spondere alle esigenze dell'arte, da cui il poeta si attende la gloria che consegue alle imprese diffi­ cili, non il successo di quanti, in cerca di consensi, battono strade piti piane. L'edizione seguita è quella di C. Cignolo (Hildesheim-Ztirich-New York, Olms, 2002) . ta tecnico, che è quella, come l'autore

279-326. I:ardua impresa delpoeta tecniw. In questo proemio il poeta, nel dedicare la sua fatica al fi­ glio Bassino e al genero Novato, chiede il loro aiuto per liberare la propria opera da ogni possibile errore, dichiarando che non la diffonderà prima di aver ricevuto la loro approvazione. Si tratta di un'impresa ardua, in quanto le questioni affrontate sono piuttosto sottili e in un terreno cosi infi-

I V · LA POESIA DELLE ARTES

LE LETTERE, LE SILLABE, I METRI 279-326 Le sillabe che bene si adattano al verso eroico, trattate come lo consentiva la mia capacità, le ho esposte

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in versi, proprio perché l'aggiunta della sonora forbitezza dei ritmi alleviasse il tedio di uno stile troppo arido. Queste mie cose, Bassino, figlio mio, e tu, Novato, mio genero, prima rifinitele ricorrendo alla lima piu spesso che potete, non come fossi un padre o un suocero, ma un estraneo.

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È necessario che guardiate bene se per ogni singola lettera sia stata definita esattamente la natura originaria propria di ciascuna; se la proprietà delle sillabe che formiamo con l'unione di due vocali, sia stato individuato ed esposto in modo inesatto; che differenza faccia se una vocale consonantica occupa il primo posto, se una vocale

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è preposta a due consonanti;

che io non abbia mostrato con sufficiente precisione e chiarezza quanto grande sia la diversità che di qui si determina per i piedi. Guardate se il discorso si mantiene chiaro, intonato a umile modestia, un modo dell'esporre che raccomandano gli esperti;

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se le parole non ricercate e non estranee a molti, ma quasi di uso comune e tuttavia non trite, conservano la dignità della poesia, non della piatta cantilena con cui il sorvegliante del frantoio dà il segnale ai giri della macina.

È sufficiente evitare cedimenti ed essere indenni da trascuratezze,

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do è facile sbagliare, tanto pìu che egli si è imposto un metro, il settenario trocaìco catalettico, che è governato da norme precise e non derogabili. È consapevole di pretendere un grosso sacrificio

dai due dedicatari, perché nessuno potrebbe esprimere un giudizio su un'opera di tal genere sen­

za profondervi un impegno pari a quello del suo autore, e d'altra parte non si aspetta indulgenza in nome dell'affetto che lì lega, ma una severità pari a quella dei critici malevoli. 282. let1aret . . . taedium: un richiamo alla poetica degli « orli del vaso >> di lucreziana memoria (1 936-so) con un'espressione che ricorre in Quintiliano (Inst. or., vm 3 52). + 283. Bassine . . . Novate: di questi personaggi non sappiamo altro. + 284. /imu/a: è hapax. Evidente il ricordo di Orazio (A rs, 291: limae labor). + 290. amsonans: si tende ad attribuire a questo termine il valore di 'vocale consonantiz­ zata' (i seguita da u e u seguita da i), considerato che « in nessun caso può essere rilevante la pre­ senza di una consonante davanti a una vocale * ( Cignolo). + 294. pedestri . . . modestia: la musa pedestris (Orazio, Sat., H 6 1 7) è quella dei generi umili rispetto a quelli "alti", l'epica e la tragedia.

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Il · LA POESIA DIDASCALICA

pro statu rerum domare lineam fandi parem, liberam scholae nitore, vatis exutam stola, quae tropos omnes relinquat et superba schemata, negligens ut semet ipsa laudem ab incultu ferat, dum tamen rebus minutis, quas pedum liber quoque vix queat proferre senno noster offensa sine, labili versu ministret inretusos exitus, regulam servans ubique, fìnis ut quarti pedis nominis verbive fine comma primum terminet; hac enim tome probatur metron hoc trochaicum. Hunc modum si competenti pertulit ductu stilus, sive proviso tenore cessit effectus labor, acrius vos pendite ista quam malignis moris est. Hoc domi clausum manebit, nec sinam nasci prius scrupulum quam vestra demat hunc mihi sententia, opera nobis haec inanis, anne in usum impensa sit. Sed labor vobis ferendus in legendo est maximus: non enim cursim aut remisse tam minuta acumina adsequi quicumque poterit, sed morosa intentio tam legenti debet esse, quam fuit nobis quoque, qui laborem provocando, perdomando taedium, forsitan neglecta multis e latebris scalpsimus, ardui laudem expetentes, non favorem ex obviis. Corrigenda siqua sane visa vobis hinc erunt, non ero stulte repugnans, aut amans prave mea, quin statim culpanda delens praebeam rectis locum.

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302. vatis . . . stola: l'abbigliamento del poeta-vate, che Varrone (Rust., m 13 3) attribuisce a Orfeo. + 304. semet ipsa: abl. di limitazione. + 307. versu: dat. in -u. - inretusos: hapax. Il verbo retundo vale 'smus­ sare', che, preceduto da in- con valore negativo, significa 'non smussare', quindi 'rendere tagliente' e, metaforicamente, 'rendere efficace' ('marcato' traduce la Cignolo). + 308. regulam servans: allude

IV · LA POESIA DELLE ARTES

mantenere un andamento del discorso adeguato alla condizione dei [contenuti, libero da forbitezze di scuola, spoglio dei paludamenti della poesia, che lasci da parte tutti i tropi e le figure ambiziose, perché incurante di sé riscuota la lode dalla mancanza di ornamenti, purché tuttavia in argomenti minimi, che anche sciolto dalla metrica il nostro discorso a malapena potrebbe esporre senza intoppo, fornisca un verso scorrevole di finali incisive, rispettando ovunque la norma per cui la fine del quarto piede concluda il primo membro con la fine di un nome o di una parola; infatti è da questa cesura che si riconosce questo metro trocaico. Se la penna, con conveniente tracciato, ha rispettato fino in fondo [questo tenore o se il lavoro compiuto si è discostato dal percorso stabilito, soppesatelo voi con severità maggiore di quella che è propria dei malevoli. Questo lavoro resterà chiuso in casa, né consentirò che sia diffuso prima che il vostro giudizio mi tolga quest'incertezza, se la mia opera sia inutile o sia stata spesa utilmente. Ma voi nel leggere dovrete sobbarcarvi a un'enorme fatica: infatti non tutti potranno penetrare in fretta e senza impegno cosi minuscole sottigliezze, ma chi legge dovrà avere la stessa scrupolosa applicazione che ho avuto io, che, sfidando la fatica, vincendo la noia, ho tratto fuori dai loro nascondigli cose forse trascurate da molti, aspirando alla lode della difficoltà, non al successo che proviene dalle [ovvietà. Se dunque vi sembrerà che di qui vada eliminato qualche errore, non sarò scioccamente restio, o perversamente compiaciuto delle mie [cose, al punto di non fare spazio a ciò che è esatto, cancellando subito ciò che è [riprovevole.

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all'incisione mediana del settenario trocaico. + 309. wmma primum: il primo emistichio del settena­ rio trocaico. + 311. ductu stilus: senso proprio e figurato si confondono. + 314. domi clausum manebit: in ossequio al celebre precetto oraziano (A7:5, 388: nonum . . . prematur in annum). + 323. ardui: con valore sostantivato. 299

I I • LA P O E S I A D I DAS CALICA

3 · MEDICINA E POESIA: IL

LIBER MEDICINALIS DI QUINTO SERENO

Il Liber medicinalis di Quinto Sereno (__.. I p. 482) è un trattato di medicina in versi e consta di 1107 esametri. La disposizione della materia, pur con alcune oscillazio­ ni, è quella tradizionale a capite ad calcem. Vopera si compone di due parti: nella pri­ ma (capp. I-xu) sono trattate le malattie organiche, nella seconda (capp. XLII-LXIv) quelle accidentali. Poiché manca dell'epilogo potrebbe esserci giunta mutila. Le ri­ cette sono improntate alla medicina popolare e la loro composizione attinge, se­ condo la precettistica di Plinio, alle piante, agli animali, alle sostanze minerali, ma si fa spazio anche a pratiche magiche e superstiziose (p. es. nel cap. LI per combat­ tere la febbre serniterzana si raccomanda l'efficacia della formula "abracadabra"). È pur vero che l'autore sembra nutrire un certo scetticismo verso queste ultime, dato che proprio nel capitolo che precede (L) a proposito di febbri persistenti si era rifiu­ tato di riferire formule bizzarre (v. 7= verborum monstra silebo), ritenute efficaci da una vana superstizione e dall'ansia di talune madri (v. 9: vana superstitio credit tremulaeque parentes). Le concessioni alla medicina popolare vanno dunque viste come un osse­ quio a una persistente tradizione, soprattutto diffusa fra la gente comune e le per­ sone meno abbienti, giacché lo scopo dichiarato di Quinto Sereno è quello di veni­ re incontro proprio a costoro (v. 394: at nos pauperibus praecepta dicamus amica). Que­ sto spiega anche perché per una stessa malattia a volte si propongano piu medica­ menti, richiamando in qualche caso l'attenzione su rimedi poco dispendiosi, che è un modo per sfuggire alla cupidigia dei medici ai quali non si risparmiano strali (vv. 518-20, 542) . Questa circostanza e l'impostazione generale dell'opera, che riflette una mentalità piu erudita che tecnica, inducono a pensare che il suo autore non fos­ se un medico, ma un retore, magari con spiccati interessi per l'ars medica, il cui sco­ po era quello, comune del resto ai poeti didascalici, di cimentarsi con una materia notoriamente "impoetica" rendendola accetta a un pubblico dotto secondo i detta­ mi della poetica lucreziana. Alla poesia non rinuncerà piu tardi neppure Marcello (IV-V sec.), che, anche lui piu erudito che medico, conclude il suo prosastico De medicamentis con un carme di 78 esametri, perseguendo le stesse finalità. Vinvocazione ad Apollo, con cui si apre il carme, non solo obbedisce a un topos consolidato, ma acquista un particolare significato in quanto qui il dio è presente in particolare come patrono della medicina; l'invocazione si estende poi al figlio E­ sculapio, di cui si ricordano, nello stile dell'inno, varie località dove la divinità è ve­ nerata. Già dal tono alto del proemio si comprende come Quinto Sereno persegua un intento artistico, e infatti nel corso della trattazione si infittiscono le citazioni e le reminiscenze di grandi poeti del passato, a cominciare da Virgilio, ma anche di prosatori quali Varrone, Cicerone, Livio e Plinio il Vecchio. Le fonti di Quinto Sereno non sono facili da identificare. Un lontano antece­ dente è, come si è detto, Plinio il Vecchio, ma molte ricette non trovano riscontro né in Plinio né nella piu tarda (IV sec.) Medicina Plinii, una compilazione che il no-

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IV · LA POESIA DELLE ARTES stra poeta potrebbe aver conosciuto in una redazione anteriore andata perduta. Le somiglianze con Dioscoride, Celso e Scribonio Largo potrebbero dipendere da co­ munanza di fonti e non comportare una conoscenza diretta di questi autori. Quan­ to ai titoli delle singole ricette, anche se non c'è la certezza che riflettano in tutto e per tutto quelli originali, è da presumere che fossero previsti dal poeta, anche per­ ché in qualche caso si dimostrano indispensabili alla comprensione del testo (p. es. se il cap. v fosse privo del titolo, Adpthiriasin arcendam, non saremmo in grado di ca­ pire contro quale malattia la prescrizione si rivela efficace).

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Il LA POESIA DIDASCALICA ·

LIBER MEDICINALIS XV.

UVAE, FAUCIBUS, COLLO ET QUAE MOLLIENDA SUNT MEDENDIS 253-88

Aegrescunt tenerae fauces cum frigoris atri vis subiit, vel cum ventis agitabilis aer vertitur atque ipsas flatus gravis infìcit undas vel rabidus damor fracto cum forte sonore plenum radit iter. Sic est Hortensius olim absumptus; causis etenim confectus agendis obticuit cum vox domino vivente periret et nondum extincti moreretur lingua diserti. Ergo omni studio quaeres inhibere dolorem. Simplicibus lymphis confunditur aerium mel, additur excussus nivea similagine furfur: decocta haec dauso simul exercentur in ore. Praeterea fauces extrinsecus unguere prodest ursino et tauri sevo cerisque remissis, omnia quae geminis aequabis lancibus ante. Disce etiam miram ex humili medicamine curam. Attiaco melli iunges agreste papaver decoctumque simul mandes mansumque vorabis. Crinitae porri radices quinque coquantur, hinc aqua non fervens volvatur fauce sonora nec tamen in stomachum descendat gutta patentem.

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Liber medidnalis. La ricetta che qui si propone alla lettura consente di farsi un'idea dell'arte di Se­ reno sia perché è una delle piu lunghe, sia per la citazione ciceroniana e le reminiscenze poetiche di cui è intessuto il discorso. Il testo riprodotto è quello di R. Pépin (Paris, PUF, 1950) . 253-88. Medicina e magia. Le prescrizioni riguardano il mal di gola e dolori alla nuca e al collo: nel primo caso decotti e gargarismi (ma anche pratiche di carattere magico), nel secondo frizioni con unguenti a base di grassi animali. 254. agitabilis aer: è iunctura ovidiana (Met., I 75). + 255. inflcit undas: cfr. Lucrezio, n 152: aerias quasi dum diverberat undas. + 256-57. rabidus. . . iter: ancora una reminiscenza lucreziana (Iv 528-29: praeterea radit voxJauces saepejadtque l asperioraJorasgradiens arteria clamor, 'inoltre la voce spesso raschia la gola e il grido che esce fuori rende p ili ruvida la trachea'). + 257. Hortensius: Q. Ortensio Ortalo (114-50 a.C.), il celebre oratore, prima avversario (ai tempi del processo di Verre) poi amico di Cicerone, 302

IV



LA POE S IA DELLE

ARTES

I L LIBRO DELLA MEDICINA ' XV. PE R CURARE L UGOLA, LA GOLA, IL COLLO E ALTRE PARTI CHE DEVONO ESSERE AMMORBIDITE 253-88

La gola delicata si ammala quando sopraggiunge l'impeto di un terribile freddo o quando la mobile aria è sconvolta dai venti e il loro soffio molesto agita perfino le onde o quando avviene che un grido rabbioso raschi la trachea ricolma della sua dirompente sonorità. Cosi un tempo Ortensio fu rovinato; infatti sfinito dal perorare cause si tacque, allorché la voce venne meno mentre restava in vita il suo [padrone e moriva la voce di quell'eloquente oratore non ancora scomparso. Dunque con ogni premura cerca di calmare il dolore. V aereo miele va sciolto in acqua pura, si aggiunge della crusca separata dal niveo fior di farina: questo composto, una volta cotto, va tenuto in movimento nella bocca [chiusa. Inoltre reca giovamento ungere dall'esterno la gola con grasso di orso e di toro e con cera disciolta, elementi che prima avrai uguagliato nel peso sui due piatti della bilancia. Apprendi anche una cura sorprendente frutto di modesti ingredienti. Aggiungi al miele dell'Attica del papavero selvatico e mastica il composto ben cotto e dopo averlo masticato ingoialo. Cuoci cinque radici chiomate di un porro, l'acqua ricavata, non bollente, sia fatta gorgogliare nella gola [rumoreggiante, né tuttavia una sola goccia scenda nel condotto dell'esofago.

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che lo elogiò nel Brutus; e infatti qui Sereno ha presente proprio un passo di questo celebre dialo­ go (328: sic Q. Ortensi vox exstinctafato suo est, nostrapublico) , dove il}àtum di Ortensio non sarebbe sta­ ta la sua morte ma la perdita della voce. + 262. aerium mel: cfr. Virgilio, Georg., IV 1 sg.: Protinus aerii mellis caelestia dona l exsequar. + 269. Attiaco melli: il miele dell'Attica era celebre e ricorre come in­ g�ediente in varie compositiones di Scribonio Largo. Attiaco è variante non altrimenti attestata per Attico (ThlL, n col. 1132 44).

I I · LA POESIA DIDASCALICA

Si vero adflictam languor deieceris uvam, tunc horas aliquot pro nus recubare memento; aut illam pulvis tosti relevabit anethi aut cinis ex coclea vel torrida brassica flammis. Angina vero mixtum sale poscit acetum, quod refert clauso versatum agitare palato. At si cervices durataque colla rigebunt, mira loquor, geminus mulcebitur unguine poples: hinc longum per iter nervos medicina sequetur; anseris aut pingui torpentis colla fovebis. Inditur et valido multum lens cocta in aceto aut caprae fìmus ex bulbo aut cervina medulla: hoc etiam immotos flectes medicamine nervos. Quos autem vocitant toles, attingere dextra debebis, qua gryllus erit pressante peremptus.

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276. anethi: l'aneto è una pianta aromatica (cfr. Virgilio, Bue., 2 48:florem . . . bene olentis anethi). + 278. : supplemento di Baehrens per far tornare il verso evidentemente corrotto. Pépin preferisce

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IV · LA POESIA DELLE ARTES Se invece l'infermità colpirà l'ugola facendola soffrire, allora ricordati di stare disteso alcune ore sul ventre; o le recherà sollievo la polvere di aneto tostata o cenere di guscio di lumache o cavolo arrosolato alla fiamma. I.:angina invece richiede aceto mescolato a sale, che giova tenere in movimento facendolo rigirare nel palato chiuso. Ma se la nuca e il collo contratti si irrigidiranno, dico una cosa soprendente, si dovranno frizionare con un unguento [entrambi i polpacci: di qui il medicamento attraverso un lungo cammino arriverà ai muscoli; oppure recherai sollievo al collo intorpidito con grasso d'anatra. Si applica anche lenticchia cotta in aceto molto forte o sterco di capra incorporato in una cipolla o midollo di cervo: anche con questo medicamento riuscirai a piegare i muscoli bloccati. Quelle che chiamano tonsille, dovrai toccarle con la mano con cui avrai ucciso un grillo schiacciandolo fra le dita.

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segnalare il guasto. + 288. gryllus: l'importanza del grillo nella medicina antica è illustrata da Plinio il Vecchio (Nat. hist., XXIX 138), che si rifà all'autorità di Nigidio Figulo.

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OVIDIO E LA PARODIA DEL GENERE DIDASCALICO Come nel caso dei Fasti cosi in quello delle opere del ciclo erotico-didascalico Ovidio ci pone di fronte a un problema di non facile soluzione, quello della discu­ tibile iscrizione di queste composizioni a un genere che aveva nel suo statuto l'ado­ zione dell'esametro. Anche qui con la scelta del distico elegiaco il poeta lascia chia­ ramente intendere che nonostante l'apparente struttura didascalica la sua opera tenderà ad assumere i caratteri dell'elegia d'amore (-.. I p. 173) , e dunque in sostan­ za che egli entrerà scherzosamente in competizione con i grandi modelli del poe­ ma didascalico rappresentati da Lucrezio e Virgilio (-.. I pp. 303-4, 482). L:esordio di Ovidio in questo genere è rappresentato dai MedicaminaJacieiJemi­ neae, un carme di cui ci sono pervenuti solo 50 distici; esso contiene ricette assai mi­ nuziose sul modo di rendere liscia la pelle, togliere macchie, ravvivare il colorito del volto, ecc. È in altre parole un vero e proprio trattatello di cosmetica in versi. Le successive composizioni sono l'Ars amatoria e i Remedia amoris. I.:Arte di amare comprende tre libri: nel primo si insegna agli uomini dove possa­ no incontrare le donne e come possano piacere loro, nel secondo si enumerano i mezzi indispensabili per conservare a lungo questa conquista, nel terzo infine, ro­ vesciando le parti, sono le donne ad essere ammaestrate sulle strategie da mettere in atto per piacere agli uomini. Il progetto dell'ultimo libro deve essere nato in un secondo tempo, dato che esso non trova posto nel proemio del I nel quale si espo­ ne il piano dell'opera (I 35-40) . La sua origine va ricercata nel desiderio del poeta di completare il "ciclo", di mostrare per cosi dire "il rovescio della medaglia", come si dichiara nell'esordio (m 1-6). Quanto al titolo, Ovidio chiama la sua opera ars aman­ di nel primo verso di essa (si quis in hoc artem populo non novit amandi, 'se qualcuno fra la mia gente non conosce l'arte di amare'), mentre altrove la designa semplicemen­ te come ars (Trist., n 303). Il titolo dei manoscritti Ars amatoria è tuttavia probabil­ mente autentico, in quanto trova il suo corrispondente in ars oratoria e ben si attaglia al carattere didascalico dell'opera, che dell'ars dicendi ricalca giocosamente, almeno nel I libro, lo schema, esordendo con l'inventio (dove si possono trovare le donne). Un completamento dell'Ars è costituito dai Remedia amoris, un carme di 407 di­ stici che insegna a liberarsi dalla passione. L:amore è un gioco, ma talvolta può ac­ cadere che, scherzando col fuoco, si finisca davvero innamorati, e l'amore in questo senso è una malattia dell'anima che va curata come le altre (remedium è termine tec­ nico della medicina). Il carme è diretto agli uomini e contiene una ricca analisi del­ la psicologia amorosa maschile; ma può tornare utile anche alle donne purché esse sappiano accogliere l'invito del poeta ed applicare a sé i precetti che egli presenta ai giovani (vv. 49-52) .

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V · OVIDIO E LA PARODIA DEL GENERE DIDASCALICO

A parte i Medicamina, componimento dall'aspetto piu spiccatamente didascalico, sia l'Ars che i Remedia rappresentano da un lato, come si è detto, una parodia del ge­ nere didascalico, dall'altro in certo senso un'ulteriore evoluzione del genere elegia­ co, che già con gli Amores aveva imboccato una strada molto diversa da quella per­ corsa da Catullo, Tibullo e Properzio. Per Ovidio l'amore non è infatti, come per i suoi grandi predecessori, passione che travolge, capace di innalzare il poeta al ver­ tice della gioia o farlo precipitare nell'abisso della disperazione: è schermaglia, tat­ tica galante, gioco raffinato in cui la ragione ha piu parte del cuore (-+ 1 p. 173). Il poeta tende, per cosi dire, ad oggettivare l'esperienza amorosa, rivelando fin dagli esordi la sua autentica vocazione di narratore. È questa la vena unitaria che lega tut­ ta la sua produzione dalle opere giovanili a quelle della maturità, un'unità di ispira­ zione che sarà per sempre interrotta dalla condanna all'esilio.

II · LA POESIA DIDASCALICA

ARS AMATORIA 11 461-590 Cum bene saevierit, cum certa videbitur hostis, tum pete concubitus foedera: mitis erit. Illic depositis habitat Concordia telis, illo, crede mihi, Gratia nata loco est. Quae modo pugnarunt, iungunt sua rostra columbae, quarum blanditias verbaque murmur habet. Prima fuit rerum confusa sine ordine moles unaque erat facies sidera, terra, fretum; mox caelum impositum terris, humus aequore cincta est, inque suas partes cessit inane chaos; silva feras, volucres aer accepit habendas; in liquida, pisces, delituistis aqua. Tum genus humanum solis errabat in agris idque merae vires et rude corpus erat; silva domus fuerat, cibus herba, cubilia frondes, iamque diu nulli cognitus alter erat. Blanda truces animos fertur mollisse voluptas: constiterant uno femina virque loco. Quid facerent, ipsi nullo didicere magistro; arte Venus nulla dulce peregit opus.

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Ars amatoria. Si tratta di una pericope particolarmente importante per comprendere la parodia del genere didascalico messa in atto da Ovidio. La ripresa di alcuni motivi della poesia "alta" (la co­ smogonia, la storia dell'incivilimento umano, l'apparizione di Apollo) è abilmente volta al fine giocoso e dissacrante perseguito dal poeta. Il testo qui riprodotto è quello di EJ. Kenney (Oxford, Univ. Press, 19652) . n 461-590. Ovidio, « lasdvi praeceptor amoris ». Il tradimento in amore spesso ravviva la fiamma so­ pita. La donna infuriata si arrenderà alla fine di fronte alla richiesta di un amplesso. È la blanda vo­ luptas che ha ammollito fin dai primordi la fiera natura degli uomini, come il poeta dimostra con un excursus cosmologico intessuto di dotte reminiscenze ma nella sostanza parodico. Da esso è di­ stolto dall'intervento di Apollo, che lo consacra lascivi praeceptor amoris. Di qui comincia la parte precettistica, che si sofferma sulla necessità per l'amante di sopportare ogni capriccio da parte del­ la donna e in particolare le menzogne, pur di raggiungere il suo scopo. Anche di fronte ai tradi­ menti melius nesdssefuit: l'amore degli amanti sorpresi si rafforza, con il risultato che continuano a fare quello che facevano prima ormai senza piu alcun ritegno, come dimostra lajàbula di Venere e Marte sorpresi da Vulcano.

V · OVIDIO E LA PARODIA DEL GENERE DIDASCALICO

L'ARTE DI AMARE Il 461-590

Quando ella ha dato sfogo alla sua furia, quando ti apparirà nemica [dichiarata, allora chiedile il patto dell'amplesso: diverrà dolce. È lf che, deposti gli strali, abita la Concordia, in quel luogo, credimi, è nata la Grazia. I colombi che poco prima si fecero guerra uniscono i becchi, e il loro mormorio ha la tenerezza delle lusinghe d'amore. Dapprima c'era una massa confusa e indistinta, e un unico aspetto avevano gli astri, la terra, il mare; poi il cielo fu posto al di sopra della terra, e la terra fu cinta dalle acque, e il vuoto caos si ritirò nei suoi elementi; la selva accolse le fiere, l'aria gli uccelli; e voi, pesci, trovaste rifugio nella limpida acqua. Allora il genere umano vagava per lande deserte, ed era solo forza e rozzo corpo. La sua casa era il bosco, il cibo l'erba, il suo giaciglio le fronde, e per lungo tempo nessuno conobbe l'altro. Fu il dolce piacere d'amore, si dice, a ingentilire gli animi selvaggi: la donna e l'uomo s'erano fermati in un sol luogo; quel che fare lo appresero da soli senza alcun maestro: Venere compi la dolce opera senza arte alcuna.

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464. Grafia: le Grazie (in greco Cariti) sono la personificazione della bellezza unita alla serenità e alla gioia. Piu che a un singolare collettivo si può pensare a una « generica personificazione del concetto di "armonia" » (Pianezzola). + 467-72. Prima . . . aqua: una cosmogonia, che ha i suoi mo­ delli in Lucrezio (v 416-508) e nella VI ecloga virgiliana. Con questo tema Ovidio inaugurerà le Metamoifosi (1 5-88). Una minuscola cosmogonia è presente anche in Fasti, 1 103-10. - inane chaos: espressione sovrabbondante, dato che chaos significa già di per sé 'vuoto'. + 473-80. Tum genus . . . opus: una storia dell'incivilimento umano che riconduce ancora a Lucrezio (cfr. v 925-1090), m a in maniera giocosa: l'emancipazione dell'uomo dallo stato ferino avviene non atttaverso la difficile conquista del vivere sociale e delle sue regole, ma grazie alla voluptas. - Blanda . . . loco: evidente ri­ chiamo a Lucrezio, v 1011-14, con la differenza che mentre Lucrezio pensa alla nascita del primo nucleo familiare, Ovidio ha in mente solo la ricerca del piacere. - arte . . . opus: cfr. Lucrezio, v 962: et Venus in silvis iungebat corpora amantum (ma con riferimento alla condizione primitiva dell'urna-

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II LA POESIA DIDASCALICA •

Ales habet, quod amet; cum quo sua gaudia iungat, invenit in media femina piscis aqua; cerva parem sequitur, serpens serpente tenetur; haeret adulterio cum cane nexa canis; laeta salitur ovis, tauro quoque laeta iuvenca est; sustinet inmundum sima capella marem; in furias agitantur equae spatioque remota per loca dividuos amne sequuntur equos: ergo age et iratae medicamina fortia praebe; illa ferì requiem sola doloris habent, illa Machaonios superant medicamina sucos; his, ubi peccaris, restituendus eris. Haec ego cum canerem, subito manifestus Apollo movit inauratae pollice fila lyrae. In manibus laurus, sacris induta capillis laurus erat: vates ille videndus adit. Is mihi Lascivi » dixit praeceptor Amoris, due age discipulos ad mea templa tuos, est ubi diversum fama celebrata per orbem littera, cognosci quae sibi quemque iubet. Qui sibi notus erit, solus sapienter amabit atque opus ad vires exiget omne suas: cui faciem natura dedit, spectetur ab illa; cui color est, umero saepe patente cubet; qui sermone placet, taciturna silentia vitet; qui canit arte, canat; qui bibit arte, bibat. Sed neque dedament medio sermone diserti, «

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nità). + 481-88. Ales . . . equos: per questa serie di amori fra animali Ovidio avrà tenuto presente Lu­ crezio, IV 1197-207 (in particolare per l'accoppiamento dei cani vd. i vv. 1203-5), ma anche, per ilfu­ ror delle cavalle, Virgilio, GeoiJ?., m 266 : ante omnisJuror est insignis equarum. - inmundum . . . marem: il caprone è notoriamente fetido: cfr. p. es. Orazio, Carm., I 17 7, che definisce le capre olentis uxores mariti. + 491. Machaonios . . . sucos: Macaone, figlio di Asclepio, il medico degli Achei nell'Iliade {Iv 193 sg.). Che le ferite d'amore non si risanino con alcun medicamento è motivo topico (per Ovidio vd. Met., I 523: nullis amor est sanabilis herbis). + 493· subito manifestus Apollo: evidente il richiamo a Virgi­ lio, Bue., 6 3 sg.: Cum canerem reges etproelia, Cynthius aurem l vellit et admonuit ('mentre cantavo re e battaglie, il Cinzio [Apollo] mi tirò l'orecchio e mi ammoni . . . ). Come in Virgilio Apollo inter­ viene a stornare il poeta dalla poesia epica (le laudes Vari) per indirizzarlo al genere bucolico, cosi qui l'intervento del dio è un espediente per interrompere la digressione cosmogonica e tornare al. . .

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V OVIDIO E LA PARODIA DEL GENERE DIDASCALICO •

I.:alato ha cosa amare; la femmina del pesce

trova in mezzo all'acqua quello con cui unire il suo piacere. La cerva segue il suo compagno e la serpe si avvinghia al serpente; la cagna unita al cane aderisce a lui nell'amplesso; lieta si fa montare la pecora; anche la giovenca è lieta del toro; la camusa capretta regge il peso del suo fetido maschio; fino alla frenesia smaniano le cavalle e per luoghi separati da grandi [distanze inseguono i cavalli quand'anche a dividerli da loro è un fiume. Coraggio dunque e alla donna adirata offri potenti medicine; solo quelle danno tregua a una feroce collera, sono medicine superiori alle pozioni di Macaone; con queste, se sarai caduto in fallo, potrai riscattarti. Mentre modulavo questi versi, Apollo apparso d'improvviso fece vibrare col pollice le corde della lira dorata. In mano aveva alloro e alloro era posto sopra le sacre chiome: in veste di divino cantore si avvicinò perché lo vedessi. Egli Maestro » mi disse di Amore libertino, conduci i tuoi allievi al mio tempio, dove c'è una scritta diffusa dalla fama per tutto il mondo, che ordina a ciascuno di conoscere se stesso. Solo colui che sarà noto a se stesso amerà con saggezza e commisurerà ogni impresa alle sue forze: chi la natura ha dotato di un bell'aspetto si faccia ammirare per quello; chi ha una bella carnagione sieda a mensa scoprendo spesso la spalla; chi affascina con le parole eviti i taciturni silenzi; chi ha talento nel canto, canti; chi conosce l'arte del bere, beva. Ma né il facondo declami nel bel mezzo di una conversazione, «

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la precettistica d'amore. + 495-96. laurus . . . laurus: l'alloro, in cui fu trasformata l'amata Dafne (Met.,

1 452-566), è la pianta sacra ad Apollo. + 497· Lascivi . . . praeceptor Amoris: Ovidio è dunque 'maestro dell'amore libertino' per una specie di investitura divina. + 498. mea tempia: si tratta, come si vede subito dopo, del tempio di Delfì e quindi andrà inteso come plur. poetico. + 500. cognosci . . . iubet: il celebre motto inciso sul tempio di Apollo a Delfì (yvwih oeau-r6v, 'conosci te stesso') è qui gioco­ samente inteso in senso erotico (v. 501: qui sibi notus erit, solus sapienter amabit; 511 sg.: quisquis sapien­ ter amabit, l vincet). + 504. cubet: qui nel senso di 'sedere a mensa' sdraiato sul letto tricliniare (cfr. m 265). + 506. qui bibit arte: 'chi conosce l'arte del bere', forse con allusione alla funzione del simpo­ siarca che stabiliva il numero delle bevute e la quantità dell'acqua da mescolare al vino.

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II · LA POESIA DIDASCALICA

nec sua non sanus scripta poeta legat ». Sic monuit Phoebus: Phoebo parete monenti; certa dei sacro est huius in ore fìdes. Ad propiora vocor; quisquis sapienter amabit, vincet et e nostra, quod petet, arte feret. Credita non semper sulci cum fenore reddunt, nec semper dubias adiuvat aura rates: quod iuvat, exiguum, plus est, quod laedat amantes: proponant animo multa ferenda suo. Quot lepores in Atho, quot apes pascuntur in Hybla, caerula quot bacas Palladis arbor habet, litore quot conchae, tot sunt in amore dolores; quae patimur, multo spicula felle madent. Dieta erit isse foras, quam tu fortasse videbis: isse foras et te falsa videre p uta. Clausa cibi fuerit promissa ianua nocte: perfer et inmunda ponere corpus humo. Forsitan et vultu mendax ancilla superbo dicet: Quid nostras obsidet iste fores? » . Postibus et durae supplex blandire puellae et capiti demptas in fore pone rosas. Cum volet, accedes; cum te vitabit, abibis: dedecet ingenuos taedia ferre sui. Effugere hunc non est » quare cibi p ossit arnica dicere? Non omni tempore tsensus obestt. Nec maledieta puta nec verbera ferre puellae turpe nec ad teneros oscula ferre pedes. Quid moror in parvis? Animus maioribus instat;

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508. nonsanus . . . poeta: il poeta "invasato", temuto ed evitato dalle persone di senno, come dice Ora­ zio nell'Ars poetica (455 sg.: vesanum tetigisse timentfugiuntquepoetam l qui sapiunt). + 510. certa . . .fldes: la veridicità di Febo, ricordata da Properzio (Iv 6 57) per un'occasione solenne (la vittoria di Augusto ad Azio), è qui applicata a un contesto giocoso. + 517. lepores in Atho: il piu orientale dei tre pro­ montori con cui la penisola Calcidica si protende nel Mare Thracicum. Della numerosa presenza di lepri siamo informati solo qui. apes . . . in Hybla: dal monte Ibla in Sicilia proveniva ottimo miele (cfr. Virgilio, Bue., 1 54). + 518. caerula . . . bacas Palladis arbor: sembra preferibile legare Palladis a bacas piuttosto che ad arbor. cfr. Met., VIII 664: baca Minervae; Columella, x 121: Palladiae bacae. + 523. Clau­ sa . . . ianua: un tema topico quello dell'exclusus amator, cui era connesso il paraklausfthyron ('canto presso la porta chiusa'), genere letterario che fa la sua prima apparizione in età ellenistica. + 527-28. Postibus . . . rosas: reminiscenza di Tibullo, I 2 13 sg.: te [ianua] meminisse decet, quae plurima voce pereJ?i l -

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OVIDIO E LA PARODIA D E L GENE RE D IDASCALICO

né il poeta invasato legga i suoi scritti ». Cosi ammoni Febo: ubbidite ai moniti di Febo; 510 assoluta è la verità che risiede sulla sacra bocca di questo dio. Sono chiamato ad argomenti piu vicini: chiunque amerà con saggezza conseguirà la vittoria e dalla mia arte otterrà quello che desidera. Non sempre i solchi restituiscono con gli interessi quello che loro si affida, né sempre il vento aiuta le navi in difficoltà: ciò che aiuta gli amanti è ben poco, molto di piu ciò che può danneggiarli; 515 tengano presente che debbono sopportare molte prove. Quante lepri trovano il loro pascolo sull'Athos, quante api sull'Ibla, quante bacche di Pallade ha la cerulea pianta, quante sono le conchiglie sul lido, tante sono le pene in amore; sono intrise di molto fiele le punte che ci trafiggono. 520 Ti diranno che è uscita, mentre tu forse la intravedi: fa' conto che sia uscita e che hai visto male. Nella notte che ti è stata promessa la porta potrà restare chiusa: sopporta anche di adagiare il tuo corpo sulla squallida terra. Forse anche con viso altezzoso l'ancella bugiarda 525 dirà: « Perché costui cinge d'assedio la nostra porta? ». Blandisci supplice quei battenti e quella donna spietata e deponi sulla porta le rose che ti sarai tolto dal capo. Quando vorrà, entrerai; quando ti eviterà, te ne andrai: è sconveniente per un uomo garbato arrecare noia con la propria [presenza. 530 Perché l'amica dovrebbe poterti dire: « Da questo non c'è proprio [scampo »? Non in ogni occasione t. . .t. Non pensare che sia vergognoso subire insulti e percosse da una donna o imprimere baci sui suoi piedi delicati. Ma perché indugio in queste sciocchezze? L'animo mi spinge a mete 535 [piu alte; supplice, cum postiflorida serta darem ('è opportuno che tu [porta] ricordi tutte le parole che ti rivolsi con voce supplìchevole mentre appendevo serri di fiori al tuo stipite'), e Lucrezìo, rv 1177-78: at la­ crimans exdusus amator limina saepe ljloribus et sertis operit ('ma l'amante escluso piangendo ricolma spesso le soglie di fiori e di ghirlande'). + 532· fsensus obestf: il testo è corrotto, ma anche quauto precede pone qualche problema interpretatìvo (Pianezzola congettura e/are per quare e toglie il punto interrogativo).

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II LA POESIA DIDASCALICA •

magna canam: toto pectore, vulgus, ades. Ardua molimur, sed nulla, nisi ardua, virtus; diffìcilis nostra poscitur arte labor. Rivalem patienter habe: victoria tecum stabit; eris magni vietar in Arce lovis. Haec cibi non hominem, sed quercus crede Pelasgas dicere; nil istis ars mea maius habet. Innuet illa: feras; scribet: ne tange tabellas; unde volet, veniat, quoque libebit, eat. Hoc in legitima praestant uxore mariti, cum, tener, ad partes tu quoque, Somne, venis. Hac ego, confìteor, non sum perfectus in arte; quid faciam? Monitis sum minor ipse meis. Mene palam nostrae det quisquam signa puellae et patiar nec me, quo libet, ira ferat? Oscula vir dederat, memini, suus; oscula questus sum data: barbaria noster abundat amor. Non semel hoc vitium nocuit mihi; doctior ille, quo veniunt alii conciliante viri. Sed melius nescisse fuit: sine, furta tegantur, ne fugiat fassa victus ab ore pudor. Quo magis, o iuvenes, deprendere parcite vestras; peccent, peccantes verba dedisse putent. Crescit amor prensis: ubi par fortuna duorum est, in causa damni perstat uterque sui. Fabula narratur toto notissima caelo, Mulciberis capti Marsque Venusque dolis. Mars pater insano Veneris turbatus amore

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536. canam: ci allontaniamo da Kenney, che stampa cano senza dar conto in apparato della sua scel­ ta, e accogliamo canam di Pianezzola, che ne assicura la genuinità. + 537· sed nulla . . . virtus: è varia­ zione della massima oraziana nil sine magno l vita labore dedit mortalibus (Sat., I 9 59 sg.), ma già pre­ sente in Esiodo (Op., 289 sg.) e piu volte ripresa in seguito {vd. Tosi, Dizionario, num. 1685) . + 541. quercus . . . Pelasgas: le querce profetiche del tempio di Giove a Dodona in Epiro. + 543· Innuet: cenni di intesa fra amanti, a cui spesso Ovidio fa riferimento (I 137 sg., 569 sg.; m 514, ma vd. anche Am., I 4 17-19) . + 546. cum . . . venis: sul tema del sonno dei mariti vd. Am., I 9 25 sg. + 554· viri: c'è chi (Lenz, Pianezzola) preferisce il meglio attestato viro, che in tale caso avrebbe valore predicativo. + 556. ne. . .

pudor: ammettere la colpa equivale a perdere il proprio pudor; Procri, messa alle strette dal marito Cefalo, se ne va di casa vietapudore (Met., vn 743) e non si riconcilia con lui se non dopo essersi pre-

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V · OVIDIO E LA PARODIA DEL GENERE DIDASCALICO

canterò cose grandi: popolo, impegnati con tutto te stesso. Mi accingo a un'impresa ardua, ma non c'è vimi che non sia ardua; una difficile fatica è reclamata dalla mia arte. Sopporta con pazienza il rivale: la vittoria sarà dalla tua parte, sarai vincitore nella rocca del sommo Giove. Questo, credi, non te lo dice un uomo, ma le querce di Grecia; la mia arte non ha nulla di piti grande di questo. Lei farà un cenno: lascia correre; scriverà: non toccare le tavolette; venga da dove vuole e vada dove le piace. Questo consentono i mariti alle legittime consorti, quando, tenero Sonno, anche tu intervieni a recitare la tua parte. In quest'arte, lo ammetto, non raggiungo la perfezione; che posso farci? lo stesso non sono all'altezza dei miei precetti. Qualcuno in mia presenza fa segnali alla mia donna, e io dovrei sopportarlo e l'ira non dovrebbe trascinarrni dove vuole? Suo marito le aveva dato dei baci, ricordo; mi sono risentito che le avesse dato quei baci: il mio amore trabocca di barbarie. Piti di una volta quest'errore mi ha recato danno; piti saggio colui col consenso del quale si fanno avanti altri uomini. Ma è meglio non sapere; lascia che gli amori furtivi restino segreti, affmché il pudore, vinto, non scompaia dal volto che ha ammesso la [colpa. Proprio per questo, giovani, evitate di cogliere in fallo le vostre donne; che tradiscano e dopo avervi tradito pensino di avervi ingannato. Cresce l'amore in chi è sorpreso: quando la sorte è comune per entrambi ciascuno persiste nella causa della sua rovina. Si racconta una storia ben nota in tutto il cielo, di Marte e di Venere colti sul fatto da un tranello di Vulcano. Il padre Marte, travolto da un folle amore per Venere,

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sa una rivincita (vu 751: laesum prius ulta pudorem). + 561-88. Fabula narratur . . : lafabula è in Omero (Od., vm 266-369) , da cui Ovidio attinge vari dettagli. Su questo tema il poeta torna anche altrove (soprattutto in Met., IV 167-89, e di sfuggita in Am., I 9 39 sg., e Trist., u 377 sg.), ma qui la trattazione si arricchisce di toni maliziosi, in quanto piegata ai fini della precettistica erotica. Matte e Venere sono due divinità importanti in età augustea (Matte per l'identificazione con Romolo, Venere co­ me progenitrice della gens Iulia), per cui il rappresentarli in una situazione cosi poco eroica come quella qui descritta non poteva non apparire irriverente nei confronti dell'ideologia del princeps. + 562. Mulciberis: epiteto di Vulcano, forse connesso con mulcere, 'rammollire' (il ferro). .

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II · LA POESIA DIDASCALICA

de duce terribili factus amator erat; nec Venus aranti (neque enim dea mollior ullast) rustica Gradivo difficilisque fuit. A, quotiens lasciva pedes risisse mariti dicitur et duras igne vel arte manus! Marte palam simul est Vulcanum imitata, decebat, multaque cum forma gratia mixta fuit. Sed bene concubitus primo celare solebant; plena verecundi culpa pudoris erat. Indicio Solis (quis Solem fallere possit?) cognita Vulcano coniugis acta suae. (Quam mala, Sol, exempla moves! Pete munus ab ipsa: et tibi, si taceas, quod dare possit, habet). Mulciber obscuros lectum circaque superque disponit laqueos; lumina fallit opus. Fingit iter Lemnon; veniunt ad foedus amantes; impliciti laqueis nudus uterque iacent. Convocat ille deos; praebent spectacula capti; vix lacrimas Venerem continuisse putant; non vultus texisse suos, non denique possunt partibus obscenis obposuisse manus. Hic aliquis ridens: « In me, fortissime Mavors, si tibi sunt oneri, vincula transfer » ait. Vix preci bus, Neptune, tuis captiva resolvit corpora; Mars Thracen occupat, illa Paphon. Hoc tibi perfecto, Vulcane, quod ante tegebant, liberius faciunt, et pudor omnis abest.

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566. Gradivo: epiteto di Marte (cfr. n. a Ovidio, Fast., m 677). + 567. pedes . . . mariti: Vulcano, come si sa, era zoppo. + 573. quis SolemJallerepossit?: ripresa di Virgilio, Ge01g., 1 463 sg.: Solem quis dicereJalsum l audeat?, che segna il passaggio dai "pronostici" del sole relativi al tempo a quelli annunzianti guerre e pubbliche calamità, in particolare il suo oscuramento successivo all'assassinio di Cesare. Ovidio non si lascia sfuggire l'occasione di far riecheggiare in una situazione giocosa una remini­ scenza "drammatica". + 575-76. Quam . . . habet: una complicità come quella suggerita al Sole era pu316

V · OVIDIO E LA PARODIA DEL GENERE DIDASCALICO

da tremendo condottiero era divenuto un innamorato; e Venere (non c'è infatti dea piu dolce di lei) non fu sgarbata e ritrosa con Gradivo. Ah, quante volte si dice abbia riso sfrenatamente dei piedi del marito e delle sue mani indurite dal fuoco e dal lavoro! Quando imitò Vulcano alla presenza di Marte era attraente e alla bellezza si uni una notevole grazia. Ma all'inizio erano soliti tenere ben nascosti i loro convegni; la colpa era gravida di discrezione e di pudore. Fu per denuncia del Sole (chi potrebbe ingannare il Sole?) che Vulcano venne a sapere delle malefatte della consorte. (Che cattivi esempi dai, Sole! Chiedile una ricompensa, lei, se stai zitto, ha qualcosa da dare anche a te). Vulcano dispone intorno e sopra il letto una rete nascosta; il congegno sfugge alla vista. Simula un viaggio a Lemno; gli amanti arrivano all'appuntamento; si ritrovano tutti nudi impigliati nella rete. Vulcano convoca gli dei; i prigionieri danno spettacolo; si crede che Venere a stento abbia trattenuto le lacrime: non possono coprirsi il volto, non possono neppure porre le mani davanti alle vergogne. Allora qualcuno ridendo disse Passali a me, valoroso Marte, quei lacciuoli se ti sono d'impaccio ». Solo per le tue preghiere, Nettuno, Vulcano liberò i corpi imprigionati; Marte si stabilisce in Tracia, lei a Pafo. Portata a termine la tua impresa, Vulcano, quello che tenevano nascosto ora lo fanno liberamente, senza alcun pudore. «

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nita dalla lex Iulia de adulteriis, per cui è possibile che il distico contenga una « frecciata » contro di essa (Pianezzola). + 579· Lemnon: isola fra la penisola Calcidica e l'Asia minore, legata al culto di Efesto. + 585. aliquis: in Omero è Ermete, sollecitato da Apollo, ad esprimere il desiderio di trovar­ si in quella situazione, anche a costo di essere irriso dagli dei (Od., vm 338-43). + 588. Thracen . . . Pa­ phon: la Tracia e Pafo nell'isola di Cipro sono sedi predilette rispettivamente da Ares e Afrodite.

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III I L TEATRO

NOTA INTRODUTTIVA

Nella storia della letteratura latina occupa uno spazio molto considerevole la produzione teatrale, tra le forme piu fortunate di comunicazione letteraria, al­ meno fino ai primi secoli dell'era cristiana. La nascita del teatro "regolare" a Roma coincise con il sorgere di una letteratura ufficialmente riconosciuta, quasi che l'inclusione di questo tipo di spettacolo nelle celebrazioni pubbliche aprisse una nuova fase e svelasse una nuova dimensione artistica e comunica­ tiva in qualche modo favorita dalle autorità romane. La rappresentazione tea­ trale era del resto entrata gradualmente a far parte dei vari ludi celebrati a Ro­ ma, che mantennero sempre una grande popolarità, dovuta anche alla presen­ za di spettacoli molto graditi e meno raffinati come i combattimenti tra gla­ diatori o i vari giochi circensi. Accanto a queste forme di svago si svilupparono, con modalità e tempi impossibili da ricostruire nel dettaglio, spettacoli teatra­ li piu o meno improvvisati, legati al folclore e ai riti magico-propiziatori della civiltà contadina. Ma solamente a metà del III secolo a.C. venne tentato per la prima volta - almeno per quanto noi sappiamo - il trasferimento di modalità teatrali ben affermate nel mondo greco alla realtà romana, in lingua latina e con alcuni adattamenti significativi al nuovo pubblico. Decisiva fu la fissazio­ ne in forma scritta di tali esperimenti, di cui rimangono labili tracce. Dalle te­ stimonianze in nostro possesso (molte però successive alle fasi piu antiche) emerge il grande successo del teatro, apprezzato dal pubblico e palestra lette­ raria per i maggiori autori latini; di grande rilievo fu poi la sua influenza sulle letterature europee moderne, sui principali autori, teatrali e non, dal Rinasci­ mento in poi. Per la fase preletteraria possiamo fare solo congetture piu o meno verisimi­ li, a partire da alcune note testimonianze antiche (il passo piu celebre sulle ori­ gini del teatro a Roma è Livio, VII 2 [---+- II pp. 128-3o]; si veda anche Orazio, Epist., II 1 139-57), che in gran parte però suonano come rilettura attualizzante di fenomeni che dovevano essere ben distanti da quelli conosciuti. Il parallelo con altre civiltà antiche contadine permette di postulare l'esistenza di spetta­ coli rituali collegati con i momenti di passaggio piu significativi del mondo agricolo, in particolare con la rinascita primaverile, o con altri aspetti dell'esi­ stenza quotidiana. Tra queste forme primitive che in qualche modo si doveva­ no essere ritualizzate e che dovettero esercitare qualche influsso sull'idea stes­ sa della dimensione teatrale vanno annoverati i Fescennini (scambi di versi li321

III · IL TEATRO cenziosi accompagnati da gesti mimetici) e l'Atellana (una farsa di origine cam­ pana che prevedeva la presenza di maschere fisse) e la alquanto misteriosa "sa­ tira drammatica" (cfr. ancora Livio, VII 2). Di queste manifestazioni drammati­ che preletterarie, improvvisate e non destinate alla registrazione scritta, non rimane nulla ma è certo che si trattava di spettacoli assai lontani dal teatro gre­ co, diffuso peraltro anche nei territori dell'Italia meridionale in forme piu o meno canonizzate e forse non sempre assimilabili a quelle note dell'età classi­ ca. Il teatro greco "maggiore", classico ed ellenistico, diede l'impronta decisiva alle forme latine piu regolari, destinate alla rappresentazione nell'ambito dei giochi organizzati sotto il controllo statale cui prendeva parte la maggior parte della popolazione romana. Questi ludi (--+ II pp. 1 32-34), inseriti nel calendario ufficiale come festività religiose, prevedevano tra l'altro la sospensione delle attività quotidiane e si configuravano quindi come un momento particolare della vita civile, partecipato e condiviso, di solenne riaffermazione dei valori comuni della città, anche quando offrivano la possibilità di inscenarne il tem­ poraneo e faceto rovesciamento, per una sorta di "carnevalesco" rito collettivo (--+ II pp. 1 44-46). Alla metà del III secolo a.C. l'incontro con la dimensione teatrale greca si realizzò in forme destinate ad un grande successo. I protagonisti di questa fase aurorale dello spettacolo latino "alla greca" furono degli intellettuali di origine italico-meridionale, Livio Andronico (--+ II pp. 1 48-so), Nevio (--+ II pp. 15 1-55), Ennio (--+ II pp. 1 79-83) : erano tutti ottimi conoscitori della letteratura e della cultura greca e ne sperimentarono i generi nella lingua latina con un'arditezza premiata da ampia fortuna. Il carattere pionieristico di queste prime "tradu­ zioni" di copioni teatrali greci è confermato dalla circostanza che gli iniziatori non si contentarono di praticare un solo genere letterario ma si dedicarono an­ che ad altre forme letterarie, per lo piu sempre con uno sguardo privilegiato all'esempio e alle concrete realizzazioni elleniche. Non solo, ma del teatro praticarono tutti e tre varie tipologie, tragiche e comiche. È questa una delle peculiarità della primissima fase della storia del teatro (e della letteratura) ro­ mana, la capacità di esercitare la propria abilità espressiva in piu generi, non ancora forse ben differenziati (in particolare dal punto di vista puramente lin­ guistico-stilistico), e senz'altro non avvertiti come esclusivi. Cosi non fu senti­ ta come vincolante la scelta dell'argomento trattato: è probabile che il tentati­ vo di portare sulla scena la storia e la vita quotidiana romana sia stato successi­ vo alla semplice "versione" latina di testi teatrali greci, ma è significativo il fat­ to che lo abbiano intrapreso - a quanto pare - gli stessi iniziatori del teatro ro322

NOTA INTRODUTTIVA

mano, con un esito però che non riscosse altrettanto favore di quello rivolto al­ le opere teatrali di ambientazione greca. Nella storia del teatro romano predo­ minano infatti nettamente le tragedie e le commedie che scelgono di inscena­ re miti greci e vicende comiche collocate nel mondo vicino/lontano della Gre­ cia (o della Magna Grecia), quei generi che alcuni antichi definirono dall'abito degli attori rispettivamente coturnate e palliate, mentre assai meno fortunati fu­ rono i corrispondenti generi ambientati a Roma, le preteste e le togate. La specializzazione fu però inevitabile e fortunata, sia in ambito tragico che comico. Il genere piu illustre, la tragedia di argomento mitologico, ebbe gran­ de peso su tutto il sistema letterario latino (forse anche per i valori ideologici e politici rappresentati), ma non è giunto a noi con esempi di una certa comple­ tezza. I numerosi frammenti rimastici consentono però di individuare linee generali e di precisare meglio le caratteristiche anche dei singoli autori tragici. Sul piano strutturale non è sicura la portata delle innovazioni dei Romani ri­ spetto ai modelli (per lo piu i tre grandi tragici dell'età classica, con una marca­ ta predilezione per Euripide, ma con probabili influssi del teatro ellenistico, per noi in gran parte perduto) : in tutti gli esempi però è molto evidente una sorprendente ricercatezza formale - sorprendente per chi guarda a questo pe­ riodo come a una fase "arcaica" della produzione letteraria -, la costante e tal­ volta esasperata cura nel produrre effetti fonici e retorici di un certo genere e la chiara accentuazione del pathos drammatico, sia nella scelta della caratteriz­ zazione che nell'espressione dei sentimenti. Queste linee generali, sancite da Ennio, l'esponente piu autorevole, saranno proprie di tutta la storia del genere, a quanto possiamo riscontrare dalla lettura dei frammenti rimastici. Per circa un secolo e mezzo, fino ad Accia (l'ultimo grande rappresentante del genere, morto negli anni Ottanta del I secolo a.C. _.. n pp. 187-92), la poesia tragica fu rappresentata e coltivata da molti autori. Nel I secolo a.C. non vi furono gran­ di esponenti del genere, ma certamente si continuò a mettere in scena le anti­ che opere sino alla fine della repubblica. Non ebbe poi grande fortuna il tenta­ tivo augusteo di riportare in auge il genere, anche se sappiamo del successo del­ le tragedie di Vario e di Ovidio. Nei primi anni del principato la letteratura tra­ gica ebbe quindi di nuovo la ventura di essere praticata da poeti versati anche in altre tipologie letterarie che influenzarono a loro volta le stesse opere dram­ matiche: non solo l'epica virgiliana e ovidiana ma anche la grande elegia di età augustea diede caratteri nuovi al teatro di questi periodi, un teatro legato piu direttamente alla prassi retorica. Il cambiamento radicale delle modalità della fruizione del teatro e piu in generale della comunicazione letteraria mutò i 323

III · IL TEATRO

presupposti della tragedia romana che continuò comunque sempre a tenere conto delle forme piti antiche. Il caso ha voluto che solo i drammi di Seneca (� n pp. 200-14) ci siano giunti per intero e rappresentino quindi l'unica possibili­ tà di attingere direttamente ai testi del genere. Queste opere, come è noto, so­ no state giudicate lontane dal teatro vero e proprio e non possiamo giudicare quanto effettivamente riprendessero della tragedia arcaica. Sicuramente risen­ tono del pensiero filosofico senecano (non però come esemplificazione delle sue idee ma piuttosto come complemento drammatico di alcune riflessioni) e della sua educazione retorica e letteraria. Per intero possiamo leggere anche tutte le commedie plautine che entraro­ no a far parte già in età antica del canone delle sue opere e tutte le commedie scritte da Terenzio nella sua breve carriera. Plauto (� n pp. 155-68) e Terenzio (� n pp. 1 71-79) si erano specializzati appunto in un sol genere, quello della palliata, tratto da modelli greco-ellenistici ma portato dai due romani a livelli espressivi lontani da quelli greci, sia per sensibilità e capacità personali che per la peculiarità che aveva assunto questo tipo di commedia a Roma, forse anche per influenza del teatro popolare e delle varie farse italiche. In tutto il teatro la­ tino la componente musicale aveva una parte particolarmente importante: in Plauto sembra aver rappresentato un elemento di forte innovazione rispetto ai modelli e certamente come tale era sentita dagli antichi. Ma di grande interes­ se è anche la capacità plautina di invenzione farsesca e di elaborazione di un dettato assai ricco e variegato, con impiego di un linguaggio metaforico legato direttamente alla dimensione e all'esperienza teatrale. Meno evidenti questi aspetti nel piti tardo Terenzio che, raffinato conosci­ tore della cultura greca e sensibile alle istanze piti innovatrici della filosofia el­ lenistica, come Plauto utilizzò però con libertà creativa i copioni greci, con il merito di rappresentare con grande finezza i sentimenti umani, al di là della beffa e della farsa comica, anzi piegando quelle tipologie teatrali alle sue esi­ genze artistiche ed espressive. Ma oltre queste due grandi figure la commedia ebbe un ruolo importante nel sistema letterario latino dei primi secoli che ci è testimoniato da molti nomi - primo fra tutti quello di Cecilia Stazio (� n pp. 168-71), a cavallo tra Plauto e Terenzio non solo dal punto di vista cronologico - e numerosi frammenti, ma che non conobbe piti avanti se non sporadici ten­ tativi di ripresa (ultimi in ordine di tempo quelli della produzione rinascimen­ tale latina). I frammenti e le notizie sono piti scarsi per i generi teatrali minori (� n pp. 193 -200) come la tragedia storica latina (la praetexta) o la commedia di argo-

NOTA INTRODUTTIVA

mento romano (la togata) , piu sfortunata del corrispettivo di derivazione elle­ nica forse anche per il tono farsesco meno accentuato (almeno secondo il fa­ moso giudizio di Seneca, Epist., 8 8: habent [scii. togatae] . . . aliquid severitatis et sunt inter comoedias et tragedias mediae, 'le togate hanno un che di austero e si pongono a metà tra le commedie e le tragedie') e per il carattere artificioso del genere. Fu probabilmente la palliata ad influenzare le versioni scritte di atellana e di mimo che ebbero una qualche diffusione tra II e I secolo a.C., le forme cioè piu "regolari" degli antichi generi popolari improvvisati, i cui frammenti mo­ strano una certa vicinanza con il teatro maggiore ma un livello espressivo non troppo ricercato. Non è chiaro fino a che punto fosse diffuso questo teatro "minore" e quanto andasse realmente incontro al favore del pubblico; rimane comunque un paradosso della storia del teatro latino che tutti gli spettacoli, anche quelli piu illustri, sono stati rappresentati in teatri mobili provvisori fino alla metà del I secolo a.C. (---+ n pp. 13 4 sg.), mentre la costruzione di un edificio teatrale in pietra ha coinciso con la fase discendente della produzione lettera­ ria teatrale, anzi addirittura praticamente con la scomparsa di grandi autori de­ diti unicamente a questa particolare creazione artistica. BIBLIOGRAFIA.

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IL TEATRO COMIC O : PLAUTO

cator di Maccio Tito »; Trin., 18-20: « Questa commedia si intitola in greco Il tesoro, l'ha scritta Filemone, Plauto l'ha tradotta in latino, l'ha intitolata Trinummus >)) - e sulla questione dell'originalità di Plauto e delle modalità con cui sono stati "tradot­ ti" e trasformati quegli archetipi drammatici greci si è esercitata a lungo la filologia plautina, anzi si può dire che essa sia nata grazie allo studio di questo problema e nel medesimo tempo, grazie ai suoi risultati e agli affinamenti metodici raggiunti, ab­ bia dato un impulso fondamentale al sorgere di una rinnovata filologia dei testi la­ tini. Sullo stesso piano della ricchezza linguistica e srilisrica va posta la varietà me­ trica C,. II pp. 157-58), anch'essa ben evidente agli antichi che si compiacquero di as­ segnare al poeta stesso, con un gioco di parole tipicamente "plaurino", l'attribuzio­ ne di numeri innumeri alla propria poesia ('metri innumerevoli', Gellio, Noct. Att., r 24 3). E certamente non si trovavano nei modelli greci le "arie" dei cantim plautini (la conferma di ciò è offerta dall'unico caso in cui una commedia greca, il Dis exapaton di Menandro, è confrontabile direttamente anche se in maniera parziale con la sua realizzazione plaurina, le Bacchides) , nuo dei tratti piti considerevoli delle sue com­ medie che contribuisce all'arricchimento espressivo del testo, sempre nella dire­ zione della varietà e del compiacimento stilistico che si può apprezzare nella sua lingua: il virtuosismo metrico-prosodico - una dimensione spesso difficile da rico­ noscere in tutti i suoi aspetti - è un'altra faccia della ricchezza linguistica e come quest'ultima spesso è efficace e colpisce in sé, al di là degli effetti sul piano dram­ matico che pure ci sono. I cantica offrivano agli attori p iti dotati anche la possibilità di esprimere al meglio le proprie capacità canore (è probabile del resto che potes­ sero essere eseguiti da cantanti professionisti con gli attori protagonisti della com­ media semplici "doppiatori" del canto altrui). Questa attenzione costante riservata all'aspetto linguistico e stilistico del testo, che anche noi moderni poniamo in primo piano nello studio delle commedie plautine, è una delle caratteristiche principali del suo teatro che è teatro essenzial­ mente "di parola", non perché le trame non siano spesso ben congegnate ed effica­ ci sul piano comico, ma perché il valore maggiore è riposto nel singolo momento drammatico e nella singola espressione, nell'effetto immediato raggiunto sul pub­ blico grazie allo stile o alla trovata brillante. Le trame del resto sono tratte dai mo­ delli greci e non spiccano certamente per originalità (come pure i ripi fissi che le in­ carnano), limitate come sono a vicende dì vita quotidiana abbastanza simili tra loro e incentrate per lo piti sulle brame primarie dell'esistenza umana (amore e denaro) o sul con:flitto generazionale, un con:flitto che i protagonisti affrontano spesso a coppie, secondo uno schema ricorrente nel pensiero arcaico (- n p. 158). La relati­ va prevedibilità delle trame rientra nell'orizzonte di attesa del pubblico e permette anzi una maggiore godibilità della singola scena o della singola battuta. Mira in par­ ticolare al raggiungimento del divertimento degli spettatori il ricorso strutturale al­ la temarica della duplicazione, del raddoppiamento dei personaggi simili o identi-

329

III · I L TEATRO ci tra loro : l'esempio conservato dagli esiti piu brillanti è quello dei gemelli Menec­

mi (-- I p. 166) che si trovano ad agire contemporaneamente nello stesso luogo al­

l'insaputa non solo l'uno dell'altro ma anche di coloro che vi motano attorno. Il te­ ma, dalle straordinarie potenzialità stranianti - giungerà ad es., sia pure con ulte­ riori modifiche, sino alla Comedy oJErrors di Shakespeare -, viene declinato da Plau­ to tutto nella cifra del comico e del buffonesco (sia pure talvolta con qualche ac­ cenno forse piu ambiguo e misterioso; si pensi anche al senso di vuoto e di smarri­ mento di altri personaggi vittime di questo tipo di equivoco come Sosia nell'Am­ phitruo o Sceledro nel Miles gloriosus). In ciò Plauto può essere considerato autore teatrale "puro", tutto concentrato a raggiungere l'efficacia immediata ed istantanea del suo testo (con una sensibilità scenica nata forse dall'esperienza personale) : non a caso Plauto è il primo autore della letteratura latina che si sia dedicato a un unico genere letterario, quello della commedia "alla greca" (o palliata secondo una defi­ nizione grammaticale piu tarda), un'unica possibilità tra le tante che pure gli offri­ va il teatro antico greco e che già erano state sfruttate da Livio Andronico e Nevio. Plauto si concentrò in quel genere e ne fu autore prolifico e fortunato. I..:interesse moderno si

è rivolto negli

ultimi decenni in particolare a un altro

aspetto dei procedimenti di quel teatro puro, quello dello svelamento ammiccan­ te nei confronti del pubblico di parte dei meccanismi stessi che sottostanno alla composizione del testo comico, agli intrecci e alle singole scene. Su questo piano "metateatrale" Plauto mostra una notevole consapevolezza ed una straordinaria abilità (-- n pp. 159-6o), piu o meno istintiva, nello sfruttare tali mezzi per suscitare il sorriso compiaciuto degli spettatori. Il pubblico, già sommariamente informato della trama della commedia e reso edotto nel prologo degli antefatti delle vicende rappresentate, si concentra tutto sulla realizzazione momento per momento del­ l'intreccio, ne segue i meccanismi strutturali e ne apprezza i risultati scenici. Di grande efficacia risulta il rapporto con gli spettatori quando essi sono chiamati a partecipare con cognizione di causa ai retroscena o agli inganni di cui sono all'o­ scuro alcuni dei personaggi:

è una fonte sicura di riso, frequente anche nel teatro

comico successivo, che presuppone però uno scarso interesse per riflessioni piu profonde (o comunque le sposta su di un piano meno immediato). Il modo piu semplice di realizzare questa sorta di "complicità" con il pubblico è la recitazione di alcune battute "a parte" dagli altri personaggi presenti in scena che si finge non ve­ dano e non sentano ciò che invece la platea può seguire: è una tecnica frequente in Plauto e molto piu rara ad esempio in Terenzio. Ma le realizzazioni piu interessan­ ti sono quelle in cui vengono inscenate vere e proprie commedie all'interno delle commedie, con una sorta di duplicazione drammatizzata dell'atto poetico proprio dell'autore comico: si pensi ad esempio alla trama ordita con successo nel Milesglo­

riosus ai danni

del soldato fanfarone dal servo Palestrione

(-- 1 pp. 166 sg.), vero e

proprio doppio scenico di Plauto, grazie alla partecipazione interessata o prezzola-

330

I · IL TEATRO COMICO : PLAUTO ta di giovani, vecchi e meretrici, tutti ai suoi ordini, con un rovesciamento della realtà sociale quotidiana (-+ n p. 163) che doveva essere ben tollerato dal pubblico romano nel clima particolare di sospensione del tempo ordinario tipico dei ludi teatrali. Oppure nella Mostellaria

(-+ 1 p. 167), dove ancora una volta un servo tenta

di beffare il suo padrone, in questa circostanza piu che con l'aiuto di comprimari in­ teressati (il loro ruolo consiste di fatto nello scomparire dalla scena) impegnandosi

egli stesso, con un crescendo di "improvvisazioni", in una progressiva serie di fan­ tasiose e brillanti menzogne destinate però a crollare alla fine della commedia (do­ ve comunque il lieto fine è assicurato). Celebre è poi il monologo del servo Pale­ strione ancora nel Miles, in cui al centro della riflessione si pone addirittura la crea­ zione poetica in quanto tale. Non infrequenti sono infatti accenni e riflessioni di questo tipo sulla natura della rappresentazione e dell'azione teatrale, anche se quel monologo è il piu illustre nel porre un parallelismo tra l'invenzione scenica del ser­ vo e quella del poeta (cosi anche alcune affermazioni di Pseudolo nell'omonima commedia). Un teatro quindi che, nato dalla e per la rappresentazione, mostra una ricchezza creativa tutta volta a colpire e interessare lo spettatore. I lettori, al di là del puro interesse erudito e fùologico, possono apprezzarne lo stile ma anche la capa­ cità inventiva e coglierne raffinate

nuances accanto a battute piu triviali o incon­

gruenze inaspettate, senza dimenticare che altri lettori, in varie riprese e in epoche diverse, furono in grado di riportarne piu o meno fedelmente in vita, cioè sulle sce­ ne, intere commedie nella lingua originale o tradotte nelle lingue di nuove platee. Ma la potenzialità e l'efficacia del teatro plautino sono ancora pili evidenti se si con­ sidera quanto profondamente e a lungo le trame, le situazioni, le battute del Sarsi­ nate abbiano influenzato altri drammi e altri testi destinati al palcoscenico dando un impulso fondamentale alla nascita del teatro occidentale moderno: il teatro umanistico e rinascimentale italiano ed europeo si presentano anzi sotto il segno di Plauto già in quella che alcuni considerano la prima rappresentazione "moderna" sotto molti aspetti (la messa in scena di un volgarizzamento dei Menaechmi avvenu­ ta a Ferrara nel 1486) e risentono poi in maniera piu o meno diretta, ma spesso in profondità anche se di solito con trasformazioni ed innovazioni rilevanti, del ricco patrimonio fantastico contenuto nel corpus superstite delle commedie plautine.

331

III · IL TEATRO

MENAECHMI 990-1049 (v 7) SENEX, MENAECHMUS

I, LoRARII, MEssENIO

SE. Per ego vobis deos atque homines dico ut imperium meum

sapienter habeatis curae, quae imperavi atque impero: facite illic homo iam in medicinam ablatus sublimen siet, nisi quidem vos vostra crura aut latera nihili penditis. Cave quisquam quod illic minitetur vostrum flocci fecerit. Quid statis? Quid dubitatis? lam sublimen raptum oportuit. Ego ibo ad medicum: praesto ero illi, quom venietis. M.EN. Occidi, quid hoc est negoti? Quid illisce homines ad me currunt, obsecro? Qui d voltis vos? Qui d quaeritatis? Quid me circumsistitis? Quo rapitis me? Quo fertis me? Perii, obsecro vostram fidem, Epidamnienses, subvenite, cives! Quin me mittitis? M.Es. Pro di inmortales! Obsecro, quid ego oculis aspicio meis?

990

995

1ooo

Menaechmi. La commedia è tra le piu riuscite di Plauto per il modo in cui si sfruttano paralleli­ smi e simmetrie nell'agire della coppia di gemelli dallo stesso nome. I due Menecmi sono stati se­ parati da bambini e si ritrovano ora a operare inconsapevolmente nello stesso ambiente (� I p. 166): ciò genera una serie di equivoci e di fraintendimenti che si chiariscono solo alla fine della commedia. La figura dello schiavo, cosi importante nel teatro di Plauto, appare qui nella sua ver­ sione meno frequente, quella del servo fedele: esso, benché non si presenti come colui che ordisce l'inganno e la trama comica, si rivela comunque decisivo nel riconoscimento finale dei due ge­ melli. Anche nella scena qui presentata lo schiavo svolge un ruolo importante, seppure inconsa­ pevole e privo di quella astuzia tipica di altre figure serviti del teatro di Plauto. Il testo seguito è quello dell'edizione di W.M. Lindsay (Oxford, Univ. Press, 1910), con piccole differenze nell'or­ tografia e nell'interpunzione e qualche diversa scelta testuale. Nel capitolo si è talvolta utilizzata, per comodità di esposizione - segnalata tra parentesi -, la suddivisione in atti e scene introdotta nel testo plautino solo in età rinascimentale. Sulla commedia vd. Plautus, Menaechmi, ed. by A.S. Gratwick, Cambridge, Univ. Press, 1993; E. Stark, DieMenaechmi des Plautus und keingriechisches Ori­ ginai, Tiibingen, Narr, 1989. 990-1049 (v 7) . Uno schiavo ardimentoso. Messenione, lo schiavo con cui Menecmo II è giunto ad Epidamno in cerca del perduto fratello gemello, aveva espresso nel cantico della scena preceden­ te l'intenzione di obbedire agli ordini del padrone per evitare punizioni e contare sulle sue ricom­ pense; si era dichiarato certo che presto il padrone lo avrebbe premiato (985 sg.) e si era diretto quindi verso la taverna dove aveva lasciato Menecmo II per trarlo « sano e salvo dalla selva » (989a) e temeva anzi di arrivare troppo tardi, 'a battaglia finita' (depuJZnato proelio, 989b). Quando Messe­ nione arriva si trova invece di fronte alla concreta occasione di salvare quello che crede il padrone 332

I IL TEATRO COMICO: PLAUTO •

I MENECMI 990-1049 (v 7) VECCHIO, MENECMO I, AGuzziNI, MEssENIONE

990 VE. Per gli dei e gli uomini, vi dico di badare con attenzione al mio ordine, a quello che ho ordinato e ordino. Portate presto quell'uomo di peso dal medico, a meno che non abbiate care le vostre gambe e i vostri fianchi. Nessuno tenga conto minimamente di quello che possa minacciare. Perché state fermi? Perché esitate? Avrebbe dovuto esser stato già caricato. 995 lo andrò dal medico; sarò da lui quando arriverete. MEN. Sono perduto, che è questo? Cielo, perché quegli uomini corrono verso di me? Che volete voi? Che cercate? Perché mi circondate? Dove mi trascinate? Dove mi portate? Sono finito! Imploro la vostra [pietà, 1000 cittadini di Epidamno, aiutatemi! Perché non mi lasciate? ME s. Per gli dei immortali, cielo, che vedono i miei occhi? ma che è in realtà Menecmo l, portato via da alcuni servi per ordine del suocero perché creduto pazzo. Da servo fedele quale si dimostra in tutta la commedia, Messenione non si tira indietro e in una lotta furiosa riesce a salvare il presunto padrone a cui chiede - e ottiene - la liberazione. Me­ tro: settenari trocaici (990-94, 1003, 1008-49) , ottonari giambici (995-1002) , dimetri giambici (10046) , ottonari trocaici (1007) . 990-91. ut imperium meum . . . quae imperavi atque impero: la relativa (quae imperavi atque impero) è ap­ positiva di imperium meum. Il vecchio, padre della moglie di Menecmo I (e privo di un nome pro­ prio, come del resto la figlia), ripete in maniera solenne gli ordini che si immagina abbia già dato ai suoi servitori lungo la strada da casa sua (fuori scena) al luogo dell'azione. Egli sta del resto ese­ guendo quello che il medico fatto giungere per la presunta pazzia del genero gli aveva ordinato di fare, chiamare degli uomini perché portino da lui Menecmo I (952, 955) . + 992. medicinam: sottin­ tende tabernam o domum. - sublimen: avverbiale; cfr. 995 e 1002 (Lindsay ed Ernout hanno qui subii­ mis aggettivo e cosi sublimem a 995 e 1002) . - siet: forma arcaica del congiuntivo presente (= sit). + 993. nisi quidem . . . penditis: la minaccia allude alle punizioni consuete per gli schiavi, i ceppi e la fru­ sta (che agiscono risp. su cmra e latera). + 994· vostmm: genitivo plurale. + 995· sublimen raptum: cfr. 992 ablatus sublimen. + 997· illisce: è nom. plur. + 1000. Epidamnienses . . . cives: la commedia è ambientata ad Epidarnno (cfr. 72: haec urbs Epidamnus est, dum haecjàbula agitur, 'questa città è Epidamno, fmché si rappresenta questa commedia'), dove è stato portato da bambino e vive tuttora Menecmo I (gli an­ tefatti sono narrati nel prologo). A Plauto non può sfuggire l'occasione di giocare sull'etimologia del nome (263 sg.): propterea huic urbi nomen Epidamno inditumst, l quia nemoferme sine damno huc de­ vortitur ('a questa città è stato dato il nome di Epidamno perché nessuno in genere se ne allontana senza danno').

333

I I I · IL TEATRO

Erum meum indignissume nescioqui sublimen ferunt. MEN. Ecquis suppetias mi audet ferre? MEs. Ego, ere, audacissume. O facinus indignum et malum, Epidamnii cives, erum meum hic in pacato oppido luci deripier in via,

1005

qui liber ad vos venerit! Mittite istunc. MEN. Obsecro te, quisquis es, operam mihi ut des, neu sinas in me insignite fieri tantam iniuriam. ME s. Immo et operam dabo et defendam et subvenibo sedulo. Numquam te patiar perire, me perirest aequius.

1010

Eripe oculum istic, ab umero qui tenet, ere, te obsecro. Hisce ego iam sementem in ore faciam pugnosque obseram. Maxumo hodie malo hercle vostro istunc fertis. Mitrite. MEN. Teneo ego huic oculum. MEs. Face ut oculi locus in capite appareat. Vas sedesti, vas rapaces, vos praedones! LoR. Periimus!

1015

Obsecro hercle! MEs. Mittite ergo. MEN. Quid me vobis tactiost? Pecte pugnis. MEs. Agite abite, fugite hinc in malam crucem. Em tibi etiam: quia postremus cedis, hoc praemi feres. Nimis bene ora commetavi atque ex mea sententia. Edepol, ere, ne tibi suppetias temperi adveni modo.

1020

MEN. At tibi di semper, adulescens, quisquis es, faciant bene. Nam absque te esset, hodie numquam ad solem occasum viverem. MEs. Ergo edepol, si recte facias, ere, med emittas manu. MEN. Liberem ego te? ME s. Verum, quandoquidem, ere, te servavi. [MEN. Quid est?

1002. Erum meum: per tutta la scena Messenione continua a ritenere Menecrno I il suo vero padro­ Ego, ere, audacissume: Messenione, che ha appena canta­ to le sue virtli nei confronti di Menecrno Il, non esita ora a cogliere l'occasione per questa sua ari­ stfa buffonesca a cmninciare dall'avverbio che la introduce, audacissume, che riprende con gioco eti­ mologico l'audet di Menecrno. + 1004. Ofacinus indignum et malum: cfr. sotto, Most., 459. - Epidamnii cives: cfr. sopra, 1000. + 1007. quisquis es: Menecrno I naturalmente non conosce Messenione che in­ contra qui per la prima volta. + 1009-10. operam dabo . . . aequius: le affermazioni di Messenione esa­ ne e si rivolge a lui di conseguenza. + 1003.

gerano volutamente il livello patetico-retorico delle sue intenzioni, sottolineato da alliterazioni (Dabo . . . Defendam, Subvenibo Sedulo, Patiar Perire) e anafore (perire . . . perirest). + 1012. sementem . . . obse­ ram: figura etimologica; il secondo sostantivo (pugnos) chiarisce di che semina (sementem) si tratta (tanto che Fraenkel proponeva di espungere la congiunzione -que). + 1014. Pace: forma originaria dell'imperativoJac. + 1017.jugite . . . in malam crucem: allude alla punizione massima per gli schiavi, l'e­ secuzione mediante crocifissione. + 1019. Nimis bene. . . sententia: il testo è incerto : è tramandato ni­ mis aut bene hora che non va metricamente e la soluzione piu facile è stata quella dell'espunzione di aut, ma di commeto con il senso di 'misurare' abbiamo solo questa attestazione (peraltro da intende­ re ironicamente). + 1020. Edepol: l'invocazione a Polluce, assieme a quella ad Ercole (hercle), è un in-

33 4

I · IL TEATRO COMICO : PLAUTO Alcuni sconosciuti portano via di peso il mio padrone indecorosamente ! MEN. Non c'è nessuno che abbia il coraggio di aiutarmi? MEs. Io, [padrone, ardimentosissimamente. Azione sciagurata e orribile, cittadini di Epidamno, il mio padrone, qui in una città pacificata, essere trascinato via di giorno sulla via,

1005

lui che era giunto da voi come uomo libero ! Lasciatelo andare. MEN. Per pietà, chiunque sia, aiutami e non permettere che sia commessa contro di me un'offesa cosi [straordinariamente grave. ME s. Anzi, ti aiuterò e ti difenderò e ti verrò in soccorso prontamente; non permetterò mai che tu soccomba; è piu giusto che soccomba io.

1010

Strappa qui un occhio a questo che ti tiene per la spalla, padrone, ti prego. A questi farò io sulla faccia una semina di pugni. Per Ercole, oggi portate costui con vostra massima sventura: !asciatelo. MEN. Di questo ho l'occhio. MEs. Fa' che sulla faccia l'orbita appaia vuota.

(agli aguzzini) Voi scellerati, voi rapitori, voi briganti! AGu. Siamo finiti!

1015

Pietà per Ercole ! MEs. Lasciatelo dunque. MEN. Perché mi toccate?

(a Messenione) Dagli una pettinata coi pugni! ME s. Su, andatevene [di corsa a farvi crocifiggere. Ecco anche a te. Giacché sei l'ultimo ad allontanarsi ti prenderai questo [premio (lo colpisce). Gli ho sistemato per bene le facce e proprio come volevo. Per Polluce, padrone, per certo sono giunto ora in tuo aiuto a tempo [opportuno.

1020

MEN. Gli dei, giovane, chiunque tu sia, ti siano favorevoli; infatti senza di te, oggi non sarei certo rimasto in vita sino al tramonto [del sole. ME s. Quindi, per Polluce, se sei giusto, padrone, liberami. MEN. Io dovrei liberarti? MEs. Certo, dal momento, padrone, che ti ho [salvato. MEN. Cosa? tercalare frequentissimo dei servi di commedia e se ne mantiene nella traduzione il valore etimo­ logico. + quisquis es: cfr. sopra, Messenione, a differenza di quello che era accaduto piu volte al padrone, non viene scambiato per qualcun altro che gli assomiglia, ma non viene neanche riconosciuto da chi lui pensa di conoscere, prova cioè la stessa esperienza di coloro che incontrano Menecmo II. + Ergo edepol . . . emittas manu: è questa la ricompensa a cui principalmente pensa Messenione (vd. sotto, a ), la manumissio, la liberazione dal vincolo giuridico che lega schiavo

1021.

1007.

1023.

1029

o sottomesso e padrone. - med: molto frequenti in Plauto - anche per ragioni metriche - le forme arcaiche degli accusativi arcaici dei pronomi me e te (risp. mede ted) .

335

III · IL TEATRO Adulescens, erras. MEs. Quid, erro? MEN. Per lovem adiuro patrem,

1025

med erum tuom non esse. MEs. Non taces? MEN. Non mentior; nec meus servos umquam tale fecit quale tu mihi. MEs. Sic sine igitur, si tuom ne gas me esse, abire liberum. MEN. Mea quidem hercle causa liber e sto atque ito quo voles. MEs. Nempe iubes? MEN. Iubeo hercle, si quid imperi est in te mihi.

1030

MEs. Salve, mi patrone. « Quom tu liber es, Messenio, gaudeo » . Credo hercle vobis. Sed, patrone, te obsecro, ne minus imperes mihi quam quom tuos servos fui.

Apud ted habitabo et quando ibis, una tecum ibo domum. MEN. Minime. MEs.

Nune ibo in tabernam, vasa atque argentum tibi

1035

referam. Recte est obsignatum in vidulo marsupium cum viatico: id tibi iam huc adferam. MEN. Adfer strenue. ME s. Salvom tibi ita ut mihi dedisti reddibo. Hic me mane. MEN. Nimia mira mihi quidem hodie exorta sunt miris modis: alii me negant eum esse qui sum atque excludunt foras; etiam hic servom se meum esse aiebat quem ego emisi manu; is ait se mihi allaturum cum argento marsupium: id si attulerit, dicam ut a me abeat liber quo volet, ne tum, quando sanus factus sit, a me argentum petat.

1045

Socer et medicus me insanire aiebant. Quid sit mira sunt. Haec nihilo esse mihi videntur setius quam somnia.

1029. liber esto . . . voles: Menecrno I pronuncia la formula di rito della manumissio che però non è va­ lida dal momento che lui non è il vero padrone (vd. le riserve espresse nel v. sg.) : sarà recitata in­ vece con pieno effetto da Menecmo II su esortazione del fratello ritrovato alla fine della comme­ dia (1148). h031-32. Salve, mipatrone: Messenione ritiene di essere stato effettivamente liberato e si rivolge quindi a Menecmo I come se questi fosse il suo patrono: dopo la manomissione l'ex-schia­ vo assume infatti nei confronti dell'ex-padrone il legame giuridico che si ha tra cliente e patrono. Messenione offre la sua completa disponibilità a continuare a comportarsi come aveva fatto in precedenza (1032-34). - « Quom tu liber . . . gaudeo »: Messenione si immagina anche le frasi che gli avrebbero rivolto i suoi antichi compagni di schiavitti; Menecrno I si ricorderà di queste parole e le ripeterà congratulandosi con Messenione dopo la effettiva manomissione (1148; vd. quanto det­ to a 1029). + 1035-36. Nune ibo in tabernam . . . referam: cfr. 987: postquam in tabernam vasa et servos wnloca­ vi ut iusserat ('dopo che ho sistemato nella locanda i bagagli e i servi, come mi ha ordinato'), con ri­ ferimento a quello che Menecrno II gli aveva comandato di fare alla fine del n atto (436). + 1037. Ad­ Jer strenue: i personaggi plautini sono sempre pronti a sfruttare l'occasione che si presenta loro: in questo caso Menecrno I quando intravede la possibilità di guadagnare qualcosa non si tira indietro (cfr. anche sotto, 1043 sg.) e del resto il gemello per tutto il secondo atto aveva già sfruttato al posto di Menecrno I le possibilità di divertimento che il fratello si era procurato (meretrice, banchetto e

I · IL TEATRO COMICO: PLAUTO Giovane, ti sbagli. MEs. Come, mi sbaglio? MEN. Per Giove padre, giuro 1025 di non essere il tuo padrone. MEs. Non la smetti? MEN. Non mento; e un mio servo non ha mai compiuto per me un gesto come il tuo. MEs. Allora permetti quindi, se neghi che io ti appartenga, che me ne [vada libero. MEN. Per quanto mi riguarda, per Ercole, sei libero e vai dove vuoi. ME s. Lo dici seriamente? MEN. Lo dico, per Ercole, se ho una qualche [autorità su di te. ME s. Salute, mio patrono.

«

1030

Che tu sia libero, Messenione,

mi fa piacere ». Vi credo, per Ercole. Ma, patrono, ti prego, non darmi meno ordini di quando ero tuo servo. Risiederò presso di te, e quando andrai via, verrò a casa assieme a te. MEN. Niente affatto. MEs. Ora andrò alla locanda e ti riporterò bagagli

1035

e denaro. La borsa è stata ben sigillata nel baule con il denaro per il viaggio; ora te la porterò. MEN. Portala in fretta. ME s. Te la porterò intatta, cosi come me l'hai consegnata; aspettami [qui (si allontana). MEN. (da solo) Molte cose strane mi sono capitate oggi nei modi piu strani. Alcuni dicono che non sono quello che sono e mi chiudono fuori di casa. 1040 Anche questo che ho liberato diceva di essere mio servo;

1042

dice che mi porterà una borsa con il denaro: se la porterà, gli dirò di andare via, libero, dove vorrà, purché, quando sarà rinsavito, non mi chieda indietro il denaro.

1045

Il suocero e il medico dicevano che ero pazzo. Di qualsiasi cosa si tratti, [sono cose curiose. Tutto mi sembra come un sogno.

gioielli) senza farsi troppe domande sulla loro origine. + 1038. Salvom . . . reddibo: Menecmo Il aveva consegnato la borsa con il denaro per il viaggio a Messenione prima di entrare a casa della mere­

trice Erozio, amante di Menecmo I (386). + 1039. Nimia mira . . . miris modis: poliptoto. A Menecmo I sono effettivamente occorse strane vicende dovute al fatto che, l'uno all'insaputa dell'altro, si ag­ girano per la stessa città i due gemelli identici. Qui il personaggio ricapitola a favore del pubblico tutte le avventure capitategli. + 1040. alii . . .Joras: si riferisce forse alla moglie che, avvisata dal paras­ sita delatore Spazzola, ha scoperto che il marito le ha rubato un mantello per darlo all'amante, la prostituta Erozio, e lo ha cacciato di casa in attesa della restituzione (Iv 2); anche la stessa Erozio però - ricevuta già la visita di Menecmo Il - pensa che Menecmo I quando compare per il ban­ chetto voglia solo prenderla in giro e lo allontana bruscamente (Iv 3). + 1042. quem ..go emisi manu: cfr. sopra, 1029 sg. + 1046. Socer. . . aiebant: nella divertente scena di follia tra i tre (v 6; in partic. vv.

934, 947).

33 7

III

· IL

TEATRO

Nune ibo intro ad hanc meretricem, quamquam suscenset mihi, si possum exorare ut pallam reddat quam referam domum.

MOSTELLARIA 431-531 (n 3) THEOPROPIDES, TRANIO

TH. Habeo, Neptune, gratiam magnam cibi, quom med amisisti a te vix vivom domum.

Verum si posthac me pedem latum modo

scies imposisse in undam, hau causast ilico quod nune voluisci facere quin facias mihi.

435

Apage, apage te a me nunciam post hunc diem! Quod crediturus cibi fui omne credidi. TR. Edepol, Neptune, peccavisci largiter qui occasionem hanc amisisci tam bonam. TH. Triennio post Aegypto advenio domum;

440

1048. Nunc ibo . . . suscenset mihi: cfr. quanto detto a 1040. l,;uso del deittico serve ad indicare la porta di una delle case che si affacciavano sul palcoscenico. + 1049. ut pallam reddat: il mantello è l'oggetto che accompagna gran parte della trama della commedia. Rubato da Menecmo I alla moglie e conse­ gnato all'amante è stato da questa dato per una riparazione a Menecmo II scambiato per il gemel­ lo e proprio il fatto che Menecmo I lo ha richiesto ad Erozio per riportarlo alla moglie, quando Erozio l'aveva già dato via, ha fatto infuriare quest'ultima. - quam riferam domum: la restituzione del mantello è la condizione posta dalla moglie di Menecmo I per riammetterlo in casa (662).

Mostellaria. Di una delle piti divertenti commedie plautine (-+ 1 p. 167) abbiamo scelto due scene in cui emerge con il dovuto rilievo la figura del servo scaltro Tranione, il vero motore della vicen­ da, dalla strabiliante capacità di inventare stratagemmi per evitare la punizione sua e del suo pa­ droncino Filolachete (da lui aiutato a sperperare i beni di famiglia in assenza del padre). Nell'am­ bito del consueto dissidio tra giovani/schiavi da un lato e vecchi dall'altro, le invenzioni del servo si caratterizzano qui come vere e proprie "improvvisazioni" di fronte alle difficoltà: nella prima scena (n 3; si ricordi che la divisione in atti e scene è però rinascimentale, anche se spesso rispec­ chia con accortezza la struttura originaria della commedia) Tranione inventa la beffa principale, quella della presenza di un fantasma nella casa di Teopropide; nella seconda (m 2) si arriva alla ve­ ra e propria presa in giro diretta dei due senes della commedia da parte dello schiavo, con la piena complicità "intellettuale" del pubblico ed espressioni che possono essere interpretate sul piano metateatrale. Il testo è quello di Lindsay (Oxford, Univ. Press, 1910) con poche variazioni.

I · IL TEATRO COMICO: PLAUTO Ora entrerò da questa meretrice, anche se è arrabbiata con me, se posso implorarla di ridarmi il mantello da riportare a casa

(entra in casa di Erozio). LA

CASA DEL FANTASMA 431-531 (n 3) TEOPROPIDE, TRANIONE

TE. Ti ringrazio molto, Nettuno, per avermi lasciato andare a casa vivo a stento. Ma d'ora innanzi se saprai che la pianta del mio piede ha toccato le onde, non c'è motivo perché non mi faccia immediatamente quello che mi volevi fare ora.

435

Via, via da me ora dopo di oggi! Tutto quello che ti potevo affidare, te l'ho affidato. TR. (a parte) Per Polluce, Nettuno, hai proprio sbagliato a perdere una cosi buona occasione! TE. Dopo tre anni giungo a casa dall'Egitto :

440

431-531 (n 3) . La casa infestata. Improvvisamente, dopo una lunga lontananza dovuta agli affari, torna il vecchio Teopropide, in assenza del quale il figlio Filolachete ha sperperato il patrimonio

paterno. I:arrivo dal mare del senex dà inizialmente occasione al servo Tranione di un facile gioco sulla speranza che non tornasse e poi lo spinge ad escogitare la trovata "strutturale" della comme­ dia, la storiella della casa infestata dal fantasma in cui non si può entrare (da un diminutivo di mons­ tmm, 'fantasma', deriva il titolo dell'opera). È il primo esempio nella commedia delle capacità in­ ventive di Tranione che sarà preso in un vortice sempre piti concitato di invenzioni buffonesche, tutte escogitate dal nulla come vere e proprie improvvisazioni teatrali. Metro: senari giambici.

431-32. Il ringraziamento a Nettuno per essere sopravvissuti sani e salvi a una traversata marina

è tradizionale e si trova spesso in tragedia: qui si associa al motivo frequente in Plauto del viaggio di affari e assume connotati cornici (cfr. anche Tn'num., 820 sgg.). + 434· imposisse: forma contratta del perfetto arcaico imposivisse. + 437· creditums . . . credidi: il poliptoto sottolinea l'uso ironico del ver­ bo, tipico degli scambi commerciali. + 438-39. Edepol . . . bonam: sono parole pronunciate a parte da Tranione, rivolto al pubblico e non sentito, nella finzione scenica, da Teopropide : è un tipico espe­ diente usato da Plauto per suscitare il riso grazie alla complicità che si instaura tra attore e spetta­ tori alle spalle di altri personaggi che si immaginano all'oscuro di quello che sta accadendo. Si fin­ ge qui che Tranione osservi non visto il padrone, per interloquire con lui in un secondo momen­ to. + 440. Triennio . . . domum: qui si fornisce un'indicazione chiara sui tempi e luoghi del viaggio al­ l'estero di Teopropide, un'informazione che viene data incidentalmente in una commedia in cui,

339

III · IL TEATRO credo exspectatus veniam familiaribus. TR. Nimio edepol ille potuit exspectatior venire qui te nuntiaret mortuom. TH. Sed quid hoc? Occlusa ianua est interdius. Pultabo. Heus, ecquis intust? Aperitin fores?

445

TR. Quis homo est qui nostras aedis accessit prope? TH. Meus servos hic quidem est Tranio. TR. O Theopropides, ere, salve, salvom te advenisse gaudeo.

U squin valuisti? TH. Usque, ut vides. TR. Factum optume. TH. Quid vos? Insanin estis? TR. Quidum? TH. Sic, quia

450

foris ambulatis, natus nemo in aedibus servat neque qui recludat neque [qui] respondeat. Pultando [pedibus] paene confregi hasce ambas . TR. Eho an tu tetigisti has aedis? TH. Cur non tangerem?

454-55

Quin pultando, inquam, paene confregi fare s. TR. Tetigistin? TH. Tetigi, inquam, et pultavi. TR. Vah! TH. Quid est? TR. Male hercle factum. TH. Quid est negoti? TR. Non potest dici quam indignum facinus fecisti et malum. TH. Quid iam? TR. Fuge, obsecro, atque abscede ab aedibus. Fuge huc, fuge ad me propius. Tetigistin fores? TH. Quo modo pultare potui, si non tangerem? TR. Occidisti hercle . . . TH. Quem mortalem? TR. Omnis tuo s. TH. Di te deaeque omnes faxint cum istoc omine . . . TR. Metuo te atque istos expiare ut possies.

si ricordi, manca un vero e proprio prologo. Nella scena iniziale dalla funzione protatica in cui si affrontano il servo di città Tranione e quello di campagna Grumione, quest'ultimo si augurava un ritorno del vecchio, detto semplicemente assente (vv. 12 sg.: sine modo adveniat senex, lsine modo ve­ nire salvom, quem absentem comes, 'lascia solo che venga il vecchio, lascia solo che giunga sano e salvo, quello che divori in sua assenza') e partito per l'estero (peregre, 25) . + 442-43· Nimio edepol . . . mortuom: Tranione non può perdere l'occasione di mettere in ridicolo le parole del padrone: il desiderio non è solo il suo ma quello di tutti ijàmiliares. Si noti la ripresa ironica di parte delle parole di Teo­ propide (exspectatus/exspectatior, veniamlvenire), un'altra tecnica tipica degli a parte comici. + 444· Oc­ clusa ianua est interdius: Tranione aveva ordinato poco prima al padroncino e ai suoi amici di chiu­ dersi dentro casa e aveva sbarrato lui stesso la porta (400, 405) . + 446. Quis homo . . . prope?: la battuta è pronunciata ad alta voce da Tranione che finge di non aver ancora riconosciuto il padrone. + 44748. Meus servos . . . gaudeo: si noti la costruzione chiastica servos . . . Tranio . . . Theopropides ere, che fa si che i due nomi quasi si incontrino l'uno con l'altro, e la figura etimologica salve salvom. Tranione si rivolge al padrone con parole di finta contentezza che suonano particolarmente ironiche dopo le

340

I · IL TEATRO COMICO: PLAUTO credo di arrivare atteso dai miei. TR.

(a parte) Molto piu atteso, per Polluce, sarebbe potuto

giungere colui che ti annunziava morto. TE. Ma che è questo? La porta è chiusa di giorno. Busserò. Ehi, c'è qualcuno dentro? Aprite la porta?

445

TR. (a Teopropide) Chi è che si è avvicinato alla nostra casa? TE. Questo è il mio servo Tranione. TR. Oh, Teopropide, padrone, salute, sono contento che tu sia giunto sano e salvo. Sei stato sempre bene? TE. Sempre, come vedi. TR. Ottima cosa. TE. E voi, siete forse impazziti? TR. Perché mai? TE. Per questo : perché

450

ve ne andate in giro fuori; in casa nessun'anima viva che sta di guardia, né che apra o che risponda. Bussando ho quasi spaccato questi due battenti. TR. Ahi, hai toccato questa casa? TE. Perché non avrei dovuto [toccarla?

454-55

Anzi bussando, te l'ho detto, ho quasi spaccato i battenti. TR. Forse l'hai toccata? TE. L'ho toccata, te l'ho detto, e ho bussato. [TR. Oh! TE. Che c'è? TR. Male hai fatto, per Ercole. TE. Qual è il problema? TR. Non si può dire quale azione sciagurata e tremenda hai commesso. TE. Perché mai? TR. Fuggi, ti scongiuro, e allontanati dalla casa.

46o

Fuggi qua, fuggi vicino a me. Forse hai toccato la porta? TE. In che modo avrei potuto bussare, se non l'avessi toccata? TR. Per Ercole, hai ucciso . . . TE. Chi? TR. Tutti i tuoi.

TE. Gli dei e le dee tutti possano con questo malaugurio . . . TR. Temo che sia difficile purificare te stesso e questi.

465

sue battute pronunciate a parte. + 453· Pultando . . . : è necessario un sostantivo retto dal prono­ me dimosttativo hasce e per questo è stato congetturatofores (di sotto 456 e anche 445) ed espunto pedibus, sospettato di essere una glossa esplicativa penetrata nel testo. I.:uso del pronome dimo­ strativo doveva servire come "didascalia scenica" per gli attori che con i loro gesti e movimenti evi­ denziavano gli oggetti presenti sul palco e ne rivelavano al pubblico la funzione drammatica. + 459· Jàcinusjècisti: figura etimologica. Facinus ha solitamente in Plauto il significato di 'azione' e deve es­ sere quindi denotato da un aggettivo o da un sostantivo. + 462. Quo modo . . . tanJ?erem?: cfr. 457· Alla razionalità concreta e "quotidiana" di Teopropide Tranione oppone un comportamento e una se­ rie di osservazioni surreali tesi a stupire e a spaventare il vecchio. + 464.jaxint: l'antico ottativo ben si adatta alla maledizione solenne che Teopropide si accinge a pronunciare contro il servo, inter­ rotto però da quest'ultimo. + 465. istos: gli schiavi che accompagnavano il vecchio, menzionati poi ai vv. 467 sg.

341

III · IL TEATRO TH. Quam oh rem? Aut quam subito rem mihi adportas novam? TR. Et heus, iube illos illinc ambo abscedere. TH. Abscedite. TR. Aedis ne attigatis. Tangite vos quoque terram. TH. Obsecro herde, quin eloquere . TR. Quia septem menses sunt quom in hasce aedis pedem

470

nemo intro tetulit, semel ut emigravimus. TH. Eloquere, quid ita? TR. Circumspicedum, numquis est sermonem nostrum qui aucupet? TH. Tutum probest. TR. Circumspice etiam. TH. Nemo est. Loquere nunciam. TR. Capitale scelus factum est. TH. Quid est? Non intellego.

475

TR. Scelus, inquam, factum est iam diu, antiquom et vetus. TH. Antiquo m? TR. Id adeo nos nunc factum invenimus. TH. Quid istuc est sceleris? Aut quis id fecit? Cedo. TR. Hospes necavit hospitem captum manu; iste, ut ego opinor, qui has tibi aedis vendidit. TH. Necavit? TR. Aurumque ei ademit hospiti eumque hic defodit hospitem ibidem in aedibus. TH. Quapropter id vos factum suspicamini? TR. Ego dicam, ausculta. Ut foris cenaverat tuos gnatus, postquam rediit a cena domum, abimus omnes cubitum; condormivimus : lucernam forte oblitus fueram exstinguere; atque ille exdamat derepente maxumum. TH. Quis homo? An gnatus meus? TR. St, tace, ausculta modo. Ait venisse illum in somnis ad se mortuom.

490

TH. Nempe ergo in somnis? TR. Ita. Sed ausculta modo. Ait illum hoc pacto sibi dixisse mortuom . . . TH. In somnis? TR. Mirum quin vigilanti diceret, qui abhinc sexaginta annis occisus foret. 467. illos illinc ambo abscedere: doppia allitterazione iniziale (la prima coppia costituisce anche una fi­ gura etimologica). + 468. attigatis: forma arcaica del congiuntivo presente. + 469. vas quoque terram:

evidentemente anche Tranione ha compiuto questo gesto di carattere rituale e apotropaico (cfr. Eschilo, Choeph., 476 sg.) e invita gli altri a fare altrettanto. + 472-74. Circumspicedum . . . Circumspice . . . Nemo est: l'insistenza di Tranione, oltre a rendere pili misterioso il racconto che seguirà, poteva an­ che essere utilizzata comicamente dagli attori se accompagnata da uno sguardo rivolto al teatro af­ follato. + 478. est sceleris: è correzione di Spengel del tràdito est sceleste. - Cedo: dalla stessa radice di dare, è un'interiezione frequente in Plauto con il senso di 'dammi, parla, orsli'. + 479· Hospes . . . hos­ pitem: poliptoto reso possibile dal significato attivo e passivo del vocabolo. La violazione dell'ospi-

3 42

I · IL TEATRO COMICO: FLAUTO TE. Perché? E che cosa strana mi dici cosi d'improvviso? TR. E, ti prego, fa' allontare quei due di li. TE. Allontanatevi. TR. Non toccate la casa. Toccate anche voi terra. TE. Ti scongiuro, per Ercole, spiegami la faccenda. TR. Perché sono sette mesi che in questa casa nessuno

470

ha messo piede dentro, una volta che siamo andati via. TE. Di', perché? TR. Guardati intorno, c'è qualcuno che possa carpire il nostro discorso? TE. È tutto al sicuro. TR. Guarda ancora. TE. Non c'è nessuno : parla ora. TR. È stato compiuto un delitto capitale. TE. Cosa? Non capisco.

475

TR. Un delitto antico e lontano, ti dico, è stato compiuto da molto tempo. TE. Antico? TR. Ci siamo accorti solo ora che è stato compiuto. TE. Che delitto è questo e chi lo ha compiuto? Di'. TR. Un ospite ha ucciso un ospite dopo averlo aggredito, 48o

quello, io credo, che ti ha venduto questa casa. TE. Lo ha ucciso? TR. E ha sottratto l'oro a quell'ospite, e ha sepolto quell'ospite qui, proprio nella casa. TE. Per qual motivo sospettate questo fatto? TR. Te lo dirò, ascolta. Una volta che tuo figlio aveva cenato fuori, dopo che rientrò in casa dalla cena

485

andammo tutti a letto, ci addormentammo. Per caso mi ero dimenticato di spegnere la lucerna; e quello grida d'improvviso in maniera terribile. TE. Chi? Forse mio figlio? TR. Sst, silenzio; ascolta solamente. Dice che quello gli era venuto in sogno morto.

490

TE. Certo in sogno, dunque? TR. Si, ma ascolta solamente. Dice che quel morto gli aveva parlato in questo modo . . . TE. In sogno? TR. Sarebbe stato strano gli parlasse da sveglio quello che era stato ucciso sessant'anni prima.

480-82. has . . . aedis . . . . . . hospiti eumque . . . ho­

talità era tra le colpe piu gravi nelle società antiche. + ei la ripetizione dei dimostrativi (accompagnata certamente nella recitazione da ampi gesti) + serve a rendere piu vivo il racconto; si noti anche la ripetizione pleonastica di qui inizia il racconto vero e proprio di Tranione, un racconto - ancorché

spitem:

hic. . . ibidem in aedibus.

484. EKo dicam, ausculta:

inventato - con i tratti del favoloso, preceduto come si conviene dall'esortazione all'attenzione dell'ascoltatore. Plauto utilizza spesso queste scene di sogno, parodia di scene simili tragiche o epi­ ) + Teopropide man­ che ( ) tiene sempre una certa incredulità di stampo razionalistico (cfr. sopra, a

cfr. Curcul., 260-62; Mi/., 381-92; Merc.,225-51; Rud., 593-612 . 493· Insomnis?: 462 .

343

III · IL TEATRO Interdum inepte stultus es, .

495

TH. Taceo. TR. Sed ecce quae illi in *** « Ego transmarinus hospes sum Diapontius. Hic habito, haec mihi dedita est habitatio. Nam me Acheruntem recipere Orcus noluit, quia praemature vita careo. Per fìdem

500

deceptus sum: hospes me hic necavit, isque me defodit insepultum dam [ibidem] in hisce aedibus, scelestus, auri causa. Nunc tu hinc emigra.

Scelestae hae sunt aedes, impia est habitatio » .

Quae hic monstra fìunt anno vix possum eloqui.

505

TH. St, st! TR. Quid, obsecro hercle, factum est? TH. Concrepuit foris. TR. Hicin percussit! TH. Guttam haud habeo sanguinis, vivom me accersunt Acheruntem mortui. TR. Perii! illisce hodie hanc conturbabunt fabulam.

510

Nimis quam formido ne manufesto hic me opprimat. TH. Quid tute tecum loquere? TR. Abscede ab ianua. Fuge, obsecro hercle. TH. Quo fugiam? Etiam tu fuge. TR. Nihil ego formido, pax mihi est cum mortuis.

lNTVS. Heus, Tranio! TR. Non me appellabis si sapis. Nihil ego commerui neque istas percussi fores. ***

Quaeso, quid segreges

*** *** Cosa ti turba, Tranione?

Con chi parli? TR. Forse, di grazia, eri tu a chiamarmi? positamente alle estremità opposte del verso. + 510. illisce . . .jàbulam: chiara affermazione del piano "metateatrale" dell'agire di Tranione: la trama da lui ordita è metaforicamente unajàbula ma è an­ che una vera e propria commedia nella commedia. Altra parola-chiave della Mostellaria è conturba­ re, un timore che Tranione manifesta piu volte a proposito dei suoi piani che in effetti sono co­ stantemente messi in pericolo dagli eventi. + 514. Nihil egoJormido: e invece Tranione teme proprio,

ma certo non il fantasma (vd. 511 dove era già il verboformido). + 515. Heus, Tranio . . . si sapis: i giova­ ni rinchiusi all'interno chiamano Tranione (vd. a 506-8) per sapere se fuori è tutto a posto e il ser­ vo cerca di far capire loro che non è il momento opportuno di interpellarlo (cfr. anche i suoi ordini a Filolachete, 401-3: intus cave muttire quemquam siveris . . . neu quisquam responset, quando hasce aedis pultabit senex, 'evita che qualcuno all'interno sussurri [ . . . ] né alcuno risponda quando il vecchio busserà alla porta'). + 516. Nihil ego . . .fores: anche questa battuta sarà stata rivolta ad alta voce verso l'interno (vd. v. precedente): era stato Teopropide a bussare in precedenza alla porta (cfr. sopra, 445, 453) . + 517-18. Quaeso . . . < Quae n es: il verso è lacunoso e difficilmente integrabile con sicurezza. + 519. An . . . appellaveras?: Tranione cerca ora di sviare i sospetti del vecchio facendogli credere di

345

III I L TEATRO •

Ita me di amabunt, mortuom illum credidi

520

expostulare quia percussisses fores. Sed tu, etiamne astas nec quae dico obtemperas? TH. Quid faciam? TR. Cave respexis, fuge, [atque) operi caput. TH. Cur non fugis tu? TR. Pax mihi est cum mortuis. TH. Scio. Quid modo igitur? Cur tanto opere extimueras?

525

TR. Nil me curassis, inquam, ego mihi providero: tu, ut occepisti, tantum quantum quis fuge, atque Herculem invoca. TH. Hercules, ted invoco . . . TR. Et ego . . . tibi hodie ut det, senex, magnum malum.

Pro di immortales, obsecro vestram fìdem!

530

quid ego hodie negati confeci mali!

TRANIO, THEOPROPIDES, S!MO

TR. Nunc hunc hau scio an conloquar. Congrediar. Heus Theopropides! TH. Hem quis hic nominat me? TR. Ero servos multis modis fìdus. TH. Unde is? TR. Quod me miseras, adfero omne impetratum. TH. Quid illi, obsecro, tam diu destitisti? sentirsi sollevato una volta che ha capito che era Teopropide e non il fantasma a chiamarlo. + 523. Cave respexis . . . caput: cfr. quanto detto da Tranione in precedenza all'altro servo, Sferione (423 sg.):

{jàcturum) ne etiam aspicere aedis audeat, l capite obvoluto utJugiat eum summo metu, 'farò si che neanche osi guardarla la casa, che fugga spaventato con il capo coperto'. Il coprirsi il capo era un gesto tipi­ co di difesa dalle apparizioni misteriose e nefaste. + 524. Pax . . . mortuis: cfr. 514· + 526. curassis: perfet­ to congiuntivo arcaico. + 528. Herculem invoca . . . invoco: Ercole veniva spesso invocato come divinità protettrice. + 529. Et ego . . . malum: come all'inizio della scena, Tranione rivolge al pubblico le pro­ prie battute maliziose, completando qui antifrasticamente la richiesta di aiuto ad Ercole da parte del vecchio. Si noti l'assonanza MAgnUM MA[UM (malus non sostantivato compare anche al v. 531) . + 531. quid ego . . . mali: Tranione è pienamente consapevole di aver innescato con la sua menzo­ gna un meccanismo che va oltre le sue forze e i limiti della sua inventiva. 783-857 (m 2) .

Una cornaahia tra due awoltoi. Siamo al culmine delle invenzioni del servo Tranio­

ne messe in atto per sviare l'attenzione del padrone dagli stravizi del figlio: ora porta in visita Teo­ propide nella casa del vicino, il vecchio Simone, per illustrargli quello che finge essere l'acquisto effettuato dal giovane in sua assenza. In realtà la casa non è stata affatto comprata da Filolachete (il debito contratto con l'usuraio è dovuto al riscatto di una meretrice) e d'altro canto non è nemme-

I · IL TEATRO COMICO : PLAUTO Gli dei mi proteggano, credetti che il morto

520

chiedeva perché avevi bussato alla porta. Ma tu, ancora sei qui e non obbedisci a quello dico?

TE. Che devo fare ? TR. Non ti voltare, scappa, copriti il capo. TE. E tu perché non fuggi? TR. Sono in pace coi morti. TE. Lo so, cosa dunque or ora? Perché temevi tanto?

525

TR. Non ti preoccupare di me, ti dico; a me baderò io. Tu, come avevi cominciato, tanto quanto puoi scappa e invoca Ercole. TE. Ercole, ti invoco TR. Anch'io

. .

(esce).

. (da solo) perché oggi ti dia, vecchio, una grande sciagura.

Oh dei immortali, imploro il vostro appoggio,

530

che razza di imbroglio ho imbastito oggi!

TRANIONE, TEOPROPIDE, SIMONE

TR. Non so se debbo parlargli ora. Mi avvicinerò. Ehi, Teopropide! TE. Ecco! Chi mi chiama?

TR. Un servo in molti modi fedele al suo padrone. TE. Da dove vieni?

785

TR. Quello di cui mi avevi incaricato te lo porto ottenuto con successo. TE. Perché, di grazia, sei stato lf cosi a lungo?

no vero, come Tranione ha fatto credere a Simone, che Teopropide vuole vederla per trame ispi­ razione per eseguire lavori di ristrutturazione nella propria. Le due versioni della finzione creata da Tranione si trovano qui contrapposte, personificate dai due vecchi, e permettono al servo di da­ re sfogo alla sua abilità di ordire inganni; la gustosissima scena è aperta da un breve duetto cantato tra schiavo e padrone e segna il trionfo - momentaneo ma pienamente goduto dal pubblico - di Tranione sui due senes. Metro: dipodie bacchiache acatalette + catalettiche e quaternari bacchiaci (783-803) ; ottonario (804) e settenari trocaici (805-57) . 783. hunc . . . conloquar: Tranione, per ordine di Teopropide (675 sgg.) , aveva chiesto al vicino Si­ mone di poter dare un'occhiata alla casa facendogli credere che Tranione la volesse visitare al fine di prenderla a modello per lavori di ristrutturazione nella propria (752 sgg.) . Ora è per un attimo incerto se avvicinarsi a Teopropide (hunc deittico) . + 785. Ero . . .fidus: anche altrove Tranione cerca di mostrarsi fedele e premuroso col padrone (vd. sopra, 448 sg.) . Si noti l'accostamento immedia­ to di erus e servus ad evidenziare anche sul piano linguistico il confronto tra i due. - Unde is?: Teo­ propide al v. 682 aveva ordinato a Tranione di recarsi nella casa di Simone per chiedere il permes­ so di entrare. + 786. Quod me . . . impetratum: vd. al v. precedente. + 787. tam diu destitisti: il tempo del­ l'intera scena precedente in cui si è svolto il colloquio con Simone, piu lungo di quanto sarebbe do-

347

III · IL

TEATRO

TR. Seni non erat otium, id sum opperitus. TH. Antiquom obtines hoc tuom, tardus ut sis. TR. Heus tu, si voles verbum hoc cogitare,

790

simul f1are sorbereque hau factu facilest. Ego hic esse et illic simitu hau potui. TH. Quid nune? TR. Vise, specta tuo usque arbitratu. TH. Age , duce me. TR. Num moror? TH. Subsequor te. TR. Senex ipsus te ante ostium eccum opperitur.

795

Sed ut maestust sese hasce vendidisse! TH. Quid tandem? TR. Orat ut suadeam Philolacheti ut istas remittat sibi. TH. Haud opinor. Sibi quisque ruri metit. Si male emptae forent, nobis istas redhibere hau liceret.

8oo

Lucri quidquid est, id domum trahere oportet. Misericordias s *** hominem oportet. TR. Morare hercle *** facis. Subsequere. TH. Fiat. Do tibi ego operam. TR. Senex illic est. Em, tibi adduxi hominem. SI. Salvom te advenisse peregre gaudeo, Theopropides.

8os

TH. Di te ament. SI. Inspicere te aedis has velle aiebat mihi. TH. Nisi tibi est incommodum. SI. Immo commodum. I intro atque [inspice. TH. At enim mulieres . . . SI. Cave tu ullam f1occi faxis mulierem. Qualubet perambula aedis oppido tamquam tuas. TH. « Tamquam » ? TR. Ah, cave tu illi obiectes nunc in aegritudine

81o

te has emisse. Non tu vides hunc voltu uti tristi est senex?

TH. Video. TR. Ergo inridere ne videare et gestire admodum; vuta durare una semplice richiesta di ingresso in casa: Teopropide incarna spesso nella commedia istanze "realistiche". + 791. simuljlare . . .Jacilest: la frase, di tono proverbiale, è caratterizzata dalle al­ litterazioni (Simul . . . Sorbereque, Flare . . . Factu Facilest) . + 792. simitu: forma arcaica di simul. + 795· ipsus: forma analogica per ipse frequente in Plauto. - ante ostium eccum opperitur: la scena si svolge, come consuetudine del teatto antico, all'esterno dell'abitazione. + 796. ut maestus . . . vendidisse!: per rende­ re piu realistica la finzione Tranione insiste sul fatto che Simone si è quasi pentito di aver venduto la casa, ma forse aveva anche in mente di trarre ulteriore vantaggio da un'eventuale resa della casa al venditore (797 sg.). - : è integrazione di Ritschl. + 802. Misericordias . . . oportet: il v. è lacuno­ so (Schoell proponeva di integrare misericordia s hominem) , ma il senso deve essere sempre di tipo sentenzioso come le restanti frasi di questo intervento di Teopropide, tutte caratterizzate da un'ideologia utilitaristica. Un altro caso di accumulo di aforismi proverbiali si può trovare in Pseud., 678 sgg. + 803. Morare hercle Jacis: anche qui abbiamo una lacuna: l'inizio della risposta di Tranione riprende le parole del v. 794 (Num moror?); Schoell propone di integrare disse « e sali sul letto del mio regno! ». Disse e la seppe ili sotto le armi ammucchiate dei compagni. Questa, o vergine, era la dote appropriata per i tuoi servigi. Da Tarpea, che guidò il nemico, il colle ottenne il nome: o custode, ottieni il premio per una sorte ingiusta.

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('Marco Marcello, avendo sobillato un certo Sosistrato di Siracusa al tradimento, seppe da lui che il servizio di sorveglianza sarebbe stato piu blando per il giorno festivo'); vd. anche m 11 1 : remissa urbis custodia. Shackleton Bailey proponeva la correzione custosque remissus. + 86. poenis . . . tuis: l'im­ provvisa apostrofe diretta a Tarpea (cfr. v. 94) fa emergere, nonostante il tono di ferma condanna ai vv. 1, 17, 89, 92, la commiserazione da parte del poeta per la sorte della donna che tradisce la pa­ tria per amore. + 87. portae . . .fidem: qui (cfr. anche v. 94 vigil), come in Ovidio, Fast., 1 261, Tarpea è a guardia della porta del Campidoglio; il resto della tradizione attribuisce invece questo ruolo a suo padre Sp. Tarpeo (cfr. Livio, I n 6; Dionigi di Alicarnasso, n 38 2; Valerio Massimo, IX 6 1; Plutarco, Rom., 17 2). + 94· iniustaepraemia sortis: l'ultimo verso sancisce la definitiva riabilitazione di Tarpea, anche perché dal suo tradimento nascerà l'unione tra Romani e Sabini, fondamentale per la futu­ ra grandezza di Roma (cfr. Properzio, IV 1 29 sg.). La narrazione contiene inoltre sullo sfondo un implicito elemento celebrativo, poiché la gens lulia vantava la propria discendenza per linea fem­ minile, attraverso la gerzs Marcia, dai re sabini di cui proprio Tazio era capostipite.

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III VARIAZIONI SUL GENERE E LEG IACO: OVI D I O

1. GLI AMORES: IL GIOCO GALANTE DELL'AMORE L'esordio poetico di Ovidio avviene nel solco della poesia elegiaca: alcuni anni dopo il 2o egli pubblica una raccolta di elegie in cinque libri con il titolo di Amores; diversi anni piu tardi rimetterà mano a questa opera giovanile, pubblicando una se­ conda edizione in tre libri (l'unica che ci è giunta), come attesta l'epigramma pre­ messo alla nuova raccolta. Fin nel titolo l'opera si ricollega ai modelli dell'elegia la­ tina: Amores era infatti il titolo dell'opera di Cornelio Gallo. Ma l'originalità del gio­ vane poeta balza agli occhi fin dall'elegia proemiale, nella quale, diversamente da Tibullo e Properzio che esplicitavano i principi della propria scelta di vita e di poe­ sia, Ovidio rappresenta in modo giocoso la propria scelta dell'elegia come origina­ ta da un dispetto di Cupido, che sottrae un piede al secondo esametro del poema epico che egli sta componendo e trasforma gli esametri in distici. E carattere volu­ tamente dissacratorio ha anche l'affermazione che il poeta, prima dell'intervento del dio, è libero dalla passione (vv. 19 sg.; 26: in vacuo pectore regnat Amor, 'Amore re­ gna nel cuore libero'). Gli Amores raccontano, come tradizione dell'elegia, l'amore del poeta per una donna, Corinna, e presentano tutti i motivi caratteristici del genere, ma la figura dell'amata è cosi evanescente che si è persino dubitato della sua esistenza; il poeta del resto dichiara di preferire due donne a una (n 10), o addirittura di essere attratto da tutte (n 4) . Sono passati solo pochi anni dall'esperienza dei primi elegiaci, ma Ovidio ha già stravolto l'aspetto costitutivo del genere: l'amore e la dedizione asso­ luti verso una sola donna. Svuotando l'elegia del suo aspetto piu rivoluzionario, un'esistenza centrata sull'amore e in contrasto con la morale tradizionale, Ovidio trasforma l'amore in momento della vita di una società mondana. La passione tra­ volgente che Catullo aveva posto quale centro della propria poesia e che gli elegia­ ci avevano codificato in genere letterario cede il passo al gioco raffinato, all'amore come divertimento galante; scompaiono il pathos e l'intensità delle esperienze poe­ tiche di Catullo o Properzio: l'amore si configura come lusus intellettualistico e l'i­ ronia è il filtro con cui Ovidio rielabora il materiale della poesia elegiaca latina, di­ venuta modello di riferimento (soprattutto Properzio). Specchio del mutamento dell'elegia è la funzione limitata concessa al tema del seroitium, il fulcro dell'univer­ so elegiaco dei suoi predecessori. Rilievo significativo è accordato alla riflessione metaletteraria, come nell'elegia che chiude il primo libro (1 15), una celebrazione dell'immortalità garantita dalla poesia, esemplificata da un catalogo dei grandi poe­ ti greci e latini.

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III · VARIAZIONI SUL GENERE E LEGIAC O : OVIDI O

L'amore nelle elegie di Ovidio è gioco tra gli amanti, descritto con sensualità, ma senza alcuna passione. I motivi tipici dell'elegia sono sottoposti a un processo di in­ novazione e variazione, come, ad es., in I 6, dove il tema topico del paraklausithyron è rivolto non alla porta, ma al portinaio, e da inconcludente lamento dell' exclusus amator diviene abile suasoria finalizzata alla persuasione del ianitor, o in I 9, in cui il motivo della militia amorisviene rovesciato con arguzia: l'amante elegiaco non è piu preda dell'ignavia e della desidia per la sua sottomissione ad Amore, ma anzi ha biso­ gno di forza e resistenza per quella che si caratterizza come una vera e propria im­ presa militare. Il gioco letterario del poeta è visibile anche in II 6, epicedio del pap­ pagallo di Corinna, che amplifica virtuosisticamente il c. 3 di Catullo dedicato alla morte del passer di Lesbia, o in III 11, che combina allusioni al c. 8 di Catullo, a Pro­ perzio, III 24, e alla propria II 9, e rende il sofferto Odi et amo di Catullo (c. 85) un motivo da sviluppare con brillanti sententiae. Non mancano esperimenti che antici­ pano la didascalica erotica di Ovidio, come I 4, I 8, II 19, e la narrazione etiologica di m 13 costituisce un antecedente dei Fasti. I libri sono strutturati secondo il criterio della poikilia; le elegie sono talvolta di­ sposte in dittici, anche con effetti sorprendenti come nel caso di n 7-8, la prima un'autodifesa dalle accuse di Corinna di averla tradita con la schiava Cipasside, la seconda, rivolta alla schiava stessa, una rivelazione del tradimento e una spregiudi­ cata richiesta di ulteriori rapporti.

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V · L ' ELEGIA

AMORES 11 4

Non ego mendosos ausim defendere mores falsaque pro vitiis arma movere meis. Confìteor, si quid prodest delicta fateri; in mea nunc demens crimina fassus eo. Odi, nec possum cupiens non esse, quod odi:

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heu quam, quae studeas ponere, ferre grave est! Nam desunt vires ad me mihi iusque regendum; auferor, ut rapida concita puppis aqua. Non est certa meos quae forma invitet amores: centum sunt causae cur ego semper amem.

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Sive aliqua est oculos in me deiecta modestos, uror, et insidiae sunt pudor ille meae; sive procax aliqua est, capior quia rustica non est spemque dat in molli mobilis esse toro; aspera si visa est rigidasque imitata Sabinas,

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velle sed ex alto dissimulare puto;

Amores. Nell'elegia II 4 appare con tutta evidenza l'atteggiamento ironico di Ovidio nei con­ fronti della tradizione elegiaca: mentre il poeta elegiaco è completamente dedito a una sola don­ na, ispirazione e centro della sua poesia, della quale è disposto a sopportare persino i tradimenti, e consuma la propria vita struggendosi per il proprio amore infelice, Ovidio dichiara con disinvol­ tura di essere attratto da ogni tipo di donna. Anche Properzio in II 22a propone un modello di amore libertino, ma per il poeta umbro si tratta di un tentativo isolato, una sorta di pausa dal servi­ tium di Cinzia; Ovidio porta l'atteggiamento all'estremo e, dichiarando di essere sedotto da donne diversissime fra loro, rivela l'assenza di un oggetto determinato della sua passione (non una donna, ma la donna lo attrae). Piu che poesia d'amore, l'elegia diviene con lui poesia del gioco d'amore e delle sue schermaglie e preannuncia la didascalica erotica. Ilpathos elegiaco cede il passo all'ironia divertita. Il testo è quello stabilito da EJ. Kenney (Oxford, Univ. Press, 19942 [19611]), a eccezione del V. ll. II 4. Mi piacciono tutte. Il poeta riconosce i suoi difetti, ma non può fare a meno di ricadervi: è at­ tratto da tutte le donne e di ognuna apprezza le qualità. L'elegia presenta l'aspetto di una sotta di catalogo delle donne, da cui emerge un quadro compiaciuto della vita galante e mondana della ca­ pitale. 5-6. Il distico propone una personale rielaborazione del catulliano Odi et amo (c. 85); ma mentre per il poeta veronese la dissociazione tra la componente sensuale e quella razionale-emotiva pro­ duce un drammatico conflitto interiore (espresso anche nella celebre contrapposizione tra amare e bene velle in 72 8), in Ovidio è l'ironia a venare di sé le radicali affermazioni del poeta (l'Odi in aper-

III · VARIAZIONI SUL GENERE ELEGIACO: OVIDIO GLI AMORI

II 4 lo non oserei difendere il mio carattere difettoso e utilizzare false armi in difesa dei miei vizi. Confesso, se serve a qualcosa confessare i delitti; ora, folle, dopo aver confessato, ricado nelle mie colpe. Mi odio, né posso, pur desiderandolo, non essere ciò che odio: ahi, quanto è difficile sopportare ciò che ti sforzi di abbandonare! Infatti mi mancano le forze e la facoltà per governare me stesso; sono trascinato come nave rapida dall'acqua impetuosa. Non c'è un aspetto determinato che attrae il mio amore: vi sono cento motivi, perché io ami sempre. Se una ha chinato a causa mia gli occhi pudichi, ardo e quel pudore è la mia insidia; o se una è lasciva, sono catturato, perché non è rozza, e mi dà speranza di essere agile nel morbido letto; se mi è sembrata ruvida e emula delle severe sabine, penso che voglia, ma che dissimuli nel profondo;

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tura di verso che richiama esplicitamente Catullo), come sì può ben vedere dal fatto che la passio­ ne combattuta non è bruciante bramosia per una sola, come nel caso di Catullo, ma volubile desi­ derio di tutte le donne. Un'altra ripresa del motivo è in Am , m 14 39 sg.: tunc amo, tunc odifrustra, quod amare necesse es� l tunc ego, sed tecum, mortuus esse velim ('allora amo, allora odio, invano, poiché è inevitabile amare, allora io, ma con te, vorrei essere morto'); si veda anche l'intera 111 11. + 11. oculos in me deiecta modestos: gli editori si dividono tra la bella congettura in humum di S. Timpanaro (in � A&R �. n.s., a. m 1953, pp. 95-99 = Id., Contributi, pp. 678 sg.), già proposta da Heinsius, che poggia sul parallelo notevole di Am., m 6 67: i/la oculos in humum deiecta modestos (cfr. anche Met., VI 607), e in se di tradizione minoritaria, che non offre paralleli calzanti. Il tràdito in me (conservato da Mu­ nari nella prima edizione, ma poi abbandonato) è però difendibile, sia dal punto di vista linguisti­ co, poiché deicere oculcs (e sim.) è anche assoluto (cfr. Virgilio, Aen., XI 480; Properzio, I 1 3; Ovidio, Am., 1 8 37; Stazio, Theb., m 367; Valerio Fiacco, 11 470) e in + ab!. è frequente in poesia in relazione all'oggetto di un'emozione e specialmente dell'amore (cfr. Ovidio, Am., m 6 25 sg.: Inachus in Melie Bithynide pallidus ìsse l dicitur; m 8 63: me prohibet custos, in me timet illa maritum; Properzio, 11 20 u: in te � et aeratas rumpam, mea vita, catenas; inoltre 11 4 18, 9 35, 15 u; III 8 28, 9 11, 12 15, 17 23; vd. Hof­ marm-Szantyr, p. 126) ; sia per il senso, poiché introduce una notazione non superflua: Ovidio si infiamma perché per causa sua la ragazza ha una reazione di pudore. + 15. rigidas . . . Sabinas: le donne sabìne ricorrono spesso in Ovidio come paradìgma di semplicità e severità di costumi arcaica, tal­ volta in esplicita contrapposizione con la raffinatezza delle romane contemporanee del poeta: cfr. Am., I 8 39 sg.; m 8 61 ; Med., 11-16. Per il racconto del "ratto delle Sabine" cfr. Ars am., I 101-34. .

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V ·

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sive es docta, places raras dotata per artes; sive rudis, placita es simplicitate tua. Est quae Callimachi prae nostris rustica dicat carmina: cui placeo, protinus ipsa placet; est etiam quae me vatem et mea carmina culpet: culpantis cupiam sustinuisse femur. Molliter incedi t: motu capit; altera dura est: at poterit tacto mollior esse viro. Haec quia dulce canit flectitque facillima vocem, oscula cantanti rapta dedisse velim; haec querulas habili percurrit pollice chordas: tam doctas quis non p ossit amare manus? Illa placet gestu numerosaque bracchia ducit et tenerum molli torquet ab arte latus: ut taceam de me, qui causa tangor ab omni, illic Hippolytum pone, Priapus erit. Tu, quia tam longa es, veteres heroidas aequas et potes in toto multa iacere toro; haec habilis brevitate sua est: corrumpor utraque; conveniunt voto longa brevisque meo. Non est culta: subit quid cultae accedere possit; ornata est: dotes exhibet ipsa suas. Candida me capiet, capiet me flava puella; est etiam in fusco grata colore venus. Seu pendent nivea pulii cervice capilli, Leda fuit nigra conspicienda coma;

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19-20. Callimachi . . . carmina: la poesia di Callimaco, il maggior esponente della poesia alessandrina, simboleggia qui il sommo grado della perfezione. La ragazza che definisce 'rozze' le sue poesie al confronto con quelle di Ovidio sta adulando il poeta. + 32. Hippolytum . . . Priapus: lppolito, figlio di Teseo e oggetto di amore non corrisposto da parte della matrigna Fedra nel celebre mito, è sim­ bolo di castità e rifiuto dell'amore. Priapo è divinità fallica dell'Ellesponto, qui in contrapposizio­ ne con la figura di Ippolito. Al passo ovidiano, caratterizzato da un giocoso abbassamento del mi­ to, si rifanno per la descrizione di una ballerina sensuale sia Marziale, XIV 203 (tit. Puella Gaditana): Tam tremulum crisat, tam blandum prurit, ut ipsum l masturbatoremJecerit Hippolytum ('tit. Fanciulla di Cadice. Ondeggia con un tale tremolio, suscita voglia cosi dolcemente, che avrebbe potuto ren­ dere persino lppolito un masturbatore'), che i Priapea, 19 4-6: crisabit tibijluctuante lumbo: l haec sic non modo te, Priape, possit, lpriv(Rnum quoque sed movere Phaedrae ('ondeggerà per te con i lombi oscil­ lanti: costei potrebbe cosi scuotere non solo te, Priapo, ma anche il figliastro di Fedra'). Entrambi

III · VARIAZIONI SUL GENERE ELEGIACO: OVIDIO se sei dotta, mi piaci perché dotata di arti non comuni; se invece sei rozza, mi sei piaciuta per la tua spontaneità. C'è quella che definisce rozze le poesie di Callimaco a confronto con le mie : quella a cui piaccio, subito mi piace; c'è anche quella che critica me poeta e le mie poesie: desiderei tenere sollevate le cosce di colei che mi critica. Incede con grazia: mi prende con il suo incedere; un'altra è rigida: ma potrà ammorbidirsi a contatto con un uomo. Perché questa canta dolcemente e modula la voce con estrema facilità, vorrei averle dato baci rubati mentre canta; questa percorre con abile pollice le corde melodiose : chi potrebbe non amare mani cosi esperte? Quella mi piace per i gesti e muove le braccia a ritmo di danza e torce con arte flessuosa i fianchi delicati: per tacere di me, che mi eccito per ogni motivo, metti li Ippolito, sarà Priapo. Tu, perché sei alta, eguagli le antiche eroine e puoi stare per la tua grandezza distesa sul letto intero; questa è maneggevole per la sua piccolezza: da entrambe sono sedotto; si confanno al mio desiderio la grande e la piccola. Non è agghindata: mi viene in mente cosa le si potrebbe aggiungere se [adornata: è ornata: mette in mostra le sue doti. La ragazza con la pelle diafana mi conquisterà, mi conquisterà quella [con la pelle dorata; l'amore è piacevole anche con un colore scuro. E se cadono sul collo candido come neve capelli scuri, beh, Leda fu oggetto di ammirazione per la sua nera chioma;

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degradano in chiave spiccatamente sessuale i versi ovidiani. + 33-36. Trovare pregi nei difetti della donna costituisce un precetto nell' AtJ amaUnia: per ì problemi di statura cfr. 1 1 645 sg.: omnibus An­ dromache t'isa estspatiosior aequo, l unus, qui modicam diaTet, Hector erat ('a tutti Andromaca sembrò piu alta del giusto, il solo che la definiva piccola era Ettore') e 661: dic 'habilem� quaewmque brevis ('chia­ ma "maneggevole" qualunque ragazza piccola'). - veteres heroidas aequas: eroi ed eroine del mito sono raffigurati di statura piu imponente del normale; c'è qui forse un riferimento specifico ad Andromaca, la cui notevole altezza Ovidio menziona in Arsa m., !1 645 sg., cit sopra; III 777 sg. + 3940. Il candore della pelle era il piu apprezzato, in quanto raro, nel mondo mediterraneo. - tJenus: indica qui, con metonimia mitologica, 'il rapporto d'amore' (cfr. 1 10 33; I I 8 8; Ar.s am., 1 275; II 687; Rem. am., 405). + 42· Leda. . . coma: i capelli neri di Leda non sono ricordati altrove ; in Anth. Pal., v 64

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seu flavent, placuit croceis Aurora capillis: omnibus historiis se meus aptat amor. Me nova sollicitat, me tangit serior aetas: haec melior specie, moribus illa placet. Denique quas tota quisquam probat Urbe puellas, noster in has omnis ambitiosus amor.

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2, è i;avihl ('bionda') . + 43· croceis Aurora mpillis: il colore del croco è legato ad Aurora a partire da Omero (Il., VIII l e altrove: t')Wç . . . xpox6m:nÀoç, 'l'aurora dal peplo di croco') e attraverso Virgilio 55 0

III · VARIAZIONI SUL GENERE E LEGIACO : OVIDIO

se invece sono biondi, Aurora piacque per i capelli color di croco: il mio amore si adatta a tutti i miti. Mi eccita la giovane età, mi turba quella piu matura: l'una è migliore per la bellezza, l'altra mi piace per il modo di [comportarsi. Insomma, a tutte le ragazze che qualcuno apprezza per l'intera città, il mio amore ambisce.

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(Georg., I 447: Tithoni croceum linquens Aurora cubi/e = Aen., IV 585; IX 460) giunge alla tradizione lati­ na; in Ovidio cfr. anche Ars am., m 179 sg.; Fast., m 403; Met., m 150. 551

V · L 'ELEGIA 2. L'ELEGIA AL FEMMINILE: LE HEROIDES

(

Come attesta lo stesso Ovidio Am., II 18 1 9-26), la composizione delle Heroides si colloca nel medesimo periodo di quella degli A mores: una prima raccolta di 15 lette­ re vide la luce forse intorno al 15 (ma c'è chi la colloca fra il 1o e il 3) . Successiva­ mente, negli anni che precedono l'esilio (8 d.C.), il poeta aggiunse una seconda se­

rie di Heroides, costituita da tre coppie di epistole (16-21).

Le prime 15 Heroides sono lettere in distici elegiaci che il poeta immagina scritte da eroine del mito ai loro amanti lontani (l'unica eccezione "storica" è costituita

dalla quindicesima epistola, di Saffo a Faone); vi compaiono alcune tra le pili cele­

bri donne del mito (Penelope, Fedra, Didone, Arianna, Deianira, Medea), ma an­ che personaggi minori e in ombra nella tradizione, come lpsipile abbandonata da Giasone proprio per amore di Medea o Enone, che Paride lascerà per la bella Ele­ na. Le ultime sei epistole sono coppie formate da lettera dell'innamorato e risposta della donna (Ero e Leandro, Paride e Elena, Aconzio e Cidippe). L'idea venne for­ se a Ovidio dall'amico Sabino, che aveva scritto le lettere di risposta degli amanti

(cfr.

Am., II 18 27-34). lontani alle prime quindici Heroides In Ars am., m 345 sg., Ovidio menziona l'opera con orgoglio e consapevolezza

della propria originalità: vel tibi composita cantetur Epistula voce: l ignotum hoc aliis ille no­

vavit opus ('o sia cantata da te con voce impostata un'Epistola: egli ha creato questo

genere ignoto agli altri'); in effetti, sebbene l'esatto senso di questa affermazione sia oggetto di discussione e sebbene l'epistola poetica elegiaca fosse stata già speri­ mentata da Properzio in IV 3, lettera di Aretusa al marito Licota, è indubbio che una collezione di lettere poetiche come le

Heroides costituisca un'innovazione nel pa­

norama della letteratura antica. La novità pili significativa di questa originale operazione, che mescola elegia ed epistola, è costituita dalla scelta di una voce femminile : infatti il mondo elegiaco la­ tino è frutto della voce del poeta-amante, che occupa la scena, costruendo il pro­ prio universo poetico, nel quale la donna-domina è protagonista senza però aver

Corpus Tibul­ lianum legati al nome di Sulpicia, nei quali le viene attribuito il ruolo di ego elegiaco.

mai la parola. Unica eccezione in tal senso sono i componimenti del

Il rovesciamento della prospettiva elegiaca latina costituisce un ritorno alla poesia d'amore ellenistica, nella quale era stata quasi sempre la donna a rivestire il ruolo dell'amante infelice (basti pensare al secondo Idillio di Teocrito, in cui Simeta ricor­ da il passato felice del suo amore, lamenta il tradimento dell'amato e ricorre alla magia per riconquistarlo). Anche per questo aspetto Ovidio trova un precedente significativo nell'elegia IV 7 di Properzio, nella quale Cinzia morta appare in sogno al poeta, presentandosi come donna moralmente esemplare. Ma la scelta di Ovidio di prendere dal mito le eroine delle sue lettere è carica di conseguenze sull'opera: si tratta infatti di "personaggi letterari", tratti principalmente dalla tradizione epi­ co-tragica; perciò dar voce a queste eroine significa per Ovidio confrontarsi con le 552

III · VARIAZIONI SUL GENERE E LE GIACO : OVIDI O opere che le hanno rese celebri. Allusione e intertestualità sono meccanismi con i quali il lettore delle Heroides deve avere familiarità per poter cogliere appieno i ri­ svolti dell'opera ovidiana. Con le Heroides Ovidio trasferisce e riscrive nel codice elegiaco le principali sto­ rie d'amore del mito greco. Il mito da proiezione ideale delle vicende personali del poeta, come era in Properzio, diviene materia della poesia, come nell'epillio (e non a caso è un epillio, il c. 64 di Catullo, a fornire, con il lamento di Arianna abbando­ nata da Teseo a Nasso, un archetipo al lamento delle eroine ovidiane). Le Heroides pertanto giocano non soltanto con i modelli alti della tradizione, ma anche e so­ prattutto con l'elegia, di cui presentano motivi tradizionali, come il tormento per la lontananza della persona amata, le suppliche, le recriminazioni, i sospetti di infe­ deltà, le accuse di tradimento; ma anche lo stile e il lessico sono elegiaci. La struttura epistolare favorisce, ancor piti che negli Amores, l'influsso della re­ torica e in particolare delle

suasoriae, di cui spesso le lettere assumono il carattere, controversiae. La fissità

mentre nelle coppie finali è stata segnalata l'affinità con le

della situazione-tipo, pur nella varietà dei miti, e la chiusura formale del monolo­ go ingenerano una certa monotonia. Piti che in altre opere Ovidio indulge nelle

Heroides al pathos, che proviene dai modelli epici e tragici, ma non manca l'ironia, che è la vera cifra stilistica del poeta di Sulmona.

I;aspetto piti significativo è, come si diceva, la creazione di una voce femminile

in un mondo letterario sostanzialmente maschile. E proprio nello spazio concesso alla donna e alle sue istanze, abitualmente escluse dalla società come dalla lettera­ tura latina, e nella capacità di approfondimento della psicologia femminile, in gra­ do di competere con quella di Euripide, sta l'aspetto piti riuscito delle diane.

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Heroides avi­

V · L 'ELEGIA

HEROIDES 1

Hanc tua Penelope lento tibi mittit, Ulixe. Nil mihi rescribas tu tamen; ipse veni! Troia iacet certe, Danais invisa puellis, - vix Priamus tanti totaque Troia fuit! O utinam tum, cum Lacedaemona classe petebat, obrutus insanis esset adulter aquis! Non ego deserto iacuissem frigida lecto, non quererer tardos ire relicta dies nec mihi quaerenti spatiosam fallere noctem lassasset viduas pendula tela manus. Quando ego non timui graviora pericula veris? Res est solliciti p lena timoris amor. In te fìngebam violentos Troas ituros; nomine in Hectoreo pallida semper eram; sive quis Antilochum narrabat ab Hectore victum,

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Heroides. Si presenta l'epistola che Ovidio pone in modo significativo in apertura delle Heroides: il rapporto tra la fedele Penelope e l'eroe lontano Odisseo, fissato alle origini della letteratura oc­ cidentale nell'Odissea america, costituisce l'archetipo della situazione presupposta nelle lettere delle eroine ovidiane. Il confronto con Omero consente di mettere in risalto la raffinata arte allu­ siva di Ovidio, ma anche di valutare appieno la transizione del personaggio di Penelope dal mon­ do epico a quello elegiaco. Il poeta si dimostra acuto nel penetrare nella psicologia femminile, rea­ lizzando un « capolavoro di garbata maniera » (Mariotti). L'edizione è quella di H. Déirrie (Berlin­ New York, de Gruyter, 1971) , con qualche divergenza nel testo e nella punteggiatura.

1. Penelope a Ulisse. Troia è caduta, eppure Ulisse ancora non ritorna in patria. Penelope è co­ stretta a trascorrere interminabili giorni e a ingannare la notte tessendo la sua tela. Quando Troia era in piedi, ogni notizia era fonte di paura. Ora i condottieri greci sono tornati a casa, raccontano le loro gesta e quelle eroiche di Ulisse. Ma per Penelope è come se Ilio non fosse mai caduta: il ma­ rito vincitore è lontano, in terre sconosciute, forse avvinto da un altro amore. Nonostante le ri­ chieste del padre lcario e i numerosi pretendenti che affollano la reggia di Ulisse, Penelope rifiuta di prendere un nuovo marito. Ma non potrà certo resistere a lungo, aiutata soltanto dal vecchio Laerte e dal giovane Telemaco. Anche per loro, oltre che per sua moglie, l'eroe deve far ritorno. 1. Hanc: scii. epistulam. L'ellissi è ignota alla lingna poetica e Ovidio altrove usa un generico pro­ nome neutro (cfr. Her., 10 3; Pont., IV 14 1) ; Palmer correggeva perciò in haec. Tuttavia il titolo del­ l'opera, come attesta Ovidio stesso in Ars am., m 345: vel tibi composita cantetur Epistula voce, doveva essere Epistulae (Heroidum) e ciò rende l'ellissi accettabile. - lento: l'aggettivo, collocato in posizio­ ne enfatica nel primo verso, significa 'lento a tornare', ma è anche proprio del lessico elegiaco per 554

III · VARIAZIONI SUL GENERE E LEGIACO: OVIDIO

LETTERE DI EROINE 1

Questa lettera, Ulisse, manda a te pigro la tua Penelope. Tu però non rispondermi nulla; vieni di persona! Troia, odiosa alle ragazze greche, è sicuramente rasa al suolo, - a malapena valeva tanto Priamo e Troia intera! Ah magari, quando si dirigeva a Lacedemone con la flotta, l'adultero fosse stato sommerso dalla furia delle acque! lo non sarei stata distesa infreddolita nel letto solitario, non mi lamenterei, abbandonata, che i giorni trascorrano lenti, né a me, che cerco di ingannare la lunga notte, la tela pendente avrebbe affaticato le vedove mani. Quando non ho temuto pericoli pili gravi dei veri? I.:amore è cosa piena di inquieto timore. M'immaginavo che i Troiani violenti si sarebbero scagliati su di te; al nome di Ettore ero sempre pallida; se qualcuno mi raccontava che Antiloco era stato vinto da Ettore,

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'freddo in amore', 'che non ricambia' (cfr. Properzio, I 6 12: a pereat, si quis lentus amare potesti, 'che muoia chi può amare con freddezza!') e anticipa i rilievi mossi all'eroe dalla moglie nel prosieguo della lettera. + 4· Il verso rende esplicito il passaggio dal codice epico a quello elegiaco {non a caso si tratta di un pentametro, che differenzia il distico elegiaco dall'esametro stichico): la guerra di Troia, nell'ottica della moglie abbandonata Penelope, non valeva il costo affettivo imposto alle donne greche; l'espressione ricorre analoga in contesti di critica alla rinuncia all'amore per attività di guerra o commercio in Properzio, m 12 3 sg.: fantine ullafuit spoliatigloria Parthi, l ne}àceres Galla multa rogante tua? ('valeva tanto la gloria del Parto spogliato, mentre la hla Galla ti pregava molto che non lo facessi?'); 20 4: tantine, ut lacrimes, Africa totafuit? ('l'Africa intera valeva forse il hlo pian­ to?'). + 6. adulter: Paride, responsabile, per il rapimento di Elena, dello scoppio della guerra, è nel­ l'ottica della casta moglie Penelope soprathltto un adultero {anche se l'epiteto è tradizionale per il troiano: Virgilio, Aen., x 92; XI 268; Orazio, Carm., IV 9 13; Properzio, II 34 7; Ovidio, Ars am., II 365; Her., 19 177). + 9-10. Ovidio tace qui il celebre inganno della tela di Penelope, che la donna filava di giorno e disfaceva di notte per differire la scelta di un nuovo marito (cfr. Omero, Od., II 93 sgg.; XIX 138 sgg.; XXIV 128 sgg.); l'ashlta eroina epica, degna sposa dell'eroe della metis, cede il passo alla don­ na elegiaca, che utilizza la tela solo per "ingannare" le lunghe notti solitarie: i versi infatti alludono alla Cinzia di Properzio, I 3 39-42: O utinam talisproducas, improbe, noctes, l me miseram qualissemper ha­ bere iubes! l Nam modo purpureojàllebam stamine somnum, l rursus et Orpheae carmine,fessa, lyrae ('Che hl possa, malvagio, trascorrere notti tali, quali imponi sempre di passare a me infelice! Infatti ora in­ gannavo il sonno con lo stame di porpora, oppure, stanca, con il canto della lira di Orfeo', cfr. so­ pra, pp. 532-35). 555

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Antilochus nostri causa timoris erat, sive Menoetiaden falsis cecidisse sub armis, flebam successu posse carere dolos. Sanguine Tlepolemus Lyciam tepefecerat hastam, Tlepolemi leto cura navata mea est. Denique quisquis erat castris iugulatus Achivis, frigidius glacie pectus amantis erat. Sed bene consuluit casto deus aequus amori: versa est in cineres sospite Troia viro. Argolici rediere duces, altaria fumant, ponitur ad patrios barbara praeda deos. Grata ferunt nymphae pro salvis dona maritis; illi vieta suis Troia facta canunt. Mirantur iustique senes trepidaeque puellae, narrantis coniunx pendet ab ore viri. Atque aliquis posita monstrat fera proelia mensa pingit et exiguo Pergama tota mero: « Hac ibat Simois, haec est Sigeia tellus, hic steterat Priami regia celsa senis; illic Aeacides, illic tendebat Ulixes, hic lacer admissos terruit Hector equos » . Omnia namque tuo senior te quaerere misso rettulerat nato Nestor, at ille mihi. Rettulit et ferro Rhesumque Dolonaque caesos,

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17. Menoetiaden: Patroclo, figlio di Menezio, scese in battaglia con le armi di Achille, ma fu ucciso da Ettore (Omero, Il., XVI). n patronimico, già in Omero (Il., I 307 e altrove), ricorre in latino a par­ tire da Properzio, n 1 38. + 22.jri![idiusgiade: il comparativo con l'ablativo di comparazione di un ter­ mine che possiede al massimo grado la qualità indicata dall'agg. è modulo della lingua familiare, piti espressivo del superlativo grammaticale e perciò caro ai poeti latini (cfr., ad es., nive candidior, melle duldor); un pezzo di bravura tecnica costruito su questo modulo è il canto di Polifemo a Ga­ latea in Ovidio, Met., xm 789 sgg. La iunctura ricorre per i sentimenti dell'innamorata ancora in Her., 10 32:jrigidiorJ[lade semianimisquefui (Arianna abbandonata da Teseo a Nasso). + 27-28. M. Ree­ ve (in « CQ », n.s., a. xxm 1973, pp. 331 sg.) considera il distico interpolato per ragioni lessicali e sti­ listiche. - Troia: l'aggettivo, per la prima volta in Catullo (65 7) e quindi in Virgilio (Aen., I 119 e al­ trove), è anche in Her., 16 107. -focta: preferibile ajàta, accolto da Dorrie: gli eroi greci pongono in risalto le proprie imprese (in Omero xÀÉa àvòpG:N), piuttosto che il destino, in cui non hanno par­ te (cfr. anche Tibullo, I 10 31, cit. sotto). + 29. iustiquesenes: l'epiteto, piuttosto convenzionale e poco motivato dal contesto (ben diversi i casi di Fast., IV 524, v 384; Met., VIII 704), ha suscitato dubbi, ma le alternative proposte (lassique Riese, laetique Schenkl) non sono persuasive. È possibile che le pa55 6

III · VARIAZIONI SUL GENERE ELEGIACO : OVIDIO Antiloco era causa del mio timore, o che il figlio di Menezio era caduto con armi ingannevoli, piangevo che le astuzie potessero restar prive del successo. Tlepolemo aveva intiepidito col suo sangue l'asta licia, la mia preoccupazione era rinnovata dalla morte di Tlepolemo. Insomma chiunque fosse sgozzato nell'accampamento acheo, il mio cuore di amante diveniva piu freddo del ghiaccio. Ma un giusto dio ha ben provveduto al casto amore: Troia è ridotta in cenere e mio marito sano e salvo. I condottieri argolici sono ritornati, gli altari fumano, la preda barbara è offerta agli dei della patria. Le spose recano grati doni per i mariti salvi; quelli cantano le imprese troiane superate dalle proprie. Li ammirano giusti vecchi e ragazze trepidanti, la moglie pende dalla bocca del marito che narra. E qualcuno illustra sulla mensa allestita le feroci battaglie e con un po' di vino dipinge l'intera Pergamo: «

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Di qua scorreva il Simoenta, questa è la terra sigea, qui si ergeva l'alta reggia del vecchio Priamo;

qui aveva tenda l'Eacide, là Ulisse, qui Ettore straziato atterri i cavalli lanciati in velocità ». Infatti ogni cosa aveva riferito a tuo figlio inviato a cercarti il vecchio Nestore, e lui a me.

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Gli riferi anche di Reso e Dolone uccisi col ferro, role di Penelope siano volutamente convenzionali ('vecchi giusti e ragazze trepidanti') per marca­ re la distanza tra la normalità dell'eroe che torna a casa e l'eccezionalità della propria condizione. + 30. Il verso allude a Virgilio, Aen., tv 79 (Didone innamorata ai racconti di Enea): pendetque iterum

narrat1tis ab ore. + 31-32. I versi sono influenzati da Tibullo, 1 10 29-32, in un contesto di condanna del­

la guerra: sic placeam vobis: alius sitfortis in armis, l sternat et adversos Martefavente duces, l ut mihipotanti

possit sua dicereJacta l mi/es et in mensa pingere castra mero ('che io cosi piaccia a voi: un altro sia corag­

gioso in armi e abbatta con il favore di Marte i capi che gli si parano contro, perché possa raccon­ tare le sue imprese di soldato a me che bevo e con il vino tracciare sulla mensa l'accampamento'). In Ars am., u 123-40, Ovidio allude ironicamente a questa scena, rappresentando Ulisse che descri­ ve le vicende troiane a Calipso, disegnandole sulla sabbia. + 39· ferro Rhesumque Dolonaque caesos: Dolone, figlio dell'araldo Eumede, inviato da Ettore a spiare i l campo acheo con la promessa dei cavalli e del carro di Achille, cadde in un'imboscata di Uli�se e Diomede, i quali, dopo averlo co­ stretto a rivelare i piani dei Troiani, lo uccisero. Venuti quindi a conoscenza dell'arrivo di Reso, re di Tracia, alleato dei Troiani, penetrarono nell'accampamento e, mentre Diomede fece strage dei Traci, Ulisse razziò gli splendidi cavalli del re. Sull'episodio è incentrato il l. x dell Iliade (la cosid'

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utque sit hic somno proditus, ille dolo.

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Ausus es, o nimium nimiumque oblite tuorum, Thracia nocturno tangere castra dolo totque simul maetare viros, adiutus ab uno! At bene cautus eras et memor ante mei. Usque metu micuere sinus, dum vietar amicum

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dictus es Ismariis isse per agmen equis. Sed mihi quid prodest vestris disieeta lacertis Ilios et murus quod fuit esse salurn, si maneo, qualis Troia durante manebam, virque mihi dempto fine carendus abest?

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Diruta sunt aliis, uni mihi Pergama restant, incola captivo quae bove vietar arat; iam seges est, ubi Troia fuit, resecandaque falce luxuriat Phrygio sanguine pinguis humus; semisepulta virum curvis feriuntur aratris

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ossa, ruinosas occulit herba domos; vietar abes, nec scire mihi, quae causa morandi aut in quo lateas ferreus orbe, licet. Quisquis ad haec vertit peregrinam litora puppim, ille mihi de te multa rogatus abit;

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quamque tibi reddat, si te modo viderit usquam, traditur huic digitis charta notata meis. Nos Pylon, antiqui Neleia Nestoris arva, misimus; incerta est fama remissa Pylo. Misimus et Sparten: Sparte quoque nescia veri. Quas habitas terras aut ubi lentus abes? Utilius starent etiam nunc moenia Phoebi; irascor votis heu levis ip sa meis! Scirem ubi pugnares et tantum bella timerem et mea cum multis iuneta querela foret.

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detta Dolonia) . + 40. dolo: Dorrie, insieme ad altri editori, pone il termine tra cruces, per via della du­ ra ripetizione di dolo come ultima parola del v. 42 e per il sospetto, ingenerato dalla lezione Dolon dei codici E V, che si tratti di una glossa per i/le penetrata nel testo. Ma la ripetizione non è estra­ nea allo stile ovidiano: cfr., nelle Heroides, la ripetizione, nella stessa sede metrica, di nurns in 5 82 e 84. Dolus è inoltre non solo termine tematico in relazione a Ulisse (cfr. v. 18 e Virgilio, Aen., n 4344= ulla putatis l dona carere dolis Danaum? Sic notus Ulixes?, 'credete che qualche dono dei Danai sia 558

I I I · VARIAZIONI SUL GENERE E LEGIACO : OVIDIO

e di come questi sia stato tradito dal sonno, quello dall'astuzia. Hai osato, o troppo, troppo dimentico dei tuoi, spingerti fino al campo tracio con inganno notturno e scannare insieme tanti eroi, aiutato da uno solo! Ma eri ben attento e prima di tutto memore di me. Il petto non smise di sobbalzarmi dalla paura, finché non fu raccontato che vincitore eri passato tra la schiera amica sui cavalli ismarii. Ma a me cosa giova Ilio distrutta dalle vostre braccia e che sia suolo ciò che fu muro, se rimango come stavo quando Troia esisteva ed è lontano mio marito, destinato a mancarmi senza fin e? Per gli altri è stata abbattuta, per me sola rimane in piedi Pergamo, che il vincitore stabilitovisi ara con buoi prigionieri; ormai c'è la messe, dove fu Troia, e la terra, feconda per il sangue frigio, dà frutti rigogliosi, pronta a essere tagliata dalla falce; le ossa semisepolte degli eroi sono urtate dagli aratri ricurvi, l'erba nasconde le case in rovina. Pur vincitore sei lontano, né mi è concesso di sapere quale sia la causa [dell'indugio, o in quale parte del mondo tu, spietato, sia nascosto. Chiunque volge la poppa straniera a questi lidi, va via dopo aver ricevuto da me molte domande su di te, e gli è affidata questa lettera, vergata dalle mie dita, da darti, se solo ti incontrerà in qualche luogo. Ho inviato a Pila, terra nelea del vecchio Nestore: da Pilo mi sono state rinviate voci incerte. Ho inviato anche a Sparta: anche Sparta ignora la verità. Che terre abiti o dove te ne stai lontano indifferente? Sarebbe meglio che ancora si ergessero le mura di Febo; ahimè, me la prendo incostante con i miei stessi desideri! Saprei dove combatti e avrei paura soltanto della guerra, e il mio lamento si unirebbe a molti.

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privo di inganni? Cosi vi è noto Ulisse?'), ma anche appropriato alla vicenda di Dolone, caduto nell'agguato dei Greci. Il termine (gr. 06J..oç) permette infine un gioco paretimologico con il no­ me Dolon, già presente nello pseudo-euripideo Reso, 158 sg. + 53-56. Modello dei versi è il cupo fi­ nale del libro 1 delle Georgiche di Virgilio (vv. 489 sgg.) che profetizza in un futuro lontano il ritor­ no delle attività agricole sui luoghi della guerra civile. 559

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Quid timeam ignoro; timeo tamen omnia demens et patet in curas area lata meas. Quaecumque aequor habet, quaecumque pericula tellus, tam longae causas suspicor esse morae. Haec ego dum stulte metuo, quae vestra libido est, esse peregrino captus amore potes. Forsitan et narres, quam sit tibi rustica coniunx, quae tantum lanas non sinat esse rudes. Fallar et hoc crimen tenues vanescat in auras, neve revertendi liber abesse velis. Me pater lcarius viduo discedere lecto cogit et immensas increpat usque moras. Increpet usque licet! Tua sum, tua dicar oportet; Penelope coniunx semper Ulixis ero. Ille tamen pietate mea precibusque pudicis frangitur et vires temperat ipse suas. Dulichii Sarniique et quos tulit alta Zacynthos turba ruunt in me luxuriosa proci inque tua regnant nullis prohibentibus aula; viscera nostra, tuae dilacerantur opes. Quid tibi Pisandrum Polybumque Medontaque dirum Eurymachique avidas Antinoique manus atque alias referam, quos omnis turpiter absens ipse tuo partis sanguine rebus alis? Irus egens pecorisque Melanthius actor edendi ultimus accedunt in tua damna pudor. Tres sumus imbelles numero: sine viribus uxor Laertesque senex Telemachusque puer. Ille per insidias paene est rnihi nuper ademptus, dum parat invitis omnibus ire Pylon. Di, precor, hoc iubeant, ut euntibus ordine fatis ille meos oculos comprimat, ille tuos!

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75. metuo: meditor, variante preferita da Dorrie, significa in Ovidio 'escogitare', 'macchinare', e non è adatto alle riflessioni di Penelope. Il timore si confà invece perfettamente all'ethos della moglie innamorata (cfr., subito prima, v. 71: Quid timeam iy,noro; timeo tamen omnia demens; vdo inoltre Vo l2)o + 760 peregrino amore: la Penelope ovidiana indovina con intuito femminile la relazione di Ulisse o o o

con Calipso; le preoccupazioni della donna divengono le certezze di Deianira, moglie di Ercole,

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III · VARIAZIONI SUL GENERE ELEGIACO: OVIDIO Ignoro ciò che devo temere; tuttavia folle temo ogni cosa, e un ampio spazio si apre alle mie preoccupazioni. Qualunque pericolo nasconde il mare, qualunque la terra, sospetto siano causa di un cosf lungo ritardo. Mentre io temo scioccamente queste cose, tale è la vostra bramosia, tu puoi essere soggiogato da un amore straniero. Forse potresti anche raccontare che moglie rozza che hai, che solo alla lana non consente di essere grezza. Che mi possa sbagliare e questa accusa svanisca nell'aria sottile, e che tu non voglia, anche se libero di tornare, startene lontano! Il padre I cario mi spinge a lasciare il letto vedovo e mi rimprovera di continuo gli infiniti indugi. Mi rimproveri pure di continuo! Tua sono, tua bisogna che sia detta; sarò sempre Penelope moglie di Ulisse. Egli tuttavia si fa vincere dalla mia devozione e dalle preghiere pudiche e modera i suoi impeti. I pretendenti di Dulichio, di Samo e quelli che generò l'alta Zacinto, schiera lussuriosa, si avventano su di me, e regnano nella tua reggia, senza che alcuno glielo impedisca; i tuoi beni, nostre viscere, sono straziati. Perché dirti di Pisandro e Polibo e del crudele Medonte e delle mani avide di Eurimaco e di Antinoo e degli altri, i quali tutti tu, colpevolmente assente, nutri con beni acquisiti col tuo sangue? Il mendicante Iro e Melanzio, che spinge le capre destinate al banchetto, si aggiungono, ultima vergogna., alle tue rovine. Noi siamo tre di numero, imbelli: una moglie senza forze, Laerte, un vecchio, e Telemaco, un ragazzo. Egli mi è stato or ora quasi strappato da un agguato, mentre si preparava ad andare a Pilo, contro la volontà di tutti. Gli dei, prego, impongano che, procedendo secondo ordine il destino, possa chiudere egli i miei occhi, egli i tuoi!

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in Her., 9 47 sg.: Haec rnihiferre parurn!Peregrinos addis arnores, l et rnater de te quaelibet esse potest ('È poco per me sopportare queste cose! Tu vi aggiungi amori stratùeri e qualunque donna può essere ma­ dre da te'). + 95. paoris . Melanthius actoredendi: in Omero, Od., xvii 213 sg., Melanzio è presentato come colui che spinge le capre che faranno da banchetto ai proci. .

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Hac faciunt custosque boum longaevaque nutrix, tertius immundae cura fidelis harae. Sed neque Laertes, ut qui sit inutilis armis, hostibus in mediis regna tenere potest. Telemacho veniet, vivat modo, fortior aetas; nune erat auxiliis illa tuenda patris. Nec mihi sunt vires inimicos pellere tectis; tu citius venias, portus et ara tuis! Est tibi, sitque precor, natus, qui mollibus annis in patrias artes erudiendus erat. Respice Laerten: ut iam sua lumina condas, extremum fati sustinet ille diem. Certe ego, quae fueram te discedente puella, protinus ut venias, facta videbor anus.

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103. Hacfaciunt: hac è persuasiva congettura di Tyrrell per il corrotto haec della maggior parte dei codici (che Dorrie pone tta crnces) : essa infatti restituisce un'espressione idiomatica, spesso corrot­ ta nella tradizione manoscritta (vd. G. Luck, in « RhM », a. cv 1962, p. 351) : cfr. Ovidio, Am., I 3 11 sg.: at Phoebus comitesque novem vitisque repertor l hacjàciunt ('ma Febo e le nove compagne e l'inven-

III · VARIAZIONI SUL GENERE ELEGIACO : OVIDIO Stanno dalla nostra parte il custode dei buoi e la vecchia nutrice, terzo il fedele guardiano del lurido porcile. Ma Laerte, in quanto inabile alle armi, non può tenere il comando in mezzo ai nemici. Verrà per Telemaco, purché viva, un'età piu vigorosa, ora avrebbe dovuto essere protetta dall'aiuto del padre. Né io ho forze per scacciare i nemici dalla nostra casa; vieni tu prontamente, porto e rifugio per i tuoi! Hai un figlio, e prego che ti rimanga, che nei teneri anni avrebbe dovuto essere istruito nelle arti paterne. Volgi indietro lo sguardo su Laerte: perché infine chiuda tu i suoi occhi, egli rinvia l'estremo giorno del fato. Di certo io, che alla tua partenza ero una ragazza, anche ammesso che tu venga subito, ti sembrerò diventata vecchia.

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tore della vite stanno da questa parte'}; Cicerone, Att., VII 3 5; vd. inoltre Ennio, Ann., 258 Vahlen2 (=232 Skutsch):Iuppiter hacstat, 'Giove sta da questa parte' (= Virgilio,Aen.,XII 565). + 103-4· custos harae: il bovaro Filezìo, l a nutrice E uridea e il porcaìo Eurne o. < . .

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3· I L LAMENTo DELL'EsULE: 1 TRisTIA E L E EPISTULAE EX PoNro La relegazione a Tomi, sul mar Nero, iu una terra inospitale agli estremi confini dell'impero, segna una brusca frattura nella brillante carriera poetica di Ovidio. Privato di quell'ambiente mondano e raffinato dell'aurea Roma augustea, che gli aveva ispirato molte opere e aveva costituito il suo pubblico affezionato di lettori, il poeta si ritrova solo, lontano dagli affetti piu cari, in mezzo a barbari che non parla­ no latino. La nuova condizione di esiliato determina l'ultima e piu dolorosa inno­ vazione del codice elegiaco da parte di Ovidio, che ora recupera dell'elegia l'origi­ nario aspetto di poesia del pianto, del lamento, scegliendo per i suoi versi la forma epistolare, che gli consente un contatto, seppur a distanza, con la moglie e con gli amici che non lo hanno abbandonato. La "riconversione" dell'elegia d'amore a ele­ gia del pianto determina il passaggio dalla sofferenza dell'amante infelice a quella dell'esule, mentre l'azione del corteggiamento è rivolta non piu alla puella, ma a pa­ troni che possano perorare la causa del poeta a Roma. La forma della lettera offre a Ovidio l'occasione di recuperare l'esperienza epi­ stolare delle He:roides: assumendo su di sé il ruolo di mittente, egli riscrive le lettere mitologiche, costruendo la figura letteraria del poeta esiliato. Anche il mito, ele­ mento costitutivo dell'elegia d'amore latina, viene recuperato e offre al poeta un repertorio di figure sventurate cui paragonarsi: ad es. in Trist., II 105 sg., Ovidio si as­ simila ad Atteone, che come lui fu punito per aver visto ciò che non avrebbe do­ vuto, mentre sua moglie è piu volte paragonata a Penelope, paradigma di fedeltà (Trist., I 3; v 5, 14). l:amicizia, sentimento che percorre le elegie dell'esilio, è esem­ plificata dalle vicende di Teseo e Piritoo, di Achille e Patroclo, di Oreste e Pilade, modelli difldes. Ben saldo è nella poesia dell'esilio anche il legame con il lettore ge­ nerico, cui Ovidio si rivolge spesso, inaugurando un rapporto tra autore e lettore destinato ad avere fortuna nella successiva età imperiale e nella letteratura occi­ dentale (-+ m p. 109). Tra i motivi è ricorrente quello dell'esilio come morte, che ri­ tornerà in Seneca. La prima opera che il poeta compone lontano dall'Urbe è la raccolta dei Tristia, in cinque libri. Le elegie del primo libro, elaborato durante il viaggio, rievocano gli ultimi momenti che precedono l'addio e il viaggio tempestoso. Il secondo libro è interamente costituito da una lunga elegia apologetica di 578 versi, composta nel 9 d.C. e rivolta ad Augusto con l'intento di scagionare la propria elegia erotica dal­ l'accusa di immoralità. Nucleo dell'autodifesa è una tendenziosa rassegna della sto­ ria letteraria greco-latina, vòlta a dimostrare come tratti erotici siano presenti nelle opere piu celebrate: ad es. a proposito dell'Eneide il poeta ricorda maliziosamente come persino Virgilio avesse portato nel letto di Didone arma virumque ( Trist., II 533 sg.). Gli altri tre libri sono pubblicati separatamente negli anni tra 9 e 12. I destinatari delle epistole non sono nominati esplicitamente: il poeta, caduto in disgrazia, teme

III · VARIAZIONI SUL GENERE E LEGIAC O : OVIDIO

che la sua sorte possa danneggiare anche altri. Il rigido paesaggio dell'inverno geti­ co ispira a Ovidio pannelli descrittivi di grande efficacia (ad es. in m 10). I.:ultima elegia del quarto libro (Iv 10) è un lungo componimento autobiografico, che si chiude con un'orgogliosa affermazione dell'immortalità assicuratagli dalla poesia. Della seconda raccolta, le Epistulae ex Ponto, i primi tre libri vengono composti tra il 12 e il 13, il quarto tra il 13 e il 16. Si accentua il carattere epistolare attraverso le formule e i topoi del genere (la lettera come colloquio tra amici lontani, l'illusione della presenza nel distacco, ecc.). I destinatari, ora nominati senza preoccupazione, sono tra i personaggi e i letterati piu in vista della Roma del tempo. Ma il perdu­ rante esilio e l'affievolirsi della speranza di rivedere Roma portano il poeta a un at­ teggiamento sempre piu rivolto verso il passato. Il senso di solitudine emerge in modo netto nella celebre immagine del ballerino al buio, cui Ovidio paragona la propria condizione di poeta ormai privo di lettori (Pont., IV 2 33 sg.). Ciò nonostan­ te la poesia rimane l'unico sostegno, la garanzia dell'immortalità e l'ultima elegia della raccolta (Iv 16), un attacco al Livor ('Invidia') personificato, contiene un cata­ logo dei poeti piu in vista della Roma di Ovidio, tra i quali egli aveva un posto di tutto rilievo: la fama data dalla poesia ha la meglio sulla tristezza e sulla solitudine dell'esilio.

V · L ' ELEGIA

TRISTIA 13 Cum subit illius tristissima noctis imago, qua mihi supremum tempus in urbe fuit, cum repeto noctem, qua tot mihi cara reliqui, labitur ex oculis nunc quoque gutta meis. Iam prope lux aderat qua me discedere Caesar fìnibus extremae iusserat Ausoniae. Nec spatium nec mens fuerat satis apta parandi: torpuerant longa pectora nostra mora. Non mihi servorum, comites non cura legendi, non aptae profugo vestis opisve fuit. Non aliter stupui quam qui Iovis ignibus ictus vivit et est vitae nescius ipse suae. Ut tamen hanc animi nubem dolor ipse removit, et tandem sensus convaluere mei, alloquor extremum maestos abiturus amicos,

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Tristia. I.:elegia proposta è forse la piti celebre tra quelle dell'esilio e a essa andò il pensiero di Goethe mentre si allontanava da Roma. Ovidio rievoca con commozione la sua ultima notte nel­ l'Urbe prima di partire per l'esilio a Tomi: il suo stato quasi di torpore, il triste addio ai pochi ami­ ci rimastigli accanto nella sventura, il pianto partecipe della moglie Fabia. Tutt'attorno gemiti e grida quali dovettero essere nell'ultima notte di Troia. La quiete notturna della città produce un drammatico contrasto con la casa dell'esule. Velegia assume i tratti della tragedia: sulla scena il poeta ha il ruolo di protagonista, la moglie di deuteragonista, gli amici e i servi del coro. Ma nella rappresentazione dell'addio Ovidio si appropria anche del modello epico dell'ultima notte di Troia

e suggerisce al lettore il parallelo tra se stesso ed Enea, esule per volere del fato. Infine il sofferto commiato dalla moglie evoca anche l'archetipo degli addii letterari : quello di Ettore ad Androma­ ca in Omero, n., VI 369 sgg. L: elegia è non a caso collocata tra le due descrizioni della tempesta che accompagna il viaggio del poeta verso Tomi (I 2 e I 4), quasi si trattasse di un ricordo che affiora al­ la mente di Ovidio durante il pericoloso viaggio verso il Ponto. Il testo prescelto è quello di S. G. Owen ( Oxford, Univ. Press, 1915), con qualche modifica.

I 3· Roma addio! Il ricordo dell'ultima notte trascorsa a Roma è sempre motivo di lacrime per il

poeta. Egli ricorda il suo stato di torpore nei momenti precedenti la partenza e l'incapacità di pen­ sare agli aspetti pratici dell'esilio. Riavutosi, porge l'estremo saluto ai pochi amici rimastigli accan­ to. La moglie Fabia in lacrime lo abbraccia disperata e tutto intorno è pianto come a un funerale. Tale era l'aspetto di Troia nell'ultima notte fatale. Il poeta si rivolge agli dei di Roma e afferma la propria buona fede, nella speranza che anche Augusto si convinca della sua innocenza. Intanto la moglie prega invano i Penati della famiglia. Nel frattempo fugge la notte, Ovidio non sa decider-

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III · VARIAZIONI SUL GENERE ELEGIACO: OVIDIO I

TRISTIA 13

Quando mi viene alla mente la tristissima immagine di quella notte, nella quale trascorsi gli estremi momenti nell'Urbe, quando ripenso alla notte in cui abbandonai tante cose a me care, ancora oggi una lacrima scivola giu dai miei occhi. Ormai era vicina la luce del giorno in cui Cesare aveva ordinato s che io mi allontanassi dagli estremi confini dell'Ausonia. Né vi era stato tempo, né mente sufficientemente adeguata per i [preparativi: il mio animo si era intorpidito per il lungo indugio. Non ebbi cura di scegliere i servi, non i compagni di viaggio, non di scegliere le vesti o le risorse adeguate a un esule. 10 Fui sbalordito non diversamente da colui che, colpito dal fulmine di Giove, è in vita ed è inconsapevole della sua vita. Come tuttavia il dolore stesso ebbe rimosso questa nube del mio animo e infine i miei sensi si furono ristabiliti, rivolsi l'estremo saluto, ormai prossimo alla partenza, ai mesti amici, 15 si al passo finale, stringe a sé tutti i suoi cari. Ormai è l'alba: quasi separandosi dalle sue stesse mem­ bra, egli esce di casa. Fabia compie un ultimo disperato tentativo di persuaderlo a portarla con sé, ma il fato ha voluto diversan1ente. Gli raccontano che dopo la sua partenza la donna, caduta esa­ nime in terra, abbia poi pianto se stessa e i Penati abbandonati e invocato il marito strappatole; ab­ bia desiderato di morire, ma sia stata trattenuta dal rispetto per il marito. Che ora possa vivere per alleviare il suo esilio! 8. longa . . . mora: Hall mette a testo la sua congettura paroa (per longa) e già D.R.. Shackleton Bai­ ley (Notes on Ovid's Poemsfrom Exile, in « CQ », a. LXXV1 1982, p. 391) aveva proposto dempta, sulla ba­ se della presunta contraddizione tra v. 7: Necspatium . . .Juerat, e v. 8: longa . . . mora; ma l'incongruen­ za può essere eliminata ipotizzando che la longa mora faccia riferimento a un periodo in cui Ovidio, subita la condanna alla relegazione, non aveva però ancora ricevuto un ordine preciso sulla data del suo allontanalllento (Luck); per l'uso di torpescere unito all'idea di lunga durata cfr. Trist., v 12 21 sg.: adde quod ingenium longa rubigine laesum torpet, et est multo, quamfui t ante, minus ('aggiungi che l'in­ gegno, danneggiato dalla lunga ruggine, è intorpidito, ed è molto minore di quanto fu in prece­ denza'). t 11-12. Non aliterstupui . . . Iovis ignibus ictus l vivit: il fulmine di Giove è metafora per la pu­ nizione di Augusto ricorrente nelle opere dell'esilio: cfr. Trist., I l 72: venit in hoc illaJulmen ab arce ca­ put ('da quella rocca venne il fulmine su questo capo'); 1 81 sg.; u 179; IV 5 5 sg.; v 2 .53 sg., 3 31 sg.; Pont., 1 2 126, 7 46. Per il riferimento ai sopravvissuti a un fulmine, intontiti e fuori di sé, cfr. Sene­ ca, Nat. quaesL, II 27 3: quidam vero vivi stupetlt et in totum sibi excidunt, quos vocamus attonitos ('alcuni, so­ pravvissuti, restano intontiti e perdono completamente coscienza di sé; li chiamiamo "attoniti"'}. t 15. alloquor extremum: allude a Virgilio, Aen., VI 466: QuemJìwis? Extremumfoto quod te adloquor, hoc

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qui modo de multis unus et alter erat. Uxor amans fl.entem fl.ens acrius ipsa tenebat, imbre per indignas usque cadente genas. Nata procul Libycis aberat diversa sub oris, nec poterat fati certior esse mei. Quocumque aspiceres, luctus gemitusque sonabant, formaque non taciti funeris intus erat. Femina virque meo, pueri quoque funere maerent, inque domo lacrimas angulus omnis habet. Si licet exemplis in parvo grandibus uti, haec facies Troiae, cum caperetur, erat. lamque quiescebant voces hominumque canumque, Lunaque nocturnos alta regebat equos. Hanc ego suspiciens et ad hanc Capitolia cernens, quae nostro frustra iuncta fuere Lari, « Numina vicinis habitantia sedibus, » inquam « iamque oculis numquam tempia videnda meis, dique relinquendi, quos urbs habet alta Quirini, este salutati tempus in omne mihi. Et quamquam sera clipeum post vulnera sumo, attamen hanc odiis exonerate fugam, caelestique viro, quis me deceperit error, dicite, pro culpa ne scelus esse putet. Ut, quod vos scitis, poenae quoque sentiat auctor:

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est (le ultime parole rivolte da Enea a Didone nell'Oltretomba). h6. qui . . . erat: l'abbandono da par­ te di molti (presunti) amici è tra le recriminazioni piti presenti nelle elegie dell'esilio: cfr. Trist., I 5 33 sg.; m 5 9 sg.; Pont., I 9 15; II 3 29 sg. + 17. Uxor amansflentemjlens: la disposizione delle parole, con il part.jlentem chiuso da amans e flens, visualizza l'abbraccio della moglie all'esule; per il poliptoto {flentemjlens), che intensifica con efficacia il pathos della scena, cfr. anche Pont., I 4 53: et narrare meos }lentiflens ipse labores; Met., XIV 305 sg. + 21-22. La relegazione a Torni equivale alla morte e l'addio agli amici al funerale: per l'idea, che ricorre di frequente nelle opere dell'esilio, cfr. v. 89; I 8 14; v 1 13 sg.; Pont., I 9 17 sg.; II 3 3 sg. + 25. parvo: preferibile al meglio attestato parvis, accolto da Owen, non tanto per l'imitazione di CLE 1988 34: sit, precor, hoc iustum exemplis in parvograndibus uti, quanto per l'ambiguità che si creerebbe con il plurale, peraltro facilmente spiegabile come corruttela genera­ ta da quanto precede (exemplis). + 26. haecfocies Troiae: il paragone con l'ultima notte di Troia assi­ mila implicitamente Ovidio a Enea (cfr. anche n. a v. 77) . + 27-28. !.:immagine è debitrice di Varro­ ne Atacino, FPL, 8 Bl.: desierant latrare canes urbesque silebant: l omnia noctis erantplacida composta quiete ('avevano smesso di latrare i cani e le città tacevano: ogni cosa era tranquilla nella placida quiete della notte'). + 30. nostro . . . Lari: Lar, divinità protettrice del focolare domestico, è metonimia per

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che erano uno o due dei molti di poco prima. La moglie con amore abbracciava me piangente, piangendo lei stessa [piu intensamente, mentre una pioggia di lacrime le cadeva senza posa sulle guance che [non lo meritavano. Mia figlia era molto distante, nelle terre libiche, né poteva essere bene informata della mia sorte. Dovunque uno guardasse, risuonavano lamenti e gemiti, e all'interno c'era l'aspetto di un funerale non silenzioso. Donne, uomini e anche fanciulli si rattristano per la mia morte, e ogni angolo in casa è colmo di lacrime. Se è lecito servirsi di grandi esempi per un piccolo caso, questo era l'aspetto di Troia quando veniva conquistata. E ormai si acquetavano le voci di uomini e di cani, e la Luna alta guidava i cavalli della notte. lo, rivolgendo lo sguardo verso di essa e distinguendo alla sua luce il [Campidoglio, che invano fu vicino alla mia casa, « O numi che abitate sedi vicine, » dico « e templi che non vedrò mai piu con i miei occhi d'ora in avanti, e dei, che ospita l'alta città di Quirino, che devo abbandonare, ricevete il mio addio per sempre. E, sebbene tardi imbracci lo scudo dopo la ferita, liberate però questo esilio dal peso dell'odio, e all'uomo celeste dite quale errore mi abbia ingannato, perché non pensi che in luogo di colpa vi sia delitto. In modo che ciò che voi sapete lo creda anche l'autore della pena:

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indicare la casa, attestata fin dal periodo ciceroniano e comune in poesia. + 37· caelesti . . . viro: Augu­ sto, assimilato a divinità (cfr. v. 40: placato . . . dea) . - quis me deceperit errar: errar è termine-chiave del­ l'opera dell'esilio di Ovidio, che vi ricorre a piu riprese nella sua strategia apologetica: cfr. special­ mente II 207: perdiderint cum me duo crimina, carmen et errar; inoltre I 2 99; II 109; m 1 52, 5 52, 6 26, 11 34; IV 4a 39, 8 40, 10 90; Pont., II 2 55 e 61, 3 92; IV 8 20, 15 25; la stessa espressione ricorre in Trist., IV 1 23. Sulla natura dell'errar, che il poeta identifica nell'aver visto involontariamente qualcosa che non avrebbe dovuto ( Trist., II 103) , due lnillenni di ipotesi non hanno potuto raggiungere risultati cetti. + 38. culp a . . . scelus: Ovidio ammette la propria culpa, errore non intenzionale, ma desidera allonta­ nare l'accusa di scelus (oJadnus) , delitto premeditato (per il concetto cfr. Trist., IV 1 23 sg., 4 37; v 4 18,

8 23 sg.; Pont., I 6 25 sg.).

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placato possum non miser esse deo ». Hac prece adoravi superos ego; pluribus uxor, singultu medios impediente sonos. Illa etiam ante Lares passis adstrata capillis contigit extinctos ore tremente focos, multaque in adversos effudit verba Penates pro deplorato non valitura viro. lamque morae spatium nox praecipitata negabat, versaque in axe suo Parrhasis Arctos erat. Quid facerem? Blando patriae retinebar amore, proxima sed iussae nox erat illa fugae. A! Quotiens aliquo dixi properante: « Quid urges? Vel quo festines ire vel unde, vide! ». A! Quotiens certam me sum mentitus habere horam, propositae quae foret apta viae! Ter limen tetigi, ter sum revocatus, et ipse indulgens animo pes mihi tardus erat. Saepe « vale » dieta rursus sum multa locutus, et quasi discedens oscula summa dedi. Saepe eadem mandata dedi meque ip se fefelli, respiciens oculis pignora cara meis. Denique « Quid propero? Scythia est, quo mittimur », inquam « Roma relinquenda est: utraque iusta mora est. Uxor in aeternum vivo mihi viva negatur, et domus et fìdae dulcia membra domus, quosque ego dilexi fraterno more sodales, o mihi Thesea pectora iuncta fide! Dum licet, amplectar: numquam fortasse licebit amplius; in lucro est quae datur hora mihi ». Nec mora, sermonis verba imperfecta relinquo,

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45· in adversos . . . Penates: le statue tre dei Penati, divinità protettrici della famiglia. La congettura aver­ sos ('che hanno voltato le spalle', dunque 'ostili') di Heinsius, accolta da alcuni editori, inserisce un tratto probabilmente estraneo al testo, tanto piti se si considera che Ovidio paragona la propria sorte a quella di Enea, l'eroe che porta con sé i Penati di Troia verso la nuova patria (cfr. Virgilio, Aen., 1 378 sg.: Sum pius Aeneas, raptos qui ex hostepenatis l classe veho mecum,jàma super aethera notus, 'So­ no il pio Enea e con la flotta porto con me i Penati strappati al nemico, noto per fama fin sopra l'e­ tere'). + 63. Uxor . . . negatur. il verso raggiunge un pathos elevato, intensificato dal poliptoto (vivo . . .

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una volta placato il dio posso non essere infelice ». Con questa preghiera io invocai gli dei; con piu numerose mia moglie, mentre i singhiozzi le interrompevano le parole a metà. Ella anche gettatasi dinanzi ai Lari con i capelli sciolti toccò con bocca tremante il focolare spento e proferf ai Penati che le erano di fronte molte parole, che non avrebbero avuto efficacia per il marito compianto. E ormai la notte precipitando negava spazio all'indugio, e l'Orsa parrasia si era volta sul suo asse. Cosa avrei dovuto fare? Ero trattenuto dal dolce amore della patria, ma quella notte era prossima all'esilio impostomi. Ah! Quante volte, quando qualcuno si affrettava, dissi: « Perché mi incalzi? Considera sia verso dove ti affretti sia da dove! ». Ah! Quante volte dissi mentendo di avere un'ora fissata, che fosse adatta per il viaggio prestabilito! Per tre volte toccai la soglia, per tre volte fui richiamato, e i piedi stessi, indulgenti con l'animo, erano lenti. Spesso, dopo aver detto « Addio », dissi di nuovo molte parole, e, come allontanandomi, diedi gli ultimi baci. Spesso diedi le medesime raccomandazioni e ingannai me stesso, volgendomi a guardare i pegni d'amore cari ai miei occhi. Infine « Perché mi affretto? È la Scizia dove sono mandato », dico « è Roma che devo abbandonare: l'uno e l'altro giusti motivi d'indugio. Per sempre la moglie viva è negata a me vivo, e la casa e i dolci membri della casa fedele, e i compagni che amai fraternamente, oh, cuori uniti a me da fedeltà degna di Teseo! Finché è lecito, li abbraccerò: forse non sarà lecito mai piu; è un guadagno l'ora che mi è concessa ». Non c'è indugio, lascio incompiute le parole del discorso,

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viva), che sottolinea tragicamente come la definitiva separazione dei coniugi non sia dovuta alla morte (cui lascia pensare in aeternum: cfr. Orazio, Carm., II 3 25-28) . + 66. Thesea . . .fide: Teseo e Piri­ too sono nel mondo romano proverbiale exemplum di amicizia (vd. Otto, s.v. Theseus). Ovidio vi ri­ corre nelle opere dell'esilio (Trist., I 5 19, 9 31; v 4 25; Pont., II 3 43, 6 26; m 2 33; IV 10 78) . + 68. in lucro est quae datur hora mihi: la formulazione è debitrice nei confronti della lirica oraziana: Carm., I 9 1315: quid sitjutumm crasjuge quaerere et l quem Fors diemm cumque dabit lucro l appone ('rifuggi dal chie­ dere cosa accadrà domani e qualunque giorno la sorte ti darà, consideralo un guadagno'). + 69. ver571

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complectens animo proxima quaeque meo. Dum loquor et flemus, caelo nitidissimus alto, stella gravis nobis, Lucifer ortus erat. Dividor haud aliter, quam si mea membra relinquam, et pars abrumpi corpore visa suo est. [Sic doluit Mettus tunc cum in contraria versos ultores habuit proditionis equos. ] Tum vero exoritur clamor gemitusque meorum, et feriunt maestae pectora nuda manus. Tum vero coniunx umeris abeuntis inhaerens rniscuit haec lacrirnis tristia verba meis: « Non potes avelli; simul hinc, simul ibimus: » inquit « te sequar et coniunx exulis exul ero. Et rnihi facta via est, et me capit ultima tellus; accedam profugae sarcina parva rari. Te iubet e patria discedere Caesaris ira, me pietas: pietas haec mihi Caesar erit » . Talia temptabat, sicut temptaverat ante, vixque dedit victas utilitate manus. Egredior, sive illud erat sine funere ferri, squalidus immissis hirta per ora cornis. Illa dolore amens tenebris narratur obortis sernianirnis media procubuisse domo:

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ba imperfecta relinquo: Ovidio riusa qui l'espressione con cui aveva descritto l'addio affrettato di Lao­ damia a Protesilao in Her., 13 13 sg.: linguaque mandantis verba impeifecta reliquit: l vix illudpatui dicere tri­ ste « vale»; cfr. anche Her., 21 25; Met., I 526; Stazio, Theb., x 151. + 71-72. Dum loquor. . . Lucifer ortus erat: il sorgere di Lucifero, stella del mattino, che segna l'alba del giorno della partenza, giunge troppo rapidamente per l'esule, mentre ancora rivolge parole ai suoi cari; la temporale dum loquorin aper­ tura di verso allude con ogni probabilità alla piti celebre formulazione latina della fuga inesorabi­ le del tempo: Orazio, Carm., I 11 7 sg.: dum loquimurJugerit invida l aetas. Carpe diem, quam minimum credula postero ('mentre parliamo, sarà fuggito invidioso l il tempo. Cogli il giorno, il meno possibi­ le fiduciosa nel futuro'). Ovidio la usa allusivamente già in Am., I 11 15: dum loquor, horaJugit, ma qui con ben altra intensità emotiva (la riflessione oraziana sul tempo è del resto presente anche nel v. 68). + 75-76. Sic doluit. . . equos: il distico è da considerare interpolato con F.W. Lenz ( Ovid, Tristia' IJ, 75j, in « Maia », a. XIV 1962, pp. 109-16 = Id., Opuscula selecta, Amsterdam, Hakkert, 1972, pp. 308-15), che mette in risalto la sua inadeguatezza sia metrica (elisione di monosillabo in quarto piede) che contenutistica (Ovidio si paragonerebbe al traditore Mettio Fufetio). Vexemplum storico del sup­ plizio di Mettio Fufetio (per cui cfr. Livio, I 28; Virgilio, Aen., vm 642-45; Valeria Massimo, vn 4 1; Gellio, Noct. Att., xx 1 54) appare effettivamente fuori luogo nel contesto epicheggiante dell'elegia.

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abbracciando tutto ciò che era piu vicino al mio cuore. 70 Mentre parlo e piangiamo, lucentissimo nell'alto del cielo, era sorto Lucifero, stella nociva per me. Mi separo non diversamente che se lasciassi le mie membra, e sembrò che una parte fosse troncata dal suo corpo. [Cosi soffri Me zio allorché sperimentò i cavalli, rivolti in direzioni 75 diverse, come vendicatori del tradimento. ] Allora si levano le grida e i gemiti dei miei, e mani meste colpiscono i petti nudi. Allora mia moglie, attaccata alle spalle del partente, mescolò queste tristi parole alle mie lacrime: So « Non mi puoi essere strappato; insieme di qui, insieme ce ne andremo », [disse « ti seguirò e sarò esule moglie dell'esule. Anche per me si è aperta la strada, anche me può ospitare l'estrema regione; mi aggiungerò come piccolo bagaglio all'esule nave. A te impone di allontanarti dalla patria l'ira di Cesare, 85 a me la devozione: questa devozione sarà per me come Cesare ». Tali tentativi faceva, come prima ne aveva fatti, e a stento porse le mani vinte dall'utilità. Esco - o piuttosto quello era essere portato alla sepoltura senza cadavere 90 incolto con i capelli che scendevano sul volto irto. Dicono che lei, folle per il dolore, calate le tenebre, cadesse esanime in mezzo alla casa, Il distico precedente (73 sg.) inoltre contiene anch'esso una similitudine. + 77. Tum vero exoritur e/a­ mor. identico segmento di verso in Virgilio, Aen., xn 756, durante il duello tra Enea e Turno; ma l'espressione allude qui probabilmente a Aen., II 313: Exoritur clamorque virum clangorque tubarum, che descrive grida e suoni nella notte fatale di Troia, già richiamata da Ovidio ai vv. 25 sg. + 81-86. Le parole della moglie Fabia, estremo tentativo di condividere la sorte del marito, presentano un alto grado di elaborazione retorica e di pathos: il destino che la accomuna al marito è posto in risalto dall'anafora di simul (v. 81), dall'uso di coniunx, che rispetto a uxor rinvia etimologicamente all'u­ nione (coniungo), dal poliptoto (exulis exul), dall'insistenza sulla propria partecipazione alla sorte del marito (v. 83: et mihi . . . et me) , che trova coronamento nell'ultimo distico (85 sg.), i cui versi si aprono con i due pronomi te e me, nel disperato tentativo di sovrapporre i due destini. ultima tel­ lus: indica con enfasi il Ponto Eusino anche in Pont., II 8 11. + 88. deditvictas . . . manus: indica la resa del vinto che consegna le mani alle catene. + 91-92. tenebris . . . obortis . . . procubuisse: Ovidio riusa le paro­ le di Laodarnia nel descrivere la partenza di Protesilao in Her., 13 23 sg.: Lux quoque tecum abiit tene­ brisque exsanguis obortis l suaiduo dicor procubuisse genu. + 92. semianimis: il composto, di tono stilistico elevato (cfr. Ennio, Ann., 473 Vahlen2 484 Skutsch), è usato da Virgilio per gli ultimi istanti di Di-

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utque resurrexit foedatis pulvere turpi crinibus et gelida membra levavit humo, se modo, desertos modo complorasse Penates, nomen et erepti saepe vocasse viri, nec gemuisse minus quam si nataeque virique vidisset structos corpus habere rogos, et voluisse mori, moriendo ponere sensus, respectuque tamen non potuisse mei. Vivat, et absentem, quoniam sic fata tulerunt, vivat ut auxilio sublevet usque suo.

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done in Aen., IV 686; in Ovidio già per Arianna abbandonata in Her., 10 32. + 93-94.joedatis pulvere tur­ pi crini bus: appartiene all' imagery epica: cfr. Virgilio, Aen., XII 99 :Joedare in pulvere crinis. + 99. moriendo ponere sensus: concetto epicureo e tenninologia lucreziana (cfr. m 526 sgg.).

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III · VARIAZIONI SUL GENERE ELEGIACO : OVIDIO e che, come sì fu rialzata con i capelli lordi dì lurida polvere ed ebbe sollevato le membra dalla fredda terra, abbia compianto ora se stessa, ora i Penati abbandonati,

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e che spesso abbia invocato il nome del marito strappatole, e che abbia emesso non meno gemiti che se avesse visto i roghi innalzati possedere il corpo della figlia e del marito, e che volesse morire, e deporre con la morte la facoltà dì sentire, ma che non poteva per rispetto verso di me. Che viva e, poiché il fato cosf ha voluto, viva per dare continuo sollievo a me lontano con il suo aiuto.

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IV TRA EPIGRAMMA ED ELE G IA: I PARENTALIA D I AUSONIO Nell'anno del suo consolato (379 d.C.) Ausonio iniziava a comporre il primo nu­ cleo dei Parentalia, raccolta di trenta carmi, preceduti da due prefazioni program­ matiche (una in prosa e una in poesia), che nella forma, cosi come nella sostanza, pare costituire un unicum nel panorama letterario latino. Il titolo della silloge, come spiega lo stesso poeta (Praif., A 6 sgg.), trae origine dal nome delle feste di comme­ morazione che, istituite da Numa, i Romani solevano dedicare alle anime dei de­ funti, in genere dal 13 al 21 febbraio: l'opera, infatti, si presenta come un vero e pro­ prio omaggio di pietas che il Bordolese offre ai propri cari scomparsi, ripiegando in maniera sistematica su una piu intima ispirazione, già emersa nell'Epicedion in pa­ trem dell'anno prima e destinata a informare i coevi epitafì per i colleghi professori di Gallia ( Commemoratio professorum Burdigalensium). Nel presentare al lettore le glorie del suo genus, fedele alle linee guida della sua poetica, Ausonio convoglia i motivi autobiografici all'interno della tradizione let­ teraria, rifacendosi in parte agli scherni dell' epitafio, in parte agli accenti dell'elegia. La maggior parte dei Parentalia ricalca, inoltre, i moduli e la sentenziosità dell'epi­ gramma sepolcrale e, sviluppandosi in maesti elegi (Praif., B 16), recupera nel motivo funebre la funzione originaria del distico elegiaco, non a caso impiegato nei 4/5 dei componimenti (solo 6 di essi, infatti, sono scritti in forme metriche piuttosto ela­ borate, che vanno dalla strofe giambica all'archilocheo). Il poeta affida la rievoca­ zione dei suoi cari a moduli che egli stesso ritiene simili a quelli del canto ritual­ mente riservato al commiato dei defunti (nenia) e, limitando, di fatto, il suo con­ sueto virtuosismo linguistico, evita di trasfigurare nel mito le vicende reali in nome di un piu sentito ripiegamento interiore. Naturalmente, non tutti i carmi possiedo­ no pari valore e interesse e in qualche caso si avverte la ripetitività di certi schemi, piu forte in quelle composizioni che rievocano personaggi appena noti in vita al poeta, che pure si sforza di allargare quanto piu la cerchia della sua "famiglia" (esor­ di e chiuse, ad esempio, aderiscono agli stereotipi dell'epigrammatica funeraria con uno stucchevole richiamo al tema dell'omaggio poetico per il defunto}. Nella raccolta gli epigrammi si susseguono secondo un criterio determinato dal­ l'ordine di parentela: partendo dalla menzione dei propri genitori, rappresentati con tratti in parte convenzionali (il padre, Giulio Ausonio, è cosi modello di rigo­ rosa onestà, la madre, Emilia Eonia, di operosa virru}, il poeta giunge a dedicare un carme persino alla consuocera (Par., 30), con cui è presumibile avesse un rapporto poco piu che formale. Animato da particolare pietas appare, invece, l'epigramma per lo zio materno, il retore tolosano Emilio Magno Arborio, che ne aveva curato la formazione intellettuale (Par., 3), quindi quello per la moglie Sabina (Par., 9), il 5 76

IV · TRA EPIGRAMMA ED ELEGIA: I PARENTALIA DI AUS O N I O

cui dolce e al tempo stesso doloroso ricordo lo accompagna anche a distanza di trentasei anni dalla sua prematura scomparsa (qui, piti che altrove, si fanno sentire gli accenti nostalgici dell'elegia). Nella galleria di ritratti, emergono, accanto a figu­ re dai profili forse scontati, personaggi femminili di singolare spessore come la zia, Emilia Ilaria, attiva nell'arte liberale della medicina more virum

(Par., 6 6), o Puden­

tilla, la cognata capace, una volta vedova, di amministrare con fermezza i beni del­ la propria famiglia (Par., 19 ). Non mancano, infine, versi dedicati con struggente te­ nerezza a bambini, come quelli per il figlioletto Ausonio

(Par., 10), morto in tenera

età, o per il nipotino Pastore, scomparso per uno sfortunato incidente (di rilievo in

Par., 11 14, il particolare realistico della tegola caduta sul capo del bimbo che colpi­ sce metaforicamente lo zio). I

Parentalia, dunque, al di là della ripetitività di alcuni situazioni, in cui

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è bene

ricordarlo - sul poeta agisce il vigile filtro del manierismo, restituiscono un'imma­ gine piti autentica di Ausonio, costituendo, inoltre, pure nei limiti della rievocazio­ ne di parte, un'attendibile testimonianza sulle abitudini di vita di una nobile fami­ glia gallica del IV secolo.

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V · L' ELEGIA

PARENTALIA 9 ATTUSIA LUCANA SABINA UXOR

Hactenus ut caros, ita iusto funere fletos, functa piis cecinit nenia nostra modis. Nune dolor atque cruces nec contrectabile fulmen, coniugis ereptae mors memoranda mihi. Nobilis a proavis et origine clara senatus, moribus usque bonis clara Sabina magis, te iuvenis primis luxi deceptus in annis

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Parentalia. All'interno della vasta produzione ausoniana, caratterizzata, com'è noto, da un esa­ sperato formalismo e da un manierismo talora stucchevole, si distingue per la vena realistica e l'in­ serzione di numerosi elementi autobiografici la raccolta di elogi funebri che, quale unicum nella letteratura latina, il poeta dedica alla commemorazione dei propri congiunti con il titolo appunto di Parentalia. Tra i vari medaglioni spicca il ritratto della moglie, morta, poco meno che ventotten­ ne, quasi quattro decenni prima: in esso, attraverso i richiami ai topoi propri dell'elegia e dell'epi­ gramma funerario, Ausonio rielabora in maniera personale i motivi tradizionali del compianto, onorando con sincera commozione la memoria dell'amata. Particolarmente suggestiva, appare, nel finale, la premura con cui, nella speranza di un futuro ricongiungimento (forse su influenza dell'etica cristiana), egli ricorda l'affetto per i figli, pegno di un amore che supera gli angusti confi­ ni del tempo. Il testo di riferimento è quello dell'edizione commentata di R.P.H. Green (Oxford, Univ. Press, 1991). 9· Attusia Lucana Sabina, mia moglie. La prematura scomparsa di Sabina rappresenta per Ausonio, pur a distanza di 36 anni, una ferita non ancora sanata: il dovere verso i defunti lo induce tuttavia a superare il dolore del ricordo e a ribadire alla donna la sua imperitura fedeltà, nella speranza che le loro ceneri possano un giorno riposare insieme, onorate dalla buona fortuna dei figli. Come la maggior parte dei Parentali, il carme, ispirato a un'ampia tradizione letteraria (dall'epigramma di Meleagro per Eliodora all'elegia di Partenio per Arete o di Calvo per Quintilia), è improntato a un modulo stilistico che ossequia da vicino la poesia sepolcrale e recupera al contempo l'originaria funzione dell'elegia. Nella totale assenza di riferimenti al mito, non mancano, ad ogni modo, in­ teressanti echi letterari, che, pur nell'apparente semplicità della lingua, nel complesso donano al­ l'ordito un carattere di levigata austerità. 1. iustoJunere: a sottolineare l'importanza del carme, l'indpit riecheggia la programmatica prefa­ zione in versi, in cui Ausonio annunciava il proposito di dedicare alcuni ritratti poetici alla memo­ ria dei propri cari, cfr. Par. praif., B 1-2: Nomina carorum iam conditaJunere iusto, ljleta prius lacrimis, nunc memorabo modis ('I nomi dei miei cari, già sepolti con giuste esequie, e in precedenza pianti con la­ crime, ora ricorderò in versi'). L'espressione si riferisce agli onori dovuti ai defunti, ma non è esclu­ so che essa riguardi anche una morte che, giunta al naturale termine del ciclo vitale, è per questo "giusta", in opposizione, cioè, a quella prematura, e quindi iniqua, di Sabina (è ilfunus acerbum per

IV · TRA EPIGRAMMA ED ELEGIA: I PARENTALIA DI AUSONIO

I PARENTALI

9 ATTUSIA LUCANA SABINA, MIA MOGLIE

Fin qui il mio canto funebre, compiendo il suo dovere, ha celebrato con pietosi accenti i parenti, cari e compianti con giuste esequie. Ora però devo ricordare, dolore e tormento e inenarrabile sventura, la morte di mia moglie, strappatami a forza. Nobile di stirpe e illustre per discendenza senatoria, ma ancora piu illustre per i virtuosi costumi, Sabina, giovane ti ho pianto, deluso nel fiore degli anni,

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il quale, dice il poeta, è stato strappato alla vita anche il genero Euromio, cfr. Par., 14 1). + 2. nenia nos­ tra: le neniae erano i canti solitamente intonati dalle prefìche a compianto dei defunti, cfr. Cicero­ ne, Leg., II 24, e Quintiliano, lnst. or., vm 2 8. Ausonio utilizza tale termine per definire i versi dei Pa­ rentalia già in Par., praif., B 5: nenia,Junereis satis offidosa querellis ('una nenia, che bene conviene alle lamentazioni funebri'). + 3. nec contrectabilefulmen: l'immagine concreta del fulmine che annienta tutto ciò che tocca va intesa in senso metaforico, per esprimere la dolorosa intangibilità del ricor­ do. Il termine indica qui una 'sventura' tanto piti inenarrabile quanto piti il poeta si accinge a ri­ cordarla. Il concetto è ovidiano, cfr. Pont., II 2 57-58: Vulneris idgenus est quod, eum sanabile non sit, l non contrectari tutius esseputo ('È un genere di ferita che, essendo insanabile, credo sia piti sicuro non toc­ care'). + 5-6. Nobilis . . . magis: conformemente alla topica encomiastica, Ausonio fa menzione del yf voç di Sabina, nobile per innata virtti, oltre che per discendenza senatoria, cfr. Ovidio, Trist., I 6 24: cumque nova mores sunt tibi luce dati ('dal momento che alla tua nascita ti furono dati buoni costumi'). Velogio della moglie è simile a quello che il poeta dedica al padre di lei, Attusio Lucano Talisio, cfr. Par., 8 4: moribus ornasti qui veteres proavos ('tu, che ornasti con i tuoi costumi gli antichi antenati'). ­ origine clara senatus: allusione al titolo di darissimus, con cui venivano designati tutti i membri delle famiglie senatorie, al di là della loro effettiva partecipazione all'assemblea. Il padre di Sabina, ori­ ginario anch'egli, come il poeta, diBurdigala (l'odierna Bordeaux), era stato senatore, cfr. Par., 8 13: Qui proceres veteremque volet celebraresenatum l daraque ab exortu stemmata Burdigalae, l teque tuumque genus memoret, Lucane Talisi ('Chi vorrà celebrare i nobili e l'antico senato e le famiglie illustri di Bor­ deaux dalle loro origini, ricordi te e la tua stirpe, o Lucano Talisio'). Sabina: alla moglie il poeta aveva dedicato, ancora in vita, un epigramma conviviale (Epigr., 20) , tanto piti toccante se letto al­ la luce del suo triste destino. La donna è nominata anche in Epigr., 27 3: non minus Ausoniam celebret dumjàma Sabinam ('purché la fama meno non celebri la Sabina di Ausonio'); 28 4: has geminas artes una Sabina colit ('queste due arti [sciL la tessitura e la poesia] coltiva, da sola, Sabina'), e 29 3: ast ego rem sodam non dissodabo Sabina ('ma io, Sabina, non separerò due cose inseparabili'). Di Sabina Au­ sonio celebra ancora le due sorelle, Narnia Pudentilla (Par., 19) e Attusia Lucana Talisia (Par., 21) , con i rispettivi consorti, Flavio Santo (Par., 18) e Minucio Regolo (Par., 21). + 7· deceptus: l'immagine è di ascendenza virgiliana, poiché il participio richiama le parole di Didone, anch'essa 'ingannata' dal fato per la morte del marito Sicheo in Aen., IV 17: postquam primus amor deceptam morteJifellit ('poi che, morendo, il primo amore mi lasciò ingannata'). -

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perque novem caelebs te fleo Olympiadas. Nec licet obductum senio sopire dolorem; semper crudescit nam mihi poena recens. Admittunt alii solacia temporis aegri; haec graviora facit vulnera longa dies. Torqueo deceptos ego vita caelibe canos, quoque magis solus, hoc mage maestus ago. Vulnus alit, quod muta domus silet et torus alget, quod mala non cuiquam, non bona participo. Maereo, si coniunx alii bona, maereo contra, si mala: ad exemplum tu mihi semper ades. Tu mihi crux ab utraque venis, sive est mala, quod tu dissimilis fueris, seu bona, quod similis. Non ego opes cassas et inania gaudia plango, sed iuvenis iuveni quod mihi rapta viro: laeta, pudica, gravis, genus inclita et inclita forma, et dolor atque decus coniugis Ausonii. Quae modo septenos quater impletura Decembres,

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8. perque novem . . . Olympiadas: la stessa perifrasi è in Par., 1 4: undecies binas vixit Olympiadas ('visse ventidue Olimpiadi [= 88 anni)'). La morte di Sabina, avvenuta 36 anni prima della composizione del carme (lo spazio, cioè, di 9 Olimpiadi), può essere collocata intorno al 350, visto che il grosso della raccolta ausoniana, che arriva fino al 389, pare essere stato concepito verso il385: terminuspost quem per un'approssimativa datazione della silloge è il consolato ricoperto dal poeta nel 379 e menzionato in Par., 4 31-32: Sentis quod quaestor, quod tepraifectus, et idem l wnsul honorifìco munere com­ memoro ('Comprendi che da questore, che da prefetto, e ancora che da console io ti commemoro con un onorevole dono'). + 9· obductum senio . . . dolorem: nato intorno al 310, Ausonio aveva proba­ bilmente varcato la soglia dei 70 anni quando compose il carme. {;espressione ricorda ancora Vir­ gilio, Aen., x 64, dove obductus è detto il dolornascosto in petto da Giunone. + 13. vita caelibe: l'agget­ tivo caelebs ha, per estensione, il valore di 'vedovile' (vd. anche v. 8). Ausonio impiega la stessa espressione (ma caelebs ha il suo senso usuale) in Ecl., 19 6: poenaequegraves in caelibevita. + 15. quod mu­ ta domus silet et torus alget: l'immagine della casa, vuota e silenziosa, cosi come quella del letto, 'fred­ do' perché desertus dal calore dell'amata, sono tipiche dell'abbandono elegiaco. Per la prima, Auso­ nio sembra riecheggiare principalmente Stazio, Silv., 11 1 67-68 (compianto di Glaucia): Muta do­ mus,jàteor, desolatiquepenates l et situs in thalamis et maesta silentia mensis ('Muta ora la casa, lo ammet­ to, e desolato il focolare, e squallore nelle stanze da letto e a tavola tristi silenzi'), per la seconda, il lamento per Cinzia in Properzio, IV 7 6: et (scil. cum) quererer lectifrigida regna mei ('e [quando] la­ mentavo il freddo regno del mio letto'). + 17. Maereo, si wniunx alii bona: l'elogio di Sabina somiglia a quello che Ovidio tesse per Fabia, sua terza moglie, in Trist., I 6 25-26:jèmina seu princeps omnes ti­ bi culta per annos l te docet exemplum coniugis esse bonae ('sia che una nobildonna, da te frequentata per tanti anni, ti insegni ad essere esempio di moglie virtuosa'). Il nesso bona coniunx si ritrova nelle iscrizioni sepolcrali, cfr. CLE, 1554 3: bona mater, bona coniunx ('buona madre, buona moglie'). + 21.

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IV · TRA E P I G RAMMA ED ELEGIA: I PARENTALIA DI AUS O N I O

e nella vedovanza, dopo nove Olimpiadi, ancora ti piango. Né si può lenire il dolore, coperto dalla vecchiaia; sempre infatti si inasprisce, come recente, la mia sofferenza. Altri, afflitti, sanno accogliere la consolazione offerta dal tempo; il lungo trascorrere dei giorni rende invece piu gravi queste ferite. Nella vita vedovile tormento la mia delusa vecchiaia, e quanto piu solo, tanto piu vivo triste. Nutre la mia ferita il muto tacere della mia casa e il freddo del mio letto e il non condividere con alcuno né dolori, né gioie. Mi intristisco, se la moglie di uno è virtuosa, mi intristisco, di contro, se è corrotta: tu mi ti poni sempre innanzi a confronto. Per l'una o per l'altra sempre giungi a tormentarmi, se è corrotta, perché fosti diversa, se è virtuosa, perché fosti come lei. Non compiango le vane ricchezze e gli effimeri piaceri, ma che tu, giovane, a me, giovane sposo, fosti rapita: gaia, pudica, seria, nobile per stirpe e nobile ancora per bellezza, dolore e vanto del marito tuo Ausonio. Tu che stavi per compiere gli anni per la ventottesima volta,

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inaniagaudia: un simile disprezzo per le effimere dolcezze materiali è nelle parole che Ausonio fa pronunciare al padre nell'epicedio dedicatogli nel 378-379, cfr. Epic., 30: inque bonis hominum gaudia jàlsa procul ('e lontano (scil. ho tenuto] le false gioie per i beni materiali'). La stessa iunctura è impie­ gata in Cup., 4 35-36: Praereptas queriturper inania gaudia noctes l Laodamia duas ('Laodamia lamenta le due notti trascorse tra vani piaceri'). + 22. mihi rapta viro: quello della morte rapitrice è uno dei piu sfruttati !od communes in poesia (a volte compaiono, invece, i Mani, le Parche, il Fato o la Fortuna). Ausonio, che vi aveva fatto ricorso già al v. 4 (coniugis ereptae), lo riprende nel compianto per Euro­ mio, primo marito della figlia, cfr. Par., 14 3: oaidis in primae raptus mihijlore iuventae. + 23. laeta, pudi­

ca,gravis: la serie asindetica di epiteti elogiativi è comunissima nelle epigrafi di ogni tempo; qui es­ sa richiama le virtli ideali della matrona romana, cfr., tra i vari esempi, CLE, 237 1-2: optima et pul­ cherrima, l lanifìca pia pudicafrugi casta domiseda ('ottima e bellissima, dedita a filare la lana, pia, pudi­ ca, sobria, casta, sempre in casa') e 1502 1: Casta pudica pudens coiuge (sic] cara suo ('Onesta, pudica, morigerata, cara al suo sposo'). Ausonio ne offre un altro esempio non a caso nell'elogio di Namia Pudentilla, sorella di Sabina, cfr. Par., 19 3: Nobilis haecJrugi proba laeta pudica decora ('Di nobili natali costei, sobria, onesta, gaia, pudica, bella'). - genus incUta et inclitaforma: nella virtuosistica dispositio ausoniana appare notevole l'epanalessi dell'attributo inclita, da cui dipendono, in variatio e con chiasmo, ora un accusativo di relazione (genus), ora un ablativo di limitazione (forma). + 24. dolor at­ que decus: l'apostrofe a Sabina sembra ispirarsi a quella per il defunto Pallante in Virgilio, Aen., x 507: O do/or atque decus magnum reditureparenti ('O tu, destinato a tornare al padre, grande dolore e causa di gloria!'). Decus è termine laudativo in uso nelle iscrizioni sepolcrali, cfr. CLE, 1430 5: Casta, decus morum, sapiens, devota marito ('Casta, ornamento dei costumi, saggia, devota al marito'). + 25. Quae modo . . . Decembres: tournure di matrice oraziana, cfr. Epist., 1 20 27: me quater undenossdat imple­ visse Decembris ('sappia che ho compiuto quarantaquattro dicembri (scil. inverni, anni]'). 581

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liquisti natos, pignora nostra, duos. Illa favore dei, sicut tua vota fuerunt, florent, optatis accumulata bonis, et precor ut vigeant tandemque superstite utroque nuntiet hoc cineri nostra favilla tuo.

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26. natos, pignora nostra, duos: dal matrimonio con Sabina, Ausonio ebbe tre figli: Ausonio, Esperia e una femmina, di cui non conosciamo il nome. Il primogenito mori bambino (a lui il poeta dedica con infinito affetto Par., 10), mentre Esperia percorse una brillante carriera amministrativa: pro­ console d'Africa nel 376, divenne, infatti, insieme con il padre, prefetto al pretorio per l'Italia, l'Il­ lirico e l'Africa tra 377 e 380. La figlia andò in sposa due volte: il primo marito, Valeria Latino Eu­ romio, mori prematuramente (come ricorda il poeta, celebrandolo in Par., 14), mentre il secondo, Talassio, succedette a Esperia nel proconsolato d'Africa. In Epic., 45 il padre del poeta ricorda: Huius ego et natum etgenerum pro wnsule vidi ('Di costui [scii. Ausonio], io vidi proconsole e il figlio e

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hai lasciato due figli, pegni del nostro amore. Per grazia di un dio, conformemente alle tue speranze, essi fioriscono nell'abbondanza dei beni per loro desiderati, e prego che prosperino e che il mio cenere alfine venga ad annunciare al tuo che entrambi ci sopravvivono.

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il genero'). Il figlio della figlia di Ausonio, chiamato anch'egli Ausonio, è a sua volta dedicatario di due altre opere, il Liberprotrepticus ad nepotem, del380 circa, e il Genethliacos ad Ausonium nepotem, si­ curamente piu tardo (387?). + 30. nuntiet hoc cineri nostrajàvilla tuo: Ausonio chiude il carme con la speranza che, una volta defunto, egli possa ricongiungersi alla moglie, per narrarle le fortune dei figli. Cinis e jàvilla sono sinonimi e indicano in maniera concreta lo stato post mortem, cfr. Ovidio, Trist., m 3 83-84: Quamvis in cinerem corpus mutaverit ignis, lsentiet officium maestajàvilla pium ('Anche se il fuoco avrà ridotto in cenere il mio corpo, il mio cenere, afflitto, sentirà commozione per il tuo ufficio pietoso').

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IL VIAGGIO E LA MEMORIA : I L DE REDITU S UO D I RUTILIO NAMAZIANO Nel panorama letterario latino il poemetto di Claudio Rutilio Namaziano, re­ soconto del viaggio di ritorno compiuto dal poeta da Roma in Gallia nel 415 o nel 417 d.C., si distingue per essere la piu vivida testimonianza di un'età attraversata da miseria e devastazione, nonché dell'atteggiamento dell'aristocrazia nei confronti di quello che, a tutti gli effetti, appare essere il crepuscolo dell'impero. A meno di non rifugiarsi in formule stereotipate, come quella della cosiddetta « intersezione dei generi >> (Kreuzung der Gattungen) che appare caratterizzare un po' tutta la produzione tardoantica (-- r pp. 378-79) , dare una definizione del genere cui appartiene il De reditu comporta necessariamente delle contraddizioni: richiaman­ dosi anzitutto alla poesia odeporica (Lucilio, ma soprattutto Orazio), l'opera con­ tiene, infatti, elementi propri della tradizione, forse meno nota, del syntaktikon (una sorta di propemptikon rivolto a se stesso dall'autore del viaggio), digressioni descrit­ tive proprie di un'ora maritima, e, oltre a ritratti di personaggi ispirati alla letteratura dell'encomio, persino attacchi mossi con il piglio aggressivo dell'invettiva. In tale pluralità di toni e motivi domina, di fondo, la descrizione di un viaggio che, pur ri­ portando il poeta alla sua terra d'origine, ha il sapore di un malinconico esilio, che accomuna la poesia rutiliana - e la scelta del distico ne è la piu chiara riprova - al­ l'elegia dell'ultimo Ovidio ( Tristia ed Ex Ponto). In tal senso, il motivo odeporico si interseca con quello della memoria e conferisce ai versi di Rutilio il tono nostalgi­ co di un intimo diario, destinato alla ristretta cerchia dei suoi amici e solo casual­ mente capace di assumere contorni di validità e dimensione universali. L'operetta, divisa in due libri, è strutturata in diversi episodi, introdotti da un breve proemio (r 1-34) , nel quale l'autore spiega di essere stato spinto dalla necessi­ tà di recare soccorso alla Gallia, sua terra di origine, ad abbandonare la città che, ac­ cogliendolo, lo ha innalzato alla piu eccelsa fortuna. Lasciati i limina sacra dell'Urbe (r 44), egli rivolge a Roma un accorato discorso di addio (r 47-164), che costituisce uno dei piu celebri e suggestivi "inni" d'amore alla città. Segue, nel momento del commiato, il ritratto di Rufìo Volusiano (r 165-78) , primo di una serie di elogia, indi­ rizzati ai parenti o agli amici pili cari dell'aristocrazia senatoria, come Palladio e il di lui padre Esuperanzio (r 205-16) . Il viaggio della piccola flottiglia che accompagna Rutilio lungo le coste laziali e toscane è scandito dalla descrizione dei luoghi via via incontrati, da Castrum e Centum Cellae, fino a Porto Ercole, l'Argentario e l'Isola d'Elba (r 217-370) . Dopo essere giunto a Falesia, dove l'accoglienza poco ospitale di un oste ebreo lo induce a rispolverare una serie di insulti topici della tradizione an­ ti-giudaica (r 371-98), di fronte alle rovine del faro di Populonia Rutilio si abbando-

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IL DE REDITU S UO D I RUTILIO NAMAZIANO

na a un'intima riflessione sul comune destino di uomini e città (I 399-414). Appresa con gioia la notizia della promozione a prefetto urbano dell'amico Rufio Volusia­ no (I 415-28) e intravisti i lidi di Corsica (I 429-38), il poeta scorge l'isola di Capraia, sede di una piccola comunità di monaci: contro di essi, colpevoli ai suoi occhi di pa­ gano tradizionalista di minare con le loro pratiche ascetiche le strutture stesse della società, egli scaglia parole velenose (l'attacco è ribadito con acrimonia in 1 511-26, dove critica l'insana scelta di un suo giovane parente di abbandonare la famiglia per il ritiro nell'isola di Gorgona). Dopo l'elogio dell'amico Vittorino, retore di Tolosa (I 491-510), il passaggio dinanzi a Villa Triturrita, città ancora in fervida attività (I 527-40) e l'encomio del compagno Protadio (I 541-58), Rutilio descrive l'approdo presso il porto pisano (I 559-74): a Pisa, dov'è la statua del padre Lacanio, il poeta tes­ se un commosso elogio del genitore (I 575-96). Seguono le lodi di Decio e Lucillo, ancora una coppia padre-figlio (I 597-614), e una deliziosa scena di caccia (I 615-30), prima della chiusa, che si realizza con la suggestiva immagine del mare in tempesta e la menzione degli astri che, dall'alto del cielo, governano la navigazione. Il secondo libro, introdotto anch'esso da uno stringato proemio (n 1-10), si apre con la descrizione dell'Italia (n 11-40). Il ricordo della provvidenziale difesa natura­ le delle Alpi introduce un'aspra invettiva contro Flavio Stilicone, il generale di ori­ gine vandala fatto uccidere da Onorio nel 4o8 (n 41-6o) : con piglio conservatore, Rutilio dà adito alla piu infamante calunnia della propaganda antistiliconiana, ac­ cusando l'ex-collaboratore di Teodosio di essere sceso a patti con Alarico, per favo­ rire se stesso e il figlio Eucherio (circa dieci anni prima, a tali illazioni aveva invece risposto Claudiano nel De bello Gothico, vd. cap. I pp. 154-55). L'ultimo brano si in­ terrompe sulla descrizione delle bianche mura di Luni (n 61-68). Dai frammenti superstiti, di difficile lettura, emergono due scene: l'incontro tra Rutilio e un non ben identificato Marcellino (fragm. A), quindi la lode di Costanzo, artefice della ri­ costruzione delle mura forse di Albenga (fragm. B). La successione di piu quadri, in cui trova posto ora il compiacimento per il boz­ zetto realistico, ora la commozione per la rievocazione di vicende personali, ora perfino lo sdegno contro chi, nell'ottica dell'aristocratico pagano, violava le norme del vivere civile e infliggeva all'Urbe già devastata un ulteriore colpo al declino del­ la sua gloriosa potenza, allontana, dunque, l'opera da uno sterile resoconto di navi­ gazione e, nella forma tipica dell'elegia, esprime un'intensa, nostalgica riflessione su un viaggio che pare veramente assomigliare all'esilio di un'intera esistenza.

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Adversus surgit Boreas, sed nos quoque remis surgere certamus, cum tegit astra dies. Proxima securum reserat Populonia litus, qua naturalem ducit in arva sinum. Non illic positas extollit in aethera moles lumine nocturno conspicienda Pharos, sed speculam validae rupis sortita vetustas, qua fluctus dornitos arduus urget apex, castellum gerninos hominum fundavit in usus, praesidium terris indiciumque fretis. Agnosci nequeunt aevi monumenta prioris: grandia consumpsit moenia tempus edax;

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De reditu suo. I tre brani proposti offrono un piccolo saggio della varietas di toni e contenuti che caratterizza la narrazione rutiliana. Mentre il primo episodio (I 399-414) dà conto di una persona­ lità pensosa e meditativa (cosi l'autore, dinanzi alle rovine dell'antica Populonia, si abbandona a una breve e autoconsolatoria riflessione sulla caducità delle vicende umane), gli altri due, conte­ nenti le celebri invettive contro i monaci dell'isola di Capraia (I 439-52) e di Gorgona (I 511-26) , se­ gnano il poeta come uno spirito profondamente legato al conservatorismo religioso dell'aristo­ crazia pagana. In esse Rutilio, pur non osando attaccare direttamente l'ormai affermato cristiane­ simo, non esita a fare propri i motivi piu scontati della propaganda contro la diffusione di alcune pratiche ascetiche della nuova religione, affilando i suoi versi con un'acredine che appare poco in­ tonata all'interno dell'elegiaco abbandono del suo poetico diario di viaggio. n testo di riferimento è quello curato da A. Fo (Torino, Einaudi, 1992) .

I 399-414. Anche le città possono morire. Al sorgere del quinto giorno di viaggio, la flottiglia di pic­ cole imbarcazioni con cui Rutilio muove verso nord, costeggiando i lidi tirrenici, giunge a lambi­ re il golfo di Baratti, dominato dal borgo di Populonia. Della città etrusca, sede un tempo di ricchi traffici, il poeta scorge le rovine della rocca che, nei secoli precedenti, gli antichi avevano edificato a guisa di faro e di fortezza. Dalla desolante visione Rutilio trae una lezione di portata universale: a nulla vale che gli uomini si turbino di fronte alla morte, dal momento che essa, in un processo di inesorabile disgregazione, tocca in sorte persino alle città piu illustri e potenti. 399· Adversus surgit Boreas: noto anche come Aquilone o tramontana, il vento del nord nella mi­ tologia greca era personificato quale figlio di Astreo e di Eos e fratello di Noto, Apeliote e Zefiro. n levarsi del vento in senso ovviamente contrario alla navigazione da Roma verso la Gallia co­ stringe i rematori a uno sforzo supplementare. + 399-400. remis surgere certamus: la lexis guarda al mo­ dello di Virgilio, Aen., m 560 e v 189: insurgite remis, e ancora di Aen., m 207: vela cadunt, remis insurgi­ mus. - cum tegit astra dies: indicazione temporale che, riferendosi all'alba (dies è, infatti, il 'chiarore del giorno' giunto a coprire la lucentezza degli astri), segna il passaggio alla quinta giornata di viagsB6

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S UL S UO RITORNO I 399-414

Contrario si leva Borea, ma anche noi facciamo a gara a levarci sui remi, quando il giorno viene a coprire gli astri. Prossima, Populonia dischiude un litorale sicuro, dove porta tra i campi una baia naturale. Colà non innalza ai cieli la sua mole ben costruita Faro, visibile per la sua luce notturna, ma gli antichi, scoperto l'osservatorio di una salda rupe, dove una ripida vetta incalza, domandoli, i flutti, hanno costruito una fortezza a duplice uso degli uomini, difesa per la terra e mezzo di segnalazione per il mare. Non possono piti riconoscersi i monumenti dell'epoca passata: bastioni immensi ha consunto il tempo vorace;

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gio (siamo alla data del 2 novembre 417 o, se si accetta la cronologia piu alta, del 22 novembre 415). + 401. Proxima . . . Populonia: antico insediamento etrusco, situato sulla punta settentrionale del pro­ montorio di Piombino, Populonia nacque per sfruttare le miniere di ferro dell'Elba. Fu centro fio­ rente di lavorazione metallurgica e di commerci anche in epoca romana, ma, rimasto in attività il solo porto, decadde lentamente, pagando il fio del suo appoggio a Mario nella guerra civile contto Silla (Sttabone, per l'età augustea, ne testimonia un primo declino in v 2 6). La rocca sopravvisse ancora ai saccheggi dei Goti di Totila (nel 5 46) e dei Longobardi (nel 570), ma non ai numerosi as­ salti dei pirati saraceni nel corso del IX sec. + 402. naturalem . . . sinum: si ttatta del Golfo di Baratti, sulla cui costa erano situati i quartieri industtiali, presumibilmente ancora attivi al tempo di Ruti­ lio (la città vera e propria si ttovava, infatti, sul lato settentrionale, il cosiddetto « Poggio di Castel­ lo »). Per l'immagine dell'approdo naturale offerto dalla baia cfr. Giovenale, 12 78-79: non sic veteres mirabere portus l quos natura dedit. + 404. Pharos: l'isoletta di Faro, prospiciente Alessandria, diede il nome non solo al monumentale faro ivi costruito dai Tolomei ma, per antonomasia, a tutte le al­ tte simili installazioni portuali. + 407. castellum: la rocca che Rutilio scorge, ormai in sordido abban­ dono, dominava il promontorio con il duplice scopo di difesa e di supporto alla navigazione (quel­ lo che oggi, invece, si offre alla vista, ancora ben conservato, è il mastio fatto erigere nel XV seco­ lo da Iacopo II Appiani). Di un castello diroccato il poeta aveva parlato a proposito di Castrum in I 227-28: Stringimus t . . . t etjluctu et tempore Castrum: l index semiruti porta vetusta lod ('Rasentiamo Ca­ stto, [consunta] dal mare e dal tempo: un'antica porta rivela un luogo mezzo diroccato'). + 409. ae­ vi monumenta prioris: identica clausola è nel passo dei Punica in cui Annibale, giunto a Literno, si sof­ ferma ad ammirare un non meglio precisato tempio, cfr. Silio Italico, VI 654-5 6: varia splendentia cer­ nit lpictura belli patri bus monumenta prioris l exhausti ('vede dipinte in diverso colore splendenti im­ magini, ricordo della prima guerra a lungo combattuta dagli avi'). + 410. tempus edax: è il celebre motivo del 'tempo divoratore delle cose', desunto da Ovidio, Met., xv 234-36: Tempus edaxrerum, tu­ que, invidiosa vetustas, l omnia destruitis vitiataque dentibus aevi lpaulatim lenta consumitis omnia morte ('O tempo, divoratore delle cose, e tu, vecchiaia invidiosa, tutto distruggete e a poco a poco con una



' L ELEGIA

sola manent interceptis vestigia muris, ruderibus latis tecta sepulta iacent. Non indignemur mortalia corpora solvi: cernimus exemplis oppida posse mori.

I

439-52

Processu pelagi iam se Capraria tollit; squalet lucifugis insula p lena viris. lpsi se monachos Graio cognomine dicunt, quod soli nullo vivere teste volunt. Munera fortunae metuunt, dum damna verentur: quisquam sponte miser, ne miser esse queat?

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morte lenta tutto consumate dopo averlo corrotto con i denti dell'età') . Dove il Sulmonese allu­ deva alla vita umana e alla inevitabile corruzione della vecchiaia, dal cosiddetto « spettacolo delle rovine » Lucano traeva per primo spunti di rifle ssione, nel presentare Cesare di fronte alla desola­ zione offerta dal sito in cui un tempo sorgeva la magnifica città di Troia in IX 961 sgg. Il culto delle rovine, legato al topos del declino provocato dal tempo, che già nell'antichità invitava a meditare sulla vanitas umana, conobbe una fortuna enorme: risorto a tratti nel Medioevo, si affermò defini­ tivamente nel Rinascimento, trovando il suo culmine, come noto, nel XVIII secolo. + 413-14. Non indignemur. . . oppida posse mori: Rutilio passa dalla sua personale esperienza al piu solenne piano dei destini umani, chiudendo con una riflessione che ha del consolatorio per sé e per il lettore. Nulla toglie alla partecipata commozione del poeta il filtro letterario che anche qui sembra agire sul suo immaginario: vi si riconosce, infatti, oltre a un motivo ampiamente presente nella tradizione re­ torica, l'eco di un passo della lettera inviata da Servio Sulpicio Rufo a Cicerone, per consolarlo del­ la perdita della cara Tulliola. In essa, nel rapportare allavita umana il destino di alcune città greche, ormai investite dalla decadenza, Servio propone all'amico una rifle ssione che anticipa quella ruti­

IV 5 4: Hem! Nos homunculi indignamur, si quis nostrum interiit aut occisus est, quorum vita brevior esse debet, eum uno loro tot oppidum cadavera proiecta iacent? ('Ecco: noi, piccoli uomini, ci indi­ gniamo se qualcuno di noi, la cui vita è per forza di cose molto breve, perisce di morte naturale o

liana, cfr. Fam.,

violenta, mentre in un solo luogo vediamo abbattuti i cadaveri di cosi tante città?') .

I 439-52. I monaci della Capraia, "nemici della luce". n passaggio di &onte all'isola di Capraia, dove era fama sorgesse una piccola comunità monastica, offre a Rutilio l'occasione di dare luogo a un'astio­ sa polemica contro il dilagare di un certo ascetismo, incomprensibile per chi, preoccupato delle sorti di Roma, riteneva la fuga dal mondo e la ricerca della santità nell'allontanamento dal vivere civile una perdita di preziose energie nell'opposizione ai nemici dell'impero. Bersaglio dell'attac­ co sono, dunque, i monaci, e, in via indiretta, i cristiani: l'agire degli eremiti, che fuggono la luce proprio come gli scarafaggi (il paragone è implicito nell'impiego del raro composto lucifugi, usato da Virgilio per le blatte), appare agli occhi del pagano determinato, se non propriamente da mali­ zia, da un'insana stoltezza. Colpisce, nel finale, una preziosa allusione a Omero, per accostare alla folle misantropia di Bellerofonte, maledetto dagli dei, l'ostilità degli asceti verso il genere umano.

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V IL ·

DE REDITU S UO

DI RUTILIO NAMAZIANO

crollate le mura, rimangono soltanto tracce: giacciono le case, sepolte in ampie rovine. Non ci indignamo del fatto che i corpi mortali si dissolvano: vediamo dagli esempi che anche le città possono morire.

I 439-52 Con l'avanzare in mare già si profila la Capraia; l'isola si presenta squallida, piena di uomini che fuggono la luce.

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Con termine greco essi, da sé, si denominano 'monaci', perché vogliono vivere soli, senza testimone alcuno. Hanno paura dei doni della fortuna, temendone i colpi: chi mai si renderebbe volontariamente infelice, per poter non essere [infelice? 439. iam se Capraria tollit: l'isola di Capraia, nel Tirreno settentrionale, fa parte dell'arcipelago to­ scano, in una posizione di straordinaria importanza strategica per la navigazione, tra la Corsica, l'Elba e il continente. + 440. squalet . . . insula: la natura selvaggia del luogo (squalet) aveva spinto al­ cunì erernìtì a dare origine, a partire dal IV-V secolo, a una piccola comunìtà (il secessus nelle isole era divenuto, del resto, usuale in Occidente a pattire dal IV sec., laddove in Oriente era frequente il ritiro nel deserto). Essa sopravvisse almeno fino al IX sec., quando l'isola fu abbandonata in se­ guito alle frequenti scorrerie dei Saracenì. ludfugis . . . piena viris: all'aspetto inospitale dell'isola corrisponde la sordidezza dei monaci, bollati con un epiteto che si rifà chiaramente all'attributo con cui Virgilio designava gli scarafaggi in Georg., IV 243: luci}ilgis congesta cubilia blattis. In relazione ai cristian� l'aggettivo ha un signìficativo precedente neii'Octavius di Minucio Felice, dove il paga­ no Cecilio li chiama sprezzantemente latebrosa et lucifuga natio (8 4). + 441· Ipsi se monachos Graio cog­ nomine dicunt: l'etimologia della parola monachus (dal greco J.16voç, 'solo') offre a Rutilio l'occasione per un attacco agli eremiti assai piu velenoso di quello che il contemporaneo Pallada rivolgeva ai monaci di Alessandria, accusati di tradire nei fà.tti, nel loro moltiplicarsi, il principio dell'isola­ mento cui si ispiravano, all'origine del loro stesso nome, cfr. Anth. Pal., XI384: Ei t-tovaxoi, ·d toooi­ òt:; toooiòc ÒÉ, 1t>

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nectar richiama allusivamente questo verso, realizzando una Ringkomposition che opera come ga­ ranzia dell'unità di questi versi, pili volte messa in discussione dagli interpreti. + 2. nec in bicipiti som­ niasse Parnaso: il sogno su un monte sacro alle Muse costituisce un altro topos dell'ispirazione poeti­ ca (cfr. Esiodo, Theog., 22 sgg.; Callimaco, fr. 2 Pfeiffer; Ennio, A nn., 6 Vahlen2 3 Skutsch; Corne­ lio Gallo). Il fatto che Persio faccia riferimento al Parnaso, monte della Focide, consacrato ad Apollo e alle Muse e simbolo della poesia (cui la tradizione attribuiva due vette), piuttosto che al­ l'Elicona, in Beozia, sede dei sogni poetici a partire da Esiodo, rivela che la polemica condotta da Persio nei primi versi non si appunta contro uno specifico bersaglio (che alcuni hanno identifica­ to con Ennio), ma in generale contro i poeti contemporanei e il loro abuso dell'armamentario mi­ tico tratto dai grandi modelli del passato. + 3. memini: esplicita, quanto ironica allusione a Ennio, Ann., 15 V.2 = 11 Sk.: memini mefiere pavum ('mi ricordo di essere divenuto un pavone'). + 4. Helico­ niadasque: le Muse, abitanti dell'Elicona a partire da Esiodo, Theog., 1. L'attributo ricorre in Lucre­ zio, m 1037. -pallidam . . . Pirenen: la fonte Pirene, sull'acropoli di Corinto, era, come l'Ippocrene, sa­ cra alle Muse. Pallidus andrà inteso in senso attivo, in riferimento al pallore quale esito delle lun­ ghe veglie dedicate alla poesia (cfr. anche 1 26, 124; 3 85; 5 62; Giovenale, 7 96 sg.). + 5-6. quomm ima­ gines . . . hederae sequaces: i busti di poeti celebri, coronati di edera, venivano posti nelle biblioteche (l'uso fu introdotto da Asinio Pollione: cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist., xxxv 9 sg.): cfr. Giovenale, 7 28 sg. + 6-7. ipse . . . nostmm: pronome e aggettivo pongono in risalto il carattere personale della poe­ sia di Persio, che si contrappone sia alla vuota imitazione dei poeti contemporanei che alla loro presunta ispirazione divina. - semipaganus: il termine è hapax assoluto nella letteratura latina ed equivale probabilmente a semimsticus (sulla problematica esegesi del termine e sul suo valore per la poetica di Persio vd. almeno F. Bellandi, Lapoetica del « semipaganus », in Id., Persia. Dai « verba togae » al solipsismo stilistico, Bologna, Pàtron, 1988, pp. 33-71) . Infatti il secondo elemento del composto (da pagus, 'villaggio') si contrappone a urbanus (da urbs, per traslato 'garbato', 'raffinato'): Persio si vanta polemicamente della propria semirusticitas, in contrapposizione all'affettata raffinatezza degli effe­ minati poetastri contemporanei. È possibile che lo spunto per questa immagine gli sia venuto da Properzio, II 5 25 sg., dove si parla di un msticus, cuius non hederae circumiere caput ('il cui capo non co­ ronò l'edera'; all'elegiaco del resto Persio allude polemicamente anche al v. 1) e da Orazio, Epist., II 2 90 sgg. + 8-9. Quis expedivit . . . conari?: pappagalli e gazze erano addestrati a riprodurre la voce umana e specialmente le formule di saluto (chaere è la traslitterazione del gr. xaìpE, 'salve', già pre­ sente in Lucilio, 93 sg. Marx; la scelta del termine greco rivela l'avversione alla mania grecizzante dei poeti contemporanei: cfr. 1 69 sg.). Sui pappagalli cfr. Ovidio, Am., II 6 48, 62; Stazio, Si/v., II 4 29; Marziale, XIV 73; AL, 762 31 sg. R.; sulle gazze cfr. Petronio, 28 9; Ovidio, Met., v 299; Marziale, =

VII

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LA SAT I RA

picamque docuit verba nostra conari? Magister artis ingenique largitor venter, negatas artifex sequi voces. Quod si dolosi spes refulserit nummi, corvos poetas et poetridas picas cantare credas Pegaseium nectar.

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Vatibus hic mos est, centum sibi pascere voces, centum ora et linguas optare in carmina centum, fabula seu maesto ponatur hianda tragoedo, vulnera seu Parthi ducentis ab inguine ferrum. « Quorsum haec? Aut quantas robusti carminis offas ingeris, ut par sit centeno gutture niti? Grande locuturi nebulas Helicone legunto, si quibus aut Procnes aut si quibus alla Thyestae

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vn 87 6; XIV 76. La menzione di questi uccelli allude con sarcasmo ai poeti contemporanei, pedis­ sequi imitatori dei grandi modelli (cfr. infatti il v. 13, dove però Persio sostituisce i corvi ai pappa­ galli). + 11. venter: in posizione di risalto a inizio verso, si riferisce non solo agli uccelli, ma anche ai poetastri imitatori (affiancato dalla spes nummi del v. 12). + 12-14. I poeti imitatori, come pappagalli e gazze, non sanno far altro che riprodurre i loro modelli, ma per la speranza di guadagno riusci­ rebbero anche a far credere di avere una vera ispirazione. + 13. corvos poetas: la sostituzione del pap­ pagallo (v. 8) con i corvi ha creato difficoltà. Ma la scelta può essere giustificata dal fatto che, oltre a essere uccello che imita la voce umana (cfr., ad es., Apuleio, Fior., 12 8: et corvus etpsittacus nihil aliud quam quod didicerunt pronuntiant, 'sia il corvo che il pappagallo non pronunciano nient'altro se non ciò che hanno appreso'), il corvo è per il suo gracchiare un comune simbolo del cattivo poeta (cfr., ad es., Pindaro, 0/., 2 87). - poetridas: hapa.x: assoluto. + q. cantare . . . nectar: espressione ardita che si­ gnifica 'intonare un canto dolce come il nettare' (per la metafora del nettare, propria dello stile ele­ vato, cfr. Pindaro, 0/., 7 7). La sua difficoltà dà ragione della presenza in alcuni codici della varian­ te melos ('canto'), in luogo di nectar, che si può spiegare come glossa. L:attributo Pegaseius allude al mito della fonte lppocrene {vd. n. al v. 1) e chiude il componimento con un richiamo all'incipit. 5 1-51. Il discepolo e il maestro. Come reazione all'esordio sostenuto del discepolo, Cornuto critica l'in­ consistenza e la pretenziosità dei tragediografì e degli epici, elogiando invece il suo allievo, sia per lo stile, fatto di parole comuni, arricchite però di luce nuova grazie a un accostamento acuto, pungente, sia per il fine morale del contenuto, teso a smascherare i vizi. Al maestro Persio desidera mostrare quanto il suo insegnamento sia riuscito a modificare il suo animo: è lui che lo ha accolto sotto la sua protezione nella giovinezza, quando il cammino della vita è incetto tra le molte strade che si interse­ cano, e ne ha plasmato l'animo in modo esemplare, attraverso una comunione di vita completa. Qua­ lunque sia il segno, non c'è dubbio che le vite di entrambi siano governate dalla stessa stella.

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III

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IL R I G O RE STOICO DI PERSIO

e ha insegnato alla gazza a tentare le nostre parole? n maestro dell'arte ed e largitore d'ingegno,

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il ventre, autore della ricerca di linguaggi negati. Che se è balenata l'ingannevole speranza di denaro, i corvi poeti e le gazze poetesse potresti credere che effondano dalle loro bocche il nettare di Pegaso.

5 1-51 l vari hanno l'abitudine di invocare per sé cento voci, di desiderare cento bocche e cento lingue per le loro poesie, sia che debbano comporre un dramma che declamerà con la bocca [spalancata un afflitto attore tragico, sia cantare le ferite del Parto che estrae il ferro [dall'inguine. « A che scopo ciò? O quante focacce di vigorosa poesia

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somministri perché sia ragionevole &re ricorso a cento bocche? Per poetare con stile elevato raccolgano nuvole sull'Elicona coloro grazie ai quali bollirà la pentola di Procne o quella di Tieste,

1-2. Vatibus hic mos est . . . centum: l'impossibilità di cantare un argomento, seppure con cento boc­ che, è tradizionale nella poesia epica: l'origine della formula è in Omero, Il., u 489 (cha parla dì die­ ci bocche); essa ricorre quindi, ad es., in Lucrezio, fr. 1; Virgilio, Geo�ì;., II 43 Aen., VI 625; Ovidio, Met., vm 533 sg. + 3-4. jàbula seu . . . Jerrum: i versi designano i generi poetici pili elevati: la tragedia e l'epica di argomento storico, per la quale Persio ricorre al tema della guerra contro i Parti, di at­ tualità nell'età augustea: cfr. infatti Orazio, Sat., n 1 15: (neque enim quivis) labentis equo describit Fu/ne­ ra Parthi ('[infatti non chitmque] può descrivere le ferite del Parto che cade da cavallo'), da cui que­ sto verso dipende. + 5-18. I:interlocutore che interrompe le parole di Persio è con ogni probabilità Cornuto, che infatti il poeta apostrofa subito dopo {v. 23). Il tono colloquiale dell'interrogativa el­ littica ( Quorsum haec?) si pone in netto contrasto con la dizione e levata dei primi versi. + 7· nebulas Helicone legunto: l'Elicona, monte della Beozia, era tradizionalmente associato all'ispirazione poe­ tica; l'espressione però, di natura proverbiale, defmisce con scherno uno stile elevato, ma vuoto; con questo significato ricorre in Orazio, Ars, 229 sg.: (ne) migret in obswras humili sermone tabernas, l aut, dum vitat humum, nubes et inania captet ('[perché non] sì trasferisca in buie taverne con un lin­ guaggio basso, o, per evitare la terra, si sforzi di catturare nubi e vuoto'). + 8. Procnes aut . . . olia Thyes­ tae: due vicende mitiche di notevole fortuna: Procne imbandì le carni del figlioletto Iti al marito Tereo, che ne aveva violentato la sorella Filomela, mentre Ti este, invitato a cena dal fratello Atreo, mangiò ignaro le carni dei suoi figlioletti. Il mito di Tieste in particolare (cui Persio allude anche ai vv. 17 sg.) fu tra i pili apprezzati sulle scene romane {cfr. Orazio, A rs, 90 sg.), ma oggetto di scher­ no e simbolo di inverosimiglianza del mito a partire da Plauto, Rud., so8 sg� quindi in Marziale, IV 49 3; x 4 1 sg., 35 6. =

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VII · LA SA TIRA

fervebit saepe insulso cenanda Glyconi. Tu neque anhelanti, coquitur dum massa camino, folle premis ventos, nec dauso murmure raucus nescio quid tecum grave cornicaris inepte, nec stloppo tumidas intendis rompere buccas. Verba togae sequeris iunctura callidus acri, ore teres modico, pallentes radere mores doctus et ingenuo culpam defìgere ludo. Hinc trahe, quae dicis, mensasque relinque Mycenis cum capite et pedibus, plebeiaque prandia noris ». Non equidem hoc studeo, pullatis ut mihi nugis pagina turgescat, dare pondus idonea fumo. Secreti loquimur: tibi nunc hortante Camena excutienda damus praecordia, quantaque nostrae pars tua sit, Cornute, animae, tibi, dulcis amice, ostendisse iuvat: pulsa dinoscere cautus quid solidum crepet et pictae tectoria linguae. Hic ego centenas ausim deposcere fauces, ut, quantum mihi te sinuoso in pectore foci, voce traham pura, totumque hoc verba resignent, quod latet arcana non enarrabile fibra. Cum primum pavido custos mihi purpura cessit,

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9. Glywni: un attore ttagico contemporaneo di Persio. + 10-12. Tu neque . . . ventos: l'immagine del mantice pieno d'aria, che definisce in modo critico lo stile gonfio, deriva da Orazio, Sat., 1 4 19-21. - cornicaris: il neologismo, che definisce il verso della cornacchia (wrnix), è hapax assoluto nella let­ teratura latina e schernisce con arguzia l'incomprensibile borbottio del poetastro che ripete tra sé i propri versi. + 13. stloppo: termine onomatopeico di origine popolare (da esso deriva l'it. 'scoppio'), hapaxin letteratura. Designa l'esplosione del suono dopo che sono state gonfiate le guance. + 1416. I versi espongono i principi della poetica di Persio; vi si trovano giustapposte due concezioni dissonanti: da un lato la satira di ascendenza oraziana, definita ludus, caratterizzata da uno stile tor­ nito e moderato (ore teres modiw), dall'altro la satira aggressiva, tagliente (cfr. radere mores, difigere cul­ pam), il cui stile è condensato nel nesso iunctura acris. + 14. Verba togae . . . acri: i verba togae rappresenta­ no il sermo wtidianus del popolo romano, di cui la toga è abito nazionale (in modo analogofabula to­ gata designa la commedia di argomento romano in contrapposizione alla fabula palliata, di argo­ mento greco, che prende nome dal pallium, mantello greco). Si tratta delle parole che Orazio defi­ niva de medio sumpta (Ar.s, 242) . La scelta di parole comuni riesce a produrre senso originale grazie a una disposizione dei termini tagliente, ma anche aspra, urtante (iunctura . . . acri), che dia loro nuova luce. La formulazione di Persio risente dei celebri versi di Orazio, Ars, 47 sg.: dixeris egregie notum si callida verbum l reddiderit iunctura novum ('avrai composto in modo egregio se un'abile disposizione renderà nuova la parola nota'; cfr. anche 242 sg.). + 15-16. pallentes . . . doctus: pallentes allude al colori­ to pallido dell'ammalato, che Persio, rifacendosi a un concetto comune per gli Stoici, considera

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III · IL RIGORE STOICO DI PERSIO che costituirà spesso la cena per lo sciocco Glicone. Tu non comprimi l'aria in un mantice sbuffante, mentre la massa si cuoce nella fornace, né roco con compresso borbottio gracchi scioccamente tra te e te non so cosa di maestoso, né ti sforzi per far esplodere con scoppio le guance gonfie. Ricerchi le parole della toga, abile nell'accostamento pungente, tornito nel linguaggio misurato, esperto nel graffiare i pallidi costumi e nell'inchiodare la colpa con nobile gioco. Prendi da qui gli argomenti di cui parli, lascia a Mi cene le mense con testa e piedi e conosci i pasti plebei ». Non mi impegno certo perché la mia pagina si gonfi di inezie vestite di scuro, buona per dare peso al fumo. Parliamo appartati. A te ora, sotto la spinta di Camena, offro le mie viscere perché le scruti, e mi è gradito mostrarti che gran parte della mia anima, Cornuto, mio dolce amico, rechi il tuo sigillo: batti, tu che sei giudizioso nel distinguere ciò che dà suono pieno dallo stucco di una lingua camuffata. Per questo oserei reclamare cento gole, per trarre fuori con voce pura quanto ti abbia infitto nel profondo del mio cuore, e perché le parole dissuggellino per intero ciò che inenarrabile si cela nelle intime viscere. Non appena a me spaventato la toga purpurea venne a mancare come [custode

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conseguenza del vizio morale: cfr. 3 94 sgg. Radere appartiene alla terminologia medico-chirurgi­ ca: se si presta credito agli scolii, significa 'asportare' la parte malata, ma è forse piu probabile in­ tendere 'pungere, graffiare', come dimostrano le altre attestazioni del verbo in Persio: cfr., ad es., 1 107 sg.: quid opus teneras mordaci radere vero l auriculas ? ('che bisogno c'è di graffiare le tenere orecchie con la tagliente verità?'). Il compito del satirico è dunque "mettere il dito sulla piaga". + 17-18. men­ sas. . . pedibus: allusione al mito di Tieste, ambientato a Micene, menzionato al v. 8. + 19. pullatis . . . nugis: nugae ('sciocchezze, inezie'), termine che a partire da Catullo (1 4) designa l a poesia leggera, è qui riferito con arguzia alla tragedia, genere tradizionalmente elevato. In modo analogo Marzia­ le, rovesciando l'accusa mossa all'epigramma, definisce l'epica un lusus (rv 49 1-6). Pullatus ('vestito di scuro', come chi è a lutto) allude ai temi lugubri della tragedia e al suo stile (cfr. v. 3: maesto). + 21. hortante Camena: significativa la menzione, quale fonte d'ispirazione, non della greca Musa, ma dell'italica Camena, originariamente una ninfà delle acque, con cui Livio Andronico traduceva la Moi>aa del proemio dell Odìssea (fr. 1: Vìrum mihì, Camena, insece versutum). h2-23. quanta . . . animae: Persio varia rispetto all'idea tradizionale che vuole l'amico parte dell'anima dell'altro (cfr., ad es., Orazio, Carm., r 3 8: [Virgilio] animae dimidium meae, 'la metà della mia anima'), rappresentando una parte della sua anima come possesso dell'amico, per via del suo insegnamento che l'ha emendata. + 30-31. purpura . . . bulla: due simboli della giovinezza e del passaggio all'età adulta: al raggiungi­ mento della maggiore età la toga praetexta, orlata di porpora (designata con metonimia da purpura), '

VII · LA SATIRA

bullaque succinctis Laribus donata pependit, cum blandi comites totaque impune Subura permisit sparsisse oculos iam candidus umbo, cumque iter ambiguum est et vitae nescius error deducit trepidas ramosa in compita mentes, me tibi supposui. Teneros tu suscipis annos Socratico, Cornute, sinu, tum fallere sollers apposita intortos extendit regula mores, et prernitur ratione animus vincique laborat artificemque tuo ducit sub pollice vultum. Tecum etenim longos memini consumere sol es, et tecum primas epulis decerpere noctes. Unum opus et requiem pariter disponimus ambo atque verecunda laxamus seria mensa. Non equidem hoc dubites amborum foedere certo consentire dies et ab uno sidere duci: nostra vel aequali suspendit tempora Libra Parca tenax veri, seu nata fidelibus hora dividit in Geminos concordia fata duorum, Saturnumque gravem nostro love frangimus una, ne scio quod certe est quod me tibi temperat astrum.

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indossata dai giovani romani, veniva sostituita dalla toga virilis, qui definita candidus umbo (v. 33) e la bulla aurea, un globetto d'oro che i ragazzi portavano al collo, veniva offerta in dono ai Lari, dei protettori del focolare domestico. + 32. blandi comites: l'attributo qui con connotazione negativa. ­ tota . . . Subura: la strada, tra il Celio e l'Esquilino, affollata e rumorosa per la presenza del mercato, ma soprattutto malfamata zona di prostituzione (cfr. Marziale, n 17 1; VI 66 1 sg.; XI 61 3 sg.; 78 11; Priapea, 40 1). + 36. me tibi supposui: l'espressione descrive con efficace concisione e semplicità il completo abbandono del discepolo alla protezione del maestro (la cui reazione è opportunamen­ te affidata al verbo susdpere, che designa sia l'azione del maestro, che accoglie il discepolo, che il ge­ sto del genitore di sollevare in braccio il neonato, riconoscendolo come proprio). l:accostamento di me a tibi, rappresentazione iconica dell'intimità del rapporto, ritorna, con studiato effetto ad anello, a conclusione del brano (v. 51). + 37· Socratico . . . sinu: Socrate rappresenta qui non soltanto il filosofo, ma anche il maestro, l'uomo, l'amico. + 37-38.jàllere . . . mores: per l'azione pedagogica di Cornuto Persio sembra ricorrere a una metafora della viticoltura (Kissel): reJ?ula va probabilmen­ te inteso in senso concreto come il bastone che viene affiancato (apposita) alla vite perché sia rad­ drizzata (gli intorti mores), anche se il termine non ha altrove questa accezione (per l'immagine cfr. Columella, IV 20 3: cum ad summum palum recta vitis extenta est, 'quando la vite è stata distesa diritta fi­ no alla sommità del palo'). Fallere sollers, riferito grammaticalmente a reJ?ula, individua nella capaci­ tà del maestro di dissimulare l'opera di correzione morale uno dei suoi tratti di maggiore efficacia. + 40. artifìcem . . . vultum: l'arte di modellare la cera (o la creta) quale metafora per l'educazione ri­ corre anche in Stazio, Ach., I 332 sgg.; Giovenale, 7 237 sg., e nei versi di Plinio il Giovane, Epist., vn

III · IL RIGORE STOICO DI PERSIO e la bolla fu appesa in dono ai succinti Lari, quando compagni seducenti e la toga ormai candida mi consentirono di gettare impunemente gli occhi qua e là per l'intera Suburra e quando la strada è incerta e il girovagare, inconsapevole della vita, conduce le menti agitate su ramificati incroci di vie,

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mi misi sotto le tue ali. Tu accogli, Cornuto, i teneri anni stringendoli al tuo petto di Socrate, allora il regolo avvicinato, abile a passare inosservato, distende i costumi attorcigliati e l'animo è sottoposto alla ragione, si sforza di essere vinto e sotto le tue dita assume un aspetto fatto con arte.

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Con te infatti ricordo di aver trascorso lunghe giornate e con te di aver colto nei conviti il principio delle notti. Un tempo comune per lavoro e riposo stabiliamo entrambi in egual misura e diamo ristoro agli argomenti seri con una mensa pudica. Non potresti certo dubitare che, con patto sicuro di entrambi,

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i nostri giorni scorrano in accordo e siano guidati da una sola stella: sia che la Parca avvinta alla verità abbia disposto il nostro tempo sulla Bilancia in equilibrio, sia che l'ora della nascita, adatta alle persone [fedeli, divida i nostri due fati concordi nei Gemelli e, con Giove propizio, spezziamo insieme l'influsso negativo di Saturno,

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c'è senza dubbio non so quale astro che mi unisce a te.

9 11. Artifex in senso passivo sì trova, prima di Persio, solo in Properzio, u 31 8. + 41. Il verso è mo­ dellato su Virgilio, Bue., 9 51 sg.: saepe �go longos l cantando puerum memini me condere soles ('ricordo che spesso da fanciullo cantando trascorrevo lunghe giornate'), ma Persio contrappone le proprie giornate dedicate all'educazione filosofica a quelle del protagonista dell'Ec/�a virgilian� dedito unicamente al canto. + 42. primas . . . noctes: l'espressione è senz'altro debitrice del celeberrimo carpe diem oraziano Carm., 1 11 8); decerpo, composto di carpo, ne ha la stessa concretezza ('cogliere, spic­ care [un frutto, fiorì]') . + 43· Unum . . . ambo: la disposizione a cornice di verso dà enfasi all'unità d'in­

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tenti e opere tra discepolo e maestro, che Persi o pone soprattutto in risalto nei versi seguenti: cfr. 45: ambo rum foedere ceno; 46: uno sidere; 47: aequali. . . Libra; 49: concordiafata; s o: una. + 45-51. I versi si ispirano a Orazio, Carm., 11 17 15-22, in cui il poeta esprime a Mecenate l'armonia tra i loro desti­ ni attraverso un elaborato riferimento astrologico. + 47· aequali . . . Libra: il segno della Bilancia è de­ finito aequalis poiché coincide con l'equinozio autunnale: cfr., ad es., Virgilio, GeofX., 1 208: Libra die somnique pares u bifecerit horas ('quando la Bilancia avrà reso uguali le ore del giorno e del sonno'). + 48. Parca tena:x veri: le tte Parche, identificate con le Moìpa.t greche, erano ritenute responsabili del destino individuale; per la definizione di tena:x veri dr., ad es., Orazio, Carm., n 16 39: Parca non men­ da:x. + 5 0. Satumum . . . Iove: l'influsso di Saturno era considerato negativo sulla vita degli uomini, mentte quello di Giove positivo. + 51. nesdo . . . astrum: cfr. Orazio, Carm., 11 17 21 sg.: utrumque nostrum incredibili modo l consentit astmm ('enttambe le nostre stelle si accordano in modo incredibile'). vv.

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IV LA SATIRA INDIGNATA DI GIOVENALE Giovenale è l'ultima figura di poeta satirico dell'antichità. Come già nella poesia di Persio, la varietà della satira è drasticamente limitata, e, rispetto al poeta dell'età neroniana, l'elemento autobiografico subisce un'ulteriore contrazione. Scompare, almeno nei primi libri, la « dimensione della cerchia >>, cioè la « ricerca di una ragio­ nevole norma di comportamento entro una certa dimensione di rapporti sociali >> (Citroni _,. I pp. 332 sg.): a muovere il poeta è un'indignazione solitaria suscitata dal dilagare della corruzione e del vizio (1 79: si natura negat,Jacit indignatio versum, 'se la natura si oppone, è l'indignazione a fare il verso'). In una società del genere la sati­ ra appare forma obbligata per chi voglia esprimere il proprio biasimo (1 30: dif]ìcile est saturam non seribere, 'è difficile non scrivere satira'). Con Giovenale è svanita ogni pur minima speranza che la satira possa produrre effetti positivi sugli uomini: egli si limiterà a denunciare con astio tutte le forme del vizio, senza pretesa di giovare. Rappresentante del ceto medio italico, spaesato nella Roma cosmopolita del­ l'impero, Giovenale contempla l'invettiva soltanto quale reazione alla crisi dei va­ lori tradizionali in atto nella società; il suo livido risentimento di emarginato non risparmia nessuno, abbattendosi soprattutto su alcune figure simbolo della società, in primo luogo le donne, bersaglio della piti lunga satira, la sesta, uno tra i docu­ menti piti significativi della misoginia di tutte le epoche: emancipate e disinvolte attrici sulla scena sociale, rappresentano agli occhi del poeta l'emblema della scom­ parsa del pudore. La decadenza della nobiltà, incapace di sostenere la cultura sul modello del mecenatismo augusteo, è tema della satira vn e muove alla riflessione sulla nobiltà d'animo, contrapposta a quella di nascita, nell'ottava. La seconda sati­ ra si scaglia contro l'ipocrisia e specialmente contro gli omosessuali (mentre nella IX, in forma di dialogo, l'omosessuale Nèvolo si lamenta degli scarsi compensi per le sue prestazioni); nella III il vecchio Umbricio, in procinto di abbandonare Roma, fornisce un quadro desolante della vita nella capitale. La superbia dei nuovi ricchi è tema della quinta satira, in cui è descritta la cena offerta dal ricco Virrone e l'umi­ liazione subita dai convitati, mentre la moda delle declamazioni è trattata nella pri­ ma satira, di carattere programmatico, nella quale Giovenale offre una spietata rap­ presentazione del dilagare della corruzione, che ha raggiunto un livello di abiezio­ ne ormai insuperabile. Bersagli dell'invettiva sono i cacciatori d'eredità nella XII sa­ tira e gli imbroglioni nella XIII. Nella IV satira è descritto il consilium tenuto da Do­ miziano per una questione della massima importanza: come cucinare l'enorme rombo offerto in dono all'imperatore! La decima ha per tema l'insensatezza delle brame umane, mentre l'undicesima è l'invito a un amico a una cena modesta; l'e­ ducazione dei figli e l'importanza dell'esempio sono discusse nella XIV satira e la xv

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IV · LA SATIRA I N D I G NATA DI G IOVENALE

descrive un episodio di cannibalismo provocato dal fanatismo religioso, accaduto in Egitto; la XVI, incompleta, parla dei privilegi della vita militare. Nelle ultime satire si osserva una diminuzione della tensione aggressiva, che la­ scia il campo a una forma di dialogo con i destinatari e a una piu distaccata valuta­ zione dei comportamenti, che si avvicina al modello oraziano: la valutazione di questa "seconda maniera" giovenaliana e del suo rapporto con la prima è questione difficile e aperta. Forse piu che ad apertura ottimistica il mutamento si dovrà attri­ buire a una « disillusa stanchezza in cui viene meno la base di vigoroso convinci­ mento morale su cui si sosteneva la tensione dell'ind(gnatio e si fa avanti uno scetti­ cismo piu amaro » (Citroni ---+ I p. 334). In ogni caso è soprattutto la satira indignata della "prima maniera" di Giovenale ad aver fissato una tipologia destinata a rima­ nere nella tradizione satirica moderna. Per il poeta la realtà ha prodotto monstra equivalenti a quelli presenti nella lette­ ratura alta; la satira pertanto dovrà innalzare il tono e servirsi di uno stile degno dei generi elevati (epica e soprattutto tragedia). Egli svincola dunque la satira dal lega­ me originario con la commedia e con il ridicolo, ricorrendo a uno stile solenne, di stampo epico-tragico, per esprimere i contenuti piu volgari. La sua lingua, pur ric­ ca di colloquialismi e di espressioni comuni, si innalza a un livello di pathos ottenu­ to grazie alla padronanza dei mezzi retorico-declamatori. Il suo realismo mostra una spinta deformante, che produce quadri di grande crudezza, grazie a un'espres­ sione spesso iperbolica, p regnante, sentenziosa.

VII · LA SATIRA

SATURAE 6

1-3 7 Credo Pudiàtiam Saturno rege moratam in terris visamque diu, cum frigida parvas praeberet spelunca domos ignemque laremque et pecus et dominos communi clauderet umbra, silvestrem montana torum cum sterneret uxor

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&ondibus et culmo viànarumque ferarum pellibus, haut similis tibi, Cynthia, nec tibi, cuius turbavit nitidos extinctus passer ocellos, sed potanda ferens infantibus ubera magnis et saepe horridior glandem ructante marito.

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Quippe aliter tunc orbe novo caeloque recenti vivebant homines, qui rupto robore nati compositive luto nullos habuere p arentes. Multa Pudiàtiae veteris vestigia forsan

Saturae. La sesta Satira, di cui viene proposta una scelta antologica, è senz'altro la phi celebre di Giovenale. Indirizzata a un certo Postumo, sì presenta come un tentativo di dissuaderlo dal matri­ monio. In realtà il lungo componimento (695 vv., compreso il fragmentum Oxoniense, scoperto nel 1899, la cui autenticità, seppur oggetto di dibattito, sembra oggi accertata) è un misogino biasimo delle donne, che sfrutta temi tradizionali (Semonide dì Amorgo, ad es., aveva composto un lungo giambo contro le donne in forma catalogica: fr. 7, di 118 vv.), ma li compone in un catalogo cosi am­ pio e dettagliato da non avere eguali nella letteratura classica. Dopo un ampio ed elaborato esor­ dio, in cui il poeta tratteggia il declino morale della donna dalla primitiva età dell'oro fino ai suoi tempi, la satira sviluppa il tema dell'assenza di castità, proponendo una memorabile galleria di ri­ tratti di personaggi femminili, dei quali vengono qui proposti quelli di Messalìna, prostituta im­ periale, della maniaca del greco, della gladìatrice, della pettegola, della dotta, dell'avvelenatrice. I:arte di Giovenale vi si dispiega non soltanto nella veemenza degli attacchi, ma anche nell'ironia sarcastica che affiora da alcune notazioni. Il testo è proposto nell'edizione di WV. Clausen (Ox­ ford, Univ. Press, 1959) . 6 1-37. Il declino della morale. Un tempo Pudicizia dimorò sulla terra, all'epoca di Saturno, quando l'uomo, nato dalla quercia o plasmato dal fango, conduceva un'esistenza primitiva. Forse ancora sotto il regno del giovane Giove si ebbero tracce di lei. Ma poi insieme ad Astrea tornò tra gli dei. I.:età dell'argento conobbe i primi adulterì e quella del ferro ha dato fondo a ogni colpa. Sposarsi al giorno d'oggi è segno di follia, meglio il suicidio! È comunque preferibile a una moglie un ragaz­ zetto, che non si lamenta, non pretende doni, non dà ordini. 1-24. Il quadro sulla vita primitiva dell'uomo e il declino dall'età dell'oro a quella dell'argento,

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IV · LA SATIRA INDIGNATA DI GI OVENALE

LE SATIRE

6 1-3 7 Credo che la Pudicizia sotto il regno di Saturno a lungo si sia trattenuta sulla terra e vi sia stata vista, quando un freddo antro offriva una piccola dimora e il fuoco, i Lari, il bestiame e i padroni chiudeva sotto un'ombra comune, quando la moglie montanara apprestava un letto rustico con fogliame, paglia e pelli di fìere cacciate nelle vicinanze, non simile a te, Cinzia, né a te, i cui occhi splendenti ha deturpato il passero morto, ma una che porgeva il seno per allattare robusti infanti e spesso piu selvaggia del marito che rigurgitava ghiande. Allora infatti diversamente in un mondo nuovo e sotto un cielo appena [originato, vivevano gli uomini che, nati dalla spaccatura di una quercia o plasmati dal fango, non ebbero genitori. Molte tracce dell'antica Pudicizia forse

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del bronzo, per finire con quella del ferro, prende le mosse da Esiodo, Op., 109-201. + 1. Pudicitiam: P. (in Esiodo Aiòwç) abbandonò la terra insieme ad Astrea (in Esiodo NÉ1.u:otç), dea della giustizia. La menzione di Cinzia e Lesbia (vv 7 sg.) quali rappresentanti della corruzione contemporanea, confrontata con l'età dell'oro, deriva a Giovenale da Properzio, n 32 43-56. La descrizione priva di idealizzazione della vita primitiva, funzionale alla tesi moralistica che la raffinatezza porta corru­ zione (cfr. vv 286 sgg.), è ampiamente debitrice del quinto libro di Lucrezio. + 4· etpecus et dominos: la convivenza tra il bestiame e i padroni di casa offre un esempio efficace della condizione primi­ tiva dell'uomo. + 5 · montana . . . uxor: l'attributo denota durezza; cfr. anche 2 74: montanum . . . vulgus. + 7-8. haut similis tibi, Cynthia, nec tibi . . . ocellos: le due piu celebri donne elegiache, la Cinzia di Pro­ perzio e la Lesbia di Catullo, simboleggiano l'immoralità del presente, necessaria conseguenza della maggior raffinatezza dello stile di vita. La perifrasi per indicare Lesbia (cuius . . . ocellos), anche mediante l'uso di un diminutivo tipicamente catulliano (ocellos), allude con sarcasmo al celebre c. 3 sulla morte del passer (cfr. in partic. i vv. 16-18: Ojàctum male! O miselle passeri Tua nunc opera meae puellae lJlendo turgiduli mbent ocelli, 'O delitto! Povero passero! Ora per causa tua si arrossano gli oc­ chi della mia ragazza, gonfi per il pianto'). + 12-13. qui . . . compositive luto: i primi uomini sarebbero nati dagli alberi, e in particolare dalla quercia, secondo una diffusa leggenda attestata anche in Vir­ gilio, Aen., VIII 315:gens . . . vimm tmncis et duro robore nata ('una stirpe [ . . . ) di uomini nata dai tronchi e dalla dura quercia'), da cui la formulazione di Giovenale dipende; cfr. anche Stazio, Theb., III 560; IV 279-81, 340. Secondo un altro mito (per cui cfr. 14 35; Properzio, III 5 7; Orazio, Carm., I 16 13-16; Fedro, IV 16; Marziale, x 39 4) fu invece Prometeo a plasmare l'uomo dalla creta. + 14. veteris vestigia: .

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VII



LA SA TIRA

aut aliqua extiterint et sub love, sed love nondum barbato, nondum Graecis iurare paratis per caput alterius, cum furem nemo timeret caulìbus ac pomis et aperto viveret horto. Paularim deinde ad superos Astrae a recessit hac comite, atque duae pariter fugere sorores. Anticum et vetus est alìenum, Postume, lectum concutere atque sacri genium contemnere fulcri. Omne aliud crimen mox ferrea protulit aetas: viderunt primos argentea saecula moechos. Conventum tarnen et pactum et sponsalìa nostra tempestate paras iarnque a tonsore magistro pecteris et digito pignus fortasse dedisti? Certe sanus eras. Uxorem, Postume, ducis? Dic qua Tisiphone, quibus exagitere colubris. Ferre potes dominam salvis tot restibus ullam, cum pateant altae caligantesque fenestrae, cum tibi vicinum se praebeat Aemilius pons? Aut si de multis nullus piacet exitus, illud nonne putas melius, quod tecum pusio dormit? Pusio, qui noctu non litigat, exigit a te nulla iacens illic munuscula, nec queritur quod et lateri parcas nec quantum iussit anheles.

Quid privata domus, quid fecerit Eppia, curas? Respice rivales divorum, Claudius audi

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nesso allitterante di nobile ascendenza letteraria: cfr. Catullo, 64 295 ; Virgilio, Aen., IV 23; Ovidio, Am., m 8 19 (sempre nella stessa posizione di verso); il passo di Giovenale influenza Claudiano, Theod., 136: veteris vestigia recti ('tracce dell'antica onestà'). hs-26. nostra tempestate: la iunctura, posta in risalto dall'enjambement, sottolinea la follia di sposarsi nell'età presente, quella del ferro, la peggio­ re di tutte. Per la visione pessimistica di Giovenale sui suoi tempi cfr. 1 147"49: nil erit u/terius quod no­ stris moribus addat l posteritas:eademfacient cupientque minores. / Omne inpraedpiti vitium stetit ('non vi sa­ rà corruzione ulteriore che la posterità possa aggiungere alle nostre abitudini: i piti giovani faran­ no e brarnera�mo le stesse cose. Ogni vizio si trova sull'orlo del precipizio') . + 28. Certe sanus eras: il tono è ironico. + 29. Tisiphone: una delle Furie, rappresentate con serpenti per capelli, al cui con­ tatto si genera la pazzia. + 30-32. L'assunto estremo è che il suicidio è meglio del matrimonio. + 3 5 · qui noctu non litigat: diversamente da una moglie: cfr. vv. 268 sg.: semper habet lites alternaque imgia lec-

IV · LA SATIRA INDIGNATA DI GI OVENALE

o alcune vi furono anche sotto Giove, ma quando a Giove non ancora era spuntata la barba, quando i Greci ancora non erano pronti a giurare sulla testa di un altro, quando nessuno temeva il ladro per i cavoli e i frutti e si viveva con l'orto privo di recinzioni. Poi a poco a poco Astrea se ne tornò tra gli dei superi, assieme a questa, e le due sorelle fuggirono insieme. È usanza antica e inveterata, o Postumo, di squassare il letto altrui e di sdegnare il genio del sacro talamo. In seguito la generazione del ferro inventò ogni altra colpa: l'età argentea vide i primi adulteri. Eppure tu, ai nostri tempi, prepari l'unione, l'accordo, il fidanzamento e già ti fai pettinare da un maestro barbiere e forse le hai già dato il pegno per il dito? Certo eri sano di mente. O Postumo, prendi moglie? Dimmi da quale Tisifone sei sconvolto, da quali serpi. Riesci a sopportare una padrona, quando rimangono tante corde, quando sono aperte finestre alte e coperte di nebbia, quando il ponte Emilio ti si offre vicino? O se non ti piace nessuna fine delle tante, non credi sia meglio che un ragazzino dorma con te? Un ragazzino che non litiga di notte e, sdraiato li, non ti chiede regalini, né si lamenta perché risparmi i fianchi e non ansimi quanto ha preteso.

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Ti dai pensiero di ciò che fece una casa privata, di ciò che fece Eppia? Volgi lo sguardo sugli emuli degli dei, ascolta quali cose

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tus l in quo nupta iacet ('è sempre carico di liti e di battibecchi il letto in cui giace una sposa'). + 35-36. exigit a te nulla . . . munuscula: contrapposto alle pretese della moglie (vv. 149-6o). 114-35. La prostituta imperiale. Perché soffermarsi su casi privati di lussuria, quando è la casa impe­ riale a offrire l'esempio piti turpe? Messalina, moglie dell'imperatore Claudio, lasciava nel pieno della notte il palazzo per recarsi in incognito in uno squallido lupanare, dove si prostituiva con il nome di Licisca. Solo per ultima lasciava triste il bordello alla chiusura, ancora insoddisfatta, ri­ portando nel talamo il lezzo e la sporcizia del lupanare. 114. Eppia: protagonista dell'aneddoto menzionato nei versi precedenti (103-13): per amore di un gladiatore aveva lasciato il marito e la famiglia. + 115. rivales divorum: l'espressione è usata con sarca­ smo.

VII · LA SATIRA

quae tulerit. Dormire virum cum senserat uxor, sumere nocturnos meretrix Augusta cucullos ausa Palatino et tegetem praeferre cubili linquebat camite ancilla non amplius una. Sed nigrum flavo crinem abscandente galero intravit calidum veteri centone lupanar et cellam vacuam atque suam; tunc nuda papillis prostitit auratis titulum mentita Lyciscae ostenditque tuum, generose Britannice, ventrem. Excepit blanda intrantis atque aera poposcit [continueque iacens cunctorum absorbuit ictus. ] Mox lenone suas iam dimittente puellas tristis abit, et quod potuit tamen ultima cellam clausit, adhuc ardens rigidae tentigine volvae, et lassata viris necdum satiata recessit, obscurisque genis turpis fumoque lucernae foeda lupanaris tulit ad pulvinar odorem. Hippomanes carmenque loquar coctumque venenum privignoque datum? Faciunt graviora coactae imperio sexus minimumque libidine peccant.

Quaedam parva quidem, sed non toleranda maritis. Nam quid rancidius quam quod se non putat ulla formosam nisi quae de Tusca Graecula facta est, de Sulmonensi mera Cecropis? Omnia Graece:

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116. uxor. Valeria Messalina, moglie dell'imperatore Claudio e madre di Britannico (cfr. v. 124), fu celebre per la sua dissolutezza (cfr. in particolare Plinio il Vecchio, Nat. hist., x 172; Tacito, Ann., XI 12-38). + 117. meretrix Augusta: l'accostamento produce un effetto ossimorico; dr. l'analoga meretrix n;gina (di Cleopatra) in Properzio, m 11 39 (regina meretrixin Plinio il Vecchio, Nat. hist., IX 119). + 120.

Sed: l'avversativa crea qualche problema. Una parte della tradizione ha et, probabilmente un ten­ tativo normalizzatore, e Ribbeck ha proposto sic (ora accolto da Willis). + 123. titulum mentita Lyd­ scae: il nome veniva scritto sul cartellino (titulus) apposto sulla porta della stanza. + 126. Il verso, pre­ sente solo in manoscritti di XV sec., è probabilmente interpolato per rendere piu esplicita la de­ scrizione. Continue ricorre nel latino classico solo in Varrone, Ling. Lat., v 27. Alcuni ritengono in­ vece che la sua assenza nella gran parte della tradizione sia frutto di censura dovuta a pruderie. + 133.

IV · LA SATIRA INDIGNATA DI GI OVENALE

Claudio ha tollerato. Come si accorgeva che il marito dormiva, sua moglie osando, prostituta imperiale, indossare di notte un mantello con cappuccio e preferire una stuoia al giaciglio Palatino, si allontanava con non piti di una serva al seguito. Ma con una parrucca bionda che nascondeva i capelli neri 120 entrava per una vecchia tenda nel caldo lupanare e nella stanzetta vuota e sua; allora nuda, con i seni adornati d'oro si prostituiva, adottando il falso nome di Licisca, e metteva in mostra il ventre che generò te, nobile Britannico. 125 Accoglieva seducente coloro che entravano e chiedeva il compenso. [E sdraiata ininterrottamente assorbiva i colpi di tutti. ) Poi, quando ormai il lenone congedava le sue ragazze, se ne andava triste e, ciò che però poteva fare, per ultima chiudeva la sua stanzetta, ancora infuocata per la tensione della turgida vulva e, sfinita, ma ancora non saziata di uomini, si allontanava 130 e, sporca sulle guance scure e lorda del fumo della lucerna, portava nel talamo l'odore del lupanare. Perché parlare dell'ippomane, dell'incantesimo e del veleno bollito e dato al figliastro? Commettono delitti peggiori forzate 135 dall'impero del sesso e la lussuria è la loro colpa minore.

Alcuni esempi piccoli, ma intollerabili per i mariti. Infatti cosa c'è di piti stomachevole del fatto che nessuna si considera bella se da etrusca non è diventata greca, da Sulmonese pura discendente di Cecrope? Tutto in greco:

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Hippomanes: una secrezione prodotta dalle cavalle in calore, usata in filtri magici (cfr. Virgilio, Georg., III 280-83; Tibullo, II 4 58; Properzio, IV 5 18; Ovidio, Am., l 8 8; Med., 38) o un'escrescenza sulla fronte dei puledri, utilizzata per lo stesso fine (Plinio il Vecchio, Nat. hist., viii 165) . 184-99. Fanno l'amore in greco! Ormai ogni donna romana si crede attraente solo se si esprime in greco. In greco manifestano ogni sentimento; in greco fanno persino l'amore! E non solo le giova­ ni: anche le ultraottantenni non si vergognano di dire carezzevoli paroline greche, ma il loro viso tradisce l'età. 186-93. Graecula . . . Graece: il fastidio del poeta per la mania filellenica è reso attraverso l'insistita anafora dell'avverbio Graece. Il diminutivo Graecula ha valenza dispregiativa, come in 3 76-78: gram­

maticus, rhetor, J?eometres, pictor, aliptes, l augur, schoenobates, medicus, magus, omnia novit l Graeculus esu-

VII · LA SATIRA

[cum sit turpe magis nostris nescire Latine. ] Hoc sermone pavent, hoc iram, gaudia, curas, hoc cuncta effundunt animi secreta. Quid ultra? Concumbunt Graece. Dones tamen ista puellis: tune etiam, quam sextus et octogensimus annus pulsat, adhuc Graece? Non est hic sermo pudicus in vetula. Quotiens lascivum intervenit illud (wi] xaì lJroxli, modo sub lodice relictis uteris in turba. Quod enim non excitet inguen vox blanda et nequam? Digitos habet. Ut tamen omnes subsidant pinnae, dicas haec mollius Haemo quamquam et Carpophoro, facies tua computat annos.

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Endromidas Tyrias et femineum ceroma quis nescit, vel quis non vidit vulnera pali, quem cavat adsiduis rudibus scutoque lacessit atque omnis implet numeros dignissima prorsus Fiorali matrona tuba, nisi si quid in illo riens: in caelum iusseris, ibit ('grammatico, retore, geometra, pittore, massaggiatore, augure, funam­ bolo, medico e mago: sa far tutto un grechetto affamato: se gli ordinerai di andare in cielo, ci an­ drà'). Lo spirito xenofobo di Giovenale emerge anche in 3 6o sg.: non possumferre, Quirites, l Grae­ cam urbem ('non posso sopportare, o Quiriti, una Roma grecizzata'). + 187. mera Cecropis: 'pura Ate­ niese'. Da Cecrope, il primo mitico re di Atene. I:attributo evoca qui con sarcasmo un presunto antico lignaggio. + 188. cum . . . Latine: il verso è certamente interpolato: separa infatti hoc sermone del v. 189 dal necessario Graece del v. 187. + 191. Concumbunt Graece: lett. 'giacciono insieme in greco'. I:accostamento di concumbere all'avverbio Graece produce un effetto comico. + 195. (wfl xaì l!rux!l: anche Marziale, in un epigramma che Giovenale ha certamente presente, critica il vizio delle ma­ ttone romane di parlare greco e di usare parole proprie dell'amore nelle circostanze sbagliate: cfr. x 68 5-8: xuptÉ llOU, llÉAl llOU, l!rux!l llOU congeris usque, l pro pudoriHersiliae dvis et Egeriae. l Lectulus has voces, nec lectulus audiat omnis, l sed quem lascivo stravit amica viro ('« signore mio, miele mio, anima mia » non fai che mettere in fila, che vergogna! Tu concittadina di Ersilia ed Egeria. Solo il letto ascolti queste parole, e neanche ogni letto, ma quello che l'amante ha apprestato per il suo uomo voglioso'). Per l'uso del greco nelle effusioni affettive si veda anche il quadro caricaturale di Lu­ crezio, IV 1160-69. - modo . . . relictis: relictis è sembrato corrotto a molti (vd. Courtney). Housman proponevaJerendis (scii. verbis, 'parole accettabili solo sotto le coltri'), mentre Willis mette a testo lo­ quendis di Nisbet ('parole pronunciabili solo, ecc.'). Il part. è però forse difendibile se si dà al verbo il senso di 'emettere (quasi concedendo)', per cui cfr. Stazio, Silv., n 1 151 sg.: salurn meminitsolumque vocantem l exaudit tibique ora movet, tibi verba relinquit ('per te solo ha pensiero e le tue sole invocazio-

IV · LA SATIRA I N D I G NATA DI GIOVENALE

[sebbene per le nostre sia piu turpe ignorare il latino. ] In questa lingua hanno paura, in questa esprimono ira, gioia, affanni, in questa effondono tutti i segreti dell'animo. Cos'altro? Fanno l'amore in greco. Questo però potresti concederlo alle ragazze, ma anche tu, che l'ottantaseiesimo anno scuote, ancora in greco? Questa lingua non è pudica in una vecchietta. Ogni volta che sopraggiunge quel lascivo « vita e anima mia », quelle parole che solo sotto le coltri si lasciano andare tu usi in mezzo alla folla. Quale inguine infatti non ecciterebbe una parola dolce e licenziosa? Ha le dita. Perché però ti si abbassino tutte le penne, sebbene tu dica queste parole con piu sensualità di Emo e di Carpoforo, il tuo viso tiene il conto degli anni.

Chi ignora le endromidi di Tiro e l'unguento femminile per la lotta, o chi non ha visto le ferite sul palo, che intacca con assidui colpi di bacchetta e assale con lo scudo e mette cosi in pratica tutti i ritmi una matrona proprio degnissima della tromba di Flora, a meno che in quel petto

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ni ascolta e per te muove le labbra e ti rivolge parole') ; Valerio Fiacco, I 333: da, precor, amplexus hae­ suraque verba relinque l auribus ('abbracciami, ti prego, e concedimi parole che rimarranno nelle mie orecchie'). + 197. Digitos habet: una parola blanda è in grado di exdtare come le dita di una mano. Per la tendenza della lingua popolare all'espressione concreta cfr. Petronio, 42 1: aqua dentes habet ('l'ac­ qua ha i denti'). + 197-98. Ut . . . omnes subsidant pinnae: l'espressione proverbiale, rivolta a chi insu­ perbisce, si è conservata nell'it. abbassare lepenne. Il contrario è in 4 70: et tamen illi surgebant cristae ('e tuttavia gli si alzava la cresta'), anch'essa sopravvissuta in italiano. + 198-99. Haemo . . . Carpophoro: Emo era un celebre attore, menzionato con altri anche in 3 99: molli . . . Haemo. Probabilmente lo era anche Carpoforo, di cui però non possediamo notizie. 246-67. La gladiatrice. La matrona che si dedica ai giochi gladiatori non ha pudore, al pari delle prostitute che si esibiscono ai ludi di Flora: fugge dal suo sesso, preferendo il virile esercizio della forza. Si procura ogni strumento del mestiere e si esercita con impegno. Nemmeno la moglie del gladiatore si sognerebbe di usare l'attrezzatura del marito. 246. Endromidas Tyrias: accappatoi indossati nelle pause dagli esercizi (cfr. Marziale, IV 19 4; XIV 126), ma tinti con la raffinata porpora di Tiro. - ceroma: un unguento usato dai lottatori. + 247. pali: un fantoccio usato dai gladiatori per esercitarsi nei colpi (cfr. v. 267; Seneca, Epist., 18 8). + 249-50. dignissima . . . tuba: secondo una notizia riportata dagli scolii, durante i Ludi Flora/es le meretrici, che avevano un ruolo rilevante nella festa, combattevano con armi gladiatorie. Il fatto che sia una ma­ trona protagonista di questi esercizi desta scandalo.

VII · LA SATIRA

pectore plus agitat veraeque paratur harenae? Quem praestare potest mulier galeata pudorem, quae fugit a sexu? Vires amat. Haec tamen ip sa vir nollet fìeri; nam quantula nostra voluptas! Quale decus, rerum si coniugis auctio fìat, balteus et manicae et cristae crurisque sinistri dimidium tegimen! Vel si diversa movebit proelia, tu felix ocreas vendente puella. Hae sunt quae tenui sudant in cyclade, quarum delicias et panniculus bombycinus urit. Aspice quo gemitu monstratos perferat ictus et quanto galeae curvetur pondere, quanta poplitibus sedeat quam denso fascia libro, et ride positis scaplùum cum sumitur armis. Dicite vos, neptes Lepidi caecive Metelli Gurgitis aut Fabii, quae ludia sumpserit umquam hos habitus? Quando ad palum gemat uxor Asyli?

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398-412 Se d cantet potius quam totam pervolet urbem audax et coetus possit quae ferre virorum cumque paludatis ducibus praesente marito ipsa loqui recta facie siccisque marnillis. Haec eadem novit quid toto fìat in orbe, quid Seres, quid Thraces agant, secreta novercae

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254. quantula nostra voluptas!: in Ovidio, Met., m 318-38, Tiresia, scelto come arbitro di una contesa tra Giove e Giunone sulla questione, dà ragione al dio sul fatto che la donna tragga piu piacere del­ l'uomo dal sesso. + 256-57. balteus . . . tegimen: insieme allo scudo compongono l'armamento dei gla­ diatori detti "Sanniti". Il balteo era la cintura per la spada, le manopole una protezione per il brac­ cio destro (con il sinistro si teneva lo scudo). Dimidium tegimen è lo schiniere, che arrivava sotto il ginocchio, poiché di li in su proteggeva lo scudo. + 259-60. Hae . . . urit: i versi mettono in risalto il ri­ dicolo contrasto tra le delicate vesti femminili e l'esercizio gladiatorio. - tenui . . . in cyclade: una gon­ na orlata d'oro e di porpora (cfr. Properzio, IV 7 40). + 265-66. Lepidi . . . Fabii: personaggi della Ro­ ma repubblicana, qui menzionati quali emblemi della moralità perduta. Lepidus è cognomen atte­ stato nella gens Aemilia. Lucio Cecilio Metello Cieco salvò il Palladio dall'incendio del tempio di Vesta nel241 a.C. e fu dittatore nel224. Quinto Fabio Massimo Gurgite, console per due o tre vol-

IV · LA SATIRA INDIGNATA DI GI OVENALE

non covi propositi maggiori e non si prepari per la vera arena? Quale pudore può mantenere una donna armata di elmo, che fugge dal suo sesso? Ama le forze. Ma questa stessa non vorrebbe divenire un uomo; quanto è ridotto infatti il nostro piacere! 255 Quale onore, se si facesse una vendita degli strumenti di tua moglie, il balteo, le manopole e i pennacchi e la mezza protezione della gamba sinistra! O se ingaggerà battaglie diverse, fortunato tu, perché la tua ragazza vende gli schinieri. Sono quelle che sudano in una sottile ciclade, le grazie 26o delle quali fa infiammare un pannicello di seta. Guarda con quale grido acuto effettui i colpi che le vengono mostrati e sotto quale peso dell'elmo si pieghi, quale fasciatura, con che fitta membrana le aderisca ai garretti, e ridi quando, deposte le armi, viene preso il vaso da notte. 265 Ditemi voi, nipoti di Lepido o del cieco Metello o di Fabio Gurgite, quale appassionata di gladiatori ha mai indossato questi abiti? Quando la moglie di Asilo gemerebbe al palo?

Ma canti piuttosto che svolazzare per tutta la città sfrontata e in grado di sostenere riunioni di uomini e di parlare, in presenza del marito, con generali in divisa a testa alta e a mammelle asciutte. Questa stessa conosce quello che accade in tutto il mondo, cosa fanno i Seri, cosa i Traci, i segreti tra la matrigna

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te, vinse i Sanniti, i Lucani e i Bruzzi e fu princeps senatus. + 266. ludia: sul termine (cfr. anche 6 104; Marziale, v 24 10) vd. M.G. Mosci Sassi, l/ linguaggio gladiatorio, Bologna, Pàtron, 1992, pp. 134 sg. + 267. Asyli: un gladiatore. 398-412. La pettegola. Meglio l'appassionata di canto di quella che si intrattiene anche con i gene­ rali, che sa ciò che succede in tutto il mondo, che conosce tutte le storie d'amore della città, che in­ tercetta tutte le voci e ne inventa anche, raccontandone di ogni genere nei crocicchi, a chiunque incontri. 401. siais . . . mamillis: l'espressione indica il venir meno della femminilità; si confronti l'opposta notazione delle donne primitive al v. 9· + 403. Seres Thraces: popolazioni lontane: i Seri, abitanti nelle regioni dell'attuale Cina, simboleggiano l'estremo Oriente; i Traci rappresentano il Setten­ trione. . . .

VII • LA SA T I RA

et pueri, quis amet, quis diripiatur adulter; dicet quis viduam praegnatem fecerit et quo

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mense, quibus verbis concumbat quaeque, modis quot. Instantem regi Armenio Parthoque cometen prima videt, famam rumoresque illa recentis excipit ad portas, quosdam facit: isse Niphaten in populos magnoque illic cuncta arva teneri

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diluvio, nutare urbes, subsidere terras, quocumque in trivio, cuicumque est obvia, narrat.

434-5 6 Illa tamen gravior, quae cum discumbere coepit laudat Vergilium, periturae ignoscit Elissae,

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comrnittit vates et comparat, inde Maronem atque alia parte in trutina suspendit Homerum. Cedunt grammatici, vincuntur rhetores, omnis turba tacet, nec causidicus nec praeco loquetur, altera nec mulier. Verborum tanta cadit vis,

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tot pariter pelves ac tintinnabula dicas pulsari. Iam nemo tubas, nemo aera fatiget: una laboranti poterit succurrere Lunae. Imponit fìnem sapiens et rebus honestis; nam quae docta nimis cupit et facunda videri

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404. quis amet: la conoscenza di tutte le relazioni amorose è un tratto presente anche nell'effemi­ nato bellus homo ('uomo di mondo') descritto da Marziale in III 63: cfr. v. 11: qui scit quam quis amet ('uno che sa quale donna ami ciascuno'). + 406. quibus. . . quaeque: per le parole dette durante l'arno­ re cfr. v. 191. + 407. Instantem . . . cometen: le comete erano considerate un presagio negativo. - regi Ar­ menio Parthoque: il riferimento ai re di Armenia e Partia offre un terminus post quem per la composi­ zione della satira: l'imperatore Traiano, conclusa vittoriosamente la campagna contro gli Armeni nel 114, iniziò quella contro i Parti nel 116. + 409. Niphaten: in realtà una catena montuosa armena, da cui nasce il Tigri. La confusione, presente anche in altri poeti {Lucano, III 245; Silio, XIII 765 sg.), dipende forse da un fraintendimento di Orazio, Carm., n 9 20: rigidum Niphaten: l'attributo infatti si confà tanto a un monte quanto a un fiume ghiacciato. 434-56. La dotta. Peggiore è l'esperta di letteratura, di fronte alla quale tacciono tutti. È un fiume di parole. Colei che vuole sembrare dotta, si cinga la tunica alla gamba, faccia sacrifici e vada alle terme per un quadrante come un uomo. La matrona non deve avere uno stile oratorio, né cono­ scere tutta la storia e comprendere ogni cosa. È odiosa quella che ripassa di continuo la grammati-

IV · LA SATIRA INDIGNATA DI GI OVENALE

e il figliastro, chi è innamorato, quale amante è conteso da tutte; ti dirà chi ha messo incinta una vedova e in che mese, con quali parole ciascuna faccia l'amore e in quanti modi. Per prima vede una cometa che incombe sul re di Armeni e Parti e raccoglie alle porte della città notizie e voci recenti, alcune le inventa: che il Nifate è straripato fra le popolazioni e li tutti i campi sono sommersi dalla grande inondazione, che vacillano le città, affondano le terre, racconta in qualunque trivio, a chiunque si faccia incontro.

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434-56 Ma è piu molesta quella che non appena si stende sul triclinio loda Virgilio, perdona la moritura Elissa, mette a confronto e paragona i due vati, e sulla bilancia pone da una parte Marone e dall'altra Omero. I grammatici si ritirano, sono sconfitti i retori, tutta la folla tace, e non parlerà l'avvocato, né il banditore, né un'altra donna. Un cosi grande profluvio di parole viene giu, diresti che insieme sono battuti tanti catini e campanelli. Ormai nessuno affatichi le trombe, nessuno i cembali di bronzo: una sola verrà in soccorso alla Luna in eclissi. Il saggio pone fine anche alle azioni oneste; infatti quella che vuole apparire troppo dotta ed eloquente,

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ca e ricorda a memoria versi poco noti; che riprende gli errori di un'amica. Sia consentito al mari­ to fare uno strafalcione. 434. Illa . . . coepit la donna erudita faceva paura: si veda anche Marziale, II 90 9: sit non doctissima co­ niunx ('che io possa avere una moglie non coltissima'). + 435· periturae ignoscit Elissae: in punto di morte Didone (di cui Elissa è l'originario nome fenicio) pronuncia la celeberrima imprecazione contro Enea e i suoi discendenti, origine dell'odio tra Cartaginesi e Romani (cfr. Virgilio, Aen., IV 607-29) . Il nesso peritura Elissa richiama esplicitamente il contesto virgiliano: v. 610: et Dirae ultrices et di morientis Elissae. Il giudizio dell'opera letteraria su basi morali è anche della Cinzia di Proper­ zio: cfr. II 1 49 sg.: si memini, solet illa levis culpare puellas l et totam ex Helena non probat Iliada ('se ricor­ do, lei è solita accusare le ragazze volubili, e a causa di Elena condanna l'intera Iliade'). + 439· causi­ dicus . . . praeco: entrambe professioni caratterizzate da facilità di parola. + 441-42. pelves . . . aera}àtiget: era diffusa la superstizione che l'eclissi di luna (443 : laboranti . . . Lunae) fosse causata da demoni e che i rumori, soprattutto derivanti da percussioni, avessero potere apotropaico. + 445-47. nam . . . la­ vari: indossare la tunica, fare sacrifici e andare alle terme al costo di un quadrante sono prerogative maschili.

VII · LA SATIRA

crure tenus medio tunicas succingere debet, caedere Silvano porcum, quadrante lavari. Non habeat matrona, tibi quae iuncta recumbit, dicendi genus, aut curvum sermone rotato torqueat enthymema, nec historias sciat omnes,

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sed quaedam ex libris et non intelligat. Odi hanc ego quae repetit volvitque Palaemonis artem servata semper lege et ratione loquendi ignotosque rnihi tenet antiquaria versus nec curanda viris opicae castigat amicae

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verba: soloecismum liceat fecisse marito.

Oderunt natos de paelice; nemo repugnet, nemo vetet, iam iam privignum occidere fas est. Vos ego, pupilli, moneo, quibus amplior est res, custodite animas et nulli credite mensae: livida materno fervent adipata veneno. Mordeat ante aliquis quicquid porrexerit illa quae peperit, tirnidus praegustet pocula papas. Fingimus haec altum satura sumente coturnum scilicet, et fìnem egressi legemque priorum grande Sophocleo carmen bacchamur hiatu, montibus ignotum Rutulis caeloque Latino. 449-50. curvum. . . enthymema: la metafora dello scagliare armi dipinge efficacemente il timore per l'aggressività della donna colta. + 451. Odi: il verbo, in forte rilievo per l'enjambement con il v. suc­ cessivo, esprime tutta la carica misogina del poeta. + 452. Palaemonis artem: Quinto Remmio Pale­ mone fu famoso grammatico del I sec. d.C. La sua Ars ('trattato', calco del gr. téXVTJ) è andata per­ duta. + 455· opicae: dal nome di un'antica popolazione italica (gr. · Omxo(, lat. Opsci, Osci), ha il valo­ re traslato di 'rozzo', 'barbaro' (cfr. anche 3 207) . + 456. soloecismum: dalla città di Soli in Cilicia, dove si parlava un greco scorretto, il termine, tecnico nel linguaggio grammaticale, designa l'errore sin­ tattico. Ricorre anche in Marziale, XI 19, piegato a un senso osceno: Quaeris cur nolim te ducere, Gal­ la?Diserta es. l Saepe soloecismum mentula nostrafocit ('Mi chiedi perché non voglio sposarti, Galla? Sei eloquente. Spesso la mia minchia commette un solecismo'). La sicura dipendenza di Giovenale dall'epigrammista può favorire il sospetto che anche qui vi sia un'allusione oscena.

627-61. L:avvelenatrice. Le matrigne odiano i figliastri. Ormai è divenuto normale assassinarli. Or700

IV · LA SATIRA INDIGNATA DI GIOVENALE deve tirare su la tunica fino a metà della gamba, immolare un porco a Silvano, andare alle terme per un quadrante. La matrona che sta sdraiata accanto a te non abbia uno stile oratorio, né ti scagli un'argomentazione conchiusa con periodare rifinito, né conosca tutta la storia, ma anche non comprenda qualcosa dai libri. Io odio quella che consulta e srotola l'Arte di Palemone, osservando semp re la norma e la dottrina linguistica e, amante della poesia arcaica, tiene a memoria versi a me sconosciuti e riprende le parole di una rozza amica, di cui nemmeno gli uomini si darebbero cura: al marito sia consentito di fare un solecismo.

Odiano i figli nati dalla concubina; nessuno si opponga, nessuno faccia divieti, ormai è lecito uccidere il figliastro. Io vi avverto, orfani, che avete un cospicuo patrimonio, p roteggete la vostra vita e non fidatevi di nessuna mensa: a scottare sono dolcetti scuri per il veleno della matrigna. Qualcuno assaggi prima qualsiasi cosa vi abbia offerto colei che ha partorito, il pedagogo spaurito delibi prima le coppe. Chiaramente sto inventando queste cose, poiché la satira indossa l'alto [coturno e, trascendendo la misura e la norma dei predecessori, con enfasi sofoclea realizzo in preda al furore un grandioso canto, ignoto ai monti rutuli e al cielo latino.

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fani, abbiate cura delle vostre vite e non fidatevi di ciò che vi imbandisce la matrigna. Non è un'e­ sagerazione: Ponzia confessa di aver ucciso i due figli. Bisogna credere a tutro quello che i tragici scrivono di Medea e Procne! Esse almeno non agivano per denaro e lo facevano come trascinate da un furore incontenibìle. È insopportabile la donna che pianifica lucidamente un delitto. Oggi, nella situazione di Alcesti, le donne preferirebbero salvare la loro cagnolina piuttosto che il mari­ to. In ogni via ci sono Clitemestte, Danaidi, Erifili. 633. quaepeperit: la matrigna che ha un figlio è assai pericolosa per ìl figliastto. - praegustet: impe­ ratori e uomini di alto rango avevano un praegustator per evitare avvelenan1enti. + 634. altum . . . co­ turnum: indossare i coturni, i calzari degli attori tragici, significa avvicinarsi alla tragedia. + 636. So­ phocleo . . . hiatu: dal piu apprezzato dei tragediografi, l'attributo equivale a 'tragico' già in Virgilio, Bue., 8 10, Ovidio, Am., I 15 15, e Marziale, m 20 7; v 30 1. 701

VII · LA SATIRA

Nos utinam vani. Sed clamat Pontia: « Feci, confìteor, puerisque meis aconita paravi, quae deprensa patent; facinus tamen ipsa peregi » . Tune duos una, saevissima vipera, cena? Tune duos? « Septem, si septem forte fuissent » . Credamus tragicis quicquid de Colchide torva dicitur et Procne; nil contra conor. Et illae grandia monstra suis audebant temporibus, sed non propter nummos. Minor admiratio summis debetur monstris, quotiens facit ira nocentes hunc sexum et rabie iecur incendente femntur praecipites, ut saxa iugis abmpta, quibus mons subtrahitur clivoque latus pendente recedit. Illam ego non tulerim quae computat et scelus ingens sana facit. Spectant subeuntem fata mariti Alcestim et, similis si permutatio detur, morte viri cupiant animam servare catellae. Occurrent multae tibi Belides atque Eriphylae marre, Clytaemestram nullus non vicus habebit. Hoc tantum refert, quod Tyndaris illa bipennem insulsam et fatuam dextra laevaque tenebat; at nunc res agitur tenui pulmone mbetae, sed tamen et ferro, si praegustarit Atrides Pontica ter vieti cautus medicamina regis.

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638. Pontia: la donna, che aveva avvelenato i propri figli, è menzionata anche da Marziale, n 34 6; IV 43 5 (cfr. anche VI 75, dove è nome parlante per un'avvelenatrice). + 642. «Septem. . .fuissent »: cosi si

esprime anche Medea (evocata al v. 644) nell'omonima tragedia senecana: vv. 954-57: utinam su­ perbae turba Tantalidos meo l exisset utero bisque septenosparens l natos tulissem. Sterilis in poenasfui - lJra­ tri patrique quod sat est, peperi duos ('Magari fosse uscita dal mio grembo la schiera della superba Tan­ talide e avessi generato due volte sette figli. Fui sterile per la vendetta - quanto basta per il fratello e per il padre, ne ho partoriti due'). + 643-44. Credamus tragicis . . . Procne: anche le storie terribili del­ la tragedia sono eguagliate nella realtà. Medea ( Colchis torva), che uccise i due figli per vendicarsi di Giasone che l'aveva lasciata, e Procne, che uccise il figlioletto Ici per punire il marito Tereo che ne aveva violentato la sorella, rappresentano esempi celeberrimi di madri che uccidono i figli. + 648so.Jeruntur . . . recedit: rielabora una similitudine virgiliana (Aen., xn 684-89) riferita alla furia guerre­ sca di Turno. + 652-53. subeuntem . . . Alcestim: la perifrasi riassume la vicenda di Alcesti, protagonista dell'omonima tragedia di Euripide, che accettò di sacrificarsi in cambio della vita del marito Ad­ meto. + 654. morte viri . . . catellae: un esempio iperbolico della vacuità della donne, preoccupate piu per la loro cagnolina che per il marito. Quella di tenere cagnolini domestici era una moda assai dif702

IV

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LA SATIRA INDIGNATA DI GI OVENALE

Magari vane fossero le mie parole. Ma Ponzia grida: « Sono colpevole, lo confesso, e ho preparato il veleno per i miei figli, 64o che è stato scoperto; ma ho compiuto io il delitto >>. Due figli tu, perfida vipera, con una sola cena? Due figli tu? « Anche sette, se per caso fossero stati sette >>. Diamo retta ai tragici su tutto ciò che dicono della torva donna di Colchide e di Procne; non tento proprio di contraddirli. [Anche loro osavano grandi mostruosità ai loro tempi, ma 645 non per denaro. Si deve prestare minor stupore alle massime mostruosità, ogniqualvolta l'ira rende colpevole questo sesso e, mentre la rabbia incendia loro il fegato, sono trascinate a precipizio, come rocce divelte dalla sommità, alle quali viene meno il sostegno del monte e per il pendio scosceso il fianco arretra. 65o Io non potrei sopportare quella che calcola e commette un enorme delitto sana di mente. Assistono ad Alcesti che affronta il destino del marito e, se fosse concesso loro un simile scambio, bramerebbero con la morte del marito salvare la vita della cagnolina. Ti capiteranno davanti molte discendenti di Belo ed Erifili 655 al mattino, a nessuna via mancherà la sua Clitemestra. Questo solo è differente, che la famosa figlia di Tindaro teneva la sciocca e insensata bipenne con la destra e la sinistra; mentre ora il lavoro si sbriga con il polmone sottile di una raganella, 66o ma anche con il ferro, se l'Atride guardingo ha assunto in anticipo il farmaco del re del Ponto, vinto tre volte. fusa: cfì-. Petronio, 64 6-7; 71 6, u; Marziale, I 109; m 82 19; vn 87 3; XIV 198. + 655. Belides: le Danai­ di, cinquanta figlie di Danao, discendenti di Belo, che uccisero tutte i loro mariti, con l'eccezione di Ipermestra. - Eriphylae: corrotta dalla collana di Armonia, regalatale da Polinice, costrinse il ma­ rito Anfiarao a partecipare alla spedizione contro Tebe, nella quale egli sapeva che avrebbe trova­ to la morte. + 656. Clytaemestram: figlia di Tindaro e Leda (cfr. v. 657: Tyndaris) , sposa di Agamen­ none, lo uccise al ritorno dalla guerra di Troia per vendicare il sacrificio della figlia Ifigenia, offer­ ta dal condottiero dei Greci per propiziare la spedizione. + 65-r58. bipennem. . . tenebat: cosi anche nell'Agamennone di Seneca (v. 897) . + 661. Pontica . . . regis: le fonti tramandano che Mitridate Eupa­ tore, re del Ponto, sconfitto in successione da Silla, Lucullo e Pompeo, si cautelava dagli avvelena­ menti assumendo costantemente piccole dosi di veleno (cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist., xxv 6 e XXIX 24) . Giovenale vi allude anche in 14 252. Dal suo nome la forma di resistenza a sostanze tossi­ che cosi acquisita viene oggi detta in medicina mitridatismo e mitridatizzare significa 'immunizzare dal veleno'.

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VIII L'E PI G RAMMA

NO TA INTRO DUTTIVA

La nascita dell'epigramma a Roma è legata alla tipologia originaria del gene­ re in ambito greco: quella dell'iscrizione sepolcrale, sviluppata in modo mar­ catamente celebrativo; a essa appartengono sia gli elogia del sepolcro degli Sci­ piani che i piu antichi epigrammi latini sicuramente autentici, quelli di Ennio, con i quali viene introdotto a Roma il distico elegiaco, il metro proprio dell'e­ pigramma greco, destinato ad assumere un ruolo dominante anche nell'epi­ gramma latino. Non sono invece autentici, con ogni probabilità, gli epigram­ mi funerari, tramandati da Gellio (Noct. Att., I 24), che avrebbero scritto per il proprio sepolcro Nevio (in saturni), Plauto (in esametri) e Pacuvio (in senari). Successivamente l'epigramma si diffonde come forma tipicamente "mino­ re", coltivata da raffinate élites, in contatto diretto con l'epigramma ellenistico: i componimenti di Lutazio Catulo (150 ca.-87 a.C.), Valeria Edituo, Porcio Li­ cino, mostrano elementi comuni e motivi desunti dall'epigramma erotico el­ lenistico, anche se per loro non è forse corretto parlare, come si è fatto, di « cir­ colo poetico ». Metafore comuni nella poesia erotica sono usate per giochi concettistici, con un tono marcatamente patetico e un ampio ricorso a espe­ dienti retorici. Dall'età cesariana in poi possediamo diverse testimonianze sulla produzio­ ne di una poesia minore da parte di personaggi politici, anche di primo piano: una poesia occasionale intesa come un raffinato gioco mondano e dedicata a temi erotici, scherzi, giudizi letterari. Questi componimenti trovano corri­ spondenza nella produzione minore dei poeti neoterici, con i quali tale poesia diviene componente significativa della vita sociale ed è usata come elegante strumento di scambio nei rapporti mondani. I poetae novi si accostano però con una diversa maturità e consapevolezza alla poesia alessandrina, con un impe­ gno stilistico che porta alla creazione di un nuovo linguaggio poetico, al tem­ po stesso elegante e ispirato alla quotidianità. Il ruolo preminente in questa significativa operazione letteraria spetta a Ca­ tullo (84 ca.-54 ca. a.C.; --+ I pp. 336-37), il quale non si accontenta piu di ritaglia­ re uno spazio marginale alla dimensione privata, alla passione erotica, ai rap­ porti d'amicizia, ma ne afferma anzi l'assoluta preminenza. Si è soliti distin­ guere nella produzione catulliana gli "epigrammi" in distici (69-116) dai "poli­ metri" in faleci, metri giambici e altri metri lirici (1-60). I due gruppi presenta­ no effettivamente, pur nell'identità dei temi, significative differenze di forme

' VIII · L EPIGRAMMA

e di toni. Tuttavia non è chiaro se la separazione dei carmi in gruppi distinti ri­ salga a Catullo stesso o a un editore postumo, e se Catullo volesse differenzia­ re i due tipi di componimento. Di certo nella tradizione epigrammatica suc­ cessiva (soprattutto Marziale) i due tipi di componimento (carmi in distici e in metri lirici e giambici) si trovano intrecciati indistintamente all'interno di sin­ gole raccolte poetiche. Con Catullo l'epigramma accompagna tutti gli aspetti della vita privata con una tensione emotiva e artistica che trasforma i singoli avvenimenti della biografia personale in significativi momenti poetici: la pas­ sione amorosa per Lesbia, il lutto per la morte del fratello, ma anche futili epi­ sodi quotidiani, scherzi urbani agli amici, aneddoti spiritosi, aggressioni perso­ nali verso i rivali, in poesia e in amore, sono i temi costitutivi della poesia ca­ tulliana; argomenti già presenti nella tradizione epigrammatica mondana, ma che con Catullo assumono un valore pregnante, in quanto rappresentativi del­ l'universo affettivo del poeta veronese, della sua soggettività. Parte rilevante di questa originale ricerca artistica è l'innovazione della lingua poetica, che supe­ ra la rigidità arcaica e il linguaggio caricaturale plautino e si assesta su un regi­ stro medio, elegante e frutto di un'apparente naturalezza, in cui il sermo cotidia­ nus e i termini bassi, anche gergali e osceni, convivono con raffinati stilemi di influenza ellenistica. Lo sperimentalismo catulliano coinvolge anche la di­ mensione dei componimenti: nella sezione 69-116 è presente sia la misura mi­ nima del monodistico (ad es. il c. 85, il celebre Odi et amo) che quella lunga, al confine con l'elegia (come nel c. 76, di 26 vv.). La produzione epigrammatica successiva risente dell'influsso di Catullo: mentre degli epigrammi di Albinovano Pedone, contemporaneo e amico di Ovidio, e di Lentulo Getulico, console nel 26 d.C., entrambi nominati da Mar­ ziale insieme a Catullo e Marso quali illustri modelli, non sappiamo nulla, di Domizio Marso, vissuto in età augustea e menzionato da Marziale insieme a Catullo quale auctor del genere epigrammatico, ci è rimasto qualche epigram­ ma. Il titolo di una sua raccolta di epigrammi, Cicuta, va probabilmente colle­ gato al carattere "velenoso", all'aggressività giocosa dei componimenti. Un ele­ mento significativo di quanto rimane è rappresentato dalla presenza, in carmi di argomento politico, della componente celebrativa, che differenzia gli epi­ grammi politici di Marso da quelli della tarda repubblica, caratterizzati dall'ag­ gressione e dalla diffamazione, e che troverà sviluppo nell'epigramma di Mar­ ziale. La produzione di epigrammi di intervento politico, sia di invettiva che di celebrazione, continua vivace nella prima metà del I sec. d.C.: appartengono a quest'ultimo filone gli epigrammi, scritti da un anonimo, di esaltazione della 708

NOTA I NTRODUTTIVA conquista della Britannia da parte di Claudio (AL, 419-26 R.). Tra la fine del I sec. a.C. e gli inizi del I sec. d.C. andrà datato il Catalepton, raccolta inclusa nel­ la cosiddetta Appendix f/érgiliana: quindici epigrammi di modesto valore, di in­ fluenza catulliana nei metri e nei toni, tra i quali sì trova un epigramma epidit­ tico sulla caduta di un potente (3), un tipo di componimento certamente prati­ cato come esercitazione dilettantesca e scolastica. Un discreto numero di componimenti di questo genere comprende il gruppo degli epigrammi del­ l'Anthologia Latina attribuiti a Seneca; solo di alcuni di essi la paternità seneca­ na appare sostenibile, ma per molti si potrà parlare comunque di ambiente vi­ cino al filosofo. Vi sono celebrazioni di eroi della libertas repubblicana, rifles­ sioni sulle figure di Serse e Alessandro, o sulla fortuna e sul tempo. La scelta "monografica" di argomenti licenziosi, fino alla soglia della por­ nografia, è caratteristica della raccolta dei Priapea, un'ottantina dì carmi in me­ tri catulliani, di buona fattura e di una certa eleganza, che presenta incertezze sia sulla datazione che sulla paternità (uno o piu letterati?), ma che con una certa probabilità è, in massima parte, opera di un solo autore, posteriore a Mar­ ziale. Con l'opera di Marziale (->- 1 pp. 338-41) l'epigramma trova la sua definitiva collocazione all'interno del sistema dei generi letterari latini. Per il poeta di Bilbilis questa è la forma che può meglio esprimere la molteplicità degli aspet­ ti della vita, distinguendosi cosi dalle forme della poesia maggiore, di cui Mar­ ziale denuncia l'usura e l'incapacità di offrire una rappresentazione viva del reale. I.:epigramma di Marziale, che si pone in aperta polemica con la poesia di argomento mitologico, risponde a un'esigenza di realismo, diverso però da quello della satira in quanto per lo pìu privo della valutazione morale, essen­ ziale nel discorso satirico. Marziale privilegia la rappresentazione del reale, con le sue bizzarrie, contraddizioni e stranezze, che soltanto indirettamente lascia emergere un modello positivo. Molto egli deve a Catullo nella scelta delle forme metriche, di un linguaggio urbano e mordace e nell'arte del ritrat­ to comico di un personaggio o un aneddoto. Un altro precedente significativo è l'epigrammista greco di età neroniana Lucillio, artefice di un'evoluzione del­ l'epigramma scommatico in senso intellettualistico, con una tendenza a con­ centrare nel finale l'effetto comico, spesso attraverso un elemento inatteso. Nei libri di Marziale i componimenti celebrativi dell'imperatore e di patro­ ni si alternano con quelli di intrattenimento, con un effetto di studiata varietà di temi, toni e metri. I motivi sono molteplici: dagli epigrammi funerari, dota­ ti spesso di grande delicatezza, a quelli anatematici, epidittici, di polemica let709

VIII · L 'EPIGRAMMA

teraria; dai ritratti comici al racconto di aneddoti curiosi, alla descrizione di opere d'arte. Nonostante l'impegno di Marziale per nobilitare l'epigramma, il genere ri­ marrà "minore", confondendo i suoi tratti con quelli piti vaghi di altre forme di poesia minore, come negli esperimenti arcaizzanti dei poetae novelli (II sec. d.C.); i letterati tardoantichi che si dedicheranno all'epigramma (Ausonio, Claudiano) prenderanno come modello, accanto a Catullo, proprio Marziale. Una testimonianza della produzione epigrammatica nella Roma tardoantica, influenzata da Ausonio piti che da Marziale, è rappresentata dagli Epigramma­ fa Bobiensia, recente scoperta dovuta ad Augusto Campana e documento del persistente gusto per il raffinato lusus letterario nell'élite pagana della fìne del IV secolo. Tra i molti epigrammi adespoti della raccolta, la figura di maggior rilievo sembra essere quella di Naucellio, da alcuni considerato come il cura­ tore della silloge. R. Reitzenstein, Epigramm, in RE, VI 1 (1907), coll. 71-111; F. Munari, Die spatlateinische Epigrammatik, in > . Confìteor: laudant illa sed ista legunt.

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Qui legis Oedipoden caligantemque Thyesten, Colchidas et Scyllas, quid nisi monstra legis? Quid tibi raptus Hylas, quid Parthenopaeus et Attis, quid tibi dormitor proderit Endymion? Exutusve puer pinnis labentibus? Aut qui odit amatrices Hermaphroditus aquas? Quid te vana iuvant rniserae ludibria chartae? Hoc lege, quod possit dicere vita: « Meum est ».

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Ma quest'ultimo, spintosi troppo vicino al sole, fece liquefare la cera precipitando in mare. + 6. pa­ scentem Siculas . . . Polyphemon ovis: la tradizione collocava in Sicilia Polifemo, il celeberrimo Ciclope con un solo occhio, accecato da Odisseo (cfr. Omero, Od., IX 106-566; Virgilio, Aen., III 568-691). + 7· vesica: qui nel senso traslato di 'gonfiezza' retorica (in origine vescica di animali gonfiata con aria e usata come pallone). + 8. Musa. . . tumet: ilsyrma, la veste a strascico dell'attore tragico (cfr. XII 94 4), simboleggia la tragedia (per l'uso metonimico del termine cfr. Giovenale, 15 30). Vagg. insanus e il verbo tumeo censurano il carattere eccessivo e ampolloso della tragedia. + 10. laudant illa sed ista le­ gunt: i generi alti ricevono lodi e ammirazione (cfr. v. 9: laudant . . . mirantur, adorant), ma sono i suoi epigrammi a essere letti. Vampio successo di pubblico è un vanto ricorrente nella poesia di Mar­ ziale: cfr. I 1; III 95 7 sg.; V 13 3 sg., 16 3; VI 61; VII 17 10, 88; VIII 3 3-8, 61 3-5; IX 81 1, 97 1 sg.; X 2 5 sgg.; XI 24 6 sgg.; XII 11 8. x 4· La mia pagina ha il sapore dell'uomo. Tu che leggi di Edipo e di Tieste, di Medea e di Scilla, co­ sa leggi se non mostruosità? A cosa ti gioveranno le finzioni del mito? Leggi ciò di cui la vita pos­ sa dire: « È mio ». Qui non troverai Centauri, Gorgoni, Arpie: la mia pagina ha il sapore dell'uomo. Ma tu, Mamurra, non vuoi conoscere te stesso: allora leggiti gli Aitia di Callimaco. 1-6. Qui . . . aquas?: per un simile elenco di miti inverosimili cfr. IV 49 3-6. + 1. Oedipoden: Edipo, protagonista del celeberrin10 mito: uccise inconsapevolmente il padre Laio, re di Tebe; risolse l'e­ nigma della Sfmge e sposò la madre Giocasta, divenendo re di Tebe. Dal matrimonio nacquero Eteocle, Polinice, Antigone e Ismene. Scoperta la propria colpa si accecò. Giocasta si diede la mor­ te impiccandosi. La forma usata qui da Marziale (anche in IX 25 10), meno comune rispetto a Oedi­ pus, -i e presente in poesia da Ovidio, Trist., I 1 114, nasconde forse un'allusione alla Tebaidedi Stazio, dove essa è ricorrente (l'ace. a inizio di verso in II 436; VIII 242; XI 666). - caligantem . . . Thyesten: sul mito di Tieste vd. la n. a IV 49 4. Il participio caligans allude all'inversione del suo corso da parte del sole che, inorridito per la mostruosità del delitto ordito da Atreo ai danni del fratello, lasciò nelle tenebre Micene (cfr. III 45 1 sg.). + 2. Colchidas et Scyllas: plurali generalizzanti. Il primo indica Me­ dea, nativa della Colchide, che uccise i figlioletti avuti con Giasone per punire l'eroe che l'aveva ab-

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II

· LA M U S A E PI G RA M M AT I CA DI MARZIALE

o di Polifemo, che porta al pascolo le pecore sicule. Dai miei libretti è lontana ogni ampollosità e la mia Musa non si gonfia per l'insana sirma. « Ma tutti lodano quelle opere, le ammirano, le venerano ». Ti rivelo una cosa: lodano quelle, ma leggono questi.

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X4 Tu che leggi di Edipo e Tìeste avvolto nell'oscurità, di donne di Colchide e di Scille, cosa leggi se non mostruosità? A che ti gioverà Ila rapito, a che Partenopeo e Attis, a che Endimione il dormiglione?

O il fanciullo privato delle alì che vengono meno?

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O Ermafrodito, che odia le acque che lo amano? A che ti giovano i vanì ludibri del misero papiro? Leggi ciò di cui la vita possa dire : « È mio ».

bandonata per un'altra donna. Scilla è probabilmente la figlia di Niso, che provocò la morte del pa­ dre tagliando dal suo capo il capello purpureo che lo rendeva invincibile. Ma la tradizione poetica la confondeva con l'omonimo mostro che infestava lo stretto di Messina (vd. la n. a Properzio, IV 4 39-42) ed è possibile che anche Marziale qui identifichi le due Scille. - quid nisi monstra legis?: Mar­ ziale potrebbe alludere a Lucilio, fr. 587 M.: nisiportenta anguisque volucris ac pinnatos scribitis. Per Gio­ venale (6 644-52) i monstra contemporanei superano addirittura quelli del mito. + 3· raptus Hylas: Ila, il bellissimo fanciullo amato da Ercole e rapito da una ninfa durante la spedizione degli Argonau­ ti, è tra i temi piu abusati della poesia ellenistica: cfr. Virgilio, Georg., m 6: cui twn dictus Hylas puer? ('da chi non è stato cantato il fanciullo Ila?'). - Parthenopaeus: uno dei Sette contro Tèbe. - Attis: il bel giovane che si evirò per divenire adepto della dea Cibele, cantato da Catullo nel c. 63 (di cui Mar­ ziale critica in n 86 4 sg. l'uso del galliambo, metro molle ed effeminato). + 4· dormitor. . . Endymion: il sonno di Endimione, amato dalla Luna, era proverbiale. IJormitor, hapa....,; in letteratura, qualifica con sarcasmo il personaggio dall'unica attività che svolge nel mito. Marziale sfrutta il suffisso -tor per comici neologismi: cfr., ad es., esuritor (111 14 1); delicatae sciscitawr urinae (m 82 16); basiator(x1 98 1); plorator (XIv 54 1). - proderit: l'utile è uno dei principali obiettivi della poesia nella teoria di Neotto­ lemo di Paro ripresa da Orazio, Ars, 333 sg.: aut prodesse l'olunt aut delectarepoetae l aut simul et iucunda et idonea dicere vitae ('i poeti vogliono giovare o dilettare o allo stesso tempo dire cose piacevoli e adatte alla vita'). Il risalto offerto a questa componente è funzionale alla critica alla poesia mitolo­ gica. + s. Exutus . . . puerpinnis labentibus: Icaro, su cui vd. n. a IV 49 5- + 6. Hermaphroditus: figlio di Er­ mes e Afrodite, respinse l'amore della ninfà Salmacide, che tuttavia, gettata.�i nelle acque nelle qua­ li il giovane faceva il bagno, si avvinse indissolubilmente a lui fino a formare un sol corpo. Il mito è narrato in Ovidio, Met., IV 285-388. La giustapposizione ossimorica odit amatrices (aquas) rappresen­ ta efficacemente la ripulsa del fanciullo. . + 7- vana . . . miserae ludibria chartae: i generi elevati sono vuo­ te irrisioni per il povero papiro che deve contenerle (qui rappresentato come vittima dei poeti: cfr. v1 64 22 sg.: audes . . . seri bere versiculos miseras etperdere chartas, 'osi [ . . . J scrivere versicoli e rovinare i po­ veri papiri'). Per il rovesciamento delle gerarchie dei generi cfr. IV 49 1-4. + 8. vita: la vita stessa per723

' VIII · L EPIGRAMMA

Non hic Centauros, non Gorgonas Harpyiasque inverùes: horrùnem pagina nostra sapit. Se d non vis, Mamurra, tuos cognoscere mores nec te scire: legas Aetia Callimachi.

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Cosconi, qui longa putas epigrammata nostra, utilis unguendis axibus esse potes. Hac tu credideris longum ratione colosson et puerum Bruti dixeris esse brevem. Disce quod ignoras: Marsi doctique Pedorùs saepe duplex unum pagina tractat opus. Non sunt longa quibus ruhil est quod demere possis, se d tu, Coscorù, disticha longa facis.

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sonificata può riconoscere se stessa negli epigrammi: cfr. vm 3 19 sg., cit. a n. a v. 11. + 9· Centauros . . . Gorgonas Harpyiasque: creature mostruose del mito, accomunate dalla natura semiumana: i Cen­ tauri, per metà uomini e per metà cavalli; le Gorgoni, mostruose fànciulle con serpenti per capel­ li; le Arpie, metà donne e metà uccelli. + 10. hominem pagina nostra sapit: il manifesto della poetica realistica di Marziale. Ai monstra della poesia mitologica il poeta contrappone l'uomo, protagonista dei suoi versi. L'impiego del verbo sapere suggerisce forse la metafora della poesia come cibo, per cui cfr. IX 81 3 sg.; x 45 1-4, 59 3-6. Per l'uso in contesto letterario cfr. Persio, 1 106. + 11. Mamurra: il nome è usato per un personaggio fittizio anche in IX 59 1. È possibile un'allusione al Mamurra che Catullo attacca per la sua effeminatezza e corruzione: il tipo di lettore che potrebbe conoscere se stesso (cfr. v. 12) attraverso i ritratti comico-satirici di Marziale. - tuos cognoscere mores: cfr. vm 3 19 sg.: at tu Romano lepidos sale tinge libellos: l agnoscat mores vita legatque suos ('ma tu intingi gli arguti libretti nel sale romano: la vita legga e riconosca i suoi costumi'). + 12. nec te sdre: l'espressione richiama il motto delfico yv{ifJt m:cxu1:6v ('conosci te stesso'). Marziale rivendica alla propria poesia un impor­ tante valore conoscitivo. legas Aetia Callimachi: gli Aitia ('origini', 'cause') di Callimaco (III sec. a.C.), l'opera simbolo della raffinatezza e dell'erudizione ellenistiche, è qui in modo sorprendente modello negativo di poesia lontana dalla vita (un riferimento critico al prologo degli Aitia è già in Persio, Chol., 1). -

II n Quando l'epigramma è lungo. Cosconio, che ritieni lunghi i miei epigrammi, sei uno sciocco. Con questo criterio potresti ritenere lungo il Colosso e breve una statuetta fatta ad arte. Impara ciò che non sai: spesso gli epigrammi di Marso e Pedone occupano due colonne. Non è lungo ciò a cui non puoi togliere nulla. I tuoi monodistici, Cosconio, sono lunghi. 1. Cosconi: menzionato anche in m 69 come autore di epigrammi casti. - qui longa. . . nostra: Mar­ ziale difende in varie occasioni la lunghezza dei suoi epigrammi, i quali, superando ampiamente gli standard greci, raggiungono fino a 51 vv. (cfr. I no; m 83; VI 65; vm 29; x 59). + 2. utilis. . . potes: allu­ de alla stupidità di Cosconio, anche se il significato dell'espressione non è chiarissimo. Secondo A.E. Housman ( Corrections and Explanations oJMartial, in «]Ph », a. xxx 1907, p. 234 = The Classica/ Pa-

II · LA MUSA EPIGRAMMATICA DI MARZIALE

Qui non Centauri, non Gorgoni e Arpie troverai: la mia pagina ha il sapore dell'uomo. Ma non vuoi, Mamurra, apprendere le tue abitudini né conoscere te stesso: leggi pure gli Aitia di Callimaco.

Cosconio, che ritieni lunghi i miei epigrammi, puoi esser buono per ungere le assi. Con questo criterio potresti ritenere lungo il Colosso e definire corto il fanciullo di Bruto. Apprendi ciò che ignori: di Marso e del dotto Pedone spesso due colonne contengono una sola poesia. Non sono lunghe le poesie alle quali non c'è nulla che potresti sottrarre, ma tu, Cosconio, fai monodistici lunghi.

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pers ofA.E.H., Cambridge, Univ. Press, 1972, II p. 715) il verso va messo in relazione con espressio­ ni come pinguis Minerva, pingue ingenium ('grossolano buon senso', 'ingegno tardo') e gioca con il va­ lore di pinguis, preso nel suo senso proprio ('grasso'). Altri hmo formulato ipotesi meno persua­ sive. + 3· Hac tu credideris . . . ratione: secondo il criterio quantitativo di Cosconio, sarebbe troppo lun­ go il Colosso, esempio di monumentale maestà, e troppo piccolo il fanciullo di Bruto, simbolo di minuta perfezione. colosson: si riferisce con ogni probabilità alla grandiosa statua di Nerone, po­ sta nella Domus Aurea, successivamente trasformata da Vespasiano in statua del Sole (cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist., XXXIV 45; Marziale, Epigr., 2 1; I 70 7 sg.). + 4· puerum Bruti: la statuetta di un fan­ ciullo, opera di Strongylion (V sec. a.C.), molto apprezzata dal cesaricida Bruto e perciò definita puer Bruti (cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist., xxxiv 82; Marziale, XIV 171). Marziale la utilizza quale metafora del proprio epigramma, breve ma proporzionato in IX so s: nosjàcimus Bruti puerum ('io plasmo il fanciullo di Bruto'). + S· Marsi doctique Pedonis: insieme a Catullo i modelli dichiarati da Marziale (in I epist., egli menziona anche Cornelio Getulico ). Domizio Marso, poeta di età augu­ stea, autore di epigrammi satirici, raccolti in un'opera chiamata Cicuta, del poema epico Amazonis e del trattato De urbanitate, è nominato da Marziale tra i suoi predecessori in campo epigrammati­ co in I epist.; II 71 3; v s 6; VII 29 8, 99 7; VIII ss[s6] 21. 24. Della produzione epigrammatica di Albi­ novano Pedone, poeta augusteo amico di Ovidio, testimoniata da Marziale (anche in I epist.; v 5 6), non ci rimane nulla. + 6. saepe. . . opus: pagina è la colonna di scrittura del papiro; il numero di righe per colonna variava tra le 25 e le 45· + 7· Non sunt longa. . . possis: l'opera d'arte è tale quando ciascuna sua parte è necessaria e non può essere eliminata senza pregiudicare l'intero (per l'idea della rela­ tività della lunghezza cfr. Filemone, fr. 99 K.-A.; Plinio il Giovane, Epist., v 6 42-44; per un'analoga definizione di brevitas cfr. Quintiliano, Inst. or., IV 2 42 sg.). I.: espressione nihil est quod demere possis echeggia, tramutandola in definizione positiva, la critica mossa da Orazio alla prolissità di Lucilio in Sat., 1 4 11: eumjlueret lutulentus, erat quod tollere velles ('dal momento che la sua poesia fluiva limac­ ciosa, vi erano cose che avresti voluto eliminare'). + 8. sed tu, Coswni, disticha longafacis: disticha longa è arguto ossimoro ('monodistici lunghi': per questa accezione del termine cfr. III 11 2; VI 65 4; vn 85 2; XIII 3 s): gli epigrammi di Cosconio, seppur brevi, sono pieni di elementi superflui. -

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V I I I · L ' EPIGRAMMA I

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Seribere me quereris, Velox, epigrammata longa. lpse nihil scribis: tu breviora facis. IX 59

In Saeptis Mamurra diu multumque vagatus, hic ubi Roma suas aurea vexat opes, inspexit malles pueros oculisque comedit, non hos quos primae prostituere casae, sed quos arcanae servant tabulata catastae et quos non populus nec mea turba videt. Inde satur mensas et opertos exuit orbes expositumque alte pingue poposcit ebur, et testudineum mensus quater hexaclinon ingemuit citra non satis esse suo. Consuluit nares an olerent aera Corinthon, culpavit statuas et, Polyclite, tuas, et turbata brevi questus crystallina vitro murrina signavit seposuitque decem. I

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110. A un critico. Veloce, per te i miei epigrammi sono lunghi. Tu non ne scrivi: certo li fai piu

brevi.

1. Vt!lox: scherzoso nome "parlante" per un lettore insofferente delle lungaggini. - epigrammata longa: sull'accusa vd n. a II 77 1. Il distico è posto intenzionalmente dopo un epigramma di 23 vv. Anche altrove l'apologia di Marziale segue un epigramma lungo: cfr. III 82-83; VI 64-65; VIII 28-29. + 2. tu brevioraJàcis: per la tecnica di ritorcere l'accusa contro il critico cfr. II 8 8: Haec mala sunt, sed tu non melioraJàcis ('Questi sono scarsi, ma tu non ne fai di migliori'). IX 59 · Una giornata per negozi. Mamurra ha trascorso l'intera giornata nel quartiere dei negozi. Ha esaminato schiavetti di prima qualità, cercato piedi d'avorio per le mense, annusato bronzi di Co­ rinto e trovato difetti nelle statue di Policleto. Ha fatto mettere da parte dieci coppe di murra e sop­ pesato calici antichi, contato le gemme incastonate nell'oro e guardato pesanti orecchini, ha cerca­ to sardonici e dato un prezzo ai diaspri. Ormai stanco all'undicesima ora, ha comprato due calici per un soldo e se li è portati da solo a casa. 1. In Saeptis: i Saepta Iulia, quartiere del Campo Marzio caratterizzato dalla presenza di molte botteghe (cfr. n 14 5, 57 z; x So 4) . + 2. Roma suas aurea vexat opes: il verso allude a un noto distico di Ovidio, Ars am., III 113 sg.: simplidtas rndis anteJuit: nunc aurea Roma est, l et domiti magnas possidet orbis opes ('prima vi fu una rozza semplicità: ora Roma è aurea e possiede le grandi ricchezze del mon­ do sottomesso'). + 3· oculis . . . comedit: l'espressione indica un grande desiderio inappagato (cfr. I 96

II LA MUSA EPIGRAMMATICA DI MARZIALE ·

1 110 Lamenti che io scriva; Veloce, epigrammi lunghi. Tu non scrivi nulla: li fai piu brevi tu.

IX 59 Mamurra, vagando molto e a lungo per i Saepta, dove l'aurea Roma comprime le sue ricchezze, esaminò delicati fanciulli e li mangiò con gli occhi, non quelli che le botteghe mettono in bella mostra, ma quelli che custodiscono i ripiani di un palco recondito 5 e che né il popolo né la schiera di quelli come me vedono. Quindi, saziato lo sguardo, scopri mense e rotondi tavoli coperti e chiese di vedere piedi d'avorio ingrassati esposti in alto, e, dopo aver misurato quattro volte un letto di tartaruga per sei, to sospirò che non era sufficiente per la sua mensa di cedro. Chiamò in causa le narici per sentire se i bronzi profumassero di Corinto, e trovò difetti nelle tue statue, Policleto, e, lamentatosi che le coppe di cristallo fossero inquinate da schegge dì vetro, segnò e fece mettere da parte dieci murrine. 12: spectat oculis devorantibus draucos, 'guarda con occlù che divorano gli atleti'}. Marziale offre al lettore una spia della finzione di Mamurra. + 4-6. non . . . videt gli sclùavi migliori non erano esposti sotto gli occhi di tutti, ma su palclù appartati (arcanae . . . tabulata catastae} riservati ai piu ricchi. mea turba: gli equites. + 7· sat11r: in senso metaforico (cfr. v. 3: oculis . . . comedit}. - opertos exuit orbes: le tavole piu pregiate sono coperte a scopo di protezione. + 8. expositum. . . alte: ancora una nota di pregio. pingue . . . eb11r: l'avorio era unto d'olio per mantenerne la lucentezza. + 9. test11dinrnm . . . hexadinon: un letto tricliniare per sei persone in legno di tartaruga. Il quadrisillabo hexadinon (un prestito dal greco, presente solo qui), che realizza un esametro spondiaco (solo tredici casi in Marziale}, espri­ me l'idea della grandezza. + 10. ingemuit. suo: il letro visto non è grande abbastanza per la sua pre­ giatissima mensa di cedro (cfr. II 43 9; IX 22 s; x 8o 2, 98 6; xn 66 6; xiv 3, 89). + 11. an olerent aera Co­ rinthon: da Corinto provenivano i bronzi piu preziosi. Gli intenditori pretendevano di riconoscer­ li dal caratteristico odore. + 12. culpmlit statuos et, Polyclite, t11as: le perizia di Mamurra riesce persino a trovare difetti nelle statue di Polìdeto, il grande scultore greco (V sec. a.C.) autore del Dorifora e del Diadumeno. La posizione di risalto di culpavitin apertura di verso e l'apostrofe a Policleto ac­ crescono l'effetto conùco della scena. + 14. murrina: coppe di m11rra, una pietra preziosa (forse la fluorite), importata dall'Oriente dopo la vittoria di Pompeo su Mitridate (63 a.C.). Marziale le menziona spesso quali oggetti di lusso; cfr. m 82 24 sg.; IV 85 1; x 8o 1; XI 70 8; xm ao 1; XIV 113. - si­ gnavit seposuitque: un altro segnale per il lettore (cfr. v. 3): Mamurra fa segnare e mettere da parte le coppe, ma non paga. -

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VIII · L'EPIGRAMMA

Expendit veteres calathos et si qua fuerunt pocula Mentorea nobilitata manu, et viridis picto gemmas numeravit in auro, quidquid et a nivea grandius aure sonat. Sardonychas veros mensa quaesivit in omni et pretium magnis fecit iaspidibus. Undecima lassus cum iam discederet hora, asse duos calices emit et ipse tulit.

Quod mihi vix unus toto liber exeat anno desidiae cibi sum, docte Potite, reus. Iustius at quanto mirere quod exeat unus, labantur toti cum mihi saepe dies. Non resalutantis video nocturnus amicos, gratulor et multis; nemo, Potite, mihi. Nune ad luciferam signat mea gemma Dianam, nune me prima sibi, nune sibi quinta rapit. Nune consul praetorve tenet reducesque choreae, auditur toto saepe poeta die.

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16.pocula. . . manu: Mentore, celebre cesellatore greco del IV sec. a.C., fu considerato nel mondo ro­ mano il sommo artista nel suo campo (cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist., xxxm 154) . + 17. viridis. . . gem­ mas: smeraldi: cfr. XI 27 10. + 19. Sardonychas veros: la correzione verospresente nell' editio Aldina si im­ pone su vero della seconda famiglia, adottato da Lindsay e Heraeus (viro ha la terza famiglia): cfr. in­ fatti IV 61 6: sardonycha verum; x 87 14: veros sardonychas (su queste pietre preziose vd. anche II 29 2; IV 28 4; v 11 1; XI 27 10, 37 2) . I:aggettivo arricchisce la descrizione di un dettaglio rilevante: Mamurra, da intenditore, sa distinguere i veri sardonici dai falsi (la difficoltà di tale discernimento è attestata da Plinio il Vecchio, Nat. hist., XXXVII 197) ; cfr. inoltre IV 39 6: Nec desunt tibi vera Gratiana ('Né ti mancano autentici Graziani'); vm 50 s: vera minus . . . radiant electra ('la vera ambra riluce meno'). + 20. iaspidibus: cfr. v 11 1. + 21. Undedma . . . hora: la penultima ora del giorno, che iniziava alle sei del mat­ tino. Mamurra trascorre l'intera giornata per negozi. + 22. asse duos calices emit et ipse tulit: l'ultimo verso contiene la sorpresa che tinge l'epigramma di amara ironia: Mamurra è un povero disgra­ ziato, come l'Eros protagonista di x 8o: può permettersi di comprare solo due calici, di infimo va­ lore, per una cifra irrisoria e deve portarli da sé a casa (ipse tulit) , poiché non ha neppure uno schia­ vo che lo accompagni (un segno di povertà estrema: cfr. XI 32 3) . x 70. Gli impegni delpoeta cliente. Mi accusi di pigrizia, Potito, perché pubblico un solo libro l'an­ no. Ma dovresti stupirti che riesca a pubblicare quel libro, poiché spesso intere giornate volano via in una serie di impegni che mi sottraggono tempo prezioso ed energie.

728

II · LA MUSA EPIGRAMMATICA DI MARZIALE Soppesò antichi calici e tutte le coppe nobilitate dalla mano dì Mentore, e contò le verdi gemme incastonate nell'oro lavorato, e tutti gli orecchini che risuonano maggiormente su un lobo niveo. Cercò veri sardonici su tutti i banchi e stabili il prezzo per grandi diaspri. All'undicesima ora, quando ormai si allontanava sfinito, per un asse comprò due calici e li portò a casa da sé.

Per il fatto che viene alla luce appena un Inio libro in un anno intero sono per te, dotto Potito, reo di pigrizia. Ma quanto faresti meglio a meravigliarti che ne venga alla luce uno, poiché spesso interi giorni mi sfuggono via. Vedo di notte amici che non ricambiano il Inio saluto, mi congratulo con molti; nessuno, Potito, con me. Ora la Inia gemma pone il sigillo presso Diana lucifera, talvolta Ini rapisce la prima ora, talvolta la quinta. Ora mi trattiene un console o un pretore e le schiere che lo [riaccompagnano, spesso ascolto un poeta per un giorno intero.

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2. doae Potite: il nome ricorre qui soltanto; si tratta probabilmente di un estimatore del poeta. + 4. labantur. il verbo, in posizione enfatica a inizio di verso, richiama forse Orazio, Carm., II 14 1 sg.: eheufugaces, Postume, Postume, llabuntur anni ('ahimé, fugaci, Postumo, Postumo, passano gli anni'). + 5· Non resalutantis . . . amicos: la notazione, spia dell'atteggiamento sprezzante dei patroni, ricorre anche in Seneca, Tranq., 12 4: eum interim (U(Urrerunt . . . salutaturi aliquem tlon resalutaturum ('quando in­ tanto sono corsi [ . . . ) per salutare qualcuno che non ricambierà il saluto'). In Marziale cfr. anche IV 83 3: securus nullum resalutas, despids omnes ('quando sei tranquillo non contraccambi il saluto a nes­ suno, disprezzi tutti'). noaurnus: la salutatio matutina, uno dei principali obblighi del cliente, è ta­ lora definita con esagerazione come notturna: cfr. xs8 n sg., 82 2; XII 29 (26) 7; Giovenale, 3 127 sg.; 5 19 sgg.; Luciano, Nigr., 22. + 6.gratuloret multis: cfr. x 74 1. nemo ... mihi: sottolinea ancora l'assen­ za di reciprocità nei rapporti (cfr. n. a v. s). + 7· signat mea gemma; Marziale è chiamato ad apporre il

suo sigillo a un documento in qualità di testimone nei pressi del tempio di Diana Lucifera sull'A­ ventino, lontano da casa sua e dalle zone di Roma abitualmente frequentate. + 9· reduces . . . choreae: se il testo è sano, choreae (lett. 'danze') indica la folla che accompagna i magistrati: cfr. n 74 2: quanta redud Regulus solet turba ('da una folla grande quanto queIla da cui è riaccompagnato di solito Rego­ lo'); XI 24 1: Dum teprosequoret domum reduco ('Mentre ti seguo e ti riaccompagno a casa') . + 10. audi­ tur toto saepe poeta die: le recitationes di poesia, molto diffuse al tempo, sono spesso menzionate da

729

VIII · L 'EPIGRAMMA

Sed nec causidico possis impune negare, nec si te rhetor grammaticusve rogent: balnea post decimam lasso centumque petuntur quadrantes. Fiet quando, Patite, liber?

V 34

Hanc tibi, Franto pater, genetrix Flaccilla, puellam oscula commendo deliciasque meas, parvula ne nigras horrescat Erotion umbras oraque Tartarei prodigiosa canis. Impletura fuit sextae modo frigora brumae, vixisset totidem ni minus illa dies. Inter tam veteres ludat lasciva patronos et nomen blaeso garriat ore meum.

5

Marziale: cfr. 1 63; II 88; III 18; IV 41; IX 83; XIV 137 (142). + 13. /asso: l'attributo ricorre piti volte a desi­ gnare il cliente sfinito per le fatiche della giornata; cfr. III 7 1 sg.: Centum . . . quadrantes l anteambulo­ nis congiarium lassi ('Cento [ . . . ] quadranti donativo dello stanco battistrada'); III 36 5 sg.: lassus ut in thermas decuma ve/ serius hora l te sequar Agrippae, cum faver ipse Titi ('che stanco alla decima ora o piti tardi ti accompagni alle terme di Agrippa, sebbene io mi lavi in quelle di Tito'); x 74 1 sg.: Iam parce lasso, Roma, gratulatori, l lasso clienti ('Ormai risparmia, Roma, uno sfinito per le congratulazioni, un cliente sfinito'); vd. anche v 22 9 sg.; XII 29 [26] 2 sgg.; Giovenale, 1 132. + 13-14. centum. . . quadrantes: l'ammontare della sportula, il piccolo donativo concesso dai patroni ai clienti in cambio dei loro ser­ vigi (cfr. 1 59 1; III 7 1; IV 68 1; VI 88 4; x 74 4; 75 11). Veniva consegnato la sera alle terme (balnea; cfr. anche III 7 3; 36 5 sg.) oppure all'atto della salutatio matutina (cfr. XIV 125; Giovenale, 1 95 sg.; 127 sg.). v 34· In morte di Erotion. n poeta immagina che Erotion, la piccola schiava morta da poco, incon­

tri nell'Ade i suoi genitori, alla cui protezione la affida perché non si spaventi fra le ombre dell'ol­

tretomba. Erotion, da parte sua, pronunciando il nome di Marziale, ne rinverdirà il ricordo presso i suoi cari scomparsi. 1. Hanc tibi. . . puellam: Frontone e Flaccilla sono i genitori di Marziale. I loro nomi compaiono so­ lo qui (cfr. Ix 73 7). Non persuade l'ipotesi, avanzata da Farnabius e riproposta da]. Mantke (Do We Know Martial's Parents? (Mart. v34), in « Eos », a. LVII 1967-1968, pp. 234-44), che si tratti di quelli di -!lrotion, poiché questi difficilmente potrebbero essere definiti tam veterespatroni della bimba (v. 7). E inoltre molto piti naturale l'auspicio che Erotion rinnovi nell'Ade il ricordo di Marziale pro­ nunciandone il nome (v. 8) ai genitori del poeta, piuttosto che ai propri. n verso presenta un'ela­ borata struttura, con il deittico hanc e il sost. puellam posti in cornice e i nomi dei genitori, accom­ pagnati da patere genetrix (proprio della poesia alta: cfr., ad es., Lucrezio, 1 1), in chiasmo. + 2. oscula: per l'accezione di 'oggetto dei baci', solo qui in Marziale, cfr. Properzio, IV 11 80; Seneca, Med., 950. + 3-4. parvula . . . canis: in modo simile Stazio, Silv., 11 1 183 sgg., afferma che agli inferi Glaucia non sa­ rà atterrito da Cerbero, né dalle Furie, poiché sarà accolto e preso con sé da Bleso, defunto amico del suo padrone Meliore. I due versi, sullo sfondo dei quali c'è probabilmente l'immagine del pas730

II · LA MUSA EPIGRAMMATICA DI MARZIALE Ma non potresti dire di no senza conseguenze a un causidico, e neanche se un retore o un grammatico ti richiedono: dopo la decima ora mi dirigo sfinito ai bagni e ai cento quadranti. Quando si farà, Potito, il libro?

V 34 Questa fanciulla, padre Frontone, madre Flaccilla, vi affido, oggetto dei miei baci e mia delizia, perché la piccola Erotion non si spaventi delle ombre nere e delle bocche mostruose del cane del Tartaro. Avrebbe ora raggiunto la fine dei freddi del sesto inverno, se non avesse vissuto altrettanti giorni di meno. Che giochi festosa tra protettori tanto anziani e con voce balbettante cinguetti il mio nome.

5

ser catulliano nell'oltretomba (3 11-14), sono caratterizzati dalla studiata frequenza della littera cani­ na (la r), rappresentazione mimetica dei latrati di Cerbero e dei brividi della paura suscitata dalle ombre e dai mostri degli inferi: la ricerca di fonosimbolismo è nella descrizione degli inferi di Lu­ crezio, m 1011-12: Cerbems et fùriae iam vero et lucis egestas, l Tartams horriferos emctansfoudbus aestus (cfr. anche v 1063-66) e Virgilio, Aen., VI 417 sg.: Cerbems haec ingens latratu regna trifoud l personat, adverso recubans immanis in antro (cfr. Culex, 220 sg.). Il diminutivo, in apertura di verso, accresce il pathos della mors immatura (cfr. CLE, 1535a 4: morte . . . heu rapiturparvulus istepuer, 'alùmé, è rapito dalla mor­ te questo piccolo fanciullo') e rappresenta efficacemente la piccola Erotion impaurita di fronte al­ l'oscurità e alle mostruose creature dell'Oltretomba. Non si può escludere infine un'allusione alle patetiche parole di Didone in Virgilio, Aen., IV 328 sg.: siquis mihi parvolus aula l luderet Aeneas, qui te tamen ore referret ('se mi giocasse nella reggia un piccolo Enea, che però in volto ricordasse te'; cfr. v. 7: ludat). Poco persuasiva pertanto la difesa della variante pallida, tramandata dalla seconda fami­ glia, tentata da P. Del Prete (Analecta critica, Lecce, Adriatica Ed. Salentina, 1990, pp. 43-49; vd. an­ che C. Di Giovine, in « Paidcia �. a. LVII 2002, pp. 126 sg.). Sulla corruttela, oltre alla vicinanza pa­ leografìca, avrà pesato l'influenza del contesto (segue n�ft'as) e la frequenza dell'agg. in relazione agli inferi. - Erotiotr: schiavetta nata in casa del poeta (cfr. v 37 20: vernulae), morta prima di aver compiuto i sei anni (cfr. vv. 5 sg.; x 61 z) ; il nome è una forma di diminutivo greco (-wv) di Eros. I.:epigramma forma un dittico con v 37 (24 vv.); in x 61 Marziale, in procinto di tornare in Spagna, raccomanda al futuro possessore del suo podere di fare offerte annuali ai Mani di Erotion, che li è sepolta (sui tre epigrammi vd. O. Thévenaz, Flebilìs lapis? Gli epigrammi}ùnerari per Erotion in Mar­ ziale, in � M D », n. XLVIII 2002, pp. 167-91). Altri epigrammi sono dedicati da Marziale alla morte di schiavi propri o di patroni : cfr. I 88, 101; VI 28-29, 68; XI 91. + 4· Tartarei . . . canis: Cerbero, il cane a tre teste posto a guardia degli inferi (la stessa iunctura è in IX 65 12; Seneca, Here.Jur., 649; (Seneca], AL, 415 46 R.; Herc. Oet., 1770). + s. sextae . . .Jrigora bmmae: espressione metonimica per 'sei anni': l'uso ri­ corre per la prima volta in Ovidio, Fast, 1 394; in Marziale cfr. anche rv 40 s; vu 65 1 (con la mede­ sima clausola); x 104 9; xn 62 7 (per un'immagine analoga, riferita all'estate, cfr. XH 34 1). + 7. lasciva: l'agg. fa affiorare il confronto con piccoli animali: cfr. Orazio, Carm., m 13 8: lascivi suboles gregis. + 8.

731

VIII · L'EPIGRAMMA

Mollia non rigidus caespes tegat ossa nec illi, terra, gravis fueris: non fuit illa tibi.

lO

I 10

Petit Gemellus nuptias Maronillae et cupit et instat et precatur et donat. « Adeone pulchra est? >>. Immo foedius nil est. Quid ergo in illa petitur et placet? Tussit.

III 9

Versiculos in me narratur scribere Cinna. Non scribit, cuius carmina nemo legit. VIII 19

Pauper videri Cinna vult; et est pauper. garriat: il verbo, che può designare il verso di uccelli (cfr. ThlL, VI col. 1695 51 sgg.), assimila Erotion a un uccellino. + 9-10. Mollia . . . tibi: una variazione del comune motivo epigrafico sit tibi terra levis già presente in Meleagro (Anth. Pal., VII 461) . I 10. Un pretendente sospetto. Gemello vuole le nozze con Maronilla. La brama, le sta addosso, la prega, le fa regali. « È cosi bella? ». Al contrario. Cos'è allora che attrae in lei? Tossisce (dunque è malata e potrebbe presto !asciarlo erede). 2. et cupit. . . donat: la serie dei verbi, legati dalla congiunzione in quadruplice anafora, descrive la straordinaria insistenza del pretendente, che genera la domanda del v. successivo. + 3. « Adeone pulchra. . . est: Marziale introduce nell'epigramma un interlocutore anonimo. Le parole Adeone pulchra estvanno poste tra virgolette, come dimostra il confronto con VIII 10 3: « Adeo bene emit?» in­ quis. Immo non solvet ('« Ha acquistato a un prezzo tanto buono? » dici. Al contrario: non pagherà'). + 4· Quid ergo . . . ?: che l'interrogativa non vada attribuita all'interlocutore, ma al poeta, che ne anti­ cipa la domanda, mostrano numerosi esempi analoghi: cfr. I 41 2; II 28 5, 56 4; III 84 2; IV 53 8, 71 5 sg., 87 4; VI 94 4; IX 4 4. 22 16; XII 36 6. Per la stessa ragione ritengo che si debba attribuire al poeta la do­ manda cui dedit ergo? in v 32 2, che precede la pointe finale e che gli editori stampano tra virgolette, attribuendola a un interlocutore. - Tussit: l'ultima parola rivela le reali intenzioni del personaggio: si tratta di un cacciatore di eredità (captator), per il quale la tosse, probabile segno di risi, rappresen­ ta garanzia di morte prossima della donna. Per il motivo cfr. Orazio, Sat., n 5 106 sg.; in Marziale cfr. II 26; V 39·

732

Il · LA MUSA EPIGRAMMATICA DI MARZIALE Una zolla non dura copra le tenere ossa e tu, terra, non esserle gravosa: lei non lo fu per te.

10

1 10 Gemello aspira alle nozze con Maronilla e la desidera e la incalza e la prega e le fa doni. � È cosi bella? ». Al contrario: non c'è nulla di piu brutto. Cosa dunque di lei suscita desiderio e piace? Tossisce.

III 9 Si dice che Cinna scriva versicoli contro di me. Non scrive uno di cui nessuno legge le poesie.

VIII 1 9 Povero vuoi sembrare Cinna; ed è povero. m 9. Un poeta inesistente. Cinna scrive versi contro Marziale, ma non avere lettori equivale a non scrivere. 1. V ersiculos: il diminutivo versiculus ha in Marziale sempre valenza dispregiativa: cfr. m 50 2; VI 64 23 cit. sotto. - Ginna: nome fittizio, ricorrente in epigrammi scommarici. Non si può escludere un'allusione sarcastica a Gaio Elvio Cinna, poeta contemporaneo e amico di Catullo, autore della Zmyrna, menzionato da Marziale in x 21 3 sg. quale esempio di oscurità. + 2. Non seribit . . . legit: lo stesso argomento sarà usato all'interno di una lunga invettiva contto un anonimo poetastto (vi 64 22 sg.): Audes praeterea, quos nullus noverit, in me l seribere versiculos miseras et perdere chartas ('Osi inoltre scrivere contro di me versicoli che nessnno conoscerà, e sprecare i poveri papiri').

vm 19. Povertà simulata. Cinna vuole apparire povero, e lo è effettivamente, come ogni avaro. 1. Pauper videri . . . et estpauper: Cinna è un ricco avaro che vuole dissimulare la propria ricchezza per non doverla dissipare. Ma la povertà che egli finge è vera, poiché la ricchezza, quando non è utilizzata, è come se non esistesse. I.:arguzia dell'epigramma risiede nello slittamento semantico dell'agg. pauper, significativamente posto a cornice di verso: la pa11pertas simulata della prima oc­ correnza (videri vult) diviene reale nella chiusa. Il contrasto tra le due parti è evidenziato dalla di­ sposizione chiastica (pauper videri . . . estpauper), che pone in risalto l'identità tra finzione e realtà (vi­ deore sum). I.:idea paradossale che il ricco avaro è povero, poiché non usa le sue ricchezze, è topica (vd. Tosi, Dizionario, numm. 1812-15) : cfr. Orazio, Sat., 11 3 142: pauper Opimius argentipositi intus et au­ ri ('Opimio povero dell'argento e dell'oro posti all'interno'); Carm., m 16 28: magnas inter opes inops ('povero tra grandi ricchezze'); Seneca, Herc. fur., 168: congesto pauper in auro ('povero nell'oro am-

733

VIII



L'EPIGRAMMA

Quem recitas meus est, o Fidentine, libellus: sed male cum recitas, incipit esse tuus.

IX 15

Inscripsit tumulis septem scelerata virorum se fecisse Chloe. Quid pote simplicius? I 102

Qui pinxit Venerem tuam, Lycori, blanditus, puto, pictor est Minervae.

mucchiato'); si vedano anche Publilio Siro, T3: tam deest avaro quod habet quam quod non habet ('all'a­ varo manca ciò che ha tanto quanto ciò che non ha') ; Cicerone, Par. Stoic., 3 52: (avari) non modo non copiosi ac divites, sed etiam inopes acpauperes existimandi sunt ('[gli avari] non solo non vanno considera­ ti facoltosi e ricchi, ma anche vanno ritenuti privi di risorse e poveri') ; Seneca, Epist., 74 4: in divitiis inopes ('indigenti in mezzo alle ricchezze'). Lambiccata perciò e poco persuasiva l'interpretazione dell'epigramma di Shackleton Bailey, secondo il quale Cinna desidera essere considerato un ricco che fmge povertà, mentre è realmente povero. !;epigramma presenta, nella forma piu concisa possibile, una delle strutture piu comuni in Marziale: a una parte descrittiva (narratio) fa seguito un commento arguto. Nell'opera di Marziale sono presenti altri due epigrammi composti di un solo verso (n 73; vn 98) . I

38. Un plagiario. Fidentino, sono miei gli epigrammi che reciti. Ma quando li reciti male li ren"

di tuoi.

1-2. meus . . . tuus: per il gioco sui possessivi, caratteristico degli epigrammi sul plagio, cfr. I 29 3 sg.: Si mea vis dici, gratis tibi carmina mittam, lsi dici tua vis, hoc eme, ne mea sint ('Se vuoi che siano dette mie,

ti manderò gratis le mie poesie, se vuoi che siano dette tue, compra il libretto, perché non siano piu mie'). - Fidentine: un plagiario che recita i versi di Marziale come propri. V epigramma appar­ tiene a un ciclo contro il personaggio, che comprende anche I 29, 53, 72. A un tentativo di plagio si riferiscono anche I 52 e 66.

IX 15. Confessione involontaria. Cioe, come era consuetudine nelle iscrizioni funerarie, ha fatto in­ cidere sulle tombe dei suoi sette mariti che era lei, "colpevole" per essere sopravvissuta ai suoi ca­ ri, !' "autrice" (del monumento sepolcrale). Ma questa, nel suo caso, è una confessione sincera, poiché è stata lei a ucciderli. 1. scelerata: cosi si autodefiniscono nelle iscrizioni funerarie i genitori che sopravvivono ai figli morti prematuramente, quasi che la loro vita costituisse una colpa (scelus) a fronte della scomparsa dei figli: cfr. CIL, VI 9961; 15160; 35769; x 310. Marziale gioca argutamente con l'ambiguità dell'agg. 734

II · LA MUSA EPIGRAMMATICA D I MARZIALE

È mio il libretto che reciti, Fidentino: ma quando lo reciti male, inizia a esser tuo.

IX 15 La colpevole Cloe fece inscrivere sui sepolcri dei sette mariti che era lei l'autrice. Cosa avrebbe potuto di piti sincero?

1 102 Il pittore che ha dipinto la tua Venere, Licoride, ha voluto lusingare, credo, Minerva.

(lett. 'chi commette un delitto'), anticipando la conclusione. + 2. sefecisse: l'espressione si riferisce al­

la costruzione del sepolcro, spesso indicata nelle epigrafi con il verbofacere (in questo caso qualco­

sa del genere: ego Chloe sceleratafeci; esempi in ThlL, s.v Jado VI col. 87 47 sgg.), ma nella maliziosa lettura di Marziale corrisponde a una confessione da parte di Cloe dei delitti: per quest'uso del verbo cfr. Giovenale, 6 638 sg.: sed clamat Pontia, «Feci, confiteor, puerisque meis aconita paravi » ('ma Ponzia grida, « Sono colpevole, lo confesso, e ho preparato ìl veleno per i miei figli »'). Non è ne­ cessario mettere le parole tra virgolette come fanno tutti gli editori. Mogli che uccidono i mariti e mariti che uccidono le mogli sono caratteri ricorrenti negli epigrammi di Marziale: cfr. IV 69; vm 43; IX 78; x 43· Quid pote simplicius?: Marziale attribuisce con arguzia la formula dell'iscrizione se­ polcrale alla schiettezza di Cloe, che confesserebbe cosi i propri delitti. In altri casi un'analoga for­ mulazione affermativa costituisce la premessa che verrà smentita nella conclusione dell'epigram­ ma: cfr., ad es., n 71 1: Candidius nihil est te, Caeciliane, notavi ('Non c'è nulla di piu benevolo di te, C'-e­ ciliano, l'ho notato') ; VII 20 1: Nihil est miserius nequegulosius Santra ('Non c'è nulla di piu penoso e goloso di Santra'). .

,

1 102. Un pittore malizioso. Il pittore che ha eseguito un brutto ritratto di Venere, insinua ironica­ mente Marziale, ha voluto ingraziarsi Minerva. 2. blanditus . . . piàor estMinervae: la rivalità tra le dee risale al noto giudizio di Paride, che, chiama­ to a decidere quale fosse la dea piu bella tra Venere, Minerva e Giunone, scelse Venere, che gli aveva promesso in cambio l'amore di Elena di Sparta. Una variazione di questo morivo è in v 40: Pinxisti Venerem, colis, Artemidore, Minervam: l et mìraris opus displicuisse tuum? ('Hai dipinto Venere, Ar­ temidoro, veneri Minerva: e ti meravigli che la tua opera non sia piaciuta?'). puto: ha simile sfu­ matura ironica in 1 5 : Do tibi naumachiam, tu das epigrammata nobis: l vis, puto, eu m libro, Marce, natore tuo ('Io ti offro una naumachia, tu mi dai epigrammi: vuoi, credo, finire in acqua insieme al tuo libro, Marco'); cfr. anche vn 88 10; IX 78 z; x 36 8. -

735

VIII ·

L 'EPIGRAMMA m8

«

Thaida Quintus amat ». Quam Thaida? « Thaida luscam » . Unum oculum Thais non habet, ille duos. I 68

Quidquid agit Rufus, nihil est nisi Naevia Rufo. Si gaudet, si flet, si tacet, hanc loquitur. Cenat, propinat, poscit, negat, innuit: una est Naevia; si non sit Naevia, mutus erit. Scriberet hesterna patri cum luce salutem, « Naevia lux », inquit, « Naevia lumen, have » . Haec legit et ridet demisso Naevia vultu. Naevia non una est: quid, vir inepte, furis?

5

m 8. Un innamorato cieco. Quinto ama Taide. Quale? La guercia. Lei non ha un occhio, lui è com­ pletamente cieco. 1-2. L'epigramma offre una brillante sceneggiatura del motivo topico della cecità dell'innamo­ rato (vd. Tosi, Dizionan·o, num. 1418). Lo sviluppo della situazione è in m 11. Marziale schernisce il tipo dell'amante cieco anche in I 68; un rovesciamento del motivo è in III 39· La struttura dialogi­ ca, già presente nell'epigramma greco, ricorre anche in II 49; III 15; V 55; VII 81; VIII lO, 41. + l. Thaida: dalla celebre etera amata da Alessandro Magno e poi sposa di Tolemeo, il nome Thais indica l'ete­ ra per antonomasia: è la meretrix blanda dell'omonima commedia perduta di Menandro (Ovidio, Am., I 15 18) ed è la meretrixnell'Eunuchus di Terenzio (che Dante incontra in Inj, xvm 133). In Mar­ ziale è nome usato di frequente per prostitute (m 11; IV 12, so; v 43; VI 93; XI 101). + 2. Unum . . . duos: la disposizione dei numerali a cornice di pentametro offre risalto al gioco numerico su cui è co­ struita la pointe (per altri esempi cfr. III 92; v 38 5, 7; vm 43 4). I 68. Follia d'amore. Per Rufo non c'è altro che Nevia. Qualunque cosa faccia, c'è lei di mezzo. Se non c'è Nevia è muto. Ieri scrivendo una lettera al padre, ha inserito il nome di Nevia nell'intesta­ zione. Nevia legge questi versi e sorride imbarazzata. Nevia non è l'unica donna: perché folleggi cosi, sciocco? 1. Rufus . . . Naevia: i due sono protagonisti anche di I 106 (sulla coppia di epigrammi vd. la ricca e persuasiva analisi di A.M. Morelli, Sighs ofLost Love: The Cycle ofRujus in Martial (1.68 and 1.106), in « CPh », a. CIV 2009, in corso di pubblicazione). Rufo rappresenta il tipo dell'amante accecato dal­ la passione. - nihil est nisi Naevia Rufo: per l'amante folle non esiste altro al mondo se non la perso­ na amata: cfr., ad es., Teocrito, Id., 11 11; Meleagro, Anth. Pal., XII 6o; 106; Paolo Silenziario, ivi, v 266 5 sg. La presenza costante di Nevia in ogni aspetto della vita di Rufo è sottolineata comicamente dall'anafora del nome, ripetuto per sette volte. + 2-4. Si . . . erit: la successione dei verbi, prima pre­ ceduti dalla particella ipotetica (v. 2), poi in asindeto (v. 3), dipinge comicamente la presenza do­ minante di Nevia in tutte le azioni di Rufo. L'esagerazione di questo comportamento è rappre­ sentata argutamente nell'espressione paradossale si tacet, hane loquitur. - poscit, negat: i verbi vanno intesi nell'accezione propria del banchetto (Morelli) : per pascere nel senso di 'chiedere (acqua, vi-

II · LA M U S A E P I G RA M M A T I CA DI MARZIALE

m8 « Quinto ama Taide ». Quale Taide? « Taide la guercia ». Un occhio manca a Taide, a lui due.

I

68

Qualunque cosa faccia Rufo, non vi è nulla se non Nevia per Rufo. Se gioisce, se piange, se tace, parla di lei. Cena, fa un brindisi, chiede da bere, dice di no, fa un cenno: unica è Nevia; se non c'è Nevia, sarà muto. Ieri, mentre scriveva un saluto al padre,

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« Nevia luce », disse, « Nevia lume, salve ».

Nevia legge queste cose e sorride abbassando il volto. Nevia non è l'unica: cosa deliri, uomo idiota? no, cibo)', cfr. vu 2o 4; VIII 49 4, 67 7; Petronio, 27 6, 31 5, 34 1, 44 10, 65 7-8; per negare 'rifiutare', cfr. IV 69 2. - una est: chiude signifì(,-ativamente la serie di verbi: per Rufo c'è solo Nevia (cfr. v. 8) . + s8. Scriberet . . . furis?: i versi rappresentano il sommo grado della follia di Rufo, che anche mentre scrive una lettera al padre non può non pensare all'amata e scrive il suo nome nell'intestazione. ­ hesterna . . . luce: espressione non comune per 'ieri' (cfr. Iv 15 2; Ovidio, Am., u 2 3) : la scelta di lux, ri­ preso al v. 6 nell'apostrofe, non è casuale e rivela che per Rufo la luce del giorno è soppiantata dal­ la luce dell'amata Nevia (Morelli). + 6. Naevia lux: lux è nella poesia erotica latina comune appella­ tivo della donna amata; frequente l'apostrofe mea lux (a partire da Catullo, 68 160: lux mea, qua viva vivere dulce mi hi est, 'la mia luce, viva la quale per me vivere è dolce'). - Naevia lumen: per lumen del­ la donna amata cfr. Ovidio, Her., 18 85 sg.: utprocul aspexi lumen, « meus ignis in ilio est: l i/la meum » di­ xi ('come da lontano vidi il lume, « li c'è il mio fuoco: quella riva » dissi « tie­ ne il mio lume »'); [Tibullo], m 19 11 sg.: tu noàe velatra l lumen ('tu sei la mia luce persino nella te­ tra notte'). + 7- Haec legit . . . vultu: il verso è di interpretazione discussa: secondo alcuni si riferisce al­ la lettera menzionata ai vv. 5 sg., anche se non si capisce in quali circostanze Nevia avrebbe letto la lettera di Rufo al padre; sembra piu plausibile e adeguato al contesto che haec si riferisca ai versi precedenti dell'epigramma, come ipotizzato da Friedlaender: Nevia, per tramite dei versi di Mar­ ziale, apprende tutte le follie di Rufo per lei e ne sorride; il fatto che Marziale immagini Nevìa che legge il suo epigramma nel suo svolgimento e non ancora compiuto non deve sorprendere, poi­ ché il poeta gioca spesso con le convenzioni della lettura e rappresenta le reazioni dei lettori ai suoi epigrammi, talvolta immaginandole come avvenute in tempo reale: cfr. specialmente v 25 11 sg.: O frustra locuples, o dissimulator amici, l haec l�ifis et laudas? ('oh, ricco invano, o dissimulatore dell'amico, leggi queste cose e le lodi?'}, dove l'espressione si riferisce ai vv. precedenti dell'epigramma (vd. anche v 16 13 sg.; XI 106) . - ridet demisso . . . vultu: Nevia sorride abbassando il capo in segno di pudo­ re: la donna evidentemente non ricambia la passione di Rufo (come si evince anche da 1 106) e pro­ va imbarazzo nell'essere oggetto di un sentimento cosi totalizzante. + 8. Naevia non una est: il con­ cetto ricorre altrove in poesia come motivo di consolazione per l'amante infelice: cfr., ad es., Vir­ gilio, Bue., 2 73= lnvenies alium, si te hicfastidi� Alexin ('Troverai un altro Alessi, se questo ti sdegna'),

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VIII · L 'EPIGRAMMA IX 73

Dentibus antiquas solitus producere pelles et mordere luto putre vetusque salurn, Praenestina tenes decepti regna patroni, in quibus indignar si tibi cella fuit; rumpis et ardenti madidus crystalla Falerno et pruris domini cum Ganymede tui. At me litterulas stulti docuere parentes: quid cum grammaticis rhetoribusque mihi? Frange leves calamos et scinde, Thalia, libellos, si dare sutori calceus ista potest.

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ma qui l'affermazione ha piuttosto tono irrisorio e mira a scuotere impietosamente l'insano aman­ te dai suoi deliri (cfr. infatti vv. 3-4: una est l Naevia). Marziale al tempo stesso critica l'ideale catul­ liano e elegiaco di amore esclusivo. - quid, vir inepte,furis?:forere e il sost.juror appartengono alla rap­ presentazione elegiaca dell'amore come follia, insania (cfr., ad es., Properzio, I 1 7 sg.; Ovidio, Am., I 2 35 sg.); per l'uso di ineptus (e ineptire) in contesti erotici cfr. Catullo, 8 1; Ovidio, Ars am., I 306; la battuta finale quindi, che richiama Rufo alla realtà del suo amore non corrisposto, condanna du­ ramente (cfr. vir inepte) 1'amore totalizzante degli elegiaci, considerato una patologia.

IX 73· Il ciabattino arricchito. Il poeta prende di mira un misero ciabattino, che all'improvviso di­ venta ricco ereditando i vasti possedimenti del suo padrone, e deplora la sua condizione di uomo di lettere condannato all'indigenza.

1-2. Dentibus . . . mordere luto putre vetusque solum: l'insistenza sugli aspetti pit'i sordidi e repellenti della professione è finalizzata al contrasto con la condizione presente di ricchezza (cfr. XII 59 7: hinc sutor modo pelle basiata, 'di qua un ciabattino che ha appena baciato la pelle'). Intellettuali greci e ro­

mani ostentavano disprezzo per le arti manuali, considerate indegne di un uomo libero. Un cia­ battino arricchito che offre spettacoli gladiatori è preso di mira da Marziale in III 16; 59; 99. Lo stri­ dente contrasto tra la ricchezza raggiunta da ceti umili e la povertà del poeta ricorre spesso in Mar­ ziale : cfr. III 4 7 sg.; v 13, 56; x 74, 76. I maggiori precedenti letterari del parvenu sono il rrovTj pòç · Ap­

'tÉ�wv di Anacreonte (fr. 54 Diehl = 82 Gentili), il tribunus militum dell'Epodo 4 di Orazio e il Tri­ malchione di Petronio. + 3. decepti regna patroni: il testo tramandato dalla seconda famiglia è senz'al­

tto superiore a difuncti rura patroni delle altre due, preferito da Lindsay, che ha l'aria di una glossa. Regna definisce adeguatamente la magnificenza dei possedimenti (cfr. IV 40 3; XII 57 19) e decepti al­ lude all'inganno perpetrato ai danni del dominus, circuito per carpirne l'eredità (vd. P. Parroni, Gli « stulti parentes » di Marziale e ilprezzo di una vocazione (nota a Mart. 9,73), in Studi di poesia latina in onore di A. Traglia, Roma, Storia e Letteratura, 1979, II pp. 833-39). Poco plausibile, dato il contesto, che il participio rifletta l'uso epigrafico di 'morto prematuramente' (lett. 'ingannato dalla morte'), come

II · LA MUSA EPIGRAMMATICA DI MARZIALE IX 73

Tu che eri solito tirare con i denti vecchie pelli e mordere una suola vecchia e putrida di fango, tieni i regni prenestini del tuo patrono ingannato, nei quali mi indigno se avevi una stanza; e ubriaco rompi coppe di cristallo col Falerno ardente e ti ecciti con il Ganimede del tuo padrone. A me invece i miei sciocchi genitori hanno insegnato le lettere: cosa ci faccio con i grammatici e i retori? Spezza le penne leggere e strappa, Talia, i libretti, se una scarpa può dare queste ricchezze a un ciabattino.

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ipotizzato da Shackleton Bailey (More Corrections and Bxplanations oJMartial, in « AJPh », a. ex 1989, p. 141) . + 5· ardenti . . . Falerno: prodotto nell'ager Falernus in Campania, il vino era considerato il piu pregiato tra i vini italici (per Plinio il Vecchio, Nat. hist., XIV 62, viene al secondo posto dopo il Seti­ no). Si beveva molto caldo (cfr. Orazio, Carm., II 11 19 sg.: ardentis Falerni lpocula), cosa che poteva danneggiare il delicato cristallo (rumpis . . . aystalla: cfr. x 14 5) . + 6. cum Ganymede: Ganimede, lo splendido fanciullo troiano rapito da Giove, che ne volle fare il suo coppiere sull'Olimpo, è qui usato per antonomasia per un bello schiavetto (cfr. anche II 43 14; XI 22 2). + 7· At me. . . parentes: l'af­ fermazione non va certo intesa alla lettera, come pure si è fatto, considerando questo uno sfogo meschino contro i genitori, colpevoli di avergli dato un'educazione. Il tono è affettuoso: « Poveri illusi i miei genitori - vuoi dire in definitiva il poeta -, gente d'altri tempi, che hanno creduto nel­ la cultura e nei valori dello spirito in un mondo in cui trionfa solo il denaro e chi sa procurarselo a qualsiasi costo! » (Parroni, Gli «stultiparentes » di Marziale, cit., pp. 835 sg.). Marziale allude a Ovi­ dio, Trist., n 343: Bi mihi! Quo didici? Cur me docuere parentes ('Ahimè! Perché ho studiato? Perché i miei genitori mi hanno educato?'). Un tono analogo è ravvisabile in v 56, rivolto a Lupo che gli chiede un consiglio per l'educazione del figlio: Omnesgrammaticosque rhetorasque l devites, moneo: ni­ hi/ sit illi l cum libris Ciceronis aut Maronis, lJamae Tutilium suae relinquat; l si versusfacit, abdices poetam (vv. 3-7: 'Ti consiglio di evitare tutti i grammatici e i retori: non abbia nulla a che far con i libri di Cicerone o di Marone, lasci Tutilio alla sua fama; se compone versi, ripudia il poeta'). + 9· Frange. . . libellos: il verso, venato di amara ironia, allude a Calpurnio Siculo, Bel., 4 23: frange, puer, ca/amos et inanes desere Musas ('spezza, fanciullo, le penne e abbandona le vuote Muse'); a sua volta sarà imita­ to da Giovenale, 7 26 sg.: tinea pertunde libellos, lfrange miser ca/amos vigilataqueproelia de/e ('lascia ro­ sicchiare alle tarme i libretti, spezza, infelice, le penne e cancella le battaglie composte nelle ve­ glie'). Thalia, Musa della commedia, talora associata ad altri generi minori (cfr. Virgilio, Bue., 6 2; Culex, 1) , è per Marziale Musa dell'epigranJma (cfr. IV 8 12; 23 4; VII 17 4; VIII 73 3; IX 26 8; x 20 3; vd. anche VIII 3 9: nonasororum). 739

VIII ·

L'EPIGRAMMA

v 13 Sum, fateor, semperque fui, Callistrate, pauper se d non obscurus nec male notus eques, sed toto legar orbe frequens et dicitur : Hic est », quodque cinis paucis hoc mihi vita dedit. At tua centenis incumbunt tecta columnis et libertinas arca flagellat opes, magnaque Niliacae servit tibi gleba Syenes tondet et innumeros Gallica Parma greges. Hoc ego tuque sumus: sed quod sum non potes esse: tu quod es e populo quilibet esse p otest. «

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I 20

Dic mihi, quis furor est? Turba spectante vocata solus boletos, Caeciliane, voras. Quid dignum tanto tibi ventre gulaque precabor? Boletum qualem Claudius edit, edas. v 13 . I.:orgoglio delpoeta povero. Lo ammetto, Callistrato, sono e sono sempre stato povero, ma so­ no un cavaliere non ignoto e un poeta letto in tutto il mondo. Tu abiti in una casa fastosa, il tuo for­ ziere contiene grandi ricchezze, possiedi terre feconde e greggi di qualità. Questo siamo noi due. Ma tu non puoi essere ciò che io sono; ciò che sei tu, chiunque del popolo può esserlo. 1. Callistrate: nome ricorrente in Marziale per caratteri fittizi. + 2. non obscurns. . . eques: Marziale aveva ricoperto la carica di tribunus semestris, che dava diritto al rango di cavaliere (cfr. III 95 9 sg.). + 3· toto legororbefrequens: un vanto che Marziale esprime piu volte: cfr. I 1 2; VI 64 25; VIII 61 3 (per for­ mule analoghe cfr. III 95 7 sg.; VII 17 10; x 9 3 sg.). !:espressione è modellata su Ovidio, Trist., IV 10 128: in toto plurimus orbe legor (cfr. anche Am., I 15 7 sg., 15 13; Ars am., II 740; Her., 15 28; Rem. am., 363; Trist., II 118) . - et dicitur: « Hic est»: l'espressione echeggia Persio, 1 28: at pulchrnm est digito monstrari et dicier « hic est!» ('ma è bello essere additati e che si dica « è lui! »'), che però considera una forma di vanità il compiacersi per il fatto di essere riconosciuto per strada. + 4· quod . . . dedit: il motivo della fama raggiunta in vita ricorre nell'Ovidio dell'esilio: cfr. Trist., IV 10 121 sg.; Pont., IV 1 6 3; in Marzia­ le cfr. I 1 4-6; III 95 7 sg. + 5· tua. . . columnis: la formulazione, con il numerale usato in funzione iper­ bolica, esprime la magnificenza regale della dimora: cfr. Virgilio, Aen., vn 170: tectum augustum, in­ gens, centum sublime columnis (cui allude Stazio, Si/v., IV 2 18-20 ); Claudiano, Carm. min., 27 90 sg.; vd. anche Seneca, Phaedr., 496 sg.; AL, 441 1 R.; in Marziale cfr. xn so 3: et tibi centenis statporticus alta co­ lumnis ('e per te il portico si leva alto su cento colonne'). + 6. /ibertinas arcajlagellat opes: l'originale e discussa espressione metaforica, che ricorre simile in II 30 4: et cuius laxas arcajlagellat opes, allude probabilmente a una sorta di tortura imposta alle ricchezze dal forziere che non riesce a conte­ nerle; per una simile immagine cfr. Stazio, Silv., n 2 151 sg.: non tibi sepositas infelix strangulat arca l di­ vitias ('il tuo forziere non strangola miseramente le nascoste ricchezze'). In Marziale cfr. anche IX 59 2. Per la personificazione dell'arca, simbolo della ricchezza, cfr. III 31 3; vm 44 10 (vd. anche III 41 740

II · LA MUSA EPIGRAMMATI CA DI MARZIALE V 13 Sono, lo riconosco, e sempre sono stato, Callistrato, povero, ma sono un cavaliere non ignoto, né malfamato, ma sono letto assiduamente in tutto il mondo e si dice: « È lui », e ciò che la morte ha concesso a pochi, a me lo ha dato la vita. I tuoi tetti invece gravano su cento colonne e il tuo forziere tormenta ricchezze da liberto, un grande terreno dell'egizia Siene ti è sottomesso e la gallica Parma tosa per te greggi innumerevoli. Questo siamo io e te: ma ciò che sono io tu non puoi essere: ciò che sei tu, chiunque del popolo può esserlo.

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I 20 Che follia, dimmi, è questa? Sotto lo sguardo d'una folla d'invitati tu solo divori, Ceciliano, boleti. Cosa ti augurerò degno di tanto ventre e di tanta gola? Che tu possa mangiare un boleto quale quello che mangiò Claudio. 2; x 15 4). Le ricchezze dei liberti (liberti11ae opes) erano proverbialmente ingenti: c&. Seneca, Epist., 27 5· + 7. Niliacae . . . gleba Syenes: Siene, posta presso i confini meridionali dell'Egitto, noto per la fer­ tilità delle sue terre. La iunctura Niliaca Syene ricorre anche in 1 86 7. servìt: designa una sottomis­ sione di tipo schiavile anche in m 31 3: et sen,it dominae numerosus debitor arcae ('e numerosi debitori sono schiavi del forziere sovrano'). + 8. Gallica Parma: la lana di Parma era rinomata (in XIV 155 è considerata seconda solo a quella dell Apulia; cfr. anche IV 37 5). + 1o. e populo quilibet esse potest: l'e­ spressione rivela il senso di superiorità dell'élite culturale cui ìl poeta sente di appartenere: cfr. Se­ neca, Epist., 10 3: iste lwmo non est unus e populo, ad salutem spectat ('quest'uomo non è uno del popolo, guarda alla propria sanità') . Quilibet esse potest, presente anche in Ars am., 1 444; Pont., IV 10 78, chiu­ de l'epigramma con una fine allusione al proelnio del !! libro dei Fasti di Ovidio (vv. u-16), dove ìl poeta rivendica con orgoglio l'unicità della propria condizione di poeta del calendario, contrap­ ponendola a quella di poeta epico, accessibile a chiunque: si mihi non tJalido torquenturpila lacerto l mc bellatoris terga premuntur equi, l necgalea tegimur; nec acuto cingimur eme l {his habilis telis quilibet esse potest}, l at tua prosequimur studioso pectore, Caesar, l nomina, per titulos ingredìmurque tuos, 'se non scaglio gia­ vellotti con bracào robusto, né premo il dorso di un cavallo da guerra, né mi copro con l'elmo, né 1ni cingo di una spada tagliente (chiunque può essere adatto a queste armi), con animo curioso pe­ rò ricerco i tuoi nolni, Cesare, e mi addentro per i tuoi titoli'. '

1 20. Augurio a un ospite gretto. Sotto gli occhi di una folla di invitati, mangi da solo, Ceciliano, bo­ leri. Cosa augurarti? Di mangiarne uno come quello che mangiò l'imperatore Claudio. 1-2. Turba. . . solus: l'anfirtione che consuma il pasto da solo di fronte agli ospiti digiuni è tipo co­ mico diffuso: cfr. r 43; Giovenale, 1 94 sg., 135 sgg.; 4 22. Solus in posizione di rilievo a inizio di ver­ so è in contrapposizione con ia turba condannata a guardare. + 4· Boletum. . . edit: era voce diffusa che

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VIII · L'EPIGRAMMA III 44

Occurrit tibi nemo quod libenter, quod, quacumque venis, fuga est et ingens circa te, Ligurine, solitudo, quid sit scire cupis? Nimis poeta es. Hoc valde vitium periculosum est. Non tigris catulis citata raptis, non dipsas medio perusta sole, nec sic scorpios improbus timetur. Nam tantos, rogo, quis ferat labores? Et stanti legis et legis sedenti, currenti legis et legis cacanti. In thermas fugio: sonas ad aurem. Piscinam peto: non licet natare. Ad cenam propero: terres euntem. Ad cenam venio: fugas edentem. Lassus dorrnio: suscitas iacentem. Vis, quantum facias mali, videre? Vir iustus, probus, innocens timeris.

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l'imperatore Claudio fosse morto per aver mangiato funghi avvelenati: cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist., xxn 92; Giovenale, 5 146 sgg.

m 44· Sei troppo poeta / Dovunque tu vada, Ligurino, c'è un fuggi fuggi generale: vuoi saperne il motivo? Sei troppo poeta: è un vizio assai pericoloso. Non sono altrettanto temuti la tigre, un ser­ pente velenoso, lo scorpione. Chi potrebbe sopportare tali fatiche? Tu leggi in ogni momento. Vuoi capire quanto male fai? Tu, uomo giusto e onesto, sei temuto. 2. quacumque. . . est: l'immagine del recitatore accanito, che mette tutti in fuga, deriva da Orazio, Ars, 455 sg.: vesanum tetigisse timentjugiuntquepoetam l qui sapiunt {'temono di toccare il poeta insano e lo fuggono coloro che hanno senno'); 474: indodum doctumquejugatrecitatoracerbus ('l'ignorante e il dotto mette in fuga lo sgradevole recitatore'). + 3. Ligurine: Ligurino è nome parlante, scelto con in­ tento antifrastico (dal gr. Àtyup6ç, 'melodioso'); in modo analogo Petronio dà il nome di Eumolpus ('dal bel canto') al poetastro che affianca i protagonisti, un personaggio che Marziale ebbe certo presente nel ritrarre Ligurino. + 4· Nimispoeta es: singolare e arguta poin te intermedia: l'effetto co­ mico, prodotto dall'inconsueto accostamento di avverbio e sostantivo, è intensificato dall'uso di poeta nel senso di recitator (cfr. n 88 1: Nil recitas et vis. . . poeta videri, 'Non reciti nulla e vuoi apparire poeta'). + s. Hoc. . . est: la presenza costante di recitatori è per Giovenale tra i maggiori pericoli di Ro­ ma (3 6-9). + 6. tigris catulis citata raptis: la ferocia della tigre cui sono stati strappati i cuccioli è pro742

II LA MUSA EPIGRAMMATICA DI MARZIALE •

III 44

Il fatto che nessuno ti viene incontro volentieri, che, dovunque giungi, c'è la fuga e un gran deserto, Ligurino, intorno a te, vuoi sapere cosa significa? Sei troppo poeta. Questo è un vizio assai pericoloso. Non la tigre aizzata dal rapimento dei cuccioli, non la dipsade arsa dal sole equatoriale, né il crudele scorpione sono cosi temuti. Infatti chi, mi chiedo, potrebbe sopportare cosi grandi fatiche? Quando sto in piedi leggi e leggi quando siedo, quando corro leggi e leggi quando caco. Fuggo alle terme: mi rumoreggi nell'orecchio. Mi dirigo in piscina: non mi è possibile nuotare. Mi affretto ad andare a cena: mi trattieni mentre vado. Giungo a cena: mi metti in fuga mentre mangio. Stanco dormo: mi svegli mentre giaccio. Vuoi sapere quanto male fai? Uomo giusto, onesto, innocente, fai paura.

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verbiale: cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist., vm 66; l'exemplum ricorre spesso in similitudini poetiche: cfr. Valerio Fiacco, I 489-93; Stazio, Theb., IV 325 sg.; Claudiano, Rapt., m 263-68. In Marziale cfr. an­ che vm 26 1-3. + 7· dipsas: una specie di vipera, propria delle regioni desertiche dell'Africa, cui allu­ de l'espressione medio perusta sole. + 10-11. Et . . . cacanti: i versi, costruiti in modo chiastico e caratte­ rizzati dall'anafora di legis e dall'omeoteleuto, rappresentano comicamente l'insistenza importuna del recitatore; Marziale utilizza una struttura analoga per descrivere l'assillo di un molesto basiator. cfr. XI 98 20-22:jèbricitantem basiabit et}lentem, l dabit oscitanti basium natantique, l dabit cacanti ('ti bace­ rà febbricitante e piangente, ti darà un bacio mentre sbadigli e mentre nuoti, te lo darà mentre ca­ chi'), concluso in modo simile con un volgarismo (cacanti), che costituisce il massimo grado della molestia. + 15.jugas edentem: forte del sostegno di due famiglie (fuga sedentem dei codici TEAV deri­ va chiaramente da errata divisione delle parole), è senz'altro preferibile afugas sedentem della se­ conda famiglia, accolto da Lindsay: i Romani cenavano distesi sui letti tricliniari, non seduti; Ligu­ rino ostacola il poeta nelle sue funzioni fisiologiche e nei bisogni primari; sedentem creerebbe una brutta ripetizione di sedenti (fine di v. 10). + 18. Vir. . . timeris: la chiusa richiama comicamente il v. 8: nec sic scorpios improbus timetur. Per il tricolon asindetico cfr. x 76 5: iucundus, probus, innocens amicus. 743

VIII

· L'EPIGRAMMA Epigr. 1

Barbara pyramidum sileat miracula Memphis, Assyrius iactet nec Babylona labor; nec Triviae tempio molles laudentur lones, dissimulet Delon cornibus ara frequens; aere nec vacuo pendentia Mausolea laudibus immodicis Cares in astra ferant. Omnis Caesareo cedit labor Amphiteatro, unum pro cunctis fama loquetur opus.

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Quod spirat tenera malum mordente puella, quod de Corycio quae venit aura croco; vinea quod primis floret cum cana racemis, gramina quod redolent, quae modo carpsit ovis; quod myrtus, quod messor Arabs, quod sucina trita,

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Epigr. L La meraviglia delle meraviglie. Tutte le meraviglie del mondo cedono di fronte all'Anfitea­ tro Flavio. Solo di esso per tutte le altre parlerà la fama. 1-6. I versi contengono una rassegna delle meraviglie del mondo, limitate agli edifici, per con­ sentire il confronto con l'Anfiteatro Flavio. A ognuna è dedicato un verso, due al Mausoleo di Ali­ carnasso. Antecedente dell'epigramma nella struttura catalogica è Anth. Pal., IX 58 (di uno degli Antipatri), esaltazione del tempio di Artemide a Efeso, realizzata attraverso il confronto con le al­ tre meraviglie. Il canone doveva essere ancora flessibile al tempo di Marziale. + 1. pyramidum . . . mi­ racula: le piramidi egizie, in funzione esemplare già in Orazio, Carm., III 30 2; Properzio, m 2 19. Marziale allude al proprio verso in VIII 361 sg.: Regia pyramidum, Caesar, miracula ride; liam tacetEoum barbara Memphis opus ('Ridi, Cesare, del regale miracolo delle piramidi; ormai la barbara Menfi ces­ sa di parlare dell'opera orientale'). - Memphis: la capitale dell'Egitto dei Faraoni. + 2. Babylona: Ba­ bilonia vantava due meraviglie: i giardini pensili e le mura. Se Marziale allude a entrambe, il cata­ logo raggiunge, con l'Anfiteatro Flavio, il canonico numero di sette. + 3. Triviae tempio: l'Artemi­ sion, tempio di Diana (la greca Artemide; detta Trivia perché venerata nei trivi) a Efeso, del IV sec. a.C. - malles: l'epiteto, corrispondente al gr. 11aÀax6ç, denota non solo assenza di forza fisica, ma anche decadenza morale, considerata conseguenza del lusso. + 4· cornibus araJrequens: l'altare co­ struito a Delo, secondo la leggenda, da Apollo bambino con le corna dei cervi cacciati dalla sorel­ la Artemide (cfr. Callimaco, Hymn., 2 58-64). + 5· Mausolea: la tomba di Mausolo, satrapo di Caria dal 377 al 353 a.C., ad Alicarnasso; era impreziosita dalle sculture di Scopas (sec. IV a.C.). I:espres­ sione aere . . . vacuo pendentia allude all'altezza notevole dell'edificio. Pendentia Mausolea, un raro ac­ costamento di due quadrisillabi in chiusura di verso (cfr. n 61 3), che realizza un esametro spon­ diaco, esprime la maestà dell'edificio. Mausolea chiude l'esametro anche in v 64 5. + 7-8. Omnis . . . opus: omnis e unum in apertura di verso pongono in risalto l'unicità dell'Anfiteatro rispetto a ogni al-

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I I · LA MUSA EPIGRAMMATICA DI MARZIALE Epigr. l La barbara Menfi taccia le meraviglie delle piramidi, e l'industriosità assiria non vanti Babilonia; i molli Ioni non ricevano lodi per il tempio di Trivia, e l'altare abbondante di corna non rechi gloria a Delo; né il Mausoleo sospeso nel vuoto i Cari levino alle stelle con lodi smisurate. Ogni elaborata costruzione cede di fronte all'Anfiteatro di Cesare, di un'opera sola per tutte parlerà la fama. m

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Il profumo che esala una mela quando la morde una delicata fanciulla, quello dell'effluvio che proviene dallo zafferano coricio; quello di una vigna quando argentea fiorisce con i primi grappoli, quello che emana l'erba che una pecora ha appena brucato; il profumo del mirto, di un mietitore arabo, dell'ambra sfregata,

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tro edificio (la disposizione a cornice del pentametro di unum e opus, con cunctis al suo interno, pre­ senta l'opera come summa di tutte le altre). Implicitamente i versi esaltano anche i Romani domi­ natori del mondo rispetto alle città e ai popoli menzionati nei primi versi insieme alle rispettive meraviglie architettoniche. Caesareo . . . Amphiteatro: l'attributo, usato per la prima volta da Ovi­ dio, Fast., r 282, elogia l'imperatore, quale artefice unico dell'Anfiteatro, contrapposto cosi alle al­ tre meraviglie, rivendicate da città o popoli. m 65. 11 profumo dei bad. Il profumo di una mela morsa da una fanciulla, quello dello zafferano, di una vigna, dell'erba appena brucata, quello del mitto, di un mietitore d'incenso, dell'ambra, della tìanuna dell'incenso; quello di un terreno bagnato dalla pioggia d'estate, di una ghirlanda di fiori appena deposta da un capo profumato. Tutti insieme li sprigionano i tuoi baci, crudele Diadume­ no. Ah, se li concedessi senza ritrosia! 1. malum: la mela è simbolo erotico nell'antichità greco-romana, ma l'immagine della fanciulla che la morde aggiunge una nota di sensualità. +2. de Corydo . . . croco: l'essenza di zafferano, la cui mi­ glior qualità proveniva dal monte Corico in Cilicia, veniva spruzzata sul pubblico e sulla scena in teatro per il suo profumo rinfrescante: cfr. anche Epigr., 3 8; v 25 7 sg.; vm 33 3 sg.; rx 38 5· + 3.jloret cum: l'ordo verborum della terza famiglia è probabilmente superiore a quello delle altre due (cumjlo­ ret), preferito da Lindsay, in quanto diffidliorper via dell'anastrofe e per la "legge di Marx", che san­ cisce il divieto di porre un monosillabo tra cesura pentemimere e parola spondaica. + 5· messor Arabs: l'Arabia era nota nell'antichità per la produzione e l'esportazione di profumi. - sucina trita: le matrone romane usavano monili d'ambra per profumare le mani. Marziale ne evoca il profumo ancora in relazione ai baci di un puerin XI 8 6 (cfr. anche v 37 9-11, sul profumo della bocca della pic­ cola Erotion).

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VIII ·

L'EPIGRAMMA

pallidus Eoo ture quod ignis olet; gleba quod aestivo leviter cum spargitur imbre, quod madidas nardo passa corona comas: hoc tua, saeve puer Diadumene, basia fragrant. Quid si tota dares illa sine invidia?

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XI 35

Ignotos mihi cum voces trecentos, quare non veniam vocatus ad te rniraris quererisque litigasque. Solus ceno, Fabulle, non libenter. XII 3 4

Triginta mihi quattuorque messes tecum, si mernini, fuere, Iuli. Quarum dulcia mixta sunt amaris sed iucunda tamen fuere plura; et si calculus omnis huc et illuc diversus bicolorque digeratur, vincet candida turba nigriorem.

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6. Eoo ture: l'attributo (dal gr. t']ijxlç), di uso prevalentemente poetico, allude all'Arabiafelix, regione produttrice dell'incenso (cfr. v. s: messor Arabs) . + 9· saevepuer Diadumene: protagonista anche di v 46 e VI 34, che condividono con questo epigramma il tema dei baci. Il suo nome allude certamente al­ l'omonima statua di Policleto (datata al 42o a.C. e nota da diverse copie), modello di sensuale bel­ lezza efebica. Vapostrofe saevepuer ricorre altrove per Eros: cfr. Ovidio, Am., I 1 5; Nemesiano, Ed., 4 44; Claudiano, Carm. min., 29 51. + 10. tota: cfr., all'opposto, 11 10 1 : Basia dimidio . . . das mihi, Postume, labro ('Mi dai, Postumo, baci a mezze labbra'; anche n 22 3 sg.). XI 35· A cena da solo. Partecipare a una cena con tanti invitati di cui non si conosce nessuno è co­ me cenare da solo. Per questo Marziale rifiuta l'invito di Fabullo. 1. voces: l'uso assoluto del verbo per indicare l'invito a cena (cfr. v. 2: vocatus ad te) è proprio del ser­ mo wtidianus e ricorre a partire da Plauto. - trecentos: un numero iperbolico (cfr. m 93 1; vn 48 1; IX 19 1). + 3· miraris quererisque litigasque: la serie dei tre verbi, che occupa l'intero verso, rappresenta la reazione sorpresa e stizzita di Fabullo e prepara la pointe dell'ultimo verso. + 4· Solus ceno . . . non li­ benter: conclusione paradossale: cenare con trecento sconosciuti equivale a cenare da soli. La col­ locazione di solus in apertura di verso pone in risalto l'arguzia della chiusa.

I I LA MUSA EPIGRAMMATI CA DI MARZIALE ·

quello della fiamma pallida dell'incenso orientale; quello di un terreno quando viene irrorato lievemente dalla pioggia estiva, quello di una ghirlanda che è stata in contatto con chiome madide di [nardo: tutti insieme, crudele fanciullo Diadumeno, li sprigionano i tuoi baci. E che sarebbe se li concedessi interamente, senza ritrosia?

to

XI 35 Avendo invitato trecento persone a me

sconosciute, ti meravigli perché, sebbene invitato, non vengo a cena da te e ti lamenti e fai storie. Da solo, Fabullo, non ceno volentieri.

XII 34 Ho trascorso trentaquattro estati con te, se ben ricordo, Giulio. In queste le gioie si sono mescolate alle amarezze, ma i momenti lieti sono stati piu numerosi; e, se ogni pietruzza da una parte e dall'altra si riparte a seconda dei due colori, il mucchio candido vincerà quello nero.

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xn 34· Bilancio di un'amicizia. In trentaquattro anni di amicizia con Giulio ci sono state gioie e tri­ stezze, ma le prime vincono sulle seconde. I.:unico modo per evitare le sofferenze è non stringere rapporti troppo stretti con nessuno: cosi si gioirà meno e si soffrirà meno. 1. Triginta. . . messes: l'amicizia con Giulio (vd. n. a v. 2) durò per trentaquattro anni quanto l'inte­ ro soggiorno di Marziale a Roma (64-98 d.C.): il numero di anni ricorre anche in x 103 7. 10410 (cfr. anche XII 31 7: postseptima lustra reverso). Messis ('mietitura') è metonimia per annus; per la prima vol­ ta in Ovidio, Her., 6 57, in Marziale ancora in 1 101 4; IV 78 t; VI 28 8, 70 1; x 103 7 (per l'uso di bruma, 'inverno' nella stessa funzione cfr. v 34 5). + 2. Iuli: Giulio Marziale, intimo amico del poeta, di cir­ ca dieci anni piu anziano, era forse un avvocato (cfr. v 20). Possedeva una villa sul laniculum ( Mon­ te Mario), fornita di una biblioteca (1v 64; vn 17). È apostrofato in molti epigrammi; spesso Mar­ ziale gli rivolge le sue riflessioni sul tempo e sulla vita beata (1 15; v 20; x 47). + 5-7. Allude all'usan­ za di segnare con una pietruzza bianca i giorni felici, con una nera quelli infelici, attribuita ai Tra­ ci (cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist., VII 13t), spesso ricordata nella poesia latina: cfr. Catullo, 68 148, 107 6; Orazio, Carm., 1 36 10; Sat., n 3 z46; Persìo, 2 1, 5 108; Stazio, Silv., IV 6 18; ìn Marziale - n pp. 496 sg.). È stato proposto il nome di Naucellio (Munari), ma l'ipotesi, almeno allo stato attuale, non è comprovata.

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VIII · L'EPIGRAMMA EPIGRAMMATA B OBIENSIA

45 IN DmoNis IMAGINEM EX GRAEco

Illa ego sum Dido vultu, quam conspicis, hospes, assimulata modis pulchraque mirifìcis. Talis eram; se d non, Mara quam mihi fìnxit, erat mens, vita nec incestis tacta cupidinibus: namque nec Aeneas vidit me Troius umquam, nec Libyam advenit classi bus Iliacis; sed furias fugiens atque arma procacis larbae servavi, fateor, morte pudicitiam, pectore transftxo, castus quod perculit ensis, non furor aut laeso crudus amore dolor.

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Epigrammafa Bobiensia. Tradotto da un originale greco datato alla prima età imperiale (Appendix Planudea, 151), l'epigramma proposto è formalmente un'autopresentazione di Didone, che si im­ magina apposta a un ritratto della regina. Ma l'aspetto descrittivo è pressoché assente (v. 1: conspi­ ds) e il componimento, che si configura come epigramma funerario, appare in realtà un gioco let­ terario e retorico, una palinodia sulla figura di Didone, tesa a riabilitare la donna e a proporla come eroina della fedeltà coniugale, in polemica con il celeberrimo racconto del suo infelice amore per Enea, concluso con il suicidio della regina cartaginese, che, come è noto, costituisce l'argomento del IV libro dell'Eneide di Virgilio (in modo analogo Epigr. Bob., 36, presenta, contro l'autorità di Omero, una Penelope adultera). E proprio nel raffinato rapporto di allusione contrastiva al testo di Virgilio risiede la qualità dell'epigramma. Il testo proposto è quello curato da W. Speyer (Leip­ zig, Teubner, 1963), a eccezione del v. 4· 45. Su un'immagine di Didone, da un epigrammagreco. La vera Didone. Quella che vedi, straniero, so­ no io: la famosa Didone. Questo era il mio volto, ma il mio animo non fu come lo ritrasse Virgi­ lio: Enea non mi vide mai, non giunse in Africa con la flotta. Fuggendo lo sfrenato !arba, ho trafit­ to il mio petto con una casta spada per salvare la mia pudicizia, non a causa del rancore per l'amo­ re ferito. La mia fama non è stata intaccata. Ho trovato la morte dopo aver vendicato il marito e fondato le mura della nuova città. Musa, perché mi hai scatenato contro Virgilio? Lettori, date ret­ ta agli storici e non ai poeti menzogneri! 1. flla ego sum: una comune formula epigrafica, diffusa anche in ambito letterario. + 3.jìnxit: in ac­ cezione negativa: cfr. anche v. 14. + 4. tacta cupidinibus: il codice vaticano ha laeta cupidinibus, conser­ vato da Munari e Speyer, che però crea problemi, poiché laeta appare decisamente inadatto a ca­ ratterizzare la vicenda della Didone virgiliana. Tra i vari tentativi congetturali (jeta ofoeda Peiper, iacta Baehrens) spicca laesa di Heinsius (recentemente riproposto da R.M. D'Angelo, all'interno di un accurato studio sull'epigramma e sul suo modello greco in « RPL », a. xxvm 2005, pp. 35-50). La proposta, vicinissima a laeta dal punto di vista paleografìco e attraente, non è però pienamente per­ suasiva perché costringerebbe all'equivalenza vita/fama, anticipando quanto espresso al v. 11: vixi sine vulnereJamae. Proporrei quindi tacta, comunque vicino al testo tràdito, che lascerebbe riaffìora-

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III · GLI EPIGRAMMATA BOBIENSIA G LI EPIGRAMMI B OBBIESI

45 Su uN'IMMAGINE m DmoNE, DA UN EPIGRAMMA GRECO Quella che vedi in immagine, straniero, sono io, la celebre Didone, rappresentata nella mia bellezza in modi mirabili.

Tale ero; ma non avevo il carattere che Marone ha inventato per me, né la mia vita è stata toccata da passioni non caste: infatti il troiano Enea mai mi vide, né giunse in Libia con la flotta di Ilio; ma fuggendo la furia e le armi dello sfrenato !arba, conservai la pudicizia, lo ammetto, con la morte, trapassandomi il petto, che colpi una casta spada, e non la furia amorosa o il dolore inasprito dall'amore ferito.

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re una raffinata allusione all'incipit del Mo nobib /os properziano (1 1 1 sg.) : Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis l contactum nullis ante eupidinibus: Didone affermerebbe cosi la propria estraneità al mondo elegiaco, in cui il racconto virgiliano l'aveva collocata. Tutto l'epigramma, e il verso in par­ ticolare, sembra inoltre contraddire esplicitamente quanto affermato dalla Didone virgiliana in Aen., rv 550 sg.: Non licuit thalami expertem sine crimine vitam l degere moreJerae, talis nec tangere cura.s ('Non mi è stato possibile vivere una vita priva del talarno, senza colpa, come una fiera selvatica, e non toccare tali affanni'). La iunctura tacta cupidine è attestata in Ovidio, Met., x 63 6 : cupiditle tacta; Trist., IV 5 11: tactus . . . eupidine laudis. + s-6. nec Aeneas. . . classi bus Iliacis: l'approdo di Enea sulle coste cartaginesi era impossibile secondo la cronologia tradizionale e giustificato con il ricorso alla.fictio poetica già da Servio (Ad Aen., I 267) . Troius Aeneas è iunctura virgiliana: cfr. Aen., I 596 ; VI 403; vn 221; ricorre quindi in Ovidio, Met., xrv 156. Cosf anche le classes fliacae sì trovano proprio nelle parole di Didone (Am., IV 537 sg.) : Iliaca.s igitur classis atque ultima Teucrum l iussa sequar?; cfr. anche v 607. + 7· sed Juria.s . . . procacis Iarbae: la notizia del suicidio di Didone per sfuggire alle minacciose richieste di ma­ trimonio dì Iarba è attestata da Giustino, xvm 6; anche qui la scelta lessicale è dettata dal contrasto con Virgilio, che invece usajùriae proprio per la passione rovinosa di Didone e per la sua follia sui­ cida: cfr. Am., rv 376 : heufuriis incensaJeror! ('ahimè, accesa dalle furie sono trascinata!') e 474 sg.: con­ cepitfurias evieta dolore l decrevitque mori ('vinta dal dolore concepf la follia e decise di morire'). + 8. ser­ vavi . . . mortepudicitiam: cfr. invece Virgilio, A m., lV 552: non serva/afides cineripromissa Sychaeo ('non ho serbato la fede promessa al cenere di Sicheo', verso ripreso da Dante nella presentazione di Dido­ ne in Inf, v 61 sg.: « l'altra è colei che s'ancise amorosa l e ruppe fede al cener di Sicheo »). + 9· ca.s­ tus . . . msis: nell'En eide invece Didone si suicida con la spada donatale da Enea (Iv 646 sg., 663 sgg.). Si veda anche l'autoepitafio della regina in Ovidio, Her., 7 197 sg. (= Fast., m 549 sg.): praebuit Aenea.s et causam mortis et ensem. l Ipsa sua Dido concidit usa manu ('Enea forni la causa della morte e la spada. Didone da sé, con le proprie mani, cadde'). + 10. nonfuror. . . dolor: cfr. invece Aen., IV 547: Quin mo­ rere ut merita es,ferroque averte dolorem ('Muori piuttosto come hai meritato, e allontana col ferro i l do­ lore'); 69 6 sg.: quia necfoto merita nec morte peribat, l sed misera ante diem subitoque accensafurore ('poiché né per fato, né per morte meritata moriva, ma infelice prima del tempo e accesa da improvviso fu-

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VIII · L'EPIGRAMMA

Sic cecidisse iuvat: vixi sine vulnere famae; ulta virum, positis moenibus, oppetii. Invida, cur in me stimulasti, Musa, Maronem, fìngeret ut nostrae damna pudicitiae? Vos magis historicis, lectores, credite de me, quam qui furta deum concubitusque canunt falsidici vates, temerant qui carmine verum humanisque deos assimulant vitiis.

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rore'); vd. anche 419; 433 sg.; 474 cit. Il verso allude a Ovidio, Tn'st., n 3 87 sg.: tingueret utferrum nato­ rum sanguine mater, l condtus a laesojèdt amore dolor ('fu il dolore provocato dall'amore ferito a far si che la madre (Medea] tingesse l'arma con il sangue dei figli'). + 11-12. vixi . . . oppetii: parole non dis­ simili da quelle solenni con le quali la Didone virgiliana traccia un bilancio della propria esistenza (Aen., IV 653-56): Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi, l et nune magna mei suh terras ibit imago. l Ur­ bem praeclaram statui, mea moenia vidi, l ulta virum poenas inimico aJratre recepi ('Ho vissuto e compiuto il percorso che la Sorte mi aveva dato, e ora il mio simulacro scenderà grande sotto terra. Ho fon­ dato una città illustre, ho visto mura mie, vendicando il mio sposo punii il fratello nemico'). + 16. jurta deum concubitusque: la polemica contro gli dei immorali di Omero ed Esiodo risale a Senofane

I I I · G LI EPIGRAMMA TA BOBIENSIA

Cosi mi piace esser venuta meno: ho vissuto senza ferite della fama; avendo vendicato il marito, innalzate le mura, incontrai la morte. Perché, Musa invidiosa, aizzasti contro di me Marone, perché inventasse un danno alla mia pudicizia? Voi, o lettori, su di me date retta piu agli storici che a quelli che cantano i furti e gli amplessi illeciti degli dei, i vari cantori di falsità, che profanano con la poesia il vero e plasmano dei con vizi umani.

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di Colofone (fr. 10-11 D.3):furta va inteso in senso proprio, piuttosto che in quello traslato di 'amo­ res clandestini' (cosi in Th/L, VI 1, col. 1650 20): cfr. Senofane, 11 3: xÀÉmnv xaì �otXEUEtV ('rubare e commettere adulterio'); Isocrate, Bus., 38: xÀonàç xaì �mxEiaç ('furti e adulteri'); vd. anche Varro­ ne, presso Agostino, Civ., VI 5· Concubitus allude certamente all'adulterio fra Marte e Venere, nar­ rato in Omero, Od., VIII 266-369, e famosissimo nell'antichità (cfr., ad es., Lucrezio, I 31-40; Virgi­ lio, Geotg., IV 345 sg.; Ovidio, Ars am., n 561-88; Met., IV 171-89) + 17.}àlsidici vates: la iunctura è provo­ catoriamente ossimorica, poiché vates è termine legato alla sfera sacrale e mette in risalto l'ispira­ zione divina del poeta: cfr. infatti Virgilio, Aen., VIII 340: vatisjàtidicae (di Carmenta). .

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IX LA FAVO LA

N OTA I NTRODUTTIVA

La favola come genere autonomo non esiste a Roma prima di Fedro, eppure già da tempo aveva fatto il suo ingresso nella poesia. Nell'Aulularia di Plauto (229-35) Euclione, per rappresentare la sua misera condizione a confronto del­ le ricchezze di Megadoro, paragona se stesso all'asino e Megadoro al bue. La morale, di chiaro sapore esopico, sarà poi fatta propria da Fedro: il debole non può contrarre sodetas con il potente e, se per caso vi si avventura, non solo ne farà le spese {l'asino aggiogato al bue non potendo sostenere lo stesso carico fi­ nirà nel fango), ma, dopo l'inevitabile insuccesso, sarà schernito e respinto da tutti (l'asino soccombente sarà preso a morsi dagli altri asini e a cornate dai buoi). Insomma per le classi subalterne non c'è altra scelta che rassegnarsi al proprio destino. Terenzio nell'Eunuchus {832) mette in bocca a Taide una bat­ tuta che doveva essere immediatamente chiara al suo pubblico per l'esplicito richiamo a una ben nota favoletta esopica, quando rimprovera alla schiava Pi­ tia di aver consegnato la pecora al lupo (fuor di metafora Panfìla a Cherea). La presenza piu significativa della favola è però nella satira. Come sappiamo da Gellio (Noct. Att., n 29 t) , già Ennio (Sat., 21-58 Vahlen2) aveva fatto riferi­ mento alla storiella dell'allodola, che si ritrova anche in Babrio (88) e in Avia­ no (21) , dalla chiara morale: ne quid exspectes amicos quod tute agere possies ('non aspettarti dagli amici ciò che puoi fare da solo'}. Lucilio a sua volta aveva utiliz­ zato {980-89 Marx) la favola esopica del leone malato e della volpe (147 Haus­ rath}, che grazie alla sua astuzia non cade nel tranello ordito ai suoi danni dal­ la belva. Ma chi, come si sa, fece un uso massiccio della favola fu Orazio nelle Satire, a cominciare da quella ben nota del topo di campagna e il topo dì città, che conclude la VI satira del II libro. I.: elenco delle favole in Orazio sarebbe ab­ bastanza lungo, ma per !imitarci a ricordare altrejàbellae non meno conosciute sì possono citare quella del corvo e della volpe (Sat., II 5 55 sg.) o quella della ra­ na e del bue (Sat., n 3 314-20} o quella della cornacchia e del pavone (Epist., I 3 18-20) o infine quella della vulpecula ingorda, che dopo l'abbondante pasto non riesce piu a uscire dalla cesta di frumento in cui si era cacciata (Epist., I 7 29-33) . La favola, come già in Grecia, trova spazio anche nella storìografia. Sì pensi p. es. all'apologo delle membra, presente in Livio, II 32 8-12, con cui Menenio Agrippa mette fine alla secessione della plebe. La novità di Fedro fu non solo quella di aver introdotto nella letteratura la­ tina un genere fino ad allora ad essa ignoto, ma di aver dato alla favola una ve-

IX · LA FAVOLA ste poetica, prediligendo il metro che era stato quello delle parti dialogate del­ la poesia scenica e della satura (I prol., 2: hanc [materiam] ego polivi versibus senariis). Anche in Grecia, del resto, la favola, prima che Esopo {VI sec. a.C.) ne facesse un genere a sé (ma in prosa), era stata assunta nella poesia. La fàvola "esopica" dell'aquila e della volpe (t Hausrath), p. es., si trovava circa un secolo prima del suo "inventore" in Archiloco (fr. 174 West), e noi sappiamo che la storiella era di provenienza babilonese. Sempre nel VII sec. Esiodo nelle Opere e i giorni (202-11) aveva narrato la vicenda dello sparviero e dell'usignolo per esemplifi­ care la sopraffazione dei violenti sui miti e gli indifesi. Il processo non si arresta neppure in seguito. Nell'Agamennone di Eschilo (716-36) Elena è assimilata al cucciolo di leone che un uomo si porta a casa per farne lo spasso della famiglia, ma che poi, una volta cresciuto, ne divora a uno a uno i componenti. Anche Aristofàne cita a piu riprese Esopo e utilizza le sue fà­ volette (Vespe, 566 sgg.; Uaelli, 471-75). Sul versante della storiografìa a ricorrere alla favola è Erodoto, che conosce il favolista Esopo come schiavo di un certo Iadmone (n 134 3-4) e attribuisce a Ciro un apologo (quello del pescatore che prima cerca di far approdare a riva i pesci suonando il flauto e poi, vista la vani­ tà di questo tentativo, ricorre alla brutalità della rete), col quale si vuol dimo­ strare agli Ioni e agli Eoli sconfitti che è ormai è arrivato il momento di passare alle maniere forti. Neppure Platone e Aristotele disdegnano la favola a scopo dimostrativo: il primo nell'Aldbiade (123a) introduce il racconto della tana del leone davanti alla quale le orme vanno in un solo senso, il secondo (Retorica, n 20) narra la favola del cavallo e del cervo, che egli attribuisce a Stesicoro. Dunque quando Fedro si accinge al suo lavoro la &vola aveva alle spalle una lunga tradizione ed era da tempo entrata nella letteratura. Fedro però rivendi­ ca a sé il merito di aver dato vita e dignità artistica a un genere poetico che non aveva esempi in Grecia e a Roma (- I p. 341). Il suo modello, come egli stesso dichiara nel primo proemio, è Esopo, che gli fornisce la materia, ma la sua au­ tonomia nei confronti dell'auctor, notevole fin dall'inizio, culmina nel proemio del IV libro (- 11 p. 109), dove, ormai non piu interpres ma aemulus, può vantarsi di aver accresciuto rispetto ad Esopo i temi favolistici e innovato un genere an­ tico (vv. 12 sg.: ego plures lfàbellas)fero l usus vetusto genere, sed rebus novis). La morale di Fedro (dichiarata nel promythion o nell'epimythion di ogni favo­ la, o talvolta in entrambe le sedi) è una morale rinunciataria, fondamental­ mente pessimistica, quella degli emarginati sociali (_,. I p. 341), ma è bene non insistere troppo su questa riduttiva caratterizzazione, perché molte delle ri­ flessioni morali del poeta si possono estendere all'intera umanità: il mondo ha

NOTA INTRODUTTIVA

le sue leggi e sarebbe velleitario opporvisi. A reggere il gioco sono i violenti e i sopraffattori, che esercitano le loro prevaricazioni sui piu deboli, ai quali non resta, per difendersi, che opporre alla prepotenza le armi della diffidenza, del­ l'astuzia e dell'intelligenza. Una parte considerevole delle favole prende di mi­ ra vizi e debolezze umane, principalmente l'avidità, la vanagloria, la viltà, l'i­ pocrisia, contro cui mette in guardia il poeta, che profonde a piene mani sug­ gerimenti e consigli, sia pure con la consapevolezza che essi saranno inutili per­ ché le uniche persone in grado di farne tesoro, i sapientes, in realtà non ne han­ no bisogno, mentre i rudes, cioè la maggior parte degli uomini, continueranno a perseverare nell'errore. D'altra parte se l'uomo preso singolarmente è mal­ vagio, la folla nel suo insieme è facilmente suggestionabile e incapace di auto­ nomo giudizio. Questo atteggiamento del poeta nei confronti dell'umanità è probabilmente all'origine dell'incomprensione da parte del grande pubblico, al quale peraltro, per sua stessa ammissione, la sua poesia non era diretta (- m p. 109). Ma neppure la critica fu benevola con lui, come apprendiamo fin dal primo proemio. Non è dunque un caso se non ebbe successo neanche nelle scuole: Quintiliano (Inst. or., I 9 2), che pure raccomanda algrammaticus la lettu­ ra delle Aesopijàbellae, certo per il loro valore pedagogico (- n p. 442) , non tro­ va il modo di fare il nome di Fedro. Le favole toccano molti altri temi, considerato che caratteristica della poesia di Fedro è, accanto alla brevitas (peraltro non assoluta: m 10, la favola piu lunga, raggiunge i sessanta versi), la varietas. Molte di esse non hanno una vera e pro­ pria morale, ma trovano la loro giustificazione nel piacere della narrazione, che tocca argomenti svariati: aneddoti, racconti a sfondo etiologico, miti inter­ pretati in chiave burlesca, ecc. Celebre è la novella della matrona di Efeso (App., 15), che, se non si può dire del tutto priva di morale, condizionata com'è dalla prospettiva decisamente misogina, molto concede a questo gusto (tutt'al­ tra cosa è, naturalmente, l'arte rivelata da Petronio [111-12) nell'affrontare lo stesso tema). Il linguaggio della favola esigeva chiarezza ed essenzialità ed è per questo che Fedro attinge dalla lingua della commedia (Terenzio) e della satira (Ora­ zio). Il tono colloquiale è testimoniato dalla presenza di volgarismi, di greci­ smi, di diminutivi, il che non esclude il ricorso a termini e locuzioni della lin­ gua epica per determinati fini espressivi. Sull'esile tema della favola Fedro ha saputo dunque costruire un'opera sapiente per contenuto e per forma e valo­ rizzare un genere "minore" segnando un cammino destinato a rivelarsi frut­ tuoso nei secoli.

IX · LA FAVOLA

Dopo di lui si metterà infatti sulla sua scia Aviano in un'epoca imprecisabi­ le che oscilla fra il IV e il VI sec. Non si sa infatti con certezza chi sia il Teodo­ sio a cui è dedicata l'epistola prefatoria e che è stato identificato di volta in vol­ ta con Teodosio I (347-395 d.C.), con Teodosio II (401-450 d.C.) e con Macrobio Ambrogio Teodosio, l'autore dei Saturnali, la cui cronologia è incerta. Suoi pre­ cursori dichiarati sono, oltre ad Esopo, divinamente ispirato (responso Delphici Apollinis monitus) , Socrate e Orazio da un lato, Babrio e Fedro dall'altro. La scelta del distico elegiaco per le quarantadue favole della sua raccolta è una netta e consapevole presa di distanza sia da Babrio, autore di Graeci iambi, che da Fedro, di cui ricorda i quinque libelli senza accennare al metro (questo ha fat­ to sospettare che Aviano conoscesse Fedro solo attraverso parafrasi prosasti­ che). Lo scenario delle favole avianee è quello tradizionale fin da Esopo: il mondo è governato dai potenti a cui è giocoforza soggiacere, tuttavia con una rassegnazione per cosi dire obbligata, che nulla ha dell'amara indignazione di Fedro. I soggetti delle favole si rifanno per lo piu aBabrio, che potrebbe anche essergli stato noto attraverso una versione latina: da lui Aviano ricava inoltre il tono garbato della narrazione, a cui concorre anche la ricerca di eleganza per­ seguita colle aggraziate movenze del distico elegiaco, che consente al poeta l'i­ mitatio-aemulatio degli autori classici entrati nella sua formazione, da Virgilio a Ovidio, da Properzio a Orazio. BIBLIOGRAFIA. Bibliografia: P. Carnes, Fable scholarship. An annotated bibliography, New York, Garland, 1985. Studi: A. Hausrath, Fabel, in RE, XII (1909), coli. 1704-36; D. Bieber, Studien zur Ge­ schichte der Fabel in den ersten ]ahrhunderten der Kaiserzeit, Berlin, Simion, 1906 ( Diss. Miinchen, 1905); O. Crusius, Aus der Geschichte der Fabel, in C.H. Kleukens (cur.) , Das Buch der Fabeln, Leipzig, Insel-Verlag, 19202 (19131), pp. I-Lxi; W Wienert, Die Typen der griechisch-romischen Fabel, Helsinki, Akademia Scientiarum Fennica, 1925; A. La Penna, La morale dellafavola esopica come morale delle classi subalterne, in « Societas », a. xvn 1961, pp. 459-537; Id., Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese, in « RFIC >>, a. xcn 1964, pp. 2439; M. N0jgaard, LaJable antique, I-n, K0benhavn, Busck, 1964-1967; L. Koep, Fabel, in RAC, VII (1969), coli. 129-54; L. Hervieux, LesJabulistes latins depuis le siècle d'Augustefus­ qu'à la.fin du moyen age, Hildesheim-New York, Olms, 1970 (rist. dell'ed. Paris, s.n., 18841899); M. Pugliarello, Le origini dellafavolistica classica, Brescia, Paideia, 1973; C.G. Gual, Lafabula es6pica: estructura e ideologia de un género popular, in Estudios ofrecidos a E.A. Llorach, Oviedo, Univ. de Oviedo, 1976, I pp. 309-26; E. Campanile, Ennio ed Esopo, in Studi di poesia latina in onore di A. Traglia, Roma, Storia e Letteratura, 1979, I pp. 63-68; F.R. Adra­ dos, The Life ofAesop and the Origin oJNovel in Antiquity, in , a. LX 1951,pp. 101-36; F. Stoessl, Catuli alsEpigrammatiker, in « WS », a. LXX 1957, pp. 290305; G. Lieberg, Puella divina. Die Gesta/t dergottlichen Geliebten bei Catuli im Zusammenhang der anti­ ken Dichtung, Amsterdam, Schippers, 1962; K.F. Quinn, Docte Catulle, inJ.P. Sullivan (cur.), Criticai Essays on Roman Literature, 1. EleKJ and Lyric, London, Routledge & Kegan Paul, 1962, pp. 31-63; E. Schafer, Das Verhiiltnis von Erlebnis und Kunstgestalt bei Catull, Wiesbaden, Steiner, 1966; C. Deroux, À propos de l'attitudepolitique de Catulle, in « Latomus », a. XXIX 1970, pp. 608-31; M. Citroni, Funzione comunicativa occasiona/e e modalità di atteggiamenti espressivi nella poesia di Catullo, in « SIFC », a. L 1978, pp. 90-115; a. LI 1979, pp. 5-49; Id., Destinatario e pubblico nella poesia di Catullo: i motivifunerari {carmi g6, 101, 68, 65), in « MD », n. II 1979, pp. 43-100; R.F. Thomas, Catullus and the Polemics ofPoetic Rifer­ ence, in « AJPh >>, a. CIII 1982, pp. 144-64; B. Arkins, Sexuality in Catullus, Hildesheim, Olms, 1982; J.B. Solodow, Forms ofLiterary Criticism in Catullus: Polymetric vs. Epigram, in « CPh >>, a. LXXXIV 1989, pp. 312-19; N. Criniti (cur.), Catullo e Sirmione: società e cultura della Cisalpina allesoglie dell'impero, Bre­ scia, Grafo, 1994; G. Maselli, Affari di Catullo. Rapporti di proprietà nell'immaginario dei Carmi, Bari,

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Bibliografie e rassegne bibliografiche: M. Coffey, ]uvenal 1941-1961, in « Lustrum », a. vm 1963, pp. 161-215; R. Cuccioli Melloni, Otto anni di studigiovenaliani, in « BStudLat », a. v11 1977, pp. 61-87. Edizioni: O.Jahn-F. Buecheler-F. Leo (Berlin, Weidmann, 19104); AE. Housman (Cambridge, Univ. Press, 19312 [19051]); P. de Labriolle-F. Villeneuve (Paris, Les Belles Lettres, 1921 [2002, riv. O. Sers]); U. Knoche (Miinchen, Hueber, 1950); W.V. Clausen (Oxford, Univ. Press, 19922 [19591, con Persio]);J. Willis (Stuttgart-Leipzig, Teubner, 1997); S.M. Braund (Cambridge [Mass.]-Lon­ don, Harvard Univ. Press [Loeb, con Persia], 2004). Ed. degli scoli: P. Wessner, Scholia in Iuvenalem vetustiora, Leipzig, Teubner, 1931. Commenti integrali: L. Friedlaender (Leipzig, Hirzel, 1895 [rist. Amsterdam, Hakkert, 1962; Darmstadt, WBG, 1967]);]. Ferguson (New York, St. Martin's Press, 1979); E. Courtney (London, The Athlone Press, 1980). Commenti parziali: JE.B. Mayor, Thirteen Satires ofjuvenal, London­ New York, Macmillan, 1886-18884 (18531, eccetto 2, 6 e 9);].D. Duff (Cambridge, Univ. Press, 1898 [197ol, con intr. di M. Coffey, mancano 2, 9 e parte della 6]); R. Marache (Paris, PuF, 1965 [3, 4, 5]); N. Rudd-E. Courtney (Bristol, Bristol Classica! Press, 1977 [1, 3, 10]); S.M. Braund (Cambridge, Univ. Press, 1996 [1. I: Sat. 1-5]); R. Cuccioli Melloni (Bologna, Coop. Libraria Universitaria Ed., 1988 [Sat. 5, con trad.; vd. F. Bellandi, Sulla satira quinta di Giovenale (in margine a un recente commento), in « BStudLat », a. xx 1990, pp. 84-109]); F. Bellandi, Giovenale. Contro le donne (Satira VI}, Venezia, Marsilio, 1995 (con trad.); A. Luisi, Il rombo e la vesta/e: Giovenale, Satira IV, Bari, Edipuglia, 1998 (con trad.); P. Campana (Firenze, Le Monnier, 2004 [Sat. 1o, con trad.]); A. Stramaglia, Giovenale, Satire 1, 7, 12 e 16. Storia di un poeta, Bologna, Pàtron, 2007 (con trad.). Trad. italiane: E. Barelli (Milano, Rizzoli, 1976); P. Frassinetti-L. Di Salvo (Torino, UTET, 1979 [con Persia]); G.Viansino (Milano, Mondadori, 1990). Lessici, concordanze, indici: L. Kelling-A. Suskin (Chapel Hill, The Univ. ofNorth Carolina Press, 1951); M. Dubrocard (Hildesheim-New York, Olms, 1976). Studi generali: C. Marchesi, Giovenale, Roma, Formiggini, 1921; P. De Labriolle, Les satires de]u­ vénal. Étude et analyse, Paris, Mellottée, 1932; U. Knoche, Die riimische Satire, Gottingen, Vanden­ hoeck & Ruprecht, 19824, pp. 88-97 (= trad. it., La satira romana, Brescia, Paideia, 1970, pp. 171-89); G. Highet,Juvenal the Satirist, Oxford, Univ. Press, 1954;]. Adamietz,Juvenal, in Die riimische Satire, pp. 231-307; R. Marache,Juvenal -peintre de la société de son temps, in ANRW, n 33/1 (1989), pp. 592639; E.S. Ramage,Juvenal and the Establishment. Denigration ojPredecessor in the 'Satires� ivi, pp. 640707; D.S. Wiesen, The Verba/ Basis cifjuvena/'s Satiric Vision, ivi, pp. 708-33;]. Baumert, Identifìkation und Distanz: Bine Etprobung satirischer Kategorien bei]uvenal, ivi, pp. 734-69; L. Braun,Juvenal und die Uberredungskunst, ivi, pp. 770-810; W.S. Smith, Heroic ModelsJòr the Sordid Present:]uvena/'s View cif Tragedy, ivi, pp. 811-23; W.Th. Wehrle, The Satiric Vclice: Program, Form and Meaning in Persius andJuve­ nal, Hildesheim, Olms-Weidmann, 1992;].R.C. Martyn,Juvenal: A Farrago. A Collection cifArticles on the Satires oj]uvenal and on Roman Satire, Amsterdam, Hakkert, 1996; V. Rimell, Giovenale. Lafine del­ laforma satirica, in K. Freudenburg-A. Cucchiarelli-A. Barchiesi (curr.), Musa pedestre: storia e inter­ pretazione della satira in Roma antica, Roma, Carocci, 2007, pp. 99-114.

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S CH E D E B I O - B I BL I O G RA F I C HE

Su aspetti specifici: J de Decker,Juvenalis declamatls. Étude sur la rhétorique déclamatoire dans les 'Sa­ tires' deJuvenal, Gand, van Goethen, 1913; W.S. Anderson, The Programs of]uvenal's Later Books, in « CPh », a. LVH 1962, pp. 145-60 (rist. in Id., Essays on Roman Satire, Princeton, Univ. Press, pp. 27r 92); Id., Angerin]uvenal and Seneco., « Univ. of California Pubi. in Class. Philol. », n. XIX 1964, pp. 12r 96 (= Id., Essays on Roman Satire, cit� pp. 293-361); V. Tandoi, Giovenale e il mecenatismo a Romafra I e II secolo, in « A&R », n.s., a. xm 1968, pp. 125-45 (anche in Id., Scritti di.filologia e di storia della cultura clas­ sica, Pisa, Giardini, 1992, II pp. 784-801}; Id., Il ricordo di Stazio dolce poeta nella Sat. VII di Giovenale, in « Mai a » , a. xx1 t969, pp. 103-22 (= Id., Scritti difilologia, cit., n pp. 802-17) ;]. Adamietz, Untersuchun­ gen zuJuvenal, Wiesbaden, Steiner, 1972; F. Be!landi, Poetica del/'indignatio e sublime satirico in Giove­ nale, in « ASNP », s. m, a. m 1973, pp. 53-94; Id., Giovenale e la degradaziotze della clientela (interpretazio­ ne della sat. VI�, in Fragments ojJuvenal's Sixth Satire, in « Hermes », a. xci 1963, pp. 104-14; G. Luck, Tfze Textual History ifjuvenal and che OxfordLines, in « HSPh », a. LXXV1 1972, pp. 2lr3t; G. Laudizi, l/frammento Winstedt, intt., testo, trad. e comm., Lecce, Adriatica cd., 1982. Sulla tradizione manoscritta: U. Knoche, Handschrifiliche Gnmdlagen des]uvenaltextes, in « Philo­ logus », SuppL xxxm/I, Leipzig, Dieterich, 1940; E. Courtney, The transmission of]uvenal's text, in « BICS », a. xiv 1967, pp. 38-50; Id., Theinterpolations in]uvenal, ivi, a. xxii 1975, pp. 14r62; EAC� 1 pp. 553-97; R.J Tarrant,Juvenal, in TT, pp. 200-3. Sulla fortnna: S. Citroni Marchetti, Reminiscenze giollenaliane nel Parin� in « A&R », n.s., a. XXII 1977. pp. 26-36; Ead., Alfieri e la satira latina, in « Maia >> , a. xxx1 1979, pp. 151-67; V.S. Durov, Lafortuna di Giovenale in Russia, in « A&R », n. s., a. xxv 1 980, pp. 51-56.

S C H E D E B I O -BI B L I O GRAFI C H E

G RATTI O l:unica testimonianza antica su Grattio è quella di Ovidio (Pont., rv 16 34), che in un catalogo di poeti operanti a Roma prima della sua relegazione a Tomi ricorda un

Grat­ tius ( Gratius i codici, ma Grattius è attestato epigraficamente, come per primo osservò il Buecheler), che con la sua poesia 'fornisce strumenti idonei al cacciatore' (cum . . . apta . . . verwnti Grattius arma daret). È evidente in Ovidio l'intento di rendere omaggio all'autore del Cynegeticon, in quanto la citazione ne riecheggia un verso (Cyn., 23: carmine et arma da­ bo et venandi persequar artes). Meno chiara l'allusione contenuta nel precedente verso ovi­ diano, in quanto mal tramandato. Chi lo legge secondo la ricostruzione di Owen (33:

[cum] Tityron antiquas pastorem exdret ad herbas, 'spingendo il pastore Titiro verso l'antica verzura'} è indotto a credere che Grattio avesse composto anche delle Bucoliche di tipo virgiliano. Quanto alla patria si è supposto che fosse originario di Falerii, dato che nel citare varie qualità di lino adatto a confezionare reti per la cattura della selvaggina il poeta ricorda quello, invero di scadente qualità, proveniente dal territorio dei Falisci, che egli definisce nostri ( Cyn., 40: nostris imbellia lina Falisds). l:ipotesi è tutt'altro che si­ cura. Per quanto riguarda la cronologia, l'opera di Grattio è da collocare in senso lato in età augustea, certo dopo Azio (31 a.C.), dato che al v. 312 si allude alla fine dei re egizia­ ni (vd. p. 241}, e prima dell'esilio di Ovidio (8 d.C.}, considerato che Ovidio attesta che Grattio gli era noto, insieme ad altri poeti contemporanei, quando ancora 'era tra i vivi', cioè quando era ancora a Roma (Pont., rv 16 4: cum vivis adnumerarer). I due principali testimoni che tramandano il Cynegeticon di Grattio sono gli stessi che hanno preservato gli Halieutica ovidiani, cioè Wien, Osterreichische Nationalbiblio­ thek, 277 degli inizi del sec. IX e Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 8071 (appartenuto al de Thou e perciò detto

Thuaneus)

del IX-X, che generalmente si ritiene derivato dal

pnmo. Edizioni: E. Baehrens (PLM, I Baeh. [1879]); J.P. Postgate (Corpus Poetarum Latinorum, n, Londi­ ni, Sumptibus Beli et filiorum, 1900); G. Curcio (Poeti latini minori, 1 1, Acireale, 1902); F. Volhner (PLM, 11 1 Voll. [1911]); PJ. Enk (Zutphaniae, apud WJ. Thieme & Oe, 1918);].W. Duff-A.M. Duff (Minor Latin Poets, Cambridge [Mass.]-London, Harvard Uuiv. Press-W. Heinemann Ldt., 19352); C. Fmmicola (Bologna, Pàtron, 1988). Concordanza: C. Formicola (Bologna, Pàtron, 1988). Studi: EJ. Kenney, Grattiana, in « CR » , a. xv 1965, pp. 13-16; G. Baligan, Ilpoeta Gratius (1, in « Vi­ chiana », a. v 1968, pp. 21-48; P. Parroni, Gratt. 'Cyn.' 399-401, in « RFIC », a. CI 1973, pp. 203-6; G. Orlandi, Sulla discussa cronologia del 'Cynegeticon' di Grattio, in « RIL », a. ex 1976, pp. 212-21; C. For­ Inicola, Note al testo del 'Cynegeticon' di Grattio, in « Vichìana », a. xrv 1985, pp. 131-65; L. Zurli, Grattio, Virgilio e il 'sandyx Lihycus', in « G I F ,;, a. xL 1988, pp. 231-36; A. De Vivo, Ilproemio del 'Cynegeticon Li­ ber' di Grattio, in Prifazioni, prologhi, proemi, n pp. 749-65; C. Formicola, Rassegna di studi grattiani, in « B StudLat », a. XXIV 1994. pp. 156-86; Id., Il pirrichio nel 'Cynegeticon' di Grattio, in « Orpheus », a. XVI 1995, pp. 397-416; Id., Studi sull'esametro del 'Gynegeticon' di Grattio, Napoli, Loffredo, 1995;]. Hender­ son, Going to the dogs, in « PCPhS », a. XLVII 2001, pp. t-22; Chr. Schubert, Bemerkungenzum Proiim der 'Cynegetica' des Grattius, in « "WJA », n.s., a. XXVIII 2004, pp. 91-104.

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SCHEDE BIO-BIBLIOGRAFICHE LUCANO Le notizie biografiche su Marco Anneo Lucano derivano essenzialmente dalla Vita che risale, con ogni probabilità, al De poetis di Svetonio e da quella che la tradizione at­ tribuisce al tardo grammatico Vacca {di scarso peso appare invece una terza biografia, costtuita sulla falsariga della prima da un anonimo scoliasta). Nato nel 39 d.C. a Cordo­ va da Anneo Mela, fratello di Seneca, Lucano fu da subito a Roma, dove, date le dispo­ nibilità economiche della famiglia, venne avviato alla scuola dei migliori maestri del tempo. Allievo, insieme a Persio, di Anneo Cornuto, frequentò gli ambienti letterari di tendenze stoiche ed emerse fin da giovanissimo per brillantezza d'ingegno. La fama della sua bravura, anche grazie alla preziosa guida dello zio Seneca, precettore di Nero­ ne, giunse ben presto alle orecchie del prindpe, che lo ammise nella cerchia degli ami­ d, favorendone una precoce carriera politica che lo vide questore, poi membro del col­ legio degli auguri. La sua ascesa fu interrotta dalla rottura con l'imperatore, in coind­ denza del progressivo allontanamento di Seneca dalla politica autocratica e antisenato­ ria del principe, piuttosto che della sua insofferenza o delle frustrate ambizioni lettera­ rie di Nerone, come suggeriscono, rispettivamente, la Vita svetoniana e quella dello pseudo-Vacca. Di certo egli ebbe contatti con Pisone e fu in qualche modo partecipe della congiura da quello ordita contro l'imperatore, anche se, quando il complotto fu scoperto, cercò di prenderne le distanze, giungendo persino a denunciare, secondo il racconto di Tacito (Ann., xv 56) , la madre Acilia, estranea ai fatti. Il disonorevole gesto, confermato da entrambe le biografie e forse collegabile a un accenno sui suoi dissensi con i genitori nella Vita svetoniana, non lo salvò dall'ira del principe, ma fu riscattato dalla stoica rassegnazione con cui egli, raggiunto dall'ordine di uccidersi, affrontò la lenta agonia della morte, declamando fino alla fine i propri versi (65 d.C.). Qualche an­ no piu tardi il suo nome sarebbe stato onorato dal ricordo di Marziale (xiV 194 e vii 22) e dalle parole indirizzate da Stazio alla fedele vedova Polla Argentaria (Silv., II 7). Personalità dall'eccezionale precocità artistica, Lucano deve la sua fama al Bellum d­ vile, il poema dd quale, come risulta dalla Vita di Vacca, in vita riuscf a pubblicare sola­ mente tte dei dieci libri a noi giunti. Seppure incompiuta, l'opera ebbe vasta e imme­ diata risonanza e fu destinata a lasciare una traccia profonda anche in coloro che, come gli epici flavi, paiono seguire piu da vicino il tradizionale indirizzo "virgiliano". Alla du­ ratura memoria del poema corrispose l' effunero successo di altre composizioni, oggi perdute, testimoni della sua straordinaria versatilità e dell'adesione al gusto neroniano per una letteratura di mero inttattenimento. Accanto a prove di poesia epigrammatica e lirica (una raccolta di componimenti vari dal titolo, poi ripreso da Stazio, di Silvae) e a divagazioni librettistiche di pantomime (quattordidfobulae salticae), nelle biografie an­ tiche è fatta menzione anche di opere di maggiore impegno, come una tragedia in­ compiuta (Medea) e due epilli (Catacthonion e Orpheus), dai quali trapela la curiosità del­ l'autore per l'escatologia orfica e pitagorica. Alla morte di Ettore e al riscatto del suo ca­ davere era probabilmente dedicato il carme Iliacon, cosf come all'incendio dì Roma il poemetto (ma per alcuni la prosa} De incendio urbis. A un periodo precedente la clamo811

SCHEDE B I O-BIBLI OGRAFICHE

rosa rottura con il principe appartengono le Laudes Neronis, con le quali nel 6o d.C. par­ tecipò al concorso poetico da quello istituito (i Neronia). Nulla rimane del carme diffa­ matorio contro l'imperatore, attribuitogli dall'aneddotica. La novità dell'epos lucaneo fu avvertita già dagli antichi, in parte con ammirazione (Marziale, Stazio), in parte, invece, con critiche (Quintiliano, Petronio, Servio), ma sempre suscitando interesse (a commenti tardoantichi risalgono, infatti, gli scolii che prendono il nome di Adnotationes super Lucanum e quelli che, per essere contenuti in un codice di Berna, sono noti come Commenta Bernensia). La diffusione del poema è con­ fermata dall'ampiezza della tradizione manoscritta, nella quale si distinguono piu di 400 testimoni, inclusi i frammenti di tre libri antichi (IV-V sec.) e cinque manoscritti del IX sec. Al Bellum civile attinsero largamente, nei secoli, scrittori cristiani e medieva­ li (Dante pone Lucano tra i maggiori poeti in Inf, rv 90), ma anche autori di età umani­ stica (Poliziano) e moderna che, in qualche caso, si esercitarono nel « completarlo » (cosi nel 1640 furono editi dall'inglese Thomas May i sette libri del Supplementum Luca­ ni), piu spesso a ricalcarne temi, motivi e idee (Corneille, Voltaire, Goethe e Foscolo). La fortuna di Lucano cominciò a declinare solo nel Romanticismo che, non apprez­ zando gli eccessi del suo stile, spesso rivolto alla ricerca forzata dell'espressione elo­ quente e concettosa, sottovalutò anche l'intensa tensione drammatica della sua origina­ le epopea. Rassegne bibliografiche: R. Helm, in « Lustrum », a. I 1956, pp. 163-228; W. Rutz, Lucan 19431963, ivi, a. Ix 1964, pp. 243-334 (Nachtrag, ivi, a. x 1965, pp. 246-56); Id., Lucan 1964-1983, ivi, a. xxvi 1984, pp. 105-203; a. xxvn 1985, pp. 149-66; Id., Lucans 'Pharsalia' im Lichte derneuesten Forschung, mit ei­ nem bibliografischen Nachtrag 1979-1982 vom Veif. und 1980-1985 von H. Tuitje, Giittingen, in ANRW, n 32/3 (1985), pp. 1457-537; M.A. Vinchesi, Gli studi recenti su Lucano: risultati e prospettive, in « A&R », n.s., a. xx 1975, pp. 135-58. Bibliografia in continuo aggiornamento nella « Lucan-Homepage » del­ la Johannes Gutenberg-Universitat Mainz (www.klassphiLuni-mainz.dei18Lphp), a cura di C. Walde-A. Ambiihl-C. Finiello (Das Basler Lucan-Projekt). Ed. critiche: C. Hosius (Leipzig, Teubner, 19133 [18921; 19052]; con Fragmenta, Vitae, Argumenta li­ brorum); A.E. Housman (Oxford, Blackwell, 1926, con note di commento in apparato); A. Bour­ gery-M. Ponchont (Paris, Les Belles Lettres, 1926-1930, rist. a cura di P.Jal, Livres I-v, ivi, id., 19972; Livres VI-x, ivi, id., 19936); D .R. Shackleton Bailey (Stuttgart, Teubner, 19972 [19881]); E. de Dulce (Torrej6n de Ardoz, Akal, 1989); R. Badali (Roma, Ist. Poligrafico, 1992); G. Viansino (con trad. e comm., Milano, Mondadori, 1995). Trad. integrali con note di commento: D. Little (Dunedin, Univ. of Otago Press, 1989); S.H. Braund (Oxford, Univ. Press, 1992);].W. Joyce (Ithaca [N.Y]., Cornell Univ. Press, 1993); R. Badali (Milano, Garzanti, 1999). Commenta Bernensia: H. Usener (Leipzig, Teubner, 1869; rist. Hildesheim, Olms, 1967). Adnotationes super Lucanum: J. Endt (Leip­ zig, Teubner, 1909; rist. Hildesheim, Olms, 1969 ); G.A. Cavajoni, Supplementum Adnotationum super Lucanum (I-II, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1979-1984; m, Amsterdam, Hakkert, 1990). Ed. commentate e commenti a singoli libri del Bellum civile: L I: D. Gagliardi (Napoli, D'Auria, 1989); P. Lacroix-Y. Quintin (Paris, SE DES, 1996); L n: F.H.M. Van Campen (Amsterdam, Gieben, 1991); E. Fantham (Cambridge, Univ. Press, 1992); L m: V. Hunink (Amsterdam, Gieben, 1992); IL I­ m: R. Malchow (Karlsruhe, R. Malchow, 2000); L Iv: P. Esposito (Napoli, Loffredo, 2009); L v: P. Barratt (Amsterdam, Hakkert, 1979, senza testo); L VI (parziale): M. Korenjak (Die Ericthoszene in Lukans 'Pharsalia', Bern-Frankfurt a.M., Lang, 1996); G .B. Conte (Saggio di commento a Lucano. 'Pharsa-

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S CHEDE BI O-BIBLIOGRAFICHE

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'

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salia' IX 1-24; 186-217), un verso di Dante ('Farad.'xxri 135) e il senso delle allusioni a Lucano in due epigram­ mi di Marziale (1x]4; XI 5), in « MH », a. LVIII 2001, pp. 70-92; C. Walde, Caesar, Lucan's 'Bellum Civi­ le; and theirreception, in M. Wyke (cur.),Julius Caesar in Western Culture, Oxford, Blackwell, 2006, pp. 45-61. Supplementum Lucani dì T. May: ed. critica con trad. e commento di B. Backhaus (Trier, WVT, 2005).

LUCILIO Le coordinate biografiche di Gaio Lucilio non sono certe: la data di morte è di sicu­ ro il 102 a.C., ma quella di nascita è incerta, perché secondo s. Girolamo egli sarebbe vis­ suto 46 anni e nato pertanto nel 148 a.C. Ma questa data è troppo bassa per rendere ra­ gione di alcuni dettagli della sua biografia: avrebbe partecipato con Scipione Emiliano all'assedio di Numanzia (133) a soli quindici anni e sarebbe stato estremamente precoce come poeta. È però possibile che s. Girolamo sia stato fuorviato dalla quasi omonimia tra i consoli del 148 e quelli del 18o, data piu plausibile per la nascita di Lucilio. Altri in­ fine sostengono la data intermedia del t68i167 a.C. Proveniente da una famiglia benestante originaria di Sessa Aurunca nella Campania settentrionale, militò come eques nella guerra numantina agli ordini di Scipione Emilia­ no. A Roma fu legato al "circolo scipionico". Sebbene intimo di Scipione Emiliano e Lelio, non prese mai parte alla vita pubblica. Non sappiamo granché sugli anni piu avanzati della sua vita. La sua satira ebbe cultori appassionati anche in età imperiale e non solo tra gli arcaiz­ zanti (...... m p. 552 sg.; cfr. Quintiliano, Inst. or., x 1 93 sg.; Marziale, XI 90 3 sg.; Tacito, Dial., 23 2). Numerosi frammenti delle sue satire sono citati dai grammatici, dagli scrittori di metrica, dai commentatori; in particolare ne tramanda molti il De compendiosa doctrina di Nonio Marcello (IV sec.). Rassegna bibliografica: J. Christes, Lucilius. Ein Bericht uber die Forschung seit F. Marx (1904!5), in ANRW, 1 2 (1972), pp. 1182-239. Edizioni: F. Marx (Leipzig, Teubner, 1904-1905 [rist. Amsterdam, Hakkert, 1963]); N. Terzaghi-I. Marìotti (Firenze, Le Monnier, 19663 (19341 del solo Terzaghi]); E.H. Warnùngton (ROL, m pp. 1423); W Krenkel (Berlin,Akad. Verl., 1970); F. Charpin (Paris, Les Belles Lettres, 1978-1991). Ed. par­ ziali: G. Garbugino, II xxx libro di Ludlio, in Studi Nonian� x, Genova, DARFICLET, 1985, pp. 45-173 (con comm.) ; Ead., IlXXVI libro di Ludlio, in Studi Nonian� xm, ivi, id., 1990, pp. 129-236 (con trad. e comm.).

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SCHEDE BIO-BIBLIOGRAFICHE Indici e concordanze: L. Berkowitz-Th.F. Brunner (Hildesheim, Olms, 1968); A. Chahoud (Hildesheim, Olms-Weidmann, 1998). Studi generali: C. Cichorius, Untersuchungen zu Lucilius, Berlin, Weidmann, 1908; N. Terzaghi, Luci/io, Torino, « I.:Erma » di Bretschneider, 1934 (rist. Hildesheim-New York, Olms, 1979); M. Puelma Piwonka, Lucilius und Kallimachos, Frankfurt a.M., Klostermann, 1949 (rist. New York­ London, Garland, 1978); I. Mariotti, Studi luciliani, Firenze, La Nuova Italia, 1960; A. La Penna, Aspetti e conflitti della cultura latina dai Graahi a Silla, in « DArch », aa. IV-V 1970-1971, pp. 193-211 (= Id., Fra teatro, poesia epolitica romana, Torino, Einaudi, 1979, pp. 105-25);]. Christes, Lucilius, in Die romi­ sche Satire, pp. 57-122; G. Manuwald (cur.) , Der SatirikerLucilius und seine Zeit, Mtinchen, Beck, 2001; K. Freudenburg, Satires ojRome: Threatening Posesfrom Lucilius toJuvenal, Cambridge-New York, Cambridge Univ. Press, 2001; F. Muecke, Ennio e Luci/io. La doppia nascita dellaforma satirica, in K. Freudenburg-A. Cucchiarelli-A. Barchiesi (curr.), Musa pedestre: storia e interpretazione della satira in Roma antica, Roma, Carocci, 2007, pp. 37"57Su aspetti specifici: A. Pennacini, Funzioni della rappresentazione del reale nella satira di Lucilio, in « AAT », a. CII 1967-1968, pp. 311-435; R Degl'Innocenti Pierini, Note a Luci/io, in « SIFC », a. XLIII 1971, pp. 199-221; Ead., Due note a Luci/io, ivi, a. L 1978, pp. 55-69; Ead., Il concilio degli dèi tra Luci/io e Ovidio, in « A&R », n.s., a. XXXII 1987, pp. 137-47; Ead., Le battaglie delforo:per l'esegesi e la collocazione dei vv. 1228 ss. M. di Lucilio, in « Maia », a. XLII 1990, pp. 249-55; C. Moro, La varietà e la norma: iframmenti giambico-trocaici di Luci/iofra versificazione drammatica e alessandrinismo, Padova, lmprimitur, 1995. Sul­ la biografia: I. Mariotti-F. Della Corte-W. Krenkel, I:età di Luci/io, in « Maia », a. xx 1968, pp. 25470; W. Krenkel, Zur Biographie des Lucilius, in ANRW, I 2 (1972), pp. 1240-59. Sulle questioni gram­ maticali e letterarie: F. Sommer, Lucilius als Grammatiker, in « Hermes », a. XLIV 1909, pp. 70-77; A. Ronconi, Luci/io cn"tico letterario, in « Maia >>, a. xv 1963, pp. 515-25 (= Id., Interpretazioni letterarie dei clas­ sici, Firenze, Le Monnier, 1972, pp. 1-16); W. Krenkel, Zur literarischen Kritik bei Lucilius, in D. Kor­ zeniewski (cur.), Die romische Satire, Darmstadt, WBG, 1970, pp. 161-266; A. Pennacini, Docti e crassi nella polemica di Luci/io, in « AAT >>, a. c 1965-1966, pp. 293-360; W. Belardi, Luci/io e l'ingresso dei nomi dei casi nella teoria della grammatica, in Id., Filosofia, grammatica e retorica nel pensiero antico, Roma, Ate­ neo, 1985, pp. 207-11. Sui singoli libri: J. Michelfeit, Zum Aujbau des ersten Buches des Lucilius, in « Hermes >>, a. x cm 1965, pp. 113-28;]. Christes, Derfriihe Lucilius. Rekonstruktion un d Interpretation des XXVI. Buches sowie von Teilen des xxx Buches, Heidelberg, Winter, 1971; G. Garbugino, Sul libro xxx di Luci/io, in Studi Noniani, VI, Genova, 1st. di Filol. class. e med., 1980, pp. 83-101; A. Aragosti, Luci­ lio, Sat. xx. Ipotesiper una ricostruzione della cena di Cranio, in « SCO >>, a. xxxv 1985, pp. 99-130. Sul rap­ porto con Orazio: E. Coleiro, Luci/io, in EO, I pp. 782-85 con bibliografia precedente. Su lingua e stile: I. Mariotti, Igrecismi di Lucilio, in « StudUrb >>, a. XXVIII 1954, pp. 357-86; H. Petersmann, The language ofearly Roman satire: itsfunction and characteristics, in J.N. Adams-R.G. Mayer (curr.), Aspects of the Language ofLatin Poetry, Oxford, Univ. Press, 1999, pp. 289-310; P. Poccetti, Ilplurilinguismo nelle satire di Luci/io e le selve dell'interpretazione: gli elementi italici nei frammenti 581 e 1318 M., in R Oniga (cur.), Ilplurilinguismo nella tradizione letteraria latina, Roma, Il Calamo, 2003, pp. 63-89. .

LUC RE Z I O

Ben poco è quello che sappiamo della vita di Lucrezio. Secondo una scarna e discu­ tibile notizia di s. Gerolamo (IV sec. d.C.) il poeta sarebbe nato nel 94 a.C. (in un ma­ noscritto il dato è riferito al g6), sarebbe impazzito sotto l'effetto di un filtro d'amore (amatorio poculo inJurorem versus) e dopo aver composto nei momenti di lucidità alcuni li­ bri, cui toccò in sorte di essere emendati da Cicerone (circostanza che ci induce a pen816

S CHEDE BIO-BIBLIOGRAFICHE sare ad una loro pubblicazione postuma a cura dell'Arpinate), sarebbe morto suicida al­ l'età di 44 anni (cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset, quos Cicero emendavit, propria se manu inteifecit anno aetatis XLIIII) . La morte sarebbe dunque da collocare intor­ no al so a.C. Non coincide con questi dati cronologici quanto tramanda Donato nella Vita Vergili, che pure sembra risalire alla stessa fonte di s. Gerolamo, cioè il perduto De viris illustri bus di Svetonio. Secondo il grammatico, anch'egli del IV sec., Lucrezio sarebbe morto lo stesso anno e addirittura lo stesso giorno (15 ottobre) in cui Virgilio diciassettenne ave­ va assunto la toga virile. Poiché Virgilio è nato del 7o a.C. se ne dovrebbe dedurre che tale anno sia il 53· Donato però precisa che in quell'anno erano in carica gli stessi conso­ li (Pompeo e Crasso) del 7o, il che si verificò non nel 53 ma nel ss (Irtitia aetatis Cremonae egit usque ad virilem togam, quam XVII anno natali suo accepit isdem illis consulibus iterum duobus, quibus erat natus, evenitque ut eo ipso die Lucretiuspoeta decederet). Come si vede, i due dati so­ no in contraddizione fra loro. Quale dei due ha maggiori probabilità di essere attendi­ bile? Se consideriamo che gli antichi amavano certe coincidenze (si pensi, p. es., a quel­ la, celebre, che legava i dati biografici. dei tre grandi tragici greci alla battaglia di Salami­ na), saremmo indotti a credere che sia da prendere per buona la notizia relativa ai con­ soli e a scartare l'altra come fantasiosa. In effetti la data del 55 per la morte di Lucrezio si accorda perfettamente con quanto si ricava dalla lettera che Cicerone scrisse nel feb­ braio del 54 al fratello Quinto (Ad Q.fratrem, n 10 [9]). Da essa risulta infatti che a quel­ l'epoca entrambi i fratelli avevano letto il poema di Lucrezio ed erano in grado di espri­ mere un motivato giudizio su di esso, il che lascia presupporre che ciò potesse essere av­ venuto solo dopo la morte del poeta, quando ormai si stava ponendo mano a quel lavo­ ro di emendatio che si sarebbe concluso con la pubblicazione postuma del De rerum natu­ ra. In ogni caso i dati di s. Gerolamo relativi all'anno della nascita (94 o 96) e alla durata della vita del poeta (44 anni) non si accordano né col 53 né col 55 della notizia di Dona­ to. Se dobbiamo assumere come data della morte il 55 e ritenere attendibile la durata della vita del poeta, dovremmo pensare a collocarne la nascita intorno al 99/98 a.C. Destituita dì ogni credibilità appare poi la notizia geronìmiana relativa all'amatorium poculum e al suicidio. Probabilmente si tratta di una falsificazione nata in ambiente cri­ stiano, tendente a denigrare un'opera che negava l'intervento divino nella creazione: essa sarebbe il frutto di una mente sconvolta dalla follìa che non poteva avere altro ap­ prodo che la propria autodistruzione. Due dati in aperto contrasto con le idee propu­ gnate dall'autore. Lucrezio nel IV libro condanna ilJuror erotico e non si discosta da Epi­ curo che insegnava a non temere la morte ma neppure a desiderarla. Si veda a questo proposito la testimonianza di Seneca (Epist., 24 22 fr. 496 Usener): obiurgat Epicurus non minus eos qui mortem mtteupiscunt, quam eos qui timent ('Epicuro rimprovera coloro che bra­ mano la morte non meno di coloro che la temono'). Molto interessante e molto discusso il giudizio su Lucrezio espresso da Cicerone nella già dtata lettera. Rivolto al fratello Quinto, l'Arpinate dice infatti (n 10 3): Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt, multis luminibus ingenii, multae tamen artis. Anche se non tutti so­ no d'accordo su questa interpretazione, è probabile che Cicerone voglia dire che non=

817

SCHEDE BIO-BIBLIOGRAFICHE ostante che

ingenium e ars vadano raramente insieme, nel caso di Lucrezio si è tuttavia

verificata questa singolare coincidenza. Chi ha ritenuto che questo giudizio, cosi inte­ so, sarebbe eccessivamente elogiativo non ha valutato abbastanza che solo questa alta considerazione dell'opera poetica di Lucrezio poteva indurre un antiepicureo come Cicerone a farsi editore di un poema che diffondeva la dottrina del filosofo cosi tenace­ mente avversato (sulla questione vd. « RFIC », a. crx 1981, pp. 340-41). Dopo Cicerone ad approntare una nuova edizione di Lucrezio sarebbe stato nel I sec. d.C. Valerio Probo, almeno a dare ascolto a una testimonianza che risalirebbe a Svetonio (p. 138 Reifferscheid). Lucrezio è ricordato da Cornelio Nepote (Att., 12 4), da Ovidio, che negli A mores

(1 15 23) si mostra certo con un adynaton dell'immortalità del

poema (vd. anche Trist., II 425 ) , da Vitruvio (1x praif,17), da Ve ileio Patercolo (II 36 2) , da Stazio (Silv., n 7 76), da Quintilìano (Inst. or., x 1 87), da Tacito (Dia!., 23), da Gellio (Noct.

Att., 1

21 7) e infine da Frontone, che lo defini sublimis (Ad M Aurei. At1t. imp., I 2) . Sicu­

ramente alludono alla sua poesia Orazio, che in Sat., I 5 101 riecheggiò un verso lucre­ ziano (v 82) , e Persia, che in m 83 ha presente 1 150 e 237. La "riscoperta" di Lucrezio avviene con la rinascita carolingia. A quest'epoca infatti risalgono i due manoscritti piu importanti che ce ne tramandano l'opera, l'Oblongus (O) del IX sec. e il Quadratus (Q) del X. Si tratta di due codici oggi conservati nella Bi­ blioteca Universitaria di Leida e appartenuti al dotto olandese Isaac Voss (rispettiva­ mente Voss. lat. F 30 e Voss. lat. Q 94) , cosf detti per la loro forma. Sempre di epoca ca­ rolingia sono altri due codici frammentari. In età umanistica (141 8) Poggio Bracciolini scopri. forse a Fulda, un manoscritto andato perduto, ma sopravvissuto in una copia che ne trasse Niccolò Niccoli oggi conservata alla Laurenziana di Firenze (Laur. XXXV 30 L). Fra i recentiores si annoverano numerosi altri codici, di cui un gruppo consistente al­ la Laurenziana. La prima edizione scientifica di Lucrezio è quella celebre di Lachmann (Berlin, Reimer, 1850), che dimostrò come tutta la nostra tradizione dipenda da un uni­ co archetipo. Al suo nome è legato quel metodo che è stato magistralmente indagato nella sua evoluzione storica da Sebastiano Timpanaro (Lagenesi del metodo del Lachmann, Padova, Liviana, 19853) . Bibliografie e rassegne bibliografiche: C. Dì Giovine, Lucrezio, ìn:Ev(l}-mmç. Studi sull'epicureismo 1983, pp. 649-77 (rassegna relativa al periodo 1968-1980). Edizioni: C. Bailey (Oxford, Univ. Press, 19222);]. Martin (Leipzig, Teubner, 1963S); K. Miiller (Ziirich, Rohr, 1975); testo critico con trad. francese: A. Ernout (Paris, Les Belles Lettres, 1920) ; con trad. tedesca: H. Dìels (Berlin, Weidmann, 1923-1924); con trad. italiana: A. Fellin (Torino, UTET, 19762); L. Canali (Milano, Rìzzoli, 1990, intr. di G.B. Conte, testo latino e comm. dì I. Dio­ nigi); G. Milanese (Milano, Mondadori, 1990, intr. dì E. Narducci); F. Gìancotti (Milano, Garzan­ ti, 1994); E. Flores, vol. I (Napoli, Bìbliopolis, 2002: IL I-m); con commento: C. Bailey (Oxford, Univ. Press, 1947, con trad. inglese); A. Ernout-L. Robin (Paris, Les Belles Lettres, 1925-19622). Ed. corrunentate di singoli libri o parti di libri: P.M. Brown (Wannister, Aris & Phillips, 1997: L m) ; C.D.N. Costa ( Oxford, Univ. Press, 1984: L v); LucretitiS on Atomic Motion. A Commentary on 'De re­ rnm natura; Book Two, lines 1-332, by D. Fowler, prepared for publication by P. G. Fowler with the help from friends, Oxford-New York, Oxford Unìv. Press, 2002.

gr= e romano offerti a Marcello Gigante, Napoli, G. Macchiaroli,

818

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Bs o

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PERSI O Sulla biografia di Aulo Persi o Placco siamo informati da una

Vita tramandata insie­

me alle sue Satire che risalirebbe al grammatico Marco Valeria Probo, primo commen­ tatore del poeta. Nato a Volterra nel 34 d.C. da una ricca famiglia equestre, rimase a sei anni orfano del padre. Verso i dodici-tredici anni fu inviato a Roma per studiare gram­ matica e retorica nelle migliori scuole della capitale. n maestro che lasciò l'impronta pio profonda nell'animo del giovane Persia fu lo stoico Anneo Cornuto, che lo intro­ dusse negli ambienti dell'opposizione senatoria all'imperatore, cui appartenevano Se­ neca, Trasea Peto, Cesio Basso e Lucano (degli ultimi due divenne amico). Conquista­ to dalla filosofia, visse un'esistenza appartata, dedita agli studi e agli affetti familiari. Mori nel 62 d.C. all'età di soli ventotto anni. Della sua esigua produzione (scriptitavit et raro et tarde, 'scrisse raramente e con lentez­ za', informa il suo biografo) non pubblicò nulla in vita. Sì occupò dell'edizione postu­ ma della sua opera l'amico Cesio Basso, il quale si giovò anche della revisione del mae­ stro Cornuto. Questi sconsigliò la pubblicazione delle prime opere (una tragedia prae­ texta, un libro di viaggi, un elogio di Arria maggiore, suocera di Trasea Peto), ma la au­ torizzò per il libro delle satire (sei componìmenti in esametri, piu i quattordici Cho­

liambi, trimetri giambi scazonti). Il successo fu immediato: ne è testimone Quintiliano, che esprime un giudizio lu­ singhiero su Persio (Inst. or., x 1 94) e la fortuna del satirico è attestata sullo scorcio del I sec. da Marziale (Iv 29 7 sg.) e dal grammatico Valeria Probo, che ne fece un commen­ to. La sua fàma si diffuse anche tra i Padri della Chiesa e tra poeti e grammatici della tar­ da antichità; mantenutasi inalterata per il fascino della figura del moralista rigoroso e intransigente anche durante il Medioevo, come attesta l'ampia tradizione manoscritta, nel Rinascimento la popolarità del poeta conobbe un declino, che prosegui nei secoli successivi (ma Angelo Poliziano commentò le satire e Vincenzo Monti ne fece una tra­ duzione). Solo di recente la critica ha rivalutato la poesia di Persia, affrancandola dalla condanna per oscurità e aridità scolastica. n testo delle Satire è oggi costituito sulla base di tre codici principali: il Montepessu-

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lanus bibl. med. 125 o Pithoeanus (P), del sec. IX; il Montepessulanus bibl. med. 212 del sec. X (A) e il Vaticanus tab. basil. H 36 della fine del IX sec. (B). AB sono legati da stret­ ta parentela e recano i Choliambi dopo la sesta satira, seguiti da una sottoscrizione, ag­ giunta da un correttore successivo, che attesta la revisione del testo compiuta da Flavio Giulio Trifoniano Sabino nel 402 d.C. (la cosiddetta recensio Sabiniana). A questi testi­ moni si aggiungono il Sangallensis 870, del IX sec. {Sang.), che tramanda quaranta ver­ si di Persio, il Vaticanus Reginensis 1560 della fine del sec. IX o inizio del X {V), che contiene da 3 99 a 6 8o e un frammento del cosiddetto commentum Cornuti, in realtà risa­ lente al sec. IX, e il Vaticanus Palatinus 1710, del sec. X (X), che giunge fino a 5 171. La testimonianza piu antica è quella delJragmentum Bobiense (oggi Vaticanus Lat. 5750), del sec. IV o VI (Bob.), che contiene 1 53-104. Di qualche utilità per la costituzione del testo sono anche gli scolii, i lemmi dei quali risalgono a un antico codice. Bibliografie e rassegne bibliografiche: M.H. Morgan, A Bibliography of Persius, Cambridge (Mass.), Harvard Univ. Press, 1909; N. Scivoletto, Gli studi su Persio negli ultimi venti anni, in « C&S », n. vn 1963, pp. 58-65; M. Squillante Saccone, Tra metafora e realismo: alcuni recenti studi su Persio, in « BStudLat », a. VI 1976, pp. 98-112; Ead., La poesia di Persio alla luce degli studi piu recenti (1964-1983), in ANRW, II 3213 (1985), PP- 1781-812. Edizioni: O.Jahn (Leipzig, Breitkopf et Hartel, 1843 [rist. Hildesheim, Olms, 1967; con gli sco­ Iii e con comm.J); ]. Conington-H. Nettleship (Oxford, Univ. Press, 18933 [rist. Hildesheim, Olms, 1987, con trad. e comm.J); G. Némethy (Budapest, Academia Litterarum Hungarica, 1903, con comm.); S.G. Owen (Oxford, Univ. Press, 19082 [19031]); F. Villeneuve (Paris, Hachette, 1918, con comm.); O. Seel (Miinchen, Heimeran, 19742 [19501], con trad. e note); WV. Clausen (Ox­ ford, Univ. Press, 1956 e 19922 [19591], con Giovenale); N. Scivoletto (Firenze, La Nuova Italia, 19733 [19561], con comm.); D. Bo (Torino, Paravia, 1969, con comm.; 19852, con trad.);J.R. Jenkin­ son (Warminster, Aris & Phillips, 1980, con note); W Kissel (Berlin-New York, de Gruyter, 2007). Del Commentum Cornuti: WV. Clausen-J.E.G. Zetzel (Stuttgart, Teubner, 2004). Commenti integrali: R.H. Harvey (Leiden, Brill, 1981); W Kissel (Heidelberg, C. Winter-Uni­ versitatsverlag, 1990); H. Nikitinski (Miinchen, Saur, 2002); S.M. Braund (Cambridge, Mass.­ London, Harvard Univ. Press, 2004, con Giovenale). Commento parziale: H. Beikircher (Wien­ Koln-Graz, Bohlhaus, 1969: sat. 6; vd. O. Pecere, In margine a un nuovo commento della VIsatira di Per­ sia, in « RFIC », a. xcix 1971, pp. 217-42). Trad. italiane: P. Frassinetti-L. Di Salvo (Torino, UTET, 1979, con Giovenale); E. Barelli (Milano, Rizzoli, 1979); L. Canali (Milano, Mondadori, 2003). Indici, concordanze, lessici: L. Berkowitz-Th.F. Brunner (Hildesheim, Olms, 1967); D. Bo (ivi, id., 1967); P. Bouet-L. Callebat-Ph. Fleury-M. Zuinghedau (Hildesheim-New York, Olms, 1978). Studi generali: F. Villeneuve, Essai sur Perse, Paris, Hachette, 1918; E.V. Marmorale, Persia, Firen­ ze, La Nuova Italia, 1941 (19562); KJ. Reckford, Studies in Persius, in « Hermes », a. xc 1962, pp. 476504; R.G.M. Nisbet, Persius, in J.P. Sullivan (cur.), Criticai Essays on Roman Literature, n: Satire, Lon­ don, Routledge & Kegan Pau!, 1963, pp. 39-71; WS. Anderson, Persius and the Rejection ofSociety, in « WZUR », a. xv 1966, pp. 409-16 (rist. in Id., Essays on Roman Satire, Princeton, Univ. Press, 1982, pp. 169-93); C.S. Dessen, Iunctura callidus acri. A Study q[Persius 'Satires', Urbana, Univ. of Illinois Press, 19681 (Bristol, Bristol Classica! Press, 19962); E. Paratore, Biografia e poetica di Persia, Firenze, Le Monnier, 1968; J.C. Bramble, Persius and the Programmatic Satire. A Study in Form and Imagery, Cambridge, Univ. Press, 1974; A. La Penna, Persio e le vie nuove della satira latina, intr. all'ed., Milano, Rizzoli, 1979, cit., pp. 5-78 (rist. in Id., Da Lucrezio a Persia. Saggi, studi, note, Milano, Sansoni, 1995, pp. 279-343); E. Pasoli, Attualità di Persia, in Id., Tre poeti latini espressionisti: Properzio, Persia e Giovenale,

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P LAUTO L'opera plautina ha costituito uno dei terreni privilegiati della nascente filologia lati­ na e solo grazie a quegli antichi eruditi è possibile avere qualche notizia sulla sua vita, di cui possono essere fissati con certezza solo alcuni punti fermi; la sua figura storica ri­ mane però piuttosto sfuggente, a cavallo tra realtà e leggenda. Nel caso di Plauto le in­ certezze appaiono anche maggiori rispetto ad altri autori teatrali della fase arcaica della letteratura latina e sono forse indizio dell'ambiente meno legato agli strati alti della so­ cietà in cui visse o comunque della lontananza dai circoli culturali piu rappresentativi. La data di nascita può essere fissata fra il 255 e il 251 a.C. sulla base di un'affermazione di Cicerone, secondo il quale la commedia Pseudolus, che sappiamo dalla didascalia tra­ mandata dai manoscritti essere stata rappresentata per la prima volta nel 191 a.C., sareb­ be stata scritta da Plauto in età senile: Quam gaudebat Bello suo Punico Naevius, quam Tru­

culento Plautus, quam Pseudolo! (Cicerone, Cato Maior, so: 'Quanto si compiaceva del suo Bellum Poenicum Nevio, quanto Plauto del Truculentus, quanto dello Pseudolus! ) ; secon'

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do la ripartizione antica della vita umana la senectus iniziava infatti a sessant'anni. Cice­ rone tramanda anche la data di morte, il 184 a.C., anno in cui Catone fu censore (Brut., 6o). Se è sicura la nascita nella città allora umbra di Sarsina (cfr. Most., 770), la forma com­ pleta del nome tramandata dal palinsesto Ambrosiano e da altre fonti antiche, Titus Maccius Plautus, con i tradizionali tria nomina romani, appare ai pili sospetta (sarebbe una delle pochissime occorrenze di quest'uso per un poeta latino arcaico) e si è pensato che sia il risultato della "normalizzazione" tarda di due nomi - o meglio soprannomi - le­ gati presumibilmente all'ambiente e alla pratica teatrale, Maccus ('lo sciocco'), uno dei tipi fissi dell'atellana, e Plautus, che pare significasse 'dai piedi piatti' (Festo, p. 274 12-14 Lindsay: Maccius poeta, quia Umber Sarsinas erat, a pedum planitia initio Plotus, postea Plautus coeptus est dici, 'il poeta Maccio, poiché era umbro di Sarsina, per il fatto di avere i piedi piatti fu detto dapprima "Ploto", poi "Plauto" ') o 'cane dalle lunghe orecchie' (Festo di Paolo, p. 259 1-2 L.: Flauti appellantur canes, quorum aures languidae sunt acjlaccidae ac latius videnturpatere, ' "Plauti" sono detti i cani con orecchie morbide, pendenti e che sembra­ no allargarsi'; cfr. Cas., 34: Plautus cum latranti nomine, 'Plauto dal nome latrante'). Di scarsa attendibilità le altre notizie biografiche che possediamo. In un capitolo de­ rivato da Varrone Gellio menziona la fortunata attività teatrale di Plauto che sarebbe stata interrotta da una "schiavitli per debiti", una notizia ricavata verosimilmente da ti­ toli e passi autenticamente plautini: sed enim Saturionem et Addictum et tertiam quandam, cuius n une mihi nomen non subpetit, in pistrinum eum scripsisse Varro etplerique alii memoriae tra­ diderunt, cum pecunia amni, quam in operis artifìcum scaenicorum pepererat, in mercati bus perdita inops Romam redisset et ob quaerendum victum ad circumagendas molas, quas trusatiles appellan­ tur, operam pistori locasset (Gellio, Noct. Att., m 3 14: 'Varrone e molti altri riportano la no­ tizia che egli [Plauto] scrisse il "Panciapiena" e lo "Schiavo per debiti" e una terza com­ media, di cui ora non mi sovviene il titolo, in un mulino, quando, avendo perso nel commercio tutto il denaro che si era guadagnato nell'attività teatrale, era tornato a Ro­ ma in completa miseria e per guadagnarsi da mangiare si era impiegato presso un mu­ gnaio nel far girare quelle macine che sono dette "a mano" '; cfr. anche Girolamo, Chron., a. 1817). La produzione plautina fu a quanto pare piuttosto considerevole e la fortuna delle sue commedie fu tale che gli furono presto attribuite - probabilmente anche per moti­ vi commerciali collegati alla pratica teatrale - oltre cento commedie "alla greca" (o "palliate") tra cui molte non sue. Sulle modalità che portarono all'elaborazione da par­ te di Varrone di un "canone" di ventuno commedie da tutti gli studiosi riconosciute co­ me autenticamente plautine ci informa il già citato capitolo di Gellio. Circolavano sot­ to il nome di Plauto centotrenta commedie ma di queste Elio Stilone (fine del II secolo a.C.) ne riteneva autentiche solamente venticinque e sappiamo che anche altri eruditi compilarono "indici" di commedie genuine di Plauto. Per la tradizione successiva fu decisiva l'influenza di Varrone che nel I sec. a.C., basandosi su considerazioni linguisti­ che e stilistiche, suddivise questo insieme di opere in tre gruppi: un primo gruppo di ventuno commedie che erano considerate autentiche da tutti gli studiosi, un secondo sss

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di incerte (incertae o ambiguae) e un terzo di non autentiche; lo stesso Varrone riteneva plautine alcune commedie da altri considerate incerte o attribuite ad altri poeti. Solamente le ventuno commedie plautine del primo gruppo, dette Varronianae già ai tempi di Gellio, sono giunte fino a noi radunate in un corpus ordinato alfabeticamente sulla base del titolo, per complessivi 21.000 versi circa (solo dell'ultima, la Vidularia, ri­ mangono pochi frammenti). Esse sono: Amphitruo ('Anfitrione'), Asinaria ('La comme­ dia degli asini'), Aulularia ('La commedia della pentola'), Bacchides ('Le Bacchidi'), Cap­ tivi ('I prigionieri'), Casina ('Casina'), Cistellaria ('La commedia della cesta'), Curculio ('Il gorgoglione'), Epidicus ('Epidico'), Menaechmi ('I Menecmi'), Mercator ('Il mercante'), Milesgloriosus ('Il soldato fanfarone'), Mostellaria ('La casa del fantasma'), Persa ('Il Persia­ no'), Poenulus ('Il Cartaginese'), Pseudolus ('Pseudolo'), Rudens ('La gomena'), Stichus ('Stico'), Trinummus ('La commedia delle tre monete'), Truculentus ('Truculento'), Vidu­ laria ('La commedia del baule'). Delle restanti commedie che andavano sotto il nome di Plauto conosciamo solamente brevi frammenti tramandati da autori successivi. Solo poche delle ventuno commedie conservate sono databili con sicurezza, lo Stichus rap­ presentato per la prima volta nel 2oo a.C. e lo Pseudolus del 191 a.C. È probabile poi che l'Asinaria sia tra le piti antiche commedie tra le conservate, mentre la Casina è tra le piti tarde; il Milesgloriosus dovrebbe risalire al 205 a.C., le Bacchides al 189 a.C. circa. La tradizione manoscritta delle commedie superstiti si basa di un lato sulla testimo­ nianza offerta dal palinsesto Ambrosiano, un codice tardoantico riutilizzato nel Me­ dioevo e scoperto da Angelo Mai nel 1815 (Ambros. G 82 sup.), dall'altro su di un grup­ po di codici medievali, i cosiddetti « Palatini », risalenti ad un perduto manoscritto di età carolingia. Entrambi i rami di tradizione sembrano essere testimonianza di due dif­ ferenti edizioni tardoantiche del corpus plautino, che certamente anche in età piti antica era stato sottoposto a cure filologiche di incerta ricostruzione. Le commedie, riscoperte nel loro insieme solo nel primo umanesimo, diedero un impulso decisivo alla nascita del teatro moderno e influenzarono in maniera molto marcata il teatro rinascimentale, quando numerose furono le riprese, i rifacimenti e i volgarizzamenti di commedie plautine. Il teatro di Plauto costituf di fatto fino al XX secolo anche il tramite principale (assieme a quello terenziano) per la conoscenza mo­ derna della commedia greca di età ellenistica. Rassegne bibliografiche:J.D. Hughes, A Bibliography q{Scholarship on Plautus, Amsterdam, Hak­ kert, 1975; D. Fogazza, P/auto 1935-1975, in « Lustrum », a. XIX 1976, pp. 79-295; F. Bubel, Bibliogra­ phie zu Plautus: 1976-1989, Bonn, Habelt, 1992; S. Nufiez, Flauto 1976-1995. Veinte aiios de estudios. 1-2, in « Florllib », a. IX 1998, pp. 477-98; a. x 1999, pp. 387-427. Principali ed. complete: F. Leo (Berlin, Weidmann, 1895-1896); W.M. Lindsay (Oxford, Univ. Press, 191ol); A. Ernout (Paris, Les Belles Lettres, 1932-1961, con trad. fr. e note). Commento com­ pleto: J.L. Ussing (Hauniae, Gyldendal, 1875-1892; rist. cur. A. Thierfelder, Hildesheim, Olms, 1972). Lessici: G. Lodge (Leipzig, Teubner, 1904-1933); A. Maniet (Plaute. Lexique inverse, listesgramma­ ticales, relevés divers, Hildesheim, Olms, 1969). Introduzioni e studi introduttivi: E. Paratore, P/auto, Firenze, Sansoni, 1961; WG. Arnott, Me­ nander, Plautus, and Terence, Oxford, Univ. Press, 1975; G. Chiarini, Introduzione a P/auto, Roma-Ba-

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Grilli, I.:antitesi in Rutilio Namaziano, in « Euphrosyne », n.s., a. XXIX 2001, pp. 331-44. Tradizione manoscritta: M.D. Reeve, Rutilius Namatianus, in TT, pp. 339-40; per i nuovi fram­ menti rutiliani vd., in particolare, Ferrari, Spigolature Bobbiesi, II, cit., pp. 1-41 (con fotografie); E.

SCHEDE BIO-BIBLIO GRAFICHE

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SENECA

Fonti storiografìche (Tacito e Dione Cassio in particolare) e allusioni interne alla sua opera ci tramandano molte notizie sulla vita di Lucio Anneo Seneca, figlio dell'omoni­ mo retore di origine spagnola e membro di un'illustre famiglia di tradizione repubbli­ cana {suo nipote è il poeta Lucano). Seneca il Giovane nacque a Cordova intorno al 4 a.C. ma si trasferf presto a Roma, dove avvenne la sua educazione; tra i suoi maestri Fa­ biano {che lo avvicinò alla dottrina dei Sextii) e lo stoico Attalo - entrambi noti anche come declamatori, e il pitagorico Sozione che convinse per un certo periodo l'allievo a seguire una rigorosa dieta vegetariana (cfr. Epist., 108 17-22). Nella sua formazione es­ senziale fu anche l'influsso delle scuole di retorica; le Controversiae scritte dal padre ri­ specchiano reali dibattiti retorici a cui il figlio probabilmente assistette e del resto esse furono scritte intorno al 37 proprio su esplicita richiesta dei figli del retore. I..:attività oratoria lo portò presto ad impegnarsi nella vita pubblica e nella politica, non senza rischi personali derivanti dal delicato rapporto con il potere che segnerà tut­ ta la sua vita di intellettuale e di uomo pubblico. Una sua orazione avrebbe suscitato l'invidia di Caligola, a tal punto da dover essere salvato dall'intervento di una donna vi­ cina all'imperatore (Cassio Dione, ux 19 7). Claudio gli comminò nel 41 l'esilio in Cor­ sica a motivo di un suo presunto adulterio con la sorella di Caligola, ma piu probabil­ mente per motivi politici. Fu Agrippina, la madre di Nerone, a farlo tornare a Roma come precettore del figlio (49 a.C.), di cui divenne un importante consigliere dopo la sua ascesa al trono nel 54, riuscendo almeno inizialmente - grazie anche alla collabora­ zione del prefetto del pretorio Afranio Burro - ad indirizzare il principato nel senso del rispetto del senato e di una concezione piti moderata dell'esercizio del potere. Dopo l'uccisione di Agrippina nel 59 e la morte di Burro i rapporti con l'imperatore si dete­ riorano e nel 62 Seneca viene allontanato dalla corte (cfr. Tacito, Ann., xrv 52-56); nel 65 ricevette dall'imperatore l'ordine di suicidarsi, a seguito della scoperta della congiura dei Pisoni, un ordine che Seneca esegue con coraggio e secondo i dettami filosofici piti illustri (Tacito, Ann., xv 60-64). Ricca e variegata la tipologia degli scritti conservati, per lo piu prosastici e di impe­ gno filosofico, ma anche poetici e tutti di notevole livello letterario e stilistico. Sotto il titolo di Dialogorum libri XII sono tramandati alcuni opuscoli filosofici, abbastanza brevi, tranne i tre libri del De ira, e di datazione differente: oltre al De ira (probabilmente del 868

SCHEDE B IO-BIBLIOGRAFICHE

41 per i primi due libri), abbiamo le Consolationes indirizzate a Marcia (per la morte del figlio), a Polibio (il liberto di Claudio, per la morte del fratello, quasi una supplica per ottenere l'intercessione presso l'imperatore) e a Elvia (la madre a motivo del proprio esilio forzato), De tranquillitate animi, De brevitate vitae, De constantia sapientis, De vita beata, De otio, De providentia. Di argomento etico-filosofico ed etico-politico sono rispettiva­ mente il De beneficiis in sette libri (scritto durante il principato neroniano) e il De clemen­ tia in tre libri (ma è perduta parte del secondo e il terzo), indirizzato a Nerone e riguar­ dante il corretto atteggiamento del sovrano nei confronti dei sudditi. Di filosofia natu­ rale, con la ripresa di interessi giovanili, si occupano le Natura/es quaestiones in 7 libri (l'ordine tramandato è probabilmente alterato rispetto a quello originale); di impianto nettamente stoico e con forti implicazioni morali nel trattamento di questioni di filo­ sofia naturale sono state scritte dopo il ritiro dalla vita pubblica. Le Epistulae mora/es ad Lucilium sono pervenute nel numero di 124, suddivise in venti libri (almeno altri due so­ no andati perduti) e sono anch'esse successive al 62. Vanno sotto il suo nome dieci tra­ gedie - la piu importante e consistente testimonianza dell'intero teatro tragico romano -, nove di argomento mitologico (HerculesJurens, Troades o Troas, Phoenissae o Thebais, Medea, Phaedra o Hippolytus, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus) ed una, l' Oc­ tavia, ritenuta per lo piu spuria, di argomento storico contemporaneo. Piuttosto discus­ so è il problema dell'autenticità di tutto il corpus tragico, in particolare dell'Hercules Oe­ taeus, e pure la datazione della composizione (si oscilla tra il periodo precedente all'in­ gresso ufficiale nella vita politica e quello immediatamente successivo), anche per l'as­ senza di dati esterni significativi nella tradizione manoscritta o in testimonianze di altri autori. Un misto di prosa e poesia si trova nella satira menippea Apokolocyntosis, che si prende gioco dell'imperatore Claudio appena morto (54) . Sono conservati inoltre vari epigrammi, non tutti di certa autenticità. Certamente spurio è il famoso e fortunato epistolario con s. Paolo. Sappiamo infine anche di numerose altre opere perdute, bio­ grafiche (De vita patris), geografiche (De situ et sacris Aegyptiorum, De situ Indiae), fisiche (De motu terrarum, De lapidum natura, Depiscium natura, Deforma mundi), filosofiche (De amicitia, Exhortationes, De immatura morte, De matrimonio, Moralis philosophiae libri, De o.Jjì­ ciis, De remediisjòrtuitorum, De superstitione) e abbiamo notizia della pubblicazione di di­ verse sue orazioni. Degli scritti perduti rimangono anche numerosi frammenti. Le varie opere senecane sono giunte in diversi raggruppamenti nella tradizione ma­ noscritta. I Dialogi hanno il loro testimone piu importante nell'Ambrosiano C 90 inf. (un codice dell'XI secolo proveniente da Montecassino). Tutti i codici del De clementia e del De beneficiis risalgono invece in ultima analisi all'attuale Vaticano Palatino 1547 ("Nazarianus", IX sec.). Piu complicata la tradizione delle Epistole che sono state tra­ mandate in due corpora separati (risp. Epist. 1-88 e 89-124), entrambi contenuti in mano­ scritti di età carolingia (tra cui si segnala il "Quiriniano", Brescia, B II 6). I codici delle tragedie sono divisi in due rami, l'uno rappresentato dal famoso "Etrusco" (Laur. plut. 37, 13, fine XI sec.), l'altro da piu manoscritti trecenteschi risalenti forse ad una differen­ te edizione antica (solo questo ramo tramanda l'Octavia). Di età carolingia sono i testi­ moni dell'Apokolocyntosis; piu tardi sono invece i manoscritti delle Natura/es quaestiones.

SCHEDE BIO-B IBLIO GRAFICHE

La fortuna di Seneca ha conosciuto fasi alterne (si veda il famoso giudizio critico sul suo stile in Quintiliano, Inst. or., x 1 125-31) ed è stato notevolissimo il suo influsso sugli scrittori cristiani antichi e in seguito dall'età carolingia in poi. Molto importante il peso avuto sul teatro rinascimentale, sia in Francia che in Inghilterra, dove ha costituito un modello di riferimento molto piu dei tragici greci. Anche i trattati filosofici hanno avu­ to una grande fortuna, specie in età moderna. Bibliografie e rassegne bibliografiche su Seneca in generale: A.L. Motto-J.R. Clark, Seneca. A Critica/ Bibliography 1900-1980. Scholarship on His Life, Thought, Prose, and Injluence, Amsterdam, Hak­ kert, 1989; E. Malaspina et al. (curr.), Bibliografia senecana del XX secolo, Bologna, Pàtron, 2005; ed inoltre: V. D'Agostino, Orientamento bibliografico su Senecafilosqfo e tragico (1930-1952), in « RSC », a. I 1952, pp. 47-65; Id., Senecafilosqfo e tragico negli anni 1953-1965. Saggio bibliografico, ivi, a. XIV 1966, pp. 6181; A. Borgo, Per una rassegna senecana (1988-1998), in « BStudLat », a. XXIX 1999, pp. 159-86; Ead., Re­ centi studi senecani, ivi, a. XXXI 2001, pp. 600-17; A. Pocifta Pérez, Bibliografia espaiiola sobre Séneca (aiios 1901-2ooo), in « Florllib », a. xvn 2006, pp. 359-410. Edizione complessiva delle opere con trad. ingl. e note :J.W Basore (London-New York, Loeb, 1928-1935: Dialogi), R.M. Gummere (ivi, id., 1917-1925: Epistulae ad Lucilium), FJ. Miller (ivi, id., 1917: tragedie), poi J.G. Fitch (Cambridge, Mass.-London, Harvard Univ. Press, 2002-2004), Th.H. Corcoran (ivi, id., 1971-1972: Natura/es quaestiones), WH.D. Rouse (ivi, id., 19692 (19131): Apo­ colocyntosis). Concordanze e lessici generali: R. Busa-A. Zampolli (Hildesheim-New York, Olms, 1975); C. Castillo et al. ( Onomasticum Senecanum, Pamplona, Univ. de Navarra, 1995). Studi generali su Seneca: C. Marchesi, Seneca, Messina, Principato, 1920; P. Grimal, Sénèque, sa vie, sa philosophie, son a?Uvre, Paris, PuF, 19572; l. Lana, Lucio Anneo Seneca, Torino, Loescher, 1955; G. Mazzoli, Seneca e la poesia, Milano, Ceschina, 1970; A. Setaioli, Teorie artistiche e letterarie di L. Anneo Seneca, Bologna, Pàtron, 1971; A.L. Motto, Seneca, New York, Twayne, 1973; C.D.N. Costa (cur.), Seneca, London, Routledge & Kegan Pau!, 1974;]. Dingel, Seneca und die Dichtung, Heidelberg, C. Winter-Universititsverlag, 1974; M.T. Griffin, Seneca. A Philosopherin Politics, Oxford, Univ. Press, 19922 (19761); M. Rozelaar, Seneca. Bine Gesamtdarstellung, Amsterdam, Hakkert, 1976; V. S0rensen, Seneca; ein Humanist an Neros Hof, Miinchen, Beck, 19953 (K0benhavn, Gyldendal, 19761; trad. it., Roma, Salerno Editrice, 1988); P. Grimal, Sénèque ou la conscience de l'empire, Paris, Les Belles Lettres, 1978 (rist. Paris, Fayard, 1991; trad. it., Milano, Garzanti, 1992, rist. 2001); K. Abel, Seneca. Leben und Leistung, in ANRW, n 32/2 (1985), pp. 653-775; M. ScarpatBellincioni, Studi Senecani e altri scritti, Bre­ scia, Paideia, 1986; G. Maurach, Seneca. Leben und Werk, Darmstadt, WBG, 20054 (19911); A. Setaioli (cur.), Seneca e la cultura, Napoli, Esi, 1991; P. Grimal (cur.), Sénèque et la prose latine: neujexposés suivis dediscussions, Genève-Vandceuvres, Fondation Hardt, 1991; R. Chevallier-R. Poignault (curr.), Pré­ sence de Sénèque, Paris, Touzot, 1991; M. Fuhrmann, Seneca und Kaiser Nero: eine Biographie, Berlin, Fest, 1997; l. Lana (cur.), Seneca e i giovani, Venosa, Osanna, 1997; M. Rodriguez-Pantoja (cur.), Sé­ neca dos mi/ aiios después. Actas del Congreso internacional conmemorativo del bimilenario de su nacimiento, C6rdoba, 24 a 27 de septiembre de 1996, C6rdoba, Servicio de Publicaciones de la Univ., 1997; S. Audano (cur.), Seneca nel bimillenario della nascita. Atti del Convegno nazionale di Chiavari, 19-20 aprile 1997, Pisa, ETs, 1998; R. Degl'Innocenti Pierini, Trafilosofia epoesia: studi su Se­ neca e dintorni, Bologna, Pàtron, 1999; F. Niutta-C. Santucci (curr.), Seneca: mostra bibliografica e icono­ grafica. Teatro dei Dioscuri, Roma 19 gennaio-24 febbraio 1999, Roma, Palombi, 1999; P. Veyne, Se­ neca, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1999; l. Dionigi (cur.), Seneca nella coscienza dell'Europa, Milano, B. Mondadori, 1999; G. Petrone (cur.), Lo sperimentalismo di Seneca, Palermo, Univ.-Ist. di Filologia Latina, 1999; P. Parroni (cur.), Seneca e il suo tempo. Atti del Convegno internazionale di Roma-Cas­ sino, 11-14 novembre 1998, Roma, Salerno Editrice, 2000; A. Martina (cur.), Seneca e i cristiani. Atti

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Friedrich, Sprache und Stil des 'Hercules Oetaeus', in « Hermes », a. LXXXI I 1954, pp. 51-84; E. Paratore, Note critiche ed esej[etiche al testo dello 'Hercules Oetaeus', in P. de Jon­ ge-EJ.Jonkers-H.M. Mulder-K.H.E. Schutter-Th.H. Sluiter-R.E.H. Westendorp Boerma (curr.), Ut pictura poesis. Studia Latina P]. Enk septuagenario oblata, Leiden, Brill, 1955, pp. 129-66; C. Monte­ leone, Seneca, l'utopia negata, in « AFLB », a. xxix 1986, pp. 83-154; Ch. Walde, Herculeus labor: Studien zum pseudo-senecanischen 'Hercules Oetaeus', Frankfurt a.M., Lang, 1992; S. Marcucci, Analisi e interpre­ tazione dell''Hercules Oetaeus', Pisa, lEPI, 1997. Octavia: edizioni: L Viirtheim (Leiden, Sijthoff, 1909, con note); L.Y. Whitrnan (Bern-Stuttgart, Haupt, 1978, con comm.); R. Ferri (Cambridge, Univ. Press, 2003, con comm.); AJ. Boyle (Oxford, Univ. Press, 2008, con trad. e comm.); studi: E.C. Chickering, An Introduction to 'Octavia Praetexta', New York, Marion Press, 1910; L. Herrmann, 'Oc­ tavia'. TraJ[édieprétexte, Paris, Les Belles Lettres, 1924; R. Helm, Die Praetexta 'Octavia', in >, s. IV, a. 1 1999, pp. 159-69; D.C. Feeney, 'Tenui . . . latens discrimine': spotting the differences in Statius' 'A.chilleid', in « MD >>, n. LII 2004, pp. 85-105; P. Hibst, 'Periculosae plenum opus aleae ?'. ZurFrage derHerrscherkritik in der'A.chilleis' des Statius, in « Eos >>, a. XCI 2004, pp. 251-73; PJ. Hes­ lin, The Transvestite Achilles: Genderand Genre in Statius''.Achilleid', Cambridge, Univ. Press, 2005. Sul­ la Thebais: Th.C. Klinnert, Capaneus-Hippomedon. Interpretationen zur Heldendarstellung in der Thebais' des P Papinius Statius, Diss. Heidelberg, 1970; S. von Moisy, Untersuchungen zur Erziihlweise in Statius' Thebais', Bonn, Habelt, 1971; D.W.T. Vessey, Pierius menti calorincidit: Statius' Epic Style, in ANRW, II 32l5 (1986), pp. 2965-3019 (anche sull'Achilleide); I. Frings, Gespriich und Handlung in der Thebais' des Statius, Stuttgart, Teubner, 1991; S. Franchet d'Espèrey, La composition de la Thébaii:le' de Stace, in M. Woronoff (cur.), I.:univers épique: rencontres avec l'Antiquité classique, Paris, Les Belles Lettres, 1992, II pp. 217-27; WJ. Dominik, The Mythic Voice ojStatius: Power and Politics in the Thebaid', Leiden-New York, Brill, 1994; Id., Speech and Rhetoric in Statius' Thebaid', Hildesheim-Ziirich, Olms-Weidmann, 1994; L. Micozzi, Alcuni nuovi contributi allo studio dell'imitazione virgiliana nella Tebaide', in « Or­ pheus >>, a. XVI 1995, pp. 417-33; Ead., Pathos efigure materne nella Tebaide' di Stazio, in « Maia >>, a. L 1998, pp. 95-121; Fr. Ripoli, La Thébaii:le' de Stace entre épopée et tragédie, in « Pallas >>, n. XLIX 1998, pp. 323-40; S. Franchet d'Espèrey, Cmif/it, violence et non-violence dans la Thébaii:le' de Stace, Paris, Les Belles Let­ tres, 1999; C. Criado, La teologia de la Tebaida' Estaciana: el anti-virgilianismo de un clasicista, Hildes­ heim, Olms, 2000; N.W. Bernstein, Ancestors, status, and se/fpresentation in Statius' Thebaid', in « TA­ PhA >>, a. cxxxi ii 2003, pp. 353-79; A.M. Keith, Ovid's Theban narrative in Statius' Thebaid', in « Her­ mathena >>, nn. CLXXVII-CLXXVIII 2004-2005, pp. 181-207; R.T. Ganiban, Statius and Virgil. The The­

baid' and the Reinterpretation ofthe 'A.eneid', Cambridge, Univ. Press, 2007; C. McNelis, Statius' The­ baid' and the Poetics oJCivil War, ivi, id., 2007. Sulla trasmissione e la fortuna: M.D. Reeve, Statius, in TT, pp. 394-99; inoltre : G. Aricò, Per il 'Fortleben' di Stazio, in « Vichiana >>, n. s., a. xn 1983, pp. 36-43; P.-E. Barreda, La Tebaida' deEstacio en el manuscrito 148 delArchivo Capitular de Tortosa, in « Habis >>, a. XXIII 1992, pp. 63-95; M. Buonocore, Io­ hannes Bertus e la Tebaide' di Stazio, in « Aevum >>, a. LXXI 1997, pp. 417-22; G. Abbamonte, Ricerche sul commento inedito di Perotti alle 'Silvae'di Stazio, in « StudUmanistPiceni >>, a. xvn 1997, pp. 9-20; H. An­ derson, Note sur les manuscrits du commentaire de Fulgence sur la Thébaii:le', in « RHT », a. xxviii 1998, pp. 235-38; A. Boccia, Appunti sulla presenza di Stazio nella 'Divina Commedia', in « AIIS >>, a. XVIII 2001, pp. 29-45; M. Lauletta, Achille, Iulio e il contadino: l'YJ.chilleide' di Papinio Stazio nelle 'Stanze' e nel 'Rusticus' di Angelo Poliziano, in « AION(filol) >>, a. XXIII 2001, pp. 253-67; Id., Un commento medievale all''.Achillei­ de' di Stazio (considerazioni preliminari), in « Vichiana >>, s. IV, a. IV 2002, pp. 261-79; Id., Commento inedi­ to all''A.chilleide' di Stazio ('accessus' e annotazioni di XIIsecolo), ivi, a. v 2003, pp. 54-93; Id., Commento me­ dievale inedito all''A.chilleide' di Stazio ('accessus' e annotazioni di XIII secolo). 1, ivi, pp. 249-68; C. Caruso, Una nota sulle 'Silvae' di Stazio nel Medioevo, in « IMU >>, a. XLIV 2003, pp. 303-7; M. Buonocore, Esege­ si umanistica alle 'Silvae' di Stazio: Parrasio, in « Euphrosyne >>, n.s., a. XXXI 2003, pp. 133-53; R. Jakobi, Zur Kritik der Statius-Scholien, in « Eikasmos >>, a. xv 2004, pp. 347-59; M. Lauletta, Commento medie­ vale inedito all''A.chilleide' di Stazio (annotazioni di XIIIsecolo). 2, in « Vichiana >>, s. IV, a. VI 2004, pp. 7096; Id., Parrasio e l''A.chilleide' di Stazio, in « AION(filol) >>, a. xxvn 2005, pp. 155-64. Ed. del commen­ to di A. Poliziano alle Silvae: L. Cesarini Martinelli (Firenze, Sansoni, 1978).

SCHEDE B I O-BIBLIOGRAFICHE TERE N Z IANO MAURO

La cronologia di Terenziano Mauro è controversa. Gli studi piu recenti tendono a collocarlo fra la fine del II sec. e la prima metà del III, soprattutto sulla base dello spic­ cato interesse che il poeta manifesta per i metri dei poetae novelli. Per quanto riguarda la patria non vi è dubbio che essa debba identificarsi con la Mauritania: che l'appellativo Maurus vada inteso in senso etnico è lo stesso poeta a confermarlo quando ai vv. 1971 sg. allude alla sua origine africana per scusarsi di avere una conoscenza limitata dei poeti greci (Maurus item quantos potui cognoscere Graios, l quorum praecipue studiis ars musica con­ stat.ry . Alla poesia didascalica si dedicò in vecchiaia, mentre lascia intendere di aver pra­ ticato generi "elevati" da giovane, ma della sua attività precedente resta solo un fram­ mento trasmesso da Servio (Ad Aen., vm 96), peraltro di discussa attribuzione. Poco al­ tro sappiamo di lui. Dall'epilogo del De syllabis siamo informati che mentre attendeva al suo lavoro fu colto da una malattia che per dieci mesi lo tenne sospeso fra la vita e la morte {vv. 1290-97), che ebbe un figlio, Bassina, e un genero, Novato, entrambi nutriti di dottrina grammaticale e metrica, se ad essi dichiara di affidare la revisione del De syllabis prima della pubblicazione, che probabilmente non fu un maestro di scuola, vi­ sto che da essi prende le distanze {v. 175: nos iubent magistri) . Il salvataggio dell'opera di Terenziano Mauro si deve al fortunato ritrovamento a Bobbio di un manoscritto contenente anche altri testi grammaticali ad opera di Gior­ gio Galbiate, il dotto segretario dell'umanista Giorgio Merula. Sulla base della trascri­ zione del Galbiate, rivista e corretta da Tristano Calco, fu esemplata l'editio princeps, uscita a Milano, per magistrum Uldericum Scinzenzeler nel 1497. Dopo di allora del mano­ scritto bobbiese si sono perse le tracce. Edizioni: H. Keil (CL, VI pp. 313-413 [1874]);].W Beck (Gottingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1993, con trad. e comm. limitata al De syllabis); C. Cignolo (Hildesheim-Ziirich-New York, Olms, 2002). Concordanza: J.W Beck (Hildesheim, Olms-Weidmann, 1993). Studi: B. Einarson, Terentianus Maurns210, in « CPh », a. LXIV 1969, pp. 40-41; G. Polara, Per un'edi­

zione di Terenziano Mauro, in « AION (fìlol.) », a. XIV 1992, pp. 39-59; I. Mariotti, Note manoscritte a una dnquecentina di Terenziano Mauro, ivi, pp. 127-3o;].W Beck, Terentianus Maurus. GedankenzurDatiernng, in « Hermes », a. cxxn 1994, pp. 220-52; Id., Terentianus Maurns, in ANRW, n 34/z (1998), pp. 3208-68; I. Mariotti, Terenziano Mauro, 1566-77-· arsi e tesi nei piedi doppi, in « RPL », a. xxm 2000, pp. 182-84; G. Morelli, Metrico/agi latini di tradizione bobbiese, in M. De Nonno-P. De Paolis-L. Holtz (curr.), Manu­ saipts and Tradition of Grammatica/ TextsJrom Antiquity to the Renaissance, Cassino, Univ., 2000, pp. 53359; C. Cignolo, Per la storia del testo di Terenziano Mauro: le annotazioni manosaitte di Celio Calcagnini, ivi, pp. 701-18; G. Morelli, Contributi testuali aigrammatid latini, in « RPL », a. XXVI 2003, pp. 119-20. TE RE N Z I O

Notizie precise, anche se forse non sempre attendibili, sulla vita e l'opera di Terenzio sono fornite dal perduto De poetis di Svetonio, ripreso nella Vita Terenti premessa al

SCHEDE B IO-BIBLI OGRAFICHE

commento di Elio Donato alle commedie con alcune aggiunte successive. Publius Te­ rentius Ajer sarebbe nato a Cartagine, secondo la data tradizionale nel 185 a.C., ma sem­ bra piti probabile spostare la nascita ad un decennio prima, forse al 195 a.C. Se il cogno­ men si spiega con la sua origine, il nomen sarebbe dovuto al suo patrono romano, il sena­ tore Terenzio Lucano, il quale ob ingenium etformam, 'per l'ingegno e la bellezza fisica', lo avrebbe emancipato dalla condizione servile nella quale era giunto a Roma da ra­ gazzo. La Vita ci informa delle sue frequentazioni degli ambienti colti e aristocratici della città, in particolare di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio. Le dicerie piti malevole a proposito dei rapporti con questi uomini politici riguardavano la possibilità che Te­ renzio si fosse fatto aiutare nella composizione delle sue opere dai suoi illustri protet­ tori: non obscurafama est adiutum Terentium in scriptis a Laelio et Scipione, eamque ipse auxit numquam nisi leviter nfutare conatus, ut in prologo Adelphorum [vv. 15-21). Videtur autem le­ vius se difendisse, quia sciebat et Laelio et Scipioni non ingratam esse ha ne opinionem, quae tum ma­ gis et usque adposteriora tempora valuit (Donato, Vita Terenti, 4: 'voce non nascosta è che Te­ renzio sia stato aiutato nei suoi scritti da Lelio e Scipione, una voce che egli stesso ac­ crebbe non cercando mai di smentirla se non in maniera fiacca, come nel prologo dei Fratelli [ . . .]. Sembra poi che si sia difeso in maniera ancora piti fiacca perché sapeva che questa opinione non era sgradita a Lelio e Scipione, opinione che allora e in seguito an­ dò rafforzandosi'). Una conferma del legame con gli Scipioni è data dalla circostanza che due sue commedie, Adelphoe ed Hecyra, furono rappresentate durante i giochi fune­ bri per la morte di Emilio Paolo, padre dell'Emiliano. Terenzio sarebbe morto nel 159 a.C. (a venticinque anni secondo la cronologia tradi­ zionale) durante il viaggio di ritorno dalla Grecia - dove si era recato per procurarsi nuovi copioni comici -, secondo alcuni nel naufragio della nave su cui viaggiava, se­ condo altri a Stinfalo, in Arcadia, per malattia o per il dolore provocato dalla perdita del­ le sue nuove traduzioni spedite a Roma assieme ai bagagli (Vita, 5). L'unico genere letterario praticato da Terenzio fu quello della palliata, con cui esordi nel 166 a.C. La prima commedia, l'Andria, avrebbe ricevuto l'ammirata approvazione preventiva del vecchio Cecilia Stazio (Vita, 3). Oltre l'Andria ('La donna di Andro', 166 a.C.), scrisse altre cinque commedie conservate: Heautontimorumenos ('Il punitore di se stesso', 163 a.C.), Eunuchus ('Eunuco', 161 a.C.), Phormio ('Formione', 161 a.C.), Hecyra ('La suocera', terza rappresentazione nel 16o a.C.), Adelphoe ('l fratelli', 160 a.C.); di tut­ te conosciamo la data e altri particolari della prima rappresentazione grazie alle dida­ scalie premesse nei manoscritti al testo delle commedie. Ebbe sempre un certo succes­ so (l'Eunuchus sarebbe stato addirittura messo in scena due volte nello stesso giorno), mentre l'Hecyra fu rappresentata per intero solo al terzo tentativo dopo due fallimenti testimoniati anche dai due prologhi rimasti. Quattro commedie (Andria, Heautontimo­ rumenos, Eunuchus e Adelphoe) hanno come modello le omonime commedie di Menan­ dro, mentre due (Hecyra e Phormio) sono tratte invece dal meno noto Apollodoro di Ca­ cisto, che sembra essersi a sua volta ispirato a Menandro. Tra gli antichi fu apprezzato in particolare per lo stile; celebre è la definizione di Ce. . .

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SCHEDE BIO-BIBLI O G RAFICHE sare - riduttiva anche se ironica - di dimidiatus Meander (FPL, 190 sg. Bl.): tu quoque, tu in summis, o dimidiate Menander, lponeris, et merito, puri sermonis amator. l Lenibus atque utinam scriptis adiunctaJoret vis, l comica ut aequato virtuspolleret honore l cum Graecis neve hac despec­ tus parte iaceres! l Unum hoc macerar ac doleo ti bi deesse, Terenti ('anche tu, Menandro dimez­ zato, sei posto tra i sommi, e giustamente, tu che ami il linguaggio puro, e magari ai tuoi delicati scritti si aggiungesse forza, affinché il tuo valore di commediografo avesse un onore pari a quello dei Greci e non giacessi disprezzato sotto questo aspetto. Solo que­ sto mi tormento e mi dispiaccio che ti manchi, o Terenzio'). Sappiamo che le commedie di Terenzio vennero riprese piu volte sulla scena nel cor­ so del II secolo a.C. e già nel corso del I secolo a.C. entrarono a far parte del curriculum scolastico, di fatto senza soluzione di continuità per tutta l'antichità latina e il Medioe­ vo. La tradizione manoscritta è infatti molto ampia, seconda in ambito latino profano solo a Virgilio. Le diverse centinaia di testimoni conservati possono essere raggruppati

grosso modo in due famiglie, una rappresentata dal cosiddetto « Terenzio Bcmbino », un codice tardoantico appartenuto in seguito a Bernardo e Pietro Bembo (Vat. Lat. 3226), e l'altra dai manoscritti medievali discendenti da un esemplare antico passato per le ma­ ni di un certo

Calliopius (recensio Calliopiana). Fu molto significativa la sua influenza sul

teatro umanistico e rinascimentale italiano e poi su tutto il teatro europeo moderno, a cominciare dalla perduta Philologia di Petrarca. Rassegne bibliografiche: H. Marti, Terenz 1909-1959, in « Lustrum », a. VI 1961, pp. 114-238; a. vm 1963, pp. 5-101, 244-47; L. Perelli, Rassegna di studi terenziani (1968-1978), in « BStudLat », a. IX 1979, pp. 281-315; G. Cupaiuolo, Bibliografia terenziana (1470-1983), Napoli, Soc. ed. napoletana, 1984; Id.,

Supplementum Terentianum, in « B StudLat », a. xxn 1992, pp. 32-57; M. Lentano, Quindici anni di stu­ di terenziani. 1, Studisulle commedie (1979-1993), ivi, a. xxvn 1997, pp. 497-564; 2, Tradizione manoscritta ed esegesi antica (1979-1991), ivi, a. xxvm 1998, pp. 78-104; G. Cupaiuolo, IISupplementum Terentianum,

ivi, a. XXXVI 2006, pp. 250-70. Ed. complessive : K. Dziatzko (Leipzig, Tauchnitz, 1884); S.G. Ashmore (New York, Oxford Univ. Press, 1908, con comm.); R. Kauer-WM. Lindsay (rist. cur. O. Skutsch, Oxford, Univ. Press, 1958);]. Marouzeau (Paris, Les Belles Lettres, 1942-1949, con trad. fr. c note); O. Bianco (Torino, UTET, 1993, con trad. it. e note); J. Barsby (Cambridge, [Mass.]-London, Harvard Univ. Press,

2001, con trad. ingl. e note). Lessici: E.B. Jenkins (Chapel Hill, Univ. North Carolina Press, 1932); P. McGlynn (London­ Glasgow, Balck and Sons, 1963-1967). Studi generali: L Lana, Terenzio e il movimentofilellenico a Roma, in « RFIC », a. LXXV 1947, pp. 448o, 155-75; F. Arnaldi, Da P/auto a Terenzio, n. Terenzio, Napoli, Loffredo, 1947; H. Haffter, Terenzio e la sua personalità artistica, trad. it., Roma, Ateneo, 1969 (ed. or. « MH », a. x 1953, pp. 1-20, 73-120 � Darmstadt, WBG, 1967) ; B.-A. Taladoire, Térence. Un théfitre de la jeunesse, Paris, Les Belles Lettres, 1972; L. Perelli, n teatro rivoluzionario di Terenzio, Firenze, La Nuova Italia, 1973; K. Biichner, Das

Theater des Terenz, Heidelberg, Winter, 1974; WG. Arnott, Menander, Plautus, Terence, Oxford, Univ. Press, 1975; S.M. Goldberg, Understanding Terence, Princeton, Univ. Press, 1986; A. Minarini, Studi terenziani, Bologna, Pàtron, 1987; G. Cupaiuolo, Terenzio: teatro e società, Napoli, Loffredo, 1991; P. Kruschwitz, Terenz, Hildesheim, Olms, 2004; P. Kruschwitz-W-W Ehlers-F. Felgentrcu (curr.), Terentius Poeta, Miinchen, Beck, 2007; vd. anche i capitoli relativi in E. Lcfèvre (cur.), Die ro­ mische Komodie, Darmstadt, WBG, 1973. Su aspetti specifici. Cronologia e aspetti della biografia: L. Gestri, Studi terenziani, 1. La cronologia,

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SCHEDE BIO-B IBLI OGRAFICHE

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Le notizie in nostro possesso sulla vita di Albio Tibullo sono scarse. Ricaviamo alcu­ ni dati da una Vita, trasmessa adespota nei piu antichi codici del poeta e che alcuni fan­ no risalire al De poetis di Svetonio; per il resto dobbiamo basarci sui pochi riferimenti presenti nelle sue elegie o nelle opere di altri poeti (l'epigramma funebre di Domizio Marso, Orazio, Epist., I 4 e l'epicedio di Ovidio, Am., m 9). Se ne ignora la data di nasci­ ta, collocata sulla base di fragili indizi tra il 55 e il 50 a.C. in un paese del Lazio rurale (forse Gabii o Pedum). Con maggiore precisione si può fissare la data di morte, di poco posteriore a quella di Virgilio (settembre del 19 a.C.). Proveniente da una famiglia agia­ ta appartenente all'ordme equestre, fu legato da un rapporto di clientela a Marco Vale­ rio Messalla Corvino, importante uomo politico repubblicano, che mantenne una po­ sizione di rilievo anche sotto il principato augusteo. Fu al seguito del suo patrono in va­ rie spedizioni militari, in Galha, dove questi sconfisse gli Aquitani, e in Siria. Ammala­ tosi a Corfu, abbandonò la cohors di Messalla che si imbarcava per la Cilicia e fece ritor­ no a Roma. Potè assistere al trionfo di Messalla sugli Aquitani, celebrato il 25 settembre del 27, che cantò in I 7· Trascorse forse gli ultimi anni di vita in un'esistenza appartata nella campagna laziale, dove Orazio lo ritrae in Epist., I 4· Inserito da Ovidio (Trist., IV 10 51-54) nella lignée dei poeti elegiaci latini dopo Gallo e prima di Properzio e di Ovidio stesso, Tibullo fu ammirato dagli antichi, che lo consi­ derarono il maggiore tra gli elegiaci (Ovidio, Am., I 15 27 sg.; Velleio Patercolo, 11 36 3; Marziale, IV 6 4; vm 70 7). Il suo stile nitido e puro ne fece un modello poetico: tersus at­ que elegans maxime ('limpido ed elegante in sommo grado') lo definisce Quintiliano (Inst.

S CHEDE BIO-BIBLIOG RAFICHE

or., x 1 93), che pure attesta l'esistenza di una schiera minoritaria di ammiratori di Pro­ perzio (ibid.: sunt qui Propertium malint, 'vi sono alcuni che preferiscono Properzio'). Della sua produzione ci rimangono due libri di elegie, composti rispettivamente di dieci e sei componimenti, gli unici certamente ascrivibili al poeta dell'eterogenea rac­ colta tramandata con il nome di Corpus Tibullianum, divisa in quattro libri dall'età urna­ rustica. Protagonista femminile del primo libro è Delia (dietro cui, secondo la testimo­ nianza di Apuleio, Apol., 10, si celerebbe una certa Plania), del secondo Nèmesi ('Ven­ detta'), ma la Musa di Tibullo conosce anche una vena omoerotica (nelle elegie I 4, 8 e 9 compare un puer, Màrato). Tutta la tradizione manoscritta di Tibullo risale a un manoscritto ora perduto di cui Coluccia Salutati ottenne una copia. Per la ricostruzione del testo si dispone inoltre di excerpta contenuti in tre florilegi medievali. Un manoscritto di Tibullo era presso la cor­ te carolingia ed è presente in un catalogo dell'VIII sec. Si possono identificare due di­ scendenti di questo codice: il primo è menzionato in un catalogo del XII secolo di Lob­ bes, il secondo è un florilegio di XI sec. proveniente da Freising. In seguito il mano­ scritto della biblioteca di corte fu portato presso la Loira, probabilmente a Fleury, forse al tempo di Teodulfo. Da li il testo passò a Orleans. Lo stesso codice deve essere stato la fonte degli estratti di Tibullo contenuti nel cosiddetto Florilegium Gallicum, compilato a Orléans verso la metà del XII sec., che fu il veicolo principale della conoscenza del poe­ ta nel Medioevo: fu ampiamente usato, ad es., da Vincenzo di Beauvais nella composi­ zione dello Speculum historiale ed è probabilmente una sua copia il manoscritto di Ti­ bullo presente nella biblioteca di Riccardo di Fournival, che, dopo la sua morte (126o), passò al Collegio della Sorbona. Oltre alFlorilegium Gallicum, vi sono altri florilegi minori, forse usati come manuali di esempi dagli auctores nelle scuole di Orléans. Un altro florilegio fu compilato a Monte­ cassino nell'Xl sec. La ricomparsa di un Tibullo completo in Italia durante l'Umanesimo è forse dovuta a Petrarca, che potrebbe averlo riportato dopo il suo viaggio in Francia nel 1333: il piti antico manoscritto completo in nostro possesso (l'Ambrosiano R. 26 sup., XIV2 sec. [A]), reca su un margine un segno di nota caratteristico di Petrarca, forse non autogra­ fo, ma ricopiato dal manoscritto che egli annotò. Fu posseduto da Coluccia Salutati. Degli anni '20 del Quattrocento sopravvivono due manoscritti datati, il Paris. Lat. 7989 (1423, Firenze, legato a Poggio) e il Vat. Ottob. lat. 12o2 (1426, Firenze, con aggiunte di mano di Giovanni Aurispa). Negli anni successivi le copie si moltiplicano, tanto che tre edizioni, risalenti circa al 1472, si contendono la palma dell editio princeps. Del poeta so­ no conservati oltre cento manoscritti risalenti all'Umanesimo italiano, dei quali è in­ certo se e quanti risalgano ad A. Di certo indipendente da esso è ilJragmentum Cuiacia­ num (F, cosi chiamato dal nome del suo possessore, Iacobus Cuiacus), ora perduto. Lo Scaligero ne fece una collazione per la sua edizione (Parigi, 1577), che sopravvive in un manoscritto di Leida (755 H 23). Doveva contenere da m 4 65 alla fine. '

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SCHEDE BIO-B IBLIO G RAFICHE 1984, pp. 235-39; U. Knoche, Tibullsfriiheste Liebeselegie? (Tibull], 19), in Navicula Chiloniensis. Studia philologa F.Jacoby [ . . .] oblata, Leiden, Brill, 1956, pp. 173-90. Sulla tradizione manoscritta: R.H. Rouse-M.D. Reeve, Tibullus, in TT, pp. 420-25.

VALER I O F LACCO I;oscura biografia di Gaio Valerio Flacco Balbo Serino è limitata a pochi dati. Il nome completo, restituito dalle inscriptiones dei manoscritti, sembrerebbe farlo nativo di Se­ tiae (l'attuale Sezze), ma la notizia non trova altra conferma. Incerta è anche la data del­ la sua morte che, con non poco rammarico, Quintiliano ricorda essere avvenuta in tempi non lontani da quelli in cui scrive (Inst. or., x 1 90: multum in Valeria Fiacco nuper ami­ simus) , rendendo plausibile contenere la vita del poeta entro il 91-92 d.C. (data di com­ posizione, non sempre però concordemente accettata, del libro x dell'Institutio oratoria) . Qualche altra notizia si ricava, pur con la dovuta cautela, dalle allusioni di Valerio a momenti o episodi della storia a lui contemporanea, contenute negli otto libri dell'uni­ ca sua opera conservata, le Argonautiche: i riferimenti, piu o meno cogenti, alle guerre ci­ vili del 69 d.C. (vi 402-6), alla campagna di Palestina conclusa da Tito nel 7o d.C. con la distruzione del tempio di Gerusalemme (I 12-14), all'eruzione, infine, del Vesuvio nel 79 d.C. (m 208-9 e IV 507-9) ne collocano indubbiamente l'attività sotto i Flavi, per quanto non sia possibile dedurre convincenti richiami a eventi occorsi sotto il regime di Domiziano (altri indizi, però, per alcuni consentirebbero di far risalire i ll. vn e vm al1'87 d.C.). Nessuna indicazione ci viene poi sulla sua attività, se si esclude, sulla scorta di 1 5-7, la sua possibile appartenenza al collegium dei quindecemviri sacrisJaciundis preposto all'organizzazione dei ludi secolari e all'interpretazione dei libri sibillini. Diverse e discordanti sono le opinioni sul problema della cronologia e della compo­ sizione del suo poema epico in esametri, ma pare accettabile l'ipotesi che esso sia stato dedicato a Vespasiano vivente e continuato sotto l'opera dei suoi successori, Tito e Do­ miziano, elogiati insieme al padre nel proemio, di cui con buona probabilità si può far risalire la redazione ai primi anni del principatus vespasianeo. Poiché il testo si interrom­ pe bruscamente a vm 467, resta aperta la questione sulla mancanza di una conclusione, nell'impossibilità di stabilire se la perdita del finale sia dovuta ai guasti della tradizione o piuttosto a un abbandono, determinato da una consapevole decisione o dalla prema­ tura morte del poeta. Nessun elemento permette, infine, di precisare se il piano dell'o­ pera rispondesse effettivamente alla volontà dell'autore o se, come già prospettato da N. Heinsius, Valerio intendesse conformare la lunghezza del poema all'estensione del­ l'Eneide o della coeva Tebaide staziana (dodici libri). I; epos valeriano, che molto deve all'imitazione di Apollonia Rodio (da cui desume il soggetto, la narrazione, cioè, dell'impresa di Giasone alla conquista del vello d'oro) e di Virgilio (dal quale deriva l'impianto strutturale e lo stesso tessuto linguistico del rac­ conto), si inserisce a pieno titolo nella tradizione letteraria latina e, pur apportando al genere qualche elemento di novità (meritano senz'altro un cenno la singolare raffina-

SCHEDE B IO-BIBLIO G RAFICHE

tezza nei dettagli descrittivi e la profondità psicologica di alcuni personaggi, come Me­ dea), risulta in qualche modo viziato dai difetti comuni all'epica flavia, quali il peso di un'eccessiva retorica e un'espressività che, incline alla doctrina, si rivela talora difficile e artificiosa. Caduto nell'oblio, il nome di Valerio tornò parzialmente a circolare agli inizi del XV sec., grazie a Poggio Bracciolini, che nell'estate del 1416 rintracciò presso il monastero di San Gallo un codice contenente i libri I-Iv 317 (il manoscritto, oggi perduto, è rico­ struibile attraverso i suoi apografi, di cui uno, il cod. Matrit. 8514, vergato dallo stesso umanista). Nel 1429 toccò, invece, a Niccolò Niccoli mettere in circolazione, attraver­ so il cod. Laurentianus 39, 38, un testo di lunghezza praticamente doppia, che giunge­ va, cioè, al v. 467 del l. vm. Discussi rimangono, infine, i rapporti tra i vari testimoni, il piu antico dei quali, redatto a Fulda nel IX sec., è il cod. Vat. Lat. 3277: al riguardo, gli studi piu recenti hanno definitivamente smentito l'inveterata opinione che l'intera tra­ dizione valeriana sia da ricondurre ad esso. Rassegne bibliografiche: R. Helm, in « Lustrum », a. I 1956, pp. 236-55; W.-W. Ehlers, Valerius Flaccus1940 bis1971, ivi, a. XVI 1971-1972, pp. 105-42; M. Scaffai, Rassegna di studi su Valeria Fiacco (19381982), in ANRW, n 32/4 (1986), pp. 2359-447; M. Fucecchi, Nuovi studi su Valeria Fiacco, in

« QCTC », a. xn 1994, pp. 134-40. Ed. critiche: E. Courtney (Leipzig, Teubner, 1970); W.-W. Ehlers (Stuttgart, Teubner, 1980); H. Rupprecht (Mitterfels, Stolz, 1987, con trad. ted. e note); G. Liberman (Paris, Les Belles Lettres, 199/'"2002); trad. con comm.: S. L6pez Moreda (Torrej6n de Ardoz, Akal, 1996); D.R. Slavitt (Bal­ timore, Johns Hopkins Univ. Press, 1999); F. Caviglia (Milano, Rizzoli, 1999) ; ]. Soubiran (Lou­ vain-Paris, Peeters, 2002) ; P. Drager (Bern-Frankfurt a.M., Lang, 2003); commento: P. Langen (Berlin, Calvary, 1896-1897); Fr. Spaltenstein (Bruxelles, Latomus, 2002-2005). Ed. commentate dei singoli libri: l. I: AJ. Kleywegt, Praecursoria Valeriana, I-V, in « Mnemosyne », S. IV, a. XXXIX 1986, pp. 313-49; a. XL 1987, pp. 10J'"23; a. XLI 1988, pp. 355-72; a. XLII 1989, pp. 420-40; a. XLIV1991,pp. 137"59; Id. (Leiden-Boston, Brill, 2oo5); D. Galli (Berlin, de Gruyter, 2007) ; l. n: H.M. Poortvliet (Amsterdam, VU Univ. Press, 1991); parte del l. IV: M. Korn, Valerius Flaccus. Jl.�onauti­ ca'4, 1-343. Ein Kommentar, Hildesheim, Olms, 1989; C. Campanini, Saggio di commento a Valeria Plac­ co, A�. 4, 99-198, Firenze, La Nuova Italia, 1996; l. v: HJ.W. Wijsman (Leiden-New York, Brill, 1996); l. vi: M. Fucecchi, La 'teichoskopia' e l'innamoramento di Medea: saggio di commento a Valeria Fiac­ co, Jl.�onautiche' 6, 42r 760, Pisa, ETs, 1997; Id., Una guerra in Colchide. Valeria Placco, Jl.�onautiche' 6, 142 6, ivi, id., 2006; HJ.W. Wijsman (Leiden, Brill, 2ooo) ; T. Baier (Mtinchen, Beck, 2001) ; l. vn: A. Taliercio (Roma, GEI, 1992); H. Stadler (Hildesheim, Olms, 1993); A. Perutelli (Firenze, Le Mon­ nier, 1997). Concordanze: M. Korn-W.A. Staby (Hildesheim-Ztirich-New York, Olms-Weidmann, 1988); M. Wacht (Hildesheim, Olms-Weidmann, 2005).

Studi generali. Raccolte di contributi di autori vari: M. Korn-HJ. Tschiedel (curr.), 'Ratis omnia vincet'. Untersuchungen zu den Jl.�onautica' des Valerius Flaccus, Hildesheim, Olms, 1991; U. Eigler-E. Lefèvre-G. Manuwald (curr.), 'Ratis omnia vincet'. Neue Untersuchungen zu den Jl.�onautica' des Valerius Flaccus, Mtinchen, Beck, 1998; Fr. Spaltenstein (cur.), Untersuchungen zu den Jl.�onautica' des Valerius Flaccus. 'Ratis omnia vincet'. m, ivi, id., 2004. In generale su Valeria Fiacco: J.P. Otte, 'Sanguis lavis et Neptunia proles':]ustice and the Family in Valerius' Jl.�onautica', New York, Univ., 1992; P.R. Taylor­ Briggs, Valerius' Flavian Jl.�onautica', in « CQ », a. XLIV 1994, pp. 212-35; D. Hershkowitz, Valerius Flaccus' Jl.rgonautica� Abbreviated Voyages in Silver Latin Epic, New York, Oxford Univ. Press, 1998; P.

SCHEDE B I O-BIBLIOG RAFICHE

Studien zurpoetischen Kunst des Valerius Flaccus. Beobachtungen zur Ausgestaltung des Kriegsthe­ mas in den Ylrgonautica', Miinchen, Beck, 1999; A. Gross, Prophezieungen und Prodigien in den Y!tgonau­ tica' des Valerius Flaccus, Miinchen, Utz, 2003; F. Hurka, Textkritische Studien zu Valerius Flaccus, Stutt­ gart, Steiner, 2003. Studi specifici. Sul proemio del poema: A. Rio Torres-Murciano, Elproemio de Valeria Placo: una lectura retorica, in « CFC( L) », n. xxv 2005, pp. 79-100. Sulla struttura: D. Galli, Perla struttura degli Ylr­ gonautica' di Valeria Fiacco: 11-573, in « Maia », a. LVII 2005, pp. 41-49. Sui rapporti con i modelli e altri autori : F. Bessone, Valeria Fiacco e l'Apollonia commentato: proposte, in « MD », n. XXVI 1991, pp. 31-46; A. Perutelli, Il sogno di Medea da Apollonia Rodio a Valeria Fiacco, ivi, n. xxxnn 1994, pp. 33-50; G. Li­ berman, Textes à histoires: Vitgile et Stace, in « ME FRA », a. CVI 1994, pp. 113'7-49; M. Fucecchi, Il re­ stauro dei modelli antichi. Tradizione epica e tecnica manieristica in Valeria Fiacco, in « MD », n. XXXVI 1996, pp. 101-65; L. Baldini Moscadi, 'Conterrita vitgo': da Lucano a Valeria Fiacco: un itinerario della memoria, in « InvLuc », a. XXI 1999, pp. 43-53; Fr. Ripoll, Silius Italicus et Valérius Flaccus, in « REA », a. CI 1999, pp. 499-521; T. Schmit-Neuerburg, Eine Caesar-Reminiszenz bei Valerius Flaccus?, in « WJA », a. XXIV 2000, pp. 179-83; O. Fuà, Echi lucanei nella profezia di Mopso (Val. F/. 1, 207-26), in « GIF », a. uv 2002, pp. 105-15; D. Galli, Influssi del Thyestes' di Seneca ne/ libro r degli Ylrgonautica' di Valeria Placco, in « Ae­ vum{ant) », n.s., a. II 2002, pp. 231-42; P.A. Zissos, Reading models and the Homeric Program in Valerius Flaccus'Ylrgonautica', in « Helios », a. XXIX 2002, pp. 69-96; Id., Navigatinggenres: Martial 7-19 and the Ylr­ gonautica' '!{Valerius Flaccus, in « CJ », a. IC 2003-2004, pp. 405-22; Id., I:ironia allusiva. Lucan's 'Bellum dvi/e' and the Y!tgonautica' ofValerius Flaccus, in P. Esposito-E.M. Ariemma {curr.), Lucano e la tradizio­ ne dell'epica latina. Atti del Convegno internazionale di Fisciano-Salerno, 19-20 ottobre 2001, Na­ poli, Guida, 2004, pp. 21-38; D. Galli, Lefonti di Valeria Fiacco ne/ libro Ideg/iY!tgonautica', in « GIF >>, a. LVII 2005, pp. 131-55; Ead., Modelli di intertestualità. Lafigura di Pelia in Valeria Placco (Val. Fl. 1, 22-36), in « Philologus », a. cxux 2005, pp. 366-71; W Polleichtner, Hercules' nutzlose Keule: Valerius Flaccus (1, 634j) kommentiert Apollonios von Rhodos (1, 532), in « RhM >>, a. cxLvm 2005, pp. 349-60; A.R Torres­ Murciano, Farsalia en la C6lquide. Acerca de dossimi/es lucaneos en e/ libro VI de las Y!tgonduticas' de Valeria Placo, in « Emérita », a. LXXIV 2006, pp. 201-16. Note testuali a passi specifici del poema: G. Liber­ man, Problèmes dans le texte de Valerius Flaccus, in « RPh >>, a. LXVI 1992, pp. 95-110; P.R. Taylor-Briggs, Criticai observations on the text '![thefourth book '!{Valerius Flaccus'Y!tgonautica: in «JAC >>, a. x 1995, pp. 111-26; M. Fucecchi, Note esegetiche e critico-testuali a Valeria Placco, Ylrgonautiche' VI, in « Maia >>, a. XLIX 1997, pp. 391-414;]. Soubiran, Deux notes sur Valérius Flaccus, in « RPh >>, a. LXXI 1997, pp. 119-32; G. Manuwald, Die Cyzieus-Episode und ihre Funktion in den Yltgonautica' des Valerius Flaccus, Gottingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1999; Ead., Der Tod der Eltern Iasons:zu Valerius Flaccus, Arg. 1, 693-85 0, in « Philologus », a. cxuv 2000, pp. 325-38; Fr. Ripoll, Variations épiques sur un motifd' 'ecphrasis': l'enlève­ ment de Ganymède, in « REA », a. CII 2000, pp. 479-500; HJ.W Wijsman, 'Gesander alter Mezentius' (Valerius Flaccus 6. 279-385), in (( Mnemosyne >>, s. IV, a. LIII 2000, pp. 58-70; T. Schmit-Neuerburg, Triumph der Medea? Kritische Bemerkungen zu den l'ltgonautica' des Valerius Flaccus, in « Philologus >>, a. CXLV 2001, pp. 121-36; L. Landolfi, 'Rursus Hylan et rursus Hylan per longa reclamatiavia' (Val. Fl. Atg. 3, 596-597): intertestualità e dottrina nell'episodio del ratto di Ila, in « Pan >>, a. xx 2002, pp. 133-54; Id., Tra 'epos' e 'pathos': Oifeo, Io e le risorse de/l'intertestualità (Val. Fl. Arg. 4, 344-422), ivi, pp. 155-74; HJ. Tschie­ del, 'Rebus sempre pudor absit in artis' (Val. Flacc. 5,324), in « Aevum{ant) >>, n.s., a. II 2002, pp. 107-17; A. Perutelli, Ulisse a Sdro (e Giasone in Colchide): Stat. Ach. 1.734 ss., in « MD >>, n. LVI 2006, pp. 87-91. Sul mito nelle Atgonautiche: M. Wacht,juppiters Weltenplan im Epos des Valerius Flaccus, Stuttgart, Steiner, 1991; C. Salemme, Medea e il contagio d'amore, in « BStudLat >>, a. XXII 1992, pp. 3-21; C. Pellcch, Die Atgonauten. Eine Weltkulturgeschichte des Altertums, Frankfurt a.M., Lang, 1992; P. Toohey,Jason, Pallns and Domitian in Valerius Flaccus' Atgonautica, in « ICS >>, a. XVIII 1993, pp. 191-201; C. Salemme, Medea. Un antico mito in Valeria Fiacco, Napoli, Loffredo, 1993; MJ. Edwards, The role '![Hercules in Valerius Flaccus, in « Latomus >>, a. LVIII 1999, pp. 150-63; G. Manuwald, Die Argonauten in Kolchis: der Mythos bei Valerius Flaccus und Corneille. 54rgonautica' oder Iason und Medea in Iuppiters 'WeltenpLm: in « A&A >>, Schenk,

SCHEDE B IO-BIBLIOGRAFICHE a. XLVIII 2002, pp. 43-67; D. Elm von der Osten, Liebe als Wahnsinn. Die Konzeption der Giittin Venus in den 54rgonautica' des Valerius Flaaus, Stuttgart, Steiner, 2007. Su grammatica, lingua, stile, metrica: U. Gartner, Gehalt und Funktion der Gleichnisse bei Valerius Flaaus, Stuttgart, Steiner, 1994; U. Schmitzer, 'Praesaga ars': zur literarischen Technik der Ekphrasis bei Valerius Flaaus, in « WJA », a. XXIII 1999, pp. 143-6o; P.A. Zissos, Allusion and narrativepossibility in the 54rgonautica' ojValerius Flaaus, in « CPh », a. xciv 1999, pp. 289-301; F. Caviglia, Similitudini in Valeria Flaao: sotto il segno di Medea, in « Aevum(ant) », n.s., a. II 2002, pp. 3-34; P. Murgatroyd, Valerius Flac­ cus'lo Narrative, in « MH », a. LXIII 2006, pp. 29-38. Sulla trasmissione del testo e la fortuna: M.D. Reeve, Valerius Flaaus, in 1T, pp. 425-27; M. Lau­ letta, Aulo Giano Parrasio e il testo delle 54rgonautiche'di Valeria Flaao, in « Vichiana », s. III, a. III 1992, pp. 199-207; G. Liberman, Autour de l'archétype de la tradition de Valérius Flaaus, in « MEFRA », a. cv 1993, pp. 291-302; M. Lauletta, Un inedito di Aula Giano Parrasio: la 'Praefatio in Flaaum' dal cod. Neapolitanus Bibl. Nat. V D. 15, in « AION(fìlol) », a. XVII 1995, pp. 235-50; M. Scaffai, Valeria Flaao egli sco/ii. Son­ daggi dai libri 3 e 4 degli 54rgonautica', in « Prometheus », a. XXIII 1997, pp. 40-58; G. Ramires, Il codice di Settimuleio nella tradizione manoscritta di Valeria Flaao, in « SCO », a. XLVII 2000, pp. 289-327; A. Mo­ scadi, Il commento alle 54rgonautiche' di Valeria Flaao del cod. Laur. 52, 8, in S. Bianchetti et al. (curr.), Poi­ kilma: studi in onore di Michele R. Cataudella in oaasione del 6o0 compleanno, La Spezia, Agorà, 2001, pp. 955-63; B. Kobusch, Das 54rgonautica'-Supplement des Giovanni Battista Pio: Einleitung, Edition, Uberset­ zunj;, Kommentar, Trier, WvT, 2004; F. Hurka, Kein Beweisfur die Eigenstà"ndigkeit des 'Codex Carrionis'? Noch eimal zu Val. Flac. h 6]], in « MH », a. LXIII 2006, pp. 23-28; P.A. Zissos, Reception ojValerius Flac­ cus' 54rgonautica', in « IJCT », a. XIII 2006-2007, pp. 165-85.

VIRGILIO

La fama di Virgilio, già vivente il poeta, fu tale che ben presto intorno a lui dovette sorgere un mito, che oscurò o deformò i dati reali della biografia. Sappiamo con suffi­ ciente certezza che nacque ad Andes nei pressi di Mantova (l'identificazione con l'o­ dierna Piètole è tutt'altro che sicura) il 15 ottobre del 70 a.C. Sul mestiere del padre esi­ stono varie tradizioni. La Vita Donati, la piti lunga e complessa fra quelle giunte fino a noi e che si ha ragione di credere derivata dal Depoetis di Svetonio, dice che alcuni lo ri­ tenevano figlio di un vasaio {figulus), altri di un lavorante a giornata (mercennarius) pres­ so un modesto funzionario dello stato (viator), di cui avrebbe sposato la figlia, riuscendo a ingrandire i suoi possedimenti con l'acquisto di boschi e allevando api. Virgilio dun­ que sarebbe cresciuto in una casa di agiati proprietari terrieri, circostanza che sarebbe convalidata dalle ecloghe I e IX, se in esse, come si crede, sono adombrati fatti della vita del poeta. A detta delle fonti avrebbe compiuto gli studi prima a Cremona, poi a Mila­ no e quindi a Roma. Da Roma, dove avrebbe frequentato la scuola del retore Elpidio, il poeta passò a Na­ poli, dove sarebbe entrato nel circolo dell'epicureo Sirone. A Napoli dovette soggior­ nare a lungo se le Georgiche furono terminate in quella città ( Georg., IV 563 sg.: ilio Vergi­ lium me tempore dulcis alebat l Parthenope studiisjlorentem ignobilis o ti, 'in quel tempo nutriva me, Virgilio, la dolce Partenope, mentre ero tutto dedito ad attività proprie di un ozio senza gloria'). Gli anni della giovinezza del poeta sono particolarmente drammatici. Nel 44 a.C. l'uccisione di Cesare, che il poeta evoca con toni apocalittici nel finale del 1

SCHEDE B I O-BIBLIOGRAFICHE libro delle

Georgiche, segnò il riaccendersi delle guerre civili. Dopo Filippi (42 a.C.) Ot­

taviano pensò bene di ricompensare con assegnazioni di terreno i veterani di Cesare che avevano combattuto contro Bruto e Cassio e procedette a confiscare il territorio di Cremona, sospetta di aver parteggiato per gli uccisori di Cesare; successivamente la confisca investi anche la vicina Mantova. Pare che Virgilio riuscisse in un primo mo­ mento a evitare l'esproprio dei suoi beni, ma che in una seconda distribuzione non po­ tesse impedire che un miles mettesse piede nella terra dei propri avi. Secondo altri inve­ ce Virgilio dapprima avrebbe subito la confisca, ma poi sarebbe stato restituito alla sua proprietà grazie all'intervento di amici influenti vicini a Ottaviano. Se questi eventi so­ no rispecchiati nella I e nella IX ecloga la loro successione dipende dalla data di compo­ sizione dei due testi; in essi in ogni caso è riflessa, attraverso la finzione pastorale, la pe­ na del poeta che veniva toccato direttamente dalla crisi che travagliava la repubblica. Le Buwliche furono scritte, per ammissione del poeta, per incitamento di Asinio Poi­

)

lione e a lui dedicate (Bue., 8 11 sg.: accipe iussis l carmina coepta tuis . Pollione, oltre che sto­

rico insigne, fu poeta neoterico del circolo di Mecenate e uomo politico di spicco (do­ po Filippi

fu lui che come governatore della Gallia Cisalpina curò la distribuzione di

terre ai veterani e probabilmente intercedette per Virgilio presso Ottaviano). La tradi­ zione assegna la composizione di questa prima grande opera di Virgilio al periodo che va dal 42 al 39, dunque a un'età relativamente matura del poeta, il che porta a pensare che egli si fosse già cimentato in precedenza con la poesia. All'inizio della VI ecloga Vir­ gilio parla infatti dei suoi tentativi nel genere epico presto interrotti per intervento di Apollo

(Bue., 6 3-5), mentre nei frammenti poetici inseriti nella Ix ecloga si sono voluti

riconoscere relitti di componimenti e traduzioni giovanili. A proposito della produzione giovanile di Virgilio ci si imbatte in una spinosa que­ stione, quella della cosiddetta Appendix

Vergiliana. Sotto questo nome vanno vari com­ Vite di Donato e di Servio, at­ tribui alla giovinezza del poeta. La raccolta comprende Priapea, Catalepton ('Versi alla spicciolata'), nonché alcuni epilli di gusto neoterico: le Dirae ('Maledizioni', unite nella tradizione alla Lydia), il Culex ('La zanzara'), l'Aetna, la Capa ('L'ostessa'), la Ciris ('I.;airo­

ponimenti poetici che la tradizione, rappresentata dalle

ne'). A questi si aggiunsero in seguito altri componimenti sicuramente non virgiliani tra cui le Elegiae in Maecenatem e il Moretum ('La torta rusticana'). Oggi si tende a negare la paternità virgiliana di tutti questi componimenti e semmai a riconoscere per virgilia­

Catalepton, in cui si sono anche individuati motivi autobiografici. Georgiche, concepite tra il37 e il 3o a.C. La Vita di Donato ci informa che nell'estate del 29 a.C. Virgilio lesse per­ ni alcuni dei

Il passo successivo è rappresentato dalla composizione delle

sonalmente, durante quattro giorni, il poema ad Ottaviano, reduce da Azio e dalla vit­ toria finale su Antonio e Cleopatra, nel soggiorno riposante di Atella in Campania e che Mecenate, che ne aveva sollecitato la composizione

( Georg., m 41), lo sostituiva al­

lorché la voce veniva meno. Da questo momento fino al 19, anno della morte, Virgilio

attese a compiere l'ultima e piu grande fatica, l'Eneide, già annunciata nel proemio del m libro delle

Georgiche, dove manifesta l'intenzione di comporre un'opera che celebri le

imprese di Ottaviano e che dia gloria al suo cantore, ponendosi sulle orme di Ennio di

SCHEDE B I O-BIBLIOGRAFICHE

cui imita un verso {m 8 sg.: temptanda via est, qua me quoquepossim l tollere humo victorque vi­ rum volitareper ora, 'si deve tentare una strada per cui mi possa anch'io sollevare da terra e volare vittorioso sulle bocche di tutti'). Nel 19 Virgilio intraprende un viaggio in Gre­ cia, dove aveva progettato di trascorrere un triennio per rifinire il suo poema maggiore completando anche gli esametri lasciati incompiuti nella fretta di concludere l'opera. Ad Atene, già sofferente e stanco, incontrò Augusto che lo persuase a fare con lui il viaggio di ritorno. La morte, che lo colse poco dopo lo sbarco a Brindisi (21 settembre del w) , gli impedi di dare l'ultima mano al suo lavoro. Narra la Vita donatiana che Vir­ gilio morente chiese che gli venisse portato il manoscritto dell'Eneide per darlo alle fiamme, ma non fu ascoltato. La stessa cosa aveva raccomandato a Vario prima di parti­ re per la Grecia nel caso che non fosse tornato, ma anche allora ne aveva ricevuto un ri­ fiuto. Dopo la sua morte l'Eneide fu pubblicata per volere di Augusto, che ne affidò l'in­ carico ai fedeli Vario e Tucca, con la raccomandazione di correggere solo l'indispensa­ bile e di non aggiungere nulla. E nulla fu aggiunto, come testimonia la cinquantina di esametri non finiti {i cosiddetti tibicines) , che restano il segno visibile della fatica inter­ rotta. La fortuna di Virgilio fu, come è noto, fin da subito immensa. Come sappiamo in­ fatti da Svetonio { Gramm., 16) Q. Cecilio Epirota, che apri una scuola a Roma nel 26 a.C., aveva per primo introdotto in essa la lettura di Virgilio insieme a quella di altri au­ tori contemporanei. Virgilio fu largamente letto, commentato {il piti cospicuo fra i commenti giunti fino a noi è quello di Servio), imitato, diventando nelle età successive il modello assoluto di riferimento per la poesia cosi come Cicerone lo fu per la prosa. Nel Medioevo la fama di Virgilio precursore del Cristianesimo fu accolta anche da Dante, il quale attribui la presunta conversione di Stazio alla lettura della rv ecloga (Purg., xxn 64 sgg.). Questa singolare fortuna spiega la larga messe di manoscritti giun­ ti fino a noi. Fra essi vanno anzitutto ricordati quelli di età veneranda che ci tramanda­ no per intero o quasi le opere: il Florentinus Laurentianus XXXIX 1 {"Mediceo") del V sec., il Vaticanus Pal. Lat. 1631 {"Palatino") del V-VI sec., il Vaticanus Lat. 3867 {"Ro­ mano") del VI sec.; ad essi si aggiungono altri codici, piti o meno frammentari, tutti di età tardo-antica: il Vaticanus Lat. 3225 (le cosiddette schedae Vaticanae) del IV sec. ex., or­ nato di splendide miniature, il Veronensis XL 38 del V sec. ex., il Vaticanus Lat. 3256 {''Augusteo") del VI sec., il Sangallensis 1394 del VI sec. Numerosi sono poi i frammen­ ti pervenuti attraverso papiri ed altri supporti scrittori. A questi va aggiunta la grande fioritura di manoscritti di età carolingia e infine i recentiores, posteriori al IX sec. fino al­ l'età umanistica. Elementi interessanti si ricavano infine anche dalla vasta tradizione in­ diretta. Rassegne bibliografiche: G. Mambelli, Gli studi virgiliani nel secolo XX, Firenze, Sansoni, 1940; M.T. Morano Rando, Bibliografia virgiliana (1939-1g6o), Genova, La Quercia, 1987; W Donlan, The Classical World Biblioxraphy oJVerxil, New York, Garland Pubi., 1978; A.G. McKay, Vergilian Biblio­ graphy, in « Vergilius », a. IX- 1963-; M. Bonfanti, Bibliografia virgiliana italiana, poi Bibliografia virgilia­ na italiana: schede e commenti, in « AVM », a. L- 1982- (G. Baldo, in « AVM », n.s., a. XLVIII 2ooo); vd. anche a proposito delle singole opere.

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Muller, Formen und Funktionen der Vergilzitate bei Augustin von Hippo: Formen und Funktionen derZitate und An­ spielungen, Paderborn, Schoningh, 2003; M.T. Messina, ];autorità delle citazioni virgiliane nelle opere ese­ getiche di San Girolamo, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2003; Ch.M. McDonough-R.E. Prior-M. Stansbury, Servius' Commentary on Book Four ofVergil's Aeneid, Wauconda (IL), Bolchazy­ Carducci, 2004; R. Rees (cur.), Romane memento: Vergil in the Fourth Century, London, Duckworth, 2004; S. C. McGill, Virgil Recomposed: the Mythological and Secular Centos in Antiquity, Oxford-New York, Oxford Univ. Press, 2005. Medioevo e Rinascimento: D. Comparetti, Virgilio nel Medioevo, Firenze, Seeber, 18962; V. Zabughin, Virgilio nel Rinascimento italiano da Dante a Torquato Tasso, Bolo­ gna, Zanichelli, 1921 (rist. Trento, Univ., 2ooo) ; E. Leube, Fortuna in Karthago. 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INDICI

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE N OTEVOLI*

ablativo di limitazione: 581 n. "abracadabra" , formula della medicina popolare: 300. Absirto: 46 n. Accio: 130 n., 323. accumulazione verbale: 148 n. accusativo di relazione: 131 n., 581 n. Achille: 42 n., 62 n., 64 n., 396 n. Aetna: vd. Virgilio, Appendix Vergiliana. Afrodite "Amatusìa": 449 n. aggettivi composti: 177 n. Agostino e Terenziano Mauro: 294. alacris, nom. masch.: 50 n. Albinovano Pedone: 22, 705, 725 n. Alceo e Orazio: 464. 465, 489 n. sg., 496 n. Alcesti: 702. Alcesti di Barcellona: 25. Alcuino di York: 607alessandrinismo a Roma: 30-32, 33, 125 n., 417 sg., 423; a. di Virgilio: 227 n.; - a. e poema didascalico: 167. Alfeno Varo: 428 n., 438 n. Alfio Avito: 419· allitterazione: 35 n., 36 n., 37 n., 43 n., 46 n., 50 n., � n., g n., � n., � n., fu n., � n., � n., � n., 86 n., 151 n., 177 n., 187 n., 334 n., 342 n., 348 n., 350 n., 352 n., 362 n., 367 n., 368 n., 391 n., 394 n., 397 n., 398 n., 405 n., 408 n., 409 n., 434 n., 438 n., 439 n., 449 n., 450 n., 4� n., 455 n., 459 n., 462 n ., 477 n., 479 n., 482 n., 690 n. Ambrogio: 418. Ameinias, innamorato di Narciso: 79 n. Anacreonte e Orazio: 475 n. sg., 494 n. anafora: 81 n., 334 n., 343 n., 396 n., 450 n., 451 n., 461 n., 470 n., 478 n., 573 n., 654 n., 693 n., 732 n., 736 n., 743 n.

Anassagora e Lucrezio: 172 sg. Anassimene e Lucrezio: 172. Anco Marcio simbolo di ricchezza: 492 n. Andromeda: 531 n. Anfiteatro Flavio: 626 n., 716, 744 n. anima - a. e animus in Lucrezio : 172-74. 185 n.; teorie in Lucrezio: 184 n. Anneo Novato, Marco: 232. Anniano Falisco : 419. Annibale: 48 n. sg., 142, 143, 149 n., 150 n.

Anthologia Latina: 712. Anthologia Palatina e Marziale: 744 n. anus, agg.: 449 n. Aonia: 75 n. Apollo - dedica del tempio sul Palatino: 476 n. sg.; protettore dei pastori: 626 n. Apollodoro di Caristo e Terenzio: 358 n., 360 n., 369 n. Apollonio Rodio - A. e Catullo: 423; - A. e Valerio Fiacco: 24, 118 sg., 121 n., 123 n., 124 n., 126 n.; - A. e Virgilio: 39, 41, 46 n., 52 n. apostrofe: 82 n., 514, 717, 727 n ., 737 n., 746 n., 749 n.; - alla lettera: 441 n. Appendix Vergiliana: vd Virgilio. Aquilone, vento: 586 n. Arato di Soli - Fenomeni, traduzione ciceroniana: 418; - A. e Avieno: 248 , 250 sg.; - A. e Cicerone: 167, 248-so; - A. ed Esiodo: 167; - A. ed Eudosso: 167;

I:indice, pensato come aiuto alla consultazione del volume da patte del lettore, comprende nomi, termini e argomenti cui si è dato un certo rilievo nelle introduzionì e nelle note di com­ mento ai passi antologizzati, e ne permette una rapida individuazione (in corsivo sono evidenzia­ te le pagine in cui si è dismsso estesamente del lemma in questione); non sono state indicizzate la Presentazione e le Schede bio-bibliografiche. *

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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

A. e Germanico: 248-50, 252 n., 253 n., 254 n.; A. e Ovidio: 249; A. e Varrone Atacino: 249; A. e Virgilio: 167, 215, 218 n., 219 n., 228 n., 259 n.; - Aratus Latinus: 251; - provvidenzialismo stoico: 250. arcaismi: 20, 35 n., 37 n., 54 n., 55 n., 6o n., 75 n., 177 n., 178 n., 182 n., 189 n., 195 n., 333 n., 334 n., 341 n., 342 n., 346 n., 348 n., 352 n., 361 n., 362 n., 376 n., 381 n., 419, 427 n., 451 n., 455 n., 461 n., 479 n., 655 n., 667 n. Archestrato di Gela: 170. Archiloco e Orazio: 466, 494 n., 496 n. aretalogia: 714 n., 715 n. Argonauti: 24, 118 sg., 124 n. Arianna: 540 n. Aristeo in Virgilio: 216 sg. Aristio Fusco e Orazio: 473 n. sg. Aristotele - A. ed Empedocle: 167; - A. e Lucrezio: 190 n.; - A. e Omero: 167; - A. e Orazio: 287-89. Arsacidi, dinastia: 101 n. arti manuali, disprezzo per: 738 n. asindeto bimembre: 177 n., 223 n. Asinio Pollione: 464, 609 sg. astratto per il concreto: 137 n., 157 n., 428 n., 453 n., 471 n., 534 n.

A. e Virgilio: 579 n., 580 n., 581 n.; corrispondenza con Paolina di Nola: 590 n.; figli: 582 n., 583 n.; rapporto con la tradizione epigrammatica: 576 sg., 578 n.; - vicinanza allo stile epigrafico: 581 n.; - virtuosismo linguistico: 576. Austro, vento: 112 n. Aviano: 764; argomenti: 764; metrica: 764. Avie no: 167, 170, 250 sg., 264 sg.; - A. e Arato: 248, 250 sg.; - A. e Dionigi Periegeta: 170, 264 sg., 266 n. sg., 267 n., 268 n. sg.; - A. e Prisciano: 264 sg.; - A. e Virgilio: 266 n., 268 n.

-

astri

- Castore e Polluce propizi ai marinai: 468 n. sg.; - divinità in Manilio: 203 n. atellana: 322, 325. atomi in Lucrezio: 172-75. Attalo III, re di Pergamo: 673 n. Attiacus Atticus: 303 n. attrazione del sostantivo nel caso del relativo: 186 n. Augusto: 476 n. sg., 485 n.; - A. e Orazio: 286, 288 sg., 464, 465, 466, 483 n., 496 n.; - A. e Ovidio: 23, 72, 270 sg., 285 n.; - A. e Virgilio: 38, 41, 49 n., 214, 218, 223 n. Ausonio: 418, 419 sg., 499,576 sg., 607, 636 n.; - Parentalia: 576 sg.; possibile datazione: 580 n.; - A. e Marziale: 750 n.; - A. e Ovidio: 579 n., 580 n.; =

-

Babilonia, mura di: 90 n. basium: 427 n. Bavio: 6o6. Bibaculo, Marco Furio: 21, 419· Bione: 6o5. Boezio e Massimiano: 594· brachilogia: 107 n., 151 n., 593 n. bucolica: 605-8; vd. anche Calpurnio, Neme­ siano, Virgilio. Caesareus: 745· calchi dal greco: 344 n. Callimaco: 417, 419, 548 n., 724 n.; - Ibis: 463 n.; - C. e Catullo: 418, 423, 424, 448 n., 454 n., 463 n.; - C. e Orazio: 464, 466, 469 n., 489 n.; - C. e Ovidio: 70, 270. Calpurnio Pisone: 623 n. Calpurnio Siculo: 154, 6o6 sg., 611, 620 sg., 634; - Eclogae: 620 sg., 634; cronologia: 620, 622 n., 626 n., 627 n., 631 n., 632 n. sg.; lingua e stile: 621; - C. e Marziale: 739 n.; - C. e Nemesiano: 620 sg., 634, 636 n., 637 n., 64o n.; - C. e Teocrito: 620, 622 n., 625 n.; - C. e Virgilio: 620 sg., 622 n., 623 n., 631 n. Calvo, Caio Licinio: 22, 433-35 nn., 444 n., 446 n.; - Io: 70, 419; - epicedio per Quintilia: 578 n. Camilla: 61 n., 148 n.

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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI paronomasia: 429 n.; personificazione: 440 n.; poliptoto: 437 n.; ricercatezza stilistica: 425, 426 n., 437 n., 439 n., 447 n.; similitudini: 447 n., 449 n., 454 n., 455 n., 456 n.; sing. per plur.: 428 n.; tmesi: 432 n.; varietà di generi, metri e stili: 422, 423, 426 n.; - metrica e prosodia: 425, 430 n., 435 n., 451 n.;

Camillo, vincitore dei Galli: 106 n. Campana Augusto: 710, 752. Campo Marzio: 103 n., 106 n., 622 n., 626 n. cani domestici: 702 n. sg. canina littera: 731 n. Carmen defiguris ve/ schematibus: 170. Carmina Einsidlensia: 154, 6o6, 611, 621. Caro, imperatore: 634. Carre, battaglia di: 101 n. Cartagine - inimicizia con Roma: 40 sg., 42 n., 46 n., 48 n., 142 sg. Catalepton: vd. Virgilio, Appendix Vergiliana. Catone il Censore: 487 n.; - C. e la caccia: 238; - C. e Columella: 233. Catone Uticense: 98 sg., 100 n., 103 n., 107 n. Catullo: 378 n., 395, 417 sg., 419, 422-25, 595;

- modelli greci: 423; Apollonia Rodio: 423; Callimaco: 423, 424, 448 n., 454 n.; Omero: 450 n., 451 n., 454 n.; poesia arcaica: 423; poe­ sia ellenistica: 423; Saffo : 423, 431 n., 456 n.; - realismo e quotidianità: 424 sg., 426 n., 428 n., 430 n., 433 n., 438 n., 441 n., 447 n., 451 n.; - temi: 424, 426 n., 708; affetti: 425; amicizia: 424, 426 n., 428 n., 438 n., 441 n., 444 n.; amo­ re: 424, 430 n. sg., 441 n., 444 n., 447 n., 450 n., 457 n., 458 n., 459 n., 460 n., 461 n.; apostrofe alla lettera: 441 n.; "carpe diem": 426 n. sg.; in­ vettiva: 423, 424, 426 n., 431 n., 436 n., 446 n., 462 n.; mito: 447 n., 450 n. sg., 452 n., 453 n., 455 n., 458 n.; riflessione letteraria: 424, 426 n., 430 n., 433 n., 436 n., 441 n., 443 n., 444 n., 445 n., 449 n.; viaggio: 431 n.; - C. e Cesare: 432 n., 446 n.;

- Liber: dediche e destinatari: 419, 424, 436 n.;

ordinamento: 422 sg.; struttura singoli carmi: 425, 447 n., 460 n.; unitarietà e pubblicazione: 419, 435 n.; - carmina docta: 422, 424, 426 n.; c. 64, influen­ za sulla Didone virgiliana: 41; dedica a Orta­ lo del c. 65: 448 n.; elegia etiologica da Calli­ maco: 423, 448 n.; epitalamio: 424; epillio: 22, 423; prototipi di elegia: 423, 446 n. sg., 460 n.; unità del c. 68: 447 n. sg., 452 n.; - epigrammi: 707 sg.; dimensione dei com­ ponimenti: 708; lingua e stile degli e.: 708; te­

- C. e Cicerone: 442-44 nn.; - C. e gli elegiaci: 509 sg.; - C. e Giovenale: 689 n.; - C. e Marziale: 724 n., 748 n., 749 n.; - C. e Massimiano: 595, 601 n.; - C. e Orazio: 466, 474 n. sg., 491 n.; - C. e Ovidio: 76 n., 546 n. sg.; - C. e Properzio: 451 n., 533 n.;

mi: 7o8; - lingua e stile del Liber: 425, 708; allittera­ zione: 434 n., 438 n., 439 n., 449 n., 450 n., 452 n., 455 n., 459 n., 462 n.; anafora: 450 n., 451 n., 461 n.; arcaismi: 419, 427 n., 451 n., 455 n., 461 n.; astratto per il concreto: 428 n., 453 n.; chia­ smo: 438 n., 450 n., 459 n.; diminutivi: 440 n., 445 n.; disposizione delle parole nel v.: 428 n., 450 n., 451 n., 452 n., 454 n., 457 n., 459 n., 462 n.; enallage : 435 n., 440 n., 445 n., 462 n.; en­ diadi: 452 n., 462 n.; figura etimologica: 439 n., 440 n., 450 n.; grecismi: 429 n.; hapax: 428 n.; hysteron proteron: 445 n.; ironia: 431 n., 432 n., 443 n.; lessico comico: 425, 429 n.; lessico erotico: 433 n., 444 n., 445 n., 449 n., 455 n., 456 n., 458 n., 460 n., 462 n.; lessico solenne: 432 n., 438 n. sg., 443 n., 456 n.; lingua d'uso: 425, 428 n., 429 n., 430 n.; movenze inniche : 460 n.; neologismi: 445 n., 453 n. sg., 455 n., 456 n.;

- C. e Seneca: 395 n.; - C. e Stazio: soo n., 501 n.; - C. e Virgilio: 41, 50 n., 432 n., 454 n., 481 n.; - Sirmione: 439 n. sg.; - viaggio in Bitinia: 427 n. sg., 429 n., 439 n. sg., 447 n. Catulo, Quinto Lutazio: 418, 707. Cecilio, sodale di Catullo : 419, 441 n. sg. Cecilio Stazio: 324; - C. e Orazio: 291 n. cedo: 342 n. Cefiso, fiume: 75 n. Celso e Sereno: 301. Cesare e Pompeo - guerra civile: 98 sg., 100-4 nn., 128. Cesio Basso: 623 n.; - C. e Terenziano Mauro: 295.

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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI Cicerone, Marco Tullio: 34, 35, 418 sg.; - poemi epici: 21; - C. e Arato: 167, 248-so, 418; - C. e Catullo: 442-44 nn., 446 n., 463 n.; - C. e Germanico: 249 sg.; - C. e Lucilio: 655 n.; - C. e Rutilio Namaziano: 588 n., 590 n.; - C. e Sereno: 300, 302 n. sg. Cicerone, Quinto Tullio e la poesia astronomi­ ca: 249. ciclo tebano: 130 n. Cinna, Caio Elvio: 22, 419, 424, 430 n., 441 n., 6o6; - Zmyrna: 70. Cinzia: 512, 528, 597 n., 689 n. Ciris: vd. Virgilio, Appendix Vergiliana. dta, con valore avverbiale: 35 n. Claudiano: 25, 154 sg., 499, 607, 636 n.; - De bello Gothiw: 154 sg.; adesione alla politica di Stilicone: 156 n., 161 n., 585; istanze cele­ brative nell'epica: 154 sg.; lingua e stile: 154; richiamo a formule americhe: 157 n.; - C. e l'Aetna: 257; - C. e Giovenale: 690 n. CIE e Ovidio: 97 n. Clono: 62 n. Cocito: 389 n., 482 n. coliambo (o scazonte) : 676. colomba es. di fedeltà: 455 n. Colosseo: vd. Anfiteatro Flavio. Colosso di Nerone: 725 n. Columella: 169 sg., 232 sg.; - C. e Catone: 233; - C. e Lucrezio: 234 n., 236 n.; - C. e il Moretum: 233; - C. e Palladio: 233; - C. e Varrone Reatino: 233; - C. e Virgilio: 169 sg., 232 sg., 234 n., 235 n., 236 n., 237 n. Cominio, Publio e Caio: 462 n. sg. commedia: 322 sg., 324; vd. anche palliata, Plau­ to, Terenzio, togata. comparativo da sostantivo: 430 n.; comparativo in clausola: 749 n. Corico, monte: 745 n. Corinna: 513, 544. Corippo, Flavio Cresconio: 15J. Cornelio Gallo: 510 sg., 516 sg., 544, 594, 596 n., 6o6, 609 sg., 619 n.; - C. e il finale delle Georgiche: 216 sg.

Cornelio Severo: 22. Cornificio, Quinto: 22, 419. - Glauco: 70. Cornuto, amico di Tibullo: 520 n. sg. Cornuto, Lucio Anneo, maestro di Persia: 676. Coro, vento: 113 n. Corpus Tibullianum: 512. correptio iambica: 446 n. corsa del cocchio simbolo dell'attività poetica: 235 n. sg., 252 n. sg. Corsica: 714 n. coturnata: 323, 384. Crasso, Marco Licinio: 101 n. Culex: vd. Virgilio, Appendix Vergiliana. Curi: 537n. Danaidi: 62 n., 482 n., 703 n. Dante Alighieri - D. e Lucano: 107 n., 108 n., 110 n., 111 n., 112 n., 115 n., 116 n.; - D. e Ovidio: 73, 96 n.; - D. e Stazio: 128, 130 n., 137 n., 139 n., 140 n.; - D. e Virgilio: 42 n., 49 n., 50 n., 51 n. sg., 219 n., 391 n. dativo in luogo del genitivo: 180 n. sg., 211 n. Dedalo e Icaro: 721 n. sg. deittico: 338 n., 341 n., 343 n., 401 n. Delia: 511, 518, 597 n. Democrito e Orazio: 288. demone personale: 55 n. sg. didascalica, poesia: 167-71. "didascalie sceniche": 341 n., 344 n. Didone - D. negli Epigrammata Bobiensia: 754; - D. in Nevio (?): 31, 40 sg.; - D. in Virgilio: 34 n., 40, 42-49 nn., 59 n., 64 n., 66 n., 67 n., 68 n., 390 n., 396 n.; "Elissa": 47 n.; diminutivi: 440 n., 446 n., 535 n., 693 n. sg., 733 n. Dionigi di Alicarnasso e Terenziano Mauro: 295· ps. Dionigi di Alicarnasso: 155. Dionigi figlio di Callifonte, geografo: 264; - D. e Dionigi Periegeta: 264. Dionigi Periegeta - D. e Avieno: 170, 264 sg., 266 n. sg., 267 n., 268 n. sg.; - D. e Dionigi figlio di Callifonte: 264; - D. e Prisciano: 170, 264 sg.; - D. e Pseudo-Scimno: 264.

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVO LI Dioniso: 135 n., 638 n., 639 n., 640 n., 641 n. Dioscoride e Sereno: 301. Dire: 47 n., 64 n., 65 n., 67 n. divisione delle parole nei mss.: 448 n. Dolone: 557 n. sg. Domiziano, dedicatario delle opere di Stazio: 98, 498 sg., 501 n. Domizio Marso: 22. Donato Elio: 611. Draconzio, Blossio Emilio: 155, 636 n. Ecate: 47 n. eco, effetto in Ovidio: 77 n., 78 n. Edipo: 722 n. Edituo, Valerio: 707. ekkyklema: 412 n. ekphrasis: So n., 502 n., 752. elegia: 423, 446 n. sg., 460 n., 509-17, 576 sg., 578 n., 584 sg., 594 sg., 596 n., 6o9; - canone: 509; - e. etiologica: 423; - giudizio di Quintiliano: 509; - modelli: 509; - onguu: 509 sg. ellissi: 145 n., 147 n., 148 n., 554 n.; interrogativa ellittica: 681 n. Emilio Macro: 169. Empedocle - E. e Aristotele: 167; - E. e Lucrezio: 172. enallage: 126 n., 435 n., 440 n., 445 n., 462 n., 497 n. Endelechio: 607. endiadi: 35 n., 46 n., 66 n., 125 n., 452 n., 462 n. Enea - epiteti: 492 n.; - morte: 48 n.; - padre di Ilia: 34 n. enjambement: 469 n., 482 n., 690 n., 700 n. Ennio: 21, 29,32 sg., 98; - Anna/es: 21,32 sg.; adozione dell'esametro epi­ co greco: 21, 33; apparato mitologico: 21; sto­ ria romana: 21, 32, 34 n.; - influenza: 21, 23, 33, 34 n., 36 n.; Silio !tali­ co: 37 n.; Stazio: 37 n.; Virgilio: 23, 34 n., 36 n. sg., 39, 40, so n., 55 n., 61 n., 63 n., 65 n.; - lingua e stile: 32, 34 n.; allitterazione: 35 n., 36 n., 37 n.; arcaismi: 35 n., 37 n.; disposizione delle parole nel v.: 35 n., 36 n., 37 n.; endiadi:

35 n.; figura etimologica: 36 n.; omeoteleuto: 36 n., 37 n.; onomatopea: 37 n.; paronomasia: 37 n.; - modelli: epica ellenistica: 21, 34 n.; Nevio: 32; Omero: 21, 32 sg., 34 n., 36 n.; - commedie: 32, 322 sg.; - epigrammi: 417; - Hedyphagetica: 170; - Saturae: 32, 417, 647 sg.; lingua e stile: 648; - tragedie: 32, 34 n., 322 sg.; influssi italici: 30 sg.; lingua e stile: 21; modelli greci: 30; - E. ed Epicarmo: 167 sg.; - E. e Lucrezio: 167 sg., 178 n., 184 n., 185 n., 192 n.; - E. e Omero: 185 n.; - E. e Orazio: 662 n.; - E. e Persio: 679 n.; - E. e Silio Italico: 142. Enomao: 405 n., 407 n. Eous: 746 n. epanalessi: 581 n., 642 n. epica: vd. epos. Epicarmo ed Ennio: 167 sg. epicedio: soo, 505. Epicuro - E. e Lucrezio: 172-75, 176 n., 179 n., 181 n., 184 n., 186 n. sg., 194 n.; - E. e Marziale: 750 n. Epidamno, etimologia: 333 n. epigramma: 417 sg., 423, soo, 576 sg., 578 n., 707u; - e. alessandrino: soo n., 501 n.; - nascita del genere a Roma: 707. Epigrammata Bobiensia: 710, 752 sg.; datazione: 752 sg.; metri: 752; ordinamento: 752; ossi­ moro: 757 n.; temi: 752; testo: 754 n. sg.; tra­ duzioni dal greco: 752, 754 n.; - E. B. e Ovidio: 756 n.; - E. B. e Properzio: 754 n. sg.; - E. B. e Virgilio: 754 n., 755 n. epillio: 22, 70, 419, 423, 442 n. epitafìo: 576 sg., 707, 720 n.; - formule: illa ego sum: 754 n.; sit tibi terra levis: 714 n., 715 n., 732 n. epitalamio: 424· epos: 17-29; allegoria: 25; apparato mitologico: 20, 21; arcaismi: 20; drammatizzazione: 20; soggettivismo e compartecipazione del nar­ ratore: 20-22; solennità: 19, 20;

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I N D I CE D E I N O MI E D E L LE C O SE N O TE V O L I

e. arcaico: 20 sg., JD-J'J', e. di età flavia: 23-25, 118 sg.; e. di età tarda: 25, 154 sg.; e. prelettera­ rio: 19 sg.; - e. "biblico": 25; e. didascalico: 21, 25; e. e storia: 20, 21, 98 sg., 142 sg., 154; e. e tragedia: zo; - modelli greci: 19-21; influssi italici: 19 sg. Eraclito - E. e l'Aetna: 256; - E. e Lucrezio: 172. Ercole - invocazione a: 334 n. sg., 346 n.; - ospite di Evandro: 58 n. sg. eredità: 454 n. sg., 492 n. Erifìle: 703 n. Ermafrodito: 723 n. esametro adozione dell'e. epico greco : 21, 33; - e. olodatrilico: 35 n.; e."spondiaco": 66 n., 117 n., 451 n., 727 11., 744 n. Eschilo e Seneca: 385. Esiodo: 167, 471 n., 489 n.; - E. e Arato: 167; - E. e Giovenale : 688 n. sg.; - E. e Lucrezio: 167; E. e Orazio: 471 n.; E. e Ovidio: 23, 70; - E. e Virgilio: 167, 215. ps. Esiodo - Catalogo delle donne e Ovidio: 70; - ' Hoìat e Properzio: 531 n. Esopo modello di Fedro: 438 n., 762. esposizione dei neonati: 371 IL etimologie e figure etimologiche: 36 11., 43 n., 53 n., 6 6 n., 108 n., 110 n., 113 n., 117 n., 333 n., 334 n., 339 n., 340 IL, 341 n., 342 n � 344 n., 349 n., 350 n., 36o n., 362 n., 368 n., 377 n., 397 n., 406 n., 407 n., 439 n., 440 n., 450 n., 474 n., 475 n., 479 n., 480 n � 495 n � 559 n. etio logica, poesia: 70, 170, 529. Ettore - duello con Achille: 64 n., 67 n.; duello con Pallante: 56 n., 58 n., 61 n., 62 n. Eudosso di Cnido - E. e Arato: 167; - E. e Ipparco : 249. Euforione di Calcide: 419, 615 n. Euridice, moglie di Enea: 35 n. Euripide - E. e Marziale: 748 n.;

- E. e Seneca: 385, 386, 396 n.; - E. e la tragedia romana: 323; - E. e Valeria Fiacco: 127 n. Euro, vento: 104 n. ex-voto: 472 n. sg. Fabullo: 441 n. foce =Jàc: 334 n. Falerno, vino: 739 n. favola: 76Hg.; occorrenze negli autori greci e latini: 761 sg. faxint, ottarivo arcaico: 341 n. jècenmus: 427· Fedro : 761, 762 sg.; aemulus di Esopo: 762; eufe­ mismo: 768 n.; lingua: 763; misoginia: 763. 766 n.; morale delle favole: 762 sg.; novella della matrona di Efeso: 763; terni: 763; testo: 767 n. sg.; F. e Petronio: 766-68 nn. Fèneo: 453 n. fervere: 44 n. fescennini: 321 sg. "fiamma d'amore": 77 n. Filargirio: 616 n. Fiacco, amico di Marziale: 721 n. fonte maliaca: 449 n. Fonzio Bartolomeo: 122 n. Fors Fortuna: 370 n. Foscolo Ugo - F. e Lucrezìo: 184 n.; - F. e Massirniano: 515. fratricidio di Remo: 496 n. sg. Furie: 117 n.,123 n., 127 n., 131 n. furor: 385, 388 n., 389 sg., 393 n., 738 n. Gallione: vd. Anneo Novato, Marco. Gallo: vd. Cornelio Gallo. Garda, lago "!idio": 440 n. sg. Gaurico Pomponio: 515. genitivo in -iii: 37 n., 55 n., 178 n., 189 n. Germanico, Giulio Cesare: 167, 249 sg.; - G. e Arato: 248-50, 252 n., 253 n.,254 n.; G. e Ovidio: 252 n., 271; - G. e Virgilio: 252 n., 253 n., 255 n.; - linguaggio poetico: 250; - modelli: 249 sg. Getulico, Lentulo: 708. Giasone: 118 sg., 120 n., 122 n., 123 n., 124 n., 125 n., 126 n., 127 n.

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I NDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI gioco dei dadi, paragone con la vita umana: 382 n. Giovenale: 595, 650, 686 sg.; bersagli satirici: 686; cronologia: 698 n.; interpolazione: 692 n., 694 n.; "prima" e "seconda maniera": 687; terni: 686 sg.; testo: 694 n. sg.; - lingua e stile: 650, 687; allitterazione: 690 n.; anafora: 693 n.; ossimoro: 692 n.; proverbi: 695 n.; - G. e Catullo: 689 n.; - G. e Claudiano: 690 n.; - G. ed Esiodo: 688 n. sg.; - G. e Lucrezio: 689 n.; - G. e Marziale: 694 n., 700 n., 739 n.; - G. e Persia: 678 n.; - G. e Properzio: 689 n.; - G. e Seneca: 702 n., 703 n.; - G. e Virgilio: 699 n., 702 n. Giovenco: 25. Giulia, figlia di Cesare: 99, 101 n., 102 n. Giunio Tiberiano: 634. yvw{h oeau1:6v ('conosci te stesso'): 75 n., 724 n. Goethe e Ovidio: 566 n. Gordiano I, imperatore: 634. Grattio: 169, 238 sg.; - G. e Lucrezio: 238; - G. e Nemesiano: 243 n. sg., 245 n., 246 n. sg.; - G. e Senofonte: 238; - G. e Virgilio: 238, 240 n., 241 n. sg., 242 n.; - paupertas: 240 n.; - plurale "generalizzante": 241 n. hapax: 115 n., 428 n., 472 n., 477 n., 723 n. hysteron proteron: 56 n., 399 n., 445 n. iato: 615 n. Icaro: vd. Dedalo. Ila: 199, 723 n. illisce, nom. plur: 333 n. Imerio: 155. invideor, costtuito personalmente: 291. Io: 532 n. ipallage: 57 n., 65 n., 146 n., 147 n., 404 n., 413 n., 471 n., 477 n., 482 n., 487 n., 489 n. iperbole: 157 n., 746 n. Ipparco di Nicea: 249. Ippocrene, fonte: 678 n. Ipponatte e Orazio: 466. ipsus = ipse: 348 n. ironia tragica: 83 n. iuncta mors: 92 n. sg.

Jacoby Felix e l'elegia latina: 509. Kreuzung der Gattungen: 584. Laodamia: vd. Protesilao. Lar, metonimia per casa: 568 n. sg. Lattanzio e Lucilio: 654 n. Lauso assimilato a Pallante: 56 n., 57 n., 63 n. lavoro, concezione in Virgilio: 168. Lebedo: 673 n. Leges XII Tabularum: 454 n. sg. leggi contro brogli elettorali: 106 n. Leo Friedrich e l'elegia latina: 509. Lesbia: 597 n., 689 n. Levio: 418; - Protesilaudamia: 451 n. lex Roscia theatralis: 495 n. libellus: 434 n. librarius: 435 n. libro antico: 436 n. sg., 444 n. Licino, Porcia: vd. Porcia Licino. Licoride: 511, 513, 515, 594, 596 n., 597 n., 598 n., 599 n. "Lieo", epiteto di Bacco: 487 n., 640 n. Ligdamo: 512. lingua e stile: vd. accusativo di relazione, allit­ terazione, anafora, arcaismi, asindeto, astrat­ to per il concreto, brachilogia, calchi dal gre­ co, diminutivi, ellissi, enallage, endiadi, en­ jambement, epanalessi, genitivo in -iii, plurale "generalizzante", hapax, hysteron proteron, ipallage, litote, metonimia, onomatopea, si­ neddoche, singolare collettivo. lingua popolare: 695 n. linguaggio, teoria - in Lucrezio: 187 n., 194 n. sg.; - in Orazio: 288 sg., 290 n., 291 n., 292 n., 293 n. linguaggio gladiatorio: 157 n. lirica: 417-21; - d'occasione: 498sg.; - fruizione privata: 417; - modelli greci: 417-19; Callimaco: 417, 418, 419; Euforione: 419; lirica arcaica: 417; lirica ellenistica: 417 sg., 419; Meleagro: 418; Parte­ nio di Nicea: 419; - molteplicità di tipologie: 418. Liriope, ninfa: 75 n. litote: 158 n. Livio: 321, 322;

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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI - L. e Sereno: 300; - L. e Silio Italico: 142 sg., 149 n., 151 n. Livio Andronico: 20, 29-31; - Odusia: 20, 31; arcaismi: 20; drammatizzazio­ ne: 20; influenza della tragedia: 20; influenza di Omero: 20; influenza ellenistica: 20; in­ flussi italici: 20; modelli greci: 20; saturnio: 20; stile: 20, 31; - partenio: 417; - teatro: 322 sg., 330; - modelli greci: 29 sg.; influssi italici: 29 sg. locus amoenus: 750 n., 751 n. Lucano: g8 sg., 119, 128, 154; - Bellum civile: 23 sg., g8 sg.; gusto dell'orrido: 99, 114 n.; influenza della tragedia di Seneca: 24; lingua e stile: 24, 99; modello virgiliano: 24, 98 sg.; pathos: 116 sg., 120 n.; rapporti con Nerone: 24, 98; stoicismo: 24; tendenza filo­ repubblicana: 24; - Silvae, poema perduto: 419; - Commenta Bernensia: 107 n.; - fonti scientifiche ellenistiche: 107 n., 108 n., 113 n., 114 n., 115 n., 117 n.; - hapax: 115 n.; - L. e Dante: 107 n., 108 n., 110 n., 111 n., 112 n., 115 n., 116 n.; - L. e Nicandro: 107 n.; 108 n., 113 n., 114 n., 115 n., 117 n.; - L. e Ovidio: 93 n. sg., 110 n.; - L. e Stazio: 128; - L. e Valerio Flacco: 119. Lucilio: 584, 647 sg., 652 sg.; metrica: 651; reali­ smo: 648; temi: 648, 652; titolo dell'opera: 652; - adozione dell'esametro: 652; - lingua: 648, 653; anafora: 654 n.; anastrofe: 655 n.; poliptoto: 654 n.; - L. e Cicerone: 655 n.; - L. e Lattanzio: 654 n.; - L. e Marziale: 723 n.; - L. e Orazio: 654 n., 656 n. Lucillio e Marziale: 709. Lucrezio: 21, 167-69, 172-75, 407 n., 595; - epica didascalica: 21; poetica: 173, 297 n.; - fonti e modelli: Anassagora: 172 sg.; Anassimene: 172; Aristotele: 190 n.; Empedocle: 172; Ennio: 21, 167 sg., 178 n., 184 n., 185 n., 192 n.; Epicuro: 172-75, 176 n., 179 n., 181 n., 184 n., 186 n. sg., 194 n.; Eraclito: 172; Esiodo: 167; Pi-

tagora: 184 n.; Platone: 184 n., 194 n. sg.; Tale­ te: 172; - lingua: aggettivi composti: 177 n.; allittera­ zione: 177 n., 187 n.; arcaismi: 177 n., 178 n., 182 n., 195 n.; asindeto bimembre: 177 n.; at­ trazione del sostantivo nel caso del relativo: 186 n.; dativo in luogo del genitivo: 180 n. sg.; genitivo in -ii!: 178 n., 189 n.; iterazione: 174; "pleonasmo illogico": 184 n.; "-s caduca": 188 n.; suadeo con l'accusativo: 186 n.; - L. e l'Aetna: 169, 256, 258 n., 259 n., 260 n., 262 n.; - L. e Columella: 234 n., 236 n.; - L. e Foscolo: 184 n.; - L. e Germanico: 25o; - L. e Giovenale: 689 n.; - L. e Grattio: 238; - L. e Manilio: 168 sg., 191 n., 200, 202 n., 203 n., 205 n.; - L. e Orazio: 292 n., 673 n.; - L. e Ovidio: 309 n., 313 n., 574 n.; - L. e Seneca: 397 n., 407 n.; - L. e Sereno: 302 n.; - L. e Terenziano Mauro: 297 n.; - L. e Tibullo: 527 n.; - L. e Virgilio: 23, 39, 40, 45 n., 53 n., 61 n., 65 n., 168, 178 n., 188 n. sg., 196 n. sg., 215 sg., 221 n., 619 n.; - temi: amore: 174; anima e animus: 172-74, 184 n., 185 n.; atomi: 172-75; linguaggio: 187 n., 194 n. sg.; religio: 172, 175, 177 n.; simulacra: 174. 184 n. sg. ludi: 321, 322. ludia: 697 n. lusus, ludere, riferito ad amore e/o a poesia: 444 n., 445 n.; ludere = 'comporre poesia leggera': 721 n. lux = 'donna amata': 737 n. Macrobio: 36 n., 611. mage = magis: 6o n., 361 n., 362 n., 376 n., 381 n. Magna Mater, poema di Cecilio: 442 n. male, malum, con valore intensivo: 430 n., 434 n., 435 n. Manilio: 200 sg.; astri come divinità: 203 n.; dati­ vo in luogo del genitivo: 211 n.; stoicismo: 169, 200 sg., 202 n., 203 n., 206 n.; - M. e l'Aetna: 260 n.; - M. e Lucrezio: 168 sg., 191 n., 200, 202 n., 203 n., 205 n.;

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I ND I C E D E I N O M I E D E L LE C O S E N O T E V O L I

- M. e Orazio: 205 n.; M. e Ovidio: 200; - M. e Virgilio: 200, 204 n., 205 n., 208 n. sg., 211 n. manumissio: 334 n� 336 � 337 n. Màrato, ciclo di: 511, 518. Marcella, patrona di Marziale: 751 n. Marcello, medico: 300. Marso, Domizio: 708, 725 n., 752; Cicuta, raccol­ ta di epigrammi: 708, 725 n.; componente ce­ lebrativa: 708. Marullo Michele e il testo di Lucrezio: 179 n., 186 n. Marx, legge di: 745 n. Marziale: 142, 595, 709 sg., 716-19; caratteristi­ che e tipologie dell'epigramma: 717 sg., 720 n. sg.; celebrazione imperiale: 717; cicli: 734 n.; cronologia: 716 sg.; epigramma lungo: 724 n.; gusto per il catalogo: 720 n.; ius trium lìbe­ rorum: 716; metri: 716; paradosso conclusivo : 721 n. sg.; polemica contro la poesia mitolo­ gica: 709; rapporto con il lettore : 718; reali­ smo: 709, 724 n.; struttura dei libri: 716; suc­ cesso: 722 n.; temi: 709 sg.; - Liber spectaculorum: 720 n.; - lingua e stile: 718 sg.; anafora: 732 n., 736 n., 743 n.; antonomasia: 721 n., 736 n., 739 n.; apostrofe: 717, 727 n., 737 n., 746 n., 749 n.; · anpoaoox:rp:ov: 720 n.; cltiasmo: 730 n., 733 n., 743 n.; fonosimbolismo: 731 n.; metafora: 725 n., 726 n., 740 n.; metonìmia: 722 n., 731 n., 747 n.; omeoteleuto: 743 n.; ossimoro: 723 n., 725 n.; slittamento semanrico: 733 n.; volgari­ smo: 743 n.; M. e Ausonio: 750 n.; - M. e Calpurnio Siculo: 739 n.; - M. e Giovenale: 694 n., 700 n., 739 n.; - M. e Lucilli o: 709; - M e Petronio: 738 n., 742 n.; - M. e Querolus: 748 n.; - modelli: 719; Anth. Pal.: 744 n.; Catullo: 709, 724 n., 748 n., 749 n.; Epicuro: 750 n.; Euripi­ de: 748 n.; Lucilio: 723 n.; Orazio: 725 n., 729 n., 738 n., 742 n.; Ovidio : 548 n. sg., 726 n., 739 n., 740 n., 741 n.; Persio: 740 n.; Seneca: 750 n.; Virgilio: 731 n., 751 n. Marziale, Giulio, amico di Marziale: 747 n. Massimian.o: 515, 594 sg.; autobiografismo: 6oo n. sg.; lingua e stile: 595;

- M. e Boezio: 594; - M. e Catullo: 595, 601 n.; - M. e Foscolo: 515; M. e Orazio: 599 n., 601 n.; - M. e Ovidio: 515, 595; M. e Properzio: 595,596 n. sg., 601 n.; - M. e Tibullo: 595, 597 n. matrimonio romano: 376 n., 378 n., 381 n., 450 n., 457 n. Mazio, 1:-"PL, 12 2 BI.: 455 n. Me cenate - FPL, 3 1 sg. BI. e Catullo: 433 n.; - M. e Orazio: 464, 466, 469 n., 483 n. sg., 485 n., 496 n. med = me: 335 n. Medea: 118 sg., 120 n., 121 n., 122 n ., 123 n., 124 n., 125 n., 126 n., 127 n., 411 n., 412 n.; - M. e Didone: 41, 46 n., 119, 121 n.,126 n.; M. e Fedra: 392 n. Medicina Plinii e Sereno: 300 sg. Meleagro di Gadara: 418,578 n., 617 n. Memmio, Caio: 172, 176 n., 178 n., 179 n., 429 n. Menandro M. e Pianto: 329; - M. e Terenzio: 354. 355, 358 n ., 374 n., 378 n.

Menandro Retore: 155· Mentore: 728 n. meraviglie del mondo: 744 n. Merobaude: 2.5, 155. Messalina: 692 n. Messalla Corvino: 486 n. sg.; - "circolo" di M.: .512, 518, 6o6. metafora: 77 n., 226 n., 46.5, 487 n ., .510, .523 n., 532 n., 567 n., 659 n., 684 n., 677, 700 n., 725 n., 726 n., 740 n . metonimia: 82 n., 389 n., 407 n ., 413 n., 465, 495 n., 497 n., 531 n., 535 n. , 549 n., 568 n. sg., 683 n.,

722 n., 731 n., 747 n. metrica: vd. coliambo, correptio iambica, esame­ tro, iato, Marx (legge di), monodistico, satur­ nio, versi ipermetri, versus aureus. Mevio: 6o6. militia amoris: 6oo n. Mimnermo: 536 n. mimo: 325. Mirtilo: 407 n. mise en a bime ('racconto a cornice') : 72, 89 n. misere, avv. rafforzativo: 375 n., 378 n. Mitridate: 703 n.; mitridatismo: 703 n.

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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI monodistico: 708, 716, 719, 720 n., 725 n. Mopsopia = 'Attica': 392 n., 404 n. Moretum: vd. Virgilio, Appendix Vergiliana. Mosco: 6o5. multa, con valore avverbiale: 36 n., 68 n. murra, coppe di: 727 n. Naucellio: 710, 752 sg. naufragio: 458 n., 472 n. sg. Navagero Andrea e il testo di Lucrezio: 190 n. navigazwne - es. di hybris: 468 n.; - simbolo dell'attività poetica: 207 n., 271. Nèmesi: 446 n., 451 n., 511, 519, 525 n. Nemesiano: 154, 169, 239, 607, 611, 621, 634 sg.; lingua e stile: 635; - N. e Calpurnio: 620 sg, 634, 636 n., 637 n., 640n.; - N. e Grattio: 243 n. sg., 245 n., 246 n. sg.; - N. e Oppiano: 239; - N. e Senofonte: 239; - N. e Teocrito: 636 n., 637 n., 643 n.; - N. e Virgilio: 239, 242 n., 243 n., 244 n. sg., 634 sg., 636 n., 637 n., 638 n., 639 n., 641 n., 643 n. neologismo: 54 n., 61 n., 65 n., 350 n., 375 n., 445 n., 453 n. sg., 455 n., 456 n., 682 n. neoteroi: vd. "poeti nuovi". Neottolemo di Paria e Orazio: 287, 723 n. Neptunus= 'mare': 673 n. sg. - N. "duplice": 440 n.; ringraziamento a: 339 n. Nereus= 'mare': 389 n. Nerone - N. e Calpurnio Siculo: 620, 622 n., 626 n., 627 n., 628 n., 632 n.; - N. e Lucano: 98. Nevio: 20 sg., JO-J2, 98; - Bellum Poenicum: 20 sg., 31; antecedente del­ l'Eneide: 31, 48 n.; apparato mitologico: 20; in­ fluenza: 32; lingua e stile: 31; modelli greci: 20 sg.; soggettivismo e compartecipazione del narratore: 20 sg.; - tragedie e commedie: 32, 322 sg., 330; - impegno politico: 31; - influssi italici: 30 sg.; - modelli greci: 30 sg.; - N. e Silio Italico: 142. Nicandro - · Erepotm:>1-1eva e Ovidio: 70; - N. e Lucano: 107 n., 108 n., 113 n., 114 n., 115 n., 117 n.;

- N. e Virgilio: 215. Nigidio Figulo - N. e Germanico: 249; - N. e Sereno: 305 n. Nino, re assiro: 92 n. nomi parlanti: 726 n., 742 n. Nonio Aspernate (?): 446 n. nugae: 683 n. nympha = 'sposa': 281 n. ocellus: 440 n., 446 n. odeporica, poesia: 584. olle =ille: 54 n.; ollis= illis: 268 n. Omero: 396 n., 409 n.; - elementi bucolici: 6os; - influenza sui poeti epici romani: 19-21, 30, 32, 36 n., 45 n.; Claudiano: 157 n.; Ennio: 185 n.; Silio Italico: 143; Virgilio: 39-41, 45 n., 49 n., 51 n., 56 n., 58 n., 59 n., 6o n., 61 n., 62 n. sg., 64 n., 67 n., 219 n.; - O. e Aristotele: 167; - O. e Orazio: 292, 481 n., 482 n.; - O. e Ovidio: 315 n., 554 n., 566 n.; - O. e Rutilio Namaziano: 588 n., 590 n., 593 n.; - O. e Seneca: 408 n. sg. onomasti komodein: 659 n. onomatopea: 37 n., 682 n. Oppiano e Nemesiano: 239. Orazio: 584, 599 n., 601 n., 649; - Ars poetica: 170, 287-89; modelli greci e latini: Aristotele: 287-89; Democrito: 288; Neotto­ lemo di Pario: 287; Omero: 292 n.; teoria del­ la letteratura: 286-89, 290 n.; teoria del lin­ guaggio: 288 sg., 290 n., 291 n., 292 n., 293 n.; - Epistulae: 417. 466, 670 sg., 673 n.; cronologia: 670; originalità: 670; terni dei libri: 670 sg.; - lirica: 417 sg., 419, 428 n., 464-67; dedicatari e destinatari: 464, 466, 484 n. sg., 486 n.; dispo­ sizione e struttura delle raccolte e dei singoli carmi: 464, 465, 468 n.; - Carmensaeculare: 465; - Carmina: 417, 464, 489 n.; Odi Romane: 465; - /ambi (Epodt) : 466 sg., 494 n.; datazione: 496 n. sg.; dedica a Mecenate: 466; - lingua e stile di Carmina e /ambi: 465; allit­ terazione: 477 n., 479 n., 482 n.; anafora: 470 n., 478 n.; arcaismi: 479 n.; astratto per il con­ creto: 471 n.; chiasmo: 469 n., 473 n., 474 n., 477 n., 482 n., 491 n., 497 n.; colloquialismi:

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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

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492 n.; disposizione delle parole nel v.: 472 n., - O. e Lucilio: 654 n., 656; 477 n., 482 n., 491 n., 492 n., 493 n., 497 n.; - O. e Lucrezio: 292 n., 673 n.; enallage: 497 n.; enjambement: 469 n., 482 n.; - O. e Manilio: 205 n.; etimologie e figure etimologiche: 474 n., 475 - O. e Marziale: 725 n., 729 n., 738 n., 742 n.; n., 479 n., 480 n., 495 n.; grecismi: 470 n., 492 - O. e Massimiano: 599 n., 601 n.; n.; hapax: 472 n., 477 n.; infinito epesegetico: - O. e Mecenate: 464, 466, 469 n., 483 n. sg., 494 n., 496 n.; 470 n., 476 n.; ipallage: 471 n., 477 n., 482 n., 487 n., 489 n.; ironia e parodia: 467, 472 n., 478 - O. e Ovidio: 314 n., 571 n., 572 n., 674 n.; n., 479 n., 482 n., 484 n., 487 n.; metafora: 465, - O. e Persio: 679 n., 682 n.; 487 n.; metonimia: 465, 495 n., 497 n.; "mot­ - O. e Plauto: 286, 288, 291 n.; to": 465; movenze inniche: 477 n., 478 n. sg., - O. e Seneca: 385, 406 n., 410 n., 674 n. sg.; 486 n.; simplex pro composito: 471 n.; solennità: - O. e Stazio: 419; - O. e Terenziano Mauro: 297 n., 299 n.; 479 n.; - metrica e prosodia: 464, 465, 466, 471 n., - O. e Vario Rufo: 291 n.; - O. e Virgilio: 291 n., 466, 468 n., 469 n.; 476 n.; - modelli greci e latini: 464-67; Alceo: 464, - recusatio: 286; 465, 489 n. sg., 496 n.; Anacreonte: 475 n. sg., - Tivoli, villa: 489 n. 494 n.; Archiloco: 466, 494 n., 496 n.; Calli­ orfìsmo: 49 n., 52 n., 54 n. maco: 464, 466, 469 n., 489 n.; Catullo: 466, Ortensio Ortalo, Quinto: 436 n., 448 n. 474 n. sg., 491 n.; epigrammi ellenistici: 473 n., Ovidio: 595; 486 n.; Esiodo: 471 n.; giambografì greci: 466, - Amores: 307, 513, 544 sg.; motivi: 545; riflessio­ ne metaletteraria: 544; seconda edizione: 494 n.; lpponatte: 466; Omero: 481 n., 482 n.; 544; testo: 547 n.; Pindaro: 465, 466, 489 n., 490 n.; Saffo: 464, - Ars amatoria: 170, 306 sg.; cosmogonia: 309 n.; 475 n.; influenza di Orazio: 487 n.; paraklausithyron: - temi: amicizia: 465, 469 n.; amore: 464, 312 n.; parodia del genere didascalico: 170 sg., 466, 467, 472 n.; "carpe diem": 464, 465, 466, 480 308 n.; n., 485 n., 491 n., 674 n.; decadimento dell'u­ - Epistulae ex Ponto: 514,564 sg.; cronologia: 565; manità: 470 sg.; dimensione privata: 465, 473 motivi: s6s; n., 476 n., 483 n., 485 n.; etica: 464, 494 n.; fa­ - Fasti: 170, 270 sg.; ma: 465; fortuna: 478 n., 480 n.; invettiva: 466 - Halieutica: 169; sg., 494 n., 496 n.; lode della campagna: 466, - Heroides: 513 sg., 552 sg.; cronologia: 552; H. e 473 n. sg.; misura: 464, 476 n.; morte: 462 n., Catullo: 448 n., 450 n. sg., 452 n., 460 n.; in­ 464, 465, 466, 480 n., 490 n.; poesia e lettera­ flusso delle suasoriae: 553; intertestualità: 553; tura: 464, 465, 466, 467, 473 n., 476 n., 488 n., ironia: 553; originalità: 552; ripetizione lessi­ 489 n.; politica e temi civili: 464, 465, 466, 483 cale: 558 n.; stile: 553; testo: 554 n., ss6 n., 557 n., 488 n., 494 n., 496 n. sg.; religione: 478 n., n., 558 n. sg., 560 n., 562 n.; 480 n., 482 n. sg.; simposio: 464, 465, 466, 483 - Ibis, Catullo e Callimaco: 463 n.; n., 486 n., 488 n.; "vate": 418, 466, 477 n., 488 - Medicaminafacieifemineae: 170 sg., 306 sg.; n., 489 n.; - Metamorphoses: 23, 7o-73; assenza di protagoSaturae: 656 sg.; cronologia: 656; onomasti ko­ nista: 72; cronologia: 71; elemento meravi­ modein: 659 n.; temi: 656 sg.; glioso: 23; ideologia augustea: 23, 72; ironia: - lingua e stile delle Saturae: 649, 657; ana­ 23; mito: 23; proemio: 71 sg.; ripetizione les­ strofe: 665 n.; ossimoro: 674 n.; poliptoto: 673 sicale: 77 n.; struttura e trama: 72 sg.; testo: 78 n.; proverbi: 666 n.; n., 8o n., 83 n., 84 n., 90 n. sg., 94 n.; epicureismo: 476 n., 478 n., 479 n., 656; - lingua e stile: 23; allitterazione: 86 n.; ana­ O. e Augusto: 286, 288 sg., 465, 466, 476 n. sg., cronismo: 94 n.; anafora: 81 n.; apostrofe al 483 n., 496 n.; personaggio: 82 n.; eufemismo: 77 n.; fono­ O. e la battaglia di Azio: 466; simbolismo: 86 n.; metafora: 77 n.; similitu­ O. e Ceciho Stazio: 291 n.; dine: 94 n., 95 n., 96 n.;

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INDI CE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI - modelli: Callimaco, Aitia: 70; Esiodo, Teo­ gonia: 23, 70; ps. Esiodo, Catalogo delle donne: 70; Nicandro, 'En:potou�va: 70; poesia elle­ nistica: 23; Virgilio: 70 sg.; - Phaenomena: 249; - Remedia amoris: 170, 306 sg.; - tragedie: 323; - Tristia: 514, 564 sg.; cronologia: 564; error: 569 n.; motivi: 564; relegazione come morte: 568 n.; testo: 567 n., 568 n., 570 n., 572 n. sg.; - O. e Augusto: 270 sg., 285 n.; - O. e Ausonio: 579 n., 580 n.; - O. e Callimaco: 270; - O. e Catullo: 76 n., 546 n. sg.; - O. e CLE: 97 n.; - O. e Dante: 73, 96 n.; - O. e gli Epigrammata Bobiensia: 756 n.; - O. e Germanico: 250, 252, 271; - O. e Goethe: 566 n.; - O. e Lucano: 93 n. sg., 110 n.; - O. e Lucrezio: 309 n., 313 n., 574 n.; - O. e Manilio: 2oo; - O. e Marziale: 548 n. sg., 726 n., 739 n., 740 n., 741 n.; - O. e Massirniano: 110 n.; - O. e Omero: 315 n., 554 n., 566 n.; - O. e Orazio: 314 n., 571 n., 572 n., 674 n.; - O. e i Priapea: 548 n. sg.; - O. e Properzio: 271, 533 n., 552, 555 n.; - O. e Rutilio Namaziano: 584, 587 n., 593 n.; - O. e Seneca: 82 n., 93 n. sg., 385, 388 n., 389 n., 390 n., 391 n., 392 n., 403 n., 408 n.; - O. e Sereno: 302 n.; - O. e Stazio: 129, 500 n., 501 n.; - O. e Tibullo: 312 n. sg., 521 n., 522 n.; - O. e Valeria Fiacco: 119, 120 n., 121 n., 125 n.; - O. e Varrone Atacino: 568 n.; - O. e Varrone Reatino: 270 sg.; - O. e Virgilio: 77 n., 82 n. sg., 84 n. sg., 86 n., 87 n., 88 n., 97 n., 272 n., 274 n., 275 n., 276 n., 278 n. sg., 280 n. sg., 306, 309 n. sg., 316 n., 557 n., 559 n., 567 n. sg., 570 n., 573 n., 617 n. Palemone, Quinto Remmio: 700 n. Palilia (Parilia): 624 n. sg., 629 n. palinodia: 754 n. palinsesto: 436 n. Palladio, Rutilio Tauro e Columella: 233· palliata: 323, 324, 330, 354·

pa/U5 = palus: 293 n. Pan: 616 n., 636 n., 637 n. Panegyrici Latini: 155. Panegyricus Messallae: 512. panteismo stoico in Virgilio: 231 n. Paolina di Nola: 6o7; corrispondenza con Ausonio: 590 n. papiro: 437 n. paradossi - espressione paradossale: 736 n., 748 n.; con­ clusione paradossale: 746 n. paraklausithyron (1tapaxÀauoi�pov): 91 n., 312 n., 511, 545Parche: 102 n., 117 n., 131 n., 581 n. Paro, marmo di: 81 n. paronomasia: 37 n., 45 n., 54 n., 366 n., 370 n., 395 n., 396 n., 404 n., 408 n., 429 n. Partenio di Nicea: 419, 615 n. paroenu: 738 n. Patroclo: 36 n., 42 n., 56 n., 58 n., 59 n., 6o n., 61 n., 62 n. sg., 396 n. paupertas in Grattio: 240. Pedone, Albinovano: vd Albinovano Pedone. Pelope: 405 n., 407 n. Pentesilea: 542 n. perfetto sincopato: 533, 767 n. Persia: 623 n., 649 sg., 676sg.; poetica: 678 n., 679 n., 682 n.; Ringkomposition: 679 n.; semipaga­ nus: 676, 679 n.; temi: 676; - lingua e stile: 649 sg., 677; iunctura acris: 6n 682 n.; metafora: 677; - P. ed Ennio: 679 n.; - P. e Giovenale: 678 n.; - P. e Marziale: 740 n.; - P. e Orazio: 679 n., 682 n., 685 n.; - P. e Properzio: 678 n. sg.; - P. e Virgilio: 685 n. Peroigilium Veneris: 418. Petrarca Francesco: 611. Petronio - P. e Fedro: 766-68 nn.; - P. e Marziale: 738 n., 742 n. Pindaro e Orazio: 465, 466, 489 n., 490 n. Pirene, fonte: 679 n. Piritoo: vd. Teseo. "Pirro", figlio di Achille: 57 n. pitagorismo: 49 n., 52 n., 55 n., 184 n. Platone - P. e Lucrezio: 184 n., 194 n. sg.;

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IND ICE D E I N O M I E D E L LE C O S E N O TEVOLI

- P. e la reincarnazione delle anime: 49 n, 52 n., 54 n., 55 n.; - P. e Virgilio: 225 n. Plauto: 324, 328-31; a parte: 330, 339 n., 340 n. sg.; "canone varroniano" delle commedie : 328; "didascalie sceniche": 341 n., 344 n.; fortuna e influenza: 328, 331; interpolazioni: 350 n.; mo­ delli greci: 328 sg.; parodia della tragedia e dell'epos: 343 n.; "ritardi" nell'azione: 352 n.; - lingua: 324, 328 sg.; allitterazione: 334 n., 342 n., 348 n., 350 n" 352 n.; anafora: 33 4 n., 343 n.; arcaismi: 333 n., 334 n., 341 n., 342 n., 346 n., 348 n, 352 n.; deittìci : 338 n., 341 n., 343 n.; di­ sposizione delle parole nel v.: 340 n., 344 n. sg, 347 n.; etimologie e figure etimologiche : 333 n., 334 n., 339 n., 340 n., 341 n., 342 n., 344 n., 349 n., 350 n.; neologisrni: 350 n.; polipto­ to: 337 n ., 339 n., 3 42 n .; - metateatro: 330, 338 n., 345 n., 352 n.; - metrica e musica: 324, 329, 347 n.; cantica: 329,

332, 349, 373, 417; - P. e Orazio: 286, 288, 291 n.; - prologhi: 33 0, 340 n.; - terni: "doppio": 329 sg., 332 n., 334-38 nn. ; moglie "insaziabile": 349 n.; sentenze: 348 n.; servo: 330 sg., 332 n., 333 n., 334 n. sg., 336-39 nn. , 346 n. sg. , 351 n., 353 n.; soguo: 343 n. Plinio il Giovane e Silio Italico: 143. Plinio il Vecchio e Sereno: 300, 305 n. plurale "generalizzante": 106 n., 241 n., 722 n.; plurale poetico: 45 n., 535 n. pneuma stoico: 53 n, 55 n. "poeti novelli": 419, 710. "poeti nuovi" (poetae novi, neoteroi): 418 sg., 436 n., 509, 707· Poggio Bracciolini: 499· poikilia: 518, 529, 545, 716. Policleto: 727 n.; Diadumeno di: 746 n. Polifemo: 412 n. poliptoto : 46 n. , 49 n., 57 n., 337 n., 339 n., 342 n., 361 n., 375 n., 402 n., 411 n., 412 n., 437 n., 523 n., 525 n., 568 n., 570 n. sg., 573 n., 654 n., 673 n. Polluce, invocazione: 334 n. sg. Pompeo: 98 sg., 100 n., 101 n., 102 n., 103 n., 128. pontefici, banchetti dei: 482 n. popoli italici: 112 n. Porcio Licino: 418, 707. Porfìrione, commentatore di Orazio: 467. Posidonio: 52 n., 54 n.

pretesta: 323, 324, 384. Priapea: 709; cronologia: 709; - P. e Ovidio: 548 n. sg. Prisciano - P. e Avieno: 264 sg.; - P. e Dionigi Periegeta: 170, 264 sg. Probino, Anici o: 752. Prorne: vd. Tereo. Procruste: 395 n. prolessi: 147 n. propemptikon: 467, 468 n., 469 n., 584. Properzio: 512 sg., 528 sg., 595; callimachismo: 529; cronologia: 528 sg.; elegia civile: 529; motivi: 528; propaganda augustea: 512, 528, 538 n.; recusatio della poesia epica: 528; stile: 529, 534 n. sg.; testo: 541 n., 542 n. sg.; - P. e Catullo : 451 n., 533 n.; - P. e Dante: 207 n.; - P. e gli Epigrammata Bobiensia: 754 n. sg.; P. e le 'Hoia1 ps. esiodee: 531 n.; - P. e Giovenale: 689 n.; - P. e Massimiano: 595, 596 n. sg., 6o1 n.; - P. e Ovidio: 271, 533 n., 555 n.;

- P. e Persio: 678 n. sg.; - P. e Tibullo: 524 n.; - P. e Virgilio: 542 n. Protesilao e Laodamia: 423, 426 n., 447 n., 450 n. sg., 451 n. sg., 458 n.,535 n. proverbialì, espressioni: 348 n., 359 n., 360 n., 362 n., 369 n., 371 n., 374 n., 378 n, 382 n., 666 n., 695 n., 715 n. Prudenzio: 418, 419 sg., 6o7; Psychomachia: 25; - P. e Virgilio: 25. Pseudo-Scitnno e Dionigi Periegeta: 264. .

Qa�r Ibrim: 511. Querolus e Marziale: 748 n. Quintiliano: 418; giudizio sull'elegia latina: 509. Quintilio Varo, amico di Virgilio: 428 n. redtationes: 729 n. recusatio in Orazio: 286. reincarnazione : 49 n� 52-56 nn. religio in Lucrezio: 172, 175, 177 n. Remìo Favino: 170. Ringkomposition: 519. rotolo (volumen): 437 n. Rutilio Namaziano: 584 sg.;

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IND ICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI n., 406 n., 407 n., 409 n., 410 n., 412 n.; elabo­ razione retorica: 385, 386, 388 n., 399 n.; espressività e pathos: 385, 386, 388 n., 394 n� 404 n.; figure etimologiche: 397 n., 406 n., 407 n.; hysteron proteron: 399 n.; ipallage: 404 n., 413 n.; iperbato: 402 n., 404 n., 409 n., 410 n.; ironia: 389 n.; metonimia: 389 n., 407 n., 413 n.; omeoteleuto: 396 n., 412 n.; ossimoro: 399 n., 403 n.; paronomasia: 395 n., 396 n., 404 n., 408 n.; poliptoto: 402 n., 411 n., 412 n.; "-s caduca": 35 n., 37 n., 188 n., 655 n. - macabro e raccapricciante: 386, 402 n., 404 Saepta Iulia: 726 n. Saffo n., 410 n.; - metrica: 399 n.; - S. e Catullo: 423, 431 n., 456 n.; - S. e Orazio: 464, 475 n. - modelli: Catullo: 395 n.;Eschilo:385; Euripide: 385, 386,396 n.; Lucrezio: 397 n., 407 n.; Sallustio e l'Aetna: 259 n. Omero: 408 n. sg.; Orazio: 385, 406 n., 410 n.; salutatio matutina: 729 n., 749 n. Ovidio: 385, 388 n., 389 n., 390 n., 391 n., 392 Sammonico: vd. Sereno. n., 403 n., 408 n.; Sofocle: 385; tragedia roma­ SannazaroJacopo: 611. sarcasmo: 398 n., 404 n., 412 n., 691 n. na: 385; Virgilio: 385, 390 n., 391 n., 395 n., 396 Sarpedone, figlio diZeus:58 n., 59 n., 6o n., 61 n. n. sg., 401 n.; - "parole-chiave": 386; satira: 657-61; etimologia: 647; giudizio di Quintiliano: 647; origini: 647 sg.; persona sati­ - personaggi: 386; rica: 648, 653, 677; s. "dr=atica": 322. - prologhi: 386; - rappresentazione: 386 sg.; violazione conSaturnali: 435 n. suetudini teatrali: 397 n.; saturnio: 20, 30. - sarcasmo: 398 n., 404 n., 412 n.; scazonte: vd. coliambo. - S. e Lucano: 24; sceleratus: 734 n. - S. e il teatro moderno: 384; Scilla: 539 n. sg., 723 n. Scipioni, elogia: 707. - S. e Valerio Fiacco: 24; - struttura: 386; Scirone: 400 n. Scribonio Largo e Sereno: 301. - temi: fato: 388 n., 404 n., 405 n., 407 n.;fuscrinia: 435 n. ror: 385, 388 n., 389 sg., 393 n.; miti: 384, 399 n.; Sedulio: 25. passioni: 384 sg., 388 n., 391 n., 393 n., 394 n., 396 n., 410 n.; potere: 385, 404 n.; responsabi­ semipaganus: 679 n. Semiramide: 90 n. lità: 385, 388 n., 404 n.; - S. e l'Aetna: 256 sg., 258 n., 261 n.; Seneca - epigrammi attribuiti a S.: 709, 712 sg.; cicli: - S. e Giovenale: 702 n., 703 n.; 713; estensione dei carmi: 713; metri: 713; - S. e Marziale: 750 n.; movenze inniche: 714 n.; temi: 709, 713; te­ - S. e Orazio: 674 n. sg.; sto: 714 n. sg., 715 n.; - S. e Ovidio: 82 n., 93 sg.; - S. e Valerio Fiacco: 119; - tragedie: 324,384-87, - S. e Virgilio: 715 n. - cori: 386; - lingua e stile: 385 sg.; allitterazione: 391 n., Senofane di Colofone e l'immoralità degli dei: 394 n., 397 n., 398 n., 405 n., 408 n., 409 n.; ana­ 756 n. sg. fora: 396 n.; chiasmo: 390 n., 392 n., 394 n., Senofonte: 238, 239. 396 n., 397 n., 399 n., 401 n., 402 n., 404 n., 406 Sereno, Quinto: 170, JOO sg.; fonti e modelli: n., 409 n., 410 n., 411 n.; deittici: 401 n.; dispo­ Celso: 301; Cicerone: 300, 302 n. sg.; Diosco­ sizione delle parole nel v.: 385, 388 n., 389 n., ride: 301; Livio: 300; Lucrezio: 302 n.; Media­ 391 n., 392 n., 394 n., 396 n., 401 n., 402 n., 405 na Plinii: 300 sg.; Nigidio Figulo: 305 n.; Ovi- De reditu suo: 584 sg.; lingua e stile: 585; pole­ mica antimonastica: 585, 588 n., 589 n., 590 n., 591 n.; polemica antistiliconiana: 161 n., 585; topos delle rovine: 587 n., 588 n.; - R. e Cicerone: 588 n., 590 n.; - R. e Omero: 588 n., 590 n., 593 n.; - R. e Ovidio: 584, 587 n., 593 n.; - R. e Virgilio: 586 n.

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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI dio: 302 n.; Plinio il Vecchio: 300, 305 n.; Scri­ Stilicone, Flavio: 154, 156 n., 158 n., 160-62 nn. bonio Largo: 301, 303 n.; Varrone Reatino: Stilone, Elio: 328. stoicismo: 24, 49 n., 53 n., 54 n., 169, 200 sg., 202 300; Virgilio: 300, 303 n., 304 n. n., 203 n., 206 n., 231 n., 250. Servio: 611, 616 n. suadeo con l'accusativo: 186 n. servitium amoris: 510. servo in commedia: 334 n. sg., 336-39 nn., 346 n. sublimen, avverbiale: 333 n. sg., 351 n., 353 n.; ex-schiavo arricchito: 494 n. Suffeno: 435 n., 436 n. Sulpicia, satira di: 752; datazione: 752. sg. syntaktikon: 584. Settimio Sereno: 419 · syrma (veste dell'attore tragico): 722 n. Shakespeare e Plauto: 330. sic, ottativo: 79 n. tabellae: 445 n. sg. Sidonio Apollinare: 25, 155, 499, 607. Talete e Lucrezio: 172. Siene: 741 n. Tantalo: 400 n., 401 n., 404 n., 405-10 nn., 413 n. siet = sit: 333 n. Tarpea: 538 n. sg. Sileno: 610, 636 n., 638 n., 639 n., 641 n. Silio Italico: 24 sg., 142 sg.; gusto dell'orrido: 153 Tasso Torquato: 611. n.; lingua e stile: 143; modello omerico: 143; teatro: 321-27, componente musicale: 324; edi­ fici: 325; frantmentarietà delle testimonian­ pathos: 143, 149 n.; storia di Roma: 24 sg.; ze: 328; influenza sul teatro moderno: 321; - S. ed Ennio: 37 n., 142; modelli greci: 321, 322-24; origine: 321-23; - S. e Livio: 142 sg., 149 n., 151 n.; successo: 321, 325, 328; vd. anche atellana, - S. e Nevio: 142; commedia, coturnata, palliata, pretesta, tra­ - S. e Virgilio: 24, 142 sg., 144 n., 147 n. gedia e i singoli autori. Silla litterator: 434 n. ted = te: 335 n. Silvano, dio dei campi: 537 n. tempo in Virgilio: 233. simitu =simul: 348 n. Tenaro, promontorio: 397 n., 479 n. sineddoche: 44 n., 629 n. Teocrito: 6os sg., 609 sg.; singolare collettivo: 45 n. Sini: 395 n., 400 n. - T. e Calpurnio Siculo: 620, 622 n., 625 n.; Sisifo: 400 n., 401 n. - T. e Nemesiano: 636 n., 637 n.; - T. e Virgilio: 6os sg., 609 sg., 612 n., 613 n., 614 Sofocle e Seneca: 385; n., 615 n., 616 n., 617 n., 618 n., 619 n. - Sophocleus = 'tragico': 701 n. Terenziano Mauro: 170, 294 sg.; sogno: 32, 34 n., 43 n., 50 n., 51 n., 126 n., 343 n. sportula: 730 n. - fonti e modelli: Agostino: 294; Cesio Basso: 295; Dionigi di Alicarnasso: 295; Lucrezio: Stazio: 128 sg., 143, 418, 498 sg., 624 n.; 297 n.; Orazio: 297 n., 299 n. - Achilleis: 24; - Silvae: 419, 498 sg.; influenza sugli autori suc- Terenzio: 324, 330,354-57, a parte: 356; caratteri: 354, 355, 358 n., 359 n., 362 n. sg., 366 n., 368 n., cessivi: 499; influsso dell'epica e dell'elegia: 370 n., 371 n.; educazione dei giovani: 355, 372 419; n. sg., 379 n., 380 n., 381 n.; innovazioni: 356; - Thebais: 24, 128 sg.; lingua e stile: 129; pathos: ironia: 372 n., 378 n., 381 n., 382 n.; metateatro: 129; 356; patetico e sentimentale: 367 n., 368 n., - S. e Catullo: soo n., 501 n.; 369 n., 373 n., 376 n.; "raddoppiamento" dei - S. e Dante: 128, 130 n., 137 n., 139 n., 140 n.; personaggi: 355, 358 n.; realismo: 356, 358; ri­ - S. ed Ennio: 37 n.; flessività: 354; servi: 356, 372 n.; spazi scenici: - S. e Lucano: 128; - S. e Orazio: 419; 362 n. sg., 373 n., 380 n.; successo: 354, 356, 358 - S. e Ovidio: 129, soo n., 501 n.; n.; tradizionalismo sociale: 355 sg., 369 n., 372 n.; - S. e Virgilio: 24, 128 sg., 131 n., 132 n., 133 n., 137 n., 138 n. - lingua: 354, 356 sg.; allitterazione: 362 n., 367 Stesicoro: 6os. n., 368 n.; arcaismi: 361 n.; chiasmo: 361 n., 382

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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI umbilicus: 437 n. unus = 'uno': 437 n.; unum, con valore avverbia­

n.; deittici: 359 n., 369 n., 373 n., 375 n., 376 n., 381 n.; disposizione delle parole nel v.: 359 n., 362 n., 367 n., 382 n., 383 n.; etimologie e figu­ re etimologiche: 360 n., 362 n., 368 n., 377 n.; neologismi: 375 n.; paronomasia: 366 n., 370 n.; poliptoto: 361 n., 375 n.; sentenze: 359 n., 360 n., 362 n., 369 n., 371 n., 374 n., 378 n., 382 n.; tmesi: 367 n.; - metrica: 354, 357, 359 n., 361 n., 366 n., 367 n., 376 n.; - modelli greci: 354, 355; Apollodoro di Cari­ sto: 358 n., 360 n., 369 n.; "contaminazione": 354; Menandro: 354, 355, 358 n., 374 n., 378 n.; - prologhi: 354 sg., 356, 358 n. Tereo e Procne: 46 n., 503, 721 n. Teseo e Piritoo, es. di amicizia: 571. testuggine = lira: 489 n.

Thalia, Musa dell'epigramma: 739 n. Tibullo: 511 sg., 518 sg., 595, 597 n., 6o6; apparte­ nenza al circolo di Messalla: 518; propaganda augustea: 511 sg., 519; Màrato, ciclo di: 511, 518; motivi: 511,518; stile: 519; testo: 524 n., 525 n. sg., 526 n. sg.; - T. e Lucrezio: 527 n.; - T. e Massimiano: 595, 597 n.;

- T. e Ovidio: 312 n. sg., 521 n., 522 n.; - T. e Properzio : 524 n.;

- T. e Valeria Flacco: 522 n.;

- T. e Virgilio: 521 n. Ticida: 419.

Tieste: 46 n., 681 n., 682 n., 721 n.

timidus timens: 368 n. =

Tiresia: 75 n. Tizio: 400 n. toga, simbolo esteriore: 495 IL togata: 323, 324 sg. Torquato (?) e Orazio: 492 n., 493 n. tragedia: 323 sg.; arcaica: 20, 32, 33, 322 sg.; fram­ mentarietà delle testimonianze: 323, 384; in età imperiale: 323 sg., 384; influenza su Vale­ rio Flacco: 24; lingua: 323.

Troius: 556 n. Tucca: 38. Tullo Ostilio, simbolo di ricchezza: 492 n. Turpione, Arnbivio: 356.

Valeria Catone, Publio: 22, 419. Valeria Edituo: 418. Valeria Flacco: 118 sg., 143; lingua e stile: 119; pa­ thos: 119; - modelli: Apollonia Rodio: 24, 118 sg., 121 n., 123 n., 124 n., 126 n.; elegia: 24; Euripide: 127 n.; Lucano : 119; Ovidio : 119, 120 n., 121 n., 125 n.; Seneca: 24, 119; Tibullo: 522 n.; Virgilio: 118 sg., 126 n., 127 n. Valeria, Marco: 66 n. Valgio Rufo: 6o6. variatio: 125 n., 592 n., 597 n. Vario: 38, 291 n., 323, 6o6. Varrone Atacino: 21, 24, 118; - V. e Arato: 249; - V. e Ovidio: 568 n.; - V. e Virgilio: 249. Varrone Reatino - Saturae Menippeae: 648 sg.; lingua e stile: 649; temi: 649; - V. e Columella: 233; - V. e Ovidio: 270 sg.; - V. e Sereno: 300; - V. e Virgilio: 226 n. Vatinio, Caio Publio: 433 n., 446 n. Vegio Maffeo: 38. Verano: 441 n. versi ipermetri: 43 n., 49 n., 664 n. versiculus: 733·

versus aureus: 617 n., 640 n. vesica = 'gonfiezza retorica': 722 n.

Tisifone: 690 n.

trattatistica retorica greca: 155. tricolon: 743 n.

le: 429 n.

viaggio, motivo del: 339 n., 478 n. vino, invecchiamento: 484 n., 486 n. Virgilio - Aeneis: 22 sg., 38-41; classicismo : 39, 40; fortu­ na nella scuola: 22, 38, 39; incompiutezza e pubblicazione: 38, 62 n.; ironia: 67 n.; molte­ plicità dei punti di vista: 22, 40, 43 n., 59 n.; pa­ thos: 22; soggettivismo e compartecipazione del narratore : 22; struttura: 38 sg., 41,56 n.; - lingua e stile: 40, 43 n., 44 n.; allitterazione: 43 n., 46 n., 50 n., 52 n., 53 n., 54 n., 57 n., 62 n., 65 n., 66 n., 67 n.; arcaismi : 54 n., 55 n., 6o n.; disposizione delle parole nel v.: 43 n., 44 n.

� � � � � � � � � � � w � � � fu

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I N D I C E DEI N O M I E D E LLE C O S E NOTEVO LI

sg., 262 n. sg.; polemica antivirgiliana: 169,

n., 63 n., 65 n., 66 n., 67 n., 69 n.; endiadi : 46 n., 66 n.; figure etimologiche: 43 n., 53 n., 66 n.;

258 n.;

formularità: 44 n., 51 n., 56 n., 58 n., 59 n., 6o

- Catalepton: 709;

n., 6s n., 66 n.; grecismi: s6 n.; hysteron prote­ ron: 56 n.; ipallage: 57 n., 65 n.; movenze inni­ che: 44 11., 47 n., 58 n.; neologismi: 54 n., 61 n.,

- Ciris: 22; - Culex: 22; - Moretum: 22; M. e Columella: 233;

65 n.; paronomasia: 45 n., 54 n.; plurale poeti­ co: 45 n.; poliptoto: 46 n., 49 n., 57 n.; simili­ tudine: s8 n.; sineddoche : 44 n.; singolare

V. e !'Aetna: 169, 256, 258 n., 2.59 n., 260 n., 261 n. sg., 262 n. sg.;

collettivo: 45 n.;

- V. e Ausonio: 579 n., 580 n., 581 n.; - V. e Avieno: 266 n., 268 n.; V. e Calpurnio Siculo: 6o6 sg., 611, 616 n., 620

modelli: Apollonia Rodio: 39, 41, 46 n., 52 n.; Catullo: 41, 50 n., 432 n., 461 11., 481 11.; En­

sg., 622 n., 623 n., 631 n.;

nio: 23, 34 n., 36 n. sg., 39, 40, 50 n., 55 n., 61 n., 63 n., 65 n.; epica ellenistica: 39; Lucrezio: 23, 39, 40, 53 n., 61 11., 65 n.; neoterici: 23, 39; Ne­ via: 31, 40 sg., 48 n.; Omero: 39, 40 sg� 45 n., 49 n., 51 n., 56 n., 58 n., 59 n., 6o n., 61 n., 62 n.

V. e Columella: 169 sg., 232 sg., 234 n., 235 n., 236 n., 237 n.; V. e Dante : 49 n., so n., 51 n., 219 n.;

- V. e gli Epigrammata Bobiensia: 754 n., 755 n.; - V. e gli epigrammi attribuiti a Seneca: 715 n.;

sg., 64 n., 67 n.; tragedia: 23;

V. e Germanico: 252 IL, 253 n., 255 n.;

- temi e situazioni : apparizioni divine : 43 n., 44 n., 51 n., 64 n., 66 n.; mito: 22, 40, 66 n.; pie­ tas di Enea: 22, 41, 63 n.; profezie: 40, 47 n., 48 n., 49 n., so n., 53 n., 64 n.; stoicismo: 49 n., 53 n., 54 n.; storia romana: 22, 40, 41, 49 n., 66 n.; - Bucolica: 6o5 sg., 609-11; allegoria: 610; data­ zione: 609; epicureismo: 6o6, 610, 619 n.; in­ fluenza sugli autori successivi: 6o6 sg., 611, 616 n., 620 sg., 622 n., 623 n., 631 n., 634 sg., 636 n., 637 11., 638 11., 639 n., 641 n., 643 n.; lingua e stile: 610 sg., 612 n.; rapporto con Lucrezio: 619 IL; rapporto con Teocrito: 6os sg., 609 sg.,

612 n., 613 n., 614 n., 615 n., 616 n., 617 n., 618 n., 619 n.; struttura: 6o9 sg., 612 n.; - Geot;gica: 168 sg., 214-16; alessandrinismo: 227 n.; Aristeo: 22, 216 n. sg.; asindeto bÌlllembre 223 n.; Augusto: 214, 218, 223 n.; lavoro,

(?):

concezione del: 168, 233; metafore militari: 226 n.; panteismo stoico: 231 n.; poetica: 215 sg.; tempo, concezione del: 233;

- V. e Giovenale: 699 n., 702 n.; V. e Grattio : 238, 240, 241 n. sg., 242 n.; - V. e Lucano: 24, 98 sg.; V. e Manilio: 200, 204 n., 205 n., 208 n. sg., 211 n.; V. e Marziale: 731 n., 751 n.; - V. e Nemesiano: 239, 242 n., 243 n., 244 n. sg., 6o6 sg., 611, 616 n., 634 sg., 636 n., 637 n., 638 n., 639 n., 641 n., 643 n.; - V. e Orazio: 291 11., 466, 468 n., 469 n.; V. e Ovidio: 77 n., 82 n. sg., 84 n. sg., 86 n., 87 n., 88 n., 97 n., 272 n., 274 n., 275 n � 276 n� 278 n. sg., 280 n. sg., 306, 309 n. sg., 316 n., 557 n., 559 n., 567 n. sg., 570 n., 573 n., 617 n.; - V. e Persio: 685 n.; - V. e Properzio: 542 n.; V. e Prudenzio: 25; - V. e Rutilio Namaziano: 586 n.; - V. e Seneca: 385, 390 n., 391 n., 395 n ., 396 n. sg., 401 11.;

- modelli: Arato: 167, 215, 218 n., 219 n., 228 n., 259 n.; Esiodo: 1 67, 215; Lucrezio: 168, 178

- V. e Sereno: 300, 303 n., 304 n.; - V. e Silio Italico: 24, 142 sg., 144 n., 147 n.;

n., 188 n. sg., 196 n. sg., 215 sg., 221 n., 619 n.; Nicandro: 215; Omero: 219 n.; Platone: 225

- V. e Stazio: 24, 128 sg., 131 n., 132 n., 133 n., 137

n.; - Appendix Vergiliana: 22, 709;

- Aetna: 256 sg.; fobula dei giovani catanesi: 256 sg.; fonti e modelli: Eraclito: 256; Lucre­ zio: 169, 256, 258 n., 259 n., 260 n., 262 n.; Ma­ nilio: 260 n.; Seneca: 256 sg., 258 n., 261 n.;

Virgilio: 169, 256, 258 n., 259 n., 26o n., 261 n.

n., 138 n.; - V. e Tibullo: 521 n.; V. e Valerio Placco: 24, 118 sg., 126 n., 127 n.; - V. e Varrone Atacino: 249; V. e Varrone Reatino: 226 n. vis = vires: 195 n. vivis =es: 430 n. vocare = 'invitare a cena': 746 n.

929

I N D I CE DE LLE I LLUSTRAZ I O N I

1. Incipit di Plauto, Amphitruo. Paris, Bibliothèque Nationale, Par. Lat. 16234 (XV sec.), f. 2. 2. Incipit di Terenzio, Andria. London, British Library, Harley 2717 (terzo quarto XV sec.), f. 1. 3· Terenzio, Adelphoe (a. r se. 2). Oxford, Bodleian Library, Auct. F 2 13 (metà XII sec.), f. 1oov. 4· Incipit di Lucrezio, De rerum natura. London, British Library, Harley 2694 (ca. 1475-1485), f. 1. 5· Incipit di Catullo, Carmina. London, British Library, Burney 133 (terzo quarto XV sec.), f. 1. 6. Incipit di Virgilio, Bucolica. London, British Library, King's 24 (1483-1485), f. 1. 7· Incipit di Virgilio, Georgica. London, British Library, Harley 5261 (terzo quarto XV sec.), f. 18v. 8. Incipit di Virgilio, Aeneis. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 1579 (1465), f. 56. 9. Incipit di Tibullo, Elegiae. London, British Library, Harley 4059 (ca. 1 485-1495), f. l. 10. Incipit del Commento a Orazio di Cristoforo Landino. Città del Vaticano, Bi­ blioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 357 (fine XV sec.), f. 1. 11. Arianna, da Ovidio, Heroides, 10, trad. di Octavien de St-Gelais. London, British Library, Harley 4867 (fine XV sec.), f. 74v. 12. Incipit di Seneca, Hercules Jurens. London, British Library, King's 30 (ultimo quarto XIV sec.), f. 2 (partic.). 13. Incipit di Lucano, Pharsalia. London, British Library, Harley 5269 (seconda me­ tà XV sec.), f. 2. 1 4. Incipit di Giovenale, Saturae. London, British Library, Harley 2730 (ca. 14601 470), f. 1.

93 0

IND ICE Presentazione

9

Abbreviazioni bibliografiche

13

L I.:EPOS

17

NoTA INTRODUTTIVA

19

I. L'EPICA ARCAICA E GLI ANNALES DI ENNIO 34-50 Sk. (= 35-51 V.2). Il sogno di Ilia 175-79 Sk. (= 187-91 V.2). Il taglio del bosco

30 34 36

IL IL CLASSICISMO DI ETÀ AUGUSTEA: L'ENEIDE DI VIRGILIO IV 553-629. Lafuga da Cartagine e la malediziotze di Didone VI 679-751. L:incontro con Anchise: la purifìcazione delle anime x 439-509. L:uccisione di Fallante XII 843-86. Il lamento di Giuturna

38 42 48 56 64

III. LE METAMORFOSI DI OVIDIO: L'EPICA IN TRASFORMAZIONE m 339-512. Eco e Narciso. Narciso s'innamora di Narciso IV 53-166. Il tragico amore di Piramo e Tisbe

70 74 88

IV. IL RITORNO DELL'EPOS STORICO: IL BELLUM CIVILE DI LUCANO I 98-182. Alle radici del conflitto: Pompeo e Cesare Ix 734-838. La marcia di Catone nel deserto: i serpenti di Libia

98 100 106

V. SULLE ORME DI VIRGILIO: L'EPOS TRA MITO E STORIA 1. Il mito argonautico: Valeria Fiacco vn 1-25. La prima notte insonne di Medea vn 101 -52. La seconda notte:gli incubi di Medea 2. La lotta fratricida tra Eteocle e Polinice: LA TEBAIDE DI STAZIO x 827-939. La morte di Capaneo 3 · La seconda guerra punica: Silio Italico IX 66-1n Un errorefunesto: Satrico e Solimo

118 118 120 122 128 130 142 144

VI. L'EPICA TRA STORIA E PANEGIRrco: CLAUDIANO E IL DE BELLo

Go-

154 156

THICO

469-557. Il concilio dei Goti 931

I NDICE II. LA POESIA DIDASCALICA

165

NoTA INTRODUTTIVA

167

l.

1.

IL POEMA COSMOLOGICO-FILOSOFICO Lucrezio e la concezione epicurea dell'universo

I 1-158. Protasi del poema v 925-1090. Emancipazione delgenere umano dallo statoferino

2.

La cosmologia stoica di Manilio

I 474-531. Provvidenzialità della creazione n 57-149. Nuova materia di canto: le leggi del cosmo

IL 1.

LA POESIA DEL MONDO NATURALE Virgilio e la scienza dei campi

438-514. Presagi diguerre civili e speranze di pace Georg., IV 149-227. La vita delle api Georg., I

2.

Columella continuatore di Virgilio x



194-229. La semina e il risveglio della primavera

La cinegetica: Grattio e Nemesiano Grattio, Cyn., 301-36. Nascita e allevamento dei cuccioli Nemesiano, Cyn., 103-56. Selezione della madre e della prole 4· L'astronomia: le traduzioni dei Fenomeni di Arato Germanico, Phaen., 96-139. La costellazione della Vergine e il mito delle tre

età



La vulcanologia: il poemetto pseudo-virgiliano Aetna

219-81. La polemica antivirgiliana 6.

La geografia: Avieno e le traduzioni della Periegesi di Dionigi

Descr. orb., 257-90. La descrizione della Libia

III. LA POESIA MITOLOGICO-ETIOLOGICA E I FASTI DI OVIDIO m 523-710. Le idi di Marzo: lefeste rituali di Anna Perenna e l'assassinio di IV. 1.



214 214 218 224 232 234 238 240 242 248 252 256 258 264 266 270

Cesare

272

LA POESIA DELLE ARTES

286 286 290 294 296 300 302

Orazio e la teoria della letteratura

Ars, 38-72. Scelta dell'argomento e del linguaggio poetico

2.

172 172 176 186 200 202 206

La metrica in versi di Terenziano Mauro

279-326. I:ardua impresa delpoeta tecnico

Medicina e poesia: il Liber medicinalis di Quinto Sereno

253-88. Medicina e magia 932

I NDICE v.

OVIDIO E LA PARODIA DEL GENERE DIDASCALICO Ars am., u 461-590. Ovidio, >

306 308

IIL IL TEATRO

319

NoTA INTRODUTTIVA

321

I. IL TEATRO COMICO: PLAUTO Men., 990-1049. Uno schiavo ardimentoso Most., 431-531. La casa infestata Most., 783-857. Una cornacchia tra due avvoltoi

328 332 338 346

IL LE COMMEDIE DI TERENZIO Hec., 198-280. I:odio tra suocere e nuore Hec., 361-414. La malattia di Filomena Ad., 635-712. Unpadre ideale Ad., 719-62. Unafamiglia dissoluta

354 358 366 372 380

III. IL TEATRO DELL'ORRORE: LE TRAGEDIE DI SENECA Phaedr., 85-128. Una passionefatale Phaedr., 1156-280. La morte di Fedra e il lutto di Teseo Thy., 122-75. La colpa di Tanta/o e la maledizione della stirpe Thy., 885-919. Il turpe banchetto

384 388 392 404 410

IV LA LIRICA

415

NOTA INTRODUTTIVA

417

l. POESIA DOTTA E LIRICA AMOROSA: IL LIBER DI CATULLO 5· Viviamofinché siamo in tempo 10. Un'amica ifrontata 11. r:addio difìnitit'o 14. Un dono sgradito 22. Un poetastro incontenibile 30. Un'amicizia tradita 31. Ilfelice ritorno 35· Lettera a Cecilia 49· Un elogio sperticato di Cicerone 50. Uno scambio poetico

422 426 426 430 432 436 438 438 440 442 444

933

I NDICE

IL

52. Duepolitici ambiziosi 68B. Il ringraziamento ad Allio e lepene di Laodamia (e di Catullo) 75· Un'anima perduta 76. Difficoltà di i11terrompere un lun,go amore 108. La giustafineper un calunniatore

446 446 458 460 462

LE RACCOLTE LIRICHE ORAZIANE Carm., I 3· Audacia della navigazione ejòllie delgenere umano Carm., 5· Un pericolo scampato Carm., I 22. I.:integrità di tJÌta salva dai pericoli Carm., I 23. Simile a un cerbiatto Carm., I 31. Una modesta preghiera Carm., I 34· Il tuono di Giove Carm., II 14. Fugacità delle riahezze e della vita Carm., III 8. Un convito celebrativo Carm., m 21. Le tJirtu del Fino Carm., IV 3· Sotto il segno di Melpòmene Carm., IV 7· Inesorabilità del destino umano Epod., 4· Uno schiavo arriahito Epod., 7· Nifandezza delleguerre citJili

464 468 472 472 474 476 478 480 482 486 488 490 494 496

LA LIRICA D'OCCASIONE: LE SILVAE DI STAZIO n 4· Ilpappagallo di Atedio Meliore

498 500

1

III.

V. L 'ELEGIA

507

NoTA INTRODUTTIVA

509

L

SOGNO IDILLICO DI TIBULLO n 3· Maledetta campagna!

518 520

Il.

DALL'AMORE DI CINZIA ALLA POESIA ETIOLOGICA: L'ESPERIENZA INQUIETA DI PROPERZIO I 3· La tJisione celestiale di Citzzia addormentata I 19. Ungrande amore va oltre la morte IV 4· Il tradimento per amore di Tarpea

528 530 534 536

IL

VARIAZIONI SUL GENERE ELEGIACO: OVIDIO 1. Gli Amores: il gioco galante dell'amore II 4· Mipiaaiono tutte Ili.

934

544 544 546

I N D I CE

2. 3·

552

Velegia al femminile: le Heroides 1.

554

Penelope a Ulisse

Il lamento dell'esule: i Tristia e le Epistulae ex Ponto

564

Trist., I 3· Roma addio!

566

IV. TRA EPIGRAMMA ED ELEGIA: I PARENTALIA DI AusoNIO

9· Attusia Lucana Sabina, mia moglie V.

IL VIAGGIO E LA MEMORIA: IL DE REDITU suo DI RuTILIO NAMAZIA-

NO

584

I 399-414· Anche le città possono morire

s 86 588

I

439-52. I monaci della Capraia, "ttemici della luce"

I 511-26. I monaci della Gorgona, "peggiori dei veleni di Circe"

VI. L'ELEGIA DELLA VECCHIAIA: MAssiMIANo

2 1-32; 55-7 4· I:amore perduto: il rifìuto di una vecchiaia disgustosa

590 594 596

VI. LA POESIA B UCOLICA

603

NOTA INTRODUTTIVA

605

I.

609 612

LA POESIA PASTORALE DI VIRGILIO

Bue., 2. Lamento d'amore II. TRA BUCOLICA ED ENCOMio: LE EcLOGHE DI CALPURNIO SrcuLo

620 622

7· Le meraviglie di Roma III. L'uLTIMA RIPRESA DEL GENERE Bucouco: LE EcLOGHE DI NEMESIANO

3· Il canto di Pan: Bacco e la prima vendemmia VIL LA SATIRA

645

NoTA INTRODUTTIVA

647

l.

652 654

L'rNVENTOR DEL GENERE: LuciLIO

1326-38 M. Cos'è la virtii? IL I L SERMO ORAZIANO 1.

6s 6

La satira

656

I 4· Difèsa della poesia satirica

658 935

INDICE

2.

V epistola poetica

1

11. I:irrequieta inerzia

III. IL RIGORE STOICO DI PERSIO Choliambi. Ilpoeta semirustico

5 1-51- Il discepolo e il maestro IV.

LA SATIRA INDIGNATA DI GIOVENALE

6 1-37. Il declino della morale 6 114-35. La prostituta imperiale 6 184-99. Fanno l'amore in greco! 6 246-67. La gladiatrice 6 398-412. La pettegola 6 434-56. La dotta 6 627-61. I.:avvelenatrice

686 688 690 692 694 696 698 700

VIII. L'EPIGRAMMA

NoTA INTRODUTTIVA

l.

II.

GLI STUDIA LEVIORA DEL FILOSOFO O UN FALSO INTENZIONALE ? GLI EPIGRAMMI ATTRIBUITI A SENECA AL, 236 R. (= 228 Sh. B.; 2 P.) . Corsica, risparmia chi è sepolto! LA MUSA EPIGRAMMATICA DI MARZIALE IV 49· Serietà dell'epigramma

4. La mia pagina ha il sapore dell'uomo 77· Quando l'epigramma è lungo 1 110. A un critico IX 59· Una giornata per negozi x 70. Gli impegni del poeta cliente v 34· In morte di Erotion 1 10. Un pretendente sospetto III 9. Un poeta inesistente VIII 19. Povertà simulata 1 38. Un plagiario IX 15. Confessione involontaria 1 102. Un pittore malizioso III 8. Un innamorato cieco x

n

712 714 716 720 722 724 726 726 728 730 732 732 732 734 734 734 736

INDICE I 68. Follia d'amore IX 73- Il ciabattino arriahito

736 738

v 13. I:orgoglio del poeta povero

740 740

Epigr., 1. La meraviglia delle meraviglie

744

III 65. Il profumo dei baci XI 35· A cena da solo XII 3 4· Bilancio di un'amicizia

744 746 746

I 20. Augurio a un ospitegretto III 44· Sei troppo poeta!

x

742

47· La vita beata

748 750

XII 31. I doni di Marcella III. L'EPIGRAMMA AL TRAMONTO DELL'IMPERo: GLI EPIGRAMMATA BoBIENSIA

45. Su un'immagine di Didone, da un epigramma greco. La vera Didone

752 75 4

IX. LA FA VOLA

75 9

NoTA INTRODUTTIVA

761 766

Fedro, App. Perottina, 15. La vedova e il soldato

SCHEDE BIO-BIBLIOGRAFICHE I.:Autore dell'Aetna

773

Ausonio

774

Avieno

779 781

Calpurnio Siculo Catullo Claudiano

784 793

Columella

796

Ennio

799 803

Fedro Germanico

8os

Giovenale

807

Grattio

810

Lucano

811

Lucilio

815

Lucrezio

816 93 7

INDICE

Manilio

820

Marziale

823

Massimiano

826

Neme siano

828

Orazio

829

Ovidio

8 42

Persio

852

Plauto

854

Properzio

862

Rutilio Namaziano

865

Seneca

868

Quinto Sereno

876

Silio Italico

877

Stazio

88o

Terenziano Mauro

884

Terenzio Tibullo

884 88 9

Valeria Fiacco

892

Virgilio

8 95

INDICI Indice dei nomi e delle cose notevoli

913

Indice delle illustrazioni

930

LA POESIA NELLE IMMAGINI

I testi letterari, sia greci che latini, sono sopravvissuti sino a noi grazie alla paziente opera di copiatura manoscritta di amanuensi antichi e medievali che, almeno fino alla definitiva affermazione della stampa, ha costituito l'unica via di trasmissione per le opere classiche. Per questo motivo si è scelto di correda­ re il presente volume con un inserto iconografico volto ad esemplificare la "traduzione" in immagini dei testi poetici raccolti (le tavole si susseguono se­ condo l'ordine cronologico degli autori antichi). A parte qualche eccezione (significativo, ad es., un codice terenziano del XII sec., che riproduce i personaggi in scena con una ricercata fedeltà per la rappresentazione delle maschere del teatro arcaico) si è data la preferenza a co­ dici rinascimentali riccamente illustrati, quindi appartenenti a un'epoca in rui il manoscritto, in aperta concorrenza con l'incunabolo, diviene non solo mez­ zo di trasmissione, ma anche oggetto d'arte di pregio. Essi testimoniano non soltanto la compiuta ricezione di determinati generi e autori (vi sono rappre­ sentati teatro, epica, elegia, lirica, bucolica, satira), ma anche la loro trasposi­ zione nel mondo "moderno". Gli esempi si riferiscono in genere alle miniatu­ re che, per lo piu nell'incipit, oltre ad avere funzione esornativa e d'apparato, si rendono interpreti del testo, esplicitandone il senso, non senza intenti chiara­ mente didascalici. I poeti, da Terenzio a Giovenale, vi appaiono per lo pio idealizzati, e le vicende tanto della storia, quanto del mito, vengono trasfigura­ te secondo il gusto dei contemporanei attraverso un processo di attualizzazio­ ne di costumi e oggetti di cui si possono cogliere non pochi esempi (pastori e contadini del mondo bucolico e georgico virgiliano hanno abiti e attributi pro­ pri dell'ambiente feudale, mentre l'Arianna delle Heroides ovidiane appare cir­ condata da animali dai tratti fantastici, propri dei bestiari medievali). Il repertorio offre, in sostanza, una piccola ma significativa testimonianza del modo in cui nel corso dei secoli i lettori hanno interpretato figurativam� te i testi poetici latini.

1. Incipit di Plauto, Amphitruo. Paris, Bibliothèque Nationale, Par. Lat. 16234 (XV sec.),

f. 2.

(

2. Incipit di Terenzio, Andria. London, British Library, Harley 2717 terzo quarto

sec. ) , f. 1.

XV

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