Poesia e pubblico nella Grecia antica: da Omero al V secolo 9788842047247, 8842047244

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Poesia e pubblico nella Grecia antica: da Omero al V secolo
 9788842047247, 8842047244

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Manuali Laterza 66

© 1995, Gius. Laterza & Figli

Nella «Collezione Storica» Prima edizione 1984 Nella «Biblioteca Universale Laterza» Edizione riveduta e ampliata 1989 Nei «Manuali Laterza» Nuova edizione riveduta e ampliata

1995

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l'autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l'acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la scienza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Bruno Gentili

Poesia e pubblico nella Grecia antica Da Omero al V secolo

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 1995 nellò stabilimento d'arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari CL 20-4724-1 ISBN 88-420-4724-4

a Carlo Bo

Prefazione

Questo libro non ha bisogno di un'ampia premessa: il lettore avvertirà sin dalle prime pagine la linea portante del mio metodo di analisi. Se è vero che le teorie possono essere intese come tentativi di soluzione di problemi, possiamo tranquillamente affermare che anche la teoria dell'oralità offre la chiave per introdurci nel vivo e concreto problema pertinente alla funzione sociale e culturale della poesia greca da Omero al V secolo a.e. In questa chiave di lettura si rivaluta il ruolo determinante del destinatario e, in relazione con esso, si enucleano i presupposti teorici e i diversi procedimenti formali, simbolici e pragmatici del fare poetico; di qui l'attenzione costante al ruolo della memoria - in quale misura il singolo utilizzava le formule e gli stilemi della tradizione poetica e come li modificava-, al rapporto del poeta con il committente e il pubblico e, infine, alla posizione dell'intellettuale entro i condizionamenti sociali ed economici del tempo. Un'operazione critica, dunque, che, fondando il suo criterio di analisi su scienze particolari, quali la filologia, la linguistica, l'antropologia e la sociologia, ha come scopo precipuo quello di capire in concreto la mentalità dell'uomo greco arcaico, le sue strutture linguistiche, le sue categorie mentali, i contenuti e le forme del suo pensiero e della sua arte. Uno dei principi fondamentali dell'ermeneutica è quello di leggere un testo nei termini della nostra esperienza personale, perché abbia un senso: solo partendo da questa comprensione iniziale è possibile giungere ad una interpretazione corretta del significato che l'autore attribui al testo oppure del significato che il testo doveva avere nel suo contesto originale. La garanzia della validità di questo metodo è proprio nel senso della storia - altra cosa dallo storicismo - che il critico-scienziato deve possedere. L'itinerario delle mie ricerche sulle tematiche qui prese in esame ebbe inizio nel lontano 1969, in occasione del V Congresso internazionale della F.I.E.C., che segnò una svolta decisiva nella direzione dei miei studi 1• Esso ha trovato lungo il suo percorso consonanze di interessi e di ' Si veda L'interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo,

vm

Prefazione

punti di vista con E.A. Havelock; ma. anche se in diversa misura. il lettore noterà le influenze di H. Friinkel, di B. Snell e di E.R. Dodds. Il volume, che è il risultato di una lunga consuetudine con i testi della lirica greca arcaica (e della poesia greca in generale), rielabora. in alcune sue parti, ed amplia in una unità organica ricerche specifiche sul1'argomento, pubblicate su periodici italiani e stranieri 2• Sono particolarmente grato ai colleghi ed ai collaboratori, italiani e stranieri, dell'Istituto di Filologia classica dell'Università di Urbino, che, in privati e pubblici dibattiti, hanno contribuito ad una elaborazione più articolata delle tematiche da me affrontate. Desidero infine rivolgere un sincero ringraziamento all'amico e collega Carlo Gasparri, che ha curato la scelta del materiale fotografico, ad Ettore Cingano e ad Antonietta Gostoli, che mi hanno assistito nella revisione del dattiloscritto, a Maria Colantonio, a Teresa Ferri e a Maria Grazia Fileni, che mi hanno dato un valido aiuto nella correzione delle bozze di stampa. M. Colantonio e M.G. Fileni hanno redatto gli indici analitici.

B.G. Roma, novembre 1983

«Quad. Urb.», 8, 1969, pp. 7-21 [trad. ingl. in Contemporary Literary Ermeneutics and lnterpretation of Classica/ Texts, Ottawa 1981, pp. 109-20]. 2 Le due Appendici che chiudono il volume ripropongono al lettore, emendati e aggiornati, i due saggi apparsi in La critica testuale greco-latina oggi. Metodi e problemi, Roma 1981, pp. 9-25 e «Il Verri», 38, 1972, pp. 22-39.

Premessa alla terza edizione

Questa nuova edizione, nuova anche rispetto all'edizione inglese del 1988 (The Johns Hopkins University Press), non modifica né il metodo né i risultati di indagini specifiche. Alcune interpretazioni di singoli passi sono ribadite anche laddove non hanno trovato consenso unanime, altre sono state precisate e in parte modificate. Un nuovo capitolo è stato aggiunto (Parte I, cap. 6), che riproduce il testo, opportunamente riveduto, di una conferenza tenuta ali' Accademia dei Lincei, nell'adunanza del 18 gennaio 1994. Non mi resta che formulare l'augurio che questa terza edizione continui a destare, al pari delle precedenti, il favore e l'interesse dei lettori. Esprimo il mio vivo ringraziamento a Maria Colantonio e Maria Grazia Fileni che hanno corretto e compilato gli indici di questa edizione. B.G. Urbino, giugno 1995

Abbreviazioni

Bemabé Calarne Davies Degani D(iels)-K(ranz)

Poetarum epicorum Graecorum testimonia et fragmenta. Pars I, ed. A. Bemabé, Leipzig 1987 Alcman, Introduction, texte critique, traduction et commentaire par C. Calarne, Roma 1984 Poetarum melicorum Graecorumfragmenta I, post D.L. Page ed. M. Davies, Oxonii 1991 Hipponax, Testimonia etfragmenta ed. H. Degani, Leipzig 1983 H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker 1-ill, ZU-

ricb-Berlin 196411 FGrHist F. Jacoby, Die Fragmente der griechischen Historiker, Leiden 1954-1969 Gent(ili) Anacreonte, Introduzione, testo critico, traduzione, studio sui frammenti papiracei a cura di B. Gentili, Roma 1958 Poetarum elegiacorum testimonia etfragmenta edd. B. Gentili et Gent(ili)-Pr(ato) C. Prato, Pars I, Leipzig 19881 ; Pars II, Leipzig 1985 Poetae comici Graeci edd. R. Kassel et C. Austin II, III!2, IV, V, K(assel)-A(ustin) VII, Berolini et Novi Eboraci 1983-1991 Maehl(er) Pindari carmina cumfragmentis. Pars II: Fragmento. lndices, ed. H. Maehler, Leipzig 1989 Martina Solon. Testimonia veterum coli. A. Martina, Romae 1968 Merk(elbach) West Fragmenta Hesiodea edd. R. Merkelbacb-M.L. West, Oxonii 1967 P(age) Poetae melici Graeci ed. D.L. Page, Oxford 1962 SLG Supplementum lyricis Graecis ed. D.L. Page, Oxford 1974 Sn(ell)-Maehl(er) Bacchylidis carmina cumfragmentis. Post B. Snell ed. H. Maebler, Leipzig 1970•0 Pindari carmina cum fragmentis. Pars I: Epinicia. Post B. Snell ed. H. Maehler, Leipzig 19871 T(arditi) Archiloco, Introduzione, testimonianze sulla vita e sull'arte, testo critico, traduzione a cura di G. Tarditi, Roma 1968 TrGF Tragicorum Graecorum Fragmenta, I, ed. B. Snell. Edilio correctior et addendis aucta cur. R. Kannicbt, Gottingen 198& V(oigt) Sappho et Alcaeus, Fragmenta ed. E.M. Voigt, Amsterdam 1971 West lambì et elegi Graeci ante Alexandrum cantati 1-11,ed. M.L. West, Oxonii 1989-1992 1

Poesia e pubblico nella Grecia antica

Neppure la cultura di un'epoca, per quanto lontana da noi quest' epoca sia retrocessa nel tempo, può essere chiusa in sé come alcunché di bell'e pronto, di completamente compiuto e di irrimediabilmente passato, come alcunché di morto ... Ma l'unità di una determinata cultura è un'unità aperta ... Nel campo della cultura l' extralocalità è la pib possente leva per la comprensione. Una cultura altrui soltanto agli occhi di un'altra cultura si svela in modo più completo e profondo (ma non in tutta la sua pienezza, poich6 verranno ancora altre culture che vedranno e capiranno ancora di più). Un senso svela le proprie profondità, se si incontra e entra in contatto con un altro, altrui senso: tra di essi comincia una sorta di dialogo, che supera la chiusura e l'unilateralità di questi sensi, di queste culture. Noi poniamo a un'altrui cultura nuove domande che essa non si poneva e cerchiamo in essa risposta a queste nostre domande e l'altrui cultura ci risponde, svelandoci suoi nuovi aspetti, sue nuove profondità di senso. Senza proprie domande non si può capire creativamente alcunché di altro e di altrui (ma, naturalmente, le domande devono essere serie, autentiche). Quando si ha questo incontro dialogico di due culture, esse non si fondono e non si confondono, e ognuna conserva la propria unità e la propria aperta totalità, ma entrambe si arricchiscono reciprocamente.

M. BACHTIN, Risposta ad una domanda della redazione del «Novyi mir» [trad. C. Strada Janovif]

Parte prima

Capitolo primo

Oralità e cultura arcaica

La poesia greca fu un fenomeno profondamente diverso dalla poesia moderna nei contenuti, nelle forme e nei modi della comunicazione. Ebbe un carattere essenzialmente pragmatico, nel senso di una stretta correlazione con la realtà sociale e politica e col concreto agire dei singoli nella collettività. Espresse vicende esistenziali del poeta stesso o di altri, ma non fu idiosincratica nel senso moderno. L'universo delle figure del suo linguaggio, ovvero le immagini, le metafore, le similitudini, non furono indipendenti dal visibile e tali da consentire la percezione di un mondo non esistente, astratto e fittizio come nel linguaggio simbolico della moderna letteratura di finzione 1, ma furono, non diversamente che nell'arte figurativa2, ancorate alla realtà fenomenica. Ebbe come contenuto ricorrente il mito, che costitul l'oggetto esclusivo della poesia narrativa e drammatica e il termine costante di riferimento paradigmatico per la poesia lirica. La sua funzione fu essenzialmente didattica e paideutica, in maniera più esplicita sia quando operò nell'ambito dei simposi, dei komoi e delle eterie maschili - come ad esempio la poesia di Alceo e Teognide -, o dei tiasi femminili - come la poesia di Alcmane e di Saffo -, strettamente connessa con i riti di iniziazione alla vita coniugale, sia quando, trasferendosi sulla scena, assunse i modi e le forme della rappresentazione drammatica. E questa funzione paideutica va intesa non in un'accezione banalmente pedagogica, ma come esperienza formativa e irripetibile che il pubblico viveva intellettualmente ed emotivamente nella rappresentazione delle vicende esi-

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Mi limito a citare, sull'argomento, i lavori di Stierle 1975; lser 1978 (con bibliografia); Enciclopedia Einaudi, Torino 1979, s.v. «Finzione», a cura di C. Segre. 2 Cfr. Andreae 1988, p. 16: «Anche gli esseri immaginari dell'arte greca non esistono nella realtà ma soltanto nell'immaginazione, ma essi sono composti di parti che hanno il loro fondamento nella realtà (il corsivo è mio) e il modo in cui queste parti sono collegate tra di loro tiene conto delle leggi naturali dell'autonomia»; e poco oltre (p. 19): «L'immaginario non è il contrario del reale ma il suo complemento e in quanto tale contribuisce insieme con il naturale a far sl che l'arte acquisti il dominio del mondo virtuale».

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Poesia e pubblico nella Grecia antica

stenziali dei personaggi del mita3. Ma l'elemento che distanzia radicalmente la poesia greca da quella moderna è il tipo di comunicazione, non destinata alla lettura, ma alla performance dinanzi a un uditorio, affidata ali' esecuzione di un singolo o di un coro, con l'accompagnamento di uno strumento musicale. Sarebbe perciò improprio denominarla 'letteratura orale', che è di per sé un ossimoro, poiché 'letteratura', da littera 'lettera dell'alfabeto', è connessa nella sua etimologia con la scrittura intesa in un contesto di civiltà libraria come un vero e proprio atto letterario. Osserva con ragione W. Ong4 che parlare di letteratura orale è lo stesso che «pensare ai cavalli come ad automobili senza ruote». Il termine mousiké designò la poesia nel suo insieme, quale connubio di parola e musica; i termini più frequentemente usati per indicare la persona del poeta furono in età arcaica aoidos (cantore) e più tardi, a partire dal V secolo a.e., melopoios (facitore di canti) e poietés. Questo netto contrasto fu del resto già rilevato tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento da Jacob Burckhardt 5 , quando enfatizzava nella poesia greca, rispetto a quella moderna, l'importanza della trasmissione orale e del legame con la musica. Un elemento differenziale spesso obliterato dalla critica, soprattutto per quanto attiene alla produzione lirica, sul cui carattere orale giustamente egli aveva posto l'accento. I problemi della cultura orale sono stati, in questi ultimi decenni, oggetto di approfondite ricerche sia nel campo degli studi classici, sia in quelli della medievistica e dell'antropologia culturale. Nell'ambito della cultura greca una maggiore attenzione al problema ha mostrato, com'è noto, la critica angloamericana, grazie alla decisiva influenza esercitata dagli studi di Milman Parry, che fu attivo intorno agli anni Trenta. Si può ben dire che tutta la scuola oralistica americana è in sostanza riconducibile all'insegnamento della sua grande personalità, in maniera più o meno diretta ed in forme più 'rigide' o più 'duttili'. In questa prospettiva si colloca A.B. Lord e anche Eric A. Havelock, nonostante l'indubbia autonomia ed originalità della sua impostazione, tendente a privilegiare il fattore mnemonico su quello dell'estemporaneità 6 •

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Stanford 1983. Ong 1982, p. 12. 5 Burckhardt 1900, pp. 185 sg. 6 Sulla letteratura e la cultura orale si vedano Innis 1950; Vansina 1961; Ong 1967; Stanford 1967, pp. 1-26 (sul predominio della parola orale sulla parola scritta nella cultura greca); Finnegan 1970; AA.VV., Oral Literature. Seven Essays, a cura di J.J. Duggan, Edinburgh-London 1975; AA.VV., Oral Literature and the Formula, a cura di B.A. StolzR.S. Shannon, Ano Arbor 1976; Finnegan 1977; AA.VV., Patterns in Oral Literature, a cura di H. Jason-D. Segai, The Hague-Paris 1977; Gasparov 1978; Lotman 1978; Okpewho 4

I. Oralità e cultura arcaica

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Ma si impone preliminarmente l'esigenza di definire nei suoi aspetti intrinseci ed estrinseci il fenomeno dell'oralità in letteratura, un fenomeno comune a molti tipi di società passate e presenti, illetterate o letterate, la cui cultura conosca o non conosca la diffusione del libro come principale strumento di comunicazione, nei più diversi contesti economici, siano essi industriali o in via di svtluppo. La diversità di queste situazioni socio-economiche e culturali non autorizza formulazioni troppo rigide e restrittive che, generalizzando, finiscono con l'assumere a rango di definizione universale dell'oralità i caratteri storici di una determinata cultura orale. Per esemplificare, non è lecito postulare che la poesia orale debba essere di necessità e per definizione di tradizione orale o di composizione orale o, quanto allo stile, totalmente formulare e paratattica. Certo questi sono tratti che caratterizzano determinate manifestazioni storiche del fenomeno, ma non lo definiscono in assoluto. Compito del critico è appunto quello di individuare di volta in volta i caratteri propri della cultura orale che è oggetto della sua indagine. In generale si può dire che la differenza sostanziale tra i due tipi di comunicazione, orale e scritta, risiedtt nel fatto che in quella orale il destinatario e il mittente del messaggio si collocano, con tutta la fisicità ed emotività della loro presenza, in un determinato tempo e spazio comuni, e condividono un pari grado di realtà e concretezza.

1979; Zumthor 1979; Detienne 1980; Goody 1980; Detienne 1981; Havelock 1982; Assmann-Hardmeier 1983. Nuovi interessanti contributi sui vari aspetti della cultura orale e sui metodi d'indagine in DJ. Miller 1982; Ong 1982; Zumthor 1983; J{uUmann 1984; Cerri 1986; Morris 1986; Whitaker-Sienaert 1986; Corsinì 1988; AA.VV., Les savoirs de l'écriture en Gr~ce ancienne, a cura di M. Detienne, Lille 1988; Finnegan 1988; Harris 1989 (con amplissima bibliografia). Si vedano anche AA.VV., Alfabetismo e cultura scritta nella storia della società italiana (Atti del Seminario, PeNgia 29-30 mano 1977), PeNgia 1978, e le riviste «Quaderni storici•, 35, 1977 (Oral History: fra antropologia e storia); «New Literary History•, specialmente il n. 8, 1977 (Oral Cultures and Oral Performance), e «Cahiers dc littérature orale• (Publications Orientalistes dc France). Una nuova rivista specifica sull'argomento è apparsa nel 1986: «Oral Tradition,., Una rassegna bibliografica è in Foley 1985. Per un orientamento bibliografico sull'epica omerica rinvio a AA.VV., Homer, a cura di J. Latacz, Darmstadt 1979, e a Broccia 1979, ai quali si aggiunga Durante 1971; Russo 1971; Nagler 1974; Durante 1976; AA.VV., Communication Art.rin the Ancient World, a cura di E.A. Havelock-J.P. Hershbell, New York 1978; Tsagarakis 1979; Skafte Jensen 1980; Fantuzzi 1980a; AA.VV., / poemi epici rapsodici non omerici e la tradizione orale, Atti del Convegno di Venezia (28-30 settembre 1977), Padova 1981; Cantilena 1983. I diversi problemi della cultura orale dal mondo antico al mondo contemporaneo sono stati dibattuti in un Convegno Internazionale organizzato dall'Istituto di Filologia Classica e dal Centro Internazionale di Semiotica e Linguistica dell'Università di Urbino nel luglio 1980, sul tema Oralità: cultura, letteratura, discorso; gli atti sono stati pubblicati a cura di B. Gentili e G. Paioni, Roma 1985.

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Poesia e pubblico nella Grecia antica

Perché una poesia possa definirsi orale è necessario il ricorrere di tre condizioni, che possono sussistere simultaneamente o separatamente: 1) oralità della composizione (improvvisazione estemporanea); 2) oralità della comunicazione (pe,fomance); 3) oralità della trasmissione (tradizione affidata alla memoria) 7 • S'intende che l'oralità della trasmissione può sia precedere sia seguire l'hic et nunc dell'esecuzione, nel senso che può essere recitata o cantata dinanzi ad un uditorio una composizione affidata alla memoria o invece può essere conservata attraverso la memoria una poesia composta estemporaneamente. Cosi, per esemplificare concretamente con il caso della poesia greca arcaica, questo appunto è il senso della formulazione che Platone dà nella Repubblica ( 1O, 603b ), quando definisce «aurale» la poesia, fatta per l'udito, contrapponendola alla pittura, fatta per la vista. L'auralità di cui parla Platone pertiene evidentemente alla oralità della comunicazione, ma anche della trasmissione, se volgiamo lo sguardo all'attività del rapsodo, descritta e analizzata da Platone nello Ione. Un'attività che consisteva nella recitazione anche gestuale di canti omerici memorizzati. Se sul piano del talento naturale, o della physis, per dirla con la terminologia usata dai Greci stessi, il poeta orale deve certo possedere doti non comuni, è pur vero che la sua attitudine personale non avrebbe possibilità di esplicarsi senza il possesso di una raffinata e complessa tecnica di memorizzazione e di composizione. Una tecnica di ordine artigianale che fu presente alla cultura greca, dall'età più antica fino al V secolo; già Omero, nell'Odissea (17,382 sgg.), riconduce esplicitamente l'aedo alla categoria degli artigiani (demiurghi), ponendolo sullo stesso piano dell'indovino, del medico e del carpentiere. Il fare poetico non si colloca a livello creativo-esteticoma euristico-imitativo,come riproduzione sia del dato naturale sia dei modelli poetici tradizionali 8 • L'arte della memoria è sempre stata uno degli strumenti fondamenta7

Si veda da ultimo Finnegan 1977, pp. 16 sgg. Si suole ora ritenere che, nella fase più antica, l'attività aedica non si collocasse sullo stesso terreno delle attività demiurgiche (Svenbro 1976, pp. 194 sg.); una diversa posizione è quella di Havelock (1978a, pp. 18 sg. [trad.it., p. 30]), secondo cui la concezione artigianale del fare poetico si sarebbe sviluppata in connessione con l'affermarsi dcli' alfabetizzazione. Di qui le numerose metafore mutuate dal mondo delle arti e dei mestieri, reperibili nella lirica corale del V secolo. In realtà un'analisi dei termini pertinenti al fare poe- · tico, usati già nei poemi omerici, mostra come il narrare e, più in generale, il parlareabilmente, fossero sentiti come capacità tecnica di costruire il discorso. Questo è il senso che ha in Omero l'epiteto artiepés, attribuito ad Achille (Il. 22, 281) (cfr. Calarne 1977b). Tale il valore anche di altri termini connotanti la composizione poetica, quali thésis, sjnthesis, syndthemi, kosmos epéon ecc. Cfr. cap. 4, p. 69. 8

/. Oralità e cultura arcaica

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li per la conservazione dei dati e delle· nozioni che fonnano il tessuto di una tradizione culturale. Sempre attuale l'incisiva fonnulazione dell'antico autore dei Dissoì l6goi (V-IV secolo a.C.) 9 : «grandissima e bellissima invenzione la memoria, sempre utile sia al sapere sia al vivere». L'arte della memoria fu senza dubbio la struttura portante di tutta la cultura greca più antica, anteriore all'uso della scrittura, come emerge chiaramente dalla descrizione omerica dell'attività dei due aedi Demodoco e Femio. Ma fu sentita anche dopo, quando si cominciò a praticare la scrittura, piuttosto come dono divino (soprattutto della Musa) che come opera umana. Il primo, per quanto ne sappiamo, che la interpretò come una vera e propria téchne articolata in norme precise, legate allo spazio e alle immagini, fu Simonide di Ceo (VI-V secolo a.C.) 10: la sua definizione della poesia come pittura parlante e della pittura come poesia muta, oltre che documentare una concezione artigianale del fare poetico' 1, rappresenta, come ha osservato Frances A. Yates 12, il più chiaro indizio che egli concepì come un tutto unitario «poesia, pittura e mnemonica in termini di intensa visualizzazione». In effetti, tutte le mnemotecniche elaborate successivamente, per la memoria delle cose e delle parole, da quelle di Aristotele, della Retorica ad Erennio, di Quintiliano, a quelle medievali e moderne sino al trattato di Leibniz, si sono fondate sul riconoscimento della funzione primaria dello spazio e delle immagini. S'intende che, in linea teorica, bisogna distinguere tra memoria di temi e formule poetiche e memoria meccanica di testi rigidamente tramandati parola per parola. Il dibattito su questo argomento è tuttora aperto tra gli antropologi e i dati sembrano variare da cultura a cultura. J. Goody 13 ad esempio propende ad ammettere, nelle culture orali che ignorano la scrittura, solo il primo tipo di memoria, attribuendo il secondo a quelle culture che conoscono il libro e la scuola. Diversa è l'opinione di altri antropologi, secondo i quali le due forme di memoria coesistono e «le variazioni sia di forma sia di contenuto, che si riscontrano in narrazioni rituali o recitazioni di miti presso popoli senza scrittura, non sono affatto dovute ad un'incapacità di attenersi ad un canone ottimale ed originale (di cui, non a caso, non si ha mai notizia), bensì ad una cosciente rielaborazione mitopoietica che non esclude, anzi spesso implica, vive contraddizioni e persi9

90, 9, 1 D.-K.

Marmor Parium, FGrHist 239 A 54; Cic. Definib. 2, 32; Quint. 11, 2, 11-14; Longin. Rhet. l, 2,201 Hammer; Suda, s.v. l:Lµcov/fuiç; cfr. anche Christ 1941, pp. 75 sg.; Detienne 1967, pp. 110 sg., 123 [trad. it., pp. 82 sg., 93), e Blum 1969, pp. 41-6. 11 Plut. De glor. Ath. 3, 346f; cfr. Lanata 1963, pp. 68 sg. 12 Yates 1966, p. 43 [trad. it, p. 28). Sul concetto e le forme della memoria e i vari aspetti del processo mnemonico si veda Le Goff 1979, particolannente pp. 1068-81. 13 Goody 1977. 10

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Poesia e pubblico nella Grecia antica

no capovolgimenti di rapporti genealogici, casuali, fattuali» 14 • Proprio questa mi sembra la fenomenologia inerente alla cultura greca più antica, secondo i modi delineati con grande chiarezza anche da E.A. Havelock 15 , con specifico riferimento alla formazione del testo omerico. Secondo la sua prospettiva, le condizioni della società orale in cui i poemi omerici apparvero non permettono al critico di distinguere tra composizione creativa e ripetizione meccanica, come se si trattasse di due categorie che si escludono reciprocamente. In ogni momento del processo noi possiamo parlare solo di compositore-esecutore, l'aedo-rapsodo. A questo punto sarà opportuno tracciare per brevi linee l'itinerario della parola rhapsoidos.È indubbio che i termini aoidos e rhapsoidosfurono in origine applicati entrambi al poeta-esecutore 16• Si è pensato che essi indicassero qualcosa di diverso relativamente sia al tipo di esecuzione sia alla prevalenza dell'improvvisazione rispetto alla memorizzazione, ovvero che fosse 'creativa' o 'produttiva' l'attività dell'aedo, 'ripetitiva' quella del rapsodo. In realtà le testimonianze antiche non consentono, almeno per l'epoca arcaica, di distinguere una figura dall'altra. Anche l'esecuzione del rapsodo poteva essere o non essere affidata al canto. Egli poteva intonare il canto sia come Demodoco o Pernio con l' accompagnamento della cetra, sia declamando e tenendo la rluibdoscome Esiodo che, nel proemio della Teogonia (vv. 30 sg.), raffigura se stesso con in mano una verga ricevuta dalle Muse, simbolo dell'investitura poetica17. Proprio Esiodo (fr. 357 Merk.-West), nel qualificare se stesso ed Omero come aedi, aggiunge che a Delo «cantano» entrambi dopo «aver ordito il canto in nuovi inni» (en nearofs hjrMDis rluipsantesaoidén). È evidente che rluiptein configura in concreto le modalità del comporre, descrivendone l'operazione dell'ordire le fila o la trama del discorso 18 •

14

Cosl mi comunica per lettera (del 4.2.1980) R. Mastromattei. Havelock 1978a, pp. 11-14 [trad. it., pp. 15-21]. 16 Durante 1976, pp. 177 sgg.; C.O. Pavese 1972, p. 215; C.O. Pavese 1974, pp. 1522. La parola rhapsoidosricorre per la prima volta in Erodoto 5, 67, dove si narra che Clistene di Sicione (poco dopo il 600 a.C.), quandoera in guerra con gli Argivi, vietò il concorso dei rapsodi a causa dei poemi omerici, perché gli Argivi e Argo vi erano quasi costantemente celebrati. Ma l'uso del termine può essere più antico, almeno contemporaneo a Clistene. Un dato comunque certo è che la nozione del rhaptein aoidin era già nota ad Esiodo (vedi oltre, p. 11). Su rhapsoid6sin Sofocle, O.R. 391, come attributo della Sfinge, vedi Rito6k 1962. 17 Cfr. la plausibile osservazione di M.L. West 1966a, p. 164: ~Se Esiodo portavaun bastone anziché una lira, non significa che ciò era tipico del suo tempo, della sua area o del suo genere, ma che egli non poteva avere una lira né suonarla - non aveva avuto alcun tirocinio professionale». 11 Per la nozione di rluiptein cfr. l'analisi di Durante 1976, pp. 176 sgg. 15

I. Oralità e cultura arcaica

Il

Lo storico Filocoro (IV-ID secolo a.C.), nel citare i versi esiodei19 , osserva con ragione che furono detti rapsodi dal fatto che «componevano e ordivano il canto» (syntithénai kaì rhdptein tèn oidén): due operazioni strettamente complementari del fare poetico, consistenti nel mettere insieme la materia del racconto e ordirne poi la trama 20 • S'intende che il tipo di performance, cui si riferiscono i versi di Esiodo, è quello esametrico. Non credo si possa affermare che all'inizio del VI secolo l'attività rapsodica fosse già scaduta a mera esecuzione di canti memorizzati del repertorio epico 21 • Sappiamo invece che il rapsodo Cineto di Chio, che nel 504-501 a.e. per primo avrebbe recitato Omero a Siracusa, fu non solo esecutore, ma anche autore di molti versi epici che egli avrebbe inserito nell'intelaiatura dei poemi omerici 22 • Dunque i due momenti, il creativo e il ripetitivo, coesistono ancora nell'attività di un rapsodo del VI secolo. E il momento ripetitivo non consisteva soltanto nell'esecuzione dell'epica omerica, ma nella performance di un qualsiasi testo della tradizione poetica, in pubbliche audizioni in cui erano presentati oltre che i poemi omerici ed esiodei, anche carmi del repertorio giambico (Archiloco, Semonide d' Amorgo), elegiaco (Mimnermo) e lirico (Stesicoro) 23 • Analogo l'esito semantico del termine 'rapsodia' assunta a connotare più spesso l'epica omerica 24 o la recitazione di Omero2S, ma anche atta a designare un'opera, ()' bti. :n:ollmnÀ.Wtq> XT)µw0E l.çdi Ennesianatte lascia supporre che non sempre egli si sia limitato a suonare l' aulo, ma abbia alternato all'esercizio dell' auleta quello dcli' aulodo, cioè avrebbe cantato egli stesso le sue elegie; in questo secondo caso è presumibile che l'abbia accompagnato nel canto una delle flautiste del suo seguito. Non appare convincente l'ipotesi di Campbell ( 1964, p. 63) che l'elegia fosse destinata in linea di massima alla recitazione e solo in determinate occasioni al canto. 32 Cfr. Parte fil, cap. 11, p. 261, n. 86. 33 La pià nota è quella che interpreta i.aµ(iil;ELv nel senso di «insultare, schernire, deridere»; cfr. Gorg. 82 A 15a D.-K., Aristot. Poet. 1448b 32; un'altra etimologia, attestata da Proclo (Chrest. 29 Severyns), fa derivare 'laµ/3oç dal nome della serva del re eleusinio Celeo, lambe, che rallegrò con i suoi scherzi giocosi Demetra addolorata per la perdita della figlia Core (Hymn. Dem. 195). Entrambe le spiegazioni caratterizzano atteggiamenti che sono propri del genere serio-comico di tutti i tempi. La pià antica attestazione di 'taJq3oçnel senso di «componimento giambico» è in Archiloco, fr. 20 T.: si veda Parte Il, cap. 8. 34 È rilevante l'uso estensivo, in Aristotele (Rhet. 3, 1418b 24) e nella scuola peripatetica, del termine «giambico» per indicare versi trocaici di Archiloco: un uso retorico fondato evidentemente sull'affinità dei contenuti tra poesia giambica e poesia trocaica (cfr. Tarditi 1968, p. • 13). 35 Tarditi 1958.

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Poesia e pubblico nella Grecia antica

«leggibile» di Archiloco, rinvenuto in un papiro di Colonia 36 , l'evidenza del testo permette di individuare alcuni tratti di un episodio che non esula dalla sfera del quotidiano. Come si vede, differenziazioni tra elegia e giambo sussistono solo sul piano dei modi dell'intonazione ritmica, adeguati agli scopi immediati della performance. Se volgiamo lo sguardo alla poesia «lirica» 37 , ci troviamo di fronte ad una dinamica dei diversi generi melici, operante piuttosto a livello pragmatico che non sul piano della struttura apparente del dettato e della sua organizzazione interna. Il canto si qualificava in rapporto alle diverse circostanze della vita sociale e al tipo di esecuzione vocale e strumentale richiesta da ogni singola occasione. Fondamentale per la più antica storia dei generi lirici è un luogo delle Leggi (3, 700b sgg.) nel quale Platone polemizza contro la licenza, affermatasi nel suo tempo, nei confronti delle tradizionali norme musicali che avevano sino allora segnato il discrimine tra i vari tipi di poesia: in epoca antica, egli dice, la mousiké era divisa in generi e modi definiti, che caratterizzavano rispettivamente gli inni agli dei, le lamentazioni funebri (threnoi), i nomoi citarodici3 8 ed altre forme di canto, quali il peana in onore di Apollo e il ditirambo in onore di Dioniso. Una distinzione di performances musicali che non era lecito trasgredire sostituendo abusivamente un tipo di melodia ad un altro. L'autorità politica si faceva garante, a detta di Platone, del rigoroso rispetto della tradizione poetico-musicale e il pubblico stesso ascoltava in silenzio, senza turbare l'esecuzione con fischi o applausi come invece accadeva al suo tempo. Diversa la situazione attuale denunciata da Platone: i nuovi poeti, desiderosi di riscuotere successo presso un pubblico divenuto turbolento nella presunzione di essere buon giudice di poesia, rimescolano i caratteri propri dei generi nelle loro esecuzioni. Questa pagina di Platone è significativa per due motivi. In primo luogo, dimostra che l'articolazione in generi è quella che aveva operato nella cultura greca dell'età arcaica e classica, pure all'interno di una sostanziale unità della produzione melica, individuata dal termine onnicomprensivo di «inno» 39 • Un termine, è bene precisare, che assume invece in vedi Parte m, cap. 11, pp. 246 sgg. Sul problema delle origini della lirica greca ucaica rinvio al saggio di Adrados 1976, cfr. Ceni 1980. 38 Sul nomos, vedi Parte I, cap. 2, p. 36. 39 Un•ampia documentazionedel termine ~ reperibile in tutta la poesia ucaica. Per inno nel senso di thrlnos cfr. Anacr. fr. 168 Gent.; Aesch. Pers. 620; 62S; Ag. 700 ecc.; nel senso generico di «canto destinato al simposio» cfr. soprattuttoAnacr. fr. 33, 11 Gent.; Xenophan. fr. 1, 13 Gent.-Pr.; 'lbeogn. 993; in quello di canto celebrativo di una vittoria agonale, frequente l'uso in Bacchilidee Pindaro. 36

37

III. Modi e forme della comunicazione

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Platone (Resp. IO, 607a), il significato specifico di preghiera agli dei, contrapposto al canto in onore degli uomini (enkomion), eseguito dinanzi al ristretto uditorio di un simposio o al pubblico più vasto di una cerimonia solenne in onore di un atleta vincitore nelle feste agonali. In secondo luogo, il passo documenta uno stato di crisi che dovette investire, tra il V e il IV secolo, le forme tradizionali dei generi, sia sul piano delle forme meliche, sia su quello dei contenuti. Il vero obiettivo polemico di Platone era in realtà lo stile composito del cosiddetto nuovo ditirambo che con il libero uso delle armonie nei tre diversi generi enarmonico, diatonico e cromatico aveva fagocitato ogni altra forma melica 40 • Ma Platone (Resp. 3, 392d-394c) elabora, sul piano teorico, anche una tipologia del racconto, che gli consente di ripartire la produzione poetica in tre grandi categorie fondate sulla struttura interna del discorso: 1) «semplice» narrazione in terza persona; 2) narrazione mimetico-dialogica; 3) narrazione mista. Al primo genere egli assegna il ditirambo, concepito come canto del coro che narra eventi mitici, al secondo la poesia drammatica, tragica e comica, al terzo infine l'epos e altri generi che associano e alternano racconto e dialogo: è evidente che ·con l'espressione «altri generi» egli allude a tutte quelle forme poematiche giambiche, elegiache e liriche nelle quali coesistono parti narrative e dialogiche. Ciò è confermato dalla ulteriore ripartizione in sottogeneri, esposta dal grammatico Diomede 41 , sempre nell'ambito dei tre generi fondamentali della dottrina platonica: esegetico-narrativo, drammatico o attivo, comune; in quest'ultimo, cioè quello misto di struttura drammatica e narrativa, è compresa, oltre ali' epos, la poesia lirica esemplificata con Archiloco e Orazio. La teoria dei generi elaborata dagli eruditi alessandrini procede nel solco della teoria retorica di Platone, nel senso che, in un'epoca nella quale sono venuti meno i contesti e i referenti cui era destinata la poesia del passato, questa viene ormai letta come letteratura tout court e, di conseguenza, classificata non in base ai criteri originari di ordine pragmatico, ma a criteri interni di tipo retorico, fondati sulla struttura del discorso e dei suoi contenuti. Di qui l'individuazione astratta di generi e sottogeneri, che dava spesso luogo a incertezze e dispute nella classificazione di singoli testi della lirica arcaica e tardo-arcaica, come documenta ad esempio la controversia tra Callimaco ed Aristarco circa la classificazione della Cassandra di Bacchilide, che ad Aristarco sembrava un ditiram-

"°Cfr. ParteI, cap. 2, p. 39. 41

Gramm. un.l, pp. 482 sg. Keil.

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Poesia e pubblico nella Grecia antica

bo, mentre Callimaco la riteneva un peana, basandosi sul grido rituale ii, che ricorreva nel carme 42 • La classificazione dei generi in età alessandrina fu in sostanza libresca non solo nell'impostazione analitica, ma anche nella sua genesi e nei suoi fini operativi, in quanto strettamente collegata alle necessità pratiche dell'editoria critica e delle biblioteche. Nata con lo scopo precipuo di offrire una catalogazione razionale dei testi antichi, questa dottrina dei generi finì con l'esercitare un'influenza decisiva sul gusto letterario del tempo, che si espresse, sul piano critico, in una struttura teorica complessa ed elaborata e, sul piano concreto dell'attività poetica, nella tendenza ad una sofisticata contaminazione e mistura di generi poetici 43 • Gli attacchi polemici, che nel decimo libro della Repubblica (595a607a) Platone indirizza alla poesia, emergono con sufficiente chiarezza dalla sua stessa teoria della poesia intesa, al pari dell'arte figurativa, come mimesi. Tre sono le arti che esistono per ciascun oggetto: quella che se ne serve, quella che lo fabbrica, quella che lo imita (601d). Pittura e poesia, che s'indirizzano la prima alla vista, la seconda all'udito, sono per eccellenza arti imitative. Ma l'attività imitativa non comporta la conoscenza degli oggetti che si imitano: il pittore, ad esempio, non sa distinguere se l'oggetto che egli dipinge è ben fatto o no, non ne ha né esperienza né giusta opinione. In sostanza l'imitazione non è che passatempo e gioco, poiché è lontana di due gradi dalla natura, non crea la realtà vera, ma solo l'apparenza o la parvenza di essa. Il pittore, nel dipingere un oggetto, compie una mimesi di secondo grado nella misura in cui riproduce una realtà oggettuale che è a sua volta riproduzione dell'idea dell'oggetto stesso attraverso l'opera dell'artigiano. Un discorso condotto sul filo della distinzione tra una mimesi come perfetta riproduzione del reale e una seconda mimesi che crea l'illusione prospettica attraverso la deformazione del reale, raffigurando più piccole le cose lontane e più grandi le cose vicine o anche, attraverso i trucchi del colore, rappresentando gli oggetti piegati o diritti, concavi o convessi (pittura a chiaroscuro, skiagraph(a 602d). Dunque un'arte del verisimile ingannevole, intimamente legata a quella parte di noi che ripugna alla ragione e che non ha alcuna meta né sana né vera; per mezzo di accorti artifici cromatici essa sconvolge l'anima del fruitore.

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Schol. Bacchyl. Carm. 22-23, pp. 127 sg. Sn.-Maehl. Per altri casi si veda Fileni 1987, pp. 28 sgg. 43 Sui generi poetici nella Grecia antica fondamentali per la documentazione sono il volume di Fiirber 1936 e l'articolo di Harvey 1955. Successivi tentativi di inquadramento teorico in Gentili 1967a; Rossi 1971; Gentili 1972b; Calarne 1974; Fantuzzi 1980b; Lanza 1983. Sulla genesi dei generi letterari in rapporto alle manifestazioni cultuali vedi Adrados 1976.

lii. Modi e forme della comunicazione

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Analoga è l'attività del poeta, l'artigiano di immagini (599d). Il suo fare mimetico è lontano anch'esso di due gradi dal vero. Egli non s'intende di ciò che è, ma di ciò che appare, crea soltanto parvenze delle azioni, delle virtù e d'ogni altra cosa. Se avesse conoscenza della realtà, creerebbe piuttosto che imitare, preferirebbe essere l'oggetto più che l'autore di un elogio. Con il potere suggestivo del metro, del ritmo e della musica il poeta esercita sull'uditorio quella stessa seduzione che il pittore comunica attraverso la figura e il colore, tanto grande è il fascino naturale che trasmettono questi mezzi espressivi. Spogliata dei suoi ornamenti e colori, la poesia non è altro che pura e semplice parola (60lb) 44 • Ma quali sono le azioni verso le quali si dirige la mimesi poetica? Quelle azioni, forzate o volontarie, in conseguenza delle quali gli uomini si reputano felici o infelici, si addolorano o gioiscono. Perché, non diversamente dal pittore, il poeta è naturalmente portato ad imitare quella parte di noi, irragionevole (alogiston), insensata e vile che non ha nulla di sano e di vero, cioè tutti gli appetiti dolorosi e piacevoli dell'anima che accompagnano ogni nostra azione e si prestano a molte e variate imitazioni, mentre non è facile da imitare il carattere saggio, tranquillo e uniforme, né, se lo si imita, può essere agevolmente compreso dall'uditorio eterogeneo di una festa e di un teatro. È perciò evidente che il poeta non ha la naturale propensione per la parte razionale dell'anima e neppure è incline a soddisfarla, se vuole ottenere il consenso della folla. Dunque un'arte nociva quella del poeta imitatore perché insedia in ciascuno di noi «una cattiva costituzione, compiacendone la parte insensata incapace di discernere il più e il meno, e giudica ora grandi ora piccole le medesime cose, creando fantasmi,• ed è molto distante dal vero» (605d). Arte dell'inganno, capace di destare soltanto passioni in chi ascolta, attraverso il piacere del canto e del gesto, e di coinvolgerlo emozionalmente nella sfera mimetica del racconto. Accogliendo la piacevole musa della poesia, lo stato affiderà il suo potere al piacere e al dolore anziché alla legge e alla ragione (607a). L'inno cletico agli dei e il canto di lode per gli uomini valenti sono le sole forme poetiche che lo stato potrà ammettere perché non comportano un processo imitativo della realtà e conseguentemente non recano danno al cittadino 45 • L'insistenza polemica di Platone sul fine edonistico della poesia è

44

45

Cfr. Gorg. 502c. Cfr. Leg. 1, 801c-802a.

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Poesia e pubblico nella Grecia antica

comprensibile solo in rapporto alla tecnologia della comunicazione orale, alla quale furono affidate le manifestazioni della cultura greca 46 • Ma una poesia orale, proprio per il suo rapporto diretto e immediato con un pubblico che ascolta, comporta modi di espressione e atteggiamenti mentali diversi dalla poesia destinata alla lettura 47 • Si tratta di una tecnica di comunicazione che sotto il profilo psicologico e linguistico è possibile verificare in contesti poetici di altre culture orali e, possiamo aggiungere, anche nelle strutture di dettato, già rilevate dalla linguistica contemporanea, di un testo scritto per una trasmissione radiofonica o per un pubblico discorso. Procedere con periodi brevi e per figurazioni paratattiche e non ipotattiche, evitare allocuzioni di origine 'mentale', astenersi dall'uso dell'io idiosincratico per il suo carattere esibitivo e indiscreto, evitare le sospensioni sintattiche, in generale predisporre con chiarezza e concretezza di linguaggio atteggiamenti di pensiero, che siano immediatamente percepibili dall'uditorio e lo dispongano all'ascolto, sono norme inderogabili per un qualsiasi testo di comunicazione orale 48 • L'attività del poeta si configurava come una performance durante la quale egli mimava il racconto al ritmo dei versi e della musica. L'esecuzione non lasciava inerte lo spettatore, ma attraverso il piacere psicosomatico inerente agli aspetti visivi e auditivi, ossia gestuali e ritmico-musicali, dello spettacolo, lo coinvolgeva sino a renderlo partecipe e attore egli stesso dell'azione mimetica. Una completa immedesimazione dell'uditore-spettatore con i vari personaggi del racconto 49 • In particolare, quale fu la funzione propria della poesia epica che ancora al tempo di Platone i rapsodi recitavano di fronte al pubblico ateniese? Havelock ha esaurientemente illustrato come il cantore epico, attraverso la narrazione delle vicende eroiche, trasmettesse all'uditorio tutto il sapere giuridico, religioso, scientifico e tecnico del tempo. Un sapere non esposto in maniera sistematica ed astratta o in forma di digressione, ma del tutto incorporato nel tessuto del racconto. Di qui la felice de46

L'essenza della polemica platonica contro la poesia, in particolare contro la poesia epica, in rapporto al momento di svolta dalla cultura orale alla cultura di comunicazione scritta è stata individuata e illustrata da Havelock 1963, pp. 3 sgg. [trad. it., pp. 11 sgg.]; cfr. Cerri 1969b. Per i contraddittori atteggiamenti di Platone nei riguardi della scrittura, cfr. Muth 1966. È chiaro che Platone, pur manifestando la sua preferenza per il discorso orale, più vivo per il rapporto umano che esso istituiva, era inconsapevolmente condizionato dalla nuova tecnologia della scrittura. Come è stato osservato (Turner 19S2,p. 24 [trad. it., p. 24)), egli combatteva su posizioni di retroguardia. 47 Sui modi, ad esempio, della comunicazione teatrale, si veda Prato 1978; Havelock 1980; Segai 1982. 48 Pseudo-Gadda 1969. Sui criteri di distinzione tra sistema scritto e sistema parlato, vedi McLuhan 1967; cfr. Dorson 1964 e Sebeok 1964 (con ampia bibliografia). 49 Cfr. Parte I, cap. 4, pp. 1S sg.

Ili. Modi e forme della comunicazione

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finizione dell'epos omerico come l'enciclopedia nella quale era organizzata tutta la saggezza della società greca. Nell'ambito di questa concezione, che teorizzava con la nozione di mimesi non solo il rapporto tra fare poetico e realtà, ma anche la compartecipazione ad un identico stato emozionale del poeta e dell'uditorio, sono riconducibili tutte le forme della produzione poetica arcaica, l'elegia, il giambo, la lirica, non soltanto l'epos sul quale Havelock ha insistito in maniera troppo esclusiva. L'originalità del discorso di Havelock è nell'aver individuato proprio nelle strutture culturali rappresentate dall'epos omerico le ragioni profonde dell'aspra polemica di Platone, che ravvisava, come si è visto, nell'opera dell'artista e del poeta una rielaborazione dell'esperienza doppiamente lontana dalla realtà. Una rielaborazione particolarmente pericolosa per la scienza e la morale, nella misura in cui sollecitava l'uditorio ad una recezione edonistica e mnemonica, dunque acritica, dei messaggi di una tradizione poetica, che era effetto e causa insieme del consolidarsi di un'opinione sociale (doxa). Platone aveva visto con chiarezza l'opposizione radicale tra questo tipo di cultura e quello che egli auspicava ai fini del suo sistema educativo e politico, nel quale la parola doveva rappresentare, potremmo dire con il critico viennese Karl Kraus, la personificazione di un pensiero, non l'involucro di una socievole opinioneSO. Ma, d'altra parte, non si rendeva conto che la cultura da lui contestata era intimamente legata alla tecnologia della comunicazione orale. Il fatto che Platone proclamasse esplicitamente la sua preferenza per il discorso orale in realtà significa soltanto che egli non poteva cogliere tutte le implicazioni storiche delle due diverse tecnologie della comunicazione orale e scritta, in un momento in cui era in atto il passaggio dall'una forma all'altra. Di qui la sua contraddittoria posizione di retroguardia a difesa dell'oralità e contro l'uso della scrittura, alla quale poi egli di fatto affidava la trasmissione del suo pensiero dialettico. Più tardi Aristotele - e questo potrebbe essere un valido argomento di replica alle obiezioni avanzate contro l'impostazione di Havelock - contrapporrà, nella sua dottrina retorica (Rhet. 3, 1413b sgg.), le strutture e le funzioni del discorso orale (o agonistico) a quelle ben diverse del discorso scritto (o grafico), non esprimente emozioni, più preciso, più curato nella connessione dei pensieri e nell'elaborazione formale, ma meno vivo, troppo stretto e fiacco per l'audizione. Anticipazioni dell'atteggiamento platonico verso la cultura tradizionale si ravvisano già nella tragedia di Euripide, che riflette il clima intel50

K. Kraus 1955, p. 117 [trad. it., p. 131].

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Poesia e pubblico nella Grecia antica

lettualedell'etàdei sofisti. Nella Medea(~. 190 sgg.), la condannadella poesia del passato si fonda sul presupposto che essa non ha adempiuto la sua precipua funzione di lenire le pene degli uomini. In questa concezione etica della poesia Euripide era nel solco della poetica tradizionale, che riconosceva come preminente la funzione sociale del poeta, considerato maestro di verità e di saggezza 51 , ma negava che la poesia avesse davvero assolto questa funzione, proprio per l'assenza, nell'analisi delle vicende umane, di un approfondimento dialettico quale richiedevano le forme di pensiero e di linguaggio proprie della nuova cultura filosofica del V secolo. Il suo scopo sarebbe stato quello puramente edonistico di allietare, con il piacere del canto, il pubblico di un convito o di una festa solenne, non quello, essenziale, di liberarlo dal dolore52 : poesia «gastronomica», per usare una metafora di Bertolt Brecht. Ma, nonostante la coerenza della posizione critica di Euripide e, più tardi, di Platone, con le esigenze culturali del loro tempo, in realtà sfuggirono ad essi, né poteva essere altrimenti, le profonde motivazioni delle forme di pensiero e degli atteggiamenti mentali nei quali si era espressa la poesia del passato. Non altrimenti Tucidide, polemizzando contro il fine edonistico del racconto orale, destinato a rallegrare l'uditorio piuttosto che all'indagine rigorosa del vero, propria della sua storiografia, aveva individuato con chiarezza, a differenza di Platone, il nesso intercorrente tra l'impianto razionalistico del suo discorso ed il tipo di comunicazione cui egli lo affidava. Una polemica che qualifica in maniera perentoria i fini e i modi di comunicazione della sua opera, composta non per la breve durata di una declamazione pubblica dinanzi a un uditorio momentaneo, ma per costi-

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Si veda Detienne 1967, passim; cfr. Cerri 1968; Pucci 1980, pp. 25 sg. Questi versi sono stati sino ad oggi interpretati, a mio avviso, in maniera non del tutto corretta. Euripide non si riferisce soltanto alla poesia conviviale (Page 1952, ad loc.) o alla poesia aedica (Fraenkel apud Page 1952), ma a tutta la tradizione poetica precedente, come prova l'uso della parola hjmnos (v. 192) nella grecità arcaica e classica (cfr. n. 39). Proprio la presenza nel contesto, oltre a defpnon, dei tennini thalfai, ed eilap{nai, che designavano il banchetto solenne anche in cerimonie festive di carattere pubblico, del tipo di quella descritta da Bacchilide (3, 15 sgg. Sn.-Maehl.; cfr. 14, 15), confermano che il discorso di Euripide verte anche sulla poesia corale cantata nell'occasione delle festività pubbliche. Le spiegazioni proposte del giudizio critico di Euripide nei riguardi della poesia non colgono esattamente il punto nodale del problema. Il Cunningham (1954, p. 154), anche se in modo generico, ha individuato il presupposto etico del giudizio euripideo. Paduano (1968, pp. 343 sgg.) ha giustamente sottolineato «il ripudio da parte del poeta di una concezione edonistica della poesia,., ma ha creduto di ravvisare nel giudizio euripideo l'esigenza di una poesia che fosse in rapporto «simpatetico,. con il dolore. Sarebbe forse più appropriato parlare di fine eudemonistico della poesia, un fine che, per Euripide, la poesia lirica non aveva potuto raggiungere attraverso il solo piacere del canto. 52

lii. Modi e forme della comunicazione

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tuire, affidata allo scritto e alla meditata lettura, una perenne acquisizione intellettuale 53 • Ma in Platone il rifiuto della poesia non era in realtà totale né prescindeva da una precisa analisi di quelle forme che gli apparivano tollerabili nell'ambito del suo sistema culturale, proprio perché non futili né dannose all'educazione del cittadino: il canto di lode per le virtù di un uomo illustre (encomio) o l'inno d'invocazione agli dei potevano avere una loro funzione paideutica, complementare a quella della filosofia (Resp. 10, 607a): forme di poesia senza mito e appunto per questo esenti dai pericoli insiti nell'edonismo della mimesi. Sotto l'aspetto della comunicazione orale non vi è soluzione di continuità tra la poesia omerica e la poesia lirica: in generale, l'osservazione dello Snell sulla concretezza del linguaggio omerico riguardo ai processi mentali 54 è applicabile anche al linguaggio della lirica. La tendenza omerica a rappresentare emozioni e stati d'animo come un mutuo scambio personificato 55 tra l'eroe e un dio o tra l'eroe e uno dei suoi organi (thymos, krad(e), in una sorta di soliloquio tra la persona e una parte di se stessa, è ancora operante nella lirica arcaica, come mostra ad esempio l'apostrofe di Archiloco al proprio thymos (fr. 105 T.). Si tratta di un atteggiamento mentale o, come è stata definita, di una psicologia della performance poetica che mira a pubblicizzare il personale e il soggettivo per renderlo immediatamente percepibile e istituire così un rapporto di emozionalità con l'uditorio56. Di qui il frequente uso delle metafore, delle immagini, delle similitudini che in particolari contesti sociali potevano assumere significati connotanti situazioni individuali o collettive soltanto nell'ambito di una ristretta comunità; un linguaggio per così dire esoterico o di gruppo, come è soprattutto evidente dal carattere delle allegorie alcaiche57 • La poesia d'Alceo, nata nell'azione e per l'azione e destinata al ristretto uditorio di una consorteria di nobili, porta il segno inconfondibile di una partecipazione viva, diretta e immediata agli eventi che l'hanno ispirata: vi si riflette la vita tumultuosa di una eteria arcaica impegnata nello scontro armato tra fazioni avverse. Il carme diviene cosi un imprescindibile strumento della lotta politica e, in rapporto all'esito della contesa, espressione di stati d'animo di gioia o di dolore. 53

1, 21; cfr. Longo 1978; Gentili-Cerri 1983, p. IO. Cfr. Snell 1975b, pp. 13-29 [trad. it., pp. 19-47). 55 Cfr. Parte I, cap. 1, p. 12 n. 28. Sui fenomeni del carattere e della per80IUl umana, concepita come un campo aperto di forz.e,non come un'entità compatta e conchiusa, ancora valide le acute osservazioni di Frinkcl 1939. 56 Havelock 1963, pp. 145-60 [trad. it., pp. 119-33). 57 Si veda Parte m,cap. 12. 54

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Poesia e pubblico nella Grecia antica

Le movenze nervose e sussultorie del linguaggio, l'aggressività delle violente invettive contro i rivali esprimono le reazioni emotive dell'uomo di parte agli esiti alterni della guerra civile. La paratassi assume un'essenzialità incomparabile, di cui un esempio è l'efficace descrizione della sala d'anni atta a provocare l'uditorio dei compagni ad un'impresa immediata e rischiosa (fr. 140 V.):

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la grande sala rifulge di bronzo, tutto il suo spazio s'orna per Ares d'elmi lucenti e dai cimieri ondeggiano bianchi pennacchi equini, ornamento alle teste degli uomini; tutt'intorno disposti nascondono i chiodi lucenti schinieri di bronzo, riparo dal dardo robusto, e vi sono corazze di lino nuovo, concavi scudi gettati per terra; e accanto spade calcidiche e poi molte cinture e tuniche. Dimenticarle, quest'armi, non dobbiamo dopo che demmo inizio a quest'impresa 58 •

Non diversa la funzione, nella poesia alcaica, delle ricorrenti espressioni aforistiche quali «l'uomo è denaro», «il povero non è mai valente e stimato» (fr. 360 V.); «penoso, intollerabile male la Povertà che doma un grande popolo con la sorella Impotenza» (fr. 364 V.), destinate a convalidare attraverso la generalità di una sentenza la particolarità di una situazione o la «verità» di inderogabili valori operanti all'interno della consorteria degli hetafroi. L'idea che la povertà e la valentia sono condizioni umane inconciliabili s'ispira anch'essa ai principi dell'etica aristocratica che conosciamo dalla poesia di Teognide e di Pindaro59 • Per il loro linguaggio allegorico e aforistico i canni di Alceo poterono sopravvivere nei simposi ateniesi del V secolo60 ed entrare nel repertorio del canto conviviale61 , anche quando i loro contenuti, troppo stret58

Bonanno 1976 ritiene che la scena sia ambientata in un tempio di Ares, nel quale le

anni enumerate nel carme avrebbero costituito le offerte votive. Ma le anni descritte sono nuove e lucenti; le anni che si offrivano in voto (v. 8) alla divinità erano quelle tolte al nemico, appartenenti al bottino di guerra. Per la forma wAQn al v. 3 (in luogo del lesbico wAQEUL) vedi Gallavotti 1957b, p. 229. 59 Diversamente Mazzarino 1943, p. 46. 60 Aristoph. fr. 235 K.-A. = 30 Cassio. 61 Athen. 15, 695a = Alc. fr. 249, 6-9 V.

III. Modi e jonM della conumicazione

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tamente legati alla contemporaneità di precise situazioni politiche, non furono più attuali. Un parlare per allegorie, intellegibile solo a chi partecipava alla vita comunitaria di una consorteria politica (eteria) o di un più ampio gruppo sociale. L'allegoria della nave, che diviene topica del linguaggio politico, è presentata da Teognide come un simbolo comprensibile soltanto alla cerchia degli aristocratici (vv. 681 sg.): queste mie parole oscure siano dette per enigmi agli ottimati, se uno è esperto, capirà pure il male (che l'~nde) 62 •

In un ambito analogo debbono essere intese le affermazioni polemiche di Pindaro sugli aspetti del suo linguaggio, che può comprendere solo chi sa capire il senso delle sue parole (syneto() 63 • In un differente quadro sociale, all'interno di un animato dibattito politico, va collocato invece l'uso di alcune metafore soloniane. Si pensi alla metafora del «mare giusto» (fr. 13 Gent.-Pr.): i venti sconvolgono il mare; ma quando nessuno lo agita, è di tutte le cose il più giusto dove Solone ha trasferito dalla sfera della vita sociale a quella della natura la nozione di reciprocità e di equilibrio che costitul nel pensiero arcaico l'elemento comune alle varie formulazioni di «giustizia», pur nella diversità delle sue implicazioni e nella specificità dei diversi campi di applicazione, socio-politico, giuridico, medico, amoroso ecc. 64 • Tale è il valore di dfke nel sistema cosmologico di un contemporaneo più giovane di Solone, Anassimandro (12 B 1 D.-K.). Scrive il Vemant65: «L'dpeiron è sovrano al modo di una legge comune che impone a tutti i singoli una stessa dfke, che mantiene ogni potenza entro i limiti del suo campo d'azione, che fa rispettare, contro ogni usurpazione, contro ogni abuso di 62

Taiita. f.1.0LjlV~ ~: non è un'espressione generica, ma punb•alizn l'ambiguità e la voluta oscurità del linguaggio metaforico, rivolto ai valenti (agatho(), gli aristocratici. Da notare che Eraclito (Alleg. Hom. 5, 7) applica il verbo a'Lvmoµmall'analisi della metafora alcaica. Al v. 682 ooqx'>ç, come sempre in arcaico, designa l'«esperto di un'arte», in questo casodell'arte politica e del suo linguaggio. Al v. 682 leggo xax6v, cfr. Parte ll, cap. 12, n. 19. 63 01. 2, 92 sgg.; cfr. Gentili 1958b, pp. 26 sgg. e Battisti 1990. 6' Sulla nozione di dOcecome reciprocità ed equilibrio si veda Gentili 1972a, cfr. Privitera 1967, p. 152; Bonanno 1973; Bemardini 1979; Vetta 1979. 65 Vemant 1968, p. 21 [trad. it, p. 240]; cfr. Samburslty 1956, pp. 30 sgg. [trad. it., pp. 25 sgg.].

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Poesia e pubblico nella Grecia antica

potere, quella che Alcmeone chiamerà isonomfa tlJn dyndmeon». Dunque una funzione, quella dell' dpeiron, che rende possibile un universo fondato sull'equilibrio reciproco degli elementi o forze che lo costituiscono. Non diversa la norma di dfke che inerisce all'idea dell'amore come reciprocità, come microuniverso che accomuna in un costante equilibrio amante e amato. Per questa via appare chiara e pertinente all'equilibrio statico del mare in bonaccia, non sottoposto a nessuna delle forze che possono turbarlo, la nozione di «giusto», la stessa nozione espressa dal latino aequor, di uso poetico 66 , che V arrone, nel De lingua latina 61 , cosl definisce: «Mare aequor appellatur quod aequatum cum commotum vento non est». Una definizione della superficie del mare nel suo stato di quiete, pressoché identica a quella di Solone: mare aequatum, aequor, è il perfetto equivalente di «mare giusto». Altrove la calamità politica, che incombe sulla città, è raffigurata con la metafora naturalistica (fr. 12, 1 sg. Gent.-Pr.): erompe dalla nube forza di neve e grandine, dalla fulgida folgore il tuono. Anche qui il fenomeno naturale fissa l'equivalente immaginativo della tempesta, nella quale uomini potenti trascinano il popolo ateniese che per la sua stoltezza cadrà in una condizione servile, sotto il dominio di un tiranno 68 • Non altrimenti la metafora del mare - il più giusto, cioè il più stabile degli elementi naturali quando non lo sovvertano i venti - ha la funzione di raffigurare la condizione di immobilità e di equilibrio del popolo, quando non vi è chi lo sommuove dal suo stato naturale. Solone ha certamente attinto la materia della metafora al vasto repertorio della tradizione poetica. Nel secondo libro dell'Iliade le onde del mare, che i venti sollevano e spingono contro altri scogli, è l'immagine visiva e acustica del tumultuare dell'assemblea dei Danai (vv. 144 sg.) o delle grida degli Argivi (vv. 394 sgg.). Ma egli ha utilizzato funzionalmente il materiale preso a prestito, costruendo una metafora politica che diverrà una similitudine topica nella cultura antica69 : servirà a caratterizzare il comportamento del popolo per sua natura immobile, tranquillo e 66

Cfr. Cic. Acad. II (fr. 3): quid tam planum videtur quam mare? e quo etiam aequor illud poetae vocant. 67

7, 23, p. 259 Traglia. Cioè Pisistrato, cfr. l'apparato al fr. 12 Gent-Pr. 69 L'esemplificazione in Marx, Lucili carminum reliquiae, II, p. 21 al v. 40; in Diehl, apparato al fr. 11, e in Masaraccbia1958, pp. 300 sgg. 68

lii. Modi e forme della comunicazione

59

innocuo. quando non è turbato dai capi. Anche il popolo, come il mare, assimila la natura di chi lo domina e lo governa 7°. Nel rapporto analogico mare-popolo, venti-capi (o cittadini potenti e faziosi), l'idea di dfke svolge la funzione di raccordo tra i due sensi, quello apparente o naturalistico e quello politico sotteso dalla metafora. Una funzione inerente alla disponibilità semantica della parola. Se nel campo concettuale, socio-politico, essa connotava l'equilibrio reciproco dei singoli membri della classe al potere, cioè un regime oligarchico che assicurasse l' eunom(a e la pace - quello stesso regime invano perseguito da Solone 71 -, applicata al mondo della natura poteva rappresentare una condizione di equilibrio, di immobilità e di quiete. Nella sfera amorosa, la metafora e l'immagine divengono strumenti di oggettivazione di idiosincratici stati psichici ed emozionali: un ampio repertorio di metafore animalesche, agonistiche, nautiche, agricole, itifalliche, simposiali, ed immagini di Eros come vento, fabbro, pugile, custode, cacciatore, fanciullo alato, che descrivono la varietà e la qualità degli aspetti di una vicenda amorosa 72 • Nella sfera socio-politica, le metafore, le similitudini, per lo più animalesche, esemplificano attitudini morali e comportamenti politici: l'immagine della volpe in Solone (fr. 15, 5 Gent.-Pr.) e in Alceo (fr. 69, 6 V.) raffigura in concreto la vana furbizia degli Ateniesi o l'abilità manovriera di Pittaco nella lotta delle fazioni politiche. Nella Pitica 2, Pindaro, attraverso le metafore della scimmia, della volpe, del cane e del lupo, allinea paratatticamente i suoi avvertimenti a Ierone. Non diversa la funzione del mito che costitul il tessuto connettivo della cultura orale e lo strumento sociale di interazione fra passato e presente, fra tradizione e attualità, tra poeta e uditorio. L'episodio mitico diviene l'esemplificazione di una norma, di un aforisma o di un aforistico preambolo (Priamel) oppure la vicenda esemplare di un'azione lodevole o nefasta in rapporto all'occasione e alla situazione del canto. L'immortale vecchiaia di Titono diviene in Mimnermo (fr. 1 Gent.-Pr.) il simbo70

Si veda soprattutto Com. ad. fr. 1324 Kock;Polibio 11, 29, 9; Cic. Pro Cluent. 49;

Liv. 28, 27, 11. 71 Cfr. frr. 3; 4; 5; 6 Gent.-Pr. 72 Sul piano delle metafore naturalistiche nella rappresentazione della vita amorosa assume un significato rilevante per l'indagine critica la comparazione con la poesia erotica dei popoli 'primitivi'. Si veda, a scopo indicativo, la utile raccolta di Di Nola 1971, che offre confronti con il linguaggio amoroso di Saffo, Anacreonte e lbico: cosl l'immagine del vento come simbolo dell'impetuoso desiderio di amore (p. 105), la ragazza-puledra (p. 19), la metafora del «giocare insieme» (p. 92; cfr. pa(zein e sympa(zein). Sul piano dell'analisi comparata per un raffronto con altre culture (arabo-ispanica; egiziana; swnero-accadica) si veda Gangutia Elfcegui 1972, pp. 329 sgg.

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Poesia e pubblico nella Grecia antica

lo di una perenne sventura peggiore della morte. In Alceo (fr. 298 V.), l'atto sacrilego di Aiace Oileo, che strappa Cassandra dalla statua di Atena provocando l'ira della dea e il naufragio delle navi degli Achei, assume il valore esemplare di un'azione empia della. quale Pittaco stesso, l'odiato rivale, si era macchiato. Una linea interpretativa che il Tarditi 73 ha il merito di aver tracciato attraverso la puntuale analisi di alcune omologie tra i singoli elementi del mito e la situazione politica di Mitilene, nel momento in cui Pittaco violò il giuramento che lo legava all'eteria di Alceo per allearsi con Mirsilo (fr. 129 V.). All'empietà di Aiace si allinea quella di Pittaco, un'empietà che i Mitilenesi dovranno vendicare se non vorranno incorrere in quella stessa sorte toccata agli Achei che, per non aver vendicato il sacrilegio di Aiace, perirono nella tempesta del mare scatenata dalla vendetta di Atena. Un ammonimento a Pittaco e soprattutto ai suoi concittadini a non dimenticare il sacrilegio, a punirlo perché gli dei irati non facciano naufragare la «nave» di Mitilene. In un'elegia del secondo libro della silloge teognidea (vv. 1283 sgg.) dice l'amante al ragazzo restio al suo desiderio d'amore:

1285

1290

Non mi far torto, ragazzo, voglio ancora compiacerti, con buona grazia intendi ciò ch'io dico: coi tuoi raggiri non potrai ingannarmi né sfuggirmi; hai vinto e serbi ormai il vantaggio. Ma ti ferisco se mi fuggi: non altrimenti, dicono, la figlia di lasio, la vergine lasia, pur matura all'amore fuggi ricusando l'amplesso: succinta, opere vane èompiva, allontanata dalla casa patema, la bionda Atalanta; e andò sull' alte cime dei monti per fuggire le gioie dell'amplesso, doni dell'aurea Afrodite, ma, infine, le conobbe, pur ricusandole.

Non condivido l'ipotesi che il carme sia il risultato di un collage di due pezzi elegiaci riguardanti il mito di Atalanta, in origine indipendenti e poi maldestramente congiunti, forse nell'occasione di un simposio 74 • Il punto di sutura tra le due parti cadrebbe a metà del pentametro 1288 «la figlia di Iasio, la vergine Iasia»: la formulazione tautologica.figlia di la-

73

1969, pp. 86 sgg.; cfr. Lloyd-Jones 1968, p. 132; Gentili 1976d, pp. 743 sgg. M.L. West 1974, pp. 16S sgg.; cfr. Vetta 1980, pp. 80 sgg., ma vedi Renehan 1983, pp. 24-7 e Koniaris 1984, pp. 104 sgg. 74

Ili. Modi e forme della comunicazione

61

sio, vergine lasia ne costituirebbe un indizio. Certo nel v. 1287 ( «Ma ti ferisco se mi fuggi») appare implicita l'allusione all'episodio mitico della corsa nella quale Atalanta, in anni, dopo aver raggiunto i pretendenti, ai quali soleva dare un leggero vantaggio, li colpiva a morte. Ma è anche vero che l'elemento che funge da cerniera tra I' atb1alità e il mito non è soltanto l'atto del ferire, ma anche e soprattutto l'azione del fuggire che prima (v. 1287) puntualizza il comportamento del ragazzo non arrendevole all'amore dell'amante e poi la renitenza della vergine Atalanta al rapporto amoroso (vv. 1289; 1293) 75 • È significativa l'insistenza con la quale il poeta sottolinea il rifiuto di Atalanta che, pur nella piena maturità sessuale (hora{en),compie atti senza fine o vani per sfuggire all'amplesso 76 • Ne consegue che il valore del termine ferire è metaforico. Il ferimento d'amore sarà la giusta punizione perché l'ardente desiderio dell'amante costringerà il ragazzo a riamare contro sua voglia, come accadde ad Atalanta che, contro il suo volere, dovette arrendersi alla giusta legge di Afrodite, accettando il rapporto d'amore come il naturale compimento del suo stato di vergine. Il tema del carme è l'adi/c{aamorosa di colui (o colei) che fugge chi l'insegue, che rifiuta la richiesta d'amore e non corrisponde a chi l'ama 77 • L'elemento che connette l'attualità della situazione al modello mitico è l'età del ragazzo e di Atalanta, entrambi maturi per l'amore e tuttavia ostinati nel ricusarlo con espedienti vari. Fu vana l'azione della cacciatrice Atalanta che, lontano dalla casa patema, per sottrarsi all'amore vive una vita solitaria e selvatica sui monti, sono vani i raggiri e gli inganni che l'amante teme dati' amato, perché presto o tardi paga lo scotto della propria adik{a chiunque respinge l'amore di chi l'ama. La trama

Osserva con ragione Giampiera Arrigoni (lettera dell'll maggio 1983) che l'esempio mitico costituisce «doppio polo di riferimento,. sia per l'eventuale vendetta tlel poeta erastés sia per la ritrosia dell' amasio. 76V. 1290: l;(OO(lµÉ'Y'r) {)' ÈQY' cl'tili contesto il sipificalo propose11dallo Svaabro? Il seaso etimologico, in realtà, non ~ pià ~ al leapo di Simo ■ide. Piaclaro, elle piè volte IOCca il lana clela veri&à, OfPOS aUtleeùi a ~eiiao, ...,_.mpa.,. (fr. 205 Madll.); dr. Parte D, cap. IO, p. 225. 23 er l931, p. 21. "

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V. Sociologia dei significati

91

condo la quale nessuno compie il male volontariamente, oppure quando, con l'aiuto di Prodico, il concittadino di Simonide, scende sul terreno della sinonimica per concludere (341c) che il chalepon del v. 4 vale kalcone quindi la polemica di Simonide contro Pittaco sarebbe pienamente giustificabile in quanto quest'ultimo avrebbe inteso affermare non che è «difficile», ma è un «male» essere valente24. Ancora con lo stesso metodo replica Socrate a Protagora quando vuol dimostrare che la contraddizione, ammessa dal sofista tra l'affermazione simonidca del v. 1 e il detto di Pittaco, in realtà non sussiste per la differenza di senso tra genésthai «divenire» e émmenai «essere» 25 • Attraverso l'abilissimo giuoco ermeneutico fondato su forzature e violenze alla sintassi e alle parole, Platone raggiunge il duplice scopo di mostrare come il suo maestro abbia a sua disposizione, quando lo voglia, tutti i mezzi dialettici per battere sullo stesso terreno, quello sofistico, il suo avversario e, insieme, di deformare per un suo fine ideologico il pensiero di un poeta che egli giudicava, non senza un reale e serio fondamento, un presofista, un predecessore di Protagora (cfr. 316d; 340a), portatore di una saggezza contraddittoria ed ambigua. L'etica del reale, che Simonide proponeva attraverso l'analisi dell'uomo quale esso è, non quale dovrebbe essere, non poteva trovar posto nell'ideologia aristocratica di Platone. L' anthropeion, l' «umano» dell'uomo (cfr. fr. 521 P.: «tu che sei uomo [dnthropos, non anér] ...») che il canne a Scopas ben delineava in tutti i suoi limiti e in tutta la sua fragilità, non poteva non apparire agli occhi del filosofo che guardava ai pochi eletti, non ai più, come la espressione di una morale indulgente ed 24 L'argutacontroversia avviatada Socrate sul valore di )(OÀE3t6v = xax6v non sembra del tutto immotivata, come mi comunica Pietro Giannini. Secondo una notizia trasmessa dalla Suda (s.v. IlLTtax6ç), il detto )(Ytv{'l}(l, accogliendo il supplemento liµµi.del Milne, che sembra appropriato al senso: Saffo si rallegra per la splendida veste che indossa l'amica perché una volta (:ltO'ta) Afrodite ha biasimato evidentemente la scarsa eleganza della ragazza di cui era corresponsabile Saffo stessa. Non credo possibili né l'interpretazione del Wilamowitz (1935, p. 387: «poiché Afrodite stessa si adirerebbe per questo»), né quella del Treu (1976, p. 191), per il quale sarebbe necessaria la negazione: nel v. 15 non c'è posto per una particella negativa. Schadewaldt (1950, p. 65) interpreta correttamente: «e dunque la stessa Kyprogenea prima ha biasimato»; cfr. anche Pontani 1969, p. 189: «Era lei stessa, un giorno, a biasimarci,/ la dea di Cipro ...». 73 Od. 8, 364 sg. (cfr. 18, 193 sg.); Hymn. Ven. 61 sg. 74 Od. 18, 193 sg.; Cypr. fr. 5 Bernabé. 71

VII. ù vie di Eros nella poesia dei tiasi femminili e dei simposi

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modello mitico che Saffo, leggermente variato, una volta ripeté in un carme, certamente cultuale, nel quale raffigurava Apollo con la chioma d'oro e la cetra, mentre sale portato dai cigni sull'Elicona per danzare con le Cariti e le Muse 75 • Gli schemi tradizionali del mito rivivono nella partecipazione attiva di queste divinità alla vita comunitaria, come assicurano le rituali invocazioni per la loro epifania 76 • La grazia di un atteggiamento, di un gesto, di un sorriso sono il segno della loro presenza. L'esortazione a Dica, una compagna, a cingere «di amabili ghirlande le chiome intrecciando con le mani delicate ramoscelli di aneto», si conclude con l'avvertimento che le Cariti volgono via lo sguardo dalle ragazze che non hanno corone (fr. 81b V.). Un ornamento di rito nel costume del gruppo diviene cosi un fatto significante la presenza delle Cariti ovvero una espressione di leggiadria e di grazia. Molto stretto il rapporto con le Muse che si fondava su un preciso legame di culto. Ad esse Saffo aveva affidato il suo destino in terra e, per sé e le sue amiche, le attese in una vita altrettanto onorata dopo la morte. Significativa l'ostentazione superba con la quale proclama il loro favore e la loro protezione. Le Muse le hanno dato non solo il dono dell'arte, ma anche onorin e ricchezza 78 , una condizione di privilegio che il poeta arcaico ambiva di ottenere, come sappiamo dall'elegia alle Muse di Solone: «Concedetemi ricchezza e credito» 79 • Con serenità e distacco Saffo contempla il fuggire della vita e il decadimento fisico della vecchiaia 80 : la sua pelle è rugosa, i capelli sono bianchi, le ginocchia più non la reggono, «che cosa dovrei fare» dice a se stessa; anche Titono, amato dall'Aurora, poté ottenere una vita im75

Himer. Or. 46, 6 Colonna= Sapph. Test. 208 V. 1 V.; frr. 127; 128 V. 77 Fr. 32 V.: «(Le Muse) che mi hanno dato tutti gli onori facendomi dono della loro opera (cioè della loro arte)». 78 Da Elio Aristide (Or. 28, 51 = Sapph. Test. al fr. 55 V.) sappiamo che Saffo ad alcune donne che si ritenevano ricche e felici diceva con vanto che le Muse le avevano concesso di essere «ricca e invidiata». Questa testimonianza sembra convalidare l'ipotesi del Trcu (1966, pp. 12 sg.), fondata sul nuovo commento a testi saffici del P. Oxy. 2506, fr. 48 = Sapph. fr. 213Ag V., che Saffo ricevesse dalle sue compagne un compenso materiale. Significativo il confronto con le Il. 12 sg. del papiro, nelle quali la presenza di tÉX'V11 e lS>..fk>ç lascia presumereche l'anonimo commentatore toccasse l'argomento della ricchezza connessa con l'arte esercitata nell'ambito del tiaso, cfr. anche il frammento citato alla nota precedente. È molto verisimile che soprattutto le ragazze dell'aristocrazia ionica (cfr. SLG fr. 261a P.), che si trasferivano a Mitilenc per entrare nella comunità saffica, fossero le pib munifiche ncll' offrire oggetti preziosi del mercato !idio. 79 Cfr. Parte II, cap. 10, pp. 217 sg. 80 Fr. 58 V., con i supplementi di Stiebitz 1926, col. 1259, e di Di Benedetto 1985 (v. 25). 76

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Poesia e pubblico nella Grecia antica

mortale ma non l'eterna giovinezza. Lo sguardo al passato si colora appena di una nota nostalgica. L'episodio di Titono, l'eterno vecchio, che per Mimnermo diviene l'esemplificazione di una perenne sventura peggiore della morte (fr. 1 Gent.-Pr.), è soltanto il simbolo della irreversibilità del tempo profano. La vecchiaia, pur nel suo aspetto deforme, non è una sciagura senza rimedio, una condizione penosa, una totale rinuncia a tutto quello che nella giovinezza si è amato e desiderato, ma una ineluttabile vicenda del tempo biologico che non ha spento l'essenza della realtà da lei costruita nella cerchia delle amiche: la gioia di una vita fastosa e l'amore «dello splendido e del bello» 81. In questa spinta innovatrice Saffo può costruire nuovi valori sulla misura dei modelli divini da lei reinterpretati e valorizzati nel rapporto della vita collettiva. Nella celebre ode del ricordo di Anattoria 82Saffo oppone a quella di altri la propria opinione che «la cosa più bella» sulla terra non è un esercito di cavalieri o di fanti, né una flotta di navi, ma ciò che si ama. Per convalidare la verità di questa osservazione essa adduce l'esempio della bellissima Elena che lasciò l'uomo migliore fra tutti e navigò verso Troia, dimentica della figlia e dei suoi genitori poiché la trasse lontano la dea Cipride83. Cosl ora la stessa dea le evoca il ricordo di Anattoria lontana. Di lei vorrebbe vedere l'incedere pieno di grazia e il fulgido splendore del viso piuttosto che i carri di Lidia e i fanti sotto il peso delle loro armi. Qui Saffo risponde a una delle domande superlative di quello che potremmo definire il questionario della cultura arcaica ( «qual è la cosa più bella» o «più giusta» o «migliore» o «più grande» ecc.), cioè il questionario dei sommi valori che conosciamo dalle leggende di Omero, dei Sette Sapienti, di Esopo e di Pitagora 84 e in generale dalla poesia arcaica 85. Il bello come sommo valore non è il tangibile, il grandioso e il possente, quale poteva essere lo spettacolo di cavalieri o di fanti o di una flotta di navi, ma, come dice l'ultima strofa, qualche cosa di impalpabile che emoziona i sensi quale il passo leggiadro o lo splendore nel volto dell'amata: 81

Vv. 25 sg., ultimi del canne. Non condivido l'estremo scetticismo del Page (1955, p. 130 n. 1), il quale afferma risolutamente di non capire il senso di questi versi in rapporto con quanto precede; ma cfr. Perrotta 1935, p. 36, e Snell 1975b, p. 74 [trad. it, p. 112]. 82 Fr. 16 V. Sulla struttura ~l canne (sentenza generale nell'incipit nella consueta forma della Priomel, esempio mitico, attualità) vedi l'eccellente analisi del Frankel 1960, pp. 91 sgg., e 1969, p. 212. 83 Il nome della dea non si legge nel v. 11 (àllà :n:',ro cp([).E)?Non a Eracle, che lo attacca da lontano con la freccia, ma - come pensa Barrett - a Menoites, il mandriano delle vacche di Ade (cfr. Apollod. Bibl. 2, 5, 9-10). Nello Schol. ad Il. 21 = Stesich. fr. 273 P., a proposito dell'episodio di Licaone, il commentatore osserva che il figlio di Priamo dilunga la sua preghiera ad Achille per ottenere da lui salva la vita; al pari di Licaone, tutti coloro che sono sul punto di morire fanno lunghi discorsi (µaxeoÀ.oyoL) per sottrarre tempo alla morte, e cosl pure gli eroi di Stesicoro. Il Page nell'apparato al testo del commento osserva: «apud Stesichorum nescio quis moriturus µaKQOÀ.OyEl».Si può rispondere ora che l'eroe makrologos è proprio Gerione.

IX. P~ta-comminente-pubblico, ovvero la norma del polipo

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tradizione delle imprese di Eracle, che, ancor prima di Stesicoro, furono oggetto del racconto di Creofilo di Samo (Vffi-VII sec. a.e.?) sulla presa di Ecalia (frr. 1-3 Bernabé) e di Pisandro di Rodi negli Herakleia:una tradizione dunque ben diffusa nell'area culturale ionica e trasmessa in Occidente da coloni calcidesi. Un'ulteriore conferma dell'affinità stilistica tra narrativa stesicorea ed epos omerico è offerta dal Papiro di Lilla 76abc (= fr. 222b Davies), contenente il più lungo frammento stesicoreo finora pervenuto, nel quale si narra la divisione del regno dei Labdacidi tra Eteocle e Polinice dopo la morte (o l'esilio) di Edipo 21 • Considerata sotto altri aspetti, l'epica stesicorea non va intesa come filiazione diretta dell'epica omerica, ma si inserisce nella linea della più antica citarodia aedica preomerica, come già la critica antica aveva riconosciuto. Eraclide Ponticoll afferma che i più antichi poeti citarodici (Tamiri di Tracia che narrò la guerra dei Titani contro gli dei, Demodoco di Corcira nei suoi poemi sulla caduta di Troia e sulle nozze di Afrodite ed Efesto, e ancora Femio di Itaca nei Ritorni degli eroi greci) non usarono nelle loro composizioni ritmi «liberi», privi di «misura regolare», ma strutture identiche a quelle di Stesico"ro e degli antichi lirici (melopoio(), che componevano versi dell'epos rivestiti di melodie. Questa linea interpretativa, che stabilisce una continuità di tradizione poetica fra la citarodia aedica preomerica e quella stesicorea, ha una sua validità storica sia sul piano dei contenuti sia sotto il profilo della forma compositiva del canto. I nuovi frammenti di Stesicoro consentono di riesaminare in una prospettiva diversa il dibattuto problema della formazione dell'esametro. La vecchia idea, tuttora radicata nella nostra tradizione degli studi classici, secondo la quale Omero è all'origine della civiltà letteraria dei Greci, anche per ciò che concerne alcune delle strutture metriche più vitali della lirica citarodica e corale della Grecia arcaica, i cosiddetti «cola dattilici» dei dattilo-epitriti, è destinata a perire. Ci riferiamo al tenace pregiudizio che queste forme metriche discendano dall'esametro e che Stesicoro, al pari degli altri poeti arcaici, abbia attinto esclusivamente al patrimonio omerico. In realtà l'epica omerica è una delle tante epiche che fiorirono 21

Per l'edizione e il commento del papiro,si vedano, oltre all'editio princeps di Ancber-Boyaval-Meillier1976; Bollack-Judet de la Combe-Wismann 1977; Gallavotti 1977a; Gentili 1977b; Comotti 1977; Pretagostini 1977; Parsons 1977; Meillier 1977a; Meillier 1977b; Meillier 1978a; Haslam 1978; M.L. West 1978b; Ancher 1978; Gentili 1979b; Carmignani 1982, pp. 44 sgg. Sulla versione della saga tebana narrata nel carme e i suoi rapporti con la tradizione mitografica già attestata, in particolare con quella assunta da Euripide nelle Fenicie,si vedano anche Gostoli 1978; Meillier 1978b. 22 Heraclid. Pont. fr. 157 Webrli ap. Ps. Plut. De mus. 3, 1132b.

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Poesia e pubbUcoMila Grecia antica

nella Grecia più antica, un dato culturale di cui i Greci ebbero sicura consapevolezza. Aristotele nella Poetica (1448b 25), afferma esplicitamente che, sebbene egli non sia in grado di citare alcuno dei predecessori di Omero, che composero poemi epici, è tuttavia verisimile che molti ve ne siano stati23 • La continuità della tradizione citarodica da Demodoco a Stesicoro, postulata da Eraclide, si esplica non solo sul piano dei modi della esecuzione ma anche su quello delle scelte tematiche vertenti sulle leggende del ciclo troiano. Un problema non secondario, che dobbiamo ora considerare, riguarda la posizione e la funzione del poeta. in particolare quando compone su committenza di prlncipi, di famiglie nobiliari e di città per occasioni festive e celebrative. Se il carme corale aveva una destinazione pubblica, entro quali limiti poteva operare il poeta? Quali vie da seguire gli si offrivano? Quale il senso della sua parola in rapporto all'uditorio, quale infine il valore sociale e artistico del suo mestiere di poeta? Ragione pratica quella del pubblico che è «da supporsi quasi concime alla radice di ogni vigorosa vegetazione artistica>t24 • È stato spesso ripetuto che senza un pubblico l'arte è vuota di significato e di scopo. Si è visto per l' epinicio che la presenza di un committente e quindi di un pubblico nella cerimonia per la vittoria dell'atleta imponeva condizioni precise, come la scelta del tema mitico e degli elementi di esso più appropriati ali' occasione, cioè ben accetti al committente e insieme alla comunità cui esso apparteneva e della quale talora era il capo o uno degli esponenti politici di maggior rilievo. Condizioni analoghe per ogni altro canto del genere corale, sia esso ditirambo, peana. encomio. Nella prospettiva del rapporto tra committente, pubblico e poeta trovano la loro motivazione reinterpretazioni di temi eroici e l'adesione a varianti del mito talora contraddittorie, ma conformi alle diverse occasioni del canto. Un caso tipico è la trattazione del mito di Elena, che Stesicoro presentò in tre differenti versioni. Dopo aver aderito, una prima volta. alla tradizione epica di un'Elena adultera. che abbandona il tetto coniugale per seguire Paride a Troia (fr. 190 P., cfr. 223 P.), in un secondo momento egli tornò sullo stesso tema mitico per discolpare Elena dalla taccia di adultera, narrando che a Troia con Paride giunse soltanto la sua· immagine, mentre lei stessa, partita da Sparta, dimorò presso Proteo in Egitt25.Ma a questa palinodia ne segul un'altra, nella quale il poeta. evidentemente sollecitato da un uditorio non pago della prima pa23

2" 25

Gentili 1977b. C. Pavese 1962, p. 19S. Fr. 193 P. (P. Oxy. 2506, comm. in melicos).

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linodia. si spinse oltre, sino al punto di affermare che non era stato «verace» il suo precedente racconto ed Elena non era salita sulle navi né aveva mai raggiunto la città di Troia 26• Solo eliminando anche quel tratto di mare che da Sparta l'avrebbe portata in Egitto, Stesicoro poteva placare l'uditorio, perché nessuno avrebbe più sospettato che durante il suo viaggio più breve Elena avesse potuto giacere con Paride 27 •

Pr. 192 P. (ap. Plat. Phaedr.243a). È da assegnarea unadelle due palinodiedi Stesicoro un verso tramandato dal commento a Tzetze, Anlehomerica, 149: vedi Cingano-Gen26

tili 1984. r, L'aristotelico Cameleonte (cfr. Stesich. fr. 193 P.) informa che due furono le palinodie composte da Stesicoro del mito di Elena e ne cita i rispettivi versi iniziali. Afferma poi che il poeta nella prima polemizzò con Omero per aver rappresentato Elena a Troia, nella seconda con Esiodo e aggiunge - senza specificare in quale delle due - che Stesicoro avrebbe narrato che «l'immagine (efdolon) andò a Troia e la vera Elena restò presso Proteo» in Egitto. Una notizia che ha destato una sorpresa in realtà immotivata, pere~ sembrava discordare con alcune testimonianze, nelle quali si IICN"nnaa una palinodia; cfr. l'analisi di Sisti 1965. Mi riferisco soprattutto a Plat. Phaedr. 243a (= fr. 192 P. ): «(Stesicoro), dopo aver composto per intero la cosiddetta palinodia, riacquistò subito la vista». Dal contesto del passo platonico è evidente che il termine palinodia deve alludere alla seconda ritrattazione, quella per eccellenza palinodica, che riabilitava totalmente la figura di Elena, consentendo al poeta di riacquistare la vista. Il dato rilevante è che uno storico dell'età augustea, Conone (FGrHist 26 F 1, 18), proprio a proposito della «palinodia» di Stesicoro, parla di hymnoi,cioè indiscutibilmente di almeno due canti di ritrattazione. Una notizia sinora del tutto trascurata dalla critica tranne che da M.L. West 1971, p. 303 n. 9, il quale però la utilizza solo per documentare i rapporti di Stesicoro con Locri. Dunque nella prima palinodia Stesicoro ha opposto alla versione omerica quella della permanenza di Elena in Egitto e nella seconda, nella quale criticava Esiodo, ha rifiutato anche la partenza da Sparta, come apprendiamo dai versi citati da Platone, e, quindi, l'arrivo in Egitto. Questa mia ipotesi sul!' argomento della polemica con Esiodo si fonda sulla precisa testimonianza (Hesiod. fr. 358 Merk.-West) secondo la quale Esiodo fu il primo a introdurre la versione dell'immagine di Elena. È vero che il testo non esplicita da dove Esiodo abbia fatto partire questa immagine, se da Sparta o dall'Egitto, ma l'asserita divergenza di Stesicoro da Esiodo è comprensibile solo se si ammette la seconda alternativa, del resto documentata dal commento di Tzetze all'Alessandra di Licofrone (v. 13, Il p. 59 Scheer), dove si legge: «dicono che ad Alessandro (Paride), che transitava per l'Egitto, Proteo portò via Elena, dandogli in cambio l'immagine di lei, con la quale poi egli navigò verso Troia, come dice Stesicoro», cfr. anche Schol. Aristid. Or. 131, 1 (lii p. 150 Dindorf). Sono in netto disaccordo con l'opinione di Woodbury 1967, pp. 160 sgg., accolta da Gerber 1970, p. 150, e da Arrighetti 1982, p. 108 n. 26, che ritiene infondata l'autorevole testimonianza di Cameleonte. C'è da chiedersi come si può negarevalidità alla puntuale notizia di un autore, che evidentemente conosceva il testo di Stesicoro, dato che cita espressamente l'incipit dei due carmi palinodici. E che si tratti di incipit è indubbio: il v. 1 della prima palinodia (fr. 193, 9-10 P.) MiiQ' ame 0eà q>t.À.6µow(enoplio) ha un diretto confronto con il fr. 240 P. di Stesicoro, AeiiQ'liye KallL01tEU1À.(yEUl, che Eustazio cita espressamente come verso iniziale di un altro carme (Eust. ad IL 9, 43). Per il v. 1 (di identica struttura metrica) della seconda palinodia (fr. 193, 11 P.) XQOOMtEQt:~ (Moioo'?)- quella cui si riferisce Platone - basterà osservare che il suo carattere allocutorio, cioè l'invocazione alla stessa divinità, ne garantisce la posizione iniziale; per entrambi i versi si veda ancora Alcmane, fr. l Calarne XQooox6µa qnl.6µow. È difficile immaginare, anche sotto il profilo del rapporto con il destinatario, che si susseguissero nello stesso carme due racconti divergenti nel contenuto. Un'ulteriore conferma dell'esistenza di due palinodie è offerta dall'analisi di al-

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Un atteggiamento nei riguardi dei contenuti mitici, che sembra percorrere l'anticonformismo intellettuale di Simonide nell'esercizio della sua arte professionale, e presuppone una piena disponibilità alle richieste dell'uditorio; nel caso specifico, dell'uditorio locrese 28, non di quello spartano 29 , se dobbiamo prestar fede, oltre che a Pausania (3, 19, 11), anche alla notizia dello storico Conone. Da essi apprendiamo che il capo . dell'esercito crotoniate, Autoleonte (secondo Conone) o Leonimo (secondo Pausania), ferito durante la battaglia del fiume Sagra 30 dal fantasma di Aiace Oileo che combatteva tra le schiere dei Locresi, si recò per consiglio dell'oracolo di Delfi nell'isola Bianca alle foci dell'lstro per essere guarito dallo stesso Aiace. Qui Elena gli avrebbe ordinato di veleggiare verso Imera e di annunciare a Stesicoro che avrebbe riacquistato la vista perduta a causa della sua ira se avesse composto la palinodia (Pausania) o carmi in suo onore (Conone), ossia se avesse ritrattato il primo carme nel quale aveva oltraggiato la sua memoria. Le due testimonianze, nonostante alcune divergenze di scarso rilievo, coincidono nella sostanza del racconto e risalgono - come riferisce Pausania - ad una tradizione crotoniate e imerese 31. Dunque entrambe le ritrattazioni furono composte dopo la battaglia del fiume Sagra per il pubblico di Locri d'Italia, una città in cui ebbe un ruolo di primo piano il culto dei Dioscuri, fratelli di Elena. Ma non è certo casuale che, nella tradizione antica, a Castore e Polluce, oltre che ad Elena, sia attribuito il merito di aver ridata la vista al poeta 32. Il carme di lbico per il giovinetto Policrate, il futuro tiranno di Sama33, dà un'idea compiuta di quella che doveva essere la struttura e la tre testimonianze (finora non prese in esame dalla critica) in Cingano 1982; vedi anche Rossi 1983, p. 25. 28 Cfr. Sisti 1965. 29 Bowra 1934, p. 118; 1961, p. 111, il quale foncla la sua ipotesi sul prestigio di cui godeva a Sparta il culto di Elena. 30 La data della battaglia oscilla negli studi più recenti tra il 580 e il 565 a.C.; non attendibili vecchie datazioni, sensibilmente più alte, inizi VI secolo a.C., o più basse, 530 a.C. Si veda Bicknell 1966; Van Compcmolle 1969 e da ultimo Giangiulio 1983, che concorda con le conclusioni di Van Compcmolle. 31 Per un'ipotesi sul rapporto tra le due versioni, vedi ancora Van Compcrnolle 1969. 32 Cfr. le testimonianze nell'apparato al fr. 192 P. Per la presenza del culto dei Dioscuri a Locri, che è un significativo elemento comune tra questa città e Sparta, rinvio alle . osservazioni di Musti 1977, pp. 48 sgg., e Torelli 1977, p. 174. 33 SW fr. 151 = fr. 282 P.; cfr. Barron 1969, pp. 119 sgg.; Simonini 197tYLe argomentazioni di Péron 1982 e di Woodbury 1985 non m'inducono a modificare quello che in sintesi è detto a p. 181, cioè che il rifiuto di lbico a narrare episodi della guerra di Troia è in rapporto ali' occasione del canto, che esclude qualsiasi tema luttuoso non appropriato a una lieta cerimonia simposiale. Per la cronologia di lbico mi attengo alla notizia della Suda, s.v. w~U>«>QOb(taçliQoueav iì XUQ(twv avwroÀ.Q;oµt:v,cfr. Pae. 6, Certo, ava in avwro)..Q;wpuò anche non com3-4 XaQ(tEoo(v tE xal oùv 'Aq>QOil;;, la seconda nella citazione pressoché letterale del verso del Peana. Due enunciati ugualmente ambigui per l'uso della parola «onori» che, come spiega il commento papiraceo al verso del Peana (cfr. Radt 1958, p. 36*, Schol. v. 118), poteva designare sia le carni delle vittime distribuite dopo il sacrificio, cui si fa esplicito riferimento nella settima Nemea (v. 42), sia i beni del tempio; un'ambiguità che gli aggettivi non eliminano, perché «iMumerevoli» si poteva dire delle porzioni delle carni e dei tesori del tempio richiesti dall'eroe, e «dovute» potevano essere queste stesse cose sia a Neottolemo sia ai sacerdoti di Delfi. Ma delle due formulazioni la seconda appare più sottile e più conforme all'intenzione di Pindaro: di compiacere ai committenti delfici e non dispiacere agli Egineti. L'enunciato «per i dovuti onori» poteva altrettanto bene interpretarsi dagli uni nel senso di onori richiesti ad Apollo dall'empio e tracotante Neottolemo (un senso verso il quale indirizzava l'acceMo all'uccisione di Achille da parte del dio ai vv. 79 sgg.), dagli altri in quello di onori dovuti ai Delfi: era cosi giustificata in parte l'azione di Neottolemo tendente ad una equa ripartizione delle carni sacrificali. Comunque, anche ammesso che l'ambiguità non fosse intenzionale, questa formulazione di fatto offrì al poeta maggiore spazio alla sua difesa, quando, nella settima Nemea, rese esplicito il motivo della lite con la spartizione delle carni. Ma anche in questo caso, nella brevità dell'enunciato che tace l'arroganza del clero di pretendere per sé tutte le vittime del sacrificio, si intravede l'intento di non dispiacere ali' ambiente delfico; un'intenzione che diviene palese nell'accento posto sul dolore dei Delfi per la casuale uccisione dell'eroe (v. 43). Sull'importanza di un rituale appropriato nella pratica sacrificale dei Greci si veda DetieMe 1979.

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Regnò poco tempo in Molossia, ma la sua stirpe mantenne lo scettro regale. Poi venne al dio di Pito recando le ricche offerte delle primizie d'Ilio. Qui venuto a contesa per le carni delle vittime, un uomo lo uccise di coltello. Profonda fu la pena dei Delfi ospitali. Ma si compiva il suo destino; bisognava che alcuno degli Eacidi possenti dimorasse nel bosco antichissimo presso la ben costrutta casa del dio, presiedendo con retta giustizia ai riti degli eroi e alle vittime opime. Nello svolgimento dell'epinicio emergono, in una salda coerenza strutturale, sottili allusioni al precedente canto su Neottolemo, come fu rilevato già dalla critica antica: da Aristarco di Samotracia e dal suo allievo Aristodemo. Essi informano che il contenuto del poema, una volta conosciuto dagli Egineti, aveva destato perplessità e biasimo nei confronti di Pindaro, proprio nella città alla quale egli era particolarmente legato per affinità ideologico-politiche e per rapporti professionali7°. Dopo un breve preambolo sulla famiglia del vincitore, il poeta, in una apparente digressione, introduce il discorso sulla funzione propria della poesia di celebrare la virtù degli uomini illustri. Un'affermazione aprima vista addirittura banale, per il suo carattere topico, ma che in realtà costituisce il punto d'arrivo per la tematica che egli vuole affrontare. La poesia è talora fallace, menzognera: la fama che Odisseo ebbe dal canto di Omero ha travalicato i suoi meriti; Aiace, l'uomo «corto di lingua, ma saldo di cuore» 71 , non trovò nella poesia una fama adeguata alla «verità» del suo valore e fu costretto al suicidio. Ma la morte tutti raggiunge, sia l'ignaro sia chi l'attende, e l'onore per i defunti è in rapporto alla volontà del dio 72• Anche quest'ultimo enunciato è topico, ma assolve la precisa funzione di introdurre il discorso sulla sfortuna degli Eacidi, esemplifiScholl. Pind. Nem. 1, 10, m p. 126 Drachm.; lSOa, fil p. 137 Drachm. Per un'analisi del mito di Neottolemo a Delfi in riferimento alla settima Nemea si rinvia al dettaglia70

to contributo di Woodbury 1979. Per un commento degli Scholl. ad wcc. si veda Tugendhat 1960; Frlinkel 1961; Fogelmark 1972. 71 Cfr. Nem. 8, 24 composta per un atleta anch'esso di Egina. 71 Per l'interpretazione dei vv. 31-34 rinvio alla lunga nota di Famell 1932, pp. 291

sgg.

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cata sia da Aiace, sia da Neottolemo ucciso per un colpo di coltello infertogli di sorpresa. L'ambigua espressione pertinente alla morte, che coglie l'ignaro e chi l'attende, l'ignoto ed il famoso, ha in sé implicita l'allusione, come avverte il commento antico, al carattere imprevedibile e casuale 73 della morte dell'eroe, una morte che del resto, per la sua accidentalità, finisce per essere anche ingloriosa. Da qui prende le mosse il racconto del mito di Neottolemo che, come amico 74 , venne a Delfi per offrire le primizie del bottino conquistato a Troia. Ma una contesa imprevista con i sacerdoti di Delfi, per la distribuzione della carne delle vittime durante un sacrificio, gli fu fatale. Il suo destino di morte fu voluto dal dio delfico perché, sepolto nel santuario, egli presiedesse con retta «giustizia» ai riti annuali del culto degli eroi, secondo quella giustizia distributiva che egli non aveva ottenuto dai sacerdoti del tempio nell'ultimo episodio della sua vita. Ora, l'analisi comparata dei due racconti mitici nel sesto Peana e nella settima Nemea mostra che il secondo non ha il carattere di una vera palinodia 75 , al pari della palinodia di Stesicoro, ma esplica la funzione di reinterpretare il precedente racconto, non modificandone i dati, ma evidenziando gli aspetti positivi e lasciando in ombra quelli negativi. In entrambi i contesti la morte di Neottolemo è voluta dal dio, nell'uno perché l'eroe espiasse la colpa di un'azione ingiusta, l'empietà compiuta ai danni del vecchio Priamo, nell'altro perché divenisse il tutore «giusto» del culto (v. 4 7 themiskopos ), in conseguenza di uo' azione che sotto il profilo eticoreligioso presentava un duplice aspetto, nella misura in cui giusta era stata la richiesta di un'equa ripartizione delle vittime sacrificali, ma ingiusto l'alterco con i sacerdoti di Apollo. Il dato obiettivo del culto, che certamente era già operante a Delfi al tempo in cui Pindaro aveva composto il sesto Peana 16 , è nella settima Nemea un punto cardine che, implicitamente, offre l'argomento per attenuare il peso dell'empietà attribuita a Neottolemo nel primo dei due carmi, poiché con l'onore del culto decretato dal dio egli aveva espiato, oltre che la colpa commessa nei riguardi del clero delfico, anche quella compiuta nei riguardi di Priamo. Infondati appaiono oggi i tentativi di negare qualsiasi rapporto semantico tra le due odi, sulla base dell'argomento del «programma», ovvero di norme convenzionali che avrebbero determinato automaticamenCfr. Schol. Pind. Nem. 1, 41, m p. 123 Drachm.: lSn à&m,\Troçairtq">O'\l'Ytf3TJ (cioè la morte), e Gerber1963, p. 187. 74 Cfr. ancora Famell 1932, pp. 294 sg. 75 des Places 1949, p. 25; K6bnkcn 1971, p. 39.. 76 Cfr. Defradas 1954, pp. 146 sgg.; Sordi 1958, pp. 69 sgg.; Woodbury 1979, pp. 98 sgg. 73

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te i contenuti e le forme del canto epinicio, escludendo nella settima Nemea qualsiasi riferimento o allusione alla realtà storica e biografican. Un tipo di approccio che non solo è discutibile a livello metodologico, ma urta anche contro la più accreditata tradizione interpretativa dell'esegesi antica. Una lettura attenta e scevra di pregiudizi conferma l'incontrovertibile realtà dei riferimenti al sesto Peana, almeno in due casi, per i quali è assolutamente vano invocare l'argomento della convenzionalità. In apertura della quarta triade della settima Nemea è del tutto esplicita l' autodifesa di Pindaro, nell'affermazione che anche un cittadino acheo abitante la costa del mare Ionio, l'Epiro (la terra di Neottolemo), se fosse presente, non lo biasimerebbe; quindi egli continua invocando il suo ufficio di pr6sseno degli Epiroti e proclamando che incede a testa alta tra i suoi cittadini senza superbia, immune da ogni insulto e violenza (vv. 66-67). Queste parole hanno il sapore e il tono di una contestazione nei riguardi di accuse a lui rivolte per un precedente racconto dello stesso mito. Sarebbero parole prive di senso fuori del contesto situazionale già elucidato dalla critica antica. Non diverso il significato degli enunciati che chiudono il carme: il poeta non ammetterà mai di «aver tirato giù» (helkysai), ossia di aver offeso con parole non convenienti e non appropriate (atropoisi), l'eroe Neottolemo, ma egli non vuole più ripetere ormai tre o quattro volte le stesse cose, perché sarebbe prova di difficoltà e di impotenza78 • Proprio il termine dtropos esprime la consapevolezza in Pindaro del proprio operare e del comportamento proteico che lo portava ad adegµare il suo discorso alle circostanze occasionali 79 , al committente e all'udi77

Bundy 1962, I, pp. 4; 29 n. 70; Thummer 1968, pp. 95 sg.; 98; Slater 1969a, pp. 914; 1977, pp. 203-8; Kohnken 1971, pp. 38 sgg.; Lee 1978; Lefkowitz 1980, pp. 39-48: una critica di tali interpretazioni in Cingano 1979a, pp. 169-71; 177-82. 71 Lo Slater (1969a, pp. 91-4) con il consueto argomento del locus communis tende a negarenella formulazione pindarica l'implicito riferimento al sesto Peana. Un'interpretazione poco plausibile, poiché le formulazioni analoghe in altre odi pindariche, addotte a confronto per sostenere la sua tesi, non sono esaminate in rapporto ai singoli contesti; cfr. Cerri 1976. Si veda anche Fogelmaà 1972, pp. 104-16 e Lasso de la Vega 1977, in particolare pp. 76-135. Lungo una linea completamente diversa, ma poco persuasiva, muove l'interpretazione di e.o. Pavese 1978b: fondandosi sulla spiegazione di uno scolio (ad v. 56a), egli ravvisa nel nome Neottolemo menzionato nella chiusa del carme (v. 103) non l'eroe ma l'allenatore che favori la vittoria di Sogene, e annulla in tal modo ogni connessione tra il Peana 6 e la Nemea 1. Un'ulteriore conferma del legame tra le due odi è fornita dall'analisi comparata della loro struttura metrico-ritmica: cfr. Gentili 1979a, pp. 15 sgg. 79 Sul richiamo di Pindaro alla nozione di à"tQOXW,cfr. Tugendhat 1960, p. 405. Sulle sottili connessioni e corrispondenze che Pindaro tesse nella narrazione dei miti in funzione delle diverse occasioni celebrative, un'intelligente discussione in Segai 1986a e 1986b, pp. 3-14.

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torio. È quello stesso comportamento che altrove Pindaro illustra attraverso la metafora del polipo 80• Un'abile e fluida destrezza nel mutare linguaggio e atteggiamenti, mantenendo però salda,in una coerenza di fondo, la «verità» etica cui non deve mai venir meno la fedeltà assoluta del nobile. Una regola di vita che diviene essa stessa norma orientativa della professione artistica. La ripresa del mito di Neottolemo nella settima Nemea rispondeva ali' esigenza, avvertita dal pubblico di Egina, di mettere in ombra gli elementi negativi della figura di un eroe che apparteneva alla stirpe di Eaco, il capostipite degli Egineti. Diverse le esigenze dell'uditorio delfico, non legato agli Eacidi da rapporti di parentela: proprio nel luogo in cui egli aveva l'onore di un culto, poteva essere dato ampio spazio alla narrazione di un esemplare episodio di violenza sanguinaria che era stata giustamente punita dal dio delfico, ma che nulla toglieva alla sua dimensione eroica. La coesistenza di episodi degni e indegni, di azioni pie ed empie nel dossier biografico fu il dato proprio e qualificante della concezione greca dell' eroe 81 • Il bifrontismo degli eroi pindarici con la duplice zona di luci e di ombre è un elemento chiave per comprendere l'atteggiamento, più conveniente all'occasione, assunto dal poeta che può cosl salvare la coerenza della sua idea dell'uomo: in rapporto alla circostanza occasionale esso mostra il «bello» da imitare e il «turpe» da respingere nell'azione umana. E il «turpe» coincide con la dismisura, con la non osservanza del «momento opportuno» (kairos), vertice di ogni cosa, come si legge nella Pitica 9, 78 sg. Il termine kairos merita ulteriori considerazioni, alla luce del recente saggio di Young 1983, che riesamina i vv. 76-79 per confermare in sostanz.a l'interpretazione di E.L. Bundy, a mio avviso non affatto plausibile: àQetat O' ai.d µEy«-

MlLJtOÀ:uµu8m·/ (3aLàO' Èv µaXQOlDL JtOLXlllELV / àxoà oocpol;· 6 OÈ xcneòç 6µo(roç / Mvtòç lxtt XOQuqxiV, «By judicious selection and treatment (xat.Q6ç) I can convey the spirit (XOQuqxiv) of the whole just as well» (cosl traduce Young 1983, p. 161). Questi versi fungono da cerniera tra la prima parte dell'ode (vv. 1-75), che celebra la vittoria pitica di Telesicrate e narra il mito di Cirene, e la seconda parte (vv. 79-125), che al ricordo delle precedenti vittorie di Telesicrate associa l'episodio culminante del mito di Iolao e il racconto delle nou.e della figlia di Anteo con Alessidamo, l'antenato dell'atleta vincitore. I versi vogliono significare che le grandi imprese offrono sempre ricca materia di canto, ma i saggi, cioè i poeti o comunque le persone colte che sanno apprezzare la poesia 82 , prestano

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Fr. 43 Maehl.; cfr. supra, p. 185. Brelich 1969, pp. 231 sgg.; 255; Lloyd-Jones 1973, pp. 136 sg. Cfr. Burton 1962, p. 45.

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orecchio a chi orna con arte pochi argomenti da lunghi racconti, lunghi nel senso pindarico (cfr. 01. 13, 41 sgg.) della estensione e della durata del canto 83 • Quello che segue (vv. 78 sg.: «Il momento opportuno ha parimenti la cima di ogni cosa»), equivale a dire che l'opportunità e la convenienza, con riferimento all'occasione, è la norma migliore cui si deve attenere in ogni circostanza l'agire dell'uomo (cfr. kairòs d'epì psi enuclea un aspetto specifico di epica storica. che costituisce un momento nuovo nella cultura arcaica. Non le guerre mitiche di un lontano passato, ma gli scontri armati con le popolazioni indigene (soprattutto tracie) nel consolidamento della colonia a Taso, con le loro varie vicende sulla terra e sul mare, sono l'oggetto di questo nuovo epos, che trova la sua forma metrica più appropriata nel ritmo incalzante dei tetrametri trocaici 61 o nella strofa distica dell'elegia. Alcuni frammenti, con le loro allusioni ad episodi particolari, inerenti alla quotidianità del comportamento umano, hanno quasi la cadenza di un diario di guerra. che registra anche gli aspetti occasionali e meno eroici della vita militare. Notazioni talora burlesche, nelle quali si esplica per altra via la vocazione serio-comica del poeta, come quando, ad esempio, raffigura se stesso disteso sulla plancia della nave, a mangiare la focaccia e a bere il buon vino d'fsmaro 62 , o quando narra che, costretto alla fuga. dovette lasciare involontariamente lo scudo presso un cespuglio (fr. 8 T.), o ancora quando racconta che per sette nemici caduti morti sono in mille ad averli uccisi (fr. 97 T.). A questi spunti burleschi si affiancano momenti narrativi pervasi da intensa emozionalità, correlata ali' aspetto drammatico degli eventi. L'assunzione del distico elegiaco come metro portante del racconto di storia recente o contemporanea inquadra Archiloco al punto di confluenza tra la cultura spartana e la cultura ionica del VII secolo: Tirteo a Sparta e Callino a Efeso inserirono nell'elegia parenetica la rievocazione paradigmatica delle passate esperienze della città. Mimnermo, più tardi, narrò per esteso la storia di Smime 63 , sin dalla sua fondazione. Ma Archiloco non circoscrisse al distico elegiaco le possibilità metriche di questa tematica. ma le estese anche al tetrametro trocaico, nell'impostazione di un discorso ora storico ora parenetico, che troverà poi in Solone il suo diretto erede: basti pensare ai tetrametri a Foco 64 , nei quali l'intento apo60

Si vedano ad esempio i frr. 8; 91; 0 92; 99; 120; 122; 124 T. 61 Cfr. Tarditi 1958. 62 Fr. 2 T.; cfr. Gentili 1965c; Gentili 1970; Gentili 1976b; Lasserre 1979; Bossi 1980; Gerber 1981; Giannini 1988; Aloni 1993, pp. 5; 99 n. 5; diversa è l'interpretazione di Arnould 1980 che intende «in armi» l'espressione ÈVOOQ~ che appartiene tuttavia ad un uso linguistico tardo impossibile in Archiloco. Quanto ali' interpretazione tradizionale «appoggiato alla lancia» (da ultimo Russello 1993, pp. 73; 160), non si può non ribadire che essa è sintatticamente scorretta, perché ÈVcon il dativo ha soltanto valore locativo e non avrebbe senso immaginare il poeta che beve «sdraiato sulla lancia». Per una puntuale ed esaustiva rassegna sull'interpretazione del frammento archilocheo si veda Gerber 1991, pp. 51 sgg. 63 Frr. 21; 22 Gent.-Pr. 64 Frr. 29; 29a; 29b Gent.-Pr.

XI. Archiloco e i livelli della realtà

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logetico si associa allo sdegno e al biasimo del comportamento dei suoi concittadini. L'apostrofe in tetrametri di Archiloco (fr. 86 T.), «cittadini miserabili, cercate di comprendere le mie parole», trova singolare riscontro nell'invettiva soloniana contro la stoltezza politica degli Ateniesi, ricorrente sia nei citati versi a Foco sia nell'elegia sull'ascesa al potere di Pisistrato (fr. 15 Gent.-Pr.). Un luogo comune della critica è nella tesi, più volte riproposta, secondo cui la poesia di Archiloco rappresenterebbe la pri,na espressione e la scoperta dell'individualità da parte della cultura greca e, tout court, della cultura occidentale65 • È in verità metodologicamente più adeguato porre il discorso nei termini di un'opposizione funzionale tra· il genere narrativo dell'epos eroico ed il genere pragmatico della poesia archilochea, con i suoi referenti di ordine personale, politico e storico. In questa nuova dimensione si spiega agevolmente anche il venir meno dello schema tradizionale della Musa che parla per bocca del poeta, uno schema correlato al tipo di pe,formance proprio dell'aedo e del rapsodo, imperniato sulla memoria come dono della divinità e sulla rievocazione impersonale delle vicende mitiche. L'insistenza di Archiloco sulle proprie parole (rhémata), nella quale si è voluto vedere66 l'emergere della nozione della personalità individuale, si spiega invece col carattere allocutorio della sua poesia. Una differenza istituzionale tra diversi tipi di discorso che era già implicita nell'osservazione di G. Pasquali67 , solo apparentemente paradossale, che poeti come Archiloco, Callino o Tirteo non si pongono sullo stesso piano illocutorio di Omero, ma piuttosto traducono in un altro ritmo i discorsi dei suoi eroi, calati nella pragmaticità dell'azione. Di qui la continuità/discontinuità di Archiloco con la dizione tradizionale dell'epos, nel senso che la tecnica dell'uti1iz:zazionedella formula è quella dell'adattamento lessicale e semantico alle sernpre nuove esigenze dei referenti attuali, con variazioni che non modificano tuttavia i nessi sintattici della dizione68. Uno strumento tipico della poesia di Archiloco fu la favola animalesca, che svolge, come in Esiodo, funzione esemplare, strutturandosi però in forma agonale69 , sino ad avere la movenza di un vivace dialogo tra persone umane. Già vi abbiamo accennato a proposito degli attacchi polemici a Licambe. L'elemento favolistico è stato in verità sopravvalutato 65

Cosl, ad esempio, Breitenstein 1971, p. 59. Ma si vedano da ultimo le osservazioni

di Russo 1974. 66

Kontoleon 1963. Pasquali 193S, pp. 102 sg. = 1994, p. 311. 68 Cfr. Parte I, cap. 3, pp. 47 sg. 119 Adrados 1979, p. 388. 67

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Poesia e pubbUco nella Grecia antica

da quei critici che hanno voluto vedere in Archiloco soprattutto il poeta della favola 7°. In realtà esso trova la sua naturale collocazione nella pluralità degli ingredienti espressivi propri del linguaggio serio-comico e della rappresentazione realistica della vita vissuta.

Nota sui metri di Archiloco Fondamentale sui metri e i modi della performance di Archiloco la testimonianza dello Ps. Plutarco 71 ove si elencano, oltre al trimetro giambico, al tetrametro trocaico e all'elegefon (pentametro): a) i ritmi non omogenei: con questo termine si indicano ovviamente i ritmi di misure non eguali, cioè gli asinarteti 72 ; b) tutti quei metri e ritmi che sono visti come un accrescimento del verso eroico (he totì heroiou auxesis); appartiene a questa categoria l' exemplum fictum dato da Diomede 73 «nova munera divum» ;;;:;_.,.,__ ' trattato come una forma derivata dalla parte finale dell'esametro(- ......--), «accresciuta» di una sillaba lunga o di due sillabe brevi iniziali. Si tratta del pentemimere anapestico ben documentato in Stesicoro e nella lirica corale del V secolo 74; e) l'estensione o rigonfiamento (éntasis) del verso eroico accresciuto sino a comprendere il prosodiaco e il eretico (he totì euxeménou her6iou [scii. éntasis] eis te tò prosodiakòn kaì tò lcretilcon).Sebbene l'enunciazione non sia molto perspicua e si presti a più di un'ipotesi interpretativa75, tuttavia è indubbio che «eretico», come è stato osservato 76, è assunto nel senso di «ditrocheo», secondo l'uso terminologico dei ritmicologi antichi 77. È impossibile ritenere che con «eretico» l'autore designi qui la figura metrica di cinque tempi~ ...~ nel cap. 10, 1134d è detto espressamente che Taleta di Gortina imitò i metri di Archiloco e vi aggiunse i eretico-peoni. Col termine prosodiaco si allude evidentemente, come è ben documentato dagli scoli metrici a Pindaro, ad Aristofane e in 70

Rostagni 1927, p. 14. De nuu. 28, 1 l-40f sgg. = Arcbil. Test 146 T. 72 Cfr. Gentili 1983. 73 I p. 516 Keil = Arcbil. Test. X T. 74 Cfr. Gentili 1977b, pp. 25 sg. 75 Cfr. Weil-Reinach 1900, p. llO n. 282; Lassene 1954, p. 171. 76 Weil-Reinach 1900, p. 108 n. 278. 77 Cfr. Aristid. Quint. De lfllU. p. 39, 3 W.-1.; P. Oxy. 2687 + 9, XXXIV, pp. 17 sgg. 71

XI. Archiloco e i livelli della realtà

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generale dalla tradizione antica 78 , ai ritmi kat'enoplion quali l'enoplio arX«Q°'-«t,fr. 162 T.) e al prosodiaco = enoplio chilocheo ('EQ0ttQ«ItaLµEV[ civavbQ~ (Hunt) 'foÀ.OLçt6KTl(lç ydç

39

ima Xf[LµÉVOLç

V. 17: lùt :n:atÉQO)[v µa0oç: Herodian. :n:EQL IJ.OVTle· Àkl;. II p. 941, 28 Lentz; Gallavotti 1957a, p. 54; Treu 1963a, p. 42. 40 Ali. Hom. 5, 7. 41 Per l'espressione 3tQOtÉQuìtoù; con accentazione lesbica) può essere inJtolloù; Jt).o\jçxatmmvotic;), il secondo (À.€i'l'Koç teso come una citazione dal testo alcaico, introdotta dall'articolo t6, come di solito nel linguaggio esegetico, cfr. ad esempio Sapph. fr. 213, 3 sg. V.: tivtl. toil o[w]~~- Si veda la discussione in Barner 1967a, pp. 151 sg. 87 Rr. 13-21:ola l>t axtMm) (mdÀ.11 pap.) fil>11 XEXlllQ11Xt! alltçt · xat tà axtÀ.11 autflc; È]Jtttijç all11YOQW[ç ...]. mJtEJtaÀ.afrota[L · Jtoll]a tE xat 0aµE[a] l>eµ[ofoçt · wc; JtÀ.EU>tulçt autfi l>uìtO'ÙçJtolloù; Jt).o\jçxat Jtuxvoù; fil>11 Jt[a]À.màyfyOVE[v.Al r. 13 è dubbio se la citazione del testo abbia inizio da ola o da mdÀ.11 (trascritto per errore in luogo della forma dialettale axtMa o mdÀ.€'):cfr. la discussione in Barner 1967a, pp. 152 sg. Ai rr. 16 e 17, accolgo i supplementi del Gallavotti 1957a: 0aµE[a) e roçÈ]Jtl 88 Rr. 23-28: oi, l>tà tò [mJta]À.mii>a0[m aut,\ (l)Jl(JL xa]90Qi.u.06f1vm il[tOLtflc;Jauvoooqaç] (o twv auvoootwv?) JtEJta[flo0mJ· TIvailç Jt[a)À.màtoii [mil.Lv]wlv x[a]tl,. Al r. 24 ho supplito aut,\ (scii. la nave) (l)Jl(JL in luogo di È0ÉÀ.EL (Gallavotti) o llouoXEL. À.E'tm (Merkelbach): la lunghezza delle righe, che possono contenere 17-20 lettere, offre uno spazio idoneo; è da escludere È0tÀ.EL se si accetta mJtaiio6m (Hamm), adeguato al senso del contesto (cfr. infra); per (l)Jl(J~cfr. la precedente allegoria fr. 73, 5 V. Al r. 25 \y(OL (Hamm) è esplicativo secondo l'uso grammaticale, vale «ovvero», «cioè», cfr. KUhnerGerth 1955, II, p. 163d. 89 I frr. 73 V. e 306i col. II V. non appartengono allo stesso carme, come hanno sup86

Xli. Pragmatica dell'allegoria della nave

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nave si è arenata nella sabbia, perché seriamente danneggiata, è logora e vecchia, e le sue gambe/fiancate (skélea) sono allentate e sconnesse 90 • Psommos e skélea sono i due nuovi semi metaforici che danno immediata l'idea di marcescenza e rovina. Gli skélea, le «gambe» di uomini o di animali, sono in senso traslato le «opere in muratura», «mura»: un'accezione non documentata prima del V secolo a.C. 91. Si è già visto l'uso ambivalente di tofchos come «mura della città» e «fianchi» della nave 92. È dunque molto verisimile che anche qui, come nelle precedenti allegorie, Alceo abbia animato l'inanimato, designando con «gambe» gli elementi lignei che sostengono la nave, cioè, come ha interpretato Merkelbach 93, «le assi laterali che si congiungono a V tra loro, a prua e a poppa» formando le due fiancate della nave 94 • Non diverso è il procedimento nella metaforizzazione del termine «sabbia» come «impurità», «putredine» di un corpo malato95, metaforizzazione resa possibile dal colore bianco della sabbia mista alla schiuma del mare e dall'impurità di un ascesso o di un bubbone 96 • È significativo che l'autore del commento usi, nell'esegesi del carme, termini quali «impurità», «gonfiore», «enfiagione», che sono propri del linguaggio medico 97 • Ciò consentirebbe di ipotizzare una struttura allegorica a più piani: la sabbia opprime o comprime la nave, le sale intomo 98 e, sospinta dall' acqua, vi penetra attraverso le fessure e gli squarci delle fiancate 99 ; rigonposto Page 1955, pp. 193 sgg., e Merkelbach 1956, pp. 92 sgg.: si vedano le giuste obiezioni del Koniaris 1966, pp. 385 sgg.; cfr. ROsler 1980, p. 121. Riguardo alla col. I di 306i, 8-14 e soprattutto 24-26 (fr. 16 = 73, 8-10 V.), che non sembrano appartenere alla stessa colonna di 8-14, rinvio alle ipotesi del Bamer 1967a, pp. 138 sg. 90 Nell'espressione alcaica O'XtÀ.1) ... XEXOIQ1JXE, il verbo xOJQÉro è atto a significare l'allentamento, la sconnesione delle gambe/fiancate della nave, ormai vecchie; come è spiegato, immediatamente dopo, nel commento: «le sue fiancate sono diventate vecchie»; pertinente per il senso di XOJQÉW è il confronto con Herodt. 1, 120; 122 addotto dal Barner 1967a, p. 157: egli cosi traduce l'intero enunciato: «Wie (?) die Seiten schon auseinandergegangen sind»; cfr. Treu 1963a, p. 15: «Wie ihm die Spanten schon dahin sind». 91 Cfr. Aristoph. Lys. 1170, con il commento di Wilamowitz 1927a, p. 290. Si veda inoltre l'allegoria oraziana (Carm. 1, 14, 4) nudum remigio latus. 92 Cfr. p. 264. 93 1956, p. 94. 94 Interpretazione accolta da Stark 1959, p. 48 n. 12 e dal Bamer 1967a, p. 152. 95 A questo luogo di Alceo si riferisce Esichio, s.v. 'ljl6µµoç· àxaOaeow. {xwrvoç}. O glossema xrutV6ç,come mi comunica E. Degani con lettera del 22.5.1978, non è al suo posto ma si riferisce al lemma 'ljJOÀ.oç (Hesych. 'lii 243 Schm.). 96 Cfr. rr. 10-13. È da rilevare in proposito che l'autore dello Schol. Horn. Od. 5, 403 (p. 205 Dind.) spiega con «impurità» (akatharsfa) il lemma «schiuma del mare» (tÌÀ.òc; li)CVTI) che l'onda riversa sul lido. 97 Per àxaOaeo{a cfr. Hippocr.Aff. 22; Epid. 5, 31; Fract. 31. Per btaQµa cfr. Hippocr. Epid. 1, 2; 7, 4; Soran. 1, 48. 91 Cfr. r. 3 ÒO'tdXl':L del testo alcaico e r. IO à~aL dell'autore del commento. 99 Cosi Steffen 1959, p. 43 e soprattutto Treu 1963a, p. 15, che traduce «das einge-

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Poesia e pubblico nella Grecia antica

fia di sabbia, la n_aveha l'aspetto di un bianco bubbone in crescenza, ripieno di impurità 100 • Tuttavia il participio passivo perainoménes «penetrata», col suo significato esclusivamente sessuale 101 , lascia spazio all'ipotesi102 che esso introduca il sema metaforico della vecchia prostituta (porne). A convalidare questa linea interpretativa hanno contribuito a) l'ambivalenza della parola skélea (r. 13); b) il confronto con il lacunoso fr. 117 V. di Alceo, dove l'occorrenza delle parole «nave» (v. 21), «prostituta» e «prostitute» (pomai v. 26; p[om]aisin v. 29) hanno indotto a ravvisare una «mescolanza» di allegorie 103 ; e) il ricorrere della stessa metafora nave/prostituta in Meleagro e in Filippo di Tessalonica 104. Eppure, nonostante gli argomenti invocati in suo favore, la doppia figurazione della nave/prostituta non appare affatto perspicua 105. L'enunciato esegetico «essendo essa compressa e penetrata» - cioè «trovandosi nella condizione di essere ecc.», o anche «se essa è compressa e penetrata»106- «viene su molta e bianca impurità», applicato ad una prostituta vecchia e malata (perché· tale dovrebbe essere per il suo rapporto analogico con la nave), non sembra avere alcun senso plausibile. Perché l'impurità di una vecchia meretrice malata dovrebbe salire quando essa compie l'atto sessuale? E perché proprio quando, durante l'atto, è compressa e penetrata dall'uomo? 107Trattandosi di una metafora binaria (nave/prostituta), perché essa abbia senso è indispensabile che ogni elemento delle due immagini abbia reciproca coerenza e verisimiglianza. drungeneunsaubereWasser»; con «acquasporca»egli intende l'acqua mista a sabbia(= impurità, cfr. nota 96) penetrata nella nave. 100 Rr. 11-13: è detto «bianco» per il gonfiore. 101 Dei tre significati del verbo meaLW>: a) portare a termine o a compimento; b) penetrare; e) perforare (cfr. L.S.J. s.v.) il solo possibile nel nostto contesto è forse il secondo, il cui senso è erotico, cfr. Com. ad. fr. 14 Kock; Anlh. Pal. 11, 339, 2; Diog. Laert. 2, 127. Tuttavia non escludo il senso di «giungendo al termine (dei suoi viaggi)», come mi suggerisce Agostino Masaracchia che rinvia a Pind Pyth. 1O, 28. 102 Appena accennata dal Lobel 1951, p. 120, e poi sviluppata dal Page 1955, p. 195 e dal Merkelbach 1956, p. 93; cfr. anche Bamer 1967a, pp. 151; 153; 158 sgg., e Rtisler 1980, pp. 121 e 236. 103 Merkelbach 1956, p. 95 n. 4; ma vedi l'osservazione del Bamer 1967a, p. 160 n. 1: «Zur ausgeflihrten Allegorie gehtirt mehr als die Andeutung zweier mtiglicherweise verschiedener Bildbereiche». HM Anth. Pal. 5, 204 (Meleagro); 9, 416 (Filippo). 105 Con ragione, Porro 1994, pp. 110 sgg., pensa, ora, che l'autore del commento «abbia sovrapposto alla metafora 'univoca' della nave/Stato usata da Alceo un'allegoria secondaria più moderna, quella della naveht6Qvrl». 106 Bamer 1967a, p. 157. 107 E.M. Voigt (in apparato a 306i col. Il) adduce un interessante confronto con PlauMa è ovvio rileto, Men. 403: «saepe tritam (8ì..~µÉYT)ç), saepe fixam (JUQ(ILVOfUVYI..btQt1 «lebbra» sono malattie nettamente distinte, non altrimenti in Hippocr. Prorrh. 2, 43. A partire da Platone (Tim. 85a 1) e da Aristotele (Hist. an. 5 l 8a 12; Gen. an. 784a 26; Probi. l O,4-5) i sintomi della leulcesono quegli stessi descritti alcuni secoli dopo da Paolo Egineta (medico del VII sec. d.C.) 4, 5 Heiberg: ii ÀEUK'I JIE"Catlok~ ti.e;ron toii XQ(O'tòc; btt tò ÀE'UXOtEe'Y, imò y).foxQou tE xat xoUwywoµivti q>Àfy~toc;. Cfr. Poli. Onom. 4, 193 e Grmek 1985, pp. 288 sgg. 112 Correggendo ola 6è in l>uìbè il Page 1955, p. 193 congettura il seguente testo in Alceo: xat >..Eiil«>c; òotdXEL.l>uì bè axéÀEa I i\l>'IXEXOJQTIX' _.,. airtq., ma cfr. Barner 109

oouc;

1967a, p. 152. 113Rr. 16 sg.: sull'uso di tQéx!LV riferito alla nave, cfr. SIIPra,p. 270. 114 Cfr. Sll/1ra,pp. 274 sg. 115 Diog. Laert. 1, 81 = Aie. Test 429 V.

Poesia e pubblico nella Grecia antica

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anche come akdthartos 116 • Ora le parole akatharsfa e épanna, che designano in senso concreto il disfacimento della nave, in senso traslato significano il primo «depravazione», «corruzione» 117, il secondo «vanità», «orgoglio vano» 118• In questa contestualità s'intravede, attraverso il simbolo del bubbone, l'emblematica figura fisica e morale di Pittaco, il panciuto, il tronfio, l'impuro che opprime 119 e contamina con la sua corruzione l'intera città sino a farne un grosso putrido bubbone al pari di se stesso. La nave/città non vuole più affidarsi a discordi timonieri per una navigazione in mare dove la tempesta è la nonnalità; dunque rifiuta di navigare non «perehé è vecchia» (rr. 23 sg.), ma perché cerca l'ormeggio della pace, affidata per inerzia a quell'unico e solo timoniere che è un tracotante tiranno 120 ; una pace però che imponeva la cessazione di ogni attività politica. Apprendiamo da Aristotele 121 che i mezzi di cui disponeva la tirannide per assicurarsi il potere sono l'eliminazione delle personalità eminenti, l'abolizione dei pasti in comune (syssftia), delle consorterie politiche (hetairlai) e di ogni attività educativa. Ora l'accenno alle riunioni simposiali dei nobili122 sembra proprio alludere alle riunioni delle consorterie interdette da Pittaco. Il poeta è ancora in esilio e reitera con icastica violenza gli attacchi contro la città che l'ha tradito, non ascoltando il suo appello perentorio a non restare inerte, a resistere a Pittaco e spegnerne la sete di potere 123• Il messaggio che egli ora comunica agli heta(roi è un ferale messaggio di biasimo e di accusa contro i Mitilenesi responsabili della degradazione morale e politica della città, ma indirettamente anche contro colui che ne è stato il principale artefice. Le quattro «maggiori» allegorie che abbiamo esaminato (maggiori nel 116 117

Zonar. 13 àyOO\IQ'tç · ò àxaeaqtoç.

Cfr. Demosth.21, 119. Sotad. 9, 4 Pow.; cfr. Hesych. s.v. btaQoi.ç· ÙJteQ11(pav(a. 119 R. 8: 8>..~c;. Non è casuale, da parte dell'autore del commento, l'uso del verbo 8>..qko, che può applicarsi indifferentemente alla nave compressa, in senso reale, dalla sabbia e alla città oppressa o afflitta, in senso traslato, dall'impurità di Pittaco (cfr. L.SJ, s.v. 8>..qko). Insomma: thlibo, come anche akatharsfa cd épanna, non sono parole scelte a caso, ma funzionali all'esegesi dell'allegoria in quanto esprimono l'aspetto concreto, visivo e insieme morale dell'azione. 120 Fr. 306g V., che è un invito perentorio a cogliere la buona occasione per piombare del tiranno. In sulle spalle di Pittaco e pone fine alla malvagia tracotanza (xaxftc;ilf!QEwc;) realtà Pittaco era stato eletto dai concittadini di Mitilenc csimnete, capo con pieni poteri (pp. 274 sg.), ma per Alceo l'csimnete era pur sempre un tiranno. 118

Poi. 5, l3 l3a 34 sgg. Rr. 25 sg.: 'tijc; mrvooo(aç,wmilo8m. Sul carattere conviviale della synousfasi veda Hcrodt. 2, 78: PlaL Symp. 173a; Leg. 2, 652a; 672a. 123 Cfr. supra, pp. 274 sg. 121 122

XII. Pragmatica tkll'allegoria tklla nave

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senso che la tradizione le ha trasmesse in condizioni di migliore leggibilità) presentano uno squarcio molto vivo della storia di Mitilene tra VII e VI secolo a.C.; potremmo dire che la poesia di Alceo fu il canto del cigno della vecchia aristocrazia mitilenese. S'intende che il quadro politico delineato dal poeta ha una sua propria verità, che è la verità della consorteria degli Alceidi, nel momento in cui si era irrimediabilmente rotto quell'equilibrio oligarchico che in un canne dell'esilio egli rievoca con nostalgia e amarezza 124. In una siffatta situazione conflittuale di scontri armati tra fazioni avverse, l'allegoria diviene lo strumento comunicativo strategicamente più ideoneo per operare nell'ambito del gruppo dei compagni d'arme, legati dal vincolo del giuramento. La sua funzione è di trasmettere il messaggio in un linguaggio velato e allusivo comprensibilesolo dall'uditorio dei compagni, e la sua efficacia cognitiva ed emozionale è in rapporto diretto con la novità dell'informazione convogliata e la peculiarità della rappresentazione allegorica. Lo «scandalo» semantico di metafore inaudite, quali pioggia/sedizione, sostegno/scoglio, sabbia/impurità, non era comprensibile fuori della ristretta cerchia dell' eteria. È un falso problema chiedersi se la nave raffiguri la città oppure la fazione e in quali casi l'una o l'altra. La nostra analisi ha chiaramente dimostrato che il suo significato costante è la città, e in questo senso l'allegoria della nave è stata assunta da Teognide e da Eschilo. Ma che cosa il termine «polis», che ricorre più volte nella poesia alcaica, significava per Alceo? «Città» come insieme unitario di centro urbano e campagna o la città-Stato con il suo complesso civico come espressione di precise condizioni sociali, culturali e politiche? Un doppio uso della parola che fu comune a tutto il mondo antico 125 • È ovvio che nell'allegoria alcaica la nave rappresenta la città in senso politico, la città-Stato di regime oligarchico. Il rapporto analogico nave/città si fonda sulla struttura stessa della nave con i suoi spazi interni distribuiti secondo quegli stessi criteri cui s'ispira l'organizzazione dello spazio urbano. Proprio sulla base di questa analogia, alcuni secoli dopo, Ennio 126 poté denominare con «via» (agea) la corsia che attraverso i banchi dei rematori porta da prora a poppa e con «piazza» (forus) il casseretto di poppa 127 • Più tardi Orazio, nella celebre ode 1, 14 che prende le mosse dalle allegorie di Alceo, ha 124

Fr. 130b, 3-6 V., dove le istituzioni dell'assemblea e del consiglio sono rievocate come i segni tangibili di quel regime oligarchico che il padre e il nonno del poeta avevano goduto fino alla vecchiaia. 1zs Si veda Fmley 1977b. 126 Ann. 492 Vahl.2= 512 Skutsch. 127 Cfr. l'analisi di Bettini 1979, pp. 35 sg.

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Poesia e pubblico nella Grecia antica

simboleggiato, nel pieno rispetto del modello, lo Stato romano e le sue calamità politiche, come ha correttamente interpretato Quintiliano (8, 6, 44) nel discorso sull'allegoria e la metafora, quando osserva che la nave è lo Stato romano, i flutti e le tempeste sono le guerre civili e il porto la pace12s. Ma, ancor prima, l'allegoria fu, in Archiloco, lo strumento per trasmettere ai compagni d'arme messaggi militari nelle vicende della colonizzazione di Taso. Nell'allocuzione al concittadino e compagno Glauco, la minaccia di una battaglia imminente con i Traci è rappresentata con la metafora del mare in tempesta 129: Guarda, Glauco: l'onde dal fondo il mare sconvolgono, irta s'innalza una nube attorno alle cime delle Gire, indizio di procella; sgomento subito ci assale 130. Onde (kymata)/soldati, tempesta (cheimon)/guerra sono, come si è visto, semi metaforici esemplati su similitudini epiche; non altrimenti il termine nube (néphos)/soldati o guerra 131, il cui uso sembra ricorrere anche in Alceo132. In un altro frammento, probabilmente pertinente allo stesso carme, l'allegoria assume il taglio di una descrizione concitata e drammatica di navi in preda alle onde, quasi che il poeta narri la vicenda nel momento stesso in cui la vive 133: 128

Non è certo questa la sede per riaffrontare il vecchio e sempre attuale discorso critico sui motivi alcaici nell'ode 1, 14 di Orazio: si veda da ultimo Bonanno 1980b, con bibliografia. Mi limiterò ad osservare che il poeta latino ha rielaborato a suo modo, in stretto rapporto con la situazione politica del suo tempo, elementi tratti non soltanto dalle prime due allegorie (cfr. novifluctus con il v. l della seconda allegoria; vedi Bamer 1967a, p. 136 n. 3), ma anche dalla quarta allegoria: l'invito perentorio fortiter occupa portum (vv. 2-3) contamina, nei modi consueti ad Orazio, il v. 8 della seconda allegoria «corriamo in un porto sicuro» e l' «ormeggio» definitivo della quarta allegoria (cfr. Alfonsi 1954, p. 218), ovvero l'ormeggio della pace. L'espressione oraziana ricalca, è vero, almeno formalmente (cfr. Bonanno 1980b, p. 187) l'enunciato alcaico della seconda allegoria, ma il suo messaggio è quello della quarta allegoria, vale a dire la rinuncia definitiva da parte della nave, ormai logora e vecchia, a riprendere il mare, e, fuori allegoria, a riaffrontare i gravi rischi della guerra civile. Il porto, che nel carme oraziano la nave deve saldamente occupare, è, come intese Quintiliano, il porto che assicurerà allo Stato romano una pace certa e duratura. 129 Fr. 91 T., citato da Eraclito (All. Horn. 5, 3) come esempio di discorso allegorico. Archiloco, egli dice, impegnato nelle rischiose vicende della lotta con i Traci, «paragona la guerra all'onda del mare in tempesta». 130 Le Gire sono il monte più alto di Tenos, isola delle Cicladi, cfr. Cic. Ad Att. 5, 12, 1, e Sandbach 1942, pp. 63 sgg. 131 Horn. //. 4, 274; 23, 133 «nube di fanti,.; 17, 243 «nube di guerra,.. 132 Fr. 302c, 5 V.: cfr. Tavola comparativa. 133 Fr. 0 92 T. Non credo che si debba dubitare che questi versi siano di Archiloco e ap-

XII. Pragmatica dell'allegoria della nave

5

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... vanno alla deriva nel mare le navi veloci ... allentiamo le vele ... sciolte le gomene della nave, prendi il vento favorevole, ... (salva) i compagni, se vuoi che ci ricordiamo di te ... allontana (la paura?) e non gettare ... l'onda s'innalza sconvolta ... ma tu provvedi (prométhesai)

Nelle parole, forse rivolte allo stesso Glauco, s'intrecciano rappresentazione e allocuzione con stilemi ed immagini che ricorrono pressoché identici nelle odi allegoriche di Alceo 134 • L'immagine, nella concretezza visiva della tempesta marina e del pericolo di naufragio in cui versano le navi, è l'annuncio simbolico di un'azione di guerra condotta da nemici esterni contro i compagni di eteria. Di qui la perentoria esortazione rivolta al comandante perché segua la giusta rotta, preveda il grande rischio e provveda senza indugio alla salvezza dei propri uomini. L'avvertimento a provvedere, per evitare il peggio, significa in altre parole che il capo dovrà con la propria esperienza e capacità evitare un evento rischioso e imprevisto, e nel buon esito la sua azione rimarrà nella memoria (cfr. v. 4) dei compagni come una prova esemplare di valentia e di coraggio 135 • L'idea del «prevedere» nel significato ambivalente di saggezza nautica e di abilità e prudenza politica diviene in Alceo, sempre nel contesto allegorico della nave, una norma inderogabile nell'azione politica. Chi può e ne ha la capacità, egli dice, deve da terra prevedere la rotta; una volta che si è in mare bisogna correre con il vento presente, e non vi è modo di mutarlo, si va come porta il vento 136 • È il monito dell'uomo intelligente (synetos), sagace ed esperto; l' asjnetos è chi non è in grado di partengano allo stesso carme del fr. 91 T.: lo ha mostrato Adrados 1955, pp. 206 sgg. sulla base del metro e del contesto; cfr. M.L. West 1974, p. 128. Non sono persuasivi né gli argomenti contrari alla paternità archilochea di H. Wood 1966, che si fonda sull'uso non arcaico di Jt{)Oµt)0toµm(v. 7), né l'ipotesi di Boserup 1966 che i versi sono trimetri giambici e non tetrametri trocaici. 134 Cfr. Tavola comparativa. 135 Ad un analogo contesto allegorico sembra appartenere la metafora marina 'iJ'UXÒç 'fxovteçxuµmrov Èv àyxa>..mç«con la vita nelle braccia delle onde», Archil. fr. 21 T., come ha mostrato Pòrtulas 1982. 136 Fr. 249 V. Nel v. 9 tòi paréonti tréchen ananka, il verbo tréchen suole ritenersi corrotto per motivi metrici (paréontr tr. in luogo di paréontf tr.). Ma casi di correptio attica (paréontf tr.) ricorrono ancora in Saffo, fr. 16, 19 V. e in Alceo, fr. 332, 1 V. (tinit pròs bfan). L'argomento decisivo che consiglia di lasciare inalterato il testo è che il verbo tréchein applicato alla nave è, come si è visto (p. 270), nello stile delle allegorie alcaiche (cfr. Gentili 1986). Il dativo strumentale tòi paréonti sottintende dnemoi, cfr. il v. 5 aném]o (Page) lcatéchen aétais.

284

Pcnsia e pubblico nella Grecia antica

capire e quindi prevedere gli eventi; è la situazione descritta nella prima allegoria dal verbo asynnétemmi «non comprendo» 137 : nel contrasto dei venti, fuor di metafora nello scontro delle fazioni, il poeta non ha la capacità d'intuire quel che potrà accadere; nella tempesta egli ha perduto l'orientamento. Leggiamo in Diogene Laerzio (1, 78) che Pittaco soleva dire che è proprio degli uomini intelligenti prevedere (prono/sai) le situazioni difficili prima che avvengano per evitare che avvengano, e degli uomini forti risolverle quando siano accadute. Egli ha sperimentato a sue spese la validità di questa saggia norma nei momenti più oscuri della guerra civile ma, diversamente dal suo rivale, con il successo pari all'acutezza della sua sagacia politica. Più tardi l'osservanza del prevedere assumerà in Solone il valore di precetto morale in senso lato, di un modo di agire e di operare nei rischi che ogni attività umana comporta; chi cerca di far bene, senza prevedere la minaccia che lo sovrasta, cade in un totale accecamento, ma ad un altro che fa male dio concede la buona riuscita che lo libera dalla stoltezza 138 • Resta da considerare quale sia in Archiloco l'idea sottesa dal plurale «navi». Se, come si è detto, l'immagine della tempesta è allegorica, ogni suo elemento deve avere un referente preciso: lo ha mostrato l'analisi delle allegorie alcaiche. E il referente non sono certo le città. E poi quali città? La circostanza storica nella quale s'inquadra l'allegoria è la guerra contro i Traci, della quale una viva eco si coglie nei frammenti superstiti dell'opera di Archiloco 139 • Anche ammesso che la situazione descritta nei due frammenti archilochei alludesse ad un attacco portato dai Traci contro Taso, la minaccia comunque era rivolta contro la città (non le città) che costituiva l'insediamento pario nell'isola. Un'ipotesi possibile è che le navi designino le fazioni o i nuclei armati parli, impegnati nei combattimenti con i Traci. Sembra lecito concludere che la nave come simbolo della città-Stato nelle varie e molteplici traversie civili ha la sua matrice nella poesia alcaica, cui deve la lunga e prospera fortuna nella letteratura antica 140 e moderna.

137

Cfr. p. 268. Sol. fr. 1, 65-70 Gent.-Pr. 139 Cfr. frr. 8; 120 T. 140 Si veda Gerlach 1937; Kohlmeyer 1934. 131

Capitolo tredicesimo

La veneranda Saffo

crine di viola, dolceridente, veneranda Saffo

ALcEo,fr. 384 V.

Questo famoso verso di Alceo• ha una storia nella critica saffica. e precisamente in tutte le mitiche speculazioni sulla purezza degli amori di Saffo e nelle moderne idealizzazioni della sua poesia. L'apostrofe di un poeta contemporaneo: «crine di viola. casta (o pura) dolceridente Saffo» secondo l'interpretazione vulgata. offriva un buon argomento ai sostenitori della castità di Saffo contro le accuse d'immoralità e di turpe amore (aischrà philfa) degli antichi biografi2. Ma a questa castità profana. come fu dimostrato con argomenti decisivi da W. Ferrari3, mancava un vero fondamento nel testo, poiché l'epiteto tigna era distorto dal suo senso arcaico, limitato esclusivamente alla sfera del sacro: lo slittamento semantico verso l'accezione morale o di costume, di «casto, verginale», non è reperibile prima del V secolo, e in questo senso l'epiteto è più spesso associato ad altra parola che determina in che cosa consista la purezza o la castità 4 • Tuttavia l'indagine del Ferrari, nonostante gli autorevoli consensi 5 , 1

Fr. 384 V. L'attribuzione ad Alceo può ritenersi certa. Efestione (p. 45, 12 Consbr.),

nonostante l'omissione del nome dell'autore, cita il verso come esempio di dodecasillabo

alcaico: è molto verisimile che abbia citato da Alceo e precisamente, data la normalità

dcli' esempio, dall'inizio del canne, secondo il suo consueto modo di citare. 2

Sulla critica antica vedi Della Corte 1950, e ora Treu 1966. Ferrari 1940, pp. 38 sgg. 4 Ferrari 1940, p. 40. Non credo si debbano ancora spendere parole per mostrare l'errata interpretazione dell'liyva alcaico presente nel saggio di Williger 1922, p. 47. Sebbene egli riconosca con ragione che ayv6ç nel suo senso secondario di «ritualmente puro,. e quindi «casto, verginale,. («keusch, jungfriiulich,.) compaia chiaramente per la prima volta nei tragici (pp. 44 e 47), tuttavia poi propende a riconoscere già nell'epiteto alcaico il significato di «casta, verginale,.. Ma Saffo casta e verginale non era, se ebbe un marito e una figlia (Oeide). 5 Cfr. Moulinier 1952, p. 40 n. 6; Bowra 1961, p. 239; Treu 1963a, p. 180. 3

286

Poesia e pubblico nella Grecia antica

non sembra persuasiva nelle sue conclusioni: egli ritiene che Alceo abbia rivolto la sua apostrofe a Saffo con lo stesso atteggiamento formale col quale avrebbe invocato una divinità, quasi che il poeta sentendo in lei «la purezza del nume» abbia vagheggiato «il soffio divino di una poesia ardente e dolcissima». Alceo in sostanza avrebbe anticipato di alcuni secoli quello che poi sarebbe divenuto un luogo comune nella grecità e nella critica idealiz:zante del nostro tempo: la mitiz:zazione di Saffo come decima Musa e della sua poesia come espressione irrepetibile di un'ispirazione divina. Queste conclusioni, raggiunte con un salto troppo alto rispetto alla precedente analisi del valore di hagnos nella poesia arcaica, erano in realtà coerenti con l'orientamento critico di stretta osservanza crociana. Il saggio di G. Perrotta su Saffo, scritto appena cinque anni prima (1935), rappresentava nel settore della classicità la presenza più autorevole di quell'orientamento. Alla presunzione di scorgere nel verso di Alceo un giudizio morale è stata opposta una seconda presunzione, non meno astratta, quella di riconoscere in esso un giudizio estetico: due posizioni estreme che hanno avuto il torto di avere eluso i termini prospettici dell'interpretazione, cioè i contenuti stessi dell'arte saffica e la funzione e il senso di essa nell'ambito della comunità nella quale Saffo operò. A queste considerazioni se n'associano altre che riguardano l'uso arcaico di hagnos troppo genericamente inteso come «sacro, divino» e, in taluni casi, persino come equivalente di hieros, quando esso si riferisca a oggetti o cose appartenenti alla divinità 6 • Per smentire l'affermazione del Ferrati che hagnos compaia talvolta come epiteto alternante con hieros basterebbe ricordare le parole con le quali il coro dell'Agamennone di Eschilo (vv. 219 sg.) stigmatizza l'empio manifestarsi del pensiero del re. Nella loro sequenza solenne i tre aggettivi (dyssebé, tinagnon, anieron) puntnaUzzano, ciascuno, un tratto caratteristico ed essenziale di ciò che nell'azione e negli atteggiamenti dell'uomo non è conforme alla natura e al volere degli dei, l'empio, l'impuro e il sacrilego 7 • Non è metodico sostenere la sinonimia di hagnos-hieros e hagnos-semnos. fondandosi sulla constatazione che in differenti autori i tre aggettivi sono usati come epiteti dello stesso oggetto e della stessa cosa. Se Saffo definisce come dgnon il canto per le nozze di Ettore e Andromaca (fr. 44, 26 V.) e Teognide (v. 761) come hieron il canto che celebra gli dei, oppure se Simonide descrive come hagnon l'acqua delle Muse e Euripide, più tardi chiamerà semna le acque di Pirene, questo non significa che i tre epiteti fos6 7

Ferrari 1940, p. 50. Fraenkel 1950, p. 128.

Xlll. La venerandaSaffo

287

sero sentiti in taluni casi come sinonimi: si può solo dire che essi denotavano aspetti non identici del sacro o, qualora connotazioni testuali e altri elementi concomitanti lo suggeriscano, erano scaduti a puri epiteti esornativi. Ricerche semantiche di questi ultimi decenni, dallo studio di E. Williger8 sino ai recenti saggi di Rudbardt 9 , banno mostrato la sostanziale differenza di valore tra hagnos e hier6s 10• La ricchezza del vocabolario religioso, della quale poté peculiarmente disporre la lingua greca, esprimeva la varietà di significati e colorazioni che accompagnò presso i Greci l'idea del sacro; significati e colorazioni riflettenti non solo la natura ambivalente del sacro, ma anche l'evolversi dello spirito religioso dell'uomo greco da Omero al IV secolo. È ormai acquisito che hagnos designa uno degli aspetti tipici del sacro: la profonda reverenza o il religioso timore che esso ispira; in altri termini tutto ciò che in esso è inquietante e proibito per l'uomo e che rappresenta tabù. Lo documenta il suo uso da Omero ai tragici, con riferimento sia a divinità (Artemide, Atena, Persefone) sia a una festa religiosa sia a cose o luoghi sacri 11• Al contrario non chiaramente individuabile nella poesia arcaica l'altro senso di hagnos, di «ritualmente puro» 12, che è stato considerato dal Williger in poi uno sviluppo complementare del primo significato, cioè l'altro aspetto del sacro, la purezza, qualità propria degli dei per la loro estraneità ad ogni contatto umano 13• Qualche altra osservazione sarà necessaria se non altro per integrare e in qualche caso correggere quanto è stato finora detto sull'uso dell'epiteto nella lirica greca; non mi occuperò, s'intende, di quei luoghi di Bacchilide (Dith. 17, 8-10) e di Pindaro (Pyth. 1, 21) esaminati 8

Williger 1922. Rudhardt 1958, pp. 39 sgg. 10 Per \Ee(,ç,oltre alle eccellenti osservazioni del Wilamowitz 1959, pp. 21 sg., e di Pagliaro 1953, pp. 89-122, cfr. Wlilfing-von Martitz 1959 e 1960-61, che ha avuto il merito di reagire alla vecchia ipotesi di una doppia etimologia della parola e alle spiegazioni razionalistiche che attribuiscono a uno dei due significati («sacro» o «appartenente agli dèi» e «grande, forte») una priorità cronologica. Per Àuy,\. ÒWÀli;w come paroledel ritualercligiolo, vedi Deubner 1941 e Fraenk:el19.50,pp. 296 sgg. (ad vv. 594 sgg.). 10 La struttura si articola secondo lo schema di una reale cerimonia religiosa: canto di apertura (quello delle vergini), grido delle donne (Wl.oo6ov), canto degli uomini in onore di Apollo e poi degli sposi. D grido delle donne caratterizz.ava il momento r.nlminaot~ dell'intera cerimonia, l'inizio del sacrificio (cfr. Od. 3, 450, e Fraeokel 1950, loc. cit., il quale tuttavia cita Alceo ma omette Saffo). Qui il sacrificio è presupposto dal rapido accenno al fumo e al profumo della mirra, della cassia e dell'incenso. Per il grido rituale emeao quasi in coincidenza con l'attacco di un canto peanico un confronto indicativoè in Senofonte, Anab. 4, 3, 19. 31 Page 1955, p. 71. 32 Come nelle locuzioni 0Emtwui ~a e iixfi0Emtwqi (/I. 9, 2; 8, 159), cfr. L.SJ. s.v. 0E01t. 2. 33 Fr. 130b, 20 V.: qui il riferimento alla festa annuale dei concorsi di bellezza è pur. mente episodico; esso tocca il tema del carme - che verte sulla sventurata condizione dell'esiliato - solo in quanto il fatto rappresenta una pausa lieta alle pene dell'esilio. Non la sacrale solennità dell'evento è posta in primo piano, ma la presenza delle protagoniste, le belle donne di Lesbo, cbe sfilano avvolte nei luoghi pepli. D poeta si limita soltanto ad indicare la ritualità della cerimonia al suo culmine c-.onla menzione del grido rituale delle donne (cfr. p. 290). 34 Gli aggettivi «sacro», «meraviglioso», «festoso» sono tutti molto approssimativi e generici. Anche «solenne» non coglie il senso preciso dell'epiteto; «venerando» è il termine più appropriato, ma non altrettanto espressivo; meglio «areano»cui inizialmente sono connessi il senso del sacro e del religioso stupore, cfr. Battaglia1961, s.v. «arcano».

292

Poesia e pubblico nella Grecia antica

tazione; un'ipotesi che può giustificare altrettanto verisimilmente la presenza dello stesso epiteto per le Muse 35 • Resta infine da considerare l'uso di dgnos come attributo di Atena nel carme di Alceo 36 dove si narra il sacrilegio di Aiace Oileo che strappa Cassandra dalla statua di Atena. La dea, incollerita per l'oltraggio subito, scatena la tempesta che fa naufragare le navi degli Achei. Qui l' epiteto appare appropriato al ruolo di Atena e alla sua vendetta funesta. L'emozionalità del sacro si esplica oltre che nell'azione anche nell'aspetto esteriore della dea, nel livore del volto e nella terribilità dello sguardo (vv. 23-25) che incutono spavento. Il tracciato che abbiamo seguito, nell'analisi semantica di hagnos, consente ormai di cogliere il vero senso dell'apostrofe alcaica. Il verso è costruito con tre epiteti chiusi dal nome proprio (Sdpphoi) di clausola. Una struttura non certo casuale, come non casuale la scelta degli attributi. Forse l'ordine della sequenza dei tre aggettivi soggiace alla necessità metrica del dodecasillabo, ma potrebbe anche rispondere a un'intrinseca necessità espressiva: il terzo attributo deve proprio collocarsi nella sede che occupa come necessario complemento del secondo; anche i due bisillabi dgna - Sdpphoi occupano rispettivamente posizioni di rilievo nelle sedi più sensibili del verso. La necessità metrica s'identifica in questo caso con una necessità semantica. Di qui alcuni fatti morfologici e fonetici che appaiono «abnormi» 37 alla luce della lingua lesbica, ma che non sono tali se osservati nell'ambito della maggiore convenzionalità del linguaggio alcaico rispetto a quello saffico. Analizzati nei loro elementi costitutivi il primo (ioplok') e il terzo epiteto (mellichomeide) hanno in comune un valore allusivo e la provenienza dalla sfera del sacro. «Dolceridente» è un composto alcaico, non altrove attestato, che associa il secondo elemento dell'epiteto omerico di Afrodite (philommeidés)38 a un parola tipicamente saffica del linguaggio amoroso 39 • «Crine di viola» (o «dalla corona di viola»), con la sua simbologia floreale di schietto tipo afroditico 40 , ricalca anch'esso un analogo composto saffico 35

Simon. fr. 577b P. (cfr. nota 18); Aristoph. Ran. 875 sg.; Crat Theb. fr. 1, 10 D. 3 ; Orph. hymn. 16, 10 e 11 (ed. Quandt 2). 36 Fr. 298, 17 V. ciyvaç Ilallaooç. 37 La forma metaplastica µùl.LXoµEI&in luogo di µùl.LxL in luogo della originaria non dissimilata 'l'wtq>OL.Oltre Treu 1963a, pp. 150 sg., vedi la nota in Gentili 1965b, pp. 224 sg. 38 Il. 3, 424; Od. 8, 362. 39 Méllichos come attribuito degli occhi della sposa (fr. 112, 4 V.), della voce (frr. 71, 6; 185 V.), del soffio del vento (fr. 2, 11 V.) in un luogo sacro ad Afrodite: cfr. Lanata 1966, pp. 68 sg. "°Una esauriente documentazione in Gentili 1958a, pp. 184 sgg.; cfr. Lanata 1966, p.

Xlii. La veneranda Saffo

(i6kolpos) attributo di una dea41 o di una sposa (fr. 30,

293

5 V.). Il primo e

il terzo attributo, dunque, appaiono come i necessari complementi del secondo in quanto delimitano la nozione del sacro alla sfera cultuale di Afrodite o meglio qualificano come afroditica la sacralità espressa da dgna.

Quale allora il senso dell'intera apostrofe strutturata con tre epiteti religiosi, e in particolare quale il senso di dgna come attributo di persona, uso non attestato prima del V secolo? Si potrà ancora credere che questo, almeno apparentemente, affettuoso saluto di un poeta contemporaneo abbia voluto significare un omaggio alla irrepetibile grandezza della poesia di Saffo. Ma se ci atteniamo al senso reale del contesto alcaico, il saluto si configura come un reverente omaggio alla dignità sacrale della poetessa quale ministra d'Afrodite e alla grazia amorosa che questa le conferiva. 69. Da ricordare inoltre l'equivalente iostéphanos come attributo di Afrodite in Hom. hymn. Ven. 18 e in Solone, fr. 11, 4 Gent-Pr. 41 Frr. 21, 13 V.; 103, 3 V.: Ebe (Lobel. Gallavotti) o Afrodite (freu 1976, p. 169).

Appendici

AppendiceI

L'artedella filologia

Filologia ... è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsida parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un'arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo fatto è oggi pià necessaria che mai; è proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un'epoca del «lavoro», intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol «sbrigare» immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo; per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita ed occhi delicati ...

F. NIB'l"ZSOIE, Aurora. Pensieri su pregi,u;liz.imorali [trad. F. Masini]

«Filologia» in senso specialistico suole designare quella «disciplina che, mediante la critica testuale, si propone di riprodurre o ricostruire e interpretare correttamente testi o documenti letterari» 1• Una diversa accezione è quella di «dottrina che studia l'origine e la struttura di una lingua»2• Questo secondo uso della parola appartiene alla tradizione culturale inglese: philology è soprattutto la scienza del linguaggio, mentre scholarship è il termine che indica in generale l'attività pertinente alle discipline che si designano come filologiche 3 • Ma, in senso lato, essa è stata anche intesa come studio di una civiltà in tutte le manifestazioni della sua vita culturale. Uno dei maggiori rappresentanti della filologia classica tedesca, U. von Wilamowitz, cosl definisce il campo e gli scopi della sua attività di filologo: 1

Battaglia 1968, s.v. Cfr. Pfeiffer 1968, p. 3 [trad. it., p. 43): «La filologia è l'arte di comprendere, spiegare e ricostruire la tradizione letteraria». 2 Battaglia 1968, ibid. 3 Fowler-Fowler 1964, s.v.

298

Appendice I

La filologia che tuttora si definisce classica. benché non rivendichi più il primato implicito in questa designazione, è determinata dal suo oggetto: la civiltà greco-romana nella sua essenza e in tutte le espressioni della sua vita. Questa civiltà è un'unità, anche se non può essere nettamente delimitata all'inizio e alla fine. Il compito della filologia è di far rivivere con la forza della scienza quella vita scomparsa, il canto del poeta, il pensiero del filosofo e del legislatore, la santità del tempio e i sentimenti dei credenti e dei non credenti, le molteplici attività sul mercato e nel porto, in terra e sul mare, gli uomini intenti al lavoro e al gioco ... Poiché la vita che noi ci sforziamo di comprendere è un'unità, anche la nostra scienza è un'unità. L'esistenza di discipline distinte come la filologia, l'archeologia, la storia antica, l'epigrafia, la numismatica, ora anche la papirologia, è giustificata soltanto dai limiti delle capacità umane e non deve soffocare, neppure nello specialista. la coscienza dell'insieme"'.

Promuovendo la filologia a «scienza storico-filologica onnicomprensiva», il Wilamowitz intendeva far uscire lo studio del mondo greco-romano da un aristocratico isolamento, per immetterlo nelle correnti più vive della storia della cultura. Un'operazione che, nel momento in cui identificava la filologia con la storia della cultura, finiva con l'obliterare il carattere specifico della disciplina, creandole indubbi problematismi esistenziali. I confini e i compiti della filologia erano già stati oggetto di ampie e approfondite polemiche nella cultura tedesca dell'Ottocento, tra l'indirizzo della filologia formale in senso stretto di G. Hermann e l'indirizzo filologico-storico di A. Boeckh, che individuava il compito della filologia nella ricostruzione della vita dell'antichità classica attraverso la conoscenza e la comprensione delle sue concrete manifestazioni. Nel solco della tradizione storico-filologica si collocò da noi Pasquali, che intese la filologia essenzialmente come disciplina storica; tuttavia egli rifiutava la definizione di scienza, riservandola soltanto alle scienze esatte ed alle scienze della natura, e rivendicava acutamente alla forza dell'intuizione e dell'immaginazione una delle funzioni preminenti nell'attività del filologo. Cosl egli scrive: La filologia non è né scienza esatta né scienza della natura, ma, essenzialmente se non unicamente, disciplina storica: questo sa qualunque filologo serio abbia riflettuto un poco sul proprio mestiere. E qualunque filologo non sia perfettamente ignaro dei metodi delle altre discipline, perfettamente privo di cultura generale, perfettamente incapace di pensare chiaramente, sa benissimo che non solo negli studi delle antichità classiche ma, e più ancora, nelle altre discipline le verità più importanti sono state, prima che dimostrate, intuite fantasticamente; sa 4

Wilamowitz 1927b, p. 1 [trad. it., p. 19).

L'artt! dt!llafilologia

299

che segnatamente le matematiche esigono dai loro cultori una forza d'immaginazione ben maggiore che non la filologia, dalla quale, secondo taluno, filologi scientifici in ossequio alla scienza vorrebbero sbandita la fantasia. Senza la fantasia non ci si può raffigurare solidi, nonché di n dimensioni, di tre; senza fantasia non si può intendere il più semplice teorema stereometrico5.

Una impostazione sostanzialmente corretta del problema dibattuto tra queste due opposte tendenze e ancor oggi attuale per la teoria della critica è, a nostro avviso, nella distinzione teorizzata nel 1882 da H. Usener che delimitò i due campi specifici della ricerca, riservando alla filologia la critica e la ricostruzione del testo e all'indagine storica l'interpretazione globale del mondo antico6 • Nella cultura greca e romana l'attività corrispondente a quella del moderno filologo era, come è noto, la grammatica, che comprendeva nel suo ambito anche la critica e l'edizione dei testi, un'attività che, secondo la terminologia in uso oggi, è filologica in senso stretto. Il dibattito moderno, cui accennavamo, sulla natura, la funzione e i confini della filologia ripete nei suoi termini essenziali le discussioni degli antichi riguardo alla definizione della grammatica:se la scuola cratetea separava decisamente la grammatica dalla critica letteraria e storica, subordinando la prima alla seconda, Dionisio Trace e più tardi, sulle sue orme, Asclepiade di Mirlea (I secolo a.C.) preferivano includere nella grammatica anche il momento dell'interpretazione globale, definita «grande grammatica» distinta dalla «piccola»7 , il secondo individuando nell'ambito della grammatica due diversi momenti, da lui designati rispettivamente come «tecnica» e come «storica»8• Ma sul terreno specifico dell'ecdotica (per usare la comoda denominazione di dom Quentin)9 l'attività dei filologi alessandrini aveva già raggiunto un alto grado di consapevolezza teorica e tecnica, sia sul piano della critica testuale sia su quello dell'esegesi linguistica e dell'inPasquali 1964, p. 50. Non è un caso che a distanza di molti anni le riflessioni del Pasquali abbiano trovato molteplici conferme nelle considerazioni di matematici e fisici. Pur operandoin ambiti diversi, sempre più spesso letteratura e scienza si incontrano e convergono sul piano immaginativo. Per il matematico Michele Emmer (1991), ad esempio, creatività matematica e artistica coincidono, perché entrambe 'inventano' qualcosa dal nulla, ovvero scoprono qualcosa che è 'altrove', in un altro livello di realtà. 6 Usener 1907, pp. 1-35: queste pagine, che contengono il testo (con aggiunte e modifiche) di una conferenza tenuta dall'Usener a Bonn nell'ottobre del 1882, sono state ripubblicate in occasione del V Congresso Internazionale della PIEC (Bonn, 1-6 settembre 1969) da Wolfgang Schmid 1969, pp. 13-36. 1 Ara gramm. 1 p. 5 Uhlig; cfr. Schol. Dionys. Thr. p. 114, 28 Hilg. 8 ScxL Emp. Adv. ma1h. l, 252-253. 9 Quentin 1926. 5

Appendice I

300

terpretazione critica. La metodologia di Aristarco di Samotracia, uno dei maggiori filologi alessandrini, aveva già avvertito, nell'ambito dell'esegesi omerica, l'esigenza di interpretare Omero con Omero 10, alla luce del contesto sociale e del costume dell'età eroica che il poeta descnve. In realtà ancor oggi il discorso sulla filologia ha il suo punto nodale nella divisione o meno delle competenze tra filologia e critica letteraria in senso lato. A giudicare dal concreto atteggiarsi della ricerca, sussiste un'indubbia divergenza tra gli studiosi nel modo di intendere il rapporto tra i due campi operativi. Da una parte l'ecdotica, superando i procedimenti fissati nella prima metà del secolo scorso dal Lachmann 11, è diventata una tecnica di tipo scientifico fondata su basi statistico-matematiche12, dall'altra si tende a postulare una stretta interdipendenza tra il momento specifico della ricostruzione del testo ed un'interpretazione globale che recepisca le istanze e gli strumenti epistemologici delle moderne scienze umane, dalla semiotica ali' antropologia culturale 13. Cosi la distinzione tra i due momenti dell'indagine, esplicitamente teorizzata da Bense 14, non esclude in alcun modo uno stretto rapporto di interdipendenza. Egli distingue tra il concetto di testo e quello di letteratura. Il primo può essere descritto in termini statistici e strutturali, la letteratura in termini di logica e di fenomenologia del testo. In ultima analisi le quat-

°

1

Cfr. Romer 1924, pp. 16; 179-81 e da ultimo N.G. Wilson, 1971, p. 172. La tendenza a limitare la portata metodologica dell'esperienza di Aristarco nei confronti del suo maestro Aristofane sembra confermata dal lavoro esegetico da lui svolto sul testo di altri autori come mostrano, ad esempio, i suoi interventi critici sugli epinici di Pindaro: rinvio alle mie osservazioni in Pindaro. Le Pitiche, Milano 1995; diversamente Grube 1965, pp. 129

sgg. 11

Sul metodo del Lacbmann si veda Timpanaro 1981. In questo ambito teorico si collocano il tentativo compiuto da Froger 1968, di tradurre nel linguaggio della teoria degli insiemi e dei grafi la critica testuale, e la proposta di A valle 1978 di «traslitterare la terminologia corrente in sistemi di segni più formalizzati» (p. vm), una proposta che, secondo l'autore, avrebbe il vantaggio di eliminare «gli ostacoli che una tenninologia sostanzialmente antropomorfica come quella tradizionale frappone di fatto alla soluzione di taluni problemi rimasti insoluti (o quasi), quali ad esempio quello della contaminazione» (p. vm). Sul valore di questi strumenti d'indagine mutuati dalla teoria delle funzioni, rinvio alle osservazioni di Segre 1979, p. 56: «Si ha l'impressione che il ricorso alla teoria delle funzioni non porti un vantaggio considerevole alla comprensione dei meccanismi della tradizione testuale, ma soltanto alla loro rappresentazione e schematizzazione». Sui problemi della contaminazinne, della selezione e dcli' utilizzazione delle varianti, si vedano da ultimi Froger 1979 e Irigoin 1979; cfr. Irigoin 1978. 13 Si veda ad esempio Segre 1979. Sull'applicazione di questi strumenti critici allo studio del mondo antico, con particolare riguardo alla cultura greca arcaica,cfr. Gentili 1969a e Calarne 1971. 14 Cfr. Bense 1960 e Bense 1971. 12

L •arte della filologia

301

tro prospettive proposte dal Dense, statistica, logica. fenomenologica ed estetica. pur nella loro autonomia di momenti successivi dell'indagine, combinate insieme concorrono alla comprensione totale del testo nel suo rapporto di mondo interno e di mondo esterno. Il testo è una struttura complessa di materiali linguistici, di implicazioni metrico-ritmiche, referenziali e pragmatiche. Una pluralità di discipline è perciò coinvolta nel processo interpretativo e, dunque, già nel momento della ricostruzione del testo. La critica testuale ha certo sue nonne metodiche, per quanto attiene all'analisi sistematica della tradizione; ma queste regole vanno integrate ad ogni livello con l'interpretazione, rispetto alla quale non possono essere considerate come limiti invalicabili, quando la strategia dei significati, quale emerge dal contesto e dalle situazioni extratestuali note al lettore filologo, richiede una precisa scelta tra lezioni alternative. Quanto alla considerazione statistica delle unità significanti, cioè del numerò delle loro ricorrenze, è da rilevare che essa ha certo il suo interesse e assolve la sua funzione critica. se tiene conto anche dei termini rari o unici, che sono anch'essi unità significanti nel sistema generale di relazioni di una struttura linguistica. La operazione quantitativa. in sostanza. definisce la densità o la portata di informazione di un messaggio, ma non la sua specificità qualitativa. Tanto più indispensabile è la funzione dell'ermeneutica nel caso delle cosiddette varianti equipollenti, per le quali è insoddisfacente la proposta metodica di Frankel 15, che suggerisce di «scegliere schematicamente sulla base della qualità dei testimoni, ovvero del tutto arbitrariamente», dal momento che le lezioni alternative, appunto perché equipollenti, sarebbero intercambiabili. Una formulazione «troppo oggettiva e quindi inesatta», come è stato osservato 16, e che offre il fianco a due obiezioni di diverso ordine. La prima riconduce alla distinzione tra codici migliori e codici deteriori: tutti oggi convengono nel riconoscere che non esistono codici buoni in assoluto, cioè esenti da errori; anche codici scorretti possono contenere lezioni buone. La seconda obiezione riguarda il discorso stesso dell'equipollenza tra varianti, che in alcuni casi è superabile attraverso una comprensione totale del testo. Vorrei qui esemplificare questo concetto con un frammento di Anacreonte (81 Gent.), di tradizione indiretta. tramandato da due testimoni tardi, dall'Etynwlogicum Magnum (714, 38) e dall'Orthographia di Gio-

15 16

Frlnkel 1964, p. 141 n. 1 [trad. it., p. 40 n. I]. Waszinlt 1975, p. 23 n. 29.

302

Appendice I

vanni Charax, grammatico del VI secolo d.C. 17• Le due citazioni discordano nella parola iniziale del frammento. Nell' Etymologicum si legge:

8QriCx(TfY ol.ovta xa(tTJV nell' Orthographia di Charax:

Le due lezioni danno entrambe un senso soddisfacente, poiché sono altrettanto plausibili le espressioni «scuotendo la chioma trace», nell'ipotesi che si parli di un ragazzo della Tracia, come era appunto Smerdis, uno dei ragazzi cantati dal poeta, e «scuotendo la chioma in fiore». Anche sul piano metrico le due lezioni sono entrambe valide: con OOQI.XllV il verso ha la struttura di un dimetro trocaico; con 8QTiCxurvtetrasillabico quella di coriambo e reiziano, una figura metrica ben documentata in Anacreonte 19 • Se poi intendiamo la parola come trisillabica, il che è altrettanto possibile, l'espressione, come nel caso della lezione OOQLX'lV, assume la forma del dimetro trocaico. Il criterio cui si sono ispirati gli editori, che hanno concordemente scelto 8Qnx(TJV,è stato quello paleografico: ÒQLX'lV, come è scritto erroneamente nel codice Hauniensis 1965 di Charax, sarebbe ovvia corruzione di 8Qnx&Jv. Al contrario l'Egeno1ff20 riteneva che fosse stato l'originario COQI.XllV ad alterarsi in ÒQLX'lV e, quindi, in 8QTJX(TfY.In realtà il discorso deve porsi sul terreno più solido della contestualità che, in questo caso, trattandosi di un frammento, è costituita dal complesso delle testimonianze sull'intera opera poetica di Anacreonte, nonché dagli indizi reperibili nelle tarde imitazioni, le Anacreontiche. Proprio nel macrocontesto della nostra informazione si recuperano alcuni elementi determinanti ai fini della scelta testuale. Il primo, che è uno dei temi ricorrenti nella poesia di Anacreonte, fu l'elogio della bellezza e della florida giovinezza di Batillo e il termine che la definiva doveva essere appunto la 1• Il secondo elemento parola OOQ«, come si evince da Massimo di Tir2 17

Cfr. Egenolff 1900, p. 618. 'OQ~K~ cod.: corr. Egenolff. Quanto a o/.ovta, se si tratti proprio di un participio presente ol.ovta -oEl.ovta,come attestano i due testimoni che citano il verso, o di un participio aoristo sTonta come è stato inteso dall'Ahrens in poi, cfr. Gentili 1958c, p. 157. 19 Frr. 60 str. 1; 111 Gent. 20 Egenolff 1900. 21 18, 9 p. 233 Hob. = fr. 148 adn. Gent.; qui è detto che la poesia di Anacreonte è «piena della florida giovinezza di Batillo» (Ba0uU ..ou ilieaç). È molto probabile che WQ(o aùtq>)dello scolio sopra citato, ritengo molto meno probabile l'altra possibile interpretazione, che ci~ Cineto, avendo messo per iscritto l'inno ad Apollo, lo abbia attribuito ad Omero (in questo caso aùtq>):cfr. Wade-Gery 1952, pp. 21 sgg., e, da ultimo, le plausibili argomentazioni di De Martino 1983 e Aloni 1989. 31 32

AppendiceI

306

ceo e di Tirteo in ambiente attico. Una strofa di Alceo (fr. 249 V.), che ora possiamo leggere nella sua redazione linguistica originaria grazie alla scoperta di un papiro, è trasmessa da Ateneo (15, 695a) come carme conviviale anonimo in una veste linguistica ionico-attica. Negli stessi termini si pone la ionizzazione delle elegie di Tirteo. Si è soliti considerarla derivata non direttamente dall'epica, ma dal dialetto ionico. Ma ciò che in questa teoria non trova una spiegazione soddisfacente è la presene il comparativo µa:za di due sicuri dQrismi, quali il futuro C1À.OLT)(JEUµEV À.LOV(= µéillov), e dell'accusativo in -aç breve dei temi in -a. In realtà la communis opinio della lingua ionica come lingua tradizionale dell'elegia è nett,amente smentita dalla lingua delle iscrizioni elegiache della Grecia non ionica, che sono normalmente redatte nel dialetto epicorico. Come postulare allora per la poesia destinata al canto e, nel caso specifico di Tirteo, rivolta ai soldati per stimolarne la virtù guerriera, l'uso di una lingua che non trova riscontro nei documenti scritti? Una risposta a questo delicato problema è suggerita da quelle iscrizioni che noi conosciamo sia nella redazione originale della pietra sia attraverso la tradizione letteraria. L'esempio più significativo è l'iscrizione per i morti corinzi a Salamina (7 Peek = 7 Pfohl), nella quale allo ionico-attico della citazione plutarchea (De Herodt. malign. 870e) corrisponde il dorico della pietra. L'unica forma non ionico-attica, che si è conservata nel testo di Plutarco, è l'accusativo plurale IIÉQO«çcon o.ç breve, evidentemente perché non fosse compromesso il metro. Ad un analogo trattamento è stato certo sottoposto il testo di Tirteo nel momento della sua maggiore diffusione nell'Atene del V e del IV secolo. Le forme non ioniche sopra menzionate non avrebbero potuto essere ionizzate senza pregiudicare il metro 34 • Il fenomeno fu ben compreso dagli editori alessandrini, i quali, nei limiti delle loro possibilità, cercarono di ristabilire le forme linguistiche originarie nell'opera di poeti come Alcmane, Stesicoro, Saffo, Alceo ecc. Ma in molti casi, quando non abbiamo il sussidio di una sufficiente documentazione epigrafica, non sappiamo fino a che punto essi, in questa opera di restauro, si siano attenuti effettivamente alle forme antiche dei diversi dialetti e non a quelle del loro tempo. La nozione di «diasistema», che Segre 35 ha mutuato dalla linguistica, applicandola alla realtà della tradizione del testo, è lo strumento concettuale più idoneo per comprendere il complesso dei fenomeni che ho illu-

34

35

Per una più ampia discussione cfr. Parte I, cap. 3, pp. 45 sg. Segre 1979, pp. 58 sgg.

L'arte della filologia

307

strato. Il tennine «diasistema», nella dialettologia di Weinreich 36, designa il sistema di compromesso tra due sistemi linguistici in contatto oppure il supersistema al quale possono riferirsi due sistemi affini. Trasferito nell'ambito della critica del testo, esso può applicarsi sia al colorito linguistico sia, più in generale, al sistema di varianti che caratterizzano il singolo testimonio di un'opera in quanto espressione diretta della cultura e del gusto del proprio tempo. Per definire la duplice dimensione di questa prospettiva diasistematica, il Segre distingue tra diasistema linguistico e diasistema stilistico. Ma in realtà, per ciò che concerne il diasistema, che egli assume come «stilistico», è da osservare che il sistema di varianti non puramente dialettologiche, caratteristiche di un determinato testimonio, non investe il solo livello stilistico, ma costituisce talora una vera e propria rielaborazione del testo in funzione di un preciso ambiente, condizionato da esigenze di vario ordine, non ultime quelle dell'uditorio. Una convincente dimostrazione di questo asserto si può ravvisare tra l'altro proprio nel riuso di testi epici e lirici nella tradizione rapsodica e conviviale della Grecia antica. L'Iliade trasmessa dai codici medievali è il risultato di un lungo processo di rielaborazione e di normalizzazione, anche sul piano· della struttura metrica dell'esametro, a partire dalla più antica citarodia aedica di Demodoco e Femio sino all'età ellenistica. Si pensi all'esordio dell'Antica Iliade ('AQX«Ca1Àuiç), di cui ci parla Aristosseno (fr. 91, I Wehrli), che ha una struttura semantica e metrica assolutamente diversa dall'esordio presentato dalla nostra edizione dell'Iliade. Senza poi considerare ancora altre varianti, come quella menzionata dai grammatici Cratete (Il secolo a.C.) e Nicanore (Il secolo d.C.) 37 • Il concetto di diasistema ha un'indubbia funzione chiarificatrice nella dibattuta polemica fra neolachmanniani e bédieriani, eliminando alcune certezze dogmatiche connesse con il postulato della ricostruzione meccanica del testo e dell'edizione critica concepita come risultato assoluto e definitivo. È ormai universalmente riconosciuto che sono molto rare le recensioni meccaniche e che, quindi, la ricostruzione dell'archetipo è un'operazione sempre problematica e non sempre legittima. In questi ultimi decenni la prospettiva innovatrice di Giorgio Pasquali ha riscosso sempre maggiori consensi, sino alle posizioni radicali, anche se talora discutibili, dell'ultimo editore di Sofocle, Dawe 38 • S'intende che il concetWeinreich1963. Cfr. Giannini 1977, p. 45. Dawe 1964, particolarmente il cap. VI sul concetto di archetipo; Dawe 1973, soprattutto il cap. I sullo stemma codicum;per una valutazione critica della tesi del Dawe, cfr. lrigoin 1966; lrigoin 1977; lrigoin 1980. Questa nuova edizione si distingue comunque per 36

37 38

308

Appendice I

to di diasistema va commisurato alle diverse forme che la tradizione testuale assume in rapporto alle varie epoche, ai vari sistemi letterari ed anche al carattere specifico di ogni opera. Sul piano di una fenomenologia del testo in cui interferisca il momento dell'oralità, meritano di essere segnalate alcune importanti analogie tra la prima fase della trasmissione della poesia greca arcaica e la tradizione della poesia estemporanea dotta del Settecento italiano, un fenomeno della nostra storia culturale, oggi pressoché ignorato, ma che tuttavia dovrebbe essere tenuto presente, se non altro a scopo comparativo, dagli studiosi del mondo antico, come lo fu tra la fine del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento 39 • Alcuni testi ci sono pervenuti attraverso le trascrizioni di scribi e stenografi, che operavano talvolta all'insaputa dell'improvvisatore stesso. Le trascrizioni non erano rivedute dall'autore. Le poche edizioni a stampa furono curate da amici e ammiratori. Quando in una nuova performance il poeta era invitato dal pubblico a ricantare un argomento già trattato in una precedente esecuzione, lo ripresentava in una versione completamente diversa anche sotto il profilo delle strutture metriche. Dunque un nuovo canto che solo nella traccia tematica ripeteva quello precedente, proprio alla maniera dei bardi improvvisatori jugoslavi di cui parla il Lord nella sua indagine comparativa sull'epica orale antica e moderna 40 • Le trascrizioni di uno stesso canto, eseguite da più scribi, portano, a prescindere da ovvi errori di appercezione, varianti lessicali, fonologiche e ortografiche, di cui non è facile precisare la paternità, ma che comunque sono da imputare agli scribi o al primo editore: così, ad esempio, dell'Adamo piangente del Perfetti abbiamo tre manoscritti redatti da tre mani diverse, conservati nella Biblioteca Comunale di Siena, la città natale del poeta. Ma l'edizione a stampa, curata da Domenico Cianfogni l'anno dopo la morte del Perfetti 41 , porta anch'essa varianti rispetto ai manoscritti, che in taluni casi appaiono concordi contro il Cianfogni 42 • Senza volere in questa sede entrare nel complicato problema dell'eziologia delle singole varianti e dei loro sistemi, è evidente che il futuro editore critico di questi testi d'improvvisazione non potrà non attenersi al criterio bédieriano, ponendo su un piano di parità sia i tre manoscritti sia l'edizione a stampa, nonostante che il Cianfogni nella prefala corretta disposizionecolometrica delle parti liriche e l'intelligenteanalisi dei metri di Sofocle. 39 Cfr. Parte I, cap. 1, p. 31. "°Lord 1960. 41 Cianfogni 1748, pp. 84 sgg. 42 Cfr. Gentili 1980, p. 37 n. 42.

L •arte della filologia

309

zione affermi che egli ha pubblicato le poesie del Perfetti con maggior fedeltà rispetto ad altre trascrizioni, a suo giudizio meno scrupolose. La conclusione che scaturisce da questa analisi è che, nell'ambito della teoria della critica del testo, è ancora da scrivere il capitolo sull'ecdotica del testo orale. In questo campo specifico, bisogna ammettere con franchezza che medievisti e folcloristi hanno finora mostrato maggiore sensibilità rispetto ai filologi classici. Ma per la formulazione di una compiuta teoria sarebbe indispensabile procedere ad una tipologia dei testi orali i cui criteri guida riguardino i modi dell'oralità che può o no investire il momento stesso della composizione e la distinzione tra i due livelli del colto e del popolare. Su questi due assi di modellizzazione la poesia del Settecento, cui sopra si è accennato, si definisce ad un tempo come dotta ed estemporanea, un esempio pressoché unico nella casistica offerta dalle ricerche letterarie ed antropologiche. L'edizione aperta non è però una prospettiva che interessi soltanto testi che abbiano attraversato una fase di oralità. In forme certo diverse, essa dovrebbe costituire l'obiettivo privilegiato della critica testuale in generale. Non intendo naturalmente riproporre le posizioni del Bédier, valide nel loro neutralismo solo per casi determinati. Ma edizione aperta nel senso di un'edizione che, attraverso un ampio repertorio del materiale documentario e critico, orienti il lettore sugli aspetti problematici del testo e sulle loro possibili soluzioni e interpretazioni. Nel senso altresì di un'edizione che renda conto dei diasistemi antichi e moderni, cioè delle diverse maniere di recepire il testo nel tempo e nello spazio. La scelta dell'editore deve sempre proporsi dialetticamente, ponendo il destinatario nelle condizioni di una lettura attiva e non passiva. Poiché l'edizione critica è per sua natura provvisoria, mai definitiva. Il suo carattere di operazione scientifica non la pone mai al di fuori della storia. Il lettore filologo deve penetrare nelle strutture del testo, per individuarne i significati, attraverso un'interpretazione plurima che investa i tre livelli sintattico, semantico, pragmatico (destinatario). Una prospettiva polivalente che istituisca uno stretto rapporto di interazione tra analisi formale ed analisi socio-antropologica, nell'intento di recuperare per quanto è possibile il codice, cioè il sistema di idee e di convenzioni cui il testo è correlato. In questa tensione interpretativa non si deve d'altra parte smarrire la consapevolezza che rimane sempre un margine di arbitrarietà, costituito dall'interferenza inconscia del nostro codice contemporaneo, un margine che può crescere artificiosamente per l' applicazione dogmatica di schemi ideologici aprioristici. Poiché sottile è il confine che separa l'ermeneutica da quella che è stata definita «cooperazione in-

310

Appendice I

terpretativa» 43 • Un approccio quest'ultimo che è certo legittimo nel riuso del testo a scopi personali o documentari, ma che non si pone certo sul piano di un recupero della storicità dell'opera. Nella complessa trama di mediazioni diasistematiche, il lavoro del filologo accomuna in sé tre momenti operativi strettamente connessi, quello tecnico della recensio, quello dell'interpretazione come ricostruzione storica globale, quello infine dell'arte del saper leggere, nella quale Friedrich Nietzsche vide il tratto connotante della filologia 44 •

43

Cfr. Eco 1979, p. 178. F. Nietzsche, Morgenrothe, Vorredc V, in Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari V/1, Berlin-New York 1971, p. 9 [trad. it., Aurora. Pensieri su pregiudizi morali, Milano 19782 , pp. 8 sg.]. 44

Appendice II

La traduzione dai lirici Alcune osservazioni sul problema del tradurre

Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenz.e dal presente e tuttavia cosi vivo che esso sia presente a noi come il presente. T.S. F.uor, Il bosco sacro

L'orizzonte della critica sui lirici greci ha mutato in questi ultimi decenni le sue prospettive. Sarebbe difficile dire che cosa è rimasto dei miti e dei luoghi comuni della vecchia critica idealistica e delle sue estreme frange estetizzanti. La critica del gusto, che proprio in questo settore della cultura classica ha esercitato almeno in Italia il suo potere per oltre un trentennio, è rapidamente declinata negli anni dell'immediato dopoguerra, anche se alcune sue ramificazioni più o meno evidenti sono ancora operative soprattutto sul versante della traduzione 'letteraria' dei lirici 1 • Permane il vecchio e sempre attuale conflitto fra la concezione tradizionale della traduzione letterale, ostinatamente fedele al lessico, alla grammatica e alla sintassi, e l'idea di una fedeltà globale, ma intuitiva, ai contenuti del testo. A prescindere da ogni considerazione su quali possano essere le risposte, le soluzioni, le convergenze dell'insolubile antinomia fedeltà-libertà, un dato certo è che persiste, anche inconsapevolmente, per alcune ancora vive vocazioni verso quella critica del gusto e in generale verso quel gusto del lirismo novecentesco che ha dominato la cultura italiana tra il 1920 e il 1940, la tendenza a ricondurre il testo originale al gusto del lettore e non viceversa a guidare il lettore verso il testo originale. Un'operazione questa che annulla le categorie del tempo e dello spazio in vista di una contemporaneità falsa ed artificiale. l Lirici greci di Salvatore Quasimodo e il Pindaro (Firenze 1956) di Leone Traverso sono le prove più rappresentative di un'esperienza lette1 Si vedano le traduzioni di Pontani 1969; Pontani 1976 e le sue osservazioni sul problema del tradurre in Pontani 1981.

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Appendice Il

raria intesa come problema d'immagini, d'invenzione linguistica, di ricerca di stile. L'esperienza che noi riviviamo alla lettura della traduzione di Quasimodo è l'esperienza individuale del traduttore-poeta con la sua poetica del frammento, dell'immagine e dell'espressione irrepetibili condensate in pochi versi «superstiti», dunque un recupero, come notò Luciano Anceschi nel presentare la terza edizione dei Lirici (Milano 1951), «aspro e intenso che solo era congeniale alla sua indole, alla sua origine, alla memoria stessa remota della sua terra immobile e viva» (p. 21). Poiché l'esercizio del tradurre si esplica non in nome della comunicazione o della comunicabilità, ma su e nei confronti della propria lingua per un riscatto tutto nuovo e autentico del senso linguistico tradizionale. Si potrebbe dire che la vera «fedeltà» di Quasimodo traduttore è nella libertà del movimento linguistico e ritmico e conseguentemente nello scarso valore che rimane al senso nel rapporto originale-traduzione. Un tentativo tenace e continuo di forzare i limiti della propria lingua. Il tradurre diviene cosl un momento essenziale del poetare2 • Nella trama letteraria che sottende le traduzioni di Leone Traverso s'inserisce una nuova esperienza formatasi nella consuetudine delle letture dei romantici tedeschi, di Holderlin in particolar modo, traduttore di Pindaro e di Sofocle. È noto che le traduzioni di Holderlin sono «esempi mostruosi»3 di fedeltà alla lettera dell'originale, una strenua fedeltà alla sintassi tale da sconvolgere la riproduzione del senso e rendere difficilmente comunicabili e intellegibili i contenuti. Un calco poetico di straordinario potere che ha ampliato le possibilità espressive della lingua tedesca e creato un modello unico e inimitabile di traduzione. Con que2

Cfr. Quasirnodo 1967, p. 92: «Per ritornare ai miei Urici greci, è stato scritto con insistenza che essi mi erano serviti di lezione per chiarire il mio ermetismo; ma ... non potevano i poeti greci con la loro sintassi e il loro stile ... mutare il mio linguaggio. È vero invece il contrario. lo ho dato a Saffo ad Alceo a lbico a Erinna il mio linguaggio - come Pindemonte e Monti avevano dato il loro ad Omero. Se Tasso avesse tradotto i Urici greci avrebbe riflesso su Saffo lo «stile» dell'Aminta o della Gerusalemme». Il Leonida di Taranto (Milano 1968) è un'ulteriore e ultima conferma dell'avventura personale e psicologica di Quasimodo poeta-traduttore dei greci. Un• avventura autobiografica nella quale Leonida «è in qualche modo l'immagine classica del poeta Quasimodo secondo lo schema lontano degli anni Quaranta quando fece il suo incontro ... con i lirici greci» (Bo 1968). Ma il Leonida di Quasimodo, delle sue pagine critiche e delle sue traduzioni (che superano l'originale), è solo un'eco lontana del vero Leonida, è una sua propria riscoperta poetica tentata sul tenue filo di un'identica vocazione alla libertà dell'esilio e alla «volontaria ricerca della morte». La presenza poetica che le sue traduzioni evocano non è quella del poeta antico con il suo linguaggio di maniera, decorato di arcaismi e neologismi, ma la presenza stessa del poeta-traduttore con la sua voce autentica e monocorde. Basti un esempio: I' «Anacreonte», un esemplare dei ritratti dei poeti, sbiadito e convenzionale, diviene, quasi inavvertitamente, nel linguaggio quasimodiano l'immagine viva, appena velata d'ironia, del desolato declino del vecchio poeta. 3 Li ha così definiti Benjamin 1955, p. 50 [trad. it., p. 46).

La traduzione dai lirici

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sto metodo ha operato il Traverso, tentando di reinventare linguisticamente l'originale con molto maggiore rispetto per gli usi della lingua greca che per lo spirito della propria lingua. Ma questa osservanza fedele alla sintassi e alla parola, e persino ali' ordine stesso delle parole in sequenze ritmiche espressive, sconfina talvolta in un ermetismo di scrittura che rende inintellegibile il senso e in un preziosismo linguistico che tradisce l'impegno della trasparenza, anche se il calco raggiunge in qualche caso la fedeltà auspicata. È lecito chiedersi se queste traduzioni, pur nella loro autonomia poetica e letteraria, ripropongano la totalità umana e artistica dei lirici greci, e se nella loro fedeltà emotiva diano davvero l'idea della distanza temporale che ci separa da essi. La risposta, s'intende, dovrà eludere il problema teorico, e in un certo senso ozioso, della traducibilità o intraducibilità in assoluto 4 , e investire sul piano prammatico il problema della tra- . ducibilità. In concreto, entro quali limiti e in quale modo sono traducibili, quali resistenze, al livello dei significati e dei significanti, la prevalente frammentarietà dei testi presenta al traduttore. Infine, se è vero che il tradurre è un fare poetico anch'esso, quali le esigenze, quale il significato della traduzione dai lirici oggi, quale delle poetiche del tradurre la più ideonea a un loro recupero. È allora chiaro che il discorso della traducibilità dei modi e delle tecniche del tradurre, si pone in stretto rapporto con le esigenze della nostra cultura e con il significato che il compito del traduttore può assumere nell'ambito di questo rapporto. Ed è anche chiaro che l'assunzione a modello di una qualsiasi delle poetiche del tradurre, coi loro precisi riferimenti a esperienze letterarie già concluse, risulterebbe inefficace e preclusiva a una più immediata, diretta e viva partecipazione alla vita dell'originale. Esattezza filologica, fedeltà al significato, letteralità come garanzia della fedeltà nel senso vagheggiato da Benjamin 5 , traduzione a calco con il conseguente straniamento (Ve,fremdung) dalla propria lingua sono mere astrazioni fuori della contestualità culturale nella quale diviene operante l'esercizio del tradurre. In sostanza il discorso dei modi e delle tecniche non potrà prescindere dalle reali situazioni di cultura del mondo contemporaneo e dalle richieste che al traduttore pone il lettore moderno. Una poetica non astratta e irreale, non prefigurata su schemi di modelli già esperiti, ma una poetica aperta del 4

Cfr. il pregevole saggio di Mattioli 1965. Benjamin 1955, p. 51 [trad. it., p. 47): «Il valore della fedeltà, che è garantita dalla letteralità, è proprio questo: che si esprima nell'opera la grande aspirazione alla integrazione linguistica. La vera traduzione è trasparente, non copre l'originale, non gli fa ombra, ma lascia cadere tanto più interamente sull'originale, come rafforzata dal suo proprio mezzo, la luce della pura lingua». 5

Appendice Il

314

tradurre che si costruisca gli strumenti adeguati a una maggiore portata di comunicazione e riproponga il problema del tradurre dai Greci non nei limiti dei vecchi modelli privilegiati della traduzione letteraria e della traduzione poetica, ma nella prospettiva più ampia di quella idea cui aspira l'antropologia contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche, sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo. Nella sua più vasta portata metodologica questa diversa prospettiva permette di rispondere con più appropriati strumenti di verifica. e con ipotesi comunque verificabili, ai quesiti della fedeltà al codice poetico (nel senso di fedeltà ai fini e ai mezzi della poesia) e alla qualità della cosiddetta traduzione letteraria. Poiché fedeltà alla poesia o fedeltà alla qualità letteraria è un problema che investe la comprensione totale del testo, non soltanto dei suoi registri linguistici e metrici, delle sue vibrazioni emotive e delle sue implicazioni psicologiche, ma anche di tutta la realtà extralinguistica e situazionale dell'enunciato poetico. Una nozione di contestualità non unicamente linguistica, unicamente circoscritta «all'insieme degli indizi che nella totalità di un certo testo ne chiarisce una delle parti» 6 , ma contestualità come insieme di tutti quei rapporti, quelle complesse mediazioni che direttamente o indirettamente riconducono il testo a precise situazioni storiche, sociali e culturali. Perciò l'idea di fedeltà si amplifica in un diverso e più complesso rapporto con l' originale: con il suo contenuto lessicale e sintattico, con il senso globale del suo messaggio; un rapporto che è anche verifica del grado di rifrazione o di arbitrarietà che il tradurre poetico inevitabilmente comporta e, conseguentemente, dei limiti della traducibilità di un testo. Questa breve premessa non ha altra pretesa se non quella di suggerire alcune direzioni di lavoro che sul piano concreto hanno un immediato riscontro nel settore specifico della traduzione dai lirici. Nel presentare la seconda edizione delle sue traduzioni dai lirici greci in lingua tedesca. Horst Riidiger, precisando il suo metodo, osservava che scopo della traduzione è quello di non violentare né il testo originale né la lingua tedesca e, nei limiti delle possibilità linguistiche offerte dal tedesco, trasmettere lo spirito dei versi greci. Non devono essere poesie tedesche, ma vere e proprie traduzioni che rendano comprensibile il testo originale 7 • Come si v~e. il procedimento prescinde totalmente dagli schemi prefigurati e talora equivoci della traduzione artistica, letteraria e poetica, per affermare il criterio della traduzione come trasposizione e mediazione cul6

7

Mounin 196S, p. 165. Rtldiger 1968, p. 289.

La traduzione dai lirici

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turale, sempre entro i limiti imposti dalle differenze delle strutture linguistiche e dei sistemi grammaticali del greco e del tedesco 8 • Un'idea problematica e sperimentale del tradurre che reperisca di volta in volta, in rapporto ai diversi contesti, gli equivalenti linguistici adeguati al messaggio ricevuto: un'equivalenza che non potrà mai essere identità, poiché la ritrasmissione di un qualsiasi messaggio in un'altra lingua comporta necessariamente una ricodificazione linguistica differente; l'identità risulterebbe in ogni caso un'operazione mistificatoria di estraniamento della propria lingua a danno della intellegibilità e della comunicabilità. Sull'atto operativo del tradurre e sui limiti che in generale esso comporta al livello dei significanti e dei significati, e quindi sul carattere inevitabilmente approssimativo e sperimentale di ogni traduzione, cosl si esprimeva Ezra Pound 9 che, come è noto, fece anche diretta esperienza del tradurre dai Greci: «La melopea può essere apprezzata da uno straniero dall'orecchio sensibile, anche se egli ignori la lingua in cui la poesia è scritta. È praticamente impossibile trasferirla o tradurla da una lingua ad un'altra, tranne forse per puro miracolo, e mezzo verso alla volta. Invece la fanopea può essere tradotta quasi o del tutto senza alterazione. Quando è abbastanza efficace, è quasi impossibile che il traduttore la distrugga, se non per imperizia assai grossolana, e per negligenza di regole perfettamente note e sistematiche. La logopea non si può tradurre; ma lo stato d'animo che esprime può rendersi con una parafrasi. O per dire meglio, non la si può tradurre 'parola per parola', ma quando si sia determinato lo stato di coscienza all'atto della creazione, si può riuscire o meno a trovarne una derivazione espressiva o equivalente». Ma i limiti additati in queste precise indicazioni, benché inerenti a qualsiasi tipo di traduzione, assumono un rilievo particolare, quando l'atto del tradurre si eserciti su originali che appartengano ad una cultura, quale fu quella greca arcaica, profondamente diversa dalla nostra per i modi della comunicazione orale, per le sue strutture linguistiche e i fenomeni di carattere e della personalità; poiché è sempre presente il rischio di introdurre anacronisticamente nella traduzione concetti, lessemi e stilemi che sono soltanto propri del nostro linguaggio e della nostra cultura. Sul piano dell'esemplificazione concreta, nessuna traduzione potrà mai trasferire nella propria lingua il colorito dialettale dei testi lirici, come approssimativa sarà sempre la resa degli epiteti, delle parole composte (soprattutto per un traduttore di lingua italiana) 10 e delle metafore. 1

Osserva in generale Jakobson1963, p. 84 [ttad. it., p. 61]: «Le lingue differiscono essenzialmente per quello che devono esprimere e quello che possono esprimere». 9 Pound 1967, pp. 52 sg. • 0 Mi riferisco soprattutto ai composti baccbilidei, che presentano difficoltà talora in-

316

Appendice Il·

Espressioni quali épea pter6enta 11 o pteroenta hfrnnon 12 non hanno assolutamente l'equivalente nella nostra cultura: «parole alate» o «inno alato», che nel nostro linguaggio esprimerebbero soltanto un giudizio di valore, connotando l'elevatezza del tono e dello stile, erano, coerentemente con gli atteggiamenti mentali della cultura orale, metafore designanti il concreto diffondersi nell'aria delle parole e del canto 13• Parole della sfera emozionale, quali thymos, phrénes, psyché, krad(e ecc., che connotavano i vari aspetti dell'attività psicofisica, in rapporto ad una concezione non unitaria della persona umana 14 , non hanno in realtà un equivalente culturale nella nostra lingua: «animo», «cuore», che sottendono una nozione organica della persona, tradiscono le gradazioni semantiche pertinenti alle specifiche funzioni dei diversi organi e forme della vita emozionale. Sarebbe molto interessante una ricerca sistematica degli stilemi e delle parole di valore pertinenti ai diversi campi semantici per i quali non esistono corrispettivi adeguati all'informazione richiesta dal sistema linguistico del greco arcaico. Qualunque scelta, operata nel tradurre, finirà inevitabilmente per privare il messaggio del suo contenuto iniziale. Problemi più complessi e nella maggior parte dei casi irresolubili si pongono sul piano di quella che Ezra Pound definiva melopea, cioè nella resa dei sistemi metrici e delle qualità musicali delle parole, che costituiscono le linee portanti dei significati. Se per la lirica monodica, come mostrano alcuni tentativi isolati 15, non è del tutto impossibile accostarsi alle movenze e alle tonalità dell'originale, per la lirica corale al contrario, soprattutto per le odi di Bacchilide e di Pindaro, è pressoché impossibile riprodurre le rigide responsioni metriche del sistema strofico. La scelta di una versificazione adeguata alla complessa struttura metrica delle strofe di Pindaro e Bacchilide, soprattutto di quelle costruite nel ritmo ampio e solenne dei dattilo-epitriti, che evocano le sostenute movenze dello stile epico, assume una funzione essenziale nella ricerca dell' equivalente espressivo. L'endecasillabo italiano è il verso meno appropriato

sormontabili per il traduttore italiano. Forse il tentativo di Fagles 1961 di scioglierli con una perifrasi o di coniare composti corrispettivi in lingua inglese appare plausibile, anche se la seconda alternativa non approda sempre a risultati felici: cfr. l'introduzione di Bowra, in Fagles 1961, pp. XI-XIV, e le recensioni di Came-Ross 1962, di Davison 1963, pp. 199, 358 e di Pippin Bumett 1963. 11 Il. 5, 713. 12 Pind. lsthm. 5, 63. 13 Sulla possibilità di una traduzione antropologico-culturale della poesia arcaica, limitatamente all'Iliade, si vedano le stimolanti proposte di Sanz Franco 1968. 14 Cfr. Parte I, cap. 3, p. 55. 15 Alludo ali' autentico calco ritmico della strofa saffica tentato dal Pascoli.

La traduzione dai lirici

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a questo tipo di poesia. come del resto lo è anche per l'esametro epico 16. B. Snell 17ha osservato giustamente che due sono le soluzioni alternative per il traduttore tedesco di Pindaro: o i liberi ritmi della poesia di Klopstock o un sostenuto dettato prosastico riga-verso, senza preoccupazioni ritmiche, di cui l'esempio più rappresentativo sono le traduzioni «filologiche» di Fr. Dornseiff18 • La stessa alternativa si pone per il traduttore italiano di Pindaro. Ma se la sua scelta cadrà sul verso libero, le grandi odi del D'Annunzio delle lAudi, sotto il profilo strettamente tecnico della versificazione, costituiscono forse l'esempio più stimolante e indicativo19 della trasposizione nella nostra lingua delle complesse strutture metriche pindariche. Queste brevi considerazioni, che interpretano i modi del tradurre in funzione dell'idea di comunicabilità tra culture, comportano la necessità, per i limiti da noi additati, di corredare la traduzione di note che elucidino, attraverso opportune parafrasi, tutti quei contenuti iniziali del messaggio che la nuova veste linguistica ha lasciato inespressi per la loro intraducibilità. Fuori di questa prospettiva il tradurre come imitare o il tradurre come poesia sulla poesia sono operazioni metaletterarie che nella loro autonomia si configurano come documenti di un modo di recepire il testo antico da parte del lettore moderno e, nel migliore dei casi, come valide presenze poetiche nella cultura del proprio tempo.

16

Non è un caso che Quasimodo vi abbia rinunciato nelle sue traduzioni dall'Iliade. Ma la lezione quasimodiana, per non parlare di altre prove in questa direzione, non è molto servita. 17 Cfr. Snell 1962, p. 194. . 18 Dornseiff 1921. Un esempio di questa seconda alternativa è offerto ora da Privitera 1982 nella sua traduzione delle Istmiche di Pindaro. 19 Alcuni tipi di settenari, ottonari, novenari e decasillabi, che compaiono nelle «odi pindariche» delle Laudi, sono i versi più adeguati a riprodurre le strutture dei ritmi kat' en6plion-epitriti.

La metafora della nave Tavola comparativa

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V.

V.

V.

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Pretagostini 1980

Pretagostini 1982a

Pretagostini 1982b

Prier 1976

Privitera 1965 Privitera 1967 Privitera 1969 Privitera 1970 Privitera 1972a

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Rosler 1986

Roode 1914 Rolley 1965

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Saake 1971 Sambursky 1956

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Segai 1976b

Segai 1979 Segai 1982

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Snell 1931

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Steffen 1959

Stella 1986 Stengel 1892 Stem 1970

Stibbe 1972 Stiebitz 1926 Stierle 1975 Stoneman 1979 Strauss Clay 1986

Stucchi 1966

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Vallozza 1987

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