La Somma Teologica. Seconda parte. Seconda sezione [Vol. 3]
 9788870948530

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TOMMASO

o'

AQJJINO

LA SOMMA TEOLOGICA SECONDA PARTE SECONDA SEZIONE

Testo latino dell'Edizione Leonina Traduzione italiana a cura dei Frati Domenicani Introduzione di Giuseppe Barzaghi

EDIZIONI STUDIO DOMENICANO

Titolo originale: Summa Theologiae, Secunda Secundae. Testo latino: dell'Edizione Leonina, pubblicato in 35 volumi da ESD a partire dal 1984, e integralmente rivisto. Traduzione italiana: curata da Tito Sante Centi, Roberto Coggi, Giuseppe Barzaghi, Giorgio Carbone.

Piano dell'Opera: vol. l , Prima Parte vol. 2, Seconda Parte, Prima Sezione vol. 3, Seconda Parte, Seconda Sezione vol. 4, Terza Parte

Il testo latino può essere scaricato liberamente da www.edizionistudiodomenicano.it, dalla pagina dedicata a quest'opera. La traduzione italiana è consultabile dalla stessa pagina, che consente la ricerca per parola.

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se

curata con scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche responsabilità

per eventuali involontari errori o inesattezze.

5 Presentazione Fin da quando pubblicammo la traduzione italiana di Jean-Pierre Torrell, Amico della verità. Vita e opere di Tommaso d'Aquino, avevamo annunciato una nuova edizione della Somma teologica. Era il 2006. Subito da più parti iniziarono a manifestarsi segni di interessamento a questa nuova impresa. Dopo anni di attesa e lavoro, quasi costretti, abbiamo rotto gli indugi. Adesso pos­ siamo presentare con gioia e soddisfazione una nuova edizione in quattro agili volumi.

TI testo latino è quello messo a punto dalla Commissione Leonina. In particolare ci siamo serviti del testo latino pubblicato nella nostra edizione in 35 volumi. In esso abbiamo inserito tra parentesi quadre i riferimenti agli Autori che Tommaso cita direttamente o, talvolta, indirettamente, control­ landoli e integrandoli, tenendo conto delle edizioni critiche, ove possibile. Per tali citazioni abbia­ mo usato abbreviazioni e sigle, la cui esplicitazione si trova nelle pagine che seguono. Inoltre, se nella risposta a un'obiezione Tommaso cita il brano di un'opera, già citato nell'obiezione a cui sta rispondendo, abbiamo evitato di riprodurre la fonte: il lettore la troverà nell'obiezione iniziale. Per i libri biblici si tenga presente che i riferimenti numerici dei versetti erano assenti nel testo di Tommaso, e che sono stati introdotti dalle edizioni a stampa successive al XVI secolo. Infine, ricor­ diamo che la suddivisione e quindi la numerazione di alcuni libri di Aristotele, come la Metafisica e la Fisica, sono cambiate rispetto a quelle usate da Tommaso. La traduzione italiana deriva principalmente dalla ptima edizione in lingua italiana curata tra il 1950 e il 1 974 in modo prevalente da Tito Sante Centi O. P., pubblicata inizialmente a Firenze da Salani, e poi continuamente ripubblicata a Bologna dalla nostra Casa editrice. Deriva poi anche da una revisione curata nel 1996 da Roberto Coggi O. P., e pubblicata nella nostra edizione in 6 volumi solo in lingua italiana. Rispetto a queste due traduzioni, l'intervento di curatela di Giuseppe Barzaghi O. P. e Giorgio Carbone O. P. ha apportato alcune innovazioni. La prima consiste nella ver­ sione stessa: non è una nuova traduzione, ma semplicemente una revisione delle traduzioni prece­ denti, revisione che talvolta ha comportato il ritàcimento della traduzione mirando a migliorare la comprensione del testo di Tommaso. La seconda novità consiste nell'aver reso in fmma interrogati­ va diretta i titoli di tutti gli articoli, poiché il genere letterario della Somma teologica richiama quello della questione disputata. La tert.a è la traduzione letterale dei brani biblici citati da Tommaso: non abbiamo fatto ricorso alle due traduzioni CEI, ma abbiamo tenuto semplicemente conto della Bibbia latina della versione Vulgata, che Tommaso cita alla lettera o a memoria, integralmente o con allusioni riportando solo l'inizio di un brano, secondo la versione parigina o quelle che circola­ vano nella nostra penisola dopo la metà del XIll secolo. A questo proposito si ricordi che talvolta la numerazione dei versetti della Vulgata è diversa dalla numerazione delle traduzioni moderne. La quarta consiste nell'aver riportato solo nel testo latino e tra parentesi quadre i riferimenti alle opere bibliche, filosofiche e patristiche citate da san Tommaso. Tale scelta è stata motivata dalla volontà di aiutare il lettore a frequentare il testo latino e dalla necessità di non rendere troppo lungo il testo in lingua italiana. Tutto il testo latino e la traduzione italiana saranno anche disponibili sul sito: www.edizionistu­ diodomenicano.it, mediante un libro virtuale. Questa nuova edizione non avrebbe visto la luce senza l'aiuto disinteressato e generoso di alcu­ ne carissime persone. Perciò con soddisfazione e riconoscenza tingraziamo Maria Marconi, Luigi Carbone, Luciana Felici, Alfonso Carbone, Guido Balestrero, Rosalba Barucco, Bruno Viglino, Antonia Salzano e Andrea Acutis. Giorgio Carbone O. P.

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Abbreviazioni e sigle a:

articolo

De Haeres.: De Haeresibus, Agostino

Act.:Atti degli apostoli

De institutis: De Coenobiorum Institutis, Cassiano

Ad Dem.:Ad Demetriadem, Pelagio

De lib. arb.: De libero arbitrio, Agostino

Adv. lovin.: Adversus Iovinianum, Girolamo

De mem. et rem.: De memoria et reminiscentia,

Am:Amos Ap:Apocalisse di Giovanni

Aristotele De mor. Ecci., De moribus Ecclesiae, Agostino

Apoc.:Apocalisse di Giovanni

De nat. et grat.: De natura et gratia, Agostino

arg: argomento o obiezione

De nat. horn.: De natura hominis, Nemesio

At:Atti degli apostoli

De off.: De ofticiis, Cicerone o Ambrogio

C. G.: Summa contra Gentiles, Tommaso d'Aquino

De oper. mon.: De opere monachorum, Agostino

Cant.: Cantico dei Cantici

De Parad.: De Paradiso, Ambrogio

Cat. Aurea: Catena Aurea, Tommaso d'Aquino

De quaest. Evang.: De quaestionibus Evangeliorum,

co.: coipus/corpore, corpo dell'articolo Codex: Codex luris Civilis, Giustiniano Col.: Lettera ai Colossesi Conf.: Confessiones, Agostino Constit. monast.: Constitutiones ad monachos, Basilio Magno

Agostino De sacram.: De sacramentis, Ugo di San Vittore De seffil. Dom.: De seffilone Domini in monte, Agostino De somno: De Somno et Vigilia, Aristotele De Trin.: De Trinitate: Ambrogio o Agostino

Contra Max.: Contra Maximinum, Agostino

De Tuscul. Q.: De Tusculanis Quaestionibus, Cicerone

Contra Parmen.: Contra epistolam Parmeniani, Agostino

De util. cred.: De utilitate credendi, Agostino De vera rei.: De vera religione, Agostino

Contra Vigil.: Contra Vigilantium, Girolamo l 2 Cor.: Lettere ai Corinzi

De virg.: De sancta virginitate, Agostino

l 2 Cr: l 2 Cronache

Decretum: Decretum, Graziano

0: Cantico dei Cantici

Deut.: Deuteronomio

Dan.: Daniele

Dial. Q. LXV: Dialogus Quaestionum, Agostino(?) Dial.: Dialogorum, Gregorio

DCH: De caelesti hierarchia, Dionigi DDN: De divinis nominibus, Dionigi

Dig.: Digesta, Corpus Iuris Civilis

DEH: De Ecclesiastica Hierarchia, Dionigi

Dn: Daniele

De affect.: De affectibus, Andronico Peripatetico

Dt: Deuteronomio

De an.: De anima, Aristotele o Averroè

Eb: Lettera agli Ebrei

De bapt. contra Donat.: De baptismo contra Donatistas, Agostino

Ecci. Hier.: vedi DEH Eccle.:Ecclesiaste o Qoèlet

De benef.: De beneficiis, Seneca

Eccli.:Ecclesim;tico o Siracide

De cael. hier.: vedi DCH

Ef: Lettera agli Efesini

De caelo: De caelo et mundo, Aristotele

Enarr. in Ps.: Enarrationes in Psalmos, Agostino

De catechiz.: De catechizandis rudibus, Agostino

Ench.: Enchiridion, Agostino Ep.: Epistola

De civ. Dei: De civitate Dei, Agostino De consid.: De consideratione, Bernardo

Eph.: Lettera agli Efesini

De consol.: De consolatione philosophiae, Boezio

Es:Esodo

De corr.: De correptione et gratia, Agostino

Ec;d.:Esdra

De div. nom.: vedi DDN

Est: Ester

De div. s.: De Divinatione per Sornnum, Aristotele

Ethic.: Etica a Nicomaco, Aristotele

De divinat.: De Divinatione Daemonum, Agostino

Etymol.: Etymologiae, Isidoro Ex.: Esodo

De doct. chr.: De docllina christiana, Agostino De dono perserv.: De dono perservantiae, Agostino

Ez.: Ezechiele

De duabus an.: De duabus animabus, Agostino

Factorum: Factorum Dictorum Memorabilium Libri,

De ecci. discipl.: De ecclesia'ìtica disciplina, Rabano Mauro

Valerio Ma'isimo

De ecci. dogmat.: De ecclesiasticis dogmatibus, Gennadio

Fil: Lettera ai Filippesi

De ecci. hier.: vedi DEH De fide: De fide orthodoxa, Giovanni Damasceno

Fm: Lettera a Filemone Gal.: Lettera ai Galati

De grat. c.: De gratia contemplationis, Riccardo

Gb:Giobbe

di San Vittore

Gc: Lettera di Giacomo

7 Gdc:Giudici Gdt:Giuditta Gen.:Genesi Ger:Geremia

Octoginta triwn Q.: De diversis quaestionibus LXXXI,II Agostino Op. imperf. in Matth.: Opus imperfectum in Matthewn, Pseudo Crisostomo

Gl:Gioele

Ord.: Glossa ordinaria

Gs:Giosuè

Os.: Osea

l 2 Gv: Lettere di Giovanni

l 2 Parai.: Paralipomeni, l e 2 Cronache

Gv: Vangelo secondo Giovanni

Pastor.: Regola Pastorale, Gregorio Magno

Hebr.: Lettera agli Ebrei 1: S. Th., Plima Parte, Tommaso d'Aquino

1-11: S. Th., Seconda Parte, Prima Sezione, Tommaso 11-11: S. Th., Seconda Parte, Seconda Sezione, Tommaso

ill: S. Th., Terza Parte, Tommaso d'Aquino Iac.: Lettera di Giacomo Ier.:Geremia In Ev. h.: In Evangelium homiliae, Gregorio Magno In Ioan. tract: In Ioannis evangelium tractatus, Agostino In Luc.: Expositio Evangelii secundum Lucam, Ambrogio In Sent.: Super libros Sententiarum, Alberto, Bonaventura o Tommaso d'Aquino In Som. S.: In Somnum Scipionis, Macrobio In Univ. Test.: In Universwn Testamentum, Ugo di San Caro Instit.: lnstitutiones, Corpus Iuris Civilis Int.:Glossa interlineare l 2 Ioan.: Lettere di Giovanni Ioan.: Vangelo secondo Giovanni los.:Giosuè Is.: Isaia Iudic.:Giudici 1.: lectio, lezione Lam: Lamentazioni Le: Vangelo secondo Luca Lev.: Levitico Lomb.:Glossa di Pietro Lombardo Luc.: Vangelo secondo Luca Lv: Levitico LXX: Bibbia versione greca dei Settanta l 2 Mac: l 2 Maccabei l 2 Mach.: l 2 Maccabei Malach.: Malachia Mare.: Vangelo secondo Marco Matth.: Vangelo secondo Matteo Mc: Vangelo secondo Marco Met.:Metaphysica, Aristotele

l 2 Petr.: Lettere di Pietro Phil.: Lettera ai Filippesi Phys.: Physica, Alistotele Poi.: Politica, Aristotele Post.: Analytica Posteriora, Aristotele Pr: Proverbi Praed.: Praedicamenta, seu Categoriae, Aristotele Prov.: Proverbi Ps.: Salmi l 2 Pt: Lettere di Pietro Q. Evang.: Quaestionum Evangeliorum, Agostino Q. in Heptat.: Quaestionum in Heptateuchum, Agostino q.: questione Qo: Qoèlet o Ecclesiaste QVT: Quaestiones in Vetus Testamentum, Isidoro l 2 Re: Libri dei Re (Vulgata: 3 4 Reg.) l 2 Reg.: Libri di Samuele, 1 2 Sam

3 4 Reg.: Libri dei Re,

l 2 Re

Reg. ad mon.: Regola ad monachos, Benedetto Retract.: Retractationum, Agostino Rhet.: Retorica, Aristotele o Cicerone Rm: Lettera ai Romani Rom.: Lettera ai Romani S.: Supplementum S. Th.: Somma Teologica, Tommaso d'Aquino Sal: Salmi l 2 Sam: Libri di Samuele (Vulgata: l 2 Reg.) Sap.: Sapienza s. c.: sed contra Sent.: Sententiarum Libri, Pietro Lombardo, detto il Maestro Serm. Suppos.: Sermones Supposititii, Agostino Sir: Siracide o Ecclesiastico Solil.: Soliloquiorum Libri, Agostino Summa Aurea:Guglielmo di Auxerre Super Ez.: Commento a Ezechiele, Girolamo o Gregorio Super Gen.: Super Genesim ad litteram, Agostino Th:Tobia 1 2 Thess.: Lettere ai Tessalonice. l'essere, abbiamo gli

habitus entitativi (per es.

la bellezza, la salute, il vigore); se invece riguara l'operare, abbia­

mo gli habitus operativi (le scienze, le arti, le virtù). 4 S. Th. 1,5,1, ad l. Sebbene ente e bene si identifichino realmente, tuttavia si distinguono secondo il modo della consi­ derazione razionale: non è lo stesso il senso nel quale parliamo di ente in senso assoluto e di bene in senso assoluto. Ente dice propriamente attualità, la quale dice ordine alla potenzialità: si dice perciò ente in senso assoluto ciò che si distingue originariamente dalla potenzialità in senso assoluto; e questo è l'essere sostanziale. Il bene, invece, dice perfezione, cioè appetibilità, che ha sempre ragione di ultimo: perciò si dice buono in senso assoluto ciò che è ulti­ mamente perfetto. Ciò che invece non ha la perfezione ultima che può e deve avere non può essere considerato buono in senso assoluto, anche se possiede la perfezione dell'attualità sostanziale. I n questo senso, nell'ente finito, la perfezione ultima si pone nell'ordine dell'accidentalità e non della semplice sostanza.

L'habitus, per sua stessa defi­

nizione, implica un radicale riferimento ad un soggetto presupposto cui inerire a guisa di determinazione perfettiva. Questo soggetto, già dato come base sulla quale si innesta la cultura, è ciò che chiamiamo natura. La cultura injàcto esse è così il risultato di un intervento operativo sul dato naturale, il quale è di per sé finalizzato a tale compimento e dunque non opponibile ad esso per contrarietà. Tra natura e cultura si dà continuità quanto all'attuazione delle vir­ tualità della prima nella seconda, e discontinuità quanto alla modalità d'attuazione (cultura

in.fieri). La natura proce­

de per pura spontaneità, la cultura invece secondo deliberata progettualità. Tuttavia, il primato appartiene all'aspetto di continuità, giacché è naturale per l'uomo la modalità culturale (deliberata progettualità) dell'autoperfezionamen­ to. Del resto, volendo sottodistinguere all'interno della stessa modalità culturale un duplice livello del progetto razio­ nale - cioè:

l) wm progettualità ausiliare rispetto ai principi attivi della natma (ed è la cultura in senso stretto, nella

quale l'artificialità dell'intervento razionale è solo relativa al modo dell'esplicitazione; è l'artificiale quoad modum, cioè quanto al processo ma non quanto al suo tennine), e 2) una progettualità costitutiva (che corrisponde alla cultu­ ra in senso più lato e comprensivo del livello oggettuale-strumentale, nella quale l'artificialità, non solo è procedura­ le, ma anche terminale; è l'artificiale quoad substantiam, cioè sia quanto al processo che al termine prodotto)- ebbe­ ne anche in questo secondo livello la cultura si porrebbe di per sé in continuità con la natura. 5 Dalla definizione o, meglio, descrizione attraverso la causa finale si possono dedurre le definizioni che si costitui­ scono sulla base delle altre cause - soprattutto quella materiale e formale (definizione essenziale)-; questo avviene perché ci troviamo in un ordine di cose in cui ha estrema rilevanza la nozione, appunto, di fme: >. Però, secondo l'uso più comune, è meglio non met­ tere la preposizione in, e dire semplicemente: «la santa Chiesa cattolica>>, come dice anche papa Leone. 6. Il simbolo niceno è una spiegazione di quello apostolico, e inoltre fu stabilito quando la fede era già divulgata e la Chiesa era in pace: per questo esso è cantato pubblicamente nella messa. Invece il simbolo apostolico, compilato in tempo di persecuzione, quando la fede non era ancora divulgata, è recitato in silenzio a Prima e a Compieta, come contro le tenebre degli errori passati e futuri.

Articulus l O Utrum ad summum pontificem pertineat fidei symbolum ordinare

Articolo 1 0 Spetta al sommo pontefice stabilire il simbolo della fede?

Ad decimum sic proceditur. Videtur quod non pertineat ad Summum Pontificem fidei sym­ bolum ordinare. l . Nova enim editio symboli necessaria est propter explicationem articulorum fidei, sicut dictum est [a. 9 ad 2]. Sed in Veteri Testamento articuli fidei rnagis ac magis explicabantur secundum temporum successionem propter hoc quod veritas tidei magis manifestabatur se­ cundum rnaiorem propinquitatem ad Christum,

Sembra di no. Infatti: l. Una nuova redazione del simbolo è neces­ saria per spiegare gli articoli della fede, come si è detto. Ma nell'Antico Testamento gli arti­ coli di fede erano spiegati progressivamente nel corso del tempo perché la vetità di fede era manifestata sempre meglio quanto più ci si avvicinava alla venuta di Cristo, come detto sopra, Quindi, venuto meno questo motivo con la nuova Legge, non c'è ragione di spiega-

Q. l , A. IO

L 'oggetto della fede

ut supra [a. 7] dictum est. Cessante ergo tali causa in nova Lege, non debet fieri maior ac maior explicatio articulorum fidei. Ergo non videtur ad auctoritatem Summi Pontificis per­ tinere nova symboli editio. 2. Praeterea, illud quod est sub anathemate interdictum ab universali Ecclesia non subest protestati alicuius hominis. Sed nova symboli editio interdicta est sub anathemate auctorita­ te universalis Ecclesiae. Dicitur enim in gestis primae Ephesinae synodi [p. 2, act. 6 in Decr. de Fide] quod, perlecto symbolo Nicaenae synodi, decrevit sancta �ynodus aliam fidem nulli licere pmferre ve/ conscribere ve/ com­ ponere praeter definitam a sanctis Patribus qui in Nicaea congregati sunt cum Spiritu Sancto, et subditur anathematis poena; et idem etiam reiteratur in gestis Chalcedonensis synodi [p. 2, act. 5 sub. fin.] . Ergo videtur quod non pertineat ad auctoritatem summi Pontificio nova editio symboli. 3. Praeterea, Athanasius non fuit summus Pontifex, sed Alexandrinus Patriarcha. Et tamen symbolum constituit quod in Ecclesia cantatur. Ergo non magis videtur pertinere editio symboli ad Summum Pontificem quam ad alios. Sed contra est quod editio symboli facta est in synodo generali. Sed huiusmodi synodus auc­ toritate solius Summi Pontificis potest congre­ gari, ut habetur in Decretis, dist. 17 [cann. 4-5]. Ergo editio symboli ad auctoritatem sumrni Pontificis pertinet. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 9 ad. 2] dictum est, nova editio symboli necessaria est ad vitandum insurgentes errores. Ad illius ergo auctoritatem pertinet editio symboli ad cuius auctoritatem pertinet sententialiter determinare ea quae sunt fidei, ut ab omnibus inconcussa fide teneantur. Hoc autem pertinet ad auctorita­ tem Summi Pontificis, ad quem maiores et dijfi­ ciliores Ecclesiae quaestiones referuntur, ut dicitur in Decretis, dist. 1 7 [can. 5]. Unde et Dorninus, Luc. 22 [32], Petro dixit, quem Summum Pontificem constituit, ego pro te mgavi, Petre, ut non deficiat fides tua, et tu aliquando conversus confirmafratres tuos. Et huius ratio est quia una fides debet esse totius Ecclesiae, secundum illud l ad Cor. l [ 1 0], idipsum dicatis omnes, et non sint in vobis schismata. Quod servari non posset nisi quae­ stio fidei de fide exorta deterrninaretur per

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re sempre meglio gli articoli della fede. Perciò sembra che non competa ali' autorità del sommo pontefice redigere un nuovo simbolo. 2. Ciò che la Chiesa universale proibisce sotto pena di scomunica non rientra nelle facoltà di alcun uomo. Ora, una nuova redazione del simbolo è proibita sotto pena di scomunica dalla Chiesa universale. Si legge infatti negli atti del concilio di Efeso che: «Dopo la lettura del simbolo niceno il sacro concilio decretò che a nessuno fosse lecito proferire, scrivere o comporre un altro simbolo di fede oltre a quel­ lo definito dai santi padri radunati a Nicea con lo Spirito Santo», e si aggiunge la pena della scomunica. E la stessa cosa viene ripetuta negli atti del concilio di Calcedonia. Quindi sembra che non spetti ali' autorità del sommo pontefice redigere un nuovo simbolo. 3. Atanasio non era sommo pontefice, ma pa­ triarca di Alessandria. E tuttavia ha stabilito un simbolo che è cantato nella Chiesa. Perciò sembra che redigere un simbolo non spetti al sommo pontefice più di quanto spetti ad altri. In contrario: la redazione del simbolo è stata fatta in un concilio ecumenico. Ma un tale concilio può essere convocato solo per autorità del sommo pontefice, come dice il Decreto. Quindi la redazione del simbolo spetta al­ l'autorità del sommo pontefice. Risposta: abbiamo già notato che una nuova redazione del simbolo è necessaria per evitare gli errori che sorgono. Quindi la redazione di un simbolo spetta all'autorità di colui che ha il potere di determinare con sentenza definitiva quelle verità che riguardano la fede, in modo che da tutti siano tenute con fede incrollabile. Ora, questo spetta all'autorità del sommo pon­ tefice «al quale sono devolute le questioni più gravi e più difficili della Chiesa>>, come dice il Decreto. Per cui anche il Signore in Le 22,32 disse a Pietro, che aveva costituito sommo pontefice: lo ho pregato per te perché non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravve­ duto, confeJma i tuoi fratelli. E la ragione di ciò sta nel fatto che tutta la Chiesa deve avere un'unica fede, come è detto in l Cor 1 , 1 0: Siate tut/i unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi. Ma ciò non può essere assicurato se, quando sorge una questione di fede, essa non è determinata da chi presiede a tutta la Chiesa, in modo che la sua sentenza sia tenuta dalla Chiesa intera con fermo assen-

Q. l , A. l O

L 'oggetto della fede

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eum qui toti Ecclesiae praeest, ut sic eius sen­ tentia a tota Ecclesia firmiter teneatur. Et ideo ad solam auctoritatem Summi Pontificis perti­ net nova editio symboli, sicut et omnia alia quae pertinent ad totam Ecclesiam, ut congre­ gare synodum generalem et alia huiusmodi. Ad primum ergo dicendum quod in doctrina Christi et Apostolorum veritas fidei est suffi­ cienter explicata. Sed quia perversi homines apostolicam doctrinam et ceteras Scripturas pervertunt ad sui ipsorum perditionem, sicut dicitur 2 Petr. ult. [3, 16]; ideo necessaria est, temporibus procedentibus, explanatio fidei contra insurgentes errores. Ad secundum dicendum quod prohibitio et sententia synodi se extendit ad privatas perso­ nas, quorum non est detenninare de fide. Non enim per huiusmodi sententiam synodi gene­ ralis ablata est potestas sequenti synodo novam editionem symboli facere, non quidem aliam fidem continentem, sed eandem magis expositam. Sic enim quaelibet synodus obser­ vavit, ut sequens synodus aliquid exponeret supra id quod praecedens synodus exposue­ rat, propter necessitatem alicuius haeresis insurgentis. Unde pertinet ad Summum Pontificem, cuius auctoritate synodus congre­ gatur et eius sententia confirmatur. Ad tertium dicendum quod Athanasius non composuit manifestationem fidei per modum symboli, sed magis per modum cuiusdam doctrinae, ut ex ipso modo loquendi apparet. Sed quia integram fidei veritatem eius doctrina breviter continebat, auctoritate Summi Ponti­ ficis est recepta, ut quasi regula fidei habeatur.

so. E così spetta alla sola autorità del sommo pontefice la promulgazione di un nuovo sim­ bolo; come del resto anche ogni altra cosa che interessa tutta la Chiesa, come convocare un concilio ecumenico e altre cose del genere. Soluzione delle difficoltà: l . Nell' insegna­ mento di Cristo e degli apostoli la verità di fe­ de è sufficientemente spiegata. Però, visto che gli uomini perversi travisano per Iom pmpria rovina l'insegnamento apostolico e le altre Scritture, come è detto in 2 Pt 3, 16, allora nel corso del tempo è necessaria la spiegazione della fede contro gli errori che sorgono. 2. Le proibizioni e le decisioni di un concilio si estendono alle persone private, che non hanno il compito di determinare le verità di fede. Infatti tali decisioni di un concilio ecu­ menico non tolgono il potere al concilio ecu­ menico successivo di fare una nuova redazio­ ne del simbolo, la quale non conterrà mai una fede diversa, ma la stessa in termini più chiari. In tutti i concili infatti si osservò questa prassi: che il concilio successivo chiariva quanto ave­ va determinato il concilio precedente, sotto la spinta di una nuova eresia. Si tratta quindi di un compito del sommo pontefice, alla cui autorità spetta di convocare i concili e confer­ marne le decisioni. 3. Atanasio ha redatto un'esposizione della fede non a modo di simbolo, ma piuttosto a modo di trattato: il che appare evidente anche dal suo modo di esprimersi. Ora il suo trattato, visto che conteneva in breve tutte le verità da cre­ dersi, è stato accolto dali' autorità del sommo pontefice perché sia tenuto come regola di fede.

QUAESTI0 2

QUESTIONE 2

DE ACTU INTERIORI FIDEI

L'ATTO INTERIORE DELLA FEDE

Deinde considerandum est de actu fidei. Et primo, de actu interiori; secundo, de actu exteriori [q. 3]. Circa primum quaeruntur decem. Primo, quid sit credere, quod est actus interior tìdei. Secundo, quot modis dicatur. Tertio, utmm credere aliquid supra rationem naturalem sit necessarium ad salutem. Quarto, utrum credere ea ad quae ratio naturalis perve­ nire potest sit necessarium. Quinto, utrum sit necessarium ad salutem credere aliqua explici­ te. Sexto, utrum ad credendum explicite omnes aequaliter teneantur. Septimo, utrum

Bisogna ora trattare dell' atto di fede, prima di quello interiore e poi di quello esteriore. Sul primo argomento si pongono dieci quesiti: l. Che cosa significa credere, che è l'atto inte­ riore d�lla fede? 2. In quanti modi viene det­ to? 3. E necessario per la salvezza credere qu�cosa al di sopra della ragione naturale? 4. E necessario credere cose, che la ragione naturale può raggiungere? 5. E indispensabile per la salvezza credere alcune cose in maniera esplicita? 6. Tutti sono ugualm�nte tenuti a credere in maniera esplicita? 7. E stato sem-

L 'atto interiore dellafede

Q. 2, A. l

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habere explicitam fidem de Christo sempre sit necessarium ad salutem. Octavo, utrum crede­ re Trinitatem explicite sit de necessitate salutis. Nono, utrum actus fi dei sit meritorius. De­ cimo, utrum ratio humana diminuat meritum fidei.

pre necessario per la, salvezza avere la fede esplicita in Cristo? 8. E indispensabile credere esplicitamente nella Trinità? 9. L'atto della fede è meritorio? l O. Le ragioni umane ridu­ cono il merito della fede?

Articulus l

Articolo l Credere è «cogitare con assenso»?

Utrum credere sit cum assensione cogitare Ad primum sic proceditur. Videtur quod cre­ dere non sit cum assensione cogitare. l. Cogitatio enim importat quandam inquisi­ tionem, dicitur enim cogitare quasi simul agi­ tare. Sed Damascenus dicit, in 4 Iib. [De fide 1 1] , quod fides est non iiUjuisitus consensus. Ergo cogitare non p ertinet ad actum fidei. 2. Praeterea, fides in ratione ponitur, ut infra [q. 4 a. 2] dicetur. Sed cogitare est actus cogi­ tativae potentiae, quae pertinet ad partem sen­ sitivam, ut in primo [q. 78 a. 4] dictum est. Ergo cogitatio ad fidem non pertinet. 3. Praeterea, credere est actus intellectus, quia eius obiectum est verum. Sed assentire non videtur esse actus intellectus, sed voluntatis, sicut et consentire, ut supra [q. l a. 4; 1-11 q. 15 a. l] dictum est. Ergo credere non est cum assensione cogitare. In contrarium est quod Augustinus sic definit credere in libro De praed. sanct. [2]. Respondeo dicendum quod cogitare tripliciter sumi potest. Uno modo, communiter pro qua­ libet actuali consideratione intellectus, sicut Augustinus dicit, in 1 4 De Trin. [7] , hanc

nunc dico intelligentiam qua intelligimus cogitantes. Alio modo dicitur cogitare magis proprie consideratio intellectus quae est cum quadam inquisitione, antequam perveniatur ad perfectionem intellectus per certitudinem visionis. Et secundum hoc Augustinus, 15 De Trin. [16], dicit quod Dei Filius non cogitatio

dicitur, sed Verbum Dei dicitur. Cogitatio quippe nostra proveniens ad id quod scimus atque inde formata verbum nostrum verum est. Et ideo Verbum Dei sine cogitatione debet intelligi, non aliquid habens fomwbile, quod possit esse infmme. Et secundum hoc cogita­ tio proprie dicitur motus animi delib erantis nondum perfecti per plenam visionem verita­ tis. Sed quia talis motus potest esse vel animi deliberantis circa intentiones univ ersales,

Sembra di no. Infatti: l . La cogitazione comporta una certa ricerca. Intatti cogitare significa come «agitare insie­ me». Ora, il Damasceno afferma che «la fede è un consenso privo di ricerca». Quindi il cogitare è incompatibile con l'atto di fede. 2. La fede risiede nella ragione, come vedre­ mo. Ma il cogitare è un atto della facoltà co­ gitativa che è una facoltà di ordine sensitivo, come si è visto nella Prima Parte. Quindi la cogitazione non appartiene alla fede. 3. Credere è un atto dell'intelletto, poiché il suo oggetto è il vero. Invece assentire non sembra essere un atto dell'intelletto, ma della volontà, come anche il consentire, come detto sopra. Perciò credere non è cogitare con assenso. In contrario: Agostino ha definito così l'atto del credere. Risposta: cogitare può essere preso in ti-e diver­ si significati. Primo, nel senso generico di una qualsiasi considerazione attuale dell' intelletto, come dice Agostino: «Chiamo qui intelligenza quella mediante cui possiamo intendere cogi­ tando». Secondo, in un senso più preciso il cogitare indica una considerazione dell'intellet­ to accompagnata da una ricerca o discussione, prima che si giunga alla perfetta intell ezione mediante la certezza dell'evidenza. E in questo senso Agostino dice: «Il Figlio di Dio non è chiamato cogitazione, ma Parola di Dio. Poiché la nostra stessa cogitazione, una volta che ha raggiunto l'oggetto della conoscenza ed è infor­ mata da esso, costituisce la nostra parola vera. E così la Parola, o Verbo, di Dio deve essere intesa senza cogitazione, non avendo nulla di formabile che possa essere informe». E in que­ sto senso la cogitazione è propriamente un moto dell'animo che delibem., non ancora illu­ minato dalla piena visione della verità. Sicco­ me però tale moto dell'animo può essere relati­ vo sia ai concetti universali, che appartengono alla facoltà intell ettiva, sia ai dati particolari,

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L 'atto interiore della fede

quod pertinet ad i ntellectivam partem; vel circa intentiones particulares, quod pertinet ad partem sensitivam, ideo cogitare secundo modo surnitur pro actu intellectus deliberan­ tis; tertio modo, pro actu virtutis cogitativae. Si igitur cogitare sumatur communiter, secun­ dum primum modum, sic hoc quod dicitur cum assensione cogitare non dicit totam rationem eius quod est credere, nam per bune modum etiam qui considerat ea quae scit vel intelligit cum assensione cogitat. S i vero sumatur cogitare secundo modo, sic in hoc intelligitur tota ratio huius actus qui est crede­ re. Actuum enim ad intellectum pertinentium quidam habent firmam assensionem absque tali cogitatione, sicut cum aliquis considerat ea quae scit vel intelligit, talis enim conside­ ratio iam est formata. Quidam vero actus intellectus habent quidem cogitationem infor­ mem absque firma assensione, sive in neo­ tram partem declinent, sicut accidit dubitanti; sive in unam partem magis declinent sed tenentur aliquo levi signo, sicut accidit suspi­ canti; sive uni parti adhaereant, tamen cum formidine alterius, quod accidit opinanti. Sed actus iste qui est credere habet firmam adhae­ sionem ad unam partem, in quo convenit cre­ dens cum sciente et intelligente, et tamen eius cognitio non est perfecta per manifestam visionem, in quo convenit cum dubitante, suspicante et opinante. Et sic proprium est credentis ut cum assensu cogitet, et per hoc distinguitur iste actus qui est credere ab omni­ bus actibus intellectus qui sunt circa verum vel falsum. Ad primum ergo dicendum quod fides non habet i nq u i s i t i onem rat i o n i s n atural i s demonstrantis i d quod creditur. Habet tamen inquisitionem quandam eorum per quae indu­ citur homo ad credendum, puta quia sunt dieta a Deo et miraculis confirmata. Ad secundum dicendum quod cogitare non surnitur hic prout est actus cogitativae virtutis, sed prout pertinet ad intellectum, ut dictum est [in co.]. Ad tertium dicendum quod intellectus creden­ tis determinatur ad unum non per rationem, sed per voluntatem. Et ideo assensus hic acci­ pitur pro actu intellectus secundum quod a voluntate determinatur ad unum.

Q. 2, A. l

che riguardano le facoltà di ordine sensitivo, allora cogitare indica in un secondo senso l'atto deliberativo dell' intelletto; mentre in un terzo senso sta a indicare l'atto della cogitativa. - Se quindi si prende il termine «cogitare» in senso generico, cioè nel primo significato, l' espres­ sione «cogitare con assenso» non dice tutto ciò che implica il credere. Infatti in tale senso an­ che chi considera le cose di cui ha la scienza o la nozione, cogita con assenso. Se invece lo si prende nel secondo senso, allora nel cogitare è implicita tutta la nozione dell'atto del credere. Infatti fra gli atti intellettivi alcuni hanno un fermo assenso senza tale cogitazione, come quando uno considera ciò che ha imparato o che intuisce: poiché questa considerazione è già pienamente f01mata. Altri invece presentano una cogitazione infonne, senza un fermo as­ senso: o perché non inclinano verso nessuna delle due parti [in discussione], come avviene in chi dubita, oppure perché inclinano più verso una parte ma poggiando su indizi malsicuri, co­ me fa chi sospetta, oppure ancora perché deci­ dono per una parte ma col timore che sia vero il contrario, come avviene in chi ha un'opinione. Invece l'atto del credere ha un'adesione ferma a una data cosa, e da questo lato chi crede è nelle condizioni di chi conosce per scienza o per intuizione; tuttavia la sua conoscenza non si compie mediante una percezione evidente: e da questo lato chi crede è nelle condizioni di chi dubita, di chi sospetta e di chi ha un'opinione. E sotto questo aspetto è proprio del credente il cogitare con assenso: ed è così che l' atto del credere si distingue da tutti gli atti intellettivi che hanno per oggetto il vero o il falso. Soluzione delle difficoltà: l . La fede non comporta la ricerca della ragione naturale che dimostra quanto è creduto. Comporta però una certa ricerca su quelle realtà grazie alle quali l'uomo è indotto a credere, come ad es. il fatto che si tratta di cose rivelate da Dio e confermate dai miracoli. 2. Cogitare qui non è preso come atto della cogitativa, ma come atto dell' intelletto, come è stato detto. 3. L'intelletto di chi crede è dete1minato a una data cosa non dalla ragione, ma dalla volontà. Quindi l' assenso è qui preso come un atto dell'intelletto in quanto è determinato a un solo oggetto dalla volontà.

L 'atto interiore dellafede

Q. 2, A. 2 Articulus 2

42 Articolo 2

Utrum convenienter distinguatur actus fidei per hoc quod est «credere Deo», «credere Deum» et «credere in Deum»

È giusto distinguere nell'atto di fede

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod inconvenienter distinguatur actus fidei per hoc quod est credere Deo, credere Deum et crede­

Sembra di no. Infatti: l . Unico è l'atto di un unico abito. Ma la fede è un unico abito, essendo un'unica virtù. Quindi non è giusto distinguere in essa più atti. 2. Ciò che è comune a ogni atto di fede non va considerato come un particolare atto di fede. Ma credere a Dio è un atto che si riscontra in qualsiasi atto di fede, poiché la fede si basa sulla prima verità. Perciò sembra che non sia giusto distinguerlo da cetti altri atti di fede. 3. Non si può considerare come un atto di fede ciò che conviene anche agli infedeli. Ora, anche gli infedeli credono che Dio esi­ ste. Quindi questo non va considerato come un atto di fede. 4. Portarsi verso il fine spetta alla volontà, che ha per oggetto il bene e il fine. Ora, credere non è un atto della volontà, ma dell'intelletto. Quindi non si deve ammettere nella fede una differenza che consista nel credere «in Dio», il che implica un moto verso il fine. In contrario: Agostino fa questa distinzione sia nei Sennoni al popolo, sia nel ln loan tract. Risposta: l'atto di qualsiasi abito o di qualsia­ si potenza va considerato in base al rapporto che l ' abito o la potenza ha con il proprio oggetto. Ora, tre sono gli aspetti sotto cui pos­ siamo considerare l' oggetto della fede. Esso infatti può essere considerato sia in rapporto all' intelletto che in rapporto alla volontà, poi­ ché credere spetta all'intelletto sotto la mozio­ ne della volontà che lo spinge ad assentire, come si è già detto. Se dunque lo si considera in rapporto all'intelletto, allora nell' oggetto della fede possiamo distinguere due cose, se­ condo le spiegazioni date. La prima è l ' ogget­ to materiale della fede. E da questo lato si considera come atto di fede «credere Dio»: poiché, come sopra si è detto, nulla viene pro­ posto alla nostra fede se non in quanto ap­ partiene a Dio. - La seconda invece è la ra­ gione formale dcii' oggetto, la quale costitui­ sce come il motivo per cui si assente a una data verità di fede. E da questo Iato si consi­ dera come atto di fede «credere a Dio»: poi­ ché, come sopra si è detto, l'oggetto formale della fede è la prima verità, alla quale l'uomo

re in Deum.

l . Unius enim habitus unus est actus. Sed fides est unus habitus, cum sit una virtus. Ergo inconvenienter ponuntur plures actus eius. 2. Praeterea, illud quod est commune omni actui fidei non debet poni ut particularis actus fidei. Sed credere Deo invenitur communiter in quolibet actu fidei, quia fides innititur pri­ mae veritati. Ergo videtur quod inconvenienter distinguatur a quibusdam aliis actibus fidei. 3. Praeterea, illud quod convenit etiam non fidelibus non potest poni fidei actus. Sed cre­ dere Deum esse convenit etiam infidelibus. Ergo non debet poni inter actus fidei. 4. Praeterea, moveri in finem pertinet ad voluntatem, cuius obiectum est bonum et finis. Sed credere non est actus voluntatis, sed intel­ lectus. Ergo non debet poni differentia una eius quod est credere in Deum, quod importat motum in finem. Sed contra est quod Augustinus hanc distinc­ tionem ponit, in libris De Verb. Dom. [Serm. 144,2], et In Ioan. tract. [29]. Respondeo dicendum quod actus cuiuslibet potentiae vel habitus accipitur secundum ordinem potentiae vel habitus ad suum obiec­ tum. Obiectum autem fidei potest tripliciter considerari. Cum enim credere ad intellectum pertineat prout est a voluntate motus ad assen­ tiendum, ut dictum est [a. l ad 3 ] , potest obiectum fidei accipi vel ex parte ipsius intel­ lectus, vel ex parte voluntatis intellectum moventis. Si quidem ex parte intellectus, sic in obiecto fidei duo possunt considerari, sicut supra [q. l a. l ] dictum est. Quorum unum est materiale obiectum fidei. Et sic ponitur actus fidei credere Deum, quia, sicut supra [ibid.] dictum est, nihil proponitur nobis ad creden­ dum nisi secundum quod ad Deum pertinet. Aliud autem est formalis ratio obiecti, quod est sicut medium propter quod tali credibili assentitur. Et sic ponitur actus fidei credere Deo, quia, sicut supra [ibid.] dictum est, for­ male obiectum fidei est veritas prima, cui

il «credere a Dio», il «credere Dio» e il «credere in Dio»?

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L 'atto interiore della fede

inhaeret homo ut propter eam creditis assen­ tiat. Si vero consideretur tertio modo obiec­ tum fidei, secundum quod intellectus est motus a voluntate, sic ponitur actus fidei cre­ dere in Deum, vedtas enim pdma ad volunta­ tem refertur secundum quod habet rationem finis. Ad pdmum ergo dicendum quod per ista tria non designantur diversi actus fidei, sed unus et idem actus habens diversam relationem ad fidei obiectum. Et per hoc etiam patet responsio ad secun­ dum. Ad tertium dicendum quod credere Deum non convenit infidelibus sub ea ratione qua ponitur actus fidei. Non enim credunt Deum esse sub his conditionibus quas fides detenni­ nat. Et ideo nec vere Deum credunt, quia, ut Philosophus dicit, 9 Met. [8, 10,3], in simplici­ bus defectus cognitionis est solum in non attingendo totaliter. Ad quartum dicendum quod, sicut supra [I q. 82 a. 4; 1-11 q. 9 a. l] dictum est, voluntas movet intellectum et alias vires animae in finem. Et secundum hoc ponitur actus fidei credere

in Deum.

Q. 2, A. 2

deve aderire perché in forza di essa dia l' as­ senso alle cose da credere. Se infine si consi­ dera l'oggetto della fede sotto un terzo aspet­ to, cioè in quanto dipende dall'intelletto sotto la mozione della volontà, allora si ha come atto di fede i l «credere i n Dio»: infatti la verità prima, considerata in quanto fine, si rapporta alla volontà. Soluzione delle difficoltà: l . Con queste tre cose non vengono indicati tre diversi atti di fede, ma un identico atto nei suoi diversi rap­ pof!i con l'oggetto della fede. 2. E evidente così la risposta alla seconda difficoltà. 3. Credere Dio non spetta agli infedeli in quanto è un atto di fede. Essi infatti non cre­ dono che Dio esista nelle condizioni detenni­ nate dalla fede. Quindi neppure credono vera­ mente Dio poiché, come dice Aristotele nella Metafisica, le realtà semplici o sono cono­ sciute totalmente, o non sono conosciute affatto. 4. La volontà muove l'intelletto e le altre po­ tenze dell'anima verso il fine, come si è detto sopra. E in questo senso viene enumerato fra gli atti di fede il «credere in Dio».

Articulus 3 Utrum credere aliquid supra rationem naturalem sit necessarium ad salutem

Articolo 3 Per la salvezza è necessario credere qualcosa al di sopra della ragione naturale?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod cre­ dere non sit necessarium ad salutem. l . Ad salutem enim et perfectionem cuiusli­ bet rei ea sufficere videntur quae conveniunt ei secundum suam naturam. Sed ea quae sunt fidei excedunt naturalem hominis rationem, cum sint non apparentia, ut supra [q. l a. 4] dictum est. Ergo credere non videtur esse necessarium ad salutem. 2. Praeterea, pedculose homo assentit illis in quibus non potest iudicare utrum illud quod ei proponitur sit verum vel falsum, secundum illud lob 1 2 [ 1 1 ], nonne auris verba diiudicat? Sed tale iudicium homo habere non potest in his quae sunt fidei, quia non potest homo ea resolvere in principia prima, per quae de omnibus iudicamus. Ergo periculosum est talibus fidem adhibere. Credere ergo non est necessarium ad salutem. 3. Praeterea, salus horninis in Deo consistit, secundum illud Ps. [36,39], salus autem

Sembra di no. Intàtti: l . Per la perfezione e la salvezza di qualsiasi realtà sembra che sia sufficiente ciò che ad essa si addice secondo la sua natura. Ma le realtà della fede sorpassano la ragione natura­ le dell'uomo, essendo non evidenti, come si è visto. Quindi sembra che credere non sia necessario alla salvezza. 2. Per un uomo è pericoloso dare l'assenso a realtà di cui non può giudicare se sono vere o false, come è detto in Gb 12, 1 1 : L'orecchio non distingue forse le parole ? Ora, l'uomo non può giudicare le cose di fede, poiché non può risolverle alla luce dei primi princìpi, di cui ci serviamo per giudicare di nnto. Quindi è pedcoloso prestare fede a tali cose. E quindi non è necessario credere per salvarsi. 3. La salvezza dell'uomo consiste in Dio, secondo le parole del Sal 36,39: La salvezza dei giusti viene dal Signore. Però, le perfezio­ ni invisibili di Dio possono essere contempla-

Q. 2, A. 3

L 'atto interiore dellafede

iustorum a Domino. Sed invisibilia Dei per ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur; sem­ pitema quoque virtus eius et divinitas, ut dici­ tur Rom. l [20] . Quae autem conspiciuntur intellectu non creduntur. Ergo non est neces­ sarium ad salutem ut homo aliqua credat. Sed contra est quod dicitur Heb. I l [6], sine fide impossibile est piacere Deo. Respondeo dicendum quod in omnibus natu­ ris ordinatis invenitur quod ad perfectionem naturae inferioris duo concurrunt, unum qui­ dem quod est secundum proprium motum; aliud autem quod est secundum motum supe­ rioris naturae. Sicut aqua secundum motum proprium movetur ad centrum, secundum autem motum lunae movetur circa centrum secundum fluxum et refluxum, similiter etiam orbes planetarum moventur propriis motibus ab occidente in orientem, motu autem primi orbis ab oriente in occidentem. Sola autem natura rationalis creata habet immediatum ordinem ad Deum. Quia ceterae creaturae non attingunt ad aliquid universale, sed solum ad aliquid particulare, participantes divinam bonitatem vel in essendo tantum, sicut inani­ mata, vel etiam in vivendo et cognoscendo singularia, sicut plantae et animalia, natura autem rationalis, inquantum cognoscit univer­ salem boni et entis rationem, habet immedia­ tum ordinem ad universale essendi princi­ pium. Perfectio ergo rationalis creaturae non solum consistit in eo quod ei competit secun­ dum suam naturam, sed etiam in eo quod ei attribuitur ex quadam supematurali participa­ tione divinae bonitatis. Unde et supra [I q. 1 2 a. l ; I-II q . 3 a. 8 ] dictum est quod ultima bea­ titudo hominis consistit in quadam supematu­ rali Dei visione. Ad quam quidem visionem homo pertingere non potest nisi per modum addiscentis a Deo doctore, secundum illud Ioan. 6 [45], omnis qui audit a Patre et didicit venit ad me. Huius autem disciplinae fit homo particeps non statim, sed successive, secun­ dum modum suae nattrrae. Omnis autem talis addiscens oportet quod credat, ad hoc quod ad perfectam scientiam perveniat, sicut etiam philosophus dicit [Soph. el. 2,2] quod oportet addiscentem credere. Unde ad hoc quod homo perveniat ad perfectam visionem beati­ tudinis praeexigitur quod credat Deo tanquam discipulus magistro docenti. Ad primum ergo dicendum quod, quia natura

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te con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità, come è detto in Rm l ,20. Ora, le cose che vengono contemplate con l'intelletto non sono credute. Quindi non è necessario per la salvezza che l 'uomo creda qualcosa. In contrario: in Eb 1 1 ,6 è detto: Senza la fede è impossibile piacere a Dio. Risposta: in tutti gli esseri ordinati si riscontra che alla perfezione di una natura inferiore concorrono due cose: la prima conforme al suo moto proprio, la seconda conforme al moto di un essere superiore. L'acqua, p. es., secondo il suo moto proprio tende verso il centro, mentre secondo il moto della luna tende a scostarsi dal centro secondo il flusso e il riflusso. Parimenti le sfere dei pianeti in for­ za del loro moto proprio si muovono da oc­ cidente a oriente, mentre in forza del moto della prima sfera si muovono da oriente a oc­ cidente. Ora, le sole creature razionali hanno un ordine immediato a Dio. Poiché le altre creature non raggiungono qualcosa di univer­ sale, ma solo realtà particolari, partecipando la bontà di Dio o soltanto nell'essere, come le creature inanimate, oppure nel vivere e nel conoscere, ma limitato soltanto ai singolari, come le piante e gli animali. Invece la creatu­ ra razionale, conoscendo la ragione universale di ente e di bene, ha un ordine immediato al principio universale dell'essere. Quindi la perfezione della creatura razionale non consi­ ste soltanto in ciò che le compete secondo la sua natura, ma anche in ciò che le viene con­ cesso grazie a una partecipazione soprannatu­ rale della bontà divina. Per questo sopra si è detto che l'ultima beatitudine dell'uomo con­ siste in una certa visione soprannaturale di Dio. Visione alla quale l'uomo non può arri­ vare se non come discepolo sotto il magistero di Dio, secondo il passo di Gv 6,45: Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Ora, l'uomo non diviene partecipe di que­ sto insegnamento in un istante, bensì progres­ sivamente, secondo la sua stessa natura. Ma qualsiasi discepolo in tali condizioni è tenuto a credere, per giungere alla conoscenza per­ fetta. Come anche il Filosofo dice: «Chi vuo­ le apprendere deve credere». Quindi, perché l' uomo raggiunga la visione perfetta della beatitudine si richiede che prima creda a Dio, come fa un discepolo col suo maestro.

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Q. 2, A. 3

L 'atto interiore della fede

hominis dependet a superiori natura, ad eius perfectionem non sufficit cognitio naturalis, sed requiritur quaedam supematuralis, ut supra [in co.] dictum est. Ad secundum dicendum quod, sicut homo per naturale lumen intellectus assentit princi­ piis, ita homo virtuosus per habitum virtutis habet rectum iudicium de his quae conveniunt virtuti illi. Et hoc modo etiam per lumen fidei divinitus infusum homini homo assentit his quae sunt fidei, non autem contrariis. Et ideo nihil periculi vel damnationis inest his qui sunt in Christo Iesu [Rom. 8, 1 ] ab ipso illu­ minati per fidem. Ad tertium dicendum quod invisibilia Dei altiori modo, quanntm ad plura, percipit fides quam ratio naturalis ex creaturis in Deum procedens. Unde dicitur Eccli. 3 [25]: plurima

super sensum hominis ostensa sunt tibi.

Soluzione delle difficoltà: l . La natura del­ l'uomo dipende da una natura superiore, per­ ciò alla sua perfezione non basta la conoscen­ za naturale, ma ne è richiesta una soprannatu­ rale, come detto sopra. 2. Come l'uomo dà l'assenso ai primi princìpi mediante la luce naturale dell'intelletto, così l' uomo virtuoso formula, mediante l ' abito della virtù, un retto giudizio sulle cose che ad essa si riferiscono. E in questo modo anche mediante la luce della fede infusagli da Dio l'uomo dà l'assenso alle verità di fede, e non a ciò che è contrario. Perciò, non c'è più nes­ sun pericolo o condanna per quelli che sono in Cristo Gesù [Rm 8, 1 ], illuminati da lui con la fede. 3. La fede coglie le perfezioni invisibili di Dio in un modo più alto, e da un maggior numero di punti di vista, rispetto a quanto fa la ragio­ ne naturale partendo dalle creature. Perciò in Sir 3,25 è detto: Ti è stato mostrato più di

quanto comprende un 'intelligenza umana. Articulus 4 Utrum credere ea quae ratione naturali probari possunt sit necessarium Ad quartum sic proceditur. Videtur quod ea quae ratione naturali probari possunt non sit necessarium credere. l . In operibus enim Dei nihil superfluum inve­ nitur, multo minus quam in operibus naturae. Sed ad id quod per unum potest fieri superflue apponitur aliud. Ergo ea quae per naturalem rationem cognosci possunt superfluum esset per fidem accipere. 2. Praeterea, ea necesse est credere de quibus est fides. Sed non est de eodem scientia et fides, ut supra [q. l a. 5] habitum est. Cum igitur scientia sit de omnibus illis quae natura­ li ratione conosci possunt, videtur quod non oporteat credere ea quae per naturalem ratio­ nem probantur. 3. Praeterea, omnia scibilia videntur esse unius rationis. Si igitur quaedam eorum proponuntur homini ut credenda, pari ratione omnia huius­ modi necesse esset credere. Hoc autem est falsum. Non ergo ea quae per naturalem ratio­ nem cognosci possunt necesse est credere. Sed contra est quia necesse est Deum credere esse unum et incorporeum, quae naturali ratione a philosophis probantur.

Articolo 4

È necessario credere anche le verità che si possono dimostrare con la ragione naturale?

Sembra di no. Infatti: l . Nelle opere di Dio non si trova nulla di superfluo, meno ancora che nelle opere della natura. Ora, quando un effetto può essere ottenuto con un dato mezzo, è superfluo ag­ giungerne un altro. Quindi sarebbe superfluo ricevere per fede le verità che si possono co­ no�cere con la ragione naturale. 2. E necessario credere le verità di fede. Ma sopra abbiamo visto che una stessa cosa non può essere oggetto di scienza e di fede. Quin­ di, poiché la scienza riguarda tutte le cose conoscibili con la ragione naturale, sembra che non si debba credere le cose che sono dimostrabili con la ragione naturale. 3. Tutti gli oggetti della scienza sembrano es­ sere della stessa natura. Se quindi alcuni di essi vengono presentati come di fede, per lo stesso motivo dovranno essere creduti, il che è falso. Quindi non è necessario accettare per fede quanto è conoscibile con la ragione naturale. In contrario: è indispensabile credere che Dio è unico e immateriale. E i filosofi dimostrano queste due verità con la ragione naturale.

Q. 2, A. 4

L 'atto interiore dellafede

Respondeo dicendum quod necessarium est homini accipere per modum fidei non solum ea quae sunt supra rationem, sed etiam ea quae per rationem cognosci possunt. Et hoc propter tria. Primo quidem, ut citius homo ad veritatis divinae cognitionem perveniat. Scien­ tia enim ad quam pertinet probare Deum esse et alia huiusmodi de Deo, ultimo hominibus addiscenda proponitur, praesuppositis multis aliis scientiis. Et sic non nisi post multum tempus vitae suae homo ad Dei cognitionem perveniret. Secundo, ut cognitio Dei sit com­ munior. Multi enim in studio scientiae profi­ cere non possunt, vel propter hebetudinem ingenii; vel propter alias occupationes et necessitates temporalis vitae; vel etiam prop­ ter torporem addiscendi. Qui omnino a Dei cognitione fraudarentur nisi proponerentur eis divina per modum fidei. Tertio modo, propter certitudinem. Ratio enim humana in rebus divinis est multum deticiens, cuius signum est quia philosophi, de rebus humanis naturali investigatione perscrutantes, in multis errave­ runt et sibi ipsis contraria senserunt. Ut ergo esset indubitata et certa cognitio apud homi­ nes de Deo, oportuit quod divina eis per modum fidei traderentur, quasi a Deo dieta, qui mentiri non potest. Ad primum ergo dicendum quod investigatio naturalis rationis non sufficit humano generi ad cognitionem divinorum etiam quae ratione ostendi possunt. Et ideo non est superfluum ut talia credantur. Ad secundum dicendum quod de eodem non pote..'\t esse scientia et fides apud eundem. Sed id quod est ab uno scitum potest esse ab alio creditum, ut supra [in arg.] dictum est. Ad tertium dicendum quod, si omnia scibilia conveniant in ratione scientiae, non tamen conveniunt in hoc quod aequaliter ordinent ad beatitudinem. Et ideo non aequaliter omnia proponuntur ut credenda.

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Risposta: era necessario che l'uomo accettas­ se per fede non soltanto le verità che superano la ragione, ma anche quelle che sono conosci­ bili con la ragione naturale. E ciò per tre moti­ vi. Primo, perché l'uomo possa raggiungere più rapidamente la conoscenza delle verità divine. Infatti la scienza che ha il compito di dimostrare che Dio esiste, e altre tesi tiguar­ danti Dio, è l'ultima in ordine didattico, pre­ supponendo molte altre scienze. E così l'uo­ mo non raggiungerebbe la conoscenza di Dio se non dopo molti anni di vita. Secondo, per­ ché la conoscenza di Dio sia più diffusa. Infatti molti non possono progredire nello stu­ dio o per la scarsità dell' ingegno, o per le altre occupazioni e necessità della vita tempo­ rale, oppure per la svogliatezza nell'appren­ dere. Ora, costoro sarebbero privati totalmen­ te della conoscenza di Dio se le verità divine non fossero loro proposte per fede. Terzo, a motivo della certezza. Infatti la ragione uma­ na è molto manchevole nelle cose divine: e ne abbiamo un indizio nel fatto che i filosofi che indagarono le realtà umane con l a ricerca della ragione naturale commisero molti errori e non si trovarono d' accordo fra di loro. Quindi, perché la conoscenza di Dio fosse in­ dubitata e certa presso gli uomini, era neces­ sario che le cose divine fossero loro trasmesse per fede, cioè come rivelate da Dio, il quale non può mentire. Soluzione delle difficoltà: l . L'investigazione della ragione naturale non basta ad assicurare al genere umano la conoscenza delle verità divine, neppure in ciò che la ragione è in grado di dimostrare. Perciò non è superfluo che queste siano proposte come verità di fede. 2. Un' identica verità non può essere oggetto di fede e di scienza nel medesimo individuo. Però, come si è detto sopra, ciò che per uno è oggetto di scienza, per un altro può essere oggetto di fede. 3. Le verità scientifiche concordano tutte nel­ l'essere oggetto di scienza, ma non tutte con­ cordano nell'ordinare ugualmente alla beati­ tudine. Perciò non tutte sono ugualmente pro­ ponibili come verità di fede.

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Q. 2, A. 5

L 'atto interiore della fede Articulus 5

Articolo 5

Utrum homo teneatur ad credendum aliquid explicite

Vuomo è tenuto a credere qualcosa in maniera esplicita?

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod non teneatur homo ad credendum aliquid explici­ te. l . Nullus enim tenetur ad id quod non est in eius potestate. Sed credere aliquid explicite non est in hominis potestate, dicitur enim Rom. 1 0 [ 1 4- 1 5], quomodo credent ei quem

Sembra di no. Infatti : l . Nessuno è tenuto a ciò che non è in suo potere. Ora, credere qualcosa in maniera esplicita non è in potere dell'uomo. Infatti in Rm 1 0, 1 4- 1 5 è detto: Come potranno credere

non audierunt? Quomodo audient sine prae­ dicante? Quomodo autem praedicabunt nisi mittantur? Ergo credere aliquid explicite homo non tenetur. 2. Praeterea, sicut per fidem ordinamur in Deum, ita et per caritatem. Sed ad servandum praecepta caritatis homo non tenetur, sed suf­ ficit sola praeparatio animi, sicut patet in illo praecepto Domini quod ponitur Matth. 5 [39],

Si quis percusserit te in una maxilla, praebe ei et aliam, et in aliis consimilibus, ut Augustinus exponit, in libro l De Serm. Dom. in monte [ 1 9] . Ergo etiam non tenetur homo explicite aliquid credere, sed sufficit quod habeat ani­ mum paratum ad credendum ea quae a Deo proponuntur. 3. Praeterea, bonum fidei in quadam obedien­ tia consistit, secundum illud Rom. l [5], ad obediendumfidei in omnibus gentibus. Sed ad virtutem obedientiae non requiritur quod homo aliqua determinata praecepta observet, sed sufficit quod habeat promptum animum ad obediendum, secundum illud Ps. [ 1 1 8,60],

paratus swn, et non sum turbatus, ut custo­ diam mandata tua. Ergo videtur quod etiam ad fidem sufficiat quod homo habeat promp­ tum animum ad credendum ea quae ei divini­ tus proponi possent, absque hoc quod explici­ te aliquid credat. Sed contra est quod dicitur ad Heb. 1 1 [6],

accedentem ad Deum oportet credere quia est, et quod inquirentibus se remunerator est. Respondeo dicendum quod praecepta legis quae homo tenetur implere dantur de actibus virtutum qui sunt via perveniendi ad salutem. Actus autem virtutis, sicut supra [q. 2 a. 2] dictum est, sumitur secundum habitudinem habitus ad obiectum. Sed in obiecto cuiuslibet virtutis duo possunt considerari, scilicet id quod est proprie et per se virtutis obiectum, quod necessarium est in omni actu virtutis; et

senza averne sentito parlare? E come potran­ no sentime parlare senza uno che lo annun­ zi? E come lo annunzieranno senza essere prima inviati? Dunque l'uomo non è tenuto a credere qualcosa in maniera esplicita. siamo ordinati a Dio mediante la fede, come anche mediante la carità. Ora, l'uomo non è tenuto a osservare [materialmente] i precetti della carità, ma basta la sola disposi­ zione d'animo, come risulta da quel precetto del Signore in MI 5,39: Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra, e da altri simili, come spiega Agostino. Perciò l 'uomo non è tenuto neppure a credere espli­ citamente qualcosa, ma basta che abbia l'ani­ mo disposto a credere quanto Dio propone. 3 . Il bene della fede consiste in una certa obbedienza, come è detto in Rm 1 ,5: Per otte­

2. Noi

nere l'obbedienza alla fede da pm1e di tutte le genti. Ora, per avere la virtù dell'obbedienza non si richiede che uno osservi determinati precetti, ma basta che abbia l'animo disposto a ubbidire, come è detto nel Sal 1 1 8,60: Sono

pronto, e non sono turbato, per custodire i tuoi comandamenti. Quindi sembra che anche per la fede basti che uno abbia l'animo disposto a credere le cose che Dio potrebbe proporre, senza però credere nulla in maniera esplicita In contrario: in Eh 1 1 ,6 è detto: Chi si accosta

a Dio deve credere che egli esiste e che ri­ compensa coloro che lo cercano. Risposta: i precetti della legge che l'uomo è tenuto a osservare hanno per oggetto gli atti di virtù che sono via per raggiungere la salvez­ za. Ma gli atti di virtù, come sopra si è detto, vanno giudicati in base al rapporto di ciascun abito col suo oggetto. Ora, nell' oggetto di qualsiasi virtù si possono considerare due cose: ciò che costituisce l'oggetto proprio ed essenziale della virtù, e che è indispensabile in ogni atto di virtù; e poi ciò che è connesso solo accidentalmente e secondariamente con la ragione specifica dell'oggetto. Così ad es.

Q. 2, A. 5

L 'atto interiore dellafede

iterum id quod per accidens sive consequenter se habet ad propriam rationem obiecti. Sicut ad obiectum fortitudinis proprie et per se pertinet sustinere pericula martis et aggredi hostes cum periculo propter bonum commu­ ne, sed quod homo mmetur vel ense percutiat i n bello iusto, aut aliquid huiusmodi faciat, reducitur quidem ad obiectum fortitudinis, sed per accidens. Determinatio igitur virtuosi actus ad proprium et per se obiectum virtutis est sub necessitate praecepti, sicut et ipse vir­ tutis actus. Sed determinatio actus virtuosi ad ea quae accidentaliter vel secundario se habent ad proprium et per se virtutis obiectum non cadit sub necessitate praecepti nisi pro loco et tempore. - Dicendum est ergo quod fidei obiectum per se est id per quod homo beatus efficitur, ut supra [q. l a. 6 ad l ] dic­ tum est. Per accidens autem vel secundario se habent ad obiectum fi dei omnia quae i n Scriptura divinitus tradita continentur, sicut quod Abraham habuit duos filios, quod David fuit filius lsai, et alia huiusmodi. Quantum er­ go ad prima credi bilia, quae sunt articuli fidei, tenetur homo explicite credere, sicut et tene­ tur habere fidem. Quantum autem ad alia cre­ dibilia, non tenetur homo explicite credere, sed solum implicite vel in praeparatione ani­ mi, inquantum paratus est credere quidquid in divina Scriptura continetur. Sed tunc salurn huiusmodi tenetur explicite credere quando hoc ei constiterit in doctrina fidei contineri. Ad primum ergo dicendum quod, si in pote­ state hominis esse dicatur aliquid excluso auxilio gratiae, sic ad multa tenetur homo ad quae non potest sine gratia reparante, sicut ad diligendum Deum et proximum; et similiter ad credendum articulos fidei. Sed tamen hoc potest homo cum auxilio gratiae. Quod qui­ dem auxilium quibuscumque divinitus datur, misericorditer datur; quibus autem non datur, ex iustitia non datur, in poenam praecedentis peccati, saltem originalis peccati; ut Augusti­ nus dicit, in libro De cor. et gratia [Ep. 1 90,3]. Ad secundum dicendum quod homo tenetur ad determinate diligendum illa diligibilia quae sunt proprie et per se caritatis obiecta, scilicet Deus et proximus. Sed obiectio proce­ dit de illis praeceptis cmitatis quae quasi con­ sequenter pertinent ad obiectum caritatis. Ad tertium dicendum quod virtus obedientiae proprie i n voluntate consi stit. Et ideo ad

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all'oggetto della fortezza appartiene in modo proprio e essenziale affrontare i pericoli di morte e aggredire i nemici quando è in peri­ colo il bene comune; invece il fatto di armar­ si, di colpire con la spada in una guerra giu­ sta, oppure di compiere altre cose del genere, si riduce all' oggetto della fortezza, ma indi­ rettamente. Perciò la determinazione dell' atto virtuoso circa l 'oggetto proprio ed essenziale della virtù cade sotto l'obbligatorietà del pre­ cetto, come anche lo stesso atto virtuoso. In­ vece la determinazione dell' atto virtuoso circa gli oggetti accidentali e secondari non cade sotto l' obbligatorietà del precetto se non i n luoghi e tempi determinati. - Si deve quindi concludere che l'oggetto essenziale della fede è ciò che rende l 'uomo beato, come si è detto sopra. Sono invece oggetti secondari e acci­ dentali in rapporto ad esso tutte le verità con­ tenute nella Scrittura trasmessaci da Dio, come il fatto che Abramo ebbe due figli, che Davide era figlio di lesse e cose del genere. Quanto dunque ai dogmi fondamentali, che sono gli articoli di fede, l ' uomo è tenuto a crederli esplicitamente, come è anche tenuto ad avere la fede. Invece le altre verità di fede l ' uomo non è tenuto a crederle in maniera esplicita, ma solo implicitamente: è tenuto cioè ad avere l ' animo disposto a credere quanto è contenuto nella sacra Scrittura. Per cui è tenuto a credere tali verità i n maniera esplicita solo quando gli consta che esse fan­ no parte dell'insegnamento della fede. Soluzione delle difficoltà: l . Se si consideras­ se in potere dell'uomo solo ciò che egli può fare a prescindere dali' aiuto della grazia, allo­ ra l' uomo sarebbe tenuto a molte cose che non sono in suo potere, come amare Dio e il prossimo, e similmente credere gli articoli della fede. L' uomo tuttavia può fare tali cose con l' aiuto della grazia. E tale aiuto, a chiun­ que sia concesso da Dio, è concesso per mise­ ricordia; e a chi non viene concesso è negato per giustizia, i n pena cioè di un peccato pre­ cedente, almeno del peccato originale, come spiega Agostino. 2. L'uomo è tenuto ad amare in modo deter­ minato ciò che costituisce l'oggetto proprio ed essenziale della carità, cioè Dio e il prossimo. L'obiezione, invece, si riferisce a quei precetti della carità che appartengono ali' oggetto del­ la carità quasi indirettamente.

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L 'atto interiore della fede

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actum obedientiae sufficit promptitudo volun­ tatis subiecta praecipienti, quae est proprium et per se obiectum obedientiae. Sed hoc prae­ ceptum vel illud per accidens vel consequen­ ter se habet ad proprium et per se obiectum obedientiae.

3. La virtù dell'obbedienza si esaurisce pro­ priamente nella volontà. Quindi per l'atto di obbedienza basta la prontezza della volontà nella sottomissione a chi comanda; sottomis­ sione che è l'oggetto proprio ed essenziale dell'obbedienza. Invece questo o quel deter­ minato precetto particolare si ricollega solo accidentalmente e indirettamente all'oggetto proprio dell'obbedienza.

Articulus 6 Utrum omnes aequaliter teneantur ad habendum fidem explicitam

Articolo 6 Thtti sono tenuti ugualmente ad avere una fede esplicita?

Ad sextum sic proceditur. Vìdetur quod aequa­ liter omnes teneantur ad habendum fidem explicitam. l . Ad ea enim quae sunt de necessitate salutis omnes tenentur, sicut patet de praeceptis cari­ tatis. Sed explicatio credendorum est de neces­ sitate salutis, ut dictum est [a. 5]. Ergo ornnes aequaliter tenentur ad explicite credendum. 2. Praeterea, nullus debet examinari de eo quod explicite credere non tenetur. Sed quan­ doque etiam simplices examinantur de mini­ mis articulis fidei. Ergo omnes tenentur expli­ cite ornnia credere. 3. Praeterea, si minores non tenentur habere fidem explicitam, sed solum implicitam, oportet quod habeant fidem implicitam in fide maiorum. Sed hoc videtur esse periculo­ sum, quia posset contingere quod illi maio­ res errarent. Ergo videtur quod minores etiam debeant habere tidem explicitam. Sic ergo omnes aequaliter tenentur ad explicite credendum. Sed contra est quod dicitur Iob l [ 1 4], quod

Sembra di sì. Infatti: l . Tutti sono tenuti alle cose indispensabili per la salvezza, come è evidente per i precetti della carità. Ma l'esplicitazione delle verità di fede è indispensabile alla salvezza, come si è detto. Quindi tutti sono tenuti ugualmente a credere in maniera esplicita. 2. Uno non deve essere mai esaminato su ciò che non è tenuto a credere in maniera esplicita. Invece talora le persone semplici sono esami­ nate sui più minuti articoli di fede. Quindi tutti sono tenuti a credere esplicitamente ogni cosa. 3. Se la gente più umile non è tenuta ad avere una fede esplicita, ma solo implicita, è neces­ sario che abbia una fede implicita nella fede dei maggiorenti. Ma ciò è pericoloso, potendo capitare che i maggiorenti cadano nell'errore. Quindi anche la gente semplice deve avere una fede esplicita. E così tutti sono tenuti ugualmente a credere in maniera esplicita. In contrario: in Gb 1 , 14 è detto: l buoi arava­ no e le asine pascolavano vicino ad essi. Il che significa che la gente più umile, raffigura­ ta dagli asini, nel credere deve aderire ai mag­ giorenti, raffigurati dai buoi, come spiega Gregorio in Moralia 2,30. Risposta: l'esplicitazione delle verità di fede avviene mediante la rivelazione di Dio, perché le verità di fede superano la ragione naturale. Ma la rivelazione divina giunge agli inferiori attraverso i superiori secondo un certo ordine: giunge p. es. agli uomini mediante gli angeli, e agli angeli inferiori mediante gli angeli supe­ riori, come insegna Dionigi in De cael. hier. 4,3. Per Io stesso motivo è quindi necessario che anche tra gli uomini l'esplicitazione della fede negli inferiori dipenda dai superiori. Quindi come gli angeli superiori che illumina-

boves arabant et asinae pascebantur iuxta eos, quia videlicet minores, qui significantur per asinos, debent in credendis adhaerere maioribus, qui per boves significantur; ut Gregorius exponit, in 2 Mor. [30]. Respondeo dicendum quod explicatio creden­ dorum fit per revelationem divinam, credibilia enim naturalem rationem excedunt. Revelatio autem divina ordine quodam ad inferiores pervenit per superiores, sicut ad homines per angelos, et ad inferiores angelos per superio­ res, ut patet per Dionysium, in De cael. hier. [4,3] . Et ideo, pari ratione, explicatio fidei oportet quod perveniat ad inferiores homines per maiores. Et ideo sicut superiores angeli,

L 'atto interiore dellafede

Q. 2, A. 6

qui i nferiores illuminant, habent pleniorem notitiam de rebus divinis quam i nferiores, u t dicit Dionysius, 1 2 cap. D e cael. hier. [2]; ita etiam superiores homines, ad quos pertinet alios erudire, tenentur habere pleniorem noti­ tiam de credendis et magis explicite credere. Ad primum ergo dicendum quod explicatio credendorum non aequaliter quantum ad omnes est de necessitate salutis, quia plura tenentur explicite credere maiores, qui habent officium alios instruendi, quam alii . Ad secundum dicendum quod simplices non sunt examinandi de subtilitatibus tidei nisi quando habetur suspicio quod sint ab haereti­ cis depravati, qui in his quae ad subtilitatem fidei pertinent solent fidem simplicium depra­ vare. S i tamen inveniuntur non pertinaciter perversae doctrinae adhaerere, si in talibus ex simplicitate deficiant, non eis imputatur. A d tert i u m dicendum quod minores non habent fidem implicitam in fide maiorum nisi quatenus maiores adhaerent doctrinae divi­ nae, unde et Apostolus dicit, l ad Cor. 4 [16],

imitatores mei estote, sicut et ego Christi. Unde humana cognitio non fit regula fidei, sed veritas divina. A qua si aliqui maiorum deficiant, non praeiudicat fidei simplicium, qui eos rectam fidem habere credunt, nisi per­ tinaciter eorum eiToribus in particulari adhae­ reant contra universalis Ecclesiae fidem, quae non potest deficere, Domino dicente, Luc. 22

[32], ego pro te rogavi, Petre, ut non deficiat fides tua.

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no quelli inferiori hanno una conoscenza delle realtà divine maggiore, come dice Dionigi, così anche gli uomini più dotati, che hanno il compito di istruire gli altri, sono tenuti ad avere una conoscenza maggiore delle verità di fede e a credere in maniera più esplicita. Soluzione delle difficoltà: l . L'esplicitazione delle verità di fede non è ugualmente necessa­ ria per tutti: poiché i maggiorenti, che hanno il compito di insegnare, sono tenuti a credere in modo esplicito più cose che gli altri. 2. Le persone semplici non devono essere esaminate sui più sottili articoli di fede se non quando c'è il sospetto che siano state ingan­ nate dagli eretici, i quali sono soliti coiTompe­ re la fede della gente semplice nelle più sottili questioni di fede. Se però si riscontra che tali persone non aderiscono pettinacemente a una dottrina perversa, ma sono cadute in errore a causa della loro semplicità, ciò non va loro imputato a colpa. 3. Le persone semplici non hanno una fede implicita nella fede dei maggiorenti se non in quanto questi ultimi aderiscono all' insegna­ mento divino, per cui anche Paolo in l Cor 4, 1 6 dice: Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo. Infatti non è regola di fede la cono­ scenza umana, ma la verità divina E se alcuni dei maggiorenti se ne allontanano non viene pregiudicata la fede dei semplici, i quali riten­ gono che essi abbiano una fede retta, a meno che essi stessi non vogliano aderire agli errori di costoro contro la fede della Chiesa univer­ sale, che non può mai venire meno, come dice il Signore in Le 22,32: Io ho pregato per te,

Pietro, perché non venga meno la tuafede. Articulus

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Articolo

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Utrum explicite credere mysterium Christi sit de necessitate salutis apud omnes

Credere esplicitamente il mistero di Cristo è necessario alla salvezza per tutti?

Ad septimum sic proceditur. Videtur quod credere explicite mysterium Christi non sit de necessitate salutis apud omnes. l . Non enim tenetur homo explicite credere ea quae angeli ignorant, quia explicatio fidei fit per revelationem divinam, quae pervenit ad homines mediantibus angelis, ut dictum est [a. 6; I q. 1 1 1 a. 1 ] . Sed etiam angeli mysterium incarnationis ignoraverunt, unde quaerebant in Ps. [23,8-10], Quis est iste rex gloriae? et

Sembra di no. Infatti: l . Un uomo non è tenuto a credere esplicita­ mente ciò che ignorano gli angeli : poiché l'esplicitazione della fede dipende dalla rive­ lazione di Dio, la quale giunge agli uomini mediante gli angeli , come si è detto. Ma anche gli angeli hanno ignorato il mistero del­ l ' incarnazione: infatti domandavano: Chi è questo re della gloria? (Sa/ 23,8- 1 0), e anche:

Chi è costui che viene da Edom? (fs 63,1),

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L 'atto interiore della fede

Isaiae 63 [1], quis est iste qui venit de Edom? ut Dionysius exponit, cap. 7 De cael. hier. [3] . Ergo a d credendum explicite mysterium incarnationis homines non tenebantur. 2. Praeterea, constat beatum Ioannem Bapti­ stam de maioribus fuisse, et propinquissimum Christo, de quo Dominus dicit, Matth. 1 1 [ 1 1], quod inter natos mulierum nullus maior eo surrexit. Sed Ioannes Baptista non videtur Christi mystetium explicite cognovisse, cum a Christo quaesierit, tu es qui venturus es, an alium expectamus? ut habetur Matth. I l [3]. Ergo non tenebantur etiam maiores ad haben­ dum explicitam fidem de Christo. 3. Praeterea, multi gentilium salutem adepti sunt per ministerium angelorum, ut Dionysius dicit, 9 cap. De cael. hier. [4]. Sed gentiles non habuerunt fidem de Christo nec explici­ tam nec implicitam, ut videtur, quia nulla eis revelatio facta est. Ergo videtur quod credere explicite Cristi mysterium non fuerit omnibus necessarium ad salutem. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De cor. et gratia [Ep. 1 90,2], illa fides sana

est qua credimLtS nullwn hominem, sive maioris sive parvae aetatis, liberari a contagio mortis et obligatione peccati nisi per wutm mediatorem Dei et hominum leswn Christum.

Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 5; q . l a . 6 ad l ] dictum est, illud proptie et per se pertinet ad obiectum fidei per quod homo beatitudinem consequitur. Via autem homini­ bus veniendi ad beatitudinem est mysterium incarnationis et passionis Christi, dicitur enim Act. 4,12: non est aliud nmnen datwn hominibus in quo oporteat nos salvos fieri. Et ideo mysterium incamationis Christi aliqualiter oportuit omni tempore esse creditum apud omnes, diversimode tamen secundum diversi­ tatem temporum et personarum. - Nam ante statum peccati homo habuit explicitam fidem de Christi incarnatione secundum quod ordi­ nabatur ad consummationem gloriae, non autem secundum quod ordinabatur ad libera­ tionem a peccato per passionem et resurrec­ tionem, quia homo non fuit praescius peccati futuri. Videtur autem incamationis Christi praescius fuisse per hoc quod dixit, propter

hoc relinquet homo patrem et matrem et adhaerebit uxori suae, ut habetur Gen. 2 [24]; et hoc Apostolus, ad Eph. 5 [32], dicit sacra­ mentum magnum esse in Christo et Ecclesia;

Q. 2, A. 7

come spiega Dionigi i n De cael. hier. 7 ,3. Perciò gli uomini non erano tenuti a credere esRlicitamente il mistero dell'incarnazione. 2. E noto che Giovanni Battista fu tra i grandi e vicinissimo a Cristo, e di lui il Signore in Mt 1 1, 1 1 dice: Tra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di lui. Ma sembra che Gio­ vanni Battista non abbia conosciuto esplicita­ mente il mistero di Cristo, poiché in Mt 1 1,3 egli chiese al Signore: Sei tu colui che deve

venire, o ne dobbiamo aspettare un altro?

Quindi anche le persone più dotate non erano tenute ad avere la fede esplicita in Cristo. 3. Molti pagani raggiunsero la salvezza me­ diante il ministero degli angeli, come dice Dionigi . Ma i pagani n on ebbero fede in Cristo, né esplicita né implicita: poiché essi non ebbero alcuna rivelazione. Perciò sembra che credere esplicitamente il mistero di Cristo non sia stato per tutti necessario alla salvezza. In contrario: Agostino dice: «Sana è quella fede per cui crediamo che nessun uomo di qualsiasi età possa essere liberato dal conta­ gio della morte e dai legami del peccato se non mediante Gesù Cristo, unico mediatore fra Dio e gli uomini». Risposta: come si è detto sopra, appartiene propriamente ed essenzialmente all'oggetto della fede ciò che è indispensabile all'uomo per raggiungere la beatitudine. Ora, la via per cui gli uomini possono raggiungere la beatitu­ dine è il mistero dell' incarnazione e della pas­ sione di Cristo, per cui in At 4, 1 2 è detto: Non

vi è alflv nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere sal­ vati. Perciò era necessario che il mistero del­ l'incarnazione di Cristo fosse creduto in qual­ che modo da tutti in tutti i tempi, però in mo­ do diverso secondo la diversità dei tempi e delle persone. - Prima del peccato infatti l 'uomo ebbe la fede esplicita nell'incarnazio­ ne di Cristo in quanto questa era ordinata alla pienezza della gloria, ma non in quanto era ordinata a liberare dal peccato con la passione e con la risurrezione: poiché l'uomo non pre­ vedeva il suo peccato. E si arguisce che pre­ vedeva l' incarnazione di Cristo dalle parole che disse: Per questo l 'uomo abbandonerà

suo padre e sua madre e si unirà a sua mo­ glie, come è detto in Gen 2,24, parole queste che, secondo Paolo, significano il grande mistero esistente in Cristo e nella Chiesa

Q. 2, A. 7

L 'atto interiore dellafede

quod quidem sacramentum non est credibile primum hominem ignorasse. - Post peccatum autem fuit explicite creditum mysterium Christi non solum quantum ad incamationem, sed etiam quantum ad passionem et resurrec­ tionem, quibus humanum genus a peccato et morte liberatur. Aliter enim non praefiguras­ sent Christi passionem quibusdam sacrificiis et ante legem et sub lege. Quorum quidem sacrificiorum significatum explicite maiores cognoscebant, minores autem sub velamine illorum sacrificiorum, credentes ea divinitus esse disposita de Christo venturo, quodam­ modo habebant velatam cognitionem. Et sicut supra [q. l a. 7] dictum est, ea quae ad myste­ ria Christi pertinent tanto distinctius cognove­ runt quanto Christo propinquiores fuerunt. Post tempus autem gratiae revelatae tam maiores quam minores tenentur habere t'idem explicitam de mysteriis Christi; praecipue quantum ad ea quae communiter in Ecclesia sollemnizantur et publice proponuntur, sicut sunt articuli incamationis, de quibus supra [q. l a. 8] dictum est. Alias autem subtiles considerationes circa incamationis articulos tenentur aliqui magis vel minus explicite cre­ dere secundum quod convenit statui et officio uniuscuiusque. Ad primum ergo dicendum quod angelos non omnino latuit mysterium regni Dei, sicut Au­ gustinus dicit, 5 Super Gen. [ 1 9] . Quasdam tamen rationes huius mysterii perfectius cognoverunt Christo revelante. Ad secundum dicendum quod Ioannes Baptista non quaesivit de adventu Christi in carnem quasi hoc ignoraret, cum ipse hoc expresse confessus fuerit, dicens, ego vidi, et

testimonium perhibui quia hic est Filius Dei, ut habetur Ioan. l [34]. Unde non dixit, tu es qui venisti? sed, tu es qui ventunts es? quae­ rens de futuro, non de praeterito. - Similiter non est credendum quod ignoraverit eum ad passionem venturum, ipse enim dixerat [loan. 1 ,29], ecce Agnus Dei, qui tollit peccata mundi, praenuntians eius immolationem futuram; et cum hoc Prophetae alii ante praedixerint, sicut praecipue patet in Isaiae 53. Potest igitur dici, sicut Gregorius dicit [In Ev. horn. 26], quod inquisivit ignorans an ad infemum esset i n propria persona descensuru s . Sciebat autem quod virtus passionis eius extendenda erat usque ad eos qui in limbo detinebantur,

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(Ef 5,32). Ora, non è credibile che questo mistero sia stato ignorato dal primo uomo. Dopo il peccato, poi, il mistero di Cristo fu creduto esplicitamente non solo quanto all'in­ carnazione, ma anche quanto alla passione e alla risurrezione, con le quali l'umanità è libe­ rata dal peccato e dalla morte. Altrimenti [gli antichi] non avrebbero prefigurato la passione di Cristo con dei sacrifici, sia prima che dopo la promulgazione della legge. E di quei sacri­ fici i maggiorenti conoscevano il significato esplicitamente, mentre le persone semplici ne avevano una conoscenza velata, credendo che essi erano stati disposti da Dio in vista del Cristo venturo. Inoltre, come sopra si è detto, [gli antichi] conobbero le cose che si riferiva­ no al mistero di Cristo tanto più distintamente quanto più furono vicini a Cristo. - Infine do­ po la rivelazione della grazia tanto i maggio­ renti quanto i semplici sono tenuti ad avere una fede esplicita riguardo ai misteri di Cri­ sto; e specialmente riguardo a quelli che co­ munemente sono oggetto delle solennità della Chiesa e che sono pubblicamente proposti, come gli articoli sull' incarnazione, di cui si è già detto. Invece soltanto alcuni sono tenuti a credere le altre sottili considerazioni sugli ar­ ticoli dell'incarnazione, in maniera più o me­ no esplicita secondo lo stato e le funzioni di ciascuno. Soluzione delle difficoltà: l . «Agli angeli non rimase del tutto nascosto il mistero del regno di Dio», come dice Agostino. Però ne conob­ bero più perfettamente certi aspetti mediante la rivelazione di Cristo. 2. Giovanni Battista non pose la sua domanda sulla prima venuta di Cristo come se la igno­ rasse, poiché egli stesso l' aveva proclamata espressamente dicendo: lo ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio (Gv 1 ,34). Perciò non domandò: «Sei tu colui che è venuto?», ma: Sei tu colui che deve venire ?, chiedendo così non per il passato, ma

per il futuro. - E così pure non si deve credere che egli ignorasse la passione a cui Cristo andava incontro: infatti lui stesso aveva detto:

Ecco l'Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo [Gv 1 ,29], preannunzian­ done l' immolazione futura; inoltre ciò era stato preannunziato dagli altri profeti, special­ mente da fs 53. Quindi, si può dire, come dice Gregorio, che Giovanni ha posto la domanda

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secundum illud Zach. 9 [1 1], tu quoque in sanguine testamenti tui emisisti vinctos de lacu in quo non est aqua. Nec hoc tenebatur explicite credere, antequam esset impletum, quod per seipsum deberet descendere. - Vel potest dici, sicut A mbrosius dicit, 5 Super Luc. [in 7,19], quod non quaesivit ex dubitatio­ ne seu ignorantia, sed magis ex pietate. Vei potest dici, sicut Chrysostomus dicit [In Matth. horn. 36], quod non quaesivit quasi ipse igno­ raret , sed ut per Christum satisfieret eius discipulis . Unde et Christus ad discipulorum instructionem respondit, signa operum osten­ dens [Matlh. I l ,4-5]. Ad tertium dicendum quod multis gentilium facta fuit revelatio de Christo, ut patet per ea quae praedixerunt. Nam Iob 19 [25] dicitur, scio quod Redemptor meus vivit. Sibylla etiam praenuntiavit quaedam de Christo, ut Augu­ stinus dicit [Contra Faustum 13,15]. Invenitur etiam inhistoriis Romanorum [vide Theophanis, Chronographia] quod tempore Constantini Augusti et Irenae matris eius inventum fuit quoddam sepulcrum in quo iacebat homo auream laminam habens in pectore in qua scriptum erat, Christus nascetur ex Virgine et credo in eum. O Sol, sub lrenae et Constantini temporibus iterum me videbis. Si qui tamen salvati fuerunt quibus revelatio non fuit facta, non fuerunt salvati absque fide Mediatoris. Quia etsi non habuerunt tìdem explicitam, habuerunt tamen tìdem implicitam in divina providentia, credentes Deum esse liberatorem hominum secundum modos sibi placitos et secundum quod aliquibus veritatem cogno­ scentibus ipse revelasset, secundum illud Iob 35 [11], qui docet nos super iumenta terrae. -

perché non sapeva se Cristo sarebbe disceso personalmente agli inferi. Sapeva bene, infat­ ti, che la virtù della sua passione si sarebbe estesa fino a coloro che erano chiusi nel lim­ bo, secondo il passo di Zc 9, I l : Tu, per il san­ gue della tua alleanza, hai tratto i prigionieri dal lago senz 'acqua. Ma non era tenuto a cre­ dere in modo esplicito, prima che ciò si com­ pisse, che Cristo vi sarebbe disceso personal­ mente. - Oppure possiamo dire con Ambro­ gio che non pose la domanda per dubbio o ignoranza, ma piuttosto per affetto. Oppure si può dire, come il Crisostomo, che Giovanni pose la domanda non perché ignorasse, ma perché mediante Cristo desse garanzie ai suoi discepoli. Per cui anche Cristo rispose per istruire i discepoli, mostrando il valore delle opere compiute. 3. A molti pagani furono fatte rivelazioni su Cristo, come è evidente dalle loro predizioni. Infatti in Gb 19,25 è detto: lo so che il mio redentore è vivo. E anche la Sibilla predisse alcune cose su Cristo, come riferisce Agosti­ no. Inoltre nella storia romana si racconta che al tempo deli' imperatore Costantino e di Ire­ ne sua madre fu esumato un uomo con una lamina d'oro sul petto su cui era scritto: «Cri­ sto nascerà da una Vergine, e io credo in lui. O sole, ai tempi di !rene e di Costantino mi ri­ vedrai». - Tuttavia, anche se alcuni si salvaro­ no senza queste rivelazioni, non si salvarono senza la fede nel Mediatore. Poiché anche se non ne ebbero una fede esplicita, ebbero però una fede implicita nella divina provvidenza, credendo che Dio sarebbe stato il redentore degli uomini nel modo che a lui sarebbe pia­ ciuto, e secondo la rivelazione da lui fatta a quei pochi sapienti che erano nella verità, essendo egli, come è detto in Gb 35,11: Colui che ci rende più istruiti delle bestie selvatiche.

A rticulus 8 Utrum explicite credere Trinitatem sit de necessitate salutis

È necessario per la salvezza credere

A rticolo 8

Ad octavum sic procedimr. Videtur quod cre­ dere Trinitatem explicite non fuerit de neces­ sitate salutis. l . Dicit enim Apostolus, ad Heb. 11 [6], cre­ dere oportet accedentem ad Deum quia est, et quia inquirentibus se remunerator est. Sed hoc potest credi absque fide Trinitatis. Ergo

Sembra di no. Infatti: l . In Eh 11,6 è detto: Chi si accosta a Dio deve credere che egli esiste, e che ricompensa coloro che lo cercano. Ora, si può credere questo senza la fede nella Trinità. Quindi non era necessario avere la fede esplicita nella Trinità.

esplicitamente nella Trinità?

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non oportebat explicite fidem de Trinitate habere. 2. Praeterea, Dominus dicit, Ioan. 1 7 [6] ,

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2. In Gv 1 7,6 il S ignore dice: Padre, io ho manifestato il tuo nome agli uomini; e Agosti­

non erat cognitum quod in deitate esset pater­ nitas et filiatio. Non ergo Trinitas explicite credebatur. 3 . Praeterea, illud tenemur explicite credere in Deo quod est beatitudinis obiectum. Sed obiectum beatitudinis est bonitas summa, quae potest intelligi in Deo etiam sine perso­ narum distinctione. Ergo non fui t necessa­ rium credere explicite Trinitatem. Sed contra est quod in Veteri Testamento mul­ tipliciter expressa est Trinitas personarum, sicut statim in principio Gen. [ l ,26] dicitur, ad expressionem Trinitatis, faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram. Ergo a ptincipio de necessitate salutis fuit credere Trinitatem. Respondeo dicendum quod mysterium Christi explicite credi non potest sine fide Trinitatis, quia in mysterio Christi hoc continetur quod Filius Dei carnem assumpserit, quod per gra­ tiam Spititus Sancti mundum renovaverit, et iterum quod de Spirito Sancto conceptus fue­ rit. Et ideo eo modo quo mysterium Christi ante Christum fuit quidem explicite creditum a maioribus, implicite autem et quasi obum­ brate a minoribus, ita etiam et mysterium Trinitatis. Et ideo etiam post tempus gratiae divulgatae tenentur omnes ad explicite cre­ dendum mysterium Trinitatis. Et omnes qui renascunnrr in Christo hoc adipiscuntur per invocationem Trinitatis, secundum illud Matth. ult. 1 9, euntes, docete omnes gentes, bapti­

no spiega: «Non il tuo nome di Dio, ma quel­ lo con cui sei chiamato Padre mio». E aggiun­ ge poco dopo: «In quanto creatore di questo mondo, Dio è noto presso tutte le genti; in quanto non va adorato con i falsi dèi Dio è noto in Giudea; in quanto Padre di questo Cristo mediante il quale toglie il peccato del mondo ha un nome che prima era occulto, e che ora viene ad essi manifestato». Prima della venuta di Cristo non si sapeva quindi che in Dio ci fossero la paternità e la filiazio­ ne. Quindi non si credeva esplicitamente nella Trinità. 3. Di Dio siamo tenuti a credere esplicitamen­ te ciò che forma l' oggetto della beatitudine. Ma l ' oggetto della beatitudine è la somma bontà, che può essere concepita in Dio anche a prescindere dalla distinzione delle persone. Quindi non era necessario credere esplicita­ mente nella Trinità. In contrario: nell'Antico Testamento la trinità delle persone viene espressa in molte manie­ re: come fin dal principio di Gen [ 1 ,26] è det­ to per significare la Trinità: Facciamo l 'uomo a nostra immagine e somiglianza. Quindi fin da principio per salvarsi fu necessario credere il mistero della Trinità. Risposta: non è possibile credere esplicita­ mente il mistero di Cristo senza la fede nella Trinità: poiché il mistero di Cristo implica che il Figlio di Dio abbia assunto la carne, che abbia rinnovato il mondo mediante la grazia dello Spitito Santo, e ancora che sia stato con­ cepito per opera dello Spirito Santo. Perciò prima di Ctisto il mistero della Trinità fu cre­ duto, come anche il mistero dell'incarnazione, cioè esplicitamente dai maggiorenti e in ma­ niera implicita e quasi velata dalle persone semplici. E così dopo il tempo della rivelazio­ ne della grazia tutti sono tenuti a credere e­ spressamente anche il mistero della Trinità. E tutti quelli che rinascono in Cristo raggiungo­ no ciò grazie all'invocazione della Trinità, come è detto in Mt 28, 1 9: Andate e ammae­

Ad primum ergo dicendum quod illa duo explicite credere de Deo omni tempore et quoad omnes necessarium fuit. Non tamen est sufficiens omni tempore et quoad omnes.

Soluzione delle difficoltà: l . Per tutti e in tutti i tempi fu necessario credere di Dio esplicita­ mente quelle due cose. Non è detto però che per tutti e i n tutti i tempi ciò sia sufficiente.

Pater, manifestavi nomen tuum hominibus,

quod exponens Augustinus [In Ioan. tract. l 06] dicit, non illud nomen tuum quo vocaris Deus, sed illud quo vocaris Pater meus. Et postea subdit etiam, in hoc quod Deus fecit

hunc mundum, notus in omnibus gentibus; in hoc quod non est cum diis falsis colendus, notus in Iudaea Deus; in hoc vero quod Parer est huius Christi per quem tollit peccatum mundi, hoc nomen eius, prius occultum, nunc manifestavi! eis. Ergo ante Christi adventum

zantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti.

strate tutte le nazioni, battezzandole ne/ nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

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L 'atto interiore della fede

Q. 2, A. 8

Ad secundum dicendum quod ante Christi adventum fides Trinitatis erat occulta in fide maiorum. Sed per Christum manifestata est mundo per Apostolos. Ad tertium dicendum quod summa bonitas Dei secundum modum quo nunc intelligitur per effectus, potest intelligi absque Trinitate personamm. Sed secundum quod intelligitur in seipso, prout videtur a beatis, non potest intelligi sine Trinitate personamm. Et iterum ipsa missio personarum divinarum perducit nos in beatitudinem.

2. Prima della venuta di Cristo la fede nella Trinità era nascosta nella fede dei maggioren­ ti. Da Cristo invece essa è stata manifestata al mondo per mezzo degli apostoli. 3. La somma bontà di Dio in quanto è com­ prensibile grazie agli effetti può essere conce­ pita senza la Trinità delle persone. Ma i n quanto s i identifica con Dio stesso, così come la vedono i beati, non può essere concepita senza tale Trinità. E inoltre è la stessa missio­ ne delle persone divine che ci conduce alla beatitudine.

Articulus 9 Utrurn credere sit rneritoriurn

Articolo 9 Credere è un atto meritorio?

Ad nonum sic proceditur. Vìdetur quod credere non sit meritorium. l . Principium enim merendi est caritas, ut supra [l-II q. 1 1 4 a. 4] dictum est. Sed fides est praeambula ad caritatem, sicut et natura. Ergo, sicut actus naturae non est meritorius (quia naturalibus non meremur), ita etiam nec actus fidei. 2. Praeterea, credere medium est inter opinari et scire vel considerare scita. Sed consideratio scientiae non est meritoria; similiter autem nec opinio. Ergo etiam neque credere est meritorium. 3. Praeterea, ille qui assentit alicui rei creden­ do aut habet causam sufficienter inducentem ipsum ad credendum, aut non. Si habet suffi­ ciens inductivum ad credendum, non videtur hoc ei esse meritorium, quia non est ei iam liberum credere et non credere. Si autem non habet sufficiens inductivum ad credendum, levitatis est credere, secundum illud Eccli . 1 9 [4] , qui cito credit levis est corde, et sic non videtur esse meritorium. Ergo credere nullo modo est meritorium. Sed contra est quod dicitur ad Heb. 1 1 [33], quod sancti per fidem adepti sunt repromis­ siones. Quod non esset nisi credendo mere­ rentur. Ergo ipsum credere est meritorium. Respondeo dicendum quod, sicut supra [1-11 q. 1 14 a. 3-4] dictum est, actus nostri sunt meritorii inquantum procedunt ex libero arbi­ trio moto a Deo per gratiam. Unde omnis actus humanus qui subiicitur libero arbitrio, si sit relatus in Deum, potest meritorius esse. lpsum autem credere est actus intellectus assentientis veritati divinae ex imperio volun-

Sembra di no. Infatti: l . Il principio del merito è la carità, come sopra si è dimostrato. Ma la fede è un pream­ bolo alla carità, come anche la natura. Come quindi non è meritorio l' atto naturale (poiché con i mezzi naturali noi non meritiamo), così non lo è l'atto di fede. 2. Credere è un atto che sta fra l' opinare e il conoscere o considerare gli oggetti della scienza. Ma una considerazione scientifica non è meritoria; e così pure non lo è un'opi­ nione. Quindi non è meritorio neppure i l credere. 3. Chi credendo dà l' assenso a una cosa, o ha o non ha un motivo sufficiente che lo induce a credere. Se ha un tale motivo, allora l'atto non sembra essere meritorio: poiché egli non è libero di credere o di non credere. Se invece il motivo è insufficiente, allora credere è un atto di leggerezza, come è detto in Sir 1 9,4: Chi subito crede è di animo leggero. Quindi sem­ bra che non sia meritorio. Perciò in nessun modo credere è un atto meritorio. In contrario: in Eb 1 1 ,33 è detto che i santi per la fede conseguirono le promesse. Ma ciò non sarebbe accaduto se non avessero merita­ to col credere. Quindi credere è meritorio. Risposta: come si è già detto, i nostri atti sono meritori in quanto procedono dal libero arbi­ trio mosso da Dio mediante la grazia. Per cui qualsiasi atto umano soggetto al libero arbi­ trio, se è indirizzato verso Dio, può essere meritorio. Ora, credere è un atto dell 'intelletto che dà l ' assenso alla verità divina sotto i l comando della volontà mossa da Dio median­ te la grazia, e quindi è soggetto al libero arbi-

Q. 2, A. 9

L 'atto interiore dellafede

tatis a Deo motae per gratiam, et sic subiacet libero arbitrio in ordine ad Deum. Unde actus fidei potest esse meritorius. Ad primum ergo dicendum quod natura com­ paratur ad caritatem, quae est merendi princi­ pium, sicut materia ad formam. Fides autem comparatur ad caritatem sicut dispositio prae­ cedens ultimam formam. Manifestum est autem quod subiectum vel materia non potest agere in virtute formae, neque etiam disposi­ tio praecedens, antequam forma adveniat. Sed postquam forma advenerit, tam subiectum quam dispositio praecedens agit in virtute for­ mae, quae est principale agendi principium, sicut calor ignis agit in virtute formae substan­ tialis. Sic ergo neque natura neque fides sine caritate possunt producere actum meritorium, sed caritate superveniente, actus fidei fit meri­ torius per caritatem, sicut et actus naturae et naturalis liberi arbitrii. Ad secundum dicendum quod in scientia duo possunt considerari, scilicet ipse assensus scientis ad rem scitam, et consideratio rei sci­ tae. Assensus autem scientiae non subiicitur libero arbitrio, quia sciens cogitur ad assen­ tiendum per efficaciam demonstrationis. Et ideo assensus scientiae non est meritorius. Sed consideratio actualis rei scitae subiacet libero arbitrio, est enim in protestate hominis considerare vel non considerare. Et ideo con­ sideratio scientiae potest esse meritoria, si referatur ad finem caritatis, idest ad honorem Dei vel utilitatem proximi. Sed in fide utrum­ que subiacet libero arbitrio. Et ideo quantum ad utrumque actus fidei potest esse merito­ nus. Sed opinio non habet firmum assensum, est enim quoddam debile et infirmum, secun­ dum Philosophum, in l Post. [33,2] . Unde non videtur procedere ex perfecta voluntate. Et sic ex parte assensus non multum videtur habere rationem meriti. Sed ex parte conside­ rationis actualis potest meritoria esse. Ad tertium dicendum quod ille qui credit habet sufticiens inductivum ad credendum, inducitur enim auctoritate divinae doctrinae miraculis confirmatae, et, quod plus est, inte­ riori instinctu Dei invitantis. Unde non leviter credit. Tamen non habet sufficiens inducti­ vum ad sciendum. Et ideo non tollitur ratio meriti.

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trio in ordine a Dio. Quindi l'atto di fede può essere meritorio. Soluzione delle difficoltà: l . La natura sta alla carità, che è il principio del merito, come la materia sta alla forma. Invece la fede sta alla carità come la disposizione che precede l'ultima forma. Ora, è noto che il soggetto o la materia, come pure la disposizione, non possono agire in virtù della forma prima che la forma sopraggiunga. Ma una volta che la forma è sopraggiunta, sia il soggetto che la disposizione precedente agiscono in virtù del­ la torma, che è il principio agente principale: come il calore del fuoco agisce in virtù della forma sostanziale [del fuoco]. Perciò sia la natura che la fede senza la carità non possono compiere un atto meritodo; ma sopraggiunta la carità, allora con essa gli atti di fede diven­ tano meritori, come pure gli atti della natura e quelli naturali del libero arbitrio. 2. Nel sapere si possono considerare due cose: l'assenso di colui che sa alle verità conosciute e la considerazione attuale di tali verità. Ora, l'assenso alle verità conosciute non è soggetto al libero arbitrio: poiché chi sa è costretto ad assentire per I' efficacia della dimostrazione. Perciò I' assenso alla scienza non è meritorio. Invece la considerazione attuale delle verità conosciute è soggetta al libero arbitrio: infatti è in potere dell' uomo considerare o non con­ siderare tali verità. E così questa considerazio­ ne può essere meritoria se è rivolta al tine della carità, cioè all'onore di Dio o all'utilità del prossimo. Ma nella fede sia l'una che I' altra cosa è soggetta al libero arbitrio. Quin­ di l'atto di fede può essere meritorio in tutte e due le maniere. L'opinione invece non ha un assenso fermo: essa infatti è qualcosa di debole e instabile, come dice il Filosofo nei Secondi Analitici. Quindi non sembra che derivi da un volere perfetto. E così dal lato dell'assenso non sembra avere un particolare aspetto meri­ torio. Può essere invece meritoria dal lato della considerazione attuale. 3. Chi crede ha un motivo sufficiente che lo induce a credere: poiché viene indotto dal­ l'autorità della rivelazione di Dio confermata dai miracoli; e più ancora dall'ispirazione interna di Dio che lo invita. Per cui non crede con leggerezza. Tuttavia non ha un motivo sufficiente per una conoscenza scientifica. E così non viene tolto il merito.

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Q. 2, A. l O

L 'atto interiore della fede

Articulus l O Utrum ratio inducta ad ea quae sunt fidei diminuat meritum fidei Ad decimum sic proceditur. Videtur quod ratio inducta ad ea quae sunt fidei diminuat meritum :fidei. l . Dicit enim Gregorius, in quadam homilia [In Ev. horn. 26], quod fides non habet meri­

Articolo 1 0

Le ragioni addotte a favore della fede ne sminuiscono il merito?

Si ergo ratio humana sufficienter experimen­ tum praebens totaliter excludit meritum fidei, videtur quod qualiscumque ratio humana inducta ad ea quae sunt fidei diminuat meri­ tum fidei. 2. Praeterea, quidquid diminuit rationem vir­ tutis diminuit rationem meriti, quia felicitas virtutis est praemium ut etiam Philosophus dicit, in l Ethic. [9,3]. Sed ratio humana vide­ tur diminuere rationem virtutis ipsius :fidei, quia de ratione fidei est quod sit non apparen­ tium, ut supra [q. l aa. 4-5] dictum est; quan­ to autem plures rationes inducuntur ad ali­ quid, tanto minus est non apparens. Ergo ratio humana inducta ad ea quae sunt fidei meri­ tum fidei diminuit. 3. Praeterea, contrariorum contrariae sunt causae. Sed id quod inducitur in contrarium fidei auget meritum fidei, sive sit persecutio cogentis ad recedendum a fide, sive etiam sit ratio aliqua hoc persuadens. Ergo ratio coa­ diuvans fidem diminuit meritum fidei. Sed contra est quod l Petri 3 [ 1 5 ] dicitur,

Sembra di sì. Infatti: l. Gregorio insegna che «non ha merito la fede a cui la ragione umana offre una prova». Se quindi la ragione umana che offre una prova adeguata esclude totalmente il merito della fede, sembra che qualsiasi ragione uma­ na addotta a sostegno delle verità di fede ne diminuisca il merito. 2. Quanto sminuisce la ragione di virtù smi­ nuisce pure l a ragione di merito: poiché, come dice Aristotele in Etica, «la felicità è il premio della virtù». Ma la ragione umana sminuisce la ragione di virtù nella fede: poi­ ché nella fede è essenziale avere per oggetto cose inevidenti, come sopra si è visto, e d'al­ tra parte più numerose sono le ragioni addotte a favore di una cosa, tanto meno essa è inevi­ dente. E così le ragioni umane addotte a favo­ re delle verità di fede sminuiscono il merito di questa. 3. Cause contrarie devono avere effetti contrari. Ma ciò che viene indotto contro la fede au­ menta il merito della fede stessa: sia che si tratti della persecuzione di chi vuole costrin­ gere ad abbandonarla, sia che si tratti delle ragioni che suggeriscono tale abbandono. Quindi le ragioni a favore della fede ne smi­ nuiscono il merito. In contrario: in l Pt 3 , 1 5 è detto: Siate sempre

parati semper ad satisfactionem omni poscenti vos rationem de ea quae in vobis est fide et spe. Non autem ad hoc induceret

pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della fede e della speranza che sono in voi. Ora, Paolo non farebbe questa esorta­

Apostolus si per hoc meritum fidei diminue­ retur. Non ergo ratio diminuit meritum fidei. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 9 ad 2], actus fidei potest esse meritorius i nquantum subiacet voluntati non solum quantum ad usum, sed etiam quantum ad assensum. Ratio autem humana inducta ad ea quae sunt fidei dupliciter potest se habere ad voluntatem credentis. Uno quidem modo, sicut praecedens, puta cum quis aut non habe­ ret voluntatem, aut non haberet promptam voluntatem ad credendum, nisi ratio humana induceretur. Et sic ratio humana inducta dimi­ nuit meritum fidei, sicut etiam supra [1-11 q. 24 a. 3 ad l ; q. 77 a. 6 ad 2] dictum est quod passio praecedens electionem in virtuti-

zione se ciò dovesse sminuire il merito della fede. Quindi le ragioni non sminuiscono i l merito della fede. Risposta: abbiamo detto sopra che l ' atto di fede può essere meritorio perché è soggetto alla volontà non solo nell'esercizio, ma anche nell' assenso. Ora, le ragioni umane addotte a favore delle verità di fede possono avere due rapporti diversi con la volontà di chi crede. Possono essere innanzitutto antecedenti: co­ me, ad es., quando uno non avrebbe la volon­ tà di credere, o non la avrebbe pronta, se non fosse indotto da una ragione umana. E allora le ragioni umane addotte sminuiscono il meri­ to della fede: come si è detto sopra per la pas­ sione antecedente, che nelle virtù morali di-

tum cui humana ratio praebet experimentum.

Q. 2, A. l0

L 'atto interiore dellafede

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bus moralibus diminuit laudem virtuosi actus. Sicut enim homo actus virtutum moralium debet exercere propter iudicium rationis, non propter passionem; ita credere debet homo ea quae sunt fidei non propter rationem huma­ nam, sed propter auctoritatem divinam. Allo modo ratio humana potest se habere ad voluntatem credentis consequenter. Cum enim homo habet promptam voluntatem ad credendum, diligit veritatem creditam, et super ea excogitat et amplectitur si quas ratio­ nes ad hoc invenire potest. Et quantum ad hoc ratio humana non excludit meritum fidei, sed est signum maioris meriti, sicut etiam passio consequens i n virtutibus moralibus est signum promptioris voluntatis, ut supra [I-II q. 24 a. 3 ad l ] dictum est. Et hoc significatur loan. 4 [42], ubi Samaritani ad mulierem, per quam ratio humana figuratur, dixerunt, iam

minuisce il valore dell' atto virtuoso. Infatti l'uomo, come è tenuto a compiere gli atti del­ le virtù morali non per passione, ma per un giudizio razionale, così è tenuto a credere le verità di fede non per una ragione umana, ma per l' autorità divina. - Secondo, le ragioni umane possono essere conseguenti alla volon­ tà di chi crede. Un uomo infatti che ha la vo­ lontà pronta a credere ama la verità creduta, vi riflette sopra e abbraccia le ragioni, se può trovarne qualcuna. E in questo caso le ragioni umane non tolgono il merito della fede, ma sono il segno di un merito più grande: come anche nelle virtù morali la passione conse­ guente è il segno di una volontà più pronta, come sopra si è spiegato. E ciò è simboleg­ giato in Gv 4,42, là dove i Samaritani dicono alla donna, che rappresenta la ragione umana:

non propter tuam loquelam credimus.

Soluzione delle difficoltà: l . Gregorio parla del caso in cui uno non ha la volontà di crede­ re se non per le ragioni addotte. Quando inve­ ce uno ha la volontà di credere le verità di fede per la sola autorità di Dio, anche se sco­ pre delle ragioni per dimostrare qualcuna di queste verità, p. es. l' esistenza di Dio, non per questo vede eliminato o sminuito il merito della fede. 2. Le ragioni addotte a sostegno della credibi­ lità della fede non sono dimostrazioni capaci di portare l 'i ntelletto umano all'evidenza. Quindi [le verità di fede] non cessano di esse­ re inevidenti. Tali ragioni invece tolgono gli ostacoli alla fede, mostrando che non è im­ possibile quanto essa propone. Per cui tali ra­ gioni non sminuiscono il merito della fede. Mentre, le ragioni dimostrative addotte a fa­ vore delle verità di fede preambolari agli arti­ coli, sebbene sminuiscano la formalità della fede in quanto rendono evidenti le cose pro­ poste, tuttavia non sminuiscono quella della carità, che rende il volere pronto a credere anche le cose inevidenti. Quindi il merito non diminuisce. 3. Gli elementi che contrastano la fede, sia nel pensiero umano che nella persecuzione ester­ na, in tanto accrescono il merito della fede in quanto mostrano una volontà più pronta e più ferma nel credere. E così i martiii ebbero un merito superiore nella loro fede non allonta­ nandosi da essa nelle persecuzioni; e anche i sapienti hanno un merito superiore nella fede

Ad primum ergo dicendum quod Gregorius loquitur in casu ilio quando homo non habet voluntatem credendi nisi propter rationem inductam. Quando autem homo habet volun­ tatem credendi ca quae sunt fidei ex sola auc­ toritate divina, etiam si habeat rationem demonstrativam ad aliquid eorum, puta ad hoc quod est Deum esse, non propter hoc tol­ litur vel minuitur meritum fidei. Ad secundum dicendum quod rationes quae inducuntur ad auctoritatem fidei non sunt demonstrationes quae in visionem intelligibi­ lem intellectum humanum reducere possunt. Et ideo non desinunt esse non apparentia. Sed removent impedimenta fidei, ostendendo non esse impossibile quod in fide proponitur. Unde per tales rationes non diminuitur meri­ tum fidei nec ratio fidei. Sed rationes demon­ strativae inductae ad ea quae sunt fidei, praeambula tamen ad articulos, etsi diminuant rationem fidei, quia faciunt esse apparens id quod proponitur; non tamen diminuunt ratio­ nem caritatis, per quam voluntas est prompta ad ea credendum etiam si non apparerent. Et ideo non diminuitur ratio meriti. Ad tertium dicendum quod ea quae repugnant fidei, sive in consideratione hominis sive in exteriori persecutione, intantum augent meri­ tum fidei inquantum ostenditur voluntas magis prompta et firma in fide. Et ideo martyres maius tidei meritum habuerunt non recedentes a fide propter persecutiones; et etiam sapientes

Non è più per la tua parola che noi crediamo.

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L 'atto interiore della fede

Q. 2, A. l O

maius meritum fidei habent non recedentes a fide propter rationes philosophorum vel haere­ ticorum contra fidem inductas. Sed ea quae conveniunt fidei non semper diminuunt promptitudinem voluntatis ad credendum. Et ideo non semper diminuunt meritum fi.dei.

non allontanandosi da essa nonostante le diffi­ coltà sollevate dai filosofi o dagli eretici. Invece gli elementi a favore della fede non sempre sminuiscono la prontezza della volontà nel credere. Quindi non sempre smi­ nuiscono il merito della fede.

QUAESTI0 3 DE EXTERIORI ACTU FIDEI

QUESTIONE 3 L'ATTO ESTERIORE DELLA FEDE

Deinde considerandum est de exteriori fidei actu, qui est confessio. Et circa hoc quaeruntur duo. Primo, utrum confessio sit actus fidei. Secundo, utrum confessio sit necessaria ad salutem.

Passiamo a considerare l'atto esteriore della fede, che è la confessione. Sull'argomento si pongono due quesiti: l . La confessione è un atto di fede? 2. La confessione è necessaria per salvarsi?

Articulus l Utrum confessio sit actus fidei

Articolo l La confessione è un atto di fede?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod confessio non sit actus fidei. l . Non enim idem actus pertinet ad diversas virtutes. Sed confessio pertinet ad poenitentiam, cuius ponitur pars. Ergo non est actus fidei. 2. Praeterea, ab hoc quod homo confiteatur fidem retrahitur interdum per timorem, vel etiam propter aliquam confusionem, unde et Apostolus, ad Eph. ult. 1 9, petit orari pro se ut detur sibi cumfiducia notumfacere mysterium Evangelii. Sed non recedere a bono propter confusionem vel timorem pertinet ad fortitudi­ nem, quae moderatur audacias et timores. Ergo videtur quod confessio non sit actus fidei, sed magis fortitudinis vel constantiae. 3. Praeterea, sicut per fidei fervorem inducitur aliquis ad confitendum fidem exterius, ita etiam inducitur ad alia exteriora bona opera facienda, dicitur enim Gal. 5 [6], quod fides per dilectionem operatur. Sed alia exteriora opera non ponuntur actus fidei. Ergo etiam neque confessio. Sed contra est quod, 2 ad Thess. l [ I l ], super illud, et opusfidei in vùtute, dicit Glossa [ord.],

Sembra di no. Intàtti: l . Un medesimo atto non può appartenere a virtù diverse. Ma la confessione appartiene alla penitenza, di cui appunto è una delle parti. Quindi non è un atto di fede. 2. L'uomo talora è trattenuto dal confessare la fede o dal timore o dalla vergogna: infatti Paolo in Ef6, 1 9 chiede di pregare per lui per­ ché gli sia concesso di annunciare confiducia il mistero del Vangelo. Ma non scostarsi dal bene affrontando la vergogna e il timore appartiene alla fortezza, che modera le pas­ sioni del timore e dell'audacia. Perciò sembra che la confessione non sia un atto di fede, ma di fortezza o di costanza. 3. Il fervore della fede, come porta a confessa­ re esterionnente la fede, così porta a compiere altre opere esteriori: infatti in Gal 5,6 è detto: lA fede opera per mezzo della carità. Ma le altre opere esteriori non sono considerate atti di fede. Quindi neppure la confessione. In contrario: commentando 2 Ts 1 , 1 1 : e l'ope­ ra della fede efficacemente, la Glossa dice: «cioè la confessione, che propriamente è l'ope­ ra della tede». Risposta: gli atti esteriori propriamente sono atti di quella virtù di cui essi secondo la loro specie raggiungono il fine: digiunare, p. es., secondo la sua specie raggiunge il fine dell'a­ stinenza, che consiste nel reprimere la carne; quindi è un atto di astinenza. Ora, la confes­ sione delle verità della fede, secondo la sua

idest confessionem, quae proprie est opusfidei. Respondeo dicendum quod actus exteriores illius virtutis proprie sunt actus ad cuius fines secundum suas species referuntur, sicut ieiu­ nare secundum suam speciem refertur ad finem abstinentiae, quae est compescere car­ nem, et ideo est actus abstinentiae. Confessio autem eorum quae sunt fidei secundum suam

L 'atto esteriore della fede

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speciem ordinatur sicut ad finem ad id quod est fidei, secundum illud 2 ad Cor. 4 [ 1 3] , habentes eundem spiritum fide i credimus, propter quod et loquimur, exterior enim locu­ tio ordinatur ad significandum i d quod in corde concipitur. Unde sicut conceptus inte­ rior eorum quae sunt fidei est proprie fidei actus, ita etiam et exterior confessio. Ad primum ergo dicendum quod triplex est confessio quae in Scripturis laudatur. Una est contessio eorum quae sunt tidei. Et ista est proprius actus fidei, utpote relata ad fidei finem, sicut dictum est [in co.]. Alia est con­ fessio gratianun actionis sive laudis. Et ista est actus latriae, ordinatur enim ad honorem Deo exterius exhibendum, quod est finis latriae. Tertia est confessio peccatorum. Et haec ordi­ natur ad deletionem peccati, quae est finis poe­ nitentiae. Unde pertinet ad poenitentiam. Ad secundum dicendum quod removens prohibens non est causa per se, sed per acci­ dens, ut patet per Philosophum, in 8 Phys. [4,6]. Unde fortitudo, quae removet impedi­ mentum confessionis fidei, scilicet timorem vel erubescentiam, non est proprie et per se causa confessionis, sed quasi per accidens. Ad tertium dicendum quod fides interior, mediante dilectione, causat omnes exteriores actus virtutum mediantibus aliis virtutibus, imperando, non elidendo. Sed confessionem producit tanquam proprium actum, nulla alia virtute mediante.

specie, è ordinata al fine proprio della fede, poiché in 2 Cor 4,1 3 è detto: Animati da quello stesso spirito di fede noi crediamo, e perciò parliamo. Infatti la locuzione esteriore è ordi­ nata a esprimere ciò che si è concepito nel cuo­ re. Perciò, come è un atto proprio della fede il concepire interiormente le verità da credere, così lo è pure il confessarle esteriormente. Soluzione delle difficoltà: l . Nella Scrittura sono raccomandati tre tipi di confessione. La prima è la confessione delle verità di tede. E questa è un atto proprio della fede, poiché è ordinata al suo fine, come si è detto. La se­ conda è la confessione del ringraziamento o della lode. E questa è un atto di latria, essendo ordinata a prestare a Dio un culto esteriore, che è il fine della latria. La terza è la confes­ sione dei peccati. E questa è ordinata a toglie­ re il peccato, che è il fine della penitenza. Perciò appartiene alla penitenza. 2. Ciò che toglie un ostacolo non è una causa per se, ma per accidens, come spiega Aristo­ tele nella Fisica. Perciò la fortezza che toglie l'ostacolo alla confessione della fede, cioè la paura o la vergogna, non è la causa propria ed essenziale della confessione, ma quasi una causa per accidens. 3. La fede interiore, mediante la carità, causa tutti gli atti virtuosi esteriori con l'aiuto delle altre virtù non compiendoli direttamente, ma comandandoli. Invece produce la confessione come atto proprio, senza l'aiuto di altre virtù.

Articulus 2 Utrurn confessio fidei sit necessaria ad salutern

Articolo 2 La confessione della fede è necessaria alla salvezza?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod confessio fidei non sit necessaria ad salutem. l . Illud enim videtur ad salutem sufficere per quod homo attingit finem virtutis. Sed fmis proprius fidei est coniunctio humanae mentis ad veritatem divinam, quod potest etiam esse sine exteriori confessione. Ergo confessio fidei non est necessaria ad salutem. 2. Praeterea, per exteriorem confessionem fidei homo fidem suam alii homini patefacit. Sed hoc non est necessmium nisi illis qui habent alios in fide instruere. Ergo videtur quod mino­ res non teneantur ad fidei confessionem. 3 . Praeterea, illud quod potest vergere i n scandalum e t turbationem aliorum non est

Sembra di no. Infatti: l . Per salvarsi basta che uno raggiunga il fine della virtù. Ma il fine proprio della fede è l'unione della mente umana con la verità divi­ na; e questa ci può essere anche senza la con­ fessione esteriore. Dunque la confessione del­ la fede non è necessaria per salvarsi. 2. Con la confessione esterna un uomo manife­ sta ad altri la propria fede. Ma ciò è obbligatorio solo per quelli che hanno il compito di istruire gli altri nella fede. Perciò sembra che la gente semplice non sia tenuta a confessare la fede. 3. Non può essere necessario alla salvezza ciò che può turbare e scandalizzare gli altri, poi­ ché Paolo in l Cor 10,32 dice: Non date moti-

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L 'atto esteriore della fede

necessarium ad salutem, dicit enim Aposto­ lus, l ad Cor. 10 [32], sine offensione estote ludaeis et gentibus et Ecclesiae Dei. Sed per confessionem fidei quandoque ad perturbatio­ nem infideles provocantur. Ergo confessio fidei non est necessaria ad salutem. Sed contra est quod Apostolus dicit, ad Rom. l O [ l 0], corde creditur ad iustitiam, ore autem

confessio fit ad salutem. Respondeo dicendum quod ea quae sunt necessaria ad salutem cadunt sub praeceptis divinae legis. Confessio autem fidei, cum sit quoddam affirmativum, non potest cadere nisi sub praecepto affirmativo. Unde eo modo est de necessariis ad salutem quo modo potest cadere sub praecepto affermativo divinae le­ gis. Praecepta autem affirmativa, ut supra [1-ll q. 7 1 a. 5 ad 3; q. 1 00 a. l O] dictum est, non obligant ad semper, etsi semper obligent, obli­ gant autem pro loco et tempore et secundum alias circumstantias debitas secundum quas oportet actum humanum limitari ad hoc quod sit actus virtutis. Sic igitur confiteri fidem non semper neque in quolibet loco est de necessi­ tate salutis, sed aliquo loco et tempore, quan­ do scilicet per omissionem huius confessionis subtraheretur honor debitus Deo, vel etiam utilitas proximis impendenda; puta si aliquis interrogatus de fide taceret, et ex hoc credere­ tur vel quod non haberet fidem vel quod tides non esset vera, vel alii per eius tacitumitatem averterentur a fide. In huiusmodi enim casi­ bus confessio fidei est de necessitate salutis. Ad primum ergo dicendum quod finis fidei, sicut et aliarum virtutum, referri debet ad finem caritatis, qui est amor Dei et proximi. Et ideo quando honor Dei vel utilitas proximi hoc exposcit, non debet esse contentus homo ut per fidem suam ipse veritati divinae co­ niungatur; sed debet fidem exterius confiteri. Ad secundum dicendum quod in casu neces­ sitatis, ubi fides periclitatur, quilibet tenetur fidem suam aliis propalare, vel ad instructio­ nem aliorum fidelium sive confmnationem, vel ad reprimendum infidelium insultationem. Sed aliis temporibus instruere homines de fide non pertinet ad ornnes fideles. Ad tertium dicendum quod, si turbatio infide­ lium oriatur de confessione fidei manifesta absque aliqua utilitate fidei vel fidelium, non est laudabile in tali casu tidem publice conti­ teti, unde Dominus dicit, Matth. 7 [6], nolite

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vo di scandalo né ai Giudei, né ai pagani, né alla Chiesa di Dio. Ora, la confessione della fede provoca talora turbamento fra chi non ha fede. Quindi la confessione della fede non è necessaria alla salvezza. In contrario: in Rm l O, 10 Paolo dice: Con il

cuore si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la pmfessione di fede per avere la salvezza. Risposta: le cose necessarie alla salvezza ca­ dono sotto i precetti della legge di Dio. Ma la confessione di fede, essendo qualcosa di posi­ tivo, non può cadere che sotto un precetto af­ fermativo. Essa è perciò tra le cose necessarie alla salvezza nel modo in cui può cadere sotto un precetto affermativo della legge divina. Ora i precetti affermativi, come si è visto sopra, non obbligano ad agire sempre, sebbene ob­ blighino sempre, ma obbligano in tempi e luo­ ghi determinati, e secondo altre precise circo­ stanze alle quali l'atto umano è legato per es­ sere virtuoso. Non è quindi necessario alla sal­ vezza confessare la fede sempre e in qualsiasi luogo, ma solo in luoghi e tempi determinati, cioè quando l'omissione di tale professione comprometterebbe l'onore dovuto a Dio, o anche l'utilità del prossimo: p. es. quando uno, interrogato sulla sua fede, tacesse, e con ciò facesse credere di non averla, o che essa non sia vera, oppure distogliesse altri dalla fede col suo silenzio. In questi casi infatti la confessio­ ne della fede è necessaria alla salvezza. Soluzione delle difficoltà: l . ll fine della fede, come anche di tutte le altre virtù, deve essere subordinato al fine della carità, cioè all'amore di Dio e al bene del prossimo. Perciò quando l'onore di Dio e il bene del prossimo lo ri­ chiedono, l'uomo non deve accontentarsi di aderire personalmente alla verità divina con la sua fede, ma deve confessarla esteriormente. 2. In caso di necessità, quando la fede è in pericolo, chiunque è tenuto a manifestarla agli altri, sia per istruire e confermare i fedeli, sia per frenare l'impertinenza di chi non crede. Negli altri tempi invece non spetta a tutti i fedeli insegnare le verità di fede. 3. Se dall' apetta confessione della fede nasces­ se del turbamento fra coloro che non credono, senza alcuna utilità per la fede e per i fedeli, tale confessione pubblica non sarebbe en­ comiabile. Infatti in Mt 7,6 il Signore dice:

Non date le cose sante ai cani e non gettate le

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L 'atto esteriore della fede

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sanctum dare canibus, neque margaritas vestras spargere ante porcos, ne conversi dirumpant vos. Sed si utilitas aliqua fidei speretur aut necessitas adsit, contempta turbatione infide­ lium, debet homo fidem publice confiteri. Un­ de Matth. 15 [14] dicitur quod, cum discipuli dixissent Domino quod Pharisaei, audito eius verbo, scandalizati sunt, Dominus respondit, sinite illos, scilicet turbari, caeci sunt et duces caecorum.

vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e si voltino per sbranarvi. Se però si spera una qualche utilità, oppure se c'è una necessità, si deve confessare la fede pubblicamente senza curarsi del turba­ mento degli infedeli. Infatti in Mt 15,14 è detto che quando i discepoli riferirono al Signore che i farisei si erano scandalizzati delle sue parole, egli rispose: l..LJsciatelifare, cioè non vi curate di loro, sono ciechi e guide di ciechi.

QUAESTI0 4 DE IPSA FIDEI VIRTUTE

Q�STIONE 4 LA VIRTU DELLA FEDE

Deinde considerandum est de ipsa fidei virtute. Et primo quidem, de ipsa fide; secundo, de habentibus fidem [q. 5]; tettio, de causa fidei [q. 6]; quarto, de effectibus eius [q. 7]. Circa primum quaeruntur octo. Primo, quid sit fides. Secundo, in qua vi animae sit sicut in subiecto. Tertio, utrum forma eius sit caritas. Quarto, utrum eadem numero sit fides formata et infor­ mis. Quinto, utrum fides sit virtus. Sexto, utrum sit una virtus. Septimo, de ordine eius ad alias virtutes. Octavo, de comparatione certitudinis eius ad certitudinem virtutum intellectualium.

Dobbiamo ora considerare la virtù stessa del­ la fede. Primo, della fede stessa; secondo, di coloro che la possiedono; terzo, della sua cau­ sa; quarto, dei suoi effetti. Sul primo argo­ mento esamineremo otto problemi: l . Che cosa è la fede? 2. In quale potenza dell'anima risiede? 3. Ha come sua forma la carità? 4. La fede informe e quella formata coincidono ntt­ mericamente? 5. La fede è una virtù? 6. E unica? 7. Quali sono i suoi rapporti con le al­ tre virtù? 8. Confronto tra la certezza della fe­ de e la certezza delle altre virtù intellettuali.

Articulus l Quid sit fides

Articolo l Cos'è la fede?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod sit incompetens fidei definitio quam Apostolus ponit, ad Heb. 1 1 [ l ] dicens, est autem fides substantia sperandarum rerum, argumentum non apparentium. l . Nulla enim qualitas est substantia. Sed fides est qualitas, cum sit virtus theologica, ut supra [I-II q. 62 a. 3] dictum est. Ergo non est substantia. 2. Praeterea, diversarum virtutum diversa sunt obiecta. Sed res speranda est obiectum spei. Non ergo debet poni in definitione fidei tan­ quam eius obiectum. 3. Praeterea, tides magis perficitur per carita­ tem quam per spem, quia caritas est forma fidei, ut infra [a. 3] dicetur. Magis ergo poni debuit in definitione fidei res diligenda quam res speranda. 4. Praeterea, idem non debet poni in diversis generibus. Sed substantia et argumentum sunt diversa genera non subaltematim posita. Ergo

Sembra che la definizione della fede contenu­ ta in Eb 1 1 , 1 , e cioè: l..LJ fede è sostanza delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono, non sia adeguata. Infatti: l . Nessuna qualità è una sostanza. Ma la fede è una qualità, essendo una virtù teologale, come si è detto sopra Quindi non è una sostanza. 2. Virtù diverse hanno oggetti diversi. Ma le cose sperate sono oggetto della speranza. Quindi non devono entrare nella definizione della fede come suo oggetto. 3 . La fede riceve più dalla carità che dalla speranza: poiché, come vedremo, la carità dà forma alla fede. Perciò nella definizione della fede si doveva parlare più di cose amate che di cose sperate. 4. Una medesima cosa non può appartenere a generi diversi. Ora, la sostanza e la prova sono generi diversi e non subaltemati. Perciò non ha senso dire che la fede è sostanza e prova.

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La virtù della fede

inconvenienter fides dicitur esse substantia et argumentum. 5. Praeterea, per argumentum veritas manifesta­ tur eius ad quod inducitur argumentum. Sed il­ lud dicitur esse apparens cuius veritas est ma­ nifestata. Ergo videtur implicari oppositio in hoc quod dicitur argumentum non apparentium. Inconvenienter ergo describitur fides. In contrarium sufficit auctoritas Apostoli. Respondeo dicendum quod, licet quidam dicant praedicta Apostoli verba non esse fidei definitionem, tamen, si quis recte consideret, omnia ex quibus fides potest definiri in prae­ dicta descriptione tanguntur, licet verba non ordinentur sub forma definitionis, sicut etiam apud phi losophos praetermissa syllogistica forma syllogismorum principia tanguntur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod, cum habitus cognoscantur per actus et actus per obiecta, fides, cum sit habitus qui­ dam, debet detiniri per proprium actum in comparatione ad proprium obiectum. Actus autem fidei est credere, qui, sicut supra [q. 2 a. l ad 3; aa. 2.9] dictum est, actus est intel­ lectus determinati ad unum ex imperio volun­ tatis. Sic ergo actus fidei habet ordinem et ad obiectum voluntatis, quod est bonum et finis; et ad obiectum intellectus, quod est verum. Et quia fides, cum sit virtus theologica, sicut supra [1-11 q. 62 a. 3] dictum est, habet idem pro obiecto et fine, necesse est quod obiectum fidei et finis proportionaliter sibi correspon­ deant. Dictum est autem supra [q. l aa. 1 .4] quod veritas prima est obiectum fidei secun­ dum quod ipsa est non visa et ea quibus prop­ ter ipsam inhaeretur. Et secundum hoc oportet quod ipsa veritas prima se habeat ad actum fidei per modum finis secundum rationem rei non visae. Quod pertinet ad rationem rei spera­ tae, secundum illud Apostoli, ad Rom. 8 [25], quod non videmus speramus, veritatem enim videre est ipsam habere; non autem sperat ali­ quis id quod iam habet, sed spes est de hoc quod non habetur, ut supra [1-11 q. 67 a. 4] dic­ tum est. - Sic igitur habitudo actus fidei ad finem, qui est obiectum voluntatis, significa­ tur in hoc quod dicitur, fides est substantia rerum sperandantm. Substantia enim solet dici prima inchoatio cuiuscumque rei , et maxime quando tota res sequens continetur virtute in primo principio, puta si dicamus quod prima principia indemonstrabilia sunt

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5. Una prova ha l'effetto di rendere evidente la verità di ciò che essa dimostra. Ma quando la verità di una cosa è dimostrata, tale cosa è evidente, o manifesta. Quindi sembra con­ traddittoria l' espressione: prova delle cose che non si vedono. Perciò la suddetta descri­ zione della fede non è conveniente. In contrario: basta l'autorità della Scrittura. Risposta: sebbene alcuni ritengano che le pa­ role della Scrittura qui riferite non siano una definizione della fede, tuttavia, a ben riflettere, in tale descrizione si trovano tutti gli elementi per una definizione, anche se le parole non sono ordinate sotto forma di definizione. Come anche presso i filosofi si tiscontrano [spesso] gli elementi del sillogismo al di fuori della forma sillogistica. - Per averne l' eviden­ za si deve ricordare che la fede, essendo un abito, deve essere definita in base al proprio atto in relazione al proprio oggetto, poiché gli abiti si conoscono dagli atti, e gli atti dall'og­ getto. Ora, l' atto della fede è credere, e crede­ re, secondo le spiegazioni date, è un atto del­ l ' intelletto determinato a una data cosa dal co­ mando della volontà. Perciò l'atto della fede dice ordine sia all'oggetto della volontà, che è il bene e il fine, sia all'oggetto dell'intelletto, che è il vero. E poiché nella fede, che come sopra si è detto è una virtù teologale, unico deve essere il fine e l' oggetto, è necessario che l'oggetto e il fine della fede si corrispon­ dano perfettamente. Ora, sopra si è detto che l'oggetto della fede consiste nella prima verità in quanto inevidente, e in altre verità accettate a motivo di essa. Perciò la stessa prima verità si rapporta ali' atto di fede come suo fine, sotto l'aspetto di cosa inevidente. E questo è appun­ to l' aspetto delle cose sperate, secondo le parole di Paolo i n Rm 8 ,25 : Noi speriamo quello che non vediamo. Infatti vedere la veri­ tà sarebbe possederla. Ora, uno non spera ciò che già possiede, ma la speranza, come si dis­ se, ha per oggetto ciò che non è posseduto. Così dunque il rapporto dell'atto di fede con il fine, che è oggetto della volontà, è espresso con quelle parole: La fede è la sostanza delle cose che si spera1w. Infatti si suole chiamare sostanza il primo elemento di qualsiasi cosa, specialmente quando tutto lo sviluppo succes­ sivo è contenuto virtualmente in quel primo principio: come potremmo dire che i primi princìpi indimostrabili sono la sostanza della

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La virtù dellafede

substantia scientiae, quia scilicet primum quod in nobis est de scientia sunt huiusmodi principia, et in eis virtute continetur tota scientia. Per hunc ergo modum dicitur fides esse substantia remm sperandamm, quia scili­ cet prima inchoatio rerum sperandarum in nobis est per assensum fidei , quae virtute continet omnes res sperandas. In hoc enim speramus beatificari quod videbimus aperta visione veritatem cui per fidem adhaeremus, ut patet per ea quae supra [1-ll q. 3 a. 8; q. 4 a. 3] de felicitate dieta sunt. - Habitudo autem actus fidei ad obiectum intellectus, secundum quod est obiectum fidei, designatur in hoc quod dicitur, argumentum 11011 appare11tium. Et sumitur argumentum pro argumenti effec­ tu, per argumentum enim intellectus inducitur ad adhaerendum alicui vero; unde ipsa firma adhaesio intellectus ad veritatem fidei non apparentem vocatur hic argumentum. Unde alia littera habet co11victio, quia scilicet per auctoritatem divinam intellectus credentis convincitur ad assentiendum his quae non videt. - Si quis ergo in formam definitionis huiusmodi verba reducere velit, potest dicere quod fides est habitus me11tis, qua inchoatur

vita aetema in nobis, faciens intellectum assentire non apparentibus. Per hoc autem fides ab omnibus aliis distinguitur quae ad intellectum pertinent. Per hoc enim quod dici­ tur argumemum, distinguitur fides ab opinio­ ne, suspicione et dubitatione, per quae non est prima adhaesio intellectus firma ad aliquid. Per hoc autem quod dicitur non apparentium, distinguitur fides a scientia et intellectu, per quae aliquid fit apparens. Per hoc autem quod dicitur substantia sperandarum rentm, distin­ guitur virtus fidei a fide communiter sumpta, quae non ordinatur ad beatitudinem speratam. - Ornnes autem aliae definitiones quaecumque de fide dantur, explicationes sunt huius quam Apostolus ponit. Quod enim dicit Augustinus [In Ioan. tract. 40,79], fides est virtus qua creduntur quae non videntur; et quod dicit Damascenus [De fide 4, 1 1 ] , quod fides est non inquisitus consensus; et quod alii dicunt, quod fides est certitudo quaedam animi de

absentibus supra opinionem et infra sciel1tiam; idem est ei quod Apostolus dicit, argu­ mentum non apparentium. Quod vero Dionysius dicit, 7 cap. De div. nom. [4], quod fides est manens credentium fundamentum,

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scienza, poiché in noi il primo elemento della scienza è dato da questi princìpi, e in essi tutta la scienza è virtualmente racchiusa. In questo senso dunque si dice che la fede è la sostanza delle cose che si sperano: poiché il primo ini­ zio in noi delle cose sperate viene dali' assen­ so della fede, la quale contiene virtualmente tutte le cose che si sperano. Noi infatti speria­ mo di conseguire la beatitudine con l 'aperta visione della verità a cui abbiamo aderito con la fede, come si disse nel trattato sulla beatitu­ dine. - Invece il rapporto dell'atto di fede con l'oggetto dell'intelligenza, in quanto oggetto di fede, è indicato dalle parole: prova delle cose che non si vedono. E qui «prova» sta per l'effetto della prova. Infatti l'intelletto è indot­ to dalle prove ad accettare qualche verità; e così qui viene chiamata prova la stessa ferma adesione dell'intelletto alle vetità di fede ine­ videnti. Cosicché altre versioni hanno il ter­ mine «convincimento»: poiché l'intelletto del credente viene convinto dall' autorità di Dio ad accettare le cose che non vede. - Se quindi uno volesse ridurre le parole suddette in for­ ma di definizione, potrebbe dire che «la fede è un abito intellettivo con cui inizia in noi la vita eterna, e che fa assentire l'intelletto a realtà che non appaiono». Così infatti la fede è distinta da tutte le altre funzioni intellettive. Col termine prova infatti viene distinta dall'o­ pinione, dal sospetto e dal dubbio, nelle quali funzioni l'intelletto non ha un'adesione radi­ cale e ferma a qualcosa. Con le parole che non appaiono la fede è invece distinta dalla scienza e dall'intuizione intellettiva, che ren­ dono le cose evidenti . Con l' espressione sostanza delle cose che si sperano la virtù della fede è infine distinta dalla fede in gene­ re, che non è ordinata alla beatitudine. - Del resto tutte le altre definizioni della fede non sono che spiegazioni di quella della Lettera agli Ebrei. Infatti le parole di Agostino: «La fede è una virtù con la quale sono credute cose che non si vedono», e quelle del Damasceno, che dichiarano la fede «Un consenso privo di ricerca», e ancora quelle di altri, per cui la fede è «una certezza dell'animo su cose lonta­ ne, superiore ali' opinione e inferiore alla scienza>>, coincidono con l'espressione: prova delle cose che non si vedono. E l'affermazio­ ne di Dionigi che la fede è «il fondamento stabile dei credenti, che colloca essi nella ve-

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collocans eos in veritate et in ipsis veritatem, idem est ei quod dicin.rr, substantia sperandanun rerum. Ad primum ergo dicendum quod substantia non sumitur hic secundum quod est genus generalissimum contra alia genera divisum, sed secundum quod in quolibet genere inveni­ tur quaedam similitudo substantiae, prout sci­ licet primum in quolibet genere, continens in se alia virtute, dicitur esse substantia illorum. Ad secundum dicendum quod, cum fides per­ tineat ad intellectum secundum quod impera­ n.rr a voluntate, oportet quod ordinetur, sicut ad finem, ad obiecta illarum virtutum quibus perficitur voluntas. Inter quas est spes, ut infra [q. 1 8 a. l ] patebit. Et ideo in definitione fidei ponitur obiectum spei. Ad tettium dicendum quod dilectio potest esse et visorum et non visorum, et praesentium et absentium. Et ideo res diligenda non ita pro­ prie adaptatur fidei sicut res speranda, cum spes sit semper absentium et non visorum. Ad quartum dicendum quod substantia et argumentum, secundum quod in definitione fidei ponuntur, non important diversa genera fidei neque diversos actus, sed diversas habi­ tudines unius actus ad diversa obiecta, ut ex dictis [in co.] patet. Ad quintum dicendum quod argumentum quod sumitur ex propriis principiis rei facit rem esse apparentem. Sed argumentum quod sumitur ex auctoritate divina non facit rem in se esse apparentem. Et tale argumentum poni­ n.rr in definitione fidei.

rità e la verità in essi», si identifica con quelle parole: sostanza delle cose che si sperano. Soluzione delle difficoltà: l . Si parla qui di sostanza non in quanto genere universalissi­ mo contraddistinto dagli altri generi, ma in quanto in qualsiasi genere c'è una analogia con la sostanza, nel senso cioè che si può denominare sostanza, in qualsiasi genere di cose, il primo elemento che contiene virtual­ mente in se stesso gli altri elementi. 2. La fede appartiene all'intelletto in quanto è sotto l'impero della volontà: perciò è necessa­ rio che abbia per fine l'oggetto di quelle virtù che risiedono nella volontà, tra le quali c'è la speranza, come vedremo. E così nella defini­ zione della fede entra l'oggetto della speranza. 3. L'amore può avere per oggetto cose che si vedono e cose che non si vedono, cose assenti e cose presenti. Perciò le cose amate non si addicono così bene alla fede come quelle spe­ rate: poiché la speranza è sempre di cose assenti e che non si vedono. 4. Sostanza e prova, così come suonano nella definizione della fede, non implicano diversi generi di fede, né atti diversi di essa, ma solo una diversità di rapporti che un unico atto ha con oggetti diversi, come risulta evidente dalle cose già dette. 5. Una prova che è desunta dai princìpi pro­ pri di una cosa la rende evidente, ma una prova che viene desunta dall'autorità di Dio non rende la cosa in se stessa evidente. E tale è la prova di cui si parla nella definizione della fede.

Articulus 2 Utrum fides sit in intellectu sicut in subiecto

Articolo 2 La fede risiede nell'intelletto?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod fides non sit in intellectu sicut in subiecto. l . Dicit enim Augustinus, in libro De praed. sanct. [5], quod fides in credentium voluntate consistit. Sed voluntas est alia potentia ab intellectu. Ergo fides non est in intellectu sicut in subiecto. 2. Praeterea, assensus fidei ad aliquid creden­ dum provenit ex voluntate Deo obediente. Tota ergo laus fidei ex obedientia esse videtur. Sed obedientia est in voluntate. Ergo et fides. Non ergo est in intellectu. 3. Praeterea, intellectus est vel speculativus

Sembra di no. Infatti: l. Agostino in De praed. sanct. 5 dice che «la fede si trova nella volontà dei credenti». Ma la volontà è una facoltà distinta dall'intelletto. Quindi la tede non risiede nell'intelletto. 2. L'assenso della fede nel credere a una cosa proviene dalla volontà di obbedire a Dio. Perciò tutto il merito della fede viene dall'ob­ bedienza. Ma l'obbedienza risiede nella vo­ lontà. Quindi anche la fede. E così non risiede nell'intelletto. 3 . L' intelletto è speculativo o pratico. Ma la fede non risiede nell'intelletto speculativo,

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La virtù dellafede

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vel practicus. Sed fides non est in intellectu speculativo, qui, cum nihil dicat de imitabili et fugiendo, ut dicitur in 3 De an. [9,7], non est principium operationis, fides autem est quae per dilectionem operatur, ut dicitur ad Gal. 5 [6] . Similiter etiam nec in intellectu practico, cuius obiectum est verum contingens factibile vel agibile, obiectum enim fidei est verum aeternum, ut ex supradictis [q. l a. l s. c.] patet. Non ergo fides est in intellectu sicut in subiecto. Sed contra est quod fidei succedit visio patriae, secundum illud l ad Cor. 1 3 [ 1 2], videmus

il quale non è un principio di operazione poi­ ché, come scrive Aristotele in De anima 3,9, «non dice nulla di ciò che si deve i mitare o fuggire»; e invece la fede opera per mezzo della carità, come è detto in Gal 5,6. Pari­ menti non lisiede nell'intelletto pratico, che ha per oggetto il vero contingente fattibile od operabile: infatti l ' oggetto della fede è il vero eterno, come è evidente dalle cose già dette. Quindi la fede non risiede nel­ l' intelletto. In contrario: alla fede segue la visione della patria, secondo le parole di l Cor 1 3, 1 2: Ora

nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem. Sed visio est in intellectu.

vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia.

Ergo et fides. Respondeo dicendum quod, cum fides sit quaedam virtus, oportet quod actus eius sit perfectus. Ad perfectionem autem actus qui ex duobus activis principiis procedit requiritur quod utrumque activorum principiorum sit perfectum, non enim potest bene secari nisi et secans habeat artem et serra sit bene disposita ad secandum. Dispositio autem ad bene agen­ dum in illis potentiis animae quae se habent ad opposita est habitus, ut supra [I-II q. 49 a 4 ad l-3] dictum est. Et ideo oportet quod actus procedens ex duabus talibus potentiis sit per­ fectus habitu aliquo praeexistente in utraque potentiarum. Dictum est autem supra [a. l ; q. 2 a. l ad 3; aa. 2.9] quod credere est actus intellectus secundum quod movetur a volunta­ te ad assentiendum, procedit enim huiusmodi actus et a voluntate et ab intellectu. Quorum uterque natus est per habitum perfici, secundum praedicta [I-II q. 50 aa. 4-5]. Et ideo oportet quod tam in voluntate sit aliquis habitus quam in intellectu, si debeat actus fidei esse perfectus, sicut etiam ad hoc quod actus concupiscibilis sit perfectus, oportet quod sit habitus pruden­ tiae in ratione et habitus temperantiae in con­ cupiscibil i . Credere autem est immediate actus intellectus, quia obiectum huius actus est verum, quod proprie pertinet ad intellectum. Et ideo necesse est quod fides, quae est pro­ prium principium huius actus, sit in intellectu sicut in subiecto. Ad primum ergo dicendum quod Augustinus fidem accipit pro actu fidei, qui dicitur consi­ stere in credentium voluntate inquantum ex imperio voluntatis intellectus credibilibus assentit.

Ma la visione è nell'intelletto. Quindi anche la fede. Risposta: essendo la fede una virtù, i suoi atti devono essere perfetti. Ora, per assicurare la perfezione di un atto che deriva da due princì­ pi attivi si richiede che entrambi siano perfet­ ti: non è infatti possibile segare bene se chi sega non ha l'arte e la sega non è ben aggiu­ stata per segare. Ma nelle potenze dell'anima aperte verso oggetti contrastanti la disposizio­ ne ad agire bene è l' abito, come sopra si è detto. Perciò un atto che dipende da due potenze di questo genere deve essere perfe­ zionato da due abiti preesistenti in tutte e due le potenze. Ma sopra si è detto che credere è un atto dell'intelletto in quanto è mosso dalla volontà ad assentire: tale atto deriva infatti dalla volontà e dall'intelletto. Ora queste due potenze, come si è visto, sono fatte per essere perfezionate da abiti. Quindi sia nella volontà che nell'intelletto ci deve essere qualche abi­ to, se si vuole che l'atto della fede sia perfet­ to: come anche perché sia perfetto l' atto del concupiscibile è necessario che vi sia l' abito della prudenza nella ragione e quello della temperanza nel concupiscibile. Tuttavia cre­ dere è direttamente un atto dell'intelletto, avendo per oggetto il vero, çhe appartiene propriamente all'intelligenza. E quindi neces­ sario che la fede, che è il principio proprio di questo atto, risieda nell' intelletto come nel suo soggetto. Soluzione delle difficoltà: l . Agostino prende qui la fede per l' atto della fede: e dice che si trova nella volontà perché l ' i ntelletto dà l'assenso alle cose da credere sotto il coman­ do della volontà.

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La virtù della fede

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2. Non solo è necessario che la volontà sia

Ad secundum dicendum quod non solum oportet voluntatem esse promptam ad obe­ diendum, sed etiam intellectum esse bene dispositum ad sequendum imperium volunta­ tis, sicut oportet concupiscibilem esse bene dispositam ad sequendum imperium rationis. Et ideo non solum oportet esse habitum virtu­ tis in voluntate imperante, sed etiam in intel­ lectu assentiente. Ad tertium dicendum quod fides est in intel­ lectu speculativo sicut in subiecto, ut manife­ ste patet ex fidei obiecto. Sed quia veritas prima, quae est fidei obiectum, est finis omnium desideriorum et actionum nostrarum, ut patet per Augustinum, in l De Trin. [8. 1 O]; inde est quod per dilectionem operatur. Sicut etiam intellectus speculativus extensione fit practicus, ut dicitur in 3 De an. [ 10,2].

pronta a obbedire, ma anche che l 'intelletto sia ben disposto a seguire il comando della volontà: come il concupiscibile deve essere disposto a seguire il comando della ragione. Deve esserci quindi un abito virtuoso non solo nella volontà che comanda, ma anche nell'intelletto che dà l'assenso. 3. La fede risiede nell'intelletto speculativo, come appare evidente in base al suo oggetto. Siccome però la prima verità, che è l'oggetto della fede, è il fine di tutti i nostri desideri e di tutte le nostre azioni, come dimostra Agosti­ no, ne segue che la fede opera mediante la carità. Come anche l'intelletto speculativo di­ viene pratico per estensione, secondo quanto insegna Aristotele.

Articulus 3 Utrum caritas sit forma fidei

Articolo 3 La carità può essere la forma della fede?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod cari­ tas non si t forma fidei. l . Unumquodque enim sortitur speciem per suam formam. Eorum ergo quae ex opposito dividuntur sicut diversae species unius gene­ ris, unum non potest esse forma alterius. Sed fides et caritas dividuntur ex opposito, l ad Cor. 1 3 [ 1 3], sicut diversae species virtutis. Ergo caritas non potest esse forma fidei. 2. Praeterea, forma et id cuius est forma sunt in eodem, quia ex eis fit unum simpliciter. Sed fides est in intellectu, caritas autem in vo­ luntate. Ergo caritas non est forma fidei. 3. Praeterea, forma est principium rei. Sed principium credendi ex parte voluntatis magis videtur esse obedientia quam caritas, secun­ dum illud ad Rom. l [5], ad obediendumfidei in omnibus gentibus. Ergo obedientia magis est forma fidei guam caritas. Sed contra est quod unumquodque operatur per suam formam. Fides autem per dilectio­ nem operatur [Gal. 5,6]. Ergo dilectio carita­ tis est forma fidei. Respondeo dicendum quod, sicut ex superio­ ribus [I-II q. l a. 3; q. 1 8 a. 6] patet, actus voluntarii speciem recipiunt a fine, qui est vo­ luntatis obiectum. Id autem a quo aliquid spe­ ciem sortitur se habet ad modum formae in rebus naturalibus. Et ideo cuiuslibet actus vo­ luntarii forma quodammodo est finis ad quem

Sembra di no. Infatti: l . Dalla forma ogni cosa riceve la sua specie. Perciò cose che sono tra loro divise come le specie di un dato genere non possono essere l'una forma dell' altra. Ma la fede e la carità sono divise tra loro, in l Cor 1 3, 1 3, come specie diverse di vittù. Quindi la carità non può essere la forma della fede. 2. La forma e ciò di cui essa è forma sono nel medesimo soggetto: poiché costituiscono una realtà unica. Ora, la fede è nell' i ntelletto, mentre la carità è nella volontà. Quindi la carità non può essere la forma della fede. 3. La forma è il principio di una cosa. Ma il principio del credere, per quanto riguarda la volontà, sembra essere più l'obbedienza che l a carità, secondo i l passo di Rm l , 5 :

A/l'obbedienza alla fede da parte di tutte le genti. Quindi l a forma dell a fede è p i ù l'obbedienza che la carità. In contrario: ogni cosa agisce mediante la propria forma. Ma la fede opera per mezzo della carità [Gal 5,6] . Quindi l ' amore di carità è la forma della fede. Risposta: come si è visto nei trattati preceden­ ti, gli atti volontari ricevono la loro specie dal fine, che è l'oggetto della volontà. Ora, nelle realtà naturali l'elemento specificante è l' ele­ mento formale. Perciò la forma di qualsiasi azione volontaria è in certo qual modo il fine

Q. 4, A. 3

La virtù dellafede

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ordinatur, tum quia ex ipso recipit speciem; tum etiam quia modus actionis oportet quod respondeat proportionaliter fini. Manifestum est autem ex praedictis [a. l ] quod actus fidei ordinatur ad obiectum voluntatis, quod est bonum, sicut ad finem. Hoc autem bonum quod est finis fidei, scilicet bonum divinum, est proprium obiectum caritatis. Et ideo cari­ tas dicitur forma fidei, inquantum per carita­ tem actus tidei perticitur et formatur. Ad primum ergo dicendum quod caritas dici­ tur esse torma fidei inquantum intormat actum ipsius. Nihil autem prohibet unum actum a diversis habitibus informari, et secundum hoc ad diversas species reduci ordine quodam, ut supra [I-II q. 1 8 a. 7 ad l] dictum est, cum de actibus humanis in communi ageretur. Ad secundum dicendum quod obiectio illa procedit de forma intrinseca. Sic autem cari­ tas non est forma fidei, sed prout informat actum eius, ut supra [in co.] dictum est. Ad tertium dicendum quod etiam ipsa obe­ dientia, et similiter spes et quaecumque alia virtus posset praecedere actum fidei, formatur a caritate, sicut infra [q. 23 a. 8] patebit. Et ideo ipsa caritas ponitur forma fidei.

a cui essa è ordinata: sia perché dal fine riceve la specie, sia anche perché il modo dell'atto deve essere proporzionato al fine. Ora, è evi­ dente da quanto si è detto che l' atto della fede è ordinato come a suo fine ali' oggetto della volontà, che è il bene. Ma il bene che è il fine della fede, cioè il bene divino, è l'oggetto pro­ prio della carità. Quindi la carità è detta forma della fede in quanto l'atto della fede è perfe­ zionato e informato dalla carità. Soluzione delle difficoltà: l . La carità è la forma della fede in quanto ne informa l' atto. Ora, nulla impedisce che un atto sia informa­ to da diversi abiti, e in ba>. Risposta: la certezza del giudizio su una cosa va desunta specialmente dalla sua causa. Perciò l'ordine dei giudizi segue l' ordine delle cause: come infatti la causa prima è causa della seconda, così mediante la causa prima si giudica della seconda. Non è invece possibile giudicare la causa prima con altre cause. n giudizio quindi che viene desunto dalla causa prima è primo e perfettissimo. Ora, quando in un dato genere di cose ce n'è una perfettissi­ ma, il termine comune del genere viene appro­ priato a quelle che non raggiungono la perfe­ zione suprema, mentre a quella più perfetta viene dato un nome speciale. E ciò è spiegato in logica. Infatti nel genere dei termini conver­ tibili quello che esprime l'essenza della cosa viene chiamato definizione, mentre i converti­ bili che non raggiungono questo grado conser­ vano il nome comune di pmprietà. - Ora, il termine scienza implica una certezza di giudi­ zio, come si è già detto: se quindi il giudizio desume la sua certezza dalla causa più alta prende il nome speciale di sapienza: infatti si denomina sapiente in ciascun genere di cose chi conosce la causa più alta di tale genere, me­ diante la quale è in grado di giudicare di tutto.

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IL dono della scienza

Q. 9, A. 2

simpliciter, scilicet Deum. Et ideo cognitio divinarum rerum vocatur sapientia. Cognitio vero rerum humanarum vocatur scientia, quasi communi nomine importante cettitudi­ nem iudicii appropriato ad iudicium quod fit per causas secundas. Et ideo, sic accipiendo scientiae nomen, ponitur donum distinctum a dono sapientiae. Unde donum scientiae est solum circa res humanas, vel circa res creatas. Ad primum ergo dicendum quod, licet ea de quibus est fides sint res divinae et aetemae, tamen ipsa tides est quoddam temporale in animo credentis. Et ideo scire quid creden­ dum sit pertinet ad donum scientiae. Scire autem ipsas res creditas secundum seipsas per quandam unionem ad ipsas pertinet ad donum sapientiae. Unde donum sapientiae magis respondet caritati, quae unit mentem hominis Deo. Ad secundum dicendum quod ratio illa proce­ dit secundum quod nomen scientiae commu­ niter sumitur. Sic autem scientia non ponitur speciale donum, sed secundum quod restrin­ gitur ad iudicium quod fit per res creatas. Ad tertium dicendum quod, sicut supra [q. l a. l ] dictum est, quilibet cognoscitivus habi­ tus formaliter quidem respicit medium per quod aliquid cognoscitur, materialiter autem id quod per medium cognoscitur. Et quia id quod est formale potius est, ideo illae scien­ tiae quae ex principiis mathematicis conclu­ dunt circa materiam naturalem, magis cum mathematicis connumerantur, utpote eis sirni­ liores, licet quantum ad materiam magis con­ veniant cum naturali, et propter hoc dicitur in 2 Phys. [2,5] quod sunt magis natura/es. Et ideo, cum homo per res creatas Deum cogno­ scit, magis videtur hoc pertinere ad scientiam, ad quam pertinet formaliter, qurun ad sapien­ tiam, ad quam pertinet materialiter. Et e con­ verso, cum secundum res divinas iudicamus de rebus creatis, magis hoc ad sapientiam quam ad scientiam pertinet.

Si dice poi sapiente i n senso assoluto chi conosce la causa assolutrunente più alta, cioè Dio. E così la conoscenza delle realtà divine è detta sapienza. Invece la conoscenza delle realtà umane è denominata scienza, con un termine che indica la certezza del giudizio desunto dalle cause seconde. Perciò il termine scienza, preso in questo senso, sta a indicare un dono distinto dal dono della sapienza. Quindi il dono della scienza ha per oggetto soltanto le realtà umane, o create. Soluzione delle difficoltà: l . Sebbene le realtà di cui si occupa la fede siano divine ed eterne, tuttavia la fede stessa è qualcosa di temporale nell' animo del credente. Quindi sapere ciò che si deve credere appartiene al dono della scienza. Conoscere invece le cose credute i n se stesse, per una certa unione con esse, ap­ partiene al dono della sapienza. Perciò il dono della sapienza corrisponde piuttosto alla cari­ tà, che unisce l'anima a Dio. 2. L'argomento parte dal termine scienza pre­ so nel suo significato generico. La scienza pe­ rò non costituisce un dono speciale in questo senso, ma in quanto si restringe al giudizio desunto dalle realtà create. 3 . Abbiamo detto sopra che qualsiasi abito conoscitivo dice ordine formalmente al termi­ ne medio di cui si serve per conoscere, e materialmente a quanto può conoscere con esso. Essendo dunque l ' elemento formale quello predominante, le scienze che si fonda­ no sui princìpi della matematica per conclude­ re in materia di fisica vengono annoverate pre­ valentemente fra le scienze matematiche, in quanto più simili ad esse; sebbene per la ma­ teria appartengano piuttosto alla fisica, per cui da Aristotele sono dette «più fisiche». Perciò la conoscenza che l'uomo ha di Dio a partire dalle realtà create appartiene più alla scienza, a cui appartiene formalmente, che alla sapien­ za, a cui appartiene materialmente. E al con­ trario, quando giudichiamo delle realtà create partendo da quelle divine, questa conoscenza appartiene più alla sapienza che alla scienza.

Articulus 3 Utrum scientiae donum sit scientia practica

Articolo 3 Il dono della scienza è una scienza pratica?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod scien­ tia quae ponitur donum sit scientia practica.

Sembra di sì. Infatti: l. Agostino dice che «alla scienza è deputata

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Il dono della scienza

l . Dicit enim Augustinus, 1 2 De Trin. [14] , quod actio qua exterioribus rebus utimur scientiae deputatur. Sed scientia cui deputatur actio est practica. Ergo scientia quae est donum est scientia practica. 2. Praeterea, Gregorius dicit, in l Mor. [32],

nulla est scientia si utilitatem pietatis non habet, et va/de inutilis est pietas si scientiae discretione caret. Ex quo habetur quod scien­ tia dirigit pietatem. Sed hoc non potest compe­ tere scientiae speculativae. Ergo scientia quae est donum non est speculativa, sed practica. 3. Praeterea, dona Spiritus Sancti non haben­ tur nisi a iustis, ut supra [I-II q. 88 a. 5] habi­ tum est. Sed scientia speculativa potest haberi etiam ab iniustis, secundum illud Iac. ult.

[4,17], scienti bonum et non facienti, pecca­ rum est illi. Ergo scientia quae est donum non est speculativa, sed practica. Sed contra est quod Gregorius dicit, in l Mor.

[32], scientia in die suo convivium parat, quia in ventre mentis ignorantiae ieiunium superat.

Sed ignorantia non tollitur totaliter nisi per utramque scientiam, scilicet et speculativam et practicam. Ergo scientia quae est donum est et speculativa et practica. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. l ] dictum est, donum scientiae ordinatur, sicut et donum i ntellectus, ad certitudinem fidei . Fides autem primo et principaliter in specula­ tione consistit, inquantum scilicet inhaeret primae veritati. Sed quia prima veritas est etiam ultimus finis, propter quem operamur, inde etiam est quod fides ad operationem se extendit, secundum illud Gal. 5 [6] : fides per dilectionem operatur. Unde etiam oportet quod donum scientiae primo quidem et prin­ cipaliter respiciat speculationem, inquantum scilicet homo scit quid fide tenere debeat. Secundario autem se extendit etiam ad opera­ tionem, secundum quod per scientiam credi­ bilium, et eorum quae ad credibilia conse­ quuntur, dirigimur in agendis. Ad primum ergo dicendum quod Augustinus loquitur de dono scientiae secundum quod se extendit ad operationem, attribuitur enim ei actio, sed non sola nec primo. Et hoc etiam modo dirigi t pietatem. Unde patet solutio ad secundum. Ad tertium dicendum quod, sicut dictum est [q. 8 a. 5] de dono intellectus quod non qui­ cumque intelligit habet donum intellectus, sed

Q. 9, A. 3

l'operazione con la quale ci serviamo delle realtà esterne». Ma la scienza a cui è deputata un' operazione è una scienza pratica. Quindi il dono della scienza è una scienza pratica. 2. Gregorio insegna: «La scienza è nulla se non è utile alla pietà; e la pietà è del tutto inu­ tile se manca la discrezione della scienza». Dal che si rileva che la scienza dirige la pietà. Ma questo non può essere il compito di una scienza speculativa. Quindi la scienza i n quanto dono non è speculativa, ma pratica. 3. I doni dello Spirito Santo si trovano soltan­ to nei giusti, come si è visto. Ma la scienza speculativa può trovarsi anche nei peccatori, come è chiaro da Gc 4, 17: Chiunque conosce

il bene e non lo compie, commette peccato.

Perciò la scienza in quanto dono non è specu­ lativa, ma pratica. In contrario: Gregorio dice: «La scienza nel suo giorno prepara il convito, vincendo i l digiuno dell ' ignoranza nelle viscere della mente». Ma l'ignoranza viene totalmente eli­ minata solo con entrambe le scienze, cioè con quella speculativa e con quella pratica. Quindi la scienza in quanto dono è insieme speculati­ va e pratica. Risposta: abbiamo già detto che il dono della scienza, come anche quello dell'intelletto, è ordinato alla certezza della fede. Ma la fede in maniera primaria e principale consiste nella speculazione, in quanto cioè aderisce alla prima verità. Siccome però la prima verità è anche il fine ultimo del nostro agire, ne viene che la fede si estende anche ali' agire, secondo il passo di Gal 5,6: La fede opera mediante la carità. Perciò il dono della scienza in maniera primaria e principale riguarda la speculazione, in quanto cioè uno sa che cosa deve credere. In maniera secondaria invece si estende anche ali' operazione, regolandoci nell'agire median­ te la scienza delle verità di fede e di quanto è ad esse connesso. Soluzione delle difficoltà: l . Agostino parla del dono della scienza in quanto si estende all'operazione: infatti ad esso viene attribuita l'azione; però non sola, né per prima. Ed è co�ì che esso dirige anche la pietà. 2. E così risolta anche la seconda difficoltà. 3. Come a proposito del dono dell' intelletto abbiamo visto che non lo posseggono tutti quelli che intendono, ma solo chi intende co­ me attraverso l'abito della grazia, così anche

Q. 9, A. 3

IL dono della scienza

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qui intelligit quasi ex habitu gratiae; ita etiam de dono scientiae est intelligendum quod illi soli donum scientiae habeant qui ex infusione gra­ tiae certum iudicium habent circa credenda et agenda, quod in nullo deviat a rectitudine iusti­ tiae. Et haec est scientia sanctorum, de qua dicitur Sap. 10 [ 1 0] : iustum deduxit Dominus per vias rectas et dedit i/li scientiam sanctorum.

per il dono della scienza va notato che lo pos­ seggono solo quelli che per l'infusione della grazia hanno un giudizio tanto certo sulle cose da credere e da operare, da non deviare mai dalla rettitudine della giustizia. E questa è «la scienza dei santi», di cui in Sap 1 0, 1 0 è detto: Il Signore condusse il giusto per diritti sentieri e gli diede la scienza dei santi.

Articulus 4 Utrum dono scientiae respondeat tertia beatitudo

Articolo 4 Al dono della scienza corrisponde la terza beatitudine?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod scientiae non respondeat tertia beatitudo, sci­ licet, beati qui lugent, quoniam ipsi consola­ buntur [Matth. 5,5]. l . Sicut enim malum est causa tristitiae et luc­ tus, ita etiam bonum est causa laetitiae. Sed per scientiam principalius manifestantur bona quam mala, quae per bona cognoscuntur, ree­ rum enim est iudex sui ipsius et obliqui, ut dicitur in l De an. [5,1 6] . Ergo praedicta bea­ titudo non convenienter respondet scientiae. 2. Praeterea, consideratio vetitatis est actus scientiae. Sed in consideratione veritatis non est tristitia, sed magis gaudium, dicitur enim Sap. 8 [ 1 6]: Non habet amaritudinem conver­ satio illius, nec taedium convictus illius, sed laetitiam et gaudium. Ergo praedicta beatitudo non convenienter respondet dono scientiae. 3 . Praeterea, donum scientiae prius consistit in speculatione quam in operatione. Sed secun­ dum quod consistit in speculatione, non respondet sibi luctus, quia intellectus speculati­ vus nihil dicit de imitabili et .fugiendo, ut dici­ tur in 3 De an. [9,7]; neque dicit aliquid laetum et triste. Ergo praedicta beatitudo non conve­ nienter ponitur respondere dono scientiae. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro de Serm. Dom. in Monte [4], scientia conve­ nit lugentibus, qui didicerunt quibus malis vincti sunt, quae quasi bona petienmt. Respondeo dicendum quod ad scientiam pro­ prie pertinet rectum iudicium creaturarum. Creaturae autem sunt ex quibus homo occa­ sionaliter a Deo avertitur, secundum illud Sap. 14 [1 1 ] : creaturae factae sunt in odium, et in muscipulam pedibus insipientium, qui scilicet rectum iudicium de his non habent, dum aestimant in eis esse perfectum bonum; unde i n eis finem constituendo, peccant et

Sembra che al dono della scienza non corri­ sponda la terza beatitudine e cioè: Beati colo­ ro che piangono, perché saranno consolati [Mt 5,5]. Infatti: l . Come il male è causa di tristezza e di pian­ to, così il bene è causa di gioia. Ma la scienza manifesta più il bene che il male, poiché il male stesso è conosciuto mediante il bene: infatti Aristotele scrive che «una linea retta è giudice di se stessa e di quella obliqua». Perciò la suddetta beatitudine non corrispon­ de al dono della scienza. 2. La considerazione della verità è un atto di scienza. Ora, la considera?ione della verità non implica tristezza, ma gioia, poiché in Sap 8,1 6 è detto: La sua compagnia non dà amarezza, né dolore la sua convivenza, ma contentezza e gioia. Quindi la beatitudine indicata non corri­ sponde bene al dono della scienza. 3. n dono della scienza consiste più nella spe­ culazione che nell'operazione. Ma per quanto riguarda la speculazione ad esso non corri­ sponde il pianto: poiché, secondo Aristotele, l'intelletto speculativo «non dice nulla di ciò che va imitato o rifuggito», come non dice nul­ la di lieto o di triste. Perciò la beatitudine indi­ cata non corrisponde al dono della scienza. In contrario: Agostino dice: >: tale cioè per cui l'uno con­ corda con l'altro su cose che convengono a entrambi. Se infatti un uomo concorda con un altro non per spontanea volontà, ma costretto in qualche modo dal timore di un male immi­ nente, tale concordia non è veramente una pace: poiché non si conserva l'ordine dei due interessati, ma esso è turbato da colui che incute il timore. Per questo Agostino aveva detto in precedenza che «la pace è la tranquil­ lità dell'ordine». Tranquillità che consiste nel fatto che tutti i moti appetitivi vengono a quietarsi. 2. Un uomo, pur consentendo in una data cosa con un altro, non rende il suo consenso del tutto unito se tutti i suoi moti non sono an­ ch' essi tra loro consenzienti. 3 . Alla pace si oppongono tutte e due le di­ scordie: quella di ciascuno con se stesso e quella dell'uno con l'altro. Invece alla concor­ dia si contrappone soltanto quest'ultima.

Articulus 2 Utrurn ornnia appetant pacern

Articolo 2 Thtti gli esseri desiderano la pace?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod non omnia appetant pacem. l . Pax enim, secundum Dionysium [DDN 1 1 , 1], est unitiva consensus. Sed in his quae cognitione carent non potest uniri consensus. Ergo huiusmodi pacem appetere non possunt.

Sembra di no. Infatti: l . Secondo Dionigi la pace è «fatta per pro­ durre il consenso». Ma negli esseri privi di conoscenza non si può produrre il consenso. Quindi tali esseri non possono desiderare la pace.

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La pace

2. Praeterea, appetitus non tertur simul ad con­ traria. Sed multi sunt appetentes bella et dis­ sensiones. Ergo non omnes appetunt pacem. 3. Praeterea, solum bonum est appetibile. Sed quaedam pax videtur esse mala, alioquin Dominus non diceret, Matth. 1 0 [34], non veni mittere pacem. Ergo non omnia pacem appetunt. 4. Praeterea, illud quod omnia appetunt vide­ tur esse summum bonum, quod est ultimus finis. Sed pax non est huiusmodi, quia etiam in statu viae habetur; alioquin frustra Domi­ nus mandaret, Mare. 9 [49] , pacem habete inter vos. Ergo non omnia pacem appetunt. Sed contra est quod Augustinus dicit, 19 De civ. Dei [ 1 2], quod omnia pacem appetunt. Et idem etiam dicit Dionysius, 1 1 cap. De div. nom. [ 1 ]. Respondeo dicendum quod ex hoc ipso quod homo aliquid appetit, consequens est ipsum appetere eius quod appetit assecutionem, et per consequens remotionem eorum quae conse­ cutionem impedire possunt. Potest autem im­ pediri assecutio boni desiderati per contrarium appetitum vel sui ipsius vel alterius, et utrumque tollitur per pacem, sicut supra [a. l ] dictum est. Et ideo necesse est quod omne ap­ petens appetat pacem, inquantum scilicet omne appetens appetit tranquille et sine impedimento pervenire ad id quod appetit, in quo consistit ratio pacis, quam Augustinus definit [De civ. Dei 1 9, 1 3] tranquillitatem onlinis. Ad primum ergo dicendum quod pax importat unionem non solum appetitus intellectualis seu rationalis aut animalis, ad quos potest pertinere consensus, sed ctiam appetitus naturalis. Et ideo Dionysius [DDN 1 1 , l ] dicit quod pax est operativa et consensus et connaturalitatis, ut in consensu importetur unio appetituum ex cognitione procedentium; per connaturalitatem vero importatur unio appetituum naturalium. Ad secundum dicendum quod illi etiam qui bel­ la quaerunt et dissensiones non desiderant nisi pacem, quam se habere non aestimant. Ut enim dictum est [a. l ad 1 ], non est pax si quis cum alio concordet contra id quod ipse magis vellet. Et ideo homines quaerunt hanc concordiam rompere bellando, tanquam defectum pacis habentem, ut ad pacem perveniant in qua nihil eorum voluntati repugnet. Et propter hoc omnes bellantes quaerunt per bella ad pacem aliquam pervenire perfectiorem quam prius haberent.

Q. 29, A. 2

2. Il desiderio non può portarsi simultanea­ mente su cose contrarie. Ora, ci sono molti che desiderano guerre e discordie. Quindi non tutt! desiderano la pace. 3. E desiderabile soltanto il bene. Ma una certa pace sembra che sia cattiva, altrimenti il Signore non avrebbe detto: Non sono venuto a portare la pace (Mt 1 0,34). Quindi non tutti gli esseri desiderano la pace. 4. Ciò che tutti desiderano non è che il som­ mo bene, e quindi il fine ultimo. Ma la pace non è tutto ciò: poiché la si può avere anche nella vita presente. Altrimenti il Signore avrebbe detto invano: Siate in pace gli uni con gli altri (Mc 9,49). Quindi non tutti gli es­ seri desiderano la pace. In contrario: Agostino insegna che tutti gli es­ seri desiderano la pace. E lo stesso fa Dionigi. Risposta: per il fatto stesso che un uomo desi­ dera una cosa desidera il suo conseguimento, e quindi la rimozione degli ostacoli che po­ trebbero impedirlo. Ora, il conseguimento del bene desiderato può essere impedito da un desiderio contrario o del soggetto medesimo, o di altri: e ambedue questi desideri, come si � detto sopra, vengono eliminati dalla pace. E quindi necessario che chiunque ha un desiderio, desideri la pace: poiché tutti coloro che deside­ rano tendono a conseguire con tranquillità e senza ostacoli ciò che desiderano, e in questa tranquillità consiste l'essenza della pace, che Agostino definisce «la tranquillità dell'ordine». Soluzione delle difficoltà: l . La pace dice unione non solo dell'appetito intellettivo o di quello sensitivo, in cui può verificarsi il con­ senso, ma anche dell'appetito naturale. Per cui Dionigi ha scritto che «la pace è fatta per produrre il consenso e la connaturalità»: indi­ cando nel consenso l'unione degli appetiti che derivano dalla conoscenza, e nella connatu­ ralità l'unione degli appetiti naturali. 2. Anche chi cerca le guerre e le discordie non desidera altro che la pace, che crede di non avere. Come infatti si è detto sopra, non c'è pace se uno accetta l'accordo con un altro contro ciò che egli preferirebbe. E così gli uo­ mini cercano di rompere con la guerra la con­ cordia in cui trovano questa carenza di pace per giungere a una pace in cui nulla ripugni alla loro volontà. Perciò n1tti quelli che com­ battono cercano di raggiungere con la guerra una pace più perfetta della precedente.

Q. 29, A. 2

La pace

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Ad tertium dicendum quod, quia pax con­ sistit in quietatione et unione appetitus; sicut autem appetitus potest esse vel boni simplici­ ter vel boni apparentis, ita etiam et pax potest esse et vera et apparens, vera quidem pax non potest esse nisi circa appetitum veri bo­ ni; quia omne malum, etsi secundum aliquid appareat bonum, unde ex aliqua parte appe­ titum quietet, habet tamen multos defectus, ex quibus appetitus remanet inquietus et perturbatus. Unde pax vera non potest esse nisi in bonis et bonorum. Pax autem quae malorum est, est pax apparens et non vera. Unde dicitur Sap. 14 [22], in magno viventes inscientiae bello, tot et tanta mala pacem arbitrati sunt. Ad quartum dicendum quod, cum vera pax non sit nisi de bono, sicut dupliciter habetur vemm bonum, scilicet perfecte et imperfecte, ita est duplex pax vera. Una quidem perfecta, quae consistit in perfecta fruitione summi boni , per quam omnes appetitus uniuntur quietati in uno. Et hic est ultimus finis creatu­ rae rationalis, secundum illud Ps. [147,3], qui posuit fines tuos pacem. Alia vero est pax im­ perfecta, quae habetur in hoc mundo. Quia etsi principalis animae motus quiescat in Deo, sunt tamen aliqua repugnantia et intus et extra quae perturbant hanc pacem.

3. La pace consiste nella quiete e nella coesio­ ne dell'appetito. Ora, come l'appetito può avere per oggetto il bene vero o il bene appa­ rente, così anche la pace può essere vera o apparente. Ma non ci può essere vera pace se non nel desiderio del bene vero: poiché qual­ siasi male, anche se da un certo punto di vista è un bene e soddisfa così l'appetito, ha molte carenze che lasciano l'appetito inquieto e tur­ bato. Per cui la vera pace non può trovarsi che nei buoni e nel bene. Invece la pace dei cattivi è una pace apparente e non vera. Perciò è detto in Sap 1 4 [22]: Pur vivendo in una grande guerra di ignoranza, danno a così grandi mali il nome di pace. 4. La vera pace non ha per oggetto che il bene: come quindi esistono due tipi di bene, cioè quello perfetto e quello imperfetto, così la vera pace è duplice. C'è una pace perfetta, che consiste nella fruizione del sommo bene, mediante la quale tutti gli appetiti si fondono quietandosi in un unico oggetto. E questo è il fine ultimo della creatura razionale, secondo le parole del Sal [147,3]: Ha messo pace nei tuoi confini. C'è poi una pace imperfetta, che è l'unica possibile in questo mondo. Poiché anche se i moti principali dell'anima tendono a Dio, ci sono sempre delle cose che dentro e fuori turbano questa pace.

Articulus 3 Utrum pax sit proprius effectus caritatis

Articolo 3 La pace è un effetto proprio della carità?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod pax non sit proprius effectus caritatis. l . Caritas enim non habetur sine gratia gra­ tum faciente. Sed pax a quibusdam habetur qui non habent gratiam gratum facientem, sicut et gentiles aliquando habent pacem. Ergo pax non est effectus caritatis. 2. Praeterea, illud non est effectus caritatis cuius contrarium cum caritate esse potest. Sed dis­ sensio, quae contrariatur paci, potest esse cum caritate, videmus enim quod etiam sacri doctores, ut Hieronymus et Augustinus, in aliquibus opinionibus dissenserunt; Paulus etiam et Bamabas dissensisse leguntur, Act. 1 5 [37]. Ergo videtur quod pax non sit effectus caritatis. 3 . Praeterea, idem non est proprius effectus diversorum. Sed pax est effectus iustitiae, secundum illud Isaiae 32 [ 17], opus iustitiae pax. Ergo non est effectus caritatis.

Sembra di no. Infatti: l . Non si può avere la carità senza la grazia santificante. Ma la pace è posseduta da alcuni che non hanno la grazia santificante: come anche i Pagani talora hanno la pace. Quindi la pace non è un effetto della carità. 2. Non è un effetto della carità una cosa il cui contrario può sussistere con la carità. Ora la di­ scordia, che è contraria alla pace, può sussistere con la carità. Vediamo intatti che anche dei santi dottori, come Girolamo e Agostino, dissentirono fra loro in certe opinioni. Leggiamo poi [At 1 5,37] che anche Paolo e Barnaba ebbero dis­ sensi. Quindi la pace non è un effetto della carità. 3. Un'identica cosa non può essere l'effetto proprio di virtù diverse. Ma la pace è l'effetto della giustizia, secondo le parole di Is 32 [ 17]: Opera della giustizia sarà la pace. Perciò non è un effetto della carità.

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La pace

Sed contra est quod dicitur in Ps. [1 1 8, 1 65],

pax multa diligentibus legem tuam.

Respondeo dicendum quod duplex unio est de ratione pacis, sicut dictum est, quarum una est secundum ordinationem propriorum ap­ petituum in unum; alia vero est secundum unionem appetitus proprii cum appetitu alterius. Et utramque unionem efficit caritas. Primam quidem unionem, secundum quod Deus diligitur ex toto corde, ut scilicet omnia referamus in ipsum, et sic omnes appetitus nostri in unum feruntur. Aliam vero, prout diligimus proximum sicut nosipsos, ex quo contingit quod homo vult implere voluntatem proximi sicut et sui ipsius. Et propter hoc inter am i cabi l i a unum ponitur i dentitas electionis, ut patet in 9 Ethic. [4, 1 ] ; et Tullius dicit, in libro De amicitia [DD 4,552], quod

amicorum est idem ve/le et no/le. Ad primum ergo dicendum quod a gratia gra­ tum faciente nullus deficit nisi propter pecca­ turo, ex quo contingit quod homo sit aversus a fine debito, in aliquo indebito finem consti­ tuens. Et secundum hoc appetitus eius non in­ haeret principaliter vero finali bono, sed appa­ renti. Et propter hoc sine gratia gratum faciente non potest esse vera pax, sed solum apparens. Ad secundum dicendum quod, sicut philoso­ phus dicit, in 9 Ethic. [6, 1 ] , ad amicitiam non pertinet concordia in opinionibus, sed concor­ dia in bonis conferentibus ad vitam, et praeci­ pue in magnis, quia dissentire in aliquibus parvis quasi videtur non esse dissensus. Et propter hoc nihil prohibet aliquos caritatem habentes in opinionibus dissentire. Nec hoc repugnat paci, quia opiniones pertinent ad intellectum, qui praecedit appetitum, qui per pacem unitur. Similiter etiam, existente con­ cordia in principalibus bonis, dissensio in aliquibus parvis non est contra caritatem. Pro­ cedit enim talis dissensio ex diversitate opi­ nionum, dum unus aestimat hoc de quo est dissensio pertinere ad illud bonum in quo con­ veniunt, et alius aestimat non pertinere. Et se­ cundum hoc talis dissensio de minimis et de opinionibus repugnat quidem paci perfectae, in qua piene veritas cognoscetur et omnis ap­ petitus complebitur, non tamen repugnat paci imperfectae, qualis habetur in via. Ad tertium dicendum quod pax est opus iusti­ tiae indirecte, inquantum scilicet removet prohibens. Sed est opus caritatis directe, quia

Q. 29, A. 3

In contrario: nel Sal [1 1 8 , 1 65] è detto: Gran­ de pace a coloro che amano la tua legge. Risposta: il concetto di pace, come si è detto, implica due tipi di unificazione: la prima ri­ guardante il coordinamento dei propri appe­ titi, la seconda riguardante la fusione dei propri appetiti con quelli altrui. E tutte e due queste unificazioni sono compiute dalla cari­ tà. La prima per i l fatto che con essa si ama Dio con tutto il cuore, cioè in modo da rivol­ gere a lui ogni cosa: e così tutti i nostri desi­ deri sono rivolti a un solo oggetto. La seconda invece per il fatto che amiamo il prossimo come noi stessi: dal che risulta che uno vuole compiere la volontà del prossimo come la propria. Per questo tra i requisiti dell'amicizia c'è anche l'identità della scelta, come insegna Aristotele; e Cicerone scrive che «gli amici hanno un identico volere e non volere». Soluzione delle difficoltà: l . Nessuno decade dalla grazia santificante se non per il peccato, col quale l 'uomo si allontana dal debito fine scegliendone uno cattivo. Perciò il suo appeti­ to non aderisce primariamente al vero bene finale, ma a un bene apparente. E così senza la grazia santificante non ci può essere una pace vera, ma solo apparente. 2. Come spiega il Filosofo, per l'amicizia non si richiede la concordia nelle opinioni, ma [solo] nei beni utili alla vita, specialmente in quelli più importanti: poiché dissentire in certe piccole cose non sembra neppure un dissenso. Per cui nulla impedisce che ci sia dissenso di opinioni tra persone che hanno la carità. E ciò non esclude la pace: poiché le opinioni riguar­ dano l'intelletto, il quale precede l' appetito, che è unificato dalla pace. Parimenti, quando c'è concordia nei beni principali, il dissenso in certe piccole cose non compromette la carità. Infatti tale dissenso deriva dalla diversità di opinioni, quando uno giudica una data cosa conforme al bene in cui concorda con l'altro, mentre l'altro non la giudica tale. E in base a ciò tale dissenso nelle piccole cose e nelle opi­ nioni è certamente incompatibile con la pace perfetta, nella quale la verità sarà pienamente conosciuta e ogni desiderio sarà soddisfatto, ma non è incompatibile con la pace imperfetta propria dei viatori. 3. La pace indirettamente è opera della giusti­ zia, in quanto questa ne rimuove gli ostacoli, ma direttamente è opera della carità: poiché la

La pace

Q. 29, A. 3

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secundum propriam rationem caritas pacem causat. &t enim amor vis unitiva, ut Dionysius dicit, 4 cap. De div. nom. [ 1 2] pax autem est unio appetitivarum inclinationum.

carità causa la pace in forza della sua natura. Infatti l'amore, come insegna Dionigi, è «una forza unitiva>>: ora, la pace è l'unificazione tra le inclinazioni dell'appetito.

Articulus 4 Utrum pax sit virtus

Articolo 4 La pace è una virtù?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod pax sit virtus. l. Praecepta enim non dantur nisi de actibus virtutum. Sed dantur praecepta de habendo pacem, ut patet Mare. 9 [49], pacem habete inter vos. Ergo pax est virtus. 2. Praeterea, non meremur nisi actibus virtu­ tum. Sed facere pacem est meritorium, se­ cundum illud Matth. 5 [9], beati pacifici, quoniam filii Dei vocabuntur. Ergo pax est virtus. 3. Praeterea, vitia virtutibus opponuntur. Sed dissensiones, quae opponuntur paci, nume­ rantur inter vitia; ut patet ad Gal. 5 [20] . Ergo pax est virtus. Sed contra, virtus non est finis ultimus, sed via in ipsum. Sed pax est quodarnmodo finis ultimus; ut Augustinus dicit, 1 9 De civ. Dei [ 1 1 ] . Ergo pax non est virtus. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 28 a. 4] dictum est, eu m omnes actus se in­ vicem consequuntur, secundum eandem ra­ tionem ab agente p rocedentes , omnes huiusmodi actus ab una virtute procedunt, nec habent singuli singulas virtutes a quibus procedant. Ut patet in rebus corporalibus, quia enim ignis calefaciendo liquefacit et rarefacit, non est in igne alia virtus lique­ factiva et alia rarefactiva, sed omnes actus hos operatur ignis per unam suam virtutem calefactivam. Cum igitur pax causetur ex ca­ ritate secundum ipsam rationem dilectionis Dei et proximi, ut ostensum est [a. 3], non est alia virtus cuius pax sit proprius actus ni­ si caritas, sicut et de gaudio dictum est [q. 28 a. 4]. Ad primum ergo dicendum quod ideo prae­ ceptum datur de pace habenda, quia est actus caritatis. Et propter hoc etiam est actus meritorius. Et ideo ponitur inter beatitudines, quae sunt actus virtutis perfectae, ut supra [l-Il q. 69 aa. 1 .3] dictum est. Ponitur etiam inter fructus, inquantum est quoddam finale bonum spiritualem dulcedinem habens.

Sembra di sì. Infatti: l . I precetti hanno per oggetto soltanto gli atti delle virtù. Ora, nella Scrittura non mancano i precetti sul mantenimento della pace, come si ha in Mc 9 [49]: Siate in pace gli uni con gli altri. Quindi la pace è una virtù. 2. Non si può meritare se non con atti di virtù. Ma operare la pace è un atto meritorio, secon­ do le parole di Mt 5 [9] : Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Quindi la pace è una vittù. 3. I vizi si contrappongono alle virtù. Ma le discordie, che si contrappongono alla pace, sono enumerate tra i vizi in Gal 5 [20]. Quin­ di la pace è una virtù. In contrario: una virtù non è il fine ultimo, ma la via per giungere ad esso. La pace invece è in qualche modo il fine ultimo, come afferma Agostino. Quindi la pace non è una virtù. Risposta: gli atti che derivano da un agente per uno stesso motivo, essendo tutti connessi tra loro, come si è già notato, derivano neces­ sariamente da una medesima virtù, senza che ciascuno abbia una virtù propria da cui derivi. Ciò è evidente negli esseri materiali: per il fatto, ad es., che il fuoco riscaldando rende una materia liquida e poi gassosa, non c'è da distinguere nel fuoco una virtù per liquefare e una virtù per vaporizzare, ma il fuoco compie tutti questi atti in forza della sua unica virtù calorifica. Siccome quindi la pace, stando alle spiegazioni date, viene causata dalla carità in forza della stessa sua natura di amore di Dio e del prossimo, non c'è oltre alla carità un'altra virtù di cui la pace sia l'atto peculiare: come si è già dimostrato anche per la gioia. Soluzione delle difficoltà: l . Il precetto di mantenere la pace è dato perché si tratta di un atto di carità. E per questo è anche un atto meritorio. Per cui la pace è enumerata tra le beatitudini, che sono gli atti delle virtù perfet­ te, come si è visto sopra. Ed è anche ricordata tra i frutti: in quanto è un certo bene ultimo, accompagnato da dolcezza spirituale.

La pace

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Q. 29, A. 4

Et per hoc patet solutio ad secundum. Ad tertium dicendum quod uni virtuti multa vitia opponuntur, secundum diversos actus eius. Et secundum hoc caritati non solum opponitur odium, ratione actus dilectionis; sed etiam acedia vel invidia, ratione gaudii; et dissensio, ratione pacis.

2. È così risolta anche la seconda difficoltà. 3. A un'unica virtù si oppongono molteplici vizi, secondo i suoi vari atti. E in base a ciò alla carità non si oppone soltanto l'odio in rapporto ali' atto dell'amore, ma anche l' acci­ dia e l'invidia in rapporto alla gioia, e la di­ scordia in rapporto alla pace.

QUAESTI0 30 DE MISERICORDIA

QUESTIONE 30 LA MISERICORDIA

Deinde considerandum est de misericordia. Et circa hoc quaenmtur quatuor. Primo, utrum malum sit causa misericordiae ex parte eius cuius miseremur. Secundo, quorum sit mise­ reri. Tertio, utrum misericordia sit virtus. Quarto, utrum sit maxima virtutum.

Rimane ora da considerare la misericordia, o compassione. Sull' argomento si pongono quat­ tro quesiti: l . La causa della misericordia, dalla parte di chi viene compatito, è il male? 2. A chi spetta avere J1llsericordia? 3. La misericordia è una virtù? 4. E la più grande delle virtù?

Articulus l Utrum malum sit proprie motivum ad misericordiam

Articolo l Il male è propriamente il movente della misericordia?

Ad primum sic proceditur. Vìdetur quod malum non sit proprie motivum ad misericordiam. l . Ut enim supm [q. 1 9 a l ; I q. 48 a. 6]; osten­ sum est, culpa est magis malum quam poena. Sed culpa non est provocativum ad mi­ sericordiam, sed magis ad indignationem. Ergo malum non est misericordiae provocativum. 2. Praeterea, ea quae sunt crudelia seu dira videntur quendam excessum mali habere. Sed philosophus dicit, in 2 Rhet. [8, 1 2] , quod

Sembra di no. Infatti: l . Come si è visto sopra, la colpa è un male più grave della pena. Ma la colpa non provoca alla misericordia, bensì allo sdegno. Quindi non è il male che provoca alla misericordia. 2. Le cose crudeli od orribili si presentano co­ me un eccesso di male. Ora, il Filosofo af­ ferma: «Ciò che è orribile è diverso da ciò che è miserevole, ed elimina la misericordia». Perciò il male in quanto male non muove alla misericordia. 3. Le descrizioni dei mali non sono veri mali. Eppure queste descrizioni provocano alla mise­ ricordia, come nota Aristotele. Quindi il male non è il movente proprio della misericordia. In contrario: i l Damasceno insegna che la misericordia è una specie di tristezza. Ma il movente della tristezza è il male. Quindi è il male che muove alla misericordia. Risposta: come scrive Agostino, «la miseri­ cordia è la compassione del nostro cuore per la miseria altrui che, potendolo, siamo spinti a soccorrere»: infatti misericordia deriva dal­ l' avere un cuore misero [o triste] sull' altrui miseria. Om, la miseria si contrappone alla fe­ licità. D' altra parte nel concetto di felicità, o di beatitudine, è inclusa l'idea che uno riesca ad avere ciò che vuole: come infatti insegna Agostino, «è felice colui che ha tutto ciò che

dirum est aliud a miserabili, et expulsivum miserationis. Ergo malum, inquantum huius­ modi, non est motivum ad misericordiam. 3. Pmeterea, signa malorum non vere sunt ma­ la. Sed signa malorum provocant ad miseri­ cordiam; ut patet per philosophum, in 2 Rhet. [8, 1 6] . Ergo malum non est proprie provocati­ vum misericordiae. Sed contra est quod Damascenus dicit, i n 2 Lib. [De fide 1 4], quod misericordia est spe­ cies tristitiae. Sed motivum ad tristitiam est malum. Ergo motivum ad misericordiam est malum. Respondeo dicendum quod, sicut Augustinus dicit, 9 De civ. Dei [ 5 ] , misericordia est

alienae miseriae in nostro corde compassio, qua utique, si possumus, subvenire compel­ limur, dicitur enim misericordia ex eo quod aliquis habet miserum cor super m iseria

Q. 30, A. l

La misericordia

alterius. Miseria autem felicitati opponitur. Est autem de ratione beatitudinis sive felicita­ tis ut aliquis potiatur eo quod vult, nam sicut Augustinus dicit, 13 De Ttin. [5], beatus qui habet omnia quae vult, et nihil mali vult. Et ideo e contrario ad miseriam pertinet ut homo patiatur quae non vult. Tripliciter autem aliquis vult aliquid. Uno quidem modo, ap­ petitu naturali, sicut omnes homines volunt esse et vivere. Alio modo homo vult aliquid per electionem ex aliqua praemeditatione. Tertio modo homo vult aliquid non secundum se, sed in causa sua, puta, qui vult comedere nociva, quodammodo dicimus eum velle infirmati. Sic igitur motivum miseticordiae est, tanquam ad miseriam pertinens, primo quidem illud quod contrariatur appetitui naturali volentis, scilicet mala corruptiva et contristantia, quorum contraria homines naturaliter appetunt. Unde philosophus dicit, in 2 Rhet. [8,2], quod misericordia est tristitia quaedam super apparenti malo corntptivo vel contristativo. Secundo, huiusmodi magis efficiuntur ad misericordiam provocantia si sint contra voluntatem electionis. Unde et philosophus ibidem [Rhet. 2,8,8 . 1 O] dici t quod illa mala sunt miserabilia quorum fortuna est causa, puta cum aliquod malum eveniat unde sperabatur bonum. Tertio autem, sunt adhuc magis miserabilia si sunt contra totam voluntatem, puta si aliqu i s semper sectatus est bona e t eveniunt e i mala. Et ideo philosophus dicit, in eodem libro [Rhet. 2,8, 1 6], quod misericordia ma.xime est super malis eius qui indignus patitur. Ad ptimum ergo dicendum quod de ratione culpae est quod sit voluntaria. Et quantum ad hoc non habet rationem miserabilis, sed magis rationem puniendi. Sed quia culpa potest esse aliquo modo poena, inquantum scilicet habet aliquid annexum quod est contra voluntatem peccantis, secundum hoc potest habere ratio­ nem miserabilis. Et secundum hoc miseremur et compatimur peccantibus, sicut Gregorius dicit, in quadam homilia [In Ev. h. 2,34], quod vera iustitia non habet dedignationem, scilicet ad peccatorcs, sed compassionem. Et Matth. 9 [36] dicitur, videns lesus turbas misertus est eis, quia erant vexati, et iacentes sicut oves non habentes pastorem. Ad secundum dicendum quod quia misericor­ dia est compassio miseriae alterius, proprie

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vuole, e non vuole alcun male». Ne segue quindi, al contrario, che la miseria implica l'idea che uno soffra ciò che non vuole. Ma l ' uomo può volere una cosa in tre modi. Primo, per desidetio naturale: come tutti gli uomini, p. es., vogliono esistere e vivere. Secondo, uno può volere una cosa per libera scelta in seguito a una deliberazione. Terzo, uno può volere una cosa non in se stessa, ma nelle sue cause: quando uno, p. es., vuole mangiare cose nocive, noi diciamo che vuole ammalarsi . Così dunque tra i moventi della misericordia che appartengono alla miseria troviamo innanzi tutto le cose contrarie all' ap­ petito naturale del prossimo, cioè i mali che corrompono e contristano, e che si contrap­ pongono ai beni desiderati per natura dagli uomini. Per questo il Filosofo affenna che «la misericordia è una tristezza relativa a un male evidente che corrompe e contrista>>. Secondo, questi mali provocano maggiormente alla mi­ sericordia se sono contrari anche al volere de­ liberato. Per cui il Filosofo scrive ancora che sono degni di misericordia quei mali «che sono causati da una disgrazia», p. es. «quando si produce un male là dove si sperava un bene». Terzo, questi mali spingono ancora di più alla miseticordia se contrastano con tutto il volere di un uomo: come quando uno, p. es., dopo aver sempre cercato il bene, viene colpi­ to da un male. Per questo il Filosofo afferma che «la misericordia tocca soprattutto i mali di colui che soffre immeritatamente». Soluzione delle difficoltà: l . La colpa è essen­ zialmente volontaria. E sotto questo aspetto non è degna di compassione, ma di punizio­ ne. Siccome però la colpa in qualche modo può essere una punizione, cioè in quanto c'è in essa un aspetto che ripugna al volere di chi pecca, da questo lato può essere degna di compassione. Ed è per questo che possiamo avere misericordia e compassione per i pecca­ tori: poiché, secondo Gregorio, «la vera giu­ stizia non nutre sdegno» contro i peccatori, «ma compassione». E in Mt 9 [36] è detto: Gesù vedendo le folle ne sentì compassione, poiché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. 2. Essendo la misericordia una compassione della miseria altrui, in senso proprio si ha misericordia solo verso gli altri, e non invece verso se stessi se non in senso metaforico,

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Ad tertium dicendum quod sicut ex spe et me­ moria bonorum sequitur delectatio, ita ex spe et memoria malorum sequitur tristitia, non autem tam vehemens sicut ex sensu praesen­ tium. Et ideo signa malorum, inquantum re­ praesentant nobis mala miserabilia sicut prae­ sentia, commovent ad miserendum.

come accade anche con la giustizia, quando si considerano distinte nell' uomo le varie parti, come spiega Aristotele. E in questo senso è detto in Sir 30 [24] : Abbi misericordia dell'a­ nima tua, rendendoti accetto a Dio. Come quindi non c'è vera misericordia verso se stessi, ma dolore, quando p. es. soffriamo in noi qualcosa di crudele, così non abbiamo misericordia dei mali altrui, ma dolore come di ferite proptie, qualora si tratti di persone a noi così unite da essere, come i figli e i geni­ tori, qualcosa di noi stessi. E in questo senso il Filosofo afferma che «la crudeltà esclude la misericordia». 3. Come dalla speranza e dal ricordo dei beni nasce il piacere, così dal timore e dal ricordo dei mali nasce la tristezza: tuttavia non così forte come quando i mali sono presenti sensi­ bilmente. Quindi le descrizioni dei mali, in quanto ci rappresentano cose degne di com­ passione come se fossero presenti, muovono alla misericordia.

Articulus 2 Utrum defectus sit ratio miserendi ex parte miserentis

Articolo 2 n difetto personale di chi ba misericordia è la ragione dell'aver misericordia?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod defectus non sit ratio miserendi ex parte miserentis. l . Proprium enim Dei est misereri, unde dicitur in Ps. [144,9], miserationes eius super omnia opera eius. Sed in Deo nullus est de­ fectus. Ergo defectus non potest esse ratio miserendi. 2. Praeterea, si defectus est ratio miserendi, oportet quod illi qui maxime sunt cum defectu maxime miserentur. Sed hoc est falsum, dicit enim philosophus, in 2 Rhet. [8,3], quod qui ex toto perierunt non miserentur. Ergo videtur quod defectus non sit ratio miserendi ex parte miserentis. 3. Praeterea, sustinere aliquam contumeliam ad defectum pertinet. Sed philosophus dicit ibidem [Rhet. 2,8,6] quod il/i qui sunt in contumeliati­ va dispositione non miserentur. Ergo defectus ex parte miserentis non est ratio miserendi. Sed contra est quod misericordia est quaedam tristitia. Sed defectus est ratio tristitiae, unde infirmi facilius contristantur, ut supra [1-11 q. 47 a. 3] dictum est. Ergo ratio miserendi est defectus miserentis.

Sembra di no. Infatti: l . L' aver misericordia è proprio di Dio, come è detto in Sal [ 1 44,9]: Le sue misericordie si estendono su tutte le sue opere. Ma in Dio non ci sono difetti. Quindi il difetto non può essere la ragione della misericordia. 2. Se il difetto personale è la ragione dell'aver misericordia, allora è necessario che i più menomati siano più portati a compatire. Ma ciò è falso poiché, come dice il Filosofo, «quelli che sono rovinati del tutto non hanno misericordia>>. Quindi sembra che il difetto non sia un motivo di compassione da parte dei misericordiosi. 3. Subire un'offesa è una menomazione. Ora, il Filosofo afferma che «coloro che si sentono ofì'esi non hanno misericordia>>. Perciò la me­ nomazione da parte di chi deve compatire non è un motivo che spinge alla misericordia. In contrario: la misericordia è una specie di tristezza. Ma il difetto [o menomazione] è motivo di tristezza: infatti, come si è già nota­ to, i deboli sono più portati ad addolorarsi . Quindi l a menomazione d i chi usa misericor­ dia è la ragione del suo compatire.

misericordia est ad alterum, non autem ad seipsum, nisi secundum quandam similitudi­ nem, sicut et iustitia, secundum quod in homi­ ne considerantur diversae partes, ut dicitur in 5 Ethic. [ 1 1 ,9]. Et secundum hoc dicitur Eccli. 30 [24], miserere animae tuae placens Deo. Sicut ergo misericordia non est proprie ad seipsum, sed dolor, puta cum patimur aliquid crudele in nobis; ita etiam, si sint aliquae per­ sonae ita nobis coniunctae ut sint quasi aliquid nostri, puta filii aut parentes, in eorum malis non miseremur, sed dolemus, sicut in vulneri­ bus propriis. Et secundum hoc philosophus dicit [Rhet. 2,8, 12] quod dirum est expulsivum

miserationis.

Q. 30, A. 2

La misericordia

Respondeo dicendum quod, cum misericordia sit compassio super miseria aliena, ut dictum est [a. 1], ex hoc contingit quod aliquis mise­ reatur ex quo contingit quod de miseria aliena doleat. Quia autem tristitia seu dolor est de proprio malo, intantum aliquis de miseria aliena tristatur aut dolet inquantum miseriam alienam apprehendit ut suam. Hoc autem contingit dupliciter. - Uno modo, secundum unionem affectus, quod fit per amorem. Quia enim amans reputat amicum tanquam seipsum, malum ipsius reputat tanquam suum malum, et ideo dolet de malo amici sicut de suo. Et inde est quod philosophus, in 9 Ethic. [4, 1], inter alia amicabilia ponit hoc quod est condo/ere amico. Et apostolus dicit, ad Rom. 12 [15], gaudere cum gaudentibus, fiere cum flentibus. - Alio modo contingit secundum unionem realem, utpote cum malum aliquo­ rum propinquum est ut ab eis ad nos transeat. Et ideo philosophus dicit, in 2 Rhet. [8,2], homines miserentur super illos qui sunt eis coniuncti et similes, quia per hoc fit eis aesti­ matio quod ipsi etiam possint similia pati. Et inde est etiam quod senes et sapientes, qui considerant se posse in mala incidere, et debiles et formidolosi magis sunt misericor­ des. E contrario autem alii, qui reputant se es­ se felices et intantum potentes quod nihil mali putant se posse pati, non ita miserentur. - Sic igitur semper defectus est ratio miserendi, vel inquantum aliquis defectum alicuius reputat suum, propter unionem amoris; vel propter possibilitatem similia patiendi. Ad primum ergo dicendum quod Deus non miseretur nisi propter amorem, inquantum amat nos tanquam aliquid sui. Ad secundum dicendum quod illi qui iam sunt in infimis malis non timent se ulterius pati aliquid, et ideo non miserentur. Similiter etiam nec illi qui valde timent, quia tantum i ntendunt propriae passioni quod n o n intendunt miseriae alienae. Ad tertium dicendum quod illi qui sunt in contumeliativa dispositione, sive quia sint contumeliam passi, sive quia velint contume­ liam inferre, provocantur ad iram et auda­ ciam, quae sunt quaedam passiones virilitatis extollentes animum hominis ad arduum. Un­ de auferunt homini aestimationem quod sit aliquid in futurum passurus. Unde tales, dum sunt in hac dispositione, non m iserentur,

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Risposta: poiché la misericordia è la compas­ sione della miseria altrui, come si è detto, uno è spinto ad avere misericordia di tale miseria dalla stessa ragione per cui se ne addolora. E siccome la tristezza, o dolore, ha per oggetto il male proprio, in tanto uno si addolora della miseria altrui in quanto la considera come propria. Ora, ciò avviene in due modi. - Pri­ mo, per un legame di affetto: il che avviene con l' amore. Infatti chi ama, considerando l'amico un altro se stesso, reputa come proprio il suo male, e quindi se ne addolora come di un male proprio. Per questo il Filosofo mette tra i requisiti dell' amicizia «l'addolorarsi con l ' amico». E Paolo dice di gioire con chi è nella gioia, e di piangere con chi è nel pianto (Rm 12, 15). - Secondo, ciò può avvenire per un legame reale, in quanto il male di certe persone è talmente vicino da ricadere su di noi. E per questo motivo il Filosofo insegna che gli uomini compatiscono i propri congiun­ ti e i propri simili: in quanto pensano in base a ciò di potersi trovare a soffrire cose consimili. Ed è per questo che i vecchi e le persone sagge, i quali pensano di potersi trovare male, nonché i deboli e i paurosi, sono più portati alla misericordia. Invece gli alni, che si credo­ no felici e così potenti da non poter subire alcun male, non sono così facili alla miseri­ cordia. - Così dunque la menomazione è sem­ pre una ragione di misericordia: o perché uno considera propria la menomazione altrui per il legame dell' amore, oppure per la possibilità di subire qualcosa di simile. Soluzione delle difficoltà: l . Dio non usa mi­ sericordia se non per amore, poiché ci ama come qualcosa di se stesso. 2. Coloro che sono già colpiti dai mali più gravi non temono più di soffrire altre cose: quindi non hanno misericordia. E così pure fanno quelli che hanno troppa paura: poiché sono tanto presi dalla propria passione da non badare alla miseria altrui. 3 . Coloro che sono predisposti all' offesa, o perché l' hanno subita o perché intendono in­ fliggerla, sono portati all'ira e all' audacia, che sono passioni virili esaltanti l' animo umano verso le cose ardue, e perciò capaci di togliere all' uomo il timore di dover subire in seguito qualche sciagura. Per cui costoro, mentre sono in tale disposizione, non hanno miseri­ cordia, come è detto in Pr 27 [4]: L'ira non

La misericordia

335 secundum illud Prov. 27 [4],

ira non habet mi­ sericordiam, neque erumpens fwvr. - Et ex si­

mili ratione superbi non miserentur, qui con­ ternnunt alias et reputant eos malos. Unde re­ putant quod digne patiantur quidquid patiuntur. Unde et Gregorius dicit [In Ev. h. 2,34] quod falsa iustitia, scilicet superborum, non habet

compassionem, sed dedignationem.

Q. 30, A. 2

conosce misericordia, così come il furore im­ petuoso. - E per lo stesso motivo non hanno

misericordia i superbi, che disprezzano gli al­ tri e li stimano cattivi, per cui pensano che costoro soffrano giustamente quello che sof­ frono. Per cui anche Gregorio dice che «la falsa giustizia - cioè quella dei superbi - non ha compassione, ma disprezzo».

Articulus 3

Articolo 3

Utrum misericordia sit virtus

La misericordia è una virtù?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod mise­ ricordia non sit virtus. l . Principale enim in virtute est electio, ut patet per philosophum, in libro Ethic. [5,4]. Electio autem est appetitus praeconsiliati, ut in eodem libro [Ethic. 3,2, 1 6; 6,2,2] dicitur. Illud ergo quod impedit consilium non potest dici virtus. Sed misericordia impedit consilium, secun­ dum illud Sallustii [In coniurat. Catil . 5 1 ] ,

Sembra di no. Infatti : l . Nella virtù la cosa principale è la scelta, co­ me nota il Filosofo. Ora, per usare le sue pa­ role, la scelta appartiene «all' appetito prece­ duto dalla deliberazione». Perciò non può dirsi virtù ciò che ostacola la deliberazione. Ma la misericordia ostacola la deliberazione, come nota Sallustio: «Tutti gli uomini che de­ l iberano su cose dubbie devono spogliarsi dell' ira e della misericordia: infatti l' animo non può scorgere facilmente la verità ove ci siano questi ostacoli». Perciò la misericordia non è una virtù. 2. Nessuna cosa contraria a una virtù è degna di lode. Ma la nemesi, come dice Aristotele, è contraria alla misericordia, e d'altra parte è una passione lodevole, secondo lo stesso Ari­ stotele. Quindi la misericordia non è una vrrtù . '. 3. La gioia e la pace non sono virtù speciali poiché, come si è visto, derivano dalla carità. Ma anche la misericordia deriva dalla carità: come infatti con la carità gioiamo con chi gioisce, così con essa piangiamo con chi piange [Rm 1 2, 1 5] . Perciò la misericordia non è una virtù speciale. 4. La misericordia, appartenendo a una poten­ za appetitiva, non è una virtù intellettuale. E neppure è una virtù teologale, non avendo Dio per oggetto. Così pure non è una virtù morale, poiché non ha per oggetto né le operazioni, essendo questo il compito della giustizia, né le passioni, non riducendosi essa a nessuno dei dodici "giusti mezzi" di cui parla Aristotele. Quindi la misericordia non è una virtù. In contrario: Agostino scrive: «Di gran lunga più giustamente e più umanamente e più con­ formemente al sentimento religioso parlò Ci­ cerone in lode di Cesare là dove disse: "Nes­ suna delle tue virtù è più ammirevole o più

omnes homines qui de rebus dubiis consultant ab ira et misericonlia vacuos esse decet, non enim animus facile verum providet ubi ista officiunt. Ergo misericordia non est virtus.

2. Praeterea, nihil quod est contrarium virtuti est laudabile. Sed nemesis contrariatur miseri­ cordiae, ut philosophus dicit, in 2 Rhet. [9, 1 ] . Nemesis autem est passio laudabilis, u t di­ citur in 2 Ethic. [7, 1 5] . Ergo misericordia non est virtus. 3. Praeterea, gaudium et pax non sunt specia­ les virtutes quia consequuntur ex caritate, ut supra [q. 28 a. 4; q. 29 a. 4] dictum est. Sed etiam misericordia consequitur ex caritate, sic enim ex caritate flemus cum flentibus sicut gaudemus cum gaudentibus. Ergo misericor­ dia non est specialis viitus. 4. Praeterea, cum misericordia ad vim appeti­ tivam pertineat, non est virtus intellectualis. Nec est virtus theologica, cum non habeat Deum pro obiecto. Similiter etiam non est virtus moralis, quia nec est circa operationes, hoc enim pertinet ad iustitiam; nec est circa passiones, non enim reducitur ad aliquam duodecim medietatum quas philosophus ponit, in 2 Ethic. [7]. Ergo misericordia non est virtus. Sed contra est quod Augustinus dicit, in 9 De civ. Dei [5] , longe melius et humanius et

piorum sensibus accommodatius Cicero in Caesaris laude locutus est, ubi ait, nulla de

Q. 30, A. 3

La misericordia

virtutibus tuis nec admirabilior nec gratior misericordia est. Ergo misericordia est virtus. Respondeo dicendum quod misericordia im­ portat dolorem de miseria aliena. Iste autem dolor potest nominare, uno quidem modo, motum appetitus sensitivi. Et secundum hoc misericordia passio est, et non virtus. - Alio vero modo potest nominare motum appetitus intellectivi, secundum quod alicui displicet malum alterius. Hic autem motus potest esse secundum rationem regulatus, et potest se­ cundum hunc motum ratione regulatum re­ gulari motus inferioris appetitus. Unde Augu­ stinus dicit, in 9 De civ. Dei [5], quod iste mo­ tus animi, scilicet misericordia, servit rationi quando ita praebetur misericordia ut iustitia conservetur, sive cum indigenti tribuitur, sive cum ignoscitur poenitenti. Et quia ratio virtutis humanae consistit in hoc quod motus animi ratione reguletur, ut ex superioribus [1-11 q. 56 a. 4; q. 59 a. 4; q. 60 a. 5; q. 66 a. 4] patet, consequens est misericordiam esse virtutem. Ad primum ergo dicendum quod auctoritas illa Sallustii intelligitur de misericordia secun­ dum quod est passio ratione non regulata. Sic enim impedit consilium rationis, dum facit a iustitia discedere. Ad secundum dicendum quod philosophus loquitur ibi de misericordia et nemesi secun­ dum quod utrumque est passio. Et habent quidem contrarietatem ex parte aestimationis quam habent de malis alienis, de quibus mi­ sericors dolet, inquantum aestimat aliquem indigna pati; nemeseticus autem gaudet, in­ quantum aestimat aliquos digne pati, et tristatur si indignis bene accidat. Et utrumque est laudabile, et ab eodem more descendens, ut ibidem [Rhet. 2,9, l ] dicitur. Sed proprie misericordiae opponitur invidia, ut infra [q. 36 a. 3 ad 3] dicetur. Ad tertium dicendum quod gaudium et pax nihil adiiciunt super rationem boni quod est obiectum caritatis, et ideo non requirunt alias virtutes quam caritatem. Sed misericordia respicit quandam specialem rationem, scilicet miseriam eius cuius miseretur. Ad quartum dicendum quod misericordia, secundum quod est virtus, est moralis virtus circa passiones existens, et reducitur ad illam medietatem quae dicitur nemesis, quia ab eodem more procedunt, ut in 2 Rhet. [9, 1 ] dicitur. Has autem medietates philosophus

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gradita della tua misericordia"». Quindi la misericordia è una virtù. Risposta la misericordia implica una tristezza per la miseria altrui. Ma questa tristezza o dolore può indicare due cose. Primo, un moto dell'appetito sensitivo. E in questo senso la misericordia è una passione e non una virtù. Secondo, può indicare un moto dell'appetito intellettivo, che è il dispiacere [spirituale] del male altrui. Ora, questo moto può essere regolato dalla ragione, e con il medesimo così regolato si possono regolare razionalmente i moti dell'appetito inferiore. Per cui Agostino insegna che «questo moto dell'animo», cioè la misericordia, «è subordinato alla ragione quando si usa misericordia senza offendere la giustizia, sia socconendo i bisognosi, sia per­ donando ai colpevoli». Poiché dunque l'es­ senza della virtù umana consiste nel fatto che i moti dell'animo sono regolati dalla ragione, come si è visto sopra, è chiaro che la miseri­ cordia è una virtù. Soluzione delle difficoltà: l . Quel testo di Sal­ lustio va inteso della misericordia in quanto è una passione non regolata dalla ragione. Allora essa infatti ostacola la deliberazione della ragione facendole abbandonare la giustizia. 2. Il Filosofo qui parla della misericordia e della nemesi in quanto sono passioni, le quali certamente si contrappongono per una diver­ sità di giudizio sui mali altrui: infatti il miseri­ cordioso si addolora perché ritiene che uno soffra ingiustamente, mentre chi è dominato dalla nemesi gode ritenendo che certuni sof­ frano giustamente, e si rattrista della prospe­ rità dei malvagi. E Aristotele conclude che «l'una e l'altra cosa è lodevole, derivando da un identico costume». Propriamente però alla misericordia si contrappone l 'invidia, come diremo in seguito. 3. La gioia e la pace non aggiungono nulla alla ragione di bene che forma l'oggetto della carità: quindi non si richiedono altre virtù oltre alla carità. La misericordia invece ha di mira una ragione speciale, cioè la miseria di chi ne è l'oggetto. 4. La misericordia in quanto virtù è una virtù morale riguardante le passioni: e si riconduce a quel giusto mezzo che si chiama nemesi poiché, come dice Aristotele, «ambedue deri­ vano da un identico costume». Però questi "giusti mezzi" il Filosofo non li considera

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non ponit virtutes, sed passiones, quia etiam secundum quod sunt passiones, laudabiles sunt. Nihil tamen prohibet quin ab aliquo habitu electivo proveniant. Et secundum hoc assumunt rationem virtutis.

virtù, ma passioni: poiché sono lodevoli an­ che in quanto passioni. Nulla però impedisce che derivino da un qualche abito volontario. E in questo modo assumono l' aspetto di virtù.

Articulus 4 Utrum misericordia sit maxima virtutum

Articolo 4 La misericordia è la più grande delle virtù?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod mi­ sericordia sit maxima virtutum. l . Maxime enim ad virtutem pertinere videtur cultus divinus. Sed misericordia cultui divino praefertur, secundum illud Osee 6 [6] et Matth. 12 [7], misericordiam volo, et non sacrijìcium. Ergo misericordia est maxima virtus. 2. Praeterea. super illud l ad Tim. 4 [8], pietas ad omnia utilis est, dicit Glossa Ambrosii [ord. et Lomb.; Ambrosiaster, In l T!m. super 4,8],

Sembra di sì. Infatti: l . La cosa che più sembra appartenere alla virtù è il culto divino. Ma la misericordia vie­ ne preferita nella Scrittura al culto divino, se­ condo quelle parole di Os 6 [6] e Mt 12 [7] : Misericordia voglio, e twn sacrificio. Quindi la misericordia è la più grande delle virtù. 2. Spiegando il passo di l Tm 4 [8]: La pietà è utile a tutto, la Glossa dice: «Tutto il compen­ dio della dottrina cristiana si trova nella mise­ ricordia e nella pietà>>. Ma la dottrina cristiana abbraccia tutte le virtù. Quindi il compendio di tutte le virtù consiste nella misericordia. 3. >. E sotto que..o;;to aspetto tali passioni ap­ partengono anche alla giustizia: poiché, anco­ ra secondo Aristotele, «chi non gode delle azioni giuste non è giusto». 2. Le azioni esterne stanno in mezzo, in qual­ che modo, tra le realtà esterne, che ne costitui­ scono la materia, e le passioni interiori, che ne sono i princìpi. Ora, capita qualche volta che ci sia una mancanza da un lato senza che vi sia dall' altro: come quando uno prende la roba altrui non per il desiderio di possederla, ma per fare un danno; oppure, al contrario, quan­ do uno desidera la roba altrui senza però volerla rubare. Perciò la regolazione delle nostre azioni in quanto queste hanno il loro termine nelle realtà esterne appartiene alla giu­ stizia; in quanto invece esse nascono dalle pas­ sioni appartiene alle altre virtù morali, che hanno per oggetto le passioni. Perciò il furto è contrastato dalla giustizia in quanto incompa­ tibile con l'uguaglianza da rispettare nelle co­ se esterne, e dalla liberalità in quanto derivante dal desiderio smodato delle ricchezze. Sicco­ me però le azioni esterne non ricevono la spe­ cie dalle passioni interiori, ma piuttosto dalle realtà esterne che ne sono l'oggetto, ne viene che di per sé le azioni esterne sono materia più della giustizia che delle altre virtù morali. 3. n bene comune è il fine delle singole perso­ ne che vivono in una collettività, come il bene del tutto è il fine di ciascuna delle sue parti. n bene però di un individuo non è il fine di un altro. Perciò la giustizia legale, che è ordinata al bene comune, può estendersi alle stesse passioni interne, che ordinano in qualche modo l'uomo in se stesso, più della giustizia particolare, che dispone al bene di un altro individuo. Sebbene anche la giustizia legale si estenda alle altre virtù principalmente per le

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natur ad bonum alterius singularis personae. Quamvis iustitia legalis principalius se exten­ dat ad alia(i virtutes quantum ad exteriores ope­ rationes earum, inquantum scilicet praecipit

loro operazioni esterne: cioè in quanto, come dice Aristotele, «la legge comanda di compie­ re le opere dei forti, quelle dei temperanti e quelle dei mansueti».

Articulus l O Utrum medium iustitiae sit medium rei

n giusto mezzo della giustizia è di ordine reale?

Ad decimum sic proceditur. Videtur quod medium iustitiae non sit medium rei. l . Ratio enim generis salvatur in omnibus speciebus. Sed virtus moralis in 2 Ethic. [6,15] definitur esse habitus electivus in medietate existens determinata ratione quoad nos. Ergo et in iustitia est medium rationis, et non rei. 2. Praeterea, in his quae simpliciter sunt bona non est accipere superfluum et diminutum, et per consequens nec medium, sicut patet de vir­ tutibus, ut dicitur in 2 Ethic. [6,20]. Sed iustitia est circa simpliciter bona, ut dicitur in 5 Ethic. [l ,9]. Ergo in iustitia non est medium rei. 3. Praeterea, in aliis virtutibus ideo dicitur esse medium rationis et non rei, quia diversimode accipitur per comparationem ad diversas per­ sonas, quia quod uni est multum, alteri est pa­ rum, ut dicitur in 2 Ethic. [6,7]. Sed hoc etiam observatur in iustitia, non enim eadem poena punitur qui percutit principem, et qui percutit privatam personam. Ergo etiam iustitia non habet medium rei, sed medium rationis. Sed contra est quod philosophus, in 5 Ethic. [4,3], assignat medium iustitiae secundum proportionalitatem arithmeticam, quod est medium rei. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 2 ad 4; a. 8; 1-ll q. 60 a. 2] dictum est, aliae viitutes morales consistunt principaliter circa passiones, quarum rectificatio non attenditur nisi secundum comparationem ad ipsum ho­ minem cuius sunt passiones, secundum sci­ licet quod irascitur et concupiscit prout debet secundum diversas circumstantias. Et ideo medium talium virtutum non accipitur secun­ dum proportionem unius rei ad alteram, sed solum secundum comparationem ad ipsum virtuosum. Et propter hoc in ipsis est medium solum secundum rationem quoad nos. Sed materia iustitiae est exterior operatio secun­ dum quod ipsa, vel res cuius est usus, debitam

Sembra di no. Infatti: l . La natura di un dato genere si riscontra in tutte le sue specie. Ma la virtù morale è defi­ nita da Aristotele come «Un abito elettivo che consiste nel giusto mezzo determinato in rap­ porto a noi dalla ragione». Perciò anche nella giustizia il giusto mezzo è di ordine razionale, e non di ordine reale. 2. Nelle cose che «sono buone in senso assolu­ to» non si può riscontrare un eccesso o una mancanza, e quindi neppure il giusto mezzo: il che è evidente nella virtù, come scrive Aristo­ tele. Ora, la giustizia ha per oggetto cose «che sono buone in senso assoluto», come il mede­ simo afferma. Quindi nella giustizia non si può riscontrare un giusto mezzo di ordine reale. 3. Nelle altre virtù si parla di un giusto mezzo di ordine razionale e non reale perché esso viene determinato diversamente secondo la diversità delle persone: poiché ciò che per uno è troppo, per un altro è poco, come nota Aristotele. Ma ciò si verifica anche nella giu­ stizia: infatti non si punisce con la stessa pena chi percuote la suprema autorità e chi percuo­ te una persona privata. Perciò anche la giusti­ zia non ha un giusto mezzo di ordine reale, ma di ordine razionale. In contrruio: il Filosofo insegna che il giusto mezzo della giustizia è secondo una propor­ zione «aritmetica>>, il che significa che si trat­ ta di un giusto mezzo di ordine reale. Risposta: come sopra si è dimostrato, le altre virtù morali riguardano principalmente le pas­ sioni, la cui rettiticazione va determinata e­ sclusivamente in rapporto all'individuo a cui esse apprutengono, cioè in quanto uno fa uso dell'irascibile e del concupiscibile come con­ viene secondo le diverse circostanze. Perciò il giusto mezzo di queste virtù non viene deter­ minato in base al rapporto di una cosa con un'altra, ma solo in base al rapporto dell'uo-

/ex fortis opera facere, et quae temperati, et quae mansueti, ut dicitur in 5 Ethic. [ 1 , 14].

Articolo 1 0

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proportionem habet ad aliam personam. Et ideo medium iustitiae consistit in quadam proportionis aequalitate rei exterioris ad per­ sonam exteriorem. Aequale autem est realiter medium inter maius et minus, ut dicitur in 10 Met. [9,5,6]. Unde iustitia habet medium rei. Ad primum ergo dicendum quod hoc me­ dium rei est etiam medium rationis. Et ideo in iustitia salvatur ratio virtutis moralis. Ad secundum dicendum quod bonum simpli­ citer dupliciter dicitur. Uno modo, quod est omnibus modis bonum, sicut virtutes sunt bonae. Et sic in his quae sunt bona simpliciter non est accipere medium et extrema. Alio modo dicitur aliquid simpliciter bonum quia est absolute bonum, scilicet secundum suam naturam consideratum, quamvis per abusum possit fieri malum, sicut patet de divitiis et ho­ noribus. Et in talibus potest accipi superfluum, diminutum et medium quantum ad homines, qui possunt eis uti vel bene vel male. Ei sic circa simpliciter bona dicitur esse iustitia. Ad tertium dicendum quod iniuria illata aliam proportionem habet ad principem, et aliam ad personam privatam. Et ideo oportet aliter adaequare utramque iniuriam per vindictam. Quod pertinet ad diversitatem rei, et non salurn ad diversitatem rationis.

mo virtuoso con se stesso. Quindi in esse esi­ ste un giusto mezzo solo in rapporto a noi. La materia dell a giustizia è data i nvece dalle azioni esterne in quanto esse stesse, o le cose di cui si fa uso, hanno il debito rapporto con altri individui. E così il giusto mezzo della giustizia consiste in un certo rapporto di u­ guaglianza di una cosa esterna con un indivi­ duo distinto. Ora, ciò che è uguale è real­ mente intermedio tra il più e il meno, come nota Aristotele. Quindi la giustizia ha il suo giusto mezzo nell' ordine reale. Soluzione delle difficoltà: l . n giusto mezzo di ordine reale è anche un giusto mezzo di ordine razionale. Perciò anche nella giustizia si riscontra la natura di virtù morale. 2. Una cosa può essere buona in senso assoluto in due modi. Primo, nel senso che ci sono delle cose che sono buone sotto tutti gli aspetti: co­ me sono buone le virtù. E in queste cose buone in senso assoluto non è possibile determinare il giusto mezzo e i due estremi. Secondo, una cosa può essere buona in senso assoluto i n quanto è buona secondo una considerazione astratta, cioè considerata nella sua natura, seb­ bene possa diventare cattiva per l'abuso che se ne fa: come è evidente nel caso delle ricchezze e degli onori. Ora, rispetto a questi beni ci può essere eccesso, mancanza, o giusto mezzo nel­ l ' uomo, che è capace di servirsene bene o male. In questo senso si può dire che la giu­ stizia ha per oggetto dei beni in senso assoluto. 3. La gravità di un'ingiuria commessa contro l' autorità suprema è diversa da quella com­ messa contro una persona privata. Perciò la punizione deve uguagliare diversamente l'una e l ' altra colpa. Ora, ciò corrisponde a una disuguaglianza reale, e non semplicemente a una disuguaglianza di ragione.

Articulus 1 1 Utrum actus iustitiae sit reddere unicuique quod suum est

Articolo 1 1 Vatto della giustizia consiste nel rendere a ciascuno il suo?

Ad undecimum sic proceditur. Videtur quod actus iustitiae non sit reddere unicuique quod suum est. l . Augustinus enim, 14 De Trin. [9], attribuit iustitiae subvenire miseris. Sed in subveniendo miseris non tribuimus eis quae sunt eorum, sed magis quae sunt nostra. Ergo iustitiae actus non est tribuere unicuique quod suum est.

Sembra di no. Infatti: l . Agostino attribuisce alla giustizia «il soccor­ rere gli indigenti». Ma nel soccorrere gli indi­ genti non diamo la roba che appartiene ad essi, bensì la roba nostra. Perciò l'atto della giustizia non consiste nel dare a ciascuno il suo. 2. Secondo Cicerone «la beneficenza, che possiamo chiamare benignità o liberalità»,

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2. Praeterea, Thllius, in l De off. [1 ,7], dicit quod beneficentia, quam benignitatem vel li­ beralitatem appellari licet, ad iustitiam perti­ net. Sed liberalitatis est de proprio dare alicui, non de eo quod est eius. Ergo iustitiae actus non est reddere unicuique quod suum est. 3. Praeterea, ad iustitiam pertinet non solum res dispensare debito modo, sed etiam iniurio­ sas actiones cohibere, puta homicidia, adulte­ ria et alia huiusmodi. Sed reddere quod suum est videtur solum ad dispensationem rerum pertinere. Ergo non sufficienter per hoc notifi­ catur actus iustitiae quod dicitur actus eius esse reddere unicuique quod suum est. Sed contra est quod Ambrosius dicit, in l De off. [24], iustitia est quae unicuique quod suum

est tribuit, alienum non vindicat, utilitatem pmpriam negligit ut communem aequitatem custodiat.

Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [aa. 8. 1 0] , materia iustitiae est operatio exte­ rior secundum quod ipsa, vel res qua per eam utimur, proportionatur alteri personae, ad quam per iustitiam ordinamur. Hoc autem di­ citur esse suum uniuscuiusque personae quod ei secundum proportionis aequalitatem debe­ tur. Et ideo proprius actus iustitiae nihil est aliud quam reddere unicuique quod suum est. Ad primum ergo dicendum quod iustitiae, cum sit vittus cardinalis, quaedam aliae virtu­ tes secundariae adiunguntur, sicut misericor­ dia, liberalitas et aliae huiusmodi virtutes, ut infra [q. 80] patebit. Et ideo subvenire mise­ ris, quod pertinet ad misericordiam sive pie­ tatem, et Iiberaliter benefacere, quod pertinet ad liberalitatem, per quandam reductionem attribuitur iustitiae, sicut principali virtuti. Et per hoc patet responsi o ad secundum. Ad tertium dicendum quod, sicut philosophus dicit, in 5 Ethic. [4, 1 3] , ornne superfluum in his quae ad iustitiam pertinent lucrum, exten­ so nomine, vocatur, sicut et ornne quod minus est vocatur damnum. Et hoc ideo, quia iustitia prius est exercita, et communius exercetur in voluntariis commutationibus rerum, puta emptione et venditione, in quibus proprie haec nomina dicuntur; et exinde derivantur haec nomina ad omnia circa quae potest esse iustitia. Et eadem ratio est de hoc quod est reddere unicuique quod suum est.

Q. 58, A. 1 1

appartiene alla giustizia. Ma la liberalità ha il compito di offrire agli altri la roba nostra, e non ciò che appartiene ad essi. Quindi l'atto della giustizia non sta nel rendere a ciascuno il suo. 3. Spetta alla giustizia non soltanto distribuire [beni o punizioni] nel debito modo, ma anche reprimere le azioni ingiuriose, come l'omici­ dio, l ' adulterio e altre cose del genere. Ora, rendere a ciascuno il suo sembra limitarsi alla sola distribuzione di determinate cose. Quindi non viene indicato in modo esauriente l'atto della giustizia se si afferma che esso consiste nel rendere a ciascuno il suo. In contrario: Ambrogio dice: «La giustizia è quella virtù che dà a ciascuno il suo, che non esige l' altrui e che sacrifica il proprio vantag­ gio per il bene comune». Risposta: come si è detto, la materia della giu­ stizia è costituita dalle azioni esterne in quanto esse, o le cose di cui ci serviamo con esse, so­ no adeguate ad altri individui verso i quali sia­ mo ordinati mediante la giustizia. Ora, si dice proprio di ciascun individuo ciò che a lui è do­ vuto secondo una certa uguaglianza di rap­ porti. Perciò l'atto specifico della giustizia non consiste se non nel rendere a ciascuno il suo. Soluzione delle difficoltà: l Essendo la giusti­ zia una virtù cardinale, essa è accompagnata da altre virtù secondarie, come la misericor­ dia, la liberalità e altre virtù del genere, di cui parleremo in seguito. Perciò il soccorrere gli indigenti, che appartiene alla pietà o miseri­ cordia, e il beneficare con munificenza, che appartiene alla liberalità, vengono attribuiti per riduzione alla giustizia come alla virtù pripcipale. 2. E così risolta anche la seconda difficoltà. 3. Come nota il Filosofo, qualsiasi superfluo i n materia di giustizia per estensione viene detto lucro, e qualsiasi m inorazione viene detta danno. E ciò perché la giustizia viene esercitata prima di tutto e più universalmente nelle permute volontarie dei beni, cioè nelle compravendite, alle quali questa nomenclatu­ ra si addice in senso proprio, e da esse poi si estende a tutto ciò che può essere oggetto di giustizia. E la stessa cosa vale per l' espressio­ ne: rendere a ciascuno il suo.

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Articulus 1 2 Utrum iustitia praeemineat inter omnes virtutes morales

Articolo 1 2 La giustizia è superiore a tutte le virtù morali?

Ad duodecimum sic proceditur. Videtur quod iustitia non praeemineat inter omnes virtutes morales. l . Ad iustitiam enim pertinet reddere alteri quod suum est. Ad liberalitatem autem perti­ net de proprio dare, quod virtuosius est. Ergo liberalitas est maior virtus quam iustitia. 2. Praeterea, nihil ornatur nisi per aliquid di­ gnius se. Sed magnanimitas est omamentum et iustitiae et omnium virtutwn, ut dicitur in 4 Ethic. [3, 1 6]. Ergo magnanimitas est nobilior quam iustitia. 3. Praeterea, virtus est circa difficile et bonum, ut dicitur in 2 Ethic. [3, 10] . Sed fortitudo est circa magis difficilia quam iustitia, idest circa pericula morlis, ut dicitur in 3 Ethic. [6,6]. Ergo fortitudo est nobilior iustitia. Sed contra est quod Tullius dicit, in l De off. [7], in iustitia virtutis 5plendor est maximus, ex qua boni viri nominantur. Respondeo dicendum quod si loquamur de iu­ stitia legali, manifestum est quod ipsa est prae­ clarior inter omnes virtutes morales, inquantum bonum commune praeeminet bono singulari unius personae. Et secundum hoc philosophus, in 5 Ethic. [1, 15], dicit quod praec/arissima virrutum viderw· esse iustitia, el neque esi He­ sperus neque Lucifer ita admirabilis. - Sed etiam si loquamur de iustitia particulari, prae­ cellit inter alias virtutes morales, duplici ratione. Quarum prima potest sumi ex parte subiecti, quia scilicet est in nobiliori parte animae, idest in appetitu rationali, scilicet voluntate; aliis virtutibus moralibus existentibus in appetitu sensitivo, ad quem pertinent passiones, quae sunt materia aliarum virtutum moralium. - Se­ cunda ratio sumitur ex parte obiecti. Nam aliae virtutes laudantur solum secundum bonum ipsius virtuosi. lustitia autem laudatur secun­ dum quod virtuosus ad alium bene se habet, et sic iustitia quodammodo est bonum alterius, ut dicitur in 5 Ethic. [ l , 17] . Et propter hoc philo­ sophus dicit, in l Rhet. [9,6], necesse est maxi­ mas esse virtutes eas quae sunt aliis honestissi­ mae, siquidem est virtus potentia benefactiva. Propter hoc fortes et iustos maxime honorant, quoniamj011itudo est utilis aliis in bello, iustitia autem et in bello et in pace.

Sembra di no. Infatti: l. La giustizia ha il compito di rendere a ciascu­ no il suo. Ma la liberalità ha quello di dare del proprio, il che esige una virtù maggiore. Quindi la liberalità è una virtù superiore alla giustizia. 2. Una cosa non può ricevere ornamento se non da cose superiori ad essa. Ma «la magna­ nimità è un ornamento» della giustizia e «di tutte le viltù», come dice Aristotele. Perciò la magnanimità è superiore alla giustizia. 3 . Come ricorda Aristotele, la virtù ha per oggetto «il difficile» e «il bene». Ma la fortez­ za ha di mira cose più difficili che non la giu­ stizia, cioè «i pericoli di morte», sempre se­ condo Aristotele. Quindi la fortezza è supe­ riore alla giustizia. In contrario: Cicerone scrive: «Nella giustizia brilla al massimo lo splendore della virtù, e da essa vengono denominati gli uomini onesti». Risposta: se parliamo della giustizia legale, è evidente che essa è la più nobile fra tutte le virtù morali: poiché il bene comune è superiore al bene particolare di un individuo. Da cui l'af­ fermazione di Aristotele che «la giustizia è la più eccellente delle virtù, e né la stella della sera né quella del mattino sono così ammirabi­ li». - Ma anche se parliamo della giustizia par­ ticolare, essa eccelle fra le altre virtù morali per due ragioni. La prima può essere desunta dalla facoltà in cui risiede: poiché essa si trova nella parte più nobile dell'anima, cioè nell'appetito razionale, o volontà, mentre le altre virtù mora­ li risiedono nell'appetito sensitivo, a cui appar­ tengono le passioni, che formano l'oggetto di tali virtù. - La seconda ragione deriva dall 'og­ getto. Infatti le altre virtù vengono lodate solo per il bene della persona virtuosa. La giustizia invece è lodevole anche per i l fatto che la persona virtuosa è bene ordinata nei rapporti con gli altri: e così la giustizia è in qualche modo un bene altrui, come nota Aristotele. Per cui egli scrive: «Le virtù più grandi sono ne­ cessariamente quelle più vantaggiose agli altri, posto che la virtù è una facoltà destinata a compiere il bene. Per questo gli uomini onora­ no soprattutto i forti e i giusti: poiché la fortez­ za è vantaggiosa agli altri in guerra, mentre la giustizia lo è sia in pace che in guerra».

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A d primum ergo dicendum quod liberalitas, etsi de suo det, tamen hoc facit inquantum in hoc considerat propriae virtutis bonum. Iustitia autem dat alteri quod suum est quasi considerans bonum commune. Et praeterea iustitia observatur ad omnes, liberalitas autem ad omnes se extendere non potest. Et iterum liberalitas, quae de suo dat, supra iustitiam fundatur, per quam conservatur unicuique quod suum est. Ad secundum dicendum quod magnanimitas, inquantum supervenit iustitiae, auget eius bo­ nitatem. Quae tamen sine iustitia nec virtutis rationem haberet. Ad tertium dicendum quod fortitudo consistit circa difficiliora, non tamen est circa meliora, cum sit solum in bello utilis, iustitia autem et in pace et in bello, sicut dictum est [in co.].

Soluzione delle difficoltà: l . Sebbene la libe­ ralità dia del proprio, tuttavia lo fa mirando al bene della propria virtù. La giustizia invece dà ad altri ciò che loro appartiene mirando al bene comune. Inoltre la giustizia viene osser­ vata verso tutti, mentre la liberalità non può estendersi a tutti. Infine la liberalità che offre i propri beni è fondata sulla giustizia, che ga­ rantisce a ciascuno il suo. 2. La magnanimità aumenta la bontà della giustizia solo aggiungendosi ad essa. Ma senza la giustizia la magnanimità non sarebbe neppure una virtù. 3. La fortezza ha per oggetto cose più difficili, non già più eccellenti, essendo essa utile solo in guerra; invece la giustizia è utile in pace e in guerra, come si è detto.

QUAESTI0 59 DE INIUSTITIA

QUESTIONE 59 L'INGIUSTIZIA

Deinde considerandum est de iniustitia. - Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, utrum iniustitia sit speciale vitium. Secundo, utrum iniusta agere sit proprium iniusti. Tertio, utrum aliquis possit iniustum patì volens. Quarto, utrum iniustitia ex suo genere sit peccatum mortale.

Passiamo ora a considerare l ' ingiustizia. Sull'argomento si pongono quattro q�esiti: l . L'ingiustizia è un vizio specifico? 2. E pro­ prio dell'ingiusto compiere cose ingiuste? 3. Uno può subire volontariamente un'ingiu­ stizia? 4. L'ingiustizia è nel suo genere un peccato mortale?

Articulus l Utrum iniustitia sit vitium speciale

Articolo l L'ingiustizia è un vizio specifico?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod iniustitia non sit vitium speciale. l . Dicitur enim l Ioan. 3 [4], omne peccatum est iniquitas. Sed iniquitas videtur idem esse quod iniustitia, quia iustitia est aequalitas quaedam, unde iniustitia idem videtur esse quod inaequalitas, sive iniquitas. Ergo iniusti­ tia non est speciale peccatum. 2. Praeterea, nullum speciale peccatum op­ ponitur omnibus virtutibus. Sed iniustitia op­ ponitur omnibus virtutibus, nam quantum ad adulterium, opponitur castitati; quantum ad homicidium, opponitur mansuetudini; et sic de aliis. Ergo iniustitia non est speciale peccatum. 3. Praeterea, iniustitia iustitiae opponitur, quae in voluntate est. Sed onme peccatum est in volun­ tate, ut Augustinus dicit [De duabus an. 10]. Ergo iniustitia non est speciale peccatum.

Sembra di no. Infatti: l . In l Gv 3 [4] è detto: Ogni peccato è ini­ quità. Ma l'iniquità sembra identificarsi con l' ingiustizia: poiché la giustizia non è che una certa uguaglianza, per cui I ' ingiustizia sembra identificarsi con I'ineguaglianza o iniquità. Quindi l'ingiustizia non è un pecca­ to specifico. 2. Nessun peccato specifico si contrappone a tutte le virtù. Invece l'ingiustizia si contrappo­ ne a tutte le virtù: infatti nell'adulterio si con­ trappone alla castità, nell'omicidio alla man­ suetudine, e così via. Perciò l'ingiustizia non è un peccato specifico. 3. L'ingiustizia si contrappone alla giustizia, che risiede nella volontà. Ora, secondo Agosti­ no, «nella volontà risiedono tutti i peccati». Quindi l'ingiustizia non è un peccato specifico.

L 'ingiustizia

Q. 59, A. l

Sed contra, iniustitia iustitiae opponitur. Sed iustitia est specialis virtus. Ergo iniustitia est speciale vitium. Respondeo dicendum quod iniustitia est duplex. Una quidem illegalis, quae opponitur legali iustitiae. Et haec quidem secundum essentiam est speciale vitium, inquantum respicit speciale obiectum, scilicet bonum commune, quod con­ temnit. Sed quantum ad intentionem est vitium generale, quia per contemptum boni communis potest homo ad omnia peccata deduci. Sicut etiam omnia vitia, inquantum repugnant bono communi, iniustitiae rationem habent, quasi ab iniustitia derivata, sicut et supra [q. 58 aa. 5-6] de iustitia dictum est. Alio modo dicitur iniusti­ tia secundum inaequalitatem quandam ad alterum, prout scilicet homo vult habere plus de bonis, puta divitiis et honoribus; et minus de malis, puta laboribus et damnis. Et sic iniustitia habet materiam specialem, et est particulare vitium iustitiae particulari oppositum. Ad primum ergo dicendum quod sicut iustitia legalis dicitur per comparationem ad bonum commune humanum, ita iustitia divina dicitur per comparationem ad bonum divinum, cui repugnat omne peccatum. Et secundum hoc ornne peccatum dicitur iniquitas. Ad secundum dicendum quod iniustitia etiam particularis opponitur indirecte omnibus virtu­ tibus, inquantum scilicet exteriores etiam actus pertinent et ad iustitiam et ad alias virtutes morales, licet diversimode, sicut supra [q. 58 a. 9 ad 2] dictum est. Ad tertium dicendum quod voluntas, sicut et ratio, se extendit ad materiam totam moralem, idest ad passiones et ad operationes exteriores quae sunt ad alterum. Sed iustitia perficit vo­ luntatem solum secundum quod se extendit ad operationes quae sunt ad alterum. Et similiter iniustitia

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In contrario: l'ingiustizia è il contrario della

giustizia. Ma la giustizia è una virtù specifica. Quindi anche l'ingiustizia è un vizio specifico. Risposta: ci sono due tipi di ingiustizia La pri­ ma è l'illegalità, che si contrappone alla giu­ stizia legale. E questa ingiustizia è certamente per essenza un vizio specifico: poiché ha di mira un oggetto specifico, cioè il bene comune. Tuttavia quanto all'intenzione essa è un vizio generale: poiché dal disprezzo del bene comu­ ne uno può essere indotto a tutti i peccati. E così pure tutti i vizi, in quanto sono contrari al bene comune, hanno l'aspetto di ingiustizia, quali emanazioni di essa, analogamente a quanto si è detto della giustizia. C'è poi un secondo tipo di ingiustizia, che nasce da una certa disuguaglianza rispetto ad altri: in quanto cioè uno vuole una quantità maggiore di beni, p. es. di ricchezze e di onori, o una quantità minore di mali, p. es. di travagli e di danni. E in questo caso l'ingiustizia ha una materia specifi­ ca ed è un vizio particolare, contrapposto alla giustizia particolare. Soluzione delle difficoltà: l . Come la giusti­ zia legale si definisce in rapporto al bene co­ mune, così la giustizia divina si definisce in rapporto al bene divino, che è incompatibile con qualsiasi peccato. E in base a ciò qualsia­ si peccato è un'iniquità. 2. L'ingiustizia, anche quella particolare, si contrappone direttamente a tutte le virtù: poi­ ché, stando alle spiegazioni date, tutte le azio­ ni esterne, oltre che alle virtù morali rispetti­ ve, appartengono anche alla giustizia, sebbe­ ne in maniera diversa. 3. La volontà, come anche la ragione, abbrac­ cia tutta la materia morale, cioè tanto le pas­ sioni quanto le azioni esterne che si riferisco­ no agli altri. La giustizia invece regola la vo­ lontà solo in rapporto alle azioni esterne che riguardano gli altri. E così pure l'ingiustizia.

Articulus 2

Articolo 2

Utrum aliquis dicatur iniustus ex hoc quod facit iniustum

L'ingiusto deve il suo nome al compimento di una cosa ingiusta?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod aliquis dicatur iniustus ex hoc quod faci t iniustum. l . Habitus enim specificantur per obiecta, ut ex supradictis [1-11 q. 54 a. 2] patet. Sed pro­ prium obiectum iustitiae est iustum, et pro-

Sembra di sì. Infatti: l . Come si è già dimostrato, gli abiti sono specificati dagli oggetti. Ora, l'oggetto pro­ prio della giustizia è la cosa giusta, e l'oggetto proprio dell'ingiustizia è la cosa ingiusta. Per­ ciò i l giusto deve il suo nome al fatto che

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L 'ingiustizia

prium obiectum iniustitiae est iniustum. Ergo et iustus dicendus est aliquis ex hoc quod facit iustum, et iniustus ex hoc quod facit iniustum. 2. Praeterea, philosophus dicit, in 5 Ethic. [9, 16], falsam esse opinionem quorundam qui aestimant in potestate hominis esse ut statim faciat iniustum, et quod iustus non minus pos­ sit facere iniustum quam iniustus. Hoc autem non esset nisi facere iniustum esset proprium iniusti. Ergo aliquis iudicandus est iniustus ex hoc quod facit iniustum. 3. Praeterea, eodem modo se habet omnis vir­ tus ad proprium actum, et eadem ratio est de vitiis oppositis. Sed quicumque facit aliquid in­ temperatum dicitur intemperatus. Ergo qui­ cumque facit aliquid iniustum dicitur iniustus. Sed contra est quod philosophus dicit, in 5 Ethic. [6, l ], quod aliquisfacit iniustum et iniustus non

est.

Respondeo dicendum quod sicut obiectum iustitiae est aliquid aequale in rebus exteriori­ bus, ita etiam obiectum iniustitiae est aliquid inaequale, prout scilicet alicui attribuitur plus vel minus quam sibi competat. Ad hoc autem obiectum comparatur habitus iniustitiae me­ diante proprio actu, qui vocatur iniustificatio. Potest ergo contingere quod qui facit iniustum non est iniustus, dupliciter. Uno modo, propter defectum comparationis operationis ad pro­ prium obiectum, quae quidem recipit speciem et nomen a per se obiecto, non autem ab obiecto per accidens. In his autem quae sunt propter finem, per se dicitur aliquid quod est intentum, per accidens autem quod est praeter intentionem. Et ideo si aliquis faciat aliquid quod est iniustum non intendens iniustum facere, puta cum hoc facit per ignorantiam, non existimans se iniustum facere; tunc non facit iniustum per se et formaliter loquendo, sed solum per accidens, et quasi matetialiter faciens id quod est iniustum. Et talis operatio non denominatur iniustificatio. Alia modo po­ test contingere propter defectum compara­ tionis ipsius operationis ad habitum. Potest enim i n iustificatio procedere quandoque quidem ex aliqua passione, puta irae vel con­ cupiscentiae, quandoque autem ex electione, quando scilicet ipsa iniustificatio per se placet; et tunc proprie procedit ab h abitu, quia unicuique habenti aliquem habitum est secun­ dum se acceptum quod convenit illi habitui. Facere ergo iniustum ex intentione et electione

Q. 59, A. 2

compie cose giuste, e l ' ingiusto al fatto che compie cose ingiuste. 2. TI Filosofo afferma che è falsa l'opinione di quanti pensano che l'uomo abbia la facoltà di compiere improvvisamente una cosa ingiusta, e che il giusto sia capace di compiere un'in­ giustizia non meno dell'ingiusto. Ora, ciò non avverrebbe se compiere un' ingiustizia non fosse proprio dell'ingiusto. Perciò uno deve essere considerato ingiusto per il fatto che compie una cosa ingiusta. 3. Thtte le virtù hanno il medesimo rapporto col proprio atto, e così pure i vizi contrari. Ma chiunque compie un atto di intemperanza vie­ ne detto intemperante. Quindi chiunque com­ pie un' ingiustizia va detto ingiusto. In contrario: il Filosofo afferma che uno «può commettere una cosa ingiusta e non essere ingiusto». Risposta: come l ' oggetto della giustizia è qualcosa di proporzionato nelle cose esterne, così anche l' oggetto dell'ingiustizia è qualcosa di sproporzionato: consiste cioè nel fatto che a uno viene dato di più o di meno di quanto gli è dovuto. Ora, l ' abito dell ' i ngiustizia dice rapporto a questo oggetto mediante il proprio atto, che viene detto ingiuria o torto. Può dunque avvenire in due modi che uno nel commettere una cosa ingiusta non sia un in­ giusto. Primo, per mancanza di connessione tra l'atto e l'oggetto proprio, giacché l'atto ri­ ceve la specie e la denominazione dall'oggetto per se, e non dall'oggetto per accidens. Infatti nelle azioni che vengono compiute in vista del fine è per se ciò che è intenzionale, mentre sono per accidens gli elementi preterinten­ zionali. Se quindi uno compie una cosa in­ giusta senza l'intenzione di fare un'ingiustizia - p. es. perché agisce per ignoranza, senza sapere di compiere una cosa ingiusta -, allora egli non compie di per sé e formalmente un'ingiustizia, ma compie solo accidental­ mente, e quasi materialmente, una cosa che è ingiusta. E questa azione non può essere con­ siderata un torto o un' ingiutia. Secondo, ciò può avvenire per mancanza di connessione tra l'atto stesso e l'abito correlativo. Un torto in­ fatti può scaturire talora da una passione, p. es. dali ' ira o dalla concupiscenza, altre volte invece da una scelta deliberata, quando cioè il torto piace per se stesso: e allora propriamente esso deriva da un abito, poiché a tutti coloro

Q. 59, A. 2

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est proprium iniusti, secundum quod iniustus dicitur qui habet iniustitiae habitum. Sed fa­ cere iniustum praeter intentionem, vel ex pas­ sione, potest aliquis absque habitu iniustitiae. Ad primum ergo dicendum quod obiectum per se et fonnaliter acceptum specificar habi­ tum, non autem prout accipitur materialiter et per accidens. Ad secundum dicendum quod non est facile cuicumque tàcere iniustum ex electione, quasi aliquid per se placens et non propter aliud, sed hoc proprium est habentis habitum, ut ibidem [Ethic. 5,9, 1 6] philosophus dicit. Ad tertium dicendum quod obiectum tempe­ rantiae non est aliquid exterius constitutum, sicut obiectum iustitiae, sed obiectum tempe­ rantiae, idest temperatum, accipitur solum in comparatione ad ipsum hominem. Et ideo quod est per accidens et praeter intentionem non potest dici temperatum nec materialiter nec formaliter, et similiter neque intempera­ tum. Et quantum ad hoc est dissimile in iusti­ tia et in aliis virtutibus moralibus. Sed quan­ tum ad comparationem operationis ad habi­ tum, in omnibus similiter se habet.

che hanno un dato abito è di per sé gradevole ciò che si addice a tale abito. Perciò il compi­ mento di una cosa ingiusta in maniera inten­ zionale e deliberata è proprio dell' ingiusto, cioè di colui che ha l' abito dell' ingiustizia, mentre il compiere cose ingiuste in maniera preterintenzionale o passionale può competere anche a chi non ha l'abito dell' ingiustizia. Soluzione delle difficoltà: l . L'oggetto che specifica l'abito è quello formale e per se, non quello materiale e per accidens. 2. Non è facile per chiunque compiere un'in­ giustizia di proposito, cioè perché essa piace di per sé e non per altri motivi, ma ciò è pro­ prio di chi ne ha l'abito, come nota il Filosofo. 3. L'oggetto della temperanza non è qualcosa di esternamente definito come quello della giustizia: poiché l 'oggetto della temperanza, cioè l'atto temperato, si definisce solo in rap­ porto al soggetto. Per questo un atto acciden­ tale e preterintenzionale non può essere consi­ derato temperato, e neppure intemperato, né materialmente né fonnalmente. E qui il caso della giustizia è diverso da quello delle altre virtù morali. Invece quanto al rapporto dell' at­ to con l'abito, esso è simile in tutti e due i casi.

Articulus 3 Utrum aliquis possit pati iniustum volens

Articolo 3 Uno può subire volontariamente un 'ingiustizia?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod aliquis possit pati iniustum volens. l . Iniustum enim est inaequale, ut dictum est [a. 2] . Sed aliquis laedendo seipsum recedit ab aequalitate, sicut et laedendo alium. Ergo aliquis potest sibi ipsi facere iniustum, sicut et alteri. Sed quicumque facit iniustum volens facit. Ergo aliquis volens potest pati iniustum, maxime a seipso. 2. Praeterea, nullus secundum legem civilem punitur nisi propter hoc quod facit aliquam iniustitiam. Sed illi qui interimunt seipsos pu­ niuntur secundum leges civitatum, in hoc quod privabantur antiquitus honore sepultu­ rae; ut patet per philosophum, in 5 Ethic. [ 1 1 ,3]. Ergo aliquis potest sibi ipsi facere iniustum. Et ita contingit quod aliquis iniu­ stum patiatur volens. 3 . Praeterea, nullus facit iniustum nisi alicui patienti iniustum. Sed contingit quod aliquis faciat iniustum alicui hoc volenti, puta si

Sembra di sì. Intàtti: l . Come si è detto, un' ingiustizia è qualcosa di sproporzionato. Ma nel danneggiare se stesso uno non rispetta le proporzioni, così come quando danneggia gli altri. Quindi uno può fare un'ingiustizia a se stesso come ad altri. Ora, chiunque fa un'ingiustizia la fa vo­ lontariamente. Perciò uno può subire volonta­ riamente un'ingiustizia, specialmente da se medesimo. 2. Uno non è punito dalla legge civile se non perché commette un'ingiustizia. Ora, la legge civile punisce i suicidi, dato che già antica­ mente essi venivano privati della sepoltura, come sappiamo dal Filosofo. Quindi uno può commettere un' ingiustizia contro se stesso. E così accade che uno viene a subire volontaria­ mente un'ingiustizia. 3. Nessuno fa un'ingiustizia senza che qual­ cuno la subisca. Ora, capita che uno compia un'ingiustizia ai danni di qualcuno che la

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L 'ingiustizia

vendat ei rem carius quam valeat. Ergo con­ tingit aliquem volentem iniustum pati. Sed contra est quod iniustum pati oppositum est ei quod est iniustum facere. Sed nullus facit iniustum nisi volens. Ergo, per opposi­ rum, nullus patitur iniustum nisi nolens. Respondeo dicendum quod actio, de sui ratio­ ne, procedit ab agente; passio autem, secun­ dum propriam rationem, est ab alio, unde non potest esse idem, secundum idem, agens et patiens, ut dicitur in 3 [ l ,8] et 8 [5,8] Phys. Principium autem proprium agendi in homi­ nibus est voluntas. Et ideo illud proprie et per se homo facit quod volens facit, et e contrario illud proprie homo patitur quod praeter volun­ tatem suam patitur; quia inquantum est vo­ lens, principium est ex ipso, et ideo, inquan­ tum est huiusmodi, magis est agens quam patiens. Dicendum est ergo quod iniustum, per se et formaliter loquendo, nullus potest facere nisi volens, nec patì nisi nolens. Per accidens autem et quasi materialiter loquen­ do, potest aliquis id quod est de se iniustum vel facere nolens, sicut cum quis praeter in­ tentionem operatur; vel pati volens, sicut cum quis plus alteri dat sua voluntate quam debeat. Ad primum ergo dicendum quod cum aliquis sua voluntate dat alicui id quod ei non debet, non facit nec iniustitiam nec inaequalitatem. Homo enim per suam voluntatem possidet res, et ita non est praeter proportionem si aliquid ei subtrahatur secundum propriam voluntatem, vel a seipso vel ab alio. Ad secundum dicendum quod aliqua persona singularis dupliciter potest considerari. Uno modo, secundum se. Et sic, si sibi aliquod nocumentum inferat, potest quidem habere rationem alterius peccati, puta intemperantiae vel imprudentiae, non tamen rationem iniusti­ tiae, quia sicut iustitia semper est ad alterum, ita et iniustitia. Alio modo potest considerari aliquis homo inquantum est aliquid civitatis, scilicet pars; vel inquantum est aliquid Dei, scilicet creatura et imago. Et sic qui occidit seipsum iniuriam quidem facit non sibi, sed civitati et Deo. Et ideo punitur tam secundum legem divinam quam secundum legem humanam, sicut et de fornicatore apostolus dici t [ l Cor. 3, 1 7] , si quis templum Dei

violaverit, disperder ipsum Deus.

Ad tertium dicendum quod passio est effectus actionis exterioris. In hoc autem quod est

Q. 59, A. 3

accetta volontariamente: p. es. nel caso che gli venda qualcosa al di sopra del giusto prez­ zo. Perciò può capitare che uno subisca vo­ lontariamente un' ingiustizia. In contrario: il subire un'ingiustizia è il con­ trario del commetterla. Ma nessuno può com­ mettere un'ingiustizia senza volerlo. Quindi, per la ragione degli opposti, nessuno può subirla volontariamente. Risposta: l'azione per sua natura procede dal­ l' agente, mentre la passione per sua natura deriva da altro: per cui, come insegna Aristote­ le, una stessa cosa non può essere sotto il medesimo aspetto agente e paziente. Ora, il vero principio agente nell'uomo è la volontà. Perciò l'uomo compie propriamente e diretta­ mente ciò che compie volontadamente, e al contralio propriamente patisce, o subisce, ciò che è costretto a subire contro la sua volontà: poiché in quanto vuole il pdncipio dell'atto emana da lui, e quindi sotto questo aspetto è più agente che paziente. Si deve quindi con­ cludere che nessuno può compiere un' ingiu­ stizia senza volerla, e nessuno può subirla se non contro la propria volontà. Tuttavia per accidens, e quasi parlando matelialmente, uno può compiere involontariamente un' azione che di per sé è ingiusta, come quando uno la compie senza aveme l'intenzione; oppure può subirla volontariamente, come quando uno dà di proposito a un altro più di quanto gli deve. Soluzione delle difficoltà: l . Quando uno di sua volontà dà ad altri ciò che ad essi non è dovuto non fa né un'ingiustizia né un'inuguaglianza. Infatti l' uomo possiede le cose con la sua volontà: per cui non si esce dai limiti di una giusta proporzione se gli viene sottratto qualco­ sa da se stesso o da altri secondo la sua volontà. 2. Un individuo può essere considerato sotto due punti di vista. Primo, per se stesso. E in questo caso il danno eventuale che uno si fa può avere certamente l'aspetto di un peccato di altro genere, p. es. di intemperanza o di im­ prudenza, ma non di ingiustizia: poiché l'in­ giustizia, come la giustizia, dice sempre ordi­ ne ad altri. Secondo, un uomo può essere con­ siderato in quanto è cittadino di uno stato, cioè come parte; oppure in quanto appartiene a Dio, quale sua creatura e immagine. E sotto questo aspetto chi uccide se stesso fa un torto non a se stesso, ma alla società e a Dio. E così viene punito sia dalla legge divina che da

Q. 59, A. 3

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facere et pati iniustum, id quod materialiter est attenditur secundum id quod exterius agitur, prout in se consideratur, ut dictum est [a. 2], id autem quod est ibi formale et per se, attenditur secundum voluntatem agentis et patientis, ut ex dictis [in co.; a 2] patet. Dicendum est ergo quod aliquem facere iniustum, et alium patì iniustum, materialiter loquendo, semper se concomitantur. Sed si formaliter loquamur, potest aliquis tàcere iniustum, intendens iniustum facere, tamen alius non patietur iniustum, quia volens patietur. Et e converso potest aliquis pati iniustum, si nolens id quod est iniustum patiatur, et tamen ille qui hoc facit ignorans, non faciet iniustum formaliter, sed materialiter tantum.

quella umana, come dice Paolo a proposito della fornicazione: Se uno violerà il tempio di

Articulus 4 Utrum quicumque facit iniustum peccet mortaliter

Articolo 4 Chiunque commette un'ingiustizia pecca mortalmente?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod non quicumque facit iniustum peccet mortaliter. l . Peccatum enim veniale m01tali opponitur. Sed quandoque veniale peccatum est quod aliquis faciat iniustum, dicit enim philosophus, in 5 Ethic. [8, 1 2] , de iniusta agentibus loquens,

Sembra di no. Infatti: l. n peccato veniale si contrappone al morta­ le. Ora, nel commettere un' ingiustizia talvolta si fa un peccato veniale, poiché il Filosofo, parlando di coloro che commettono ingiusti­ zie, afferma: «Sono perdonabili, o veniali, quegli errori che si commettono non solo in­ consapevolmente, ma anche a causa della no­ stra ignoranza». Perciò non sempre chi com­ mette un'ingiustizia pecca mortalmente. 2. Chi commette un'ingiustizia in piccole cose si allontana di poco dal giusto mezzo. Ma que­ sta è una cosa tollerabile, e da considerarsi tra i mali più piccoli, come fa notare il Filosofo. Quindi chi commette un'i ngiustizia non sem­ pre pecca mortalmente. 3. La carità è «la madre di tutte le virtù», e un peccato è considerato mortale i n quanto ad essa contrario. Ma non tutti i peccati contrari alle altre virtù sono mortali. Quindi anche il commettere ingiustizie non è sempre peccato mortale. In contrario: tutto ciò che è contro la legge di Dio è peccato mortale. Ma chiunque commet­ te una cosa ingiusta agisce contro un precetto della legge di Dio: poiché, come vedremo,

quaecumque non solum ignorantes, sed et propter ignorantiam peccant, venialia sunt. Ergo non quicumque facit iniustum mortaliter peccat. 2. Praeterea, qui in aliquo parvo iniustitiam facit, parum a medio declinat. Sed hoc videtur esse tolerabile, et inter minima malorum com­ putandum, ut patet per philosophum, in 2 Ethic. [9,8]. Non ergo quicumque facit iniustum pec­ cat mortaliter. 3 . Praeterea, caritas est mater omnium vir­ tutum, ex cuius contrarietate aliquod pecca­ rum dicitur mortale. Sed non omnia peccata apposita aliis virtutibus sunt mortalia. Ergo etiam neque facere iniustum semper est pec­ catum mortale. Sed contra, quidquid est contra legem Dei est peccatum mortale. Sed quicumque facit iniu­ stum facit contra praeceptum legis Dei, quia vel reducitur ad furtum, vel ad adultetium, vel ad homicidium; vel ad aliquid huiusmodi, ut

Dio, Dio distruggerà lui [l Cor 3, 17]. 3. Patire o subire è l'effetto di un'azione

ester­ na. Ora, nel compiere e nel subire un'ingiusti­ zia la parte materiale si riduce, come si è detto, a11' atto esterno considerato in se stesso, mentre l'aspetto formale ed essenziale risulta dalla vo­ lontà dell' agente e del paziente, stando alle spiegazioni date. Si deve quindi concludere che il compimento di un'ingiustizia da parte di uno e il «patimento» di essa da parte di un altro ma­ terialmente vanno sempre insieme. Se invece parliamo formalmente, allora può darsi che uno compia intenzionalmente un'ingiustizia, e che tuttavia l' altro non la subisca come ingiustizia, in quanto la subisce volontariamente. E vice­ versa uno può subire un'ingiustizia, soffrendo contro voglia una cosa ingiusta, e tuttavia chi la compie nell'ignoranza non compie un' ingiu­ stizia formalmente, ma solo materialmente.

L 'ingiustizia

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Q. 59, A. 4

ex sequentibus patebit. Ergo quicumque facit iniustum peccat mortaliter. Respondeo dicendum quod, sicut supra [I-II q. 72 a. 5] dictum est cum de differentia pec­ catorum ageretur, peccatum mortale est quod contrariatur caritati, per quam est animae vita. Omne autem nocumentum alteri illatum ex se caritati repugnat, quae movet ad volendum bonum alterius. Et ideo, cum iniustitia semper consistat in nocumento alterius, manifestum est quod tacere iniustum ex genere suo est peccatum mortale. Ad primum ergo dicendum quod verbum phi­ losophi intelligitur de ignorantia facti, quam ipse vocat [Ethic. 3, l , 15] ignorantiam particu­ larium circumstantiarum, quae meretur ve­ niam, non autem de ignorantia iuris, quae non excusat. Qui autem ignorans facit iniustum, non facit iniustum nisi per accidens, ut supra [a. 2] dictum est. Ad secundum dicendum quod ille qui in par­ vis facit iniustitiam, deficit a perfecta ratione eius quod est i niustum facere, inquantum potest reputati non esse omnino contra volun­ tatem eius qui hoc patitur, puta si auferat aliquis alicui unum pomum vel aliquid tale, de quo probabile sit quod ille inde non laedatur, nec ei displiceat. Ad tertium dicendum quod peccata quae sunt contra alias virtutes non semper sunt in nocu­ mentum alterius, sed important inordinatio­ nem quandam circa passiones humanas. Unde non est similis ratio.

questa azione si riduce al furto, all'adulterio, all'omicidio o ad altre cose del genere. Quin­ di chi commette un' ingiustizia commette sempre un peccato mortale. Risposta: come si è visto sopra a proposito delle differenze dei peccati, è mortale quel peccato che è incompatibile con la carità, da cui dipende la vita dell' anima. Ora, infliggere un danno qualsiasi a un altro è di per sé in­ conciliabile con la carità, che muove a volere i l bene altrui. Siccome quindi l ' ingiustizia consiste sempre nel danno di altri, è evidente che commettere un'ingiustizia è nel suo gene­ re un peccato mortale. Soluzione delle difficoltà: l . Le parole del Filo­ sofo vanno riferite all' ignoranza facti, che egli chiama «ignoranza delle circostanze parti­ colari», che merita perdono, non già all'igno­ ranza iuris, che non scusa. Ora, chi compie inconsapevolmente un'ingiustizia la commette solo per accidens, come si è visto sopra. 2. Chi compie un'ingiustizia in piccole cose non raggiunge la consistenza di una vera ingiustizia, potendosi considerare la cosa non del tutto contraria alla volontà di chi la subi­ sce: come quando uno ruba un frutto o altre cose del genere, per la cui perdita probabil­ mente il proprietario non riceve un danno o un dispiacere. 3. I peccati contrari alle altre virtù non sempre danneggiano gli altri, ma implicano un certo disordine nelle passioni umane. Perciò i l paragone non regge.

QUAESTI0 60

QUESTIONE 60

DE IUDICIO

IL GIUDIZIO

Deinde considerandum est de iudicio. - Et circa hoc quaeruntur sex. Primo, utrum iudicium sit actus iustitiae. Secundo, utrum sit licitum iudica­ re. Tertio, utrum per suspiciones sit iudicandum. Quarto, utrum dubia sint in meliorem partem interpretanda. Quinto, utrum iudicium semper sit secundum leges scriptas proterendum. Sexto, utrum iudicium per usurpationem pervertatur.

Passiamo ora a parlare del giudizio. - Sull'ar­ gomento si pongono sei ql!esiti: l . n giudizio è un atto di giustizia? 2. E lecito giudicare? 3. Si può giudicare per dei sospetti? 4. I dubbi vanno risolti in senso favorevole? 5. Nel giudi­ care c i s i deve sempre attenere alle leggi scritte? 6. L'usurpazione del potere perverte il giudizio?

Articulus l

Utrum iudicium sit actus iustitiae

Articolo l n giudizio è un atto di giustizia?

Ad pri m u m sic proceditur. Videtur quod iudicium non sit actus iustitiae.

Sembra di no. Infatti: l . n Filosofo insegna che «ciascuno giudica

Q. 60, A. l

Il giudizio

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l . Dicit enim philosophus, in l Ethic. [3,5], quod unusquisque bene iudicat quae cognoscit, et sic iudicium ad vim cognoscitivam pertinere videtur. Vìs autem cognoscitiva per prudentiam perficitur. Ergo iudicium magis pertinet ad prudentiam quam ad iustitiam, quae est in voluntate, ut dictum est [q. 58 a. 4]. 2. Praeterea, apostolus dicit, l ad Cor. 2 [ 1 5], spiritualis iudicat omnia. Sed homo maxime efficitur Spiritualis per virtutem caritatis, quae

bene ciò che conosce»: quindi i l giudizio sembra appartenere alla facoltà conoscitiva. Ma la facoltà conoscitiva riceve la sua perfe­ zione dalla prudenza. Perciò il giudizio appar­ tiene più alla prudenza che alla giustizia, la quale risiede nella volontà, come si è visto. 2. Paolo in l Cor 2 [ 1 5] dice: L'uonw spiri­ tuale giudica ogni cosa. Ma un uomo diventa spirituale specialmente con la virtù della cari­ tà, la quale è stata riversata nei nostri cuori

diffunditur in cordibus nostris per Spiritum Sanctum, qui datus est nobis, ut dicitur Rom.

per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5). Quindi il giudizio appartiene

5 [5]. Ergo iudicium magis pertinet ad carita­ tem quam ad iustitiam. 3. Praeterea, ad unamquamque virtutem perti­ net rectum iudicium circa propriam materiam, quia vinuosus in singulis est regula et mensura, secundum philosophum, in libro Ethic. [3,4,5]. Non ergo iudicium magis pertinet ad iustitiam quam ad alias virtutes morales. 4. Praeterea, iudicium videtur ad solos iudices pertinere. Actus autem iustitiae invenitur in omnibus iustis. Cum igitur non soli iudices sint iusti, videtur quod iudicium non sit actus proprius iustitiae. Sed contra est quod in Ps. [92, 1 5 ] . dicitur,

più alla carità che alla giustizia. 3 . A ogni virtù appartiene il retto giudizio sulla propria materia: poiché, secondo il Filo­ sofo, «in ogni cosa il virtuoso è regola e mi­ sura». Per cui il giudizio non appmtiene alla giustizia più di quanto appartenga alle altre virtù morali. 4. Il giudizio è un compito esclusivo dei giu­ dici, mentre gli atti della giustizia si riscontra­ no in tutti i giusti. Siccome quindi non sono giusti soltanto i giudici, sembra che il giudizio non sia un atto proprio della giustizia. In contrario: nel Sal [92, 1 5] è detto: Fino a

quoadusque iustitia convertatur in iudicium.

Risposta: il giudizio indica propriamente l'atto del giudice come tale. Giudice infatti suona ius dicens, cioè uno che dichiara il diritto. Ora il diritto, come si è visto, è l' oggetto della giusti­ zia. Quindi il giudizio, stando al suo primo si­ gnificato, implica la definizione o determina­ zione del giusto, ossia del diritto. n fatto però che uno sappia ben definire quanto riguarda le azioni virtuose deriva propriamente dall'abito della virtù: come chi è casto sa determinare rettamente ciò che riguarda la castità. E così il giudizio, che implica la retta determinazione del giusto o del diritto, appartiene propriamen­ te alla giustizia. Per cui il Filosofo afferma che gli uomini «ricorrono al giudice come a una giustizia animata». Soluzione delle difficoltà: l . Il termine giudi­ zio, che nel suo primo significato sta a indica­ re la retta determinazione del diritto, fu esteso poi a indicare la determinazione retta di qual­ siasi altra cosa, sia nell'ordine speculativo che nell'ordine pratico. In tutti i casi però il retto giudizio esige due elementi. Primo, la facoltà che deve direttamente proferire il giudizio. E da questo lato il giudizio è un atto della ragio­ ne: infatti l' atto di dire o di definire appartiene

Respondeo dicendum quod iudicium proprie nominat actum iudicis inquantum est iudex. ludex autem dicitur quasi ius dicens. lus autem est obiectum iustitiae, ut supra [q. 57 a. l ] habitum est. Et ideo iudicium importat, secun­ dum primam nominis impositionem, defi­ nitionem vel determinationem iusti sive iuris. Quod autem aliquis bene definiat aliquid in operibus virtuosis proprie procedit ex habitu virtutis, sicut castus recte determinat ea quae pertinent ad castitatem. Et ideo iudicium, quod importat rectam determinationem eius quod est iustum, proprie pertinet ad iustitiam. Propter quod philosophus dicit, in 5 Ethic. [4,7], quod homines ad iudicem confugiunt sicut ad

quandam iustitiam animatam. Ad primum ergo dicendum quod nomen iudicii, quod secundum primam impositio­ nem significat rectam determinationem iusto­ rum, ampliatum est ad significandum rectam determinationem in quibuscumque rebus, tam in speculativis quam in practicis. In omnibus tamen ad rectum iudicium duo requiruntur. Quorum unum est ipsa virtus proferens iudi­ cium. Et sic iudicium est actus rationis, dicere

che la giustizia si risolva nel giudizio.

Il giudizio

597

enim vel definire aliquid rationis est. Aliud autem est dispositio iudicantis, ex qua habet idoneitatem ad recte iudicandum. Et sic in his quae ad iustitiam pertinent iudicium procedit ex iustitia, sicut et in his quae ad fortitudinem pertinent ex fortitudine. Sic ergo iudicium est quidam actus iustitiae sicut i nclinantis ad recte iudicandum, prudentiae autem sicut iudicium proferentis. Unde et synesis, ad pru­ dentiam pertinens, dicitur bene iudicativa, ut supra [q. 5 1 a. 3] habitum est. Ad secundum dicendum quod homo Spiritua­ lis ex habitu caritatis habet inclinationem ad recte iudicandum de omnibus secundum regulas divinas, ex quibus iudicium per do­ num sapientiae pronuntiat, sicut iustus per virtutem prudentiae pronuntiat iudicium ex regulis iuris. Ad tertium dicendum quod aliae vùtutes ordi­ nant hominem in seipso, sed iustitia ordinat ho­ minem ad alium, ut ex dictis [q. 58 a. 2] patet. Homo autem est dominus eorum quae ad ipsum pertinent, non autem est dominus eorum quae ad alium pertinent. Et ideo in his quae sunt secundum alias virtutes non requiritur nisi iudicium virtuosi, extenso tamen nomine iudicii, ut dictum est [ad 1]. Sed in his quae pertinent ad iustitiam requiritur ulterius iudi­ cium alicuius supetioris, qui utrumque valeat

arguere, et ponere manum suam in ambobus.

Et propter hoc iudicium specialius pertinet ad iustitiam quam ad aliquam aliam virtutem. Ad quartum dicendum quod iustitia in princi­ pe quidem est sicut virtus architectonica, quasi imperans et praecipiens quod iustum est, in subditis autem est tanquam virtus executiva et ministrans. Et ideo iudicium, quod importat definitionem iusti, pertinet ad iustitiam secundum quod est principaliori modo in praesidente.

Articulus 2 Utrum sit licitum indicare Ad secundum sic proceditur. Videtur quod non sit licitum iudicare. l . Non enim intligitur poena nisi pro illicito. Sed iudicantibus imminet poena, quam non iudicantes effugiunt, secundum illud Matth. 7 [ 1 ], nolite iudicare, ut non iudicemini. Ergo iudicare est illicitum.

Q. 60, A. l

alla ragione. L' altro elemento è invece la di­ sposizione di chi giudica, dalla quale dipende la sua idoneità a ben giudicare. E da questo lato nelle cose relative alla giustizia il giudizio procede dalla giustizia, come nelle cose rela­ tive alla fortezza procede dalla fortezza. Così dunque il giudizio è un atto della giustizia in quanto da questa dipende l' inclinazione a ben giudicare, ma è un atto della prudenza i n quanto questa lo proferisce. Per cui anche la synesis, che è una parte integrante della pru­ denza, viene considerata «bene giudicativa>>, come sopra si è detto. 2. L'uomo spirituale riceve dall ' abito della carità l'inclinazione a giudicare rettamente di ogni cosa secondo le leggi divine, proferendo il suo giudizio mediante il dono della sapien­ za: precisamente come il giusto lo proferisce mediante la virtù della prudenza secondo le regole del diritto. 3. Le altre virtù regolano l'uomo in se stesso, mentre la giustizia regola l 'uomo in rapporto agli altti, come si è detto. Ora, uno è padrone delle cose che appartengono a lui, non di quelle che appartengono agli altri. E così in ciò che riguarda le altre virtù si richiede solo il giudizio della persona virtuosa, giudizio in senso lato, come si è visto, mentre in matetia di giustizia si richiede anche il giudizio di un superiore, il quale possa fare da arbitro e slendere la mano su entrambi [Gb 9,33]. Per questo il giudizio appartiene più alla giustizia che a qualsiasi altra virtù. 4. In chi comanda la giustizia si trova come virtù architettonica o magistrale, quasi nell' at­ to di imporre e di prescrivere il diritto, mentre nei sudditi si trova come virtù esecutrice e subordinata. Per cui il giudizio, che implica la determinazione del dùitto, o del giusto, appar­ tiene alla giustizia secondo che questa si trova in maniera più eccellente in chi comanda. Articolo

2

È lecito giudicare? Sembra di no. Infatti: l . n castigo non viene inflitto che per una cosa illecita. Ma coloro che giudicano sono sotto la minaccia di un castigo che è risparmiato invece a quelli che se ne astengono, come è detto in

Mt 7 [1]: Non giudicate, per non essere giudi­ cati. Quindi giudicare non è una cosa lecita.

Q. 60, A. 2

Il giudizio

2. Praeterea, Rom. 1 4 [4] dicitur, tu quis es, qui iudicas alienwn servum ? Suo domino stat aut cadit. Dominus autem omnium Deus est. Ergo nulli homini licet iudicare. 3 . Praeterea, nullus homo est sine peccato, secundum illud l Ioan. l [8], si dixerimus quia peccatum non habemus, nosipsos seducimus. Sed peccanti non licet iudicare, secundum illud Rom. 2 [ l ], inexcusabilis es, o homo omnis qui iudicas, in quo enim alterum iudicas, teipsum condemnas; eadem enim agis quae iudicas. Ergo nulli est licitmn iudicare. Sed contra est quod dicitur Deut. 1 6 [ 1 8] , iudices et magistros constitues in omnibus portis tuis, ut iudicent populum iusto iudicio. Respondeo dicendum quod iudicium intantum est licitum inquantum est iustitiae actus. Sicut autem ex praedictis [a. l ad 1 .3] patet, ad hoc quod iudicium sit actus iustitiae tria requiruntur, primo quidem, ut procedat ex inclinatione iustitiae; secundo, quod procedat ex auctoritate praesidentis; tertio, quod proferatur secundum rectam rationem prudentiae. Quodcumque autem hormn defuerit, est iudicium vitiosum et illicitum. Uno quidcm modo, quando est contra rectitudinem iustitiae, et sic dicitur iudicium perversum vel iniustum. Alio modo, quando homo iudicat in his in quibus non habet auctori­ tatem, et sic dicitur iudicium usurpatwn. Tertio modo, quando deest certitudo rationis, puta cum aliquis de his iudicat quae sunt dubia vel occulta per aliquas leves coniecturas, et sic dicitur iudicium suspiciosum vel temerarium. Ad primum ergo dicendum quod Dominus ibi prohibet iudicium temerarium, quod est de in­ tentione cordis vel de aliis incertis, ut Augusti­ nus dicit, in libro De serm. Dom. [2,1 8]. Vel prohibet ibi iudicium de rebus divinis, de quibus, cum sint supra nos, non debemus iudi­ care, sed simpliciter ea credere, ut Hilarius dicit, Super Matth [super 5]. Vel prohibet iudicium quod non sit ex benevolentia, sed ex animi amaritudine, ut Chrysostomus dicit [cf. Op. imperf. in Matth. h. 17 super 7,l]. Ad secundum dicendum quod iudex constitui­ tur ut minister Dei. Unde dicinrr Deut. l [16], quod iustum est iudicate; et postca subdit [ 17], quia Dei est iudicium. Ad tertium dicendum quod illi qui sunt in gra­ vibus peccatis non debent iudicare eos qui sunt in eisdem peccatis vel minoribus, ut Chrysost> . Risposta: come s i è visto, nella giustizia di­ stributiva è attribuito qualcosa a delle persone ptivate in quanto ciò che è proprio del tutto è dovuto alle parti. E l'atttibuzione è tanto più grande quanto più la parte ha maggiore im­ portanza nel tutto. Così dunque nella giustizia distributiva viene dato a una persona tanto più del bene comune quanto maggiore è la sua importanza nella collettività. La quale im­ portanza in uno stato aristocratico è valutata in base alla virtù, in un'oligarchia in base alle ricchezze e in una democrazia in base alla libertà; e così via. Perciò nella giustizia distri­ butiva il giusto mezzo non viene determinato secondo l'equivalenza di una cosa con un'al­ tra, ma secondo una proporzionalità delle cose alle persone: cosicché, come una perso­ na è superiore all'altra, così anche le cose che vengono date a una persona sono superiori a quelle date a un'altra. Per questo il Filosofo scrive che tale giusto mezzo è secondo la «proporzionalità geometrica>> , in cui l'equiva­ lenza non è fondata sulla quantità, ma su una proporzione: come quando diciamo che 6 sta a 4 come 3 sta a 2. Poiché in tutti e due i casi abbiamo una proporzione sesquialtera, in cui il numero maggiore contiene il minore una volta e mezzo, mentre manca un'equivalenza tra le rispettive eccedenze, poiché il 6 supera il 4 di due, mentre il 3 supera il 2 di l. Al contrario nelle permute, o commutazioni, a una singola persona viene contraccambiato qualcosa per un bene che le apparteneva: come è evidente specialmente nella compra­ vendita, nella quale innanzitutto appare il concetto di commutazione. Per cui bisogna -

Le parti della giustizia

Q. 61, A. 2

aequalitas secundum arithmeticam medieta­ tem, quae attenditur secundum parem quan­ titatis excessum, sicut quinque est medium inter sex et quatuor, in unitate enim excedit et exceditur. Si ergo a principio uterque habebat quinque, et unus eorum accepit unum de eo quod est alterius; unus, scilicet accipiens, habebit sex, et alii relinquentur quatuor. Erit ergo iustitia si uterque reducatur ad medium, ut accipiatur unum ab eo qui habet sex, et detur ei qui habet quatuor, sic enim uterque habebit quinque, quod est medium. Ad primum ergo dicendum quod in aliis virtutibus moralibus accipitur medium secun­ dum rationem, et non secundum rem. Sed in iustitia accipitur medium rei, et ideo secun­ dum diversitatem rerum diversimode medium accipitur. Ad secundum dicendum quod generalis for­ ma iustitiae est aequalitas, in qua convenit iustitia distributiva cum commutativa. In una tarnen invenitur aequalitas secundum propor­ tionalitatem geometricam, in alia secundum arithmeticam. Ad tertium dicendum quod in actionibus et passionibus conditio personae facit ad quanti­ tatem rei, maior enim est iniuria si percutiatur princeps quam si percutiatur privata persona. Et ita conditio personae in distributiva iustitia attenditur secundum se, in commutativa autem secundum quod per hoc diversificatur res.

Articulus 3

610

adeguare una cosa a un'altra cosa: in modo che quanto uno ha in più, per averlo ricevuto da un altro, lo restituisca al legittimo proprie­ tario in quantità uguale. E così si ha un'equi­ valenza secondo un giusto mezzo «aritmeti­ co», fondata sull'uguaglianza quantitativa tra avanzo e disavanzo: il 5, p. es., è il giusto mezzo tra il 6 e il 4. Se quindi in principio due persone avevano entrambe 5, e una di es­ se ha ricevuto l dall'altra, il primo avrà 6 e l'altro rimarrà con 4. Si avrà quindi giustizia se entrambi vengono ricondotti al giusto mezzo prendendo l da chi aveva 6 e dandolo a chi era rimasto con 4: e allora entrambi avranno 5, che è appunto il giusto mezzo. Soluzione delle difficoltà: l . Nelle altre virtù morali il giusto mezzo viene determinato se­ condo la ragione, e non secondo la realtà og­ gettiva. Invece nella giustizia abbiamo un giu­ sto mezzo reale: e così il giusto mezzo va de­ terminato in base alla diversità delle cose. 2. La forma universale della giustizia è l'u­ guaglianza, nella quale la giustizia distributiva concorda con la commutativa. Nella prima però abbiamo l'uguaglianza basata su una proporzionalità geometrica, nella seconda invece su una proporzionalità aritmetica. 3. Negli atti e nelle passioni umane la condi­ zione della persona incide sulla grandezza di una cosa: è infatti un'ingiuria più grave per­ cuotere chi comanda che percuotere una per­ sona privata. Quindi la condizione della per­ sona nella giustizia distributiva è considerata direttamente per se stessa; invece nella giusti­ zia commutativa è considerata solo in quanto differenzia le cose. Articolo 3

Utrum materia utriusque iustitiae sit diversa

Per le due specie di giustizia la materia è diversa?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod mate­ ria utriusque iustitiae non sit diversa. l. Diversitas enim materiae facit diversitatem virtutis, ut patet in temperantia et fortitudine. Si igitur distributivae iustitiae et commutativae sit diversa materia, videtur quod non conti­ neantur sub una virtute, scilicet sub iustitia. 2. Praeterea, distributio, quae pertinet ad distributivam iustitiam, est pecuniae vel hono­

Sembra di no. Infatti: l . La diversità di materia implica una diver­ sità di virtù, come è evidente nel caso della fortezza e della temperanza. Se quindi la ma­ teria della distributiva fosse diversa dalla ma­ teria della commutativa, non si tratterebbe più di un'unica virtù, cioè della giustizia. 2. La distribuzione, che è il compito della giu­ stizia distributiva, ha per oggetto «il danaro, gli onori o qualsiasi altra cosa che può essere spartita tra i membri di una collettività >>, come

ris vel aliorum quaecumque dispertiri pos­ sunt inter eos qui communitate communicant;

611

Le parti della giustizia

ut dicitur in 5 Ethic. [2,12]. Quorum etiam est commutatio inter personas ad invicem, quae pertinet ad commutativam iustitiam. Ergo non est diversa materia distributivae et commutati­ vae iustitiae. 3. Praeterea, si sit alia materia distributivae iu­ stitiae et alia materia commutativae propter hoc quod differunt specie, ubi non erit differentia speciei, non debebit esse materiae diversitas. Sed philosophus ponit [Ethic. 5,2, 13] unam speciem commutativae iustitiae, quae tamen habet multiplicem materiam. Non ergo videtur esse multiplex materia harum specierum. In contrarium est quod dicitur in 5 Ethic. [2,12], quod una species iustitiae est directiva in distributionibus, alia in commutationibus. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 58 aa. 8.1O] dictum est, iustitia est circa quasdam operationes exteriores, scilicet distributionem et commutationem, quae quidem sunt usus quorundam exteriorum, vel rerum vel perso­ narum vel etiam operum, rerum quidem, sicut cum aliquis vel aufert vel restituit alteri suam rem; personarum autem, sicut cum aliquis in ipsam personam horninis iniuriam facit, puta percutiendo vel conviciando, aut etiam cum reverentiam exhibet; operum autem, sicut cum quis iuste ab allo exigit vel alteri reddit aliquod opus. Si igitur accipiamus ut mate­ riam utriusque iustitiae ea quorum operatio­ nes sunt usus, eadem est materia distributivae et commutativae iustitiae, nam et res distribuì possunt a communi in singulos, et commutati de uno in alium; et etiam est quaedam distri­ butio laboriosorum operum, et recompen­ satio. - Si autem accipiamus ut materiam utriusque iustitiae actiones ipsas principales quibus utimur personis, rebus et operibus, sic invenitur utrobique alia materia. Nam distri­ butiva iustitia est directiva distributionis, com­ mutativa vero iustitia est directiva commuta­ tionum quae attendi possunt inter duas per­ sonas. - Quarum quaedam sunt involuntariae; quaedam vero voluntariae. Involuntariae quidem, quando aliquis utitur re alterius vel persona vel opere, eo invito. Quod quidem contingit quandoque occulte per fraudem; quandoque etiam manifeste per violentiam. Utrumque autem contingit aut in rem aut in personam propriam, aut in personam coniun­ ctam. In rem quidem, si occulte unus rem alterius accipiat, vocatur furtum; si autem

Q. 6 1 , A. 3

nota Aristotele. Ma tutto ciò è oggetto anche della commutazione reciproca tra individui, che interessa la giustizia commutativa. Quindi la materia della giustizia distributiva non è diversa da quella della giustizia commutativa. 3. Se questa diversità di materia fosse imposta dalla diversità specifica tra i due tipi di giusti­ zia, dove non c'è differenza specifica non ci dovrebbe essere neppure diversità di materia. Invece il Filosofo, pur ammettendo un'unica specie nella giustizia commutativa, le attribui­ sce una molteplicità di materie. Perciò la ma­ teria di queste due specie di giustizia sembra essere la stessa. In contrario: Aristotele insegna che «tra le specie della giustizia una dirige nelle distribu­ zioni, l'altra nelle petmute o commutazioni». Risposta: come si è detto sopra, la giustizia ha per oggetto alcune operazioni esterne, ossia le distribuzioni e le commutazioni, che consisto­ no nell'uso di entità esteriori, cioè di cose, di persone o di prestazioni d'opera: di cose, co­ me quando uno toglie o restituisce a un altro la sua roba; di persone, come quando uno commette un'ingiuria personale, percuotendo o insultando, oppure quando presta riverenza; di prestazioni d'opera, come quando uno giu­ stamente esige o rende ad altri un servizio. Se quindi prendiamo per matetia dei due tipi di giustizia le cose stesse il cui uso consiste nelle operazioni, allora la materia della giustizia di­ stributiva e della commutativa è identica: in­ fatti le cose possono essere distribuite dalla collettività ai singoli, ed essere commutate da un individuo all'altro; e così ci può essere anche una certa distribuzione di oneti, e insie­ me la ricompensa per essi. - Se invece pren­ diamo come matetia dei due tipi di giustizia le stesse azioni ptincipali mediante cui faccia­ mo uso delle persone, delle cose e delle prestazioni d'opera, allora la matetia è diver­ sa. Infatti la giustizia distributiva ha di mira le distribuzioni, mentre la commutativa ha per oggetto le commutazioni possibili tra due individui. - E tra queste ultime alcune sono involontarie e altre volontarie. Sono involon­ tarie quando uno usa della roba, della persona o delle prestazioni altrui contro la volontà dell'altro. E ciò avviene in certi casi di nasco­ sto con la frode, in altri invece apertamente con la violenza. E può riguardare o le cose, o la persona propria, o la persona dei congiunti.

Q. 6 1 , A. 3

Le parti della giustizia

manifeste, vocatur rapina. - In personam autem propriam, vel quantum ad ipsam consi­ stentiam personae; vel quantum ad dignitatem ipsius. Si autem quantum ad consistentiam personae, sic laeditur aliquis occulte per dolo­ sam occisionem seu percussionem, et per veneni exhibitionem; manifeste autem per oc­ cisionem manifestam, aut per incarceratio­ nem aut verberationem seu membri mutila­ tionem. - Quantum autem ad dignitatem per­ sonae, laeditur aliquis occulte quidem per fal­ sa testimonia seu detractiones, qtùbus aliquis aufert famam suam, et per alia huiusmodi; manifeste autem per accusationem in iudicio, seu per convicii illationem. - Quantum autem ad personam coniunctam, laeditur aliquis in uxore, ut in pluribus occulte, per adulterium; in servo autem, cum aliquis servum seducit, ut a Domino discedat; et haec etiam mani­ feste fieri possunt. Et eadem ratio est de aliis personis coniunctis, in quas etiam possunt omnibus modis iniuriae committi sicut et in personam principalem. Sed adulterium e t servi seductio sunt proprie iniuriae circa has personas, tamen, quia servus est possessio quaedam, hoc refertur ad furtum. - Volunta­ riae autem commutationes dicuntur quando aliquis voluntarie transfert rem suam in alte­ rum. Et si quidem simpliciter in alterum transferat rem suam absque debito, sicut in donatione, non est actus iustitiae, sed libera­ litatis. Intantum autem ad iustitiam voluntaria translatio pertinet inquantum est ibi aliquid de ratione debiti. Quod quidem contingit triplici­ ter. Uno modo, quando aliquis transfert simpliciter rem suam in alterum pro recom­ pensatione alterius rei, sicut accidit in vendi­ tione et emptione. - Secundo modo, quando aliquis tradit rem suam alteri concedens ei usum rei cum debito recuperandi rem. Et si quidem gratis concedit usum rei, vocatur ususfructus in rebus quae aliquid fructificant; vel simpliciter mutuum seu accommodatum in rebus quae non fructificant, sicut sunt denarii, vasa et huiusmodi. Si vero nec ipse usus gratis conceditur, vocatur locatio et con­ ductio. - Tertio modo aliquis tradit rem suam ut recuperandam, non ratione usus, sed vel ratione conservationis, sicut in deposito; vel ratione obligationis, sicut cum quis rem suam pignori obligat, seu cum aliquis pro alio fi­ deiubet. - In omnibus autem huiusmodi

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Quando riguarda le cose di nascosto si ha il furto, mentre quando le riguarda apertamente si ha la rapina. - Riguardo invece alla persona propria, o se ne compromette l'incolumità, oppure se ne intacca l'onore. Quanto all'inco­ lumità si ha un danno occulto con l'uccisione o le percosse a tradimento, e con l'avvelena­ mento; si ha invece un danno aperto con l'uc­ cisione aperta, l'incarcerazione, la fustiga­ zione o la mutilazione. - Quanto invece al­ l'onore o dignità uno può essere danneggiato di nascosto con la falsa testimonianza, o con la detrazione, o con altre cose del genere che ne compromettono la fama; e può essere dan­ neggiato apertamente con le accuse in tri­ bunale o con gli insulti. - Quanto infine alle persone congiunte uno può essere colpito nel­ la moglie, per lo più in maniera occulta, me­ diante l'adulterio; oppure negli schiavi, che possono essere indotti a fuggire dal loro pa­ drone: cose che possono essere fatte anche apertamente. E lo stesso si dica delle altre persone congiunte, contro le quali si possono commettere delle ingiurie come contro la persona da cui dipendono. L'adulterio però e la seduzione degli schiavi colpiscono imme­ diatamente tale persona; anche se, essendo lo schiavo una proprietà del padrone, questa seduzione si riduce a un furto. - Le commuta­ zioni invece sono volontarie quando uno pas­ sa a un altro volontariamente le proprie cose. E se il passaggio è assoluto, senza obblighi, come nella donazione, non è più un atto di giustizia, ma di liberalità. In tanto invece il passaggio appartiene alla giustizia, in quanto conserva un legame di obbligazione [ratio debitz]. E ciò può avvenire in tre modi. Primo, quando uno passa a un altro ciò che gli appar­ tiene in compenso di altre cose: come avviene nella compravendita. - Secondo, quando uno offre a un altro ciò che gli appartiene conce­ dendone l'uso con l'obbligo della restituzio­ ne. E se la concessione dell'uso è gratuita si ha l'usufrutto per le cose capaci di fruttare, oppure il mutuo o il prestito per quelle che non fruttano, come sono i danari, i recipienti e simili. Se invece l'uso non è concesso gratui­ tamente, si ha la locazione e l'affitto. - Terzo, uno può offrire temporaneamente le proprie cose non perché vengano usate, ma perché vengano solo conservate, come nel deposito; oppure per stabilire un'obbligazione, come

Le parti della giustizia

613

Q. 6 1 , A. 3

actionibus, sive voluntariis sive involuntariis, est eadem ratio accipiendi medium secundum aequalitatem recompensationis. Et ideo omnes istae actiones ad unam speciem iustitiae perti­ nent, scilicet ad commutativam. Et per hoc patet responsio ad obiecta.

quando uno dà in pegno i propri averi, o an­ che quando li offre come garanzia per u n altro. - Ora, i n tutte queste azioni, sia volon­ tarie che involontarie, è identico il criterio per determinare il giusto mezzo, cioè l'equivalen­ za della restituzione. Così tutti questi atti ap­ partengono a un'unica specie di giustizia, cioè alla commutativa. Sono così risolte anche le difficoltà.

Articulus 4

Articolo 4 D giusto si identifica semplicemente

Utrum iustum sit simpliciter idem quod contrapassum Ad quartum sic proceditur. Vìdetur quod iustum sit simpliciter idem quod contrapassum. l. Iudicium enim divinum est simpliciter iustum. Sed haec est forma divini iudicii, ut s e c u n d u m quod aliquis fecit, p a t i a t u r, secundum illud Matth. 7 [2], in quo iudicio

iudicaveritis, iudicabimini, et in qua mensura mensi fueritis, remetietur vobis. Ergo iustum est simpliciter idem quod contrapassum. 2. Praeterea, in utraque iustitiae specie datur aliquid alicui secundum quandam aequalita­ tem, in respectu quidem ad dignitatem perso­ nae in iustitia distributiva, quae quidem perso­ nae dignitas maxime videtur attendi secundum opera quibus aliquis communitati servivit; in respectu autem ad rem in qua quis damniticatus est, in iustitia commutativa. Secundum autem utramque aequalitatem aliquis contrapatitur secundum quod fecit. Ergo videtur quod iustum simpliciter sit idem quod contrapassum. 3. Praeterea, maxime videtur quod non opor­ teat aliquem contrapati secundum quod fecit, propter differentiam voluntarii et involuntarii, qui enim involontarie fecit iniuriam, minus punitur. Sed voluntarium et involuntarium, quae accipiuntur ex parte nostra, non diversifi­ cant medium iustitiae, quod est medium rei et non quoad nos. Ergo iustum simpliciter idem esse videtur quod contrapassum. Sed contra est quod philosophus, in 5 Ethic. [5,2], probat non quodlibet iustum esse contra­ passum. Respondeo dicendum quod hoc quod dicitur contrapassum importat aequalem recompensa­ tionem passionis ad actionem praecedentem. Quod quidem propriissime dicitur in passioni­ bus iniuriosis quibus aliquis personam proxi­ mi laedit, puta, si percutit, quod repercutiatur.

con il contrappasso? Sembra di sì. Infatti: l . II giudizio di Dio è il giusto in senso asso­ luto. Ma il criterio del giudizio di Dio è che uno patisca in proporzione di ciò che ha fatto, come è detto in Mt 7 [2]: Col giudizio con cui

giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. Quindi il giusto si identifica senz' altro con il contrap­ passo. 2. In entrambe le specie di giustizia viene dato qualcosa a qualcuno secondo una certa equi­ valenza: nella giustizia distributiva in rapporto alla dignità personale, dignità che si fonda specialmente sulle opere con cui uno serve la collettività, e nella giustizia commutativa in rappotto alle cose in cui uno è stato danneg­ giato. Però in entrambi i tipi di equivalenza uno viene a ricevere il contrappasso di ciò che aveva fatto. Quindi il giusto si identifica, asso­ lutamente parlando, con il contrappasso. 3. A escludere il contrappasso dovrebbe esse­ re specialmente la differenza tra volontario e involontario: infatti chi ha fatto un danno in­ volontariamente è punito di meno. Eppure questa differenza soggettiva non incide nella determinazione del giusto mezzo, che è reale e non soggettivo. Quindi il giusto si identifica senz'altro con il contrappasso. In contrario: il Filosofo dimostra che il giusto non sempre è il contrappasso. Risposta: il contrappasso implica parità di compenso tra ciò che è subìto [passione] e un'azione precedente, e di esso si parla in sen­ so proprio soprattutto negli atti ingiuriosi con cui uno colpisce la persona del prossimo: p. es., se uno percuote, [il contrappasso vuole] che sia percosso a sua volta. E questo tipo di giusto, o di diritto, è detenninato dalla legge in

Q. 6l, A. 4

Le parti della giustizia

614

Es 21 [23]:

Renderà vita per vita, occhio per occhio ... - E poiché anche l 'impossessarsi

Et hoc quidem iustum determinatur in lege, Ex. 21 [23 sqq.], reddet animam pro anima, oculum pro oculo, et cetera. -Et quia etiam auferre rem alterius est quoddam facere, ideo secundario etiam in his dicitur contrapassum, prout scilicet aliquis qui damnum intulit, in re sua ipse eti am damnificatur. Et hoc etiam iustum continetur in lege, Ex. 22 [ l ], si quis

della roba altrui è un agire, si parla di contrap­ passo secondariamente anche in questi casi : cioè per il fatto che chi ha danneggiato viene a subire lui stesso un danno negli averi. E anche di questo si parla nell'antica legge, in Es 22 [ l ] : Se uno ruba un bue o una pecom, e li

fiu-atus fuerit bovem aut ovem, et occiderit vel vendiderit, quinque boves pro uno bove resti­ tue!, et quatuor oves pro una ove. -Tertio vero

scanna o li vende, darà come indennizzo cin­ que buoi per il bue e quattro pecore per la pecora. - Finalmente il termine contrappasso

transfertur nomen contrapassi ad voluntarias commutationes, in quibus utrinque est actio et passio, sed voluntarium diminuit de ratione passionis, ut dictum est [q. 59 a. 3 ] . - In omnibus autem his debet fieri, secundum ra­ tionem iustitiae commutativae, recompensatio secundum aequalitatem, ut scilicet passio re­ compensata sit aequalis actioni. Non autem semper esset aequalis si idem specie aliquis pateretur quod fecit. Nam primo quidem, cum quis iniuriose laedat alterius personam maiorem, maior est actio quam passio eiusdem speciei quam ipse pateretur. Et ideo ille qui percutit principem non solum repercutitur, sed multo gravius punitur. - Similiter etiam cum quis aliquem involuntarium in re sua damnificat, maior est actio quam esset passio si sibi sola res illa auferretur, quia ipse qui damnificavit alium, in re sua nihil damnificaretur. Et ideo punitur in hoc quod multiplicius restituat, quia etiam non solum damnificavit personam priva­ tam, sed rempublicarn, eius tutelae securitatem infìingendo. -Similiter etiam nec in commuta­ tionibus voluntariis semper esset aequalis pas­ sio si aliquis daret rem suam, accipiens rem alterius, quia forte res alterius est multo maior quam sua. - Et ideo oportet secundum quan­ dam proportionatam commensurationem adae­ quare passionem actioni in commutationibus, ad quod inventa sunt numismata. Et sic contra­ passum est commutativum iustum. -In distri­ butiva autem iustitia locum non habet. Quia in distributiva iustitia non attenditur aequalitas secundum proportionem rei ad rem, vel passio­ nis ad actionem, unde dicitur contrapassum, sed secundum proportionalitatem rerum ad personas, ut supra [a. 2] dictum est. Ad primum ergo dicendum quod illa forma divini iudicii attenditur secundum rationem commutativae iustitiae, prout scilicet recom­ pensat praemia meritis et supplicia peccatis.

viene esteso alle commutazioni volontarie, nelle quali l 'azione e la passione sono recipro­ che: la volontarietà però diminuisce la passi­ vità, come si è detto. - Ora, in tutti questi casi, in base alla giustizia commutativa, il compen­ so deve essere fondato sull'equivalenza, in maniera cioè che la passione che si subisce equivalga all'azione compiuta. Ma non sem­ pre essa sarebbe equivalente se uno si limitas­ se a subire ciò che lui stesso ha fatto. Se uno, p . es ., avesse danneggiato con ingiurie una persona superiore, la sua azione rimarrebbe più grave della passione da lui subita . E così chi percuote il principe non viene sempli­ cemente ripercosso, ma viene punito molto più gravemente. - Parimenti, quando uno dan­ neggia un altro negli averi, se gli si togliesse soltanto ciò che ha rubato, la sua azione rimar­ rebbe superiore alla passione : poiché chi ha danneggiato non avrebbe subito nei suoi averi alcun danno. E così egli viene obbligato a restituire molto di più: poiché non ha danneg­ giato solo una persona privata, ma anche lo stato, di cui ha compromesso la sicurezza. Parimenti non ci sarebbe sempre parità di pas­ sione nelle commutazioni o scambi volontari se uno desse semplicemente la roba propria per avere quella di un altro: poiché forse la roba altrui è molto superiore a quella propria. È quindi necessario in questi scambi raggiun­ gere un'equivalenza tra il dare e l 'avere secon­ do una certa proporzionalità: e a tale scopo furono inventate le monete. Così dunque i l contrappasso è u n principio valido nella giusti­ zia commutativa. - Esso invece non ha luogo nella giustizia distributiva. Poiché in tale giu­ stizia non si richiede l 'equivalenza basata sulla proporzione tra cosa e cosa o tra azione e pas­ sione, da cui deriva il termine contrappasso, ma quella basata sulla proporzionalità tra cose e persone, come si è detto sopra. -

Q. 6 1 , A. 4

Le parti della giustizia

615

Ad secundum dicendum quod si alicui qui communitati servisset retribueretur aliquid pro servitio impenso, non esset hoc distributivae iustitiae, sed commutativae. In distributiva enim iustitia non attenditur aequalitas eius quod quis accipit ad id quod ipse impendit, sed ad id quod alius accipit, secundum mo­ dum utriusque personae. A d tertium dicendum quod quando actio iniuriosa est voluntaria, excedit iniuria, et sic accipitur ut maior res. Unde oportet maiorem poenam ei recompensari non secundum diffe­ rentiam quoad nos, sed secundum differentiam rei.

Soluzione delle difficoltà: l . ll criterio indica­ to del giudizio divino è determinato secondo l a norma della giustizia commutativa: i n quanto cioè adegua i premi a i meriti e le puni­ zioni ai peccati. 2. Se uno ricevesse qualcosa per i servizi resi alla collettività non si procederebbe secondo la giustizia distributiva, ma secondo la com­ mutativa. Infatti nella giustizia distributiva non si considera l'equivalenza fra ciò che uno riceve e ciò che egli stesso aveva dato, ma il confronto è con ciò che ricevono altri secondo la rispettiva condizione. 3. Quando l'azione dannosa è volontaria il danno è superiore, e quindi viene considerato come una cosa più grave. Per cui si deve ri­ compensare con una pena più grave non per una diversità di ordine soggettivo, ma per una diversità reale.

QUAESTI0 62

QUESTIONE 62

DE RESTITUTIONE

LA RESTITUZIONE

Deinde considerandum est de restitutione. - Et circa hoc quaeruntur octo. Primo, cuius actus sit. Secundo, utrum necesse sit ad salutem omne ablatum restituì. Tertio, utrum oporteat multiplicatum illud restituere. Quruto, utrum oporteat restituì id quod quis non accepit. Quinto, utrum oporteat restituì ei a quo ac­ ceptum est. Sexto, utrum oporteat restituere eum qui accepit. Septimo, utrum aliquem alium. Octavo, utrum sit statim restituendum.

Parliamo ora della restituzione. - Sull'argo­ mento si pongono otto quesiti: l . Di quale giustizia è l'atto? 2. Per salvarsi � necessario restituire sempre il maltolto? 3. E necessario restituirlo moltiplicato? 4, Uno deve restituire ciò che non ha preso? 5. E nec,essario restitui­ re alla persona defraudata? 6. E tenuto a resti­ tuire proprio colui che ha defraudato? 7. Vi è tenuto qualche altro? 8. Si deve restituire im­ mediatamente?

Articulus l

Articolo l

Utrum restitutio sit actus iustitiae commutativae

La restituzione è un atto della giustizia commutativa?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod restitutio non sit actus iustitiae commutativae. l . Iustitia enim respicit rationem debiti. Sed sicut donatio potest esse eius quod non debe­ tur, ita etiam et restitutio. Ergo restitutio non est actus alicuius partis iustitiae. 2. Praeterea, illud quod iam transiit et non est, restituì non potest. Sed iustitia et iniustitia sunt circa quasdam actiones et passiones, quae non manent, sed transeunt. Ergo restitutio non videtur esse actus alicuius prutis iustitiae. 3. Praeterea, restitutio est quasi quaedam re­ compensatio eius quod subtractum est. Sed

Sembra di no. Infatti: l. La giustizia ha per oggetto ciò che è dovuto. Ora, come la donazione, così anche la restitu­ zione può essere di cose non dovute. Quindi la restituzione non è un atto che appartiene alla giustizia. 2. Non è possibile restinrire cose già passate e ormai inesistenti. Ma la giustizia e l'ingiustizia riguardano certe azioni e passioni, che non ri­ mangono, ma passano. Perciò la restituzione non è l'atto di una determinata parte della giustizia 3. La restituzione è come un compenso per quanto era stato tolto. Ora, si può togliere

Q. 62, A.

l

La restituzione

aliquid potest homini subtrahi non solum in commutatione, sed etiam in distributione, puta cum aliquis distribuens minus dat alicui quam debeat habere. Ergo restitutio non ma­ gis est actus commutativae iustitiae quam distributivae. Sed contra, restitutio ablationi opponitur. Sed ablatio rei alienae est actus iniustitiae circa commutationes. Ergo restitutio eius est actus iustitiae quae est in commutationibus directiva. Respondeo dicendum quod restituere nihil aliud esse videtur quam iterato aliquem sta­ tuere in possessionem vel dominium rei suae. Et ita in restitutione attenditur aequalitas iustitiae secundum recompensationem rei ad rem, quae pertinet ad iustitiam commutati­ varo. Et ideo restitutio est actus commutativae iustitiae, quando scilicet res unius ab alio habetur, vel per voluntatem eius, sicut in mu­ tuo vel deposito; vel contra voluntatem eius, sicut in rapina vel furto. Ad primum ergo dicendum quod illud quod alteri non debetur non est, proprie Ioquendo, eius, etsi aliquando eius fuerit. Et ideo magis videtur esse nova donatio quam restitutio cum quis alteri reddit quod ei non debet. Habet tamen aliquam similitudinem restitutionis, quia res materialiter est eadem. Non tamen est eadem secundum formalem rationem quam respicit iustitia, quod est esse suum alicuius. Unde nec proprie restitutio dicitur. Ad secundum dicendum quod nomen restitu­ tionis, inquantum importat iterationem quan­ dam, supponit rei identitatem. Et ideo secun­ dum primam impositionem nominis, restitu­ tio videtur Iocum habere praecipue in rebus exterioribus, quae manentes eaedem et secun­ dum substantiam et secundum ius dominii, ab uno possunt ad alium devenire. Sed sicut ab huiusmodi rebus nomen commutationis translatum est ad actiones vel passiones quae pertinent ad reverentiam vel iniuriam alicuius personae, seu nocumentum vel profectum; ita etiam nomen restitutionis ad haec derivatur quae, Iicet realiter non maneant, tamen ma­ nent in effectu, vel corporali, puta cum ex percussione laeditur corpus; vel qui est in opinione hominum, sicut cum aliquis verbo opprobrioso remanet homo infamatus, vel etiam minoratus in suo honore. Ad tertium dicendum quod recompensatio quam facit distribuens ei cui dedit minus

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qualcosa a un uomo non solo nella commuta­ zione, ma anche nella distribuzione: come quando uno nel distribuire dà a una persona meno di quanto essa deve avere. Quindi la restituzione è un atto che non appartiene alla giustizia commutativa più di quanto apparten­ ga alla distributiva. In contrario: la restituzione è il contrario del­ l'asportazione. Ora, l'asportazione della roba altrui è un atto di ingiustizia relativo alle per­ mute, o commutazioni. Quindi la restituzione di essa è un atto di quella giustizia che guida nelle commutazioni. Risposta: restituire non è altro che stabilire uno nuovamente nel possesso o dominio di una cosa sua. Così nella restituzione si mira a una giusta equivalenza tra cosa e cosa, la quale appartiene alla giustizia commutativa. Perciò la restituzione è un atto della giustizia commu­ tativa: sia nel caso che uno abbia la roba altrui per volere del proprietario, come nel prestito o nel deposito, sia che la abbia contro i l suo volere, come nella rapina o nel furto. Soluzione delle difficoltà: l. Ciò che non è dovuto a una persona non è, propriamente parlando, roba sua, anche se Io fu in passato. E così, quando uno restituisce una cosa senza esservi obbligato, si tratta più di una nuova donazione che di una vera restituzione. Tutta­ via c'è una certa somiglianza con la restitu­ zione, poiché materialmente la cosa è identi­ ca. Non è però identica sotto l'aspetto che interessa la giustizia, cioè sotto l'aspetto della proprietà. Per cui non viene neppure detta propriamente restituzione. 2. Il termine restituzione, in quanto indica una ripresa, implica un'identità reale. Perciò origi­ nariamente si parlava di restituzione soprattut­ to a proposito delle cose esterne, che possono cambiare proprietario restando identiche nella loro sostanza e nella loro capacità di apparte­ nere. Ma come è avvenuto per i l termine commutazione, il quale da queste cose è pas­ sato a indicare le azioni o le passioni che ri­ guardano il rispetto o l'irriverenza verso una persona, oppure un suo danno o vantaggio, così è avvenuto anche per il termine restitu­ zione, il quale serve ora a indicare appunto anche queste cose che, sebbene non perdurino nella realtà, tuttavia perdurano nei loro effetti: o fisici, come nel caso delle percosse, oppure esistenti nell'opinione altrui, come quando

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La restituzione

Q. 62, A. l

quam debuit, fit secundum comparationem rei ad rem, ut si quanto minus habuit quam de­ buit, tanto plus ei detur. Et ideo iam pertinet ad iustitiam commutativam.

uno rimane infamato da parole ingiuriose, o anche minorato nel proprio onore. 3. La re..;t; ituzione fatta da chi è incaricato di distribuire alla persona a cui ha dato meno del dovuto è impostata sul rapporto tra cosa e cosa: in modo che le si dia tanto di più, quan­ to di meno essa ebbe. Per cui siamo neli' am­ bito della giustizia commutativa.

Articulus 2 Utrum sit necessarium ad salutem quod fiat restitutio eius quod ablatum est

Articolo 2 La restituzione del maltolto è necessaria per salvarsi?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod non sit necessarium ad salutem quod fiat re­ stitutio eius quod ablatum est. l . Quod enim est impossibile non est de necessitate salutis. Sed aliquando impossibile est restituere id quod est ablatum, puta cum aliquis abstulit alicui membrum vel vitam. Ergo non videtur esse de necessitate salutis quod aliquis restituat quod alteri abstulit. 2. Praeterea, committere aliquod peccatum non est de necessitate salutis, quia sic homo esset perplexus. Sed quandoque illud quod aufertur non potest restituì sine peccato, puta cum aliquis alicui famam abstulit verum di­ cendo. Ergo restituere ablatum non est de ne­ cessitate salutis. 3. Praeterea, quod factum est non potest fieri ut factum non fuerit. Sed aliquando alicui aufertur honor suae personae ex hoc ipso quod passus est aliquo iniuste eum vituperante. Ergo non potest sibi restituì quod ablatum est. Et ita non est de necessitate salutis restituere ablatum. 4. Praeterea, ille qui impedit aliqucm ab aliquo bono consequendo videtur ei auferre, quia quod modicum deest, quasi nihil deesse videtur, ut philosophus dicit, in 2 Phys. [5,9]. Sed cum aliquis impedit aliquem ne consequatur prae­ bendam vel aliquid huiusmodi, non videtur quod teneatur ei ad restitutionem praebendae, quia quandoque non posset. Non ergo restituere ablatum est de necessitate salutis. Sed contra est quod Augustinus dicit [ep. 1 53,6; Decretum, p. 2, causa 1 4, q. 6], non dimittitur

Sembra di no. Infatti: l. L' impossibile non è necessario alla salvez­ za. Ma talora è impossibile restituire ciò che si è tolto: come quando uno, p. es., ha sottratto un membro o la vita. Quindi non è indispensa­ bile per la salvezza restituire il maltolto. 2. Commettere un peccato non può essere indispensabile per la salvezza: altrimenti uno rimarrebbe perplesso. Ma talora non si può restituire il maltolto senza un peccato: come quando uno ha tolto la fama a un altro dicen­ do la verità. Perciò la restituzione del maltolto non è indispensabile alla salvezza. 3. Non si può far sì che ciò che è accaduto non sia accaduto. Ma talvolta uno viene a perdere l'onore per il fatto che ha subito ingiustamente l'insulto di un altro. Perciò non è possibile che gli venga restituito il maltolto. Quindi restituire il maltolto non è indispensabile per salvarsi. 4. Chi impedisce a una persona di raggiungere un bene, è come se glielo avesse sottratto: poi­ ché, secondo Aristotele, «quando manca poco, sembra che non manchi nulla». Ora, quando uno impedisce a una persona di ottenere una prebenda, o altre cose del genere, non pare che sia tenuto alla restituzione: poiché spesso non potrebbe neppure farlo. Quindi restituire i l maltolto non è necessario per salvarsi. In contrario: Agostino dice: >. Ora, secondo la natura istituita da Dio il corpo umano deve essere integro nelle

Q. 65, A.

l

Le altre ingiustizie commesse contro le persone

naturam in id quod est contra naturam. Sed secundum naturam a Deo institutam est quod corpus hominis sit integrum membris; contra naturam autem est quod sit membro diminu­ tum. Ergo mutilare aliquem membro semper videtur esse peccatum. 2. Praeterea, sicut se habet tota anima ad totum corpus, ita se habent partes animae ad partes corporis, ut dicitur in 2 De an. [ 1 ,19]. Sed non licet aliquem privare anima occiden­ do ipsum, nisi publica potestate. Ergo etiam non licet aliquem mutilare membro, nisi forte secundum publicam potestatem. 3 . Praeterea, salus animae praeferenda est saluti corporali. Sed non licet aliquem mutila­ re se membro propter salutem animae, pu­ niuntur enim secundum statuta Nicaeni Con­ cilii [can. l ] qui se castraverunt propter casti­ tatem servandam. Ergo propter nullam aliam causam licet aliquem membro mutilare. Sed contra est quod dicitur Ex. 21 [24], oculum pro oculo, dentem pro dente, manum pro manu, pedem pro pede.

Respondeo dicendum quod cum membrum aliquod sit pars totius humani corporis, est propter totum, sicut imperfectum propter perfectum. Unde disponendum est de mem­ bro humani corporis secundum quod expedit toti. Membrum autem humani corporis per se quidem utile est ad bonum totius corporis, per accidens tamen potest contingere quod sit nocivum, puta cum membrum putridum est totius corporis corruptivum. Si ergo mem­ brum sanum fuerit et in sua naturali disposi­ tione consistens, non potest praecidi absque totius hominis detrimento. Sed quia ipse totus homo ordinatur ut ad finem ad totam commu­ nitatem cuius est pars, ut supra dictum est [q. 61 a. l ; q. 64 aa. 2.5]; potest contingere quod abscisio membri, etsi vergat in detri­ mentum totius corporis, ordinatur tamen ad bonum communitatis, inquantum alicui i nfer­ tur in poenam ad cohibitionem peccatorum. Et ideo sicut per publicam potestatem aliquis licite privatur totaliter vita propter aliquas maiores culpas, ita etiam privatur membro propter aliquas culpas minores. Hoc autem non est licitum alicui privatae personae, etiam volente ilio cuius est membrum, quia per hoc fit iniuria communitati, cuius est ipse homo et ornnes prutes eius. - Si vero membrum prop­ ter putredinem sit totius corporis corruptivum,

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sue parti, ed è contro natura che sia privato di un membro. Quindi mutilare una persona di un membro è sempre peccato. 2. Secondo Aristotele, come l ' anima intera sta a tutto il corpo, così le parti dell ' anima stanno alle varie parti del corpo. Ma privare una persona dell' anima con l'uccisione non è permesso se non in forza dei pubblici poteri. Perciò non è lecito mutilare una persona se non forse ricorrendo ai pubblici poteri. 3. La salvezza dell' anima è da preferirsi alla salvezza del corpo. Ora, a nessuno è permes­ so mutilarsi di un membro per la salvezza del­ l'anima: infatti il [primo] Concilio Niceno pu­ nisce coloro che si sono evirati per osservare la castità. Quindi per nessun altro motivo è lecita la mutilazione di una persona. In contrario: in Es 21 [24]: Occhio per oc­

chio, dente per dente, mano per mano, piede per piede. Risposta: un membro, essendo una parte del corpo umano, è per il tutto, come ciò che è imperfetto dice ordine alla perfezione. Si deve perciò disporre di un membro del corpo uma­ no secondo le esigenze del tutto. Ora, ogni membro del corpo umano di per sé è utile al bene di tutto il corpo; tuttavia può capitare che gli sia nocivo, p. es. quando un membro infetto minaccia la conuzione di tutto il cor­ po. Se quindi un membro è sano e normale, non può essere asportato senza un danno per l'intero corpo. Siccome però l'uomo nel suo insieme è ordinato all ' intera collettività di cui fa parte, come si è detto, può capitare che l ' asportazione di un membro, pur essendo dannosa per l'intero corpo, sia tuttavia ordina­ ta al bene della collettività in quanto inflitta come castigo di certi delitti. Come quindi uno dalla pubblica autorità può essere lecitamente privato della vita intera per i delitti più gravi, così può essere privato di un membro per i delitti minori. Ciò però non è lecito ad alcuna persona privata, nemmeno col consenso del­ l ' interessato: poiché sarebbe un' ingiustizia verso la società, alla quale appartiene l'uomo con tutte le sue membra. - S e invece u n membro è u n focolaio d'infezione per tutto il corpo, allora col consenso dell'interessato è lecita la sua asportazione per la salute di tutto il corpo: poiché a ciascuno è commessa la cura della propria salute. E lo stesso discorso vale per giustificare l'asportazione fatta per la

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Le altre ingiustizie commesse contro le persone

tunc licitum est, de voluntate eius cuius est membrum, putridum membrum praescindere propter salutem totius corporis, quia unicui­ que commissa est cura propriae salutis. Et eadem ratio est si fiat voluntate eius ad quem pertinet curare de salute eius qui habet mem­ brum corruptum. Aliter autem aliquem mem­ bro mutilare est omnino illicitum. Ad primum ergo dicendum quod nihil prohi­ bet id quod est contra patticularem naturam esse secundum naturam universalem, sicut mors et corruptio in rebus naturalibus est con­ tra particularem naturam eius quod corrumpi­ tur, cum tamen sit secundum naturam univer­ salem. Et similiter mutilare aliquem membro, etsi sit contra naturam particularem corporis eius qui mutilatur, est tamen secundum natu­ ralem rationem in comparatione ad bonum commune. Ad secundum dicendum quod totius hominis vita non ordinatur ad aliquid proprium ipsius hominis, sed ad ipsam potius omnia quae sunt hominis ordinantur. Et ideo privare aliquem vita in nullo casu pertinet ad aliquem nisi ad publicam potestatem, cui committitur procu­ ratio boni communis. Sed praecisio membri potest ordinari ad propriam salutem unius ho­ minis. Et ideo in aliquo casu potest ad ipsum pertinere. Ad tertium dicendum quod membrum non est praecidendum propter corporalem salutem totius nisi quando aliter toti subveniri non potest. Saluti autem spirituali semper potest aliter subveniri quam per membri praecisio­ nem, quia peccatum subiacet voluntati. Et ideo in nullo casu licet membrum praecidere propter quodcumque peccatum vitandum. Unde Chrysostomus, exponens illud Matth. 19 [ 1 2], sunt eunuchi qui seipsos castraverunt propter regnum caelorum, dicit [h. 62], non

membro rum abscisionem, sed malarum cogitationum interemptionem. Maledictioni enim est obnoxius qui membrum abscidit, etenim quae homicidantm sunt talis praesu­ mit. Et postea subdit [h. 62], neque concu­ piscentia mansuetior ita fit, sed molestior. Aliunde enim habet fontes sperma quod in nobis est, et praecipue a proposito inconti­ nenti et mente negligente, nec ita abscisio membri comprimi! tentationes, ut cogitationis frenum.

Q. 65, A. l

volontà di colui a cui spetta la cura della salute di chi ha un membro malato. Mutilare invece qualcuno di un membro fuori di questi casi è assolutamente proibito. Soluzione delle difficoltà: l . Nulla impedisce che quanto è contrario a una natura pattico­ lare sia conforme alla natura nella sua univer­ salità: come negli esseri matetiali la morte o la corruzione è contraria alla loro natura par­ ticolare, ma è conforme alla natura nella sua universalità. E così mutilare una persona di un membro, pur essendo contro la natura par­ ticolare del suo corpo, è però conforme alla ragione naturale in rapporto al bene comune. 2. La vita intera di un uomo non è ordinata a qualcosa che a lui appartiene, ma piuttosto tutte le cose che a lui appartengono sono ordi­ nate ad essa. Quindi privare un uomo della vita appartiene sempre esclusivamente alla pubblica autorità, che è incaricata del bene comune. Invece la mutilazione di un membro può essere ordinata alla salute di una persona particolare: e così in certi casi questa ha i l diritto d i praticarla. 3. Non si può eliminare un membro per la salute del corpo se non quando non si può provvedere altrimenti. Ma alla salvezza spiri­ tuale si può sempre provvedere altrimenti che con l' amputazione di un membro: poiché il peccato dipende dalla volontà. Perciò non si può mai recidere un membro per evitare un peccato qualsiasi. Per cui il Crisostomo, nel commentare Mt 19 [ 12]: Ci sono degli eunu­

chi che si sono resi tali per il regno dei cieli, afferma: «Non si tratta di mutilare le membra, ma di uccidere i cattivi pensieri. Infatti chi recide un organo è soggetto alla maledizione: poiché in tal modo uno si accomuna agli assassini». E aggiunge: «E d' altra parte i n questo modo la concupiscenza non s i calma, ma diviene più insolente. Infatti la concupi­ scenza che è in noi ha ben altre fonti, derivan­ do specialmente dall'incontinenza del propo­ sito e dalla negligenza della mente: per cui la mutilazione di un organo non reprime le ten­ tazioni tanto quanto la repressione dei cattivi pensieri».

Q. 65, A. 2

Le altre ingiustizie commesse contro le persone

Articulus 2 Utrum liceat patribus verberare filios, aut dominis servos Ad secundum sic proceditur. Vìdetur quod non liceat patribus verberare filios, aut dominis servos. l . Dicit enim apostolus, ad Eph. 6 [4], vos, pa­

tres, nolite ad iracundiam provocare filios ve­ stros. Et infra [9] subdit, et vos, domini, eadem jacite servis, remittentes minas. Sed propter

verbera aliqui ad iracundiam provocantur. Sunt etiam minis graviora. Ergo neque patres filios, neque domini servos debent verberare. 2. Praeterea, philosophus dici t, in l O Ethic. [9,1 2. 14], quod sermo paternus habet solum monitionem, non autem coactionem. Sed quaedam coactio est per verbera. Ergo paren­ tibus non licet filios verberare. 3. Praeterea, unicuique licet alteri disciplinam impendere, hoc enim pertinet ad eleemosynas spirituales, ut supra [q. 32 a. 2] dictum est. Si ergo parentibus licet propter disciplinam filios verberare, pari ratione cuilibet licebit quemli­ bet verberare. Quod patet esse falsum. Ergo et primum. Sed contra est quod dicitur Prov. 1 3 [24], qui parcit virgae, odit filium suum; et infra 23 [ 1 3], noli subtrahere a puero disciplinam. Si

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Articolo 2

È lecito ai genitori percuotere i figli, e ai padroni i loro schiavi? Sembra di no. Infatti: l . Paolo in Ef 6 [4] dice: Voi padri non ina­ sprite i vostrifigli. E aggiunge poco dopo [9]:

E voi padroni comportatevi allo stesso modo verso i vostri schiavi, mettendo da parte le minacce. Ma dalle percosse alcuni vengono

inaspriti. Inoltre esse sono più gravi delle mi­ nacce. Perciò né i padri possono percuotere i figli, né i padroni i servi. 2. TI Filosofo afferma che «il linguaggio pa­ terno comporta soltanto l'ammonizione, non la coazione». Ma con le percosse si ha una forma di coazione. Quindi ai genitori non è lecito percuotere i figli. 3. E permesso a chiunque correggere un altro: è questa infatti una delle opere di misericordia spirituale, come sopra si è visto. Se quindi ai genitori è lecito percuotere i figli per correg­ gerli, sarà lecito ugualmente a chiunque fare lo stesso con qualsiasi persona. Ma ciò è evi­ dentemente falso. Quindi è falsa anche l' af­ fermazione precedente. In contrario: in Pr 1 3 [24]: Chi risparmia il bastone odia suo figlio; e in Pr 23 [ 13]: Non

enim percusseris eum virga, non morietur; tu virga percuties eum, et animam eius de infer­ no liberabis. Et Eccli. 33 [28] dicitur, servo malevolo tortura et compedes.

risparmiare al giovane la correzione. Anche se tu lo percuoterai con la verga, non morirà; anzi, se lo percuoterai con la verga, libererai la sua anima dall'inferno. E in Sir 33 [28] è detto: Per lo schiavo cattivo torture e castighi.

Respondeo dicendum quod per verberatio­ nem nocumentum quoddam infertur corpori eius qui verberatur, aliter tamen quam in mutilatione, nam mutilatio tollit corporis inte­ gritatem, verberatio vero tantummodo afficit sensum dolore. Unde multo minus nocumen­ tum est quam membri mutilatio. Nocumen­ tum autem inferre alicui non licet nisi per mo­ dum poenae propter iustitiam. Nullus autem iuste punit aliquem nisi sit eius ditioni sub­ iectus. Et ideo verberare aliquem non licet ni­ si habenti potestatem aliquam super illum qui verberatur. Et quia filius subditur potestati patris, et servus potestati domini, licite potest verberare pater filium et dominus servum, causa correctionis et disciplinae. Ad primum ergo dicendum quod, cum ira sit appetitus vindictae, praecipue concitatur ira cum aliquis se reputat laesum iniuste, ut patet

Risposta: con le percosse si infligge un danno al corpo del paziente, però in maniera diversa che con la mutilazione: quest'ultima infatti ne pregiudica l'integrità, mentre le percosse si limitano al dolore sensibile. Perciò esse sono un danno molto minore della mutilazione. Ora, infliggere un danno a una persona è per­ messo solo come castigo, per un atto di giu­ stizia. D'altra parte si possono punire con giu­ stizia solo i propri sudditi. Quindi può lecita­ mente percuotere soltanto chi ha un potere sulla persona che viene percossa. Poiché dun­ que il figlio è sotto il potere del padre, e lo schiavo sotto quello del padrone, il padre e il padrone hanno rispettivamente la facoltà di percuotere il figlio e lo schiavo, allo scopo di correggerli e di educarli. Soluzione delle difficoltà: l. L'ira, essendo un desiderio di vendetta, si accende soprattutto

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Le altre ingiustizie commesse contro le persone

Q. 65, A. 2

per philosophum, in 2 Rhet. [2, l ; 3, 1 5] . Et ideo per hoc quod patribus interdicitur ne filios ad iracundiam provocent, non prohibe­ tur quin filios verberent causa disciplinae, sed quod non immoderate eos affligant verberi­ bus. Quod vero inducitur dominis quod remit­ tant minas, potest dupliciter intelligi . Uno modo, ut remisse minis utantur, quod pertinet ad moderationem disciplinae. Alio modo, ut aliquis non semper impleat quod comminatus est, quod pertinet ad hoc quod iudicium quo quis comminatus est poenam, quandoque per remissionis misericordiam temperetur. Ad secundum dicendum quod maior potestas maiorem debet habere coactionem. S icut autem civitas est perfecta communitas, ita princeps civitatis habet perfectam potestatem coercendi, et ideo potest infligere poenas irre­ parabiles, scilicet occisionis ve! mutilationis. Pater autem et dominus, qui praesunt farniliae domesticae, quae est imperfecta communitas, habent imperfectam potestatem coercendi secundum leviores poenas, quae non inferunt irreparabile nocumentum. Et huiusmodi est verberatio. Ad tertium dicendum quod exhibere discipli­ nam volenti cuilibet licet. Sed disciplinam nolenti adhibere est solum eius cui alterius cura committitur. Et ad hoc pertinet aliquem verberibus castigare.

quando uno pensa di essere stato colpito ingiustamente, come mostra il Filosofo. Per­ ciò la proibizione che viene fatta ai genitori di provocare i figli non vieta loro di percuoterli allo scopo di educarli, ma di esagerare nelle percosse. L'esortazione poi rivolta ai padroni di mettere da parte le m inacce può essere intesa in due modi. Primo, nel senso che se ne deve fare un uso moderato: e ciò fa parte della moderazione nel correggere. Secondo, nel senso che non sempre si deve porre in atto il castigo minacciato: e ciò implica l'obbligo di temperare talvolta con la m isericordia del condono la sentenza con cui era stata decreta­ ta la punizione. 2. Un potere superiore esige una forza coatti­ va più grande. Ora, essendo lo stato una società perfetta, chi lo governa deve avere un potere coattivo perfetto: quindi può infliggere pene irreparabili, come l' uccisione e la muti­ lazione. Invece il padre e il padrone, i quali governano la società domestica, che è una società imperfetta, hanno un potere coercitivo imperfetto limitato a punizioni lievi, che non infliggono danni irreparabili. E le percosse sorto fra queste. 3. E lecito a chiunque correggere chi accetta la correzione. Correggere invece chi non la vuole appartiene soltanto agli incaricati. E tale è appunto il caso delle percosse.

Articulus 3 Utrum liceat aliquem hominem incarcerare

È lecito incarcerare

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod non liceat aliquem hominem incarcerare. l . Actus enim est malus ex genere qui cadit supra indebitam materiam, ut supra [1-11 q. 1 8 a. 2] dictum est. Sed homo, habens naturalem arbitrii libertatem, est indebita materia incar­ cerationis, quae libertati repugnat. Ergo illici­ tum est aliquem incarcerare. 2. Praeterea, humana iustitia regulari debet ex divina. Sed sicut dicitur Eccli. 15 [ 1 4], Deus reliquit hominem in manu consilii sui. Ergo v idetur quod non est aliquis coercendus vinculis ve! carcere. 3. Praeterea, nullus est cohibendus nisi ab opere malo, a quo quilibet licite potest alium impedire. Si ergo incarcerare aliquem esset l i citum ad hoc quod cohiberetur a malo,

Articolo 3

un uomo? Sembra di no. Infatti: l . L'atto che è rivolto a una materia indebita è cattivo nel suo genere, come sopra si è detto. Ma l'uomo, avendo in dote la libertà naturale del suo arbitrio, è materia indebita dell'incar­ cerazione, che è incompatibile con la libertà. Quindi l ' incarcerazione di un uomo è illecita. 2. La giustizia umana deve conformarsi a quella divina. Ma, come è detto in Sir 1 5 [ 14]:

Dio ha lasciato l'uomo in balìa del suo pro­ prio volere. Perciò nessuno deve essere co­ stretto con le catene o con il carcere. 3. Non si può arrestare un uomo se non per trattenerlo da un' opera cattiva: alla quale può lecitamente opporsi chiunque. Se quindi fosse lecito incarcerare un uomo per impedirgli di nuocere, c h iunque potrebbe lecitamente

Q. 65, A. 3

Le altre ingiustizie commesse contro le persone

cuilibet esset licitum aliquem incarcerare. Quod patet esse falsum. Ergo et primum. Sed contra est quod Lev. 24 [ 1 1- 12] legitur quendam missum fuisse in carcerem propter peccatum blasphemiae. Respondeo dicendum quod in bonis corporis tria per ordinem considerantur. Primo quidem, integritas corporalis substantiae, cui detrimen­ tum affertur per occisionem vel mutilationem. Secundo, delectatio vel quies sensus, cui op­ ponitur verberatio, vel quidlibet sensum dolo­ re afficiens. Tertio, motus et usus membro­ rum, qui impeditur per ligationem vel incar­ cerationem, seu quamcumque detentionem. Et ideo incarcerare aliquem, vel qualitercum­ que detinere, est illicitum nisi fiat secundum ordinem iustitiae, aut in poenam aut ad cau­ telam alicuius mali vitandi. Ad primum ergo dicendum quod homo qui abutitur potestate sibi data, meretur eam amit­ tere. Et ideo homo qui peccando abusus est libero usu suorum membrorum, conveniens est incarcerationis materia. Ad secundum dicendum quod Deus quan­ doque, secundum ordinem suae sapientiae, peccatores cohibet ne possint peccata imple­ re, secundum illud Iob 5 [ 1 2], qui dissipat

cogitationes malignorum, ne possint implere manus eorum quod coeperant. Quandoque

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incarcerare qualcuno. n che è falso. Anche la tesi, dunque, è falsa. In contrario: si legge in Lv 24 [ 1 1 ] che un tale fu messo in prigione per aver bestemmiato. Risposta: questo è l' ordine che si riscontra nei beni del corpo. Al primo posto c'è l'integrità della natura corporea, che viene menomata dall'uccisione o dalla mutilazione. Al secon­ do posto c'è il piacere o la quiete dei sensi, a cui si contrappongono le percosse, o qualsiasi altro fatto dolorifico. Al terzo posto c'è il mo­ to e l'uso delle membra, che viene impedito dall'arresto, dall'incarcerazione o da qualsiasi tipo di detenzione. E così incarcerare o seque­ strare in qualunque modo una persona è illecito, a meno che non lo si faccia secondo l 'ordine della giustizia, o come castigo o co­ me misura preventiva per evitare un delitto. Soluzione delle difficoltà: l . L' uomo che abu­ sa delle facoltà a lui concesse merita di per­ derle. Perciò colui che peccando ha abusato col libero arbitrio dell'uso delle proprie mem­ bra è materia adeguata dell'incarcerazione. 2. Secondo l' ordine della sua sapienza, Dio talora impedisce ai peccatori di attuare i loro delitti, come è detto in Gb 5 [ 1 2] : Egli disper­

de i pensieri dei malvagi perché le loro mani non ne compiano i propositi. Talora invece

vero eos permittit quod volunt agere. Et simi­ liter secundum humanam iustitiam non pro qualibet culpa homines incarcerantur, sed pro aliquibus. Ad tertium dicendum quod detinere hominem ad horam ab aliquo opere illicito statim per­ petrando, cuilibet licet, sicut cum aliquis de­ tinet aliquem ne se praecipitet, vel ne alium feriat. Sed simpliciter aliquem includere vel ligare ad eum salurn pertinet qui habet dispo­ nere universaliter de actibus et vita alterius, quia per hoc impeditur non solum a malis, sed etiam a bonis agendis.

permette loro di compiere ciò che vogliono. Similmente dunque la giustizia umana non ricorre all'incarcerazione per tutte le colpe, ma solo per alcune. 3. Chiunque ha la facoltà di trattenere un uomo per un certo tempo dal compiere un atto illecito imminente: come quando si trat­ tiene una persona dal suicidio o dal ferimento di altri. Sequestrarlo però o legarlo appartiene di per sé soltanto a coloro che hanno il potere di disporre pienamente della vita e delle azio­ ni altrui: poiché in tal modo a un uomo non solo viene impedito di fare del male, ma anche di fare del bene.

Articulus 4 Utrum peccatum aggravetur ex hoc quod praedictae iniuriae inferuntur in personas aliis coniunctas

Articolo 4 Il peccato è aggravato per il fatto che le ingiurie suddette sono inflitte a delle persone congiunte ad altre persone?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod peccatum non aggravetur ex hoc quod prae­ dictae iniuriae inferuntur i n personas aliis coniunctas.

Sembra di no. Infatti: l . Tali ingiurie sono peccaminose in quanto viene inflitto un danno a una persona contro la sua volontà. Ora, alla volontà di un uomo

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Le altre ingiustizie commesse contro le persone

l . Huiusmodi enim iniuriae habent rationem peccati prout nocumentum alicui infertur contra eius voluntatem. Sed magis est contra hominis voluntatem malum quod in perso­ naro propriam infertur quam quod i nfertur in personam coniunctam. Ergo iniuria illata in personam coniunctam est minor. 2. Praeterea, in sacra Scriptura praecipue reprehenduntur qui pupillis et viduis iniurias inferunt, unde dicitur Eccli . 35 [ 1 7], non

de!ipiciet preces pupilli, nec viduam, si effim­ dat loquelam gemitus. Sed vidua et pupillus

non sunt personae aliis coniunctae. Ergo ex hoc quod infertur iniuria personis coniunctis non aggravatur peccatum. 3 . Praeterea, persona coniuncta habet pro­ priam voluntatem, sicut et principalis persona. Potest ergo aliquid ei esse voluntarium quod est contra voluntatem principalis personae, ut patet in adulterio, quod placet uxori et displi­ cet viro. Sed huiusmodi iniuriae habent ra­ tionem peccati prout consistunt i n involun­ taria commutatione. Ergo huiusmodi iniuriae minus habent de ratione peccati. Sed contra est quod Deut. 28 [32], ad quandam exaggerationem dicitur, filii tui et filiae tuae

tradentur alteri populo videntibus oculis tuis. Respondeo dicendum quod quanto aliqua iniuria in plures redundat, ceteris paribus, tanto gravius est peccatum. Et inde est quod gravius est peccatum si aliquis percutiat prin­ cipem quam personam privatam, quia redun­ dat in iniuriam totius multitudinis, ut supra [I-II q. 73 a. 9] dictum est. Cum autem infertur iniuria in aliquam personam coniunctam alteri qualitercumque, iniuria illa pertinet ad duas personas. Et ideo, ceteris paribus, ex hoc ipso aggravatur peccatum. Potest tamen contingere quod secundum aliquas circumstantias sit gravius peccatum quod fit contra personam nulli coniunctam, vel propter dignitatem per­ sonae, vel propter magnitudinem nocumenti. Ad primum ergo dicendum quod iniuria illata in personam coniunctam minus est nociva personae cui coniungitur quam si in ipsam immediate inferretur, et ex hac parte est mi­ nus peccatum. Sed hoc totum quod pertinet ad iniuriam personae cui coniungitur, super­ additur peccato quod quis incurrit ex eo quod aliam personam secundum se laedit. Ad secundum dicendum quod iniuriae illatae in viduas et pupillos magis exaggerantur, tum

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ripugna maggiormente i l male commesso contro la persona propria che non quello commesso contro un proprio congiunto. Quindi l' ingiuria inflitta a una persona con­ giunta è meno grave. 2 . Nella sacra Scrittura sono rimproverati maggiormente coloro che fanno dei torti agli orfani e alle vedove: per cui in Sir 35 [ 17] è detto che [il Signore] : non trascura la suppli­

ca de/l 'mfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Ma l ' orfano e la vedova non hanno congiunti. Quindi un peccato non è

aggravato dal fatto che esso colpisce persone congiunte. 3. La persona congiunta ha una volontà pro­ pria come la persona principale. Essa può dunque accettare volontariamente ciò che è contro la volontà della persona principale: come è evidente per l' adulterio, che piace alla moglie e dispiace al marito. Ma queste ingiu­ stizie sono peccato in quanto sono scambi contrari alla volontà. Quindi esse sono meno peccaminose. In contrario: in Dt 28 [32] così è presentata l 'aggravante di una minaccia: I tuoi figli e le

tue figle saranno consegnati a un popolo straniero sotto i tuoi occhi. Risposta: a parità di condizioni un torto è tanto

più grave quanto più sono numerosi quelli che lo subiscono. E più grave quindi percuotere chi comanda che percuotere una persona privata: poiché allora l' ingiuria ricade su tutto il popolo, come sopra si è notato. Ora, quando si fa un torto a una persona che è legata in qualche modo con un'altra, l' ingiuria colpisce due persone. Perciò, a parità di condizioni, il peccato è più grave. Tuttavia può capitare che per certe circostanze sia più grave il peccato commesso contro una persona priva di con­ giunti: o per la dignità della persona offesa, o per la gravità del danno arrecato. Soluzione delle difficoltà: l . L' ingiuria perpe­ trata contro un congiunto è meno nociva per una data persona che se fosse stata compiuta direttamente contro di essa: e da questo lato il peccato è minore. Thttavia ciò che costituisce un' ingiuria verso le persone congiunte si ag­ giunge al peccato in cui uno già incorre dan­ neggiando direttamente una data persona. 2. I torti fatti alle vedove e agli orfani sono ritenuti più gravi sia perché contrastano di più con la misericordia, sia perché l 'identico dan-

Q. 65, A. 4

Le altre ingiustizie commesse contro le persone

quia magis opponuntur misericordiae. Tum quia idem nocumentum huiusmodi personis inflictum est eis gravius, quia non habent rele­ vantem. Ad tertium dicendum quod per hoc quod uxor voluntarie consentit in adultelium, minoratur quidem peccatum et iniuria ex parte ipsius mulieris, gravius enim esset si adulter violenter eam opprimeret. Non tamen per hoc tollitur iniuria ex parte viri, quia uxor non habet potestatem sui cotporis, sed vir, ut dicitur l ad Cor. 7 [4]. Et eadem ratio est de similibus. De adulterio tamen, quod non solum iustitiae, sed etiam castitati opponitur, erit locus infra [q. 154 a 8] agendi in tractatu de temperantia.

QUAESTI0 66

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no è per essi più grave, non avendo essi una difesa. 3. Per il fatto che la donna acconsente all'adul­ terio il peccato e l'ingiuria vengono diminuiti nei suoi riguardi: infatti sarebbe più grave se l 'adultero la violentasse. Ciò però non elimina l'ingiuria verso il marito: poiché la moglie non è arbitra del proprio cmpo (l Cor 7,4). E lo stesso si dica per casi analoghi. Comunque dell' adulterio, che si contrappone non solo alla giustizia, ma anche alla castità, parleremo espressamente nel trattato sulla temperanza.

QUESTIONE 66

DE FURTO ET RAPINA

IL FURTO E LA RAPINA

Deinde considerandum est de peccatis iustitiae oppositis per quae i n fertur nocumentum proximo in rebus, scilicet de furto et rapina. Et circa hoc quaeruntur novem. Primo, utrum naturalis sit homini possessio exteriorum rerum. Secundo, utrum licitum sit quod aliquis rem aliquam possideat quasi propriam. Tertio, utrum furtum sit occulta acceptio rei alienae. Quarto, utrum rapina sit peccatum specie differens a furto. Quinto, utrum omne furtum sit peccatum. Sexto, utrum furtum sit pecca­ turo mortale. Septimo, utrum liceat furari in necessitate. Octavo, utrum omnis rapina sit peccatum mortale. Nono, utrum rapina sit gra­ vius peccatum quam furtum.

Passiamo ora a trattare di quei peccati contrari alla giustizia che danneggiano i l prossimo negli averi: cioè del furto e della rapina. - Sul­ l' argomento si pongono nove quesiti: l . n pos­ ses�o dei beni esterni è naturale per l' uomo? 2. E lecito possedere come propria una data cosa? 3. Il furto è l' usmpazione occulta di un bene altrui? 4. La rapina è un peccato specifi­ camente distinto dal furto? 5. Qualsiasi furto è ur peccato? 6. Il furto è un peccato mortale? 7. E lecito rubare in caso di necessità? 8. La rapina è sempre un peccato mortale? 9. La rapina è un peccato più grave del furto?

Articulus l

Articolo l n possesso dei beni esterni è naturale

Utrum naturalis sit homini possessio exteriorum rerum Ad primum sic proceditur. Videtur quod non sit naturalis homini possessio exteriorum rerum. 1 . Nullus enim debet sibi attribuere quod Dei est. Sed dominium omnium creaturarum est proprie Dei, secundum illud Ps. [23, 1 ], Domi­ ni est terra et cetera. Ergo non est naturalis homini rerum possessio. 2. Praeterea, Basilius, exponens verbum divitis dicentis, Luc. 1 2 [ 1 8] , congregabo omnia quae nata sunt mihi et bona mea, dicit [h. 6 In Luc. 1 2, 1 8] , dic mihi, quae tua ? Unde ea sumens in vitam tttlisti? Sed illa quae homo

per l'uomo?

Sembra di no. Infatti: l . Nessuno deve arrogarsi ciò che appartiene a Dio. Ma il dominio su tutte le creature è proprio di Dio, come è detto nel Sal 23 [1]: Del Signore è la terra ... Dunque il possesso delle cose non è naturale per l'uomo. 2. Basilio al ricco della parabola, il quale di­ ceva: Raccoglierò i miei raccolti e i miei beni (Le 1 2, 1 8), rivolge queste parole: «Dimmi, che cosa è tuo? Da dove l'hai preso per por­ tarlo nel mondo?». Ora, le cose che l' uomo possiede per natura le può giustamente chia-

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Ilfurto e la rapina

possidet naturaliter, potest aliquis convenien­ ter dicere esse sua. Ergo homo non possidet naturaliter exteriora bona. 3. Praeterea, sicut Ambrosius dicit, in libro De Trin. [ 1 , 1], dominus nomen est potestatis. Sed homo non habet potestatem super res exteriores, nihil enim potest circa earum na­ turam immutare. Ergo possessio exteriorum rerum non est homini naturalis. Sed contra est quod dicitur in Ps. [8,8], omnia subiecisti sub pedibus eius, scilicet hominis. Respondeo dicendum quod res exterior potest dupliciter considerari. Uno modo, quantum ad eius naturam, quae non subiacet humanae potestati, sed solum divinae, cui omnia ad nutum obediunt. Alio modo, quantum ad usum ipsius rei. Et sic habet homo naturale dominium exteriorum rerum, quia per rationem et volunta­ tem potest uti rebus exterioribus ad suam utilitatem, quasi propter se factis; semper enim imperfectiora sunt propter pertèctiora, ut supra [q. 64 a. l] habitum est. Et ex hac ratione philo­ sophus probat, in l Pol. [3,6], quod possessio rerum exteriorum est homini naturalis. Hoc autem naturale dominium super ceteras creatu­ ras, quod competit homini secundum rationem, in qua imago Dei consistit, manifestatur in ipsa hominis creatione, Gen. l [26], ubi dicitur, fa­ ciamus hominem ad similitudinem et imaginem nostram, et praesit piscibus maris, et cetera. Ad primum ergo dicendum quod Deus habet principale dominium omnium rerum. Et ipse secundum suam providentiam ordinavit res quasdam ad corporalem hominis sustentatio­ nem. Et propter hoc homo habet naturale rerum dominium quantum ad potestatem utendi ipsis. Ad secundum dicendum quod dives ille re­ prehenditur ex hoc quod putabat exteriora bona esse principaliter sua, quasi non accepis­ set ea ab alio, scilicet a Deo. Ad tertium dicendum quod ratio illa procedit de dominio exteriorum rerum quantum ad naturas ipsarum, quod quidem dominium soli Deo convenit, ut dictum est [in co.].

Q. 66, A. l

mare sue. Quindi l'uomo non possiede per natura i beni esteriori. 3. Come scrive Ambrogio, «padrone è un ter­ mine che indica potere». Ma l'uomo non ha un potere sulle cose esteme: egli infatti non può mutame la natura. Quindi il possesso delle cose esteme non è naturale per l'uomo. In contrario: nel Sal [8,8] è detto: Tutto hai posto sollo i suoi piedi, cioè dell'uomo. Risposta: le cose esterne possono essere con­ siderate sotto due aspetti. Primo, nella loro natura: la quale non sottostà al potere dell'uo­ mo, ma solo a quello di Dio, al cui cenno tutti gli esseri ubbidiscono. Secondo, nell'uso che di esse si può fare. E sotto questo aspetto l'uomo ha il dominio naturale sulle cose e­ sterne: poiché egli può usame a proprio van­ taggio mediante l'intelletto e la volontà, con­ siderandole come fatte per sé; gli esseri meno perfetti, infatti, sono per quelli più perfetti, come sopra si è notato. Ed è così che il Filo­ sofo dimostra che il possesso dei beni esterni è naturale per l'uomo. Ora, questo dominio naturale dell'uomo sulle altre creature in for­ za della ragione, che lo rende immagine di Dio, è espresso nella narrazione stessa della creazione (Gen 1 ,26): Facciamo l 'uomo a no­ stra immagine, a nostra somiglianza, e domi­ ni sui pesci del mare... Soluzione delle difficoltà: l. Dio ha il dominio radicale di tutte le cose. Ma egli stesso ha ordinato, secondo la sua provvidenza, che certe cose servano al sostentamento corporale dell'uomo. E così l'uomo ha il dominio natu­ rale su di esse per il potere che ha di servirsene. 2. n ricco della parabola viene biasimato per il fatto che riteneva radicalmente suoi i beni esterni, come se non li avesse ricevuti da altri, cioè da Dio. 3. La terza obiezione patte dal dominio sulle cose esterne quanto alla loro natura: dominio che appartiene soltanto a Dio, come si è visto.

Articolo 2

Articulus 2 Utrum liceat alieni rem aliquam quasi propriam possidere

È lecito a un uomo possedere

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod non liceat alicui rem aliquam quasi propriam possidere.

Sembra di no. Infatti: l. Tutto ciò che è contro il diritto naturale è illecito. Ora, secondo il diritto naturale tutto è

in proprio qualcosa?

Q. 66, A. 2

Ilfurto e la rapina

l . Omne enim quod est contra ius naturale est illicitum. Sed secundum ius naturale omnia sunt communia, cui quidem communitati con­ trariatur possessionum proprietas. Ergo illi­ citum est cuilibet homini appropriare sibi aliquam rem exteriorem. 2. Praeterea, Basilius dicit [h. 6 In Luc. 1 2, 1 8], exponens praedictum [Luc. 1 2, 1 8] verbum divitis, sicut qui, praeveniens ad spectacula,

prohiberet advenientes, sibi appropriando quod ad communem usum ordinatur; similes sunt divites qui communia, quae praeoccupa­ verunt, aestimant sua esse. Sed illicitum esset

praecludere viam aliis ad potiendum com­ munibus bonis. Ergo illicitum est appropriare sibi aliquam rem communem. 3. Praeterea, Ambrosius dicit [Sennones, senn. 81], et habetur in Decretis [Gratianus, Decretum, p. l , 47, can. 8], dist. 47, Can. sicut hi, pmprium nemo dicat quod est commune. Appellat autem communes res exteriores, sicut patet ex his quae praemittit. Ergo videtur illicitum esse quod aliquis appropriet sibi aliquam rem exteriorem. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De Haeres. [40], apostolici dicuntur qui se hoc

nomine armgantissime vocaverunt, eo quod in suam communionem non acciperent utentes coniugibus, et res pmprias possidentes, quales habet Catholica Ecclesia et monachos et cleri­ cos plurimos. Sed ideo isti haeretici sunt quoniam, se ab Ecclesia separantes, nullam spem putant eos habere qui utuntur his rebus, quibus ipsi carent. Est ergo erroneum dicere quod non liceat homini propria possidere. Respondeo dicendum quod circa rem exterio­ rem duo competunt homini. Quorum unum est potestas procurandi et dispensandi. Et quantum ad hoc licitum est quod homo propria possi­ deat. Et est etiam necessarium ad humanam vitam, propter tria. Piimo quidem, quia magis sollicitus est unusquisque ad procurandum aliquid quod sibi soli competit quam aliquid quod est commune omnium vel multorum, quia unusquisque, laborem fugiens, relinquit alteri id quod pertinet ad commune; sicut accidit in moltitudine ministrorum. Alio modo, quia ordinatius res humanae tractantur si singulis immineat propria cura alicuius rei procurandae, esset autem confusio si quilibet indistincte quaelibet procuraret. Tertio, quia per hoc magis pacificus status hominum conser­ vatur, dum unusquisque re sua contentus est.

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comune, e la proprietà privata è incompatibile con tale comunanza. Quindi è illecita l' appro­ priazione di qualsiasi bene esteriore. 2. Basilio afferma: «Quei ricchi che conside­ rano loro proprie le cose comuni di cui si sono impossessati per primi sono come uno che, arrivando per primo al teatro, impedisse agli altri di entrare, Iiservando a se stesso ciò che è destinato al godimento di tutti» . Ma precludere agli altri la via per impossessarsi dei beni comuni è cosa illecita. Quindi è ille­ cito appropriarsi di un bene comune. 3. Ambrogio, in un passo citato nel Decreto, afferma: «Nessuno dica proprio ciò che è comune». Ora, egli denomina comuni i beni esterni: come è evidente dal contesto. Perciò è illecito che uno si appropri di un bene esterno. In contrario: Agostino dice: «Si chiamano apostolici quegli uomini che con arroganza senza pari si sono così definiti perché non ricevono nella loro comunione gli sposati e coloro che possiedono in proprio, come fanno i monaci e non pochi chierici appartenenti alla Chiesa cattolica». Ma costoro sono eretici perché, separandosi dalla Chiesa, pensano che non abbiano alcuna speranza di salvezza quelli che fanno uso dei beni di cui essi si privano. Perciò è erroneo affermare che non è lecito all'uomo possedere in proptio. Risposta: due sono le facoltà dell' uomo ri­ spetto ai beni esterni. La prima è la facoltà di procurarli e di amministrarli. E da questo lato è lecito all' uomo possedere dei beni propri. Anzi, ciò è anche necessatio alla vita umana, per tre motivi. Primo, perché ciascuno è più sollecito nel procurare ciò che appartiene a lui esclusivamente che non quanto appartiene a tutti, o a più persone: poiché ognuno, per sfuggire la fatica, tende a lasciare ad altri quanto spetta al bene comune; come capita là dove ci sono molti servitori. Secondo, perché le cose umane si svolgono con più ordine se ciascuno ha il compito di provvedere a una certa cosa mediante la propria cura personale, mentre ci sarebbe disordine se tutti indistinta­ mente provvedessero a ogni singola cosa. Terzo, perché così è più garantita la pace tra gli uomini, accontentandosi ciascuno delle sue cose. Infatti vediamo che tra coloro che possiedono qualcosa in comune spesso na­ scono contese. - L'altra facoltà che ha l'uomo sulle cose esterne è il loro uso. Ora, da questo

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Ilfurto e la rapina

Unde videmus quod inter eos qui communiter et ex indiviso aliquid possident, frequentius iurgia oriuntur. - Aliud vero quod competit ho­ mini circa res exteriores est usus ipsarum. Et quantum ad hoc non debet homo habere res exteriores ut proprias, sed ut communes, ut scilicet de facili aliquis ea communicet in necessitates aliorum. Unde apostolus dicit, l ad Tllll. 6 [ 17-1 8], divitibus huius saeculi praeci­ pefacile tribuere, communicare. Ad primum ergo dicendum quod communitas rerum attribuitur iuri naturali, non quia ius natu­ rale dictet omnia esse possidenda communiter et nihil esse qua�i proprium possidendum, sed quia secundum ius naturale non est distinctio possessionum, sed magis secundum humanum condictum, quod pertinet ad ius positivum, ut supra [q. 57 aa. 2-3] dictum est. Unde proprie­ tas possessionum non est contra ius naturale; sed iuri naturali superadditur per adinventio­ nem rationis humanae. Ad secundum dicendum quod ille qui, praeve­ niens ad spectacula, praepararet aliis viam, non illicite ageret, sed ex hoc illicite agit quod alios prohibet. Et similiter dives non illicite agit si, praeoccupans possessionem rei quae a princi­ pio erat communis, aliis communicat, peccat autem si alios ab usu illius rei indiscrete prohi­ beat. Unde Basilius ibidem [h. 6 In Luc. 12,18] dicit, cur tu abundas, il/e vero mendicar, nisi ut tu bonae dispensationis merita consequaris, i!le vero patientiae praemiis coronetur? Ad tertium dicendum quod cum dicit Ambro­ sius [Sermones, serm. 8 1 ], nemo proprium dicat quod est commune, loquitur de proprietate quantum ad usum. Unde subdit [ibid.], plus quam sl{/ficeret sumptui, violenter obtenttun est.

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lato l'uomo non deve considerare le cose co­ me esclusivamente proprie, ma come comuni: in modo cioè da metterle facilmente a dispo­ sizione nelle altrui necessità. Per cui Paolo in l Tm 6 [ 17] dice: Ai ricchi di questo mondo raccomanda di fare del bene, di essere pronti a dare. Soluzione delle difficoltà: l . La comunanza dei beni viene attribuita al diritto naturale non perché questo imponga di possedere tutto in comune e nulla in privato, ma perché la di­ stinzione delle proprietà non dipende dal di­ ritto nanrrale, bensì da una convenzione uma­ na la quale rientra nel diritto positivo, come si è già notato. Per cui il possesso privato non è contro il diritto naturale, ma è un suo sviluppo dovuto alla ragione umana. 2. Chi, arrivando per primo al teatro, prepa­ rasse la strada per gli altri, non agirebbe in maniera illecita: agirebbe invece illecitamente se escludesse gli altri. Parimenti il ricco non agisce in maniera illecita se, impossessandosi per primo di un bene che prima era comune, ne fa partecipi gli altri; pecca invece se irra­ gionevolmente ne impedisce l'uso agli altri. Da cui le parole di Basilio: «Perché tu abbon­ di, e l'altro è invece ridotto all'elemosina, se non perché tu ti faccia dei meriti con l' elargi­ zione, mentre l'altro attende di essere corona­ to col premio della pazienza?». 3. Le parole di Ambrogio: «Nessuno dica proprio ciò che è comune», si riferiscono all'uso della proprietà. Leggiamo infatti subi­ to dopo: «Quanto sopravanza alla spesa è frutto di rapina».

Articolo 3

Articulus 3 Utrum sit de ratione furti occulte accipere rem alienam

D furto consiste nel prendere di nascosto

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod non sit de ratione furti occulte accipere rem alienam. l . Illud enim quod diminuit peccatum non videtur ad rationem peccati pertinere. Sed in occulto peccare pertinet ad diminutionem peccati, sicut e contrario ad exaggerandum peccatum quorundam dicitur Isaiae 3 [9], peccatum suum quasi Sodoma praedicave­ runt, nec absconderunt. Ergo non est de ratione furti occulta acceptio rei alienae.

Sembra di no. Infatti: l. Ciò che sminuisce il peccato non può costi­ tuire l'essenza del peccato. Ora, peccare di nascosto sminuisce il peccato, mentre per sot­ tolineare la gravità del peccato di certuni è detto in fs 3 [9] : Essi ostentano il peccato come Sodoma: non lo nascondono neppure. Perciò il prendere di nascosto la roba altrui non rientra nell'essenza del furto. 2. Ambrogio afferma, in un passo riportato

la roba altrui?

Q. 66, A. 3

Ilfurto e la rapina

2. Praeterea, Ambrosius dicit [Sermones, serm. 8 1 ] , et habetur in Decretis, dist. 47 [Gratianus, Decretum, p. l , d. 47, can. 8],

neque minus est criminis habenti tollere quam, cum possis et abundas, indigentibus denegare. Ergo sicut furtum consistit in ac­ ceptione rei alienae, ita et i n detentione ipsius. 3. Praeterea, homo potest furtim ab alio ac­ cipere etiam quod suum est puta rem quam apud alium deposuit, vel quae est ab eo iniuste ablata. Non est ergo de ratione furti quod sit occulta acceptio rei alienae. Sed contra est quod Isidorus dicit, in libro Etymol. [ 1 0 ad litt. F], fttr a furvo dictus est,

idest a fusco, nam noctis utitur tempore.

Respondeo dicendum quod ad rationem futti tria concurrunt. Quorum primum convenit sibi secundum quod contrariatur iustitiae, quae unicuique tribuit quod suum est. Et ex hoc competit ei quod usurpat alienum. Se­ cundum vero pertinet ad rationem furti prout distinguitur a peccatis quae sunt contra per­ sonam, sicut ab homicidio et adulterio. Et se­ cundum hoc competit furto quod sit circa rem possessam. Si quis enim accipiat id quod est alterius non quasi possessio, sed quasi pars, sicut si amputet membrum; vel sicut persona coniuncta, ut si auferat tìliam vel uxorem, non habet proprie rationem furti. Tertia dif­ ferentia est quae complet furti rationem, ut scilicet occulte usurpetur alienum. Et secun­ dum hoc propria ratio furti est ut sit occulta acceptio rei alienae. Ad primum ergo dicendum quod occultatio quandoque quidem est causa peccati, puta cum quis utitur occultatione ad peccandum, sicut accidit in fraude et dolo. Et hoc modo non diminuit, sed constituit speciem peccati. Et ita est in furto. Alio modo occultatio est simplex circumstantia peccati. Et sic diminuit peccatum, tum quia est signum verecundiae; tum quia tollit scandalum. Ad secundum dicendum quod detinere id quod alteri debetur eandem rationem nocu­ menti habet cum acceptione. Et ideo sub iniusta acceptione intelligitur etiam iniusta detentio. Ad tertium dicendum quod nihil prohibet id quod est simpliciter unius, secundum quid esse alterius. Sicut res deposita est simpliciter quidem deponentis, sed est eius apud quem

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dal Decreto: «Non sei meno colpevole nel to­ gliere ad altri quanto loro appartiene che nel rifiutare qualcosa agli indigenti, mentre potre­ sti aiutarli e sei nell' abbondanza». Quindi il furto non consiste solo nel prendere la roba altrui, ma anche nel ritenerla. 3 . Una persona può togliere di nascosto a un'altra anche la roba propria: p. es. la roba depositata, oppure quella da lei presa ingiu­ stamente. Perciò non è essenziale al furto il prendere la roba altrui di nascosto. In contrario: lsidoro dice: «ll termine fur [la­ dro] deriva da furvum, ossia jìtscum [oscuri­ tà] : poiché il ladro opera di notte». Risposta: a costituire il furto concorrono tre elementi. Il primo di essi è l 'opposizione alla giustizia, che dà a ciascuno il suo. E da questo lato abbiamo l'usurpazione della roba altrui. Il secondo elemento viene a distinguere il furto dai peccati contro le persone, quali l'o­ micidio e l' adulterio. E da questo lato il furto ha per oggetto la proprietà altrui . Se i nfatti uno toglie quanto appartiene ad altri non come proprietà, ma o come parte, p. es. nel­ l' amputazione di un membro, oppure come persona congiunta, p. es. nel ratto della mo­ glie o di una figlia, allora non si ha propria­ mente un furto. C ' è poi un terzo elemento differenziale che completa la nozione del furto, che cioè si asporti la roba altrui di na­ scosto. E così il furto è propriamente «l'oc­ culta asportazione della roba altrui». Soluzione delle difficoltà: l. n nascondimento in certi casi è una causa del peccato: p. es. quando uno si nasconde per peccare, come avviene nella frode e nell'inganno. E in tal caso esso non diminuisce il peccato, ma ne costituisce la specie. E così avviene nel furto. Invece in altri casi il nascondimento è una semplice circostanza del peccato. E allora diminuisce il peccato: sia perché è un segno di pudore, sia perché toglie lo scandalo. 2. La detenzione abusiva della roba altrui pre­ senta lo stesso danno che la sua asportazione. Perciò nell' asportazione ingiusta è inclusa anche l'ingiusta detenzione. 3. Nulla impedisce che una cosa che in senso assoluto è di uno, in senso relativo sia di un altro. La cosa depositata, p. es., in senso asso­ luto è del depositante, ma rispetto alla sua conservazione è di chi l'ha in custodia. E così pure la refurtiva di una rapina è di chi l ' ha

663

Ilfurto e la rapina

Q. 66, A. 3

deponitur quantum ad custodiam. Et id quod est per rapinam ablatum est rapientis, non simpliciter, sed quantum ad detentionem.

rapinata non in senso assoluto, ma in quanto egli la detiene.

Articulus 4 Utrum furtum et rapina sint peccata differentia specie

Articolo 4 Il furto e la rapina sono peccati specificamente distinti?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod furtum et rapina non sint peccata differentia specie. l . Furtum enim et rapina diftèrunt secundum occultum et manifestum, furtum enim importat occultam acceptionem, rapina vero violentam et manifestam. Sed in aliis generi­ bus peccatorum occultum et manifestum non diversificant speciem. Ergo furtum et rapina non sunt peccata specie diversa. 2. Praeterea, moralia recipiunt speciem a fine, ut supra [I-ll q. l a. 3; q. 1 8 a. 6] dictum est. Sed furtum et rapina ordinantur ad eundem finem, scilicet ad habendum aliena. Ergo non diftèrunt specie. 3. Praeterea, sicut rapitur aliquid ad possiden­ dum, ita rapitur mulier ad delectandum, unde et Isidorus dicit, in libro Etymol. [ 1 0, ad litt. R], quod raptor dicitur corrnptor, et rapta compta. Sed raptus dicitur sive mulier auferatur pu­ blice, sive occulte. Ergo et res possessa rapi dicitur sive occulte, sive publice rapiatur. Ergo non diftèrunt furtum et rapina. Sed contra est quod philosophus, in 5 Ethic. [2, 1 3] , distinguit furtum a rapina, ponens furtum occultum, rapinam vero violentam. Respondeo dicendum quod furtum et rapina sunt vitia iustitiae opposita, inquantum aliquis alter facit i niustum. Nullus autem patitur iniustum volens, ut probatur in 5 Ethic. [9, 1]. Et ideo furtum et rapina ex hoc habent ratio­ nem peccati quod acceptio est involuntaria ex parte eius cui aliquid subtrahitur. Involunta­ rium autem dupliciter dicitur, scilicet per igno­ rantiam, et violentiam, ut habetur in 3 Ethic. [ 1 ,3]. Et ideo aliam rationem peccati habet rapina, et aliam furtum. Et propter hoc dif­ ferunt specie. Ad primum ergo dicendum quod in aliis gene­ ribus peccatorum non attenditur ratio peccati ex aliquo involuntario, sicut attenditur in peccatis oppositis iustitiae. Et ideo ubi occurrit diversa ratio involuntarii, est diversa species peccati.

Sembra di no. Infatti: l . Il furto e la rapina si distinguono tra loro come un peccato occulto si distingue da un peccato manifesto: poiché il furto dice usur­ pazione occulta, mentre la rapina è violenta e palese. Ora, negli altri generi di peccati il fatto di essere manifesto non fa mutare la specie. Quindi il furto e la rapina non sono peccati specificamente distinti. 2. Le azioni morali ricevono la specie dal fine, come sopra si è visto. Ma il furto e la rapina mi­ rano allo stesso fine, cioè al possesso dei beni altrui. Quindi non differiscono nella specie. 3. Si rapisce una cosa per possederla, come si rapisce una donna per abusarne: infatti lsido­ ro scrive che «rapitore suona corruttore, e ra­ pita equivale a corrotta». Ora, si parla di rapi­ mento sia che la donna venga presa pubblica­ mente, sia che venga presa di nascosto. Perciò anche una cosa può essere detta rapita sia che venga presa di nascosto, sia che venga presa pubblicamente. Quindi tra il furto e la rapina non c'è differenza. In contrario: il Filosofo distingue il furto dalla rapina, dicendo che il furto è occulto, mentre la rapina è violenta. Risposta: il furto e la rapina sono vizi contrari alla giustizia, in quanto con essi si compie un'ingiustizia ai danni di altri. Ora, secondo Aristotele, «uno non soffre un' ingiustizia che contro la propria volontà». Quindi il furto e la rapina sono peccati in quanto la sottrazione è contro la volontà del proprietario. Ma una cosa può essere involontaria in due modi, come spiega Aristotele, cioè per l'ignoranza o per la violenza. Quindi la rapina e i l furto sono peccaminosi per motivi diversi. E così sono specificamente distinti. Soluzione delle difficoltà: l . Negli altri generi di peccati la malizia non dipende dai vari tipi di involontarietà, come invece accade nei peccati contrari alla giustizia. Perciò dove si trova questa diversità, là si trova anche una diversità specifica del peccato.

Ilfurto e la rapina

Q. 66, A. 4

Ad secundum dicendum quod finis remotus est idem rapinae et furti, sed hoc non sufficit ad identitatem speciei, quia est diversitas in fi­ nibus proximis. Raptor enim vult per propriam potestatem obtinere, fur vero per astutiam. Ad tertium dicendum quod raptus mulieris non potest esse occultus ex parte mulieris quae rapitur. Et ideo etiam si sit occultus ex parte aliorum, quibus rapitur, adhuc remanet ratio rapinae ex parte mulieris, cui violentia infertur. Articulus

5

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2. n fine remoto è identico per la rapina e per

il furto: ma ciò non basta per un' identità spe­ cifica, poiché c'è una diversità nei fini imme­ diati, o prossimi. Infatti il rapinatore tenta di ottenere lo scopo con la forza, il ladro invece con l' astuzia. 3. n ratto di una donna non può essere occulto per la donna che viene rapita. Perciò, anche se è occulto per gli altri, rimane sempre una ra­ pina per la donna a cui si fa violenza. Articolo

5

Utrurn furturn sernper sit peccaturn

Il furto è sempre un peccato?

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod furtum non semper sit peccatum. l . Nullum enim peccatum cadit sub praecepto divino, dicitur enim Eccli. 15 [21 ], nemini man­ davit impie agere. Sed Deus invenitur prae­ cepisse furtum, dicitur enim Ex. 1 2 [35-36],fe­

Sembra di no. Infatti: l . Nessun peccato può essere oggetto di un comando divino, i nfatti è detto in Sir 15 [21]:

cerunt filii Israel sicut praeceperat Dominus Moysi, et expoliaverunt Aegyptios. Ergo fur­

tum non semper est peccatum. 2. Praeterea, ille qui invenit rem non suam, si eam accipiat, videtur furturn committere, quia accipit rem alienam. Sed hoc videtur esse licitum secundum naturalem aequitatem; ut iuristae dicunt. Ergo videtur quod furtum non semper sit peccatum. 3 . Praeterea, ille qui accipit rem suam non vi­ detur peccare, cum non agat contra iustitiam, cuius aequalitatem non tollit. Sed furtum com­ mittitur etiam si aliquis rem suam occulte acci­ piat ab altero detentam vel custoditam. Ergo videtur quod furtum non semper sit peccatum. Sed contra est quod dicitur Ex. 20 [ 1 5], non

furtumfacies. Respondeo dicendum quod si quis consideret furti rationem, duas rationes peccati in eo in­ veniet. Primo quidem, propter contrarietatem ad iustitiam, quae reddit unicuique quod suum est. Et sic furtum iustitiae opponitur, inquan­ tum furtum est acceptio rei alienae. Secundo, ratione doli seu fraudis, quam fur committit occulte et qua�i ex insidiis rem alienam usur­ pando. Unde manifestum est quod omne fur­ tum est peccatum. Ad primum ergo dicendum quod accipere rem alienam vel occulte vel manifeste auctoritate iudicis hoc decernentis, non est furtum, quia iam fit sibi debitum per hoc quod sententialiter sibi est adiudicatum. Unde multo minus

Non ha comandato a nessuno di agire empia­ mente. Ora, si legge che Dio comandò un furto, poiché in Es 1 2 [35] è detto: Gli Israeliti ese­ guirono l'ordine di Mosè, e spogliarono gli Egiziani. Quindi il furto non sempre è peccato. 2. Chi trova una cosa non sua e se ne appro­

pria, commette un furto: poiché si appropria di una cosa altrui. Eppure ciò è conforme al­ I' equità naturale, come insegnano i giuristi. Perciò il furto non sempre è peccato. 3. Chi prende una cosa sua non pecca, poiché non agisce contro la giustizia, di cui non com­ promette l' uguaglianza. Ora, si commette un furto anche prendendo da un altro la roba a lui data in custodia o in deposito. Quindi il furto non è sempre un peccato. In contrario: in Es 20 [ 15] è detto: Non ruberai. Risposta: se uno considera la natura del furto, scorge in esso due aspetti peccaminosi. Pri­ mo, la contrarietà alla giustizia, che mira a rendere a ciascuno il suo. E così il furto è in contrasto con la giustizia, in quanto appro­ priazione della roba altrui. Secondo, l 'ingan­ no o la frode che il ladro commette usurpando la roba altrui di nascosto e come servendosi di insidie. Perciò è evidente che qualsiasi furto è un peccato. Soluzione delle difficoltà: l . Prendere la roba d ' altri, sia apertamente che di nascosto, con l'autorizzazione del giudice che dispone in tal modo non è un furto: poiché la sentenza fa sì che quella data cosa ci appartenga. Perciò molto meno fu un furto la spogliazione degli Egiziani da parte dei figli d'Israele fatta per comando di Dio, a motivo delle angherie da

Ilfurto e la rapina

665

furtum fuit quod filii lsrael tulerunt spolia Aegyptiorum de praecepto Domini hoc decer­ nentis pro afflictionibus quibus Aegyptii eos sine causa afflixerant. Et ideo signanter dicitur Sap. 10 [ 1 9], iusti tulerunt spolia impiontm. Ad secundum dicendum quod circa res inventas est distinguendum. Quaedam enim sunt quae nunquam fuerunt in bonis alicuius, sicut lapilli et gemmae quae inveniuntur in littore maris, et talia occupanti conceduntur [cf. Institut. 2, 1 , 1 8]. Et eadem ratio est de thesauris antiquo tempore sub terra occultatis, quorum non est aliquis possessor, nisi quod secundum leges civiles tenetur inventor medietatem dare domino agri, si in alieno agro invenerit [cf. Institut. 2, l ,39]; propter quod in parabola Evangelii dicitur, Matth. 1 3 [44], de inventore thesauri absconditi in agm, quod emit agrum, quasi ut haberet ius possidendi totum thesaurum. Quaedam vero res inventae fuerunt de propinquo in alicuius bonis. Et tunc, si quis eas accipiat non animo retinendi, sed animo restituendi domino, qui eas pro derelictis non habet, non committit furtum. Et similiter si pro derelictis habeantur, et hoc credat inventar, licet sibi retineat, non committit furtum [cf. Institut. 2, 1 ,47]. Alias autem com­ mittitur peccatum furti [cf. Institut. 2, l ,48] . Unde Augustinus dicit, i n quadam homilia [Serm. ad pop. 1 78, 8], et habetur 14, qu. 5 [Gratianus, Decretum, p. 2, causa 14, q. 5, can. 6],

si quid invenisti et non reddidisti, rapuisti. Ad tertium dicendum quod ille qui furtim ac­ cipit rem suam apud alium depositam, gravat depositarium, quia tenetur ad restituendum, vel ad ostendendum se esse innoxium. Unde manifestum est quod peccat, et tenetur ad rele­ vandum gravamen depositarii. Qui vero furtim accipit rem suam apud alium iniuste detentam, peccat quidem, non quia gravet eum qui detinet, et ideo non tenetur ad restituendum aliquid vel ad recompensandum, sed peccat contra communem iustitiam, dum ipse sibi usurpat suae rei iudicium, iuris ordine praeter­ misso. Et ideo tenetur Deo satisfacere, et dare operam ut scandalum proximorum, si inde exortum fuerit, sedenrr. Articulus 6

Utrum furtum sit peccatum mortale Ad sextum sic proceditur. Videnrr quod furtum non sit peccatum mortale.

Q. 66, A. 5

essi subite senza motivo. E perciò in modo significativo è detto in Sap 1 0 [ 1 9] : I giusti

spogliarono gli empi. 2. A proposito delle cose trovate bisogna di­ stinguere. Ce ne sono infatti alcune che non furono mai possedute da nessuno, come le pietre preziose e le perle che si trovano sul lido del mare: e queste sono del primo occu­ pante. E la stessa cosa vale per i tesori nasco­ sti sotto tetTa da tempo immemorabile, e che non hanno un padrone: a meno che le leggi civili non impongano allo scopritore di darne la metà al padrone del campo, se uno ha sco­ perto il tesoro nel campo di un altro. Per cui nella parabola evangelica (Mt 1 3,44) è detto che lo scopritore del tesoro nascosto nel campo comprò il campo, per avere il diritto di possedere intero il tesoro. Ci sono i nvece delle cose trovate che appartenevano di recen­ te a qualcuno. E allora se uno le prende non per ritenerle, ma per restituirle al padrone che non le considera come abbandonate, non commette un furto. Parimenti non commette un furto se le ritiene qualora si presuma che siano abbandonate, e chi le trova le ritenga tali. Altrimenti si commette un peccato di furto. Di qui le parole di Agostino ripetute dal Decreto: «Se hai trovato qualcosa e non l'hai restituita, l'hai rubata». 3. Chi prende di nascosto la roba propria depositata presso un'altra persona fa un torto al depositario: poiché costui è tenuto a resti­ tuire, o a giustificare la propria innocenza. Per cui quel tale commette peccato; ed è tenuto a riparare il torto fatto al depositario. Chi invece prende la roba propria a chi la detiene ingiu­ stamente pecca non già perché fa un torto a costui - per cui non è tenuto a restituire o a compensare nessuno -, ma pecca contro la giustizia legale, in quanto si arroga il giudizio sui propri beni scavalcando le regole del dirit­ to. Perciò egli è tenuto a dare soddisfazione a Dio, e a sedare lo scandalo che eventualmente avesse potuto dare al prossimo.

Articolo 6 n furto è un peccato mortale? Sembra di no. Infatti: l. In Pr 6 [30] è detto:

Non è una gran colpa

Q. 66, A. 6

Ilfurto e la rapina

l . Dicitur enim Prov. 6 [30], non grandis est culpae cum quis furatus fuerit. Sed omne

peccatum mortale est grandis culpae. Ergo furtum non est peccatum mortale. 2. Praeterea, peccato mortali mortis poena debetur. Sed pro furto non infligitur in lege poena mortis, sed solum poena damni, se­ cundum illud Ex. 22 [ 1 ] , si quis furatus fuerit

bovem aut ovem, quinque boves pro uno bove restituet, et quatuor oves pro una ove. Ergo

furtum non est peccatum mortale. 3. Praeterea, furtum potest committi in parvis rebus, sicut et in magnis. Sed inconveniens videtur quod pro furto alicuius parvae rei, puta unius acus vel unius pennae, aliquis puniatur morte aetema Ergo furtum non est peccatum mortale. Sed contra est quod nullus damnatur secun­ dum divinum iudicium nisi pro peccato mor­ tali. Condemnatur autem aliquis pro furto, se­ cundum illud Zach. 5 [3] , haec est maledictio

quae egreditur superfaciem omnis tenue, quia omnis fur sicut ibi scriptum est condemnatur.

666

se uno ha rubato. Ma ogni peccato mortale è una grande colpa. Quindi il furto non è un peccato mortale. 2. Al peccato mortale è dovuta la pena capita­ le. Invece per il furto non è inflitta la pena di morte, ma solo un' ammenda, come è detto in Es 22 [ l] : Se un uomo ruba un bue o una

pecora, restituirà cinque buoi per il bue e quattro pecore per la pecora. Perciò il furto non è un peccato mortale. Si può commettere i l furto in cose piccole come i n cose grandi. Ora, è inconcepibile che uno venga punito con la morte eterna per il furto di una piccola cosa, come un ago o una penna. Quindi il furto non è un peccato mortale. In contrario : nessuno viene condannato da Dio se non per un peccato mortale. Ma ci sono alcuni che sono così condannati per il furto, secondo le parole di Zc 5 [ 3] : Questa è

3.

la maledizione che si diffonde su tutta la terra: perché ogni ladro, come ivi sta scritto, sarà condannato. Quindi il furto è un peccato

Ergo furtum est peccatum mortale. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 59 a. 4; 1-11 q. 72 a. 5] habitum est, peccatum mortale est quod contrariatur caritati, secun­ dum quam est spiritualis animae vita Caritas autem consistit quidem principaliter in di­ lectione Dei, secundario vero i n dilectione proxirni, ad quam pertinet ut proximo bonum velimus et operemur. Per furtum autem homo infert nocumentum proximo in suis rebus, et si passim hornines sibi invicem furarentur, periret humana societas. Unde furtum, tanquam con­ trarium caritati, est peccatum mortale. Ad primum ergo dicendum quod furtum di­ citur non esse grandis culpae duplici ratione. Primo quidem, propter necessitatem inducen­ tem ad furandum, quae dirninuit vel totaliter tollit culpam, ut i nfra [a. 7] patebit. Unde subdit, furatur enim ut esurientem impleat animam. Alio modo dicitur furtum non esse grandis culpae per comparationem ad reatum adulterii, quod punitur morte. Unde subditur [3 1 -32] de fure quod deprehensus reddet

mortale. Risposta: come sopra si è visto, un peccato è mortale se è incompatibile con la carità, da cui dipende la vita spirituale dell'anima. Ora, la carità consiste principalmente nell' amore di Dio e secondariamente nell ' amore del prossimo, il quale esige che al prossimo si voglia e si faccia del bene. Nel furto invece si danneggia il prossimo nei suoi beni; e se gli u o m i n i con frequenza si derubassero a v icenda verrebbe distrutta la convivenza umana. Perciò il furto, essendo incompatibile con la carità, è un peccato mortale. Soluzione delle difficoltà: l. Si dice che i l furto non è una grande colpa per due motivi. Primo, per la necessità che spinge a rubare, e che diminuisce o toglie del tutto la colpa, co­ me vedremo. Il testo citato infatti così con­ tinua: Poiché uno ruba per saziare la fame. Secondo, si dice che il furto non è una grande colpa in confronto ali' adulterio, che è punito con la pena di morte [Lv 20, 1 0; Dt 22,22]. Perciò si aggiunge [3 1] che il ladro se è preso

septuplum, qui autem adulter est, perder animam suam.

dovrà restituire sette volte, ma l 'adultero perderà la sua vita. 2. I castighi della vita presente sono più medi­

Ad secundum dicendum quod poenae praesen­ tis vitae magis sunt medicinales quam retributi­ vae, retributio enim reservatur divino iudicio, quod est secundum veritatem in peccantes.

cine che sanzioni: la sanzione infatti è riserva­ ta al giudizio di Dio, che colpisce i peccatori secondo verità [Rm 2,2]. Perciò nelle senten-

Ilfurto e la rapina

667

Et ideo secundum iudicium praesentis vitae non pro quolibet peccato mortali infligitur poena mortis, sed solum pro illis quae inferunt irrepa­ rabile nocumentum, vel etiam pro illis quae habent aliquam horribilem deforrnitatem. Et ideo pro furto, quod reparabile dmnnum infert, non infligitur secundum praesens iudicium poe­ na mortis, nisi furtum aggravetur per aliquam gravem circumstantiam, sicut patet de sacri­ legio, quod est furtum rei sacrae, et de peculatu, quod est furtum rei communis, ut patet per Augustinum, Super loan. [tract. 50 super 12,6]; et de plagio, quod est furtum hominis, pro quo quis morte punitur, ut patet Ex. 2 1 [ 1 6]. Ad tertium dicendum quod illud quod modi­ cum est ratio apprehendit quasi nihil. Et ideo in his quae minima sunt homo non reputat sibi nocumentum inferri, et ille qui accipit potest praesumere hoc non esse contra voluntatem eius cuius est res. Et pro tanto si quis furtive huiusmodi res minimas accipiat, potest excusari a peccato mortali. Si tamen habeat animum fu­ randi et interendi nocumentum proximo, etiam in talibus minimis potest esse peccatum morta­ le, sicut et in solo cogitatu per consensum. Articulus 7

Utrum Iiceat alicui furari propter necessitatem Ad septimum sic proceditur. Videtur quod non liceat alicui furari propter necessitatem. l . Non enim imponitur poenitentia nisi peccan­ ti. Sed extra, De furtis [Decretai. Gregor. IX, 5, 1 8,3], dicitur, si quis per necessitatem famis

aut nuditatis furatus fuerit cibaria, vestem vel pecus, poeniteat hebdomadas tres. Ergo non licet furari propter necessitatem. 2. Praeterea, philosophus dicit, i n 2 Ethic . [6, 1 8] , quod quaedam confestim nominata convoluta sunt cum malitia, inter quae ponit furtum. Sed illud quod est secundum se ma­ lum non potest propter aliquem bonum finem bonum fieri. Ergo non potest aliquis licite fu­ rari ut necessitati suae subveniat. 3. Praeterea, homo debet diligere proximum sicut seipsum. Sed non licet furari ad hoc quod aliquis per eleemosynam proximo sub­ veniat; ut Augustinus dicit, in libro Contra mendacium [7]. Ergo etiam non licet furari ad subveniendum proptiae necessitati. Sed contra est quod in necessitate sunt omnia

Q. 66, A. 6

ze di questa vita non si infligge la pena di morte per tutti i peccati mortali, ma solo per quelli che arrecano un danno irreparabile, o che presentano un'orribile deformità. Quindi per il furto, che arreca un danno riparabile, non viene inflitta in questo mondo la pena di morte, a meno che esso non sia aggravato da qualche grave circostanza: come è evidente nel sacrilegio, che è il furto di cose sacre, e nel peculato, che è il furto dei beni comuni, come risulta da Agostino; e ancora nel plagio, che è il furto di un uomo, punito in Es 2 1 [ 1 6] con la pena di morte. 3 . Le cose minime sono considerate come cose da nulla. Perciò nelle cose minime l'uomo non ritiene di subire un danno; e colui che le prende può presumere che ciò non sia contro la volontà del padrone. Se quindi uno ruba queste piccole cose può essere scusato dal peccato mortale. Se però uno avesse l'in­ tenzione di rubare e di fare un danno al pros­ simo, allora anche i n queste piccole cose ci potrebbe essere un peccato mortale: come ci può essere anche nel solo pensiero attraverso il consenso. ,

Articolo 7

E lecito rubare per necessità? Sembra di no. Intàtti: l . Una penitenza può essere imposta soltanto per un peccato. Ora, nelle Decretali si legge: «Se uno, costretto dalla fame o dalla nudità, avrà rubato cibi, vesti o animali, tàccia peni­ tenza per tre settimane». Quindi non è lecito rubare per necessità. 2. Il Filosofo scrive che «Ci sono delle cose che nel nome stesso implicano la malizia>>, e tra queste nomina il furto. Ma ciò che è male in se stesso non può divenire buono per un fine onesto. Perciò nessuno può rubare lecita­ mente per soddisfare alla propria necessità. 3. Un uomo è tenuto ad amare il prossimo come se stesso. Ora, come dice Agostino, non è lecito rubare per soccorrere il prossimo con l ' elemosina. Quindi non è neppure lecito rubare per provvedere alla propria necessità. In contrario: in caso di necessità tutto è comu­ ne. Quindi non è peccato se uno prende la ro­ ba altrui, resa comune per lui dalla necessità. Risposta: le disposizioni del diritto umano non possono mai derogare al diritto naturale,

Q. 66, A. 7

Ilfurto e la rapina

communia. Et ita non videtur esse peccatum si aliquis rem alterius accipiat, propter necessi­ tatem sibi factam communem. Respondeo dicendum quod ea quae sunt iuris humani non possunt derogare iuri naturali vel iuri divino. Secundum autem naturalem ordi­ nem ex divina providentia institutum, res infe­ riores sunt ordinatae ad hoc quod ex h i s subveniatur hominum necessitati. Et ideo per rerum divisionem et appropriationem, de iure humano procedentern, non impeditur quin ho­ minis necessitati sit subveniendum ex huiusmo­ di rebus. Et ideo res quas aliqui superabun­ danter habent, ex naturali iure dcbentur paupe­ rum sustentati oni. Unde Ambrosius dicit [Sermones, serm. 8 1], et habetur in Decretis, dist. 47 [Gratianus, Decretum, p. l , d. 47, can. 8], esurientium panis est quem tu detines;

nudornm indumentum est quod tu recludis; mi­ serorum redemptio et absolutio est pecunia quam tu in terram defodis. Sed quia multi sunt

necessitatem patientes, et non potest ex eadem re omnibus subveniri, committitur arbitrio unius­ cuiusque dispensatio propriarum rerum, ut ex eis subveniat necessitatem patientibus. Si tamen adeo sit urgens et evidens necessitas ut manife­ stum sit instanti necessitati de rebus occurrenti­ bus esse subveniendum, puta cum imminet per­ sonae periculum et aliter subveniri non potest; tunc licite potest aliquis ex rebus alienis suae necessitati subvenire, sive manifeste sive occul­ te sublatis. Nec hoc proprie habet rationem furti vel rapinae. Ad primum ergo dicendum quod decretalis illa loquitur in casu in quo non est urgens necessitas. Ad secundum dicendum quod uti re aliena occulte accepta in casu necessitatis extremae non habet rationem furti, proprie loquendo. Quia per talem necessitatem efficitur suum illud quod quis accipit ad sustentandam propriam vitam. Ad tertium dicendum quod in casu similis neces­ sitatis etiam potest aliquis occulte rem alienam accipere ut subveniat proximo sic indigenti. Articulus 8 Utrum rapina possit fieri sine peccato Ad octavum sic proceditur. Videtur quod ra­ pina possit fieri sine peccato. l . Praeda enim per violentiam accipitur; quod videtur ad rationem rapinae pertinere, secun-

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o alla legge di Dio. Ora, secondo l' ordine naturale, determinato dalla provvidenza divi­ na, gli esseri inferiori sono destinati a sovve­ nire alle necessità degli uomini. Perciò l a spartizione e il possesso delle cose, che deriva dal diritto umano, non può togliere l'obbligo di provvedere con esse alle necessità dell' uo­ mo. Quindi le cose che uno ha in sovrappiù, per diritto naturale devono servire al sosten­ tamento dei poveri. Per cui Ambrogio, in un testo riferito dal Decreto, afferma: «Il pane che tu hai messo da parte è degli affamati; le vesti che hai riposto sono degli ignudi; il da­ naro che na>. Ora la giustizia, come sopra si è detto, non ha per oggetto se stessi, ma gli altri. Quindi il giudi­ ce deve decidere tra due individui: il che av­ viene quando l'uno è attore e l'altro imputato. Perciò nelle cause criminali un giudice non può pronunziare una condanna senza l' accu­ sa; conformemente a At 25 [ 1 6] : Non è usan­

za dei Romani consegnare una persona prima che l 'accusato sia stato messo a confronto con i suoi accusatori e possa aver modo di di­ fendersi dall 'accusa.

Soluzione delle difficoltà: l . Nel suo giudizio Dio ha come accusatore la coscienza del colpevole, come è detto in Rm 2 [ 1 5]: i loro

quantum ad ipsum, secundum illud Gen. 4 [ l 0] vox sanguinis fratris tui Abel clamat ad

stessi ragionamenti che ora li accusano e ora li difendono. O anche ha dinanzi a sé l ' evi­ denza del fatto, come è detto in Gen 4 [ 1 0]: La voce del sangue di tlw fratello grida a me dal suolo.

Ad secundum dicendum quod publica infa­ mia habet locum accusatoris. Unde super il­ lud Gen. 4 [ l 0], vox sanguinis fratris tui etc., dicit Glossa [int.], evidentia patrati sceleris accusatore non eget. In denuntiatione vero, sicut supra [q. 33 a. 7] dictum est, non inten­ ditur punitio peccantis, sed emendatio, et ideo nihil agitur contra eum cuius peccatum de­ nuntiatur, sed pro eo. Et ideo non est ibi ne­ cessarius accusator. Poena autem infertur propter rebellionem ad Ecclesiam, quae, quia est manifesta, tenet locum accusatoris. Ex eo autem quod ipse iudex videt, non potest pro­ cedere ad sententiam ferendam, nisi secun­ dum ordinem publici iudicii. Ad tertium dicendum quod Deus in suo iudi­ cio procedit ex propria notitia veritatis, non autem homo, ut supra [a. 2 ad 2] dictum est. Et ideo homo non potest esse simul accusator, iudex et testis, sicut Deus. Daniel autem accu­ sator fuit simul et iudex quasi divini iudicii executor, cuius instinctu movebatur, ut dictum est [a. l ad 1].

2. La pubblica infamia sostituisce l'accusato­ re. Per cui la Glossa, spiegando Gen 4 [ 1 0]: La voce del sangue di tuo fratello. . . , fa questo rilievo: «L'evidenza del delitto commesso non ha bisogno di accusatori». Invece, come sopra si è detto, nella denunzia non si ha di mira la punizione del colpevole, ma il suo emendamento: quindi nella denunzia non si agisce contro di lui, ma in suo favore. Perciò allora non si richiede l'accusatore. Il castigo poi è inflitto per la ribellione alla Chiesa: e poiché la ribellione è evidente, l' accusa è inu­ tile. Quanto invece alla conoscenza oculare personale, essa non dà al giudice la facoltà di procedere alla sentenza prescindendo dall' or­ dinamento di un pubblico processo. 3. Come si è detto sopra, Dio nel suo giudizio procede in base alla conoscenza diretta della verità; non così invece l'uomo. Per cui l' uo­ mo non può essere insieme, come Dio, accu­ satore, giudice e testimone. Quanto a Daniele, egli fu insieme accusatore e giudice come esecutore del giudizio di Dio, dalla cui ispira­ zione era mosso, come si è già notato.

se invicem cogitationum accusantiwn, aut etiam defendentium. Vel etiam evidentia facti me de terra.

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Le ingiustizie del giudice nell'amministrazione della giustizia

Articulus 4 Utrum iudex licite possit poenam relaxare

Q. 67, A. 4

Articolo 4 Un giudice può condonare la pena?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod iudex licite possit poenam relaxare. l. Dicitur enim Iac. 2 [ 1 3] , iudicium sine

Sembra di sì. Infatti: l . In Gc 2 [ 1 3] è detto:

Sed nullus punitur propter hoc quod non facit illud quod licite facere non potest. Ergo quili­ bet iudex potest licite rnisericordiam facere, relaxando poenam. 2. Praeterea, iudicium humanum debet irnitari iudicium divinum. Sed Deus poenitentibus relaxat poenam, quia non vult mmtem pecca­ toris, ut dicitur Ez. 1 8 [23]. Ergo etiam homo iudex potest poenitenti licite laxare poenam. 3 . Praeterea, unicuique licet facere quod alicui prodest et nulli nocet. Sed absolvere reum a poena prodest ei et nulli nocet. Ergo iudex licite potest reum a poena absolvere. Sed contra est quod dicitur Deut. 13 [8-9] de eo qui p ersuadet servire diis alienis, non

fa ciò che non gli è lecito fare. Quindi qual­ siasi giudice può usare misericordia condo­ nando la pena. 2. Il giudizio dell'uomo deve imitare quello di Dio. Ora, Dio condona la pena ai peccatori pentiti poiché egli non vuole la morte del pec­ catore, come è detto in Ez 1 8 [23]. Perciò anche il giudice umano ha la facoltà di con­ donare la pena a chi è pentito. 3. A chiunque è lecito fare ciò che giova a qualcuno senza danneggiare nessuno. Ora, l'assoluzione del colpevole giova a costui senza recar danno ad alcuno. Quindi il giudi­ ce può sempre lecitamente assolvere il reo dalla pena. In contrario: a proposito di chi tenta di indurre all'idolatria è detto in Dt 1 3 [8]: Il tuo occhio

misericordia ei qui non facit misericordiam.

parcat ei oculus tuus ut miserearis et occultes eum, sed statim interficies eum. Et de hornici­ da dicitur Deut. 1 9 [ 1 2- 1 3 ] , morietur, nec misereberis eius. Respondeo dicendum quod, sicut ex dictis [aa. 2-3] patet, duo sunt, quantum ad proposi­ tum pertinet, circa iudicem consideranda, quorum unum est quod ipse habet iudicare inter accusatorem et reum; aliud autem est quod ipse non fert iudicii sententiam quasi ex propria, sed quasi ex publica potestate. Du­ plici ergo ratione impeditur iudex ne reum a poena absolvere possit. Primo quidem, ex parte accusatoris, ad cuius ius quandoque per­ tinet ut reus puniatur, puta propter aliquam iniuriam in ipsum comrnissam, cuius relaxa­ tio non est in arbitrio alicuius iudicis, quia quilibet iudex tenetur ius suum reddere uni­ cuique. - Alio modo i mpeditur ex parte reipublicae, cuius potestate fungitur, ad cuius bonum pertinet quod malefactores puniantur. Sed tamen quantum ad hoc differt inter infe­ riores iudices et supremum iudicem, scilicet principem, cui est plenarie potestas publica comrnissa. Iudex enim inferior non habet po­ testatem absolvendi reum a poena, contra le­ ges a superiore sibi impositas. Unde super illud Ioan. 19 [1 1], non haberes adversum me potestatem ullam, dicit Augustinus [In Ioan. tract. 1 1 6 super 1 9,2] , talem Deus dederat

Il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato mise­ ricordia. Ma nessuno viene punito perché non

non lo compianga; non rispanniarlo, non co­ prire la sua colpa. Ma devi uccider/o subito. E a proposito dell'omicida [ 1 9 , 1 2] : Sia messo a morte e non avrai pietà di lui. Risposta: come risulta evidente dalle cose già dette, a proposito del giudice si devono tenere presenti due considerazioni: primo, che egli è chiamato a giudicare tra l'accusatore e il reo; secondo, che egli pronunzia la sentenza non a nome proprio, ma a nome della pubblica autorità. Perciò al giudice è impedito di condo­ nare la pena al reo per due motivi. Primo, dalla parte dell'accusatore, il quale può esigere che il reo sia punito per l'ingiuria commessa ai suoi danni; e il condono non è lasciato al­ l'arbitrio di qualche giudice, poiché il giudice è tenuto a rendere a ciascuno il proprio diritto. - Secondo, vi è l'impedimento dalla parte della società, del cui potere il giudice è investi­ to e il cui bene esige la punizione dei malfat­ tori. Però da questo lato c'è diversità tra i giu­ dici subordinati e il giudice supremo, che è il principe, il quale detiene il pubblico potere nella sua pienezza. Infatti i giudici subordinati non hanno il potere di condonare la pena al reo contro le leggi imposte dai suoi superiori. Per cui Agostino, spiegando Gv 19 [1 1]: Tu non avresti alcun potere sopra di me. . , afferma: .

Q. 67, A. 4

Le ingiustizie del giudice nell 'amministrazione della giustizia

Pilato potestatem ut esset sub Caesaris po­ testate, ne ei omnino liberum esset accusatum absolvere. Sed princeps, qui habet plenariam

potestatem in republica, si ille qui passus est iniuriam velit eam remittere, poterit reum licite absolvere, si hoc publicae utilitati viderit non esse nocivum. Ad primum ergo dicendum quod miseticordia iudicis habet locum in his quae arbitrio iudicis relinquuntur, in quibus boni viri est ut sit di­ minutivus poenantm, sicut philosophus dicit, in 5 Ethic. [ 1 0,8]. In his autem quae sunt de­ terminata secundum legem divinam vel hu­ manam, non est suum misericordiam facere. Ad secundum dicendum quod Deus habet supremam potestatem iudicandi, et ad ipsum pertinet quidquid contra aliquem peccatur. Et ideo 1iberum est ei poenam remittere, praeci­ pue cum peccato ex hoc poena maxime de­ beatur quod est contra ipsum. Non tamen remittit poenam nisi secundum quod decet suam bonitatem, quae est omnium legum radix. Ad tertium dicendum quod iudex, si inordina­ te poenam remitteret, nocumentum inferret et communitati, cui expedit ut maleficia punian­ tur, ad hoc quod peccata vitentur, unde Deut. 1 3 [ 1 1 ] , post poenam seductoris, subditur, ut

omnis Israel, audiens, timeat, et nequaquam ultra faciat quispiam huius rei simile. Nocet

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«Dio aveva dato a Pilato un potere subordinato all'autorità di Cesare, per cui egli non era li­ bero di assolvere un imputato». Invece il prin­ cipe, che è investito dei pieni poteri dello stato, può lecitamente assolvere il reo, qualora l' of­ feso voglia condonare l'ingiuria, se la cosa non pregiudica il bene pubblico. Soluzione delle difficoltà: l . La misericordia del giudice deve esplicarsi in quelle cose che sono lasciate al suo arbitrio, e a proposito delle quali il Filosofo scrive che «l'uomo dabbene tende a diminuire i ca>. Quindi l'accusa non è resa ingiusta dalla tergiversazione. In contrario: nel testo citato si afferma: «La temerità degli accusatori si manifesta in tre modi: con la calunnia, con la prevaricazione o con la tergiversazione». Risposta: come si è detto, l ' accusa è ordinata al bene comune, che è promosso con la cono­ scenza del delitto. Ora, nessuno deve danneg­ giare un altro per promuovere il bene comu­ ne. Perciò l ' accusa può essere viziata per due motivi. Primo, per il fatto che uno agisce ingiustamente contro l' accusato, addossando­ gli delle colpe inesistenti: e ciò equivale a ca­ lunniare. Secondo, dalla parte della società, il cui bene va principalmente promosso nel­ l'accusa, quando si impedisce maliziosamen­ te la punizione del delitto. E anche ciò può capitare in due modi. Primo, licorrendo alla frode n el l ' accusa. E i n ciò si ha la pre­ varicazione: infatti «il prevaricatore è come uno che travalica, in quanto aiuta la parte avversa, tradendo la propria causa>>. Secondo, desistendo totalmente dall'accusa. E questo è il tergiversare: chi desiste infatti da quanto aveva intrapreso, in qualche modo non fa che voltare il tergo [te1:gum vertere].

criminaliter accusationem et inscriptionem fecisse de eo quod probare non potuerit, si ei cum accusato innocente convenerit, invicem se absolvant. Ergo accusatio non redditur iniusta per tergiversationem. Sed contra est quod ibidem [cf. Gratianus, Decretum, p. 2, causa 2, q. 3, app. ad can. 8] dicitur, accusatorum temeritas tribus modis

detegitu1; aut enim calumniantur, aut praevari­ cantur, aut tergiversantur. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. l ], accusatio ordinatur ad bonum commu­ ne, quod intenditur per cognitionem criminis. Nullus autem debet alicui nocere iniuste ut bo­ num commune promoveat. Et ideo in accusa­ tione duplici ratione contingit esse peccatum. Uno modo, ex eo quod iniuste agit contra eum qui accusatur, falsa crimina ei imponendo, quod est calumniari. - Alio modo, ex parte reipublicae, cuius bonum principaliter intendi­ tur in accusatione, dum aliquis impedit mali­ tiose punitionem peccati. Quod iterum dupli­ citer contingit. Uno modo, fraudem in accusa­ tione adhibendo. Et hoc pertinet ad praevari-

-

683

Le ingiustizie relative all 'accusa

Q. 68, A. 3

cationem, nam praevaricator est quasi varica­ tor, qui adversam partem adiuvat, prodita causa sua [cf. Gratianus, Decretum, p. 2, causa 2, q. 3, app. ad can. 8] . Alio modo, totaliter ab accusatione desistendo. Quod est tergiversati, in hoc enim quod desistit ab hoc quod coeperat, quasi tergum vertere videtur. Ad primum ergo dicendum quod homo non debet ad accusationem procedere nisi de re sibi omnino certa, in quo ignorantia facti lo­ cum non habeat. Nec tamen qui falsum cri­ men alicui imponit calumniatur, sed solum qui ex malitia in falsam accusationem prorumpit. Contingit enim quandoque ex animi }evitate ad accusationem procedere, quia scilicet aliquis nimis faciliter credit quod audivit, et hoc temeritatis est. Aliquando autem ex iusto errore movetur aliquis ad accusandum. Quae omnia secundum prudentiam iudicis debent discerni, ut non prorumpat eum calumniatum fuisse qui vel ex levitate animi vel ex iusto errore in falsam accusationem prorupit. Ad secundum dicendum quod non quicumque abscondit vera crimina praevaricatur, sed solum si fraudulenter abscondit ea de quibus accusationem proponit, colludens cum reo, proprias probationes dissimulando, et falsas excusationes admittendo. Ad tertium dicendum quod tergiversati est ab accusatione desistere omnino animum accu­ sandi deponendo, non qualitercumque, sed inordinate. Contingit autem aliquem ab accu­ satione desistere ordinate absque vitio, duplici­ ter. Uno modo, si in ipso accusationis processu cognoverit falsum esse id de quo accusabat, et si pari consensu se absolvunt accusator et reus. Alio modo, si princeps, ad quem pertinet cura boni communis, quod per accusationem inten­ ditur, accusationem aboleverit.

Soluzione delle difficoltà: l . Uno non deve passare all'accusa se non si tratta di una cosa del tutto certa per lui, così da escludere l'ignoranza del fatto. Tuttavia non fa una ca­ lunnia chiunque attribuisce a qualcuno un de­ litto, ma solo chi per malizia presenta un' ac­ cusa falsa. Talora infatti si passa ad accusare per leggerezza, cioè perché uno crede troppo facilmente a ciò che sente dire: e questo è un atto di temerità. Altre volte invece si può essere mossi ad accusare da un errore giustifi­ cabile. Cose tutte che devono essere esami­ nate con prudenza dal giudice, in modo che non venga condannato per calunnia chi fu mosso ad accusare per leggerezza, o per un errgre giustificabile. 2. E un prevaricatore non chiunque nasconde dei delitti veri, ma solo chi li nasconde con inganno quando presenta l' accusa, dissimu­ lando le vere prove e ammettendo delle false scuse in collusione con il reo. 3. Tergiversare significa desistere totalmente dall'accusa deponendone l'intenzione non in una maniera qualsiasi, ma in maniera disordi­ nata. Ora, si può desistere dall'accusa onesta­ mente, senza peccato, in due modi. Primo, se nel corso del dibattito uno si accorge della fal­ sità deli' accusa, e l'accusatore e il reo arriva­ no ad assolversi reciprocamente. Secondo, se l'autorità suprema, a cui spetta la cura del bene comune al quale è ordinata l ' accusa, annulla l'azione penale.

Articulus 4 Utrum accusator qui in probatione defecerit teneatur ad poenam talionis

Articolo 4 Vaccusatore incapace di provare le accuse è tenuto alla pena del taglione?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod ac­ cusator qui in probatione defecerit non tenea­ tur ad poenam talionis. l . Contingit enim quandoque aliquem ex iusto errore ad accusationem procedere, in quo casu iudex accusatorem absolvit, ut dicitur 2, qu. 3 [Gratianus, Decretum, p. 2, causa 2, q. 3, app. ad can. 8]. Non ergo accusator qui in

Sembra di no. Infatti: l. Talora si passa ad accusare per un errore giustificato: nel quale caso il giudice deve as­ solvere l' accusatore, come è scritto nei Cano­ ni. Perciò chi non è in grado di provare le ac­ cuse non è tenuto alla pena del taglione. 2. Se a chi accusa ingiustamente si dovesse applicare la pena del taglione, ciò sarebbe

Q. 68, A. 4

Le ingiustizie relative all 'accusa

probatione defecerit tenetur ad poenam talionis. 2. Praeterea, si poena talionis ei qui iniuste accusat sit iniungenda, hoc erit propter iniu­ riam in aliquem commissam. Sed non propter iniuriam commissam in personam accusati, quia sic princeps non posset hanc poenam remittere. Nec etiam propter iniuriam illatam in rempublicam, quia sic accusatus non pos­ set eum absolvere. Ergo poena talionis non debetur ei qui in accusatione defecerit. 3 . Praeterea, eidem peccato non debetur duplex poena, secundum illud Nahum l [9], non iudicabit Deus bis in idipsum. Sed ille qui in probatione deficit incurrit poenam infa­ miae [Gratianus, Decretum, p. 2, causa 6, q. l , can. 1 7 ] , quam etiam Papa non videtur posse remittere, secundum illud Gelasii Papae [Gratianus, Decretum, p. 2, causa 2, q. 3, app. ad can. 7], quanquam animas per poeniten­

tiam salvare possimus, infamiam tamen abolere non possumus. Non ergo tenetur ad

poenam talionis. Sed contra est quod Hadrianus Papa dicit [A­ drianus I, Capitula 52], qui non probaverit

quod obiecit, poenam quam intulerit ipse pa­ tiatur.

Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 2] dictum est, accusator in causa accusationis constituitur pars intendens ad poenam ac­ cusati. Ad iudicem autem pertinet ut inter eos iustitiae aequalitatem constituat. Iustitiae autem aequalitas hoc requirit, ut nocumentum quod quis alteri intentat, ipse patiatur, secun­ dum illud Ex. 2 1 [24], oculum pro oculo, dentem pro dente. Et ideo iustum est ut ille qui per accusationem aliquem in periculum gravis poenae inducit, ipse etiam similem poenam patiatur. Ad primum ergo dicendum quod, sicut philo­ sophus dicit, in 5 Ethic. [5,6], in iustitia non semper competit contrapassum simpliciter, quia multum differt an aliquis voluntarie an involuntarie alium laedat. Voluntarium autem meretur poenam, sed involuntario debetur ve­ nia. Et ideo quando iudex cognoverit aliquem de falso accusasse non voluntate nocendi, sed involuntarie propter ignorantiam ex iusto er­ rore, non imponit poenam talionis. Ad secundum dicendum quod ille qui male ac­ cusat peccat et contra personam accusati, et con­ tra rempublicam. Unde propter utrumque pu-

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dovuto all'ingiuria commessa contro qualcu­ no. Ma costui non potrebbe essere l'accusato: poiché in tal caso l 'autorità suprema non potrebbe mai condonare tale pena. E neppure potrebbe essere la società: poiché in questo caso uno non potrebbe essere perdonato dal­ l'accusato. Quindi chi non riesce a provare le accuse non merita la pena del taglione. 3. Per il medesimo peccato non vanno inflitti due castighi distinti, come è detto in Na l [9]:

Dio non giudicherà due volte la stessa cosa.

Ora, chi soccombe nel provare le accuse incorre nella pena dell'infamia, pena che il papa stesso non può condonare, stando a quelle parole del papa Gelasio: «Pur avendo noi la facoltà di salvare le anime con la peni­ tenza, tuttavia non possiamo cancellare l'infa­ mia». Quindi costui non è tenuto alla pena del taglione. In contrario: papa Adriano I ha stabilito: «Chi non prova quanto denunzia subisca la pena che la sua accusa avrebbe dovuto arrecare». Risposta: come si è già detto, l 'accusatore in un procedimento penale si costituisce parte che mira alla punizione dell'accusato. Ora, spetta al giudice determinare fra di essi la giu­ sta misura della giustizia. Ma la giustizia esi­ ge che uno subisca il danno che egli aveva in­ tenzione di infliggere al prossimo, come è detto in Es 2 1 [24]: Occhio per occhio, dente per dente. È giusto quindi che colui che con l'accusa pone altri nel pericolo di una grave pena, subisca egli stesso una pena consimile. Soluzione delle difficoltà: l . Come dice il Filosofo, nella giustizia non sempre si può ap­ plicare materialmente il contrappasso: poiché c'è una grande differenza fra il danneggiare il prossimo volontariamente e il farlo involon­ tariamente. La volontarietà infatti merita il castigo e l ' involontarietà il perdono. Così, quando il giudice riconosce che uno ha accu­ sato falsamente senza l'intenzione di fare del male, ma involontariamente per ignoranza, cioè per un errore giustificabile, non impone la pena del taglione. 2 . Chi accusa ingiustamente pecca sia contro l'accusato che contro la società. Perciò va puni­ to per l'uno e per l'altra. Infatti in Dt 19 [18] è detto: l giudici indagheranno con diligenza, e

se quel testimone risulta falso perché ha deposto il falso contro il suo fratello, farete a lui ciò che egli aveva pensato di fare al suo

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Le ingiustizie relative all 'accusa

Q. 68, A. 4

nitur. Et hoc est quod dicitur Deut. 19 [18-19], cumque, diligentissime perscrutantes, invene­ rint falsum testem dixisse contra fratrem suum mendacium, reddent ei sicut fratri suo facere cogitavit, quod pertinet ad iniuriam personae, et postea, quantum ad iniuriam rei­ publicae, subditur [ 1 9-20], et auferes malum de medio tui, ut audientes ceteri timorem ha­ beant, et nequaquam talia audeant facere. Specialiter tamen personae accusati facit iniuriam si de falso accuset, et ideo accusatus, si innocens fuerit, potest ei iniuriam suam remittere; maxime si non calumniose accusa­ verit, sed ex animi levitate. Si vero ab accu­ satione innocentis desistat propter aliquam collusionem cum adversario, facit iniuriam reipublicae, et hoc non potest ei remitti ab eo qui accusatur, sed potest ei remitti per princi­ pem, qui curam reipublicae gerit. Ad tertium dicendum quod poenam talionis meretur accusator in recompensationem nocumenti quod proximo inferre intentat, sed poena infamiae ei debetur propter malitiam ex qua calumniose alium accusat. Et quando­ que quidem princeps remittit poenam, et non abolet infamiam, quandoque autem etiam in­ famiam abolet. Unde et Papa potest huiusmo­ di infamiam abolere, et quod dicit Papa Gela­ sius, infamiam abo/ere non possumus, intelli­ gendum est vel de infamia facti, vel quia eam abolere aliquando non expedit. Vel etiam lo­ quitur de infamia irrogata per iudicem civi­ lem, sicut dicit Gratianus [Gratianus, Decre­ tum, p. 2, causa 2, q. 3, app. ad can. 8].

fratello. Questo per quanto riguarda l'ingiuria personale. Per quanto i nvece riguarda l'ingiuria fatta alla società si aggiunge [ 1 9] : Così estirperai il male in mezzo a te. Gli altri lo verranno a sapere e ne avranno paura, e non commetteranno più in mezzo a te una tale azione malvagia. Tuttavia l'ingiuria è inferta principalmente all'accusato con la falsa testi­ monianza: quindi costui, se è innocente, può perdonare l'ingiuria; specialmente se l' accu­ satore non ha agito col proposito di calunnia­ re, ma per leggerezza. Se invece uno desistes­ se dall'accusa per collusione con l'avversario, allora farebbe ingiuria alla società: e ciò non può essere condonato dali' accusato, ma solo dall' autorità suprema, a cui è affidata la collettività. 3 . L' ingiusto accusatore merita la pena del taglione in espiazione del male tentato ai danni del prossimo; invece la pena dell'infa­ mia gli è dovuta per la malizia che lo mosse a fare un' accusa calunniosa. Ora, l' autorità suprema in certi casi condona la pena, ma non cancella l'infamia; in altri invece cancella anche l'infamia. Perciò anche il papa può cancellare questa infamia, e l'espressione del papa Gelasio: «Non possiamo cancellare l'infamia», o va riferita all'infamia intrinseca al fatto, o significa che in certi casi non è bene cancellarla. Oppure, come dice Graziano, quel testo parla dell'infamia decretata da un giudice civile.

QUAESTI0 69 DE PECCATIS QUAE SUNT CONTRA IUSTITIAM EX PARTE REI

QUESTIONE 69 I PECCATI CONTRO LA GIDSTIZIA DALLA PARTE DEL COLPEVOLE

Deinde considerandum est de peccatis quae sunt contra iustitiam ex parte rei. - Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, utrum peccet aliquis mortaliter veritatem negando per quam condemnaretur. Secundo, utrum liceat alicui se calumniose defendere. Tertio, utrum liceat alicui iudicium subterfugere appellando. Quarto, utrum liceat alicui condemnato per violentiam se defendere, si adsit facultas.

Passiamo a considerare i peccati contro la giustizia dalla parte del colpevole. - Sull'ar­ gomento si pongono quattro quesiti: l . Uno, negando la verità che gli meriterebbe la con­ danna, pecca mortalmente?, 2. Uno può difen­ dersi con la menzogna? 3. E lecito scansare la condanna ricorrendo in appello? 4. Chi è con­ dannato può difendersi con la violenza, aven­ done i mezzi?

Q. 69, A. l

I peccati contro la giustizia dalla pmte del colpevole

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Articulus l Utrum absque peccato mortali possit accusatus veritatem negare per quam condemnaretur

Articolo l L'accusato può negare, senza peccato mortale, la verità che gli meriterebbe la condanna?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod absque peccato mortali possit accusatus verita­ tem negare per quam condemnaretur. l . Dicit enim Chrysostomus [In Hebr. h. 3 1 ],

Sembra di sì. Infatti: l . li Crisostomo insegna: «Non ti dico di e­ sporti al pubblico, né di accusarti presso al­ tri». Ma se l'accusato confessasse la verità in giudizio accuserebbe ed espotTebbe se stesso. Quindi non è tenuto a dire la verità. E così non pecca mortalmente se mente in giudizio. 2. Come è una bugia ufficiosa mentire per liberare un altro dalla morte, così è una bugia ufficiosa mentire per liberare se stessi: poiché uno è più obbligato verso se stesso che verso gli altri. Ora, la bugia ufficiosa non è conside­ rata un peccato mmtale, ma veniale. Quindi l' accusato, se nega la verità in giudizio per liberarsi dalla morte, non pecca mortalmente. 3. Tutti i peccati mortali sono contro la carità, come si è detto. Ma la bugia di un accusato che cerca di scolparsi del delitto a lui attribui­ to non è né contro la carità di Dio, né contro la carità del prossimo. Perciò una simile bugia non è un peccato mortale. In contrario: quanto è incompatibile con la gloria di Dio è un peccato mortale, poiché siamo tenuti strettamente a fare tutto per la gloria di Dio, come è detto in l Cor 1 0 [3 1 ] . M a la confessione che fa i l reo d i ciò che è contro di lui rientra nella gloria di Dio, come risulta evidente dalle parole dette da Giosuè ad Acan: Figlio mio, dà gloria al Signore,

non tibi dico ut te prodas in publicum, neque apud alium accuses. Sed si veritatem confite­

retur in iudicio accusatus, seipsum proderet et accusaret. Non ergo tenetur veritatem di­ cere. Et ita non peccat mortaliter si in iudicio mentiatur. 2. Praeterea, sicut mendacium officiosum est quando aliquis mentitur ut alium a mmte libe­ ret, ita mendacium officiosum esse videtur quando aliquis mentitur ut se liberet a morte, quia plus sibi tenetur quam alteri. Mendacium autem officiosum non ponitur esse peccatum mortale, sed veniale. Ergo si accusatus verita­ tem in iudicio neget ut se a morte liberet, non peccat mortaliter. 3. Praeterea, omne peccatum mortale est con­ tra caritatem, ut supra [q. 24 a 1 2] dictum est. Sed quod accusatus mentiatur excusando se a peccato sibi imposito, non contrariatur caritati, neque quantum ad dilectionem Dei neque quantum ad dilectionem proximi. Ergo huius­ modi mendacium non est peccatum mortale. Sed contra, omne quod est contrarium divinae gloriae est peccatum mortale, quia ex praecetr to tenemur omnia in gloriam Dei facere, ut patet l ad Cor. I O [3 1]. Sed quod reus id quod contra se est confiteatur, pertinet ad gloriam Dei, ut patet per id quod Iosue dixit ad Achar,

fili mi, da gloriam Domino Deo Israel, et confitere atque indica mihi quid feceris, ne abscondas, ut habetur Iosue 7 [ 1 9] . Ergo mentiri ad excusandum peccatum est pecca­ tum mortale. Respondeo dicendum quod quicumque facit contra debitum iustitiae, mortaliter peccat, sicut supra [q. 59 a. 4] dictum est. Pertinet autem ad debitum iustitiae quod aliquis obediat suo superiori in his ad quae ius praelationis se extendit. Iudex autem, ut supra [q. 67 a. l ] dictum est, superior est respectu eius qui iudicatur. Et ideo ex debito tenetur accusatus iudici veritatem exponere quam ab eo secun­ dum formam iuris exigit. Et ideo si confiteri

Dio di Israele, e raccontami ciò che hai fatto, non me lo nascondere ( Gs 7, 1 9). Quindi

mentire per scolparsi è un peccato mortale. Risposta: chiunque agisce contro un dovere di giustizia pecca mortalmente, come sopra si è dimostrato. Ora, è un dovere di giustizia ubbi­ dire al proprio superiore nelle cose alle quali si estende il suo diritto di superiore. Ma il giu­ dice è un superiore nei riguardi di chi viene giudicato, stando alle cose già dette. Perciò l'accusato è strettamente tenuto a espolTe la verità che il giudice esige da lui a norma del diritto. Se quindi uno non vuole confessare la verità che è tenuto a dire, o se la nega con la menzogna, pecca mortalmente. Se però il giu­ dice chiedesse cose non esigibili a norma del diritto, l ' accusato non sarebbe tenuto a ri­ spondergli, ma potrebbe lecitamente evadere

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Q. 69, A. l

I peccati contro la giustizia dalla parte del colpevole

noluerit veritatem quam dicere tenetur, vel si eam mendaciter negaverit, mortaliter peccat. Si vero iudex hoc exquirat quod non potest se­ cundum ordinem iuris, non tenetur ei accusatus respondere, sed potest vel per appellationem vel aliter licite subterfugere, mendacium tamen dicere non licet. Ad primum ergo dicendum quod quando aliquis secundum ordinem iuris a iudice inter­ rogatur, non ipse se prodit, sed ab alio proditur, dum ei necessitas respondendi imponitur per eum cui obedire tenetur. Ad secundum dicendum quod mentiri ad libe­ randum aliquem a morte cum iniuria alterius, non est mendacium simpliciter officiosum, sed habet aliquid de pernicioso admixtum. Cum autem aliquis mentitur in iudicio ad excusatio­ nem sui, iniuriam facit ei cui obedire tenetur, dum sibi denegat quod ei debet, scilicet confes­ sionem veritatis. Ad tertium dicendum quod ille qui mentitur in iudicio se excusando, facit et contra dilectio­ nem Dei, cuius est iudicium; et contra dilectio­ nem proxirni, tum ex parte iudicis, cui debitum negat; turn ex parte accusatoris, qui punitur si in probatione deficiat. Unde et in Ps. [140,4] dicitur, ne declines cor meum in verba mali­

la domanda, o con l'appello o in altri modi; tuttavia non potrebbe dire una menzogna. Soluzione delle difficoltà: l . Quando uno è interrogato dal giudice a norma del diritto non espone e non consegna se stesso, ma viene consegnato da un altro, venendogli imposta la necessità di rispondere da parte di uno a cui egli è tenuto a ubbidire. 2. Mentire per liberare una persona dalla mor­ te facendo un torto ad altri non è una sem­ plice bugia ufficiosa, ma implica una bugia dannosa. Ora, quando in giudizio uno mente per scusare se stesso, fa un torto a colui a cui deve ubbidire, poiché gli nega ciò che gli è dovuto, cioè la confessione della verità. 3. Chi mente in giudizio per scagionare se stesso agisce sia contro l'amore di Dio, a cui spetta il giudizio [Dt 1 , 17], sia contro l'amore del prossimo: cioè verso il giudice, al quale nega quanto gli è dovuto, e verso l'accusato­ re, il quale viene punito se non riesce a prova­ re l'accusa. Per cui anche nel Sal 140 [4] si legge: Non lasciare che il mio cuore si pieghi al male trovando scuse ai peccati. E la Glossa commenta: «Questo è il modo di fare degli im­ pudenti, i quali se scoperti si scolpano con le bugie». E Gregorio, commentando Gb 3 1 [33]:

tiae, ad excusandas excusationes in peccatis, ubi dicit Glossa [ord. et Lomb.; Cassiodorus, Expos. in Ps. 140,4], ha ec est consuetudo impudentium, ut deprehensi per aliquafalsa se excusent. Et Gregorius, 22 Mor. [ 15], exponens illud lob 3 1 [33], si abscondi quasi homo pec­ catum meum, dicit, usitatum humani generis vitium est et latendo peccatum committere, et commissum negando abscondere, et convictum dejendendo multiplicare.

Se ho nascosto, alla ma_niera degli uomini, la mia colpa, afferma: «E un vizio inveterato dell'uomo commettere i peccati di nascosto, e una volta che li ha commessi nasconderli negandoli, e una volta che sono stati smasche­ rati moltiplicarli discolpandosi».

Articulus 2 Utrum accusato liceat calumniose se defendere

È lecito all'accusato difendersi

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod accusato liceat calumniose se defendere. l. Quia secundum iura civilia [Codex 2,4, 1 8], i n causa sanguinis licitum est cuilibet adversa­ rium corrompere. Sed hoc maxime est calum­ niose se defendere. Ergo non peccat accusatus in causa sanguinis si calumniose se defendat. 2. Praeterea, accusator cum accusato collu­ dens poenam recipit legibus constitutam, ut habetur, ll, qu. ill [Gratianus, Decretum, p. 2,

Sembra di sì. Infatti: l. Secondo il diritto civile, nei processi ca-pi­ tali è permesso a chiu nque di corrompe­ re l'accusatore. Ma questa è la difesa più men­ zognera. Quindi l'accusato non pecca se in una causa capitale si difende con la menzogna. 2. «L'accusatore che viene a patti con l'ac­ cusato riceve il castigo stabilito dalle leggi», dice il diritto; invece non è contemplata al­ cuna pena per l'accusato che viene a patti

Articolo

2

con la falsità?

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I peccati contro la giustizia dalla parte del colpevole

causa 2, q. 3, can. 8], non autem imponitur poena accusato propter hoc quod cum accusa­ tore colludit. Ergo videtur quod liceat accu­ sato calumniose se defendere. 3 . Praeterea, Prov. 1 4 [ 1 6] dicitur, sapiens

timet et declinar a malo, stultus transilit et confidit. Sed illud quod fit per sapientiam non

est peccatum. Ergo si aliquis qualitercumque se liberet a malo, non peccat. Sed contra est quod etiam in causa criminali iu­ ramentum de calumnia est praestandum, ut ha­ betur extra, de iuramento calwn., inhaerentes [Decretai. Gregor. IX, 2,7, 1 ] . Quod non esset si calumniose defendere se liceret. Ergo non est licitum accusato calumniose se defendere. Respondeo dicendum quod aliud est veritatem tacere, aliud est falsitatem proponere. Quorum primum in aliquo casu licet Non enim aliquis tenetur omnem veritatem confiteri, sed illam solum quam ab eo potest et debet requirere iudex secundum ordinem iuris, puta cum prae­ cessit infamia super aliquo crimine, vel aliqua expressa indicia apparuerunt, vel etiam cum praecessit probatio semiplena Falsitatem tamen proponere in nullo casu licet alicui. - Ad id autem quod licitum est potest aliquis procedere vel per vias licitas et fini intento accommodas, quod pertinet ad prudentiam, vel per aliquas vias illicitas et proposito fini incongruas, quod pertinet ad astutiam, quae exercetur per fraudem et dolum, ut ex supradictis [q. 55 aa. 3-5] patet. Quorum primum est laudabile; secundum vero vitiosum. Sic igitur reo qui accusatur licet se de­ fendere veritatem occultando quam confiteri non tenetur, per aliquos convenientes modos, puta quod non respondeat ad quae respondere non tenetur. Hoc autem non est calumniose se defendere, sed magis prudenter evadere. Non autem licet ei vel falsitatem dicere, vel verita­ tem tacere quam confiteri tenetur; neque etiam aliquam fraudem vel dolum adhibere, quia fraus et dolus vim mendacii habent. Et hoc est calumniose se defendere. Ad primum ergo dicendum quod multa se­ cundum leges humanas impunita relinquuntur quae secundum divinum iudicium sunt pecca­ ta, sicut patet in simplici fornicatione, quia lex humana non exigit ab homine omnimodam virtutem, quae paucorum est, et non potest inveniri in tanta multitudine populi quantam lex humana sustinere habet necesse. Quod autem aliquis non velit aliquod peccatum

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con l'accusatore. Perciò all'accusato è per­ messo difendersi con la menzogna. 3. In Pr 14 [ 1 6] si dice: Il saggio teme e sta

lontano dal male, lo stolto è insolente e pre­ suntuoso. Ma ciò che si compie con saggezza non è peccato. Se quindi uno i n qualsiasi maniera si libera dal male, non pecca. In contrario: anche nei processi criminali, a norma del diritto, si deve giurare di escludere la menzogna. Ora, ciò non avverrebbe se fos­ se lecito difendersi con la menzogna. Quindi non è lecito all' accusato difendersi con la falsità. Risposta: una cosa è tacere la verità e un'altra proferire una menzogna. Ora, la prima cosa in certi casi può essere permessa. Infatti uno non è tenuto a dire tutta la verità, ma quella sol­ tanto che il giudice può e deve esigere da lui a norma del diritto: p. es. quando un crimine ha già dato origine alla pubblica infamia, o è emerso da chiari indizi, oppure da una prova quasi completa. Tuttavia in nessun caso è lecito proporre una menzogna. - Ora, uno può ricorrere a ciò che è lecito o per vie lecite e proporzionate al fine perseguito, e ciò ap­ partiene alla pntdenza, oppure per vie illecite e inadeguate al debito fine, e ciò appartiene all'astuzia, che si esplica nella frode e nell'in­ ganno, come fu spiegato in precedenza. Ora, il primo di questi modi di fare è lodevole, il secondo invece è peccaminoso. Perciò al reo che è accusato è lecito difendersi nasconden­ do nei debiti modi la verità che non è tenuto a confessare: p. es. non rispondendo alle do­ mande a cui non è tenuto a rispondere. E que­ sto non è un difendersi con la falsità, ma un uscir fuori con prudenza. Al contrario non gli è lecito dire il falso; e neppure ricorrere alla frode o ali' inganno, poiché la frode e l' ingan­ no equivalgono a una menzogna. E questo è precisamente difendersi con la falsità. Soluzione delle difficoltà: l . Secondo la legge umana rimangono impuniti molti atti che in­ vece sono peccati secondo il giudizio di Dio, come è evidente nel caso della semplice for­ nicazione: poiché la legge umana non esige dall'uomo una virtù completa, che è cosa di pochi e non è reperibile nella massa del popo­ lo che la legge umana è chiamata a regolare. Ora, che uno non voglia commettere un pec­ cato per evitare la morte, il cui pericolo in­ combe sul reo nelle cause criminali, è impre-

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I peccati contro la giustizia dalla parte del colpevole

committere ut mortem corporalem evadat, cuius periculum in causa sanguinis imminet reo, est perfectae virtutis, quia omnium tem­ poralium ma.xime terribile est mors, ut dicitur in 3 Ethic. [6,6]. Et ideo si reus in causa sanguinis corrumpat adversarium suum, peccat quidem inducendo eum ad illicitum, non autem huic peccato lex civilis adhibet poenam. Et pro tanto licitum esse dicitur. Ad secundum dicendum quod accusator, si colludat cum reo qui noxius, est, poenam in­ currit, ex quo patet quod peccat. Unde, cum inducere aliquem ad peccandum sit pec­ catum, vel qualitercumque peccati participem esse, cum apostolus dicat [Rom. l ,32] dignos morte eos qui peccantibus consentiunt, mani­ festum est quod etiam reus peccat cum adver­ sario colludendo. Non tamen secundum leges humanas imponitur sibi poena, propter ratio­ nem iam [ad l] dictam. Ad tertium dicendum quod sapiens non abs­ condit se calumniose, sed prudenter.

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sa degna di una virtù perfetta: poiché, al dire di Aristotele, «fra tutti i mali temporali il più terribile è la morte». Se quindi nei processi capitali il reo corrompe l'accusatore, pecca certamente in quanto lo induce a commettere una cosa illecita, tuttavia non è punito per questo dalla legge civile. E in questo senso tale atto può dirsi lecito. 2. L'accusatore che viene a patti con il reo colpevole incorre in una pena: e ciò dimostra che egli commette un delitto. Per cui, siccome indurre altri a peccare o a partecipare in qual­ siasi modo a una colpa è peccato, poiché secondo Paolo [Rm 1 ,32] sono degni di morte coloro che consentono con chi pecca, è chiaro che anche il reo pecca quando si mette in col­ lusione con l'avversario. Tuttavia secondo le leggi umane non gli viene imposta una pena, per la ragione già indicata. 3. li saggio non si nasconde con la menzogna, ma con la prudenza.

Articulus 3 Utrum reo liceat iudicium declinare per appellationem

È lecito al colpevole sfuggire la sentenza

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod reo non liceat iudicium declinare per appellationem. l . Dicit enim apostolus, Rom. 1 3 [ l ], omnis anima potestatibus sublimioribus subdita sit. Sed reus appellando recusat subiici potestati superiori, scilicet iudici. Ergo peccat. 2. Praeterea, maius est vinculum ordinariae potestatis quam propriae electionis. Sed sicut legitur 2, qu. 6 [cf. Gratianus, Decretum, p. 2, causa 2, q. 6, can. 33], a iudicibus quos commu­ nis consensus elegerit non liceat provocari. Ergo multo minus licet appellare a iudicibus ordinariis. 3. Praeterea, illud quod semel est licitum, semper est licitum. Sed non est licitum appel­ lare post decimum diem [cf. Gratianus, De­ cretum, p. 2, causa 2, q. 6, can. 28], neque ter­ tio super eodem [cf. Gratianus, Decretum, p. 2, causa 2, q. 6, app. ad can. 39]. Ergo videtur quod appellatio non sit secundum se licita. Sed contra est quod Paulus Caesarem appella­ vit, ut habetur Act. 25 [ l i]. Respondeo dicendum quod duplici de causa contingit aliquem appellare. Uno quidem mo­ do, confidentia iustae causae, quia videlicet

Sembra di no. Infatti: l . Paolo in Rm 1 3 [ l] dice: Ciascuno sia sottoposto alle autorità costituite. Ma il reo che appella ricusa di sottomettersi all'autorità costituita, cioè al giudice. Quindi commette peccato. 2. L'obbligazione di un potere ordinario è più grave di quella di un potere di propria scelta. Ora, a norma dei Canoni «non è lecito sottrar­ si ai giudici scelti di comune accordo». Molto meno quindi è lecito appellare nel caso dei giudici ordinari. 3. Ciò che è lecito una volta è lecito sempre. Ora, non è lecito appellare dopo dieci giorni, e neppure per la terza volta nella stessa causa. Perciò l'appello sembra per se stesso illecito. In contrario: Paolo si appellò a Cesare, come si ha in At 25 [ l i ] . Risposta: uno può appellare per due motivi. Primo, perché è persuaso della giustizia della propria causa: cioè perché si sente trattato ingiustamente dal giudice. E in tal caso è lecito appellare, essendo questo uno scampo suggerito dalla prudenza. Da cui la disposi­ zione dei Canoni: «Chiunque si sente oppres-

Articolo 3 ricorrendo in appello?

Q. 69, A. 3

I peccati contro la giustizia dalla parte del colpevole

iniuste a iudice gravatur. Et sic licitum est appellare, hoc enim est prudenter evadere. Un­ de 2, qu. 6 [Gratianus, Decretum, p. 2, causa 2, q. 6, can. 3], dicitur, omnis oppressus libere

sacerdotum si voluerit appellet iudicium, et a nullo prohibeatur. Alio modo aliquis appellat

causa afferendae morae, ne contra eum iusta sententia proferatur. Et hoc est calumniose se defendere, quod est illicitum, sicut dictum est [a. 2], facit enim iniuriam et iudici, cuius of­ ficium impedit, et adversario suo, cuius iusti­ tiam, quantum potest, perturbat. Et ideo sicut dicitur 2, qu. 6 [Gratianus, Decretum, p. 2, causa 2, q. 6, can. 27], omni modo puniendus

est cuius iniusta appellatio pronuntiatur.

Ad primum ergo dicendum quod potestati in­ feriori intantum aliquis subiici debet inquan­ tum ordinem superioris servat, a quo si exor­ bitaverit, ei subiici non opottet, puta si aliud iusserit proconsul, et aliud imperator, ut patet per Glossam [ord. et Lomb.] Rom. 1 3 [2]. Cum autem iudex iniuste aliquem gravat, quantum ad hoc relinquit ordinem superioris potestatis, secundum quam necessitas sibi iuste iudicandi imponitur. Et ideo licitum est ei qui contra iustitiam gravatur, ad directio­ nem superioris potestatis recurrere appellan­ do, vel ante sententiam vel post. Et quia non praesumitur esse rectitudo ubi vera fides non est, ideo non licet Catholico ad infidelem iudicem appellare, secundum illud 2, q. 6 [Gratianus, Decretum, p. 2, causa 2, q. 6, can. 32], Catholicus qui causam suam, sive

iustam sive iniustam, ad iudicium alterius fidei iudicis provocaverit, excommunicetur. Nam et apostolus arguit [ l Cor. 6,1 ] eos qui iudicio contendebant apud infideles. Ad secundum dicendum quod ex proprio defecttt vel negligentia procedit quod aliquis sua spante se alterius iudicio subiiciat de cuius iustitia non confidit. Levis etiam animi esse videtur ut quis non permaneat in eo quod semel approbavit. Et ideo rationab i liter denegatur subsidium appellationis a iudicibus arbitrariis, qui non habent potestatem nisi ex consensu litigantium. Sed potestas iudicis ordinarii non dependet ex consensu illius qui eius iudicio subditur, sed ex auctoritate regis et principis, qui eum instituit. Et ideo contra eius iniustum gravamen lex tribuit appel­ lationis subsidium, ita quod, etiam si sit simul ordinarius et arbitrarius iudex, potest ab eo

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so appelli liberamente al giudizio dei sacer­ doti, e nessuno glielo impedisca». Secondo, può darsi che uno appelli per rimandare il processo e la giusta sentenza contro di lui. E questo è un difendersi con la finzione, che è illecito, come si è visto; infatti egli così fa un torto al giudice, di cui impedisce le funzioni, e al suo avversario, di cui contesta per quanto gli è possibile i diritti. Quindi, a norma dei Canoni «in tutti i modi deve essere punito colui il cui ricorso è dichiarato ingiusto». Soluzione delle difficoltà: l . In tanto uno è tenuto a sottomettersi all'autorità inferiore in quanto questa rispetta l'ordine di quella supe­ riore: per cui, se questa vi si sottrae, non si è più tenuti a sottomettersi. Come nel caso ricordato dalla Glossa in cui «una cosa co­ manda il proconsole e un'altra l'imperatore». Ora, quando un giudice tratta ingiustamente una persona, si allontana in questo dall'ordine dei poteri superiori, che gli impongono di giudicare con giustizia. In questo caso dunque a colui che è trattato ingiustamente è lecito ricorrere appellando, prima o dopo la senten­ za, al giudizio dell'autorità superiore. E poi­ ché non si può presumere che ci sia rettitudi­ ne dove manca la vera fede, non è lecito a un cattolico appellarsi a un giudice di un'altra re­ ligione. Da cui la nonna: «Il cattolico che in appello pmta la propria causa dinanzi a un giudice di un'altra fede sia scomunicato». In­ tàtti anche Paolo [l Cor 6, l ] rimprovera colo­ ro che ricorrono al giudizio degli infedeli. 2. Che uno si sottometta spontaneamente al giudizio di un altro nella cui giustizia non ha fiducia dipende soltanto dalla sua negligenza. Come è anche leggerezza d'animo il nf>n persi­ stere in ciò che si è già approvato. E quindi ragionevole che si neghi il ricorso in appello contro i giudici scelti come arbitri, i quali non hanno autorità che per il consenso dei litiganti. Invece i l potere del giudice ordinario non dipende dal consenso di colui che deve essere giudicato, bensì dall'autorità del re, o dall'auto­ rità suprema, che lo istituisce. E così la legge offre la facoltà di appellare contro i suoi torti: tanto che anche nel caso in cui uno sia simulta­ neamente giudice ordinario e arbitro si può sempre appellare contro di lui. Infatti si può pensare che egli sia stato scelto come arbitro perché investito di poteri ordinari: per cui ciò non deve pregiudicare chi ha acconsentito ad

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appellati [cf. Gratianus, Decretum, p. 2, causa 2, q. 6, app. ad can. 33] ; quia videtur ordinaria potestas occasio fuisse quod arbiter eligeretur; nec debet ad defectum imputari eius qui consensit sicut in arbitrum in eum quem princeps iudicem ordinarium dedit. Ad tertium dicendum quod aequitas iuris ita subvenit uni parti quod altera non gravetur. Et ideo tempus decem dierum concessit ad appellandum, quod sufticiens aestimavit ad deliberandum an expediat appellare. Si vero non esset determinatum tempus in quo appel­ lare liceret, semper certitudo iudicii remaneret in suspenso, et ita pars altera darnnaretur. Ideo autem non est concessum ut tertio aliquis appellet super eodem, quia non est probabile toties iudices a recto iudicio declinare.

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avere come arbitro una persona che il principe aveva designato come giudice ordinario. 3 . L'equità del diritto viene incontro a una delle parti senza far torto all' altra. Per questo concede dieci giorni di tempo per appellare, ritenendoli sufficienti per deliberare se sia il caso di ricorrere i n appello. Se invece non fosse determinato alcun limite di tempo, la stabilità della sentenza resterebbe sempre in sospeso, con danno della parte contraria. E non è poi concesso di appellare per la terza volta nella stessa causa per il fatto che non è probabile che i giudici s i siano tante volte allontanati dalla giustizia.

Articulus 4

Articolo 4

Utrum liceat condemnato ad mortem se defendere, si possit

A un condannato a morte, che lo possa fare, è lecito difendersi?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod liceat condemnato ad mortem se defendere, si possit. l . lllud enim ad quod natura inclinat semper est licitum, quasi de iure naturali existens. Sed naturae inclinatio est ad resistendum corrumpentibus, non solum in hominibus et animalibus, sed etiam in insensibilibus rebus. Ergo licet reo condemnato resistere, si potest, ne tradatur in mortem. 2. Praeterea, sicut aliquis sententiam mortis contra se latam subterfugit resistendo, ita etiam fugiendo. Sed licitum esse videtur quod aliquis se a morte per fugam liberet, secun­ dum illud Eccli. 9 [ 1 8], longe esto ab homine

Sembra di sì. Infatti: l . Ciò che è oggetto dell' inclinazione naturale è sempre lecito, derivando in qualche modo dal diritto naturale. Ora, l'inclinazione natura­ le spinge a resistere agli elementi distruttori non solo gli uomini e gli animali, ma persino le cose prive di sensibilità. Quindi al reo con­ dannato è lecito fare resistenza, per non subi­ re la morte. 2. Uno può sottrarsi alla sentenza di morte proferita contro di lui sia con la resistenza che con la fuga. Ora, essendo lecito sottrarsi alla morte con la fuga, come è detto in Sir 9 [ 1 8] :

potestatem habente occidendi et non vivifi­ candi. Ergo etiam licitum est resistere. 3. Praeterea, Prov. 24 [ 1 1 ] dicitur, erue eos qui ducuntur ad mortem, et eos qui trahuntur ad interitum liberare ne cesses. Sed plus tene­

essa con la resistenza. 3. In Pr 24 [l l ] è detto: Libera quelli che sono

tur aliquis sibi quam alteri. Ergo licitum est quod aliquis condemnatus seipsum defendat ne in mortem tradatur. Sed contra est quod dicit apostolus, Rom. 1 3 [2], qui potestati resistit, Dei ordinationi resi­ stit, et ipse sibi damnationem acquirit. Sed condemnatus se defendendo potestati resistit quantum ad hoc in quo est divinitus instituta ad

vindictam malefactorum, laudem vero bono­

rum [l Petr. 2, 14] .. Ergo peccat se defendendo.

Sta lontano da chi ha il potere di uccidere e di non dare la vita, sarà lecito anche sottrarsi ad condotti alla morte, e non cessare di liberare quelli che sono trascinati al supplizio. Ma uno è più obbligato verso se stesso che verso gli altri. Quindi è permesso che un condannato difenda se stesso per non subire la morte. In contrario: Paolo in Rm 1 3 [2] dice: Chi si

oppone a/l 'autorità si oppone all'ordine sta­ bilito da Dio, e si attira addosso la condan­ na. Ora, il condannato che si difende resiste all' autorità proprio in quanto è istituita da Dio per punire i malfattori e premiare i buoni [l Pt 2, 1 4] . Perciò nel difendersi commette peccato.

Q. 69, A. 4

I peccati contro la giustizia dalla parte del colpevole

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Respondeo dicendum quod aliquis damnatur ad mortem dupliciter. Uno modo, iuste. Et sic non licet condemnato se defendere, licitum enim est iudici eum resistentem impugnare; unde relinquitur quod ex parte eius sit bellum iniustum. Unde indubitanter peccat. Allo mo­ do condemnatur aliquis iniuste. Et tale iudi­ cium simile est violentiae latronum, secun­ dum illud Ez. 22 [27], principes eius in medio eius quasi lupi rapientes praedam ad effun­ dendum sanguinem. Et ideo sicut licet resiste­ re latronibus, ita licet resistere in tali casu malis principibus, nisi forte propter scanda­ lum vitandum, cum ex hoc aliqua gravis tur­ batio timeretur. Ad primum ergo dicendum quod ideo homini data est ratio, ut ea ad quae natura inclinat non passim, sed secundum rationis ordinem exe­ quatur. Et ideo non quaelibet defensio sui est licita, sed quae fit cum debito moderamine. Ad secundum dicendum quod nullus ita con­ demnatur quod ipse sibi inferat mortem, sed quod ipse mortem patiatur. Et ideo non tene­ tur facere id unde mors sequatur, quod est manere in loco unde ducatur ad mortem. Te­ netur tamen non resistere agenti, quin patiatur quod iustum est eum p ati. S icut etiam si aliquis sit condemnatus ut fame moriatur, non peccat si cibum sibi occulte ministratum su­ mat, quia non sumere esset seipsum occidere. Ad tertium dicendum quod per illud dictum sapientis non inducitur aliquis ad liberandum alium a morte contra ordinem iustitiae. Unde nec seipsum contra iustitiam resistendo aliquis debet liberare a morte.

Risposta: in due modi si può essere condannati a morte. Primo, giustamente. E in tal caso al condannato non è lecito difendersi: infatti il giudice ha il dilitto di combatterlo, se fa resi­ stenza: per cui ne consegue che da parte del reo si ha una guen11 ingiusta. Quindi non vi è dub­ bio che egli pecca. Secondo, uno può essere condannato ingiustamente. E tale sentenza è si­ mile alla violenza dei bliganti, come è detto in Ez 22 [27]: I suoi capi in mezzo ad essa sono come lupi rapaci che attentano al sangue al­ trui. Come quindi è lecito resistere ai briganti, così è lecito in tal caso resistere ai cattivi go­ vernanti: a meno che non si tratti di evitare lo scandalo, nel timore che da ciò possa nascere un grave turbamento. Soluzione delle difficoltà: l . L'uomo ha rice­ vuto la ragione proprio per questo, cioè per mettere in atto le cose a cui la natura inclina non a caso, ma seguendo l'ordine della ragione. Perciò è lecita non qualsiasi difesa di se stessi, ma quella fatta con la debita moderazione. 2. Nessuno può essere condannato a darsi la morte, ma solo a subirla. Perciò nessuno è te­ nuto a fare quanto è richiesto all'esecuzione capitale, cioè a restare nel luogo da dove sarà condotto a morire. Tuttavia il reo è tenuto a non opporre resistenza al carnefice per scansa­ re la giusta punizione. E così pure chi è con­ dannato a morire di fame non pecca se prende il cibo a lui offerto di nascosto: infatti il non prenderlo equivale a uccidersi. 3. Le parole del saggio non intendono esortare a strappare qualcuno dalla morte contro l'ordi­ ne della giustizia. Per cui uno non deve liberare neppure se stesso dalla morte facendo resisten­ za contro l'ordine della giustizia.

QUAESTI0 70 DE INIUSTITIA PERTINENTE AD PERSONAM TESTIS

QUESTIONE 70 LE INGIUSTIZIE COMMESSE DAI TESTIMONI

Deinde considerandum est de iniustitia perti­ nente ad personam testis. - Et circa hoc quae­ nmtur quatuor. Primo, utmm homo teneatur ad testimonium ferendum. Secundo, utrum duomm vel trium testimonium sufficiat. Ter­ tio, utrum alicuius testimonium repellatur absque eius culpa. Quarto, utmm perhibere falsum testimonium sit peccatum mortale.

Passiamo a considerare le ingiustizie com­ messe dai testimoni. - Sull'argomento si pon­ gono quattro quesiti: l . Tutti sono tenuti a rendere testimonianza? 2. La testimonianza di due o tre è sufficiente? 3. Si può respingere la testimonianza di qualcuno senza una sua col­ pa personale? 4. Rendere falsa testimonianza è un peccato mortale?

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Le ingiustizie commesse dai testimoni

Q. 70, A. l

Articulus l Utrum homo teneatur ad testimonium ferendum

Articolo l Thtti sono tenuti a rendere testimonianza?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod homo non teneatur ad testimonium ferendum. l . Dicit enim Augustinus, in Quaest. Gen. [Q. in Heptat. 1 ,26 super Gen. 1 2, 1 2], quod Abra­ ham dicens de uxore sua, soror mea est, ve­ ritatem celari voluit, non mendacium dici. Sed veritatem celando aliquis a testificando abs­ tinet. Ergo non tenetur aliquis ad testificandum. 2. Praeterea, nullus tenetur fraudulenter agere. Sed Prov. 1 1 [13] dicitur, qui ambulatfraudu­

Sembra di no. Infatti: l. Agostino �piega che Abramo, nel dire di sua moglie: E mia sorella [Gen 1 2, 1 2], volle celare una verità, non già proferire una men­ zogna. Ma col celare la verità uno si astiene dal testimoniare. Quindi non tutti sono tenuti a rendere testimonianza. 2. Nessuno è tenuto ad agire con frode. Ma in Pr 1 1 [ 1 3] è detto: Chi va in gùv sparlando

lenter revelat arcana, qui autemfidelis est celat amici commissum. Ergo non tenetur homo semper ad testificandum, praesertim super his quae sunt sibi in secreto ab amico commissa. 3. Praeterea, ad ea quae sunt de necessitate salutis maxime tenentur clerici et sacerdotes. Sed clericis et sacerdotibus prohibetur terre testimonium in causa sanguinis. Ergo testifi­ cari non est de necessitate salutis. Sed contra est quod Augustinus dicit [cf. Gra­ tianus, Decretum, p. 2, causa 1 1 , q. 3, can. 80] ,

qui veritatem occultat, et qui prodit menda­ cium, uterque reus est, ille quia prodesse non vult, iste quia nocere desiderar.

Respondeo dicendum quod in testimonio fe­ rendo distinguendum est. Quia aliquando re­ quiritur testimonium alicuius, aliquando non requiritur. Si requiritur testimonium alicuius subditi auctoritate superioris cui in his quae ad iustitiam pertinent obedire tenetur, non est dubium quin teneatur testimonium ferre in his in quibus secundum ordinem iuris testimo­ nium ab eo exigitur, puta in manifestis, et in his de quibus infamia praecessit. Si autem exigatur ab eo testimonium in aliis, puta in occultis et de quibus infamia non praecessit, non tenetur ad testificandum. - Si vero requi­ ratur eius testimonium non auctoritate supe­ rioris cui obedire tenetur, tunc distinguendum est. Quia si testimonium requiratur ad liberan­ dum hominem vel ab iniusta morte seu poena quacumque, vel a falsa infamia, vel etiam ab iniquo damno, tunc tenetur homo ad testifi­ candum. Et si eius testimonium non requi­ ratur, tenetur facere quod in se est ut verita­ tem denuntiet alicui qui ad hoc possit prodes­ se. Dicitur enim in Ps. [8 1 ,4] , eripite paupe­

rem, et egenum de manu peccatoris liberate;

con frode svela i segreti, chi invece è d'animo fidato cela le confidenze dell'amico. Quindi

non sempre si è tenuti a testimoniare; special­ mente poi sulle cose confidate dagli amici. 3. A quanto si richiede per salvarsi i chierici e i sacerdoti sono tenuti più degli altri. Ma ad essi è proibito di rendere testimonianza nelle cause per delitti capitali. Perciò rendere testi­ monianza non è di stretto obbligo RCr salvarsi. In contrario: Agostino insegna: «E reo tanto chi occulta la verità quanto chi dice una men­ zogna: il primo perché non vuoi fare del bene, il secondo perché vuoi fare del male». Risposta: in fatto di testimonianza bisogna di­ stinguere. Perché la testimonianza di una perso­ na in certi casi è tichiesta, e in altri non è ri­ chiesta. Se la testimonianza è richiesta autori­ tativamente da un superiore a cui si è tenuti a ubbidire in cose relative alla giustizia, allora non c'è dubbio che si è tenuti a rendere la te­ stimonianza che viene richiesta a norma di legge: vale a dire sui delitti manifesti e su quelli di pubblico dominio. Se invece si richie­ desse la testimonianza su altri delitti, cioè su delitti occulti e ancora estranei alla pubblica opinione, uno non è tenuto a testimoniare. Se al contrario la testimonianza non è ri­ chiesta dall' autorità di un superiore, allora bi­ sogna distinguere. Se la deposizione è richie­ sta per liberare un uomo da una morte in­ giusta o da qualsiasi altra pena immeritata, oppure da una calunnia o da un danno ingiu­ sto, allora uno è tenuto a testimoniare. E an­ che se la sua testimonianza non è richiesta, uno è tenuto a fare quello che può per denun­ ziare la verità a persone che possono fare qualcosa. Infatti nel Sal 8 l [4] è detto: Salvate

il debole e l 'indigente, liberate/o dalle mani del peccatore; e in Pr 24 [ 1 1]: Libera quelli

Le ingiustizie commesse dai testimoni

Q. 70, A. l

et Prov. 24 [ 1 1 ] , erue eos qui dicuntur ad mortem. Et Rom. l [32] dicitur, digni sunt

morte non solum qui faciunt, sed etiam qui consentiunt facientibus, ubi dicit Glossa [ord. et Lomb.], consentire est tacere, cum possis redarguere. Super his vero quae pertinent -

ad condemnationem alicuius, non tenetur aliquis ferre testimonium nisi cum a superiori compellitur secundum ordinem iuris. Quia si circa hoc veritas occultetur, nulli ex hoc spe­ ciale damnum nascitur. Vel, si immineat peri­ culum accusatori, non est curandum, quia ipse se in hoc periculum sponte ingessit. Alia autem ratio est de reo, cui periculum imminet eo nolente. Ad primum ergo dicendum quod Augustinus loquitur de occultatione veritatis in casu ilio quando aliquis non compellitur superioris auctoritate veritatem propalare; et quando oc­ cultatio veritatis nulli specialiter est damnosa. Ad secundum dicendum quod de illis quae homini sunt commissa in secreto per confes­ sionem, nullo modo debet testimonium ferre, quia huiusmodi non scit ut homo, sed tan­ quam Dei minister, et maius est vinculum sa­ cramenti quolibet hominis praecepto. - Circa ea vero quae aliter homini sub secreto com­ mittuntur, distinguendum est. Quandoque enim sunt talia quae, statim cum ad notitiam hominis venerint, homo ea manifestare tene­ tur, puta si pertineret ad corruptionem multi­ tudinis Spiritualem vel corporalem, vel in grave damnum alicuius personae, vel si quid aliud est huiusmodi, quod quis propalare tenetur vel testificando vel denuntiando. Et contra hoc debitum obligari non potest per secreti commissum, quia in hoc frangeret fidem quam alteri debet. Quandoque vero sunt talia quae quis prodere non tenetur. Unde potest obligari ex hoc quod sibi sub secreto committuntur. Et tunc nullo modo tenetur ea prodere, etiam ex praecepto superioris, quia servare tidem est de iure naturali; nihil autem potest praecipi homini contra id quod est de iure naturali. Ad tertium dicendum quod operari vel coope­ rari ad occisionem hominis non competit mi­ nistris altaris, ut supra [q. 40 a. 2; q. 64 a. 4] dictum est. Et ideo secundum iuris ordinem compelli non possunt ad ferendum testimo­ nium in causa sanguinis.

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che sono condotti alla morte. E in Rm l [32] è detto: Meritano la morte non solo gli autori di tali cose, ma anche quanti approvano chi le fa;

e la Glossa commenta: «Tacere è acconsentire, quando hai la possibilità di correggere». - Se invece si tratta di deporre per la condanna di una persona, allora non si è tenuti a rendere testimonianza se non si è costretti dall' autori­ tà a norma di legge. Poiché in tal caso l ' oc­ cultazione della verità non provoca danno a nessuno. E anche se con questo si mette in pericolo l'accusatore, non c'è da preoccupar­ si: poiché costui si è messo da se stesso nel pericolo. Diversa è invece la condizione del reo, che è esposto al pericolo di una condanna contro la sua volontà. Soluzione delle difficoltà: l . Agostino parla dell'occultazione della verità nel caso in cui uno non sia obbligato dall'autorità a manife­ stare la verità; e quando tale occultazione non danneggia nessuno in particolare. 2. Sulle cose sapute in segreto nella confessio­ ne uno non può mai basare una testimonianza: poiché tali cose egli non le sa come uomo, ma come ministro di Dio, e il sigillo sacramentale è superiore a qualsiasi precetto umano. Sugli altri segreti bisogna invece distinguere. Talora infatti si tratta di cose che vanno mani­ festate appena conosciute: come ad es. le ini­ ziative che mirano alla rovina spirituale o materiale del popolo, o apportano grave dan­ no a una persona, o altre cose del genere. Tali notizie vanno manifestate o con la testimo­ nianza o con la denunzia. E contro un tale do­ vere non si può essere tenuti dalla commissio­ ne di alcun segreto: perché così si tradirebbe la fedeltà a cui si è tenuti verso altri. Talora invece si tratta di cose che uno non è tenuto a svelare. Per cui si può essere obbligati dal fatto di aver ricevuto una notizia con l' impe­ gno del segreto. E allora in nessun modo si è tenuti a svelarla, neppure per comando dei superiori: perché la fedeltà è di diritto natura­ le, e niente può essere comandato a un uomo contro ciò che è di diritto naturale. 3. Come si è detto sopra, ai ministri dell'altare è proibito agire o cooperare nell'uccisione di un uomo. Quindi a norma di legge costoro non possono essere obbligati a testimoniare nelle cause criminali.

Le ingiustizie commesse dai testimoni

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Q. 70, A. 2

Articulus 2

Articolo 2

Utrum sufficiat duorum vel trium testimonium

Basta la testimonianza di due o tre testimoni?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod non sufficiat duorum vel trium testimonium. l . Iudicium enim certitudinem requirit. Sed non habetur certitudo veritatis per dictum duorum testi u m , legitur e n i m 3 Reg. 2 1 [9 sqq .] quod Naboth ad dictum duorum testium falso condemnatus est. Ergo duorum vel trium testimonium non sufficit. 2. Praeterea, testimonium, ad hoc quod sit credibile, debet esse concors. Sed plerumque duorum vel trium testimonium in aliquo di­ scordat. Ergo non est efficax ad veritatem in iudicio probandam. 3. Praeterea, 2, qu. 4 [Gratianus, Decretum, p. 2, causa 2, q. 4, can. 2], dicitur, praesul non

Sembra di no. Infatti: l. li giudizio richiede la certezza. Ma non si può avere la certezza con la deposizione di due testimoni: poiché si legge in l Re 2 1 [9] che Nabot fu condannato dietro la falsa depo­ sizione di due testimoni. Quindi la deposizio­ ne di due testimoni non basta. 2. La testimonianza per essere credibile deve essere concorde. Ma le deposizioni di due o tre testimoni sono spesso discordi su certi par­ ticolari. Quindi non sono sufficienti a provare la verità in giudizio. 3. Nei Canoni si legge: «Non si condanni un vescovo se non in base alla deposizione di set­ tantadue testimoni. Un cardinale presbitero non sia deposto che per la testimonianza di quarantaquattro persone. Un cardinale diacono della città di Roma non può essere condannato se non per la testimonianza di ventotto. I sud­ diaconi, gli accoliti, gli esorcisti, i lettori e gli ostiari non siano condannati se non per la testi­ monianza di sette testimoni». Ora, il peccato di chi è costituito in più alta dignità è più perico­ loso, e quindi va meno tollerato. Perciò anche nel condannare le altre persone non può basta­ re la testimonianza di due o tre testimoni. In contrario: in Dt 1 7 [6] è detto: Colui che

damnetur nisi in septuaginta duobus testibus. Presbyter autem cardinalis nisi quadraginta quatuor testibus non deponatur. Diaconus cardinalis urbis Romae nisi in viginti octo testibus non condemnabitur. Subdiaconus, acolythus, exorcista, lector, ostiarius, nisi in septem testibus non condemnabitur. Sed magis est periculosum peccatum eius qui in maiori dignitate constitutus est, et ita minus est tole­ randum. Ergo nec in aliorum condemnatione sufticit duorum vel trium testimonium. Sed contra est quod dicitur Deut. 17 [6], in ore

duorum ve/ trium testium peribit qui inter­ ficietur; et infra, 1 9 [ 1 5], in ore duorum vel trium testium stabit omne verbum. Respondeo dicendum quod, secundum philo­ sophum, in l Ethic. [3, 1 ; 7,18], certitudo non est similiter quaerenda in omni materia. In actibus enim humanis, super quibus consti­ tuuntur iudicia et exiguntur testimonia, non potest haberi certitudo demonstrativa, eo quod sunt circa contingentia et variabilia. Et ideo sufficit probabilis certitudo, quae ut in pluribus veritatem attingat, etsi in paucioribus a veritate deficiat. Est autem probabile quod magis veritatem contineat dictum multorum quam dictum unius. Et ideo, cum reus sit unus qui negat, sed multi testes asserunt idem cum actore, rationabiliter institutum est, iure divino et humano, quod dicto testium stetur. Omnis autem multitudo in tribus comprehen­ ditur, scilicet principio, medio et fine, unde secundum philosophum, in l De coelo [ 1 ,2],

dovrà morire sarà messo a morte sulla parola di due o tre testimoni; e ancora [ 1 9, 15]: l/fat­ to dovrà essere stabilito sulla parola di due o tre testimoni. Risposta: come fa notare il Filosofo, «non si deve esigere in tutte le materie la medesima certezza». Poiché negli atti umani, sui quali vertono i processi e le deposizioni dei testi­ moni, non si può avere una certezza dimostra­ tiva, trattandosi di cose contingenti e variabili. Basta quindi una certezza probabile, che rag­ giunge la verità nella maggior parte dei casi, sebbene talora si scosti da essa. Ora, è più probabile che contenga la verità la deposizio­ ne di molti che quella di uno solo. Perciò quando il reo è solo a negare, mentre sono molteplici i testimoni che affermano la stessa cosa assieme all' accusatore, è stato ragione­ volmente stabilito dal diritto divino e da quel­ lo umano che si stia alla deposizione dei testi­ moni. - Ma ogni pluralità o molteplicità si

Q. 70, A. 2

Le ingiustizie commesse dai testimoni

omne et totum in tribus ponimus. Temarius

quidem constituitur asserentium, cum duo testes conveniunt cum actore. Et ideo requiri­ tur binarius testium, vel, ad maiorem certitu­ dinem, ut sit temarius, qui est multitudo per­ fecta, in ipsis testibus. Unde et Eccle. 4 [12] dicitur, funiculus triplex difficile rumpitur. Augustinus autem, super illud Ioan. 8 [ 1 7], duorum hominum testinwnium verum est, di­ cit [In Ioan. tract. 36 super 8, 17] quod in hoc

est Trinitas secundum mysterium commenda­ ta, in qua est perpetuafinnitas veritatis.

Ad primum ergo dicendum quod, quantacum­ que multitudo testium determinaretur, posset quandoque testimonium esse iniquum, cum scriptum sit Ex. 23 [2], ne sequaris turbam ad faciendum malum. Nec tamen, quia non potest in talibus infallibilis certitudo haberi, debet negligi certitudo quae probabiliter habe­ ri potest per duos vel tres testes, ut dictum est [in co.]. Ad secundum dicendum quod discordia te­ stium in aliquibus principalibus circumstan­ tiis, quae variant substantiam facti, puta in tempore vel loco vel in personis de quibus principaliter agitur, aufert efficaciam testi­ monii, quia si discordant in talibus, videntur singulares esse in suis testimoniis, et de diver­ sis factis loqui; puta si unus dicat hoc factum esse tali tempore vel loco, alius alio tempore vel loco, non videntur de eodem facto loqui. Non tamen praeiudicatur testimonio si unus dicat se non recordari, et alius asserat deter­ minatum tempus vel locum. - Et si in talibus omnino discordaverint testes actoris et rei, si sint aequales numero et pares dignitate, statur pro reo, quia facilior debet esse iudex ad absolvendum quam ad condemnandum; nisi forte in causis favorabilibus, sicut est causa l ibertatis et huiusmod i . - Si vero testes eiusdem partis dissenserint, debet iudex ex motu sui animi percipere cui parti sit stan­ dum, vel ex numero testium, vel ex dignitate eorum, vel ex favorabilitate causae, vel ex conditione negotii et dictorum. - Multo autem magis testimonium unius repellitur si sibi ipsi dissideat interrogatus de visu et scientia. Non autem si dissideat interrogatus de opinione et fama, quia potest secundum diversa visa et audita diversimode motus esse ad responden­ dum. - Si vero sit discordia testimonii in aliquibus circumstantiis non pertinentibus ad

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compone di tre elementi, cioè di un principio, di un elemento intermedio e di un termine finale: secondo il Filosofo infatti «il tutto e l'universo si riducono a tre cose». Ora, si ha una triade di assertori quando due testi con­ cordano con l' accusatore. E per questo si ri­ chiedono due testimoni; oppure, per una mag­ giore certezza, anche tre, in modo da avere la perfezione della pluralità negli stessi testi­ moni. Infatti in Qo 4 [ 1 2] è detto: Una corda a tre capi difficilmente si mmpe. E Agostino, spiegando Gv 8 [ 1 7]: La testimonianza di due persone è vera, afferma che «qui si ha una misteriosa allusione alla Trinità, nella quale risiede l'immutabile certezza della verità». Soluzione delle difficoltà: l . Per quanto grande possa essere il numero prescritto dei testimoni, potrebbe sempre capitare una falsa testimo­ nianza, poiché è scritto in Es 23 [2]: Non segui­ rai la massa per agire male. Non è detto però che si debba trascurare la certezza probabile che si può avere mediante due o tre testimoni, di cui abbiamo parlato, per il tatto che non si può avere una certezza infallibile. 2. La discordia dei testimoni su circostanze principali che cambiano la natura del fatto, cioè sul tempo, sul luogo o sulle persone di cui pro­ priamente si tratta, toglie valore alla testimo­ nianza: poiché discordando in queste cose rimangono come testimoni singoli, che si rife­ riscono a fatti diversi. Se uno p. es. dice che il fatto è accaduto in un dato tempo e luogo, e l'altro invece sta per un luogo e un tempo diversi, i due mostrano di non parlare dello stesso fatto. Invece la testimonianza non è pre­ giudicata se uno dice di non ricordare, mentre I' altro determina il tempo e il luogo. - Se poi su tali circostanze i testimoni dell'accusa e quelli della difesa non si accordano, e sono uguali per valore e per numero, si deve decide­ re la causa a favore dell'imputato: poiché il giudice deve essere più portato ad assolvere che a condannare; a meno che non si tratti di cause a tavore dell'accusato, come sono i pro­ cessi per l'affrancamento, e altri consimili. Se poi discordano i testimoni di una medesima parte, allora il giudice deve intuire dai moti del suo animo quale partito scegliere: o conside­ rando il numero dei testimoni, o il loro valore, o i vantaggi della causa, o lo svolgimento del processo e delle deposizioni. - Molto più poi è da rigettarsi la testimonianza di una singola

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Le ingiustizie commesse dai testimoni

Q. 70, A. 2

substantiam facti, puta si tempus fuerit nubi­ losum vel serenum, vel si domus fuerit picta aut non, aut aliquid huiusmodi, talis discordia non praeiudicat testimonio, quia homines non consueverunt circa talia multum sollicitari, unde facile a memoria elabuntur. Quinimmo aliqua discordia in talibus facit testimonium credibilius, ut Chrysostomus dicit, Super Matth. [h. 1 ] , quia si in omnibus concorda­ rent, etiam in minimis, viderentur ex condicto eundem sermonem proferre. Quod tamen prudentiae iudicis relinquitur discemendum. Ad tertium dicendum quod illud locum habet specialiter in episcopis, presbyteris, diaconi­ bus et clericis Ecclesiae Romanae, propter eius dignitatem. Et hoc triplici ratione. Primo quidem, quia in ea tales institui debent quo­ rum sanctitati plus credatur quam multis te­ stibus. Secondo, quia homines qui habent de aliis iudicare, saepe, propter iustitiam, multos adversarios habent. Unde non est passim cre­ dendum testibus contra eos, nisi magna multi­ tudo conveniat. Tertio, quia ex condemnatione alicuius eorum derogaretur in opinione homi­ num dignitati illius Ecclesiae et auctoritati. Quod est periculosius quam in ea tolerare aliquem peccatorem, nisi valde publicum et manifestum, de quo grave scandalum oriretur.

persona se è in contraddizione con se stessa a proposito di quanto conosce come testimone oculare. Non così invece se è in contraddizione su cose conosciute in base al sentito dire e all ' opinione altrui: poiché uno può essere mosso a rispondere diversamente basandosi su constatazioni e racconti diversi. - Se infine la discordia di una testimonianza verte su cose che non pregiudicano la sostanza del fatto, come potrebbe essere la nuvolosità o la sere­ nità del tempo, la decorazione o meno della casa e simili, allora la discordanza non pregiu­ dica la deposizione: poiché gli uomini non sono molto preoccupati di questi dati, e quindi facilmente li dimenticano. Anzi, la loro discor­ dia su queste circostanze rende la testimonian­ za più credibile, come nota il Crisostomo: poi­ ché, se concordassero in tutto, anche nei mini­ mi particolari, potrebbe sembrare che parlino allo stesso modo per un'intesa. La cosa però è lasciata al prudente discernimento del giudice. 3. Quei testi si riferiscono i n particolare ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi e ai chierici della Chiesa romana, data la sua dignità. E ciò per tre motivi. Primo, perché in essa debbono essere promossi a simili dignità uomini tali da meritare per la loro santità una fede superiore a quella che va accordata a molti testimoni. Secondo, perché le persone chiamate a giudi­ care gli altri si creano spesso molti nemici a causa della giustizia. Perciò non si deve crede­ re subito ai testimoni che depongono contro di loro, a meno che non ci sia l' accordo di un gran numero di essi. Terzo, perché dalla con­ danna di un prelato romano verrebbe menoma­ ta la dignità e l'autorità di quella Chiesa nell' o­ pinione degli uomini. Il che è più deleterio della tolleranza in essa di qualche peccatore, a meno che esso non sia troppo pubblico e noto­ rio, con la conseguenza di un grave scandalo.

Articulus 3 Utrum alicuius testimonium sit repellendum absque eius culpa

Articolo 3 Si può escludere un testimone senza una sua colpa?

Ad tertium sic proced.itur. Vìdetur quod alictùus testimonium non sit repellendum nisi propter culpam. l . Quibusdam enim in poenam infligitur quod ad testimonium non admittantur, sicut patet in his qui infamia notantur. Sed poena non est inferenda nisi pro culpa. Ergo videtur quod

Sembra di no. Infatti: l . Ad alcuni è negata a modo di pena la capa­ cità di testimoniare: il che è evidente per chi è pubblicamente dichiarato infame. Ma la pena non va inflitta se non per una colpa. Quindi non si può respingere la testimonianza di nes­ suno senza una sua colpa.

Q. 70, A. 3

Le ingiustizie commesse dai testimoni

nullius testimonium debeat repelli nisi propter culpam. 2. Praeterea, de quolibet praesumendum est bonum, nisi appareat contrarium [cf. Decretai. Gregor. IX, 2,23, 16] . Sed ad bonitatem homi­ nis pertinet quod verum testimonium dicat. Cum ergo non possit constare de contrario nisi propter aliquam culpam, videtur quod nullius testimonium debeat repelli nisi propter culpam. 3. Praeterea, ad ea quae sunt de necessitate salutis nullus redditur non idoneus nisi propter peccatum. Sed testiticari veritatem est de necessitate salutis, ut supra [a. l ] dictum est. Ergo nullus debet excludi a testificando nisi propter culpam. Sed contra est quod Gregorius dicit [Registrum 13,6, ep. 45], et habetur 2, q. l [cf. Gratianus, Decretum, p. 2, causa 2, q. l , can. 7], quia a

servis suis accusatus est episcopus, sciendum est quod minime audiri debuerunt.

Respondeo dicendum quod testimonium, sicut dictum est [ad 2], non habet infallibilem certi­ tudinem, sed probabilem. Et ideo quidquid est quod probabilitatem afferat in contrarium, reddit testimonium inefficax. Redditur autem probabile quod aliquis in veritate testificanda non sit firmus, quandoque quidem propter culpam, sicut infideles, infames, item illi qui publico crimine rei sunt, qui nec accusare possunt, quandoque autem absque culpa. Et hoc vel ex defectu rationis, sicut patet in pueris, amentibus et mulieribus; vel ex a1fectu, sicut patet de inimicis et de personis coniunctis et domesticis; vel etiam ex exteriori conditione, sicut sunt pauperes, servi et illi quibus imperari potest, de quibus probabile est quod facile possint induci ad testimonium ferendum contra veritatem. Et sic patet quod testimonium alicuius repellitur et propter culpam, et absque culpa. Ad primum ergo dicendum quod repellere aliquem a testimonio magis pertinet ad cau­ telam thlsi testimonii vitandi quam ad poenam. Unde ratio non seqtùtur. Ad secundum dicendum quod de quolibet praesumendum est bonum nisi appareat contrarium, dummodo non vergat in periculum alterius. Quia tunc est adhibenda cautela, ut non de facili unicuique credatur, secundum illud l Ioan. 4 [ l ], nolite credere omni spiritui. Ad tertium dicendum quod testificari est de necessitate salutis, supposita testis idoneitate et

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2. Stando alle Decretali «bisogna presumere che tutti siano buoni, se non è dimostrato il contrario». Ma la veracità nel testimoniare è un elemento della bontà di un uomo. Quindi non si deve respingere la testimonianza di nessuno se non per una colpa, non essendoci alcun altro motivo in contrario per farlo. 3. Uno si rende incapace di quanto è necessa­ rio alla salvezza solo con il peccato. Ma testi­ moniare la verità è di stretto obbligo per la salvezza, come si è già visto. Quindi nessuno deve essere escluso dal testimoniare se non per una colpa. In contrario: Gregorio così si esprime in un testo riportato dai Canoni: «Se un vescovo è accusato dai suoi servitori, questi non devono in alcun modo essere ascoltati». Risposta: come si è già notato, la testimonian­ za ha una certezza non infallibile, ma pro­ babile. Perciò tutto quanto offre una proba­ bilità in contrario rende inefficace la testimo­ nianza. Ora, la mancanza di fermezza [e di at­ tendibilità] nel testimoniare in certi casi è resa probabile da una colpa, e ciò avviene per chi è privo di fede o di buona fama, o se si tratta di accusati di pubblici delitti, i quali non pos­ sono neppure presentare un'accusa; in altri casi invece ciò si verifica anche senza una colpa. E questo o per un uso imperfetto della ragione, come nei bambini, nei pazzi e nelle donne; oppure per delle prevenzioni affettive, come nel caso dei nemici, dei congiunti e dei domestici; o anche per la bassa condizione sociale, come nel caso dei poveri, dei servi e di quanti possono essere comandati, per cui è probabile che possano essere facilmente in­ dotti a rendere testimonianza contro la verità. È quindi evidente che la testimonianza di una persona può essere rifiutata sia per una colpa, sia anche senza una colpa. Soluzione delle difficoltà: l . L'esclusione di una persona dal testimoniare, più che per pu­ nire, è fatta per evitare una falsa testimonian­ za. Perciò l 'argomento non regge. 2. Di tutti si deve presumere che siano buoni se non è dimostrato il contrario, purché ciò non sia di pericolo per altri. Perché allora bi­ sogna essere cauti, e non credere facilmente a chiunque, come è detto in l Gv 4 [ 1 ]: Non

prestate fede a ogni ispirazione. 3. Rendere testimonianza è di stretto obbligo per salvarsi, supposta però l'idoneità del teste

Le ingiustizie commesse dai testimoni

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Q. 70, A. 3

ordine iuris. Unde nihil prohibet aliquos excu­ sari a testimonio ferendo, si non reputentur idonei secundum iura.

e le disposizioni della legge. Perciò nulla impedisce che, a norma delle leggi, certe per­ sone siano dispensate dal testimoniare.

Articulus 4 Utrum falsum testimonium semper sit peccatum mortale

Articolo 4 La falsa testimonianza è sempre un peccato mortale?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod fal­ sum testimonium non semper sit peccatum mortale. l . Contingit enim aliquem falsum testimonium ferre ex ignorantia facti. Sed talis ignorantia excusat a peccato mortali. Ergo testimonium falsum non semper est peccatum mortale. 2. Praeterea, mendacium quod alicui prodest et nulli nocet, est offi c iosum, quod non est peccatum mortale. Sed quandoque in falso te­ stimonio est tale mendacium, puta cum aliquis falsum testimonium perhibet ut aliquem a mor­ te liberet, vel ab iniusta sententia quae intenta­ tur per alios falsos testes vel per iudicis perver­ sitatem. Ergo tale thlsum testimonium non est peccatum mortale. 3. Praeterea, iuramentum a teste requiritur ut timeat peccare mortaliter deierando. Hoc autem non esset necessarium si ipsum falsum testimonium esset peccatum mortale. Ergo falsum testimonium non semper est peccatum mortale. Sed contra est quod dicitur Prov. 1 9 [5],falsus

Sembra di no. Infatti: l . Capita in certi casi che uno testifica il falso perché ignora i fatti . Ma questa ignoranza scusa dal peccato mortale. Quindi la falsa testi­ monianza non sempre è un peccato mortale. 2. Una bugia che giova a qualcuno senza nuo­ cere a nessuno è una bugia ufficiosa, che non è un peccato mortale. Ora, spesso nella falsa te­ stimonianza si ha una bugia di questo genere: p. es. quando si rende una falsa testimonianza per liberare uno dalla morte, o da un' ingiusta condanna promossa da falsi testimoni, o dall'i­ niquità di un giudice. Perciò questa falsa testi­ monianza non è un peccato mortale. 3. Dai testimoni si esige il giuramento perché temano di peccare mortalmente con lo sper­ giuro. Ma ciò non sarebbe necessario se già la falsa testimonianza fosse un peccato mortale. Quindi la falsa testimonianza non sempre è un peccato mortale. In contrario: in Pr 19 [5]: Il falso testimone

testis non erit impunitus. Respondeo dicendum quod falsum testimo­ nium habet triplicem deformitatem. Uno mo­ do, ex periurio, quia testes non admittuntur nisi iurati. Et ex hoc semper est peccatum mortale. Alio modo, ex violatione iustitiae. Et hoc modo est peccatum mortale in suo gene­ re, sicut et quaelibet iniustitia. Et ideo i n praecepto Decalogi sub hac forma interdicitur falsum testimonium, cum dicitur Ex. 20 [ 1 6],

non loquaris contra proximum tuum falsum testimonium, non enim contra aliquem facit

qui eum ab iniuria facienda impedit, sed solum qui ei suam iustitiam tollit. Tertio mo­ do, ex ipsa falsitate, secundum quod omne mendacium est peccatum. Et ex hoc non habet falsum testimonium quod semper sit peccatum mortale. Ad primum ergo dicendum quod in testimo­ nio ferendo non debet homo pro certo assere­ re, quasi sciens, id de quo certus non est, sed

non resterà impunito.

Risposta: la falsa testimonianza implica una triplice deformità. Primo, per lo spergiuro: poiché non si ammettono testimoni senza giuramento. E da questo lato la falsa testimo­ nianza è sempre un peccato mortale. Secon­ do, per la violazione della giustizia. E anche sotto questo aspetto essa è un peccato mortale nel suo genere, come qualsiasi ingiustizia. Per cui n eli' ottavo precetto del decalogo (Es 20, 1 6) è proibita la falsa testimonianza in questi termini: Non dire falsa testimonianza contro il tuo prossimo; infatti non agisce con­ tro una persona chi le impedisce di commet­ tere un'ingiuria, ma solo chi le toglie un giu­ sto diritto. Terzo, per la falsità in se stessa, in quanto ogni bugia è un peccato. E da questo lato la falsa testimonianza non sempre è un peccato mortale. Soluzione delle difficoltà: l . Nel rendere testi­ monianza uno non deve asserire per certo, co­ me uno che sa, ciò di cui non è certo, ma deve dichiarare come dubbio ciò che è dubbio e

Le ingiustizie commesse dai testimoni

Q. 70, A. 4

dubium debet sub dubio proferre, et id de quo certus est pro certo asserere. Sed quia contin­ git ex ]abilitate humanae memoriae quod reputat se homo quandoque certum esse de eo quod falsum est, si aliquis, cum debita sollici­ tudine recogitans, existimet se certum esse de eo quod falsum est, non peccat mortaliter hoc asserens, quia non dicit falsum testimonium per se et ex intentione, sed per accidens, con­ tra id quod intendit. Ad secundum dicendum quod iniustum iudi­ cium iudicium non est. Et ideo ex vi iudicii falsum testimonium in iniusto iudicio prola­ tum ad iniustitiam impediendam, non habet rationem peccati mortalis, sed solum ex iura­ mento violato. Ad tertium dicendum quod homines maxime abhorrent peccata quae sunt contra Deum, qua­ si gravissima, inter quae est periurium. Non autem ita abhorrent peccata quae sunt contra proximum. Et ideo ad maiorem certitudinem testimonii, requiritur testis iuramentum.

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come certo ciò di cui è certo. Siccome però capita, per la debolezza della memoria uma­ na, che uno ritenga di essere certo di cose fal­ se, se uno, dopo averci ripensato con la do­ vuta attenzione, ritiene di essere sicuro di ciò che invece è falso, allora non pecca mortal­ mente nell' affermarlo: poiché non pronuncia una falsa testimonianza formalmente e inten­ z ionalmente, ma solo accidentalmente e contro la sua intenzione. 2. Un giudizio ingiusto non è un giudizio. Quindi la falsa testimonianza proferita per im­ pedire l' ingiustizia in un giudizio ingiusto non ha natura di peccato mortale di per sé, ma la ha soltanto per la violazione del giuramento. 3. Gli uomini aborriscono soprattutto i peccati contro Dio, essendo questi i più gravi: e tra questi c'è lo spergiuro. Invece non aborrisco­ no ugualmente i peccati contro il prossimo. E così per una maggiore certezza della testi­ monianza viene richiesto il giuramento dei testimoni.

QUAESTI0 7 1

QUESTIONE 7 1

DE INIUSTITIA QUAE FIT IN IUDICIO EX PARTE ADVOCATORUM

LE INGIUSTIZIE PROCESSUALI DEGLI AVVOCATI

Deinde considerandum est de iniustitia quae fit in iudicio ex parte advocatorum. - Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, utrum advocatus teneatur praestare patrocinium causae paupe­ rum. Secundo, utrum aliquis debeat arceri ab officio advocati. Tertio, utrum advocatus peccet iniustam causam defendendo. Quarto, utrum peccet pecuniam accipiendo pro suo patrocinio.

Passiamo ora a considerare le ingiustizie pro­ cessuali degli avvocati. - Sull' argomento si pongono quattro quesiti : l . Un avvocato è tenuto a patrocinare la causa dei poveri? 2. Qualcuno deve essere escluso dall'ufficio di avvocato? 3. Un avvocato pecca difenden­ do una causa ingiusta? 4. Pecca prendendo del danaro per la sua opera?

Articulus l

Articolo l

Utrum advocatus teneatur patrocinium praestare causae pauperum

Gli avvocati sono tenuti a patrocinare le cause dei poveri?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod ad­ vocatus teneatur patrocinium praestare causae pauperum. l . Dicitur enim Ex. 23 [5], si videris asinum

odientis te iacere sub onere, non pertransibis, sed sublevabis cum eo. Sed non minus pericu­

lum imminet pauperi si eius causa contra iu­ stitiam opprimatur, quam si eius asinus iaceat sub onere. Ergo advocatus tenetur praestare patrocinium causae pauperum. 2. Praeterea, Gregorius dicit, i n quadam

Sembra di sì. Intàtti: l . In Es 23 [5] è detto:

Quando vedrai l 'asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo. Ora, il povero il cui processo è sotto il peso di un' ingiustizia non è in un pericolo meno grave che se gli fosse caduto l'asino sotto il carico. Perciò l' avvocato è tenuto a patrocinare la causa dei poveri. 2. Gregorio insegna: «Chi ha intelligenza cer­ chi in tutti i modi di non tacere; chi è larga-

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Le ingiustizie processuali degli avvocati

homilia [In Ev. h. l ,9], habens intellectum cu­ ret omnino ne taceat; habens rentm ajjluen­ tiam a misericordia non torpescat; habens artem qua regitw; usum illius cum proximo partiatur; habens loquendi locum apud divi­ tem, pro pauperibus interceda!, talenti enim nomine cuilibet reputabitur quod vel mini­ mum accepit. Sed talentum commissum non abscondere, sed fideliter dispensare quilibet tenetur, quod patet ex poena servi absconden­ tis talentum, Matth. 25 [24 sqq.]. Ergo advo­ catus tenetur pro pauperibus loqui. 3. Praeterea, praeceptum de misericordiae operibus adimplendis, cum sit affirmativum, obligat pro loco et tempore, quod est maxime in necessitate. Sed tempus necessitatis videtur esse quando alicuius pauperis causa opprimi­ tur. Ergo in tali casu videtur quod advocatus teneatur pauperibus patrocinium praestare. Sed contra, non minor necessitas est indigentis cibo quam indigentis advocato. Sed ille qui habet potestatem cibandi non semper tenetur pauperem cibare. Ergo nec advocatus semper tenetur causae pauperum patrocinium praestare. Respondeo dicendum quod cum praestare pa­ trocinium causae pauperum ad opus miseri­ cordiae pertineat, idem est hic dicendum quod et supra [q. 32 aa. 5.9] de aliis miseri­ cordiae operibus dictum est. Nullus enim suf­ ficit omnibus indigentibus misericordiae opus impendere. Et ideo sicut Augustinus dicit, in l De doct. chr. [28], cum omnibus prodesse

non possis, his potissime consulendum est qui pro locorum et temporum ve! quarumlibet rerum opportunitatibus, constrictius tibi, quasi quadam sorte, iunguntur. Dicit, pro locorum opportunitatibus, quia non tenetur homo per mundum quaerere i n d i gentes quibus subveniat, sed sufficit si eis qui sibi occurrunt misericordiae opus impendat. Unde dicitur Ex. 23 [4] , si occurreris bovi inimici tui aut asino erranti, reduc ad ewn. - Addit autem, et temporum, quia non tenetur homo futurae necessitati alterius providere, sed suf­ ficit si praesenti necessitati succurrat. Unde dicitur l loan. 3 [ 1 7], qui viderit fratrem suum

necessitatem patientem, et clauserit viscera sua ab eo, et cetera. - Subdit autem, vel quarum­ libet rerum, quia homo sibi coniunctis quacum­ que necessitudine maxime debet curam impen­ dere; secundum illud l ad Tim. 5 [ 8], si quis

suorum, et maxime domesticorum curam non

Q. 7 1 , A. l

mente provvisto di beni non cessi dalle opere di misericordia; chi ha l'arte di governare ne usi a vantaggio del prossimo; chi ha accesso alla casa dei ricchi interceda per i poveri: infat­ ti tutto ciò che si è ricevuto, per minimo che sia, sarà considerato come un talento da traffi­ care». Ora, tutti sono tenuti non a nascondere, ma a trafficare il talento ricevuto: come risulta evidente dalla punizione del servo della para­ bola, che lo aveva nascosto (Mt 25,24). Quindi gli avvocati sono tenuti a ditendere i poveri. 3. n precetto di compiere opere di misericor­ dia, essendo affermativo, obbliga in tempi e luoghi determinati, cioè soprattutto nei casi di necessità. Ma quando la causa di un povero è minacciata si ha certamente un tempo di gra­ ve necessità. Quindi in tali casi un avvocato è tenuto a patrocinare la causa dei poveri. In contrario: la necessità di chi ha bisogno di cibo non è minore di quella di chi ha bisogno dell' avvocato. Ora, chi può sfamare non sem­ pre è tenuto a sfamare i poveri. Perciò neppu­ re gli avvocati sono sempre tenuti a patrocina­ re le cause dei poveri. Risposta: patrocinare le cause dei poveri è un' opera di misericordia, e quindi in proposi­ to bisogna applicare quanto sopra abbiamo detto sulle altre opere di misericordia. Infatti nessuno è in grado di prestare soccorso a tutti gli indigenti. Perciò Agostino ammoniva: «Siccome non ti è possibile soccorrere tutti, devi provvedere soprattutto a quelli che ti so­ no, come per sorte, più strettamente con­ giunti, secondo le contingenze di luogo e di tempo o di qualsiasi altra circostanza». E dice: «secondo le contingenze di luogo» per­ ché uno non è tenuto a cercare per il mondo gli indigenti da socconere, ma basta che fac­ cia opere di misericordia a quelli che incon­ tra. Per cui in Es 23 [4] è detto: Quando

incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asi­ no dispersi, glieli dovrai ricondurre. - Ag­

giunge poi: «di tempo» perché non si è tenuti a provvedere alle altrui necessità future, ma basta che si provveda alla necessità presente. Perciò in l Gv 3 [ 1 7] è detto: Se uno vedendo

il suo fratello in necessità gli chiude il pro­ prio cuore... - E finalmente aggiunge: «O di qualsiasi altra circostanza [devi provvedere ai congiunti]» perché ciascuno in ogni necessità deve soccorrere specialmente le persone con­ giunte, come è detto in l Tm 5 [8]: Se qual-

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l

Le ingiustizie processuali degli avvocati

habet, fidem negavit. - Quibus tamen concur­ rentibus, considerandum restat utrum aliquis tantam necessitatem patiatur quod non i n promptu appareat quomodo e i possit aliter subveniri. Et in tali casu tenetur ei opus mise­ ricordiae impendere. - Si autem in promptu appareat quomodo ei aliter subveniri possit, vel per seipsum vel per aliam personam magis coniunctam aut maiorem facultatem habentem, non tenetur ex necessitate indigenti subvenire, ita quod non faciendo peccet, quamvis, si subvenerit absque tali necessitate, laudabiliter faciat. - Unde advocatus non tenetur semper causae pauperum patrocinium praestare, sed solum concurrentibus conditio­ nibus praedicti s . Alioquin oporteret eum omnia alia negotia praeterrnittere, et solis cau­ sis pauperum iuvandis intendere. Et idem di­ cendum est de medico, quantum ad cura­ tionem pauperum. Ad primum ergo dicendum quod quando asinus iacet sub onere, non potest ei aliter subveniri in casu isto nisi per advenientes subveniatur, et ideo tenentur iuvare. Non autem tenerenlur si posset aliunde remedium afferri. Ad secundum dicendum quod homo talentum sibi creditum tenetur uti liter dis pensare, servata opportunitate locorum et temporum et aliarum rerum, ut dictum est [in co.]. Ad tertium dicendum quod non quaelibet necessitas causat debitum subveniendi, sed solum illa quae est dieta [in co.].

702

cuno non si prende cura dei suoi cari, soprat­ tutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede. - Tuttavia anche in simili

circostanze bisogna considerare se il bisogno è così grave per cui non si può trovare imme­ diatamente un altro aiuto. Nel qual caso uno è tenuto a prestare l'opera di misericordia. - Se invece appare pronta la possibilità di un aiuto diverso, o per le risorse personali dell'indi­ gente, o grazie ad altre persone a lui più le­ gate o più facoltose, uno non è tenuto a soc­ correre l ' indigente così da peccare non fa­ cendolo: sebbene agisca lodevolmente qualo­ ra lo faccia senza una tale necessità. - Per cui un avvocato non è tenuto a patrocinare le cause dei poveri sempre, ma solo quando concorrono le predette condizioni. Altrimenti egli dovrebbe trascurare ogni altro ufficio e attendere solo a difendere le cause dei poveri. E lo stesso si dica per il medico a proposito della cura dei poveri. Soluzione delle difficoltà: l . L'asino che è ca­ duto sotto il carico, nel caso non può essere soccorso che dai passanti occasionali: questi sono dunque tenuti a prestare il loro aiuto. Non lo sarebbero invece se si potesse rime­ diare diversamente. 2. Un uomo è tenuto ad amministrare bene il talento ricevuto badando all' opportunità dei luoghi e dei tempi, come si è spiegato. 3. Non qualsiasi necessità, ma solo quella che abbiamo indicato produce l' obbligo di soc­ correre. Articolo 2

Articulus 2 Utrum inconvenienter aliqui secundum iura arceantur ab officio advocandi

siano esclusi dali 'ufficio di avvocato?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod in­ convenienter aliqui secundum iura arceantur ab officio advocandi. l . Ab operibus enim misericordiae nullus debet arceri . Sed patrocinium praestare in causis ad opera misericordiae pertinet, ut dictum est [a. l ] . Ergo nullus debet ab hoc officio arceri. 2. Praeterea, contrariarum causarum non vi­ detur esse idem effectus. Sed esse deditum rebus divinis, et esse deditum peccatis, est contrarium. Inconvenienter igitur excluduntur ab officio advocati quidam propter religio­ nem, ut monachi et clerici ; quidam autem propter culpam, ut infames et haeretici.

Sembra di no. Infatti: l . Nessuno deve essere distolto dalle opere di misericordia. Ora, patrocinare delle cause è un' opera di misericordia, come si è detto. Quindi nessuno deve essere escluso da questo incarico. 2. Sembra che delle cause contrarie non pos­ sano avere un identico effetto. Ma l 'essere de­ diti alle cose divine e l' essere dediti al peccato sono cose contrarie. Perciò non è ragionevole che alcuni siano esclusi dall'ufficio di avvoca­ to per motivi religiosi, come i monaci e i chie­ rici, e altri per delle colpe, come i pregiudicati e gli eretici.

È ragionevole che alcuni per legge

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Le ingiustizie processuali degli avvocati

3. Praeterea, homo debet diligere proximum sicut seipsum. Sed ad effectum dilectionis pertinet quod aliquis advocatus causae ali­ cuius patrocinetur. Inconvenienter ergo aliqui quibus conceditur pro seipsis auctoritas advocationis, prohibentur patrocinari causis aliorum. Sed contra est quod 3, q. 7 [Gratianus, Decre­ tum, p. 2, causa 3, q. 7, can. 2], multae per­ sonae arcentur ab officio postulandi. Respondeo dicendum quod aliquis impeditur ab aliquo actu duplici ratione, uno modo, propter impotentiam; alio modo, propter in­ decentiam. Sed impotentia simpliciter excludit aliquem ab actu, indecentia autem non exclu­ dit omnino, quia necessitas indecentiam tol­ lere potest. Sic igitur ab officio advocatorum prohibentur quidam propter impotentiam, eo quod deficiunt sensu, vel interiori, sicut furiosi et impuberes; vel exteriori, sicut surdi et muti. &t enim necessaria advocato et interior peritia, qua possit convenienter iustitiam assumptae causae ostendere, et iterum loquela cum auditu, ut possit et pronuntiare et audire quod ei dicitur. Unde qui in his defectum patiuntur omnino prohibentur ne sint advocati, nec pro se nec pro aliis. - Decentia autem huius officii exercendi tollitur dupliciter. Uno modo, ex hoc quod aliquis est rebus maioribus obligatus . Unde monachos et presbyteros non decet in quacumque causa advocatos esse, neque cleri­ cos in iudicio saeculari, quia huiusmodi per­ sonae sunt rebus divinis adstrictae. Alio modo, propter personae detectum, vel corporalem, ut patet de caecis, qui convenienter iudici adstare non possent; vel Spiritualem, non enim decet ut alterius iustitiae patronus existat qui in seipso iustitiam contempsit. Et ideo infames, infideles et damnati de gravibus criminibus non decenter sunt advocati. - Tamen huiusmo­ di indecentiae necessitas praefertur. Et propter hoc huiusmodi personae possunt pro seipsis, vel pro personis sibi coniunctis, uti officio advocati. Unde et clerici pro Ecclesiis suis possunt esse advocati, et monachi pro causa monasterii sui, si abbas praeceperit. Ad primum ergo dicendum quod ab operibus misericordiae interdum aliqui propter impo­ tentiam, interdum etiam propter indecentiam impediuntur. Non enim omnia opera miseri­ cordiae omnes decent, sicut stultos non decet consilium dare, neque ignorantes docere.

Q. 7 1 , A. 2

3. Un uomo è tenuto ad amare il prossimo co­ me se stesso. Ma uno degli effetti della carità consiste nel difendere in qualità di avvocato le cause altrui. Perciò è irragionevole che ad alcuni si conceda la facoltà di patrocinare le cause proprie e non si conceda quella di pa­ trocinare le cause altrui. In contrario: il Diritto Canonico esclude mol­ te persone dall'ufficio di avvocato. Risposta: si può essere impediti di compiere un atto per due motivi diversi: primo, per in­ capacità; secondo, per sconvenienza. Ma l'in­ capacità esclude in modo assoluto dal com­ pimento di un atto, mentre il difetto di con­ venienza non esclude del tutto, potendo es­ sere eliminato dalla necessità. Così dunque alcuni sono esclusi dall'ufficio di avvocato per incapacità, cioè per mancanza di senso interno, come i pazzi e gli impubeti, o di sen­ so esterno, come i sordi e i muti. Infatti l'av­ vocato ha bisogno di petizia intetiore, per po­ ter dimostrare efficacemente la giustizia della causa patrocinata, e inoltre ha bisogno della loquela e dell'udito, per parlare e per ascol­ tare quanto gli si dice. Per cui coloro che mancano di queste qualità sono esclusi as­ solutamente dal compito di avvocato, sia per se stessi che per gli altri. - La convenienza poi richiesta dall'esercizio di questo compito può essere compromessa in due modi. Primo, dal fatto che uno è tenuto a dei compiti più alti. Per cui ai monaci e ai sacerdoti non si addice di essere avvocati in nessuna causa, e ai chierici non s i addice di esserlo nei tri­ bunali civili: poiché tali persone sono deputa­ te alle cose divine. Secondo, per un difetto personale: o fisico, come nel caso dei ciechi, che non possono presentarsi come si conviene dinanzi a un giudice, o spirituale, non essendo decoroso che si presenti a patrocinare la giu­ stizia per un altro chi l'ha disprezzata in se stesso. Perciò i pregiudicati, i negatoti della fede e i condannati per gravi delitti non pos­ sono compiere decorosamente l'ufficio di av­ vocato. - Tuttavia il bisogno passa sopra a una simile sconvenienza. E così queste perso­ ne possono assolvere l'ufficio di avvocato per se stesse, oppure per chi loro appartiene. Per cui anche i chierici possono patrocinare le cause delle loro chiese, e i monaci quelle dei loro monasteri, dietro il comando dell'abate. Soluzione delle difficoltà: l . Dall'esercitare le

Q. 7 l , A. 2

Le ingiustizie processuali degli avvocati

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Ad secundum dicendum quod sicut virtus corru m p i tu r per superabundantiam et defectum, ita aliquis fit indecens et per maius et per minus. Et propter hoc quidam arcentur a patrocinio praestando in causis quia sunt maiores tali officio, sicut religiosi et clerici, quidam vero quia sunt minores quam ut eis hoc officium competat, sicut infames et infideles. Ad tertium dicendum quod non ita imminet homini necessitas patrocinati causis aliorum sicut propriis, quia alii possunt sibi aliter subvenire. Unde non est similis ratio.

opere di misericordia si può essere impediti sia per incapacità, sia per motivi di conve­ nienza. Infatti non tutte queste opere si addi­ cono a tutti: agli stolti, p. es., non si addice consigliare, e agli ignoranti insegnare. 2. Come la virtù può essere distrutta da un eccesso e da un difetto, così la sconvenienza può nascere dal più e dal meno. E così alcuni, ossia i religiosi e i chierici, sono esclusi dal patrocinare le cause perché la loro dignità è superiore a questo ufficio; altri invece, come i pregiudicati e i miscredenti, perché sono impari ad assolverlo. 3. A nessuno incombe la necessità di patroci­ nare le cause altrui come la causa propria, poiché gli altri possono rimediare diversa­ mente. Per cui l'argomento non vale.

Articulus 3 Utrum advocatus peccet si iniustam causam defendat

Articolo 3 L'avvocato pecca nel difendere una causa ingiusta?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod advo­ catus non peccet si iniustam causam defendat. l . Sicut enim ostenditur peritia medici si in­ firmitatem desperatam sanet, ita etiam osten­ ditur peritia advocati si etiam iniustam cau­ sam defendere possit. Sed medicus laudatur si intìrmitatem desperatam sanet. Ergo etiam advocatus non peccat, sed magis laudandus est, si iniustam causam defendat. 2. Praeterea, a quolibet peccato licet desistere. Sed advocatus punitur si causam suam prodi­ derit, ut habetur 2, q. 3 [Gratianus, Decretum, p. 2, causa 2, q. 3, app. ad can. 8] . Ergo advocatus non peccat iniustam causam defen­ dendo, si eam defendendam susceperit. 3. Praeterea, maius videtur esse peccatum si iniustitia utatur ad iustam causam defenden­ dam, puta producendo falsos testes vel alle­ gando falsas leges, quam iniustam causam defendendo, quia hoc est peccatum in forma, illud in materia. Sed videtur advocato licere talibus astutiis uti, sicut militi licet ex insidiis pugnare. Ergo videtur quod advocatus non peccat si iniustam causam defendat. Sed contra est quod dicitur 2 Parai. 1 9 [2],

Sembra di no. Infatti: l . Come guarire una malattia disperata dimo­ stra l'abilità di un medico, così la capacità di difendere una causa ingiusta dimostra la peri­ zia di un avvocato. Ora, il medico che guari­ sce una malattia disperata viene lodato. Quin­ di l'avvocato che difende una causa ingiusta non pecca, ma merita di essere lodato. 2. Desistere dal peccato è sempre lecito. Inve­ ce l'avvocato che abbandona la propria causa viene punito dai Canoni. Quindi l 'avvocato che ha preso a difendere una causa ingiusta non pecca nel patrocinarla. 3. Sembra un peccato più grave servirsi di un'ingiustizia nel difendere una causa giusta ­ p. es. producendo falsi testimoni o allegando leggi false - che patrocinare una causa in­ giusta: poiché là il peccato verte sulla forma, qui invece sulla materia. Eppure agli avvocati è permesso servirsi di tali astuzie: come sono le­ cite le imboscate ai soldati. Quindi un avvocato non pecca nel difendere una causa ingiusta. In contrario: in 2 Cr 1 9 [2] si dice: Dai aiuto a

impio praebes au.xilium, et idcirco iram Do­ mini merebaris. Sed advocatus defendens

ingiusta presta aiuto a un empio. Quindi merita, peccando, l'ira del Signore. Risposta: è sempre illecito per chiunque cooperare al male, sia con l'opera, sia con il consiglio, sia con l'aiuto, sia con ogni altro

causam iniustam impio praebet auxilium. Er­ go, peccando, iram Domini meretur. Respondeo dicendum quod illicitum est alicui

un empio, e per questo meriterai l'ira del Si­ gnore. Ma l'avvocato che difende una causa

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Le ingiustizie processuali degli avvocati

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cooperari ad malum faciendum sive consulen­ do, sive adiuvando, sive qualitercumque con­ sentiendo, quia consilians et coadiuvans quodammodo est faciens; et apostolus dicit, ad Rom. l [32], quod digni sunt mm1e non solum qui faciunt peccatum, sed etiam qui consen­ tiunt facientibus. Unde et supra [q. 62 a. 7] dictum est quod ornnes tales ad restitutionem tenentur. Manifestum est autem quod advoca­ tus et auxilium et consilium praestat ei cuius causae patrocinatur. Unde si scienter iniustam causam defendit, absque dubio graviter peccat; et ad restitutionem tenetur eius damni quod contra iustitiam per eius auxilium altera pars incunit. Si autem ignoranter iniustam causam defendit, putans esse iustam, excusatur, secun­ dum modum quo ignorantia excusare potest. Ad primum ergo dicendum quod medicus accipiens in cura infirmitatem desperatam nulli facit iniuriam. Advocatus autem susci­ piens causam iniustam iniuste laedit eum contra quem patrocinium praestat. Et ideo non est similis ratio. Quamvis enim laudabilis videatur quantum ad peritiam artis, tamen peccat quantum ad iniustitiam voluntatis, qua abutitur arte ad malum. Ad secundum dicendum quod advocatus, si in principio credidit causam iustam esse et postea in processu appareat eam esse iniustam, non debet eam prodere, ut scilicet aliam partem iu­ vet, vel secreta suae causae alteri parti revelet. Potest tamen et debet causam deserere; vel eum cuius causam agit ad cedendum inducere, sive ad componendum, sine adversarii darnno. Ad tertium dicendum quod, sicut supra [q. 40 a. 3] dictum est, militi vel duci exercitus licet in bello iusto ex insidiis agere ea quae facere debet prudenter occultando, non autem falsi­ tatem fraudulenter faciendo, quia etiam hosti fidem servm-e oportet, sicut Tullius dicit, in 3 De off. [29]. Unde et advocato defendenti causam iustam licet prudenter occultare ea quibus impediri posset processus eius, non autem licet ei aliqua falsitate uti.

consenso: poiché chi consiglia e coopera in qualche modo compie l'azione; e Paolo in Rm l [32] insegna che meritano la morte non solo gli autori del peccato, ma anche quanti approvano chi lo fa. Per cui sopra abbiamo anche dimostrato che tutti costoro sono tenuti alla restituzione. Ora, è evidente che l' avvo­ cato presta aiuto e consiglio alla persona di cui difende la causa. Se quindi egli difende scientemente una causa ingiusta, senza dub­ bio fa un peccato mortale; ed è tenuto a ripa­ rare il danno incorso ingiustamente dalla par­ te contraria per il suo intervento. Se invece difende una causa ingiusta per ignoranza, cioè pensando che sia giusta, allora è scusato nella misura in cui può scusare l'ignoranza. Soluzione delle difficoltà: l . Il medico che cura un'infermità disperata non fa torto a nessuno. Invece l'avvocato che prende a di­ fendere una causa ingiusta danneggia colui contro il quale rivolge il suo patrocinio. Per­ ciò il paragone non regge. Sebbene infatti egli possa mostrare così la perizia nella sua arte, tuttavia pecca per l'ingiustizia del suo volere col quale abusa di essa per il male. 2. Se un avvocato in principio crede che la sua causa sia giusta e poi si accorge che è ingiusta, non deve denunziarla in modo da aiutare la parte avversa, o da rivelare ad essa i segreti della sua parte. Tuttavia può abbando­ narla; oppure può indurre il suo cliente a ce­ dere, o a venire a una composizione senza danno per gli avversari. 3. Come sopra si è detto, al soldato o al capi­ tano di un esercito è lecito in una guerra giu­ sta ricorrere a degli stratagemmi nascondendo con prudenza i propri piani, ma non ricorren­ do alla falsità e alla frode: poiché, come ricor­ da Cicerone, «si deve essere leali anche col nemico». Perciò all'avvocato che difende una causa giusta è lecito nascondere con prudenza quanto potrebbe nuocere alla propria causa, ma non è lecito ricorrere a delle thlsità.

Articulus 4 Utrum advocato liceat pro suo patrocinio pecuniam accipere

Articolo 4 L'avvocato può ricevere del danaro per la sua opera?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod ad­ vocato non liceat pro suo patrocinio pecu­ niam accipere.

Sembra di no. Infatti: l . Le opere di misericordia non vanno fatte in vista di una ricompensa umana, come è detto

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Le ingiustizie processuali degli avvocati

l . Opera enim misericordiae non sunt intuitu humanae remunerationis facienda, secundum illud Luc. 1 4 [ 1 2], cum facis prandium aut

cenam, noli vocare amicos tuos neque vicinos divites, ne forte et ipsi te reinvitent, etfiat tibi retributio. Sed praestare patrocinium causae alicuius pertinet ad opera misericordiae, u t dictum est [a. 1]. Ergo non licet advocato ac­ cipere retributionem pecuniae pro patrocinio praestito. 2. Praeterea, Spirituale non est pro temporali commutandum. Sed patrocinium praestitum videtur esse quiddam Spirituale, cum sit usus scientiae iuris. Ergo non licet advocato pro patrocinio praestito pecuniam accipere. 3 . Praeterea, sicut ad iudicium concurrit per­ sona advocati, ita etiam persona iudicis et per­ sona testis. Sed secundum Augustinum, ad Macedonium [ep. 1 53,6], non debet iudex

vendere iustum iudicium, nec testis verum te­ stimonium. Ergo nec advocatus poterit vende­

re iustum patrocinium. Sed contra est quod Augustinus dicit ibidem [ep. 153,6], quod advocatus licite vendit iustum

patmciniwn, et iurisperitus verum consilium.

Respondeo dicendum quod ea quae quis non tenetur alteri exhibere, iuste potest pro eorum exhibitione recompensationem accipere. Ma­ nifestum est autem quod advocatus non sem­ per tenetur patrocinium praestare aut consi­ lium dare causis aliorum. Et ideo si vendat suum patrocinium sive consilium, non agit contra iustitiam. Et eadem ratio est de medico opem ferente ad sanandum, et de omnibus aliis huiusmodi personis, dum tamen mode­ rate accipiant, considerata conditione persona­ rum et negotiorum et laboris, et consuetudine patriae. Si autem per improbitatem aliquid immoderate extorqueat, peccat contra iusti­ tiam. Unde Augustinus dicit, ad Macedonium [ep. 1 53,6], quod ab his extorta per immode­

ratam improbitatem repeti solent, data per tolerabilem consuetudinem non solent.

Ad primum ergo dicendum quod non semper quae homo potest mi sericorditer facere, tenetur facere gratis, alioquin nulli liceret aliquam rem vendere, quia quamlibet rem potest homo misericorditer impendere. Sed quando eam misericorditer impendit, non humanam, sed divinam remunerationem quaerere debet. Et similiter advocatus, quando causae pauperum misericorditer patrocinatur,

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in Le 1 4 [ 12] : Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i ricchi vici­ ni, perché anch 'essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Ma, come

si è detto, il patrocinare la causa altrui è un'opera di misericordia. Quindi a un avvoca­ to non è lecito ricevere una retribuzione per l'opera prestata. 2. Le cose spirituali non possono essere scam­ biate con quelle temporali. Ma la difesa di una causa è u n bene spirituale, essendo l'esercizio della scienza del diritto. Perciò un avvocato non può ricevere un compenso per la sua opera. 3. Al giudizio concorrono gli avvocati come concorrono il giudice e i testimoni. Ma secon­ do Agostino «il giudice non deve vendere il giusto giudizio, né il testimone la vera testi­ monianza». Quindi neppure l' avvocato può vendere il proprio giusto patrocinio. In contrario: Agostino insegna che «l' avvoca­ to può vendere il suo giusto patrocinio, e il giureconsulto il suo esatto consiglio». Risposta: uno può giustamente ricevere u n compenso per i servizi che non è tenuto a ren­ dere agli altri. Ora, è evidente che un avvoca­ to non è sempre tenuto a prestare il suo patro­ cinio e il suo consiglio nelle cause altrui. Se quindi vende il suo patrocinio o il suo consi­ glio non agisce contro la giustizia. E lo stesso si dica del medico che si prende cura di un malato, e di tutti gli altri professionisti di que­ sto genere: purché la retribuzione sia mode­ rata in rapporto alla condizione delle persone, degli affari, della fatica impiegata e delle con­ suetudini del luogo. Se invece uno esige più dell'onesto, pecca contro la giustizia. Per cui Agostino notava che «quanto fu da essi estor­ to i n modo disonesto si è soliti riprenderlo, mentre viene lasciata l' offerta loro fatta se­ condo consuetudini accettabili». Soluzione delle difficoltà: l . Un uomo non è sempre tenuto a compi ere gratuitamente quanto può esercitare per misericordia: altri­ menti non si potrebbe più vendere nulla, dal momento che qualsiasi cosa può essere data per misericordia. Tuttavia quando uno dà per misericordia non deve cercare un compenso dagli uomini, bensì da Dio. E così gli avvoca­ ti, quando difendono per misericordia la cau­ sa dei poveri, non devono mirare a una mer­ cede umana, ma alla mercede divina; essi

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non debet intendere remunerationem huma­ nam, sed divinam, non tamen semper tenetur gratis patrocinium impendere. Ad secundum dicendum quod etsi scientia iuris sit quiddam Spirituale, tamen usus eius fit opere corporali. Et ideo pro eius recompen­ satione licet pecuniam accipere, alioquin nulli artifici liceret de atte sua lucrari. Ad tertium dicendum quod iudex et testis communes sunt utrique parti, quia iudex tene­ tur iustam sententiam dare, et testis tenetur verum testimonium dicere; iustitia autem et veritas non declinant in unam partem magis quam in aliam. Et ideo iudicibus de publico sunt stipendia laboris statuta; et testes acci­ piunt, non quasi pretium testimonii, sed quasi stipendium laboris, expensas vel ab utraque parte, vel ab ea a qua inducuntur, quia nemo militar stipendiis suis unquam, ut dicitur l ad Cor. 9 [7] . Sed advocatus alteram partem tantum defendit. Et ideo licite potest pretium accipere a parte quam adiuvat.

però non sono sempre tenuti a prestare gratui­ tamente il loro patrocinio. 2. Sebbene la scienza del diritto sia qualcosa di spirituale, tuttavia il suo esercizio esige un lavoro corporale. Per cui in compenso di ciò è lecito ricevere del danaro: altJ.imenti nessun ar­ tigiano potrebbe avere un compenso per il suo mestiere. 3. n giudice e i testimoni sono estranei all'una e all'altra parte: poiché il giudice è tenuto a dare la sentenza giusta e i testimoni a rendere la vera testimonianza; e sia la giustizia che la verità non stanno per tma parte piuttosto che per l'altra. E così ai giudici viene assegnato un onorario dalla collettività, e i testimoni ricevono dalle due parti, o da quella che li ha prodotti, l'equivalente delle spese, non come paga della testimonianza, ma come compenso per la fatica sostenuta: poi­ ché nessuno presta servizio militare a proprie spese (l Cor 9,7). Invece un avvocato difende solo una delle parti. Quindi può percepire lecita­ mente un compenso dai suoi clienti.

QUAESTI0 72 DE CONTUMELIA

QUESTIONE 72 L'INSULTO

Deinde considerandum est de iniuriis verbo­ rum quae inferuntur extra iudicium. Et primo, de contumelia; secundo, de detractione [q. 73]; tertio, de susurratione [q. 74]; quarto, de de­ risione [q. 75]; quinto, de maledictione [q. 76]. - Circa primum quaeruntur quatuor. Primo, quid sit contumelia. Secundo, utrum omnis contumelia sit peccatum mortale. Tertio, utrum oporteat contumeliosos reprimere. Quarto, de origine contumeliae.

Veniamo ora a parlare delle ingiurie verbali fuori dei processi. Primo, dell' insulto; se­ condo, della diffamazione; terzo, della mormo­ razione; quarto, della derisione; quinto, della maledizione. - Sul primo argomento si pon­ gono quattro quesiti: l . Che cos'è l'insulto? 2. !-'insulto è sempre un peccato mortale? 3. E opportuno reagire agli insulti? 4. Sull'o­ rigine degli insulti, o contumelie.

Articulus l Utrum contumelia consistat in verbis

Articolo l L'insulto consiste in parole?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod con­ tumelia non consistat in verbis. l . Contumelia enim importat quoddam nocu­ mentum proximo illatum, cum pertineat ad iniustitiam. Sed verba nullum nocumentum vi­ dentur inferre proximo, nec in rebus nec in persona. Ergo contumelia non consistit in verbis. 2. Praeterea, contumelia videtur ad quandam dehonorationem pertinere. Sed magis aliquis potest inhonorari seu vituperari factis quam

Sembra di no. Infatti: l . L'insulto implica un danno a svantaggio del prossimo, trattandosi di un'ingiustizia. Ma le parole non recano danno né alle cose né alla persona del prossimo. Quindi l'insulto non consiste in parole. 2. L'insulto porta un certo disonore. Ma uno viene disonorato o vituperato più con i fatti che con le parole. Quindi l'insulto non è co­ stituito di parole, ma piuttosto di fatti. 3. n disonore fatto a parole viene detto oltrag-

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verbis. Ergo videtur quod contumelia non consistit in verbis, sed magis in factis. 3. Praeterea, dehonoratio quae fit in verbis dicitur convicium vel improperium. Sed con­ tumelia videtur differre a convicio et impro­ perio. Ergo contumelia non consistit in verbis. Sed contra, nihil auditu percipitur nisi ver­ bum. Sed contumelia auditu percipitur, secun­ dum illud Ier. 20 [10], audivi contumelias in circuitu. Ergo contumelia est in verbis. Respondeo dicendum quod contumelia impor­ tat dehonorationem alicuius. Quod quidem contingit dupliciter. Cum enim honor aliquam excellentiam consequatur, uno modo aliquis alium dehonorat cum privat eum excellentia propter quam habebat honorem. Quod quidem fit per peccata factorum, de quibus supra [qq. 64-66] dictum est. - Alio modo, cum aliquis id quod est contra honorem alicuius deducit in notitiam eius et aliorum. Et hoc proprie pertinet ad contumeliam. Quod quidem fit per aliqua signa. Sed sicut Augustinus dicit, in 2 De doct. chr. [3], omnia signa, verbis com­

parata, paucissima sunt, verba enim inter ho­ mines obtinuerunt principatum significandi quaecumque aninw concipiuntur. Et ideo con­ tumelia, proprie loquendo, in verbis consistit. Unde Isidorus dicit, in libro Etymol. [10, ad litt. C], quod contumeliosus dicitur aliquis quia velox est et tumet verbis iniuriae. - Quia tamen etiam per tàcta aliqua significatur aliquid, quae in hoc quod significant habent vim verborum significantium; inde est quod contumelia, extenso nomine, etiam in tàctis dicitur. Unde Rom. l [30], super illud, contumeliosos, super­ bos, dicit Glossa [int. et Lomb.] quod contume­ liosi sunt qui dictis vel factis contumelias et

turpia inferunt.

Ad primum ergo dicendum quod verba secun­ dum suam essentiam, idest i nquantum sunt quidam soni audibiles, nullum nocumentum alteri inferunt, nisi forte gravando auditum, puta cum aliquis nimis alte loquitur. Inquan­ tum vero stmt signa repraesentantia aliquid in notitiam aliorum, sic possunt multa damna in­ ferre. Inter quae unum est quod homo damnifi­ catur quantum ad detrimentum honoris sui vel reverentiae sibi ab aliis exhibendae. Et ideo maior est contumelia si aliquis alicui defectum suum dicat coram multis. Et tamen si sibi soli dicat, potest esse contumelia, inquantum ipse qui loquitur contra audientis reverentiam agit

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gio, o improperio. Ma l 'insulto sembra diffe­ rire dall' oltraggio e dali' improperio. Perciò l'insulto non consiste in parole. In contrario: con l' udito non si percepiscono che le parole. Ma gli insulti sono percepiti con l ' udito, come è detto in Ger 20 [ 1 0] : Sentivo gli insulti intorno. Quindi l' insulto è fatto di parole. Risposta: l 'insulto implica il disonore di una persona. E ciò può accadere in due modi. Pri­ mo, quando la si priva dell'eccellenza che le merita l' onore, dal momento che l'onore na­ sce precisamente da tale eccellenza. E ciò si compie mediante i peccati di opere, di cui ab­ biamo già parlato. - Secondo, quando si porta a conoscenza dell ' interessato e degli altri quanto ne pregiudica l 'onore. E ciò propria­ mente appartiene all ' insulto. Il che avviene attraverso dei segni. Ora, secondo Agostino, «tutti i segni, a confronto delle parole, sono poca cosa: infatti tra gli uomini le parole han­ no avuto un primato assoluto nell'esprimere qualsiasi concetto deIl' animo». Quindi, pro­ priamente parlando, l' insulto consiste in paro­ le. Per cui Isidoro insegna che uno è chiamato contumelioso «perché è veloce e tumido nel pronunciare parole ingiuriose». - Siccome tuttavia certe cose possono essere significate anche con dei fatti, i quali nella misura in cui significano hanno il valore delle parole, in senso lato si può parlare d'insulto anche a proposito di fatti. Per cui la Glossa, a proposi­ to dei contumeliosi e superbi di cui è detto i n Rm l [30] , spiega che contumeliosi sono «quelli che con le parole o con i fatti arrecano insulti e ignominie». Soluzione delle difficoltà: l . Le parole per la loro natura fisica, cioè in quanto suoni, non fanno del male; se non forse disturbando l ' udito, se uno parla troppo forte. Però i n quanto segni atti a presentare ad altri delle no­ zioni, possono fare molti danni. E uno di questi è il pregiudizio che un uomo può rice­ vere nell' onore e nel rispetto a lui dovuto da parte degli altri. Perciò l' insulto è maggiore se uno rinfaccia i difetti dinanzi a molte persone. Ma ci può essere insulto anche nel rinfacciarli da solo a solo, se chi parla manca di rispetto verso chi ascolta. 2. Una persona in tanto pregiudica con i fatti l 'onore di un' altra in quanto quei tàtti com­ piono o i ndicano cose che ne pregiudicano

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Ad secu ndum dicendum quod i ntantum aliquis aliquem factis dehonorat inquantum illa facta vel faciunt vel significant illud quod est contra honorem alicuius. Quomm primum non pertinet ad contumeliam, sed ad alias iniustitiae species, de quibus supra dictum est [qq . 64-66] . S ecundum vero pertinet ad contumeliam inquantum facta habent vim verborum in significando. Ad tertium dicendum quod convicium et im­ properium consistunt in verbis, sicut et contu­ melia, quia per omnia haec repraesentatur aliquis defectus alicuius in detrimentum hono­ ris ipsius. Huiusmodi autem defectus est tri­ plex. Scilicet defectus culpae, qui repraesen­ tatur per verba contumeliosa. Et defectus generaliter culpae et poenae, qui repraesentatur per convitium, quia vitium consuevit dici non solum animae, sed etiam corporis. Unde si quis alicui iniuriose dicat eum esse caecum, convi­ cium quidem dicit, sed non contumeliam, si quis autem dicat alteri quod sit fur, non solum convicium, sed etiam contumeliam i nfert. Quandoque vero repraesentat aliquis alicui defectum minorationis sive indigentiae, qui etiam derogat honori consequenti quamcum­ que excellentiam. Et hoc fit per verbum impro­ perii, quod proprie est quando aliquis iniuriose alteri ad memoriam reducit auxilium quod contulit ei necessitatem patienti. Unde dicitur Eccli. 20 [ 1 5], exigua dabit, et multa imprope­ rabit. Quandoque tamen unum istomm pro allo ponitur.

l'onore. Ma la prima di queste funzioni non appartiene ali' insulto, bensì ad altre specie di ingiustizia di cui abbiamo già parlato. La se­ conda invece appartiene all'insulto, in quanto quei fatti hanno per il loro significato il valore di parole. 3. Gli oltraggi e gli improperi sono anch'essi delle parole come l' insulto: poiché tutte que­ ste cose consistono nel rinfacciare ad altri dei difetti per menomame l' onore. Ora, tali difetti sono di tre generi. C'è i l difetto morale, o peccato, che viene espresso dalle parole d'in­ sulto. C'è poi il difetto che abbraccia indistin­ tamente il peccato e il castigo, e che viene espresso mediante l ' ingiuria [con-vitium] : poiché si usa parlare di vizio non solo per l'anima, ma anche per il corpo. Se quindi uno rinfaccia a una persona la cecità lancia un'in­ giuria, non un insulto; se invece dice all' altro che è un ladro, non solo lancia un'ingiuria, ma infligge anche un insulto. Finalmente talo­ ra si rinfacciano al prossimo difetti attinenti alla sua umile condizione e alla sua indigen­ za, e che compromettono anch'essi l' onore che accompagna una qualsiasi nobiltà o supe­ riorità. E ciò avviene con l' improperio, che propriamente consiste nel ricordare ad altri l'aiuto loro prestato quando erano nel biso­ gno. Da cui le parole di Sir 20 [ 1 5]: Egli darà poco ma rinfaccerà molto. Tuttavia spesso questi termini vengono usati l'uno per l'altro.

Articulus 2 Utrum contumelia, vel convicium, sit peccatum mortale

Articolo 2 L'insulto o ingiuria è un peccato mortale?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod contumelia, vel convicium, non sit peccatum mortale. l . Nullum enim peccatum mortale est actus alicuius virtutis. Sed conviciari est actus ali­ cuius virtutis, scilicet eutrapeliae, ad quam per­ tinet bene conviciari, secundum philosophum, in 4 Ethic. [8, 1 0]. Ergo convicium, sive contu­ melia, non est peccatum mortale. 2. Praeterea, peccatum mortale non invenitur in viris perfectis. Qui tamen aliquando convi­ cia vel contumelias dicunt, sicut patet de apo­ stolo, qui, ad Gal. 3 [ l ], dixit, o insensati Ga­ latae. Et Dominus dicit, Luc. 24 [25], o stulti,

Sembra di no. Infatti: l . Nessun peccato mortale può essere un atto di virtù. Ma l'insultare è l' atto di una virtù, cioè dell' eutrapelia, alla quale, secondo Ari­ stotele, spetta il saper ben insultare. Quindi l'insulto non è un peccato mortale. 2. n peccato mortale non si riscontra nei perfet­ ti. Eppure costoro talora dicono degli insulti. Paolo, p. es., dice in Gal 3 [l]: O stolti Galati! E il Signore in Le 24 [25] esclama: O stolti e tardi di cuore nel credere! Quindi l'insulto non è un peccato mortale. 3. Sebbene quanto nel suo genere è un pecca­ to veniale possa divenire mortale, tuttavia un

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et tardi corde ad credendum. Ergo convicium, sive contumelia, non est peccatum mortale. 3. Praeterea, quamvis id quod est peccatum veniale ex genere possit fieri mortale, non tamen peccatum quod ex genere est mortale potest esse veniale, ut supra [I-Il q. 88 aa. 4.6] habitum est. Si ergo dicere convicium vel contumeliam esset peccatum mortale ex ge­ nere suo, sequeretur quod semper esset pec­ catum mortale. Quod videtur esse falsum, ut patet in eo qui leviter et ex subreptione, vel ex levi ira dicit aliquod verbum contumeliosum. Non ergo contumelia vel convicium ex genere suo est peccatum mortale. Sed contra, nihil meretur poenam aeternam Inferni nisi peccatum mortale. Sed convicium vel contumelia meretur poenam Inferni, se­ cundum illud Matth. 5 [22], qui dixerit fratri suo, fatue, reus erit gehennae ignis. Ergo con­ vicium vel contumelia est peccatum mortale. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. l ad l] dictum est, verba inquantum sunt soni quidam, non sunt in nocumentum aliorum, sed i nquantum significant aliquid. Quae quidem significatio ex interiori affectu proce­ dit. Et ideo i n peccatis verborum maxime considerandum videtur ex quo affectu aliquis verba proferat. Cum igitur convicium, seu contumelia, de sui ratione importet quandam dehonorationem, si intentio proferentis ad hoc feratur u t aliqu i s per verba quae profert honorem alterius auferat, hoc proprie et per se est dicere convicium vel contumeliam. Et hoc est peccatum mortale, non minus quam fur­ tum vel rapina, non enim homo minus amat suum honorem quam rem possessam. - Si ve­ ro aliquis verbum convicii vel contumeli ae alteri dixerit, non tamen animo dehonorandi, sed forte propter correctionem vel propter aliquid huiusmodi, non dicit convicium vel contumeliam formaliter et per se, sed per accidens et materialiter, inquantum scilicet dicit id quod potest esse convicium, vel con­ tumelia. Unde hoc potest esse quandoque peccatum veniale; quandoque autem absque omni peccato. In quo tamen necessaria est discretio, ut moderate homo talibus verbis utatur. Quia posset esse ita grave convicium quod, per i ncautelam prolatum, auferret honorem eius contra quem proferretur. Et tunc posset homo peccare mortaliter etiam si non intenderet dehonorationem alterius. Sicut

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peccato che nel suo genere è mortale non può mai diventare veniale, come sopra si è detto. Se quindi l'insulto fosse un peccato mortale per sua natura, ne seguirebbe che in tutti i casi sarebbe un peccato mortale. Ma ciò sembra essere falso: come è evidente nel caso di chi insulta per leggerezza, o senza riflettere, oppu­ re per un lieve moto di collera. Quindi l' insul­ to non è nel suo genere un peccato mortale. In contrario: nulla all' infuori del peccato mor­ tale merita la pena eterna dell'inferno. Ora l'insulto merita la pena dell' inferno, secondo le parole di Mt 5 [22]: Chi dice al suo fratello:

paz:zo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.

Perciò l' insulto è un peccato mortale. Risposta: come si è già detto, le parole posso­ no danneggiare il prossimo non in quanto so­ no dei suoni, ma in quanto significano qualco­ sa. Ora, questo significato dipende dagli affetti interiori. Perciò nei peccati di parola si deve considerare specialmente con quali dispo­ sizioni d ' animo uno si esprime. E poiché l'insulto per sua natura implica una menoma­ zione dell' onore, se l ' intenzione di chi lo e­ sprime è quella di distruggere con le parole I' onore di una persona, allora si ha propria­ mente e direttamente un' ingiuria, o un insulto. E questo è un peccato mortale non meno del furto o della rapina: una persona infatti ama il proprio onore non meno dei suoi beni materia­ li. - Se invece uno dice parole d'insulto senza l'intenzione di disonorare il prossimo, ma o per correggere o per altre cose del genere, allora egli pronuncia un insulto non formal­ mente e propriamente, bensì per accidens e solo materialmente, cioè in quanto usa un'e­ spressione che potrebbe essere un insulto. Per cui in certi casi questo fatto può dar luogo a un peccato veniale; e in altri a nessun peccato. Però in questi casi occorre discrezione, in mo­ do da fare uso di queste parole con modera­ zione. Poiché l ' insulto potrebbe essere così grave da compromettere, sebbene venga in­ flitto per leggerezza, l' onore di chi è instùtato. E allora uno potrebbe peccare mortalmente an­ che senza l' intenzione di disonorare una per­ sona. Come non è esente da colpa chi nel col­ pire un altro per gioco lo ferisce gravemente. Soluzione delle difficoltà: l . Rientra nella vir­ tù dell' eutrapelia il dire qualche leggero in­ sulto non per disonorare o contristare la per­ sona colpita, ma per ricreazione e per gioco.

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etiam si aliquis, incaute alium ex ludo percu­ tiens, graviter laedat, culpa non caret. Ad primum ergo dicendum quod ad eutra­ pelum pertinet dicere aliquod leve convicium, non ad dehonorationem vel ad contristationem eius in quem dicitur, sed magis causa delecta­ tionis et ioci. Et hoc potest esse sine peccato, si debitae circumstantiae observantur. Si vero aliquis non reformidet contristare eum in quem profertur huiusmodi iocosum convicium, dummodo aliis risum excitet, hoc est vitiosum, ut ibidem [Ethic. 4,8,3] dicitur. Ad secundum dicendum quod sicut licitum est aliquem verberare vel in rebus damnificare causa disciplinae, ita etiam et causa disciplinae potest aliquis alteri, quem debet corrigere, verbum aliquod conviciosum dicere. Et hoc modo Dominus discipulos vocavit stultos, et apostolus Galatas insensatos. Tamen, sicut dicit Augustinus, in libro De serm. Dom. [2,1 9], raro, et ex magna necessitate obiurgationes sunt adhibendae, in quibus non nobis, sed ut Domino serviatur, instemus. Ad tertium dicendum quod, cum peccatum convicii vel contumeliae ex animo dicentis dependeat, potest contingere quod sit pecca­ rum veniale, si sit leve convicium, non mul­ tum hominem dehonestans, et proferatur ex aliqua animi !evitate, vel ex levi ira, absque firmo proposito aliquem dehonestandi, puta cum aliquis intendit aliquem per huiusmodi verbum leviter contristare.

E ciò può essere fatto senza peccato, osser­ vando le debite circostanze. Se però uno non teme di contristare chi è oggetto di tali insulti giocosi pur di far ridere gli altri, allora si ha un atto peccaminoso, come nota lo stesso Aristotele. 2. Come è lecito percuotere o privare di qual­ cosa il prossimo per correggerlo, così per lo stesso motivo gli si possono rivolgere parole ingiuriose. Ed è per questo che il Signore chiamò stolti quei discepoli, e Paolo chiamò stolti i Galati. Tuttavia, come nota Agostino, «Si devono usare i rimproveri raramente e per gravi motivi, e non con l'intenzione di impor­ ci, ma per l'onore di Dio». 3. Siccome il peccato d'insulto dipende dal­ l' animo di chi lo esprime, può capitare che si tratti di un peccato veniale se si tratta di un insulto leggero che non disonora gravemente, e viene proferito per leggerezza o per un lieve moto d'ira, senza il fermo proposito di umi­ liare una persona: come quando uno mira sol­ tanto a mortificarla lievemente.

Articulus 3 Utrum aliquis debeat contumelias sibi illatas sustinere

Articolo 3 Si è tenuti a sopportare gli insulti che si ricevono?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod aliquis non debeat contumelias sibi illatas sustinere. l . Qui enim sustinet contumeliam sibi il­ latam, audaciam nutrit conviciantis. Sed hoc non est faciendum. Ergo homo non debet sustinere contumeliam sibi illatam, sed magis convicianti respondere. 2. Praeterea, homo debet plus se diligere quam alium. Sed aliquis non debet sustinere quod alteri convicium inferatur, unde dicitur Prov. 26 [ 1 0] , qui imponit stulto silentium, iras mitigat. Ergo etiam aliquis non debet su­ stinere contumelias illatas sibi. 3. Praeterea, non licet alicui vindicare seipsum, secundum illud [Hebr. 10,30], mihi vindictam,

Sembra di no. Infatti: l. Chi sopporta l'insulto che riceve incoraggia l'ardire di chi insulta. Ma questa non è una cosa da farsi. Quindi non si devono sopporta­ re le contumelie che si ricevono, ma piuttosto rispondere a chi le infligge. 2. Un uomo è tenuto ad amare se stesso più de­ gli altri. Ora, uno non deve sopportare l'insulto fatto ad altri, poiché è detto in Pr 26 [ 1 0]: Chi impone il silenzio allo stolto acquieta l'ira. Perciò si è anche tenuti a non sopportare gli insulti ricevuti personalmente. 3. A nessuno è permesso di vendicarsi, come è detto [Eb 1 0,30]: A me la vendetta! Io darò la retribuzione. Ma non reagendo agli insulti

Q. 72, A. 3

L 'insulto

et ego retribuam. Sed aliquis non resistendo contumeliae se vindicat, secundum illud Chrysostomi [In Rom. h. 22], si vindicare vis, sile, et funestam ei dedisti plagam. Ergo aliquis non debet, silendo, sustinere verba contumeliosa, sed magis respondere. Sed contra est quod dicitur in Ps. [37,13- 1 4],

qui inquirebant ma/a mihi, locuti sunt vanita­ tes; et postea subdit, ego autem tanquam surdus non audiebam, et sicut mutus non aperiens os suum.

Respondeo dicendum quod sicut patientia ne­ cessaria est in his quae contra nos fiunt, ita etiam in his quae contra nos dictmtur. Praecepta autem patientiae in his quae contra nos fiunt, sunt in praeparatione animae habenda, sicut Augustinus, in libro De serm. Dom. [ 1 , 1 9], exponit illud praeceptum Domini [Matth. 5,39], si quis percusserit te in una maxilla, praebe ei et aliam, ut scilicet homo sit paratus hoc facere, si opus fuerit ; non tamen hoc semper tenetur facere actu, quia nec ipse Dominus hoc fecit, sed, cum suscepisset alapam, dix i t, quid me caedis ? Ut habetur Ioan. 18 [23]. Et ideo etiam circa verba contu­ meliosa quae contra nos dicuntur, est idem intelligendum. Tenemur enim habere animum paratum ad contumel i as tolerandas s i expediens fuerit. Quandoque tamen oportet ut contumeliam illatam repellamus, maxime propter duo. Primo quidem, propter bonum eius qui contumeliam infert, ut videlicet eius audacia reprimatur, et de cetero talia non attentet; secundum i llud Prov. 26 [5 ] ,

responde stulto iuxta stultitiam suam, ne sibi sapiens videatur. Alio modo, propter bonum multorum, quorum profectus impeditur per contumelias nobis illatas. Unde Gregorius dicit, Super Ez. h. 9 [ 1], hi quorum vita in

exemplo imitationis est posita, debent, si possunt, detrahentium sibi verba compescere, ne eorum praedicationem non audiant qui audire poterant, et in pravis moribus rema­ nentes, bene vivere contemnant. Ad primum ergo dicendum quod audaciam conviciantis contumeliosi debet aliquis mode­ rate reprimere, scilicet propter officium carita­ tis, non propter cupiditatem privati honoris. Unde dicitur Prov. 26 [4], ne respondeas stulto

ùata stultitiam suam, ne ei similis efficiaris. Ad secundum dicendum quod in hoc quod aliquis alienas contumelias reprimit, non ita ti-

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uno si vendica, poiché, secondo il Crisosto­ mo: «Se vuoi vendicarti, taci: e gli avrai infer­ to una piaga mortale». Quindi uno non deve sopportare in silenzio le parole oltraggiose, ma piuttosto rispondere. In contrario: nel Sal 37 [13] è detto: Coloro

che ricercavano in me il male, hanno detto cose vane; e poi: Ma io come un sordo non ascoltavo, ero come un muto che non apre la sua bocca.

Risposta: come è necessaria la pazienza nelle azioni compiute da noi, così è necessaria nelle parole contrarie che ci riguardano. Ora, l'obbligo di sopportare le azioni ingiuriose è da considerarsi quale predisposizione del­ l'animo, come dice Agostino spiegando quel precetto del Signore [Mt 5,39]: Se uno ti per­

cuote su una guancia, porgigli anche l 'altra;

cioè nel senso che uno deve essere disposto a farlo, se è necessario. Ma nessuno è tenuto a farlo sempre nella realtà, poiché neppure il Signore lo fece, p. es. quando, dopo aver rice­ vuto uno schiaffo, disse ( Gv 18,23): Perché mi percuoti? Quindi anche a proposito delle parole offensive vale lo stesso criterio. Infatti siamo tenuti ad avere l'animo preparato a sopportare gli insulti quando ciò è richiesto. Ma in certi casi è necessario respingere le in­ giurie: e specialmente per due motivi. Primo, per il bene di chi insulta: cioè per reprimeme l'audacia, ossia perché non osi ripetere tali atti. In Pr 26 [5] infatti è detto: Rùpondi allo

stolto secondo la sua stoltezza, perché egli non si creda saggio. Secondo, per il bene di

altre persone che potrebbe venire compro­ messo dagli insulti fatti a noi. Per cui Grego­ rio insegna: «Coloro la cui vita deve servire d'esempio, se possono, devono far tacere i loro detrattori: affinché coloro che possono ascoltare la loro predicazione non ne siano distolti rimanendo così nei loro vizi, senza curarsi di vivere onestamente». Soluzione delle difficoltà: l . Si è tenuti a re­ primere l'audacia di chi insulta, ma con la de­ bita moderazione: cioè per compiere un do­ vere di carità, e non per la brama del prestigio personale. Da cui le parole di Pr 26 [4]: Non

rispondere allo stolto secondo la sua stoltez­ za, per non divenire anche tu simile a lui. 2. Nel reagire agli insulti subiti da altri non c'è da temere la brama del prestigio personale come nel reagire a quelli rivolti contro di noi:

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metur cupiditas privati honoris sicut cum aliquis repellit contumelias proprias, magis autem v idetur hoc provenire ex caritatis affectu. Ad tertium dicendum quod si aliquis hoc animo taceret ut tacendo contumeliantem ad iracundiam provocaret, pertineret hoc ad vindictam. Sed si aliquis taceat volens dare locum irae, hoc est laudabile. Unde dicitur Eccli. 8 [4], non litiges cum homine linguato, et non stntas in ignem illius ligna.

infatti ciò sembra derivare piuttosto da un sentimento di carità. 3. Se uno tacesse col proposito di provocare in tal modo l'ira di chi lo insulta, si avrebbe una vendetta. Se invece uno tace volendo lasciar fare all 'ira [divina] [Rm 1 2,19], allora si ha un atto lodevole. Per cui è detto in Sir 8 [4]: Non litigare con un uomo linguacciuto e non aggiungere legna sul suo fuoco.

Articulus 4 Utrum contumelia oriatur ex ira

Articolo 4 Gli insulti nascono dall'ira?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod con­ tumelia non oriatur ex ira. l . Quia dicitur Prov. I l [2], ubi superbia, ibi contumelia. Sed ira est vitium distinctum a superbia. Ergo contumelia non oritur ex ira. 2. Praeterea, Prov. 20 [3] dicitur, omnes stulti miscentur contumeliis. Sed stultitia est vitium oppositum sapientiae, ut supra [q. 46 a. l ] ha­ bitum est, ira autem opponitur mansuetudini. Ergo contumelia non oritur ex ira. 3. Praeterea, nullum peccatum diminuitur ex sua causa. Sed peccatum contumeliae dimi­ nuitur si ex ira proferatur, gravius enim peccat qui ex odio contumeliam infett quam qui ex ira. Ergo contumelia non otitur ex ira. Sed contra est quod Gregorius dicit, 31 Mor. [45], quod ex ira oriuntur contumeliae. Respondeo dicendum quod, cum unum pecca­ rum possit ex diversis oriri, ex ilio tamen dicitur principalius habere originem ex quo frequen­ tius procedere consuevit, propter propinquita­ tem ad finem ipsius. Contumelia autem ma­ gnam habet propinquitatem ad finem irae, qui est vindicta, nulla enim vindicta est irato magis in promptu quam infetre contumeliam alteri. Et ideo contumelia maxirne oritur ex ira. Ad primum ergo dicendum quod contumelia non ordinatur ad finem superbiae, qui est cel­ situdo, et ideo non directe contumelia oritur ex superbia. Disponit tamen superbia ad con­ tumeliam, inquantum illi qui se superiores ae­ stimant, facilius alios contemnunt et iniurias eis irrogant. Facilius etiam irascuntur, utpote reputantes indignum quidquid contra eorum voluntatem agitur. Ad secundum dicendum quod, secundum phi­ losophum, in 7 Ethic. [6,1], ira non peifecte

Sembra di no. Infatti: l. In Pr 1 1 [2] è detto: Dove c 'è la superbia, là c 'è l 'insulto. Ma l'ira è un vizio distinto dalla superbia. Quindi l'insulto non nasce dal,. l Ira. 2. In Pr 20 [3] è detto: Tutti gli stolti si immi­ schiano negli insulti. Ma, come sopra si è visto, la stoltezza si contrappone alla sapien­ za, mentre I' ira si oppone alla mansuetudine. Quindi gli insulti non nascono dall'ira. 3. Nessun peccato è reso più leggero dalla propria causa. Ma il peccato d' insulto è reso meno grave se viene commesso per ira: infatti chi insulta per odio pecca più gravemente di chi insulta per ira. Quindi gli insulti non nascono dali' ira. In contrario: Gregorio insegna che gli insulti derivano dall'ira. Risposta: un peccato, anche se può nascere da cause molteplici, principalmente si dice che deriva da quella causa che ordinariamente lo produce con maggiore frequenza, in quanto più vicina al suo fine proprio. Ora, l'insulto ha una stretta connessione col fine dell'ira, che è la vendetta; e a chi è adirato nessuna vendetta si presenta più facile dell' insulto. Perciò l'insulto nasce soprattutto dall'ira. Soluzione delle difticoltà: l . L'insulto non è ordinato al fine della superbia, che è il presti­ gio: quindi non nasce da essa direttamente. Però la superbia predispone all'insulto: poi­ ché coloro che si stimano superiori disprez­ zano facilmente gli altri e Ii coprono di ingiu­ rie. Essi inoltre si adirano con facilità: poiché stimano insopportabile tutto ciò che viene fatto contro il loro volere. 2. Secondo il Filosofo «l'ira non ascolta perfet-

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audit rationem, et sic iratus patitur rationis de­

fectum, in quo convenit cum stultitia. Et prop­ ter hoc ex stultitia oritur contumelia, secun­ dum affinitatem quam habet cum ira. Ad tertium dicendum quod, secundum philoso­ phum, in 2 Rhet [2,1; 4,31], iratus intendit ma­ nifestam offensam, quod non curat odiens. Et ideo contumelia, quae importat manifestam iniu­ riam, magis pertinet ad iram quam ad odium.

tamente la ragione»: quindi chi è adirato soffre di una carenza di razionalità, che lo rende affi­ ne allo stolto. E così l'insulto nasce dalla stol­ tezza per l'affinità che questa ha con l'ira. 3. Come spiega il Filosofo, «l'adirato cerca di far conoscere la sua vendetta, mentre chi odia non se ne cura». Perciò l'insulto, che implica un'ingiuria aperta, appartiene più all'ira che all'odio.

QUAESTI0 73 DE DETRACTIONE

QUESTIONE 73 LA DETRAZIONE O MALDICENZA

Deinde considerandum est de detractione. - Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, quid sit detractio. Secundo, utmm sit peccatum mortale. Tertio, de comparatione eius ad alia peccata. Quarto, utrum peccet aliquis au­ diendo detractionem.

Veniamo così a parlare della detrazione, o maldicenza. - Su questo tema tratteremo quat­ tro ,argomenti: l . Che cos'è la maldicenza? 2. E un peccato mortale? 3. Il confronto di essa con gli altri peccati; 4. Si pecca ascoltan­ do la maldicenza?

Articu1us l Quid sit detractio

Articolo l Cos'è la detrazione?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod de­ tractio non sit denigratio alienae famae per occulta verba, ut a quibusdam [cf. Albertum

Sembra che «la detrazione non sia la denigra­ zione della fama altrui con parole dette di na­ scosto», come è definita da alcuni. Infatti: l . Apertamente e di nascosto sono circostan­ ze che nel peccato non costituiscono una spe­ cie: per un peccato infatti è indifferente che sia conosciuto da molti o da pochi. Ora, ciò che non costituisce la specie di un peccato non rientra nella sua essenza, e non deve en­ trare nella sua definizione. Quindi non è es­ senziale alla detrazione, o maldicenza, che sia fatta di nascosto. 2. La fama viene concepita come notorietà pubblica. Quindi per denigrare la fama di una persona non bastano le parole dette di nascosto, ma ci vogliono le parole dette pubblicamente. 3 . Detrae chi toglie o diminuisce qualcosa. Ma spesso si denigra la fama del prossimo anche senza togliere nulla alla verità: p. es. quando uno rivela le colpe vere di un altro. Quindi non ogni denigrazione della fama è una detrazione. In contrario: in Qo l O [ I l ] è detto: Se il ser­

Magnum, Summa Theol. P. 2 q. 1 1 7 m. 2 a. l ] definitur. l . Occultum enim et manifestum sunt cir­ cumstantiae non constituentes speciem pecca­ ti, accidit enim peccato quod a multis sciatur vel a paucis. Sed illud quod non constituit speciem peccati non pertinet ad rationem ipsius, nec debet poni in eius definitione. Er­ go ad rationem detractionis non pertinet quod fiat per occulta verba. 2. Praeterea, ad rationem famae pertinet pu­ blica notitia. Si igitur per detractionem deni­ gretur fama alicuius, non poterit hoc fieri per verba occulta, sed per verba in manifesto dieta. 3 . Praeterea, ille detrahit qui aliquid subtrahit vel diminuit de eo quod est. Sed quandoque denigratur fama alicuius etiam si nihil subtra­ hatur de veritate, puta cum aliquis vera cri­ mina alicuius pandit. Ergo non omnis deni­ gratio famae est detractio. Sed contra est quod dicitur Eccle. I O [ I l ] , si

mordeat serpens in silentio, nihil eo minus habet qui occulte detrahit. Ergo occulte mor­

dere famam alicuius est detrahere.

pente morde in silenzio, non è da meno di esso chi sparla in segreto. Quindi la detrazio­ ne consiste nel mordere di nascosto la fama di una persona.

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La detrazione o maldicenza

Respondeo dicendum quod sicut facto aliquis alteri nocet dupliciter, manifeste quidem sicut in rapina vel quacumque violentia illata, oc­ culte autem sicut in furto et dolosa percussio­ ne; ita etiam verbo aliquis dupliciter aliquem laedit, uno modo, in manifesto, et hoc fit per contumeliam, ut supra [q. 72 a. l ; a. 4 ad 3] dictum est; alio modo, occulte, et hoc fit per detractionem. Ex hoc autem quod aliquis ma­ nifeste verba contra alium profert, videtur eum parvipendere, unde ex hoc ipso exhono­ ratur, et ideo contumelia detrimentum affert honori eius in quem profertur. Sed qui verba contra aliquem profert in occulto, videtur eum vereri magis quam parvipendere, unde non directe infert detrimentum honori, sed famae; inquantum, huiusmodi verba occulte profe­ rens, quantum in ipso est, eos qui audiunt facit malam opinionem habere de eo contra quem loquitur. Hoc enim intendere videtur, et ad hoc conatur detrahens, u t eius verbis credatur. Unde patet quod detractio differt a contumelia dupliciter. Uno modo, quantum ad modum proponendi verba, quia scilicet contumeliosus manifeste contra aliquem lo­ quitur, detractor autem occulte. Alio modo, quantum ad finem intentum, sive quantum ad nocumentum illatum, quia scilicet contume­ liosus derogat honori, detractor famae. Ad primum ergo dicendum quod in involun­ tariis commutationibus, ad quas reducuntur omnia nocumenta proximo illata verbo vel facto, diversificar rationem peccati occultum et manifestum, quia alia est ratio involuntarii per violentiam, et per ignorantiam, ut supra [q. 66 a. 4] dictum est. Ad secundum dicendum quod verba detrac­ tionis dicuntur occulta non simpliciter, sed per comparationem ad eum de quo dicuntur, quia eo absente et ignorante, dicuntur. Sed contumeliosus in faciem contra hominem loquitur. Unde si aliquis de alio male loquatur coram multis, eo absente, detractio est, si autem eo solo praesente, contumelia est. Quamvis etiam si uni soli aliquis de absente malum dicat, corrumpit famam eius, non in toto, sed in parte. Ad tertium dicendum quod aliquis dicitur detrahere non quia diminuat de veritate, sed quia diminuit famam eius. Quod quidem quandoque fit directe, quandoque indirecte. Directe quidem, quadrupliciter, uno modo,

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Risposta: come ci sono due modi di danneg­ giare il prossimo con le azioni, e cioè aperta­ mente, come nella rapina e in qualsiasi vio­ lenza, e in maniera occulta, come nel furto e nei colpi a tradimento, così ci sono due modi di danneggiare il prossimo con le parole. Pri­ mo, apertamente con l'insulto, di cui abbiamo già parlato; secondo, di nascosto con la mal­ dicenza, o detrazione. Ora, per il fatto che uno parla apertamente contro una persona mostra di disprezzarla, e quindi la disonora: perciò l 'insulto compromette l ' onore di chi ne è l'oggetto. Chi invece parla di nascosto contro qualcuno mostra di temerlo, non già di di­ sprezzarlo: perciò direttamente non ne com­ promette l'onore, ma la fama. Poiché nel pro­ ferire di nascosto tali parole, per quanto dipende da lui, spinge chi lo ascolta a formar­ si una cattiva opinione dell'interessato. Infatti chi fa della maldicenza sembra mirare a questo: che si creda alle sue parole. È quindi evidente che la detrazione differisce dall'in­ sulto per due motivi. Primo, per il modo in cui sono presentate le parole: poiché chi insulta parla apertamente contro una persona, mentre il maldicente parla di nascosto. Secon­ do, per il fine desiderato, cioè per il danno che si intende arrecare: l'ingiurioso infatti colpi­ sce l'onore, il maldicente invece la fama. Soluzione delle difficoltà: l . Nelle commuta­ zioni involontarie, alle quali si riducono tutti i danni arrecati al prossimo con le parole o con i fatti, le circostanze indicate diversificano la natura del peccato: poiché, come sopra si è visto, l' involontario per violenza è diverso dall'involontario per ignoranza. 2. Le parole di detrazione sono dette occulte non in senso assoluto, ma in rapporto all' inte­ ressato: poiché sono pronunziate a sua insaputa e in sua assenza. Invece chi insulta parla in fac­ cia all'interessato. Per cui si ha una detrazione se uno, neli' assenza dell' interessato, ne parla male dinanzi a molta gente; si ha invece un in­ sulto se ne parla male davanti a lui solo. Tutta­ via, anche dicendo male di una persona assente davanti a una sola persona, uno ne compromet­ te la fama, se non del tutto, almeno in parte. 3. Si dice che uno detrae non perché decurta la verità, ma perché sminuisce la tàma di una persona. E ciò a volte è fatto direttamente, a volte indirettamente. Direttamente può essere fatto in quattro modi: primo, attribuendo al

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La detrazione o maldicenza

quando fal s u m imponit a l teri ; secundo, quando peccatum adauget suis verbis; tertio, quando occultum revelat; quarto, quando id quod est bonum dicit mala intentione factum. lndirecte autem, vel negando bonum alterius; vel malitiose reticendo.

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prossimo cose false; secondo, esagerandone la colpa; terzo, rivelandone i segreti; quarto, asserendo che il bene che esso compie è fatto con cattiva intenzione. Si può invece fare del­ la detrazione indiretta o negando il bene al­ trui, o astenendosi dal parlame.

Articulus 2

Articolo 2

Utrum detractio sit peccatum mortale

La detrazione è un peccato mortale?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod detractio non sit peccatum mortale. l . Nullus enim actus virtutis est peccatum mortale. Sed revelare peccatum occultum, quod, sicut dictum est, ad detractionem per­ tinet, est actus virtutis, vel caritatis, dum aliquis fratris peccatum denuntiat eius emen­ dationem intendens; vel etiam est actus iusti­ tiae, dum aliquis fratrem accusat. Ergo detrac­ tio non est peccatum mortale. 2. Praeterea, super illud Prov. 24 [2 1 ] , cum detractoribus non commiscearis, dicit Glossa [ord.; Rabanus Maurus, In Prov. l. 2 super 24,2 1 ] , hoc specialiter vitio periclitatur totum genus humanum. Sed nullum peccatum mor­ tale in toto humano genere invenitur, quia multi abstinent a peccato mortali, peccata autem venialia sunt quae in omnibus inve­ niuntur. Ergo detractio est peccatum veniale. 3 . Praeterea, Augustinus, in homilia De igne Purg. [Serm. suppos. Serm. 1 04], inter pecca­ ta minuta ponit, quando cum omni facilitate vel temeritate maledicimus, quod pertinet ad detractionem. Ergo detractio est peccatum veniale. Sed contra est quod Rom. l [30] dicitur, detractores, Deo odibiles, quod ideo additur, ut dicit Glossa [ord. et Lomb.], ne leve putetur

Sembra di no. Infatti: l . Nessun atto di virtù è un peccato mortale. Ma svelare un peccato occulto, il che costi­ tuisce, come si è detto, la detrazione, è un atto di virtù: cioè di cruità, quando uno de­ nunzia la colpa di un fratello per emendarlo, oppure di giustizia, quando uno lo accusa in tribunale. Quindi la detrazione non è un pec­ cato mortale. 2. A proposito del passo di Pr 24 [2 1 ] : Non ti inpnischiare coi detrattori, la Glossa spiega: «E questo un peccato in cui cade tutto il gene­ re umano» . Ora, nessun peccato mortale si riscontra in tutto il genere umano, poiché molti si astengono dal peccato mortale, ma sono piuttosto i peccati veniali che si riscon­ trano in tutti. Perciò la detrazione è un pecca­ to veniale. 3. Tra i «peccati minuti» Agostino mette «il fatto di dir male con grande facilità e teme­ rità», il che rientra nella detrazione. Quindi la detrazione è un peccato veniale. In contrario: in Rm l [30] è detto: Maldicenti, nemici di Dio; aggiunta questa che, secondo la Glossa, è fatta «perché questo peccato non venga considerato leggero in quanto si riduce a delle parole». Risposta: come si è già detto, i peccati di lin­ gua vanno giudicati specialmente dalle inten­ zioni. Ora la detrazione, o maldicenza, è ordi­ nata a denigrare la fama del prossimo. Per cui fa propriamente della maldicenza colui che parla di una persona in sua assenza per deni­ grarne la fama. Ma togliere la fama a un uo­ mo è cosa assai grave: poiché fra tutti i beni temporali la fama è il più prezioso, e per la sua perdita un uomo viene impedito dal compiere molte cose buone. Per cui in Sir 4 1 [ 1 5] è detto: Abbi cura del buon nome, perché

propter hoc quod consistit in verbis.

Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 72 a. 2] dictum est, peccata verborum maxime s u n t ex i ntentione dicentis d i iudicanda. Detractio autem, secundum suam rationem, ordinatur ad denigrandam famam alicuius. Unde ille, per se loquendo, detrahit qui ad hoc de aliquo obloquitur, eo absente, ut eius famam denigret. Auferre autem alicui famam valde grave est, quia inter res temporales videtur fama esse pretiosior, per cuius defec­ tum homo impeditur a multis bene agendis. Propter quod dicitur Eccli . 4 1 [ 1 5], curam

habe de bono nomine, hoc enim magis per-

esso ti resterà più che mille tesori grandi e preziosi. Quindi la maldicenza è di per sé un peccato mortale. - Tuttavia capita talora che

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La detrazione o maldicenza

Q. 73, A. 2

manebit tibi quam mille thesauri magni et pretiosi. Et ideo detractio, per se loquendo, est peccatum mortale. - Contingit tamen quandoque quod aliquis dicit aliqua verba per quae diminuitur fama alicuius, non hoc inten­ dens, sed aliquid aliud hoc autem non est de­ trahere per se et formaliter loquendo, sed solum materialiter et quasi per accidens. Et si quidem verba per quae fama alterius diminui­ tur proferat aliquis propter aliquod bonum vel necessarium, debitis circumstantiis observatis, non est peccatum, nec potest dici detractio. Si autem proferat ex animi !evitate, vel propter aliquid non necessarium, non est peccatum mortale, nisi forte verbum quod dicitur sit adeo grave quod notabiliter famam alicuius laedat, et praecipue in his quae pertinent ad honestatem vitae; quia hoc ex ipso genere verbomm habet rationem peccati mortalis. Et tenetur aliquis ad restitutionem famae, si­ cut ad restitutionem cuiuslibet rei subtractae, eo modo quo supra [q. 62 a. 2 ad 2] dictum est, cum de restitutione ageretur. Ad primum ergo dicendum quod revelare pec­ catum occultum alicuius propter eius emen­ dationem denuntiando, vel propter bonum pu­ blicae iustitiae accusando, non est detrahere, ut dictum est [in co.]. Ad secundum dicendum quod Glossa illa non dicit quod detractio in toto genere humano in­ veniatur, sed addit [ord., super Prov. 24,2 1 ; Rabanus Maums, In Prov. L 2 super 24,21 ] , paene. Tum quia stultontm infinitus est nume­ rus, et pauci sunt qui ambulant per viam sa­ lutis. Thm etiam quia pauci vel nulli sunt qui non aliquando ex animi !evitate aliquid dicunt unde in aliquo, vel leviter, alterius fama minoratur, quia, ut dicitur Iac. 3 [2], si quis in verbo non offendit, hic peifectus est vir. Ad tertium dicendum quod Augustinus loqui­ tur in casu ilio quo aliquis dicit aliquod leve malum de alio non ex intentione nocendi, sed ex animi }evitate vel ex lapsu linguae.

uno dica delle parole che intaccano la fama del prossimo non perché lo vuole, ma per altri motivi. E questa non è una detrazione i n senso vero e proprio, ma l o è solo material­ mente e come per accidens. Anzi, se uno pro­ ferisce parole lesive della fama altrui per un fine buono o necessario, rispettando le debite circostanze, non è un peccato e non si può parlare di maldicenza. Se poi uno dice queste cose per leggerezza d' animo, o per motivi non necessari, il suo peccato non è mortale; a meno che le parole dette non siano così gravi da menomare notevolmente la fama di una persona, in modo particolare su cose che riguardano l'onestà della vita: poiché questo fatto, per l'intrinseca gravità delle parole, ha natura di peccato mortale. - E uno è tenuto alla restituzione della fama, come è tenuto a restituire qualsiasi cosa mbata: cioè nel modo che abbiamo indicato sopra parlando della restituzione. Soluzione delle difficoltà: l . Svelare i peccati occulti di una persona denunziandoli per il suo emendamento, o per il pubblico bene, non è fare della maldicenza, come si è spiegato. 2. In quel testo della Glossa non si dice che la detrazione è in tutto il genere umano, ma c'è l'aggiunta di un quasi. E ciò sia perché infini­ to è il numero degli stolti [Qo 1, 15], e pochi sono quelli che camminano per la via della salvezza, sia perché sono pochi, ammesso che ve ne siano, coloro che in qualche modo per leggerezza non dicano talvolta delle cose che compromettono la fama di qualcuno: poiché se uno non manca nel parlare, è un uomo pe1jetto, come è detto in Gc 3 [2]. 3. Agostino parla del caso di uno che dice male di altri non con l'intenzione di nuocere, ma per leggerezza d'animo o per un trascorso di lingua.

Articulus 3 Utrum detractio sit gravius omnibus peccatis quae in proximum committuntur

Articolo 3 La detrazione è il più grave dei peccati contro il prossimo?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod de­ tractio sit gravius omnibus peccatis quae in proximum committuntur.

Sembra di sì. Infatti: l . La Glossa, spiegando quel detto del Sal 1 08 [4]: In cambio del mio amore sparlano di me, afferma: «Danneggia più Cristo nelle sue

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La detrazione o maldicenza

l . Quia super illud Ps. [108,4], pro eo ut me diligerent, detrahebant mihi, dicit Glossa [glos. ord. et Lomb.], plus nocent in membris detrahentes Christo, quia animas credituro­ rum interficiunt, quam qui eius carnem, mox resurrecturam, peremerunt. Ex quo videtur

quod detractio sit gravius peccatum quam ho­ micidium, quanto gravius est occidere ani­ mam quam occidere corpus. Sed homicidium est gravius inter cetera peccata quae in proxi­ mum committuntur. Ergo detractio est simpli­ citer inter omnia gravior. 2. Praeterea, detractio videtur esse gravius peccatum quam contumelia quia contumeliam potest homo repellere, non autem detractio­ nem latentem. Sed contumelia videtur esse maius peccatum quam adulterium, per hoc quod adulterium unit duos in unam carnem, contumelia autem unitos in multa dividit. Ergo detractio est maius peccatum quam adul­ terium, quod tamen, inter alia peccata quae sunt in proximum, magnam gravitatem habet. 3 . Praeterea, contumelia oritur ex ira, detractio autem ex invidia, ut patet per Gregorium, 3 1 Mor. [45] . Sed invidia est maius peccatum quam ira. Ergo et detractio est maius pecca­ tum quam contumelia. Et sic idem quod prius. 4. Praeterea, tanto aliquod peccatum est gra­ vius quanto graviorem defectum inducit. Sed detractio inducit gravissimum defectum, scilicet excaecationem mentis, dicit enim Gre­ gorius [Registrum 1 1 ,4, ep. 2 Ad Palladium],

quid aliud detrahentes faciunt nisi quod in pulverem sufflant et in oculos suos terram excitant, ut unde plus detractionis pe1jlant, in­ de minus veritatis videant? Ergo detractio est

gravissimum peccatum inter ea quae commit­ tuntur in proximum. Sed contra, gravius est peccare facto quam verbo. Sed detractio est peccatum verbi, adul­ terium autem et homicidium et furtum sunt peccata in factis. Ergo detractio non est gra­ vius ceteris peccatis quae sunt in proximum. Respondeo dicendum quod peccata quae committuntur in proximum sunt pensanda per se quidem secundum nocumenta quae proxi­ mo inferuntur, quia ex hoc habent rationem culpae. Tanto autem est maius nocumentum quanto maius bonum demitur. Cum autem sit triplex bonum hominis, scilicet bonum animae et bonum corporis et bonum exteriorum rerum, bonum animae, quod est maximum,

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membra chi sparla contro di lui uccidendo le anime ordinate a credere in lui, che non coloro i quali ne uccisero il corpo ordinato a risorge­ re». Dal che si deduce che la detrazione è un peccato più grave dell'omicidio, in quanto uc­ cidere l ' anima è più grave che uccidere i l corpo. Ma l'omicidio è il più grave dei peccati contro il prossimo. Quindi la detrazione è as­ solutamente il più grave di tutti questi peccati. 2. La detrazione è un peccato più grave del­ l'insulto: perché all' insulto uno può reagire, mentre non lo può alla detrazione, che è fatta di nascosto. D'altra parte l' insulto sembra un peccato più grave dell'adulterio: poiché l'adul­ terio unisce due corpi in una sola carne, men­ tre l'insulto divide in molte fazioni persone congiunte. Quindi la detrazione è un peccato più grave dell'adulterio, che pure tra i peccati contro il prossimo è della massima gravità. 3. Come spiega Gregorio, l'insulto nasce dal­ l' ira, la detrazione invece dall' invidia. Ma l'invidia è un peccato più grave dell'ira. Quin­ di la detrazione è un peccato più grave del­ l'insulto. Siamo così alla stessa conclusione di prima. 4. Un peccato è tanto più grave quanto mag­ giore è il difetto che esso provoca. Ma la de­ trazione provoca il difetto più grave, cioè l'ac­ cecamento spirituale. Gregorio infatti scrive: «Che alu·o fanno i detrattori se non sollevare la polvere e gettare terra sui propri occhi, in modo che più insistono nella detrazione e meno vedono la verità?». Perciò la detrazione è il più grave dei peccati che vengono com­ messi contro il prossimo. In contrario: è più grave peccare con le opere che con le parole. Ma la detrazione è un peccato di parole, mentre l'adulterio, l' omici­ dio e il furto sono peccati di opere. Quindi la detrazione non è più grave degli altri peccati relativi al prossimo. Risposta: i peccati che sono commessi contro il prossimo vanno giudicati di per sé in rapporto al danno che arrecano: poiché è questo che dà ad essi il carattere di colpa. E il danno è tanto più grave quanto più importante è il bene che viene tolto. Ora, il bene di un uomo è di tre generi: il bene dell'anima, il bene del corpo e i beni esterni. Il bene dell'anima, che è quello più alto, non può essere tolto dagli altri se non indirettamente: p. es. mediante dei cattivi suggerimenti, che però non influiscono i n

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La detrazione o maldicenza

non potest alicui ab alio tolli nisi occasio­ naliter, puta per malam persuasionem, quae necessitatem non infert, sed alia duo bona, scilicet corporis et exteriorum rerum, possunt ab alio violenter auferri. Sed quia bonum cor­ poris praeeminet bono exteriorum rerum, gra­ viora sunt peccata quibus infertur nocumen­ tum corpori quam ea quibus infertur nocu­ mentum exterioribus rebus. Unde inter cetera peccata quae sunt in proximum, homicidium gravius est, per quod tollitur vita proximi iam actu existens, consequenter autem adulterium, quod est contra debitum ordinem generationis humanae, per quam est introitus ad vitam. Consequenter autem sunt exteriora bona. Inter quae, fama praeeminet divitiis, eo quod pro­ pinquior est spiritualibus bonis, unde dicitur Prov. 22 [ 1 ], melius est nomen bonum quam divitiae multae. Et ideo detractio, secundum suum genus, est maius peccatum quam fur­ tum, rninus tamen quam homicidium vel adul­ terium. Potest tamen esse alius ordo propter circumstantias aggravantes vel dirninuentes. Per accidens autem gravitas peccati attenditur ex parte peccantis, qui gravius peccat si ex deliberatione peccet quam si peccet ex infinni­ tate vel incautela. Et secundum hoc peccata locutionis habent aliquam levitatem, inquan­ tum de facili ex lapsu linguae proveniunt, absque magna praemeditatione. Ad primum ergo dicendum quod illi qui de­ trahunt Christo impedientes fidem membro­ rum ipsius, derogant divinitati eius, cui fides innititur. Unde non est simplex detractio, sed blasphemia. Ad secundum dicendum quod gravius pec­ catum est contumelia quam detractio, in­ quantum habet maiorem contemptum proxi­ rni, sicut et rapina est gravius peccatum quam furtum, ut supra [q. 66 a. 9] dictum est. Con­ tumelia tamen non est gravius peccatum quam adulterium, non enim gravitas adulterii pensatur ex coniunctione corporum, sed ex deordinatione generationis humanae. Contu­ meliosus autem non sufficienter causat inirni­ citiam in alio, sed occasionaliter tantum divi­ dit unitos, inquantum scilicet per hoc quod mala alterius promit, alios, quantum in se est, ab eius amicitia separat, licet ad hoc per eius verba non cogantur. Sic etiam et detractor oc­ casionaliter est hornicida, inquantum scilicet per sua verba dat alteri occasionem ut proxi-

Q. 73, A. 3

modo necessario. Invece gli altri due generi di beni, cioè quelli del corpo e i beni esterni, possono essere rapiti dagli altri con la violenza. E poiché i beni del corpo sono superiori ai beni esterni, i peccati che danneggiano il corpo sono più gravi di quelli che compromettono i beni esterni. Perciò fra tutti i peccati relativi al pros­ simo il più grave è l'omicidio, che toglie la vita già in atto; ad esso segue l'adulterio, che sov­ verte l'ordine della generazione umana, attra­ verso cui si giunge alla vita. Seguono poi i beni esterni. E tra questi la reputazione, o tama, è superiore alle ricchezze, essendo più vicina ai beni spirituali. Per cui in Pr 22 [ l ] è detto:

Meglio un buon nome che molte ricchezze. Perciò la detrazione, per il suo genere, è un peccato più grave del furto; è però meno grave dell'omicidio e dell'adulterio. L'ordine tuttavia può essere invettito per delle circostanze ag­ gravanti o attenuanti. - Accidentalmente però la gravità del peccato dipende anche dal sog­ getto, il quale, se compie l'atto con premedita­ zione, pecca più gravemente che se lo compie per fragilità o per negligenza. E sotto questo aspetto i peccati di lingua hanno maggiori attenuanti: poiché provengono facilmente da qualche intemperanza di linguaggio, senza una grande premeditazione. Soluzione delle difficoltà: l . Coloro che spar­ lano di Cristo per impedire la fede delle sue membra offendono la sua divinità, su cui tale fede è basata. Perciò non si tratta di semplice detrazione, ma di bestemmia. 2. L' insulto è più grave della detrazione in quanto implica un più grave disprezzo del prossimo: come la rapina, stando alle spiega­ zioni date sopra, è più grave del furto. Però l'insulto non è più grave dell'adulterio: poi­ ché la gravità dell'adulterio non va giudicata dall'unione dei corpi, ma dal sovvertimento della generazione umana. Chi insulta, poi, non produce necessariamente l 'inimicizia, ma solo può dare occasione alla divisione degli animi: in quanto cioè, mettendo in pubblico il male degli altri, di per sé distoglie dall'amici­ zia verso di essi, sebbene le sue parole non costringano a ciò. E in questo modo anche chi fa della maldicenza in maniera occasionale è un omicida: poiché con le sue parole dà a un altro l'occasione di odiare o di disprezzare il prossimo. Per cui nella lettera di Clemente si legge che «i detrattori sono omicidi»: poiché

Q. 73, A. 3

La detrazione o maldicenza

mum odiat vel contemnat. Propter quod in epistola Clementis [cf. Ps. Clementem Roma­ num, ep. Decretai. l Ad lac.] dicitur detracto­ res esse homicidas, scilicet occasionaliter, quia qui odit fratrem suum, homicida est, ut dicitur l Ioan. 3 [ 15]. Ad tertium dicendum quod quia ira quaerit in manifesto vindictam inferre, ut philosophus dicit, in 2 Rhet. [2, l ], ideo detractio, quae est in occulto, non est filia irae, sicut contumelia; sed magis invidiae, quae nititur qualitercumque minuere gloriam proximi. Nec tamen sequitur propter hoc quod detractio sit gravior quam contumelia, quia ex minori vitio potest oriri maius peccatum, sicut ex ira nascitur homi­ cidium et blasphemia. Origo enim peccatorum attenditur secundum inclinationem ad finem, quod est ex parte conversionis, gravitas autem peccati magis attenditur ex parte aversionis. Ad quartum dicendum quod quia homo laetatur in sententia oris sui, ut dicitur Prov. 1 5 [23], inde est quod ille qui detrahit incipit magis amare et credere quod dicit; et per conse­ quens proximum magis odire; et sic magis re­ cedere a cognitione veritatis. Iste tamen effec­ tus potest sequi etiam ex aliis peccatis quae pertinent ad odium proximi.

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chiunque odia il pmprio fratello è un omicida,

come è detto in l Gv 3 [ 1 5] . 3 . La detrazione, che avviene di nascosto, non nasce dall' ira, come l'insulto, ma dall'invidia, che tenta di sminuire in qualsiasi modo la fama del prossimo: poiché l'ira, come dice il Filosofo, «cerca di vendicarsi apertamente». E tuttavia non ne segue che la detrazione sia più grave dell'insulto: poiché da un vizio mi­ nore può sempre nascere un peccato più gra­ ve: come dall'ira nascono l'omicidio e la be­ stemmia. Infatti l'origine dei peccati va deter­ minata in base al tine, che emerge dal loro aspetto di conversione [alle creature], mentre la loro gravità va determinata in base all' a­ spetto di allontanamento [da Dio]. 4. Come è detto in Pr 15 [23]: l'uomo gode nel sentenziare con la pmpria bocca, perciò chi sparla prende ad amare ciò che dice e a crederlo sempre di più, e quindi a odiare mag­ giormente il prossimo e ad allontanarsi sem­ pre più dalla verità. Tuttavia questo effetto può derivare anche dagli altri peccati che si riallacciano all'odio verso il prossimo.

Articulus 4 Utrum audiens qui tolerat detrahentem graviter peccet

Articolo 4 Chi ascolta la maldicenza senza reagire pecca gravemente?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod audiens qui tolerat detrahentem non graviter peccet. l . Non enim aliquis magis tenetur alteri quam sibi ipsi. Sed laudabile est si patienter homo suos detractores toleret, dicit enim Gregorius, Super Ez. h. 9 [ 1 ], linguas detrahentium, sicut

Sembra di no. Infatti: l . Nessuno è tenuto a fare per gli altri più di quanto è tenuto a fare per se stesso. Ora, co­ me insegna Gregorio, è cosa lodevole che uno tolleri i propri detrattori: «Come non dobbia­ mo eccitare con le nostre azioni le lingue dei detrattori per non essere loro occasione di rovina, così dobbiamo tollerarle con pazienza, una volta eccitate, per accrescere i nostri me­ riti». Se quindi uno non reagisce alle detrazio­ ni degli altri non fa peccato. 2. In Sir 4 [30] è detto: Non contraddire alla verità in alcun modo. Ma talora chi sparla dice la verità, come si è notato. Quindi non sempre si è tenuti a reagire alla detrazione. 3 . Nessuno deve impedire ciò che è utile al prossimo. Ma la detrazione spesso è utile a coloro che ne sono oggetto. Pio I infatti scri­ veva: «Talora contro i buoni si scatena la mal­ dicenza, affinché chi era stato posto in alto

nostm studio non debemus excitare, ne ipsi pereant; ita per suam malitiam excitatas de­ bemus aequanimiter tolerare, ut nobis meri­ tum crescat. Ergo non peccat aliquis si detrac­ tionibus aliorum non resistat. 2. Praeterea, Eccli. 4 [30] dicitur, non contradi­ cas verbo veritatis ullo modo. Sed quandoque aliquis detrahit verba veritatis dicendo, ut supra [a. l ad 3] dictum est. Ergo videtur quod non semper teneatur homo detractionibus resistere. 3 . Praeterea, nullus debet impedire id quod est in utilitatem aliorum. Sed detractio fre­ quenter est in utilitatem eorum contra quos

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La detrazione o maldicenza

detrahitur, dici t enim Pius Papa [cf. Decre­ tum, p. 2, causa 6, q. l , app. ad can. 9], non­ nunquam detractio adversus bonos excitatur, ut quos ve/ domestica adulatio ve/ aliorum favor in altwn extulerat, detractio humiliet. Ergo aliquis non debet detractiones impedire. Sed contra est quod Hieronymus dicit [ep. 52 Ad Nepotianum], cave ne linguam aut aures habeas prurientes, aut aliis detrahas, aut alios audias detrahentes. Respondeo dicendum quod, secundum aposto­ lum, ad Rom. l [32], digni sunt morte non sohun qui peccatafadunt, sed etiam quifacien­ tibus peccata consentiunt. Quod quidem contingit dupliciter. Uno modo, directe, quando scilicet quis inducit alium ad peccatum, vel ei placet peccatum. Allo modo, indirecte, quando scilicet non resistit, cum resistere possit, et hoc contingit quandoque non quia peccatum placeat, sed propter aliquem humanum timo­ rem. Dicendum est ergo quod si aliquis de­ tractiones audiat absque resistentia, videtur de­ tractori consentire, unde tit particeps peccati eius. Et si quidem inducat eum ad detrahen­ dum, vel sallem placeat ei detractio, propter odium eius cui detrahitur, non minus peccat quam detrahens, et quandoque magis. Unde Bernardus dicit [De consider. 2,13], detrahere, aut detrahentem audire, quid horum damnabi­ lius sit, nonjàcile dixerim. - Si vero non placeat ei peccatum, sed ex timore vel negligentia vel etiam verecundia quadam omittat repellere detrahentem, peccat quidem, sed multo minus quam detrahens, et plerumque venialiter. Quan­ doque etiam hoc potest esse peccatum mortale, vel propter hoc quod alicui ex officio incumbit detrahentem corrigere; vel propter aliquod peri­ culum consequens; vel propter radicem, qua timor humanus quandoque potest esse pec­ catum mortale, ut supra [q. 1 9 a. 3] habitum est. Ad primum ergo dicendum quod detractiones suas nullus audit, quia scilicet mala quae di­ cuntur de aliquo eo audiente, non sunt detrac­ tiones, proprie loquendo, sed contumeliae, ut dictum est [a. l ad 2]. Possunt tamen ad noti­ tiam alicuius detractiones contra ipsum factae aliorum relationibus pervenire. Et tunc sui ar­ bitrii est detrimentum suae famae patì, nisi hoc vergat in periculum aliorum, ut supra [q. 72 a 3] dictum est. Et ideo in hoc potest commendari eius patientia quod patienter proprias detractio­ nes sustinet. Non autern est sui arbitrii quod

Q. 73, A. 4

dall' adulazione dei familiari, o dal favore degli estranei, sia umiliato dalla detrazione». Perciò non si devono impedire le detrazioni. In contrario: Girolamo ammonisce: «Guardati dal prurito della lingua e delle orecchie: cioè dal fare della maldicenza contro il prossimo e dall'ascoltare chi la fa». Risposta: secondo Paolo è degno di morte non solo chi commette il peccato, ma anche chi approva quanti lo commettono (Rm l ,32). E l ' approvazione può esserci in due modi. Primo, direttamente, quando cioè uno induce altri al peccato, o si compiace del peccato. Secondo, indirettamente, quando cioè uno non reagisce, pur avendone la possibilità: e questo non perché piace il peccato, ma per un timore umano. Si deve quindi affermare che, se uno ascolta le detrazioni senza reagire, approva chi le fa: quindi è partecipe del suo peccato. Se poi si lascia indurre alla maldicenza, oppure ne prova piacere per odio verso la persona che ne è vittima, allora non pecca meno di chi sparla del prossimo: anzi di più, in certi casi. Da cui le parole di Bernardo: «Non saprei decidere facilmente se sia più condannabile chi fa della maldicenza o chi la ascolta>>. - Se invece il peccato dispiace, ma si omette di rea­ gire alla maldicenza per timore, o per negli­ genza, o per rispetto umano, allora si pecca, però in modo assai meno grave di chi sparla, e per lo più venialmente. Ma in certi casi tale omissione può anche essere un peccato mor­ tale: o perché uno ha per ufficio il dovere di correggere i maldicenti, o per i disordini che ne derivano, o per la radice che la produce, poiché in certi casi il rispetto umano è un pec­ cato mortale, come sopra si è notato. Soluzione delle difficoltà: l . Nessuno ascolta le detrazioni a suo carico: poiché le male pa­ role dette in presenza dell'interessato, pro­ priamente parlando, non sono una detrazione, come si è spiegato. Tuttavia mediante la rela­ zione di altri uno può conoscere queste detra­ zioni. E allora è in suo arbitrio di sopportare la menomazione della propria fama, a meno che ciò non pregiudichi il bene di altri, come si è detto. Quindi gli si può raccomandare la pazienza nel tollerare la maldicenza a proprio carico. Invece non è lasciato al suo arbitrio il sopportare la menomazione della fama altrui. Quindi è una colpa per lui non reagire, aven­ done la possibilità: e ciò per lo stesso motivo

La detrazione o maldicenza

Q. 73, A. 4

patiatur detrirnentum famae alterius. Et ideo in culpam ei vertitur si non resistit, cum possit re­ s istere, eadem ratione qua tenetur aliquis

sublevare asinum alterius iacentem sub onere,

ut praecipitur Deut. 22 [4] . Ad secundum dicendum quod non semper debet aliquis resistere detractori arguendo eum de falsitate, maxime si quis sciat verum esse quod dicitur. Sed debet eum verbis redarguere de hoc quod peccat fratri detrahendo, vel saltem ostendere quod ei detractio displiceat per tristitiam faciei; quia, ut dicitur Prov. 25

[23], ventus Aquilo dissipar pluvias, et facies

tristis linguam detrahentem.

Ad tertium dicendum quod utilitas quae ex de­ tractione provenit non est ex intentione detra­ hentis, sed ex Dei ordinatione, qui ex quolibet malo elicit bonum. Et ideo nihilo minus est detractoribus resistendum, sicut et rapt01ibus vel oppressoribus aliorum, quamvis ex hoc op­ pressis vel spoliatis per patientiam meritum

722

per cui uno è tenuto a riso/levare l'asino altrui caduto sotto il peso, come comanda Dt 22,4. 2. Non sempre si è tenuti a reagi re contro chi sparla rimproverandolo di falsità, specialmen­ te quando uno sa che è vero quanto si dice. Si deve però rimproverarlo del peccato che com­ mette con la maldicenza; o per lo meno uno deve mostrare con la tristezza del volto che la detrazione gli dispiace: poiché, come è detto in Pr 25 [23], la tramontana scaccia la piog­

gia, e u11ajaccia severa la lingua diffamatrice.

3. L' utilità che proviene dalla maldicenza non è nell' intenzione di chi la fa, ma nella disposi­ zione di Dio, il quale è capace di ricavare un

bene da qualsiasi male. Così dunque non si deve per questo combattere meno la maldi­ cenza: come anche si deve resistere ai rapina­ tori e agli oppressori degli altri, sebbene dalle loro imprese possa derivare alle vittime un aumento di merito a motivo della pazienza.

crescat

QUAESTI0 74

QUESTIONE 74

DE SUSURRATIONE

LA MORMORAZIONE

Deinde considerandum est de susurratione. Et circa hoc quaeruntur duo. Primo, utrum su­ surratio sit peccatum distinctum a detractione. Secundo, quod horum sit gravius.

Veniamo ora a trattare della mormorazione. Sull'argomento si pongono due quesiti: l . La mormorazione è un peccato distinto dalla maldi­ cenza, o detrazione? 2. Quale di essi è più grave?

Articulus l

Articolo l

Utrum susurratio sit peccatum distinctum a detractione

La mormorazione è un peccato distinto dalla maldicenza?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod su­ surratio non sit peccatum distinctum a de­ tractione. l . Dici t enim Isidorus, in libro Etymol. [ l O, ad litt. S], susurro de sono locutionis appella­

Sembra di no. Infatti: l . Isidoro così scrive: «Il sussurrone, o mormo­ ratore, è così denominato dal suono delle sue parole: poiché non parla in faccia, ma parla all'orecchio dicendo male di altri». Ora, parlare di altri in tal modo è proprio della detrazione. Quindi la mormorazione non se ne distingue. 2. In Lv 1 9 [ 1 6] è detto: Non essere denigra­ tore né mormoratore in mezzo al popolo. Ma i l denigratore sembra che si identifichi col detrattore. Perciò anche la mormorazione non si distingue dalla detrazione. 3. In Sir 28 [ I 3] è detto: Sarà maledetto il mor­ moratore e l'uomo di doppia lingua. Ma l'uo­ mo di doppia lingua non è altro che il maldi­ cente: poiché è proplio dei maldicenti parlare i n due modi, cioè in un modo dietro le spalle e

tur, quia 11011 in facie alicuius, sed in aure lo­ quitur, detrahendo. Sed loqui de altero detra­

hendo ad detractionem pertinet. Ergo susurra­ tio non est peccatum distinctum a detractione. 2. Praeterea, Lev. 19 [ 1 6] dicitur, non eris cri­ minator nec susurro in populis. Sed crimina­ tor idem videtur esse quod detractor. Ergo etiam susurratio a detractione non differt. 3. Praeterea, Eccli. 28 [ 1 5] dicitur, susunv et bilinguis maledictus erit. Sed bilinguis vi­ detur idem esse quod detractor, quia detracto­ rum est duplici lingua loqui, aliter scilicet in

723

La mormorazione

absentia et aliter in praesentia. Ergo susurro est idem quod detractor. Sed contra est quod, Rom. l , su per illud [29-30], susurrones, detractores, dicit Glossa [Lomb.] , susurrones, inter amicos discordiam

seminantes; detractores, qui aliorum bona negant ve/ minuunt. Respondeo dicendum quod susurratio et de­ tractio in materia conveniunt, et etiam in for­ ma, sive in modo loquendi, quia uterque malum occulte de proximo dicit. Propter quam similitudinem interdum unum pro alio ponitur, unde Eccli. 5, super illud [ 1 6], non appelleris susurro, dicit Glossa [int.] , idest detractor. Differunt autem in fine. Quia de­ tractor intendit denigrare famam proximi, un­ de illa mala de proximo praecipue profert ex quibus proximus infamari possit, vel saltem diminuì eius fama. Susurro autem intendit amicitiam separare, ut patet per Glossam in­ ductam [Lomb., super Rom. 1 ,29] , et per id quod dicitur Prov. 26 [20], susunvne subtrac­ to, iurgia conquiescunt. Et ideo susurro talia mala profert de proximo quae possunt contra ipsum commovere animum audientis, secun­ dum illud Eccli. 28 [ 1 1 ] , vir peccator contur­

babit amicos, et in medio pacem habentium immittit inimicitiam. Ad primum ergo dicendum quod susurro, inquantum dicit malum de alio, dicitur detra­ here. In hoc tamen differt a detractore, quia non intendit simpliciter malum dicere; sed quidquid sit illud quod possit animum unius turbare contra alium, etiam si sit simpliciter bonum, et tamen apparens malum, inquantum displicet ci cui dicitur. Ad secundum dicendum quod criminator differt et a susurrone et a detractore. Quia criminator est qui publice aliis crimina impo­ nit, vel accusando vel conviciando, quod non pertinet ad detractorem et susurronem. Ad tertium dicendum quod bilinguis proprie dicitur susurro. Cum enim amicitia sit inter duos, nititur susurro ex utraque parte amici­ tiam rompere, et ideo duabus linguis utitur ad duos, uni dicens malum de alio. Propter quod dicitur Eccli . 28 [ 1 5] , susurro et bilinguis maledictus, et subditur, multos enim turbant

pacem habentes.

Q. 74, A. l

in un altro alla presenza del prossimo. Quindi il mormoratore si identifica col maldicente. In contrario: a proposito dei mormoratori e maldicenti di cui è detto in Rm l [29], la Glos­ sa spiega: «Mormoratori sono quelli che semi­ nano la discordia tra gli amici, maldicenti quel­ li che negano o sminuiscono il bene altrui». Risposta: la mormorazione e la maldicenza coincidono nella materia, e anche nella forma, cioè nell'espressione verbale: poiché l'una e l'altra consistono nel dir male del prossimo a sua insaputa. E per questa somiglianza talora vengono scambiate l'una con l' altra. Per cui al passo di Sir 5 [ 1 6]: Non meritare il titolo di mormoratore, la Glossa aggiunge: «Cioè di maldicente». Esse però differiscono nel fine. Poiché il maldicente mira a denigrare la fama del prossimo: per cui insiste specialmente nel presentare quei difetti che possono infamare una persona, o almeno sminuirne la fama. In­ vece il mormoratore mira a distruggere l'ami­ cizia, come risulta dalla Glossa citata e da quel passo di Pr 26 [20] : Se non c'è il mmmorato­ re, il litigio si calma. Perciò il mormoratore in­ siste nel presentare quei difetti che possono eccitare contro una persona l'animo di chi ascolta, come è detto in Sir 28 [ 1 1 ] : Un zwmo

peccatore semina discordia tra gli amici, e tra persone pacifiche insinua l'inimicizia. Soluzione delle difficoltà: l . Si può dire che il mormoratore, in quanto parla male di altri, fa della detrazione. Tuttavia egli si distingue dal maldicente giacché non intende direttamente dire il male, ma intende dire ciò che può ecci­ tare gli altri contro qualcuno, anche se asso­ lutamente parlando è un bene; che però è un male apparente in quanto dispiace alla persona a cui viene detto. 2. n denigratore, o accusatore, differisce sia dal mormoratore che dal detrattore. Poiché il deni­ gratore è colui che pubblicamente addossa ad altri dei delitti, o accusando o insultando: il che non appartiene al detrattore e al mormoratore. 3. L'uomo di doppia lingua propriamente è il mormoratore. Siccome infatti l' amicizia si at­ tua tra due persone, chi mormora si sforza di romperla dall'una e dall'altra parte: per cui usa una doppia lingua verso di loro, dicendo all' uno male dell' altro. Perciò è detto i n Sir 2 8 [ 1 3] : Maledirai il mormoratore e l'uo­ mo di doppia lingua; a cui segue: perché fa

perire molti che vivono in pace.

Q. 74, A. 2

La mormorazione

724

Articulus 2 Utrum detractio sit gravius peccatum quam susurratio

Articolo 2 La maldicenza è un peccato più grave della mormorazione?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod de­ tractio sit gravius peccatum quam susurratio. l . Peccata enim oris consistunt in hoc quod aliquis mala dicit. Sed detractor dicit de proxi­ mo ea quae sunt mala simpliciter, quia ex tali­ bus oritur infamia vel diminuitur fama, susurro autem non curat dicere nisi mala apparentia, quae scilicet displiceant audienti. Ergo gravius peccatum est detractio quam susurratio. 2. Praeterea, quicumque aufert alicui famam, aufert ei non salurn unum arnicum, sed multos, quia unusquisque refugit amicitiam infamium personmum; unde contra quendam dicitur, 2 Parai. 19 [2], his qui oderunt Dominum amici­ tia iungeris. Susurratio autem aufert unum salurn amicum. Gravius ergo peccatum est detractio quam susurratio. 3 . Praeterea, lac. 4 [1 1] dicitur, qui detrahit fratri suo, detrahit legi; et per consequens Deo, qui est legislator, et sic peccatum detractionis videtur esse peccatum in Deum, quod est gra­ vissimum, ut supra [q. 20 a. 3; I-ll q. 73 a. 3] habitum est. Peccatum autem susurrationis est in proximum. Ergo peccatum detractionis est gravius quam peccatum susurrationis. Sed contra est quod dicitur Eccli. 5 [17], de­ notatio pessima super bilinguem, susurratori autem odium et inimicitia et contumelia. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 73 a. 3 ; I-ll q. 73 a. 8] dictum est, peccatum in proximum tanto est gravius quanto per ipsurn maius nocumentum proximo infertur, nocu­ mentum autem tanto maius est quanto maius est bonum quod tollitur. Inter cetera vero exte­ riora bona praeeminet mnicus, quia sine amicis nullus vivere posset, ut patet per philosophum, in 8 Ethic. [ 1 ,1]. Unde dicitur Eccli. 6 [ 15], amico fide/i nulla est comparatio, quia et optima tama, quae per detractionem tollitur, ad hoc maxime necessaria est ut homo idoneus ad amicitiam habeatur. Et ideo susurratio est maius peccatum quam detractio, et etiam quam contumelia, quia amicus est melior quam honm; et amari quam honorari, ut in 8 Ethic. [8,2] philosophus dicit. Ad primum ergo dicendum quod species et gravitas peccati magis attenditur ex fine quam ex materiali obiecto. Et ideo ratione finis susur-

Sembra di sì. Infatti: l . I peccati di lingua consistono nel dir male di altri. Ma il maldicente dice del prossimo ciò che è male in senso assoluto, poiché da tale male proviene l'estinzione o la diminuzione della tama, mentre il mormoratore è preoccu­ pato soltanto di dire un male apparente, cioè che dispiace a chi ascolta. Quindi la maldicen­ za è un peccato più grave della mormorazione. 2. Chi toglie la fama a una persona non le to­ glie un amico soltanto, ma molti: poiché tutti rifiutano I' amicizia di chi è infamato. Per cui per condannare un tale è detto in 2 Cr 19 [2]: Stringerai amicizia con coloro che odiano il Signore. Invece la mormorazione toglie un amico soltanto. Quindi la maldicenza è un peccato più grave della mormorazione. 3. In Gc 4 [ 1 1] è detto: Chi sparla de/fratello parla contro la legge, e quindi contro Dio, che è il legislatore. Per cui la maldicenza è un peccato contro Dio, che è il più grave, come sopra si è visto. Invece il peccato di mormorazione è con­ tro il prossimo. Perciò il peccato di maldicenza è più grave del peccato di mormorazione. In contrario: in Sir 5 [ 1 7] è detto: Gravissima infamia sull'uomo di doppia lingua: al mor­ moratore poi odio, inimicizia e obbrobrio. Risposta: come sopra si è detto, un peccato contro il prossimo è tanto più grave quanto più grave è il danno arrecato: e il danno è tan­ to più grave quanto più alto è il bene compro­ messo. Ora, tra i beni esterni il più importante è I' amicizia: poiché, come dice il Filosofo, «nessuno può vivere senza amici». Per cui in Sir 6 [ 1 5] è detto: un amico fedele è impara­ gonabile. Poiché anche la buona fama, che viene tolta dalla maldicenza, serve special­ mente a rendere una persona oggetto di amicizia. Perciò la mormorazione è un pecca­ to più grave della maldicenza, e anche dell'in­ sulto: poiché, secondo il Filosofo, «l'amico vale più dell'onore, e vale più essere amati che essere onorati». Soluzione delle difficoltà: l . La specie e la gravità di un peccato si desumono più dal fine che dali' oggetto materiale. E a motivo del fine la mormorazione è più grave: sebbene talora il maldicente dica cose peggiori.

Q. 74, A. 2

La mormorazione

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ratio est gravior, quamvis detractor quandoque peiora dicat. Ad secundum dicendum quod fama est disposi­ rio ad amicitiam, et infamia ad inimicitiam. Di­ spositio autem deficit ab eo ad quod disponit. Et ideo ille qui operatur ad aliquid quod est dispo­ sitio ad inimicitiam, minus peccat quam ille qui directe operatur ad inimicitiam inducendam. Ad tertium dicendum quod ille qui detrahit fratri intantum videtur detrahere legi inquan­ tum contemnit praeceptum de dilectione proxi­ mi. Contra quod directius agit qui amicitiam disrumpere nititur. Unde hoc peccatum ma­ xime contra Deum est, quia Deus dilectio est, ut dicitur l Ioan. 4 [8, 1 6] . Et propter hoc dicitur Prov. 6 [ 1 6], sex sunt quae odit Domi­ nus, et septimum detestatur anima eius, et hoc septimum ponit [ 1 9] eum qui seminat inter fratres discordiam.

2. La fama dispone ali' amicizia, e l'infamia all'inimicizia. Ora, una disposizione è inferio­ re alla realtà a cui predispone. Perciò chi coo­ pera a produrre una disposizione all'inimici­ zia pecca meno gravemente di chi mira in maniera diretta a produrre l'inimicizia. 3. Chi sparla del prossimo in tanto parla con­ tro la legge in quanto disprezza il precetto della carità verso di esso. Ma colui che mira a sciogliere un' amicizia agisce più direttamente contro tale precetto. Per cui questo peccato è più di ogni altro contro Dio, perché Dio è amore (l Gv 4,8). Per questo in Pr 6 [ 1 6] è detto: Sei cose odia il Signore, e la settima gli è in abominio; e al settimo posto troviamo ap­ punto chi semina discordie tra ifratelli [ 1 9].

QUAESTI0 75 DE DERISIONE

QUESTIONE 75 LA DERISIONE

Deinde considerandum est de derisione. Et circa hoc quaeruntur duo. Primo, utrum deri­ sio sit peccatum speciale distinctum ab aliis peccatis quibus per verba nocumentum proxi­ mo infertur. Secondo, utrum derisio sit pecca­ rum mortale.

Passiamo ora a parlare della derisione. Sul­ l'argomento si pongono due quesiti: l . La de­ risione è un peccato speciale distinto dagli al­ tri peccati che danneggiano il prossimo con le parole? 2. La derisione è un peccato mortale?

Articulus l Utrum derisio sit speciale peccatum

Articolo l La derisione è un peccato speciale?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod deri­ sio non sit speciale peccatum ab aliis prae­ missis distinctum. l . Subsannatio enim videtur idem esse quod derisio. Sed subsannatio ad contumeliam vi­ detur pertinere. Ergo derisio non videtur di­ stingui a contumelia. 2. Praeterea, nullus irridetur nisi de aliquo turpi, ex quo homo erubescit. Huiusmodi autem sunt peccata, quae si manifeste de aliquo dicuntur, pertinent ad contumeliam; si autem occulte, pertinent ad detractionem sive susurrationem. Ergo derisio non est vitium a praemissis distinctum. 3. Praeterea, huiusmodi peccata distinguuntur secundum nocumenta quae proximo inferun­ tur. Sed per derisionem non infertur aliud nocumentum proximo quam in honore vel

Sembra di no. Infatti: l . Schernire è lo stesso che deridere. Ma lo scherno si riduce a un insulto. Quindi la deri­ sione non si distingue dall'insulto. 2. Uno può essere deriso solo per qualcosa di malfatto di cui l'uomo si vergogna. Ma tali sono i peccati: e se questi vengono rinfacciati apertamente si ha l'insulto, se invece se ne parla di nascosto si ha la maldicenza o la mormorazione. Perciò la derisione non è un peccato distinto dai precedenti. 3. Questi peccati si distinguono in base al danno che infliggono al prossimo. Ma con la derisione non si può danneggiare il prossimo che nell'onore, nella fama o nell' amicizia. Quindi la derisione non è un peccato distinto dai precedenti. In contrario: la derisione è fatta per gioco: per

Q. 75, A.

l

La derisione

fama vel detrimento amicitiae. Ergo derisio non est peccatum distinctum a praemissis. Sed contra est quod irrisio fit ludo, unde et illusio nominatur. Nullum autem praemisso­ rum ludo agitur, sed serio. Ergo derisio ab omnibus praedictis differt. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 72 a. 2] dictum est, peccata verborum praecipue pensanda sunt secundum intentionem profe­ rentis. Et ideo secundum diversa quae quis intendit contra alium loquens, huiusmodi peccata distinguuntur. Sicut autem aliquis con­ viciando intendit conviciati honorem depri­ mere, et detrahendo diminuere famam, et su­ surrando tollere amicitiam; ita etiam irridendo aliquis intendit quod ille qui irridetur erube­ scat. Et quia hic finis est distinctus ab aliis, ideo etiam peccatum derisionis distinguitur a praemissis peccatis. Ad primum ergo dicendum quod subsannatio et irrisio conveniunt in fine, sed differunt in modo, quia irrisio fit ore, idest verbo et ca­ chinnis; subsannatio autem naso rugato, ut di­ cit Glossa [int. et Lomb.] super illud Ps. [2,4], qui habitat in caelis irridebit eos. Talis tamen differentia non diversificar speciem. Utrumque tamen differt a contumelia, sicut embescentia a dehonoratione, est enim erubescentia timor dehonorationis, sicut Damascenus dicit [De fide 2,15]. Ad secundum dicendum quod de opere virtuoso aliquis apud alios et reverentiam meretur et fa­ mam; apud seipsum bonae conscientiae gloriam, secundum illud 2 ad Cor. l [ 1 2], gloria nostra haec est, testimonium conscientiae nostrae. Unde e contrario de actu turpi, idest vitioso, apud alios quidem tollinrr hominis honor et fama, et ad hoc contumeliosus et detractor turpia de alio dicunt. Apud seipsum autem per turpia quae dicuntur aliquis perdit conscientiae gloriam per quandam confusionem et erubescentiam, et ad hoc turpia dicit derisor. Et sic patet quod derisor communicat cum praedictis vitiis in materia, difiert autem in fine. Ad tertium dicendum quod securitas con­ scientiae et quies illius magnum bonum est, secundum illud Prov. 1 5 [ 1 5], secura mens quasi iuge convivium. Et ideo qui conscien­ tiam alicuius inquietat confundendo ipsum, aliquod speciale nocumentum ei infert. Unde derisio est peccatum speciale.

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cui viene anche detta scherzo. Invece nessuno dei peccati precedenti viene fatto per gioco, ma sul serio. Quindi la derisione si distingue da essi. Risposta: come si è notato sopra, i peccati di lingua vanno giudicati specialmente osser­ vando l'intenzione di chi parla. Perciò in base ai veri scopi che uno ha di mira nel parlare contro il prossimo si ha la distinzione fra questi peccati. Ora, come con l'insulto si vuole meno­ mare il prestigio di una persona, con la maldi­ cenza si vuole colpirne la fama e con la mor­ morazione si attenta al bene dell' amicizia, così con la derisione si mira a suscitare la vergogna di chi viene deriso. E poiché tale scopo è di­ stinto dagli altri, il peccato di derisione è distin­ to dai peccati precedenti. Soluzione delle difficoltà: l . Lo scherno e la derisione convengono nel fine, ma differiscono nel modo: poiché «la derisione si fa con la boc­ ca», cioè con le parole e con le risa, «mentre lo scherno si fa corrugando il naso», come dice la Glossa sulle parole del Sal 2 [4] : Li deriderà chi abita i cieli. Però questa differenza non dà una diversità specifica. In ogni modo queste due cose differiscono dal l ' insulto come la vergogna differisce dal disonore: come infatti nota il Damasceno, la vergogna è «la paura del disonore». 2. Da un'opera ben fatta uno merita presso gli altti riverenza e fama, e presso se stesso il vanto della buona coscienza, come è detto in 2 Cor l [ 1 2] : Questo è il nostro vanto: la testi­ monianza della nostra coscienza. Al contrario invece con un'azione mal fatta, cioè viziosa, uno compromette presso gli altri l 'onore e la fama: per cui chi vuole insultare o diffamare parla delle azioni disonorevoli del prossimo. Invece presso se stesso per tali discorsi uno perde il vanto della coscienza in seguito a una certa confusione o vergogna: e il derisore mira precisamente a tale scopo. Rimane quindi evi­ dente che la derisione ha in comune con i pec­ cati suddetti la materia, ma se ne differenzia per il fine. 3. La sicurezza e la tranquillità della coscienza sono un gran bene, come è detto in Pr 1 5 [ 1 5]:

Un animo sicum è come una festa continua.

Perciò chi turba la coscienza del prossimo coprendolo di confusione gli arreca un danno ben preciso. Quindi la derisione è un peccato speciale.

Q. 75, A. 2

La derisione

727 Articulus 2

Articolo 2

Utrum derisio possit esse peccatum mortale

La derisione può essere un peccato mortale?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod derisio non possit esse peccatum mortale. l . Ornne enim peccatum mortale contrariatur caritati. Sed derisio non videtur contrariari ca­ ntati, agitur enim ludo quandoque inter ami­ cos; unde et delusio nominatur. Ergo derisio non potest esse peccatum mortale. 2. Praeterea, derisio illa videtur esse maxima quae fit in iniuriam Dei. Sed non omnis deri­ sio quae vergit in iniuriam Dei est peccatum mortale. Alioquin quicumque recidivat in aliquod peccatum veniale de quo poenituit, peccaret mortaliter, dicit enim Isidorus [Sent. 2, 1 6] quod irrisor est, et non poenitens, qui adhuc agir quod poenitet. Similiter etiam sequeretur quod omnis s i m u latio esset peccatum mortale, quia sicut Gregorius dicit, in Mor. [30, 1 5], per stntthionem significatur simulator, qui deridet equwn, idest hominem iustum, et ascensorem, idest Deum. Ergo derisio non est peccatum mortale. 3. Praeterea, contumelia et detractio videntur esse graviora peccata quam derisio, quia maius est facere aliquid serio quam ioco. Sed non omnis detractio vel contumelia est pecca­ turo mortale. Ergo multo minus detisio. Sed contra est quod dicitur Prov. 3 [34], ipse deridet il/usores. Sed deridere Dei est aeter­ naliter punire pro peccato mortali, ut patet per id quod dicitur in Ps. [2,4] , qui habitat in caelis irridebit eos. Ergo derisio est peccatum mortale. Respondeo dicendum quod irrisio non fit nisi de aliquo malo vel defectu. Malum autem si sit magnum, non pro ludo accipitur, sed seriose. Unde si in lusum vel risum vertatur (ex quo irrisionis vel illusionis nomen sumi­ tur), hoc est quia accipitur ut parvum. Potest autem aliquod malum accipi ut parvum, du­ pliciter, uno modo, secundum se; alio modo, ratione personae. Cum autem aliquis alterius personae malum vel defectum in ludum vel risum ponit quia secundum se parvum malum est, est veniale et leve peccatum secundum suum genus. Cum autem accipitur quasi par­ vum ratione personae, sicut defectus puero­ rum et stultorum parum ponderare solemus, sic aliquem i l ludere vel irridere est eum

Sembra di no. Infatti: l. Tutti i peccati mortali sono incompatibili con la carità. La derisione i nvece sembra compatibile con essa: spesso infatti si tratta di uno scherzo tra amici, per cui le si dà il nome di burla. Perciò la derisione non può essere un peccato mortale. 2. La derisione più grave è quella fatta in ol­ traggio a Dio. Eppure non tutte le derisioni che oltraggiano Dio sono peccati mortali: al­ trimenti chiunque ricade in un peccato veniale di cui si è pentito peccherebbe mortalmente. Infatti Isidoro afferma che «è derisore anche il penitente che compie di nuovo il peccato di cui si è pentito». Inoltre ne seguirebbe che qualsiasi simulazione sarebbe un peccato mor­ tale: poiché, come spiega Gregorio, «lo struz­ zo» sta a indicare il simulatore, il quale deride «il cavallo», cioè l 'uomo giusto, e «il ca­ valiere», cioè Dio. Quindi la detisione non è un peccato mortale. 3. L'insulto e la maldicenza sono peccati più gravi della derisione, essendo più grave fare del male sul serio che per gioco. Ma gli insulti e le maldicenze non sono sempre peccato mor­ tale. Molto meno quindi lo sarà la detisione. In contrario: in Pr 3 [34] è detto: Dei beffardi egli si fa beffe. Ma il beffarsi da parte di Dio equivale a punire eternamente per il peccato mortale, come risulta evidente dalle parole del Sal 2 [4] : Li deriderà chi abita i cieli. Quindi la derisione è un peccato mortale. Risposta: la derisione ha sempre di mira un male o un difetto. Ora, se un male è grave, esso non va preso per scherzo, ma sul serio. Se quindi esso viene volto in scherzo o in liso (da cui il termine derisione), ciò avviene per­ ché lo si prende come cosa da poco. Ora, un male può essere considerato come da poco in due modi: primo, per se stesso; secondo, in rapporto alla persona interessata. Quando dunque uno prende a scherzare o a ridere sul male o sui difetti altrui perché realmente il male è da poco, allora si ha un peccato che nella sua specie è veniale o leggero. Quando invece un male viene preso per cosa da poco a motivo della persona interessata, come si è soliti fare per le lagnanze dei bambini e degli

Q. 75, A. 2

La derisione

omnino parvipendere, et eum tam vilem aesti­ mare ut de eius malo non sit curandum, sed sit quasi pro ludo habendum. Et sic derisio est peccatum mortale. Et gravius quam contu­ melia, quae similiter est in manifesto, quia contumeliosus videtur accipere malum alterius seriose, illusor autem in ludum; et ita videtur esse maior contemptus et dehonoratio. - Et secundum hoc, illusio est grave peccatum, et tanto gravius quanto maior reverentia debetur personae quae illuditur. Unde gravissimum est irridere Deum et ea quae Dei sunt, secundum illud Isaiae 37 [23], cui exprobrasti? Et quem

blasphemasti? Et super quem exaltasti vocem tuam? Et postea subditur, ad sanctum Israel. Deinde secundum locum tenet irrisio paren­ tum. Unde dicitur Prov. 30 [17], oculum qui

subsannat patrem et despicit partum matris suae, effodiant eum corvi de torrentibus, et comedant eum filii aquilae. Deinde iustorum derisio gravis est, quia honor est virtutis praemium. Et contra hoc dicitur Iob 1 2 [4], deridetur iusti simplicitas. Quae quidem derisio valde nociva est, quia per hoc homines a bene agendo impediuntur; secundum illud Gregorii [Mor. 20, 1 4], qui in aliorum actibus

exoriri bona conspiciunt, mox ea manu pestiferae exprobrationis evellunt. Ad primum ergo dicendum quod ludus non importat aliquid contrarium caritati respectu eius cum quo luditur, potest tamen importare aliquid contrarium caritati respectu eius de quo luditur, propter contemptum, ut dictum est [in co.]. Ad secundum dicendum quod ille qui recidivat in peccatum de quo poenituit, et ille qui simu­ lat, non expresse Deum irridet, sed quasi inter­ pretative, inquantum scilicet ad modum deri­ dentis se habet. Nec tamen venialiter peccando aliquis simpliciter recidivat vel simulat, sed dispositive et imperfecte. Ad tertium dicendum quod derisio, secundum suam rationem, Ievius aliquid est quam de­ tractio vel contumelia, quia non importat contemptum, sed ludum. Quandoque tamen habet maiorem contemptum quam etiam contumelia, ut supra dictum est [in co.]. Et tunc est grave peccantm.

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scemi, allora schernire o irridere qualcuno si­ gnifica disprezzarlo, e ritenerlo così da poco da non doversi preoccupare del suo male, tanto da poterlo prendere in ischerzo. E in questo caso la derisione è un peccato mortale. Ed è più grave dell'insulto aperto: poiché chi insulta mostra di prendere sul serio le miserie altrui, mentre chi deride le prende in ischerzo. - Sotto questo aspetto dunque la derisione è un peccato mortale: e tanto più grave quanto maggiore è il rispetto dovuto alla persona derisa. E quindi peccato gravissimo deridere Dio e le cose di Dio, secondo le parole di Is 37 [23 ] : Chi hai insultato e schernito ? Contro chi hai alzato la voce? E aggiunge: Contro il Santo di Israele. Al secondo posto poi troviamo la derisione dei genitori. Da cui le parole di Pr 30 [ 1 7]: L'occhio che guarda

con scherno il padre e disprezza il parto di sua madre sia cavato dai corvi dei torrenti e divorato dai figli dell 'aquila. Segue infine la

derisione dei giusti: poiché «il premio della virtù è l 'onore». E a condanna di questo pec­ cato valgono le parole di Gb 1 2 [4]: La sem­ plicità del giusto è derisa. E tale derisione è assai dannosa: poiché trattiene molte persone dall'agire onestamente, come nota Gregorio: «Costoro, non appena vedono nascere il bene delle azioni altrui, subito lo strappano con la mano dello scherno pestifero». Soluzione delle difficoltà: l . Lo scherzo non implica una mancanza di carità in riferimento alla persona con cui si scherza, tuttavia può implicarla a motivo del disprezzo verso la persona su cui si scherza, secondo le spiega­ zioni date. 2. Chi ricade nel peccato di cui si è pentito e colui che ricorre alla simulazione non derido­ no Dio espressamente, ma indirettamente, cioè in quanto si comportano come chi deri­ de. E inoltre col peccato veniale si ha una recidività o una simulazione non in senso vero e proprio, ma solo in modo imperfetto e dispositivo. 3. La derisione per sua natura è un peccato più leggero della maldicenza e dell'insulto: poiché non dice disprezzo, ma scherzo. Talo­ ra però include un disprezzo più grave dell'in­ sulto, come si è detto. E allora è un peccato mortale.

Q. 76, A. l

La maledizione

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QUAESTI0 76 DE MALEDICTIONE

QUESTIONE 76 LA MALEDIZIONE

Deinde considerandum est de maledictione. Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, utrum licite possit aliquis maledicere homini. Secun­ do, utrum licite possit aliquis maledicere irra­ tionali creaturae. Tertio, utrum maledictio sit peccatum mortale. Quarto, de comparatione eius ad alia peccata.

Veniamo ora a considerare la maledizione. Su questo tema tratteremo quattro argomenti: l. Si può lecitamente maledire un uomo? 2. Si può lecitamente maledire una creatura irrazionale? 3. La maledizione è un peccato mortale? 4. Confronto di questo peccato con altri peccati.

Articulus l Utrurn liceat rnaledicere aliquern

È lecito maledire qualcuno?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod non liceat maledicere aliquem. l . Non est enim licitum praeterire mandatum apostoli, in quo Christus loquebatur, ut dicitur 2 ad Cor. 13 [3]. Sed ipse praecipit, Rom. 1 2 [ 14], benedicite, et nolite maledicere. Ergo non licet aliquem maledicere. 2. Praeterea, ornnes tenentur Deum benedice­ re, secundum illud Dan. 3 [82], benedicite, filii hominum, Domino. Sed non potest ex ore eodem procedere benedictio Dei et maledictio hominis, ut probatur Iac. 3 [9 sqq.]. Ergo nulli licet aliquem maledicere. 3. Praeterea, ille qui aliquem maledicit, vide­ tur optare eius malum culpae vel poenae, quia maledictio videtur esse imprecatio quaedam. Sed non licet desiderare malum alterius, qui­ nimmo orare oportet pro omnibus ut liberen­ tur a malo. Ergo nulli licet maledicere. 4. Praeterea, diabolus per obstinationem ma­ xime subiectus est malitiae. Sed non licet ali­ cui maledicere diabolum, sicut nec seipsum, dicitur enim Eccli. 21 [30], cwn maledicit im­ pius diabolum, maledicit ipse animam suam. Ergo multo minus licet maledicere hominem. 5. Praeterea, Num. 23, super illud [8], quomo­ do maledicam cui non maledixit Dominus? Dicit Glossa [ord.; Origenes, In Num. h. 1 5], non potest esse iusta maledicendi causa ubi peccantis ignoratur a.ffectus. Sed homo non potest scire affectum alterius hominis, nec etiam utrum sit maledictus a Deo. Ergo nulli licet aliquem hominem maledicere. Sed contra est quod Deut. 27 [26] dicitur, ma­ ledictus qui non permanet in sermonibus legis huius. Elisaeus etiam pueris si bi illudentibus maledixit, ut habetur 4 Reg. 2 [24]. Respondeo dicendum quod maledicere idem

Sembra di no. Infatti: l . Non è lecito trascurare il comando di Paolo, perché in lui parlava Ciisto stesso, come è det­ to in 2 Cor 13 [3]. Ora, Paolo in Rm 12 [ 1 4] ordina: Benedite e non maledite. Quindi non è lecito maledire nessuno. 2. Tutti sono tenuti a benedire Dio, come è detto in Dn 3 [82]: Benedite, figli dell'uomo, il Signore. Ora, da una stessa bocca, come è pro­ vato da Gc 3 [9], non può procedere la benedi­ zione di Dio e la maledizione dell'uomo. Quin­ di a nessuno è lecito maledire una persona. 3. Chi maledice una persona mostra di deside­ rarne il male della colpa o della pena: poiché la maledizione si riduce a un'imprecazione. Ora, non è lecito desiderare il male di nessuno: anzi, bisogna pregare perché tutti siano li­ berati dal male. Quindi nessuno può lecita­ mente maledire. 4. Il diavolo per la sua ostinazione è immerso più di ogni altro nel male. Eppure a nessuno è lecito maledire né il diavolo né se stesso, poi­ ché è detto in Sir 2 1 [30]: Quando l'empio maledice il diavolo, maledice la propria ani­ ma. A più forte ragione quindi è proibito ma­ ledire un uomo. 5. Commentando il passo di Nm 23 [8]: Come maledirò se Dio non maledice ?, la Glossa spiega: «Non ci può essere una causa giusta per maledire quando si ignora l'affetto di chi commette la colpa». Ma nessuno può cono­ scere l'affetto di un altro; e neppure conosce se è maledetto da Dio. Perciò a nessuno è le­ cito maledire un uomo. In contrario: in Dt 27 [26] è detto: Maledetto chi non rimane nelle parole di questa legge. E anche di Eliseo (2 Re 2,24) si dice che male­ disse i fanciulli che lo deridevano.

Articolo l

Q. 76, A. l

La maledizione

est quod malum dicere. Dicere autem triplici­ ter se habet ad id quod dicitur. Uno modo, per modum enuntiationis, sicut aliquis exprimitur modo indicativo. Et sic maledicere nihil est aliud quam malum alterius referre, quod per­ tinet ad detractionem. Unde quandoque male­ dici detractores dicuntur. - Alio modo dicere se habet ad id quod dicitur per modu m causae. Et hoc quidem primo et principaliter competit Deo, qui omnia suo verbo fecit, se­ cundum illud Ps. [32,9; 148,5], dixit, et facta sunt. Consequenter autem competit homini­ bus, qui verbo suo alios movent per imperium ad aliquid faciendum. Et ad hoc instituta sunt verba imperativi modi. - Tertio modo ipsum dicere se habet ad id quod dicitur quasi ex­ pressio quaedam affectus desiderantis id quod verbo exprimitur. Et ad hoc instituta sunt ver­ ba optativi modi. - Praetermisso igitur primo modo maledictionis, qui est per simplicem enuntiationem mali, consi-derandum est de aliis duobus. Ubi scire oportet quod facere aliquid et velle illud se consequuntur in boni­ tate et malitia, ut ex supradictis [1-11 q. 20 a. 3] patet. Unde in istis duobus modis, quibus malum dicitur per modum imperantis vel per modum optantis, eadem ratione est aliquid licitum et illicitum. Si enim aliquis imperet vel optet malum alterius inquantum est ma­ lum, quasi ipsum malum intendens, sic male­ dicere utroque modo erit illicitum. Et hoc est maledicere per se loquendo. - Si autem aliquis imperet vel optet malum alterius sub ratione boni, sic est licitum. Nec erit maledictio per se loquendo, sed per accidens, quia principa­ lis intentio dicentis non fertur ad malum, sed ad bonum. - Contingit autem malum aliquod dici imperando vel optando sub ratione duplicis boni. Quandoque quidem sub ratione iusti. Et sic iudex licite maledicit illum cui praecipit iustam poenam inferri. Et sic etiam Ecclesia maledicit anathematizando. S i c etiam prophetae quandoque imprecantur mala peccatoribus, quasi conformantes voluntatem suam divinae iustitiae (licet huiusmodi impre­ cationes possint etiam per modum praenun­ tiationis intelligi). - Quandoque vero dicitur aliquod malum sub ratione utilis, puta cum aliquis optat aliquem peccatorem pati aliquam aegritudinem, aut aliquod impedimentum, vel ut ipse melior efficiatur, vel ut saltem ab alic:r rum nocumento cesset.

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Risposta: maledire equivale a dire male. Ora, una cosa può essere detta in tre modi. Primo, sotto forma di enunciato: come quando ci si esprime col modo indicativo. E allora maledi­ re non è altro che riferire il male del prossi­ mo: e ciò rientra nella detrazione. Infatti i de­ trattori sono anche denominati maldicenti. Secondo, come causa determinante di quanto si dice. E ciò spetta in maniera primaria e principale a Dio, il quale produsse tutto con la sua parola, secondo l' espressione del Sal 32 [9] : Egli disse, e fumno creati. Secondaria­ mente però spetta anche agli uomini, i quali con i loro ordini muovono gli altri a compiere qualcosa. E a questo scopo furono stabiliti i verbi al modo imperativo. - Terzo, le parole possono esprimere il desiderio di quanto si dice. E a ciò servono i verbi di modo ottativo. - Lasciando quindi da parte il primo tipo di maledizione, che si limita all 'enunciazione del male, vanno considerati gli altri due. E qui bisogna ricordare che il fare e il volere una data cosa vanno sempre insieme quanto a bontà e malizia, come sopra si è spiegato. Perciò in questi due tipi di maledizione, impe­ rativo e ottativo, il lecito e l'illecito seguono la stessa sorte. Se uno infatti comanda o desi­ dera il male altrui in quanto male, avendo di mira quasi il male stesso, allora la maledizic:r ne è illecita nell' uno e nell'altro senso. E que­ sta propriamente parlando è la vera maledi­ zione. - Se invece uno comanda o desidera il male altrui sotto l' aspetto di bene, allora la maledizione è lecita. E non avremo una male­ dizione in senso assoluto, ma relativo: poiché l'intenzione principale di chi la pronunzia non è il male, ma il bene. - Ora, si può proferire il male sotto l'aspetto di bene in modo imperati­ vo od ottativo in due modi. Primo, sotto l ' a­ spetto di cosa giusta. E in questo senso il giu­ dice maledice lecitamente colui al quale co­ manda di subire la giusta pena. E così anche la Chiesa maledice coloro che meritano l' ana­ tema; e anche i Profeti talora imprecano i l male ai peccatori, quasi conformando l a loro volontà alla divina giustizia (sebbene queste imprecazioni possano essere intese anche come predizioni). - Talora invece il male vie­ ne proferito sotto l'aspetto di bene utile: come quando uno desidera una malattia o una con­ trarietà a un peccatore perché si ravveda, o almeno perché cessi di nuocere.

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Q. 76, A. l

La maledizione

Ad primum ergo dicendum quod apostolus prohibet maledicere per se loquendo, cum intentione mali. Et similiter dicendum ad secundum. Ad tertium dicendum quod optare alicui ma­ lum sub ratione boni non contrariatur affectui quo quis simpliciter alicui optat bonum, sed magis habet conformitatem ad ipsum. Ad quartum dicendum quod in diabolo est considerare naturam, et culpam. Natura quidem eius bona est, et a Deo, nec eam maledicere licet. Culpa autem eius est maledicenda, se­ cundum illud Iob 3 [8], maledicant ei qui ma­ ledicunt diei. Cum autem peccator maledicit diabolum propter culpam, seipsum simili ra­ tione iudicat maledictione dignum. Et secun­ dum hoc dicitur maledicere animam suam. Ad quintum dicendum quod affectus pec­ cantis, etsi in se non videatur, potest tamen percipi ex aliquo manifesto peccato, pro quo poena est intligenda. Similiter etiam, quamvis sciri non possit quem Deus maledicit secun­ dum finalem reprobationem, potest tamen sci­ ri quis sit maledictus a Deo secundum reatum praesentis culpae.

Soluzione delle difficoltà: l . Paolo proibisce la vera maledizione, che ha di mira il male. 2. Vale la stessa risposta. 3. Desiderare del male a una persona sotto l' aspetto di bene non è incompatibile con l'affetto con cui gli si desidera espressamente il bene, ma ha un'affinità con esso. 4. Nel diavolo bisogna distinguere la natura e la colpa. La natura è buona, e viene da Dio: quindi non è lecito maledirla. La colpa invece merita la maledizione, secondo le parole di Gb 3 [8]: La maledicano quelli che maledico­ no il giorno. Ora, quando un peccatore male­ dice il diavolo per la sua colpa, per lo stesso motivo giudica se stesso degno di maledizio­ ne. E in tal senso si può dire che maledice la propria anima. 5. Sebbene l 'affetto di chi pecca non possa essere conosciuto direttamente, può tuttavia essere percepito da certi peccati esterni per i quali va inflitta una pena. Parimenti, sebbene non si possa sapere chi sarà oggetto della maledizione di Dio nella riprovazione finale, tuttavia si può sapere chi lo è per il reato di una colpa presente.

Articulus 2 Utrum Iiceat creaturam irrationalem maledicere

È lecito maledire una creatura

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod non liceat creaturam irrationalem maledicere. l . Maledictio enim praecipue videtur esse li­ cita inquantum respicit poenam. Sed creatura irrationalis non est susceptiva nec culpae nec poenae. Ergo eam maledicere non licet. 2. Praeterea, in creatura irrationali nihil inve­ nitur nisi natura, quam Deus fecit. Hanc autem maledicere non licet, etiam in diabolo, ut dictum est [a. l ad 4]. Ergo creaturam irra­ tionalem nullo modo licet maledicere. 3. Praeterea, creatura irrationalis aut est per­ manens, sicut corpora; aut est transiens, sicut tempora. Sed sicut Gregorius dicit, in 4 Mor. [2], otiosum est maledicere non existenti; vi­ tiosum vem si existeret. Ergo nullo modo licet maledicere creaturae irrationali. Sed contra est quod Dominus maledixit ficul­ neae, ut habetur Matth. 2 1 [ 1 9] ; et lob male­ dixit diei suo, ut habetur Iob 3 [ 1 ]. Respondeo dicendum quod benedictio vel maledictio ad illam rem proprie pertinet cui

Sembra di no. Infatti: l . La maledizione è lecita specialmente in quanto implica un castigo. Ma una creatura irrazionale non è capace né di delitto né di castigo. Quindi non è lecito maledirla. 2. Nelle creature prive di ragione si riscontra soltanto la natura, prodotta da Dio. Ora, questa non può essere maledetta neppure nel diavolo, come si è spiegato. Perciò in nessun modo si può maledire una creatura priva di ragione. 3. Le creature prive di ragione o sono perma­ nenti, come i corpi, o sono transeunti, come il tempo. Ora, secondo Gregorio, «se una cosa manca di consistenza maledirla è inutile, ed è peccaminoso se ha consistenza». Quindi in nessun caso è lecito maledire una creatura irrazionale. In contrario: il Signore maledisse un albero di fichi (Mt 2 1 , 1 9) ; Giobbe maledisse il suo giorno (Gb 3 , 1 ). Risposta: la benedizione e la maledizione pro­ priamente appartengono a un essere il quale

Articolo 2

priva di ragione?

Q. 76, A. 2

La maledizione

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potest aliquid bene vel male contingere, scili­ cet rationali creaturae. Creaturis autem irra­ tionalibus bonum vel malum dicitur continge­ re in ordine ad creaturam rationalem, propter quam s u n t . Ordinantur autem ad eam multipliciter. Uno quidem modo, per modum subventionis, inquantum scilicet ex creaturis irrationalibus subvenitur humanae necessitati. Et hoc modo Dominus homini dixit, Gen. 3 [ 1 7] , maledicta terra in opere tuo, ut scilicet per eius sterilitatem homo puniretur. Et ita etiam intelligitur quod habetur Deut. 28 [5], benedicta hm-rea tua, et infra [ 1 7], maledic­ tum horreum tuum. Sic etiam David maledixit montes Gelboe, secundum Gregorii exposi­ tionem [Mor. 4,4]. - Alio modo creatura irra­ tionalis ordinatur ad rationalem per modum significationis. Et sic Dominus maledixit fi­ culneam, in significationem Iudaeae. - Tertio modo ordinatur creatura irrationalis ad ratio­ nalem per modum continentis, scilicet tem­ poris vel loci. Et sic maledixit Iob diei nati­ vitatis suae, propter culpam originalem, quam nascendo contraxit, et propter sequentes poe­ nalitates. Et propter hoc etiam potest intelligi David maledixisse montibus Gelboe, ut legi­ tur 2 Reg. l [2 1], scilicet propter caedem po­ puli quae in eis contigerat. - Maledicere autem rebus i rrationalibus inquantum sunt creaturae Dei, est peccatum blasphemiae. Maledicere autem eis secundum se considera­ tis, est otiosum et vanum, et per consequens illicitum. Et per hoc patet responsio ad obiecta.

può avere una buona o una cattiva sorte, cioè alla creatura razionale. Agli esseri privi di ragione invece la buona o la cattiva sorte viene attribuita per il loro rapporto con la creatura razionale alla quale sono ordinati. Ora, essi vi sono ordinati in diversi modi. Primo, come sostentamento: poiché mediante le creature prive di ragione si sovviene alle necessità dell' uomo. E in questo modo il Signore disse all'uomo: Maledetto sia il suolo per causa tua (Gen 3, 1 7), poiché l'uomo sarebbe stato punito con la sua sterilità. E così vanno anche intese quelle altre parole di Dt 28 [5]: Benedetti i tuoi granai, e [ 1 7] maledetto il tuo granaio. E in questo senso anche Davide, stando all'esegesi di Gregorio, maledisse i monti di Gelboe [2 Sam 1 ,21]. - Secondo, la creatura priva di ragione può essere ordinata a quella razionale come figura simbolica. E sotto questo aspetto il Signore maledisse l' albero di fico, che simbo­ leggiava il giudaismo. - Terzo, le creature prive di ragione sono ordinate a quelle razionali come cornice cronologica o spaziale. E i n questo senso Giobbe maledisse i l giorno della sua nascita, per il peccato originale che si con­ trae col nascere e per le sue tristi conseguenze. E si può pensare che anche Davide abbia maledetto i monti di Gelboe per lo stesso moti­ vo: cioè per la strage del popolo che su di essi era stata compiuta. - Maledire invece le cose prive di ragione in quanto sono creature di Dio è un peccato di bestemmia. Maledirle poi per se stesse è cosa inutile e vana, e quindi illecita. Sono così risolte anche le difficoltà.

Articulus 3 Utrum maledicere sit peccatum mortale

Articolo 3 Maledire è un peccato mortale?

Ad tertium sic proceditur. Vìdetur quod male­ dicere non sit peccatum mortale. l . Augustinus enim, in hornilia De igne Pur­ gatorio [Serm. suppos., serm. 104], numerat maledictionem i nter levia peccata. Haec autem sunt venialia. Ergo maledictio non est peccatum mortale, sed veniale. 2. Praeterea, ea quae ex levi motu mentis pro­ cedunt non videntur esse peccata mortalia. Sed interdum maledictio ex levi motu procedit. Ergo maledictio non est peccatum mortale. 3 . Praeterea, gravius est male facere quam ma­ ledicere. Sed male facere non semper est pec­ catum mortale. Ergo multo minus maledicere.

Sembra di no. Infatti: l . Agostino enumera la maledizione tra i pec­ cati leggeri. Ora, tali peccati sono veniali. Quindi la maledizione non è un peccato mor­ tale, ma veniale. 2. Quanto deriva da leggeri moti di passione non è un peccato mortale. Ma talora la maledi­ zione deriva da leggeri moti di passione. Quin­ di lfi maledizione non è un peccato mortale. 3. E più grave fare il male che dirlo. Ora, il malfare non sempre è un peccato mortale. Molto meno quindi lo sarà il maledire. In contrario: dal regno di Dio non esclude che il peccato mortale. Ora, la maledizione esclu-

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La maledizione

Q. 76, A. 3

Sed contra, nihil excludit a regno Dei nisi peccatum mortale. Sed maledictio excludit a regno Dei, secundum illud l ad Cor. 6 [ 1 0], neque maledici neque rapaces regnum Dei possidebunt. Ergo maledictio est peccatum mortale. Respondeo dicendum quod maledictio de qua nunc loquimur, est per quam pronuntiatur ma­ lum contra aliquem vel imperando vel optan­ do. Velle autem, vel imperio movere ad ma­ lum alterius, secundum se repugnat caritati, qua diligimus proximum volentes bonum ipsius. Et ita secundum suum genus est pecca­ tum mortale. Et tanto gravius quanto perso­ nam cui maledicimus magis amare et revereri tenemur, unde dicitur Lev. 20 [9], qui ma­ ledixerit patri suo et matri, morte moriatur. Contingit tamen verbum maledictionis prola­ tum esse peccatum veniale, vel propter parvi­ tatem mali quod quis alteri, maledicendo, imprecatur, vel etiam propter affectum eius qui profert maledictionis verba, dum ex levi motu, vel ex ludo, aut ex subreptione aliqua talia verba profert; quia peccata verborum ma­ xime ex affectu pensantur, ut supra [q. 72 a. 2] dictum est. Et per hoc patet responsio ad obiecta.

de dal regno di Dio, come è detto in l Cor 6 [ 1 0]: Né coloro che maledicono, né i rapaci erediteranno il regno di Dio. Quindi la male­ dizione è un peccato mortale. Risposta: la maledizione di cui ora parliamo è quella che consiste neli' augurare del male a qualcuno in modo imperativo od ottativo. Ora, volere o promuovere col comando il male altrui per se stesso è incompatibile con la carità, con la quale amiamo il prossimo volendo il suo bene. Perciò, vista nel suo genere, la maledizione è un peccato mortale. E tanto più grave quanto più siamo tenuti ad amare e a rispettare la persona che maledi­ ciamo. Infatti in Lv 20 [9] è detto: Chi male­ dirà il padre o la madre venga messo a mor­ te. - Capita però che la maledizione sia un peccato veniale o per la lievità del male che viene augurato, oppure per il sentimento di chi proferisce le parole di maledizione: ciò può infatti accadere per un lieve moto di pas­ sione, o per gioco, o per qualche altro moto imprevisto; poiché i peccati di lingua, come sopra si è detto, vanno giudicati soprattutto in base ali' affetto che li ispira. Sono così risolte anche le difficoltà.

Articulus 4 Utrum maledicere sit gravius peccatum quam detractio

Articolo 4 La maledizione è un peccato più grave della maldicenza?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod ma­ ledictio sit gravius peccatum quam detractio. l . Maledictio enim videtur esse blasphemia quaedam, ut patet per id quod dicitur in Ca­ nonica Iudae [9], quod cum Michael Archan­ gelus, cum diabolo disputans, altercaretur de Moysi corpore, 1wn est ausus iudicium inferre blasphemiae; et accipitur ibi blasphemia pro maledictione, secundum Glossam [int.]. Bla­ sphemia autem est gravius peccatum quam de­ tractio. Ergo maledictio est gravior detractione. 2. Praeterea, homicidium est detractione gravius, ut supra [q. 73 a. 3] dictum est. Sed maledictio est par peccato homicidii, dicit enim Chrysostomus, Super Matth. [h. 1 9] , cum dixeris, maledic ei, et domum everte, et omnia perire fac, nihil ab homicida differs. Ergo maledictio est gravior quam detractio. 3. Praeterea, causa praeeminet signo. Sed ille qui maledicit causat malum suo imperio, ille

Sembra di sì. Infatti: l . La maledizione si presenta come una bestemmia, come è evidente da quanto detto nella lettera di Giuda [9]: Quando l'arcange­ lo Michele, in contesa con il diavolo, disputa­ va per il corpo di Mosè, non ardi pronunziare una sentenza di bestemmia. E qui bestemmia, come spiega la Glossa, sta per maledizione. Ora, la bestemmia è un peccato più grave della maldicenza o detrazione. Quindi la ma­ ledizione è più grave della maldicenza. 2. Come sopra si è visto, l'omicidio è più gra­ ve della maldicenza. Ma la maledizione, stan­ do alle parole del Crisostomo, sta alla pari con l'omicidio: «Quando tu dici a Dio: "Ma­ ledici costui, sprofonda la sua casa, distruggi tutti i suoi beni", non ti differenzi in nulla dal­ l'omicida». Perciò la maledizione è più grave della maldicenza. 3. La causa di un fatto vale più del segno che lo

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Q. 76, A. 4

La maledizione

autem qui detrahit solum significat malum iam existens. Gravius ergo peccat maledicus quam detractor. Sed contra est quod detractio non potest bene fieri. Maledictio autem fit bene et male, ut ex dictis [a. l ] patet. Ergo gravior est detractio quam maledictio. Respondeo dicendum quod, sicut in primo [q. 48 a. 5] habitum est, duplex est malum, sci­ licet culpae, et poenae. Malum autem culpae peius est, ut ibidem ostensum est [a. 6]. Unde dicere malum culpae peius est quam dicere malum poenae, dummodo sit idem modus dicendi. Ad contumeliosum igitur, susurronem et detractorem, et etiam derisorem, pertinet dicere malum culpae, sed ad maledicentem, prout nunc loquimur, pe1tinet dicere malum poenae, non autem malum culpae nisi forte sub ratione poenae. Non tamen est idem modus dicendi. Nam ad praedicta quatuor vitia pertinet dicere malum culpae solum enuntiando, per maledictionem vero dicitur malum poenae vel causando per modum imperii, vel optando. Ipsa autem enuntiatio culpae peccatum est inquantum aliquod no­ cumentum ex hoc proximo infertur. Gravius autem est nocumentum inferre quam no­ cumentum desiderare, ceteris paribus. Unde detractio, secundum communem rationem, gravius peccatum est quam maledictio simplex desiderium exprimens. Maledictio vero quae fit per modum imperli, cum habeat rationem causae, potest esse detractione gravior, si maius nocumentum interat quam sit denigratio famae; vel levior, si minus. - Et haec quidem accipienda sunt secundum ea quae per se pertinent ad rationem horum vitiorum. Possunt autem et alia per accidens considerati quae praedicta vitia vel augent vel minuunt. Ad primum ergo dicendum quod maledictio creaturae inquantum creatura est, redundat in Deum, et sic per accidens habet rationem blasphemiae, non autem si maledicatur creatura propter culpam. Et eadem ratio est de detractione. Ad secundum dicendum quod, sicut dictum est [in co.; aa. 1 .3 ] , maledictio uno modo includit desiderium mali. Unde si ille qui maledicit velit malum occisionis alterius, desiderio non differt ab homicida. Differt tamen inquantum actus exterior aliquid adiicit voluntati.

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esprime. Ora, chi maledice causa il male col suo comando, mentre chi fa della maldicenza esprime soltanto un male già esistente. Quindi colui che maledice pecca più gravemente del maldicente. In contrario: la maldicenza non può mai essere buona. Invece la maledizione può essere buona o cattiva, come sopra si è visto. Quindi la maldicenza è più grave della maledizione. Risposta: come si è spiegato nella Prima Pw1e, il male è di due specie, cioè della colpa e della pena. Ora il male della colpa è quello peggiore, come si è detto. Per cui addossare al prossimo questo male è peggio che addossargli il male della pena: purché la cosa venga espressa nello stesso modo. Ora, è proprio dell'insolente, del mormoratore, del maldicente e anche del derisore addossare al prossimo il male della colpa, mentre è proprio di colui che maledice l'addossargli il male della pena, e non il male della colpa, se non forse sotto l' aspetto di castigo. Tuttavia il modo di esprimere la cosa è diverso. Intatti i quattro peccati ricordati espri­ mono il male della colpa soltanto enunzian­ dolo; invece con la maledizione il male della pena viene espresso con un comando, o con un desiderio. Ora, l'enunciazione stessa della col­ pa è un peccato in quanto infligge sempre un danno al prossimo. D'altra parte, a parità di condizioni, è più grave infliggere un danno che desiderarlo. Perciò ordinariamente la maldi­ cenza è un peccato più grave della semplice maledizione che esprime un desiderio. Invece la maledizione che si esprime sotto forma di comando, avendo l'aspetto di causa, può essere un peccato più grave della maldicenza se vuole infliggere un danno più grave della denigra­ zione della fama, o più leggero se tale danno è minore. - E ciò va inteso considerando gli ele­ menti essenziali e costitutivi di questi peccati. Poiché si potrebbero considerare anche altri elementi accidentali, capaci di accrescere o di diminuire la loro gravità. Soluzione delle difficoltà: l . La maledizione di una creatura in quanto creatura ricade su Dio, e quindi indirettamente ha natura di bestemmia; non così invece se una creatura è maledetta per le sue colpe. E lo stesso si dica della maldicenza. 2. Come si è spiegato, un cetto tipo di maledi­ zione include il desiderio del male altrui. Se quindi colui che maledice vuole l'uccisione del prossimo, quanto al desiderio non differisce

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Q. 76, A. 4

La maledizione

Ad tertiurn dicendum quod ratio illa procedit de maledictione secundum quod importat imperium.

dall'omicida. Però differisce da esso in quanto l'atto esterno aggiunge qualcosa alla semplice volizione. 3. n terzo argomento vale per la maledizione che implica un comando.

QUAESTIO 77 DE FRAUDULENTIA QUAE COMMITTITUR IN EMPTIONIBUS ET VENDITIONIBUS

QUESTIONE 77 LA FRODE CHE VIENE COMMESSA NELLE COMPRAVENDITE

Deinde considerandum est de peccatis quae sunt circa voluntarias commutationes. Et pri­ mo, de fraudulentia quae committitur in em­ ptionibus et venditionibus; secundo, de usura, quae fit in mutuis [q. 78]. Circa alias enim commutationes voluntarias non invenitur ali­ qua species peccati quae distinguatur a rapina vel furto. - Circa primum quaeruntur quatuor. Primo, de iniusta venditione ex parte pretii, scilicet, utrum liceat aliquid vendere plus quam valeat. Secundo, de iniusta venditione ex parte rei venditae. Tertio, utrum teneatur venditor dicere vitium rei venditae. Quarto, utrum lici­ tum sit aliquid, negotiando, plus vendere quam emptum sit.

Rimane ora da trattare dei peccati relativi alle permute, o scambi volontari. Primo, della frode che viene commessa nelle compravendite; secondo, dell'usura, che viene commessa nei prestiti. In rapporto infatti alle altre permute volontarie non si riscontrano altre specie di peccati distinti dalla rapina e dal furto. - Sul primo tema tratteremo quattro argomenti: l . Della vendita ingiusta per il prezzo: se cioè sia lecito vendere una cosa per più di quanto vale; 2. Della vendita ingiusta a motivo della cosa venduta; 3. Chi vende è tenuto a dichia­ rare il vizio di ciò che vende? 4. Nel commer­ cio è lecito vendere una cosa per più di quanto fu comprata?

Articulus l Utrum aliquis licite possit vendere rem plus quam valeat

È lecito vendere una cosa

Ad primum sic proceditur. Videtur quod aliquis licite possit vendere rem plus quam valeat. l . Iustum enim in commutationibus humanae vitae secundum leges civiles determinatur. Sed secundum eas [Codex 4,44,8] licitum est emptori et venditori ut se invicem decipiant, quod quidem fit inquantum venditor plus ven­ dit rem quam valeat, emptor autem rninus quam valeat. Ergo licitum est quod aliquis vendat rem plus quam valeat. 2. Praeterea, illud quod est omnibus commune videtur esse naturale et non esse peccatum. Sed sicut Augustinus refert, 1 3 De Trin. [3], dictum cuiusdam mimi fuit ab omnibus acceptatum, vili vultis emere, et care vendere. Cui etiam consonat quod dicitur Prov. 20 [ 1 4], malum est, malum est, dicit omnis empt01; et cum recesserit, gloriatur. Ergo licitum est aliquid carius vendere et vilius emere quam valeat

Sembra di sì. Infatti: l . n giusto nei contratti umani è determinato dalle leggi civili. Ora, in base ad esse è lecito a chi compra e a chi vende ingannarsi a vi­ cenda: il che avviene per il fatto che il vendi­ tore tende a vendere la cosa per più di quanto vale, e i l compratore [ad acquistarla] per meno di quanto vale. Perciò è lecito vendere una cosa per più di quanto vale. 2. Ciò che è comune a tutti è naturale, e non può essere peccato. Ma come riferisce Ago­ stino, tutti approvano quelle parole di un commediante: «Voi volete comprare a poco, e vendere a caro prezzo». E ciò si accorda con quanto è detto in Pr 20 [ 14]: Robaccia, ro­ baccia, dice chi compra; ma mentre se ne va, allora se ne vanta. Quindi è lecito vendere a un prezzo più caro e comprare a un prezzo inferiore al costo di una cosa. 3. Non può essere illecito agire in un contratto

Articolo l per più di quanto vale?

Q. 77, A. l

Lafrode che viene commessa nelle compravendite

3. Praeterea, non videtur esse illicitum si ex conventione agatur id quod fieri debet ex debi­ to honestatis. Sed secundum philosophum, in 8 Ethic. [ 1 3, 1 1 ], in amicitia utilis recompen­ satio fieri debet secundum utilitatem quam consecutus est ille qui beneficium suscepit, quae quidem quandoque excedit valorem rei datae; sicut contingit cum aliquis multum re aliqua indiget, vel ad periculum evitandum vel ad aliquod commodum consequendum. Ergo licet in contractu emptionis et venditionis aliquid dare pro maiori pretio quam valeat. Sed contra est quod dicitur Matth. 7 [ 1 2] ,

omnia quaecumque vultis u t faciant vobis homines, et vosfacite illis. Sed nullus vult sibi

rem vendi carius quam valeat. Ergo nullus debet alteri vendere rem carius quam valeat. Respondeo dicendum quod fraudem adhibere ad hoc quod aliquid plus iusto pretio vendatur, omnino peccatum est, i nquantum aliqui s decipit proximum i n damnum ipsius. Unde et Tullius dicit, in libro De off. [3,1 5], tollendum

est ex rebus contrahendis omne mendacium, non licitatorem venditm; non qui contra se li­ citetur emptor apponet. - S i autem fraus

deficit, tunc de emptione et venditione dupli­ citer loqui possumus. Uno modo, secundum se. Et secundum hoc emptio et venditio videtur esse i ntroducta pro communi uti1itate utriusque, dum scilicet unus indiget re alterius et e converso, sicut patet per philosophum, in l Poi. [3, 1 1]. Quod autem pro communi uti1itate est i nductum, non debet esse magis i n gravamen unius quam alterius. Et ideo debet secundum aequalitatem rei inter eos contractus institui. Quantitas autem rerum quae in usum hominis veniunt mensuratur secundum pre­ tium datum, ad quod est inventum numisma, ut dicitur in 5 Ethic. [5, 1 1 ] . Et ideo si vel pretium excedat quantitatem valoris rei, vel e converso res excedat pretium, tolletur iustitiae aequalitas. Et ideo carius vendere aut vilius emere rem quam valeat est secundum se iniustum et illicitum. - Alio modo possumus loqui de emptione et venditione secundum quod per accidens cedit in utilitatem unius et detrimentum alterius, puta cum aliquis multum indiget habere rem aliquam, et alius laeditur si ea careat. Et in tali casu iustum pretium erit ut non solum respiciatur ad rem quae venditur, sed ad damnum quod venditor ex venditione incurrit. Et sic licite poterit aliquid vendi plus

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come già si deve agire secondo le regole del­ l' onestà. Ora, secondo il Filosofo, nell'amici­ zia impostata sull'utilità il compenso va fatto in base al vantaggio ricavato da chi ha ricevu­ to il beneficio: e questo talora sorpassa il va­ lore della cosa venduta; come avviene quando uno ha urgente bisogno di una cosa, o per scansare un pericolo o per raggiungere uno scopo. Perciò nei contratti di compravendita è lecito vendere qualcosa a un prezzo più alto del suo valore. In contrario: in Mt 7 [ 1 2] è detto: Tutto quanto

volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Ora, nessuno vuole che gli si ven­ da una cosa per più di quanto vale. Quindi nes­ suno deve vendere a un altro in questo modo. Risposta: usare la frode per vendere una cosa a un prezzo più alto del giusto è sempre un peccato: poiché così si inganna il prossimo a suo danno. Infatti anche Cicerone ha scritto: «In tutti i contratti deve spruire qualsiasi men­ zogna: il venditore non si presenti come chi all'asta attende il miglior offerente, e il com­ pratore non cerchi uno che gli offra un prezzo minore». - Se dunque togliamo la frode, al­ lora possiamo considerare la compravendita sotto due aspetti. Primo, in se stessa. E allora troviamo che la compravendita è stata intro­ dotta per il comune vantaggio dei due interes­ sati: poiché, come spiega il Filosofo, l'uno ha bisogno dei beni dell'altro, e viceversa. Ora, ciò che è fatto per un vantaggio comune non deve pesare più sull'uno che sull'altro. Quindi il contratto reciproco deve essere basato sul­ l ' uguaglianza. Ma il valore delle cose che servono all'uomo è misurato secondo il prez­ zo che viene dato: per il quale, come dice Ari­ stotele, fu inventato il danaro. Se quindi il prezzo supera il valore di una cosa, o se la cosa supera il prezzo, è compromessa l'ugua­ glianza della giustizia. Quindi vendere a più o comprare a meno di quanto la cosa costa è un atto ingiusto e illecito. - Secondo, possiamo considerare la compravendita in quanto acci­ dentalmente costituisce un guadagno per l'uno e una perdita per l'altro: p. es. quando uno ha urgente bisogno di una cosa e l'altro viene danneggiato privandosi di essa. E in questo caso il prezzo giusto non va definito soltanto guardando a ciò che si vende, ma anche al danno che il venditore subisce con la vendita. E così si può vendere a un prezzo

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La frode che viene commessa nelle compravendite

quam valeat secundum se, quamvis non ven­ datur plus quam valeat habenti. - Si vero aliquis multum iuvetur ex re alterius quam accepit, ille vero qui vendidit non damnificatur carendo re illa, non debet eam supervendere. Quia utilitas quae alteri accrescit non est ex vendente, sed ex conditione ementis, nullus autem debet vendere alteri quod non est suum, licet possit ei vendere damnum quod patitur. Ille tamen qui ex re alterius accepta multum iuvatur, potest propria sponte aliquid vendenti supererogare, quod pertinet ad eius honestatem. Ad primum ergo dicendum quod, sicut supra [I-II q. 96 a. 2] dictum est, lex humana populo datur, in quo sunt multi a virtute deficientes, non autem datur solis virtuosis. Et ideo lex humana non potuit prohibere quidquid est contra viltutem, sed ei sufficit ut prohibeat ea quae destruunt hominum convictum; alia vero habeat quasi licita, non quia ea approbet, sed quia ea non punit. Sic igitur habet quasi licitum, poenam non inducens, si absque fraude venditor rem suam supervendat aut emptor vilius emat, nisi sit nimius excessus, quia tunc etiam lex humana cogit ad restituen­ dum, puta si aliquis sit deceptus ultra dimi­ diam iusti pretii quantitatem [Codex 4,44,2]. Sed lex divina nihil impunitum relinquit quod sit virtuti contrarium. Unde secundum divinam legem illicitum reputatur si in emptione et venditione non sit aequalitas iustitiae observa­ ta. Et tenetur ille qui plus habet recompensare ei qui damnificatus est, si sit notabile damnum. Quod ideo dico quia iustum pretium rerum quandoque non est punctaliter determinatum, sed magis in quadam aestimatione consistit, ita quod modica additio vel minutio non videtur tollere aequalitatem iustitiae. Ad secundum dicendum quod, sicut Au­ gustinus ibidem [De Trin. 1 3,3] dicit, mimus ille ve! seipsum intuendo, ve! alios experiendo vili velle emere et care vendere, omnibus id credidit esse commune. Sed quoniam revera vitium est, potest quisque adipisci huiusmodi iustitiam qua huic resista! et vincat. Et ponit exemplum de quodam qui modicum pretium de quodam libro propter ignorantiam po­ stulanti iustum pretium dedit. Unde patet quod illud commune desiderium non est naturae, sed vitii. Et ideo commune est multis, qui per latam viam vitiorum incedunt. Ad tertiu m dicendum quod in iustitia com-

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superiore al valore intrinseco della cosa, seb­ bene non la si venda a più di quanto essa vale per il proprietario. - Se poi uno riceve un vantaggio rilevante dall'acquisto senza che il venditore venga danneggiato privandosi di ciò che vende, questi non ha il diritto di aumen­ tare il prezzo. Poiché il vantaggio dell'acqui­ rente non dipende dal venditore, ma dalle condizioni dell'acquirente: ora, nessuno deve vendere a un altro cose che non gli apparten­ gono, sebbene possa vendere il danno che lui stesso subisce. Tuttavia chi dall'acquisto ot­ tiene un vantaggio rilevante può maggiorare il compenso di sua spontanea volontà: ed è un segno di nobiltà d'animo. Soluzione delle difficoltà: l . Come si è già notato, la legge umana viene data a tutto un popolo, nel quale ci sono molti individui di scarsa virtù, e non soltanto uomini virtuosi. Perciò la legge umana non può proibire tutto ciò che è contrario alla virtù, ma si limita a proibire ciò che minaccia il consorzio umano; le altre colpe poi le considera come lecite non perché le approvi, ma perché non le punisce. Così dunque essa considera come lecito, non infliggendo castighi, il fatto che il venditore venda a un prezzo maggiorato e il compratore acquisti sottoprezzo, purché la sproporzione non sia eccessiva: poiché allora la legge umana obbliga alla restituzione; nel caso ad es. in cui uno sia stato ingannato per un valore che supera la metà del prezzo giusto. Ma la legge divina non lascia impunito nulla di ciò che è contrario alla virtù. Perciò secondo la legge divina è considerato illecito non osser­ vare l'uguaglianza della giustizia nella com­ pravendita. E chi ha così guadagnato è tenuto a compensare chi è stato leso, se il danno è ri­ levante. E dico questo perché il giusto prezzo spesso non è determinato puntualmente, ma va computato con una certa elasticità, per cui piccole maggiorazioni o minorazioni non compromettono l'uguaglianza della giustizia. 2. Come aggiunge lo stesso Agostino nel passo citato, «quel commediante, considerando se stesso od osservando il comportamento di altri, credette che fosse comune a tutti il voler com­ pnrre a poco e vendere a caro prezzo. Siccome però si tratta di un vizio, ciascuno può acqui­ stare la giustizia con la quale si resiste e si vince questa inclinazione». E riporta l'esempio di un tale che diede al venditore il giusto prez-

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Lafrode che viene commessa nelle compravendite

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mutativa consideratur principaliter aequalitas rei. Sed in amicitia utilis consideratur aequali­ tas utilitatis, et ideo recompensatio fieri debet secundum utilitatem perceptam. In emptione vero, secundum aequalitatem rei.

zo di un libro da costui offerto a meno per ignoranza. Dal che si dimostra che quel deside­ rio così comune non è naturale, ma peccami­ noso. Ed è comune a molti perché i più cam­ minano per la via larga del peccato. 3. Nella giustizia commutativa si considera principalmente l'uguaglianza tra cosa e cosa. Neli' amicizia di utilità invece si considera l'uguaglianza dei reciproci vantaggi: e allora il compenso va fatto in base ai vantaggi rice­ vuti. Ma nella compravendita si deve stare all'uguaglianza reale.

Articulus 2 Utrum venditio reddatur iniusta et illicita propter defectum rei venditae

Articolo 2 La vendita è resa ingiusta e illecita per un difetto della cosa venduta?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod venditio non reddatur iniusta et illicita propter defectum rei venditae. l . Minus enim cetera sunt pensanda in re quam rei species substantialis. Sed propter defectum speciei substantialis non videtur reddi venditio rei illicita, puta si aliquis vendat argentum vel aurum alchimicum pro vero, quod est utile ad ornnes humanos usus ad quos necessarium est argentum et aurum, puta ad vasa et ad alia huiusmodi. Ergo multo minus erit illicita venditio si sit defectus in aliis. 2. Praeterea, defectus ex parte rei qui est secun­ dum quantitatem maxime videtur iustitiae contrariari, quae in aequalitate consistit. Quan­ titas autem per mensuram cognoscitur. Men­ surae autem rerum quae in usum hominum veniunt non sunt determinatae, sed alicubi maiores, alicubi minores, ut patet per philoso­ phum, in 5 Ethic. [7,5]. Ergo non potest evitari defectus ex parte rei venditae. Et ita videtur quod ex hoc venditio non reddatur illicita. 3. Praeterea, ad defectum rei pertinet si ei conveniens qualitas deest. Sed ad qualitatem rei cognoscendam requiritur magna scientia, quae plerisque venditoribus deest. Ergo non redditur venditio illicita propter rei defectum. Sed contra est quod Ambrosius dicit, in libro De off. [3, I l ], regula iustitiae manifesta est

Sembra di no. Infatti: l . Per valutare una cosa ogni altro dato vale meno della specie sostanziale. Ma un difetto nella specie sostanziale non sembra rendere illecita la vendita di una cosa: uno ad es. può vendere per vero l'argento o l'oro ricavato dali' alchimia, il quale serve a tutti gli usi per i quali si richiedono l' argento e l'oro, cioè a fabbricare vasi e altri oggetti. Molto meno dunque sarà illecita la vendita se il difetto riguarda altre doti. 2. Il difetto che sembra più incompatibile con la giustizia, che consiste nell'uguaglianza, è quello relativo alla quantità. Ora, la quantità viene conosciuta con la misura. Ma le misure di quanto è commerciabile non sono fisse, essendo in certi posti maggiori e in altri minori, come notava anche il Filosofo. Perciò non è possibile evitare difetti nelle cose da vendere. E così questo fatto non rende illecita la vendita. 3. La mancanza di una qualità nella cosa da vendere ne costituisce un difetto. M a per conoscere le qualità di una cosa si richiede una grande scienza, che per lo più manca nei venditori. Quindi la vendita non è resa illecita per un difetto della merce. In contrario: Ambrogio ha scritto: «Regola evidente della giustizia è che l'uomo dabbene non si allontani dalla verità, non faccia subire ad alcuno un danno ingiusto e non tolleri una frode nella sua merce». Risposta: in ciò che viene venduto ci possono essere tre difetti. Il primo secondo la specie della cosa. E se il venditore ne ha coscienza commette una frode nella vendita, per cui la

quod a vero non declinare virum deceat bo­ num, nec damno iniusto afficere quemquam, nec aliquid dolo annectere rei suae. Respondeo dicendum quod circa rem quae venditur triplex defectus considerari potest. Unus quidem secundum speciem rei. Et hunc

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La frode che viene commessa nelle compravendite

quidem defectum si venditor cognoscat in re quam vendit, fraudem committit in venditio­ ne, unde venditio illicita redditur. Et hoc est quod dicitur contra quosdam Isaiae l [22],

argentum tuum versum est in scoriam; vinum tuum mixtum est aqua, quod enim permixtum est patitur defectum quantum ad speciem. Alius autem defectus est secundum quantita­ tem, quae per mensuram cognoscitur. Et ideo si quis scienter utatur deficienti mensura in vendendo, fraudem committit, et est illicita venditio. Unde dicitur Deut. 25 [ 1 3-14], non

habebis in sacculo diversa pondera, maius et minus, nec erit in domo tua modius maior et minor; et postea [ 1 6] subditur, abominatur enim Dominus eum quifacit haec, et adversa­ tur omnem iniustitiam. - Tertius defectus est ex parte qualitatis, puta si aliquod animai infirmum vendat quasi sanum. Quod si quis scienter fecerit, fraudem committit in venditio­ ne, unde est illicita venditio. - Et in omnibus talibus non solum aliquis peccat iniustam venditionem faciendo, sed etiam ad restitutio­ nem tenetur. Si vero eo ignorante aliquis prae­ dictorum defectuum in re vendita fuerit, ven­ ditor quidem non peccat, quia facit iniustum materialiter, non tamen eius operatio est iniu­ sta, ut ex supradictis patet [q. 59 a. 2], tenetur tamen, cum ad eius notitiam pervenerit, damnum recompensare emptori. - Et quod dictum est de venditore, etiam intelligendum est ex parte emptoris. Contingit enim quando­ que venditorem credere suam rem esse rninus pretiosam quantum ad speciem, sicut s i aliquis vendat aurum loco aurichalci, emptor, si id cognoscat, iniuste ernit, et ad restitutio­ nem tenetur. Et eadem ratio est de defectu qualitatis et quantitatis. Ad primum ergo dicendum quod aurum et argentum non solum cara sunt propter utilitatem vasorum quae ex eis fabricantur, aut aliorum huiusmodi, sed etiam propter dignita­ tem et puritatem substantiae ipsorum. Et ideo si aurum vel argentum ab alchirnicis factum veram speciem non habeat auri et argenti, est fraudulenta et iniusta venditio. Praesertim cum sint aliquae utilitates auri et argenti veri, secundum naturalem operationem ipsorum, quae non conven iunt auro per alchimiam sophisticato, sicut quod habet proprietatem laetificandi, et contra quasdam infirmitates medicinaliter iuvat. Frequentius etiam potest

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vendita è illecita. Da cui le parole di Is l [22]: Il tuo argento è diventato scoria, il tuo vino migliore è diluito con acqua. Ora, una cosa mischiata subisce un difetto nella sua specie. Il secondo difetto riguarda la quantità, che viene conosciuta con la misura. Se quindi uno a ragion veduta usa nel vendere una misura inesatta, commette una frode e la vendita è illecita. Da cui le parole di Dt 25 [ 1 3] : Non

avrai nel tuo sacchetto due pesi diversi, uno grande e uno piccolo, né avrai in casa tua due tipi di moggio, uno grande e uno piccolo. E poco dopo [ 1 6] : Perché è in abominio al Signore tuo Dio chiunque compie tali cose, chiunque commette ingiustizia. - Il terzo difetto riguarda la qualità: come quando uno vende come sano un animale malato. E se uno fa questo scientemente commette una frode nella vendita: per cui la vendita è illecita. - E in tutti questi casi non solo uno pecca facendo una vendita ingiusta, ma è anche tenuto alla restituzione. Se i nvece uno di questi difetti nella cosa venduta capita all ' insaputa del venditore, allora costui non pecca, poiché commette un'ingiustizia solo materiale e la sua azione non è ingiusta, come si è spiegato sopra: tuttavia è tenuto a riparare se viene a conoscen­ za della cosa. - E quanto si è detto del vendi­ tore vale anche per il compratore. Talora infatti capita che il venditore creda la sua merce meno preziosa di ciò che è quanto alla specie: se p. es. uno vende dell' oro credendo di ven­ dere del similoro, il compratore che se ne accorge fa una compera ingiusta ed è tenuto alla restituzione. E lo stesso si dica per i difetti relativi alla quantità. Soluzione delle difficoltà: l . L'oro e 1' argento non sono di gran pregio soltanto perché con essi si fabbricano dei vasi e altri oggetti, ma anche per il valore intrinseco e la purezza della loro natura. Se quindi l 'oro e l ' argento pro­ dotti dagli alchimisti non hanno la vera specie di questi metalli, la loro vendita è fraudolenta e ingiusta. Specialmente perché ci sono delle proprietà nell' oro e n eli' argento, fondate sulle loro operazioni naturali , che non apparten­ gono all'oro sofisticato degli alchimisti: come la capacità di rallegrare, e di giovare come medicina in certe malattie. Inoltre l'oro vero, a differenza di quello sofisticato, può essere adoperato con maggiore frequenza, e dura più a lungo nella sua purezza. - Se però con l'al-

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poni in operatione, et diutius in sua puritate pennanet aurum vemm quam aumm sophisti­ catum. - Si autem per alchimiam fieret aumm vemm, non esset illicitum ipsum pro vero ven­ dere, quia nihil prohibet artem uti aliquibus naturalibus causis ad producendum naturales et veros effectus; sicut Augustinus dicit, in 3 De Trin. [8], de his quae arte daemonum fiunt. Ad secundum dicendum quod mensuras remm venalium necesse est in diversis locis esse diversas, propter diversitatem copiae et inopiae remm, quia ubi res magis abundant, consueverunt esse maiores mensurae. In unoquoque tamen loco ad rectores civitatis pertinet detenninare quae sunt iustae mensu­ rae rerum venalium, pensatis conditionibus locorum et rerum. Et ideo has mensuras pu­ blica auctoritate vel consuetudine institutas praetetire non Iicet. Ad tertium dicendum quod, sicut Augustinus dicit, in 1 1 De civ. Dei [ 1 6], pretium remm venalium non consideratur secundum gradum naturae, cum quandoque pluris vendatur unus equus quam unus servus, sed consideratur secundum quod res in usum hominis veniunt. Et ideo non oportet quod venditor vel emptor cognoscat occultas rei venditae qualitates, sed illas solum per quas redditur humanis usibus apta, puta quod equus sit f01tis et bene cunat, et similiter in ceteris. Has autem qualitates de facili venditor et emptor cognoscere possunt.

chimia si ricavasse dell'oro vero, allora non sarebbe illecito venderlo: poiché nulla impe­ disce che I' arte si possa servire di certe cause naturali per produne effetti naturali veri, co­ me dice Agostino parlando delle cose prodot­ te dalle arti dei demoni. 2. Le misure delle cose commerciabili sono necessariamente diverse nei vari luoghi, date le variazioni di abbondanza o di penuria ad esse relative: dove c'è intàtti maggiore abbon­ danza vengono usate misure più grandi. Tut­ tavia in ogni regione spetta ai governanti de­ tenninare le misure esatte delle cose commer­ ciabili in base alle condizioni di luogo e di tempo. Quindi non è lecito scostarsi da queste misure stabilite dalla pubblica aut01ità o dalla consuetudine. 3. Come dice Agostino, il prezzo delle cose commerciabili non viene computato secondo l'ordine delle nature, poiché talora un cavallo viene pagato più di uno schiavo, ma viene computato in base ai vantaggi che l'uomo sa trame. Non è quindi necessario che il vendito­ re e il compratore conoscano le qualità nasco­ ste della cosa venduta, ma solo quelle che la rendono adatta all' uso dell' uomo: p. es. che un cavallo è forte e eone bene; e così per le altre cose. Ora, siffatte qualità possono essere faci lmente conosciute dal venditore e dal compratore.

Articulus 3 Utrum venditor teneatur dicere vitium rei venditae

Articolo 3 D venditore è tenuto a dichiarare

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod ven­ ditor non teneatur dicere vitium rei venditae. l . Cum enim venditor emptorem ad emen­ dum non cogat, v i detur eius iudicio rem quam vendi t supponere. Sed ad eundem perti­ net iudicium et cognitio rei. Non ergo videtur imputandum venditori si emptor in suo iudi­ cio decipitur, praecipitanter emendo, absque diligenti inquisitione de conditionibus rei. 2. Praeterea, sndtum videtur quod aliquis id faciat unde eius operatio impediatur. Sed si aliquis vitia rei vendendae indicet, impedit suam venditionem, ut enim Tullius, in libro De off. [3, 1 3], inducit quendam dicentem,

Sembra di no. Infatti: l . Dal momento che il venditore non forza il compratore a comprare, sembra che sottopon­ ga la merce al suo giudizio. Ora, spetta alla persona medesima il giudizio e la conoscenza dell'oggetto. Perciò non va imputato al vendi­ tore se l ' acquirente sbaglia nel suo giudizio comprando precipitosamente, senza un dili­ gef!te esame delle condizioni della merce. 2. E da stolti compiere dei gesti che impedi­ scono le proprie funzioni. Ora, se uno indica i difetti di ciò che vende, impedisce la vendita. Cicerone infatti parla di un tale il quale affer­ mava: «Che cosa c'è di più assurdo di un pro­ prietario il quale dia ordine al banditore di gridare così: Vendo una casa malsana?».

quid tam absurdum quam si, domini iussu, ita praeco praediceret, domum pestilentem

i difetti di ciò che vende?

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La frode che viene commessa nelle compravendite

vendo? Ergo venditor non tenetur dicere vitia rei venditae. 3. Praeterea, magis necessarium est homini ut cognoscat viam virtutis quam ut cognoscat vitia rerum quae venduntur. Sed homo non tenetur cuilibet consilium dare et veritatem dicere de his quae pertinent ad virtutem, quamvis nulli debeat dicere falsitatem. Ergo multo minus tenetur venditor vitia rei vendi­ tae dicere, quasi consilium dando emptori. 4. Praeterea, si aliquis teneatur dicere detectum rei venditae, hoc non est nisi ut minuatur de pretio. Sed quandoque diminueretur de pretio etiam sine vitio rei venditae, propter aliquid aliud, puta si venditor deferens triticum ad lo­ cum ubi est carestia frumenti, sciat multos pos­ se venire qui deferant; quod si sciretur ab ementibus, minus pretium darent. Huiusmodi autem non oportet dicere venditorem, ut vi­ detur. Ergo, pari ratione, nec vitia rei venditae. Sed contra est quod Ambrosius dicit, in 3 De off. [ 1 0] , in contractibus vitia eorum quae veneunt prodi iubentur, ac nisi intimaverit venditor, quamvis in ius emptoris transierint, doli actione vacuantur. Respondeo dicendum quod dare alicui occa­ sionem periculi vel damni semper est illi­ citum, quamvis non sit necessarium quod homo alteri semper det auxilium vel consi­ Iium pertinens ad eius qualemcumque promo­ tionem, sed hoc solum est necessarium in aliquo casu determinato, puta cum alius eius curae subdatur, vel cum non potest ei per alium subveniri. Venditor autem, qui rem vendendam proponit, ex hoc ipso dat emptori damni vel periculi occasionem quod rem vitiosam ei offert, si ex eius vitio damnum vel periculum incurrere possit, damnum quidem, si propter huiusmodi vitium res quae venden­ da proponitur minoris sit pretii, ipse vero propter huiusmodi vitium nihil de pretio subtrahat; periculum autem, puta si propter huiusmodi vitium usus rei reddatur impeditus vel noxius, puta s i aliquis alicui vendat equum claudicantem pro veloci, vel ruinosam domum pro firma, vel cibum corruptum sive venenosum pro bono. Unde si huiusmodi vitia sint occulta et ipse non detegat, erit illicita et dolosa venditio, et tenetur venditor ad damni recompensationem. - Si vero vi­ tium sit manifestum, puta cum equus est mo­ noculus; vel cum usus rei, etsi non competat

Q. 77, A. 3

Dunque il venditore non è tenuto a dichiarare i difetti di ciò che vende. 3. Per un uomo è più necessario conoscere la via de li' onestà che le tare della merce in ven­ dita. Eppure non si è tenuti a dare consigli a tutti, e a dir loro la verità su cose riguardanti la virtù: sebbene non si debba mai dire i l falso. Molto meno, quindi, s i è tenuti a dichia­ rare le tare della merce, come per consigliare il compratore. 4. Se uno fosse tenuto a dichiarare i difetti di ciò che vende, ciò avrebbe il solo scopo di diminuire il prezzo. Ma questa diminuzione potrebbe avvenire anche per altri motivi a prescindere dai difetti della merce: nel caso p. es. di un mercante il quale, nel portare i l grano dove c ' è carestia, sapesse che è immi­ nente l'arrivo di altri rifornimenti: cosa che, se venisse a conoscenza dei compratori, fa­ rebbe diminuire il prezzo. Ora, non sembra che il venditore sia tenuto a informarli su ciò. Quindi, per lo stesso motivo, non è tenuto neppure a farlo per i difetti di ciò che vende. In contrario: Ambrogio insegna: «Nei contrat­ ti si è tenuti a dichiarare i difetti di ciò che si vende; e se il venditore non lo fa, sebbene la merce sia passata nelle mani del compratore, il contratto è annullato per frode». Risposta: è sempre illecito dare ad altri occa­ sione di pericolo o di danno; sebbene non sia necessario sempre che uno dia agli altri aiuto e consiglio per assicurare loro dei vantaggi, ma solo in casi determinati: p. es. quando gli altri sono affidati alle sue cure, o quando diver­ samente non c'è chi possa aiutarli. Ora, il venditore che mette in vendita una cosa avaria­ ta, per ciò stesso offre al compratore un'oc­ casione di danno o di pericolo, qualora i l difetto ricada come danno o come pericolo sull'acquirente: come danno, se per tale difetto la cosa in vendita risulta di minor prezzo, mentre viene venduta a prezzo normale; come pericolo, se il difetto è tale da rendere impos­ sibile o nocivo il suo uso: come nel caso di uno che venda per veloce un cavallo zoppo, per stabile una casa in rovina, o per buono un cibo avariato o avvelenato. Per cui, se questi difetti sono nascosti e il venditore non Ii denunzia, la vendita è fraudolenta, e chi ha venduto è ob­ bligato al risarcimento dei danni. - Se invece il difetto è evidente (p. es. se un cavano ha un occhio solo, oppure quando l'uso della merce,

Q. 77, A. 3

Lafrode che viene commessa nelle compravendite

venditori, potest tamen esse conveniens aliis; et si ipse propter huiusmodi vitium subtrahat quantum oportet de pretio, non tenetur ad manifestandum vitium rei. Quia forte propter huiusmodi vitium emptor vellet plus subtrahi de pretio quam esset subtrahendum. Unde potest licite venditor indemnitati suae consu­ lere, vitium rei reticendo. Ad primum ergo dicendum quod iudicium non potest fieri nisi de re manifesta, unusquisque enim iudicat quae cognoscit, ut dicitur in l Ethic. [3,5]. Unde si vitia rei quae vendenda proponitur sint occulta, nisi per venditorem manifestentur, non sufficienter committitur emptori iudicium. Secus autem esset si essent vitia manifesta. Ad secundum dicendum quod non oportet quod aliquis per praeconem vitium rei venden­ dae praenuntiet, quia si praediceret vitium, ex­ terrerentur emptores ab emendo, dum ignora­ rent alias conditiones rei, secundum quas est bona et utilis. Sed singulariter est dicendum vi­ tium ei qui ad emendum accedit, qui potest simul omnes conditiones ad invicem compa­ rare, bonas et malas, nihil enim prohibet rem in aliquo vitiosam, in multis aliis utilem esse. Ad tertium dicendum quod quamvis homo non teneatur simpliciter omni homini dicere veritatem de his quae pertinent ad virtutes, te­ neretur tamen in casu ilio de his dicere verita­ tem quando ex eius facto alteri periculum immineret in detrimentum virtutis nisi diceret veritatem. Et sic est in proposito. Ad quartum dicendum quod vitium rei facit rem in praesenti esse minoris valoris quam videatur, sed in casu praemisso, in futurum res expectatur esse minoris valoris per superven­ tum negotiatorum, qui ab ementibus ignoratur. Unde venditor qui vendit rem secundum pre­ tium quod invenit, non videtur contra iustitiam facere si quod futurum est non exponat. S i tamen exponeret, vel de pretio subtraheret, abundantioris esset virtutis, quamvis ad hoc non videatur teneri ex iustitiae debito.

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sebbene non soddisfi più il venditore, può tut­ tavia andar bene per altri), e se il venditore pensa da se stesso a ridurre debitamente il prezzo, allora non è tenuto a dichiarare i difetti di ciò che vende. Poiché per questi difetti probabilmente il compratore pretenderebbe un abbassamento esagerato del prezzo. Per cui il venditore può provvedere alla propria indenni­ tà tacendo i difetti della merce. Soluzione delle difficoltà: l . Non si può emet­ tere un giudizio se non su cose evidenti: poi­ ché, come dice Aristotele, «ciascuno giudica le cose che conosce». Se quindi i difetti di ciò che è messo in vendita sono nascosti, senza la dichiarazione del venditore non vengono sottoposti sufficientemente al giudizio del compratore. Diverso invece sarebbe il caso se i vizi fossero evidenti. 2. Non è necessmio che uno faccia annunzia­ re dal banditore i difetti delle cose da vendere: poiché così allontanerebbe i compratori, igno­ rando essi le altre qualità e condizioni che rendono la cosa buona e utile. Tuttavia le tare vanno dichiarate personalmente a chi si avvi­ cina per comprare e ha la possibilità di con­ frontare tutti i dati, buoni e cattivi: poiché nulla impedisce che una cosa difettosa sotto un aspetto, sotto molti altri sia invece utile. 3. Sebbene uno non sia tenuto a dire a tutti la verità sulle cose relative alla virtù, vi è però tenuto nel caso in cui uno, per un qualche suo comportamento, venisse a trovarsi moralmen­ te in pericolo senza quella sua dichiarazione. E così avviene nel caso nostro. 4. n difetto della merce la rende di minor valore al presente; invece nel caso indicato la merce diventerà tale per la venuta degli altri mercanti, che è ignorata dai compratori. Per cui il venditore che vende la merce al prezzo che trova non agisce contro la giustizia, se non dichiara ciò che avverrà in seguito. Se pe­ rò lo dichiarasse, o se riducesse il prezzo, pra­ ticherebbe più perfettamente la virtù; sebbene non vi sia tenuto a rigore di giustizia.

Articulus 4

Articolo 4

Utrum Iiceat, negotiando, aliquid carius vendere quam emere

Commerciando è lecito vendere una cosa a più di quanto fu comprata?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod non liceat, negotiando, aliquid carius vendere quam emere.

Sembra di no. Infatti: l . Il Crisostomo afferma: «Chi compra una cosa per guadagnare nel rivenderla tale e

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l . Dicit enim Chrysostomus, Super Matth. 21 [12; cf. Op. imperf. in Matth. h. 38], quicum­ que rem comparat ut, integram et immutatam vendendo, lucretur, ille est mercator qui de tempio Dei eiicitur. Et idem dicit Cassiodorus [Expos. in Ps. super 70, 15], super illud Ps. [70, 1 5], quoniam non cognovi litteraturam, vel negotiationem secundum aliam litteram [Ps. 70, 1 5] , quid, inquit, est aliud negotiatio nisi vilius comparare et carius ve/le distrahe­ re ? Et subdit, negotiatores tales Dominus eiecit de tempio. Sed nullus eiicitur de tempio nisi propter aliquod peccatum. Ergo talis negotiatio e.o;;t peccatum. 2. Praeterea, contra iustitiam est quod aliquis rem carius vendat quam valeat, vel vilius emat, ut ex dictis [a. l] apparet. Sed ille qui, negotiando, rem carius vendit quam emerit, necesse est quod vel vilius emerit quam va­ leat, vel carius vendat. Ergo hoc sine peccato fieri non potest. 3. Praeterea, Hieronymus dicit [ep. 52 Ad Ne­ potianum], negotiatorem clericum, ex inope divitem, ex ign obili gloriosum, quasi quandam pestem fuge. Non autem negotiatio clericis interdicenda esse videtur nisi propter peccatum. Ergo negotiando aliquid vilius emere et carius vendere est peccatum. Sed contra est quod Augustinus dicit, super il­ lud Ps. [70, 1 5] [Enarr. in Ps. 70 c. l super 1 5], quoniam non cognovi litteraturam, negotiator avidus acquirendi pro damno blasphemat, pro pretiis rerum mentitur et peierat. Sed haec vitia hominis sunt, non al1is, quae sine his vitiis agi potest. Ergo negotiari secundum se non est illicitum. Respondeo dicendum quod ad negotiatores pertinet commutationibus rerum insistere. Ut autem philosophus dicit, in l Poi. [3, 1 2. 1 5], duplex est rerum commutatio. Una quidem quasi naturalis et necessaria, per quam scilicet fit commutatio rei ad rem, vel rerum et dena­ riorum, propter necessitatem vitae. Et talis commutatio non proprie pertinet ad negotiato­ res, sed magis ad oeconomicos vel politicos, qui habent providere vel domui vel civitati de rebus necessariis ad vitam. Alia vero commu­ tationis species est vel denariorum ad dena­ rios, vel quarumcumque rerum ad denarios, non propter res necessarias vitae, sed propter lucrum quaerendum. Et haec quidem negotia­ tio proprie videtur ad negotiatores pertinere.

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quale, è uno di quei mercanti che viene cac­ ciato dal tempio di Dio». E lo stessa cosa ripete Cassiodoro commentando il Sal 70 [ 1 5]: Poiché io non conobbi le lettere, ossia «il commercio», secondo un' altra versione [LXX]: Che cos 'è il commercio se non com­ prare a poco per poi vendere a più caro prez­ zo ?, e continua: «Questi commercianti il Signore li ha cacciati dal tempio». Ma nessu­ no viene cacciato dal tempio se non per un peccato. Quindi tale commercio è un peccato. 2. Come sopra si è dimostrato, è contro la giustizia sia vendere una cosa per più di quan­ to vale, sia comprarla a meno. Ora, chi nel commercio vende una cosa a più del prezzo di compera, o l'ha comprata per meno di ciò che valeva, o la vende a più di ciò che vale. Quindi non si può fare ciò senza peccato. 3. Girolamo ha scritto: «Fuggi come la peste il chierico che fa il commerciante, che da povero è diventato ricco, e da umile potente». Ora, il commercio va proibito ai chierici a motivo del peccato. Perciò nel commercio comprare a meno e vendere a più costituisce un peccato. In contrario: Agostino commenta il Sal 70 [ 1 5] : Poiché io non conobbi le lettere, così: «li commerciante avido di guadagno bestem­ mia nelle perdite, mente e spergiura sui prez­ zi. Ma questi sono vizi dell' uomo, non del mestiere, il quale può essere esercitato senza di essi». Quindi il commerciare non è di per sé una cosa illecita. Risposta: è proprio dei commercianti dedicar­ si agli scambi delle merci. Ora, come nota il Filosofo, ci sono due tipi di scambi. C'è uno scambio quasi naturale e necessario, in cui c'è la permuta tra merce e merce, oppure tra mer­ ce e danaro, per le necessità della vita. E tale scambio propriamente non appartiene ai commercianti, ma piuttosto ai capi di famiglia e ai governanti, i quali hanno il compito di provvedere alla loro casa o al loro stato nelle cose necessarie alla vita. Invece l'altra specie di scambio è tra danaro e danaro, o tra qual­ siasi merce e danaro, non per provvedere alle necessità della vita, ma per ricavame un gua­ dagno. E questo tipo di traffico è proprio dei commercianti. Ora, secondo il Filosofo il primo tipo di scambi è degno di lode: poiché soddisfa a una esigenza naturale. Il secondo invece è giustamente vituperato: poiché di per

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Secundum philosophum [Poi. l ,3,23] autem, prima commutatio l audab i l i s est, quia deservit naturali necessitati. Secunda autem iuste vituperatur, quia, quantum est de se, deservit cupiditati lucri, quae terminum nescit sed in infinitum tendit. Et ideo negotiatio, se­ cundum se considerata, quandam turpitudi­ nem habet, inquantum non importat de sui ratione finem honestum vel necessarium. Lucrum tamen, quod est negotiationis finis, etsi in sui ratione non importet aliquid honestum vel necessarium, nihil tamen importat in sui ratione vitiosum vel virtuti contrarium. Unde nihil prohibet lucrum ordinari ad aliquem finem necessarium, vel etiam honestum. Et sic ne­ gotiatio licita reddetur. Sicut cum aliquis lu­ crum moderatum, quod negotiando quaerit, ordinat ad domus suae sustentationem, vel etiam ad subveniendum indigentibus, vel etiam cum aliquis negotiationi intendit propter publicam utilitatem, ne scilicet res necessariae ad vitam patriae desint, et lucrum expetit non quasi finem, sed quasi stipendium laboris. Ad primum ergo dicendum quod verbum Chrysostomi est intelligendum de negotiatio­ ne secundum quod ultimum finem in lucro constituit, quod praecipue videtur quando aliquis rem non immutatam carius vendit. Si enim rem immutatam carius vendat, videtur praemium sui laboris accipere. Quamvis et ipsum lucrum possit Iicite intendi, non sicut ultimus tinis, sed propter alium finem neces­ sarium vel honestum, ut dictum est [in co.]. Ad secundum dicendum quod non quicumque carius vendit aliquid quam emerit, negotiatur, sed salurn qui ad hoc emit ut carius vendat. Si autem emit rem non ut vendat, sed ut teneat, et postmodum propter aliquam causam eam vendere velit, non est negotiatio, quamvis carius vendat. Potest enim hoc licite facere, vel quia in aliquo rem melioravit; vel quia pretium rei est mutatum, secundum diversita­ tem loci vel temporis; vel propter periculum cui se exponit transferendo rem de loco ad locum, vel eam ferri faciendo. Et secundum hoc, nec emptio nec venditio est iniusta. Ad tertium dicendum quod clerici non salurn debent abstinere ab his quae sunt secundum se mala, sed etiam ab his quae habent spe­ ciem mali. Quod quidem in negotiatione con­ tingit, tum propter hoc quod est ordinata ad lucrum terrenum, cuius clerici debent esse

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sé soddisfa la cupidigia del guadagno, che non conosce limiti, e tende all'infinito. Per­ ciò, considerato in se stesso, il commercio ha una certa sconvenienza: giacché nella sua na­ tura non implica un fine onesto o necessario. - Si deve notare però che il guadagno, il qua­ le costituisce il fine del commercio, sebbene non implichi di per sé un elemento di onestà o di necessità, non implica tuttavia nella sua natura alcunché di peccaminoso o di immo­ rale. Perciò nulla impedisce di ordinare il guadagno a qualche fine necessario, o anche onesto. E in questo caso il commercio è leci­ to. Come quando uno ordina il modesto gua­ dagno cercato nel commercio al sostentamen­ to della propria famiglia, o a soccotTere i po­ veri; oppure quando uno si dedica al commer­ cio per l'utilità pubblica, cioè perché nella sua patria non manchino le cose necessarie, e ha di mira il guadagno non come fine, ma come compenso del proprio lavoro. Soluzione delle difficoltà: l . Le parole del Crisostomo vanno applicate al commercio in quanto uno mette il suo fine nel guadagno, il che è evidente soprattutto quando si rivende una cosa tale e quale a un prezzo superiore. Se infatti uno rivende la cosa a un prezzo su­ periore dopo averla trasformata, allora non fa altro che ricevere un premio del proprio lavo­ ro. Sebbene si possa anche lecitamente perse­ guire il guadagno, non però come fine ultimo, ma per un altro tine necessario od onesto, come si è spiegato. 2. Non tutti quelli che rivendono a un prezzo superiore fanno del commercio, ma solo chi compra per rivendere a prezzi più alti. Se uno invece compra una cosa non per rivenderla, ma per tenerla, e poi per una causa qualsiasi vuole rivenderla, non fa del commercio, seb­ bene la rivenda a un prezzo superiore. Egli infatti può fare questo lecitamente: o perché vi ha apportato delle migliorie, o perché i prezzi cambiano secondo la diversità del luo­ go o del tempo, o anche per il pericolo al qua­ le si espone nel trasportare o nel far trasporta­ re la merce da un posto a un altro. E in base a ciò né la compera né la vendita sono ingiuste. 3. I chierici non solo devono astenersi dalle cose che sono intrinsecamente cattive, ma anche da quelle che hanno l'apparenza del male. E ciò si verifica nel commercio, sia per­ ché esso è ordinato a un guadagno materiale,

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contemptores; tum etiam propter frequentia negotiatorum vitia, quia difficiliter exuitur negotiator a peccatis labiorwn, ut dicitur Eccli. 26 [28]. Est et alia causa, quia negotia­ tio nimis implicat animum saecularibus curis, et per consequens a Spiritualibus retrahit, unde apostolus dicit, 2 ad Tim. 2 [4], nemo militans Deo implicar se negotiis saeculari­ bus. Licet tamen clericis uti prima commuta­ tionis specie, quae ordinatur ad necessitatem vitae, emendo vel vendendo.

che i chierici devono disprezzare, sia per i molteplici vizi dei commercianti, poiché diffi­ cilmente un commerciante sarà esente dai peccati di lingua (Sir 26,28). E c'è una secon­ da ragione: perché il commercio lega troppo l'animo alle cose secolaresche, e quindi lo distoglie da quelle spirituali. Per cui Paolo in 2 Tm 2 [4] dice: Nessuno che milita per Dio si intralcia nelle faccende della vita comune. Ai chierici però è lecito il primo tipo di scambi, cioè quelli che sono ordinati, nella compra­ vendita, alle necessità della vita.

QUAESTI0 78 DE PECCATO USURAE

QUESTIONE 78 IL PECCATO DI USURA

Deinde considerandum est de peccato usurae, quod committitur in mutuis. - Et circa hoc quae­ runtur quatuor. Primo, utrum sit peccatum acci­ pere pecuniam in pretium pro pecunia mutuata, quod est accipere usuram. Secondo, utrum liceat pro eodem quamcumque utilitatem accipere quasi in recompensationem mutui. Tertio, utrum aliquis restituere teneatur id quod de pecunia usuraria iusto lucro lucratus est. Quarto, utrum liceat accipere mutuo pecuniam sub usura.

Veniamo ora a trattare del peccato di usura, che viene commesso nei prestiti. - Sull' argomento si pongono quattro quesiti: l . È un peccato per­ cepire l'usura� cioè un compenso per il danaro prestato? 2. E lecito ricavare qualsiasi altro vantaggio come ricompensa di un prestito? 3. Uno è tenuto a restituire ciò che ha guadagnatp giustamente col danaro prestato a usura? 4. E lecito prendere a prestito del danaro a usura? Articolo l

Articulus l Utrum accipere usuram pro pecunia mmutuata sit peccatuEB

È un peccato percepire l'usura

Ad primum sic proceditur. Videtur quod accipere usuram pro pecunia mutuata non sit peccatum. l . Nullus enim peccat ex hoc quod sequitur exemplum Christi. Sed Dominus de seipso dicit, Luc. 19 [23], ego veniens cum usuris exegissem illam, scilicet pecuniam mutuatam. Ergo non est peccatum accipere usuram pro mutuo pecuniae. 2. Praeterea, sicut dicitur in Ps. [ 1 8,8], !ex Domini immaculata, quia scilicet peccatum prohibet. Sed in lege divina conceditur aliqua usura, secundum illud Deut. 23 [ 19-20], non faenerabis fratri tuo ad usuram pecuniam, nec fruges nec quamlibet aliam rem, sed alieno. Et, quod plus est, etiam in praemium repromittitur pro lege servata, secundum illud Deut. 28 [12], faenerabis gentibus multis; et ipse a nullo faenus accipies. Ergo accipere usuram non est peccatum.

Sembra di no. Infatti: l . Nessuno può peccare seguendo l'esempio di Cristo. Ma il Signore in Le 1 9 [23] così parla di se stesso: Io, al mio ritorno, l'avrei riscosso con gli interessi, cioè il danaro pre­ stato. Quindi non è peccato percepire l'usura per il prestito del danaro. 2 . Nel Sal 1 8 [8] è detto: La legge del Signore è senza macchia, perché, cioè, proi­ bisce qualsiasi peccato. Ma nella legge divi­ na si concede una certa usura, come è detto in Dt 23 [ 19] : Non farai al tuo fratello pre­ stiti a interesse né di danaro, né di viveri, né di altre cose; ma allo straniero sì. In più, ciò è promesso come premio per l' osser­ vanza della legge, come è detto in Dt 28 [ 1 2] : Tu darai a usura a molti popoli, rice­ vendone interessi, mentre tu non domande­ rai prestiti. Quindi percepire l'usura non è un peccato.

per il danaro prestato?

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3 . Praeterea, in rebus humanis determinatur

3. Nei rapporti umani la giustizia viene deter­

iustitia per leges civiles. Sed secundum eas conceditur usuras accipere. Ergo videtur non esse illicitum. 4. Praeterea, praetermittere consilia non obligat ad peccatum. Sed Luc. 6 [35] inter alia consilia ponitur, date mutuum, nihil inde sperantes. Ergo accipere usuram non est peccatum. 5. Praeterea, pretium accipere quo eo quod quis tacere non tenetur, non videtur esse se­ cundum se peccatum. Sed non i n quolibet casu tenetur pecuniam habens eam proximo mutuare. Ergo licet ei aliquando pro mutuo accipere pretium. 6. Praeterea, argentum monetatum, et in vasa formatum, non differt specie. Sed licet acci­ pere pretium pro vasis argenteis accommoda­ tis. Ergo etiam licet accipere pretium pro mu­ tuo argenti monetati. Usura ergo non est se­ cundum se peccatum. 7. Praeterea, quilibet potest licite accipere rem quam ei dominus rei voluntarie tradit. Sed ille qui accipit mutuum voluntarie tradi t usuram. Ergo ille qui mutuat licite potest accipere. Sed contra est quod dicitur Ex. 22 [25], si pe­

minata dalle leggi civili. Ma queste concedo­ no di percepire l' usura. Quindi non è una cosa illecita. 4. La trasgressione di un consiglio non costi­ tuisce peccato. Ora, le parole di Le 6 [35]: Prestate senza sperarne nulla, l e troviamo tra gli altri consigli evangelici. Quindi percepire l'usura non è un peccato. 5. Non sembra essere intrinsecamente pecca­ minoso ricevere un compenso per una cosa che non si è tenuti a tare. Ora, non in tutti i casi chi ha il danaro è tenuto a prestarlo. Quindi in certi casi uno può ricevere un com­ penso per il prestito fatto. 6. L'argento coniato e quello trasformato in aJ.Tedi sono della stessa specie. Ora, è lecito ricevere un compenso per gli arredi d' argento dati a prestito. Quindi è lecito anche riceverlo per i l prestito dell' argento coniato. Perciò l 'usura per se stessa non è un peccato. 7 . Chiunque può percepire lecitamente una cosa data volontariamente dal suo proprieta­ rio. Ora, chi riceve un prestito dà volontaria­ mente l' usura. Quindi chi presta può percepir­ la lecitamente. In contrario: in Es 22 [25] si dice: Se tu presti

cuniam mutuam dederis populo meo pauperi qui habitat tecum, non urgebis eum quasi exactor, nec usuris opprimes.

Respondeo dicendum quod accipere usuram pro pecunia mutuata e s t secundum se iniustum, quia venditur id quod non est, per quod manifeste inaequalitas constituitur, quae iustitiae contrariatur. Ad cuius evidentiam, sciendum est quod quaedam res sunt quarum usus est ipsarum rerum consumptio, sicut vinum consumimus eo utendo ad potum, et triticum consumimus eo utendo ad cibum. Unde in talibus non debet seorsum computaci usus rei a re ipsa, sed cuicumque conceditur usus, ex hoc ipso conceditur res. Et propter hoc in talibus per mutuum transfertur domi­ nium. Si quis ergo seorsum vellet vendere vinum et seorsum vellet vendere usum vini, venderet eandem rem bis, vel venderet id quod non est. Unde manifeste per iniustitiam peccaret. Et simili ratione, iniustitiam com­ mittit qui mutuat vinum aut triticum petens sibi duas recompensationes, unam quidem restitutionem aequalis rei, aliam vero pretium usus, quod usura dicitur. - Quaedam vero sunt quorum usus non est ipsa rei consumptio, sicut usus domus est inhabitatio, non autem

del danaro a qualcuno del mio popolo non ti comporterai con lui da usuraio: voi non do­ vete imporgli alcun interesse.

Risposta: percepire l'usura o interesse, per il danaro prestato è di per sé u n ' ingiustizia: poiché si vende in tal modo una cosa inesisten­ te, determinando una sperequazione che è in contrasto con la giustizia. Per averne l' eviden­ za si deve considerare che ci sono delle cose il cui uso consiste nel loro consumo: tali sono, p. es., il vino che consumiamo usandolo per bere, e il grano che consumiamo usandolo per man­ giare. Perciò in queste cose l'uso non va com­ putato come distinto dalle cose stesse, poiché la concessione dell'uso implica la concessione della cosa. Quindi per tali cose il prestito deter­ mina tm passaggio di proprietà. Se quindi uno volesse vendere il vino separatamente dall'uso del vino, venderebbe due volte la stessa cosa, oppure venderebbe un' entità inesistente. È chiaro, quindi, che commetterebbe un peccato di ingiustizia. E per lo stesso motivo commette un' i ngiustizia chi presta il vino o i l grano chiedendo due compensi, cioè la restituzione di una cosa equivalente e in più il prezzo dell'uso,

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dissipatio. Et ideo in talibus seorsum potest utrumque concedi, puta cum aliquis tradit alteri dominium domus, reservato sibi usu ad aliquod tempus; vel e converso cum quis concedit alicui usum domus, reservato sibi eius dominio. Et propter hoc licite potest ho­ mo acci pere pretium pro usu domus, et praeter hoc petere domum commodatam, si­ cut patet in conductione et locatione domus. Pecunia autem, secundum philosophum, in 5 Ethic. [5, l O] et in l Poi. [3, 1 3], principaliter est inventa ad commutationes faciendas, et ita proprius et principal i s pecuniae usus est ipsius consumptio sive distractio, secundum quod in commutationes expenditur. Et propter hoc secundum se est illicitum pro usu pecu­ niae mutuatae accipere pretium, quod dicitur usura. Et sicut alia iniuste acquisita tenetur homo restituere, ita pecuniam quam per uso­ ram accepit. Ad primum ergo dicendum quod usura ibi metaphorice accipitur pro superexcrescentia bonorum spiritualium, quam exigit Deus vo­ lens ut in bonis acceptis ab eo semper proficia­ mus. Quod est ad utilitatem nostram, non eius. Ad secundum dicendum quod Iudaeis prohi­ bitum fuit accipere usuram a fratribus suis, scilicet Iudaeis, per quod datur intelligi quod accipere usuram a quocumque homine est simpliciter malum; debemus enim omnem hominem habere quasi proximum et fratrem, praecipue in statu Evangelii, ad quod omnes vocantur. Unde in Ps. [ 1 4,5] absolute dicitur, qui pecuniam suam non dedit ad usuram; et Ez. 1 8 [ 1 7], qui usuram non acceperit. Quod autem ab extraneis usuram acciperent, non fuit eis concessum quasi licitum, sed permis­ sum ad maius malum vitandum, ne scilicet a Iudaeis, Deum colentibus, usuras acciperent, propter avaritiam, cui dediti erant, ut habetur Isaiae 56 [ 1 1 ] . - Quod autem i n praemium promittitur, faenerabis gentibus multis etc., faenus ibi large accipitur pro mutuo, sicut et Eccli . 29 [ 1 0] dicitur, multi non causa ne­ quitiae non faenerati sunt, idest non mutuave­ runt. Promittitur ergo in praemium Iudaeis abundantia divitiarum, ex qua contingit quod aliis mutuare possint. Ad tertium dicendum quod leges humanae di­ mittunt aliqua peccata impunita propter con­ ditiones hominum imperfectorum, in quibus multae utilitates impedirentur si omnia pecca-

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denominato usura. Ci sono invece altre cose il cui uso non consiste nel loro consumo: l'uso della casa, p. es., consiste nell' abitarla, non già nel distruggerla. Perciò in questi casi si può concedere l'una o l'altra delle due cose: p. es. uno può concedere a un altro la proprietà della casa riservandosene però l'uso per un certo tempo; o viceversa uno può concedere l 'uso conservando la proprietà. E così è possibile percepire un compenso per l'uso della casa, ed esigere oltre a ciò la restituzione della casa stessa: come è evidente nei contratti di condu­ zione e di locazione. - Ora il danaro, come in­ segna il Filosofo, è stato inventato principal­ mente per facilitare gli scambi: quindi l'uso proprio e principale del danaro è il consumo o la spesa che di esso viene fatta negli scambi. E così è di per sé illecito il percepire un compen­ so per l'uso del danaro prestato, cioè per l'usu­ ra. Quindi, come l'uomo è tenuto a restituire le altre cose ingiustamente acquistate, così è tenuto a farlo per il danaro ricevuto come usura o interesse. Soluzione delle difficoltà: l . In quel testo l ' u­ sura è presa in senso traslato nel senso di au­ mento dei beni spirituali, aumento che Dio esige perché vuole il nostro continuo progres­ so nei doni da lui ricevuti. E ciò a vantaggio non suo, ma nostro. 2. Agli Ebrei fu proibito di percepire l'usura «dai loro fratelli», cioè dagli Ebrei. ll che ci fa comprendere che percepire l'usura da un uo­ mo qualsiasi è intrinsecamente peccaminoso. Infatti noi dobbiamo considerare ogni uomo «Come prossimo e fratello», specialmente do­ po l ' i nstaurazione della legge evangelica, aperta a tutta l' umanità. Per cui nel Sal 14 [5] è detto in termini assoluti: Chi presta danaro senzafare usura; e in Ez 1 8 [ 1 7]: Chi non pre­ sta a usura né a interesse. Agli Ebrei tuttavia fu concesso di percepire l'usura dagli stranieri non come cosa lecita, bensì come una permis­ sione per evitare un male maggiore: cioè per­ ché, spinti dall' avarizia a cui erano dediti, come risulta dal profeta Is 56 [ 1 1 ] , non la esi­ gessero dagli Ebrei stessi, adoratori di Dio. Invece la promessa riferita: Tu darai a usura a molti popoli, va intesa in senso lato dei presti­ ti, cioè nel senso di quel passo di Sir 29 [ 1 0]: Molti non danno a usura, vale a dire non danno a prestito, non per cattiveria. Perciò agli Ebrei viene promessa in quel testo ab-

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ta districte prohiberentur poenis adhibitis. Et ideo usuras lex humana concessit, non quasi existimans eas esse secundum iustitiam, sed ne impedirentur utilitates multorum. Unde in ipso iure civili dicitur [lnstit. 2,4,2] quod res

quae usu consumuntur neque ratione naturali neque civili recipiunt usumfructum, et [lnstit. 2,4,2] quod senatus non fecit earum rerum usumfructum, nec enim poterai; sed quasi usumfructum constituit, concedens scilicet

usuras . Et philosophus , naturali ratione ductus, dicit, in l Poi. [3,23], quod usuraria

acquisitio pecuniarum est ma.xime praeter naturam.

Ad quartum dicendum quod dare mutuum non semper tenetur homo, et ideo quantum ad hoc ponitur inter consilia. Sed quod homo lucrum de mutuo non quaerat, hoc cadit sub ratione praecepti. Potest tamen dici consilium per comparationem ad dieta Pharisaeorum, qui putabant usuram aliquam esse licitam, sicut et dilectio inimicorum est consilium. Vel loquitur ibi non de spe usurarii lucri, sed de spe quae ponitur in hornine. Non enim debe­ mus mutuum dare, vel quodcumque bonum facere, propter spem hominis, sed propter spem Dei. Ad quintum dicendum quod ille qui mutuare non tenetur recompensationem potest accipere eius quod fecit, sed non amplius debet exigere. Recompensatur autem sibi secundum aequali­ tatem iustitiae si tantum ei reddatur quantum mutuavit. Unde si amplius exigat pro usu­ fructu rei quae alium usum non habet nisi consumptionem substantiae, exigit pretium eius quod non est. Et ita est iniusta exactio. Ad sextum dicendum quod usus principalis vasorum argenteorum non est ipsa eorum consumptio, et ideo usus eorum potest vendi licite, servato dominio rei. Usus autem princi­ palis pecuniae argenteae est distractio pecu­ niae in commutationes. Unde non licet eius usum vendere cum hoc quod aliquis velit eius restitutionem quod mutuo dedit. Sciendum tamen quod secundarius usus argenteorum vasorum posset esse commutatio. Et talem usum eorum vendere non liceret. Et sirniliter potest esse aliquis alius secundarius usus pecuniae argenteae, ut puta si quis concederet pecuniam signatam ad ostentationem, vel ad ponendum loco pignoris. Et talem usum pecuniae licite homo vendere potest.

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bondanza di ricchezze, dal che proviene che possano prestare ad altri. 3. Le leggi umane lasciano impuniti alcuni peccati per la condizione degli uomini imper­ fetti, giacché verrebbero impediti molti vantag­ gi se venissero rigorosamente puniti tutti i pec­ cati. Perciò le leggi umane permettono l'usura non perché la ritengano secondo giustizia, ma per non impedire i vantaggi di molti. Per cui anche nel diritto civile si legge: «Le cose con­ suntibili con l'uso non sono suscettibili di usu­ frutto né secondo il diritto naturale, né secondo il diritto civile». E ancora: «ll Senato non ha ammesso l'usufrutto o interesse di queste cose, né poteva farlo; ma ne ha fissato i termini», cioè concedendo l'usura. E anche il Filosofo, seguendo la ragione naturale, afferma che «l'acquisto del danaro mediante l'usura è quel­ lo più estraneo alla natura>>. 4. Non si è sempre tenuti a dare in prestito: quindi ciò rientra nei consigli. Ma rientra nel­ l'ambito dei precetti il non cercare un guada­ gno dal prestito. Oppure ciò può essere consi­ derato un consiglio rispetto alle massime dei Farisei, i quali pensavano che in certi casi l'usura fosse lecita: come può dirsi consiglio anche l'amore dei nemici. Oppure in quel testo si condanna non la speranza relativa al guadagno dell'usura, ma la speranza riposta nell'uomo. Infatti non dobbiamo dare a pre­ stito o fare qualsiasi altro bene per la speranza nell'uomo, ma per la speranza in Dio. 5. Chi non è tenuto a prestare può percepire una ricompensa del suo gesto, ma non deve esigere di più. Ora, egli viene ricompensato con perfetta uguaglianza con la restituzione di quanto aveva prestato. Se quindi esigesse di più per l'usufrutto di una cosa che non ha altro uso all'infuori del suo consumo, esige­ rebbe un compenso per una cosa inesistente. Si avrebbe quindi una richiesta ingiusta. 6. L'uso principale degli arredi d'argento non è il loro consumo: perciò si può vendere leci­ tamente tale uso conservandone la proprietà. Invece l'uso principale delle monete d'argen­ to è la loro spesa negli acquisti. Perciò non è lecito vendere l'uso del danaro dato a prestito e insieme pretenderne la restituzione. Si deve però notare che, come uso secondario, gli arredi d' argento possono avere quello di moneta di scambio. E in tal caso non è lecito venderne l'uso. Parimenti ci può essere un

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Ad septimum dicendum quod ille qui dat usuram non simpliciter voluntarie dat, sed cum quadam necessitate, inquantum indiget pecuniam accipere mutuo, quam ille qui habet non vult sine usura mutuare.

uso secondario delle monete d' argento: pre­ starle, p. es., come campioni di raffronto, o in sostituzione di un pegno. E questo è un uso del danaro che può essere venduto. 7. Chi dà l'interesse o l'usura non dà in modo totalmente volontario, ma con una certa ne­ cessità: cioè perché è costretto a prendere a prestito quel danaro che 1' offerente non vuoi concedere senza l'usura.

Articulus 2 Utrum aliquis possit pro pecunia mutuata aliquam aliam commoditatem expetere

Articolo 2 Uno può richiedere qualche altro vantaggio per il danaro prestato?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod aliquis possit pro pecunia mutuata aliquam aliam commoditatem expetere. l . Unusquisque enim licite potest suae indem­ nitati consulere. Sed quandoque damnum ali­ quis patitur ex hoc quod pecuniam mutuat. Er­ go licitum est ei, supra pecuniam mutuatam, aliquid aliud pro damno expetere, vel etiam exigere. 2. Praeterea, unusquisque tenetur ex quodam debito honestatis aliquid recompensare ei qui sibi gratiam fecit, ut dicitur in 5 Ethic. [5,7]. Sed ille qui alicui in necessitate constituto pe­ cuniam mutuat, gratiam facit, unde et gratia­ rum actio ei debetur. Ergo ille qui recipit tene­ tur naturali debito aliquid recompensare. Sed non videtur esse illicitum obligare se ad aliquid ad quod quis ex naturali iure tenetur. Ergo non videtur esse illicitum si aliquis, pecuniam alteri mutuans, in obligationem deducat aliquam recompensationem. 3 Praeterea, sicut est quoddam munus a manu, ita est munus a lingua, et ab obsequio, ut dicit Glossa [int.; Gregorius, In Ev. h. 1 ,4] Isaiae

33 [ 1 5] , beatus qui excutit manus suas ab omni munere. Sed licet accipere servitium, vel etiam laudem, ab eo cui quis pecuniam mutuavit. Ergo, pari ratione, licet quodcum­ que aliud munus accipere. 4. Praeterea, eadem videtur esse comparatio dati ad datum et mutuati ad mutuatum. Sed licet pecuniam accipere pro alia pecunia data. Ergo licet accipere recompensationem alterius mutui pro pecunia mutuata. 5. Praeterea, magis a se pecuniam alienat qui, eam mutuando, dominium transfert, quam qui eam mercatori vel artifici committit. Sed licet

Sembra di sì. Infatti: l . Chiunque può lecitamente provvedere alla propria indennità. Ma nel prestare il danaro spesso ci si espone a un danno. Perciò è lecito richiedere e persino esigere, oltre al danaro prestato, un compenso per il danno affrontato. 2. Secondo il Filosofo, per un dovere di one­ stà ciascuno è tenuto a «ricompensare in qual­ che modo chi gli ha fatto un favore». Ora, chi presta il danaro a chi si trova in necessità offre un favore: per cui si esige un ringraziamento. Quindi chi lo riceve ha il dovere naturale di ricompensare in qualche modo. Ora, non sembra illecito obbligarsi a un dovere a cui si è tenuti per legge naturale. Quindi non è ille­ cito se uno, nel prestare ad altti del danaro, esige l'obbligazione di un compenso. 3 . La Glossa, nel commento a Is 33 [ 1 5] :

Beato chi scuote le mani per non accettare regali, spiega che ci sono «donativi di mano», ma ce ne sono anche «di parole» e «di servi­ zi». Ora, uno può lecitamente ricevere lodi e servizi da parte di colui al quale ha prestato del danaro. Quindi può riceveme, per lo stes­ so motivo, qualsiasi altro donativo. 4. Il rapporto tra prestito e prestito appare identico a quello esistente tra offerta e offerta. Ma percepire del danaro per l 'offerta di altro danaro è cosa lecita. Quindi, per il danaro prestato, è lecito ricevere il compenso di un prestito dal mutuatario. 5. Aliena maggionnente il danaro chi ne trasfe­ risce il dominio col prestito che non colui il quale lo affida a un mercante o a un artigiano. Eppure percepire un guadagno dal danaro affidato a un mercante o a un artigiano è cosa lecita. Quindi è lecito anche percepire un gua­ dagno dal danaro prestato.

Q. 78, A. 2

Il peccato di usura

lucrum accipere de pecunia commissa merca­ tori vel artifici. Ergo licet etiam lucrum acci­ pere de pecunia mutuata. 6. Praeterea, pro pecunia mutuata potest homo pignus accipere, cuius usus posset aliquo pretio vendi, sicut cum impignoratur ager vel domus quae inhabitatur. Ergo licet aliquod lucrum habere de pecunia mutuata. 7. Praeterea, contingit quandoque quod aliquis carius vendit res suas ratione mutui; aut vilius emit quod est alterius; vel etiam pro dilatione pretium auget, vel pro acceleratione diminuit, in quibus omnibus videtur aliqua recompen­ satio fieri quasi pro mutuo pecuniae. Hoc autem non manifeste apparet illicitum. Ergo videtur licitum esse aliquod commodum de pecunia mutuata expectare, vel etiam exigere. Sed contra est quod Ez. 1 8 [ 1 7] dicitur, inter alia quae ad virum iustum requiruntur, usuram

et superabundantiam non acceperit.

Respondeo dicendum quod, secundum philo­ sophum, in 4 Ethic. [ 1 ,2], omne illud pro pecunia habetur cuius pretium potest pecunia mensurari. Et ideo sicut si aliquis pro pecunia mutuata, vel quacumque alia re quae ex ipso usu consumitur, pecuniam accipit ex pacto tacito vel expresso, peccat contra iustitiam, ut dictum est [a. l ] ; ita etiam quicumque ex pacto tacito vel expresso quodcumque aliud acceperit cuius pretium pecunia mensurari potest, simile peccatum incurrit. Si vero ac­ cipiat aliquid huiusmodi non quasi exigens, nec quasi ex aliqua obligatione tacita vel expressa, sed sicut gratuitum donum, non pec­ cat, quia etiam antequam pecuniam mutuasset, licite poterat aliquod donum gratis accipere, nec peioris conditionis efficitur per hoc quod mutuavit. Recompensationem vero eorum quae pecunia non mensurantur licet pro mutuo exigere, puta benevolentiam et amorem eius qui mutuavit, vel aliquid huiusmodi. Ad primum ergo dicendum quod i lle qui mutuum dat potest absque peccato in pactum deducere cum eo qui mutuum accipit recom­ pensationem damni per quod subtrahitur sibi aliquid quod debet habere, hoc enim non est vendere usum pecuniae, sed darnnum vitare. Et potest esse quod accipiens mutuum maius damnum evitet quam dans incurret, unde accipiens mutuum cum sua utilitate darnnum alterius recompensat. Recompensationem vero damni quod consideratur in hoc quod de

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6. Per il danaro prestato uno può ricevere un pegno il cui uso potrebbe anche essere vendu­ to: come quando si pignora un campo, o una casa d'abitazione. Perciò è lecito ricevere un guadagno dal danaro prestato. 7. Talora capita che, a motivo di un prestito, uno venda più cara una cosa, o compri a meno la roba altrui, oppure aumenti il prezzo per il ritardo del pagamento, o lo diminuisca perché è pagata in contanti: ma in tutte queste cose è evidente un compenso per il prestito del dana­ ro. Ora, tutto ciò non sembra chiaramente ille­ cito. Quindi è lecito attendere e persino esige­ re un compenso per il danaro prestato. In contrario: a proposito delle qualità richieste a un uomo giusto in Ez 1 8 [ 1 7] è detto: Non

presta a usura né a interesse. Risposta: come insegna il Filosofo, è da consi­ derarsi danaro tutto ciò «il cui prezzo può es­ sere valutato in danaro». Perciò, come pecca contro la giustizia chi, per il prestito di danaro o di altre cose che vengono consumate con l'uso, riceve dei soldi per un patto tacito o espresso, secondo quanto abbiamo dimostrato, così incorre in un peccato consimile chi per un patto tacito o espresso percepisce altre cose valutabili in danaro. Se però uno riceve di que­ ste cose senza esigerle, e senza obbligazioni tacite o espresse, ma solo come dono gratuito, allora non pecca: poiché anche prima di pre­ stare il danaro egli poteva ricevere doni gra­ tuiti, e il fatto di aver concesso un pres�to non lo mette in condizioni più sfavorevoli. E lecito inoltre esigere ricompense non misurabili col danaro: come la benevolenza e l'amore di chi ha avuto il prestito, o altre cose del genere. Soluzione delle difficoltà: l . Chi concede il mutuo può, senza peccato, stabilire nei patti col mutuatario un compenso per il danno conseguente alla privazione di ciò che era in suo possesso: infatti questo non è un vendere l'uso del danaro, ma ottenere un indennizzo. E può darsi che chi riceve il prestito eviti un danno maggiore di quello incorso dal mu­ tuante: per cui il mutuatario ricompensa il danno altrui con un proprio vantaggio. Non si può invece fissare nei patti una ricompensa per il danno dovuto al fatto che con quel danaro uno non può guadagnare: egli infatti non ha il diritto di vendere ciò che ancora non ha, e che in più modi potrebbe venirgli a mancare.

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Il peccato di usura

pecunia non lucratur, non potest in pactum deducere, quia non debet vendere id quod nondum habet et potest impediri multipliciter ab habendo. Ad secundum dicendum quod recompensatio alicuius beneficii dupliciter fieri potest. Uno quidem modo, ex debito iustitiae, ad quod aliquis ex certo pacto obligari potest. Et hoc debitum attenditur secundum quantitatem be­ neficii quod quis accepit. Et ideo ille qui ac­ cipit mutuum pecuniae, vel cuiuscumque si­ milis rei cuius usus est eius consumptio, non tenetur ad plus recompensandum quam mutuo acceperit. Unde contra iustitiam est si ad plus reddendum obligetur. - Alio modo te­ netur aliquis ad recompensandum beneficium ex debito amicitiae, in quo magis consideratur affectus ex quo aliquis beneficium contulit quam etiam quantitas eius quod fecit. Et tali debito non competit civilis obligatio, per quam inducitur quaedam necessitas, ut non spon­ tanea recompensatio fiat. Ad tertium dicendum quod si aliquis ex pecu­ nia mutuata expectet vel exigat, quasi per obligationem pacti taciti vel expressi, recom­ pensationem muneris ab obsequio vel lingua, perinde est ac si expectaret vel exigeret mu­ nus a manu, quia utrumque pecunia aestimari potest, ut patet in his qui locant operas suas, quas manu ve! lingua exercent. Si vero munus ab obsequio vel lingua non quasi ex obligatio­ ne rei exhibeat, sed ex benevolentia, quae sub aestimatione pecuniae non cadit, licet hoc accipere et exigere et expectare. Ad quartum dicendum quod pecunia non po­ test vendi pro pecunia ampliori quam sit quan­ titas pecuniae mutuatae, quae restituenda est, nec ibi aliquid est exigendum aut expectandum nisi benevolentiae affectus, qui sub aestima­ tione pecuniae non cadit, ex quo potest proce­ dere spontanea mutuatio. Repugnat autem ei obligatio ad mutuum in posterum faciendum, quia etiam talis obligatio pecunia aestimari posset. Et ideo licet simul mutuanti unum aliquid aliud mutuare, non autem licet eum obligare ad mutuum in postemm faciendum. Ad quintum dicendum quod ille qui mutuat pecuniam transfert dominium pecuniae in eum cui mutuat. Unde ille cui pecunia mutua­ tur sub suo periculo tenet eam, et tenetur inte­ gre restituere. Unde non debet amplius exige­ re ille qui mutuavit. Sed ille qui committit

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2. n compenso di un beneficio può avvenire

in due modi. Primo, per dovere di giustizia: dovere al quale uno può essere obbligato con un patto preciso. E questo debito viene misu­ rato dalla grandezza del beneficio ricevuto. Perciò chi ha ricevuto un prestito in danaro, o in altri beni di consumo, non è tenuto a dare più di quanto ha ricevuto in prestito. Per cui sarebbe contro la giustizia se venisse obbliga­ to a rendere di più. - Secondo, uno è tenuto a ricompensare il beneficio ricevuto per un do­ vere di amicizia: e qui si considera più l'affet­ to col quale uno ha arrecato il beneficio che la grandezza di ciò che ha fatto. E questo dovere non può essere oggetto di un' obbligazione civile, la quale impone una certa necessità che distrugge la spontaneità del compenso. 3. Se uno per il danaro prestato attende o esi­ ge, come in seguito all' obbligazione di u n patto tacito o espresso, i l compenso d i una prestazione in servizi o in parole, è come se attendesse o esigesse un donativo: poiché so­ no tutte cose valutabili in danaro, come è evi­ dente nel caso dei salariati che prestano la loro opera con la mano o con la lingua. Se invece le prestazioni suddette non vengono date per obbligo, ma per un sentimento di benevolenza, che non è valutabile in danaro, allora è lecito riceverle, esigerle e attenderle. 4. Il danaro non può essere venduto a un prez­ zo superiore a quello del danaro prestato, e che deve essere restituito: e qui non c'è da esigere o da attendere altro che la benevolen­ za, la quale non è valutabile in danaro, e da cui può derivare in seguito un prestito sponta­ neo. Ma l' obbligo di un prestito successivo è inammissibile: poiché anche questo obbligo può essere valutato in danaro. E così è lecito scambiarsi dei prestiti reciprocamente, ma non è lecito obbligare il mutuatmio a un pre­ stito successivo. 5. Chi presta il danaro cede il dominio di esso a chi lo riceve. Per cui costui lo detiene a suo rischio, ed è tenuto a restituirlo integralmente. Quindi il mutuante non deve esigere di più. Invece chi consegna il proprio danaro a un mercante o a un artigiano facendo società con essi, non cede loro il dominio, ma il danaro rimane di sua proprietà: per cui è a suo rischio l ' uso che ne fa i l mercante o l ' artigiano. Quindi egli può pretendere parte del guada­ gno, essendo qualcosa che gli appartiene.

Q. 78, A. 2

Il peccato di usura

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pecuniam suam vel mercatori vel artifici per modum societatis cuiusdam, non transfert do­ minium pecuniae suae in illum, sed remanet eius, ita quod cum peticulo ipsius mercator de ea negotiatur vel artifex operatur. Et ideo licite potest partem lucri inde provenientis expetere, tanquam de re sua. Ad sextum dicendum quod si quis pro pecu­ nia sibi mutuata obliget rem aliquam cuius usus pretio aestimati potest, debet usum illius rei ille qui mutuavit computare in restitutio­ nem eius quod mutuavit. Alioquin, si usum illius rei quasi gratis sibi superaddi velit, idem est ac si pecuniam acciperet pro mutuo, quod est usurarium, nisi forte esset talis res cuius usus sine pretio soleat concedi inter amicos, sicut patet de libro accommodato. Ad septimum dicendum quod si aliquis catius velit vendere res suas quam sit iustum pre­ tium, ut de pecunia solvenda emptorem ex­ pectet, usura man ifeste committitur, qui a huiusmodi expectatio pretii solvendi habet ra­ tionem mutui; unde quidquid ultra iustum pre­ tium pro huiusmodi expectatione exigitur, est quasi pretium mutui, quod pertinet ad ratio­ nem usurae. - Similiter etiam si quis emptor velit rem emere vilius quam sit iustum pre­ tium, eo quod pecuniam ante solvit quam pos­ sit ei tradì, est peccatum usurae, quia etiam ista anticipatio solutionis pecuniae habet mu­ tui rationem, cuius quoddam pretium est quod diminuitur de iusto pretio rei emptae. Si vero aliquis de iusto pretio velit diminuere ut pecu­ niam ptius habeat, non peccat peccato usurae.

6. Se uno per il danaro avuto in prestito dà i n pegno una cosa i l cui uso può essere valutato in moneta, il mutuante nella restituzione è tenuto a computarne l'uso. Alttimenti, se pre­ tendesse l'uso gratuito di quella cosa come un sovrappiù, sarebbe come se, da usuraio, rice­ vesse del danaro in prestito: a meno che non si tratti di cose che si è soliti cedere agli amici senza compenso, come il prestito di un libro. 7. Se uno pretende di vendere la sua merce a un prezzo maggiorato per tifarsi sul compra­ tore della dilazione del pagamento, commette un'usura evidente: poiché questa dilazione di pagamento ha natura di prestito, e quindi tutto ciò che si esige oltre il giusto prezzo a motivo della dilazione è come la paga di un prestito, i l che è precisamente usura o interesse. Patimenti, se un compratore volesse acquista­ re a un prezzo inferiore a quello giusto per aver anticipato il danaro prima di avere la merce, commetterebbe un peccato di usura: poiché anche questo anticipo ha l' aspetto di un prestito, di cui la diminuzione del prezzo è un certo compenso. Se invece chi vende dimi­ nuisce spontaneamente i l vero prezzo per avere ptima il danaro, allora non c'è peccato di usura.

Articulus 3 Utrum quidquid aliquis de pecunia usuraria lucratus fuerit, reddere teneatur

Articolo 3 Uno è tenuto a restituire tutto il guadagno fatto con l'usura?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod quidquid aliquis de pecunia usuraria lucratus fuerit, reddere teneatur. l . Dicit enim apostolus, ad Rom. 1 1 [16], si radix sancta, et rami. Ergo, eadem ratione, si radix infecta, et rami. Sed radix thit usuratia. Ergo et quidquid ex ea acquisitum est, est usuratium. Ergo tenetur ad restitutionem illius. 2. Praeterea, sicut dicitur extra, De usutis, in illa decretali, cum tu sicut asseris [Decretai. Gregor. IX, l. 5, t. 1 9, c. 5], possessiones quae

de usuris sunt comparatae debent vendi, et

Sembra di sì. Infatti: l . Paolo in Rm 1 1

[ 1 6] dice: Se è santa la radice, lo saranno anche i rami. Quindi, per

lo stesso motivo, se la radice è infetta saranno tali anche i rami. Ma la radice fu usuraia. Quindi è usuraio nmo ciò che con essa venne acquistato. Perciò si è tenuti a restituire tutto. 2. Nelle Decretali si legge: «< possessi che sono stati comprati con interessi usurai devo­ no essere venduti, e il loro prezzo deve essere restituito a coloro a cui tali interessi furono estorti» . Per lo stesso motivo quindi deve

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IL peccato di usura

ipsarum pretia his a quibus sunt ext011a resti­ fui. Ergo, eadem ratione, quidquid aliud ex pecunia usuraria acquiritur debet restituì. 3. Praeterea, illud quod aliquis emit de pecunia usuraria debetur sibi ratione pecuniae quam dedit. Non ergo habet maius ius in re quam acquisivit quam in pecunia quam dedit. Sed pecuniam usurariam tenebatur restituere. Ergo et illud quod ex ea acquirit tenetur restituere. Sed contra, quilibet potest licite tenere id quod legitime acquisivit. Sed id quod acquiri­ tur per pecuniam usurariam interdum legitime acquiritur. Ergo licite potest retineri. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. l] dictum est, res quaedam sunt quarum usus est ipsarum rerum consumptio, quae non habent usumfructum, secundum iura [lnstit. 2,4,2]. Et ideo si talia fuerint per usuram extorta, pu­ ta denruii, triticum, vinum aut aliquid huius­ modi, non tenetur homo ad restituendum nisi id quod accepit, quia id quod de tali re est acquisitu m non est fructus huius rei , sed humanae industriae. Nisi forte per detentio­ nem talis rei alter sit damnificatus, arnittendo aliquid de bonis suis, tunc enim tenetur ad recompensationem nocumenti . - Quaedam vero res sunt quarum usus non est earum consumptio, et talia habent usumfructum, sicut domus et ager et alia huiusmodi. Et ideo si quis domum alterius vel agrum per usuram extorsisset, non solum teneretur restituere domum vel agrum, sed etiam fructus inde perceptos, quia sunt fructus rerum quarum alius est dominus, et ideo ei debentur. Ad primum ergo dicendum quod radix non solum habet rationem materiae, sicut pecunia usuraria, sed habet etiam aliqualiter rationem causae activae, inquantum administrat nutri­ mentum. Et ideo non est simile. Ad secundum dicendum quod possessiones quae de usuris sunt comparatae non sunt eorum quorum fuerunt usurae, sed illorum qui eas emerunt. Sunt tamen obligatae illis a quibus fuenmt usurae acceptae, sicut et alia bona usurarii . Et ideo non praecipitur quod assignentur illae possessiones bis a quibus fuerunt acceptae usurae, quia forte plus valent quam usurae quas dederunt, sed praecipitur quod vendantur possessiones et earum pretia restituantur, scilicet secundum quantitatem usurae acceptae. Ad tertium dicendum quod illud quod acqui-

Q. 78, A. 3

essere restituito tutto ciò che viene acquistato con i danari dell'usura. 3. Gli acquisti che uno fa col danaro dell'usu­ ra sono a lui dovuti in forza del danaro che ha dato. Quindi egli non ha su di essi un diritto maggiore di quello che ha sul danaro che ha dato. Ma i l danaro dell' usura era tenuto a restituirlo. Quindi è tenuto a restituire anche gli acquisti fatti con esso. In contrario: chiunque può ritenere lecita­ mente i beni legittimamente acquistati. Ma gli acquisti fatti col danaro del l ' usura spesso sono fatti in maniera legittima. Quindi uno può ritenerli lecitamente. Risposta: come sopra si è detto, ci sono dei beni il cui uso consiste nel loro consumo, i quali a norma del diritto non ammettono l'u­ sufrutto. Se quindi con l'usura furono estorti beni di tal genere, come danaro, grano, vino e altre cose consimili, uno è tenuto solo a resti­ tuire quanto ha preso: poiché gli acquisti fatti con tali beni non sono frutto delle cose, ma dell'industria umana. A meno che forse con la sottrazione di tali cose l ' altro non sia stato danneggiato con qualche perdita dei suoi beni: allora infatti uno sarebbe tenuto a riparare i danni. - Ci sono invece dei beni il cui uso non consiste nel loro consumo: e questi beni, come le case, i campi ecc., ammettono l'usufrutto. Se uno quindi con l'usura ha estorto una casa o un campo, non è tenuto solo a restituire la casa o il campo, ma anche i frutti da essi percepiti: poiché sono frutto dei beni altrui, e quindi sono dovuti al loro proprietario. Soluzione delle difficoltà: l . La radice [nel­ l'albero] non fa soltanto da materia, come il danaro dell'usuraio [negli acquisti], ma fa an­ che da causa efficiente, in quanto somministra il nutrimento. Perciò il paragone non regge. 2. Le proprietà comprate con le usure non appartengono ai mutuatari a cui apparteneva­ no le usure, ma a coloro che le hanno acqui­ state. Tuttavia esse restano obbligate verso tali mutuatari, come anche tutti gli altri beni del­ l'usuraio. Perciò la legge non comanda che tali proprietà vengano assegnate a coloro che hanno sborsato gli interessi, poiché potrebbe­ ro anche valere più degli interessi versati, ma viene disposto che siano vendute e venga restituito il ricavato, evidentemente secondo il valore dell'usura percepita. 3. L'acquisto fatto col danaro dell'usura è

Q. 78, A. 3

Il peccato di usura

ritur de pecunia usuraria debetur quidem acquirenti propter pecuniam usurariam datam sicut propter causam instrumentalem, sed propter suam industriam sicut propter causam principalem. Et ideo plus iuris habet in re acquisita de pecunia usuraria quam in ipsa pecunia usuraria. Articulus 4 Utrum Iiceat pecuniam accipere mutuo sub usura Ad quartum sic proceditur. Videtur quod non liceat pccuniam accipere mutuo sub usura. l . Dicit enim apostolus, Rom. l [32], quod

digni sunt morte non solum quifaciunt pecca­ ta, sed etiam qui consentiunt facientibus. Sed

ille qui accipit pecuniam mutuo sub usuris consentit usurario in suo peccato, et praebet ei occasionem peccandi. Ergo etiam ipse peccat. 2. Praeterea, pro nullo commodo temporali debet aliquis alteri quamcumque occasionem praebere peccandi, hoc enim pertinet ad ra­ tionem scandali activi, quod semper est pec­ catum, ut supra [a. 43 a. 2] dictum est. Sed ille qui petit mutuum ab usurario expresse dat ei occasionem peccandi. Ergo pro nullo com­ modo temporali excusatur. 3 . Praeterea, non minor videtur esse neces­ sitas quandoque deponendi pecuniam suam apud usurarium quam mutuum accipiendi ab ipso. Sed deponere pecuniam apud usurarium videtur esse omnino illicitum, sicut illicitum esset deponere gladium apud furiosum, vel virginem committere luxurioso, seu cibum guloso. Ergo neque licitum est accipere mutuum ab usurario. Sed contra, ille qui iniuriam patitur non pec­ cat, secundum philosophum, in 5 Ethic. [2,7], unde iustitia non est media inter duo vitia, ut ibidem [5,5, 1 7] dicitur. Sed usurarius peccat inquantum facit iniustitiam accipienti mu­ tuum sub usuris. Ergo ille qui accipit mutuum sub usuris non peccat. Respondeo dicendum quod inducere homi­ nem ad peccandum nullo modo licet, uti ta­ men peccato alterius ad bonum licitum est, quia et Deus utitur omnibus peccatis ad aliquod bonum, ex quolibet enim malo elicit aliquod bonum, ut dicitur in Enchiridio [ 1 1 ]. Et ideo Augustinus [ep. 47 Ad Publicolam] Publicolae quaerenti utrum liceret uti iura-

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dovuto ali' acquirente in forza del danaro of­ ferto quale causa strumentale, ma quale causa principale gli è dovuto in forza della sua indu­ stria personale. Quindi egli ha maggior diritto sulla cosa acquistata col danaro dell'usura che non sul danaro stesso. Articolo 4

È lecito prendere del danaro prestato a usura? Sembra di no. Infatti: l . Paolo in Rm l [32] insegna che è degno di

morte non solo chi fa il peccato, ma anche colui che approva chi lofa. Ora, chi si fa pre­

stare del danaro a interesse acconsente con l 'usuraio nel suo peccato, e gli offre l' occa­ sione di peccare. Quindi pecca anche lui. 2. Per nessun vantaggio temporale uno può oftìire a un altro l'occasione di peccare: ciò costituisce infatti lo scandalo attivo, il quale è sempre peccato, come sopra si è spiegato. Ma chi chiede prestiti a un usuraio gli offre l'oc­ casione di peccare. Quindi per nessun vantag­ gio temporale uno può essere scusato. 3. In certi casi la necessità di depositare il pro­ prio danaro presso un usuraio non è minore di quella di riceverne da lui. Ora, depositare il danaro presso un usuraio sembra assoluta­ mente illecito: come sarebbe illecito conse­ gnare una spada a un pazzo, affidare una ver­ gine a un lussurioso o del cibo a un goloso. Quindi neppure è lecito ricevere prestiti da un usuraio. In contrario: secondo il Filosofo, chi soffre un'ingiustizia non pecca: per cui la giustizia, come egli spiega, non consiste in un giusto mezzo tra due eccessi. Ma l'usuraio pecca in quanto con l'interesse fa un'ingiustizia contro chi riceve il mutuo. Quindi chi riceve il mutuo a usura non pecca. Risposta: se in nessun modo può essere lecito indurre un uomo a peccare, è lecito tuttavia servirsi del peccato altrui per il bene: poiché Dio stesso si serve di nmi i peccati per un fine buono; infatti, come insegna Agostino, da qualsiasi male egli sa trarre un bene. Scriven­ do perciò a Publicola, il quale gli aveva chie­ sto se fosse lecito servirsi del giuramento di chi giura per i falsi dèi, e che quindi pecca in modo patente prestando loro un culto dovuto

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IL peccato di usura

mento eius qui per falsos deos iurat, in quo manifeste peccat eis reverentiam divinam adhibens, respondit quod qui utitur fide illius

qui per falsos deos iurat, non ad malum sed ad bonum, 1wn peccato illius se sociat, quo per daemonia iuravit, sed pacto bono eius, quo fidem servavit. Si tamen induceret eum ad iurandum per falsos deos, peccaret. - lta etiam in proposito dicendum est quod nullo modo licet inducere aliquem ad mutuandum sub usuris, licet tamen ab eo qui hoc paratus est facere et usuras exercet, mutuum accipere sub usuris, propter aliquod bonum, quod est subventio suae necessitatis vel alterius. Sicut etiam licet ei qui incidit in latrones manifesta­ re bona quae habet, quae latrones diripiendo peccant, ad hoc quod non occidatur, exemplo decem virorum qui dixerunt ad lsmahel, noli

occidere nos, quia habemus thesaurum in agro, ut dicitur Ier. 4 1 [8]. Ad primum ergo dicendum quod ille qui ac­ cipit pecuniam mutuo sub usuris non con­ sentit in peccatum usurarii, sed utitur eo. Nec placet ei usurarum acceptio, sed mutuatio, quae est bona. Ad secundum dicendum quod ille qui accipit pecuniam mutuo sub usuris non dat usurario occasionem usuras accipiendi, sed mutuandi, ipse autem usurarius sumit occasionem pec­ candi ex malitia cordis sui. Unde scandalum passivum est ex parte sua, non autem activum ex parte petentis mutuum. Nec tamen propter huiusmodi scandalum passivum debet alius a mutuo petendo desistere, si indigeat, quia huiusmodi passivum scandalum non provenit ex infirmitate vel ignorantia, sed ex malitia. Ad tertium dicendum quod si quis committe­ ret pecuniam suam usurario non habenti alias unde usuras exerceret; vel hac intentione committeret ut inde copiosius per usuram lu­ craretur; daret materiam peccanti . Unde et ipse esset particeps culpae. Si autem aliquis usurario alias habenti unde usuras exerceat, pecuniam suam committat ut tutius servetur, non peccat, sed utitur homine peccatore ad bonum.

Q. 78, A. 4

solo a Dio, Agostno precisava che «chi s i serve del giuramento d i coloro che giurano per i falsi dèi servendosene non per il male, ma per il bene, si associa non al loro peccato, consistente nel giurare per i demoni, ma alla loro intenzione buona di rispettare i l giura­ mento». Se però uno li spingesse a giurare per i falsi dèi, allora farebbe peccato. - E lo stesso si dica per l'argomento presente, che cioè non può mai essere lecito indurre una persona a prestare a usura; tuttavia ricevere un prestito in questo modo da parte di chi è già disposto a farlo ed esercita l ' usura, è lecito per u n qualche bene, cioè per far fronte alla necessità propria o altrui. Come è anche lecito a colui che incappa nei briganti, per evitare la morte, mostrare i beni in suo possesso, sull'esempio di quei dieci uomini che dissero a lsmaele:

Non ucciderei, perché abbiamo tesori nel campo (Ger 4 1 ,8). Soluzione delle difficoltà: l . Chi chiede un prestito a usura non acconsente al peccato dell' usuraio, ma si serve di esso. E non si compiace della riscossione degli interessi, ma del mutuo, che è una cosa buona. 2. Chi prende danaro a usura non offre all' u­ suraio l'occasione di riscuotere l'usura, ma di fare un prestito; invece l'usuraio, per la mali­ zia del suo cuore, ne prende l 'occasione per peccare. Perciò vi è da parte sua uno scandalo passivo, ma non c'è uno scandalo attivo dalla parte del mutuatario. E per tale scandalo pas­ sivo uno non è tenuto a desistere dalla richie­ sta, se ha b isogno del mutuo: poiché tale scandalo passivo non deriva da fragilità o ignoranza, ma da malizia. 3. Se uno affidasse il proprio danaro a un usu­ raio il quale non ne avesse altro per esercitare l'usura, oppure glielo affidasse con l'intenzio­ ne di farlo guadagnare con l'usura, allora gli offrirebbe la materia del peccato, per cui sa­ rebbe egli stesso complice della colpa. Se in­ vece uno, per maggior sicurezza, affida il pro­ prio danaro a un usuraio che ha altri mezzi per esercitare l 'usura, allora non pecca, ma si serve di un peccatore per un fine buono.

Q. 79, A. l

Le parti integranti della giustizia

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QUAESTI0 79 DE PARTIBUS QUASI INTEGRALIBUS IUSTITIAE

QUESTIONE 79 LE PARTI INTEGRANTI DELLA GIUSTIZIA

Deinde considerandum est de partibus quasi in­ tegralibus iustitiae quae sunt facere bonum et declinare a malo, et de vitiis oppositis. - Circa quod quaeruntur quatuor. Primo, utrum duo praedicta sint partes iustitiae. Secundo, utrum transgressio sit speciale peccatum. Tertio, utrum omissio sit speciale peccatum. Quarto, de comparatione omissionis ad transgressionem.

Passiamo a trattare delle parti integranti della giustizia, che sono fare il bene ed evitare il male, e in più dei vizi contrari. - Sull' argomen­ to si pongono quattro quesiti: l . Quelle indica­ te sono le due parti integranti della giustizia? 2. La trasgressione è un peccato speciale? 3. Lo è l'omissione? 4. Confronto tra l'omis­ sione e la trasgressione.

Articulus l Utrum declinare a malo et facere bonum sint partes iustitiae

Articolo l Evitare il male e fare il bene sono le parti integranti della giustizia?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod declinare a malo et facere bonum non sint partes iustitiae. l . Ad quamlibet enim virtutem pertinet facere bonum opus et vitare malum. Sed partes non excedunt totum. Ergo declinare a malo et facere bonum non debent poni partes iustitiae, quae est quaedam virtus specialis. 2. Praeterea, super illud Ps. [33, 1 5], diverte a malo et fac bonum, dicit Glossa [Lomb.] , illud vitat culpam, scilicet divertere a malo; hoc meretur vitam et pa/mam, scilicet facere bonum. Sed quaelibet pars virtutis meretur vitam et palmam. Ergo declinare a malo non est pars iustitiae. 3 . Praeterea, quaecumque ita se habent quod unum includitur in alio, non distinguuntur ab invicem sicut partes alicuius totius. Sed decli­ nare a malo includitur in hoc quod est facere bonum, nullus enim simul facit malum et bonum. Ergo declinare a malo et facere bonum non sunt partes iustitiae. Sed contra est quod Augustinus, in libro De corrept. et grat. [ 1 ] , ponit ad iustitiam legis pertinere declinare a malo etfacere bonum. Respondeo dicendum quod si loquamur de bono et malo in communi, facere bonum et vitare malum pertinet ad omnem virtutem. Et secundum hoc non possunt poni partes iusti­ tiae, nisi forte iustitia accipiatur prout est omnis virtus. Quamvis etiam iustitia hoc mo­ do accepta respiciat quandam rationem boni specialem, prout scilicet est debitum in ordine ad legem divinam vel humanam. - Sed iusti­ tia secundum quod est specialis virtus, respi-

Sembra di no. Infatti: l . Fare il bene ed evitare il male appartengo­ no a ogni specie di virtù. Ora, le parti non possono essere più estese del tutto. Perciò evi­ tare il male e fare il bene non sono parti della giustizia in quanto è una virtù speciale. 2. Commentando il Sal 33 [ 1 5]: Allontanati dal male e fa' il bene, la Glossa afferma: «La prima cosa», cioè l'allontanarsi dal male, «evita la colpa; la seconda», cioè il fare del bene, «merita la vita e la palma». Ma qualsia­ si parte di una virtù merita la vita e la palma. Quindi l' allontanarsi dal male non è una parte della giustizia. 3. Quando di due cose l'una è inclusa nell'al­ tra non è possibile che esse si distinguano tra loro come le parti di un tutto. Ma l'allontanar­ si dal male è incluso nel fare il bene: nessuno infatti può compiere simultaneamente il male e il bene. Perciò evitare il male e fare il bene non sono parti della giustizia. In contrario: Agostino insegna che alla giusti­ zia legale appartiene «evitare il male e fare il bene». Risposta: se parliamo del bene e del male in generale, allora fare il bene ed evitare il male appartiene a tutte le virtù. E in questo senso queste due cose non possono essere conside­ rate come parti della giustizia, a meno che per giustizia non si intenda la virtù in genere. Tut­ tavia, anche presa in questo senso, la giustizia riguarda una speciale ragione di bene: cioè il bene sotto l'aspetto di cosa dovuta rispetto alla legge divina o umana - La giustizia invece in quanto virtù specificamente distinta ha per og-

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cit bonum sub ratione debiti ad proximum. Et secundum hoc ad iustitiam specialem pertinet facere bonum sub ratione debiti in compara­ tione ad proximum, et vitare malum op­ positum, scilicet quod est nocivum proximo. Ad iustitiam vero generalem pertinet facere bonum debitum in ordine ad communitatem vel ad Deum, et vitare malum oppositum. Dicuntur autem haec duo partes iustitiae generalis vel specialis quasi integrales, quia utrumque eorum requiritur ad perfectum actum iustitiae. Ad iustitiam enim pertinet aequalitatem constituere in his quae sunt ad alterum, ut ex supradictis [q. 58 a. 2] patet. Eiusdem autem est aliquid constituere, et con­ stitutum conservare. Constituit autem aliquis aequalitatem iustitiae faciendo bonum, idest reddendo alteri quod ei debetur. Conservat autem aequalitatem iustitiae iam constitutae declinando a malo, idest nullum nocumentum proximo inferendo. Ad primum ergo dicendum quod bonum et malum hic accipiuntur sub quadam speciali ratione, per quam appropriantur iustitiae. Ideo autem haec duo ponuntur partes iustitiae se­ cundum aliquam propriam rationem boni et mali, non autem alterius alicuius virtutis mo­ ralis, quia aliae virtutes morales consistunt circa passiones, in quibus bonum facere est venire ad medium, quod est declinare ab ex­ tremis quasi a malis, et sic in idem redit quan­ tum ad alias virtutes, facere bonum et decli­ nare a malo. Sed iustitia consistit circa opera­ tiones et res exteriores, in quibus aliud est fa­ cere aequalitatem, et aliud est factam non corrompere. Ad secundum dicendum quod declinare a malo, secundum quod ponitur pars iustitiae, non importat negationem puram, quod est non facere malum, hoc enim non meretur palmam, sed solum vitat poenam. Importat autem motum voluntatis repudiantis malum, ut ipsum nomen declinationis ostendit. Et hoc est meritorium, praecipue quando aliquis impugnatur ut malum faciat, et resistit. Ad tertium dicendum quod facere bonum est actus completivus iustitiae, et quasi pars principalis eius. Declinare autem a malo est actus imperfectior, et secundaria pars eius. Et ideo est quasi pars materialis, sine qua non potest esse pars formalis completiva.

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getto il bene sotto l'aspetto di cosa dovuta al prossimo. E in questo senso la giustizia specia­ le ha il compito di fare il bene sotto l'aspetto di cosa dovuta al prossimo, e di evitare il male contrario, cioè il male nocivo al prossimo. Invece la giustizia generale ha il compito di fare il bene dovuto in ordine alla collettività o a Dio, e di evitare il male contrario. - E queste due parti della giustizia generale, o speciale, sono parti quasi integranti della giustizia: poiché entrambe sono richieste per un perfetto atto di giustizia. Infatti quest'ultima ha il com­ pito di stabilire l'uguaglianza nei nostri rap­ porti con gli altri, come sopra si è visto. Ora, spetta a una medesima virtù costituire una cosa e conservare ciò che viene così costituito. Ma uno costituisce l'uguaglianza della giustizia facendo il bene, cioè dando agli altri ciò che loro spetta, e ne conserva l'uguaglianza già costituita evitando il male, cioè non infliggen­ do alcun danno al prossimo. Soluzione delle difficoltà: l . n bene e il male sono qui considerati sotto un aspetto partico­ lare, che li rende propri della giustizia. Ora, le due cose suddette vengono considerate, secon­ do un certo aspetto particolare del bene e del male, come parti integranti della giustizia e non delle altre virtù morali giacché le altre virtù morali hanno per oggetto le passioni, nelle quali fare il bene consiste nel raggiungere il giusto mezzo allontanandosi dai due eccessi come da due mali: per cui nelle altre virtù fare il bene ed evitare il male sono la stessa cosa. Invece la giustizia ha di mira le operazioni e le realtà esterne, e in questo campo una cosa è fare l'uguaglianza e un'altra il non distruggerla 2. L' allontanamento dal male in quanto costi­ tuisce una parte integrante della giustizia non implica solo una pura negazione, ossia il non fare il male - ciò infatti non merita la palma [della vittoria] , ma evita soltanto la pena -: es­ so invece implica un moto volontario di ripul­ sa contro il male, come indica il nome stesso di allontanamento [declinatio]. E questo atteg­ giamento è meritorio: specialmente quando uno viene spinto a fare il male, e resiste. 3. Fare il bene è l'atto completivo della giusti­ zia, e come la pmte principale di essa. Invece evitare il male ne è l' atto imperfetto, e la parte secondaria: quindi ne costituisce come l' ele­ mento materiale, di cui non può fare a meno la parte formale completiva.

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Articulus 2

Articolo 2

Utrum transgressio sit speciale peccatum

La trasgressione è un peccato speciale?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod transgressio non sit speciale peccatum. l . Nulla enim species ponitur in definitione ge­ neris. Sed transgressio ponitur in communi defi­ nitione peccati, dicit enim Ambrosius [De pa­ rad. 8] quod peccatum est transgressio legis di­ vinae. Ergo transgressio non est species peccati. 2. Praeterea, nulla species excedit suum ge­ nus. Sed transgressio excedit peccatum, quia peccatum est dictum vel factum vel concu­ pitum contra legem Dei, ut patet per Augusti­ num, 22 Contra Faust. [27] ; transgressio est etiam contra naturam vel consuetudinem. Ergo transgressio non est species peccati. 3. Praeterea, nulla species continet sub se omnes partes in quas dividitur genus. Sed peccatum transgressionis se extendit ad omnia vitia capita­ lia, et etiam ad peccata cordis, oris et operis. Ergo transgressio non est speciale peccatum. Sed contra est quod opponitur speciali virtuti, scilicet iustitiae. Respondeo dicendum quod nomen transgres­ sionis a corporalibus motibus ad morales actus derivatum est. Dicitur autem aliquis se­ cundum corporalem motum transgredi ex eo quod graditur trans terminum sibi praefixum. Terminus autem praefigitur homini, ut ultra non transeat, in moralibus per praeceptum ne­ gativum. Et ideo transgressio proprie dicitur ex eo quod aliquis agit aliquid contra praecep­ tum negativum. - Quod quidem materialiter potest esse commune omnibus speciebus pec­ catorum, quia per quamlibet speciem peccati mortalis homo transgreditur aliquod praecep­ tum divinum. Sed si accipiatur fonnaliter, sci­ li ce t secundum hanc specialem rationem quod est facere contra praeceptum negativum, sic est speciale peccatum dupliciter. Uno quidem modo, secundum quod opponitur ad genera peccatorum opposita aliis virtutibus, sicut enim ad propriam rationem iustitiae legalis pertinet attendere debitum praecepti, ita ad propriam rationem transgressionis pertinet attendere contemptum praecepti. Alio modo, secundum quod distinguitur ab omis­ sione, quae contrariatur praecepto affirmativo. Ad primum ergo dicendum quod sicut iustitia legalis est omnis virtus subiecto et quasi ma-

Sembra di no. Infatti: l . Nella definizione di un genere non può tro­ varsi una delle sue specie. Ma la trasgressione si trova nella definizione del peccato, poiché Ambrogio afferma che il peccato è «una tra­ sgressione della legge di Dio». Quindi la tra­ sgressione non è una specie del peccato. 2. Nessuna specie è più estesa del suo genere. Ma la trasgressione è più estesa del peccato: il peccato infatti, secondo Agostino, è «tma pa­ rola, un'azione o un desiderio contro la legge di Dio», mentre la trasgressione è anche con­ tro la natura o la consuetudine. Perciò la tra­ sgressione non è un peccato speciale. 3. Nessuna specie abbraccia tutte le parti i n cui il suo genere s i divide. M a il peccato di trasgressione si estende a tutti i vizi capitali, e anche ai peccati di pensiero, di parola e di opera. Quindi la trasgressione non è un pec­ cato speciale. In contrario: la trasgressione si contrappone a una virtù speciale, cioè alla giustizia. Risposta: il tennine trasgressione è stato adot­ tato nel campo morale a somiglianza dei moti corporali. Ora, nel moto fisico si dice che uno trasgredisce per il fatto che passa oltre [trans graditur] il tennine prestabilito. Ma in campo morale il termine da non oltrepassare viene prestabilito all'uomo dai precetti negativi. E così la trasgressione si verifica propriamente quando uno agisce contro un precetto negati­ vo. - Ora, ciò può riscontrarsi materialmente in tutte le specie di peccati: poiché con un peccato di qualsiasi specie l' uomo trasgredi­ sce sempre u n precetto divino. S e però si prende la trasgressione formalmente, cioè sot­ to questo aspetto particolare di infrazione di un precetto negativo, allora essa è un peccato specifico in due modi. Primo, in quanto si contrappone ai diversi generi di peccati che sono opposti alle altre virtù. Come i nfatti alla giustizia legale spetta l' osservanza di ciò che è dovuto per legge, così è proprio della trasgres­ sione mirare al disprezzo della legge. Secon­ do, in quanto si distingue dall' omissione, che si oppone ai precetti positivi. Soluzione delle difficoltà: l . Come la giusti­ zia legale in concreto e materialmente è la vir-

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terialiter, ita etiam iniustitia legalis est ma­ terialiter omne peccatum. Et hoc modo pec­ catum definivit Ambrosius, secundum scilicet rationem iniustitiae legalis. Ad secundum dicendum quod inclinatio na­ turae pertinet ad praecepta legis naturalis. Consuetudo etiam honesta habet vim prae­ cepti, quia ut Augustinus dicit, in epistola De ieiunio sabbati [ep. 36 Ad Casulanum l ] mos populi Dei pro lege habendus est. Et ideo tam peccatum quam transgressio potest esse con­ tra consuetudinem honestam et contra incli­ nationem naturalem. Ad tertium dicendum quod ornnes enumera­ tae species peccatorum possunt habere trans­ gressionem non secundum proprias rationes, sed secundum quandam specialem rationem, ut dictum est [in co.]. Peccatum tamen omis­ sionis ornnino a transgressione distinguitur.

tù in genere, così l'ingiustizia legale material­ mente è il peccato in tutta la sua universalità. E Ambrogio definisce il peccato da questo punto di vista, cioè in quanto è un'ingiustizia legale. 2. L'inclinazione della natura rientra nei pre­ cetti della legge naturale. E anche la buona consuetudine ha il vigore di un precetto: poi­ ché, secondo Agostino, «le usanze del popolo di Dio vanno considerate come l egge» . Quindi sia il peccato che la trasgressione pos­ sono essere contro le buone consuetudini e contro le inclinazioni naturali. 3. Tutte le specie dei peccati ricordati possono essere commesse con trasgressioni che non si limitano alla loro formalità propria, ma rive­ stono un aspetto speciale, come si è visto. Tuttavia il peccato di omissione si distingue sempre nettamente dalla trasgressione.

Articulus 3 Utrum omissio sit speciale peccatum

Vomissione è un peccato speciale?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod omis­ sio non sit speciale peccatum. l . Omne enim peccatum aut est originale aut actuale. Sed omissio non est originale pecca­ rum, quia non contrahitur per originem. Nec est actuale, quia potest esse absque omni actu, ut supra [1-11 q. 7 1 a. 5] habitum est, cum de peccatis in communi ageretur. Ergo omissio non est speciale peccatum. 2. Praeterea, ornne peccatum est voluntarium. Sed omissio quandoque non est volontaria, sed necessaria, puta cum mulier corrupta est quae virginitatem vovit; vel cum aliquis amittit rem quam restituere tenetur; vel cum sacerdos tenetur celebrare et habet aliquod impedimen­ tum. Ergo omissio non semper est peccatum. 3. Praeterea, cuilibet speciali peccato est de­ terminare aliquod tempus quando incipit esse. Sed hoc non est determinare in omissione, quia quandocumque non facit similiter se ha­ bet, nec tamen semper peccat. Ergo omissio non est speciale peccatum. 4. Praeterea, omne peccatum speciale speciali virtuti opponitur. Sed non est dare aliquam specialem virtutem cui omissio opponitur. Thm quia bonum cuiuslibet virtutis omitti potest. Tum quia iustitia, cui specialius videtur op­ poni, semper requirit aliquem actum, etiam in declinatione a malo, ut dictum est [a. l ad 2],

Sembra di no. Infatti: l . Un peccato o è originale o è attuale. Ora, l'omissione non è il peccato originale, poiché non viene contratta con la nascita. E non è un peccato attuale in quanto può avvenire senza alcun atto, come si è detto sopra parlando dei peccati in generale. Quindi l'omissione non è un peccato speciale. 2. Ogni peccato è volontario. L' omissione invece talora non è volontaria, ma necessaria: p. es. quando una donna che ha fatto il voto di verginità è stata violata; oppure quando uno ha perso la cosa che doveva restituire; o quan­ do un sacerdote tenuto a celebrare si trova im­ pedito di farlo. Perciò l'omissione non sem­ pre è peccato. 3. Per ciascun peccato specificamente distinto si può determinare il tempo in cui comincia a sussistere. Ma ciò è impossibile per l'omis­ sione, poiché in tutti i momenti in cui uno non agisce si trova sempre nella stessa disposizio­ ne, e tuttavia egli non pecca in tutti i momen­ ti. Quindi l'omissione non è un peccato speci­ ficamente distinto. 4. Ogni peccato specifico si contrappone a una virtù specifica. Ma una virtù specifica che si contrappone all'omissione non esiste: sia perché si può omettere il bene di qualsiasi virtù, sia perché la giustizia, a cui l'omissione

Articolo 3

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Le parti integranti della giustizia

omissio autem potest esse absque omni actu. Ergo omissio non est speciale peccatum. Sed contra est quod dicitur Iac. 4 [ 17], scienti

bonum et non facienti, peccatum est ilii.

Respondeo dicendum quod omissio importat praetermissionem boni, non autem cuiuscum­ que, sed boni debiti. Bonum autem sub ratio­ ne debiti pertinet proprie ad iustitiam, ad lega­ lem quidem, si debitum accipiatur in ordine ad legem divinam vel humanam; ad specia­ lem autem iustitiam, secundum quod debitum consideratur in ordine ad proximum. Unde eo modo quo iustitia est specialis virtus, ut supra [q. 58 a. 7] habitum est, et omissio est spe­ ciale peccatum distinctum a peccatis quae opponuntur aliis virtutibus. Eo vero modo quo facere bonum, cui opponitur omissio, est quaedam specialis pars iustitiae distincta a de­ clinatione mali, cui opponitur transgressio, etiam omissio a transgressione distinguitur. Ad primum ergo dicendum quod omissio non est peccatum originale, sed actuale, non quia habeat aliquem actum sibi essentialem; sed secundum quod negatio actus reducitur ad genus actus. Et secundum hoc non agere accipitur ut agere quoddam, sicut supra [1-11 q. 7 1 a. 6 ad l ] dictum est. Ad secundum dicendum quod omissio, sicut dictum est [in co.], non est nisi boni debiti, ad quod aliquis tenetur. Nullus autem tenetur ad impossibile. Unde nullus, si non facit id quod facere non potest, peccat per omissionem. Mulier ergo corrupta quae virginitatem vovit, non omittit virginitatem non habendo, sed non poenitendo de peccato praeterito, vel non faciendo quod potest ad votum adimplendum per continentiae observantiam. S acerdos etiam non tenetur dicere Missam nisi suppo­ sita debita opportunitate, quae si desit, non omittit. Et similiter aliquis tenetur ad restitu­ tionem, supposita facultate, quam s i non habet nec habere potest, non omittit, dummo­ do faciat quod potest. Et idem dicendum est in aliis. Ad tertium dicendum quod sicut peccatum transgressionis opponitur praeceptis negativis, quae pertinent ad declinandum a malo, ita peccatum omissionis opponitur praeceptis af­ firmativis, quae pertinent ad faciendum bo­ num. Praecepta autem affirmativa non obli­ gant ad semper, sed ad tempus determinatum. Et pro i lio tempore peccatum omissionis

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sembra opporsi in modo particolare, richiede sempre un qualche atto, come si è detto sopra per l 'allontanamento dal male; e invece l'o­ missione può avvenire senza alcun atto. Quin­ di l'omissione non è un peccato speciale. In contrario: in Gc 4 [17] è detto: Chi ricono­

sce il bene e non lo compie, commette peccato.

Risposta: l'omissione implica il tralasciare non un bene qualsiasi, ma un bene dovuto. Ora, il bene sotto l'aspetto di cosa dovuta appartiene propriamente alla giustizia: a quella legale se il dovere deriva dalla legge divina o umana; a quella speciale se il dovere è visto in rapporto al prossimo. Come quindi è una virttl speciale la giustizia, secondo le spiegazioni date sopra, così anche l'omissione è un peccato speciale, distinto dagli altri peccati che si contrappongo­ no alle altre virtù. E come fare il bene, al che si oppone l'omissione, è una parte speciale della giustizia distinta dali' evitare il male, al che si oppone la trasgressione, così anche l' omissio­ ne si distingue dalla trasgressione. Soluzione delle difficoltà: l . L'omissione non è il peccato originale, ma è un peccato attuale: non perché implichi essenzialmente un atto, ma perché la negazione di un atto rientra nel genere dell'atto. E in questo senso, come fu spiegato sopra, non agire equivale ad agire in un certo modo. 2. Come si è già detto, l'omissione viene con­ cepita solo in rapporto a un bene dovuto, che uno ha l'obbligo di compiere. Ma nessuno è tenuto all'impossibile. Per cui nessuno com­ mette un peccato di omissione se non fa ciò che non può fare. Perciò una donna violata che ha fatto voto di verginità non fa un pecca­ to di omissione perché non ha la verginità, ma perché eventualmente non si pente del suo peccato, o perché non fa quello che può per compiere il suo voto con l'osservanza della castità. E così il sacerdote non è tenuto a cele­ brare la messa se non quando è in condizioni di farlo: e se queste non si danno, non pecca di omissione. Parimenti uno è tenuto a resti­ tuire supposto che ne abbia la capacità: man­ cando la quale non fa un peccato di omissio­ ne, purché faccia quanto può. E Io stesso si dica di altri casi del genere. 3. Come il peccato di trasgressione è in con­ trasto con i precetti negativi, che mirano a evitare il male, così il peccato di omissione è in contrasto con i precetti affermativi, che mi-

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Le parti integranti della giustizia

incipit esse. - Potest tamen contingere quod aliquis tunc sit impotens ad faciendum quod debet. Quod q u idem s i s i t praeter eius culpam, non omittit, ut dictum est [ad 2] . - Si vero sit propter eius culpam praecedentem, puta cum aliquis de sero se inebtiavit et non potest surgere ad matutinas ut debet, dicunt quidam [Alexander Halensis, Summa Theol. I-II n. 3 3 3 ] quod tunc incoepit peccatum omissionis quando aliquis applicat se ad actum illicitum et incompossibilem cum ilio actu ad quem tenetur. Sed hoc non videtur ve­ rum. Quia, dato quod excitaretur per violen­ tiam et iret ad matutinas, non omitteret. Unde patet quod praecedens inebriatio non fuit omissio, sed omissionis causa. - Unde dicen­ dum est quod omissio incipit ei imputati ad culpam quando fuit tempus operandi, tamen propter causam praecedentem, ex qua omis­ sio sequens redditur voluntatia. Ad quartum dicendum quod omissio directe opponitur iustitiae, ut dictum est [in co.], non enim est omissio boni alicuius virtutis nisi sub ratione debiti, quod pertinet ad iustitiam. Plus autem requititur ad actum virtutis metitorium quam ad demeritum culpae, quia bonum est

ex integra causa, malum autem ex singulari­ bus defectibus [cf. DDN 4,30] . Et ideo ad iustitiae meritum requititur actus, non autem ad omissionem.

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rano al compimento del bene. Ma i precetti affermativi non obbligano in tutti i momenti, bensì in tempi determinati. Ed è allora che il peccato di omissione comincia a sussistere. Tuttavia può capitare che in quel momento uno non sia in grado di fare ciò che deve. E se ciò avviene senza sua colpa non c'è omissio­ ne, come si è già detto. - Se invece ciò avvie­ ne per un suo peccato precedente, nel caso p. es. di uno che è incapace di alzarsi per il mat­ tutino perché si è ubriacato la sera avanti, al­ lora secondo alcuni il suo peccato di omissio­ ne comincerebbe a esistere dal momento in cui egli si è applicato all' atto illecito incom­ patibile con ciò a cui è tenuto. Ma questo non sembra vero. Nel caso infatti che costui venis­ se svegliato di prepotenza e andasse così al mattutino non peccherebbe di omissione. Per­ ciò è evidente che l' ubriacatura precedente non era l'omissione, ma la causa dell'omis­ sione. - B isogna quindi concludere che l' omissione comincia a essergli imputata a colpa quando inizia il tempo di agire: tuttavia a motivo della causa precedente, che rende volontaria l'omissione successiva. 4. L'omissione si oppone direttamente alla giu­ stizia, come si è spiegato: infatti il bene di una virtù non viene omesso se non sotto l'aspetto di cosa dovuta, aspetto che appartiene alla giu­ stizia. Sappiamo poi che per l'atto vittuoso me­ titorio si richiedono più cose che per il deme­ rito della colpa: poiché, come dice Dionigi, . 2. La religione ordina l'uomo a Dio conside­ randolo però non come oggetto, ma come fine. 3. La religione è una virtù non teologale, né intellettuale, ma morale, essendo una parte della giustizia. E in essa il giusto mezzo non viene stabilito tra opposte passioni, ma secon-

La religione

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virtus theologica neque intellectualis, sed mo­ ralis, cum sit pars iustitiae. Et medium in ipsa accipitur non quidem inter passiones, sed se­ cundum quandam aequalitatem inter opera­ tiones quae sunt ad Deum. Dico autem aequa­ litatem non absolute, quia Deo non potest tantum exhiberi quantum ei debetur, sed se­ cundum considerationem humanae facultatis et divinae acceptationis. Superfluum autem in his quae ad divinum cultum pertinent esse potest, non secundum circumstantiam quanti, sed secundum alias circumstantias, puta quia cultus divinus exhibetur cui non debet exhibe­ ri, vel quando non debet, vel secundum alias circumstantias prout non debet.

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do una certa uguaglianza tra le operazioni indirizzate a Dio. Non si tratta però di un'u­ guaglianza assoluta, poiché a Dio non si può offrire quanto gli è dovuto, ma rapportata alle capacità dell'uomo e all'accettazione di Dio. Ora, nelle cose attinenti al culto divino ci può essere un eccesso non per la quantità, ma per altre circostanze: ad es. perché il culto divino viene prestato a colui al quale non va prestato, o quando non si deve, o secondo altre circo­ stanze indebite.

Articulus 6

Articolo 6

Utrum religio sit praeferenda aliis virtutibus moralibus

La religione è superiore alle altre virtù morali?

Ad sextum sic proceditur. Videtur quod religio non sit praeferenda aliis virtutibus moralibus. l . Perfectio enim virtutis moralis consistit in hoc quod attingit medium, ut patet in 2 Ethic. [ 6,9]. Sed religio deficit in attingendo me­ dium iustitiae, quia non reddit Deo omnino aequale. Ergo religio non est potior aliis virtu­ tibus moralibus. 2. Praeterea, in bis quae hominibus exhibentur, tanto videtur aliquid esse laudabilius quanto magis indigenti exhibetur, unde dicitur Isaiae 5 8 [7], frange esurienti panem tuum. Sed Deus non indiget aliquo quod ei a nobis exhi­ beatur, secundum illud Ps. [ 15,2], dixi, Deus meus es tu, quoniam bonorum meorum non eges. Ergo religio videtur minus laudabilis aliis virtutibus, per quas hominibus subvenitur. 3. Praeterea, quanto aliquid fit ex maiori ne­ cessitate, tanto minus est laudabile, secundum illud l ad Cor. 9 [16], si evangelizavero, non est mihi gloria, necessitas mihi incumbit. Ubi autem est maius debitum, ibi est maior necessitas. Cum igitur Deo maxime sit de­ bitum quod ei ab homine exhibetur, videtur quod religio sit minus laudabilis inter virtutes humanas. Sed contra est quod Ex. 20 ponuntur primo praecepta ad religionem pertinentia, tanquam praecipua. Ordo autem p raeceptorum proportionatur ordini virtutum, quia praecepta legis dantur de actibus vittutum. Ergo religio est praecipua inter virtutes morales.

Sembra di no. Infatti: l . La perfezione di una virtù morale consiste nel raggiungere il giusto mezzo, come fa rile­ vare Aristotele. Ma la religione non riesce a raggiungere il giusto mezzo: poiché non ren­ de a Dio il dovuto secondo una perfetta ugua­ glianza. Quindi la religione non è superiore alle altre virtù morali. 2. Nelle prestazioni fatte a favore degli uomini un atto è tanto più lodevole quanto più è com­ piuto a favore dei più indigenti. Per cui in Is 58 [7] è detto: Dividi il tuo pane con l'affa­ mato. Ora, Dio non ha alcun bisogno di ciò che noi gli offriamo, come è detto nel Sal l 5 [2]: Ho detto al Signore: Tu sei il mio Dio, perché non hai bisogno dei miei beni. Perciò la reli­ gione è meno lodevole delle altre virtù con le quali si aiutano gli uomini. 3. Più una cosa è fatta per necessità, tanto me­ no è lodevole, come è detto in l Cor 9 [ 1 6]: Non è per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me. Ma dove c'è un debito mag­ giore, là c'è anche una maggiore necessità. Essendo quindi un dovere strettissimo per l'uo­ mo prestare il culto a Dio, è chiaro che la reli­ gione è la meno lodevole delle virtù umane. In contrario: in Es 20 i comandamenti attinenti alla religione sono messi al primo posto, come principali. Ora, l'ordine dei precetti corrispon­ de all'ordine delle virtù: poiché i precetti della legge hanno per oggetto gli atti virtuosi. Quindi la religione è la prima tra le virtù morali.

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Q. 8 1 , A. 6

Respondeo dicendum quod ea quae sunt ad finem sortiuntur bonitatem ex ordine in fi­ nem, et ideo quanto sunt fini propinquiora, tanto sunt meliora. Virtutes autem morales, ut supra [a. 5] habitum est, sunt circa ea quae or­ dinantur in Deum sicut in finem. Religio autem magis de propinquo accedit ad Deum quam aliae virtutes morales, inquantum ope­ ratur ea quae directe et immediate ordinantur in honorem divinum. Et ideo religio praeemi­ net inter alias virtutes morales. Ad primum ergo dicendum quod laus virtutis in voluntate consistit, non autem in potestate. Et ideo deficere ab aequalitate, quae e...o;;t me­ dium iustitiae, propter defectum potestatis, non diminuit laudem virtutis, si non fuerit defectus ex parte voluntatis. Ad secundum dicendum quod in his quae exhibentur alteri propter eorum utilitatem, est exhibitio laudabilior quae fit magis indigenti, quia est utilior. Deo autem non exhibetur aliquid propter eius utilitatem, sed propter eius gloriam, nostram autem utilitatem. Ad tertium dicendum quod ubi est necessitas, tollitur gloria supererogationis, non autem excluditur meritum virtutis, si adsit voluntas. Et propter hoc ratio non sequitur.

Risposta: le cose che sono ordinate a un fine mutuano la bontà dal loro ordine al fine: perciò quanto più sono prossime al fine, tanto sono migliori. Ora, come sopra si è detto, le virtù morali hanno per oggetto cose che sono ordinate a Dio come al loro fine. Ma la reli­ gione si avvicina a Dio più strettamente che le altre virtù morali: poiché compie degli atti che in modo diretto e immediato sono ordina­ ti all'onore di Dio. Perciò la religione è supe­ riore a tutte le altre virtù morali. Soluzione delle difficoltà: l . La lode della vir­ tù sta nel volere, non nel potere. Quindi l'in­ capacità a raggiungere l' uguaglianza del giu­ sto mezzo per impossibilità non diminuisce la lode della virtù, se non interviene una defi­ cienza volontaria. 2. Tra le prestazioni che si fanno per l'utilità altrui è più lodevole quella che viene fatta a favore dei più indigenti: perché appunto è più utile. Ma a Dio non si offre nulla per la sua utilità, bensì per la sua gloria, e per l' utilità nostra. 3. La necessità toglie la gloria delle opere su­ pererogatorie, ma non esclude il merito della virtù, se c'è la volontà. Perciò l' argomento non regge.

Articulus 7 Utrum latria habeat aliquem exteriorem actum

Articolo 7 Il culto di latria ha degli atti esterni?

Ad septimum sic proceditur. Videtur quod latria non habeat aliquem exteriorem actum. l . Dicitur enim Ioan. 4 [24], Deus spiritus est,

et eos qui adorant eum, in spiritu et veritate adorare oportet. Sed exteriores actus non per­ tinent ad Spiritum, sed magis ad corpus. Ergo religio, ad quam pertinet adoratio, non habet exteriores actus, sed interiores. 2. Praeterea, religionis finis est Deo reveren­ tiam et honorem exhibere. Sed videtur ad irre­ verentiam alicuius excellentis pertinere si ea sibi exhibeantur quae proprie ad inferiores pertinent. Cum igitur ea quae exhibet homo corporalibus actibus proprie videantur ad indi­ gentias hominum ordinari, vel ad reverentiam inferiorum creatumrum; non videtur quod con­ grue possunt assumi in divinam reverentiam. 3. Praeterea, Augustinus, in 6 De civ. Dei [ 1 0], commendat Senecam de hoc quod vituperat quosdam qui idolis ea exhibebant quae solent

Sembra di no. Infatti: l . In Gv 4 [24] è detto:

Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità. Ma gli atti esterni non appartengono

allo spirito, bensì al corpo. Quindi la religio­ ne, a cui appartiene l'adorazione, non ha atti esterni, ma solo interni. 2. Il fine della religione è di rendere a Dio riverenza e onore. Ma rendere a una persona superiore gli omaggi che si offrono agli infe­ riori è un' irriverenza. Siccome dunque ciò che l'uomo offre con gli atti del corpo sembra ordinato a soddisfare l'indigenza di altri uo­ mini, o a riverire creature inferiori, non pare che tali atti possano essere usati per rendere onore a Dio. 3. Agostino loda Seneca perché aveva ripreso alcuni i quali offrivano agli idoli cose che si è soliti offrire agli uomini: poiché ad esseri im­ mortali non si addicono le cose proprie dei

Q. 8 1 , A. 7

La religione

hominibus exhiberi, quia scilicet immortali­ bus non conveniunt ea quae sunt mortalium. Sed haec multo minus conveniunt Deo vero, qui est excelsus super omnes deos. Ergo vi­ detur reprehensibile esse quod aliquis corpo­ ralibus actibus Deum colat. Non ergo habet religio corporales actus. Sed contra est quod in Ps. [83,3] dicitur, cor meum et caro mea exultaverunt in Deum vivum. Sed sicut interiores actus pertinent ad cor, ita exteriores actus pertinent ad membra camis. Ergo videtur quod Deus sit colendus non solum interioribus actibus, sed etiam exterioribus. Respondeo dicendum quod Deo reverentiam et honorem exhibemus non propter ipsum, qui in seipso est gloria plenus, cui nihil a creatura adiici potest, sed propter nos, quia videlicet per hoc quod Deum reveremur et honoramus, mens nostra ei subiicitur, et in hoc eius perfectio consistit; quaelibet enim res perficitur per hoc quod subditur suo supe­ riori, sicut corpus per hoc quod vivificatur ab anima, et aer per hoc quod illuminatur a sole. Mens autem humana indiget ad hoc quod coniungatur Deo, sensibilium manuductione, quia invisibilia per ea quae facta sunt, intel­ lecta, conspiciuntur, ut apostolus dicit, ad Rom. [ l ,20] . Et ideo in divino cultu necesse est aliquibus corporalibus uti, ut eis, quasi signis quibusdam, mens hominis excitetur ad Spirituales actus, quibus Deo coniungitur. Et ideo religio habet quidem interiores actus quasi principales et per se ad religionem perti­ nentes, exteriores vero actus quasi secunda­ rios, et ad interiores actus ordinatos. Ad primum ergo dicendum quod Dominus loquitur quantum ad id quod est principale et per se intentum in cultu divino. Ad secundum dicendum quod huiusmodi ex­ teriora non exhibentur Deo quasi his indigeat, secundum illud Ps. [49,13], numquid mandu­ cabo cames taurorum, aut sanguinem hirco­ rum potabo ? Sed exhibentur Deo tanquam signa quaedam interiorum et Spiritualium operum, quae per se Deus acceptat. Unde Au­ gustinus dicit, in 10 De civ. Dei [5], sacrifi­ cium visibile invisibilis sacrificii sacramen­ tum, idest sacrum signum, est. Ad tertium dicendum quod idololatrae deri­ dentur ex hoc quod ea quae ad homines perti­ nent idolis exhibebant non tanquam signa

778

mortali. Ma queste meno che mai si addicono al vero Dio, il quale è eccelso sopra tutti gli dèi [Sal 94,3]. Quindi è riprovevole che si renda un culto a Dio con atti del corpo. E così la religione non ammette atti corporali. In contrario: nel Sal 83 [3] si dice: Il mio cuore e la mia carne hanno esultato nel Dio vivente. Ora, come gli atti interni appartengo­ no al cuore, così quelli esterni appartengono alle membra della nostra carne. Quindi Dio deve essere onorato nel culto non solo con atti interni, ma anche con atti esterni. Risposta: noi prestiamo a Dio riverenza e onore non per lui stesso, che in sé è così pieno di gloria che nessuna creatura può aggiunger­ gli nulla, ma per noi: poiché mediante la riverenza e l 'onore che prestiamo a Dio la nostra mente si sottomette a lui, raggiungendo così la propria perfezione. Infatti ogni essere raggiunge la perfezione per i l fatto che si subordina a una realtà superiore: come il corpo per il fatto che è vivificato dall' anima, e l'aria perché è illuminata dal sole. Ora l'ani­ ma umana, per unirsi a Dio, ha bisogno di essere guidata dalle realtà sensibili: poiché le pe ifezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come dice Paolo in Rm l [20] . Perciò nel culto divino è necessario servirsi di realtà materiali come di segni mediante i quali l'anima umana venga eccitata alle azioni spi­ rituali che la uniscono a Dio. La religione quindi abbraccia degli atti interni, che sono come principali e appartenenti di per sé alla religione, e degli atti esterni, che sono secon­ dari e ordinati a quelli interni. Soluzione delle difficoltà: l . Il Signore in quel testo si riferisce a ciò che è principale e direttamente richiesto nel culto divino. 2. Queste cose esterne non vengono offerte a Dio come se egli ne avesse bisogno, come è detto nel Sal 49 [ 1 3] : Mangerò j01-se la came dei tori, ben·ò jòrse il sangue dei capri?, ma vengono offerte a Dio come segni degli atti interni spirituali, che egli accetta per se stessi. Per cui Agostino ha scritto: «Il sacrificio visi­ bile è un sacramento, cioè un segno sacro del sacrificio invisibile». 3. Gli idolatri vengono derisi per il fatto che offrivano agli idoli doni adatti per gli uomini non come segni invitanti ad azioni spirituali, ma come cose gradite agli idoli per se stesse.

La religione

779

Q. 8 1 , A. 7

excitantia eos ad aliqua spiritualia, sed tanquam per se eis accepta. Et praecipue quia erant vana et turpia.

E specialmente perché si trattava di cose vane e turpi.

Articulus 8 Utrum religio sit idem sanctitati

Articolo 8 La religione si identifica con la santità?

Ad octavum sic proceditur. Videtur quod reli­ gio non sit idem sanctitati. l . Religio enim est quaedam specialis virtus, ut habitum est [a. 4]. Sanctitas autem dicitur esse generalis virtus, est enim faciens fide/es et servantes ea quae ad Deum sunt iusta, ut Andronicus dicit [De affect., De iustitia] . Ergo sanctitas non est idem religioni. 2. Praeterea, sanctitas munditiam importare videtur, dicit enim Dionysius, 12 cap. De div. nom. [2], quod sanctitas est ab omni immun­ ditia libera et perfecta et omnino immaculata munditia. Munditia autem maxime videtur pertinere ad temperantiam, quae turpitudines corporales excludit. Cum igitur religio ad iustitiam pertineat, videtur quod sanctitas non sit idem religioni. 3. Praeterea, ea quae dividuntur ex opposito non sunt idem. Sed in quadam enumeratione partium iustitiae sanctitas condividitur religio­ ni, ut supra [q. 80 a. l ad 4] habitum est. Ergo sanctitas non est idem quod religio. Sed contra est quod dicitur Luc. l [74-75], serviamus illi in sanctitate et iustitia. Sed ser­ vire Deo pertinet ad religionem, ut supra [a. l ad 3; a. 3 ad 2] habitum est. Ergo religio est idem sanctitati. Respondeo dicendum quod nomen sanctitatis duo videtur importare. Uno quidem modo, munditiam, et buie significationi competit nomen graecum, dicitur [cf. Origenem, In Lev. h. 1 1] enim agios quasi sine terra. Alio modo i m portat firmitatem, unde apud antiquos sancta dicebantur quae legibus erant munita ut violari non deberent; unde et dicitur esse aliquid sancitum quia est lege tirmatum. Potest etiam secundum Latinos hoc nomen sanctus ad munditiam pertinere, ut intelligatur sanctus quasi sanguine tinctus, eo quod anti­ quitus il/i qui purificari volebant sanguine hostiae tingebantur, ut Isidorus dicit, in libro Etymol . [ l O, ad litt. S]. - Et utraque significa­ tio competit, ut sanctitas attribuatur his quae divino cultui applicantur, ita quod non solum homines, sed etiam templum et vasa et alia

Sembra di no. Infatti: l. La religione è una virtù speciale, come si è dimostrato. Invece la santità è una virtù gene­ rale: poiché, secondo Andronico, «essa è una virtù che rende fedeli e osservanti di quanto è giusto nei riguardi di Dio». Quindi la santità non si identifica con la religione. 2. La santità, a quanto pare, implica l'idea di purezza: infatti Dionigi insegna che «la san­ tità è una purezza del tutto immacolata e per­ fetta, libera da ogni sozzura». Ora, la purezza rientra piuttosto nella temperanza, la quale esclude tutte le turpitudini della carne. Sicco­ me dunque la religione appartiene alla giusti­ zia, è chiaro che la santità non si identifica con la religione. 3. Le cose che si contrappongono come parti di una divisione non possono identificarsi. Ma in una delle enumerazioni ricordate delle parti della giustizia, la santità è divisa dalla religione. Quindi la santità e la religione non si identificano. In contrario: in Le l [74]: Serviamo il Signore in santità e giustizia. Ma servire Dio appartie­ ne alla religione, come sopra si è notato. Quindi la religione si identifica con la santità. Risposta: il termine santità implica due cose. Prima di tutto la purezza: e a questo significa­ to accenna il termine greco, poiché agios si­ gnifica senza terra. In secondo luogo la stabi­ lità: infatti presso gli antichi si denominavano sante quelle cose che erano difese dalle leggi perché non fossero violate; e si dice che una cosa è sancita per il fatto che è stabilita dalla legge. D'altra parte anche presso i latini i l termine santo può avere attinenza con l a pu­ rezza, se si interpreta santo come «spruzzato di sangue»: «poiché in antico coloro che vo­ levano purificarsi venivano spmzzati col san­ gue delle vittime», come scrive Isidoro. - En­ trambi i significati dunque permettono di at­ tribuire la santità a quanto si applica al culto di Dio: cosicché non soltanto le persone, ma anche il tempio, le suppellettili e ogni altra cosa del genere è santificata per il fatto che

La religione

Q. 8 1 , A. 8

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huiusmodi sanctificari dicantur ex hoc quod cultui divino applicantur. Munditia enim ne­ cessaria est ad hoc quod mens Deo applicetur. Quia mens humana inquinatur ex hoc quod inferioribus rebus immergitur, sicut quaelibet res ex irnmixtione peioris sordescit, ut argen­ tum ex immixtione plumbi. Oportet autem quod mens ab inferioribus rebus abstrahatur, ad hoc quod supremae rei possit coniungi. Et ideo mens sine munditia Deo applicari non potest. Unde ad Heb. 1 3 [ 14] dicitur, pacem

viene adibita al culto di Dio. Perché infatti la mente si applichi a Dio è necessaria la purez­ za: poiché la mente umana viene insozzata quando si immerge nelle realtà inferiori, co­ me si inquina qualsiasi cosa mescolandosi con elementi più vili: l 'argento, ad es., quan­ do si mescola col piombo. Ora, è necessario che la mente umana si astragga dalle realtà inferiori per potersi unire alla realtà suprema. Perciò l'anima non può applicarsi a Dio senza purezza. Per cui in Eb 1 3 [ 1 4] è detto: Cercate

sequimini cum omnibus, et sanctimoniam, sine qua nemo videbit Deum. Firmitas

la pace con tutti e la santificazione, senza la quale nessuno vedrà mai il Signore. - Perché

etiam exigitur ad hoc quod mens Deo appli­ cetur. Applicatur enim ei sicut ultimo fini et primo principio, huiusmodi autem oportet maxime immobilia esse. Unde dicebat apo­ stolus, Rom. 8 [38-39] , certus sum quod

un'anima si applichi a Dio si richiede inoltre la stabilità. Infatti essa deve applicarsi a lui come al suo ultimo fine e al suo primo princi­ pio: ora, queste due cose devono essere im­ mobili al massimo. Perciò Paolo diceva: Sono

neque mors neque vita separabit me a carita­ te Dei. - Sic igitur sanctitas dicitur per quam

certo che né morte né vita potranno separarei dali'amore di Dio (Rm 8,38). - Così dunque la santità è la disposizione con la quale l ' ani­

-

mens hominis seipsam et suos actus applicat Deo. Unde non differt a religione secundum essentiam, sed solum ratione. Nam religio dicitur secundum quod exhibet Deo debitum famulatum in his quae pertinent specialiter ad cultum divinum, sicut in sacrificiis, oblationi­ bus et aliis huiusmodi, sanctitas autem dicitur secundum quod homo non solum haec, sed aliarum virtutum opera refett in Deum, vel secundum quod homo se disponit per bona opera ad cultum divinum. Ad primum ergo dicendum quod sanctitas est quaedam specialis virtus secundum essen­ tiam, et secundum hoc est quodammodo eadem religioni. Habet autem quandam gene­ ralitatem, secundum quod omnes virtutum actus per imperium ordinat in bonum divi­ num, sicut et iustitia legalis dicitur generalis virtus, inquantum ordinat omnium virtutum actus in bonum commune. Ad secundum dicendum quod temperantia munditiam quidem operatur, non tamen ita quod habeat rationem sanctitatis nisi referatur in Deum. Unde de ipsa virginitate dicit Au­ gustinus, in libro De virginitate [8], quod non

quia virginitas est, sed quia Deo dicata est, honoratur. Ad tertium dicendum quod sanctitas distincta est a religione propter differentiam praedictam, non quia differat re, sed ratione tantum, ut dictum est [in co.].

ma umana applica a Dio se stessa e i propri atti. Essa quindi non differisce dalla religione in maniera essenziale, ma per una distinzione di ragione. Si parla infatti di religione per gli atti che si riferiscono al servizio di Dio, spe­ cialmente per quelli attinenti al culto, come i sacrifici , le offerte e altre cose del genere, mentre si parla di santità non solo per queste cose, ma anche per tutti gli atti delle altre vir­ tù che l ' uomo riferisce a Dio, o per quelle opere buone con le quali si dispone al culto di Dio. Soluzione delle difficoltà: l . La santità essen­ zialmente è una virtù specificamente distinta; e da questo lato si identifica in certo qual modo con la religione. Presenta però una cer­ ta universalità in quanto ordina a Dio gli atti di tutte le virtù: come anche la giustizia legale è considerata una virtù generale i n quanto ordina gli atti di tutte le virtù al bene comune. 2. La temperanza produce la purezza; essa pe­ rò non ha l 'aspetto di santità se non in quanto si riferisce a Dio. Per cui Agostino, parlando della stessa verginità, affermava che «essa viene onorata non perché è verginità, ma per­ ché è dedicata a Dio». 3. La santità è distinta dalla religione per la differenza che abbiamo indicato; non si tratta però di una differenza reale, ma di ragione.

78 1

La devozione

Q. 82, A. l

QUAESTIO 82 DE DEVOTIONE

QUESTIONE 82 LA DEVOZIONE

Deinde considerandum est de actibus religio­ nis. Et primo, de actibus interioribus, qui, se­ cundum praedicta, sunt principaliores; se­ cundo, de actibus exterioribus, qui sunt secun­ darii [q. 84]. Interiores autem actus religionis videntur esse devotio et oratio. Primo ergo de devotione agendum est; secundo, de oratione [q. 83]. - Circa primum quaeruntur quatuor. Primo, utrum devotio sit specialis actus. Se­ cundo, utrum sit actus religionis. Tertio, de causa devotionis. Quarto, de eius effectu.

Veniamo ora a considerare gli atti della religio­ ne. In ptimo luogo gli atti interni, che sono i principali, come si è detto, e in secondo luogo quelli esterni, che sono secondari. Ora, gli atti interni della religione sono la devozione e la preghiera. Perciò dobbiamo trattare: primo, della devozione; secondo, della preghiera. Sul primo argomento esamineremo quattro punti: l . La 9evozione è un atto specificamente distinto? 2. E un atto della virtù di religione? 3. La causa della devozione; 4. I suoi effetti.

Articulus l Utrum devotio sit specialis actus

Articolo l La devozione è un atto specificamente distinto?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod devotio non sit specialis actus. l . Illud enim quod pertinet ad modum alio­ rum actuum non videtur esse specialis actus. Sed devotio videtur pertinere ad modum alio­ rum actuum, dicitur enim 2 Parai. 29 [3 1 ] , obtulit universa multitudo hostias et laudes et holocausta mente devota. Ergo devotio non est specialis actus. 2. Praeterea, nullus specialis actus invenitur in diversis genetibus actuum. Sed devotio inven­ itur in diversis generibus actuum, scilicet in actibus corporalibus et etiam in spiritualibus, dicitur enim aliquis et devote meditati et de­ vote genu flectere. Ergo devotio non est spe­ cialis actus. 3. Praeterea, omnis actus specialis aut est ap­ petitivae aut cognoscitivae virtutis. Sed de­ votio neutti earum approptiatur, ut patet dis­ currenti per singulas species actuum uttiusque partis, quae supra [l qq. 78-83; I-II q. 23 a 4] enumeratae sunt. Ergo devotio non est specia­ lis actus. Sed contra est quod actibus meremur, ut supra [1-11 q. 2 1 a. 3-4] habitum est. Sed devotio habet specialem rationem merendi. Ergo de­ votio est specialis actus. Respondeo dicendum quod devotio dicitur a devovendo, unde devoti dicuntur qui seipsos quodammodo Deo devovent, ut ei se totaliter subdant. Propter quod et olim apud gentiles devoti dicebantur qui seipsos idolis devove­ bant in mortem pro sui salute exercitus, sicut de duobus Deciis Titus Livius narrat [Hist.

Sembra di no. Infatti: l . Ciò che si Iiduce a un modo di altti atti non è un atto speciale. Ma la devozione si riduce a un modo di altti atti, poiché in 2 Cr 29 [3 1] è detto: Tutta la folla offrì vittime, sacrifici di lode e olocausti con devozione. Quindi la de­ vozione non è un atto speciale. 2. Nessun atto specifico può rientrare in di­ versi generi di atti. Ora, la devozione si ri­ scontra in diversi generi di atti, cioè in atti corporali e spirituali: infatti si può dire che uno è devoto anche nel meditare o nel genu­ flettere. Quindi la devozione non è un atto specifico, o speciale. 3. Qualsiasi atto specifico appartiene o alla facoltà appetitiva o a quella conoscitiva. Ma la devozione non è atttibuita né all' una né al­ l'altra, come è evidente per chi scorre l'enu­ merazione già ricordata dei loro atti specifici. Quindi la devozione non è un atto speciale. In contrario: come si è già notato, si merita con gli atti. Ma la devozione ha un'efficacia speciale nel meritare. Quindi la devozione è un atto specifico. Risposta: devozione detiva da devovere [con­ sacrare] : infatti si dicono devoti coloro che in qualche modo si consacrano a Dio, sottomet­ tendosi a lui totalmente. Per questo in antico presso i Pagani erano detti devoti coloro che si immolavano agli idoli per la salvezza del­ l' esercito, come riferisce Tito Livio dei due Deci. E così la devozione non è altro che una certa volontà di dedicarsi prontamente alle

La devozione

Q. 82, A. l

782

Rom. 8,9; 1 0,28]. Unde devotio nihil aliud esse videtur quam voluntas quaedam prompte tradendi se ad ea quae pertinent ad Dei famu­ latum. Unde Ex. 35 [20-2 1 ] dicitur quod mul­

cose attinenti al servizio di Dio. Per cui i n Es 35 [20] è detto che la moltitudine dei .figli

titudo filiorum lsrael obtulit mente promptis­ sima atque devota primitias Domino.

che la volontà di compiere con prontezza le cose attinenti al servizio di Dio è un atto spe­ ciale. Quindi la devozione è un atto speciale della volontà. Soluzione delle difficoltà: l . Chi muove impri­ me anche il modo al moto del mobile. Ora, la volontà muove le altre potenze dell'anima ai loro atti: poiché la volontà, nel volere il fine, muove se stessa in rapporto ai mezzi, come si è visto. Essendo quindi la devozione l ' atto volitivo di un uomo il quale offre se stesso al servizio di Dio, e quindi a Dio che è l'ultimo fine, ne segue che la devozione determina il modo di tutti gli altri atti, sia di quelli della volontà rispetto ai mezzi, sia di quelli delle altre potenze che sono mosse dalla volontà. 2. La devozione si riscontra in diversi generi di atti non come una loro specie, ma come l'impulso di un motore si riscontra nei moti di ciò che esso muove. 3. La devozione è un atto della parte appetiti­ va dell'anima, ed è un certo moto della volon­ tà, come si è detto.

Manifestum est autem quod voluntas prompte faciendi quod ad Dei servitium pertinet est quidam specialis actus. Unde devotio est spe­ cialis actus voluntatis. Ad primum ergo dicendum quod movens im­ ponit modum motui mobilis. Voluntas autem movet alias vires animae ad suos actus, et voluntas secundum quod est finis, movet sei­ psam ad ea quae sunt ad finem, ut supra [I-Il q. 9 a 3] habitum est. Et ideo, cum devotio sit actus voluntatis hominis offerentis seipsum Deo ad ei serviendum, qui est ultimus finis, consequens est quod devotio imponat modum humanis actibus, sive sint ipsius voluntatis circa ea quae sunt ad finem, sive etiam sint aliarum potentia­ rum quae a voluntate moventur. Ad secundum dicendum quod devotio inveni­ tur in diversis generibus actuum non sicut species illorum generum, sed sicut motio mo­ ventis invenitur virtute in motibus mobilium. Ad tertium dicendum quod devotio est actus appetitivae prutis animae, et est quidam motus voluntatis, ut dictum est [in co.]. Articulus 2

Utrum devotio sit actus religionis Ad secundum sic proceditur. Videtur quod devotio non sit actus religionis. l . Devotio enim, ut dictum est [a. l ], ad hoc pertinet quod aliquis Deo se tradat. Sed hoc maxime fit per caritatem, quia, ut Dionysius dicit, 4 cap. De div. nom. [ 1 3], divinus amor

extasimfacit, non sinens amantes sui ipsorum esse, sed eorum quae amant. Ergo devotio magis est actus caritatis quam religionis. Praeterea, caritas praecedit religionem. Devotio autem videtur praecedere caritatem, quia caritas in Scripturis significatur per ignem, devotio vero per pinguedinem, quae est ignis materia. Ergo devotio non est actus religioni s. 3. Praeterea, per religionem homo ordinatur solum ad Deum, ut dictum est [q. 8 1 a. 1 ] . Sed devotio etiam habetur ad hornines, dicun­ tur enim aliqui esse devoti aliquibus sanctis

2.

di Israele offrì le primizie al Signore con animo prontissimo e devoto. Ora, è evidente

Articolo

2

La devozione è un atto della virtù di religione? Sembra di no. Infatti: l . Come si è detto, la devozione consiste nel darsi a Dio. Ora, ciò si compie specialmente mediante la carità: secondo Dionigi infatti «l'a­ more di Dio produce l'estasi, poiché l'amore non permette a chi ama di appartenere a se stes­ so, ma alla persona amata>>. Perciò la devozio­ ne è più un atto della carità che della religione. 2. La carità precede la religione. La devozione invece sembra precedere la carità, poiché nella sacra Scrittura [Ct 8,6] la carità è paragonata al fuoco, la devozione invece alla pinguedine [Sal 62,6], che è il suo alimento. Quindi la devozione non è un atto della religione. 3. Dalla religione l' uomo è ordinato solo a Dio, come si è visto. Invece la devozione può riferirsi anche agli uomini: ci sono infatti al­ cuni che sono devoti di certi santi ; si dice

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La devozione

viris; et etiam subditi dicuntur esse devoti do­ minis suis, sicut Leo Papa [Sermones 59,2] dicit quod Iudaei, quasi devoti Romanis legi­ bus, dixerunt [Ioan. 1 9, 1 5] , non habemus regem nisi Caesarem. Ergo devotio non est actus religionis. Sed contra est quod devotio dicitur a devo­ vendo, ut dictum est [a. 1 ] . Sed votum est actus religionis. Ergo et devotio. Respondeo dicendum quod ad eandem virtu­ tem pertinet velle facere aliquid, et promptam voluntatem habere ad illud faciendum, quia utriusque actus est idem obiectum. Propter quod philosophus dicit, in 5 Ethic. [ 1,3], iusti­ tia est qua volunt homines et operantur iusta. Manifestum est autem quod operari ea quae pertinent ad divinum cultum seu famulatum pertinet propiie ad religionem, ut ex praedic­ tis [q. 8 1 ] patet. Unde etiam ad eam pertinet habere promptam voluntatem ad huiusmodi exequenda, quod est esse devotum. Et sic patet quod devotio est actus religionis. Ad piimum ergo dicendum quod ad caiitatem pertinet immediate quod homo tradat seipsum Deo adhaerendo ei per quandam spiritus unionem. Sed quod homo tradat seipsum Deo ad aliqua opera divini cultus, hoc immediate pertinet ad religionem, mediate autem ad caii­ tatem, quae est religionis principium. Ad secundum dicendum quod pinguedo cor­ poralis et generatur per calorem naturalem digerentem; et ipsum naturalem calorem con­ servat quasi eius nutiimentum. Et sirniliter caiitas et devotionem causat, inquantum ex amore aliquis redditur promptus ad servien­ dum amico; et etiam per devotionem caiitas nutiitur, sicut et quaelibet amicitia conserva­ tur et augetur per amicabilium operum exerci­ tium et meditationem. Ad tertium dicendum quod devotio quae ha­ betur ad sanctos Dei, mortuos vel vivos, non terminatur ad ipsos, sed transit in Deum, inquantum scilicet in ministiis Dei Deum ve­ neramur. Devotio autem quam subditi dicun­ tur habere ad dominos temporales alteiius est rationis, sicut et temporalibus dominis fa­ mulaii differt a famulatu divino.

Q. 82, A. 2

inoltre dei sudditi che sono devoti ai loro go­ vernanti, come Leone papa afferma dei Giu­ dei, i quali dissero di «non avere altro re al­ l' infuori di Cesare in quanto devoti alle leggi romane». Quindi la devozione non è un atto della religione. In contraiio: devozione viene da devovere, co­ me si è visto. Ma il voto è un atto di religione. Quindi anche la devozione. Risposta: spetta a una medesima virtù il voler fare una cosa e l'avere la pronta volontà di farla: poiché i due atti hanno il medesimo oggetto. Da cui l'affermazione del Filosofo: «La giustizia è quella virtù con la quale gli uomini vogliono e compiono cose giuste». Ora, è evidente da quanto già detto che il compiere ciò che riguarda il culto e il servizio di Dio appartiene alla religione. Quindi ad es­ sa appartiene anche l'avere prontezza di vo­ lontà nel compiere tali cose, cioè l' essere devoti. Perciò è evidente che la devozione è un atto della virtù di religione. Soluzione delle difficoltà: l . Spetta immedia­ tamente alla caiità il far sì che l 'uomo si doni a Dio aderendo a lui secondo una certa unio­ ne spiiituale. Ma il far sì che un uomo doni se stesso a Dio con degli atti di culto spetta immediatamente alla virtù di religione; me­ diatamente però alla caiità, che è il principio della religione. 2. La pinguedine del corpo è prodotta dal calo­ re naturale della digestione, e a sua volta con­ serva il calore naturale quale suo alimento. Paiimenti la caiità produce la devozione, poi­ ché uno è reso pronto dall'amore a servire l'a­ mico, e d'altra parte la caiità viene alimentata dalla devozione, come anche qualsiasi amici­ zia viene conservata e accresciuta dalla presta­ zione e dallo scambio di favoii amichevoli. 3. La devozione verso persone sante, vive o defunte, non ha il suo termine in esse, ma in Dio: poiché nei servi di Dio veneriamo Dio stesso. La devozione poi attiibuita ai sudditi nei riguardi delle autorità civili è di un altro genere: come è anche di un genere diverso dal servizio divino quello che viene prestato alle autorità civili.

Q. 82, A. 3

La devozione

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Articulus 3 Utrum contemplatio, seu meditatio, sit devotionis causa

Articolo 3 La contemplazione o meditazione è la causa della devozione?

Ad tertium sic proceditur. Vìdetur quod con­ templatio, seu meditatio, non sit devotionis causa. l . Nulla enim causa impedit suum effectum. Sed subtiles meditationes intelligibilium mul­ toties devotionem impediunt. Ergo contempla­ tio, seu meditatio, non est devotionis causa. 2. Praeterea, si contemplatio esset propria et per se devotionis causa, oporteret quod ea quae sunt altioris contemplationis magis devo­ tionem excitarent. Huius autem contrarium apparet, frequenter enim maior devotio exci­ tatur ex consideratione passionis Christi, et aliis mysteriis humanitatis ipsius, quam ex consideratione divinae magnitudinis. Ergo contemplatio non est propria devotionis causa. 3 . Praeterea, si contemplatio esset propria causa devotionis, oporteret quod illi qui sunt magis apti ad contemplationem essent etiam magis apti ad devotionem. Huius autem con­ trarium videmus, quia devotio frequenter ma­ gis invenitur in quibusdam simplicibus viris et in femineo sexu, in quibus invenitur contem­ plationis defectus. Ergo contemplatio non est propria causa devotionis. Sed contra est quod in Ps. [38,4] dicitur, in meditatione mea exardescet ignis. Sed ignis spiritualis causat devotionem. Ergo meditatio est devotionis causa. Respondeo dicendum quod causa devotionis extrinseca et principalis Deus est; de quo dicit Ambrosius, Super Luc. [7 super 9,53], quod

Sembra di no. Infatti: l . Nessuna causa impedisce il proprio effetto. Ma le sottili elucubrazioni spesso impedisco­ no la devozione. Quindi la contemplazione o meditazione non è la causa della devozione. 2. Se la contemplazione fosse la causa propria e diretta della devozione, bisognerebbe che gli oggetti della più alta contemplazione fos­ sero i più adatti a eccitare la devozione. Inve­ ce l'esperienza dimostra il contrario: spesso infatti nasce più devozione dal considerare la passione di Cristo, e gli altri misteri della sua umanità, che dal considerare la grandezza di Dio. Quindi la contemplazione non è la causa propria della devozione. 3. Se la contemplazione fosse la causa propria della devozione bisognerebbe che i più prepa­ rati a contemplare siano anche i più disposti alla devozione. Invece si riscontra il contrario: poiché la devozione è più frequente negli uomini semplici e nelle donne, in cui vi è una deficienza di contemplazione. Quindi la con­ templazione non è la causa propria della devozione. In contrario: nel Sa/ 38 [4] si dice: Nella mia meditazione divamperà il fuoco. Ma il fuoco spirituale causa la devozione. Quindi la medi­ tazione causa la devozione. Risposta: la causa estrinseca e principale della devozione è Dio; a proposito del quale Ambrogio afferma che «Dio chiama quelli che si degna di chiamare, e rende religioso chi vuole; e se avesse voluto avrebbe reso devoti i samaritani indevoti». Ma la causa intrinseca da parte nostra deve essere la meditazione, o contemplazione. Infatti, come si è notato, la devozione è un certo atto della volontà che rende pronti a dedicarsi al servizio di Dio. Ora, ogni atto della volontà deriva da qualche considerazione, poiché l'oggetto della volontà è il bene conosciuto dall' intelletto: per cui Agostino insegna che il volere nasce dall'in­ tendere. Quindi è necessario che la meditazio­ ne sia la causa della devozione: poiché l'uo­ mo concepisce il proposito di consacrarsi al servizio di Dio mediante la meditazione. - E su questo proposito influiscono due conside­ razioni. La prima è relativa alla bontà di Dio e

Deus quos dignatur vocat, et quem vult reli­ giosum facit, et si voluisset, Samaritanos ex indevotis devotos fecisset. Causa autem intrin­ seca ex parte nostra, oportet quod sit meditatio seu contemplatio. Dictum est enim [a. l ] quod devotio est quidam voluntatis actus ad hoc quod homo prompte se tradat ad divinum obsequium. Omnis autem actus voluntatis ex aliqua consideratione procedit, eo quod bo­ num intellectum est obiectum voluntatis, unde et Augustinus dicit, in libro De Trin. [9,1 2; 1 5,23], quod voluntas oritur ex intelligentia. Et ideo necesse est quod meditatio sit devotionis causa, inquantum scilicet per meditationem homo concipit quod se tradat divino obsequio. - Ad quod quidem inducit duplex considera-

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pertinent ad Christi humanitatem, per modum cuiusdam manuductionis, maxime devotio­ nem excitant, cum tamen devotio principaliter circa ea quae sunt divinitatis consistat. Ad tertium dicendum quod scientia, et quid­ quid aliud ad magnitudinem pertinet, occasio est quod homo confidat de seipso, et ideo non totaliter se Deo tradat. Et inde est quod huius­ modi quandoque occasionaliter devotionem impediunt, et in simplicibus et mulieribus devotio abundat, elationem comprimendo. Si tamen scientiam, et quamcumque aliam per­ fectionem, homo perfecte Deo subdat, ex hoc ipso devotio augetur.

ai suoi benefici, secondo le parole del Sal 72 [28]: Il mio bene è stare vicino a Dio, riporre la mia speranza nel Signore Dio. E questa considerazione eccita l' amore, che è la causa prossima della devozione. - La seconda è in­ vece relativa all'uomo, il quale considera le sue deficienze, per cui ha bisogno di appog­ giarsi a Dio, secondo le parole del Sal 1 20 [ 1 ] : Ho alzato gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l'aiuto. Il mio aiuto viene dal Signo­ re, che ha fatto cielo e terra. E questa consi­ derazione esclude la presunzione, che ostaco­ la la sottomissione dell'uomo a Dio facendolo contare sulle proprie forze. Soluzione delle difficoltà: l . La considerazio­ ne di quanto serve a suscitare l'amore di Dio causa la devozione. La considerazione invece di cose di altro genere, che distraggono la mente, impedisce la devozione. 2. Le perfezioni divine di per sé sono ciò che suscita maggiormente l ' amore, e quindi la devozione: poiché Dio è degno di essere amato sopra ogni cosa. Ma la debolezza della mente umana fa sì che, come nella conoscenza delle cose di Dio, così anche nell'amore l'uo­ mo sia nella necessità di essere condotto quasi per mano mediante le realtà sensibili a noi più note. E tra queste la principale è l'umanità di Cristo, come appare da quelle parole del Prefazio di Natale: «Perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all' a­ more delle realtà invisibili». Di conseguenza le cose riguardanti l'umanità di Cristo eccita­ no al massimo la devozione, come conducen­ do per mano; tuttavia la devozione ha di mira principalmente le perfezioni divine. 3. La scienza e tutto ciò che può dare presti­ gio è un'occasione offerta all'uomo per confi­ dare in se stesso, e quindi per non darsi total­ mente a Dio. E così tutto ciò talora impedisce occasionalmente la devozione; mentre questa abbonda nei semplici e nelle donne, con la mortificazione dell'orgoglio. Se però un uo­ mo sottomette a Dio perfettamente la scienza e ogni altra perfezione, per ciò stesso la devo­ zione viene accresciuta.

Articulus 4 Utrum laetitia sit devotionis effectus

Articolo 4 L'effetto della devozione è la gioia?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod lae­ titia non sit devotionis effectus.

Sembra di no. Infatti: l . La passione di Cristo eccita in modo parti-

tio. Una quidem quae est ex parte divinae bonitatis et beneficiorum ipsius, secundum illud Ps. [72,28], mihi adhaerere Deo bonum est, ponere in Domino Deo spem meam. Et haec consideratio excitat dilectionem, quae est proxima devotionis causa. - Alia vero est ex parte horninis considerantis suos defectus, ex quibus indiget ut Deo innitatur, secundum illud Ps. [ 1 20, 1 -2] , levavi oculos meos in

montes, unde veniet auxilium mihi. Auxilium meum a Domino, qui jècit caelum et terram. Et haec consideratio excludit praesumptio­ nem, per quam aliquis impeditur ne Deo se subiiciat, dum suae virtuti innititur. Ad primum ergo dicendum quod considera­ rio eorum quae nata sunt dilectionem Dei ex­ citare, devotionem causant. Consideratio ve­ ro quorumcumque ad hoc non pertinentium, sed ab his mentem distrahentium, impedit devotionem. Ad secundum dicendum quod ea quae sunt divinitatis sunt secundum se maxime excitan­ tia dilectionem, et per consequens devotio­ nem, quia Deus est super omnia diligendus. Sed ex debilitate mentis humanae est quod sicut indiget manuduci ad cognitionem divi­ norum, ita ad dilectionem, per aliqua sensibi­ lia nobis nota. Inter quae praecipuum est humanitas Chri sti , secundum quod i n Praefatione [Natal. Dom.] dicitur, ut dum visi­

biliter Deum cognoscimus, per hunc in invisi­ bilium amorem rapiamur. Et ideo ea quae

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La devozione

l . Quia, ut dictum est [a. 3 ad 2], passio Christi praecipue ad devotionem excitat. Sed ex eius consideratione consequitur in anima quaedam afflictio, secundum illud Thren. 3 [ 1 9], recar­

dare paupertatis meae, absinthii et fellis, quod pertinet ad passionem; et subditur [20],

memoria menwr ero, et tabescet in me anima mea. Ergo delectatio, sive gaudium, non est devotionis effectus. 2. Praeterea, devotio praecipue consistit in interiori sacrificio spiritus. Sed in Ps. [50, 19] dicitur, sacrificium Deo spiritus contribulatus. Ergo afflictio magis est devotionis effectus quam iucundita>. Ma capita che alcuni prorompano in lacrime per la devozione. Quindi la letizia, o gaudio, non è l'effetto del­ la devozione. In contrario: in una colletta si legge: . Soluzione delle difficoltà: l . Come spiega Cipriano, «noi non diciamo "Padre mio", ma "nostro", non "dammi", ma "dacci", proprio perché il Maestro dell'unità non ha voluto che si facesse la preghiera in forma privata, cioè pregando ognuno soltanto per se stesso. Volle infatti che ciascuno pregasse per tutti, così come lui stesso portò nella sua unica persona il peso di tutti». 2. Pregare per sé è una condizione necessaria non già per il merito, ma per l'efficacia sicura nell'impetrare. Capita infatti talora che la pre­ ghiera fatta per gli altri non impetri la grazia, anche se è fatta con pietà, con perseveranza e per cose relative alla salvezza eterna, a causa dell'impedimento esistente dalla parte dell'in­ teressato. In Ger 1 5 [ l ] infatti si legge: Anche

se Mosè e Samuele si presentassero davanti a me, la mia anima non si volgerebbe verso questo popolo. Tuttavia la preghiera rimane meritoria per chi prega mosso dalla carità. Infatti a proposito delle parole del Sal 34 [ 1 3]:

Si trasformerà nel mio petto la mia preghiera,

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Ad tertium dicendum quod etiam pro pecca­ toribus orandum est, ut convertantur, et pro iustis, ut perseverent et proficiant. Orantes tamen non pro omnibus peccatoribus exau­ diuntur, sed pro quibusdam, exaudiuntur enim pro praedestinatis, non autem pro praescitis ad mortem. Sicut etiam correctio qua fratres corrigimus, effectum habet in praedestinatis, non i n reprobatis, secundum i llud Eccle. 7 [ 1 4], nemo potest corrigere quem Deus de­ spexelit. Et ideo dicitur l Ioan. 5 [ 1 6], qui scit fratrem suum peccare peccato non ad mor­ tem, petat, et dabitur ei vita peccanti pecca­ rum non ad mortem. Sed sicut nulli, quandiu hic vivit, subtrahendum est correctionis bene­ ficium, quia non possumus distinguere prae­ destinatos a reprobatis, ut Augustinus dicit, in libro De corr. et gratia [ 1 5]; ita etiam nulli est denegandum orationis suffragium. - Pro iustis etiam est orandum, triplici ratione. Primo qui­ dem, quia multomm preces facilius exaudiun­ tur. Unde Rom. 15 [30], super illud, adiuvetis me in orationibus vestris, dicit Glossa [ord. et Lomb.; Ambrosiaster, In Rom. super 1 5,30], bene rogat apostolus minores pro se orare. Multi enim minimi, dum congregantur unani­ mes, fiunt magni, et multorum preces impossi­ bile est quod non impetrent, illud scilicet quod est impetrabile. Secundo, ut ex multis gratia agatur Deo de beneficiis quae confert iustis, quae etiam in utilitatem multorum ver­ gunt, ut patet per apostolum, 2 ad Cor. l [ 1 1 ] . Tertio, u t maiores non superbiant, dum consi­ derant se minorum suffragiis indigere.

la Glossa commenta: «cioè sebbene essa non abbia loro giovato, io tuttavia non ho perduto la mia mercede». 3. Si deve pregare sia per i peccatori, perché si convertano, sia per i giusti, perché perseverino e progrediscano nella virtù. Tuttavia quelli che pregano non vengono esauditi per tutti i pec­ catori, ma per alcuni: vengono infatti esauditi per i predestinati, non già per coloro di cui Dio ha previsto la mm1e eterna. Come anche la correzione fraterna ha effetto sui predestinati, e non invece sui futuri reprobi, come è detto in Sir 7 [ 1 4]: Nessuno può correggere ciò che Dio ha disprezzato. E perciò in l Gv 5 [ 1 6] è detto: Se uno vede il proprio fratello commet­ tere un peccato che non conduce alla mone, preghi e Dio gli darà la vita: si intende a colo­ ro che commettono un peccato che 1wn condu­ ce alla morte. Perciò, come a nessuno finché vive si deve negare il beneficio della correzio­ ne fraterna, poiché non possiamo distinguere i predestinati dai riprovati, secondo l'insegna­ mento di Agostino, così a nessuno si deve ne­ gare il suffragio della preghiera. - E si deve pregare anche per i giusti, per tre motivi. Pri­ mo, perché le preghiere collettive sono esaudi­ te più facilmente. Per cui, commentando le parole di Rm 1 5 [30]: Aiutatemi nelle vostre preghiere, la Glossa afferma: «Giustamente Paolo chiede ai fratelli più umili di pregare per lui. Poiché i molti, anche se minimi, quando sono uniti insieme diventano grandi: e le pre­ ghiere collettive è impossibile che non otten­ gano» (quello, si intende, che è ottenibile). Se­ condo, affinché siano molti a ringraziare Dio dei benefici concessi ai giusti, e che ridondano a vantaggio di un gran numero di persone: co­ me è evidente da quanto Paolo scrive in 2 Cor l [ I l ]. Terzo, affinché le anime grandi non si insuperbiscano, considerando che hanno biso­ gno delle preghiere delle persone più umili.

Articulus 8 Utrum debeamus pro inimicis orare

Articolo 8 Siamo tenuti a pregare per i nemici?

Ad octavum sic proceditur. Vìdetur quod non debeamus pro inimicis orare. l . Quia, ut dicitur Rom. 15 [4], quaecumque scripta sunt, ad nostram doctrinam scripta sunt. Sed in sacra Scriptura inducuntur multae imprecationes contra inimicos, dicitur enim in Ps. [6,1 1], erubescant et conturbentur omnes

Sembra di no. Infatti: l . Come è detto in Rm 15 [4], tutto ciò che è stato scritto, è stato sc1itto per nostro ammae­ stramento. Ora, nella sacra Scrittura vengono riportate molte imprecazioni contro i nemici. Infatti, nel Sal 6 [ I l ] è detto: Arrossiscano e tremino tutti i miei nemici; indietreggino e ar-

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inimici mei, erubescant et conturbentur va/de velociter. Ergo et nos debemus orare contra

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mssiscano all'istante. Anche noi dunque dob­

inimicos, magis quam pro eis. 2. Praeterea, vindicari de inimicis in malum inimicorum cedit. Sed sancti vindictam de inimicis petunt, secundum illud Apoc. 6 [ l 0],

biamo pregare contro i nemici, piuttosto che in loro favore. 2. La vendetta ottenuta sui nemici ridonda a loro danno. Eppure i santi chiedono una simi­ le vendetta, come è detto in Ap 6 [ 10] : Fino a

usquequo non vindicas sanguinem nostrum de his qui habitant in terra? Unde et de vin­

quando non vendicherai il nostro sangue so­ pra gli abitanti della terra? Per cui anche si

dicta impiorum laetantur, secundum illud Ps. [57, 1 1 ], laetabitur iustus cwn viderit vindic­ tam. Ergo non est orandum pro inimicis, sed magis contra eos. 3 . Praeterea, operatio hominis et eius oratio non debent esse contraria. S ed homines quandoque licite i mpugnant inimicos, alio­ quin omnia bella essent illicita, quod est con­ tra supradicta [q. 40 a. 1 ] . Ergo non debemus orare pro inimicis. Sed contra est quod dicitur Matth. 5 [44] , ora­

rallegrano della vendetta sugli empi, secondo le parole del Sal 57 [ 1 1 ] : Il giusto godrà nel vedere la vendetta. Perciò non si deve pregare per i nemici, ma piuttosto contro di essi. 3. Le azioni di un uomo non devono essere in contrasto con le sue preghiere. Ma in certi cac;i gli uomini combattono lecitamente i nemici: altrimenti tutte le guerre sarebbero illecite, contro quanto abbiamo dimostrato. Quindi non siamo tenuti a pregare per i nemici. In contrario: in Mt 5 [44] si legge: Pregate

te pro persequentibus et calumniantibus vos.

per i vostri persecutori e per coloro che vi calunniano.

Respondeo dicendum quod orare pro alio cari­ tatis est, sicut dictum est [a. 7]. Unde eodem modo quo tenemw· diligere inimicos, tenemur pro inimicis orare. Qualiter autem teneamur inimicos diligere supra [q. 25 aa. 8-9] habitum est, in tractatu de caritate, ut scilicet in eis dili­ gamus naturam, non culpam; et quod diligere inimicos in generali est in praecepto, in spe­ ciali autem non est in praecepto nisi secundum praeparationem animi, ut scilicet homo esset paratus etiam specialiter inimicum diligere et eum iuvare in necessitatis articulo, vel si ve­ niam peteret; sed in speciali absolute inimicos diligere et eos iuvare perfectionis est. Et simi­ liter necessitatis est ut in communibus nostris orationibus quas pro aliis facimus, inimicos non excludamus. Quod autem pro eis speciali­ tec oremus, perfectionis est, non necessitatis, nisi in aliquo casu speciali. Ad primum ergo dicendum quod imprecatio­ nes quae in sacra Scriptura ponuntur quadru­ pliciter possunt intelligi. Uno modo, secundum quod pmphetae solentfigura imprecantis futtt­ ra praedicere, ut Augustinus dicit, in libro De serm. Dom. [ 1 ,2 1 ] . Secundo, prout quaedam temporalia mala peccatoribus quandoque a Deo ad correctionem immittuntur. Tertio, quia intelligunntr petere non contra ipsos homines, sed contra regnum peccati, ut scilicet correctio­ ne hominum peccatum destruatur. Quarto, con­ formando voluntatem suam divinae iustitiae circa damnationem perseverantium in peccato.

Risposta: come sopra si è detto, pregare per gli altri appartiene alla carità. Perciò, come siamo tenuti ad amare i nemici, così siamo tenuti a pregare per loro. Ora, nel trattato sulla carità abbiamo già visto in che modo siamo tenuti ad amare i nostri nemici: siamo tenuti cioè ad amare in essi la natura, non la colpa; per cui amarli in generale è di precetto, mentre amarli in pruticolare non è di precetto, se non come predisposizione dell'animo: cioè nel senso che saremmo disposti ad amare il nemico in modo speciale e ad aiutarlo qualora capitassero dei casi di necessità, oppure se chiedesse perdono; amare invece di un amore speciale i nemici e aiutarli a prescindere da questi casi particolari è proprio dei perfetti. Parimenti dunque è stretto dovere non escludere i nemici dalle preghiere generali che facciamo per gli altri. Invece pre­ gare in modo speciale per essi è di consiglio e non di precetto, salvo casi particolari. Soluzione delle difficoltà: l . Le imprecazioni che riscontriamo nella sacra Scrittura si pos­ sono spiegare in quattro modi. Primo, nel senso che «i profeti sono soliti predire il futuro a mo­ do di imprecazione», come nota Agostino. Se­ condo, in quanto talora Dio manda ai peccatori dei mali temporali per correggerli. Terzo, nel senso che tali richieste non sono rivolte contro le persone, ma contro il regno del peccato: cioè affinché con la cmrezione dell'uomo venga di­ strutto il peccato. Quarto, conformando la pro-

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Ad secundum dicendum quod, sicut in eodem libro [De serrn. Dom. l ,22] Augustinus dici t,

vindicta martyrum est ut evertatur regnum peccati, quo regnante tanta pe1pessi sunt. Vel, sicut dicitur in libro De quaest. Vet. et Novi Test. [cf. Ambrosiaster, P. l , ex Nov. Test q.

68], postulant se vindicari non voce, sed ratione, sicut sanguis Abel c/amavit de terra.

Laetantur autem de vindicta non propter eam, sed propter divinam iustitiam. Ad tertium dicendum quod licitum est impu­ gnare inimicos ut compescantur a peccatis, quod cedit in bonum eorum et aliorum. Et sic etiam licet orando petere aliqua temporali a mala inirnicorum u t corrigantur. E t sic oratio et operatio non erunt contraria.

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pria volontà alla giustizia di Dio relativamente alla dannazione di chi persevera nel peccato. 2. Come scrive Agostino, «la vendetta dei mar­ tiri consiste nella rovina del regno del peccato, sotto la cui tirannide essi hanno tanto sofferto». Oppure, come dice altrove, «essi chiedono di essere vendicati non con una preghiera espres­ sa, ma con il loro stato: come il sangue di Abele tàceva sentire il suo grido dalla terra>>. Della rivincita poi essi si rallegrano non per la veJ!detta in se stessa, ma per la divina giustizia. 3. E lecito combattere i nemici per distoglierli dai peccati: cosa che ridonda al bene loro e degli altri. E così pure è lecito chiedere per essi nella preghiera dei mali temporali perché si ravvedano. In tal modo dunque la preghiera e l ' azione non sono in contrasto. Articolo

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Utrum convenienter septem petitiones orationis dominicae assignentur

Sono ben formulate le sette domande del Padre Nostro?

Ad nonum sic proceditur. Videtur quod in­ convenienter septem petitiones orationis do­ rninicae assignentur. l . Vanum enim est petere illud quod semper est. Sed nomen Dei semper est sanctum, secundum illud Luc. l [49], sanctum nomen eius. Regnum etiam eius est sempiternum, secundum illud Psalmo [ 1 44, 1 3] , regnum

Sembra di no. Infatti: l . È vano chiedere cose che sono sempre in at­ to. Ma il nome di Dio è sempre santo, secondo le parole di Le l [49]: Santo è il suo nome. D suo regno poi è eterno, secondo il Sal i44 [ 1 3]: Il tuo regno è regno di tutti i secoli. Così pure la volontà di Dio si adempie sempre, come è detto in /s 46 [ 1 0] : lo compirò ogni mia volontà. Perciò è cosa vana chiedere che il nome di Dio sia santificato, che il suo regno venga e che la sua volontà siafatta. 2. L' allontanamento dal male precede il con­ seguimento del bene. Perciò sembra illogico presentare le domande che riguardano il con­ seguimento del bene prima di quelle che si riferiscono alla rimozione del male. 3. Le domande si fanno per avere qualcosa in dono. Ma il principale dono di Dio è lo Spirito Santo, con i donativi che ne derivano. Quindi le domande non sono ben formulate, non cor­ rispondendo ai doni dello Spirito Santo. 4. In Le 1 1 [2 ss] il Padre Nostro contiene cin­ que sole domande. Perciò nelle sette doman­ de che troviamo in Mt 6 [9 ss.] ce ne sono di SURerflue. 5. E vano il tentativo di accattivarsi la benevo­ lenza di una persona che con la sua benevo­ lenza ci previene. Ora, Dio ci previene con la sua benevolenza: poiché egli ci ha amati per primo (l Gv 4,1 0). Quindi è superflua la pre-

tuum, Domine, regnum omnium saeculorum. Voluntas etiam Dei semper impletur, secun­ dum illud lsaiae 46 [ 1 0], omnis voluntas mea .fiet. Vanum ergo est petere quod nomen Dei sanctificetur, quod regnum eius adveniat, et quod eius voluntasfiat. 2. Praeterea, prius est recedere a malo quam consequi bonum. Inconvenienter igitur viden­ tur praeordinari petitiones quae pertinent ad consequendum bonum, petitionibus quae per­ tinent ad amotionem mali. 3. Praeterea, ad hoc aliquid petitur ut donetur. Sed praecipuum donum Dei est Spiritus San­ ctus, et ea quae nobis per ipsum dantur. Ergo videntur inconvenienter proponi petitiones, cum non respondeant donis Spiritus Sancti. 4. Praeterea, secundum Lucam in oratione dominica ponuntur solum quinque petitiones, ut patet Luc. I l [2]. S uperfluum igitur fuit quod secundum Matthaeum [6,9 sqq.] septem petitiones ponuntur. 5. Praeterea, in vanum videtur captare bene-

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volentiam eius qui benevolentia sua nos prae­ venit. Sed Deus nos sua benevolentia praeve­ nit, quia ipse prior dilexit nos, ut dicitur l Ioan. 4 [ l 0]. Superflue ergo praernittitur petitionibus, Pater 1wster, qui es in caelis, quod videtur ad benevolentiam captandam pertinere. Sed in contrarium sufficit auctoritas Christi orationem instituentis. Respondeo dicendum quod oratio dominica perfectissima est, quia, sicut Augustinus dicit, ad Probam [ep. 130,12], si recte et congruenter

oramus, nihil aliud dicere possumus quam quod in ista oratione dominica positum est. Quia enim oratio est quodammodo desiderii nostri interpres apud Deum, illa solum recte orando petimus quae recte desiderare valemus. In oratione autem dominica non solum petun­ tur omnia quae recte desiderare possumus, sed etiam eo ordine quo desideranda sunt, ut sic haec oratio non solum instruat postulare, sed etiam sit informativa totius nostri affectus. Manifestum est autem quod primo cadit in desiderio finis; deinde ea quae sunt ad finem. Finis autem noster Deus est. In quem noster affectus tendit dupliciter, uno quidem modo, prout volumus gloriam Dei; alio modo, secun­ dum quod volumus frui gloria eius. Quorum primum pertinet ad dilectionem qua Deum in seipso diligimus, secundum vero pettinet ad dilectionem qua diligimus nos in Deo. Et ideo prima petitio ponitur, sanctificetur nomen tuwn, per quam petimus gloriam Dei. Secunda vero ponitur, adveniat regnum tuum, per quam petimus ad gloriam regni eius pervenire. - Ad finem autem praedictum ordinat nos aliquid dupliciter, uno modo, per se; alio modo, per accidens. Per se quidem, bonum quod est utile in finem. Est autem aliquid utile in finem beatitudinis dupliciter. Uno modo, directe et principaliter, secundum meritum quo beatitudi­ nem meremur Deo obediendo. Et quantum ad hoc ponitur,fiat voluntas tua, sicut in caelo, et in tenu. - Ali o modo, instrumentaliter, et quasi coadiuvans nos ad merendum. Et ad hoc perti­ net quod dicitur, panem nostrum quotidianum da nobis hodie, sive hoc intelligatur de pane sacramentali, cuius quotidianus usus proficit hornini, in quo etiam intelliguntur ornni a alia sacramenta; sive etiam intelligatur de pane cor­ porali, ut per panem intelligatur omnis suffi­ cientia victus, sicut dicit Augustinus, ad Probam [ep. 130, 1 1]; quia et Eucharistia est

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messa: «Padre nostro che sei nei cieli», che sembra intesa ad accattivarsi la benevolenza. In contrario: basta l'autorità di Cristo che ha istituito questa preghiera. Risposta: la preghiera del Padre Nostro è per­ fettissima: poiché, come dice Agostino, «Se preghiamo bene non possiamo dire altro che quanto è stato formulato in questa preghiera del Signore». Infatti nella preghiera chiedia­ mo rettamente quello che siamo capaci di ret­ tamente desiderare, poiché la preghiera è co­ me l ' interprete del nostro desiderio presso Dio. Ora, nella Preghiera del Signore non so­ lo vengono domandate tutte le cose che pos­ siamo rettamente desiderare, ma anche nel­ l'ordine in cui vanno desiderate: per cui que­ sta preghiera non solo insegna a chiedere, ma altresì plasma tutti i nostri affetti. - Ora, è evi­ dente che il primo oggetto del desiderio è il fine, a cui seguono i mezzi per raggiungerlo. Ma il nostro tine è Dio, al quale il nostro af­ fetto può tendere in due modi: primo, volendo la gloria di Dio; secondo, desiderando di go­ dere della sua gloria. n primo di questi atti si riferisce all'amore col quale amiamo Dio per se stesso, il secondo invece all'amore col qua­ le amiamo noi stessi in Dio. Da cui la prima domanda: Sia santificato il tuo nome, con la quale chiediamo la gloria di Dio, e subito dopo la seconda: Venga il tuo regno, con la quale chiediamo di raggiungere la gloria del suo regno. - Ma al tine suddetto una cosa può predisporci o direttamente o indirettamente. Direttamente ci predispone il bene utile al raggiungimento del fine. Ora, una cosa può essere utile per il fine, che è la beatitudine, in due modi. Primo, direttamente e principal­ mente, mediante il merito, che ci fa guada­ gnare la beatitudine con l'obbedienza a Dio. E ad esso si riferisce la domanda: Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. - Se­ condo, strumentalmente e quasi aiutandoci a meritare. E a ciò si riferisce la domanda: Dac­ ci oggi il nostro pane quotidiano; sia che essa venga intesa del pane sacramentale, il cui uso quotidiano è vantaggioso per l'uomo, e nel quale vengono inclusi anche tutti gli altri sa­ cramenti; sia che venga intesa anche del pane materiale, indicando col pane «qualsiasi cibo necessario», secondo la spiegazione di Ago­ stino: poiché l'Eucaristia è il principale sacra­ mento, e il pane i l principale alimento. Infatti

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praecipuum sacramentum, et panis est praeci­ puus cibus, unde et in Evangelio Matthaei scriptum est [Matth. 6, 1 1], supersubstantialem, idest praecipuum, ut Hieronymus [In Matth. l super 6, I l] exponit. - Per accidens autem ordi­ namur in beatitudinem per remotionem pro­ hibentis. Tria autem sunt quae nos a beatitu­ dine prohibent. Primo quidem, peccatum, quod directe excludit a regno, secundum illud l ad Cor. 6 [9- 1 0], neque fomicarii, neque idolis servientes, etc., regnum Dei possidebunt. Et ad hoc pertinet quod dicitur, dimitte nobis debita nostra. Secondo, tentatio, quae nos impedit ab observantia divinae voluntatis. Et ad hoc pertinet quod dicitur, et ne nos inducas in ten­ tationem, per quod non petimus ut non tente­ mw·, sed ut a tentatione non vincamur, quod est in tentationem induci. - Tertio, poenalitas prae­ sens, quae impedit sufficientiam vitae. Et quantum ad hoc dicitur, libera nos a malo. Ad primum ergo dicendum quod, sicut Augu­ stinus dicit, in libro De serm. Dom. in monte [2,5], cum dicimus, sanctificetur nomen tuum, non hoc petitur quasi non sit sanctum Dei nomen, sed ut sanctum ab hominibus habea­ tur; quod pertinet ad Dei gloriam in homini­ bus propagandam. Quod autem dicitur, adve­ niat regnum tuum, non ila dictum est quasi Deus mmc non regnet [De senn. Dom. 2,6], sed, sicut Augustinus dicit, ad Probam [ep. 1 30,1 1], desiderium nostrum ad illud regnum excitamus, ut nobis veniat, atque in eo regne­ mus. Quod autem dicitur, .fiat voluntas tua, recte intelligitur, obediatur praeceptis tuis. Sicut in caelo et in terra, idest, sicut ab ange­ lis, ita ab hominibus [De serm. Dom. 2,6] . Unde hae tres petitiones perfecte complebun­ tur in vita futura, aliae vero quatuor pertinent ad necessitatem vitae praesentis, sicut Au­ gustinus dicit, in Enchiridio [ 1 15]. Ad secundum dicendum quod, cum oratio sit interpres desi derii , ordo petitionum non respondet ordini executionis, sed ordini desi­ derii sive intentionis, in quo prius est tinis quam ea quae sunt ad tinem, et consecutio boni quam remotio mali. Ad tertium dicendum quod Augustinus, in libro de Serm. Dom. in monte [2, 1 1], adaptat septem petitiones donis et beatitudinibus, dicens, si timor Dei est quo beati sunt paupe­ res spiritu, petamus ut sanctificetur in homini­ bus nomen Dei timore casto. Si pietas est qua -

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in Mt [6, 1 1 ] si parla del pane soprasostan­ ziale, cioè «principale», come spiega Giro­ lamo. - Indirettamente invece veniamo pre­ disposti alla beatitudine mediante la rimozio­ ne degli ostacoli. Ora, tre sono gli ostacoli che ci allontanano dalla beatitudine. Primo, i l peccato, che esclude direttamente dal Regno, come è detto in l Cor 6 [9 s.]: Né immorali, né idolatri... erediteranno il regno di Dio. Da cui la domanda: Rimetti a noi i nostri debiti. Secondo, la tentazione, che ci trattiene dal­ l'adempiere la divina volontà. E ad essa si ri­ ferisce la domanda: Non ci indurre in tenta­ zione, con la quale non chiediamo di non essere tentati in alcun modo, ma di non essere vinti dalla tentazione. - Terzo, le penalità della vita presente che sottraggono il necessa­ rio per vivere. E a ciò si riferisce la domanda: Liberaci dal male. Soluzione delle difficoltà: l . Come spiega Agostino, quando diciamo: Sia santificato il tuo nome, >. 2. Una cosa può essere male acquistata in due modi. Primo, perché è ingiusto l'acquisto me­ desimo, come è il caso dei beni acquistati con la rapina o con l'usura. E riguardo a questi beni l'uomo è tenuto alla restituzione, non già a pagarne le decime. Se tuttavia un campo fu comprato col danaro dell'usura, l ' usuraio è tenuto a pagare le decime dei suoi frutti: poi­ ché quei frutti non vengono dall'usura, ma dalla generosità di Dio. - Ci sono invece delle cose che si dicono male acquistate perché provengono da una fonte vergognosa, come dalla professione di meretrice, di istrione o altro del genere, e che non si è tenuti a resti­ tuire. Ora, di tali cose si è tenuti a dare le de­ cime come degli altri guadagni personali. Tut­ tavia la Chiesa non deve accettarle finché co­ storo rimangono nel peccato, per non essere creduta partecipe della loro colpa; dopo la conversione però può accettare tali decime. 3. Ciò che è ordinato a un fine va giudicato in base alla sua corrispondenza a tale fine. Ora, il pagamento delle decime è dovuto non per se stesso, ma per i ministri del culto, alla cui dignità non si addice di reclammne anche le minuzie con meticolosa diligenza: ciò infatti, come spiega il Filosofo, sarebbe considerato riprovevole. Così l ' antica legge non deter­ minò che si pagassero le decime di questi prodotti minori, lasciando ciò all'arbitrio dei volenterosi: poiché le cose minime sono con­ siderate come un nulla. Ora i Farisei, arrogan­ dosi la perfetta giustizia secondo la legge, pagavano le decime anche di queste cose minute [Mt 23,23; Le 1 1 ,42]. Né dal Signore sono ripresi per questo, ma solo per il fatto che disprezzavano i precetti più importanti,

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Chrysostomus exponit [cf. Op. i mperf. i n Matth. h . 44 super 23,24]. Quod etiam videtur magis in quandam decentiam sonare quam in obligationem. Unde et nunc de huiusmodi minutis non tenentur homines decimas dare, nisi forte propter consuetudinem patriae. Ad quartum dicendum quod de his quae furto vel rapina tolluntur ille a quo auferuntur deci­ mas solvere non tenetur antequam recuperet, nisi fotte propter culpam vel negligentiam suam damnum incurrerit; quia ex hoc Ecclesia non debet darnnificari. - Si vero vendat triti­ curo non decimatum, potest Ecclesia decimas exigere et ab emptore, quia habet rem Eccle­ siae debitam; et a venditore, qui, quantum est de se, fraudavit Ecclesiam. Uno tamen solven­ te, alius non tenetur. - Debentur autem deci­ mae de fructibus terrae inquantum proveniunt ex divino munere. Et ideo decimae non cadunt sub tributo, nec etiam sunt obnoxiae mercedi operariorum. Et ideo non debent prius deduci tributa [cf. Decretai. Gregor. IX, l. 3, t. 30, c. 33] et pretium operariorum [cf. Decretai. Gregor. IX, l. 3, t. 30, c. 7] quam solvantur decimae, sed ante omnia debent decimae solvi ex integris fructibu s [cf. Decretai . Gregor. IX, l. 3, t. 30, c. 26].

cioè quelli di ordine spirituale. Anzi, della pratica in sé egli sembra piuttosto lodarli, dicendo: Queste cose bisognava praticare, cioè sotto la legge, aggiunge il Crisostomo. Espressione che sembra inoltre accennare più a una convenienza che a un obbligo. Perciò anche adesso di tali minuzie gli uomini non sono tenuti a dare le decime: a meno che l'uso del luogo non lo richieda. 4. Chi è derubato non è tenuto a pagare le decime delle cose di cui è stato rapinato o derubato, prima di ricuperarle; a meno che non sia incorso nel danno per sua colpa o negligenza: poiché in tal caso non deve essere danneggiata la Chiesa. - Se invece uno vende il grano senza averne prima dato la decima, la Chiesa può esigerla sia dal compratore, che si è impossessato di una cosa ad essa dovuta, sia dal venditore, il quale ha tentato di frodare la Chiesa. Ma quando uno ha versato, l' altro non è più tenuto. - Si noti inoltre che le deci­ me dei frutti sono dovute in quanto questi provengono dalla generosità di Dio. Quindi esse non sono soggette a imposta, e neppure sono sottomesse alla mercede dovuta agli operai. Non si possono quindi prima detrarre dai frutti i tributi e la paga degli operai e poi dare le decime, ma prima si devono pagare le decime dei frutti nella loro integrità.

Articulus 3 Utrum decimae sint clericis dandae

Articolo 3 Le decime vanno date ai chierici?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod deci­ mae non sint clericis dandae. l . Levitis enim in Veteri Testamento decimae dabantur quia non habebant aliquam partem in possessionibus populi, ut habetur Num. 1 8 [23-24]. Sed clerici i n Novo Testamento ha­ bent possessiones, et patrimoniales interdum, et ecclesiasticas. Recipiunt insuper primitias, et oblationes pro vivis et mortuis. Superfluum igitur est quod eis decimae dentur. 2. Praeterea, contingit quandoque quod ali­ quis habet domicilium in una parochia, et colit agros in alia; vel aliquis pastor ducit gre­ gem per unam partem anni in terminis unius parochiae, et alia parte anni in terminis alte­ rius; vel habet ovile in una parochia, et pascit oves in alia, in quibus et similibus casibus non videtur posse distingui quibus clericis sint decimae solvendae. Ergo non videtur quod

Sembra di no. Infatti : l . Nell' Antico Testamento ai Leviti erano date le decime poiché non usufruivano dei possessi come il resto del popolo (cf. Nm 1 8,23) . Ma nel Nuovo Testamento i chierici possono avere dei possessi, sia patrimoniali, in certi casi, sia ecclesiastici. Inoltre essi ricevono le primizie e le offerte per i vivi e per i morti. Quindi è troppo dare ad essi anche le decime. 2. Talora capita che uno abbia il domicilio in una parrocchia e i campi che coltiva in un'al­ tra; ci sono poi dei pastori che in una parte dell'anno pascolano il gregge entro i confini di una parrocchia e neli' altra parte deli' anno entro i confini di un'altra; oppure che hanno l'ovile in una parrocchia e i pascoli in un'al­ tra. Ora, in casi come questi non è possibile determinare i chierici a cui vanno pagate le decime. Quindi non sembra che le decime

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Le decime

aliquibus clericis determinate sint solvendae decimae. 3 . Praeterea, generalis consuetudo habet in quibusdam terris quod milites decimas ab Ecclesia in feudum tenent. Religiosi etiam quidam decimas accipiunt. Non ergo videtur quod solum clericis curam animarum haben­ tibus decimae debentur. Sed contra est quod dicitur Num. 1 8 [21 ],

filiis Levi dedi omnes decimas lsrael in pos­ sessionem, pm ministerio quo serviunt mihi in tabernaculo. Sed filiis Levi succedunt clerici in Novo Testamento. Ergo solis clericis deci­ mae debentur. Respondeo dicendum quod circa decimas duo sunt consideramla, scilicet ipsum ius accipien­ di decimas; et ipsae res quae nomine decimae dantur. lus autem accipiendi decimas spiritua­ le est, consequitur enim illud debitum quo ministris altaris debentur sumptus de ministe­ rio, et quo seminantibus spiritualia debentur temporalia; quod ad solos clericos pertinet habentes curam animarum. Et ideo eis solum competit hoc ius habere. Res autem quae nomine decimarum dantur, corporales sunt. Unde possunt in usum quorurnlibet cedere. Et sic possunt etiam ad laicos pervenire. Ad primum ergo dicendum quod in veteri lege, sicut dictum est [a. l ad 4], speciales quaedam decimae deputabantur subventioni pauperum. Sed in nova lege decimae clericis dantur non solum propter sui sustentationem, sed etiam ut ex eis subveniant pauperibus. Et ideo non supertluunt, sed ad hoc necessariae sunt et possessiones ecclesiasticae et oblatio­ nes et primitiae, simul cum decimis. Ad secundum dicendum quod decimae perso­ nales debentur Ecclesiae in cuius parochia homo habitat. Decimae vero praediales ratio­ nabiliter magis videntur pertinere ad Ecclesiam in cuius terminis praedia sita sunt. Tamen iura [cf. Decretai. Gregor. IX, l. 3, t. 30, cc. 1 8.20] determinant quod in hoc servetur consuetudo diu obtenta. Pastor autem qui diversis tempo­ ribus i n duabus parochiis gregem pascit, debet proportionaliter utrique Ecclesiae deci­ mas solvere. Et quia ex pascuis fructus gregis proveniunt, magi s debetur decima gregis Ecclesiae in cuius territorio grex pascitur, quam illi in cuius territorio ovile locatur. Ad tettium dicendum quod sicut res nomine decimae acceptas potest Ecclesi a alicui laico

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vadano pagate a determ inati membri del clero. 3. È consuetudine generale in certi paesi che i militari ricevano in feudo dalla Chiesa l a riscossione delle decime. E così pure c i sono dei religiosi che ricevono le decime. Perciò non sembra che le decime siano dovute sol­ tanto ai chierici in cura d'anime. In contrario: in Nm 1 8 [21] è detto: Ai figli di

Levi ho dato in possesso tutte le decime in Israele per il se1vizio che mi offivno nella ten­ da del convegno. Ma nel Nuovo Testamento ai

figli di Levi sono succeduti i chierici. Qtùndi le decime sono dovute soltanto ai chierici. Risposta: nelle decime si devono considerare due cose: il diritto di riscuoterle e i beni stessi che vengono offe1ti come decime. Ora, il di­ ritto di riscuotere le decime è spirituale: esso infatti deriva dal diritto che hanno i ministri dell'altare ai frutti del proprio ministero, per cui a chi semina i beni spirituali sono dovuti dei beni materiali [l Cor 9,1 1]; e ciò spetta soltanto ai chierici in cura d' anime. Quindi essi soli hanno questo diritto. Invece i beni che vengono offerti come decime sono di ordine materiale. Di essi perciò può usufruire chiun­ que. E così possono essere ceduti anche ai laici. Soluzione delle difficoltà: l . Nella legge anti­ ca c' erano delle decime patticolari per soc­ correre i poveri, come si è visto. Invece nella legge nuova le decime non vengono date ai chierici soltanto per il loro sostentamento, ma anche perché si provveda con esse al soccorso dei poveri. Esse quindi non sono eccessive: poiché per tale scopo sono necessari, con le decime, anche i possessi ecclesiastici, l e ablazioni e l e primizie. 2. Le decime personali sono dovute alla chiesa della patTocchia in cui uno abita. Invece le de­ cime prediali è più ragionevole che siano at­ tribuite alla chiesa entro i cui confini si trova­ no i possessi. Le leggi però stabiliscono che in ciò si segua la consuetudine già introdotta. n pastore poi che secondo le stagioni pasce il gregge in due diverse parrocchie, deve pagare proporLionalmente le decime all'una e all'al­ tra chiesa. E poiché i proventi del gregge deri­ vano dal pascolo, la decima di un gregge è do­ vuta più alla chiesa nel cui territorio esso pa­ scola che non a quella nel cui territorio ha l'ovile.

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tradere, ita etiam potest ei concedere ut dan­ das decimas ipsi accipiant, iure accipiendi ministris Ecclesiae reservato, sive pro neces­ sitate Ecclesiae, sicut quibusdam militibus decimae dicuntur in feudum per Ecclesiam concessae; sive etiam ad subventionem pau­ perum, sicut quibusdam religiosis laicis vel non habentibus curam animarum aliquae decimae sunt concessae per modum eleemo­ synae. Quibusdam tamen religiosis competit accipere decimas ex eo quod habent curam animarum.

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3. La Chiesa, come ha il potere di dare a un laico i beni ricevuti a titolo di decime, così ha anche il potere di cedergli la facoltà di riscuo­ terli, pur restando riservato ai ministri della Chiesa il diritto della riscossione. E ciò sia per le necessità della Chiesa, come pare siano state date certe decime in feudo a dei soldati, sia per soccorrere i poveri, come le decime concesse in elemosina a certi religiosi laici, o senza cura d'anime. Alcuni religiosi tuttavia hanno il diritto di riscuotere le decime essen­ do in cura d'anime.

Articulus 4

Articolo 4

Utrum etiam clerici teneantur decimas dare

Anche i chierici sono tenuti a dare le decime?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod etiam clerici teneantur decimas dare. l . Quia de iure communi [cf. Decretai. Gre­ gor. IX, l . 3, t. 30, c. 7] Ecclesia parochialis debet recipere decimas praediorum quae i n territorio eius sunt. Contingit autem quando­ que quod clerici habent in territorio alicuius parochialis Ecclesiae aliqua praedia propria. Vel etiam aliqua alia Ecclesia habet ibi pos­ sessiones ecclesiasticas. Ergo videtur quod clerici teneantur dare praediales decimas. 2. Praeterea, aliqui religiosi sunt clerici. Qui tamen tenentur dare decimas Ecclesiis ratione praediorum quae etiam manibus propriis excolunt [cf. Decretai. Gregor. IX, l. 3, t. 30, cc. 27.34]. Ergo videtur quod clerici non sint immunes a solutione decimanun. 3 . Praeterea, sicut Num. XVIII praecipitur quod Levitae a populo decimas accipiant, ita etiam praecipitur quod ipsi dent decimas summo sacerdoti. Ergo, qua ratione laici debent dare decimas clericis, eadem ratione clerici debent dare decimas summo pontifici. 4. Praeterea, sicut decimae debent cedere in sustentationem clericorum, ita etiam debent cedere in subventionem pauperum. Si ergo clerici excusantur a solutione decimarum, pari ratione excusantur et pauperes. Hoc autem est falsum. Ergo et primum. Sed contra est quod dicit decretalis Paschalis Papae [cf. Decretai. Gregor. IX, l. 3, t. 30, c. 2; Paschalis II, App. Conc. Lateranensis, P. 1 3, c. 1 6], novum genus exactionis est ut clerici a

Sembra di sì. Infatti: l . Secondo le norme generali del diritto, la chiesa parrocchiale deve ricevere le decime dei possessi esistenti nel suo territorio. Ma ta­ lora capita che un chierico abbia i propri pos­ sessi nel territorio di una parrocchia. Oppure che un' altra chiesa abbia là i suoi benefici. Quindi i chierici sono tenuti a pagare le deci­ me prediali. 2. Alcuni religiosi sono chierici. E tuttavia essi sono tenuti a pagare le decime alle chiese anche per i possessi che coltivano con le pro­ prie mani. Perciò i chierici non sono esenti dal pagare le decime. 3. In Nm 1 8 [21 ] come è prescritto al popolo di pagare le decime ai Leviti, così è prescritto a costoro di pagare le decime al sommo sacer­ dote. Quindi la stessa ragione che impone ai laici di pagare le decime ai chierici obbliga i chierici a pagarle al sommo pontefice. 4. Le decime, come devono servire per i l sostentamento dei chierici, così devono anche servire per il soccorso dei poveri. Se quindi i chierici sono esenti dal pagamento delle deci­ me, lo saranno per lo stesso motivo anche i poveri. Ma ciò è falso. Quindi è falsa anche la premessa. lll contrario: papa Pasquale II così si esprime: «E un genere di esazione inaudito che dei chierici esigano le decime da altri chierici». Risposta: l' identica cosa non può essere insie­ me causa del dare e del ricevere, dell' agire e del subire: può tuttavia capitare che un iden­ tico soggetto sia capace di dare e di ricevere, di agire e di subire per cause diverse e rispetto

clericis decimas exigant. Respondeo dicendum quod idem non potest

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Le decime

esse causa dandi et recipiendi, sicut nec causa agendi et patiendi, contingit autem ex diversis causis, et respectu diversorum, eundem esse dantem et recipientem, sicut agentem et pa­ tientem. Clericis autem inquantum sunt mini­ stri altaris spiritualia populo seminantes, deci­ mae a fidelibus debentur. Unde tales clerici, inquantum clerici sunt, idest inquantum pos­ sessiones habent ecclesiasticas, decimas sol­ vere non tenentur. - Ex alia vero causa, scili­ cet propter hoc quod possident proprio iure, vel ex successione parentum, vel ex emptio­ ne, vel quocumque huiusmodi modo, sunt ad decima>.

Q. 88, A. 1 2 Articulus 1 2 Utrum ad commutationem vel dispensa­ tionem voti requiratur praelati auctoritas Ad duodecimum sic proceditur. Videtur quod ad commutationem vel dispensationem voti non requiratur praelati auctoritas. l . Aliquis enim potest intrare religionem absque auctoritate alicuius superioris praelati. Sed per introitum religionis absolvitur homo a votis in saeculo factis, etiam a voto Terrae sanctae [Decretai. Gregor. IX, 3,34,4]. Ergo voti commutatio vel dispensatio potest esse absque auctoritate superioris praelati. 2. Praeterea, dispensatio voti in hoc consistere videtur quod detetminatur in quo casu votum non sit observandum. Sed si praelatus male determinet, non videtur esse vovens absolutus a voto, quia nullus praelatus potest dispensare contra praeceptum divinum de implendo vo­ to, ut dictum est [a. 1 0 ad 2 ; a. 1 1 ]. Similiter etiam si aliquis propria auctoritate recte deter­ rninet in quo casu votum non sit implendum, non videtur voto teneri, quia votum non obli­ gat in casu in quo habet peiorem eventum, ut dictum est [a. 2 ad 2]. Ergo dispensatio voti non requirit auctoritatem alicuius praelati. 3 . Praeterea, si dispensare in voto pertinet ad potestatem praelatomm, pari ratione pertine­ ret ad omnes. Sed non pertinet ad omnes dispensare in quolibet voto. Ergo non pertinet ad potestatem praelatorum dispensatio voti. Sed contra, sicut lex obligat ad aliquid facien­ dum, ita et votum . Sed ad dispensandum in praecepto legis requiritur superioris auctoritas, ut supra [I-II q. 96 a 6; q. 97 a. 4] dictum est. Ergo, pari ratione, etiam in dispensatione voti. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 2] dictum est, votum est promissio Deo facta de aliquo quod sit Deo acceptum. Quid sit autem in aliqua prornissione acceptum ei cui prornit­ titur, ex eius pendet arbitrio. Praelatus autem in Ecclesia gerit vicem Dei. Et ideo in com­ mutatione vel dispensatione votorum requiri­ tur praelati auctoritas, quae in persona Dei determinat quid sit Deo acceptum, secundum illud 2 ad Cor. 2 [ 1 0], nam et ego propter vos donavi in persona Christi. Et signanter dicit, propter vos, quia omnis dispensatio petita a praelato debet fieri ad honorem Christi, in cuius persona dispensat; vel ad utilitatem Ecclesiae, quae est eius corpus.

IL voto

872 Articolo 1 2 Per la commutazione o la dispensa dei voti si richiede l'autorità di un superiore ecclesiastico? Sembra di no. Infatti: l . Uno può entrare in religione senza ricorrere all' autorità del suo superiore ecclesiastico. Ma con l'entrata in religione si viene dispensati da tutti i voti tàtti nel secolo, compreso quello di andare in Terra Santa. Quindi la commutazione o la dispensa dei voti si può avere senza l'auto­ rità dei superiori ecclesiastici. 2. La dispensa di un voto consiste nel deter­ minare quando nei singoli casi il voto non debba essere osservato. Ma se il prelato deter­ mina ciò malamente, l'interessato non sembra per questo dispensato dal voto: poiché nessun prelato può dispensare dal precetto divino che impone l'adempimento dei voti, come sopra si è notato. Parimenti, se uno di propria auto­ rità determina giustamente che un voto non va osservato, non pare che vi sia tenuto: poi­ ché il voto, come si è visto sopra, non obbliga nel caso in cui porti a delle cattive conseguen­ ze. Quindi la dispensa dei voti non richiede l'autorità di un superiore ecclesiastico. 3. Se la dispensa dei voti fosse una facoltà dei superiori ecclesiastici, tutti costoro potrebbero esercitarla ugualmente. Invece non tutti hanno la facoltà di dispensare da qualsiasi voto. Quindi la facoltà di dispensare dai voti non appartiene ai superiori ecclesiastici. In contrario: il voto obbliga a compiere deter­ minate cose allo stesso modo della legge. Ora, per dispensare dai precetti della legge si richiede l' autorità dei superiori, come si è di­ mostrato sopra. Quindi per lo stesso motivo essa è richiesta anche per la dispensa dei voti. Risposta: come sopra si è detto, il voto è una promessa fatta a Dio di qualcosa che egli gradisce. Ma il gradimento dipende dall' arbi­ trio di colui al quale è tàtta la promessa. D'al­ tra parte il superiore nella Chiesa tà le veci di Dio. Di conseguenza nella commutazione e nella dispensa dei voti è richiesta l ' autorità dei superiori ecclesiastici, che in persona di Dio determinano che cosa gli sia gmdito, se­ condo le parole di 2 Cor 2 [ 1 0] : Anch 'io ho

usato indulgenza a vostro favore in persona di Cristo. E intenzionalmente è detto a vostro favore: poiché ogni dispensa che viene ri-

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Ad primum ergo dicendum quod omnia alia vota sunt quorundam particularium operum, sed per religionem homo totam vitam suam Dei obsequio deputat. Particulare autem in universali includitur. Et ideo Decretalis [Decretai. Gregor. IX, 3,34,4] dicit quod reus fracti voti non habetur qui temporale obse­ quium in perpetuam religionis observantiam commutar. Nec tamen in religionem ingre­ diens tenetur implere vota vel ieiuniorum vel orationum vel aliorum huiusmodi, quae exi­ stens in saeculo fecit, quia religionem ingre­ diens moritur priori vitae; et etiam singulares observantiae religioni non competunt; et reli­ gionis onus satis hominem onerat, ut alia su­ peraddere non oporteat. Ad secundum dicendum quod quidam dixe­ runt quod praelati possunt in votis pro libito dispensare, quia in quolibet voto includitur conditionaliter voluntas praelati superioris, sicut supra [a. 8 ad 1 .4] dictum est quod in votis subditorum, puta servi vel filii , intelligi­ tur conditio, si p/acuerit patri vel domino, vel, si non renitantur. Et sic subditus absque omni remorsu conscientiae posset votum praeter­ mittere, quandocumque sibi a praelato dicere­ tur. - Sed praedicta positio falso innititur. Quia cum potestas praelati spiritualis, qui non est dominus sed dispensator, sit in aedi.ficatio­ nem data, et non in destructionem, ut patet 2 ad Cor. I O [8]; sicut praelatus non potest imperare ea quae secundum se Deo displi­ cent, scilicet peccata, ita non potest prohibere ea quae secundum se Deo placent, scilicet virtutis opera. Et ideo absolute potest homo ea vovere. - Ad praelatum tamen pertinet diiudicare quid sit magis virtuosum et Deo magis acceptum. Et ideo in manifestis dispen­ satio praelati non excusaret a culpa, puta si praelatus dispensaret cum aliquo super voto de ingressu religionis, nulla apparenti causa obstante. Si autem esset causa apparens, per quam saltem in dubium verteretur, posset stare iudicio praelati dispensantis vel commu­ tantis. Non tamen iudicio proprio, quia ipse non gerit vicem Dei, nisi forte in casu in quo id quod vovit esset manifeste illicitum, et non posset oppottune ad superiorem recurrere. Ad tertium dicendum quod quia summus pontifex gerit plenarie vicem Christi in tota Ecclesia, ipse habet plenitudinem potestatis dispensandi in omnibus dispensabilibus votis.

Il voto

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chiesta all'autorità ecclesiastica deve essere concessa per dare onore a Cristo, nel cui no­ me si dà la dispensa, oppure per l'utilità della Chiesa, che è il suo corpo mistico. Soluzione delle difficoltà: l . Gli altri voti ri­ guardano tutti delle opere particolari, mentre nella religione l'uomo consacra a Dio tutta la vita. Ora, le cose particolari sono incluse nel­ l'universale. E così nelle Decretali si legge che «non si considera reo di violazione di un voto colui che cambia un servizio temporaneo nella perpetua osservanza della vita religio­ sa». Costui poi, entrando in religione, non è tenuto ad adempiere i voti fatti nel secolo relativi a digiuni, preghiere o altre cose del genere: poiché, entrando in religione, è morto alla vita precedente; e anche perché le osser­ vanze particolari non si accordano con la vita regolare; inoltre il peso di quest'ultima è già abbastanza grave per un uomo, per cui non è necessario aggiungere altro. 2. Alcuni hanno affermato che i prelati posso­ no dispensare dai voti a loro arbitrio, poiché qualsiasi voto è implicitamente condizionato alla volontà del superiore ecclesiastico; cioè come nel caso dei voti dei subaltemi, ossia dei figli e degli schiavi, di cui abbiamo già parlato, e nei quali va sottintesa la condizione: «se è contento o non farà opposizione il padre o il padrone». E così un suddito potrebbe tra­ scurare il voto senza rimorsi di coscienza ogni qual volta il superiore lo volesse. - Ma questa tesi si fonda sul falso. Poiché il potere spiri­ tuale del prelato, il quale non è padrone ma amministratore, è dato per edificare e non per distruggere, come risulta da 2 Cor 1 0 [8], per cui come esso non dà al superiore ecclesiasti­ co la facoltà di comandare ciò che dispiace a Dio, cioè il peccato, così non gli dà la facoltà di proibire cose che per se stesse sono accette a Dio, come le opere virtuose. Per cui uno può farne voto incondizionatamente. - Tutta­ via spetta al superiore ecclesiastico giudicare ciò che è più virtuoso e più accetto a Dio. Quindi nei casi evidenti la dispensa [abusiva] del prelato non scuserebbe dalla colpa: p. es. se il prelato dispensasse uno dal voto di entra­ re in religione senza che appaia alcuna causa che lo impedisca. Se invece appare una causa che per lo meno lascia in dubbio la cosa, allo­ ra uno può stare al giudizio del superiore ec­ clesiastico che dà la dispensa o la commuta-

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Aliis autem inferioribus praelatis committitur dispensatio in votis quae communiter fiunt et indigent frequenti dispensatione, ut habeant de facili homines ad quem recunant, sicut sunt vota peregrinationum [cf. Decretai. Gregor. IX, 3,34, 1 ] et ieiuniorum et aliorum huiusmodi. Vota vero maiora, puta continentiae et peregri­ nationis Tenae sanctae [cf. Decretai. Gregor. IX, 3,34,9], reservantur summo pontifici.

zione. Non può comunque basarsi sul proprio giudizio, poiché egli non fa le veci di Dio: salvo forse i l caso in cui la cosa promessa col voto risultasse manifestamente illecita, e non ci fosse il modo di riconere al superiore. 3. n sommo pontefice, per il fatto che in tutto fa le veci di Cristo nella Chiesa intera, ha la pienezza dei poteri nel dispensare da tutti i voti dispensabili. Invece ai prelati inferiori la facoltà di dispensare è accordata per quei voti che ven­ gono fatti ordinariamente e che di frequente hanno bisogno di dispensa, in modo che gli uo­ mini facilmente possano trovare a chi riconere: come sono i voti di pellegrinaggi, di digiuni e simili. Ma i voti più importanti, come il voto di [perpetua] castità e di un pellegrinaggio in Ter­ ra Santa, sono riservati al sommo pontefice.

QUAESTIO 89 DE IURAMENTO

QUESTIONE 89 IL GIURAMENTO

Deinde considerandum est de actibus exteriori­ bus latriae quibus aliquid divinum ab homini­ bus assumitur, quod est vel sacramentum ali­ quod, vel ipsum nomen divinum. Sed de sa­ cramenti assumptione locus erit tractandi in tertia huius operis parte [q. 60]. De assumptio­ ne autem nominis divini nunc agendum est. Assumitur autem divinum nomen ab homine tripliciter, uno modo, per modum iuramenti, ad propria verba confinnanda; alio modo, per mo­ dum adiurationis, ad alias inducendum [q. 90]; tertio modo, per modum invocationis, ad oran­ dum vel laudandum [q. 9 1 ] . Primo ergo de iuramento agendum est. - Circa quod quae­ runtur decem. Primo, quid sit i uramentum. Se­ cundo, utrum sit licitum. Tertio, qui sint comi­ tes iuramenti. Quarto, cuius virtutis sit actus. Quinto, utrum sit appetendum et frequentan­ dum, tanquam utile et bonum. Sexto, utrum liceat iurare per creaturam. Septimo, utrum iuramentum sit obligatorium. Octavo, quae sit maior obligatio, utrum iuramenti vel voti. Nono, utrum in iuramento possit dispensari. Decimo, quibus et quando liceat iurare.

Rimangono ora da studiare gli atti esterni di latria con i quali l'uomo fa uso di qualcosa di divino: e si tratta dell'uso o dei sacramenti o del nome di Dio. Ma dell'uso dei sacramenti parleremo nella Terza Pane di quest'opera. Invece dell'uso del nome di Dio dobbiamo parlare ora. L'uomo dunque in tre modi fa uso del nome di Dio: primo, col giuramento, per confermare così le proprie parole; secondo, con lo scongiuro, per sollecitare altri ; terzo, con l ' invocazione, sia nella preghiera che nella lode di Dio. Perciò innanzi tutto dobbiamo parlare del giuramento. - Su questo tema tratteremo di�i argomenti: l . Che cos'è il giu­ ramento? 2. E lecito giurare? 3. Quali sono i requisiti che devono accçmpagnarlo? 4. A quale virtù appartiene? 5. E da ricercare e d� ripetere spesso, come cosa utile e buona? 6. E lecito giurare per una creatura? 7. n giuramen­ to è obbligatorio? 8. L'obbligo del giuramento è più grave di quello del voto? 9. Si può essere dispensati da u n giuramento? 1 0. A chi e quando è lecito giurare?

Articulus l

Articolo l

Utrum iurare sit testem Deum invocare

Giurare è invocare Dio come testimone?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod iura­ re non sit testem Deum invocare. l . Quicumque enim inducit auctoritatem sa-

Sembra di no. Infatti: l . Chiunque porta l'autorità della sacra Scrit­ tura porta Dio come testimone, essendo essa

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Il giuramento

crae Scripturae inducit Deum in testimonium, cuius verba proponuntur in sacra Scriptura. Si ergo iurare est testem Deum invocare, quicum­ que inducit auctoritatem sacrae Scripturae iu­ raret. Hoc autem est falsum. Ergo et primum. 2. Praeterea, ex hoc quod aliquis inducit ali­ quero in testem, nihil ei reddit. Sed ille qui per Deum iurat aliquid Deo reddit, dicitur enim Matth. 5 [33], reddes Domino iuramen­ ta tua; et Augustinus dicit [Serm. ad pop. 1 80,6] quod iurare est ius veritatis Deo reddere. Ergo iurare non est Deum testem invocare. 3 . Praeterea, aliud est officium iudicis, et aliud testis, ut ex supradictis [qq. 67.70] patet. Sed quandoque iurando implorat homo divi­ num iudicium, secundum illud Ps. [7 ,5], si reddidi retribuentibus mihi mala, decidam merito ab inimicis meis inanis. Ergo iurare non est testem Deum invocare. Sed contra est quod Augustinus dicit, in quodam sermone De periurio [Serm. ad pop. 1 80,6], quid est, per Deum, nisi, testis est Deus? Respondeo dicendum quod, sicut apostolus dicit, ad Heb. 6 [ 1 6], iuramentum ad cof!fir­ mationem ordinatur. Confirmatio autem in scibilibus per rationem fit, quae procedit ex aliquibus naturaliter notis, quae sunt infallibi­ liter vera. Sed particularia facta contingentia hominum non possunt per rationem necessa­ riam confirmari. Et ideo ea quae de his dicun­ tur solent confirmari per testes. Sed humanum testimonium non est sufficiens ad huiusmodi confmnandum, propter duo. Primo quidem, propter defectum veritatis humanae, quia plu­ rimi in mendacium labuntur, secundum illud Ps. [ 1 6, 1 0], os eorum locutum est menda­ cium. Secundo, propter defectum cognitionis, quia hornines non possunt cognoscere neque futura, neque cordium occulta, vel etiam absentia; de quibus tamen homines loquuntur, et expedit rebus humanis ut certitudo aliqua de his habeatur. Et ideo necessarium fui t recurrere ad divinum testimonium, quia Deus neque mentiri potest, neque eum aliquid latet. Assumere autem Deum in testem dicitur iura­ re, quia quasi pro iure introductum est ut quod sub invocatione divini testimonii dicitur pro vero habeatur. - Divinum autem testimo­ nium quandoque inducitur ad asserendum praesentia vel praeterita, et hoc dicitur iura­ mentum assertorium. - Quandoque autem inducitur divinum testimonium ad con:firman-

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parola di Dio. Se quindi giurare è chiamare Dio come testimone, chiunque cita la sacra Scrittura fa un giuramento. Ma ciò è falso. Quindi è falsa anche la prima affermazione. 2. Chiamando qualcuno come testimone non gli si rende nulla. Invece chi giura per Dio rende a Dio qualcosa, poiché in Mt 5 [33] è detto: Renderai al Signore i tuoi giuramenti; e Agostino afferma che giurare significa >. Soluzione delle difficoltà: l . Il caso del voto è diverso da quello del giuramento. Col voto infatti ordiniamo un'opera a onorare Dio, per cui essa diventa un atto d i religione. Nel

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de voto, et de iuramento. Nam per votum ali­ quid in Dei reverentiam ordinamus, unde ex hoc ipso fit religionis actus. Sed in iuramento e converso reverentia divini norninis assurni­ tur ad prornissi confirmationem. Et ideo illud quod iuramento confumatur non propter hoc fit religionis actus, quia secundum finem mo­ rales actus species sortiuntur. Ad secundum dicendum quod ille qui iurat utitur quidem veneratione aut dilectione eius per quem iurat, non autem ordinat iuramen­ tum ad venerandum aut diligendum eum per quem iurat, sed ad aliquid aliud quod est necessarium praesenti vitae. Ad tertium dicendum quod sicut medicina est utilis ad sanandum, et tamen quanto est virtucr sior, tanto maius nocumentum inducit si non debite sumatur; ita etiam iuramentum utile qui­ dem est ad confirmationem, tamen quanto est magis venerandum, tanto est magis periculo­ sum nisi debite inducatur. Quia, ut dicitur Eccli. 23 [ 1 3 - 1 4], si frustraverit, idest deceperit fra­ trem, delictwn illius supra ipsum erit; et si dis­ simulaverit, quasi per simulationem iurando falsum, delinquit dupliciter (quia scilicet simu­ lata aequitas est duplex iniquitas) [Enarr. in Ps. 30 super 7]; et si in vanum iurave1it, idest sine debita causa et necessitate, non iustificabitur. Articulus 6 Utrum liceat per creaturas iurare Ad sextum sic proceditur. Videtur quod non liceat per creaturas iurare. l . Dicitur enim Matth. 5 [34 sqq.], ego dico

vobis, non iurare omnino, neque per caelum, neque per terram, neque per Ierosolymam, ne­ que per caput tuum, quod exponens Hierony­ mus [In Matth. l super 5,34] dicit, considera quod hic Salvator non per Deum iurare prohi­ buerit, sed per caelum et terram, et cetera. 2. Praeterea, poena non debetur nisi culpae. Sed iuranti per creaturas adhibetur poena, dici­ tur enim 22, q. l [Decretum p. 2, causa 22, q. l , can. 9], clericum per creaturam iurantem

acerrime obiurgandum, si perstiterit in vitio, excommunicandum placuit. Ergo illicitum est

per creaturas iurare. 3. Praeterea, iuramentum est actus latriae, sicut dictum est [a. 4]. Sed cultus latriae non debetur alicui creaturae, ut patet Rom. l [23 sqq.]. Ergo non licet iurare per aliquam creaturam.

giuramento invece l ' onore del nome di Dio viene usato per confermare una promessa. Quindi ciò che viene così confermato non diventa per questo un atto di religione: poiché le azioni morali vengono specificate dal fine. 2. Chi giura fa uso della venerazione o dell'a­ more verso la persona per cui giura: egli però non ordina il giuramento a venerarla o ad amarla, ma ad altre cose necessarie per la vita presente. 3. Come la medicina, pur essendo utile per guarire, tuttavia è tanto più dannosa quanto più è energica, se viene presa senza motivo, così il giuramento, pur essendo utile per con­ fermare, quanto più è degno di rispetto tanto più è pericoloso, se viene usato senza neces­ sità. Poiché, come è detto in Sir 23 [ 1 3], se uno avrà mancato, ingannando cioè il proprio fratello, il suo peccato sarà su di lui, e se avrà dissimulato, giurando cioè il falso, peccherà due volte, poiché «la giustizia simulata è un'iniquità duplicata», come dice Agostino; e se avrà giurato invano, cioè senza giusto mcr tivo e necessità, non sarà giustificato.

Articolo 6

È lecito giurare per le creature? Sembra di no. Infatti: l. In Mt 5 [34] è detto:

Ma io vi dico di non giurare affatto: né per il cielo, né per la terra, né per Gerusalemme, né per la tua testa. E

Girolamo commenta: «Considera che qui il Salvatore non proibisce di giurare per Dio, ma per il cielo e la terra>>, ecc. 2. n castigo è dato solo per una colpa. Ma i Canoni decretano un castigo contro chi giura per le creature: «>. 3. Nel giuramento fatto per costrizione si devono distinguere due obblighi. L'uno verso la persona a cui si è promesso qualcosa. E questo obbligo è eliminato dalla costrizione: poiché chi usa violenza merita l' inadempi­ mento della promessa. L'altro obbligo è inve­ ce verso Dio, riguardo al quale uno è obbliga­ to a compiere quanto ha promesso nel suo no­ me. E tale obbligo in coscienza non cessa: poiché si è tenuti a sostenere anche un danno temporale piuttosto che violare il giuramento. Tuttavia uno può reclamare in giudizio quan­ to ha dato, o denunziarlo ai superiori, anche se aveva giurato di non farlo: poiché tale giu­ ramento avrebbe un effetto pernicioso, essen­ do contro la giustizia civile. I romani pontefi­ ci poi hanno assolto gli uomini da simili giu­ ramenti non già dichiarando che essi non sono obbligatori, ma dispensando dal loro obbligo per giusti motivi. 4. Quando l'intenzione di chi giura è diversa da quella di chi è interessato al giuramento, la promessa va osservata secondo la sana com-

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provenit ex dolo iurantis, debet iuramentum servari secundum sanum intellectum eius cui iuramentum praestatur. Unde Isidorus dicit [Sent. 2,3 1 ], quacwnque arte verbontm quis iuret, Deus tamen, qui conscientiae testis est, ita hoc accipit sicut ille cui iuratur intelligit. Et quod hoc intelligatur de doloso iuramento, patet per id quod subditur, dupliciter reus fit qui et nomen Dei in vanum assumit, et pmxi­ mwn dolo capit. Si autem iurans dolum non adhibeat, obligatur secundum intentionem iurantis. Unde Gregorius dicit, 26 Mor. [1 0], humanae aures talia verba nostra iudicant qualia foris sonant, divina vem iudicia talia foris audiunt qualia ex intimis proferuntur.

prensione di quest'ultimo, se la divergenza dipende dall'inganno di chi giura. Da cui le parole di Isidoro: «Qualunque sia l'artificio di parole con cui uno giura, Dio, che è testimone della coscienza, intende la cosa come colui a cui viene fatto il giuramento». E che si parli del giuramento capzioso è evidente da quanto si dice più avanti: «E doppiamente colpevole colui che nomina invano il nome di Dio, e carpisce il prossimo con l'inganno». Se inve­ ce chi giura non usa inganni, allora è obbliga­ to secondo la propria intenzione. Da cui le parole di Gregorio: «Le orecchie degli uomini giudicano le nostre parole così come suonano esternamente, ma Dio nei suoi giudizi le intende come esse promanano dall'intimo del cuore».

Articulus 8 Utrum maior sit obligatio iuramenti quam voti

Articolo 8 L'obbligazione del giuramento è superiore a quella del voto?

Ad octavum sic proceditur. Videtur quod maior sit obligatio iuramenti quam voti. l . Votum enim est simplex promissio. Sed iuramentum supra promissionem adhibet divinum testimonium. Ergo maior est obliga­ tio iuramenti quam voti. 2. Praeterea, debilius solet per fortius confir­ mari. Sed votum interdum contirmatur iura­ mento. Ergo iuramentum est fortius quam votum. 3. Praeterea, obligatio voti causatur ex animi deliberatione, ut supra [q. 88 a. l ] dictum est. Obligatio autem iuramenti causatur ex divina veritate, cuius testimonium invocatur. Curo ergo veritas Dei excedat deliberationem hu­ manam, videtur quod obligatio iuramenti sit fortior quam obligatio voti. Sed contra, per votum obligatur aliquis Deo, per iuramentum obligatur interdum hornini. Magis autem obligatur homo Deo quam ho­ mini. Ergo maior est obligatio voti quam i urarnenti. Respondeo dicendum quod utraque obligatio, scilicet voti et iuramenti, causatur ex aliquo divino, aliter tamen et aliter. Nam obligatio voti causatur ex fidelitate quam Deo debemus, ut scilicet ei promissum solvamus. Obligatio autem iuramenti causatur ex reverentia quam debemus ei, ex qua tenemur quod verificemus id quod per nomen eius prornittimus. Omnis

Sembra di sì. Infatti: l . n voto è una semplice promessa. n giura­ mento invece aggiunge alla promessa la testi­ monianza di Dio. Quindi l'obbligazione del giuramento è superiore a quella del voto. 2. Si è soliti rafforzare ciò che è più debole con ciò che è più forte. Ma talora il voto viene rafforzato col giuramento. Quindi il giura­ mento è più forte del voto. 3. L'obbligazione del voto è causata da una deliberazione dell'animo, come sopra si è visto, mentre l'obbligazione del giuramento è causata dalla veracità di Dio, di cui si invoca la testimonianza. Essendo dunque la veracità di Dio superiore alla deliberazione umana, è chiaro che l'obbligatorietà del giuramento è superiore a quella del voto. In contrario: col voto si contrae un obbligo verso Dio, mentre col giuramento si contrae spesso un obbligo verso un uomo. Ora, si è più obbligati verso Dio che verso un uomo. Quindi l'obbligatorietà del voto è superiore a quella del giuramento. Risposta: entrambi gli obblighi, del voto cioè e del giuramento, sono causati da qualcosa di divino, però in maniera diversa. Infatti l' ob­ bligazione del voto è causata dalla fedeltà che dobbiamo a Dio con l' adempimento delle promesse a lui fatte, mentre l' obbligazione del giuramento è prodotta dal rispetto a lui

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autem infidelitas irreverentiam continet, sed non convertitur, videtur enim infidelitas su­ biecti ad dominum esse maxima irreverentia. Et ideo votum ex ratione sua magis est obliga­ torium quam iuramentum. Ad primum ergo dicendum quod votum est promissio non quaecumque, sed Deo facta, cui infidelem esse gravissimum est. Ad secundum dicendum quod iuramentum non adhibetur voto quasi aliquid firmius, sed ut per duas res immobiles maior firmitas adhibeatur. Ad tertium dicendum quod deliberatio animi dat firmitatem voto quantum ex parte voventis est. Habet tamen maiorem firmitatis causam ex parte Dei, cui votum offertur.

dovuto, per cui siamo tenuti a rendere vere le promesse fatte invocando il suo nome. Ora, ogni infedeltà implica una mancanza di ri­ spetto, ma non viceversa: infatti l'infedeltà di un suddito è la più grave mancanza di rispetto verso il proprio signore. Quindi il voto per sua natura è più obbligatorio del giuramento. Soluzione delle difficoltà: l . Il voto non è una promessa qualunque, ma una promessa fatta a Dio, l'infedeltà verso il quale è una cosa gravissima. 2. n giuramento non si aggiunge al voto come qualcosa di più stabile, ma affinché grazie a due atti ÌlTevocabili [Eb 6, 1 8] si determini una maggiore fermezza. 3. La deliberazione dell'animo dà fermezza al voto dalla parte della persona che lo emette. Tuttavia il voto ha una maggiore causa di fer­ mezza dalla parte di Dio, al quale viene offerto.

Articulus 9 Utrum aliquis possit dispensare in iuramento

Articolo 9 Qualcuno può dispensare dal giuramento?

Ad nonum sic proceditur. Videtur quod nullus possit dispensare in iuramento. l . Sicut enim veritas requiritur ad iuramentum assertorium, quod est de praeterito vel praesen­ ti, ita ad iuramentum promiss01ium, quod est de futuro. Sed nullus potest cum aliquo dispen­ sare quod de praeteritis vel praesentibus iuret contra veritatem. Ergo etiam nullus potest di­ spensare quod non faciat aliquis esse verum id quod cum iuramento in futurum promisit. 2. Praeterea, iuramentum promissorium indu­ citur ad utilitatem eius cui fit promissio. Sed ille, ut videtur, non potest relaxare, quia est contra divinam reverentiam. Ergo multo mi­ nus per aliquem potest super hoc dispensari. 3 . Praeterea, in voto quilibet episcopus potest dispensare, exceptis quibusdam votis quae soli Papae reservantur, ut supra [q. 88 a. 1 2 ad 3] habitum est. Ergo, pari ratione, in iuramento, si esset dispensabile, qtùlibet episcopus posset dispensare. Quod tamen videtur esse contra iura [cf. Decretum p. 2, causa 15, q. 6, can. 2]. Non ergo videtur quod in iuramento possit dispensari. Sed contra est quod votum est maioris obliga­ tionis quam iuramentum, ut supra [a. 8] dic­ tum est. Sed in voto potest dispensari. Ergo in iuramento.

Sembra di no. Infatti: l . Come la verità è richiesta nel giuramento assertorio riguardante il passato e il presente, così è richiesta nel giuramento promissorio riguardante il futuro. Ma nessuno può dispen­ sare una persona dal dire la verità nel giura­ mento riguardante il passato o il presente. Quindi nessuno può dispensare dal rendere vero in futuro ciò che uno ha promesso con giuramento. 2. n giuramento promissorio è fatto a vantag­ gio di colui al quale viene fatta la promessa. Ora, come sembra, costui non può condonare la cosa: poiché ciò sarebbe contro il rispetto dovuto a Dio. Molto meno quindi potrà di­ spensare un altro. 3. I voti, eccetto alcuni riservati al papa, pos­ sono essere dispensati da qualsiasi vescovo, come si è visto. Se quindi anche il giuramento fosse dispensabile, per lo stesso motivo esso potrebbe essere dispensato da qualsiasi vesco­ vo. Ma ciò è contro i Canoni. Per cui non sem­ bra che il giuramento possa essere dispensato. In contrario: il voto è più obbligatorio del giu­ ramento, come sopra si è visto. Ma il voto può essere dispensato. Quindi anche il giuramento. Risposta: come si è notato sopra, la necessità della dispensa, tanto dalle leggi quanto dai

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Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 88 a. l O] dictum est, necessitas dispensationis tam in lege quam in voto est propter hoc quod id quod in se, vel universaliter consideratum, est utile et honestum, secundum aliquem par­ ticularem eventum potest esse inhonestum et nocivum, quod non potest cadere nec sub lege nec sub voto. Quod autem aliquid sit inhone­ stum vel noxium, repugnat his quae debent attendi in iuramento, nam si sit inhonestum, repugnat iustitiae; si sit noxium, repugnat iudicio. Et ideo, pari ratione, etiam in iura­ mento dispensari potest. Ad primum ergo dicendum quod dispensatio quae fit in iuramento non se extendit ad hoc quod aliquid contra iuramentum fiat, hoc enim est impossibile, cum observatio iura­ menti cadat sub praecepto divino, quod est indispensabile. Sed ad hoc se extendit dispen­ sati o iuramenti ut id quod sub iuramento cadebat, sub iuramento non cadat, quasi non existens debita materia i uramenti, sicut et de voto supra [q. 88 a. I O ad 2] diximus. Materia autem iuramenti assertorii, quod est de prae­ terito vel praesenti, in quandam necessitatem iam transiit, et immutabilis facta est, et ideo dispensatio non refeiTetur ad materiam, sed referretur ad ipsum actum iuramenti; unde talis dispensatio directe esset contra praecep­ tum divinum. Sed materia iuramenti promis­ sorii est aliquid futurum, quod variari potest, ita scilicet quod in aliquo eventu potest esse illicitum vel nocivum, et per consequens non esse debita materia iuramenti. Et ideo dispen­ sari potest in iuramento promissorio, quia talis dispensatio respicit materiam i uramenti, et non contrariatur praecepto divino de iura­ menti observatione. Ad secundum dicendum quod homo potest alteri promittere aliquid sub iuramento dupli­ citer. Uno modo, quasi pertinens ad utilitatem ipsius, puta si sub iuramento promittat se ser­ viturum ei, vel pecuniam daturum. Et a tali promissione potest absolvere ille cui promis­ sio facta est, intelligitur enim iam ei solvisse promissum quando facit de eo secundum eius voluntatem. - Alio modo promittit aliquis alteri quod pertinet ad honorem Dei vel utili­ tatem aliorum, puta si aliquis iuramento pro­ mittat alicui se intraturum religionem, vel ali­ quod opus pietatis facturum. Et tunc ille cui promittitur non potest absolvere promitten-

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voti, dipende dal fatto che quanto in se stesso, o considerato universalmente, è utile e onesto, in un caso particolare può risultare disonesto o nocivo, cessando così di essere materia di legge o di voto. Ora, la disonestà e l'attitudine a nuocere sono incompatibili con i requisiti del giuramento: se infatti una cosa è disonesta è incompatibile con la giustizia, e se è nociva è incompatibile col giudizio. Quindi per lo stesso motivo si può dispensare anche dal giuramento. Soluzione delle difficoltà: l . La dispensa dal giuramento non atTiva al punto di permettere cose contrarie al giuramento: ciò infatti è impossibile, poiché il rispetto del giuramento è imposto da un precetto divino, che non può essere dispensato. La dispensa invece fa sì che quanto prima era oggetto del giuramento cessi di essere tale, in quanto matetia inade­ guata per esso: come si è detto sopra a pro­ posito del voto. Ora, la materia del giura­ mento assertorio, riguardante il passato e il presente, è già entrata nel dominio del neces­ sario, ed è ormai immutabile, per cui la di­ spensa nel caso non riguarderebbe la materia, ma l'atto stesso del giuramento: cosicché tale dispensa sarebbe direttamente contro il pre­ cetto divino. Invece la materia del giuramento promissorio è qualcosa di futuro, che può essere cambiato, in modo cioè da risultare in certi casi illecito o nocivo, e quindi materia inadeguata per il giuramento. E così il giu­ ramento promissorio può essere dispensato: poiché tale dispensa riguarda la materia del giuramento, e non è incompatibile col pre­ cetto divino che ne comanda il rispetto. 2. Si può promettere qualcosa a un uomo con giuramento in due modi. Primo, per sua uti­ lità: come quando si promette di servirlo, o di dargli del danaro. E da tale promessa si può essere dispensati da colui al quale essa è stata fatta: poiché si considera come assolta la pro­ messa quando uno si comporta secondo la volontà dell'interessato. Secondo, uno può promettere a un'altra persona cose che inte­ ressano l'onore di Dio o il vantaggio di terzi: come quando uno giurasse di entrare in reli­ gione, o di compiere qualche opera di miseri­ cordia. Allora colui che riceve la promessa non può dispensarla, poiché essa non è fatta principalmente a lui, ma a Dio; a meno che non sia stata posta questa condizione: «Se

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tem, quia promissio non est facta ei principa­ liter, sed Deo, nisi forte sit interposita condi­ rio, scilicet, si illi videbitur cui promittit, vel aliquid aliud tale. Ad tertium dicendum quod quandoque illud quod cadit sub iuramento promissotio est mani­ feste repugnans iustitiae, vel quia est peccatum, sicut cum aliquis iurat se facturum homicidium; vel quia est maioris boni impeditivum, sicut cum aliquis iurat se non intraturum religionem. Et tale iuramentum dispensatione non indiget, sed in primo casu tenetur aliquis tale iuramen­ tum non servare; in secundo autem casu licitum est et servare et non servare, ut supra [q. 88 a. 7 ad 2] dictum est. - Quandoque vero aliquid sub iuramento promittitur de quo dubium est utrum sit licitum vel illicitum, proficuum vel nocivum, aut simpliciter aut in aliquo casu. Et in hoc potest quilibet episcopus dispensare. - Quando­ que vero sub iuramento promittitur aliquid quod est manifeste licitum et utile. Et in tali iuramento non videtur habere locum dispen­ satio, sed commutatio, si aliquid melius facien­ dum occurrat ad communem utilitatem, quod maxime videtur pertinere ad potestatem Papae, qui habet curam universalis Ecclesiae; vel etiam absoluta relaxatio, quod etiam ad Papam pertinet, in omnibus generaliter quae ad dispen­ sati o ne m remm ecclesiasticmum pertinent, super quas habet plenitudinem potestatis; sicut et ad unumquemque pettinet irritare iuramen­ tum quod a sibi subditis factum est circa ea quae eius potestati subduntur; sicut pater potest irritare iuramentum puellae et vir uxoris, ut di­ citur Num. 30 [6 sqq.], sicut et supra [q. 88 a. 8] de voto dictum est.

sembrerà bene a colui al quale viene fatta la promessa>>, o qualche altra del genere. 3. Talvolta ciò che ricade sotto il giuramento promissorio è manifestamente contrario alla giustizia: o perché è un atto peccaminoso, co­ me quando uno giura di commettere un omici­ dio, o perché è di ostacolo a un bene maggio­ re, come quando uno giura di non entrare in religione. E tale giuramento non ha bisogno di dispensa: però nel primo caso uno è tenuto a non osservare il giuramento, mentre nel se­ condo può osservarlo e non osservarlo, come si è detto sopra. - Altre volte invece è dubbio se ciò che è stato promesso con giuramento sia lecito o illecito, giovevole o nocivo, sia in senso assoluto che in rapporto al caso partico­ lare. E allora qualsiasi vescovo può dare la dispensa. - Altre volte infine ciò che è stato promesso con giuramento è qualcosa di mani­ festamente lecito e utile. E per questo giura­ mento non sembra che si possa dare la dispen­ sa, ma piuttosto la commutazione, se c'è il modo di fare qualcosa di meglio per il bene comune; il che spetta specialmente all'autorità del papa, che ha la cura della Chiesa universa­ le. Oppure si può essere sciolti totalmente dal giuramento, il che spetta ancora al papa se si tratta di cose che riguardano materie di giuris­ dizione ecclesiastica, sulle quali egli ha piena autorità. Come chiunque può annullare il giu­ ramento fatto dai propri sudditi in cose sotto­ poste alla sua autorità: come ad es. il padre può annullare il giuramento della figlia e il marito quello della moglie, come è detto in Nm 30 [6] e come sopra si è detto per il voto.

Articulus 1 0 Utrum iuramentum impediatur per aliquam conditionem personae vel temporis

Articolo 10 Il giuramento può essere impedito da certe condizioni di persona o di tempo?

Ad decimum sic proceditur. Videtur quod iuramentum non impediatur per aliquam con­ ditionem personae vel temporis. l . luramentum enim ad confirmationem indu­ citur, ut patet per apostolum, ad Heb. 6 [ 1 6]. Sed cuilibet convenit confirmare dictum suum, et quolibet tempore. Ergo videtur quod iura­ mentum non impediatur propter aliquam con­ ditionem personae vel temporis. 2. Praeterea, maius est iurare per Deum quam

Sembra di no. Infatti: l . I l giuramento è usato per confermare, come risulta da Eb 6 [ 1 6] . Ma tutti e sempre sono tenuti a confermare le proprie afferma­ zioni. Quindi il giuramento non può essere impedito da certe condizioni di persona o di tempo. 2. Giurare per Dio è più che giurare per i l Vangelo, per cui i l Crisostomo scrive: «Se si presenta un motivo, alcuni pensano di fare

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per Evangelia, unde Chrysostomus dicit [cf. Op. imperf. in Matth. h. 44 super 23, 1 6] , si

aliqua causa fuerit, modicum videtur facere qui iurat per Deum, qui autem iurat per Evangelium, maius aliquid fecisse videtur. Quibus dicendum est, stulti, Scripturae prop­ ter Deum factae sunt, non Deus propter Scripturas. Sed cuiuslibet conditionis perso­ nae, et quolibet tempore, in communi locutio­ ne consueverunt iurare per Deum. Ergo multo magis licitum est eis iurare per Evangelia. 3. Praeterea, idem non causatur ex contrariis causis, quia contrariae causae sunt contrario­ rum. Sed aliqui excluduntur a iuramento prop­ ter defectum personae, sicut pueri ante qua­ tuordecim annos, et etiam illi qui semel fuerunt periuri. Non ergo videtur quod aliqui prohi­ beantur iurare vel propter dignitatem, sicut cle­ rici; aut etiam propter temporis solemnitatem. 4. Praeterea, nullus homo vivens in hoc mun­ do est tantae dignitatis sicut angeli, dicitur enim Matth. 1 1 [ 1 1 ] quod qui minor est in regno caelontm maior est ilio, scilicet loanne Baptista adhuc in mundo vivente. Sed angelo convenit iurare, dicitur enim Apoc. 1 0 [6] quod angelus iuravit per viventem in saecula saeculontm. Ergo nullus homo propter digni­ tatem debet excusari a iuramento. Sed contra est quod habetur 2, q. 5 [Decretum p. 2, causa 2, q. 5, can. 4], presbyter, vice

iuramenti, per sanctam consecrationem inter­ rogetur. Et 22, q. 5 [Decretum p. 2, causa 22, q. 5, can. 22], dicitur, nullus ex ecclesiastico ordine cuiquam laico quidquam super sancta Evangelia iurare praesumat. Respondeo dicendum quod in iuramento duo sunt consideranda. Unum quidem ex parte Dei, cuius testimonium inducitur. Et quantum ad hoc, debetur iuramento maxima reverentia. Et propter hoc a iuramento excluduntur et pueri ante annos pubertatis [Decretum p. 2, causa 22, q. 5, can. 14- 1 5], qui non coguntur ad iurandum, quia nondum habent perfectum usum rationis, quo possint cum reverentia debita iuramentum praestare, et iterum periu­ ri, qui ad iuramentum non admitnmtur, quia ex retroactis praesurnitur quod debitam reve­ rentiam iuramento non exhibebunt. Et propter hoc etiam, ut iuramento debita reverentia exhibeatur, dicitur 22, q. 5 [Decretum p. 2, causa 22, q. 5, can. 16], honestum est ut qui in

sanctis audet iurare, hoc ieiunus faciat, cum

Q. 89, A. lO

una cosa da poco giurando per Dio, mentre pensano di fare una cosa importante giurando per il Vangelo. A costoro bisogna dire: Stolti, la Scrittura è fatta per Dio, non già Dio per la Scrittura». Ma alle persone di ogni condizio­ ne, e in qualsiasi tempo, è comune l' uso di giurare per Dio. Quindi a maggior ragione è lecito giurare per il Vangelo. 3. Una stessa cosa non può essere prodotta da cause contrarie, poiché cause contrarie hanno effetti contrari . Ma alcuni sono esclusi dal giuramento per una minorazione della loro persona, come i ragazzi prima dei quattordici anni e gli spergiuri. Perciò non si vede come altri possano essere impediti di giurare a motivo della loro dignità, come i chierici; oppure per la solennità del giorno. 4. Nessun uomo vivente in questo mondo rag­ giunge la dignità degli angeli, poiché in Mt 1 1 [ 1 1] è detto che il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui, cioè di Giovanni Battista vivente nel mondo. Ma gli angeli pos­ sono giurare: infatti in Ap 10 [6] è detto che

l'angelo giurò per colui che vive nei secoli dei secoli. Quindi nessun uomo deve essere dispensato dal giuramento per la sua dignità. In contrario: nei Canoni si legge: «Il sacer­ dote, invece di giurare, sia interrogato per la sua consacrazione». E altrove: «Nessun ec­ clesiastico presuma di giurare sui Vangeli dinanzi a qualsiasi laico». Risposta: nel giuramento si devono consi­ derare due cose. La prima in rapporto a Dio, di cui si invoca la testimonianza. E da questo lato si esige verso il giuramento il massimo rispetto. Per cui vengono esclusi dal giura­ mento sia i fanciulli prima della pubertà i quali non sono obbligati a giurare perché non hanno ancora il perfetto uso della ragione, necessario per prestare il giuramento col debito rispetto, sia gli spergiuri, i quali non sono ammessi a giurare perché dai loro prece­ denti si presume che non tratterebbero i l giuramento con l a riverenza dovuta. E pe r l a riverenza dovut� a l giuramento si d à anche questa norma: «E bene che colui il quale osa giurare per i santi lo faccia dopo aver digiuna­ to, e con ogni riguardo e timor di Dio». - La seconda cosa da considerare interessa invece l ' uomo, le cui parole sono confermate dal giuramento. Ora, le parole di un uomo non hanno bisogno di conferma se non perché si

Q. 89, A. l O

Il giuramento

Aliud autem est considerandum ex parte hominis, cuius dictum iuramento confirmatur. Non enim indiget dictum hominis confirmatione nisi quia de eo dubitatur. Hoc autem derogat di­ gnitati personae, ut dubitetur de veritate eorum quae dicit. Et ideo personis magnae di­ gnitatis non convenit iurare. Propter quod di­ citur 2, q. 5, cap. Si quis presbyter [Decretum p. 2, causa 2, q. 5, can. 4], quod sacerdotes ex levi causa iurare non debent. Tamen pro ali­ qua necessitate, vel magna utilitate, licitum est eis iurare, et praecipue pro spiritualibus negotiis. - Pro quibus etiam iuramenta com­ petit praestare in solemnibus diebus, quibus est spiritualibus rebus vacandum, non autem tunc sunt iuramenta praestanda pro rebus temporalibus, nisi forte ex magna necessitate [Decretum p. 2, causa 22, q. 5, can. 17]. Ad primum ergo dicendum quod quidam sunt qui dictum suum confirmare non possunt propter eorum defectum, et quidam sunt quo­ rum dictum adeo debet esse certum quod confirmatione non egeat. Ad secundum dicendum quod iuramentum, secundum se consideratum, tanto sanctius est et magis obligat quanto maius est id per quod iuratur, ut Augustinus dicit, ad Publicolam [ep. 47]. Et secundum hoc, maius est iurare per Deum quam per Evangelia. Sed potest esse e converso propter modum iurandi, utpo­ te si iuramentum quod fit per Evangelia, fiat cum quadam deliberatione et solernnitate; iuramentum autem quod fit per Deum, fiat leviter et absque deliberatione. Ad tertium dicendum quod nihil prohibet ali­ quid tolli ex contrariis causis per modum superabundantiae et defectus. Et hoc modo aliqui impediuntur a iuramento quia sunt maioris auctoritatis quam quod eos iurare deceat, aliqui vero quia sunt minoris auctori­ tatis quam quod eorum iuramento stetur. Ad quattum dicendum quod iuramentum an­ geli inducitur non propter defectum ipsius, quasi non sit eius simplici dicto credendum, sed ad ostendendum id quod dicitur ex infalli­ bili Dei dispositione procedere. Sicut etiam et Deus aliquando in Scripturis iurans inducitur, ad ostendendum immobilitatem eius quod dicitur, sicut apostolus dicit, ad Heb. 6 [ 17].

omni honestate et timore Dei.

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dubita di lui, e d'altra parte menoma la digni­ tà di una persona il fatto che si dubiti della verità di quanto dice. Quindi alle persone di grande dignità non si addice giurare. Così dunque i Canoni prescrivono che «i sacerdoti non devono giurare per motivi non gravi». Tuttavia possono farlo per qualche vera ne­ cessità o per una grande utilità, specialmente in questioni di ordine spirituale. - Per queste ultime è bene inoltre che i giuramenti siano fatti nei giorni solenni, nei quali si deve atten­ dere alle cose spirituali; non vanno invece fatti in tali giorni per gli affari temporali, sal­ vo casi di grave nece..c;sità. Soluzione delle difficoltà: l . Ci sono alcuni che non possono confermare le loro parole per una loro deficienza, mentre ci sono altri le cui parole vanno considerate così certe da non avere bisogno di conferma. 2. n giuramento di per sé è tanto più santo e tanto più obbligatorio quanto superiore è l'es­ sere per cui si giura, come nota Agostino. E da questo lato giurare per Dio è più che giura­ re per i Vangeli. Ma può essere vero il contra­ rio per le modalità del giuramento: se p. es. il giuramento che si fa sui Vangeli viene fatto con una certa deliberazione e solennità, men­ tre quello che si fa su Dio viene fatto con leg­ gerezza e senza deliberazione. 3. Nulla impedisce che una cosa possa venire eliminata da cause contrarie, che si contrap­ pongono come l 'eccesso e il difetto. E in questo modo alcuni sono esclusi dal giura­ mento perché hanno un'autorità così grande da rendere ad essi poco conveniente il giura­ re, mentre altri invece ne sono esclusi perché la loro autorità non è tale da dare credito al loro giuramento. 4. Il giuramento dell' angelo non è fatto per supplire a una sua deficienza, quasi che non fossero da credersi le sue semplici afferma­ zioni, ma per mostrare che quanto viene detto deriva dali' infallibile disposizione di Dio. E in questo senso nella Scrittura si dice talvolta che anche Dio giura, per mostrare l'immuta­ bilità di quanto viene affermato, come è detto in Eb 6 [ 1 7].

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L 'uso del nome di Dio sotto forma di scongiuro

Q. 90, A. l

QUAESTI0 90 DE ASSUMPTIONE DIVINI NOMINIS PER MODUM ADIURATIONIS

QUESTIONE 90 L'USO DEL NOME DI DIO SOTTO FORMA DI SCONGIURO

Deinde considerandum est de assumptione divini nominis per modum adiurationis. Et circa hoc quaeruntur tria. Primo, utrum liceat adiurare homines. Secundo, utrum liceat adiu­ rare daemones. Tertio, utrum liceat adiurare irrationales creaturas.

Veniamo ora a parlare dell'uso del nome di Dio sotto forma di scongi\lfo. Sull' argomento si pongono tre guesiti: l . E lecito scongiurare gli �omini? 2. E lecito scongiurare i demoni? 3 . E lecito scongiurare le creature prive di ragione?

Articulus l Utrum liceat hominem adiurare

È lecito scongiurare un uomo?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod non liceat hominem adiurare. l. Dicit enim Origenes, Super Matth. [Com­ mentariorum series, n. 1 1 O super 26,63], aesti­ mo quoniam non oportet ut vir qui vult se­ cundum Evangelium vivere, adiuret alterum. Si enim iurare non licet, quantum ad evange­ licum Christi mandatum, notwn est quia nec adiurare altenon licet. Propterea manifestum est quoniam princeps sacerdotum Iesum illi­ cite adiuravit per Deum vivum. 2. Praeterea, quicumque adiurat aliquem, quodammodo ipsum compellit. Sed non licet alium invitum cogere. Ergo videtur quod nec liceat aliquem adiurare. 3. Praeterea, adiurare est aliquem ad iuran­ dum inducere. Sed inducere aliquem ad iu­ randum est superiorum, qui inferioribus iura­ menta i mponunt. Ergo inferiores superiores suos non possunt adiurare. Sed contra est quod etiam Deum obsecramus per aliqua sacra eum obtestantes. Apostolus etiam fideles obsecrat per misericordiam Dei, ut patet Rom. 1 2 [ 1], quod videtur ad quan­ dam adiurationem pertinere. Ergo licitum est alios adiurare. Respondeo dicendum quod ille qui iurat iura­ mento promissorio, per reverentiam divini no­ minis, quod ad confirmationem suae promis­ sionis inducit, seipsum obligat ad faciendum quod promittit, quod est seipsum immobiliter ordinare ad aliquid agendum. Sicut autem homo seipsum ordinare potest ad aliquid agen­ dum, ita etiam et alios, superiores quidem deprecando, inferiores autem imperando, ut ex supradictis [q. 83 a. l ] p a te t. Cum igitur utraque ordinatio per aliquod divinum con­ firmatur, est adiuratio. In hoc tamen differt,

Sembra di no. Infatti: l . Origene ha scritto: «Penso che un uomo che intende vivere secondo il Vangelo non debba scongiurare un altro. Se infatti non è lecito giurare, stando al precetto evangelico di Cristo, è chiaro che non è lecito neppure scongiurare. Perciò è evidente che il principe dei sacerdoti scongiurò illecitamente Gesù per il Dio vivente». 2. Chi scongiura una persona in qualche mo­ do la costringe. Ma costringere un altro con­ tro la sua volontà non è lecito. Quindi neppu­ re è lecito scongiurarlo. 3. Scongiurare [ad-iurare] significa indurre un altro «a giurare». Ma ciò spetta ai superio­ ti, i quali possono imporre agli inferiori il giu­ ramento. Perciò gli inferiori non possono scongiurare i superiori. In contrario: noi scongiuriamo Dio stesso, quando lo invochiamo appellandoci a delle cose sante. E anche Paolo scongiura per la misericordia di Dio i fedeli, come risulta da Rm 1 2 [ l ], il che si riduce a uno scongiuro. Perciò scongiurare gli altri è cosa lecita. Risposta: chi giura col giuramento promisso­ tio, che egli fa in ossequio a Dio per confer­ mare la propria promessa, obbliga se stesso a fare ciò che promette, il che significa ordinare irrevocabilmente se stesso a compiere una da­ ta cosa. Ora, come uno può ordinare se stesso a fare qualcosa, così può ordinare anche gli altri: i superiori con la preghiera e gli inferiori con il comando, secondo le spiegazioni date sopra. Quando dunque questi due atti sono suffragati da qualcosa di divino, si ha lo scon­ giuro. C'è però questa differenza, che l'uomo è padrone dei propri atti, non già di quelli che devono essere compiuti da altri. Egli quindi

Articolo l

Q. 90, A. l

L 'uso del nome di Dio sotto forma di scongiuro

quod homo est suorum actuum dominus, non autem est dominus eorum quae sunt ab alio agenda. Et ideo sibi ipsi potest necessitatem imponere per divini nominis invocationem, non autem hanc necessitatem potest aliis impo­ nere, nisi subditis, quos potest ex debito prae­ stiti iuramenti compellere. Si igitur aliquis per invocationem divini nominis, vel cuiuscumque rei sacrae, alicui non sibi subdito adiurando necessitatem agendi aliquid imponere intendat, sicut imponit sibi ipsi iurando, talis adiuratio illicita est, quia usurpat potestatem in alium quam non habet. Tamen propter aliquam necessitatem superiores suos inferiores tali genere adiurationis constringere possunt. Si vero intendat solummodo per reverentiam divi­ ni nominis, vel alicuius rei sacrae, aliquid ab alio obtinere absque necessitatis impositione, talis adiuratio licita est respectu quorumlibet. Ad primum ergo dicendum quod Origenes lo­ quitur de adiuratione qua aliquis alicui necessi­ tatem imponere intendit, sicut imponit sibi ipsi iurando, sic enim princeps sacerdotum prae­ sumpsit Dominum Iesum Christum adiurare. Ad secundum dicendum quod illa ratio proce­ dit de adiuratione quae necessitatem imponit. Ad tertium dicendum quod adiurare non est aliquem ad iurandum inducere, sed per quan­ dam similitudinem iuramenti a se inducti, alium ad aliquid agendum provocare. Aliter tamen adiuratione utimur ad hominem, et ali­ ter ad Deum. Nam adiurando hominis volun­ tatem per reverentiam rei sacrae immutare intendimus, quod quidem non intendimus circa Deum, cuius voluntas est immutabilis; sed quod a Deo per aeternam eius voluntatem aliquid obtineamus, non est ex meritis nostris, sed ex eius bonitate. Articulus 2 Utrum liceat daemones adiurare Ad secundum sic proceditur. Videtur quod non liceat daemones adiurare . l . Dicit enim Origenes, Super Matth. [Com­ mentariorum series, n. 1 1 O super 26,63], non

est secwuiwn potestatem datam a Salvatore adiurare daemonia, Judaicum enim est hoc. Non autem debemus Iudaeorum ritus imitari, sed potius uti potestate a Christo data. Ergo non est licitum daemones adiurare. 2. Praeterea, multi nigromanticis incantationi-

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può imporre una necessità a se stesso me­ diante l'invocazione del nome di Dio, ma non può imporla agli altri, eccettuati i suoi sudditi, che può costringere in forza del giuramento prestato. Se quindi uno con l'invocazione del nome di Dio, o di qualsiasi cosa sacra, inten­ desse imporre a chi non è suo suddito la ne­ cessità di agire, come fa con se stesso me­ diante il giuramento, il suo scongiuro sarebbe illecito: poiché si arrogherebbe un potere su altri che non ha. I superiori tuttavia in caso di necessità possono costringere in questo modo i loro sottoposti. Se però uno mira soltanto a ottenere da altri qualcosa senza una vera imposizione, appellandosi al rispetto del no­ me di Dio o di altre cose sacre, il suo scongiu­ ro è lecito nei riguardi di chiunque. Soluzione delle diftìcoltà: l . Origene parla dello scongiuro in cui uno intende imporre una necessità ad altri come fa con se stesso mediante il giuramento: infatti il principe dei sacerdoti pretese di scongiurare così il Signo­ re nostro Gesù Cristo. 2. L'argomento vale per lo scongiuro che mi­ ra a imporre una necessità. 3 . Scongiurare non significa indurre altri a giurare, ma ha una somiglianza col giurare, in quanto provoca altri ad agire. Tuttavia lo scongiuro che rivolgiamo all'uomo è diverso da quello che rivolgiamo a Dio. Quando infat­ ti scongiuriamo un uomo miriamo a mutare la sua volontà in ossequio alle cose sante; non miriamo invece a questo quando ci rivolgia­ mo a Dio, la cui volontà è immutabile, ma sottolineiamo il fatto che ottenere qualcosa dal suo eterno volere non dipende dai nostri meriti, ma dalla sua bontà. Articolo 2

È lecito scongiurare i demoni? Sembra di no. Infatti: l . Origene ha scritto: «Scongiurare i demoni non è secondo il potere dato dal Salvatore: è infatti un uso giudaico». Ora, noi non dobbia­ mo imitare i riti dei Giudei, ma piuttosto usare dei poteri concessi da Cristo. Quindi non è lecito scongiurare i demoni. 2. Molti negli incantesimi dei negromanti invocano i demoni appellandosi a cose divine, cioè agli scongiuri. Se quindi fosse lecito

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L 'uso del nome di Dio sottoforma di scongiuro

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bus daemones per aliquid divinum invocant, quod est adiurare. Si igitur licitum est dae­ mones adiurare, licitum est nigromanticis incantationibus uti. Quod patet esse falsum. Ergo et primum. 3. Praeterea, quicumque adiurat aliquem, ex hoc ipso aliquam societatem cum ipso facit. Sed non licet cum daemonibus societatem facere, secundum illud l Cor. 1 0 [20] , nolo vos socios fieri daemoniomm. Ergo non licet daemones adiurare. Sed contra est quod dicitur Mare. 1 6 [ 1 7], in nomine meo daemonia eiicient. Sed inducere alium ad aliquid agendum propter nomen divinum, hoc est adiurare. Ergo licitum est daemones adiurare. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. l ] , duplex est adiurandi modus, unus qui­ dem per modum deprecationis vel inductionis ob reverentiam alicuius sacri; alius autem per modum compulsionis. Primo autem modo non licet daemones adiurare, quia ille modus adiu­ randi videtur ad quandam benevolentiam vel arnicitiam pertinere, qua non licet ad daemones uti. - Secundo autem adiurationis modo, qui est per compulsionem, licet nobis ad aliquid uti, et ad aliquid non licet. Daemones enim in cursu huius vitae nobis adversarii constituun­ tur, non autem eorum actus nostrae dispositioni subduntur, sed dispositioni divinae et sancto­ rum angelorum; quia, ut Augustinus dicit, in 3 De Trin. [4], spiritus desertor regiturper spiri­ tum iustum. Possumus ergo daemones, adiu­ rando, per virtutem divini norninis tanquam i nimicos repellere, ne nobis noceant vel spiritualiter vel corporaliter, secundum pote­ statem datam a Christo, secundum illud Luc. 10 [ 19], ecce, dedi vobis potestatem calcandi

scongiurare i demoni, sarebbe lecito anche ricorrere agli incantesimi dei negromanti. n che è falso. 3. Chi scongiura una persona per ciò stesso fa società con essa. Ma con i demoni non si può fare società alcuna, secondo l e parole d i l Cor 1 0 [20]: Non voglio che voi entriate in comunione con i demoni. Quindi non è lecito scongiurare i demoni. In contrario: in Mc 16 [ 1 7] : Nel mio nome scacceranno i demoni. Ora, indurre altri a fare qualcosa per il nome di Dio equivale a scon­ giurarli. Quindi è lecito scongiurare i demoni. Risposta: come si è visto, ci sono due modi di scongiurare: il primo si realizza sotto forma di preghiera o di persuasione in ossequio a qual­ cosa di sacro; l 'altro invece sotto fotma di im­ posizione. Ora, scongiurare i demoni nella pri­ ma maniera non è lecito: poiché tale modo di scongiurare parte da una certa benevolenza o amicizia, che non si può avere per i demoni. ­ Invece il secondo modo di scongiurare, quello sotto forma di imposizione, è lecito per certe cose e illecito per altre. Infatti nella vita pre­ sente i demoni sono nostri avversari, e quindi i loro atti non sottostanno ai nostri ordini, ma a quelli di Dio e degli angeli santi: poiché, come dice Agostino, «lo spirito ribelle è governato dallo spirito giusto». Perciò noi possiamo scacciare i demoni nemici scongiu­ randoli in virtù del nome di Dio perché non ci facciano del male, sia spiritualmente che fisicamente, per il potere a noi concesso da Cristo e di cui è detto in Le 10 [ 1 9] : Ecco, io

supra se1pentes et scmpiones, et supra omnem virtutem inimici, et nihil vobis nocebit. Non

ottenere da loro qualcosa: poiché ciò com­ porterebbe una cetta comunicazione con essi; a meno che un santo non lo faccia per un'ispi­ razione o rivelazione divina, come si legge di san Giacomo, il quale dai demoni si fece con­ durre dinanzi Ermogene. Soluzione delle difficoltà: l . Origene non parla dello scongiuro che si fa con autorità sotto forma di imposizione, ma di quello che si fa in fonna di benevola invocazione. 2. I negromanti praticano gli scongiuri e le invocazioni dei demoni per ricevere o per im­ parare qualcosa da loro: e questo è illecito, come si è detto. Perciò il Crisostomo com-

tamen licitum est eos adiurare ad aliquid ab eis addiscendum, vel etiam ad aliquid per eos obti­ nendum, quia hoc pertineret ad aliquam socie­ tatem cum ipsis habendam, nisi forte ex spe­ ciali instinctu vel revelatione divina, aliqui sancti ad aliquos effectus daemonum operatio­ ne utantur; sicut legitur de beato lacobo [cf. Iacobum a Voragine, Legenda Aurea 99; Fabricius, Hist certaminis apostolici 4,3] quod per daemones fecit Hermogenem ad se adduci. Ad primum ergo dicendum quod Origenes loquitur de adiuratione quae non fit protestati-

vi ho dato il potere di camminare sopra i se1penti e gli sco1pioni, e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare. Però non è lecito scongiurarli per imparare o per

Q. 90, A. 2

L 'uso del nome di Dio sotto forma di scongiuro

ve per modum compulsionis, sed magis per modum cuiusdam benevolae deprecationis. Ad secundum dicendum quod nigromantici utuntur adiurationibus et invocationibus dae­ monum ad aliquid ab eis adipiscendum vel addiscendum, et hoc est illicitum, ut dictum est [in co.]. Unde Chrysostomus dicit, Mare. l [25], exponens illud verbum Domini, quod spiritui immundo dixit [De Lazaro h. 2],

obmutesce, et exi de homine, salutiferum hic nobis dogma datw; ne credamus daemonibus, quantumcumque denuntient veritatem.

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menta così le parole del Signore: Taci ed esci «Qui ci viene data questa norma salutare: di non credere ai demoni, per quanto essi proclamino la verità». 3. L'obiezione riguarda lo scongiuro nel quale si invoca l' aiuto dei demoni per compiere o per conoscere qualcosa: ciò implica i nfatti una cetta comunicazione con essi. Lo scac­ ciarli invece con gli scongiuri equivale a rifiu­ tare la loro compagnia.

da costui (Mc l ,25):

Ad tertium dicendum quod ratio illa procedit de adiuratione qua imploratur auxilium dae­ monum ad aliquid agendum vel cognoscen­ dum, hoc enim videtur ad quandam societa­ tem pertinere. Sed quod aliquis adiurando daemones repellat, hoc est ab eorum societate recedere. Articulus 3 Utrum Iiceat adiurare irrationalem creaturam Ad tertium sic proceditur. Videtur quod non liceat adiurare irrationalem creaturam. l . Adiuratio enim fit per locutionem. Sed fru­ stra sermo dirigitur ad eum qui non intelligit, qualis est iiTationalis creatura. Ergo vanum est et illicitum irrationalem creaturam adiurare. 2. Praeterea, ad eum videtur competere adiu­ ratio ad quem pertinet iuratio. Sed iuratio non pertinet ad creaturam irrationalem. Ergo vide­ tur quod ad eam non liceat adiuratione uti. 3. Praeterea, duplex est adiurationis modus, ut ex supradictis [aa. 1 -2] patet. Unus quidem per modum deprecationis, quo non possumus uti ad iiTationalem creaturam, quae non est domina sui actus. Alia autem est adiuratio per modum compulsionis, qua etiam, ut videtur, ad eam uti non possumus; quia non est no­ strum creaturis irrationalibus imperare, sed solum illius de quo dicitur, Matth. 8 [27], quia venti et mare obediunt ei. Ergo nullo modo, ut videtur, licet uti adiuratione ad iiTa­ tionales creaturas. Sed contra est quod Simon et Iudas leguntur adiurasse dracones, et eis praecepisse ut in desertum locum discederent [cf. Iacobum a Voragine, Legenda Aurea 1 59,2; Fabricius, Hist. Certaminis apostolici 6, 1 6] . Respondeo dicendum quod creaturae irratio-

Articolo 3

È lecito scongiurare le creature prive di ragione? Sembra di no. Infatti: l . Lo scongiuro si fa con la parola. Ma dirige­ re la parola a chi, come le creature prive di ra­ gione, non può intenderla, è una cosa inutile. Quindi è vano e illecito scongiurare le creatu­ re inazionali. 2. Lo scongiuro sembra debba competere a co­ lui al quale spetta il giuramento. Ma alle crea­ ture irrazionali non spetta il giuramento. Quin­ di ad esse non si può rivolgere lo scongiuro. 3. Come sopra si è visto, ci sono due tipi di scongiuro. Il primo è sotto forma di invocazio­ ne: e questo non lo possiamo usare verso le creature iiTazionali, che non hanno il dominio dei loro atti. n secondo invece è sotto forma di imposizione: e anche di questo non possiamo servirei contro di esse, poiché non è in nostro potere comandare alle creature prive di ragio­ ne, ma ciò spetta solo a colui del quale è detto:

I venti e il mare gli ubbidiscono (Mt 8,27). Perciò in nessun modo è lecito servirsi dello scongiuro verso le creature iiTazionali. In contrario: si legge che i santi Simone e Giuda scongiurarono i serpenti, comandando loro di ritirarsi nel deserto. Risposta: le creature prive di ragione sono spinte da altri alle proprie operazioni. Ora, l'azione di chi è spinto o mosso è identica a

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L 'uso del nome di Dio sottoforma di scongiuro

Q. 90, A. 3

nales ab allo aguntur ad proprias operationes. Eadem autem actio est eius quod agitur et movetur, et eius quod agit et movet, sicut motus sagittae est etiam quaedam operatio sagittantis. Et ideo operatio irrationalis creatu­ rae non solum ipsi attribuitur, sed principaliter Deo, cuius dispositione omnia moventur. Pertinet etiam ad diabolum, qui, petmissione divina, utitur aliquibus irrationalibus creaturis ad nocendum hominibus. - Sic ergo adiuratio qua quis utitur ad irrationalem creaturam, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ut adiu­ ratio referatur ad ipsam creaturam irrationa­ lem secundum se. Et sic vanum esset irratio­ nalem creaturam adiurare. - Alio modo, ut referatur ad eum a quo irrationalis creatura agitur et movetur. Et sic dupliciter adiuratur irrationalis creatura. Uno quidem modo, per modum deprecationis ad Deum directae, quod pertinet ad eos qui divina invocatione miracula faciunt. Alio modo, per modum compulsionis, quae refertur ad diabolum, qui in nocumentum nostrum utitur irrationabili­ bus creaturis, et talis est modus adiurandi in Ecclesiae exorcismis, per quos daemonum potestas excluditur ab irrationalibus creaturis. Adiurare autem daemones ab eis auxilium implorando, non licet. Et per hoc patet responsio ad obiecta.

quella di chi spinge o muove: come il moto della freccia è anche un'azione dell'arciere. Perciò l' atto della creatura priva di ragione non è attribuito ad essa soltanto, ma principal­ mente a Dio, dal cui volere sono poste in moto tutte le cose. E può appmtenere anche al dia­ volo, il quale per divina permissione si serve di certe creature irrazionali per nuocere all'uo­ mo. - Così dunque lo scongiuro che uno indirizza a una creatura priva di ragione può essere inteso in due modi. Primo, nel senso che lo scongiuro è rivolto direttamente a tale creatura in se stessa. E così sarebbe vano scongiurare una creatura irragionevole. - Se­ condo, nel senso che lo scongiuro è rivolto a colui dal quale la creatura priva di ragione riceve la spinta e il movimento. E qui possia­ mo distinguere due tipi di scongiuro. n primo è fatto sotto forma di preghiera ed è rivolto a Dio: e questo è proprio di coloro che compio­ no dei miracoli con l'invocazione di Dio. n se­ condo è fatto sotto forma di imposizione ed è rivolto al demonio, il quale si serve delle crea­ ture prive di ragione a nostro danno: e tale è lo scongiuro che è in uso nella Chiesa con gli esorcismi, mediante i quali viene tolto il pote­ re che hanno i demoni sulle creature prive di ragione. Non è lecito invece scongiurare i de­ moni chiedendo il loro aiuto. Sono così risolte anche le difficoltà.

QUAESTI0 9 1 DE ASSUMPTIONE DIVINI NOMINIS AD INVOCANDUM PER LAUDEM

QUESTIONE 9 1 L'USO DEL NOME DI DIO NELLA PREGHIERA DI LODE

Deinde considerandum est de assumptione divini norninis ad invocandum per orationem vel laudem. Et de oratione quidem iam dic­ tum est. Unde nunc de laude restat dicendum. - Circa quam quaeruntur duo. Primo, utrum Deus sit ore laudandus. Secundo, utrum in laudibus Dei sint cantus adhibendi.

Veniamo ora a trattare dell'uso che facciamo del nome di Dio invocandolo nella preghiera e nella lode. Ma della preghiera abbimno già parlato. Perciò rimane ora da trattare della lode . - Sull' argomento si pongono due quesiti: l . Dio va lodato con le labbra? 2. Nella lode di Dio si può fare uso del canto?

Articulus l Utrum Deus sit ore laudandus

Articolo l Dio va lodato con le labbra?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod Deus non sit ore laudandus. l . Dicit enim philosophus, in l Ethic. [12,4], optimorum non est laus, sed maius aliquid et melius. Sed Deus est super omnia optima.

Sembra di no. Infatti: l . Il Filosofo ha scritto: «Per l'ottimo non c'è la lode, ma qualcosa di più e di meglio». Ora, Dio è sopra tutto ciò che è ottimo. Quindi a Dio non si deve la lode, ma qualcosa di supe-

Q. 91, A. l

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L 'uso del nome di Dio nella preghiera di lode

Ergo Deo non debetur laus, sed aliquid maius laude. Unde et Eccli. 43 [33] dicitur quod Deus maior est omni laude. 2. Praeterea, laus Dei ad cultum ipsius perti­ net, est enim religionis actus. Sed Deus mente c o l itur m ag i s quam ore, unde Dominus, Matth. 1 5 [7-8] , contra quosdam inducit illud Isaiae, populus hic labiis me honorat, cor autem eorum longe est a me. Ergo laus Dei magis consistit in corde quam in ore. 3. Praeterea, homines ad hoc ore laudantur ut ad meliora provocentur. Sicut enim mali ex suis laudibus superbiunt, ita boni ex suis lau­ dibus ad meliora provocantur, unde dicitur Prov. 27 [2 1 ] , quomodo probatur in conjlato­

rio argentum, sic probatur homo ore laudan­ tium. Sed Deus per verba hominum non pro­

vocatur ad meliora, tum quia immutabilis est; tum quia summe bonus est, et non habet quo crescat. Ergo Deus non est laudandus ore. Sed contra est quod dicitur in Ps. [62,6] ,

labiis exultationis laudabit os meum.

Respondeo dicendum quod verbis alia ratione utimur ad Deum, et alia ratione ad hominem. Ad hominem enim utimur verbis ut concep­ tum nostri cordis, quem non potest cognosce­ re, verbis nostris ei exprimamus. Et ideo laude oris ad hominem utimur ut vel ei vel aliis innotescat quod bonam opinionem de laudato habemus, ut per hoc et ipsum qui lau­ datur ad meliora provocemus; et alios, apud quos laudatur, in bonam opinionem et reve­ rentiam et i mitationem ipsius i nducamus. Sed ad Deum verbis utimur non quidem ut ei, qui est inspector cordium, nostros conceptus m an i festemus, sed ut nos ipsos et alios audientes ad eius reverentiam inducamus. Et ideo necessaria est laus oris, non quidem propter Deum, sed propter ipsum laudantem, cuius affectus excitatur in Deum ex laude ipsius, secundum illud Ps. [49,23] , sacrifì­

riore ad essa. Per cui in Sir 43 [33] è detto che Dio è superiore a ogni lode. 2. La lode di Dio fa parte del culto verso di lui: essa infatti è un atto di religione. Ma Dio è venerato più con la mente che con la bocca: per cui il Signore in Mt 1 5 [7] ripete contro alcuni il passo di fs [29, 1 3]: Questo popolo

mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lon­ tano da me. Perciò la lode di Dio consiste più

nei moti del cuore che in quelli delle labbra. 3. Si lodano gli uomini per incitarli a cose mi­ gliori. Mentre infatti i cattivi si insuperbiscono delle lodi, i buoni sono da esse provocati a far meglio. Per cui in Pr 27 [2 1 ] è detto: Come il

crogiolo è per l'argento, così l'uomo rispetto alla bocca di chi lo loda. Ma Dio non può esse­ re incitato al meglio dalle parole dell'uomo: sia perché è immutabile, sia perché non può mi­ gliorare, essendo sommamente buono. Quindi non c'è motivo di lodare Dio con le labbra. In contrario: nel Sal 62 [6] è detto: Con voci

di esultanza ti loderà la mia bocca.

Risposta: la ragione per cui rivolgiamo la paro­ la a Dio è diversa da quella per cui la rivol­ giamo a un uomo. A quest' ultimo infatti la ri­ volgiamo per esprimere con essa il nostro pen­ siero, che egli altiimenti non poti-ebbe conosce­ re. Quindi ricorriamo alla lode per far conosce­ re all'interessato o ad altri la buona opinione che abbiamo di lui: al fine di incitarlo a far me­ glio e insieme di indurre gli altri, dinanzi ai quali lo lodiamo, a stimarlo, a onorario e a imi­ tarlo. - A Dio invece rivolgiamo la parola non per manifestare il nostro pensiero a lui, scruta­ tore dei cuori, ma per indurre noi stessi e coloro che ci ascoltano a onorario. Perciò la lode delle labbra è necessaria non a motivo di Dio, ma a motivo di chi la pronunzia, perché in tal modo i suoi affetti vengono dalla lode eccitati verso il Signore, secondo le parole del Sal 49 [23]: Chi

cium laudis honorificabit me, et illic iter quo ostendam il/i salutare Dei. Et inquantum

offre il sacrificio di lode, questi mi onora; que­ sta è la via per cui gli mostrerò la salvezza di Dio. E l'uomo, per il tatto che con la lode di­

homo per divinam laudem afiectu ascendit in Deum, intantum per hoc retrahitur ab his quae sunt contra Deum, secundum illud Isaiae 48 [9] , laude mea infrenabo te, ne intereas. Proficit etiam laus oris ad hoc quod aliorum affectus provocetur in Deum. Unde dicitur in Ps. [33,2] , semper laus eius in ore meo, et postea [3-4] subditur, audiant mansueti, et

vina si innalza verso Dio, per ciò stesso viene distolto dalle cose a lui contrarie, secondo le parole di /s 48 [9]: 1ì terrò a freno con le mie lodi, affinché tu non perisca. Inoltre la lode esterna serve a incitare l'affetto degli altri verso Dio. Da cui le parole del Sal 33 [2]: Sulle mie labbra sempre la sua lode, alle quali si aggiun­ ge [3 s.] : Ascoltino gli umili e si rallegrino.

-

laetentur. Magnificate Dominum mecum.

-

Magnificate con me il Signore.

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L 'uso del nome di Dio nella preghiera di lode

Q. 9 1 , A. l

Ad primum ergo dicendum quod de Deo dupliciter possumus loqui. Uno modo, quan­ tum ad eius essentiam. Et sic, cum sit incom­ prehensibilis et ineffabilis, maior est omni laude. Debetur autem ei secundum hanc com­ parationem reverentia et latriae honor. Unde in Psalterio Hieronyrni [Psalt. Hebr., ps. 64,2] dicitur, tibi si/et laus, Deus, quantum ad pri­ mum; et, tibi reddetur votum, quantum ad secundum. - Alio modo, secundum effectus ipsius, qui in nostram utilitatem ordinantur. Et secundum hoc debetur Deo laus. Unde dicitur Isaiae 63 [7], miserationwn Domini recorda­ bOJ; laudem Domini super omnibus quae red­ didit nobis Dominus. Et Dionysius dicit, l cap. De div. nom. [4], omnem sanctum theo­ logorum hymnum, idest divinam laudem, invenies ad bonos thearchiae, idest divinitatis, processus manifestative et laudative Dei nominationes dividentem. Ad secundum dicendum quod laus oris inuti­ lis est laudanti si sit sine laude cordis, quod loquitur Deo laudem dum magnalia eius ope­ rwn recogitat cum affectu. Valet tamen exte­ rior laus oris ad excitandum interiorem affec­ tum laudantis, et ad provocandum alios ad Dei laudem, sicut dictum est [in co.]. Ad tertium dicendum quod Deum non lau­ damus propter utilitatem suam, sed propter utilitatem nostram, ut dictum est [in co.].

Soluzione delle difficoltà: l . Dio possiamo considerarlo sotto due aspetti. Innanzitutto rispetto alla sua essenza. E da questo lato, essendo egli incomprensibile e ineffabile, è superiore a ogni lode. Ora, sotto tale aspetto a lui si deve l'onore e il culto di latria. Per cui anche nel Sal 64 [2], secondo la traduzione di Girolamo, per indicare queste due cose abbiamo le due espressioni seguenti: Tace per te la lode, o Dio, quanto alla prima, e A te si renderanno i voti, quanto alla seconda. - In secondo luogo rispetto ai suoi effetti, che sono ordinati alla nostra utilità. E da questo lato a Dio si deve la lode. Da cui le parole di Is 63 [7] : Ricorderò i benefici del Signore, annunzierò la sua lode per quanto egli ci ha fatto. E Dionigi afferma: «Tu troverai che tutti gli inni santi dei teologi, cioè le lodi di Dio, lodano e manifestano i nomi divini, secondo le buone emanazioni della sua tearchia, o divinità». 2. La lode delle labbra è inutile senza la lode del cuore, il quale canta le lodi di Dio quando rimedita con affetto la grandezza delle sue opere. Tuttavia la lode esterna serve a eccitare l'affetto interiore di chi la pronunzia, e a inci­ tare gli altri alla lode di Dio, come si è visto. 3. Lodiamo Dio non per utilità sua, ma a van­ taggio nostro, come si è spiegato.

Articulus 2 Utrum cantus sint assumendi ad laudem divinam

Articolo 2 Nella lode di Dio si deve fare uso del canto?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod cantus non sint assumendi ad laudem divinam. l . Dicit enim apostolus, ad Col. 3 [ 1 6], do­ centes et commonentes vosmetipsos in psal­ mis et hymnis et canticis spiritualibus. Sed nihil assumere debemus in divinum cultum praeter ea quae nobis auctoritate Scripturae traduntur. Ergo videtur quod non debemus uti in divinis laudibus canticis corporalibus, sed solum spiritualibus. 2. Pmeterea, Hieronymus, super illud ad Eph. 5, cantantes et psallentes in cordibus vestris Domùw, dicit [In Eph. 3 super 5, 1 9], audiant haec adolescentuli quibus in Ecclesia est psal­ lendi officium, Deo non voce, sed corde can­ tandum, nec in tragoediarum modum guttur et fauces medicamine liniendae sunt, ut in Ec-

Sembra di no. Infatti: l . Paolo in Col 3 [ 1 6] dice: Ammaestratevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e cantici spirituali. Ora, nel culto divino non dobbiamo servirei se non di quanto viene a noi raccomandato dalla Scrittura. Quindi non dobbiamo ricorrere nelle lodi di Dio a cantici materiali, ma accontentarci di quelli spirituali. 2. Girolamo così commenta le parole di Ef 5 [ 1 9]: Cantando e salmodiando al Signore nei vostri cuori: «Ascoltino queste parole gli ado­ lescenti che in chiesa hanno l'incarico della salmodia, e ricordino che a Dio non si canta con la voce, ma col cuore; e che la gola e le labbra non vanno addolcite con droghe come si usa nelle tragedie, così da far sentire in

Q. 9 l , A. 2

L 'uso del nome di Dio nella preghiera di lode

clesia theatrales moduli audiantur et cantica.

Non ergo in laudes Dei sunt cantus assumendi. 3. Praeterea, laudare Deum convenit parvis et magnis, secundum illud Apoc. 19 [5] , laudem

dicite Deo nostro, omnes servi eius et qui timetis illum, pusilli et magni. Sed maiores qui sunt in Ecclesia non decet cantare, dicit enim Gregorius [Registrum, app. fragm. 5 Decreta S . Gregor. papae 1], et habetur i n Decretis, dist. 92, cap. In sancta Romana Ecclesia [Decretum p. l , d. 92, can. 2] , prae­

senti decreto constituo ut in sede hac sacri altaris ministri cantare non debeant. Ergo cantus non conveniunt divinis laudibus.

4. Praeterea, in veteri lege laudabatur Deus in musicis instrumentis et humanis cantibus, se­ cundum illud Ps. [32,2-3], confitemini Domi­

no in cithara; in Psalterio decem chordarum psallite illi; cantate ei canticum novum. Sed

instrumenta musica, sicut citharas et Psalteria, non assumit Ecclesia in divinas laudes, ne vi­ deatur iudaizare. Ergo, pari ratione, nec can­ tus in divinas laudes sunt assumendi. 5. Praeterea, principalior est laus mentis quam laus oris. Sed laus mentis impeditur per can­ tus, tum quia cantantium intentio abstrahitur a consideratione eorum quae cantant, dum circa cantum student; tum etiam quia ea quae can­ tantur minus ab aliis intelligi possunt quam si sine cantu proferrentur. Ergo cantus non sunt divinis laudibus adhibendi. Sed contra est quod beatus Ambrosius in Ec­ clesia Mediolanensi cantus instituit, ut Augu­ stinus refert, in 9 Conf. [7]. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1], laus vocalis ad hoc necessaria est ut affeclus hominis provocetur in Deum. Et ideo quae­ cumque ad hoc utilia esse possunt, in divinas laudes congruenter assumuntur. Manifestum est autem quod secundum diversas melodias sono­ rum animi hominum diversimode disponuntur, ut patet per philosophum, in 8 Pol. [5,8], et per Boetium, in prologo Musicae [ l , l ] . Et ideo salu­ briter fuit institutum ut in divinas laudes cantus assumerentur, ut animi infirmorum magis pro­ vocarennrr ad devotionem. Unde Augustinus di­ cit, in l O Conf. [33], adducor cantandi consue­

tudinem approbare in Ecclesia, ut per oblecta­ menta aurium injinnorum animus in affectum pietatis assurga!. Et de seipso dicit, in 9 Conf. [6], jlevi in hymnis et canticis tuis, suave so­ nantis Ecclesiae tuae vocibus commotus acrite1:

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chiesa modulazioni teatrali». Perciò nelle lodi di Dio non si deve fare uso del canto. 3. La lode di Dio spetta ai grandi e ai piccoli, secondo Ap 1 9 [5]: Lodate il nostro Dio, voi

tutti suoi santi, voi che lo temete, piccoli e grandi. Eppure ai ministri maggiori della

Chiesa non è permesso cantare: così infatti si esprime Gregorio in un testo inserito nei Ca­ noni: «Col presente decreto è stabilito che in questa Sede [della Chiesa Romana] ai mini­ stri dell' altare è proibito cantare». Quindi il canto non si addice alle lodi di Dio. 4. Nell'antica legge Dio veniva lodato con gli strumenti musicali e con il canto, secondo il Sal 32 [2]: Lodate il Signore con /a cetra, con

l'mpa a dieci corde a lui salmodiate, cantate a lui un canto nuovo. Ora la Chiesa, per non

sembrare favorevole a pratiche giudaiche, non ha assunto, nelle lodi divine, strumenti musi­ cali come le cetre e le arpe. Quindi per lo stesso motivo nelle lodi divine vanno esclusi anche i canti. 5. La lode della mente è superiore a quella delle labbra. Ma la lode della mente viene impedita dai canti: sia perché l' attenzione di chi canta, mentre si preoccupa della melodia, viene distratta dalla considerazione di ciò che canta, sia perché le cose che si cantano sono comprese dagli altri meno che se fossero enunciate senza il canto. Perciò il canto non deve essere usato nelle lodi di Dio. In contrario: Ambrogio introdusse il canto nella chiesa di Milano, come narra Agostino. Risposta: come si è visto nell'articolo prece­ dente, la lode vocale ha il compito di eccitare l 'affetto dell'uomo verso Dio. Perciò tutte le cose che possono servire a tale scopo possono convenientemente essere usate nelle lodi divi­ ne. Ora, è risaputo che l'animo umano viene disposto diversamente secondo le varie mo­ dulazioni dei suoni, come hanno fatto notare Aristotele e Boezio. Perciò fu opportunamen­ te stabilito che nelle lodi divine si facesse uso del canto, per eccitare in modo più efficace alla devozione le anime meno progredite. Da cui le parole di Agostino: «Inclino ad appro­ vare la consuetudine di cantare in chiesa, af­ finché grazie al diletto delle orecchie l'anima inferma si sollevi al sentimento della pietà>>. E di se stesso Agostino dice: «Piansi per gli inni e i cantici soavemente echeggianti della tua Chiesa, toccato da commozione profonda».

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L 'uso del nome di Dio nella preghiera di lode

Ad primum ergo dicendum quod cantica spi­ ritualia possunt dici non solum ea quae inte­ rius canuntur in spiritu, sed etiam ea quae exterius ore cantantur, inquantum per huius­ modi cantica spiritualis devotio provocatur. Ad secundum dicendum quod Hieronymus non vituperat simpliciter cantum, sed repre­ hendit eos qui in Ecclesia cantant more thea­ trico, non propter devotionem excitandam, sed propter ostentationem vel delectationem provocandam. Unde Augustinus dicit, in l O Conf. [33], cum mihi accidit ut me amplius

cantus quam res quae canitur moveat, poena­ liter me peccare confiteor, et tunc mallem non audire cantantem. Ad tertium dicendum quod nobilior modus est provocandi homines ad devotionem per doc­ trinam et praedicationem quam per cantum. Et ideo diaconi et praelati, quibus competit per praedicationem et doctrinam animos ho­ minum provocare in Deum, non debent can­ tibus insistere, ne per hoc a maioribus retra­ hantur. Unde ibidem [Registrum, app. fragm. 5 Decreta S. Gregor. papae I] Gregorius dicit,

consuetudo est valde reprehensibilis ut in dia­ conatus ordine constituti modulationi vocis inserviant, quos ad praedicationis officium et eleemosynarum studium vacare congruebat. Ad quartum dicendum quod, sicut philosophus dicit, in 8 Poi. [6,5], neque fistulas ad disci­

plinam est adducendum, neque aliquod aliud m1ificiale organwn, puta citharam et si quid tale alterum est, sed quaecumque facùmt au­ ditores bonos. Huiusmodi enim musica instru­ menta magis animum movent ad delectatio­ nem quam per ea formetur interius bona dispo­ siti o. In Veteri autem Testamento usus erat talium instrumentorum, tum quia populus erat magis durus et camalis, unde erat per huiusmo­ di instrumenta provocandus, sicut et per pro­ missiones terrenas. Tum etiam quia huiusmodi instrumenta corporalia aliquid figurabant. Ad quintum dicendum quod per cantum quo quis studiose ad delectandum utitur, abstrahi­ tur animus a consideratione eorum quae can­ tantur. Sed si aliquis cantet propter devotio­ nem, attentius considerat quae dicuntur, tum quia diutius moratur super eodem; tum quia, ut Augustinus dicit, in l O Conf. [33], omnes

affectus spiritus nostri pro sua diversitate habent proprios modos in voce atque cantu, quorum occulta familiaritate excitantur. Et

Q. 9 1 , A. 2

Soluzione delle difficoltà: l . Si possono chia­ mare cantici spirituali non soltanto quelli che vengono cantati interiormente nello spirito, ma anche quelli che vengono cantati esterna­ mente con la bocca, in quanto da essi viene eccitata una devozione spirituale. 2. Girolamo non disapprova il canto in modo assoluto, ma rimprovera coloro che in chiesa cantano come si è soliti fare in teatro, non per eccitare la devozione, ma per ostentazione, o per il solo godimento. Per cui Agostino scri­ ve: «Quando mi accade di sentirmi impres­ sionato più dal canto che da ciò che viene cantato, confesso di commettere un peccato degno di castigo; e allora preferirei non sentir cantare». 3. Eccitare gli uomini alla devozione con l ' insegnamento e con la predicazione è una cosa più eccellente che eccitarli con il canto. Perciò i diaconi e i prelati, che hanno il com­ pito di portare le anime a Dio con la predica­ zione e con l'insegnamento, non devono de­ dicarsi al canto, per non essere distolti da cose più, importanti. Da cui le parole di Gre­ gorio: «E un' usanza molto condannabile che i diaconi attendano alle melodie della voce, mentre incombe su di essi il dovere di predi­ care e di distribuire le elemosine». 4. Secondo il Filosofo «si devono abolire dal­ l' insegnamento il flauto, la cetra e qualsiasi altro strumento del genere, e ammettere sol­ tanto quelle cose che sono capaci di rendere onesti gli uditori». Infatti tali strumenti musi­ cali provocano l' animo più al piacere che alle buone disposizioni interiori. Ora, nell'Antico Testamento l' uso di tali strumenti era am­ messo sia perché il popolo era più duro e car­ nale, per cui bisognava smuoverlo con simili strumenti, come anche con promesse terrene, sia anche perché tali strumenti materiali ave­ vano un significato simbolico. 5. n canto di chi cerca il godimento estetico distrae l'animo dalla considerazione del testo che viene cantato. Ma se uno canta per devo­ zione, allora considera più attentamente le parole che dice, sia perché vi si ferma più a lungo, sia perché, come dice Agostino, «tutti i diversi sentimenti del nostro spirito trovano nella voce e nel canto le loro proprie modula­ zioni, che li fanno vibrare con un' occulta fa­ miliarità>>. E lo stesso si dica per coloro che ascoltano: i quali, sebbene talora non com-

Q. 9 1 , A. 2

L 'uso del nome di Dio nella preghiera di lode

eadem est ratio de audientibus, in quibus, etsi aliquando non intelligant quae cantantur, intelligunt tamen propter quid cantantur, scili­ cet ad Iaudem Dei; et hoc sufficit ad devotio­ nem excitandam.

QUAESTI092

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prendano ciò che viene cantato, tuttavia com­ prendono il motivo per cui si canta, cioè per dar lode a Dio; e ciò basta per eccitare [in essi] la devozione.

QUESTIONE 92

DE SUPERSTITIONE

LA SUPERSTIZIONE

Deinde considerandum est de vitiis religioni oppositis. Et primo, de illis quae cum religione conveniunt in hoc quod exhibent cultum divi­ num; secundo, de vitiis manife..>. Risposta: la gravità di un peccato può essere considerata da due punti di vista. Primo, in base al peccato in se stesso. E da questo lato il peccato più grave è quello dell'idolatria. Co­ me infatti in uno stato di questo mondo i l delitto più grave consiste nell' attribuire onori regali a chi non ha la dignità regale, poiché ciò di per sé turba tutto l' ordine dello stato, così tra i peccati che si commettono contro Dio, e che pertanto sono i più gravi, il più gra­ ve di tutti sembra essere quello di attribuire a una creatura onori divini: poiché questo gesto di per sé costruisce un altro Dio nel mondo,

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L 'idolatria

mundo, minuens principatum divinum. - Alio modo potest attendi gravitas peccati ex parte peccantis, sicut dicitur esse gravius peccatum eius qui peccat scienter quam eius qui peccat ignoranter. Et secundum hoc nihil prohibet gravius peccare haereticos, qui scienter cor­ rumpunt fidem quam acceperunt, quam idolo­ latras ignoranter peccantes. Et similiter etiam aliqua alia peccata possunt esse mai ora propter maiorem contemptum peccantis. Ad primum ergo dicendum quod idololatria praesupponit i nteriorem infidelitatem, et adiicit exterius indebitum cultum. Si vero sit exterior tantum idololatria absque interiori in­ fidelitate, additur culpa falsitatis, ut prius [a. 2] dictum est. Ad secundum dicendum quod idololatria includit magnam blasphemiam, inquantum Deo subtrahitur dominii singularitas. Et fidem opere impugnat idololatria. Ad tertium dicendum quod quia de ratione poenae est quod sit contra voluntatem, pecca­ tum per quod aliud punitur oportet esse magis manifestum, ut ex hoc homo sibi ipsi et aliis detestabilis reddatur, non autem oportet quod sit gravius. Et secundum hoc, peccatum con­ tra naturam minus est quam peccatum idolo­ latriae, sed quia est manifestius, ponitur quasi conveniens poena peccati idololatriae, ut scilicet, sicut homo per idololatriam pervertit ordinem divini honoris, ita per peccatum con­ tra naturam propriae naturae confusibilem perversitatem patiatur. Ad quartum dicendum quod haeresis Mani­ chaeorum, etiam quantum ad genus peccati, gravior est quam peccatum aliorum idolola­ trarum, quia magis derogant divino honori, ponentes duos deos contrarios, et multa vana fabulosa de Deo fingentes. Secus autem est de aliis haereticis, qui unum Deum confitentur et eum solum colunt. Ad quintum dicendum quod observatio legis tempore gratiae non est omnino aequalis idololatriae secundum genus peccati, sed paene aequalis, quia utrumque est species pestiferae superstitionis.

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menomando il primato divino. - Secondo, la gravità di un peccato può essere considerata in base alle condizioni soggettive di chi pecca: e così si dice che la colpa di chi pecca sciente­ mente è più grave di quella di chi pecca per ignoranza. E sotto questo aspetto nulla impe­ disce che pecchino più gravemente gli eretici, i quali scientemente corrompono la fede ricevuta, che non gli idolatri, i quali peccano per ignoranza. E così pure anche altri peccati possono essere più gravi perché commessi con maggiore disprezzo. Soluzione delle difficoltà: l. L'idolatria pre­ suppone l'incredulità interna, e vi aggiunge esternamente un culto abusivo. Se poi abbia­ mo un atto esterno di idolatria senza l' incre­ dulità interna, allora c'è l'aggiunta di un pec­ cato di menzogna, come sopra si è visto. 2. L' idolatria include una grave bestemmia: poiché si nega a Dio l' assoluta singolarità del suo dominio. Inoltre essa impugna la fede con i fatti. 3. È proprio della punizione essere contro la volontà: perciò il peccato che serve a punirne un altro deve essere più manifesto, affi nché il responsabile sia reso più ripugnante a se stes­ so e agli altri; non è invece necessatio che sia più grave. Così dunque il peccato contro natu­ ra è meno grave del peccato di idolatria, ma essendo pi ù manifesto è adatto quale suo castigo: nel senso cioè che l' uomo, come con l ' idolatria ha pervertito l' ordine dell'onore divino, così con il peccato contro natura viene a soffrire la perversione ignominiosa della propria natura. 4. L' eresia dei Manichei, anche come peccato specifico, è una colpa più grave del peccato degli altri idolatri : poiché il loro errore deroga maggiormente all' onore divino, ammettendo essi due dèi contrari, e fantasticando su Dio con molte favole assurde. Diverso è invece il caso degli altri eretici, i quali ammettono e adorano un unico Dio. 5. L'osservanza dell'antica legge nell'era della grazia non è un peccato del tutto uguale all' ido­ latria dal ptmto di vista della specie, ma «quasi uguale»: poiché ambedue costituiscono delle specie distinte del peccato di superstizione.

Q. 94, A. 4

L 'idolatria

917 Articulus 4

Articolo 4

Utrum causa idololatriae fuerit ex parte hominis

Le cause dell'idolatria sono da riscontrarsi nell'uomo?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod causa idololatriae non fuerit ex parte hominis. l . In homine enim nihil est nisi vel natura, vel virtus, vel culpa. Sed causa idololatriae non potuit esse ex parte naturae hominis, quin potius naturalis ratio hominis dictat quod sit unus Deus, et quod non sit mortuis cultus divinus exhibendus, neque rebus inanimatis. Similiter etiam nec idololatria habet causam in homine ex parte virtutis, quia non potest arbor bona fructus malos facere, ut dicitur Matth. 7 [ 18]. Neque etiam ex parte culpae, quia, ut dicitur Sap. 14 [27], infandorum

Sembra di no. Infatti: l . Nell'uomo non si riscontra altro che la natura, la virtù o la colpa. Ma la causa dell'i­ dolatria non può trovarsi dalla parte della natura dell'uomo, anzi, la ragione naturale detta che vi è un unico Dio, e che il culto divi­ no non va prestato né ai morti, né alle cose inanimate. Parimenti l'idolatria non può avere la sua causa dalla parte della virtù umana: poiché un albero buono non può dare frutti cattivi (Mt 7, 18). Così pure non può avere la sua causa dalla parte della colpa, poiché

idolorum cultura omnis mali causa est, et initium et finis. Ergo idololatria non habet causam ex parte hominis. 2. Praeterea, ea quae ex parte hominis causan­ tur, omni tempore in hominibus inveniuntur. Non autem semper fuit idololatria, sed in se­ cunda aetate legitur [cf. Petrum Comestorem, Hist. scholast., l. Genesis, cc. 37 .40] esse adinventa, vel a Nemrod, qui, ut dicitur, coge­ bat homines ignem adorare; vel a Nino, qui imaginem patris sui Beli adorati fecit. Apud Graecos autem, ut Isidorus [Etymol. 8, 1 1] refert, Prometheus primus simulacra homi­

num de Iuta finxit. ludaei vem dicunt quod Ismael primus simulacra de Iuta fecit. Ces­ savit etiam in sexta aetate idololatria ex ma­ gna parte. Ergo idololatria non habuit causam ex parte hominis. 3. Praeterea, Augustinus dicit, 21 De civ. Dei [6], neque potuit primum, nisi illis, scilicet daemonibus, docentibus, disci quid quisque

illorum appetat, quid exhorreat, quo invitetur nomine, quo cogatur, unde magicae artes, earumque artifices extiterunt. Eadem autem ratio videtur esse de idololatria. Ergo idolola­ triae causa non est ex parte hominum. Sed contra est quod dicitur Sap. 14 [ 14], supervacuitas hominum haec, scilicet idola,

adinvenit in orbe terranun. Respondeo dicendum quod idololatriae est duplex causa. Una quidem dispositiva. Et haec fuit ex parte hominum. Et hoc tripliciter. Primo quidem, ex inordinatione affectus, prout scilicet homines aliquem hominem vel nimis amantes vel nimis venerantes, honorem

l'adorazione di idoli orribili è principio e fine di ogni male (Sap 14,27). Quindi l'idolatria non ha la sua causa nell'uomo. 2. Le cose che vengono causate dall'uomo si riscontrano in lui in tutti i tempi. Invece l'ido­ latria non è di tutti i tempi, ma si legge che fu inventata nella seconda età del mondo: da Nemrod, il quale si dice che costringesse gli uomini ad adorare il fuoco; o da Nino, che fece adorare suo padre Belo. Presso i Greci poi, come riferisce Isidoro, «Prometeo fab­ bricò per primo i simulacri umani con la creta. Mentre i Giudei affetmano che il primo a fab­ bricare i simulacri con la creta fu Ismaele». Finalmente nella sesta età del mondo l'idola­ tria è in gran parte scomparsa. Perciò l'idola­ tria non ha la sua causa nell'uomo. 3. Agostino ha scritto: «Non si sarebbe potuto conoscere da principio, se essi stessi», cioè i demoni, «non l'avessero insegnato, quello che ciascuno di essi desidera, quello che abor­ risce, con quali parole si lasci attirare e con quali costringere: dalle quali cose sono scatu­ rite le arti magiche, e i loro mestieranti». Ma lo stesso pare che si possa dire dell'idolatria. Quindi la cause dell'idolatria non si riscontra­ no nell'uomo. In contrario: in Sap 14 [ 14] è detto: La vanità degli uomini ha inventato queste cose, cioè gli idoli, nel mondo. Risposta: due sono le cause dell'idolatria. La prima è solo dispositiva. E questa è da ricer­ carsi nell'uomo per tre motivi. Primo, per il disordine dell'affetto: cioè per il fatto che gli uomini, amando o venerando troppo una per­ sona umana, presero a tributarie onori divini.

L 'idolatria

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cito sibi raptifilii fecit imaginem; et illum qui tunc, quasi homo, mortuus fuerat, tanquam Deum colere coepit. Et ibidem etiam subditur [21] quod homines, aut affectui aut regibus de­ servientes, incommunicabile nomen, scilicet divinitatis, lignis et lapidibus imposuerunt.

E questa causa è assegnata in Sap 1 4 [ 1 5]: Un padre, addolorato da un lutto prematuro, fece un 'immagine di quel suo figlio così presto rapito; e iniziò a rendere culto come a un dio a chi poco prima era solo un defunto. E anco­ ra [21] : Gli uomini, facendosi schiavi o delle passioni o dei re, imposero a legni o a pietre il nome incomunicabile, cioè il nome di Dio. ­

de silva lignum rectum secuerit; et per scien­ tiam suae artis figuret illud et assimilet ima­ gini hominis, de substantia sua, et filiis et nuptiis, votum faciens, inquirit. Tertio,

bosco un tronco diritto e grazie alla sua arte gli dà una forma e lo rende simile a un 'imma­ gine umana, e poi lo prega per le sue ricchez­ ze, i suoi .figli e il suo matrimonio. - Terzo, per

propter ignorantiam veri Dei, cuius excellen­ tiam homines non considerantes, quibusdam creaturis, propter pulchritudinem seu virtutem, divinitatis cultum exhibuerunt. Unde dicitur Sap. 1 3 [ 1 -2], neque, operibus attendentes,

l'ignoranza del vero Dio: nel senso che gli uomini, misconoscendone la grandezza, attri­ buirono il culto divino a delle creature, a moti­ vo della loro bellezza o potenza. Per cui in Sap 1 3 [ l ] è detto: Dai beni visibili non riconob­

divinum ei impenderunt. Et haec causa assi­ gnatur Sap. 14 [ 1 5], acerbo luctu dolens pater

-

Secundo, propter hoc quod homo naturaliter de repraesentatione delectatur, ut philosophus dicit, in Poetica [ 4,2] sua. Et ideo homines rudes a principio videntes per diligentiam arti­ ficum imagines hominum expressive factas, divinitatis cultum eis impendenmt. Unde di­ citur Sap. 13 [ 1 1. 13. 17], si quis artifex faber

-

agnoverunt quis esset artifex. Sed aut ignem, aut spiritum, aut citatum aerem, aut gyrum stellarum, aut nimiam aquam, aut solem, aut lunam, rectores orbis terrarum, deos putave­ runt. - Alia autem causa ido1o1atriae fuit con­

summativa, ex parte daemonum, qui se colen­ dos hominibus errantibus exhibuerunt in ido­ lis, dando responsa et aliqua quae videbantur hominibus mirabilia taciendo. Unde et in Ps. [95,5] dicitur, omnes dii gentium daemonia. Ad primum ergo dicendum quod causa dispo­ sitiva idololatriae fuit, ex parte hominis, natu­ rae defectus vel per ignorantiam intellectus vel per deordinationem affectus, ut dictum est [in co.] . Et hoc etiam ad culpam pertinet. Di­ citur autem idololatria esse causa, initium et finis omnis peccati, quia non est aliquod ge­ nus peccati quod interdum idololatria non producat, vel expresse inducendo, per modum causae; vel occasionem praebendo, per mo­ dum initii; vel per modum finis, inquantum peccata aliqua assumebantur in cultum idolo­ rum, sicut occisiones hominum et mutilatio­ nes membrorum, et alia huiusmodi. Et tamen aliqua peccata possunt idololatriam praecede­ re, quae ad ipsam hominem disponunt. Ad secundum dicendum quod in prima aetate non fuit idololatria propter recentem memo-

Secondo, per il fatto che l ' uomo è portato naturalmente a gustare le rappresentazioni, come nota il Filosofo. E così gli uomini pri­ mitivi, vedendo delle immagini umane ben plasmate dall' abilità degli artisti, presero a fame degli oggetti di culto. Per cui in Sap 13 [ I l ] è detto: Un abile falegname taglia dal

bero colui che è: non riconobbero l'artefice, pur considerandone le opere. Ma ilfuoco, o il vento, o l'aria sottile, o la volta stellata, o l'acqua impetuosa, o le luci del cielo conside­ rarono come dèi, reggitori del mondo. - L'al­ tra causa invece che dà all'idolatria il suo co­ ronamento va cercata nei demoni, i quali negli idoli si rivelarono all'uomo immerso nell'erro­ re per esservi adorati, dando responsi e tacen­ do altre cose che agli uomini potevano sem­ brare miracoli. Da cui le parole del Sal 95 [5]:

Tutti gli dèi delle nazioni sono demoni. Soluzione delle difficoltà: l . La causa dispo­ sitiva dell'idolatria dalla parte dell' uomo ven­ ne dalle deficienze di ordine naturale, dovute o all'ignoranza dell'intelletto o al disordine degli affetti, come si è notato. Ma si dice che l'idolatria è «principio, causa e fine di ogni male» perché non c'è un genere di peccati che l'idolatria non arrivi talora a produrre: o por­ tando l' uomo a peccare come causa diretta; o presentando l'occasione come incentivo; op­ pure, come causa finale, per il fatto che certi peccati rientravano nel culto idolatrico, quali ad es. l'omicidio, la mutilazione delle mem­ bra e altre cose del genere. E tuttavia non mancano dei peccati che possono precedere l 'idolatria , disponendo l'uomo a cadervi.

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riam creationis mundi, ex qua adhuc vigebat cognitio unius Dei in mente hominum. In sexta autem aetate idololatria est exclusa per doctrinam et virtutem Christi, qui de diabolo triumphavit. Ad tertium dicendum quod ratio illa procedit de causa consummativa idololatriae.

2. Nella prima età del mondo non ci fu l 'ido­ latria per il ricordo recente della creazione dell'universo, dal quale scaturiva ancora nella mente degli uomini la conoscenza di Dio. Invece nella sesta età del mondo l'idolatria viene debellata dall'insegnamento e dalla vir­ tù di Cristo, il quale ha trionfato del demonio. 3. La difficoltà vale per la causa che dà all' i­ dolatria il suo coronamento.

QUAESTI0 95

QUESTIONE 95

DE SUPERSTITIONE DIVINATIVA

LA SUPERSTIZIONE DIVINATORIA

Deinde considerandum est de superstitione divinativa. - Et circa hoc quaeruntur octo. Primo, utrum divinatio sit peccatum. Secon­ do, utmm sit species superstitionis. Tertio, de speciebus divinationis. Quarto, de divinatione quae fit per daemones. Quinto, de divinatione quae fit per astra. Sexto, de divinatione quae fit per somnia. Septimo, de divinatione quae fit per auguria et alias huiusmodi obser­ vationes. Octavo, de divinatione quae fit per sortes.

Passiamo ora a trattare della superstizione divinatoria. - Svolgeremo questo tema in otto punti: l . La divinazione è un peccato? 2. È tra le specie della superstizione? 3. Le varie spe­ cie di divinazione; 4. La divinazione demo­ niaca; 5. La divinazione astrale; 6. La divina­ zione fatta mediante i sogni; 7. La divinazio­ ne fatta osservando gli uccelli o con altre pra­ tiche del genere; 8. La divinazione basata sul sortilegio.

Articulus l

Articolo l

Utrum divinatio sit peccatum

La divinazione è un peccato?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod divina­ rio non sit peccatum. l . Divinatio enim ab aliquo divino nominatur. Sed ea quae sunt divina magis ad sanctitatem pertinent quam ad peccatum. Ergo videtur quod divinatio non est peccatum. 2. Praeterea, Augustinus dicit, in libro De lib. arb. [ l , l ] quis audeat dicere disciplinam esse malum? Et itemm, nullo modo dixerim ali­ quam intelligentiam malam esse posse. Sed aliquae artes sunt divinativae, ut patet per phi­ losophum, in libro De memoria [ 1 ] . Videtur etiam ipsa divinatio ad aliquam intelligentiam veritatis pertinere. Ergo videtur quod divinatio non sit peccanun. 3. Praeterea, naturalis inclinatio non est ad aliquod malum, quia natura non inclinat nisi ad simile sibi. Sed ex naturali inclinatione homines sollici tantur praenoscere futuros eventus, quod pertinet ad divinationem. Ergo divinatio non est peccatum. Sed contra est quod dicitur Deut. 1 8 [1 1 ], non sit qui Pythones consulat, neque divinos. Et in

Sembra di no. Intàtti: l. Divinazione deriva da divino. Ora, le cose divine dicono affinità con la santificazione piuttosto che col peccato. Quindi la divinazio­ ne non è un peccato. 2. Agostino ha scritto: «Chi oserebbe dire che una disciplina è peccaminosa?». E ancora: «In nessun modo oserei dire che una qualsiasi intellezione possa essere cattiva>>. Ma stando al Filosofo, esistono discipline divinatorie. Inoltre la divinazione si presenta come un'in­ tellezione della verità. Perciò la divinazione non è un peccato. 3. L'inclinazione naturale non può portarci al male: poiché la natura inclina sempre verso cose connaturali. Ma gli uomini sono spinti a indagare il futuro, cioè alla divinazione, da un' inclinazione naturale. Quindi la divinazio­ ne non è un peccato. In contrario: in Dt 1 8 [ I l ] è detto: Non ci sia tra voi chi consulti i maghi o gli indovini. E i Canoni stabiliscono: «Coloro che ricorreran­ no alla divinazione subiranno cinque anni di

,

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La superstizione divinatoria

decretis, 26, q. 5 [Gratianus, Decretum, p. 2, causa 26, q. 5, can. 2], dicitur, qui divinatio­

nes expetunt, sub regulis quinquennii iaceant, secundum gradus poenitentiae definitos.

Respondeo dicendum quod in nomine divina­ tionis intelligitur quaedam praenuntiatio futu­ rorum. Futura autem dupliciter praenosci pos­ sunt, uno quidem modo, in suis causis; alio modo, in seipsis. Causae autem futurorum tri­ pliciter se habent. Quaedam enim producunt ex necessitate et semper suos effectus. Et huiusmodi effectus futuri per certitudinem praenosci possunt et praenuntiari ex conside­ ratione suarum causarum, sicut astrologi praenuntiant eclipses futuras. - Quaedam ve­ ro causae producunt suos effectus non ex necessitate et semper, sed ut in pluribus, raro tamen deficiunt. Et per huiusmodi causas possunt praenosci futuri effectus, non quidem per certitudinem, sed per quandam coniectu­ ram, sicut astrologi per considerationem stel­ larum quaedam praenoscere et praenuntiare possunt de pluviis et siccitatibus, et medici de sanitate vel morte. - Quaedam vero causae sunt quae, si secundum se considerentur, se habent ad utrumlibet, quod praecipue videtur de potentiis rationalibus, quae se habent ad opposita, secundum philosophum [Met. 8,2,1; 8,5,2; 8,8,14]. Et tales effectus, vel etiam si qui effectus ut in paucioribus casu accidunt ex naturalibus causis, per considerationem cau­ sarum praenosci non possunt, quia eorum causae non habent inclinationem determina­ taro ad huiusmodi effectus. Et ideo efì"ectus huiusmodi praenosci non possunt nisi in seipsis considerentur. Homines autem in seipsis huiusmodi effectus considerare pos­ sunt solum dum sunt praesentes, sicut cum homo videt Socratem currere vel ambulare. Sed considerare huiusmodi in seipsis ante­ quam fiant, est Dei proprium, qui solus in sua aetemitate videt ea quae futura sunt quasi praesentia, ut in primo [q. 14 a. 1 3; q. 57 a. 3; q. 86 a. 4] habitum est, unde dicitur Isaiae 41 [23], annuntiate quae futura sunt in futuntm, et sciemus quoniam dii estis vos. Si quis ergo huiusmodi futura praenoscere aut praenuntia­ re quocumque modo praesumpserit, nisi Deo revelante, manifeste usurpat sibi quod Dei est. Et ex hoc aliqui divini dicuntur, unde dicit Isidorus, in libro Etymol. [8,9], divini dicti

quasi Deo pieni, divinitate enim se plenos

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pena, secondo i vari gradi d i punizione stabiliti». Risposta: nel termine divinazione è inclusa l'idea di predizione del futuro. Ora, il futuro noi lo possiamo conoscere in due modi: primo, nelle sue cause; secondo, in se stesso. Ma le cause stanno in tre rapporti con gli eventi futuri. Infatti alcune producono i loro effetti sempre e in maniera necessaria. E questi effetti futuri possono essere conosciuti in precedenza e predetti con certezza in base alla considerazione delle loro cause: come gli astronomi preannunciano con certezza le eclissi future. - Altre cause invece producono i loro effetti non in modo necessario e costan­ te, bensì nella maggior parte dei casi, poiché talora non raggiungono l'effetto. Ora, me­ diante queste cause si possono certamente co­ noscere gli eventi futuri, ma non con certezza, bensì in maniera congetturale: come gli astro­ nomi mediante l'osservazione degli astri arri­ vano a sapere e a predire certe cose relative alla pioggia o alla siccità, e i medici predico­ no così la guarigione o la morte. - Ci sono infine alcune cause le quali, considerate in se stesse, sono indifferenti verso effetti contrari: e ciò capita specialmente per le facoltà di or­ dine razionale, le quali, come nota il Filosofo, sono capaci di atti opposti. E tali effetti, come pure quelli che derivano solo eccezionalmen­ te dalle cause fisiche, non possono essere co­ nosciuti in precedenza in base ali'analisi delle loro cause: poiché appunto queste non hanno un'inclinazione determinata a tali effetti. Per­ ciò non è possibile conoscere in precedenza tali effetti se non osservandoli in se stessi. Ma questo l'uomo è in grado di farlo solo quando essi sono presenti, come quando uno vede Socrate correre o camminare. Considerare invece questi fatti in se stessi prima che av­ vengano è proprio solo di Dio, il quale nella sua eternità vede il futuro come presente, se­ condo le spiegazioni date nella Prima parte. Per cui in ls 41 [23] è detto: Annunziate le co­

se che verranno in futuro, e conosceremo che siete dèi. Se quindi uno presume in qualsiasi modo di conoscere e di predire il futuro senza una rivelazione di Dio, usurpa evidentemente una prerogativa divina. E per questo alcuni vengono detti divini, come spiega lsidoro nelle sue Etimologie: «Sono detti indovini o divini come se fossero pieni di Dio: infatti

La superstizione divinatoria

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simulant, et asturia quadam fraudulentiae hominibus futura coniectant. Divinatio ergo non dicitur si quis praenuntiet ea quae ex necessario eveniunt vel ut in pluribus, quae humana ratione praenosci possunt. Neque etiam si quis futura alia contingentia, Deo re­ velante, cognoscat, tunc enim non ipse divi­ nat, idest, quod divinum est facit, sed magis quod divinum est suscipit. Tunc autem solum dicitur divinare quando sibi indebito modo usurpat praenuntiationem futurorum even­ tuum. Hoc autem constat esse peccatum. Unde divinatio semper est peccatum. Et propter hoc Hieronymus dicit, Super Michaeam [ l super 3,9], quod divinatio semper in malam partem accipitur. Ad primum ergo dicendum quod divinatio non dicitur ab ordinata pmticipatione alicuius divini, sed ab indebita usurpatione, ut dictum est [in co.]. Ad secundum dicendum quod artes quaedam sunt ad praecognoscendum futuros eventus qui ex necessitate vel frequenter proveniunt, quod ad divinationem non pertinet. Sed ad alios futuros eventus cognoscendos non sunt aliquae verae artes seu disciplinae, sed fai­ laces et vanae, ex deceptione daemonum introductae; ut dicit Augustinus, in 21 De civ. Dei [8]. Ad tertium dicendum quod homo habet natu­ ralem inclinationem ad cognoscendum futura secundum modum humanum, non autem secundum indebitum divinationis modum.

essi fingono di essere ripieni della divinità, e con l'astuzia e la frode predicono alla gente il futuro». - Perciò non si ha divinazione nel preannunziare cose che avvengono per neces­ sità o nella maggior parte dei casi, e che pos­ sono essere preconosciute con la ragione umana. E neppure nel conoscere per rivela­ zione divina certe cose future del tutto contin­ genti: perché allora l'uomo non divina, cioè non fa una cosa divina, ma piuttosto accoglie o riceve qualcosa di divino. Si parla invece di divinare, o indovinare, quando uno usurpa ingiustamente la facoltà di predire il futuro. Ora, questo è un peccato. Quindi la divinazio­ ne è sempre un peccato. E per questo Girola­ mo afferma che «la divinazione viene sempre intesa in senso cattivo». Soluzione delle difficoltà: l . TI tennine «divi­ nazione» non deriva da una partecipazione or­ dinata a qualcosa di divino, bensì da una usurpazione ingiusta, come si è spiegato. 2. Certe discipline mirano a conoscere gli eventi futuri che avvengono in maniera neces­ saria o frequente, il che non appartiene alla divinazione. Per conoscere invece gli altri eventi futuri non ci sono delle vere arti o discipline, bensì delle arti ingannevoli e vane, introdotte dalle astuzie del demonio, come af­ ferma Agostino. 3 . L' uomo ha un' inclinazione naturale a conoscere il futuro con i mezzi umani, non già a conoscerlo con i mezzi disonesti della divinazione.

Articulus 2 Utrum divinatio sit species superstitionis

Articolo 2 La divinazione è una specie della superstizione?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod divinatio non sit species superstitionis. l. Idem enim non potest esse species diverso­ rum generum. Sed divinatio videtur esse spe­ cies curiositatis; ut Augustinus dicit, in libro De vera relig. [cf. De doct. chr. 2,23-24; De divinat. 3]. Ergo videtur quod non sit species superstitionis. 2. Praeterea, sicut religio est cultus debitus, ita superstitio est cultus indebitus. Sed divinatio non videtur ad aliquem cultum indebitum pertinere. Ergo divinatio non pertinet ad superstitionem. 3. Praeterea, superstitio religioni opponitur.

Sembra di no. Infatti: l . Un'identica cosa non può essere una specie di generi diversi. Ma la divinazione è una specie della curiosità, come nota Agostino. Quindi sem­ bra che non sia una specie della superstizione. 2. Come la religione è tm culto debito, così la superstizione è un culto indebito. Ma la divina­ zione non rientra nelle pratiche di un culto in­ debito. Quindi non rientra nella superstizione. 3. La superstizione è l'opposto della religio­ ne. Ma nella vera religione non c'è una prati­ ca che corrisponda alla divinazione. Perciò questa non è una specie della superstizione. In contrario: Origene ha scritto: «Nel campo

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Q. 95, A. 2

La superstizione divinatoria

Sed in vera religione non invenitur aliquid divinationi per contrarium respondens. Ergo divinatio non est species superstitionis. Sed contra est quod Origenes dicit, in Periar­ chon [cf. In Num. h. 1 6], est quaedam opera­

fio daemonum in ministerio praescientiae, quae artibus quibusdam ab his qui se daemo­ nibus mancipaverunt, nunc per sortes, nunc per auguria, nw1c ex contemplatione umbra­ rum comprehendi videtw: Haec autem omnia operatione daemonum fieri non dubito. Sed sicut Augustinus dicit, in 2 De doct. chr. [20], quidquid procedit ex societate daemonum et hominum superstitiosum est. Ergo divinatio est species superstitionis. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 92 aa. 1-2; q. 94 a. l ] dictum est, superstitio importat indebitum cu1tum divinitatis. Ad cul­ tum autem Dei pertinet aliquid dupliciter. Uno modo, cum aliquid Deo offertur, vel sa­ crificium, vel oblatio, vel aliquid huiusmodi. Alio modo, cum aliquid divinum assumitur, sicut dictum est supra [q. 89, introd.; a. 4 ad 2] de iuramento. Et ideo ad superstitionem perti­ net non solum cum sacrificium daemonibus offertur per idololatriam, sed etiam cum ali­ quis assumit auxilium daemonum ad aliquid faciendum ve1 cognoscendum. Omnis autem divinatio ex operatione daemonum provenit, vel quia expresse daemones invocantur ad futura manifestanda; vel quia daemones se ingerunt vanis inquisitionibus futurorum, ut mentes hominum implicent vanitate; de qua vanitate in Ps. [39,5] dicitur, non respexit in vanitates et insanias falsas. Vana autem in­ quisitio futurorum est quando aliquis futurum praenoscere tentat unde praenosci non potest. Unde manifestum est quod divinatio species superstitionis est. Ad primum ergo dicendum quod divinatio pertinet ad curiositatem quantum ad finem intentum, qui est praecognitio futurorum. Sed pertinet ad superstitionem quantum ad mo­ dum operationis. Ad secundum dicendum quod huiusmodi di­ vinatio pertinet ad cultum daemonum, in­ quantum aliquis utitur quodam pacto tacito vel expresso cum daemonibus. Ad tertium dicendum quod in nova lege mens hominis arcetur a temporalium sollicitudine, et ideo non est in nova lege aliquid institutum ad praecognitionem eventuum futurorum de

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della preveggenza c'è un intervento diabolico dovuto alle arti di coloro che si sono dati ai demoni, arti che si possono ridurre ai sortile­ gi, agli augmi o alla consultazione delle tene­ bre. Ora, io non dubito affatto che tutte queste cose avvengano realmente per intervento dia­ bolico». Ma secondo Agostino tutto ciò che deriva dal commercio dei demoni con l'uomo è superstizioso. Quindi la divinazione è una specie della superstizione. Risposta: come si è detto sopra, la supersti­ zione implica un abuso del culto divino. Ora, una cosa può rientrare nel culto divino per due motivi. Primo, perché consiste in un'of­ ferta: e allora abbiamo il sacrificio, l'oblazio­ ne e altre cose del genere. Secondo, perché consiste nel servirsi di qualcosa di divino: come nel caso sopra descritto del giuramento. Perciò rientrano nella superstizione non sol­ tanto l'offerta idolatrica del sacrificio fatto ai demoni, ma anche il ricorso all'aiuto dei demoni per fare o per conoscere qualcosa. Ora, qualsiasi divinazione deriva dall'inter­ vento diabolico: o perché i demoni sono espressamente invocati per manifestare il fu­ turo, oppure perché essi intervengono nelle vane ricerche del futuro per in·etire le anime umane nella vanità. E nel Sal 39 [5] è detto che il giusto non bada a tali vanità e a follie menzognere. Ora, si ha una vana [e menzo­ gnera] ricerca del futuro quando uno tenta di conoscerlo da dove non può apprenderlo. Per­ ciò la divinazione è chiaramente una specie della superstizione. Soluzione delle difficoltà: 1 . La divinazione ap­ partiene alla curiosità quanto allo scopo perse­ guito, che è la conoscenza del futuro, ma appar­ tiene alla superstizione per i suoi procedimenti. 2. La divinazione rientra nel culto dei demoni poiché in essa si ricorre a dei patti taciti o espressi col demonio. 3. Nella nuova legge l'anima viene distolta dalla sollecitudine dei beni temporali: perciò nella nuova legge non fu istittùta alcuna prati­ ca per conoscere il futuro relativo alle cose temporali. Invece nell'antica legge, che attira­ va con promesse terrene, c'erano delle con­ sultazioni sul futuro nell'ambito della religio­ ne. Infatti in ls 8 [ 1 9] è detto: Quando vi di­

ranno: Interrogate gli incantatori e gli indo­ vini che mormorano incantesimi, dovete re­ plicare: Forse che il popolo non ha il suo Dio

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La superstizione divinatoria

temporalibus rebus. In veteri autem lege, quae promittebat terrena, erant consultationes de futuris ad religionem pertinentes, unde dicitur Isaiae 8 [ 1 9], et cum dixerint ad vos, quaerite

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a cui chiedere per i vivi e per i morti? Tutta­ via anche nel Nuovo Testamento ci furono alcuni dotati di spirito profetico, i quali pre­ dissero molte cose future.

a Pythonibus et a divinis, qui strident incan­ tationibus suis, subdit, quasi responsionem, numquid non populus a Deo suo requiret vi­ sionem pro vivis et mortuis? Fuerunt tamen in Novo Testamento etiam aliqui prophetiae spi­ ritum habentes, qui multa de futuris eventibus praedixerunt. Articulus 3 Utrum sit determinare plures divinationis species

Articolo 3 Si debbono determinare più specie di divinazione?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod non sit determinare plures divinationis species. l. Ubi enim est una ratio peccandi, non vi­ dentur esse plures peccati species. Sed i n omni divinatione est una ratio peccandi, quia scilicet utitur aliquis pacto daemonum ad co­ gnoscendum futura. Ergo divinationis non sunt diversae species. 2. Praeterea, actus humanus speciem sortitur ex fine, ut supra [I-II q. l a. 3 ; q. 1 8 a. 6] habitum est. Sed omnis divinatio ordinatur ad unum finem, scilicet ad praenuntiationem futu­ rorum. Ergo omnis divinatio est unius speciei. 3. Praeterea, signa non diversificant speciem peccati, sive enim aliquis detrahat verbis, vel scripto vel nutu, est eadem peccati species. Sed divinationes non videntur differre nisi secundum diversa signa ex quibus accipitur praecognitio futurorum. Ergo non sunt diver­ sae divinationis species. Sed contra est quod lsidorus, in libro Etymol. [8,9], enumerat diversas species divinationis. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 2], omnis divinatio utitur ad praecognitio­ nem futuri eventus aliquo Daemonum consi­ lio et auxilio. Quod quidem vel expresse im­ ploratur, vel praeter petitionem hominis, se occulte daemon ingerit ad praenuntiandum quaedam futura quae hominibus sunt ignota, eis autem cognita per modos de quibus in pri­ mo [q. 57 a. 3] dictum est. Daemones autem expresse invocati solent futura praenuntiare multipliciter. Quandoque quidem praestigiosis quibusdam apparitionibus se aspectui et au­ ditui hominum ingerentes ad praenuntiandum futura. Et haec species vocatur praestigium,

Sembra di no. Infatti: l . Dove il costitutivo del peccato è unico non sembra che vi possano essere più specie di peccati. Ma in qualsiasi divinazione il costitu­ tivo del peccato è unico: cioè il fatto che uno si serve di patti col demonio per conoscere il futuro. Quindi non ci sono specie diverse di divinazione. 2. L' atto umano riceve la sua specie dal fine, come si è visto. Ora, tutte le divinazioni sono ordinate a un unico fine, cioè alla predizione del futuro. Quindi tutte le divinazioni sono di un'unica specie. 3. Le espressioni, o segni, non bastano a diver­ sificare la specie di un peccato: infatti sia che uno detragga la fama altrui con le parole, sia che lo faccia con lo scritto o con i gesti, la spe­ cie del peccato è sempre la stessa. Ma le varie divinazioni non differiscono se non per i segni da cui si ricava la conoscenza del futuro. Quin­ di non ci sono specie diverse di divinazione. In contrario: Isidoro nelle sue Etimologie enu­ mera diverse specie di divinazione. Risposta: come si è già detto, qualsiasi divina­ zione fa ricorso al consiglio e all'aiuto dei de­ moni al fine di conoscere il futuro. E questo intervento può essere invocato espressamente oppure, prescindendo dall ' invocazione del­ l' uomo, sono i demoni stessi che pensano a intromettersi nella predizione di cose future che sono ignote all'uomo, ma che essi cono­ scono nella maniera che abbiamo indicato nella Prima parte. Ora, i demoni espressa­ mente invocati sono soliti predire il futuro in molti modi. Talora infatti si offrono alla vista e all ' udito degli uomini per annunziare i l

Q. 95, A. 3

La superstizione divinatoria

ex eo quod oculi horninum praestringuntur. Quandoque autem per somnia. Et haec vocatur divinatio somniorum. - Quandoque vero per mortuorum aliquorum apparitionem ve! locu­ tionem. Et haec species vocatur nigromantia, quia, ut Isidorus dicit, in libro Etymol. [8,9], -

nigrum graece mortuus, mantia divinatio nuncupatw; quia quibusdam praecantationi­ bus, adhibito sanguine, videntur resuscitati mortui divinare et ad interrogata respondere. Quandoque vero futura praenuntiant per ho­ rnines vivos, sicut in arreptitiis patet. Et haec est divinatio per pythones, et ut Isidorus dicit [Etymol. 8,9], pythones a Python Apolline sunt dicti, qui dicebatur esse auctor divinan­ di. Quandoque vero futura praenuntiant per aliquas figuras vel signa quae in rebus inani­ matis apparent. Quae quidem si appareant in aliquo corpore terrestri, puta in ligno vel ferro aut lapide polito, vocatur geomantia; si autem i n aqua, hydromantia ; si autem i n aere, aeromantia; si autem in igne, pyromantia; si autem in visceribus animalium immolatorum in aris daemonum, vocatur aruspicium. Divinatio autem quae fit absque expressa daemonum invocatione, in duo genera dividi­ tur. Quorum primum est cum ad praenoscen­ dum futura aliquid consideramus in disposi­ tionibus aliquarum rerum . Et si quidem aliquis conetur futura praenoscere ex conside­ ratione situs et motus siderum, hoc pertinet ad astrologos; qui et geneatici dicuntur, propter natalium considerationes dierum. - Si vero per motus vel voces avium, seu quorumcum­ que animalium; sive per stemutationes homi­ num, vel membrorum saltus; hoc pertinet ge­ neraliter ad augurium, quod dicitur a garritu avium, sicut auspicium ab inspectione avium, quorum primum pertinet ad aures, secundum ad oculos; in avibus enim huiusmodi praeci­ pue considerari solent. - Si vero huiusmodi consideratio fiat circa verba horninum alia in­ tentione dieta, quae quis retorquet ad futurum quod vult praenoscere, hoc vocatur omen. Et sic ut Maximus Valerius dicit [Factorum l ,5], ominum observatio aliquo contractu religioni innexa est. Quoniam non fortuito motu, sed divina providentia constare creditur quae fecit, ut, Romanis deliberantibus utrum ad alium locum migrarent, forte eo tempore centuria quidam exclamavit, signije1; statue signum, hic optime manebimus; quam vocem -

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futuro con prestigiose apparizioni. E questa specie di divinazione è chiamata prestigio, dal restringimento dell'occhio nella visione. ­ Talora invece si presentano nei sogni. E allora abbiamo la divinazione onirica. - Altre volte ricorrono all'apparizione e alla locuzione dei morti. E questa specie prende il nome di ne­ gromanzia; poiché, come spiega Isidoro, «nekròs in greco significa morto, e mantèia divinazione: infatti dopo certi incantesimi nei quali si fa uso del sangue si vedono dei morti risuscitati che predicono l'avvenire, e rispon­ dono alle domande che vengono loro sottopo­ ste». - Talora invece essi predicono il futuro servendosi di uomini vivi: come avviene negli ossessi. E questa è la divinazione delle pito­ nesse, così denominate, secondo Isidoro, «da Apollo Pitico, che era considerato l'autore de­ gli oracoli». - In altri casi al contratio essi predicono il futuro mediante figure o segni che appaiono nelle cose inanimate. Se dunque appaiono in corpi terrestri, come il legno, il ferro o la pietra lavorata, si parla di geoman­ zia; se appaiono nell'acqua, abbiamo l'idro­ manzia; se nell' aria l' aeromanzia; se nel fuoco la piromanzia; se poi quei segni si ri­ scontrano nelle viscere degli animali immola­ ti sulle are dei demoni, si parla di aruspicio. A sua volta la divinazione che viene fatta senza l'espressa invocazione del demonio si divide in due generi. n primo si ha quando si prevede il futuro in base alla disposizione di determinate cose. Se uno tenta di farlo basan­ dosi sulla posizione e sul moto delle stelle, si mette nel numero degli astrologi; i quali sono chiamati anche genetliaci, poiché partono dal­ la considerazione del giorno della nascita. Se invece si ricorre al moto o al canto degli uccelli, oppure di altri animali, o anche allo starnutire degli uomini o alle reazioni delle loro membra, si ha l'augurio, parola latina che deriva da avium garritus (garrire degli uc­ celli), come auspicio da avium inspectio (osservazione degli uccelli), procedimenti che si riferiscono rispettivamente l'uno alle orec­ chie e l'altro agli occhi: infatti in queste predi­ zioni ci si basa specialmente sull' osservazio­ ne degli uccelli. - Se invece l 'osservazione prende di mira le parole umane pronunziate con altra intenzione, ma che vengono applica­ te al futuro di cui si vuole la previsione, allora s i h a i l presagio. E come scrive Valerio

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auditam pro omine acceperunt, transeundi consilium omittentes. - Si autem consideren­ tur aliquae dispositiones figurarum in aliqui­ bus corporibus visui occurrentes, erit alia di­ vinationis species. Nam ex lineamentis manus consideratis divinatio sumpta chiromantia vo­ catur, quasi divinatio manus, chiros enim graece dicitur manus. Divinatio vero ex qui­ busdam figuris in spatula alicuius animalis apparentibus, spatulùnantia vocatur. - Ad secundum autem divinationis genus quae est sine expressa daemonum invocatione, pertinet divinatio quae fit ex consideratione eorum quae eveniunt ex quibusdam quae ab homi­ nibus serio fiunt ad aliquid occultum inqui­ rendum, sive per protractionem punctorum (quod pertinet ad artem geomantiae); sive per considerationem figurarum quae proveniunt ex plumbo liquetàcto in aquam proiecto; sive ex quibusdam cedulis, scriptis vel non scriptis, in occulto repositis, dum consideratur quis quam accipiat; vel etiam ex festucis inaequa­ libus propositis, quis maiorem vel minorem accipiat; vel etiam ex taxillorum proiectione, quis plura puncta proiiciat; vel etiam dum consideratur quid aperienti librum occurrat. Quae omnia sortium nomen habent. - Sic igitur patet triplex esse divinationis genus. Quorum primum est per manifestam daemo­ num invocationem, quod pertinet ad nigro­ manticos. Secundum autem est per solam considerationem dispositionis vel motus alte­ rius rei, quod pertinet ad augures. Tertium est dum facimus aliquid ut nobis manifestetur aliquid occultum, quod pertinet ad sortes. Sub quolibet autem horum multa continentur, ut patet ex dictis. Ad primum ergo dicendum quod in omnibus praedictis [in co.] est eadem ratio generalis peccandi , sed non eadem specialis. Multo enim gravius est daemones invocare quam aliqua facere quibus dignum sit ut se daemo­ nes ingerant. Ad secundum dicendum quod cognitio futuro­ rum vel occultorum est ultimus finis, ex quo sumitur generalis ratio divinationis. Distin­ guuntur autem diversae species secundum pro­ pria obiecta sive materias, prout scilicet in di­ versis rebus occultorum cognitio consideratur. Ad tertium dicendum quod res quas divinan­ tes attendunt considerantur ab eis non sicut signa quibus exprimant quod iam sciunt, sicut

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Massimo, «1' osservazione dei presagi ha dei legami con la religione. Poiché si crede che non fu per un atto fortuito, ma per divina pre­ disposizione che mentre i Romani delibera­ vano se dovessero trasferirsi altrove, per caso un centurione gridasse: "Portabandiera, pianta l'insegna: fermiamoci qui"; parole che in quel momento furono considerate un presagio, per cui si rinunciò all'idea del trasferimento». Se poi ci si ferma a osservare certe disposizio­ ni nelle figure di determinati corpi, si hanno altri tipi di divinazione. Intàtti la divinazione tratta dalle pieghe dell a mano viene detta chiromanzia: chiros infatti in greco significa mano. Quella invece tratta dalle figure rilevate nella spatola di certi animali è detta spatolo­ manzia. - L'altro genere della divinazione fatta senza l'espressa invocazione dei demoni abbraccia poi la divinazione che si compie mediante l'osservazione del risultato di certi atti compiuti attentamente dagli uomini per scoprire cose occulte: sia prolungando dei punti (il che ci riporta alla geomanzia), sia os­ servando le figure che si formano nel piombo fuso e gettato nell' acqua, sia ricorrendo a delle carte nascoste, scritte o non scritte, con la considerazione di come vengono scelte da chi non ne conosce la collocazione; sia propo­ nendo delle festuche più o meno lunghe, e osservando come uno le sceglie; sia gettando i dadi per vedere quanti punti uno fa; sia consi­ derando le parole che capitano nell'aprire un libro. E tutte quest� pratiche prendono il no­ me di sortilegi. E quindi evidente che vi sono tre generi di divinazione. Il primo è quello che ricorre ali' aperta invocazione dei demoni: e questo appartiene ai negromanti. Il secondo si limita all' osservazione delle dispo­ sizioni e del comportamento di cose esterne: e questo è il dominio degli auguri. Il terzo con­ siste nel fare noi stessi qualcosa per conoscere cose occulte: e allora abbiamo i sortilegi. Ma ciascuno di questi generi abbraccia molte spe­ cie, come ristùta da quanto abbiamo detto. Soluzione delle difficoltà: l . In tutte queste pratiche è identico il costitutivo generico del peccato, ma non è identico quello specifico. Infatti è molto più grave invocare i demoni che compiere delle pratiche che si prestino a qualche intervento diabolico. 2. La conoscenza del futuro o delle cose oc­ culte è i l fine ultimo dal quale deriva la nozio-

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accidit i n detractione , sed sicut principia cognoscendi. Manifestum est autem quod diversitas principiorum diversificat speciem, etiam in scientiis demonstrativis.

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ne generica di divinazione. Ma le varie specie si distinguono secondo il proprio oggetto, o materia: cioè in quanto tale conoscenza di­ pende da cose diverse. 3. Le cose di cui si servono gli indovini non sono considerate da essi come segni c h e esprimono ciò che già conoscono, come av­ viene nella maldicenza, ma come fonti o prin­ cìpi di conoscenza. Ora, è noto che una di­ versità di princìpi dà una diversità di specie, anche nelle scienze dimostrative.

Articulus 4

Articolo 4

Utrum divinatio quae fit per invocationes daemonum sit illicita

La divinazione fatta con l'invocazione dei demoni è illecita?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod divi­ natio quae fit per invocationes daemonum non sit illicita. l . Christus enim nihil illicitum commisit, secundum illud l Petr. 2 [22], qui peccatum non fecit. Sed Dominus a daemone interroga­ vit, quod tibi nomen est? Qui respondit, legio, multi enim sumus, ut habetur Mare. 5 [9]. Er­ go videtur quod liceat a daemonibus aliquid occultum interrogare. 2. Praeterea, sanctorum animae non favent illicite interrogantibus. Sed Sauli interroganti de evento futuri belli a muliere habente spiri­ rum Pythonis, apparuit Samuel, et ei futurum eventum p raedixit, ut legitur l Reg. 28 [8 sqq . ] . Ergo divinatio quae tìt per interroga­ tionem a daemonibus non est illicita. 3. Praeterea, licitum esse videtur veritatem ab aliquo sciente inquirere, quam utile est scire. Sed quandoque utile est scire aliqua occulta quae per daemones sciri possunt, sicut apparet in inventione furtorum. Ergo divinatio quae fit per invocationem daemonum non est illicita. Sed contra est quod dicitur Deut. 1 8 [10-11],

Sembra di no. Infatti: l . Cristo, che secondo l'espressione di l Pt 2 [22] è colui che non commise peccato, certo non commise nulla di illecito. Eppure il Si­ gnore chiese al demonio: Come ti chiami? E quegli rispose: Legione, perché siamo in mol­ ti, come risulta da Mc 5 [9]. Quindi sembra che sia lecito interrogare i demoni sulle cose occulte. 2. Le anime dei santi non possono gradire interrogazioni illecite. Ora, Samuele apparve a Saul il quale chiedeva l'esito della battaglia a una pitonessa, e gli predisse il futuro (l Sam 28,8). Quindi la divinazione fatta interpellan­ do i demoni non è illecita. 3. È lecito chiedere a chi la conosce una verità che è utile a sapersi. Ma spesso sono utili a sapersi delle cose occulte che possono essere conosciute dai demoni: come quando si tratta di scoprire un ladro. Perciò la divinazione fatta con l'invocazione dei demoni non è illecita. In contrario: in Dt 18 [ l O] è detto: Non si tmvi

non inveniatur in te qui ariolos sciscitetw; neque Pythones consulat.

Respondeo dicendum quod omnis divinatio quae fit per invocationes daemonum est illicita, duplici ratione. Quarum prima sumitur ex parte principii divinationis, quod scilicet est pactum expresse cum daemone initum per ipsam daemonis invocationem. Et hoc est omnino illicitum. Unde contra quosdam dicitur Isaiae 28 [ 1 5], dixistis, percussimusfoedus cum mor­ te, et cum inferno fecimus pactum. Et adhuc gravius esset s i sacrificium vel reverentia

in te chi intermghi gli indovini o consulti le pitonesse. Risposta: tutte le divinazioni fatte con l'invo­ cazione del demonio sono illecite, per due motivi. Primo, per l' origine di tali divinazioni, che consiste in un patto stabilito col demonio in base al fatto stesso della sua invocazione. E questo è assolutamente illecito. Ai trasgresso­ ri perciò si applicano le parole di fs 28 [ 1 5]:

Voi dite: Abbiamo concluso un 'alleanza con la morte, e con gli inferi abbiamo fatto lega.

E sarebbe poi ancora più grave se uno offrisse sacrifici in onore del demonio invocato. - Se­ condo, per le conseguenze che ne derivano.

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daemoni invocato exhiberetur. - Secunda ratio sumitur ex parte futuri eventus. Daemon enim, qui intendit perditionem hominum, ex huius­ modi suis responsis, etiam si aliquando vera di­ cat, intendit homines assuefacere ad hoc quod ei credatur, et sic intendit perducere in aliquid quod sit saluti humanae nocivum. Unde Atha­ nasius, exponens id quod habetur Luc. 4 [35], increpavit illum, dicens, obmutesce, dicit [Fragm. in Luc., super 4,33], quamvis vera fa­

teretur daemon, compescebat !amen Christus eius sennonem, ne simul cum veritate etiam suam iniquitatem promulget. Ut nos etiam assuefaciat ne curemus de talibus, etsi vera loqui videantur, nefas enim est ut, cum adsit nobis Scriptura divina, a diabolo instntamur. Ad primum ergo dicendum quod, sicut Beda dicit [In Luc. 3 super 8,30], Luc. 8 [30], non

velut inscius Dominus inquirit, sed ut, confessa peste quam tolerabat, virtus curantis gratior emicaret. Aliud autem est quaerere aliquid a daemone sponte occurrente, quod quandoque licet propter utilitatem alioru m , max i me quando virtute divina potest compelli ad vera dicendum, et aliud est Daemonem invocare ad cognitionem occultorum acquirendum ab ipso. Ad secundum dicendum quod, sicut Augusti­ nus dicit, ad Simplicianum [De divers. q. ad Simplic. 2,3], non est absurdum credere aliqua

dispensatione permissum jìdsse ut, non do­ minante arte magica ve/ potentia, sed dispen­ satione occulta, quae pythonissam et Saulem latebat, se ostenderet spiritus fusti a!!.pectibus regis, divina eum sententia percussurus. Vel, non vere spiritus Samuelis a requie sua excita­ tus est, sed aliquod phantasma et illusio imagi­ naria, diaboli machinationibus facta, quam Scriptura Samuelem appellar, sicut solent ima­ gines rerum suarum nominibus appel/ari. Ad tertium dicendum quod nulla utilitas tem­ poralis potest comparari detrimento spiritualis salutis, quod imminet ex inquisitione occul­ torum per daemonum invocationem.

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Infatti il demonio, il quale mira alla perdizio­ ne degli uomini, anche se in questi responsi dice qualcosa di vero, tende ad abituare gli uomini a credere in lui: e così mira a condurre a cose che sono dannose per la salvezza. Per cui, commentando Le 4 [35]: Sgridando/o gli disse: Taci, Atanasio dice: «Sebbene il demo­ nio dicesse il vero, tuttavia Cristo gli proibì di parlare perché insieme con la verità egli non promulgasse anche la propria iniquità. E an­ che per abituare noi a non curarci dei demoni, anche se sembrano dire la verità: è infatti un peccato farsi istruire dal demonio, quando è sempre pronta per noi la sacra Scrittura». Soluzione delle difficoltà: l . Come spiega Be­ da, «il Signore non chiese perché non sapesse, ma perché, confessando il paziente la peste che sopportava, rilucesse maggiormente la virtù di chi voleva curarla». Del resto una cosa è interrogare un demonio che si presenta spontaneamente, il che talora può essere lecito per l'utilità che altri ne traggono, specialmente quando lo si può costringere per virtù divina a dire la verità, e altro è invocarlo per ottenere da lui la conoscenza di cose occulte. 2. Come scrive Agostino, «non è assurdo cre­ dere che sia stato permesso per una disposi­ zione [divina], e in virtù non delle arti o delle potenze magiche, ma di occulti procedimenti ignoti alla pitonessa e a Saul, che apparisse alla vista del re lo spirito di quel giusto, per intimargli la condanna divina. Oppure non fu veramente evocato dal suo riposo lo spirito di Samuele, ma un fantasma e un'illusione im­ maginaria prodotta dalle macchinazioni del diavolo, e che la Scrittura denomina Samuele, come si è soliti denominare coi nomi rispetti­ vi le immagini delle cose». 3. Nessun vantaggio temporale può reggere il confronto col pericolo che minaccia la salvez­ za spirituale in seguito all'invocazione che si fa del demonio nella ricerca di cose occulte.

Articulus 5

Articolo 5

Utrurn divinatio quae fit per astra sit illicita

La divinazione fondata sull'astrologia è illecita?

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod divi­ natio quae fit per astra non sit illicita. l . Licitum enim est ex consideratione causa­ rum praenuntiare effectus, sicut medici ex

Sembra di no. Infatti: l . È cosa lecita predire gli effetti in base al­ l 'osservazione delle loro cause: come i medici in base all'andamento della malattia predico-

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dispositione aegritudinis praenuntiant mor­ tem. Sed corpora caelestia sunt causa eomm quae fiunt in hoc mundo, ut etiam Dionysius dicit, 4 cap. De div. nom. [4] . Ergo divinatio quae fit per astra non est illicita. 2. Praeterea, scientia humana ex experimentis originem sumit, ut patet per philosophum, in principio Met. [ 1 , 1 ,4]. Sed per multa experi­ menta aliqui comperemnt ex consideratione siderum aliqua futura posse praenosci. Ergo non videtur esse illicitum tali divinatione uti. 3. Praeterea, divinatio dicitur esse illicita in­ quantum innititur pacto cum daemonibus ini­ to. Sed hoc non fit in divinatione quae fit per astra, sed solum consideratur dispositio crea­ turarum Dei. Ergo videtur quod huiusmodi divinatio non sit illicita. Sed contra est quod Augustinus dicit, in 4 Conf. [3], illos planetarios quos mathemati­

cos vocant, consulere non desistebam, quod quasi nullum esset eis sacrijicium, et nullae preces ad aliquem spiritwn ob divinationem dirigerentur. Quod tamen Christiana et vera pietas expellit et damnat.

Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. l ad 2; a. 2], divinationi quae ex opinione falsa vel vana procedit, ingerit se operatio Daemonis, ut hominum animos implicet vani­ tati aut falsitati. Vana autem aut falsa opinione utitur si quis ex consideratione stellarum futu­ ra velit praecognoscere quae per ea praeco­ gnosci non possunt. Est igitur considerandum quid per caelestium corporum inspectionem de futuris possit praenosci. Et de bis quidem quae ex necessitate eveniunt, manifestum est quod per considerationem stellarum possunt praenosci, sicut astrologi praenuntiant eclipses futuras. Circa praecognitionem vero futuro­ rum eventuum ex consideratione stellarum, diversi diversa dixerunt. - Fuerunt enim qui dicerent quod stellae significant potius quam faciant ea quae ex earum consideratione prae­ nuntiantur. - Sed hoc irrationabiliter dicitur. Omne enim corporale signum vel est etfectus eius cuius est signum, sicut fumus significat ignem, a quo causatur, vel procedit ab eadem causa, et sic, dum significat causam, per con­ sequens significat effectum, sicut iris quando­ que significat serenitatem, inquantum causa eius est causa serenitatis. Non autem potest dici quod dispositiones caelestium corpomm et motus sint effectus futurorum eventuum.

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no la morte. Ma i corpi celesti sono la causa di quanto avviene in questo mondo, come insegna anche Dionigi. Quindi la divinazione che si fonda sull' astrologia non è illecita. 2. La scienza umana deriva dali' esperienza, come dimostra il Filosofo. Ma alcuni riscon­ trarono con molte esperienze che certe cose future possono essere conosciute in base al­ l' osservazione degli astri. Perciò non sembra che sia illecito praticare queste divinazioni. 3. Si dice che la divinazione è illecita perché si fonda su un accordo col demonio. Ma nella divinazione fatta mediante gli astri ciò è esclu­ so, limitandosi essa a considerare la disposi­ zione di certe creature. Quindi sembra che questo tipo di divinazione non sia illecito. In contrario: Agostino racconta: «Non cessavo di consultare quel genere di impostori che chiamano astrologi; poiché costoro non face­ vano in certo qual modo uso di alcun sacrificio, né indirizzavano preghiere a spirito alcuno per la divinazione. n che tuttavia la vera e cristiana pietà logicamente respinge e condanna». Risposta: come sopra si è notato, nella divina­ zione che deriva da opinioni false e menzo­ gnere si intromette l'operazione del demonio, per irretire le anime nella menzogna e nell'er­ rore. Ora, uno accetta opinioni false e menzo­ gnere se pretende di conoscere i n base al­ l' osservazione degli astri cose future che in quel modo non si possono prevedere. Bisogna perciò stabilire quali siano le cose future che è possibile prevedere in base all' osservazione dei corpi celesti. Ora, è evidente che è possi­ bile prevedere in questo modo certi fenomeni che avvengono per necessità causale: come gli astronomi prevedono in questo modo le eclissi future. Però sulla previsione del futuro in base all'osservazione degli astri molte sono state le opinioni. - Infatti ci furono alcuni i quali dissero che le stelle non producono, ma piuttosto significano o indicano gli eventi previsti in base alla loro osservazione. - Ma questa tesi è insostenibile. Poiché un segno materiale o è effetto di ciò che indica, come il fumo indica il fuoco dal quale è prodotto, op­ pure deriva con esso da una medesima causa, per cui mentre indica la causa indica conse­ guentemente anche l 'effetto: come l' arcobale­ no talora indica il sereno perché la sua causa è la causa stessa della serenità. Ora, non si può dire che la posizione e i moti dei corpi celesti

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Nec iterum possunt reduci in aliquam supe­ riorem causam communem quae sit corpora­ lis. Possunt autem reduci in unam causam communem quae est providentia divina, sed alia ratione disponuntur a divina providentia motus et situs caelestium corporum, et alia ratione eventus contingentium futurorum; quia illa disponuntur secundum rationem ne­ cessitatis, ut semper eodem modo proveniant; haec autem secundum rationem contingen­ tiae, ut variabiliter contingant. - Unde non potest esse quod ex inspectione siderum acci­ piatur praecognitio futurorum nisi sicut ex causis praecognoscuntur effectus. Duplices autem effectus subtrahuntur causalitati caele­ stium corporum. Primo quidem, omnes ef­ fectus per accidens contingentes, sive in rebus humanis sive in rebus naturalibus. Quia, ut probatur in 6 Met. [5,3], ens per accidens non habet causam, et praecipue naturalem, cuius­ modi est virtus caelestium corporum. Quia quod per accidens fit neque est ens proprie neque unum, sicut quod, lapide cadente, fiat terraemotus, vel quod, homine fodiente sepul­ crum, inveniatur thesaurus; haec enim, et huiusmodi, non sunt unum, sed simpliciter multa. Operatio autem naturae semper ter­ minatur ad aliquid unum, sicut et procedit ab uno principio, quod est forma rei naturalis. Secundo autem, subtrahuntur causalitati cae­ lestium corporum actus liberi arbitrii, quod est facultas voluntatis et rationis. Intellectus enim, sive ratio, non est corpus nec actus or­ gani corporei; et per consequens nec voluntas, quae est in ratione, ut patet per philosophum, in 3 De anima [4,3-4]. Nullum autem corpus potest imprimere in rem incorpoream. Unde impossibile est quod corpora caelestia directe imprimant in intellectum et voluntatem, hoc enim esset ponere intellectum non diffeiTe a sensu; quod Aristoteles, in libro De anima [3,3, 1 ] , imponit bis qui dicebant quod talis

voluntas est in hominibus qualem in die inducit pater vironun deorumque, scilicet sol vel caelum. Unde corpora caelestia non pos­ sunt esse per se causa operum liberi arbitrii. Possunt tamen ad hoc dispositive inclinare, inquantum imprimunt in corpus humanum, et per consequens in vires sensitivas, quae sunt actus corporalium organorum, quae inclinant ad humanos actus. Quia tamen vires sensiti­ vae obediunt rationi, ut patet per philoso-

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siano effetti degli eventi futuri. E neppure è possibile ricollegarli a una causa superiore comune di ordine materiale. Possono però risalire a quell' unica causa comune che è la provvidenza divina; ma quest'ultima dispone i moti e la posizione dei corpi celesti in modo diverso da come dispone gli eventi futuri contingenti. Poiché gli astri sono disposti con criteri di necessità in modo che si comportino sempre allo stesso modo, mentre questi ultimi seguono criteri di contingenza, in modo da verificarsi in svariati modi. - Per cui dall'os­ servazione degli astri non è possibile desu­ mere altra previsione degli eventi futuri all'in­ fuori di quella che consiste nel prevedere gli effetti dalle loro cause. Ma alla causalità dei corpi celesti sfuggono due serie di effetti. Pri­ mo, tutti i fatti che avvengono per accidens, sia negli avvenimenti umani che nei fenomeni naturali. Poiché, come spiega Aristotele, ciò che è per accidens non ha causa: specialmen­ te se si i ntende una causa naturale, qual è appunto la virtù dei corpi celesti. Infatti ciò che avviene per accidens propriamente non ha né entità né unità: p. es. che mentre cade una pietra capiti un terremoto, oppure che un uomo nello scavare un sepolcro trovi un tesoro, e altre cose del genere, sono fatti che non hanno connessione o unità, ma per natura loro rimangono sconnessi e molteplici. Invece la natura termina sempre a un'unità: come anche ha inizio da un principio unitario, che è la forma dell'essere fisico che agisce. - Se­ condo, alla causalità dei corpi celesti sfuggo­ no gli atti del libero arbitrio, che è «una facol­ tà della volontà e della ragione». Infatti l'in­ telletto, o ragione, non è un corpo, né l'atto di un organo corporeo, e quindi neppure è tale la volontà, che è insita nella ragione, come dichiara il Filosofo. Ora, nessun corpo può agire su una realtà incorporea. Perciò è im­ possibile che i corpi celesti agiscano diretta­ mente sull'intelletto e sulla volontà: ciò infatti equivaiTebbe a negare la differenza fra l'intel­ letto e i sensi; cosa che Aristotele rimprovera a quanti affermavano che «tale è negli uomini il volere quale ogni giorno lo dà il Padre degli uomini e degli dèi», cioè il sole o il cielo. Quindi i corpi celesti non possono essere la causa diretta degli atti del libero arbitrio. Tuttavia essi possono inclinare ad agire in un dato senso come predisposizion i : poiché

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phum, in 3 De anima [ 1 1 ,3] et in l Ethic. [ 1 3, 17], nulla necessitas ex hoc libero arbitrio imponitur, sed contra inclinationem cae­ lestium corporum homo potest per rationem operari. - Si quis ergo consideratione astro­ rum utatur ad praecognoscendos futuros ca­ suales vel fortuitos eventus, aut etiarn ad co­ gnoscendum per certitudinem futura opera hominum, procedet hoc ex falsa et vana opi­ nione. Et sic operatio daemonis se immiscet. Unde erit divinatio superstitiosa et illicita. Si vero aliquis utatur consideratione astrorum ad praecognoscendum futura quae ex caele­ stibus causantur corporibus, puta siccitates et pluvias et alia huiusmodi, non erit illicita divi­ natio nec superstitiosa. Et secundum hoc patet responsio ad primum. Ad secundum dicendum quod hoc quod astrologi ex consideratione astrorum frequen­ ter vera praenuntiant, contingit dupliciter. Uno quidem modo, quia plures hominum passiones corporales sequuntur, et ideo actus eorum disponuntur, ut in pluribus, secundum inclinationem caelestium corporum, pauci autem sunt, idest soli sapientes, qui ratione huiusmodi inclinationes moderentur. Et ideo astrologi in multis vera praenuntiant, et prae­ cipue in communibus eventibus, qui depen­ dent ex moltitudine. - Alio modo, propter daemones se immiscentes. Unde Augustinus dicit, in 2 Super Gen. [ 1 7] , jarendum est,

quando a mathematicis vera dicunrur, instinc­ ru quodam occultissimo dici, quem nescientes humanae mentes patiuntur. Quod cum ad decipiendos homines fit, spirituum immundo­ rum et seductorum operatio est, quibus quae­ dam vera de temporalibus rebus nosse per­ mittitur. Unde concludi t [Super Gen. 2, 17], quapropter bmw christiano sive mathematici, sive quilibet impie divinantium, et maxime dicentes vera, cavendi sunt, ne consortio dae­ moniorum animam deceptam pacto quodam societatis irretiant. Et per hoc patet responsio ad tertium.

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influiscono sul corpo umano, e quindi sulle facoltà sensitive le quali, attuandosi in organi corporei, influiscono come inclinazioni sugli atti umani. Siccome però le potenze sensitive ubbidiscono alla ragione, come insegna il Filosofo, questa inclinazione non impone alcuna necessità al libero arbitrio, ma l'uomo può agire contro l' inclinazione dei corpi celesti. - Se quindi uno si serve dell'osserva­ zione degli astri per prevedere il futuro casua­ le o fortuito, o anche per predire con certezza gli avvenimenti umani, ciò è dovuto a un'opi­ nione falsa e menzognera. E allora interviene l'opera del demonio. Perciò tale divinazione è superstiziosa e illecita. - Se invece uno si serve dell'osservazione degli astri per preve­ dere fenomeni che sono causati dai corpi celesti, quali la siccità, la pioggia e simili, al­ lora la sua divinazione non è né illecita né superstiziosa. Soluzione delle difficoltà: l. È così risolta la prima difficoltà. 2. n fatto che gli astrologi spesso predicono il vero può essere spiegato in due modi. Primo, perché la massa degli uomini segue le passio­ ni corporali, e quindi i loro atti per lo più seguono l'inclinazione dei corpi celesti; men­ tre sono pochi, cioè i saggi soltanto, che pen­ sano a governare con la ragione queste incli­ nazioni. Perciò gli astrologi in molti casi pre­ dicono il vero; e specialmente a proposito degli avvenimenti pubblici, che dipendono dalla moltitudine. - Secondo, per un interven­ to diabolico. Dice infatti Agostino: «Bisogna riconoscere che quando gli astrologi dicono il vero, ciò avviene sotto un'ispirazione occul­ tissima, che le anime umane subiscono senza saperlo. E siccome ciò avviene allo scopo di ingannare gli uomini, è opera di spiriti im­ mondi e seduttori, ai quali è permesso di co­ noscere alcuni dati veri sulle realtà tempora­ li». Quindi conclude: «Per questo il buon cri­ stiano deve guardarsi dagli astrologi e da tutti coloro che da empi esercitano l'arte divinato­ ria, specialmente se predicono il vero: affin­ ché la sua anima, ingannata dal commercio con i demoni, non venga irretita in un patto con essi». 3. È così risolta anche la terza difficoltà.

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La superstizione divinatoria

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Articulus 6 Utrum divinatio quae fit per somnia sit illicita

Articolo 6 La divinazione fondata sui sogni è illecita?

Ad sextum sic proceditur. Videtur quod divi­ natio quae fit per somnia non sit illicita. l . Uti enim instructione divina non est illici­ tum. Sed in somniis homines instruuntur a Deo, dicitur enim Iob 33 [ 1 5- 1 6], per som­ nium in visione noctuma, quando irruit sopor super homines et donniunt in lectulo, tunc aperit, scilicet Deus, aures virorum, et eru­ diens eos instruit disciplina. Ergo uti divina­ tione quae est per somnia non est illicitum. 2. Praeterea, illi qui intetpretantur somnia, pro­ prie utuntur divinatione somniorum. Sed sancti viri leguntur somnia intetpretari, sicut Ioseph in­ tetpretatur somnia pincemae Pharaonis et ma­ gistri pistorum, ut legitur Geo. 40 [8 sqq.], et somnium Pharaonis, ut legitur Gen. 41 [15 sqq.]; et Daniel intetpretatus est somnium regis Baby­ lonis, ut habetur Dan. 2 [26 sqq.] et 4 [5 sqq.]. Ergo divinatio somniorum non est illicita. 3. Praeterea, illud quod communiter hornines experiuntur, irrationabile est negare. Sed omnes experiuntur somnia habere aliquam significationem futurorum. Ergo vanum est negare somnia habere vim divinationis. Ergo licitum est eis intendere. Sed contra est quod dicitur Deut. 1 8 [ l 0], non inveniatur in te qui observet somnia. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [aa. 2.5], divinatio quae innititur falsae opi­ nioni est superstitiosa et illicita. Ideo conside­ rare oportet quid sit verum circa praecognitio­ nem futurorum dc somniis sunt autcm somnia futurorum eventuum quandoque quidem cau­ sa, puta cum mens alicuius, sollicita ex his quae videt in somniis, inducitur ad aliquid faciendum vel vitandum. - Quandoque vero somnia sunt signa aliquorum futurorum even­ tuum, inquantum reducuntur in aliquam cau­ sam communem somniis et futuris eventibus. Secundum hoc plurimum praecognitiones fu­ turorum ex somniis fiunt. Est ergo conside­ randum quae sit causa somniorum; et an pos­ sit esse causa futurorum cvcntuum; vcl ca possit cognoscere. - Sciendum est ergo quod somniorum causa quandoque quidem est in­ terius, quandoque autem exterius. Interior autem somniorum causa est duplex . Una quidem animalis, inquantum scilicet ea occur-

Sembra di no. Infatti: l . Servirsi dell'insegnamento di Dio non può essere illecito. Ora, nel sogno gli uomini sono istruiti da Dio. Infatti è detto in Gb 33 [ 15]: Nel sogno, in visione notturna, quando cade il sopore sugli uomini e si addonnentano sui lo­ ro giacigli, allora - Dio - apre l'orecchio de­ gli uomini e li erudisce istruendo/i nella loro disciplina. Perciò servirsi della divinazione che si fonda sui sogni non è una cosa illecita. 2. Chi intetpreta i sogni si serve proptiamente della divinazione onirica. Ma nella Scrittura si legge che alcuni santi personaggi hanno inter­ pretato i sogni: Giuseppe, p. es., spiegò i sogni del coppiere e del panettiere del faraone (Gen 40,8 ss.), nonché i sogni dello stesso faraone ( Gen 4 1 , 1 5), Daniele poi spiegò il sogno del re di Babilonia (Dn 2,26). Quindi la divJnazione basata sui sogni non è illecita. 3. E irragionevole negare ciò che è sperimen­ tato comunemente dagli uomini. Ma tutti spc­ timentano che i sogni hanno un riferimento a cose future. Quindi è vano negare che i sogni abbiano un valore divinatotio. E così è lecito attendere ad essi. In contrario: in Dt 18 [l O] è detto: Non si trovi in te chi attenda ai sogni. Risposta: come si è già notato, la divinazione fondata su false opinioni è superstiziosa e illecita. Perciò bisogna considerare quanto c'è di vero nella previsione del futuro mediante i sogni. Ora, talvolta i sogni sono causa degli eventi futuri: come quando uno, preoccupato di ciò che ha visto nel sogno, si lascia indurre a fare o a evitare una cosa. Altre volte invece essi sono indizi di certi eventi fututi poiché ri­ salgono a una causa comune ai sogni e a tali eventi. E in base a ciò si tànno nei sogni molte previsioni del futuro. Quindi bisogna conside­ rare quale sia la causa dei sogni; e se possa essere causa degli eventi futuri, oppure se li possa conoscere. - Si deve dunque ricordare che la causa dci sogni può essere interna ed esterna. Quella interna poi è di due specie. L'una è di ordine psicologico: e sta nel fatto che nella fantasia del dormiente si riproducono le immagini relative alle cose di cui si era occupato a lungo il suo pensiero e il suo sentimento du-

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runt hominis phantasiae in dormiendo circa quae eius cogitatio et affectio fuit immorata in vigilando. Et talis causa somniorum non est causa futurorum eventuum. Unde huiusmodi somnia per accidens se habent ad futuros eventus, et si quandoque simul concurrant, erit casuale. - Quandoque vero causa intrinseca somniorum est corporalis. Nam ex interiori dispositione corporis formatur aliquis motus in phantasia conveniens tali dispositioni, sicut hornini in quo abundant frigidi humores, oc­ currit in somniis quod sit in aqua vel nive. Et propter haec medici dicunt esse intendendum somniis ad cognoscendum interiores disposi­ tiones. - Causa autem somniorum exterior si­ militer est duplex, scilicet corporalis, et spiri­ tualis. Corporalis quidem, inquantum imagi­ natio dormientis immutatur vel ab aere conti­ nenti vel ex impressione caelestis corporis, ut sic dormienti aliquae phantasiae appareant conformes caelestium dispositioni. - Spiritua­ lis autem causa est quandoque quidem a Deo, qui ministerio angelorum aliqua hominibus revelat in somniis, secundum illud Num. 1 2 [6], si quisfuerit inter vas propheta Domini, in

visione apparebo ei, ve/ per somnium loquar ad illum. Quandoque vero operatione daemo­

num aliquae phantasiae donnientibus appa­ rent, ex quibus quandoque aliqua futura re­ velant his qui cum eis habent pacta illicita. Sic ergo dicendum quod si quis utatur somniis ad praecognoscenda futura secundum quod somnia procedunt ex revelatione divina; vel ex causa naturali, intrinseca sive extrinseca, quan­ tum se potest virtus talis causae extendere, non erit illicita divinatio. Si autcm huiusmodi divi­ natio causetur ex revelatione daemonum cum quibus pacta habentur expressa, quia ad hoc invocantur; vel tacita, quia huiusmodi divina­ tio extenditur ad quod se non potest extendere, erit divinatio illicita et superstitiosa. Et per hoc patet responsio ad obiecta.

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rante la veglia. E questa origine o causa dei sogni non può essere causa degli eventi futuri. Perciò tali sogni sono del tutto accidentali rispet­ to al futuro; e se talora c'è una coincidenza, essa è del tutto casuale. - L'altra causa interna dei sogni è invece di origine fisiologica. Infatti dali' interna disposizione del corpo nascono nella fantasia delle disposizioni conispondenti: come un uomo nel quale predominano gli umori freddi, nel sogno immagina di essere nell'acqua o nella neve. E per questo i medici raccomandano di badare ai sogni per conoscere le disposizioni interne. - Similmente anche la causa esterna dci sogni è di due specie, cioè corporale e spirituale. Corporale in quanto l'im­ maginazione di chi dorme viene alterata o dall'mia circostante, o dall'influsso dei corpi celesti, in modo che al dormiente appaiano delle fantasie conformi alle disposizioni di tali corpi. Invece la causa spirituale talora proviene da Dio, il quale rivela alcune cose agli uomini nel sogno attraverso il ministero degli angeli, secondo le parole di Nm 1 2 [6]: Se in me'('2o a voi ci sarà un

profeta del Sig�wre, io gli apparirò in visione o gli parlerò in sogno. Al contrario talvolta l'ap­

parizione di certe fantasie nei dormienti è dovuta all'intervento dei demoni, i quali attraverso di esse in certi casi rivelano il futuro a quanti hanno con loro dei patti o commerci illeciti. - Perciò dobbiamo concludere che se uno si serve dei sogni per prevedere il futuro in quanto i sogni derivano da una rivelazione divina, oppure da cause naturali intrinseche o estrinseche, nei limiti in cui queste possono valere, allora la divinazione o predizione non è illecita. Se invece tale divinazione è causata da rivelazioni fatte dai demoni, con i quali si hanno dei patti espliciti, perché essi vengono invocati a questo scopo, oppure impliciti, perché la divinazione in parola si estende oltre ai limiti fino a cui si può estendere, allora essa è illecita e superstiziosa. Sono così risolte anche le difficoltà.

Articulus 7

Articolo 7

Utrum divinatio quae est per anguria et omina et alias huiusmodi observationes exteriorum rerum sit illicita

La divinazione fondata sugli auguri, sui presagi e su altre osservazioni del genere relative alle cose esterne è illecita?

Ad septimum sic proceditur. Videtur quod divi­ natio quae est per auguria et omina et alias huiusmodi observationes exteriorum rerum, non sit illicita.

Sembra di no. Infatti: l. Se fosse illecita i santi non l'avrebbero prati­ cata. Invece si legge in Gen 44 [5] del patriarca Giuseppe che praticava gli auguri, così infatti

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l . Si enim esset illicita, sancti viri ea non ute­ rentur. Sed de Ioseph legitur quod auguriis in­ tendebat, legitur enim Gen. 44 [5] quod di­ spensator Ioseph dix it, scyphus quem forati estis ipse est in quo bibit dominus meus, et in quo augurari solet; et ipse postea dixit [ 1 5] fratribus suis, an ignoratis quod non sit simi­ lis mei in augurandi scientia ? Ergo uti tali divinatione non est illicitum. 2. Praeterea, aves aliqua circa futuros tempo­ rum eventus naturaliter cognoscunt, secundum illud Ier. 8 [7], milvus in caelo cognovit tem­ pus suum, turtur et hirundo et ciconia custo­ dierunt tempus adventus sui. Sed naturalis co­ gnitio est infallibilis, et a Deo. Ergo uti cogni­ tione avium ad praenoscendum futura, quod est augurari, non videtur esse illicitum. 3. Praeterea, Gedeon in numero sanctorum po­ nitur, ut patet Heb. 1 1 [32]. Sed Gedeon usus fuit omine ex hoc quod audivit recitationem et interpretationem cuiusdam somnii, ut legitur Iudic. 7 [ 1 3 sqq.]. Et similiter Eliezer, servus Abrahae, ut legitur Gen. 24 [ 1 3- 1 4] . Ergo videtur quod talis divinatio non sit illicita. Sed contra est quod dicitur Deut. 1 8 [l 0], non inveniatur in te qui observet auguria. Respondeo dicendum quod motus vel garritus avium, vel quaecumque dispositiones huius­ modi in rebus consideratae, manifestum est quod non sunt causa futurorum eventuum, unde ex eis futura cognosci non possunt sicut ex causis. Relinquitur ergo quod si ex eis ali­ qua futura cognoscantur, hoc erit inquantum sunt effectus aliquarum causarum quae etiam sunt causantes vel praecognoscentes futuros eventus. - Causa autem operationum bruto­ rum animalium est instinctus quidam quo moventur in modum naturae, non enim ha­ bent dominium sui actus. Hic autem instinc­ tus ex duplici causa potest procedere. Uno quidem modo, ex causa corporali. Cum enim bruta animalia non habeant nisi animam sen­ sitivam, cuius omnes potentiae sunt actus cor­ poralium organomm, subiacet eorum anima dispositioni continentium corpomm, et pri­ mordialiter caelestium. Et ideo nihil prohibet aliquas eorum operationes esse futurorum signa, inquantum conformantur dispositioni­ bus corporum caelestium et aeris continentis, ex qua proveniunt aliqui futuri eventus. - In hoc tamen duo considerari oportet. Primum quidem, ut huiusmodi operationes non exten-

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egli fece dire al suo maestro di casa: La coppa che avete rubata è quella nella quale beve il mio Signore, e con la quale è solito fare gli auguri; e poco dopo egli stesso disse ai suoi fratelli: Non sapete che non v 'è alcuno pari a me nell'arte di trarre gli auguri? Quindi non è illecito praticare questa divinazione. 2. Gli uccelli conoscono per natura certe cose future relative al tempo, come è detto i n Ger 8 [7]: Anche il nibbio nel cielo conosce i suoi tempi; la tortora, la rondinella e la cico­ gna osservano la stagione del /oro arrivo. Ma la conoscenza naturale è infallibile, e viene da Dio. Quindi non sembra che sia illecito ser­ virsi della conoscenza degli uccelli per preve­ dere il futuro, cioè per trarre auguri. 3. Gedeone è annoverato tra i santi (Eb 1 1,32). Ma egli fece uso di presagi ascoltando il rac­ conto e l'interpretazione di un sogno (Gdc 7,1 3). E qualcosa di simile fece Eliezer, servo di Abramo (Gen 24, 13). Quindi sembra che tale divinazione non sia illecita. In contrario: in Dt 1 8 [l 0] è detto: Non si trovi in te chi presti attenzione agli auguri. Risposta: è evidente che il moto o il canto de­ gli uccelli, come tutte le altre disposizioni del genere osservate nelle realtà esterne, non pos­ sono essere causa degli eventi futuri: per cui da esse non è possibile cçnoscere il futuro come da altrettante cause. E quindi certo che se da esse si viene a conoscere il futuro è perché esse sono eft'etto di cause che possono altresì produrre o prevedere quegli eventi. Ora, la causa del comportamento degli ani­ mali bruti è un certo istinto dal quale essi so­ no mossi come fisicamente: essi infatti non hanno il dominio dei propri atti. Ora, tale istinto può derivare da due cause diverse. Pri­ mo, da una causa fisiologica Non avendo in­ fatti gli animali bruti altro che l'anima sensi­ tiva, le cui potenze si attuano in altrettanti or­ gani corporei, essi subiscono intimamente le disposizioni dei corpi in cui si trovano, e in primo luogo di quelli celesti. Nulla impedisce quindi che certe loro operazioni siano indizi di cose future in quanto essi si adeguano alle disposizioni dei corpi celesti e dell'aria circo­ stante, da cui certi eventi futuri derivano. Qui però si devono considerare due cose. Pri­ mo, che tali operazioni si estendano a preve­ dere esclusivamente il futuro dipendente dal moto dei corpi celesti, come sopra si è notato.

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dantur nisi ad praecognoscenda futura quae causantur per motus caelestium corporum, ut supra [aa. 5-6] dictum est. Secundo, ut non extendantur nisi ad ea quae aliqualiter possunt ad huiusmodi animalia pertinere. Conse­ quuntur enim per caelestia corpora cognitio­ nem quandam naturalem et instinctum ad ea quae eorum vitae sunt necessaria, sicut sunt immutationes quae fiunt per pluvias et ventos, et alia huiusmodi . - Alio modo instinctus huiusmodi causantur ex causa spirituali. Scili­ cet vel ex Deo, ut patet in columba super Christum descendente, et in corvo qui pavit Eliam, et in cete qui absorbuit et eiecit Ionam. Vel etiam ex daemonibus, qui utuntur huius­ modi operationibus brutorum animalium ad implicandas animas vanis opinionibus. - Et eadem ratio videtur esse de omnibus aliis ac­ cipiuntur pro omine, non subduntur disposi­ tioni stellarum. Huiusmodi, praeterquam de ominibus. Quia verba humana, quae dispo­ nuntur tarnen secundum divinarn providen­ tiam; et quandoque secundum daemonum operationem. - Sic igitur dicendum quod omnis huiusmodi divinatio, si extendatur ultra id ad quod potest pertingere secundum ordi­ nem naturae vel divinae providentiae, est su­ perstitiosa et illicita. Ad primum ergo dicendum quod hoc quod Ioseph dixit, non esse aliquem sibi similem in scientia augurandi, secundum Augustinum [Q. in Heptat. 1 , 145 super Gen. 44, 1 5], ioco dixit, non serio, referens forte hoc ad id quod vulgus de eo opinabatur. Et sic etiam dispen­ sator eius locutus est. Ad secundum dicendum quod illa auctoritas loquitur de cognitione avium respectu eorum quae ad eas pertinent. Et ad haec praecogno­ scenda considerare earum voces et motus non est illicitum, puta si quis ex hoc quod comicu­ la frequenter crocitat, praedicat pluviarn cito esse futuram. Ad tertium dicendum quod Gedeon observa­ vit recitationem et expositionem somnii ac­ cipiens ea pro omine, quasi ordinata ad sui in­ structionem a divina providentia. Et similiter Eliezer attendit verba puellae, oratione prae­ missa ad Deum.

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Secondo, che si estendano solo a cose che in qualche modo possono interessare tali anima­ li. Questi infatti ricevono dai corpi celesti una certa conoscenza naturale e un'istintiva dire­ zione nelle cose che sono necessarie alla loro vita, quali ad es. le variazioni dovute alla pioggia, ai venti e ad altri fenomeni del ge­ nere. - Secondo, l 'istinto suddetto può essere prodotto da una causa spirituale. Cioè o da Dio: come nel caso della colomba che discese su Cristo [Mt 3, 1 6] , del corvo che portò il cibo a Elia [l Re 17 ,4.6] e del pesce che divorò ed espulse Giona [2, 1 ]. Oppure anche dai demoni, i quali s i servono di queste operazioni degli animali bruti per irretire le anime con opinioni menzognere. - E lo stesso si dica d i tutte le altre pratiche di questo genere, eccettuati i presagi. Poiché le parole umane che vengono considerate come presagi non sottostanno alle disposizioni degli astri. Tuttavia esse sono disposte dalla divina prov­ videnza; e in certi casi da interventi diabolici. - Così dunque si deve concludere che qual­ siasi predizione o divinazione di questo gene­ re, se pretende di estendersi oltre i limiti pos­ sibili secondo l'ordine della natura o della di­ vina provvidenza, è superstiziosa e illecita. Soluzione delle difficoltà: l . Secondo Agosti­ no, Giuseppe disse per gioco, non seriamente, che non c'era nessuno pari a lui nell'arte di trarre gli auguri, riferendosi forse a ciò che il volgo pensava di lui. E in tal senso parlò an­ che il suo maestro di casa. 2. Quel testo parla della conoscenza che hanno gli uccelli rispetto ai fenomeni che li riguardano. Ora, l'osservare il loro canto e i loro moti per conoscere tali fenomeni è cosa lecita: p. es. se dal fatto che le cornacchie gracchiano con frequenza si predice la piog­ gia imminente. 3 . Gedeone prestò attenzione al racconto e alla spiegazione di quel sogno, e prese questo come un presagio, intendendo che ciò era preordinato dalla divina provvidenza a suo ammaestramento. Parimenti Eliezer attese alle parole della fanciulla dopo aver pregato Dio.

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La superstizione divinatoria

Articulus 8 Utrum divinatio sortium sit illicita Ad octavum sic proceditur. Videtur quod divi­ natio sortium non sit illicita. l . Quia super illud Ps. [30, 1 6], in manibus tuis sortes meae, dicit Glossa [ord. et Lomb.; Enarr. in Ps. 30,2,2 super 1 6] Augustini, sors

non est aliquid mali, sed res, in humana dubitatione, divinam indicans voluntatem. 2. Praeterea, ea quae a sanctis in Scripturis ob­ servata leguntur non videntur esse illicita. Sed sancti viri, tam in veteri quam in novo testa­ mento, inveniuntur sortibus usi esse. Legitur enim Iosue 7 [ 1 3 sqq.], quod Iosue, ex prae­ cepto Domini, iudicio sortium punivit Achar, qui de anathemate surripuerat. Saul etiam sorte deprehendit filium suum Ionatham mel come­ disse, ut habetur l Reg. 14 [38 sqq.]. Ionas etiam, a facie Domini fugiens, sorte depre­ hensus, est in mare deiectus, ut legitur Ionae l [7 sqq.]. Zacharias etiam sorle exiit ut incen­ sum poneret, ut legitur Luc. l [9]. Matthias etiam est sorte ab apostolis in apostolatum electus, ut legitur Act. l [26]. Ergo videtur quod divinatio sortium non sit illicita. 3. Praeterea, pugna pugilum quae monoma­ chia dicitur [cf. Decretum, p. 2, causa 2, q. 5, can. 22], idest singularis concertatio, et iudi­ cia ignis et aquae, quae dicuntur vulgaria [cf. Decretai. Gregor. IX, 5,35,3], videntur ad sortes pertinere, cum per huiusmodi aliqua exquirantur occulta. Sed huiusmodi non vi­ dentur esse illicita, quia et David legitur cum Philisthaeo singulare iniisse certamen, ut legi­ tur l Reg. 1 7 [32]. Ergo videtur quod divina­ rio sortium non sit illicita. Sed contra est quod in Decretis, 26, qu. 5 [Gra­ tianus, Decretum, p. 2, causa 26, q. 5, can. 7], dicitur, sorles quibus cuncta vos vestris discri­

minatis provinciis, quas patres damnaverunt, nihil aliud quam divinationes et malejicia de­ cemimus. Quamobrem volumus omnino illas damnari, et ultra inter christianos nolumus no­ minari, et ne exerceantw; anathematis inter­ dicto prohibemus. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 3] dictum est, sortes proprie dicuntur cum aliquid fit ut, eius eventu considerato, aliquid occultum innotescat. Et si quidem quaeratur iudicio sortium quid cui sit exhibendum, sive illud sit res possessa, sive sit honor seu digni-

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Articolo 8 D sortilegio è una divinazione illecita?

Sembra di no. Infatti: l . Commentando il Sal 30 [ 1 6] : Nelle tue mani sono le mie sorti, Agostino afferma: «La sorte non è nulla di male, ma un indizio che nel dubbio indica la volontà di Dio». 2. Non sono illecite le cose che, stando alla Scrittura, furono praticate dai santi. Ora, si riscontra che i santi, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento, fecero ricorso alle sorti. Infatti di Giosuè (7, 1 3) si legge che per co­ mando di Dio punì Acar, il quale aveva sot­ tratto alcune cose all'anatema, rimettendone il giudizio alla sorte. E anche di Saul si legge (l Sam 14,38 ss.) che mediante le sorti scoprì che a mangiare il miele era stato Gionata suo figlio. Inoltre Giona ( 1 ,7) fu preso a sorte, mentre fuggiva dalla faccia del Signore, e get­ tato in mare. A Zaccaria poi toccò in sorle di offrire l 'incenso (Le 1 ,9). Infine Mattia fu eletto dagli apostoli all'apostolato mediante la sorte (At l ,26). Quindi sembra che la divina­ zione basata sul sorteggio non sia illecita. 3 . Il duello, cioè il combattimento privato, detto mmwmachia, e i giudizi del fuoco e del­ l'acqua, denominati ordalie, si riducono a dei sorteggi: poiché con essi si indagano le cose occulte. Ma non sembra che tali pratiche sia­ no illecite, poiché anche Davide ebbe un duello col [gigante] filisteo (l Sam 1 7,32). Quindi sembra che la divinazione basata sul sortilegio non sia illecita. In contrario: nel Decreto di Graziano si legge: «Le sorti con le quali nei vostri affari decidete ogni cosa, e che i Padri hanno condannato, altro non sono che divinazioni e malefici. Perciò vogliamo che esse siano condannate, e che non siano più nominate fra i Cristiani: e affinché non siano praticate le proibiamo sot­ to pena di scomunica». Risposta: come sopra si è visto, si ha la sorte o il sortilegio quando si compie un atto con il fine di arguire dali' osservazione del suo ri­ sultato qualcosa di occulto. E se da questo giudizio delle sorti si vuole sapere a chi si de­ ve assegnare qualcosa, cioè dei beni materiali, onori, dignità, castighi o altro, abbiamo la sor­ te divisoria. Se invece si vuole sapere il da farsi, abbiamo la sorte consultoria. Se infine si vuole conoscere il futuro, si ha la sorte

Q. 95, A. 8

La superstizione divinatoria

tas, seu poena, aut actio aliqua, vocatur sors divisoria. Si autem inquiratur quid agere oporteat, vocatur sors consultoria. Si vero quaeratur quid sit futurum, vocatur sors divi­ natoria. - Actus autem hominum, qui re­ quiruntur ad sortes, non subduntur dispositio­ ni stellarum, nec etiam eventus ipsorum. Un­ de si quis ea intentione sortibus utatur quasi huiusmodi actus humani, qui requiruntur ad sortes, secundum dispositionem stellarum sortiantur efièctum, vana et falsa est opinio, et per consequens non carens daemonum inge­ stione. Ex quo talis divinatio erit superstitiosa et illicita. - Hac autem causa remota, necesse est quod sortialium actuum expectetur even­ tus vel ex fortuna, vel ex aliqua spirituali causa dirigente. Et si quidem ex fortuna, quod locum habere potest solum in divisoria sorte, non videtur habere nisi forte vitium vanitatis sicut si aliqui non valentes aliquid concorditer dividere, velint sortibus ad divisionem uti, quasi fortunae exponentes quis quam partem accipiat. - Si vero ex spirituali causa expecte­ tur sortium iudicium, quandoque quidem expectatur ex daemonibus, sicut legitur Ez. 2 1 [21], quod re.x Babylonis stetit in bivio, in ca­

pite duarum viarum, commiscens sagittas, in­ terrogavi! idola, exta consuluit. Et tales sortes

sunt illicitae, et secundum canones prohiben­ tur. - Quandoque vero expectatur a Deo, secundum illud Prov. 16 [33]. Sortes mit­

tuntur in sinum, sed a Domino temperantur.

Et talis sors secundum se non est malum, ut Augustinus dicit [Enarr. in Ps. 30,2,2 super 1 6]. Potest tamen in hoc quadrupliciter peccatum incidere. Primo quidem, si absque ulla ne­ cessitate ad sortes recurratur, hoc enim vi­ detur ad Dei tentationem pertinere. Unde Ambrosius dicit, Super Lucam [ 1 ,8 sqq.] [ 1 , super l ,8], qui sorte eligitw; humano iudicio non comprehenditur. Secundo, s i quis, etiam in necessitate, absque reverentia sorti­ bus utatur. Unde, Super Actus Apost., dicit Beda [super 1 ,26], si qui, necessitate aliqua -

compulsi, Deum putant sortibus, exemplo apostolorum, esse consulendum, videant hoc ipsos apostolos 11011 11isi collecto fratrum coetu, et precibus ad Deum fusis, egisse. Tertio, si divina oracula ad terrena negotia convertantur. Unde Augustinus dicit, Ad in­ quisitiones Ianuarii [ep. 55,20], his qui de pa­

ginis evangelicis so1tes legunt, etsi optandum

divinatoria.

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Ora, gli atti umani richiesti per le sorti e i loro risultati non sono soggetti alle disposizioni degli astri. Se quindi uno ricorre alle sorti pensando che gli atti umani richiesti dipendano nei loro effetti dalle disposizioni degli astri, la sua è un'opinione stolta e falsa, e quindi aperta all'intervento diabolico. Per­ ciò tale divinazione è superstiziosa e illecita. Eliminata dunque la causalità dei corpi cele­ sti, il risultato degli atti compiuti per il sortile­ gio va necessariamente affidato o alla fortuna o a una causa spirituale. Se ci si affida alla fortuna, e ciò può accadere solo nella sorte divisoria, l'azione sembra che non presenti altro vizio che quello di una certa leggerezza: come se alcuni, non riuscendo ad accordarsi nel dividere una certa cosa, decidessero di affidare la divisione al sorteggio, quasi affi­ dando al caso la parte che ciascuno deve prendere. - Se invece si attende il giudizio del sorteggio da una causa spirituale, in certi casi c'è chi lo attende dai demoni : come si legge in Ez 2 1 [2 1 ] : Il re di Babilonia è fenno al -

bivio all'inizio delle due strade, inten-oga11do le sorti, agitando le frecce; interrogò gli idoli, osservò le viscere. Ora, questi sortilegi sono illeciti e proibiti dai Canoni. - Altre volte in­ vece il giudizio è atteso da Dio, secondo le parole dei Pr 16 [33]: Nel grembo si getta la

sorte, ma la decisione dipende tutta dal Si­ gnore. E tali sorteggi, come afferma Agosti­

no, non sono riprovevoli. Tuttavia anche in questi casi in quattro modi può insinuarsi la colpa. Primo, se si ricorre alle sorti senza necessità: poiché ciò si riduce a tentare Dio. Da cui le parole di Ambrogio: «Chi viene eletto a sorte sfugge al giudizio umano». Secondo, se uno, anche in caso di necessità, ricorre al sortilegio senza la debita riverenza. Da cui le parole di Beda: «Se qualcuno stretto dalla necessità pensa di ricorrere a Dio me­ diante le sorti, sull'esempio degli apostoli, os­ servi che gli apostoli si accinsero a ciò solo dopo aver radunato l'assemblea dei fratelli, e dopo aver pregato Dio». - Terzo, se i responsi divini vengono adoperati per gli interessi ter­ reni. Infatti Agostino scrive: «Quanto a coloro che traggono le sorti dalle pagine del Van­ gelo, sebbene sia preferibile far questo che consultare i demoni, tuttavia a me dispiace questa consuetudine di volgere i divini oracoli agli interessi terreni, e alle vanità della vita

937

La superstizione divinatoria

sit ut id potius faciant quam ad daemonia consulenda concurrant, tamen ista mihi di­ splicet consuetudo, ad negotia saecularia et ad vitae huius vanitatem divina oracula velle convertere. - Quarto, si in electionibus eccle­ siasticis, quae ex Spiritus Sancti inspiratione fieri debent, aliqui sortibus utantur. Unde, sicut Beda dicit, Super Actus Apost. [super 1 ,26], Matthias, ante Pentecosten ordinatus, sorte quaeritur, quia scilicet nondum erat plenitudo Spiritus Sancti in Ecclesia effusa, septem autem diaconi postea non sorte, sed electione discipulorum sunt ordinati. Secus autem est in temporalibus dignitatibus, quae ad terrena disponenda ordinantur; in quarum electione plerumque homines sortibus utun­ tur, sicut et in temporalium rerum divisione. Si vero necessitas immineat, licitum est, cum debita reverentia, sortibus divinum iudicium implorare. Unde Augustinus dicit, in Epistola ad Honoratum [ep. 228], si inter Dei mini­ stms sit disceptatio qui eorum persecutionis tempore maneant, ne fuga omnium, et qui eorum fugiant, ne morte omnium deseratur Ecclesia, si haec disceptatio a/iter non potue­ rit te1minari, quantum mihi videtur, qui ma­ neant et qui fugiant sorte legendi stmt. Et in l De doct. chr. [28] dicit, si tibi abundaret aliquid, quod oporteret dari ei qui non habe­ ret, nec duobus dari potuisset; si tibi occurre­ rent duo, quorum neuter alium vel iruiigentia vel erga te aliqua necessitate superaret; nihil iustius jàceres quam ut sorte legeres cui dan­ dum esset quod dari utrique non posset. Et per hoc patet responsio ad primum et secundum. Ad tertium dicendum quod iudicium ferri can­ dentis vel aquae ferventis ordinatur quidem ad alicuius peccati occulti inquisitionem per aliquid quod ab homine fit, et in hoc convenit cum sortibus, inquantum tamen expectatur aliquis miraculosus effectus a Deo, excedit communem sortium rationem. Unde huiusmodi iudicium il­ licitum redditur, nun quia ordinatur ad iudican­ dum occulta, quae divino iudicio reservantur; tum etiam quia huiusmodi iudicium non est auctoritate divina sancitum. Unde 2, q. 5, in decreto Stephani papae [cf. Decretum, p. 2, causa 2, q. 5, can. 20; cf. Stephanum V, fragm. epist. Ad Leutbertum Moguntinum Episc.], di­ citur, ferri candentis ve! aquae ferventis exami­ natione confessionem extorqueri a quolibet,

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presente». - Quarto, se si ricorre al sorteggio nelle elezioni ecclesiastiche, che devono svol­ gersi sotto l'ispirazione dello Spirito Santo. Per cui Beda nota che «Mattia, ordinato prima della Pentecoste, fu scelto a sorte» per­ ché nella Chiesa non era stata ancora infusa la pienezza dello Spirito Santo; «in seguito inve­ ce i sette diaconi furono chiamati ali' ordina­ zione non a sorte, ma mediante la scelta dei discepoli». Diverso però è il caso delle cari­ che civili, che sono ordinate a disporre dei beni terreni, e nell'assegnazione delle quali spesso gli uomini ricorrono alle sorti, come anche nella spartizione dei beni temporali. Tuttavia nei casi di urgente necessità è lecito chiedere mediante le sorti, con la debita rive­ renza, il giudizio di Dio. Da cui le parole di Agostino: «Se in tempo di persecuzione i mi­ nistri di Dio discutono su chi di essi debba ri­ manere e chi invece fuggire per evitare che la Chiesa rimanga abbandonata in seguito alla fuga o alla morte di tutti, se non si può finire diversamente la discussione, mi pare che si debba ricorrere al sorteggio, per stabilire chi deve fuggire e chi invece rimanere». E altrove egli dice: «Se tu hai del superfluo da dare a chi non ha, e ti trovi nell'impossibilità di dare a due persone, nel caso che ti si presentassero due individui di cui né l' uno né l' altro può giustificare la tua preferenza, sia per l' indi­ genza, sia per qualche legame con te, non po­ tresti fare nulla di più giusto che tirare a sorte la persona da beneficare con l'offerta che non puoi dare a entrambi». Soluzione delle difficoltà: l , 2. Sono così ri­ solte anche la prima e la seconda difficoltà. 3. II giudizio del ferro rovente o dell'acqua bollente ha lo scopo di investigare sul peccato occulto di una persona considerando il risulta­ to di atti compiuti da qualcuno, e in ciò asso­ miglia al sortilegio; tuttavia per i l fatto che qui si attende un effetto miracoloso da Dio, si va oltre i comuni termini del sortilegio. Per cui questo giudizio è reso illecito sia perché è ordinato a giudicare cose occulte, riservate al giudizio di Dio, sia perché non è sanzionato dali' autorità divina. Da cui la precisazione del papa Stefano V: «l sacri canoni non ammetto­ no che si possa strappare ad alcuno la confes­ sione ricorrendo alla prova del ferro rovente, o dell' acqua bollente; e quanto non è sancito dall'insegnamento dei santi padri non va pre-

Q. 95, A. 8

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La superstizione divinatoria

sacri non censent canones, et quod sanctomm patrum documento sancitum non est, supersti­ tiosa adinventione non est praesumendum. Spontanea enim confessione vel testium appro­ batione publicata delicta, habito prae oculis Dei timore, concessa sunt nostro regimini iudicare. Occulta vero et incognita il/i sunt relinquenda qui so/us novit corda filiorum hominum. Et -

eadem ratio videtur esse de lege duellorum, nisi quod plus accedit ad communem rationem sortium, inquantum non expectatur ibi miracu­ losus effectus; nisi forte quando pugiles sunt valde impares virtute vel arte.

teso con superstiziose innovazioni. Infatti a noi è concesso di giudicare i delitti confessati spontaneamente, o quelli accertati da testimo­ ni sicuri, senza distogliere lo sguardo dal timor di Dio. I peccati occulti o sconosciuti invece bisogna !asciarli a colui che "solo co­ nosce il cuore dei figli degli uomini"». E lo stesso si dica della legge del duello: con la sola differenza che qui ci si avvicina maggior­ mente al concetto ordinario del sorteggio, in quanto non ci si aspetta un effetto miracoloso; a meno che i duellanti non siano troppo spro­ porzionati per forza o abilità. -

QUAESTI0 96

QUESTIONE 96

DE SUPERSTITIONffiUS OBSERVANTIARUM

LE VANE OSSERVANZE SUPERSTIZIOSE

Deinde considerandum est de superstitionibus observantiarum. Et circa hoc quaeruntur qua­ tuor. Primo, de observantiis ad scientiam acquirendam, quae traduntur in arte notoria. Secundo, de observantiis quae ordinantur ad aliqua corpora immutanda. Tertio, de obser­ vantiis quae ordinantur ad coniecturas sumen­ das fortuniomm vel infortuniomm. Quarto, de suspensionibus sacrorum verborum ad collum.

Dobbiamo ora trattare delle vane osservanze superstiziose. E precisamente di quattro argo­ menti: l . Delle vane osservanze per l' acquisto della scienza, praticate dali' arte notoria; 2. Delle osservanze ordinate alla trasmutazio­ ne di dati corpi ; 3. Delle vane osservanze or­ dinate a congetturare la buona o la cattiva fortuna; 4. Dell ' uso di appendere al collo parole sacre.

Articulus l

Articolo l

Utrum uti observantiis artis notoriae sit illicitum

È illecito praticare le osservanze dell'arte notoria?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod uti observantiis artis notoriae non sit illicitum. l . Dupliciter enim est aliquid illicitum, uno modo, secundum genus operis, sicut homici­ dium vel furtum; allo modo, ex eo quod ordi­ natur ad malum finem, sicut cum quis dat eleemosynam propter inanem gloriam. Sed ea quae observantur in arte notoria secundum ge­ nus operis non sunt illicita, sunt enim quaedam ieiunia et orationes ad Deum. Ordinantur etiam ad bonum finem, scilicet ad scientiam acqui­ rendam. Ergo uti huiusmodi observationibus non est illicitum. 2. Praeterea, Dan. l [ 1 7] legitur quod pueris abstinentibus dedit Deus scientiam et discipli­ nam in omni libro et sapientia. Sed observan­ tiae artis notoriae sunt secundum aliqua ieiu­ nia et abstinentias quasdam. Ergo videtur

Sembra di no. Infatti: l . Un' azione può essere illecita in due modi: Primo, per la natura dell'atto, come l' omici­ dio o il furto; secondo, per il fatto che è ordi­ nata a un fine cattivo, come quando uno fa l' elemosina per vanagloria. Ma le pratiche che si osservano nell' arte notoria non sono illecite nella loro natura: poiché si tratta di certi digiuni e preghiere fatte a Dio. Inoltre esse sono ordinate a un fine buono, cioè al­ l 'acquisto della scienza. Quindi praticare tali osservanze non è illecito. 2. Si legge in Dn l [ 17] che ai fanciulli fedeli all' astinenza Dio concesse di conoscere e com­ prendere ogni scrimtra e ogni sapienza. Ma le osservanze dell' arte notoria si riducono pre­ cisamente a determinati digiuni e astinenze. Quindi non è illecito praticare tali osservanze.

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Le vane osservanze superstiziose

quod divinitus sortiatur ars illa effecturn. Non ergo illicitum est ea uti. 3. Praeterea, ideo videtur esse inordinatum a daemonibus inquirere de futuris quia ea non cognoscunt, sed hoc est proprium Dei, ut dictum est [q. 95 a. 1]. Sed veritates scientia­ rum daemones sciunt, quia scientiae sunt de his quae sunt ex necessitate et semper, quae subiacent humanae cognitioni, et multo magis daemonum, qui sunt perspicaciores, ut Augu­ stinus dici t [Super Gen. 2,17; De divinat. 3]. Ergo non videtur esse peccatum uti arte noto­ ria, etiam si per daemones sortiatur effectum. Sed contra est quod dicitur Deut. 1 8 [ 10- 1 1 ] , non inveniatur in te qui quaerat a monuis ve­ ritatem, quae quidem inquisitio innititur auxi­ lio daemonum. Sed per observantias artis no­ toriae inquiritur cognitio veritatis per quaedam

pacta signi.ficationum cum daemonibus inita [De doct. chr. 2,20]. Ergo uti arte notoria non est licitum. Respondeo dicendum quod ars notoria et illi­ cita est, et inefficax. lllicita quidem est, quia utitur quibusdam ad scientiam acquirendam quae non habent secundum se virtutem cau­ sandi scientiam, sicut inspectione quarundam figurarum, et prolatione quorundam ignotorum verborum, et aliis huiusmodi. Et ideo huiusmo­ di ars non utitur his ut causis, sed ut signis. Non autem ut signis divinitus institutis, sicut sunt sacramentalia signa. Unde relinquitur quod sint supervacua signa, et per consequens pertinentia ad pacta quaedam signi.ficationum cum daemonibus placita atque foederata [De doct. chr. 2,20]. Et ideo ars notoria penitus est

repudianda et fugienda Christiano, sicut et aliae a11es nugatoriae ve/ 1wxiae superstitio­ nis, ut Augustinus dicit, in 2 De doct. chr. [23]. - Est etiam huiusmodi ars inefficax ad scien­ tiam acquirendam. Cum enim per huiusmodi artem non intendatur acquisitio scientiae per modum homini connaturalem, scilicet adinve­ niendo vel addiscendo, consequens est quod iste eftectus vel expectetur a Deo, vel a daemo­ nibus. Certum est autem aliquos a Deo sapien­ tiam et scientiam per infusionem habuisse, sicut de Salomone legitur, 3 Reg. 3 [ 1 1 - 12], et 2 Parai. l [ 1 1- 12]. Dominus etiam discipulis suis dicit, Luc. 2 1 [ 15], ego dabo vobis os et

sapientiam cui non poterunt resistere et con­ tradicere omnes adversarii vestri. Sed hoc donum non datur quibuscumque, aut cum certa

Q. 96, A. l

3 . Richiedere ai demoni la conoscenza del futuro sembra essere peccaminoso per il fatto che essi non possono conoscerlo, essendo ciò proprio di Dio, come si è spiegato. Ma le verità delle scienze i demoni le conoscono: poiché le scienze riguardano cose necessarie e costanti, che rientrano nella conoscenza umana, e molto più in quella dei demoni i quali, come nota Agostino, sono più perspica­ ci. Quindi non sembra che praticare l ' arte notoria sia peccato, anche se si raggiungesse lo scopo mediante il demonio. In contrario: in Dt 18 [ 10]: Non si trovi in te chi cerchi di sapere dai mm1i la verità, poiché tale ricerca si appoggia sull'aiuto dei demoni. Ora, mediante le osservanze dell'arte notoria la ri­ cerca della verità è fatta ricorrendo a «segni convenzionali prestabiliti d'accordo coi demo­ ni». Quindi non è lecito praticare l'arte notoria. Risposta: l'arte notoria è illecita e inefficace. È illecita perché nell' acquisto della scienza ricorre a dei mezzi che non hanno la capacità di causare la scienza: quali ad es. la conside­ razione di determinate figure, la recita di pa­ role sconosciute e altre cose del genere. Per­ ciò quest'arte non si serve di tali mezzi come di cause, ma come di segni. Non però come di segni istituiti da Dio, quali sono i segni sa­ cramentali . Quindi rimane che siano segni ptivi di valore, rientrando così nei «segni con­ venzionali stabiliti e combinati con i demo­ ni». Perciò l'arte notoria, dice Agostino, «de­ ve essere ripudiata e fuggita dal cristiano» co­ me anche le altre «arti illusorie e nocive della superstizione». - Inoltre quest'arte è ineffica­ ce per acquistare la scienza. Siccome infatti con essa non si mira ad acquistare la scienza nella maniera che è connaturale all ' uomo, cioè scoprendo o imparando da altri, è chiaro che si attende tale effetto o da Dio o dal demo­ nio. Ora, è certo che alcuni ebbero la sapienza e l a scienza da D i o per infu si one, come avvenne per Salomone (l Re 3,1 1 ; 2 Cr l, 1 1). E anche ai discepoli i l S ignore fece la pro­ messa: Io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti

i vostri avversari non potranno resistere, né controbattere (Le 2 1 , 1 5). Ma questo dono non è dato a tutti, né in forza di certe pratiche, bensì ad arbitrio dello Spirito Santo, come è detto in l Cor 1 2 [8] : A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza, a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito,

Q. 96, A. l

Le vane osservanze superstiziose

observatione, sed secundum arbitrium Spiritus Sancti, secundum illud l ad Cor. 1 2 [8], alii

quidem datur per Spiritum senno sapientiae, alii senno scientiae secundum eundem Spiri­ tum; et postea subditur [ 1 1 ] , haec omnia operatur unus atque idem Spiritus, dividens singulis pmut vult. - Ad daemones autem non

pertinet illuminare intellectum, ut habitum est in prima huius operis parte [q. 1 09 a . 3]. Acquisitio autem scientiae et sapientiae fit per illuminationem i ntellectus. Et ideo nullus unquam per daemones scientiam acquisivit. Unde Augustinus dicit, in l O de Civ. Dei [9], Porphyrium fateri quod theurgicis teletis, in operationibus daemonum, intellectuali animae

nihil purgationis accidit quod eam facit ido­ neam ad videndum Deum suum, et perspicien­ da ea quae vera sunt, qualia sunt omnia scien­

tiarum theoremata. Possent tamen daemones, verbis hominibus colloquentes, exprimere aliqua scientiarum documenta, sed hoc non quaeritur per artem notoriam. Ad primum ergo dicendum quod acquirere scientiam bonum est, sed acquirere eam modo indebito non est bonum. Et hunc finem intendit ars notoria. Ad secundum dicendum quod pueri illi non abstinebant secundum vanam observantiam artis notoriae, sed secundum auctoritatem legis divinae, nolentes inquinari cibis gentilium. Et ideo merito obedientiae consecuti sunt a Deo scientiam, secundum illud Ps [1 1 8,100], super

senes intellexi, quia mandata tua quaesivi.

Ad tertium dicendum quod exquirere cogni­ tionem futurorum a daemonibus non solum est peccatum propter hoc quod ipsi futura non cognoscunt, sed propter societatem cum eis initam, quae etiam in proposito Iocum habet.

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il linguaggio della scienza; e dopo aggiunge: Tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spi­ rito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole. - Al contrario non spetta ai de­

moni il compito di illuminare l'intelletto, co­ me si è dimostrato nella Prima Parte. Ora, I' acquisto della scienza e della sapienza av­ viene mediante l'illuminazione dell'intelletto. Quindi nessuno ha mai acquistato la scienza attraverso i demoni. Per cui Agostino scrive: «Secondo Porfirio le pratiche teurgiche», in cui intervengono i demoni, «non comunicano all ' intelligenza alcuna purificazione che la renda adatta alla visione di Dio, e a penetrare il vero», come fanno invece tutte le acquisi­ zioni delle scienze. Tuttavia i demoni, serven­ dosi del linguaggio umano, potrebbero comu­ nicare alcuni dati scientifici; ma non è questo Io scopo a cui mira I' atte noto[ia. Soluzione delle difficoltà: l . E una cosa buo­ na acquistare la scienza, ma non l 'acquistarla i n modo disonesto. E questo è appunto lo scopo dell'arte notoria. 2. Quei fanciulli praticavano l'astinenza non se­ condo le vane osservanze dell'arte notoria, ma seguendo le norme della legge divina, per non contaminarsi con i cibi dei gentili. Essi quindi ricevettero da Dio la scienza per il merito del­ l'obbedienza, come è detto nel Sal 1 1 8 [100]:

Ho più senno degli anziani, perché ho medi­ tato i tuoi precetti.

3 . Domandare ai demoni la conoscenza del futuro è peccato non solo perché essi non lo conoscono, ma anche per il contatto che ciò implica con essi: il che avviene anche nel caso presente.

Articulus 2 Utrum observationes ordinatae ad corporum immutationem, pota ad sanitatem vel ad aliquid huiusmodi, sint licitae

a trasmutare i corpi, p. es. a produrre la guarigione o qualcosa del genere, sono lecite?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod observationes ordinatae ad corporum immu­ tationem, puta ad sanitatem vel ad aliquid huiusmodi, sint licitae. l . Licitum enim est uti naturalibus virtutibus corporum ad proprios effectus inducendos. Res autem naturales habent quasdam virtutes

Sembra di sì. Infatti: l . È lecito servirsi delle virtù naturali dei cor­ pi per raggiungere gli effetti corrispondenti. Ma gli esseri naturali hanno delle virtù occul­ te di cui l'uomo non può dare una spiegazio­ ne: Agostino porta, fra l'altro, l'esempio della calatnita che attira il ferro. Quindi sembra che

Articolo 2

Le pratiche ordinate

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Le vane osservanze superstiziose

occultas, quarum ratio ab homine assignari non potest, sicut quod adamas trahit ferrum, et multa alia quae Augustinus enumerat, 2 1 De civ. Dei [5.7]. Ergo videtur quod uti huiusmodi rebus ad corpora immutanda non sit illicitum. 2. Praeterea, sicut corpora naturalia subduntur corporibus caelestibus , ita etiam corpora artificialia. Sed corpora naturalia sortiuntur quasdam virtutes occultas, speciem conse­ quentes, ex impressione caelestium corpo­ rum. Ergo etiam corpora artificialia, puta ima­ gines, sortiuntur aliquam virtutem occultam a corporibus caelestibus ad aliquos e ffectus causandos. Ergo uti eis, et aliis huiusmodi, non est illicitum. 3 . Praeterea, daemones etiam multipliciter possunt corpora transmutare, ut dicit Augusti­ nus, 3 De Trin. [8-9]. Sed eorum virtus a Deo est. Ergo licet uti eorum virtute ad aliquas huiusmodi immutationes faciendas. Sed contra est quod Augustinus dicit, in 2 De doct. chr. [20], quod ad superstitionem perti­ nent molimina magicarum artium, et liga­

turae, et remedia quae medicorum quoque medicina condemnat, sive in praecantationi­ bus, sive in quibusdam 1wtis, quas characte­ res vocant, sive in quibuscumque rebus su­ spendendis atque insignandis. Respondeo dicendum quod in his quae fiunt ad aliquos effectus corporales inducendos, considerandum est utrum naturaliter videan­ tur posse tales effectus causare. Sic enim non erit illicitum, licet enim causas naturales adhi­ bere ad proprios effectus. - Si autem natura­ liter non videantur posse tales effectus causa­ re, consequens est quod non adhibeantur ad hos effectus causandos tanquam causae, sed salurn quasi signa. Et sic pertinent ad pacta significationum cum daemonibus inita [De doct. chr. 2,20]. Unde Augustinus dicit, 2 1 De civ. Dei [6], illiciuntur daemones per creatu­

ras, quas non ipsi, sed Deus condidit, delecta­ bilibus pro sua diversitate diversis, non ut animalia cibis, sed ut spiritus signis, quae cuiusque delectationi congruunt, per varia genera lapidum, herbarum, lignorum, anima­ lium, carminum, rituum. Ad primum ergo dicendum quod si simplici­ ter adhibeantur res naturales ad aliquos effec­ tus producendos ad quos putantur naturalem habere virtutem, non est superstitiosum neque

Q. 96, A. 2

non sia illecito servirsi di queste cose per tra­ smutare i corpi. 2. Come sono soggetti agli astri i corpi pro­ dotti dalla natura, così lo sono pure i corpi prodotti dall'arte. Ma dall 'influsso degli astri i corpi naturali ricevono delle virtù occulte che ne accompagnano la specie. Quindi anche i corpi elaborati dall'arte, come ad es. le imma­ gini, ricevono dagli astri una virtù occulta per produrre determinati effetti. Quindi non è ille­ cito servirsi di essi, o di altre cose del genere. 3. Anche i demoni, come nota Agostino, pos­ sono in più modi trasmutare i corpi. Ma la loro capacità viene da Dio. Quindi si può ricorrere lecitamente alla loro capacità per produrre le suddette trasmutazioni. In contrario: Agostino afferma che vanno at­ tribuiti alla superstizione «i ritrovati delle arti magiche, gli amuleti e i rimedi condannati dal­ la medicina stessa, quali sono gli incantesimi, i segni che chiamano caratteri e l'uso di ap­ pendere o contrassegnare determinate cose». Risposta: nei procedimenti che vengono usati per produrre degli effetti corporali si deve considerare se per natura essi hanno la capa­ cità di causare tali effetti. In tal caso infatti l'azione non è illecita: poiché è lecito usare le cause naturali per produrre gli effetti cor­ rispondenti. - Se invece essi naturalmente non possono produrre tali effetti, allora ne se­ gue che non sono adoperati come cause, ma come segni. E allora rientrano nei segni con­ venzionali stabiliti con i demoni. Da cui anco­ ra le parole di Agostino : «l demoni sono at­ tratti da creature prodotte non da loro, ma da Dio, e le attrattive sono diverse secondo la diversità dei demoni, i quali accorrono non come animali attirati dal cibo, ma come spiriti attratti da quei segni che sono conformi al gusto di ciascuno, e che variano secondo i vari generi di pietr e , di erbe, di legni, d i animali, d i canti e d i riti». Soluzione delle difficoltà: l . Se ci si limita a fare uso di esseri naturali per produrre degli effetti che si ritengono proporzionati alle loro capacità naturali, allora ciò non è né supersti­ zioso né illecito. Se però si aggiungono segni, parole o altre vane osservanze che non posso­ no avere alcuna efficacia di ordine naturale, allora l'azione è superstiziosa e illecita. 2. Le virtù naturali dei corpi naturali conse­ guono alle loro forme sostanziali , che sono

Q. 96, A. 2

Le vane osservanze superstiziose

illicitum. Si vero adiungantur vel characteres ali qui, vel aliqua nomina, vel aliae quae­ cumque variae observationes, quae manife­ stum est naturaliter efficaciam non habere, erit superstitiosum et illicitum. Ad secundum dicendum quod virtutes natura­ les corporum naturalium consequuntur eorum formas substantiales, quas sortiuntur ex im­ pressione caelestium corporum, et ideo ex eorundem impressione sortiuntur quasdam virtutes activas. Sed corporum artificialium tormae procedunt ex conceptione artificis, et cum nihil aliud sint quam compositio, ordo et figura, ut dicitur in l Phys. [5,6], non possunt habere naturalem virtutem ad agendum. Et inde est quod ex impressione caelestium cor­ porum nullam virtutem sortiuntur inquantum sunt artificialia, sed solum secundum mate­ riam naturalem. Falsum est ergo quod Por­ phyrio videbatur, ut Augustinus dicit, l O De civ. Dei [ 1 1 ], herbis et lapidibus et animanti­

bus, et sonis certis quibusdam ac vocibus, et figurationibus atque figmentis quibusdam etiam observatis in caeli conversione motibus siderwn, fabricari in terra ab hominibus po­ testates idoneas siderum variis effectibus exe­ quendis, quasi effectus magicarum artium ex

virtute caelestium corporum provenirent. Sed sic ut Augustinus ibidem subdit [De civ. Dei 1 0, 1 1 ] , totum hoc ad daemones pertinet, ludificatores animarum sibi subditarum. - Unde etiam imagines quas astronomicas vocant, ex operatione daemonum habent effectum. Cuius signum est quod necesse est eis inscribi quosdam characteres, qui naturaliter ad nihil operantur, non enim est figura actionis natu­ ralis principium. Sed in hoc distant astrono­ micae imagines a nigromanticis, quod in nigromanticis fiunt expressae invocationes et praestigia quaedam, unde pertinent ad expres­ sa pacta cum daemonibus inita, sed in aliis imaginibus sunt quaedam tacita pacta per quaedam figurarum seu characterum signa. Ad tertium dicendum quod ad dominium per­ tinet divinae maiestatis, cui daemones sub­ sunt, ut eis utatur Deus ad quodcumque vo­ luerit. Sed hornini non est potestas super dae­ mones commissa, ut eis licite uti possit ad quodcumque voluerit, sed est ei contra dae­ mones bellum indictum. Unde nullo modo licet homini daemonum auxilio uti per pacta tacita vel expressa.

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prodotte dall'intlusso degli astri: per cui da tale influsso i suddetti corpi ricevono partico­ lari virtù attive. Invece la forma dei corpi ela­ borati dall'arte deriva dall'idea dell'artefice; e poiché, come nota Aristotele, essa non va ol­ tre la composizione, l 'ordine e la figura, non può avere la virtù naturale di agire. Di conse­ guenza tali corpi non ricevono alcuna virtù dai corpi celesti in quanto prodotti dall'arte, ma solo attraverso la loro materia naturale. È quindi falsa l' opinione di Porti rio il quale pensava, come riferisce Agostino, che «con determinate erbe, pietre, animali, suoni, pa­ role, figure, o con certe rappresentazioni di cose osservate in cielo nei moti degli astri, si possano fabbricare da parte dell'uomo sulla terra degli oggetti capaci di subire i vari in­ tlussi delle stelle»; attribuendo così gli effetti delle arti magiche all'intlusso dei corpi cele­ sti. Come nota invece Agostino, «tutto ciò va attribuito ai demoni, i quali si prendono gioco delle anime loro soggette». - Perciò anche le cosiddette immagini astronomiche devono la loro efficacia all'intervento diabolico. E ciò è indicato dal fatto che su di esse è necessario incidere dei caratteri, i quali per natura non hanno operazione alcuna: infatti la figura non è mai principio di un'operazione naturale. Però tra le immagini astronomiche e quelle dei negromanti c'è questa differenza, che in queste ultime ci sono invocazioni esplicite e apparizioni del demonio, per cui esse rientra­ no nei patti stabiliti espressamente col diavo­ lo, mentre nelle prime dai simboli di certe fi­ gure, o caratteri, affiorano dei patti solo taciti. 3. TI dominio della divina maestà, a cui sono soggetti anche i demoni, implica che Dio può servirsi di essi come vuole. L'uomo invece non ha ricevuto il dominio sui demoni per potersene servire come vuole, ma deve avere con essi una guerra dichiarata. Perciò in nes­ sun modo è lecito all'uomo ricorrere all'aiuto dei demoni con accordi taciti o espressi.

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Le vane osservanze superstiziose

Q. 96, A. 3

Articulus 3 Utrum observationes quae ordinantur ad praecognoscenda aliqua fortunia vel infortunia, sint illicitae

Articolo 3 Le osservanze ordinate a prevedere la buona o la cattiva fortuna sono illecite?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod ob­ servationes quae ordinantur ad praecogno­ scenda aliqua fortunia vel infortunia, non sunt illicita. l . Inter alia enim infortunia hominum sunt etiam infirmitates. Sed infirmitates in homini­ bus quaedam signa praecedunt, quae etiam a medicis observantur. Ergo observare huiusmo­ di significationes non videtur esse illicitum. 2. Praeterea, irrationabile est negare illud quod quasi communiter omnes experiuntur. Sed quasi omnes experiuntur quod aliqua tempora vel loca, vel verba audita, vel occur­ sus hominum seu animalium, aut distorti aut inordinati actus, aliquod praesagium habent boni vel mali futuri. Ergo observare ista non videtur esse illicitum. 3. Praeterea, actus hominum et eventus ex divi­ na providentia disponuntur secundum ordinem quendam, ad quem pertinere videtur quod praecedentia sint subsequentium signa. Unde ea quae antiquis patribus contigerunt signa sunt eorum quae in nobis complentur, ut patet per apostolum, l ad Cor. 10 [6, 1 1 ] . Observare autem ordinem ex divina providentia pro­ cedentem non est illicitum. Ergo observare huiusmodi praesagia non videtur esse illicitum. Sed contra est quod Augustinus dicit, in 2 De doct. chr. [20], quod ad pacta cum daemoni­

Sembra di no. Infatti: l . Tra gli altri infortuni umani ci sono anche le malattie. Ora, le malattie sono precedute da certi segni, che i medici stessi prendono in con­ siderazione. Quindi non sembra illecito pren­ der� in considerazione certi segni premonitori. 2. E irragionevole negare ciò che quasi tutti sperimentano. Ma quasi tutti sperimentano che certi tempi o certi luoghi, l'ascoltare quel­ le date parole, l'incontrare quei dati uomini o animali, oppure certi atti maldestri o disordi­ nati, contengono presagi di beni o di mali futuri. Quindi non sembra illecito badare a simili cose. 3. Le azioni e gli eventi umani sono disposti dalla divina provvidenza secondo un dato ordine, il quale implica che i fatti precedenti stiano a indicare quelli successivi. Per cui le cose capitate ai Padri dell'Antico Testamento esprimono simbolicamente quanto si compie in noi, come insegna Paolo in l Cor 1 0 [6. 1 1 ]. Ma fare attenzione all'ordine che emana dalla divina provvidenza non è illecito. Quindi non sembra illecito attendere ai presagi di questo genere. In contrario: Agostino insegna che «si riallac­ ciano ai patti col demonio le attenzioni prestate a mille sciocchezze: si osserva così il sussul­ tare di un arto; l'interporsi tra amici che cam­ minano insieme di un sasso, di un cane o di un ragazzo; il calcare la soglia quando si passa davanti alla propria casa; il ritornare a letto se si starnutisce mentre si mettono i calzari; il rientrare in casa se si inciampa nell'uscire. E se poi capita che i topi rodano le vesti, si teme più la superstizione di un male futuro di quan­ to non dispiaccia il danno presente». Risposta: tutti quelli che badano a queste cose non le considerano come cause, ma come indizi o segni di eventi futuri, buoni o cattivi. Ma questi segni non vengono osservati come dati da Dio, essendo stati introdotti non dalla rivelazione divina, ma dalla stupidità umana, con la cooperazione della malizia dei demoni, i quali si sforzano di irretire le anime con que­ ste sciocchezze. Perciò è evidente che tutte queste osservanze sono superstizioni e illecite.

bus inita peltinent millia inanium observatio­ num, puta si membrum aliquod salierit; si iunctim ambulantibus amicis lapis aut canis aut puer medius intervenerit; limen calcare cum ante domum suam aliquis transit; redire ad lectum si quis, dum se calceat, stemutave­ rit; redire domum si procedens offenderit; cum vestis a soricibus roditw; plus timere superstitionem mali futuri quam praesens damnum dolere. Respondeo dicendum quod homines omnes huiusmodi observationes attendunt non ut quasdam causas, sed ut quaedam signa futuro­ rum eventuum bonorum vel malorum. Non autem observantur sicut signa a Deo tradita, cum non sint introducta ex auctoritate divina, sed magis ex vanitate humana, cooperante dae­ monum malitia, qui nituntur animos hominum

Q. 96, A. 3

Le vane osservanze superstiziose

huiusmodi vanitatibus implicare. Et ideo ma­ nifestum est omnes huiusmodi observantias esse superstitiosas et illicitas. Et videntur esse quaedam reliquiae idololatriae, secundum quam observabantur auguria, et quidam dies Fausti vel infausti (quod quodammodo pettinet ad divinationem quae fit per astra, secundum quae diversificantur dies), nisi quod huiusmodi observationes sunt sine ratione et arte; unde sunt magis vanae et superstitiosae. Ad primum ergo dicendum quod infirmitatum causae praecedunt in nobis, ex quibus aliqua signa procedunt futurorum morborum, quae licite a medicis observantur. Unde et si quis praesagium futurorum eventuum consideret ex sua causa, non erit illicitum, sicut si servus timeat flagella videns Domini iram. Et simile etiam esse posset si quis timeret nocumentum alicui puero ex oculo fascinante, de quo dictum est in primo [q. 1 17 a. 3 ad 2] libro. Sic autem non est in huiusmodi observationibus. Ad secundum dicendum quod hoc quod a principio in istis observationibus aliquid veri homines experti sunt, casu accidit. Sed post­ modum, cum homines incipiunt huiusmodi observantiis suum animum implicare, multa secundum huiusmodi observationes eveniunt per deceptionem daemonum, ut his obselVa­

tionibus homines implicati curiosiores fiant, et sese magis inserant multiplicibus laqueis per­ niciosi erroris, ut Augustinus dicit, 2 De doct. chr. [23]. Ad tertium dicendum quod in populo Iu­ daeorum, ex quo Christus erat nasciturus, non solum dieta, sed etiam facta fuerunt propheti­ ca, ut Augustinus dicit, Contra Faustum [4,2; 22,24]. Et ideo Iicitum est illa facta assumere ad nostram instructionem, sicut signis divini­ tus datis. Non autem omnia quae aguntur per divinam providentiam sic ordinantur ut sint futurorum signa. Unde ratio non sequitur.

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E pare che esse siano i residui dell'antica idolatria, secondo la quale si attendeva al volo e al canto degli uccelli, e ai giorni fausti e infausti (il che derivava in qualche modo dalla divinazione fondata sugli astri, da cui dipende la diversità dei giorni): se non che ora tutte queste pratiche sono fatte senza motivo e senza arte; per cui sono ancora più vane e superstiziose. Soluzione delle difficoltà: l . Le cause delle malattie si producono in noi provocando quei segni dei futuri malanni che i medici possono osservare. Perciò non è cosa illecita se uno considera i preavvisi degli eventi futuri nelle loro cause: come se un servo temesse la frusta osservando l'ira del suo padrone. E lo stesso s i potrebbe dire se uno temesse per u n bambino l'azione nociva del malocchio, a cui abbiamo accennato nella Prima Parte. Ma ciò non vale per le osservanze di cui parliamo. 2. Da principio, se furono riscontrati dei fatti veri in queste pratiche, ciò fu dovuto al caso. In seguito però, essendosi gli uomini lasciati irretire da tali osservanze, i fatti capitarono spesso secondo tali rilievi per inganno del demonio, «di modo che gli uomini», come nota Agostino, «irretiti in simili pratiche, di­ vennero più curiosi e si ingolfarono nei lacci molteplici di un pernicioso errore». 3. Nel popolo ebreo, dal quale doveva nascere il Cristo, non solo le parole, ma anche i fatti erano profetici, come insegna Agostino. Per­ ciò è lecito considerare tali fatti per nostra istruzione, trattandosi di segni dati da Dio. Ma non tutti gli avvenimenti causati dalla divina provvidenza sono ordinati a essere segni di eventi futuri. Perciò l'argomento non regge.

Articulus 4 Utrum sospendere divina verba ad collum sit illicitum

Articolo 4 È illecito portare appese al collo delle formule sacre?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod sospendere divina verba ad collum non sit illicitum. l . Non enim divina verba minoris sunt effica­ ciae cum scribuntur quam cum proferuntur. Sed licet aliqua sacra verba dicere ad aliquos

Sembra di no. Infatti: l . La parola di Dio scritta non ha meno effica­ cia di quella pronunziata. Ma per ottenere certi effetti, come la guarigione degli infermi, è lecito pronunziare delle parole sacre, p. es. il Padre Nostro, l'Ave Maria, o qualsiasi altra

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Le vane osservanze superstiziose

effectus, puta ad sanandum infirmos, sicut, Pater noster; Ave Maria, vel qualitercumque nomen Domini invocetur, secundum illud Marci 1 6 [ 1 7- 1 8], in nomine meo daemonia eiicient, linguis loquentur novis, serpentes tollent. Ergo videtur quod licitum sit aliqua sacra scripta collo sospendere in remedium infirmitatis vel cuiuscumque nocumenti. 2. Praeterea, verba sacra non minus operantur in corporibus hominum quam in corporibus serpentum et aliorum animalium. Sed incanta­ tiones quaedam efficaciam habent ad repri­ mendum serpentes, vel ad sanandum quaedam alia animalia, unde dicitur in Ps. [57, 5-6], sicut aspidis surdae et obturantis aures suas, quae non exaudiet vocem incantantium, et venefici incantantis sapienter. Ergo licet sospendere sacra verba ad remedium hominum. 3 . Praeterea, verbum Dei non est minoris sanctitatis quam sanctorum reliquiae, unde Augustinus dicit [Serm. suppos., serm. 300] quod non minus est verbum Dei quam cmpus Christi. Sed reliquias sanctorum licet hornini collo sospendere, vel qualitercumque portare, ad suam protectionem. Ergo, pari ratione, licet homini verbo vel scripto verba sacrae Scripturae ad suam tutelam assumere. Sed contra est quod Chrysostomus dicit, Su­ per Matth. [cf. Op. imperf. in Matth. h. 43 su­ per 23,5], quidam aliquam partem Evangelii scriplam circa collum porlant. Sed nonne quotidie Evangelium in Ecclesia legitur; et auditur ab omnibus ? Cui ergo in auribus posita Evangelia nihil prosunt, quomodo eum possunt circa collum suspensa salvare ? Deinde, ubi est virtus Evangelii? In figuris litterarum, an in intellectu sensuwn? Si in figuris, bene circa collwn suspendis. Si in intellectu, ergo melius in corde posita prosunt quam circa collwn suspensa. Respondeo dicendum quod in omnibus incan­ tationibus vel Scripturis suspensis duo ca­ venda videntur. Primo quidem, quid sit quod profertur vel scribitur. Quia si est aliquid ad invocationes Daemonum pertinens, manifeste est superstitiosum et illicitum. Similiter etiam videtur esse cavendum, si contineat ignota nomina, ne sub illis aliquid illicitum lateat. Unde Chrysostomus dicit, Super Matth. [cf. Op. imperf. in Matth. h. 43 super 23,5], quod, Pharisaeorum magnificantium fimbrias suas exemplo, nunc multi aliqua nomina hebraica

Q. 96, A. 4

invocazione del nome del Signore, come è detto in Mc 16 [ 1 7]: Nel mio nome scacceran­ no i demoni, parleranno lingue nuove, prende­ ranno in mano i serpenti. Quindi sembra leci­ to appendere al collo delle formule sacre per difendersi dalle malattie o da altri malanni. 2. Le parole sacre operano sul corpo umano non meno che su quello dei serpenti e degli altri animali. Ora, ci sono degli incantesimi che sono efficaci per tenere a freno i serpenti o per addomesticare altri animali, come è detto nel Sal 57 [5]: Come vipera sorda che si tura le orecchie per non udire la voce degli incantatori, e del mago sapiente in incantesi­ mi. Quindi è lecito appendere al collo delle formule sacre a rimedio degli uomini. 3. La parola di Dio non è meno santa delle reliquie dei santi: infatti Agostino afferma che «la parola di Dio non è da meno del corpo di Cristo». Ma portare al collo, o in qualsiasi al­ tro modo, le reliquie dei santi per ottenere la loro protezione è cosa lecita. Quindi per lo stesso motivo uno può servirsi per la propria tutela delle parole della sacra Scrittura pro­ nunziandole o scrivendole. In contrario: il Crisostomo afferma: «Alcuni portano scritti attorno al collo dei brani del Vangelo. Ma i l Vangelo non si legge ogni giorno in chiesa, e non è forse udito da tutti? E se a uno il Vangelo non giova entrando nelle orecchie, come può salvarlo attaccato al collo? Inoltre, dov'è la virtù del Vangelo? Nelle figure delle lettere o nella comprensio­ ne del loro significato? Se è nelle figure, fai bene ad attaccarle al collo. Ma se è nella com­ prensione, giovano più nel cuore che appese al collo». Risposta: in tutti gli incantesimi o formule da portarsi indosso occorre badare a due cose. Primo, al contenuto di ciò che si porta, o che si scrive. Poiché se c'è un accenno all'invoca­ zione dei demoni, si tratta di pratiche eviden­ temente superstiziose e illecite. Parimenti si deve badare a che la formula non contenga parole sconosciute, perché sotto di esse non si nasconda qualcosa di illecito. Da cui le parole del Crisostomo: «Sull'esempio dei Farisei che dilatavano le loro fibbie, ci sono molti che adesso disegnano, scrivono e portano nomi ebraici di angeli, che agli ignoranti possono sembrare ternibili». E si deve inoltre badare a che le formule non contengano delle falsità.

Q. 96, A. 4

Le vane osservanze superstiziose

angelorum confingunt et scribunt et alligant, quae non intelligentibus metuenda videntur.

Est etiam cavendum ne aliquid falsitatis con­ tineat. Quia sic eius effectus non posset ex­ pectari a Deo, qui non est testis falsitatis. Deinde, secundo, cavendum est ne cum ver­ bis sacris contineantur ibi aliqua vana, puta aliqui characteres inscripti, praeter signum crucis. Aut si spes habeatur in modo scribendi aut ligandi, aut in quacumque huiusmodi va­ nitate quae ad divinam reverentiam non per­ tineat. Quia hoc iudicaretur superstitiosum. Alias autem est licitum. Unde in Decretis di­ citur, 26, q. 5, cap. Non liceat Christianis etc. [Gratianus, Decretum, p. 2, causa 26, q. 5 , can. 3], nec in collectionibus herbantm quae

medicina/es sunt aliquas observationes aut incantationes liceat attendere, nisi tantum cum symbolo divino aut oratione dominica, ut tantum Creator omnium et Deus honoretur.

Ad primum ergo dicendum quod etiam pro­ ferre divina verba, aut invocare divinum no­ men, si respectus habeatur ad solam Dei reve­ rentiam, a qua expectatur effectus, licitum erit, s i vero habeatur respectus ad aliquid aliud vane observatum, eri t illicitum. Ad secundum dicendum quod etiam in incan­ tationibus serpentum vel quorumcumque ani­ malium, si respectus habeatur solum ad verba sacra et ad virtutem divinam, non erit illici­ tum. Sed plerumque tales praecantationes habent illicitas observantias, et per daemones sortiuntur effectum, et praecipue in serpenti­ bus, quia serpens fuit primum daemonis instrumentum ad hominem decipiendum . Unde dicit Glossa [Lomb. super p s . 57,5; Enarr. in Ps. 57 super 5], ibidem, notandum

quia non laudatur a Scriptura undecumque datur in Scriptura similitudo, ut patet de ini­ quo iudice qui mgantem viduam vix audivit.

Ad tertium dicendum quod eadem etiam ratio est de portatione reliquiarum. Quia si porten­ tur ex fiducia Dei et sanctorum quorum sunt reliquiae, non erit illicitum, si autem circa hoc attenderetur aliquid aliud vanum, puta quod vas esset triangulare, aut aliquid aliud huius­ modi quod non pertineret ad reverentiam Dei et sanctorum, esset superstitiosum et illicitum. Ad quartum dicendum quod Chrysostomus loquitur quando respectus habetur magis ad fi­ guras scriptas quam ad intellectum verborum.

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Poiché in tal caso ogni loro efficacia non sa­ rebbe da attendersi da Dio, il quale non può testificare il falso. - Secondo, si deve badare a che in mezzo alle parole sacre non siano in­ tercalate delle cose vane: dei segni , p. es., diversi dal segno della croce. Si badi poi se si ripone fiducia nel modo di scrivere o di con­ fezionare la formula, o in qualsiasi vanità del genere che non riguardi l'onore di Dio. Poi­ ché ciò è da considerarsi superstizione. - Al­ trimenti è cosa lecita. Infatti nel Decreto si legge: «A nessun cristiano è permesso di ri­ correre nel raccogliere erbe medicinali a os­ servanze o a formule magiche, a meno che non ci si limiti al simbolo della fede, o al Pa­ dre Nosnv: per rendere onore a Dio soltanto, Creatore di tutte le cose». Soluzione delle difficoltà: l . Anche nell'invo­ care il nome di Dio e nel proferire parole sa­ cre siamo nel lecito se si ha di mira soltanto l' onore di Dio; se invece si bada a qualche vana osservanza, la cosa è i llecita. 2. Parimenti non vi è nulla di illecito nelle formule per incantare i serpenti o altri animali se si conta soltanto sulle parole sacre e sulla virtù di Dio. Ma per lo più tali incantesimi implicano delle osservanze illecite, e raggiun­ gono l'effetto con l' aiuto dei demoni: special­ mente nel caso dei serpenti, poiché il serpente fu il primo strumento usato dal demonio per ingannare l' uomo. Per cui la Glossa aggiun­ ge: «Si noti che la Scrittura non intende loda­ re indiscriminatamente ogni fatto da cui pren­ de una similitudine, come è evidente nel caso del giudice che contro voglia esaudì la pre­ ghiera della vedova». 3. Lo stesso discorso vale per l'uso di portare le reliquie. Se infatti queste vengono portate confidando in Dio e nei santi, di cui appunto sono reliquie, l'uso non è illecito; se però si badasse a delle sciocchezze, come alla forma triangolare del reliquiario, o ad altre cose che non sono connesse con l ' onore di Dio e dei santi, l' uso sarebbe superstizioso e illecito. 4. [S.e.]. Il Crisostomo intende condannare questa usanza quando si conta più sulla figura delle parole che sul loro significato.

La tentazione di Dio

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Q. 97, A. l

QUAESTI0 97

QUESTIONE 97

DE TENTATIONE DEI

LA TENTAZIONE DI DIO

Deinde considerandum est de vitiis religioni oppositis per religionis defectum, quae mani­ festam contrarietatem ad religionem habent, unde sub irreligiositate continentur. Huiusmodi autem sunt ea quae pertinent ad contemptum sive irreverentiam Dei et rerum sacrarum. Primo ergo considerandum est de vitiis quae pertinent directe ad irreverentiam Dei; secun­ do, de his quae pertinent ad irreverentiam re­ rum sacrarum [q. 99]. Circa primum, conside­ randum occurrit et de tentatione qua Deus tentatur; et de periurio, quo nomen Dei irreve­ renter assumitur [q. 9 8 ] . - Circa primum quaeruntur quatuor. Primo, in quo consistit Dei tentatio. Secundo, utrum sit peccatum. Tertio, cui virtuti opponatur. Quarto, de com­ paratione eius ad alia peccata.

Passiamo ora a trattare dei vizi opposti alla vir­ tù di religione per difetto, i quali presentano un'opposizione diretta alla religiosità: cosicché possono essere catalogati sotto il nome di irre­ ligiosità. Nel loro numero troviamo tutto ciò che si riduce al disprezzo o a una mancanza di riverenza verso Dio e le cose sante. Perciò in primo luogo parleremo dei peccati che consi­ stono in ùriverenze dirette verso Dio, e in se­ condo luogo di quelli che consistono in irrive­ renze verso le cose sante. Nella prima serie do­ vremo affrontare successivamente la presun­ zione di tentare Dio e lo spergiuro, con il quale si usa senza rispetto il suo nome. - Sul primo argomento esamineremo quattro problemi: l . In che cosa consiste la tentazione di Dio? 2. È un peccato? 3. A quale virtù si contrappone? 4. Confronto tra questo e gli altri peccati.

Articulus l In quo consistat Dei tentatio Ad primum sic proceditur. Videtur quod tentatio Dei non consistat in aliquibus factis in quibus solius divinae potestatis expectatur effectus. l. Sicut enim tentatur Deus ab homine, ita etiam homo tentatur et a Deo, et ab homine, et a daemone. Sed non quandocumque homo ten­ tatur, expectatur aliquis effectus potestatis ipsius. Ergo neque etiam per hoc Deus tentatur quod expectatur solus effectus potestatis ipsius. 2. Praeterea, omnes illi qui per invocationem divini nominis miracula operantur, expectant aliquem effectum solius potestatis divinae. Si igitur in factis huiusmodi consisteret divina tentatio quicumque miracula faciunt Deum tentarent. 3. Praeterea, ad perfectionem hominis perti­ nere videtur ut, praetermissis humanis sub­ sidiis, in solo Deo spem ponat. Unde Ambro­ sius, Super illud Luc. 9 [3] [6], nihil tuleritis in via etc., qualis debeat esse qui evangelizat

regnum Dei, praeceptis evangelicis designa­ tw; hoc est, ut subsidii saecularis adminicula non requirat, fideique totus inhaerens putet, quo minus ista requiret, magis posse suppe­ tere. Et beata Agatha dixit [cf. Iacobum a Vo­ ragine, Legenda Aurea 39; Acta sanctorum,

Articolo l

In cosa consiste la tentazione di Dio? Sembra che la tentazione di Dio non consista nel compiere cose contando unicamente sulla potenza di Dio. Infatti: l . Dio può essere tentato dall' uomo esatta­ mente come può essere tentato l ' uomo da Dio, o da altri uomini, o dal demonio. Ora, non è vero che ogni qual volta l'uomo è tenta­ to c'è qualcuno che conta sulla sua potenza per ottenere un dato effetto. Perciò neppure tentare Dio significa contare unicamente sulla potenza divina. 2. Tutti coloro che compiono miracoli invo­ cando il nome di Dio contano di attenerlo unicamente dalla potenza di Dio. Se quindi in ciò consistesse la tentazione di Dio, tutti quel­ li c�e compiono miracoli tenterebbero Dio. 3. E proprio dello stato di perfezione riporre ogni speranza in Dio trascurando ogni soccor­ so umano. Per cui a commento di quelle paro­ le evangeliche: «Non prendete nulla per il viaggio», Ambrogio scrive: «Dalle parole evangeliche viene indicato quale debba essere l'araldo del regno di Dio: non cerchi l'appog­ gio di aiuti mondani, ma contando fermamen­ te sulla fede si persuada che quanto meno cer­ ca quegli aiuti, tanto meglio può riuscire». E Agata diceva: «AI mio corpo non ho mai ap-

Q. 97, A. l

La tentazione di Dio

Acta S. Agathae, die 5 Februarii, q. 2], medi­

cinam carnalem corpori meo n unquam exhibui, sed habeo Dominwn lesum Chri­ stum, qui solo sennone restaura! universa.

Sed Dei tentatio non consistit in eo quod ad perfectionem pertinet. Ergo tentatio non consistit in huiusmodi factis in quibus expec­ tatur solum Dei auxilium. Sed contra est quod Augustinus dicit, 22 Con­ tra Faustum [36], quod Christus, qui palam

docendo et arguendo et tamen inimicorum rabiem valere in se aliquid non sinendo, Dei demonstrabat potestatem; idem tamen, fu­ giendo et latendo, hominis instruebat infinni­ tatem, ne Deum tentare audeat quando habet quodfaeiat ut quod cavere op011et evadat. Ex quo videtur in hoc tentationem Dei consistere, quando praetermittit homo facere quod potest ad pericula evadenda, respiciens solum ad auxilium divinum. Respondeo dicendum quod tentare proprie est experimentum sumere de eo qui tentatur. Su­ mimus autem experimentum de aliquo et ver­ bis et factis. Verbis quidem, ut experiamur an sciat quod quaerimus, vel possit aut velit illud implere. Factis autem, cum per ea quae faci­ mus exploramus alterius prudentiam, vel vo­ luntatem, vel potestatem. Utmmque autem homm contingit dupliciter. Uno quidem mo­ do, aperte, sicut cum quis tentatorem se pro­ fitetur; sicut Samson, Iudic. 14 [ 1 2 sqq.], pro­ posuit Philisthaeis problema ad eos tentan­ dum. Alio vero modo, insidiose et occulte, sicut Pharisaei tentaverunt Christum, ut legi­ tur Matth. 22 [ 1 5 sqq.]. Rursus, quandoque quidem expresse, puta cum quis dicto vel facto intendit experimentum sumere de aliquo. Quandoque vero interpretative, quando sci­ licet, etsi hoc non intendat ut experimentum sumat, id tamen agit vel dicit quod ad nihil aliud videtur ordinabile nisi ad experimentum sumendum. - Sic igitur homo Deum tentat quandoque verbis, quandoque factis. Verbis quidem Deo colloquimur orando. Unde in sua petitione aliquis expresse Deum tentat quando ea intentione aliquid a Deo postulat ut explo­ ret Dei scientiam, potestatem vel voluntatem. Factis autem expresse aliquis Deum tentat quando per ea quae facit intendit experimen­ tum sumere divinae potestatis, seu pietatis aut sapientiae. Sed quasi interpretative Deum ten­ tat qui, etsi non intendat experimentum de

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plicato una medicina materiale, ma ho il mio Signore Gesù Cristo, che con la sola parola tutto risana». Ora, la tentazione di Dio non può consistere in un fatto che rientra nella perfezione. Quindi la tentazione non consiste nel compiere simili cose, in cui si conta uni­ camente sull'aiuto di Dio. In contrario: Agostino fa notare che «Cristo, non permettendo che la rabbia dei suoi nemi­ ci potesse fargli qualcosa, nonostante che egli insegnasse e discutesse pubblicamente, dava una prova della sua divina potenza; al contra­ rio invece fuggendo e nascondendosi voleva dare un esempio alla debolezza umana perché non osi tentare Dio, quando ha la possibilità di compiere qualcosa per fuggire ciò che va temuto». Dal che si arguisce che si ha la ten­ tazione di Dio quando uno trascura di com­ piere quanto può per evitare dei pericoli, con­ tando unicamente sull'aiuto divino. Risposta: propriamente tentare è mettere qualcuno alla prova. Ora, si può mettere alla prova una persona sia con le parole che con i fatti. Con le parole per provare se conosce ciò che domandiamo, o se possa o voglia com­ pierlo. Con i fatti quando con ciò che faccia­ mo ne esploriamo la prudenza, il volere o le capacità. Ambedue le cose, però, possono av­ venire in due modi. Primo, apertamente: co­ me quando uno si presenta in qualità di tenta­ tore, come fece Sansone (Gdc 14, 1 2 ss.) nel proporre degli enigmi ai Filistei. Secondo, in maniera insidiosa e occulta: al modo in cui i Farisei tentarono Cristo. C'è poi un'altra di­ stinzione: talora infatti la tentazione è espres­ sa, come quando con le parole o con i fatti si intende mettere alla prova qualcuno, mentre talora è interpretativa: cioè quando uno, seb­ bene non intenda mettere altri alla prova, tut­ tavia agisce o parla in maniera che le sue azioni o le sue parole non sembrano ordinate ad altro che a questo. - Così dunque l'uomo tenta Dio talora con le parole e talora con i fatti. Con le parole noi parliamo a Dio quando preghiamo. Perciò uno tenta espressamente Dio con la sua petizione quando chiede qual­ cosa per conoscerne la scienza, il potere o il volere. Tenta invece espressamente Dio con i fatti chi con le azioni che compie intende mettere alla prova la potenza, la bontà o la sa­ pienza di Dio. Tenta poi Dio in maniera quasi interpretativa colui che, senza voler mettere la

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La tentazione di Dio

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Deo sumere, aliquid tamen vel petit vel facit ad nihil aliud utile nisi ad probandum Dei potestatem vel bonitatem, seu cognitionem. Sicut, cum aliquis equum currere facit ut evadat hostes, hoc non est experimentum de equo sumere, sed si equum currere faciat absque aliqua utilitate, hoc nihil aliud esse videtur quam experimentum sumere de equi velocitate, et idem est in omnibus aliis rebus. Quando ergo propter aliquam necessitatem seu utilitatem committit se aliquis divino auxilio in suis petitionibus vel factis, hoc non est Deum tentare, dicitur enim 2 Parai. 20 [ 1 2], cum ignoramus quid agere debeamus, hoc solum habemus residui, ut oculos nostros dirigamus ad te. Quando vero hoc agitur absque necessitate et utilitate, hoc est inter­ pretative tentare Deum. Unde super illud Deut. 6 [ 1 6], non tentabis Dominum Deum tuum, dicit Glossa [ord.], Deum tenta! qui, habens quid faciat, sine ratione se committit periculo, experiens utrum possit liberari a Deo. Ad primum ergo dicendum quod homo etiam quandoque factis tentatur utrum possit vel sciat vel velit huiusmodi factis auxilium vel impedimentum praestare. Ad secundum dicendum quod sancti suis precibus miracula facientes, ex aliqua necessi­ tate vel utilitate moventur ad petendum divi­ nae potestatis effectum. Ad tertium dicendum quod praedicatores regni Dei ex magna utilitate et necessitate subsidia temporalia praetermittunt, ut verbo Dei expedi­ tius vacent. Et ideo si soli Deo innitantur, non ex hoc tentant Deum. Sed si absque utilitate vel necessitate humana subsidia desererent, tentarent Deum. Unde et Augustinus dicit, 22 Contra Faustum [36], quod Paulus non fugit quasi non credendo in Deum, sed ne Deum ten­ tare! sifugere noluisset, cum sic fugere potuis­ set. Beata vero Agatha experta erat erga se divi­ nam benevolentiam, ut vel infirmitates non pa­ teretur, pro quibus corporali medicina indigeret, vel statim sentiret divinae sanationis effectum.

Divinità alla prova, tuttavia chiede o compie delle cose che non hanno altro scopo che di esplorarne il potere, la bontà o la conoscenza. Quando uno, p. es., fa correre il cavallo per sfuggire ai nemici, non lo fa per provarne la velocità; se invece fa correre il cavallo senza scopo alcuno ciò non sembra ridursi ad altro che a mettere la sua velocità alla prova; e lo stesso si dica di ogni altra cosa. Quando dun­ que uno per necessità o per un'utilità si affida all'aiuto di Dio nelle sue preghiere o nel suo agire, questo non è un tentare Dio; infatti in 2 Cr 20 [ 12] è detto: Poiché non sappiamo cosa fare, ci resta solo questo: volgere i nostri occhi a te. Quando invece ci si comporta così senza necessità e senza scopo, allora ciò equivale a tentare Dio. Per cui commentando Dt 6 [ 1 6]: Non tenterai il Signore Dio tuo, la Glossa af­ ferma: «Tenta Dio colui il quale, pur avendo la possibilità di agire, senza motivo si espone al pericolo per vedere se Dio è capace di liberarlo». Soluzione delle difficoltà: l . Anche l'uomo talora viene tentato con dei fatti, per vedere se egli possa, sappia o voglia in tali circostanze prestare un aiuto, o impedire un danno. 2. I santi, quando compiono i miracoli con le loro preghiere, chiedono l ' intervento della potenza divina mossi da qualche scopo o da qualche necessità. 3. I predicatori del regno di Dio trascurano i sussidi temporali per gravi motivi e per neces­ sità, cioè per attendere più speditamente alla parola di Dio. Perciò, nel contare unicamente su Dio, essi non lo tentano. Lo tenterebbero invece se abbandonassero i soccorsi umani senza motivo o necessità. Per cui Agostino ha scritto che «Paolo fuggì non perché non cre­ deva in Dio, ma per non tentare Dio rifiutan­ dosi di fuggire quando poteva farlo». Quanto poi a sant'Agata, essa doveva avere sperimen­ tato la divina benevolenza o non avendo sof­ ferto quelle infermità che esigono la medicina corporale, oppure avendone provata l'imme­ diata guarigione da parte di Dio.

Articulus 2 Utrum tentare Deum sit peccatum

Articolo 2 Tentare Dio è un peccato?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod tentare Deum non sit peccatum. l . Deus enim non praecipit aliquod peccatum.

Sembra di no. Infatti: l . Dio non può comandare dei peccati. Eppu­ re egli comanda che gli uomini lo mettano

Q. 97, A. 2

La tentazione di Dio

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Praecipit autem ut homines eum probent, quod est eum tentare, dicitur enim Malach. 3 [ 1 0],

alla prova, e quindi che lo tentino. Infatti in Ml 3 [ 1 0] è detto: Portate ogni decima nel te­

inferte omnem decimam in horreum meum, ut sit cibus in domo mea, et probate me super hoc, dicit Dominus, si non aperuero vobis cataractas caeli. Ergo videtur quod tentare

soro del tempio, perché ci sia cibo nella mia casa; poi mettetemi pure alla prova in questo - dice il Signore -, se io non vi aprirò le cate­ ratte del cielo. Quindi sembra che non sia

Deum non sit peccatum. 2. Praeterea, sicut aliquis tentatur ad hoc quod experientia sumatur de scientia vel potentia eius, ita etiam et de bonitate vel voluntate ipsius. Sed licitum est quod aliquis experimen­ tum sumat divinae bonitatis, seu etiam volun­ tatis, dicitur enim in Ps. [33,9], gustate, et vi­ dete quoniam suavis est Dominus; et Rom. 1 2 [2], ut probetis quae sit voluntas Dei bona et beneplacens et peifecta. Ergo tentare Deum non est peccatum. 3. Praeterea, nullus vituperatur in Scriptura ex eo quod a peccato cessat, sed magis si pecca­ tum committat. Vituperatur autem Achaz quia Domino dicenti, pere tibi signum a Domino Deo tuo, respondit, non petam, et non tentabo Dominum, dictum est enim ei, numquid parum

vobis est molestos esse hominibus, quia molesti estis et Deo meo? Ut dicitur Isaiae 7 [ 1 1 sqq.].

- De Abraham autem legitur Gen. 15 [8], quod dixit ad Dominum, unde scire possum q1wd possessurus sim eam, scilicet terram repromis­ sam a Deo? Similiter etiam Gedeon signum a Domino petiit de victoria repromissa, ut legitur Iudic. 6 [36 sqq.]. Qui tamen ex hoc non reprehenduntur. Ergo tentare Deum non est peccatum. Sed contra est quod prohibetur lege Dei. Di­ citur enim Deut. 6 [ 1 6], non tentabis Dominum

Deum tuum.

Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1], tentare est experimentum sumere. Nul­ lus autem experimentum sumit de eo de quo est certus. Et ideo omnis tentatio ex aliqua ignorantia ve1 dubitatione procedit, ve1 eius qui tentat, sicut cum quis experimentum de re aliqua sumit ut eius qualitatem cognoscat; sive aliorum, sicut cum quis experimentum de aliquo sumit ut aliis ostendat, per quem mo­ dum Deus dicitur nos tentare. Ignorare autem vel dubitare de his quae pertinent ad Dei per­ fectionem est peccatum. Unde manifestum est quod tentare Deum ad hoc quod ipse tentans cognoscat Dei virtutem, est peccatum. Si quis autem ad hoc experimentum sumat eorum quae ad divinam perfectionem pertinent, non

peccato tentare Dio. 2. Si può tentare una persona sia facendo la prova della sua scienza o della sua potenza, sia sperimentandone la bontà o il volere. Ma speri­ mentare la bontà o il volere di Dio è cosa leci­ ta, poiché è detto nel Sal 33 [9]: Gustate e ve­ dete quanto è buono il Signore; e in Rm 1 2 [2]:

Perché possiate discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e peifetto. Per­

ciò tentare Dio non è un peccato. 3. Nessuno viene rimproverato nella Scrittura perché si rifiuta di peccare, ma piuttosto per­ ché commette un peccato. Ora, il re Acaz viene rimproverato perché al Signore, il quale gli aveva detto (/s 7,1 1): Chiedi un segno dal Signore tuo Dio, rispose: Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore. Si legge infatti poco dopo (/s 7,13): Non vi basta di stancare

la pazienza degli uomini, perché ora vogliate stancare anche quella del mio Dio? Inoltre di Abramo si legge (Gen 1 5,8) che a proposito della terra promessa chiese al Signore: Come potrò sapere che ne avrò il possesso? E anche Gedeone ( Gdc 6,36) chiese al Signore un

segno della vittoria promessa. Eppure essi non vengono rimproverati per questo. Quindi tentare Dio non è un peccato. In contrario: ciò è proibito dalla legge di Dio. Infatti in Dt 6 [ 1 6] è detto: Non tenterai il

Signore vostro Dio.

Risposta: come si è detto sopra, tentare è mettere alla prova. Ora, nessuno fa la prova di cose di cui ha la certezza. Perciò tentare deri­ va sempre dall'ignoranza o dal dubbio esi­ stenti o in chi tenta, come quando si prova una cosa per conoscerne le qualità, oppure in altre persone, come quando si mette alla pro­ va qualcuno per persuadere gli altri, come fa Dio nel tentare noi uomini. Ora, ignorare o mettere in dubbio ciò che riguarda le perfe­ zioni divine è un peccato. Quindi è evidente che tentare Dio per riscontrame personalmen­ te la potenza è un peccato. Se però uno mette alla prova quanto riguarda le perfezioni divine non per riscontrare ciò personalmente, ma per darne la dimostrazione ad altri, allora non è

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La tentazione di Dio

ut ipse cognoscat, sed ut aliis demonstret, hoc non est tentare Deum, cum subsit iusta necessitas seu pia utilitas, et alia quae ad hoc concorrere debent. Sic enim apostoli petiverunt a Domino ut in nomine Iesu Christi fierent signa, ut dicitur Act. 4 [29-30], ad hoc scilicet quod virtus Christi infidelibus manifestaretur. Ad primum ergo dicendum quod solutio deci­ marum praecepta erat in lege, ut supra [q. 87 a. l ] habitum est. Unde habebat necessitatem ex obligatione praecepti; et utilitatem quae ibi dicitur, ut sit cibus in domo Dei. Unde solven­ do decimas non tentabant Deum. Quod autem ibi subditur, et pmbate me, non est intelligen­ dum causaliter, quasi ad hoc solvere deberent decimas ut probarent si Deus non aperiret eis cataractas caeli, sed consecutive, quia scilicet, si decimas solverent, experimento probaturi erant beneficia quae eis Deus confenet. Ad secundum dicendum quod duplex est co­ gnitio divinae bonitatis vel voluntatis. Una quidem speculativa. Et quantum ad hanc, non licet dubitare nec probare utrum Dei voluntas sit bona, vel utrum Deus sit suavis. Alia autem est cognitio divinae bonitatis seu voluntatis af­ fectiva seu experimentalis, dum quis experitur in seipso gustum divinae dulcedinis et compla­ centiam divinae voluntatis, sicut de Hierotheo dicit Dionysius, 2 cap. De div. nom. [9], quod didicit divina ex compassione ad ipsa. Et hoc modo monemur ut probemus Dei voluntatem et gustemus eius suavitatem. Ad tertium dicendum quod Deus volebat si­ gnum dare regi Achaz non pro ipso solum, sed pro totius populi instructione. Et ideo repre­ henditur, quasi impeditor communis salutis, quod signum petere nolebat. Nec petendo tentasset Deum. Tum quia ex mandato Dei petiisset. Tum quia hoc pertinebat ad utilitatem communem. - Abraham vero signum petiit ex instinctu divino. Et ideo non peccavit. Gedeon vero signum ex debilitate fidei petiisse videtur, et ideo a peccato non excusatur, sicut Glossa [ord., super Iudic. 1 1 ,30; Q. in Heptat. 7 q. 49 super Iudic. 1 1 ,30] ibidem dicit. Sicut et Za­ charias peccavit dicens, Luc. l [ 1 8], ad ange­ lum, unde hoc sciam? Unde et propter incredu­ litatem punitus fuit. - Sciendum tamen quod dupliciter aliquis signum petit a Deo. Uno mo­ do, ad explorandum divinam potestatem, aut veritatem dicti eius. Et hoc de se pertinet ad Dei tentationem. Alio modo, ad hoc quod

Q. 97, A. 2

un tentare Dio, esistendo una necessità pro­ porzionata, o una pia utilità, e tutte le altre condizioni richieste. Così infatti gli apostoli pregarono il Signore di compiere prodigi nel nome di Gesù Cristo, perché la virtù di Cristo fosse manifestata agli increduli [At 4,29]. Soluzione delle difficoltà: l . Il pagamento delle decime era prescritto dalla legge, come sopra si è visto. Esso perciò era necessario per l'obbligatorietà del precetto, ed era utile per il motivo accennato, «affinché ci fosse cibo nel­ la casa di Dio». Perciò nel dare le decime gli Ebrei non tentavano Dio. Le parole poi che seguono, «mettetemi alla prova», non vanno intese in senso causale, come se si dovessero pagare le decime per provare «Se Dio non avrebbe loro aperto le cateratte del cielo», ma in senso consequenziale, giacché, se avessero pagato le decime, avrebbero provato per espe­ rienza personale i benefici di Dio. 2. La conoscenza della bontà o del volere di Dio è duplice. La prima è di ordine speculativo. E in questo senso non è lecito dubitare né pro­ vare se la volontà di Dio sia buona o se Dio sia soave. n secondo tipo di conoscenza della bon­ tà o della volontà divina è invece di ordine af­ fettivo o sperimentale, e si ha quando uno pro­ va in se stesso il gusto della dolcezza divina e la compiacenza della volontà di Dio: come Dioni­ gi dice di Ieroteo, il quale «apprese le cose divi­ ne per averle sperimentate». Ed è appunto in questo senso che siamo esortati a sperimentare il volere di Dio e a gustarne la soavità. 3. Dio voleva dare un segno al re Acaz non per lui soltanto, ma per l'ammaestramento di tutto il popolo. Perciò egli viene rimproverato di essere di inciampo alla salvezza di tutti, non volendo chiedere quel segno. D' altra parte chiedendolo non avrebbe tentato Dio, sia perché l'avrebbe fatto per suo comando, sia perché la cosa riguardava il vantaggio di tutti. - Abramo invece chiese un segno per ispirazione divina, e quindi non fece peccato. Gedeone al contrario sembra che l'abbia chie­ sto per mancanza di fede, e quindi non può essere scusato dal peccato, come nota in pro­ posito la Glossa. E così peccò anche Zaccaria quando disse ali' angelo: Come posso cono­ scere questo ? (Le l , 1 8). Infatti per la sua incredulità fu anche punito. - Si noti però che si può chiedere a Dio un segno in due modi. Primo, per esplorare il suo potere, o la verità

La tentazione di Dio

Q. 97, A. 2

instruatur quid sit circa aliquod factum placi­ tum Deo. Et hoc nullo modo pertinet ad Dei tentationem.

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della sua parola. E ciò di per sé costituisce una tentazione di Dio. Secondo, per conosce­ re quale sia il volere di Dio a proposito di un' azione da compiere. E allora non c'è in alcun modo tentazione di Dio.

Articulus 3

Articolo 3

Utrum tentatio Dei opponatur virtuti religionis

La tentazione di Dio si contrappone alla virtù della religione?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod tenta­ tio Dei non opponatur virtuti religionis. l. Tentatio enim Dei habet rationem peccati ex hoc quod homo de Deo dubitat, sicut dictum est [a. 2]. Sed dubitare de Deo pertinet ad pecca­ rum infidelitatis, quod opponitur fidei. Ergo ten­ tatio Dei magis opponitur :fidei quam religioni. 2. Praeterea, Eccli. 1 8 [23] dicitur, ante ora­

Sembra di no. Infatti: l . La tentazione di Dio ha natura di peccato, come sopra si è detto, perché si dubita di Dio. Ma dubitare delle cose di Dio rientra nel pec­ cato di incredulità, il quale si contrappone alla fede. Quindi la tentazione di Dio si contrap­ pone più alla fede che alla religione. 2. In Sir 1 8 [23] si legge: Prima della pre­

tionem praepara animam tuam, et noli esse quasi homo qui tentat Deum, ubi dicit Interli­ nearis [3], qui, scilicet tentans Deum, orat quod docuit, sed non facit quod iussit. Sed

hoc pertinet ad praesumptionem, quae oppo­ nitur spei. Ergo videtur quod tentatio Dei sit peccatum oppositum spei. 3 . Praeterea, super illud Ps. [77, 1 8], et tenta­ verunt Deum in cordibus suis, dicit Glossa [int. et Lomb.] quod tentare Deum est dolose

postulare, ut in verbis sit simplicitas, cum sit in corde malitia. Sed dolus opponitur virtuti veritatis. Ergo tentatio Dei non opponitur religioni, sed veritati. Sed contra est quod, sicut ex praedicta Glossa [int. et Lomb. super Ps. 77, 1 8] habetur, ten­ tare Deum est inordinate postulare. Sed debi­ to modo postulare est actus religionis, ut so­ pra [q. 83 a. 1 5 ] habitum est. Ergo tentare Deum est peccatum religioni oppositum. Respondeo dicendum quod, sicut ex supra [q. 81 a. 5] dictis patet, finis religionis est Deo reverentiam exhibere. Unde omnia illa quae directe pertinent ad irreverentiam Dei, religioni opponuntur. Manitestum est autem quod tenta­ re aliquem ad irreverentiam eius pertinet, nullus enim praesumit tentare eum de cuius excellen­ tia certus est. Unde manifestum est quod tentare Deum est peccatum religioni oppositum. Ad primum ergo dicendum quod, sicut supra [q. 8 1 a. 7] dictum est, ad religionem pertinet protestari fidem per aliqua signa ad divinam reverentiam pertinentia. Et ideo ad irreligiosi­ tatem pertinet quod ex incertitudine fidei

ghiera prepara te stesso, non fare come un uomo che tenta il Signore. E la Glossa com­

menta: «Costui», cioè chi tenta Dio, «doman­ da come è stato insegnato, ma non agisce come Dio ha comandato». Ora, questo è un atto di presunzione, che si contrappone alla speranza. Quindi sembra che la tentazione di Dio sia un peccato contrario alla speranza. 3 . Commentando il Sal 77 [ 1 8] : Nei loro cuori tentamno Dio, la Glossa nota che «ten­ tare Dio è chiedere con inganno: avendo cioè la semplicità nelle parole mentre nel cuore c'è la malizia>>. Ma l 'inganno si contrappone alla virtù della veracità. Quindi la tentazione di Dio non è il contrapposto della religione, ben­ sì della veracità. In contrario: come si è visto dalla Glossa, ten­ tare Dio è pregarlo in maniera sregolata. Ora, pregare nel debito modo è un atto di religione, come si è visto sopra. Quindi tentare Dio è un peccato contrario alla virtù della religione. Risposta: il fine della religione, come si è no­ tato, consiste nel rendere a Dio l'onore do­ vuto. Perciò tutti gli atti che direttamente co­ stituiscono una mancanza di rispetto verso Dio si contrappongono alla religione. Ora, è evidente che tentare una persona è mancarle di rispetto: nessuno infatti osa tentare una per­ sona di cui conosce con certezza l'eccellenza. È quindi evidente che tentare Dio è un pecca­ to contrario alla virtù della religione. Soluzione delle difficoltà: l . Come si è visto, è compito della religione protestare la fede con dei segni di onore e di rispetto verso Dio.

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La tentazione di Dio

Q. 97, A. 3

homo aliqua faciat guae ad divinam irreveren­ tiam pertinent, cuiusmodi est tentare Deum. Et ideo est irreligiositatis species. Ad secundum dicendum quod ille qui ante orationem suam animam non praeparat, di­ mittendo si quid adversum aliquem habet, vel alias se ad devotionem non disponendo, non facit quod in se est ut exaudiatur a Deo. Et ideo quasi i nterpretative tentat Deum. Et quamvis huiusmodi interpretativa tentatio vi­ deatur ex praesumptione seu indiscretione provenire, tamen hoc ipsum ad irreverentiam Dei pertinet ut homo praesumptuose et sine debita diligentia se habeat in his guae ad Deum pertinent, dicitur enim l Petr. 5 [6], humiliamini sub potenti manu Dei; et 2 ad Tim. 2 [15], sollicite cura teipsum probabilem exhibere Deo. Unde etiam huiusmodi tentatio irreligiositatis species est. Ad tertium dicendum quod in comparatione ad Deum, qui novit cordis abscondita, non dicitur aliquis dolose postulare, sed per re­ spectum ad homines. Unde dolus per acci­ dens se habet ad tentationem Dei. Et propter hoc non oportet quod tentatio Dei directe op­ ponatur veritati.

Quindi è proprio dell'irreligiosità il far sì che un uomo, per l'incertezza della fede, compia atti di irriverenza verso il Signore, tra i quali vi è il tentare Dio. E così tale tentazione è una specie deli' irreligiosità. 2. Chi prima della preghiera non prepara la sua anima, perdonando se ha qualcosa verso qualcuno [Mc 1 1 ,25 ] , oppure non disponen­ dosi altrimenti alla devozione, non fa quanto sta in lui per essere esaudito da Dio. Egli per­ ciò implicitamente tenta Dio. E sebbene tale tentazione implicita derivi da presunzione o da indiscrezione, tuttavia l' atto stesso di trat­ tare con presunzione e senza la debita diligen­ za le cose che riguardano Dio è un'irriverenza verso la Divinità. Infatti è detto: Umiliatevi sotto la potente mano di Dio (l Pt 5,6); e: Sforzati di presentarti davanti a Dio come un uomo degno di approvazione (2 Tm 2, 1 5). Perciò anche questo modo di tentare Dio è una specie dell'irreligiosità. 3. Si dice che uno domanda con inganno non in rapporto a Dio, il quale conosce i segreti dei cuori, ma in rapporto agli uomini. Perciò l'in­ ganno è un fatto accidentale nella tentazione di Dio. E così non ne segue che la tentazione suddetta si opponga direttamente alla veracità.

Articulus 4 Utrum tentatio Dei sit gravius peccatum quam superstitio

Articolo 4 La tentazione di Dio è un peccato più grave della superstizione?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod tenta­ tio Dei sit gravius peccatum quam superstitio. l . Maior enim poena pro maiori peccato infer­ tur. Sed gravius est punitum in Iudaeis pec­ catum tentationis Dei quam peccatum idolo­ latriae, quod tamen est praecipuum inter su­ perstitiones, quia pro peccato idololatriae inter­ fecti sunt ex eis tria millia hominum, ut legitur Exodi 32 [28]; pro peccato autem tentationis universaliter omnes in deserto perierunt, terram promissionis non intrantes, secundum illud Ps. [94,9], tentavenmt me patres vestri; et po­ stea [ 1 1 ] sequitur, quibus iuravi in ira mea si introibunt in requiem meam. Ergo tentare Deum est gravius peccatum quam superstitio. 2. Praeterea, tanto aliquod peccatum videtur esse gravius quanto magis virtuti opponitur. Sed irreligiositas, cuius species est tentatio Dei, magis opponitur virtuti religionis quam su­ perstitio, quae habet aliquam similitudinem

Sembra di sì. Infatti: l . Si infligge una punizione più grave per un peccato più grave. Ora, gli Ebrei furono puniti più gravemente per il peccato di aver tentato Dio che per quello di idolatria, che pure è la forma più grave della superstizione: poiché per il peccato di idolatria furono uccisi tremi­ la uomini, come si legge in Es 32 [28]; men­ tre per il peccato di tentazione tutti furono condannati a morire nel deserto, senza entrare nella terra promessa, come è detto nel Sal 94 [9. 1 1 ] : Mi tentarono i vostri padri... Perciò ho giurato nella mia ira: Non entreranno nel mio riposo. Quindi tentare Dio è un peccato più grave della superstizione. 2. Un peccato è tanto più grave quanto più è contrario a una virtù. Ma l'irreligiosità, di cui la tentazione di Dio forma una specie, contra­ sta con la virtù della religione più della super­ stizione, che ha una certa somiglianza con

Q. 97, A. 4

La tentazione di Dio

cum ipsa. Ergo tentatio Dei est gravius pecca­ turo quam superstitio. 3 . Praeterea, maius peccatum esse videtur ir­ reverenter se habere ad parentes quam reve­ rentiam parentibus debitam aliis exhibere. Sed Deus est honorandus a nobis sicut om­ nium Pater, sicut dicitur Malach. l [6]. Ergo maius peccatum esse videtur tentatio Dei, per quam irreverenter nos habemus ad Deum, quam idololatria, per quam reverentia Deo debita exhibetur creaturae. Sed contra est quod super i llud Deut. 1 7 sqq.], cum reperti fuerint apud te etc., dicit Glossa [ord.], !ex ermrem et idololatriam ma­

xime detestatur, maximum enim scelus est honorem Creatoris impendere creaturae.

Respondeo dicendum quod in peccatis quae religioni adversantur tanto aliquid gravius est quanto magis divinae reverentiae adversatur. Cui quidem minus adversatur quod aliquis de divina excellentia dubitet quam quod contra­ rium per certitudinem sentiat. Sicut enim ma­ gis est infidelis qui in errore confirmatus est quam qui de veritate fidei dubitat, ita etiam magis contra Dei reverentiam agit qui suo facto protestatur errorem contra divinam ex­ cellentiam quam qui protestatur dubitatio­ nem. Superstitiosus autem protestatur erro­ rem, ut ex dictis [q. 94 a. l ad l ] patet. Ille autem qui tentat Deum verbis vel factis, pro­ testatur dubitationem de divina excellentia, ut dictum est [a. 2]. Et ideo gravius est peccatum superstitionis quam peccatum tentationis Dei. Ad primum ergo dicendum quod peccatum idololatriae non fuit punitum illa poena quasi sufficienti, sed in posterum pro ilio peccato gra­ vi or poena reservabatur, dicitur enim Ex. 32 [34], ego autem in die ultionis visitabo hoc pec­

catum eorum.

Ad secundum dicendum quod superstitio ha­ bet similitudinem cum religione quantum ad materialem actum, quem exhibet sicut religio. Sed quantum ad tinem, plus contrariatur ei quam tentatio Dei, quia plus pertinet ad divi­ nam irreverentiam, ut dictum est [in co.]. Ad tertium dicendum quod de ratione divinae excellentiae est quod sit singularis et incom­ municabilis, et ideo idem est contra divinam reverentiam aliquid agere, et divinam reveren­ tiam alteri communicare. Non est autem simi­ lis ratio de honore parentum qui potest sine culpa aliis communicari.

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essa. Perciò la tentazione di Dio è un peccato più,grave della superstizione. 3. E un peccato più grave mancare di rispetto ai genitori che offrire ad estranei il rispetto do­ vuto ad essi soltanto. Ora Dio, come è detto in Ml l [6], deve essere onorato da noi come Pa­ dre di tutti. Perciò sembra che la tentazione di Dio, con la quale gli manchiamo di rispetto, sia un peccato più grave dell'idolatria, con la quale offriamo a una creatura l'onore dovuto a Dio. In contrario: commentando Dt 1 7 [2] : Se presso di te si troverà ... , la Glossa afferma: «Più di ogni altra cosa la legge detesta l'erro­ re e l'idolatria: infatti la scelleratezza più grave è quella di rendere a una creatura gli onori dovuti al Creatore». Risposta: un peccato contrario alla virtù della religione è tanto più grave quanto più si oppo­ ne all' onore di Dio. Ora, con questo onore contrasta meno il dubbio sulla grandezza di Dio che non la certezza contraria. Come infatti chi è ostinato nell'errore è più incredulo di chi dubita delle verità della fede, così pecca mag­ giormente contro l'onore dovuto a Dio chi col suo agire asserisce un errore contrario alla di­ vina grandezza che non chi esprime invece un dubbio in proposito. Ora, chi fa atti di super­ stizione asserisce un errore, come sopra si è spiegato; chi invece tenta Dio con le parole o con i fatti esprime un dubbio in proposito, co­ me si è detto. Quindi il peccato di superstizione è più grave del peccato della tentazione di Dio. Soluzione delle difficoltà: l . n peccato di ido­ latria non fu punito con quel castigo in maniera adeguata, ma il castigo più grave veniva riman­ dato all'avvenire, come è detto in Es 32 [34]:

Io poi, nel giorno della mia visita, li punirò per il lom peccato.

2. La superstizione ha una certa somiglianza con la religione quanto alla materialità dei suoi atti, che sono simili a quelli della religio­ ne, ma quanto al fine è più incompatibile con essa della tentazione di Dio: poiché, come si è visto, è una più grave mancanza di rispetto. 3. La grandezza di Dio è unica e incomunica­ bile: per cui attribuire ad altri onori divini equivale ad agire contro l 'onore dovuto a Dio. Diverso è invece il caso dell'onore dovuto ai genitori, che può essere attribuito ad altri senza peccato.

Q. 98, A. l

Lo spergiuro

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QUAESTI0 98 DE PERIURIO

QUESTIONE 98 LO SPERGIURO

Deinde considerandum est de periurio. Et cir­ ca hoc quaeruntur quatuor. Primo, utrum fal­ sitas requiratur ad periurium. Secundo, utrum periurium semper sit peccatum. Tertio, utrum semper sit peccatum mortale. Quarto, utrum peccet ille qui iniungit iuramentum periuro.

Trattiamo ora dello spergiuro. Sull' argomento si pongono quattro quesiti: l . Per lo spergiuro si richiede la menzogn�? 2. Lo spergiuro è sempre un peccato? 3. E sempre un peccato mortale? 4. È un peccato imporre il giura­ mento a uno spergiuro?

Articulus l Utrum falsitas eius quod iuramento confirmatur requiratur ad periurium

Articolo l Per lo spergiuro si richiede la falsità di quanto uno conferma col giuramento?

Ad primum sic proceditur. Vìdetur quod falsi­ tas eius quod iuramento confirmatur non re­ quiratur ad periurium. l. Ut enim supra [q. 89 a. 3] dictum est, sicut veritas debet concomitari iuramentum, ita etiam iudicium et iustitia. Sicut ergo incurri­ tur periurium per defectum veritatis, ita etiam per defectum iudicii, puta cum aliquis in­ discrete iurat; et per defectum iustitiae, puta cum aliquis iurat aliquid illicitum. 2. Praeterea, illud per quod aliquid confirmatur potius esse videtur eo quod confirmatur per il­ luci, sicut in syllogismo principia sunt potiora conclusione. Sed in iur.unento confinnatur dic­ tum hominis per assumptionem divini nomi­ nis. Ergo magis videtur esse periurium si ali­ quis iuret per falsos deos, quam si veritas desit dicto hominis quod iuramento confirmatur. 3. Praeterea, Augustinus dicit, in Sermone de verbis apost. Iacobi [Serm. ad pop. 1 80,2], homines falsum iurant vel cum .fallunt, ve! cum falluntur. Et ponit tria exempla. Quorum primum est, fac illum iurare qui verum putat esse pro quo iurat. Secundum est, da alium, scit falsum esse, et iurat. Tertium est, fac alium, putat esse falsum, et iurat tanquam sit verum, quod forte verum est, de quo postea subdit quod periurus est. Ergo aliquis verita­ tem iurans potest esse periurus. Non ergo fal­ sitas ad periurium reqtùritur. Sed contra est quod periurium definitur [cf. Ps. Hugonem de S. Victore, Summa Sent. 4,5] esse mendacium iuramentofirmatum. Respondeo dicendum quod, sieut supra [q. 92 a 2; I-II q. l a 3; q. 1 8 a. 6] dictum est, morales actus ex fme speciem sortiuntur. Finis autem iuramenti est confirmatio dicti humani. Cui quidem confrrmationi falsitas opponitur, per

Sembra di no. Infatti: l. Abbiamo già detto sopra che come il giura­ mento deve essere accompagnato dalla verità, così deve esserlo anche dal giudizio e dalla giustizia. Come quindi si incorre nello sper­ giuro per difetto di verità, così vi si incorre sia per mancanza di giudizio, quando uno giura senza discrezione, sia per mancanza di giusti­ zia, quando uno giura qualcosa di illecito. 2. L'elemento confermante è superiore all'ele­ mento confermato: come nel sillogismo i prin­ cìpi sono superiori alla conclusione. Ora, nel giuramento il nome di Dio serve a confermare l'affermazione di un uomo. Sembra quindi che sia più grave lo spergiuro se uno giura per degli dèi falsi che se nelle affermazioni con­ fermate dal giuramento manca la verità. 3. Agostino ha scritto: «Gli uomini giurano il falso quando ingannano, o quando sono in­ gannati». E fa tre ipotesi: la prima si presenta così: «Supponiamo che giuri un uomo il qua­ le pensa che sia vero il falso che giura». La seconda: «Chi giura sa che si tratta di una fal­ sità, e giura>>. La terza: «Chi giura pensa che si tratti di una falsità, mentre la cosa è vera>>. Ma anche in questo caso, egli dice, «si ha uno spergiuro». Quindi si può spergiurare anche giurando la verità. E così per lo spergiuro non si richiede la falsità. In contrario: lo spergiuro è definito: «una men­ zogna confermata con giuramento». Risposta: gli atti morali, come sopra si è visto, ricevono la loro specificazione dal fine. Ora, il fine del giuramento è la conferma di un enun­ ciato umano. Ma la falsità è incompatibile con tale conferma, poiché un enunciato ottie­ ne conferma per il fatto che viene dimostrato fermamente che è vero; il che non può avve-

Q. 98, A. l

Lo spergiuro

hoc enim confirmatur aliquod dictum, quod ostenditur firmiter esse verum; quod quidem non potest contingere de eo quod est falsum. Unde falsitas directe evacuat finem iuramenti. Et propter hoc a falsitate praecipue specificatur perversitas i uramenti, quae periurium dicitur. Et ideo falsitas est de ratione periurii. Ad pri mum ergo dicendum quod, s i c u t Hieronymus dicit, ler. 4 [ 2 ] , quodcumque illorum trium defuerit, periuriwn est. Non tamen eodem ordine. Sed primo quidem et principaliter periurium est quando deest veritas, ratione iam [in co.] dieta. Secundario autem, quando deest iustitia, quicumque enim iurat illicitum, ex hoc ipso falsitatem incurrit, quia obligatus est ad hoc quod contrarium faciat. Tertio vero, quando deest iudicium, quia cum indiscrete iurat, ex hoc ipso periculo se committit falsitatem incurrendi. Ad secundum dicendum quod principia in syllogismis sunt potiora tanquam habentia rationem activi principii, ut dicitur in 2 Phys. [3,5]. Sed in moralibus actibus principalior est finis quam principium activum. Et ideo, licet sit perversum iuramentum quando aliquis verum iurat per falsos deos, tamen ab illa perversitate iuramenti periurium nominatur quae tollit iuramenti finem, falsum iurando. Ad tertium dicendum quod actus morales procedunt a voluntate, cuius obiectum est bo­ num apprehensum. Et ideo si falsum appre­ hendatur ut verum, erit quidem, relatum ad voluntatem, materialiter falsum, formaliter autem verum. Si autem id quod est falsum ac­ cipiatur ut falsum, erit falsum et materialiter et formaliter. Si autem id quod est verum ap­ prehendatur ut falsum, erit verum materialiter, falsum formaliter. Et ideo in quolibet istorum casuum salvatur aliquo modo ratio periurii, propter aliquem falsitatis modum. Sed quia in unoquoque potius est id quod est formale quam id quod est materi ale, n o n ita e s t periurus ille qui falsum iurat quod putat esse verum, sicut ille qui verum iurat quod putat esse falsum. Dicit enim ibi Augustinus [Serm. ad pop. 1 80,2], interest quemadmodwn ver­

bum procedat ex animo, quia ream linguam nonfacit nisi rea mens.

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nire per ciò che è falso. Quindi la falsità infir­ ma direttamente il fine del giuramento. E così la perversità del giuramento che è detto sper­ giuro viene specificata principalmente dalla falsità. Quindi la falsità è nella natura dello spergiuro. Soluzione delle difficoltà: l . Come dice Giro­ lamo, «l' assenza di una di queste tre cose co­ stituisce uno spergiuro». Però con un certo ordine. Al ptimo posto troviamo, per le ragio­ ni già esposte, l 'assenza della verità. Al se­ condo posto la mancanza di giustizia: chi in­ fatti giura cose illecite incorre per ciò stesso nella falsità, poiché è obbligato a fare il con­ trario. Al terzo posto infine l'assenza del giu­ dizio: poiché, quando uno giura senza discre­ zione, si espone per ciò stesso al pedcolo di incorrere nel falso. 2 . Nei sillogismi i princìpi hanno maggior valore poiché, come dice Aristotele, hanno la funzione di cause agenti . Ma nelle azioni mo­ rali il fine è superiore alla causa agente. Seb­ bene quindi sia perverso il giuramento fatto con l ' invocazione dei falsi dèi, tuttavia lo spergiuro prende il nome da quella perversità del giuramento che ne pregiudica il fine, quando si giura il falso. 3. Gli atti mor.ùi derivano dalla volontà, il cui oggetto è il bene conosciuto. Se quindi il falso è conosciuto come vero, in rapporto alla volontà sarà materialmente falso, ma formal­ mente vero. Se invece il falso è conosciuto come falso, allora sarà falso sia materialmente che formalmente. Se infine una cosa vera è conosciuta per falsa, essa sarà vera material­ mente, e falsa formalmente. Perciò in tutte e tre le ipotesi si riscontra in qualche modo lo spergiuro per una intromissione della falsità. Siccome però in ogni cosa ciò che è formale è sempre più fondamentale di ciò che è mate­ riale, chi giura il falso credendolo vero non è così spergiuro come chi giura il vero creden­ dolo falso. Dice infatti Agostino nel brano citato: «Ciò che conta è vedere come le parole escono dal cuore: poiché a rendere colpevole la lingua è la perversità del cuore».

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Lo spergiuro

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Articulus 2 Utrum omne periurium sit peccatum

Articolo 2 Ogni spergiuro è un peccato?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod non omne periurium sit peccatum. l . Quicumque enim non implet quod iura­ mento firmavit, periurus esse videtur. Sed quandoque aliquis iurat se facturum aliquid il­ licitum, puta adulterium vel homicidium, quod si faciat, peccat. Si ergo etiam non fa­ ciendo peccaret peccato periurii, sequeretur quod esset perplexus. 2. Praeterea, nullus peccat faciendo quod melius est. Sed quandoque aliquis periurando facit quod melius est, sicut cum aliquis iuravit se non intraturum religionem, vel quaecumque opera virtuosa non facturum. Ergo non omne periurium est peccatum. 3. Praeterea, ille qui iurat facere alterius vo­ luntatem, nisi eam faciat, videtur incurrere periurium. Sed quandoque potest contingere quod non peccat si eius non impleat volun­ tatem, puta cum praecipit ei aliquid nimis du­ rum et importabile. Ergo videtur quod non omne periurium sit peccatum. 4. Praeterea, iurmnentum promissorium se ex­ tendit ad futura, sicut assertorium ad praeterita et praesentia. Sed potest contingere quod tollatur obligatio iurmnenti per aliquid quod in futurum emergat, sicut cum aliqua civitas iurat se aliquid servaturam, et postea superveniunt novi cives qui illud non iuraverunt; vel cum aliquis canonicus iurat statuta alicuius Eccle­ siae se servaturum, et postmodum aliqua fiunt de novo. Ergo videtur quod ille qui transgredi­ tur iurmnentum non peccet. Sed contra est quod Augustinus dicit, in Ser­ mone de verbis apost. Iacobi [Serm. ad pop. 1 80,2], de periurio loquens, videtis quam ista detestanda sit belua, et de rebus humanis extenninanda. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 89 a. l ] dictum est, iurare est Deum testem invo­ care. Pertinet autem ad Dei irreverentiam quod aliquis eum testem invocet falsitatis, quia per hoc dat intelligere vel quod Deus ve­ ritatem non cognoscat, vel quod falsitatem testificari velit. Et ideo periurium manifeste est peccatum religioni contrarium, cuius est Deo reverentiam exhibere. Ad primum ergo dicendum quod ille qui iurat se facturum aliquod illicitum, iurando incurrit

Sembra di no. Infatti: l . Chiunque non adempie le promesse confer­ mate col giurmnento è uno spergiuro. Ma tal­ volta qualcuno giura di compiere in seguito qualcosa di illecito, p. es. un adulterio o un omi­ cidio, il cui compimento è un peccato. Se quin­ di commettesse un peccato di spergiuro anche non tacendo tali cose, ne seguirebbe [un dubbio insolubile, cioè] uno stato di perplessità. 2. Nessuno pecca facendo un bene migliore. Ma in certi casi qualcuno compie tale bene migliore spergiurando: quando uno, p. es., dopo aver giurato di non entrare in religione, o di non compiere qualsiasi altra opera virtuo­ sa, la fa ugualmente. Quindi lo spergiuro non è sempre un peccato. 3. Chi giura di compiere la volontà di un al­ tro, se poi non la compie incorre nello sper­ giuro. Ma talvolta può capitare che non pec­ chi nel compiere tale volontà: come nel caso in cui gli sia comandato qualcosa che è trop­ po duro e insopportabile. Perciò sembra che non ogni spergiuro sia peccato. 4. II giuramento promissorio si estende al futuro, mentre quello assertorio abbraccia il passato e il presente. Ma nel futuro possono capitare delle cose per cui viene a cessare l'obbligazione del giuramento: come quando una città giura di osservare una cosa, e in seguito vengono nuovi cittadini che non han­ no fatto quel giuramento; oppure quando un canonico giura di osservare gli statuti di una chiesa, e in seguito ne vengono fatti dei nuo­ vi. Quindi sembra che non pecchi chi trasgre­ disce in questo modo il giuramento. In contrario: Agostino, parlando dello sper­ giuro, afferma: «Vedete quanto sia detestabile questa belva, e come debba essere eliminata dalla convivenza umana». Risposta: come sopra si è visto, giurare è invo­ care la testimonianza di Dio. Ora, è un atto di irriverenza verso Dio invocarlo come testimone della falsità: poiché così uno mostra di pensare che Dio non conosca la verità, o che sia dispo­ sto a testimoniare il falso. Perciò lo spergiuro è manifestamente un peccato contrario alla religione, la quale ha il compito di onorare Dio. Soluzione delle difficoltà: l . Chi giura di compiere qualcosa di illecito, giurando com-

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periurium propter defectum iustitiae. Sed si non impleat quod iuravit, in hoc periurium non incurrit, quia hoc non erat tale quid quod sub iuramento cadere posset. Ad secundum dicendum quod ille qui iurat se non intraturum religionem, vel non daturum eleemosynam, vel aliquid huiusmodi, iurando periurium incurrit propter defectum iudicii. Et ideo quando facit id quod melius est, non est periurium, sed periurio contrarium, contra­ rium enim eius quod facit sub iuramento ca­ dere non poterat. Ad tertium dicendum quod cum aliquis iurat vel promittit se facturum voluntatem alterius, intelligenda est debita conditio, si scilicet id quod ei mandatur sit licitum et honestum, et portabile sive moderatum. Ad quartum dicendum quod quia iuramentum est actio personalis, ille qui de novo fit civis alicuius civitatis, non obligatur quasi iura­ mento ad servanda illa quae civitas se servatu­ ram iuravit. Tenetur tamen ex quadam fideli­ tate, ex qua obligatur ut sicut fit socius bono­ rum civitatis, ita etiam fiat particeps onerum. Canonicus vero qui iurat se servaturum sta­ tuta edita in aliquo collegio, non tenetur ex iuramento ad servandum futura, nisi intende­ rit se obligare ad omnia statuta praeterita et futura tenetur tamen ea setvare ex ipsa vi sta­ tutorum, quae habent coactivam virtutem, ut ex supradictis [I-Il q. 96 a. 4] patet.

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mette uno spergiuro, perché il suo giuramento manca di giustizia. Se però poi non adempie la promessa giurata non fa per questo un altro spergiuro, poiché la cosa promessa non era materia di giuramento. 2. Chi giura di non entrare in religione, di non fare l'elemosina o altre cose del genere, com­ mette uno spergiuro nel giurare, per mancanza di giudizio. Perciò quando poi facesse il bene migliore conelativo non compirebbe uno sper­ giuro, ma il contrario dello spergiuro: infatti la sua promessa non poteva essere oggetto di giuramento. 3. Quando uno giura di compiere la volontà di un altro, va sottintesa la necessaria condizio­ ne, che cioè quanto viene comandato sia leci­ to, onesto e sopportabile, ossia non esagerato. 4. Essendo il giuramento un atto personale, chi diventa cittadino di una città non è obbligato in forza del giuramento a osservare gli impegni a cui la città si era in tal modo obbligata in pre­ cedenza. Vi è tenuto però per un certo dovere di fedeltà, in base al quale è obbligato a parte­ cipare anche agli oneri della città, così come è diventato partecipe dei suoi beni. n canonico poi che giura di osservare gli statuti di una chiesa non è tenuto in forza del giuramento a osservare quelli futuri, a meno che non intenda obbligarsi a tutti gli statuti, sia passati che futu­ ri. Tuttavia egli è tenuto a osservarli per il loro valore intrinseco, avendo essi una propria ob­ bligatorietà, come sopra si è detto.

Articulus 3

Articolo 3

Utrum omne periurium sit peccatum mortale

Lo spergiuro è sempre un peccato mortale?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod non omne periurium sit peccatum mortale. l . Dicitur enim Extra, De iureiurando [De­ cretai. Gregor. IX, 2,29,15], in ea quaestione

Sembra di no. Infatti: l. Nei Canoni si legge: «Nella questione pro­ posta, cioè se siano assolti dal vincolo del giuramento coloro che giurarono sotto costri­ zione al fine di conservare la vita o i beni, pensiamo che ci si debba attenere alla prassi dei Romani Pontefici nostri predecessori, i quali dispensarono costoro dal legame del giuramento. Affinché tuttavia si proceda con più cautela, e si tolga ogni occasione di sper­ giurare, non va detto agli interessati di non osservare il giuramento, ma che se non lo osservano non vanno puniti come per una colpa mortale». Perciò non tutti gli spergiuri sono peccati mortali.

quae ponitur, an a sacramenti vinculo absol­ vantur qui illud inviti pro vita et rebus servan­ disfecenmt, nihil aliud arbitramur quam quod antecessores nostri Romani pontifices arbitrati fuisse noscuntur, qui tales a iuramenti nexibus absolverunt. Ceterum ut agatur consultius, et auferatur materia deierandi, non eis ita expresse dicatur ut iuramenta non servent, sed si non ea attenderint, non ob hoc sunt tan­ quam pro mortali crimine puniendi. Non ergo omne periurium est peccatum mortale.

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2. Praeterea, sicut Chrysostomus dicit [cf. Op. imperf. in Matth. h. 44 super 23, 16], maius est iurare per Deum quam per Evangeliwn. Sed non semper mortaliter peccat ille qui per Deum iurat aliquod falsum, puta si ex ioco, vel ex lapsu linguae, aliquis tali iuramento in com­ muni sermone utatur. Ergo nec etiam si aliquis frangat iuramentum quod solemniter per Evan­ gelium iurat, semper erit peccatum mortale. 3. Praeterea, secundum iura propter periurium aliquis incurrit infamiam, ut habetur 6, q. l, cap. Infames [Gratianus, Decretum, p. 2, causa 6, q. l, can. 1 7] . Non autem videtur quod propter quodlibet periurium aliquis in­ famiam incurrat, sicut dicitur de assertorio iu­ ramento violato per periurium [Decretai Gregor. IX, 2, 10,2]. Ergo videtur quod non omne periurium sit peccatum mortale. Sed contra, omne peccatum quod contrariatur praecepto divino est peccatum mortale. Sed periurium contrariatur praecepto divino, dici­ tur enim Lev. 19 [12], non periurabis in no­ mine meo. Ergo est peccatum mortale. Respondeo dicendum quod, secundum doctri­ nam philosophi [Post. 1 ,2, 1 5], propter quod unumquodque, illud magis. Videmus autem quod ea quae, si de se sint peccata venialia, vel etiam bona ex genere, si in contemptum Dei fiant, sunt peccata mortalia. Unde multo magis quidquid est quod de sui ratione pertinet ad contemptum Dei, est peccatum mortale. Periu­ rium autem de sui ratione i mportat con­ temptum Dei, ex hoc enim habet rationem cul­ pae, ut dicturn est [a. 2], quia ad irreverentiam Dei pertinet. Unde manifestum est quod periurium ex suo genere est peccatum mortale. Ad primum ergo dicendum quod, sicut supra [q. 89 a. 7 ad 3] dictum est, coactio non aufert iuramento promissorio vim obligandi respectu eius quod licite fieri potest. Et ideo si aliquis non impleat quod coactus iuravit, nihilominus periurium incurrit et mortaliter peccat. Potest tamen per auctoritatem summi pontiticis ab obligatione iuramenti absolvi, praesertim si coactus fuerit tali metu qui cadere posset in constantem virum. Quod autem dicimr quod non sunt tales puniendi tanquam pro mortali crimine, non hoc ideo dicitur quia non peccent mortaliter, sed quia poena eis minor intligitur. Ad secundum dicendum quod ille qui iocose periurat, non evitat divinam irreverentiam, sed quantum ad aliquid magis auget. Et ideo non

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2. Come dice il Crisostomo, «è più grave giu­ rare per Dio che per il Vangelo». Eppure non sempre pecca mortalmente chi nel giurare per Dio giura il falso: p. es. se fa tale giuramento per scherzo, oppure per sbadataggine. Quindi anche se uno viola il giuramento fatto solen­ nemente sul Vangelo, non sempre pecca mor­ talmente. 3. A norma della legge ci sono alcuni che per lo spergiuro incorrono nella pubblica infamia. Ora, è chiaro che non si incorre in questa infamia per qualsiasi spergiuro, come è detto espressamente nel caso della violazione del giuramento assertorio. Perciò sembra che non ogni spergiuro sia peccato mortale. In contrario: tutti i peccati che sono in opposi­ zione con i precetti di Dio sono mortali. Ma lo spergiuro si contrappone al precetto divino, in­ fatti è detto in Lv 19 [ 1 2]: Non giurerai ilfalso nel mio nome. Quindi è un peccato mortale. Risposta: secondo il Filosofo «ciò che è causa di una qualità in qualcos'altro, deve possederla in sé in maniera eminente». Ora, noi vediamo che delle azioni che di per sé sono peccati veniali, o che addirittura sono buone nel loro genere, se vengono fatte in oltraggio a Dio diventano peccati mortali. Molto più, dunque, sarà peccato mortale una qualsiasi cosa che per sua natura implichi un oltraggio a Dio. Ma lo spergiuro implica per se stesso un oltraggio a Dio: esso infatti è un atto peccaminoso proprio perché è una manc� di rispetto verso Dio, come si è spiegato. E quindi evidente che lo spergiuro è nel suo genere un peccato mortale. Soluzione delle difficoltà: l . Come si è già detto sopra, la costrizione non toglie obbligatorietà al giuramento promissorio rispetto alle cose che uno può lecitamente mantenere. Se quindi uno non adempie ciò che aveva promesso sotto costrizione, commette pur sempre uno spergiu­ ro e pecca mortalmente. Tuttavia egli può essere dispensato dali' obbligo contratto col giuramento dali' autorità del sommo pontefice: specialmente se fu costn�tto con una minaccia tale «da scuotere un uomo formato». L'affer­ mazione poi che costoro non vanno puniti co­ me per una colpa mortale non va intesa nel senso che non pecchino mortalmente, ma nel senso che va loro inflitta una pena minore. 2. Chi fa uno spergiuro per scherzo non evita la mancanza di rispetto verso Dio, anzi in un certo senso la accresce. Quindi non può essere

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excusatur a peccato mortali. llle autem qui ex lapsu linguae falsum iurat, si quidem advertat se iurare et falsum esse quod iurat, non excu­ satur a peccato mortali, sicut nec a Dei con­ temptu. Si autem hoc non advertat, non vide­ tur habere intentionem iurandi, et ideo a cri­ mine periurii excusatur. Est autem gravius peccatum si quis solemniter iuret per Evange­ lium quam si per Deum in communi sermone iuret, tum propter scandalum; tum propter maiorem deliberationem. Quibus aequaliter hinc inde positis, gravius est si quis per Deum iurans periuret quam si periuret iurans per Evangelium. Ad tertium dicendum quod non propter quodli­ bet peccatum mortale aliquis infamis efficitur ipso iure. Unde non sequitur, si ille qui iurat falsum iuramento assertorio non est infamis ipso iure, sed solum per sententiam detìnitivam latam contra eum in causa accusationis, quod propter hoc non peccet mortaliter. Ideo autem magis reputatur infamis ipso iure qui frangit iuramentum promissorium solemniter factum, quia in eius potestate remanet, postquam iuravit, ut det suo iuramento veritatem, quod non contingit in iuramento assertorio.

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scusato dal peccato mortale. Chi poi giura il falso per sbadataggine, se avverte di giurare, e di giurare il falso, non può essere parimenti scusato dal peccato mortale, come neppure dal disprezzo di Dio; se però non Io avverte, allora non sembra che abbia l'intenzione di giurare: quindi non è colpevole di spergiuro. Tuttavia è più grave il peccato se uno giura solennemen­ te sul Vangelo che se giura per Dio nel parlare comune: sia per lo scandalo, sia per la mag­ giore deliberazione. Ammesso però che que­ ste circostanze siano uguali, lo spergiuro di chi giura per Dio sarebbe più grave di quello di chi giura per il Vangelo. 3. Non si incorre nell'infamia legale per tutti i peccati mortali. Quindi non segue che uno non pecchi mortahnente per il fatto che giu­ rando il falso in un giuramento assertorio non è dichiarato infame per legge se non dopo una sentenza definitiva data contro di lui in u n processo. Viene poi considerato infame per legge chi viola il giuramento promissorio fat­ to solennemente per il fatto che, dopo aver giurato, rimane in suo potere di dare verità al suo giuramento: il che non avviene nel giura­ mento assertorio.

Articulus 4

Articolo 4

Utrum peccet ille qui iniungit iuramentum ei qui periurat

Commette peccato chi esige il giuramento da uno spergiuro?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod peccet ille qui iniungit iuramentum ei qui periurat. l . Aut enim scit eum verum iurare, aut fal­ sum. Si scit eum verum iurare, pro nihilo ei iuramentum iniungit si autem credit eum fal­ sum iurare, quantum est de se, inducit eum ad peccandum. Ergo videtur quod nullo modo debeat aliquis alicui iniungere iuramentum. 2. Praeterea, iuramentum minus est accipere ab aliquo quam iuramentum iniungere alicui. Sed recipere iuramentum ab aliquo non vide­ tur esse licitum, et praecipue si periuret, quia in hoc videtur consentire peccato. Ergo vide­ tur quod multo minus liceat exigere iuramen­ tum ab eo qui periurat. 3 . Praeterea, dicitur Lev. 5 [ 1], si peccaverit

Sembra di sì. Intàtti: l . O egli sa che l' altro giurerà il vero, o sa che giurerà il falso. Se sa che giurerà il vero, è inutile che gli imponga il giuramento. Se in­ vece pensa che giurerà il falso, per parte sua lo induce a peccare. Perciò sembra che in nes­ SU11. modo uno possa comandargli di giurare. 2. E meno grave ricevere un giuramento che imporlo. Ora, non sembra lecito ricevere da qualcuno dei giuramenti, specialmente se co­ stui spergiura: poiché si mostra così di accon­ sentire a un peccato. Quindi sembra che sia molto meno lecito esigere il giuramento da chi spergiura. 3. In Lv 5 [ l ] è detto: Se uno peccherà, perché

anima, et audierit vocem iurantis falsum, te­ stisque juerit quod aut ipse vidit aut conscius est, nisi indicaverit, portabit iniquitatem suam, ex quo videtur quod aliquis sciens

avendo ascoltato la voce di un altro che giura ilfalso, ed essendone testimone per avere egli stesso visto o saputo, non lo von-à attestare, allora porterà il peso della sua iniquità. Dal che risulta che qualora si sappia che una data persona giura il falso, si è tenuti ad accusarla.

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aliquem iurare falsum, teneatur eum accusare. Non igitur licet ab eo exigere iuramentum. Sed contra, sicut peccat ille qui falsum iurat, ita ille qui per falsos deos iurat. Sed Iicet uti iu­ rarnento eius qui per falsos deos iurat, ut Au­ gustinus dicit, ad Publicolam [ep. 47]. Ergo li­ cet iurarnentum exigere ab eo qui falsum iurat. Respondeo dicendum quod circa eum qui exigit ab alio iuramentum, distinguendum vi­ detur. Aut enim exigit iuramentum pro seipso propria sponte, aut exigit iuramentum pro alio ex necessitate ofticii sibi commissi. Et si quidem aliquis pro seipso exigit iuramentum tanquam persona privata, distinguendum vi­ detur, ut Augustinus dicit, in Sermone de periuriis [Serm. ad pop. 1 80, 1 0] . Si enim nescit eum iuraturum falsum, et ideo dicit, iura mihi, ut fides ei sit, non est peccatum, tamen est humana tentatio, quia scilicet pro­ cedit ex quadam infirmitate, qua homo dubi­ tat alium esse verum dicturum. Et hoc est il­ lud malum de quo Dominus dicit, Matth. 5 [37], quod amplius est, a malo est. Si autem scit eum fecisse, scilicet contrarium eius quod iurat, et cogit eum iurare, homicida est. Ille

enim de suo periurio se interimit, sed iste manum inteificientis impressit. S i autem

aliquis exigat iuramentum tanquam persona publica, secundum quod exigit ordo iuris, ad petitionem alterius, non videtur esse in culpa si ipse iuramentum exigat, sive sciat eum falsum iurare sive verum, quia non videtur ille exigere, sed ille ad cuius instantiam exigit. Ad primum ergo dicendum quod obiectio illa procedit quando pro aliquis exigit iuramen­ tum. Et tamen non semper scit eum iurare verum, vel falsum, sed quandoque dubitat de facto, et credit eum verum iuraturum, et tunc ad maiorem certitudinem exigit iurarnentum. Ad secundum dicendum quod, sicut Augusti­ nus dicit, ad Publicolam [ep. 47], quamvis

dictum sit ne iuremus, nunquam me in Scrip­ turis sanctis legisse memini ne ab aliquo iurationem accipiamus. Unde ille qui iura­

tionem recipit non peccat, nisi forte quando propria sponte ad iurandum cogit eum quem scit falsum iuraturum. Ad tertium dicendum quod, sicut Augustinus dicit [Q. in Heptat 3, 1 super Lev. 5, 1 ], Moyses non expressit in praedicta auctoritate cui sit indicandum periurium alterius. Et ideo intelli­ gitur quod debeat indicari talibus qui magis

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Quindi non è lecito esigere da essa il giura­ mento. In contrario: come pecca chi giura il falso, così pecca chi giura per false divinità. Eppure, secondo Agostino, è lecito servirsi del giura­ mento degli idolatri. Quindi è lecito anche esigere il giuramento da chi giura il falso. Risposta: nel parlare di colui che esige da altri il giuramento, bisogna distinguere. Infatti o uno esige il giuramento a proprio vantaggio e di propria iniziativa, oppure lo esige per altri in forza dell'ufficio che riveste. Nel caso poi che lo esiga a proprio vantaggio come perso­ na privata, bisogna ancora distinguere, come fa Agostino. Se infatti uno non sa che l'altro giurerà il falso, e quindi dice: «Giuramelo» per potersi fidare, non c'è peccato; però è una tentazione umana, in quanto cioè deriva dalla nostra miseria, che ci fa sospettare che l'altro non dica la verità. «E questo è quel male di cui parla il Signore nel Vangelo: Il di più vie­ ne dal maligno [Mt 5,37]». Se invece uno sa che l'altro ha agito contrariamente a quanto dice, e lo costringe ugualmente a giurare, commette un omicidio. «Infatti lo spergiuro col suo peccato si uccide, ma l' altro spinge la mano del suicida». Se però uno esige il giura­ mento come persona pubblica, cioè a norma delle leggi e dietro la richiesta di altri, allora non è in colpa se esige il giuramento, qualun­ que sia il comportamento di chi è sul punto di giurare: poiché non è lui a esigerlo, ma la persona che lo richiede. Soluzione delle difficoltà: l . L'argomento va­ le quando uno esige il giuramento a proprio vantaggio. Tuttavia non sempre uno sa se l'al­ tro giurerà il vero o il falso, ma spesso dubita del fatto e crede che l'altro giurerà la verità: e così per certificarsi esige il giuramento. 2. Agostino risponde: «Sebbene ci sia stato comandato di non giurare, io non ricordo di aver mai letto nella Sacra Scrittura che sia proibito di ricevere i giuramenti dagli altri». Perciò chi riceve il giuramento non pecca, a meno che forse di propria iniziativa non co­ stringa a giurare una persona che sa essere disposta a giurare il falso. 3. Come fa notare Agostino, in quel passo Mo­ sè non ha dichiarato a chi si deve indicare lo spergiuro di un altro. Perciò si deve pensare che esso vada indicato «a persone che possono giovare piuttosto che nuocere al colpevole».

Lo spergiuro

Q. 98, A. 4

possunt prodesse quam obesse periuro.

Si­ militer etiam non expressit quo ordine debeat manifestare. Et ideo videtur servandus ordo evangelicus, si sit peccatum periurii occultum, et praecipue quando non vergit in detrimentum alterius, quia in tali casu non haberet locum or­ do evangelicus, ut supra [q. 33 a. 7] dictum est. Ad quartum dicendum quod licet uti malo propter bonum, sicut et Deus utitur, non tamen licet aliquem ad malum inducere. Unde licet eius qui paratus est per fhlsos deos iurare, iura­ mentum recipere, non tamen licet eum inducere ad hoc quod per falsos deos iuret. Alia tamen ratio esse videtur in eo qui per verum Deum falsum iurat. Quia in tali iuramento deest bo­ num fidei, qua utitur aliquis in iuramento illius qui verum per falsos deos iurat, ut Augustinus dicit, ad Publicolam [ep. 47]. Unde in iura­ mento eius qui falsum per verum Deum iurat, non videtur esse aliquod bonum quo uti liceat.

QUAESTI099

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Parimenti egli non ha dichiarato secondo qua­ le ordine vada manifestato. E così sembra che vada seguito l'ordine stabilito dal Vangelo, se lo spergiuro è occulto: specialmente quando non è dannoso per altri, poiché in tal caso non varrebbe l'ordine del Vangelo, come sopra si è visto. 4. [S.e. ]. È lecito servirsi del male per il bene, come fa Dio stesso, però non è lecito indurre al male. Quindi è lecito ricevere il giuramento di chi è pronto a giurare per false divinità, ma non è lecito indurlo a giurare in tal modo. Diversa invece è la condizione di chi giura il falso per il vero Dio. Poiché in que..>. Ma ciò avvie­ ne in qualsiasi peccato: poiché, come dice Agostino, «il peccato è una parola, un atto o un desiderio contro la legge di Dio». Quindi il sacrilegio è un peccato generico. 2. Nessun peccato specificamente distinto può abbracciare diversi generi di peccati. Ma il sa­ crilegio abbraccia molti generi di peccati, cioè: l'omicidio, se uno uccide un sacerdote; la lus­ suria, se uno viola una vergine consacrata, op­ pure una donna qualsiasi in luogo sacro; il fur­ to, se uno ruba delle cose sacre. Perciò il sacri­ legio non è un peccato specificamente distinto. 3 . Qualsiasi peccato specifico deve potersi riscontrare distinto dagli altri peccati, come dice il Filosofo a proposito dell'ingiustizia specifica. Invece il sacrilegio non si riscontra mai distinto da altri peccati, ma ora è unito al furto, ora all'omicidio [e così via], come si è già notato. Quindi non è un peccato specifico. In contrario: il sacrilegio si contrappone a una virtù specificamente distinta, cioè alla religio­ ne, la quale ha il compito di rendere a Dio e alle cose divine l'onore dovuto. Quindi il sa­ crilegio è un peccato specifico. Risposta: dove si riscontra una deformità spe­ ciale ci deve sempre essere un peccato specia­ le: poiché la specie in ogni ordine di cose vie­ ne desunta dalla loro ragione formale, e non dalla materia o dal soggetto. Ora, nel sacrile­ gio si riscontra una deformità speciale: cioè la violazione di una cosa sacra mediante una mancanza di rispetto. Quindi esso è un pecca­ to specificamente distinto. E si contrappone alla religione. «La porpora infatti», dice il Da­ masceno, «divenendo veste del re, ne acquista l' onore e la gloria: al punto che se uno la strappa, viene punito con la pena di morte», come se avesse agito direttamente contro il re. Parimenti, se uno viola una cosa sacra, per ciò stesso agisce contro l'onore dovuto a Dio, e quindi pecca di irreligiosità. Soluzione delle diftìcoltà: l . Si dice che agi­ scono contro la santità della legge coloro che

committunt sacrilegium qui in divinae legis sanctitatem aut nesciendo committunt, aut negligendo violant et o.ffendunt. Sed hoc fit per omne peccatum, nam peccatum est dictum vel factum ve/ concupitum contra legem Dei, ut Augustinus dicit, 22 Contra Faustum [27]. Ergo sacrilegium est generale peccatum. 2. Praeterea, nullum speciale peccatum conti­ netur sub diversis generibus peccatorum. Sed sacrilegium sub diversis generibus peccato­ rum continetur, puta sub homicidio, si quis sacerdotem occidat; sub luxuria, si quis virgi­ nem sacratam violet, vel quamcumque mu­ lierem in loco sacro; sub furto, si quis rem sacram furatus fuerit. Ergo sacrilegium non est speciale peccatum. 3. Praeterea, omne speciale peccatum inve­ nitur distinctum ab aliis peccatis, ut de iniusti­ tia speciali philosophus dicit, in 5 Ethic. [2,2]. Sed sacrilegium non videtur inveniri absque aliis peccatis, sed quandoque coniungitur furto, quandoque homicidio, ut dictum est [arg. 2]. Non ergo est speciale peccatum. Sed contra est quod opponitur speciali virtuti, scilicet religioni, ad quam pertinet revereri Deum et divina. Ergo sacrilegium est speciale peccatum. Respondeo dicendum quod ubicumque inve­ nitur specialis ratio deformitatis, ibi necesse est quod sit speciale peccatum, quia species cuiuslibet rei praecipue attenditur secundum formalem rationem ipsius, non autem secun­ dum materiam vel subiectum. In sacrilegio autem invenitur specialis ratio deformitatis, quia scilicet violatur res sacra per aliquam irreverentiam. Et ideo est speciale peccatum. Et opponitur religioni. Sicut enim Damasce­ nus dicit, in 4 Lib. [De fide 3 ] , pwpura,

regale indumentwn facta, honoratur et glori­ ficatur, et si quis hanc peiforaverit, morte damnatur, quasi contra regem agens. Ita etiam si quis rem sacram violat, ex hoc ipso contra Dei reverentiam agit, et sic per irreli­ giositatem peccat.

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Il sacrilegio

Q. 99, A. 2

Ad primum ergo dicendum quod illi dicuntur in divinae legis sanctitatem committere qui legem Dei impugnant, sicut haeretici et bla­ sphemi. Qui ex hoc quod Deo non credunt, incurrunt infidelitatis peccatum, ex hoc vero quod divinae legis verba perve11unt, sacrile­ gium incurrunt. Ad secundum dicendum quod nihil prohibet unam specialem rationem peccati in pluribus peccatorum generibus inveniri, secundum quod diversa peccata ad finem unius peccati ordinannrr, prout etiam in virtutibus apparet quibus imperatur ab una virtute. Et hoc modo quocumque genere peccati aliquis faciat contra reverentiam debitam sacris rebus, sa­ crilegium formaliter committit, Iicet materia­ liter sint ibi diversa genera peccatorum. Ad tertium dicendum quod sacrilegium inter­ dum invenitur separatum ab aliis peccatis, eo quod actus non habet aliam deformitatem nisi quia res sacra violatur, puta si aliquis iudex rapiat aliquem de loco sacro, quem in aliis lo­ cis licite capere posset.

impugnano la legge di Dio: cioè gli eretici e i bestemmiatori. I quali non credendo in Dio incorrono nel peccato di incredulità, e perver­ tendo le parole della legge incorrono nel sacrilegio. 2. Nulla impedisce che la ragione specifica di un peccato si estenda e si riscontri in molte­ plici generi di peccati, dato che dei peccati diversi possono essere ordinati al fine di un unico peccato: esattamente come avviene in quelle virtù che sono subordinate a una sola fra di esse. E così con qualsiasi genere di pec­ cato uno agisca contro l ' onore dovuto alle cose sacre, commette formalmente un sacrile­ gio, anche se materialmente si tratta di peccati di genere diverso. 3. Talora il sacrilegio si riscontra anche sepa­ rato da altri peccati, per il fatto che quella data azione non ha altra deformità all'infuori della violazione di una cosa sacra: come quando un giudice strappa da un luogo sacro una perso­ na che altrove avrebbe potuto prendere lecita­ mente.

Articulus 3 Utrum species sacrilegii distinguantur secundum res sacras

Articolo 3 Le varie specie di sacrilegio si distinguono in base alla distinzione delle cose sacre?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod spe­ cies sacrilegii non distinguantur secundum res sacras. l . Materialis enim diversitas non diversificat speciem, si sit eadem ratio formalis. Sed in violatione quarumcumque rerum sacrarum videtur esse eadem ratio formalis peccati, et quod non sit diversitas nisi materialis. Ergo per hoc non diversificantur sacrilegii species. 2. Praeterea, non videtur esse possibile quod aliqua sint eiusdem speciei, et tamen specie differant. Sed homicidium et furtum et illici­ tus concubitus sunt diversae species peccato­ rum. Ergo non possunt convenire i n una specie sacrilegii. Et ita videtur quod sacrilegii species distinguannrr secundum diversas spe­ cies aliorum peccatorum, et non secundum diversitatem rerum sacrarum. 3. Praeterea, inter res sacras connumerantur etiam personae sacrae. Si ergo una species sa­ crilegii esset qua violatur persona sacra, seque­ retur quod omne peccatum quod persona sacra committit esset sacrilegium, quia per quodlibet peccatum violatur persona peccantis. Non

Sembra di no. Infatti: l . Una diversità materiale non dà una diver­ sità di specie, se unica è la ragione formale. Ma nella violazione di qualsiasi cosa sacra unica e identica è la ragione formale del pec­ cato, e per il resto non c'è che una diversità materiale. Quest'ultima dunque non basta per costruire diverse specie di sacrilegio. 2. Non sembra possibile che alcune cose sia­ no della medesima specie, e tuttavia differi­ scano specificamente. Ora l'omicidio, il furto e il rapporto sessuale illecito sono specie di­ verse di peccati. Quindi non possono coinci­ dere in un'unica specie di sacrilegio. Sembra quindi che le varie specie del sacrilegio si di­ stinguano secondo le varie specie dei peccati che abbracciano, e non secondo la diversità delle cose sacre. 3. Tra le cose sacre vengono incluse anche le persone sacre. Se quindi la violazione di una persona sacra fosse una specie del sacrilegio, ne seguirebbe che tutti i peccati commessi da una persona consacrata sarebbero sacrilegi: poiché qualsiasi peccato viola la persona che

Q. 99, A. 3

Il sacrilegio

ergo species sacrilegii accipiuntur secundurn res sacras. Sed contra est quod actus et habitus distin­ guuntur secundum obiecta. Sed res sacra est obiectum sacrilegii, ut dictum est [a. 1]. Ergo species sacrilegii distinguuntur secundum dif­ ferentiam rerum sacrarum. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1], peccatum sacrilegii in hoc consistit quod aliquis irreverenter se habet ad rem sa­ cram. Debetur autem reverentia rei sacrae ra­ tione sanctitatis. Et ideo secundum diversam rationem sanctitatis rerum sacrarum quibus ir­ reverentia exhibetur, necesse est quod sa­ crilegii species distinguantur, et tanto sacrile­ gium est gravius quanto res sacra in quam peccatur maiorem obtinet sanctitatem. Attri­ buitur autem sanctitas et personis sacris, idest divino cultui dedicatis, et locis sacris, et rebus quibusdam aliis sacris. Sanctitas autem loci ordinatur ad sanctitatem hominis, qui in loco sacro cultum exhibet Deo, dicitur enim 2 Mach. 5 [19], non pmpter locum gentem, sed propter gentem Dominus locum elegit. Et ideo gravius peccatum est sacrilegium quo pecca­ t u r c o n t ra personam sacram quam q u o peccatur contra locum sacrum. Sunt tamen in utraque sacrilegii specie diversi gradus, se­ cundum differentiam personruum et locorum sacrorum. - Similiter etiam et tertia species sacrilegii, quae circa alias res sacras commit­ titur, diversos habet gradus, secundum dif­ ferentiam sacrarum rerum. Inter quas sum­ mum locum obtinent ipsa sacramenta, quibus homo sanctificatur, quorum praecipuum est Eucharistiae sacramentum, quod continet ipsum Christum. Et ideo sacrilegium quod contra hoc sacramentum committitur gravissi­ mum est inter omnia. - Post sacramenta autem, secundum locum tenent vasa conse­ crata ad sacramentorum susceptionem; et ipsae imagines sacrae, et sanctorum reliquiae, i n quibus q u o d a m m o d o ipsae p e r sonae sanctorum venerantur vel dehonorantur. Deinde ea quae pertinent ad omatum Eccle­ siae et ministrorum. Deinde ea quae sunt deputata ad sustentationem ministrorum, sive sint m obil ia sive immobilia. Quicumque autem contra quodcumque praedictorum pec­ cat, crimen sacrilegii incurrit. Ad primum ergo dicendum quod non est in ornnibus praedictis [in co.] eadem ratio sancti-

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lo commette. Quindi le specie del sacrilegio non si desumono dalle cose sacre. In contrario: gli atti e gli abiti si distinguono secondo gli oggetti. Ma l' oggetto del sacrile­ gio, come si è visto sopra, sono le cose sacre. Quindi le specie del sacrilegio si distinguono secondo la differenza delle cose sacre. Risposta: abbiamo già detto che il peccato di sacrilegio consiste nel mancare di rispetto verso una cosa sacra. Ora, alle cose sacre il ri­ spetto è dovuto a motivo della loro santità. Sarà quindi secondo i diversi aspetti che la santità delle cose sacre presenta che bisognerà distinguere le varie specie di sacrilegi: e un sacrilegio sarà tanto più grave quanto mag­ giore sarà la santità della cosa contro cui si pecca. Ora, la santità viene attribuita sia alle persone sacre, cioè dedicate al culto divino, sia ai luoghi sacri, sia ad altre cose sacre. Ma la santità del luogo è ordinata alla santità delle persone che in esso esercitano il culto verso Dio, come è detto in 2 Mac 5 [19]: Il Signore

aveva eletto non già il popolo a causa di quel luogo, ma quel luogo a causa del popolo.

Quindi il sacrilegio commesso contro una persona sacra è più grave di quello commesso contro un luogo sacro. Tuttavia nell' una o nell'altra specie di sacrilegio ci sono diversi gradi secondo la differenza delle persone e d ei l uoghi. - E anche la terza specie del sacrilegio, cioè la violazione delle cose sacre, presenta gradi diversi, secondo la differenza delle cose sacre. Tra queste occupano il primo posto i sacramenti, che servono a santificare gli uomini: e il principale dei sacramenti è il sacramento dell'Eucaristia, che contiene Cri­ sto medesimo. Quindi il sacrilegio commesso contro questo sacramento è il più grave di tutti. - Subito dopo i sacramenti vengono i vasi sacri, consacrati per ricevere i sacramen­ ti; quindi le immagini sacre e le reliquie dei santi, nelle quali vengono in qualche modo onorate o disonorate le persone stesse dei santi. Poi vengono gli oggetti decorativi della chiesa e i paramenti dei ministri del culto. E finalmente i beni, mobili e immobili, destinati al sostentamento dei ministri. Chiunque dun­ que pecca contro una delle cose suddette commette un peccato di sacrilegio. Soluzione delle difficoltà: l . La santità che si riscontra in tutte le cose sopra indicate si pre­ senta sotto aspetti diversi. Perciò la distinzio-

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Q. 99, A. 3

tatis. Et ideo differentia sacrarum rerum non solum est differentia materialis, sed formalis. Ad secundum dicendum quod nihil prohibet aliqua duo secundum aliquid esse unius speciei, et secundum aliud diversarum, sicut Socrates et Plato conveniunt in specie anima­ lis, differunt autem in specie colorati, si unus sit albus et alius niger. Et similiter etiam pos­ sibile est aliqua duo peccata differre specie secundum materiales actus, convenire autem in specie secundum unam rationem formalem sacrilegii, puta si quis sanctimonialem viola­ verit verberando, vel concumbendo. Ad tertium dicendum quod omne peccatum quod sacra persona committit, materialiter quidem et quasi per accidens est sacrilegium, unde Hieronymus [cf. De consid. 2, 1 3] dicit quod nugae in ore sacerdotis sacrilegium sunt ve/ blasphemia. Formaliter autem et proprie illud solum peccatum sacrae personae sacrile­ gium est quod agitur directe contra eius sanc­ titatem, puta si virgo Deo dicata fornicetur; et eadem ratio est in aliis.

ne esistente tra le cose sacre non è soltanto materiale, bensì formale. 2. Nulla impedisce che due cose sotto un certo aspetto appartengano a una medesima specie, e sotto un altro appartengano a specie diverse: se Socrate, p. es., è bianco, e Platone è nero, convengono entrambi nella specie del­ l' animalità, ma differiscono nella specie del colore. E così è possibile che due peccati dif­ feriscano specificamente per la materia dei loro atti, ma coincidano nell'unica ragione formale di sacrilegio: picchiare una monaca, p. es., è sacrilegio come fornicare con essa. 3. Qualsiasi peccato commesso da una perso­ na sacra è materialmente, e in un certo qual modo indirettamente, un sacrilegio: per cui Girolamo afferma che «le frivolezze in bocca a un sacerdote sono un sacrilegio, o una be­ stemmia». Formalmente però e propriamente sono sacrilegi solo quei peccati che una per­ sona sacra commette direttamente contro la propria consacrazione: come quando ad es. una vergine consacrata a Dio commette fornicazione; e lo stesso si dica per gli altri peccati.

Articulus 4 Utrum poena sacrilegii debeat esse pecuniaria

Articolo 4 La pena del sacrilegio deve essere pecuniaria?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod poena sacrilegii non debeat esse pecuniaria. l . Poena enim pecuniaria non solet imponi pro culpa criminali. Sed sacrilegium est culpa criminalis, unde capitali sententia punitur se­ cundum leges civiles [Dig. 48, 1 3,7; 48, 1 3, 1 1 ; Codex l ,3, l 0]. Ergo sacrilegium non debet puniri poena pecuniaria. 2. Praeterea, idem peccatum non debet dupli­ ci poena puniri, secundum illud Nahum l [9], non consurget duplex tribulatio. Sed poena sacrilegii est excommunicatio, maior quidem si violentia inferatur in personam sacram, vel si aliquis incendat vel frangat Ecclesiam; minor autem in aliis sacrilegiis. Ergo non debet sacrilegium puniri poena pecuniaria. 3. Praeterea, apostolus dicit, l ad Thess. 2 [5],

Sembra di no. Infatti: l . Non si è soliti imporre una pena pecuniaria per un delitto capitale. Ma il sacrilegio è un delitto capitale: infatti le leggi civili lo puni­ scono con la pena di morte. Quindi il sacrile­ gio non va punito con una pena pecuniaria. 2. Un medesimo peccato non va punito due volte, come è detto in Na l [9]: Non soprav­ verrà due volte la sciagura. Ora, la pena pro­ pria del sacrilegio è la scomunica: scomunica maggiore per le violenze contro una persona sacra, e per l'incendio o lo scasso di una chiesa; scomunica minore per gli altri sacrilegi. Perciò il sacrilegio non va punito con una multa. 3. Paolo dice: Non abbiamo avuto pensieri di cupidigia (l Ts 2,5). Ma esigendo una pena pecuniaria per la violazione di cose sacre si può dare occasione a ciò. Quindi non sembra che tale pena sia conveniente per il sacrilegio. In contrario: nei Canoni si legge: «Se uno con insolenza o con orgoglio strappa a forza uno schiavo fuggitivo dai portici della chiesa, paghe-

non fuimus aliquando in occasione avaritiae. Sed hoc videtur ad occasionem avaritiae pertinere quod poena pecuniaria exigatur pro violatione rei sacrae. Ergo non videtur talis poena esse conveniens sacrilegii.

Il sacrilegio

Q. 99, A. 4

Sed contra est quod dicitur 1 7, qu. 4 [Gratianus, Decretum, p. 2, causa 1 7, q. 4, can. 20], si quis

contumax ve[ superbus fugitivum servum de atrio Ecclesiae per vim abstraxerit, nongentos solidos componat. Et ibidem [Gratianus, Decre­ tum, p. 2, causa 17, q. 4, can. 21] postea dicitur,

quisquis inventus fuerit reus sacrilegii, triginta libras argenti examinati purissimi componat.

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rà novecento soldi». E poche righe più in basso: «Chiunque sarà riscontrato reo di sacrilegio pagherà trecento libbre di argento purissimo». Risposta: nell'infliggere la pena si devono te­ nere presenti due cose. Primo, la proporzione perché la pena sia giusta: si Iichiede cioè che

con quelle stesse cose per cui uno pecca, con esse sia poi castigato, come è detto in Sap 1 1

Respondeo dicendum quod in poenis infli­ gendis duo sunt consideranda. Primo quidem, aequalitas, ad hoc quod poena sit iusta, ut sci­ licet in quo quis peccai, per hoc torqueatur, ut dicitur Sap. 1 1 [ 17]. Et hoc modo conve­ niens poena sacrilegi, qui sacris iniuriam in­ fert est excommunicatio [Gratianus, Decre­ tum, p. 2, causa 17, q. 4, app. ad can. 20], per quam a sacris arcetur. - Secondo autem con­ sideratur utilitas, nam poenae quasi medici­ nae quaedam infliguntur, ut his territi homi­ nes a peccando desistant. Sacrilegus autem, qui sacra non reveretur, non sufticienter vi­ detur a peccando arceri per hoc quod ei sacra interdicuntur, de quibus non curat. Et ideo se­ cundum leges humanas adhibetur capitis poe­ na; secundum vero Ecclesiae sententiam, quae mortem corporalem non infligit, adhibe­ tur pecuniaria poena, ut saltem poenis tempo­ ralibus homines a sacrilegiis revocentur. Ad primum ergo dicendum quod Ecclesia corporalem mortem non infligit, sed loco eius infligit excommunicationem. Ad secundum dicendum quod necesse est duas poenas adhiberi quando per unam non sufficien­ ter revocatur aliquis a peccando. Et ideo opor­ tuit, supra poenam excommunicationis, adhibe­ re aliquam temporalem poenam, ad coer­ cendum hornines qui spiritualia conternnunt. Ad tertium dicendum quod si pecunia exige­ retur sine rationabili causa, hoc videretur ad occasionem avaritiae pertinere. Sed quando exigitur ad hominum correctionem, habet manifestam utilitatem. Et ideo non pertinet ad occasionem avaritiae.

[ 17]. E sotto questo aspetto la pena conve­ niente al saclilego, il quale tà ingiulia alle co­ se sacre, è la scomunica, mediante la quale uno viene privato di esse. - Secondo, si deve tenere presente l 'utilità: infatti le pene sono date come medicine, affinché gli uomini spa­ ventati da esse desistano dalla colpa. Ora, il sacrilego che non Iispetta le cose sacre non sembra che possa essere distolto efficace­ mente dalla colpa con la ptivazione delle cose sacre, che egli disprezza. Quindi dalle leggi civili viene applicata la pena di morte, e dalla Chiesa, che non infligge mai la morte corpo­ rale, viene applicata una pena pecuniaria: af­ finché gli uomini si astengano dai sacrilegi almeno a motivo delle pene temporali. Soluzione delle difficoltà: l . La Chiesa non infligge la pena di morte, ma la sostituisce con la scomunica. 2. È necessario infliggere due castighi quando uno non basta per distogliere dal peccato. E così fu necessario aggiungere alla scomunica una pena temporale, per reprimere coloro che disprezzano le realtà spirituali. 3. Se il danaro venisse estorto senza una cau­ sa ragionevole, ciò potrebbe essere occasione di cupidigia, ma se è Iichiesto per correggere dei colpevoli, allora la cosa ha un'utilità evi­ dente. Per cui non rientra nelle occasioni di cupidigia.

QUAESTIO 1 00 DE SIMONIA

QUESTIONE l 00 LA SIMONIA

Deinde considerandum est de simonia Et circa hoc quaeruntur sex. Primo, quid sit sirnonia. Secondo, utrum liceat pro sacramentis pe­ cuniam accipere. Tertio, utrum liceat accipere

Trattiamo ora della simonia. Su questo tema toccheremo sei argomenti: l . Che cos'è la si­ monia? 2. È lCfito ricevere del danaro per i sacramenti? 3. E lecito riceverne per delle at-

La simonia

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Q. 1 00, A. l

pecuniam pro spirimalibus actibus. Quarto, utrum liceat vendere ea quae sunt spiritualibus annexa. Quinto, utrum solum munus a manu faciat simoniacum, an etiam munus a lingua et ab obsequio. Sexto, de poena simoniaci.

tività spirituali? 4. È lecito vendere i beni an­ nessi alle cose spirituali? 5. Rende simoniaci soltanto il compenso in danaro, oppure anche la prestazione personale in parole e in opere? 6. Le pene contro la simonia.

Articulus l Quid sit simonia

Articolo l Cos'è la simonia?

Ad primum sic proceditur. Videntr quod simo­ nia non sit studiosa voluntas emendi et venden­ di aliquid spirituale ve/ spirituali annexum. l . Simonia enim est haeresis quaedam, dicitur enim l , qu. l [Gratianus, Decretum, p. 2, causa l , q. l , can. 2 1], tolerabilior est Macedoni� et eorum qui circa ipsum szmt Sancti Spiritus im­ pugnatorum, impia haeresis quam simoniaco­ rum. Il/i enim creaturam, et servum Dei Patris et Filii, Spiritum Sanctum delirando fatentur, isti vero eundem Spiritum Sanctum efficiunt servum suum. Omnis enim dominus quod habet, si vult, vendit, sive servum, sive quid aliud eontm quae possidet. Sed infidelitas non consistit in voluntate, sed magis in intellecm, sicut et fides, ut ex supra [q. 10 a. 2] dictis patet. Ergo simonia non debet per voluntatem definiri. 2. Praeterea, studiose peccare est ex malitia peccare, quod est peccare in Spiritum Sanctum. Si ergo simonia est studiosa voluntas peccan­ di, sequitur quod semper sit peccatum in Spi­ ritum Sanctum. 3. Praeterea, nihil magis est spirituale quam regnum caelorum. Sed licet emere regnum caelorum, dicit enim Gregorius, in quadam homilia [In Ev. h. l 5] , regnum caelorum tan­ tum va/et quantum habes. Ergo non est simo­ nia velle emere aliquid spirituale. 4. Praeterea, nomen simoniae a Simone Mago acceptum est, de quo legitur Act. 8 [ 1 8- 1 9], quod obtulit apostolis pecuniam ad spiritua­ lem potestatem emendam, ut, scilicet, quibus­ cumque manus impone1-et, recipe1-en1 Spiri­ tum Sanctum. Non autem legitur quod aliquid voluit vendere. Ergo simonia non est voluntas vendendi aliquid spirituale. 5. Praeterea, multae aliae sunt voluntariae commutationes praeter emptionem et vendi­ tionem, sicut permutatio, transactio. Ergo videtur quod insufficienter definiatur simonia. 6. Praeterea, omne quod est spirituali anne­ xum est spirituale. Superflue igitur additur, vel spirituali annexum.

Sembra che la simonia non sia «la deliberata volontà di comprare o vendere cose spirituali o beni ad esse annessi». Infatti: l . La simonia è una d_elle tante eresie, poiché nei Canoni si legge: «E più tollerabile l'empia eresia di Macedonia, e di coloro che con lui impugnano lo Spirito Santo, che quella dei simoniaci. Quelli infatti delirando affermano che lo Spirito Santo è una creatura e schiavo del Padre e del Figlio, ma questi addirittura riducono lo Spirito Santo a uno schiavo di loro stessi. Infatti solo chi è padrone di una cosa può venderla, se vuole: si tratti di uno schiavo o di qualsiasi altra cosa da lui posse­ duta». Ora, una colpa contro la fede, come anche la fede stessa, non si produce nella volontà, ma nell' intelletto, come si è visto sopra. Quindi nella definizione della simonia non si deve parlare di volontà. 2. Peccare deliberatamente è peccare per ma­ lizia, che equivale a peccare contro lo Spirito Santo. Se quindi la simonia è una deliberata volontà di peccare, ne segue che è sempre un peccato contro lo Spirito Santo. 3. Nulla è più spirituale del regno dei cieli. Eppure comprare il regno dei cieli è una cosa lecita, come risulta da quelle parole di Grego­ rio: «Il regno dei cieli vale tutto ciò che tu possiedi». Perciò la simonia non consiste nel proposito di comprare cose spirituali. 4. TI termine simonia detiva da Simon Mago, del quale si legge in At 8 [ 1 8] che offrì danaro agli apostoli per acquistare un potere spirima­ le, cioè quello di poter conferire lo Spirito Santo a coloro a cui imponeva le mani. Ma dalla Scrittura non risulta che egli abbia volu­ to vendere qualcosa. Quindi la simonia non è la volontà di vendere qualcosa di spirituale. 5. Oltre alla compravendita ci sono molte altre commutazioni volontarie di beni, quali ad es. la permuta e la transazione. Perciò sem­ bra che la simonia sia definita in modo insuf­ ficiente.

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Q. 100, A. l

La simonia

7. Praeterea, Papa, secundum quosdam, non potest committere simoniam. Potest autem emere vel vendere aliquid spirituale. Ergo simonia non est voluntas emendi vel vendendi aliquid spirituale vel spirituali annexum. Sed contra est quod Gregorius dicit, i n Regi­ stro [Gratianus, Decretum, p. 2, causa l , q. l , can. 3; q. 3, can. 1 4], altare et decimas et Spi­

ritum Sanctum emere ve/ vendere simonia­ cam haeresim esse nullusfidelium ignorar. Respondeo dicendum quod, sicut supra [I-Il q.

1 8 a. 2] dictum est, actus aliquis est malus ex genere ex eo quod cadit super materiam indebitam. Emptionis autem et venditionis est materia indebita res spiritualis, triplici ratione. Primo quidem, quia res spiritualis non potest aliquo terreno pretio compensari, sicut de sapientia dicitur Prov. 3 [ 1 5] , pretiosior est

cunctis opibus, et omnia quae desiderantur huic non valent comparari. Et ideo Petrus, in ipsa sui radice Simonis pravitatem condemnans, dixit [Act. 8,20], pecunia tua tecum sit in perditio­

nem, quoniam donwn Dei existimasti pecunia possidere. Secundo, quia illud potest esse -

debita venditionis materia cuius venditor est dominus, ut patet in auctoritate supra [Gratia­ nus, Decretum, p. 2, causa l , can. 2 1 ] inducta. Praelatus autem Ecclesiae non est dominus spiritualium rerum, sed dispensator, secundum illud l ad Cor. 4 [1]. Sic nos existimet homo ut

ministros Christi, et dispensatores ministerio­ ntm Dei. - Tertio, quia venditio repugnat spiri­

tualium origini, quae ex gratuita Dei voluntate proveniunt. Unde et Dominus dicit, Matth. l O [8] , gratis accepistis, gratis date. Et ideo aliquis, vendendo vel emendo rcm spiritualem, irreverentiam exhibet Deo et rebus divinis. Propter quod, peccat peccato irreligiositatis. Ad primum ergo dicendum quod sicut religio consistit in quadam fidei protestatione, quam tamen interdum aliquis non habet in corde; ita etiam vitia opposita religioni habent quandam protestationem intidelitatis, licet quandoque non sit infidelitas in mente. Secundum hoc ergo, s i monia haeresis dicitur secundum exteriorem protestationem, quia in hoc quod aliquis vendit donum spiritus sancti, quodam­ modo se protestatur esse dominum spititualis doni; quod est haereticum. - Sciendum tamen quod S imon Magus, praeter hoc quod ab -

apostolis Spiritus Sancti gratiam pecunia emere voluit, dixit quod mundus non erat a

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6. Tutto ciò che è annesso allo spirituale è sempre spirituale. Quindi è superfluo aggiun­ gere: «O beni annessi a cose spirituali». 7. Secondo alcuni il papa non può commette­ re simonia. Ma egli può comprare o vendere beni spirituali. Perciò la simonia non è la vo­ lontà di comprare o di vendere cose spirituali, o beni annessi a cose spirituali. In contrario: Gregorio afferma: «Nessun fede­ le ignora che comprare o vendere l 'altare, le decime e lo Spirito Santo costituisce l'eresia simoniaca». Risposta: come si è già spiegato, un atto è catti­ vo nel suo genere per il fatto che cade su una materia indebita. Ora, le cose spirituali sono materia indebita di una compravendita per tre motivi: primo, perché un bene spirituale in nes­ sun modo può essere compensato con una mercede temporale, come è detto a proposito della sapienza in Pr 3 [ 1 5]: Essa è più preziosa

di qualsiasi ricchezza; e qualsiasi cosa possa essere desiderata non è in grado di uguagliar­ la. E così Pietro, condannando nella sua radice l'iniquità di Simon Mago, gli disse: Il tuo da­ naro vada con te in perdizione, perché hai osa­ to pensare di acquistare con il danaro il dono di Dio (At 8,20). - Secondo, perché la materia debita di una vendita può essere solo ciò di cui

il venditore è padrone, come risulta evidente in base al testo citato in principio. Ora, i prelati della Chiesa non sono padroni delle cose sacre, ma amministratori, come è detto in l Cor 4 [ 1 ] :

Ognuno ci consideli come ministri di Cristo e amministratori dei misteli di Dio. - Terzo, per­

ché la vendita ripugna all'origine dei beni spi­ rituali, che derivano dalla gratuita volontà di Dio. Per cui il Signore dice: Gratuitamente avete Jicevuto, gratuitamente date (Mt l 0,8). E così l 'uomo, vendendo o comprando cose spirituali, manca di rispetto a Dio e alle cose divine. Quindi pecca contro la religione. Soluzione delle difficoltà: l . Come la religione consiste nel protestare la tooe che però talvolta uno non ha nel cuore, così anche i vizi opposti alla religione implicano una manifestazione di incredulità sebbene quest'ultima non sempre abbia guadagnato la mente. In base a ciò dunque, stando alle manifestazioni esterne, la simonia viene considerata un'eresia: poiché per il fatto che uno vende i doni dello Spirito Santo in qualche modo dichiara di essere padrone di tali doni spirituali; il che è eretico. - S i deve

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Deo creatus, sed a quadam supema virtute, ut dicit Isidorus, in libro Etymol. [8,5]. Et secun­ dum hoc, inter alios haereticos simoniaci computantur, ut patet in libro Augustini De haeresibus [ 1]. Ad secundum dicendum quod, sicut supra [q. 58 a. 4] dictum est, iustitia et omnes partes eius, et per consequens omnia vitia opposita, sunt in voluntate sicut in subiecto. Et ideo convenienter simonia per voluntatem definitur. Additur autem studiosa, ad designandum electionem, quae principaliter pertinet ad vir­ tutem et vitium. Non autem omnis qui peccat electione peccat peccato in Spiritum Sanctum, sed solum qui peccatum eligit per contem­ ptum eorum quae homines solent retrahere a peccando, ut supra [q. 1 4 a. l ] dictum est. Ad tertium dicendum quod regnum caelorum dicitur emi, dum quis dat quod habet propter Deum, large sumpto nomine emptionis, se­ cundum quod accipitur pro merito. Quod ta­ men non pertingit ad perfectam rationem emptionis. Tum quia non sunt condignae pas­ siones huius temporis, nec aliqua nostra dona vel opera, adfuturam gloriam quae revelabitur in nobis, ut dicitur Rom. 8 [ 1 8]. Thm quia me­ ritum non consistit principaliter in exteriori do­ no vel actu vel passione, sed in interiori affectu. Ad quartum dicendum quod Simon Magus ad hoc emere voluit spiritualem potestatem ut eam postea venderet, dicitur enim l, q. 3 [Gratianus, Decretum, p. 2, causa l, q. 3, can. 8], quod Simon Magus donum Spiritus Sancti

emere voluit ut a venditione signorum quae per eum fierent, multiplicatam pecuniam lu­ craretur. Et sic illi qui spiritualia vendunt, conformantur Simoni Mago in intentione, in actu vero, illi qui emere volunt. Illi autem qui vendunt, in actu imitantur Giezi, discipulum Elisaei, de quo legitur 4 Reg. 5 [20 sqq.], quod accepit pecuniam a leproso mundato. Unde venditores spiritualium possunt dici non solum simoniaci, sed etiam giezitae [Gratia­ nus, Decretum, p. 2, causa l , q. l , can. 1 0]. Ad quintum dicendum quod nomine emptionis et venditionis intelligitur omnis contractus non gratuitus. Unde nec permuta­ tio praebendarum vel ecclesiasticorum benefi­ ciorum fieri potest, auctoritate partium absque periculo simoniae, sicut nec transactio, ut iura [cf. Decretai. Gregor. IX, 3 , 1 9,5 ; 1 ,36,7] determinant. Potest tamen praelatus, ex offi-

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però notare che Simon Mago, oltre ad aver voluto comprare col danaro dagli apostoli la grazia dello Spirito Santo, affermava, come riferisce Isidoro, che il mondo non era stato creato da Dio, ma «da una potenza superiore». Ed è in questo senso che i Simoniaci sono elencati fra gli altri eretici, come si può vedere nel libro di Agostino sulle eresie. 2. Abbiamo già visto sopra che sia la giustizia che tutte le sue patti, e per conseguenza tutti i vizi contrari, risiedono nella volontà. Per que­ sto la simonia va definita come un vizio della volontà. Si aggiunge poi «deliberata» per in­ dicare l'atto della scelta, che è l'elemento principale nella virtù e nel vizio. Non è detto però che chiunque pecca deliberatamente pecchi contro lo Spirito Santo, bensì solo chi sceglie deliberatamente il peccato disprezzan­ do quanto giova a ritrarre gli uomini dal pec­ care, come sopra si è visto. 3. Quando uno dà per amor di Dio ciò che possiede, si dice che compera o acquista il re­ gno dei cieli prendendo il termine «compra­ re» nel senso lato di meritare. Ma non si tratta di una compera nel pieno significato della pa­ rola. Sia perché né le sofferenze del momento presente, né altri doni o opere nostre, sono

paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi (Rm 8, 1 8). Sia perché il merito non consiste principalmente nel dono, o nell'atto, o nel travaglio esterno, ma nelle disposizioni interiori. 4. Sirnon Mago voleva comprare quel potere spirituale per poi fame commercio: infatti nei Canoni si legge che «Simon Mago voleva comprare il dono dello Spirito Santo per ar­ ricchirsi con l a vendita dei miracoli che avrebbe fatto con esso». Perciò quelli che vendono le cose spirituali assomigliano a Si­ mon Mago nelle intenzioni, mentre quelli che le comprano gli assomigliano nelle azioni. Coloro poi che le vendono, nei loro atti imita­ no piuttosto Giezi, discepolo di Eliseo, di cui 2 Re 5 [20] racconta che accettò del danaro dal lebbroso guarito. Perciò i venditori dei beni spirituali, oltre che Simoniaci, potrebbe­ ro anche essere detti Gieziti. 5. Sotto il termine «compravendita» si inten­ dono tutti i contratti non gratuiti. Quindi, se­ condo le leggi, non si possono fare con la sola intesa delle parti interessate, senza pericolo di simonia, permute o transazioni a proposito di

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cio suo. Permutationes huiusmodi facere pro causa utili vel necessaria. Ad sextum dicendum quod sicut anima vivit secundum seipsam, corpus vero vivit ex unio­ ne animae; ita etiam quaedam sunt spiritualia secundum seipsa, sicut sacramenta et alia huiusmodi; quaedam autem dicuntur spiri­ malia ex hoc quod talibus adhaerent. Unde l , q. 3, dicitur, cap. Si quis obiecerit [Gratianus, Decretum, p. 2, causa l , q. 3, can. 7], quod

spiritualia sine cmporalibus rebus non pro­ ficiunt, sicut nec anima sine corpore corpo­ ra/iter vivit.

Ad septimum dicendum quod Papa potest incurrere vitium simoniae, sicut et quilibet alius homo, peccatum enim tanto in aliqua persona est gravius quanto maiorem obtinet locum. Quamvis enim res Ecclesiae sint eius ut principalis dispensatoris, non tamen sunt eius ut domini et possessoris . Et ideo s i reciperet pro aliqua re spirituali pecuniam de redditibus alicuius Ecclesiae, non careret vitio simoniae. Et similiter etiam posset simoniam committere recipiendo pecuniam ab aliquo laico non de bonis Ecclesiae.

prebende o di benefici ecclesiastici. Il prelato può tuttavia fare d'ufficio queste permute per motivi di utilità, o di necessità. 6. Come l ' anima può vivere da se stessa, mentre i l corpo vive per la sua unione con l 'anima, così ci sono delle cose che sono spi­ rituali per se stesse, come i sacramenti, e ci sono delle cose che sono dette spirituali per­ ché sono unite con quelle. E così si spiegano le parole dei Canoni: «Certi beni spirituali non possono sussistere senza le realtà corpo­ rali, come neppure l' anima può vivere corpo­ ralmente senza il corpo». 7. n papa può incorrere nel peccato di simo­ nia come qualsiasi altro uomo: anzi, il pecca­ to è tanto più grave quanto più alto è il posto che una persona occupa. Sebbene infatti le cose della Chiesa appartengano a lui come all' amministratore principale, non gli appar­ tengono però come a un padrone, o a un pos­ sidente. Se egli quindi per un bene spirituale riceve del danaro derivante dalle rendite di una chiesa, non è esente dal peccato di simo­ nia. E così pure egli potrebbe macchiarsi di simonia anche ricevendo da un laico del da­ naro non proveniente dai beni della Chiesa.

Articulus 2

Articolo 2

Utrum semper sit illicitum pro sacramentis pecuniam dare

È sempre illecito dare del danaro per i sacramenti?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod non semper sit illicitum pro sacramentis pe­ cuniam dare. l . Baptismus enim est ianua sacramentorum, ut in Tertia Pars [q. 63 a 6; q. 68 a 6; q. 73 a 3] dicetur. Sed licet, ut videtur, in aliquo casu dare pecuniam pro Baptismo, puta quando sa­ cerdos puerum morientem sine pretio baptiza­ re non vellet. Ergo non semper est illicitum emere vel vendere sacramenta. 2. Praeterea, maximum sacramentorum est Eu­ charistia, quae in Missa consecratur. Sed pro Missis cantandis aliqui sacerdotes praebendam vel pecuniam accipiunt. Ergo licet multo magis alia sacramenta emere vel vendere. 3. Praeterea, sacramentum poenitentiae est sa­ cramentum necessitatis, quod praecipue in ab­ solutione consistit. Sed quidam absolventes ab excommunicatione pecuniam exigunt. Ergo non semper est illicitum sacramenta emere vel vendere.

Sembra di no. Intàtti: l. Come vedremo nella Terza Parte, il battesi­ mo è «la porta dei sacramenti». Ma in qual­ che caso sembra che sia lecito dare del danaro per il battesimo: p. es. quando il sacerdote non volesse battezzare gratuitamente un bam­ bino moribondo. Quindi non è sempre illecito comprare o vendere i sacramenti. 2. n più grande dei sacramenti è l'Eucaristia, che viene consacrata nella messa. Ma per celebrare le messe alcuni sacerdoti riscuotono prebende o accettano danaro. A maggior ra­ gione, quindi, è lecito comprare o vendere gli altri sacramenti. 3. Il sacramento della penitenza è strettamen­ te obbligatorio, e consiste soprattutto nell'as­ soluzione. Ma nell'assolvere da certe scomu­ niche si esige del danaro. Quindi non è sem­ pre illecito comprare o vendere i sacramenti. 4. La consuetudine fa sì che non siano peccati cose che altrimenti sarebbero peccaminose:

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4. Praeterea, consuetudo facit ut non sit pec­ catum illud quod alias peccatum esset, sicut Augustinus dicit [Contra Faustum 22,47] quod habere plures uxores, quando mos erat, crimen non erat. Sed apud quosdam est con­ suetudo quod in consecrationibus episcopo­ rum, benedictionibus abbatum, et ordinibus clericorum, pro chrismate vel oleo sancto et aliis huiusmodi aliquid detur. Ergo videtur quod hoc non sit illicitum. 5. Praeterea, contingit quandoque quod aliquis malitiose impedit aliquem vel ab episcopato obtinendo, vel ab aliqua alia dignitate. Sed licet unicuique redimere suam vexationem. Ergo licitum videtur in tali casu pecuniam dare pro episcopatu, vel aliqua alia eccle­ siastica dignitate. 6. Praeterea, matrimonium est quoddam sa­ cramentum. Sed quandoque datur pecunia pro matrimonio. Ergo licitum est sacramenta pe­ cunia vendere. Sed contra est quod dicitur l, q. l [Gratianus, Decretum, p. 2, causa l, q. l, can. 9], qui per

pecuniam quemquam consecraverit, alienus sit a sacerdotio. Respondeo dicendum quod sacramenta novae legis sunt maxime spiritualia, inquantum sunt spiritualis gratiae causa, quae pretio aestimari non potest, et eius rationi repugnat quod non gratuito detur. Dispensantur autem sacramenta per Ecclesiae ministros, quos oportet a populo sustentari, secundum illud apostoli, l ad Cor. 9 [ 1 3 ] , nescitis quoniam qui in sacrario

operantur, quae de sacrario sunt edunt, et qui altari deserviunt, cum altario participantur? Sic igitur dicendum est quod accipere pecu­ niam pro spirituali sacramentorum gratia est crimen simoniae, quod nulla consuetudine po­ test excusari, quia consuetudo non praeiudicat iuri naturali vel divino [cf. Decretai. Gregor. IX, 1 ,4, 1 1 ] . Per pecuniam autem intelligitur

omne illud cuius pretium potest pecunia aesti­ mari, ut philosophus dicit, in 4 Ethic. [ l ,2].

-

Accipere autem aliqua ad sustentationem eorum qui sacramenta ministrant, secundum ordinationem Ecclesiae et consuetudines ap­ probatas, non est simonia, neque peccatum, non enim accipitur tanquam pretium merce­ dis, sed tanquam stipendium necessitatis . Unde super illud l a d Ti m . 5 [17], qui bene praesunt presbyteri etc., dici t Glossa [ord. et Lomb.; Serm. ad pop. 46,2] Augustini, acci-

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per cui Agostino può dire che avere più mogli «non era un peccato quando era una consue­ tudine». Ma in certi luoghi è consuetudine che nelle consacrazioni dei vescovi, nelle be­ nedizioni degli abati e nelle ordinazioni dei chietici si dia qualcosa per il crisma, per l'olio santo e per altre cose del genere. Per cui sem­ bra che questo non sia illecito. 5. Può capitare che uno in maniera peccami­ nosa impedisca a un altro l' assunzione all'e­ piscopato o a qualche altra dignità. Ora, a tutti è lecito riscattarsi dall' ingiustizia. Quindi in tal caso sembra lecito dare del danaro per l'episcopato, o per altre dignità ecclesia>. Per danaro poi si deve intendere «tutto ciò che può essere valutato a prezzo di danaro», come precisa il Filosofo. - Invece non è simonia e non è peccato ricevere qualcosa per il sostentamento di coloro che amministra­ no i sacramenti, seguendo le norme della Chie­ sa e le consuetudini legittime: infatti queste of­ ferte non vengono ticevute come una paga, ma come un contributo imposto dalla necessità. Per cui, commentando l Tm 5 [ 1 7] : lpresbiteri che esercitano bene la presidenza .. , Agostino afferma: «Ricevano il necessario sostentamen­ to dal popolo, e dal Signore la ricompensa del loro ministero». Soluzione delle difficoltà: l . In caso di neces­ sità chiunque può battezzare. E poiché non si .

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piant sustentationem necessitatis a populo, mercedem dispensationis a Domino. Ad primum ergo dicendum quod in casu ne­ cessitatis potest quilibet baptizare. Et quia nullo modo est peccandum, pro eodem est ha­ bendum si sacerdos absque pretio baptizare non velit, ac si non esset qui baptizaret. Unde ille qui gerit curam pueri in tali casu licite posset eum baptizare, vel a quocumque alio tàcere baptizari. Posset tamen licite aquam a sacerdote emere, quae est pure elementum corporale. - Si autem esset adultus qui Bap­ tismum desideraret, et immineret mortis peri­ culum, nec sacerdos eum vellet sine pretio baptizare, deberet, si posset, per alium bapti­ zari. Quod si non posset ad alium habere re­ cursum, nullo modo deberet pretium pro Bap­ tismo dare, sed potius absque Baptismo dece­ dere, suppletur enim ei ex Baptismo flarninis quod ex sacramento deest. Ad secundum dicendum quod sacerdos non accipit pecuniam quasi pretiurn consecratio­ nis Eucharistiae aut Missae cantandae, hoc enim esset simoniacum, sed quasi stipendiurn suae sustentationis, ut dictum est [in co.]. Ad tertium dicendum quod pecunia non exi­ gitur ab eo qui absolvitur quasi pretium abso­ lutionis, hoc enim esset simoniacum, sed qua­ si poena culpae praecedentis, pro qua fuit ex­ cornrnunicatus. Ad quartum dicendum quod, sicut dictum est [in co.], consuetudo non praeiudicat iuri natu­ rali vel divino, quo sirnonia prohibetur. Et ideo si aliqua ex consuetudine exigantur quasi pretium rei spiritualis, cum intentione emendi vel vendendi, est manifeste simonia, et praeci­ pue si ab invito exigantur. Si vero accipiantur quasi quaedam stipendia per consuetudinem approbatam, non est simonia, si tamen desit intentio emendi vel vendendi, sed intentio re­ feratur ad solam consuetudinis observantiam; et praecipue quando aliquis volontarie solvit. In his tamen omnibus sollicite cavendum est quod habet speciem sirnoniae vel cupiditatis, secundum illud apostoli, l ad Thess. 5 [22], ab omni specie ma/a abstinete vos. Ad quintum dicendum quod antequam alicui acquiratur ius in episcopato, vel quacumque dignitate seu praebenda, per electionem vel provisionem seu collationem, simoniacum es­ set adversantium obstacula pecunia redimere, sic enirn per pecuniam pararet sibi viarn ad

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deve peccare per nessun motivo, nel caso in cui il sacerdote non volesse battezzare gratui­ tamente si deve agire come se egli non ci fos­ se. Per cui in questo caso potrebbe battezzare il bambino o il suo tutore, o un'altra persona qualunque. Uno potrebbe però lecitamente pagare al sacerdote l'acqua battesimale, che è un puro elemento corporeo. - Se invece a chiedere il battesimo fosse un adulto, e ci fos­ se un imminente peticolo di morte, e il sacer­ dote si rifiutasse di battezzarlo senza danaro, egli dovrebbe possibilmente tàrsi battezzare da un'altra persona. E se non potesse ricorrere ad altri, in nessun modo dovrebbe pagare per il battesimo, ma piuttosto morire senza batte­ simo: poiché la mancanza del sacramento sarebbe supplita dal battesimo di desiderio. 2. Il sacerdote non accetta il danaro come paga per la consacrazione dell'Eucaristia o per la celebrazione della messa, il che sarebbe simonia, ma come contributo per il suo so­ stentamento, secondo le spiegazioni date. 3 . Dagli scomunicati che vengono assolti si esige del danaro non come paga dell' assolu­ zione, il che sarebbe simoniaco, ma come pena della colpa precedente per cui essi furo­ no scomunicati. 4. Come si è visto sopra, «la consuetudine non può mai pregiudicare la legge naturale o quella divina», che proibisce la simonia. Se quindi per consuetudine si esigesse qualcosa come compenso di un bene spirituale, con l'intenzione di comprare o di vendere, si com­ metterebbe simonia: specialmente poi se lo si esigesse contro la volontà del contribuente. Se invece si riceve qualcosa come tributo impo­ sto da una consuetudine legittima, non c'è sirnonia: però quando manca l'intenzione di comprare o di vendere, e si intende soltanto rispettare la consuetudine; il che vale soprat­ tutto quando uno dà spontaneamente. Ma in tutti questi casi bisogna evitare con cura tutto ciò che abbia l'aspetto di simonia o di cupidi­ gia, come dice Paolo: Astenetevi da ogni cosa che abbia parvenza di male (l Ts 5,22). 5. Sarebbe simonia ricorrere al danaro prima che uno abbia acquistato il diritto all' episco­ pato, o a qualsiasi altra dignità o prebenda, mediante l'elezione o la nomina, per rimuo­ vere gli ostacoli degli oppositori: infatti così uno verrebbe a prepararsi col danaro la via per ottenere qualcosa di spirituale. Ma dopo

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rem spiritualem obtinendam. Sed postquam iam ius alicui acquisitum est, licet per pecu­ niam iniusta impedimenta removere. Ad sextum dicendum quod quidam dicunt quod pro matrimonio licet pecuniam dare, quia in eo non confertur gratia. Sed hoc non est usquequaque verum, ut in 3 parte huius operis dicetur [S. q. 42 a. 3]. Et ideo aliter dicendum est, quod matrimonium non solum est Ecclesiae sacramentum, sed etiam naturae officium. Et ideo dare pecuniam pro ma­ trimonio inquantum est naturae officium, li­ citum est, inquantum vero est Ecclesiae sacra­ mentum, est illicitum. Et ideo secundum iura [cf. Decretai. Gregor. IX, 5,3,9] prohibetur ne pro benedictione nuptiarum aliquid exigatur.

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che uno ha acquistato tale diritto è lecito ri­ muovere col danaro gli ostacoli ingiustificati. 6. Alcuni affermano che nel caso del matri­ monio sarebbe lecito dare del danaro, poiché in esso non venebbe conferita la grazia. Ma ciò non è affatto vero, come vedremo nella Terza Parte. Perciò dobbiamo rispondere di­ versamente, e cioè che il matrimonio non è soltanto un sacramento della Chiesa, ma an­ che un compito naturale. Quindi è lecito dare del danaro per il matrimonio in quanto è un compito naturale, mentre è illecito darlo i n quanto è un sacramento della Chiesa. Ed è per questo che i Canoni proibiscono di esige­ re qualcosa per la benedizione delle nozze.

Articulus 3 Utrum licitum sit dare et accipere pecuniam pro spiritualibus actibus

È lecito dare e ricevere del danaro

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod lici­ tum sit dare et accipere pecuniam pro spiri­ tualibus actibus. l . Usus enim prophetiae est spiritualis actus. Sed pro usu prophetiae olim aliquid dabatur, ut patet l Reg. 9 [7-8], et 3 Reg. 14 [3]. Ergo videtur quod liceat dare et accipere pecuniam pro actu spirituali. 2. Praeterea, oratio, praedicatio, laus divina sunt actus maxime spirituales. Sed ad impe­ trandum orationum suffragia pecunia datur sanctis viris, secundum illud Luc. 16 [9],facite vobis amicos de mammona iniquitatis. Prae­ dicatoribus etiam spiritualia seminantibus temporalia debentur, secundum apostolum, l ad Cor. 9 [ 1 1 ]. Celebrantibus etiam divinas laudes in ecclesiastico officio, et processiones facientibus, aliquid datur, et quandoque annui redditus ad hoc assignantur. Ergo licitum est pro spiritualibus actibus accipere aliquid. 3. Praeterea, scientia non est minus spiritualis quam potestas. Sed pro usu scientiae licet pe­ cuniam accipere, sicut advocato licet vendere iustum patrocinium, et medico consilium sa­ nitatis, et magistro officium doctrinae. Ergo, pari ratione, videtur quod liceat praelato ac­ cipere aliquid pro usu spiritualis suae potesta­ tis, puta pro correctione, vel dispensatione, vel aliquo huiusmodi. 4. Praeterea, religio est status spiritualis per­ fectionis. Sed in aliquibus monasteriis aliquid

Sembra di sì. Infatti: l. L'esercizio del dono profetico è un atto spi­ rituale. Eppure per l'esercizio della profezia si usava dare un compenso, come risulta da l Sam 9 [7] e l Re 1 4 [3] . Quindi sembra lecito dare e ricevere del danaro per un atto di ordine spirituale. 2. La preghiera, la predicazione e la lode divi­ na sono degli atti eminentemente spitituali. Ma per impetrare il suffragio delle preghiere si usa dare del danaro alle persone sante, come è detto in Le 1 6 [9] : Procuratevi amici con la disonesta riccheua. Inoltre ai predicatori che seminano il bene spirituale sono dovuti i soc­ corsi temporali, come dice Paolo (l Cor 9, 1 1 ) Infine a coloro che cantano le lodi di Dio nel­ l'ufficio ecclesiastico e ai partecipanti alle pro­ cessioni viene dato un compenso: anzi, talora vengon� assegnate per questo delle rendite annue. E lecito quindi ricevere un compenso per degli atti di ordine spirituale. 3. La scienza non è meno spirituale dell'auto­ rità. Ma per l'uso della scienza è lecito riceve­ re del danaro: all' avvocato, p. es., è lecito vendere il suo giusto patrocinio, come al me­ dico è lecito vendere il suo consiglio e al maestro il suo insegnamento. Quindi per lo stesso motivo sembra lecito a un prelato rice­ vere qualcosa per l'uso della sua autorità spi­ rituale, cioè per le correzioni, le dispense o altre cose del genere.

Articolo 3

per atti di ordine spirituale?

.

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ab his qui recipiuntur exigitur. Ergo licet pro spiritualibus aliquid exigere. Sed contra est quod dicitur l , q. l [Gratianus, Decretum, p. 2, causa l , q. l , can . 1 0 1 ] ,

quidquid invisibilis gratiae consolatione tri­ buitur, mmquam quaestibus, vel quibuslibet praemiis, venundari penitus debet. Sed omnia huiusmodi spiritualia per invisibilem gratiam tribuuntur. Ergo non licet ea quaestibus vel praemiis venundari. Respondeo dicendum quod sicut sacramenta dicuntur spiritualia quia spiritualem conferunt gratiam, ita etiam quaedam alia dicuntur spi­ ritualia quia ex spirituali procedunt gratia et ad eam disponunt. Quae tamen per hominum ministerium exhibentur, quos oportet a po­ pulo sustentari, cui spiritualia administrant, secundum illud l ad Cor. 9 [7], quis militat

suis stipendiis unquam? Quis pascit gregem, et de lacte gregis non manducat? Et ideo ven­

dere quod spirituale est in huiusmodi actibus, aut emere, simoniacum est, sed accipere aut dare aliquid pro sustentatione ministrantium spiritualia, secundum ordinationem Ecclesiae et consuetudinem approbatam, licitum est; ita tamen quod desit intentio emptionis et vendi­ tionis; et quod ab invitis non exigatur per sub­ tractionem spiritualium quae sunt exhibenda, haec enim haberent quandam venditionis spe­ ciem. - Gratis tamen spiritualibus prius exhi­ bitis, licite possunt statutae et consuetae obla­ tiones, et quicumque alii proventus, exigi a nolentibus et valentibus solvere, auctoritate superioris interveniente. Ad primum ergo dicendum quod, sicut Hiero­ nymus dicit, Super Michaeam [ l super 3,9], munera quaedam sponte exhibebantur bonis prophetis ad sustentationem ipsorum, non quasi ad emendum prophetiae usum, quem tamen pseudoprophetae retorquebant ad quaestum. Ad secundum dicendum quod illi qui dant eleemosynas pauperibus ut orationum ab ipsis suffragia impetrent, non eo tenore dant quasi intendentes orationes emere, sed per gra­ tuitam beneficentiam pauperum animas pro­ vocant ad hoc quod pro eis gratis et ex ca­ ritate orent. - Praedicantibus etiam temporalia debentur ad sustentationem praedicantium, non autem ad emendum praedicationis ver­ bum. Unde super illud l ad Tim. 5 [ 1 7], qui bene praesunt presbyteri etc., dicit Glossa

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4. La vita religiosa è uno stato di perfezione spirituale. Ma in certi monasteri i religiosi esi­ gono qualcosa dai postulanti per accettarli . Quindi è lecito esigere un compenso per cose di ordine spirituale. In contrario: nei Canoni si legge: «Tutto ciò che viene elargito dalla consolazione della grazia invisibile non deve essere mai venduto per un guadagno o per un compenso qual­ siasi». Ma tutti i beni spirituali di cui stiamo parlando sono elargiti dalla grazia invisibile. Quindi non è lecito venderli per un guadagno o per dei compensi. Risposta: come i sacramenti sono detti spiri­ tuali perché conferiscono la grazia, così anche altre cose sono dette spirituali perché derivano dalla grazia, che è spirituale, o ad essa dispon­ gono. Queste cose però vengono elargite attra­ verso il ministero di uomini che devono essere mantenuti dal popolo al quale essi ammi­ nistrano i beni spirituali, come è detto in l Cor 9 [ 7] : Chi mai presta servizio militare a

proprie spese? O chi fa pascolare un gregge senza cibarsi de/ latte del gregge ? Quindi è un

atto di simonia vendere o comprare ciò che di spirituale si trova in questi atti, mentre è cosa lecita prendere o dare un compenso per il so­ stentamento di chi impartisce i beni spirituali, seguendo le norme della Chiesa e le consuetu­ dini legittime. Si deve però escludere l'inten­ zione di comprare e di vendere, e non si deve costringere chi non vuoi dare ricorrendo alla sottrazione dei beni spirituali da impartire. Ciò infatti darebbe alla cosa l'aspetto di un com­ mercio. - Una volta però che i beni spirituali sono stati impartiti gratuitamente, è lecito in seguito esigere, con l'intervento dell' autorità superiore, da chi può ma non vuole, le contri­ buzioni stabilite e consuete. Soluzione delle difficoltà: l . Come dice Giro­ lamo, certe offerte erano date ai veri profeti per i l loro sostentamento, non per pagare l' esercizio del dono profetico; i falsi profeti invece vi cercavano un guadagno. 2. Coloro che fanno l'elemosina ai poveri per ottenere il suffragio delle loro preghiere non lo fanno con l'intenzione di pagare la preghie­ ra, ma con una beneficenza gratuita intendono sollecitare le anime dei poveri a pregare per loro generosamente e caritatevolmente. - Ai predicatori poi vanno dati dei beni temporali per i l loro mantenimento, non per pagare la

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[ord. et Lomb.; Serm. ad pop. 46,2], necessi­ tatis est accipere unde vivitw; caritatis est praebere, non tamen venale est Evangelium, ut pro his praedicetur. Si enim sic vendunt, magnam rem vili vendunt pretio. Similiter etiam aliqua temporalia dantur Deum laudan­ tibus in celebratione ecclesiastici officii, sive pro vivis sive pro mortuis, non quasi pretium, sed quasi sustentationis stipendium. Et eo etiam tenore pro processionibus faciendis in aliquo funere aliquae eleemosynae recipiun­ tur. - Si autem huiusmodi pacto interveniente fiant, aut etiam cum intentione emptionis vel venditionis, simoniacum esset. Unde illicita esset ordinatio si in aliqua Ecclesia statueretur quod non fieret processio in funere alicuius nisi solveret certam pecuniae quantitatem, quia per tale statutum praecluderetur via gra­ tis officium pietatis aliquibus impendendi. Magis autem licita esset ordinatio si statuere­ tur quod omnibus certam eleemosynam danti­ bus talis honor exhiberetur, quia per hoc non praecluderetur via aliis exhibendi. Et prae­ terea prima ordinatio habet speciem exactio­ nis, secunda vero habet speciem gratuitae recompensationis. Ad tertium dicendum quod ille cui committi­ tur spiritualis potestas, ex officio obligatur ad usum potestatis sibi commissae in spiritua­ lium dispensatione, et etiam pro sua sustenta­ tione statuta stipendia habet ex redditibus ecclesiasticis. Et ideo si aliquid acciperet pro usu spiritualis potestatis, non intelligeretur locare operas suas, quas ex debito suscepti of­ ficii debet impendere, sed intelligeretur ven­ dere ipsum spiritualis gratiae usum. Et propter hoc, non licet pro quacumque dispensatione aliquid accipere; neque etiam pro hoc quod suas vices committant; neque etiam pro hoc quod suos subditos con·igant, vel a corrigendo desistant. Licet tamen eis accipere procuratio­ nes quando subditos visitant, non quasi pre­ tium correctionis, sed quasi debitum stipen­ dium. - Ille autem qui habet scientiam, non suscipit tamen hoc officium ex quo obligetur aliis usum scientiae impendere. Et ideo licite potest pretium suae doctrinae vel consilii ac­ cipere, non quasi veritatem aut scientiam vendens sed quasi operas suas locans. - Si autem ex officio ad hoc teneretur, intelligere­ tur ipsam veritatem vendere, unde graviter peccaret. Sicut patet in illis qui instituuntur in -

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predicazione. Da cui, a proposito di l Tm 5 [ 17]: I presbiteri che esercitano ben,e la presi­ denza... , le parole della Glossa: «E imposto dalla necessità accettare di che vivere, ed è imposto dalla carità offrirlo: e tuttavia il Van­ gelo non è una cosa venale, così da essere predicato per questo. Se infatti lo si vendesse a questo scopo, si venderebbe una cosa di valore a un prezzo vile». - Parimenti anche le elargizioni di beni temporali che si fanno a coloro che lodano Dio con l'ufficio divino, sia per i vivi che per i morti, non sono date come paga, ma come contributo per il manteni­ mento. Ed è con questa intenzione che vengo­ no accettate le elemosine che si è soliti dare per certi trasporti funebri. - Se però queste cose vengono fatte in seguito a un contratto, oppure con l'intenzione di comprare o di ven­ dere, sono atti di simonia. Perciò sarebbe ille­ cito che in una chiesa venisse stabilita la norma di non fare il trasporto funebre se non viene pagata una certa quota: poiché con tale norma si eliminerebbe la possibilità di presta­ re gratuitamente ad alcuni questo servizio di carità. La norma sarebbe invece più lecita se si stabilisse che a tutti coloro che daranno una certa elemosina verrà usato un certo tratta­ mento particolare: così infatti non si elimine­ rebbe la possibilità di concederlo anche ad altri. Inoltre, mentre la prima norma si presen­ ta come un'imposizione, la seconda si presen­ ta invece come un compenso gratuito. 3. Colui al quale è stato affidato un potere spiri­ tuale è obbligato dal suo ufficio a esercitare l'autorità ricevuta; e per il suo sostentamento ha dei proventi dalle rendite ecclesiastiche. Se quindi uno accettasse qualcosa per l'esercizio della sua autorità spirituale mostrerebbe non l'intenzione di esercitare le funzioni inerenti per dovere all'ufficio da lui accettato, ma di vende­ re l'esercizio stesso della grazia spirituale. Per cui non è lecito ai superiori percepire un com­ penso per una qualsiasi dispensa; né per il tatto che delegano ad altri le loro funzioni; e neppure perché correggono i loro sudditi, o perché si astengono dal correggerli. Tuttavia possono ricevere le provvigioni quando visitano i loro sudditi, non come paga del loro intervento di­ sciplinare, ma come doveroso contributo. - Chi invece possiede la scienza, non riceve per que­ sto un ufficio che lo obblighi a comunicarla agli altri. Quindi egli può ricevere lecitamente la

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aliquibus ecclesiis ad docendum clericos Ec­ clesiae et alios pauperes, pro quo ab Ecclesia beneficium recipiunt, a quibus non licet eis aliquid recipere, nec ad hoc quod doceant, nec ad hoc quod aliqua festa faciant vel praetermittant. Ad quartum dicendum quod pro ingressu mo­ nasterii non licet aliquid exigere vel accipere quasi pretium. Licet tamen, si monasterium sit tenue, quod non sufticiat ad tot personas nutriendas, gratis quidem ingressum mona­ sterii exhibere, sed accipere aliquid pro victu personae quae in monasterio fuerit recipien­ da, si ad hoc monasterii non sufficiant opes. Similiter etiam licitum est si propter devotio­ nem quam aliquis ad monasterium ostendit largas eleemosynas faciendo, facilius in mo­ nasterio recipiatur; sicut etiam licitum est e converso aliquem provocare ad devotionem monasterii per temporalia beneficia, ut ex hoc inclinetur ad monasterii ingressum; licet non sit licitum ex pacto aliquid dare vel recipere pro ingressu monasteri i, ut habetur l , q. 2, cap. Quam pio [Gratianus, Decretum, p. 2, causa l , q. 2, can. 2].

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paga del suo insegnamento o del suo consiglio, non come se volesse vendere la verità o la scienza, ma per prestare la sua opera. - Se però egli fosse tenuto a ciò per ufficio, allora mostre­ rebbe di voler vendere la verità: per cui pecche­ rebbe gravemente. Come è evidente nel caso di coloro che in certe chiese sono deputati a inse­ gnare ai chierici e agli altri poveri della città, per il quale insegnamento vengono dotati di un beneficio ecclesiastico: costoro non possono ricevere nulla, né per l'insegnamento, né per la celebrazione o l'omissione di certe solennità. 4. Per l'ingresso in monastero non è lecito esi­ gere o percepire qualcosa come compenso. Se però il monastero è così povero da non bastare a nutrire un così gran numero di persone, pur concedendo il libero ingresso in monastero è lecito ricevere qualcosa per il vitto di colui che chiede di essere ticevuto, sempre che le risorse del monastero siano insufficienti. - Parimenti è lecito ricevere con più facilità una persona per la devozione che mostra verso il monastero facendo ad esso larghe elemosine; come pure è lecito, al contrario, sollecitare la devozione di una persona verso il proprio monastero median­ te benefici temporali, per disporla a entrarvi; sebbene non sia lecito, a norma dei Canoni, dare o ricevere qualcosa per l'entrata in mona­ stero a modo di contratto.

Articulus 4 Utrum licitum sit pecuniam accipere pro bis quae sunt spiritualibus annexa

È lecito accettare denaro per i beni connessi con le cose spirituali?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod li­ citum sit pecuniam accipere pro his quae sunt spiritualibus annexa. l . Omnia enim temporalia videntur esse spiri­ tualibus annexa, quia temporalia sunt propter spiritualia quaerenda. Si ergo non licet vendere ea quae sunt spiritualibus annexa, nihi1 tempo­ rale vendere licebit. Quod patet esse falsum. 2. Praeterea, nihil videtur magis spiritualibus annexum quam vasa consecrata. Sed ea licet vendere pro redemptione captivorum, ut Am­ brosius dicit [De off. l ,28]. Ergo licitum est vendere ea quae sunt spiritualibus annexa. 3 . Praeterea, spiiitualibus annexa videntur ius sepulturae, ius patronatus, et ius primogenitu­ rae secundum antiquos (quia primogeniti, ante legem, sacerdotis officio fungebantur), et etiam ius accipiendi decimas. Sed Abraham

Sembra di sì. Infatti: l . Tutti i beni temporali sono connessi con quelli spirituali: poiché i beni temporali vanno cercati in vista di quelli spirituali. Se quindi non è lecito vendere i beni annessi a quelli spi­ rituali non si può vendere nulla. TI che è falso. 2. Nulla più dei vasi consacrati è connesso con le cose spirituali. Eppure è possibile ven­ dere tali vasi per redimere i prigionieri, come afterma Ambrogio. Quindi è lecito vendere i beni che sono connessi con le cose spirituali. 3. Le cose connesse con i beni spirituali sono il diritto di sepoltura, il diritto di patronato e, per gli antichi, il diritto di primogenitura (per­ ché i primogeniti, prima della legge mosaica, avevano l'ufficio di sacerdoti) e finalmente il diritto di riscuotere le decime. Ora, Abramo comprò da Efron per la sepoltura una spelon-

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emit ab Ephron speluncam duplicem in sepul­ turam. Ut habetur Gen. 23 [8 sqq.]. lacob autem emit ab Esau ius primogeniturae, ut habetur Gen. 25 [3 1 sqq.]. Ius etiam patrona­ tus cum re vendita transit, in feudum concedi­ tur. Decimae etiam concessae sunt quibusdam militibus, et redimi possunt. Praelati interdum retinent sibi ad tempus fructus praebendarum quas conferunt, cum tamen praebendae sint spiritualibus annexae. Ergo licet emere et vendere ea quae sunt spiritualibus annexa. Sed contra est quod dicit Paschalis Papa, et habetur l , qu. 3, cap. Si quis obiecerit [Gratia­ nus, Decretum, p. 2, causa l , q. 3, can. 7], quisquis eorum vendidit alterwn sine quo nec altentm provenit, neutrum invenditum dere­ linquit. Nullus ergo emat ecclesiam vel prae­ bendam, vel aliquid ecclesiasticum. Respondeo dicendum quod aliquid potest esse spiritualibus annexum dupliciter. Uno modo, sicut ex spiritualibus dependens, sicut habere beneficia ecclesiastica dicitur spiritua­ libus annexum quia non competit nisi habenti officium clericale. Unde huiusmodi nullo mo­ do possunt esse sine spiritualibus. Et propter hoc, ea nullo modo vendere licet, quia, eis venditis, intelliguntur etiam spiritualia vendi­ tioni subiici. Quaedam autem sunt annexa spiritualibus inquantum ad spiritualia ordi­ nantur, sicut ius patronatus, quod ordinatur ad praesentandum clericos ad ecclesiastica beneficia; et vasa sacra, quae ordinantur ad sacramentorum usum. Unde huiusmodi non praesupponunt spiritualia, sed magis ea ordi­ ne temporis praecedunt. Et ideo aliquo modo vendi possunt, non autem inquantum sunt spiritualibus annexa. Ad primum ergo dicendum quod omnia tem­ poralia annectuntur spiritualibus sicut fini. Et ideo ipsa quidem temporalia vendere licet, sed ordo eorum ad spiritualia sub venditione cadere non debet. Ad secundum dicendum quod etiam vasa sacra sunt spiritualibus annexa sicut fini. Et ideo eorum consecratio vendi non potest, tamen, pro necessitate Ecclesiae et pauperum, materia eorum vendi potest; dummodo, prae­ missa oratione, prius confringantur; quia post confractionem non intelliguntur esse vasa sacra. sed purum metallum. Unde si ex eadem materia similia vasa iterum reintegrarentur, indigerent iterum consecrari.

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ca doppia (Gen 23,8). Giacobbe, da parte sua, comprò da Esaù il diritto di primogenitura (Gen 25,3 1). E anche il diritto di patronato passa ad altri con la vendita, e viene concesso in feudo. Anche le decime poi furono in que­ sto modo concesse a dei soldati, e possono essere riscattate. Finalmente i prelati talora ritengono per sé i frutti delle prebende che devono conferire: eppure le prebende sono connesse con delle cose spirituali. Quindi è lecito comprare e vendere beni connessi con cose spirituali. In contrario: papa Pasquale II afferma: «Uno potrebbe obiettare che chiunque vende una cosa con la quale è impossibile non venderne un'altra. non può non venderle entrambe. Per­ ciò nessuno compri una chiesa, una prebenda, o qualsiasi altro bene ecclesiastico». Risposta: un bene può essere connesso con le cose spirituali in due modi. Primo, come di­ pendente da esse: nel modo in cui ad es. il possesso dei benefici ecclesiastici non è dato che a una persona investita di un ufficio cleri­ cale. Perciò questi beni non possono essere mai disgiunti dalle cose spirituali. Quindi in nessun modo può essere lecito venderli , poiché venderli significa mettere in vendita anche le cose spirituali connesse. Ci sono invece dei beni che sono connessi con dei beni spirituali in quanto sono ad essi ordinati: tali sono ad es. il diritto di patronato, che consiste nel presentare dei chierici ai benefici ecclesia­ stici, e i vasi sacri, ordinati all'uso dei sacra­ menti. Perciò questi beni non presuppongono le cose spirituali, ma piuttosto in ordine di tempo le precedono. Essi quindi possono in qualche modo essere venduti, non però in quanto sono connessi con dei beni spirituali. Soluzione delle difficoltà: l . I beni temporali sono tutti connessi con quelli spirituali sotto l'aspetto del fine. Perciò essi in quanto beni temporali possono essere sempre venduti, mentre non può mai essere venduta la loro connessione con i beni spirituali. 2. Anche i vasi sacri sono annessi ai beni spi­ rituali per il fine a cui sono ordinati. Per cui non si può vendere la loro consacrazione; in­ vece per le necessità della Chiesa e dei poveri si può vendere la loro materia: purché, dopo aver pregato, vengano spezzati; poiché, una volta spezzati, non vanno più considerati vasi sacri, ma semplice metallo. Se infatti con la

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Ad tertium dicendum quod spelunca duplex quam Abraham emit in sepulturam, non ha­ betur quod erat terra consecrata ad sepelien­ dum. Et ideo Iicebat Abrahae terram illam emere ad usum sepulturae, ut ibi institueret sepulcrum, sicut etiam nunc liceret emere aliquem agrum communem ad instituendum ibi coemeterium, vel etiam Ecclesiam. Quia tamen etiam apud gentiles loca sepulturae deputata religiosa reputabantur, si Ephron pro iure sepulturae pretium intendit accipere, pec­ cavit vendens, licet Abraham non peccavelit emens, quia non intendebat emere nisi terram communem. Licet etiam nunc terram ubi quondam fuit Ecclesia, vendere aut emere in casu necessitatis, sicut et de materia vasorum sacrorum dictum est [ad 2]. Vel excusatur Abraham quia in hoc redemit suam vexatio­ nem. Quamvis enim Ephron gratis ei se­ pulturam offerret, perpendit tamen Abraham quod gratis recipere sine eius offensa non posset. - Ius autem primogeniturae debebatur Iacob ex divina electione, secundum illud Malach. l [2], Iacob dilexi, Esau odio habui. Et ideo Esau peccavit primogenita vendens, Iacob autem non peccavit emendo, quia intelligitur suam vexationem redemisse. - Ius autem patronatus per se vendi non potest, nec in feudum dari, sed transit cum villa quae venditur vel conceditur. lus autem spirituale accipiendi decimas non conceditur laicis, sed tantummodo res temporales quae nomine decimae dantur, ut supra [q. 87 a. 3] dictum est. - Circa collationem vero beneficiorum, sciendum est quod si episcopus, antequam alicui beneficium offerat, ob aliquam causam ordinaverit aliquid subtrahendum de fructibus benefi c i i conferendi et in pios usus expendendum, non est illicitum. Si vero ab eo cui beneficium offert requirat aliquid sibi exhibeli de fructibus illius beneficii, idem est ac si aliud munus ab eo exigeret, et non caret vitio simoniae.

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stessa materia venissero ricomposti dei vasi consimili, sarebbe necessario ripetere la con­ sacrazione. 3. La spelonca doppia che Abramo comprò per la sepoltura non risulta che fosse una terra consacrata per seppellire. Perciò ad Abramo era lecito comprare quella terra per farvi un sepolcro: come anche adesso sarebbe lecito comprare un campo qualsiasi per costruirvi un cimitero o una chiesa. Tuttavia, siccome anche presso i Pagani i luoghi deputati alla sepoltura erano considerati sacri, se Efron intendeva farsi pagare per il diritto di sepoltu­ ra, con la vendita egli commise peccato; non peccò invece Abramo nell'acquisto, poiché egli non intendeva comprare altro che un ter­ reno profano. Del resto anche oggi, in caso di necessità, è lecito vendere o comprare un ter­ reno dove un tempo c'era una chiesa, come sopra si è detto per la materia dei vasi sacri. Oppure si potrebbe scusare Abramo dal pec­ cato per il fatto che egli in tal modo preveniva un possibile affronto. Sebbene infatti Efron gli offrisse gratuitamente la sepoltura, tuttavia Abramo comprese che non avrebbe potuto accettarla senza arrecargli un'offesa. - Il dirit­ to di primogenitura era dovuto a Giacobbe per un'elezione divina, secondo Ml l [2]: Ho

amato Giacobbe, e invece ho odiato Esaù.

Quindi Esaù, vendendo la primogenitura, commise peccato: non però Giacobbe nel comprarla, poiché egli intendeva prevenire contestazioni. - n diritto di patronato di per sé non può essere né venduto né dato in feudo, ma passa ad altri col territorio che è venduto o concesso. Inoltre, come sopra si è già notato, il diritto spirituale [o ecclesiastico] di riscuo­ tere le decime non viene mai concesso ai laici, ma solo si concedono loro dei beni tem­ porali che vanno sotto il nome di decime. - A proposito poi del conferimento dei benefici dobbiamo ritenere che se un vescovo ordina di sottrarre qualcosa dai proventi di un benefi­ cio per destinarli ad usi pii prima di offìirlo a un titolare, non fa nulla di illecito. Se invece egli chiedesse una parte dei frutti del benefi­ cio alla persona a cui lo ha offetto, è come se pretendesse da lui un compenso, per cui non eviterebbe il peccato di simonia.

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Articulus 5 Utrum liceat spiritualia dare pro munere quod est ab obsequio vel a lingua

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod liceat spiritualia dare pro munere quod est ab obsequio vel a lingua. l . Dicit enim Gregorius, in Registro [3, I l , 1 8; cf. Gratianus, Decretum, p. 2, causa 1 2, q. 2, can. 67], ecclesiasticis utilitatibus deservien­ tes ecclesiastica dignum est remuneratione gaudere. Sed deservire ecclesiasticis utilitati­ bus pertinet ad munus ab obsequio. Ergo vi­ detur quod licitum sit pro obsequio accepto ecclesiastica beneficia largiri. 2. Praeterea, sicut camalis videtur esse inten­ tio si quis alicui det beneficium ecclesiasti­ cum pro suscepto servitio, ita etiam si quis det intuitu consanguinitatis. Sed hoc non videtur esse simoniacum, quia non est ibi emptio et venditio. Ergo nec primum. 3. Praeterea, illud quod solum ad preces ali­ cuius fit, gratis fieri videtur, et ita non videtur habere locum simonia, quae in emptione et venditione consistit. Sed munus a lingua in­ telligitur si quis ad preces alicuius ecclesiasti­ cum beneficium conferat. Ergo hoc non est simoniacum. 4. Praeterea, hypocritae spiritualia opera fa­ ciunt ut laudem humanam consequantur, quae videtur ad munus linguae pertinere. Nec ta­ men hypocritae dicuntur simoniaci. Non ergo per munus a lingua simonia contrahitur. Sed contra est quod Urbanus Papa dicit [Ur­ banus 11, ep. 1 7 Ad Lucium Praepos. S. Iu­ ventii], quisquis res ecclesiasticas, non ad quod institutae sunt, sed ad propria lucra, munere linguae vel obsequii vel pecuniae lar­ gitur vel adipiscitur, simoniacus est. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 2] dictum est, nomine pecuniae intelligitur cuius­ cumque pretium pecunia mensurari potest. Manifestum est autem quod obsequium hominis ad aliquam utilitatem ordinatur quae potest pretio pecuniae aestimari, unde et pecu­ niaria mercede ministri conducuntur. Et ideo idem est quod aliquis det rem spiritualem pro aliquo obsequio temporali exhibito vel exhi­ bendo, ac si daret pro pecunia, data vel promissa, qua illud obsequium aestimmi pos­ set. Similiter etiam quod aliquis satisfaciat precibus alicuius ad temporalem gratiam

Articolo 5

È lecito dare cose spirituali in compenso di prestazioni personali o verbali?

Sembra di sì. Infatti: l . Gregorio afferma: «Coloro che sono addet­ ti al servizio ecclesiastico è giusto che godano delle ricompense ecclesiastiche». Ma essere addetti ai servizi ecclesiastici rientra nelle pre­ stazioni personali. Quindi sembra lecito con­ ferire i benefici ecclesiastici per le prestazioni personali ricevute. 2. Se uno conferisce un beneficio ecclesiasti­ co a una persona per i servizi da essa ricevuti, agisce per motivi carnali, come chi lo conferi­ sce per motivi di parentela. Ma quest'ultima cosa non è un atto di simonia: poiché manca ogni rapporto di compravendita. Quindi non lo è neppure la prima. 3. Ciò che viene compiuto solo per accogliere la domanda di qualcuno è da considerarsi compiuto gratuitamente: quindi è esclusa la simonia, che consiste in una compravendita. Eppure il conferimento di un beneficio eccle­ siastico per le preghiere di una persona è con­ siderato una prestazione verbale. Quindi tali prestazioni non sono simoniache. 4. Gli ipocriti compiono atti spirituali per con­ seguire la lode degli uomini, lodi che rientra­ no nelle prestazioni di lingua, o verbali. Ma non per questo gli ipocriti sono detti simonia­ ci. Quindi con le prestazioni di lingua non si commette simonia. In contrario: papa Urbano Il afferma: «Chiun­ que dà le cose ecclesiastiche non per lo scopo per cui furono istituite, ma le dà o le riceve per il proprio guadagno, dietro prestazioni verbali, personali o di danaro, è simoniaco». Risposta: come sopra si è detto, col termine danaro si intende «qualunque cosa che possa essere valutata in danaro». Ora, è evidente che la prestazione di un uomo è ordinata a un servizio che può essere valutato in danaro: infatti i servitori vengono assunti in seguito a una mercede pecuniaria. Perciò dare una cosa [o dignità] spirituale per un servizio di ordine temporale prestato, o da prestarsi, equivale a conferire tale cosa per il danaro, dato o pro­ messo, col quale si può valutare tale presta­ zione. Parimenti il fatto che vengano accolte le istanze presentate per ottenere un favore di ordine temporale è ordinato a un vantaggio

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quaerendam, ordinatur ad aliquam utilitatem quae potest pecuniae pretio aestimari . Et ideo sicut contrahitur simonia accipiendo pecuniam vel quamlibet rem exteriorem, quod pertinet ad munus a manu, ita etiam contrahitur per munus a lingua, vel ab obsequio. Ad primum ergo dicendum quod si aliquis cle­ ricus alicui praelato impendat obsequium ho­ nestum et ad spiritualia ordinatum, puta ad Ec­ clesiae utilitatem vel ministrorum eius auxi­ lium, ex ipsa devotione obsequii redditur di­ gnus ecclesiastico beneficio, sicut et propter alia bona opera. Unde non intelligitur esse mu­ nus ab obsequi. Et in hoc casu loquitur Gre­ gorius. Si vero sit inhonestum obsequium, vel ad carnalia ordinatum, puta quia servivit prae­ lato ad utilitatem consanguineorum suorum vel patrimonii sui, vel ad aliquid huiusmodi, esset munus ab obsequio, et simoniacum. Ad secundum dicendum quod si aliquis aliquid spirituale alicui conferat gratis propter con­ sanguinitatem, vel quamcumque camalem af­ fectionem, est quidem illicita et camalis col­ latio, non tamen simoniaca, quia nihil ibi ac­ cipitur, unde hoc non pertinet ad contractum emptionis et venditionis, in quo fundatur simonia. Si tamen aliquis det beneficium ec­ clesiasticum alicui hoc pacto, vel intentione, ut exinde suis consanguineis provideat, est manifesta simonia. Ad tertium dicendum quod munus a lingua dicitur vel ipsa laus pertinens ad favorem hu­ manum, qui sub pretio cadit, vel etiam preces ex quibus acquiritur tavor humanus, vel contra­ rium evitatur. Et ideo si aliquis principaliter ad hoc intendat, simoniam committit. - Vìdetur autem ad hoc principaliter intendere qui preces pro indigno porrectas exaudit. Unde ipsum factum est simoniacum. - Si autem preces pro digno porrigantur, ipsum factum non est simo­ niacum, quia subest debita causa ex qua illi pro quo preces porriguntur, spirituale aliquid con­ feratur. Potest tamen esse simonia in inten­ tione, si non anendatur ad dignitatem personae, sed ad favorem humanum. - Si vero aliquis pro se rogat ut obtineat curam animarum, ex ipsa praesumptione redditur indignus, et sic preces sunt pro indigno. Licite tamen potest aliquis, si sit indigens, pro se beneficium ecclesiasticum petere sine cura animarum. Ad quartum dicendum quod hypocrita non dat aliquid spirituale propter laudem, sed

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che può essere valutato in danaro. Perciò, come si commette simonia accettando danaro o qualsiasi altro bene esterno, che rientra nelle «prestazioni in danaro», così la si commette anche con le «prestazioni verbali » , o con quelle «personali». Soluzione delle difficoltà: l . Se un chierico ren­ de a un prelato delle prestazioni personali one­ ste e ordinate alle sue funzioni spirituali, cioè al bene della Chiesa o a vantaggio dei suoi mini­ stri, dallo zelo stesso usato in questo servizio è reso degno di un beneficio ecclesiastico, come anche da altre eventuali opere di bene. Perciò qui non vi è un compenso per una prestazione personale. E questo è appunto il caso di cui parla Gregorio. Se invece si tratta di una presta­ zione personale disonesta o ordinata a interessi terreni, come nel caso in cui costui avesse servi­ to il prelato a vantaggio dei suoi parenti, o del suo patrimonio, o per altre cose del genere, allora si avrebbe un compenso per una pre­ stazione personale, e quindi un atto di simonia 2. Se si conferisce gratuitamente una dignità spirituale a qualcuno per motivi di parentela, o di qualsiasi altra affezione carnale, il conferi­ mento è certamente illecito e carnale, ma non è simoniaco: poiché nel caso non si percepisce nulla, e quindi ciò non rientra nel contratto di compravendita, sul quale si fonda la simonia. Se uno invece conferisce un beneficio eccle­ siastico a una persona con l'intenzione, tacita o espressa, di provvedere indirettamente ai propri parenti, allora la simonia è evidente. 3. Prestazioni verbali o di lingua si dicono o le lodi che ottengono il favore umano, il quale può essere ottenuto col danaro, oppure anche le suppliche con le quali si può ottenere tale favore, o evitare il disfavore. Se quindi uno mira principalmente a questo, commette si­ monia. - Ora, tale sembra essere precisamen­ te il caso di chi esaudisce delle suppliche fatte per un indegno. Per cui tale atto è simoniaco. - Se invece vengono fatte delle suppliche per una persona meritevole, il loro accoglimento non è un atto di simonia: poiché esistono i giusti motivi per conferire incarichi o beni spirituali a chi viene così raccomandato. Tut­ tavia la simonia può esserci nell ' intenzione, se uno concede la cosa mosso non dal valore della persona, ma dal favore umano. - S e invece uno facesse richiesta per s e medesimo, per ottenere un ufficio con cura d'anime, ne

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solum demonstrat, et simulando magis furtive surripit laudem humanam quam emat. Unde non videtur pertinere ad vitium simoniae.

Articulus 6 Utrum sit conveniens simoniaci poena ut privetur eo quod per simoniam acquisivit Ad sextum sic proceditur. Videtur quod non sit conveniens simoniaci poena ut privetur eo quod per simoniam acquisivit. l . S imonia enim committitur ex eo quod alicuius muneris interventu spiritualia acqui­ runtur. Sed quaedam sunt spiritualia quae semel adepta, non possunt amitti, sicut omnes characteres, qui per aliquam consecrationem imprimuntw·. Ergo non est conveniens poena ut quis privetur eo quod simoniace acquisivit. 2. Praeterea, contingit quandoque quod ille qui est episcopatum per simoniam adeptus, praeci­ piat subdito ut ab eo recipiat ordines, et videtur quod debeat ei obedire quandiu ab Ecclesia toleratur. Sed nullus debet aliquid recipere ab eo qui non habet potestatem conferendi. Ergo episcopus non amittit episcopalem potestatem si eam simoniace acquisivit. 3. Praeterea, nullus debet puniri pro eo quod non est factum eo sciente et volente, quia poe­ na debetur peccato, quod est voluntarium, ut ex supra [1-11 q. 74 aa. 1-2; q. 87 a. 7] dictis patet. Contingit autem quandoque quod aliquis simoniace consequitur aliquid spiri­ tuale procurantibus aliis, eo nesciente et no­ lente. Ergo non debet puniri per privationem eius quod ei collatum est. 4. Praeterea, nullus debet portare commodum de suo peccato. Sed si ille qui consecutus est beneficium ecclesiasticum per simoniam, restitueret quod percepit, quandoque hoc redundaret in utilitatem eorum qui fuerunt simoniae participes, puta quando praelatus et totum collegium in simoniam consensit. Ergo non semper est restituendum quod per simo­ niam acquiritur.

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sarebbe reso indegno dalla sua stessa presun­ zione, e quindi le sue suppliche sarebbero per un indegno. Uno però può chiedere lecita­ mente, se è nel bisogno, un beneficio eccle­ siastico senza cura d'anime. 4. L' ipocrita per la lode cercata non dà qual­ cosa di spirituale, ma solo delle apparenze: egli quindi non compra, ma piuttosto ruba furtivamente la lode umana. Perciò il suo pec­ cato non rientra nel vizio della simonia. Articolo 6

È giusto che i simoniaci siano puniti con la privazione di quanto hanno acquistato per via simoniaca?

Sembra di no. Infatti: l . Si commette simonia per il fatto che si acquistano dei beni spirituali dietro compen­ so. Ma ci sono dei beni spirituali che non si possono più perdere, una volta ricevuti: come il carattere che viene impresso con la consa­ crazione. Quindi non è giusto che uno sia punito con la privazione di quanto ha acqui­ stato per via simoniaca. 2. Talora può capitare che un vescovo eletto per via simoniaca comandi a un suddito di ricevere gli ordini da lui: e sembra che il sud­ dito sia tenuto a ubbidirgli, finché la Chiesa lo tollera. D'altra parte nessuno può ricevere una cosa da chi non ha il potere di conferirla. Quindi un vescovo non perde l ' autorità episcopale per averla acquistata in maniera simoniaca. 3. Nessuno deve essere punito per delle cose fatte a sua insaputa e contro la sua volontà: poiché la punizione è dovuta al peccato, che è un atto volontario, come si è visto in prece­ denza. Ora, capita talvolta che uno ottenga in maniera simoniaca un bene spirituale procu­ ratogli da altri a sua insaputa e contro la sua volontà. Perciò egli non va punito con la pri­ vazione del bene a lui conferito. 4. Nessuno deve trarre un vantaggio dal pro­ prio peccato. Ma se chi ha ricevuto un benefi­ cio ecclesiastico per via simoniaca lo resti­ tuisse, questo potrebbe andare a vantaggio di coloro che parteciparono al suo peccato: co­ me nel caso in cui il superiore e tutto il colle­ gio elettivo avessero acconsentito alla simo­ nia. Quindi non sempre è doveroso restituire ciò che fu acquistato per via simoniaca.

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La simonia

5 . Praeterea, quandoque aliquis per simoniam i n aliquo monasterio recipitur, et votum solemne ibi facit profitendo. Sed nullus debet absolvi ab obligatione voti propter culpam commissam. Ergo non debet monachatum amittere quem simoniace acquisivit. 6. Praeterea, exterior poena in hoc mundo non infligitur pro interiori motu cordis, de quo solius Dei est iudicare. Sed simonia committi­ tur ex sola intentione vel voluntate, unde et per voluntatem definitur, ut supra [a. l ad 2] dictum est. Ergo non semper debet aliquis privari eo quod simoniace acquisivit. 7. Praeterea, multo maius est promoveri ad maiora quam in susceptis permanere. Sed quandoque simoniaci, ex dispensatione, pro­ moventur ad maiora. Ergo non semper debent susceptis privari. Sed contra est quod dicitur l , q. l , cap. Si quis episcopus [Gratianus, Decretum, p. 2, causa l, q. l, can. 8], qui ordinatus est, nihil

ex ordinatione vel promotione quae est per negotiationem facta, proficiat, sed sit alienus a dignitate ve/ sollicitudine quam pecuniis acquisivit. Respondeo dicendum quod nullus potest licite retinere illud quod contra voluntatem domini acquisivit, puta si aliquis dispensator de rebus domini sui daret alicui contra volun­ tatem et ordinationem domini sui, ille qui acciperet licite retinere non posset. Dominus autem, cuius ecclesiarum praelati sunt di­ spensatores et ministri, ordinavit ut spiritualia gratis darentur, secundum illud Matth. l O [8], gratis accepistis, gratis date. Et ideo qui mu­ neris interventu spiritualia quaecumque as­ sequuntur, ea licite retinere non possunt. Insuper autem simoniaci, tam vendentes quam ementes spiritualia, aut etiam mediato­ res, aliis poenis puniuntur, scilicet infamia et depositione, si sint clerici; et excommunica­ tione, si sint laici; ut habetur l , q. l , cap. Si quis episcopus [Gratianus, Decretum, p. 2, causa l , q. l , can. 8; q. 3, can. 1 5]. Ad primum ergo dicendum quod ille qui simo­ niace accipit sacrum ordinem, recipit quidem characterem ordinis, propter efficaciam sa­ cramenti, non tamen recipit gratiam, neque ordinis executionem, eo quod quasi furtive suscepit characterem, contra principalis Do­ mini voluntatem. Et ideo est ipso iure suspen­ sus, et quoad se, ut scilicet de executione sui

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5. Capita che alcuni siano ricevuti in un dato monastero per via simoniaca, facendovi poi la professione solenne. Ora, nessuno deve essere sciolto dali' obbligo dei voti per una colpa commessa. Perciò uno non deve essere di­ messo dal monastero per il fatto che vi è en­ trato per via simoniaca. 6. In questo mondo non va mai inflitta una punizione esterna per i sentimenti interni del cuore, di cui Dio solo è giudice. Ma si com­ mette simonia anche solo con l'intenzione o con la volontà: di volontà infatti si parla nella sua definizione, come si è detto. Quindi non sempre uno deve essere privato di quanto pos­ sieçle per via simoniaca. 7. E più vantaggioso essere promossi a incari­ chi supetiori che rimanere in quelli già ticevuti. Ma talora i simoniaci, per una dispensa, vengo­ no promossi a incarichi superiori. Quindi non sempre devono essere privati di quelli ticevuti. In contrario: nei Canoni si legge: «Chi è già stato ordinato non ottenga alcun giovamento dall'ordinazione o dalla promozione mercan­ teggiata, ma sia allontanato dalla dignità o dall'incarico acquistato col danaro». Risposta: nessuno può lecitamente ritenere quanto ha acquistato contro la volontà del pa­ drone legittimo: se un amministratore, p. es., desse a qualcuno parte dei beni del suo pa­ drone contro la sua volontà, chi li ha ricevuti non potrebbe ritenerli lecitamente. Ora, il Si­ gnore, di cui i prelati delle varie chiese sono gli amministratori e i ministri, ha espressamente comandato che i beni spirituali siano dati gra­ tuitamente: Gratuitamente avete ricevuto, gra­ tuitamente date (Mt l 0,8). Perciò chi ha conse­ guito una qualsiasi realtà spirituale mediante un compenso, non può ritenerla lecitamente. Inoltre i simoniaci, sia quelli che vendono, sia quelli che comprano i beni spirituali, come anche gli stessi mediatori, sono puniti anche con altri castighi: con la deposizione e con l'infamia, se sono chierici; con la scomunica, se sono laici, come risulta dai Canoni. Soluzione delle difficoltà: l . Chi riceve per via simoniaca un ordine sacro ne riceve il carattere per l'efficacia del sacramento, ma non ne riceve la grazia, né la facoltà di eserci­ tarlo, poiché ne ha ricevuto il carattere per una specie di furto contro il volere del Signo­ re, che ne è il vero padrone. Perciò egli è sospeso di diritto: in foro interno, per cui non

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ordinis se non intrornittat; et quoad alios, ut scilicet nullus ei communicet in ordinis exe­ cutione; sive sit peccatum eius publicum, sive occultum. Nec potest repetere pecuniam quam turpiter dedit, licet alius iniuste deti­ neat. - Si vero sit simoniacus quia contulit ordinem simoniace, vel quia dedit vel recepit beneficium simoniace, vel fuit mediator si­ moniae, si est publicum, est ipso iure su­ spensus et quoad se et quoad alios; si autem est occultum, est suspensus ipso iure quoad se tantum, non autem quoad alios. Ad secundum dicendum quod nec propter praeceptum eius, nec etiam propter excom­ municationem, debet aliquis recipere ordinem ab episcopo quem scit simoniace promotum. Et si ordinetur, non recipit ordinis executio­ nem, etiam si ignoret eum esse simoniacum, sed indiget dispensatione. - Quamvis quidam dicunt [cf. Ioannes Teutonicus, Glossa ord. in Decretum, p. 2, causa l , q. l , can. l 08] quod, si non potest probare eum esse simoniacum, debet obedire recipiendo ordinem, sed non debet exequi sine dispensatione. - Sed hoc absque ratione dicitur. Quia nullus debet obe­ dire alicui ad communicandum sibi in facto illicito. Ille autem qui est ipso iure suspensus et quoad se et quoad alios, illicite confert or­ dinem. Unde nullus debet sibi communicare recipiendo ab eo, quacumque ex causa. Si autem ei non constat, non debet credere pec­ catum alterius, et ita cum bona conscientia debet ab eo ordinem recipere. - Si autem epi­ scopus sit simoniacus aliquo alio modo quam per promotionem suam simoniace factam, potest recipere ab eo ordinem, si sit occultum, quia non est suspensus quoad alios, sed solum quoad seipsum, ut dictum est [ad 1]. Ad tertium dicendum quod hoc quod aliquis privetur eo quod accepit, non solum est poena peccati, sed etiam quandoque est effectus acquisitionis iniustae, puta cum aliquis ernit rem aliquam ab eo qui vendere non potest. Et ideo si aliquis scienter et proplia sponte simo­ niace accipiat ordinem vel ecclesiasticum be­ neficium, non solum privatur eo quod accepit, ut scilicet careat executione ordinis et benefi­ cium resignet cum fructibus inde perceptis; sed etiam ulterius punitur, quia notatur infa­ mia; et tenetur ad restituendos fructus non so­ lum perceptos, sed etiam eos qui percipi po­ tuerunt a possessore diligenti ( quod tamen

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può esercitare l ' ordine ricevuto, e in foro esterno, per cui nessuno può comunicare con lui nell'esercizio dell'ordine. E questo qua­ lunque sia la colpa: pubblica od occulta. E neppure può reclamare il danaro dato in maniera disonesta: sebbene l'altro lo ritenga ingiustamente. - Se poi uno è simoniaco per aver conferito un ordine, oppure per aver dato o ricevuto un beneficio, o fatto da mediatore in maniera simoniaca, allora se la cosa è pub­ blica è sospeso di diritto, sia in foro interno che in foro esterno; se invece la cosa è occulta è sospeso soltanto in foro interno, ma non rispetto agli altri. 2. Uno non deve piegarsi a ricevere un ordine sacro da un vescovo di cui conosce la promo­ zione simoniaca, non badando né al suo pre­ cetto, né alla scomunica. E se ne riceve l' ordi­ nazione non riceve la facoltà di esercitare l'ordine, anche se non sapeva che il vescovo era simoniaco, ma ha bisogno di una dispen­ sa. - Alcuni però dicono che se l'interessato non può dimostrare che il vescovo è simonia­ co, deve ubbidire ricevendo gli ordini, ma non deve esercitarli senza una dispensa. - Tale opinione è però priva di fondamento. Poiché nessuno può ubbidire a una persona per coo­ perare con essa in un'azione illecita. Ora, chi è sospeso di diritto, sia in foro interno che in foro esterno, confetisce gli ordini illecitamen­ te. Quindi per nessun motivo uno può coope­ rare con lui ricevendone gli ordini. Se invece uno non è sicuro, non deve credere che il ve­ scovo sia in peccato: quindi deve ricevere gli ordini in buona coscienza. - Se però il vesco­ vo fosse simoniaco non per la simonia della sua promozione, ma per altri motivi, allora è possibile ricevere da lui gli ordini sacri, se il peccato è occulto: perché allora, come si è già notato, egli non è sospeso in foro esterno, ma solo in foro interno. 3. n fatto che uno venga privato di ciò che ha ricevuto non è soltanto la punizione di un peccato, ma talora è anche un effetto dell' ac­ quisto disonesto: tale è il caso, p. es., di chi compra una cosa da chi non ha il diritto di venderla. Per cui se uno scientemente e vo­ lontariamente riceve in modo simoniaco un ordine sacro o un beneficio ecclesiastico, non solo viene privato di ciò che ha ricevuto, così da essere costretto a cessare dall' esercizio dell'ordine e a restituire il beneficio con i frut-

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intelligendum est de tìuctibus qui supersunt deductis expensis factis causa tìuctuum, ex­ ceptis tìuctibus illis qui alias expensi sunt in utilitatem ecclesiae). - Si vero, eo nec volente nec sciente, per alios alicuius promotio simoniace procuratur, caret quidem ordinis executione, et tenetur resignare beneficium quod est consecutus, cum fructibus extantibus (non autem tenetur restituere fructus con­ sumptos, quia bona tide possedit), nisi forte inimicus eius fraudulenter pecuniam daret pro alicuius promotione, vel nisi ipse expresse contradixerit. Tunc enim non tenetur ad abrenuntiandum, nisi forte postmodum pacto consenserit, solvendo quod fuit promissum. Ad quartum dicendum quod pecunia, vel pos­ sessio, vel fructus simoniace accepti, debent restituì ecclesiae in cuius iniuriam data sunt, non obstante quod praelatus, vel aliquis de collegio illius ecclesiae, fui t i n culpa, quia eorum peccatum non debet aliis nocere. Ita tamen quod, quantum fieri potest, ipsi qui peccaverunt i nde commodum non conse­ quantur. Si vero praelatus et totum collegium sunt in culpa, debet cum auctoritate superioris vel pauperibus vel alteri ecclesiae erogari. Ad quintum dicendum quod si aliqui sunt in monasterio simoniace recepti, debent abre­ nuntiare. Et si eis scientibus commissa est si­ monia post Concilium generale, sine spe re­ stitutionis de suo monasterio repelluntur, et ad agendam perpetuam poenitentiam sunt in arctiori regula ponendi, vel i n aliquo loco eiusdem ordinis, si arctior ordo non invenire­ tur. - Si vero hoc fuit ante Concilium, debent in aliis locis eiusdem ordinis collocari. Et si hoc fieri non potest, dispensative debent in e isdem monasteri i s recipi, n e i n saeculo evagentur, mutatis tamen prioribus locis et i nferioribus assignatis. - Si vero ipsis igno­ rantibus, sive ante Concilium sive post, sint simoniace recepti, postquam renuntiaverint, possunt de novo reci p i , locis mutatis, ut dictum est. Ad sextum dicendum quod quoad Deum sola voluntas facit simoniacum, sed quoad poenam ecclesiasticam exteriorem, non punitur ut simoniacus, ut abrenuntiare teneatur, sed de­ bet de mala intentione poenitere. Ad septimum dicendum quod dispensare cum eo qui est scienter beneficiatus, solus Papa potest. In alii s autem casibus potest etiam

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ti già percepiti, ma è anche punito con la pub­ blica infamia, ed è tenuto a restituire non solo i frutti percepiti, bensì anche quelli che un possessore diligente avrebbe potuto ricavame (il che però va inteso dei frutti che rimangono una volta detratte le spese fatte per ottenerli, ed eccettuati i frutti che fossero già stati spesi a vantaggio della chiesa). - Se uno invece è stato promosso in maniera simoniaca senza volerlo e senza saperlo, per l ' interessamento di altri, viene certamente privato dell'eserci­ zio dell'ordine ed è tenuto a restituire il bene­ ficio con i frutti che rimangono, ma non è tenuto a restituire i frutti consumati, poiché era un possessore in buona fede. Diverso però è il caso se a versare maliziosamente il danaro per la promozione fu un suo nemico; oppure se egli espressamente fece opposizione. Allo­ ra, infatti, egli non è tenuto a rinunziare; a meno che in seguito non abbia acconsentito al contratto, pagando la somma promessa. 4. n danaro, i possessi e i tìutti ricevuti per via simoniaca devono essere restituiti alla chiesa che ne ha subito l 'ingiusta manomis­ sione, anche se il prelato o altri membri del clero di tale chiesa ne furono colpevoli: poi­ ché il loro peccato non deve nuocere agli altri. Tuttavia, per quanto è possibile, si deve fare in modo che i responsabili non ne abbiamo un vantaggio. Se poi la colpa ricade sul prela­ to e su tutto il clero, col permesso dei superio­ ri si deve erogare tutto ai poveri, o a un'altra chiesa. 5. Se qualcuno è stato ricevuto in un dato mo­ nastero in maniera simoniaca, è tenuto a uscir­ ne. E se la simonia fu commessa col suo con­ senso dopo il Concilio ecumenico, deve essere espulso dal suo monastero senza speranza di rientrarvi, ed essere posto a fare perpetua peni­ tenza in una regola più rigorosa; oppure, se non esiste un ordine più rigido, i n un' altra casa del medesimo ordine. - Se invece il tàtto risale a prima del Concilio, il responsabile deve essere confinato in un' altra casa del me­ desimo ordine. E se ciò non è possibile deve essere tenuto, attraverso una dispensa, nel suo stesso monastero, perché non vada girovagan­ do per il mondo, dopo essere stato però rimos­ so dal suo posto precedente e assegnato a posti più bassi. - Se tuttavia uno è stato ricevuto in maniera simoniaca a sua insaputa, sia prima che dopo il Concilio, dopo aver rinunziato può

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episcopus dispensare, ita tamen quod prius abrenuntiet quod simoniace acquisivit. Et tunc dispensationem consequatur vel parvam, ut habeat laicam communionem; vel ma­ gnam, ut, post poenitentiam, in alia ecclesia in suo ordine remaneat; vel maiorem, ut re­ maneat in eadem, sed in minoribus ordinibus; vel maximam, ut in eadem ecclesia etiam maiores ordines exequatur, non tamen praela­ tionem accipiat.

essere di nuovo accolto, con i mutamenti di luogo a cui abbiamo accennato. 6. Davanti a Dio basta l ' intenzione a rendere simoniaci; però quanto alla pena ecclesiastica esterna uno non è punito per questo come simoniaco così da dover rinunziare, ma è solo tenuto a pentirsi della sua cattiva intenzione. 7. Soltanto il papa può dispensare il beneficia­ rio che è simoniaco in maniera consapevole. Negli altri casi invece può dispensare anche il vescovo: a patto però che prima si rinunzi alle cose avute per via simoniaca. Allora il simo­ niaco riceverà la dispensa: o la piccola di­ spensa, che lo ammette alla comunione laica; o quella grande, che gli concede di rimanere nel proprio ordine in un'altra chiesa dopo la peni­ tenza; o quella maggiore, che gli concede di rimanere nella medesima chiesa, ma negli or­ dini minori; o addirittura la massima, che gli permette anche l'esercizio degli ordini maggio­ ri, senza però la facoltà di ottenere prelature.

QUAESTIO 1 0 1

QUESTIONE, 1 0 1

DE PIETATE

LA PIETA

Deinde, post religionem, considerandum est de pietate. Cuius opposita vitia ex ipsius con­ sideratione innotescunt. Circa pietatem ergo quaeruntur quatuor. Primo, ad quos pietas se extendat. Secundo, quid per pietatem aliqui­ bus exhibeatur. Tertio, utrum pietas sit spe­ cialis virtus. Quarto, utrum religionis obtentu sit pietatis officium praetermittendum.

Dopo la religione è logico trattare della pietà. E dal suo studio saranno messi in evidenza i vizi opposti. Sull' argomento ci poniamo quat­ tro quesiti: l . Quali sono le persone a cui si estende? 2. Quali sono i suoi compiti? 3. La pietà è una virtù speciale? 4. Per motivi reli­ giosi si possono trascurare i doveri della pietà?

Articulus l

Articolo l

Utrum pietas se extendat ad determinatas personas aliquorum hominum

La pietà si estende a determinate persone?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod pie­

Sembra di no. Infatti: l . Agostino insegna che «col termine pietà si è soliti intendere propriamente i l culto di Dio, che i Greci chiamano eusebeia». Ora, il culto di Dio non si riferisce a degli uomini, ma solo a Dio. Quindi la pietà non si estende a perso­ ne umane determinate. 2. Gregorio scrive: «La pietà nel suo giorno offre un convito, poiché riempie il cuore con le opere di misericordia>>. Ma le opere di mi­ sericordia vanno offerte a tutti, come nota Agostino. Quindi la pietà non si estende a certe persone in particolare.

tas non se extendat ad determinatas personas

aliquorum hominum. l . Dicit enim Augustinus, in l O De Civ. Dei [ 1 ], quod pietas proprie Dei cultus intelligi solet, quam Graeci eusebiam vocant. Sed Dei cultus non dicitur per comparationem ad ho­ mines, sed solum ad Deum. Ergo pietas non se extendit determinate ad aliquas hominum personas. 2. Praeterea, Gregorius dicit, in l Mor. [32],

pietas in die suo convivium exhibet, quia cordis viscera misericordiae operibus replet.

Q. 1 0 1 , A. l

La pietà

Sed opera misericordiae sunt omnibus exhi­ benda, ut patet per Augustinum, in l De doct. chr. [30]. Ergo pietas non se extendit determi­ nate ad aliquas speciales personas. 3. Praeterea, multae sunt aliae in humanis rebus communicationes praeter consanguinitatem et concivium communicationem, ut patet per phi­ losophum, in 8 Ethic. [ 1 1-12], et super quamli­ bet earum aliqua amicitia fundatur, quae videtur esse pietatis virtus, ut dicit Glossa [int., ord. et Lomb.], 2 ad Tlm. 3, super illud [5], Habentes quidem speciem pietatis. Ergo non solum ad consanguineos et concives pietas se extendit. Sed contra est quod Tullius dicit, in sua Rhe­ torica [2,53], pietas est per quam sanguine

iunctis, pan·iaeque benevolis, officium et dili­ gens tribuitur cultus.

Respondeo dicendum quod homo efficitur di­ versimode a1iis debitor secundum diversam eorum excellentiam, et diversa beneficia ab eis suscepta. In utroque autem Deus summum obtinet locum, qui et excellentissimus est, et est nobis essendi et gubernationis primum principium. Secondario vero nostri esse et gu­ bernationis principium sunt parentes et patria, a quibus et in qua et nati et nutriti sumus. Et ideo post Deum, maxime est homo debitor parentibus et patriae. Unde sicut ad religio­ nem pertinet cultum Deo exhibere, ita secun­ do gradu ad pietatern pertinet exhibere cultum parentibus et patriae. In cultu autem parentum includitur cultus omnium consanguineorum, quia etiam consanguinei ex hoc dicuntur quod ex eisdem parentibus processerunt, ut patet per philosophum, in 8 Ethic. [ 1 2,3]. In cultu autem palliae intelligitur cultus concivium, et omnium patriae amicorum. Et ideo ad hos principaliter pietas se extendit. Ad primum ergo dicendum quod in maiori includitur minus. Et ideo cultus qui Deo debetur includit in se, sicut aliquid particulare, cultum qui debetur parentibus. Unde dicitur Malach. l [6], si ego pate1; ubi honor meus? Et ideo no­ men pietatis etiam ad divinum cultum refertur. Ad secundum dicendum quod, sicut Augusti­ nus dicit, in 1 0 De civ. Dei [ 1 ], more vulgi no­

men pietatis etiam in operibus misericordiae frequentatw: Quod ideo arbitrar evenisse quia haec fieri praecipue mandat Deus, eaque sibi vel pro sacrificiis piacere testatur. Ex qua consuetudine factum est ut et Deus ipse pius dicatur.

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3. Come insegna il Filosofo, oltre alla consan­ guineità e alla concittadinanza ci sono tra gli uomini molti altri legami; e su uno qualsiasi di essi si può fondare l'amicizia. Amicizia che sembra identificarsi con la virtù della pie­ tà, come dice la Glossa su 2 Tm 3 [5] : Con la parvenza della pietà. Perciò la pietà non si estende ai soli consanguinei e concittadini. In contrario: Cicerone ha scritto: «La pietà è l'esatto compimento dei nostri doveri verso i parenti e i benefattori della patria». Risposta: un uomo diviene debitore di altri in più modi, secondo i loro gradi di dignità e secondo i diversi benefici che ne ha ricevuti. Ora, da ambedue i punti di vista Dio è al pri­ mo posto, perché infinitamente grande, e causa prima per noi dell'essere e dell'agire. Al secondo posto invece, come princìpi del­ l'essere e dell'agire, vengono i genitori e la patria, dai quali e nella quale siamo nati e siamo stati allevati. Così dunque, dopo che a Dio, l ' uomo è debitore ai genitori e alla pallia. Quindi, come spetta alla religione pre­ stare culto a Dio, così subito dopo spetta alla pietà prestare ossequi ai genitori e alla patria. Ma nell'ossequio verso i genitori è incluso quello relativo a tutti i consanguinei: poiché la loro consanguineità dipende dai nostri ge­ nitori, come nota il Filosofo. Dell'ossequio poi verso la patria partecipano sia i compa­ llioti, sia gli amici di essa. Quindi la pietà si estende principalmente a queste persone. Soluzione delle difficoltà: l . Il più include anche il meno. Quindi il culto dovuto a Dio include anche, come elemento particolare, il culto dovuto ai genitori. Per cui in Ml l [6] è detto: Se io sono padre, dov 'è l'onore che mi spetta? Per questo il termine pietà si riferisca pure al culto verso Dio. 2. Come spiega Agostino, «il termine pietà è usato spesso anche per le opere di misericor­ dia. E penso che ciò sia derivato dal fatto che Dio le ha comandate in una maniera specia­ lissima, fino a protestare di preferirle persino ai sacrifici. E da questo uso si è passati ad atllibuire la pietà a Dio stesso». 3. I legami che abbiamo con la parentela e con i concittadini sono più connessi che non allli legami con il principio del nostro essere. Per questo il termine pietà conviene maggior­ mente ad essi.

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Ad tertium dicendum quod communicatio consanguineorum et concivium magis refe­ runtur ad principia nostri esse quam aliae communicationes. Et ideo ad hoc nomen pie­ tatis magis extenditur. Articulus 2 Utrum pietas exhibeat parentibus sustentationem

Articolo 2 La pietà provvede al sostentamento dei genitori?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod pietas non exhibeat parentibus sustentationem. l . Ad pietatem enim videtur pertinere illud praeceptum Decalogi, honora patrem tuum et matrem tuam. Sed ibi non praecipitur nisi ho­ noris exhibitio. Ergo ad pietatem non pertinet sustentationem parentibus exhibere. 2. Praeterea, illis debet homo thesaurizare quos tenetur sustentare. Sed secundum apo­ stolum, 2 ad Cor. 12 [14],filii non debent the­ saurizare parentibus. Ergo non tenentur eos per pietatem sustentare. 3. Praeterea, pietas non solum se extendit ad parentes, sed etiam ad alios consanguineos et concives, ut dictum est [a. 1 ] . Sed non tenetur aliquis omnes consanguineos et concives su­ stentare. Ergo nec etiam tenetur ad susten­ tationem parentum. Sed contra est quod Dominus, Matth. 1 5 [3 sqq.], redarguit Pharisaeos quod impediebant filios ne parentibus sustentationem exhiberent Respondeo dicendum quod parentibus aliquid debetur dupliciter, uno modo, per se; alio modo, per accidens. Per se quidem debetur eis id quod decet patrem inquantum est pater. Qui cum sit superior, quasi principium filii existens, debetur ei a filio reverentia et obse­ quium. Per accidens autem aliquid debetur patri quod decet eum accipere secundum aliquid quod ei accidit, puta, si sit infirmus, quod visitetur, et eius curationi intendatur; et si sit pauper, quod sustentetur; et sic de aliis huiusmodi, quae omnia sub debito obsequio continennrr. Et ideo Tullius dicit [Rhet. 2,53] quod pietas exhibet et officium et cultum. Ut officium referatur ad obsequium, cultus vero ad reverentiam sive honorem; quia, ut Augu­ stinus dici t, in l O De civ. Dei [ l ], dicimur co­

Sembra di no. Intàtti: l . Alla pietà sembra riferirsi il precetto del de­ calogo: Onora il padre e la madre [Es 20, 1 2]. Quindi vi si comanda solo una prestazione di onore. Quindi alla pietà non spetta di provve­ dere al sostentamento dei genitori. 2. Per coloro che è tenuto a sostentare uno deve anche mettere da parte. Invece in 2 Cor 1 2 [14] è detto: Ifigli non devono mettere da parte per i genitori. Quindi essi in virtù della pietà non sono tenuti a sostentarli. 3. La pietà non si estende solo ai genitori, ma anche agli altri parenti e ai compatrioti, come si è già notato. Ora, non si è tenuti a sostenta­ re tutti i parenti e tutti i compatrioti. Quindi neppure si è tenuti a sostentare i genitori. In contrario: il Signore in Mt 15 [3 ss.] rim­ provera i Farisei perché ritraevano i figli dal provvedere al sostentamento dei genitori. Risposta: due sono le prestazioni a cui hanno diritto i genitori: la prima essenziale, la secon­ da accidentale. Essenzialmente essi hanno diritto a quanto esige la paternità come tale: cioè, essendo il padre in uno stato di superio­ rità, in quanto causa del figlio, da questo gli è dovuto rispetto e obbedienza. Accidentalmente però il padre ha anche il diritto di ricevere qual­ cosa per quanto gli può capitare: se è infermo, p. es., ha diritto a essere visitato e assistito, se è povero a essere sostentato; e così via. E tutte queste cose rientrano nell'ossequio dovuto. Per cui Cicerone affetma che la pietà offre . Se quindi il culto dei geni­ tori ci distogliesse dal culto di Dio, non do­ vremmo attendere ulteriormente ai doveri ver­ so di essi mettendoci contro Dio. Da cui l'esor­ tazione di Girolamo: «Calpesta pure tuo padre, calpesta tua madre, e va' avanti, anzi vola verso il vessillo della croce. Questa crudeltà è il col­ mo della pietà». Perciò in questi casi bisogna tralasciare i doveri verso i genitori per il culto di Dio. Se invece prestando l' ossequio dovuto ai genitori non veniamo distolti dal culto sud­ detto, siamo nell'ambito della pietà. E così non si dovrà tralasciare la pietà per la religione.

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La pietà

obsequia parentibus non abstrahamur a divino cultu, hoc iam pertinebit ad pietatem. Et sic non oportebit propter religionem pietatem deserere. Ad primum ergo dicendum quod Gregorius [In Ev. h. 2,37], exponens illud verbum Do­ mini, dicit quod parentes quos adversarios in

via Dei patimur, odiendo et fugiendo nescire debemus. Si enim parentes nostri nos provo­ cent ad peccandum, et abstrahant nos a cultu divino, debemus quantum ad hoc eos deserere et adire. Et hoc modo dicuntur Levitae suos consanguineos ignorasse, quia idololatris, secundum mandatum Domini, non peperce­ runt, ut habetur Ex. 32 [26 sqq.]. lacobus autem et Ioannes laudantur ex hoc quod se­ cuti sunt Dominum dimisso parente, non quia eorum pater eos provocaret ad malum, sed quia aliter aestimabant ipsum posse vitam transigere, eis sequentibus Christum. Ad secundum dicendum quod Dominus ideo prohibuit discipulum a sepultura patris, quia, sicut Chrysostomus dicit [In Matth. h. 27],

per hoc eum Dominus a mulris malis eripuit, puta luctibus et maeroribus, et aliis quae hinc expectantur. Post sepulturam enim necesse erat et testamenta scrutari, et haereditatis divisionem, et alia huiusmodi. Et praecipue quia alii erant qui compiere poterant huius funeris sepulturam. Vel, sicut Cyrillus expo­ nit, Super Lucam [super 9,59], discipulus ille non petiit quod patrem iam defunctum sepeli­ ret, sed adhuc viventem in senectute sustenta­ ret usquequo sepeliret. Quod Dominus non concessit, quia erant alii qui eius curam ha­ bere poterant, linea parentelae adstricti. Ad tertium dicendum quod hoc ipsum quod parentibus camalibus ex pietate exhibemus, in Deum referimus, sicut et alia misericordiae opera quae quibuscumque proximis impendi­ mus, Deo exhibita videntur secundum illud Matth. 25 [40] , quod uni ex minimis meis fecistis, mihi fecistis. Et ideo si camalibus parentibus nostra obsequia sunt necessaria, ut sine his sustentari non possint; nec nos ad aliquid contra Deum inducant, non debemus intuitu religionis eos deserere. Si autem sine peccato eorum obsequiis vacare non pos­ sumus; vel etiam si absque nostro obsequio possunt sustentari, licitum est eorum obsequia praetennittere ad hoc quod amplius religioni vacemus.

Q. 1 0 1 , A. 4

Soluzione delle difficoltà: l. Gregorio spiega le riferite parole del Signore dichiarando che «quando i genitori ci sono di ostacolo nelle vie di Dio, li dobbiamo misconoscere con l'odio e con la fuga». Se infatti i nostri genito­ ri ci spingono al peccato, o ci ritraggono dal culto di Dio, sotto questo aspetto li dobbiamo abbandonare e odiare. E in questo senso si dice che i figli di Levi ignorarono la loro parentela: poiché, come si narra in Es 32 [26], non ne ebbero misericordia, stando al coman­ do di Dio, quando essa cadde nell'idolatria. Invece Giacomo e Giovanni sono lodati per­ ché seguirono il Signore dopo aver abbando­ nato il padre non perché il padre li spingesse al male, ma poiché ritenevano che egli potes­ se far fronte alla vita i n un'altra maniera, mentre essi seguivano Cristo. 2. Come spiega il Crisostomo, il Signore proibì a quel discepolo di andare a seppellire suo padre poiché «Voleva risparmiargli molti mali, cioè i pianti, i gemiti e tutte le preoccu­ pazioni connesse. Infatti dopo la sepoltura era necessario esaminare il testamento, fare la divisione dell'eredità e altre cose del genere. Ma specialmente lo fece poiché c'erano altri che potevano interessarsi di quel seppellimen­ to». Oppure, come dice Cirillo, «quel disce­ polo non chiese di andare a seppellire il padre già morto, ma di poterlo assistere nella vec­ chiaia fino alla sepoltura. E il Signore non lo permise, essendoci altri parenti che potevano attendere a tale assistenza». 3. Ciò che la pietà ci comanda di fare per i genitori dobbiamo riferirlo a Dio, come anche le altre opere di misericordia che prestiamo al prossimo, come è detto in Mt 25 [40]: Tutto

ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fra­ telli, l'avete fatto a me. Se quindi i nostri ge­ nitori hanno necessità del nostro aiuto, non avendo altro sostegno, ed essi non ci spingo­ no a fare cose contrarie a Dio, non dobbiamo abbandonarli per motivi di religione. Se inve­ ce non possiamo attendere alla loro cura sen­ za peccato, oppure se essi possono fare a me­ no del nostro soccorso, allora è lecito trala­ sciare gli obblighi verso di loro per attendere maggionnente agli interessi religiosi. 4. Il caso di chi è ancora nel secolo è diverso da quello di chi ha già professato in una reli­ gione. Infatti chi è nel secolo, se ha i genitori che non possono fare a meno del suo aiuto,

Q. 1 0 1 , A. 4

La pietà

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Ad quartum dicendum quod aliud est dicendum de eo qui est adhuc in saeculo constitutus, et aliud de eo qui est iam in religione professus. llie enim qui est in saeculo constitutus, si habet parentes qui sine ipso sustentari non possunt, non debet, eis relictis, religionem intrare, quia transgrederetur praeceptum de honoratione parentum. - Quamvis dicant quidam quod etiam in hoc casu licite posset eos deserere, eorum curam Deo committens. Sed si quis recte consideret, hoc esset tentare Deum, cum habens ex humano consilio quid ageret, periculo paren­ tes exponeret sub spe divini auxilii. - Si vero sine eo parentes vitam transigere possent, lici­ tum esset ei, desertis parentibus, religionem intrare. Quia filii non tenentur ad sustentatio­ nem parentum nisi causa necessitatis, ut dictum est [ad 3; a 2 ad 2]. - llie vero qui iam est in re­ ligione professus, reputatur iam quasi mortuus mundo. Unde non debet occasione sustenta­ tionis parentum exire claustrum, in quo Christo consepelitur, et se iterum saecularibus negotiis implicare. Tenetur tamen, salva sui praelati obedientia et suae religionis statu, pium studium adhibere qualiter eius parentibus subveniatur.

non deve entrare in religione: poiché violereb­ be il precetto che impone di onorarli. - Sebbe­ ne alcuni dicano che anche in questo caso uno potrebbe abbandonarli, affidandoli al soccorso di Dio. Ma se uno riflette bene, ciò sarebbe un tentare Dio: poiché in tal modo, sapendo per la saggezza umana come agire, si esporrebbe­ ro i genitori al pericolo nella speranza del­ l'aiuto di Dio. - Se però i genitori hanno di che vivere, uno potrebbe entrare in religione abbandonando i suoi. Poiché i figli non sono tenuti a sostentare i genitori se non in caso di necessità, come si è detto sopra. - Invece chi è già professo di una religione è considerato ormai come morto al mondo. Quindi per soc­ correre i genitori non deve abbandonare il chiostro, nel quale si è consepolto con Cristo, immischiandosi di nuovo negli affari tempora­ li. Tuttavia, salvando l'obbedienza verso i suoi prelati e lo stato della propria religione, è tenuto a ingegnarsi piamente per trovare il modo di soccorrere i propri genitori.

QUAESTIO 1 02 DE OBSERVANTIA

QUESTIONE 1 02 L'OSSERVANZA O RISPETTO

Deinde considerandum est de observantia, et partibus eius [q. 1 03]. Per quae de oppositis vitiis erit manifestum. Circa observantiam autem quaeruntur tria. Primo, utrum obser­ vantia sit specialis virtus ab aliis distincta. Se­ cundo, quid observantia exhibeat. Tertio, de comparatione eius ad pietatem.

Passiamo ora a parlare dell'osservanza e delle sue specie, in base alle quali si conosceranno i vizi contrari. A proposito del rispetto, od osser­ vanza, esamineremo dunque questi tre punti: l . L'osservanza, o rispetto, è una virtù specifi­ camente distinta dalle altre? 2. Che cosa presta l'osservanza? 3. n confronto tra essa e la pietà.

Articulus l

Articolo l L'osservanza o rispetto è una virtù specificamente distinta dalle altre?

Utrum observantia sit specialis virtus ab aliis distincta Ad primum sic proceditur. Videtur quod observantia non sit specialis virtus ab aliis distincta. l . Virtutes enim distinguuntur secundum obiecta. Sed obiectum observantiae non di­ stinguitur ab obiecto pietatis. Dicit enim Tul­ lius, in sua Rhetorica [2,53], quod observan­ tia est per quam homines aliqua dignitate an­

tecedentes quodam cultu et honore dignantur.

Sed cultum et honorem etiam pietas exhibet

Sembra di no. Infatti: l . Le virtù si distinguono in base al loro og­ getto. Ma l'oggetto dell'osservanza non è di­ stinto dall'oggetto della pietà. Infatti Cicerone afferma che «il rispetto consiste nell'ossequio e nella deferenza usati verso uomini superiori in dignità>>. Ma anche la pietà presta ossequio e deferenza ai genitori, che sono superiori in dignità. Quindi l'osservanza, o rispetto, non è una virtù distinta dalla pietà.

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L 'osservanza o rispetto

parentibus, qui dignitate antecedunt. Ergo observantia non est virtus distincta a pietate. 2. Praeterea, sicut hominibus in dignitate constitutis debetur honor et cultus, ita etiam eis qui excellunt in scientia et virtute. Sed non est aliqua specialis virtus per quam honorem et cultum exibeamus hominibus qui scientiae vel virtutis excellentiam habent. Ergo etiam observantia, per quam cultum et honorem exhibemus his qui nos in dignitate antecedunt, non est specialis virtus ab aliis distincta. 3. Praeterea, hominibus in dignitate constitu­ tis multa debentur ad quae solvenda lex cogit, secundum illud Rom. 13 [7], reddite omnibus debita, cui tributum, tributum, et cetera. Ea vero ad quae per legem compellimur, perti­ nent ad iustitiam legalem, seu etiam ad iusti­ tiam specialem. Ergo observantia non est per se specialis virtus ab aliis distincta. Sed contra est quod Tullius [Rhet. 2,53] con­ dividit observantiam aliis iustitiae partibus, quae sunt speciales virtutes. Respondeo dicendum quod, sicut ex dictis [q. 101 a. 3] patet, necesse est ut eo modo per quendam ordinatum descensum distinguantur virtutes, sicut et excellentia personarum quibus est aliquid reddendum. Sicut autem carnalis pater particulariter participat rationem prin­ cipii, quae universaliter invenitur in Deo; ita etiam persona quae quantum ad aliquid providentiam circa nos gerit, particulariter participat proprietatem patris, quia pater est principium et generationis et educationis et disciplinae, et omnium quae ad pertectionem humanae vitae pertinent. Persona autem in dignitate constituta est sicut principium guber­ nationis respectu aliquamm remm, sicut prin­ ceps civitatis in rebus civilibus, dux autem exercitus in rebus bellicis, magister autem in disciplinis, et simile est in aliis. Et inde est quod omnes tales personae patres appellantur, propter similitudinem curae, sicut 4 Reg. 5 [ 1 3], servi Naaman dixerunt ad eum, pate1; etsi rem grandem dixisset tibi propheta, et cetera. Et ideo sicut sub religione, per quam cultus tribuitur Deo, quodam ordine invenitur pietas, per quam coluntur parentes; ita sub pietate invenitur observantia, per quam cultus et honor exhibetur personis in dignitate constitutis. Ad primum ergo dicendum quod sicut supra [q. 101 a. 3 ad 2] dictum est quod religio per quandam supereminentiam pietas dicitur, et

Q. 1 02, A. l

2. Come si deve prestare onore e usare defe­ renza verso gli uomini costituiti in dignità, così lo si deve fare anche verso coloro che eccellono nella scienza e nella virtù. Ora, non esiste una virtù speciale fatta per rendere onore e deferenza alle persone virtuose e sapienti. Quindi neppure è una virtù specifica­ mente distinta quella che ci porta a prestare deferenza e onore alle persone che ci sono superiori in dignità. 3. Agli uomini costituiti in autorità si devono molte cose che siamo tenuti a rendere per legge, come è detto in Rm 13 [7]: Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo il tributo ... Ma le cose a cui siamo tenuti per legge appartengono alla giustizia legale, op­ pure alla virtù specifica della giustizia. Perciò l'osservanza non è per se stessa una virtù spe­ cificamente distinta dalle altre. In contrario: Cicerone enumera l'osservanza, o rispetto, tra le altre parti della giustizia, che sono virtù speciali. Risposta: come si è già notato, le virtù vanno distinte seguendo i medesimi gradi di dignità delle varie persone alle quali dobbiamo qual­ cosa. Ora, come il nostro padre carnale parte­ cipa la natura di principio, che nella sua uni­ versalità è in Dio, così anche le persone che hanno un compito direttivo su di noi sono par­ tecipi in qualche modo della paternità. Poiché il padre è principio o causa della generazione, dell'educazione, della formazione intellettuale e di quanto appartiene al perfetto sviluppo della vita umana, ma anche la persona costi­ tuita in autorità è quasi principio del nostro vi­ vere per certe determinate cose: come il capo dello stato è principio negli affari civili, il capo dell'esercito nelle cose di guerra, l'insegnante in quelle di scuola, e così via. E così tutte que­ ste persone sono dette padri, data la somi­ glianza dei compiti. Così come, ad es., i servi di Naaman gli dissero: Padre, se il profeta ti avesse ordinato di jàre una cosa difficile. . , in 2 Re 5 [ 1 3]. Quindi come al disotto della reli­ gione, che ha il compito di tributare un culto a Dio, troviamo immediatamente la pietà, che ci fa ossequienti ai genitoli, così al disotto della pietà troviamo l'osservanza, con la quale tri­ butiamo ossequio e rispetto alle autorità. Soluzione delle difficoltà: l . Come si è già detto, anche la religione è una pietà di ordine superiore, e tuttavia la pietà propriamente .

L 'osservanza o rispetto

Q. 102, A. l

tamen pietas proprie dieta a religione distin­ guitur; ita etiam pietas per quandam excellen­ tiam potest dici observantia, et tamen obser­ vantia proprie dieta a pietate distinguitur. Ad secundum dicendum quod aliquis ex hoc quod est in dignitate constitutus, non salurn quandam status excellentiam habet, sed etiam quandam potestatem gubernandi subditos. Unde competit sibi ratio principii, prout est aliorum gubernator. Ex hoc autem quod aliquis habet perfectionem scientiae vel virtu­ tis, non sortitur rationem principii quantum ad alias, sed solum quandam excellentiam in seipso. Et ideo specialiter quaedam virtus determinatur ad exhibendum honorem et cul­ tum his qui sunt in dignitate constituti. Verum quia per scientiam et vututem, et omnia alia huiusmodi, aliquis idoneus redditur ad digni­ tatis statum, reverentia quae propter quam­ cumque excellentiam aliquibus exhibetur, ad eandem virtutem pertinet. Ad tertium dicendum quod ad iustitiam spe­ cialem proprie sumptam pertinet reddere aequale ei cui aliquid debetur. Quod quidem non potest fieri ad virtuosos, et ad eos qui be­ ne statu dignitatis utuntur, sicut nec ad Deum, nec ad parentes. Et ideo ad quandam virtutem adiunctam hoc pertinet, non autem ad iusti­ tiam specialem, quae est principalis vittus. Iu­ stitia vero legalis se extendit ad actus omnium virtutum, ut supra [q. 58 aa. 5-6] dictum est.

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detta è distinta dalla religione. Parimenti la pietà può presentarsi come un' osservanza di ordine superiore, e tuttavia l 'osservanza i n senso stretto è distinta dalla pietà. 2. Per il fatto che uno è costituito in autorità non solo ha una superiorità sugli altri, ma ha pure il potere di governare i suoi sudditi. Per­ ciò egli allora riveste la natura di principio, quale guida di altri. Invece per il fatto che uno eccelle nella scienza o nella virtù non riveste la natura di principio rispetto agli altri, ma ha solo un valore in se medesimo. Per questo c'è una virtù speciale che ha il compito di presta­ re onore e ossequio alle autorità costituite. Siccome però la scienza, la virtù e altre simili perfezioni rendono una persona capace di autorità, il rispetto che si ha verso chiunque per la sua eccellenza si riduce a questa mede­ sima virtù. 3. La giustizia come virtù specifica ha il com­ pito di rendere con perfetta uguaglianza quan­ to è dovuto a ciascuno. Ma questa uguaglian­ za non può aversi nei riguardi delle persone virtuose, e di coloro che esercitano bene la loro autorità: come neppure riguardo a Dio o ai genitori. E così tale compito spetta a una virtù annessa, non già alla virtù specifica della giustizia, che è una virtù cardinale. Quanto poi alla giustizia legale essa abbraccia gli atti di tutte le virtù, come si è detto sopra.

Articulus 2

Articolo 2

Quid observantia exhibeat

Cosa presta l'osservanza?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod ad observantiam non pertinet exhibere cultum et honorem bis qui sunt in dignitate constituti. l . Quia ut Augustinus dicit, in l O De civ. Dei [1], colere dicimur illas personas quas in quo­ dam honore habemus, et sic idem videtur esse cultus quod honor. Inconvenienter igitur de­ terminatur quod observantia exhibet in digni­ tate constitutis cultum et honorem. 2. Praeterea, ad iustitiam pertinet reddere de­ bitum. Unde et ad observantiam, quae ponitur iustitiae pars. Sed cultum et honorem non de­ bemus omnibus in dignitate constitutis, sed salurn bis qui super nos praelationem habent. Ergo inconvenienter determinatur quod eis observantia exhibet cultum et honorem. 3. Praeterea, superioribus nostris in dignitate

Sembra che l'osservanza non abbia il compito di prestare rispetto e onore a coloro che sono costituiti in autorità. Infatti: l. Come nota Agostino, noi rispettiamo quel­ le persone che abbiamo in onore: dal che risulta che il rispetto e l' onore sono la stessa cosa. Perciò non è esatto dire che l' osservan­ za ha il compito di rendere alle persone costi­ tuite in dignità rispetto e onore. 2. La giustizia ha il compito di rendere quanto è dovuto. Quindi anche l' osservanza, che è tra le parti della giustizia. Ma non a tutti quelli che sono costituiti in autorità siamo tenuti a rendere rispetto e onore, bensì solo ai nostri superiori. Quindi non è esatto affermare che l'osservanza ha il compito indicato. 3. Ai nostri superiori costituiti in autorità non

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L 'osservanza o rispetto

Q. 1 02, A. 2

constitutis non solum debemus honorem, sed etiam timorem, et aliquam munerum largitio­ nem, secundum illud ad Rom. 1 3 [7], reddite

solo dobbiamo l'onore, ma anche il timore e la presentazione di determinate offerte, secon­ do le parole di Rm 1 3 [7]: Rendete a ciascuno

omnibus debita, et cui tributum, tributum; cui vectigal, vectigal; cui tinwrem, timorem; cui honorem, honorem. Debemus etiam eis reve­

ciò che gli è dovuto: a chi il tributo il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto. Inoltre dobbiamo

rentiam et subiectionem, secundum illud Hebr. 1 3 [ 17], obedite praepositis vestris, et subiacete eis. Non ergo convenienter determinatur quod observantia exhibet cultum et honorem. Sed contra est quod Thllius dicit [Rhet. 2,53], quod observantia est per quam homines

ad essi riverenza e sottomissione, come è detto in Eb 1 3 [ 17]: Obbedire ai vostri capi e state loro sottomessi. Perciò non è giusto con­ cludere che l'osservanza ha il compito di pre­ stare il rispetto e l'onore. In contrario: Cicerone insegna che >, anche se compie alcune cose contro il corso ordina­ rio della natura, così non può comandare nulla contro la virtù, poiché la virtù, come anche la rettitudine della volontà umana, con­ siste principalmente nella conformazione ai voleri di Dio e nell ' esecuzione dei suoi comandi, anche se tali comandi risultano con­ trari alla norma ordinaria della virtù. E così il comando fatto ad Abramo di uccidere il figlio innocente non era contro la giustizia: poiché Dio è la causa della vita e della morte. Pari­ menti non era contro la giustizia l'ordine dato agli Ebrei di prendere i beni degli Egiziani:

L 'obbedienza

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Q. 1 04, A. 4

davit Iudaeis ut res Aegyptiorum acciperent, quia eius sunt ornnia, et cui voluerit dat illa. Similiter etiam non fuit contra castitatem praeceptum ad Osee factum ut mulierem adulteram acciperet, quia ipse Deus est huma­ nae generationis ordinator, et ille est debitus modus mulieribus utendi quem Deus instituit. Unde patet quod praedicti nec obediendo Deo, nec obedire volendo, peccaverunt. Ad tertium dicendum quod etsi non semper teneatur homo velle quod Deus vult, semper tamen tenetur velle quod Deus vult eum velle. Et hoc homini praecipue innotescit per prae­ ceptum divinum. Et ideo tenetur homo in om­ nibus divinis praeceptis obedire.

poiché tutte le cose appartengono a Dio, ed egli può darle a chi vuole. Finalmente non era contro la castità il comando dato a Osea di prendere una sposa adultera: poiché Dio è egli stesso l'ordinatore della generazione umana, e quindi il modo di avere rapporti con le donne � precisamente quello che Dio ha stabilito. E chiaro quindi che nell'ubbidire a Dio, o nel volergli ubbidire, costoro non fecero peccato. 3. Sebbene non siamo sempre tenuti a volere le cose che Dio vuole [o dispone], tuttavia siamo sempre tenuti a volere quanto Dio vuole che noi vogliamo. E questa volontà ci è manifestata soprattutto attraverso i precetti. Perciò siamo tenuti a ubbidire a tutti i comandi divini.

Articulus 5 Utrum subditi teneantur suis superioribus in omnibus obedire

Articolo 5 I sudditi sono tenuti a ubbidire in tutto ai loro superiori?

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod subditi teneantur suis superioribus in omnibus obedire. l. Dici t enim apostolus, ad Col. 3 [20], filii, obedite parentibus per omnia. Et postea [22] subdit, servi, obedite per omnia dominis car­ nalibus. Ergo, eadem ratione, alii subditi de­ bent suis praelatis in omnibus obedire. 2. Praeterea, praelati sunt medii inter Deum et subditos, secundum illud Deut. 5 [5], ego sequesler el medius fui inter Deum et vos in tempore ilio, ut annuntiarem vobis verba eius. Sed ab extremo in extremum non pervenitur nisi per medium. Ergo praecepta praelati sunt reputanda tanquam praecepta Dei. Unde et apostolus dicit, Gal. 4 [14], sicut angelum Dei accepistis me, sicut Christum Iesum; et l ad Thess. 2 [ 1 3], cum accepissetis a nobis ver­ bum auditus Dei, accepistis illud non ut ver­ bum hominum, sed, sicut vere est, verbum Dei. Ergo sicut Deo debet homo in omnibus obe­ dire, ita etiam et praelatis. 3. Praeterea, sicut religiosi profitendo vovent castitatem et paupertatem, ita et obedientiam. Sed religiosus tenetur quantum ad omnia servare castitatem et paupertatem. Ergo simi­ liter quantum ad ornnia tenetur obedire. Sed contra est quod dicitur Act. 5 [29], obedi­ re oportet Deo magis quam hominibus. Sed quandoque praecepta praelatorum sunt contra Deum. Ergo non in omnibus praelatis est obediendum.

Sembra di sì. Infatti: l . Paolo in Col 3 [20] dice: Voi figli, ubbidite ai genitori in tutto. E continua poco dopo [22]: Servi, ubbidite in tutto ai vostri padroni ten-eni. Quindi per gli stessi motivi anche gli altri sud­ diti devono ubbidire in tutto ai loro superiori. 2. I superiori sono gli intermediari tra Dio e i sudditi, come dice Mosè in Dt 5 [5]: Io em in quel tempo vostm rappresentante e interme­ diario fra Dio e voi, per rijèrirvi le pamle. Ora, da un estremo non si raggiunge l' estre­ mo opposto se non attraverso le realtà in­ termedie. Perciò i comandi dei superiori sono da ritenersi come comandi di Dio. Infatti Pao­ lo in Ga/ 4 [ 1 4] dice: Mi avete accolto come un angelo di Dio, come Cristo Gesù; e in l Ts 2 [ 1 3] : Avete ricevuto da noi la pamla divina della predicazione e l 'avete accolta non come parola di uomini, ma, come è veramente, quale pamla di Dio. Perciò un uomo, come è tenuto a ubbidire a Dio in tutto, così è tenuto a farlo anche verso i superiori. 3. Nella loro professione i religiosi accettano l'obbedienza come accettano la castità e la povertà. Ma il religioso è tenuto a osservare la castità e la povertà in mtto. Quindi è tenuto anche a ubbidire in tutto. In contrario: in At 5 [29] è detto: Bisogna ubbidb-e a Dio piuttosto che agli uomini. Ma talora i comandi dei superiori sono contro Dio. Quindi non si deve ubbidire ai superiori in tutto.

Q. 104, A. 5

L 'obbedienza

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Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [aa. 1 .4] , obediens movetur ad imperium praecipientis quadam necessitate iustitiae, sicut res naturalis movetur ex virtute sui mo­ toris necessitate naturae. Quod autem aliqua res naturalis non moveatur a suo motore, po­ test contingere dupliciter. Uno modo, propter impedimentum quod provenit ex fortiori virtute alterius moventis, sicut lignum non comburitur ab igne si fortior vis aquae impe­ diat. Alio modo, ex defectu ordinis mobilis ad motorem, quia etsi subiiciatur eius actioni quantum ad aliquid, non tamen quantum ad ornnia, sicut humor quandoque subiicitur ac­ tioni caloris quantum ad calefieri, non autem quantum ad exsiccari sive consumi. - Et similiter ex duobus potest contingere quod subditus suo superiori non teneatur in omni­ bus obedire. Uno modo, propter praeceptum maioris potestatis. Ut enim dicitur Rom. 1 3 super illud [2], qui resistunt, ipsi sibi damna­ tionem acquirunt, dicit Glossa [Lomb.; Serm. ad pop. 62,8], si quid iusserit curator, num­

Risposta: secondo le spiegazioni date, chi ub­ bidisce è mosso da chi comanda con una certa necessità di giustizia, come gli esseri fisici o materiali sono mossi dal loro motore con una necessità naturale. Ora, due sono le ragioni per cui un essere materiale può non subire la mozione del suo motore. Primo, per l'ostacolo posto dalla virtù supetiore di un'al­ tra causa movente: come il legno non è bru­ ciato dal fuoco se trova I' ostacolo della forza superiore dell'acqua. Secondo, da una man­ canza di disposizione da parte del soggetto in rapporto alla mozione della causa agente. Poiché sebbene il soggetto sia disposto al suo influsso per certe cose, non lo è tuttavia in tutto e per tutto: come l'umido talora è dispo­ sto all'azione del calore fino a esserne riscal­ dato, ma non fino all'essiccazione o alla con­ sunzione. - Parimenti, due sono i motivi per cui un suddito può non essere tenuto a ubbidi­ re in tutto al proprio superiore. Primo, per il comando di un'autorità più grande. Infatti, nel commentare Rm 1 3 [2]: Quelli che si oppon­

quid tibifaciendum est si contra proconsulem iubeat? Rursum, si quid ipse proconsul iubeat, et aliud imperator, numquid dubitatur, ilio contemplo, illi esse serviendum? Ergo, si aliud imperatm; aliud Deus iubeat, contempto ilio, obtemperandum est Deo. - Alio modo,

gono ali 'autorità si tirano addosso la con­ danna, la Glossa commenta: «Se l'ammini­

non tenetur inferior suo superiori obedire, si ei aliquid praecipiat in quo ei non subdatur. Dicit enim Seneca, in 3 De benef. [20], en-at

si quis existimat servitutem in totum hominem descendere. Pars eius melior excepta est. Corpora obnoxia sunt et adscripta dominis, mens quidem est sui iuris. Et ideo in his quae

pertinent ad interiorem motum voluntatis, homo non tenetur homini obedire, sed solum Deo. - Tenetur autem homo homini obedire in his quae exterius per corpus sunt agenda. In quibus tamen etiam, secundum ea quae ad naturam corporis pertinent, homo homini obedire non tenetur, sed solum Deo, quia ornnes homines natura sunt pares, puta in his quae pertinent ad corporis sustentationem et prolis generationem. Unde non tenentur nec servi dominis, nec filii parentibus obedire de matrimonio contrahendo vel virginitate ser­ vanda, aut aliquo alio huiusmodi. - Sed in his quae pertinent ad dispositionem actuum et rerum humanarum, tenetur subditus suo supe­ riori obedire secundum rationem superiori-

stratore comanda una cosa, dovrai forse farla se comanda contro gli ordini del proconsole? E se lo stesso proconsole ti comanda una co­ sa, mentre I' imperatore ne comanda un'altra, c'è forse da dubitare che bisogna ubbidire a quest'ultimo senza badare al primo? Se quin­ di l'imperatore comanda una cosa e Dio co­ manda il contrario, si deve ubbidire a Dio senza badare all'imperatore». - Secondo, un suddito non è tenuto a ubbidire al superiore se questi gli comanda delle cose nelle quali non è a lui sottoposto. Seneca infatti afferma: «Sbaglia chi pensa che il dominio sullo schia­ vo abbracci tutto l 'uomo. La sua parte più nobile ne è eccettuata. Ai padroni sono sotto­ posti e assegnati i corpi, ma l'anima è libera». Perciò nelle cose riguardanti i moti interiori della volontà non siamo tenuti a ubbidire agli uomini, ma soltanto a Dio. - Siamo tenuti invece a ubbidire agli uomini negli atti esterni da eseguirsi col corpo. Thttavia anche in que­ sti atti, quanto alle cose che appartengono alla natura del corpo, come il sostentamento o la generazione della prole, un uomo non è tenu­ to a ubbidire ad altri uomini, ma solo a Dio, poiché quanto alla natura tutti gli uomini sono uguali. Perciò gli schiavi non sono tenuti a

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Q. 104, A. 5

L 'obbedienza

tatis, sicut miles duci exercitus in his quae pertinent ad bellum; servus domino in his quae pertinent ad servilia opera exequenda; filius patri in his quae pertinent ad disciplinam vitae et curam domesticam; et sic de aliis. Ad primum ergo dicendum quod hoc quod apostolus dixit, per omnia, intelligendum est quantum ad illa quae pertinent ad ius patriae vel donùnativae potestatis. Ad secundum dicendum quod Deo subiicitur homo simpliciter quantum ad omnia, et inte­ riora et exteriora, et ideo in omnibus ei obedi­ re tenetur. Subditi autem non subiiciuntur suis superioribus quantum ad omnia, sed quantum ad aliqua determinate. Et quantum ad illa, medii sunt inter Deum et subditos. Quantum ad alia vero, immediate subduntur Deo, a quo instruuntur per legem naturalem vel scriptam. Ad tertium dicendum quod religiosi obedien­ tiam profitentur quantum ad regularem con­ versationem, secundum quam suis praelatis subduntur. Et ideo quantum ad illa sola obe­ dire tenentur quae possunt ad regularem con­ versationem pertinere. Et haec est obedientia sufficiens ad salutem. Si autem etiam in aliis obedire voluerint, hoc pertinebit ad cumulum perfectionis, dum tamen illa non sint contra Deum, aut contra professionem regulae; quia talis obedientia esset illicita. Sic ergo potest Uiplex obedientia distingui, una sufficiens ad salutem, quae scilicet obedit in his ad quae obligatur; alia perfecta, quae obedit in omni­ bus licitis; alia indiscreta, quae etiam in illici­ tis obedit.

ubbidire ai padroni né i figli ai genitori quan­ do si tratta di contrarre il matrimonio o di custodire la verginità, o di altre cose del gene­ re. - Nelle cose invece che riguardano la di­ sposizione degli atti e delle cose umane un suddito è tenuto a ubbidire, secondo l' autorità specifica di chi comanda: come il soldato è tenuto a ubbidire al capo dell'esercito nelle cose relative alla guerra, il servo al padrone nell' esercizio delle sue mansioni, il figlio al padre nelle cose riguardanti la condotta e la cura della casa, e così via. Soluzione delle difficoltà: l. L'espressione di Paolo: in tutto, va riferita alle cose che rientra­ no nei diritti del padre, o del padrone. 2. A Dio l' uomo è soggetto in modo assoluto e in tutte le cose, sia interne che esterne: per cui è tenuto a ubbidirgli in tutto. I sudditi in­ vece non sono soggetti ai loro superiori in tutto, ma soltanto in alcune cose determinate. E solo in rapporto a queste i superiori sono in­ termediari tra Dio e i sudditi. Quanto al resto invece i sudditi sono sottoposti immediata­ mente a Dio, il quale li guida con la legge naturale o con quella scritta. 3. I religiosi professano obbedienza per ciò che riguarda la vita regolare, in cui sono sog­ getti ai loro superiori. Perciò essi sono tenuti a ubbidire soltanto nelle cose che possono ri­ guardare tale vita. E questa obbedienza è suf­ ficiente per salvarsi. Se poi essi vogliono ub­ bidire anche in altre cose, ciò contribuisce a una maggiore perfezione: purché non si tratti di cose contro Dio o contro la regola, poiché tale obbedienza sarebbe illecita. Così dunque si possono distinguere tre tipi di obbedienza: la prima, sufficiente per salvarsi, si ferma a ubbidire nelle cose d' obbligo; la seconda, perfetta, ubbidisce in tutte le cose lecite; la terza, disordinata, ubbidisce anche nelle cose illecite.

Articulus 6 Utrum Christiani teneantur saecularibus potestatibus obedire

Articolo 6 I Cristiani sono tenuti a ubbidire

Ad sextum sic proceditur. Videtur quod Chri­ stiani non teneantur saecularibus potestatibus obedire. l . Quia super illud Matth. 17 [25], ergo liberi sunt filii, dicit Glossa [ord.; Q. Evang. 1 ,23 super Matth. 17,27], si in quolibet regno filii

Sembra di no. Infatti: l . A proposito del passo di Mt 17 [25]: Dun­ que i figli ne sono esenti, la Glossa commenta: «Se in qualsiasi regno i figli del re che lo go­ verna sono esenti, è chiaro che i figli di quel Re a cui sono soggetti tutti i regni devono

alle autorità civili?

Q. 104, A. 6

L 'obbedienza

illius regis qui regno illi praefertur sunt liberi, tunc filii regis cui omnia regna subduntur, in quolibet regno liberi esse debent. Sed Chri­

stiani per fidem Christi facti sunt filii Dei, se­ cundum illud Ioan. l [ 12], dedit eis potesta­

tem filios Dei fieri, his qui credunt in nomine eius. Ergo non tenentur potestatibus sae­

cularibus obedire. 2. Praeterea, Rom. 7 [4] dicitur, mortificati estis legi per corpus Christi, et loquitur de lege divina Veteris Testamenti. Sed minor est lex humana, per quam homines potestatibus saecularibus subduntur, quam lex divina Vete­ ris Testamenti. Ergo multo magis homines, per hoc quod sunt facti membra corporis Christi, liberantur a lege subiectionis qua saecularibus principibus adstringebantur. 3. Praeterea, latronibus, qui per violentiam opprimunt, homines obedire non tenentur. Sed Augustinus dicit, 4 De civ. Dei [4], re­

mota iustitia, quid sunt regna nisi magna la­ trocinia ? Cum igitur dominia saecularia prin­

cìpum plerumque cum iniustitia exerceantur, vel ab aliqua iniusta usurpatione principium sumpserint, videtur quod non sit principibus saecularibus obediendum a Christianis. Sed contra est quod dicitur Tit. 3 [ 1], admone

illos principibus et potestatibus subditos esse; et l Petr. 2 [ 1 3- 1 4] , subiecti estote omni humanae creaturae propter Deum, sive regi, quasi praecellenti; sive ducibus, tanquam ab eo missis.

Respondeo dicendum quod fides Christi est iu­ stitiae principium et causa, secundum ìllud Rom. 3 [22], iustitia Dei perfidem Iesu Christi. Et ideo per fidem Christi non tollitur ordo iustitiae, sed magis firmatur. Ordo autem iustitiae requirit ut inferiores suis superioribus obediant, aliter enim non posset humanarum rerum status conservari. Et ideo per fidem Christi non excusantur fideles quin principi­ bus saecularibus obedìre teneantur. Ad primum ergo dicendum quod, sicut supra [a. 5] dictum est, servitus qua homo homini subiicìtur ad corpus pertinet, non ad animam, quae libera manet. Nunc autem, in statu huius vitae, per gratiam Christi liberamur a defecti­ bus animae, non autem a defectibus corporis, ut patet per apostolum, Rom. 7 [25], qui dicit de seipso quod mente servi! legi Dei, carne autem legi peccati. Et ideo illi qui fiunt filii Dei per gratiam, liberi sunt a spirituali servi-

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essere esenti e liberi in qualsiasi regno». Ma i Cristiani mediante la fede di Cristo sono di­ ventati figli di Dio, secondo le parole di Gv l [ 1 2]: A quelli che credono nel suo 1wme ha da­ to il potere di diventare figli di Dio. Essi quindi non sono tenuti a ubbidire alle autorità civili. 2. In Rm 7 [4] è detto: Voi siete stati messi a

morte quanto alla legge mediante il corpo di Cristo; e parla della legge divina dell'Antico Testamento. Ora la legge umana, che sotto­ mette gli uomini ai poteri civili, è inferiore al­ la legge divina dell'Antico Testamento. Quin­ di a maggior ragione coloro che sono di­ ventati membra del corpo di Cristo sono stati liberati dalla legge per cui erano sottoposti ai principi secolari. 3. Gli uomini non sono tenuti a ubbidire ai briganti che li opprimono con la violenza. Ma Agostino si domanda: «Se viene a mancare la giustizia, che cosa sono i regni se non dei grandi latrocini?». Siccome dunque il potere dei principi secolari per lo più è esercitato nell'ingiustizia, oppure ha avuto origine da ingiuste usurpazioni, sembra che i Cristiani non siano tenuti a ubbidire a tali principi. In contrario: in Tt 3 [ l ] è detto: Ricorda loro

di essere sottomessi ai magistrati e alle auto­ rità; e in l Pt 2 [ 13]: State sottomessi a ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re, come al sovrano, sia ai governatori, come ai suoi rappresentanti.

Risposta: la fede di Cristo è principio e causa della giustizia, come è detto in Rm 3 [22]: La

giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo. Perciò la fede di Cristo non elimina

I' ordine della giustizia, ma piuttosto lo rende stabile. Ora, l'ordine della giustizia esige che gli inferiori ubbidiscano ai loro superiori, per­ ché altrimenti la convivenza umana non po­ trebbe sussistere. Quindi i fedeli per la loro fede in Cristo non sono dispensati dall' obbe­ dienza alle autorità civili. Soluzione delle difticoltà: l . Come si è già detto, la sottomissione di un uomo a un altro uomo riguarda solo il corpo, non l'anima, che rimane libera. Ora, nella vita presente la gra­ zia di Cristo ci libera dalle miserie dell'anima, ma non da quelle del corpo, come è evidente dall'esperienza di Paolo il quale dice di sé che

con la mente serviva la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato (Rm 7,25). Perciò coloro che diventano con la grazia figli

L 'obbedienza

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tute peccati, non autem a servitute corporali, qua temporalibus dominis tenentur adstricti, ut dicit Glossa [ord. et Lomb.], super illud l ad Tim. 6 [ 1 ] , quicumque sunt sub iugo servi, et cetera. Ad secundum dicendum quod lex vetus fuit figura Novi Testamenti, et ideo debuit ces­ sare, veritate veniente. Non autem est simile de lege humana, per quam homo subiicitur homini. Et tamen etiam ex lege divina homo tenetur homini obedire. Ad tertium dicendum quod principibus saecu­ laribus intantum homo obedire tenetur, inquan­ tum ordo iustitiae requirit. Et ideo si non ha­ beant iustum principatum sed usurpatum, vel si iniusta praecipiant, non tenentur eis subditi obedire, nisi forte per accidens, propter vitan­ dum scandalum vel periculum.

Q. 1 04, A. 6

di Dio sono liberi o esenti dalla servitù spiri­ tuale del peccato, ma non dalla servitù del corpo, per cui sono tenuti a sottostare ai padroni di questo mondo, come nota la Glossa a commento di l Tm 6 [ 1 ] : Quelli che

si trovano sotto il giogo della schiavitù... 2. L'antica legge era figura del Nuovo Testa­ mento: perciò essa doveva cessare alla venuta della realtà. Della legge umana invece, che prescrive la sottomissione di un uomo a un altro uomo, non si può dire altrettanto. Inoltre anche in forza della legge divina tm uomo è tenuto a ubbidire ad altri uomini. 3. Si è tenuti a ubbidire ai principi secolari per quanto lo esige l'ordine della giustizia. Se quindi essi non hanno un potere legittimo, ma usurpato, oppure se comandano cose ingiuste, i sudditi non sono tenuti a ubbidire, se non forse accidentalmente, ossia per evitare scan­ dali o pericoli.

QUAESTIO l 05 DE INOBEDIENTIA

QUESTIONE l 05 LA DISOBBEDIENZA

Deinde considerandum est de inobedientia. Et circa hoc quaeruntur duo. Primo, utrum sit peccatum mortale. Secundo, utrum sit gravis­ simum peccatorum.

Trattiamo ora della disobbedienza. Sull'argo­ mento si pongono due quesiti: l . !--a disobbe­ dienza è un peccato mortale? 2. E i l peccato più grave?

Articulus l Utrum inobedientia sit peccatum mortale

Articolo l La disobbedienza è un peccato mortale?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod ino­ bedientia non si t peccatum mortale. l . Omne enim peccatum est inobedientia, ut patet per definitionem Ambrosii superius [De Parad. 8] positam. Si ergo inobedientia esset pec­ catum mortale, omne peccatum esset mortale. 2. Praeterea, Gregorius dicit, 3 1 Mor. [45], quod inobedientia oritur ex inani gloria. Sed inanis gloria non est peccatum mortale. Ergo nec inobedientia. 3. Praeterea, tunc dicitur aliquis esse inobe­ diens quando superioris praeceptum non implet. Sed superiores multoties praecepta multiplicant, quae vix aut nunquam omnia possunt observari . Si ergo inobedientia esset peccatum mortale, sequeretur quod homo non posset vitare mortale peccatum, quod est in­ conveniens. Non ergo inobedientia est pecca­ tuffi mortale.

Sembra di no. Infatti: l . Qualsiasi peccato è una disobbedienza, co­ me risulta dalla definizione di Ambrogio, che abbiamo rifetito sopra. Se quindi la disobbe­ dienza fosse un peccato mortale, tutti i peccati sarebbero mortali. 2. Gregorio insegna che la disobbedienza deriva dalla vanagloria. Ma la vanagloria non è un peccato mortale. Quindi neppure la disobbedienza. 3. Uno è disobbediente quando non esegue il comando di un superiore. Ma spesso i supe­ tiori fanno tanti comandi che difficilmente, o mai, è possibile eseguirli tutti . Se quindi la disobbedienza fosse un peccato mortale, nes­ suno sarebbe in grado di evitare il peccato mortale: il che è inammissibile. Quindi la disobbedienza non è un peccato mortale.

Q. 105, A. l

La disobbedienza

Sed contra est quod Rom. l [30], et 2 ad Tim. 3 [2], inter alia peccata mortalia computatur,

parentibus non obedientes.

Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 24 a. 12; q. 35 a. 3; 1-11 q. 72 a. 5] dictum est, peccatum mortale est quod contrariatur carita­ ti, per quam est spiritualis vita. Caritate autem diligitur Deus et proximus. Exigit autem ca­ ritas Dei ut eius mandatis obediatur, sicut su­ pra [q. 24 a. 1 2; q. 104 a. 3] dictum est. Et ideo inobedientem esse divinis praeceptis peccatum mortale est, quasi divinae dilectioni contrarium. In praeceptis autem divinis con­ tinetur quod etiam superioribus obediatur. Et ideo etiam inobedientia qua quis inobediens est praeceptis superiomm, est peccatum morta­ le, quasi divinae dilectioni contrarium, secun­ dum illud Rom. 1 3 [2], qui potestati resistit, Dei ordinationi resistit. Contrariatur insuper dilectioni proximi, inquantum superiori proxi­ mo subtrahit obedientiam quam ei debet. Ad primum ergo dicendum quod illa definitio Ambrosii datur de peccato mortali, quod ha­ bet perfectam peccati rationem. Peccatum enim veniale non est inobedientia, quia non est contra praeceptum, sed praeter praecep­ tum. Nec etiam omne peccatum mortale est inobedientia, proprie et per se Ioquendo, sed solum sicut quando aliquis praeceptum con­ temnit. Quia ex fine morales actus speciem habent. Cum autem facit aliquid contra prae­ ceptum non propter praecepti contemptum, sed propter aliquid aliud, est inobedientia materialiter tantum, sed pertinet formaliter ad aliam speciem peccati. Ad secundum dicendum quod inanis gloria appetit manifestationem alicuius excellentiae, et quia videtur ad quandam excellentiam per­ tinere quod homo praeceptis alterius non subdatur, inde est quod inobedientia ex inani gloria oritur. Nihil autem prohibet ex peccato veniali oriri mortale, cum veniale sit disposi­ tic ad mortale. Ad tertium dicendum quod mùlus obligatur ad impossibile. Et ideo si tot praecepta aliquis praelatus ingerat quod subditus ea implere non possit, excusatur a peccato. Et ideo praelati abstinere debent a multitudine praeceptomm.

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contrario: in Rm l [30] e in 2 Tm 3 [2] tra gli altri peccati mortali è enumerato anche I' essere disobbedienti ai genitori. Risposta: un peccato è mortale, come si è già spiegato, in quanto è incompatibile con la ca­ rità, da cui sgorga la vita spirituale. Ma la ca­ rità esige l'amore di Dio e del prossimo. Ora, l'amore di Dio esige che si ubbidisca ai suoi comandi, come si è detto sopra. Perciò la di­ sobbedienza ai precetti di Dio è un peccato mortale, in quanto incompatibile con l' amore di Dio. Ma nei precetti divini c'è anche l'ob­ bligo di ubbidire ai superiori. Quindi anche la disobbedienza al comando dei superiori è un peccato mortale, essendo incompatibile con I' a­ more di Dio, secondo le parole di Rm 13 [2]:

In

Chi si oppone all'autorità si oppone all'or­ dine stabilito da Dio. Inoltre essa è incom­

patibile con l'amore del prossimo: poiché con essa uno nega a quel prossimo che è i l suo superiore l'obbedienza dovuta. Soluzione delle difficoltà: l . La definizione di Ambrogio si riferisce al peccato mortale, che ha la perfetta natura di peccato. Infatti il pec­ cato veniale non è una disobbedienza, non es­ sendo contro il precetto, ma fuori del precetto. E neppure è vero che tutti i peccati mortali sono delle disobbedienze in senso proprio, ma ciò vale solo nel caso in cui si disprezza il precetto. Infatti gli atti morali sono specificati dal fine: per cui, se uno agisce contro il co­ mando non a spregio del precetto, bensì per altri motivi, allora si ha una disobbedienza so­ lo materiale, mentre formalmente il peccato appartiene a un' altra specie. 2. La vanagloria mira a mostrare una qualche superiorità; e poiché il non sottostare all' altrui comando sembra appartenere a tale superio­ rità, ne viene che la disobbedienza nasce ap­ punto dalla vanagloria. D' altra parte nulla im­ pedisce che da un peccato veniale possa na­ scere un peccato mortale, essendo la colpa veniale una disposizione a quella mortale. 3. Nessuno è tenuto all' impossibile. Se quindi un superiore moltiplica gli ordini al punto che un suddito non è più in grado di eseguirli, costui risulta scusato dal peccato. E per que­ sto i superiori devono astenersi dal dare troppi comandi.

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Q. 105, A. 2

La disobbedienza

Articulus 2 Utrum inobedientia sit gravissimum peccatum

Articolo 2 La disobbedienza è il peccato più grave?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod inobedientia sit gravissimum peccatum. l . Dicitur enim l Reg. 1 5 [23], quasi pecca­ rum ariolandi est repugnare: et quasi scelus idololatriae nolle acquiescere. Sed idolatria est gravissimum peccatum, ut supra [q. 94 a. 3] habitum est. Ergo inobedientia est gravissi­ mum peccatum. 2. Praeterea, illud peccatum dicitur esse in spiritum sanctum per quod tolluntur impedì­ menta peccati, ut supra [q. 1 4 a. 2] dictum est. Sed per inobedientiam contemnit homo praeceptum, quod maxime retrahit hominem a peccando. Ergo inobedientia est peccatum in spiritum sanctum. Et ita est gravissimum peccatum. 3. Praeterea, apostolus dicit, Rom. 5 [ 1 9] , quod per unius inobedientiam peccatores con­ stituti sunt multi. Sed causa videtur esse potior effectu. Ergo inobedientia videtur esse gravius peccatum quam alia quae ex ea causantur. Sed contra est quod gravius est contemnere praecipientem quam praeceptum. Sed quae­ dam peccata sunt contra ipsam personam praecipientis, sicut patet de blasphemia et ho­ micidio. Ergo inobedientia non est gravissi­ mum peccatum. Respondeo dicendum quod non omnis ino­ bedientia est aequale peccatum. Potest enim una inobedientia esse gravior altera dupli­ citer. Uno modo, ex parte praecipientis . Quamvis enim omnem curam homo appo­ nere debeat ad hoc quod cuilibet superiori obediat, tamen magis est debitum quod ho­ mo obediat superiori quam inferiori pote­ stati. Cuius signum est quod praeceptum in­ ferioris praeterrnittitur si sit praecepto supe­ rioris contrarium unde consequens est quod quanto superior est ille qui praecipit, tanto ei inobedientem esse sit gravius. Et sic inobe­ dientem esse Deo est gravius quam inobe­ dientem esse homini. - Secundo, ex parte praeceptorum. Non enim praecipiens aequa­ liter vult impleri omnia quae mandat, magis enim unusquisque vult finem, et id quod est fini propinquius. Et ideo tanto est inobe­ dientia gravior, quanto praeceptum quod quis praeterit magis est de intentione illius

Sembra di sì. Infatti: l . In l Sam 1 5 [23] è detto: Peccato di divina­ zione è la ribellione, e iniquità e idolatria l'insubordinazione. Ma l' idolatria è un pecca­ to gravissimo, come sopra si è dimostrato. Quindi la disobbedienza è il più grave dei peccati. 2. Sono contro lo Spirito Santo quei peccati che tolgono gli impedimenti al peccato, come si disse. Ora, con la disobbedienza si disprezza il precetto, che costituisce l'impedimento più efficace per ritrarre l'uomo dalla colpa. Perciò la disobbedienza è un peccato contro lo Spiri­ to Santo. Quindi è il peccato più grave. 3. Paolo dice che per la disobbedienw di uno so­ lo molti sono stati costituiti peccatori (Rm 5,19). Ma la causa deve essere sempre superiore all'effetto. Quindi la disobbedienza sembra essere un peccato più grave di tutti gli altri da essa causati. In contrario: disprezzare chi comanda è più grave che disprezzare il comando. Ora, certi peccati sono contro la persona stessa di chi comanda: come è evidente nel caso della bestemmia e dell'omicidio. Quindi la disob­ bedienza non è il più grave dei peccati. Risposta: le disobbedienze non sono tutte del­ la stessa gravità. Infatti l'una può essere più grave dell'altra sotto due punti di vista. Pri­ mo, in rapporto a chi comanda. Sebbene in­ fatti l'uomo sia tenuto a ubbidire con ogni cu­ ra a qualsiasi autorità, tuttavia è più tenuto a ubbidire all'autorità superiore che alle inferio­ ri. E ciò appare dal fatto che il comando dei subalterni va trascurato se è in contrasto con quello dell'autorità superiore. Per cui quanto maggiore è l'autorità di chi comanda, tanto più grave è la disobbedienza. E così disobbe­ dire a Dio è un peccato più grave che disob­ bedire a un uomo. - Secondo, in rapporto alle cose comandate. Infatti chi comanda non dà la stessa importanza a tutte le cose che co­ manda: poiché chiunque vuole maggiormente il fine, e i mezzi più vicini al fine. Perciò la disobbedienza è tanto più grave quanto più il comando trasgredito sta a cuore a colui che comanda. Ora, per i precetti o comandi di Dio è evidente che la disobbedienza è tanto più

Q. 105, A. 2

La disobbedienza

qui praecipit. Et i n praeceptis quidem Dei, manifestum est quod quanto praeceptum datur de meliori, tanto est eius inobedientia gravior. Quia cum voluntas Dei per se fera­ tur ad bonum, quanto aliquid est melius, tanto Deus vult illud magis impleri. Unde qui inobediens est praecepto de dilectione Dei, gravius peccat quam qui inobediens est praecepto de dilectione proximi. Voluntas autem hominis non semper magis fertur in melìus. Et ideo, ubi oblìgamur ex solo ho­ minis praecepto, non est gravius peccatum ex eo quod maius bonum praeteritur, sed ex eo quod praeteritur quod est magis de inten­ tione praecipientis. - Sic ergo oportet diver­ sos inobedientiae gradus diversi s pecca­ torum gradibus comparare. Nam inobedien­ tia qua contemnitur Dei praeceptum, ex ipsa ratione inobedientiae gravius est peccatum quam peccatum quo peccatur in hominem, si secemeretur inobedientia Dei (et hoc dico, quia qui contra proximum peccat, etiam con­ tra Dei praeceptum agit). Si tamen in aliquo potiori praeceptum Dei contemneret, adhuc gravi u s peccatum esset. - Inobedientia autem qua contemnitur praeceptum hominis, levior est peccato quo contemnitur ipse prae­ cipiens, quia ex reverentia praecipientis pro­ cedere debet reverentia praecepti . Et simi­ liter peccatum quod directe pertinet ad con­ temptum Dei, sicut blasphemia vel aliquid huiusmodi, gravius est, etiam semota per intellectum inobedientia a peccato, quam peccatum i n quo contemnitur solum Dei praeceptum. Ad primum ergo dicendum quod illa compa­ ratio Samuelis non est aequalitatis, sed simi­ litudinis, quia inobedientia redundat in con­ temptum Dei sicut et idololatria, licet idolo­ latria magis. Ad secundum dicendum quod non omnis inobedientia est peccatum i n Spiritum Sanc­ tum, sed solum illa cui obstinatio adhibetur. Non enim contemptus cuiuscumque quod peccatum impedit, constituit peccatum i n Spiritum Sanctum, alioquin cuiuslibet boni contemptus esset peccatum in Spiritum Sanc­ tum, quia per quodlibet bonum potest homo a peccato impediri . Sed illorum bonorum contemptus facit peccatum in Spiritum Sanc­ tum quae directe ducunt ad poenitentiam et remissionem peccatorum.

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grave quanto più grande è il bene a cui il co­ mando si riferisce. Siccome infatti per se stes­ sa la volontà di Dio ha di mira il bene, più questo è grande, più Dio ne vuole l' adempi­ mento. Perciò chi disobbedisce al precetto del­ l ' amore verso Dio pecca più gravemente di chi disobbedisce al precetto dell' amore verso il prossimo. Invece la volontà dell'uomo non sempre è maggiormente portata verso il bene più grande. Perciò, quando l'obbligo nasce dal solo precetto dell' uomo, un peccato non è più grave per il fatto che si tralascia un bene più grande, ma per il fatto che si tralasciano cose che stanno più a cuore a chi comanda. - Così dunque la gravità dei peccati si misura in base al grado della disobbedienza. Infatti la disob­ bedienza con cui si trasgredisce un precetto di Dio, per la natura stessa della disobbedienza è un peccato più grave di quello che si commet­ te contro un uomo, a prescindere dalla disob­ bedienza fatta a Dio (dico questo perché chi pecca contro il prossimo agisce anche contro il comando di Dio). Se poi uno trasgredisce il comando di Dio nelle cose più importanti, il peccato è ancora più grave. - Inoltre la disob­ bedienza con la quale si disprezza il precetto di un uomo è un peccato più leggero di quello con cui si disprezza colui che lo impone: poi­ ché il rispetto per il comando deve derivare dal rispetto verso chi lo impone. Pruimenti il pec­ cato che in maniera diretta rientra nel disprez­ zo di Dio, come la bestemmia o altre cose del genere, anche astraendo dalla disobbedienza è più grave di quello con cui si disprezza solo il comando di Dio. Soluzione delle difficoltà: l . Il paragone usato da Samuele non è impostato sull' uguaglianza, ma su una certa analogia: poiché la disobbe­ dienza, sebbene in un grado minore, si riduce a un disprezzo di Dio come l'idolatria. 2. È peccato contro lo Spirito Santo non qual­ siasi disobbedienza, ma quella soltanto che è accompagnata dali' ostinazione. Infatti il pec­ cato contro lo Spirito Santo non è costituito dal disprezzo verso qualunque cosa che possa impedire il peccato: altrimenti il disprezzo di un bene qualsiasi sarebbe un peccato contro lo Spirito Santo, poiché qualsiasi bene può ritrar­ re un uomo dal peccato. Il peccato contro lo Spirito Santo è invece costituito dal disprezzo di quei beni che direttamente portano alla penitenza e alla remissione dei peccati.

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Q. 105, A. 2

Ad tertium dicendum quod primum peccatum primi parentis, ex quo in omnes peccatum emanavit, non fuit inobedientia, secundum quod est speciale peccatum, sed superbia, ex qua homo ad inobedientiam processit. Unde apostolus i n verbis illis videtur accipere inobedientiam secundum quod generaliter se habet ad omne peccatum.

3. La colpa del nostro progenitore, dalla quale derivò il peccato in tutti gli uomini, non fu un peccato specifico di disobbedienza, ma di superbia, la quale spinse l'uomo alla ribellio­ ne. Perciò Paolo in quel testo parla della disobbedienza in senso generico, in quanto si estende a tutti i peccati.

QUAESTIO 1 06 DE GRATIA SIVE GRATITUDINE

QUESTIONE 1 06 LA RICONOSCENZA O GRATITUDINE

Deinde considerandum est de gratia sive grati­ tudine, et ingratitudine [q. 107]. Circa gratiam autem quaeruntur sex. Primo, utrum gratia sit virtus specialis ab aliis distincta. Secundo, quis tenetur ad maiores gratiarum actiones Deo, utrum innocens vel poenitens. Tertio, utrum semper teneatur homo ad gratias huma­ nis beneficiis reddendas. Quarto, utrum retri­ butio gratiarum sit differenda. Quinto, utrum sit mensuranda secundum acceptum bene­ ficium, vel secundum dantis affectum. Sexto, utrum oporteat aliquid maius rependere.

Passiamo quindi a trattare della riconoscenza, o gratitudine, e dell'ingratitudine. A proposito della riconoscenza si pongono sei quesiti: l . La riconoscenza è una viitù specificamente distin­ ta dalle altre? 2. Chi è tenuto di più a ringrazia­ re Dio: l'innocente o chi ha ottenuto il perdo­ no? 3. Uno è sempre tenuto a ringraziare per i benefici ricevuti dagli uomini? 4. Si può ri­ mandare l'obbligo della riconoscenza? 5. La gratitudine deve essere proporzion>. Ma questi atti non appartengono a una medesima specie di peccato. Quindi l'ingratitudine non è un peccato specificamente distinto. In contrario: l 'ingratitudine si contrappone al­ la liconoscenza, o gratitudine, che è una virtù specifica. Quindi è un peccato specifico. Risposta: la denominazione opposta a una data virtù è assunta da quel vizio che è più incompatibile con essa, come l ' illiberalità è più incompatibile con la liberalità che non la prodigalità. Ora, alla virtù della gratitudine si contrappone anche qualche vizio per eccesso, p. es. il ricompensare persone che non lo melitano, o plima del dovuto, come sopra si è visto. Ma il vizio per difetto si contrappone maggiormente alla gratitudine: poiché questa virtù tende a rendere in sovrappiù, come si è notato sopra. Quindi propriamente l ' ingrati­ tudine sta a indicare la mancanza di gratitudi­ ne. Ma ogni mancanza o privazione è specifi­ cata in base all' abito opposto: infatti la cecità e la sordità diffeliscono come la vista e l 'udi­ to. Quindi, come è una virtù specifica la rico­ noscenza, o gratitudine, così è un peccato specifico l'ingratitudine. - Questa però ha di­ versi gradi secondo l' ordine degli elementi li­ chiesti dalla gratitudine. n primo di essi è che il beneficato riconosca i l beneficio ricevuto; il secondo è che ringrazi a parole; il terzo è che ricompensi a tempo opportuno secondo le proprie capacità. Ora, siccome «l' elemento che è ultimo nell'ordine di generazione di una cosa è il primo nella sua decomposizione», il primo grado dell'ingratitudine si ha nel non ricompensare il beneficio ricevuto; il secondo nel dissimularlo, non mostrando di averlo ricevuto; il terzo, che è quello più grave, nel non riconoscerlo, o per dimenticanza o per altri motivi. - E poiché l 'affermazione contra­ ria implica la negazione lispettiva, al primo grado dell'ingratitudine corrisponde il rendere male per bene; al secondo il disprezzare il be­ neficio; al terzo il reputarlo un maleficio. Soluzione delle difficoltà: l . In ogni peccato c'è un' ingratitudine materiale verso Dio, in quanto si compie qualcosa che può essere ma­ teria di ingratitudine. Ma l'ingratitudine for-

L 'ingratitudine

Q. 107, A. 2

quannun scilicet facit homo aliquid quod potest ad ingratitudinem pertinere. Formalis autem ingratitudo est quando actualiter beneficium contemnitur. Et hoc est speciale peccatum. Ad secundum dicendum quod nihil prohibet formalem rationem alicuius specialis peccati in pluribus peccatorum generibus materialiter inveniri. Et secundum hoc, in multis generi­ bus peccatorum invenitur ingratitudinis ratio. Ad tertium dicendum quod illa tria non sunt diversae species, sed diversi gradus unius specialis peccati.

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male si ha quando si disprezza direttamente un beneficio. E questo è un peccato specifico. 2. Nulla impedisce che la ragione formale di un peccato specifico si riscontri materialmen­ te in molti generi di peccati. E in questo senso la ragione formale dell'ingratitudine si riscon­ tra in peccati di vario genere. 3. Quei tre atti non sono specificamente di­ stinti, ma sono gradi diversi di un unico pec­ cato specifico.

Articulus 3

Articolo 3

Utrurn ingratitudo semper sit peccatum mortale

Uingratitudine è sempre un peccato mortale?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod ingra­ titudo semper sit peccatum mortale. l . Deo enim maxime debet aliquis esse gra­ tus. Sed peccando venialiter homo non est in­ gratus Deo, alioquin omnes essent ingrati. Ergo nulla ingratitudo est veniale peccatum. 2. Praeterea, ex hoc aliquod peccanun est mor­ tale quod contrariatur caritati, ut supra [q. 24 a. 1 2; 1-11 q. 72 a. 5] dictum est. Sed ingratitu­ do contrariatur caritati, ex qua procedit debi­ tum gratitudinis, ut supra [q. 1 06 a. 6 ad 2] dictum est. Ergo ingratitudo semper est peccatum mortale. 3. Praeterea, Seneca dicit, in 2 De benef. [10],

Sembra di sì. Infatti: l. La riconoscenza è dovuta soprattutto a Dio. Ma col peccato veniale non si è ingrati verso Dio: altrimenti tutti sarebbero ingrati. Quindi l'ingratitudine non è mai un peccato veniale. 2. Abbiamo visto sopra che un peccato è mor­ tale perché si contrappone alla carità. Ora l'ingratitudine, come si è notato, si contrappo­ ne alla carità, dalla quale deriva il debito della gratitudine. Perciò l'ingratitudine è sempre un peccato mortale. 3. Seneca ha scritto: «La legge della benefi­ cenza è questa: il benefattore deve subito di­ menticare, mentre il beneficato deve sempre ricordare». Ma il primo deve dimenticare, a quanto sembra, per non rilevare il peccato del beneficato, qualora questi mancasse di gratitu­ dine. n che però non sarebbe richiesto se l'in­ gratitudine fosse un peccato leggero. Quindi l'ingratitudine è sempre un peccato mortale. In contrario: a nessuno si deve dare occasione di peccare mortalmente. Ora, Seneca insegna che «talora bisogna ingannare il beneficato in modo che egli non sappia da chi ha ricevuto»: il che sembra offrire al beneficato l'occasione di essere ingrato. Perciò l ' ingratitudine non è sempre un peccato mortale. Risposta: nell'articolo precedente abbiamo chiarito che si può essere ingrati in due modi. Primo, per semplice omissione: quando uno p. es. non riconosce internamente o esterna­ mente il beneficio, oppure non lo contraccam­ bia. E questo non sempre è un peccato morta­ le. Poiché il debito della gratitudine, come sopra si è notato, abbraccia anche un sovrap-

haec beneficii /ex est, alter statim oblivisci de­ ber dati, alter memor esse accepti. Sed propter hoc, ut videtur, debet oblivisci, ut lateat eum peccatum recipientis, si contingat eum esse ingratum. Quod non oporteret si ingratitudo esset leve peccatum. Ergo ingratitudo semper est mortale peccatum. Sed contra est quod nulli est danda via peccan­ di mmtaliter. Sed sicut Seneca dicit, ibidem [De benef. 2,9], interdwn qui iuvatur fal­

lendus est, ut habeat, nec a quo acceperit sciat, quod videtur viam ingratitudinis reci­

pienti praebere. Ergo ingratitudo non semper est peccatum mortale. Respondeo dicendum quod, sicut ex dictis [a. 2] patet, ingratus dicitur aliquis dupliciter. Uno modo, per solam omissionem, puta quia non recognoscit, vel non laudat, vel non retribuit vices pro beneficio accepto. Et hoc non sem­ per est peccatum mortale. Quia, ut supra [q. 106 a. 6] dictum est, debitum gratitudinis

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L 'ingratitudine

est ut homo aliquid etiam liberaliter tribuat ad quod non tenetur, et ideo, si illud praetermittit, non peccat mortaliter. Est tamen peccatum veniale, quia hoc provenit ex negligentia quadam, aut ex aliqua indispositione hominis ad virtutem. Potest tamen contingere quod etiam talis ingratitudo sit mortale peccatum, vel propter interiorem contemptum; vel etiam propter conditionem eius quod subtrahitur, quod ex necessitate debetur benefico, sive simpliciter sive in aliquo necessitatis casu. Alio modo dicitur aliquis ingratus, quia non solum praetermittit implere gratitudinis de­ bitum, sed etiam conlrarium agit. Et hoc etiam, secundum conditionem eius quod agi­ tur, quandoque est peccatum mortale, quando­ que veniale. - Sciendum tamen quod ingrati­ tudo quae provenit ex peccato mortali habet perfectam ingratitudinis rationem, illa vero quae provenit ex peccato veniali, imperfectam. Ad primum ergo dicendum quod per pecca­ turo veniale non est aliquis ingratus Deo secundum perfectam ingratitudinis rationem. Habet tamen aliquid ingratitudinis, inquan­ tum peccatum veniale tollit aliquem actum virtutis, per quem homo Deo obsequitur. Ad secundum dicendum quod ingratitudo quae est cum peccato veniali non est contraria caritati, sed est praeter ipsam, quia non tollit habitum caritatis, sed aliquem actum ipsius excludit. Ad tertium dicendum quod idem Seneca dicit, in 7 De benef. [22], errat si quis aestimat, cum

dicimus eum qui bene.ficium dedit oblivisci oportere, excutere nos illi memoriam rei, praesertim honestissimae. Cum ergo dicimus, meminisse non debet, hoc volumus intelligi, praedicare non debet, nec iactare. Ad quartum dicendum quod ille qui ignorat beneficium non est ingratus si beneficium non recompenset, dummodo sit paratus recom­ pensare si noscet. Est autem laudabile quando­ que ut ille cui providetur beneticium ignoret, n1m propter inanis gloriae vitationem, sicut beatus Nicolaus [cf. Iacobum a Voragine, Le­ genda Aurea 3, l ; Mombritius, Sanctuarium, Vita B. Nicolai Episcopi; Breviarium S.O.P., die 6 decembris Ad Matutinum, lect. quarta], aurum furtim in domum proiiciens, vitare vo­ luit humanum favorem; tum etiam quia in hoc ipso amplius beneficium facit quod consulit verecundiae eius qui beneficium accipit.

Q. 107, A. 3

più a cui non si è strettamente tenuti: per cui, se uno lo tralascia, non fa peccato mortale. Tuttavia si ha un peccato veniale: poiché ciò deriva da una certa negligenza, oppure da una scarsa inclinazione alla virtù. In certi casi però tale ingratitudine può anche essere un peccato mortale: o per il disprezzo del beneficio rice­ vuto, oppure per il compenso che è negato e che è dovuto rigorosamente al benefattore, o in modo assoluto, o in caso di necessità. Secondo, si può essere ingrati non solo trascu­ rando il debito della riconoscenza, ma anche rendendo male per bene. E anche in questo caso il peccato può essere mortale o veniale a seconda delle azioni compiute. - Si deve però notare che l'ingratitudine commessa con un peccato mortale ha la pe1fetta natura dell'in­ gratitudine, mentre quella compiuta con un peccato veniale è un'ingratitudine imperfetta. Soluzione delle difficoltà: l . Col peccato ve­ niale non si è ingrati verso Dio con un'ingra­ titudine perfetta. Tuttavia la colpa veniale ha un certo aspetto di ingratitudine: in quanto sa­ crifica un atto virtuoso col quale l'uomo deve rendere onore a Dio. 2. L'ingratitudine implicita nel peccato venia­ le non è contraria, ma estranea alla carità: poi­ ché essa non esclude la carità, bensì un qual­ che atto della medesima. 3. Lo stesso Seneca spiega: «Sarebbe un erro­ re credere che quando affermiamo che i l benefattore deve dimenticare i l beneficio vo­ gliamo proibirgli il ricordo di un'azione, e per di più virtuosa. Perciò quando diciamo che non deve ricordarla vogliamo intendere che non deve fame pubblicità o vantarsene». 4. [S.e.]. Chi non sa di essere stato beneficato non cade nell' ingratitudine se non contrac­ cambia, purché sia disposto a farlo qualora lo venga a sapere. Ma talvolta è cosa lodevole che il beneficato non lo sappia: sia per evitare la vanagloria, sull'esempio di Nicola che per fuggire la lode umana gettò di nascosto del danaro dentro tma casa, sia anche perché così compie un beneficio più grande, risparmiando al beneficato la vergogna della sua indigenza.

L 'ingratitudine

Q. 107, A. 4

Articulus 4

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Articolo 4

Utrnrn ingratis sint beneficia subtrahenda

Si deve togliere il beneficio agli ingrati?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod in­ gratis sint beneficia subtrahenda. l . Dicitur enim Sap. 1 6 [29], ingratis spes tan­ quam hibemalis glacies tabescet. Non autem eius spes tabesceret si non esset ei beneficium subtrahendum. Ergo sunt subtrahenda benefi­ cia ingratis. 2. Praeterea, nullus debet alteri praebere occa­ sionem peccandi. Sed ingratus beneficium re­ cipiens sumit ingratitudinis occasionem ergo non est ingrato beneficium dandum. 3 . Praeterea, in quo quis peccar, per hoc et torquetur, ut dicitur Sap. 1 1 [ 17]. Sed ille qui ingratus est beneficio accepto, peccat contra beneficium. Ergo est beneficio privandus. Sed contra est quod dicitur Luc. 6 [35], quod

Sembra di sì. Infatti: l . In Sap 16 [29] è detto: La speranza dell'in­

Altissimus benignus est super ingratos et ma­ los. Sed eius per imitationem nos fi1ios esse oportet, ut ibidem dicitur. Ergo non debemus beneficia ingratis subtrahere. Respondeo dicendum quod circa ingratum duo consideranda sunt. Primo quidem, quid ipse dignus sit pati. Et sic certum est quod meretur beneficii subtractionem. Alio modo, considerandum est quid oporteat beneficum facere. Primo namque, debet non esse facilis ad ingratitudinem iudicandam, quiajì-equenter aliquis, ut Seneca dicit [De benef. 3,7], qui non reddidit, graftts est; quia forte non occurrit ei facultas aut debita opportunitas reddendi. Secondo, debet tendere ad hoc quod de ingra­ to gratum faciat, quod si non potest primo beneficio facere, forte faciet secundo. Si vero ex beneficiis multiplicatis ingratitudinem au­ geat et peior fiat, debet a beneficiorum exhibi­ tione cessare. Ad primum ergo dicendum quod auctoritas il­ la loquitur quantum ad id quod ingratus di­ gnus est pati. Ad secundum dicendum quod ille qui ingrato beneticium exhibet non dat ei occasionem peccandi, sed magis gratitudinis et amoris. Si vero ille qui accipit ingratitudinis exinde oc­ casionem sumat, non est danti imputandum. Ad tertium dicendum quod ille qui benefi­ cium dat non statim debet se exhibere punito­ rem ingratitudinis, sed prius pium medicum, ut sci1icet iteratis beneficiis ingratitudinem sanet.

grato si scioglierà come ghiaccio invemale. Ma la sua speranza non si dissolverebbe se non meritasse la cessazione della beneficien­ za. Quindi si deve cessare di fare del bene agli ingrati. 2. A nessuno si devono offrire occasioni di peccato. Ora l'ingrato, nel ricevere i benefici, è messo nell' occasione di peccare di ingrati­ tudine. Perciò gli va negata la beneficenza. 3. Le stesse cose con cui uno pecca devono servire a castigarlo (Sap 1 1 , 1 7). Ma l'ingrato pecca contro il beneficio ricevuto. Quindi de­ ve esserne privato. In contrario: in Le 6 [35] è detto: L'Altissimo è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Ma noi dobbiamo essere suoi figli per imitazione, co­ me si dice in quello stesso passo. Quindi non dobbiamo togliere i benefici agli ingrati. Risposta: a proposito dell'ingratitudine si de­ vono considerare due cose. Primo, ciò che l'ingrato si merita. E da questo lato è certo che costui merita che si cessi di beneficarlo. Se­ condo, si deve considerare ciò che deve com­ piere il benefattore. Ora, in primo luogo egli non deve facilmente credere all'ingratitudine: poiché, come dice Seneca, «spesso chi non ha dato il contraccambio è pieno di gratitudine», non avendo ancora trovato i mezzi o l'occasio­ ne per farlo. Inoltre egli deve mirare a rendere grato chi è ingrato; e se non è riuscito col pri­ mo beneficio, può riuscire con i successivi. Se però con la ripetizione dei benefici l'altro au­ mentasse la sua ingratitudine e divenisse peg­ giore, allora si deve cessare di beneficarlo. Soluzione delle difficoltà: l . Il testo citato parla [solo] di ciò che l'ingrato si merita. 2. Chi fa del bene a un ingrato non offre a lui un'occasione di peccato, ma piuttosto di gra­ titudine e di amore. E se chi lo riceve ne pren­ de occasione per commettere un'ingratitudi­ ne, ciò non va imputato al benefattore. 3. Chi offre un beneficio non deve subito tra­ sformarsi in giustiziere dell'ingratitudine su­ bita, ma in medico pietoso: cioè deve fare in modo di guarire l ' ingratitudine moltiplicando i benefici.

Q. 1 08, A. l

La vendetta

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QUAESTIO 1 08 DE VINDICATIONE

QUESTIONE 1 08 LA VENDETTA

Deinde considerandum est de vindicatione. Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, utrum vindicatio sit licita. Secundo, utrum sit specia­ lis virtus. Tertio, de modo vindicandi. Quarto, in quos sit vindicta exercenda.

Passiamo ora a trattare della vendetta. Sull'ar­ gomento esamineremo quattro punti: l . La vendetta è lecita? 2. È una virtù specificamen­ te distinta? 3. n modo di compiere la vendetta; 4. Contro chi deve essere esercitata?

Articulus l Utrum vindicatio sit licita

Articolo l La vendetta è lecita?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod vindicatio non sit licita. l . Quicumque enim usurpat sibi quod Dei est, peccat. Sed vindicta pertinet ad Deum, dicitur enim Deut. 32 [35], secundum aliam litteram, mihi vindictam, et ego retribuam. Ergo omnis vindicatio est illicita. 2. Praeterea, ille de quo vindicta sumitur, non toleratur. Sed mali sunt tolerandi, quia super illud Cant. 2 [2], sicut lilium inter spinas, dicit Glossa [ord.; Greg., In Ev. h. 2,38], non fuit bonus qui malos tolerare non potuit. Ergo vindicta non est sumenda de malis. 3. Praeterea, vindicta per poenas fit, ex quibus causatur timor servilis. Sed lex nova non est lex timoris, sed amoris, ut Augustinus dicit, Contra Adamantum [ 17]. Ergo, ad minus in Novo Testamento, vindicta fieri non debet. 4. Praeterea, ille dicitur se vindicare qui iniurias suas ulciscitur. Sed, ut videtur, non licet etiam iudici in se delinquentes punire, dicit enim Chrysostomus, Super Matth. [Op. imperf. in Matth. h. 5 super 4, l 0], discamus exemplo Christi nostras iniurias magnanimiter sustinere, Dei autem iniurias nec usque ad auditum suf­ ferre. Ergo vindicatio videtur esse illicita 5. Praeterea, peccatum multitudinis magis est nocivum quam peccatum unius tantum, dici­ tur enim Eccli. 26 [5-6], a tribus timuit cor meum, zelaturam civitatis, et collectionem populi. Sed de peccato multitudinis non est vindicta sumenda, quia super illud Matth. 1 3 [29-30], sinite utraque crescere, ne fmte eradi­ cetis triticum, dicit Glossa [ord.] quod multi­ ntdo non est excommunicanda, nec princeps. Ergo nec alia vindicatio est licita. Sed contra, nihil est expectandum a Deo nisi quod est bonum et licitum. Sed vindicta de hostibus est expectanda a Deo, dicitur enim Luc . 1 8 [7] , Deus non faciet vindictam

Sembra di no. Infatti: l . Chiunque usurpa un compito di Dio com­ mette peccato. Ma la vendetta è un compito di Dio, come è detto in Dt 32 [35]: A me la ven­ detta e il castigo. Quindi qualsiasi vendetta è illecita. 2. La persona di cui ci si vendica non è tolle­ rata. Invece i malvagi vanno tollerati, poiché nel commentare Ct 2 [2]: Come un giglio tra le spine, la Glossa afferma: «Non è veramente buono chi non è stato capace di sopportare i malvagi». Quindi di costoro non ci si deve vendicare. 3. La vendetta si compie con dei castighi, i quali causano il timore servile. Ora, la nuova legge non è una legge di timore, ma di amore, come dice Agostino. Perciò almeno nel Nuovo Testamento la vendetta non è lecita. 4. Si dice che si vendica colui che si rità delle ingiurie subite. Ora, neppure al giudice è lecito punire quelli che lo offendono personalmente, stando alle parole del Crisostomo: «Impariamo dali' esempio di Cristo a sopportare con ma­ gnanimità le ingiurie fatte a noi, e a non sop­ portare neppure l'ombra delle ingiurie fatte a Dio». Quindi la vendetta sembra illecita. 5. Il peccato di un popolo è più dannoso del peccato individuale; in Sir 26 [5] infatti è detto: Tre cose teme il mio cuore: una calun­ nia diffusa in città e un tumulto di popolo. Ma per il peccato del popolo non è lecito fare vendetta, poiché a proposito di Mt 1 3 [29] : Lasciate/i crescere insieme, affinché non sra­ dichiate anche il grano, la Glossa spiega che «il popolo, come anche il principe, non deve mai essere scomunicato». Quindi è proibita anche ogni altra vendetta. In contrario: da Dio non possiamo attendere che cose buone e lecite. Ma da Dio dobbiamo attendere la vendetta dei nostri nemici, poiché

Q. 108, A. l

La vendetta

electorum suorum clamantium ad se die ac nocte? Quasi diceret, immofaciet. Ergo vindi­ catio non est per se mala et illicita. Respondeo dicendum quod vindicatio fit per aliquod poenale malum inflictum peccanti. Est ergo in vindicatione considerandus vindicantis animus. Si enim eius intentio feratur principa­ liter in malum illius de quo vindictam surnit, et ibi quiescat, est omnino illicitum, quia de­ lectari in malo alterius pertinet ad odium, quod caritati repugnat, qua ornnes homines debemus diligere. Nec aliquis excusatur s i malum intendat illius qui sibi iniuste intulit malum, sicut non excusatur aliquis per hoc quod odit se odientem. Non enim debet homo in alium peccare, propter hoc quod ille pecca­ vit prius in ipsum, hoc enim est vinci a malo, quod apostolus prohibet, Rom. 1 2 [2 1], di­ cens, noli vinci a malo, sed vince in bono ma­ lum. Si vero intentio vindicantis feratur principaliter ad aliquod bonum, ad quod per­ venitur per poenam peccantis, puta ad emen­ dationem peccantis, vel saltem ad cohibitio­ nem eius et quietem aliomm, et ad iustitiae conservationem et Dei honorem, potest esse vindicatio licita, aliis debitis circumstantiis servatis. Ad primum ergo dicendum quod ille qui se­ cundum gradum sui ordinis vindictam exercet in malos, non usurpat sibi quod Dei est, sed utitur potestate sibi divinitus concessa, dicitur enim Rom. 1 3 [4], de principe terreno, quod -

Dei minister est, vindex in iram ei qui male agit. Si autem praeter ordinem divinae institu­

tionis aliquis vindictam exerceat, usurpat sibi quod Dei est, et ideo peccat. Ad secundum dicendum quod mali tolerantur a bonis in hoc quod ab eis proprias iniurias patienter sustinent, secundum quod oportet, non autem tolerant eos ut sustineant iniurias Dei et proximorum. Dicit enim Chrysosto­ mus, Super Matth. [cf. Op. imperf. in Matth. h . 5 super 4, l 0], in propriis iniuriis esse

quempiam patientem, laudabile est, iniurias autem Dei dissimulare nimis est impiwn.

Ad tertium dicendum quod lex Evangelii est lex amoris. Ideo illis qui ex amore bonum operantur, qui soli proprie ad Evangelium pertinent, n on est timor incutiendus per poenas, sed solum illis qui ex amore non mo­ ventur ad bonum, qui, etsi numero sint de Ec­ clesia, non tamen merito.

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in Le 18 [7] è detto: Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui?, come per dire: «La farà certamente». Quindi di per sé la vendetta non è cattiva e illecita. Risposta: la vendetta è compiuta mediante un castigo inflitto al colpevole. Perciò nella ven­ detta si deve considerare quale sia l' intenzio­ ne di chi la compie. Se infatti tale intenzione mira principalmente al male del colpevole, per trovarvi la propria soddisfazione, la ven­ detta è assolutamente illecita: poiché ralle­ grarsi del male altrui è proprio dell' odio, il quale è incompatibile con la carità, che deve estendersi a tutti. E uno non è scusato per il fatto che desidera del male a una persona col­ pevole di aveme procurato ingiustamente a lui: come non si è autorizzati a odiare chi ci odia. Infatti uno non può peccare contro altre persone per il fatto che queste hanno prima peccato contro di lui; poiché ciò è farsi vince­ re dal male, mentre Paolo in Rm 1 2 [21 ] ammonisce: Non /asciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male. - Se invece l 'in­ tenzione di chi aspira alla vendetta tende prin­ cipalmente a un bene al quale si giunge me­ diante la punizione dei colpevoli, p. es. al loro emendamento, o almeno alla repressione del male per la pubblica quiete, oppure alla tutela della giustizia e ali ' onore di Dio, allora la vendetta può essere lecita, purché siano ri­ spettate le altre debite circostanze. Soluzione delle difficoltà: l . Chi esercita la vendetta sui malvagi nei limiti delle proprie fa­ coltà non uswpa i diritti di Dio, ma si serve dei poteri che ha ricevuto da lui: infatti in Rm 1 3 [4] è detto che l' autorità civile è al servizio di

Dio, e vindice dell'ira divina per chifa il male.

Se invece uno esercita la vendetta senza rispet­ tare l'ordine costituito da Dio, allora usurpa i diritti di Dio, e quindi commette peccato. 2. I malvagi sono tollerati dai buoni in quanto questi nei limiti del dovere ne sopportano le ingiurie personali; i buoni però non tollerano le ingiurie commesse contro Dio e il prossi­ mo. Infatti il Crisostomo afferma: «La pa­ zienza nel sopportare le ingiurie personali è una cosa lodevole; ma sopportare le ingiurie verso Dio è il colmo dell'empietà». 3. La legge evangelica è una legge di amore. Perciò non si deve incutere timore con i casti­ ghi a coloro che compiono il bene per amore,

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Q. 1 08, A. l

La vendetta

Ad quartum dicendum quod iniuria quae in­ fertur personae alicui quandoque redundat in Deum et in Ecclesiam, et tunc debet aliquis propriam iniuriam ulcisci. Sicut patet de Elia, qui fecit ignem descendere super eos qui venerant ad ipsum capiendum, ut legitur 4 Reg. l [9 sqq.]. Et similiter Elisaeus maledixit pueris eum irridentibus, ut habetur 4 Reg. 2 [22-24]. Et Silvester Papa excommunicavit eos qui eum in exilium miserunt, ut habetur 23, q. 4 [Decretum, P. 2, causa 23, q. 4, can. 30]. Inquantum vero iniuria in aliquem illata ad eius personam pertinet, debet eam tolerare patienter, si expediat. Huiusmodi enim prae­ cepta patientiae intelligenda sunt secundum praeparationem animi, ut Augustinus dicit, in libro De serm. Dom. in monte [ 1 , 1 9-20]. Ad quintum dicendum quod quando tota mul­ titudo peccat, est de ea vindicta sumenda vel quantum ad totam multitudinem, sicut Ae­ gyptii submersi sunt in mari rubro persequen­ tes filios lsrael, ut habetur Ex. 14 [22 sqq.], et sicut Sodomitae universaliter perierunt, vel quantum ad magnam multitudinis partem, sicut patet Ex. 32 [27-28], in poena eorum qui vitulum adoraverunt. - Quandoque vero, si speretur multorum correctio, debet severitas vindictae exerceri in aliquos paucos principa­ liores, quibus punitis ceteri terreantur, sicut Dominus, Num. 25 [4], mandavit suspendi principes populi pro peccato multitudinis. Si autem non tota multitudo peccavit, sed pro parte, tunc, si possunt mali secerni a bonis, debet in eos vindicta exerceri, si tamen hoc fieri possit sine scandalo aliorum. Alioquin, parcendum est multitudini, et detrahendum severitati . - Et eadem ratio est de principe, quem sequitur multitudo. Tolerandum enim est peccatum eius, si sine scandalo multitudi­ nis puniri non posset, nisi forte esset tale peccatum principis quod magis noceret multi­ tudini, vel spiritualiter vel temporaliter, quam scandalum quod exinde timeretur.

e che soli propriamente appartengono al Vange­ lo, ma soltanto a quelli che non sono portati al bene per amore, e che, sebbene appartengano alla Chiesa perché accrescono il «numero» dei fedeli, tuttavia non ne accrescono il «merito». 4. Le ingiurie personali talora ricadono su Dio e sulla Chiesa: e allora si è tenuti a vendicarle. Come è evidente nel caso di Elia che fece discendere il fuoco su coloro che erano venuti a catturarlo (2 Re 1 ,9 ss.). E anche Eliseo lan­ ciò la maledizione sui fanciulli che lo schemi­ vano (2 Re 2,23 s.). Il papa Silvestro poi sco­ municò coloro che lo avevano mandato in esi­ lio. Se invece l'ingiuria ricade esclusivamente sulla propria persona, allora essa va tollerata con pazienza, se la cosa può giovare. Come spiega infatti Agostino, queste norme sulla pazienza sono da intendersi come predisposi­ zioni d'animo in caso di bisogno. 5. Quando è tutto il popolo che pecca, la ven­ detta va fatta su tutto il popolo, come furono sommersi nel Mar Rosso gli Egiziani che per­ seguitavano i figli d'Israele (Es 14,22 ss.), e come furono colpiti in blocco gli abitanti di Sodoma [Gen 19,25]; oppure va colpito un numero rilevante di persone, come avvenne nel castigo inflitto per l'adorazione del vitello d'oro (Es 32,27). - Talora invece, se si spera l'emendamento di molti, la severità della ven­ detta deve colpire pochi esponenti, la cui punizione incuta timore negli altri: come è detto in Nm 25 [4] che il Signore comandò di impiccare i capi per il peccato di tutto il popo­ lo. Se invece il popolo non ha peccato in bloc­ co, ma in parte, allora, quando i colpevoli possono essere riconosciuti, la vendetta va esercitata su di essi : se però il castigo è possi­ bile senza pregiudizio degli altri. Altrimenti si deve perdonare al popolo rinunciando alla severità. - E lo stesso si dica per il principe che rappresenta il popolo. Infatti il suo pecca­ to va tollerato, se non può essere punito senza scandalo dei sudditi: a meno che non sia tale da nuocere al popolo, nell'ordine spirituale o temporale, più dello scandalo che potrebbe nascere dalla punizione.

Articulus 2 Utrum vindicatio sit specialis virtus ab aliis distincta

Articolo 2 La vendetta è una virtù specificamente distinta dalle altre?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod

Sembra di no. Infatti:

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La vendetta

vindicatio non sit specialis virtus ab ali i s distincta. l . Sicut enim remunerantur boni pro his quae bene agunt, ita puniuntur mali pro his quae ma­ le agunt. Sed remuneratio bonorum non perti­ net ad aliquam specialem virtutem, sed est actus commutativae iustitiae. Ergo, pari ratione, et vindicatio non debet poni specialis virtus. 2. Praeterea, ad actum illum non debet ordi­ nari specialis virtus ad quem homo sufficien­ ter disponitur per alias virtutes. Sed ad vindi­ candum mala sufficienter disponitur homo per virtutem fortitudinis et per zelum. Non er­ go vindicatio debct poni specialis virtus. 3 . Praeterea, cuilibet speciali virtuti aliquod speciale vitium opponitur. Sed vindicationi non videtur opponi aliquod speciale vitium. Ergo non est specialis virtus. Sed contra est quod Tullius [Rhet. 2,53] ponit eam partem iustitiae. Respondeo dicendum quod, sicut philosophus dicit, in 2 Ethic. [1,3], aptitudo ad virtutem inest nobis a natura, licet complementum virtutis sit per assuetudinem vel per aliquam aliam cau­ sam. Unde patet quod virtutes perficiunt nos ad prosequendum debito modo inclinationes naturales, quae pertinent ad ius naturale. Et ideo ad quamlibet inclinationem naturalem determi­ natam ordinatur aliqua specialis virtus. Est autem quaedam specialis inclinatio naturae ad removendum nocumenta, unde et animalibus datur vis irascibilis separatim a vi concupisci­ bili. Repellit autem homo nocumenta per hoc quod se defendit contra iniurias, ne ei infe­ rantur, vel iam illatas iniurias ulciscitur, non intentione nocendi, sed intentione removendi nocumenta. Hoc autem pertinet ad vindicatio­ nem, dicit enim Tullius, in sua Rhetorica [2,53], quod vindicatio est per quam vis aut infuria, et omnino quidquid obscurum est, idest ignomi­ niosum, defendendo aut ulciscendo propulsa­ tur. Unde vindicatio est specialis virtus. Ad primum ergo dicendum quod sicut recom­ pensatio debiti legalis pertinet ad iustitiam com­ mutativam, recompensatio autem debiti moralis quod nascitur ex particulari beneficio exhibito, pertinet ad virtutem gratiae; ita etian1 punitio peccatorum, secundum quod pertinet ad publi­ cam iustitiam, est actus commutativae iustitiae; secundum autem quod pertinet ad immunita­ tem alicuius personae singularis, a qua iniuria propulsatur, pertinet ad virtutem vindicationis.

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l . Come sono ricompensati i buoni per il bene compiuto, così sono puniti i cattivi per le loro malvagità. Ma ricompensare le opere buone non appartiene a una virtù speciale, essendo un atto della giustizia commutativa. Quindi per lo stesso motivo neppure la vendetta deve essere considerata una virtù speciale. 2. Non si deve ricoiTere a una virtù speciale per un atto al quale l'uomo è già sufficiente­ mente predisposto da altre virtù. Ma a vendi­ care il male l'uomo è sufficientemente predi­ sposto dalla virtù della fortezza e dallo zelo. Perciò la vendetta non deve essere considera­ ta una virtù specificamente distinta. 3. A ogni virtù specifica si contrappone un vizio specifico. Ma alla vendetta non sembra che si contrappongano dei vizi specifici. Quindi essa non è una virtù specifica. In contrario: Cicerone enumera la vendetta fra le parti [potenziali] della giustizia. Risposta: come insegna il Filosofo, la predi­ sposizione alla virtù è in noi innata, sebbene la virtù nella sua perfezione derivi dall'esercizio, o da altre cause. Per cui è evidente che le virtù ci dispongono a perseguire nel debito modo le inclinazioni naturali, che appartengono alla legge naturale. E così a ogni inclinazione natu­ rale corrisponde una virtù speciale. Ora, esiste una certa speciale inclinazione naturale a com­ battere le cose nocive: infatti anche gli animali sono provvisti dell'irascibile, che è una facoltà distinta dal concupiscibile. Ma l'uomo respin­ ge le cose nocive difendendosi dalle ingiurie, oppure vendicandosi delle ingiurie subite, non con l'intenzione di nuocere, bensì con quella di eliminare il male. E questo è precisamente il compito della vendetta: infatti Cicerone scri­ ve che «la vendetta ha il compito di respingere o di punire la violenza, l'ingiuria e ogni altro danno», o ignominia. Quindi la vendetta è una virtù specificamente distinta. Soluzione delle difficoltà: l . Come il saldo del debito legale appartiene alla giustizia commutativa, ma il saldo del debito morale, che nasce da un favore particolare, appartiene alla virtù della riconoscenza, così, allo stesso modo, la punizione delle colpe fatta dalla giu­ stizia pubblica è un atto della giustizia com­ mutativa, ma quella che è inflitta per salva­ guardare l'immunità di una persona privata, di cui si vendica l ' ingiuria, appartiene alla virtù della vendetta.

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La vendetta

Ad secundum dicendum quod fortitudo dispo­ nit ad vindictam removendo prohibens, scilicet timorem periculi imminentis. Zelus autem, secundum quod importat fervorem amoris, importat primam radicem vindicationis, prout aliquis vindicat iniurias Dei vel proximorum, quas ex caritate reputat quasi suas. Cuiuslibet autem virtutis actus ex radice caritatis procedit, quia, ut Gregorius dicit, in quadam homilia [In Ev. h. 2,27], nihil habet viriditatis ramus boni

operiJ� si non p1Vcedat ex radice caritatis. Ad tertium dicendum quod vindicationi oppo­ nuntur duo vitia. Unum quidem per excessum, scilicet peccatum crudelitatis vel saevitiae, quae excedit mensuram in puniendo. Aliud autem est vitium quod consistit in defectu, sicut cum aliquis est nimis remissus in puniendo, unde dicitur Prov. 1 3 [24], qui parcit virgae, odit filium suum. Virtus autem vindicationis con­ sistit ut homo secundum omnes circumstantias debitam mensuram in vindicando conservet Articulus

3

2.

La fortezza predispone alla vendetta to­ gliendo gli ostacoli, ossia la paura del perico­ lo da affrontare. Lo zelo invece, in quanto sta a indicare un amore fervente, implica la prima radice della vendetta, poiché uno vendica le ingiurie fatte a Dio e al prossimo giacché la carità gliele fa considerare come fatte a sé. Ora, gli atti di qualsiasi virtù derivano tutti dalla carità: poiché, secondo Gregorio, «le opere buone sono rami secchi se non derivano dalla radice della carità». 3. Alla vendetta si contrappongono due vizi. n primo è per eccesso: cioè il peccato di cru­ deltà o di durezza, che nel punire passa la mi­ sura. n secondo è invece per difetto, ed è pro­ prio di chi nel punire è troppo blando. Per cui in Pr 1 3 [24] è detto: Chi risparmia il ba­ stone, odia suo figlio. Invece la virtù della vendetta consiste nel punire rispettando in tut­ te le circostanze la debita misura.

Articolo

3

Utrum vindicatio debeat fieri per poenas apud homines consuetas

La vendetta va esercitata con i castighi in uso presso gli uomini?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod vindi­ catio non debeat fieri per poenas apud homi­ nes consuetas. l . Occisio enim hominis est quaedam eradi­ catio eius. Sed Dominus mandavit, Matth. 1 3 [29-30], quod zizania, per quae significantur filii nequam, non eradicarentur. Ergo peccato­ res non sunt occidendi. 2. Praeterea, quicumque mortaliter peccant, eadem poena videntur digni. Si ergo aliqui mortaliter peccantes morte puniuntur, videtur quod omnes tales deberent morte puniri. Quod patet esse falsum. 3. Praeterea, cum aliquis pro peccato punitur manifeste, ex hoc peccatum eius manifestatur. Quod videtur esse nocivum moltitudini, quae ex exemplo peccati sumit occasionem pec­ candi. Ergo videtur quod non sit poena mortis pro aliquo peccato intligenda. Sed contra est quod in lege divina his huiusmo­ di poenae determinantur, ut ex supra [1-11 q. l 05 a. 2 ad 9- 1 O] dictis patet. Respondeo dicendum quod vindicatio intan­ tum licita est et virtuosa inquantum tendit ad cohibitionem malorum. Cohibentur autem aliqui a peccando, qui affectum virtutis non

Sembra di no. Infatti: l . L'uccisione di un uomo è una specie di sra­ dicamento. Ora, il Signore in Mt 1 3 [29] co­ manda di non sradicare la zizzania, che sta a indicare i malvagi. Quindi non si devono mai uccidere i colpevoli. 2. Tutti quelli che peccano mortalmente sem­ brano degni della medesima pena. Se quindi alcuni che peccano mortalmente sono puniti con la morte, tutti i peccatori dovrebbero es­ sere puniti con la pena di morte. n che è falso in maniera evidente. 3. Quando uno è punito pubblicamente, il suo peccato diventa manifesto. Ma ciò è dannoso per il popolo, che dal cattivo esempio prende occasione di peccare. Quindi sembra che non ci sia un peccato tale da implicare la pena di morte. In contrario: nella stessa legge di Dio si trova la determinazione di tali pene, come si è visto sopra. Risposta: la vendetta in tanto è lecita e virtuo­ sa in quanto tende a reprimere i malvagi. Ora, chi non ama la virtù è trattenuto dal peccare per il timore di perdere quei beni che sono da lui amati più di quelli raggiungibili col peccato:

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La vendetta

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habent, per hoc quod timent amittere aliqua quae plus amant quam illa quae peccando adipiscuntur, alias timor non compesceret peccatum. Et ideo per subtractionem omnium quae homo maxime diligit, est vindicta de peccatis sumenda. Haec sunt autem quae homo maxime diligit, vitam, incolumitatem corporis, libertatem sui, et bona exteriora, puta divitias, patriam et gloriam. Et ideo, ut Augustinus refert, 21 De civ. Dei [ I l ], octo

genera poenarum in legibus esse scribit Tul­ lius, scilicet mortem, per quam tollitur vita; verbera et talionem (ut scilicet oculum pro oculo perdat), per quae amittit corporis inco­ lumitatem; servitutem et vincula, per quae perdit libertatem; exilium, per quod perdit patriam; damnum, per quod perdit divitias; ignominiam, per quam perdit gloriam. Ad primum ergo dicendum quod dominus prohibet eradicari zizania quando timetur ne simul cum eis eradicetur et triticum. Sed quandoque possunt eradicari mali per mortem non solum sine periculo, sed etiam cum ma­ gna utilitate bonorum. Et ideo in tali casu po­ test poena mortis peccatoribus infligi. Ad secundum dicendum quod omnes pec­ cantes mortaliter digni sunt morte aeterna quantum ad futuram retributionem, quae est secundum veritatem divini iudicii. Sed poenae praesentis vitae sunt magis medicinales. Et ideo illis solis peccatis poena mortis intligitur quae in gravem perniciem aliorum cedunt. Ad tertium dicendum quod quando simul cum culpa innotescit et poena, vel mortis vel quae­ cumque alia quam homo horret, ex hoc ipso voluntas eius a peccando abstrahitur, quia plus terret poena quam alliciat exemplum culpae.

altrimenti il timore non impedirebbe la colpa. Perciò le colpe vanno punite con la privazione di tutti quei beni che sono più amati dall'uo­ mo, quali la vita, l'incolumità del corpo, la libertà e i beni esterni quali le ricchezze, la patria e il buon nome. Per questo, come riferi­ sce Agostino, «Cicerone ha affermato che dalle leggi sono contemplati otto geneti di pe­ ne», cioè: «la morte», che priva della vita; «la fustigazione» e «la pena del taglione» (ossia l' «occhio per occhio»), con cui è compromes­ sa l'incolurnità del corpo; «la schiavitù» e «la carcerazione», che tolgono la libertà; «l'esi­ lio», per cui si perde la patria; «il danno», che sacrifica le ricchezze, e «l'infamia>>, che to­ glie il buon nome. Soluzione delle difficoltà: l . ll Signore proibi­ sce di sradicare la zizzania quando c'è il ti­ more «di sradicare con essa anche il grano». Ma talvolta è possibile sradicare i malvagi con la morte non solo senza pericolo, ma an­ che con grande vantaggio per i buoni. Perciò in questi casi è applicabile la pena di morte. 2. Thtti coloro che peccano mortalmente sono degni della morte eterna rispetto alla retribu­ zione futura, che sarà fatta secondo la verità del giudizio di Dio [Rm 2,2]. I castighi della vita presente sono invece piuttosto medicinali, per cui la pena di morte può essere intlitta so­ lo per quei peccati che sono gravemente dan­ nosi per gli altri. 3 . Quando la colpa è conosciuta assieme al suo castigo, quale la pena di morte o altre pri­ vazioni che l'uomo abortisce, allora la volon­ tà è distolta dal peccato: poiché allora la pena attertisce più di quanto non attragga l'esem­ pio della colpa.

Articulus 4 Utrum vindicta sit exercenda in eos qui involontarie peccaverunt

Articolo 4 La vendetta va esercitata anche contro co­ loro che hanno peccato involontariamente?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod vin­ dicta sit exercenda in eos qui involuntarie peccaverunt. l . Voluntas enim unius non consequitur vo­ luntatem alterius. Sed unus punitur pro alio, secundum illud Ex. 20 [5], ego sum Deus ze­

Sembra di sì. Infatti: l . La volontà di una persona non dipende dalla volontà di un' altra. Eppure l'una è punita per l'altra, come è detto in Es 20 [5]:

lotes, visitans iniquitatem patrum in filios, in tertiam et quartam generationem. Unde et pro peccato Cham Chanaan, filius eius, ma­ ledictus est, ut habetur Gen. 9 [25 sqq.]. Giezi

Io sono un Dio geloso, che punisco la colpa dei padri nei figli sino alla terza e alla quar­ ta generazione. Infatti per il peccato di Cam fu maledetto da Dio il suo figlio Canaan (Gen 9,25 ss.). E per il peccato di Giezi la lebbra si trasmise ai suoi posteri (2 Re 5,27).

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La vendetta

etiam peccante, lepra transmittitur ad poste­ ros, ut habetur 4 Reg. 5 [27]. Sanguis etiam Christi reddit poenae obnoxios successores Iudaeorum, qui dixerunt, sanguis eius super nos, et super filios nostros. Matth. 27 [25]. Legitur etiam quod pro peccato Achar populus Israel traditus est in manus hostium, ut habe­ tur Iosue 7. Et pro peccato tiliorum Heli idem populus corruit in conspectu Philistinorum, ut habetur l Reg. 4 [2, 1 0]. Ergo aliquis involun­ tarius est puniendus. 2. Praeterea, illud solum est voluntarium quod est in potestate hominis. Sed quandoque poe­ na infertur pro eo quod non est in eius pote­ state, sicut propter vitium leprae aliquis remo­ vetur ab administratione Ecclesiae; et propter paupertatem aut malitiam civium Ecclesia perdit cathedram episcopalem. Ergo non so­ lum pro peccato voluntario vindicta infertur. 3. Praeterea, ignorantia causat involuntarium. Sed vindicta quandoque exercetur in aliquos ignorantes. Parvuli enim Sodomitarum, licet haberent ignorantiam invincibilem, cum pa­ rentibus perierunt, ut legitur Gen. 1 9 [25]. Si­ militer etiam parvuli pro peccato Dathan et Abiron pariter cum eis absorpti sunt, ut habe­ tur Num. 1 6 [27 sqq.]. Bruta etiam animalia, quae carent ratione, iussa sunt interfici pro peccato Amalecitarum, ut habetur l Reg. 1 5 [2-3]. Ergo vindicta quandoque exercetur in involuntarios. 4. Praeterea, coactio maxime repugnat volun­ tario. Sed aliquis qui timore coactus aliquod peccatum committit, non propter hoc reatum poenae evadit. Ergo vindicta exercetur etiam in involuntarios. 5. Praeterea, Ambrosius dicit, Super Lucam [4, super 5,3], quod navicula in qua erat Iu­

das, turbatur, unde et Petrus, qui erat ji1mus meritis suis, turbatur alienis. Sed Petrus non volebat peccatum ludae. Ergo quandoque involuntarius punitur. Sed contra est quod poena debetur peccato. Sed omne peccatum est voluntarium, ut dicit Augustinus [De vera rei. 14; cf. De lib. arb. 3, 1 . 1 7]. Ergo in solos voluntarios est exercen­ da vindicta. Respondeo dicendum quod poena potest dupliciter considerari. Uno modo, secundum rationem poenae. Et secundum hoc, poena non debetur nisi peccato, quia per poenam reparatur aequalitas iustitiae, inquantum ille

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E anche il sangue di Cristo rese soggetti al castigo i discendenti dei Giudei, i quali disse­ ro: Il stw sangue ricada su di noi e sui nostri figli (Mt 27,25). Si legge poi in Gs 7 che per il peccato di Acar il popolo di Israele fu dato nelle mani dei nemici. Finalmente per il pec­ cato dei figli di Eli tale popolo fu sconfitto dai Filistei ( l Sam 4,2. 1 0). Quindi uno può essere punito anche se la sua volontà è estra­ ne� alla colpa. 2. E volontaria l'azione che è in potere di un uomo. Ma talvolta la pena è inflitta per cose che non sono in potere dell'interessato: come quando per la lebbra contratta uno è rimosso dall'amministrazione di una chiesa; o quando per la miseria o la malizia dei cittadini una chiesa perde la cattedra episcopale. Quindi la vendetta è inferta anche per delle colpe involontarie. 3. L'ignoranza causa involontarietà. Ma talora la vendetta raggiunge anche chi è nell'igno­ ranza. Infatti i bambini dei Sodomiti, sebbene fossero nell' ignoranza invincibile, perirono assieme ai loro genitori (Gen 1 9,25). Parimen­ ti per il peccato di Datan e di Abiron furono ingoiati anche i loro piccoli (Nm 1 6,27 ss.). Anzi, per il peccato degli Amaleciti Dio co­ mandò di uccidere persino gli animali bruti privi di ragione ( l Sam 15,2 s.). Quindi la vendetta va esercitata talvolta anche contro le colpe involontarie. 4. La costrizione è assolutamente incompati­ bile con la volontarietà. Ora, chi è costretto per paura a commettere un peccato, non per questo sfugge al reato che lo lega al castigo. Quindi la vendetta è esercitata anche contro chi non ha peccato volontariamente. 5. Ambrogio scrive che «la nave in cui si tro­ vava Giuda era agitata dalla tempesta: quindi anche Pietro, che era stabile per i suoi meriti, veniva turbato dai peccati altrui». Ma Pietro non voleva certo il peccato di Giuda. Quindi talora è punito anche chi non vuole la colpa. In contrario: il castigo è dovuto al peccato. Ma ogni peccato è volontario, come insegna Agostino. Quindi la vendetta va esercitata sol­ tanto su coloro che hanno voluto la colpa. Risposta: la pena o castigo può essere consi­ derata sotto due aspetti. Primo, sotto l'aspetto di punizione. E come tale la pena è dovuta so­ lo al peccato: poiché con essa è ristabilita l'uguaglianza della giustizia, nel senso che

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qui peccando nimis secutus est suam volun­ tatem, aliquid contra suam voluntatem patitur. Unde cum omne peccatum sit voluntarium, etiam originale, ut supra [I-II q. 8 1 a. I ] habitum est; consequens est quod nullus pu­ nitur hoc modo nisi pro eo quod voluntarie factum est. - Alio modo potest considerari poena inquantum est medicina, non solum sanativa peccati praeteriti, sed etiam praeser­ vativa a peccato futuro et promotiva i n aliquod bonum. E t secundum hoc, aliquis interdum punitur sine culpa, non tamen sine causa. - Sciendum tamen quod nunquam medicina subtrahit maius bonum ut promo­ veat minus bonum, sicut medicina carnalis nunquam caecat oculum ut sanet calcaneum, quandoque tamen infert nocumentum i n minoribus u t melioribus auxilium praestet. Et quia bona spiritualia sunt maxima bona, bona autem temporali a sunt m i n i m a ; i deo quandoque punitur aliquis in temporalibus bonis absque culpa, cuiusmodi sunt plures poenae praesentis vitae divinitus inflictae ad humiliationem vel probationem, non autem punitur aliquis in spiritualibus bonis sine propria culpa, neque in praesenti neque in futuro; quia ibi poenae non sunt medicinae, sed consequuntur spiritualem damnationem. Ad primum ergo dicendum quod unus homo poena spirituali nunquam punitur pro peccato alterius, quia poena spiritualis pertinet ad animam, secundum quam quilibet est liber sui. Poena autem temporali quandoque unus punitur pro peccato alterius, triplici ratione. Primo quidem, quia unus homo temporaliter est res alterius, et ita in poenam eius etiam ipse punitur, sicut filii sunt secundum corpus quaedam res patris, et servi sunt quaedam res dominorum. - Alio modo, inquantum pecca­ tum unius derivatur i n alterum. Vel per imitationem, sicut filii imitantur peccata pa­ rentum, et servi peccata dominorum, ut auda­ cius peccent. Vel per modum meriti, sicut peccata subditorum merentur peccatorem praelatum, secundum illud Iob 34 [30], qui

regnare facit hominem hypocritam, propter peccata populi; unde et pro peccato David populum numerantis, populus Israel punitus est, ut habetur 2 Reg. 24. Sive etiam per aliqualem consensum seu dissimulationem, sicut etiam interdum boni simul puniuntur temporaliter cum malis, quia eorum peccata

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colui che peccando aveva troppo assecondato la propria volontà, viene a subire cose contra­ rie al proprio volere. Per cui, essendo ogni peccato volontario, compreso quello origina­ le, secondo le spiegazioni date, è evidente che nessuno è punito in questo senso se non per atti compiuti volontariamente. - Secondo, una pena può essere considerata come medicina, non solo per far guarire dai peccati già com­ messi, ma anche per preservare dai peccati futuri e spingere al bene. E sotto questo aspet­ to uno può essere castigato anche senza una colpa: non però senza una causa. - Si deve tuttavia notare che una medicina non priva mai di un bene maggiore per procurame uno minore: un medico, p. es., non accecherà mai un occhio per sanare un calcagno; tuttavia egli potrà infliggere un danno nelle cose mi­ nori per soccon·ere le maggiori. E poiché i be­ ni spirituali sono i beni supremi, mentre quelli temporali sono i minimi, talora uno è castiga­ to nei beni temporali senza avere alcuna colpa: ed è così che Dio infligge molte pena­ lità della vita presente come umiliazioni o prove; nessuno invece è punito nei beni spiri­ tuali, né al presente né al futuro, senza una sua colpa: poiché simili punizioni non sono medicinali, ma accompagnano la dannazione deli' anima. Soluzione delle difficoltà: I . Un uomo non è mai punito spiritualmente per il peccato di altri: poiché la punizione spirituale interessa l'anima, secondo la quale ciascuno è «libero di sé». Invece uno può essere punito per il peccato di altri con una pena temporale per tre motivi. Primo, perché nell' ordine tempo­ rale un uomo può appartenere a un altro, e quindi è coinvolto nel castigo di quello: come i figli, secondo il corpo, sono qualcosa del padre, e gli schiavi dei padroni. - Secondo, perché il peccato di una persona può influire su altri. O per imitazione: come i figli imitano i peccati dei genitori, e gli schiavi quelli dei padroni, per peccare con maggiore audacia. Oppure per un rapporto di meriti: come i pec­ cati dei sudditi meritano un prelato iniquo, come è detto in Gb 34 [30]: [Dio] .fa regnare il malvagio per i peccati del popolo; e come per il peccato di Davide, colpevole del censi­ mento, fu punito tutto il popolo di Israele (2 Sam 24) . O anche per una certa condiscen­ denza o tolleranza: talora infatti i buoni, come

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non redarguerunt, ut Augustinus dicit, in l De civ. Dei [9] . Tertio, ad commendandum unitatem humanae societatis, ex qua unus debet pro alio sollicitus esse ne peccet, et ad detestationem peccati , dum poena unius redundat in omnes, quasi omnes essent unum corpus, ut Augustinus dicit de peccato Achar [Q. in Heptat. 6,8 super Iosue 7, 1 ] . - Quod autem Dominus dicit, visitans peccata paren­ -

tum in filios, in tertiam et quartam generatio­ nem, magis videtur ad misericordiam quam

ad severitatem pertinere, dum non statim vindictam adhibet, sed expectat in posterum, ut vel saltem posteri corrigantur; sed, crescen­ te malitia posteriorum, quasi necesse est ultionem inferri. Ad secundum dicendum quod, sicut Augusti­ nus dicit [ibid.], iudicium humanum debet imitari divinum iudicium in manifestis Dei iudiciis, quibus homines spiritualiter damnat pro proprio peccato. Occulta vero Dei iudicia, quibus temporaliter aliquos punit absque culpa, non potest humanum iudicium imitari, quia homo non potest comprehendere horum iudiciorum rationes, ut sciat quid expediat unicuique. Et ideo nunquam secundum hu­ manum iudicium aliquis debet puniri sine culpa poena flagelli, ut occidatur, vel mutile­ tur, vel verberetur. - Poena autem damni punitur aliquis, etiam secundum humanum iudicium, etiam sine culpa, sed non sine causa. Et hoc tripliciter. Uno modo, ex hoc quod aliquis ineptus redditur, sine sua culpa, ad aliquod bonum habendum vel consequen­ dum, sicut propter vitium leprae aliquis remo­ vetur ab administratione Ecclesiae, et propter bigamiam vel iudicium sanguinis aliquis im­ peditur a sacris ordinibus. - Secundo, quia bonum in quo damnificatur non est proprium bonum, sed commune, sicut quod aliqua ec­ clesia habeat episcopatum, pertinet ad bonum totius civitatis, non autem ad bonum clerico­ rum tantum. - Tertio, quia bonum unius de­ pendet ex bono alterius, sicut in crimine lae­ sae maiestatis filius amittit haereditatem pro peccato parentis. Ad tertium dicendum quod parvuli divino iu­ dicio simul puniuntur temporaliter cum pa­ rentibus, tum quia sunt res parentum, et in eis etiam parentes puniuntur. Tum etiam quia hoc in eorum bonum cedit, ne, si reservarentur, essent imitatores patemae malitiae, et sic gra-

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dice Agostino, sono puniti temporalmente con i cattivi perché non li hanno redarguiti dei loro peccati. - Terzo, per raccomandare l'u­ nione dell' umana società, per cui l'uno deve preoccuparsi dell'altro affinché non cada nel peccato; e anche per far detestare la colpa, dal momento che il castigo di uno ricade su tutti, giacché tutti formano un corpo solo, come dice Agostino a proposito del peccato d i Acar. - I l fatto poi che il Signore punisca la

colpa dei genitori nei figli sino alla terza e alla quarta generazione è più un atto di mise­

ricordia che di severità: poiché, così facendo, egli non ricorre subito alla vendetta, ma atten­ de che in seguito i posteri si correggano; se però la malizia di questi ultimi aumenta, è come costretto a punire. 2. Come dice Agostino, i l giudizio degli uomini deve imitare quello di Dio nei giudizi evidenti, secondo i quali egli infligge la dan­ nazione spirituale solo per i peccati personali. Invece il giudizio umano non può imitare i giudizi occulti di Dio, secondo i quali egli punisce temporalmente delle persone senza loro colpa: poiché l'uomo non può compren­ derne i motivi, e sapere ciò che è utile a cia­ scuno. Per cui nel giudizio umano non si deve mai punire senza colpa una persona con una pena afflittiva: né con la morte, né con la mutilazione, né con le percosse. - Invece anche nel giudizio umano uno può essere punito con la perdita di qualcosa pur senza una sua colpa; però non senza una causa. E ciò può avvenire in tre modi. Primo, per il fatto che uno, senza sua colpa, è reso incapa­ ce di ritenere o di conseguire un bene qualsia­ si: come uno che ha contratto la lebbra può essere rimosso dal governo di una chiesa, e un altro che si è sposato due volte o ha fatto versare del sangue può essere escluso dagli ordini sacri. - Secondo, perché il bene di cui uno è privato non è un bene proprio, ma della collettività: come il fatto che una chiesa sia sede episcopale è un bene di tutta la città, e non dei chierici soltanto. - Terzo, perché il bene di uno dipende dal bene di un altro: come nel delitto di lesa maestà il figlio perde l'eredità per la colpa del padre. 3. Secondo il giudizio di Dio i bambini sono puniti con le pene temporali assieme ai genito­ ri sia perché sono qualcosa di essi, sia perché in loro Dio punisce anche i genitori. E ancora

Q. 108, A. 4

La vendetta

1048

viores poenas mererentur. - In bruta vero ani­ malia, et quascumque alias irrationales crea­ turas, vindicta exercetur, quia per hoc puniun­ tur illi quorum sunt. Et iterum propter detesta­ tionem peccati. Ad quartum dicendum quod coactio timoris non facit simpliciter involuntarium, sed habet voluntarium mixtum, ut supra [1-11 q. 6 a. 6] habitum est. Ad quintum dicendum quod hoc modo pro peccato Iudae ceteri apostoli turbabantur, sicut pro peccato unius punitur multitudo, ad uni­ tatem commendandam, ut dictum est [ad 1].

perché ciò ridonda a loro bene: perché se fos­ sero risparmiati sarebbero portati a imitare le colpe dei genitori, e quindi meriterebbero pene più gravi. - La vendetta poi è esercitata sugli animali e sulle altre creature plive di ragione perché in tal modo ne siano puniti i proprietari. E anche per incutere l'orrore del peccato. 4. La costrizione esercitata dal timore rende un atto non involontario in senso assoluto, ma misto di volontario e di involontario, come si è spiegato sopra. 5. Gli altri Apostoli furono turbati per il peccato di Giuda come è turbato un popolo per il pec­ cato di uno solo; e ciò, secondo le spiegazioni date, per mostrare l'unità di tutti gli uomini.

QUAESTIO 109

QUESTIONE l Q9

Deinde considerandum est de veritate, et vitiis oppositis [q. 1 10]. Circa veritatem autem quae­ runtur quatuor. Primo, utrum veritas sit virtus. Secundo, utrum sit virtus specialis. Tertio, utrum sit pars iustitiae. Quarto, utrum magis declinet ad minus.

Consideriamo ora la veracità e i vizi contrari. Sulla veracità si pongono quattro quesiti: l. La veracità è una vifltl? 2. E una virtù spe­ cificamente distinta? 3. E una parte della giu­ stizia? 4. Inclina più a sminuire?

Articulus l

Articolo l La verità, o veracità, è una virtù?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod veritas non sit virtus. l . Prima enim virtutum est fides, cuius obiec­ tum est veritas. Cum igitur obiectum sit prius habitu et actu, videtur quod veritas non sit virtus, sed aliquid plius virtute. 2. Praeterea, sicut philosophus dicit, in 4 Ethic. [7,4], ad veritatem pertinet quod aliquis

Sembra di no. Infatti: l . La prima di tutte le virtù è la fede, il cui oggetto è la verità. Ora, siccome l'oggetto è anteriore all'abito e all'atto correlativi, sem­ bra che la verità non sia una virtù, ma qualco­ sa di anteriore alla virtù. 2. Come dice il Filosofo, è compito della ve­ rità o veracità far sì che uno «dica di se stesso ciò che egli è, né di più né di meno». Ma ciò non è sempre lodevole: infatti non è lodevole nel bene, poiché in Pr 27 [2] è detto: Ti lodi un altro e non la tua bocca; e non è lodevole nel male, poiché in /s 3 [9] contro alcuni è detto: Hanno ostentato il loro peccato come

DE VERITATE

Utrum veritas sit virtus

confiteatur existentia circa seipsum, et neque maiora neque minora. Sed hoc non semper

est laudabile, neque in bonis, quia dicitur Prov. 27 [2], laudet te alienus, et non os tuum; nec etiam in malis, quia contra quosdam dicitur Isaiae 3 [9] , peccatum suum quasi

Sodoma praedicaverunt, nec absconderunt.

Ergo veritas non est virtus. 3. Praeterea, omnis virtus aut est theologica, aut intellectualis, aut moralis. Sed velitas non est virtus theologica, quia non habet Deum pro obiecto, sed res temporales; dicit enim Tullius [Rhet. 2,53] quod veritas est per quam

immutata ea quae sunt aut fuerunt aut futura

LA VERACITA

Sodoma. Non l'hanno neppure nascosto. Quindi la veracità non è una virnì.

3. Una virtù può essere teologale, intellettuale

o morale. Ma la verità o veracità non è una virtù teologale, non avendo per oggetto Dio, bensì le realtà temporali: infatti Cicerone scri­ ve che «la verità ha il compito di dire le cose come sono, sono state o saranno». Parimenti

1 049

La veracità

sunt, dicuntur. Similiter etiam non est virtus intellectualis, sed finis earum. Neque etiam est virtus moralis, quia non consistit in medio inter superfluum et diminutum; quanto enim aliquis plus dicit verum, tanto melius est. Er­ go veritas non est virtus. Sed contra est quod philosophus, in 2 [7, 1 2] et 4 [7,6] Ethic., ponit veritatem inter ceteras virtutes. Respondeo dicendum quod veritas dupliciter accipi potest. Uno modo secundum quod veritate aliquid dicitur verum. Et sic veritas non est virtus, sed obiectum vel finis virtutis. Sic enim accepta verita..o;; non est habitus, quod est genus virtutis, sed aequalitas quaedam intellectus vel signi ad rem intellectam et significatam, vel etiam rei ad suam regulam, ut in primo [q. 1 6 aa. 1 -2; q. 2 1 a. 2] habitum est. - Alio modo potest dici veritas qua aliquis verum dicit, secundum quod per eam aliquis dicitur verax. Et talis veritas, sive vera­ citas, necesse est quod sit virtus, quia hoc ipsum quod est dicere verum est bonus actus; virtus autem est quae bonum facit habentem, et opus eius bonwn reddit. Ad primum ergo dicendum quod ratio illa procedit de veritate primo modo dieta. Ad secundum dicendum quod confiteri id quod est circa seipsum, inquantum est confes­ sio veri, est bonum ex genere. Sed hoc non sufficit ad hoc quod sit actus virtutis, sed ad hoc requiritur quod ulterius debitis circurnstan­ tiis vestiatur, quae si non observentur, erit actus vitiosus. Et secundum hoc, vitiosum est quod aliquis, sine debita causa, laudet seipsum etiam de vero. Vitiosum etiam est quod aliquis pec­ catum suum publicet, quasi se de hoc laudan­ do, vel qualitercumque inutiliter manifestando. Ad tertium dicendum quod ille qui dicit ve­ rum profert aliqua signa conformia rebus, scilicet vel verba, vel aliqua facta exteriora, aut quascumque res exteriores. Circa huiusmo­ di autem res sunt solae virtutes morales, ad quas etiam usus pertinet exteriorum mem­ brorum, secundum quod tit per imperium voluntatis. Unde veritas non est virtus theo­ logica neque intellectualis, sed moralis. - Est autem in medio inter superfluum et dimi­ nutum dupliciter, uno quidem modo, ex parte obiecti; alio modo, ex parte actus. Ex parte quidem obiecti, quia verum secundum suam rationem importat quandam aequalitatem.

Q. 109, A. l

non è una delle virtù intellettuali, ma è il loro fine. E neppure è una virtù morale, poiché non consiste nel giusto mezzo tra un eccesso e un difetto: infatti più uno dice il vero meglio è. Quindi la verità, o veracità, non è una virtù. In contrario: il Filosofo enumera la verità, o veracità, fra le altre virtù. Risposta: il termine verità può avere due ac­ cezioni. Primo, è verità quella cosa per cui un oggetto è detto vero. E in questo senso la verità non è una virtù, bensì l'oggetto o il fine della virtù. E neppure è un abito, che è il genere prossimo della virtù, ma è una certa uguaglianza o adeguazione fra l'intellezione o il segno intellettuale e la cosa intesa e signifi­ cata, oppure anche tra la cosa e l'esemplare da cui essa dipende, come si è detto nella Prima Parte. - Secondo, è verità quella di­ sposizione per cui uno dice il vero, così da meritare il titolo di verace. E tale verità o veracità non può essere che una virtù: poiché dire il vero è un atto buono, e la virtù ha pre­ cisamente il compito di «rendere buono chi la possiede e buona l'opera che egli compie». Soluzione delle difficoltà: l . L'argomento vale per la verità presa nella prima accezione. 2. Dichiarare le cose proprie in quanto ciò co­ stituisce una manifestazione della verità è per sua natura un bene. Ma ciò non basta a fame un atto di virtù: poiché a ciò si richiede che l'atto sia rivestito delle debite circostanze, senza delle quali è vizioso. E in base a ciò è riprovevole lodare se stessi senza i debiti mo­ tivi. Come pure è riprovevole che uno parli apertamente dei propri peccati come per vantarsene, oppure che ne parli senza alcuna utilità. 3. Chi dice il vero proferisce dei segni confor­ mi alla realtà: cioè parole, gesti, oppure qual­ siasi altra manifestazione esterna. Ma di tali cose esterne si occupano solo le virtù morali, che hanno il compito di regolare l'uso delle membra esterne, il quale dipende dalla volon­ tà. Perciò la verità o veracità non è una virtù teologale, bensì morale. - Essa poi consiste nel giusto mezzo tra l'eccesso e il difetto in due maniere: in rapporto ali' oggetto e in rap­ porto all' atto. In rapporto all'oggetto, poiché il vero implica nella sua nozione una certa adeguazione, o uguaglianza, e d' altra parte ciò che è uguale sta in mezzo fra il più e il meno. Quindi per il fatto che uno dice il vero

Q. 109, A. l

1050

La veracità

Aequale autem est medium inter maius et minus. Unde ex hoc ipso quod aliquis vemm dicit de seipso, medium tenet inter eum qui maiora dicit de seipso, et inter eum qui minora. - Ex parte autem actus medium tenet, inquantum vemm dicit quando op01tet, et se­ cundum quod oportet. Superfluum autem convenit illi qui importune ea quae sua sunt manifestat, defectus autem competit illi qui occultat, quando manifestare oportet.

di se stesso, sta nel giusto mezzo tra chi esa­ gera e chi dice di meno. - La veracità inoltre sta nel giusto mezzo in rapporto all'atto poi­ ché dice il vero quando e nella misura in cui è opportuno. Si ha invece l' eccesso in chi dice le sue cose quando non occorre, e il di­ fetto in chi le nasconde quando bisognerebbe manifestarle.

Articulus 2 Utrum veritas sit specialis virtus

Articolo 2 La veracità è una virtù specificamente distinta?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod veritas non sit specialis virtus. l . Vemm enim et bonum convertuntur. Sed bonitas non est specialis virtus, quinimmo omnis virtus est bonitas, quia bonum facit ha­ bentem. Ergo veritas non est specialis virtus. 2. Praeterea, manifestatio eius quod ad ipsum hominem pertinet, est actus veritatis de qua nunc loquimur. Sed hoc pertinet ad quamlibet virtutem, quilibet enim virtutis habitus mani­ festatur per proprium actum. Ergo veritas non est specialis virtus. 3. Praeterea, veritas vitae dicitur qua aliquis recte vivit, de qua dicitur Isaiae 38 [3], me­

Sembra di no. Infatti: l . n vero e il bene coincidono e si equivalgo­ no. Ora, la bontà non è una virtù speciale, ma piuttosto qualsiasi virtù è buona giacché «ren­ de buono chi la possiede». Quindi la veracità o verità non è una virtù speciale. 2. L'atto della veracità di cui parliamo è la manifestazione di cose che appartengono al­ l'uomo. Ma ciò è proprio di qualsiasi virtù: infatti qualsiasi abito virtuoso è manifestato dali' atto rispettivo. Quindi la veracità non è una virtù specificamente distinta. 3. «La verità della vita» equivale al vivere nella rettitudine, secondo l'espressione di fs 38 [3]:

virtute recte vivitur, ut patet per definitionem virtutis supra [1-ll q. 55 a. 4] positam. Ergo veritas non est specialis virtus. 4. Praeterea, veritas videtur idem esse simplici­ tati, quia utrique opponitur simulatio. Sed sim­ plicitas non est specialis virtus, quiajacit inten­ tionem rectam, quod requiritur in omni virtute. Ergo etiam veritas non est specialis virtus. Sed contra est quia in 2 Ethic. [7, 1 2] connu­ meratur aliis virtutibus. Respondeo dicendum quod ad rationem virtu­ tis humanae pertinet quod opus hominis bo­ num reddat. Unde ubi in actu hominis inve­ nitur specialis ratio bonitatis, necesse est quod ad hoc disponatur homo per specialem virtu­ tem. Cum autem bonum, secundum Augusti­ num, in libro De natura boni [3], consistat in ordine, necesse est specialem rationem boni considerati ex determinato ordine. Est autem specialis quidam ordo secundum quod exte­ riora nostra vel verba vel facta debite ordinan-

rettamente con l'esercizio di qualsiasi virtù, come appare evidente dalla definizione ripor­ tata sopra. Quindi la verità o veracità non è una virtù specifica. 4. La veracità sembra identificarsi con la sem­ plicità: poiché l'una e l'altra si contrappongo­ no alla finzione. Ora, la semplicità non è una virtù speciale, poiché essa «rettifica l'inten­ zione», il che è richiesto in tutte le virtù. Quin­ di la veracità non è una virtù speciale. In contrario: Aristotele la enumera fra le altre virtù. Risposta: la virtù ha il compito di «rendere buone le azioni umane». Quindi là dove nel­ l'agire umano si riscontra un aspetto specifico di bontà, è necessario che l'uomo vi sia orien­ tato e disposto da una virtù speciale. E poiché il bene, secondo Agostino, ha tra i suoi costi­ tutivi l'ordine, è necessario rilevare da ogni determinato ordine uno specifico aspetto di bene. Ora, vi è un certo ordine speciale nel

mento, quaeso, quomodo ambulaverim coram te in veritate et in corde perfecto. Sed qualibet

Ricordati che ho passato la vita dinanzi a te nella verità e con cuore sincem. Ma si vive

1 05 1

La veracità

tur ad aliquid sicut signum ad signatum. Et ad hoc perficitur homo per virtutem veritatis. Unde manifestum est quod veritas est specia­ lis virtus. Ad primum ergo dicendum quod verum et bonum subiecto quidem convertuntur, quia omne verum est bonum, et omne bonum est verum. Sed secundum rationem, invicem se excedunt, sicut intellectus et voluntas invicem se includunt; nam intellectus intelligit volun­ tatem, et multa alia, et voluntas appetit ea guae pertinent ad intellectum, et multa alia. Unde verum, secundum rationem propriam, qua est perfectio intellectus, est quoddam particolare bonum, inquantum est appetibile quoddam . Et simil iter bonum, secundum propriam rationem, prout est finis appetitus, est quoddam verum, inquantum est quoddam intelligibile. Quia ergo virtus includit ratio­ nem bonitatis, potest esse quod veritas sit specialis virtus, sicut verum est speciale bo­ num. Non autem potest esse quod bonitas sit specialis virtus, cum magis secundum ratio­ nem sit genus virtutis. Ad secundum dicendum quod habitus virtu­ tum et vitiorum sortiuntur speciem ex eo quod est per se intentum, non autem ab eo quod est per accidens et praeter intentionem. Quod autem aliquis manifestat quod circa ipsum est, pertinet quidem ad virtutem verita­ tis sicut per se intentum, ad alias autem virtu­ tes potest pertinere ex conseguenti, praeter principalem intentionem. Fortis enirn intendit fortiter agere, quod autem fortiter agendo aliquis manifestet fortitudinem guam habet, hoc consequitur praeter eius principalem intentionem. Ad tertium dicendum quod veritas vitae est veritas secundum quam aliquid est verum, non veritas secundum quam aliquis dicit ve­ rum. Dicitur autem vita vera, sicut etiam quaelibet alia res, ex hoc quod attingit suam regulam et mensuram, scilicet divinam legem, per cuius conformitatem rectitudinem habet. Et talis veritas, sive rectitudo, communis est ad quamlibet virtutem. Ad quartum dicendum quod simplicitas dicitur per oppositum duplicitati, qua scilicet aliquis aliud habet in corde, aliud ostendit exterius. Et sic simplicitas ad hanc virtutem pertinet. Facit autem intentionem rectam, non quidem directe, quia hoc pertinet ad omnem

Q. 1 09 A. 2

fatto che i nostri atteggiamenti esterni, cioè le parole e le azioni, corrispondono debitamente come segni alle realtà significate. E a ciò l ' uq­ mo è predisposto dalla virtù della veracità. E quindi evidente che la veracità è una virtù specificamente distinta. Soluzione delle difficoltà: l . D vero e il bene coincidono e si equivalgono quanto al sogget­ to concreto, poiché ogni vero è un bene e ogni bene è un vero, ma per la loro formalità si ec­ cedono a vicenda: come l'intelletto e la volon­ tà si includono a vicenda, poiché l' intelletto conosce la volontà e molte altre cose, e la vo­ lontà da parte sua vuole le cose che apparten­ gono all'intelletto, e insieme molte altre. Per­ ciò il vero, nella sua formalità, cioè come per­ fezione dell'intelletto, è un bene particolare, essendo un detenninato appetibile. Parimenti il bene nella sua formalità, in quanto fine a cui tende la volontà, è un detenninato vero, essen­ do un particolare intelligibile. Per il fatto dun­ que che l a virtù implica i l carattere della bontà, può essere benissimo che la veracità sia una virtù speciale, come il vero è un bene spe­ ciale. Non può essere invece che sia una virtù speciale la bontà, essendo essa piuttosto una nozione generica che include la vittù. 2. Gli abiti delle virtù e dei vizi sono specifi­ cati dall' oggetto direttamente perseguito, e non dagli elementi accidentali o preterinten­ zionali. Ora, i l manifestare con sincerità le proprie cose appartiene direttamente ed espressamente alla virtù della veracità, mentre alle altre virtù può appartenere in modo indi­ retto. Infatti l'uomo forte mira ad agire corag­ giosamente, e il fatto che agendo in tal modo manifesti il coraggio che possiede è solo una conseguenza della sua intenzione principale. 3. La verità della vita è la verità in senso ogget­ tivo, non già la verità in senso soggettivo per cui una persona è detta verace. Ora, la vita può dirsi vera, come anche qualsiasi altra cosa, per i l fatto che s i adegua alla sua norma o misura, cioè alla legge divina, conformandosi alla quale ottiene la sua rettitudine. E tale verità o ret­ titudine è un elemento comune a qualsiasi virtù. 4. La semplicità si contrappone alla doppiez­ za, che consiste nel mostrarsi esternamente diversi da ciò che si è interiormente. Quindi la semplicità si riduce alla veracità. Essa poi ret­ tifica l ' intenzione non già direttamente, poi­ ché questo è il compito di qualsiasi virtù, ma

Q. 109, A. 2

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La veracità

virtutem, sed excludendo duplicitatem, qua homo unum praetendit et aliud intendit. Articulus 3

escludendo la doppiezza, che porta a manife­ stare un'intenzione e a perseguime un'altra. Articolo 3

Utrum veritas sit pars iustitiae

La veracità è tra le parti della giustizia?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod veri­ tas non sit pars iustitiae. l . Iustitiae enim proprium esse videtur quod reddat alteri debitum. Sed ex hoc quod aliquis verum dicit, non videtur alteri debitum red­ dere, sicut fit in omnibus praemissis iustitiae partibus. Ergo veritas non est iustitiae pars. 2. Praeterea, veritas pertinet ad intellectum. lustitia autem est in voluntate, ut supra [q. 58 a. 4] habitum est. Ergo veritas non est pars iustitiae. 3 . Praeterea, triplex distinguitur veritas, secun­ dum Hieronymum [cf. supra q . 43 a. 7 arg. 4], scilicet veritas vitae, et veritas iustitiae, et veritas doctrinae. Sed nulla istarum est pars iustitiae. Nam veritas vitae continet in se omnem virtutem, ut dictum est [a. 2 ad 3]. Veritas autem iustitiae est idem iustitiae, unde non est pars eius. Veritas autem doctri­ nae pertinet magis ad virtutes intellectuales. Ergo veritas nullo modo est pars iustitiae. Sed contra est quod Tullius [Rhet. 2,53] ponit veritatem inter partes iustitiae. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 80] dictum est, ex hoc aliqua virtus iusti­ tiae annectitur sicut secondaria principali, quod partim quidem cum iustitia convenit, partim autem deficit ab eius perfecta ratione. Virtus autem veritatis convenit quidem cum iustitia in duobus. Uno quidem modo, in hoc quod est ad alterum. Manifestatio enim, quam diximus [a. 2 ad 2] esse actum veri­ tatis, est ad alterum, inquantum scilicet ea quae circa ipsum sunt, unus homo alteri manifestat. Alio modo, inquantum iustitia aequalitatem quandam i n rebus constituit. Et hoc etiam facit virtus veritatis, adaequat enim signa rebus existentibus circa ipsum. - De­ ficit autem a propria ratione iustitiae quan­ tum ad rationem debiti. Non enim haec virtus attendil debitum legale, quod attendit iustitia, sed potius debitum morale, inquantum sci­ Jicet ex honestate unus homo alteri debet ve­ ritatis manifestationem. Unde veritas est pars iustitiae, inquantum annectitur ei sicut virtus secondaria principali.

Sembra di no. Infatti: l . È proprio della giustizia rendere agli altri ciò che è dovuto. Ma per il fatto che uno dice la verità non sembra che renda agli altri ciò che è dovuto, come accade invece in tutte le altre virtù annesse alla giustizia. Quindi la veracità non è tra le parti della giustizia. 2. La veracità o verità appartiene all' intelletto. La giustizia invece risiede nella volontà, come si è visto sopra. Perciò la veracità non è una parte [potenziale] della giustizia. 3. Secondo Girolamo ci sono tre tipi di verità: «la verità della vita», «la verità della giusti­ zia» e «la verità della dottrina». Ma nessuna di esse è tra le parti della giustizia. Infatti la verità della vita, come si è visto, abbraccia tutte le virtù. La verità della giustizia poi si identifica con la giustizia, e quindi non ne è una parte. La verità della dottrina infine ap­ partiene piuttosto alle virtù intellettive. Quindi in nessun modo la verità o veracità è una par­ te [potenziale] della giustizia. In contrario: Cicerone enumera la verità, o veracità, tra le patti della giustizia. Risposta: come si è già detto sopra, una virtù è annessa alla giustizia come virtù secondaria per il fatto che in parte assomiglia alla giusti­ zia, e in parte si scosta dalla perfetta natura di essa. Ora, la virtù della veracità assomiglia alla giustizia sotto due aspetti. Primo, i n quanto dice rapporto ad altri. Infatti l'atto di manifestare, che è proprio della veracità, co­ me si è detto, è rivolto ad altri: in quanto cioè uno manifesta agli altri le cose che lo riguar­ dano. Secondo, in quanto la giustizia stabili­ sce una certa adeguazione tra una cosa e un'altra. E ciò si riscontra anche nella vera­ cità: con essa infatti si adeguano le espressio­ ni ai fatti e alle cose che ci riguardano. - Inve­ ce la veracità si discosta dalla giustizia sotto l' aspetto del debito. Infatti questa virtù non soddisfa a un debito legale, come la giustizia, ma piuttosto a un debito morale, poiché un uomo deve la manifestazione della verità a un altro solo per un' esigenza di onestà. Per cui la veracità è una parte della giustizia, essendovi

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La veracità

Ad primum ergo dicendum quod quia homo est animai sociale, naturaliter unus homo debet alteri id sine quo societas humana con­ servaci non posset. Non autem possent homi­ nes ad invicem convivere nisi sibi invicem crederent, tanquam sibi invicem veritatem manifestantibus. Et ideo virtus veritatis aliquo modo attendit rationem debiti. Ad secundum dicendum quod veritas secun­ dum quod est cognita, pertinet ad intel­ lectum. Sed homo per propriam voluntatem, per quam utitur et habitibus et membris, profert exteriora signa ad veritatem manife­ standam. Et secundum hoc, manifestatio veritatis est actus voluntatis. Ad tertium dicendum quod veritas de qua nunc loquimur, diffe1t a veritate vitae ut dic­ tum est [a. 2 ad 3]. Veritas autem iustitiae di­ citur dupliciter. Uno modo, secundum quod ipsa iustitia est rectitudo quaedam regulata secundum regulam divinae legis. Et secun­ dum hoc, differt veritas iustitiae a veritate vitae, quia veritas vitae est secundum quam aliquis recte vivit in seipso; veritas autem iu­ stitiae est secundum quam aliquis rectitudi­ nem legis in iudiciis, quae sunt ad alterum, servat. Et secundum hoc, veritas iustitiae non pertinet ad veritatem de qua nunc loquimur, sicut nec veritas vitae. - Alio modo potest intelligi veritas iustitiae secundum quod aliquis ex iustitia veritatem manifestar, puta cum aliquis in iudicio verum contìtetur aut verum testimonium dicit. Et haec veritas est quidam particularis actus iustitiae. Et non pertinet directe ad hanc veritatem de qua nunc loquimur, quia scilicet in hac manife­ statione veritatis principaliter homo intendit ius suum alteri reddere. Unde philosophus, in 4 Ethic. [7,7], de hac veritate determinans, dicit, non de veridico in confessionibus

dicimus, neque quaecumque ad iustitiam vel iniustitiam contendunl. - Veritas autem doctrinae consistit in quadam manifestatione verorum de quibus est scientia. Unde nec ista veritas directe pertinet ad hanc virtutem, sed solum veritas qua aliquis et vita et sermone

talem se demonstrat qualis est, et non alia quam circa ipsum sint, nec maiora nec mi­ nora. - Veruntamen quia vera scibilia, in­ quantum sunt a nobis cognita, circa nos sunt et ad nos pertinent; secundum hoc veritas doctrinae potest ad hanc virtutem pertinere,

Q. 109, A. 3

annessa come una virtù secondaria alla prin­ cipale. Soluzione delle difficoltà: l . Essendo l'uomo un animale fatto per vivere in società, per na­ tura un uomo deve all'altro ciò che è indispen­ sabile per la conservazione della società uma­ na. Ora, gli uomini non potrebbero convivere senza credersi reciprocamente, dicendo l'uno la verità all'altro. Quindi anche la virtù della veracità a suo modo ha di mira un debito. 2. In quanto è conosciuta la verità appartiene all'intelletto. Ma è con la volontà che l'uomo fa uso dei suoi abiti e delle sue membra per esprimere i segni adatti a manifestare la veri­ tà. E in base a ciò tale manifestazione è un at­ to della volontà. 3. La verità o veracità di cui ora parliamo dif­ ferisce dalla verità della vita, come si è detto. La verità poi della giustizia può essere intesa in due modi. Primo, nel senso che la giustizia è una certa rettitudine regolata secondo le norme della legge divina. E allora la verità della giustizia differisce dalla verità della vita, poiché quest'ultima verità ha il compito di far sì che uno viva rettamente in se stesso, mentre la verità della giustizia porta l'individuo a osservare la rettitudine legale nei giudizi relati­ vi ad altre persone. E in questo caso la verità della giustizia, come anche la verità della vita, non rientra nella verità o veracità di cui ora parliamo. - Secondo, la verità della giustizia può essere intesa nel senso che uno per giusti­ zia manifesta la verità: p. es. quando confessa il vero, o rende una testimonianza verace in giudizio. Ora, questa verità è un atto particola­ re della giustizia, e non appartiene direttamen­ te alla verità o veracità di cui ora parliamo: poiché in tali dichiarazioni veritiere una perso­ na intende principalmente rendere a un'altra quanto le spetta. Per cui il Filosofo, nel parlare della veracità, si esprime in questi termini: «Noi non parliamo qui della veridicità delle confessioni, né di tutto ciò che riguarda la giu­ stizia o l'ingiustizia». - Finalmente la verità della dottrina consiste in una certa manifesta­ zione delle verità della scienza. Perciò neppu­ re questa verità appartiene alla virtù di cui par­ liamo, ma soltanto la verità con la quale «uno si mostra in atti e in parole così come è e non altrimenti, e non dice di se stesso né di più né di meno». - Tuttavia siccome le nozioni della scienza, in quanto sono conosciute da noi, ci

Q. 109, A. 3

La veracità

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et quaecumque alia veritas qua quis manifestat verbo vel facto quod cognoscit.

riguardano e ci appartengono, da questo lato la verità della dottrina può rientrare in questa vir­ tù della veracità, come anche qualsiasi altra verità che uno conosce e manifesta con le pa­ role o con le azioni.

Articulus 4 Utrum virtus veritatis declinet in minus

Articolo 4 La virtù della veracità inclina a sminuire?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod vir­ tus veritatis non declinet in minus. l . Sicut enim aliquis dicendo maius incurrit falsitatem, ita et dicendo minus, non enim magis est falsum quatuor esse quinque quam quatuor esse tria. Sed omne falsum est secun­ dum se malum et fugiendum, ut philosophus dicit, in 4 Ethic. [7 ,6] . Ergo veritatis virtus non plus declinat in minus quam in maius. 2. Praeterea, quod una virtus magis declinet ad unum extremum quam ad aliud, contingit ex hoc quod virtutis medium est propinquius uni extremo quam alteri, sicut fortitudo est propinquior audaciae quam timiditati. Sed ve­ ritatis medium non est propinquius uni extre­ mo quam alteri, quia veritas, cum sit aequali­ tas quaedam, in medio punctali consistit. Ergo veritas non magis declinat in minus. 3. Praeterea, in minus videtur a veritate rece­ dere qui veritatem negat, in maius autem qui veritati aliquid superaddit. Sed magis repu­ gnat veritati qui veritatem negat quam qui superaddit, quia veritas non compatitur secum negationem veritatis, compatitur autem secum superadditionem. Ergo videtur quod veritas magis debeat declinare in maius quam in minus. Sed contra est quod philosophus dicit, i n 4 Ethic. [7,9], quod homo secundum hanc virtutem magis a vero declinat in minus. Respondeo dicendum quod declinare in mi­ nus a veritate contingit dupliciter. Uno modo, affirmando, puta cum aliquis non manifestat totum bonum quod in ipso est, puta scientiam vel sanctitatem vel aliquid huiusmodi. Quod fit sine praeiudicio veritatis, quia in maiori est etiam minus. Et secundum hoc, haec virtus declinat in minus. Hoc enim, ut philosophus dicit ibidem [Ethic. 4,7,9], videtur esse pru­

Sembra di no. Infatti: l . Come si i ncorre nella falsità esagerando, così vi si incorre anche diminuendo: come dire che quattro cose sono cinque non è più falso che dire che sono tre. Ora, secondo il Filosofo, «Ogni falsità è cattiva e va rifuggi­ ta». Quindi la virtù della veracità non inclina più a sminuire che a esagerare. 2. Che una virtù inclini maggiormente verso l'uno degli estremi opposti dipende dal fatto che il giusto mezzo di essa è più vicino all'u­ no che all' altro: come la fortezza è più vicina all' audacia che alla timidezza. Ma i l giusto mezzo della veracità, o verità, non può essere più vicino a un estremo che al suo opposto poiché, consistendo la verità in un' adeguazio­ ne, il suo giusto mezzo si riduce a un punto indivisibile. Non è quindi vero che la veracità inclina piuttosto a sminuire. 3. Chi sminuisce si allontana dalla verità ne­ gandola, chi invece esagera aggiunge ad essa qualcosa. Ma è più incompatibile con la verità il negarla che l' aggiungervi qualcosa: poiché una verità non coesiste con la negazione della verità, mentre può coesistere con delle ag­ giunte. Quindi sembra che la veracità debba inclinare più a esagerare che a sminuire. In contrario: il Filosofo afferma che con que­ sta virtù l'uomo «propende piuttosto ad atte­ nuare la verità>>. Risposta: la propensione a sminuire la verità può prodursi in due modi. Primo, mediante l' affermazione: p. es. quando uno, nel suo dire, non manifesta tutto il bene che è in lui, cioè il sapere, la santità, ecc. E ciò può essere fatto senza pregiudizio della verità, poiché nel più c'è anche il meno. Ed è in questo senso che la veracità inclina piuttosto a sminuire. Ciò infatti, come dice il Filosofo, «Sembra più prudente, poiché le esagerazioni sono insop­ portabili». Sicché coloro che esagerano i pro­ pri meriti sono insopportabili agli altri, sui quali sembrano voler sovrastare, mentre quel-

dentius, propter onerosas superabundantias esse. Homines enim qui maiora de seipsis

dicunt quam sint, sunt aliis onerosi , quasi excellere alios volentes, homines autem qui

La veracità

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minora de seipsis dicunt, gratiosi sunt, quasi aliis condescendentes per quandam modera­ tionem. Unde apostolus dicit, 2 ad Cor. 1 2

[6], si voluero gloriari, non ero insipiens, ve­ ritatem enim dicam. Parco autem, ne quis me existimet supra id quod videt in me, aut audit aliquid ex me. Alio modo potest aliquis -

declinare in minus negando, scilicet ut neget sibi inesse quod inest. Et sic non pertinet ad hanc virtutem declinare in minus, quia per hoc incurret falsum. - Et tamen hoc ipsum esset minus repugnans virtuti, non quidem secundum propriam rationem veritatis, sed secundum rationem prudentiae, quam oportet salvari in omnibus virtutibus. Magis enim repugnat prudentiae, quia peticulosius est et onerosius aliis, quod aliquis existimet vel iactet se habere quod non habet, quam quod non existimet, vel dicat se non habere quod habet. Et per hoc patet responsio ad obiecta.

Q. 109, A. 4

li che dicono meno di ciò che valgono sono graditi, per la loro condiscendenza e modestia nei riguardi del prossimo. E così si spiegano le parole di Paolo [2 Cor 1 2,6] : Se volessi

vantarmi, non sarei insensato perché direi solo la verità. Ma evito difarlo, perché nessu­ no mi giudichi più di quello che vede o sente da me. Secondo, uno può inclinare alla -

diminuzione mediante la negazione: cioè negando di essere ciò che è. E ciò esula dalla virtù della veracità: poiché in questo modo si incorre nella falsità. - Thttavia ciò sarebbe meno ripugnante alla virtù: non in rapporto alla veracità come tale, ma in rapporto alla prudenza, che va salvaguardata in tutte le virtù. Infatti alla prudenza Iipugna maggior­ mente il ritenere o il presumere di avere ciò che non si ha, essendo ciò più pericoloso e insopportabile per gli altri, che non il pensare o dire di non avere ciò che si ha. Sono così risolte anche le difficoltà.

QUAESTIO 1 1 O DE VITIIS OPPOSITIS VERITATI

QUESTIONE 1 1 O , I VIZI CONTRARI ALLA VERACITA

Deinde considerandum est de vitiis oppositis veritati. Et primo, de mendacio; secundo, de simulatione sive hypocrisi [q. 1 1 1 ]; tertio, de iactantia et opposito vitio [qq. 1 12- 1 1 3]. Cir­ ca mendacium quaeruntur quatuor. Primo, utrum mendacium semper opponatur veritati, quasi continens falsitatem. Secundo, de spe­ ciebus mendacii. Tertio, utrum mendacium semper sit peccatum. Quarto, utrum semper sit peccatum mortale.

Passiamo quindi a considerare i vizi contrari alla veracità. Primo, la menzogna; secondo, la simulazione, o ipocrisia; terzo, la millanteria e il vizio contrario. A proposito della menzogna tratteremo quattro argomenti: l . La menzogna si contrappone alla verità o veracità, impli­ cando essa una falsità? 2. Quali sono le specie della menzogntt? 3. La menzogna è sempre un peccato? 4. E sempre un peccato mortale?

Articulus l

Articolo l

Utrum mendacium semper opponatur veritati

La menzogna è sempre l'opposto della verità?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod mendacium non semper opponatur veritati. l . Opposita enim non possunt esse sirnul. Sed mendacium simul potest esse cum veritate, qui enim vemm loquitur quod falsum esse credit, mentitur, ut Augustinus dicit, in libro Contra mendacium [cf. De mendacio 3]. Ergo mendacium non opponitur vetitati. 2. Praeterea, virtus veritatis non solum consistit in verbis, sed etiam in factis, quia secundum phi1osophum, i n 4 Ethic. [7,4], secundum

Sembra di no. Infatti: l . Gli opposti non possono coesistere assie­ me. Ma la menzogna può coesistere con la veracità: chi infatti dice una cosa vera creden­ dola falsa, mente, come nota Agostino. Quin­ di la menzogna non si contrappone alla verità. 2. La virtù della veracità non consiste solo nelle parole, ma anche nelle azioni: poiché, secondo il Filosofo, in forza di questa virtù uno dice il vero «e nelle parole e negli atti». Invece la menzogna consiste solo nelle paro-

Q. 1 1 0, A. l

I vizi contrari alla veracità

hanc virtutem aliquis verum dicit et in sermo­ ne et in vita. Sed mendacium consistit solum in verbis, dicitur enim quod mendacium est falsa vocis significatio. Ergo videtur quod mendacium non directe opponatur virtuti veritatis. 3. Praeterea, Augustinus dicit, in libro Contra mendacium [cf. De mendacio 3], quod culpa mentientis est fallendi cupiditas. Sed hoc non opponitur veritati, sed magis benevolentiae vel iustitiae. Ergo mendacium non opponitur veritati. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro Contra mendacium [cf. De mendacio 4] ,

nemo dubitet mentiri eum qui falsum enuntiat causa fallendi. Quapropter enuntiationem falsi cum voluntate ad fallendum prolatam, manifestum est esse mendacium. Sed hoc opponitur veritati. Ergo mendacium veritati opponitur. Respondeo dicendum quod actus moralis ex duobus speciem sortitur, scilicet ex obiecto, et ex fine. Nam finis est obiectum voluntatis, quae est primum movens in moralibus acti­ bus. Potentia autem a voluntate mota habet suum obiectum, quod est proximum obiec­ tum voluntarii actus, et se habet in actu vo­ luntatis ad finem sicut materiale ad formale, ut ex supra [I-II q. 1 8 a. 6] dictis patet. Dictum est autem [q. 109 a. 2 ad 2; a. 3] quod virtus veritatis, et per consequens opposita vitia, in manifestatione consistit, quae fit per aliqua signa. Quae quidem manifestatio, sive enuntiatio, est rationis actus conferentis si­ gnum ad signatum, omnis enim repraesen­ tatio consistit in quadam collatione, quae proprie pertinet ad rationem; unde etsi bruta animalia aliquid manifestent, non tamen ma­ nifestationem intendunt, sed naturali instinctu aliquid agunt ad quod manifestatio sequitur. Inquantum tamen huiusmodi manifestatio sive enuntiatio est actus moralis, oportet quod sit voluntarius et ex intentione voluntatis de­ pendens. Obiectum autem proprium manife­ stationis sive enuntiationis est verum vel fal­ sum. Intentio vero voluntatis inordinatae potest ad duo ferri, quorum unum est ut fal­ sum enuntietur; aliud quidem est effectus pro­ prius falsae enuntiationis, ut scilicet aliquis fallatur. Si ergo ista tria concurrant, scilicet quod falsum sit id quod enuntiatur, et quod adsit voluntas falsum enuntiandi, et iterum

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le: poiché essa è definita come «una parola che esprime il falso». Perciò sembra che la menzogna non si contrapponga direttamente alla virtù della veracità. 3. Agostino insegna che «la colpa del bugiar­ do è il desiderio di ingannare». Ma l'inganno non si contrappone alla veracità, bensì alla benevolenza e alla giustizia. Quindi la menzo­ gna non è l'opposto della veracità. In contrario: Agostino ha scritto: «Nessuno può dubitare che mente colui che dice il falso per ingannare. Perciò la menzogna è una di­ chiarazione falsa fatta con l'intenzione di in­ gannare». Ma questo è l'opposto della vera­ cità. Quindi la menzogna le si contrappone. Risposta: ,un atto morale è specificato da due cose: dali oggetto e dal fme. n fine infatti è l'oggetto della volontà, che è il primo moven­ te nelle azioni morali. Invece le potenze che sono mosse dalla volontà hanno il loro ogget­ to proprio, che è l'oggetto immediato di que­ sti atti volontari: ed esso, secondo le spiega­ zioni già date, sta al fine come l'elemento materiale sta a quello formale. - Ora, sopra abbiamo visto che la virtù della veracità, e conseguentemente i vizi opposti, consistono nel manifestare i propri pensieri con dei se­ gni. E questa manifestazione, o enunciazione, è un atto della mente, la quale confronta il segno con la cosa significata: poiché ogni rap­ presentazione consiste in una specie di con­ fronto, che appartiene propriamente alla ra­ gione. Per cui gli animali bruti, sebbene ma­ nifestino qualcosa, lo fanno però senza voler­ lo, limitandosi a compiere certi atti ai quali seguono determinate manifestazioni. Tuttavia questo manifestare o enunciare, per essere un'azione morale, deve essere volontario e di­ pendente dall' intenzione della volontà, men­ tre l'oggetto proprio della manifestazione o dell'enunciato è il vero o il falso. Ora, l'inten­ zione di una volontà disordinata può mirare a due cose distinte: la prima è l'enunciazione del falso, la seconda è l'efletto proprio di tale enunciazione, cioè l'inganno di qualcuno. Se quindi neli' atto concorrono queste tre cose: la falsità di quanto è detto, la volontà di dire il falso e infine l'intenzione di ingannare, allora si ha la falsità materiale, poiché è detto il falso, la falsità formale, per la volontà di dirlo, e la falsità effettiva, per la volontà di inganna­ re. Tuttavia la ragione formale della menzo-

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I vizi contrari alla veracità

intentio fallendi, tunc est falsitas materialiter, quia falsum dicitur; et formaliter, propter vo­ luntatem falsum dicendi; et effective, propter voluntatem falsitatem imprimendi. Sed tamen ratio mendacii sumitur a formali falsitate, ex hoc scilicet quod aliquis habet voluntatem falsum enuntiandi. Unde et mendacium nomi­ natur ex eo quod contra mentem dicitur [Summa Aurea, p. 3 tr. 18 c. l q. 2]. - Et ideo si quis falsum enuntiet credens illud verum esse, est quidem falsum materialiter, sed non formaliter, quia falsitas est praeter intentio­ nem dicentis . Unde non habet perfectam rationem mendacii, id enim quod praeter in­ tentionem est, per accidens est; unde non potest esse specifica differentia. - Si vero for­ maliter aliquis falsum dicat, habens volun­ tatem falsum dicendi, licet sit verum id quod dicitur, inquantum tamen huiusmodi actus est voluntarius et moralis, habet per se falsitatem, et per accidens veritatem. Unde ad speciem mendacii pertingit. - Quod autem aliqui s intendat falsitatem in opinione alterius consti­ tuere fallendo ipsum, non pertinet ad speciem mendac i i , sed ad quandam perfectionem ipsius, sicut et in rebus naturalibus aliquid speciem sortitur si fonnam habeat, etiam si desit formae effectus; sicut patet in gravi quod violenter sursum detinetur, ne descendat secundum exigentiam suae formae. Sic ergo patet quod mendacium directe et formaliter opponitur virtuti veritatis. Ad prim u m ergo dicendum quod unum­ quodque magis iudicatur secundum id quod est in eo formaliter et per se, quam secundum id quod est in eo materialiter et per accidens. Et ideo magis opponitur veritati, inquantum est virtus moralis, quod aliquis dicat verum intendens dicere falsum, quam quod dicat falsum intendens dicere verum. Ad secundum dicendum quod, sicut Augu­ stinus dicit, i n 2 De doct. chr. [ 3 ] , voces praecipuum locum tenent inter alia signa. Et ideo cum dicitur quod mendacium est falsa vocis significatio, nomine vocis intelligitur omne signum. Unde ille qui aliquod falsum nutibus significare intenderet, non esset a mendacio immunis. Ad tertium dicendum quod cupiditas fallendi pertinet ad perfectionem mendacii, non autem ad speciem ipsius, sicut nec aliquis etl'ectus pertinet ad speciem suae causae.

Q. 1 1 0, A. l

gna è desunta dalla falsità formale, cioè dal­ l ' intenzione di dichiarare il falso. Infatti il ter­ mine menzogna (mendacium) deriva dal fatto che si parla «contro la mente» (contra men­ tem). - Se uno quindi dichiara il falso creden­ do che sia vero, si ha una bugia materiale, ma non formale, essendo la falsità estranea all'in­ tenzione di chi la dice. Perciò tale affermazio­ ne non ha la vera e perfetta natura di menzo­ gna: poiché le cose preterintenzionali sono per accidens, e quindi non possono costituire delle differenze specifiche. - Se invece uno dice il falso formalmente, cioè con l' inten­ zione di dire il falso, anche se ciò che dice è vero, questo suo atto, in quanto volontario e morale, di per sé contiene la falsità, e per accidens la verità. Per cui raggiunge la specie della menzogna. - L' intenzione poi di creare la falsità nell'opinione altrui con l ' inganno non è un elemento specifico della menzogna, ma ne è un complemento. Avviene cioè come negli esseri materiali, in cui la specie è assicu­ rata dalla forma anche se manca l'effetto di essa: come è evidente nel caso dei corpi gravi a cui l a violenza impedisce di scendere ip. basso secondo l'esigenza della loro forma. E quindi evidente che la menzogna si oppone direttamente e formalmente alla veracità. Soluzione delle difficoltà: l . Ogni cosa è qua­ lificata più secondo i suoi elementi formali ed essenziali che secondo gli elementi materiali e accidentali. Per cui dire il vero con l' inten­ zione di dire il falso si oppone alla virtù mo­ rale della veracità più che dire il falso con l' intenzione di dire il vero. 2. Come nota Agostino, la parola occupa il primo posto tra le espressioni, o segni. Perciò, quando si dice che la menzogna è «una parola che esprime il falso», col termine parola si vuole intendere qualsiasi espressione. Quindi chi cercasse di esprimere una falsità con i gesti non sarebbe immune dalla menzogna. 3 . Il desiderio di ingannare è un elemento complementare della menzogna, e non un elemento specifico: come nessun effetto ap­ partiene alla specie della sua causa.

I vizi contrari alla veracità

Q. I l O, A. 2

Articulus 2

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Articolo 2

Utrum mendacium sufficienter dividatur per mendacium officiosum, iocosum et perniciosum

È sufficiente dividere la menzogna in ufficiosa, giocosa e dannosa?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod insufficienter mendacium dividatur per men­ dacium officiosum, iocosum et perniciosum. l . Divisio enim est danda secundum ea quae per se conveniunt rei, ut patet per philoso­ phum, i n 7 Met. [6, 1 2,5.7] . Sed intentio effectus est praeter speciem actus moralis, et per accidens se habet ad illum, ut videtur, unde et infiniti effectus possunt consequi ex uno actu. Haec autem divisio datur secundum intentionem effectus, nam mendacium ioco­ sum est quod fit causa ludi; mendacium autem officiosum, quod fit causa utilitatis; mendacium autem perniciosum, quod fit cau­ sa nocumenti. Ergo inconvenienter hoc modo dividitur mendacium. 2. Praeterea, Augustinus, in libro Contra men­ dacium [cf. De mendacio 1 4], dividit menda­ cium in octo partes. Quorum primum est in doctrina religionis; secundum est ut nulli prosit et obsit alicui; tertium est quod prodest uni ita ut alteri obsit; quartum est quodfit sola mentiendi fallendique libidine; quintum est quod fit placendi cupiditate; sextum est quod

Sembra di no. Infatti: l. La divisione va fatta in base agli elementi essenziali di una cosa, come insegna il Filoso­ fo. Ora, l'effetto è un elemento estraneo alla specie di un atto morale, ed è evidentemente accidentale per esso: infatti da un atto può de­ rivare un numero indefinito di effetti. Ma la divisione proposta è basata sugli effetti: poi­ ché la bugia giocosa è quella che si dice per gioco, la bugia ufficiosa quella che si dice per un'utilità e la bugia dannosa quella che si dice per fare del male. Questa divisione della men­ zogna dunque non è buona. 2. Agostino divide la menzogna in otto specie. La prima ha per oggetto «l'insegnamento reli­ gioso»; la seconda è quella che >. Ora in Qo 7 [5] è detto: Il cuore dei

sapientum ubi tristitia, et cor stultorum ubi laetitia, unde ad virtuosum pertinet maxime a

persona virtuosa astenersi dai piaceri, come nota lo stesso Aristotele. Ora, l' amicizia di cui parliamo «di per sé desidera far piacere e rifugge dal rattristare». Quindi questa amici­ zia non è una virtù. In contrario: i precetti della legge hanno di mira gli atti delle virtù. Ora in Sir 4 [7] è detto: Mostrati affabile con i poveri. Perciò l'affabilità, che qui denominiamo amicizia, è una virtù specificamente distinta. Risposta: poiché, come si è detto sopra, la vir­ tù è ordinata al bene, là dove si riscontra un be­ ne speciale da compiere è necessario che vi sia una virtù speciale. Ora il bene, come si è detto, è costituito dall'ordine, per cui l'uomo nella vita quotidiana deve essere ordinato come si conviene in rapporto agli altri, sia negli atti che nelle parole: in modo cioè da trattare tutti secondo il dovuto. Si richiede quindi una virtù speciale che conservi l 'ordine suddetto. E que­ sta virtù è denominata amicizia, o affabilità. Soluzione delle difficoltà: l . Il Filosofo nel­ l' Etica parla di due tipi di amicizia. La prima consiste principalmente n eli' affetto reciproco. E questa può derivare da qualsiasi virtù. Ora, quanto si riferisce a questa amicizia noi l' ab­ biamo già esaminato parlando della carità. n secondo tipo di amicizia [o amabilità] di cui parla Aristotele si limita invece alle parole o

delectatione sibi cavere, ut dicitur 2 Ethic. [9,6]. Haec autem amicitia per se quidem de­

siderar condelectare, contristare autem reve­ retur, ut philosophus dicit, in 4 Ethic. [6,5]. Ergo huiusmodi amicitia non est virtus. Sed contra, praecepta legis dantur de actibus virtutum. Sed Eccli. 4 [7] dicitur, congrega­ rioni pauperum affabilem te facito. Ergo affa­ bilitas, quae hic amicitia dicitur, est quaedam specialis virtus. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [q. 1 09 a. 2], cum virtus ordinetur ad bonum, ubi occurrit specialis ratio boni, ibi oportet es­ se specialem rationem virtutis. Bonum autem in ordine consistit, sicut supra [q. 1 09 a. 2] dictum est. Oportet autem horninem conve­ nienter ad alios hornines ordinari in communi conversatione, tam in factis quam in dictis, ut scilicet ad unumquemque se habeat secun­ dum quod decet. Et ideo oportet esse quan­ dam specialem virtutem quae hanc conve­ nientiam ordinis observet. Et haec vocatur arnicitia sive affabilitas. Ad primum ergo dicendum quod philosophus in libro Ethicorum de duplici amicitia loqui­ tur. Quarum una consistit principaliter in af­ fectu quo unus alium diligit [8] . Et haec

saggi è laddove è la tristezza, e il cuore degli stolti dov'è la letizia: è quindi proprio della

Q. 1 14, A. l

L 'amicizia o affabilità

potest consequi quamcumque virtutem. Quae autem ad hanc amicitiam pertinent, supra [q. 23 a. l ; a. 3 ad l ; qq. 25-33] de caritate dieta sunt. Aliam vero amicitiam ponit [4,6,3] quae consistit in solis exterioribus verbis vel factis. Quae quidem non habet perfectam ra­ tionem amicitiae, sed quandam eius similitu­ dinem, inquantum scilicet quis decenter se habet ad illos cum quibus conversatur. Ad secundum dicendum quod omnis homo naturaliter omni homini est arnicus quodam generali amore, sicut etiam dicitur Eccli. 1 3 [ 1 9], quod omne animai diligit simile sibi. Et hunc amorem repraesentant signa amicitiae quae quis exterius ostendit in verbis vel factis etiam extraneis et ignotis. Unde non est ibi simulatio. Non enim ostendit eis signa per­ fectae amicitiae, quia non eodem modo se habet familiariter ad extraneos sicut ad eos qui sunt sibi speciali amicitia iuncti. Ad tertium dicendum quod cor sapientum dicitur esse ubi tristitia non quidem ut ipse proximo tristitiam inferat, dicit enim aposto­ lus, Rom. 14 [ 1 5], si propter cibumfrater tuus

contristatur, iam non secundum caritatem ambulas, sed ut contristantibus consolationem ferat, secundum illud Eccli. 7 [38], non desis plorantibus in consolationem, et cum lugen­ tibus ambula. Cor autem stultorum est ubi

laetitia, non quidem ut ipsi alios laetificent, sed ut ipsi aliomm laetitia perfruantur. - Perti­ net ergo ad sapientem ut condelectationem af­ ferat his cum quibus conversatur, non quidem lascivam, quam virtus cavet, sed honestam; secundum illud Ps. 1 32 [ 1 ], ecce quam bo­

num et quam iucundum habitare fratres in unum. Quandoque tamen, propter aliquod bonum consequens vel propter aliquod ma­ lum excludendum, non refugiet virtuosus eos quibus convivit contristare, ut philosophus dicit, 4 Ethic. [6,7]. Unde et apostolus dicit, 2 ad Cor. 7 [8], si contristavi vos in epistola, non me poenitet, et postea [9], gaudeo, non

quia contristati estis, sed quia contristati estis ad poenitentiam. Et ideo his qui sunt proni ad

peccandum non debemus hilarem vultum ostendere ad eos delectandum, ne videamur eorum peccato consentire et quodammodo peccandi audaciam ministrare. Unde dicitur Eccli. 7 [26], filiae tibi sunt, serva corpus

illarum, et non ostendas hilarem faciem tuam ad illas.

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ai fatti esterni, e non ha la perfetta natura del­ l' amicizia, ma solo una certa somiglianza con essa: in quanto cioè uno si comporta bene verso le persone con cui tratta. 2. Ogni uomo per natura è amico di tutti gli uomini secondo un certo amore generico, co­ me è detto in Sir 1 3 [ 1 9] : Ogni creatura vi­ vente ama il suo simile. Ora, i segni di amici­ zia che uno mostra esternamente con le paro­ le o con i tàtti anche verso gli estranei e gli sconosciuti stanno a esprimere questo amore. Non c'è quindi simulazione. Infàtti uno non mostra i segni di una perfetta amicizia: poiché verso gli estranei non mostra la medesima familiarità che usa verso coloro che gli sono uniti da un'amicizia speciale. 3. Si dice che il cuore dei saggi si trova dov'è la tristezza non per procurarla al prossimo. Infatti Paolo ammonisce: Se per via del cibo

contristi un tuofratello, tu non ti comporti più secondo carità (Rm 14, 1 5); ma piuttosto per consolare gli aftlitti, secondo Sir 7 [38]: Non far mancare a coloro che piangono la conso­ lazione, e stai vicino agli afflitti. Invece il cuore degli stolti sta dov'è l' allegria non per rallegr� gli altri, ma per godere della gioia altrui. - E quindi proprio del sapiente aiTecare a coloro con i quali convive un certo piacere: non sensuale, che tipugna alla virtù, ma one­ sto, secondo le parole del Sal 1 32 [ 1 ] : Ecco

quanto è buono e soave che i fratelli vivano insieme. Tuttavia talora, per un bene da con­

seguire o per un male da escludere, la persona virtuosa, come nota il Filosofo, non esita a rattristare coloro con i quali convive. Per cui Paolo dice: Se anche vi ho rattristati con la

mia lettera, non me ne dispiace. Ora ne godo; non per la vostra tristezza, ma perché questa tristezza vi ha portato a pentirvi (2 Cor 7 ,8

s.). Non dobbiamo quindi mostrare, per com­ piacenza, u n volto sorridente a quelli che sono sulla china del peccato, per non sembra­ re consenzienti alle loro colpe e quasi offrire un incoraggiamento a peccare. Per cui i n Sir 7 [26] è detto: Se hai delle figlie, custodisci il

loro corpo, e non mostrare loro un volto trop­ po ilare.

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L 'amicizia o affabilità

Q. l l 4, A. 2

Articulus 2 Utrum huiusmodi amicitia sit pars iustitiae

Articolo 2 L'affabilità è una parte della giustizia?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod huiusmodi amicitia non sit pars iustitiae. l . Ad iustitiam enim pertinet reddere debitum alteri. Sed hoc non pertinet ad hanc virtutem, sed solum delectabiliter aliis convivere. Ergo huiusmodi virtus non est pars iustitiae. 2. Praeterea, secundum philosophum, in 4 Ethic. [6,7], huiusmodi virtus consistit circa de­

Sembra di no. Infatti: l . La giustizia ha il compito di rendere agli altri quanto è loro dovuto. Invece l'amabilità non ha un tale compito, ma solo quello di convivere piacevolmente con gli altri. Quindi l'amabilità non è una parte [potenziale] della giustizia. 2. Secondo il Filosofo questa virtù consiste «nel regolare le gioie e le amarezze della con­ vivenza>>. Ma regolare i piaceri più grandi è compito della temperanza, come sopra si è visto. Quindi l'amabilità è piuttosto parte del­ la temperanza che della giustizia. 3. Trattare ugualmente esseri disuguali è con­ tro la giustizia, stando alle cose già dette. Ora questa virtù, come dice il Filosofo, «tratta allo stesso modo le persone sconosciute e quelle conosciute, i familiari e gli estranei». Perciò questa virtù non è una parte [potenziale] della giustizia, ma piuttosto un abito contrario. In contrario: Macrobio mette l'amicizia tra le parti [potenziali] della giustizia. Risposta: questa virtù è una parte [potenziale] della giustizia in quanto si affianca ad essa come alla rispettiva virtù cardinale. Essa in­ fatti ha in comune con la giustizia il fatto di essere relativa ad altri. Non adegua però la nozione di giustizia poiché il debito a cui si riferisce non è perfetto come il debito legale che obbliga verso gli altri secondo la costri­ zione della legge, e neppure come il debito che nasce dall'aver ricevuto un beneficio, ma si limita a soddisfare un debito di onestà, do­ vuto più alla persona virtuosa obbligata a ren­ derlo che non a quanti ne sono l'oggetto, fa­ cendo sì che tale persona faccia agli altri ciò che conviene che essa faccia. Soluzione delle difficoltà: l . Sopra abbiamo detto che l'uomo, essendo un animale socievo­ le, è moralmente tenuto a manifestare la verità agli altri, senza di che la società umana non potrebbe sussistere. Ora, come l ' uomo non può vivere in società senza veracità, così non può vivere senza soddisfazioni: poiché, come dice il Filosofo, «nessuno può durare a lungo nella tristezza, e senza soddisfazioni». Quindi per un debito naturale di onestà l'uomo è tenu­ to a convivere in modo piacevole con gli altri:

lectationem ve/ tristitiam quae est in convictu. Sed moderari maximas delectationes pertinet ad temperantiam, ut supra [I-II q. 60 a. 5; q. 61 a. 3] habitum est. Ergo haec virtus magis est pars temperantiae quam iustitiae. 3. Praeterea, aequalia inaequalibus exhibere contra iustitiam est, ut supra [q. 6 1 a. 2; I q. 65 a. 2 ad 3] habitum est. Sed sicut philoso­ phus dicit, in 4 Ethic. [6,5], haec virtus simili­

ter ad ignotos et notos, et consuetos et incon­ suetos operatur. Ergo haec virtus non est pars iustitiae, sed magis ei contrariatur. Sed contra est quod Macrobius [In Som. S. l ,8] ponit amicitiam partem iustitiae. Respondeo dicendum quod haec virtus est pars iustitiae, inquantum adiungitur ei sicut princi­ pali virtuti. Convenit enim cum iustitia in hoc quod ad alterum est, sicut et iustitia. Deficit autem a ratione iustitiae, quia non habet plenam debiti rationem, prout aliquis alteri obligatur vel debito legali, ad cuius solutionem lex cogit, vel etiam aliquo debito proveniente ex aliquo bene­ ficio suscepto, sed solum attendit quoddam debitum honestatis, quod magis est ex parte ipsius virtuosi quam ex parte alterius, ut scilicet faciat alteri quod decet eum facere. Ad primum ergo dicendum quod, sicut supra [q. 109 a. 3 ad l ] dictum est, quia homo natu­ raliter est animai sociale, debet ex quadam honestate veritatis manifestationem aliis ho­ minibus, sine qua societas hominum durare non posset. Sicut autem non posset vivere ho­ mo in societate sine veritate, ita nec sine de­ lectatione, quia sicut philosophus dicit, in 8 Ethic. [5,2], nullus potest per diem morari cum tristi, neque cum non delectabili. Et ideo homo tenetur ex quodam debito naturali ho­ nestatis ut homo aliis delectabiliter convivat, nisi propter aliquam causam necesse sit ali­ quando alios utiliter contristare.

Q. 1 14, A. 2

L 'amicizia o affabilità

Ad secundum dicendum quod ad temperan­ tiam pertinet refrenare delectationes sensibi­ les. Sed haec virtus consistit circa delectatio­ nes in convictu, quae ex ratione proveniunt, inquantum unus ad alterum decenter se habet. Et has delectationes non oportet refrenare tanquam noxias. Ad tertium dicendum quod verbum illud philo­ sophi non est intelligendum quod aliquis eodem modo debeat colloqui et convivere notis et ignotis, quia, ut ipse ibidem [Ethic. 4,6,5] subdit, non similiter convenir consuetos et extraneos curare aut contristare. Sed in hoc attenditur similitudo, quod ad omnes oportet facere quod decet.

1 086

a meno che in certi casi, per un motivo di vera utilità, non sia necessario contristarli. 2. La temperanza ha il compito di tenere a freno i piaceri sensibili. Invece questa virtù si interessa della gioia del convivere umano, la quale proviene dalla ragione, per il fatto che uno tratta l'altro in modo conveniente. E que­ sta gioia non è necessaria tenerla a freno, co­ me se fosse dannosa. 3. Quelle parole del Filosofo non vanno intese nel senso che si sia tenuti a parlare e a trattare alla stessa maniem con le persone conosciute e con quelle sconosciute, poiché, come egli ag­ giunge, «non è giusto cumre o contristare allo stesso modo i familiari e gli estranei». Egli vuoi solo dire che, proporzionalmente, si deve tratta­ re ciascuno nella maniem che a lui conviene.

QUAESTIO 1 15

QUESTIONE 1 1 5

DE ADULATIONE

L'ADULAZIONE

Deinde considerandum est de vitiis oppositis praedictae virtuti. Et primo, de adulatione; se­ cundo, de litigio [q. 1 16]. Circa adulationem quaeruntur duo. Primo, utrum adulatio sit pec­ catum. Secundo, utrum sit peccatum mortale.

Passiamo così a parlare dei vizi opposti a que­ sta virtù. Primo, dell'adulazione; secondo, del litigio. Sull'adulazione si pongonç due quesiti: l . L'adulazione è un peccato? 2. E un peccato mortale?

Articulus l

Articolo l

Utrum adulatio sit peccatum

L'adulazione è un peccato?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod adu­ latio non sit peccatum. l . Adulatio enim consistit in quodam sermo­ ne laudis alteri exhibito intentione placendi. Sed laudare aliquem non est malum, secun­ dum illud Prov. 3 1 [28], surrexenmtfilii eius

Sembm di no. Intàtti: l. L'adulazione consiste in una lode rivolta a qualcuno con l'intenzione di fargli piacere. Ma lodare una persona non è una cosa cattiva, poiché in Pr 3 1 [28] è detto: I suoi figli sono

et beatissimam praedicaverunt, vir eius, et laudavit eam. Similiter etiam velle piacere

aliis non est malum, secundum illud l ad Cor. 1 0 [33], per omnia omnibus placeo. Ergo adulatio non est peccatum. 2. Praeterea, bono malum est contrarium, et sirniliter vituperium laudi. Sed vituperare ma­ lum non est peccatum. Ergo neque laudare bonum, quod videmr ad adulationem pertine­ re. Ergo adulatio non est peccatum. 3. Praeterea, adulationi detractio contrariatur. Unde Gregorius dicit [Mor. 22,9] quod reme­ dium contra adulationem est detractio. Scien­ dum est, inquit, quod ne immoderatis /audi­

bus elevemw; plentmque nostri Rectoris mo-

sorti a proclamar/a beata, e suo marito ne ha fatto l'elogio. Parimenti non è una cosa catti­

va voler piacere al prossimo, secondo le paro­ le di l Cor 1 0 [33]: Mi sforzo di piacere a tutti in tutto. Quindi l'adulazione non è un peccato. 2. n male è contrario al bene come il vitupe­ rio alla lode. Ma vituperare il male non è pec­ cato. Quindi neppure è peccato lodare il bene, come si fa appunto nell'adulazione. E così l'adulazione non è un peccato. 3. L'l detrazione è il contrario dell'adulazione, tanto che Gregorio può affetmare che essa è un rimedio contro l' adulazione: «Dobbiamo riconoscere che la Provvidenza divina, per impedire che ci insuperbiamo delle lodi esa-

1 087

L 'adulazione

deramine detractionibus lacerari permittimur, ut quos vox laudantis elevat, lingua detrahen­ tis humiliet. Sed detractio est malum, ut supra [q. 73 a. 2] habitum est. Ergo adulatio est bonum. Sed contra est quod super illud Ez. 13 [ 1 8],

vae, qui consuunt pulvillos sub omni cubito manus, dicit Glossa [int.], idest, suavem adu­ lationem. Ergo adulatio est peccatum. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 1 14 a. l ad 3] dictum est, amicitia praedic­ ta, vel affabilitas, etsi principaliter delectare intendat eos quibus convivit, tamen, ubi ne­ cesse e...t propter aliquod bonum exequendum vel malum vitandum, non veretur contristare. Si ergo aliquis in omnibus velit ad delectatio­ nem alteli loqui, excedit modum in delectando, et ideo peccat per excessum. Et si quidem hoc faciat sola intentione delectandi, vocatur pla­ cidus, secundum philosophum [Ethic. 4,6,9], si autem hoc faciat intentione alicuius lucri consequendi, vocatur blanditor sive adulator. Communiter tamen nomen adulationis solet attribui omnibus qui supra debitum modum virtutis volunt alios verbis vel factis delectare in communi conversatione. Ad primum ergo dicendum quod laudare aliquem contingit et bene et male, prout scilicet debitae circumstantiae vel servantur vel prae­ termittuntur. Si enim aliquis aliquem velit de­ lectare laudando ut ex hoc eum consoletur ne in tribulationibus deficiat, vel etiam ut in bono proficere studeat, aliis debitis circumstantiis observatis, pertinebit hoc ad praedictam virtu­ tem amicitiae. Pertinet autem ad adulationem si aliquis velit aliquem laudare in quibus non est laudandus, quia forte mala sunt, secundum illud, laudatur peccator in desideriis animae suae; vel quia non sunt certa, secundum illud Eccli. 27 [8], ante sermonem ne laudes virum, et iterum Eccli. 1 1 [2], non laudes virum in specie sua; vel etiam si timeri possit ne huma­ na laude ad inanem gloriam provocetur, unde dicitur Eccli. 1 1 [30], ante mortem ne laudes hominem. - Similiter etiam velle piacere hominibus propter caritatem nutriendam, et ut in eis homo spiritualiter proficere possit, lau­ dabile est. Quod autem aliquis velit piacere hominibus propter inanem gloriam vel prop­ ter lucrum, vel etiam in malis, hoc esset pec­ catum, secundum illud Ps. [52,6], Deus dissi­ pavit ossa eorum qui hominibus placent. Et

Q. 1 1 5, A. l

gerate, spesso permette che siamo lacerati dalle detrazioni: affinché la maldicenza umìli chi è innalzato dalla lode». Ma la detrazione è una cosa cattiva, come sopra si è visto. Quindi l'adulazione è una cosa buona. In contrario: su Ez 13 [18]: Guai a coloro che imbottiscono cuscini per ogni gomito, la Glossa dice: «morbida adulazione». Quindi l'adulazione è un peccato. Risposta: come si è detto nella questione pre­ cedente, sebbene l'amabilità miri soprattutto a compiacere coloro con i quali si convive, tut­ tavia non esita a contristarli quando il conse­ guimento di un bene o la prevenzione di un male lo richiede. Se quindi uno vuole trattare gli altri compiacendoli in tutto nelle sue paro­ le, esagera nella compiacenza, per cui pecca per eccesso. E se uno lo fa solo con l'inten­ zione di compiacere, merita l'appellativo di «piaggiatore», secondo il Filosofo; se invece lo fa con l'intenzione di un guadagno, allora è un «lusingatore», o un «adulatore». Thttavia ordinariamente si dà il nome di adulatori a tutti quelli che nel trattare vogliono compiace­ re gli altri con le parole o con i fatti oltre i limiti dell'onestà. Soluzione delle difficoltà: l . La lode di una persona può essere buona o cattiva, a seconda che siano o non siano rispettate le debite circo­ stanze. Se uno infatti volesse con la lode ralle­ grare una persona per consolarla e confortarla mentre è sotto il peso della tribolazione, oppu­ re per spronarla al bene, salvando le altre debi­ te circostanze, compirebbe un atto che rientra nella virtù dell'amabilità. Si cade invece nel­ l'adulazione se si pretende di lodare il prossi­ mo in cose per le quali esso non deve essere lodato: o perché sono cattive, come è detto nel Sal 9 [24]: L'empio è lodato per le sue brame; o perché non sono certe, come è detto in Sir 27 [8] : Non lodare un uomo prima che abbia parlato, e ancora [ 1 1 ,2]: Non lodare un uomo per la sua bellezza; oppure perché c'è da temere di provocarlo alla vanagloria con una lode umana, per cui è detto in Sir 1 1 [30]:

Non lodare alcun uomo prima della morte.

-

Ugualmente è cosa lodevole l'intenzione di piacere al prossimo per fomentare la carità � per farlo avanzare spiritualmente in essa. E invece un peccato voler piacere agli uomini per vanagloria, o per un guadagno, oppure in cose cattive. Da cui le parole del Sal 52 [6]:

Q. 1 1 5, A. l

1088

L 'adulazione

apostolus dicit, ad Gal. l [10], si adhuc homi­ nibus placerem, Christi servus non essem.

Ad secundum dicendum quod etiam vitupera­ re malum, si non adhibeantur debitae cir­ cumstantiae, est vitiosum. Et similiter laudare bonum. Ad tertium dicendum quod nihil prohibet duo vitia esse contraria. Et ideo sicut detractio est malum, ita et adulatio. Quae ei contrariatur quantum ad ea quae dicuntur, non autem di­ recte quantum ad finem, quia adulator quaerit delectationem eius cui adulatur; detractor autem non quaerit eius contristationem, cum aliquando occulte detrahat, sed magis quaerit eius infamiam. Articulus 2

Dio ha disperso le ossa di quelli che piaccio­ no agli uomini. E Paolo dice: Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo (Gal l , 10).

2. Se non si osservano le debite circostanze, anche vituperare il male può essere peccami­ noso. E lo stesso si dica per la lode del bene. 3. Nulla impedisce che due vizi siano contrari. Come quindi è una cosa cattiva la detrazione o maldicenza, così lo è pure l'adulazione. La quale è in contrasto con la prima per le cose che si dicono, ma non direttamente per il fine: poiché l'adulatore cerca di far piacere al pros­ simo che àdula, mentre il maldicente, nel dir­ ne male di nascosto, non cerca di contristarlo, ma piuttosto attenta alla sua reputazione. Articolo 2

Utrum adulatio sit peccatum mortale

L'adulazione è un peccato mortale?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod adulatio sit peccatum mortale. l . Quia secundum Augustinurn, in Ench. [ 1 2], malum dicitur quia nocet. Sed adulatio maxi­ me nocet, secundurn illud Ps. [9,24-25], quo­

Sembra di sì. Infatti: l. Agostino ha scritto che «una cosa è cattiva perché nuoce». Ma l'adulazione arreca il danno più grave, secondo il Sa/ 9 [24]: Poiché l'empio

niam laudatur peccator in desideriis animae suae, et iniquus benedicitur, exacerbavit Do­ minum peccator. Et Hieronymus dicit [ep. 148 Ad Celantiam Matronam] quod nihil est quod tam facile corrumpat mentes hominum quam adulatio. Et super illud Ps. [69,4], conver­ tantur statim entbescentes, dicit Glossa [ord. et Lomb.; Enarr. in Ps. 69 super 4], plus nocet lingua adulatoris quam gladius persecutoris.

Ergo adulatio est gravissimum peccatum. 2. Praeterea, quicumque verbis alii nocet, non rninus nocet sibi quam aliis, unde dicitur in Ps. [36, 1 5] , gladius eo rum intret in corda ipsorum. Sed ille qui alteri adulatur, inducit eum ad peccandum mortaliter, unde super illud Ps. [ 1 40,5], oleum peccatoris non impin­ guet caput meum, dicit Glossa [int., ord. et

Lomb.],falsa laus adulatoris mentes a rigore veritatis emollit ad noxia. Ergo multo magis

adulator in se mortaliter peccat. 3. Praeterea, in Decretis scribitur, dist. 46 [Decretum, p. l , d. 46, can. 3], clericus qui

adulationibus et proditionibus vacare depre­ henditur, degradetur ab officio. Sed talis poe­ na non infligitur nisi pro peccato mortali. Er­ go adulatio est peccatum mortale. Sed contra est quod Augustinus, in Serm. de

è lodato per le sue brame, e l'iniquo è detto beato, il peccatore ha esasperato il Signore. E

Girolamo afferma che «non c'è nulla che cor­ rompa l ' anima umana più facilmente» del­ l'adulazione. A commento poi del Sal 69 [4]: Per la vergogna si volgano indietro, la Glossa afferma: «Nuoce di più la lingua dell'adulato­ re che la spada del persecutore». Perciò l'adu­ lazione è un peccato gravissimo. 2. Chi con le parole nuoce agli altri, nuoce a se stesso più che agli altri, avverandosi in tal modo le parole del Sa/ 36 [15]: La loro spada raggiungerà il loro cuore. Ora, l'adulatore induce la persona adulata a peccare mortal­ mente: infatti la Glossa, a proposito di quella frase del Sal 140 [5] : L'olio dell'empio non profumi il mio capo, così si esprime: «La lode falsa dell'adulatore porta le anime dal rigore della verità alla mollezza del peccato». A maggior ragione quindi l'adulatore pecca mortalmente contro se stesso. 3. Nel Decreto si legge: «Il chierico riscontra­ to colpevole di adulazione e di tradimento sia degradato dal suo ufficio». Ma una simile pena non è inflitta che per un peccato morta­ le. Quindi l'adulazione è un peccato mortale. In contrario: tra «i peccati meno gravi» Ago­ stino enumera il seguente: «Se uno avrà adu-

1 089

L 'adulazione

Purgat., inter peccata minuta [Serm. suppos. 1 04] numerat [Serm. suppos. 1 04], si quis

cuiquam maiori personae, aut ex voluntate aut ex necessitate, adulari voluerit. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 24 a 12; q. 34 a 3; I-ll q. 72 a 5] dictum est, pec­ catum mortale est quod contrariatur caritati. Adulatio autem quandoque quidem caritati contrariatur, quandoque autem non. Contraria­ tur siquidem caritati tripliciter. Uno modo, ra­ tione ipsius materiae, puta cum aliquis laudat alicuius peccatum. Hoc enim contrariatur dilec­ tioni Dei, contra cuius iustitiam homo loquitur, et contra dilectionem proximi, quem in peccato fovet. Unde est peccatum mortale, secundum illud Isaiae 5 [20] , vae, qui dicunt malum bonum. Allo modo, ratione intentionis, puta cum aliquis adulatur alicui ad hoc quod frau­ dulenter ei noceat, vel corporaliter vel spiritua­ liter. Et hoc etiam est peccatum mortale. Et de hoc habetur Prov. 27 [6], melim·a sunt vulnera diligentis quam fraudulenta odientis oscula. Tertio modo, per occasionem, sicut cum laus adulatoris fit alteri occasio peccandi, et praeter adulatoris intentionem. Et in hoc considerare oportet utrum sit occasio data vel accepta, et qualis ruina subsequatur, sicut potest patere ex his quae supra [q. 43 a. 4] de scandalo dieta sunt. - Si autem aliquis ex sola aviditate delec­ tandi alios, vel etiam ad evitandum aliquod ma­ lum vel consequendum aliquid in necessitate, alicui adulatus fuerit, non est contra caritatem. Unde non est peccatum mortale, sed veniale. Ad primum ergo dicendum quod auctoritates illae loquuntur de adulatore qui laudat pecca­ rum alicuius. Talis enim adulatio dicitur plus nocere quam gladius persecutoris, quia in potioribus bonis nocet, scilicet in spiritualibus. Non enim nocet ita efficaciter, quia gladius persecutoris effective occidit, quasi sufficiens causa mortis; nullus autem potest esse alteri sufficiens causa peccandi, ut ex supra [q. 43 a l ad 3; 1-ll q. 73 a. 8 ad 3; q. 75 a. 3; q. 80 a. l ] dictis patet. Ad secundum dicendum quod ratio illa proce­ dit de eo qui adulatur intentione nocendi. llle enim plus nocet sibi quam aliis, quia sibi nocet tanquam sufficiens causa peccandi, aliis autem occasionaliter tantum. Ad tertium dicendum quod auctoritas illa lo­ quitur de eo qui proditorie alteri adulatur ut eum decipiat. -

Q. l l 5, A. 2

lato una persona ragguardevole, o spontanea­ mente o per necessità». Risposta: come si è detto sopra, il peccato mortale è quello che è contro la carità. Ora, l'adulazione a volte è contro la carità, ma non sempre. Essa è contro la carità in tre modi. Primo, per la materia stessa: cioè nel caso in cui si lodino i peccati di una persona. Ciò in­ fatti è contro l 'amore di Dio, di cui l'adulato­ re offende la giustizia, ed è contro l' amore del prossimo, che egli incoraggia nel peccato. Per cui in questo caso l 'adulazione è un peccato mortale: Guai a coloro che chiamano bene il male (ls 5,20). - Secondo, per la cattiva inten­ zione: cioè quando si adula una persona per danneggiarla astutamente, o nel corpo o nel­ l' anima. E anche questo è un peccato m01tale. In Pr 27 [6] infatti è detto: Le ferite provocate

da un amico sono migliori dei fallaci baci di chi ci odia. - Terzo, per le occasioni di pecca­ to che offre: come quando la lode, senza che l ' adulatore lo voglia, offre un' occasione d i peccato. E in tal caso bisogna vedere s e l' oc­ casione è stata data oppure soltanto ricevuta, e quali siano i danni che ne derivano, come ve­ demmo sopra parlando dello scandalo. - Se invece uno ha adulato una persona per il solo desiderio di compiacerla, o per evitare un ma­ le, oppure per ottenere un bene in caso di necessità, allora la sua adulazione non è con­ tro la carità. Per cui non è un peccato mortale, ma veniale. Soluzione delle difficoltà: l . Tutti quei testi parlano dell' adulatore che loda il peccato di qualcuno. Si può infatti dire che tale adulazio­ ne nuoce più della spada del persecutore per il fatto che compromette i beni più grandi, cioè i beni spirituali. Essa però non nuoce con la stessa efficacia: poiché la spada del persecu­ tore uccide direttamente, quale causa suffi­ ciente della morte, mentre nessuno può essere la causa sufficiente del peccato di un altro, come fu spiegato sopra. 2 . L' argomento vale p e r c h i adula c o n l'intenzione d i nuocere. Costui infatti nuoce più a se stesso che agli altri: poiché per se stesso è causa diretta ed efficace di peccato, mentre per gli altri è solo una causa occasio­ nale. 3. Quel testo parla di chi adula il prossimo a tradimento, per ingannarlo.

Il litigio

Q. 1 1 6, A. l

1 090

QUAESTIO 1 1 6

QUESTIONE 1 1 6

Deinde considerandum est de litigio. Et circa hoc quaeruntur duo. Primo, utrum opponatur virtuti amicitiae. Secundo, de comparatione eius ad adulationem.

Passando ora a trattare del litigio, esaminere­ mo due argomenti: l . n litigio è contrario alla virtù dell'affabilità? 2. n confronto fra esso e l'adulazione.

Articulus l

Articolo l Il litigio è contrario alla virtù dell'affabilità?

DE LITIGIO

Utrum litigium opponatur virtuti amicitiae seu affabilitatis Ad primum sic proceditur. Videtur quod litigium non opponatur virtuti amicitiae vel affabilitatis. l . Litigium enim ad discordiam pertinere vi­ detur, sicut et contentio. Sed discordia oppo­ nitur caritati, sicut dictum est [q. 37 a. 1 ] . Er­ go et litigium. 2. Praeterea, Prov. 26 [21 ] dicitur, homo ira­ cundus incendit litem. Sed iracondia opponi­ tur mansuetudini. Ergo et lis, sive litigium. 3. Praeterea, Iac. 4 [ l ] dicitur, unde bella et li­

tes in vobis? Nonne ex concupiscentiis vestris, quae militant in membris vestris? Sed sequi

concupiscentias videtur opponi temperantiae. Ergo videtur quod litigium non opponatur amicitiae, sed temperantiae. Sed contra est quod philosophus, in 4 Ethic. [6,2], litigium opponit amicitiae. Respondeo dicendum quod proprie litigium in verbis consistit, cum scilicet unus verbis al­ terius contradicit. In qua quidem contradictio­ ne duo possunt attendi. Quandoque enim con­ tingit contradictio propter personam dicentis cui contradicens consentire recusat propter defectum amoris animos unientis. Et hoc vi­ detur ad discordiam pertinere, caritati con­ trariam. - Quandoque vero contradictio oritur ratione personae quam aliquis contristare non veretur. Et sic fit litigium, quod praedictae amicitiae vel affabilitati opponitur, ad quam pertinet delectabiliter aliis convivere. Unde philosophus dicit, in 4 Ethic. [6,2], quod illi

qui ad omnia contrariantur causa eius quod est contristare, neque quodcumque curantes, discoli et litigiosi vocantur. Ad ptimum ergo dicendum quod contentio magis proprie pertinet ad contradictionem discordiae, litigium autem ad contradictionem quae fit intentione contristandi. Ad secundum dicendum quod directa opposi-

IL LITIGIO

Sembra di no. Infatti: l . Il litigio sembra ridursi alla discordia, al pari della contesa. Ma la discordia si contrap­ pone alla carità, come sopra si è visto. Quindi anche il litigio. 2. In Pr 26 [21 ] è detto: L'iracondo accende le liti. Ma l'iracondia si oppone alla mansuetu­ dine. Quindi anche la lite, o litigio. 3. In Gc 4 [ l ] è detto: Da che cosa derivano le

guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni, che com­ battono nelle vosh·e membra? Ora, seguire le

passioni è in contrasto con la temperanza. Quindi il litigio non si contrappone all'amici­ zia, o affabilità, ma alla temperanza. In contrario: il Filosofo contrappone il litigio all'amicizia o affabilità. Risposta: il litigio consiste propriamente nel contraddire a parole le affermazioni di un al­ tro. Ora, di questa contraddizione ci possono essere due cause. Talora infatti si contraddice perché la persona che parla non riscuote il consenso di chi la contraddice per l'assenza di un amore che unisca gli animi. E questo è proprio della discordia, che si contrappone al­ la carità. - Talora invece la contraddizione na­ sce per il fatto che uno non teme di rattristare il prossimo. E così avviene il litigio, il quale si contrappone alla predetta virtù dell'amabilità, o affabilità, che ha il compito di farci convive­ re piacevolmente con gli altri. Scrive infatti il Filosofo che «Coloro i quali contraddicono in tutto per contristare e non si preoccupano di nulla, sono detti intrattabili e litigiosi». Soluzione delle difficoltà: l. La contesa con­ siste piuttosto nella contraddizione che è pro­ pria della discordia; il litigio invece consiste nella contraddizione che mira a contristare il prossimo. 2. La contrapposizione diretta dei vizi alle

1091

l/ litigio

tio vitiorum ad virtutes non attenditur secun­ dum causas, cum contingat unum vitium ex diversis causis oriri, sed attenditur secundum speciem actus. Licet autem quandoque liti­ gium ex ira oriatur, potest tamen ex multis aliis causis oriri. Unde non oportet quod di­ recte opponatur mansuetudini. Ad tertium dicendum quod Iacobus loquitur ibi de concupiscentia secundum quod est ge­ nerale malum, ex quo omnia vitia oriuntur, prout dicit Glossa [ord. et Lomb.] Rom. 7 [7],

bona est /ex, quae, dum concupiscentiam pro­ hibet, omne malum prohibet.

Q. 1 1 6, A. l

virtù non va rilevata in base alle loro cause, poiché un vizio può nascere anche da cause diverse, ma in base alla specie dell' atto. n liti­ gio infatti, sebbene talora nasca dall'ira, tutta­ via può nascere da molte altre cause. Per cui non è detto che si contrapponga direttamente alla mansuetudine. 3 . Giacomo parla dell a concupiscenza i n quanto vizio universale d a cui derivano tutti gli altri vizi, come nota la Glossa: «Buona è la legge che, col proibire la concupiscenza, proibisce ogni altro male».

Articulus 2

Articolo 2

Utrum litigium sit gravius peccatum quam adulatio

Il litigio è un peccato più grave dell'adulazione?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod litigium sit minus peccatum quam contrarium vitium, scilicet placiditatis vel adulationis. l. Quanto enim aliquod peccatum plus nocet, tanto peius esse videtur. Sed adulatio plus nocet quam litigium, dicitur enim Isaiae 3 [ 1 2], po­

Sembra di no. Infatti: l . Un peccato tanto più è grave quanto più nuoce. Ma l' adulazione nuoce più del litigio, come è detto in fs 3 [ 12] : Popolo mio, coloro

pule meus, qui beatum te dicunt, ipsi te deci­ piunt, et viam gressuum tuorum dissipant. Ergo

Quindi l' adulazione è un peccato più grave del litigio. 2. Nell' adulazione c'è dell'inganno, poiché l ' adulatore dice una cosa con la bocca e un' altra ne pensa nel suo cuore. Invece il liti­ gioso è senza inganni, poiché contraddice apertamente. Ora, peccare con inganno è più vergognoso, come osserva il Filosofo. Quindi l'adulazione è un peccato più grave del litigio. 3. La vergogna è il timore di qualcosa di turpe, come insegna il Filosofo. Ma l ' uomo si vergogna più di essere adulatore che di essere litigioso. Quindi il litigio è un peccato meno grave dell'adulazione. In contrario: un peccato sembra essere tanto più grave quanto più ripugna all'uomo spiri­ tuale. Ora, il litigio sembra ripugnare maggior­ mente all'uomo spirituale; infatti in l Tm 3 [2] è detto che il vescovo non deve essere litigio­ so, e in 2 Tm 2 [24] : Un servo del Signore non deve entrare in lite. Quindi il litigio è un peccato più grave. Risposta: questi due peccati li possiamo con­ siderare sotto due aspetti. Primo, facendo attenzione alla specie dell'uno e dell' altro. E sotto questo aspetto un vizio è tanto più grave quanto più è incompatibile con la virtù oppo­ sta. Ora, la virtù dell' amabilità tende più a

adulatio est gravius peccatum quam litigium. 2. Praeterea, in adulatione videtur esse quae­ dam dolositas, quia aliud adulator dicit ore, aliud habet in corde. Litigiosus autem caret dolo, quia manifeste contradicit. Ille autem qui cum dolo peccat, turpior est, ut philoso­ phus dicit, in 7 Ethic. [6,3]. Ergo gravius pec­ catum est adulatio quam litigium. 3. Praeterea, verecundia est timor de turpi, ut patet per philosophum, in 4 Ethic. [9, 1 .4] . Sed magis verecundatur homo esse adulator quam litigiosus. Ergo litigium est minus peccatum quam adulatio. Sed contra est quod tanto aliquod peccatum videtur esse gravius quanto spirituali statui magis repugnat. Sed litigium magis repugna­ re videtur spirituali, dicitur enim l ad Tim. 3 [2-3], quod oportet episcopum non litigiosum esse; et 2 ad Tim. 2 [24], servum Domini non oportet litigare. Ergo litigium videtur esse gravius peccatum. Respondeo dicendum quod de utroque istorum peccatorum loqui possumus dupliciter. Uno modo, considerando speciem utriusque pec­ cati. Et secundum hoc, tanto aliquod vitium est gravius quanto magis repugnat oppositae

che ti dicono beato sono quelli che ti ingan­ nano, e distruggono la strada che tu percorri.

l/ litigio

Q. 1 1 6, A. 2

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virtuti. Virtus autem amicitiae principalius tendit ad delectandum quam ad contristan­ dum. Et ideo litigiosus, qui superabundat in contristando, gravius peccat quam placidus vel adulator, qui superabundat in delectando. Alio modo possunt considerari secundum aliqua exteriora motiva. Et secundum hoc, quandoque adulatio est gravior, puta quando intendit per deceptionem indebite honorem vel lucrum acquirere. Quandoque vero liti­ gium est gravius, puta quando homo intendit vel veritatem impugnare, vel dicentem in con­ temptum adducere. Ad primum ergo dicendum quod sicut adulator potest nocere occulte decipiendo, ita litigiosus potest interdum nocere manifeste impugnando. Gravius autem est, ceteris paribus, manifeste alicui nocere, quasi per violentiam, quam occulte, unde rapina est gravius peccatum quam furtum, ut supra [q. 66 a. 9] dictum est. Ad secundum dicendum quod non semper in actibus humanis illud est gravius quod est turpius. Decor enim hominis est ex ratione, et ideo turpiora sunt peccata camalia, quibus caro dominatur rationi, quamvis peccata spiritualia sint graviora, quia procedunt ex maiori con­ temptu. Et similiter peccata quae fiunt ex dolo sunt turpiora, inquantum videntur ex quadam infinnitate procedere, et ex quadam falsitate rationis, cum tamen peccata manifesta quan­ doque sint ex maiori contemptu. Et ideo adula­ ti o , quasi cum dolo existens videtur esse turpior, sed litigium, quasi ex maiori con­ temptu procedens, videtur esse gravius. Ad tertium dicendum quod, sicut dictum est [I­ II q. 41 a. 4 ad 2-3; q. 42 a. 3 ad 4], verecondia respicit turpitudinem peccati. Unde non sem­ per magis verecundatur homo de graviori pec­ cato, sed de magis turpi peccato. Et inde est quod magis verecundatur homo de adulatione quam de litigio, quamvis litigium sit gravius.

compiacere che a rattristare. Perciò il litigioso, che eccede nel rattristare, pecca più gravemen­ te dell'adulatore, che esagera nel compiacere. Secondo, li possiamo considerare in base ai motivi esterni. E da questo lato talora è un peccato più grave l'adulazione: p. es. quando uno con l'inganno cerca di acquistare onore o danaro. Talora invece è più grave il litigio: p. es. quando uno mira a impugnare la verità, o a gettare il discredito sull'interlocutore. Soluzione delle difficoltà: I . Come I' adulato­ re può nuocere con un inganno nascosto, così il litigioso può nuocere in certi casi impu­ gnando apertamente. Ora, a parità di condi­ zioni è più grave nuocere apertamente, quasi di prepotenza, che nascostamente: infatti la rapina è un peccato più grave del furto, come si è visto sopra. 2. Tra gli atti umani non sempre è più grave quello più turpe. Infatti l'onore dell'uomo sta nella ragione, e quindi i peccati più turpi sono quelli carnali, in cui la carne domina sulla ragione; sebbene i peccati spirituali siano più gravi, dato che derivano da un maggiore di­ sprezzo. Parimenti i peccati commessi con l' inganno sono più turpi, poiché sembrano detivare da una certa debolezza, e da una cer­ ta falsità della ragione; tuttavia i peccati fatti senza ritegno spesso derivano da un maggiore disprezzo. E così l'adulazione, in quanto si at­ tua con l'inganno, è più turpe; ma il litigio è più grave, derivando da un disprezzo più grande. 3. Come si è già visto, la vergogna ha per oggetto la turpitudine del peccato. Per cui non sempre l'uomo si vergogna maggiormente del peccato più grave, ma del peccato più turpe. E così ci si vergogna più dell'adulazione che del litigio, sebbene il litigio sia un peccato più grave.

QUAESTIO 1 17 DE LffiERALITATE

QUESTIONE 1 17._ LA LIBERALITA

Deinde considerandum est de liberalitate, et vitiis oppositis [q. 1 1 8], scilicet avaritia et prodigalitate. Circa liberalitatem quaeruntur sex. Primo, utrum liberalitas sit virtus. Se­ cundo, quae sit materia eius. Tertio, de actu ipsius. Quarto, utrum magis ad eum pertineat

Passiamo ora a studiare la liberalità e i vizi contrari, che sono l'avarizia e la prodigalità. A proposito della liberalità tratteremo sei ar­ gomenti: l . La liberalità è una virtù? 2. Quale ne è la materia? 3. Il suo atto; 4. Con essa uno è più portato a dare che a ricevere? 5. La libe-

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La liberalità

Q. 1 1 7, A. l

dare quam recipere. Quinto, utnun liberalitas sit pars iustitiae. Sexto, de comparatione eius ad alias virtutes.

ralità è una parte della giustizia? 6. n suo con­ fronto con le altre virtù.

Articulus l Utrum liberalitas sit virtus

Articolo l La liberalità è una virtù?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod libe­ ralitas non sit virtus. l . Nulla enim virtus contrariatur inclinationi naturali. Inclinatio autem naturalis est ad hoc ut aliquis plus sibi quam aliis provideat. Cuius contrarium pertinet ad liberalem, quia, ut phi­ losophus dicit, in 4 Ethic. [ 1 , 1 8], liberalis est non respicere ad seipsum, ita quod sibi minora derelinquit. Ergo liberalitas non est virtus. 2. Item, per divitias homo suam vitam susten­ tat, et ad felicitatem divitiae organice deser­ viunt, ut dicitur in l [8, 16] Ethic. Cum igitur omnis virtus ordinetur ad felicitatem, videtur quod liberalis non est virtuosus, de quo philo­ sophus dicit, in 4 Ethic. [1 ,20], quod non est acceptivus pecuniae neque custoditivus, sed emissivus. 3. Praeterea, virtutes habent connexionem ad invicem. Sed liberalitas non videtur connexa aliis virtutibus, multi enim sunt virtuosi qui non possunt esse liberales, quia non habent quod dent; multique liberaliter dant vel ex­ pendunt qui tamen alias sunt vitiosi. Ergo liberalitas non est virtus. Sed contra est quod Ambrosius dicit, in l De off. [30], quod in Evangelio multas discipli­ nas accipimus iustae liberalitatis. Sed in Evangelio non docentur nisi ea quae ad virtu­ tem pertinent. Ergo liberalitas est virtus. Respondeo dicendum quod, sicut Augustinus dicit, in libro De lib. arb. [2, 19], bene uti his quibus male uti possumus, pertinet ad virtu­ tem. Possumus autem bene et male uti non solum his quae intra nos sunt, puta potentiis et passionibus animae, sed etiam his quae extra nos sunt, scilicet rebus huius mundi concessis nobis ad sustentationem vitae. Et ideo, cum bene uti his rebus pertineat ad liberalitatem, consequens est quod liberalitas virtus sit. Ad primum ergo dicendum quod, sicut Am­ brosius [Sermones, serm. 8 1 , Domin. 8 post Pentecosten, super Luc. 12, 1 8] et Basilius [h. 6 In Luc. 1 2, 1 8] dicunt, superabundantia divi­ tiarum datur aliquibus a Deo ut meritum bo­ nae dispensationis acquirant. Pauca autem

Sembra di no. Infatti: l . Nessuna virtù è in contrasto con l'inclina­ zione naturale. Ora, l'inclinazione naturale fa sì che uno tenda a provvedere più a se stesso che agli altri. Invece la liberalità consiste nel fare il contrario: poiché, secondo il Filosofo, «è proprio dell'uomo liberale non guardare a se medesimo, così da serbarsi il meno». Quindi la liberalità non è una virtù. 2. Con le ricchezze l'uomo sostenta la propria vita; e, come insegna Aristotele, le ricchezze servono strumentalmente alla felicità. Siccome quindi ogni virtù è ordinata alla felicità, sembra che il liberale non sia virtuoso, poiché egli . Ma ciò rientra nello stato di perfezione della vita spirituale, di cui parleremo in seguito. Thttavia va ancora ricordato che l'elargizione liberale dei propri beni, in quanto è un atto di virtù, è ordinata anch'essa alla beatitudine. 3. Come nota il Filosofo, coloro che «sperpera­ no molti beni nell'intemperanza» non sono liberali, ma prodighi. E lo stesso si dica di quanti sperperano i loro beni per qualsiasi altro vizio. Da cui le parole di Ambrogio: «Se presti soccorso a coloro che insidiano le altrui sostan­ ze, la tua generosità è riprovevole. E neppure è pertetta la liberalità se tu doni più per millante­ ria che per misericordia». Perciò coloro che mancano delle altre virtù, anche se spendono molto danaro in opere cattive, non sono libera­ li. - Inoltre nulla impedisce che qualcuno, pur dando molto per opere di bene, non abbia ancora l' abito della liberalità: poiché ciò si verifica, come sopra si è notato, anche per le altre virtù, di cui gli uomini possono compiere certi atti prima di averne l'abito, sebbene in maniera diversa da come li compiono le perso­ ne virtuose. - Ugualmente nulla impedisce che una persona virtuosa, anche se povera, possa essere liberale. Il Filosofo infatti scrive: «La liberalità deve essere valutata in base alle sostanze», cioè alla capacità economica di cia­ scuno: «essa infatti non consiste nella quantità dei beni elargiti, ma nelle disposizioni di chi dona». E Ambrogio ammonisce che «è la

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La liberalità

Q. 1 1 7, A. l

vitem collationem aut pauperem facit, et pre­ tium rebus imponit.

disposizione dell'animo a rendere il dono pre­ zioso o vile, e a dar valore alle cose».

Articulus 2 Utrum liberalitas sit circa pecunias

Articolo 2 La liberalità ha per materia il danaro?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod liberalitas non sit circa pecunias. l . Omnis enim virtus moralis est circa opera­ tiones vel passiones. Esse autem circa opera­ tiones est proprium iustitiae, ut dicitur in 5 Ethic. [ l , l ] . Ergo, cum liberalitas sit virtus moralis, videtur quod sit circa passiones, et non circa pecunias. 2. Praeterea, ad liberalem pertinet quarum­ cumque divitiarum usus. Sed divitiae natura­ les sunt veriores quam divitiae artificiales, quae in pecuniis consistunt, ut patet per philo­ sophum, in 1 Pol. [3,9 . 1 6] . Ergo liberalitas non est principaliter circa pecunias. 3. Praeterea, diversarum virtutum diversae sunt materiae, quia habitus distinguuntur se­ cundum obiecta. Sed res exteriores sunt ma­ teriae iustitiae distributivae et commutativae. Ergo non sunt materia liberalitatis. Sed contra est quod philosophus dicit, in 4 Ethic. [ l , 1 ] , quod liberalitas videtur esse

Sembra di no. Infatti: 1 . Tutte le virtù morali riguardano sempre o gli atti esterni o le passioni. Ora, è proprio della giustizia avere per oggetto gli atti ester­ ni, come insegna Aristotele. Perciò la libera­ lità, essendo una virtù morale, sembra avere per oggetto le passioni e non il danaro. 2. Chi è liberale ha il compito di usare bene ogni tipo di ricchezza. Ma le ricchezze natu­ rali, come insegna il Filosofo, sono più auten­ tiche del danaro, che è una ricchezza artificia­ le. Quindi la liberalità non ha come oggetto ptincipale il danaro. 3 . Virtù diverse devono avere una materia diversa: poiché gli abiti si distinguono secon­ do l 'oggetto. Ora, i beni esterni sono materia della giustizia distributiva e commutativa. Quindi non sono materia della liberalità. In contrario: il Filosofo afferma che la libera­ lità «sembra consistere nel giusto mezzo rela­ tivo al danaro». Risposta: il Filosofo insegna che è proprio dell' uomo liberale essere «generoso nel da­ re». Infatti la liberalità si chiama anche lar­ ghezza: poiché ciò che è largo non trattiene, ma espande. E a ciò sembra ridursi anche l'etimologia di liberalità: quando infatti uno dà una cosa, in qualche modo la libera dal proprio dominio, e mostra che l'animo suo è libero dall'affetto verso di essa. Ora, le cose che devono passare in questo modo da un uomo all' altro sono i beni posseduti, indicati dal termine «danaro». Quindi la materia pro­ ptia della liberalità è il danaro. Soluzione delle difficoltà: l . Come si è già visto, la liberalità non si misura dalla grandez­ za del dono, ma dall'affetto del donatore. Ora, gli afietti del donatore consistono nella buona disposizione delle passioni dell' amore e della concupiscenza, e conseguentemente del pia­ cere e della tristezza relativamente alle cose elargite. Perciò la matetia immediata della li­ beralità sono le passioni intetiori, ma il dana­ ro estemo è il loro oggetto. 2. Come dice Agostino, «tutto ciò che gli uomini possiedono sulla terra, e su cui esercì-

medietas quaedam circa pecunias. Respondeo dicendum quod, secundum philo­ sophum, in 4 Ethic. [ l ,20], ad liberalem perti­ net emissivum esse. Unde et alio nomine libera­ litas /argitas nominatur, quia quod largum est, non est retentivum, sed est emissivum. Et ad hoc idem videtur pertinere etiam liberalitatis nomen, cum enim aliquis a se emittit, quo­ dammodo illud a sua custodia et dominio li­ berat, et animum suum ab eius affectu libe­ rum esse ostendit. Ea vero quae emittenda sunt ab uno homine in alium, sunt bona pos­ sessa, quae nomine pecuniae significantur. Et ideo propria materia liberalitatis est pecunia. Ad primum ergo dicendum quod, sicut dic­ tum est [a. l ad 3], liberalitas non attenditur in quantitate dati, sed in affectu dantis. Afl"ectus autem dantis disponitur secundum passiones amoris et concupiscentiae, et per consequens delectationis et tristitiae, ad ea quae dantur. Et ideo immediata materia liberalitatis sunt inte­ riores passiones, sed pecunia exterior est obiectum ipsarum passionum. Ad secundum dicendum quod, sicut Augusti­ nus dicit, in libro De doct. chr. [6], totum

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La liberalità

quidquid homines in terra habent, et omnia quorum sunt domini, pecunia vocatur, quia antiqui, quae habebant, in pecoribus habe­ bant. Et philosophus dicit, in 4 Ethic. [ 1 ,2], quod pecunias dicinuts omnia quorum digni­ tas numismate mensuratur.

tano un dominio, è denominato pecunia, o danaro: poiché i primitivi possedevano soltan­ to delle pecore». E il Filosofo spiega: «Noi chiamiamo danaro tutto ciò che può essere valutato in moneta». 3. La giustizia ha il compito di stabilire la per­ fetta uguaglianza nei beni esterni, non già quello di moderare le passioni interiori. Per cui i l danaro è la materia della liberalità e della giustizia in maniera diversa.

Articulus 3 Utrum uti pecunia sit actus liberalitatis

Articolo 3 L'impiego del danaro costituisce l'atto della liberalità?

Ad tertium dicendum quod iustitia constituit aequalitatem in istis exterioribus rebus, non autem ad eam proprie pertinet moderari inte­ riores passiones. Unde aliter pecunia est ma­ teria liberalitatis, et aliter iustitiae.

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod uti pecunia non sit actus liberalitatis. l . Diversarum enim virtutum diversi sunt actus. Sed uti pecunia convenit aliis virtuti­ bus, sicut iustitiae et magnificentiae. Non er­ go est proprius actus liberalitatis. 2. Praeterea, ad liberalem non solum pertinet dare, sed etiam accipere et custodire. Sed ac­ ceptio et custodia non videtur ad usum pe­ cuniae pertinere. Ergo inconvenienter dicitur proprius liberalitatis actus usus pecuniae. 3. Praeterea, usus pecuniae non solum consi­ stit in hoc quod pecunia detur, sed in hoc quod expendatur. Sed expendere pecuniam refertur ad ipsum expendentem, et sic non vi­ detur esse liberalitatis actus, dicit enim Sene­ ca, in 5 De benef. [9], non est liberalis aliquis ex hoc quod sibi donat. Ergo non quilibet usus pecuniae pertinet ad liberalitatem. Sed contra est quod philosophus dicit, in 4 Ethic. [ 1 ,6], unoquoque optime utitur qui

habet circa singula virtutem. Divitiis ergo utetur optime qui habet circa pecunias virtu­ tem. Iste autem est liberalis. Ergo bonus usus

pecuniarum est actus liberalitatis. Respondeo dicendum quod species actus sumitur ex obiecto, ut supra [I-II q. 1 8 a. 2] habitum est. Obiectum autem sive materia li­ beralitatis est pecunia, et quidquid pecunia mensurari potest, ut dictum est [a. 2]. Et quia quaelibet virtus convenienter se habet ad suum obiectum, consequens est ut, cum liberalitas sit virtus, actus eius sit proportionatus pecu­ niae. Pecunia autem cadit sub ratione bono­ rum utilium, quia omnia exteriora bona ad usum hominis sunt ordinata. Et ideo proprius actus liberalitatis est pecunia vel divitiis uti.

Sembra di no. Infatti: l . Vtrtù diverse devono avere atti diversi. Ora, servirsi del danaro spetta [anche] ad altre virtù: cioè alla giustizia e alla magnificenza. Quindi non è l'atto proprio della liberalità. 2. L'uomo liberale non deve limitarsi a dare, bensì deve anche ricevere e custodire il dana­ ro. Ma l'incetta e la custodia del danaro non rientra nel suo uso. Perciò non è giusto affer­ mare che l'uso del danaro è l'atto proprio del­ la liberalità. 3. L'uso del danaro non consiste solo nel do­ narlo, ma anche nello spenderlo. Ma chi spende ha di mira se stesso, e quindi non fa un atto di liberalità; Seneca infatti dichiara: «Uno non è liberale per il fatto che dona a se medesimo». Quindi non sempre l'impiego del danaro appartiene alla liberalità. In contrario: il Filosofo scrive: «L'uso miglio­ re di una cosa può farlo chi ne possiede la virtù relativa. Perciò il migliore uso della ric­ chezza potrà farlo chi ha la virtù relativa al danaro». Ora, è l'uomo liberale a trovarsi in queste condizioni. Quindi il buon uso delle ricchezze è l'atto proprio della liberalità. Risposta: la natura specifica di un atto è de­ sunta dall'oggetto, come fu spiegato in prece­ denza. Ora, l'oggetto o materia della libera­ lità, come si è visto nell' articolo precedente, è il danaro e quanto può essere valutato in da­ naro. Poiché dunque ogni virtù è in tutto ordi­ nata al proprio oggetto, è chiaro che la libera­ lità, essendo una virtù, deve avere il proprio atto proporzionato alla ricchezza. Ma il dana­ ro ricade tra i beni utili: poiché tutti i beni esterni sono ordinati al servizio dell'uomo.

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La liberalità

Q. 1 1 7, A. 3

Ad primum ergo dicendum quod ad liberali­ tatem pertinet bene uti divitiis inquantum huiusmodi, eo quod divitiae sunt propria ma­ teria liberalitatis. Ad iustitiam autem pertinet uti divitiis secundum aliam rationem, scilicet secundum rationem debiti, prout scilicet res exterior debetur alteri. Ad magnificentiam etiam pertinet uti divitiis secundum quandam specialem rationem, idest secundum quod as­ sumuntur in alicuius magni opetis expletio­ nem. Unde et magnificentia quodammodo se habet ex additione ad liberalitatem, ut infra [q. 128 a. l ad l ] dicetur. Ad secundum dicendum quod ad virtuosum pertinet non solum convenienter uti sua materia vel instmmento, sed etiam praeparare opportunitates ad bene utendum, sicut ad for­ titudinem militis pertinet non solum exserere gladium in hostes, sed etiam exacuere gla­ dium et in vagina conservare. Sic etiam ad li­ beralitatem pertinet non solum uti pecunia, sed etiam eam praeparare et conservare ad idoneum usum. Ad tertium dicendum quod, sicut dictum est [a. 2 ad 1], propinqua materia liberalitatis sunt interiores passiones secundum quas homo af­ ficitur circa pecuniam. Et ideo ad liberalita­ tem praecipue pertinet ut homo propter inor­ dinatam affectionem ad pecuniam non prohi­ beatur a quocumque debito usu eius. Est autem duplex usus pecuniae, unus ad sei­ psum, qui videtur ad sumptus vel expensas pertinere� alius autem quo quis utitur ad alios, quod pertinet ad dationes. Et ideo ad libera­ lem pertinet ut neque propter immoderatum amorem pecuniae aliquis impcdiatur a conve­ nienti bus expensis, neque a convenientibus dationibus. Unde circa dationes et sumptus li­ beralitas consistit, secundum philosophum, in 4 Ethic. [ 1 ,7]. - Verbum autem Senecae intel­ ligendum est de liberalitate secundum quod se habet ad dationes. Non enim dicitur aliquis liberalis ex hoc quod sibi aliquid donat.

Quindi l' atto proprio della liberalità è l'impie­ go del danaro, o della ticchezza. Soluzione delle difficoltà: l . Alla liberalità spetta servirsi delle ricchezze in quanto tali, dato che le ricchezze sono la materia propria di questa virtù. Invece alla giustizia spetta servirsi delle ricchezze sotto un altro punto di vista, cioè sotto l' aspetto di cose dovute, ossia in quanto i beni esterni sono dovuti ad altti. E anche alla magniticenza spetta servirsi delle ticchezze considerate sotto un aspetto partico­ lare, cioè in quanto mezzi impiegati nell'attua­ zione di grandi imprese. Per cui anche la magnificenza, come vedremo, è una specie di coronamento della liberalità. 2. È proprio della persona virtuosa non solo ser­ virsi nel modo conveniente della propria mate­ ria o del proprio strumento, ma anche fare i pre­ parativi per ben servirsene. Al soldato valoroso, p. es., non spetta solo di sguainare la spada con­ tro i nemici, ma anche di affilarla e conservarla nel fodero. E così pure alla liberalità spetta non solo di servirsi del danaro, ma anche di prepa­ rarlo e conservarlo per l'uso conveniente. 3. La materia prossima della liberalità sono le passioni interiori riguardanti il danaro, come si è detto. Perciò il primo compito della libe­ ralità è quello di impedire che un uomo, per l 'affetto disordinato al danaro, si astenga dal­ l'usame nel modo conveniente. Ora, il danaro può essere usato in due modi: primo, a van­ taggio di se stessi, mediante atti che si posso­ no tidurre alla compera, ossia alla spesa� se­ condo, a van,taggio di altti, il che si tiduce alla donazione. E quindi compito della liberalità impedire che l' amore delle ricchezze tratten­ ga una persona dalle spese e dalle donazioni richieste. Perciò la liberalità ha per oggetto le donazioni e le spese, come dice il Filosofo. Le parole di Seneca, poi, si applicano rigoro­ samente ai donativi. Infatti uno non merita l 'appellativo di liberale per il fatto che dona qualcosa a se stesso.

Articulus 4 Utrum ad liberalem maxime pertineat dare

Articolo 4 Vatto principale della liberalità consiste nel dare?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod ad liberalem non maxime pertineat dare. l . Liberalitas enim a pmdentia dirigitur, sicut et quaelibet alia moralis virtus. Sed maxime

Sembra di no. Infatti: l . La liberalità, come anche ogni altra virtù morale, è governata dalla prudenza. Ora, la prudenza mira principahnente a conservare le

Q. 1 17, A. 4

La liberalità

videtur ad prudentiam pertinere divitias con­ servare, unde et philosophus dicit, in 4 Ethic. [ l ,20], quod illi qui non acquisierunt pecu­

niam, sed susceperunt ab aliis acquisitam, liberalius eam expendunt, quia sunt inexperti indigentiae. Ergo videtur quod dare non maxime pertineat ad liberalitatem. 2. Praeterea, de hoc quod aliquis maxime in­ tendit, nullus tristatur, neque ab eo cessat. Sed liberalis quandoque tristatur de his quae dedit, neque etiam dat omnibus, ut dicitur in 4 Ethic. [ 1 ,25. 17]. Ergo ad liberalem non maxi­ me pertinet dare. 3. Praeterea, ad illud implendum quod quis maxime intendit, homo utitur viis quibus po­ test. Sed liberalis non est petitivus, ut philoso­ phus dicit, in 4 Ethic. [ 1 , 1 6], cum per hoc posset sibi praeparare facultatem aliis donan­ di. Ergo videtur quod maxime non intendat ad dandum. 4. Praeterea, magis homo obligatur ad hoc quod provideat sibi quam aliis. Sed expen­ dendo aliquid providet sibi, dando autem providet aliis. Ergo ad liberalem magis perti­ net expendere quam dare. Sed contra est quod philosophus dicit, in 4 Ethic. [ 1 , 1 8], quod liberalis est superabunda­

re in datione.

Respondeo dicendum quod proprium est libe­ ralis uti pecunia. Usus autem pecuniae est in emissione ipsius, nam acquisitio pecuniae magis assimilatur generationi quam usui; cu­ stodia vero pecuniae, inquantum ordinatur ad facultatem utendi, assimilatur habitui. Emis­ sio autem alicuius rei, quanto fit ad aliquid distantius, tanto a maiori virtute procedit, sicut patet in his quae proiiciuntur. Et ideo ex maiori virtute procedit quod aliquis emittat pecuniam dando eam aliis, quam expendendo eam circa seipsum. Proprium autem est viitu­ tis ut praecipue tendat in id quod perfectius est, nam virtus est peifectio quaedam, ut dici­ tur in 7 Phys. [H,3]. Et ideo liberalis maxime laudatur ex datione. Ad primum ergo dicendum quod ad pru­ dentiam pertinet custodire pecuniam ne subri­ piatur aut inutiliter expendatur. Sed utiliter eam expendere non est minoris prudentiae quam utiliter eam conservare, sed maioris, quia plura sunt attendenda circa usum rei, qui assimilatur motui, quam circa conservatio­ nem, quae assirnilatur quieti. - Quod autem

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ricchezze: infatti anche il Filosofo riconosce che «quanti hanno avuto il danaro senza gua­ dagnarselo, ma l'hanno ereditato da altri, lo spendono con maggiore liberalità, poiché non hanno sperimentato l'indigenza». Perciò sem­ bra che il dare non sia l'atto principale della liberalità. 2. Nessuno si rattrista di quanto ha inteso co­ me cosa principale, né se ne astiene. Invece la persona liberale talora si rattrista di ciò che ha dato, e d'altra parte non dà a tutti, come nota il Filosofo. Quindi essa non trova nel dare il suo atto principale. 3. Per compiere ciò che principalmente si ha di mira si usano tutte le vie possibili. Invece, secondo il Filosofo, chi è liberale «non è por­ tato a chiedere», pur essendo questo un mez­ zo per ottenere l'occorrente da donare agli al­ tri. Quindi sembra che la liberalità non abbia nel dare il suo atto principale. 4. L'uomo è più tenuto a provvedere a se stes­ so che agli altri. Ora, spendendo si provvede a se stessi, mentre donando si provvede agli altri. Perciò chi è liberale è portato più a spen­ dere che a donare. In contrario: il Filosofo afferma che «è proprio di chi è liberale essere generoso nel dare». Risposta: è compito specifico della liberalità il buon uso del danaro. Ora, l'uso del danaro consiste nell'emetterlo, o impiegarlo: poiché il suo acquisto, più che all'uso, assomiglia a una generazione, o produzione, mentre la sua custodia, in quanto è ordinata alla facoltà di usame, assomiglia a un abito. Ora, quanto più l'emissione di una cosa vuole giungere lonta­ no, tanto maggiore è la virtù da cui deve pro­ cedere: come è evidente nel lancio di oggetti matetiali. Perciò detiva da una virtù maggiore l'estrarre il danaro per darlo ad altri che spen­ derlo a proprio vantaggio. Ora, è proprio della virtù tendere principalmente alle azioni più perfette: poiché «la virtù è una certa perfezio­ ne», come dice Aristotele. Quindi la lode principale della liberalità deriva dal dare. Soluzione delle difficoltà: l . Spetta certamen­ te alla prudenza il custodire il danaro perché non sia rubato o speso inutilmente. Tuttavia non si richiede una prudenza minore per spenderlo che per conservarlo utilmente, anzi, se ne richiede una maggiore, poiché nell'uso di una cosa, il quale assomiglia al moto, si devono considerare più dati che nella sua con-

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La liberalità

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illi qui susceperunt pecunias ab aliis acquisi­ tas, liberalius expendunt, quasi existentes inopiae i nexperti, si solum propter hanc inexperientiam liberaliter expenderent, non haberent liberalitatis virtutem. Sed quandoque huiusmodi inexperientia se habet solum sicut tollens impedimentum liberalitatis, ita quod promptius liberaliter agant. Timor enim inopiae, ex eius experientia procedens, impe­ dit quandoque eos qui acquisiverunt pecu­ niam ne eam consumant liberaliter agendo. Et similiter amor quo eam amant tanquam pro­ prium effectum, ut philosophus dicit, in 4 Ethic. [ l ,20]. Ad secundum dicendum quod, sicut dictum est [in co.; a. 3], ad liberalitatem pertinet convenienter uti pecunia, et per consequens convenienter dare, quod est quidam pecuniae usus. Quaelibet autem vittus tristatur de con­ trario sui actus, et vitat eius impedimenta. Ei autem quod est convenienter dare duo oppo­ nuntur, scilicet non dare quod convenienter est dandum, et dare aliquid non convenienter. Unde de utroque tristatur liberalis, sed de primo magis, quia plus opponitur proprio actui. Et ideo etiam non dat omnibus, impedi­ retur enim actus eius si quibuslibet daret; non enim haberet unde aliis daret, quibus dare convenit. Ad tertium dicendum quod dare et accipere se habent sicut agere et patì. Non est autem idem principium agendi et patiendi. Unde quia libe­ ralitas est principium dationis, non pertinet ad liberalem ut sit promptus ad recipiendum, et multo minus ad petendum. Ordinat autem ad dandum aliqua secundum liberalitatis conve­ nientiam, scilicet fructus propriarum posses­ sionum; quos sollicite procurat, ut eis libera­ liter utatur. Ad quartum dicendum quod ad expendendum in seipsum natura inclinat. Unde hoc quod pecuniam quis perfundat in alios, pertinet proprie ad virtutem.

servazione, che invece assomiglia alla quiete. - Quanto poi a coloro che hanno ereditato il danaro, e che lo spendono con maggiore libe­ ralità non avendo sperimentato l'indigenza, si deve distinguere: se questo modo di fare deri­ va solo dall' inesperienza, essi non hanno la virtù della liberalità. Ma talora una simile ine­ sperienza è solo la rimozione di un ostacolo, per cui la liberalità li porta ad agire generosa­ mente con maggiore prontezza. Intàtti il timo­ re della povertà, derivante dali' esperienza di essa, impedisce talvolta a coloro che hanno guadagnato il proprio danaro di impiegarlo generosamente. E la stessa cosa, secondo il Filosofo, fa l' amore, col quale essi lo amano come se fosse una loro creatura. 2. Secondo le spiegazioni date, l'atto proprio della liberalità è il buon uso del danaro, e quin­ di anche il donarlo come conviene. Ora, qual­ siasi virtù si rattrista di ciò che è contrario al proprio atto, ed evita quanto può impedirlo. Ma alla buona elargizione del danaro si oppon­ gono due cose: non dare quanto conviene e da­ re in un modo che non conviene. Perciò chi è liberale si rattrista dell'una e dell'altra cosa, ma specialmente della prima, in quanto più contra­ ria al proprio atto specifico. E proprio per que­ sto motivo egli non dà a tutti: poiché il suo atto ne sarebbe impedito, non avendo più la possi­ bilità di dare ad altri a cui conviene dare. 3. Il dare sta al ricevere come l'agire sta al subire l' azione. Ma il principio dell'attività non si identifica con quello della passività. Essendo quindi la liberalità principio del dare, il liberale non ha come caratteristica la prontezza nel ricevere, e molto meno nel chiedere. Egli piut­ tosto predispone secondo le esigenze della liberalità le cose che vuole donare, cioè assicu­ ra i frutti di quanto possiede, curandoli con sol­ lecitudine per potersene servire con liberalità. 4. A spendere per noi stessi siamo inclinati per natura. Quindi appartiene propriamente alla virtù il far sì che uno spenda il suo danaro per gli altri.

Articulus 5 Utrurn liberalitas sit pars iustitiae

Articolo 5 La liberalità è tra le parti della giustizia?

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod libe­ ralitas non sit pars iustitiae. l . Iustitia enim respicit debitum. Sed quanto aliquid est magis debitum, tanto minus libera-

Sembra di no. Infatti: l. La giustizia ha per oggetto ciò che è dovu­ to. Ora, più una cosa è dovuta e meno è data con liberalità. Quindi la liberalità non è una

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La liberalità

liter datur. Ergo liberalitas non est pars iusti­ tiae, sed ei repugnat. 2. Praeterea, iustitia est circa operationes, ut supra [q. 58 aa. 8-9; I-II q. 60 aa. 2-3] habi­ tum est. Liberalitas autem praecipue est circa amorem et concupiscentiam pecuniarum, quae sunt passiones. Ergo magis videtur libe­ ralitas ad temperantiam pertinere quam ad iustitiam. 3. Praeterea, ad liberalitatem pertinet praeci­ pue convenienter dare, ut dictum est [a. 4]. Sed convenienter dare pertinet ad beneficen­ tiam et misericordiam, quae pertinent ad carita­ tem, ut supra [q. 28, introd.; q. 30 a. 3 arg. 3; q. 3 1 a. l ] dictum est. Ergo liberalitas magis est pars caritatis quam iustitiae. Sed contra est quod Ambrosius dicit, in l De off. [28], iustitia ad societatem generis huma­

ni refertur. Societatis enim ratio dividitur in duas partes, iuslitiam el beneficenliam, quam eandem liberalitatem aut benignitatem vo­ cant. Ergo liberalitas ad iustitiam pertinet. Respondeo dicendum quod liberalitas non est species iustitiae, quia iustitia exhibet alteri quod est eius, liberalitas autem exhibet id quod est suum. Habet tamen quandam conve­ nientiam cum i ustitia in duobus. Primo quidem, quia principaliter est ad alterum, si­ cut et iustitia. Secundo, quia est circa res exte­ riores, sicut et iustitia, licet secundum aliam rationem, ut dictum est [a. 2 ad 3; De affect., De iustitia]. Et ideo liberalitas a quibusdam ponitur pars iustitiae, sicut virtus ei annexa ut principali. Ad primum ergo dicendum quod liberalitas, etsi non attendat debitum legale, quod attendit iustitia, attendit tamen debitum quoddam mo­ rale, quod attenditur ex quadam ipsius de­ centia, non ex hoc quod sit alteri obligatus. Unde minimum habet de ratione debiti. Ad secundum dicendum quod temperantia est circa concupiscentias corporalium delectatio­ num. Concupiscentia autem pecuniae, et de­ lectatio, non est corporalis, sed magis anima­ lis. Unde liberalitas non pertinet proprie ad temperantiam. Ad tertium dicendum quod datio benefici et misericordis procedit ex eo quod homo est aliqualiter affectus circa eum cui dat. Et ideo talis datio pertinet ad caritatem sive ad amici­ tiam. Sed datio liberalitatis provenit ex eo quod dans est aliqualiter affectus circa pecu-

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parte [potenziale] della giustizia, ma è incom­ patibile con essa. 2. La giustizia ha per oggetto degli atti ester­ ni, come si è visto. Invece la liberalità riguar­ da principalmente l'amore e il desiderio delle ricchezze, che sono delle passioni. Quindi sembra che essa appartenga più alla tempe­ ranza che alla giustizia. 3. Abbiamo detto qui sopra che l'atto princi­ pale della liberalità è dare come si conviene. Ma dare in questo modo appartiene alla bene­ ficenza e alla misericordia, che si ricollegano alla carità, come si è dimostrato. Quindi la liberalità appartiene più alla carità che alla giustizia. In contrario: Ambrogio dice: «La giustizia è intimamente connessa con la società umana. Infatti la natura di questa società implica due parti, o elementi, cioè la giustizia e la benefi­ cenza, che è anche chiamata liberalità, o ge­ nerosità». Quindi la liberalità appartiene alla giustizia. Risposta: la liberalità non è una specie della giustizia: poiché, mentre la giustizia ha il compito di rendere agli altri quanto loro ap­ partiene, la liberalità ha quello di farci offrire del nostro. Essa tuttavia ha due cose in comu­ ne con la giustizia. Primo, come la giustizia essa ha principalmente di mira gli altri. Se­ condo, come la giustizia ha per oggetto i beni esterni : però sotto un altro punto di vista, come si è detto. Per questo alcuni considera­ no la liberalità come una parte [potenziale] della giustizia, cioè come una virtù annessa. Soluzione delle difficoltà: l . La liberalità, sebbene non miri a soddisfare, come la giusti­ zia, un debito legale, tuttavia mira a soddisfa­ re un debito morale, imposto dalla virtù del soggetto medesimo, e non da un diritto altrui. Essa quindi conserva in minima parte l'aspet­ to di cosa dovuta. 2. La temperanza ha per oggetto il desiderio dei piaceri corporali. Invece il desiderio del danaro e il piacere di possederlo non appar­ tengono al corpo, ma all'anima. Quindi la li­ beralità non appartiene propriamente alla temperanza. 3. n dono del benefico e del misericordioso deriva dai legami di affetto che uno nutre verso la persona beneficata. Per cui tale dona­ zione rientra nella carità o nell' amicizia. Invece il dare della liberalità deriva dai senti-

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niam, dum eam non concupiscit neque amat. Unde etiam non solum amicis, sed etiam ignotis dat, quando oportet. Unde non pertinet ad caritatem, sed magis ad iustitiam, quae est circa res exteriores.

menti che il donatore ha nei riguardi del dana­ ro, cioè dal fatto che non lo desidera e non lo ama. E così l'uomo liberale, all'occorrenza, non dà soltanto agli amici, ma anche a chi non conosce. Per cui la liberalità non appar­ tiene alla carità, ma alla giustizia, che ha per oggetto i beni esterni.

Articulus 6 Utrum liberalitas sit maxima virtutum

Articolo 6 La liberalità è la più grande delle virtù?

Ad sextum sic proceditur. Videtur quod libe­ ralitas sit maxima virtutum. l . Omnis enim virtus hominis est quaedam similitudo divinae bonitatis. Sed per liberalita­ tem homo maxime assimilatur Deo, qui dat omnibus a.ffluenter et non improperat, ut dicitur lac. l [5] Ergo liberalitas est maxima virtutum. 2. Praeterea, secundum Augustinum, in 6 De Trin. [8], in his quae non mole magna sunt, idem est esse maius quod melius. Sed ratio bonitatis maxime videtur ad liberalitatem pertinere, quia bonum est diffusivum, ut patet per Dionysium, 4 cap. De div. nom. [20] . Unde et Ambrosius dicit, in l De off. [28], quod iustitia censuram tenet, liberalitas boni­ tatem. Ergo liberalitas est maxima virtutum. 3. Praeterea, homines honorantur et amantur propter virtutem. Sed Boetius dicit, in libro De consol. [2,5], largitas maxime claros facit. Et philosophus dicit, in 4 Ethic. [ 1 , 1 1 ], quod inter virtuosos maxime libera/es amantur. Er­ go liberalitas est maxima virtutum. Sed contra est quod Ambrosius dicit, in l De off. [ 1 ,28], quod iustitia excelsior videtur li­ beralitate, sed liberalitas gratior. Philosophus etiam dicit, in l Rhet. [9,6] , quod fortes et

Sembra di sì. Infatti: l . Ogni virtì:t umana è una certa immagine rap­ presentativa della bontà divina. Ora, la mas­ sima somiglianza con Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare (Gc l ,5), si ottiene mediante la liberalità. Quindi la libera­ lità è la più grande delle virtù. 2. Secondo Agostino «tra le cose che non sono grandi per quantità, essere più grandi equivale a essere migliori». Ma la bontà ap­ partiene in grado sommo alla liberalità poi­ ché, come insegna Dionigi, il bene tende a diffondere se stesso. Per cui Ambrogio dice che «la giustizia custodisce il diritto, la libera­ lità invece custodisce la bontà» . Quindi la liberalità è la più grande delle virtù. 3. Gli uomini meritano onore e affetto per le loro virtù. Ora, Boezio afferma: «La liberalità rende illustri in modo tutto particolare». E il Filosofo: «Fra tutte le persone virtuose le più amate sono quelle liberali». Dunque la libera­ lità è la più grande delle virtù. In contrario: Ambrogio dice: «La giustizia risulta più sublime della liberalità, però la li­ beralità è più gradita». E anche il Filosofo dichiara che «I' onore più grande è concesso ai forti e ai giusti, e dopo di essi ai liberali». Risposta: ogni virtù tende a un determinato bene. Perciò una virtù è tanto più grande quanto migliore è il bene a cui tende. Ora, la liberalità può tendere verso il bene in due modi. Primo, in maniera primaria e diretta; secondo, in maniera indiretta. Ora, in maniera primaria e diretta essa tende a rendere ordinati gli affetti relativi al possesso e all'uso del da­ naro. E da questo lato alla liberalità va prefe­ rita la temperanza, che regola i desideri e i piaceri della carne appartenenti al proprio corpo; nonché la fortezza e la giustizia, che sono ordinate al bene comune, una per i l tempo d i pace, l'altra per il tempo d i guerra; a

iusti maxime honorantu1; et post eos libera/es. Respondeo dicendum quod quaelibet virtus tendit in aliquod bonum. Unde quanto aliqua virtus in melius bonum tendit, tanto melior est. Liberalitas autem tendit in aliquod bonum dupliciter, uno modo, primo et per se; alio modo, ex consequenti. Primo quidem et per se tendit ad ordinandum propriam affectionem circa pecuniarum possessionem et usum. Et sic, secundum hoc, praefertur liberalitati et temperantia, quae moderatur concupiscentias et delectationes pertinentes ad proprium cor­ pus; et fortitudo et iustitia, quae ordinantur quodammodo in bonum commune, una tempore pacis, alia tempore belli; et omnibus

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La liberalità

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praeferuntur virtutes quae ordinant in bonurn divinum. Nam bonum divinum praeeminet cuilibet bono humano; et in bonis hurnanis bo­ num publicum praeeminet bono privato; in quibus bonum corporis praeeminet bono exteriorum rerum. - Alio modo ordinatur libe­ ralitas ad aliquod bonum ex consequenti. Et secundum hoc, liberalitas ordinatur in omnia bona praedicta, ex hoc enim quod homo non est amativus pecuniae, sequitur quod de facili utatur ea et ad seipsum, et ad utilitatem aliorum, et ad honorem Dei. Et secundum hoc, habet quandam excellentiam ex hoc quod utilis est ad multa. Quia tamen unumquodque magis iudicatur secundum illud quod primo et per se competit ei quam secundum id quod conse­ quenter se habet, ideo dicendum est liberalita­ tem non esse maximam virtutem. Ad primum ergo dicendum quod datio divina provenit ex eo quod amat homines quibus dat, non autem ex eo quod afticiatur ad ea quae dat. Et ideo magis videtur pertinere ad caritatem, quae est maxima virtutum, quam ad liberalitatem. Ad secundum dicendum quod quaelibet vir­ tus participat rationem boni quantum ad emis­ sionem proprii actus. Actus autem quarun­ dam aliarum vhtutum meliores sunt pecunia, quam emittit liberalis. Ad tertium dicendum quod liberales maxime amantur, non quidem amicitia honesti, quasi sint meliores; sed amicitia utilis, quia sunt utiliores in exterioribus bonis, quae communi­ ter homines maxime cupiunt. Et etiam propter eandem causam dari redduntur.

tutte poi vanno preferite le virtù che ordinano l'uomo al bene divino. Infatti il bene divino è superiore a qualsiasi bene umano, tra i beni umani il bene pubblico è superiore a quello privato e tra i beni personali il bene del corpo è superiore ai beni esterni. - Secondo, la libe­ ralità può tendere verso il bene indirettamen­ te. E da questo lato la liberalità è ordinata a tutto il bene delle suddette virtù: infatti il non essere attaccati al danaro fa sì che uno se ne serva con facilità a vantaggio sia personale che del prossimo, e a onore di Dio. E sotto questo aspetto la liberalità ha una superiore eccellenza per la sua universalità. Siccome però ogni cosa va giudicata più secondo i suoi compiti primari e diretti che secondo il suo influsso indiretto, si deve concludere che la liberalità non è la più grande delle virtù. Soluzione delle difficoltà: l . Il donare di Dio deriva dal fatto che egli ama gli uomini a cui offre i suoi doni, e non dal fatto che è distac­ cato da questi doni. Perciò esso appartiene non alla liberalità, ma piuttosto alla carità, che è la più grande delle virtù. 2. Ogni virtù partecipa la natura della bontà mediante l'atto che da essa emana. Ora, gli atti di non poche altre virtù sono più buoni del danaro che il liberale elargisce. 3. Gli uomini liberali, o generosi, sono amati più degli altri non con un'amicizia fondata sul­ la virtù, cioè perché sono migliori, ma con un'amicizia fondata sull'utilità, cioè perché so­ no più utili rispetto ai beni materiali, che d'or­ dinario gli uomini sommamente desiderano. E ciò spiega anche la loro rinomanza.

QUAESTIO 1 1 8

QUESTIONE 1 1 8

DE AVARITIA

L'AVARIZIA

Deinde considerandum est de vitiis oppositis liberalitati. Et primo, de avaritia; secundo, de prodigalitate [q. 1 19]. - Circa primum quae­ runtur octo. Primo, utrum avaritia sit pecca­ rum. Secundo, utrum sit speciale peccatum. Tertio, cui virtuti opponatur. Quarto, utrum sit peccatum mortale. Quinto, utrum sit gravissi­ mum peccatorum. Sexto, utrum sit peccatum carnale, vel spirituale. Septimo, utrum sit vitium capitale. Octavo, de filiabus eius.

Veniamo quindi a trattare dei vizi contrari alla liberalità. Primo, dell'avarizia; secondo, della prodigalità. - Sul primo argomento si pongo­ no ,otto quesiti: l . L' avarizia è un peccato? 2. E un pecçato specifico? 3. A quale ,yirtù si oppone? 4. E un pecçato mortale? 5. E il più grave dei peccati? ,6. E un peccato della carne o dello spirito? 7. E un vizio capitale? 8. Qua­ li sono le figlie dell'avarizia?

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L 'avarizia

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Articulus l Utrum avaritia sit peccatum

Articolo l Vavarizia è un peccato?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod ava­ ritia non si t peccatum. l . Dicitur enim avaritia quasi aeris aviditas [cf. Etymol. 1 0, ad litt. A], quia scilicet in appetitu pecuniae consistit, per quam omnia exteriora bona intelligi possunt. Sed appetere exteriora bona non est peccatum. Naturaliter enim homo ea appetit, tum quia naturaliter subiecta sunt homini; tum quia per ea vita ho­ minis conservatur, unde et substantia hominis dicuntur. Ergo avaritia non est peccatum. 2. Praeterea, omne peccatum aut est in Deum, aut in proximum, aut est in seipsum, sicut supro [I-Il q. 72 a 4] habitum est. Sed avaritia non est proprie peccatum contra Deum, non enim opponitur neque religioni neque virtutibus theologicis, quibus homo ordinatur in Deum. Neque etiam est peccatum in seipsum, hoc enim proprie pertinet ad gulam et luxuriam, de qua apostolus dicit, l ad Cor. 6 [ 1 8], quod qui fornicatur in cmpus suum peccat. Similiter etiam non videtur peccatum esse in proximum, quia per hoc quod homo retinet sua, nulli facit iniuriam. Ergo avaritia non est peccatum. 3. Praeterea, ea quae naturaliter adveniunt non sunt peccata. Sed avaritia naturaliter con­ sequitur senectutem et quemlibet defectum, ut philosophus dicit, in 4 Ethic. [ 1 ,27]. Ergo ava­ ritia non est peccatum. Sed contra est quod dicitur Hebr. 1 3 [5], sint mores sine avaritia, contenti praesentibus. Respondeo dicendum quod in quibuscumque bonum consistit in debita mensum, necesse est quod per excessum vel diminutionem illius mensuroe malum proveniat. In omnibus autem quae sunt propter finem, bonum consistit in quadam mensura, nam ea quae sunt ad finem necesse est commensurari fini, sicut medicina sanitari; ut patet per philosophum, in l Pol. [3,1 7]. Bona autem exteriora habent rationem utilium ad finem, sicut dictum est [q. 1 17 a. 3; 1-11 q. 1 1 a. 1 ] . Unde necesse est quod bonum hominis circa ea consistat in quadam mensu­ ra, dum scilicet homo secundum aliquam mensuram quaerit habere exteriores divitias prout sunt necessaria ad vitam eius secundum suam conditionem. Et ideo in excessu huius mensurae consistit peccatum, dum scilicet aliquis supra debitum modum vult eas vel

Sembro di no. Infatti: l . Avarizia suona aeris aviditas [avidità di danaro] : poiché consiste nel desiderio del danaro, cioè dei beni esterni. Ma desiderare i beni esterni non è un peccato. L'uomo infatti li desidero in forza della sua natum: sia perché essi sono naturolmente soggetti all'uomo, sia perché servono a conservare la vita umana, tanto che sono chiamati anche sostanze del­ l'uomo. Quindi l'avarizia non è un peccato. 2. Un peccato o è contro Dio, o è contro il prossimo, o è contro se stessi, come sopra si è visto. Ma propriamente l'avarizia non è un peccato contro Dio: essa infatti non si con­ trappone né alla religione, né alle virtù teolo­ gali, che regolano la condotta dell' uomo verso Dio. E neppure è un peccato contro se stessi: poiché ciò è proprio della gola e della lussuria, della quale Paolo dice: Chi commette fornicazione pecca contro il proprio corpo (l Cor 6, 1 8). Parimenti non è un peccato con­ tro il prossimo: poiché il ritenere i propri beni non fa ingiuria a nessuno. Quindi l'avarizia non è un peccato. 3. I difetti che sono dovuti alla naturo non so­ no peccati. Ora, l'avarizia è un difetto che de­ riva naturolmente dalla vecchiaia e da qualsia­ si altro malanno, come fa notare il Filosofo. Quindi l'avarizia non è un peccato. In contrario: in Eh 1 3 [5] è detto: La vostra condotta sia senza avarizia; accontentatevi di ciò che avete. Risposta: in quelle cose la cui bontà consiste nella debita misura, l'eccesso o il difetto in riferimento a tale misuro costituisce necessa­ riamente un male. Ora, per i mezzi che sono ordinati al fine la bontà consiste in una certa misuro, dato che i mezzi devono essere pro­ porzionati al fine: p. es. la medicina alla gua­ rigione, come nota il Filosofo. Ma i beni esterni sono beni utili per il raggiungimento del fine, come si è spiegato sopra. Per cui la bontà dell'uomo nei loro riguardi consiste in una certa misura: nel desiderare cioè il pos­ sesso delle ricchezze in quanto sono necessa­ rie alla vita, secondo le condizioni di ciascu­ no. Quindi nell'eccedere tale misuro si ha un peccato: quando cioè uno le vuole acquistare o conservare più del dovuto. E ciò costituisce

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L 'avarizia

acquirere vel retinere. Quod pertinet ad ratio­ nem avaritiae, quae definitur [De sacram. 2, p. 1 3 c. l ] esse immoderatus amor habendi. Unde patet quod avaritia est peccatum. Ad primum ergo dicendum quod appetitus rerum exteriorum est homini naturalis ut eorum quae sunt propter finem. Et ideo intan­ tum vitio caret inquantum continetur sub re­ gula sumpta ex ratione finis. Avaritia autem hanc regulam excedit. Et ideo est peccatum. Ad secundum dicendum quod avaritia potest importare immoderantiam circa res exteriores dupliciter. Uno modo, immediate, quantum ad acceptionem vel conservationem ipsarum, ut scilicet homo plus debito eas acquirat vel conservet. Et secundum hoc, est directe pec­ catum in proximum, quia in exterioribus di­ vitiis non potest unus homo superabundare nisi alter deficiat, quia bona temporalia non possunt simul possideri a multis. - Alio modo, potest importare immoderantiam circa inte­ riores affectiones quas quis ad divitias habet, puta quod immoderate aliquis divitias amet aut desideret, aut delectetur in eis. Et sic ava­ ritia est peccatum hominis in seipsum, quia per hoc deordinatur eius affectus; licet non deordinetur corpus, sicut per vitia carnalia. Ex consequenti autem est peccatum in Deum, sicut et omnia peccata mortalia, inquantum homo propter bonum temporale contemnit aeternum. Ad tertium dicendum quod inclinationes na­ turales sunt regulandae secundum rationem, quae principatum tenet in natura humana. Et ideo quamvis senes, propter naturae defec­ tum, avidius exteriorum rerum inquirant sub­ sidia, sicut et omnis indigens quaerit suae in­ digentiae supplementum; non tamen a pecca­ to excusantur, si debitam rationis mensuram circa divitias excedant. Articulus 2

l 'avarizia, che è definita «uno smoderato amore di possedere». Per cui è evidente che l'avarizia è un peccato. Soluzione delle difficoltà: l . Per l' uomo è naturale il desiderio dei beni esterni come di mezzi ordinati al fine. Di conseguenza tale desiderio in tanto è onesto in quanto rientra nella norma imposta dal conseguimento del fine. Ora, l' avarizia eccede questa norma. Quindi è un peccato. 2 . L'avarizia può essere immoderata in due maniere rispetto ai beni esterni. Primo, diretta­ mente, cioè acquistandoli o conservandoli più del dovuto. E da questo lato essa è un peccato contro il prossimo: poiché nelle ricchezze ma­ teriali uno non può sovrabbondare senza che un altro rimanga nell'indigenza, dato che i beni temporali non possono essere posseduti simul­ taneamente da più persone. - Secondo, l'ava­ rizia può comportare una mancanza di mode­ razione negli affetti che uno prova per le ric­ chezze: p. es. se uno le ama o le desidera in modo eccessivo, o si compiace in esse. E da questo lato l 'avarizia è un peccato verso se stessi: poiché si ha in ciò un disordine negli af­ fetti, anche se non si ha un disordine nel corpo come nei peccati carnali. - Di conseguenza poi l'avarizia è anche un peccato contro Dio, come tutti i peccati mortali: poiché con essa per i beni temporali si disprezzano i beni eterni. 3. Le inclinazioni naturali vanno regolate se­ condo la ragione, che nella natura umana oc­ cupa il primo posto. Quindi gli anziani, seb­ bene per la loro debolezza naturale cerchino con maggiore avidità il soccorso dei beni esterni, come anche ogni indigente cerca un sussidio alla propria indigenza, tuttavia non sono scusati dal peccato se passano la debita misura della ragione nell'attaccamento alle ricchezze. Articolo 2

Utrum avaritia sit speciale peccatum

L'avarizia è un peccato specifico?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod avaritia non sit speciale peccatum. l . Dicit enim Augustinus, in 3 De lib. arb.

Sembra di no. Infatti: l . Agostino ha scritto: «L'avarizia, che in gre­ co si dicefilargiria, non va intesa solo dell'ar­ gento o della moneta, ma va estesa a tutte le cose che sono bramate senza moderazione». Ora, in ogni peccato si riscontra una brama smoderata di qualcosa: poiché il peccato con­ siste nell'aderire a dei beni creati disprezzan-

[3,17], avaritia, quae graece philargyria dici­ tur, non in solo argento vel nummis, sed in omnibus rebus quae immoderate cupiuntur, intelligenda est. Sed in omni peccato est cupi­ ditas immoderata alicuius rei, quia peccatum

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est, spreto bono incommutabili, bonis com­ mutabilibus inhaerere, ut supra [l-II q. 7 1 a. 6 arg. 3] habitum est. Ergo avaritia est generale peccatum. 2. Praeterea, secundum Isidorum, i n l ibro Etymol. [ 1 0, ad litt. A], avarus dicitur quasi avidus aeris, idest pecuniae, unde et in graeco avaritia philargyria nominatur, idest amor argenti. Sed sub argento, per quod pecunia si­ gnificatur, significantur omnia exteriora bona quorum pretium potest numismate mensurari, ut supra [q. 1 1 7 a. 2 ad 2] habitum est. Ergo avaritia consistit in appetitu cuiuslibet exterio­ ris rei. Ergo videtur e..>. Perciò l ' avarizia è il più grave dei peccati. 3. Il fatto di essere incurabile aumenta la gra­ vità del peccato: per cui i peccati contro lo Spirito Santo, che sono i più gravi, non pos­ sono essere rimessi. Ma l 'avarizia è un pec­ cato incurabile, poiché, secondo il Filosofo, «la vecchiaia e qualsiasi indigenza rendono illiberali». Quindi l'avarizia è il più grave dei peccati. 4. Paolo dice che l' avarizia è roba da idolatri (Ef 5,5). Ma l'idolatria va posta tra i peccati più gravi. Quindi anche l'avarizia. In contrario: l' adulterio è un peccato più gra­ ve del furto, come risulta da Pr 6 [30]. Ma il

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L 'avarizia

Sed contra est quod adulterium est gravius pec­ catum quam furtum, ut habetur Prov. 6 [30 sqq.]. Furtwn autem pertinet ad avaritiam. Er­ go avaritia non est gravissimum peccatorum. Respondeo dicendum quod omne peccatum, ex hoc ipso quod est malum, consistit in qua­ dam conuptione seu privatione alicuius boni, inquantum autem est voluntarium, consistit in appetitu alicuius boni. Dupliciter ergo ordo peccatorum potest attendi. Uno modo, ex parte boni quod per peccatum contemnitur vel cor­ rumpitur, quod quanto maius est, tanto pec­ catum gravius est. Et secundum hoc, peccatum quod est contra Deum est gravissimum; et sub hoc est peccatum quod est contra personam hominis; sub quo est peccatum quod est contra res exteriores quae sunt ad usum hominis de­ putatae, quod videtur ad avaritiam pertinere. Alio modo potest attendi gradus peccatorum ex parte boni cui inordinate subditur appetitus humanus, quod quanto minus est, tanto pec­ catum est deformius; turpius enim est subesse inferiori bono quam superiori. Bonum autem exteriorum rerum est infimum inter humana bona, est enim minus quam bonum corporis; quod etiam est minus quam bonum animae; quod etiam exceditur a bono divino. Et se­ cundum hoc, peccatum avaritiae, quo appetitus humanus subiicitur etiam exterioribus rebus, habet quodammodo deformitatem maiorem. Quia tamen conuptio vel privatio boni fonna­ liter se habet in peccato, conversio autem ad bonum commutabile materialiter; magis est iudicanda gravitas peccati ex parte boni quod conumpitur quam ex parte boni cui subiicitur appetitus. Et ideo dicendum est quod avaritia non est simpliciter maximum peccatorum. Ad primum ergo dicendum quod auctoritates illae loquuntur de avaritia ex parte boni cui subditur appetitus. Unde et in ecclesiastico pro ratione subditur [Eccli. 10, 10], quia avarus animam suam habet venalem, quia videlicet animam suam, idest vitam, exponit periculis pro pecunia, et ideo subdit [Eccli. l O, l 0] , quoniam in vita sua proiecit, idest contempsit, intima sua, ut scilicet pecuniam lucraretur. Tullius etiam addit [De off. l ,20] hoc esse angusti animi, ut scilicet velit pecuniae subiici. Ad secundum dicendum quod Augustinus ibi accipit cupiditatem generaliter cuiuscumque temporalis boni, non secundum quod specia­ liter pro avaritia accipitur. Cupiditas enim

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furto rientra nell'avarizia. Quindi l 'avarizia non è il più grave dei peccati. Risposta: ogni peccato in quanto male consi­ ste nella conuzione o nella privazione di un bene, mentre in quanto atto volontario consi­ ste nel desiderio di un bene. Perciò la gravità del peccato può essere considerata da due punti di vista. Primo, in rapporto al bene che il peccato disprezza o distrugge: cosicché più grande è tale bene e più grave è il peccato. E sotto questo aspetto i peccati più gravi sono quelli contro Dio; seguono i peccati contro la persona del prossimo, e finalmente vengono i peccati contro le cose esterne destinate all'uso dell'uomo, tra i quali rientra l'avruizia. - Se­ condo, la gravità dei peccati può essere con­ siderata in rapporto al bene a cui l'appetito dell 'uomo si sottomette: più questo bene è inferiore, più il peccato è deforme; infatti è più vergognoso sottomettersi a un bene infe­ riore che a un bene superiore. Ora, i beni esterni sono i beni infimi dell 'uomo: essi infatti sono al disotto dei beni del corpo, i quali sono inferiori ai beni dell'anima, che a loro volta sono superati dal bene divino. E sotto questo aspetto il peccato di avarizia, per il quale gli affetti umani sono dominati dai beni esterni, ha in qualche modo una defor­ mità più grande. - Ma la gravità del peccato va giudicata più dal bene che è distrutto che non dal bene a cui l 'appetito si sottomette, poiché la distruzione o privazione di un bene è l 'elemento fonnale del peccato, mentre la brama di un bene transitorio ne è l'elemento materiale. Per cui si deve concludere che l'avarizia non è in senso assoluto il più grave dei peccati. Soluzione delle difficoltà: l . Quei testi insisto­ no sulla gravità dell'avarizia quale sottomis­ sione dell'appetito a dei beni inferiori. Infatti Sir porta questo motivo: perché l' avaro vende­ rebbe la propria anima, in quanto per il dana­ ro espone la sua anima, ossia la sua vita, a dei pericoli; e aggiunge: perché già da vivo egli ha gettato via le sue viscere, cioè per guada­ gnare danaro. E anche Cicerone riconosce che il sottomettersi al danaro «è una meschinità». 2. In quel testo Agostino prende la cupidigia in senso più generico, come attaccamento a qualsiasi bene temporale, e non come avari­ zia. Infatti la cupidigia di qualsiasi bene tem­ porale è un veleno per la carità: poiché con

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L 'avarizia

cuiuscumque temporalis boni est venenum caritatis , inquantum scilicet homo spernit bonum divinum propter hoc quod inhaeret bono temporali. Ad tertium dicendum quod aliter est insanabile peccatum in Spiritum Sanctum, et aliter avaritia. Nam peccatum in Spiritum Sanctum est insana­ bile ex parte contemptus, puta quia homo con­ temnit vel misericordiam vel iustitiam divinam, aut aliquid homm per quae hominis peccata sanantur. Et ideo talis insanabilitas pertinet ad maiorem gravitatem peccati. - Avaritia vero ha­ bet insanabilitatem ex parte defectus humani, in quem scilicet semper procedit humana natura, quia quo aliquis est magis deficiens, eo magis indiget adminiculo exteriomm remm, et ideo magis in avaritiam labitur. Unde per talem in­ sanabilitatem non ostenditur peccatum esse gra­ vius, sed quodammodo per hoc est periculosius. Ad quartum dicendum quod avaritia compa­ ratur idololatriae per quandam similitudinem quam habet ad ipsam, quia sicut idololatra subiicit se creaturae exteriori, ita etiam et avarus. Non tamen eodem modo, sed idololatra quidem subiicit se creaturae exteriori ut exhi­ beat ei cultum divinum; avarus autem subiicit se creaturae exteriori immoderate ipsam concupiscendo ad usum, non ad cultum. Et ideo non oportet quod avaritia habeat tantam gravitatem quantam habet idololatria. Articulus

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l'aderire a tali beni l'uomo disprezza il bene divino. 3. n peccato contro lo Spirito Santo e l'avarizia non sono incurabili alla stessa maniera. Infatti il peccato contro lo Spirito Santo è incurabile per il disprezzo che implica: cioè per il fatto che uno disprezza la misericordia o la giustizia di Dio, o altri rimedi fatti per guarire l'uomo dal peccato. Perciò questa incurabilità determi­ na una maggiore gravità del peccato. - Invece l'avarizia è incurabile per la detettibilità del­ l'uomo, cioè per le miserie a cui va incontro di continuo la natura umana: infatti più uno è menomato e più ha bisogno del sussidio dei beni esterni, per cui più facilmente cade nell'a­ varizia. Perciò questa incurabilità non dimostra che il peccato è più grave, ma che in un certo senso è più pericoloso. 4. L'avarizia è paragonata all'idolatria per una certa somiglianza che ha con essa: poiché, l ' avaro, come anche l 'idolatra, si sottomette alle creature esterne. Però non allo stesso modo: l ' idolatra infatti si sottomette a tali creature per offrire loro degli onori divini, mentre l 'avaro si sottomette ad esse deside­ randole in modo disordinato non per il culto, ma per farne uso. Per cui non è detto che l'avarizia debba avere la stessa gravità dell'i­ dolatria.

Articolo

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Utrum avaritia sit peccatum spirituale

L'avarizia è un peccato spirituale?

Ad sextum sic proceditur. Videtur quod avaritia non sit peccatum spirituale. l . Vitia enim spiritualia videntur esse circa spi­ ritualia bona. Sed materia avaritiae sunt bona corporalia, scilicet exteriores divitiae. Ergo avaritia non est peccatum spirituale. 2. Praeterea, peccatum spirituale contra carnale dividitur. Sed avaritia videtur esse peccatum carnale, sequitur enim corruptionem carnis; ut patet in senibus, qui propter naturae carnalis detectum in avaritiam incidunt. Ergo avaritia non est peccatum spirituale. 3. Praeterea, peccatum carnale est per quod etiam corpus hominis deordinatur, secundum illud apostoli, l ad Cor. 6 [18] , qui fomicatur in corpus suum peccat. Sed avaritia etiam ho­ minem corporaliter vexat, unde et Chrysosto­ mus [In Matth. h. 28], Mare. 5, comparat

Sembra di no. Infatti : l . I vizi spirituali hanno per oggetto dei beni spirituali. Ma l' avarizia ha per oggetto dei be­ ni materiali, cioè le ricchezze. Quindi l' avari­ zia non è un peccato spirituale. 2. Il peccato spirituale si oppone al peccato carnale. Ma l'avarizia è un peccato carnale: infatti essa deriva dalla corruzione della car­ ne, come è evidente nel caso dei vecchi, i quali per le deficienze della loro natura carna­ le cadono neli' avarizia. Perciò l' avarizia non è U!l peccato spirituale. 3. E carnale quel peccato che porta un disor­ dine anche nel corpo umano, come è detto in

l Cor 6 [ 1 8] : Chi commette forn icazione pecca contro il proprio corpo. Ma l' avarizia tormenta l'uomo anche fisicamente: poiché il Crisostomo paragona l 'avaro all'indemoniato

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L 'avarizia

avarum daemoniaco, qui in corpore vexatur. Ergo avaritia non videtur esse peccatum spirituale. Sed contra est quod Gregorius, 3 1 Mor. [45], computat avaritiam vitiis spiritualibus. Respondeo dicendum quod peccata praecipue in affectu consistunt. Ornnes autem affectiones animae, sive passiones, terminantur ad delecta­ tiones et tristitias, ut patet per philosophum, in 2 Ethic. [3,3]. Delectationum autem quaedam sunt carnales, et quaedam spirituales. Carnales quidem delectationes dicuntur quae in sensu carnis complentur, sicut delectationes ciborum et venereorum, delectationes vero spirituales dicuntur quae complentur in sola animae ap­ prehensione. Illa ergo peccata dicuntur camalia quae per.fi.ciuntur in carnalibus delectationibus, illa vero dicuntur spiritualia quae perficiuntur in spiritualibus delectationibus, absque carnali delectatione. Et huiusmodi est avaritia, delecta­ tur enim avarus in hoc quod considerat se pos­ sessorem divitiarum. Et ideo avaritia est pec­ catum spirituale. Ad primum ergo dicendum quod avaritia circa corporale obiectum non quaerit delectationem corporalem, sed solum animalem, prout sci­ licet homo delectatur in hoc quod divitias pos­ sideat. Et ideo non est peccatum carnale. Ra­ tione tamen obiecti, medium est inter peccata pure spiritualia, quae quaerunt delectationem spiritualem circa obiecta spiritualia, sicut su­ perbia est circa excellentiam; et vitia pure car­ nalia, quae quaerunt delectationem pure corpo­ ralem circa obiectum corporale. Ad secundum dicendum quod motus recipit speciem secundum terminum ad quem, non autem secundum tenninum a quo. Et ideo vitium dicitur carnale ex hoc quod tendit in delectationem carnalem, non autem ex eo quod procedit ex aliquo defectu carnis. Ad tertium dicendum quod Chrysostomus comparat avarum daemoniaco, non quia vexe­ tur in carne sicut daemoniacus, sed per opposi­ tuffi, quia sicut daemoniacus ille de quo legitur Mare. 5 [15], se denudabat, ita avarus se super­ fluis divitiis onerat. Articulus 7

[di Gerasa], che era tormentato nel corpo. Quindi sembra che l'avarizia non sia un pec­ cato spirituale. In contrario: Gregorio enumera l'avarizia tra i vizi spirituali. Risposta: i peccati consistono specialmente negli affetti dell'anima. Ora, tutti questi affet­ ti, o passioni, hanno il loro termine o nel pia­ cere o nel dolore, come dimostra il Filosofo. Ma di questi piaceri alcuni sono carnali, altri spirituali. Sono detti carnali quelli che si at­ tuano nei sensi del corpo, come i piaceri della gola e quelli venerei, mentre sono detti spiri­ tuali quelli che si attuano nella sola conoscen­ za dell'anima. Sono quindi da considerarsi carnali quei peccati che consistono in piaceri carnali, mentre sono spirituali quelli che con­ sistono in piaceri spirinmli, senza godimento della carne. E tale è appunto l'avarizia: infatti l'avaro gode solo per il fatto che si considera in possesso della ricchezza. Quindi l'avarizia è un peccato spirituale. Soluzione delle difficoltà: l . L'avarizia riguar­ do a un oggetto materiale o corporeo non cer­ ca il piacere del corpo, ma quello dell'anima: cioè il piacere di possedere la ricchezza. Per­ ciò essa non è un peccato carnale. Tuttavia a motivo del suo oggetto l'avarizia sta in mezzo fra i peccati del tutto spirituali, che cercano un piacere spirituale in oggetti spitituali, come fa ad es. la superbia, che ha di mira il prestigio personale, e i vizi carnali, che cercano un pia­ cere carnale in oggetti matetiali. 2. n moto è specificato dal termine di artivo, non da quello di partenza. Per cui un vizio è detto carnale per il fatto che tende a un piace­ re del corpo, non già perché deriva da una deficienza della carne. 3. n Crisostomo paragona I' avaro a11' ossesso non perché esso sia tormentato nella carne come quell'indemoniato, ma per contrapposizione: poiché mentre l ' indemoniato [di Gerasa] si spogliava, I' avaro si riveste di ricchezze superflue.

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Utrum avaritia sit vitium capitale

Vavarizia è un vizio capitale?

Ad septimum sic proceditur. Videtur quod avaritia non sit vitium capitale.

Sembra di no. Infatti: l . Essa si contrappone alla liberalità, di cui

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l . Avaritia enim opponitur liberalitati sicut me­ dio, et prodigalitati sicut extremo. Sed neque li­ beralitas est principalis virtus, neque prodigali­ tas vitium capitale. Ergo etiam avaritia non debet poni vitium capitale. 2. Praeterea, sicut supra [1-11 q. 84 aa. 3-4] dictum est, illa dicuntur esse vitia capitalia quae habent principales fines, ad quos ordinan­ tur fines aliorum vitiorum. Sed hoc non com­ petit avaritiae, quia divitiae non habent ratio­ nem finis, sed magis rationem eius quod est ad finem, ut dicitur in l Ethic. [5,8]. Ergo avaritia non est vitium capitale. 3 . Praeterea, Gregorius dicit, in Mor. [25], quod avaritia quandoque oritur ex elatione,

quandoque per timorem. Dum enim quidam deficere sibi ad sumptum necessaria aestimant, mentem ad avaritiam relaxant. Sunt alli qui, dum potentiores videri appetunt, ad alienarum rerum ambitum succenduntur. Ergo avaritia magis oritur ab aliis vitiis quam ipsa sit vitium capitale respectu aliorum. Sed contra est quod Gregorius, 3 1 Mor. [45], ponit avaritiam inter vitia capitalia. Respondeo dicendum quod, sicut supra [1-11 q. 84 aa. 3-4] dictum est, vitium capitale dicitur ex quo alia oriuntur secundum rationem finis; qui cum sit multum appetibilis, propter eius appetitum homo procedit ad multa facienda vel bona vel mala. Finis autem maxime appetibilis est beatitudo sive felicitas, quae est ultimus finis humanae vitae, ut supra [1-11 q. l a. 8 sed c.] habitum est. Et ideo quanto aliquid magis participat conditiones felicitatis, tanto magis est appetibile. Est autem una de conditionibus felicitatis ut sit per se sufficiens, alioquin non quietaret appetitum tanquam ultimus finis. Sed per se sufficientiam maxime repromittunt divitiae, ut Boetius dicit, in 3 De consol. [3]. Cuius ratio est quia, sicut philosophus dicit, in 5 Ethic. [5,14], denario utimur quasi.fideiusso­ re ad omnia habenda, et Eccle. 10 [ 19] dicitur quod pecuniae obediunt omnia. Et ideo avari­ tia, quae consistit in appetitu pecuniae, est vitium capitale. Ad primum ergo dicendum quod virtus per­ ficitur secundum rationem, vitium autem per­ ficitur secundum i nclinationem appetitus sensitivi. Non autem ad idem genus principa­ liter respicit ratio, et appetitus sensitivus. Et ideo non oportet quod principale vitium oppo­ natur principali virtuti. Unde licet liberalitas

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non rispetta il giusto mezzo, e alla prodigalità, che è il vizio contrario. Ma la liberalità non è tra le virtù principali, e neppure la prodigalità è un vizio capitale. Quindi neppure l' avarizia può essere considerata un vizio capitale. 2. Come si è spiegato sopra, sono capitali quei vizi che hanno per oggetto i fini princi­ pali, a cui sono subordinati i fini degli altri vizi. Ma questo non è il caso dell' avarizia: poiché le ticchezze non hanno natura di fine, bensì di mezzi ordinati al fine, come insegna Aristotele. Quindi l ' avarizia non è un vizio capitale. 3. Gregorio ha scritto che «l' avarizia deriva ora dali' orgoglio e ora dal timore. Infatti alcu­ ni si abbandonano ali' avarizia temendo che venga loro a mancare il necessario. Altri inve­ ce estendono la brama verso la roba altrui per il fatto che vogliono apparire più potenti». Perciò l ' avarizia, i nvece di essere un vizio capitale rispetto ad altri vizi, deriva piuttosto da essi. In contrario: Gregorio mette l ' avarizia tra i vizi capitali. Risposta: come si è già spiegato, un vizio è detto capitale per la sua priorità su altri vizi in ordine al fine; il quale, per la sua pmticolare appetibilità, spinge l'uomo a compiere molti atti buoni o cattivi. Ora, il fine più appetibile è la beatitudine, o felicità, che è il fine ultimo della vita umana, come sopra si è dimostrato. Perciò più una cosa partecipa le condizioni della felicità e più è appetibile. Ma una delle condizioni della felicità è di soddisfare piena­ mente: altrimenti essa non potrebbe acquieta­ re l' appetito quale ultimo fine. Ora, sono le ricchezze che promettono al massimo questa soddisfazione, dice Boezio. E il Filosofo ne dà la ragione dicendo che «il danaro ci serve di garanzia per ottenere qualsiasi cosa»; e in Qo 10 [19] è detto che tutto ubbidisce al da­ naro. Quindi l' avarizia, che consiste nella bra­ ma del danaro, è un vizio capitale. Soluzione delle difficoltà: l . La virtù si attua secondo la ragione, il vizio invece secondo l' inclinazione dell' appetito sensitivo. Ora, la ragione e l' appetito sensitivo non hanno in comune un identico oggetto principale di rife­ rimento. Per cui non è detto che un vizio capi­ tale corrisponda a una virtù principale, o car­ dinale. Sebbene quindi la liberalità non sia una virtù cardinale, non avendo per oggetto

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non sit principalis virtus, quia non respicit ad principale bonum rationis; avaritia tamen est principale vitium, quia respicit ad pecuniam, quae habet quandam principalitatem inter bona sensibilia, ratione iam [in co.] dieta. - Prodiga­ litas autem non ordinatur ad aliquem finem principaliter appetibilem, sed magis videtur procedere ex defectu rationis. Unde philoso­ phus dicit, in 4 Ethic. [ 1 ,3 1 ], quod prodigus magis dicitur vanus quam malus. Ad secundum dicendum quod pecunia ordina­ tue quidem ad aliud sicut ad finem, inquantum tamen utilis est ad omnia sensibilia conqui­ renda, continet quodammodo virtute omnia. Et ideo habet quandam similitudinem felicitatis, ut dictum est [in co.]. Ad tertium dicendum quod nihil prohibet vi­ tium capitale interdum a quibusdam aliis oriri, ut dictum est [q. 36 a. 4 ad 1], dum tamen ex eo alia vitia soleant plerumque oriri.

uno dei beni principali della ragione, tuttavia l'avarizia è un vizio principale, poiché ha di mira il danaro, che gode di una certa premi­ nenza fra gli altri beni sensibili, per i motivi indicati. - La prodigalità invece non è ordina­ ta a un fine appetibile in maniera preminente, ma deriva piuttosto da una mancanza di crite­ rio. Per cui il Filosofo può dire che il prodigo è più vano che cattivo. 2. Il danaro è ordinato ad altre cose come al suo fine, ma in quanto può servire ad acqui­ stare tutti i beni sensibili contiene virtualmen­ te in qualche modo ogni altra cosa. Per cui ha una certa somiglianza con la felicità, come si è spiegato. 3. Secondo le spiegazioni date in precedenza, nulla impedisce che un vizio capitale nasca talora da altri vizi, purché a sua volta ne dia origine ad altri.

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De filiabus avaritiae

Le figlie dell'avarizia

Ad octavum sic proceditur. Videtur quod non sint avaritiae filiae quae dicuntur, scilicet

Sembra che le figlie dell'avarizia non siano quelle comunemente dette, e cioè «il tradi­ mento, la frode, la bugia, gli spergiuri, l'in­ quietudine, le violenze e la durezza di cuore». Infatti: l. Abbiamo detto che l'avarizia si contrappone alla liberalità. Ora, il tradimento, la frode e la bugia si contrappongono alla pmdenza, gli spergiuri alla religione, l'inquietudine alla spe­ ranza, o alla carità che si acquieta nella persona amata, le violenze alla giustizia, la durezza alla misericordia. Perciò questi vizi non hanno alcun legame con l'avarizia. 2. n tradimento, la frode e la bugia sembrano ridursi alla stessa cosa, cioè all'inganno del prossimo. Quindi non vanno enumerate come tre figlie distinte dell'avarizia. 3. Isidoro enumera nove figlie dell'avarizia: «la menzogna, la frode, il furto, lo spergiuro, la brama di illeciti guadagni, le false testimonian­ ze, le violenze, l'inumanità, la rapacità>>. Quin­ di il primo elenco non era esauriente. 4. n Filosofo accenna a più specie di vizi ap­ partenenti all'avarizia, da lui denominata illibe­ ralità, ricordando «gli spilorci, i taccagni, i venditori di cumino, coloro che compiono ope­ re illiberali, gli sfmttatori delle meretrici, gli usurai, i giocatori d'azzardo, i violatori dei

proditio, fraus, fallacia, periuria, inquietudo, violentiae, et contra misericordiam obduratio. l . Avaritia enim opponitur liberalitati, ut dic­ tum est [a. 3]. Proditio autem, fraus et fallacia opponuntur prudentiae; periuria religioni; in­ quietudo spei vel caritati, quae quiescit in amato; violentiae opponuntur iustitiae; obdu­ ratio misericordiae. Ergo huiusmodi vitia non pertinent ad avaritiam. 2. Praeterea, proditio, dolus et fallacia ad idem pertinere videntur, scilicet ad proximi deceptio­ nem. Ergo non debent enumerari tanquam di­ versae filiae avaritiae. 3 . Praeterea, lsidorus [QVT] ponit novem filias, quae sunt mendacium, fraus, furtum, pe­

riurium, et turpis lucri appetitus, falsa testimo­ nia, violentia inhumanitas, rapacitas. Ergo

prima assignatio filiarum fuit insufficiens. 4. Praeterea, philosophus, in 4 Ethic. [ 1,3940.43], ponit multa genera vitiomm pertinen­ tium ad avaritiam, quam illiberalitatem nomi­ nat, videlicet parcos, tenaces, kimibiles, illibe­

rales operationes operantes, et de meretricio pastos, et usurarios, aleatores, et mortuorum spoliatores, et latrones. Ergo videtur quod praedicta enumeratio sit insufficiens.

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5. Praeterea, tyranni maxirne violentias subdi­ tis inferunt. Dicit autem philosophus, ibidem [Ethic. 4, 1 ,42], quod tyrannos civitates deso­ lantes et sacra praedantes non dicimus illibe­ rales, idest avaros. Ergo violentia non debet poni filia avaritiae. Sed contra est quod Gregorius, 3 1 Mor. [45], assignat avaritiae filias prius enumeratas. Respondeo dicendum quod filiae avaritiae di­ cuntur vitia quae ex ipsa oriuntur, et praecipue secundum appetitum finis. Quia vero avaritia est supertluus amor habendi divitias, in duobus excedit. Primo enim, superabundat in retinen­ do. Et ex hac parte oritur ex avaritia obduratio contra misericordiam, quia scilicet cor eius misericordia non emollitur, ut de divitiis suis subveniat miseris. - Secundo, ad avaritiam per­ tinet superabundare in accipiendo. Et se­ cundum hoc, avaritia potest considerati dupli­ citer. Uno modo, secundum quod est in affectu. Et sic ex avaritia oritur inquietudo, inquantum ingerit homini sollicitudinem et curas super­ fluas, avarus enim non impletur pecunia, ut di­ citur Eccle. 5 [9]. - Alio modo, potest conside­ rati in effectu. Et sic in acquirendo aliena utitur quandoque quidem vi, quod pertinet ad violen­ tias; quandoque autem dolo. Qui quidem si fiat in verbo, erit fallacia, quantum ad simplex ver­ bum; periurium autem si addatur confirmatio iuramenti . Si autem dolus committatur in ope­ re, sic, quantum ad res, erit fraus; quantum autem ad personas, proditio, ut patet de Iuda, qui ex avaritia prodidit Christum. Ad primum ergo dicendum quod non oportet filias alicuius peccati capitalis ad idem genus vitii pertinere, quia ad finem unius vitii possunt ordinari etiam peccata alterius generis. Aliud est enim peccatum habere filias, et peccatum habere species. Ad secundum dicendum quod illa tria distin­ guuntur sicut dictum est [in co.]. Ad tertium dicendum quod illa novem redu­ cuntur ad praedicta septem. Nam mendacium et falsum testimonium continetur sub fallacia, falsum enim testimonium est quaedam specifi­ catio mendacii; sicut et furtum est quaedam specificatio fraudis, unde sub fraude conti­ netur. Appetitus autem turpis lucri pertinet ad inquietudinem. Rapacitas autem continetur sub violentia, cum sit species eius. lnhumani­ tas autem est idem quod obduratio contra

misericordiam.

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sepolcri, i briganti». Perciò l'elenco indicato sembra insufficiente. 5. I tiranni sono quelli che infliggono ai loro sudditi le violenze più gravi. Ora, il Filosofo afferma che «i tiranni che devastano le città e depredano i templi non li chiamiamo illibera­ li», cioè avari. Quindi la violenza non può es­ sere considerata una figlia dell'avarizia. In contrario: Gregorio assegna all' avarizia le figlie sopra indicate. Risposta: si dicono figlie dell'avarizia i vizi che da essa derivano specialmente sotto l' aspetto della causalità finale. Essendo dunque l'avari­ zia l'amore ecce..�sivo delle ricchezze, va notato che l'eccesso può verificarsi in due modi. Pri­ mo, nel trattenerle. E allora dall'avarizia nasce la durezza di cuore: poiché il cuore dell'avaro non si intenerisce con la misericordia, così da soccorrere i poveri con le sue ricchezze. Secondo, è proprio dell'avarizia eccedere nel prendere. E sotto questo aspetto il vizio può essere considerato in due fasi distinte. Prima di tutto in quanto è nell'affetto. E allora dall'avari­ zia nasce l'inquietudine, poiché essa suscita nell'uomo preoccupazione e premure eccessi­ ve: infatti, chi ama il danaro mai si sazia di danaro (Qo 5,9). - In secondo luogo si può considerare l'avarizia nell'effetto. E allora essa nell'acquistare la roba altrui talora usa la forza, e abbiamo la violenza; talora invece usa l' inganno. E se questo avviene mediante la parola, si avrà la bugia, nelle semplici asserzio­ ni, e lo spergiuro quando a conferma si aggiun­ ge il giuramento. Se poi l'inganno avviene con i fatti, allora, se si tratta di cose, avremo la fro­ de, se di persone invece avremo il tradimento, come è evidente nel caso di Giuda, il quale fu spinto dall' avarizia a tradire Cristo [Mt 26, 1 5]. Soluzione delle difficoltà: l. Non è necessario che le figlie di un peccato capitale appartenga­ no al genere di quest'ultimo: poiché al fine di un dato vizio possono essere indirizzati anche i peccati di un altro genere. Infatti una cosa sono le figlie e un'altra le specie di tm peccato. 2. Quei tre peccati si distinguono nel modo che abbiamo detto. 3. Le nove figlie ricordate da Isidoro si riduco­ no alle sette sopra indicate. Infatti la menzogna e la falsa testimonianza sono incluse nella bugia: poiché la falsa testimonianza non è che una specificazione della menzogna; come anche il furto è una certa specificazione della

L 'avarizia

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Ad quartum dicendum quod illa quae ponit Aristoteles [Ethic. 4, l ,39-40.43] sunt illiberali­ tatis vel avaritiae species magis qurun filiae. Potest enim aliquis dici illiberalis vel avarus ex eo quod deficit in dando, et si quidem parum det, vocatur parcus; si autem nihil, tenax; si autem cum magna difficultate det, vocatur kimibilis, quasi kimini vemlitor, quia de parvis magnrun vim facit. - Quandoque autem aliquis dicitur illiberalis vel avarus quia excedit in accipiendo. Et hoc dupliciter. Uno modo, quia turpiter lucratur, vel vilia et servilia opera exercendo per illiberales operationes; vel quia de aliquibus vitiosis actibus lucratur, sicut de meretricio, vel de aliquo huiusmodi; vel quia lucratur de eo quod gratis oportet concedere, sicut usurarii; vel quia lucraturparva cum ma­ gno labore. Alia modo, quia iniuste lucratur, vel vivis vim inferendo, sicut latrones; vel mortuos spoliando; vel ab runicis auferendo, sicut aleatores. Ad quintum dicendum quod sicut liberalitas est circa mediocres pecunias, ita et illiberalitas. Unde tyranni, qui magna per violentiam auferunt, non dicuntur illiberales, sed iniusti.

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frode, per cui è incluso nella fivde. La brama poi di illeciti guadagni rientra nell'inquietudine. Invece la rapacitcì non è che una specie della violenza. r; inumanitcì, poi, si identifica con la

durezza di cuore.

4. I vizi ricordati da Aristotele non sono figlie, bensì specie della illiberalità, o avarizia. Infatti uno può dirsi illiberale, o avaro, per il fatto che è restio a dare: se dà poco è detto tirchio; se non dà nulla taccagno, e se dà con grande difficoltà è detto venditore di cumino, poiché fa tanto sforzo per cose da nulla. Altre volte invece si dice che uno è illiberale, o avaro, perché eccede nel prendere. E ciò può avvenire in due modi. Primo, perché uno fa dei guadagni turpi: o con l'esercizio di mestieri vili e da schiavi mediante opere illiberali; o col guadagnare mediante atti peccaminosi, cioè col meretricio, o con altre azioni del genere; oppure perché, come fanno gli usurai, si arricchisce con prestazioni che dovrebbero essere concesse gratuitamente; o anche perché «affronta gravi fatiche per guada­ gnare una piccolezza». Secondo, perché si arricchisce agendo contro la giustizia: o facen­ do violenza ai vivi, come i briganti; oppure «spogliando i morti», o rovinando gli runici, come fanno i giocatori d'azzardo. 5. V illiberalità, come anche la liberalità, ri­ guarda ricchezze di modeste proporzioni. Per­ ciò i tiranni, che con la violenza si impossessa­ no di valori ingenti, non vanno detti illiberali, ma ingiusti. -

QUAESTIO 1 1 9

QUESTIONE 1 1 9 ,

DE PRODIGALITATE

LA PRODIGALITA

Deinde considerandum est de prodigalitate. Et circa hoc quaeruntur tria Primo, utrum prodi­ galitas avaritiae opponatur. Secundo, utrum prodigalitas sit peccatum. Tertio, utrum sit gra­ vius peccatum qurun avaritia.

Rimane quindi da studiare la prodigalità. Sul­ l' argomento si pongono tre quesiti: l . La pro­ digalità è il contrario dell'avarizia? 2. È un pec­ cato? 3. È un peccato più grave dell'avarizia?

Articulus l Utrum prodigalitas opponatur avaritiae

Articolo l La prodigalità è il contrario deli'avarizia?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod pro­ digalitas non opponatur avaritiae. l . Opposita enim non possunt esse simul in eodem. Sed aliqui sunt simul prodigi et illibera­ les. Ergo prodigalitas non opponitur avaritiae.

Sembra di no. Infatti: l . I contrari non possono trovarsi simultanea­ mente nel medesimo soggetto. Ma alcuni so­ no insieme prodighi e illiberali. Quindi la pro­ digalità non è il contrario dell'avarizia.

1 11 7

La prodigalità

2. Praeterea, opposita sunt circa idem. Sed avaritia, secundum quod opponitur liberalitati, est circa passiones quasdam quibus homo afficitur ad pecuniam. Prodigalitas autem non videtur esse circa aliquas animae passiones, non enim afficitur circa pecunias, nec circa aliquid aliud huiusmodi. Non ergo prodigali­ tas opponitur avaritiae. 3 . Praeterea, peccatum principaliter recipit speciem a fine, ut supra [l-II q. 72 a. 3] habi­ tum est. Sed prodigalitas semper videtur ordi­ nari ad aliquem finem illicitum, propter quem bona sua expendit, et praecipue propter vo­ luptates, unde et Luc. 15 [ 1 3] dicitur de filio prodigo quod dissipavit substantiam suam lu­ xuriose vivendo. Ergo videtur quod prodiga­ litas opponatur magis temperantiae et insensi­ bilitati quam avaritiae et liberalitati. Sed contra est quod philosophus, in 2 [7,4] et 4 [ 1 ,3] Ethic., ponit prodigalitatem oppositam liberalitati et illiberalitati, quam nunc avari­ tiam dicimus. Respondeo dicendum quod in moralibus at­ tenditur oppositio vitiorum ad invicem et ad virtutem secundum superabundantiam et de­ fectum. Differunt autem avaritia et prodigali­ tas secundum superabundantiam et defectum, diversimode. Nam in affectione divitiarum, avarus superabundat, plus debito eas diligens, prodigus autem deficit, minus debito earum sollicitudinem gerens. Circa exteriora vero, ad prodigalitatem pertinet excedere quidem in dando, deficere autem in retinendo et acqui­ rendo, ad avaritiam autem pertinet e contrario deficere quidem in dando, superabundare autem in accipiendo et retinendo. Unde patet quod prodigalitas avaritiae opponitur. Ad primum ergo dicendum quod nihil pro­ hibet eidem inesse opposita secundum diver­ sa, ab ilio tamen aliquid magis denorninatur quod est principalius. Sicut autem in liberali­ tate, quae medium tenet, praecipua est datio, ad quam acceptio et retentio ordinantur; ita etiam avaritia et prodigalitas praecipue atten­ duntur secundum dationem. Unde ille qui su­ perabundat in dando vocatur prodigus; qui autem deficit in dando vocatur avarus. Con­ tingit autem quandoque quod aliquis deficit in dando qui tamen non excedit in accipiendo, ut philosophus dicit, in 4 Ethic. [ 1 ,38]. Similiter etiam contingit quod aliquis excedat in dando, et ex hoc est prodigus; et simul cum hoc,

Q. 1 1 9, A. l

2. I contrari riguardano sempre una medesima cosa. Ora l'avarizia, in quanto si contrappone alla liberalità, riguarda le passioni umane re­ lative al danaro. Invece la prodigalità non sembra che riguardi queste passioni: essa in­ fatti non si collega al danaro o ad altre cose del genere. Quindi la prodigalità non si con­ trappone ali' avarizia. 3. Come sopra si è visto, i peccati ricevono la loro specie principalmente dal fine. Ora, la pro­ digalità è sempre ordinata a un fine illecito, per il quale sperpera gli averi, e specialmente è or­ dinata ai piaceri: infatti in Le 15 [ 1 3] è detto che il figliol prodigo spe1però le sue sostanze vivendo da dissoluto. Perciò sembra che la pro­ digalità si contrapponga più alla temperanza e ali' insensibilità che ali' avarizia e alla liberalità. In contrario: il Filosofo insegna che la prodi­ galità si contrappone alla liberalità e all'illibe­ ralità, che noi chiamiamo avarizia. Risposta: in morale l'opposizione dei vizi tra loro e con le virtù correlative è impostata sul­ l'eccesso e il difetto. Ora, l'avarizia e la pro­ digalità si contrappongono come l'eccesso e il difetto, ma in vari modi. L'avaro infatti ec­ cede nell'attaccamento alle ricchezze aman­ dole più del dovuto, mentre il prodigo manca perché ne è meno sollecito di quanto si deve. Al contrario invece rispetto agli atti esterni il prodigo eccede nel dare e difetta nel trattenere e nell'acquistare, mentre l'avaro difetta nel dare ed eccede nel prendere e nel trattenere. Perciò è evidente che la prodigalità si con­ trappone all'avarizia. Soluzione delle difficoltà: 1 . Nulla impedisce che nel medesimo soggetto si trovino qualità contrarie sotto aspetti diversi, pur essendo tale soggetto denominato dalla qualità che in esso prevale. Ora, come nella liberalità, che costi­ tuisce il giusto mezzo tra questi due vizi, l'atto principale è il dare, a cui il prendere e il rite­ nere sono subordinati, così anche l'avarizia e la prodigalità vanno considerate principalmen­ te in rapporto al dare. Quindi chi eccede nel dare è detto prodigo, mentre chi in ciò scar­ seggia è detto avaro. Ora, può capitare che uno non dia abbastanza, senza però prendere più del dovuto, come nota il Filosofo. Parimenti può darsi che uno esageri nel dare, e quindi sia prodigo, e insieme esageri nel prendere. O per necessità: poiché, esagerando nel dare, vengo­ no a mancare le risorse, e quindi si è costretti a

Q. 1 1 9, A. l

La prodiga/ità

1 1 18

excedat in accipiendo. Vel ex quadam neces­ sitate, quia, dum superabundant in dando, de­ ficiunt eis propria bona, unde coguntur inde­ bite acquirere, quod pertinet ad avaritiam. Vel etiam propter animi inordinationem, dum enim non dant propter bonum, quasi con­ tempta virtute, non curant undecumque et qualitercumque accipiant. Et sic non secun­ dum idem sunt prodigi et avari. Ad secundum dicendum quod prodigalitas attenditur circa passiones pecuniae non sicut superabundans in eis, sed sicut deficiens. Ad tertium dicendum quod prodigus non semper abundat in dando propter voluptates, circa quas est intemperantia, sed quandoque quidem ex eo quod taliter est dispositus ut divitias non curet; quandoque autem propter aliquid aliud. Ut frequentius tamen ad intem­ perantias declinant, tum quia, ex quo super­ flue expendunt in aliis, etiam in rebus volu­ ptuosis expendere non verentur, ad quas magis inclinat concupiscentia carnis; tum etiam, quia non delectantur in bono virtutis, quae­ runt sibi delectationes corporales. Et inde est quod philosophus dici t, in 4 Ethic. [ l ,35], quod multi prodigontmfiunt intemperati.

illeciti acquisti, cadendo nell'avarizia. Oppure per il disordine spirituale: poiché coloro che danno, ma non per il bene, disprezzando la virtù non si peritano di prendere in qualsiasi modo. E così essi sono prodighi e avari, ma non sotto il medesimo aspetto. 2. La prodigalità riguarda anch'essa la passio­ ne del danaro, però non pecca per eccesso, ma per difetto. 3. Il prodigo esagera nel dare, non sempre però per i piaceri, che sono oggetto dell' in­ temperanza, ma talora perché è del tutto tra­ scurato verso le ricchezze, oppure per altri motivi. Ordinariamente però i prodighi si orientano verso l'intemperanza: sia perché, spendendo a profusione per altre cose, non hanno ritegno a spendere anche per i piaceri, ai quali soprattutto inclina la concupiscenza della carne, sia anche perché, non gustando il bene della virtù, cercano un compenso nei piaceri corporali. Per cui il Filosofo afferma che ; e così non potrà ri­ manere in cielo, dove non ci sarà alcuna mi­ seria. Quindi la pietà non è un dono. In contrario: in fs I l [2] la pietà è messa tra i doni. Risposta: come si è spiegato in precedenza, i doni dello Spirito Santo sono disposizioni abi­ tuali che rendono l'anima pronta alla mozione dello Spirito Santo. Ora, fra le altre cose, lo Spirito Santo ci muove ad avere un affetto filiale verso Dio, secondo le parole di Rm 8 [ 1 5] : Voi avete ricevuto uno spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre! E poiché spetta propriamente alla pietà «offrire al padre prestazioni e culto», ne segue che la pietà, che ci spinge sotto la mozione dello Spirito a prestare un culto a Dio come Padre, è un dono dello Spirito Santo. Soluzione delle difficoltà: l . La pietà che ren­ de onore e culto ai genitori è una virtù, men­ tre la pietà che è dono assolve tali doveri verso Dio in quanto Padre. 2. Prestare un culto a Dio in quanto Creatore, come fa la religione, è una cosa più eccellente che prestare un culto al padre terreno, come fa

Il dono della pietà

Q. 1 2 1 , A. l

Deo ut Creatori, quod facit religio, est excel­ lentius quam exhibere cultum patri carnali, quod facit pietas quae est virtus. Sed exhibere cultum Deo ut Patri est adhuc excellentius quam exhibere cultum Deo ut Creatori et Domino. Unde religio est potior pietate virtu­ te, sed pietas secundum quod est donum, est potior religione. Ad tertium dicendum quod sicut per pietatem quae est virtus exhibet homo officium et cul­ tum non solum patri carnali, sed etiam omni­ bus sanguine iunctis, secundum quod perti­ nent ad patrem; ita etiam pietas secundum quod est donum, non solum exhibet cultum et officium Deo, sed omnibus hominibus in­ quantum pertinent ad Deum. Et propter hoc ad ipsam pertinet honorare sanctos, non con­

tradicere Scripturae, sive intellectae sive non intellectae, sicut Augustinus dicit, in 2 De

doct. chr. [7] . Ip sa etiam ex consequenti subvenit in miseria constitutis. Et quamvis iste actus non habeat locum in patria, praeci­ pue post diem iudicii, habebit tamen locum praecipuus actus eius, qui est revereri Deum affectu filiali, quod praecipue tunc erit, secun­ dum illud Sap. 5 [5], ecce quomodo compu­ tati sunt interfilios Dei. Erit etiam mutua ho­ noratio sanctorum ad invicem. Nunc autem, ante diem iudicii, miserentur sancti etiam eorum qui in statu huius miseriae vivunt. Articulus 2

1 1 26

la virtù della pietà. Ma prestare un culto a Dio come Padre è assai più che offrire un culto a Dio come Creatore e Signore. Quindi la reli­ gione è superiore alla virtù della pietà, ma il dono della pietà è superiore alla religione. 3. Come con la virtù della pietà l'uomo presta onore e culto non solo al padre carnale, ma anche ai consanguinei, in quanto essi appar­ tengono al padre, così anche i l dono della pietà presta culto e onore non solo a Dio, ma anche a tutti gli uomini in quanto appartengo­ no a Dio. E così spetta al dono della pietà I' onorare i santi, e «il non contraddire alla Scrittura, sia che la si intenda, sia che non la si intenda», come dice Agostino. Inoltre indi­ rettamente tale dono ha anche il compito di sollevare chi è nella miseria. E sebbene tale atto non sia più esercitato nella patria celeste, specialmente dopo il giorno del giudizio, tut­ tavia allora più che mai il dono rimarrà nel suo atto principale, che è quello di onorare Dio con affetto filiale, secondo le parole di Sap 5 [5 ] : Ecco come sono annoverati tra i figli di Dio. Inoltre ci sarà un reciproco omag­ gio tra i santi. Adesso però, prima del giorno del giudizio, i santi esercitano anche la mise­ ricordia verso quanti vivono nello stato del­ l' attuale miseria.

Articolo 2

Utrum dono pietatis respondeat seconda beatitudo: beati mites

Al dono della pietà corrisponde la seconda

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod dono pietatis non respondeat secunda beatitu­ do, scilicet, beati mites. l . Pietas enim est donum respondens iustitiae. Ad quam magis pertinet quarta beatitudo, scili­ cet, beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam, vel etiam quinta, beati misericordes, quia, ut dictum est [a. l ad 3; q. 101 a. l ad 2; a. 4 ad 3], opera misericordiae pertinent ad pietatem. Non ergo secunda beatitudo pertinet ad donum pietatis. 2. Praeterea, donum pietatis dirigitur dono scientiae, quod adiungitur in connumeratione donorum Isaiae I l [2] . Ad idem autem se extendunt dirigens et exequens. Cum igitur ad scientiam pertineat tertia beatitudo, scilicet, beati qui lugent, videtur quod non pertineat ad pietatem secunda beatitudo.

Sembra di no. Infatti: l . La pietà è il dono che corrisponde alla giu­ stizia. Ma a quest' ultima corrisponde mag­ giormente la quarta beatitudine: Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, o anche la quinta: Beati i misericordiosi, poiché le opere di misericordia appartengono alla pietà, come si è detto. Quindi al dono della pietà non corrisponde la seconda beatitudine. 2. n dono della pietà è diretto dal dono della scienza, che lo segue immediatamente nell'e­ numerazione dei doni (/s 1 1,2). Ma chi dirige e chi è diretto hanno di mira la stessa cosa. Siccome dunque alla scienza corrisponde la terza beatitudine: Beati coloro che piangono, non sembra che alla pietà possa corrispondere la seconda.

beatitudine: Beati i miti [Mt 5,3]?

1 1 27

Q. 1 2 1 , A. 2

Il dono della pietà

3. Praeterea, fructus respondent beatitudinibus et donis, ut supra [1-11 q. 70 a. 2] habitum est. Sed inter fructus, bonitas et benignitas magis videntur convenire cum pietate quam mansue­ tudo, quae pertinet ad mititatem. Ergo secunda beatitudo non respondet dono pietatis. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De serm. Dom. [ l ,4], pietas congruit mitibus. Respondeo dicendum quod i n adaptatione beatitudinum ad dona duplex convenientia potest attendi . Una quidem secundum ra­ tionem ordinis, quam videtur Augustinus fuisse secutus. Unde primam beatitudinem at­ tribuit infimo dono, scilicet timori; secundam autem scilicet, beati mites, attribuit pietati; et sic de aliis. Alia convenientia potest attendi secundum propriam rationem doni et beati­ tudinis. Et secundum hoc, oporteret adaptare beatitudines donis secundum obiecta et actus. Et ita pietati magis responderet quarta et quinta beatitudo quam secunda. Secunda tamen beatitudo habet aliquam convenientiam cum pietate, inquantum scilicet per mansuetu­ dinem tolluntur impedimenta actuum pietatis. Et per hoc patet responsio ad primum. Ad secundum dicendum quod secundum proprietatem beatitudinum et donorum, opor­ tet quod eadem beatitudo respondeat scientiae et pietati . Sed secundum rationem ordinis, diversae beatitudines eis adaptantur, observata tamen aliquali convenientia, ut supra [in co.] dictum est. Ad tertium dicendum quod bonitas et beni­ gnitas i n fructibus directe attribui possunt p ietati, mansuetudo autem indirecte, in­ quantum tollit impedimenta actuum pietatis, ut dictum est [in co.].

3. Come sopra si è spiegato, alle beatitudini e ai doni corrispondono i frutti. Ma alla pietà sono più affini, tra i frutti, la bontà e la beni­ gnità che non la mansuetudine, corrisponden­ te alla mitezza. Quindi alla pietà non corri­ sponde la seconda beatitudine. In contrario: Agostino insegna: «La pietà si addice ai mansueti». Risposta: nel ricollegare le beatitudini ai doni si possono tenere presenti due diverse affinità. Una è basata sull'ordine dell'enumerazione, e su di essa sembra fondarsi Agostino. Per cui egli fa corrispondere la prima beatitudine al­ l 'ultimo dei doni, cioè al timore; la seconda, ossia Beati i miti, alla pietà, e così via n secon­ do tipo di affinità è rilevato invece in base alla natura dei doni e delle beatitudini rispettive. Per cui è necessario trovare la corrispondenza tra la beatitudine e il dono in base ai loro oggetti e alle loro operazioni. Ora, in questo senso alla pietà corrispondono meglio la quarta e la quinta beatitudine che non la seconda. Thttavia anche la seconda beatitudine ha una certa somiglianza con la pietà: poiché la mansuetudine serve a togliere gli ostacoli agli atti della pietà. Soluzione delle difficoltà: l . Così è risolta an­ che la prima difficoltà. 2. Stando alle caratteristiche delle beatitudini e dei doni, ai doni della scienza e della pietà dovrebbe corrispondere un' identica beatitudi­ ne. In base invece all'ordine di enumerazione ad essi corrispondono due beatitudini distinte, pur tenendo conto di una certa somiglianza, come si è detto sopra. 3. I frutti indicati, cioè la bontà e la benignità, possono essere attribuiti al dono della pietà direttamente; la mansuetudine invece indiretta­ mente, in quanto elimina gli ostacoli che impe­ discono l'atto della pietà, come si è detto.

QUAESTIO 1 22

QUESTIONE 1 22

DE PRAECEPTIS IUSTITIAE

I PRECETTI RELATIVI ALLA GIUSTIZIA

Deinde considerandum est de praeceptis iusti­ tiae. Et c irca hoc quaeruntur sex. Primo, utrum praecepta Decalogi sint praecepta iusti­ tiae. Secundo, de ptimo praecepto Decalogi. Tertio, de secundo. Quarto, de tertio. Quinto, de quarto. Sexto, de aliis sex.

Passiamo infine a trattare dei precetti relativi alla giustizia Toccheremo sei argomenti: l . I precetti del decalogo appartengono alla giustizia? 2. n primo precetto del decalogo; 3. Il secondo; 4. Il terzo; 5. n quarto; 6. Gli altri sei comandamenti.

Q. 122, A. l

I precetti relativi alla giustizia

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Articulus l Utrum praecepta decalogi sint praecepta iustitiae

Articolo l I precetti del decalogo appartengono alla giustizia?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod prae­ cepta decalogi non sint praecepta iustitiae. l. Intentio enim legislatoris est civesfacere vir­ tuosos secundum omnem virtutem, ut dicitur in 2 Ethic. [ 1 ,5], unde et in 5 Ethic. [ 1 ,14] dicitur quod /ex praecipit de omnibus actibus vùtutwn omnium. Sed praecepta decalogi sunt prima principia totius divinae legis. Ergo praecepta Decalogi non pertinent ad solam iustitiam. 2. Praeterea, ad iustitiam videntur pertinere praecipue praecepta iudicialia, quae contra moralia dividuntur, ut supra [I-TI q. 99 a. 4] ha­ bitum est. Sed praecepta decalogi sunt prae­ cepta moralia, ut ex supra [1-11 q. l 00 a. 3] dictis patet. Ergo praecepta decalogi non sunt praecepta iustitiae. 3 . Praeterea, lex praecipue tradit praecepta de actibus iustitiae pertinentibus ad bonum com­ mune, puta de officiis publicis, et aliis huius­ modi. Sed de his non fit mentio in praeceptis decalogi. Ergo videtur quod praecepta decalo­ gi non pertineant proptie ad iustitiam. 4. Praeterea, praecepta decalogi distinguuntur in duas tabulas secundum dilectionem Dei et proximi [cf. Senn. ad pop. 33,2], quae perti­ nent ad virtutem caritatis. Ergo praecepta de­ calogi magis pertinent ad caritatem quam ad iustitiam. Sed contra est quod iustitia sola videtur esse virtus per quam ordinamur ad alterum. Sed per omnia praecepta decalogi ordinamur ad alterum, ut patet discorrenti per singula [cf. Ex. 20,3; Deut. 5,6]. Ergo omnia praecepta decalogi pertinent ad iustitiam. Respondeo dicendum quod praecepta decalo­ gi sunt ptima praecepta legis, et quibus statim ratio naturalis assentit sicut manifestissirnis. Manifestissime autem ratio debiti, quae requi­ ritur ad praeceptum, apparet in iustitia, quae est ad alterum, quia in his quae spectant ad seipsum, videtur primo aspectui quod homo sit sui dominus, et quod liceat ei facere quod­ libet; sed in his quae sunt ad alterum, manife­ ste apparet quod homo est alteri obligatus ad reddendum ei quod debet. Et ideo praecepta decalogi oportuit ad iustitiam pertinere. Unde tria prima praecepta sunt de actibus religionis, quae est potissima pars iustitiae; quartum

Sembra di no. Infatti: l . Aristotele dice: «ll legislatore ha l' inten­ zione di rendere virtuosi i cittadini» secondo tutte le virtù, per cui «la legge comanda tutti gli atti di tutte le virtù». Ma i precetti del de­ calogo sono i primi princìpi di tutta la legge divina. Quindi i precetti del decalogo non ap­ partengono soltanto alla giustizia. 2. Alla giustizia appartengono specialmente i precetti giudiziali, che si contraddistinguono da quelli morali, come sopra si è visto. Ma i comandamenti del decalogo sono precetti morali, come si è dimostrato. Quindi i precetti del decalogo non appartengono alla giustizia. 3. La legge, nel dare dei precetti relativi agli atti della giustizia, deve tener presente in modo particolare il bene comune, per cui deve dare le norme riguardanti ad es. le cariche pubbli­ che, e altre prescrizioni del genere. Invece nel decalogo non si parla in alcun modo di queste cose. Quindi i precetti del decalogo non appar­ tengono particolarmente alla giustizia. 4. I precetti del decalogo sono distinti in due tavole in base ai due amori di Dio e del pros­ simo, i quali appmtengono alla virtù della carità. Perciò i precetti del decalogo apparten­ gono più alla carità che alla giustizia. In contrario: la giustizia è l'unica virtù che regola i nostri rapporti con gli altri. Ora, tutti i precetti del decalogo [Es 20; Dt 5,6 ss.] hanno tale compito. Quindi tutti questi precetti ap­ partengono alla giustizia. Risposta: i precetti del decalogo sono i primi precetti della legge, che la ragione naturale accetta immediatamente in quanto evidentis­ simi. Ma la nozione di dovere, che è tichiesta per il precetto, si tiscontra nella maniera più evidente nella giustizia, che ha di mira un'al­ tra persona: poiché nei doveri verso se stessi a prima vista può sembrare che l 'uomo sia padrone di sé, e che gli sia lecito fare ciò che vuole, mentre nei doveri che abbiamo verso gli altri appare evidente che si è obbligati a rendere ciò che è loro dovuto. Quindi i precet­ ti del decalogo dovevano appartenere alla giu­ stizia. Infatti i primi tre comandamenti tiguar­ dano gli atti della virtù di religione, che è la più importante fra le parti [potenziali] della

I precetti relativi alla giustizia

1 1 29

autem praeceptum est de actu pietatis, quae est pars iustitiae seconda; alia vero sex dantur de actibus iustitiae communiter dictae, quae inter aequales attenditur. Ad primum ergo dicendum quod lex intendit omnes homines facere virtuosos, sed ordine quodam, ut scilicet prius tradat eis praecepta de his in quibus est manifestior ratio debiti, ut dictum est [in co.]. Ad secundum dicendum quod iudicialia prae­ cepta sunt quaedam determinationes mo­ ralium praeceptorum prout ordinantur ad pro­ ximum, sicut et caeremonialia sunt quaedam determin ationes moralium praeceptorum prout ordinantur ad Deum. Unde neutra prae­ cepta continentur in decalogo. Sunt tamen de­ terminationes praeceptorum decalogi. Et sic ad iustitiam pertinent. Ad tettium dicendum quod ea quae pertinent ad bonum commune oportet diversimode dispensari secundum hominum diversitatem. Et ideo non fuerunt ponenda inter praecepta decalogi, sed inter praecepta iudicialia. Ad quartum dicendum quod praecepta deca­ logi pertinent ad caritatem sicut ad finem, secundum illud l ad Tim. l [5],finis praecep­ ti caritas est. Sed ad iustitiam pertinent in­ quantum immediate sunt de actibus iustitiae.

Q. 1 22, A. l

giustizia; il quarto invece riguarda gli atti del­ la pietà, che è al secondo posto tra le parti suddette, e gli altri sei infine interessano gli atti della giustizia ordinaria, che regola i rap­ porti tra gli uguali. Soluzione delle difficoltà: l . La legge tende a rendere virtuosi tutti gli uomini, ma con un certo ordine: cioè imponendo loro prima di tutto quei precetti dei quali è più evidente l 'obbligatorietà, come si è già detto. 2. I precetti giudiziali, o legali , sono delle detenninazioni dei precetti morali in ordine al prossimo; come anche i precetti cerimoniali sono delle detenninazioni dei precetti morali in ordine a Dio. Per cui né gli uni né gli altri entrano nel decalogo. S ono tuttavia delle determinazioni dei precetti del decalogo. E così appartengono anch' essi alla giustizia. 3. Le norme relative al bene comune vanno applicate diversamente secondo la diversità degli uomini. Quindi esse non andavano poste tra i precetti del decalogo, ma tra i precetti giudiziali, o legali. 4. I precetti del decalogo appartengono alla carità in quanto in essa hanno il loro fine, secondo le parole di l Tm l [5] : Il fine del precetto è la carità. Ma appartengono alla giustizia in quanto riguardano immediata­ mente gli atti di questa virtù.

Articulus 2

Articolo 2

Utrum primum praeceptum decalogi convenienter tradatur

Il primo precetto del decalogo è ben formulato?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod primum praeceptum Decalogi inconvenienter tradatur. l . Magis enim homo est obligatus Deo quam patri carnali, secundum illud Hebr. 1 2 [9],

Sembra di no. Infatti: l . L'uomo è più obbligato verso Dio che verso il padre terreno, secondo Eb 1 2 [9]: Non ci sot­

quanto magis obtemperabimus Patri spi­ rituum, et vivemus? Sed praeceptum pietatis,

lativo alla pietà, con la quale si onora il proprio padre, è formulato in un modo affermativo: Onora il padre e la madre (Es 20, 1 2). Perciò a maggior ragione doveva essere affermativo il primo precetto della religione con la quale si onora Dio: specialmente se pensiamo che l' af­ fermazione precede per natura la negazione. 2. Il primo precetto del decalogo riguarda la religione, come si è detto. Ma la religione, essendo un ' unica virtù, ha un unico atto. Invece col primo precetto sono proibiti tre atti:

qua honoratur pater, ponitur affirmative, cum dicitur [Ex. 20, 1 2] , honora patrem tuum et matrem tuam. Ergo multo magis primum praeceptum religionis, qua honoratur Deus, debuit proponi affinnative, praesertim cum affirmatio sit naturaliter prior negatione. 2. Praeterea, primum praeceptum decalogi ad religionem pertinet, ut dictum est [a. 1 ]. Sed religio, cum sit una virtus, habet unum actum. In primo autem praecepto prohibentur tres actus, nam primo dicitur [20,3], non habebis

tometteremo perciò molto di più al Padre degli spiriti, per avere la vita? Ora, il precetto re­

Non avrai dèi stranieri al mio cospetto. Non ti farai immagine alcuna. Non ti prostrerai da-

Q. 122, A. 2

I precetti relativi alla giustizia

deos alienos coram me; secundo dicitur, non facies tibi sculptile; tertio, non adorabis ea, neque co/es. Ergo inconvenienter traditur pri­ mum praeceptum.

3. Praeterea, Augustinus dicit, in libro De de­ cem chordis [Senn. ad pop. 9,9], quod per pri­ mum praeceptum excluditur vitium supersti­ tionis. Sed multae sunt aliae noxiae supersti­ tiones praeter idololatriam, ut supra [q. 92 a. 2] dictum est. Insufficienter ergo prohibetur sola idololatria. In contrarium est auctoritas Scripturae [Ex.

20,3]. Respondeo dicendum quod ad legem pertinet facere homines bonos. Et ideo oportet prae­ cepta legis ordinari secundum ordinem gene­ rationis, qua scilicet homo fit bonus. In ordine autem generationis duo sunt attendenda. Quorum primum est quod prima pars primo constituitur, sicut in generatione animalis pri­ mo generatur cor, et in domo primo fit funda­ mentum. In bonitate autem animae prima pars est bonitas voluntatis, ex qua aliquis ho­ mo bene utitur qualibet alia bonitate. Bonitas autem voluntatis attenditur ad obiectum suum, quod est finis. Et ideo in eo qui erat per legem instituendus ad virtutem, primo opor­ tuit quasi iacere quoddam fundamentum reli­ gionis, per quam homo debite ordinatur in Deum, qui est ultimus finis humanae volun­ tatis. - Secundo attendendum est in ordine generationis quod primo contraria et impedì­ menta tolluntur, sicut agricola primo purgat agrum, et postea proiicit semina, secundum illud Ier. 4 [3], novate vobis nova/e, et nolite serere super spinas. Et ideo circa religionem primo homo erat instituendus ut impedimenta verae religionis excluderet. Praecipuum autem impedimentum religionis est quod ho­ mo falso Deo inhaereat, secundum illud Matth. 6 [24], non potestis servire Deo et mammonae. Et ideo in primo praecepto legis excluditur cultus falsorum deorum. Ad primum ergo dicendum quod etiam circa religionem ponitur unum praeceptum affinnativum, scilicet [Ex. 20,8], memento ut diem sabbati sanctifices. Sed erant praemit­ tenda praecepta negativa, quibus impedimenta religionis tollerentur. Quamvis enim affinna­ tio naturaliter sit prior negatione, tamen in via generationis negatio, qua removentur impedì­ menta, est prior, ut dictum est [in co.] . Et

l l 30

vanti ad esse e non le servirai (Es 20,3 ss.). Quindi il primo precetto non è ben formulato. 3. Agostino insegna che col primo precetto è proibito il vizio della superstizione. Ma oltre all' idolatria, come sopra si è visto, ci sono tante altre cattive superstizioni. Quindi non basta proibire soltanto l'idolatria. In contrario: è sufficiente l 'autorità della Scrittura. Risposta: la legge ha il compito di rendere buoni gli uomini. Perciò i suoi precetti vanno ordinati secondo l' ordine genetico, cioè seguendo il processo della bontà umana. Ora, l'ordine genetico esige due cose. Primo, l a formazione primordiale dell'elemento più importante: come nella generazione dell'ani­ male prima di tutto è formato il cuore, e nella costmzione di una casa prima sono gettate le fondamenta. Ora, nella bontà dell ' anima l'elemento primordiale è la bontà o rettitudine della volontà, di cui uno deve servirsi per rag­ giungere qualsiasi altro tipo di bontà. Ma la rettitudine della volontà dipende dal suo og­ getto, cioè dal fine. Perciò, nell'educare l'uo­ mo alla vittù mediante la legge, era prima di tutto necessario gettare le fondamenta della virtù di religione, che stabilisce i doverosi rapporti dell'uomo con Dio, fme ultimo della volontà umana. - Secondo, l'ordine genetico esige che siano eliminati innanzi tutto gli ostacoli contrari al bene: come l'agricoltore prima ripulisce il campo e poi getta la semen­ te, secondo le parole di Ger 4 [3]: Dissodatevi

un terreno incolto e non seminate fra le spine.

Perciò, quanto alla virtù di religione, l'uomo in primo luogo doveva essere guidato a elimi­ narne gli ostacoli. Ma il primo ostacolo in questo campo è l'adesione a una falsa divi­ nità, come è detto in Mt 6 [24]: Non potete servire a Dio e a mamtnona. Quindi col pri­ mo precetto della legge è proibito il culto dei falsi dèi. Soluzione delle difficoltà: l . Anche sulla reli­ gione è dato un precetto affermativo [.&- 20,8]:

Ricordati del giorno di sabato per santifi­ car/o. Ma prima bisognava porre dei precetti

negativi, per eliminare gli impedimenti. Seb­ bene infatti l'affermazione preceda per natura la negazione, tuttavia in ordine genetico, se­ condo le spiegazioni date, viene prima la ne­ gazione, con la quale si tolgono gli ostacoli. Specialmente poi trattandosi delle cose di Dio

1 13 1

I precetti relativi alla giustizia

praecipue in rebus divinis in quibus negatio­ nes praeferuntur affirmationibus, propter in­ sufficientiam nostram, ut Dionysius dicit, 2 cap. Cael. Hier. [3]. Ad secundum dicendum quod cultus alienorum deorum dupliciter apud aliquos observabatur. Quidam enim quasdam creaturas pro diis colebant absque institutione imaginum, unde Varro dixit [cf. De civ. Dei 4,3 1] quod antiqui Romani diu sine simulacris deos coluerunt. Et hic cultus prohibetur primo, cum dicitur, non lwbebis deos alienos. Apud alios autem erat cultus fal sorum deorum sub quibusdam imaginibus. Et ideo opportune prohibetur et ipsarum imaginum institutio, cum dicitur, non facies tibi sculptile; et imaginum ipsarum cultus, cum dicitur, non co/es ea, et cetera. Ad tertium dicendum quod omnes aliae su­ perstitiones procedunt ex aliquo pacto cum daemonibus inito tacito vel expresso. Et ideo omnes intelliguntur prohiberi in hoc quod dicitur, non habebis deos alienos. -

Q. 1 22, A. 2

nelle quali, come afferma Dionigi, le negazio­ ni vanno preferite alle affermazioni, data la nostra insufficienza. 2. II culto dei falsi dèi si presentava sotto due forme. Alcuni adoravano come dèi delle crea­ ture senza ricorrere a immagini: infatti Varro­ ne riferisce che gli antichi Romani veneraro­ no a lungo gli dèi senza fare uso di simulacri. E questo culto è proibito con quel primo co­ mando: Non avrai dèi stranieri. - Altri invece veneravano i falsi dèi nelle loro immagini. Per cui fu necessario proibire sia la fabbricazione di tali immagini, con quelle parole: Non ti farai immagine alcuna, sia il culto verso di esse, con quelle altre parole: Non le servirai. . . 3. Tutte le altre superstizioni derivano da un patto tacito o espresso col demonio. Perciò esse rientrano tutte sotto quella proibizione: «Non avrai dèi stranieri».

Articulus 3

Articolo 3

Utrum secundum praeceptum decalogi convenienter tradatur

n secondo precetto del decalogo è ben formulato?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod se­ cundum praeceptum Decalogi non conve­ nienter tradatur. l . Hoc enim praeceptum, non assumes nomen Dei tui in vanum, sic exponitur in Glossa [int.] Ex. 20 [7], idest, non existimes creatu­ ram esse Filium Dei, per quod prohibetur error contra fidem. Et Deut. 5 [ I l] exponitur [int.], non assumes nomen Dei tui in vanum, scilicet, nomen Dei ligno et lapidi attribuen­ do, per quod prohibetur falsa confessio, quae est actus infidelitatis, sicut et error. Infidelitas autem est prior superstitione, sicut et fides religione. Ergo hoc praeceptum debuit prae­ mitti primo, in quo prohibetur superstitio. 2. Praeterea, nomen Dei ad multa assumitur, sicut ad laudandum, ad miracula faciendum, et universaliter ad omnia quae dicuntur vel fiunt a nobis, secundum illud Col. 3 [ 1 7] , omne quodcumque facitis in verbo vel opere, in nomine Domini facite. Ergo praeceptum quo prohibetur nomen Dei assumi in vanum, videtur universalius esse quam praeceptum quo prohibetur superstitio. Et ita debuit ei praemitti.

Sembra di no. Infatti: l . Il precetto: Non pronuncerai invano il nome del Signore (Es 20,7) è così spiegato dalla Glossa: «Non credere che il Figlio di Dio sia una creatura>>; quindi con esso si proi­ bisce un errore contro la fede. E la formula di Dt (5, 1 1 ) è spiegata in quest'altro senso: «Non pronuncerai invano il nome del tuo Dio, attribuendolo cioè al legno e alla pietra>>, con il che si vuole proibire una falsa professione di fede, che è un atto di incredulità, come anche un errore. Perciò l'incredulità è prima della superstizione, come anche la fede è prima della religione. Quindi questo precetto doveva precedere il primo, che proibisce la superstizione. 2. II nome di Dio può essere pronunciato per tanti scopi: per lodarlo, per fare miracoli, e in generale per tutto ciò che noi facciamo, secondo le parole di Col 3 [ 17]: Tutto quello che fate in parole e in opere, tutto si compia nel nome del Signore. Quindi il precetto che proibisce di pronunciare i l nome di Dio inva­ no è più universale di quello che proibisce la superstizione. E così doveva precederlo.

Q. 122, A. 3

I precetti relativi alla giustizia

3. Praeterea, Ex. 20 [7] exponitur [int. ] illud praeceptum, non assumes nomen Dei tui in vanum, iurando scilicet pro nihilo. Unde vi­ detur per hoc prohiberi vana iuratio, quae scilicet est sine iudicio. Sed multo gravior est falsa iuratio, quae est sine veritate; et iniusta iuratio, quae est sine iustitia. Ergo magis de­ buerunt illa prohiberi per hoc praeceptum. 4. Praeterea, multo gravius peccatum est blasphemia, vel quidquid tiat verbo vel facto i n contumeliam Dei, quam periurium. Ergo blasphemia et alia huiusmodi magis debue­ runt per hoc praeceptum prohiberi. 5. Praeterea, multa sunt Dei nomina. Ergo non debuit indeterminate dici, non assumes

nomen Dei tui in vanum.

Sed in contrarium est Scripturae auctoritas [Ex. 20,7; Deut. 5, 1 1 ] . Respondeo dicendum quod oportet prius impedimenta verae religionis excludere in eo qui instituitur ad virtutem, quam eum in vera religione fundare. Opponitur autem verae religioni aliquid dupliciter. Uno modo, per excessum, quando scilicet id quod est religio­ nis alteri indebite exhibetur, quod pertinet ad superstitionem. Alio modo, quasi per defec­ tum reverentiae, cum scilicet Deus contemni­ tur, quod pertinet ad vitium irreligiositatis, ut supra [q. 97 introd.] habitum est. Superstitio autem impedit religionem quantum ad hoc, ne suscipiatur Deus ad colendum. Ille autem cuius animus implicatus est indebito cultui, non potest simul debitum Dei cultum susci­ pere, secundum illud Isaiae 28 [20], angusta­ rum est stratwn, ut alter decidat, scilicet Deus verus vel falsus a corde hominis, et pallium breve utrumque operire non potest. Per irreli­ giositatem autem impeditur religio quantum ad hoc, ne Deus, postquam susceptus est, honoretur. Prius autem est Deum suscipere ad colendum quam eum susceptum honorare. Et ideo praemittitur praeceptum quo prohibetur superstitio secundo praecepto, quo prohibetur periurium, ad irreligiositatem pertinens. Ad primum ergo dicendum quod illae exposi­ tiones sunt mysticae. Litteralis autem exposi­ tio est quae habetur Deut. 5 [int.], non assu­

mes nomen Dei tui in vanwn, scilicet iurando pro re quae non est. Ad secundum dicendum quod non prohibetur quaelibet assumptio divini nominis per hoc praeceptum, sed proprie illa qua sumitur

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3. La Glossa ci dà questa spiegazione del pre­ cetto: «Non pronuncerai il nome del tuo Dio invano»: «cioè per nulla». Per cui sembra che con esso si proibisca il giuramento inutile, os­ sia fatto senza giudizio. Ma è molto più grave il giuramento falso, a cui manca la verità, e quello ingiusto, a cui manca la giustizia. Dun­ que erano questi i giuramenti che il secondo precetto doveva proibire in modo speciale. 4. La bestemmia, come pure tutti gli altri pec­ cati che si commettono oltraggiando Dio con le parole o con i fatti, sono più gravi dello spergiuro. Quindi il secondo precetto avrebbe dovuto proibire piuttosto la bestemmia e gli altri peccati del genere. 5. I nomi di Dio sono molti. Perciò non biso­ gnava dire indeterminatamente: Non pronun­

cerai il nome del tuo Dio invano.

In contrario: è sufficiente l ' autorità della Scrittura. Risposta: nel formare una persona alla virtù, prima di gettare in essa i fondamenti della vera religione bisogna rimuovere gli ostacoli contrari. Ora, un atto può essere contrario alla religione in due modi . Primo, per eccesso: quando cioè si prestano atti di culto abusivi ad altre divinità; e questo è proprio della super­ stizione. Secondo, per difetto, cioè per man­ canza di rispetto: il che avviene quando si disprezza Dio; e ciò costituisce il vizio dell'ir­ religiosità, come si è già visto. Ora, la super­ stizione è di ostacolo alla religione impeden­ do di accettare il culto di Dio. Chi infatti è dedito a un culto illecito non può accettare simultaneamente il culto dovuto a Dio; come si accenna in fs 28 [20] : Troppo piccolo è il letto, uno cadrà, cioè il Dio vero o il falso dal cuore dell'uomo, e la coperta troppo corta non può coprire entrambi. L' irreligiosità inve­ ce è di ostacolo alla religione giacché impedi­ sce di onorare Dio dopo di averlo accettato. Ma l 'accettazione di Dio con il culto che egli merita viene prima del rispetto verso di lui. E così il precetto che proibisce la superstizione precede quello che proibisce lo spergiuro, il quale appartiene all'irreligiosità. Soluzione delle difficoltà: l . Le interpretazio­ ni ripot1ate sono mistiche. L' interpretazione letterale invece suona così: «Non pronuncerai il nome del tuo Dio invano: cioè giurando per cose da nulla>>. 2. Questo precetto non proibisce qualsiasi uso

I precetti relativi alla giustizia

1 1 33

divinum nomen ad confirmationem humani verbi per modum iuramenti, quia ista assumptio divini nominis est frequentior apud homines. Potest tamen ex consequenti intelligi ut per hoc prohibeatur ornnis inordinata divini nominis as­ sumptio. Et secundum hoc procedunt illae ex­ positiones de quibus supra [arg. l ] dictum est. Ad tertium dicendum quod pm nihilo iurare di­ citur ille qui iurat pro eo quod non est, quod pertinet ad taJ.sam iurationem, quae principaliter periurium norninatur, ut supra [q. 98 a. l ad 3] dictum est. Quando enim aliquis falsum iurat, tunc iuratio est vana secundum seipsam, quia non habet firmamentum veritatis. Quando autem aliquis iurat sine iudicio ex aliqua !evita­ te, si vemm iurat, non est ibi vanitas ex parte ipsius imamenti, sed solum ex parte imantis. Ad quartum dicendum quod sicut ei qui in­ stmitur in aliqua scientia primo proponuntur quaedam communia documenta, ita etiam lex, quae instituit horninem ad virtutem, in prae­ ceptis Decalogi, quae sunt prima, ea propo­ suit, vel prohibendo vel mandando, quae com­ munius in cursu humanae vitae solent accide­ re. Et ideo inter praecepta Decalogi prohibetur periurium, quod frequentius accidit quam blasphemia, in quam homo rarius prolabitur. Ad quintum dicendum quod nominibus Dei debetur reverentia ex parte rei significatae, quae est una, non autem ratione vocum signifi­ cantium, quae sunt multae. Et ideo singulariter dixit, non asswnes nomen Dei tui in vanum, quia non differt per quodcumque nomen Dei periurium comrnittatur.

Q. 122, A. 3

del nome di Dio, ma propriamente quello che è fatto nel giuramento per confermare una parola umana: poiché questo uso è quello più frequente fra gli uomini. Tuttavia si può con­ seguentemente intendere che da esso siano proibiti tutti gli usi sconvenienti del nome di Dio. E così si spiegano anche le interpretazio­ ni mistiche di cui abbiamo parlato. 3. Si può dire che «giura per nulla» chi giura per delle cose che non esistono, cioè con dei taJ.si giuramenti, i quali sono detti per eccel­ lenza spergiuri, come sopra si è notato. Quan­ do infatti si giura il falso, il giuramento è vano per se stesso, non avendo la verità come base. Quando invece si giura senza giudizio, ossia per leggerezza, se si giura il vero il giuramen­ to non è vano per se stesso, ma solo dalla par­ te di chi lo pronunzia. 4. Come quando si istmisce una persona in una data scienza prima si danno dei princìpi generali, così anche la legge, nel formare l 'uomo alla virtù, con i suoi primi precetti, che sono quelli del decalogo, ha proibito o comandato le cose che capitano più di fre­ quente nel corso della vita umana. E così tra i precetti del decalogo c'è la proibizione dello spergiuro, che capita più spesso della bestem­ mia, nella quale si cade più di rado. 5. Al nome di Dio si deve rispetto per la realtà che esprime, che è unica, e non già per i voca­ boli, che possono essere molteplici. Per questo è usato il singolare: Non pmnuncerai invano il nome del tuo Dio� infatti lo spergiuro è identico qualunque sia il nome di Dio che è pronunciato.

Articulus 4

Articolo 4

Utrum convenienter tertium praeceptum decalogi tradatur

È ben formulato il terzo precetto

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod inconvenienter tertium praeceptum Decalogi tradatur, scilicet de sanctificatione sabbati. l . Hoc enim praeceptum, spiritualiter intellec­ tum, est generale, dicit enim Ambrosius [cf. Bedam, In Luc. 4, super 1 3, 1 4], super illud Luc. 1 3 [ 1 4], archisynagogus indignans quia sabbato curasset, !ex, inquit, in sabbato non hominem curare, sed servilia opera facere, idest peccatis gravari, prohibet. Secundum autem litteralem sensum, est praeceptum cae­ remoniale, dicitur enim Ex. 3 1 [ 1 3], videte ut sabbatum meum custodiatis, quia signum est

Sembra di no. Infatti: l . Inteso spiritualmente, questo comandamen­ to è generale. Infatti Ambrogio, commentando quel passo di Le 1 3 [ 1 4] : Il capo della sinago­ ga, sdegnato perché l'aveva guarita di saba­ to .., afferma: >. 2. L'essenza della virtù riguarda più il bene che il difficile. Quindi la grandezza della virtù va misurata più in base alla bontà che in base alla difficoltà. 3. Uno non deve esporre la propria persona ai pericoli di morte se non per custodire la giu­ stizia. Quindi la lode della fortezza dipende in qualche modo dalla giustizia. Per cui Ambro­ gio afferma che «la fortezza senza la giustizia

In

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La fortezza

Q. 123, A. 1 2

Ambrosius, in l De off. [35], quodfortitudo si­ ne iustitia iniquitatis est materia, quo enim va­ lidior est, eo promptior ut inferiorem opprimat. Quartum concedimus. Ad quintum dicendum quod liberalitas utilis est in quibusdam particularibus beneficiis. Sed fortitudo habet utilitatem generalem ad conservandum totum iustitiae ordinem. Et ideo philosophus dicit, in l Rhet. [9,6], quod iusti et fortes maxime amantur, quia sunt maxime utiles et in bello et in pace.

è occasione di iniquità: più infatti essa è forte e più è pronta ad opprimere i deboli». 4. [S. c. l] Concediamo questo argomento. 5. [S. c. 2] La liberalità è utile per certi benefi­ ci particolari, ma la fortezza ha un' utilità generale, in quanto difende tutto l' ordine della giustizia. Per cui il Filosofo afferma che «i giusti e i fotti sono i più amati, poiché sono i più utili in pace e in guerra».

QUAESTIO 1 24

QUESTIONE 1 24

DE MARTYRIO

IL MARTIRIO

Deinde considerandum est de martyrio. Et circa hoc quaeruntur quinque. Primo, utrum martyrium sit actus virtutis. Secundo, cuius virtutis sit actus. Tertio, de perfectione huius actus. Quarto, de poena martyrii. Quinto, de causa.

Passiamo ora a parlare del martirio. Sull'argo­ mento tratteremo questi cinque temi: l . Il martirio è un atto di virtù? 2. A quale virtù appartiene? 3. La perfezione di questo atto; 4. La sofferenza costitutiva del martirio; 5. La sua causa.

Articulus l Utrum martyrium sit actus virtutis

Il martirio è un atto di virtù?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod martyrium non sit actus virtutis. l . Omnis enim actus virtutis est voluntarius. Sed martyrium quandoque non est volunta­ rium, ut patet de innocentibus pro Christo occisis, de quibus dicit Hilarius, Super Matth. [ l ], quod in aetemitatis profectum per martyrii gloriam �fferebantur. Ergo martyrium non est actus virtutis. 2. Praeterea, nullum illicitum est actus virtutis. Sed occidere seipsum est illicitum, ut supra [q. 64 a. 5] habitum est. Per quod tamen marty­ rium consummatur, dicit enim Augustinus, in l De civ. Dei [26], quod quaedam sanctae feminae, tempore persecutionis, ut insectatores suae pudicitiae devitarent, se in fluvium deiecerunt, eoque modo defunctae sunt; ea­ rumque martyria in Catholica Ecclesia vene­ ratione celeberrima frequentantur. Non ergo martyrium est actus virtutis. 3. Praeterea, laudabile est quod aliquis sponte se offerat ad exequendum actum virtutis. Sed non est laudabile quod aliquis martyrio se in­ gerat, sed magis videtur esse praesumptuo­ sum et periculosum. Non ergo martyrium est actus virtutis.

Sembra di no. Infatti: l . Ogni atto di virtù è volontario. Invece il martirio talora è privo di volontarietà: come nel caso dei Santi Innocenti uccisi per Ctisto, dei quali Ilario afferma che «furono trasporta­ ti nella gioia eterna dalla gloria del martirio». Quindi il martirio non è un atto di virtù. 2. Ciò che è illecito non è un atto di virtù. Ora, uccidere se stessi è illecito, come sopra si è visto. E tuttavia il martirio può essere compiuto in questo modo: infatti Agostino scrive che «alcune sante donne, in tempo di persecuzione, per sfuggire a chi insidiava la loro pudicizia si gettarono in un fiume, e così morirono; e il loro martirio è ricordato con grande devozione nella Chiesa Cattolica». Qujndi il martirio non è un atto virtuoso. 3. E lodevole che uno si offra spontaneamente per compiere un atto di virtù. Invece non è lo­ devole che uno si esponga al martirio, essen­ do ciò piuttosto un atto presuntuoso e perico­ loso. Quindi il martirio non è un atto di virtù. In contrario: Il premio dell'eterna beatitudine non è dovuto che agli atti di virtù. Ora, esso è dovuto al martirio, come è detto in Mt 5 [10] : Beati i perseguitati a causa della giustizia,

Articolo l

Q. 124, A. l

Il martirio

Sed contra est quod praemium beatitudinis non debetur nisi actui virtutis. Debetur autem martyrio, secundum illud Matth. 5 [ 1 0], beati

qui persecutionem patiuntur propter iusti­

tiam, quoniam ipsontm est regnum caelorum.

Ergo martyrium est actus virtutis. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [q. 1 23 a. 12], ad virtutem pettinet quod aliquis in bono rationis conservetur. Consistit autem bonum rationis in veritate, sicut in proprio obiecto; et in iustitia, sicut in proprio effectu, sicut ex supra [q. 1 09 aa. 1 -2;q. 1 23 a. 1 2] dictis patet. Pertinet autem ad rationem mar­ tyrii ut aliquis firmiter stet in veritate et iustitia contra persequentium impetus. Unde mani­ festum est quod martyrium est actus virtutis. Ad primum ergo dicendum quod quidam dixerunt quod in innocentibus acceleratus est miracolose usus liberi arbitrii, ita quod etiam volontarie martyrium passi sunt. Sed quia hoc per auctoritatem Scripturae non comprobatur, ideo melius dicendum est quod martyrii glo­ riam, quam in aliis propria voluntas meretur, illi parvuli occisi per Dei gratiam sunt asse­ cuti. Nam effusio sanguinis propter Christum vicem gerit baptismi. Unde sicut pueris bap­ tizatis per gratiam baptismalem meritum Christi operatur ad gloriam obtinendam, ita in occisis propter Christum meritum martyrii Christi operatur ad palmam martyrii conse­ quendam. Unde Augustinus dicit, in quodam sermone De Epiphania [Serm. ad pop. 374,3], quasi eos alloquens, ille de vestra corona

dubitabit in passione pro Christo, qui etiam parvulis Baptismum prodesse non aestimat Christi. Non habebatis aetatem qua in passu­ rum Christum crederetis, sed habebatis car­ nem in qua pro Christo passuro passionem sustineretis.

Ad secundum dicendum quod, sicut Au­ gustinus ibidem [De civ. Dei 1 ,26] dicit, esset possibile quod aliquibus fide dignis testifica­

tionibus divina persuasit auctoritas Ecclesiae ut dictantm sanctamm memoriam honoraret.

Ad tertium dicendum quod praecepta legis dantur de actibus virtutis. Dictum autem est sopra [1-11 q. 1 08 a. 4 ad 4] quaedam praecep­ ta legis divinae tradita esse secundum praepa­ rationem animi, ut scilicet homo sit paratus hoc vel illud faciendi cum fuerit opportunum. Ita etiam et aliqua pertinent ad actum virtutis secundum animi praeparationem, ut scilicet,

l l 62

perché di essi è il regno dei cieli. Quindi il

martirio è un atto di virtù. Risposta: come si è già detto, è compito della virtù far sì che uno si mantenga nel bene che è proprio della ragione. Ora, il bene della ragione consiste nella verità, che è il suo og­ getto proprio; e nella giustizia, che è il suo ef­ fetto specifico, come risulta evidente dalle cose già spiegate. Ora, il martirio consiste nel tàtto che uno persiste con fermezza nella ve­ rità e nella giustizia contro la violenza dei persecutori. E quindi evidente che il martirio è un atto di virtù. Soluzione delle difficoltà: l . Alcuni afferma­ no che nei Santi Innocenti sarebbe stato anti­ cipato miracolosamente l'uso del libero arbi­ trio, per cui essi avrebbero soffetto il martirio volontariamente. Ma non avendo ciò alcun fondamento nella Scrittura, è meglio dire che questi bambini trucidati conseguirono per la grazia di Dio quella gloria del mrutirio che gli altri meritano con la propria volontà. Infatti lo spargimento del sangue per Cristo sostituisce il battesimo. Come quindi i meriti di Cristo fanno conseguire la gloria agli altri bambini mediante la grazia battesimale, così nei bam­ bini uccisi essi producono il conseguimento della palma del martirio. Per cui Agostino rivolge loro queste parole: «A mettere in dub­ bio la vostra corona per le sofferenze da voi sopportate per Cristo sarà solo colui che ritie­ ne che anche agli altri bambini non giovi il battesimo. Voi non avevate l'età per credere nella futura passione di Cristo, ma avevate la carne per affrontare la passione per Cristo». 2. Agostino in quel testo aggiunge che non è impossibile che «l'autorità divina abbia spinto la Chiesa a onorare la memoria delle Sante suddette mediante segni inconfondibili». 3. I precetti della legge hanno per oggetto gli atti delle virtù. Abbiamo però notato sopra che ci sono alcuni precetti che impongono so­ lo delle predisposizioni d'animo, in modo che ognuno sia pronto a tàre questa cosa o quel­ l'altra quando ciò sia richiesto. E così ci sono pure degli atti che appartengono alla virtù come predisposizioni d'animo, nel senso cioè che uno sia pronto ad agire secondo la ragio­ ne quando sopraggiungesse una particolare circostanza. E ciò va notato specialmente per il martirio, che consiste nel soppottare secon­ do il dovere delle tribolazioni inflitte ingiusta-

Q. 124, A. l

IL martirio

1 1 63

superveniente tali casu, homo secundum ra­ tionem agat. Et hoc praecipue videtur obser­ vandum in martyrio, quod consistit in debita sustinentia passionum iniuste inflictarum, non autem debet homo occasionem dare alteri iniuste agendi, sed si alius iniuste egerit, ipse debet moderate tolerare.

mente: poiché nessuno deve dare occasione agli altri di agire contro la giustizia, ma, se gli altri agiscono ingiustamente, uno deve resi­ stere nella misura dovuta.

Articulus 2

Articolo 2

Utrum martyrium sit actus fortitudinis

Il martirio è un atto della fortezza?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod martyrium non sit actus fortitudinis. l . Dicitur enim martyr in graeco quasi testis. Testimonium autem redditur fidei Christi, se­ cundum illud Act. l [8], eritis mihi testes in Ierusalem, et cetera. Et Maximus dicit, i n quodam sennone [Maximus Taurinensis, Ser­ mones, serm. 88], mater martyrii fides catho­

Sembra di no. Infatti: l . n termine greco martire significa testimone. Ora, è alla fede cristiana che si rende testimo­ nianza, secondo le parole di At l [8]: Mi sare­ te testimoni in Gerusalemme ... E Massimo afferma: «Madre del martirio è la fede cat­ tolica, che atleti gloriosi hanno sigillato con il loro sangue». Quindi il martirio è più un atto di fede che di fortezza. 2. Un atto lodevole appartiene principalmente a quella virtù che inclina a compierlo, che in esso si rivela e che gli dà valore. Ora, al marti­ rio inclina principalmente la carità, per cui Massimo afferma: «La carità di Cristo vince nei suoi martiri». È poi soprattutto la carità che è rivelata dal martirio, come è detto in Gv 15 [ 13]: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Fi­ nalmente senza la carità anche il martirio non ha valore, come è detto in l Cor 1 3 [3]: Se

lica est, in qua illustres athletae suo sanguine subscripserunt. Ergo martyrium est potius actus fidei quam fortitudinis. 2. Praeterea, actus laudabilis ad illam virtutem praecipue pertinet quae ad ipsum inclinat, et quae ab ipso manifestatur, et sine qua ipse non valet. Sed ad martyrium praecipue inclinat caritas, unde in quodam sennone Maximi [Ser­ mones, serm. 1 6] dicitur, caritas Christi in mal1yribus suis vicit. Maxime etiam caritas per actum martyrii manifestatur, secundum illud Ioan. 15 [ 1 3], maiorem dilectionem nemo habet quam ut animam suam ponat quis pro amicis suis. Sine caritate etiam martyrium nihil valet, secundum illud l ad Cor. 13 [3], si tradidero corpus meum ita ut ardeam, caritatem autem non habuero, nihil mihi prodest. Ergo marty­ rium magis est actus caritatis quam fortitudinis. 3. Praeterea, Augustinus dicit, in quodam sermone de sancto Cypriano [Serm. ad pop. 3 1 1 , 1 ] , facile est martyrem celebrando vene­ rari, magnum vero fidem eius et patientiam imitari. Sed in unoquoque actu virtutis praeci­ pue laudabilis redditur virtus cuius est actus. Ergo martyrium magis est actus patientiae quam fortitudinis. Sed contra est quod Cyprianus dicit, in Epi­ stola ad martyres et confessores [ep. 8], o bea­ ti martyres, quibus vos /audibus praedicem ? O milites fortissimi, robur corporis vestri quo praeconio vocis explicem ? Quilibet autem laudatur de virtute cuius actum exercet. Ergo martyrium est actus fortitudinis.

dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, non sono nulla. Quindi il martirio è più un atto di captà che di fortezza. 3. Agostino ha scritto: «E facile onorare un martire celebrandone la festa; è cosa grande in­ vece imitarne la fede e la pazienza>>. Ma ogni atto di virtù rende lodevole specialmente la virtù a cui esso appartiene. Quindi il martirio appartiene più alla pazienza che alla fortezza. In contrario: Cipriano così scrive in una sua lettera ai martiri e ai confessori: «0 beati mar­ tiri, con quali parole devo lodarvi? O soldati valorosissimi, come posso esprimere la fortez­ za del vostro corpo?». Ora, una persona è loda­ ta per la virtù di cui ha compiuto qualche atto. Quindi il martirio è un atto della fortezza. Risposta: come si è già visto, la fortezza ha il compito di rendere l'uomo fermo nella virtù contro i pericoli, specialmente contro i peri­ coli di morte, e in particolare contro quelli che capitano in guerra. Ora, è evidente che

Q. 124, A. 2

Il martirio

Respondeo dicendum quod, sicut ex supra [q. 1 23] dictis patet, ad fortitudinem pertinet ut confirmet hominem in bono virtutis contra pe­ ricula, et praecipue contra pericula mortis, et maxime eius quae est in bello. Manifestum est autem quod in martyrio homo firmiter confir­ matur in bono virtutis, dum fidem et iustitiam non deserit propter imminentia pericula mor­ tis, quae etiam in quodam certamine particu­ lari a persecutoribus imminent. Unde Cypria­ nus dicit, i n quodam sermone [ep 8 Ad mar­ tyres et confessores], vidit admirans praesen­

tium multitudo caeleste certamen, et in praelio stetisse servos Christi voce libera, mente incorrupta, virtute divina. Unde manifestum

est quod martyrium est fortitudinis actus. Et propter hoc de martyribus legit Ecclesia,fortes facti sunt in bello [Hebr. I l ,34]. Ad primum ergo dicendum quod in actu forti­ tudinis duo sunt consideranda. Quorum unum est bonum in quo fortis tirmatur, et hoc est fortitudinis finis. Aliud est ipsa firmitas, qua quis non cedit contrariis prohibentibus ab ilio bono, et in hoc consistit essentia fortitudinis. Sicut autem fortitudo civilis firmat animum hominis in iustitia humana, propter cuius con­ servationem mortis peticula sustinet; ita etiam fortitudo gratuita finnat animum hominis in bono iustitiae Dei, quae est per fidem lesu Christi, ut dicitur Rom. 3 [22]. Et sic marty­ rium comparatur ad fidem sicut ad finem in quo aliquis tirmatur, ad fortitudinem autem sicut ad habitum elicientem. Ad secundum dicendum quod ad actum mar­ tyrii inclinat quidem caritas sicut primum et principale motivum, per modum virtutis impe­ rantis, fortitudo autem sicut motivum pro­ prium, per modum virtutis elicientis. Et inde etiam est quod martyrium est actus caritatis ut imperantis, fortitudinis autem ut elicientis. Et inde est quod utramque virtutem manifestat. Quod autem sit meritorium, habet ex caritate, sicut et quilibet virtutis actus. Et ideo sine caritate non valet. Ad tertium dicendum quod, sicut dictum est [q. 123 a. 6], principalior actus fortitudinis est sustinere, ad quem pertinet martyrium; non autem ad secundarium actum eius, qui est aggredi. Et quia patientia deservit fortitudini ex parte actus principalis qui est sustinere, inde est etiam quod concomitanter in mar­ tyribus patientia commendatur.

1 1 64

nel martirio l'uomo è reso stabile nella virtù, mentre non abbandona la fede e la giustizia per gli imminenti pericoli di morte che lo minacciano specialmente da parte dei perse­ cutori, in un certo quale combattimento priva­ to. Da cui le parole di Cipriano: «La moltitu­ dine piena d' ammirazione ha visto questo combattimento celeste; essa ha visto i soldati di Cristo rimanere immobili per virtù divin� con libertà di parola e mente incorrotta». E quindi evidente che il martirio è un atto della fortezza, per cui la Chiesa applica ai martiri quelle parole [Eb 1 1 ,34]: Divennero forti in

guerra.

Soluzione delle difficoltà: l . Nell'atto della fortezza si possono considerare due cose. Pri­ mo, il bene in cui l'uomo coraggioso è raffor­ zato: e questo è il fine della fortezza. Secondo, la fermezza stessa per cui egli non cede a co­ loro che vogliono impedire il bene suddetto: e ciò costituisce l' essenza della fortezza. Ora, come la fortezza naturale consolida l'animo dell'uomo nella giustizia umana, per la cui difesa essa resiste ai pericoli di morte, così anche la fortezza soprannaturale consolida l'animo dell'uomo nella giustizia di Dio che

si realizza per mezzo della fede in Gesù Cri­ sto, come è detto in Rm 3 [22]. Quindi il mar­ tirio ha nella fede il fine nel quale uno è raf­ forzato o consolidato, e nella fortezza l'abito da cui promana. 2. All' atto del martirio la carità inclina come primo e principale movente, cioè come virtù imperante, la fortezza invece come movente proprio, cioè come virtù eseguente. Per cui il martirio appartiene alla carità quanto al co­ mando, ma quanto all' esecuzione appartiene alla fortezza. E così manifesta l' una e l'altra virtù. È però la carità che lo rende meritorio, come accade per qualsiasi atto virtuoso. Per cui non ha valore senza la carità. 3. Come si è già notato, l'atto principale della fortezza è il sopportare, al quale si riconduce il martirio, che non riguarda invece l'atto se­ condario di questa virtù, che è l'aggredire. E poiché la pazienza aiuta la fortezza nell'atto principale, che è il sopportare, di riflesso nei martiri si elogia anche la pazienza.

IL martirio

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Q. 124, A. 3

Articulus 3

Articolo 3

Utrum martyrium sit actus maximae perfectionis

Il martirio è l'atto umano più perfetto?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod mar­ tyrium non sit actus maximae pelfectionis. l . Illud enim ad pelfectionem vitae videtur pertinere quod cadit sub consilio, non sub praecepto, quia scilicet non est de necessitate salutis. Sed martyrium videtur esse de necessi­ tate salutis, dicit enim apostolus, Rom. IO [ I O],

Sembra di no. Infatti: l . Alla pelfezione spetta ciò che è di consi­ glio, non ciò che è di precetto, poiché la per­ fezione non è necessaria per salvarsi. Invece il martirio è indispensabile per salvarsi. Infatti Paolo dice: Con il cuore si crede per ottenere

corde creditur ad iustitiam, ore autem fit con­ fessio ad salutem; et l Ioan. 3 [ 1 6] dicitur quod nos debemus pro fratribus animam ponere. Ergo martyrium non pertinet ad pelfectionem. 2. Praeterea, ad maiorem pelfectionem perti­ nere videtur quod aliquis det Deo animam, quod fit per obedientiam, quam quod det Deo proprium corpus, quod fit per martyrium, unde Gregorius dicit, ult. Mor. [35, 14], quod obe­ dientia cunctis victimis praefeJtur. Ergo mar­ tyrium non est actus maximae pelfectionis. 3. Praeterea, melius esse videtur aliis prodes­ se quam seipsum in bono conservare, quia

bonum gentis melius est quam bonum unius hominis, secundum philosophum, in l Ethic. [2,8]. Sed ille qui martyrium sustinet, sibi soli prodest, ille autem qui docet, proficit multis. Ergo actus docendi et gubemandi subditos est perfectior quam actus martyrii. Sed contra est quod Augustinus, in libro De sancta Virginit. [45], praefert martyrium vir­ ginitati, quae ad pelfectionem pertinet. Ergo videtur martyrium maxime ad perfectionem pertinere. Respondeo dicendum quod de aliquo actu virtutis dupliciter loqui possumus. Uno modo, secundum speciem ipsius actus, prout compa­ ratur ad virtutem proxime elicientem ipsum. Et sic non potest esse quod martyrium, quod consistit in debita tolerantia martis, sit pelfec­ tissimus inter virtutis actus. Quia tolerare mortem non est laudabile secundum se, sed salurn secundum quod ordinanrr ad aliquod bonum quod consistit in actu virtutis, puta ad fidem et dilectionem Dei. Unde ille actus virtutis, cum sit finis, melior est. - Alio modo potest considerari actus virtutis secundum quod comparatur ad primum motivum, quod est amor caritatis. Et ex hac parte praecipue aliquis actus habet quod ad perfectionem vitae pertineat, quia, ut apostolus dicit, Col. 3

la giustizia, e con la bocca sifa la professione di fede per avere la salvezza (Rm IO, IO); e in l Gv 3 [ 1 6] è detto che noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. Quindi il martirio non dice rapporto alla perfezione. 2. E più pelfetto dare a Dio l'anima mediante l'obbedienza che il proprio corpo mediante il mrutirio: infatti Gregorio insegna che «l' ob­ bedienza è preferita a tutte le vittime». Quindi il martirio non è l'atto più pelfetto. 3. È meglio giovare agli altri che conservare se stessi nel bene: poiché, secondo il Filosofo, «il bene del popolo è superiore al bene di un solo individuo». Ora, chi subisce il martirio giova solo a se stesso, mentre chi insegna è utile a molti. Perciò l'insegnare e il governare i sudditi sono atti più pelfetti del martitio. In contrario: Agostino preferisce espressa­ mente il martirio alla verginità, che è tra le pratiche della pelfezione. Quindi il martirio appartiene alla pelfezione in grado sommo. Risposta: un atto di virtù possiamo conside­ rarlo sotto due aspetti. Primo, secondo la spe­ cie propria di tale atto, cioè in rapporto alla virtù che lo compie. E da questo lato è impos­ sibile che il martirio, che consiste nel subire virtuosamente la morte, sia il più pelfetto tra gli atti di virtù. Poiché l'affrontare la morte non è un atto lodevole per se stesso, ma solo in quanto è ordinato a un bene consistente in un atto virtuoso, p. es. alla fede, o all'amore di Dio. Per cui tale atto virtuoso, essendo il fine, è superiore. - Secondo, un atto virtuoso può essere considerato come connesso con il suo primo movente, che è l'amore di carità. Ed è soprattutto da questo lato che un atto contribuisce alla perfezione della vita umana, poiché la carità è il vincolo della peifezione (Co/ 3,14). Ora, il martirio dimostra la perfe­ zione della carità meglio di tutti gli altri atti virtuosi. Poiché uno mostra di amare tanto più una persona quanto più è amata la cosa a

Q. 124, A. 3

Il martirio

[14], caritas est vinculum peifectionis. Marty­ rium autem, inter ornnes actus virtuosos, ma­ xime demonstrat perfectionem caritatis. Quia tanto magis ostenditur aliquis aliquam rem amare, quanto pro ea rem magis amatam con­ temnit, et rem magis odiosam eligit pati. Ma­ nifestum est autem quod inter omnia alia bona praesentis vitae, maxime amat homo ipsam vitam, et e contrario maxime odit ipsam mor­ tem, et praecipue cum doloribus corporalium tormentorum, quorum metu etiam bruta ani­ malia a maximis voluptatibus absterrentur, ut Augustinus dicit, in libro Octoginta trium Q. [36]. Et secundum hoc patet quod martyrium inter ceteros actus humanos est perfectior secundum suum genus, quasi maximae cari­ tatis signum, secundum illud Ioan. 1 5 [ 1 3] ,

maiorem caritatem nemo habet quam ut ani­ mam suam ponat quis pro amicis suis.

Ad primum ergo dicendum quod nullus est actus perfectionis sub consilio cadens qui in aliquo eventu non cadat sub praecepto, quasi de necessitate salutis existens, sicut Augu­ stinus dicit, in libro De adulterinis coniugiis [2, 1 9], quod aliquis incidit in necessitatem continentiae servandae propter absentiam vel infirmitatem uxoris. Et ideo non est contra perfectionem martyrii si in aliquo casu sit de necessitate salutis. Est enim aliquis casus in quo martyrium perferre non est de necessitate salutis, puta cum ex zelo fidei et caritate fra­ tema multoties leguntur sancti martyres spon­ te se obtulisse martyrio. llia autem praecepta sunt intelligenda secundum praeparationem animi. Ad secundum dicendum quod martyrium complectitur id quod summum in obedientia esse potest, ut scilicet aliquis sit obediens usque ad mortem, sicut de Christo legitur, Phil. 2 [8], quodfactus est obediens usque ad mortem. Unde patet quod martyrium secun­ dum se est perfectius quam obedientia abso­ lute dicta. Ad tertium dicendum quod ratio illa procedit de martyrio secundum propriam speciem actus, ex qua non habet excellentiam inter ornnes actus virtutum, sicut nec fortitudo est excellentior inter ornnes virtutes.

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cui rinunzia e odiosa quella che affronta per essa. Ora, è chiaro che fra tutti i beni della vita presente l' uomo ama soprattutto la vita stessa, e al contrario odia soprattutto la morte: specialmente se è accompagnata dai tormenti del corpo, per timore dei quali, secondo Ago­ stino, gli stessi animali bruti si astengono dai piaceri più intensi. E da questo lato è evidente che fra gli atti umani il martirio è il più perfet­ to nel suo genere, quale segno della più ar­ dente carità, secondo le parole di Gv 1 5 [ 13]:

Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici.

Soluzione delle difficoltà: l . Non c'è atto per­ fetto di consiglio che in qualche caso non diventi di precetto, e quindi necessario alla salvezza. E Agostino lo nota a proposito della continenza, che uno sposo deve osservare per la lontananza o la malattia della mogli e . Quindi non pregiudica l a perfezione del mar­ tirio il tàtto che in certi casi esso sia indispen­ sabile per la salvezza eterna. Ci sono infatti dei casi in cui non c'è questo obbligo stretto: si legge p. es. di molti santi martiri che si offersero al martirio spontaneamente, mossi dallo zelo per la fede o dalla carità fraterna. I precetti ricordati sono poi da intendersi come predisposizioni d' animo. 2. Il martirio abbraccia l'obbedienza nel suo grado più alto, cioè l ' obbedienza fino alla morte, come si legge di Cristo, cht( si fece obbediente fino alla morte (Fil 2,8). E quindi chiaro che per natura sua il martirio è più per­ fetto dell' obbedienza comune. 3. L'argomento si fonda sul martirio conside­ rato secondo la specie propria dell' atto, in base alla quale esso non eccelle sopra tutti gli atti di virtù: come neppure la fortezza è la prima fra le virtù.

Q. 124, A. 4

IL martirio

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Articulus 4

Articolo 4

Utrum mors sit de ratione martyrii

La morte è essenziale al martirio?

Ad quartum sic procedi tur. Videtur quod mors non sit de ratione martyrii. l . Dicit enim Hieronymus, in sermone De assumptione [ep. 9 Ad Paulam et Eustoch.],

Sembra di no. Infatti: l . Girolamo afferma: «Si può dire con verità che la Vergine Madre di Dio è stata martire, sebbene abbia finito in pace la vita». E Gre­ gorio a sua volta dice: «Sebbene manchi la persecuzione, anche la pace ha il suo martirio: poiché, pur non sottomettendo al ferro le no­ stre teste, possiamo tuttavia trucidare con la spada dello spirito i desideri carnali della no­ stra mente». Quindi ci può essere il martirio senza subire la morte. 2. A lode di alcune donne si legge che rinun­ ziarono alla vita per conservare la loro vergi­ nità: sembra quindi che l'integrità corporale della castità sia da preferirsi alla vita corpora­ le. Ma talora la stessa verginità è tolta, o al­ meno minacciata, per la confessione della fe­ de cristiana, come risulta dagli atti di Agnese e di Lucia. Per cui sembra che, quando una donna per la fede di Cristo perde l'integrità della carne, si debba parlare di martirio più che se perdesse la vita. Per cui Lucia disse al suo giudice: «Se tu mi farai violare contro la mia volontà, la mia castità avrà una doppia corona». 3. Il martirio è un atto di fortezza. Ora, la for­ tezza ha il compito di sfidare non solo la mor­ te, ma anche le altre avversità, come dice Agostino. E le altre avversità che si possono affrontare per Cristo sono molte: come il car­ cere, l'esilio e la confisca dei beni, come ri­ sulta da Eb l O [34]. Per cui si celebra anche il martirio di papa Marcello, che pure morì in carcere. Quindi per il martirio non si richiede che uno affronti la morte. 4. Il martirio, come si è detto, è un atto meri­ torio. Ma un atto non può essere meritorio dopo la morte. Quindi lo è prima. Quindi la morte non è essenziale al martirio. In contrario: Massimo, parlando di un marti­ re, afferma che «vince morendo per la fede colui che sarebbe vinto vivendo senza fede». Risposta: abbiamo già notato che «martire» suona «testimone della fede cristiana»: la quale ci insegna a disprezzare le cose visibili per quelle invisibili, come è detto in Eb 1 0 [34]. Appartiene dunque al martirio che uno testimoni la fede mostrando con le opere di disprezzare tutti i beni presenti per giungere

recte dixerim quod Dei Genitrix Virgo et martyr fuit, quamvis in pace vitam finierit. Et Gregorius dicit [In Ev. h. 1 ,3], quamvis occa­ sio persecutionis desii, habet tamen pax suum martyrium, quia etsi carnis colla ferro non subiicimus, spirituali tamen gladio cm·nalia desideria in mente trucidamus. Ergo absque passione mortis potest esse martyrium. 2. Praeterea, pro integritate camis servanda aliquae mulieres leguntur laudabiliter vitam suam contempsisse, et ita videtur quod cor­ poralis integritas castitatis praeferatur vitae corporali. Sed quandoque ipsa integritas car­ nis aufertur, vel auferri intentatur, pro confes­ sione fidei Christianae, ut patet de Agnete et Lucia. Ergo videtur quod martyrium magis debeat dici si aliqua mulier pro fide Christi integritatem carnis perdat, quam si etiam vitam perderet corporalem. Unde et Lucia dixit, si me invitam feceris violari, castitas

mihi duplicabitur ad coronam. 3. Praeterea, martyrium est fortitudinis actus. Ad fortitudinem autem pertinet non solum mortem non formidare, sed nec alias adversi­ tates, ut Augustinus dicit, in 6 Musicae [ 1 5]. Sed multae sunt aliae adversitates praeter mortem, quas aliqui possunt sustinere pro fide Christi, sicut carcerem, exilium, rapinam bo­ norum, ut patet ad Hebr. 10,34. Unde et sancti Marcelli Papae martyrium celebratur, qui tamen fuit in carcere mortuus. Ergo non est de necessitate martyrii quod aliquis sustineat poenam mmtis. 4. Praeterea, martyrium est actus meritorius, ut dictum est [a. 2 ad 2� a. 3]. Sed actus meritorius non potest esse post mortem. Ergo ante mor­ tem. Et ita mors non est de ratione martyrii. Sed contra est quod Maximus dicit, in quo­ dam sermone [Maximus Taurinenses, Ser­ mones. 1 6], de martyre, quod vincit pro fide

moriendo qui vinceretur sine fide vivendo. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 2, arg. 1], martyr dicitur quasi testis fidei Christianae, per quam nobis visibilia pro invi­ sibilibus contemnenda proponuntur, ut dicitur

Q. 124, A. 4

Il martirio

Hebr. 1 1 . Ad martyrium ergo pertinet ut homo testificetur fidem, se opere ostendens cuncta praesentia contemnere, ut ad futura et ad invi­ sibilia bona perveniat. Quandiu autem homini remanet vita corporalis, nondum opere se o­ stendit temporalia cuncta despicere, consueve­ runt enim homines et consanguineos et omnia bona possessa contemnere, et etiam dolores corporis patì, ut vitam conservent. Unde et Satan contra Iob induxit [lob. 2,4], pellem pro

pelle, et cuncta quae habet homo, dabit pro anima sua, idest pro vita corporali. Et ideo ad

perfectam rationem martyrii requiritur quod aliquis mortem sustineat propter Christum. Ad primum ergo dicendum quod illae auctori­ tates, et si quae similes inveniuntur, loquuntur de martydo per quandam similitudinem. Ad secundum dicendum quod in muliere quae integritatem camis perdit, vel ad perden­ dum eam darnnatur, occasione fidei Christia­ nae, non est apud homines manifestum utrum hoc mulier patiatur propter amorem fidei Christianae, vel magis pro contemptu castita­ tis. Et ideo apud homines non redditur per hoc testimonium sufficiens. Unde hoc non proprie habet rationem martyrii. Sed apud Deum, qui corda scrutatur, potest hoc ad praemium deputari, sicut Lucia dixit. Ad tertiu m dicendum quod, sicut s upra [q. 123 a. 4] dictum est, fortitudo plincipaliter consistit circa pedcula mortis, circa alia autem consequenter. Et ideo nec martyrium proprie dicitur pro sola tolerantia carceris vel exilii vel rapinae divitiarum, nisi forte secundum quod ex his sequitur mors. Ad quartum dicendum quod meritum martyrii non est post mortem, sed in ipsa voluntaria sustinentia mortis, prout scilicet aliquis volun­ tarie patitur inflictionem mortis. Contingit tamen quandoque quod aliquis post mortalia vulnera suscepta pro Christo, vel quascumque alias tribulationes continuatas usque ad mor­ tem, quas a persecutoribus patitur pro fide Christi, diu aliquis vivat. In quo statu actus martyrii meritorius est, et etiam ipso eodem tempore quo huiusmodi afflictiones patitur. Articulus 5

Utrum sola fides sit causa martyrii Ad quintum sic proceditur. Videtur quod sola fides sit causa martyrii.

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ai beni futuri e invisibili. Ora, finché a un uo­ mo rimane la vita corporale, egli non mostra ancora con le opere di disprezzare tutti i beni temporali : infatti gli uomini sono disposti a rinunziare ai parenti e a tutti i beni che possie­ dono, e a soffrire n1tti i dolod fisici, pur di conservare la vita. Così infatti Satana disse a proposito di Giobbe [Gb 2,4]: Pelle per pelle!

Tutto quanto ha, l 'uomo è pronto a darlo per la sua vita, cioè per la vita corporale. Quindi

la perfetta nozione di martirio esige che uno per Cristo affronti la morte. Soluzione delle difficoltà: l . I testi riportati e altri consimili parlano del martirio in senso metaforico. 2. Quando una donna perde la sua integrità, o è condannata a perderla per la fede cristiana, non è evidente presso gli uomini se essa subi­ sca tale affronto per amore della sua fede o non piuttosto per disistima della castità. Per cui il fatto non si presenta come sufficiente testimonianza di martirio. Tuttavia presso Dio, «il quale scruta i cuori», ciò può essere oggetto di premio, come disse appunto Lucia. 3. Come si è notato sopra, la fortezza ha di mira principalmente i pericoli di morte, e solo secondariamente gli altri pericoli. Perciò anche il martirio non si limita alla sopporta­ zione delle pene del carcere, dell'esilio o della confisca dei beni, a meno che esse non provo­ chino la morte. 4. D merito del martirio non si produce dopo la morte, ma nella volontaria accettazione della morte violenta. Tuttavia può capitare che uno sopravviva a lungo alle ferite mortali ricevute per Cristo, oppure ad altre tribolazio­ ni spinte dai persecutori della fede cristiana fino alla morte. Ora, in questo caso l'atto del martirio ottiene il suo merito: e anche nel momento stesso in cui furono affrontate tali afflizioni.

Articolo 5

Soltanto la fede è la causa del martirio? Sembra di sì. Infatti: l . In l Pt 4 [ 1 5] è detto:

Nessuno di voi abbia

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IL martirio

l . Dicirur enim l Petr. 4 [15-16], nemo veslnlm patiatur quasi homicida aut fur, aut ali quid huiusmodi, si autem ut Christianus, non eru­ bescat, glorificet autem Deum in isto nomine. Sed ex hoc dicitur aliquis Christianus quod tenet fidem Christi. Ergo sola fides Christi dat patientibus martyrii gloriam. 2. Praeterea, martyr dicitur quasi testis. Testi­ monium autem non redditur nisi veritati. Non autem aliquis dicitur martyr ex testimonio cuiuslibet veritatis, sed solum ex testimonio ve­ ritatis divinae. Alioquin, si quis morererur pro confessione veritatis geometJ.iae, vel alterius scientiae speculativae, esset martyr, quod vide­ rur ridiculum. Ergo sola fides est martyrii causa 3. Praeterea, inter alia virtutum opera illa vi­ denrur esse potiora quae ordinanrur ad bonum commune, quia bonum gentis melius est quam bonum unius hominis, secundum philoso­ phum, in l Ethic. [2,8]. Si ergo aliquod aliud bonum esset causa martyrii, maxime videretur quod illi martyres essent qui pro defensione reipublicae moriunrur. Quod Ecclesiae obser­ vatio non habet, non enim rnilitum qui in bello iusto moriuntur martyria celebrantur. Ergo sola fides videtur esse martyrii causa. Sed contra est quod dicitur Matth. 5 [ l 0], beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam, quod pertinet ad martyrium, ut Glossa [ord.] ibidem dicit. Ad iustitiam autem pertinet non solum fides, sed etiam aliae virtutes. Ergo etiam aliae virtutes possunt esse martyrii causa. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [arg. 2; a. 4], martyres dicunrur quasi testes, quia scilicet corporalibus suis passionibus usque ad mortem testimonium perhibent veri­ tati, non cuicumque, sed veritati quae se­ cundum pietatem est, quae per Christum nobis innotuit; unde et martyres Christi dicuntur, quasi testes ipsius. Huiusmodi autem est veritas fidei. Et ideo cuiuslibet martyrii causa est fidei veritas. Sed ad fidei veritatem non solum pertinet ipsa credulitas cordis, sed etiam exterior protestatio. Quae quidem tit non solum per verba quibus aliquis confitetur fidem, sed etiam per facta quibus aliquis fidem se habere ostendit, secundum illud Iac. 2 [ 1 8], ego ostendam tibi ex operibus fidem meam. Unde et de quibusdam dicitur Tit. l [ 1 6], con­ fitentur se nosse Deum factis autem negant. Et ideo omnium virtutum opera, secundum quod referuntur in Deum, sunt quaedam protesta-

Q. 124, A. 5

a soffrire come omicida, o ladro... ; ma se uno soffre come cristiano non ne arrossisca; glo­ rifichi anzi Dio per questo nome. Ora, uno è denominato cristiano per il fatto che ha la fede in Cristo. Quindi [solo] la fede in Cristo può dare la gloria del martirio. 2. Martire significa testinwne. Ma la testimo­ nianza si rende solo alla verità. Ora, non si può dire che uno è martire per la testimonian­ za di una verità qualsiasi, ma solo della verità divina. Altlimenti, se uno morisse per confes­ sare una verità di geometria, o di un'altra scienza speculativa, sarebbe un martire: il che è ridicolo. Perciò solo la fede può causare il martirio. 3 . Tra le azioni virtuose le principali sono quelle ordinate al bene comune: poiché, se­ condo il Filosofo, «il bene del popolo è supe­ riore al bene di un individuo». Se quindi un altro bene potesse causare il martirio, dovreb­ bero essere martiri soprattutto coloro che muoiono per difendere la patria. Ma la prassi della Chiesa non Io ammette: infatti non si usa celebrare il martirio dei soldati che muoiono in una guerra giusta. Quindi sembra che sol­ tanto la fede sia la causa del martirio. In contrario: in Mt 5 [ l O] si legge: Beati i per­ seguitati a causa della giustizia; e si tratta del martirio, come spiega la Glossa. Ora, la giusti­ zia comprende non soltanto la fede, ma anche le altre virtù. Quindi anche queste possono essere causa di martirio. Risposta: secondo quanto si è detto, i martiri sono come dei testimoni: poiché con le loro sofferenze fisiche fino alla morte rendono te­ stimonianza alla verità; non però a una verità qualsiasi, bensì alla verità rivelata da Cristo la quale porta alla pietà [Tt l , l ] : essi infatti sono martiri di Cristo, ossia suoi testimoni. Ma tale verità è la verità della fede. Quindi la causa del martirio è la verità della fede. Ora, la verità della fede non implica soltanto l'atto interno del credere, ma anche la professione esterna. E questa non avviene solo con le parole, ma anche attraverso i fatti con cui uno mostra di avere la fede, come è detto in Gc 2 [1 8]: Con /e opere ti mostrerò la mia.fede. Per cui di alcuni in Tt l [ 1 6] è detto: Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti. E così tutte le azioni virtuose, in quanto si riferiscono a Dio, sono altt·ettante protestazio­ ni di fede: di quella fede per cui veniamo a

Il martirio

Q. 124, A. 5

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tiones fidei, per quam nobis innotescit quod Deus huiusmodi opera a nobis requirit, et nos pro eis remunerat. Et secundum hoc possunt esse martyrii causa. Unde et beati Ioannis Baptistae martyrium in Ecclesia celebratur, qui non pro neganda fide, sed pro reprehensione adulterii mmtem sustinuit. Ad primum ergo dicendum quod Christianus dicitur qui Christi est. Dicitur autem aliquis esse Christi non solum ex eo quod habet fidem Christi, sed etiam ex eo quod spiritu Christi ad opera virtuosa procedit, secundum illud Rom. 8 [9], si quis Spiritum Christi non habet, hic non est eius; et etiam ex hoc quod, ad imi­ tationem Christi, peccatis moritur, secundum illud Gal. 5 [24], qui Christi sunt, camem suam crucifixerunt, cum vitiis et concupiscentiis. Et ideo ut Christianus patitur non solum qui patitur pro fidei confessione quae fit per verba, sed etiam quicumque patitur pro quocumque bono opere faciendo, vel pro quocumque peccato vitando, propter Christum, quia totum hoc pertinet ad fidei protestationem. Ad secundum dicendum quod veritas aliarum scientiarum non pertinet ad cultum divinitatis. Et ideo non dicitur esse secundum pietatem. Unde nec eius confessio potest esse directe martyrii causa. Sed quia omne mendacium peccatum est, ut supra [q. 1 10 a. 3] habitum est, vitatio mendacii, contra quamcumque veritatem sit, inquantum mendacium est peccatum divi­ nae legi contrarium, potest esse martyrii causa. Ad tertium dicendum quod bonum reipublicae est praecipuum inter bona humana. Sed bo­ num divinum, quod est propria causa martyrii, est potius quam humanum. Quia tamen bo­ num humanum potest effici divinum, ut si referatur in Deum; potest esse quodcumque bonum humanum martyrii causa secundum quod in Deum refertur.

sapere che Dio vuole da noi quelle opere buone, e che ci ricompenserà per esse. E in questo senso tali opere possono essere causa di martirio. Così la Chiesa celebra il martirio di Giovanni Battista, il quale subì la morte non per non rinnegare la fede, ma per aver condannato l'adulterio [Mt 14,3]. Soluzione delle difficoltà: l . Essere cristiano significa essere di Cristo. Ora, uno è di Cristo non solo per il fatto che ha la fede in Cristo, ma anche perché con lo Spirito di Cristo com­ pie opere virtuose, come è detto in Rm 8 [9] :

1 25 DE TIMORE

QUESTJONE 1 25 LA VILTA O PAURA

Deinde considerandum est de vitiis oppositis fortitudini. Et primo, de timore; secundo, de inti­ miditate [q. 126]; tertio, de audacia [q. 127]. Circa primum quaeruntur quatuor. Primo, utrum timor sit peccatum. Secundo, utrum opponatur fortitudini. Tertio, utrum sit peccatum mortale. Quarto, utrum excuset vel diminuat peccatum.

Veniamo ora a trattare dei vizi contrari alla for­ tezza. Primo, della viltà o paura; secondo, della spavalderia; terzo, dell' audacia. - Sul primo argomento si pongonq quattro quesiti : l . La paura è un peccato? 2. E l'opposto della fortez­ za? 3. È un peccato mortale? 4. Scusa o sminui­ sce il peccato?

QUAESTIO

-

Se uno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene; e anche perché, a imitazione di Cristo, muore ai peccati, secondo le parole di

Gal 5 [24]: Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e le sue concupiscenze. Perciò soffre come cri­ stiano non solo chi soffre per aver confessato la fede con le parole, ma anche chiunque incontra la morte a motivo di Cristo per aver compiuto un'opera buona qualsiasi, o per evi­ tare un peccato: poiché tutto ciò si riduce a una professione di fede. 2. La verità delle altre scienze non appartiene al culto della divinità. Quindi non si può dire che «porta alla pietà». Per cui neppure il con­ fessarla può essere una causa diretta di marti­ rio. Siccome però qualsiasi menzogna è un peccato, come sopra si è visto, l ' evitare la menzogna contro qualsiasi verità proprio in quanto la menzogna è un peccato contro la legge di Dio, può essere causa di martirio. 3. n bene della patria è il più grande fra i beni umani. Ma il bene divino, che è la causa pro­ pria del martirio, è superiore al bene umano. Siccome però il bene umano può mutarsi in bene divino, se è riferito a Dio, così qualsiasi bene umano in quanto riferito a Dio può esse­ re causa di martirio.

1 171

L a viltà o paura

Q. 125, A. l

Articulus l Utrurn timor sit peccaturn

Articolo l La viltà o paura è un peccato?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod timor non sit peccatum. l . Timor enim est passio quaedam, ut supra [I-Il q. 23 a. 4; q. 4 1 a. l ] habitum est. Sed

Sembra di no. Infatti: l . Il timore, o paura, è una passione, come sopra si è visto. Ma «per le passioni non meri­ tiamo né lode né biasimo», scrive Aristotele. Siccome invece ogni peccato è biasimevole, sembra che il timore non sia un peccato. 2. Nulla di ciò che è comandato dalla legge divina può essere un peccato: poiché la legge del Signore è senza macchia (Sal 1 8,8). Ora, nella legge di Dio è comandato il timore; infatti è detto: Servi, ubbidite ai vostri padro­

passionibus nec laudamur nec vituperamur,

ut dicitur in 2 Ethic. [5,3]. Cum igitur omne peccatum sit vituperabile, videtur quod timor non sit peccatum. 2. Praeterea, nihil quod in lege divina mandatur est peccatum, quia !ex Domini est immaculata, ut dicitur in Psalmo [ 1 8,8]. Sed timor man­ datur in lege Dei, dicitur enim ad Eph. 6 [5],

servi, obedite dominis camalibus, cum timore et tremore. Timor ergo non est peccatum. 3. Praeterea, nihil quod naturaliter inest homi­ ni est peccatum, quia peccatum est contra naturam, ut Damascenus dicit, 2 libro [De fide 4.30] . Sed timere est homini naturale, unde philosophus dicit, in 3 Ethic. [7,7], quod

erit aliquis insanus, ve/ sine sensu doloris, si nihil timeat, neque terraemotum neque inun­ dationes. Ergo timor non est peccatum. Sed contra est quod Dominus dicit, Matth. l O [28], nolite timere eos qui occidunt corpus. Et Ez. 2 [6] dicitur, ne timeas eos, neque sermo­

nes eorum metuas. Respondeo dicendum quod aliquid dicitur esse peccatum i n actibus humanis propter inordinationem, nam bonum humani actus in ordine quodam existit, ut ex supra [q. 1 09 a. 2; q. 1 1 4 a. l ] dictis patet. Est autem hic debitus ordo, ut appetitus regimini rationis subdatur. Ratio autem dictat aliqua esse fugienda, et aliqua esse prosequenda; et inter fugienda, quaedam dictat magis esse fugienda quam alia; et similiter inter prosequenda, quaedam dictat esse magis prosequenda quam alia; et quantum est bonum prosequendum, tantum est aliquod oppositum malum fugiendum. lnde est quod ratio dictat quaedam bona ma­ gis esse prosequenda quam quaedam mala fu­ gienda. Quando ergo appetitus fugit ea quae ratio dictat esse sustinenda ne desistat ab aliis quae magis prosequi debet, timor inordinatus est, et habet rationem peccati. Quando vero appetitus timendo refugit id quod est se­ cundum rationem fugiendum, tunc appetitus non est inordinatus, nec peccatum. Ad primum ergo dicendum quod timor com-

ni secondo la carne con timore e tremore (Ef 6,5). Quindi il timore non è un peccato. 3. Nulla di ciò che è nell'uomo per natura può essere un peccato: poiché, secondo il Dama­ sceno, il peccato è «contro natura». Ma il ti­ more è naturale per l 'uomo: infatti il Filosofo scrive che «uno sarebbe anormale se non avesse il senso del dolore, e non temesse nul­ la, neppure il terremoto o le i nondazioni». Quindi la paura non è un peccato. In contrario: il Signore dice: Non temete coloro che uccidono il corpo (Mt 1 0,28). E in Ez 2 [6] è detto: Non li temere e non aver paura delle

loro pamle.

Risposta: un atto umano è peccaminoso a motivo del disordine: infatti la bontà del no­ stro agire consiste in un certo ordine, come sopra si è spiegato. Ora, l' ordine richiesto è che l' appetito sia soggetto al dominio della ragione. Ma la ragione certe cose detta di fug­ girle e altre impone di cercarle; e tra quelle da fuggire ci dice che alcune vanno fuggite più di altre; e che tra quelle da seguire alcune vanno perseguite più di altre; e che quanto più un bene va perseguito, tanto più va evitato il male opposto. Quindi la ragione detta di pre­ ferire la ricerca di certi beni alla fuga di certi mali. Quando perciò la volontà fugge un male che la ragione detta di sopportare per non abbandonare un bene che deve essere perse­ guito, allora si ha un timore disordinato, che è peccaminoso. Quando invece la volontà per paura abbandona ciò che secondo la ragione deve essere fuggito, allora l' atto non è disor­ dinato, e non è un peccato. Soluzione delle difficoltà: l . Nella sua acce­ zione più comune «timore» non dice altro che «fuga»: quindi non implica né il bene né il

La viltà o paura

Q. 125, A. l

muniter dictus secundum suam rationem im­ portat universaliter fugam, unde quantum ad hoc non importat rationem boni vel mali. Et similiter est de qualibet alia passione. Et ideo philosophus dicit [Ethic. 2,5,3] quod pas­ siones non sunt laudabiles neque vituperabi­ les, quia scilicet non laudantur neque vitupe­ rantur qui irascuntur vel timent, sed qui circa hoc aut ordinate aut inordinate se habent. Ad secundum dicendum quod timor ille ad quem inducit apostolus, est conveniens ratio­ ni, ut scilicet servus timeat ne deficiat ab ob­ sequiis quae domino debet impendere. Ad tertium dicendum quod mala quibus ho­ mo resistere non potest, et ex quorum susti­ nentia nihil boni provenit homini, ratio dictat esse fugienda. Et ideo timor talium non est peccatum. Articulus 2

l l 72

male. E lo stesso si dica di ogni altra passio­ ne. Per questo il Filosofo afferma che le pas­ sioni non sono né lodevoli, né biasimevoli: poiché quanti si adirano o temono non sono lodati o biasimati per questo, ma perché lo fanno o in maniera ordinata, o in maniera disordinata. 2. Il timore che Paolo raccomanda è confor­ me alla ragione: egli cioè esorta i servi a temere la mancanza di rispetto e di devozione ai propri padroni. 3. La retta ragione comanda di fuggire quei mali a cui l'uomo non può resistere, e la cui sopportazione non arreca alcun vantaggio. Perciò il temerli non è un peccato.

Articolo 2

Utrum peccatum timoris opponatur fortitudini

n peccato di timore, o di viltà,

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod peccatum timoris non opponatur fortitudini. l . Fortitudo enim est circa pericula martis, ut supra habitum est. Sed peccatum timoris non semper pertinet ad pericula martis. Quia super illud Psalmi [ 1 27, 1 ] , beati omnes qui timent Dominum, dicit Glossa [ord. et Lomb.] quod

Sembra di no. Infatti: l . Come si è detto, la fortezza ha per oggetto i pericoli di morte. Invece il peccato di timore non sempre riguarda i pericoli di morte. Infatti la Glossa, spiegando il Sal 127 [1]: Beati tutti colom che temono il Signore, afferma che «il timore umano è quello per cui si teme di sof­ frire nel corpo, o di perdere i beni del mondo». E a commento di Mt 26 [44] : Pregò per la terza volta dicendo le stesse pmvle ... , afferma che ci sono tre timori cattivi, cioè «il timore della morte, il timore dell'abiezione e il timore del dolore». Quindi il peccato di timore, o viltà, non si contrappone alla fortezza. 2. La cosa più apprezzata nella fortezza è il fatto che uno si espone alla morte. Ma alcuni si espongono alla morte per paura della schia­ vitù o dell'infamia: come Agostino narra di Catone, il quale si diede la morte per non fini­ re sotto il dominio di Cesare. Quindi il pecca­ to di viltà non è contrario alla fortezza, ma ha con essa piuttosto una certa somiglianza. 3. La disperazione nasce sempre da un qualche timore. Ma la disperazione non è in contrasto con la fortezza, bensì con la speranza, come sopra si è visto. Quindi neppure il peccato di timore, o viltà, si contrappone alla fortezza. In contrario: il Filosofo considera la viltà con­ traria alla fortezza.

humanus timor est quo timemus pari pericula camis, ve/ perdere mundi bona. Et super illud Matth. 26 [44], oravit tertio eundem sermo­ nem etc., dicit Glossa [ord.; Q. Evang. 1 ,47

super Matth. 26,44] quod triplex est malus timor, scilicet timor mortis, timor vilitatis, et timor doloris. Non ergo peccatum timoris opponitur fortitudini. 2. Praeterea, praecipuum quod commendatur in fortitudine est quod exponit se periculis martis. Sed quandoque aliquis ex timore ser­ vitutis vel ignominiae exponit se morti, sicut Augustinus, in l De civ. Dei [24], narrat de Catone, qui, ut non incurreret Caesaris servitu­ tem, morti se tradidit. Ergo peccatum timoris non opponitur fortitudini, sed magis habet similitudinem cum ipsa. 3. Praeterea, omnis desperatio ex aliquo timore procedit. Sed desperatio non opponitur forti­ tudini, sed magis spei, ut supra [q. 20 a. l ; 1-ll q. 40 a. 4] habitum est. Ergo neque timoris peccatum opponitur fortitudini.

si contrappone alla fortezza?

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La viltà o paura

Sed contra est quod philosophus, in 2 [7 ,2] et 3 [7, l 0. 1 2] Ethic., timiditatem ponit fortitu­ dini oppositam. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 19 a. 3; 1-11 q. 43 a. l] habitum est, omnis timor ex amore procedit, nullus enim timet nisi contrarium eius quod amat. Amor autem non determinatur ad aliquod genus virtutis vel vitii, sed amor ordinatus includitur in qualibet vir­ tute, quilibet enim virtuosus amat proprium bonum virtutis; amor autem inordinatus inclu­ ditur in quolibet peccato, ex amore enim inor­ dinato procedit inordinata cupiditas. Unde si­ militer inordinatus timor includitur in quolibet peccato, sicut avarus timet arnissionem pecu­ niae, intemperatus amissionem voluptatis, et sic de aliis. Sed timor praecipuus est periculo­ rum mortis, ut probatur in 3 Ethic. [6,6]. et ideo talis timoris inordinatio opponitur fortitu­ dini, quae est circa pericula mortis. Et propter hoc antonomastice dicitur timiditas fortitudini opponi. Ad primum ergo dicendum quod auctoritates illae loquuntur de timore inordinato commu­ niter sumpto, qui diversis virtutibus opponi potest. Ad secundum dicendum quod actus humani praecipue diiudicantur ex fine, ut ex supra [1-11 q. l a. 3; q. 1 8 a. 6] dictis patet. Ad fortem autem pertinet ut se exponat periculis mortis propter bonum, sed ille qui se periculis mortis exponit ut fugiat servitutem vel aliquid laborio­ sum, a timore vincitur, quod est fortitudini contrarium. Unde philosophus dicit, in 3 Ethic. [7, 1 3], quod morifugientem inopiam vel cupi­ dinem vel aliquid triste, non estfortis, sed ma­ gis timidi, mollities enim estfugere laboriosa. Ad tertium dicendum quod, sicut supra [1-11 q. 45 a. 2] dictum est, sicut spes est princi­ pium audaciae, ita timor est principium de­ sperationis. Unde sicut ad fortem, qui utitur audacia moderate, praeexigitur spes, ita e converso desperatio ex aliquo timore procedit. Non autem oportet quod quaelibet desperatio procedat ex quolibet timore, sed ex eo qui est sui generis. Desperatio autem quae opponitur spei, ad aliud genus refertur, scilicet ad res divinas, quam timor qui opponitur fortitudini, qui pertinet ad pericula mortis. Unde ratio non sequitur.

Q. 125, A. 2

Risposta: come notammo sopra, ogni timore nasce dall'amore: infatti non si teme se non il contrario di ciò che si ama. Ora, l'amore non si restringe a un determinato genere di virtù o di vizi, ma l'amore ordinato è implicito in ogni virtù, poiché una persona virtuosa ama il bene delle proprie virtù; e l'amore disordinato è implicito in ogni peccato, poiché è dali' amo­ re disordinato che derivano le cupidigie disor­ dinate. Per cui similmente in qualsiasi peccato è implicito un timore disordinato: l ' avaro infatti teme la perdita delle ricchezze, il sen­ suale teme la perdita del piacere, e così via. Ma il timore più grave è quello dei pericoli di morte, come dice Aristotele. Perciò il disordi­ ne di tale timore si contrappone alla fortezza, che ha per oggetto appunto i pericoli di morte. Per questo si dice, per antonomasia, che il timore, o viltà, si contrappone alla fortezza. Soluzione delle difficoltà: l . Quei testi parla­ no del timore disordinato comunemente det­ to, il quale può essere in contrasto con diverse virtù. 2. Come si è notato sopra, gli atti umani vanno giudicati dal fine. Ora, è proprio del forte, o coraggioso, esporsi ai pericoli di mor­ te per il bene; chi invece si espone alla morte per evitare la schiavitù, o altre cose dolorose, si lascia vincere dal timore, che è il contrario della fortezza. Per cui il Filosofo afferma che «morire per fuggire la miseria, per delusione amorosa o per evitare altre cose tristi non è proprio dei coraggiosi, bensì dei vili: infatti è una debolezza fuggire il dolore». 3. Notammo già sopra che come la speranza causa l'audacia, così il timore causa la dispe­ razione. Come dunque nel coraggioso, il quale con moderazione fa uso dell'audacia, è pre­ supposta la speranza, così al contrario nella disperazione è presupposto un timore. Non è necessario però che qualsiasi disperazione derivi da qualsiasi timore, ma dal timore corri­ spettivo. Ora, la disperazione che è l'opposto della virtù della speranza corrisponde alle realtà divine, cioè a un genere di cose diverso da quello del timore contrapposto alla for­ tezza, avente per oggetto i pericoli di morte. Perciò l'argomento non regge.

l l 74

La viltà o paura

Q. 125, A. 3

Articulus 3

Articolo 3

Utrum timor sit peccatum mortale

La viltà è un peccato mortale?

Ad tertium sic proceditur. Vìdetur quod timor non sit peccatum mortale. l . Tnnor enirn, ut supra [I-Il q. 23 aa. 1 .4] dic­ tum est, est in irascibili, quae est pars sensuali­ tatis. Sed in sensualitate est tantum peccatum veniale, ut supra [l-II q. 74 a. 3 ad 3; a. 4] habi­ tum est. Ergo timor non est peccatum mortale. 2. Praeterea, omne peccatum mortale totaliter cor avertit a Deo. Hoc autem non facit timor, quia super illud Iudic. 7 [3], qui fmmidolosus est etc., dicit Glossa [ord.; Origenes, In Iudic., h. 9] quod timidus est qui primo aspectu con­

Sembra di no. Infatti: l . Come sopra si disse, la paura risiede nell' i­ rascibile, che è una potenza dell'appetito sen­ sitivo, o sensualità. Ma nella sensualità, come si è dimostrato, ci può essere solo il peccato veniale. Quindi la paura non è un peccato mortale. 2. Tutti i peccati mortali distolgono totalmen­ te il cuore da Dio. Ma la paura non arriva a questo: infatti a commento di Gdc 7 [3] : Chiunque ha paura... , la Glossa afferma che «è pauroso colui che a prima vista paventa l'attacco, però non è atterrito nell'animo, e può essere confortato e rianimato». Quindi la viltà non è un peccato mortale. 3. Il peccato mortale distoglie non solo dalla perfezione, ma anche dall'osservanza dei pre­ cetti. Invece la paura non distoglie dai precet­ ti, bensì solo dalla perfezione: infatti nel com­ mentare Dt 20 [8]: Se c 'è qualcuno che ha paura... , la Glossa afferma che «nessuno che ancora teme di spogliarsi dei beni terreni può conseguire la perfezione della vita contempla­ tiva, o della milizia spirituale». Quindi la paura, o viltà, non è un peccato mortale. In contrario: solo al peccato mortale è dovuta la pena dell'inferno. Eppure questa è dovuta ai vili, come è detto in Ap 2 1 [8]: Per i vili e

gressum trepidat, non tamen corde terretur, sed reparari et animari potest. Ergo timor non est peccatum mortale. 3 . Praeterea, peccatum mortale non solum retrahit a perfectione, sed etiam a praecepto. Sed timor non retrahit a praecepto, sed solum a perfectione, quia super illud Deut. 20 [8],

quis est homo fonnidolosus et corde pavido,

etc., dicit Glossa [ord.; QVT In Deut. 5 super 20,8], docet non posse quemquam peifectio­

nem contemplationis ve/ militiae spiritualis accipere qui adhuc nudari terrenis opibus per­ timescit. Ergo timor non est peccatum mortale. Sed contra, pro solo peccato mortali debetur poena Inferni. Quae tamen debetur tirnidis, secundum illud Apoc. 21 [8], timidis et incre­

dulis et execratis, etc., pars erit in stagno ignis et sulphuris, quod est mors secunda. Er­ go tirniditas est peccatum mortale. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1], timor peccatum est secundum quod est inordinatus, prout scilicet refugit quod non est secundum rationem refugiendum. Haec autem inordinatio timoris quandoque quidem con­ sistit in solo appetito sensitivo, non superve­ niente consenso rationalis appetitus, et sic non potest esse peccatum mortale, sed so1um ve­ niale. Quandoque vero huiusmodi inordinatio timoris pertingit usque ad appetitum rationa­ lem, qui dicitur voluntas, quae ex libero arbi­ trio refugit aliquid non secundum rationem. Et talis inordinatio timoris quandoque est pecca­ tum mortale, quandoque veniale. Si enim quis propter timorem quo refugit periculum mortis, vel quodcumque aliud temporale malum, sic dispositus est ut faciat aliquid prohibitum, vel praeterrnittat aliquid quod est praeceptum in

gli increduli, gli abietti... è 17servato lo stagno ardente difuoco e di zolfo. E questa la secon­ da mmte. Perciò la viltà è un peccato mortale.

Risposta: come si è già detto, la paura è un peccato in quanto è disordinata: cioè per il fatto che uno abbandona ciò che secondo la ragione non deve essere abbandonato. Ora, questo disordine della paura talora si limita al­ l' appetito sensitivo, senza il successivo con­ senso della volontà: e allora non può essere un peccato mortale, ma solo veniale. Talora inve­ ce tale disordine scuote anche l 'appetito razio­ nale, o volontà, la quale abbandona deliberata­ mente qualcosa in modo non conforme alla ragione. E tale disordine è un peccato a volte mortale, a volte veniale. Se uno infatti per la paura che gli fa fuggire un pericolo di morte, o qualsiasi altro danno temporale, è disposto a compiere cose proibite, o tralascia quanto è comandato dalla legge di Dio, la sua paura è un peccato mortale. Altrimenti è veniale.

La viltà o paura

1 1 75

Q. 125, A. 3

lege divina, talis timor est peccatum mortale. Alioquin erit peccatum veniale. Ad primum ergo dicendum quod ratio illa procedit de timore secundum quod sistit infra sensualitatem. Ad secundum dicendum quod etiam glossa illa potest intelligi de timore in sensualitate existen­ te. Vel potest melius dici quod ille toto corde terretur cuius animum timor vincit irreparabili­ ter. Potest autem contingere quod, etiam si timor sit peccatum mort.:'lle, non tamen aliquis ita obstinate terretur quin persuasionibus revo­ cari possit, sicut quandoque aliquis mortaliter peccans concupiscentiae consentiendo, revoca­ tur, ne opere impleat quod proposuit facere. Ad tertium dicendum quod glossa illa loqui­ tur de timore revocante hominem a bono quod non est de necessitate praecepti, sed de perfectione consilii. Talis autem timor non est peccatum mortale, sed quandoque veniale; quandoque etiam non est peccatum, puta cum aliquis habet rationabilem causam timoris.

Soluzione delle difficoltà: l . L'argomento vale per la paura che si limita alla sola sensualità. 2. Anche questa Glossa può essere intesa della paura che si limita alla sensualità. Però è meglio rispondere che è atterrito totalmente solo chi si lascia dominare dalla paura i n maniera irreparabile. Può invece capitare che, anche quando il timore è un peccato mortale, uno non sia atterrito così gravemente da non poter esser corretto con degli ammonimenti: come capita anche talvolta che uno, dopo aver peccato mortalmente acconsentendo alla con­ cupiscenza, si lasci poi distogliere dali' attuare ciò che si era proposto di compiere. 3. Quei testi parlano della paura che distoglie dal bene che non è di precetto, ma di consi­ glio. Ora, questa paura non è un peccato mor­ tale, ma talvolta è veniale, anzi, talora non è neppure un peccato: p. es. quando c ' è un motivo ragionevole per temere.

Articulus 4 Utrum timor excuset a peccato

Articolo 4 La paura scusa dal peccato?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod timor non excuset a peccato. l . Timor enim est peccatum, ut dictum est [aa. 1 .3]. Sed peccatum non excusat a pecca­ to, sed magis aggravat ipsum. Ergo timor non excusat a peccato. 2. Praeterea, si aliquis timor excusat a peccato, maxime excusaret timor mortis, qui dicitur ca­ dere in constantem virum [Dig. 4,2,6]. Sed hic timor non videtur excusare, quia cum mors ex necessitate immineat ornnibus, non videtur esse timenda. Ergo timor non excusat a peccato. 3. Praeterea, timor omnis aut est mali tempo­ ralis, aut spiritualis. Sed timor mali spiritualis non potest excusare peccatum, quia non inducit ad peccandum, sed magis retrahit a peccato. Timor etiam mali temporalis non excusat a peccato, quia sicut philosophus dicit, in 3 Ethic. [6,4], inopiam non op011et timere,

Sembra di no. Infatti: l . Come si è visto, la paura è un peccato. Ora, un peccato non scusa da un altro peccato, ma piuttosto lo aggrava. Quindi la paura non scu­ sa dal peccato. 2. Se un timore deve scusare dal peccato, lo deve fare soprattutto il timore della morte, il quale scuote anche un uomo coraggioso. E invece questo timore non sembra scusare: poiché la morte, incombendo necessariamen­ te su tutti, non va temuta. Quindi il timore non scusa dal peccato. 3. La paura ha per oggetto un male o tempo­ rale o spirituale. Ma la paura di un male spiri­ tuale non induce al peccato, bensì ritrae da esso. La paura poi di un male temporale non scusa dal peccato: poiché, come dice il Filo­ sofo, «non si deve temere né la povertà né qualunque altra cosa che non deriva dalla pro­ pria malizia». Quindi sembra che la paura in nessun caso scusi dal peccato. In contrdrio: nel Decreto si legge: «Chi, contro il suo volere e costretto dalla violenza, è stato or­ dinato dagli eretici, ha una parvenza di scusa>>. Risposta: come si è già detto, il timore in tan­ to ha natura di peccato i n quanto è contro

neque aegritudinem, neque quaecumque non a propria malitia procedunt. Ergo videtur quod timor nullo modo excusat a peccato. Sed contra est quod in Decretis, q. l [Decre­ tum, p. 2, causa l, q. l, can. 3], dicitur, vim

passus et invitus ab haereticis ordinatus colo­ rem habet excusationis.

Q. 125, A. 4

La viltà o paura

Respondeo dicendum quod, sicut supra [aa. 1 .3] dictum est, timor intantum habet rationem peccati inquantum est contra ordinem rationis. Ratio autem iudicat quaedam mala esse magis aliis fugienda. Et ideo quicumque, ut fugiat mala quae sunt secundum rationem magis fugienda, non refugit mala quae sunt minus fugienda, non est peccatum. Sicut magis est fugienda mors corporalis quam amissio rerum, unde si quis, propter timorem mortis, latroni­ bus aliquid prornineret aut daret, excusaretur a peccato quod incurreret si sine causa legitima, praetermissis bonis, quibus esset magis dan­ dum, peccatoribus largiretur. - Si autem aliquis per timorem fugiens mala quae secundum rationem sunt minus fugienda, incurrat mala quae secundum rationem sunt magis fugienda, non posset totaliter a peccato excusari, quia timor talis inordinatus esset. Sunt autem magis timenda mala animae quam mala corporis; et mala corporis quam mala exteriorum rerum. Et ideo si quis incurrat mala animae, idest pec­ cata, fugiens mala corporis, puta flagella vel mortem, aut mala exteriorum rerum, puta damnum pecuniae; aut si sustineat mala corpo­ ris ut vitet damnum pecuniae; non excusatur totaliter a peccato. Diminuitur tamen aliquid eius peccatum, quia minus voluntarium est quod ex timore agitur; imponitur enim homini quaedam necessitas aliquid faciendi propter imminentem timorem. Un de philosophus [Ethic. 3, l ,4.6] huiusmodi quae ex timore fiunt, dicit esse non simpliciter voluntaria, sed rnixta ex voluntario et involuntario. Ad primum ergo dicendum quod timor non excusat ex ea parte qua est peccatum, sed ex ea parte qua est involuntarium. Ad secundum dicendum quod, licet mors omnibus immineat ex necessitate, tamen ipsa diminutio temporis vitae est quoddam ma­ lum, et per consequens timendum. Ad tertium dicendum quod secundum Stoicos, qui ponebant bona temporalia non esse homi­ nis bona, sequitur ex consequenti quod mala temporalia non sint hominis mala, et per con­ sequens nullo modo timenda. Sed secundum Augustinum, in libro De lib. arb. [2,1 9], huius­ modi temporalia sunt minima bona. Quod etiam Peripatetici senserunt. Et ideo contraria eorum sunt quidem timenda, non tamen mul­ tum, ut pro eis recedatur ab eo quod est bo­ num secundum virtutem.

1 1 76

l'ordine della ragione. Ora, la ragione giudica che alcuni mali vanno fuggiti più di altri. Se quindi uno, per sfuggire un male che secondo la ragione merita di essere fuggito maggior­ mente, non si sottrae a mali meno gravi, non commette peccato. Così la morte corporale deve essere fuggita più che la perdita delle ricchezze: per cui se uno, per timore della morte, promettesse o consegnasse del danaro a dei briganti, sarebbe scusato dal peccato, nel quale invece incorrerebbe elargendolo a dei peccatori anziché a dei giusti senza una causa legittima. - Se uno invece, per fuggire vil­ mente dei mali che secondo la ragione sono meno gravi, incorre in mali più intollerabili, non può essere scusato totalmente dal pecca­ to: poiché la sua paura è disordinata. Ora, so­ no più da temere i mali dell'anima che quelli del corpo; e i mali del corpo più della perdita dei beni esterni. Se quindi uno incorresse nei mali dell'anima, cioè nei peccati, per fuggire dei mali corporali, p. es. i flagelli o la morte, oppure la perdita dei beni esterni, p. es. del danaro; ovvero se preferisse il danno del cor­ po per evitare la perdita del danaro, non sa­ rebbe scusato totalmente dal peccato. Tuttavia la sua colpa è minore: infatti ciò che è com­ piuto per paura è meno volontario; e l'uomo è sottomesso a una certa necessità quando agi­ sce per paura. Per questo il Filosofo afferma che quanto si è compiuto per timore non è del tutto volontario, ma è un misto di volontario e di involontario. Soluzione delle difficoltà: l . La paura scusa non in quanto è un peccato, ma in quanto è involontaria. 2. Sebbene la morte incomba su tutti per necessità, tuttavia l' accorciamento della vita è un male, e quindi è oggetto di timore. 3. Secondo gli Stoici, i quali ritenevano che i beni temporali non fossero dei beni umani, si doveva concludere che i mali temporali non erano dei mali per l'uomo, e quindi in nessun modo erano da temersi. Invece per Agostino i beni temporali sono dei beni di poco valore. E così pensavano anche i Peripatetici. Perciò i mali contrari a tali beni vanno temuti; non molto però, cioè mai fino al punto di abban­ donare per essi il bene della virtù.

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L 'insensibilità al timore

QUAESTIO 1 26

Q. 1 26, A. l

QUESTIO�E 1 26

DE VITIO INTIMIDITATIS

L'INSENSIBILITA AL TIMORE

Deinde considerandum est de vitio intimidita­ tis. Et circa hoc quaeruntur duo. Ptimo, utrum intimidum esse sit peccatum. Secundo, utrum opponatur fortitudini.

Passiamo ora a parlare del vizio dell'insensibi­ lità al timore. Sull'argomento si pongono due quesiti: l . Essere insensibili al timore è un peccato? 2. Ciò si contrappone alla fortezza?

Articulus l Utrum intimiditas sit peccatum

Articolo l L'insensibilità al timore è un peccato?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod inti­ miditas non sit peccatum. l . Quod enim ponitur pro commendatione viri iusti, non est peccatum. Sed in commen­ dationem viri iusti dicitur, Prov. 28 [1], iustus, quasi leo confidens, absque terrore erit. Ergo esse impavidum non est peccatum. 2. Praeterea, maxime terribilis est mors, se­ cundum philosophum, in 3 Ethic. [6,6]. Sed nec mortem oportet timere, secundum illud Matth. 10 [28], nolite timere eos qui occidunt co1pus, nec etiam aliquid quod ab homine possit inferri, secundum illud lsaiae 5 1 [ 1 2], quis tu, ut timeas ab homine mortali? Ergo impavidum esse non est peccatum. 3. Praeterea, timor ex amore nascitur, ut supra [q. 1 25 a. 2] dictum est. Sed nihil mundanum amare pertinet ad perfectionem virtutis, quia, ut Augustinus dicit, in 14 De civ. Dei [28], amor Dei usque ad contemptum sui, facit cives civitatis caelestis. Ergo nihil humanum formidare videtur non esse peccatum. Sed contra est quod de iudice iniquo dicitur, Luc. 1 8 [2], quod nec Deum timebat, nec ho­ minem reverebatur. Respondeo dicendum quod, quia timor ex amore nascitur, idem iudicium videtur esse de amore et de timore. Agitur autem nunc de ti­ more quo mala temporalia timentur, qui pro­ venit ex temporalium bonorum amore. Indi­ tum autem est unicuique naturaliter ut pro­ priam vitam amet, et ea quae ad ipsam ordi­ nantur, tamen debito modo, ut scilicet amentur huiusmodi non quasi finis constituatur in eis, sed secundum quod eis utendum est propter ultimum finem. Unde quod aliquis deficiat a debito modo amoris ipsorum, est contra natu­ ralem inclinationem, et per consequens est peccatum. Nunquam tamen a tali amore tota­ liter aliquis decidit, quia id quod est naturae totaliter perdi non potest. Propter quod aposto-

Sembra di no. Infatti: l . Ciò che costituisce tm elogio del giusto non è un peccato. Ora, in lode del giusto in Pr 28 [ l ] è detto: Il giusto, sicuro come un leone, starà senza paura. Quindi essere insensibili al timore non è un peccato. 2. Secondo il Filosofo «la cosa più ternibile è la morte». Ma non si deve temere la morte, co­ me è detto in Mt 10 [28]: Non temete coloro che uccidono il corpo; e neppure qualunque male che possa essere inflitto dall'uomo, co­ me è detto in fs 5 1 [ 1 2]: Chi sei tu per aver paura di un uomo mortale? Quindi non è un peccato l'essere insensibili al timore. 3. Come sopra si è detto, il timore nasce dal­ l' amore. Ma la perfezione della virtù esclude l'amore di qualunque bene mondano: poiché, secondo Agostino, «1' amore di Dio fino al di­ sprezzo di sé ci fa cittadini della città celeste». Quindi il non temere alcunché di umano sem­ bra non essere peccato. In contrario: in Le 1 8 [2] a proposito del giu­ dice iniquo è detto che: Non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. Risposta: poiché il timore nasce dali' amore, il medesimo giudizio va dato dell'amore e del timore. E qui si tratta della paura dei mali temporali, derivante dall'amore per essi. Ora, è innato in tutti l'amore naturale alla propria vita, e alle cose ad essa ordinate, però nel debito modo: nel senso cioè che vanno amate non come tini, ma come mezzi ordinati al raggiungimento del fine ultimo. Perciò, quan­ do ci si allontana dalla giusta misura in questo amore, si va contro l'inclinazione naturale, e quindi si ha il peccato. Tuttavia uno non può mai cessare totalmente di amare tali cose: poiché ciò che è naturale non può sparire to­ talmente. Per questo Paolo dice: Nessuno ha mai preso in odio la propria carne (Ef 5,29). Cosicché persino quelli che si uccidono lo

Q. 126, A. l

l l 78

L 'insensibilità al timore

5 [29], quod nemo unquam camem suam odio habuit. Unde etiam illi qui lus dicit, ad Eph.

seipsos interimunt, ex amore camis suae hoc faciunt, quam volunt a praesentibus angustiis liberari. - Unde contingere potest quod aliquis minus quam debeat timeat, mortem et alia temporalia mala, propter hoc quod minus debito amet ea. Sed quod nihil horum timeat, non potest ex totali defectu amoris contingere, sed ex eo quod aestimat mala apposita bonis quae amat, sibi supervenire non posse. Quod quandoque contingit ex superbia animi de se praesumentis et alias contemnentis, secundum quod dicitur Iob 4 1 [24-25], factus est ut nul­ lum timeret, omne sublime videt. Quandoque autem contingit ex defectu rationis, sicut phi­ losophus dicit, in 3 Ethic. [7,7], quod Celtae propter stultitiam nihil timent. Unde patet quod esse impavidum est vitiosum, sive cau­ setur ex defectu amoris, sive causetur ex eia­ tione animi, sive causetur ex stoliditate; quae tamen excusat a peccato si sit invincibilis. Ad primum ergo dicendum quod iustus com­ mendatur a timore retrahente eum a bono, non quod sit absque amni timore. Dicitur enim Eccli. l [28], qui sine timore est, non poterit

iustificari.

A d secundum dicendum quod mors, vel quidquid aliud ab homine mortali potest infer­ ri, non est ea ratione timendum ut a iustitia re­ cedatur. Est tamen timendum inquantum per hoc homo potest impediri ab operibus vir­ tuosis, vel quantum ad se, vel quantum ad profectum quem in aliis facit. Unde dicitur Prov. 14 [ 1 6], sapiens timet, et declinat a malo. Ad tertium diccndum quod bona temporalia debent contemni quantum nos impediunt ab amore et timore Dei. Et secundum hoc etiam non debent timeri, unde dicitur Eccli. 34 [ 1 6], qui timet Deum nihil trepidabit. Non autem debent contemni bona temporalia inquantum instrumentaliter nos iuvant ad ea quae sunt divini amoris et timoris.

fanno per amore della propria carne, che essi vogliono liberare dalle angustie presenti. Può quindi capitare che uno tema la morte e gli altri mali temporali meno del dovuto, poi­ ché ama i beni suddetti meno di quanto deve. n fatto però di non temerli per nulla non può derivare da un'assoluta mancanza di amore, bensì dal non credere che possano capitare i mali contrari ai beni amati. E ciò a volte capi­ ta per la superbia di un animo portato a presu­ mere di sé e a disprezzare gli altri, secondo le parole di Gb 41 [24]: Fu fatto per non aver

paura: ogni essere eccelso egli mira con di­ sprezzo. A volte invece ciò capita per man­

canza di ingegno: come nota il Filosofo a pro­ posito dei Cel!i, i quali per stoltezza non temono nulla. E quindi evidente che essere insensibili al timore è un vizio: sia che ciò derivi da mancanza di amore, sia che derivi da alterigia o da stoltezza; la quale ultima tut­ tavia, se è invincibile, scusa dal peccato. Soluzione delle difficoltà: l . ll giusto è lodato poiché non tralascia il bene a motivo della paura, non perché non abbia alcun timore. Infatti in Sir l [28] è detto: Chi è senza timore

non potrà essere giustificato. 2. Né il timore della morte,

né il timore di alcun altro male inflitto dall'uomo è una ra­ gione suftìciente per abbandonare la giustizia. Tuttavia queste cose vanno temute in quanto possono impedire all'uomo di compiere atti virtuosi, a vantaggio proprio o di altri. Perciò in Pr 14 [ 1 6] è detto: Il saggio teme, e sta lon­

tano dal male. 3. I beni temporali vanno disprezzati

in quan­ to ci distolgono dall' amore e dal timore di Dio. E sotto questo aspetto non devono essere neppure oggetto di timore, per cui è detto in

Sir 34 [ 1 6]: Chi teme Dio non avrà paura di nulla. Non vanno invece disprezzati i n quanto ci aiutano strumentalmente ad agire secondo l'amore e il timore di Dio.

Articulus 2 Utrum esse impavidum opponatur fortitudini

Articolo 2 L'insensibilità al timore è contraria alla fortezza?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod esse impavidum non opponatur fortitudini. l . De habitibus enim iudicamus per actus. Sed nullus actus fortitudinis impeditur per

Sembra di no. Infatti: l . Gli abiti si giudicano dagli atti. Ora, nessun atto di fortezza è impedito per il fatto che uno è insensibile al timore: poiché, eliminato il

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L 'insensibilità al timore

hoc quod aliquis est impavidus, remoto enim timore, aliquis et fortiter sustinet et audacter aggreditur. Ergo esse impavidum non op­ ponitur fortitudini. 2. Praeterea, esse impavidum est vitiosum vel propter defectum debiti amoris, vel propter superbiam, vel propter stultitiam. Sed defec­ tus debiti amoris opponitur caritati; superbia autem humilitati; stultitia autem prudentiae, sive sapientiae. Ergo vitium impaviditatis non opponitur fortitudini. 3. Praeterea, virtuti opponuntur vitia sicut ex­ trema medio. Sed unum medium ex una parte non habet nisi unum extremum. Cum ergo fortitudini ex una parte opponatur timor, ex alia vero parte opponatur ei audacia, videtur quod impaviditas ei non opponatur. Sed contra est quod philosophus, in 3 Ethic. [7,7], ponit impaviditatem fortitudini oppositam. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 1 23 a. 3] dictum est, fortitudo est circa ti­ mores et audacias. Omnis autem virtus mora­ lis ponit modum rationis in materia circa quam est. Unde ad fortitudinem pertinet timor moderatus secundum rationem, ut scilicet homo timeat quod oportet, et quando oportet, et similiter de aliis. Hic autem modus rationis corrumpi potest, sicut per excessum, ita et per defectum. Unde sicut timiditas opponitur for­ titudini per excessum timoris, inquantum scilicet homo timet quod non oportet, vel se­ cundum quod non oportet; ita etiam impavi­ ditas opponitur ei per defectum timoris, in­ quantum scilicet non timet aliquis quod opor­ tet timere. Ad primum ergo dicendum quod actus forti­ tudinis est timorem sustinere et aggredi non qualitercumque, sed secundum rationem. Quod non facit impavidus. Ad secundum dicendum quod impaviditas ex sua specie corrumpit medium fortitudinis, et ideo directe fortitudini opponitur. Sed secun­ dum suas causas, nihil prohibet quin oppo­ natur aliis virtutibus. Ad tertium dicendum quod vitium audaciae opponitur fortitudini secundum excessum au­ daciae, impaviditas autem secundum defec­ tum timoris. Fortitudo autem in utraque pas­ sione medium ponit. Unde non est inconve­ niens quod secundum diversa habeat diversa extrema.

Q. 1 26, A. 2

timore, uno sopporta con coraggio e aggredi­ sce con audacia. Quindi tale insensibilità non si contrappone alla fortezza. 2. L'insensibilità al timore è un peccato o per mancanza del debito amore, o per alterigia, o per stoltezza. Ma la mancanza dell'amore do­ vuto si contrappone alla carità, la superbia all'umiltà e la stoltezza alla prudenza, o sag­ gezza. Perciò il vizio dell'insensibilità al ti­ more non si contrappone alla fortezza. 3. I vizi si contrappongono alla virtù come gli estremi al punto intermedio. Ma il punto in­ termedio da un lato non ha che un estremo. Ora, siccome alla fortezza da un lato si con­ trappone il timore e dall'altro la temerarietà, sembra che ad essa non si contrapponga l'in­ sensibilità al timore. In contrario: il Filosofo afferma che l'insensi­ bilità al timore è contraria alla fortezza. Risposta: come sopra si è visto, la fortezza ha per oggetto il timore e l 'audacia. Ora, ogni virtù morale impone al proprio oggetto la misura stabilita dalla ragione. Spetta quindi alla fortezza determinare secondo la ragione un moderato timore: in modo cioè che si tema quanto va temuto, e quando va temuto, e similmente per le altre circostanze. Ora, que­ sta misura della ragione può essere distrutta per eccesso e anche per difetto. Come quindi la viltà si oppone alla fortezza per un eccesso di paura, in quanto cioè si teme quanto non va temuto, o non lo si teme nel modo convenien­ te, così l'insensibilità al timore si contrappone alla fortezza per difetto di paura, in quanto cioè non si teme ciò che va temuto. Soluzione delle difficoltà: l . È un atto di fortez­ za il sopportare e l'aggredire una cosa ternibile non in una maniera qualsiasi, ma secondo ragione. Cosa che non fa l'insensibile al timore. 2. L'insensibilità al timore per se stessa cor­ rompe il giusto mezzo della fortezza, per cui si contrappone direttamente a tale virtù. Nulla però impedisce che, considerata nelle sue cause, sia contraria ad altre virtù. 3. Il vizio della temerarietà si contrappone alla fortezza per un eccesso di audacia; invece l'insensibilità le si contrappone per un difetto di timore. Ora, la fortezza determina il giusto mezzo in queste due passioni. Nulla quindi impedisce che sotto aspetti diversi abbia estremi diversi.

Q. 127, A. l

l i SO

L 'audacia o temerarietà

QUAESTIO 1 27

QUESTIONE 1 27

,

DE AUDACIA

L'AUDACIA O TEMERARIETA

Deinde considerandum est de audacia. Et cir­ ca hoc quaeruntur duo. Primo, utrum audacia sit peccatum. Secundo, ut:J.um opponatur for­ titudini.

Veniamo ora a trattare dell'audacia o temera­ rietà. Sull'argomento si pongono due quesiti: l . L'audacia o temerarietà è un peccato? 2. Si contrappone alla fortezza?

Articulus l Utrum audacia sit peccatum

Articolo l L'audacia o temerarietà è un peccato?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod au­ dacia non sit peccatum. l . Dicitur eni m Iob 39 [2 1 ], de equo, per quem significatur bonus praedicator, secun­ dum Gregorium, in Mor. [3 1 ,24], quod audac­ ter in occursum pergit armatis. Sed nullum vitium cedit in commendationem alicuius. Ergo esse audacem non est peccatum. 2. Praeterea, sicut philosophus dicit, in 6 Ethic. [9,2], oporlet consiliari quidem tarde, operari autem velociter consiliata. Sed ad hanc velocitatem operandi iuvat audacia. Er­ go audacia non est peccatum, sed magis aliquid laudabile. 3. Praeterea, audacia est quaedam passio quae causatur a spe, ut supra [1-ll q. 45 a. 2] habi­ tum est, cum de passionibus ageretur. Sed spes non ponitur peccatum, sed magis virtus. Ergo nec audacia debet poni peccatum. Sed contra est quod dicitur Eccli. 8 [ 1 8], cum

Sembra di no. Infatti: l . In Gb 39 [21 ] a proposito del cavallo, che secondo Gregorio sta a indicare il buon predi­ catore, è detto che con audacia va incontro alle anni. Ora, nessun vizio può essere porta­ to a lode di qualcuno. Quindi essere temerari non è un peccato. 2. Il Filosofo insegna che «bisogna deliberare con calma, ma agire con prontezza>>. Ora, a questa prontezza giova molto l'audacia. Per­ ciò l' audacia, o temerarietà, non è un peccato, ma piuttosto qualcosa di lodevole. 3. Come si è visto sopra trattando delle pas­ sioni, l'audacia è una passione causata dalla speranza. Ma la speranza non è considerata un peccato, bensì una virtù. Quindi neppure l'audacia va considerata un peccato. In contrario: in Sir 8 [ 1 8] è detto: Non metter­

audace non eas in via, ne forte gravet ma/a sua in te. Nullius autem societas est declinan­ da nisi propter peccatum. Ergo audacia est peccatum. Respondeo dicendum quod audacia, sicut supra [I-D q. 23 aa. 1 .4; q. 45] dictum est, est passio quaedam. Passio autem quandoque quidem est moderata secundum rationem, quandoque autem caret modo rationis, vel per excessum vel per defectum; et secundum hoc est passio vitiosa. Sumuntur autem quando­ que nomina passionum a superabundanti, sicut ira dicitur non quaecumque, sed supera­ bundans, prout scilicet est vitiosa. Et hoc etiam modo audacia, per superabundantiam dieta, ponitur esse peccatum. Ad primum ergo dicendum quod audacia ibi sumitur secundum quod est moderata ratione. Sic enim pertinet ad virtutem fortitudinis. Ad secundum dicendum quod operatio festi­ na commendabilis est post consilium, quod

ti in viaggio con un audace, perché non fac­ cia gravare su di re i suoi guai. Ora, non si

deve sfuggire una compagnia se non per il peccato. Quindi l'audacia è un peccato. Risposta: come si è visto, l'audacia è una pas­ sione. Ma la passione talora è moderata e go­ vernata dalla ragione, talora invece manca di moderazione, o per eccesso o per difetto: e al­ lora si ha una passione viziosa. A volte però i nomi delle passioni sono usati per indicare i loro eccessi: come l 'ira non indica un'ira qualsiasi, ma quella esagerata, cioè peccami­ nosa. Ed è in questo senso che anche l'auda­ cia, intesa come eccessiva, è un peccato. Soluzione delle difficoltà: l . Nel caso indicato si parla dell'audacia in quanto è regolata dalla ragione. In questo senso infatti essa è inclusa nella virtù della fortezza. 2. La prontezza nell'agire è lodevole dopo la deliberazione, che è un atto della ragione. Se uno invece pretendesse di agire prontamente prima di deliberare, ciò non sarebbe lodevole, ma peccaminoso: sarebbe infatti un atto di

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L 'audacia o temerarietà

Q. 127, A. l

est actus rationis. Sed si quis ante consilium vellet festine agere, non esset hoc laudabile, sed vitiosum, esset enim quaedam praecipita­ tio actionis, quod est vitium prudentiae oppo­ situm, ut sopra [q. 53 a. 3] dictum est. Et ideo audacia, quae operatur ad velocitatem operan­ di, intantum laudabilis est inquantum a ratio­ ne ordinatur. Ad tertium dicendum quod quaedam vitia inno­ minata sunt, et similiter quaedam virtutes, ut pa­ tet per philosophum, in 4 Ethic. [4,5; 5, 1 ; 6,4]. Et ideo oportuit qtùbusdam passionibus uti no­ mine virtutum et vitiorum. Praecipue autem illis passionibus utimur ad vitia designanda quarum obiectum est malum, sicut patet de odio, timore et ira, et etiam audacia. Spes autem et amor habent bonum pro obiecto. Et ideo magis eis utimur ad designanda nomina virtutum.

precipitazione, che è un peccato contrario alla prudenza, come sopra si è notato. Perciò l'audacia, che spinge a operare con prontezza, è lodevole solo in quanto è guidata dalla ragione. 3. Come nota il Filosofo, certi vizi sono senza nome, e così pure certe virtù. Per cui è neces­ sario servirsi dei nomi di alcune passioni per indicare le virtù e i vizi. Ora, per indicare i vi­ zi ci serviamo soprattutto di quelle passioni che hanno per oggetto il male: come è evi­ dente nel caso dell'odio, del timore, dell'ira e dell' audacia. Invece la speranza e l ' amore hanno per oggetto il bene. Perciò di esse ci serviamo piuttosto per indicare delle virtù.

Articulus 2 Utrum audacia opponatur fortitudini

Articolo 2 Vaudacia è contraria alla fortezza?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod audacia non opponatur fortitudini. l . Superfluitas enim audaciae videtur ex ani­ mi praesumptione procedere. Sed praesump­ tio pertinet ad superbiam, quae opponitur ho­ militati. Ergo audacia magis opponitur humi­ litati quam fortitudini. 2. Praeterea, audacia non videtur esse vitupe­ rabilis nisi inquantum ex ea provenit vel no­ cumentum aliquod ipsi audaci, qui se peri­ culis inordinate ingerit; vel etiam aliis, quos per audaciam aggreditur vel in pericula prae­ cipitat. Sed hoc videtur ad iniustitiam perline­ re. Ergo audacia, secundum quod est pecca­ rum, non opponitur fortitudini, sed iustitiae. 3. Praeterea, fortitudo est et circa timores et circa audacias, ut supra [q. 1 23 a. 3] habitum est. Sed quia timiditas opponitur fortitudini secundum excessum timoris, habet aliud vi­ tium oppositum timiditati secundum defec­ tum timoris. Si ergo audacia opponatur for­ titudini propter excessum audaciae, pari ratio­ ne opponetur ei aliquod vitium propter auda­ ciae defectum. Sed hoc non invenitur. Ergo nec audacia debet poni vitium oppositum fortitudini. Sed contra est quod philosophus, in 2 [7,2] et 3 [7,4] Ethic . , ponit audaciam fortitudini oppositam.

Sembra di no. Infatti: l . L'eccesso di audacia deriva dalla presun­ zione. Ma la presunzione rientra nella super­ bia, che si contrappone all' umiltà. Quindi l' audacia si contrappone più all' umiltà che alla fortezza. 2. L' audacia non è condannabile se non in quanto provoca qualche danno, o all' audace stesso, che si mette nei pericoli senza giusti motivi, o anche agli altri, che egli temeraria­ mente affronta o mette in pericolo. Ma questo modo di agire è contro la giustizia. Quindi l' audacia, in quanto vizio, non si contrappone alla fortezza, ma alla giustizia. 3. Come si è notato sopra, la fortezza ha per oggetto il timore e l' audacia. Ora, come la viltà si contrappone alla fortezza per un ec­ cesso di timore, così pure esiste un altro vizio opposto alla viltà per un difetto di timore. Se quindi il vizio dell' audacia fosse contrario alla fortezza per un eccesso di audacia, biso­ gnerebbe trovare un altro vizio opposto per difetto. Ma questo non esiste. Quindi neppure l'audacia si contrappone alla fortezza come vizio contrario. In contrario: il Filosofo mette l' audacia, o temerarietà, tra i vizi contrari alla fortezza. Risposta: abbiamo già notato che le virtù mo­ rali hanno i l compito d i seguire i l giusto

Q. 127, A. 2

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L 'audacia o temerarietà

Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 126 a. 2] dictum est, ad virtutem moralem pertinet modum rationis observare in materia circa quam est. Et ideo omne vitium quod im­ portat immoderantiam circa materiam alicuius virtutis moralis, opponitur illi vittuti morali sicut immoderatum moderato. Audacia autem, secundum quod sonat in vitium, importat excessum passionis quae audacia dicitur. Un­ de manifestum est quod opponitur virtuti fortitudinis, quae est circa tirnores et audacias, ut supra [q. 1 23 a. 3] dictum est. Ad primum ergo dicendum quod oppositio vitii ad virtutem non attenditur principaliter secundum causam vitii, sed secundum ipsam vitii speciem. Et ideo non oportet quod auda­ cia opponatur eidem virtuti cui opponitur praesumptio, quae est causa ipsius. Ad secundum dicendum quod sicut directa oppositio vitii non attenditur circa eius cau­ sam, ita etiam non attenditur secundum eius effectum. Nocumentum autem quod provenit ex audacia est eftectus ipsius. Unde nec etiam secundum hoc attenditur oppositio audaciae. Ad tertium dicendum quod motus audaciae consistit in invadendo id quod est homini con­ trarium, ad quod natura inclinat, nisi in­ quantum talis inclinatio impeditur per timo­ rem patiendi nocumentum ab eo. Et ideo vi­ tium quod excedit in audacia non habet con­ trarium detectum nisi timiditatem tantum. Sed audacia non semper concomitatur tantum de­ fectum timiditatis. Quia sicut philosophus di­ cit, in 3 Ethic. [7,1 2], audaces sunt praevolan­

mezzo in ciò che costituisce il loro oggetto. Perciò qualsiasi vizio che implichi una man­ canza di misura in ciò che costituisce l'oggetto di una virtù morale si contrappone a tale virtù come ciò che è su misura a ciò che è spro­ porzionato. Ora, il vizio dell'audacia implica un eccesso della passione omonima. Perciò è evidente che esso si oppone alla virtù della fortezza la quale, come sopra si è visto, ha il compito di moderare il timore e l'audacia. Soluzione delle difficoltà: l . L'opposizione di un vizio a una data virtù non si basa principal­ mente sulle cause del vizio, ma sulla sua na­ tura specifica. Non è quindi necessario che l'audacia si contrapponga all' identica virtù a cui si contrappone la presunzione, che ne è la causa. 2. La diretta opposizione di un vizio, come non è desunta dalla sua causa, così non è desunta neppure dai suoi effetti. Ora, il danno che deriva dall' audacia è un suo effetto. Quindi non si deve fondare su di esso ciò che oppone l'audacia alla virtù. 3. L'atto dell'audacia consiste nell'affrontare le cose ostili; e a ciò la natura inclina, a meno che questa inclinazione non sia ostacolata dal timore di ricevere un danno. Perciò il vizio che consiste neli' eccedere in audacia non ha come vizio contrario altro che la viltà. Però l'audacia, o temerarietà, non implica in ogni caso soltanto una mancanza di paura. Poiché, come dice il Filosofo, «i temerari sono impe­ tuosi e baldanzosi prima che giungano i peri­ coli, ma defezionano poi di fronte ad essi», e ciò per paura.

QUAESTIO 1 28 DE PARTffiUS FORTITUDINIS

QUESTIONE 1 28 LE PARTI DELLA FORTEZZA

Deinde considerandum est de partibus fortitu­ dinis. Et primo considerandum est quae sint fortitudinis partes; secundo, de singulis parti­ bus est agendum [q. 129] .

Passiamo ora a parlare delle parti della fortezza. E in primo luogo vedremo quali esse siano, mentre in secondo luogo le esamineremo sin­ golarmente.

tes et volentes ante pericula, sed in ipsis disce­ dunt, scilicet prae timore.

Articulus unicus

Articolo unico

Utrum convenienter partes fortitudinis enumerentur

Le parti della fortezza sono convenientemente enumerate?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod in­ convenienter partes fortitudinis enumerentur.

Sembra di no. Infatti: l . Cicerone assegna alla fortezza quattro parti,

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Le parti dellafortezza

l . Tullius enim, in sua Rhetorica [2,54], ponit fortitudinis quatuor partes, scilicet magnificen­

tiam, fidudam, patientiam et perseverantiam.

Et videtur quod inconvenienter. Magnificentia enim videtur ad liberalitatem pertinere, quia utraque est circa pecunias, et necesse est ma­ gnificum liberalem esse, ut philosophus dicit, in 4 Ethic. [2, 1 0]. Sed liberalitas est pars iu­ stitiae, ut supra [q. 1 17 a. 5] habitum est. Ergo magnificentia non debet poni pars fortitudinis. 2. Praeterea, tiducia nihil aliud esse videtur quam spes. Sed spes non videtur ad fortitu­ dinem pertinere, sed ponitur per se virtus. Ergo fiducia non debet poni pars fortitudinis. 3. Praeterea, fortitudo facit hominem bene se habere circa pericula. Sed magnificentia et fiducia non irnpo1tant in sui ratione aliquam habitudinem ad pericula. Ergo non ponuntur convenienter partes fortitudinis. 4. Praeterea, patientia, secundum Tullium [Rhet. 2,54], importat difficilium perpessionem, quod etiam ipse attribuit fortitudini. Ergo pa­ tientia est idem fortitudini, et non est pars eius. 5. Praeterea, illud quod requiritur in qualibet virtute, non debet poni pars alicuius specialis virtutis. Sed perseverantia requiritur in qua­ libet virtute, dicitur enim Matth. 24 [ 1 3 ] ,

qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit. Ergo perseverantia non debet poni pars

fortitudinis. 6. Praeterea, Macrobius [In som. S. l ,8] ponit septem partes fortitudinis, scilicet magnanimi­

tatem, fiduciam, securitatem, magnificentiam, constantiam, tolerantiam, jì1mitatem. Andro­

nicus [De affect., De fortitudine] etiam ponit septem virtutes annexas fortitudini, quae sunt

eupsychia, lema, magnanimitas, virilitas, per­ severantia, magnificentia, andragathia. Ergo

videtur quod insufficienter Tullius partes forti­ tudinis enumeraverat. 7. Praeterea, Aristoteles, in 3 Ethic. [8], ponit quinque modos fortitudinis. Quorum prima est politica, quae fortiter operatur propter timorem exhonorationis vel poenae; secunda militaris, quae fortiter operatur propter artem et expe­ rientiam rei bellicae; tertia est fortitudo quae fortiter operatur ex passione, praecipue irae; quarta est fortitudo quae fortiter opemtur prop­ ter consuetudinem victoriae; quinta autem est quae fortiter operatur propter ignorantiam pe­ riculorum. Has autem fortitudines nulla prae­ dictarum divisionum continet. Ergo praedictae

Q. 128, Articolo unico

cioè «la magnificenza, la fiducia, la pazienza e la perseveranza». Ma a torto. Infatti la ma­ gnificenza appartiene alla liberalità: poiché entrambe riguardano il danaro, e secondo il Filosofo «è necessario che il magnifico sia li­ berale». Ma la liberalità fa parte della giusti­ zia, come sopra si è dimostrato. Quindi la ma­ gnificenza non va considerata come una parte della fortezza. 2. La fiducia sembra non essere altro che la speranza. Ora, la speranza non appartiene alla fortezza, ma è una virtù a parte. Quindi la fi­ ducia non va posta fra le parti della fortezza. 3. La fortezza rende l'uomo preparato di fron­ te ai pericoli. Ma la magnificenza e la fiducia non implicano nel loro concetto alcun rappor­ to ai pericoli. Quindi non sono conveniente­ mente enumerate come parti della fortezza. 4. Secondo Cicerone la pazienza implica «la sopportazione di cose difficili»: il che egli at­ tribuisce anche alla fortezza. Quindi la pa­ zienza si identifica con la fortezza, e non è una sua parte. 5. Ciò che è richiesto in tutte le virtù non può considerarsi parte di una virtù speciale. Ma la perseveranza è richiesta in qualsiasi virtù; come infatti è detto in Mt 24 [ 1 3] : Chi persevererà sino alla fine sarà salvato. Quindi la perseve­ ranza non va posta fra le parti della fortezza. 6. Macrobio enumera sette parti della fortez­ za, cioè: «la magnanimità, la fiducia, la sicu­ rezza, la magnificenza, la costanza, la soppor­ tazione, la fermezza». E Andronico enumera sette virtù annesse alla fortezza, che sono «l' eupsichia, la lema, la magnanimità, la viri­ lità, la perseveranza, la magnificenza, l'andra­ gatia». Quindi sembra insufficiente l'enume­ razione di Cicerone. 7. Aristotele enumera cinque modi della for­ tezza. Il primo è la politica, che agisce con fermezza per paura del disonore, o del casti­ go; il secondo è la bravura militare, che opera con coraggio sorretta dall' arte e dall'esperien­ za bellica; il terzo è la fortezza, che scaturisce dalla passione, specialmente dall' ira; il quarto è la fortezza, che agisce con coraggio per l ' a­ bitudine di vincere; il quinto poi è l' agire con coraggio per inavvertenza del pericolo. Ora, nessuna delle enumerazioni precedenti con­ tiene questi tipi di fortezza. Quindi le suddette enumerazioni sembrano non adeguate. Risposta: come sopra si è detto, di una virtù ci

Le parti della fortezza

Q. 128, Articolo unico

enumerationes partium fortitudinis videntur esse inconvenientes. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 48] dictum est, alicuius virtutis possunt esse tripli­ ces partes, scilicet subiectivae, integrales et potentiales. Fortitudini autem, secundum quod est specialis virtus, non possunt assi­ gnari partes subiectivae, eo quod non dividitur in multas virtutes specie differentes, quia est circa materiam valde specialem. Assignantur autem ei partes quasi integrales, et potentia­ les, integrales quidem secundum ea quae oportet concurrere ad actum fortitudinis; po­ tentiales autem secundum quod ea quae forti­ tudo observat circa difficillima, scilicet circa pericula mortis, aliquae aliae virtutes obser­ vant circa quasdam alias materias minus difficiles; quae quidem virtutes adiunguntur fortitudini sicut secundmiae principali. - Est autem, sicut supra [q. 1 23 aa. 3.6] dictum est, duplex fortitudinis actus, scilicet aggredi, et sustinere. Ad actum autem aggrediendi duo requiruntur. Quorum primum pertinet ad animi praeparationem, ut scilicet aliquis promptum animum habeat ad aggrediendum. Et quan­ tum ad hoc ponit Tullius fiduciam. Unde dicit [Rhet. 2,54] quod fiducia est per quam

magnis et honestis rebus multum ipse animus in se fiduciae cum spe collocavi!. Secun­ -

dum autem pertinet ad operis executionem, ne scilicet aliquis deficiat in executione ilio­ rum quae tiducialiter inchoavit. Et quantum ad hoc ponit Tullius magnificentiam. Unde dicit [Rhet. 2,54] quod magnificentia est

rerum magnarum et excelsarum cum animi ampia quadam et splendida propositione cogitatio atque administratio, idest executio, ut scilicet ampio proposito administratio non desit. - Haec ergo duo, si coarctentur ad propriam materiam fortitudinis, scilicet ad pericula mortis, erunt quasi partes integrales ipsius, sine quibus fortitudo esse non potest. Si autem referantur ad aliquas alias materias in quibus est minus difficultatis, erunt virtutes distinctae a fortitudine secundum speciem, tamen adiungentur ei sicut secundarium prin­ cipali, sicut magnificentia a philosopho, in 4 Ethic. [2, 1 .6], ponitur circa magnos sumptus; magnanimitas autem, quae videtur idem esse fiduciae, circa magnos honores [4, l ] . - Ad alium autem actum fortitudinis, qui est susti­ nere, duo requiruntur. Quorum primum est ne

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possono essere tre tipi di parti, cioè: soggetti­ ve, integranti e potenziali. Ora, la fortezza in quanto virtù specifica non può avere parti soggettive: poiché non si divide in virtù speci­ ficamente distinte, essendo la sua materia del tutto determinata. Sono invece ad essa ricono­ sciute delle parti integranti e potenziali. Parti integranti sono gli elementi chiamati a costi­ tuire l'atto della fortezza. Parti potenziali sono invece quelle virtù che osservano in campi meno difficili il comportamento osservato dalla fortezza di fronte ai pericoli di morte. E queste virtù sono annesse alla fortezza come virtù secondarie. - Ora, come sopra si è detto, due sono gli atti della fortezza: l' affrontare e il sopportare. Per il primo atto si richiedono due cose. La prima è la predisposizione del­ l'animo, che cioè si abbia l'animo pronto ad affrontare. Ed è quanto Cicerone denomina «fiducia>>. Per cui egli afferma che «la fiducia è la virtù con cui l ' animo affronta le cose grandi e onorifiche con speranza e sicurezza». La seconda è l' esecuzione dell'opera: che cioè non si venga meno nell'esecuzione di ciò che si è intrapreso con fiducia. Cicerone la chiama «magnificenza». Per cui egli scrive che «la magnificenza è il disegno e l' esecu­ zione di cose grandi e sublimi con ampiezza e splendidezza di propositi», in modo cioè che ai generosi propositi non manchi l' esecuzio­ ne. - Ora, se questi due elementi si restringo­ no alla materia propria della fortezza, cioè ai pericoli di morte, ne formano come le parti integranti, senza di cui la fortezza non può sussistere. Se invece si riferiscono ad altre materie di minore difficoltà, allora sono virtù specificamente distinte dalla fortezza, che però si riconnettono ad essa come alla loro virtù principale. P. es. il Filosofo assegna le grandi spese alla magnificenza e i grandi onori invece alla magnanimità, che si identifi­ ca con la fiducia. - E anche per l' altro atto della fortezza, che è il sopportare, si richiedo­ no due cose. La prima è che l' animo non si lasci abbattere dalla tristezza per la difficoltà dei mali imminenti, abdicando così alla pro­ pria grandezza. Ed è quanto Cicerone deno­ mina «pazienza». Infatti egli scrive che «la pazienza è una volontaria e ininterrotta tolle­ ranza di cose ardue e difficili motivata dall'o­ nore e dall'utilità>>. - La seconda cosa richie­ sta è invece che uno non si stanchi fino a desi-

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Le parti dellafortezza

difficultate imminentium malorum animus frangatur per tristitiam, et decidat a sua ma­ gnitudine. Et quantum ad hoc ponit patien­ tiam. Unde dicit [Rhet. 2,54] quod patientia

est honestatis aut utilitatis causa rerum ar­ duarum ac difficilium voluntaria ac diuturna pe1pessio. - Aliud autem est ut ex diuturna difficilium passione homo non fatigetur usque ad hoc quod desistat, secundum illud Hebr. 1 2 [3], non fatigemini, animis vestris deficientes. Et quantum ad hoc ponit perseverantiam. Unde dicit [Rhet. 2,54] quod perseverantia est

in ratione bene considerata stabilis et pe1petua pennansio. - Haec etiam duo, si coarctentur ad proptiam materiam fortitudinis, erunt partes quasi integrales ipsius. Si autem ad quascum­ que materias difficiles referantur, erunt virtu­ tes a fortitudine distinctae, et tamen ei adiun­ gentur sicut secundariae principali. Ad primum ergo dicendum quod magnificen­ tia circa materiam liberalitatis addit quandam magnitudinem, quae pertinet ad rationem ar­ dui, quod est obiectum irascibilis, quam prin­ cipaliter perficit fortitudo. Et ex hac parte pertinet ad fortitudinem. Ad secundum dicendum quod spes qua quis de Deo confidit, ponitur virtus theologica, ut supra [q. 17 a 5; 1-11 q. 62 a. 3] habitum est. Sed per fiduciam quae nunc ponitur fortitudinis pars, homo habet spem in seipso, tamen sub Deo Ad tertium dicendum quod quascumque ma­ gnas res aggredi videtur esse periculosum, quia in his deficere est valde nocivum. Unde etiam si magnificentia et fiducia circa quae­ cumque alia magna operanda vel aggredienda ponantur, habent quandam affinitatem cum fortitudine, ratione periculi imminentis. Ad quartum dicendum quod patientia non solum perpetitur pericula mortis, circa quae est fmtitudo, absque superabundanti tristitia, sed etiam quaecumque alia difficilia seu pe­ riculosa. Et secundum hoc ponitur virtus adiuncta fortitudini. Inquantum autem est cir­ ca pericula mortis, est pars integralis ipsius. Ad quintum dicendum quod perseverantia secundum quod dicit continuitatem boni operis usque in finem, circumstantia omnis virtutis esse potest. Ponitur autem pars fortitudinis secundum quod dictum est [in co.]. Ad sextum dicendum quod Macrobius ponit quatuor praedicta a Tullio posita, scilicet fiduciam, magnificentiam, tolerantiam, quam .

Q. 128, Articolo unico

stere a causa della continua sopportazione delle difficoltà, come è detto in Eb 1 2 [3] : Non stancatevi perdendovi d'animo. E Cice­ rone la denomina «perseveranza>>. Infatti egli dice che «la perseveranza è una stabile e per­ petua permanenza in una deliberazione ben considerata». - E anche queste due cose, se si restringono alla materia propria della fortez­ za, ne costituiscono quasi due parti integranti. Se invece riguardano qualunque altra diffi­ coltà, sono virtù distinte dalla fortezza, però ad essa connesse come virtù secondarie alla principale. Soluzione delle difficoltà: l . La magnificenza aggiunge una certa grandezza riguardo alla materia della liberalità, grandezza che sconfina nell'arduo, il quale è oggetto dell'irascibile e riceve la sua perfezione dalla fortezza. E sotto questo aspetto essa appartiene alla fortezza. 2. La speranza con cui si confida in Dio è una virtù teologale, come sopra si è visto. Invece con la fiducia che è parte potenziale della for­ tezza l'uomo confida in se medesimo; però in dipendenza da Dio. 3. L'intraprendere qualsiasi grande impresa è sempre pericoloso, essendo di grave pregiudi­ zio il fallire in essa. Per cui, anche se la magni­ ficenza e la fiducia riguardano qualsiasi grande impresa, hanno tuttavia una certa affinità con la fortezza a motivo del peticolo affrontato. 4. La pazienza non solo sopporta, senza tri­ stezza eccessiva, i pericoli di morte, oggetto della fortezza, ma anche qualunque altra diffi­ coltà o pericolo. E sotto questo aspetto è una virtù annessa alla fortezza. In quanto invece ha per oggetto i pericoli di morte, è una sua parte integrante. 5. La perseveranza può essere un requisito di qualsiasi virtù se è intesa come continuità del bene operare sino alla fine. È invece una parte potenziale della fortezza nel senso indicato sopra. 6. Macrobio enumera le quattro virtù poste da Cicerone: la fiducia, la magnificenza, la tolle­ ranza (in luogo della pazienza) e la fennezza (che sostituisce la perseveranza). Ne aggiun­ ge però altre tre, due delle quali, cioè la magnanimità e la sicurezza, per Cicerone for­ mano la fiducia, che invece Macrobio distin­ gue. Infatti la fiducia implica la speranza umana di cose grandi. Ma la speranza presup­ pone la tensione della volontà nel desiderio di

Q. 128, Articolo unico

Le parti della fortezza

ponit loco patientiae, et firmitatem, quam ponit loco perseverantiae. Superaddit autem tria. Quorum duo, scilicet magnanimitas et securitas, a Tuilio sub fiducia comprehendun­ tur, sed Macrobius magis per specialia distin­ guit. Nam fiducia imp01tat spem hominis ad magna. Spes autem cuiuslibet rei praesup­ ponit appetitum in magna protensum per de­ siderium, quod pertinet ad magnanimitatem; dictum est enim supra [1-11 q. 40 a. 7] quod spes praesupponit amorem et desiderium rei speratae. Vel melius potest dici quod fiducia pertinet ad spei certitudinem; magnanimitas autem ad magnitudinem rei speratae. - Spes autem firma esse non potest nisi amoveatur contrarium, quandoque enim aliquis, quan­ tum ex seipso est, speraret aliquid, sed spes tollitur propter impedimentum timoris; timor enim quodammodo spei contrariatur, ut supra [l-II q. 40 a. 4 ad l ] habitum est. Et ideo Ma­ crobius addit securitatem, quae excludit timo­ rem. - Tertium autem addit, scilicet constan­ tiam, quae sub magnificentia comprehendi potest, oportet enim in his quae magnifice aliquis facit, constantem animum habere. Et ideo Thllius ad magnificentiam pertinere dicit [Rhet. 2,54] non solum administrationem re­ rum magnarum, sed etiam animi amplam ex­ cogitationem ipsarum. Potest etiam constan­ tia ad perseverantiam pertinere, ut perseve­ rans dicatur aliquis ex eo quod non desistit propter diutumitatem; constans autem ex eo quod non desistit propter quaecumque alia repugnantia. - Illa etiam quae Andronicus ponit ad eadem pertinere videntur. Ponit enim perseverantiam et magnificentiam cum Tullio et Macrobio; magnanimitatem autem cum Macrobio. Lema autem est idem quod pa­ tientia vel tolerantia, dicit enim [De affect., De fortitudine] quod lema est habitus prom­ -

ptus tribuens ad conari qualia oportet, et su­ stinere quae ratio dicit. - Eupsychia autem, idest bona animositas, idem videtur esse quod securitas, dicit enim [ib.] quod est robur animae ad perficiendum opera ipsius. - Virili­ las autem idem esse videtur quod fiducia, dicit enim [ib.] quod virilitas est habitus per se sufficiens tributus in his quae seczmdum virtutem. - Magnificentiae autem addit [ib.] andragathiam, quasi virilem bonitatem, quae apud nos strenuitas potest dici. Ad magnifi­ centiam enim pertinet non solum quod homo

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tali cose grandi, il che costituisce la magnani­ mità: sopra infatti abbiamo visto che la spe­

ranza presuppone l'amore e il desiderio di ciò che si spera. O meglio si può dire che la fidu­ cia indica la certezza della speranza, la ma­ gnanimità invece la grandezza delle cose spe­ rate. - Però la speranza non può essere sicura se non sono eliminati i sentimenti contrari: talora infatti uno di per sé sarebbe portato a sperare una data cosa, ma la speranza è elimi­ nata dal timore: infatti il timore è incompati­ bile con la speranza, come si è visto. Per que­ sto Macrobio aggiunge la sicurezza, che e­ sclude il timore. - Aggiunge poi una terza virtù, cioè la costanza, che può rientrare nella magnificenza: infatti è necessario avere co­ stanza d'animo nelle cose che si compiono con magnificenza. E così Cicerone afferma che alla magnificenza non appartiene solo «l'esecuzione di grandi imprese», ma anche «il loro disegno formulato con ampiezza di propositi». Però la costanza si può anche ri­ durre alla perseveranza: poiché uno è perse­ verante in quanto non desiste nonostante la durata dell'impresa, ed è costante in quanto non desiste nonostante qualsiasi altra diffi­ coltà. - E anche le virtù enumerate da Andro­ nico si riducono a quelle di Cicerone. Infatti egli per la perseveranza e la magnificenza si accorda con Cicerone e Macrobio, e per la ma­ gnanimità con quest'ultimo. La lema equiva­ le poi alla pazienza o alla sopportazione: infatti egli dice che essa «è un abito pronto ad affrontare ciò che è dovuto, e a sopportare ciò che la ragione detta». - L' eupsichia invece, cioè il buon animo, equivale alla sicurezza: dice infatti che «essa è la forza d'animo nel portare a termine le proprie imprese». - La virilità poi non è altro che la fiducia: infatti egli dice che «la virilità è un abito che ha la capacità di affrontare direttamente imprese che richiedono coraggio». - Alla magnificen­ za aggiunge poi l' andragatia, che è come una bontà virile, e che noi potremmo denominare strenuità. Infatti la magnificenza non ha solo il compito di insistere nel portare a termine le grandi imprese, come la costanza, ma anche quello di compierle con virile prudenza e sol­ lecitudine, il che è proprio dell' andragatia o strenuità. Per questo egli dice che «l' andraga­ tia è la virtù dell'uomo che sa sperimentare gli espedienti che occorrono nelle opere van-

Le parti dellafortezza

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consistat in executione magnorum operum, quod pertinet ad constantiam, sed etiam cum quadam virili prudentia et sollicitudine ea exequatur, quod pertinet ad andragathiam sive strenuitatem. Unde dicit [ib.] quod an­

dragathia est viri vi11us adinventiva commu­ nicabilium operum. Et sic patet quod omnes

huiusmodi partes ad quatuor principales reducuntur quas Tullius ponit. Ad septimum dicendum quod illa quinque quae ponit Aristoteles [Ethic. 3,8], deficiunt a vera ratione virtutis, quia etsi conveniant in actu fortitudinis, differunt tamen in motivo, ut supra [q. 123 a. l ad 2] habitum e...c;t. Et ideo non ponuntur partes fortitudinis, sed quidam fortitudinis modi.

Q. 128, Articolo unico

taggiose». E così è dimostrato che tutte le virtù ricordate si riducono alle quattro princi­ pali enumerate da Cicerone. 7. Quei cinque elementi ricordati da Aristote­ le non raggiungono la vera natura di virtù: poiché, sebbene coincidano con la fortezza quanto ali' atto, tuttavia differiscono da essa quanto al movente che li ispira, come si è vi­ sto sopra. Perciò essi non sono parti potenzia­ li della fortezza, ma solo certe sue modalità.

QUAESTIO 1 29

QUESTIONE 1 29

DE MAGNANIMITATE

LA MAGNANIMITA

Deinde considerandum est de singulis fortitu­ dinis partibus, ita tamen ut sub quatuor princi­ palibus quas Thllius ponit [Rhet. 2,54], alias comprehendamus; nisi quod magnanimitatem, de qua etimn Aristoteles tractat [Ethic. 4,3], lo­ co fiduciae ponemus. Primo ergo consideran­ dum erit de magnanirnitate; secundo, de magni­ ficentia [q. 1 34]; tertio, de patientia [q. 1 36]; qumto, de perseverantia [q. 137]. - Circa pri­ mum, primo considerandum est de magnanimi­ tate; secundo, de vitiis oppositis [q. 1 30]. - Cir­ ca primum quaeruntur octo. Primo, utrum ma­ gnanimitas sit circa honores. Secondo, utrum magnanimitas sit salurn circa magnos honores. Tertio, utrum sit virtus. Quarto, utrum sit virtus specialis. Quinto, utrum sit pars fortitudinis. Sexto, quomodo se habeat ad fiduciam. Septi­ mo, quomodo se habeat ad securitatem. Octa­ vo, quomodo se habeat ad bona fortunae.

Veniamo così a trattare delle singole parti della fortezza, includendo però nelle quattro princi­ pali enumerate da Cicerone anche le altre; solo che al posto della fiducia metteremo la magnanimità, di cui tratta anche Aristotele. Primo, tratteremo della magnanimità; secon­ do, della magnificenza; terzo, della pazienza; quarto, della perseveranza. - Sul primo argo­ mento parleremo in primo luogo della magna­ nimità stessa, e in secondo luogo dei vizi con­ trari . - A proposito del primo tema esaminere­ mo otto quesiti: l . La magnanimità ha per oggetto gli onoriJ 2. Ha per oggetto solo i grandi onori? 3. E una vi�? 4. E una virtù specificamente distinta? 5. E una parte della fortezza? 6. Quali relazioni ha con la fiducia? 7. Quali con la sicurezza? 8. Quali con i beni di fortuna?

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Articulus l

Articolo l

Utrum magnanimitas sit circa honores

La magnanimità ha per oggetto gli onori?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod ma­ gnanimitas non sit circa honores. l . Magnanimitas enim est in irascibili. Quod ex ipso nomine patet, nam magnanimitas dici­ tur quasi magnitudo animi; animus autem pro vi irascibili ponitur, ut patet in 3 De an. [9,3], ubi philosophus dicit quod in sensitivo ap­ petito est desiderium et animus, idest concupi-

Sembra di no. Infatti: l . La magnanimità risiede nell'irascibile. Il che è evidente dal suo stesso nome: poiché magnanimità suona «grandezza d'animo», e «animo» equivale alla facoltà dell'irascibile, come risulta dal De Anima di Aristotele, dove egli afferma che nell'appetito sensitivo c'è «il desiderio e l'animo», ossia il concupiscibile e

Q. 129, A. l

La magnanimità

scibilis et irascibilis. Sed honor est quoddam bonum concupiscibile, cum sit praemium virtutis. Ergo videtur quod magnanimita..c;; non sit circa honores. 2. Praeterea, magnanimitas, cum sit virtus mo­ ralis, oportet quod sit circa passiones vel ope­ rationes. Non est autem circa operationes, quia sic esset pars iustitiae. Et sic relinquitur quod sit circa passiones. Honor autem non est pas­ sio. Ergo magnanimitas non est circa honores. 3. Praeterea, magnanimitas videtur pertinere magis ad prosecutionem quam ad fugam, dici­ tur enim magnanimus quia ad magna tendit. Sed virtuosi non laudantur ex hoc quod cupiunt honores, sed magis ex hoc quod eos fugiunt. Ergo magnanirnitas non est circa honores. Sed contra est quod philosophus dicit, in 4 Ethic. [3, 1 7] , quod magnanimus est circa

honores et inhonorationes.

Respondeo dicendum quod magnanimitas ex suo nomine importat quandam extensionem animi ad magna. Consideratur autem habitu­ do virtutis ad duo, uno quidem modo, ad ma­ teriam circa quam operatur; alio modo, ad actum proptium, qui consistit in debito usu talis materiae. Et quia habitus virtutis princi­ paliter ex actu determinatur, ex hoc ptincipa­ liter dicitur aliquis magnanimus quod ani­ mum habet ad aliquem magnum actum. Aliquis autem actus potest dici dupliciter magnus, uno modo, secundum proportionem; alio modo, absolute. Magnus quidem potest dici actus secundum proportionem etiam qui consistit in usu alicuius rei parvae vel medio­ cris, puta si aliquis illa re optime utatur. Sed simpliciter et absolute magnus actus est qui consistit in optimo usu rei maximae. Res autem quae in usum horninis veniunt sunt res exteriores. Inter quae simpliciter maximum est honor, tum quia propinquissimum est vir­ tuti, utpote testificatio quaedam existens de virtute alicuius, ut supra [q. 1 03 A. l ] habi­ tum est; tum etiam quia Deo et optimis exhi­ betur; tum etiam qtùa homines propter hono­ rem consequendum et vituperium vitandum omnia alia postponunt. S i c autem dicitur aliquis magnanimus ex his quae sunt magna simpliciter et absolute, sicut dicitur aliquis fortis ex bis quae sunt simpliciter difficilia. Et ideo consequens est quod magnanimitas consistat circa honores. Ad primum ergo dicendum quod bonum vel

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l'irascibile. Ora, l'onore è un certo bene, og­ getto del concupiscibile, essendo «il premio della virtù». Quindi sembra che la magnani­ mità non abbia per oggetto gli onori. 2. La magnanimità, essendo una virtù morale, deve avere per oggetto o le passioni o le ope­ razioni esterne. Ma essa non riguarda le ope­ razioni, perché allora apparterrebbe alla giu­ stizia. Quindi riguarda le passioni. Ma l 'onore non è una passione. Quindi la magnanimità non riguarda gli onori. 3 . La magnanimità dice piuttosto tendenza che fuga: diciamo infatti che uno è magnani­ mo perché tende verso grandi cose. Ora, le persone virtuose sono lodate non perché bra­ mano, ma perché fuggono gli onori. Quindi la magnanimità non ha per oggetto gli onori. In contrario: il Filosofo afferma che «il ma­ gnanimo ha di mira gli onori e i disonori». Risposta: la magnanimità nel suo stesso nome implica una tendenza dell 'animo verso cose grandi. Ora, in una virtù si devono distinguere due relazioni: la prima con la materia della propria operazione, la seconda con l ' atto medesimo, che consiste nel debito uso di tale materia. E poiché l'abito virtuoso deve la sua determinazione principale all' atto, uno è detto magnanimo principalmente perché orienta il suo animo verso qualche grande atto. Ma un atto può dirsi grande in due modi: primo, in senso relativo; secondo, in senso assoluto. E certamente un atto può dirsi grande in senso relativo; anche se consiste nell'uso di una cosa piccola o mediocre: nel caso, p. es., che uno se ne serva in modo eccellente. Un atto è invece grande in senso assoluto quando consi­ ste nell'uso eccellente delle cose più grandi. Ora, le cose di cui l'uomo si serve sono quelle esterne. E tra queste la più grande è l'onore: sia perché è la più connessa con la virtù, quale testimonianza della virtù di una persona, come sopra si è visto, sia perché è tributato a Dio e ai migliori, sia ancora perché gli uomini tutto sacrificano per conseguire l'onore e per evitare l'infamia. Così dunque si dice che uno è magnanimo in base a quelle cose che sono grandi puramente e semplice­ mente in modo assoluto, come si dice che uno è forte in base a quelle cose che sono difficili in senso assoluto. Ne segue quindi che la magnanimità ha per oggetto gli onori. Soluzione delle difficoltà: l . li bene e il male

La magnanimità

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malum, absolute quidem considerata, pertinent ad concupiscibilem, sed inquantum additur ratio ardui, sic pertinet ad irascibilem. Et hoc modo honorem respicit magnanimitas, inquan­ tum scilicet habet rationem magni vel ardui. Ad secundum dicendum quod honor, etsi non sit passio vel operatio, est tamen alicuius pas­ sionis obiectum, scilicet spei, quae tendit in bo­ num arduum. Et ideo magnanimitas est qui­ dem immediate circa passionem spei, mediate autem circa honorem, sicut circa obiectum spei, sicut et de fortitudine supra [q. 1 23 a. 3 ad 2; a. 4] dictum est quod est circa pericula mortis inquantum sunt obiectum timoris et audaciae. Ad tertium dicendum quod illi qui contem­ nunt honores hoc modo quod pro eis adipi­ scendis nihil inconveniens faciunt, nec eos ni­ mis appretiantur, laudabiles sunt. Si quis autem hoc modo contemneret honores quod non curaret tàcere ea quae sunt digna honore, hoc vituperabile esset. Et hoc modo magnani­ mitas est circa honorem, ut videlicet studeat facere ea quae sunt honore digna, non tamen sic ut pro magno aestimet humanum honorem.

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considerati in assoluto appartengono al con­ cupiscibile, ma, se si presentano come ardui, allora appartengono all'irascibile. Ora, la ma­ gnanimità ha di mira l'onore sotto tale aspet­ to: cioè come cosa grande e ardua. 2. Sebbene l 'onore non sia né una passione né un'operazione, tuttavia è l'oggetto di una pas­ sione, cioè della speranza, che ha di mira il bene arduo. Quindi la magnanimità ha come oggetto immediato la passione della speranza, ma mediatamente ha di mira gli onori, che sono l'oggetto della speranza. Come si è detto sopra anche della fortezza, che riguarda i pericoli di morte in quanto oggetto del timore e dell'audacia. 3. Coloro che disprezzano gli onori rifiutan­ dosi di compiere tutto ciò che è riprovevole per acquistarli, e non considerandoli più del giusto, sono degni di lode. Chi però disprez­ zasse gli onori al punto di non preoccuparsi di compiere cose degne di onore, sarebbe biasi­ mevole. E in questo senso la magnanimità ha di mira gli onori: in modo cioè da compiere cose degne di onore, senza però stimare ec­ cessivamente gli onori umani.

Articulus 2

Articolo 2

Utrum magnanimitas de sui ratione habeat quod sit circa magnum honorem

La magnanimità ha per oggetto i grandi onori?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod magnanimitas de sui ratione non habeat quod sit circa magnum honorem. l . Propria enim materia magnanimitatis est honor, ut dictum est [a. 1 ] . Sed magnum et parvum accidunt honori. Ergo de ratione ma­ gnanimitatis non est quod sit circa magnum honorem. 2. Praeterea, sicut magnanimitas est circa ho­ nores, ita mansuetudo est circa iras. Sed non est de ratione mansuetudinis quod sit circa magnas iras, vel circa parvas. Ergo etiam non est de ratione magnanimitatis quod sit circa magnos honores. 3. Praeterea, parvus honor minus distat a ma­ gno honore quam exhonoratio. Sed magnani­ mus bene se habet circa exhonorationes. Ergo etiam et circa parvos honores. Non ergo est solum circa honores magnos. Sed contra est quod philosophus dicit, in 2 Ethic. [7 ,8], quod magnanimitas est circa magnos honores.

Sembra di no. Infatti: l . La materia propria della magnanimità è l'o­ nore, come si è visto. Ma è accidentale all'ono­ re essere grande o piccolo. Quindi la magnani­ mità come tale non ha di mira i grandi onori. 2. La magnanimità riguarda gli onori come la mansuetudine riguarda l'ira. Ma la mansuetu­ dine di per sé non ha per oggetto le grandi più che le piccole ire. Quindi anche la magnani­ mità non ha di per sé come oggetto i grandi onori. 3. Un onore modesto dista dagli onori grandi meno del disonore. Ma il magnanimo è porta­ to a comportarsi bene anche di fronte al diso­ nore. Quindi è suo compito farlo anche di fronte agli onori più modesti. Quindi non si limita ai grandi onori. In contmrio: il Filosofo insegna che «la ma­ gnanimità riguarda i grandi onori». Risposta: Aristotele scrive che «la virtù è una perfezione». E si intende la perfezione di una potenza, di cui costituisce «il coronamento».

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La magnanimità

Respondeo dicendum quod, secundum philo­ sophum, in 7 Phys. [ 1 1 ,7-8], virtus est peifec­ tio quaedam. Et intelligitur esse perfectio po­ tentiae, ad cuius ultimum pertinet, ut patet in l De caelo [ 1 1 ,7-8]. Perfectio autem potentiae non attenditur in qualicumque operatione, sed i n operatione quae habet aliquam magnitu­ dinem aut difficultatem, quaelibet enim potentia, quantumcumque imperfecta, potest in aliquam operationem modicam et debilem. Et ideo ad rationem virtutis pertinet ut sic circa difficile et bonum, ut dicitur in 2 Ethic. [3, 10]. Difficile autem et magnum, quae ad idem pertinent, in actu virtutis potest attendi dupliciter. Uno modo, ex parte rationis, in­ quantum scilicet difficile est medium rationis adinvenire et in aliqua materia statuere. Et ista difficultas sola invenitur in actu v i rtutum intellectualium, et etiam in actu iustitiae. Alia autem est difficultas ex parte materiae, quae de se repugnantiam habere potest ad modum rationis qui est circa eam ponendus. Et ista difficultas praecipue attenditur in aliis virtuti­ bus moralibus, quae sunt circa passiones, quia passiones pugnant contra rationem, ut Dio­ nysius dicit, 4 cap. De div. nom. [ 1 9]. - Circa quas considerandum est quod quaedam pas­ siones sunt quae habent magnam vim resi­ stendi rationi principaliter ex parte passionis, quaedam vero principaliter ex parte rerum quae sunt obiecta passionum. Passiones autem non habent magnam vim repugnandi rationi nisi fuerint vehementes, eo quod appe­ titus sensitivus, in quo sunt passiones, natu­ raliter subditur rationi. Et ideo virtutes quae sunt circa huiusmodi passiones non ponuntur nisi circa id quod est magnum in ipsis passio­ nibus, sicut fortitudo est circa maximos timo­ res et audacias, temperantia est circa maxi­ marum delectationum concupiscentias, et si­ militer mansuetudo est circa maximas iras. Passiones autem quaedam habent magnam vim repugnandi rationi ex ipsis rebus exterio­ ribus quae sunt passionum obiecta, sicut amor vel cupiditas pecuniae seu honoris. Et in istis oportet esse virtutem non solum circa id quod est maximum in eis, sed etiam circa medio­ cna vel minora, quia res exterius existentes, etiam si sint parvae, sunt multum appetibiles, utpote necessariae ad hominis vitam. Et ideo circa appetitum pecuniarum sunt duae virtu­ tes, una quidem circa mediocres et moderatas,

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Ora, la perfezione di una potenza non si ri­ scontra in un'opera qualsiasi, ma in un' opera grande e difficile: poiché qualunque potenza, anche quella meno perfetta, è capace di un atto modesto e facile. Perciò la nozione di virtù richiede che questa abbia di mira «il dif­ ficile e il bene», come dice Aristotele. Ora, nell'atto della virtù la difficoltà e la grandez­ za, che in realtà si identificano, possono esse­ re considerate da due punti di vista. Primo, rispetto alla ragione, cioè in quanto il difficile sta nel determinare e nell' applicare in una data matetia il giusto mezzo. E questa diffi­ coltà si riscontra solo nell ' atto delle virtù intellettuali e nell'atto della giustizia. C'è poi una seconda difficoltà dalla parte della mate­ ria, la quale può essere ribelle alla misura della ragione a cui deve sottostare. E questa difficoltà si riscontra specialmente nelle altre virtù morali, che hanno per oggetto le passio­ ni: poiché «le passioni sono in lotta con la ragione», come dice Dionigi. - E a proposito di queste ultime si deve tener presente che alcune oppongono una grande resistenza dalla parte della passione, altre invece dalla parte delle cose che fonnano l' oggetto delle passio­ ni. Ora, le passioni non hanno una grande capacità di resistere alla ragione se non sono violente: poiché l' appetito sensitivo, in cui le passioni risiedono, è sottoposto per natura alla ragione. Quindi le virtù assegnate a questo genere di passioni sono soltanto quelle che hanno di mira la materia più ardua: come la fortezza riguarda i più gravi timori e le più grandi audacie, la temperanza le concupiscen­ ze dei più grandi piaceri e la mansuetudine le ire più violente. - Ci sono invece delle passio­ ni, quali ad es. l'amore e la brama del danaro e degli onori, che devono la loro forte resi­ stenza contro la ragione alle cose esterne che ne formano l'oggetto. E per queste la virtù è richiesta non solo rispetto alle cose più impor­ tanti, ma anche tispetto a quelle meno tilevan­ ti o minoti: poiché le cose esterne, anche se piccole, possono essere molto appetibili, in quanto necessarie alla vita. E così per la bra­ ma del danaro si tiscontrano due virtù, cioè la liberalità per le ticchezze moderate e la ma­ gnificenza per quelle rilevanti. Parimenti an­ che rispetto agli onori ci sono due virtù. L'una per quelli più modesti, e questa è senza nome; sono tuttavia ricordati i suoi estremi, che sono

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scilicet liberalitas; alia autem circa magnas pecunias, scilicet magnificentia. Similiter etiam et circa honores sunt duae virtutes. Una quidem circa mediocres honores, quae inno­ minata est, nominatur tamen ex suis extremis, quae sunt philotimia, idest amor honoris, et aphilotimia, idest sine amore honoris; lau­ datur enim quandoque qui amat honorem, quandoque autem qui non curat de honore, prout scilicet utrumque moderate fieri potest. Circa magnos autem honores est magnanimi­ tas. Et ideo dicendum est quod propria mate­ ria magnanimitatis est magnus honor, et ad ea tendit magnanimus quae sunt magno honore digna. Ad primum ergo dicendum quod magnum et parvum per accidens se habent ad honorem secundum se consideratum, sed magnam dif­ ferentiam faciunt secundum quod comparan­ tur ad rationem, cuius modum in usu honoris observari oportet, qui multo diftìcilius obser­ vatur in magnis honoribus quam in parvis. Ad secundum dicendum quod in ira et in aliis materiis non habet difficultatem notabilem nisi illud quod est maximum, circa quod so­ lum oportet esse virtutem. Alia autem ratio est de divitiis et honoribus, quae sunt res extra animam existentes. Ad tertium dicendum quod ille qui bene utitur magnis, multo magis potest bene uti parvis. Magnanimitas ergo attendit magnos honores sicut quibus est dignus, vel etiam sicut mi­ nores his quibus est dignus, quia scilicet vir­ tus non potest sufficienter honorari ab homi­ ne, cui debetur honor a Deo. Et ideo non ex­ tollitur ex magnis honoribus, quia non reputat eos supra se, sed magis eos contemnit. Et multo magis moderatos aut parvos. Et si­ militer etiam dehonorationibus non frangitur, sed eas contemnit, utpote quas reputat sibi indigne afferri.

la filotimia, cioè l ' «amore degli onori», e l' afilotimia, cioè la «mancanza di amore per gli onori»: infatti talora è lodato chi ama gli onori, talora invece chi non se ne cura, purché le due cose siano fatte con moderazione. Inve­ ce rispetto ai grandi onori si ha la magnani­ mità. Perciò si deve concludere che la materia propria della magnanimità è costituita dai grandi onori; e il magnanimo tende a quelle cose che sono degne di grande onore. Soluzione delle difficoltà: 1 . La grandezza e la piccolezza sono condizioni accidentali per l' onore considerato in se stesso, ma costitui­ scono una grande differenza in rapporto alla ragione, di cui si deve accettare la misura nel­ l'uso degli onori: questa è infatti molto più difficile da osservarsi nei grandi che nei pic­ coli onori. 2. Nell' ira, come in altre materie, presentano notevoli difficoltà solo i casi estremi , per i quali soltanto si richiede la virtù. Invece per le ricchezze e per gli onori, che sono cose ester­ ne all' anima, la condizione è diversa. 3. Chi sa fare buon uso delle cose grandi, a maggior ragione sa fare buon uso delle picco­ le. Perciò il magnanimo considera i grandi onori come cose di cui si sente degno; o an­ che come inferiori ai suoi meriti, poiché la virtù, che merita l'onore di Dio, non può esse­ re adeguatamente onorata dagli uomini. Per­ ciò egli non si esalta per i grandi onori: poi­ ché non li considera superiori a se stesso, ma piuttosto li disprezza. E molto di più quelli moderati o piccoli. Come pure egli non si ab­ batte per il disonore, ma lo disprezza come una cosa ingiusta.

Articulus 3 Utrum magnanimitas sit virtus

Articolo 3 La magnanimità è una virtù?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod ma­ gnanimitas non sit virtus. l . Omnis enim virtus moralis in medio consistit. Sed magnanimitas non consistit in medio, sed in maximo, quia maximis dignificat seipsum, ut dicitur in 4 Ethic. [3,9]. Ergo magnanimitas non est virtus.

Sembra di no. Infatti: l . Le virtù morali consistono tutte nel giusto mezzo. Invece la magnanimità non consiste nel giusto mezzo, bensì in qualcosa di som­ mo: poiché, come dice Aristotele, il magna­ nimo «si crede degno delle più grandi cose». Quindi la magnanimità non è una virtù.

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La magnanimità

2. Praeterea, qui habet unam virtutem, habet ornnes, ut supra [I-II q. 65] habitum est. Sed aliquis potest habere aliquam virtutem non ha­ bens magnanimitatem, dicit enim philosophus, in 4 Ethic. [3,4], quod qui est pa1Vis dignus, et

his dignificat seipsum, temperatus est, ma­ gnanimus autem non. Ergo magnanirnitas non

est virtus. 3. Praeterea, virtus est bona qualitas mentis, ut supra [1-11 q. 55 a. 4] habitum est. Sed ma­ gnanimitas habet quasdam corporales dispo­ sitiones, dicit enim philosophus, in 4 Ethic. [3,34], quod motus lentus magnanimi videtur, et vox gravis, et locutio stabilis. Ergo magna­ nirnitas non est virtus. 4. Praeterea, nulla virtus opponitur alteri vir­ tuti. Sed magnanimitas opponitur humilitati, nam magnanimus dignum se reputar magnis, et alios contemnit, ut dicitur i n 4 Eth i c . [3,3.28]. Ergo magnanirnitas non est virtus. 5. Praeterea, cuiuslibet virtutis proprietates sunt laudabiles. Sed magnanirnitas habet quasdam proprietates vituperabiles, primo quidem, quod non est memor benefactorum; secundo, quod est otiosus et tardus; tertio, quod utitur ironia ad multos; quarto, quod non potest a/ii convivere; quinto, quod magis possidet infructuosa quam ftuctuosa. Ergo magnanimitas non est virtus. Sed contra est quod in laudem quomndam di­ citur, 2 Mach. 14 [ 1 8] , Nicanor audiens virtu­

tem comitwn ludae, et animi magnitudinem quam pro patriae certaminibus habebant, et

cetera. Laudabilia autem sunt solum virtutum opera. Ergo magnanirnitas, ad quam pertinet magnum animum habere, est virtus. Respondeo dicendum quod ad rationem virtu­ tis humanae pertinet ut in rebus humanis bo­ num rationis servetur, quod est proprium ho­ minis bonum. Inter ceteras autem res hu­ manas exteriores, honores praecipuum locum tenent, sicut dictum est [a. l]. Et inde magna­ nirnitas, quae modum rationis ponit circa ma­ gnos honores, est virtus. Ad primum ergo dicendum quod, sicut philo­ sophus dicit, in 4 Ethic. [3,8], magnanimus est quidem magnitudine exh·emus, inquantum scilicet ad maxima tendit, eo autem quod ut oportet, medius, quia videlicet ad ea quae sunt maxima, secundum rationem tendit; eo

enim quod secundum dignitatem seipsum di­ gnificat, ut ibidem dicitur, quia scilicet se non

extendit ad maiora quam dignus est.

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2. Chi possiede una virtù le possiede tutte, come sopra si è visto. Invece uno può avere delle virtù senza la magnanimità: infatti il Fi­ losofo scrive che «chi è degno di piccole cose e si stima degno di esse, è moderato, ma non magnanimo». Quindi la magnanimità non è una virtù. 3. Come si è visto, la virtù è una buona qua­ lità dell'anima. La magnanimità invece impli­ ca certe disposizioni del corpo: poiché il Filo­ sofo insegna che «il magnanimo ha il passo lento, la voce grave e il parlare posato». Quin­ di la magnanimità non è una virtù. 4. Nessuna virtù è incompatibile con un'altra. Ma la magnanimità è incompatibile con l'umil­ tà: infatti il magnanimo, come dice Aristotele, «Si stima degno di cose grandi, e disprezza gli altri». Quindi la magnanimità non è una virtù. 5. Qualsiasi virtù ha delle proprietà degne di lode. Invece il magnanimo ha delle proprietà riprovevoli : prima di tutto «non si ricorda dei benefici ricevuti»; secondo, «è ozioso e tardo»; terzo, «con i più si serve dell'ironia»; quarto, «non sa convivere con gli altri»; quinto, «prefe­ risce le cose belle e infmttuose a quelle fruttuo­ se». Perciò la magnanimità non è una virtù. In contrario: in 2 Mac 14 [ 1 8] a lode di alcuni è detto: Nicanore, sentendo parlare del valore

che avevano gli uomini di Giuda, e della loro grandezza d'animo nelle lotte per la patria.. .

Ora, degni di lode sono soltanto gli atti di virtù. Quindi la magnanimità, a cui appartiene la grandezza d'animo, è una virtù. Risposta: è proprio della virtù umana custodi­ re nelle cose umane la bontà di ordine razio­ nale, essendo la bontà propria dell' uomo. Ora, fra tutti i beni esterni dell'uomo l'onore occupa il primo posto, come sopra si è detto. Quindi la magnanimità, che impone nella brama dei grandi onori la moderazione della ragione, è una virtù. Soluzione delle difficoltà: l. Rispondiamo col Filosofo che «il magnanimo è estremo quanto alla grandezza», poiché tende alle più grandi cose, «ma è nel giusto mezzo in quanto vi tende come si deve», cioè seguendo la ragione: «infatti egli si stima nel suo giusto valore», co­ me si legge nel testo citato, poiché non preten­ de onori più grandi di quelli che gli spettano. 2. La connessione delle virtù non va intesa secondo i loro atti, cioè nel senso che ogni persona virtuosa debba avere gli atti di tutte le

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La magnanimità

Ad secundum dicendum quod connexio vir­ tutum non est intelligenda secundum actus, ut scilicet cuilibet competat habere actus omnium virtutum . Unde actus magnanimitatis non competit cuilibet virtuoso, sed solum magnis. Sed secundum principia virtutum, quae sunt prudentia et gratia, omnes virtutes sunt con­ nexae secundum habitus simul in anima exi­ stentes, vel in actu vel in propinqua disposi­ tione. Et sic potest aliquis cui non competit actus magnanimitatis, habere magnanimitatis habitum, per quem scilicet disponitur ad talem actum exequendum si sibi secundum statum suum competeret. Ad tertium dicendum quod corporales motus diversificantur secundum diversas animae apprehensiones et affectiones. Et secundum hoc contingit quod ad magnanimitatem conse­ quuntur quaedam determinata accidentia circa motus corporales. Velocitas enim motus pro­ venit ex eo quod homo ad multa intendit, quae explere festinat, sed magnanimus intendit solum ad magna, quae pauca sunt, quae etiam indigent magna attentione; et ideo habet mo­ tum tardum. Similiter etiam acuitas vocis, et velocitas, praecipue competit his qui de qui­ buslibet contendere volunt, quod non pertinet ad magnanimos, qui non intromittunt se nisi de magnis. Et sicut praedictae dispositiones cor­ poralium motuum conveniunt magnanimis se­ cundum modum affectionis eorum, ita etiam in his qui sunt naturaliter dispositi ad magnanimi­ tatem tales conditiones naturaliter inveniuntur. Ad quartum dicendum quod in homine inve­ nitur al iquid magnum, quod ex dono Dei possidet; et aliquis defectus, qui competit ei ex infirmitate naturae. Magnanimitas igitur facit quod homo se magnis dignifìcet secun­ dum considerationem donorum quae possidet ex Deo, sicut, si habet magnam virtutem ani­ m i , magnan i mi tas facit quod ad perfecta opera virtutis tendat. Et similiter est dicendum de usu cuiuslibet alterius boni, puta scientiae vel exterioris fortunae. Humilitas autem facit quod homo seipsum parvipendat secundum considerationem proprii defectus. - Similiter etiam magnanimitas contemnit alios secun­ dum quod deficiunt a donis Dei, non enim tantum alias appretiatur quod pro eis aliquid indecens faciat. Sed humilitas alias honorat, et superiores aestimat, inquantum in eis aliquid inspicit de donis Dei. Unde in Psalmo

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virtù. Poiché gli atti della magnanimità non competono a tutti i virtuosi, ma solo ai grandi. Invece tutte le virtù sono connesse nelle loro cause o princìpi, che sono la prudenza e la grazia, in quanto abiti coesistenti inseparabil­ mente nell' anima, o i n maniera attuale o come disposizioni prossime. E così una per­ sona a cui non spetta I' atto di questa virtù può avere l'abito della magnanimità: un abito cioè che la dispone a compiere quell'atto qualora il suo stato lo esigesse. 3. I moti o atteggiamenti del corpo sono diversi secondo i diversi pensieri e sentimenti dell ' anima. Ed è per questo motivo che la magnanimità è accompagnata da certi atteg­ giamenti del corpo. Infatti la sveltezza deriva dal fatto che uno bada a molte cose, che cerca di sbrigare rapidamente; invece il magnanimo bada solo alle cose grandi, che sono poche e che richiedono grande attenzione: perciò i suoi movimenti sono lenti. E così pure il tono alto della voce e il parlare vivace si addicono a quelli che vogliono discutere di tutto, ma non ai magnanimi, che si occupano solo delle cose grandi. E come i suddetti atteggiamenti del corpo convengono ai magnanimi a motivo dei loro sentimenti, così pure essi si riscontra­ no naturalmente in quanti per natura sono predisposti alla magnanimità. 4. Nell' uomo c ' è qualcosa di grande, che deriva dal dono di Dio, e ci sono dei difetti dovuti ali' infermità della sua natura. Ora, la magnanimità fa sì che l'uomo «si consideri degno di grandi onori» in base ai doni ricevuti da Dio. Se dunque uno, p. es., è di grande virtù, la magnanimità fa sì che egli tenda a grandi opere virtuose. E Io stesso si dica per l'uso di qualsiasi altro bene, p. es. della scien­ za o dei beni di fortuna. Invece l'umiltà fa sì che uno si disprezzi in considerazione dei propri difetti. - Parimenti la magnanimità disprezza gli altri in quanto destituiti dei doni di Dio: infatti essa non fa caso degli altri al punto di compiere qualcosa di riprovevole. Invece l'umiltà onora gli altri e li stima supe­ riori in quanto considera in essi i doni di Dio. Perciò nel Sa/ 14 [4] è detto: Ai suoi occhi è spregevole il malvagio, e ciò si riferisce al disprezzo proprio del magnanimo, ma onora coloro che temono il Signore, e ciò si riferisce all'atteggiamento rispettoso dell'umile. - Co­ sì dunque è evidente che la magnanimità e

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[ 1 4,4] dicitur de viro iusto, ad n ih ilum deductus est in conspectu eius malignus, quod pertinet ad contemptum magnanimi; timentes autem Dominum glorificat, quod pertinet ad honorationem humilis. - Et sic patet quod magnanimitas et humilitas non sunt contraria, quamvis in contraria tendere videantur, quia procedunt secundum diversas considerationes. Ad quintum dicendum quod proprietates illae, secundum quod ad magnanimum pertinent, non sunt vituperabiles, sed superexcedenter laudabiles. Quod enim primo dicitur [Ethic. 4,3,25 ] , quod magnanimus non habet in memoria a quibus beneficia recipit, intelligen­ dum est quantum ad hoc quod non est sibi delectabile quod ab aliquibus beneficia reci­ piat, quin sibi maiora recompenset. Quod per­ tinet ad perfectionem gratitudinis, in cuius actu vult superexcellere, sicut et in actibus aliarum virtutum. - Similiter etiam secundo dicitur [Ethic. 4,3,27] quod est otiosus et tar­ dus, non quia deficiat ab operando ea quae sibi conveniunt, sed quia non ingerit se quibus­ cumque operibus sibi convenientibus, sed solum magnis, qualia decent eum. - Dicitur [Ethic. 4,3,28] etiam tertio quod utitur ùvnia, non secundum quod opponitur veritati, ut scilicet dicat de se aliqua vilia quae non sunt vel neget aliqua magna quae sunt, sed quia non totam magnitudinem suam monstrat, ma­ xime quantum ad inferiorum multitudinem; quia sicut philosophus ibidem [Ethic. 4,3,26] dicit, ad magnanimum pertinet magnum esse

ad eos qui in dignitate et bonis fortunis sunt, ad medios autem moderatum. Quarto etiam dicitur [Ethic. 4,3,29] quod ad alios non potest convivere, scilicet familiariter, nisi ad amicos, -

quia omnino vitat adulationem et simula­ tionem, quae pertinent ad animi parvitatem. Convivit tamen omnibus, et magnis et parvis, secwuium quod opol1et, ut dictum est [ad 1]. ­ Quinto etiam dicitur [Ethic. 4,3,33] quod vult habere magis infructuosa, non quaecumque, sed bona, idest honesta. Nam in omnibus praeponit honesta utilibus, tanquam maiora, utilia enim quaeruntur ad subveniendum alicui defectui, qui magnanimitati repugnat.

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l'umiltà non sono virtù contrarie, sebbene sembrino tendere a cose opposte: partono in­ fatti da considerazioni diverse. 5. Le proprietà indicate non sono riprovevoli, ma lodevoli al massimo in quanto apparten­ gono alla magnanimità. Infatti la prima, che consiste nel «non ricordarsi dei benefici rice­ vuti», è da intendersi nel senso che il magna­ nimo non gradisce ricevere benefici senza rendeme di maggiori. n che rientra nella per­ fezione della gratitudine, in cui egli vuole eccellere come anche negli atti di tutte le altre virtù. - Parimenti si dice in secondo luogo che egli «è ozioso e tardo» non perché si ri­ fiuti di compiere le cose che lo riguardano, ma nel senso che non si intromette in tutte le faccende che lo riguardano, bensì solo i n quelle più grandi che sono degne d i lui. Terzo, si dice inoltre che egli «si serve dell'i­ ronia>> non in quanto essa è un vizio contrario alla veracità, cioè nel senso che egli attribui­ sca a se stesso dei difetti che non ha, o neghi i propri meriti, ma nel senso che non fa mostra di tutta la sua grandezza, specialmente con la massa degli inferiori: poiché, come nota il Fi­ losofo nello stesso luogo, è proprio del ma­ gnanimo «essere grande con i nobili e con i ricchi, e modesto con quelli di media condi­ zione». - Quarto, si dice che «egli non sa con­ vivere», cioè familiarmente, «se non con gli amici», poiché rifugge dall'adulazione e dalla simulazione, che sono proprie della pusillani­ mità. Thttavia egli convive con tutti, grandi e piccoli, «nella maniera dovuta», secondo le spiegazioni date. - Quinto, si dice finalmente che «egli preferisce le cose infruttuose» non di qualsiasi tipo, ma «buone», cioè oneste. Infatti in tutti i casi egli preferisce l'onesto all'utile, in quanto più nobile: poiché l'utile è cercato per sopperire a delle deficienze, che sono incompatibili con la magnanimità.

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Articulus 4

Articolo 4

Utrum magnanimitas sit specialis virtus

La magnanimità è una virtù speciale?

Ad quartum sic proceditur. Vìdetur quod ma­ gnanimitas non sit specialis virtus. l . Nulla enim specialis virtus operatur i n omnibus virtutibus. Sed philosophus dicit, i n 4 Ethic. [3, 14], quod ad magnanimum perti­ net quod est in unaquaque virrure magnum. Ergo magnanimitas non est specialis vittus. 2. Praeterea, nulli speciali virtuti attribuuntur actus virtutum diversarum. Sed magnanimo attribuuntur diversarum virtutum actus, dicitur enim in 4 Ethic. [3, 1 5 ; 3,24; 3,26; 3,28; 3,32], quod ad magnanimum pertinet non fugere commonentem, quod est actus prudentiae; neque facere iniusta, quod est actus iustitiae; et quod est promptus ad benefaciendum, quod est actus caritatis; et quod ministrat prompte, quod est actus liberalitatis; et quod est veridi­ cus, quod est actus veritatis; et quod non est planctivus, quod est actus patientiae. Ergo magnanimitas non est virtus specialis. 3. Praeterea, quaelibet virtus est quidam spiri­ tualis ornatus animae, secundum illud Isaiae 6 1 [ 1 0], induit me Dominus vestimentis saht­ tis; et postea subdit, quasi sponsam omatam monilibus suis. Sed magnanimitas est omatus omnium virtutum, ut dicitur in 4 Ethic. [3, 1 6] . Ergo magnanimitas est generalis virtus. Sed contra est quod philosophus, in 2 Ethic. [7,7], distingui t eam contra alias virtutes. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 2] dictum est, ad specialem virtutem pertinet quod modum rationis in aliqua determinata materia ponat. Magnanimitas autem ponit modum rationis circa determinatam mate­ riam, scilicet circa honores, ut supra [aa. 1 -2] dictum est. Honor autem, secundum se consi­ deratus, est quoddam bonum speciale. Et secundum hoc magnanimitas, secundum se considerata, est quaedam specialis virtus. Sed quia honor est cuiuslibet virtutis praemium, ut ex supra [q. 1 03 a. l ad 2] dictis patet; ideo ex consequenti, ratione suae materiae, respicit omnes virtutes. Ad primum ergo dicendum quod magnanimi­ las non est circa honorem quemcumque, sed circa magnum honorem . Sicut autem honor debetur virtuti, ita etiam magnus honor debe­ tur magno operi virtutis. Et inde est quod ma­ gnanimus intendit magna operari in qualibet

Sembra di no. Infatti: l . Una virtù speciale non compie gli atti di tutte le virtù. Ora, il Filosofo afferma che è del magnanimo «essere grande in tutte le virtù». Quindi la magnanimità non è una virtù speciale. 2. A nessuna virtù specificamente distinta si attribuiscono atti di virtù diverse. Invece al magnanimo sono attribuiti atti di virtù diver­ se: infatti Aristotele afferma che è proprio del magnanimo «non respingere le critiche», che è un atto di prudenza; «non commettere ingiustizie», che è un atto di giustizia; «essere pronto a beneficare», che è un atto di carità; «elargire con prontezza», che è un atto di liberalità; essere «veritiero», che è un atto di veracità; e «non essere facile al pianto», che è un atto di pazienza. Quindi la magnanimità non è una virtù speciale. 3. Ogni virtù è un particolare ornamento spiri­ tuale dell'animo, come è detto in /s 6 1 [ I O] :

Mi ha rivestito il Signore delle vesti di salvez­ za; e continua: come una sposa adorna dei suoi gioielli. Ora, secondo Aristotele, la ma­ gnanimità è «l'ornamento di tutte le virtù». Quindi la magnanimità è una virtù generale. In conu·ario: il Filosofo la distingue da tutte le altre virtù. Risposta: come sopra si è visto, è proprio di una virtù speciale rispettare la misura della ragione in una determinata materia. Ora, la magnanimità rispetta tale misura in una deter­ minata materia, cioè a proposito degli onori, come sopra si è detto. D'altra parte l'onore, in sé considerato, è un bene speciale. Quindi la magnanimità, in sé considerata, è una virtù speciale. Ma poiché l' onore è il premio di qualsiasi virtù, come si è notato sopra, ne viene che a motivo della propria materia la magnanimità riguarda tutte le virtù. Soluzione delle difficoltà: l . La magnanimità non ha di mira qualsiasi onore, ma i grandi onori. Ora, se a una virtù è dovuto l'onore, ai grandi atti di virtù sono dovuti grandi onori. E così il magnanimo tende a compiere grandi azioni in ogni virtù: in quanto mira ad atti che sono degni di un grande onore. 2. Siccome il magnanimo mira alle grandi cose, ne segue che egli preferisce quelle che

La magnanimità

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virtute, inquantum scilicet tendit ad ea quae sunt digna magno honore. Ad secundum dicendum quod quia magnani­ mus tendit ad magna, consequens est quod ad illa praecipue tendat quae important aliquam excellentiam, et illa fugiat quae pettinent ad defectum. Pertinet autem ad quandam excel­ lentiam quod aliquis bene faciat, et quod sit communicativus, et plurium retributivus. Et ideo ad ista promptum se exhibet, inquantum habent rationem cuiusdam excellentiae, non autem secundum eam rationem qua sunt actus aliarum virtutum. Ad detectum autem pertinet quod aliquis intantum magnipendat aliqua exteriora bona vel mala quod pro eis a iustitia vel quacumque virtute declinet. Similiter etiam ad defectum pertinet omnis occultatio veritatis, quia videtur ex timore procedere. Quod etiam aliquis sit planctivus, ad defectum pertinet, quia per hoc videtur animus exterioribus malis succumbere. Et ideo haec et similia vitat ma­ gnanimus secundum quandam specialem ra­ tionem, scilicet tanquam contraria excellentiae vel magnitudini. Ad tertium dicendum quod quaelibet virtus habet quendam decorem sive omatum ex sua specie, qui est proprius unicuique virtuti. Sed superadditur alius omatus ex ipsa magnitudine operis virtuosi per magnanimitatem, quae omnes virtutes maiores facit, ut dicitur in 4 Ethic. [3,16]. Articulus 5

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implicano una qualche eccellenza, e rifugge da quelle che implicano un difetto. Ora, il beneficare, l'elargire e il ricompensare impli­ cano una certa eccellenza. Ed è per questo che il magnanimo è pronto a compiere tali atti, non già perché sono atti di altre virtù. Al contrario implica un difetto che uno faccia tanto caso dei beni o dei mali esterni da ab­ bandonare per essi la giustizia o qualsiasi al­ tra virtù. Parimenti dice difetto qualsiasi oc­ cultazione della verità: poiché ciò deriva dal timore. E anche la facilità a piangere include una menomazione: poiché in tal modo l'ani­ mo mostra di soccombere ai mali esterni. Per­ ciò il magnanimo evita queste e altre simili cose per un motivo speciale, cioè in quanto contrarie alla propria eccellenza o grandezza. 3. Ogni virtù ha un certo decoro od ornamento dalla propria specie, ornamento che è proprio di ciascuna. Ma la grandezza di un'azione vir­ tuosa procurata dalla magnanimità, che secon­ do l' espressione di Aristotele «fa crescere» tutte le virtù, aggiunge un nuovo splendore.

Articolo 5

Utrum magnanimitas sit pars fortitudinis

La magnanimità è una parte della fortezza?

Ad quintum sic proceditur. Vìdetur quod ma­ gnanimitas non sit pars fortitudinis. l . Idem enim non est pars sui ipsius. Sed magnanimitas videtur idem esse fortitudini. Dicit enim Seneca, in libro De quatuor virtut. [cf. Martinum de Bracara, Formula honestae vitae, c. 2], magnanimitas, quae et fortitudo

Sembra di no. Infatti: l . Una cosa non può essere parte di se mede­ sima. Ora, la magnanimità si identifica con la fortezza. Infatti Seneca ha scritto: «Se nel tuo animo c ' è la magnanimità, che è chiamata anche fortezza, vivrai con grande fiducia». E Cicerone: «Gli uomini forti vogliamo che sia­ no anche magnanimi, amici della verità e per nulla mendaci». Quindi la magnanimità non è una parte [potenziale] della fortezza. 2. n Filosofo insegna che «il magnanimo non � philokìndynos», cioè amante del pericolo. E invece proprio dei forti esporsi ai pericoli. Quindi la magnanimità non ha affinità con la fortezza, in modo da potersi dire una sua parte.

dicitw; si insit animo tuo, cum magna fiducia vives. Et Thllius dicit, in l De off. [ 1 9], viros fortes magnanimos esse eosdem volumus, ve­ ritatis amicos, minimeque fallaces. Ergo magnanimitas non est pars fortitudinis. 2. Praeterea, philosophus dicit, in 4 Ethic. [3,23], quod magnanimus non est philokindy­ nus, idest amator periculi. Ad fortem autem pertinet exponere se periculis. Ergo magnani-

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La magnanimità

mitas non convenit cum fortitudine, ut possit dici pars eius. 3. Praeterea, magnanimitas respicit magnum in bonis sperandis, fortitudo autem respicit magnum in malis timendis vel audendis. Sed bonum est principalius quam malum. Ergo magnanimitas est principalior virtus quam fortitudo. Non ergo est pars eius. Sed contra est quod Macrobius [In som. S. 1 ,8] et Andronicus [De affect., De fortitudine] ponunt magnanimitatem fortitudinis partem. Respondeo dicendum quod, sicut supra [I-II q. 61 aa. 3-4] dictum est, principalis virtus est ad quam pertinet aliquem generalem modum virtutis constituere in aliqua materia principali. lnter alios autem generales modos virtutis unus est finnitas animi, quiafinniter se habere requiritur in ornni virtute, ut dicitur in 2 Ethic. [4,3]. Praecipue tamen hoc laudatur in virtu­ tibus quae in aliquod arduum tendunt, i n quibus difficillimum est firmitatem servare. Et ideo quanto difficilius est in aliquo arduo firmiter se habere, tanto principalior est virtus quae circa illud firmitatem praestat animo. Difficilius autem est firmiter se habere in periculis mortis, in quibus confirmat animum fortitudo, quam in maximis bonis sperandis vel adipiscendis, ad quae confmnat animum magnanimitas, quia sicut homo maxime diligit vitam suam, ita maxime refugit mortis pericu­ la. Sic ergo patet quod magnanimitas convenit cum fortitudine inquantum confirmat animum circa aliquid arduum, deficit autem ab ea in hoc quod firmat animum in eo circa quod facilius est firmitatem servare. Unde magnani­ mitas ponitur pars fortitudinis, quia adiungitur ei sicut secondaria principali. Ad primum ergo dicendum quod, sicut philo­ sophus dicit, in 5 Ethic. [ 1 , 10; 3, 1 5], carere malo accipitur in ratione boni. Unde et non superari ab aliquo gravi malo, puta a periculis mortis, accipitur quodammodo pro eo quod est attingere ad magnum bonum, quorum primum pertinet ad fortitudinem, secundum ad magnanimitatem. Et secundum hoc fortitu­ do et magnanimitas pro eodem accipi pos­ sunt. Quia tamen alia ratio difficultatis est in utroque pmedictorum, ideo, proprie loquendo, magnanimitas ab Aristotele [Ethic. 2,7,2.7] ponitur alia virtus a fortitudine. Ad secundum dicendum quod amator pericoli dicitur qui indifferenter se periculis exponit.

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3. La magnanimità ha di mira ciò che è gran­ de tra i beni sperabili, mentre la fortezza ha di mira ciò che è grande tra i mali temibili, o affrontabili. Ora, il bene è superiore al male. Quindi la magnanimità è una virtù superiore alla fortezza. E così non è una sua parte [potenziale]. In contrario: Macrobio e Andronico pongono la magnanimità tra le parti della fortezza. Risposta: come dicemmo sopra, una virtù è principale se applica uno dei caratteri generali delle virtù in una materia principale. Ora, uno dei caratteri generali delle virtù è la fermezza d'animo: poiché il comportamento fermo è ri­ chiesto in qualsiasi virtù, come dice Aristote­ le. Però questo è apprezzato specialmente in quelle virtù che mirano a qualcosa di arduo, in cui è assai difficile mantenere la fennezza. Perciò quanto più è difficile mantenersi fermi in qualcosa di arduo, tanto più è principale la virtù che dà all'animo tale fermezza. Ora, è più difficile mantenersi fermi nei pericoli di morte, in cui spetta alla fortezza dare fermez­ za d'animo, che nello sperare e nel conseguire i più grandi beni, in cui dare tale fermezza spetta alla magnanimità: poiché l'uomo rifug­ ge al sommo i pericoli di morte, come ama al sommo la propria vita. Perciò è evidente che la magnanimità coincide con la fortezza in quanto entrambe danno fermezza d'animo in qualcosa di arduo; tuttavia non ne mggiunge la natura, poiché dà la fermezza d'animo in cose dove è più facile mantenerla. Quindi la magnanimità è posta tra le parti della fortez­ za, poiché si aggiunge ad essa come una virtù secondaria alla principale. Soluzione delle difficoltà: l . Come insegna il Filosofo, «I' assenza di un male è considemto come un bene». Perciò il non lasciarsi sopraf­ fare da un grave male, p. es. dai pericoli di morte, è considerato come la conquista di un grande bene: ora, la prima cosa spetta alla for­ tezza, la seconda alla magnanimità. Da questo lato dunque la fortezza e la magnanimità pos­ sono identificarsi. Siccome però è diversa la difficoltà che le due cose presentano, parlan­ do a rigore di termini Aristotele distingue la magnanimità dalla fortezza. 2. Si dice che ama i pericoli chi vi si espone indiscriminatamente. E ciò è proprio di chi indifferentemente stima grandi molte cose, il che è incompatibile con la magnani mità:

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Quod videtur pertinere ad eum qui indifferen­ ter multa quasi magna existimat, quod est con­ tra rationem magnanimi, nullus enim videtur pro aliquo se periculis exponere nisi illud magnum existimet. Sed pro his quae vere sunt magna, magnanimus promptissime periculis se exponit, quia operatur magnum in actu for­ titudinis, sicut et in actibus aliarum virtutum. Unde et philosophus ibidem [Ethic. 4,3,23] di­ cit quod magnanimus non est microkindynus, idest pm parvis periclitans, sed megalokindy­ nus, idest pro magnis periclitans. Et Seneca dicit, in libro De quatuor virtut. [cf. Martinum de Bracara, Formula honestae vitae, c. 2], eris

magnanimus, si pericula nec appetas ut teme­ rarius, necj01mides ut timidus, nam nihil timi­ dum facit animum nisi reprehensibilis vitae conscientia. Ad tertium dicendum quod malum, inquantum huiusmodi, fugiendum est, quod autem sit contra ipsum persistendum, est per accidens, inquantum scilicet oportet sustinere mala ad conservationem bonorum. Sed bonum de se est appetendum, et quod ab eo refugiatur, non est nisi per accidens, inquantum scilicet existi­ matur excedere facultatem desiderantis. Sem­ per autem quod est per se potius est quam id quod est per accidens. Et ideo magis repugnat firmitati animi arduum in malis quam arduum in bonis. Et ideo principalior est virtus fortitu­ dinis quam magnanimitatis, licet enim bonum sit simpliciter principalius quam malum, malum tamen est principalius quantum ad hoc.

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infatti nessuno si espone a dei pericoli per ciò che non considera grande. Ora, il magnanimo si espone con somma prontezza ai pericoli per cose che sono veramente grandi: poiché egli nella fortezza mira a ciò che è grande, come anche negli atti delle altre virtù. Perciò il Filo­ sofo spiega che il magnanimo non è micro­ kìndynos, cioè «pronto a esporsi nelle cose piccole», ma megalokìndynos, cioè , poiché l 'indigenza è pro­ pria dei miseri. Ciò però va inteso secondo il modo umano: infatti egli aggiunge: «O quasi». Poiché non aver bisogno assolutamente di nulla è al di là dell'umano. Infatti ogni uomo ha bisogno prima di tutto dell'aiuto di Dio, e secondariamente anche dell'aiuto umano, es­ sendo l'uomo per natura un animale socievole che non può bastare a se stesso per vivere. Perciò il magnanimo, i n quanto ha bisogno degli altri, è portato ad avere fiducia in essi: poiché contribuisce all'eccellenza di un uomo

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fiduciam de aliis, quia hoc etiam ad excellen­ tiam hominis pertinet, quod habeat alios in promptu qui eum possint iuvare. Inquantum autem ipse aliquid potest, intantum ad magnani­ mitatem pertinet fiducia quam habet de seipso. Ad secundum dicendum quod, sicut supra [I-ll q. 23 a. 2; q. 40 a. 4] dictum est, cum de pas­ sionibus ageretur, spes quidem directe op­ ponitur desperationi, quae est circa idem obiectum, scilicet circa bonum, sed secundum contrarietatem obiectorum opponitur timori, cuius obiectum est malum. Fiducia autem quoddam robur spei importat. Et ideo op­ ponitur timori, sicut et spes. Sed quia fortitudo proprie firmat hominem contra mala, ma­ gnanimitas autem circa prosecutionem bono­ rum; inde est quod fiducia magis proprie pertinet ad magnanimitatem quam ad fortitu­ dinem. Sed quia spes causat audaciam, quae pertinet ad fortitudinem, inde est quod fiducia ad fortitudinem ex consequenti pertinet. Ad tertium dicendum quod fiducia, sicut dic­ tum est [in co.], importat quendam modum spei, est enim fiducia spes roborata ex aliqua firma opinione. Modus autem adhibitus alicui affectioni potest pertinere ad commendationem ipsius actus, ut ex hoc sit meritorius, non tamen ex hoc determinatur ad speciem virtutis, sed ex materia. Et ideo fiducia non potest, proprie lo­ quendo, nominare aliquam virtutem, sed potest nominare conditionem virtutis. Et propter hoc numeratur inter partes fortitudinis, non quasi virtus adiuncta (nisi secundum quod accipitur pro magnanimitate a Thllio [2,54]), sed sicut pars integralis, ut dictum est [q. 1 28 a. unic.].

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anche il fatto di avere a disposizione chi può aiutarlo. Ma nella misura in cui uno può agire da se stesso, il magnanimo ha fiducia i n se stesso. 2. Come già si è detto nel trattato sulle passioni, la speranza si contrappone direttamente alla disperazione, che si riferisce al medesimo og­ getto, cioè al bene; si contrappone però anche al timore, che ha per oggetto il male, per la contra­ rietà dei rispettivi oggetti. Ora, la fiducia impli­ ca un vigore particolare della speranza. Perciò essa è contraria al timore, come anche la spe­ ranza. Ma dato che la fortezza propriamente irrobustisce l'uomo contro il male, mentre la magnanimità lo irrobustisce nel raggiungimen­ to del bene, è chiaro che propriamente la fiducia rientra più nella magnanimità che nella fortez­ za. Siccome tuttavia la speranza causa l'auda­ cia, che appartiene alla fortezza, ne risulta che la fiducia indirettamente è implicita anche nella fortezza. 3. Come si è visto, la fiducia implica una mo­ dalità della speranza: essa infatti è la speranza rafforzata da una salda convinzione. Ora, la modalità di un sentimento può contribuire al valore di un atto, così da renderlo meritorio, ma non può porlo nella specie di una data virtù, che dipende invece dalla sua materia. Perciò, a rigore di termini, la fiducia non può indicare una data virtù, ma una sua modalità. E così essa è enumerata tra le parti della fortezza non come una virtù annessa (a meno di non prenderla con Cicerone come l 'equivalente della magnanimità), ma come una delle sue parti integranti, secondo quanto si è detto.

Articulus 7

Articolo 7

Utrum securitas ad magnanimitatem pertineat

Nella magnanimità rientra la sicurezza?

Ad septirnum sic proceditur. Videtur quod se­ curitas ad magnanimitatem non pertineat. l . Securitas enim, ut supra [q. 1 28 a. unic. ad 6] habitum est, importat quietem quandam a perturbatione timoris. Sed hoc maxime facit fortitudo. Ergo securitas videtur idem esse quod fortitudo. Sed fortitudo non pertinet ad magnanimitatem, sed potius e converso. Ergo neque securitas ad magnanimitatem pertinet. 2. Praeterea, Isidorus dicit, in libro Etymol. [ l O, ad litt. S], quod securus dicitur quasi sine cura. Sed hoc videtur esse contra virtutem, quae

Sembra di no. Infatti: l . La sicurezza, come si è già visto, implica l'eliminazione del turbamento causato dal ti­ more. Ma questo è un effetto speciale della fortezza. Quindi la sicurezza si identifica con quest'ultima. La fortezza però non rientra nella magnanimità, ma piuttosto è vero il con­ trario. Perciò la sicurezza non rientra nella magnanimità. 2. Isidoro afferma che «sicuro significa sine cura» [cioè senza sollecitudine] . Ma questo atteggiamento è incompatibile con la virtù,

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curam habet de rebus honestis, secundum illud apostoli, 2 ad Tim. 2 [ 1 5], sollicite cura teipsum pmbabilem exhibere Deo. Ergo secu­ ritas non pertinet ad magnanimitatem, quae operatur magnum in omnibus virtutibus. 3. Praeterea, non est idem virtus et virtutis praemium. Sed securitas ponitur praemium virtutis, ut patet Iob I l [ 14. 1 8] , si iniquitatem quae est in manu tua abstuleris, defossus secunts dormies. Ergo securitas non pertinet ad magnanimitatem, neque ad aliam virtutem, sicut pars eius. Sed contra est quod Tullius dicit, in l De off. [20], quod ad magnanimum pertinet neque perturbationi animi, neque homini, nequefor­ tunae succumbere. Sed in hoc consistit ho­ minis securitas. Ergo securitas ad magnanimi­ tatem pertinet. Respondeo dicendum quod, sicut philosophus dicit, in 2 suae Rhetoricae [5,14] , limar facit homines consiliativos, inquantum scilicet eu­ ram habent qualiter possint ea evadere quae timent. Securitas autem dicitur per remotio­ nem huius curae quam timor ingerit. Et ideo securitas importat quandam perfectam quie­ tem animi a timore, sicut fiducia importat quoddam robur spei. Sicut autem spes directe pertinet ad magnanimitatem, ita timor directe pertinet ad fortitudinem. Et ideo, sicut fiducia immediate pertinet ad magnanimitatem, ita securitas immediate pertinet ad fortitudinem. Considerandum tamen est quod, sicut spes est causa audaciae, ita timor est causa desperatio­ nis, ut supra [I-II q. 45 a. 2] habitum est, cum de passionibus ageretur. Et ideo, sicut fiducia ex consequenti pertinet ad fortitudinem, in­ quantum utitur audacia; ita et securitas ex consequenti pertinet ad magnanimitatem, in­ quantum repellit desperationem. Ad primum ergo dicendum quod fortitudo non praecipue laudatur ex hoc quod non ti­ meat, quod pertinet ad securitatem, sed in­ quantum importat firmitatem quandam in passionibus. Unde securitas non est idem quod fortitudo, sed est quaedam conditio eius. Ad secundum dicendum quod non quaelibet securitas est laudabilis, sed quando deponit aliquis curam prout debet, et in quibus timere non oportet. Et hoc modo est conditio fortitu­ dinis et magnanimitatis. Ad tertium dicendum quod in virtutibus est quaedam sinùlitudo et participatio futurae bea-

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che ha sollecitudine delle cose oneste, come è detto in 2 Tm 2 [ 1 5] : Sii sollecito di presen­ tarti davanti a Dio come un uomo degno di appmvazione. Quindi la sicurezza non rientra nella magnanimità, che compie ciò che è grande in tutte le virtù. 3 . La virtù non si identifica con il premio. Invece la sicurezza è data come premio della virtù, come risulta da Gb 1 1 [ 14. 1 8]: Se allon­ tanerai l'iniquità che è nella tua mano, sepol­ to riposerai tranquillo. Quindi la sicurezza non rientra come parte nella magnanimità, e neppure in altre virtù. In contrario: Cicerone scrive che è proprio del magnanimo «non cedere né al tmbamento del­ l'animo, né agli uomini, né alla sfortuna>>. Ma la sicurezza consiste prop1io in questo. Quindi la sicurezza Iientra nella magnanimità. Risposta: come insegna il Filosofo, «il timore rende gli uomini riflessivi nel deliberare»: in quanto cioè rende premurosi di trovare il mo­ do di fuggire ciò che si teme. Ora, la sicurez­ za consiste nell'eliminazione di questa solle­ citudine imposta dal timore. Perciò essa im­ plica una perfetta tranquillità dell'animo con l'esclusione del timore: come la fiducia impli­ ca un certo vigore della speranza. Come dun­ que la speranza è legata direttamente alla magnanimità, così il timore è connesso con la fortezza. Come quindi la fiducia rientra im­ mediatamente nella magnanimità, così la si­ curezza rientra immediatamente nella fortez­ za. Si deve però notare che, come la speranza causa l' audacia, così il timore produce la disperazione, secondo quanto si disse nel trat­ tato sulle passioni. Come quindi la fiducia rientra indirettamente nella fortezza in quanto si serve dell'audacia, così anche la sicurezza rientra nella magnanimità in quanto esclude la disperazione. Soluzione delle difficoltà: l . La fortezza non è lodata principalmente perché vince il timo­ re, il che è proprio della sicurezza, ma perché implica fermezza di fronte alle passioni. Per­ ciò la sicurezza non si identifica con la fortez­ za, ma è una sua condizione. 2. Non qualsiasi sicurezza è lodevole, ma solo quella che elimina le preoccupazioni che non vanno nuttite, e di cui non bisogna temere. E in questo senso essa è una condizione della fortezza e della magnanimità. 3. Nelle virtù si riscontra una somiglianza e una

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titudinis, ut supra [1-11 q. 69 a. 3] habitum est. Et ideo nihil prohibet securitatem quandam es­ se conditionem alicuius virtutis, quamvis per­ fecta securitas ad praemium virtutis pertineat.

partecipazione della beatitudine futura, come sopra si è notato. Perciò nulla impedisce che una certa sicurezza sia la condizione di una vir­ tù, mentre la sicurezza perfetta è il suo premio.

Articulus 8 Utrum bona fortunae conferant ad magnanimitatem

Articolo 8 I beni di fortuna contribuiscono alla magnanimità?

Ad octavum sic proceditur. Videtur quod bona fortunae non conferant ad magnanirnitatem. l. Quia ut Seneca dicit, in libro De ira [1,9], virtus sibi sufficiens est. Sed magnanimitas facit omnes virtutes magnas, ut dictum est [a. 4 ad 3]. Ergo bona fortunae non conferunt ad magnanimitatem. 2. Praeterea, nullus virtuosus contemnit ea quibus iuvatur. Sed magnanimus contemnit ea quae pertinent ad exteriorem fortunam, dicit enim Tullius, in l De off. [1,20], quod magnus

Sembra di no. Infatti: l. Seneca ha scritto che «la virtù basta a se stessa». Ora, come si è visto, la magnanimità fa grandi tutte le virtù. Quindi i beni di fortu­ na non giovano alla magnanimità. 2. Una persona virtuosa non disprezza quanto le è di giovamento. Invece il magnanimo di­ sprezza i beni esterni di fortuna, come nota Cicerone: «L'animo grande si rivela nel di­ sprezzo dei beni esterni». Perciò la magnani­ mità non è agevolata dai beni di fortuna. 3. Cicerone aggiunge, nel passo citato, che è proprio dell'animo grande >. Ma ciò è proprio della illiberalità, o avarizia. Quindi la grettezza o parsimonia non è un vizio distinto dagli altri. In contrario: Aristotele considera la grettez­ za come un vizio specifico opposto alla ma­ gnificenza. Risposta: come si è già notato, le entità di or­ dine morale sono specificate dal fine, per cui normalmente sono denominate in base ad esso. Ora, si denomina gretto chi ha di mira il compimento di qualcosa di piccolo. Ma, se­ condo il Filosofo, «piccolo» e «grande» sono termini relativi. Perciò, quando si dice che il gretto tende a compiere qualcosa di piccolo, la piccolezza va intesa in rapporto alla natura di ciò che si vuoi fare. E a questo proposito la piccolezza e la grandezza si possono riscon­ trare sia neli' opera da farsi che nella spesa da affrontare. Ora, il magnifico mira principal­ mente alla grandezza dell'opera e secondaria­ mente alla grandezza della spesa, che non evita per attuare la grande opera concepita. Per cui il Filosofo affenna che il magnifico, «a parità di spesa, compie un'opera più ma­ gnifica». Chi è gretto invece mira principal-

Q. 135, A. l

I vizi contrari alla magnificenza

cus autem e converso principaliter quidem intendit parvitatem sumptus, unde philosophus dicit, in 4 Ethic. [2,21 ], quod intendit qualiter minimum consumat, ex consequenti autem intendit parvitatem operis, quam scilicet non recusat, dummodo parvum sumptum faciat. Unde philosophus dicit, ibidem [Ethic. 4,2,21 ] , quod parvificus, maxima consumens in parvo, quod scilicet non vult expendere, bonum perdit, scilicet magnifici operis. Sic ergo patet quod parvificus deficit a proportione quae debet esse secundum rationem inter sumptum et opus. Defectus autem ab eo quod est secundum ra­ tionem, causat rationem vitii. Unde manifestum est quod parvificentia vitium est. Ad primum ergo dicendum quod virtus mo­ deratur parva secundum regulam rationis, a qua deficit parvificus, ut dictum est [in co.]. Non enim dicitur pmvificus qui parva modera­ tur, sed qui in moderando magna vel parva deficit a regola rationis. Et ideo habet vitii rationem. Ad secundum dicendum quod, sicut dicit phi­ losophus, in 2 Rhet. [5, 1 4] , timor facit con­ siliativos. Et ideo parvificus diligenter ratio­ ciniis intendit, quia inordinate timet bonorum suorum consumptionem, etiam in minimis. Unde hoc non est laudabile, sed vitiosum et vituperabile, quia non dirigit affectum suum secundum rationem, sed potius rationis usum applicat ad inordinationem sui affectus. Ad tertium dicendum quod sicut magnificus convenit cum liberali in hoc quod prompte et delectabiliter pecunias ernittit, ita etiam parvi­ ficus convenit cum illiberali sive avaro in hoc quod cum tJ.istitia et tarditatc cxpcnsas facit. Differt autem in hoc quod illiberalitas attendi­ tur circa communes sumptus, parvificentia autem circa magnos sumptus, quos difficilius est facere. Et ideo minus vitium est parvifi­ centia quam illiberalitas. Unde philosophus dicit, in 4 Ethic. [2,22], quod quamvis parvifi­ centia et oppositum vitium sint malitiae, non

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tamen opprobria inferunt, quia neque sunt nociva proximo, neque sunt valde turpes.

mente a restringere le spese, ossia «è preoccu­ pato di come fare a spendere poco», secondo l'espressione del Filosofo: per cui egli si pro­ pone un rimpicciolimento dell' opera, nel sen­ so cioè che non evita tale inconveniente pur di restringere le spese. Per questo Aristotele rile­ va che « i l gretto, pur spendendo grandi somme, per una piccolezza», cioè per la ritto­ sia a spendere, «rovina jl bene», cioè il bene di un'opera magnifica. E quindi evidente che chi pecca di grettezza manca nel non adegua­ re secondo ragione le spese ali' opera che deve compiere. Ora, una mancanza contro la ragio­ ne provoca un vizio. Quindi è evidente che la grettezza è un vizio. Soluzione delle difficoltà: l . La virtù regola le cose piccole secondo le norme della ragione: ma è appunto qui che manca il gretto, come si è notato. Infatti non è gretto chi regola le cose piccole, ma chi, nel regolare le cose grandi o piccole, non rispetta le norme della ragione. Per cui la grettezza è un vizio. 2. Come dice il Filosofo, «il timore fa indugia­ re nella deliberazione». Ed è per questo che il gretto insiste con diligenza nel raziocinio: per­ ché egli teme eccessivamente la rovina dei suoi beni, sia pure in cose piccole. E questo non è un atteggimnento lodevole, ma vizioso e riprovevole: poiché egli non guida il suo affet­ to secondo la ragione, ma piuttosto subordina la ragione al suo affetto disordinato. 3. Come il magnifico ha in comune con l'uo­ mo liberale la prontezza e la gioia nell' impie­ go del danaro, così il gretto ha in comune con I' illiberale, ossia con l ' avaro, la tristezza e la difficoltà nello spendere. C'è però questa dif­ ferenza: che I' avarizia riguarda le spese ordi­ narie, mentre la grettezza riguarda le spese grandi, che sono più difficili a farsi. Perciò la grettezza è un vizio meno grave dell' avarizia. Scrive i nfatti il Filosofo che la grettezza e i l vizio contrario, sebbene siano peccaminosi, «tuttavia non portano infamia: poiché non danneggiano il prossimo, né sono troppo sconvenienti».

Articulus 2 Utrum parvificentiae aliquod vitium opponatur

Articolo 2 C'è un vizio contrario alla grettezza?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod parvificentiae nullum vitium opponatur.

Sembra di no. Infatti: l. Alla piccolezza si contrappone la grandezza.

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I vizi contrari alla magnificenza

l . Parvo enim opponitur magnum. Sed ma­ gnificentia non est vitium, sed virtus. Ergo parvificentiae non opponitur vitium. 2. Praeterea, cum parvificentia sit vitium ex defectu, ut dictum est [a. 1], videtur quod, si aliquod v itium esset parvificentiae oppo­ situm, quod consisteret solum in superabun­ danti consumptione. Sed illi qui consumunt multa ubi pauca oporteret consumere, consu­ munt pauca ubi multa oporteret conswnere, ut dicitur in 4 Ethic. [2,20] , et sic habent aliquid de parvificentia. Non ergo est aliquod vitium parviticentiae oppositum. 3. Praeterea, moralia sortiuntur speciem ex fine, ut dictum est [a. 1]. Sed illi qui superflue consumunt, hoc faciunt causa ostentationis di­ vitiarum, ut dicitur in 4 Ethic. [2,20] . Hoc au­ tem pertinet ad inanem gloriam, quae opponi­ tur magnanimitati, ut dictum est [q. 132 a. 2] . Ergo nullum vitium parvificentiae opponitur. Sed contra est auctoritas philosophi, qui, in 2 [7,6] et 4 [2,4] Ethic., ponit magnificentiam medium duorum oppositorum vitiorum. Respondeo dicendum quod parvo opponitur magnum. Parvwn autem et magnum, ut dictum est [a. 1], relative dicuntur. Sicut autem con­ tingit sumptum esse parvum per compara­ tionem ad opus, ita etiam contingit sumptum esse magnum in comparatione ad opus, ut scilicet excedat proportionem quae esse debet sumptus ad opus secundum regulam rationis. Unde manitestum est quod vitio parvificentiae, qua aliquis deficit a proportione debita expen­ sarum ad opus, intendens minus expendere quam dignitas operis requirat, opponitur vi­ tium quo aliquis dictam proportionem excedit, ut scilicet plus expendat quam sit operi propor­ tionatum. Et hoc vitium graece quidem dicitur banausia, a fumo dieta, quia videlicet ad mo­ dum ignis qui est in fumo, omnia consumit, vel dicitur apirocalia, idest sine bono igne, quia ad modum ignis consumit non propter bonum. Unde latine hoc vitium nominari potest consumptio. Ad primum ergo dicendum quod magnifi­ centia dicitur esse eo quod facit magnum opus, non autem ex eo quod in sumptu exce­ dat proportionem operis. Hoc enim pertinet ad vitium quod opponitur parvificentiae. Ad secundum dicendum quod idem vitium contrariatur virtuti quae est in medio, et con­ trario vitio. Sic igitur vitium consumptionis

Q. 135, A. 2

Ma la magnificenza non è un vizio, bensì una virtù. Quindi non c'è un vizio che si opponga alla grettezza. 2. Essendo la grettezza un vizio per difetto, co­ me sopra si è visto, se ci fosse un vizio ad essa contrario, esso dovrebbe consistere nello sper­ pero eccessivo. Invece, secondo il Filosofo, «coloro che spendono troppo dove basterebbe poco, spendono poco dove bisognerebbe spen­ dere molto», e quindi in essi c'è della grettez­ za. Non c'è quindi un vizio ad essa contrario. 3. Le entità di ordine morale, come si è ricor­ dato, sono specificate dal fine. Ora, quelli che spendono troppo lo fanno per ostentare le pro­ prie ricchezze, come nota Aristotele. Ma ciò rientra nella vanagloria, che si contrappone alla magnanimità, come si è visto sopra. Quindi nessun vizio si contrappone alla grettezza. In contratio: Aristotele considera la magnificen­ za come il giusto mezzo fra due vizi contrari. Risposta: alla piccolezza si contrappone la grandezza. Ma i termini «piccolo» e «grande» sono correlativi, come si è già notato. Ora, come capita che una spesa sia piccola relati­ vamente ali' opera da fare, così può anche capitare che sia troppo grande: che cioè ecce­ da la giusta proporzi01�e stabilita dalla ragione tra la spesa e l' opera. E quindi evidente che al vizio della grettezza, a motivo del quale non si raggiunge la giusta proporzione tra le spese e l'opera in quanto si è preoccupati di spende­ re meno di quanto il valore dell'opera richie­ de, si contrappone il vizio a motivo del quale si oltrepassa tale proporzione, spendendo più di quanto l' opera richiede. E questo vizio in greco è detto banausìa, dal termine greco indicante il forno, poiché consuma tutto come il fuoco di un forno; oppure apirocalìa, che significa «senza buon fuoco», poiché consu­ ma come il fuoco, ma senza utilità. Perciò in latino questo vizio potrebbe essere denomina­ to consumptio, cioè sperpero. Soluzione delle difficoltà: l . La magnificenza è così denominata per i l fatto che compie grandi opere, non perché nello spendere passi la misura. Ciò infatti è proprio del vizio che si contrappone alla grettezza. 2. Un identico vizio è contrario alla virtù, che sta nel giusto mezzo, e al vizio opposto. Per­ ciò il vizio di sperperare si contrappone alla grettezza per il fatto che nello spendere ecce­ de il valore dell'opera da compiere, «spen-

I vizi contrari alla magnificenza

Q. 135, A. 2

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opponitur parvificentiae in eo quod excedit in sumptu operis dignitatem, expendens multa ubi pauca oporteret expendere. Opponitur autem magnificentiae ex parte operis magni, quod praecipue intendit magnificus, inquan­ tum scilicet, ubi oportet multa expendere, nihil aut parwn expendit. Ad tertium dicendum quod consumptor ex ipsa specie actus opponitur parvifico, inquan­ tum transcendit regulam rationis, a qua parvi­ ficus deficit. Nihil tamen prohibet quin hoc ad finem alterius vitii ordinetur, puta inanis glo­ ria, vel cuiuscumque alterius.

dendo molto dove basterebbe poco». E si contrappone alla magnificenza dalla parte della grande opera che il magnifico soprattut­ to ha di mira: poiché colui che sperpera «non spende che poco o nulla dove bisognerebbe spendere molto». 3. Per la natura del suo atto colui che sperpera si contrappone al gretto in quanto va oltre alla misura della ragione, che invece il gretto non raggiunge. Però nulla impedisce che tale atto sia indirizzato al fine di un altro vizio, quale ad es. la vanagloria, o qualsiasi altro.

QUAESTIO 1 36 DE PATIENTIA

QUESTIONE 1 36 LA PAZIENZA

Deinde considerandum est de patientia. Et circa hoc quaeruntur quinque. Primo, utrum patientia sit virtus. Secundo, utrum sit maxima virtutum. Tertio, utrum possit haberi sine gra­ tia. Quarto, utrum sit pars fortitudinis. Quinto, utrum sit idem cum longanimitate.

Passiamo ora a parlare della pazienza. Sull'ar­ gomento si pongono cinque quesiti: l . La pazienza � una virtù? 2. È la più grande delle viftù? 3. E possibile averla senza la grazia? 4. E una parte della fortezza? 5. Si identifica con la longanimità?

Articulus l Utrum patientia sit virtus

Articolo l La pazienza è una virtù?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod pa­ tientia non sit virtus. l . Vrrtutes enim perfectissime sunt in patria, ut dicit Augustinus, 14 De Trin. [9]. Sed ibi non est patientia, quia nulla sunt ibi mala toleranda, secundum illud Isaiae 49 [ 1 0] et Apoc. 7 [16], non esurient 11eque sitient, et 11011 percutiet eos aestus neque sol. Ergo paticntia non est virtus. 2. Praeterea, nulla virtus in malis potest inveniri, quia virtus est quae bonumfacit habentem. Sed patientia quandoque in malis hominibus inveni­ tur, sicut patet in avaris, qui multa mala patienter tolerant ut pecunias congregent, secundum illud Eccie. 5 [ 16] cunctis diebus vitae suae comedit in tenebris, et in curis multis, et in aerumna atque tristitia. Ergo patientia non est virtus. 3 . Praeterea, fructus a virtutibus differunt, ut supra [I-II q. 70 a. l ad 3] habitum est. Sed pa­ ticntia ponitur inter fructus, ut patet Gal. 5 [22]. Ergo patientia non est virtus. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De patientia [l], vùtus animi quae patie11tia dicitw; tam magnwn Dei do11um est ut etiam ipsius qui nobis eam largiturpatientia praedicetur.

Sembra di no. Infatti: l . Secondo Agostino le virtù in cielo sono allo stato perfettissimo. Ora, là non c'è la pazienza: poiché non c ' è alcun male da sopportare, secondo le parole di fs 49 [ 1 0] e Ap 7 [ 16]: Non soffriranno né fame né sete, e non li col­ pirà né l'arsura né il sole. Quindi la pazienza non è una virtù. 2. Nei cattivi non ci può essere alcuna virtù: poiché «la virtù rende buono chi la possiede». Invece la pazienza talora si trova anche nei cattivi: p. es. negli avari, i quali sopportano con pazienza tanti malanni per accumulare ricchezze, come è detto in Qo 5 [ 1 6]: Avrà passato tutti i giorni della sua vita nelle tene­ bre, in molti affanni, fra guai e crucci. Quindi la pazienza non è una virtù. 3. I frutti sono distinti dalle virtù, come sopra si è dimostrato. Ora, la pazienza è posta tra i frutti, come risulta da Gal 5 [22]. Quindi la pazienza non è una virtù. In contrario: Agostino scrive: . Ora, l'uomo può perdere tutte le altre virtù. Quindi la perseveranza è superiore a tutte le altre virtù. Ma una virtù principale è superiore alle sue pruti. Quindi la perseveranza non fa parte di nessuna virtù, ma è piuttosto essa stessa una virtt) principale. In contrario: Cicerone mette la perseveranza tra le parti della fortezza. Risposta: come si è già detto, è principale quella virtù a cui principalmente appartengo­ no gli atti che tornano a lode di un gruppo di virtù: in quanto cioè essa li esercita in una

La perseveranza

Q. 1 37, A. 2

palis est cui principaliter adscribitur aliquid quod pertinet ad laudem virtutis, inquantum scilicet exercet illud circa propriam materiam in qua difficillimum et optimum est illud observa­ re. Et secundum hoc dictum est [q. 123 a 1 1] quod fortitudo est principalis virtus, quia finni­ tatem servat in his in quibus difficillimum est fmniter persistere, scilicet in periculis mortis. Et ideo necesse est quod fortitudini adiungatur sicut secundaria virtus principali, omnis virtus cuius laus consistit i n sustinendo firmiter aliquod difficile. Sustinere autem difficultatem quae provenit ex diutumitate boni operis, dat laudem perseverantiae, nec hoc est ita difficile sicut sustinere pericula mortis. Et ideo perseve­ rantia adiungitur fortitudini sicut virtus secun­ daria principali. Ad primum ergo dicendum quod annexio se­ cundariae virtutis ad principalem non solum at­ tenditur secundum materiam, sed magis se­ cundum modum, quia forma in unoquoque potior est quam materia. Unde licet perseveran­ tia magis videatur convenire in materia cum temperantia quam cum fortitudine, tamen in modo magis convenit cum fortitudine, inquan­ tum firmitatem servat contra difficultatem diutumitatis. Ad secundum dicendum quod illa perseverantia de qua philosophus loquitur [Ethic. 7,4, l ; 7, l ], non moderatur aliquas passiones, sed consistit solum in quadam finnitate rationis et voluntatis. Sed perseverantia secundum quod ponitur vir­ tus, moderatur aliquas passiones, scilicet timer rem tatigationis aut detectus propter diuturnita­ tem. Unde haec virtus est in irascibili, sicut et fortitudo. Ad tertium dicendum quod Augustinus ibi lcr quitur de perseverantia non secundum quod nominat habitum virtutis, sed secundum quod nominat actum virtutis continuatum usque in finem, secundum illud Matth. 24 [ 1 3 ] qui perseveraverit usque infinem, hic salvus erit. Et ideo contra rationem perseverantiae sic acceptae esset quod amitteretur, quia iam non duraret usque in finem.

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materia in cui è sommamente difficile e ottimo il praticarli. E in base a ciò abbiamo già detto che la fortezza è una virtù principale: poiché conserva la fermezza in cose nelle quali è dif­ ficilissimo resistere, cioè nei pericoli di morte. Perciò tutte le virtù il cui valore consiste nel­ l' affrontare con fermezza qualcosa di difficile devono ricollegarsi alla fortezza come delle virtù secondarie alla principale. Ora, la perse­ veranza è lodata perché affronta la difficoltà proveniente dalla durata delle opere buone: difficoltà che però non è così grave come l'affrontare i pericoli di morte. Quindi la per­ severanza è subordinata alla fortezza come una virtù secondaria alla principale. Soluzione delle difficoltà: l . La subordinazicr ne di una virtù a quella principale non è fon­ data tanto sulla materia, quanto piuttosto sul modo: poiché la forma è sempre superiore alla materia. Sebbene quindi la perseveranza, per la sua materia, sembri più affine alla tem­ peranza che alla fortezza, tuttavia nel modo di agire è più affine alla fortezza, poiché essa si comporta con fermezza contro la difficoltà della persistenza. 2. La perseveranza di cui parla il Filosofo non modera alcuna passione, ma consiste solo in una certa fermezza della ragione e della vcr lontà. Invece la virtù della perseveranza mcr dera le passioni del timore, cioè la paura di stancarsi o di venir meno per il prolungarsi dello sforzo. Per cui questa virtù risiede nel­ l'irascibile, come anche la fortezza. 3. Agostino qui chiama perseveranza non l ' abito della virtù, ma il suo atto continuato sino alla fine, secondo le parole di Mt 24 [ 1 3] : Chi persevererà silw alla fine sarà salvato. E così la perdita di tale perseveranza sarebbe incompatibile con la sua natura: perché allora non durerebbe più sino alla fine.

Articulus 3

Articolo 3

Utrum constantia pertineat ad perseverantiam

La costanza rientra nella perseveranza?

Ad tertiu m sic proceditur. Videtur quod constantia non pertineat ad perseverantiam.

Sembra di no. Infatti: l. Come sopra si è visto, la costanza rientra

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La perseveranza

l . Constantia enim pertinet ad patientiam, ut supra [q. 1 36 a. 5] dictum est. Sed patientia differt a perseverantia. Ergo constantia non pertinet ad perseverantiam. 2. Praeterea, vb1Us est circa difficile et bonum. Sed in parvis operibus constantem esse non videtur esse difficile, sed solum in operibus magnis, quae pertinent ad magnificentiam. Er­ go constantia magis pertinet ad magnificen­ tiam quam ad perseverantiam. 3. Praeterea, si ad perseverantiam pertineret constantia, in nullo videretur a perseverantia differre, quia utrumque immobilitatem quan­ dam importat. Differunt autcm, nam Macro­ bius [In som. S. 1,8] condividit constantiam fir­ mitati, per quam intelligitur perseverantia, ut supra [q. 128 a. l ad 6] dictum est. Ergo con­ stantia non pertinet ad perseverantiam. Sed contra est quod aliquis dicitur esse constans ex eo quod in aliquo stat. Sed immanere aliquibus pertinet ad perseverantiam, ut patet ex definitione quam Andronicus ponit [cf. Chrysippum, Definitiones, adiunctae libro De affect. Andronici]. Ergo constantia pertinet ad perscverantiam. Respondeo dicendum quod perseverantia et constantia conveniunt quidem in fine, quia ad utramque pertinet finniter persistere in aliquo bono, differunt autem secundum ea quae difficultatem afferunt ad persistendum in bono. Nam virtus perseverantiae proprie facit firmiter persistere hominem in bono contra difficulta­ tem quae provenit ex ipsa diuturnitate actus, constantia autem facit tirmiter persistere in bono contra difficultatem quae provenit ex quibuscumquc aliis cxtcrioribus impcdimcntis. Et ideo principalior pars fortitudinis est perse­ verantia quam constantia, quia difficultas quae est ex diuturnitate actus, est essentialior actui virtutis quam illa quae est ex exterioribus im­ pedimentis. Ad primum ergo dicendum quod exteriora impedimenta persistendi in bono praecipue sunt illa quae tristitiam interunt. Circa tristi­ tiam autem est patientia, ut dictum est [q. 1 36 a. 1 ]. Et ideo constantia secundum finem con­ venit cum perscvcrantia, secundum autem ea quae difficultatem inferunt, convenit cum pa­ tientia. Finis autem potior est. Et ideo con­ stantia magis pertinet ad perseverantiam quam ad patientiam. Ad secundum dicendum quod i n magnis

Q. 137, A. 3

nella pazienza. Ma la pazienza è distinta dalla perseveranza. Quindi la costanza non rientra nella perseveranza. 2. Come dice Aristotele, «la virtù ha per og­ getto il difficile e il bene». Ora, non è difficile essere costanti nelle cose piccole, ma solo nelle cose grandi, che sono l'oggetto della magnificenza. Perciò la costanza rientra più nella magnificenza che nella perseveranza. 3. Se la costanza rientrasse nella perseveran­ za, non se ne distinguerebbe in alcun modo: poiché entrambe implicano una certa fermez­ za. Invece esse sono distinte: infatti Macrobio distingue la costanza dalla fennezza, che per lui sta a indicare la perseveranza, come si è visto. Quindi la costanza non rientra nella perseveranza. In contrario: costante è colui che «sta fermo in una cosa». Ora, «permanere in una cosa» appartiene alla perseveranza, come è evidente dalla definizione di Andronico. Dunque la costanza rientra nella perseveranza. Risposta: la perseveranza e la costanza con­ cordano nel fine, poiché entrambe hanno il compito di persistere con fermezza nel bene: divergono invece rispetto alle difficoltà da affrontare per non scostarsi dal bene. Infatti la virtù della perseveranza a tutto rigore fa persi­ stere fermamente l'uomo nel bene contro la difficoltà che nasce direttamente dal prolun­ garsi dell'atto virtuoso; invece la costanza fa persistere fermamente nel bene contro la diffi­ coltà che nasce da altre circostanze esterne che lo impediscono. Quindi la perseveranza è una parte [potenziale] della fortezza più im­ portante della costanza: poiché la difficoltà insita nella durata dell'atto è più essenziale al­ l'atto virtuoso di quella proveniente da impe­ dimenti esterni. Soluzione delle difficoltà: l . Gli ostacoli che impediscono dali' esterno di persistere nel bene sono specialmente quelli che causano la tristezza. Ora, quest'ultima è oggetto della pazienza, come si è visto. Quindi la costanza per il fine a cui tende concorda con la perse­ veranza, mentre per le difficoltà che affronta concorda con la pazienza. Il fine però è più importante. Quindi la costanza rientra più nella perseveranza che nella pazienza. 2. Perseverare nelle grandi opere è più diffici­ le; però anche perseverare in quelle piccole od ordinarie ha la sua difficoltà, se non per la

La perseveranza

Q. 1 37, A. 3

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operibus persistere difficilius est, sed in parvis vel mediocribus diu persistere habet diffi­ cultatem, etsi non ex magnitudine actus, quam respicit magnificentia, saltem ex ipsa diutumitate, quam respicit perseverantia. Et ideo constantia potest ad utrumque pertinere. Ad tertium dicendum quod constantia pertinet quidem ad perseverantiam, inquantum conve­ nit cum ea, non tamen est idem ei inquantum diftèrt ab ea ut dictum est [in co.].

grandezza dell'atto, che interessa la magnifi­ cenza, almeno per la durata stessa, che è l'oggetto della perseveranza. Quindi la co­ stanza può rientrare nell'una e nell'altra. 3. La costanza rientra nella perseveranza in quanto concorda con essa; tuttavia non s i identifica con essa, poiché s e n e distingue nel modo che abbiamo spiegato.

Articulus 4 Utrum perseverantia indigeat auxilio grati ae

Articolo 4 La perseveranza richiede l'aiuto della grazia?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod perse­ verantia non indigeat auxilio gratiae. l . Perseverantia enim est quaedam virtus, ut dictum est [a. 1]. Sed virtus, ut Tullius dicit, in sua Rhetorica [2,53], agit in modum naturae. Ergo sola inclinatio virtutis sufficit ad perseve­ randum. Non ergo ad hoc requiritur aliud auxi­ lium gratiae. 2. Praeterea, donum gratiae Christi est maius quam nocumentum quod Adam intulit, ut patet Rom. 5 [15 sqq.]. Sed ante peccatum homo sic conditus fuit ut posset perseverare per id quod acceperat, sicut Augustinus dicit, in libro De coiT.[l l ]. Ergo multo magis homo per gratiam Christi reparatus, potest perseverare absque auxilio novae gratiae. 3 . Praeterea, opera peccati quandoque sunt difficiliora quam opera virtutis, unde ex pers>, come il cibo è ne-

Q. 1 4 1 , A. 6

La temperanza

necessarium id sine quo res nullo modo potest esse, sicut cibus est necessarius animali; alio modo, secundum quod necessarium dicitur [Met. 1 1 ,7,5] id sine quo res non potest con­ venienter esse. Temperantia autem non solum attendit primam necessitatem, sed etiam secundam, unde philosophus dicit, in 3 Ethic. [ I l ,8], quod temperatus appetir delectabilia

pmpter sanitatem, ve/ propter bonam habitu­ dinem. Alia vero quae ad hoc non sunt ne­ cessaria, possunt dupliciter se habere. Quae­ dam enim sunt impedimenta sanitatis vel bonae habitudinis. Et bis nullo modo tempe­ ratus utitur, hoc enim esset peccatum contra temperantiam. Quaedam vero sunt quae non sunt bis impedimenta. Et bis moderate utitur, pro loco et tempore et congruentia eorum quibus convivit. Et ideo ibidem [3, 1 1 ,8] phi­ losophus dicit quod et temperatus appetit alia delectabilia, quae scilicet non sunt necessaria ad sanitatem ve1 ad bonam habitudinem, non

impedimenta his existentia. Ad tertium dicendum quod, sicut dictum est [ad 2], temperantia respicit necessitatem quantum ad convenientiam vitae. Quae qui­ dem attenditur non solum secundum conve­ nientiam corporis, sed etiam secundum con­ venientiam exteriorum rerum, puta divitiarum et officiorum; et multo magis secundum con­ venientiam honestatis. Et ideo philosophus ibidem [Ethic. 3,1 1 ,8] subdit quod in de1ecta­ bilibus quibus temperatus utitur, non solum considerat ut non sint impeditiva sanitatis et bonae habitudinis corporalis, sed etiam ut non sint praeter bonum, idest contra honestatem; et quod non sint supra substantiam, idest su­ pra facultatem divitiarum. Et Augustinus di­ cit, in libro De mor. Ecci. [ 1 ,2 1 ], quod tempe­ ratus respicit non solum necessitatem huius vitae, sed etiam officiorum.

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cessario all'animale; secondo, nel senso di «indispensabile per esistere in maniera conve­ niente». Ora, la temperanza non guarda sol­ tanto al primo, ma anche al secondo tipo di necessità: infatti il Filosofo afferma che «il temperante desidera le cose piacevoli per la salute, o per il benessere». Invece le altre cose che non sono necessarie a questi fini possono essere di due generi. Alcune sono di impedi­ mento alla salute e al benessere. E di esse l'uomo temperante in nessun modo fa uso: poiché sarebbe un peccato contro la tempe­ ranza. Altre invece non pregiudicano tali co­ se. E di esse l'uomo temperante fa uso con moderazione secondo le circostanze di tempo e di luogo, e in rapporto alle persone con le quali convive. Per cui il Filosofo aggiunge che il temperante desidera «le altre cose pia­ cevoli», cioè quelle che non sono indispensa­ bili per la salute e il benessere, «in quanto non sono di ostacolo a questi beni». 3. Come sopra si è detto, la temperanza consi­ dera la necessità secondo le esigenze della vita presente. E queste non si limitano alle neces­ sità del corpo, ma abbracciano anche le esi­ genze dei beni esterni, quali ad es. le ricchezze e le cariche; e più ancora le esigenze dell'one­ stà. Infatti il Filosofo nel testo citato aggiunge che l'uomo temperante nell'usare dei piaceri cerca non soltanto che non siano di ostacolo alla salute e al benessere del corpo, ma anche che non siano «al di là del bene», cioè contro l'onestà; e che non siano «al di là delle sostan­ ze», ossia superiori ai propri mezzi economici. E Agostino insegna che l'uomo temperante non guarda solo «alla necessità della vita pre­ sente», ma anche «ai propri compiti».

Articulus 7 Utrum temperantia sit virtus cardinalis

Articolo 7 La temperanza è una virtù cardinale?

Ad septimum sic proceditur. Videtur quod temperantia non sit virtus cardinalis. l . Bonum enim virtutis moralis a ratione de­ pendet. Sed temperantia est circa ea quae ma­ gis distant a ratione, scilicet circa delectatio­ nes quae sunt nobis et brutis communes, ut dicitur in 3 Ethic. [ 1 0,8]. Ergo temperantia non videtur esse principalis virtus.

Sembra di no. Infatti: l . Il bene delle virtù morali dipende dalla ra­ gione. Ma la temperanza ha per oggetto ciò che è più distante dalla ragione, cioè i piaceri che sono comuni a noi e agli animali bruti, come nota Aristotele. Quindi la temperanza non è una delle virtù principali. 2. Più una cosa è impetuosa, più è difficile a

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La temperanza

2. Praeterea, quanto aliquid est magis impe­ tuosum, tanto difficilius videtur esse ad refre­ nandum. Sed ira, quam refrenat mansuetudo, videtur esse impetuosior quam concupi­ scentia, quam refrenat temperantia, dicitur enim Prov. 27 [4], ira non habet misericor­

diam, nec erumpens furor, et impetum conci­ tati spiritus ferre quis poterit? Ergo mansue­ tudo est principalior virtus quam temperantia. 3. Praeterea, spes est principalior motus animae quam desiderium seu concupiscentia, ut supm [I-II q. 25 a. 4] habitum est. Sed humilitas re­ frenat pmesumptionem immodemtae spei. Ergo humilita>. 2. Come sopra si è detto, la gloria è un effetto dell'onore: poiché, se uno è onorato o lodato, è reso glorioso agli occhi degli altri. Come

Q. 145, A. 2

L 'onestà

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Ad secundum dicendum quod, sicut supra [q. 1 03 a. l ad 3] dictum est, gloria est effectus honoris, ex hoc enim quod aliquis honoratur vel laudatur, redditur clarus in oculis aliorum. Et ideo, sicut idem est honorificum et glorio­ sum, ita etiam idem est honestum et decorum. Ad tertium dicendum quod obiectio illa proce­ dit de pulchritudine corporali. Quamvis possit dici quod etiam propter pulchritudinem spiri­ tualem aliquis spiritualiter fomicatur, inquan­ tum de ipsa honestate superbit, secundum illud Ez. 28 [ 1 7], elevatum est cor tuwn in decore tuo, perdidisti sapientiam tuam in decore tuo.

quindi l'onorato coincide con il glorioso, così anche 1' onesto coincide con il bello. 3. La difficoltà vale per la bellezza fisica. Sebbene uno potrebbe fornicare spiritualmen­ te anche per la bellezza spirituale, montando in superbia per la proplia onestà, secondo le parole di Ez 28 [ 1 7] : Il tuo cuore si era inor­ goglito per la tua bellezza; hai perso la tua saggezza a causa della tua bellezza.

Articulus 3 Utrum honestum differat ab utili et delectabili

Articolo 3 L'onesto differisce dall'utile e dal dilettevole?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod honestum non differat ab utili et delectabili. l . Dicitur enim honestum quod propter se appetitur [Cicero, Rhet. 2,53]. Sed delectatio propter se appetitur, ridiculwn enim videtur quaerere propter quid aliquis velit delectari, ut philosophus dicit, in 1 0 Ethic. [2,2]. Ergo honestum non differt a delectabili. 2. Praeterea, divitiae sub bono utili continen­ tur, dicit enim Tullius, in 2 Rhet. [52], est aliquid non propter suam vim et naturam, sed propter fructum et utilitatem petendum, quod pecunia est. Sed divitiae habent rationem ho­ nestatis, dicitur enim Eccli. 1 1 [ 1 4], pauper­ tas et honestas (idest divitiae) a Deo sunt; et 1 3 [2], pondus super se tollit qui honestiori (idest dition) se communicat. Ergo honestum non differt ab utili. 3. Praeterea, Tullius probat, in libro De off. [2,3], quod nihil potest esse utile quod non sit honestum. Et hoc idem habetur per Ambro­ sium, in libro De off. [2,6]. Ergo utile non dif­ fert ab honesto. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro Octogintatrium Q. [30] , honestum dicitur quod propter seipsum petendum est, utile autem quod ad aliquid aliud referendum est. Respondeo dicendum quod hone..tum concur­ rit in idem subiectum cum utili et delectabili, a quibus tamen diffett ratione. Dicitur enim ali­ quid honestum, sicut dictum est [a. 2], inquan­ tum habet quendam decorem ex ordinatione rationis. Hoc autem quod est secundum ratio­ nem ordinatum, est naturaliter conveniens

Sembra di no. Infatti: l. Si dice onesto «ciò che è desiderato per se stesso». Ma il piacere è desiderato per se stes­ so: poiché, secondo il Filosofo, «è ridicolo chiedersi perché uno vuole gustare il piacere». Quindi l'onesto non differisce dal dilettevole. 2. Le ricchezze rientrano tra i beni utili; scrive infatti Cicerone: «C'è qualcosa che non va cercato per la sua natura e valore, ma per i suoi frutti e la sua utilità, cioè il danaro». Ma le ricchezze sono essenzialmente oneste; in­ fatti in Sir 1 1 [ 1 4] è detto: La povertà e l'onestà, cioè le ricchezze, sono da Dio; e an­ cora Sir 1 3 [2]: Po11a un peso superiore alle sue forze chi si mette con chi è più onesto, cioè più ricco di lui. Quindi 1' onesto non si distingue dali 'utile. 3. Cicerone dimostra che nulla può essere uti­ le se non è onesto. E la stessa cosa ripete Am­ brogio. Quindi non ci può essere differenza fra l'utile e l'onesto. In contrario: Agostino sctive: «Si dice onesto ciò che va desiderato per se stesso; utile in­ vece ciò che va ordinato a un fine supetiore». Risposta: l'onesto può identificarsi in concre­ to con l'utile e col dilettevole, ma concettual­ mente se ne distingue. Infatti, come si è nota­ to, una cosa è detta onesta in quanto ha una certa bellezza dovuta alla sua conformità con la ragione. Ora, ciò che è conforme alla ragio­ ne conviene all'uomo per natura. Ma ogni es­ sere si diletta in ciò che naturalmente gli con­ viene. Quindi ciò che è onesto è naturalmente dilettevole per l'uomo, come il Filosofo di-

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L 'onestà

Q. 145, A. 3

homini. Unumquodque autem naturaliter de­ lectatur in suo convenienti. Et ideo honestum est naturaliter homini delectabile, sicut de operatione virtutis philosophus probat, in l Ethic. [8, 10] . Non tamen omne delectabile est honestum, quia potest etiam aliquid esse con­ veniens secundum sensum, non secundum ra­ tionem; sed hoc delectabile est praeter ho­ minis rationem, quae perficit naturam ipsius. Ipsa etiam virtus, quae secundum se honesta est, retertur ad aliud sicut ad finem, scilicet ad felicitatem. - Et secundum hoc, idem subiecto est et honestum et utile et delectabile, sed ratione differunt. Nam honestum dicitur se­ cundum quod aliquid habet quandam excel­ lentiam dignam honore propter spiritualem pulchritudinem; delectabile autem, inquantum quietat appetitum; utile autem, inquantum re­ fertur ad aliud. In pluribus tamen est delectabi­ le quam utile et honestum, quia omne utile et honestum est aliqualiter delectabile, sed non convertitur, ut dicitur in 2 Ethic. [3,7]. Ad primum ergo dicendum quod honestum dicitur quod propter se appetitur appetito ra­ tionali, qui tendit in id quod est conveniens rationi. Delectabile autem propter se appetitur appetitu sensitivo. Ad secundum dicendum quod divitiae vocan­ tur nomine honestatis secundum opinionem multorum, qui divitias honorant, vel inquan­ tum ordinantur organice ad actus virtutum, ut dictum est [a. l ad 2]. Ad tertium dicendum quod intentio Tullii et Ambrosii dicere est quod nihil potest esse sim­ pliciter et vere utile quod repugnat honestati, quia oportet quod repugnet ultimo fini ho­ minis, quod est bonum secundum rationem, quamvis forte possit esse utile secundum quid, respectu alicuius finis particularis. Non autem intendunt dicere quod omne utile, in se consi­ deratum, pertingat ad rationem honesti.

mostra per gli atti delle virtù. Però non ogni cosa dilettevole è onesta: poiché una cosa può essere conveniente secondo i sensi e non se­ condo la ragione; ma questo è un piacere estraneo alla ragione umana, che è l'elemento costitutivo dell'uomo. E d'altra parte la virtù stessa, che è essenzialmente onesta, è ordinata a un fine superiore, cioè alla felicità. - Così dunque in concreto l'onesto, l'utile e il dilet­ tevole coincidono: ma sono formalmente di­ stinti. Infatti una cosa è detta onesta in quanto ha una certa nobiltà che la rende degna di onore per la sua bellezza spirituale; è detta di­ lettevole in quanto acquieta l'appetito; è detta utile in quanto è ordinata a uno scopo ulterio­ re. Il dilettevole però è più esteso dell'utile e dell'onesto: poiché tutto ciò che è utile e one­ sto è in qualche modo dilettevole, ma non viceversa, come fa notare Aristotele. Soluzione delle difficoltà: l . Ciò che è desi­ derato per se stesso dall'appetito razionale, il quale tende a quanto è conforme alla ragione, si dice che è onesto. Si chiama invece dilette­ vole ciò che è desiderato per se stesso dall' ap­ petito sensitivo. 2. Le ricchezze sono dette oneste stando all'o­ pinione dei più, i quali le onorano; oppure perché sono ordinate come strumenti agli atti virtuosi, come si è detto. 3. Cicerone e Ambrogio intesero dire che nul­ la può essere utile veramente e in senso asso­ luto, se è incompatibile con l' onestà, in quan­ to risulterebbe incompatibile con il fine ulti­ mo dell'uomo, che è un bene di ordine razio­ nale; quantunque possa essere utile in senso relativo, cioè in rapporto a un fine particolare. Ma essi non intesero dire che qualsiasi cosa utile sia per se stessa onesta.

Articulus 4 Utrum honestas debeat poni pars temperantiae

Articolo 4 L'onestà deve essere inclusa fra le parti della temperanza?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod ho­ nestas non debeat poni pars temperantiae. l . Non enim est possibile quod idem, respectu eiusdem, sit pars et totum. Sed temperantia est pars honesti, ut Tullius dicit, in 2 Rhet. [53]. Ergo honestas non est pars temperantiae.

Sembra di no. Infatti: l . Non è possibile che una cosa sotto il mede­ simo aspetto sia insieme parte e tutto. Ora, la temperanza è una parte dell'onesto, secondo Cicerone. Quindi l'onestà non è una parte della temperanza.

Q. 145, A. 4

L 'onestà

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2. Praeterea, 3 Esdrae [3,2 1 ] dicitur quod vi­ num praecordia facit honesta. Sed usus vini,

2. Nel terzo libro di Esd 3 [21 ] è detto che il vino rende onesti i sentimenti. Ma l'uso del

praecipue superfluus, de quo ibi loqui videtur, magis pertinet ad intemperantiam quam ad temperantiam. Ergo honestas non est pars temperantiae. 3. Praeterea, honestum dicitur quod est honore dignum. Sed iusti etfortes maxime honorantur, ut dicit philosophus, in l Rhet. [9,6]. Ergo ho­ nestas non pertinet ad temperantiam, sed magis ad iustitiam vel fortitudinem. Unde et Eleaza­ rus dixit, ut dicitur 2 Mach. 6 [28],fmtiter pro

vino, specialmente se esagerato, come sembra intenderlo quel testo, rientra più nell'intempe­ ranza che nella temperanza. Quindi l'onestà non è una parte della temperanza. 3. Onesto è ciò che è degno di onore. Ma, se­ condo il Filosofo, «i più onorati sono i giusti e i forti». Quindi l' onestà non appartiene alla temperanza, bensì alla giustizia e alla fortez­ za. Infatti Eleazaro disse: Con coraggio in­

gravissimis ac sanctissimis legibus honesta mmte peifungor. Sed contra est quod Macrobius [In sornn. S. 1 ,8] honestatem ponit partem temperantiae. Am­ brosius etiam, in l De off. [43], temperantiae specialiter honestatem attribuit. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 2] dictum est, honestas est quaedam spiritualis pulchritudo. Pulchro autem opponitur turpe. Opposita autem maxime se invicem manife­ stant. Et ideo ad temperantiam specialiter ho­ nestas pertinere videtur, quae id quod est horni­ ni turpissimum et indecentissimum repellit, scilicet brutales voluptates. Unde et in ipso no­ mine temperantiae maxime intelligitur bonum rationis, cuius est moderari et temperare con­ cupiscentias pravas. Sic igitur honestas, prout speciali quadam ratione temperantiae attribui­ tur, ponitur pars eius non quidem subiectiva, vel sicut virtus adiuncta, sed pars integralis ipsius, sicut quaedam eius conditio. Ad primum ergo dicendum quod temperantia ponitur pars subiectiva honesti prout surnitur in sua communitate. Sic autem non ponitur tem­ perantiae pars. Ad secundum dicendum quod vinum in ebriis facit praecordia honesta secundum eorum reputationem, quia videtur eis quod sint magni et honorandi. Ad tertium dicendum quod iustitiae et fortitu­ dini debetur maior honor quam temperantiae propter maioris boni excellentiam. Sed tempe­ rantiae debetur maior honor propter cohibitio­ nem vitiorum magis exprobrabilium, ut ex dictis [in co.] patet. Et sic honestas magis attri­ buitur temperantiae, secundum regulam apo­ stoli, l ad Cor. 12 [23], quod inhonesta nostra maiorem habent honestatem, scilicet removen­ tem quod inhonestum est.

contrerà una morte onorata (honesta) per leggi così venerabili e sante (2 Mac 6,28). In contrario: Macrobio mette l ' onestà fra le parti della temperanza. E anche Ambrogio attri­ buisce l'onestà specialmente alla temperanza Risposta: come si è già visto, l' onestà è una certa bellezza spirituale. Ora, il bello si con­ trappone al deturpato. D'altra parte gli op­ posti risaltano soprattutto nella loro contrap­ posizione. Perciò l' onestà appartiene special­ mente alla temperanza, la quale esclude ciò che nell'uomo vi è di più turpe e di indecente, cioè i piaceri animaleschi. Cosicché già nel termine temperanza è incluso con somma evidenza il bene proprio della ragione, che è quello di moderare, o temperare, le concupi­ scenze depravate. Perciò l'onestà, in quanto è attribuita per un motivo speciale alla tempe­ ranza, è una sua parte, ma non una patte sog­ gettiva, e neppure una virtù annessa, bensì una sua parte integrante a modo di condizione necessaria. Soluzione delle difficoltà: l . La temperanza è considerata come parte soggettiva dell' onesto preso in generale. Ma non è in questo senso che esso è posto fra le parti della temperanza. 2. Negli ubriachi il vino «rende vistosi e onesti i sentimenti» secondo le loro impressioni: poiché ad essi sembra di essere grandi e onorabili. 3. La giustizia e la fortezza vanno onorate più della temperanza per la superiorità del loro oggetto. Ma la temperanza merita un onore più grande poiché essa reprime i vizi più diso­ noranti, come si è visto. E in questo senso l'onestà appartiene maggiormente alla tempe­ ranza, secondo la norma di Paolo, che le

membra meno oneste vanno circondate di un onore più grande (l Cor 1 2,23), che cioè ri­ muove ciò che è disonesto.

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L 'astinenza

Q. 146 A. l

QUAESTIO 1 46

QUESTIONE 1 46

DE ABSTINENTIA

V ASTINENZA

Deinde considerandum est de partibus subiec­ tivis temperantiae. Et primo, de his quae sunt circa delectationes ciborum; secundo, de his quae sunt circa delectationes venereorum [q. 15 1 ] . Circa primum, considerandum est de abstinentia, quae est circa cibos et potus; et de sobrietate [q. 149], quae est specialiter circa potum. Circa abstinentiam autem consideranda sunt tria, primo, de ipsa abstinentia; secundo, de actu eius, qui est ieiunium [q. 147]; tertio, de vitio opposito, quod est gula [q. 148]. Circa abstinentiam autem quaeruntur duo. Primo, utrum abstinentia sit virtus. Secundo, utrum sit virtus specialis.

Rimangono ora da esaminare le parti sogget­ tive della temperanza. In primo luogo quelle che riguardano i piaceli del cibo, e in secondo luogo quelle riguardanti i piaceri venerei. Il primo argomento ci darà modo di parlare del­ l' astinenza, che ha per oggetto i cibi e le be­ vande, e della sobrietà, che riguarda in partico­ lare le bevande. A proposito poi dell'astinenza dobbiamo prendere in esame tre punti: plimo, l'astinenza stessa; secondo, quel suo atto che è il digiuno; terzo, il vizio contrario, che è la go­ la. Sull' astinenza si pongqno due quesiti: l . L'astinenza è una virtù? 2. E una virtù speci­ ficamente distinta?

Articulus l

Articolo l Uastinenza è una virtù?

Utmm abstinentia sit virtus Ad primum sic proceditur. Videtur quod abs­ tinentia non sit virtus. l . Dicit enim apostolus, l ad Cor. 4 [20], non est regnum Dei in sermone, sed in virtute. In abstinentia autem non consistit regnum Dei, dicit enim apostolus, Rom. 14 [ 17], non est regnum Dei esca et potus; ubi dicit Glossa [Lomb.; Q. Evang. 2,2 super Luc. 7,35] nec in

abstinendo nec in manducando esse iustitiam. Ergo abstinentia non est virtus. 2. Praeterea, Augustinus dici t, in l O Conf. [3 1 ] , ad Deum loquens, hoc me docuisti, ut

quemadmodum medicamenta, sic alimenta sumpturus accedam. Sed medicamenta mo­ derari non pertinet ad virtutem, sed ad artem medicinae. Ergo, pari ratione, moderari ali­ menta, quod pertinet ad abstinentiam, non est actus virtutis, sed artis. 3. Praeterea, omnis virtus in medio consisti!, ut habetur in 2 Ethic. [6, 15]. Abstinentia au­ tem non videtur i n medio consistere, sed in defectu, cum ex subtractione nominetur. Ergo abstinentia non est virtus. 4. Praeterea, nulla virtus excludit aliam. Sed abstinentia excludit patientiam, dicit enim Gre­ gorius, in Pastor. [3, 1 9] , quod mentes absti­

nentium plerumque impatientia excutit a sinu tranquillitatis. Ibidem etiam dicit quod cogita­ tiones abstinentium nonnunquam superbiae culpa transfigit, et ita excludit humilitatem. Er­ go abstinentia non est virtus.

Sembra di no. Infatti: l . Come dice Paolo, il

regno di Dio non con­ siste in parole, ma nella virtù (l Cor 4,20). Ora il regno di Dio non consiste nell'astinen­ za, infatti Paolo dice: Il regno di Dio non è né cibo né bevanda (Rm 14, 17), cioè, come spie­ ga la Glossa, «la giustizia non sta nel mangia­ re o nel non mangiare». Quindi l' astinenza non è una virtù. 2. Agostino così parla al Signore: «Tu mi hai insegnato a prendere il pasto come una medi­ cina». Ora, regolare la dose delle medicine non appartiene alla virtù, ma ali' arte medica. Quindi anche il regolarsi nel mangiare non è l'atto di una virtù, ma di un' arte. 3. Come dice Aristotele, ogni virtù «consiste nel giusto mezzo». Invece l' astinenza non consiste nel giusto mezzo, ma in una priva­ zione, come dice il suo nome. Quindi l'asti­ nenza non è una virtù. 4. Una virtù non ne esclude mai un' altra. L' a­ stinenza invece esclude la pazienza: dice in­ fatti Gregorio che «spesso l'impazienza scac­ cia dal porto della tranquillità le anime di co­ loro che praticano l'astinenza». E aggiunge che «i pensieri degli astinenti talora sono col­ piti dal vizio della superbia»: per cui è esclusa l'umiltà. Quindi l' astinenza non è una virtù. In contrario: in 2 Pt l [5] è detto: Aggiungete

alla vostra fede la virtù, alla virtù la cono­ scenza e alla conoscenza l 'astinenza; nelle

Q. 146, A. l

L 'astinenza

Sed contra est quod dicitur 2 Petr. l [5-6], ministrate in fide vestra virtutem, in virtute autem scientiam, in scientia autem abstinen­ tiam, ubi abstinentia aliis virtutibus connume­ ratur. Ergo abstinentia est virtus. Respondeo dicendum quod abstinentia ex suo nomine i mportat subtractionem ciborum. Dupliciter ergo nomen abstinentiae accipi potest. Uno modo, secundum quod absolute ciborum subtractionem designat. Et hoc mo­ do abstinentia non designat neque virtutem neque actum viltutis, sed quiddam indiffe­ rens. Alio modo potest accipi secundum quod est ratione regulata. Et tunc significat vel ha­ bitum virtutis, vel actum. Et hoc significatur in praemissa [2 Petr. l ,5] auctoritate Petri, ubi dicitur in scientia abstinentiam ministrandam, ut scilicet homo a cibis abstineat prout opor­ tet, pro congruentia hominum cum quibus vi­

vit el personae suae, el pro valetudinis suae necessitate. Ad primum ergo dicendum quod et usus ci­ borum et eorum abstinentia secundum se considerata, non pertinent ad regnum Dei, dicit enim apostolus, l ad Cor. 8 [8], esca nos

non commendat Deo. Neque enim, si non manducaverimus, deficiemus, neque, si man­ ducabimus, abundabimus, scilicet spirituali­ ter. Utrumque autem eorum secundum quod fit rationabiliter ex fide et dilectione Dei, pertinet ad regnum Dei. Ad secundum dicendum quod moderatio ciborum secundum quantitatem et qualitatem pertinet ad artem medicinae in comparatione ad valetudinem corporis, sed secundum inte­ riores affectiones, in comparatione ad bonum rationis, pertinet ad abstinentiam. Unde Au­ gustinus dicit, in libro De Q. Evang. [ 2 , 2 super Luc. 7,35], non interest omnino, scilicet ad virtutem, quid alimentorum vel quantum

quis accipiat, dummodo id faciat pro con­ gruentia hominum cum quibus vivit et perso­ nae suae, et pro valetudinis suae necessitate, sed quanta facilitate et serenitate animi his valeat, cum oportet vel necesse est, carere. Ad tertium dicendum quod ad temperantiam pertinet refrenare delectationes quae nimis animum ad se alliciunt, sicut ad fortitudinem pertinet firmare animum contra timores a bono rationis repellentes. Et ideo sicut laus fortitudinis consistit in quodam excessu, et ex hoc denonùnantur omnes partes fortitudinis;

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quali parole l'astinenza è enumerata fra le al­ tre virtù. Quindi l 'astinenza è una virtù. Risposta: il termine astinenza implica una sottrazione di alimenti. Esso perciò può avere due significati. Primo, può indicare la sempli­ ce sottrazione del cibo. E in questo senso l'astinenza non indica né una virtù, né un atto virtuoso, ma un atto indifferente. Secondo, può indicare tale atto in quanto è regolato dal­ la ragione. E allora l'astinenza può indicare o l'abito o l'atto di una virtù. E ciò risulta anche dal passo citato di Pietro, dove è detto che l'astinenza va unita alla conoscenza: in modo cioè che ci si astenga dai cibi nella giusta mi­ sura, «Secondo le esigenze delle persone con cui si vive e i bisogni della propria persona e della propria salute». Soluzione delle difficoltà: l . L'uso o l'asti­ nenza del vitto considerati in se stessi non ap­ partengono al regno di Dio; infatti Paolo dice che non sarà certo un alimento ad avvicinarci

a Dio: né infatti, se non ne mangiamo, venia­ mo a mancare di qualcosa, né mangiandone ne abbiamo un vantaggio (l Cor 8,8). Invece l'una e l'altra cosa appartengono al regno di Dio in quanto sono ragionevolmente praticate per motivi di fede e per amore di Dio. 2. Regolare il vitto nella quantità e nella qua­ lità in ordine alla salute del corpo spetta alla medicina, ma spetta all 'astinenza i l farlo secondo le disposizioni interiori, in vista del bene di ordine razionale. Da cui le parole di Agostino: «Rispetto alla virtù non ha alcuna importanza la qualità e la quantità degli ali­ menti, purché uno ne usi secondo le esigenze di coloro con i quali convive e secondo le esi­ genze della propria persona e della propria salute; interessa invece la facilità e la serenità con cui uno ne sopporta la privazione quando la �ecessità o il dovere lo impongono». 3. E compito della temperanza tenere a freno i piaceri che attirano troppo l'animo, come è compito della fortezza rafforzare l' animo contro i timori che spingono ad abbandonare il bene di ordine razionale. Come quindi il pregio della fortezza sta in una specie di ec­ cesso, che si riflette nei nomi di tutte le virtù connesse, così il pregio della temperanza con­ siste in una specie di privazione, che si riflette nel suo nome e in quello di tutte le sue parti. Essendo quindi l' astinenza una parte della temperanza, essa è denonùnata da una priva-

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L 'astinenza

Q. 146, A. l

ita etiam laus temperantiae consistit in quo­ dam defectu, et ex hoc ipsa et omnes partes eius denominantur. Unde et abstinentia, quia pars est temperantiae, denominatur a defectu. Et tamen consistit in medio, inquantum est secundum rationem rectam. Ad quartum dicendum quod illa vitia prove­ niunt ex abstinentia prout non est secundum rationem rectam. Ratio enim recta facit absti­ nere sicut opmtet, scilicet cum hilaritate men­ tis; et propter quod oportet, scilicet propter gloriam Dei, non propter gloriam suam.

zione. E tuttavia in rapporto alla retta ragione consiste in un giusto mezzo. 4. I vizi ricordati provengono dall'astinenza in quanto essa non è conforme alla retta ragione. Infatti la retta ragione fa astenere «come si deve», cioè con l'animo ilare, e «per lo scopo dovuto», cioè per la gloria di Dio e non per la propria.

Articulus 2 Utrum abstinentia sit specialis virtus

Articolo 2 Vastinenza è una virtù speciale?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod abstinentia non sit specialis virtus. l . Omnis enim virtus secundum seipsam est laudabilis. Sed abstinentia non est secundum se laudabilis, dicit enim Gregorius, in Pastor. [3, 19], quod virtus abstinentiae non nisi ex aliis virtutibus commendatur. Ergo abstinen­ tia non est specialis virtus. 2. Praeterea, Augustinus [Fulgentius, 42] dicit, De fide ad Petrum, quod abstinentia sanctorum est a cibo et potu, non quia aliqua creatura Dei sit mala, sed pro sola corporis castigatione. Hoc autem pertinet ad castitatem, ut ex ipso nomine apparet Ergo abstinentia non est virtus specialis a castitate distincta. 3. Praeterea, sicut homo debet esse contentus moderato cibo, ita et moderata veste, se­ cundum illud l ad Tim. 6 [8], habentes ali­ menta et quibus tegamur, his contenti simus. In moderatione autem vestium non est aliqua specialis virtus. Ergo neque abstinentia, quae est moderativa alimentorum. Sed contra est quod Macrobius [In somn. S. l ,8] ponit abstinentiam specialem pmtem tempe­ rantiae. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 123 a. 1 2; q. 1 36 a. l ; q. 141 a. 3] dictum est, vir­ tus moralis conservat bonum rationis contra impetus passionum, et ideo ubi invenitur spe­ cialis ratio qua passio abstrahat a bono ra­ tionis, ibi necesse est esse specialem virtutem. Delectationes autem ciborum natae sunt abstrahere hominem a bono rationis, tum propter earum magnitudinem; tum etiam propter necessitatem cibomm, quibus homo i ndiget ad vitae conservationem, quam

Sembra di no. Infatti: l . Ogni virtù è lodevole per se stessa. Ma l'astinenza non è lodevole per se stessa, poi­ ché Gregorio afferma che «la virtù dell'asti­ nenza non è lodevole che per le altre virtù». Quindi l'astinenza non è una virtù speciale. 2. Agostino scrive che i santi praticarono l'a­ stinenza dai cibi e dalle bevande non perché qualche creatura di Dio sia cattiva, ma «Solo per castigare il corpo». Ora, ciò spetta alla castità, come appare dal nome stesso. Quindi l'astinenza non è una virtù speciale distinta dalla castità. 3. Come un uomo deve essere moderato nel ci­ bo, così deve esserlo anche nelle vesti, secondo le parole di l Tm 6 [8]: Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo. Ma la moderazione nelle vesti non è una virtù speciale. Quindi non lo è neppure I' astinenza, che è la moderazione nel cibo. In contrario: Macrobio fa dell'astinenza una parte specifica della temperanza. Risposta: come sopra si è visto, le virtù morali difendono il bene di ordine razionale contro i moti delle passioni: dove quindi si riscontra il pericolo di subire l'attrattiva di una passione, là è necessaria una virtù speciale. Ora, i piaceri della mensa per loro natura allontanano l'uo­ mo dal bene di ordine razionale, sia per la loro forte attrattiva, sia per la necessità del vitto, che è richiesto per la conservazione della vita, che l'uomo sommamente desidera. Quindi l'asti­ nenza è una virtù speciale. Soluzione delle difficoltà: l . Come sopra si è notato, le vittù devono essere connesse. E co­ sì l 'una è corroborata e raccomandata dal-

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L 'astinenza

maxime homo desiderat. Et ideo abstinentia est specialis virtus. Ad primum ergo dicendum quod virtutes opor­ tet esse connexas, ut supra [1-11 q. 65 a. l ] dictum est. Et ideo una virtus adiuvatur et commendatur ex alia, sicut iustitia a fOltitudi­ ne. Et per bune etiam modum virtus abstinen­ tiae commendatur ex aliis virtutibus. Ad secundum dicendum quod per abstinen­ tiam corpus castigatur non solum contra il­ lecebram luxuriae, sed etiam contra illecebras gulae, quia dum homo abstinet, magis redditur fortis ad impugnationes gulae vincendas, quae tanto fortiores sunt quanto homo eis magis cedit. Et tamen non prohibetur abstinentiam es­ se specialem virtutem per hoc quod ad castita­ tem valet, quia una virtus ad aliam iuvat. Ad tertium dicendum quod usus vestimento­ rum est introductus ab arte, usus autem cibo­ rum a natura. Et ideo magis debet esse virtus specialis circa moderationem ciborum quam circa moderationem vestimentorum.

l'altra: come la giustizia dalla fortezza. Ed è in questo modo che l 'astinenza è lodata per le altre virtù. 2. Il corpo è castigato dall'astinenza non solo contro le attrattive della lussuria, ma anche contro quelle della gola: poiché con l' astinen­ za uno si rende più forte per vincere gli stimo­ li della gola, che sono tanto più esigenti quan­ to più sono assecondati. D' altra parte il fatto che essa aiuti la castità non toglie che l'asti­ nenza sia una virtù speciale: poiché una virtù giova all' altra. 3. L' uso delle vesti fu introdotto dall' arte, mentre quello del vitto deriva dalla natura. Perciò si richiede una virtù speciale più per la moderazione nel vitto che per la moderazione nel vestito.

QUAESTIO 147

QUESTIONE 147

DE IEIUNIO

IL DIGIUNO

Deinde considerandum est de ieiunio. Et circa hoc quaeruntur octo. Primo, utrum ieiunium sit actus virtutis. Secundo, cuius virtutis sit actus. Tertio, utrum cadat sub praecepto. Quarto, utrum aliqui excusentur ab observatione huius praecepti. Quinto, de tempore ieiunii. Sexto, utrum semel comedere requiratur ad ieiunium. Septimo, de bora comestionis ieiunantium. Octavo, de cibis a quibus debent abstinere.

Passiamo così a parlare del digiuno. Sull'ar­ gomento si pongono otto quesiti: l . Il digiuno è un atto di virtù? 2. A quale virtù appartiene? 3. È di precetto? 4. Qualcuno è esente dall'os­ servanza di questo precetto? 5. Quali sono i tempi del digiuno? 6. n digiuno richiede che si mangi una sola volta? 7. A che ora debbo­ no mangiare quelli che digiunano? 8. Da qua­ li cibi debbono astenersi?

Articulus l

Articolo l

Utrum ieiunium sit actus virtutis

D digiuno è un atto di virtù?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod ieiunium non sit actus virtutis. 1 . Omnis enim virtutis actus est Deo accep­ tus. Sed ieiunium non semper est Deo accep­ tum, secundum illud Isaiae 58 [3], quare ieiunavimus, et non aspexisti? Ergo ieiunium non est actus virtutis. 2. Praeterea, nullus actus virtutis recedit a me­ dio virtutis. Sed ieiunium recedit a medio vir­ tutis, quod quidem in virtute abstinentiae ac­ cipitur secundum hoc, ut subveniatur necessi­ tati naturae, cui per ieiunium aliquid subtrahi-

Sembra di no. Infatti: l . Tutti gli atti di virtù sono accetti a Dio. Invece, il digiuno non è accetto a Dio, come nota fs 58 [3] : Perché abbiamo digiunato, e tu non ne hai fàtto conto? Quindi il digiuno non è un atto di virtù. 2. Nessun atto di virtù si allontana dal giusto mezzo. Ora, il digiuno si allontana dal giusto mezzo, che nella virtù dell'astinenza consiste nel provvedere alla necessità della natura, alla quale il digiuno fa mancare qualcosa: altri­ menti chi non digiuna non avrebbe la virtù

Il digiuno

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alioquin non ieiunantes non haberent vir­ tutem abstinentiae. Ergo ieiunium non est actus virtutis. 3. Praeterea, illud quod communiter omnibus convenit, et bonis et malis, non est actus vir­ tutis. Sed ieiunium est huiusmodi, quilibet enim, antequam comedat, ieiunus est. Ergo ieiunium non est actus virtutis. Sed contra est quod connumeratur aliis virtu­ tum actibus, 2 ad Cor. 6 [5-6], ubi apostolus di­ cit, in ieiuniis, in scientia, in castitate, et cetera. Respondeo dicendum quod ex hoc aliquis actus est virtuosus, quod per rationem ordi­ natur ad aliquod bonum honestum. Hoc autem convenit ieiunio. Assumitur enim ieiunium principaliter ad tria. Primo quidem, ad concu­ piscentias camis comprimendas. Unde aposto­ lus dicit, in auctoritate inducta [2 Cor. 6,5], in ieiuniis, in castitate, quia per ieiunia castitas conservatur. Ut enim Hieronymus dicit [Adv. Iovin. 2], sine Cerere et Baccho friget Venus, idest, per abstinentiam cibi et potus tepescit luxuria. Secundo, assurnitur ad hoc quod mens liberius elevetur ad sublimia contemplanda. Unde dicitur Dan. 1 0 [3 sqq . ] , quod post ieiunium trium hebdomadarum, revelationem accepit a Deo. Tertio, ad satisfaciendum pro peccatis. Unde dicitur Ioel 2 [ 1 2], convertimini ad me in roto corde vestro, in ieiunio etjletu et planctu. Et hoc est quod Augustinus dicit, in quodam sermone De orat. et ieiun. [Serm. suppos., serm. 73], ieiunium purgar mentem, sublevat sensum, carnem spiritui subiicit, cor facit contritwn et humiliatum, concupiscentiae nebulas dispergit, libidinum ardores extinguit, castitatis vero lumen accendit. Unde patet quod ieiunium est actus virtutis. Ad primum ergo dicendum quod contingit quod aliquis actus qui ex genere suo est vir­ tuosus, ex aliquibus circumstantiis adiunctis redditur vitiosus. Unde ibidem dicitur, ecce in diebus ieiunii vestri invenitur voluntas vestra; et paulo [4] post subditur, ad lites et conten­ tiones ieiunatis, et percutitis pugno impie. Quod exponens Gregorius, in Pastor. [3, 1 9], dicit, voluntas ad laetitiam pertinet, pugnus ad iram. Incassum ergo per abstinentiam cor­ pus atteritur, si inordinatis motibus dimissa mens vitiis dissipatur. Et Augustinus, in prae­ dicto [Serm. suppos. 73] sermone, dicit quod ieiunium verbositatem non amat, divitias su­ peljluitatem iudicat, superbiam spernit, hutur;

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dell'astinenza. Quindi il digiuno non è un atto di virtù. 3. Ciò che capita a tutti, buoni e cattivi, non è un atto di virtù. Ma tale è appunto il caso del digiuno: infatti prima di mangiare tutti sono digiuni. Quindi il digiuno non è un atto di virtù. In contrario: è enumerato tra gli altri atti di virtù in 2 Cor 6 [5], dove Paolo dice: Nei di­ giuni, nella scienza, nella castità... Risposta: un atto è virtuoso per il fatto che dalla ragione è ordinato a qualche bene one­ sto. Ora, ciò avviene per il digiuno. Infatti il digiuno è praticato principalmente per tre cose. Primo, per reprimere le concupiscenze della carne. Per cui Paolo nel passo citato scri­ ve: Nei digiuni, nella castità; poiché con il digiuno si conserva la castità. Infatti Girolamo scrive che «senza Cerere e Bacco, Venere si raffredda»: cioè con l'astinenza nel mangiare e nel bere la lussuria si smorza. Secondo, perché l'anima si elevi a contemplare le realtà più sublimi. Infatti in Dn l O [3] è detto che Daniele ricevette rivelazioni da Dio dopo tre settimane di digiuno. Terzo, in riparazione dei peccati. Per cui è detto in Gl 2 [ 1 2]: Ritornate a me con tutto il cuore, con digiwzi, con pianti e lamenti. - Ed è quanto dice anche Agostino: «Il digiuno purifica l' anima, eleva la mente, sottomette la carne allo spirito, rende il cuore contrito e umiliato, dissipa le nebbie della concupiscenza, smorza gli ardori flella libidine e accende la luce della castità». E quindi evi­ dente che il digiuno è un atto di virtù. Soluzione delle difficoltà: l . Un atto che nel suo genere è virtuoso può essere reso vizioso da qualche circostanza. Infatti sempre in Is [58,3] è detto: &co, nel giorno del vostro di­ giuno curate i vostri affari; e poco dopo: Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi, e colpendo con pugni iniqui. E Gregorio commenta: «Gli affari stanno per i piaceri, i pugni per l'ira. Perciò inutilmente il corpo è maltrattato con l'astinenza se l'anima, abbandonata a moti di­ sordinati, diventa preda del peccato». E Agosti­ no afferma che «il digiuno non ama le chiac­ chiere, giudica superflue le ricchezze, disprezza la superbia, esalta l'umiltà e fa sì che l'uomo si renda conto di essere fragile e infermo». 2. li giusto mezzo non è determinato in base alla quantità, ma «secondo la retta ragione», come dice Aristotele. Ora, la ragione giudica

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militatem commendar, praestat homini sei­ pswn intelligere, quod est injirmwn etfragile. Ad secundum dicendum quod medium virtu­ tis non accipitur secundum quantitatem, sed secundum rationem rectam, ut dicitur in 2 Ethic. [6, 15]. Ratio autem iudicat quod prop­ ter aliquam specialem causam aliquis homo minus sumat de cibo quam sibi competeret secundum statum communem, sicut propter i nfirmitatem vitandam, aut aliqua opera corporalia expeditius agenda. Et multo magis ratio recta hoc ordinat ad spiritualia mala vitanda et bona prosequenda. Non tamen ratio recta tantum de cibo subtrahit ut natura con­ servari non possit, quia, ut Hieronymus dicit [cf. Decretum, p. 3 De cons., d. 5, can. 24], non differt utrum magno ve[ parvo tempore te interimas; et quod de rapina holocaustum offert qui ve/ ciborum nimia egestate, vel manducandi vel somni penuria, immoderate cmpus ajjligit. Similiter etiam ratio recta non tantum de cibo subtrahit ut homo reddatur impotens ad debita opera peragenda, unde dicit Hieronymus [ibid.] quod rationalis homo dignitatem amittit qui ieiuniwn caritati, ve/ vigilias sensus integritati praefert. Ad tertium dicendum quod ieiunium naturae, quo quis dicitur ieiunus antequam comedat, consistit in pura negatione. Unde non potest poni actus virtutis, sed solum illud ieiunium quo quis, ex rationabili proposito, a cibis aliqualiter abstinet. Unde primum dicitur ieiunium ieiuni, secundum vero ieiunium ieiunantis, quasi ex proposito aliquid agentis.

che per uno speciale motivo un uomo deve prendere meno cibo di quello che ordinaria­ mente gli occorrerebbe: sia per evitare un'in­ fermità, sia per compiere meglio determinati atti materiali. Ma molto più la retta ragione può ordinare ciò per evitare dei mali o per conseguire dei beni di ordine spirituale. Tutta­ via la retta ragione non ridurrà mai il vitto al punto di compromettere la conservazione del­ la natura: poiché, come dice Girolamo, «non c'è ditJerenza tra l'uccidersi di colpo o in un tempo più o meno lungo»; e ancora: «offre in olocausto dei beni rapinati colui che affligge troppo il corpo con privazioni eccessive di vitto o di sonno». La retta ragione inoltre non riduce il vitto tanto da rendere un uomo inca­ pace di compiere le proprie mansioni: per cui Girolamo afferma che «perde la dignità di uomo ragionevole chi preferisce il digiuno alla carità, o le veglie all'integrità del senno». 3. Il digiuno naturale di chi non ha ancora mangiato è un fatto puramente negativo. Per cui non può essere computato tra gli atti di virtù, ma tra questi poniamo solo il digiuno con cui uno ragionevolmente e di proposito si astiene dal cibo per qualche tempo. Per cui si dice che il primo è il digiuno di chi è digiuno, mentre il secondo è il digiuno di chi digiuna, cioè di chi lo fa di proposito.

Articulus 2 Utrum ieiunium sit actus abstinentiae

Articolo 2 n digiuno è un atto di astinenza?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod ieiunium non sit actus abstinentiae. l . Quia super illud Matth. 1 7 [20], hoc genus daemoniorum etc., dicit Hieronymus [cf. glos. ord. super Matth. 17 ,20; Beda, In Mare. 3 su­ per 1 1 ,28; cf. In loan. tract. 1 7 super 5,5], ieiunium est non solum ab esds, sed a cunctis illecebris abstinere. Sed hoc pertinet ad omnem virtutem. Ergo ieiunium non est actus speciali­ ter abstinentiae. 2. Praeterea, Gregorius dicit, in Homilia Qua­ dragesimae [In Ev. h. 1 , 17], quod ieiunium quadragesimale est decima totius anni . Sed da­ re decimas est actus religionis, ut supra [q. 85,

Sembra di no. Infatti: l . Nel commentare Mt 17 [21]: Questa razza di demoni... , Girolamo afferma: «Il digiuno non consiste nell'astenersi dai soli cibi, ma da tutte le seduzioni». Ma ciò è comune a tutte le virtù. Quindi il digiuno non è propriamente un atto di astinenza. 2. Gregorio insegna che il digiuno quaresima­ le è la decima di tutto l'anno. Ora, pagare le decime è un atto di religione, come si è detto. Perciò il digiuno è un atto di religione e non di astinenza. 3. L'astinenza è una virtù annessa alla tempe­ ranza, come si è detto sopra. Ma la temperan-

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introd.] habitum est. Ergo ieiunium est actus re1igionis, et non abstinentiae. 3. Praeterea, abstinentia est pars temperantiae, ut dictum est [q. 1 43, a. unic.; q. 1 46 a. l ad 3] . Temperantia autem contra fortitudinem di­ viditur, ad quam pertinet molestias sustinere, quod maxime videtur esse in ieiunio. Ergo ieiunium non est actus abstinentiae. Sed contra est quod Isidorus dicit [Etymol. 4, 1 9] quod ieiunium est parsimonia victus,

abstinentiaque ciborum. Respondeo dicendum quod eadem est materia habitus et actus. Unde omnis actus virtuosus qui est circa aliquam materiam, ad illam virtutem pertinet quae medium in illa materia constituit. Ieiunium autem attenditur in cibis, in quibus medium adinvenit abstinentia. Unde manife­ stum est quod ieiunium est abstinentiae actus. Ad primum ergo dicendum quod ieiunium proprie dictum consistit in abstinendo a cibis. Sed metaphorice dictum consistit in abstinendo a quibuslibet nocivis, quae maxirne sunt pec­ cata. - Vel potest dici quod etiam ieiunium proprie dictum est abstinentia ab omnibus ille­ cebris, quia per quaelibet vitia adiuncta desinit esse actus virtuosus, ut dictum est [a. l ad 1 ] . A d secundum dicendum quod nihil prohibet actum unius virtutis pertinere ad aliam viltu­ tem, secundum quod ad eius finem ordinatur, ut ex supra [q. 32 a. l ad 2; q. 85 a. 3] dictis patet. Et secundum hoc, nihil prohibet ieiu­ nium pertinere ad religionem vel ad castitatem, vel ad quamcumque aliam virtutem. Ad tertium dicendum quod ad fortitudinem, secundum quod est specialis v i rtus, non pertinet perferre quascumque molestias, sed solum illas quae sunt circa pericula mortis. Sufferre autem molestias quae sunt ex defectu delectabilium tactus, pertinet ad temperantiam et ad partes eius. Et tales sunt molestiae ieiunii.

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za è distinta dalla fortezza, a cui spetta il sop­ portare i disagi, che si presentano molto gran­ di nel digiuno. Quindi il digiuno non è un atto di astinenza. In contrario: Isidoro insegna che «il digiuno è parsimonia nel vitto e astinenza dai cibi». Risposta: è identica la materia di un abito e dei suoi atti. Perciò ogni atto virtuoso che riguarda una determinata materia appartiene alla virtù che è specificata da quella matetia. Ora, il digiuno riguarda il vitto, in cui il giusto mezzo è determinato dali' astinenza. Per cui risulta chiaro che il digiuno è un atto di astinenza. Soluzione delle difficoltà: l . TI digiuno pro­ priamente detto consiste nell' astenersi dal vitto, ma preso in senso metaforico può con­ sistere nell' astenersi da qualsiasi cosa nociva, e quindi soprattutto dai peccati. - Oppure si può rispondere che il digiuno propriamente detto è l'astinenza da tutte le seduzioni: poi­ ché con l' aggiunta di qualsiasi circostanza di­ fettosa il digiuno cessa di essere un atto vir­ tuoso, come si è visto sopra. 2. Come si è visto, nulla impedisce che 1' atto di una certa virtù appartenga anche a un' altra virtù, in quanto è ordinato al fine di quest'ulti­ ma. E in questo senso nulla impedisce che il digiuno appartenga alla religione, alla castità o a qualsiasi altra virtù. 3. La fortezza in quanto virtù specifica non ha il compito di sopportare qualsiasi disagio, ma solo quelli relativi ai pericoli di morte. Invece il sopportare i disagi dovuti alla carenza dei piaceri del tatto appartiene alla temperanza e alle sue parti. E tali sono appunto i disagi del digiuno.

Utrum ieiunium sit in praecepto

Articulus 3

Articolo 3 n digiuno è di precetto?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod ieiu­ nium non sit in praecepto. l . Praecepta enim non dantur de operibus su­ pererogationum, quae cadunt sub consilio. Sed ieiunium est opus supererogationis, alioquin, ubique et semper aequaliter esse observandum. Ergo ieiunium non cadit sub praecepto. 2. Praeterea, quicumque transgreditur prae-

Sembra di no. Infatti: l . I precetti non possono riguardare le opere supererogatorie che sono di consiglio. Ora, il digiuno è un' opera supererogatoria: altrimenti dovrebbe essere osservato sempre e dovun­ que allo stesso modo. Quindi il digiuno non è di precetto. 2. Chi trasgredisce un precetto pecca mortai-

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ceptum peccat mortaliter. Si ergo ieiunium es­ set in praecepto, omnes non ieiunantes morta­ liter peccarent. Per quod videretur magnus laqueus hominibus esse iniectus. 3. Praeterea, Augustinus dicit, in libro De ve­ ra rei. [ 17], quod ab ipsa Dei sapientia, ho­ mine assumpto, a quo in libertatem vocati sumus, pauca sacramenta saluberrima con­ stituta sunt, quae societatem Christiani popu­ li, hoc est sub uno Deo liberae multitudinis, continerent. Sed non minus videtur libertas popoli Christiani impediri per multitudinem observantiarum quam per multitudinem sa­ cramentorum, dicit enim Augustinus, in libro Ad inquisitiones Ianuarii [ep. 55, c. 1 9], quod quidam ipsam religionem nostram, quam manifestissimis et paucissimis celebrationum sacramentis Dei misericordia voluit esse li­ beram, servilibus premunt oneribus. Ergo vi­ detur quod non debuit per Ecclesiam ieiu­ nium sub praecepto institui. Sed contra est quod Hieronymus, Ad Luci­ num [ep. 7 1 ], dicit, de ieiuniis loquens, una­ quaeque provincia abundet in suo sensu, et praecepta maiorum leges apostolicas arbi­ tretur. Ergo ieiunium est in praecepto. Respondeo dicendum quod sicut ad saecu­ lares principes pertinet praecepta legalia, iuris naturalis determinativa, tradere de his quae pertinent ad utilitatem communem in tempo­ ralibus rebus; ita etiam ad praelatos ecclesia­ sticos pertinet ea statutis praecipere quae ad utilitatem communem fidelium pertinent in spiritualibus bonis. Dictum est autem [a. l ] quod ieiunium utile est et ad deletionem et cohibitionem culpae, et ad elevationem men­ tis in spiritualia. Unusquisque autem ex natu­ rali ratione tenetur tantum ieiuniis uti quan­ tum sibi necessarium est ad praedicta. Et ideo ieiunium in communi cadit sub praecepto le­ gis naturae. Sed determinatio temporis et modi ieiunandi secundum convenientiam et utilitatem populi Christiani, cadit sub prae­ cepto iuris positivi quod est a praelatis Eccle­ siae institutum. Et hoc est ieiunium Ecclesiae, aliud, naturae. Ad primum ergo dicendum quod ieiunium, secundum se consideratum, non nominat aliquid eligibile, sed quiddam poenale. Redditur autem eligibile secundum quod est utile ad finem aliquem. Et ideo, absolute con­ sideratum, non est de necessitate praecepti,

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mente. Se quindi il digiuno fosse di precetto, tutti quelli che non digiunano peccherebbero mortalmente. n che sarebbe di grande pregiu­ dizio per gli uomini. 3. Agostino scrive che «la sapienza stessa di Dio umanata, dalla quale siamo stati chiamati alla libertà, istituì pochi efficacissimi sacra­ menti per tenere unita la libera società del popolo cristiano sotto un unico Dio». Ma la libertà del popolo ctistiano non è compromes­ sa meno dalla molteplicità delle osservanze che dal numero eccessivo dei sacramenti: infatti il medesimo Santo si lamenta del fatto che «alcuni aggravano di pesi serviti la nostra stessa religione, che la misericordia di Dio ha reso libera non imponendole se non pochissi­ m i ed evidentissimi sacramenti». Sembra quindi che la Chiesa non dovesse imporre il digiuno sotto precetto. In contrario: Girolamo così scrive a proposito del digiuno: «Ogni provincia segua il proprio criterio, e consideri leggi apostoliche i precetti dei suoi maggiori». Quindi il digiuno è di precetto. Risposta: come le autorità civili hanno il com­ pito di stabilire in ordine al bene comune dei precetti legali che detenninino la legge natu­ rale in rapporto alle cose temporali, così i prelati ecclesiastici hanno il compito di co­ mandare con delle leggi ciò che riguarda il bene comune dei fedeli nel campo spirituale. Ora, sopra abbiamo detto che il digiuno serve a cancellare e a reprimere il peccato, e a ele­ vare l'anima alle realtà spirituali. Quindi in base alla ragione naturale ciascuno è tenuto a usare del digiuno quanto per lui è necessario in vista del raggiungi mento di tali scopi. E co­ sì il digiuno in forma generica viene a essere un precetto della legge naturale. Invece la detenninazione del tempo e del modo di di­ giunare secondo l'utilità e la convenienza del popolo cristiano ricade sotto un precetto della legge positiva, stabilita dai prelati della Chie­ sa. E questo è il digiuno ecclesiastico, mentre l'altro è quello naturale. Soluzione delle difficoltà: l . Considerato in se stesso, il digiuno non è qualcosa di appeti­ bile, ma di afflittivo: è reso però appetibile in quanto serve a raggiungere un fine. Conside­ rato quindi in se stesso non è necessario come qualcosa di precetto, ma lo diventa per tutti coloro che hanno bisogno di tale rimedio.

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sed est de necessitate praecepti unicuique tali remedio indigenti. Et quia multitudo ho­ minum ut plurimum indiget tali remedio, tum quia in multis omnes offendimus, ut dicitur Iac. 3 [2] ; tum etiam quia caro concupiscit adversus spiritum, ut dicitur Gal. 5 [ 1 7] , conveniens fuit u t Ecclesia aliqua ieiunia statueret communiter ab omnibus observanda, non quasi praecepto subiiciens id quod sim­ pliciter ad supererogationem pertinet, sed quasi in speciali determinans id quod est ne­ cessarium in communi. Ad secundum dicendum quod praecepta quae per modum communis statuti proponuntur, non eodem modo obligant omnes, sed se­ cundum quod requiritur ad finem quem legis­ lator intendit. Cuius auctoritatem si aliquis transgrediendo statutum contemnat; vel hoc modo transgrediatur quod impediatur finis quem intendit, peccat mortaliter talis trans­ gressor. Si autem ex aliqua rationabili causa quis statutum non servet, praecipue in casu in quo etiam, si legislator adesset, non deceme­ ret esse servandum, talis transgressio non constituit peccatum mortale. Et inde est quod non omnes qui omnino non servant ieiunia Ecclesiae, mortaliter peccant. Ad tertium dicendum quod Augustinus ibi [ep. 55 Ad Inquis. Ianuarii, c. 19] loquitur de his quae neque sanctarum Scripturarum auc­ toritatibus continentur, nec in Conciliis epi­ scoporum statuta inveniuntur, nec consue­ tudine universalis Ecclesiae roborata sunt. Ieiunia vero quae sunt in praecepto, sunt in Conciliis episcoporum statuta, et consuetudi­ ne universalis Ecclesiae roborata. Nec sunt contra libertatem populi fidelis, sed magis sunt utilia ad impediendum servitutem pec­ cati, quae repugnat libertati spirituali; de qua dicitur, Gal. 5 [ 1 3], vos autem, frau·es, in libertatem vocati estis, tantum, ne libertatem detis in occasionem camis.

E poiché la moltitudine degli uomini per lo più ne ha bisogno, sia perché tutti manchiamo in molte cose (Gc 3,2), sia anche perché la carne ha desideri contrari allo spirito (Gal 5, 17), era conveniente che la Chiesa stabilisse dei digiuni da osservarsi comunemente da parte di tutti, non per rendere di precetto delle cose soltanto supererogatorie, ma per deter­ minare in particolare una cosa che è necessa­ ria in generale. 2. I precetti che sono imposti come leggi uni­ versali non obbligano tutti alla stessa maniera, ma come richiede lo scopo a cui mira il legi­ slatore. Se dunque uno, trasgredendoli, di­ sprezza l'autorità, o impedisce il fine da essa perseguito, pecca mortalmente. Se invece uno non osserva la n01ma stabilita per una causa ragionevole, specialmente nei casi in cui lo stesso legislatore, se fosse presente, approve­ rebbe la cosa, tale trasgressione non costitui­ sce un peccato mortale. Non è detto quindi che tutti quanti non osservano i digiuni della Chiesa pecchino mortalmente. 3. Agostino, nel testo citato, parla delle osser­ vanze che «non sono avvalorate né dali' auto­ rità della Scrittura, né dai concili dei Vescovi, né dalla consuetudine della Chiesa universa­ le». Ma i digiuni di precetto sono stati prescrit­ ti dai concili e dall'uso della Chiesa universa­ le. E neppure sono in contrasto con la libertà dei fedeli, ma servono piuttosto a impedire la schiavitù del peccato, che è incompatibile con la libertà spirituale, di cui è detto: Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne (Gal 5, 1 3).

Articulus 4 Utrurn ornnes ad ieiunia Ecclesiae teneantur

Articolo 4 Thtti sono tenuti ai digiuni della Chiesa?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod omnes ad ieiunia Ecclesiae teneantur. l . Praecepta enim Ecclesiae obligant sicut Dei praecepta, secundum illud Lucae 10 [ 1 6], qui vos audit, me audit. Sed ad praecepta Dei

Sembra di sì. Infatti: l . I precetti della Chiesa obbligano come i precetti di Dio, secondo le parole di Le IO [16]: Chi ascolta voi, ascolta me. Ma a osser­ vare i precetti di Dio sono tenuti tutti. Quindi

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servanda omnes tenentur. Ergo similiter omnes tenentur ad servanda ieiunia quae sunt ab Ecclesia instituta. 2. Praeterea, maxime videntur excusari pueri a ieiunio, propter aetatem. Sed pueri non ex­ cusantur, dicitur enim Ioel 2 [ 1 5] , sanctificate ieiunium. Et postea [ 1 6] sequitur, congregate parvulos et sugentes ubera, ergo multo magis omnes alii ad ieiunia tenentur. 3 . Praeterea, spiritualia sunt temporalibus praeferenda, et necessaria non necessariis. Sed opera corporalia ordinantur ad lucrum temporale, peregrinatio etiam, etsi ad spiritua­ lia ordinetur, non est necessitatis. Cum ergo ieiunium ordinetur ad spiritualem utilitatem, et necessitatem habeat ex statuto Ecclesiae, videtur quod non sint ieiunia Ecclesiae prae­ termittenda propter peregrinationem vel cor­ poralia opera. 4. Praeterea, magis est aliquid faciendum ex propria voluntate quam ex necessitate, ut pa­ tet per apostolum, 2 ad Cor. 9 [7]. Sed paupe­ res solent ex necessitate ieiunare, propter de­ fectum alimentorum. Ergo multo magis de­ bent ex propria voluntate ieiunare. Sed contra, videtur quod nullus iustus teneatur ieiunare. Praecepta enim Ecclesiae non obligant contra doctrinam Christi. Sed Domi­ nus dixit, Lucae 5 [34], quod non possunt filii sponsi ieiunare quandiu cwn ipsis est sponsus. Est autem cum omnibus iustis, spiritualiter eos inhabitans, unde Dominus dicit, Matth. 28 [20], ecce, ego vobiscum sum usque ad consummationem saeculi. Ergo iusti ex statu­ to Ecclesiae non obligantur ad ieiunandum. Respondeo dicendum quod, sicut supra [1-ll q. 96 a. 6] dictum est, statuta communia pro­ ponuntur secundum quod multitudini conve­ niunt. Et ideo legislator in eis statuendis at­ tendit id quod communiter et in pluribus accidit. Si quid autem ex speciali causa in aliquo inveniatur quod observantiae statuti repugnet, non intendit talem legislator, ad statuti observantiam obligare. In quo tamen est distinctio adhibenda. Nam si causa sit evidens, per seipsum licite potest homo statuti observantian1 praeterire, praesertim consuetu­ dine interveniente; vel si non posset de facili recursus ad superiorem haberi. Si vero causa sit dubia, debet aliquis ad superiorem recur­ rere qui habet potestatem in talibus dispen­ sandi. Et hoc est observandum in ieiuniis ab

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tutti sono obbligati a osservare i digiuni stabi­ liti dalla Chiesa. 2. Dal digiuno sembrerebbero esenti special­ mente i bambini, a motivo dell'età. Invece i bambini non sono esentati, poiché in Gl 2 [ 15] è detto: Proclamate un digiuno ... riunite ifan­ ciulli, i bambini lattanti. Perciò a maggior ragione sono tenuti al digiuno tutti gli altri. 3 . I beni spirituali devono essere preferiti a quelli temporali, e le cose necessarie alle non necessarie. Ora, le opere materiali sono ordi­ nate a un guadagno temporale; e anche i viag­ gi, per quanto ordinati a un bene spirituale, tuttavia non sono necessari. Siccome dunque i digiuni sono ordinati al bene spirituale e sono necessari per disposizione della Chiesa, sem­ bra che non vadano tralasciati per fare dei viaggi o dei lavori materiali. 4. Un'opera buona è meglio farla volontaria­ mente che per necessità, come nota Paolo in 2 Cor 9 [7]. Ma i poveti sono spesso costretti a digiunare per necessità, cioè per mancanza di vitto. Quindi sono tenuti molto di più a digiunare volontariamente. In contrario: nessun giusto è tenuto a digiu­ nare. Infatti i precetti della Chiesa non possono obbligare contro l'insegnamento di Cristo. Ora il Signore ha detto che gli amici dello Sposo non possono digitmare mentre lo Sposo è con loro (Le 5,34). Ma egli è con tutti i giusti, abitando spiritualmente in essi, per cui il Si­ gnore assicura: Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo (Mt 28,20). Quindi i giusti non possono essere obbligati a digiunare da una legge della Chiesa. Risposta: come sopra si è notato, le leggi uni­ versali sono stabilite per il bene della moltitu­ dine. Perciò nell'istituirle il legislatore tiene presente ciò che avviene ordinariamente e nella maggior parte dei casi. Se però in un ca­ so particolare, per un motivo determinato, capita qualcosa che è incompatibile con l'os­ servanza della norma stabilita, allora il legi­ slatore non intende obbligare a tale norma. Qui però bisogna distinguere. Se infatti il motivo è evidente uno può lecitamente di­ spensarsi da sé; e a più forte ragione se inter­ viene la consuetudine, oppure se non è facile ricorrere al superiore. Se invece il motivo è dubbio, allora si deve ricorrere al superiore che ha la facoltà di dispensare. E questa nor­ ma va osservata nei digiuni stabiliti dalla

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Ecclesia institutis, ad quae omnes communi­ ter obligantur, nisi in eis fuerit aliquod specia­ le impedimentum. Ad primum ergo dicendum quod praecepta Dei sunt praecepta iuris naturalis, quae se­ cundum se sunt de necessitate salutis. Sed sta­ tuta Ecclesiae sunt de his quae non per se sunt de necessitate salutis, sed solum ex institu­ tione Ecclesiae. Et ideo possunt esse aliqua impedimenta propter quae aliqui ad observan­ da ieiunia huiusmodi non tenentur. Ad secundum dicendum quod in pueris est maxime evidens causa non ieiunandi, tum propter debilitatem naturae, ex qua provenit quod indigent frequenti cibo, et non multo si­ mul assumpto; tum etiam quia indigent multo nutrimento propter necessitatem augmenti, quod fit de residuo alimenti. Et ideo quandiu sunt in statu augmenti, quod est ut in pluribus usque ad finem tertii septennii, non tenentur ad ecclesiastica ieiunia observanda. Conve­ niens tamen est ut etiam in hoc tempore se ad ieiunandum exerceant, plus vel minus, secun­ dum modum suae aetatis. - Quandoque ta­ men, magna tribulatione imminente, i n si­ gnum poenitentiae arctioris , etiam pueris ieiunia indicuntur, sicut etiam de iumentis le­ gitur Ionae 3 [7], homines et iumenta non

Chiesa, i quali obbligano tutti, salvo partico­ lari impedimenti. Soluzione delle difficoltà: l. I precetti di Dio sono dei precetti di legge naturale, e quindi necessari per se stessi alla salvezza. Invece le leggi ecclesiastiche hanno per oggetto delle cose che non sono di per sé necessarie alla salvezza, ma sono solo imposte dall'autorità della Chiesa. Così dunque vi possono essere degli impedimenti che dispensano qualcuno dal!' osservare i digiuni suddetti. 2. E evidentissimo il motivo della dispensa dal digiuno nel caso dei fanciulli : sia per la loro debolezza naturale, per cui hanno biso­ gno di nutrirsi spesso, senza aggravarsi in una volta sola di troppo cibo, sia perché hanno bisogno di molto nutrimento per la crescita, che dipende dal sovrappiù della nutrizione. Finché dunque sono nella fase di crescita, che per lo più dura fino ai ventun anni , essi non sono tenuti ai digiuni ecclesiastici. Tuttavia è bene che anche in questo periodo essi si eser­ citino gradatamente a digiunare secondo l 'età. - Thttavia in certi casi, ossia nell'imminenza di gravi tribolazioni, in segno di una più rigo­ rosa penitenza, il digiuno è imposto anche ai fanciulli; infatti in Giona 3 [7] è detto che esso fu esteso anche agli animali: Uomini e

gustent quidquam, nec aquam bibant.

animali non gustino nulla, non bevano acqua. 3. A proposito dei viaggi e dei lavori materiali

Ad tertium dicendum quod circa peregrinos et operarios distinguendum videtur. Quia si pe­ regrinatio et operis labor commode differri possit aut diminuì, absque detrimento corpo­ ralis salutis et exterioris status, qui requiritur ad conservationem corporalis vel spiritualis vitae, non sunt propter hoc Ecclesiae ieiunia praetermittenda. Si autem immineat necessitas statim peregrinandi et magnas diaetas faciendi; vel etiam multum laborandi, vel propter conservationem vitae corporalis, vel propter aliquid necessarium ad vitam spiritualem; et simul cum hoc non possunt Ecclesiae ieiunia observari , non obligatur homo ad ieiunan­ dum; quia non videtur fuisse intentio Eccle­ siae statuentis ieiunia, ut per hoc impediret alias pias et magis necessarias causas. Videtur tamen in talibus recurrendum esse ad superio­ ris dispensationem, nisi forte ubi ita est con­ suetum; quia ex hoc ipso quod praelati dissi­ mulant, videntur annuere. Ad quartum dicendum quod pauperes qui possunt sufficienter habere quod eis sufficiat

bisogna distinguere. Se il viaggio e il lavoro manuale possono essere rinviati o abbreviati senza compromettere la salute del corpo e le esigenze del proprio stato, secondo quanto richiede il bene corporale o spirituale, allora non vanno trascurati a motivo di essi i digiuni della Chiesa. Se invece è urgente il bisogno di affrontare dei lunghi viaggi, oppure di mettere mano a lavori faticosi necessari per la conser­ vazione della vita corporale o spirituale, allora quando ciò è incompatibile con i digiuni ec­ clesiastici non si è tenuti a digiunare: poiché non era intenzione della Chiesa, che ha istitui­ to questi digiuni, di impedire con essi altre opere pie maggiormente necessarie. Però in questi casi si deve ricorrere alla dispensa; a meno che non esista già la consuetudine: poi­ ché dal momento che i prelati lasciano fare, mostrano di approvare. 4. I poveri che possono avere il cibo sufficien­ te per un pasto non sono dispensati per la loro povertà dai digiuni della Chiesa. Ne sono

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ad unam comestionem, non excusantur prop­ ter paupertatem a ieiuniis Ecclesiae. A quibus tamen excusari videntur illi qui frustatim ele­ emosynas mendicant, qui non possunt simul habere quod eis ad victum sufficiat. Ad quintum dicendum quod illud verbum Domini tripliciter potest exponi. Uno modo, secundum Chrysostomum [In Matth., h. 30], qui dicit quod discipuli, qui filii sponsi di­ cuntur, adi1Uc imbecillius dispositi erant, unde vestimento veteri comparantur, et ideo, in prae­ sentia corporali Christi, erant magis tovendi in quadam dulcedine quam in austeritate ieiunii exercendi. Et secundum hoc, magis convenit ut cum imperfectis et novitiis in ieiuniis dispen­ setur guam cum antiquioribus et perfectis, ut patet in Glossa [ord. et Lomb.], super illud Psalmi [ 1 30,2], sicut ablactatus super matre sua. Alio modo potest dici, secundum Hiero­ nymum [cf. Bedam, l. 2 super 5,34], quod Do­ minus ibi loquitur de ieiunio veterum obser­ vantiarum . Unde per hoc significat Dominus quod apostoli non erant in veteribus obser­ vantiis detinendi, quos oportebat gratiae novi­ tate perfundi. - Tertio modo, secundum Augu­ stinum [De cons. Evangelist. 2,27; Q. Evang. 2, 1 8 super Luc. 5,33], qui distinguit duplex ieiunium. Quorum unum pertinet ad humilita­ tem tribulatio11is. Et hoc non competit viris perfectis, qui dicunturfilii sponsi, unde ubi Lu­ cas dicit [5,34], 11011 possunt filii sponsi ieiu11are, Matthaeus dicit [9, 1 5] , 11011 possunt filii sponsi lugere. - Aliud autem est quod per­ tinet ad gaudiwn mentis in spiritualia suspen­ sae. Et tale ieiunium convenit perfectis. -

invece dispensati quei mendicanti che lo rac­ colgono in modo frammentario, senza la pos­ sibilità di avere un pasto completo. 5. [S.e.]. Le parole evangeliche riferite posso­ no essere spiegate in tre modi . Primo, seguen­ do il Crisostomo, il quale afferma che i disce­ poli amici dello Sposo «erano ancora troppo fragili», per cui sono paragonati al vestito vecchio [Mt 9, 1 6] : essi perciò, mentre Cristo era presente corporalmente, andavano più incoraggiati con una certa dolcezza che eser­ citati nell'austerità del digiuno. E in base a ciò vanno dispensati dal digiuno più i principianti e i novizi che gli anziani e i perfetti ; come si legge nella Glossa sul Sal 1 30 [2] : Come un bimbo svezzato in braccio a sua madre. Secondo, seguendo Girolamo si può dire che là il Signore parla del digiuno secondo le anti­ che osservanze. Quindi il Signore voleva dire che gli apostoli, chiamati a essere rinnovati dalla grazia, non erano tenuti alle osservanze del l ' antica legge. - Terzo, si può seguire Agostino, il quale distingue due tipi di digiu­ no. Un digiuno «di umiltà e di tribolazione», che non si addice ai perfetti, chiamati qui «amici dello Sposo». Infatti là dove Le dice:

Gli amici dello Sposo 1wn possono digiunare, Mc [2, 1 9] scrive: Gli amici dello Sposo non possono essere in lutto. Il secondo tipo invece è un digiuno «di gioia per l'anima ele­ -

vata alle realtà spirituali». E tale digiuno con­ viene ai perfetti.

Articulus 5

Articolo 5

Utrum convenienter determinentur tempora ieiunii ecclesiastici

I giorni del digiuno ecclesiastico sono ben determinati?

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod non determinentur convenienter tempora ieiunii ecclesiastici. l . Christus enim legitur, Matth. 4 [ 1 -2], statim post Baptismum ieiunium inchoasse. Sed nos Christum imitari debemus, secundum illud l ad Cor. 4 [ 1 6] , imitatores mei estote, sicut et ego Christi. Ergo et nos debemus ieiunium peragere statim post Epiphaniam, in qua Baptismus Christi celebratur. 2. Praeterea, caeremonialia veteris legis non licet in nova lege observare. Sed ieiunia in

Sembra di no. Infatti: l . In Mt 4 [ l ] si legge che Cristo incominciò il digiuno subito dopo il battesimo. Ora, noi dobbiamo i mitarlo, secondo le parole d i l Cor 4 [ 1 6] : Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo. Quindi anche noi dobbiamo fare il digiuno subito dopo l'Epifania, nella quale si commemora il battesimo di Cristo. 2. Nella legge nuova non è lecito osservare le cerimonie della legge antica. Ma i digiuni fatti in mesi detetminati sono propri della legge antica, infatti è detto in Zc 8 [ 1 9]: Il digiuno

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quibusdam determinatis mensibus pertinent ad solemnitates veteris legis, dicitur enim Zach. 8 [ 1 9], ieiunium quarti, et ieiunium

del quarto, quinto, settimo e decimo mese si cambierà per la casa di Giuda in gioia, giubi­ lo e giorni di festa. Perciò i digiuni stabiliti in

quinti, et ieiunium septimi, et ieiunium decimi erit domui ludae in gaudium et laetitiam, et in solemnitates praeclaras. Ergo ieiunia specia­

mesi determinati, come quelli delle Quattro Tempora, sono abusivi nella Chiesa. 3. Secondo Agostino ci sono digiuni «di aflli­ zione» e digiuni «di gioia». Ora, la gioia spiri­ tuale più grande per i fedeli deriva dalla risur­ rezione di Cristo. Si dovevano quindi stabilire dei digiuni anche nei cinquanta giorni dopo la Pasqua e in tutte le domeniche, che ci ricorda­ no appunto la risurrezione. In contrario: basta l'uso universale della Chiesa. Risposta: come sopra si è notato, il digiuno ha due scopi: l'espiazione del peccato e l'eleva­ zione dell'anima ai beni superiori. Perciò i digiuni dovevano essere stabiliti in quei giorni in cui bisognava purificare gli uomini dal peccato ed elevare a Dio le anime dei fedeli con la devozione. E ciò è richiesto special­ mente prima delle feste di Pasqua, in cui si ha il perdono dei peccati con il battesimo, che è ammi nistrato solennemente nella veglia pa­ squale, quando si ricorda la sepoltura del Si­ gnore: poiché per mezzo del battesimo siamo stati sepolti con Cristo nella nwrte (Rm 6,4). Inoltre nella festa di Pasqua l'anima umana deve elevarsi in modo tutto particolare con la devozione alla gloria dell'eternità, che Cristo ha inaugurato con la risurrezione. Per questo motivo la Chiesa ha stabilito che si dovesse digiunare prima delle feste di Pasqua, e per lo stesso motivo anche nelle vigilie delle feste principali, a cui dobbiamo prepararci con de­ vozione. - Così pure l'uso della Chiesa vuole che a ogni quarto dell'anno si conferiscano gli ordini sacri (dietro indicazione del Signore [Mc 8, 1 ] , il quale sfamò quattromila uomini con sette pani, accennando così ali' «anno del Nuovo Testamento», come spiega Girolamo). Ora, nel conferimento degli ordini è richiesto che si preparino col digiuno sia il vescovo che li conferisce, sia gli ordinandi, sia il popolo a vantaggio del quale si fanno le ordinazioni. Per cui si legge in Le 6 [ 12] che il Signore prima di scegliere gli apostoli salì sul monte a pregare, e Ambrogio commenta: «Se Cristo prima di inviare gli apostoli è ricorso alla pre­ ghiera, che cosa non dovrai fare tu prima di mettere mano a una funzione sacra?» . Quanto poi al numero dei giorni fissati per il digiuno quaresimale, Gregorio lo giustifica

lium mensium, quae dicuntur Quatuor Tempo­ rum, inconvenienter in Ecclesia observantur. 3. Praeterea, secundum Augustinum, in libro De consenso Evang. [2,27], sicut est ieiunium a.fflictionis, ita est ieiunium exultationis. Sed maxime exultatio spiritualis fidelibus imminet ex Christi resurrectione. Ergo in tempore quinquagesimae, in quo Ecclesia solemnizat propter dominicam resurrectionem, in diebus dominicalibus, in quibus memoria resurrec­ tionis agitur, debent aliqua ieiunia indici. Sed contra est communis Ecclesiae consuetudo. Respondeo dicendum quod, sicut supra [aa. 1 .3] dictum est, ieiunium ad duo ordinatur, scilicet ad deletionem culpae, et ad elevatio­ nem mentis in superna. Et ideo illis temporibus specialiter fuerunt ieiunia indicenda in quibus oportebat homines a peccato purgari, et mentem fidelium elevari in Deum per devo­ tionem. Quod quidem praecipue imminet ante paschalem solemnitatem. In qua et culpae per Baptismum relaxantur, qui solemniter in vigilia Paschae celebratur, quando recolitur dominica sepoltura, quia per Baptismum consepelimur Christo in mortem, ut dicitur Rom. 6 [4]. In festo etiam Paschae maxime oportet mentem hominis per devotionem elevari ad aetemitatis gloriam, quam Christus resurgendo inchoavit. Et ideo immediate ante solemnitatem pa­ schalem Ecclesia statuit esse ieiunandum, et eadem ratione, in vigiliis praecipuarum festivi­ tatum, in quibus praeparari nos oportet ad festa futura devote celebranda. - Similiter etiam consuetudo ecclesiastica habet ut in singulis quartis anni sacri ordines conferantur (in cuius signum, Dominus quatuor millia hominum de septem panibus satiavit [Mare. 8], per quos significatur annus Novi Testamenti, ut Hiero­ nymus dicit ibidem [Ps. Hieronymus, In Mare. super 8, l ]), ad quomm susceptionem oportet per ieiunium praeparari et eos qui ordinant, et illos qui ordinandi sunt, et etiam totum popu­ lum, pro cuius utilitate ordinantur. Unde et legitur, Lucae 6 [ 1 2], quod Dominus, ante di­ scipulomm electionem, exivit in montem orare, quod exponens Ambrosius, dicit [5], quid tefa-

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cere corwenit cum vis aliquod officium pietatis adoriri quando Christus, missurus apostolos, prius oravit? - Ratio autem numeri, quantum ad quadragesimale ieiunium, est triplex, se­ cundum Gregorium [In Ev. h. l , 16] . Prima quidem, quia virtus Decalogi per libros qua­ tuor sancti Evangelii impletu1; denarius autem quater ductus in quadragenarium surgit. Vel quia in hoc mortali cmpore ex quatuor ele­ mentis subsistimus, per cuius voluntatem praeceptis dominicis contraimus, quae per Decalogum sunt accepta. Unde dignum est ut eandem camem quaterdecies a.ffligamus. Vel quia ita offerre contendimus Deo decimas dierum. Dum enim per trecentos et sexaginta dies annus ducitur, nos autem per triginta sex dies a.ffligimur, qui sunt ieiunabiles in sex sep­ timanis Quadragesimae, quasi anni nostri de­ cimas Deo damus. Secundum autem Augu­ stinum [De doct. chr. 2,1 6], additur quarta ra­ tio. Nam creator est Trinitas, Pater et Filius et Spiritus Sanctus. Creaturae vero invisibili de­ betur temarius numerus, diligere enim iubemur Deum ex toto corde, ex tota anima, ex tota mente. Creaturae vero visibili debetur quater­ narius, propter calidum et frigidum, humidum et siccum. Sic ergo per denarium significantur omnes res, qui si ducatur per quatemarium, qui competit corpori , per quod administratio geritur, quadragesimum numerum conficit. Singula vero ieiunia quatuor temporum tribus diebus continentur, propter numerum mensium qui competit cuilibet tempori. Vel propter nu­ merum sacrorum ordinum, qui in his tempo­ ribus conferuntur. Ad primum ergo dicendum quod Christus Baptismo non indiguit propter seipsum, sed ut nobis Baptismum commendaret. Et ideo sibi non competebat ut ante B aptismum suum ieiunaret, sed post Baptismum, ut nos invita­ ret ad ieiunandum ante nostrum Baptismum. Ad secundum dicendum quod Ecclesia non servat ieiunia quatuor temporum nec omnino eisdem temporibus quibus Iudaei, nec etiam propter causas easdem. llli enim ieiunabant in Iulio, qui est quartus mensis ab Aprili, quem primum habent, quia tunc Moyses, descen­ dens de monte Sina, tabulas legis confregit [Ex. 32, 1 9] ; et iuxta Ieremiam [Ier. 52,6], muri primum rupti sunt civitatis. In quinto autem mense, qui apud nos vocatur Augustus, cum propter exploratores seditio esset orta in -

con tre motivi. Primo, «perché il decalogo ri­ ceve la sua perfezione dai quattro Vangeli : e dieci per quattro dà appunto il numero qua­ ranta>>. Oppure «perché il nostro corpo mor­ tale è composto di quattro elementi, che la­ sciati a se stessi contrastano con i dieci pre­ cetti del Signore elencati nel decalogo. Perciò è giusto che affliggiamo il nostro corpo per quaranta volte». Oppure «perché in tal modo cerchiamo di offrire a Dio la decima dei gior­ ni. Essendo infatti l'anno composto di trecen­ tosessanta giorni, noi ci mortifichiamo per trentasei giorni», quanti sono i giorni di di­ giuno nelle sei settimane della quaresima, «come per offrire a Dio la decima dell'anno». - Agostino porta poi un quarto motivo. Il Creatore, egli dice, è Trinità: Padre e Figlio e Spirito Santo. Quindi anche alla creatura spi­ rituale e invisibile si addice il numero tre: ci è infatti comandato di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente [Mc 12,30]. Invece alla creatura visibile e ma­ teriale si addice il numero quattro, per le quat­ tro qualità: caldo e freddo, umido e secco. Quindi il dieci esprime tutte le cose: e se lo si moltiplica per quattro, che è il numero del corpo interessato al digiuno, si ha il numero quaranta. n digiuno poi delle quattro tempo­ ra dura sempre tre giorni, per il numero dei mesi che ognuno di questi tempi abbraccia. Oppure per il numero dei tre ordini sacri con­ feriti nelle tempora. Soluzione delle difficoltà: l . Cristo ricevette il battesimo non perché ne avesse bisogno lui, ma per raccomandarlo a noi. Non era quindi opportuno che digiunasse prima del suo batte­ simo, ma dopo, per esortare noi a digiunare prima del nostro battesimo. 2. La Chiesa osserva il digiuno delle quattro tempora non negli stessi giorni dei Giudei, e neppure per gli stessi motivi. Essi infatti di­ giunavano in luglio, che è il quarto mese con­ tando da aprile, che per essi era il primo: poi­ ché fu allora che Mosè nel discendere dal Sinai spezzò le tavole di pietra [Es 32, 19]; e in esso le mura di Gemsalemme furono viola­ te per la prima volta, come natTa Geremia [52,6]. Nel quinto mese poi, cioè in agosto, si digiunava perché in esso si ebbe la sedizio­ ne seguita al ritorno degli esploratori, la qua­ l e i mpedì al popolo di salire sul monte [Nm 1 4,42; Dt 2,42]; inoltre in questo mese -

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popolo, iussi sunt in montem non ascendere [Num. 1 4,42], et in hoc mense a Nabuchodo­ nosor [Ier. 52,1 2], et post a Tito [cf. Iosephum, De bello iudaico 6,2], templum Hierosolymis est incensum. In septimo vero, qui appellatur October, Godolias occisus est, et reliquiae popoli dissipatae [ler. 4 1 , 1 . 10]. In decimo vero mense, qui apud nos Ianuarius dicitur, populus cum Ezechiele in captivitate positus, audivit templum esse subversum [Ez. 33,2 1 ]. Ad tertium dicendum quod ieiunium exultatio­ nis ex instinctu Spiritus Sancti procedit, qui est Spiritus libertatis. Et ideo hoc ieiunium sub praecepto cadere non debet. Ieiunia ergo quae praecepto Ecclesiae instituuntur, sunt magis ieiunia afflictionis, quae non conveniunt in diebus laetitiae. Propter quod, non est ieiu­ nium ab Ecclesia institutum in toto paschali tempore, nec etiam in diebus dominicis. In quibus si quis ieiunaret, contra consuetudinem popoli Christiani, quae, ut Augustinus dicit [ep. 36 Ad Casulanum 1], est pm lege haben­ da; vel etiam ex aliquo errore, sicut Manichaei ieiunant quasi necessarium tale ieiunium arbi­ trantes, non essent a peccato i mmunes, quamvis ipsum ieiunium secundum se consi­ deratum omni tempore sit laudabile, secundum quod Hieronymus dicit, Ad Lucinum [ep. 71], utinam omni tempore ieiunare possimus.

fu incendiato il tempio di Gerusalemme da parte prima di Nabucodonosor [Ger 52,12] e poi di Tito. Nel settimo mese, cioè in ottobre, fu invece ucciso Godolia e disperso il resto del popolo [Ger 4 1 , 1 ] . Nel decimo mese finalmente, cioè in gennaio, il popolo che era in schiavitù con Ezechiele apprese della rovi­ na del tempio [Ez 33,2 1 ] . 3. «li digiuno d i gioia>> è fatto per ispirazione dello Spirito Santo, che è Spirito di libertà. Perciò questo digiuno non deve essere di pre­ cetto. Quindi i digiuni stabiliti dal precetto della Chiesa sono piuttosto «digiuni di affli­ zione», che non si addicono ai giorni di festa. Ed è per questo che non ci sono digiuni in tutto il periodo pasquale, e neppure nei giorni di domenica. Se uno infatti digiunasse in tali giorni contro la consuetudine del popolo cri­ stiano, la quale, secondo Agostino, «ha valore di legge», oppure anche per qualche errore, come i Manichei, i quali digiunano pensando che tale digiuno sia necessario, non sarebbe immune da peccato; sebbene il digiuno, con­ siderato in se stesso, sia lodevole in tutti i tempi, come risulta dalle parole di Girolamo: «Volesse il cielo che potessimo digiunare in tutti i tempi!».

Articulus 6 Utrum requiratur ad ieiunium quod homo semel tantum comedat

Articolo 6 Per il digiuno si richiede che si mangi una volta sola?

Ad sextum sic proceditur. Videtur quod non requiratur ad ieiunium quod homo semel tantum comedat. l . Ieiunium enim, ut dictum est [a. 2], est actus virtutis abstinentiae, quae quidem non minus observat debitam quantitatem cibi quam come­ stionis numerum. Non autem taxatur ieiunanti­ bus quantitas cibi. Ergo nec numerus comestio­ nis taxari debet. 2. Praeterea, sicut homo nutritur cibo, ita et potu. Unde et potus ieiunium solvit, propter quod, post potum non possumus Eucharistiam accipere. Sed non est prohibitum quin pluries bibamus, diversis horis diei. Ergo etiam non debet esse prohibitum ieiunantibus quin pluries comedant. 3 . Praeterea, electuaria quidam cibi sunt. Quae tamen a multis in diebus ieiunii post

Sembra di no. Infatti: l . Come si è detto, il digiuno è un atto della virtù dell' astinenza: la quale non bada meno alla debita quantità del cibo che al numero dei pasti. Ora, per chi digiuna non è fissata la quantità del cibo. Quindi non si doveva fissare nemmeno il numero dei pasti. 2. L'uomo si nutre non solo con il cibo, ma anche con la bevanda. Anche la bevanda in­ fatti rompe il digiuno: per cui, dopo aver bevuto, non possiamo prendere l'eucaristia. Ma bere più volte nelle varie ore del giorno non è proibito. Quindi a chi digiuna non deve essere proibito neppure di mangiare più volte. 3. Certi rimedi, come gli elettuari, sono dei cibi. Eppure molti li prendono dopo i pasti nei giorni di digiuno. Perciò il pasto unico non è essenziale al digiuno.

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comestionem sumuntur. Ergo unitas come­ stionis non est de ratione ieiunii. Sed in contrarium est communis consuetudo populi Christiani. Respondeo dicendum quod ieiunium ab Ec­ clesia instituitur ad concupiscentiam refrenan­ dam, ita tamen quod natura salvetur. Ad hoc autem sufficere videtur unica comestio, per quam homo potest et naturae satisfacere, et tamen concupiscentiae aliquid detrahit, dimi­ nuendo comestionum vices. Et ideo Ecclesiae moderatione statutum est ut semel in die a ieiunantibus comedatur. Ad primum ergo dicendum quod quantitas ci­ bi non potuit eadem omnibus taxari, propter diversas corporum complexiones, ex quibus contingit quod unus maiori, alter minori indi­ get cibo. Sed ut plurimum omnes possunt na­ turae satisfacere per unicam comestionem. Ad secundum dicendum quod duplex est ieiunium. Unum quidem naturae quod requi­ ritur ad Eucharistiae sumptionem. Et hoc solvitur per quemlibet potum, etiam aquae, post quem non licet Eucharistiam sumere. Est autem aliud ieiunium Ecclesiae, quod di­ citur ieiunium ieiunantis. Et istud non solvitur nisi per ea quae Ecclesia interdicere intendit instituendo ieiunium. Non autem intendit Ec­ clesia interdicere abstinentiam potus, qui ma­ gis surnitur ad alterationem corporis et dige­ stionem ciborum assumptorum quam ad nu­ tritionem, licet aliquo modo nutriat. Et ideo licet pluries ieiunantibus bibere. Si autem quis immoderate potu utatur, potest peccare et me­ ritum ieiunii perdere, sicut etiam si immode­ rate cibum in una comestione assumat. Ad tertium dicendum quod electuaria, etsi aliquo modo nutriant, non tamen principaliter assumuntur ad nutrimentum, sed ad digestio­ nem ciborum. Unde non solvunt ieiunium, sicut nec aliarum medicinarum assumptio, nisi forte aliqui s in fraudem electuaria i n magna quantitate assumat per modum cibi.

contrario: così vuole l'universale consuetu­ dine del popolo cristiano. Risposta: la Chiesa ha istituito il digiuno per frenare la concupiscenza, in modo però da non compromettere la natura. E a tale scopo sembra bastare un unico pasto, che è suffi­ ciente a soddisfare la natura e tuttavia è anche adatto a togliere qualcosa alla concupiscenza, riducendo la frequenza dei pasti. Perciò la Chiesa con la sua discrezione ha stabilito che chi digiuna mangi una volta sola. Soluzione delle difficoltà: l . Le differenze di complessione hanno impedito di stabilire una quantità di cibo uguale per tutti, poiché uno ne richiede di più e un altro di meno. Ordina­ riamente invece tutti possono soddisfare le esigenze naturali con un unico pasto. 2. Ci sono due tipi di digiuno: uno è quello naturale, che è richiesto per ricevere l' eucari­ stia. E questo è rotto con qualsiasi bevanda, anche solo con l'acqua; dopo di che non è più lecito ricevere l 'eucaristia. - C'è poi il digiu­ no ecclesiastico, che è detto digiuno di chi digiuna: e questo è rotto solo da ciò che la Chiesa intende proibire nell' istituire il digiu­ no. Ora, la Chiesa non intende proibire le bevande, che sono fatte più per ristorare il corpo e per digerire i cibi che per nutrire, seb­ bene in qualche modo nutrano. Perciò chi digiuna può bere più volte al giorno. Se però uno esagera nel bere, può commettere pecca­ to e perdere il merito del digiuno; come anche se nell'unico pasto eccedesse nel mangiare. 3 . Sebbene gli elettuari i n qualche modo nutrano, tuttavia non sono presi principalmen­ te per questo scopo, ma per digerire. Essi quindi, al pari delle altre medicine, non rom­ pono il digiuno; a meno che uno non li pren­ da maliziosamente in grande quantità, come se si trattasse di cibi.

Articulus 7 Utrum bora nona convenienter taxetur ad comedendum, bis qui ieiunant

Articolo 7 Per il pasto di chi digiuna è fissata l'ora nona?

Ad septimum sic proceditur. Videtur quod hora nona non convenienter taxetur ad come­ dendum, his qui ieiunant. l . Status enim Novi Testamenti est perfectior

Sembra di no. Infatti: l . La nuova legge è più perfetta dell'antica. Ora, nell'Antico Testamento si digiunava fino alla sera. Infatti in Lv 23 [32] è detto: Sarà

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quam status Veteris Testamenti. Sed in Veteri Testamento ieiunabant usque ad vesperam, dicitur enim Lev. 23 [32], sabbatum est, ajjli­ getis animas vestras; et postea sequitur, a ve­

spere usque ad vesperam celebrabitis sabbata vestra. Ergo multo magis in Novo Testamento ieiunium debet indici usque ad vesperam. 2. Praeterea, ieiunium ab Ecclesia institutum omnibus imponitur. Sed non omnes possunt determinate cognoscere horam nonam. Ergo videtur quod taxatio horae nonae non debeat cadere sub statuto ieiunii. 3. Praeterea, ieiunium est actus virtutis absti­ nentiae, ut supra [a. 2] dictum est. Sed virtus moralis non eodem modo accipit medium quoad omnes, quia quod est multum uni, est parnm alteri, ut dicitur in 2 Ethic. [6,6,7]. Ergo non debet ieiunantibus taxari hora nona. Sed contra est quod Concilium Cabillonense dicit [cf. Decretum, p. 3 De cons., d. l , can. 50],

in Quadragesima nullatenus credendi sunt ieiunare qui ante manducaverint quam vesper­ tinum celebretur o.fficium, quod quadragesi­ mali tempore post nonam dicitur. Ergo usque ad nonam est ieiunandum. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [aa. 1 .3], ieiunium ordinatur ad deletionem et cohibitionem culpae. Unde oportet quod aliquid addat supra communem consuetudi­ nem, ita tamen quod per hoc non multum natura gravetur. Est autem debita et communis consuetudo comedendi hominibus circa horam sextam, tum quia iam videtur esse completa di­ gestio, noctumo tempore naturali calore interius revocato propter frigus noctis circumstans, et diffusio humoris per membra, cooperante ad hoc calore diei usque ad summum solis ascen­ sum; tum etiam quia tunc praecipue natura cor­ poris humani indiget iuvari contra exteriorem aeris calorem, ne humores intelius adurantur. Et ideo, ut ieiunans aliquam afllictionem sen­ tiat pro culpae satisfactione, conveniens hora comedendi taxatur ieiunantibus circa nonam. Convenit etiam ista hora mysterio passionis Chlisti, quae completa fuit hora nona, quando, inclinato capite, tradidit spiritum [Joan. 19,30] . leiunantes enim, dum suam camem affiigunt, passioni Chlisti conformantur, secundum illud Gal. 5 [24], qui Christi sunt, carnem suam

crucifixerunt, cum vitiis et concupiscentiis. Ad primum ergo dicendum quod status Ve­ teris Testamenti comparatur nocti, status vero

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per voi un sabato di assoluto riposo, e dovre­ te mortificarvi dalla sera alla sera dopo. A maggior ragione quindi si deve prolungare il digiuno fino a sera nell' epoca del Nuovo Testamento. 2. n digiuno ecclesiastico è imposto a tutti. Ma non tutti possono conoscere con esattezza l'ora nona. Quindi sembra che non si dovesse determinare l' ora per il digiuno. 3. Come si è detto, il digiuno è un atto della virtù dell'astinenza. Ma una virtù morale non fissa un giusto mezzo identico per tutti: poiché, come dice il Filosofo, «ciò che è troppo per uno, è poco per un altro». Perciò non si doveva determinare l'ora del pasto per chi digiuna. In contrario: il Conci lio di Calcedonia ha affermato: «Nessuno può dire di aver fatto il digiuno quaresimale se mangia prima della recita dei vespli»; e questi in quaresima sono detti dopo nona. Quindi si deve digiunare fino all'ora nona. Risposta: come si è detto, il digiuno è ordinato a cancellare e a reprimere il peccato. Perciò esso deve aggiungere una penalità superiore a quella imposta dall' abitudine: in modo però da non gravare eccessivamente la natura. Ora, gli uomini hanno la giusta e universale abitu­ dine di mangiare verso l'ora sesta: sia perché la digestione è ormai completa, dopo l' afflus­ so del sangue verso l ' interno per il freddo della notte e il Iitorno di esso alle membra per l' intlusso del calore del giorno con l' ascesa del sole sino al meriggio; sia anche perché il corpo umano ha bisogno in quel momento di essere aiutato contro il calore dell' aria, affin­ ché gli umori interni non siano bruciati. Per­ ché dunque colui che digiuna senta una qualche afflizione per espiare il peccato, è giusto fissare il pasto verso l'ora nona - Que­ sta ora ha inoltre una cmrispondenza con i mi­ steri della passione di Cristo, che ebbe compi­ mento all'ora nona [MI 27,46], quando egli, chinato il capo, spirò [Gv 1 9,30] . Infatti chi digitma, mentre mortifica il suo corpo, si con­ forma alla passione di Cristo, secondo le pa­ role di Gal 5 [24]: Quelli che sono di Cristo

Gesù hanno crocifisso la loro carne con i suoi vizi e le sue concupiscenze. Soluzione delle difficoltà: l . L'epoca dell' Anti­ co Testamento è paragonata alla notte, mentre quella del Nuovo Testamento è paragonata al giorno, secondo le parole di Rm 1 3 [ 1 2] :

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Novi Testamenti diei, secundum illud Rom. 1 3

[12], nox praecessit, dies autem appropinquavit. Et ideo in Veteri Testamento ieiunabant usque ad noctem, non autem in Novo Testamento. Ad secundum dicendum quod ad ieiunium requiritur hora determinata non secundum subtilem examinationem, sed secundum gros­ sam aestimationem, sufficit enim quod sit cir­ ca horam nonam. Et hoc de facili quilibet co­ gnoscere potest. Ad tertium dicendum quod modicum augmen­ tum, vel etiam modicus defectus, non multum potest n ocere. Non est autem m agnum temporis spatium quod est ab hora sexta, in qua communiter homines comedere consueve­ runt, usque ad horam nonam, quae ieiunanti­ bus determinatur. Et ideo talis taxatio temporis non multum potest alicui nocere, cuiuscumque conditionis existat. Vel, si forte propter infirmi­ tatem vel aetatem aut aliquid huiusmodi, hoc eis in magnum gravamen cederet, esset cum eis in ieiunio dispensandum, vel ut aliquantu­ lum praevenirent horam.

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La notte è avanzata, il giorno è vicino. Per questo nell'Antico Testamento si doveva digiu­ nare fino a sera; non così invece nel Nuovo Testamento. 2. Per il digiuno si richiede che l' ora sia deter­ minata in maniera sommaria, e non necessaria­ mente con esattezza: è sufficiente infatti che il pasto sia preso verso l'ora nona. E in questo modo tutti possono orientarsi facilmente. 3 . Una leggera differenza in più o in meno non può nuocere molto. Ora dall'ora sesta, in cui si è soliti mangiare, all'ora nona, prescritta per il digiuno, non c'è un lungo tratto di tem­ po. Perciò questa determinazione non può nuocere ad alcuno, qualunque sia la sua con­ dizione. Che se poi per malattia, per età o altro del genere alcuni trovano la cosa troppo gravosa, allora essi vanno dispensati dal di­ giuno, oppure possono anticipare un poco l'ora del pasto.

Articulus 8

Articolo 8

Utrum convenienter ieiunantibus indicetur abstinentia a camibus et ovis et lacticiniis

È giusto imporre a chi digiuna

Ad octavum sic proceditur. Videtur quod in­ convenienter ieiunantibus indicatur abstinen­ tia a carnibus et ovis et lacticiniis. l . Dictum est enim supra [a. 6] quod ieiunium est institutum ad concupiscentias carnis refre­ nandas. Sed magis concupiscentiam provocat potus vini quam esus camium, secundum illud Prov. 20 [ l ] , luxuriosa res est vinum; et Eph. 5 [ 1 8] , nolite inebriari vino, in quo est luxuria. Cum ergo non interdicatur ieiunanti­ bus potus vini, videtur quod non debeat inter­ dici esus carnium. 2. Praeterea, aliqui pisces ita delectabiliter comeduntur sicut quaedam animalium carnes. Sed concupiscentia est appetitus delectabilis, ut supra [1-ll q. 30 a. l ] habitum est. Ergo in ieiunio, quod est institutum ad concupiscen­ tiam refrenandam, sicut non interdicitur usus piscium, ita non debet interdici usus carnium. 3. Praeterea, in quibusdam ieiuniorum diebus aliqui ovis et caseo utuntur. Ergo, pari ratione, in ieiunio quadragesimali talibus homo uti potest.

Sembra di no. Infatti: l . Sopra abbiamo detto che il digiuno fu istitui­ to per tenere a freno la concupiscenza della carne. Ora, la concupiscenza è provocata più dal vino che dalla carne, come è detto in Pr 20 [1]: Lussuriosa cosa è il vino; e in Ef 5 [ 1 8]:

l'astinenza dalle carni, dalle uova e dai latticini?

Non ubriacatevi di vino, nel quale ha origine la lussuria. Siccome quindi a chi digiuna non è proibito il vino, sembra che non vada proi­ bita neppure la carne. 2. Alcuni gustano il pesce almeno quanto la carne di certi animali. Ora, la concupiscenza è «l'appetito di ciò che piace», come sopra si è visto. Quindi nel digiuno, che è istituito per frenare le concupiscenze, come non è proibito l'uso del pesce, così non va proibito neppure l'uso delle carni. 3. In cetti giorni di digiuno c'è chi fa uso di uova e di latticini. Quindi anche nel digiuno quaresimale si possono usare questi cibi. In contrario: vale l'uso universale dei fedeli . Risposta: come s i è visto, i l digiuno fu istitui­ to nella Chiesa per reprimere le concupi-

1317

Il digiuno

Sed contra est communis fidelium consuetudo. Respondeo dicendum quod, sicut supra [arg. l ] dictum est, ieiunium ab Ecclesia est institutum ad reprimendas concupiscentias carnis. Quae quidem sunt delectabilium secundum tactum, quae consistunt in cibis et venereis. Et ideo illos cibos Ecclesia ieiunantibus interdixit qui et in comedendo maxime habent delecta­ tionem, et iterum maxime hominem ad ve­ nerea provocant. Huiusmodi autem sunt carnes animalium in terra quiescentium et respiran­ tium, et quae ex eis procedunt, sicut lacticinia ex gressibilibus, et ova ex avibus. Quia enim huiusmodi magis conformantur humano cor­ pori, plus delectant et magis conferunt ad hu­ mani corporis nutrimentum, et sic ex eontm comestione plus superfluit ut vertatur in ma­ teriam seminis, cuius multiplicatio est maxi­ mum incitamentum luxuriae. Et ideo ab his cibis praecipue ieiunantibus Ecclesia statuit esse abstinendum. Ad primum ergo dicendum quod ad actum generationis tria concurrunt, scilicet calor, spiritus et humor. Ad calorem quidem maxi­ me cooperatur vinum, et alia calefacientia corpus; ad spiritus autem videntur cooperari inflativa; sed ad humorem maxime coopera­ tur usus camium, ex quibus multum de ali­ mento generatur. Alteratio autem caloris et multiplicatio spirituum cito transit, sed sub­ stantia humoris diu manet. Et ideo magis in­ terdicitur ieiunantibus usus carnium quam vini, vel leguminum, quae sunt inflativa. Ad secundum d icendum quod Ecclesia, ieiunium instituens, intendit ad id quod com­ munius accidit. Esus autem carnium est ma­ gis delectabilis communiter quam esus pi­ scium, quamvis in quibusdam aliter se habeat. Et ideo Ecclesia magis ieiunantibus prohibuit esum carnium quam esum piscium. Ad tertium dicendum quod ova et lacticinia ieiunantibus interdicuntur inquantum sunt animalibus exorta cames habentibus. Unde principalius interdicuntur quam ova vel lacti­ cinia. Similiter etiam inter alia ieiunia, so­ lemnius est quadragesimale ieiunium, tum quia observatur ad imitationem Christi; tum etiam quia per ipsum disponimur ad redem­ ptionis nostrae mysteria devote celebranda. Et ideo in quolibet ieiunio interdicitur esus car­ nium, in ieiunio autem quadragesimali inter­ dicuntur universaliter etiam ova et lacticinia.

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scenze della carne, che hanno per oggetto i piaceri del tatto, ossia il cibo e i piaceri vene­ rei. Perciò la Chiesa ha proibito nei digiuni di mangiare le cose più gustose e più eccitanti. Ora, tali sono appunto le carni degli animali che respirano e riposano sulla terra, nonché i loro prodotti, come il latte e le uova. Tali cibi infatti, essendo più affini al corpo umano, piacciono maggiormente e danno un maggio­ re nutrimento al nostro corpo: e così è più facile che ne derivi il superfluo il quale, tra­ sformato in seme, costituisce con il suo au­ mento il massimo incentivo alla lussuria. Per questo la Chiesa ha stabilito che nel digiuno ci si astenga soprattutto da questi cibi. Soluzione delle difficoltà: l . Ali' atto della ge­ nerazione concorrono u·e cose: i l calore, gli spiriti vitali e gli umori. Ora, sul calore influi­ scono soprattutto il vino e le altre cose che ri­ scaldano il corpo, sugli spiriti vitali le sostan­ ze che gonfiano e sugli umori specialmente le carni, da cui deriva una sovrabbondanza d i alimento. Mentre però l' alterazione del calore e l' aumento degli spiriti vitali passano presto, le sostanze umorali rimangono invece più a lungo. Perciò a chi digiuna è proibito più l'uso delle carni che non quello del vino, o dei legumi, che gonfiano. 2. La Chiesa, nell'istituire il digiuno, ha bada­ to alle disposizioni più comuni. Ora, in gene­ rale la carne è più apprezzata del pesce, seb­ bene per alcuni avvenga il contrario. Per que­ sto la Chiesa nei digiuni ha proibito la carne piuttosto che il pesce. 3. Le uova e i latticini sono proibiti a chi di­ giuna in quanto provenienti da animali da car­ ne. Perciò la carne è vietata più delle uova e dei latticini. Parimenti, fra tutti i digiuni, il più solenne è quello quaresimale: sia perché è os­ servato a imitazione di Cristo, sia anche per­ ché ci dispone a celebrare devotamente i mi­ steri della nostra redenzione. Di conseguenza i n qualsiasi digiuno è proibito l ' uso della carne, ma nel digiuno quaresimale sono proi­ bite anche le uova e i latticini. Riguardo ai quali negli altri digiuni vi sono consuetudini diverse, che variano da un luogo a un altro, e che ciascuno deve osservare secondo gli usi dell' ambiente in cui si trova. Infatti Girolamo così scrive a proposito dei digiuni: «Ogni pro­ vincia abbondi nel proprio senso, e ritenga le usanze degli antichi come leggi apostoliche».

IL digiuno

Q. 147, A. 8

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Circa quorum abstinentiam i n aliis ieiuniis diversae consuetudines existunt apud diversos, quas quisque observare debet, secundum morem eorum inter quos conversatur. Unde Hieronymus dicit [ep. 7 1 Ad Lucinium], de ieiuniis loquens, unaquaeque provincia abundet in SlW sensu, et praecepta maiorum leges apostolicas arbitretur. QUAESTIO 148 DE GULA

QUESTIONE 148 LA GOLA

Deinde considerandum est de gula. Et circa hoc quaeruntur sex. Primo, utrum gula sit pec­ catum. Secundo, utrum sit peccatum mortale. Te1tio, utrum sit maximum peccatorum. Quar­ to, de speciebus eius. Quinto, utrum sit vitium capitale. Sexto, de filiabus eius.

Parliamo ora della gola. Sull'argomento si po�gono sei quesiti: l . La gçla è un peccato? 2. E un peccato mortale? 3. E il più gravç dei peccati? 4. Quali sono le sue specie? 5 . E un vizio capitale? 6. Quali ne sono le figlie?

Articulus l Utrum gula sit peccatum

Articolo l La gola è un peccato?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod gula non sit peccatum. l . Dicit enim Dominus, Matth. 1 5 [ 1 1 ], qzwd intrat in os, non coinquinat hominem. Sed gu­ la est circa cibos, qui intrant in hominem. Cum ergo omne peccatum coinquinet homi­ nem, videtur quod gula non sit peccatum. 2. Praeterea, nullus peccai in eo quod vitare non potest. Sed gula consistit in immoderantia cibi, quam non potest homo vitare, dicit enim Gregorius, 30 Mor. [18], quia per esum volup­ tas necessitati miscetur, quid necessitas petat, et quid voluptas suppetat, ignoratur; et Au­ gustinus dicit, 10 Conf. [3 1], quis est, Domine, qui aliquantulum extra metas necessitatis cibum non sumit? Ergo gula non est peccatum. 3. Praeterea, in quolibet genere peccati pri­ mus motus est peccatum. Sed primus motus sumendi cibum non est peccatum, alioquin fames et sitis essent peccata. Ergo gula non est peccatum. Sed contra est quod Gregorius dicit, 30 Mor. [ I 8], quod ad conjlictwn spiritualis agonis non assurgitur, si non prius intra nosmetipsos hostis positus, gulae videlicet appetitus, edomatur. Sed interior hostis hominis est pec­ catum. Ergo gula est peccatum. Respondeo dicendum quod gula non nominat quemlibet appetitum edendi et bibendi, sed

Sembra di no. Infatti: l . TI Signore dice: Non quello che entra nella bocca rende impuro l'uomo (Mt 1 5 , 1 1 ). Ma la gola ha per oggetto i cibi, che entrano in que­ sto modo nell'uomo. Quindi la gola non è un peccato. 2. «Nessuno pecca nel fare ciò che è inevitabi­ le». Ma la gola consiste in un eccesso di nutri­ mento che l'uomo non può evitare; dice infatti Gregorio: «Poiché al mangiare è connesso necessariamente il piacere, non si riesce a distinguere ciò che è richiesto dalla necessità e ciò che vi aggiunge un piacere»; e Agostino si domanda: «Chi è, o Signore, che non prenda il cibo trasgredendo un po' i limiti del necessa­ rio?». Quindi la gola non è un peccato. 3. I primi moti in qualsiasi genere di peccato sono un peccato. Invece il primo moto verso il cibo non è un peccato: altrimenti sarebbero dei peccati anche la fame e la sete. Quindi la gola non è un peccato. In contrario: Gregorio scrive che «è impossi­ bile vincere la battaglia spirituale se prima non domiamo il nemico annidato dentro di noi, cioè l'appetito della gola». Ma il nemico interiore dell'uomo è il peccato. Quindi la go­ la è un peccato. Risposta: la gola non indica un qualsiasi desi­ derio di mangiare e di bere, ma una brama

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La go/a

Q. 148, A. l

inordinatum. Dicitur autem appetitus inordi­ natus ex eo quod recedit ab ordine rationis, in quo bonum virtutis moralis consistit. Ex hoc autem dicitur aliquid esse peccatum quod vir­ tuti contrariatur. Unde manifestum est quod gula est peccatum. Ad primum ergo dicendum quod id quod intrat in hominem per modum cibi, secundum suam substantiam et naturam, non coinquinat hominem spiritualiter, sed Iudaei, contra quos Dominus loquitur, et Manichaei opinabantur quod aliqui cibi immundos facerent, non propter figuram, sed secundum propriam na­ turam. Inordinata tamen ciborum concupi­ scentia hominem spiritualiter coinquinat. Ad secundum dicendum quod, sicut dictum est [in co.], vitium gulae non consistit in substantia cibi, sed in concupiscentia non regulata ratione. Et ideo si aliquis excedat in quantitate cibi non propter cibi concupiscentiam, sed aestimans id sibi necessarium esse, non pertinet hoc ad gulam, sed ad aliquam imperitiam. Sed hoc solum pertinet ad gulam, quod aliquis, propter concupiscentiam cibi delectabilis, scienter excedat mensuram in edendo. Ad tertium dicendum quod duplex est appe­ titus. Unus quidem naturalis, qui pettinet ad vires animae vegetabilis, in quibus non potest esse virtus et vitium, eo quod non possunt subiici rationi. Unde et vis appetitiva dividitur contra retentivam, digestivam, expulsivam. Et ad talem appetitum pertinet esuries et sitis. Est autem et alius appetitus sensitivus, i n cuius concupiscentia vitium gulae consistit. Unde primus motus gulae importat inordinationem in appetito sensitivo, quae non est sine peccato.

disordinata. Ora, un appetito è detto disordi­ nato in quanto si allontana dall' ordine della ragione, nel quale consiste la virtù morale. Ma una cosa è detta peccaminosa per il fatto che è contraria alla virtù. Quindi è evidente che la gola è un peccato. Soluzione delle difficoltà: l . Gli alimenti non possono contaminare spiritualmente l'uomo in forza della loro essenza o natura; i nvece i Giudei, contro i quali il Signore parlava, e i Manichei, ritenevano che certi cibi rendessero immondi non per ciò che figuravano, ma per la loro stessa natura. Tuttavia la brama smodata del cibo contamina spiritualmente l' uomo. 2. Come si è detto, il peccato di gola non con­ siste nella materialità del cibo, ma nella sua brama non regolata dalla ragione. Se quindi uno eccede nel mangiare non per ingordigia, ma stimando necessaria quella quantità, ciò non va attribuito alla gola, bensì a un errore. Alla gola va invece attribuito soltanto questo: che uno consapevolmente ecceda nel mangia­ re per la concupiscenza di un cibo gradevole. 3. L'appetito è di due specie. TI primo è l ' ap­ petito naturale che rientra nelle potenze del­ l'anima vegetativa: nelle quali non vi può es­ sere né la virtù né il vizio, non essendo esse soggette alla ragione. Per cui anche la potenza appetitiva va enumerata accanto alle facoltà di litenere, digetire ed evacuare. E a questo ap­ petito appartengono la fame e la sete. Vi è pe­ rò anche un secondo appetito sensitivo, le cui brame smodate costituiscono il peccato di gola. Per cui i primi moti della gola implicano un disordine nell' appetito sensitivo, che non è senza peccato.

Articulus 2 Utrum gula sit peccatum mortale

Articolo 2 D peccato di gola è mortale?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod gula non sit peccatum mortale. l . Omne enim peccatum mortale contrariatur alicui praecepto Decalogi. Quod de gula non videtur. Ergo gula non est peccatum mortale. 2. Praeterea, omne peccatum mortale contra­ riatur caritati, ut ex supra [q. 35 a. 3; 1-11 q. 72 a. 5] dictis patet. Sed gula non opponitur cari­ tati, neque quantum ad dilectionem Dei, ne­ que quantum ad dilectionem proximi. Ergo gula nunquam est peccatum mortale. 3. Praeterea, Augustinus dicit, in Sermone de

Sembra di no. Infatti: l . Qualsiasi peccato mortale si contrappone a qualche precetto del decalogo. Ma la gola non presenta questa opposizione. Quindi la gola non è un peccato mortale. 2. Il peccato mortale è incompatibile con la carità, come si è visto sopra. Ma il peccato di gola non è incompatibile né con l' amore di Dio, né con l'amore del prossimo. Quindi il peccato di gola non è mortale. 3. Agostino insegna: «Quando uno nel man­ giare e nel bere prende più del necessario,

Q. 148, A. 2

La gola

Purgatorio [Senn. suppos., senn. 1 04], quoties aliquis in cibo aut potu plus accipit quam ne­ cesse est, ad minuta peccata 1wverit pertinere. Sed hoc pertinet ad gulam. Ergo gula computa­ tur inter minuta, idest inter venialia peccata.

Sed contra est quod Gregorius dicit, in 30 Mor. [ 1 8], dominante gulae vitio, omne quod homi­

nesfortiter egerunt, perdunt, et dum venter non restringitw; simul cunctae virtutes obruuntur. Sed virtus non tollitur nisi per peccatum mor­ tale. Ergo gula est peccatum mortale. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. l ] , vitium gulae proprie consistit in concupi­ scentia inordinata. Ordo autem rationis concu­ piscentiam ordinantis dupliciter tolli potest. Uno modo, quantum ad ea quae sunt ad finem, prout scilicet non sunt ita commensurata ut sint proportionata fini. Alio modo, quantum ad ipsum finem, prout scilicet concupiscentia hominem avertit a fine debito. Si ergo inordina­ tio concupiscentiae accipiatur in gula secun­ dum aversionem a fine ultimo, sic gula erit pec­ catum mortale. Quod quidem contingit quando delectationi gulae inhaeret homo tanquam fini propter quem Deum contemnit, paratus scilicet contra praecepta Dei agere ut delectationes huiusmodi assequatur. Si vero in vitio gulae intelligatur inordinatio concupiscentiae tantum secundum ea quae sunt ad finem, utpote quia nimis concupiscit delectationes ciborum, non tamen ita quod propter hoc aliquid faceret contra legem Dei, est peccatum veniale. Ad prirnum ergo dicendum quod vitium gu­ lae habet quod sit peccatum mortale i n ­ quantum avertit a fine ultimo. Et secundum hoc, per quandam reductionem, opponitur praecepto de sanctificatione sabbati, in quo praecipitur quies in fine ultimo. Non enim omnia peccata mortalia directe contrariantur praeceptis Decalogi, sed solum illa quae iniustitiam continent, quia praecepta Decalogi specialiter pertinent ad iustitiam et partes eius, ut supra [q. 1 22 a. l ] habitum est. Ad secundum dicendum quod, inquantum avertit a fine ultimo, contrariatur gula dilectio­ ni Dei, qui est super omnia sicut finis ultimus diligendus. Et secundum hoc solum gula est peccatum mottale. Ad tertium dicendum quod illud verbum Au­ gustini intelligitur de gula prout importat inordinationem concupiscentiae solum circa ea quae sunt ad finem.

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sappia che la sua colpa è tra i peccati meno gravi». Ma questo è proprio il peccato di gola. Quindi il peccato di gola è tra i peccati meno gravi, o veniali. In contrruio: Gregorio dice: «Se prevale il vi­ zio della gola, gli uomini perdono tutto il bene compiuto; per cui se manca la moderatezza del ventre, crollano insieme tutte le virtù>>. Ma la virtù non è eliminata se non dal peccato mortale. Quindi la gola è un peccato mortale. Risposta: come sopra si è notato, il peccato di gola consiste propriamente in una brama di­ sordinata. Ora, in due modi si può guastare I ' ordine della ragione che deve guidare il desiderio. Primo, rispetto ai mezzi, rendendoli non proporzionati al fine. Secondo, rispetto al fine stesso: cioè in quanto il desiderio, o con­ cupiscenza, distoglie l'uomo dal debito fine. Se quindi il peccato di gola consiste in un disordine della concupiscenza che distoglie dal fine ultimo, allora è un peccato mortale. E ciò avviene quando uno è attaccato ai piaceri della gola come al suo fine ultimo, per cui disprezza Dio: nel senso cioè che è disposto ad agire contro i suoi comandrunenti pur di conseguire tali piaceri. Se invece il disordine della concupiscenza nel peccato di gola si li­ mita ai soli mezzi, cioè al fatto che uno bra­ ma troppo i piaceri dei cibi, ma non fino al punto di mettersi per questo contro la legge di Dio, allora il peccato di gola è veniale. Soluzione delle difficoltà: l . Il peccato di gola è mortale in quanto distoglie dal fine ultimo. E sotto questo aspetto esso può ridursi a una trasgressione del terzo comandamento riguar­ dante la santificazione del sabato, nel quale si comanda di cercare il riposo nel fine ultimo. Infatti non tutti i peccati mortali sono diretta­ mente contrari ai precetti del decalogo, m a solo quelli che implicano un' ingiustizia: poi­ ché, come sopra si è detto, i precetti del deca­ logo riguardano specialmente la giustizia e le virtù connesse. 2. La gola, in quanto distoglie dal fine ultimo, è incompatibile con l'amore di Dio, che va ama­ to sopra nttte le cose come ultimo fine. E sotto questo aspetto il peccato di gola è mortale. 3. Le parole di Agostino valgono per i peccati di gola che si limitano al disordine della con­ cupiscenza rispetto ai mezzi. 4. Si dice che la gola distrugge le altre virtù non tanto per se stessa, quanto per i vizi che

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La go/a

Ad quartum dicendum quod gula dicitur virtu­ tes auferre non tam propter se, quam etiam propter vitia quae ex ea oriuntur. Dicit enim Gregorius, in Pastor. [3, 1 9], dum venter inglu­

Q. 148, A. 2 ne derivano. Dice infatti Gregorio: >. E ancora: «L'auto­ rità della Chiesa dà questa chiara testimo­ nianza, mostrando ai fedeli in quale punto dei sacri misteri dell'altare vanno recitati i nomi dei martiri, e in quale i nomi delle vergini de­ funte». Dalle quali parole si può desumere che il martirio e lo stato religioso sono da pre­ ferirsi alla verginità. Risposta: una cosa può essere considerata la più grande in due modi. Primo, in un genere determinato. E in questo senso, ossia nell'am­ bito della castità, la verginità è la virtù più sublime: poiché è superiore alla castità vedo­ vile e coniugale. E dato che alla castità si

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La verginità

quia castitati antonomastice attribuitur decor, ideo virginitati per consequens attribuitur excellentissima pulchritudo. Unde et Ambro­ sius dicit, in libro De virg. [ 1 ,7], pulchri­ tudinem quis potest maiorem aestimare decore virginis, quae amatur a Rege, probatur a Iudice, dedicatur Domino, consecratur Deo? Alio modo potest dici aliquid excellen­ tissimum simpliciter. Et sic virginitas non est excellentissima virtutum. Semper enim finis excellit id quod est ad finem, et quanto aliquid efficacius ordinatur ad finem, tanto melius est. Finis autem ex quo virginitas laudabilis red­ ditur, est vacare rebus divinis, ut dictum est [aa. 2-3]. Unde ipsae virtutes theologicae, et etiam virtus religionis, quarum actus est ipsa occupatio circa res divinas, praeferuntur virgi­ nitati. Similiter etiam vehementius operantur ad hoc quod inhaereant Deo martyres, qui ad hoc postponunt propriam vitam; et viventes in monasteriis, qui ad hoc postponunt propriam vo1untatem et omnia quae possunt habere; quam virgines, quae ad hoc postponunt vene­ reas voluptates. Et ideo virginitas non simpli­ citer est maxima virtutum. Ad primum ergo dicendum quod virgines sunt illustrior portio gregis Christi, et est earum sublimior gloria, per comparationem ad viduas et coniugatas. Ad secundum dicendum quod centesimus fructus attribuitur virginitati, secundum Hiero­ nymum [ep. 1 23 Ad Ageruch.], propter excel­ lentiam quam habet ad viduitatem, cui attribui­ tur sexagesimus, et ad matrimonium, cui at­ tribuitur tricesimus. Sed sicut Augustinus dicit, in libro De quaest. Evang. [ l ,9 super Matth. 13,23], celltesimus fructus est martyntm, sexa­ gesimus virginum, et tricesimus coniugatontm. Unde ex hoc non sequitur quod virginitas sit simpliciter maxima omnium virtutum, sed solum aliis gradibus castitatis. Ad tertium dicendum quod virgines sequun­ tur Agnum quocumque ierit quia imitantur Christum non solum in integritate mentis, sed etiam in integritate camis, ut Augustinus dicit, in libro De virg. [27]. Et ideo in pluribus se­ quuntur agnum. Non tamen opottet quod ma­ gis de propinquo, quia aliae virtutes faciunt propinquius inhaerere Deo per imitationem mentis. Canticum autem novum quod solae virgines cantant, est gaudium quod habent de integritate carnis servata.

Q. 152, A. 5

attribuisce per antonomasia la bellezza, è chiaro che alla verginità va attribuita la bel­ lezza più splendida. Da cui le parole di Am­ brogio: «Quale bellezza può essere ritenuta più grande di quella di una vergine, che è amata dal Re, è approvata dal Giudice, è dedi­ cata al Signore, è consacrata a Dio?». - Se­ condo, una cosa può essere detta la più gran­ de in maniera assoluta. E in questo senso la verginità non è la più grande delle virtù. n fine infatti è sempre superiore ai mezzi ad es­ so ordinati: e tra i mezzi sono migliori quelli più direttamente ordinati al fine. Ora, il fine che rende lodevole la verginità è l'attendere alle cose di Dio, come sopra si è notato. Per cui le virtù teologali, e la stessa virtù della religione, i cui atti riguardano direttamente le cose di Dio, sono da preferirsi alla verginità. Analogamente anche quanto all'aderire a Dio agiscono con più ardore i martiri, che a tale scopo rinunziano alla vita - come pure quelli che vivono in monastero, i quali rinunziano per questo alla propria volontà e a quanto potrebbero avere -, che non le vergini, che in vista di ciò hanno rinunziato ai piaceti vene­ rei. Perciò puramente e semplicemente la ver­ ginità non è la più grande delle virtù. Soluzione delle difficoltà: l . Le vergini sono «la patte più eletta del gregge di Cristo», e «la loro gloria è la più grande», in confronto alle vedove e alle donne sposate. 2. Girolamo attribuisce il centuplo alla vergi­ nità per la sua eccellenza rispetto alla vedovan­ za, a cui è attribuito il sessanta, e al matrimo­ nio, a cui è attribuito il trenta per uno. Invece Agostino afferma che «il centuplo si ha nel martirio, il sessanta nella verginità e il trenta per uno nello stato matrimoniale». Per cui da quel testo non segue che la verginità sia la più grande delle virtù in senso assoluto, ma solo in rapporto alle altre specie della castità. 3. I vergini seguono l'Agnello dovunque vada poiché imitano Cristo non solo con l'integrità dello spirito, ma anche con l'integrità della carne, come dice Agostino: perciò essi seguo­ no l'Agnello in più cose. Però non è detto che lo seguano più da vicino: poiché altre virtù fan­ no aderire più intimamente a Dio con un'imita­ zione spirituale. Il cantico nuovo poi che i soli vergini possono cantare è la gioia che essi han­ no per aver conservato l'integrità della carne.

Q. 1 53, A. l

La lussuria

1 356

QUAESTIO 1 53 DE VITIO LUXURIAE

QUESTIONE 1 53 LA LUSSURIA

Deinde considerandum est de vitio luxuriae, quod opponitur castitati. Et primo, de ipsa in generali; secundo, de speciebus eius [q. 154]. Circa primum quaeruntur quinque. Primo, quid sit materia Iuxuriae. Secundo, utrum omnis concubitus sit illicitus. Tertio, utrum luxuria sit peccatum mortale. Quarto, utrum luxuria sit vitium capitale. Quinto, de filiabus eius.

Rimane ora da considerare il vizio della lus­ suria, che si contrappone alla castità: primo, in generale; secondo, nelle sue specie. Sul pri­ mo punto esamineremo cinque argomenti: l . Qual è l'oggetto della lussuria? 2. Ogni ac­ coppiamento è illec_ito? 3 . La lussuria è un peccato mmtale? 4. E un vizio capitale? 5. Le figlie di questo vizio.

Articulus l Utrum materia luxuriae sit solum concupiscentiae et delectationes venereae

Articolo l La materia della lussuria sono soltanto i desideri e i piaceri venerei?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod ma­ teria luxuriae non sit solum concupiscentiae et delectationes venereae. l . Dicit enim Augustinus, in libro Conf. [2,6], quod luxuria ad satietatem atque abundan­ tiam se cupit vocari. Sed satietas pertinet ad cibos et potus, abundantia autem ad divitias. Ergo luxuria non est proprie circa concupi­ scentias et voluptates venereas. 2. Praeterea, Prov. 20 [ l ] dicitur, luxuriosa res est vinum. Sed vinum pertinet ad delectatio­ nem cibi et potus. Ergo circa has maxime vi­ detur esse luxuria. 3 . Praeterea, luxuria esse dicitur libidinosae voluptatis appetitus. Sed libidinosa voluptas non solum est in venereis, sed etiam in multis aliis. Ergo luxuria non solum est circa concu­ piscentias et voluptates venereas. Sed contra est quod dicitur in libro De vera rei. [3], dicitur luxuriosis [Gal. 6,8], qui semi­ nat in carne, de carne metet corruptionem. Sed seminatio carnis fit per voluptates vene­ reas. Ergo ad has pertinet luxuria. Respondeo dicendum quod, sicut lsidorus dicit, in libro Etymol. [ 10, ad litt. L], luxurio­ sus aliquis dicitur quasi solutus in voluptates. Maxime autem voluptates venereae animum hominis solvunt. Et ideo circa voluptates ve­ nereas maxime luxuria consideratur. Ad primum ergo dicendum quod, sicut tempe­ rantia ptincipaliter quidem et proprie est circa delectationes tactus, dicitur autem ex conse­ quenti et per similitudinem quandam in qui­ busdam aliis materiis; ita etiam luxutia prin­ cipaliter quidem est in voluptatibus venereis, quae maxime et praecipue animum hominis

Sembra di no. Infatti: l. Agostino scrive che «la lussuria deriva il suo nome dalla sazietà e dall'abbondanza>>. Ma la sazietà si riferisce ai cibi e alle bevan­ de, e l 'abbondanza alle ricchezze. Quindi la lussuria propriamente non ha per oggetto i desideri e i piaceri venerei. 2. In Pr 20 [ l ] è detto: Lussuriosa cosa è il vino. Ma il vino rientra nei piaceri della gola. Perciò sembra che la lussutia abbia per ogget­ to soprattutto questi piaceti. 3. Si dice che la lussuria è «la br.una del piace­ re libidinoso». Ora, il piacere libidinoso non si ha soltanto nelle realtà veneree, ma anche in molte altre cose. Quindi la lussuria non ha per oggetto solo i desideri e i piaceri venerei. In contrario: Agostino applica ai lussuriosi le parole Chi semina nella sua carne, dalla came raccoglierà con·uzione [Ga/ 6,8]. Ma �i semina nella carne con i piaceri venerei. E dunque ad essi che si riferisce la lussuria. Risposta: come insegna Isidoro, «lussurioso» equivale a «dissolto nei piaceri». Ora, i piace­ ri che più snervano l'animo di un uomo sono quelli venerei. Quindi la lussuria si riferisce soprattutto ai piaceri venerei. Soluzione delle difficoltà: l . Come la tempe­ ranza, pur riguardando in maniera primaria e principale i piaceri del tatto, secondariamente e per analogia si estende anche ad altre mate­ rie, così anche la lussutia riguarda ptincipal­ mente i piaceri venerei, che più di tutti dis­ solvono l'anima dell'uomo, ma secondaria­ mente abbraccia ogni altra cosa che può con­ siderarsi un eccesso. Per cui la Glossa affer­ ma che «qualsiasi superfluità>> è lussuria.

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resolvunt; secundario aut dicitur in quibus­ cumque aliis ad excessum pertinentibus. Unde Gal. 5 [ 1 9], dicit Glossa [int. et Lomb.] quod luxuria est quaelibet supeifluitas. Ad secundum dicendum quod vinum dicitur esse res luxuriosa, vel secundum bune modum quo in qualibet materia abundantia ad luxuriam refertur. Vel inquantum superfluus usus vini incentivum voluptati venereae praebet. Ad tertium dicendum quod libidinosa volup­ tas etsi in aliis materiis dicatur, tamen specia­ liter hoc nomen sibi vindicant venereae delec­ tationes, in quibus etiam specialiter libido di­ citur, ut Augustinus dicit, 1 4 De civ. Dei [ 15].

2. Si dice che il vino è una cosa lussuriosa o nel senso che in qualsiasi materia l'eccesso può riferirsi alla lussuria, o perché l'uso ec­ cessivo del vino è un incentivo al piacere ve­ nereo. 3. Sebbene anche in altre materie si parli di piacere libidinoso, tuttavia questa qualifica riguarda soprattutto i piaceri venerei; per i quali inoltre si parla di libidine in modo spe­ ciale, come nota Agostino.

Articulus 2 Utrum aliquis actus venereus possit esse sine peccato

Articolo 2 Ci può essere un atto venereo senza peccato?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod nullus actus venereus possit esse sine peccato. l . Nihil enim videtur impedire virtutem nisi peccatum. Sed omnis actus venereus maxime impedit virtutem, dicit enim Augustinus, in l Soli!. [ l 0], nihil esse sentio quod magis ex arce deiiciat animum virilem quam blandi­ menta feminae, corporumque ille contactus. Ergo nullus actus venereus videtur esse sine peccato. 2. Praeterea, ubicumque invenitur aliquid su­ perfluum per quod a bono rationis receditur, hoc est vitiosum, quia virtus cormmpitur per supeifluum et diminutum, ut dicitur in 2 Ethic. [2,7] . Sed in quolibet actu venereo est su­ perfluitas delectationis, quae in tantum absorbet rationem quod impossibile est aliquid intellige­ re in ipsa, ut philosophus dicit, in 7 Ethic. [1 1 ,4], et sicut Hieronymus dicit [cf. Origenem, In Num. h. 6], in illo actu spiritus prophetiae non tangebat corda prophetarum. Ergo nullus actus venereus potest esse sine peccato. 3. Praeterea, causa potior est quam effectus. Sed peccatum originale in parvulis trahitur a concupiscentia, sine qua actus venereus esse non potest, ut patet per Augustinum, in libro De nuptiis et concup. [ l ,24] . Ergo nullus actus venereus potest esse sine peccato. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De bono coniug. [25], satis responsum est hae­ reticis, si tamen capiunt, non esse peccatum quod neque contra naturam committitur, ne­ que contra morem, neque contra praeceptum.

Sembra di no. Infatti: l . Nulla può essere di ostacolo alla virtù al­ l ' infuori del peccato. Ma ogni atto venereo ostacola sommamente la virtù, stando alle parole di Agostino: «Non c'è nulla, io penso, che possa far cadere un'anima virile dalla sua roccaforte più delle lusinghe di una donna e dei contatti coniugali». Quindi sembra che nessun atto venereo sia senza peccato. 2. Dovunque si riscontra qualcosa di eccessi­ vo per cui si abbandona il bene di ordine razionale, là c'è un peccato: poiché la virtù è corrotta «dall'eccesso e dal difetto», come di­ ce Aristotele. Ma in qualsiasi atto venereo c'è un eccesso di piacere, il quale assorbe la ra­ gione al punto che, stando al Filosofo, «è impossibile in esso intendere qualcosa»; e Gi­ rolamo afferma che in tale atto lo spirito di profezia si allontana dal cuore dei profeti. Perciò nessun atto venereo può essere senza peccato. 3. La causa è superiore all'effetto. Ma, come insegna Agostino, il peccato originale è tra­ smesso ai bambini attraverso la concupiscen­ za, senza della quale non ci può essere un atto venereo. Quindi non ci può essere un atto venereo senza peccato. , In contrario: Agostino ha scritto: «E sufficien­ te rispondere agli eretici, se però sono capaci di comprendere, che non è peccato ciò che non è commesso né contro la natura, né con­ tro le usanze, né contro le leggi». E parla del­ l ' atto venereo di cui fecero uso appunto gli

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Et loquitur de actu venereo quo antiqui patres pluribus coniugibus utebantur. Ergo non ornni s actus venereus est peccatum. Respondeo dicendum quod peccatum in hu­ manis actibus est quod est contra ordinem rationis. Habet autem hoc rationis ordo, ut quaelibet convenienter ordinet in suum finem. Et ideo non est peccatum si per rationem ho­ mo utatur rebus aliquibus ad finem ad quem sunt, modo et ordine convenienti, dummodo ille finis sit aliquod vere bonum. Sicut autem est vere bonum quod conservetur corporalis natura unius individui, ita etiam est quoddam bonum excellens quod conservetur natura speciei humanae. Sicut autem ad conservatio­ nem vitae unius hominis ordinatur usus cibo­ rum, ita etiam ad conservationem totius hu­ mani generis usus venereorum, unde Augusti­ nus dicit, in libro De bono coniug. [ 1 6], quod est cibus ad salutem hominis, hoc est concu­ bitus ad salutem generis. Et ideo, sicut usus ciborum potest esse absque peccato, si fiat debito modo et ordine, secundum quod com­ petit saluti corporis; ita etiam et usus venereo­ rum potest esse absque ornni peccato, si fiat debito modo et ordine, secundum quod est conveniens ad finem generationis humanae. Ad primum ergo dicendum quod aliquid po­ test impedire virtutem dupliciter. Uno modo, quantum ad communem statum virtutis, et sic non impeditur virtus nisi per peccatum. Alio modo, quantum ad perfectum virtutis statum, et sic potest impediri virtus per aliquid quod non est peccatum, sed est minus bonum. Et hoc modo usus feminae deiicit animum, non a virtute, sed ab arce, idest perfectione vir­ tutis. Unde Augustinus dicit, in libro De bono coniug. [8], sicut bonum erat quod Marthafa­ ciebat occupata circa ministerium sanctorum, sed melius quod Maria audiens verbum Dei; ita etiam bonum Susannae in castitate coniu­ gali laudamus, sed bonum viduae Annae, et magis Mariae virginis, anteponimus. Ad secundum dicendum quod, sicut supra [q. 1 52 a. 2 ad 2; I-II q. 64 a. 2] dictum est, medium virtutis non attenditur secundum quan­ titatem, sed secundum quod convenit rationi rectae. Et ideo abundantia delectationis quae est in actu venereo secundum rationem ordinato, non contrariatur medio virtutis. Et praeterea ad virtutem non pertinet quantum sensus exterior delectetur, quod consequitur corporis disposi-

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antichi patriarchi in molti matrimoni. Perciò non tutti gli atti venerei sono peccato. Risposta: tra gli atti umani è peccaminoso ciò che è contro l'ordine della ragione. Ora, l'or­ dine della ragione esige che tutto sia bene or­ dinato al proprio :fine. Quindi non c'è peccato se l'uomo si serve di determinate cose per il loro fine, nella misura e nell'ordine conve­ niente, purché il :fine sia qualcosa di veramen­ te buono. Ma come è un vero bene la conser­ vazione della vita fisica di un individuo, così è un bene superiore la conservazione della specie umana. E come alla conservazione del­ l'individuo è ordinato l'uso dei cibi, così alla conservazione di tutto il genere umano è ordinato l'uso della sessualità, secondo le parole di Agostino: «Ciò che il cibo fa per la conservazione dell'individuo, l'unione matri­ moniale lo fa per la conservazione della spe­ cie». Come quindi l'uso dei cibi può essere senza peccato se avviene nella misura richie­ sta per la salute del corpo, così anche l'uso della sessualità può essere senza peccato se avviene nel debito modo, come è richiesto dal fine della generazione umana. Soluzione delle difficoltà: l . Una cosa può es­ sere di ostacolo alla virtù in due modi. Primo, perché è incompatibile con la virtù comune: e in questo senso la virtù non è ostacolata che dal peccato. Secondo, perché è incompatibile con la virtù perfetta: e in questo senso la virtù può essere ostacolata da cose che non sono un peccato, ma un bene minore. E in questo sen­ so l'accostarsi alla moglie fa cadere l'anima non dalla virtù, ma «dalla roccaforte», cioè dalla perfezione della virtù. Per cui Agostino scrive: «Come era un bene ciò che faceva Marta occupata a servire dei santi, e tuttavia era una cosa migliore ascoltare come Maria la parola di Dio, così noi lodiamo il bene di Su­ sanna nella castità coniugale, ma anteponia­ mo ad esso il bene della vedova Anna, e ancora di più quello della vergine Maria». 2. Come sopra si è detto, il giusto mezzo della virtù non va misurato in base alla quantità, ma in base a quanto conviene alla retta ragione. Per cui la sovrabbondanza del piacere che si trova nell'atto sessuale ordinato secondo la ragione non esclude il giusto mezzo della virtù. Inoltre alla virtù non interessa quanto grande sia il piacere dei sensi esterni, il che dipende dalle disposizioni fisiche, ma in quale

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tionem, sed quantum appetitus interior ad huiusmodi delectationes afficiatur. Nec hoc etiam quod ratio non potest liberum actum rationis ad spiritualia consideranda simul cum illa delectatione habere, ostendit quod actus ille sit contrarius virtuti. Non enim est contrarium virtuti si rationis actus aliquando interrnittatur aliquo quod secundum rationem fit, alioquin, quod aliquis se somno tradit, esset contra virtutem. Hoc tamen quod concupiscentia et delectatio venereorum non subiacet imperio et moderationi ratiotùs, provenit ex poena prinù peccati, inquantum scilicet ratio rebellis Deo meruit habere suam camem rebellem, ut patet per Augustinum, 1 3 De civ. Dei [ 1 3]. Ad tertium dicendum quod, sicut Augustinus ibidem [De nuptiis et concupiscentia 1 ,24] dicit, quod ex concupiscentia carnis, quae re­ generatis non imputatur in peccatum, tanquam ex filia peccati, proles nascitur originali obligata peccato. Unde non sequitur quod actus ille sit peccatum, sed quod in ilio actu sit aliquid poenale a peccato primo derivatum.

nùsura l'appetito interno sia preso da tale pia­ cere. E neppure il fatto che la ragione non sia libera di considerare le realtà spirituali in con­ conùtanza con un dato piacere dimostra che quell'atto è contrario alla virtù. Infatti non è contro la virtù interrompere ragionevobnente le funzioni della ragione per un certo tempo: altrimenti sarebbe contro la virtù [anche] ab­ bandonarsi al sonno. - Tuttavia il fatto che la concupiscenza e il piacere venereo non sotto­ stanno al comando e al governo della ragione deriva come castigo dal primo peccato: in quanto cioè la ragione ribelle a Dio meritò la ribellione della propria carne, come spiega Agostino. 3. Come scrive sempre Agostino, «la prole nasce infetta dal peccato originale attraverso la concupiscenza della carne, figlia del pec­ cato, che però ai rigenerati non è imputata a peccato». Non ne segue quindi che quell'at­ to sia un peccato, ma che in esso vi è qualco­ sa di derivante come un castigo dal primo peccato.

Articulus 3 Utrum luxuria quae est circa actus venereos possit esse peccatum

Articolo 3 La lussuria può essere un peccato?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod luxu­ ria quae est circa actus venereos, non possit esse aliquod peccatum. l . Per actum enim venereum semen enùttitur, quod est superfluum alimenti, ut patet per philosophum, in libro De generatione anima­ lium [ 1 8] . Sed in emissione aliarum super­ fluitatum non attenditur aliquod peccatum. Ergo neque circa actus venereos potest esse aliquod peccatum. 2. Praeterea, quilibet potest licite uti ut libet, eo quod suum est. Sed in actu venereo homo non utitur nisi eo quod suum est, nisi forte in adulterio vel raptu. Ergo in usu venereo non potest esse peccatum. Et ita luxuria non erit peccatum. 3. Praeterea, omne peccatum habet vitium op­ positum. Sed luxuriae nullum vitium videtur es­ se opposilum. Ergo luxuria non est peccatum. Sed contra est quod causa est potior effectu. Sed vinum prohibetur propter luxuriam, se­ cundum illud apostoli, Eph. 5 [ 1 8] , nolite inebriari vino, in quo est luxuria. Ergo luxu­ ria est prohibita.

Sembra di no. Infatti: l . Nell'atto venereo si ha l'enùssione del se­ me, che, come insegna Aristotele, è «il super­ t1uo dell'alimento». Ma nell'enùssione delle altre superfluità non si riscontra alcun pecca­ to. Quindi non ci può essere peccato neppure negli atti venerei. 2. Ognuno può lecitamente fare uso come a lui piace di ciò che è suo. Ma nell'atto vene­ reo l'uomo si linùta a fare uso di ciò che è suo: eccetto il caso dell'adulterio, o del rapi­ mento. Perciò nell'uso dei piaceri venerei non ci può essere peccato. Quindi la lussuria non sarà un peccato. 3. Ogni peccato ha un vizio contrario. Ma sem­ bra che la lussuria non abbia un vizio contrario. Quindi la lussuria non è un peccato. In contrario: l . La causa è superiore all'effetto. Ora il vino è proibito a causa della lussuria, secondo le parole di Paolo: Non ubriacatevi di vino, che porta alla lussuria (Ef5,18). Quindi la lussuria è proibita. 2. In Gal 5 [ 1 9] la lussuria è enumerata tra le opere della carne.

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2. Praeterea, Gal. 5 [ 1 9] , enumeratur inter opera camis. Respondeo dicendum quod quanto aliquid est magis necessarium, tanto magis oportet ut circa illud rationis ordo servetur. Unde per consequens magis est vitiosum si ordo ratio­ nis praetermittatur. Usus autem venereorum, sicut dictum est [a. 2], est valde necessarius ad bonum commune, quod est conservatio humani generis. Et ideo circa hoc maxime attendi debet rationis ordo. Et per consequens, si quid circa hoc fiat praeter id quod ordo rationis habet, vitiosum erit. Hoc autem pertinet ad rationem luxuriae, ut ordinem et modum rationis excedat circa venerea. Et ideo absque dubio luxuria est peccatum. Ad primum ergo dicendum quod, sicut philo­ sophus, in eodem libro [De gen. anim. 1 8] , dicit, semen est superfluum quo indigetur, dicitur enim superfluum ex eo quod residuum est operationis virtutis nutritivae, tamen indi­ getur eo ad opus virtutis generativae. Sed aliae superfluitates humani corporis sunt quibus non indigetur. Et ideo non refert quali­ tercumque emittantur, salva decentia convic­ tus humani. Sed non est simile in seminis emissione, quae taliter debet fieri ut conveniat fini ad quem eo indigetur. Ad secundum dicendum quod, sicut aposto­ lus dicit, l ad Cor. 6 [20], contra luxuriam loquens, empti estis pretio magno. Glorificate ergo et portate Deum in corpore vestro. Ex eo ergo quod aliquis i nordinate suo corpore utitur per luxuriam, iniuriam facit Domino, qui est principalis dominus corporis nostri. Unde et Augustinus dicit, in libro De decem chordis [Senn. ad pop. 9,1 0] , Dominus, qui

gubernat servos suos ad utilitatem illorum, non suam, hoc praecepit, ne per illicitas voluptates corruat templum eius, quod esse coepisti. Ad tertium dicendum quod oppositum luxu­ riae non contingit in multis, eo quod homines magis sint proni ad delectationes. Et tamen oppositum vitium continetur sub insensibili­ fate. Et accidit hoc vitium in eo qui in tantum detestatur mulierum usum quod etiam uxori debitum non reddit.

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Risposta: quanto più una cosa è necessaria, tanto più si richiede che in essa si rispetti l'or­ dine della ragione. Per cui è anche di conse­ guenza più viziosa la trasgressione di tale ordine. Ora, come si è già notato, l'uso della sessualità è estremamente necessario al bene comune, ossia alla conservazione del genere umano. Perciò in esso si deve seguire col massimo rigore l 'ordine della ragione. Sarà quindi peccato compiere in questa materia qualcosa di contrario ali' ordine della ragione. Ma trasgredire la nonna e la misura della ra­ gione nelle realtà veneree è proprio della lus­ suria. Quindi senza alcun dubbio la lussuria è un peccato. Soluzione delle difficoltà: l . Il Filosofo preci­ sa in quel punto che «il seme è il superfluo di cui si ha bisogno»: è infatti superfluo perché sopravanza alle funzioni della facoltà nutriti­ va, ma se ne ha bisogno per la facoltà genera­ tiva. Invece delle altre superfluità del corpo umano non vi è alcun bisogno. Non importa quindi il modo della loro emissione, salva la decenza del vivere umano. Diverso è invece il caso dell'emissione del seme, che deve avve­ nire nel modo richiesto dal fine per cui se ne ha bisogno. 2 . Così Paolo dice contro la lussuria: Siete

stati comprati a caro prezzo. Glorificate dun­ que e portate Dio nel vostro corpo (l Cor 6,20). Per il fatto dunque che uno abusa del proprio corpo con la lussuria fa ingiuria al Signore, che è il padrone principale dei nostri corp i . Da c u i le parole di Agostino: «Il Signore, che governa i suoi servi per la loro e non per la sua utilità, ha dato questo comando affinché per gli illeciti piaceri non crolli il suo tempio, che tu hai cominciato a essere». 3. L'opposto della lussuria non è ricordato di frequente, dato che gli uomini sono piuttosto portati ai piaceri. Tuttavia il vizio opposto è incluso nell'insensibilità. Ed esso si verifica in colui che detesta tanto l'uso della donna da non rendere neppure il debito coniugale.

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Articulus 4 Utrum luxuria sit vitium capitale

Articolo 4 La lussuria è un vizio capitale?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod luxuria non sit vitium capitale. l . Luxuria enim videtur idem esse immundi­ tiae, ut patet per Glossam [int. et Lomb.] , Eph. 5 [3] . Sed immunditia est filia gulae, ut patet per Gregorium, 3 1 Mor. [45]. Ergo lu­ xuria non est vitium capitale. 2. Praeterea, lsidorus dicit, in libro De summo bono [Sent. 2,39], quod sicut per superbiam

Sembra di no. Infatti: l . La lussuria è identificata dalla Glossa con «l'immondezza>>. Ma secondo Gregorio l'im­ mondezza è una figlia della gola. Quindi la lussuria non è un vizio capitale. 2. Isidoro scrive che «come dalla superbia si giunge alla prostituzione della lussuria, così dall'umiltà è salvaguardata la castità». Ora, nascere da un altro vizio è contro la nozione di vizio capitale. Quindi la lussuria non è un vizio capitale. 3. La lussuria nasce dalla disperazione, secon­ do le parole di Ef 4 [ 19] : Essi, perduta ogni speranza, si sono dati alla dissolutezza. Ma la disperazione non è un vizio capitale, anzi, è posta tra le figlie dell'accidia, come si è visto sopra. Molto meno, dunque, sarà un vizio capitale la lussuria. In contrario: Gregorio mette la lussuria tra i vizi capitali. Risposta: come si è spiegato in precedenza, è capitale quel vizio che ha un fine molto appe­ tibile, così da spingere l' uomo col desiderio di esso a commettere vari peccati, i quali sono detti nascere tutti da quel vizio come da un vizio principale. Ora, il fine della lussuria è il piacere venereo, che è il più grande dei piace­ ri. Per cui tale piacere è sommamente appeti­ bile per la sensibilità, sia per l' intensità del piacere, sia Rer la connaturalità di questa con­ cupiscenza. E quindi evidente che la lussuria è un vizio capitale. Soluzione delle difficoltà: l. Secondo alcuni l'immondezza posta tra le figlie della gola è una certa immondezza corporale, come sopra si è visto. E allora l'argomento non è a propo­ sito. Se invece ci si riferisce all'immondezza della lussuria, allora si risponde che essa è causata dalla gola solo materialmente, cioè in quanto la gola prepara la materia corporea della lussuria, ma non sotto l ' aspetto della causa finale, che è l'aspetto principalissimo secondo il quale va riscontrata l 'origine di altri vizi da un vizio capitale. 2. Come si è detto sopra parlando della vana­ gloria, la superbia è considerata la madre di tutti i peccati: per cui gli stessi vizi capitali nascono dalla superbia. 3. Alcuni si astengono dai piaceri della lussu-

mentis itur in prostitutionem libidinis, ita per humilitatem mentis salva fit castitas camis. Sed contra rationem capitalis vitii esse videtur quod ex alio vitio oriatur. Ergo luxuria non est vitium capitale. 3. Praeterea, luxuria causatur ex desperatione, secundum illud Eph. 4 [ 1 9], qui, desperantes, seipsos tradiderunt impudicitiae. Sed despe­ ratio non est vitium capitale, quinimmo po­ nitur filia acediae, ut supra [q. 35 a. 4 ad 2] habitum est. Ergo multo minus luxuria est vitium capitale. Sed contra est quod Gregorius, 3 1 Mor. [45], ponit luxuriam inter vitia capitalia. Respondeo dicendum quod, sicut ex dictis [q. 148 a. 5; 1-ll q. 84 aa. 3-4] patet, vitium ca­ pitale est quod habet finem multum appetibi­ lem, ita quod ex eius appetitu homo procedit ad multa peccata perpetranda, quae omnia ex illo vitio tanquam ex principali oriri dicuntur. Finis autem luxuriae est delectatio venereo­ rum, quae est maxima. Unde huiusmodi de­ lectatio est maxime appetibilis secundum ap­ petitum sensitivum, tum propter vehemen­ tiam delectationis; tum etiam propter conna­ turalitatem huius concupiscentiae. Unde ma­ nifestum est quod luxuria est vitium capitale. Ad primum ergo dicendum quod immunditia, secundum quosdam [Mor. 3 1 ,45 ; cf. Alex. Halensem, Summa Theol. 11-11, n. 641], quae ponitur filia gulae, est quaedam immunditia corporalis, ut supra [q. 148 a. 6] dictum est. Et sic obiectio non est ad propositum. - Si vero accipiatur pro immunditia luxuriae, sic dicendum quod ex gula causatur materialiter, inquantum scilicet gula ministrat materiam corporalem luxuriae, non autem secundum rationem causae finalis, secundum quam potissime attenditur origo aliorum vitiorum ex vitiis capitalibus.

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Ad secundum dicendum quod, sicut supra [q. 1 22 a. 4 ad l ] dictum est, cum de inani gloria ageretur, superbia ponitur communis mater omnium peccatorum, et ideo etiam vitia capitalia ex superbia oriuntur. Ad tertium dicendum quod a delectationibus luxuriae praecipue aliqui abstinent propter spem futurae gloriae, quam desperatio subtra­ hit. Et ideo causat luxuriam sicut removens prohibens, non sicut per se causa, quod vi­ detur requiri ad vitia capitalia.

ria specialmente per la speranza della gloria futura, che è eliminata dalla disperazione. Perciò quest'ultima provoca la lussuria to­ gliendo l'ostacolo, cioè quale removens pro­ hibens, non già quale causa diretta, come è richiesto invece per i vizi capitali.

Articulus 5 Utrum convenienter assignentur filiae luxuriae

Articolo 5 Le figlie della lussuria sono ben determinate?

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod in­ convenienter dicantur esse filiae luxuriae cae­ citas mentis, inconsideratio, inconstantia, praecipitatio, amor sui, odium Dei, affectus praesentis saeculi, horror ve/ desperatio futuri. l . Quia caecitas mentis et inconsideratio et praecipitatio pertinent ad imprudentiam, quae invenitur in omni peccato, sicut et prudentia in ornni virtute. Ergo non debent poni specia­ les filiae luxuriae. 2. Praeterea, constantia ponitur pars fortitu­ dinis, ut supra [q. 128 a. l ad 6;] habitum est. Sed luxuria non opponitur fortitudini, sed temperantiae. Ergo inconstantia non est filia luxuriae. 3 . Praeterea, amor sui usque ad contemptum Dei est principium omnis peccati, ut patet per Augustinum, 14 De civ. Dei [28]. Non ergo debet poni filia luxuriae. 4. Praeterea, Isidoms ponit [QVT In Deut. 1 6 super 7, 1] quatuor, scilicet turpiloquia, scur­ rilia, ludicra, stultiloquia. Ergo praedicta enu­ meratio videtur esse superflua. Sed contra est auctoritas Gregorii, 3 1 Mor. [45]. Respondeo dicendum quod quando inferiores potentiae vehementer afficiuntur ad sua obiecta, consequens est quod superiores vires impediantur et deordinentur in suis actibus. Per vitium autem luxuriae maxime appetitus inferior, scilicet concupiscibilis, vehementer intendit suo obiecto, scilicet delectabili, propter vehementiam delectationis. Et ideo consequens est quod per luxuriam maxime superiores vires deordinentur, scilicet ratio et voluntas. - Sunt autem rationis quatuor actus in agendis. Primo quidem, simplex intelli-

Sembra che non siano ben determinate le fi­ glie della lussuria, e cioè l 'accecamento, la sconsideratezza, l'incostanza, la precipitazio­ ne, l'amore di sé, l'odio di Dio, l'attaccamen­ to alla vita presente, l'orrore o la disperazione del futuro. Infatti: l . L'accecamento, la sconsideratezza e la pre­ cipitazione rientrano nell' impmdenza, che si riscontra in ogni peccato, come anche la pru­ denza si ritrova in ogni virtù. Perciò esse non possono venir considerate figlie speciali della lussuria. 2. La costanza è tra le parti potenziali della fortezza, come sopra si è visto. Ma la lussuria non si contrappone alla fortezza, bensì alla temperanza. Quindi l'incostanza non è figlia della lussuria. 3. «L'amore di sé fino al disprezzo di Dio è la causa di tutti i peccati», come dimostra Ago­ stino. Quindi non va posto tra le figlie della lussuria. 4. Isidoro ne enumera quattro soltanto, e cioè: «il turpiloquio, la scurrilità, la buffoneria e le parole stolte». Perciò l'enumerazione prece­ dente sembra eccessiva. In contrario: questo è l ' insegnamento d i Gregorio. Risposta: quando le potenze i nferiori sono fortemente impressionate dai loro oggetti, ne segue che le facoltà superiori sono impedite e turbate nei loro atti. Ora, è specialmente nei peccati di lussuria, per l'intensità del piacere, che l'appetito inferiore, cioè il concupiscibile, si volge con violenza verso il proprio oggetto, cioè verso il bene dilettevole. Ne segue quindi che le potenze superiori, cioè la ragione e la

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gentia, quae apprehendit aliquem finem ut bo­ num. Et hic actus impeditur per luxuriam, secundum illud Dan. 13 [56], species decepit te, et concupiscentia subvertit cor tuum. Et quantum ad hoc, ponitur caecitas mentis. Se­ cundus actus est consilium de his quae sunt agenda propter finem. Et hoc etiam impeditur per concupiscentiam luxuriae, unde Terentius dicit, in Eunucho [ 1 , 1 ,57], loquens de amore libidinoso, quae res in se neque consilium

neque modum habet ullum, eam consilio regere non potes. Et quantum ad hoc, ponitur praecipitatio, quae importat subtractionem consilii, ut supra [q. 53 a. 3] habitum est, tertius autem actus est iudicium de agendis. Et hoc etiam impeditur per luxuriam, dicitur enim Dan. 1 3 [9] , de senibus luxuriosis,

averterunt sensum suum, ut non recordaren­ tur iudiciorum iustorum. Et quantum ad hoc,

ponitur i nconsideratio. Quartus autem actus est praeceptum rationis de agendo. Quod etiam impeditur per luxuriam, inquantum scilicet homo impeditur ex impetu concupi­ scentiae ne exequatur id quod decrevit esse faciendum. Unde Terentius dicit, in Eunucho [ 1 , 1 ,23] , de quodam qui dicebat se reces­ surum ab amica, haec verba una falsa lacri­ mula restringer. - Ex parte autem voluntatis, consequitur duplex actus inordinatus. Quo­ rum unus est appetitus tinis. Et quantum ad hoc, ponitur amor sui, quantum scilicet ad delectationem quam inordinate appetit, et per oppositum ponitur odium Dei, inquantum sci­ licet prohibet delectationem concupitam. Alius autem est appetitus eorum quae sunt ad finem. Et quantum ad hoc, ponitur affectus praesentis saeculi, in quo scilicet aliquis vult frui voluptate, et per oppositum ponitur de­ speratio futuri saeculi, quia dum nimis deti­ netur carnalibus delectationibus, non curat pervenire ad spirituales, sed fastidit eas. Ad primum ergo dicendum quod, sicut philo­ sophus dicit, in 6 Ethic. [5,6] intemperantia maxime corrumpit prudentiam. Et ideo vitia apposita prudentiae maxime oriuntur ex luxu­ ria, quae est praecipua intemperantiae species. Ad secundum dicendum quod constantia in arduis et terribilibus ponitur pars fortitudinis. Sed constantiam habere in abstinendo a de­ lectationibus pertinet ad continentiam, quae ponitur pars temperantiae, ut supra [q. 143] dictum est. E t ideo i nconstantia quae e i

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volontà, sono turbate i n modo gravissimo dalla lussuria. - Ora, gli atti della ragione in campo pratico sono quattro. Primo, l a semplice intellezione, che intuisce il fine come un bene. E questo atto è compromesso dalla lussuria, secondo le parole di Dn 13 [56] : lA bellezza ti

ha sedotto, la passione ti ha perve1tito il cuore. E abbiamo così l'accecamento della mente. Il secondo atto è la deliberazione sui mezzi da usare per raggiungere il fine. E anche questo è impedito dalla concupiscenza della lussuria: per cui )'erenzio poteva dire dell'amore libidi­ noso: «E una cosa che in sé non ha né delibe­ razione né misura, e tu non puoi governarlo con la riflessione». E così abbiamo la precipi­ tazione, che implica mancanza di delibera­ zione, come sopra si è detto. li terzo atto è il giudizio sulle azioni da compiere. E anche questo è impedito dalla lussuria; infatti in Dn 1 3 [9] a proposito dei [due] vecchi Iussuriosi è detto: Persero il lume della ragione, così da non ricordan·i del giusto giudizio. E quanto a ciò è posta la sconsideratezza. n quarto atto è il comando esecutivo della ragione. E anche questo è impedito dalla lussuria: poiché dal­ l'impeto della concupiscenza l' uomo è impe­ dito dall' eseguire ciò che si era proposto di fare. Per cui Terenzio così parla di un innamo­ rato che diceva di volersi separare dalla sua amante: «Tutte queste parole saranno sopraf­ fatte dalla prima lacrimuccia bugiarda». - Dal­ Ia parte poi della volontà conseguono due atti disordinati. n primo riguarda il desiderio del fine, per cui si ha l'amore di sé, a motivo cioè del piacere che il lussurioso brama disordinata­ mente, e per opposizione l'odio di Dio, i n quanto cioè Dio proibisce la concupiscenza dei piaceri. n secondo riguarda invece il desiderio dei mezzi, per cui si ha l'attaccamento alla vita presente, nella quale il lussurioso vuole godersi il piacere, mentre all' opposto si ha la dispe­ razione della vita futura, poiché chi è troppo preso dai piaceri carnali non si cura di raggiun­ gere i beni spirin1ali, di cui sente fastidio. Soluzione delle difficoltà: l . Come dice il Filo­ sofo, è l'intemperanza che soprattutto distrug­ ge la prudenza. Perciò i vizi contrari alla pru­ denza nascono specialmente dalla lussuria, che è la specie principale dell' intemperanza. 2. La costanza nelle imprese ardue e temibili è una parte [potenziale] della fortezza. Ma l ' avere costanza nell' astenersi dai piaceri

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La lussuria

opponitur, ponitur filia luxuriae. - Et tamen etiam prima inconstantia ex luxuria causatur, inquantum emollit cor hominis et effeminatum reddit, secundum illud Osee 4 [I I], fomicatio, et vinum et ebrietas, aufert cor. Et Vegetius dicit, in libro De re militari [1,3], quod minus

mortem metuit qui minus deliciarum novit in vita. Nec oportet, sicut saepe dictum est [cf. q. 36 a. 4 ad l ; q. 1 18 a. 8 ad 1], quod filiae vitii capitalis cum eo in materia conveniant. Ad tertium dicendum quod amor sui quantum ad quaecumque bona quae sibi aliquis appetit, est commune principium peccatorum. Sed quantum ad hoc specialiter quod aliquis appe­ tit sibi delectabilia carnis, ponitur amor sui filia luxuriae. Ad quartum dicendum quod illa quae Isidorus ponit, sunt quidam inordinati actus exteriores, et praecipue ad locutionem pertinentes. In qua est aliquid inordinatum quadrupliciter. Uno modo, propter materiam. Et sic ponuntur twpiloquia. Quia enim ex abundantia cordis os loquitur, ut dicitur Matth. 12 [34], luxurio­ si, quorum cor est turpibus concupiscentiis plenum, de facili ad turpia verba prorumpunt. Secundo, ex parte causae. Quia enim luxuria inconsiderationem et praecipitationem causat, consequens est quod faciat prorumpere in verba leviter et inconsiderate dieta, quae di­ cuntur scurrilia. Tertio, quantum ad finem. Quia enim luxuriosus delectationem quaerit, etiam verba sua ad delectationem ordinat, et sic prorumpit in verba ludicra. Quarto, quan­ tum ad sententiam verborum, quam pervertit luxuria, propter caecitatem mentis quam cau­ sat. Et sic prorumpit in stultiloquia, utpote cum suis verbis praefert delectationes quas appetit, quibuscumque aliis rebus.

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appartiene alla continenza, che è una parte della temperanza, come sopra si è visto. E così l'incostanza, che è il suo contrario, è posta tra le figlie della lussuria. - Thttavia anche il pri­ mo tipo di incostanza deriva dalla lussuria: poi­ ché questa rammollisce il cuore dell'uomo e lo rende effeminato, come è detto in Os 4 [ 1 1]: La fornicazione, il vino e il mosto tolgono il cuore. E Vegezio scrive: «Teme meno la mor­

te chi in vita ha meno conosciuto i piaceri». Del resto, come si è già detto più volte, non è necessario che le figlie di un vizio capitale ri­ guardino la stessa materia. 3. L'amore di sé, rispetto a qualsiasi bene che uno desidera, è la causa universale di tutti i peccati. Ma esso è posto tra le figlie della lus­ suria per il fatto che uno brama per se stesso in modo particolare i piaceri della carne. 4. L'enumerazione di Isidoro elenca solo gli atti esterni disordinati, riguardanti specialmen­ te le parole. Ora, nel parlare ci possono essere quattro tipi di disordine. Primo, rispetto alla materia di cui si parla: e così abbiamo il turpi­ loquio. Poiché infatti la bocca parla dalla pie­ nezza del cuore (Mt 12,34), ne è che i lussuria­ si, avendo il cuore pieno di turpi desideri, facilmente escono in parole turpi. Secondo, rispetto alla causa. Poiché infatti la lussuria causa sconsideratezza e precipitazione, è chia­ ro che fa prorompere in parole leggere e scon­ siderate, che si dicono appunto scurrili. Terzo, rispetto al fine. Poiché il lussurioso, cercando il piacere, ordina ad esso anche le sue parole: e così esce in parole allusive, cioè in btiffonerie. Quarto, rispetto al senso delle parole, che la lussuria perverte per l'accecamento che pro­ duce. E così il lussurioso esce fuori con parole stolte: poiché con le sue parole mostra di pre­ ferire i piaceri che brama a qualsiasi altra cosa.

QUAESTIO 1 54 DE SPECIEBUS LUXURIAE

QUESTIONE 1 54 LE SPECIE DELLA LUSSURIA

Deinde considerandum est de luxuriae parti­ bus. Et circa hoc quaeruntur duodecim. Pri­ mo, de divisione partium luxuriae. Secundo, utrum fomicatio simplex sit peccatum mor­ tale. Tertio, utrum sit maximum peccatorum. Quarto, utrum in tactibus et osculis et aliis huiusmodi illecebris consistat peccatum mor­ tale. Quinto, utrum noctuma pollutio sit pec-

Veniamo ora a esaminare le varie parti della lussuria. Sull'argomento studieremo dodici argomenti: l . La divisione della lussmia nelle sue parti; 2. La sertt plice fornicazione è un peccato mortale? 3. E il più grave dei peccati? 4. Nei toccamenti, baci e altri allettamenti del genere ci può essere il peccato mortale? 5. La polluzione notturna è un peccato?

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Le specie della lussuria

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catum. Sexto, de stupro. Septimo, de raptu. Octavo, de adulterio. Nono, de incesto. Deci­ mo, de sacrilegio. Undecimo, de peccato con­ tra naturam. Duodecimo, de ordine gravitatis in praedictis speciebus.

6. Lo stupro; 7. n ratto 8. L'adulterio; 9. L'in­ cesto; 1 0. n sacrilegio; 1 1 . n peccato contro natura; 1 2. L'ordine di gravità fra le suddette specie di peccati.

Articulus l Utrum convenienter assignentur sex species luxuriae

Articolo l , E giusto dividere la lussuria in sei specie?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod incon­ venienter assignentur sex species luxuriae, sci­ licet, fomicatio simplex, adulterium, incestus, stuprum, raptus et vitium contra naturam. l . Diversitas enim materiae non diversificat speciem. Sed praedicta divisio sumitur secun­ dum materiae diversitatem, prout scilicet ali­ quis commiscetur coniugatae, vel virgini, vel alterius conditionis mulieri. Ergo videtur quod per hoc species luxuriae non diversificentur. 2. Praeterea, species vitii unius non videntur diversificaci per ea quae pertinent ad aliud vitium. Sed adulterium non differt a simplici fomicatione nisi in hoc quod aliquis accedit ad eam quae est alterius, et sic iniustitiam committit. Ergo videtur quod adulterium non debet poni species luxuriae. 3. Praeterea, sicut contingit quod aliquis com­ miscetur mulieri quae est alteri viro per matri­ monium obligata, ita etiam contingit quod aliquis commiscetur mulieri quae est obligata Deo per votum. Sicut ergo adulterium ponitur species luxuriae, ita et sacrilegium species lu­ xuriae poni debet. 4 Praeterea, ille qui est matrimonio iunctus non solum peccat si ad aliam mulierem ac­ cedat, sed etiam si sua coniuge inordinate utatur. Sed hoc peccatum sub luxuria con­ tinetur. Ergo deberet inter species luxuriae computaTi. 5. Praeterea, apostolus, 2 ad Cor. 1 2 [2 1 ] , dicit, n e iterum, cum venero, humiliet me Deus apud vos, et lugeam multos ex his qui ante peccaverunt, et non egerunt poeniten­ tiam super immunditia et fomicatione et im­ pudicitia quam gesserunt. Ergo videtur quod etiam immunditia et impudicitia debeant poni species luxuriae, sicut et fomicatio. 6. Praeterea, divisum non condividitur divi­ dentibus. Sed luxuria condividitur praedictis, di­ citur enim Gal. 5 [19], manifesta sunt opera camis, quae stmtfomicatio, immunditia, impu-

Sembra che non sia giusto dividere la lussuria in sei specie, cioè: fornicazione semplice, adulterio, incesto, stupro, ratto e vizio contro natura. Infatti: l . La diversità di materia non dà una diversità di specie. Ora, la suddetta divisione è desunta dalla diversità della materia, cioè dal fatto di peccare con una sposata, o con una vergine, o con donne di altra condizione. Quindi sembra che in base a ciò non si possano dare diverse specie di lussuria. 2. Le specie di un peccato non sembra che possano differenziarsi per cose che apparten­ gono ad altri peccati. Ma l'adulterio si distin­ gue dalla semplice fornicazione solo per il fatto che uno si accosta alla moglie altrui, commettendo un' ingiustizia. Quindi sembra che l'adulterio non debba esser posto tra le specie della lussuria. 3. Come capita che uno abusi di una donna che è unita a un altro nel matrimonio, così può capitare che uno abusi di una donna unita a Dio per voto. Quindi tra le specie della lus­ suria, come c'è l'adulterio, così ci deve essere anche il sacrilegio. 4. Chi è unito in matrimonio non pecca sol­ tanto unendosi con un'altra donna, ma anche usando disordinatamente della propria mo­ glie. E questo peccato rientra in quelli di lus­ suria. Quindi doveva essere elencato tra le sue specie. 5. Paolo dice: Temo injatli che, alla mia venu­ ta, il mio Dio mi umili davanti a voi, e io abbia a piangere su molti che hanno peccato in passato e 11011 si sono convertiti dalle impu­ rità, dalla fornicazione e dalle impudicizie che hanno commesso (2 Cor 1 2,2 1 ). Quindi sembra che, come la fornicazione, così anche l ' impurità e l' impudicizia debbano essere elencate tra le specie della lussmia. 6. Ciò che va diviso non può essere uno dei ter­ mini della divisione. Invece la lussuria è posta

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dicitia, luxuria. Ergo videtur quod inconvenien­ ter fomicatio ponatur species Iuxuriae. Sed contra est quod praedicta divisio ponitur in Decretis, 36 Caus., q. I [Decretum, p. 2, causa 36, q. l , app. ad can. 2]. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [q. 153 a. 3], peccatum luxuriae consistit in hoc quod aliquis non secundum rectam rationem delectatione venerea utitur. Quod quidem contingit dupliciter, uno modo, secundum materiam in qua huiusmodi delectationem quaerit; alio modo, secundum quod, materia debita existente, non observantur aliae debitae conditiones. Et quia circumstantia, inquantum huiusmodi, non dat speciem actui morali, sed eius species sumitur ab obiecto, quod est materia actus; ideo oportui t species luxuriae assignari ex parte materiae vel obiecti. - Quae quidem potest non convenire rationi rectae dupliciter. Uno modo, quia habet repugnan­ tiam ad finem venerei actus. Et sic, inquantum impeditur generatio prolis, est vitium contra naturam, quod est in omni actu venereo ex quo generatio sequi non potest. Inquantum autem impeditur debita educatio et promotio prolis natae, est fomicatio simplex, quae est soluti cum soluta. - Alio modo materia in qua exer­ cetur actus venereus, potest esse non conve­ niens rationi rectae per comparationem ad alios homines. Et hoc dupliciter. Primo quidem, ex parte ipsius feminae cui aliquis commiscetur, quia ei debitus honor non servatur. Et sic est in­ cestus, qui consistit in abusu mulierum con­ sanguinitate vel affinitate iunctarum. Secundo, ex parte eius in cuius potestate est femina. Quia si est in potestate viri, est adulterium, si autem est in potestate patris, est stuprum, si non inferatur violentia; raptus autem, si infe­ ratur. - Diversificantur autem istae species magis ex parte feminae quam viri. Quia in actu venereo fernina se habet sicut patiens et per modum materiae, vir autem per modum agen­ tis. Dictum est autem quod praedictae species secundum differentiam materiae assignantur. Ad primum ergo dicendum quod praedicta diversitas materiae habet annexam diversita­ tem formalem obiecti, quae accipitur secun­ dum diversos modos repugnantiae ad ratio­ nem rectam, ut dictum est [in co.]. Ad secundum dicendum quod nihil prohibet in eodem actu diversorum vitiorum deformita­ tes concurrere, ut supra [l-Il q. 1 8 a. 7] dictum

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tra le specie suddette, infatti in Gal 5 [ 1 9] è detto: Le opere della carne sono ben note: for­

nicazione, impurità, impudicizia, lussuria. Quindi sembra che non sia giusto mettere la fornicazione tra le specie della lussuria. In contrario: la predetta divisione si riscontra nel Decreto. Risposta: il peccato di lussuria consiste nel­ l'uso irragionevole del piacere venereo, come si è detto. E questo disordine può avvenire in due modi: primo, per la materia in cui uno cerca il piacere; secondo, per l ' inosservanza delle altre debite circostanze. Ma poiché la circostanza come tale non dà la specie all' atto morale, che invece deriva dali' oggetto, ossia dalla materia deli' atto, così era necessario determinare le specie della lussuria in rapporto alla materia, ossia ali ' oggetto. - Ora, tale materia può ripugnare alla retta ragione in due modi. Primo, perché è incompatibile col fine dell' atto venereo. E così in quanto è impedita la generazione della prole si ha il peccato contro natura, che si commette in ogni atto venereo da cui non può seguire la genera­ zione. In quanto i nvece ne risulta impedita l'educazione e la buona formazione della pro­ le si ha la semplice fornicazione, che avviene tra due persone libere. - Secondo, la materia in cui si esercita l'atto venereo può ripugnare alla retta ragione in rapporto ad altre persone. E ciò per due motivi. Primo, in rapporto alla donna di cui si abusa senza rispettame l'onore. E allora si ha l' incesto, il quale consiste nel­ l' abuso di donne unite da vincoli di consan­ guineità o di affinità. Secondo, in rapporto alla persona sotto il cui potere la donna si trova. Poiché se è sotto il potere del marito, si ha l'adulterio; se è invece sotto il potere del padre si ha lo stupro quando non si usa violenza e il ratto quando la si usa. - E tutte queste specie sono desunte più dalla parte della donna che da quella dell' uomo. Poiché nell'atto venereo la donna funge da elemento passivo e ma­ teriale, l 'uomo invece da causa agente. Ora le specie ricordate, come si diceva, sono determi­ nate secondo le differenze della materia. Soluzione delle difficoltà: l . Le suddette dif­ ferenze di materia implicano una diversità formale di oggetti, in base ai diversi tipi di ri­ pugnanza alla retta ragione, secondo le spie­ gazioni date. 2. Nulla impedisce che nel medesimo atto s i

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est. Et hoc modo adulterium continetur sub luxuria et sub iniustitia. Nec deformitas iniu­ stitiae omnino per accidens se habet ad luxu­ riam. Ostenditur enim luxuria gravior quae in tantum concupiscentiam sequitur quod etiam in iniustitiam ducat. Ad tertium dicendum quod mulier vovens continentiam quoddam spirintale matrimo­ nium facit cum Deo. Et ideo sacrilegium quod committitur in violatione talis mulieris, est quoddam adulterium spirituale. Et simili­ ter alii modi sacrilegii reducuntur ad alias species luxuriae. Ad quartum dicendum quod peccatum coniu­ gati cum sua uxore non est secundum indebi­ tam materiam, sed secundum alias circum­ stantias quae non constituunt speciem moralis actus, ut dictum est [in co.]. Ad quintum dicendum quod, sicut dicit Glossa [Lomb. et int. super 2 Cor. 1 2 [21 ] ibidem, im­ munditia ponitur pro lu.xuria contra naturam. Impudicitia autem est quae fit cum liberis a viro, unde videtur ad stuprum pertinere. - Vel potest dici quod impudicitia pertinet ad quos­ dam actus circumstantes actum venereum, sicut sunt oscula, tactus et alia huiusmodi. Ad sextum dicendum quod luxuria sumitur ibidem pro quacumque supe1jluitate, ut Glos­ sa [int. et Lomb. super Gal. 5, 19] ibidem dicit.

assommino i disordini di più vizi, come sopra si è detto. E così l'adulterio rientra nella lus­ suria e nell' ingiustizia. Né si può dire che il disordine dell'ingiustizia sia del tutto acciden­ tale rispetto alla lussuria. Infatti la lussuria si rivela più grave per il fatto che uno si fa tra­ scinare dalla concupiscenza fino a commette­ re un' ingiustizia. 3. La donna che fa voto di castità contrae un certo matrimonio spirituale con Dio. Perciò il sacrilegio che si compie violando questa don­ na è un certo adulterio spirituale. E così gli altri tipi di sacrilegio in questo campo si ridu­ cono alle altre specie della lussuria. 4. n peccato degli sposati con le loro mogli non avviene perché la materia è indebita, ma per altre circostanze. Ora queste, come si è visto, non detenninano la specie dell'atto morale. 5. Come dice la Glossa, in quel testo «impu­ rità» sta per «lussuria contro natura». «L'im­ pudicizia» invece è quella «che si compie con donne non sposate»: per cui pare che si riduca allo stupro. - Ma si può anche pensare che l'impudicizia riguardi certi atti che accompa­ gnano l 'atto venereo, come i baci, i tocca­ menti e altre cose del genere. 6. Come spiega la Glossa, in quel testo la lus­ suria indica «qualsiasi specie di eccesso».

Articulus 2 Utrum fomicatio simplex sit peccatum mortale

Articolo 2 La semplice fornicazione è un peccato mortale?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod fomicatio simplex non sit peccatum mortale. l . Ea enim quae simul connumerantur, vi­ dentur esse unius rationis. Sed fornicatio connumeratur quibusdam quae non sunt pec­ cata mortalia, dicitur enim Act. 1 5 [29], abs­

Sembra di no. Infatti: l . Le cose elencate nella medesima enumera­ zione sono da considerarsi alla pari. Ora, la fornicazione venne enumerata assieme a pra­ tiche che non sono peccati mortali; infatti in At 1 5 [29] è detto: Astenetevi dalle carni of­

tineatis vos ab immolatis simulacrorum, et sanguine et su.ffocato, et fornica/ione; il­ lorum autem usus non est peccatum mortale, secundum i llud l ad Tim . 4 [ 4 ] , n ihil

reiiciendum quod cum gratiarum actione percipitur. Ergo fomicatio non est peccatum mortale. 2. Praeterea, nullum peccatum mortale cadit sub praecepto divino. Sed Osee l [2] praeci­ pitur a Domino, vade, sume tibi u.xorem for­ nicationum, et fac filios fornicationum. Ergo fornicatio non est peccatum mortale.

ferte agli idoli, dal sangue, dagli animali sof­ focati e dalla fornicazione; cose queste di cui

l ' uso non costituisce un peccato mortale, secondo le parole di l Tm 4 [4]: Nulla è da

scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie. Perciò la fornicazione non è un pec­

cato mortale. 2. Nessun peccato mortale può essere coman­ dato da Dio. Ma in Os l [2] il Signore co­ mandò: Va, prenditi in moglie una prostituta e abbi figli di fornicazione. Quindi la fornica­ zione non è un peccato mortale.

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3. Praeterea, nullum peccatum mortale in Scriptura sacra absque reprehensione comme­ moratur. Sed fornicatio simplex commemo­ ratur in Scriptura in antiquis patribus sine re­ prehensione, sicut legitur Gen. 1 6 [ 4] de Abraham quod accessit ad Agar, ancillam suam; et infra, 30 [5.9], legitur de Iacob quod accessit ad ancillas uxorum suarum Balam et Zelpham; et infra, 38 [ 1 5 sqq.], legitur quod Iudas accessit ad Thamar, quam aestimavit meretricem. Ergo fornicarlo simplex non est peccatum mortale. 4 . Praeterea, omne peccatum m ortale contrariatur caritati. Sed fornicatio simplex non contrariatur caritati, neque quantum ad dilectionem Dei, quia non est directe pecca­ tum contra Deum; nec etiam quantum ad dilectionem proximi, quia per hoc homo nulli homini facit iniuriam. Ergo fornicatio simplex non est peccatum mortale. 5 . Praeterea, omne peccatum mortale ducit in perditionem aeternam. Hoc autem non facit fornicarlo simplex, quia super illud l ad Tim. 4 [8], pietas ad omnia utilis est, dicit Glossa Ambrosii [ord. et Lomb.; Ambrosiaster, In l Tim. super 4,8] , omnis summa disciplinae Christianae in misericordia et pietate est. Quam aliquis sequens, si lubricwn carnis patitw; sine dubio vapulabit, sed non peribit. Ergo fornicatio simplex non est peccatum mortale. 6. Praeterea, sicut Augustinus dicit, in libro De bon. coniug. [16], quod est cibus ad sa­ lutem corporis, hoc est concubitus ad salutem generis. Sed non omnis inordinatus usus ciborum est peccatum mortale. Ergo nec omnis inordinatus concubitus. Quod maxime videtur de fornicatione simplici, quae minima est inter species enumeratas. Sed contra est quod dicitur Tobiae 4 [ 1 3], attende tibi ab amni fomicatione, et praeter uxorem tuam, non patiaris crimen scire. Crimen autem importat peccatum mortale. Ergo fornicatio, et omnis concubitus qtù est praeter uxorem, est peccatum mortale. 2. Praeterea, nihil excludit a regno Dei nisi peccatum mortale. Fornicatio autem excludit, ut patet per apostolum, Gal. 5 [ 1 9 sqq.], ubi, praemissa fornicatione, et quibusdam aliis virlis, subdit, qui talia agunt, regnum Dei non possidebunt. Ergo fornicatio simplex est peccatum mortale.

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3. Nella Scrittura non è mai riferito un pecca­ to mortale senza che sia biasimato. Invece la semplice fornicazione degli antichi patriarchi è riferita nella Scrittura senza rimproveri: come si legge di Abramo (Gen 1 6,4) che si accostò alla sua schiava Agar; di Giacobbe ( Gen 30,5) che si unì con le schiave delle sue mogli Balam e Zelfa; e ancora di Giuda (Gen 38, 1 5) che si unì con Tamar, da lui creduta una meretrice. Quindi la fornicazione semplice non è un peccato mortale. 4. Tutti i peccati mortali vanno contro la cari­ tà. Ma la fornicazione semplice non è contro la carità: né quanto all'amore di Dio, non essendo essa un peccato diretto contro Dio, né quanto ali' amore del prossimo, poiché con essa non si fa torto a nessuno. Quindi la fornicazione semplice non è un peccato mortale. 5. Ogni peccato mortale conduce alla perdi­ zione eterna. Non così invece la fornicazione semplice: poiché, commentando l Tm 4 [8]: La pietà è utile a tutto, Ambrogio afferma: «Thtto l'insegnamento di Cristo si riduce alla misericordia e alla pietà. Chi è fedele in que­ sto, anche se soccombe alle attrattive della carne, senza dubbio sarà punito, ma non peri­ rà». Quindi la fornicazione semplice non è un peccato mortale. 6. Agostino scrive che «l' unione sessuale è per la vita del genere umano ciò che è il cibo per la vita del corpo». Ma non ogni disordine nel mangiare è un peccato mortale. Perciò neppure ogni unione sessuale disordinata. E ciò sembra valere specialmente per la forni­ cazione semplice, che è la meno grave delle specie elencate. In contrario: l . In Tb 4 [ 1 3] è detto: Tieniti lontano da ogni fornicazione, e non ti per­ mettere mai di commettere un crimine con una che non sia tua moglie. Ora, il terrnine crimine implica un peccato mortale. Quindi la fornicazione e ogni unione sessuale fuori del matrimonio è un peccato mortale. 2. Solo il peccato mortale esclude dal regno dei cieli. Ma tale è l'effetto della fornicazio­ ne, come risulta dal passo di Paolo in Gal 5 [ 1 9] nel quale, dopo aver elencato la fornica­ zione assieme ad altri peccati, aggiunge: Chi compie queste cose non erediterà il regno di Dio. Perciò l a fornicazione semplice è un peccato mortale.

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Le specie della lussuria

3. Praeterea, in decretis dicitur, 22 Caus., q. l [Decretum, P. 2, causa 22, q. l , can. 1 7] , nosse debent talem de periurio poenitentiam imponi debere qualem de adulterio et forni­ catione, et de homicidio sponte commisso, et de ceteris criminalibus vitiis. Ergo fornicatio simplex est peccatum criminale, sive mortale. Respondeo dicendum quod absque omni dubio tenendum est quod fornicatio simplex sit peccatum mortale, non obstante quod Deut. 23, super illud, non erit meretrix etc. [ 1 7], dicit Glossa [ord.; Q. in Heptat. 5,37 super Deut. 23,7], ad eas prohibet accedere quarum est venialis turpitudo. Non enim de­ bet dici venialis, sed venalis, quod est pro­ prium meretricum. - Ad huius autem eviden­ tiam, considerandum est quod peccatum mor­ tale est omne peccatum quod committitur di­ recte contra vitam hominis. Fomicatio autem simplex importat inordinationem quae vergit in nocumentum vitae eius qui est ex tali con­ cubitu nasciturus. Videmus enim in omnibus animalibus in quibus ad educationem prolis requiritur cura maris et feminae, quod in eis non est vagus concubitus, sed maris ad cer­ tam feminam, unam vel plures, sicut patet in omnibus avibus. Secus autem est in animali­ bus in quibus sola femina sufficit ad educatio­ nem fetus in quibus est vagus concubitus, ut patet in canibus et aliis huiusmodi animalibus. Manifestum est autem quod ad educationem hominis non solum requiritur cura matris, a qua nutritur, sed multo magis cura patris, a quo est instruendus et defendendus, et in bo­ nis tam interioribus quam exterioribus promo­ vendus. Et ideo contra naturam hominis est quod utatur vago concubitu, sed oportet quod sit maris ad determinatam feminam, cum qua permaneat, non per modicum tempus, sed diu, vel etiam per totam vitam. Et inde est quod naturaliter est maribus in specie humana sollicitudo de certitudine prolis, quia eis im­ minet educatio prolis. - Haec autem certitudo tolleretur si esset vagus concubitus. Haec autem determinatio certae feminae matrimo­ nium vocatur. Et ideo dicitur esse de iure naturali. Sed quia concubitus ordinatur ad bo­ num commune totius humani generis; bona autem communia cadunt sub determinatione legis, ut supra [1-ll q. 90 a. 2] habitum est, consequens est quod ista coniunctio maris ad feminam, quae matrimonium dicitur, lege

Q. 154, A. 2

3. Nel Decreto si legge: >, cioè: l' «ira biliosa», la «mania», o insania, e il «furore». E queste coincidono con le tre sopra indicate: poiché egli scrive che «l'ira biliosa è quella contraddistinta dal principio e dal moto», e che dal Filosofo è attribuita agli «acuti»; per «mania» egli intende invece «l'ira persistente e inveterata>>, che il Filosofo atttibuisce agli «amari». Per «furore» infine intende «l'ira che aspetta il momento per col­ pire», e che il Filosofo attribuisce ai «diffi­ cili». E la stessa divisione è ammessa dal Da­ masceno. Quindi la distinzione del Filosofo è ben fondata.

Q. 15 8, A. 5

L 'iracondia

Respondeo dicendum quod praedicta distinc­ tio potest referri vel ad passionem irae, vel etiam ad ipsum peccatum irae. Quomodo autem referatur ad passionem irae, supra [1-11 q. 46 a. 8] habitum est, cum de passione irae ageretur. Et sic praecipue videtur poni a Gre­ gorio Nysseno et Damasceno. Nunc autem oportet accipere distinctionem harum specie­ rum secundum quod pertinent ad peccatum irae, prout ponitur a philosopho. - Potest enim inordinatio irae ex duobus attendi . Primo quidem, ex ipsa irae origine. Et hoc pettinet ad acutos, qui nimis cito irascuntur, et ex qualibet levi causa. Alio modo, ex ipsa irae duratione, eo scilicet quod ira nimis perseverat. Quod quidem potest esse dupliciter. Uno modo, quia causa irae, scilicet iniuria illata, nimis manet in memoria hominis, unde ex hoc homo diuti­ nam tristitiam concipit; et ideo sunt sibi ipsis graves et amari. Alio modo contingit ex parte ipsius vindictae, quam aliquis obstinato appe­ titu quaerit et hoc pertinet ad difficiles sive graves, qui non dimittunt iram quousque puniant. Ad primum ergo dicendum quod in speciebus praedictis non principaliter consideratur tem­ pus, sed facilitas horninis ad iram, vel firmitas in ira. Ad secundum dicendum quod utrique, scilicet amari et difficiles, habent iram diutumam, sed propter aliam causam. Nam amari habent iram permanentem propter permanentiam tri­ stitiae, quam interius tenent clausam, et quia non prorumpunt ad exteriora iracundiae signa, non possunt persuaderi ab aliis; nec ex seipsis recedunt ab ira, nisi prout diuturnitate temporis tristitia aboletur, et sic deficit ira. Sed in difficilibus est ira diuturna propter vehemens desiderium vindictae. Et ideo tem­ pore non digeritur, sed per solam punitionem quiescit. Ad tertium dicendum quod gradus irae quos Dominus ponit, non pertinent ad diversas irae species, sed accipiuntur secundum processum humani actus. In quibus primo aliquid in corde concipitur. Et quantum ad hoc dicit, qui irasciturfratri suo. Secundum autem est cum per aliqua signa exteriora manifestatur exte­ rius, etiam antequam prorumpat in effectum. Et quantum ad hoc dicit, qui dixeritfrau·i suo, raca, quod est interiectio irascentis. Tertius gradus est quando peccatum interius concep-

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Risposta: la suddetta distinzione può essere applicata o alla passione o anche allo stesso peccato di ira. Ora, come essa si applichi alla passione dell'ira l'abbiamo già visto sopra nel trattato sulle passioni. Ed è così soprattutto che parlano di essa Gregorio Nisseno e i l Damasceno. Ora però dobbiamo applicare la distinzione di quelle specie al peccato di ira, come fa il Filosofo. - Il disordine dell'ira può infatti derivare da due cose. Primo, dal suo modo di nascere. E ciò si riferisce agli acuti, i quali si adirano troppo presto, e per ogni sciocchezza. Secondo, dalla durata dell'ira, cioè dal fatto che dura troppo a lungo. E ciò può avvenire in due modi. In primo luogo per il fatto che la causa dell'ira, cioè l'ingiuria subìta, rimane troppo a lungo nella memoria: e da ciò alcuni concepiscono una tristezza persistente, per cui costoro sono a se stessi gravi e amari. In secondo luogo ciò può avve­ nire in rapporto alla vendetta, che alcuni bra­ mano con ostinazione. E allora abbiamo i dif­ ficili, o implacabili, che non depongono l'ira finché non si sono vendicati. Soluzione delle difficoltà l . Nelle specie sud­ dette non si considera direttamente il tempo, ma la facilità ad adirarsi, o l'ostinazione nell'ira. 2. Sia gli amari che gli implacabili hanno un'ira persistente, ma per cause diverse. Poi­ ché gli amari hanno quest'ira persistente per la persistenza della tristezza, che essi tengono chiusa nel loro interno: e siccome non mo­ strano segni esterni di collera, non possono essere dissuasi dagli altri; né da se stessi desi­ stono dall' ira se non perché il passare del tempo toglie la tristezza. Negli implacabili in­ vece l'ira è persistente per un forte desiderio di vendetta. Perciò essa non si esaurisce col tempo, ma solo con la punizione. 3. I gradi dell'ira a cui accenna il Signore non riguardano le sue varie specie, ma sono de­ sunti dal procedere dell'atto umano. Nel qua­ le prima si concepisce qualcosa nel cuore. E a ciò si riferiscono quelle parole: «Chiunque si adira con il proprio fratello». In secondo luo­ go la cosa si manifesta esternamente con dei segni, prima ancora di passare all'atto. E a ciò si riferiscono le parole: «Chi dice al suo fra­ tello: Stupido», che è un'interiezione di rab­ bia. Il terzo grado si ha quando il peccato concepito interiormente produce degli effetti. Ora, l'effetto dell'ira è il danno altrui sotto

1425

L 'iracondia

Q. 158, A. 5

ad effectum perducitur. Est autem effec­ tus irae nocumentum alterius sub ratione vindictae. Minimum autem nocumentorum est quod fit solo verbo. Et ideo quantum ad hoc dicit, qui dixerit fratri suo, fatue. - Et sic patet quod secundum addit supra primum, et tertium supra utrumque. Unde si primum est peccatum mortale, in casu in quo Dominus loquitur, sicut dictum est [a. 3 ad 2], multo magis alia. Et ideo singulis eorum ponuntur correspondentia aliqua pertinentia ad con­ demnationem. Sed in primo ponitur iudicium, quod minus est, quia, ut Augustinus dicit [De serm. Dom. l ,9], in iudicio adhuc defensionis focus datur. In secundo vero ponit concilium, in quo iudices inter se conferunt quo supplì­ cio damnari oporteat. fu tertio ponit gehen­ nam ignis, quae est certa damnatio.

l'aspetto di vendetta. n danno minimo poi è quello che si produce solo con la lingua. E a questo si riferiscono le parole ev'!ngeliche: «Chi dice al suo fratello: Pazzo». - E evidente quindi che il secondo grado è più grave del primo, e il terzo più di entrambi. Per cui se quel primo moto, nel caso di cui parla il Si­ gnore, è un peccato mottale, come si è detto, molto più lo saranno gli altri due. E così per ciascuno di essi sono indicate le rispettive condanne. In rapporto al primo si ha «il giudi­ zio», che è meno grave: poiché, come nota Agostino, «nel giudizio è ancora ammessa la difesa». In rapporto al secondo invece si ha «il sinedrio», nel quale «i giudici si consulta­ no sulla pena da infliggere». In rapporto al terzo infine si ha «la geenna del fuoco», che è la «condanna irreparabile».

Articulus 6 Utrum ira debeat poni inter vitia capitalia

Articolo 6 Vira va posta tra i vizi capitali?

Ad sextum sic proceditur. Videtur quod ira non debeat poni inter vitia capitalia. l . Ira enim ex tristitia nascitur. Sed tristitia est vitium capitale, quod dicitur acedia. Ergo ira non debet poni vitium capitale. 2. Praeterea, odium est gravius peccatum quam ira. Ergo magis debet poni vitium capi­ tale quam ira. 3. Praeterea, super illud Prov. 29 [22], vir ira­ cundus provocar rixas, dicit Glossa [ord.], ianua

Sembra di no. Infatti: l . L'ira nasce dalla tristezza. Ma la tristezza è un vizio capitale, denominato accidia. Quindi l'ira non va posta tra i vizi capitali. 2. L'odio è un peccato più grave dell'ira. Quindi esso più dell'ira dovrebbe essere posto tra i vizi capitali. 3. Commentando Pr 29 [22]: Un uomo ira­ condo provoca risse, la Glossa afferma: «L'iracondia è la porta di tutti i vizi: tenendo­ la chiusa stanno in pace tutte le virtù; tenen­ dola aperta l'animo è pronto a ogni delitto». Ora, nessun vizio capitale è principio di tutti i peccati, ma solo di alcuni. Quindi l'ira non va posta tra i vizi capitali. In contrario: Gregorio colloca l'ira tra i vizi capitali. Risposta: è capitale quel vizio da cui derivano molti altri vizi, come sopra si è visto. Ma l'ira per due motivi è in condizione di produrre molti altri vizi. Primo, per il suo oggetto, che è assai desiderabile: poiché la vendetta è bra­ mata quale cosa giusta e onesta, attirando così per la sua apparente bontà, come si è notato sopra. Secondo, per la sua violenza, che trascina l'anima a compiere qualsiasi di­ sordine. Perciò è evidente che l'ira è un vizio capitale. Soluzione delle difficoltà: l . La tristezza da cui nasce l'ira ordinariamente non è quella

tum

est omnium vitiorum iracundia, qua clausa, virtutibus int1insecus dabitur quies; apena, ad omnefacinus annabitur animus. Nullum autem vitium capitale est principium omnium peccato­ rum, sed quorundam determinate. Ergo ira non debet poni inter vitia capitalia. Sed contra est quod Gregorius, 3 1 Mor. [45], ponit iram inter vitia capitalia. Respondeo dicendum quod, sicut ex praemis­ sis [I-II q. 84 aa. 3-4] patet, vitium capitale di­ citur ex quo multa vitia oriuntur. Habet autem hoc ira, quod ex ea multa vitia miri possint, duplici ratione. Primo, ex parte sui obiecti, quod multum habet de ratione appetibilitatis, inquantum scilicet vindicta appetitur sub m­ tione iusti et honesti, quod sua dignitate al­ licit, ut supra [a. 4] habitum est. Alia modo, ex suo impetu, quo mentem praecipitat ad inordinata quaecumque agenda. Unde mani­ festum est quod ira est vitium capitale.

Q. 15 8, A. 6

L 'iracondia

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Ad primum ergo dicendum quod illa tristitia ex qua oritur ira, ut plurimum, non est acediae vitium, sed passio tristitiae, quae consequitur ex iniuria illata. Ad secundum dicendum quod, sicut ex supra [q. 1 18 a 7; q. 148 a. 5; q. 153 a. 4; 1-11 q. 84 a 4] dictis patet, ad rationem vitii capitalis pertinet quod habeat finem multum appetibilem, ut sic propter appetitum eius multa peccata commit­ tantur. Ira autem, quae appetit malum sub ratione boni, habet finem magis appetibilem quam odium, quod appetit malum sub ratione mali. Et ideo magis est vitium capitale ira quam odium. Ad tertium dicendum quod ira dicitur esse ianua vitionun per accidens, scilicet removen­ do prohibens, idest impediendo iudicium ratio­ nis, per quod homo retrahitur a malis. Directe autem et per se est causa aliquorum specialium peccatorum, quae dicuntur filiae eius.

dell'accidia, ma è la passione della tristezza che deriva da un'ingiuria subita. 2. Come si è già notato sopra, perché un vizio possa dirsi capitale si richiede che abbia un fine molto appetibile, cosicché per la brama di esso si commettano molti altri peccati. Ora la collera, che desidera un male sotto l'aspetto di bene, ha un fine più appetibile dell' odio, che invece desidera i l male in quanto male. Così dunque l'ira è un vizio capitale più del­ l'odio. 3. L'ira «è la porta di tutti i vizi» solo indiret­ tamente, quale removens prohibens, in quanto cioè impedisce l'uso della ragione, che ritrae l'uomo dai peccati. Direttamente ed essen­ zialmente essa è invece la causa di alcuni pec­ cati specifici, che sono le sue figlie.

Articulus 7 Utrum convenienter assignentur sex filiae irae

Articolo 7 All'ira sono assegnate in modo conveniente sei figlie?

Ad septimum sic proceditur. Videtur quod in­ convenienter assignentur sex filiae irae, quae sunt rixa, tumor mentis, contumelia, e/amor,

Sembra che all'ira non siano assegnate in modo conveniente le sei figlie, e cioè la rissa, la tracotanza, l'insulto, il clamore, l'indigna­ zione, la bestemmia. Infatti: l . La bestemmia è posta da Isidoro tra le figlie della superbia. Perciò essa non è figlia dell'ira. 2. Come dice Agostino, dall'ira nasce l'odio. Quindi quest'ultimo andrebbe enumerato tra le figlie dell'ira. 3. La tracotanza sembra che si identifichi con la superbia. Ora, la superbia non è figlia di altri vizi, ma piuttosto è «la madre di tutti i vizi», come dice Gregorio. Quindi la tracotanza non va enumerata tra le figlie dell' ira. In contrario: Gregorio assegna all'ira queste figlie. Risposta: I'ira può essere considerata sotto tre aspetti. Primo, in quanto è nel cuore. E così nascono da essa due vizi. L'uno in rapporto alla persona contro la quale uno si adira, repu­ tandola indegna per avergli essa fatto tale cosa. E allora si ha l'indignazione. L'altro in rapporto a se stessi: in quanto cioè chi si adira pensa ai vari modi di vendicarsi, colmando di essi il proprio animo, secondo le parole di Gb 1 5 [2]:

indignatio, blasphemia. l . B lasphemia enim ponitur ab I s idoro [Quaest. in Vet. Test. In Deut. 1 6 super 7, l ] filia superbiae. Non ergo debet poni filia irae. 2. Praeterea, odium nascitur ex ira, ut Au­ gustinus dicit, in Regula [ep. 2 1 1]. Ergo debe­ ret numerari inter filias irae. 3 . Praeterea, tumor mentis videtur idem esse quod superbia. Superbia autem non est filia alicuius vitii, sed mater omnium vitiorum, ut Gregorius dicit, 3 1 Mor. [45]. Ergo tumor mentis non debet numerari inter filias irae. Sed contra est quod Gregorius, 3 1 Mor. [45], assignat has filias irae. Respondeo dicendum quod ira potest tripliciter consideraci. Uno modo, secundum quod est in corde. Et sic ex ira nascuntur duo vitia. Unum quidem ex parte eius contra quem homo irascitur, quem reputat indignum ut sibi tale quid fecerit. Et sic ponitur indignatio. Aliud autem vitium est ex parte sui ipsius, inquantum scilicet excogitat diversas vias vindictae, et talibus cogitationibus animum suum replet, secundum illud lob 1 5 [2], nunquid sapiens

Forse il sapiente riempirà il suo petto di vento

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L 'iracondia

implebit ardore stomachum suum. Et sic poni­ tur tumor mentis. - Alio modo consideratur ira secundum quod est in ore. Et sic ex ira duplex inordinatio procedit. Una quidem secundum hoc quod homo in modo loquendi iram suam demonstrat, sicut dictum est [a. 5 ad 3] de eo qui dicitfratri suo, raca. Et sic ponitur clamor, per quem intelligitur inordinata et confusa locutio. Alia autem est inordinatio secundum quod aliquis prorumpit in verba iniuriosa. Quae quidem si sint contra Deum, erit blasphe­ mia; si autem contra proximum, contumelia. Tertio modo consideratur ira secundum quod procedit usque ad factum. Et sic ex ira oriuntur rixae, per quas intelliguntur omnia nocumenta quae facto proximis inferuntur ex ira. Ad primum ergo dicendum quod blasphemia in quam aliquis prorumpit deliberata mente, procedit ex superbia hominis contra Deum se erigentis, quia, ut dicitur Eccli. l O [ 14 ], ini­

Q. 158, A. 7

infuocato.

idest, recedere a veneratione eius est prima superbiae pars, et ex hoc oritur blasphemia. Sed blasphemia in quam aliquis prorumpit ex commotione animi, procedit ex ira. Ad secundum dicendum quod odium, etsi ali­ quando nascatur ex ira, tamen habet aliquam priorem causam ex qua directius oritur, scilicet tristitiam, sicut e contrario amor nascitur ex de­ lectatione. Ex tristitia autem illata quandoque in iram, quandoque in odium aliquis movetur. Unde convenientius fuit quod odium poneretur oriri ex acedia quam ex ira. Ad tertium dicendum quod tumor mentis non accipitur hic pro superbia, sed pro quodam co­ natu sive audacia horninis intentantis vindictam. Audacia autem est vitium fortitudini oppositum.

E così abbiamo la tracotanza. - Se­ condo, l' ira può essere considerata in quanto è sulla bocca. E allora dall'ira nascono due disordini. Il primo per il fatto che uno mostra di essere adirato col modo di parlare: come si è detto a proposito di chi dice al suo fratello: Stupido. E così abbiamo il clamore: che è un parlare disordinato e confuso. Il secondo in­ vece sta nel fatto che uno esce in parole in­ giuriose. E se queste sono contro Dio si avrà la bestemmia; se invece sono contro il prossi­ mo si avrà l'insulto. - In terzo luogo l'ira può essere considerata negli atti esterni. E allora dall' ira na, che consiste nel non elargire bene­ fici. Però si può anche rispondere che la stessa sottrazione dei benefici è un certo castigo.

Articulus 2 Utrum crudelitas a saevitia sive feritate differat

Articolo 2 La crudeltà si identifica con la ferocia?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod crudelitas a saevitia sive feritate non differat. l . Uni enim virtuti, ex una parte, unum vitium videtur esse oppositum. Sed clementiae per superabundantiam opponitur et crudelitas et saevitia. Ergo videtur quod saevitia et crudeli­ tas sint idem. 2. Praeterea, Isidorus dicit, in libro Etymol. [ l O, ad litt. S], quod severus dicitur quasi sae­

Sembra di sì. Intàtti: l. A una virtù non si contrappone per eccesso che un solo vizio. Ora, alla clemenza si con­ trappongono per eccesso sia la crudeltà che la ferocia. Quindi sembra che la crudeltà e la ferocia si identifichino. 2. Nelle sue Etimologie Isidoro spiega che «severo deriva da saevus (feroce) e verus, poi­ ché custodisce la giustizia senza la pietà>>: perciò la saevitia, o ferocia, esclude la remis­ sione della pena, che è compito della pietà. Ma ciò è proprio della crudeltà, come si è visto sopra. Quindi la crudeltà si identifica con la ferocia. 3. Come alla virtù si contrappone un vizio per eccesso, così si contrappone anche un vizio per difetto, il quale contrasta sia con la virtù che è nel giusto mezzo, sia con il vizio per eccesso. Ora, alla crudeltà e alla ferocia non si contrappone che un identico vizio, che è la debolezza nel punire; così infatti scrive Gre-

vus et verus, quia sine pietate tener iustitiam, et sic saevitia videtur excludere remissionem poenarum in iudiciis, quod pertinet ad pieta­ tem. Hoc autem dictum est [a. l ad l ] ad cru­ delitatem pertinere. Ergo crudelitas est idem quod saevitia. 3 . Praeterea, sicut virtuti opponitur aliquod vi­ tium in excessu, ita etiam et in defectu, quod quidem contrariatur et virtuti, quae est in me­ dio, et vitio quod est in excessu. Sed idem vi­ tium ad defectum pertinens opponitur et cru­ delitati et saevitiae, videlicet remissio vel dis-

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La crudeltà

solutio, dicit enim Gregorius, 20 Mor. [5], sit amor, sed non emolliens, sit rigor, sed non exa­ sperans. Sit zelus, sed non immoderate sae­ viens, sit pietas, sed non plus quam expediat parcens. Ergo saevitia est idem crudelitati. Sed contra est quod Seneca dicit, in 2 De cle­ mentia [4], quod ille qui non laesus, nec peccatori irascitur, non dicitur crudelis, sed ferus sive saevus. Respondeo dicendum quod nomen saevitiae et feritatis a similitudine ferarum accipitur, quae etiam saevae dicuntur. Huiusmodi enim animalia nocent hominibus ut ex eorum cor­ poribus pascantur, non ex aliqua i ustitiae causa, cuius consideratio pertinet ad solam ra­ tionem. Et ideo, proprie loquendo, feritas vel saevitia dicitur secundum quam aliquis i n poenis inferendis non considerat aliquam cul­ pam eius qui punitur, sed solum hoc quod de­ lectatur in hominum cruciatu. Et sic patet quod continetur sub bestialitate, nam talis de­ lectatio non est humana, sed bestialis, prove­ niens vel ex mala consuetudine vel ex cor­ ruptione naturae, sicut et aliae huiusmodi be­ stiales affectiones. Sed crudelitas attendit cul­ pam in eo qui punitur, sed excedit modum in puniendo. Et ideo crudelitas differt a saevitia sive feritate sicut malitia humana a bestia­ litate, ut dicitur in 7 Ethic [5,8]. Ad primum ergo dicendum quod clementia est virtus humana, unde directe sibi opponitur crudelitas, quae est malitia humana. Sed sae­ vitia vel feritas continetur sub bestialitate. Un­ de non directe opponitur clementiae, sed superexcellentiori virtuti, quam philosophus [Ethic. 7, l , l ] vocat heroicam vel divinam, quae secundum nos videtur pertinere ad dona Spiritus Sancti. Unde potest dici quod saevitia directe opponitur dono pietatis. Ad secundum dicendum quod severus non dicitur simpliciter saevus, quia hoc sonat in vitium, sed dicitur saevus circa veritatem, propter aliquam similitudinem saevitiae, quae non est diminutiva poenarum. Ad tertium dicendum quod remissio in pu­ niendo non est vitium nisi inquantum praeter­ mittitur ordo iustitiae, quo aliquis debet puniri propter culpam, quam excedit crudelitas. Sae­ vitia autem penitus hunc ordinem non atten­ dit. Unde remissio punitionis directe oppo­ nitur crudelitati, non autem saevitiae.

Q. 159, A. 2

gorio: «Ci sia l'amore, ma senza debolezza; ci sia il rigore, ma senza asprezza. Ci sia lo zelo, ma senza gli eccessi della ferocia; ci sia la pietà, ma che non perdoni più del dovere». Quindi la ferocia si identifica con la crudeltà. In contrario: Seneca afferma che «Chi si adira senza essere provocato, o contro chi non ha sbagliato, non è detto crudele, ma feroce». Risposta: il termine ferocia deriva dalle fiere. Infatti questi animali assaltano gli uomini per divorarli: e non per motivi di giustizia, com­ prensibili solo alla ragione. Così dunque, a tutto rigore, la ferocia è propria di chi nel punire non bada alla colpa di q_hi è punito, ma solo gode del dolore umano. E chiaro quindi che ciò rientra nella bestialità: infatti tale piacere non è umano, ma belluino, derivante da cattive abitudini o da un pervertimento della natura, come accade anche per gli altri sentimenti bestiali dello stesso tipo. Invece la crudeltà ha di mira la colpa di chi è punito, ma eccede nel punire. Perciò la crudeltà dif­ ferisce dalla terocia come la cattiveria umana differisce dalla bestialità, secondo Aristotele. Soluzione delle difficoltà: l . La clemenza è una virtù umana: ad essa perciò si contrap­ pone la crudeltà, che è un vizio umano. Invece la ferocia rientra nella bestialità. Perciò essa non si contrappone direttamente alla clemenza, bensì a una virtù più sublime, che il Filosofo chiama «eroica, o divina», e che secondo noi rientra nei doni dello Spirito Santo. Si può quindi dire che la ferocia si contrappone direttamente al dono della pietà. 2. Severo non dice semplicemente saevus, cioè feroce, poiché ciò indica un vizio, ma saevus rispetto alla verità, per una certa somi­ glianza con la ferocia, che non diminuisce i castighi. 3. La rilassatezza nel punire non è un vizio se non in quanto è trascurato l'ordine della giu­ stizia, secondo il quale il colpevole merita un castigo, che però la crudeltà esagera. La fero­ cia invece non bada per nulla a questo ordine. Per cui la debolezza nel punire si contrappone direttamente alla crudeltà, non alla ferocia.

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La modestia

Q. 160, A. l

QUAESTIO 1 60 DE MODESTIA

QUESTIONE 1 60 LA MODESTIA

Deinde considerandum est de modestia. Et primo, de ipsa in communi; secundo, de sin­ gulis quae sub ea continentur [q. 1 61 ] . Circa primum quaeruntur duo. Primo, utrum mode­ stia sit pars temperantiae. Secundo, quae sit materia modestiae.

Veniamo ora a parlare della modestia. Primo, in generale; secondo, delle sue specie. Sul pri­ mo argomento si pongono due quesiti: l . La modestia è una parte potenziale della tempe­ ranza? 2. Qual è la materia della modestia?

Articulus l Utrum modestia sit pars temperantiae

Articolo l La modestia è una parte della temperanza?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod mo­ destia non sit pars temperantiae. l . Modestia enim a modo dicitur. Sed in omnibus virtutibus requiritur modus, nam vir­ tus ordinatur ad bonum; bonum autem, ut Au­ gusti nus dicit, in libro De natura boni [3], consistit in modo, specie et ordine. Ergo mo­ destia est generalis virtus. Non ergo debet poni pars temperantiae. 2. Praeterea, laus temperantiae praecipue vide­ tur consistere ex quadam moderatione. Ab hac autem sumitur nomen modestiae. Ergo mode­ stia est idem quod temperantia, et non pars eius. 3. Praeterea, modestia videtur consistere circa proximorum correctionem, secundum illud 2 ad Tim. 2 [24-25] , servum Dei non oportet litigare, sed mansuetum esse ad omnes, cum modestia corripientem eos qui resistunt ve­ ritati. Sed correctio delinquentium est actus iustitiae vel caritatis, ut supra [q. 33 a. l] ha­ bitum est. Ergo videtur quod modestia magis sit pars iustitiae quam temperantiae. Sed contra est quod Tullius [Rhet. 2,54] ponit modestiam partem temperantiae. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 141 a 4; q. 1 57 a 3] dictum est, temperantia mode­ rati o ne m adhibet circa ea in quibus dif­ ficillimum est moderari, scilicet circa concupi­ scentias delectationum tactus. Ubicumque autem est aliqua virtus specialiter circa aliquod maxirnum, oportet esse aliam virtutem circa ea quae mediocriter se habent, eo quod oportet quantum ad omnia vitam hominis secundum virtutes regulatam esse, sicut supra [q. 129 a. 2; q. 134 a. 3 ad l ] dictum est quod magnificentia est circa magnos sumptus pecuniarum, praeter quam est necessaria liberalitas, quae fit circa mediocres sumptus. Unde necessarium est quod sit quaedam virtus moderativa in aliis

Sembra di no. Infatti: l . Modestia deriva da modus, cioè misura. Ma la misura è richiesta in tutte le virtù: poi­ ché la virtù è ordinata al bene, e questo, come dice Agostino, consiste «nella misura, nella specie e nell'ordine». Perciò la modestia è la virtù in genere. Quindi non va posta tra le parti della temperanza. 2. n valore della temperanza sta nella mode­ razione. Ma da questa la modestia deriva il proprio nome. Quindi la modestia si identifica con la temperanza, e non è una sua parte. 3. La modestia pare che riguardi la correzione del prossimo, secondo le parole di 2 Tm 2 [24]: Un servo del Signore non deve essere litigio­ so, ma mite con tutti, correggendo con mode­ stia quelli che resistono alla verità. Ora, la correzione di chi sbaglia è un atto di giustizia o di carità, come sopra si è visto. Perciò sem­ bra che la modestia appartenga più alla giusti­ zia che alla temperanza. In contrario: Cicerone mette la modestia fra le parti della temperanza. Risposta: come si è già visto, la temperanza impone la moderazione nelle cose in cui è particolarmente difficile moderarsi, ossia nel­ le concupiscenze relative ai piaceri del tatto. Ora, come c'è una virtù speciale relativa alle cose più difficili, così ci deve essere nello stesso campo una virtù relativa alle cose me­ no difficili, poiché la vita umana deve essere regolata in tutto secondo la virtù: come si è già visto sopra a proposito della magnificen­ za, che ha per oggetto le grandi spese, e della liberalità, che invece riguarda le spese ordina­ rie. Quindi è necessario che ci sia una qualche virtù che imponga la moderazione nelle altre cose meno appetibili, in cui non è così diffici­ le moderarsi. E questa virtù è la modestia, che

La modestia

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mediocribus, in quibus non est ita difficile moderari. Et haec virtus vocatur modestia, et adiungitur temperantiae sicut principali. Ad primum ergo dicendum quod nomen com­ mune quandoque appropriatur his quae sunt in­ fima, sicut nomen commune angelorum ap­ propriatur infimo ordini angelorum. Ita etiam et modus, qui communiter observatur in quali­ bet virtute, appropriatur specialiter virtuti quae in minimis modum ponit. Ad secundum dicendum quod aliqua tempera­ tione indigent propter suam vehementiam, sicut vinum forte temperatur, sed moderatio re­ quiritur in omnibus. Et ideo temperantia magis se habet ad passiones vehementes, modestia vero ad mediocres. Ad tertium dicendum quod modestia ibi acci­ pitur a modo communiter sumpto, prout requi­ ritur in omnibus virtutibus.

Q. 160, A. l

è annessa alla temperanza come alla virtù principale. Soluzione delle difficoltà: l . Talora il nome generico è appropriato ai soggetti meno nobili che ne partecipano: come il termine angeli è appropriato ali' infimo ordine degli angeli. E così anche il modo, o misura, che si riscontra in qualsiasi viltù, è appropriato alla virtù che impone la misura nelle cose minime. 2. Certe cose richiedono di essere temperate per la loro violenza, come il vino troppo torte; inve­ ce la moderazione è richiesta per tutte. E così la temperanza ha per oggetto le passioni più vio­ lente; la modestia invece quelle meno forti. 3. La modestia in quel testo indica la modera­ zione in senso generale, che è richiesta i n tutte le virtù.

Articulus 2

Articolo 2

Utrum modestia sit solum circa exteriores actiones

La modestia riguarda soltanto gli atti esterni?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod modestia sit solum circa exteriores actiones. l . Interiores enim motus passionum aliis noti esse non possunt. Sed apostolus, Phil. 4 [5], mandat ut modestia nostra nota sit omnibus hominibus. Ergo modestia est solum circa exteriores actiones. 2. Praeterea, virtutes quae sunt circa passiones, distinguuntur a virtute iustitiae, quae est circa operationes. Sed modestia videtur esse una virtus. Si ergo est circa operationes exteriores, non erit circa aliquas interiores passiones. 3. Praeterea, nulla virtus una et eadem est circa ea quae pertinent ad appetitum, quod est proprium virtutum moralium; et circa ea quae pertinent ad cognitionem, quae est proprie virtutum intellectualium; neque etiam circa ea quae pertinent ad irascibilem, et concupiscibi­ lem. Si ergo modestia est una virtus, non po­ test esse circa omnia praedicta. Sed contra, in omnibus praedictis oportet ob­ servari modum, a quo modestia dicinrr. Ergo circa ornni a praedicta est modestia. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1 ], modestia differt a temperantia in hoc quod temperantia est moderativa eorum quae difficillimum est refrenare, modestia autem est moderativa eorum quae in hoc mediocriter se

Sembra di sì. Infatti: l . I moti interiori delle passioni non possono essere conosciuti dagli altri. Ora, Paolo co­ manda che la nostra modestia sia nota a tutti gli uomini (Fil 4,5). Perciò la modestia riguar­ da solo gli atti esterni. 2. Le virtù che hanno per oggetto le passioni sono distinte dalla giustizia, che ha per ogget­ to gli atti esterni. Ma la modestia è una virtù unica. Se quindi essa riguarda gli atti esterni, non può riguardare le passioni interiori . 3. Un'unica e identica virtù non può riguardare insieme ciò che appartiene ali' ordine appetitivo, proprio delle virtù morali, e ciò che appartiene all'ordine conoscitivo, proprio delle virtù intel­ lettuali; e neppure può avere insieme per ogget­ to le passioni dell'irascibile e quelle del concu­ piscibile. Se dunque la modestia è un' unica virtù, non può riguardare tutte queste cose. In contrario: in tutte le cose suddette va osser­ vata la misura, o modo, dal quale prende il nome la modestia. Perciò la modestia riguar­ da tutte queste cose. Risposta: come si è detto, la modestia differi­ sce dalla temperanza per il fatto che quest'ulti­ ma modera quelle cose che è difficilissimo te­ nere a freno, mentre la modestia modera quel­ le non troppo difficili. Però non tutti gli autori

Q. 160, A. 2

La modestia

habent. Diversimode autem aliqui de modestia videntur esse locuti. Ubicumque enim conside­ raverunt aliquam specialem rationem boni vel difficultatis in moderando, illud subtraxerunt modestiae, relinquentes modestiam circa mi­ nora Manifestum est autem omnibus quod re­ frenatio delectationum tactus specialem quan­ dam difficultatem habet. Unde omnes tempe­ rantiam a modestia distinxerunt. Sed praeter hoc, Tullius [Rhet. 2,54] consideravit quoddam speciale bonum esse in moderatione poena­ rum. Et ideo etiam clementiam subtraxit mo­ destiae, ponens modestiam circa omnia quae relinquuntur moderanda. - Quae quidem vi­ dentur esse quatuor. Quorum unum est motus animi ad aliquam excellentiam, quem modera­ tur humilitas. Secundum autem est desiderium eorum quae pertinent ad cognitionem, et in hoc moderatur studiositas, quae opponitur curiosi­ lati. Tertium autem, quod pertinet ad corporales motus et actiones, ut scilicet decenter et honeste fiant, tam in his quae serio, quam in his quae ludo aguntur. Quartum autem est quod pertinet ad exteriorem apparatum, puta in vestibus et aliis huiusmodi. Sed circa quaedam eorum alii posuerunt quasdam speciales virtutes sicut An­ dronicus [De affect., De temperantia] mansue­ tudinem, simplicitatem et humilitatem, et alia huiusmodi, de quibus supra [q. 143] dictum est. Aristoteles etiam circa delectationes ludo­ rum posuit eutrapeliam [Ethic. 2,7,1 3] . Quae omnia continentur sub modestia, secundum quod a Tullio accipitur. Et hoc modo modestia se habet non solum circa exteriores actiones, sed etiam circa interiores. Ad primum ergo dicendum quod apostolus loquitur de modestia prout est circa exteriora. Et tamen etiam interiorum moderatio mani­ festati potest per quaedam exteriora signa. Ad secundum dicendum quod sub modestia continentur diversae virtutes, quae a diversis assignantur. Unde nihil prohibet modestiam esse circa ea quae requirunt diversas virtutes. Et tamen non est tanta diversitas inter partes modestiae ad invicem, quanta est iustitiae, quae est circa operationes, ad temperantiam, quae est circa passiones, quia in actionibus et passionibus in quibus non est aliqua excellens difficultas ex parte materiae, sed solum ex parte moderationis, non attenditur virtus nisi una, scilicet secundum rationem moderationis. Et per hoc etiam patet responsio ad tertium.

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hanno parlato della modestia nello stesso senso. Dovunque infatti essi notarono un a­ spetto particolare di bontà o di difficoltà quan­ to alla moderazione, lo sottrassero alla mo­ destia, lasciando a quest'ultima le cose meno importanti. Ora, è evidente per tutti che tenere a freno i piaceri del tatto ha una particolare difficoltà. Quindi tutti distinguono la tempe­ ranza dalla modestia. Cicerone fece notare pe­ rò che c'è una bontà particolare nel moderare le punizioni. Perciò egli sottrasse alla modestia anche la clemenza, riservando alla prima tutte le altre cose bisognose di moderazione. - Que­ ste ultime poi si riducono alle quattro seguenti. Innanzitutto c'è l'aspirazione a una qualche eccellenza: che è moderata dall'umiltà. Poi c'è il desiderio di conoscere: che è moderato dalla studiosità, virtù contraria alla curiosità. C'è poi ancora quanto si riferisce ai moti e agli atteggiamenti del corpo: in modo cioè che siano compiuti decorosamente, sia nella vita ordinaria che nel gioco. C'è infine tutto quanto riguarda l'apparato esterno, come le vesti e le altre cose del genere. Ma anche a proposito di alcune di queste quattro categorie di cose certi autori stabilirono delle virtù speciali: Androni­ co, p. es., parla della «mansuetudine», della «semplicità>>, dell' «umiltà», e di altre virtù a cui abbiamo già accennato. Aristotele poi af­ fida i piaceri del gioco all' eutrapelia. Tutte co­ se che per Cicerone rientrano invece nella mo­ destia. Per cui dal suo punto di vista la mode­ stia riguarda non solo gli atti esterni, ma anche quelli interni. Soluzione delle difficoltà: l . Paolo parla della modestia relativa agli atti esterni. Tuttavi a anche l a moderazione degli atti interni è in grado di manifestarsi con segni esterni. 2. La modestia abbraccia virtù diverse, di cui parlano i diversi autori. Perciò nulla impedi­ sce che la modestia abbia per oggetto cose che richiedono virtù diverse. Tuttavia la diver­ sità tra le varie specie della modestia non è così grande come quella esistente tra la giusti­ zia, che ha per oggetto gli atti esterni, e la temperanza, che ha per oggetto le passioni: poiché negli atti esterni e nelle passioni che non offrono particolari difficoltà per la loro materia, ma solo per la funzione del modera­ re, non si riscontra che una sola virtù, quella ci� che riguarda la moderazione. 3. E così risolta anche la terza difficoltà.

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QUAESTIO 1 6 1 DE HUMILITATE

QUESTIONE) 6 1 VUMILTA

Deinde considerandum est de speciebus mode­ stiae. Et primo, de humilitate, et superbia [q. 162], quae ei opponitur; secundo, de studio­ sitate [q. 1 66], et curiositate sibi opposita [q. 167] ; tertio, de modestia secundum quod est i n verbis vel factis [q. 1 68] ; quarto, de modestia secundum quod est circa exteriorem cultum [q. 1 69]. Circa humilitatem quaeruntur sex. Primo, utrum humilitas sit virtus. Secun­ do, utrum consistat in appetitu, vel in iudicio rationis. Tertio, utrum aliquis per humilitatem se debeat omnibus subiicere. Quarto, utrum sit pars modestiae vel temperantiae. Quinto, de comparatione eius ad alias virtutes. Sexto, de gradibus humilitatis.

Esaminiamo ora le specie della modestia Pri­ mo, l'umiltà, e il suo contrario che è la su­ peroia; secondo, la studiosità e la curiosità che gli si oppone; teao, la modestia nelle parole e negli atti; quarto, la modestia n eli' abbiglia­ mento esterno. Sul primo tema tratteremo sei argomenti: l . L'umiltà è una virtù? 2. Consiste nell'appetito o nel giudizio della ragione? 3. Per umiltà ci si deve mettere al disotto di tutti? 4. L'umiltà è tra le parti della modestia, e quindi della temperanza? 5. Suo confronto con le altre virtù; 6. I gradi dell'umiltà.

Articulus l Utrum humilitas sit virtus

Articolo l Vumiltà è una virtù?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod hu­ militas non sit virtus. l . Vntus enim importat rationem boni. Sed hu­ militas videtur importare rationem mali poena­ lis, secundum illud Psalmi [ l 04, 18], Humilia­ verunt in compedibus pedes eius. Ergo humi­ litas non est virtus. 2. Praeterea, virtus et vitium opponuntur. Sed humilitas quandoque sonat in vitium, dicitur enim Eccli. 19 [23], est qui nequiter se humiliat. Ergo humilitas non est virtus. 3. Praeterea, nulla virtus opponitur alii virtuti. Sed humilitas videtur opponi virtuti magna­ nimitatis, quae tendit in magna, humilitas autem ipsa refugit. Ergo videtur quod humili­ tas non sit virtus. 4. Praeterea, virtus est dispositio peifecti, ut dicitur in 7 Phys. Sed humilitas videtur esse imperfectorum, unde et Deo non convenit hu­ miliari, qui nulli subiici potest. Ergo videtur quod humilitas non sit virtus. 5. Praeterea, omnis virtus moralis est circa actiones vel passiones, ut dicitur in 2 Ethic. [3,3] . Sed humilitas non connumeratur a philosopho [Ethic. 2,7] inter virtutes quae sunt circa passiones, nec etiam continetur sub iustitia, quae est circa actiones. Ergo videtur quod non sit virtus. Sed contra est quod Origenes dicit [In Luc., interprete Hieronymo, h. 8], exponens illud

Sembra di no. Infatti: l . La virtù ha natura di bene. L' umiltà invece sembra avere natura di male, secondo le paro­ le del Sal 1 04 [ 1 8]: Umiliarono nei ceppi i suoi piedi. Quindi l'umiltà non è una virtù. 2. La virtù e il vizio sono tra loro incompati­ bili. Ma talora l'umiltà è un vizio; infatti è detto in Sir 19 [23]: C'è chi ingiustamente si umilia. Perciò l'umiltà non è una virtù. 3. Una virtù non è mai incompatibile con altre virtù. Invece l'umiltà si contrappone alla virtù della magnanimità, che tende alle cose gran­ di, dalle quali l 'umiltà rifugge. Quindi sembra che l'umiltà non sia una virtù. 4. Secondo Aristotele la virtù è «la disposi­ zione di un essere perfetto». L'umiltà invece è propria di chi è imperfetto: a Dio infatti non si addice né l'umiliazione, né la sottomissione ad altri. Perciò sembra che l'umiltà non sia una virtù. 5. Aristotele insegna che «tutte le virtù morali riguardano o gli atti esterni o le passioni». Ora, l'umiltà non è da lui enumerata tra le virtù relative alle passioni; e d'altra parte non rientra nella giustizia, che riguarda gli atti esterni. Quindi sembra che non sia una virtù. In contrario: Otigene, nel commentare Le l [48]: Ha guardato l 'umiltà della sua serva, afferma: «Nella Scrittura l'umiltà è espressa­ mente inserita tra le virtù, poiché il Salvatore

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L 'umiltà

Luc. l [48], respexit humilitatem ancillae suae, proprie in Scripturis una de virtutibus hwnilitas praedicatur, ait quippe Salvator [Matth. 1 1 ,291 discite a me, quia mitis sum et humilis corde. Respondeo dicendum quod, sicut supra [l-II q. 23 a. 2] dictum est, cum de passionibus ageretur, bonum arduum habet aliquid unde at­ trahit appetitum, scilicet ipsam rationem boni, et habet aliquid retrahens, scilicet ipsam dif­ ticultatem adipiscendi, secundum quorum primum insurgit motus spei, et secundum aliud motus desperationis. Dictum est autem supra [1-11 q. 61 a. 2] quod circa motus appetitivos qui se habent per modum impulsionis, oportet esse virtutem moralem moderantem et refrenantem, circa illos autem qui se habent per modum retractionis, oportet esse virtutem moralem fir­ mantem et impellentem. Et ideo circa appeti­ tum boni ardui necessaria est duplex virtus. Una quidem quae temperet et refrenet anirnum, ne immoderate tendat in excelsa, et hoc pertinet ad virtutem humilitatis. Alia vero quae firmat animum contra desperationem, et impellit ipsum ad prosecutionem magnonun secundum rationem rectam, et haec est magnanimitas. Et sic patet quod humilitas est quaedam virtus. Ad primum ergo dicendum quod, sicut Isido­ rus dicit, in libro Etymol. [ I O, ad litt. H] , hwnilis dicitur quasi humi acclinis, idest, imis inhaerens. Quod quidem contingit dupliciter. Uno modo, ex principio extrinseco, puta cum aliquis ab alio deiicitur. Et sic humilitas est poena. Alio modo, a principio intrinseco. Et hoc potest fieri quandoque quidem bene, puta cum aliquis, considerans suum defectum, tenet se in infimis secundum suum modum; sicut Abraham dixit ad Dominum, Gen. 1 8 [27],

loquar ad Dominwn mewn, cum sim pulvis et cinis. Et hoc modo humilitas ponitur virtus. Quandoque autem potest fieri male, puta cum

homo, honorem suum non intelligens, compa­ rar se iumentis insipientibus, etfit similis illis. Ad secundum dicendum quod, sicut dictum est [ad 1], humilitas, secundum quod est vir­ tus, in sui ratione importat quandam laudabi­ lem deiectionem ad ima. Hoc autem quando­ que fit solum secundum signa exteriora, se­ cundum fictionem. Unde haec est falsa humi­ litas, de qua Augustinus dicit, in quadam epi­ stola [ep. 149,2] , quod est magna superbia, quia scilicet videtur tendere ad excellentiam gloriae. Quandoque autem fit secundum

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ha detto:

Imparate da me, che sono mite e umile di cuore». Risposta: come si è detto nel trattato sulle passioni, il bene arduo ha un aspetto che attira l'appetito, ed è appunto la sua bontà, e ha un aspetto repellente, che è la difficoltà di rag­ giungerlo: dal primo nasce il moto della spe­ ranza, dal secondo quello della disperazione. Ora, sopra abbiamo già notato che per i moti aft'ettivi di attrazione si tichiede una virtù mo­ rale per moderarli e frenarli, mentre per quelli di ripulsa si richiede una virtù morale che li fortifichi e li stimoli. Quindi per il bene arduo si richiedono due virtù. Una per moderare e frenare l'animo perché non esageri nel tende­ re verso le cose alte, e ciò appartiene alla virtù dell'umiltà, l'altra per fottificare l'animo con­ tro la disperazione e spingerlo, seguendo la retta ragione, alla conquista di cose grandi: e ciò è proptio della magnanimità. E così risulta evidente che l'umiltà è una virtù. Soluzione delle difficoltà: l . Come dice lsidoro, «umile suona humi acclinis [giacente per ter­ ra]», ossia aderente alle cose basse. Ma ciò può avvenire in due modi. Primo, per una causa estrinseca: come quando uno è gettato a terra da un altro. E allora l'umiltà è una sofferenza. Secondo, da un principio intrinseco. E ciò può essere un bene, se uno nel considerare la pro­ pria miseria si abbassa nei limiti del suo grado; come fece Abramo il quale disse al Signore:

Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere (Gen 1 8,27). E in questo caso l'umiltà è una virtù. Talvolta però ciò può essere un male: come quando l 'uomo,

misconoscendo il prop1io onore, si mette alla pari degli animali irragionevoli e diviene simile ad essi [Sal 48, 1 3]. 2. L'umiltà in quanto virtù implica un abbassa­ mento lodevole di se stessi, come si è detto. Ma talvolta ciò avviene solo con i segni ester­ ni, per finzione. E questa è una «falsa umiltà», che secondo Agostino «è una grande su­ perbia», poiché aspira alla glotia. Talora inve­ ce ciò avviene per convinzione profonda del­ l' anima. Ed è in questo senso che l'umiltà è posta fra le virtù: poiché la virtù non consiste negli atti esterni, ma principalmente nelle de­ liberazioni dell 'anima, come dice Atistotele. 3. L' umiltà impedisce alla volontà di tendere a cose grandi contro l ' ordine della ragione. Invece la magnanimità spinge a cose grandi

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Q. 161, A. l

interiorem motum animae. Et secundum hoc humilitas proprie ponitur virtus, quia virtus non consistit in exterioribus, sed principaliter in interiori electione mentis, ut patet per phi­ losophum, in libro Ethicorum [2,5,4]. Ad tertium dicendum quod humilitas reprimit appetitum, ne tendat in magna praeter ratio­ nem rectam. Magnanimitas autem animum ad magna impellit secundum rationem rectam. Unde patet quod magnanimitas non opponitur humilitati, sed conveniunt in hoc quod utra­ que est secundum rationem rectam. Ad quartum dicendum quod perfectum di­ citur aliquid dupliciter. Uno modo, simpli­ citer, in quo scilicet nullus defectus invenitur, nec secundum suam naturam, nec per respec­ tum ad aliquid aliud. Et sic solus Deus est perfectus, cui secundum naturam divinam non competit humilitas, sed solum secundum naturam assumptam. Alio modo potest dici aliquid perfectum secundum quid, puta se­ cundum suam naturam, vel secundum statum aut tempus. Et hoc modo homo virtuosus est perfectus. Cuius tamen perfectio in compara­ tione ad Deum deficiens invenitur, secundum illud Isaiae 40 [17] , omnes gentes, quasi non sint, sic sunt coram eo. Et sic cuilibet homini potest convenire humilitas. Ad quintum dicendum quod philosophus in­ tendebat [Ethic. 2,7] agere de virtutibus secun­ dum quod ordinantur ad vitam civilem, in qua subiectio unius hominis ad alterum secundum legis ordinem determinatur, et ideo continetur sub iustitia legali. Humilitas autem, secundum quod est specialis virtus, praecipue respicit subiectionem hominis ad Deum, propter quem etiam aliis humiliando se subiicit.

secondo l'ordine della ragione. Perciò è evi­ dente che la magnanimità non è contraria all'umiltà, poiché l'una e l' altra si accordano nel seguire la retta ragione. 4. Una cosa può essere perfetta in due modi. Primo, in senso assoluto: così da non ammet­ tere alcun difetto, sia nella propria natura che nei rapporti con gli altri esseri. E in questo modo è perfetto soltanto Dio: al quale non si può attribuire l'umiltà secondo la sua natura, ma solo in rapporto alla natura assunta. Se­ condo, una cosa può essere perfetta in senso relativo: cioè in rapporto alla propria natura, al proprio stato o al proprio tempo. Ed è così che è perfetto l' uomo virtuoso. Ma questa perfezione è una piccola cosa rispetto a Dio, come è detto in fs 40 [ 17]: Tutte le nazioni so­ no come un nulla davanti a lui. Ed è così che tutti gli uomini possono essere umili. 5. n Filosofo intendeva considerare le virtù in quanto sono ordinate alla vita civile, nella quale la sottomissione di un uomo a11 ' altro è determinata secondo la legge, e quindi rientra nella giustizia legale. L'umiltà invece, i n quanto virtù specificamente distinta, riguarda la sottomissione dell' uomo a Dio, per cui uno si sottomette anche agli altri umiliandosi.

Articulus 2 Utrum humilitas consistat circa appetitum

Articolo 2 L'umiltà riguarda la sfera degli appetiti?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod humilitas non consistat circa appetitum, sed magis circa iudicium rationis. l . Humilitas enim superbiae opponitur. Sed superbia maxime consistit in his quae pertinent ad cognitionem. Dici t enim Gregorius, 34 Mor. [22], quod superbia, cum exterius usque ad

Sembra di no. Infatti: l . L'umiltà è il contrario della superbia. Ma la superbia riguarda soprattutto le realtà di ordi­ ne conoscitivo. Poiché Gregorio afferma che «Sebbene la superbia trasparisca da tutto il corpo, tuttavia è prima indicata dagli occhi»; per cui anche nel Sal 130 [ l ] è detto: Signore,

corpus extenditur, prius per oculos indicatur, [130, 1 ] dicitur, Domi­ ne, non est exaltatum cor meum, neque elati

non si inorgoglisce il mio cuore, e non si leva­ no con superbia i miei occhi. Ora, gli occhi

unde etiam in Psalmo

servono soprattutto alla conoscenza. Quindi

Q. 1 6 1 , A. 2

L 'umiltà

sunt oculi mei, oculi autem maxime deser­ viunt cognitioni. Ergo videtur quod humilitas maxime sit circa cognitionem, quam de se aliquis aestimat parvam. 2. Praeterea, Augustinus dicit, in libro De virg. [3 1], quod humilitas pene tota disciplina Christiana est. Nihil ergo quod in disciplina christiana continetur, repugnat humilitati. Sed in disciplina Christiana admonemur ad appe­ tendum meliora, secundum illud l ad Cor. 1 2 [3 1 ] , aemulamini charismata meliora. Ergo ad humilitatem non pertinet reprimere appeti­ tum arduorum, sed magis aestimationem. 3. Praeterea, ad eandem virtutem pertinet re­ frenare superfluum motum, et finnare ani­ mum contra superfluam retractionem, sicut eadem f01titudo est quae refrenat audaciam, et quae firmat animum contra timorem. Sed magnanimitas firmat animum contra difficul­ tates quae accidunt in prosecutione magno­ rum. Si ergo humilitas refrenaret appetitum magnorum, sequeretur quod humilitas non esset virtus distincta a magnanimitate. Quod patet esse falsum. Non ergo humilitas consistit circa appetitum magnorum, sed magis circa aestimationem. 4. Praeterea, Andronicus ponit humilitatem cir­ ca exteriorem cultum, dicit enim [De affect., De temperantia] quod humilitas est habitus

non superabundans sumptibus et praeparatio­ nibus. Ergo non est circa motum appetitus. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De poenit. [Serm. ad pop. 35 1 ,1], quod humi­ lis est qui eligit abiici in domo Domini, magis

quam habitare in tabemaculis peccatorum. Sed electio pertinet ad appetitum. Ergo humi­ litas consistit circa appetitum, magis quam circa aestimationem. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. l ] , ad humilitatem proprie pertinet ut aliquis reprimat seipsum, ne feratur in ea quae sunt supra se. Ad hoc autem necessarium est ut aliquis cognoscat id in quo deficit a propor­ tione eius quod suam virtutem excedit. Et ideo cognitio proprii defectus pertinet ad humi­ litatem sicut regula quaedam directiva ap­ petitus. Sed in ipso appetitu consistit humilitas essentialiter. Et ideo dicendum est quod hu­ militas proprie est moderativa motus appetitus. Ad primum ergo dicendum quod extollentia oculorum est quoddam signum superbiae, in­ quantum excludit reverentiam et timorem.

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sembra che l'umiltà riguardi soprattutto la conoscenza, con la quale uno si stima di poco valore. 2. Agostino afferma che «l'umiltà costituisce quasi tutto l'insegnamento di Cristo». Perciò nulla di ciò che è incluso nell'insegnamento cristiano è incompatibile con l'umiltà. Ma da questo insegnamento siamo esortati ad aspira­ re alle cose più grandi, secondo le parole di l Cor 12 [3 1 ] : Aspirate ai carismi più grandi. Perciò l'umiltà non ha il compito di reprimere le aspirazioni alle cose ardue, ma piuttosto la stima di se stessi. 3. Spetta a un'identica virtù frenare lo slancio eccessivo e fortificare l'animo contro l' esage­ rata ripulsa: come la medesima fortezza tiene a freno l'audacia e rafforza l'animo contro il timore. Ora, la magnanimità fortifica l'animo contro le difficoltà che capitano nel persegui­ re le grandi cose. Se quindi l'umiltà consistes­ se nel frenare l'aspirazione della volontà alle cose grandi, non sarebbe più da distinguersi dalla magnanimità. ll che è falso. Perciò l'u­ miltà non riguarda il desiderio delle cose grandi, ma piuttosto la stima di se stessi. 4. Per Andronico l'umiltà ha il compito di moderare l'abbigliamento esterno, essendo «1' abito di non eccedere nelle spese e negli allestimenti» . Quindi non riguarda i moti della volontà. In contrario: Agostino scrive che è umile «CO­ lui che preferisce essere disprezzato nella ca­ sa del Signore piuttosto che dimorare nelle tende degli empi». Ma la scelta appartiene al­ la volontà. Quindi l'umiltà consiste più negli atti del volere che nel giudizio della ragione. Risposta: come sopra si è visto, il compito proprio dell'umiltà è quello di frenare noi stessi, per non innalzarci a cose che ci sono superiori. Ora, per questo è necessario che uno conosca i limiti delle proprie capacità. Quindi la conoscenza delle proprie deficienze appartiene all'umiltà come una certa quale regola direttiva della volontà, ma l'umiltà consiste essenzialmente nella volizione stessa. Perciò si deve concludere che l'umiltà pro­ priamente tende a moderare i moti della volontà. Soluzione delle difficoltà: l . L'alterigia dello sguardo è un certo segno di superbia in quan­ to esclude la riverenza e il timore. Infatti le persone timorate e rispettose hanno l'abitudi-

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L 'umiltà

Consueverunt enim timentes et verecundati maxime oculos deprimere, quasi non auden­ tes se aliis comparare. Non autem ex hoc sequitur quod humilitas essentialiter circa cognitionem consistat. Ad secundum dicendum quod tendere i n aliqua maiora ex propriarum virium confiden­ tia, humilitati contrariatur. Sed quod aliquis ex confidentia divini auxilii in maiora tendat, hoc non est contra humilitatem, praesettim cum ex hoc aliquis magis apud Deum exalte­ tur quod ei se magis per humilitatem subiicit. Unde Augustinus dicit, in libro De poenit. [Serm. ad pop. 35 1 , 1], aliud est levare se ad

Deum, aliud est levare se contra Dewn. Qui ante illum se proiicit, ab ilio erigitur, qui adversus illum se erigit, ab ilio proiicitur. Ad tertium dicendum quod in fortitudine in­ venitur eadem ratio refrenandi audaciam et fu­ mandi animum contra timorem, utriusque enim ratio est ex hoc quod homo debet bonum rationis periculis martis praestare. Sed in refrenando praesumptionem spei, quod pertinet ad hurnilitatem, et in firmando animum contra desperationem, quod pertinet ad magnanimi­ tatem, est alia et alia ratio. Nam ratio firmandi animum contra desperationem est adeptio proprii boni, ne scilicet, desperando, homo se indignum reddat bono quod sibi competebat. Sed in reprimendo praesumptionem spei, ratio praecipua sumitur ex reverentia divina, ex qua contingit ut homo non plus sibi attribuat quam sibi competat secundum gradum quem est a Deo sortitus. Unde hurnilitas praecipue videtur importare subiectionem hominis ad Deum. Et propter hoc Augustinus, in libro De serm. Dom. [ 1 ,4], humilitatem, quam intelligit per paupertatem spiritus, attribuit dono timoris, quo homo Deum reveretur. Et inde est quod fortitu­ do aliter se habet ad audaciam quam humilitas ad spem. Nam fortitudo plus utitur audaci a quam eam reprimat, unde superabundantia est ei similior quam defectus. Humilitas autem plus reprimit spem vel tiduciam de seipso quam ea utatur, unde magis opponitur sibi superabundantia quam defectus. Ad quartum dicendum quod superabundantia in exterioribus sumptibus et praeparationibus solet ad quandam iactantiam fieri , quae per humilitatem reprimitur. Et quantum ad hoc, secondario consistit in exterioribus, prout sunt signa interioris appetitivi motus.

Q. 161, A. 2

ne di tenere gli occhi bassi, come se non osas­ sero confrontarsi con gli altri. Ma da ciò non segue che l 'umiltà consista essenzialmente in un fatto conoscitivo. 2. Tendere a cose grandi confidando nelle proprie forze è contro l'umiltà, ma non è con­ tro l 'umiltà tendervi confidando nell' aiuto di Dio: specialmente se pensiamo che l' uomo tanto più si eleva presso Dio quanto più a lui si sottomette con l 'umiltà. Perciò Agostino ha scritto: «Altra cosa è elevarsi a Dio e altra cosa è elevarsi contro Dio. Chi si prostra di­ nanzi a lui, egli lo rialza; chi si erge contro di lui, egli lo atterra». 3. n motivo per il quale la fortezza frena l'au­ dacia e fortifica l'animo contro il timore è uni­ co perché l'uomo deve preferire il bene di or­ dine razionale ai pericoli di morte. Invece nel frenare la presunzione della speranza, i l che appartiene all'umiltà, e nel fortificare l'animo contro la disperazione, il che appartiene alla magnanimità, i motivi sono distinti. Infatti il motivo per fortificare l' animo contro la dispe­ razione è il conseguimento del proprio bene: ossia l'impedire che col disperare uno si renda indegno del bene che a lui si addice. Invece nel reprimere la presunzione della speranza il motivo principale deriva dal rispetto verso Dio, che impedisce all'uomo di attribuirsi più di quanto comporta il grado a lui assegnato da Dio. Perciò l'umiltà implica soprattutto la sot­ tomissione dell'uomo a Dio. Per questo Ago­ stino attribuisce l'umiltà, che secondo lui cor­ risponde alla povertà in ispirito, al dono del ti­ more, che ispira la riverenza verso Dio. E così la fortezza non ha verso l' audacia lo stesso rapporto che l ' umiltà ha verso la [passione della] speranza. Infatti la fortezza si serve del­ l'audacia più che reprimerla: per cui assomiglia più al suo eccesso che al suo difetto. L'umiltà invece consiste più nel reprimere la speranza o la fiducia in se stessi che nel servirsene: quindi è più incompatibile con i suoi eccessi che con la sua carenza. 4. Gli eccessi nelle spese e negli allestimenti esterni si fanno ordinariamente per una certa ostentazione, che è repressa dall'umiltà. E i n questo senso l' umiltà consiste secondaria­ mente in queste cose esterne, in quanto esse sono un segno dei moti interni della volontà.

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L 'umiltà

Q. 1 6 1 , A. 3 Articulus 3

Articolo 3

Utrum homo debeat se omnibus per humilitatem subiicere

L'uomo per umiltà deve mettersi al disotto di tutti?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod homo non debeat se omnibu s per humili tatem subiicere. l . Quia, sicut dictum est [a. 2 ad 3], humilitas praecipue consistit in subiectione hominis ad Deum. Sed id quod debetur Deo, non est ho­ mini exhibendum, ut patet in omnibus actibus latriae. Ergo homo per humilitatem non debet se homini subiicere. 2. Praeterea, Augustinus dicit, in libro De nat. et grat. [34] , humilitas co/locanda est in parte veritatis, non in parte falsitatis. Sed aliqui sunt in supremo statu, qui si se inferioribus subiicerent, absque falsitate hoc fieri non posset. Ergo homo non debet se omnibus per humilitatem subiicere. 3 . Praeterea, nullus debet facere id quod ver­ gat i n detrimentum salutis alterius. Sed s i aliquis per humilitatem s e alteri subiiciat, quandoque hoc verget in detrimentum illius cui se subiicit, qui ex hoc superbiret vel con­ temneret, unde Augustinus dicit, in Regola [ep. 2 1 1 ] , ne, dum nimium servatur humilitas, regendi frangatur auctoritas. Ergo homo non debet se per humilitatem omnibus subiicere. Sed contra est quod dicitur Phil. 2 [3], in hu­

Sembra di no. Infatti: l. Come si è detto, l'umiltà consiste special­ mente nella sottomissione dell' uomo a Dio. Ma ciò che è dovuto a Dio non va prestato all' uomo: come è evidente per gli atti di latria. Quindi l'uomo non si deve sottomettere per umiltà ad altri uomini. 2. Agostino afferma: «L'umiltà deve rientrare nella verità e non nella falsità». Ora, alcuni sono nel grado più alto, per cui, se si sotto­ mettessero ai loro inferiori, non potrebbero farlo senza falsità. Quindi l 'umiltà non obbli­ ga a mettersi al disotto di tutti. 3. Nessuno deve fare ciò che mette in pericolo l'altrui salvezza. Ma sottomettendosi agli altri per umiltà, talora uno provoca un danno alla persona a cui si sottomette, la quale potrebbe cadere nella superbia o nel disprezzo, secon­ do l ' osservazione di Agostino: «Volendo troppo osservare l'umiltà, si compromette la forza dell' autorità». Perciò l' uomo per umiltà non è tenuto a mettersi al di sotto di tutti. In contrario: in Fil 2 [3] è detto: Ciascuno di

militate superiores sibi invicem arbitrantes. Respondeo dicendum quod in homine duo possunt consideraci, scilicet id quod est Dei, et id quod est hominis. Hominis autem est quidquid pertinet ad defectum, sed Dei est quidquid pertinet ad salutem et perfectionem, secundum illud Osee 1 3 [9] , perditio tua, Israel, ex me tantum auxilium tuum. Humilitas autem, sicut dictum est [a. l ad 5; a. 2 ad 3], proprie respicit reverentiam qua homo Deo subiicitur. Et ideo quilibet homo, secundum id quod suum est, debet se cuilibet proximo subiicere quantum ad id quod est Dei in ipso. - Non autem hoc requirit humilitas, ut aliquis id quod est Dei in seipso, subiiciat ei quod apparet esse Dei in altero. Nam illi qui dona Dei participant, cognoscunt se ea habere, secundum illud l ad Cor. 2 [ 1 2], ut sciamus quae a Deo donata sunt nobis. Et ideo absque praeiudicio humilitatis possunt dona quae ipsi acceperunt, praeferre donis Dei quae aliis ap­ parent collata, sicut apostolus, ad Eph. 3 [5],

voi, con tutta umiltà, consideri gli altri supe­ riori a se stesso. Risposta: in ogni individuo si possono consi­ derare due cose: ciò che appartiene a Dio e ciò che appartiene all' uomo. All'uomo appar­ tiene ogni difetto, a Dio invece tutto ciò che vale per la salvezza e la perfezione, secondo le parole di Os 1 3 [9] : Da te la tua perdizione, Israele; solo da me proviene il tuo aiuto. Ora, come si è detto, l'umiltà riguarda propriamen­ te la riverenza con la quale l' uomo si sotto­ mette a Dio. Quindi ciascun uomo, secondo ciò che gli appartiene, deve mettersi al disotto di qualsiasi altra persona rispetto ai doni di Dio che sono in essa. - L'umiltà però non ri­ chiede che uno metta i doni che egli stesso ha ricevuto al disotto dei doni di Dio che scorge in [qualsiasi] altro. Infatti chi è partecipe dei doni di Dio ha la coscienza di averli, secondo le parole di l Cor 2 [ 1 2] : Per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Quindi, senza pre­ giudizio per l' umiltà, si possono preferire i doni ricevuti da noi a quelli che ci risultano conferiti ad altri; come Paolo dice: Questo mi­

stero non è stato manifestato agli uomini

L 'umiltà

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dicit, aliis generationibus non est agnitum filiis hominum, sicut nunc revelatum est sanctis apostolis eius. - Similiter etiam non hoc requirit humilitas, ut aliquis id quod est suum in seipso, subiiciat ei quod est hominis in proximo. Alioquin, oporteret ut quilibet reputaret se magis peccatorem quolibet alio, cum tamen apostolus absque praeiudicio hu­ militatis dicat, Gal. 2 [ 15], nos natura Iudaei, et non ex gentibus peccatores. Potest tamen aliquis reputare aliquid boni esse in proximo quod ipse non habet, vel aliquid mali in se esse quod in alio non est, ex quo potest ei se subiicere per humilitatem. Ad primum ergo dicendum quod non solum debemus Deum revereri in seipso, sed etiam id quod est eius debemus revereri in quolibet, non tarnen eodem modo reverentiae quo reveremur Deum. Et ideo per humilitatem debemus nos subiicere omnibus proximis propter Deum, secundum illud l Petr. 2 [ 1 3], subiecti estate omni humanae creaturae pmpter Deum, la­ triam tarnen soli Deo debemus exhibere. Ad secundum dicendum quod, si nos praefe­ ramus id quod est Dei in proximo, ei quod est proprium in nobis, non possumus incurrere falsitatem. Unde super illud Phil. 2 [3], supe­ riores invicem arbitrantes, dicit Glossa [ord. et Lomb. ; Octoginta trium Q. [7 1 ] , non hoc -

ita debemus aestimare ut nos aestimare finga­ mus, sed vere aestimemus posse aliquid esse occultum in alio quo nobis superior sit, etiam si bonum nostrum, quo ilio videmur superio­ res esse, non sit occultum. Ad tertium dicendum quod humilitas, sicut et ceterae virtutes, praecipue interius in anima consistit. Et ideo potest homo secundum inte­ riorem actum animae alteri se subiicere, sine hoc quod occasionem habeat alicuius quod pertineat ad detrimentum suae salutis. Et hoc est quod Augustinus dicit, in Regula [ep. 2 1 1 ] ,

timore coram Deo praelatus substratus sit pedibus vestris. Sed in exterioribus humilitatis actibus, sicut et in actibus ceterarum virtutum, est debita moderatio adhibenda, ne possint vergere in detrimentum alterius. Si autem aliquis quod debet faciat, et alii ex hoc occasio­ nem sumant peccati, non imputatur humiliter agenti, quia ille non scandalizat, quamvis alter scandalizetur.

Q. 161, A. 3

delle precedenti generazioni come al presente è stato rivelato ai suoi santi apostoli (Ef 3,5) .

- Parimenti l 'umiltà non esige che uno metta se stesso, quanto a ciò che è suo, al disotto di ciò che è umano nel prossimo. Altrimenti bisognerebbe che ognuno si considerasse più peccatore di ogni altra persona, mentre Paolo, senza mancare di umiltà, affermava: Noi per

nascita siamo Giudei, e non Pagani peccatori (Gal 2, 1 5). - Tuttavia uno può pensare che nel prossimo c'è del bene che egli non ha, oppure che in se stesso c'è del male che non si trova negli altri: e così può sempre mettersi al disotto del prossimo. Soluzione delle difficoltà: l . Dobbiamo rive­ rire Dio non solo in se stesso, ma anche in quanto c ' è di divino i n ogni creatura: però non allo stesso modo. Quindi con l 'umiltà dobbiamo sottostare per il Signore a tutti i no­ stri prossimi, secondo le parole di I Pt 2 [ 1 3] :

Siate soggetti a ogni umana creatura per amore del Signore; tuttavia il culto di latria dobbiamo prestarlo solo a Dio. 2. Se preferiamo ciò che c ' è di divino nel prossimo a ciò che è umano in noi non pos­ siamo incorrere nella falsità. Perciò nel com­ mentare Fil 2 [3]: Considerate gli aln·i supe­ riori a voi stessi, la Glossa afferma: «Una si­ mile stima non deve essere una menzogna, ma si deve pensare sinceramente che ci può essere negli altri del bene nascosto per cui sono superiori a noi, malgrado il bene eviden­ te che è in noi, e che sembra metterei al diso­ pra di essi» . 3. L'umiltà, come anche tutte l e altre virtù, s i attua principalmente nell'anima. Perciò uno può sempre mettersi interiormente al di sotto degli altri, senza dare occasione ad �lcuno di compromettere la propria salvezza. E questo il senso delle parole di Agostino: «Dinanzi a Dio il prelato stia con timore sotto i piedi di tutti voi». Negli atti esterni di umiltà, come anche in quelli delle altre virtù, ci vuole inve­ ce la debita moderazione, per non nuocere ad altri. Se però uno ta quello che deve fare e gli altri ne prendono occasione di peccato, ciò non va imputato a chi si comporta con umiltà: poiché questi non scandalizza, sebbene gli altri restino scandalizzati.

Q. 1 6 1 , A. 4

L 'umiltà

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Articulus 4 Utrum humilitas sit pars modestiae vel temperantiae

Articolo 4 L'umiltà è tra le parti della modestia, e quindi della temperanza?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod humi­ litas non sit pars modestiae vel temperantiae. l . Humilitas enim praecipue respicit reveren­ tiam qua quis subiicitur Deo, ut dictum est [a. 3]. Sed ad virtutem theologicam pertinet quod habeat Deum pro obiecto. Ergo humili­ tas magis debet poni virtus theologica quam pars temperantiae seu modestiae. 2. Praeterea, temperantia est in concupiscibili. Humilitas autem videtur esse in irascibili, si­ cut et superbia, quae ei opponitur, cuius obiec­ tum est arduum. Ergo videtur quod humilitas non sit pars temperantiae vel modestiae. 3 . Praeterea, humilitas et magnanimitas circa eadem sunt, ut ex supra [a l ad 3] dictis patet. Sed magnanimitas non ponitur pars temperan­ tiae, sed magis fortitudinis, ut supra [q. 1 29 a. 5] habitum est. Ergo videtur quod humilitas non sit pars temperantiae vel modestiae. Sed contra est quod Origenes dicit, Super Lucam [Interprete Hieronymo h. 8], si vis

Sembra di no. Infatti: l. Come si è visto, l'umiltà riguarda special­ mente la riverenza che spinge a sottomettersi a Dio. Ma avere Dio per oggetto è proprio delle virtù teologali. Quindi l'umiltà va posta più tra le virtù teologali che tra le parti della temperanza o della modestia. 2. La temperanza risiede nel concupiscibile. L'umiltà invece è nell' irascibile, come pure la superbia, che è il suo contrario, e che ha per oggetto le cose ardue. Perciò sembra che l'u­ miltà non sia tra le parti della temperanza o della modestia. 3. L'umiltà e la magnanimità hanno il mede­ simo oggetto, come risulta evidente dalle cose già dette. Ora, la magnanimità non è annessa alla temperanza, bensì alla fortezza, come so­ pra si è spiegato. Quindi sembra che l'umiltà non sia una parte potenziale della temperanza o della modestia. In contrario: Origene ha scritto: «Se vuoi sa­ pere il nome di questa virtù, e come sia chia­ mata dai filosofi, sappi che l'umiltà di cui Dio si compiace è identica alla virtù che essi chia­ mano metriotes», cioè misura, o moderazione: la quale rientra evidentemente nella modestia, e quindi nella temperanza. Perciò l' umiltà appartiene alla modestia e alla temperanza. Risposta: come si è già notato, nell'assegnare le parti potenziali alle virtù si deve badare so­ prattutto alla somiglianza nella maniera di agire. Ora, la maniera propria della temperan­ za, che ne costituisce il vanto principale, è il frenare e il reprimere l'impeto di certe passio­ ni. Per cui tutte le virtù che frenano o repri­ mono gli impulsi di certi sentimenti, o che moderano certi atti, sono considerate parti po­ tenziali della temperanza. Ora, come la man­ suetudine reprime i moti dell'ira, così l 'umiltà reprime i moti della speranza, che tendono a grandi cose. Per cui come la mansuetudine è posta fra le parti della temperanza, così anche l'umiltà. Per cui anche il Filosofo afferma che colui il quale tende, secondo le proprie capa­ cità, a cose piccole non è magnanimo, ma «temperante»: ossia umile, diremmo noi. E secondo le spiegazioni date, fra le altre parti della temperanza l'umiltà rientra esattamente

nomen huius audire vinutis, quomodo etiam a philosophis appelletw; ausculta eandem esse humilitatem quam respicit Deus, quae ab illis metriotes dicitur, idest mensuratio sive moderatio, quae manifeste pertinet ad mode­ stiam et temperantiam. Ergo humilitas est pars modestiae et temperantiae. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 137 a. 2 ad l ; q. 1 57 a. 3 ad 2] dictum est, in assi­ gnando partes virtutibus praecipue attenditur similitudo quantum ad modum virtutis. Mo­ dus autem temperantiae, ex quo maxime lau­ dem habet, est refrenatio vel repressio impe­ tus alicuius passionis. Et ideo omnes virtutes refrenantes sive reprimentes impetus aliqua­ rum affectionum, vel actiones moderantes, ponuntur partes temperantiae. Sicut autem mansuetudo reprimit motum irae, ita etiam humilitas reprimit motum spei, qui est motus spiritus in magna tendentis. Et ideo, sicut mansuetudo ponitur pars temperantiae, ita etiam humilitas. Unde et philosophus, in 4 Ethic. [3,4], eum qui tendit in parva secun­ dum suum modum, dicit non esse magnani­ mum, sed temperatum, quem nos humilem dicere possumus. Et inter alias partes tempe­ rantiae, ratione superius [q. 1 60 a. 2] dieta,

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Q. 161, A. 4

continetur sub modestia, prout Tullius de ea loquitur [Rhet. 2,54], inquantum scilicet hu­ militas nihil est aliud quam quaedam mode­ ratio spiritus. Unde et l Petr. 3 [4] dicitur, in incorruptibilitate quieti ac nwdesti spiritus. Ad primum ergo dicendum quod virtutes theologicae, quae sunt circa ultimum finem, qui est primum principium in appetibilibus, sunt causae omnium aliarum virtutum. Unde ex hoc quod humilitas causatur ex reverentia divina, non excluditur quin humilitas sit pars modestiae vel temperantiae. Ad secundum dicendum quod partes principa­ libus virtutibus assignantur, non secundum convenientiam in subiecto vel in materia, sed secundum convenientiam in modo formali, ut dictum est [q. 1 37 a 2 ad l ; q. 157 a. 3 ad 2; cf. in co.]. Et ideo, licet humilitas sit in irasci­ bili sicut in subiecto, ponitur tamen pars mode­ stiae et temperantiae propter modum. Ad tertium dicendum quod, licet magnanimi­ tas et humilitas in materia conveniant, diffe­ runt tamen in modo, ratione cuius magnani­ mitas ponitur pars fortitudinis, humilitas au­ tem pars temperantiae.

nella modestia, nel senso i n cui ne parla Cicerone: poiché l'umiltà non è altro che una certa moderazione dello spirito. Per cui in l Pt 3 [4] è detto di rimanere nell 'incorrutti­ bilità di uno spirito quieto e modesto. Soluzione delle difficoltà: l . Le virtù teologa­ li, avendo per oggetto il fine ultimo, che è il primo principio di tutto l'ordine appetitivo, sono la causa di tutte le altre virtù. Perciò il tàtto che l'umiltà sia causata dalla tiverenza verso Dio non esclude che sia una parte po­ tenziale della modestia o della temperanza. 2. Come si è già detto, le parti potenziali sono assegnate alle virtù principali non in base all'affinità della materia o del soggetto, ma in base alla maniera specifica di agire. Sebbene quindi l'umiltà risieda nell'irascibile, tuttavia per la sua maniera di agire è posta fra le parti della modestia e della temperanza. 3. La magnanimità e l'umiltà, sebbene abbia­ no la stessa materia, tuttavia differiscono nella maniera di agire: e per tale ragione la magna­ nimità è posta fra le parti della fortezza, e l'umiltà fra quelle della temperanza.

Articulus 5 Utrum humilitas sit potissima virtutum

Articolo 5 L'umiltà è la più grande delle virtù?

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod hu­ militas sit potissima virtutum. l . Dicit enim Chrysostomus [Eclogae h. 7], ex­ ponens illud quod dicitur Luc. 1 8 [ 14] de Pha­ risaeo et publicano, quod, si mixta delictis hu­ militas tam facile currit ut iustitiam superbiae coniunctam transeat, si iustitiae coniunxeris eam, quo non ibit? Assistet ipsi tribunali divino in medio angelorum. Et sic patet quod humili­ tas praefertur iustitiae. Sed iustitia vel est prae­ clarissima virtutum, vel includit in se omnes virtutes, ut patet per philosophum, in 5 Ethic [ 1 , 1 5]. Ergo humilitas est maxima virtutum. 2. Praeterea, Augustinus dicit, in libro De Verb. Dom. [Serm. ad pop. 69,1 ] , cogitas ma­ gnam fabricam construere celsitudinis? De fundamento prius cogita humilitatis. Ex quo videtur quod humilitas sit fundamentum omnium virtutum. Ergo videtur esse potior aliis. 3. Praeterea, maiori virtuti maius debetur praemium. Sed humilitati debetur maximum praemium, quia qui se humiliat, exaltabitur,

Sembra di sì. Infatti: l. ll Crisostomo, spiegando la parabola del fa­ riseo e del pubblicano (Le 1 8, 14), si domanda: «Se l'umiltà accompagnata dai peccati corre così veloce da superare la giustizia accoppiata alla superbia, dove non arriverà se si unisce alla giustizia? Arriverà fino al trono di Dio, in mezzo agli angeli». Dal che è evidente che l'umiltà è superiore alla giustizia. Ma la giu­ stizia o è la più nobile delle virtù, o include in sé tutte le altre, come dimostra il Filosofo. Quindi l'umiltà è la più grande delle virtù. 2. Agostino scrive: . - Parimenti uno può sen­ za falsità «protestare e credere di essere inutile e incapace di tutto» considerando le proprie forze e attribuendo a Dio tutta la propria capacità; secondo le parole di 2 Cor 3 [5]: Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio. - E neppure ci sono inconvenienti ad attribuire all'umiltà gli atti propri di altre virtù. Poiché come un vizio nasce da un altro vizio, così l'atto di una virtù detiva naturalmente dall'atto di un'altra virtù. 2. Due sono i modi in cui l'uomo può rag­ giungere l'umiltà. Il primo e ptincipale è me­ diante la grazia. E in questo caso le disposi­ zioni interne precedono quelle esterne. n se­ condo invece è mediante lo sforzo personale: e in questo caso l'uomo prima si frena negli atti esterni, e poi arriva a estirparne l'intima radice. Ed è in quest'ordine che ha disposto i suoi gradi Benedetto. 3. Tutti i gradi elencati da Anselmo si riduco­ no a riconoscere, a manifestare e a volere la propria abiezione. Infatti il ptimo grado si ri­ duce alla conoscenza della propria miseria. Siccome però sarebbe riprovevole amarla, ciò è escluso mediante il secondo grado. La ma­ nifestazione della propria miseria è promossa poi dal terzo e dal quarto grado: in modo cioè che uno non si limiti a denunziarla, ma cerchi anche di rendeme persuasi gli altri. - I tre gra­ di che rimangono Iiguardano infine la volon­ tà. Ed è il caso di chi non cerca la propria ec­ cellenza, ma sopporta pazientemente il di­ sprezzo, sia in parole che in atti: poiché, come scrive Gregorio, «non è una gran cosa essere umili di fronte a chi ci onora, poiché lo fanno

L 'umiltà

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humiles esse debemus a quibus aliqua patimur. Et hoc pertinet ad quintum et sextum gradum. Vel etiam desideranter exteriorem abiectionem amplectitur, quod pertinet ad septimum gra­ dum. Et sic ornnes isti gradus continentur sub sexto et septimo superius enumeratis. Ad quartum dicendum quod illi gradus acci­ piuntur non ex parte ipsius rei, idest secundum naturam humilitatis, sed per comparationem ad gradus horninum, qui sunt vel maiores vel rni­ nores vel aequales. Ad quintum dicendum quod etiam illa ratio procedit ex gradibus hurnilitatis non secundum ipsam naturarn rei, secundum quam assignan­ tur praernissi gradus, sed secundum diversas hominum conditiones.

QUAESTIO 1 62 DE SUPERBIA Deinde considerandum est de superbia. Et pri­ mo, de superbia in communi; secondo, de pec­ cato primi horninis, quod ponitur esse superbia [q. 163]. - Circa primum quaeruntur octo. Pri­ mo, utrum superbia sit peccatum. Secundo, utrum sit vitium speciale. Tertio, in quo sit sicut in subiecto. Quarto, de speciebus eius. Quinto, utrum sit peccatum mottale. Sexto, utrum sit gravissimum omnium peccatorum. Septimo, de ordine eius ad alia peccata. Octa­ vo, utrum debeat poni vitium capitale. Articulus l Utrum superbia sit peccaturn Ad primum sic proceditur. Videtur quod su­ perbia non sit peccatum. l . Nullum enim peccatum est reprornissum a Deo, promittit enim Deus quod ipse facturus est; non est autem auctor peccati. Sed superbia connumeratur inter reprornissiones divinas, di­ citur enim Isaiae 60 [ 1 5], ponam te in super­

biam saeculorum, gaudium in generatione et generationem. Ergo superbia non est peccatum. 2. Praeterea, appetere divinam similitudinem non est peccatum, hoc enim naturaliter appetit quaelibet creatura, et in hoc optimum eius consistit. Et praecipue hoc convenit rationali creaturae, quae facta est ad imaginem et simili­ tudinem Dei. Sed sicut dicitur in libro Senten­ tiarum Prosperi [Sent. 294], superbia est amor

Q. 161, A. 6

gli stessi mondani: dobbiamo invece essere u­ mili specialmente con quelli che ci offendo­ no». E abbiamo qui il quinto e il sesto grado. - C'è finalmente chi abbraccia volentieri l'a­ biezione: ed è il settimo grado. Perciò tutti questi sette gradi Iientrano nel sesto e nel set­ timo di Benedetto. 4. Quei tre gradi non derivano dalla natura stessa dell'umiltà, ma dai rapporti con gli altri uomini, i quali sono o supelioli, o inferioli, o uguali. 5. Anche quest'tùtima graduatoria non scatuli­ sce dalla natura dell'umiltà, come i gradi di Benedetto, ma dalle diverse condizioni umane.

1 62 LA SUPERBIA

QUESTIONE

Veniamo ora a trattare della superbia. Primo, della superbia in generale; secondo, del pec­ cato dei nostri progenitori, che fu un atto di superbia. - Sul primo tema esamineremo ott� argomenti: l . La superbia è un peccato? 2. E un vizio specificamente distinto? 3. Dox_e ri­ siede? 4. Quali sono Je sue specie? 5. E un peccato mortale? 6. E il più grave di tutti i peccati? 7. I suoi rapporti con gli altri peccati; 8. Deve essere considerata un vizio capitale?

Articolo l

La superbia è un peccato? Sembra di no. Infatti: l . Nessun peccato può essere promesso da Dio: poiché Dio promette ciò che farà lui stesso, ed egli non è autore del peccato. Ora, la superbia è tra le cose promesse da Dio, infatti in /s 60 [ 1 5] è detto: lo farò di te la

superbia dei secoli, la gioia di tutte le genera­ zioni. Quindi la superbia non è un peccato. 2. Non è peccato desiderare la somiglianza con Dio: poiché questo è il desiderio naturale di tutte le creature, e in ciò consiste la loro perfezione. Ciò si addice poi in modo specia­ le alle creature ragionevoli, create a immagine e somiglianza di Dio. Ora, Prospero affenna che la superbia è «l' amore della propria ec­ cellenza>>, eccellenza che rende l 'uomo simile

Q. 162, A. l

La superbia

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3 . Praeterea, peccatum non solum contrariatur virtuti, sed etiam apposito vitio, ut patet per philosophum, in 2 Ethic. [8, 1 ] . Sed nullum vi­ tium invenitur oppositum esse superbiae. Er­ go superbia non est peccatum. Sed contra est quod dicitur Tobiae 4 [ 14],

a Dio, il quale è eccellentissimo. Così infatti prega Agostino: «La superbia vuole elevarsi per imitare la tua altezza: essendo tu l'unico altissimo Dio». Perciò la superbia non è un peccato. 3. Un peccato non si contrappone soltanto a una virtù, ma anche a un vizio contrario, co­ me insegna il Filosofo. Ora, non si trova un vizio contrario alla superbia. Quindi la super­ bia non è un peccato. In contrario: in Tb 4 [ 14] è detto: Non lascia­

superbiam nunquam in tuo sensu aut in tuo verbo dominari petmittas.

re mai che la superbia prevalga nei tuoi pen­ sieri o nelle tue pamle.

Respondeo dicendum quod superbia nomina­ tur ex hoc quod aliquis per voluntatem tendit supra id quod est, unde dicit Isidorus, in libro Etymol. [ 10, ad litt. S], superbus dictus est

Risposta: il termine superbia deriva dal fatto che uno tende a cose che sono sopra ciò che egli è. Per cui «tmo è chiamato superbo», scrive Isidoro, «perché vuole sembrare più di ciò che è: superbo infatti è chi vuole andare al di sopra». Ora, la retta ragione esige che la volontà di ciascuno cerchi le cose a lui pro­ porzionate. Perciò è evidente che la superbia implica un contrasto con la retta ragione. E ciò costituisce un peccato: poiché, secondo Dionigi, il male dell'anima sta . Da ciò non si può quindi concludere che l'or­ goglio tisiede nella ragione, ma solo che nella ragione si trova qualcuna delle sue cause. 3. La superbia non risiede solo nell'irascibile in quanto esso è una facoltà dell' appetito sen­ sitivo, ma nell'irascibile inteso in senso lato, secondo le spiegazioni date. 4. Come dice Agostino, l'amore precede tutti gli altri affetti dell'anima, ed è la loro causa. Esso può quindi valere per ogni altra passio­ ne. E in base a ciò si dice che la superbia è l'amore della propria eccellenza, poiché dal­ l'amore è causata la presunzione peccamino­ sa di essere al disopra degli altri, il che è pro­ prio della superbia.

Articulus 4 Utrum convenienter assignentur quatuor superbiae species quas Gregorius assignat

Articolo 4 Le specie della superbia sono ben assegnate da Gregorio?

Ad quartum sic proceditw: Videtur quod incon­ venienter assignentur quatuor superbiae species quas Gregorius assignat, 23 Mor. [6], dicens, quatuor quippe sunt species quibus omnis tumor anvgantium demonstratur, cum bonum aut a semetipsis habere se aestimant; aut, si sibi datum desuper credunt, pro suis hoc acce­ pisse me1itis putant; aut cwn iactant se habere quod JWn habent; aut, despectis ceteris, sin­ gulariter videri appetunt habere quod habent. l . Superbia enim est vitium distinctum ab in:fi­ delitate, sicut etiam humilitas est virtus distincta a fide. Sed quod aliquis existimet bonum se non habere a Deo, vel quod bonum gratiae habeat ex meritis propriis, ad intidelitatem pertinet. Ergo non debent poni species superbiae. 2. Praeterea, idem non debet poni species diver­ sorum generum. Sed iactantia ponitur species mendacii, ut supra [q. 1 10 a. 2; q. 1 12] habitum est. Non er:go debet poni species superbiae. 3. Praeterea, quaedam alia videntur ad super­ biam pertinere quae hic non connumerantur. Dicit enim Hieronymus [ep. 148 Ad Celantiam] quod nihil est tam superbum quam ingratum

Sembra che Gregorio non assegni in modo conveniente le specie della superbia, quando dice: «Credere che il bene posseduto derivi da se medesimi; oppure, se si crede di averlo ri­ cevuto dall'alto, essere persuasi che sia dovu­ to ai propri meriti; o ancora, vantarsi di avere ciò che non si ha; o infine col disprezzo degli altri cercare di fare apparire del tutto singolari le doti che si hanno». Infatti: l . La superbia è un peccato distinto dall'in­ credulità: come anche l'umiltà è una virtù di­ stinta dalla fede. Ma la persuasione che il pro­ prio bene non venga da Dio, o che la grazia possa derivare dai propri meriti, è un atto con­ tro la fede. Quindi ciò non può costituire una specie della superbia. 2. L' identica cosa non può essere specie di più generi. Ora, la millanteria va posta tra le specie della menzogna, come sopra si è dimostrato. Perciò non va posta tra le specie della superbia. 3. Ci sono altre cose che rientrano nella su­ perbia e non sono comprese in queste quattro specie. Girolamo infatti scrive che «nessuno è più superbo di chi è ingrato». E Agostino

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videri. Et Augustinus dicit, 1 4 De civ. Dei [14], quod excusare se de peccato commisso ad superbiam pertinet. Praesumptio etiam, qua quis tendit ad assequendum aliquid quod supra se est, maxime ad superbiam pertinere v idetur. Non ergo sufficienter praedicta divisio comprehendit superbiae species. 4. Praeterea, inveniuntur aliae divisiones su­ perbiae. Dividit enim Anselmus [Eadmerus, De similit. 22] exaltationem superbiae, dicens quod quaedam est in voluntate, quaedam in sermone, quaedam in operatione. Bemardus etiam [De gradibus humilitatis et superbia 10] ponit duodecim gradus superbiae, qui sunt, curiositas, mentis levitas, inepta laetitia, iac­ tantia, singularitas, anvgantia, praesumptio, defensio peccatorum, simulata confessio, re­ bellio, libertas, peccandi consuetudo. Quae non videntur comprehendi sub speciebus a Gregorio assignatis. Ergo videtur quod incon­ venienter assignentur. In contrarium sufficiat auctoritas Gregorii [Mor. 23,6]. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. l ad 2; aa. 2-3], superbia importat immo­ deratum excellentiae appetitum, qui scilicet non est secundum rationem rectam . Est autem considerandum quod quaelibet excel­ lentia consequitur aliquod bonum habitum. Quod quidem potest considerati tripliciter. Uno modo, secundum se. Manifestum est enim quod quanto maius est bonum quod quis habet, tanto per hoc maiorem excellen­ tiam consequitur. Et ideo cum aliquis attribuit sibi maius bonum quam habeat, consequens est quod eius appetitus tendit in excellentiam propriam ultra modum sibi convenientem. Et sic est tertia superbiae species, cum scilicet aliquis iactat se habere quod non habet. Alio modo, ex parte causae, prout excel­ lentius est quod aliquod bonum insit alicui a seipso, quam quod insit ei ab alio. Et ideo cum aliquis aestimat bonum quod habet ab alio, ac si haberet a seipso, fertur per conse­ quens appetitus eius in propriam excellentiam supra suum modum. Est autem dupliciter aliquis causa sui boni, uno modo, efficienter; alio modo, meritorie. Et secundum hoc su­ muntur duae primae superbiae species, scili­ cet, cum quis a semetipso habere aestimat quod a Deo habet; vel, cum p1vpriis meritis sibi datum desuper credit. - Tertio modo, ex -

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afferma che appartiene alla superbia lo scu­ sarsi dei peccati commessi. E così pure appar­ tiene alla superbia la presunzione con la quale si tende a ottenere cose superiori alle proprie capacità. Perciò la divisione suddetta non abbraccia tutte le specie della superbia. 4. Ci sono altre autorevoli divisioni della su­ perbia. Infatti Anselmo trova che l'esaltazione dell'orgoglio può prodursi o «nella volontà», o «nelle parole», o «nelle opere», mentre per Bernardo i gradi della superbia sono dodici: «la curiosità», «la leggerezza d'animo», «la stolta letizia», «la millanteria», «la singola­ rità», «l' arroganza», «la presunzione», «la scusa dei peccati», «la confessione insincera», «la ribellione», «la libertà>>, «l' abitudine di peccare». Non sembra che tali divisioni siano comprese in quelle elencate da Gregorio. Perciò sembra che le specie non siano asse­ gnate da Gregorio in modo conveniente. In contrario: basta il testo di Gregorio. Risposta: la superbia implica una brama di­ sordinata, ossia non conforme alla retta ragio­ ne, della propria eccellenza, come si è visto. Ora, si deve notare che ogni tipo di eccellenza deriva da un bene posseduto. E questo può essere consid�rato da tre punti di vista. Primo, in se stesso. E evidente infatti che a un bene più grande corrisponde un'eccellenza mag­ giore. Con l' attribuirsi quindi un bene più grande di quello che ha, un uomo mostra che il suo desiderio aspira a un'eccellenza supe­ riore a quella che gli spetta. E così abbiamo la terza specie della superbia, che consiste nel «vantarsi di avere ciò che non si ha». - Se­ condo, [si può considerare il proprio bene] nelle sue cause: e sotto tale aspetto è più onorifico procurarsi un bene da se stessi che riceverlo da altri. Perciò quando uno conside­ ra il bene ricevuto come se lo dovesse a se stesso, mostra che la sua volontà brama ec­ cessivamente la propria eccellenza. Ora, si può essere causa del proprio bene in due modi: come causa efficiente e come causa meritoria. Abbiamo così le due prime specie della superbia: «Credere che il bene posseduto derivi da se medesimi» ed «essere persuasi che sia stato concesso dali' alto ai propri meriti». - Terzo, [il proprio bene può essere considerato] quanto alla maniera i n cui è posseduto. E da questo lato è più onorifico possedere un bene in un grado superiore a

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La superbia

parte modi habendi, prout excellentior aliquis redditur ex hoc quod aliquod bonum excellentius ceteris possidet. Unde et ex hoc etiam fertur inordinate appetitus in propriam excellentiam. Et secundum hoc sumitur quar­ ta species superbiae, quae est cum aliquis,

despectis ceteris, singulariter vult videri. Ad primum ergo dicendum quod vera existi­ matio potest corrumpi dupliciter. Uno modo, in universali. Et sic, in bis quae ad tinem per­ tinent, corrumpitur vera existimatio per infi­ delitatem. Alia modo, in aliquo particulari eligibili. Et hoc non facit infidelitatem. Sicut ille qui fornicatur, aestimat pro tempore illo bonum esse sibi fornicari, nec tamen est infi­ delis, sicut esset si in universali diceret forni­ cationem esse bonam. Et ita etiam est in proposito. Nam dicere in universali aliquod bonum esse quod non est a Deo, vel gratiam hominibus pro meritis dari, pertinet ad infide­ litatem. Sed quod aliquis, ex inordinato appe­ titu propriae excellentiae, ita de bonis suis glorietur ac si ea a se haberet vel ex meritis propriis, pertinet ad superbiam, et non ad in­ fidelitatem, proprie loquendo. Ad secundum dicendum quod iactantia ponitur species mendacii quantum ad exteriorem actum, quo quis falso sibi attribuit quod non habet. Sed quantum ad interiorem cordis arro­ gantiam, ponitur a Gregorio species superbiae. Ad tertium dicendum quod ingratus est qui sibi attribuit quod ab alia habet. Unde duae primae superbiae species ad ingratitudinem pertinent. Quod autem aliquis se excuset de peccato quod habet, pertinet ad tertiam spe­ ciem, quia per hoc aliquis sibi attribuit bonum innocentiae, quod non habet. Quod autem aliquis praesumptuose tendit in id quod supra ipsum est, praecipue videtur ad quartam speciem pertinere, secundum quam aliquis vult aliis praeferri. Ad quartum dicendum quod illa tria quae po­ nit Anselmus, accipiuntur secundum progres­ sum peccati cuiuslibet, quod primo, corde concipitur; secundo, ore profertur; tertio, ope­ re perficitur. - Illa autem duodecim quae po­ nit Bernardus, sumuntur per oppositum ad duodecim gradus humilitatis, de quibus supra [q. 1 6 1 a. 6] habitum est. Nam primus gradus humilitatis est, corde et co1pore semper humi­

litatem ostendere, defixis in terram aspecti­ bus. Cui opponitur curiositas, per quam ali-

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quello degli altri. Da cui l 'occasione di aspira­ re disordinatamente alla propria eccellenza. E da ciò è desunta la quarta specie della super­ bia, che consiste nel «cercare di apparire del tutto singolari, disprezzando gli altri». Soluzione delle difficoltà: l . Una convinzione giusta può essere distrutta in due modi. Pri­ mo, nella sua universalità. E in questo modo le vere convinzioni riguardanti la fede sono distrutte dall'incredulità. Secondo, nei casi particolari di scelte volontarie. E ciò non è dovuto all ' incredulità. Chi p. es. commette fornicazione ritiene che in quel momento è bene per lui fornicare; e tuttavia non pecca contro la fede, come invece peccherebbe se affermasse in generale che la fornicazione è una cosa onesta. E lo stesso si dica nel nostro caso. Dire infatti in generale che esiste un bene che non viene da Dio, o che la grazia è data a motivo dei nostri meriti, rientra nel peccato di incredulità. Gloriarsi invece del proprio bene, per la brama disordinata della propria eccellenza, come se tale bene prove­ nisse da noi stessi o fosse dovuto ai nostri me­ riti, propriamente parlando appartiene alla superbia e non all'incredulità. 2. La millanteria, per il suo atto esterno con cui uno si attribuisce delle doti che non ha, è posta tra le specie della menzogna, ma quanto all'aiToganza interiore è annoverata da Grego­ rio tra le specie della superbia. 3. Chi attribuisce a se stesso ciò che ha rice­ vuto da altri è un ingrato. E così le due prime specie dell' orgoglio appartengono all'ingrati­ tudine. Scusarsi poi dei peccati rientra nella terza specie della superbia: poiché in questo modo uno si attribuisce l'innocenza che non possiede. Il tendere infine a ciò che supera le proprie capacità appartiene soprattutto alla quarta specie della superbia, con la quale si cerca di essere preferiti agli altri. 4. Le tre suddivisioni di Anselmo sono desun­ te dallo sviluppo progressivo di qualsiasi pec­ cato: dapprima è concepito nel cuore, poi è proferito con la bocca, finalmente è compiuto con le opere. - Le dodici suddivisioni di Ber­ nardo sono invece desunte per contrapposi­ zione ai dodici gradi dell'umiltà, di cui abbia­ mo già parlato. Infatti il primo grado di umiltà consiste nel «mostrare dovunque l'umiltà con l'anima e con il corpo, tenendo gli occhi fissi a terra». Ad essa si contrappone la «curio-

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quis curiose ubique et inordinate circumspicit. Secundus gradus humilitatis est, ut pauca ver­ ba et rationabilia loquatur aliquis, non cla­ mosa voce. Contra quem opponitur levitas mentis, per quam scilicet homo superbe se habet in verbo. Tertius gradus humilitatis est, ut non sit facilis aut promptus in risu. Cui opponitur inepta /aetitia. Quartus gradus hu­ militatis est tacitumitas usque ad intenvga­ tionem. Cui opponitur iactantia. Quintus gradus humilitatis est, tenere quod communis regula monasterii habet. Cui opponitur singu­ laritas, per quam scilicet aliquis sanctior vult apparere. Sextus gradus humilitatis est, crede­ re et pronuntiare se omnibus viliorem. Cui opponitur anvgantia, per quam scilicet homo se aliis praefert. Septimus gradus humilitatis est, ad omnia inutilem et indignum se confite­ ri et credere. Cui opponitur praesumptio, per quam scilicet aliquis reputat se sufficientem ad maiora. Octavus gradus humilitatis est confessio peccatorum. Cui opponitur defensio peccatorum. Nonus gradus est, in duris et asperis patientiam amplecti. Cui opponitur simulata confessio, per quam scilicet aliquis non vult subire poenam pro peccatis, quae simulate confitetur. Decimus gradus humilita­ tis est obedientia. Cui opponitur rebellio. Un­ decimus autem gradus est, ut homo non delectetur jàcere propriam voluntatem. Cui opponitur libertas, per quam scilicet homo delectatur libere facere quod vult. Ultimus autem gradus humilitatis est timor Dei. Cui opponitur peccandi consuetudo, quae impli­ cat Dei contemptum. In his autem duodecim gradibus tanguntur non solum superbiae spe­ cies, sed etiam quaedam antecedentia et con­ sequentia, sicut etiam supra [q. 1 6 1 a. 6] de humilitate dictum est.

sità>>, con la quale si guarda disordinatamente dappertutto. n secondo grado dell'umiltà con­ siste nel «dire poche parole e giustificate, senza alzare la voce». Contro di essa sta la «leggerezza d'animo», per cui si parla orgo­ gliosamente di tutto. n terzo grado dell'umiltà consiste nel «non essere facile e pronto a ride­ re». Il suo contrario è la «stolta letizia». Il quarto grado è la «taciturnità fino a che non si è interrogati». Ad esso si contrappone la «millanteria». Il quinto grado consiste nel «seguire la regola comune del monastero». Il suo contrario è la «singolarità», con la quale uno cerca di apparire più santo. Il grado sesto dell'umiltà sta nel «credere e nel protestare di essere il più vile di tutti». Ad esso si contrap­ pone l ' «arroganza», per cui uno si reputa superiore agli altri. Il settimo grado consiste nel «protestarsi e nel credersi inutile e incapa­ ce di tutto». Il suo contrario è la «presunzio­ ne», con la quale uno si stima capace delle più grandi cose. L'ottavo grado è la «confes­ sione delle colpe». Ad esso si contrappone la «scusa dei peccati». n nono grado consiste nel «Sopportare con pazienza cose dure e dif­ ficili». A ciò si contrappone la «confessione insincera», nella quale uno non vuole subire il castigo per i peccati, che confessa senza sin­ cerità. Il decimo grado dell'umiltà è l' «obbe­ dienza», il cui contrario è la «ribellione». L'undicesimo grado consiste nel «non fare volentieri la propria volontà». Ad esso si con­ trappone la «libertà», con la quale uno si compiace di poter fare ciò che vuole. L'ulti­ mo grado dell'umiltà è il «timor di Dio». n suo contrario è l' «abitudine di peccare», che implica il disprezzo di Dio. Ora, in questi dodici gradi non sono incluse solo le specie della superbia, ma anche alcune delle sue cause e dei suoi effetti: come si è già notato a proposito dell'umiltà.

Articulus 5 Utrum superbia sit peccatum mortale

Articolo 5 La superbia è un peccato mortale?

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod su­ perbia non sit peccatum m01tale. l . Quia super illud Psalmi [7,4], Domine Deus meus si feci istud, dicit Glossa [ord. et Lomb.], scilicet universale peccatum, quod est superbia. Si igitur superbia esset pecca­ turo mortale, omne peccatum esset mortale.

Sembra di no. Infatti: l . Nel commentare il Sal 7 [4]: Signore mio Dio, se ho fatto questo, la Glossa spiega: «OS­ sia il peccato universale, che è la superbia>>. Se quindi la superbia fosse un peccato morta­ le, tutti i peccati sarebbero mortali. 2. Tutti i peccati mortali sono contrari alla

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2. Praeterea, omne peccatum contrariatur caritati. Sed peccatum superbiae non videtur contrariaTi caritati, neque quantum ad dilec­ tionem Dei, neque quantum ad dilectionem proximi, quia excellentia quam quis inordina­ te per superbiam appetit, non semper con­ trariatur honori Dei aut utilitati proximi. Ergo superbia non est peccatum mortale. 3. Praeterea, omne peccatum mortale contra­ riatur virtuti. Sed superbia non contrariatur virtuti, sed potius ex ea oritur, quia, ut Grego­ rius dicit, 34 Mor. [23], aliquando homo ex summis cae/estibusque virtutibus intumescit. Ergo superbia non est peccatum mortale. Sed contra est quod Gregorius, in eodem libro [Mor. 34,23] , dicit quod evidentissimum reproborum signum superbia est, at contra, humilitas electorum. Sed homines non fiunt reprobi pro peccatis venialibus. Ergo superbia non est peccatum veniale, sed mortale. Respondeo dicendum quod superbia humilitati opponitur. Humilitas autem proprie respicit subiectionem hominis ad Deum, ut supra [q. 1 6 1 a. l ad 5 ] dictum est. Unde e contrario superbia proprie respicit defectum huius subiectionis, secundum scilicet quod aliquis se extollit supra id quod est sibi praefixum secundum divinam regulam vel mensuram; contra id quod apo­ stolus dicit, nos autem non in immensum glo­ riamur, sed secundum mensuram qua mensus est nobis Deus. Et ideo dicitur Eccli. IO [14], quod initium superbiae hominis est apostatare a Deo, scilicet, in hoc radix superbiae conside­ ratur, quod homo aliqualiter non subditur Deo et regulae ipsius. Manifestum est autem quod hoc ipsum quod est non subiici Deo, habet rationem peccati mortalis, hoc enim est averti a Deo. Unde consequens est quod superbia, secundum suum genus, sit peccatum mortale. - Sicut tamen in aliis quae ex suo genere sunt peccata mortalia, puta in fomicatione et adul­ terio, sunt aliqui motus qui sunt peccata venia­ Ha propter eorum impertectionem, quia scilicet praeveniunt rationis iudicium et sunt praeter eius consensum; ita etiam et circa superbiam accidit quod aliqui motus superbiae sunt pec­ cata venialia, dum eis ratio non consentit. Ad primum ergo dicendum quod, sicut supra [a. 2] dictum est, superbia non est universale peccatum secundum suam essentiam, sed per quandam redundantiam, inquantum scilicet ex superbia omnia peccata oriri possunt. Unde

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carità. Ma il peccato di superbia non è contro la carità, né rispetto ali' amore di Dio, né ri­ spetto all'amore del prossimo: poiché l'eccel­ lenza che è desiderata con la superbia non sempre è contro l'onore di Dio e l'utilità del prossimo. Quindi la superbia non è un pecca­ to mortale. 3 . Tutti i peccati mortali sono incompatibili con le virtù. La superbia invece non è incom­ patibile; anzi, può nascere da esse: poiché secondo Gregorio «talora l'uomo si inorgogli­ sce delle più eccelse e celesti virtù». Perciò la superbia non è un peccato mortale. In contrario: Gregorio afferma che «la su­ perbia è il segno più evidente della ripro­ vazione; l'umiltà invece della predestinazio­ ne». Ma gli uomini non diventano reprobi con i peccati veniali. Quindi la superbia non è un peccato veniale, ma mortale. Risposta: la superbia è il contrario dell'umil­ tà. Ora, l 'umiltà consiste nella sottomissione dell'uomo a Dio, come si è detto. Per cui la superbia propriamente è la mancanza di que­ sta subordinazione: poiché con essa uno si in­ nalza al disopra dei limiti stabiliti per lui dal piano divino. E ciò va contro quanto Paolo di­ ce: Noi non ci vanteremo oltre misura, ma secondo la norma della misura che Dio ci ha assegnato (2 Cor l O, 1 3). Per cui è detto: Principio della superbia umana è allontanar­ si da Dio (Sir 1 0, 1 4), la radice cioè della superbia si riscontra nel fatto che in qualche modo l'uomo non si sottomette a Dio e alle sue norme. Ora, è evidente che il non sotto­ mettersi a Dio ha natura di peccato mortale: infatti significa allontanarsi da Dio. Da ciò quindi consegue che la superbia, secondo il suo genere, è un peccato mortale. - Tuttavia, come in altri vizi che sono peccati mortali nel loro genere, p. es. nella fornicazione e nel­ l'adulterio, ci sono dei moti che sono peccati veniali per la loro incompletezza, in quanto prevengono il giudizio della ragione e non hanno il suo consenso, così anche nella super­ bia ci sono dei moti che sono peccati veniali, finché la ragione non vi acconsente. Soluzione delle difficoltà: l . Come si è detto sopra, la superbia è un peccato universale non nella sua essenza, ma per una certa ridon­ danza: poiché da essa possono nascere tutti i peccati. Da ciò quindi non segue che tutti i peccati siano mortali: ma che lo sono soltanto

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non sequitur quod omnia peccata sint mortalia, sed solum quando oriuntur ex superbia com­ pleta, quam diximus [in co.] esse peccatum mortale. Ad secundum dicendum quod superbia sem­ per quidem contrariatur dilectioni divinae, in­ quantum scilicet superbus non se subiicit divi­ nae regulae prout debet. Et quandoque etiam contrariatur dilectioni proximi, inquantum scilicet aliquis inordinate se praefert proximo, aut ab eius subiectione se subtrahit. In quo etiam derogatur divinae regulae, ex qua sunt hominum ordines instituti, prout scilicet unus eorum sub alio esse debet. Ad tertium dicendum quod superbia non ori­ tur ex virtutibus sicut ex causa per se, sed si­ cut ex causa per accidens, inquantum scilicet aliquis ex virtutibus occasiones superbiae sumit. Nihil autem prohibet quin unum con­ trariorum sit alterius causa per accidens, ut dicitur in 8 Phys. [ 1 ,8]. Unde etiam et de ipsa hurnilitate aliqui superbiunt.

quando nascono dalla superbia completa, la quale, come si è visto, è un peccato mortale. 2. La superbia è sempre contraria ali' amore di Dio: poiché il superbo non si sottomette come deve alla norma divina. E talora è contraria anche all' amore del prossimo: quando cioè uno pretende sugli altri una superiorità illegit­ tima, o rifiuta loro una sottomissione dovero­ sa. E anche in questo caso agisce contro la norma divina, dalla quale dipende l' ordina­ mento degli uomini con la loro reciproca subordinazione. 3. Le virtù non sono la causa essenziale della superbia, ma cause accidentali: in quanto cioè uno ne prende occasione per insuperbirsi. Ora, nulla impedisce che un contrario sia cau­ sa accidentale del suo opposto, come nota Aristotele. Tanto che alcuni si insuperbiscono della stessa umiltà.

Articulus 6 Utrum superbia sit gravissimum peccatorum

Articolo 6 La superbia è il più grave dei peccati?

Ad sextum sic proceditur. Videtur quod superbia non sit gravissimum peccatorum. l . Quanto enim aliquod peccatum difficilius cavetur, tanto videtur esse levius. Sed super­ bia difficillime cavetur, quia sicut Augustinus dicit, in Regula [ep. 21 1 ], cetera peccata in malis operibus exercentw; ut fiant, superbia vero bonis operibus insidiatur, ut pereant. Ergo superbia non est gravissimum peccatum. 2. Praeterea, maius malum maiori bono op­ ponitur, ut philosophus dicit, in 8 Ethic. [ 1 0,2]. Sed humilitas, cui opponitur superbia, non est maxima virtutum, ut supra [q. 1 6 1 a. 5] habi­ tum est. Ergo et vitia quae opponuntur maiori­ bus virtutibus, puta infidelitas, desperatio, odium Dei, homicidium, et alia huiusmodi, sunt graviora peccata quam superbia. 3. Praeterea, maius malum non punitur per minus malum. Sed superbia interdum punitur per alia peccata, ut patet Rom. l [28], ubi dicitur quod philosophi propter elationem cordis traditi sunt in reprobum sensum, ut faciant quae non conveniunt. Ergo superbia non est gravissimum peccatorum. Sed contra est quod super illud Psalrni [118,51],

Sembra di no. Infatti: l . Più un peccato è difficile da evitarsi, più è leggero. Ma evitare la superbia è difficilissi­ mo: poiché, secondo Agostino, «mentre gli altri vizi spingono alle cattive azioni perché siano fatte, la superbia tende insidie anche a quelle buone, perché siano distrutte». Quindi la superbia non è il più grave dei peccati. 2. Come insegna il Filosofo, «un male mag­ giore si contrappone a un bene maggiore». Ora l'umiltà, che è l'opposto della superbia, non è la più grande delle virtù, stando alle spiegazioni date sopra. Quindi anche i vizi che si contrappongono alle virtù principali, come l'incredulità, la disperazione, l'odio di Dio, l'omicidio e gli altri del genere, sono peccati più gravi della superbia. 3. Un male più grave non può essere punito con un male minore. Ma la superbia è talvolta punita con altri peccati, come risulta da Rm l [28], dove è detto che gli antichi filosofi per l'orgoglio del loro cuore furono abbandonati in balìa di un 'intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno. Quindi la superbia non è il più grave dei peccati.

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La superbia

superbi inique agebant usquequaque,

dicit Glossa [Lomb. ; Ambrosius, In Ps. 1 1 8 serm. 7 super v. 5 1] , ma.ximum peccatum in homine

est superbia. Respondeo dicendum quod in peccato duo at­ tenduntur, scilicet conversio ad commutabile bonum, quae materialiter se habet i n peccato; et aversio a bono incommutabili, quae est for­ malis et completiva peccati. Ex parte autem conversionis, non habet superbia quod sit maximum peccatorum, quia celsitudo, quam superbus inordinate appetit, secundum suam rationem non habet maximam repugnantiam ad bonum virtutis. Sed ex parte aversionis, superbia habet maximam gravitatem, quia in aliis peccatis homo a Deo avertitur vel propter ignorantiam, vel propter infirmitatem, sive propter desiderium cuiuscumque alterius boni; sed superbia habet aversionem a Deo ex hoc ipso quod non vult Deo et eius regulae subiici. Unde Boetius [cf. De institutis 1 2,7] dicit quod, cum omnia vitia fugiant a Deo, sola superbia se Deo opponit. Propter quod etiam specialiter dicitur Iac. 4 [6], quod Deus superbis resisti!. Et ideo averti a Deo et eius praeceptis, quod est quasi consequens in aliis peccatis, per se ad superbiam pertinet, cuius actus est Dei contemptus. Et quia id quod est per se, semper est potius eo quod est per aliud, consequens est quod superbia sit gra­ vissimum peccatorum secundum suum ge­ nus, quia excedit in aversione, quae formaliter complet peccatum. Ad primum ergo dicendum quod aliquod peccatum difficile cavetur dupliciter. Uno modo, propter vehementiam impugnationis, sicut ira vehementer impugnat propter suum impetum. Et adlzuc difficilius est resistere concupiscentiae, propter eius connaturalita­ tem, ut dicitur in 2 Ethic. [3, 1 0]. Et talis diffi­ cultas vitandi peccatum gravitatem peccati di­ minuit, quia quanto aliquis minoris tentationis impetu cadit, tanto gravius peccat, ut Augusti­ nus dicit [De civ. Dei 14, 1 2. 15]. - Alio modo difficile est vitare aliquod peccatum propter eius latentiam. Et hoc modo superbiam difficile est vitarc, quia etiam ex ipsis bonis occasionem sumit, ut dictum est [a. 5 ad 3]. Et ideo signan­ ter Augustinus dicit quod bonis operibus insi­ diatur et in Psalmo [ 1 39,6; 1 4 1 ,4] dicitur, in

via hac qua ambulabam, absconderunt super­ bi laqueum mihi. Et ideo motus superbiae

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In contrario: nel commentare il Sal 1 1 8 [5 1 ] : I superbi agiscono iniquamente, la Glossa af­ ferma: «TI più grave peccato nell'uomo è la superbia». Risposta: due sono gli aspetti del peccato: la conversione o adesione al bene creato, che è l'aspetto materiale della colpa, e l' abbandono del bene increato, che ne è l' aspetto formale e costitutivo. Ora, la superbia sotto l ' aspetto dell'adesione non è il peccato più grave: poi­ ché la grandezza, a cui essa aspira disordina­ tamente, non ha in se stessa la massima in­ compatibilità con la virtù. Invece sotto l ' a­ spetto dell' allontanamento da Dio la superbia ha la massima gravità: poiché negli altri pec­ cati l' uomo si allontana da Dio o per ignoran­ za, o per fragilità, o per il desiderio di altri be­ ni, mentre nella superbia uno abbandona Dio proptio perché si rifiuta di sottomettersi alle sue disposizioni. Per cui Boezio [Cassiano] può affermare che «mentre tutti i vizi rifuggo­ no da Dio, solo la superbia si contrappone a Dio». Per questo è detto anche in modo sin­ golare: Dio resiste ai superbi (Gc 4,6). Perciò I' allontanarsi da Dio e dai suoi comanda­ menti, che è come un corollario negli altri peccati, è essenziale invece nella superbia, il cui atto è il disprezzo di Dio. E poiché ciò che è essenziale ha sempre una priorità su ciò che è accidentale o indiretto, è chiaro che la su­ perbia è per i l suo genere i l più grave dei peccati: poiché ha una priorità quanto all' al­ lontanamento da Dio, che è il costitutivo for­ male della colpa. Soluzione delle difficoltà: l . Può essere dif­ ficile guardarsi dal peccato per due motivi. Pri­ mo, per la violenza dei suoi attacchi: come nel caso dell'ira. E «ancora più difficile è resistere alla concupiscenza>>, secondo Aristotele, per la sua connaturalità. Ora, questo tipo di difficoltà diminuisce la gravità della colpa: poiché, come dice Agostino, quanto minore è la tentazione per cui uno cade, tanto più grave è il peccato. Secondo, può essere difficile evitare un pec­ cato per la sua inavvertibilità. E da questo lato è difficile evitare la superbia: poiché essa pren­ de occasione anche dal bene, come si è visto. Per questo Agostino afferma che «essa tende insidie anche alle opere buone»; e nel Sal 141 [4] è detto: Nel sentiero dove camminavo, i superbi mi hanno teso un laccio. E così un moto di superbia che sorprende di nascosto

1463

La superbia

occulte subrepens non habet maximam gravi­ tatem, antequam per iudicium rationis depre­ hendatur. Sed postquam deprehensus fuerit per rationem, tunc facile evitatur. Tum ex consideratione propriae infirmitatis, secun­ dum illud Eccli. IO [9], quid superbit terra et cinis? Tum etiam ex consideratione magnitu­ dinis divinae, secundum illud Iob 1 5 [ 1 3], quid tumet contra Dewn spiritus tuus? Tum etiam ex imperlèctione bonorum de quibus homo superbit, secundum illud lsaiae 40 [6],

omnis carofaenum, et omnis gloria eius quasi jlos agri; et infra, 64 [6], quasi pannus men­ struatae universae iustitiae nostrae. Ad secundum dicendum quod oppositio vitii ad virtutem attenditur secundum obiectum, quod consideratur ex parte conversionis. Et se­ cundum hoc superbia non habet quod sit ma­ ximum peccatorum, sicut nec humilitas quod sit maxima virtutum. Sed ex parte aversionis est maximum, utpote aliis peccatis magni­ tudinem praestans. Nam per hoc ipsum in:fi­ delitatis peccatum gravius redditur, si ex su­ perbiae contemptu procedat, quam si ex ignorantia vel infmnitate proveniat. Et idem di­ cendum est de desperatione et aliis huiusmodi. Ad tertium dicendum quod, sicut in syllogis­ mis ducentibus ad impossibile quandoque aliquis convincitur per hoc quod ducitur ad inconveniens magis manifestum; ita etiam, ad convincendum superbiam hominum, Deus aliquos punit permittens eos ruere in peccata carnalia, quae, etsi sint minora, tamen mani­ festiorem turpitudinem continent. Unde lsi­ dorus dicit, in libro De summo bono [Sent. 2,38], omni vitio deteriorem esse superbiam,

seu propter quod a summis personis et primis assumitur; seu quod de opere iustitiae et vir­ tutis exoritur, minusque culpa eius sentitur. Luxuria vero carnis ideo notabilis omnibus est, quoniam statim per se turpis est. Et tamen, dispensante Deo, superbia minor est, sed qui detinetur superbia et non sentit, labitur in camis luxuriam, ut per hanc humi­ liatus, a confusione exurgat. Ex quo etiam patet gravitas peccati superbiae. Sicut enim medicus sapiens in remedium maioris morbi patitur infinnum in leviorem morbum inci­ dere, ita etiam peccatum superbiae gravius es­ se ostenditur ex hoc ipso quod pro eius re­ medio Deus permittit ruere hominem in alia peccata.

Q. 1 62, A. 6

non ha una gravità estrema, finché non è svelato dal giudizio della ragione. Quando però è scoperto dalla ragione, può essere evitato facilmente. Sia in base alla considerazione del proprio nulla, secondo le parole di Sir IO [9]:

Perché mai si insuperbisce chi è terra e cenere? Oppure in base alla considerazione della gran­ dezza di Dio, secondo le parole di Gb 1 5 [ 1 3]: Perché si gonfia contro Dio il tuo spirito? O anche per l'impertèzione dei beni di cui l'uomo si insuperbisce, come è detto in Js 40 [6]: Ogni

uomo è come l'erba, e tutta la sua gloria è come un fiore del campo; e ancora ls 64 [6]: Come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia. 2. L' opposizione tra il vizio e la virtù è impo­ stata sull'oggetto, in rapporto al quale si ha l ' adesione peccaminosa, o conversione. Ma sotto tale aspetto la superbia non è il più grave dei peccati: come neppure l 'umiltà è la più grande delle virtù. Invece la superbia è tale dal lato dell'allontanamento, poiché fa cresce­ re la gravità degli altri peccati. Il peccato di incredulità infatti è più grave se deriva dal disprezzo della superbia che se proviene dal­ l' ignoranza o dalla fragilità. E lo stesso si dica della disperazione e degli altri peccati. 3. Come nelle argomentazioni per assurdo la falsità delle premesse è tanto più chiara quan­ to più evidente è l' assurdità delle conclusioni, così per confondere l ' orgoglio umano Dio punisce alcuni permettendo che cadano nei peccati della carne; i quali, anche se meno gravi, tuttavia hanno una turpitudine più evi­ dente. Per cui Isidoro afferma che «la super­ bia è il peggiore di tutti i vizi: sia perché si trova nelle persone più eminenti, sia perché nasce dalle opere giuste e virtuose, cosicché la sua colpa è meno avvertita. Invece la lussu­ ria è così evidente per tutti perché è immedia­ tamente ed essenzialmente vergognosa. Tutta­ via Dio ha voluto che, pur essendo essa meno grave della superbia, chi è vittima dell'orgo­ glio e non se ne avvede cada nella lussuria, affinché umiliato si desti dalla sua vergogna». E ciò dimostra la gravità della superbia. Co­ me infatti un medico saggio, per curare una malattia peggiore, permette che il paziente ca­ da in una malattia meno grave, così il fatto che Dio permetta, per guarire l' orgoglio, che l 'uomo cada in altri peccati, dimostra la mag­ giore gravità della superbia.

1 464

La superbia

Q. 162, A. 7 Articulus 7

Articolo 7

Utrum superbia sit primum omnium peccatorum

La superbia è il primo di tutti i peccati?

Ad septimum sic proceditur. Videtur quod su­ perbia non sit primum omnium peccatorum. l . Primum enim salvatur in ornnibus conse­ quentibus. Sed non omnia peccata sunt cum superbia, nec oriuntur ex superbia, dicit enim Augustinus, in l ibro De nat. et grat. [29], quod multa pe1peram fiunt quae non fiunt su­ perbe. Ergo superbia non est primum om­ nium peccatorum. 2. Praeterea, Eccli. 10 [1 4] dicitur quod ini­ tium superbiae est apostatare a Deo. Ergo apostasia a Deo est prius quam superbia. 3. Praeterea, ordo peccatorum esse videtur secundum ordinem virtutum. Sed humilitas non est prima vittutum, sed magis fides. Ergo superbia non est primum peccatorum. 4. Praeterea, 2 ad Tim. 3 [ 1 3], dicitur, mali ho­ mines et seductores proficiunt in peius, et ita videtur quod principium malitiae horninis non sit a maximo peccatorum. Sed superbia est ma­ ximum peccatorum, ut dictum est [a. 6]. Non est igitur primum peccatum. 5. Praeterea, id quod est secundum apparen­ tiam et fictionem, est posterius eo quod est secundum veritatem. Sed philosophus dicit, in 3 Ethic. [7,8], quod superbus estfictorfortitu­ dinis et audaciae. Ergo vitium audaciae est prius vitio superbiae. Sed contra est quod dicitur Eccli. 1 0 [ 1 5 ] ,

Sembra di no. Infatti: l . Ciò che è primo [in un genere di atti] si riscontra in tutti quelli successivi. Invece non tutti i peccati nascono o sono accompagnati dalla superbia: secondo Agostino, infatti, «molti atti sono fatti malamente, ma non con superbia». Perciò la superbia non è il primo di tutti i peccati. 2. In Sir IO [ 14] è detto: Il principio della superbia umana è allontanarsi da Dio. Quin­ di l'apostasia viene prima della superbia. 3. L' ordine dei peccati deve seguire l' ordine delle virtù. Ma la prima delle virtù non è l 'umiltà, bensì la fede. Quindi la superbia non è il primo dei peccati. 4. In 2 Tm 3 [ 1 3] è detto: I malvagi e gli impo­ stori andranno sempre di male in peggio; sem­ bra quindi che l'inizio della perversione umana non sia dal peccato più grave. Ora, la superbia è il più grave dei peccati, come si è visto sopra. Quindi essa non è il primo dei peccati. 5. Le cose finte e apparenti sono posteriori alle vere co1Tispondenti. Ora, il Filosofo affer­ ma che «il superbo finge fortezza e audacia». Perciò il vizio dell'audacia è prima del vizio della superbia. In contrario: in Sir IO [ 1 5] è detto: L'inizio di

initium omnis peccati superbia. Respondeo dicendum quod illud quod est per se, est primum in quolibet genere. Dictum est autem supra [a. 6] quod aversi o a Deo, quae formaliter complet rationem peccati, pertinet ad superbiam per se, ad alia autem peccata ex consequenti. Et inde est quod superbia habet ra­ tionem primi; et est etiam principium omnium peccatorum, ut supra [l-II q. 84 a. 2] dictum est, cum de causis peccati ageretur, ex parte aversionis, quae est principalior in peccato. Ad primum ergo dicendum quod superbia dicitur esse omnis peccati initium, non quia quodlibet peccatum singulariter ex superbia oriatur, sed quia quodlibet genus peccati na­ tum est ex superbia oriri. Ad secundum dicendum quod apostatare a Deo dicitur esse superbiae humanae initium, non quasi aliquod aliud peccatum a superbia

ogni peccato è la superbia. Risposta: in ogni cosa è primo ciò che è per se. Ora, sopra abbiamo visto che abbandonare Dio, che è il costitutivo formale del peccato, appartiene per se, cioè essenzialmente, alla superbia, e solo indirettamente agli altri pec­ cati. Quindi la superbia ha un carattere di primità; ed è anzi, come si è visto sopra par­ lando delle cause del peccato, il principio di ogni peccato dal lato dell' allontanamento, che è l' aspetto principale della colpa. Soluzione delle difficoltà: l . Si dice che la su­ perbia è «l'inizio di ogni peccato» non perché ogni singola colpa nasca dalla superbia, ma perché ogni genere di peccato può nascere da essa. 2. Si dice che l' allontanarsi da Dio è l'inizio della superbia umana non nel senso che sia un peccato distinto dalla superbia, ma perché è la sua prima specie. Abbiamo visto infatti che la superbia ha per oggetto principale la sotto-

La superbia

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existens, sed quia est prima superbiae pars. Dictum est enim [a. 5] quod superbia princi­ paliter respicit subiectionem divinam, quam contemnit, ex consequenti autem contemnit subiici creaturae propter Deum. Ad tettium dicendum quod non oportet esse eundem ordinem virtutum et vitiorum. Nam vitium est corruptivum virtutis. Id autem quod est primum in generatione, est postremum in corruptione. Et ideo, sicut tides est prima virtutum, ita infidelitas est ultimum pec­ catomm, ad quam homo quandoque per alia peccata perducitur. Super illud Psal m i ,

exinanite, exinanite usque ad fimdamentum in ea, dicit Glossa [Lomb.] quod coacervatione vitiontm subrepit dijjidentia. Et apostolus dicit, l ad Tim. l [ 19], quod quidam, repellentes con­ scientiam bonam, circafidem naufragaverunt. Ad quartum dicendum quod superbia dicitur esse gravissimum peccatum ex eo quod per se competit peccato, ex quo attenditur gravitas in peccato. Et ideo superbia causat gravitatem aliorum peccatorum. Contingit ergo ante su­ perbiam esse aliqua peccata leviora, quae scilicet ex ignorantia vel infirmitate commit­ tuntur. Sed inter gravia peccata primum est superbia, sicut causa per quam alia peccata aggravantur. Et quia id quod est primum in causando, est etiam ultimum in recedendo; ideo super illud Psalmi, emundabor a delicto maximo, dicit Glossa [Lomb.; Enarr. in Ps. 1 8, 1 super 14], hoc est, a delicto superbiae,

quod est ultimum redeuntibus ad Deum, et primum recedentibus. Ad quintum dicendum quod philosophus ponit superbiam circa fictionem fortitudinis, non quia solum in hoc consistat, sed quia per hoc homo maxime reputat se posse excellentiam apud homines consequi, si audax vel fortis videatur.

Q. 162, A. 7

missione a Dio, che essa rifiuta; di conse­ guenza poi essa rifiuta di sottomettersi alle creature in ossequio a Dio. 3. Non è detto che l'ordine dei vizi segua l'ordine delle virtù. Poiché il vizio è la corru­ zione della virtù. Ora, ciò che è primo nella generazione è l ' ultimo nella corruzione. Come quindi la fede è la prima delle virtù, così l'incredulità è l'ultimo dei peccati, e ad essa talvolta l'uomo è condotto dalle altre colpe. Per cui, commentando il Sal 1 36 [7]:

Distruggete, distruggete anche le sue fonda­ menta, la Glossa afferma che «nel cumulo dei vizi si insinua l'incredulità>>. E Paolo dice che

alcuni ripudiando la buona coscienza hanno fatto naufragio nellafede (l Tm l , 19). 4. Si dice che la superbia è il più grave pecca­ to sotto l'aspetto che è essenziale nei peccati, e dal quale si misura la loro gravità. E per questo la superbia causa la gravità degli altri peccati. Quindi prima della superbia ci posso­ no essere dei peccati non gravi, commessi per ignoranza o per fragilità. Ma tra i peccati gravi il primo è la superbia: essendo esso la causa che rende gravi tutti gli altri. E poiché ciò che è primo nel causare è l'ultima cosa a scomparire, nel commentare il Sal 1 8 [ 14] : Sarò puro dal grande peccato, la Glossa aggiunge: «Cioè dal delitto della superbia, che è l'ultimo per chi ritorna a Dio, come è il primo per chi se ne allontana». 5. Il Filosofo dice che la superbia finge la for­ tezza non perché consista solo in questo, ma perché è soprattutto con l' audacia e con la fortezza che si crede di poter conseguire l'eccellenza presso gli uomini.

Articulus 8 Utrum superbia debeat poni vitium capitale

Articolo 8 La superbia deve essere posta tra i vizi capitali?

Ad octavum sic proceditur. Videtur quod su­ perbia debeat poni vitium capitale. l . lsidorus enim [QVT in Deut. 1 6 super 7,1], et etiam Cassianus [De institutis 5, l; Collatio­ nes 5,2], enumerant superbiam inter vitia ca­ pitalia. 2. Praeterea, superbia videtur esse idem inani gloriae, quia utraque excellentiam quaerit.

Sembra di sì. Infatti: l. Isidoro e Cassiano la enumerano tra i vizi capitali. 2. La superbia si identifica con la vanagloria: poiché entrambe desiderano la propria eccel­ lenza. Ma la vanagloria è un vizio capitale. Quindi anche la superbia. 3. Agostino afferma che >. Perciò è evidente che il peccato del­ la donna fu più grave di quello dell'uomo. Soluzione delle difficoltà: l . L'inganno della donna fu posteriore al suo atto di superbia. Per­ ciò tale ignoranza non scusa, ma aggrava il suo peccato, producendo una superbia maggiore. 2. L'argomento considera le circostanze di persona, secondo le quali fu più grave il pec­ cato dell'uomo. 3 . L'uomo non contò sulla misericordia di Dio fino a disprezzare la sua giustizia, come fa il peccato contro lo Spirito Santo, perché «essendo inesperto della severità di Dio, pen­ sò che quel peccato fosse veniale», cioè tàcile a essere perdonato, come dice Agostino. -

QUESTIONE 1 64 IL CASTIGO DEL PRIMO PECCATO

Deinde considerandum est de poena primi peccati. Et circa hoc quaeruntur duo. Primo, de morte, quae est poena communis. Secun­ do, de aliis particularibus poenis quae in Ge­ nesi assignantur.

Passiamo a esaminare il castigo del primo peccato. Sull'argomento sono da considerarsi due cose: l . La morte, che è il castigo comune a tutti; 2. Le altre pene ricordate dalla Genesi.

Articulus l Utrum mors sit poena peccati primorum parentum

Articolo l La morte è il castigo del peccato dei nostri progenitori?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod mors non sit poena peccati primorum parentum. l . lliud enim quod est homini naturale, non

Sembra di no. Infatti: l . Ciò che per l'uomo è naturale non può dirsi castigo di un peccato: poiché il peccato non

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Il castigo delprimo peccato

Q. 164, A. l

potest dici poena peccati, quia peccatum non perficit naturam, sed vitiat. Mors autem est homini naturalis, quod patet ex hoc quod corpus eius ex contrariis componitur; et ex hoc etiam quod mortale ponitur in definitione hominis. Ergo mors non est poena peccati primorum parentum. 2. Praeterea, mors et alii corporales defectus similiter inveniuntur in homine sicut et in aliis animalibus, secundum illud Eccle. 3 [ 1 9] ,

perfeziona, ma degrada la natura. Ora, la mor­ te è naturale per l'uomo: come appare eviden­ te dal fatto che il suo corpo è composto di ele­ menti contrari, e anche dal fatto che il termine mortale è incluso nella definizione dell'uomo. Quindi la morte non è il castigo di un peccato dei nostri progenitori. 2. La morte e le altre miserie corporali si tro­ vano nell'uomo come anche negli altri anima­ li, secondo le parole di Qo 3 [ 1 9]: La sorte

unus interitus est hominis et iumentorum, et aequa utriusque conditio. Sed in animalibus

degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste muoiono quelli. Ma per gli animali bruti la morte non è la pena di un

brutis mors non est poena peccati. Ergo etiam neque in hominibus. 3. Praeterea, peccatum primorum parentum fuit specialium personarum. Sed mors conse­ quitur totam humanam naturam. Ergo non vi­ detur esse poena peccati primorum parentum. 4. Praeterea, omnes aequaliter derivantur a primis parentibus. Si igitur mors esset poena peccati primorum parentum, sequeretur quod ornnes homines aequaliter mortem paterentur. Quod patet esse falsum, quia quidam citius aliis, et gravius moriuntur. Ergo mors non est poena primi peccati. 5. Praeterea, malum poenae est a Deo, ut supra [q. 1 9 a. l ad 3; I q. 48 a. 6; q. 49 a. 2] habitum est. Sed mors non videtur esse a Deo, dicitur enim Sap. l [ 1 3], quod Deus mortem non fecit. Ergo mors non est poena primi peccati. 6. Praeterea, poenae non videntur esse meri­ toriae, nam meritum continetur sub bono, poena autem sub malo. Sed mors quandoque est meritoria, sicut patet de morte martyrum. Ergo videtur quod mors non sit poena. 7. Praeterea, poena videtur esse aftlictiva. Sed mors non potest esse afflictiva, ut videtur, quia quando mors est, homo non sentit; quan­ do autem non est, sentiri non potest. Ergo mors non est poena peccati. 8. Praeterea, si mors esset poena peccati, statim fuisset ad peccatum consecuta. Sed hoc non est verum, nam primi parentes post peccatum diu vixerunt, ut patet Gen. 4 [25; 5,4-5]. Ergo mors non videtur esse poena peccati. Sed contra est quod apostolus dicit, Rom. 5

[ 1 2], per unum hominem peccatum in hunc mundum intravit, et per peccatum mors. Respondeo dicendum quod, si aliquis propter culpam suam privetur aliquo beneficio sibi dato, carentia illius beneficii est poena culpae

peccato. Quindi neppure per gli uomini. 3. Il peccato dei nostri progenitori fu una colpa di persone detenninate. Invece la morte colpisce tutto il genere umano. Perciò questa sembra non essere il castigo del peccato dei nostri progenitori . 4. Tutti deriviamo ugualmente dai nostri pro­ genitori. Se quindi la morte fosse un castigo del loro peccato ne seguirebbe che tutti gli uomini dovrebbero subirla allo stesso modo. Il che è falso: poiché alcuni ne sono colpiti prima, o più gravemente. Quindi la morte non è un castigo del primo peccato. 5. Come si è detto sopra, il male della pena viene da Dio. Ma la morte non viene da Dio; infatti in Sap l [ 1 3] è detto: Dio non ha creato la morte. Perciò la morte non è la pena del primo peccato. 6. I castighi non sono meritori: infatti il meri­ to è nella categoria del bene, mentre il castigo rientra in quella del male. Ma la morte talora è meritoria: come nel caso dei martiri. Quindi la morte non sembra un castigo. 7. Un castigo deve essere afflittivo. Invece la morte non può essere afflittiva: poiché, quan­ do arriva, non la si sente più, e quando non c'è ancora, non la si può sentire. Quindi la morte non può essere un castigo del peccato. 8. Se la morte fosse un castigo del peccato sarebbe seguita immediatamente al peccato. Ma ciò non è vero: infatti i progenitori vissero a lungo dopo il peccato, come risulta da Gen 4 [25]. Quindi la morte non sembra un castigo del peccato. In contrario: Paolo dice: A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e con il

peccato la morte (Rm 5, 1 2). Risposta: se uno a motivo di una sua colpa è privato di un beneficio, la carenza di esso è un

Q. 164, A. l

IL castigo del primo peccato

illius. Sicut autem in primo [q. 95 a. l ; q. 97 a. l ] dictum est, homini in prima sui institu­ tione hoc beneficium fuit collatum divinitus, ut quandiu mens eius esset Deo subiecta, inferiores vires animae subiicerentur rationali menti, et corpus animae subiiceretur. Sed quia mens hominis per peccatum a divina subiec­ tione recessit, consecutum est ut nec inferio­ res vires totaliter rationi subiicerentur, unde tanta est rebellio carnalis appetitus ad ratio­ nem; nec etiam corpus totaliter subiiceretur animae, unde consequitur mors, et alii corpo­ rales defectus. Vita enim et incolumitas cor­ poris consistit in hoc quod subiiciatur animae, sicut perfectibile suae perfectioni, unde, per oppositum, mors et aegritudo, et quilibet cor­ poralis defectus, pertinet ad defectum subiec­ tionis corporis ad animam. Unde patet quod, sicut rebellio carnalis appetitus ad spiritum est poena peccati primorum parentum, ita etiam et mors et omnes corporales defectus. Ad primum ergo dicendum quod naturale di­ citur quod ex principiis naturae causatur. Na­ turae autem per se principia sunt forma et materia. Forma autem hominis est anima rationalis, quae de se est immortalis. Et ideo mors non est naturalis homini ex parte suae formae. Materia autem hominis est corpus tale quod est ex contrariis compositum, ad quod sequitur ex necessitate corruptibilitas. Et quantum ad hoc, mors est homini naturalis. Haec tamen conditio in materia humani cor­ poris est consequens ex necessitate materiae, quia oportebat corpus humanum esse orga­ num tactus, et per consequens medium inter tangibilia; et hoc non poterat esse nisi esset ex contrariis compositum, ut patet per philoso­ phum, in 2 De an. [ 1 0, 1 0] . Non autem est conditio secundum quam materia adaptetur formae, quia, si esset possibile, cum forma sit incorruptibilis, potius oporteret materiam in­ corruptibilem esse. Sicut quod serra sit ferrea, competit formae et actioni ipsius, ut per duri­ tiem sit apta ad secandum, sed quod sit potens rubiginem contrahere, consequitur ex necessi­ tate talis materiae, et non secundum electio­ nem agentis; nam si artifex posset, faceret ex ferro seiTam quae rubiginem non posset con­ trahere. Deus autem, qui est conditor hominis, omnipotens est. Unde ademit suo beneficio ab homine primitus instituto necessitatem moriendi ex tali materia consequentem. Quod

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castigo del suo peccato. Ora, come si è spie­ gato nella Prima Parte, l 'uomo nella sua crea­ zione ricevette da Dio questo beneficio: che fino a quando la sua mente fosse rimasta sog­ getta al Signore, le potenze inferiori dell'ani­ ma sarebbero restate sottomesse alla ragione, e il corpo all'anima. Ma poiché la mente del­ l'uomo rifiutò di sottomettersi a Dio, ne seguì che anche le potenze inferiori non furono più totalmente soggette alla ragione, per cui è così grande la ribellione degli appetiti della carne contro la ragione; e anche il corpo non fu più totalmente soggetto all'anima, cosicché ne seguì la morte, e tutte le altre miserie cor­ porali. Infatti la vita e l' incolumità del corpo consistono nel suo essere sottomesso all'ani­ ma, come il soggetto perfettibile alla sua per­ fezione: per cui, al contrario, la morte, le ma­ lattie e tutte le altre miserie corporali derivano dalla mancata soggezione del corpo all'ani­ ma. Risulta quindi evidente che, come la ri­ bellione della carne allo spirito, così anche la morte e tutte le miserie corporali sono un ca­ stigo del peccato dei nostri progenitori. Soluzione delle difficoltà: l . Si dice naturale ciò che è prodotto da cause naturali. Ora, le cause intrinseche della natura sono la materia e la fmma. Ma la fanna dell'uomo è l 'anima razionale, che per sua natura è immortale. Quindi la morte non è naturale per l'uomo dal lato della sua forma. La materia dell'uomo invece è un corpo composto di elementi con­ trari: dal che segue necessariamente la cor­ ruttibilità. Perciò da questo lato la morte è na­ turale per l 'uomo. Ma questa corruttibilità del corpo umano deriva da una necessità della materia: poiché bisognava che il corpo umano fosse l'organo del tatto, e quindi in una con­ dizione di equilibrio tra i corpi da percepire; il che non poteva verificarsi se esso non fosse stato composto di elementi contrari, come spiega Aristotele. Ora, questa non è una con­ dizione imposta dalla forma: poiché se fosse stato possibile, essendo la forma incorrut­ tibile, bisognava piuttosto provvederla di una materia incorruttibile. Come il fatto che la se­ ga sia di ferro si accorda con la sua forma e la sua operazione, in modo che essa possa se­ gare con la sua durezza, ma che essa sia sog­ getta alla ruggine dipende dalle esigenze di tale materia, e non dalla scelta di chi l'ha fat­ ta: se infatti l'artigiano potesse, la farebbe con

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Il castigo del primo peccato

tamen beneficium subtractum est per pecca­ tum primorum parentum. Et sic mors et est naturalis, propter conditionem materiae, et est poenalis, propter amissionem divini beneficii praeservantis a morte. Ad secundum dicendum quod similitudo illa hominis ad alia animalia attenditur quantum ad conditionem materiae, idest quantum ad corpus ex contrariis compositum, non autem quantum ad formam. Nam anima hominis est immortalis, brutorum vero animalium animae sunt mortales. Ad tertium dicendum quod primi parentes fuerunt instituti a Deo non solum sicut quae­ dam personae singulares, sed sicut quaedam principia totius humanae naturae ab eis in po­ steros derivandae simul cum beneficio divino praeservante a morte. Et ideo per eorum pec­ catum tota humana natura in posteris tali beneficio destituta, mortem incurrit. Ad quartum dicendum quod aliquis defectus ex peccato consequitur dupliciter. Uno modo, per modum poenae taxatae a iudice. Et talis defectus aequalis debet esse in his ad quos aequaliter pertinet peccatum. Alius autem de­ fectus est qui ex huiusmodi poena per acci­ dens consequitur, sicut quod aliquis pro sua culpa excaecatus, cadat in via. Et talis defec­ tus culpae non proportionatur, nec ab homine iudice pensatur, qui non potest fortuitos even­ tus praecognoscere. - Sic igitur poena taxata pro primo peccato, proportionaliter ei respon­ dens, fuit subtractio divini beneficii quo recti­ tudo et integritas humanae naturae conserva­ batur. Defectus autem consequentes subtrac­ tionem huius bcneficii, sunt mors et aliae poe­ nalitates praesentis vitae. Et ideo non oportet huiusmodi poenas aequales esse in his ad quos aequaliter pertinet primum peccatum. Verum quia Deus praescius est omnium futu­ rorum eventuum, ex dispensatione divinae providentiae huiusmodi poenalitates diversi­ mode in diversis inveniuntur, non quidem propter aliqua merita praecedentia hanc vitam, ut Origenes posuit [Peri Archon 2,9] (hoc enim est contra id quod dicitur Rom. 9 [1 1], cum nondum aliquid boni aut mali egissent; est etiam contra hoc quod in primo [q. 90 a. 4; q. 1 1 8 a. 3] ostensum est, quod anima non est creata ante corpus); sed vel in poenam paterno­ rum peccatorum, inquantum filius est quaedam res patris, unde frequenter parentes puniuntur

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un ferro non soggetto alla ruggine. Ora Dio, che ha creato l 'uomo, è onnipotente. E così per un beneficio gratuito egli tolse all'uomo nella sua prima creazione l a necessità di morire che derivava da tale materia. Ma que­ sto beneficio fu ritirato per la colpa dei nostri progenitori. Quindi la morte è naturale per la condizione della materia, ma è anche un ca­ stigo per la perdita del dono divino che pre­ servava dalla morte. 2. La suddetta somiglianza dell'uomo con gli animali si riscontra quanto alla condizione della materia, cioè del corpo composto di ele­ menti contrari, ma non quanto alla forma. In­ fatti l'anima dell 'uomo è immortale, mentre le anime delle bestie sono mortali. 3. I nostri progenitori non furono creati da Dio solo come persone determinate, ma quali ptincìpi di tutta la specie umana, che doveva essere trasmessa ai posteti assieme al dono gratuito dell'immortalità. E così il loro pecca­ to privò tutta la specie umana di tale benefi­ cio, abbandonandola alla morte. 4. Una menomazione può derivare da una colpa in due modi. Primo, come un castigo inflitto dal giudice. E tale menomazione deve essere uguale in tutti quelli che sono ugual­ mente partecipi della colpa. Secondo, la me­ nomazione può derivare dal suddetto castigo indirettamente: come uno che ha subito per sua colpa l'accecamento, può cadere lungo la strada. Ora, tale menomazione non è propor­ zionata alla colpa; c neppure è considerata dal giudice, il quale non può prevedere tutti i casi fortuiti. - Così dunque il castigo inflitto per il primo peccato, e ad esso adeguato, è la priva­ zione del dono divino della rettitudine e del­ l' integrità della natura umana. Le menoma­ zioni invece che seguono la sottrazione di questo dono sono la morte e le altre miserie della vita presente. Quindi non è necessario che tali castighi siano uguali in tutti quelli a cui ugualmente appartiene il primo peccato. Tuttavia, siccome Dio prevede tutti gli eventi futuri, queste penalità si trovano nelle varie persone in grado diverso per disposizione della divina provvidenza: non già per i meriti acquistati in una vita antecedente, come pen­ sava Origene (ciò infatti è contro le parole di Rm 9 [ 1 1 ] : Quando ancora nulla avevano fatto di bene o di male; e anche contro ciò che abbiamo già dimostrato nella Prima Parte, che

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in prole; vel etiam propter remedium salutis eius qui huiusmodi poenalitatibus subditur, ut scilicet per hoc a peccatis arceatur, vel etiam de virtutibus non superbiat, et per patientiam coronetur. Ad quintum dicendum quod mors dupliciter potest considerari. Uno modo, secundum quod est quoddam malum humanae naturae. Et sic non est ex Deo, sed est defectus quidam incidens ex culpa humana. Alio modo potest considerari secundum quod habet quandam rationem boni, prout scilicet est quaedam iusta poena. Et sic est a Deo. Unde Augusti­ nus dicit, in libro Retract. [ 1 ,2 1 .26], quod Deus non est auctor mortis, nisi inquantum est poena. Ad sextum dicendum quod, sicut Augustinus dicit, 1 3 De civ. Dei [5], quemadmodum iniusti male utuntur non tantum malis, verum etiam bonis; ita iusti bene utuntur non tantum bonis, sed etiam malis. Hinc fit ut et mali male lege utantur, quamvis sit lex bonum, et boni bene moriantur, quamvis sit m ors malum. Inquantum igitur sancti bene morte utuntur, fit eis mors meritoria. Ad septimum dicendum quod mors dupliciter accipi potest. Uno modo, pro ipsa privatione vitae. Et sic mors sentiri non potest, cum sit privatio sensus et vitae. Et sic non est poena sensus, sed poena damni. - Alio modo, se­ cundum quod nominat ipsam corruptionem quae terminatur ad privationem praedictam. De corruptione autem, sicut et de generatione, dupliciter loqui possumus. Uno modo, secun­ dum quod est terminus alterationis. Et sic in ipso instanti in quo primo privatur vita, dicitur inesse mors. Et secundum hoc etiam, mors non est poena sensus. Alio modo corruptio potest accipi cum alteratione praecedente, prout dicitur aliquis mori dum movetur in mortem; sicut dicitur aliquid generari dum movetur in generatum esse. Et sic mors potest esse aftlictiva. Ad octavum dicendum quod, sicut Augusti­ nus dicit, Super Gen. [De peccatorum meritis et remissione l , 1 6], quamvis annos multos primi parentes postea vixerint, ilio tamen die mori coeperunt quo mortis legem, qua in senium veterascerent, acceperunt.

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cioè l'anima non è creata prima del corpo), ma o come castigo delle colpe dei genitori, e ciò capita spesso, essendo il figlio come qual­ cosa del padre, per cui spesso i genitori sono puniti nella prole, oppure anche a beneficio spirituale di chi è sottoposto a queste soffe­ renze, per distoglierlo dal peccato, immuniz­ zarlo dall'orgoglio e coronarne la pazienza. 5. La morte può essere considerata sotto due aspetti. Primo, in quanto è un male della natu­ ra umana. E da questo lato essa non viene da Dio, ma è una menomazione dovuta a una colpa dell'uomo. Secondo, sotto l'aspetto di bene, come giusto castigo. E sotto questo aspetto essa viene da Dio. Scrive infatti Ago­ stino che Dio non è causa della morte se non in quanto essa è un castigo. 6. Agostino dice: «Come gli iniqui fanno catti­ vo uso non solo delle cose cattive, ma anche di quelle buone, così i giusti non fanno buon uso solo delle cose buone, ma anche di quelle cat­ tive. Ed è così che i malvagi abusano della leg­ ge, sebbene essa sia buona; e i buoni muoiono bene, sebbene la morte sia un male». Perciò la morte diviene meritoria per i santi perché ne fanno buon uso. 7. Il termine «morte» può indicare due cose. Primo, la privazione della vita. E così la mor­ te non può essere sentita: essendo essa la pri­ vazione del sentire e del vivere. In questo senso dunque non è una privazione afflittiva, ma privativa. - Secondo, può indicare la cor­ ruzione che porta alla suddetta privazione. Ora, per corruzione noi possiamo intendere due cose. Primo, il termine del moto d'altera­ zione. E in questo senso si dice che c'è la mor­ te nell'istante in cui si ha la privazione della vita. E anche in questo caso la morte non è una pena afflittiva. Secondo, nel termine cor­ ruzione possiamo includere l'alterazione che la precede: come diciamo ad es. che uno muore quando sta per morire; o che una cosa è generata mentre sta per nascere. E in questa accezione la morte può essere considerata una pena afflittiva. 8 . Come nota Agostino, «sebbene i nostri progenitori siano poi vissuti molti anni, tutta­ via essi cominciarono a morire dal giorno in cui cominciarono a subire la legge della mor­ te col proprio invecchiamento».

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Articulus 2 Utrum convenienter particulares poenae primorum parentum determinentur in Scriptura

Articolo 2 I castighi particolari dei progenitori sono ben determinati nella Scrittura?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod inconvenienter particulares poenae primorum parentum determinentur in Scriptura. l . Non enim debet assignari ut poena peccati id quod etiam sine peccato esset. Sed do/or in pariendo esset, ut videtur, etiam sine peccato, hoc enim requirit dispositio feminei sexus, ut proles nasci non possit sine dolore parientis. Similiter etiam subiectio mulieris ad virum consequitur perfectionem virilis sexus et im­ perfectionem muliebris. Germinatio etiam spinarum et tribulorum ad naturam terrae pertinet, quae fuisset etiam sine peccato. Non ergo huiusmodi sunt convenientes poenae primi peccati. 2. Praeterea, illud quod pertinet ad dignitatem alicuius, non videtur ad poenam eius pertine­ re. Sed multiplicatio conceptus pertinet ad dignitatem mulieris. Ergo non debet poni qua­ si mulieris poena. 3. Praeterea, poena peccati primorum paren­ tum ad omnes derivatur, sicut de morte dic­ tum est [a. l ad 3]. Sed non omnium mulie­ rum multiplicantur conceptus, nec omnes viri in sudore vultus sui pane vescuntur. Non ergo ista sunt convenientes poenae primi peccati. 4. Praeterea, locus Paradisi propter hominem factus erat. Sed nihil debet esse frustra in rerum ordine. Ergo videtur quod non fuerit conveniens hominis poena quod a Paradiso excluderetur. 5. Praeterea, locus ille Paradisi terrestris de se dicitur esse inaccessibilis [cf. glossa ord.; Beda, Hexaem. 2 super 2,8] . Frustra ergo apposita sunt alia impedimenta, ne homo illuc reverteretur, scilicet Cherubin et gladius jlammeus atque versatilis [Gen. 3,24]. 6. Praeterea, homo post peccatum statim ne­ cessitati mortis fuit addictus, et ita beneficio ligni vitae non poterat ad immortalitatem re­ parari. Frustra ergo ei esus ligni vitae interdi­ citur. Cum dicitur Gen. 3 [22], videte, ne fmte sumat de ligno vitae, et vivat in aeternum. 7. Praeterea, insultare misero videtur miseri­ cordiae et clementiae repugnare, quae maxi­ me in Scriptura Deo attribuitur, secundum illud Psalmi [144,9], miserationes eius super omnia opera eius. Ergo inconvenienter po-

Sembra di no. Infatti: l . Non deve essere assegnato come castigo del peccato ciò che esisterebbe anche senza di esso. Ora, «il dolore del parto» ci sarebbe, come sembra, anche senza il peccato: poiché la conformazione della donna esige che non si possa nascere senza il dolore della parto­ riente. E anche «la soggezione della donna all'uomo» deriva dalla superiorità del sesso maschile su quello femminile. «La nascita» poi «delle spine e dei triboli» è dovuta alla natura del terreno, che sarebbe stata la stessa anche senza il peccato. 2. Ciò che contribuisce alla dignità di una per­ sona non può essere un castigo per essa. Ma «la moltiplicazione dei concepimenti» contri­ buisce alla dignità di una donna. Quindi non doveva essere posta fra i castighi della donna. 3. La pena del peccato dei nostri progenitori si trasmette a tutti i discendenti, come si è vi­ sto per la morte. Ma non tutte le donne hanno «molteplici concepimenti», e non tutti gli uo­ mini «mangiano il pane col sudore della fron­ te». Perciò queste non sono delle pene conve­ nienti per il primo peccato. 4. n paradiso terrestre fu creato per l'uomo. Ma nell'universo non ci può essere nulla di inutile. Quindi sembra che non fosse un casti­ go ragionevole escludere l'uomo dal Paradiso terrestre. 5. Si dice che il Paradiso terrestre sia di per sé un luogo inaccessibile. Quindi erano inutili gli altri impedimenti perché l' uomo non vi tornasse, cioè i cherubini e la fiamma della spada roteallfe [Gen 3,24]. 6. L'uomo subito dopo il peccato fu sottopo­ sto alla necessità di morire: quindi non poteva più tornare immortale mediante l'albero della vita. Perciò era inutile proibirgli l'uso di quel­ l' albero, come invece è detto in Gen 3 [22] : Ora non prenda dall 'albero della vita, così che viva per sempre. 7. Schernire un miserabile ripugna alla mise­ ricordia e alla clemenza, che sono massima­ mente attribuite a Dio dalla Scrittura, secondo le parole del Sal 144 [9]: Le sue misericordie su tutte le sue creature. Quindi suona male

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nitur Dominum insultasse primis parentibus per peccatum iam in miseriam deductis, ubi [Gen. 3,22] dicitur, ecce, Adam quasi unus ex nobisfactus est, sciens bonum et malum 8 Praeterea, vestitus ad necessitatem hominis pertinet, sicut et cibus, secundum illud l ad Tim. 6 [8], habentes alimenta et quibus tega­ mw; his contenti sumus. Ergo, sicut cibus primis parentibus fuit attributus ante pecca­ turo, ita etiam et vestitus attribui debuit. In­ convenienter ergo post peccatum dicitur eis Deus tunicas pelliceasfecisse [Gen. 3,2 1 ]. 9. Praeterea, poena quae peccato alicui adhi­ betur, debet plus habere in malo quam emo­ lumentum quod quis ex peccato consequitur, alioquin, per poenam non deterreretur aliquis a peccato. Sed primi parentes ex peccato consecuti sunt quod eorum oculi aperirentur, ut dicitur Gen. 3 [7]. Hoc autem praeponderat in bono omnibus malis poenalibus quae po­ nuntur ex peccato consecuta. Inconvenienter igitur describuntur poenae peccatum primo­ rum parentum consequentes. In contrarium est quod huiusmodi poenae sunt divinitus taxatae, qui omnia facit in numero, pondere et mensura, ut dicitur Sap. I l [21]. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1 ], primi parentes propter suum peccatum privati sunt beneficio divino quo humanae naturae integritas in eis conservabatur, per cuius subtractionem humana natura in defec­ tus poenales incidit. Et ideo dupliciter puniti fuerunt. Primo quidem, quantum ad hoc quod subtractum fuit eis id quod integritatis statui competebat, scilicet locus terrestris Paradisi, quod significatur Gen. 3 [23] , cum dicitur, et emisit eum Deus de Paradiso voluptatis. Et quia ad illum statum primae innocentiae per seipsum redire non poterat, convenienter apposita sunt impedimenta ne rediret ad ea quae primo statui competebant, scilicet a cibo, ne sumeret de ligno vitae; et a loco, collocavit Deus ante Paradisum Cherubin et jlammeum gladium. Secundo autem puniti fuerunt quantum ad hoc quod attributa sunt eis ea quae naturae conveniunt tali beneficio destitutae. Et hoc quidem et quantum ad cor­ pus, et quantum ad animam. Quantum qui­ dem ad corpus, ad quod pertinet differentia sexus, alia poena attributa est mulieri, alia viro. Mulieri quidem attributa est poena se­ cundum duo propter quae viro coniungitur, -

dire che Dio schernì i nostri progenitori già ridotti in miseria dal peccato: Ecco, Adamo è divenuto come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male [Gen 3,22] . 8. Le vesti sono necessarie all'uomo come anche il cibo, secondo le parole di l Tm 6 [8] : Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo. Come quindi ai nostri progenitori il cibo fu assegna­ to prima del peccato, così fin da allora dovette essere provvisto anche il vestito. Perciò non è giusto dire che dopo il peccato Dio fece loro delle tuniche di pelle [Gen 3,2 1 ]. 9. n castigo inflitto per un peccato deve supe­ rare in male i vantaggi che un peccatore rica­ va dalla sua colpa: altrimenti il castigo non distoglierebbe dal peccato. Ma i nostri proge­ nitori ottennero col peccato che si aprissero i loro occhi (Gen 3,7). Ora, questo è un bene superiore a tutti i castighi indicati come con­ seguenze del peccato. Quindi le pene seguite al peccato dei nostri progenitori non sono ben descritte. In contrario: i castighi suddetti furono inflitti da Dio, il quale tutto dispone con numero, peso e misura (Sap 1 1,2 1 ). Risposta: come si è visto, i progenitori furono privati per il loro peccato dell'integrità della natura umana concessa da Dio, e in seguito a questa sottrazione tale natura subì diverse do­ lorose menomazioni. Essi quindi ebbero due punizioni. Primo, la sottrazione del luogo che si addiceva allo stato di integrità, cioè il Para­ diso terrestre; il che è significato dalle parole di Gen 3 [23]: E Dio lo scacciò dal Paradiso della felicità. E poiché l'uomo non poteva da se stesso tornare allo stato d'innocenza, furo­ no posti degli ostacoli perché egli non tornas­ se a godere di quanto si addiceva a quello sta­ to, cioè del cibo: perché non cogliesse dal­ l 'albero della vita, e del luogo: Dio pose a guardia del Paradiso un cherubino con la spada fiammeggiante. Secondo, essi furono puniti in quanto incorsero in quei difetti che si addicono a una natura destituita del dono del­ l'integrità. E ciò sia nel corpo che nell'anima. Rispetto al corpo, nel quale abbiamo la diffe­ renza dei sessi, la pena attribuita alla donna fu diversa da quella dell'uomo. La donna fu pu­ nita nei due legami che ha con l'uomo: cioè nella generazione della prole e nelle mansioni che le spettano nella vita domestica. Nella -

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quae sunt generatio prolis, et communicatio operum pertinentium ad domesticam conver­ sationem. Quantum autem ad generationem prolis, punita fuit dupliciter. Primo quidem, quantum ad taedia quae sustinet portando prolem conceptam, et hoc significatur cum dicitur [Gen. 3 . 1 6], multiplicabo aerumnas tuas et conceptus tuos. Et quantum ad dolo­ rem quem patitur in pariendo, et quantum ad hoc dicitur, in dolore paries. Quantum vero ad domesticam conversationem, punitur se­ cundum hoc quod subiicitur dominationi viri, per hoc quod dicitur, sub viri potestate eris. Sicut autem ad mulierem pertinet ut subdatur viro in his quae ad domesticam conversatio­ nem pertinent, ita ad virum pertinet quod ne­ cessaria vitae procuret. Et circa hoc punitur tripliciter. Primo quidem, per terrae sterilita­ tem, cum dicitur [Gen. 3, 17], maledicta terra in opere tuo. Secondo, per laboris anxietatem, sine qua fructus terrae non percipit, unde dicitur [Gen. 3,7], in labore comedes de ea cunctis diebus vitae tuae. Tertio, quantum ad impedimenta quae proveniunt terram colen­ tibus, unde dicitur [Gen. 3,22], spinas et tribulos ge1minabit tibi. Similiter etiam ex parte animae triplex eomm poena describitur. Primo quidem, quantum ad confusionem quam passi sunt de rebellione carnis ad spiri­ turo, unde dicitur [Gen. 3, 1 9] , aperti sunt oculi amborwn, et cognoverunt se esse nudos. Secondo, quantum ad increpationem propriae culpae, per hoc quod dicitur [Gen. 3 ,2 1 ] , ecce, Adam factus est quasi unus ex nobis. Tertio, quantum ad commemorationem futu­ rae mortis, secundum quod ci dictum est, pulvis es, et in pulverem reverteris. Ad quod etiam pertinet quod Deus fecit eis tunicas pelliceas, in signum mortalitatis eomm. Ad primum ergo dicendum quod in statu innocentiae fuisset partus absque dolore. Dicit enim Augustinus, 14 De civ. Dei [26], sic ad pariendum non dolm·is gemitus, sed maturi­ tatis impulsus feminea viscera relaxaret, sicut ad concipiendum non libidinis appetitus, sed voluntarius usus naturam utramque coniun­ geret. Subiectio autem mulieris ad virum intelligenda est in poenam mulieris esse in­ ducta, non quantum ad regimen, quia etiam ante peccatum vir caput mulieris fuisset et eius gubemator existeret, sed prout mulier, contra propriam voluntatem, necesse habet -

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generazione poi la donna fu punita in due modi. Primo, con le tribolazioni che deve sopportare per la gestazione della prole, e ciò è incluso in quel testo [Gen 3,16] : Moltiplicherò i tuoi travagli e le tue gravidanze. Secondo, col dolore del parto: Partorirai nel dolore. Rispetto invece alla vita domestica la donna fu punita con l'assoggettamento al dominio del­ l'uomo: Sarai sotto il potere del marito. Ma come la donna deve sottostare al marito nella vita domestica, così l'uomo deve procurare il necessario alla vita. E qui egli è punito in tre modi. Primo, con la sterilità della terra: Male­ detta la terra per causa tua! Secondo, con la fatica del lavoro, senza della quale non può percepire i fiutti della terra: Tra le fatiche ne ricaverai il nutrimento in tutti i giorni della tua vita. Terzo, con gli ostacoli che incontrano i coltivatori della terra: Ti gennoglierà triboli e spine. - E anche rispetto a11' anima sono indica­ te tre punizioni. Primo, la vergogna che i pro­ genitori subirono con la ribellione della carne allo spirito: Si aprirono gli occhi ad ambedue, e si accorsero di essere nudi [Gen 3, 19]. Se­ condo, il rimprovero della loro colpa: Ecco A­ damo è diventato come uno di noi [Gen 3,21]. Terzo, il pensiero del la morte futura: Sei polvere e in polvere ritornerai [Gen 3, 19]. E ciò è indicato anche dal fatto che Dio fece loro delle tuniche di pelle [Gen 3,2 1 ], simbolo della loro mortalità. Soluzione delle difficoltà: l . Nello stato di in­ nocenza i l parto sarebbe stato senza dolore. «ll seno delle madri sarebbe stato sollecitato al parto non dai gemiti del dolore», scrive Agostino, «ma dalla maturazione del feto, come non ci sarebbe stato nel concepire l'impulso della libidine, ma l'uso volontario dell'accoppiamento». - Inoltre la soggezione della donna al marito è un castigo non rispetto al governo della famiglia, poiché anche prima del peccato l'uomo sarebbe stato capo della donna e sua guida, ma in quanto la donna è costretta per necessità a sottostare al volere del marito, contro la propria volontà. - Se poi l'uomo non avesse peccato, la terra avrebbe germinato lriboli e spine come cibo degli ani­ mali, non già come castigo dell'uomo: poiché la loro presenza, secondo Agostino, non avrebbe procurato all' uomo che lavorava la terra alcuna fatica o puntura. Alcuino invece afferma che prima del peccato la terra non

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viri voluntati parere. - Spinas autem et tribu­ los terra germinasset, si homo non peccasset, in cibum animalium, non autem in hominis poenam, quia scilicet per eorum exortum nul­ lus labor aut punctio homini operanti in terra accideret, ut Augustinus dicit, Super Gen. [3, 1 8] . Quamvis Alcuinus [Interrog. et resp. in Genesim, interrog. 79] dicat quod ante pec­ catum terra omnino spinas et tribulos non germinasset. Sed primum melius est. Ad secundum dicendum quod multitudo con­ ceptuum inducitur in poenam mulieris, non propter ipsam procreationem prolis, quae etiam ante peccatum fuisset, sed propter mul­ titudinem afflictionum, quae mulier patitur ex hoc quod portat fetum conceptum. Unde signanter coniungitur, multiplicabo aerumnas

tuas et conceptus tuos. Ad tertium dicendum quod i llae poenae aliqualiter ad omnes pertinent. Quaecumque enim mulier concipit, necesse est quod ae­ rumnas patiatur et cum dolore pariat, praeter beatam Vìrginem, quae sine corruptione con­ cepit et sine dolore peperit, quia eius concep­ tio non fuit secundum legem naturae a primis parentibus derivata. Si autem aliqua non con­ cipit neque parit, patitur sterilitatis defectum, qui praeponderat poenis praedictis. - Similiter etiam op01tet ut quicumque temun operatur, in sudore vultus comedat panem. Et qui ipsi per se agriculturam non exercent, in aliis laboribus occupantur, homo enim nascitur ad laborem, ut dicitur lob 5 [7], et sic panem ab aliis in sudore vultus elaboratum manducant. Ad quartum dicendum quod locus ille Paradi­ si terrestris, quamvis non serviat homini ad usum, servit tamen ei ad documentum, dum cognoscit propter peccatum se tali loco fuisse privatum; et dum per ea quae corporaliter in illo Paradiso sunt, instruuntur de his quae pertinent ad Paradisum caelestem, quo aditus homini praeparatur per Christum. Ad quintum dicendum quod, salvis spiritualis sensus mysteriis, locus ille praecipue videtur esse inaccessibilis propter vehementiam ae­ stus in locis intermediis ex propinquitate solis. Et hoc significatur per jlammeum gladium, qui versatilis dicitur, propter proprietatem motus circularis huiusmodi aestum causantis. Et quia motus corporalis creaturae disponitur ministerio Angelorum, ut patet per Augusti­ num, 3 De Trio. [4]; convenienter etiam simul

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avrebbe prodotto per nulla triboli e spine. Ma la prima spiegazione è migliore. 2. La molteplicità dei concepimenti è riferita tra i castighi della donna non per la stessa procreazione della prole, che ci sarebbe stata anche prima del peccato, ma per i molteplici travagli che la donna soffre nella gestazione. È detto infatti di proposito: «Moltiplicherò i tuoi travagli e i tuoi concepimenti». 3. I castighi ricordati colpiscono in qualche modo tutti. Poiché tutte le donne che concepi­ scono sono soggette ai travagli e ai dolori del parto: eccetto la beata Vergine, la quale «con­ cepì senza corruzione e partorl senza dolore», poiché il suo concepimento non avvenne se­ condo la legge naturale derivata dai nostri progenitori. Se poi alcune non concepiscono e non partoriscono, allora soffrono la sterilità, che è più grave delle sofferenze suddette. Parimenti è necessario che chiunque coltiva la terra mangi il pane con il sudore della fronte. E quegli stessi che non la coltivano diretta­ mente sono occupati in altri lavori, poiché, come è detto in Gb 5 [7], l'uomo nasce per lavorare; quindi uno mangia il pane prodotto da altri con il suo sudore. 4. Sebbene il luogo del Paradiso terrestre non serva all'uomo per abitazione, tuttavia gli ser­ ve di insegnamento: egli infatti viene a cono­ scere che è stato escluso da quel luogo per il peccato; e inoltre le realtà materiali esistenti in esso gli parlano di quelle esistenti nel Para­ diso celeste, di cui Cristo gli ha aperto la via. 5. Senza pregiudizio per i misteri racchiusi nel senso spirituale del testo, sembra che detto luogo sia inaccessibile per la violenza del ca­ lore ai tropici dovuta alla vicinanza del sole. E ciò è indicato dalla «spada fiammeggiante»: la quale è detta «roteante» per il moto circola­ re che provoca questo calore. E poiché il mo­ to delle creature materiali dipende dal mini­ stero degli angeli, come insegna Agostino, è giusto che con la spada roteante siano pure ri­ cordati «i cherubini che impediscono l' acces­ so all'albero della vita». Infatti Agostino dice: «Dobbiamo credere che gli angeli stabilirono quasi uno sbarramento di fuoco attorno al Paradiso terrestre». 6. Se dopo il peccato l'uomo avesse mangiato i frutti dell'albero della vita, non avrebbe per questo ricuperato l'immortalità, ma avrebbe potuto prolungare la vita. Perciò n eli' espres-

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cum gladio versatili Cherubin adiungitur, ad custodiendam viam ligni vitae. Unde Augusti­ nus dicit, I l Super Gen. [40], hoc per caelestes

potestates etiam in Paradiso visibili factum es­ se credendum est, ut per angelicum ministe­ rium esser illic quaedam ignea custodia. Ad sextum dicendum quod homo, si post pec­ catum de ligno vitae comedisset, non propter hoc immortalitatem recuperasset, sed bene­ ficio illius cibi potuisset vitam magis prolon­ gare. Unde quod dicitur, et vivat in aetemum, sumitur i b i aeternum pro diuturno. Hoc autem non expediebat homini, ut in miseria huius vitae diutius permaneret. Ad septimum dicendum quod, sicut Augusti­ nus dicit, I l Super Gen. [39] , verba Dei non

tam sunt primis parentibus insultantis, quam ceteros, ne ita superbiant, deterrentis, propter quos ista conscripta sunt, quia scilicet non solwn Adam non fuit factus qualis fieri voluit, sed nec illud quodfactusfuerat, conservavit. Ad octavum dicendum quod vestitus necessa­ rius est homini secundum statum praesentis miseriae, propter duo, primo quidem, propter defectum ab exterioribus nocumentis, puta in­ temperie caloris et frigoris; secondo, ad tegu­ mentum ignominiae, ne turpitudo membro­ rum appareat in quibus praecipue manifesta­ tur rebellio carnis ad spiritum. Haec autem duo in primo stato non erant. Quia in stato ilio corpus hominis non poterat per aliquid extrin­ secum laedi, ut in primo [q. 97 a. 2] dictum est. Nec etiam erat in stato ilio aliqua turpitu­ do in corpore hominis quae confusionem in­ duceret, unde dicitur Genesi [2,25], erat au­

tem uterque nudus, Adam scilicet et uxor eius, et non entbescebant. Alia autem ratio est de cibo, qui est necessarius ad fomentum caloris naturalis et ad corporis augmentum. Ad nonum dicendum quod, sicut Augustinus dicit, I l Super Gen. [3 1], non est credendum quod primi parentes essent producti clausis oculis, praecipue cum de muliere dicatur quod vidit lignum, quod esset pulchntm et bo­

num ad vescendum. Aperti ergo sunt oculi amborum ad aliquid intuendum et cogitan­ dum quod antea nunquam adverterant, scili­ cet ad invicem concupiscendum, quod ante non fuerat.

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sione: «per vivere in eterno», eterno sta per molto a lungo. Ora, non conveniva all'uomo vivere a lungo nella miseria di questa vita. 7. Come spiega Agostino, «le parole di Dio non sono tanto uno scherno contro i nostri progenitori, quanto un deterrente contro la superbia dei loro discendenti, per i quali furo­ no scritte: poiché non solo Adamo non diven­ ne tale quale voleva diventare, ma non rimase neppure quale era prima». 8. L' uomo nello stato della miseria presente ha bisogno del cibo per due motivi: primo, per difendersi dagli agenti esterni, quali gli eccessi del caldo e del freddo; secondo, per coprire le vergogne, cioè per nascondere la turpitudine delle membra in cui soprattutto si manifesta la ribellione della carne allo spirito. Ora, queste due cose non ci potevano essere nello stato primitivo. Poiché allora il corpo dell'uomo non poteva essere danneggiato da alcun agente esterno, come si è spiegato nella Prima Pmte. E inoltre in quello stato del cor­ po umano non c'era nulla che potesse provo­ care vergogna; infatti in Gen [2,25] è detto:

Tutti e due erano nudi, Adamo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna. Diverso in­ vece è il caso del cibo, che è sempre necessa­ rio per l'alimentazione del calore naturale e lo sviluppo del corpo. 9. Come dice Agostino, non è da credere che i nostri progenitori siano stati creati «con gli occhi chiusi»; soprattutto quando a proposito della donna si dice: «Vide che l ' albero era buono da mangiare e gradito agli occhi» . «Perciò i loro occhi si aprirono allora per ve­ dere e comprendere cose che prima non ave­ vano mai avvertito»: cioè la concupiscenza reciproca, che prima non c'era.

La tentazione dei nostri progenitori

Q. 165, A. l QUAESTIO

1 65

1484 QUESTIONE

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DE TENTATIONE PRIMORUM PARENTUM

LA TENTAZIONE DEI NOSTRI PROGENITORI

Deinde considerandum est de tentatione pri­ morum parentum. Circa quam quaeruntur duo. Primo, utrum fuerit conveniens quod ho­ mo a diabolo tentaretur. Secundo, de modo et ordine illius tentationis.

Prendiamo ora a esaminare la tentazione dei nostri progenitoti. Su questo tema tratteremo due argomenti: l . Era conveniente che l'uo­ mo fosse tentato dal demonio? 2. Il modo e l 'ordine di questa tentazione.

Articulus l

Articolo l

Utrum fuerit conveniens ut homo a diabolo tentaretur

Era conveniente che l'uomo fosse tentato dal demonio?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod non fuerit conveniens ut homo a diabolo tentaretur. l . Eadem enim poena finalis debetur peccato angeli et peccato hominis, secundum illud Matth. 25 [4 1 ], ite, maledicti, in ignem aeter­

Sembra di no. Infatti: l . Al peccato dell' angelo e a quello dell' uo­ mo è dovuto lo stesso castigo finale, secondo le parole di Mt 25 [41]: Via, lontano da me,

num, qui paratus est diabolo et angelis eius. Sed primum peccatum angeli non fui t ex aliqua tentatione exteriori. Ergo nec primum peccatum hominis debuit esse ex aliqua tenta­ tione exteriori. 2. Praeterea, Deus, praescius futurorum, scie­ bat quod homo per tentationem daemonis in peccatum deiiceretur, et sic bene sciebat quod non expediebat ei quod tentaretur. Ergo vide­ tur quod non fuerit conveniens quod perrnit­ teret eum tentari. 3. Praeterea, quod aliquis impugnatorem habeat, ad poenam pertinere videtur, sicut et e contrario ad praemium pertinere videtur quod impugnarlo subtrahatur, secundum illud Prov. 1 6 [7], cum

placuerint Domino viae hominis, inimicos quoque eius converte! adpacem. Sed poena non debet praecedere culpam. Ergo inconveniens fuit quod homo ante peccatum tentaretur. Sed contra est quod dicitur Eccli. 34 [9], qui

non est tentatus, qualia scit? Respondeo dicendum quod divina sapientia disponit omnia suaviter, ut dicitur Sap. 8 [ 1 ], inquantum scilicet sua providentia singulis at­ tribuit quae eis competunt secundum suam naturam; quia, ut Dionysius dicit, 4 cap. De div. nom. [33], providentiae non est naturam corrompere, sed salvare. Hoc autem pertinet ad conditionem humanae naturae, ut ab aliis creaturis iuvari vel impedici possit. Unde con­ veniens fuit ut Deus hominem in statu inno­ centiae et tentari perrnitteret per malos ange­ los, et iuvari eum faceret per bonos. Ex spe-

maledetti, nel fiwco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Ma il primo pec­ cato dell' angelo non fu provocato da alcuna tentazione esterna. Quindi neppure il primo peccato dell'uomo doveva dipendere da una simile tentazione. 2. Dio, conoscendo il futuro, sapeva che l ' uo­ mo sarebbe stato vinto dalla tentazione del demonio: e così sapeva bene che essa non gli avrebbe giovato. Quindi non sembra ragio­ nevole permettere che l'uomo fosse tentato. 3. Essere aggrediti è piuttosto un castigo, co­ me al contrario è un premio la cessazione di ogni ostilità, secondo le parole di Pr 1 6 [7]:

Quando il Signore si compiace della condotta di un uomo, riconcilia con lui anche i suoi nemici. Ora, il castigo non può precedere la colpa. Perciò non era giusto che l'uomo anco­ ra innocente fosse tentato. In contrario: in Sir 34 [9] : Chi non è stato

tentato, che cosa sa ? Risposta: la sapienza divina

dispone tutte le cose con soavità (Sap 8,1 ), in quanto cioè con la sua provvidenza dà a ciascuna di esse ciò che le spetta secondo la sua natura, poiché, secondo Dionigi, «la provvidenza non mira a distruggere la natura, ma a conservarla>>. Ora, la natura umana è tale che può essere aiutata od ostacolata da altre creature. Quindi era ra­ gionevole che da una parte Dio permettesse che nello stato di innocenza l'uomo fosse ten­ tato dagli angeli cattivi, e dali' altra parte lo fa­ cesse aiutare dagli angeli buoni. Tuttavia per un particolare dono di grazia era stato con-

La tentazione dei nostri progenitori

1485

ciali autem beneficio gratiae hoc erat ei colla­ rum, ut nulla creatura exterior ei posset nocere contra propriam voluntatem, per quam etiam tentationi daemonis resistere poterat. Ad primum ergo dicendum quod supra natu­ ram humanam est aliqua natura in qua potest malum culpae inveniri, non autem supra na­ turam angelicam. Tentare autem inducendo ad malum, non est nisi iam depravati per cul­ pam. Et ideo conveniens fuit ut homo per an­ gelum malum tentaretur ad peccandum, sicut etiam, secundum naturae ordinem, per an­ gelum bonum promovetur ad perfectionem. Angelus autem a suo superiori, scilicet a Deo, in bono perfici potuit, non autem ad pec­ candum induci, quia, sicut dicitur Iac. l [ 1 3],

Q. 165, A. l

cesso all'uomo che non ci fosse alcuna crea­ tura a lui esterna che potesse nuocergli contro la sua volontà, con la quale egli poteva resi­ stere anche alla tentazione del demonio. Soluzione delle difficoltà: l . Sopra la natura dell' uomo esiste una natura in cui è possibile la presenza della colpa; non invece sopra la natura dell'angelo. Ora, tentare per indurre al male è solo di chi è già stato depravato dalla colpa. Perciò era ragionevole che l'uomo fos­ se tentato al male da un angelo cattivo, come anche secondo l'ordine naturale è aiutato nel bene da un angelo buono. Invece l' angelo può essere aiutato nel bene da chi gli è superiore, cioè da Dio, ma non può da lui essere indotto a peccare, poiché Dio non tenta nessuno al

Deus intentator malorum est.

male (Gc 1, 13).

Ad secundum dicendum quod, sicut Deus sciebat quod homo per tentationem in pecca­ rum esset deiiciendus, ita etiam sciebat quod per l i berum arbitrium res i stere poterat tentatori. Hoc autem requirebat conditio na­ turae ipsius, ut propriae voluntati relinquere­ tur, secundum illud Eccli. 1 5 [ 1 4] , Deus reliquit hominem in nwnu co11silii sui. Unde Augustinus dicit, 1 1 Super Gen. [4], 11011 mihi

2. Come Dio sapeva che l'uomo con la tenta­ zione sarebbe caduto nel peccato, così anche sapeva che con il libero arbitrio avrebbe potu­ to resistere al tentatore. Ma la condizione della sua natura esigeva che l ' uomo fosse lasciato alla propria volontà, secondo le paro­ le di Sir 1 5 [ 1 4] : Dio ha lasciato l 'uomo in balìa del suo proprio volere. Per cui Agostino scrive: «Mi sembra che non sarebbe stato di grande lode per l'uomo se fosse potuto vivere bene solo perché nessuno lo esortava al male, avendo dalla natura la facoltà e in questa facoltà la volontà di non acconsentire alla ten­ tazione». 3. È un castigo l' assalto a cui si resiste con difficoltà. Ma l'uomo nello stato d'innocenza poteva resistere alla tentazione senza diffi­ coltà. Perciò l' assalto del tentatore non era per lui un castigo.

videtur magnae laudis fitturum fuisse homi11em, si pmpterea posset bene vivere quia ne­ mo male vivere suaderet, cum et in natura posse, et in potestate haberet velle non con­ sentire suadenti. Ad tertium dicendum quod impugnatio cui cum difficultate resistitur, poenalis est. Sed homo in statu innocentiae poterat absque omni difficultate tentationi resistere. Et ideo impugnatio tentatoris poenalis ei non fuit. Articulus 2

Utrum fuerit conveniens modus et ordo primae tentationis Ad secundum sic proceditur. Videtur quod non fuerit conveniens modus et ordo primae tentationis. l. Sicut enim ordine naturae angelus erat su­ perior homine, ita et vir erat perfectior mu­ liere. Sed peccatum pervenit ab angelo ad ho­ minem. Ergo, pari ratione, debuit pervenire a viro in mulierem, ut scilicet mulier per virum tentaretur, et non e converso. 2. Praeterea, tentatio primorum parentum fuit per suggestionem. Potest autem diabolus sug-

Articolo 2 D modo e l'ordine della prima tentazione

sono stati convenienti? Sembra di no. Infatti: l . Come in ordine di natura l'angelo era supe­ riore all'uomo, così l'uomo era più perfetto della donna. Ora, il peccato doveva discende­ re dall'angelo all'uomo. Quindi doveva anche raggiungere la donna attraverso l'uomo, per cui la donna doveva essere tentata dall'uomo, e non viceversa 2. La tentazione dei nostri progenitori avven­ ne per suggerimento. Ma il demonio può sug­ gerire all' uomo anche senza alcuna creatura

Q. 165, A. 2

La tentazione dei nostri progenitori

gerere homini etiam absque aliqua exteriori sensibili creatura. Cum ergo primi parentes essent spirituali mente praediti, minus sensi­ bilibus quam intelligibilibus inhaerentes, con­ venientius fuisset quod solum spirituali tenta­ tione homo tentaretur quam exterioti. 3 . Praeterea, non potest convenienter aliquis malum suggerere nisi per aliquid quod appa­ reat bonum. Sed multa alia animalia habent maiorem apparentiam boni quam serpens. Non ergo convenienter tentatus fuit homo a Diabolo per serpentem. 4. Praeterea, serpens est animai irrationale. Sed animali irrationali non competit sapientia nec locutio, nec poena. Ergo inconvenienter inducitur serpens esse callidior cunctis anima­ libus [Gen. 3,1], vel, prudentissimus omnium bestiarum, secundum aliam translationem [iuxta vers. LXX]. Inconvenienter etiam indu­ citur fuisse mulieri locutus, et a Deo punitus. Sed contra est quod id quod est primum in aliquo genere, debet esse proportionatum his quae in eodem genere consequuntur. Sed in quolibet peccato inveninrr ordo primae tenta­ tionis, inquantum videlicet praecedit in sen­ sualitate, quae per serpentem significatur, peccati concupiscentia; in ratione inferiori, quae significatur per mulierem, delectatio; in ratione superiori, quae signitìcatur per virum, consensus peccati; ut Augustinus dicit, 12 De Trin. [ 1 2] . Ergo congruus fuit ordo primae tentationis. Respondeo dicendum quod homo compositus est ex duplici natura, intellectiva scilicet et sensitiva. Et ideo diabolus in tentatione ho­ minis usus est incitamento ad peccandum du­ pliciter. Uno quidem modo, ex parte intel­ lectus, inquantum promisit divinitatis simili­ tudinem per scientiae adeptionem, quam ho­ mo naturaliter desiderat. Alio modo, ex parte sensus. Et sic usus est his sensibilibus rebus quae maximam habent affinitatem ad homi­ nem, partim quidem in eadem specie, tentans virum per mulierem; partim vero in eodem genere, tentans mulierem per serpentem; par­ tim vero ex genere propinquo, proponens pomum ligni vetiti ad edendum. Ad primum ergo dicendum quod in actu ten­ tationis diabolus erat sicut principale agens, sed mulier assumebatur quasi instrumentum tentationis ad deiiciendum virum. Tum quia mulier erat infimùor viro, unde magis seduci

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sensibile esterna. Siccome dunque i progeni­ tori erano dotati di un'intelligenza spirituale, e aderivano meno alle realtà sensibili che a quelle intelligibili, sarebbe stato più logico che la loro tentazione fosse soltanto spirituale, e non esterna. 3. Non si può suggerire il male se non per mezzo di una cosa apparentemente buona. Ora, molti altri animali hanno più del serpente un'apparenza buona. Quindi non era conve­ niente che l'uomo fosse tentato dal demonio per mezzo del serpente. 4. n serpente è un animale irrazionale. Ma a un animale privo di ragione non si addice né la sapienza, né la loquela, né il castigo. Perciò non ha senso affermare che il serpente era il più astuto fra tutti gli animali [Gen 3,1 ] ; op­ pure, secondo un'altra versione [LXX], la più prudente di tutte le bestie. E così pure non ha senso affermare che esso parlò alla donna, e che fu punito da Dio. In contrario: ciò che è primo in un dato genere di cose deve essere proporzionato a ciò che segue in tale genere. Ora in ogni peccato, co­ me spiega Agostino, si riscontra l'ordine della prima tentazione: poiché nella sensualità, rappresentata dal serpente, si produce in primo luogo la concupiscenza del peccato; nella ragione inferiore, rappresentata dalla donna, se ne ha poi la compiacenza; nella ragione supe­ riore infine, rappresentata dall'uomo, si ha il consenso al peccato. Quindi l'ordine della prima tentazione è pienamente giustificato. Risposta: l'uomo è composto di una duplice natura, cioè intellettiva e sensitiva. E così il demonio nella tentazione dell'uomo ricorse a due incitamenti. Primo, dal Iato dell'intelletto promise la somiglianza con Dio mediante l'acquisto del sapere, che l'uomo per natura desidera. Secondo, dal lato dei sensi il demo­ nio ricorse alle realtà sensibili che hanno mag­ giore affinità con l'uomo: sia nella medesima specie, tentando l'uomo mediante la donna; sia nel medesimo genere, tentando la donna attraverso il serpente; sia nel genere subalter­ no, suggerendo di mangiare il frutto proibito. Soluzione delle difficoltà: l . Nella tentazione il demonio fu come la causa agente principa­ le, mentre la donna servì come strumento per vincere l'uomo. Sia perché la donna era più debole, e quindi poteva più facilmente essere sedotta. Sia anche perché, data la sua intimità

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La tentazione dei nostri progenitori

poterat. Tum etiam, propter coniunctionem eius ad virum, maxime per eam diabolus poterat virum seducere. Non autem est eadem ratio principalis agentis et instrumenti. Nam principale agens oportet esse potius, quod non requiritur in agente instrumentali. Ad secundum dicendum quod suggestio qua spiritualiter diabolus aliquid homini suggerit, ostendit diabolus plus habere potestatis in homine quam suggestio exterior, quia per suggestionem interiorem immutatur a diabolo saltem hominis phantasia, sed per suggestio­ nem exteriorem immutatur sola exterior crea­ tura. Diabolus autem minimum potestatis habebat in homine ante peccatum et ideo non potuit eum interiori suggestione, sed salurn exteriori tentare. Ad tertium dicendum quod, sicut Augustinus dicit, 1 1 Super Gen. [3], non debemus opinari quod serpentem sibi, per quem tentaret, Diabolus eligeret. Sed, cum esset in ilio deci­ piendi cupiditas, non nisi per illud animai potuit per quodposse permissus est. Ad quartum dicendum quod, sicut Augusti­ nus dicit, 1 1 Super Gen., serpens dictus est astutus, vel callidus, sive prudens, propter astutiam diaboli, quae in ilio agebat dolum, sicut dicitur prudens vel astuta lingua quam prudens ve/ astutus movet ad aliquid pruden­ ter vel astute suadendum [29]. Neque etiam setpens verborum sonos intelligebat qui ex ilio fiebant ad mulierem, neque enim conver­ sa credenda est anima eius in naturam ratio­ nalem. Quandoquidem nec ipsi homines, quorum rationalis natura est, cum daemon in eis loquitut; sciunt quid loquantur [28]. Sic ergo locutus est serpens homini sicut asina in qua sedebat Balaam, locuta est homini, nisi quod illud fuit opus diabolicum, hoc angeli­ cum [29]. Unde serpens non est interrogatus cur hoc fecerit, quia non in sua natura ipse id fecerat, sed diabolus in ilio, qui iam ex pecca­ to suo igni destinatus fuerat sempitemo. Quod autem setpenti dicitur, ad eum qui per serpentem operatus est, refertur [36] . - Et sicut Augustinus dicit, in libro Super Gen. contra Manichaeos [2, 1 7], nunc quidem eius poena, idest diaboli, dicitur qua nobis caven­ dus est, non ea quae ultimo iudicio reservatur. Per hoc enim quod ei dicitur [Gen. 3,14], male­ dictus es inter omnia animantia et bestias ter­ rae, pecora il/i praeponuntur, non in potestate,

Q. 165, A. 2

con l'uomo, la donna costituiva per il diavolo il mezzo più efficace per sedurre l'uomo. Ora, lo strumento non implica le condizioni del­ l'agente principale. Poiché quest'ultimo deve essere superiore [al paziente], il che non è richiesto per la causa strumentale. 2. La suggestione con la quale il demonio suggerisce qualcosa all' uomo interiormente implica nell'uomo un potere superiore a quel­ lo richiesto per il suggerimento esterno: poi­ ché con il suggerimento interiore è alterata dal demonio almeno la fantasia dell'uomo, mentre con il suggerimento esterno è alterata solo una creatura esteriore. Ora il demonio, prima del peccato, aveva sull'uomo un potere minimo. Quindi non era in grado di tentarlo dall'interno, ma solo dall'esterno. 3. Come insegna Agostino, «non dobbiamo pensare che il demonio abbia scelto lui stesso il serpente per compiere la tentazione. Ma aven­ do egli la brama di ingannare, non gli fu per­ messo di farlo che mediante questo animale». 4. Come spiega Agostino, «il serpente è detto astuto, o prudente, per l'astuzia del demonio, il quale voleva ingannare attraverso di esso: come si dice prudente o astuta la lingua che il prudente, o l' astuto, muove per suggerire qualcosa con prudenza o con astuzia. Né il serpente capiva le parole che da lui venivano indirizzate alla donna; e neppure si deve pen­ sare che la sua anima sia diventata razionale: poiché gli stessi uomini, la cui natura è razio­ nale, quando parlano come indemoniati non comprendono ciò che dicono. Così dunque il serpente parlò all ' uomo come l ' asina di Balaam parlò al suo padrone: con la differenza che il primo fatto avvenne per opera del demonio, il secondo invece per opera di un angelo. Per cui al serpente non fu chiesto per­ ché avesse fatto questo, avendolo fatto non lui in forza della sua natura, ma il demonio in lui: quel demonio che per il suo peccato era già stato condannato al fuoco eterno. Le parole dette al serpente vanno dunque riferite a colui che in esso aveva agito». - E altrove il Santo aggiunge che «la punizione del demonio di cui ora si parla è quella da cui noi dobbiamo guardarci, non quella che sarà pronunziata nell'ultimo giudizio». Con quelle parole infat­ ti: Sarai maledetto fra tutti gli animali e le bestie della terra [Gen 3, 14], «egli è posto al disotto delle bestie non per il potere, ma per la

Q. 165, A. 2

La tentazione dei nostri progenitori

sed in conservatione naturae suae, quia pecora non amiserunt beatitudinem aliquam cae­ lestem, quam nunquam habuerunt, sed in sua natura quam acceperunt, peragunt vitam. Dicitur etiam ei, pectore et ventre repes, se­ cundum aliam litteram [iuxta vers. LXX] . Ubi nomine pectoris significatur superbia, quia ibi dominatur impetus animae, nomine autem ventris significatur carnale desiderium, quia haec pars mollior sentitur in corpore. His au­ tem rebus serpit ad eos quos vult decipere. ­ Quod autem dicitur [Geo. 3, 14], terram co­ medes cunctis diebus vitae tuae, duobus mo­ dis intelligi potest. Vel, ad te pertinebunt quos terrena cupiditate deceperis, idest peccatores, qui terrae nomine significantur. Vel tertium genus tentationis his verbisfiguratur, quod est curiositas, terram enim qui manducat, pro­ funda et tenebrosa penetrar [De Geo. contra Manichaeos 2, 1 8] . - Per hoc autem quod inimicitiae ponuntur inter ipsum et mulierem,

ostenditur non posse nos a diabolo tentari nisi per illam animalem partem quae quasi mulieris imaginem in homine ostendit. Semen autem diaboli est perversa suggestio, semen mulieris, fructus boni operis, quod perversae suggestioni resistit. Et ideo observat serpens plantam mulieris, ut, si quando in illicita illabi­ tur, delectatio illam capiat, et il/a observat ca­ put eius, ut eum in ipso initio malae suasionis excludat [ib.].

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conservazione della loro natura: poiché gli animali non hanno perduto alcuna beatitudine celeste, che non ebbero mai, ma continuano la loro vita nella natura che hanno ricevuto». Contro di lui sono anche le parole che ri­ scontriamo in un'altra versione [LXX]: Stri­ scerai sul petto e sul ventre, dove «col petto è indicata la superbia, poiché qui sono racchiusi gli impulsi dell'anima, e col ventre sono indi­ cati i desideri carnali, essendo questa la parte più molle del corpo. E con queste cose il de­ monio si insinua in colui che egli vuole in­ gannare». - Le parole poi: «Terra mangerai tutti i giorni della tua vita [Gen 3,14] possono essere intese in due modi. O nel senso che gli apparterranno quelli che egli ingannerà con le cupidigie teiTene, cioè i peccatori, indicati col termine terra. Oppure con queste parole è adombrato il terzo genere della tentazione, che è la curiosità: infatti chi mangia la terra pene­ tra cose profonde e tenebrose». - Con l'inimi­ cizia infine tra lui e la donna «si vuole dimo­ strare che noi possiamo essere tentati dal de­ monio solo per la parte animale, che nell'uo­ mo è qua(òi un'immagine della donna. n seme del diavolo sono quindi le cattive suggestioni, mentre il seme della donna sono i frutti delle opere buone, che resistono alle suggestioni perverse. Per questo il serpente insidia il piede della donna, in modo da ghermirla con la compiacenza quando inciampa in cose illecite; ed essa insidia la sua testa per eliminare al primo apparire ogni cattiva suggestione».

QUAESTIO 1 66 DE STUDIOSITATE

QUESTIONE 1 6Q LA STUDIOSITA

Deinde considerandum est de studiositate, et curiositate sibi opposita [q. 1 67]. Circa stu­ diositatem autem quaeruntur duo. Primo, quae sit materia studiositatis. Secundo, utrum sit pars temperantiae.

Passiamo ora a trattare della studiosità e del suo contrario, che è la curiosità. A propo­ sito della studiosità si pongono due quesiti: l. Qual è la materia della studiosità? 2. Essa è tra le parti della temperanza?

Articulus l Utrum materia studiositatis sit proprie cognitio

Articolo l La materia della studiosità è propriamente la conoscenza?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod ma­ teria studiositatis non sit proprie cognitio. l . Studiosus enim dicitur aliquis ex eo quod adhibet studium aliquibus rebus. Sed in quali-

Sembra di no. Infatti: l. Si dice che uno è studioso per il fatto che mette dello studio nel fare certe cose. Ma un uomo deve mettere dello studio in tutti i campi,

1489

La studiosità

bet materia debet homo studium adhibere, ad hoc quod recte faciat quod est faciendum. Er­ go videtur quod non sit specialis materia stu­ diositatis cognitio. 2. Praeterea, studiositas curiositati opponitur. Sed curiositas, quae a cura dicitur, potest esse etiam circa ornatum vestium, et circa alia huiusmodi quae pertinent ad corpus, unde apostolus dicit, Rom. 13 [ 14], camis curam ne feceritis in desideriis. Ergo studiositas non est solum circa cognitionem. 3. Praeterea, ler. 6 [1 3] dicitur, a minori usque ad maiorem, omnes avaritiae student. Sed avaritia non est proprie circa cognitionem, sed magis circa possessionem divitiarum, ut supra [q. 1 1 8 a. 2] habitum est. Ergo studiositas, quae a studio dicitur, non est proprie circa cognitionem. Sed contra est quod dicitur Prov. 27 [ 1 1 ] ,

stude sapientiae, fili mi, el laetifica cor meum, ut possis respondere sermonem. Sed eadem studiositas est quae laudatur ut virtus, et ad quam lex invitat. Ergo studiositas proprie est circa cognitionem. Respondeo dicendum quod studium praeci­ pue importat vehementem applicationem mentis ad aliquid. Mens autem non applicatur ad aliquid nisi cognoscendo illud. Unde per prius mens applicatur ad cognitionem, secon­ dario autem applicatur ad ea in quibus homo per cognitionem dirigitur. Et ideo studium per prius respicit cognitionem, et per posterius quaecumque alia ad quae operanda directione cognitionis indigemus. Virtutes autem proprie sibi attribuunt illam materiam circa quam primo et ptincipaliter sunt, sicut fortitudo pericula mortis, et temperantia delectationem tactus. Et ideo studiositas proprie dicitur circa cognitionem. Ad primum ergo dicendum quod circa alias materias non potest aliquid recte fieri, nisi se­ cundum quod est praeordinatum per rationem cognoscentem. Et ideo per prius studiositas cognitionem respicit, cuicumque matetiae studium adhibeatur. Ad secundum dicendum quod ex affectu homi­ nis trahitur mens eius ad intendendum his ad quae afficitur, secundum illud Matth. 6 [21 ], ubi est thesaurus tuus, ibi est et cor tuum. Et quia ad ea quibus caro fovetur, maxime homo afficitur, consequens est quod cogitatio horni­ nis versetur praecipue circa ea quibus caro

Q. 166, A. l

per fare bene ciò che deve fare. Quindi non sembra che la conoscenza sia la materia spe­ ciale della studiosità. 2. La studiosità è il contrario della curiosità. Ma la curiosità, che deriva da cura, può rife­ rirsi anche al vestito e ad altre cose tiguardan­ ti il corpo, per cui Paolo dice: Non abbiate

cura della carne così da subime i desideri (Rm 1 3,14). Perciò la studiosità non riguarda solo la conoscenza. 3. In Ger 6 [ 1 3] è detto: Tutti, dal piccolo al

grande, si applicano studiosamente all'avarizia. Ora, l'avarizia non riguarda la conoscenza, ma il possesso delle ricchezze, come si è visto sopra. Quindi la studiosità non riguarda pro­ priamente la conoscenza. In contrario: in Pr 21 [I l ] è detto: Figlio mio,

applicati allo studio della sapienza, e allietami il cuore, perché tu possa rispondere. Ora, la studiosità lodata come virtù è identica a quella raccomandata dalla legge di Dio. Quindi la stu­ diosità riguarda propriamente la conoscenza. Risposta: Io studio implica soprattutto una for­ te applicazione della mente a qualcosa. Ora, l'anima non si applica a una cosa se non la co­ nosce. E così prima di tutto l'anima si applica alla conoscenza; secondariamente poi si appli­ ca a quegli atti a cui l'uomo è indirizzato da tale conoscenza. Quindi lo studio riguarda innanzi tutto la conoscenza, e in secondo luogo tutte le altre attività nelle quali abbiamo biso­ gno di essere diretti dalla conoscenza. Ora, le virtù hanno come materia propria ciò che forma il loro oggetto primario e principale: co­ me la fortezza i pericoli di morte e la tempe­ ranza i piaceri del tatto. Quindi la studiosità riguarda propriamente la conoscenza Soluzione delle difficoltà: l . Negli altri campi non è possibile compiere cosa alcuna con ac­ curatezza se non in quanto l'opera è guidata dalla conoscenza. Perciò la studiosità riguarda innanzi tutto la conoscenza, qualunque sia la materia a cui ci si voglia applicare. 2. L'affetto porta la mente dell'uomo a consi­ derare con attenzione le cose che premono, secondo le parole di Mt 6 [21 ] : Dov 'è il tuo tesoro, là è anche il tuo cuore. E poiché l'uo­ mo è attaccatissimo alle cose che giovano alla carne, ne segue che il pensiero dell'uomo si occupa principalmente di esse: egli cioè si in­ dustria a provvedere nel miglior modo alla propria carne. E in base a ciò si parla di curio-

La studiosità

Q. 166, A. l

fovetur, ut scilicet homo inquirat qualiter ho­ mo optime possit carni suae subvenire. Et se­ cundum hoc, curiositas ponitur circa ea quae ad carnem pertinent, ratione eorum quae ad cognitionem pertinent. Ad tertium dicendum quod avaritia inhiat ad lucra conquirenda, ad quod maxime necessa­ ria est quaedam peritia terrenarum rerum. Et secundum hoc, studium attribuitur his quae ad avaritiam spectant.

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sità rispetto alle cose della carne, in quanto vi

è interessata la conoscenza. 3. L' avarizia aspira al guadagno, per il quale è sommamente necessaria una certa esperienza, o conoscenza, delle cose terrene. E in questo senso si parla di studio nelle cose riguardanti l'avarizia.

Articulus 2

Articolo 2

Utrum studiositas sit temperantiae pars

La studiosità è una parte della temperanza?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod studiositas non sit temperantiae pars. l . Studiosus enim dicitur aliquis secundum stu­ diositatem. Sed universaliter omnis virtuosus vocatur studiosus, ut patet per philosophum, qui frequenter sic utitur nomine studiosi [Ethic. 1 ,8,13. 13 , 1 3]. Ergo studiositas est generalis virtus, et non est pars temperantiae. 2. Praeterea, studiositas, sicut dictum est [a 1], ad cognitionem pertinet. Sed cognitio non pertinet ad virtutes morales, quae sunt in ap­ petitiva animae parte, sed magis ad intellec­ tuales, quae sunt in parte cognoscitiva, unde et sollicitudo est actus prudentiae, ut supra [q. 47 a. 9] habitum est. Ergo studiositas non est pars temperantiae. 3 . Praeterea, virtus quae ponitur pars alicuius principalis virtutis, assirnilatur ei quantum ad modum. Sed studiositas non assimilatur tem­ perantiae quantum ad modum. Quia tempe­ rantiae nomen sumitur ex quadam refrenatio­ ne, unde magis opponitur vitio quod est in excessu. Nomen autem studiositatis sumitur e contrario ex applicatione animae ad aliquid, unde magis videtur opponi vitio quod est in defectu, scilicet negligentiae studendi, quam vitio quod est in excessu, scilicet curiositati. Unde, propter homm similitudinem, dicit Isi­ dorus, in libro Etymol. [ 10, ad litt. S], quod studiosus dicitur quasi studiis curiosus. Ergo studiositas non est pars temperantiae. Sed contra est quod Auguslinus dicit, in libro De mor. Ecci. [21 ], curiosi esse prohibemur, quod magnae temperantiae munus est. Sed curiositas prohibetur per studiositatem mode­ ratam. Ergo studiositas est pars temperantiae. Respondeo dicendum quod, s i c u t supra

Sembra di no. Infatti: l . Per la studiosità si è chiamati studiosi. Ma qualsiasi persona virtuosa può essere così de­ nominata: come appare dal Filosofo, il quale usa spesso il termine studioso per virtuoso. Quindi la studiosità è la virtù in genere, e non una parte della temperanza. 2 . La studiosità si riferisce alla conoscenza, come si è detto. Ma la conoscenza non appar­ tiene alle virtù morali, che risiedono nella parte appetitiva dell' anima, bensì alle virtù intellettuali, che risiedono nella parte conosci­ tiva: infatti anche la sollecitudine è un atto della ptudenza, come sopra si è visto. Perciò la studiosità non è una parte [potenziale] della temperanza. 3. Una virtù che è tra le parti di qualche virtù principale deve assomigliare a quella quanto al modo. Ora, la studiosità non assomiglia in ciò alla temperanza. Infatti la temperanza dice freno: per cui si contrappone piuttosto al vizio che si trova nell ' eccesso. Invece il termine «Studiosilà>> deriva dali' applicazione dell'ani­ ma a qualcosa: per cui sembra opporsi più al vizio che si trova nel difetto, cioè alla negli­ genza nello studio, che alla curiosità, che è il vizio che si trova nell'eccesso. Anzi, la sua somiglianza con quest'ultima fa dire a Isidoro che «studioso» deriva da «studiis curiosus» [curioso negli studi]. Quindi la studiosità non è una parte della temperanza. In contrario: Agostino ha scritto: «Ci è proibi­ to di essere curiosi : e ciò si ottiene con una grande temperanza». Ma la curiosità è esclusa da una studiosità moderata. Quindi la studio­ sità è tra le parti della temperanza. Risposta: come si è già notato, la temperanza

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[q. 141 aa. 3-5] dictum est, ad temperantiam pertinet moderari motum appetitus, ne super­ flue tendat i n i d quod naturaliter concu­ piscitur. Sicut autem naturaliter homo concu­ piscit delectationes ciborum et venereorum secundum naturam corporalem, ita secundum animam naturaliter desiderat cognoscere aliquid, unde et philosophus dicit, in I Met. [ 1,1,1], quod omnes homines natura/iter scire desiderant. Moderatio autem huius appetitus pertinet ad virtutem studiositatis. Unde conse­ quens est quod studiositas sit pars potentialis temperantiae, sicut virtus secundaria ei adiunc­ ta ut principali virtuti. Et comprehenditur sub modestia, ratione superius [q. 1 60 a. 2] dieta. Ad primum ergo dicendum quod prudentia est completiva omnium virtutum moralium, ut dicitur in 6 Ethic. [1 3,6]. Inquantum igitur cognitio prudentiae ad omnes virtutes perti­ net, intantum nomen studiositatis, quae pro­ prie circa cognitionem est, ad omnes virtutes derivatur. Ad secundum dicendum quod actus cognosci­ tivae virtutis imperatur a vi appetitiva, quae est motiva omnium virium, ut supra [I q. 82 a. 4; I-II q. 9 a. l ] habitum est. Et ideo circa co­ gnitionem duplex bonum potest attendi . Unum quidem, quantum ad ipsum actum co­ gnitionis. Et tale bonum pertinet ad virtutes intellectuales, ut scilicet homo circa singula aestimet verum. Aliud autem est bonum quod pertinet ad actum appetitivae virtutis, ut scili­ cet homo habeat appetitum rectum applicandi vim cognoscitivam sic vel aliter, ad hoc vel ad illud. Et hoc pertinet ad virtutem studiositatis. Unde computatur inter virtutes morales. Ad tertium dicendum quod, sicut philosophus dicit, in 2 Ethic. [9,4], ad hoc quod homo fiat virtuosus, oportet quod servet se ab his ad quae maxime inclinat natura. Et inde est quod, quia natura praecipue inclinat ad timendum mortis pericula et ad sectandum delectabilia camis, quod laus virtutis fortitudinis praecipue consistit in quadam firmitate persistendi con­ tra huiusmodi pericula, et laus virtutis tem­ perantiae in quadam refrenatione a delectabili­ bus camis. Sed quantum ad cognitionem, est in homine contraria inclinatio. Quia ex parte animae, inclinatur homo ad hoc quod cogni­ tionem rennn desideret, et sic oportet ut homo laudabiliter huiusmodi appetitum refrenet, ne i mmoderate rerum cognitioni intendat. Ex

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ha il compito di moderare i moti dell'appetito, perché non ecceda nel tendere verso ciò che naturalmente si desidera. Ora l'uomo, come brama istintivamente con la sua natura corpo­ rea i piaceri della gola e quelli venerei, così con la sua anima desidera naturalmente di conoscere, secondo l'affermazione del Filoso­ fo: «Tutti gli uomini per natura desiderano conoscere». Ma la moderazione di questo de­ siderio appartiene alla virtù della studiosità. Quindi la studiosità è una parte potenziale della temperanza, quale virtù secondaria an­ nessa alla principale. E rientra nella modestia, come si è già spiegato. Soluzione delle difficoltà: l . La prudenza è il coronamento di tutte le virtù morali, secondo Aristotele. Ora, come il discemimento della prudenza rientra in tutte le virtù, così può applicarsi a tutte il termine «studiosità», il quale riguarda appunto la conoscenza. 2. Gli atti delle potenze conoscitive possono essere imperati dalla facoltà appetitiva la qua­ le, come si è visto, può muovere tutte le no­ stre facoltà. Perciò nella conoscenza si posso­ no distinguere due tipi di bontà. La prima ri­ guarda l'atto stesso della conoscenza. E tale bontà è propria delle virtù intellettuali: che cioè su ogni cosa si sappia la verità. L'altro tipo di bontà riguarda invece l'atto delle po­ tenze appetitive: che cioè si abbia la volontà retta di applicare le facoltà conoscitive in un modo o in un altro, a una cosa o a un'altra. E ciò spetta alla virtù della studiosità. Perciò quest'ultima è enumerata fra le virtù morali. 3. Come dice il Filosofo, perché un uomo sia virtuoso è necessario che si guardi da ciò a cui maggiormente tende per natura. Siccome dunque la natura inclina specialmente a teme­ re i pericoli di morte e a seguire i piaceri della carne, ne segue che il valore della fortezza consiste in una certa fermezza di fronte a que­ sti pericoli, e quello della temperanza nel te­ nere a freno le attrattive della carne. Rispetto alla conoscenza invece ci sono nell'uomo due tendenze contrastanti. Poiché dalla parte del­ l'anima l'uomo è inclinato a desiderare la co­ noscenza delle cose: e da questo lato deve tenere a freno tale desiderio, per non cercare sregolatamente la conoscenza. Invece dalla parte della natura corporea l'uomo è inclinato a evitare la fatica necessaria per l'acquisto della scienza. Perciò rispetto alla prima di

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parte vero naturae corporalis, homo inclinatur ad hoc ut laborem inquirendi scientiam vitet. Quantum igitur ad primum, studiositas in re­ frenatione consistit, et secundum hoc ponitur pars temperantiae. Sed quantum ad secundum laus huius virtutis consistit in quadam vehe­ mentia intentionis ad scientiam rerum perci­ piendam, et ex hoc nominatur. Primum autem est essentialius huic virtuti quam secundum. Nam appetitus cognoscendi per se respicit co­ gnitionem, ad quam ordinatur studiositas. Sed labor addiscendi est impedimentum quoddam cognitionis, unde respicitur ab hac virtute per accidens, quasi removendo prohibens.

queste tendenze la studiosità è un freno: e per questo è tra le parti della temperanza. Invece rispetto alla seconda il valore di questa virtù sta in una certa forza di applicazione nell'ac­ quisto della scienza: e da questa prende il nome. La prima di tali tendenze, tuttavia, è più essenziale della seconda in questa virtù. Infatti il desiderio di conoscere è essenziale alla conoscenza, a cui la studiosità è ordinata. Invece la fatica dello studio è un certo impe­ dimento alla conoscenza, per cui è qualcosa di accidentale in questa virtù, come un osta­ colo da superare.

QUAESTIO 1 67 DE CURIOSITATE

QUESTIONE 1 6J LA CURIOSITA

Deinde considerandum est de curiositate. Et circa hoc quaeruntur duo. Primo, utrum vi­ tium curiositatis possit esse in cognitione in­ tellectiva. Secundo, utrum sit in cognitione sensitiva.

E veniamo a parlare della curiosità. Sull'argo­ mento si pongono due quesiti: l . Il vizio della curiosità può insinuarsi nella conoscenza in­ tellettiva? 2. Può insinuarsi nella conoscenza sensitiva?

Articulus l Utrum circa cognitionem intellectivam possit esse curiositas

Articolo l La curiosità può insinuarsi nella conoscenza intellettiva?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod cir­ ca cognitionem intellectivam non possit esse curiositas. l . Quia secundum philosophum, in 2 Ethic. [6,1 8], in his quae secundum se sunt bona vel mala, non possunt accipi medium et extrema. Sed cognitio intellectiva secundum se est bona, in hoc enim perfectio hominis videtur consistere, ut intellectus eius de potentia redu­ catur in actum, quod fit per cognitionem veri­ tatis. Dionysius etiam dicit, 4 cap. De div. nom. [32], quod bonum animae humanae est secundum rationem esse, cuius perfectio in cognitione veritatis consistit. Ergo circa co­ gnitionem intellectivam non potest esse vi­ tium curiositatis. 2. Praeterea, illud per quod homo similatur Deo, et quod a Deo consequitur, non potest es­ se malum. Sed quaecumque abundantia cogni­ tionis a Deo est, secundum illud Eccli. l [ 1], omnis sapientia a Domino Deo est. Et Sap. 7 [ 1 7] dicitur, ipse dedit mihi horum quae sunt scientiam veram, ut sciam dispositionem orbis

Sembra di no. Infatti: l . Come insegna il Filosofo, nelle cose che sono per loro natura buone o cattive non c'è posto per [la scelta virtuosa tra] il giusto mez­ zo e i due estremi. Ora, la conoscenza intellet­ tiva è per sua natura buona: poiché la perfe­ zione di un uomo consiste nell'attuazione del­ la sua intelligenza, il che avviene con la cono­ scenza della verità. E Dionigi afferma che «il bene per l' anima umana sta nell'essere conforme alla ragione», la quale si perfeziona con la conoscenza della verità. Quindi nella conoscenza intellettiva non può insinuarsi il vizio della curiosità. 2. Ciò che ci rende simili a Dio e che ci viene da Dio non può essere mai cattivo. Ora, ogni grado di conoscenza viene da Dio, come è detto in Sir l [ 1 ] : Ogni sapienza viene dal Signore Dio. E in Sap 7 [ 1 7] è detto: Egli mi ha concesso la conoscenza infallibile delle cose, per comprendere la struttura del mondo e la forza degli elementi... Inoltre è con la conoscenza della verità che l'uomo è reso

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terrarnm et virtutes elementorum, et cetera. Per hoc etiam homo Deo assimilatur, quod ve­ ritatem cognoscit, quia omnia nuda et aperta sunt oculis eius, ut habetur ad Hebr. 4 [ 1 3]. Unde et l Reg. 2 [3] dicitur quod Deus scien­ tiarnm Dominus est, ergo, quantumcumque abundet cognitio veritatis, non est mala, sed bona. Appetitus autem boni non est vitiosus. Ergo circa intellectivam cognitionem veritatis non potest esse vitium curiositatis. 3. Praeterea, si circa aliquam intellectivam co­ gnitionem posset esse curiositatis vitium, praecipue esset circa philosophicas scientias. Sed eis intendere non videtur esse vitiosum, dicit enim Hieronymus, S uper Danielem [ l ,8], qui de mensa et vino regis noluerunt comedere ne polluantur, si sapientiam atque doctrinam Babyloniorum scirent esse pecca­ rum, nunquam acquiescerent discere quod non licebat. Et Augustinus dicit, in 2 De doct. chr. [40], quod, si qua vera philosophi dixe­ rnnt, ab eis sunt, tanquam ab iniustis posses­ soribus, in usum nostrnm vindicanda. Non er­ go circa cognitionem intellectivam potest esse curiositas vitiosa. Sed contra est quod Hieronymus dicit [In Eph. 2 super 4, 1 7], nonne vobis videtur in va­

nitate sensus et obscuritate mentis ingredi qui diebus ac noctibus in dialectica arte tor­ quetw; qui physicus perscrutator oculos trans caelum levat? Sed vanitas sensus et obscuri­ tas mentis est vitiosa. Ergo circa intellectivas scientias potest esse curiositas vitiosa. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [q. 166 a. 2 ad 2], studiositas non est directe circa ipsam cognitionem, sed circa appetitum et studium cognitionis acquirendae. Aliter autem est iudicandum de ipsa cognitione veritatis, et aliter de appetitu et studio veritatis cognoscendae. Ipsa enim veritatis cognitio, per se loquendo, bona est. Potest autem per accidens esse mala, ratione scilicet alicuius consequentis, vel inquantum scilicet aliquis de cognitione veritatis superbit, secundum illud l ad Cor. 8 [ 1 ] , scientia injlat; vel in­ quantum homo utitur cognitione veritatis ad peccandum. - Sed ipse appetitus vel studium cognoscendae veritatis potest habere rectitu­ dinem vel perversitatem. Uno quidem modo, prout aliquis tendit suo studio in cognitionem veritatis prout per accidens coniungitur ei ma­ lum, sicut illi qui student ad scientiam verita-

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tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi (Eb 4, 1 3). E per questo in l Sam 2 [3] è detto che il Signore è il Dio che sa tutto. Perciò la conoscenza della verità, per simile a Dio: poiché

quanto sia grande, non è mai cattiva, ma buona. E così nella conoscenza intellettiva non può mai riscontrarsi il vizio della curiosità. 3. Se il vizio della curiosità potesse insinuarsi in una conoscenza di ordine intellettivo, ciò dovrebbe accadere specialmente nelle disci­ pline filosofiche. Ma attendere ad esse non è peccaminoso. Scrive infatti Girolamo: «Co­ loro che non vollero cibarsi con le vivande e col vino del re, mai avrebbero acconsentito a imparare la sapienza e la dottrina dei Babilo­ nesi, se lo avessero considerato un peccato». E Agostino dice: «Se i fùosofi hanno detto delle cose vere, noi dobbiamo rivendicarle a nostro uso, quasi strappandole a possessori abusivi». Perciò nella conoscenza intellettiva non può insinuarsi il vizio della curiosità. In contrario: Girolamo si domanda: «Non vi pare che abbiano dei sentimenti di vanità e una mente poco illuminata il dialettico che si arrovella giorno e notte, e il naturalista che vuole mettere gli occhi al di là del cielo?». Ma la vanità e l' oscurità della mente sono peccaminose. Quindi il vizio della curiosità può insinuarsi nella conoscenza intellettiva. Risposta: come si è visto sopra, la studiosità non riguarda direttamente la conoscenza, ma il desiderio di essa e lo studio per acquistarla. Ora, non è identico il giudizio da darsi sulla conoscenza della verità e sul desiderio e l'im­ pegno per acquistarla. Infatti la conoscenza della verità è per se stessa buona, e può essere cattiva solo per accidens, cioè per qualche sua conseguenza: o perché qualcuno se ne insuper­ bisce, come è detto in l Cor 8 [ l ] : La scienza gonfia; oppure perché l'uomo se ne serve per peccare. - Invece il desiderio o l 'impegno che conducono alla conoscenza della verità pos­ sono essere retti o perversi. Primo, se uno ten­ de a conoscere la verità includendo indi­ rettamente nel proprio studio un motivo vi­ zioso: come fanno ad es. coloro che si appli­ cano alla conoscenza della verità per insuper­ birsene. Da cui le parole di Agostino: «Ci so­ no delle persone che, disprezzando la virtù e ignorando chi sia Dio e quale sia la maestà della realtà immutabile, credono di fare una gran cosa investigando con sommo ardore e

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tis ut exinde superbiant. Unde Augustinus dicit, in libro De mor. Ecci. [21 ], sunt qui, desertis virtutibus, et nescientes quid sit Deus et quanta sit maiestas semper eodem modo manentis naturae, magnum aliquid se agere putant si universam istam corporis molem quam mundum nuncupamus, curiosissime intentissimeque perquirant. Unde etiam tanta superbia gignitur ut in ipso caelo, de quo saepe disputant, sibimet habitare videantur. Similiter etiam i l l i qui student addiscere aliquid ad peccandum, vitiosum studium ha­ bent, secundum illud Ier. 9 [5], docuerunt fin­ guam suam loqui mendacium, ut inique agerent, laboraverunt. Alio autem modo potest esse vitium ex ipsa inordinatione appe­ titus et studii addiscendi veritatem. Et hoc quadrupliciter. Uno modo, inquantum per studium minus utile retrahuntur a studio quod eis ex necessitate incumbit. Unde Hierony­ mus dicit [ep. 21 Ad Damasum], sacerdotes, dimissis Evangeliis et pmphetiis, videmus co­ moedias legere, et amatoria bucolicorum ver­ suum verba cantare. Alio modo, inquantum studet aliquis addiscere ab eo a quo non licet, sicut patet de his qui aliqua futura a daemoni­ bus perquirunt, quae est superstitiosa cmiosi­ tas. De quo Augustinus dicit, in libro De vera rel. [4], nescio an philosophi impedirentur a fide vitio curiositatis in percunctandis daemo­ nibus. Tertio, quando homo appetit cognosce­ re veritatem circa creaturas non referendo ad debitum finem, scilicet ad cognitionem Dei. Unde Augustinus dicit, in libro De vera rel. [29], quod in consideratione creaturarum non est vana et peritura curiositas exercenda, sed gradus ad immortalia et semper manentia faciendus. Quarto modo, inquantum aliquis studet ad cognoscendam veritatem supra proprii ingenii facultatem, quia per hoc homi­ nes de facili in errores labuntur. Unde dicitur Eccli. 3 [22], altiora te ne quaesieris, et for­ tiora ne scrutatus fueris, et in pluribus operi­ bus eius ne fueris curiosus; et postea sequitur [26], m ultos enim supplantavit suspicio eorum, et in vanitate detinuit sensus eorum. Ad primum ergo dicendum quod bonum ho­ minis consistit in cognitione veri, non tamen summum hominis bonum consistit in cogni­ tione cuiuslibet veri, sed in perfecta cognitio­ ne summae veritatis, ut patet per philoso­ phum, in 10 Ethic. [7,2; 8,7]. Et ideo potest -

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curiosità questa massa corporea che chiamia­ mo mondo. E montano in tanta superbia da sembrare che abitino in quei cieli di cui spes­ so discutono». Parimenti è peccaminoso lo studio di coloro che cercano di conoscere per fare il male, come è detto in Ger 9 [5]: Hanno insegnato alla lingua a dire menzogne, si so­ no applicati per agire iniquamente. - Secon­ do, lo studio può essere cattivo per il disor­ dine della stessa ricerca conoscitiva. E ciò può avvenire in quattro modi. Primo, perché uno studio meno utile può distogliere da uno studio doveroso. Da cui le parole di Girola­ mo: «Noi vediamo dei sacerdoti che, lascian­ do da parte i Vangeli e i Profeti, leggono com­ medie e cantano i versi d'amore delle bucoli­ che». Secondo, perché si cerca di conoscere da chi non si deve: come nel caso di quanti cercano di conoscere il futuro dai demoni, il che è curiosità superstiziosa. E a proposito di ciò scrive Agostino: «Non escludo che i filo­ sofi siano stati i mpediti dali' abbracciare la fede per il vizio della curiosità nel consultare i demoni». Terzo, quando uno desidera di co­ noscere le creature senza indirizzarle al debito fine, cioè alla conoscenza di Dio. Per cui Agostino ammonisce che «nello studio delle creature non si deve esercitare una vana ed ef­ fimera curiosità, ma cercare in esse un gradi­ no per salire alle realtà immortali e immu­ tabili». Quarto, quando si cerca di conoscere cose superiori alla capacità del proprio inge­ gno: perché allora si cade facilmente nel­ l'errore. Per cui in Sir 3 [22] è detto: Non cer­ care le cose troppo difficili per te, non inda­ gare ciò che supera le tue forze, e non esser curioso delle molteplici opere di Dio. E poco dopo [26] : L'opinione personale ha sedotto molti, e il lom modo di sentire li ha incatenati nella vanità. Soluzione delle difficoltà: l . L'uomo trova il suo bene nella conoscenza della verità; però il sommo bene dell'uomo non consiste nella conoscenza di una verità qualsiasi, ma nella perfetta conoscenza della somma verità, come spiega il Filosofo. Perciò nella conoscenza di certe velità ci può essere un vizio, per il fatto che tale ricerca non è debitamente ordinata alla conoscenza della verità somma, in cui consiste la felicità perfetta. 2. L'argomento dimostra che la conoscenza della verità è in se stessa buona; però ciò non

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esse vitium in cognitione aliquorum verorum, secundum quod talis appetitus non debito modo ordinatur ad cognitionem summae veri­ tatis, in qua consisti t summa felicitas. Ad secundum dicendum quod ratio illa osten­ dit quod cognitio veritatis secundum se sit bona, non tamen per hoc excluditur quin pos­ sit aliquis cognitione veritatis abuti ad malum, vel etiam inordinate cognitionem veritatis appetere; quia etiam oportet appetitum boni debito modo regulatum esse. Ad tertium dicendum quod studium philoso­ phiae secundum se est licitum et laudabile, propter veritatem quam philosophi perceperunt, Deo illis revelante, ut dicitur Rom. l [19]. Sed quia quidam philosophi abutuntur ad fidei impugnationem, ideo apostolus dicit, ad Col. 2 [8], videte ne quis vos decipiat per philoso­

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esclude che uno possa abusarne per un fine cattivo, o possa desiderarla in modo disordi­ nato: poiché anche il desiderio del bene va debitamente regolato. 3. Lo studio della filosofia di per sé è lecito e lodevole per le verità che i filosofi illuminati da Dio riuscirono a conoscere, come è detto in Rm l [ 1 9] . Siccome però alcuni filosofi abusano della loro scienza per combattere la fede, Paolo ammonisce: Badate che nessuno

vi inganni con la sua filosofia e con la vana scienza secondo una tradizione umana, e non secondo Cristo (Col 2,8). E Dionigi a propo­ sito di certi filosofi afferma che «essi si servo­ no con perfidia delle cose divine contro Dio, tentando di distruggere con la scienza di Dio il culto di Dio».

phiam et inanem scientiam, secundum tra­ ditionem hominum, et non secundum Chri­ stum. Et Dionysius dicit, in Epistola ad Poly­ carpum [ep. 7,2], de quibusdam philosophis, quod divinis non sancte contra divina utuntur;

per sapientiam Dei tentantes expellere divi­ nam venerationem. Articulus 2 Utrum vitium curiositatis sit circa sensitivam cognitionem Ad secundum sic proceditur. Videtur quod vitium curiositatis non sit circa sensitivam cognitionem. l . Sicut enim aliqua cognoscuntur per sensum visus, ita etiam aliqua cognoscuntur per sen­ sum tactus et gustus. Sed circa tangibilia et gustabilia non ponitur vitium curiositatis, sed magis vitium luxuriae aut gulae. Ergo videtur quod nec circa ea quae cognoscuntur per visum, sit vitium curiositatis. 2. Praeterea, curiositas esse videtur in inspec­ tione ludorum, unde Augustinus dicit, in 6 Conf. [8], quod, quodam pugnae casu, cum

clamor ingens totius populi vehementer Aly­ pium pulsasse!, curiositate victus, apentit ocu­ los. Sed inspectio ludorum non videtur esse vitiosa, quia huiusmodi inspectio delectabilis redditur propter repraesentationem, in qua homo naturaliter delectatur, ut philosophus dicit, in sua Poetria [6,2]. Non ergo circa sen­ sibilium cognitionem est vitium curiositatis. 3 Praeterea, ad curiositatem pertinere videtur

Articolo 2 n vizio della curiosità può insinuarsi

nella conoscenza sensitiva? Sembra di no. Infatti: l . Non si conosce solo con il senso della vi­ sta, ma anche con quelli del tatto e del gusto. Ora, rispetto alle cose tangibili e gustabili non c'è il vizio della curiosità, ma piuttosto quelli della lussuria e della gola. Perciò sembra che il vizio della curiosità non si abbia neppure per le cose che si conoscono con la vista. 2. La curiosità sembra riscontrarsi nell'assi­ stenza agli spettacoli: per cui Agostino rac­ conta che «Alipio in una fase del combatti­ mento, al grido imponente di tutti gli spettato­ ri, vinto dalla curiosità aprì gli occhi». Ma as­ sistere ai giochi non è peccaminoso: poiché lo spettacolo è piacevole per la rappresentazione, di cui l'uomo per natura si diletta, come dice il Filosofo. Perciò il vizio della curiosità non riguarda la conoscenza delle realtà sensibili. 3. Come dice Beda, alla curiosità sembra ap­ partenere l'interessamento ai fatti del prossimo. Ma interessarsi dei fatti altrui non è peccami­ noso: poiché Dio diede a ciascuno precetti

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actus proximorum perquirere, ut dicit Beda [In l Ioan. super 2, 16]. Sed perquirere facta aliorum non videtur esse vitiosum, quia sicut dicitur Ecci i. 1 7 [ 1 2] , unicuique mandavit Deus de proximo suo. Ergo vitium curiositatis non est in huiusmodi particularibus sensibili­ bus cognoscendis. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De vera rei. [38], quod concupiscentia oculo­ rum reddit homines curiosos. Ut autem dicit Beda [In l Ioan. super 2,16], concupiscentia oculorum est non solum in discendis magicis artibus, sed etiam in contemplandis !)pectacu­

lis, et in dignoscendis et carpendis vitiis pro­ ximorum, quae sunt quaedam particularia sensibilia. Cum ergo concupiscentia oculo­ rum sit quoddam vitium, sicut etiam superbia vitae et concupiscentia camis, contra quae dividitur, l Ioan. 2 [ 1 6]; videtur quod vitium curiositatis sit circa sensibilium cognitionem. Respondeo dicendum quod cognitio sensitiva ordinatur ad duo. Uno enim modo, tam in hominibus quam in aliis animalibus, ordinatur ad corporis sustentationem, quia per huius­ modi cognitionem homines et alia animalia vitant nociva, et conquirunt ea quae sunt ne­ cessaria ad corporis sustentationem. Alio mo­ do, specialiter in homine ordinatur ad cogni­ tionem intellectivam, vel speculativam vel practicam. Apponere ergo studium circa sen­ sibilia cognoscenda, dupliciter potest esse vi­ tiosum. Uno modo, inquantum cognitio sensi­ tiva non ordinatur in aliquid utile, sed potius avertit hominem ab aliqua utili consideratio­ ne. Unde Augustinus dici t, in l O Conf. [35],

canem currentem post leporem iam non specto cum in circo fit. At vero in agro, si ca­ su transeam, avertit me fortassis ab aliqua magna cogitatione, atque ad se conve11it illa venatio, et nisi iam mihi demonstrata infirmi­ tate mea, cito admoneas, vanus hebesco. Alio modo, inquantum cognitio sensitiva ordinatur ad aliquod noxium, sicut inspectio mulieris ordinatur ad concupiscendum; et diligens inquisitio eorum quae ab aliis fiunt, ordinatur ad detrahendum. - Si quis autem cognitioni sensibilium intendit ordinate, propter necessi­ tatem sustentandae naturae, vel propter stu­ dium intelligendae veritatis, est virtuosa stu­ diositas circa sensibilem cognitionem. Ad primum ergo dicendum quod luxuria et gula sunt circa delectationes quae sunt in usu

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verso il prossimo (Sir 1 7, 1 2). Quindi il vizio della curiosità non può insinuarsi nella co­ noscenza di questi fatti particolari e sensibili. In contrario: Agostino afferma che «la concu­ piscenza degli occhi rende gli uomini curio­ si». Ora, secondo Beda la concupiscenza de­ gli occhi «non consiste solo nello studio della magia», ma anche «nel vedere spettacoli e nell'esaminare e rilevare i difetti del prossi­ mo»: tutte cose che sono di ordine sensibile. Poiché dunque la concupiscenza degli occhi è un vizio, come anche la superbia della vita e la concupiscenza della carne, alle quali essa è accomunata in l Gv 2 [ 1 6], sembra che nella conoscenza sensitiva possa riscontrarsi il vi­ zio della curiosità. Risposta: la conoscenza sensitiva è ordinata a due cose. Da una parte alla conservazione del corpo, sia negli animali che nell'uomo: poi­ ché con essa si evitano le cose nocive e si cer­ cano quelle necessarie al sostentamento. Da un'altra parte nell'uomo essa è ordinata alla conoscenza intellettiva, sia speculativa che pratica. Applicarsi quindi a conoscere le real­ tà sensibili può essere peccaminoso per due motivi. Primo, perché la conoscenza sensitiva non è ordinata a qualcosa di utile, ma piutto­ sto a distogliere da qualche utile considera­ zione. Per cui Agostino scrive: «Ormai io non vado più al circo per vedere un cane che rin­ corre una lepre. Se però ciò accade mentre passo per i campi, allora quella scena di cac­ cia m i attrae e mi distrae da qualche impor­ tante considerazione; e se tu non mi riprendi subito mostrandomi la mia debolezza, riman­ go inebetito nella mia vanità>>. Secondo, per­ ché la conoscenza sensitiva è ordinata al ma­ le: come il guardare una donna può essere or­ dinato alla concupiscenza; e l'interessamento ai fatti altmi può essere ordinato alla mormo­ razione. - Se invece uno si applica con ordine alla conoscenza sensitiva o per sovvenire ai bisogni materiali, oppure per conoscere la ve­ rità, allora la sua è una sntdiosità virtuosa nel campo della conoscenza sensitiva. Soluzione delle difficoltà: l . La lussuria e la gola hanno per oggetto i piaceri che nascono dall'uso delle realtà tangibili. Invece la curio­ sità ha per oggetto il piacere della conoscenza di tutti i sensi. E questo piacere «viene deno­ minato concupiscenza degli occhi», spiega Agostino, «perché gli occhi sono gli organi

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rerum tangibilium. Sed circa delectationem cognitionis omnium sensuum est curiositas. Et vocatur concupiscentia oculorum, quia oculi sunt ad cognoscendum in sensibus prin­ cipales. unde omnia sensibilia videri di­ cuntur, ut Augustinus dicit, in IO Conf. [35]. Et sicut Augustinus ibidem subdit, ex hoc evidentius discernitur quid voluptatis, quid curiositatis agatur per sensus, quod voluptas pulchra, suavia, canora, sapida, lenia secta­ tur; curiositas autem etiam his contraria, ten­ tandi causa, non ad subeundam molestiam, sed experiendi noscendique libidinem. Ad secundum dicendum quod inspectio specta­ culorum vitiosa redditur inquantum per hoc ho­ mo fit pronus ad vitia vel lasciviae vel crudelita­ tis, per ea quae ibi repraesentantur. Unde Chry­ sostomus dicit [In Matth. h. 6] quod adulteros et inverecundos constituunt tales inspectiones. Ad tertium dicendum quod prospicere facta aliorum bono animo, vel ad utilitatem pro­ priam, ut scilicet homo ex bonis operibus pro­ ximi provocetur ad melius, vel etiam ad utilita­ tem illius, ut scilicet corrigatur si quid ab eo agitur vitiose, secundum regulam caritatis et debitum officii, est laudabile, secundum illud Hebr. 1 0 [24] , considerate vos invicem in provocationem caritatis et bonorum operum. Sed quod aliquis intendit ad consideranda vitia proximorum ad despiciendum vel detrahen­ dum, vel saltem inutiliter inquietandum, est vi­ tiosum. Unde dicitur Prov. 24 [ 1 5], ne insidie­ ris et quaeras iniquitatem in domo iusti, neque vastes requiem eius.

principali della conoscenza, per cui il termine "vedere" è applicato a tutte le sensazioni». E i l Santo continua: «Si può discernere facil­ mente se i sensi agiscono per voluttà o per curiosità per il fatto che la voluttà cerca le co­ se belle, dolci, melodiose, gustose e morbide, mentre la curiosità vuole provare anche quelle ad esse contrarie, non per sentime il disgusto, ma per il desiderio di provare e di conoscere». 2. La visione degli spettacoli è resa peccami­ nosa perché in essi uno è spinto alla lussuria o alla cmdeltà da ciò che vi è rappresentato. Per cui il Crisostomo afferma che «questi spetta­ coli rendono adulteri e licenziosi». 3. Considerare i fatti degli altri con animo buono o a proprio vantaggio, cioè per essere spronati al bene dalla bontà altrui, oppure a vantaggio del prossimo stesso, cioè per cor­ reggerne i difetti secondo le regole della carità e i l dovere d'ufficio, è una cosa lodevole, come è detto in Eh IO [24]: Usiamoci vigilan­ za a vicenda, per,stimolarci nella carità e nel­ le opere buone. E invece peccaminoso atten­ dere a considerare i difetti del prossimo per disprezzarlo o per screditarlo, oppure sempli­ cemente per molestarlo. Per cui in Pr 24 [ 1 5] è detto: Non insidierai e non cercherai l 'ini­ quità nella dimora del giusto, né turberai il suo riposo.

QUAESTIO 1 68 DE MODESTIA SECUNDUM QUOD CONSISTIT IN EXTERIORIBUS MOTIBUS CORPORIS

QUESTIONE 1 68 LA MODESTIA NEGLI ATTEGGIAMENTI ESTERNI DEL CORPO

Deinde considerandum est de modestia se­ cundum quod consistit in exterioribus motibus corporis. Et circa hoc quaemntur quatuor. Pri­ mo, utrum in exterioribus motibus corporis qui serio aguntur, possit esse virtus et vitium. Se­ cundo, utrum possit esse aliqua virtus circa actiones ludi. Tertio, de peccato quod fit ex ex­ cessu ludi. Quarto, de peccato ex defectu ludi.

Veniamo ora a considerare la modestia negli atteggiamenti esterni del corpo. A questo pro­ posito esamineremo quattro punti: l . Gli at­ teggiamenti esterni del corpo assunti seria­ mente possono essere inquadrati secondo vir­ tù o vizio? 2. Ci può essere una virtù nelle azioni giocose? 3. Il peccato che avviene nel gioco per eccesso; 4. Il peccato che avviene nel gioco per difetto.

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Articulus l Utrum in exterioribus motibus corporis sit aliqua virtus

Articolo l Negli atteggiamenti esterni del corpo si può dare qualche virtù?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod in exterioribus motibus corporis non sit aliqua virtus. l . Omnis enim virtus pertinet ad spiritualem ani­ mae decorem, secundum illud Psalmi [46,14], omnis gloria eius filiae regis ab intus, Glossa [int. et Lomb.], idest, in conscientia. Sed mo­ tus corporales non sunt ab intus, sed exterius. Ergo circa huiusmodi motus non potest esse virtus. 2. Praeterea, virtutes non sunt 1wbis a natura, ut patet per philosophum, in 2 Ethic. [ 1 ,3]. Sed motus corporales exteriores sunt hominibus a natura, secundum quam quidam sunt velocis motus et quidam tardi motus, et idem est de aliis differentiis exteriorum motuum. Ergo cir­ ca tales motus non attenditur aliqua virtus. 3 . Praeterea, omnis virtus moralis est circa actiones quae sunt ad alterum, sicut iustitia, vel circa passiones, sicut temperantia et forti­ tudo. Sed exteriores motus corporales non sunt ad alterum usum, neque etiam sunt pas­ siones. Ergo circa eos non est aliqua virtus. 4. Praeterea, in omni opere virtutis est studium adhibendum, ut supra [q. 1 66 a. l arg. l ; a. 2 ad l ] dictum est. Sed adhibere studium in dispositione exteriorum motuum est vitupera­ bile, dicit enim Ambrosius, in l De off. [ 1 8],

Sembra di no. Infatti: l. Tutte le virtù rientrano nella bellezza spiritua­ le dell'anima, secondo le parole del Sa/ 46 [ 14]:

est gressus probabilis in quo sit species auc­ toritatis, gravitatisque pondus, tranquillitatis vestigium, ita tamen si studium desit atque af fectatio, sed motus sit purus ac simplex. Ergo videtur quod circa compositionem exteriorum motuum non consistat virtus. Sed contra est quod decor honestatis pertinet ad virtutem. Sed compositio exteriorum motuum pertinet ad decorem honestatis, dicit enim Ambrosius, in l De off. [1 9], sicut mol­

liculum et infractum aut vocis sonum aut gestum corporis non probo, ita neque agrestem aut ntsticum. Naturam imitemur, ef­ figies eius formula disciplinae, forma hone­ statis est. Ergo circa compositionem exterio­ rum motuum est virtus. Respondeo dicendum quod virtus moralis consistit in hoc quod ea quae sunt hominis per rationem ordinantur. Manifestum est autem quod exteriores motus hominis sunt

Tutta la gloria della figlia del re è dall'inter­ no, «ossia nella coscienza>>, spiega la Glossa Ora, gli atteggiamenti del corpo non sono in­ temi, ma esterni. Quindi tali atteggiamenti non possono essere oggetto di virtù. 2. Come insegna Aristotele, «le virtù non so­ no in noi per natura». Invece i moti esterni del corpo sono dovuti alla natura: cosicché alcuni sono più veloci, altri più lenti; e lo stesso si dica delle altre proptietà di questi moti. Perciò tali moti non sono oggetto di vhtù. 3. Tutte le virtù morali riguardano o gli atti esterni che si riferiscono al prossimo, come la giustizia, oppure le passioni, come la tempe­ ranza e la fortezza. Ora, i moti esterni del corpo non servono agli altri e non riguardano le passioni. Quindi non sono oggetto di alcu­ na virtù. 4. Ogni atto virtuoso esige una certa cura, co­ me si è visto sopra. Invece aver cura degli at­ teggiamenti esterni è riprovevole; scrive infat­ ti Ambrogio: «C'è un incedere degno di ap­ provazione e che denota autorità, gravità, tranquillità, però senza cura ricercata o affet­ tazione, ma con un atteggiamento puro e sem­ plice». Quindi sembra che non ci sia alcuna virtù riguardo all'atteggiamento esterno. In contrario: la bellezza dell'onestà è propria della virtù. Ora, la compostezza degli atteg­ giamenti esterni rientra in tale bellezza; scrive infatti Ambrogio: «Come non approvo nella voce e nel gesto alcunché di svenevole e di languido, così non approvo alcunché di rozzo e di villano. Imitiamo la natura, che è esem­ pio di disciplina e modello di onestà». Quindi la compostezza degli atteggiamenti esterni è oggetto di virtù. Risposta: la virtù morale consiste nel regolare con la ragione gli atti umani. Ora, è evidente che gli atteggiamenti esterni dell'uomo sono ordinabili dalla ragione: poiché le membra esterne sono mosse dal suo comando. Per cui è evidente che questi moti sono materia di una virtù morale. - Ora, l 'ordine di questi moti deve badare a due cose: primo, al decoro

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per rationem ordinabiles, quia ad imperium rationis exteriora membra moventur. Unde ma­ nifestum est quod circa horum motuum or­ dinationem virtus moralis consistit. - Ordinatio autem horum motuum attenditur quantum ad duo, uno quidem modo, secundum convenien­ tiam personae; alio modo, secundum conve­ nientiam ad exteriores personas, negotia seu loca. Unde dicit Ambrosius, in l De off. [ 1 , 1 9], hoc est pulchritudinem vivendi tenere, conve­ nientia cuique sexui et personae reddere, et hoc pertinet ad primum. Quantum autem ad secundum, subditur [De off. l, 1 9], hic ordo gestorum optimus, hic ornatus ad omnem actionem accommodus. - Et ideo circa huius­ modi exteriores motus ponit Andronicus [De affect., De temperantia] duo. Scilicet ornatum, qui respicit convenientiam personae, unde dicit quod est scientia circa decens in motu et habi­ tudine. Et bonam ordinationem, quae respicit convenientiam ad diversa negotia et ea quae circumstant, unde dicit [ib.] quod est experien­ tia separationis, idest distinctionis, actionum. Ad primum ergo dicendum quod motus exte­ riores sunt quaedam signa interioris disposi­ tionis, secundum illud Eccli. 19 [27], amictus corporis, et risus dentiwn, et ingressus homi­ nis, enuntiant de ilio. Et Ambrosius dicit, in l De off. [ 1 8], quod habitus mentis in c01poris statu cemitur, et quod vox quaedam animi est corporis motus. Ad secundum dicendum quod, quamvis ex naturali dispositione habeat homo aptitudi­ nem ad hanc vel illam dispositionem exterio­ rum motuum, tamen quod deest naturae, potest suppleri ex industria rationis. Unde Ambrosius dicit, in l De off. [ 1 8], motum na­ tura informat, si quid sane in natura vitii est, industria emendet. Ad tettium dicendum quod, sicut dictum est [ad l], exteriores motus sunt quaedam signa interioris dispositionis, quae praecipue atten­ ditur secundum animae passiones. Et ideo mo­ deratio exteriorum motuum requirit modera­ tionem interiorum passionum. Unde Ambro­ sius dicit, in l De off. [ 1 8], quod hinc, scilicet ex motibus exterioribus, homo cordis nostri absconditus aut levior aut iactanctior aut tur­ bidior, aut gravior et constantior et purior et maturior aestimatur. - Per motus etiam exte­ riores alii homines de nobis iudicium capiunt, secundum illud Eccli. 1 9 [26], ex visu cogno-

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personale; secondo, all'attenzione dovuta ad altre persone, cose o luoghi. Da cui le parole di Ambrogio: «Vivere in bellezza è rispettare la convenienza di ogni sesso e di ogni persona>>. E ciò riguarda il primo punto. Quanto al se­ condo poi aggiunge: «Ecco il miglior modo di comportarsi; ecco l'ornamento più indicato per ogni nostra azione». - In base a ciò An­ dronico nomina due disposizioni a proposito di questi moti esterni. «ll decoro», che riguar­ da la persona interessata, e che a suo dire è «la scienza delle buone creanze nel moto e nell' atteggiamento», e «il buon ordine», che riguarda le attenzioni dovute agli affari che si trattano e alle loro circostanze, e che a suo dire è «l'esperienza del discernimento», cioè della distinzione, «delle azioni». Soluzione delle difficoltà: l. Gli atteggiamenti esterni sono l' indice delle disposizioni inter­ ne, come è detto in Sir 1 9 [27]: Il vestito di un uomo, la bocca sorridente e la sua andatura rivelano chi egli è. E Ambrogio afferma che «le disposizioni della mente si scorgono nel­ l' atteggiamento del corpo»; e che «i moti del corpo sono come l'espressione dell'animo». 2. Sebbene l'uomo sia predisposto per natura a questo o a quell'altro atteggiamento esterno, tuttavia si può supplire con la ragione a ciò che manca alla natura. Da cui le parole di Am­ brogio: «La natura dà forma al movimento; ma se nella natura c'è un vizio, l'educazione lo corregga». 3. Come si è detto, i moti esterni sono l'indice delle disposizioni interiori, che sono determi­ nate soprattutto dalle passioni. Perciò la disci­ plina dei moti esterni richiede la disciplina delle passioni interne. Per cui Ambrogio af­ ferma che «da questo», cioè dai moti esterio­ ri, «si conosce se il nostro uomo interiore è leggero, superbo o agitato; oppure se è grave, costante, illibato e maturo». - Inoltre in base ai movimenti esterni siamo giudicati dagli al­ tri uomini, come è detto in Sir 1 9 [26]: Dal­ l'aspetto si conosce l'uomo, e dal modo di presentarsi si conosce l'assennatezza. Perciò la disciplina dei moti esterni in qualche modo è ordinata agli altri, come accenna Agostino: «In tutto il vostro comportamento non fate nulla che offenda Io sguardo altrui, ma tutto sia confonne alla vostra santità». - E così la disciplina dei moti esteriori si può ridurre alle due virtù di cui parla il Filosofo nell'Etica.

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scitur vir, et ab occursu faciei cognoscitur sen­ satus. Et ideo moderatio exteriorum motuum quodammodo ad alios ordinatur, secundum il­ lud quod Augustinus dicit, in Regula [ep. 2 1 1 ], in omnibus motibus vestris nihil fiat quod cuiusquam offendat aspectum, sed quod ve­ stram deceat sanctitatem. Et ideo moderatio exteriorum motuum potest reduci ad duas virtutes quas philosophus tangit in 4 Ethic. [6,3 ; 7, 1 ] . Inquantum enim per exteriores motus ordinamur ad alios, pertinet exteriorum motuum moderatio ad amicitiam ve/ affabilita­ tem, quae attenditur circa delectationes et tristitias quae sunt in verbis et factis in ordine ad alios quibus homo convivit. Inquantum vero exteriores motus sunt signa interioris disposi­ tionis, pertinet eorum moderatio ad viltutem veritatis, secundum quam aliquis talem se exhibet in verbis et factis qualis est interius. Ad quartum dicendum quod in compositione exteriorum motuum studium vituperatur per quod aliquis fictione quadam in exterioribus motibus utitur, ita quod interiori dispositioni non conveniant. Debet tamen tale studium adhiberi ut, si quid in eis inordinatum est, corri­ gatur. Unde Ambrosius dicit, in l De off. [18], ars desit, non desit correctio.

Tali moti infatti, in quanto ordinano i nostri rapporti con gli altri, sono moderati dal­ l' «amicizia o affabilità», la quale ha il compi­ to di prutecipare con le parole e con i fatti alle gioie e ai dolori delle persone con le quali conviviamo. In quanto invece sono i segni delle disposizioni interiori, sono moderati dalla «veracità», o sincerità, con cui uno si mostra a parole e a fatti quale è interiormente. 4. Nella compostezza dei moti esterni è biasi­ mata quella cura con la quale uno arriva deli­ beratamente a travisare con essi le disposizio­ ni interiori. Bisogna invece impiegare quella cura che è necessaria per correggere gli even­ tuali difetti di tali moti. Da cui l'ammonizione di Ambrogio: «Si elimini l'artificio, ma non manchi la correzione».

Articulus 2 Utrum in ludis possit esse aliqua virtus

Articolo 2 Il gioco può essere materia di virtù?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod in ludis non possit esse aliqua virtus. l . Dicit enim Ambrosius, in l De oft'. [23], Do­ minus ait, vae, vobis qui ridetis, quia jlebitis. Non solum ergo profusos, sed etiam omnes iocos declinandos arbitrar. Sed illud quod po­ test virtuose fieri, non est totaliter declinan­ dum. Non ergo circa ludos potest esse virtus. 2. Praeterea, virtus est quam Deus in nobis sine nobis operatur, ut supra [I-II q. 55 a. 4] habitum est. Sed Chrysostomus dicit [In Mat­ th. h. 6], non dat Deus ludere, sed diabolus. Audi quid ludentes passi sunt, sedit populus manducare et bibere, et surrexerunt ludere. Ergo circa ludos non potest esse virtus. 3. Praeterea, philosophus dicit, in IO Ethic. [6,3], quod operationes ludi non ordinantur in aliquid aliud. Sed ad virtutem requiritur ut propter aliquid eligens operetur, sicut patet per philosophum, in 2 Ethic. [4,3]. Ergo circa ludos non potest esse aliqua virtus.

Sembra di no. Infatti: l . Ambrogio scrive: «Il Signore ha detto: Guai a voi che ora ridete, perché piangerete. Perciò io penso che si debbano evitare non solo i giochi smodati, ma tutti i giochi». Ora, ciò che può essere compiuto in modo virtuoso non è da evitarsi totalmente. Quindi il gioco non può essere oggetto di virtù. 2. Come sopra si è detto, la virtù «è prodotta da Dio in noi senza di noi». Ora, il Crisosto­ mo afferma: «Non Dio, ma il diavolo ispira il gioco. Senti che cosa capitò ai giocatori: Il popolo sedette per mangiare e per bere, e poi si alzò per darsi al gioco [Es 32,6] » . Quindi non ci può essere una virtù riguardan­ te il gioco. 3. n Filosofo insegna che «i giochi non sono ordinati a un altro fine». Invece per la virtù si richiede «che si agisca per un fine», come egli dice. Quindi il gioco non può essere oggetto di alcuna virtù.

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Sed contra est quod Augustinus dicit, in 2 Mu­ sicae [14], volo tandem tibi parcas, nam sa­

pientem decet interdum remittere aciem rebus agendis intentam. Sed ista remissio animi a re­ bus agendis fit per ludicra verba et facta. Ergo his uti interdum ad sapientem et virtuosum pertinet. - Philosophus etiam [Ethic. 2,7, 13; 4,8,3] ponit viltutem eutrapeliae circa ludos, quam nos possumus dicere iucunditatem. Respondeo dicendum quod, sicut homo indi­ get corporali quiete ad corporis refocillatio­ nem, quod non potest continue laborare, propter hoc quod habet finitam virtutem, quae determinatis laboribus proportionatur; ita etiam est ex parte animae, cuius etiam est vir­ tus finita ad determinatas operationes propor­ tionata, et ideo, quando ultra modum suum in aliquas operationes se extendit, laborat, et ex hoc fatigatur, praesertim quia in operationibus animae simul etiam laborat corpus, inquan­ tum scilicet anima, etiam intellectiva, utitur viribus per organa corporea operantibus. Sunt autem bona sensibilia connaturalia homini. Et ideo, quando anima supra sensibilia elevatur operibus rationis i ntenta, nascitur exinde quaedam fatigatio animalis, sive homo inten­ dat operibus rationis practicae, sive speculati­ vae. Magis tamen si operibus contemplationis intendat, quia per hoc magis a sensibilibus elevatur, quamvis forte in aliquibus operibus exterioribus rationis practicae maior labor corporis consistat. In utrisque tamen tanto aliquis m agis animaliter fatigatur, quanto vehementius operibus rationis intendat. Sicut autem fatigatio corporalis solvitur per cor­ poris quietem, ita etiam oportet quod fatigatio animalis solvatur per animae quietem. Quies autem animae est delectatio, ut supra [1-11 q. 25 a. 2; q. 31 a. l ad 2] habitum est, cum de passionibus ageretur. Et ideo oportet reme­ dium contra fatigationem anirnalem adhibere per aliquam delectationem, intermissa inten­ tione ad insistendum studio rationis. Sicut in Collationibus Patrum [Cassianus 24,21] le­ gitur quod beatus Evangelista Ioannes, cum quidam scandalizarentur quod eum cum suis discipulis ludentem invenerunt, dicitur man­ dasse uni eorum, qui arcum gerebat, ut sagit­ tam traheret. Quod cum pluries fecisset, quae­ sivit utrum hoc continue facere posset. Qui respondit quod, si hoc continue tàceret, arcus frangeretur. Unde beatus Ioannes subintulit

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In contrario: Agostino dice: «Voglio inoltre che tu abbia compassione di te stesso: poiché è bene che il savio allenti la tensione dell' ani­ mo». Ora, il rilassamento dell'animo dal lavo­ ro si compie con parole e con atti divertenti. Quindi alla persona sapiente e virtuosa spetta ogni tanto ricorrere a queste cose. - E anche il Filosofo a proposito del gioco parla dell' eutra­ pelìa, che noi potremmo chiamare giovialità. Risposta: come l'uomo ha bisogno del tiposo fisico per ritemprare il corpo, il quale non può lavorare di continuo per la limitazione delle sue energie, così ne ha bisogno anche dalla parte dell' anima, le cui fone sono adeguate solo per determinate attività. Perciò quando l'anima si occupa oltre misura in qualche la­ voro, sente lo sfono e la fatica: specialmente perché nelle attività dell'anima collabora an­ che il corpo, dato che anche l'anima intellet­ tiva si serve di facoltà che agiscono mediante organi corporei. Ora, i beni connaturali all'uo­ mo sono quelli sensibili. E così quando l'ani­ ma, occupata in attività di ordine razionale, sia in campo pratico che speculativo, si eleva al disopra delle realtà sensibili, sente una certa fatica. Soprattutto però se attende all'at­ tività contemplativa, perché allora si eleva maggiormente sui sens i ; sebbene forse la fatica del corpo in certe attività della ragione pratica sia maggiore. Tuttavia, sia nel primo che nel secondo caso, tanto più uno si affatica nell'anima quanto più grande è l' impegno col quale attende alla sua attività razionale. Ora, come la fatica fisica si smaltisce con il riposo del corpo, così la fatica dell' anima deve smal­ tirsi con il riposo dell' anima. Ma il riposo del­ l' anima è il piacere, come si è detto sopra nel trattato sulle passioni. Quindi per lenire la fa­ tica dell' anima bisogna ticorrere a un piacere, interrompendo la fatica delle occupazioni di ordine razionale. Come i n Cassiano si legge che Giovanni Evangelista, essendosi alcuni scandalizzati per averlo trovato mentre gioca­ va con i suoi discepoli, comandò a uno di lo­ ro, che aveva un arco, di lanciare una freccia. E avendo costui fatto questo più volte, gli do­ mandò se poteva ripetere di continuo quel gesto. L' arciere ti spose che in tal caso l' arco si sarebbe spezzato. E allora san Giovanni replicò che anche l'animo si spezzerebbe se non gli fosse mai concesso un po' di tiposo. Ora, le parole e gli esercizi in cui si cerca

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La modestia negli atteggiamenti esterni del corpo

quod similiter animus hominis frangeretur, si nunquam a s u a intentione relaxaretur. Huiusmodi autem dieta vel facta, in quibus non quaeritur nisi delectatio animalis, vo­ cantur ludicra vel iocosa. Et ideo necesse est talibus interdum uti, quasi ad quandam ani­ mae quietem. Et hoc est quod philosophus dici t, in 4 Ethic. [8, l ], quod in huius vitae

conversatione quaedam requies cum ludo habetur, et ideo oportet interdum aliquibus

talibus uti. - Circa quae tamen tria videntur praecipue esse cavenda. Quorum primum et principale est quod praedicta delectatio non quaeratur in aliquibus operationibus vel ver­ bis turpibus vel nocivis. Unde Tullius dicit, in l De off. [29], quod unum ge11us iocandi est

illiberale, petulans, flagitiosum, obsce11um. Aliud autem attendendum est, ne totaliter gra­ vitas animae resolvatur. Unde Ambrosius dicit, in l De off. [20], caveamus ne, dum re­

laxare animum volumus, solvamus om11em hannoniam, quasi conce11tum quendam bo­ norum operum. Et Thllius dicit, in l De off. [29], quod sicut pueris 11011 om11em ludendi li­ centiam damus, sed eam quae ab ho11estatis actio11ibus non sit aliena; sic in ipso ioco aliquod probi ingenii lumen eluceat. - Tertio

autem est attendendum, sicut et in omnibus aliis humanis actibus, ut congmat personae et tempori et loco, et secundum alias circum­ stantias debite ordinetur, ut scilicet sit et tem­ pore et homi11e dignus, ut Tullius dicit, ibidem [De off. 1,29].- Huiusmodi autem secundum regulam rationis ordinantur. Habitus autem se­ cundum rationem operans est virtus moralis. Et ideo circa ludos potest esse aliqua virtus, quam philosophus [Ethic. 2,7, 13; 4,8,3] eutrapeliam nominat. Et dicitur aliquis eutrapelus a bona versione, quia scilicet bene convertit aliqua dieta vel facta in solatium. Et inquantum per hanc virtutem homo refrenatur ab immoderan­ tia ludorum, sub modestia continetur. Ad primum ergo dicendum quod, sicut dic­ tum est [in co.], iocosa debent congruere ne­ gotiis et personis. Unde et Thllius dicit, in l Rhet. [17], quod quando auditores sunt defati­ gati, non est inutile ab aliqua re nova aut

ridicula oratorem incipere, si tame11 rei digni­ tas non adimit iocandi facultatem. Doctrina autem sacra maximis rebus intendit, secun­ dum illud Prov. 8 [6], audite, quo11iam de re­ bus magnis locutura sum. Unde Ambrosius

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soltanto la distensione dell'animo sono detti divertenti, o giocosi. È quindi necessario ri­ correre ad essi a ristoro dell'anima. Per que­ sto il Filosofo afferma che «nel corso della vi­ ta si ha un riposo nel gioco»: quindi talora bisogna ricorrervi. - Però in proposito occor­ re badare specialmente a tre cose. Prima di tutto a che questo piacere non sia mai cercato in atti o parole turpi o dannose. Per cui Cice­ rone scrive in proposito che «c'è un tipo di gioco scortese, insolente, delittuoso e osce­ no». La seconda cosa a cui badare è che l'ani­ ma non abbandoni del nnto la sua gravità. Da cui le parole di Ambrogio: «Nel rilassare l'a­ nimo badiamo a non dissolvere ogni armonia, che è come l'accordo delle opere buone». E Cicerone scrive che «come ai fanciulli non diamo ogni libertà nel gioco, ma solo quella che non si scosta dall'onestà, così anche nel nostro gioco deve brillare la luce dell'animo retto». - In terzo luogo si deve badare, qui co­ me anche in tutte le altre azioni umane, a che il divertimento sia adatto alle persone, al tem­ po, al luogo e a tutte le altre debite circostan­ ze: cioè, come scrive Cicerone, a che «Sia de­ gno del tempo e dell'uomo». - Ora, tutte que­ ste norme sono ordinate dalla ragione. Ma un abito che agisce in conformità con la ragione è una virtù. Quindi il gioco può essere ma­ teria di una virtù, che il Filosofo chiama «eu­ trapelìa». E si dice che uno è eutrapelos da buona versione: poiché sa volgere bene i n sollievo i fatti e l e parole. E siccome questa virtù fa evitare gli eccessi nel gioco, essa rien­ tra nella modestia. Soluzione delle difficoltà: l . TI divertimento deve essere adatto alle cose e alle persone, co­ me si è spiegato. Per cui anche Cicerone scrive che quando gli uditori sono stanchi . Quin­ di l'abbigliamento esterno può essere matelia di virtù o di vizio. Risposta: nelle cose esterne concesse all'uso dell'uomo non ci può essere alcun peccato: ci può essere invece nell'uomo che ne abusa. E questo abuso può verificarsi in due modi. Pri­ mo, in rappmto alle usanze delle persone con cui si vive. Per cui Agostino sclive: «Le man­ canze che sono contrarie al costume degli uo­ mini vanno schivate, avendo riguardo alla di­ versità dei costumi, in modo che il patto, fir­ mato per consuetudine o per legge fra i mem­ bri di una città e di un popolo, non sia violatp dal capriccio di alcun cittadino o forestiero. E turpe infatti ogni parte che non si accorda col suo tutto».- Secondo, l'abuso può dipendere dagli affetti disordinati di chi si serve delle cose; e da ciò talora dipende che si faccia uso dell'abbigliamento in modo troppo passionale, sia rispetto alle usanze del proprio ambiente, sia prescindendo da queste. Da cui l'ammo­ nimento di Agostino: «Nell'uso delle cose deve essere bandita la passione disordinata, che non solo abusa delle usanze vigenti nel­ l'ambiente in cui si vive, ma spesso, varcando quei limiti, mostra la sua bruttura, che era na­ scosta dietro il recinto delle usanze venerabili, con le più disoneste sortite». - Ora, questo disordine affettivo può verificarsi per eccesso in tre modi. Primo, perché si cerca la gloria mediante la cura eccessiva delle proprie vesti: i n quanto i l vestito e l'abbigliamento fanno

La modestia nell 'abbigliamento

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gloriam quaerit, prout scilicet vestes et alia huiusmodi pertinent ad quendam omatum. Unde Gregorius dicit, in quadam homilia [In Ev. h. 2,40], sunt nonnulli qui cultum subtilium pretiosarumque vestium non putant esse peccatum. Quod videlicet si culpa non esser nequaquam sermo Dei tam vigilanter exprimeret quod dives qui torquebatur apud Inferos, bysso et purpura indutus fuisset. Nemo quippe vestimenta pretiosa, scilicet excedentia proprium statum, nisi ad inanem gloriam quaerit. Alio modo, secundum quod homo per superfluum cultum vestium quaerit delicias, secundum quod vestis ordi­ natur ad corporis fomentum. - Tertio modo, secundum quod nimiam sollicitudinem appo­ nit ad exteriorem vestium cultum, etiam si non sit aliqua inordinatio ex parte finis. - Et secundum hoc, Andronicus ponit tres virtutes circa exteriorem cultum. Scilicet, humilita­ tem, quae excludit intentionem gloriae. Unde dicit [De affect., De temperantia] quod humi­ litas est habitus non superabundans in sump­ tibus et praeparationibus. Et per se sufficien­ tiam, quae excludit intentionem deliciarum. Unde dicit [ib.] quod per se sufficientia est habitus contentus quibus opm1et, et determi­ nativa eorum quae ad vivere convenit (secun­ dum illud apostoli, l ad Tim. 6 [8], habentes alimenta et quibus tegamur, his contenti si­ mus). Et simplicitatem, quae excludit super­ fluam sollicitudinem talium. Unde dicit quod simplicitas est habitus contentus his quae contingunt. - Ex parte autem detectus simili­ ter potest esse duplex inordinatio secundum affectum. Uno quidem modo, ex negligentia hominis qui non adhibet studium vellaborem ad hoc quod exteriori culto utatur secundum quod oportet. Unde philosophus dicit, in 7 Ethic. [7,5], quod ad mollitiem pertinet quod aliquis trahat vestimentum per terram, ut non laboret elevando ipsum. Alio modo, ex eo quod ipsum defectum exterioris cultus ad glo­ riam ordinant. Unde dicit Augustinus, in libro De serm. Dom. [2,12], non in solo renon corporearum nitore atque pompa, sed etiam in ipsis sordibus et luctuosis esse posse iac­ tantiam, et eo periculosiorem quo sub nomine servitutis Dei decipit. Et philosophus dicit, in 4 Ethic. [7,15], quod superabundantia et inordinatus defectus ad iactantiam pertinet. Ad primum ergo dicendum quod, quamvis -

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parte del decoro personale. Da cui le parole di Gregorio: «Ci sono alcuni i quali pensano che non sia un peccato la ricerca di vesti fini e preziose. Ma se non fosse un peccato la parola di Dio non avrebbe precisato con tanta cura che il ricco condannato alle pene dell'inferno prima si vestiva di bisso e di porpora. No, non si usano vesti preziose», superiori alla propria condizione, «se non per vanagloria>>.- Secon­ do, perché mediante la cura eccessiva delle vesti si cerca un piacere raffinato, in quanto le vesti blandiscono il corpo. - Terzo, perché si ha troppa sollecitudine per il vestito, anche se uno non si propone un fine cattivo. - A questi tre disordini Andronico contrappone tre virtù rispetto all'abbigliamento. «L'umiltà», che esclude la vanagloria, essendo essa a suo dire «un abito che non esagera nelle spese e nel­ l'abbigliamento». «L'accontentarsi di poco», che esclude la ricerca dei piaceri raffinati, e che a suo dire «è l'abito che si accontenta del necessario, tendendo a stabilire i mezzi conve­ nienti alla vita» (e ciò secondol'ammonimen­ to di Paolo [l Tm 6, 8]: Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentia­ moci di questo). «L a semplicità>>, che esclude l'eccessiva sollecitudine per l'abbigliamento, e che a suo dire «è l'abito di accontentarsi di ciò che capita >>.- Parimenti un disordine affettivo in questo campo può prodursi per difetto in due modi. Primo, per negligenza, quando uno trascura l'attenzione e la fatica di acconciarsi come è richiesto. Per cui il Filosofo attribuisce all'indolenza «il trascinare a terrala veste per non faticare a tenerla sollevata>>. Secondo, per il fatto che con la stessa negligenza nell'abbi­ gliamento si cerca la vanagloria. Agostino infatti fa notare che «ci può essere ostenta­ zione non soltanto nella bellezza e nel lusso, ma anche nelle vesti cenciose e di lutto: e questa è tanto più pericolosa quanto più mira a ingannare col pretesto della religione». E il Fi­ losofo afferma che «sia l'eccesso che il ditetto rientrano nell'ostentazione». Soluzione delle difficoltà: l . Sebbene l'abbi­ gliamento esterno non sia dalla natura, tutta­ via spetta alla ragione naturale curarlo con moderazione. E così «per natura siamo predi­ sposti a questa vittù», che regola l'abbiglia­ mento esterno. 2. Le persone costituite in dignità e i ministri dell'altare vestono indumenti più preziosi

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ipse ctùtus exterior non sit a natura, tamen ad naturalem rationem pertinet ut exteriorem cultum moderetur. Et secundum hoc, innati sumus hanc viltutem suscipere, quae exterio­ rem cultum moderatur. Ad secundum dicendum quod illi qui in di­ gnitatibus constituuntur, vel etiam ministri altaris, pretiosioribus vestibus quam ceteri induuntur, non propter sui gloriam, sed ad significandam excellentiam sui ministerii vel cultus divini. Et ideo in eis non est vitiosum. Unde Augustinus dicit, in 3 De doct. chr. [12], quisquis sic utitur exterioribus rebus ut

metas consuetudinis bonorum inter quos ver­ satur excedat, aut aliquid significar, aut jlagi­ tiosus est, dum scilicet propter delicias vel o­ stentationem talibus utitur. - Similiter etiam ex parte defectus contingit esse peccatum, non tamen semper qui vilioribus quam ceteri vestibus utitur, peccat. Si enim hoc faciat propter iactantiam vel superbiam, ut se ceteris praeferat, vitium superstitionis est. Si autem hoc faciat propter macerationem carnis vel humiliationem spiritus, ad virtutem temperan­ tiae pertinet. Unde Augustinus dicit, in 3 De doct. chr. [12], quisquis restrictius rebus utitur

quam se habeant mores eontm cwn quibus vi­ vit, aut temperans aut superstitiosus est. Prae­ cipue autem competit vilibus vestimentis uti his qui alios verbo et exemplo ad poenitentiam hortantur, sicut fuerunt prophetae, de quibus apostolus ibi loquitur. Unde quaedam Glossa [ord.] dicit, Matth. 3 [4], qui poenitentiam

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degli altri non per vanagloria, ma per indicare l'eccellenza del loro ufficio, o del culto divi­ no. Infatti Agostino dice: «Chiunque usa le cose esterne passando i limiti consueti accet­ tati dalle persone virtuose tra le quali convive, o vuole indicare qualcosa o commette un pec­ cato»: servendosi cioè di tali cose o per piace­ re o per vanità. - E così pure si può peccare per difetto: però non è detto che chi usa vesti più vili degli altri commetta sempre un pecca­ to. Poiché se lo fa per ostentazione o per su­ perbia, per essere stimato superiore agli altri, si ha un peccato di superstizione, ma se lo fa per macerare il corpo e umiliare lo spirito, al­ lora si ha un atto della virtù della temperanza. Dunque Agostino scrive: «Chiunque fa uso delle realtà esteriori con una parsimonia più rigida di quella in uso tra le persone in mezzo alle quali egli vive, o è temperante o è super­ stizioso». L'uso però delle vesti più vili con­ viene soprattutto a coloro che predicano agli altri la penitenza con l 'esempio e con la pa­ rola, come i profeti di cui parla Paolo nel testo citato. Infatti una Glossa dice: «Chi predica la penitenza deve presentarsi con l'abito della penitenza». 3. L'abbigliamento esterno è un indizio della condizione personale. Quindi l'eccesso, il di­ fetto e il giusto mezzo in questa materia si possono ridurre alla virtù della veracità, che, secondo il Filosofo, ha per oggetto i fatti e le parole che esprimono lo stato di un individuo.

praedicat, habitum poenitentiae praetendit.

Ad tertium dicendum quod huiusmodi exte­ rior cultus indicium quoddam esl conditionis humanae. Et ideo excessus et defectus et me­ dium in talibus possunt reduci ad virtutem ve­ ritatis, quam philosophus [Ethic. 4,7,4.7] po­ nit circa facta et dieta quibus aliquid de statu hominis signi:ficatur. Articulus 2 Utrum ornatus mulierum sit sine peccato mortali

Articolo 2 Le acconciature delle donne sono esenti dal peccato mortale?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod or­ natus muliemm non sit sine peccato mortali. l . Omne enim quod est contra praeceptum di­ vinae legis, est peccatum mortale. Sed omatus mulierum est contra praeceptum divinae legis, dicitur enim l Petr. 3 [3], quarum, scilicet

Sembra di no. Infatti: l. Tutto ciò che è contro un comando della legge divina è peccato mortale. Ma l'accon­ ciatura delle donne è contro un comando del­ la legge divina; infatti è detto in l Pt 3 [3]:

L'ornamento delle donne non sia esteriore,

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mulierum sit non extrinsecus capillatura, aut circumdatio auri, aut indumenti vestimento­ rum cultus. Ubi dicit Glossa [ord. ; Cyprianus, De habitu virgin.] Cypriani, serico et pwpura indutae Christwn sincere induere non possunt, auro et margaritis adornatae et monilibus, omamenta mentis et c01poris perdiderunt. Sed hoc non fit nisi per peccatum mortale. Ergo omatus mulierum non potest esse sine pecca­ to mortali. 2. Praeterea, Cyprianus dicit, in libro De habitu virgin. [15], non virgines tantum aut viduas,

sed et nuptas puto et omnes omnino feminas admonendas, quod opus Dei et facturam eius et plasma adulterare nullo modo debeant, adhibito flavo colore vel nigro pulvere vel ru­ bo re, aut quolibet lineamenta nativa cor­ rumpente medicamine. Et postea subdit, manus Deo inferunt, quando illud quod il/e fonnavit, reformare contendunt. lmpugnatio ista est divini operis, praevaricatio est veritatis. Deum videre non poteris, quando oculi tibi non sunt quos Deus fecit, sed quos diabolus infecit, de inimico tuo compta, cwn ilio pariter arsura. Sed hoc non debetur nisi peccato mortali. Ergo omatus mulieris non est sine peccato mortali. 3. Praeterea, sicut non congruit mulieri quod veste virili utatur, ita etiam ei non competit quod inordinato ornatu utatur. Sed primum est peccatum, dicitur enim Deut. 22 [5], non

induatur mulier veste virili, nec vir veste mu­ liebri. Ergo videtur quod etiam supertluus or­

natus mulierum sit peccatum mortale. Sed contra est quia secundum hoc videretur quod artifices huiusmodi ornamenta praepa­ rantes mortaliter peccarent. Respondeo dicendum quod circa omatum mulierum sunt eadem attendenda quae supra [a. l] communiter dieta sunt circa exteriorem cultum, et insuper quiddam aliud speciale, quod scilicet muliebris cultus viros ad lasci­ viam provocat, secundum illud Prov. 7 [10],

ecce, mulier occurrit il/i ornatu meretricio praeparata ad decipiendas animas. Potest tamen mulier licite operam dare ad hoc quod viro suo placeat, ne per eius contemptum in adulterium labatur. Unde dicitur l ad Cor. 7 [34], quod mulier quae nupta est cogitar quae sunt mundi, quomodo placeat viro. Et ideo si mulier coniugata ad hoc se ornet ut viro suo placeat, potest hoc facere absque peccato. lllae autem mulieres quae viros non habent,

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come la capigliatura, le collane d'oro, il lusso dei vestiti. E Cipriano spiega: «Quelle che si

vestono di seta e di porpora non possono sin­ ceramente rivestirsi di Cristo; quelle che si or­ nano d'oro, di gemme e di gioielli hanno per­ duto l'abbigliamento dell'anima e del corpo». Ma ciò non avviene se non per un peccato mortale. Quindi l'acconciatura delle donne non è esente dal peccato mortale. 2. Scrive ancora Cipriano: «Non soltanto le vergini e le vedove, ma anche le maritate e tutte le donne devono essere sconsigliate dall'adulte­ rare l'opera e la creazione di Dio, usando tintu­ re bionde o polveri nere o rosse, o cambiando con qualsiasi ritrovato i lineamenti originali». E continua: «Quelle mani fanno violenza a Dio quando cercano di riformare ciò che egli ha formato. Questo è un andare contro l'opera di Dio, è un tradire la verità. Tu non potrai vedere Dio quando non hai più gli occhi che Dio ha fatto, ma quelli che il diavolo ha contraffatto: agghindata dal tuo nemico, brucerai insieme con lui». Ora, ciò non è dovuto che al peccato mortale. Quindi le acconciature delle donne non sono esenti dal peccato mortale. 3. Come per una donna è indecente vestirsi da uomo, così è indecente fare uso di un abbiglia­ mento esagerato. Ma la prima di queste cose è peccaminosa, infatti in Dt 22 [5] è detto: La

donna non si vestirà da uomo, né l'uomo da donna. Perciò l'abbigliamento esagerato delle donne è un peccato mortale. In contrario: se così fosse, gli artigiani che preparano questi abbigliamenti commettereb­ bero un peccato mortale. Risposta: a proposito delle acconciature delle donne vanno applicate le considerazioni fatte in generale sull'abbigliamento, aggiungendo questa particolarità: che l'abbigliamento della donna può provocare gli uomini all'impudici­ zia, come è detto in Pr 7 [10]: Ecco farglisi

incontro una donna in vesti di prostituta e pre­ parata a ingannare le anime. Tuttavia la donna può lecitamente industriarsi di piacere al pro­ prio marito, per timore che questi la disprezzi e cada in adulterio. Per cui è detto in l Cor 7 [34]: La donna sposata si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Se quindi una donna sposata si abbellisce per piacere al marito, lo può fare senza peccato. Invece le donne che non hanno marito, e non aspirano ad averlo, o sono in stato di non

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nec volunt habere, et sunt in statu non haben­ di, non possunt absque peccato appetere pia­ cere virorum aspectibus ad concupiscendum, quia hoc est dare eis incentivum peccandi. Et si quidem hac intentione se oment ut alios provocent, ad concupiscentiam, mortaliter peccant. Si autem ex quadam !evitate, vel etiam ex vanitate propter quandam iactan­ tiam, non semper est peccatum mortale, sed quandoque veniale. Et eadem ratio, quantum ad hoc, est de viris. Unde Augustinus dicit, in Epistola ad Possidium [ep. 245], nolo ut de

ornamentis auri ve/ vestis praeproperam habeas in prohibendo sententiam, nisi in eos qui neque coniugati sunt, neque coniugari cupientes, cogitare debent quomodo placeant Deo. llli autem cogitant quae sunt mundi, quomodo placeant ve! viri uxoribus, vel mulieres maritis, nisi quod capillos nudare feminas, quas etiam caput velare apostolus iubet, nec maritatas decet. In quo tamen possent aliquae a peccato excusari, quando hoc non fieret ex aliqua vanitate, sed propter contrariam consuetudinem, quamvis talis consuetudo non sit laudabilis. Ad primum ergo dicendum quod, sicut Glossa [ord. super l Petr. 3,3] ibidem dicit, tmdieres

eontm qui in tribulatione erant, contemnebant viros, et ut aliis placerent, se pulchre oma­ bant, quod fieri apostolus prohibet. In quo etiam casu loquitur Cyprianus, non autem prohibet mulieribus coniugatis omari ut pla­ ceant viris, ne detur eis occasio peccandi cum aliis. Unde l ad Tim. [2,9] dicit apostolus,

mulieres in habitu omato, cum verecundia et sobrietate omantes se, non in tortis crinibus, aut auro aut margaritis aut veste pretiosa, per quod datur intelligi quod sobrius et moderatus ornatus non prohibetur mulieribus, sed super­ fluus et inverecundus et impudicus. Ad secundum dicendum quod mulierum fu­ catio, de qua Cyprianus loquitur, est quaedam species tictionis, quae non potest esse sine peccato. Unde Augustinus dicit, in Epistola ad Possidium [ep. 245], fucari figmentis, quo

rnbicundior ve/ candidior appareat, adulteri­ na fallacia est, qua non dubito etiam ipsos maritos se nolle decipi, quibus solis permit­ tendae sunt feminae ornari, secundum ve­ niam, non secundum imperium. Non tamen semper talis fucatio est cum peccato mortali, sed solum quando fit propter lasciviam, vel in

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poterlo avere, non possono desiderare senza peccato di piacere sensualmente agli uomini: poiché questo è dare ad essi un incentivo a peccare. Se quindi si acconciano con l'inten­ zione di provocare qualcuno alla concupi­ scenza, peccano mortalmente. Se invece lo fan­ no per leggerezza, o anche per vanità e ostenta­ zione, non sempre è peccato mortale, ma tal­ volta è veniale. E la stessa considerazione vale per gli uomini. Scriveva perciò Agostino a Pos­ sidio: «Io non vorrei che tu fossi precipitoso nel proibire i gioielli e le vesti preziose; a meno che non si tratti di coloro che non sono coniu­ gati, e che non desiderando di esserlo devono pensare solo a come piacere al Signore. Gli altri invece pensano alle cose del mondo, e come piacere alle mogli, se sono mariti, o ai mariti, se sono mogli; che però le donne stiano a capo scoperto non è ammesso neppure per le maritate, secondo il comando di S. Paolo, che ordina loro di velare il capo». Thttavia anche qui può darsi che alcune siano scusate dal peccato se non lo tanno per vanità, ma a causa di un'usanza contraria: sebbene una simile usanza non sia lodevole. Soluzione delle difficoltà: l . Come spiega la Glossa, «le mogli di coloro che erano nella tribolazione disprezzavano i loro mariti, e si abbellivano per piacere ad altri: ed è questo che Paolo proibisce». E anche Cipriano parla di questa situazione; tuttavia egli non proibisce alle donne sposate di abbigliarsi per piacere ai mariti onde togliere ad essi e ad altre donne l'occasione di peccare. Per cui Paolo dice: Alla

stessa maniera facciano le donne, con abiti de­ centi, adomandosi con verecondia e sobrietà, non di trecce, d'oro, di perle o di vesti sontuose (l Tm 2,9); dal che si ricava che alle donne non è proibito l'abbigliamento sobrio e moderato, ma quello eccessivo, inverecondo e impudico. 2. n trucco delle donne di cui parla Cipriano è una specie di falsificazione, che non può essere senza peccato. Da cui le parole di Agostino: «Truccarsi per apparire di carnagione più rosea o più bianca è una falsificazione e un inganno, col quale penso non vogliano essere ingannati neppure i mariti, in vista dei quali soltanto si può permettere, come concessione e non come comando, l'acconciatura delle donne». Tutta­ via non sempre questo truccarsi è un peccato mortale, ma solo quando lo si fa per uno scopo lascivo, come accenna Cipriano, o per disprez-

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Dei contemptum, in quibus casibus loquitur Cyprianus. - Sciendum tamen quod aliud est fingere pulchritudinem non habitam, et aliud est occultare turpitudinem ex aliqua causa provenientem, puta aegritudine vel aliquo huiusmodi. Hoc enim est licitum, quia secun­ dum apostolum, l ad Cor. [ 12,23], quae pu­ tamus ignobiliora esse membra corporis, his honorem abundantiorem circundamus. Ad tertium dicendum quod, sicut dictum est [a. 2], cultus exterior debet competere condi­ tioni personae secundum communem consue­ tudinem. Et ideo de se vitiosum est quod mu­ lier utatur veste virili aut e converso, et prae­ cipue quia hoc potest esse causa lasciviae. Et specialiter prohibetur in lege, quia gentiles tali mutatione habitus utebantur ad idololatriae superstitionem. Potest tamen quandoque hoc fieri sine peccato propter aliquam necessita­ tem, vel causa occultandi ab hostibus, vel propter defectum alterius vestimenti, vel propter aliquid aliud huiusmodi. Ad quartum dicendum quod, si qua ars est ad faciendum aliqua opera quibus homines uti non possunt absque peccato, per consequens artifices talia faciendo peccarent, utpote prae­ bentes directe aliis occasionem peccandi, puta si quis fabricaret idola, vel aliqua ad cultum idololatriae pertinentia. Si qua vero ars sit cuius operibus homines possunt bene et male uti, sicut gladii, sagittae et alia huiusmodi, usus talium artium non est peccatum, et eae solae artes sunt dicendae. Unde Chrysostomus dicit, Super Matth. [h. 49], eas solas oportet artes vocare quae necessariorum, et eorum quae continent vitam nostram, sunt tributivae et constntctivae. Si tamen operibus alicuius artis ut pluries aliqui male uterentur, quamvis de se non sint illicitae, sunt tamen per officium prin­ cipis a civitate extirpandae, secundum docu­ menta Platonis [cf. De civ. Dei 2,14; Plato, Res publica]. - Quia ergo mulieres licite se possunt ornare, vel ut conservent decentiam sui status, vel etiam aliquid superaddere ut placeant viris; consequens est quod artifices talium omamen­ torum non peccant in usu talis artis, nisi forte inveniendo aliqua superflua et curiosa. Unde Chrysostomus dicit, Super Matth. [h. 49] quod etiam ab arte calceorum et textorum multa abscidere oportet. Etenim ad luxuriam deduxe­ runt necessitatem eius corrumpentes, artem male arti commiscentes.

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w di Dio. - Si deve poi notare che altra cosa è fingere una bellezza che non si possiede, altra è nascondere una bruttura provocata da una malattia o da altre cause. Ciò infatti è lecito, poiché secondo Paolo le membra del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di un maggiore rispetto (l Cor 1 2,23). 3. L'abbigliamento estemo deve essere adatto alla condizione di ogni persona secondo le comuni usanze, come si è detto. Quindi di per sé è peccaminoso che una donna si vesta da uomo, e viceversa: specialmente perché ciò può essere causa di impudicizia. Ed è espressa­ mente proibito dalla legge antica perché i Pa­ gani ricorrevano a tali mutamenti di abiti nelle pratiche dell'idolatria. Tuttavia qualche volta ciò può essere fatto senza peccato per qualche necessità: o per sfuggire ai nemici, o per man­ canza di altre vesti, o per altre circostanze del genere. 4. [S.e.]. Se c'è un mestiere che serve a tàb­ bricare degli oggetti che non possono essere usati senza peccato, gli artigiani che vi lavora­ no commettono un peccato, poiché offrono ad altri direttamente l'occasione di peccare: tale è ad es. il caso di chi fabbrica gli idoli, o altri oggetti attinenti al culto idolatrico. Se invece ci sono dei mestieri i cui prodotti possono es­ sere usati bene o male, come le spade, le frec­ ce e altre cose consimili, l'esercizio di questi mestieri non è un peccato: e soltanto questi a tutto rigore meritano il nome di mestieri, o di arti. Da cui le parole del Crisostomo: «Si devono chiamare arti solo quelle che costrui­ scono e producono cose necessarie alla vita». Se tuttavia un mestiere ha per oggetto cose di cui per lo più si abusa, allora, sebbene esso di per sé non sia illecito, tuttavia, come insegna Platone, va proscritto dall'autorità civile. Ora, siccome le donne possono abbigliarsi le­ citamente, o per conservare il decoro del pro­ prio stato, o per piacere ai loro mariti, è chiaro che gli artigiani che ne producono gli orna­ menti non peccano nell'esercizio della loro arte; a meno che non esagerino neli' inventare acconciature inutili e ricercate. Il Crisostomo infatti afferma: «C'è molto da togliere anche nell'arte dei calzolai e dei tessitori. Poiché essi hanno orientato verso il lusso, distrug­ gendone la necessità, dei mestieri sani che hanno mescolato ad arti malvagie».

I precetti della temperanza

Q. 170, A. l

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QUAESTIO I 70 DE PRAECEPTIS TEMPERANTIAE

QUESTIONE 170 I PRECETTI DELLA TEMPERANZA

Deinde considerandum est de praeceptis tem­ perantiae. Et primo, de praeceptis ipsius tem­ perantiae. Secundo, de praeceptis partium eius.

Passiamo ora a esaminare i precetti della tem­ peranza e precisamente: l . I precetti della tem­ peranza medesima; 2. I precetti riguardanti le sue parti.

Articulus I Utrum praecepta temperantiae convenienter in lege divina tradantur

Articolo I Nella legge divina sono ben determinati i precetti della temperanza?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod prae­ cepta temperantiae inconvenienter in lege di­ vina tradantur. l . Fortitudo enim est potior virtus quam temperantia, ut supra [q. 123 a. 12; q. 141 a. 8; I-II q. 66 a. 4] dictum est. Sed nullum prae­ ceptum fortitudinis ponitur inter praecepta Decalogi, quae sunt potiora legis praecepta. Ergo inconvenienter inter praecepta Decalogi ponitur prohibitio adulterii, quod contrariatur temperantiae, ut ex supra [q. 1 54 aa. 1 . 8] dictis patet. 2. Praeterea, temperantia non solum est circa venerea, sed etiam circa delectationem cibo­ rum et potuum. Sed inter praecepta Decalogi non prohibetur aliquod vitium pertinens ad de­ lectationem ciborum et potuum, neque etiam pertinens ad aliquam aliam speciem luxuriae. Ergo neque etiam debet poni aliquod praecep­ tum prohibens adulterium, quod pertinet ad delectationem venereorum . 3 . Praeterea, principalius est i n intentione le­ gislatoris inducere ad virtutes quam vitia pro­ hibere, ad hoc enim vitia prohibentur, ut vir­ tutum irnpedirnenta tollantur. Sed praecepta Decalogi sunt principalia in lege divina. Ergo inter praecepta Decalogi magis debuit poni praeceptum aliquod aftirmativum directe in­ ducens ad virtutem temperantiae, quam prae­ ceptum negativum prohibens adulterium, quod ei directe opponitur. In contrarium est auctoritas Scripturae [Ex.

Sembra di no. Infatti: l . Come si è visto, la fortezza è una virtù su­ periore alla temperanza. Eppure tra i precetti del decalogo, che sono i più importanti della legge, non ce n'è alcuno riguardante la fortez­ za. Perciò non è giusto che fra i precetti sia posta la proibizione dell' adulterio, che è u n peccato contro l a temperanza. 2. La temperanza ha per oggetto non solo i piaceri venerei, ma anche i piaceri del man­ giare e del bere. Ora, nessuno dei precetti del decalogo proibisce qualche vizio riguardante i piaceri della mensa, e neppure qualche altra specie della lussuria. Quindi non si doveva dare neppure un precetto riguardante l'adulte­ rio, il quale riguarda i piaceri venerei. 3. Nell' intenzione del legislatore è più impor­ tante indurre alla virtù che proibire il vizio: infatti i vizi sono proibiti per togliere gli osta­ coli delle virtù. Ora, nella legge divina i pre­ cetti del decalogo sono quelli più importanti. Quindi tra i precetti del decalogo ci doveva essere un precetto affermativo che inducesse direttamente alla virtù della temperanza, piut­ tosto che un precetto negativo che proibisse il suo contrario, cioè l 'adulterio. In contrario : basta l' autorità della Scrittura

20, 1 - 17]. Respondeo dicendum quod, sicut apostolus dicit, l ad Tim. l [5] finis praecepti caritas est, ad quam duobus praeceptis inducimur pertinentibus ad dilectionem Dei et proximi. Et ideo illa praecepta in Decalogo ponuntur quae directius ordinantur ad dilectionem Dei et proximi. Inter vitia autem temperantiae op,

[Es 20,1-17; Dt 5,6].

Risposta: come dice Paolo, ilfine del precetto è la carità (l Tm l ,5), alla quale siamo indotti mediante i due precetti dell'amore di Dio e del prossimo. Perciò nel decalogo sono posti quei precetti che più direttamente sono ordinati al­ l' amore di Dio e del prossimo. Ora, tra i peccati contrari alla temperanza, quello che più con­ trasta con l' amore del prossimo è l' adulterio, nel quale si usmpa una cosa altrui, abusando cioè della moglie di un altro. E così tra i precetti del decalogo ci sono soltanto quelli che proibiscono l'adulterio, sia come atto che come desiderio.

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Iprecetti della temperanza

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posita, maxime dilectioni proximi videtur op­ poni adulterium, per quod aliquis usurpat sibi rem alienam, abutendo scilicet uxore proximi. Et ideo inter praecepta Decalogi praecipue prohibetur adulterium, non solum secundum quod opere exercetur, sed etiam secundum quod corde concupiscitur. Ad ptimum ergo dicendum quod inter species vitiorum quae opponuntur fortitudini, nulla est quae ita directe contrarietur dilectioni proximi sicut adulterium, quod est species luxuriae, quae temperantiae contrariatur. - Et tamen vitium audaciae, quod opponitur fortitudini, quandoque solet esse causa homicidii, quod inter praecepta Decalogi prohibetur, dicitur enim Eccli. 8 [ 1 8], cum audace non eas in via, neforte gravet ma/a sua in te. Ad secundum dicendum quod gula directe non opponitur dilectioni proximi, sicut adulterium, neque etiam aliqua alia species luxuriae. Non enim tanta fit iniuria patri per stuprum virginis, quae non est eius connubio deputata, quanta fit iniuria viro per adulterium, cuius corporis po­ testatem ipse habet, non uxor. Ad tertium dicendum quod praecepta Decalo­ gi, ut supra [q. 122 aa. 1 .4] dictum est, sunt quaedam universalia divinae legis principia, unde oportet ea esse communia. Non potue­ runt autem aliqua praecepta communia affir­ mativa de temperantia dari, quia usus eius va­ riatur secundum diversa tempora, sicut Augu­ stinus dicit, in libro De bono coniug. [15], et secundum diversas hominum leges et consue­ tudines.

Soluzione delle difficoltà: l . Tra i vizi che si contrappongono alla fortezza non ce n'è uno che sia incompatibile con la carità come l'adulterio, che è un peccato di lussuria, con­ trario alla temperanza. - n vizio dell'audacia però, che si contrappone alla fortezza, talora è causa dell 'omicidio, che è ricordato e proibito dai precetti del decalogo; infatti è detto in Sir 8 [ 1 8] : Con l 'audace non camminare, perché i suoi guai non cadano su di te. 2. La gola non è così direttamente in contra­ sto con l'amore del prossimo come l'adulte­ rio; e lo stesso si dica delle altre specie della lussuria. Infatti lo stupro di una vergine non arreca al padre un'ingiuria così grave come quella subita da un marito con l'adulterio, per il potere che egli ha sul corpo della moglie [l Cor 7,4]. 3. Come si è già notato, i precetti del decalo­ go sono come i princìpi universali della legge divina: per cui devono essere comuni a tutti. Ma non era possibile dare dei precetti comuni affermativi sulla temperanza: poiché l'uso della temperanza varia secondo i tempi, le leggi e le usanze, come nota Agostino.

Articulus 2 Utrum convenienter tradantur in divina lege praecepta de virtutibus annexis temperantiae

Articolo 2 Nella legge divina sono ben determinati i precetti riguardanti le virtù annesse alla temperanza?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod inconvenienter tradantur in divina lege prae­ cepta de virtutibus annexis temperantiae. l . Praecepta enim Decalogi, ut dictum est [a. l ad 3], sunt quaedam universalia principia totius legis divinae. Sed superbia est initium omnis peccati, ut dicitur Eccli. 10 [ 1 5]. Ergo inter praecepta Decalogi debuit aliquod poni prohibitivum superbiae. 2. Praeterea, illa praecepta maxime debent in Decalogo poni per quae homines maxime inclinantur ad legis impletionem, quia ista

Sembra di no. Infatti: l. Stando a quanto si è detto, i precetti del de­ calogo sono come i princìpi universali di tutta la legge divina. Ma la superbia è l 'inizio di tutti i peccati, come è detto in Sir l O [ 1 5]. Quindi tra i precetti del decalogo ce ne dove­ va essere uno che proibisse la superbia. 2. Nel decalogo si devono mettere soprattutto quei precetti che più spingono gli uomini a osservare la legge: poiché sono questi i prin­ cipali. Ora, l'uomo è spinto all'osservanza della legge soprattutto dali' umiltà: i nfatti

Q. 170, A. 2

I precetti della temperanza

videntur esse principalia. Sed pe r humilitatem, per quam homo Deo subiicitur, maxime vi­ detur homo disponi ad observantiam divinae legis, unde obedientia inter gradus humilitatis computatur, ut supra [q. 1 6 1 a. 6] habitum est. Et idem etiam videtur esse dicendum de man­ suetudine, per quam fit ut homo divinae Scrip­ turae non contradicat, ut Augustinus dicit, in 2 De doct. chr. [7] . Ergo videtur quod de humilitate et mansuetudine aliqua praecepta in Decalogo poni debuerunt. 3. Praeterea, dictum est [q. 1 6 8 a. l ad 1 .3] quod adulterium in Decalogo prohibetur quia contrariatur dilectioni proximi. Sed etiam inor­ dinatio exteriorum motuum, quae contrariatur modestiae, dilectioni proximi opponitur, unde Augustinus dicit, in Regula [ep. 21 1], in om­

nibus motibus vestris nihilfiat quod cuiusquam offendat aspectum. Ergo videtur quod etiam

huiusmodi inordinatio debuit prohiberi per aliquod praeceptum Decalogi. In contrarium sufficit auctoritas Scripturae [Ex. 20, 1 ; Deut. 5,6]. Respondeo dicendum quod virtutes tempe­ rantiae annexae dupliciter considerari pos­ sunt, uno modo, secundum se; alio modo, se­ cundum suos effectus. Secundum se quidem, non habent directam habitudinem ad dilectio­ nem Dei vel proximi, sed magis respiciunt quandam moderati onem eorum quae ad ipsum hominem pertinent. Quantum autem ad effectus suos, possunt respicere dilectionem Dei vel proximi. Et secundum hoc, aliqua praecepta in Decalogo ponuntur pertinentia ad prohibendum effectus vitiorum opposito­ rum temperantiae partibus, sicut ex ira, quae opponitur mansuetudini, procedit interdum aliquis ad homicidium, quod in Decalogo prohibetur, vel ad subtrahendum debitum ho­ norem parentibus. Quod etiam potest ex superbia provenire, ex qua etiam multi trans­ grediuntur praecepta primae tabulae. Ad primum ergo dicendum quod superbia est initium peccati, sed latens in corde, cuius etiam inordinatio non perpenditur communi­ ter ab omnibus. Unde eius prohibitio non de­ buit poni inter praecepta Decalogi, quae sunt sicut prima principia per se nota. Ad secundum dicendum quod praecepta quae inducunt ad observantiam legis, praesuppo­ nunt iam legem. Unde non possunt esse pri­ ma legis praecepta, ut in Decalogo ponantur.

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l'obbedienza è ricordata tra i gradi dell'umil­ tà, come sopra si è visto. E lo stesso si dica della mansuetudine, la quale fa sì che l'uomo «non contraddica la sacra Scrittura>>, come dice Agostino. Perciò sembra che nel decalo­ go dovessero esserci dei precetti sull'umiltà e sulla mansuetudine. 3. Come si è visto, l'adulterio è proibito dal decalogo in quanto è in contrasto con l' amore del prossimo. Ma anche il disordine dell'at­ teggiamento esterno che è contrario alla mo­ destia è in contrasto con l'amore del prossi­ mo; infatti nella Regola di Agostino si legge: «In tutti i vostri atteggiamenti non ci sia nulla che offenda l'altmi sguardo». Quindi sembra che anche questo disordine dovesse essere proibito da un precetto del decalogo. In contrario: basta l'autorità della Scrittura [Es 20, 1 - 1 7; Dt 5,6]. Risposta: le virtù annesse alla temperanza possono essere considerate sotto due aspetti: primo, in se stesse; secondo, nei loro effetti. Considerate in se stesse non hanno un rappor­ to diretto con l' amore di Dio o del prossimo, ma riguardano piuttosto il buon ordine di cose attinenti al soggetto. Invece in rapporto ai loro effetti possono riguardare anche l'amore di Dio e del prossimo. Per questo nel decalogo si trovano dei precetti che mirano a proibire gli effetti di quei vizi che si contrappongono alle parti potenziali della temperanza: dali'ira infatti, che è il contrario della mansuetudine, può derivare che si commetta l'omicidio, il quale è proibito dal decalogo, oppure che si manchi di rispetto ai genitori. Ma ciò può derivare anche dalla superbia, la quale fa sì che molti trasgrediscano anche i precetti della prima tavola. Soluzione delle difficoltà: l . La superbia è l'inizio di ogni peccato, ma rimane nascosta nel cuore: per cui non tutti ne conoscono la malizia allo stesso modo. Per questo la sua proibizione non andava posta tra i precetti del decalogo, che sono come dei primi princìpi evidenti per se stessi. 2. I precetti che inducono all'osservanza della legge la presuppongono. Quindi non possono essere posti nel decalogo quali primi precetti della legge. 3. Il disordine dell' atteggiamento esterno può costituire un'offesa del prossimo non per se stesso, come l'omicidio, l'adulterio e il furto,

Iprecetti della temperanza

1517

Q. 170, A. 2

Ad tertium dicendum quod inordinatio exterio­ rum motuum non pertinet ad offensam proximi secundum ipsam speciem actus, sicut homici­ dium, adulterium et furtum, quae in Decalogo prohibentur, sed solum secundum quod sunt signa interioris inordinationis, ut supra [q. 168 a l ad 1 .3] dictum est.

che sono proibiti dal decalogo, ma solo in quanto segno del disordine interiore, come sopra si è spiegato.

QUAESTIO 1 7 1 DE PROPHETIA

QUESTIONE 1 7 1 LA PROFEZIA

Postquam dictum est de singulis virtutibus et vitiis quae pertinent ad omnium hominum con­ ditiones et status, nunc considerandum est de his quae specialiter ad aliquos homines perti­ nent. Invenitur autem differentia inter homines, secundum ea quae ad habitus et actus animae rationalis pertinent, tripliciter. Uno quidem modo, secundum diversas gratias gratis datas, quia, ut dicitur l ad Cor. 1 2 [4 sqq.], divisiones gratiantm sunt, et a/ii datur per Spiritum ser­ mo sapientiae, a/ii senno scientiae, et cetera. Alia vero differentia est secundum diversas vi­ tas, activam scilicet et contemplativam [q. 179], quae accipitur secundum diversa operationum studia. Unde et ibidem [6] dicitur quod divisio­ nes operationum sunt. Aliud enim est studium operationis in Martha, quae sollicita erat et laborabat circa frequens ministerium, quod pertinet ad vitam activam, aliud autem in Ma­ ria, quae, sedens secus pedes Domini, audiebat verbum illius, quod pertinet ad contemplati­ vam, ut habetur Luc. 1 0 [39 sqq.]. Tertio mo­ do, secundum diversitatem officiorum e t statuum [q. 1 83], prout dicitur Eph. 4 [ 1 1 ], et ipse dedit quosdam quidem apostolos, quosdam autem prophetas, alios vero evange­ listas, alios autem pastores et doctores. Quod pertinet ad diversa ministeria, de quibus dicitur, l ad Cor. 1 2 [5], divisiones ministrationum sunt. - Est autem attendendum circa gratias gratis datas, de quibus occurrit consideratio pri­ ma, quod quaedam eorum pertinent ad cogni­ tionem; quaedam vero ad locutionem [q. 1 76]; quaedam vero ad operationem [q. 178]. Omnia vero quae ad cognitionem pertinent, sub pro­ phetia comprehendi possunt. Nam prophetica revelatio se extendit non solum ad futuros ho­ minum eventus, sed etiam ad res divinas, et quantum ad ea quae proponuntur omnibus credenda, quae pertinent ad fidem, et quantum

Dopo aver trattato singolarmente delle virtù e dei vizi che appartengono alle condizioni e allo stato di tutti gli uomini, passiamo a consi­ derare ciò che riguarda certe particolari cate­ gorie di persone. Ora, rispetto agli abiti e agli atti di ordine razionale si riscontrano fra gli uomini tre differenze. La prima è una dif­ ferenza di grazie carismatiche: poiché ci sono diversità di carismi (l Cor 1 2,4), e dallo Spi­ rito a uno è dato il linguaggio della sapienza, a un altro il linguaggio della scienza .. . - La seconda differenza è impostata sulla distinzio­ ne tra la vita attiva e la vita contemplativa, che dipende dalla diversità delle occupazioni e degli impegni. Per cui è detto che ci sono di­ versità di operazioni [l Cor 12,6]. Altra in­ fatti era l'occupazione di Marta, che era solle­ cita e si a.ffàticava per molti servizi, il che rientra nella vita attiva, e altra era l'occupa­ zione di Maria la quale, seduta ai piedi del Si­ gnore, ascoltava la sua parola (u· 1 0,39 ss.). - La terza differenza infine è impostata sulla diversità di cariche e di stati, secondo le parole di Ef 4 [ 1 1 ] : Egli ha costituito alcuni apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri pastori e dottori. Si tratta cioè di quella «diversità di ministeri» di cui è detto in l Cor 12 [5]: Ci sono diversità di ministeri. Fermiamoci dunque in primo luogo a trattare delle grazie carismatiche, che riguardano o la conoscenza, o la parola, o le opere. I carismi riguardanti la conoscenza possono compendiarsi nel termi­ ne profezia. Infatti la rivelazione profetica non si limita agli eventi umani futuri, ma abbrac­ cia anche le realtà divine, sia quanto alle ve­ rità che tutti sono tenuti a credere, e che sono oggetto dellafede, sia quanto ai misteri più al­ ti riservati ai perfetti, e che sono oggetto della sapienza. Inoltre la rivelazione profetica si estende alle sostanze spirituali, da cui siamo -

Q. 171, A. l

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La profezia

a d altiora mysteria, quae sunt perfectorum, quae pertinent ad sapientiam; est etiam prophe­ tica revelatio de his quae pertinent ad spirituales substantias, a quibus vel ad bonum vel ad malum inducimur, quod pertinet ad discretio­ nem spirituum; extendit etiam se ad directio­ nem humanorum actuum, quod pertinet ad scientiam; ut infra [a. 3] patebit. Et ideo primo occurrit considerandum de prophetia; et de raptu [q. 175], qui est quidam prophetiae gradus. De prophetia autem quadruplex considerarlo occurrit, quarum prima est de essentia eius; secunda, de causa ipsius [q. 172]; tertia, de modo propheticae cognitionis [q. 173]; quarta, de divisione prophetiae [q. 174]. - Circa pri­ mum quaeruntur sex. Primo, utrum prophetia pertineat ad cognitionem. Secundo, utrum sit habitus. Tertio, utrum sit solum futurorum con­ tingentium. Quarto, utrum propheta cognoscat omnia prophetabilia. Quinto, utrum propheta discemat ea quae divinitus percipit, ab his quae proprio spiritu videt. Sexto, utrum prophetiae possit subesse falsum.

spinti al bene o al male, e ciò è oggetto del di­ scernimento degli spiriti; e non esclude gli atti umani, che sono oggetto della scienza, come vedremo in seguito. Perciò prima di tutto par­ leremo della profezia, quindi del rapimento, che è un grado speciale del dono profetico. A proposito della profezia esamineremo quat­ tro cose: primo, la sua natura; secondo, le sue cause; terzo, il modo della conoscenza profe­ tica; quarto, le varie specie di profezia. - Sul primo argomento si pongono sei problemi: l . La pr_ofezia è un fatto di ordine conosci­ tivo? 2. E un abito? 3. Ha per oggetto soltanto i futuri contingenti? 4. n profeta conosce tutto ciò che può essere oggetto di profezia? 5. ll profeta distingue ciò che conosce per rivela­ zione divina da ciò che vede col proprio spiri­ to? 6. Nella profezia può introdursi la falsità?

Articulus l Utrum prophetia pertineat ad cognitionem

Articolo l La profezia è un fatto di ordine conoscitivo?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod pro­ phetia non pertineat ad cognitionem. l . Dicitur enim Eccli. 48 [14], quod corpus Elisei mortuum prophetavit, et infra, 49 [18], dicitur de loseph quod ossa ipsius visitata, sunt, et post mortem prophetavit. Sed in cor­ pore vel ossibus post mortem non remanet aliqua cognitio. Ergo prophetia non pertinet ad cognitionem. 2. Praeterea, l ad Cor. 14 [3] dicitur, qui pro­

Sembra di no. Infatti: l . In Sir 48 [14] è detto che il corpo di Eliseo profetò da morto; e in Sir 49 [18] si dice di Giu­ seppe che le sue ossa furono visitate, e dopo la morte profetarono. Ora, nel corpo e nelle ossa dopo la morte non rimane cognizione alcuna. Quindi la profezia non è un fatto conoscitivo. 2. In l Cor 14 [3] è detto: Chi profetizza par­ la agli uomini per la loro edificazione. Ma il parlare è un effetto della conoscenza, e non la conoscenza stessa. Perciò sembra che la pro­ fezia non rientri nella conoscenza. 3 . Ogni perfezione di ordine conoscitivo esclude la stoltezza e la follia. Invece queste ultime possono coesistere con la profezia, in­ fatti è detto in Os 9 [7]: Sappi, Israele, che stolto e pazzo è il profeta. Quindi la profezia non è una perfezione di ordine conoscitivo. 4. Come la rivelazione è un fatto di ordine co­ noscitivo, così l'ispir>. Quindi al profeta è rivelato tutto ciò che è profetabile. 3. La luce divina, che causa la profezia, è più potente della luce della ragione naturale, che causa la scienza umana. Ora, l'uomo che pos­ siede una scienza conosce tutto ciò che ne è l'oggetto: come un grammatico conosce tutti gli elementi della grammatica. Quindi sembra che il profeta conosca tutto ciò che rientra nella profezia. In contrario: Gregorio ha sctitto che «lo spirito profetico può talvolta illuminare l'animo del profeta sul presente senza toccare il futuro; e talvolta può illuminarlo sul futuro senza toc­ care il presente». Quindi il profeta non conosce tutto ciò che può essere oggetto di profezia. Risposta: non è necessario che delle realtà di­ verse si trovino insieme se non in forza del­ I' elemento che le unisce e dal quale esse di­ pendono: le virtù p. es., come si è visto, devo­ no necessariamente coesistere tutte insieme in forza della pmdenza o della catità. Ora, le ve­ rità che sono conosciute mediante un princi­ pio trovano in esso la loro connessione e da esso dipendono. Perciò chi conosce pertetta­ mente il principio in tutta la sua virtualità, conosce tutto ciò che è conoscibile in forza di esso. Chi invece lo ignora, oppure lo conosce in modo generico, non è detto che debba co­ noscere tutte le realtà conoscibili con esso, ma ha bisogno della manifestazione diretta di ciascuna: quindi conosce alcune cose e altre no. Ora, il principio di quanto è manifestato dal lume profetico è la prima verità, che i

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La profezia

Q. 1 7 1 , A. 4

et alia non cognosci. Principium autem eorum quae divino lumine prophetice manifestantur, est ipsa veritas prima, quam prophetae in seipsa non vident. Et ideo non oportet quod omnia prophetabilia cognoscant, sed quilibet eorum cognoscit ex eis aliqua, secundum specialem revelationem huius vel illius rei. Ad primum ergo dicendum quod Dominus omnia quae sunt necessaria ad instructionem :fi­ delis populi, revelat prophetis, non tamen omnia omnibus, sed quaedam uni, quaedam alii. Ad secundum dicendum quod prophetia est sicut quiddam imperfectum in genere divinae revelationis, unde dicitur l ad Cor. 1 3 [8-9], quod prophetiae evacuabuntur, et quod ex parte prophetamus, idest imperfecte. Perfectio autem divinae revelationis erit in pattia, unde subditur [10], cum venerit quod pe1jectum est, evacua­ bitur quod ex parte est. Unde non oportet quod propheticae revelationi nihil desit, sed quod nihil desit eorum ad quae prophetia ordinatur. Ad tertium dicendum quod ille qui habet aliquam scientiam, cognoscit principia illius scientiae, ex quibus omnia quae sunt illius scientiae dependent. Et ideo qui perfecte ha­ bet habitum alicuius scientiae, scit omnia quae ad illam scientiam pertinent. Sed per prophetiam non cognoscitur in seipso princi­ pium propheticalium cognitionum quod est Deus. Unde non est similis ratio.

profeti non possono vedere in se stessa. Non ne segue quindi che essi conoscano tutto ciò che può essere oggetto di profezia, ma cia­ scun profeta conosce alcune cose secondo la particolare rivelazione che a lui è fatta. Soluzione delle difficoltà: l . li Signore rivela ai profeti tutto ciò che è necessario per l'istru­ zione del popolo fedele, però non rivela tutte le verità a ciascuno di essi, ma a chi una cosa e a chi un' altra. 2. La profezia, tra le rivelazioni di Dio, è co­ me qualcosa di imperfetto: infatti è detto che le profezie scompariranno, e che profetiamo parzialmente (l Cor 13,8 s.) cioè imperfetta­ mente. Invece la perfetta rivelazione la avre­ mo nella pattia celeste, per cui segue [ 1 0] : Quando verrà ciò che è peifetto, quello che è impe1jetto scomparirà. Non è quindi necessa­ rio che alla rivelazione profetica non manchi nulla, ma che non manchi nulla di ciò a cui è ordinata la profezia. 3. Chi possiede una scienza ne conosce i princìpi, dai quali dipendono tutte le sue con­ clusioni. Quindi chi possiede perfettamente l'abito di una scienza conosce tutto ciò a cui essa si estende. Ma con la profezia non si conosce in se stesso il principio della cono­ scenza profetica, che è Dio. Perciò il parago­ ne non regge.

Articulus 5 Utrum propheta discernat semper quid dicat per spiritum proprium, et quid per spiritum prophetiae

Articolo 5 D profeta può sempre discernere ciò che

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod pro­ pheta discemat semper quid dicat per spiritum proprium, et quid per spiritum prophetiae. l . Dicit enim Augustinus, in 6 Conf. [ 1 3] , quod mater sua dicebat discernere se, nescio quo sapore, quem verbis explicare non poterat, quid interesse! inter Dewn revelantem et inter animam suam somniantem. Sed prophetia est revelatio divina, ut dictum est [a. l arg. 4; a. 3 arg. 1 ] . Ergo propheta semper discernit id quod dicit per spiritum prophetiae, ab eo quod loquitur spiritu proprio. 2. Praeterea, Deus non praecipit aliquid im­ possibile, sicut Hieronymus [cf. Pelagium, Li­ bellum fidei ad Innocentium; ep. l Ad De-

Sembra di sì. Infatti: l . Agostino attesta che sua madre «diceva di discernere per un certo intuito, che non sape­ va spiegare a parole, la differenza che c'era tra la rivelazione di Dio e i sogni della sua anima». Ora, come si è detto, la profezia è «una rivelazione di Dio». Quindi il profeta discerne sempre ciò che dice per spirito pro­ fetico da ciò che dice per proprio spirito. 2. Secondo Girolamo «Dio non comanda nul­ la di impossibile». Ma ai profeti Dio fa questo comando [Ger 23,28]: li profeta che ha avuto un sogno racconti il suo sogno, e chi ha udito la mia parola annunzi fedelmente la mia pa­ rola. Quindi il profeta può discernere ciò che

dice col proprio spirito da ciò che dice per spirito profetico?

Q. 1 7 1 , A. 5

La profezia

metr., c. 1 6] dicit. Praecipitur autem prophe­ tis, ler. 23 [28], propheta qui habet somnium,

narret somnium, et qui habet sermonem meum, loquatur sennonem meum vere. Ergo propheta potest discernere quid habeat per spiritum prophetiae, ab eo quod aliter videt. 3 . Praeterea, maior est certitudo quae est per divinum lumen quam quae est per lumen ra­ tionis naturalis. Sed per lumen rationis natura­ lis ille qui habet scientiam, pro certo scit se ha­ bere. Ergo ille qui habet prophetiam per lumen divinum, multo magis certus est se habere. Sed contra est quod Gregorius dicit, Super Ez. [ 1 ,1], sciendum est quod aliquando prophetae

sancti, dum consuluntur, ex magno usu pro­ phetandi quaedam ex suo spiritu proferunt, et se haec exprophetiae spiritu dicere suspicantur. Respondeo dicendum quod mens prophetae dupliciter a Deo instruitur, uno modo, per expressam revelationem; alio modo, per

quendam instinctum, quem interdum etiam ne­ scientes hwnanae mentes patiuntur, ut Augu­

stinus dicit, 2 Super Gen. [ 1 7] . De his ergo quae expresse per spiritum prophetiae prophe­ ta, cognoscit, maximam certitudinem habet, et pro certo habet quod haec sibi sunt divinitus re­ velata. Unde dicitur Ier. 26 [ 1 5] , in veritate

misi! me Dominus ad vos, ut loquerer in aures vestras omnia verba haec. Alioquin, si de hoc

ipse certitudinem non haberet, fides, quae dictis prophetarum innititur, certa non esset. Et si­ gnum propheticae certitudinis accipere possu­ mus ex hoc quod Abraham, admonitus in pr. Invece le facoltà affettive o appetitive spingo­ no agli atti esterni. Quindi sembra che la vita contemplativa in nessun modo riguardi le fa­ coltà appetitive. In contrario: Gregorio scrive che «la vita con­ templativa consiste nel custodire con tutta l'anima l 'amore di Dio e del prossimo, ade­ rendo col desiderio solo al Creatore». Ma il desiderio e l' amore appartengono alle facoltà affettive o appetitive, come si è visto. Perciò la vita contemplativa riguarda anche le facoltà affettive o appetitive. Risposta: come sopra si è visto, la vita con­ templativa è quella di coloro che tendono principalmente alla contemplazione della ve­ rità. Ma i l tendere è un atto della volontà, come si è detto, poiché si tende verso il fine, che è l' oggetto della volontà. Perciò la vita contemplativa, se consideriamo l'essenza del suo atto, appartiene all'intelletto; se però con­ sideriamo il movente di tale atto, allora appar­ tiene alla volontà, la quale muove tutte le altre potenze, compreso l ' intelletto, ai rispettivi at­ ti, come si è detto sopra. - Ora, la volontà spinge a guardare qualcosa con i sensi, o con

Dei et proximi tota mente retine1-e, et soli de­ siderio Conditoris inhaerere. Sed desiderium et amor ad vim affectivam sive appetitivam pertinet, ut supra [I-Il q. 25 a. 2; q. 26 a. 2] habitum est. Ergo etiam vita contemplativa habet aliquid in vi affectiva sive appetitiva. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [q. 1 79 a. 1 ], vita contemplativa illorum esse dicitur qui principaliter intendunt ad contem­ plationem veritatis . Intentio autem est actus voluntatis, ut supra [1-11 q. 1 2 a. l ] habitum est, quia intentio est de fine, qui est voluntatis obiectum. Et ideo vita contemplativa, quan­ tum ad ipsam essentiam actionis, pertinet ad intellectum, quantum autem ad id quod movet ad exercendum talem operationem, pertinet ad voluntatem, quae movet omnes alias po-

Q. 1 80, A. l

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La vita contemplativa

tentias, et etiam intellectum, ad suum actum, ut supra [I q. 82 a. 4; 1-11 q. 9 a. l ] dictum est. - Movet autem vis appetitiva ad aliquid inspi­ ciendum, vel sensibiliter vel intelligibiliter, quandoque quidem propter amorem rei visae, quia, ut dicitur Matth. 6 [21], ubi est thesaunts tuus, ibi est et cor tuum, quandoque autem propter amorem ipsius cognitionis quam quis ex inspectione consequitur. Et propter hoc Gre­ gorius constituit vitam contemplativam in cari­ fate Dei, inquantum scilicet aliquis ex dilec­ tione Dei i nardescit ad eius pulchritudinem conspiciendam. Et quia unusquisque delectatur cum adeptus fuerit id quod amat, ideo vita con­ templativa tenninatur ad delectationem, quae est in affectu, ex qua etiam amor intenditur. Ad primum ergo dicendum quod ex hoc ipso quod veritas est finis contemplationis, habet ra­ tionem boni appetibilis et amabilis et delectantis. Et secundum hoc pertinet ad vim appetitivam. Ad secundum dicendum quod ad ipsam visio­ nem primi principii, scilicet Dei, incitat amor ipsius. Unde Gregorius dicit, Super Ez. [2,2], quod vita contemplativa, calcatis curis omnibus,

ad videndamfaciem sui Creatoris inardescit.

Ad tertium dicendum quod vis appetitiva mo­ vet non solum membra corporalia ad exterio­ res actiones exercendas, sed etiam intellectum ad exercendum operationem contemplationis, ut dictum est [in co.].

l'intelligenza, talora per l'amore che porta a tale oggetto, poiché dov'è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore, come è detto in Mt 6 [2 1], talora invece per l' amore della conoscenza stessa che risulta dali' indagine. E così Gre­ gorio ripone l'essenza della vita contempla­ tiva nella «carità verso Dio», poiché dall'a­ more di Dio uno è infiammato a contemplar­ ne la bellezza. E poiché dal conseguimento di ciò che si ama nasce la gioia, la vita contem­ plativa termina nel godimento, che risiede nella volontà; e questo a sua volta accresce l'amore. Soluzione delle difficoltà: l . Essendo il fine della contemplazione, la verità si presenta co­ me un bene appetibile, amabile e dilettevole. E sotto questo aspetto è oggetto della volontà. 2. Alla visione o contemplazione del primo principio, cioè di Dio, siamo spinti dall' amore verso di lui. Per cui Gregorio afferma che «la vita contemplativa, disprezzando ogni altra occupazione, arde dal desiderio di vedere il volto del Creatore». 3. La volontà, come si è detto, muove non soltanto le membra del corpo a compiere le azioni esterne, ma anche l'intelletto a compie­ re gli atti della contemplazione.

Articulus 2 Utrum virtutes morales pertineant ad vitam contemplativam

Articolo 2 Le virtù morali rientrano nella vita contemplativa?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod virtutes morales pertineant ad vitam contem­ plativam. l . Dicit enim Gregorius, Super Ez. [2,2], quod

Sembra di sì. Infatti: l . Gregorio afferma che «la vita contemplativa consiste nel custodire con tutta l'anima la cari­ tà di Dio e del prossimo». Ma tutte le virtù mo­ rali, i cui atti sono oggetto della legge, si ridu­ cono all'amore di Dio e del prossimo: poiché la pienezza della legge è l 'amore (Rm 13,10). Quindi sembra che le virtù morali apparten­ gano alla vita contemplativa. 2. La vita contemplativa è ordinata soprattutto alla contemplazione di Dio: infatti Gregorio insegna che essa, «disprezzando ogni altra occupazione, arde dal desiderio di vedere il volto del Creatore». Ora, nessuno può arrivare a ciò se non mediante la purezza prodotta da una virtù morale, poiché in Mt 5 [8] è detto: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio; e

contemplativa vita est caritatem quidem Dei et proximi tota mente retinere. Sed ornnes virtutes morales, de quarum actibus dantur praecepta legis, reducuntur ad dilectionem Dei et proxi­ mi, quia plenitudo legis est dilectio, ut dicitur Rom. 1 3 [10] . Ergo videtur quod virtutes mo­ rales pertineant ad vitam contemplativam. 2. Praeterea, contemplativa vita praecipue or­ dinatur ad Dei contemplationem, dicit enim Gregorius, Super Ez. [2,2], quod, calcatis cu­

ris omnibus, ad videndum faciem sui Creato­ ris inardescit. Sed ad hoc nullus potest perve­

nire nisi per munditiam, quam causat virtus

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L a vita contemplativa

moralis, dicitur enim Matth. 5 [8], beati mun­ do corde, quoniam ipsi Deum videbunt; et Hebr. 12 [14], pacem sequimini cum omnibus, et sanctimoniam, sine qua nemo videbit Deum. Ergo videtur quod virtutes morales pertineant ad vitam contemplativam. 3. Praeterea, Gregorius dicit, Super Ez. [2,2], quod contemplativa vita speciosa est in ani­ mo unde significatur per Rachelem, de qua dicitur, Gen. 29 [ 1 7] , quod erat pulchrafacie. Sed pulchritudo animi attenditur secundum virtutes morales, et praecipue secundum tem­ perantiam, ut Ambrosius dicit, in l De off. [43]. Ergo videtur quod virtutes morales perti­ neant ad vitam contemplativam. Sed contra est quod vittutes morales ordi­ nantur ad exteriores actiones. Sed Gregorius dicit, in 6 Mor. [cf. In Ez. 2,2] , quod ad contemplativam vitam pertinet ab exteriori actione quiescere. Ergo virtutes morales non pertinent ad vitam contemplativam. Respondeo dicendum quod ad vitam contem­ plativam potest aliquid pertinere dupliciter, uno modo, essentialiter; alio modo, dispositi­ ve. Essentialiter quidem virtutes morales non pertinent ad vitam contemplativam. Quia finis contemplativae vitae est consideratio veritatis. Ad virtutes autem morales scire quidem, quod pertinet ad considerationem veritatis, parvam potestatem habet, ut philosophus dicit, in 2 Ethic. [4,3] . Unde et ipse, in 10 Ethic. [8, 1 ] , virtutes morales dicit pertinere ad felicitatem activam, non autem ad contemplativam. Dispositive autem virtutes morales pertinent ad vitam contemplativam. Impeditur enim actus contemplationis, in quo essentialiter consistit vita contemplativa, et per vehemen­ tiam passionum, per quam abstrahitur intentio animae ab intelligibilibus ad sensibilia; et per tumultus exteriores. Virtutes autem morales irnpediunt vehementiam passionum, et sedant exteriorum occupationum tumultus. Et ideo virtutes morales dispositive ad vitam contem­ plativam pertinent. Ad primum ergo dicendum quod, sicut dictum est [a. I ], vita contemplativa habet motivum ex parte affectus, et secundum hoc dilectio Dei et proximi requiritur ad vitam contemplativam. Causae autem moventes non intrant essentiam rei, sed disponunt et perficiunt rem. Unde non sequitur quod virtutes morales essentialiter pertineant ad vitam contemplativam.

Q. 1 80, A. 2

in Eh

1 2 [14] : Cercate la pace con tutti e la santi.ficazione, senza la quale nessuno vedrà mai Dio. Perciò sembra che le virtù morali

rientrino nella vita contemplativa. 3. Gregorio scrive che «la vita contemplativa ha la sua bellezza nell' anima>>: essa infatti è figurata da Rachele che era bella di aspetto (Gen 29, 1 7). Ma la bellezza dell'animo consi­ ste nelle virtù morali, specialmente nella tem­ peranza, come nota Ambrogio. Quindi sem­ bra che le virtù morali rientrino nella vita con­ templativa. In contrario: le virtù morali sono ordinate agli atti esterni. Invece Gregorio afferma che alla vita contemplativa spetta di «cessare dall'atti­ vità esterna». Quindi le virtù morali non rien­ trano nella vita contemplativa. Risposta: una virtù può appartenere alla vita contemplativa in due modi: primo, essenzial­ mente; secondo, quale predisposizione. Ora, le virtù morali non rientrano nella vita contem­ plativa essenzialmente: poiché il fine di questa è la considerazione della verità, mentre sulle virtù morali, come scrive il Filosofo, «il sapere ha scarsa importanza>>. Infatti egli afferma che le virtù morali rientrano nella felicità della vita attiva, non in quella della vita contemplativa. Le virtù morali rientrano i nvece nella vita contemplativa come predisposizioni. Poiché l'atto della contemplazione, in cui essenzial­ mente consiste tale vita, è impedito dalla violenza delle passioni, che traggono l' atten­ zione dell' anima dalle realtà intelligibili a quelle sensibili, e dai tumulti esteriori. Ora, le virtù morali eliminano la violenza delle pas­ sioni e calmano i tumulti delle occupazioni esterne. Perciò le virtù morali appartengono alla vita contemplativa come predisposizioni. Soluzione delle difficoltà: l . La vita contem­ plativa, come si è visto sopra, è sotto la mo­ zione della volontà: ed è per questo che essa richiede l' amore di Dio e del prossimo. Ora, le cause moventi non rientrano nell' essenza della cosa, ma predispongono ad essa e ne sono il coronamento. Per cui non segue che le virtù morali appartengano essenzialmente alla vita contemplativa. 2. La santità, o innocenza, è prodotta dalle virtù riguardanti le passioni che impediscono la purezza dell'anima. La pace invece è pro­ dotta dalla giustizia, che ha per oggetto le ope­ razioni esterne, secondo le parole di Is 32 [ 17]:

Q. 1 80, A. 2

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La vita contemplativa

Ad secundum dicendum quod sanctimonia, idest munditia, causatur ex virtutibus quae sunt circa passiones impedientes puritatem rationis. Pax autem causatur ex iustitia, quae est circa operationes, secundum illud Isaiae 32 [ 1 7] , opus iustitiae pax, inquantum scilicet ille qui ab iniuriis aliorum abstinet, subtrahit litigio­ rum et tumultuum occasiones. Et sic virtutes morales disponunt ad vitam contemplativam, inquantum causant pacem et munditiam. Ad tertium dicendum quod pulchritudo, sicut supra [q. 145 a. 2] dictum est, consistit in qua­ dam claritate et debita proportione. Utrumque autem horum radicaliter in ratione invenitur, ad quam pertinet et lumen manifestans, et proportionem debitam in aliis ordinare. Et ideo in vita contemplativa, quae consistit in actu rationis, per se et essentialiter invenitur pulchritudo. Unde Sap. 8 [2] de contempla­ tione sapientiae dicitur, amatorfactus sumfor­ mae illius. - In virtutibus autem moralibus in­ venitur pulchritudo participative, inquantum scilicet participant ordinem rationis, et praeci­ pue in temperantia, quae reprimit concupi­ scentias maxime lumen rationis obscurantes. Et inde est quod virtus castitatis maxime red­ dit hominem aptum ad contemplationem, in­ quantum delectationes venereae maxime de­ primunt mentem ad sensibilia, ut Augustinus dicit, in libro Soliloquiorum [ 1 , 1 0] .

Effetto della giustizia sarà la pace; poiché chi

si astiene dalle ingiurie toglie le occasioni alle liti e ai tumulti. E così le virtù morali predi­ spongono alla vita contemplativa causando la pace e la purezza. 3. La bellezza consiste in un certo splendore e nella debita proporzione, come si è spiegato in precedenza. Ora, queste due cose si riscon­ trano radicalmente nella ragione, appartenen­ do ad essa la luce della conoscenza e il com­ pito di ordinare le debite proporzioni in ogni altra operazione. Perciò nella vita contempla­ tiva, che consiste in un atto della ragione, la bellezza si trova formalmente ed essenzial­ mente. Per cui della contemplazione della sapienza è detto in Sap 8 [2] : Mi sono inna­ morato della sua bellezza. La bellezza s i trova i nvece solo per partecipazione nelle virtù morali, in quanto esse partecipano l'or­ dine della ragione: e specialmente si riscontra nella temperanza, che reprime le concupi­ scenze oscuranti al massimo il lume della ra­ gione. Ed è per questo che la virtù della ca­ stità è quella che più di ogni altra rende idonei alla contemplazione: poiché i piaceri venerei sono quelli che più immergono l'anima nelle realtà sensibili, come insegna Agostino. -

Articulus 3 Utrum ad vitam contemplativam pertineant diversi actus

Articolo 3 La vita contemplativa abbraccia diversi atti?

Ad tertium sic proceditur. Vìdetur quod ad vi­ tam contemplativam pertineant diversi actus. l . Richardus enim de Sancto Vìctore [De grat. c. 1 ,4] distinguit inter contemplationem me­ ditationem et cogitationem. Sed omnia ista vi­ dentur ad vitam contemp1ativam pertinere. Ergo videtur quod vitae contemplativae sint diversi actus. 2. Praeterea, apostolus, 2 ad Cor. 3 [ 1 8] , dicit,

Sembra di sì. Infatti: l . Riccardo di Vittore distingue tra «Contem­ plazione, meditazione e cogitazione». Ma questi tre atti appartengono alla vita contem­ plativa. Quindi gli atti della vita contemplati­ va sembrano molteplici. 2. Paolo dice: Noi tu/ti, a viso scoperto, riflet­

nos autem, revelata facie gloriam Domini speculantes, transformamur in eandem clari­ tatem. Sed hoc pertinet ad vitam contemplati­

vam. Ergo, praeter tria praedicta, etiam specu­ latio ad vitam contemplativam pertinet. 3 . Praeterea, Bernardus dicit, in l ibro De consid. [5, 1 4], quod prima et maxima contem­ platio est admiratio maiestatis. Sed admiratio,

tendo come in uno specchio la gloria del Si­ gnore, siamo trasformati in quella stessa gloria (2 Cor 3, 1 8). Ora, ciò appartiene alla vita

contemplativa. Perciò alle tre funzioni prece­ denti va aggiunta la speculazione. 3. Bernardo afferma che «la prima e più alta contemplazione è l' ammirazione della maestà». L' ammirazione però, secondo il Damasceno, è una specie del timore. Quindi sembra che per la vita contemplativa si richiedano molteplici atti.

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La vita contemplativa

secundum Damascenum [De fide 2,1 5], poni­ tur species timoris. Ergo videtur quod plures actus ad vitam contemplativam requirantur. 4. Praeterea, ad vitam contemplativam petti­ nere dicuntur [cf. Hugonem de S. Vietare, Al­ legar. in Nov. Test. 3,3] orario, lectio et medi­ tatio. Pertinet etiam ad vitam contemplativam auditus, nam de Maria, per quam vita con­ templativa significatur, dicitur, Luc. 1 0 [39], quod sedens secus pedes Domini, audiebat verba illius. Ergo videtur quod plures actus ad vitam contemplativam requirantur. Sed contra est quod vita hic dicitur operatio cui homo principaliter intendit. Si igitur sunt plures operationes vitae contemplativae, non erit una vita contemplativa, sed plures. Respondeo dicendum quod de vita contempla­ tiva nunc loquimur secundum quod ad horni­ nem pertinet. Haec est autem differentia inter hominem et angelum, ut patet per Dionysium, 7 cap. De div. nom. [2], quod Angelus simplici apprehensione veritatem intuetur, homo autem quodam processu ex multis pertingit ad intui­ tum simplicis veritatis. Sic igitur vita con­ templativa unum quidem actum habet in quo finaliter perficitur, scilicet contemplationem veritatis, a quo habet unitatem, habet autem multos actus quibus pervenit ad hunc actum finalem. Quorum quidam pertinent ad ac­ ceptionem principiorum, ex quibus procedit ad contemplationem veritatis; alli autem pertinent ad deductionem principiorum in veritatem cuius cognitio inquiritur; ultimus autem com­ pletivus actus est ipsa contemplatio veritatis. Ad primum ergo dicendum quod cogitatio, secundum Richardum de Sancto Vietare [De grat. c. l ,4], pertinere videtur ad multorum inspectionem, ex quibus aliquis colligere in­ tendit unam simplicem veritatem. Unde sub cogitatione comprehendi possunt et perceptio­ nes sensuum, ad cognoscendum aliquos effec­ tus; et imaginationes; et discursus rationis cir­ ca diversa signa, vel quaecumque perducentia in cognitionem veritatis intentae. Quamvis secundum Augustinum, 14 De Trin. [7], cogi­ tatio dici possit omnis actualis operatio intel­ lectus. Meditatio vero pertinere videtur ad pro­ cessum rationis ex principiis aliquibus pertin­ gentis ad veritatis alicuius contemplationem. Et ad idem pertinet consideratio, secundum Bernardum [De cons. 2,2]. Quamvis secun­ dum philosophum, in 2 De an. [ 1,2], omnis

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4. Alcuni dicono che nella vita contemplativa rientrano «l'orazione, la lettura e la medita­ zione». Inoltre vi rientra anche «l'ascolto»: infatti in Le l O [39] è detto che Maria, simbo­ lo della vita contemplativa, seduta ai piedi del Signore ascoltava la sua parola. Sembra quindi che per la vita contemplativa si richie­ dano molti atti. In contrario: «vita» qui sta per l'attività a cui l 'uomo attende di preferenza. Se quindi gli atti della vita contemplativa fossero moltepli­ ci, essa non sarebbe una vita unica, ma ci sarebbero più vite contemplative. Risposta: parliamo qui della vita contemplati­ va propria dell'uomo. Poiché, secondo Dioni­ gi, la differenza fra l'uomo e l'angelo sta in questo: che l'angelo intuisce la verità median­ te una semplice apprensione, mentre l'uomo arriva ali' intuizione di essa progressivamente, attraverso molteplici operazioni. Così dunque la vita contemplativa ha un atto unico, cioè la contemplazione della verità, nel quale in de­ finitiva essa si compie e da cui riceve la sua unità; però sono molti gli atti con i quali giun­ ge a questo atto conclusivo. Di essi alcuni riguardano la percezione dei princìpi da cui procedere alla contemplazione della verità; altri invece riguardano la deduzione, a partire da tali princìpi, della verità che si cerca di conoscere; infine l'ultimo atto conclusivo è la contemplazione stessa della verità. Soluzione delle difficoltà: l . La «cogitazio­ ne», per Riccardo di Vittore, consiste nell'os­ servazione di realtà molteplici partendo dalle quali si tende a raggiungere una verità sempli­ ce. Quindi per cogitazione si possono inten­ dere sia le percezioni dei sensi per conoscere dati effetti, sia gli atti dell'immaginativa, sia i procedimenti della ragione sui diversi segni, o qualsiasi altra cosa che faccia giungere alla conoscenza della verità ricercata. Sebbene per Agostino possa dirsi cogitazione qualsiasi operazione attuale dell'intelletto. La «medita­ zione» invece si riferisce al processo della ra­ gione che raggiunge la contemplazione di una verità partendo dai princìpi. E a ciò si riduce anche la «considerazione» di Bernardo. Seb­ bene, secondo il Filosofo, qualsiasi atto intel­ lettivo possa essere detto «considerazione». La «contemplazione» poi si riferisce alla semplice intuizione della verità. - Per questo lo stesso Riccardo di Vittore afferma che

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La vita contemplativa

operatio intellectus consideratio dicatur. Sed contemplatio pertinet ad ipsum simplicem in­ tuitum veritatis. - Unde idem Richardus dicit [De grat. c. l ,3] quod contemplatio est per­

spicax et liber animi contuitus in res perspicien­ das; meditatio autem est intuitus animi in ve­ ritatis inquisitione occupatus; cogitatio autem est animi respectus ad evagationem pmnus. Ad secundum dicendum quod, sicut dicit Glossa Augustini [ ord. et Lomb. super 2 Cor. 3,18; De Trin. 1 5 ,8] ibidem, speculantes dicit a speculo, non a jpecula. Videre autem aliquid per speculum est videre causam per effectum, in quo eius similitudo relucet. Unde specula­ tio ad meditationem reduci videtur. Ad tertium dicendum quod admiratio est spe­ cies timoris consequens apprehensionem ali­ cuius rei excedentis nostram facultatem. Unde admiratio est actus consequens contempla­ tionem sublimis veritatis. Dictum est enim [a. l ] quod contemplatio in aftectu terminatur. Ad quartum dicendum quod homo ad cogni­ tionem veritatis pertingit dupliciter. Uno modo, per ea quae ab alio accipit. Et sic quidem, quantum ad ea quae homo a Deo accipit, ne­ cessaria est oratio, secundum illud Sap. 7 [7],

invocavi, et venit in me spiritus sapientiae.

Quantum vero ad ea quae accipit ab homine, necessru.ius est auditus, secundum quod accipit ex voce loquentis; et lectio, secundum quod accipit ex eo quod per scripturam est traditum. Alio modo, necessarium est quod adhibeat proprium studium. Et sic requiritur meditatio.

«la contemplazione è lo sguardo perspicace e libero dello spirito sull'oggetto; la medita­ zione è invece lo sguardo dello spirito occu­ pato nella ricerca della verità; la cogitazione infine è lo sguardo dello spirito che ricerca qua e là>>. 2. Come spiega Agostino, «speculare qui vie­ ne da specchio [speculum] e non da specola>>. Ora, vedere una cosa attraverso lo specchio equivale a vedere la causa attraverso gli effet­ ti, nei quali si riflette una somiglianza della causa stessa. Quindi la «speculazione» si ri­ duce alla meditazione. 3. L'ammirazione, o meraviglia, è una forma di timore prodotta in noi dall'apprendere una cosa che supera le nostre capacità. Perciò l' «ammirazione» è un atto che segue la con­ templazione di una verità superiore. Sopra infatti abbiamo spiegato che la contemplazio­ ne termina nella parte affettiva. 4. Un uomo può raggiungere la conoscenza della verità in due modi. Primo, ricevendola da altri. E in questo modo dspetto a ciò che si riceve da Dio è necessaria la «preghiera», se­ condo le parole di Sap 7 [7]: Implorai e venne in me lo spirito della sapienza. Rispetto inve­ ce a quanto si dceve dall'uomo è necessario l' «ascolto», se si tratta di un insegnamento orale, e la «lettura>>, se si tratta di un insegna­ mento scritto. Secondo, è necessario applicar­ si alla ricerca personale. E allora è richiesta la «meditazione».

Articulus 4 Utrurn vita contemplativa solum consistat in contemplatione Dei, an etiam in consideratione cuiuscumque veritatis

Articolo 4 La vita contemplativa consiste unicamente nella contemplazione di Dio?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod vita contemplativa non solum consistat in contem­ platione Dei, sed etiam in consideratione cuiuscumque veritatis. l . Dicitur enim in Psalmo [ 138,1 4], mirabilia opera tua, et anima mea cognoscet nimis. Sed cognitio divinorum operum fit per aliquam veritatis contemplationem. Ergo videtur quod ad vitam contemplativam pertineat non solum divinam veritatem, sed etiam quamlibet aliam contemplaci. 2. Praeterea, Bemardus, in libro De consid. [5, 1 4] , dicit quod prima contemplatio est

Sembra di no. Infatti: l . Nel Sal 1 38 [ 14] è detto: Sono stupende le

tue opere, e l 'anima mia le conoscerà peifetta­ mente. Ma la conoscenza delle opere di Dio si

compie con una contemplazione della vedtà. Quindi sembra che alla vita contemplativa appartenga non solo la verità divina, ma an­ che la contemplazione di qualsiasi verità. 2. Bernardo sctive che «il primo grado della contemplazione è ammi rare la maestà [di Dio], il secondo considerare i suoi giudizi; il terzo ricordare i suoi benefici; il quarto me­ ditare le sue promesse». Ma di tutti e quattro

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La vita contemplativa

admiratio maiestatis; secunda est iudiciorum Dei; terlia est beneficiorum ipsius; quarla est promissorum. Sed inter haec quatuor solum primum pertinet ad divinam veritatem, alia vero tria pertinent ad effectus ipsius. Ergo vita contemplativa non solum consistit in conside­ ratione divinae veritatis, sed etiam in conside­ ratione veritatis circa divinos effectus. 3 . Praeterea Richardus de Sancto Victore distingui t [De grat. c. l ,6] sex species con­ templationum, quarum prima est secundum solam imaginationem, dum attendimus res corporales; secunda autem est in imaginatio­ ne secundum rationem, prout scilicet sensibi­ lium ordinem et dispositionem consideramus; tertia est in ratione secundum imaginationem, quando scilicet per inspectionem rerum visi­ bilium ad invisibilia sublevamur; quarta au­ tem est in ratione secundum rationem, quan­ do scilicet animus intendit invisibilibus, quae imaginatio non novit; quinta autem est supra rationem, quando ex divina revelatione co­ gnoscimus quae humana ratione comprehendi non possunt; sexta autem est supra rationem et praeter rationem, quando scilicet ex divina illuminatione cognoscimus ea quae humanae rationi repugnare videntur, sicut ea quae di­ cuntur de mysterio Trinitatis. Sed solum ulti­ mum videtur ad divinam veritatem pettinere. Ergo contemplatio non solum respicit divi­ nam veritatem, sed etiam eam quae in creatu­ ris consideratur. 4. Praeterea, in vita contemplativa quaeritur contemplatio veritatis inquantum est perfectio hominis. Sed quaelibet veritas est perfectio humani intellectus. Ergo in qualibet contem­ platione veritatis consistit vita contemplativa. Sed contra est quod Gregorius dicit, in 6 Mor. [37], quod in contemplatione principium, quod

Deus est, quaeritur. Respondeo dicendum quod, sicut iam [a. 2] dictum est, ad vitam contemplativam pertinet aliquid dupliciter, uno modo, principaliter; alio modo, secundario vel dispositive. Princi­ paliter quidem ad vitam contemplativam pertinet contemplatio divinae veritatis, quia huiusmodi contemplatio est finis totius huma­ nae vitae. Unde Augustinus dicit, in l De Trin. [8], quod contemplatio Dei promittitur

nobis actionum omnium finis, atque aeterna petfectio gaudiorum. Quae quidem in futura vita erit perfecta, quando videbimus eum

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questi gradi solo il primo riguarda la verità divina, mentre gli altri riguardano le sue opere. Perciò la vita contemplativa non consi­ ste soltanto nella considerazione della verità divina, ma anche nella considerazione della verità insita nelle opere di Dio. 3. Riccardo di Vittore distingue sei tipi di contemplazione: il primo si svolge «mediante la sola immaginativa», quando consideriamo gli esseri materiali; il secondo si attua «nel­ l'immaginativa conforme alla ragione», cioè in quanto consideriamo l 'ordine e la disposi­ zione delle realtà sensibili; il terzo si attua «nella ragione secondo l'immaginativa», e si ha quando dalla vista delle realtà sensibili ci solleviamo a quelle invisibili; il quarto si attua «nella ragione secondo la ragione», quando lo spirito mira alle realtà invisibili che l'immagi­ nativa non può conoscere; il quinto è «sopra la ragione», e si ha quando per rivelazione divina conosciamo cose che non sono com­ prensibili con la ragione umana; il sesto final­ mente è «sopra la ragione e al di là della ragione», e si ha quando conosciamo per divi­ na illuminazione cose che sembrano ripugna­ re alla ragione umana, come quelle riguardan­ ti il mistero della Trinità. Ora, soltanto l'ulti­ mo di questi sei tipi di contemplazione riguar­ da la vetità divina. Perciò la contemplazione Iiguarda non soltanto le verità divine, ma anche le verità relative alle creature. 4. Nella vita contemplativa la contemplazione è cercata in quanto perfezione dell'uomo. Ma qualsiasi verità è una perfezione dell'intelletto umano. Quindi la vita contemplativa consiste nella contemplazione di una qualsiasi verità. In contrario: Gregorio insegna che «nella con­ templazione si cerca il principio, che è Dio». Risposta: come si è già visto, una cosa può appartenere alla vita contemplativa in due modi: primo, come elemento ptimario; secon­ do, come elemento secondario, ossia come predisposizione. Ora, come elemento prima­ rio appartiene alla vita contemplativa la con­ templazione della verità divina: poiché tale contemplazione è il fine di tutta la vita uma­ na. Infatti Agostino afferma che «a noi è pro­ messa la contemplazione di Dio, fine di ogni atto ed eterna perfezione delle nostre gioie». E questa sarà perfetta nella vita futura, quan­ do vedremo Dio a faccia a faccia [l Cor 13, 1 2], per cui saremo perfettamente felici.

Q. 1 80, A. 4

La vita contemplativa

facie adfaciem [ l Cor. 1 3, 1 2], unde et perfec­

te beatos faciet. Nunc autem contemplatio divinae veritatis competit nobis imperfecte, videlicet per speculum et in aenigmate [ l Cor. 1 3, 1 2], unde per eam fit nobis quae­ dam inchoatio beatitudinis, quae hic incipit ut in futuro terminetur. Unde et philosophus, in 1 0 Ethic. [7, 1 ], in contemplatione optimi in­ telligibilis ponit ultimam felicitatem hominis. - Sed quia per divinos effectus in Dei con­ templationem manuducimur, secundum illud Rom. l [20], invisibilia Dei per ea quae facta sunt, intellecta, conspiciuntur, inde est quod etiam contemplatio divinorum effectuum se­ cundario ad vitam contemplativam pertinet, prout scilicet ex hoc manuducitur homo in Dei cognitionem. Unde Augustinus dicit, in libro De vera rei. [29], quod in creaturarum

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Ora invece la contemplazione della verità è possibile imperfettamente, cioè «come in uno specchio, in maniera confusa»: per cui essa ci dà come un inizio della beatitudine, che inizia in questa vita per completarsi nell'altra. Per cui anche i l Filosofo pone l 'ultima felicità dell'uomo nella contemplazione dell'intelligi­ bile supremo. - Siccome però noi siamo con­ dotti come per mano alla contemplazione di Dio dalle opere divine, secondo le parole di

Rm l [20] : Le peifezioni invisibili di Dio possono essere contemplate nelle opere da lui compiute, di conseguenza anche la contem­

dam quatuor ad vitam contemplativam perti­ nent, primo quidem, virtutes morales; secun­ do autem, alii actus praeter contemplationem; tertio vero, contemplatio divinorum effec­ tuum; quarto vero completivum est ipsa con­ templatio divinae veritatis. Ad primum ergo dicendum quod David co­ gnitionem operum Dei quaerebat ut ex hoc manuduceretur in Deum. Unde alibi [ 1 42,5] dicit, meditabor in omnibus operibus tuis, et

plazione delle opere divine appartiene quale elemento secondario alla vita contemplativa, in quanto cioè con essa l'uomo è guidato alla conoscenza di Dio. Per cui Agostino afferma che «nella considerazione delle creature non si deve esercitare una vana e passeggera curiosità, ma fame un gradino per salire alle realtà immortali e imperiture». - Così dun­ que, stando a quanto si è detto fm qui, alla vita contemplativa appartengono in un certo ordine queste quattro cose: primo, le virtù morali ; secondo, gli atti dispositivi alla con­ templazione; terzo, la contemplazione delle opere di Dio; quarto, la contemplazione diretta della verità divina. Soluzione delle difficoltà: l . Davide desidera­ va la conoscenza delle opere di Dio per essere guidato da esse al Signore. Altrove infatti egli dice: Ripenso a tutte le tue opere, medito

Ad secundum dicendum quod ex considera­ tione divinorum iudiciorum manuducitur ho­ mo in contemplationem divinae iustitiae, ex consideratione autem divinorum beneficiorum et promissorum, manuducitur homo in co­ gnitionem divinae misericordiae seu bonitatis, quasi per effectus exhibitos vel exhibendos. Ad tertium dicendum quod per illa sex desi­ gnantur gradus quibus per creaturas in Dei contemplationem ascenditur. Nam in primo gradu ponitur perceptio ipsorum sensibilium; in secundo vero gradu ponitur progressus a sensibilibus ad intelligibilia; in tertio vero gradu ponitur diiudicatio sensibilium secun­ dum intelligibilia; in quarto vero gradu poni­ tur absoluta consideratio intelligibilium in quae per sensibilia pervenitur; in quinto vero gradu ponitur contemplatio intelligibilium

l'uomo è indotto a contemplare la divina giu­ stizia, mentre dalla considerazione dei benefi­ ci e delle promesse di Dio è portato a cono­ scere la divina misericordia o bontà, trattan­ dosi di opere di Dio o presenti o future. 3. I sei tipi di contemplazione ricordati desi­ gnano i gradini con i quali si sale alla contem­ plazione di Dio attraverso le creature. Infatti nel primo si ha la percezione delle stesse realtà sensibili; nel secondo il passaggio dalle realtà sensibili a quelle intelligibili; nel terzo il giudizio intellettivo sulle realtà sensibili; nel quarto la considerazione astratta e assoluta degli intelligibili a cui si giunge mediante le realtà sensibili; nel quinto la contemplazione delle realtà di ordine intellettivo che non pos­ sono essere raggiunte partendo dalle realtà

consideratione non vana et peritura curiosi­ las est exercenda, sed gradus ad immortalia et semper manentia faciendus. - Sic igitur ex praemissis [aa. 2-3] patet quod ordine quo­

in factis manuum tuarum meditabor, expandi manus meas ad te.

sui tuoi prodigi. A te protendo le mie mani [Sa/ 1 42,5]. 2. Dalla considerazione dei giudizi di Dio

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quae per sensibilia inveniri non possunt, sed per rationem capi possunt; in sexto gradu ponitur consideratio intelligibilium quae ratio nec in­ venire nec capere potest, quae scilicet pertinent ad sublimem contemplationem divinae ve­ ritatis, in qua finaliter contemplatio perficitur. Ad quartum dicendum quod ultima perfectio humani intellectus est veritas divina, aliae autem veritates perficiunt i ntellectum i n ordine ad veritatem divinam.

sensibili, ma che possono essere comprese con la ragione; nel sesto la considerazione delle verità di ordine intelligibile che la ragio­ ne non può né scoprire né comprendere, e che appartengono alla più alta contemplazione della verità divina, nella quale la contempla­ zione ha il suo coronamento. 4. La perfezione ultima dell' intelletto umano è la verità divina, e le altre verità lo perfezio­ nano in ordine a tale verità.

Articulus 5 Utrum vita contemplativa, secundum statum huius vitae, possit pertingere ad visionem divinae essentiae

Articolo 5 In questa vita la contemplazione può raggiungere la visione deli' essenza divina?

Ad quintwn sic proceditur. Videtur quod vita contemplativa, secundum statum huius vitae, possit pertingere ad visionem divinae essentiae. l . Quia, ut habetur Gen. 32 [30], Iacob dixit,

Sembra di sì. Infatti: l . Come risulta da Gen 32 [30], Giacobbe disse: Ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva. Ma la visione fac­ ciale non è altro che la visione dell'essenza divina. Quindi sembra che nella vita presente uno possa giungere mediante la contempla­ zione a vedere Dio per essenza. 2. Secondo Gregorio i contemplativi , «nel meditare sulle realtà spirituali, si concentrano in se stessi al punto di non portarsi dietro nep­ pure le ombre delle realtà corporee, o almeno di allontanarle con la mano della discrezione; desiderosi di vedere la luce senza limiti, eli­ minano tutte le immagini della loro limitatez­ za, e in colui che bramano raggiungere sopra di sé vincono ciò che sono». Ora, l'uomo è i mpedito dalla visione dell' essenza divina, che è la luce senza limiti, solo dal fatto che è costretto a servirsi di immagini corporee. Per­ ciò sembra che la contemplazione della vita presente possa estendersi alla visione per es­ senza della luce infinita. 3. Gregorio inoltre afferma: «Qualsiasi crea­ tura è angusta per l'anima che vede il Creato­ re. Ecco perché l 'uomo di Dio», cioè Bene­ detto, «il quale da una torre vedeva un globo di fuoco e gli angeli che risalivano al cielo, non poteva vedere queste cose se non nella luce di Dio». Ma allora Benedetto viveva an­ cora in questo mondo. Quindi la contempla­ zione nella vita presente può estendersi fino alla visione dell'essenza di Dio. In contrario: Gregorio ha scritto: «Finché si vive in questa carne mortale nessuno si leva tanto in alto nella contemplazione da poter

vidi Deum facie ad faciem, et salva facta est anima mea. Sed visio faciei est visio divinae essentiae. Ergo videtur quod aliquis per con­ templationem in praesenti vita possit se ex­ tendere ad videndum Deum per essentiam. 2. Pt-aeterea, Gregorius dicit, in 6 Mor. [37], quod viri contemplativi ad semetipsos intror­

sus redeunt, in eo quod spiritualia rimantur; et nequaquam secum rerum c01poralium um­ bras trahunt, velfortasse tractas manu discre­ tionis abigunt, sed incircumscriptwn lumen videre cupientes, cunctas circumscriptionis suae imagines deprimunt, et in eo quod super se contingere appetunt, vincunt quod sunt.

Sed homo non impeditur a visione divinae essentiae, quae est lumen incircumscriptum, nisi per hoc quod necesse habet intendere corporalibus phantasmatibus. Ergo videtur quod contemplatio praesentis vitae potest se extendere ad videndum incircumscriptum lumen per essentiam. 3. Praeterea, Gregorius, in 2 Dial. [35], dicit,

animae videnti Creatorem angusta est omnis creatura. Wr ergo Dei, scilicet beatus Benedic­ tus, qui in turri globum igneum, angelos quo­ que ad caelos redeuntes videbat, haec procul dubio cernere non nisi in Dei lumine poterat. Sed beatus Benedictus adhuc praesenti vita vi­ vebat. Ergo contemplatio praesentis vitae po­ test se extendere ad videndam Dei essentiam. Sed contra est quod Gregorius dicit, super Ez.

[2,2], quandiu in hac mortali carne vivitw;

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La vita contemplativa

nullus ita in contemplationis virtute proficit ut in ipso incircumscripti luminis radio mentis oculos infigat. Respondeo dicendum quod, sicut Augustinus dicit, 1 2 Super Gen. [27], nemo videns Deum

vivit ista vita qua morta/iter vivitur in istis sen­ sibus corporis, sed nisi ab hac vita quisque quodammodo moriatur, sive omnino exiens de corpore sive alienatus a camalibus sensibus, in illam non subvehitur visionem. Quae supra diligentius pertractata sunt, ubi dictum est de raptu [q. l 75 aa. 4-5]; et in primo, ubi actum est de Dei visione [q. 1 2 a. 1 1 ] . Sic igitur dicendum est quod in hac vita potest esse aliquis dupliciter. Uno modo, secundum ac­ tum, inquantum scilicet actualiter utitur sensi­ bus corporis. Et sic nullo modo contemplatio praesentis vitae potest pertingere ad videndum Dei essentiam. Alio modo potest esse aliquis in hac vita potentialiter, et non secundum actum, inquantum scilicet anima eius est cor­ pori mortali coniuncta ut forma, ita tamen quod non utatur corporis sensibus, aut etiam imaginatione, sicut accidit in raptu. Et sic potest contemplatio huius vitae pertingere ad visionem divinae essentiae. Unde supremus gradus contemplationis praesentis vitae est qualem habuit Paulus in raptu, secundum quem fuit medio modo se habens inter statum praesentis vitae et futurae. Ad primum ergo dicendum quod, sicut Diony­ sius, in Epistola ad Caium Monachum [ep. 1 ], dicit, si aliquis videns Deum intellexit quod

vidit, non ipsum vidit, sed aliquid eorum quae sunt eius. Et Gregorius dicit, Super Ez. [2,2], quod nequaquam omnipotens Deus iam in sua claritate conspicitur, sed quiddam sub illa speculatur anima, unde recta proficiat, et post ad visionis eius g/oriam pertingat. Per hoc ergo quod lacob dixit, vidi Deum facie ad faciem, non est intelligendum quod Dei es­ sentiam viderit, sed quod formam, scilicet imaginariam, vidit in qua Deus locutus est ei. Vel, quia per faciem quemlibet agnoscimus, cognitionem Dei faciem eius vocavit, sicut Glossa [ ord. super Gen. 32,30; Gregorius, Mor. 24,6] Gregorii ibidem dicit. Ad secundum dicendum quod contemplatio humana, secundum statum praesentis vitae, non potest esse absque phantasmatibus, quia connaturale est homini ut species intelligibiles in phantasmatibus videat, sicut philosophus

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fissare gli occhi della mente nel raggio stesso della luce infinita». Risposta: come dice Agostino, «nessuno che veda Dio vive questa vita in cui si vive da mortali soggetti ai sensi del corpo; e non ci si eleva a quella visione se in qualche modo non si muore a questa vita, o uscendo dal corpo o astraendosi dai sensi corporei». Ma di ciò abbiamo trattato più ampiamente sopra a pro­ posito del rapimento, e nella Prima Parte a proposito della conoscibilità di Dio. Così dunque dobbiamo premettere che uno può trovarsi nella vita presente in due modi. Pri­ mo, quanto alla sua operazione attuale: cioè in quanto si serve attualmente dei sensi del corpo. E in questo modo la contemplazione della vita presente non può mai giungere alla visione dell'essenza divina. Secondo, uno può essere in questa vita quanto alle sue potenze, ma non ai loro atti: cioè in quanto la sua ani­ ma è unita come forma a un corpo mortale, senza però servirsi dei sensi corporei o del­ l'immaginativa, come avviene nel rapimento. E in questo secondo modo la contemplazione di questa vita può raggiungere la visione del­ l' essenza divina. Per cui il grado supremo della contemplazione in questa vita è quello che ebbe Paolo nel suo rapimento, il quale lo pose in una condizione intennedia fra lo stato della vita presente e quello della vita futura. Soluzione delle difficoltà: l . Come scrive Dionigi, «se uno vedendo Dio capì quello che vide, non vide lui, ma qualcuno dei suoi attributi». E Gregorio afferma che «non si percepisce in alcun modo Dio onnipotente nella sua luce, ma l'anima intravede qualcosa di inferiore, che le permette di progredire nel bene e di giungere finalmente alla gloria della visione di Dio». Perciò, quando Giacobbe disse: «Ho visto Dio faccia a faccia», ciò va inteso nel senso che vide non l'essenza di Dio, ma la figura immaginaria in cui Dio gli aveva parlato. Oppure, come spiega Gregorio, «chiamò faccia di Dio la conoscenza di lui, poiché noi conosciamo tutti dalla faccia>>. 2. La contemplazione umana nella vita pre­ sente non può fare a meno dei fantasmi, poi­ ché è connaturale all'uomo vedere le specie intelligibili nei fantasmi, come spiega il Filosofo. La conoscenza intellettiva però non si ferma ai fantasmi, ma in essi contempla la verità intelligibile nella sua purezza. E ciò

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dicit, in 3 De an. [7,3]. Sed tamen intellectua­ lis cognitio non sistit in ipsis phantasmatibus, sed in eis contemplatur puritatem intelligibilis veritatis. Et hoc non solum in cognitione na­ turali, sed etiam in eis quae per revelationem cognoscimus, dicit enim Dionysius, l cap. Cael. Hier. [2], quod angelorum hierarchias manifestar nobis divina claritas in quibusdam symbolis figuratis; ex cuius virtute restituimur in simplum radium, idest in simplicem cogni­ tionem intelligibilis veritatis. Et sic intelligen­ dum est quod Gregorius dicit, quod contem­ plantes COIJJOralium rerum umbras non se­ cum trahunt, quia videlicet in eis non sistit eorum contemplatio, sed potius in considera­ tione intelligibilis veritatis. Ad tertium dicendum quod ex verbi s illis Gregorii non datur intelligi quod beatus Bene­ dictus Deum in illa visione per essentiam vi­ derit, sed vult ostendere quod, quia videnti Creatorem angusta est omnis creatura [Dial. 2,35], consequens est quod per illustrationem divini luminis de facili possint quaecumque videri. Unde subdit [Dial. 2,35] , quamlibet enim parum de luce Creatoris aspexerit, breve eifit omne quod creatum est.

avviene non solo nella conoscenza naturale, ma anche nelle verità che conosciamo per ri­ velazione: infatti Dionigi afferma che «la luce divina ci manifesta le gerarchie angeliche me­ diante simboli e figure», attraverso cui si ri­ compone «il semplice raggio», ossia la cono­ scenza semplice della verità intelligibile. E in questo senso va spiegata l 'affermazione di Gregorio che i contemplativi «non si portano dietro le ombre delle realtà corporee»: in quanto cioè la loro contemplazione non si fer­ ma ad esse, mirando alla verità intelligibile. 3. Gregorio non intese affermare che Benedetto in quella visione vide Dio per essenza, ma solo dimostrare che alla luce di Dio si possono co­ noscere facilmente tutte le cose, «poiché a chi vede il Creatore è angusta qualsiasi creatura>>. Egli infatti aggiunge: «Per poco che uno sia rischiarato dalla luce del Creatore, tutto il creato gli diventa poca cosa».

Articulus 6 Utrum operatio contemplationis convenienter distinguatur per tres motus, circularem, rectum et obliquum

Articolo 6 L'attività contemplativa è ben distinta nei tre generi del moto: circolare, retto ed elicoidale?

Ad sextum sic proceditur. Videtur quod in­ convenienter operatio contemplationis distin­ guatur per tres motus, circularem, rectum et obliquum, 4 cap. De div. nom. [8]. l . Contemplatio enim ad quietem pertinet, secundum illud Sap. 8 [ 1 6], intrans in domum meam, conquiescam cum illa. Sed motus quieti opponitur. Non ergo operationes con­ templativae vitae per motus designari debent. 2. Praeterea, actio contemplativae vitae ad intellectum pertinet, secundum quem homo cum angelis convenit. Sed in angelis aliter as­ signat Dionysius hos motus quam in anima. Dicit enim [DDN 4,8-9] motum circularem angeli esse secundum illuminationes pulchri et boni. Motum autem circularem animae se­ cundum plura determinat. Quorum primum est introitus animae ab exterioribus ad sei­ psam; secundum est quaedam convolutio vir­ tutum ipsius, per quam anima liberatur ab

Sembra di no. Infatti: l . La contemplazione consiste nella quiete, secondo le parole di Sap 8 [ 1 6]: Entrando in casa mia, riposerò vicino a lei. Ma la quiete è il contrario del moto. Quindi le funzioni della vita contemplativa non devono essere definite come dei moti. 2. Le funzioni della vita contemplativa appar­ tengono ali' intelletto, che gli uomini hanno in comune con gli angeli. Ora, Dionigi attribui­ sce questi moti agli angeli in maniera diversa che all'anima. Scrive infatti che il moto circo­ lare dell'angelo avviene secondo «l'illumina­ zione della bellezza e della bontà». Invece il moto circolare dell'anima lo fa consistere in molti elementi. n primo è «il rientrare dell'a­ nima in se stessa a partire dalle realtà ester­ ne»; il secondo è «una riflessione delle pro­ prie potenze», per cui essa si libera «dall'erro­ re e dalle occupazioni esteriori»; il terzo è >. - Inoltre negli angeli il moto rettilineo non può consistere nel procedere da una cosa all'altra nelle funzioni conoscitive, ma solo nel fatto che gli angeli supetiori nelle loro funzioni di ministero illuminano gli interiori attraverso quelli intermedi. E così Dionigi scrive che gli angeli «sono mossi in linea retta quando provvedono ai loro inferiori pa�sando rettamente attraverso tutti [quelli interposti]», cioè osservando l' ordine retto prestabilito. Invece il moto retto dell'anima egli lo fa con­ sistere nel fatto che essa dalle realtà esterne sensibili passa alla conoscenza di quelle intel­ ligibili. - Finalmente il moto elicoidale, com­ binazione del rettilineo e del circolare, negli angeli lo fa consistere nel fatto che essi prov­ vedono alle intelligenze inferiori in ordine alla contemplazione di Dio. Invece nell'anima lo fa consistere nel fatto che essa ricorre alla rivelazione divina valendosi del raziocinio. 3. Tutte queste vaiietà di moti verso l'alto e verso il basso, verso destra e verso sinistra, avanti e indietro, in giri ampi o ristretti sono incluse nel moto rettilineo o in quello elicoi­ dale. Esse infatti non indicano se non il pro­ cesso discorsivo della ragione. Il quale, come espone lo stesso autore, se va dal genere alla specie o dal tutto alle parti, va dall' alto al basso. Se invece va da un opposto al suo con­ traiio, è un moto da destra a sinistra. Se va dalla causa agli effetti, è un moto in avanti e indietro. Se poi riguarda gli accidenti che cir­ condano più o meno da vicino una cosa, il moto è circolare. Invece il processo discorsivo della ragione, quando va dalle realtà sensibili a quelle intelligibili secondo l'ordine naturale, rientra nel moto rettilineo; quando al contra­ rio procede secondo la rivelazione divina rientra nel moto elicoidale, come si è già spie­ gato. - Invece la sola immobilità di ,cui egli parla appartiene al moto circolare. - E quindi evidente che Dionigi ha descritto i moti della contemplazione in maniera molto più adegua­ ta e profonda.

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Articulus 7 Utrurn contemplatio delectationem habeat

Articolo 7 La contemplazione è accompagnata dal godimento?

Ad septimum sic proceditur. Videtur quod contemplatio delectationem non habeat. l . Delectatio enim ad vim appetitivam perti­ net. Sed contemplatio principaliter consistit in intellectu. Ergo videtur quod delectatio non pertineat ad contemplationem. 2. Praeterea, omnis contentio et omne certa­ men impedit delectationem. Sed in contem­ platione est contentio et certamen, dicit enim Gregorius, Super Ez. [2,2], quod anima, cum

Sembra di no. Infatti: l. n godimento appru.tiene alle facoltà appetiti­ ve. La contemplazione invece si attua principal­ mente nell'intelletto. Quindi sembra che il go­ dimento non accompagni la contemplazione. 2. Lo sforzo e la lotta impediscono sempre il godimento. Ora, nella contemplazione c'è sforzo e c'è lotta: poiché, secondo Gregorio, «quando l ' anima si sforza di contemplare Dio, trovandosi come in un combattimento a volte trionfa, riuscendo a capire e a gustare qualcosa della luce infinita, a volte invece soccombe, venendo nuovamente meno nel godimento». Quindi la vita contemplativa non è accompagnata dalla gioia. 3. Il godimento, come insegna il Filosofo, accompagna l'operazione perfetta. Ma la con­ templazione di questa vita è imperfetta, se­ condo le parole di l Cor 1 3 [ 1 2]: Ora noi ve­

contemplari Deum nititur, velut in quodam cenamine posita, modo quasi exsuperat, quia intelligendo et sentiendo, de incircumscripto lumine aliquid degustat, modo succumbit, quia degustando iterum deficit. Ergo vita contemplativa non habet delectationem. 3. Praeterea, delectatio sequitur operationem perfectam, ut dicitur in l O Ethic. [4,6]. Sed contemplatio viae est imperfecta, secundum illud l ad Cor. 1 3 [ 1 2] , videmus nunc per speculum in aenigmate. Ergo videtur quod vita contemplativa delectationem non habeat. 4. Praeterea, laesio corporalis delectationem impedit. Sed contemplatio inducit laesionem corporalem, unde Gen. 32 [30 sqq.] dicitur quod Iacob, postquam dixerat, vidi Dominum

facie ad faciem, claudicabat pede, eo quod tetigerit nervum femoris eius et obstupuerit. Ergo videtur quod in vita contemplativa non sit delectatio. Sed contra est quod de contemplatione sa­ pientiae dicitur, Sap. 8 [ 1 6], non habet amari­

tudinem conversatio illius, nec taedium con­ victus eius, sed laetitiam et gaudium. Et Gre­ gorius dicit, Super Ez. [2,2], quod contempla­ tiva vita amabilis valde dulcedo est. Respondeo dicendum quod aliqua contempla­ tio potest esse delectabilis dupliciter. Uno mo­ do, ratione ipsius operationis, quia unicuique delectabilis est operatio sibi conveniens se­ cundum propriam naturam vel habitum. Con­ templatio autem veritatis competit homini se­ cundum suam naturam, prout est animai ra­ tionale. Ex quo contingit quod omnes homi­ nes ex natura scire desiderant, et per conse­ quens in cognitione veritatis delectantur. Et adhuc magis fit hoc delectabile habenti habi­ tum sapientiae et scientiae, ex quo accidit

diamo come in uno specchio, in maniera con­ fusa. Quindi sembra che la vita contemplativa non implichi godimento. 4. Le lesioni del corpo impediscono di gode­ re. Ma la contemplazione produce delle lesio­ ni corporali: infatti da Gen 32 [30] risulta che Giacobbe, dopo aver detto: Ho visto Dio fac­

cia a faccia, zoppicava da un piede, perché [Dio] gli aveva colpito l 'articolazione del fe­ more ed egli era rimasto impedito. Quindi sembra che nella vita contemplativa non ci sia godimento. In contrario: a proposito della contemplazione della sapienza in Sap 8 [ 1 6] è detto: La sua

compagnia non dà amarezza, né dolore la sua convivenza, ma contentezza e gioia. E Gregorio afferma che «la vita contemplativa è una dolcezza molto gustosa». Risposta: una contemplazione può essere gradevole per due motivi. Primo, per il suo at­ to medesimo: poiché ognuno trova gradevole l'operazione che gli è propria, o secondo la namra o secondo l'abito. Ora, la contempla­ zione della verità si addice all'uomo secondo la sua natura, essendo egli un animale ragio­ nevole. Ed è per questo che «tutti gli uomini per natura desiderano conoscere», e quindi godono nel conoscere la verità. E ciò è anche più gradito per chi possiede l'abito della sa-

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La vita contemplativa

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quod sine difficultate aliquis contemplatur. Alio modo contemplatio redditur delectabilis ex parte obiecti, inquantum scilicet aliquis rem amatam contemplatur, sicut etiam accidit in visione corporali quod delectabilis redditur non solum ex eo quod ipsum videre est delectabile, sed ex eo etiam quod videt quis personam amatam. Quia ergo vita contemplativa praeci­ pue consistit in contemplatione Dei, ad quam movet caritas, ut dictum est [a. l ; a. 2 ad l ]; inde est quod in vita contemplativa non solum est delectatio ratione ipsius contemplationis, sed ratione ipsius divini amoris. - Et quantum ad utrumque eius delectatio omnem delectatio­ nem humanam excedit. Nam et delectatio spi­ ritualis potior est quam camalis, ut supra [I-II q. 3 1 a. 5] habitum est, cum de passionibus ageretur, et ipse amor quo ex caritate Deus di­ ligitur, omnem amorem excedit. Unde et in Psalmo [33,9] dicitur, gustate, et videte quo­

pienza e della scienza, poiché con esso uno può contemplare senza difficoltà. - Secondo, la contemplazione può essere piacevole a mo­ tivo dell'oggetto, in quanto uno contempla ciò che ama: ed è quanto avviene anche nella vi­ sione materiale, in cui si ha il piacere non solo perché il vedere stesso è piacevole, ma anche perché uno vede la persona amata. Siccome quindi la vita contemplativa consiste soprattut­ to nella contemplazione di Dio, alla quale sia­ mo spinti dalla carità, come si è detto, nella vi­ ta contemplativa si ha il godimento non solo a motivo della contemplazione stessa, ma anche a motivo dell'amore verso Dio. - E da tutti e due i punti di vista il suo godimento sorpassa qualsiasi gioia umana. Infatti già il godimento spirituale è superiore a quello carnale, come si è visto nel trattato sulle passioni; inoltre l'a­ more di carità verso Dio supera ogni altro a­ more. Per cui nel Sal 33 [9] è detto: Gustate e

Ad primum ergo dicendum quod vita con­ templativa, licet essentialiter consistat in intel­ lectu, principium tamen habet in affectu, in­ quantum videlicet aliquis ex caritate ad Dei contemplationem incitatur. Et quia finis re­ spondet principio inde est quod etiam termi­ nus et finis contemplativae vitae habetur in affectu, dum scilicet aliquis in visione rei amatae delectatur, et ipsa delectatio rei visae amplius excitat amorem. Unde Gregorius dicit, Super Ez. [2,2], quod cum quis ipsum

Soluzione delle difficoltà: l . La vita contem­ plativa, sebbene consista essenzialmente nel­ l'intelletto, tuttavia ha il suo principio nella volontà: per il fatto che si è spinti alla con­ templazione dall'amore di Dio. E poiché il fi­ ne corrisponde al principio, anche il termine finale della vita contemplativa è posseduto nella volontà: in quanto cioè uno gode alla vista di ciò che ama, mentre il godimento stesso della sua visione eccita maggiormente l'amore. Da cui le parole di Gregorio: «Quan­ do uno vede colui che ama, si infiamma mag­ giormente nel suo amore». E questa è la per­ fezione ultima della vita contemplativa: avere cioè non la sola visione della verità divina, ma anche il suo amore. 2. Lo sforzo o la lotta che proviene da un og­ getto esterno impedisce di goderne: nessuno infatti gode della cosa contro cui combatte. Della cosa invece per la quale si combatte si gode maggiormente, a parità di condizioni, una volta che la si possiede: poiché, come dice Agostino, «quanto maggiore fu il perico­ lo nella lotta, tanto maggiore è la gioia del trionfo». Ora, lo sforzo e la lotta nella con­ templazione non dipendono da qualche ripu­ gnanza nei confronti della verità contemplata, ma dalle deficienze del nostro intelletto, e dal nostro corpo corruttibile che ci trascina a cose più basse, secondo le parole di Sap 9 [ 1 5] :

niam suavis est Dominus.

quem amat viderit, in amorem ipsius amplius ignescit. Et haec est ultima perfectio contem­

plativae vitae, ut scilicet non solum divina veritas videatur, sed etiam ut ametur. Ad secundum dicendum quod contentio vel certamen quod provenit ex contrarietate exte­ rioris rei, impedit illius rei delectationem, non enim aliquis delectatur in re contra quam pu­ gnat. Sed in re pro qua quis pugnat, cum eam homo adeptus fuerit, ceteris paribus, magis in ea delectatur, sicut Augustinus dicit, in 8 Conf. [3], quod quanto fuit maius periculum in

praelio, tanto maius est gaudium in triumpho.

Non est autem in contemplatione contentio et certamen ex contrarietate veritatis quam con­ templamur, sed ex defectu nostri intellectus, et ex corruptibili corpore, quod nos ad inferiora re­ trahit, secundum illud Sap. 9 [ 1 5], corpus, quod

corrumpitw; aggravar animam, et deprimi! terrena inhabitatio sensum multa cogitantem.

vedete quanto è buono il Signore.

Un corpo corruttibile appesantisce l'anima, e

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Et inde est quod quando homo pertingit ad contemplationem veritatis, ardentius eam amat, sed magis odit proprium defectum a gravitate corruptibilis corporis, ut dicat cum apostolo [Rom . 7 ,24] , infelix ego homo. Quis me liberabit de cmpore mortis huius ? Unde et Gregorius dicit, Super Ez. [2,2], cum Deus iam per desiderium et intellectum cognoscitur, omnem voluptatem camis arefacit. Ad tertium dicendum quod contemplatio Dei in hac vita impertecta est respectu contemplatio­ nis patriae, et similiter delectatio contempla­ tionis viae est imperfecta respectu delectationis contemplationis patriae, de qua dicitur in Psalmo [35,9], de torrente voluptatis tuae pota­ bis eos. Sed contemplatio divinorum quae ha­ betur in via, etsi sit imperfecta, est tamen delec­ tabilior omni alia contemplatione quantum­ cumque petfecta, propter excellentiam rei con­ templatae. Unde philosophus dicit, in l De par­ tibus animalium [5], accidit circa illas honora­ biles existentes et divinas substantias minores nobis existere theorias. Sed etsi secundum mo­ dicwn attingamus eas, tamen, propter honora­ bilitatem cognoscendi, delectabilius aliquid habent quam quae apud nos omnia. Et hoc est etiam quod Gregorius dicit, Super Ez. [2,2], contemplativa vita amabilis va/de dulcedo est, quae super semetipsam animam rapit, caelestia aperit, spiritualia mentis oculis patefacit. Ad quartum dicendum quod Iacob post con­ templationem uno pede claudicabat, quia ne­ cesse est ut, debilitato amore saeculi, conva­ lescat aliquis ad amorem Dei, ut Gregorius dicit, Super Ez. [2,2], et ideo, post agnitionem suavitatis Dei, unus in nobis sanus pes rema­ nel, atque alius claudicai. Omnis enim qui uno pede claudicar, solum il/i pedi innititur quem sanum habet.

l'abitazione terrena grava la mente dai molti pensieri. Di conseguenza l'uomo, quando giunge a contemplare la verità, la ama con più ardore e odia maggiormente le deficienze derivanti dal corpo corruttibile, così da ripete­ re con Paolo [Rm 7,24]: Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo di 1norte? E Gregorio afferma: «Quando Dio viene a esse­ re conosciuto con il desiderio e con l'intellet­ to, dissecca ogni piacere della carne». 3. La contemplazione di Dio in questa vita è imperfetta rispetto alla contemplazione della patria celeste; e parimenti ne è impetfetta la gioia in rapporto a quella della patria, della quale è detto nel Sal 35 [9] : li disseterai al tor­ rente delle tue delizie. Tuttavia la contempla­ zione delle realtà divine che si può avere nella vita presente, sebbene impetfetta, è più de­ liziosa di ogni altra contemplazione per quanto si voglia perfetta, data la superiorità dell' og­ getto contemplato. Scrive infatti il Filosofo: «Capita che in rapporto a queste sublimi e divi­ ne realtà noi non possediamo che delle idee inadeguate. Ma per quanto poco noi le cono­ sciamo, solo per l'onore di conoscerle ci pro­ ducono più soddisfazione di tutto il resto che è alla nostra portata>>. E anche Gregorio si espri­ me allo stesso modo: «La vita contemplativa è una dolcezza così attraente che rapisce l'anima a se stessa, apre i segreti celesti e mostra agli occhi della mente le realtà spirituali». 4. Giacobbe dopo la contemplazione zoppica­ va da un piede poiché, come spiega Gregorio, «è necessario crescere nell' amore di Dio dopo aver fiaccato l' amore del mondo. Per cui, dopo che abbiamo gustato la soavità di Dio in noi, rimane sano un piede solo, e l'al­ tro zoppica. Infatti chi è zoppo da un piede si appoggia unicamente a quello sano».

Articulus 8 Utrum vita contemplativa sit diuturna

Articolo 8 La vita contemplativa è durevole?

Ad octavum sic proceditur. Videtur quod vita contemplativa non sit diuturna. l . Vita enim contemplativa essentialiter consi­ stit in his quae ad intellectum pet1inent. Sed omnes intellectivae petfectiones huius vitae evacuantur, secundum illud l ad Cor. 1 3 [8], sive prophetiae evacuabuntw; sive linguae cessabunt, sive scientia destruetur. Ergo vita contemplativa evacuatur.

Sembra di no. Infatti: l . La vita contemplativa consiste essenzial­ mente in atti di ordine intellettivo. Ora, tutte le perfezioni di ordine intellettivo proprie della vita presente devono cessare, come è detto in l Cor 13 [8]: Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la scienza svani­ rà. Quindi la vita contemplativa è destinata a finire.

Q. 1 80, A. 8

La vita contemplativa

2. Praeterea, dulcedinem contemplationis ali­ quis homo raptim et pertranseunter degustat. Unde Augustinus dicit, in 1 0 Conf. [40], intro­

mittis me in affectum multum inusitatum in­ trorsus ad nescio quam dulcedinem, sed redeo in haec aerumnosis ponderibus. Gregorius

etiam dicit, in 5 Mor. [33], exponens illud Iob 4

[ 1 5], cum spiritus me praesente transiret, in suavitate, inquit, contemplationis intimae non diu mens figitw; quia ad semetipsam, ipsa immensitate luminis reverberata, revocatur. Ergo vita contemplativa non est diuturna. 3. Praeterea, illud quod non est homini connatu­ rale, non potest esse diutumum. Vita autem con­ templativa est melior quam secundum hominem, ut philosophus dicit, in I O Ethic. [7,8]. Ergo videtur quod vita contemplativa non sit diuturna. Sed contra est quod Domi nus dici t, Luc. l O

[42], Maria optimam partem elegit, quae non auferetur ab ea. Quia, ut Gregorius dicit, Super Ez. [2,2], contemplativa hic incipitur, ut in caelesti patria pe1jiciatur. Respondeo dicendum quod aliquid potest dici diuturnum dupliciter, uno modo, secundum suam naturam ; alio modo, quoad nos. Secun­ dum se quidem manifestum est quod vita con­ templativa diuturna est, dupliciter. Uno modo, eo quod versatur circa incorruptibilia et im­ mobilia. Alio modo, quia non habet contra­ rietatem, delectationi enim quae est in con­ siderando, nihil est contrarium, ut dicitur in l Top. [13,5]. - Sed quoad nos etiam vita con­ templativa diuturna est. Tum quia competit n>, in quanto l'uno «illumina, purifica e perfeziona>> l'altro. Perciò sembra che la vita attiva rimanga anche dopo la vita presente. 3. Ciò che di per sé è più duraturo è più facile che rimanga dopo la vita presente. Ora, la vita attiva è di per sé più duratura: dice infatti Gre­ gorio che «nella vita attiva possiamo rimanere stabilmente, mentre in quella contemplativa non siamo in grado di prolungare molto l'at­ tenzione della mente». Quindi la vita attiva può durare dopo la morte assai meglio di quella contemplativa. In contrario: Gregorio insegna: «La vita attiva cesserà con il tempo presente; invece la con­ templativa germoglia qui per fiorire nella patria celeste». Risposta: come si è visto, la vita attiva ha per fine gli atti esterni: i quali, se sono riferiti alla quiete della contemplazione, appartengono già alla vita contemplativa. Ma nella vita futura dei beati cesserà ogni occupazione di opere ester­ ne, e anche gli eventuali atti esterni verranno riferiti al fine della contemplazione. Come in­ fatti scrive Agostino, «là ci riposeremo e ve­ dremo; vedremo e ameremo; ameremo e lode­ remo». E poco prima aveva scritto che là Dio «sarà visto senza fine, amato senza noia, lodato senza stanchezza. E tutti avranno questo dono, questo sentimento, questa occupazione». Soluzione delle difficoltà: l. Le virtù morali, come si è detto sopra, non rimarranno quanto ai loro atti relativi ai mezzi, ma solo quanto a quelli relativi al fine. E questi atti costituisco­ no appunto la quiete della contemplazione, che Agostino chiama «riposo», e che non va concepita solo in rapporto ai tumulti esterni,

in contemplativa autem intenta mente manere nullo modo valemus. Ergo multo magis vita

activa potest manere post hanc vitam quam contemplativa. Sed contra est quod Gregorius dicit, Super Ez. [2,2], cum praesenti saeculo vita aufertur

activa, contemplativa autem hic incipitur ut in caelesti patria pe1jiciatur. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1], activa vita habet finem in exterioribus actibus, qui si referuntur ad quietem contem­ plationis, iam pertinent ad vitam contemplati­ vam. In futura autem vita beatorum cessabit occupatio exteriorum actuum, et si qui actus exteriores sint, referentur ad finem contem­ plationis. Ut enim Augustinus dicit, in fine De civ. Dei [22,30], ibi vacabimus et videbimus;

videbimus et amabimus,· amabimus et lauda­ bimus. Et in eodem libro praemittit [De civ. Dei 22,30] quod Deus ibi sine fine videbitur, sine fastidio amabitur, sine fatigatione lauda­ bitur. Hoc munus, hic affectus, hic actus erit omnibus.

Ad primum ergo dicendum quod, sicut supra [q. 136 a. l ad l ] dictum est, virtutes morales manebunt non secundum actus quos habent circa ea quae sunt ad finem, sed secundum

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La vita attiva

actus quos habent circa finem. Huiusmodi autem actus sunt secundum quod constituunt quietem contemplationis. Quam Augustinus in praemissis [in co.] verbis significat per va­ cationem, quae est intelligenda non salurn ab exterioribus tumultibus, sed etiam ab interiori perturbatione passionum. Ad secundum dicendum quod vita contempla­ tiva, sicut supra [q. 1 80 a. 4] dictum est, praecipue consistit in contemplatione Dei. Et quantum ad hoc, unus angelus alium non do­ cet, quia, ut dicitur Matth. 1 8 [l O] de angelis pusillorum, qui sunt inferioris ordinis, quod semper vident faciem Patris. Et sic etiam in futura vita nullus hominum alium docebit de Deo, sed omnes videbimus eum sicuti est, ut habetur l Ioan. 3 [2]. Et hoc est quod dicitur ler. 3 1 [34], non docebit ultra vir proximum suum, dicens, cognosce Dominum, omnes enim cognoscent me, a minimo eorum usque ad maximum. - Sed de bis quae pertinent ad dispensationem ministeriorum Dei, unus an­ gelus docet alium, purgando, illuminando et perficiendo. Et secundum hoc, aliquid habent de vita activa quandiu mundus dw-at, ex hoc quod administrationi inferioris creaturae in­ tendunt. Quod significatur per hoc quod Iacob vidit angelos in scala ascendentes, quod perti­ net ad contemplationem, et descendentes [Gen. 28, 12], quod pertinet ad actionem. Sed sicut dicit Gregorius, 2 Mor. [3], non sic a di­ vina visione foris exeunt ut intemae contem­ plationis gaudiis priventur. Et ideo in eis non distinguitur vita activa a contemplativa, sicut in nobis, qui per opera activa impedimur a contemplatione. - Non autem promittitur no­ bis similitudo angelorum quantum ad admini­ strationem inferioris creaturae, quae nobis non competit secundum ordinem naturae no­ strae, sicut competit angelis, sed secundum visionem Dei. Ad tertium dicendum quod durabilitas vitae activae in statu praesenti excedens durabilita­ tem vitae contemplativae, non provenit ex proprietate utriusque vitae secundum se con­ sideratae, sed ex defectu nostro, qui ex cor­ poris gravitate retrahimur ab altitudine con­ templationis. Unde ibidem [In Ez. l ,5] subdit Gregorius quod ipsa sua infirmitate ab im­ mensitate tantae celsitudinis repulsus animus in semetipso relabitur.

Q. 1 8 1 , A. 4

ma anche in rapporto ai turbamenti interni delle passioni. 2. La vita contemplativa consiste principal­ mente nella contemplazione di Dio, secondo le spiegazioni date. E in questo senso un angelo non può insegnare all' altro: poiché a proposito degli angeli dei bambini, i quali sono dell'ordine più basso, in Mt 18 [ IO] è detto che vedono sempre il volto del Padre. E così anche gli uomini nella vita futura non potranno istruirsi l'un l'altro su Dio, ma tutti lo vedremo così come egli è, secondo le paro­ le di l Gv 3 [2]. Si avvererà così la predizione di Ger 3 1 [34]: L'uomo non istruirà più il suo prossimo dicendo: Riconosci il Signore, per­ ché tutti mi riconosceranno, dal più piccolo al più grande. - Invece nelle cose riguardanti il compimento del ministero divino un angelo insegna ali' altro purificando, illuminando e perfezionando. E da questo lato gli angeli par­ tecipano qualcosa della vita attiva finché dura il mondo, per il fatto che attendono al gover­ no delle creature inferiori. E ciò è indicato dal fatto che Giacobbe vide nella scala degli angeli che salivano, il che appartiene alla con­ templazione, e altri che scendevano, il che appartiene all'azione [Gen 28, 1 2]. Ma come dice Gregorio, «essi non escono fuori della visione di Dio in modo da perdere la gioia dell'interna contemplazione». Perciò in essi la vita attiva non è distinta dalla contemplativa, come invece accade in noi , che veniamo distolti dalla contemplazione a motivo delle opere della vita attiva. - Del resto a noi fu promessa la somiglianza con gli angeli non quanto al governo delle creature inferiori, che a noi non spetta per natura come agli angeli, ma solo quanto alla visione di Dio. 3. La durata della vita attiva, che qui in terra è superiore a quella della vita contemplativa, non deriva dalla natura di entrambe le vite considerate in se stesse, ma dalla miseria di noi uomini, che il gravame del corpo ritrae dalle altezze della contemplazione. Per cui Gregorio aggiunge che, «respinto per la sua stessa debolezza dalla sublimità di un'altezza così grande, l'animo ricade su se stesso».

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Confronto tra la vita attiva e la vita contemplativa

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QUAESTIO 1 82 DE COMPARATIONE VITAE ACTIVAE AD CONTEMPLATIVAM

QUESTIONE 1 82 CONFRONTO TRA LA VITA ATTIVA E LA VITA CONTEMPLATIVA

Deinde considerandum est de comparatione vitae activae ad contemplativam. Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, quae sit potior sive dignior. Secundo, quae sit maioris meriti. Ter­ tio, utrum vita contemplativa impediatur per activam. Quarto, de ordine utriusque.

Rimane ora da instaurare il confronto fra la vita attiva e la vita contemplativa. Su questo tema esamineremo quattro punti: l . Quale tra le due è più importante o più degna? 2. Qual è la più meritoria? 3. La vita contemplativa è ostacolata da quella attiva? 4. n loro ordine reciproco.

Articulus l Utrum vita activa sit potior quam contemplativa

Articolo l La vita attiva è superiore alla contemplativa?

Ad primum sic proceditur. Vìdetur quod vita activa sit potior quam contemplativa. l . Quod enim est meliorum, videtur esse me­ lius, ut philosophus dicit, in 3 Top. [ 1 , 1 2] . Sed vita activa pertinet ad maiores, scilicet ad praelatos, qui sunt in honore et potestate con­ stituti, unde Augustinus dicit, 19 De civ. Dei [ 1 9], quod in actione non amandus est honor in /wc vita, sive potentia. Ergo videtur quod vita activa sit potior quam contemplativa. 2. Praeterea, in omnibus habitibus et actibus praecipere pertinet ad potiorem, sicut militaris, tanquam potior, praecipit frenorum factrici. Sed ad vitam activam pertinet disponere et praecipere de contemplativa, ut patet per id quod dicitur Moysi, Ex. 1 9 [21 ], descende, et

Sembra di sì. Infatti: l . Come dice il Filosofo, «ciò che appartiene ai migliori deve essere migliore». Ma la vita attiva appartiene ai superioti, cioè ai prelati, costituiti in potere e in dignità: per cui Agosti­ no scrive che «nel campo dell'azione in questa vita non si deve amare la dignità o il potere». Quindi la vita attiva sembra superiore a quella contemplativa. 2. Negli abiti e negli atti il comando spetta sem­ pre a quelli superiori: come l'arte militare co­ manda ali' arte di fabbricare le briglie. Ora, la vita attiva ha il compito di dare disposizioni e ordini circa la vita contemplativa, come risulta da quanto Dio disse a Mosè in Es 1 9 [21 ] :

contestare populum, ne forte velit transcendere propositos tenninos ad videndwn Deum. Ergo

vita activa est potior quam contemplativa. 3 . Praeterea, nullus debet abstrahi a maiori ut applicetur minoribus, apostolus enim dicit, l ad Cor. 1 2 [3 1 ], aemulamini charismata meliora. Sed aliqui abstrahuntur a statu vitae contemplativae et occupantur circa vitam activam, ut patet de illis qui transferuntur ad statum praelationis. Ergo videtur quod vita activa sit potior quam contemplativa. Sed contra est quod Domi nus dici t, Luc. l O [42], Maria optimam partem elegit, quae non auferetur ab ea. Per Mariam autem significa­ tur vita contemplativa. Ergo contemplativa vi­ ta potior est quam activa. Respondeo dicendum quod nihil prohibet aliquid secundum se esse excellentius quod tamen secundum aliquid ab alio superatur. Dicendum est ergo quod vita contemplativa simpliciter melior est quam activa. Quod

Scendi, e avverti il popolo di non superare i limiti fissati per vedere il Signore. Quindi la

vita attiva è superiore alla contemplativa. 3. Nessuno deve essere distolto da un compito più importante per un compito inferiore, poi­ ché Paolo dice: Aspirate ai carismi più grandi (l Cor 1 2,3 1 ). Ora, alcuni sono distolti dallo stato della vita contemplativa e occupati nella vita attiva: come nel caso di quanti sono nominati alle prelature. Quindi la vita attiva sembra superiore alla contemplativa. In contrario: il Signore dice: Maria si è scelta la pmte migliore, che non le sarà tolta (Le l 0,42). Ora, Maria sta a significare la vita contempla­ tiva. Perciò la vita contemplativa è superiore a quella attiva. Risposta: nulla impedisce che una cosa sia per se stessa superiore a un'altra anche se si lascia superare da questa sotto qualche aspet­ to. Si deve quindi affermare che assoluta­ mente parlando la vita contemplativa è supe­ riore a quella attiva. E il Filosofo lo dimostra

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Confronto tra la vita attiva e la vita contemplativa

philosophus, in 1 0 Ethic. [7-8], probat octo rationibus. Quarum prima est, quia vita con­ templativa convenit homini secundum illud quod est optimum in ipso, scilicet secundum intellectum, et respectu propriorum obiecto­ rum, scilicet intelligibilium, vita autem activa occupatur circa exteriora. Unde Rachel, per quam significatur vita contemplativa, inter­ pretatur visum principium, vita autem activa significatur per Liam, quae erat lippis oculis, ut Gregorius dicit, 6 Mor. [37]. Secundo, quia vita contemplativa potest esse magis continua, licet non quantum ad summum contempla­ tionis gradum, sicut supra [q. 180 a. 8; q. 1 8 1 a. 4 a d 3] dictum est. Unde e t Maria, per quam significatur vita contemplativa, de­ scribitur secus pedes Domini assidue sedens. Tertio, quia maior est delectatio vitae contem­ plativae quam activae. Unde Augustinus dicit, in libro De verbis Dom. [Serm. ad pop. 103,2], quod Martha turbabatw; Maria epulabatur. Quarto, quia in vita contemplativa est homo magis sibi sufficiens, quia paucioribus ad eam indiget. Unde dicitur Luc. 1 0 [4 1 ] , Martha, Martha, sollicita es et turbaris erga plurima. Quinto, quia vita contemplativa magis propter se diligitur, vita autem activa ad aliud ordi­ natur. Unde in Psalmo [26,4] dicitur, unam petii a Domino, hanc requiram, ut inhabitem in domo Domini omnibus diebus vitae meae, ut videam voluntatem Domini. Sexto, quia vi­ ta contemplativa consistit in quadam vacatio­ ne et quiete, secundum illud Psalmi [45,1 1], vacate, et videte quoniam ego sum Deus. Septimo, quia vita contemplativa est secun­ dum divina, vita autem activa secundum hu­ mana. Unde Augustinus dicit, in libro De ver­ bis Dom. [Serm. ad pop. l 04,2], in principio erat verbum, ecce quod Maria audiebat. Ver­ bum caro factum est, ecce cui Martha mi­ nistrabat. Octavo, quia vita contemplativa est secundum i d quod est magis proprium homini, idest secundum intellectum, in opera­ tionibus autem vitae activae communicant etiam inferiores vires, quae sunt nobis et bru­ tis communes. Unde in Psalmo [35], post­ quam dictum est [7], homines et iumenta sal­ vabis, Domine, subditur [IO] id quod est horni­ nibus speciale, in lumine tuo videbimus lumen. Nonam rationem addit Dominus, Luc. 10 [42], cum dicit, optimam partem elegit Maria, quae non auferetur ab ea. Quod exponens Augusti-

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con otto ragioni. Primo, perché la vita contem­ plativa si addice all'uomo per quanto vi è in lui di più eccellente, cioè in forza dell'intel­ letto, e per i suoi oggetti propri, cioè per le realtà di ordine intellettivo, mentre la vita atti­ va attende alle realtà esterne. Per cui, come nota Gregorio, Rachele, che è la figura della vita contemplativa, significa «principio visto», mentre la vita attiva è simboleggiata da Lia, che era di occhi cisposi [Gen 29, 17]. Secondo, perché la vita contemplativa può essere più continua, sebbene non possa esserlo nel grado più alto della contemplazione, per le ragioni già viste. Per cui Maria, che è la figura della vita contemplativa, è presentata assiduamente seduta ai piedi del Signore [Le 10,39]. Terzo, perché il godimento della vita contemplativa è superiore a quello della vita attiva. Per cui Agostino afferma che «Marta si turbava, mentre Maria tripudiava». Quarto, perché nella vita contemplativa uno basta meglio a se stesso, avendo bisogno per essa di poche cose. Per cui in Le 10 [41 ] è detto: Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose. Quinto, perché la vita contemplativa è più amata per se stessa, mentre la vita attiva è ordinata ad altro. Per cui nel Sal 26 [4] è detto: Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cercherò: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, conoscere la volontà del Signore. Sesto, perché la vita contemplativa consiste in un certo riposo, o quiete, come è detto nel Sa/ 45 [ 1 1 ] : Riposa­ tevi, e vedete che io sono Dio. Settimo, perché la vita contemplativa si svolge nella sfera del divino, mentre la vita attiva è nella sfera dell'umano. Da cui le parole di Agostino: «In principio era il Verbo: ecco quello che ascol­ tava Maria. E il Verbo si è fatto carne: ecco a chi Marta prestava i suoi servizi». Ottavo, perché la vita contemplativa impegna quanto vi è di più peculiare nell'uomo, cioè l'intellet­ to, mentre nelle opere della vita attiva sono impegnate anche le facoltà inferiori, che sono comuni a noi e agli animali. Per cui nel Sa/ 35 [7. 1 0], dopo la frase: Uomini e bestie tu sal­ verai, o Signore, si legge in particolare per gli uomini: Nella tua luce vedremo la luce. Il Si­ gnore poi aggiunge una nona ragione quando dice: Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta (Le l 0,42). Parole che Ago­ stino così spiega: «Tu non hai scelto una parte

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Confronto tra la vita attiva e la vita contemplativa

nus, in libro De verbis Dom. [Serm. ad pop. 1 03,4], dicit, non tu malam, sed il/a melio­

rem. Audi unde meliorem quia non auferetur ab ea. A te auferetur aliquando onus necessi­ tatis, aeterna est dulcedo veritatis. - Secun­ dum quid tamen, et in casu, magis est eli­ genda vita activa, propter necessitatem prae­ sentis vitae. Sicut etiam philosophus dicit, in 3 Top. [2,2 1 ] , quod philosophari est melius

quam ditm·i, sed ditari melius est necessita­ tem patienti.

Ad plimum ergo dicendum quod ad praelatos non solum pertinet vita activa, sed etiam de­ bent esse excellentes i n vita contemplativa. Unde Gregoiius dicit, in Pastor. [2, 1 ] , sit rec­

tor actione praecipuus, prae cunctis in con­ templatione suspensus.

Ad secundum dicendum quod vita contem­ plativa in quadam animi libertate consistit. Dicit enim Gregoiius, Super Ez. [ 1 ,3], quod vita contemplativa ad quandam mentis liber­

tatem transit, temporalia non cogitans, sed aeterna. Et Boetius dicit, i n 5 De consol. [prosa 2], humanas animas liberiores esse ne­ cesse est cum se in mentis divinae speculatio­ ne conservant, minus vero, cum dilabuntur ad corpora. Unde patet quod vita activa non di­

recte praecipit vitae contemplativae, sed, di­ sponendo ad vitam contemplativam, praecipit quaedam opera v itae activae; in quo magis servit contemplativae vitae quam dominetur. Et hoc est quod Gregorius dicit, Super Ez. [ 1 ,3], quod activa vita servitus, contemplativa

autem libe11as vocatur.

Ad tertium dicendum quod ad opera vitae activae interdum aliquis a contemplatione avocatur propter aliquam necessitatem prae­ sentis vitae, non tamen hoc modo quod coga­ tur aliquis totaliter contemplationem deserere. Unde Augustinus dicit, 19 De civ. Dei [ 1 9],

otium sanctum quaerit caritas veritatis, nego­ tium iustum, scilicet vitae activae, suscipit necessitas caritatis. Quam sarcinam si nullus imponit, percipiendae atque intuendae vacan­ dwn est veritati. Si autem imponitur, susci­ pienda est, propter caritatis necessitatem. Sed nec sic omnino veritatis delectatio deserenda est, ne subtrahatur il/a suavitas, et opprimat ista necessitas. Et sic patet quod, cum aliquis a contemplativa vita ad activam vocatur, non hoc fit per modum subtractionis, sed per mo­ dum additionis.

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cattiva, ma lei ne ha scelta una migliore. A­ scolta in che cosa: perché non le sarà tolta. Th un giorno sarai l iberata dal peso della ne­ cessità, mentre la dolcezza della velità è eter­ na». - Tuttavia sotto un certo aspetto in certi casi è prefeiibile la vita attiva, date le neces­ sità della vita presente. E il Filosofo stesso ha scritto che «filosofare è meglio che guadagna­ re, ma per chi è i n necessità guadagnare è meglio». Soluzione delle difficoltà: l . La vita attiva non è l'unico compito dei prelati, poiché essi sono tenuti a eccellere anche nella vita con­ templativa. Da cui le parole di Gregolio: «TI superiore sia il primo nell'azione, e più di ogni altro si applichi alla contemplazione». 2. La vita contemplativa consiste in una certa libertà di spirito. Infatti Gregolio insegna che l a vita contemplativa «produce una certa l ibertà spirituale che non pensa alle realtà temporali, ma a quelle eterne». E Boezio scii­ ve: «Necessariamente le anime umane sono più libere quando sono occupate nella con­ templazione dell'intelligenza divina; e lo sono meno quando Iidiscendono agli esseri corpo­ rei». Perciò è evidente che la vita attiva non comanda direttamente alla vita contemplativa, ma nel predisporre ad essa comanda certe opere della vita attiva: nella qual cosa, più che comandare, serve alla vita contemplativa. Da cui le parole di Gregorio: «La vita attiva è schiavitù, mentre la contemplativa è libertà>>. 3. Talora qualcuno è distolto dalla contempla­ zione e applicato alle opere della vita attiva per qualche necessità della vita presente; non però in modo da essere costretto ad abbando­ nare totalmente la contemplazione. Per cui Agostino dice in proposito: «La carità della verità cerca un riposo santo, mentre la neces­ sità della carità accetta le giuste occupazioni» della vita attiva. «Se dunque nessuno impone questo peso, si deve attendere alla contempla­ zione della verità. Qualora invece sia imposto bisogna accettarlo per le esigenze della carità. Però anche in questo caso non si deve abban­ donare del tutto il godimento della verità: per­ ché quella dolcezza non svani§Ca, e questo peso non sia reso opprimente». E chiaro quin­ di che, quando uno è chiamato dalla vita con­ templativa a quella attiva, ciò non avviene a modo di sottrazione, ma di addizione.

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Confronto tra la vita attiva e la vita contemplativa

Q. 1 82, A. 2

Articulus 2 Utrum vita activa sit maioris meriti quam contemplativa

Articolo 2 La vita attiva è più meritoria della contemplativa?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod vita activa sit maioris meriti quam contemplativa. l . Meritum enim dicitur respectu mercedis. Merces autem debetur labori, secundum illud l ad Cor. 3 [8], unusquisque propriam merce­ dem accipiet secundum suum laborem. Sed vitae activae attribuitur labor, contemplativae vero quies, dicit enim Gregorius, Super Ez.

Sembra di sì. Infatti: l. ll merito dice rapporto alla mercede. Ora, la mercede è dovuta al lavoro, secondo le pa­ role di l Cor 3 [8]: Ciascuno riceverà la sua mercede secondo il proprio lavoro. Ma il la­ voro è attribuito alla vita attiva, mentre alla contemplativa è attribuito il riposo: poiché, come scrive Gregorio, «chi si volge a Dio pri­ ma deve sudare nel lavoro, cioè deve sposare Lia, per poter poi riposare tra le braccia di Ra­ chele nella contemplazione di Dio». Quindi la vita attiva è più meritoria della contemplativa. 2. La vita contemplativa è come un preludio della felicità futura. Infatti Agostino, a propo­ sito di Gv 2 1 [22]: Se voglio che egli rimanga finché io venga, commenta: «In termini espli­ citi poteva dire così: Segua me l 'opera perfet­ ta formata sull'esempio della mia passione; rimanga invece fino a che io venga la contem­ plazione iniziale, per essere allora portata a compimento». E Gregorio scrive che «la vita contemplativa inizia qui in terra per fiorire nella patria celeste». Ma nella vita futura non ci sarà da meritare, bensì da ricevere la ricom­ pensa. Perciò sembra che la vita contemplati­ va abbia meno dell' attiva valore di merito, mentre ha più di essa valore di premio. 3. Gregorio afferma che «nessun sacrificio è più accetto a Dio che lo zelo delle anime». Ma dallo zelo delle anime si è spinti alle oc­ cupazioni della vita attiva. Quindi la vita con­ templativa non sembra più meritoria di quella attiva. In contrario: Gregorio dice: «Grandi sono i meriti della vita attiva, ma quelli della vita contemplativa sono ancora più grandi». Risposta: come si è visto sopra, la radice del merito è la carità, che consiste nell'amore di Dio e del prossimo. Ora, amare Dio in se stesso è più meritorio che runare il prossimo. Perciò quanto riguarda più d i rettamente l ' amore di Dio è per sua nantra più meritorio di ciò che tiguarda direttamente l' amore del prossimo in ordine a Dio. Ma la vita contem­ plativa riguarda in modo diretto e immediato l 'amore di Dio: Agostino infatti affenna che «la carità della verità» divina «cerca un santo riposo», a cui attende la vita contemplativa,

[2,2], omnis qui ad Deum convertitur, prius necesse est ut desudet in labore, idest Liam accipiat, ut post ad videndum principium in Rachel amplexibus requiescat. Ergo vita acti­ va est maioris meriti quam contemplativa.

2. Praeterea, vita contemplativa est quaedam inchoatio futurae felicitatis. Unde super illud Ioan. 2 1 , sic eum volo manere donec veniam, dicit Augustinus [in Ioann. tract. 1 24 super

2 1,22], hoc apertius dici potest, pe1jecta me sequatur actio, informata meae passionis exemplo, inchoata vero contemplarlo maneat donec venio, peificienda cum venero. Et Gre­ gorius dicit, Super Ez. [2,2], quod contempla­ tiva vita hic incipitw; ut in caelesti patria per­ ficiatur. Sed in illa futura vita non erit status merendi, sed recipiendi pro meritis. Ergo vita contemplativa minus videtur habere de ratio­ ne meriti quam vita activa, sed plus habet de ratione praemii. 3. Praeterea, Gregorius dicit, Super Ez. [ 1 , 1 2], quod nullum sacrificium est Deo magis ac­ ceptum quam zelus animarum. Sed per zelum animarum aliquis se convertit ad studia acti­ vae vitae. Ergo videtur quod vita contemplati­ va non sit maioris meriti quam activa. Sed contra est quod Gregorius dicit, in 6 Mor. [37], magna sunt activae vitae merita, sed

contemplativae potiora.

Respondeo dicendum quod radix. merendi est caritas, sicut supra [q. 83 a. 1 5; I-II q. 1 14 a. 4] habitum est. Cum autem caritas consistat in di­ lectione Dei et proximi, sicut supra [q. 25 a. l] habintm est, diligere Deum secundum s e est magis meritorium quam diligere proximum, ut ex supra [q. 27 a. 8] dictis patet. Et ideo illud quod directius pertinet ad di lectionem Dei, magis est meritorium ex suo genere quam id quod directe pertinet ad dilectionem proximi propter Deum. Vita autem contemplativa di-

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Confronto tra la vita attiva e la vita contemplativa

recte et immediate pertinet ad dilectionem Dei, dicit enim Augustinus, 19 De civ. Dei [ 1 9] , quod otium sanctum, scilicet contemplativae vitae, quaerit caritas ve1itatis, scilicet divinae; cui potissime vita contemplativa insistit, sicut dictum est [q. 1 80 a. 4; q. 1 8 1 a. 4 ad 2]. Vita autem activa ordinatur directius ad dilectionem proximi, quia satagit circa frequens ministe­ rium, ut dicitur Luc. 10 [40]. Et ideo ex suo ge­ nere contemplativa vita est maioris meriti quam activa. Et hoc est quod Gregorius dicit, in 3 Homil. Ez. [ l ] , contemplativa est maior

merito quam activa, quia haec in usu prae­ sentis operis laborat, in quo scilicet necesse est proximis subvenire; illa vero sapore intimo venturam iam requiem degustar, scilicet in contemplatione Dei. - Potest tamen contingere quod aliquis in operibus vitae activae plus meretur quam alius in operibus vitae contem­ plativae, puta si propter abundantiam divini amoris, ut eius voluntas impleatur propter ipsius gloriam, interdum sustinet a dulcedine divinae contemplationis ad tempus separari. Sicut apostolus dicebat, Rom. 9 [3], optabam

ego ipse anathema esse a Christo pro fratribus meis, quod exponens Chrysostomus, in libro De compunctione [1], dicit, ita totam mentem eius demerserat amor Christi, ut etiam hoc quod ei prae ceteris omnibus amabilius erat, esse cum Christo, rursus idipsum, quia ita placeret Christo, contemneret. Ad primum ergo dicendum quod labor exte­ rior operatur ad augmentum praemii acciden­ talis, sed augmentum meriti respectu praemii essentialis consistit principaliter in caritate. Cuius quoddam signum est labor exterior to­ leratus propter Christum, sed multo expres­ sius eius signum est quod aliquis, praetermis­ sis omnibus quae ad hanc vitam pertinent, soli divinae contemplationi vacare delectetur. Ad secundum dicendum quod in statu felici­ tatis futurae homo pervenit ad perfectum, et ideo non relinquitur locus proticiendi per me­ ritum. Si tamen relinqueretur, esset efficacius meritum, propter caritatem maiorem. Sed contemplatio praesentis vitae cum quadam imperfectione est, et adhuc habet quo profi­ ciat. Et ideo non tollit rationem merendi, sed augmentum meriti facit, propter maius exerci­ tium caritatis divinae. Ad tertium dicendum quod sacrificium spiri­ tualiter Deo offertur cum aliquid ei exhibetur.

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come si è visto. Invece la vita attiva è ordinata direttamente all'amore del prossimo: poiché è tutta presa dai molti servizi (Le l 0,40). Quin­ di per la sua natura la vita contemplativa è più meritoria della vita attiva. Ed è quanto dice Gregorio: «La vita contemplativa è più meri­ toria deli' attiva: poiché questa attende alle opere della vita presente», con le quali biso­ gna soccorrere il prossimo, «mentre quella pregusta interiormente il riposo futuro» nella contemplazione di Dio. - Può tuttavia capita­ re che si meriti maggiormente nelle opere del­ la vita attiva che in quelle della vita contem­ plativa: p. es. nel caso in cui per la sovrab­ bondanza dell'amore di Dio, affinché si com­ pia la sua volontà per la sua gloria, uno accet­ ta d i abbandonare momentaneamente l a dolcezza della divina contemplazione. Come Paolo diceva: Vorrei essere io stesso separato

da Cristo a vantaggio dei miei fratelli (Rm

9,3); parole che il Crisostomo così commen­ ta: «L'amore di Cristo aveva così sommersa la sua anima che egli avrebbe abbandonato, per piacere a Cristo, quanto amava sopra ogni altra cosa, cioè di essere con Cristo». Soluzione delle difficoltì.: l . Le opere esterne servono ad aumentare il premio accidentale, ma l'aumento del merito rispetto al premio essenziale consiste principalmente nella cari­ tà. E un cetto segno di quest'ultima è il lavoro esterno accettato per Cristo: tuttavia ne è un segno molto più esplicito il fatto che uno, abbandonato tutto ciò che appartiene alla vita presente, si diletti unicamente della contem­ plazione di Dio. 2. Nello stato della felicità futura l'uomo rag­ giunge la perfezione: per cui non c'è più modo di progredire nel merito. Se però un modo ci fosse, il merito sarebbe ancora più efficace, data la maggiore carità. Ma la con­ templazione della vita presente è imperfetta, e quindi ha modo di meritare. Per cui essa non toglie la possibilità del merito, ma anzi la au­ menta, dato il maggiore esercizio della carità verso Dio. 3. Si offre un sacrificio spirituale quando si dona a Dio qualcosa. Ora, fra tutti i beni del­ l'uomo Dio preferisce che gli si offra in sacri­ ficio il bene dell 'anima umana. Ognuno però deve prima di tutto offrire la propria anima, secondo le parole di Sir 30 [24]: Abbi pietà

della tua anima, rendendoti accetto a Dio;

in

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Co�fronto tra la vita attiva e la vita contemplativa

Q. 1 82, A. 2

Inter mnnia autem bona hominis Deus maxime acceptat bonum humanae animae, ut hoc sibi in sacrificium offeratur. Offerre autem debet aliquis Deo, primo quidem, animam suam, se­ cundum illud Eccli. 30 [24], miserere animae tuae placens Deo, secundo autem, animas aliorum, secundum illud Apoc. 22 [ 1 7], qui audit, dicat, veni. Quanto autem homo animam suam vel alterius propinquius Deo coniungit, tanto sacriticium est Deo magis acceptum. Unde magis acceptum est Deo quod aliquis animrun suam et aliorum applicet contempla­ lioni, quam actioni. Per hoc ergo quod dicitur quod nullum sacrificium est Deo magis ac­ ceptum quam zelus animarwn, non praefertur meritum vitae activae merito vitae contempla­ tivae, sed ostenditur magis esse meritorium si quis offerat Deo animam suam et aliorum, quam quaecumque alia exteriora dona.

secondo luogo poi si devono offrire le anime degli altri, come è detto in Ap 22 [ 1 7]: Chi ascolta dica: Vieni. Ora, quanto più stretta­ mente l'uomo unisce a Dio la propria anima, o quella altrui, tanto più accetto è il suo sacri­ ficio. Quindi è più accetto a Dio applicare la propria anima, o quella degli altri, alla con­ templazione piuttosto che ali' azione. Perciò, quando si dice che «nessun sacrificio è più accetto a Dio che lo zelo delle anime», non si vuole preferire il merito della vita attiva a quello della vita contemplativa, ma solo affer­ mare che è più meritorio offrire a Dio la pro­ pria anima e quella altrui piuttosto che qual­ siasi bene esterno.

Articulus 3 Utrum vita contemplativa impediatur per activam

Articolo 3 La vita contemplativa è impedita dalla vita attiva?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod vita contemplativa impediatur per activam. l . Ad vitam enim contemplativam necessaria est quaedam vacatio mentis, secundum illud Psalmi [45, 1 1 ], vacate, et videte quoniam ego sum Deus. Sed vita activa habet inquietudi­ nem, secundum illud Luc. I O [41 ] , Martha,

Sembra di sì. Infatti: l . Per la vita contemplativa si richiede una cer­ ta quiete dell'anima, secondo il Sal 45 [ 1 1 ] : Riposatevi e vedete che io sono Dio. Ora, la vita attiva è piena di inquietudine, come è detto in Le I O [41 ] : Marta, Marta tu ti preoc­ cupi e li agiti per molte cose. Quindi la vita attiva impedisce quella contemplativa. 2. La vita contemplativa richiede la chiarezza della visione; ma la vita attiva impedisce que­ sta chiarezza: Gregorio infatti afferma che «essa [Lia] è cisposa e feconda, poiché mentre è occupata nelle opere, vede di meno». Perciò la vita attiva impedisce la contemplativa 3. Ogni cosa è impedita dal suo contrario. Ora, la vita attiva e quella contemplativa sono contrarie, poiché la prima si occupa di molte cose, mentre la seconda si ferma alla contem­ plazione di un solo oggetto: per cui si con­ trappongono. Quindi sembra che la vita con­ templativa sia impedita dalla vita attiva. In contrario: Gregorio scrive: «Chi vuole pos­ sedere la roccaforte della contemplazione, prima provi se stesso in campo aperto con l'esercizio delle buone opere». Risposta: la vita attiva può essere considerata sotto due aspetti. Primo, quanto all' applica­ zione e all'esercizio nelle azioni esterne. E da

Manha, sollicita es et turbaris erga plurima.

Ergo vita activa contemplativam impedit. 2. Praeterea, ad vitam contemplativam requi­ ritur claritas visionis. Sed vita activa impedit visionis claritatem, dicit enim Gregorius, Su­ per Ez. [2,2], quod lippa est et fecunda, quia, dum occupatur in opere, minus videt. Ergo vita activa impedit contemplativam. 3. Praeterea, unum contrariorum impeditur per aliud. Sed vita activa et contemplativa videntur contrarietatem habere ad invicem, quia vita activa occupatur circa plurima, vita autem con­ templativa insistit ad contemplandum unum, unde et ex opposito dividuntur. Ergo videtur quod vita contemplativa impedianrr per activam. Sed contra est quod Gregorius dicit, in 6 Mor.

[37], qui contemplationis arcem tenere desi­ derant, prius se in campo per exercitium ope­ ris probent. Respondeo dicendum quod vita activa potest consideraci quantum ad duo. Uno modo,

Q. 1 82, A. 3

Confronto tra la vita attiva e la vita contemplativa

quantum ad ipsum studium et exercitium ex­ teriorum actionum . Et sic manifestum est quod vita activa impedit contemplativam, in­ quantum impossibile est quod aliquis simul occupetur circa extefiores actiones, et divinae contemplationi vacet. - Alio modo potest considerali vita activa quantum ad hoc quod interiores animae passiones componit et ordi­ nat. Et quantum ad hoc, vita activa adiuvat ad contemplationem, quae impeditur per inordi­ nationem interiorum passionum. Unde Gre­ gorius dicit, in 6 Mor. [37], cum contempla­

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vitae activae confert ad contemplativam, quod quietat interiores passiones, ex quibus phan­ tasmata proveniunt, per quae contemplatio impeditur. Et per hoc patet responsio ad obiecta. Nam rationes illae procedunt quantum ad ipsam occupationem exteriorum actuum, non autem quantum ad effectum, qui est moderatio passionum.

questo lato è evidente che la vita attiva impe­ disce la contemplativa: è infatti impossibile che uno attenda simultaneamente agli atti esterni e alla contemplazione di Dio. - Secon­ do, la vita attiva può essere considerata in quanto modera e ordina le passioni dell' ani­ ma. E sotto questo aspetto la vita attiva favo­ risce la contemplazione, che è impedita dal disordine delle passioni. Da cui le parole di Gregofio: «Quando si vuole possedere la roc­ caforte della contemplazione, prima si devono provare le propfie forze in campo aperto con l 'esercizio delle opere buone: per sapere se si è capaci di non fare del male al prossimo, o di sopportare con pazienza il male che si subisce dagli altri ; e se al sopraggiungere dei beni temporali l ' anima s i lascia dissipare dalla gioia, o si lascia abbattere da un'eccessiva tri­ stezza alla loro perdita. Quindi, rientrati in se stessi, ci si deve assicurare che quando ci si concentra nelle realtà spirituali non si trascini­ no con sé le ombre delle realtà corporee; o almeno, se sono trascinate, che siano allonta­ nate con la mano del discernimento». Perciò da questo lato l'esercizio della vita attiva fa­ vorisce la vita contemplativa acquietando le passioni, dalle quali provengono le fantasie che impediscono la contemplazione. Soluzione delle difficoltà: sono così risolte anche le difficoltà. Infatti le ragioni portate valgono per le occupazioni esterne, non già per l' effetto della vita attiva, che è la modera­ zione delle passioni.

Articulus 4 Utrum vita activa sit prior quam contemplativa

Articolo 4 La vita attiva precede la contemplativa?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod vita activa non sit prior quam contemplativa. l . Vita enim contemplativa directe pertinet ad dilectionem Dei, vita autem activa ad di­ lectionem proximi. Sed dilectio Dei praecedit dilectionem proximi, inquantum proximus propter Deum diligitur. Ergo videtur quod etiam vita contemplativa sit prior quam activa. 2. Praeterea, Gregorius dicit, Super Ez. [2,2],

Sembra di no. Infatti: l. La vita contemplativa riguarda direttamen­ te l' amore di Dio, mentre la vita attiva riguar­ da l' amore del prossimo. Ma l' amore di Dio precede l'amore del prossimo, poiché il pros­ simo è amato per Dio. Quindi anche la vita contemplativa sembra precedere quella attiva. 2. Gregorio dice: «Si deve notare che come il buon ordine della vita consiste nel tendere dall' attiva alla contemplativa, così spesso è utile che l' anima dalla contemplativa ritorni alla vita attiva». Quindi la vita attiva non pre­ cede in modo assoluto la vita contemplativa. 3. Se due cose si addicono a soggetti diversi ,

tionis arcem aliqui tenere desiderant, prius se in campo per exercitium operis probent, ut sollicite sciant si nulla iam ma/a proximis irrogant, si invgata a proximis aequanimiter portant, si obiectis bonis temporalibus ne­ quaquam mens laetitia solvitw; si subtractis non nimio maerore sauciantur. Ac deinde perpendant si, cum ad semetipsos introrsus redeunt, in eo quod spiritualia rimantur, nequaquam secum rerum corporalium um­ bras trahunt, ve l fortasse tractas manu discretionis abigunt. Ex hoc ergo exercitium

sciendum est quod, sicut bonus ordo vivendi est ut ab activa in contemplativam tendatur, ita plerumque utiliter a contemplativa animus ad activam rejlectitur. Non ergo simpliciter vita activa est prior quam contemplativa.

1 63 1

Confronto tra la vita attiva e la vita contemplativa

3. Praeterea, ea quae diversis competunt, non videntur ex necessitate ordinem habere. Sed vita activa et contemplativa diversis compe­ tunt, dicit enim Gregorius, in 6 Mor. [37], saepe qui contemplari Dewn quieti poterant, occupationibus pressi ceciderunt, et saepe qui occupati bene humanis usibus viverent, gla­ dio suae quietis extincti sunt. Non ergo vita activa prior est quam contemplativa. Sed contra est quod Gregorius dicit, in 3 Homil. Ez. [ 1 ], activa vita prior est tempore quam contemplativa, quia ex bono opere tenditur ad contemplationem. Respondeo dicendum quod aliquid dicitur esse prius dupliciter. Uno modo, secundum suam naturam. Et hoc modo vita contemplativa est prior quam activa, inquantum prioribus et melioribus insistit. Unde et activam vitam movet et dirigit, ratio enim superior, quae con­ templationi deputatur, comparatur ad inferio­ rem, quae deputatur actioni, sicut vir ad mulie­ rem, quae est per virum regenda, ut Augusti­ nus dicit, 1 2 De Trin. [3.7. 1 2]. - Allo modo est aliquid prius quoad nos, quod scilicet est prius in via generationis. Et hoc modo vita activa est prior quam contemplativa, quia disponit ad contemplativam, ut ex supra [a 3; q. 1 8 1 a. l ad 3] dictis patet. Dispositio enim in via gene­ rationis praecedit formam, quae simpliciter et secundum naturam est prior. Ad primum ergo dicendum quod vita contem­ plativa non ordinatur ad qualemcumque Dei dilectionem, sed ad perfectam. Sed vita activa necessaria est ad dilectionem proximi qua­ lemcumque. Unde Gregorius dicit, in 3 Homil. Ez. [ 1 ], sine contemplativa vita intrare possunt ad caelestem patriam qui bona quae possunt, operari non negligunt, sine activa autem intrare non possunt, si negligunt bona operari quae possunt. Ex quo etiam patet quod vita activa praecedit contemplativam, sicut id quod est commune omnium, praecedit in via genera­ tionis id quod est proprium perfectorum. Ad secundum dicendum quod a vita activa proceditur ad vitam contemplativam secun­ dum ordinem generationis, a vita autem con­ templativa reditur ad vitam activam per viam directionis, ut scilicet vita activa per contem­ plationem dirigatur. Sicut etiam per opera­ tiones acquiritur habitus, et per habitum acquisitum perfectius aliquis operatur, ut dicitur in 2 Ethic. [ 1 -2.4].

Q. 1 82, A. 4

non hanno necessariamente un ordine tra lo­ ro. Ora, la vita attiva e la contemplativa si ad­ dicono a soggetti diversi: scrive infatti Grego­ rio: «Molti di quelli che tranquillamente a­ vrebbero potuto contemplare Dio caddero so­ praffatti dalle occupazioni; e molti che sareb­ bero vissuti bene se occupati, perirono sotto la spada dell' ozio». Quindi la vita attiva non precede la contemplativa. In contrario: Gregorio insegna: «La vita attiva precede cronologicamente la contemplativa: poiché mediante le opere buone si tende alla contemplazione». Risposta: si parla di priorità in un duplice sen­ so. Primo, in ordine di natura. E in questo senso la vita contemplativa precede la vita at­ tiva, giacché si applica a cose più importanti e più buone. Essa infatti muove e dirige la vita attiva: poiché, come spiega Agostino, la ra­ gione superiore, incaricata della contempla­ zione, sta alla ragione inferiore, incaricata dell'azione, come l'uomo sta alla donna, la quale deve essere da lui comandata. - Secon­ do, una cosa può avere una priorità rispetto a noi: in quanto cioè viene prima in ordine ge­ netico. E in questo senso la vita attiva precede la contemplativa: poiché predispone ad essa, come sopra si è visto. Infatti la disposizione in ordine genetico precede la forma, che però viene prima in senso assoluto e in ordine di natura. Soluzione delle difficoltà: l . La vita contem­ plativa non è ordinata a un amore di Dio qual­ siasi, ma a un amore perfetto. Invece la vita attiva è ordinata a un qualsiasi amore del prossimo. Scrive perciò Gregorio: «Possono entrare nella patria celeste senza la vita con­ templativa tutti quelli che non trascurano di compiere il bene che possono; non possono invece entrarvi senza la vita attiva, se trascu­ rano il bene che possono compiere». li che di­ mostra che la vita attiva precede la contem­ plativa come la virtù comune precede in ordi­ ne genetico la virtù propria dei perfetti. 2. In ordine genetico si va dalla vita attiva alla contemplativa; ma dalla vita contemplativa si torna all'attiva secondo la guida e il comando, poiché la vita attiva deve essere governata dalla vita contemplativa. Come anche con gli atti si acquistano gli abiti, e con gli abiti acquisiti si agisce con maggiore perfezione. 3. Quelli che sono più inclini alle passioni per

Q. 1 82, A. 4

Confronto tra la vita attiva e la vita contemplativa

Ad tertium dicendum quod illi qui sunt proni ad passiones propter eomm impetum ad agen­ dum, sunt similiter magis apti ad vitam acti­ vam propter spiritus inquietudinem. Unde dicit Gregorius, in 6 Mor. [37], quod nonnulli ita inquieti sunt ut, si vacationem laboris habue­ rint, gravius laborent, quia tanto deteriores cordis tumultus tolerant, quanto eis licentius ad cogitationes vacat. Quidam vero habent na­ turaliter animi puritatem et quietem, per quam ad contemplationem sunt apti, qui si totaliter actionibus deputentur, detrimentum sustine­ bunt. Unde Gregorius dicit, in 6 Mor. [37], quod quorundam lwminum ita otiosae mentes sunt ut, si eos labor occupationis excipiat, in ipsa operationis inchoatione succumbant. Sed, sicut ipse postea [Mor. 6,37] subdit, saepe et pigras mentes amor ad opus e.tcitat; et in­ quietas in contemplatione timor refrenat. Unde et illi qui sunt magis apti ad activam vitam, possunt per exercitium activae ad contemplati­ vam praeparari, et illi nihilominus qui sunt ma­ gis ad contemplativam apti, possunt exercitia vitae activae subire, ut per hoc ad contempla­ tionem paratiores reddantur.

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il loro impulso ad agire sono anche più adatti alla vita attiva, data l'inquietudine del loro spi­ rito. Per cui Gregorio afferma che «alcuni so­ no così inquieti che senza lavoro si sentono a disagio: poiché il tumulto del loro cuore è tan­ to più gravoso quanto più sono liberi di pen­ sare». Altri invece hanno per natura purezza e tranquillità di spirito, il che li rende adatti alla contemplazione: e questi, se sono totalmente gettati nell'azione, ne ricevono un danno. Per cui Gregorio afferma che «ci sono degli uomi­ ni dall'animo tanto tranquillo che se è loro im­ posto il travaglio delle occupazioni, soccom­ bono ai primi passi». - Però, come egli ag­ giunge, «spesso l'amore spinge all'azione an­ che le anime tranquille, mentre il timore trat­ tiene nella contemplazione le anime inquiete». Perciò anche quelli che sono più adatti alla vita attiva possono predisporsi con l'esercizio di essa alla vita contemplativa, e quelli che sono più portati alla vita contemplativa posso­ no affrontare gli esercizi della vita attiva per prepararsi meglio alla contemplazione.

QUAESTIO 1 83

QUESTIONE 1 83

DE OFFICIIS ET STATffiUS HOMINUM IN GENERALI

GLI UFFICI E GLI STATI DELL'UOMO IN GENERALE

Consequenter considerandum est de diversi­ tate statuum et ofticiorum humanorum. Et primo considerandum est de officiis et stati­ bus hominum in generali; secundo, specialiter de statu perfcctomm [q. 184] . Circa primum quaemntur quatuor. Primo, quid faciat in ho­ minibus statum. Secundo, utrum in homi­ nibus debeant esse diversi status, sive diversa officia. Tertio, de differentia officiorum. Quar­ to, de differentia statuum.

Veniamo ora a trattare dei vari stati e uffici degli uomini. Primo, degli uffici e degli stati dell'uomo in generale; secondo, in particolare dello stato dei perfetti. Sul primo argomento esamineremo quattro problemi: l . Che cosa si richiede per costituire Io stato di un uomo? 2. Tra gli uomini ci deve essere diversità di stati, o di uffici? 3. La distinzione degli uffici; 4. La distinzione degli stati.

Articulus l Utrum status in sui ratione importet conditionem libertatis vel servitutis

alla condizione di libertà o di schiavitù?

Ad primum sic proceditur. Vìdctur quod sta­ tus in sui ratione non importet conditionem libertatis vel servitutis. l . Status enim a stando dicitur. Sed stare dici­ tur aliquis ratione rectitudinis, unde dicitur Ez. 2 [ l ],fili hominis, sta super pedes tuos; et

Sembra di no. Infatti: l . Stato deriva dal latino stare [stare in piedi]. Ma si dice che uno sta [in piedi] per la posi­ zione eretta: infatti in Ez 2 [ l ] è detto: Figlio dell'uomo, sta ' ritto sui tuoi piedi; e in Grego­ rio: «Decadono da qualsiasi stato di rettitudi-

Articolo l

D concetto di stato dice rapporto

1 633

Gli uffici e gli stati del/ 'uomo in generale

7 Mor. [37], ab omni statu rectitudinis dispereunt qui per noxia verba di­ labuntur sed rectitudinem spiritualem acquirit Gregorius dicit, in

homo per hoc quod subiicit suam voluntatem Deo, unde super illud Psalmi [32, 1 ] , rectos decet collaudatio, dicit Glossa [ord. et Lomb.; Enarr. in Ps. 2, 1 super 1 ], recti sunt qui diri­ gunt cor suum secundum voluntatem Dei. Er­ go videtur quod sola obedientia divinorum mandatorum sufficiat ad rationem status. 2. Praeterea, nomen status immobilitatem im­ portare videtur, secundum illud l ad Cor. 1 5 [58], stabiles estote et immobiles. Unde Grego­ rius dicit, Super Ez. [2,9], lapis quadrns est, et

quasi ex omni latere statum habet, qui casum in aliqua pennutatione non habet. Sed virtus est quae facit immobiliter operari, ut dicitur in 2 Ethic [4,3]. Ergo videtur quod ex omni

operatione virtuosa aliquis statum nanciscatur. 3. Praeterea, nomen status videtur ad quan­ dam altitudinem pertinere, nam ex hoc aliquis stat quod in altum erigitur. Sed per diversa of­ fida aliquis fit altior altero. Similiter etiam per gradus vel ordines diversos diversimode homines in quadam altitudine constituuntur. Ergo sola diversitas graduum vel ordinum vel officiorum sufficit ad diversificandum statum. Sed contra est quod in Decretis, Caus. 2, q. 6 [Decretum, p. 2, causa 2, q. 6, can. 40], dicitur,

si quando in causa capitali vel causa status inte1pellatum fuerit non per exploratores, sed per seipsos est agendum, ubi causa status ap­ pellatur pertinens ad libertatem vel ad servitu­ tem. Ergo videtur quod non variet statum ho­ minis nisi id quod pertinet ad libertatem vel servitutem. Respondeo dicendum quod status, proprie lo­ quendo, significat quandam positionis diffe­ rentiam secundum quam aliquis disponitur secundum modum suae naturae, cum quadam irnmobilitate. Est enim naturale homini ut ca­ put eius in superiora tendat, et pedes in terra firmentur, et cetera membra media convenien­ ti ordine disponantur, quod quidem non acci­ dit si homo iaceat vel sedeat vel accumbat, sed solum quando erectus stat. Nec mrsus stare dicitur si moveatur, sed quando quiescit. Et inde est quod etiam in ipsis humanis actio­ nibus dicitur negotium aliquem statum habere secundum ordinem propriae dispositionis, cum quadam immobilitate seu quiete. Unde et circa homines, ea quae de facili circa eos

Q. 1 83, A. l

ne quelli che escono in parole cattive». Ora, l 'uomo acquista la sua rettitudine spirituale sottomettendo la propria volontà a Dio. Per­ ciò, a commento del Sal 32 [ l ]: Ai retti si ad­ dice la lode, la Glossa dice: «Sono retti coloro che dirigono il loro cuore secondo la volontà di Dio». Perciò sembra che basti la sola obbe­ dienza ai comandamenti di Dio per costituire uno stato. 2. n termine stato implica immobilità, secondo le parole di l Cor 1 5 [58]: Rima!Jefe stabili e immobili. E Gregorio scrive: «E una pietra quadrata, stabile [statum habens] in ogni suo lato, colui che in qualsiasi scuotimento non cade». Ma è la virtù che, secondo Aristotele, fa «operare invariabilmente». Quindi sembra che con qualsiasi atto di virtù si acquisti uno stato. 3. Il termine stato indica elevazione: poiché si dice che sta colui che è sollevato in alto. Ma uno diventa più alto con i vari uffici che rive­ ste. E così, mediante i diversi gradi e ordini, gli uomini raggiungono una data altezza. Perciò la sola diversità di gradi, di ordini o di uffici basta a creare una diversità di stato. In contrario: nel Decreto si legge: «Se uno è chiamato in giudizio per una causa capitale, ovvero di stato, deve difendersi da se stesso e non per procura»: e qui per «causa di stato» si intende la causa riguardante la libertà o la schiavitù. Quindi lo stato di un uomo non va­ ria se non mediante ciò che si riferisce alla libertà o alla schiavitù. Risposta: propriamente parlando, per stato si intende quella particolare posizione secondo la quale uno è disposto, con una certa immo­ bilità, in modo conforme alla propria natura. Infatti per l'uomo è naturale avere il capo in alto, i piedi in terra, e le altre membra ordina­ te in una conveniente posizione intennedia: il che non avviene se uno è steso, seduto o ac­ covacciato. E neppure si può dire che uno «Sta>> quando si muove, ma solo quando è fer­ mo. E così anche neli' agire umano si dice che un affare qualsivoglia ha un certo stato quan­ do in conformità alla propria disposizione ha una certa stabilità, o quiete. Quindi anche in rapporto alle persone umane non costituisce il loro stato ciò che è mutevole ed esterno, come l'essere ricchi o poveti, nobili o plebei, o altre cose del genere: per cui anche il diritto civile stabilisce che l' espulsione dal senato toglie la dignità, ma non muta lo stato. Incide invece

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Gli uffici e gli stati de/l 'uomo in generale

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variantur et extrinseca sunt, non constituunt statum, puta quod aliquis sit dives vel pauper, in dignitate constitutus vel plebeius, vel si quid aliud est huiusmodi, unde et in iure civili dicitur [Dig. l ,9,3.7] quod ei qui a senatu amovetur, magis dignitas quam status aufer­ tur. Sed solum illud videtur ad statum horni­ nis pertinere quod respicit obligationem per­ sonae horninis, prout scilicet aliquis est sui iu­ ris vel alieni, et hoc non ex aliqua causa levi vel de facili mutabili, sed ex aliquo perma­ nente. Et hoc est quod pertinet ad rationem li­ bertatis vel servitutis. Unde status pertinet proprie ad libertatem vel servitutem, sive in spiritualibus sive in civilibus. Ad primum ergo dicendum quod rectitudo, inquantum huiusmodi, non pertinet ad ratio­ nem status, sed solum inquantum est connatu­ ralis homini, simul addita quadam quiete. Un­ de in aliis animalibus non requiritur rectitudo ad hoc quod stare dicantur. Nec etiam horni­ nes stare dicuntur, quantumcumque sint recti, nisi quiescant. Ad secundum dicendum quod immobilitas non sufficit ad rationem status. Nam etiam sedens et iacens quiescunt, qui tamen non dicuntur stare. Ad tertium dicendum quod officium dicitur per comparationem ad actum; gradus autem dicitur secundum ordinem superioritatis et infe­ rioritatis; sed ad statum requiritur immobilitas in eo quod pertinet ad conditionem personae.

sullo stato solo ciò che dice rapporto a un'ob­ bligazione della persona umana: se cioè uno è padrone di sé o sottoposto ad altri, in forza di cause non già lievi e facili a mutare, ma per un diritto permanente. Ora, ciò si ricollega al concetto di libertà o di schiavitù. Perciò lo stato dice rapporto propriamente alla libertà o alla schiavitù, sia in campo religioso che in campo civile. Soluzione delle difficoltà: l . La posizione eretta non appartiene al concetto di stato co­ me tale, ma vi rientra solo in quanto è conna­ turale all'uomo, e se è unita a una certa im­ mobilità. Infatti negli altri animali non si ri­ chiede la posizione eretta perché si possa dire che «stanno». E degli uomini stessi non si può dire che «stanno», sebbene stiano eretti, se non rimangono fermi. 2. Per la nozione di stato l'immobilità non basta. Poiché anche coloro che sono seduti o distesi sono fermi, e tuttavia non «stanno». 3. L'ufficio è concepito in relazione a una funzione, e il grado dipende dalla superiorità o dall'inferiorità; ma per lo stato si richiede stabilità in ciò che riguarda la condizione personale.

Articulus 2 Utrum in Ecclesia debeat esse diversitas officiorum vel statuum

Articolo 2 Nella Chiesa ci debbono essere uffici e stati diversi?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod in Ecclesia non debeat esse diversitas officiorum vel statuum. l . Diversitas enim unitati repugnat. Sed fideles Christi ad unitatem vocantur, secundum illud Ioan. 1 7 [21-22], ut sint unum in nobis, sicut et nos unum sumus. Ergo in Ecclesia non debet esse diversitas officiorum vel statuum. 2. Praeterea, natura non facit per multa quod potest per unum facere. Sed operatio gratiae est multo ordinatior quam operatio naturae. Ergo convenientius esset quod ea quae perti­ nent ad actus gratiae, per eosdem homines adrninistrarentur, ita ut non esset in Ecclesia diversitas officiorum et statuum.

Sembra di no. Infatti: l . La diversità è incompatibile con l'unità. Ora, i Cristiani sono chiamati all'unità, secon­ do le parole di Gv 17 [21 ] : Perché siano in

noi una cosa sola, come anche noi siamo una cosa sola. Quindi nella Chiesa non ci deve essere diversità di uffici e di stati. 2. La natura non compie con più mezzi ciò che può fare con uno solo. Ma l'azione della grazia è molto più ordinata di quella della natura. Perciò sarebbe più giusto che le fun­ zioni ministeriali riguardanti la grazia fossero assolte da uomini dello stesso grado, per non produrre nella Chiesa diversità di uffici e di stati.

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Gli uffici e gli stati del/ 'uomo in generale

3. Praeterea, bonum Ecclesiae maxime vi­ detur in pace consistere, secundum illud Psal­ rni [ 1 47,3], qui posuitfines tuos pacem. Et 2 ad Cor. 1 3 [ I l ] dicitur, pacem habete, et Deus pacis erit vobiscum. Sed diversitas est impe­ ditiva pacis, quam sirnilitudo causare videtur, secundum illud Eccli. 13 [ 1 9], omne animai diligit simile sibi. Et philosophus dicit, in 7 Poi. [5,2, 1 2], quod modica differentia facit in civitate dissidium. Ergo videtur quod non oporteat in Ecclesia esse diversitatem statuum et officiorum. Sed contra est quod in Psalmo [44, I O] in lau­ dem Ecclesiae dicitur quod est circumamicta varietate, ubi dicit Glossa [ord. et Lomb.; cf. Cassiodorum, Exp. in Ps. super 44, l O] quod

doctrina apostolorum, et confessione marty­ rum, et puritate virginum et lamento poeni­ tentium, ornatur regina, idest Ecclesia. Respondeo dicendum quod diversitas statuum et officiorum in Ecclesia ad tria pertinet. Pri­ mo quidem, ad perfectionem ipsius Ecclesiae. Sicut enim in rerum naturalium ordine perfec­ tio, quae in Deo simpliciter et uniformiter invenitur, in universitate creaturarum inveniri non potuit nisi difformiter et multipliciter ita etiam plenitudo gratiae, quae in Christo sicut in capite adunatur, ad membra eius diversi­ mode redundat, ad hoc quod corpus Ecclesiae sit perfectum. Et hoc est quod apostolus dicit, ad Eph. 4 [ 1 1 - 1 2 ] , ip se dedit quosdam

quidem apostolos, quosdam autem pmphetas, alios vero Evangelistas, alios autem pastores et doctores, ad consummationem sanctorum.

- Secundo autem pertinet ad necessitatem actionum quae sunt in Ecclesia necessariae. Oportet autem ad diversas actiones diversos homines deputari, ad hoc quod expeditius et sine confusione omnia peragantur. Et hoc est quod apostolus dicit, Rom. 12 [4-5], sicut in

uno cmpore multa membra habemus, omnia autem membra non eundem actum habent, ita multi unum corpus sumus in Christo. - Tertio

hoc pertinet ad dignitatem et pulchritudinem Ecclesiae, quae in quodam ordine consistit. Unde dicitur 3 Reg. IO [4-5], quod videns

regina Saba omnem sapientiam Salomonis, et habitacula servorum et ordines ministran­ tium, non habebat ultra spiritum. Unde et apostolus dicit, 2 ad Tlm. 2 [20], quod in ma­ gna domo non solum sunt vasa aurea et argentea, sed et lignea etfictilia.

Q. 1 83, A. 2

3. Il bene della Chiesa consiste soprattutto nella pace, secondo il Sal 147 [3] : Ha messo pace nei tuoi confini. E in 2 Cor 1 3 [ 1 1 ] è detto: Vzvete in pace, e il Dio della pace sarà con voi. Ma la diversità impedisce la pace, che è invece prodotta dalla somiglianza, come è detto in Sir 1 3 [ 19] : Ogni vivente ama il suo simile. E il Filosofo fa notare che la più picco­ la differenza può produrre un dissidio nella città. Quindi sembra che nella Chiesa non ci debba essere una diversità di stati e di uffici. In contrario: a lode della Chiesa nel Sal 44 [ I O] è detto che è avvolta in un variopinto abbigliamento, e la Glossa spiega che «la re­ gina», cioè la Chiesa, «è ornata con la dottri­ na degli apostoli, con la testimonianza dei martiri, con la purezza delle vergini e con i gemiti dei penitenti». Risposta: la diversità degli uffici e degli stati è ordinata a tre fini nella Chiesa. Primo, alla sua perfezione. Come infatti nel l ' ordine delle realtà naturali la perfezione, che in Dio è semplice e uniforme, non poté trovarsi nelle creature se non in modo difforme e moltepli­ ce, così anche la pienezza della grazia, che in Cristo è concentrata come nel capo, ridonda nelle sue membra in modi diversi, affinché il corpo della Chie�a risulti perfetto. Da cui le parole di Paolo: E lui che ha stabilito alcuni

come apostoli, altri come pmfeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per il pe1jezionamento dei santi (Ef 4, 1 1 ). - Secon­ do, questa diversità giova al compimento delle azioni necessarie alla Chiesa. Per azioni diverse bisogna infatti incaricare persone di­ verse, perché tutto sia compiuto più spedita­ mente e senza confusione. Ed è questo ap­ punto quanto Paolo dice: Come in un solo

cmpo abbiamo molte membra, e queste mem­ bra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo (Rm 1 2,4). - Terzo, ciò è

richiesto per il decoro e la bellezza della Chiesa, che risulta da un certo ordine. Per cui è detto in l Re 10 [4] che la regina di Saba,

quando vide tutta la saggezza di Salomone, gli alloggi dei suoi dignitari, l 'attività dei suoi ministri, rimase senza fiato. Per cui anche Paolo scrive che in una grande casa non vi sono soltanto vasi d'oro e d 'argento, ma anche di legno e d'argilla (2 Tm 2,20). Soluzione delle difficoltà: l . La diversità degli

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Gli uffici e gli stati de/l 'uomo in generale

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Ad primum ergo dicendum quod diversitas sta­ tuum et officiorum non impedit Ecclesiae unita­ tem, quae perficitur per unitatem fidei et caritatis et mutuae subministrationis, secundum illud apostoli, ad Eph. 4 [ 16], ex quo totum cmpus est compactum, scilicet per fidem, et connexum, scilicet per caritatem, per omnem iuncturam subministrationis, dum scilicet unus alii servit. Ad secundum dicendum quod sicut natura non facit per multa quod potest facere per unum, ita etiam non coarctat in unum id ad quod multa requiruntur, secundum illud apo­ stoli, l ad Cor. 1 2 [ 1 7], si totum corpus ocu­ lus, ubi auditus? Unde et in Ecclesia, quae est corpus Christi, oportuit membra diversificari secundum diversa officia, status et gradus. Ad tertium dicendum quod sicut in corpore naturali membra diversa continentur in unitate per virtutem spiritus vivificantis quo absceden­ te membra corporis separantur; ita etiam in corpore Ecclesiae conservatur pax diversorum membrorum virtute Spiritus Sancii, qui corpus Ecclesiae vivificat, ut habetur Ioan. 6 [64]. Unde apostolus dicit, Eph. 4 [3], solliciti servare unitatem Spiritus in vinculo pacis. Di­ scedit autem aliquis ab hac unitate Spiritus dum quaerit quae sibi sunt propria, sicut etiam in terrena civitate pax tollitur ex hoc quod cives singuli quae sua sunt quaerunt. Alioquin, per officiorum et statuum distinctionem tam mentis quam in civitate terrena magis pax conservatur, inquantum per haec plures sunt qui communicant actibus publicis. Unde et apostolus dicit, l ad Cor. 1 2 [24-25] , quod Deus sic temperavit ut non sit schisma in corpore, sedpro invicem sollicita sint membra.

stati e degli uffici non impedisce l'unità della Chiesa, che risulta dall'unità della fede, della carità e del mutuo sostentamento, secondo le parole di Paolo (Ef 4, 1 6): Da lui tutto il cmpo è ben compaginato, mediante la fede, e con­ nesso, mediante la carità, in ogni giuntura di sostentamento, cioè di mutua assistenza. 2. Come la natura non compie con molte cose ciò che può fare con una cosa soltanto, così non si restringe a una cosa sola quando se ne richie­ dono molte; dice intatti Paolo (l Cor 1 2, 17): Se il cmpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l'udi­ to? Perciò anche nella Chiesa, che è il corpo di Cristo [Ef 1 ,23], era necessaria una varietà di membri diversi per ufficio, stato e grado. 3. Come nel corpo umano le diverse membra sono unificate dalla virtù dello spirito che le vivifica, eliminato il quale le membra si dis­ sociano, così anche nel cotpo della Chiesa la pace delle diverse membra è conservata dalla virtù dello Spirito Santo che lo vivitica, come risulta da Gv 6 [64]. Per cui Paolo dice: Cer­ cate di conservare l 'unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace (Ef 4,3). Ma da questa unità uno si allontana quando cerca solo il proprio interesse: come anche nella vita civile viene a cessare la pace quando i singoli cittadini «cercano i propri vantaggi». Al contrario la diversità degli uffici e degli stati giova a conservare la pace, sia nell'ordi­ ne spirituale che in quello terreno e civile: perché così sono molti a dedicarsi agli uffici pubblici. Per cui anche Paolo dice: Dio ha composto il corpo in modo che non vi fosse disunione, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre (l Cor 1 2,24).

Articulus 3 Utrum officia distinguantur per actus

Gli uffici si distinguono per i loro atti?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod offi­ da non distinguantur per actus. l . Sunt enim infinitae diversitates humanorum actuum, tam in spiritualibus quam in tempora­ libus. Sed infinitorum non potest esse certa di­ stinctio. Ergo per diversitates acnmm non potest esse humanorum officiorum certa distinctio. 2. Praeterea, vita activa et contemplativa secun­ dum actus distinguuntur, ut dictum est [q. 1 79 a. l ] . Sed alia videtur esse distinctio officio­ rum a distinctione vitarum. Non ergo officia distinguuntur per actus.

Sembra di no. Infatti: l . La varietà degli atti umani, sia nell'ordine spirituale che in quello temporale, è infinita. Ora, non ci può essere una distinzione defini­ ta di cose infinite. Quindi dalle diversità degli atti non può desumersi una distinzione defini­ ta degli uffici umani. 2. Come sopra si è visto, la vita attiva e quella contemplativa si distinguono tra loro in base agli atti. Ma la distinzione degli uffici è diver­ sa da quella delle vite. Quindi gli uffici non si distinguono per i loro atti.

Articolo 3

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Gli uffici e gli stati del/ 'uomo in generale

3. Praeterea, ordines etiam ecclesiastici et sta­ tus et gradus per actus distingui videntur. Si ergo officia distinguantur per actus, videtur sequi quod eadem sit distinctio officiorum, graduum et statuum. Hoc autem est falsum, quia diversimode in suas partes dividuntur. Non ergo videtur quod officia distinguantur per actus. Sed contra est quod Isidorus dicit, in libro Etymol. [6, 1 9], quod officium ab efficiendo est dictum, quasi efficium, propter decorem sermonis una mutata littera. Sed efficere pertinet ad actionem. Ergo officia per actus distinguuntur. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 2], diversitas in membris Ecclesiae ad tria ordinatur, scilicet ad perfectionem, actionem et decorem. Et secundum haec tria triplex di­ stinctio diversitatis fidelium accipi potest. Una quidem per respectum ad perfectionem. Et secundum hoc accipitur differentia sta­ tuum, prout quidam sunt aliis perfectiores. Alia vero distinctio accipitur per respectum ad actionem. Et haec est distinctio officiorurn, dicuntur enim in diversis officiis esse qui sunt ad diversas actiones deputati. Alia autem, per respectum ad ordinem pulchritudinis ecclesia­ sticae. Et secundum hoc accipitur differentia graduum, prout scilicet, etiam in eodem statu vel officio, unus est alio superior. Unde et in Psalmo [47,4] dicitur, secundum aliam lit­ teram, Deus in gradibus eius cognoscetur. Ad primum ergo dicendum quod materialis diversitas humanorurn actuum est infinita. Et secundum hanc non distinguuntur offida, sed secundum formalem diversitatem, quae acci­ pitur secundum diversas species actuum; se­ cundum quam actus hominis non sunt infiniti. Ad secundum dicendum quod vita dicitur ab­ salute. Et ideo diversitas vitarum accipitur se­ cundum diversos actus qui conveniunt homini secundum seipsum. Sed efficientia, a qua su­ mitur nomen officii, ut dictum est [sed c.], im­ portat actionem tendentem in aliud, ut dicitur in 9 Met. [8,8,9]. Et ideo offida distinguuntur proprie secundum actus qui referuntur ad alios, sicut dicitur doctor habere officium, vel iudex, et sic de aliis. Et ideo Isidorus dicit [Etymol. 6, 1 9] quod officium est ut quisque illa agat quae nulli officiant, id est noceant, sed prosint omnibus. Ad tertium dicendum quod diversitas statuum,

Q. 1 83, A. 3

3. Gli ordini sacri, gli stati e i gradi si distin­ guono anch'essi per i loro atti. Se quindi gli uffici si distinguessero in base agli atti, sarebbe identica la distinzione degli uffici, dei gradi e degli stati. Ma ciò è falso: poiché essi si divido­ no diversamente nelle specie rispettive. Quindi non sembra che gli uffici si distinguano per i loro atti. In contrario: Isidoro scrive che «officium deri­ va da efficere, e sta per efficium, con il cam­ biamento di una lettera per eufonia». Ora, ef­ ficere [fare] si riferisce all'operazione. Quindi gli uffici si distinguono per i loro atti. Risposta: come si è detto, le diversità esistenti tra i membri della Chiesa sono ordinate a questi tre fini: alla perfezione, all'azione e al decoro di essa. E secondo queste tre cose si hanno tre tipi di distinzione tra i fedeli . La ptima si riferisce alla perfezione. E in base a questa si ha la differenza di stati in quanto essi sono l ' uno più perfetto dell'altro. La seconda si riferisce invece ali' azione, ossia alle funzioni. E questa è la distinzione propria degli uffici: poiché quanti sono incaricati di funzioni diverse occupano uffici diversi. La terza distinzione si riferisce infine alla bellez­ za della Chiesa. E in base a questa si ha la differenza dei gradi: in quanto cioè anche nel­ l' identico stato o ufficio una persona è supe­ tiore all' altra. Per cui anche nel Sal 47 [4] in un'altra versione [LXX] è detto: Dio sarà co­ nosciuto nei gradi di Sion. Soluzione delle difficoltà: l . Le distinzioni materiali degli atti umani sono infinite, ma non distinguono i vari uffici; questi invece sono distinti secondo le diversità formali pro­ prie delle diverse specie degli atti, che non so­ no infinite. 2. «Vita>> è un termine assoluto [e non corre­ lativo]. Quindi la diversità fra i generi di vita è desunta in base ai diversi atti che si addicono all'uomo considerato in se stesso. Invece l'ef­ ficienza, da cui si desume, secondo le spiega­ zioni date, il termine ufficio, implica l'idea di un atto ordinato ad altri: ed è in questo senso che ha un ufficio il maestro, il giudice e così via. Per questo Isidoro afferma che l'ufficio consiste «nel compiere cose che non danneg­ giano nessuno, ma giovano a tutti». 3. La distinzione degli stati, degli uffici e dei gradi è desunta da punti di vista diversi, come si è visto. Tuttavia si danno delle coincidenze:

Q. 1 83, A. 3

Gli uffici e gli stati de/l 'uomo in generale

officiorum et graduum secundum diversa su­ mitur, ut dictum est [in co.]. Contingit tamen quod ista tria in eodem concurrant, puta, cum aliquis deputatur ad aliquem actum altiorem, simul ex hoc habet et officium et gradum; et ulterius quandoque perfectionis statum, prop­ ter actus sublimitatem sicut patet de episcopo. Ordines autem ecclesiastici specialiter distin­ guuntur secundum officia divina, dicit enim Isidorus, in libro Etymol. [6, 1 9] , officiorum

plwima genera sunt, sed praecipuum illud est quod in sacris divinisque rebus habetur. Articulus 4 Utrum differentia statuum attendatur secundum incipientes, proficientes et perfectos Ad quartum sic proceditur. Videtur quod diffe­ rentia statuum non attendatur secundum inci­ pientes, proficientes et pertèctos. l . Diversorwn enim diversae sunt species et differentiae. Sed secundum hanc differentiam i nchoation i s , profectus et perfectionis, dividuntur gradus caritatis, ut supra [q. 24 a 9] habitum est, cum de caritate ageretur. Ergo videtur quod secundum hoc non sit accipienda differentia statuum. 2. Praeterea, status, sicut dictum est [a. 1], re­ spicit conditionem servitutis vel libertatis. Ad quam non videtur pertinere praedicta differen­ tia incipientium, proficientium et pertèctorum. Ergo inconvenienter status per ista dividitur. 3. Praeterea, incipientes, proficientes et perfecti distingui videntur secundum magis et minus, quod videtur magis pertinere ad rationem gra­ dus. Sed alia est divisio graduum et statuum, ut supra [a. 3] dictum est. Non ergo convenienter dividitur status secundum incipientes, profi­ cientes et perfectos. Sed contra est quod Gregorius dicit, in Mor. [24, 1 1], tres sunt modi conversorum, inchoa­ tio, medietas atque peifectio. Et Super Ez. [2,3] dicit quod alia sunt virtutis e.xordia, aliud

profectus, aliud peifectio.

Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. l ] dictum est, status libertatem respicit vel servitu­ tem. Invenitur autem in rebus spiritualibus duplex servitus et duplex libertas. Una quidem est servitus peccati, altera vero est servitus iustitiae; similiter etiam est duplex libertas, una quidem a peccato, alia vero a iustitia; ut patet

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quando uno, p. es., è deputato a una funzione superiore, ottiene simultaneamente un nuovo ufficio e un nuovo grado, e talora anche un nuovo stato di perfezione per la sublimità del­ le nuove funzioni, come è evidente nel caso dei vescovi. Gli ordini ecclesiastici invece si distinguono secondo gli uffici sacri; scrive in­ fatti Isidoro: «Ci sono molti generi di uffici, ma i l principale è quello riguardante le cose sacre e divine».

Articolo 4

È la distinzione tra principianti, proficienti e perfetti a produrre la differenza degli stati?

Sembra di no. Infatti: l . «Per generi diversi sono diverse le specie e le differenze». Ora, questa differenza tra inizio, progresso e perfezione serve a distinguere i gradi della carità, come sopra si è visto. Quindi sembra che essa non serva a distinguere i vari stati. 2. Come si è detto, lo stato ha riferimento alla condizione personale di schiavitù o di libertà, sulla quale non sembra incidere la suddetta dif­ ferenza tra incipienti, proficienti e perfetti. Quindi non è giusto distinguere gli stati basan­ dosi su di essa. 3. I principianti, i proficienti e i perfetti si distinguono tra loro come il più dal meno: il che sembra riferirsi piuttosto alle differenze di grado. Ma abbiamo già visto che la divisione dei gradi è diversa da quella degli stati. Quindi non è logico distinguere i vari stati seguendo la distinzione tra incipienti, proficienti e perfetti. In contrario: Gregorio dice: «Triplice può es­ sere la condizione dei convertiti: l'inizio, lo sta­ to intermedio e la perfezione». E altrove affer­ ma che «altra cosa è il principio, altra il pro­ gresso e altra la pertezione della virtù». Risposta: lo stato è concepito, come si è detto, in relazione alla libertà o alla schiavitù. Ora, nell'ordine spirituale si riscontrano due tipi di libertà e di schiavitù. C'è una schiavitù del pec­ cato e una schiavitù della giustizia; parimenti ci sono due tipi di libertà, cioè dal peccato e dalla giustizia, come risulta dalle parole di Paolo:

Quando eravate sotto la schiavitù del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia. Ora

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Gli uffici e gli stati del/ 'uomo in generale

per apostolum, qui dicit, Rom. 6 [20,22], cum seiVi essetis peccati, liberijùistis iustitiae, nunc autem, liberati a peccato, seJVi estis facti Deo. Est autem servitus peccati vel iustitiae, cum aliquis vel ex habitu peccati ad malum inclina­ tur, vel ex habitu iustitiae ad bonum. Similiter etiam libertas a peccato est cum aliquis ab inclinatione peccati non superatur, libertas autem a iustitia est cum aliquis propter amorem iustitiae non retardatur a malo. Veruntamen, quia homo secundum naturalem rationem ad iustitiam inclinatur, peccatum autem est contra naturalem rationem, consequens est quod libertal) a peccato sit vera libertas, quae coniun­ gitur servituti iustitiae, quia per utrumque tendit homo in id quod est conveniens sibi. Et simili­ ter vera servitus est servitus peccati, cui coniun­ gitur libertas a iustitia, quia scilicet per hoc ho­ mo impeditur ab eo quod est proprium sibi. Hoc autem quod homo efficiatur servus iusti­ tiae vel peccati, contingit per humanum stu­ dium, sicut apostolus ibidem [16] dicit, cui ex­ hibetis vos seJVos ad obediendum, seJVi eius estis cui obedistis, sive peccati, ad mm1em; sive obeditionis, ad iustitiam. In omni autem hu­ mano studio est accipere principium, medium et terminum. Et ideo consequens est quod sta­ tus spiritualis servitutis et libertatis secundum tria distinguatur, scilicet secundum principium, ad quod pertinet status incipientium; et me­ dium, ad quod pertinet status proficientium; et terminum, ad quem pertinet status perfectorum. Ad primum ergo dicendum quod libertas a peccato fit per caritatem, quae d(ffunditur in cordibus nosh·is per Spiritum Sanctwn, ut dici­ tur Rom. 5 [5], et inde est quod dicitur 2 ad Cor. 3 [ 1 7], ubi Spiritus Domini, ibi libertas. Et ideo eadem est divisio caritatis, et statuum pertinentium ad spiritualem libettatem. Ad secundum dicendum quod incipientes, pro­ ficientes et perfecti, secundum quod per hoc status diversi distinguuntur, dicuntur homines non secundum quodcumque studium, sed se­ cundum studium eorum quae pertinent ad spi­ ritualem libertatem vel servitutem, ut dictum est [in co.; a. l]. Ad tertium dicendum quod, sicut prius [a. 3 ad 3] dictum est, nihil prohibet in idem con­ currere gradum et statum. Nam et in rebus mundanis illi qui sunt liberi non solum sunt alterius status quam servi, sed etiam sunt altioris gradus.

Q. 1 83, A. 4

invece, liberati dal peccato, siete diventati seJVi di Dio (Rm 6,20.22). Si ha dunque la schiavitù del peccato o della giustizia quando uno è inclinato al male da un abito peccaminoso, o è inclinato al bene dall'abito della giustizia. E così si ha la libettà dal peccato quando uno non si lascia vincere dall'inclinazione del peccato, e si ha la libertà dalla giustizia quando l'amore di essa non ritrae dal male. Siccome però l'uomo dalla sua ragione naturale è inclinato alla giustizia, mentre il peccato è contrario alla ragione, è chiaro che la libertà dal peccato è la vera libertà, che coincide con la schiavitù della giustizia: poiché con l'una e con l'altra l'uomo tende a quanto è conforme alla sua natura. Quindi la vera schiavitù è la schiavitù del peccato, che coincide con la libertà dalla giustizia: poiché così l'uomo viene a perdere ciò che propriamente gli appartiene. Ora, l'essere schiavo della giustizia o del peccato dipende dalle occupazioni personali di ciascu­ no, come dice Paolo: Se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale obbedire: sia del pec­ cato che porta alla morte, sia dell'obbedienza che conduce alla giustizia (Rm 6, 1 6). Ora, in ogni occupazione umana si può distinguere l'inizio, lo stadio intermedio e il termine. E così lo stato di servitù e di libertà spirituale può distinguersi secondo queste tre cose: secondo l'inizio, e si ha lo stato dei principianti; secon­ do lo stadio intermedio, e si ha lo stato dei pro­ fidenti; secondo il termine, e si ha lo stato dei perfetti. Soluzione delle difficoltà: l . La libertà dal pec­ cato si ottiene con la carità, che è riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, come è detto in Rm 5 [5]; e quindi è anche detto in 2 Cor 3 [17]: Dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà. Per questo la divisione del­ la carità coincide con quella degli stati relativi alla libertà spirituale. 2. Gli uomini sono detti principianti, proficienti e perfetti, distinguendosi così in vmi stati, non già in riferimento a un impegno qualsiasi, ma in riferimento alla libertà o alla schiavitù spiri­ tuale, come si è detto. 3. Come si è già notato, nulla impedisce che Io stato e il grado talora coincidano. Infatti anche nella vita civile le persone libere non solo ap­ partengono a uno stato diverso da quello degli schiavi, ma sono anche in un grado superiore.

Q. 1 84, A. l

Lo stato di perfezione in generale

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QUAESTIO 1 84 DE STATU PERFECTIONIS IN COMMUNI

QUESTIONE 1 84 LO STATO DI PERFEZIONE IN GENERALE

Deinde considerandum est de his quae perti­ nent ad statum perfectionis, ad quem alii status ordinantur. Nam consideratio officiorum, quantum quidem ad alias actus, pertinet ad le­ gispositores; quantum autem ad sacra mini­ steria, pertinet ad considerationem ordinum, de quibus in tertia parte agetur [suppl. q. 34]. Circa statum autem pertectorum triplex consi­ deratio occurrit, primo quidem, de statu perfec­ tionis in communi; secundo, de his quae perti­ nent ad perfectionem episcoporum [q. 1 85]; tertio, de his quae pertinent ad perfectionem re­ ligiosomm [q. 1 86]. - Circa primum quaemn­ tur octo. Ptimo, utmm perfectio attendatur se­ cundum caritatem. Secundo, utrum aliquis possit esse perfectus in hac vita. Tertio, utmm pertectio huius vitae consistat principaliter in consiliis, vel in praeceptis. Quarto, utrum qui­ cumque est perfectus, sit in statu perfectionis. Quinto, utrum praelati et religiosi specialiter sint in stalu perfectionis. Sexto, utrum omnes praelati sint in statu perfectionis. Septimo, quis status sit perfectior, utrum religiosorum vel episcoporum. Octavo, de comparatione religio­ sorum ad plebanos et archidiaconos.

Fermiamoci ora a trattare dello stato di perfe­ zione, al quale gli altri stati sono ordinati. In­ fatti lo studio relativo agli uffici appartiene ai giuristi, per le funzioni profane, mentre per i ministeri sacri appartiene al trattato sull'or­ dine, che svolgeremo nella Terza Parte. A proposito dunque dello stato di perfezione do­ vremo esaminare: primo, lo stato di perte­ zione in generale; secondo, la pertezione pro­ pria dei vescovi; terzo, la perfezione dei reli­ giosi. - Sul primo argomento si pongono otto quesiti: l . La perfezione si misura in base alla carità? 2. La perfezione può essere raggiunta in questa vita? 3 . La perfezione della vita presente consiste principalmente nei consigli o nei precetti? 4. Tutti i perfetti sono nello stato di perfezione? 5. I prelati e i religiosi si trovano in modo speciale nello stato di perfe­ zione? 6. Th,tti i prelati sono nello stato di per­ fezione? 7. E più perfetto lo stato dei religiosi o quello dei vescovi? 8. Confronto dei religio­ si con i pievani e gli arcidiaconi.

Articulus l Utrum perfectio christianae vitae attendatur specialiter secundum caritatem

Articolo l La perfezione della vita cristiana si misura specialmente in base alla carità?

Ad ptimum sic proceditur. Videtur quod per­ fectio christianae vitae non attendatur specia­ liter secundum caritatem. l . Dicit enim apostolus, l ad Cor. 14 [20],

Sembra di no. Infatti: l . Paolo scrive: Siate come bambini quanto

malitia autem parvuli estote, sensibus autem peifecti. Sed caritas non pertinet ad sensum, sed magis ad affectum. Ergo videtur quod pertectio christianae vitae non consistat prin­ cipaliter in caritate. 2. Praeterea, ad Eph. 6 [ 1 3] dicitur, accipite

annaturam Dei, ut possitis resistere in die malo, et in omnibus peifecti stare. De arma­ tura autem Dei subiungit [ 14. 1 6] dicens, state succincti lumbos vestros in veritate, et indulte loricam iustitiae, in omnibus sumentes scutum fidei. Ergo perfectio christianae vitae

non salurn attenditur secundum caritatem, sed etiam secundum alias virtutes.

-

a malizia, ma siate peifetti quanto ai giudizi (l Cor 14,20). Ora, la carità non va attribuita al giudizio, ma alla volontà. Perciò sembra che la perfezione della vita ctistiana non con­ sista principalmente nella carità. 2. In Ef6 [ 1 3] è detto: Prendere l'mmatura di

Dio, perché possiate resistere nel giorno mal­ vagio, ed essere peifetti in tutto. E a proposito dell'armatura si aggiunge [ 14. 1 6] : State dun­ que benje1mi, cinti ifianchi con la verità, rive­ stiti con la corazza della giustizia, tenendo sempre in mano lo scudo della fede. Quindi la

perfezione della vita cristiana non si desume solo dalla carità, ma anche dalle altre virtù. 3. Le virtù, come anche tutti gli altri abiti, sono specificate dagli atti. Ora, in Gc l [4] è

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L o stato di perfezione in generale

3. Praeterea, virtutes specificantur per actus, sicut et alii habitus. Sed lac. l [4] dicitur quod patientia opus peifectum habet. Ergo videtur quod status perfectionis attendatur magis secundum patientiam. Sed contra est quod dicitur ad Col. 3 [ 14], super omnia, caritatem habete, quae est vinculum peifectionis, quia scilicet omnes alias virtutes quodammodo ligat in unitatem perfectam. Respondeo dicendum quod unumquodque dicitur esse perfectum inquantum attingit pro­ prium finem, qui est ultima rei perfectio. Cari­ tas autem est quae unit nos Deo, qui est ulti­ mus finis humanae mentis, quia qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo, ut dicitur l Ioan. 4 [ 1 6] . Et ideo secundum caritatem specialiter attenditur perfectio vitae christianae. Ad primum ergo dicendum quod perfectio hu­ manomm sensuum praecipue in hoc videtur consistere ut in unitatem veritatis conveniant, secundum illud l ad Cor. l [10], sitis pe1jecti in eodem sensu et in eadem scientia. Hoc autem fit per caritatem, quae consensum in horninibus operatur. Et ideo etiam perfectio sensuum radicaliter in perfectione caritatis radicatur. Ad secundum dicendum quod dupliciter potest dici aliquis perfectus. Uno modo, simpliciter, quae quidem perfectio attenditur secundum id quod pertinet ad ipsam rei naturam; puta si di­ catur animai petfectum quando nihil ei deficit ex dispositione membrorum, et aliis huiusmodi quae requiruntur ad vitam animalis. Alio modo dicitur aliquid perfectum secundum quid, quae quidem pert'ectio attenditur secundum aliquid exterius adiacens, puta in albedine vel nigre­ dine, vel aliquo huiusmodi. Vita autem chri­ stiana specialiter in caritate consistit, per quam anima Deo coniungitur, unde dicitur l Ioan. 3 [ 1 4], qui non diligit, manet in morte. Et ideo secundum caritatem simpliciter attenditur per­ fectio christianae vitae, sed secundum alias vir­ tutes secundum quid. Et quia id quod est sim­ pliciter est principium et maximum respectu aliorum, inde est quod perfectio caritatis est principium respectu perfectionis quae atten­ ditur secundum alias virtutes. Ad tertium dicendum quod patientia dicitur ha­ bere opus perfectum in ordine ad caritatem, in­ quantum scilicet ex abundantia caritatis prove­ nit quod aliquis patienter toleret adversa, secun­ dum illud Rom. 8 [35], quis nos separabit a ca­ rifate Dei? Tribulatio? An angustia? et cetera.

Q. 1 84, A. l

detto: La pazienza rende l 'opera peifetta. Quindi sembra che lo stato di perfezione sia costituito piuttosto dalla pazienza. In contrario: in Col 3 [ 14] è detto: Al di sopra di tutto vi sia la carità, che è il vincolo di per­ fezione, poiché in qualche modo unisce tutte le altre virtù in una pert'etta unità. Risposta: ogni cosa è detta perfetta in quanto raggiunge il proprio fine, che è la sua ultima perfezione. Ora, è la carità che ci unisce a Dio, che è il fine ultimo dell'anima umana: poiché chi sta nell'amore dimora in Dio, e Dio dimora in lui (l Gv 4, 1 6). Perciò la pert'e­ zione della vita cristiana consiste specialmen­ te nella carità. Soluzione delle difficoltà: l . La perfezione dei giudizi umani consiste principalmente nella loro unificazione nella verità, secondo le parole di l Cor l [ 10]: Siate petfetti nei tne­ desimi giudizi e nei medesimi intenti. Ma questo è un effetto della carità, che produce il consenso tra gli uomini. Quindi la perfezione del giudizio ha la sua radice nella pert'ezione della carità. 2. Uno può e...:;sere detto perfetto in due modi. Primo, in senso assoluto: e questa pert'ezione consiste in ciò che fa parte della natura stessa di una cosa, come quando si dice che è pert'et­ to un animale al quale non manca nulla nella disposizione delle membra, o negli altri ele­ menti propri della sua vita. Secondo, una cosa può dirsi perfetta in senso relativo; e tale per­ fezione è desunta da elementi estrinseci e accidentali, come ad es. dal colore bianco o nero, o da altre cose del genere. Ora, la vita cristiana consiste essenzialmente nella carità, e solo sotto un certo aspetto nelle altre virtù, poiché in l Gv 3 [ 14] è detto: Chi non ama rimane nella morte. Perciò la perfezione della vita cristiana in senso assoluto [simpliciter] va desunta dalla carità, e in senso relativo dalle altre virtù. E poiché ciò che è in senso assolu­ to è primo e principale rispetto agli altri ele­ menti, è chiaro che la perfezione della carità è principale rispetto alla pert'ezione derivante dalle altre virtù. 3. Si dice che la pazienza rende l'opera per­ fetta in ordine alla carità: cioè in quanto l'abbondanza della carità fa sì che uno tolleri pazientemente le avversità, secondo le parole di Rm 8 [35]: Chi ci separerà dall 'amore di Cristo? Forse la tribolazione? L'angoscia?...

Q. 1 84, A. 2

Lo stato di perfezione in generale

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Articulus 2 Utrum aliquis in hac vita possit esse perfectus

Articolo 2 Si può essere perfetti in questa vita?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod nullus in hac vita possit esse perfectus. l . Dicit enim apostolus, l ad Cor. 13 [ 10], cum

Sembra di no. Infatti: l . Paolo dice: Quando ven·à ciò che è peifetto,

venerit quod pe1jectum est, evacuabitur quod ex parte est. Sed in hac vita non evacuatur

quod ex parte est, manet enim in hac vita fides et spes, quae sunt ex parte. Ergo nullus in hac vita est perfectus. 2. Praeterea, peifectum est cui nihil deest, ut dicitur in 3 Phys. [6,8]. Sed nullus est in hac vita cui non desit aliquid, dicitur enim lac. 3 [ 2], in multis offendimus omnes; et in Psalmo [ 1 38, 16] dicitur, impe1jectum meum viderunt oculi tui. Ergo nullus est in hac vita perfectus. 3. Praeterea, perfectio vitae christianae, sicut dictum est [a. 1], attenditur secundum carita­ tem, quae sub se comprehendit dilectionem Dei et proximi. Sed quantum ad dilectionem Dei, non potest aliquis perfectam caritatem in hac vita habere, quia, ut Gregorius dicit, Super Ez. [ 2,2], anwris ignis, qui hic ardere

inchoat, cum ipsum quem amar viderit, in amorem ipsius amplius ignescit. Neque etiam quantum ad dilectionem proximi, quia non possumus in hac vita omnes proximos actua­ liter diligere, etsi habitualiter eos diligamus; dilectio autem habitualis imperfecta est. Ergo videtur quod nullus in hac vita possit esse perfectus. Sed contra est quia lex divina non inducit ad impossibile. Inducit autem ad perfectionem secundum illud Matth. 5 [48], estate peifecti,

sicut et Pater vester caelestis peifectus est. Ergo videtur quod aliquis in hac vita possit esse perfectus. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1 ] , perfectio christianae vitae in caritate consistit. lmportat autem perfectio quandam universalitatem, quia, ut dicitur in 3 Phys. [6,8], peifectum est cui nihil deest, potest ergo triplex perfectio considerari. Una quidem absoluta, quae attenditur non salurn secun­ dum totalitatem ex parte diligentis, sed etiam ex parte diligibilis, prout scilicet Deus tantum diligitur quantum diligibilis est. Et talis per­ fectio non est possibilis alicui creaturae, sed competit soli Deo, in quo bonum integraliter et essentialiter invenitur. - Alia autem est

quello che è impe1jetto scomparirà (l Cor 13, 10). Ma in questa vita ciò che è imperfetto non finisce: poiché adesso rimangono la fede e la speranza, che appartengono a ciò che è imperfetto. Quindi nella vita presente nessuno può essere perfetto. 2. Secondo il Filosofo «è perfetto ciò a cui nulla manca». Ma in questa vita non c'è nes­ suno a cui non manchi qualcosa: infatti è det­ to in Gc 3 [2] : Tutti manchiamo in molte cose, e nel Sal 138 [ 1 6] : l tuoi occhi hanno visto che sono impe1jetto. Perciò in questa vita nes­ suno può essere perfetto. 3. Come si è detto, la perfezione della vita cri­ stiana consiste nella carità, che abbraccia l'amore di Dio e del prossimo. Ma rispetto al­ l'amore di Dio non si può avere la carità per­ fetta in questa vita: poiché, come dice Gre­ gorio, «il fuoco della carità, che qui inizia a bruciare, quando vedrà colui che ama divam­ perà in un amore più grande verso di lui». E neppure si può averla perfetta rispetto ali' a­ more del prossimo: poiché in questa vita non possiamo amare tutti in maniera attuale, pur amandoli in maniera abituale; ora, l'amore abituale è imperfetto. Quindi sembra che in questa vita nessuno possa essere perfetto. In contrario: la legge divina non comanda cose impossibili. Eppure essa obbliga alla perfezione, come è detto in Mt 5 [48] : Siate

pe1jetti, come è peifetto il Padre vostro che è nei cieli. Perciò sembra che nella vita presen­

te si possa essere perfetti. Risposta: la perfezione della vita cristiana consiste nella carità, come si è visto. Ora, la perfezione implica una certa universalità poi­ ché, secondo Aristotele, «è perfetto ciò a cui non manca nulla». Quindi la petfezione può essere di tre tipi. La prima è la perfezione assoluta: e in essa la carità è totale non solo rispetto a chi ama, ma anche rispetto all'og­ getto da amarsi, in quanto cioè Dio è tanto amato quanto merita di esserlo. E tale perfe­ zione è impossibile a qualsiasi creatura, ma è propria di Dio, nel quale la bontà si trova inte­ gralmente ed essenzialmente. - Il secondo

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Lo stato di perfezione in generale

perfectio quae attenditur secundum totalita­ tem absolutam ex parte diligentis, prout scilicet affectus secundum totum suum posse semper actualiter tendit in Deum. Et talis perfectio non est possibilis in via, sed erit in patria. - Tertia autem perfectio est, quae ne­ que attenditur secundum totalitatem ex parte diligibilis, neque secundum totalitatem ex parte diligentis quantum ad hoc quod semper actu feratur in Deum, sed quantum ad hoc quod excludantur ea quae repugnant motui dilectionis in Deum; sicut Augustinus dicit, in libro Octoginta trium Q. [36], quod venenum caritatis est cupiditas, peifectio nulla cupidi­ tas. Et talis perfectio potest in hac vita haberi. Et hoc dupliciter. Uno modo, inquantum ab affectu hominis excluditur omne illud quod caritati contrariatur, sicut est peccatum morta­ le. Et sine tali perfectione caritas esse non potest. Unde est de necessitate salutis. Alio modo, inquantum ab aftectu hominis excludi­ tur non solum illud quod est caritati contra­ rium, sed etiam omne illud quod impedit ne affectus mentis totaliter dirigatur ad Deum. Sine qua perfectione caritas esse potest, puta in incipientibus et proficientibus. Ad primum ergo dicendum quod apostolus ibi loquitur de perfectione patriae, quae non est in via possibilis. Ad secundum dicendum quod illi qui sunt in hac vita perfècti, in multis dicuntur offendere secundum peccata venialia, quae consequuntur ex infirmitate praesentis vitae. Et quantum ad hoc etiam habent aliquid imperfectum, per comparationem ad perfectionem patriae. Ad tertium dicendum quod sicut modus prae­ sentis vitae non patitur ut homo semper actu feratur in Deum, ita etiam non patitur quod actu feratur in omnes proximos singillatim, sed sufficit quod feratur communiter in omnes i n universali , et in singulos habitualiter et secundum animi praeparationem. - Potest autem etiam circa dilectionem proximi du­ plex petfectio attendi sicut et circa dilectio­ nem Dei. Una quidem, sine qua caritas esse non potest, ut scilicet homo nihil habeat in af­ fectu quod sit contrarium dilectioni proximi. - Alia autem, sine qua caritas inveniri potest, quae quidem attenditur tripliciter. Primo qui­ dem, secundum extensionem dilectionis, ut scilicet aliquis non solum diligat amicos et no­ tos, sed etiam extraneos, et ulterius inimicos.

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tipo di perfezione è invece secondo la totalità assoluta dalla parte di chi ama: in quanto cioè l'affetto con tutto il suo potere tende sempre attualmente verso Dio. E questa perfezione non è possibile in questa vita, ma lo sarà nella patria. - Il terzo tipo di petfezione infine non riguarda né la totalità dalla parte di chi ama, né la totalità dalla parte della realtà amata, nel senso cioè che si ami sempre Dio attualmen­ te, ma l'esclusione di quanto ripugna al moto di amore verso Dio. Poiché, come dice Ago­ stino: «Il veleno della carità è la cupidigia, e la sua perfezione è l'assenza di qualsiasi cupi­ digia». E una simile perfezione è possibile averla anche in questa vita, in due modi. Pri­ mo, escludendo dali' affetto umano tutto ciò che è incompatibile con la calità, cioè il pec­ cato mortale. E senza questa perfezione la ca­ rità non potrebbe sussistere. Essa perciò è ne­ cessaria per la salvezza. Secondo, escludendo dall'affetto umano non solo ciò che è incom­ patibile con la carità, ma anche tutto ciò che impedisce ali' affetto dell'anima di volgersi totalmente verso Dio. E la carità può esistere anche senza questa perfezione: come avviene ad es. nei principianti e nei proficienti. Soluzione delle difficoltà: l . In quel testo Paolo parla della perfezione della patria cele­ ste, che in questa vita è impossibile. 2. Si dice che in questa vita i perfetti mancano in molte cose a motivo dei peccati veniali, che derivano dalla debolezza della vita presente. E in ciò anch'essi hanno delle imperfezioni rispetto alla perfezione della patria. 3. Come la condizione della vita presente non permette ali' uomo di essere sempre teso at­ tualmente verso Dio, così non gli permette nemmeno di avere un amore attuale verso tutti gli uomini in particolare; basta però che uno ami tutti in generale, e le singole persone in maniera abituale e secondo la preparazione dell'animo. - Ma anche nella carità verso il prossimo si può distinguere, come neli' amore di Dio, una duplice perfezione. La prima, senza la quale la carità non può sussistere, consiste nell'escludere dall'affetto quanto è contrario ali' amore del prossimo. - La seconda, senza la quale la carità può ancora esistere, può essere considerata da tre punti di vista. Primo, Iispetto ali' estensione dell'amore: nel senso cioè che si amino non solo gli amici e i cono­ scenti, ma anche gli estranei, e persino i nemici.

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Lo stato di perfezione in generale

Hoc enim, ut Augustinus dicit, in Ench. [73], est perfectorum filiorum Dei. Secundo, secundum intensionem, quae ostenditur ex his quae homo propter proximum contemnit; ut scilicet homo non solum conternnat exteriora bona propter proximum, sed etiam afflictio­ nes corporales, et ulterius mortem, secundum illud Ioan. 1 5 [ 1 3], maiorem dilectionem ne­

mo habet quam ut animam suam ponat quis pro amicis suis. Tertio, quantum ad effectum

dilectionis, ut scilicet homo proxirnis impen­ dat non solum temporalia beneficia, sed etiam spiritualia, et ulterius seipsum, secundum il­ lud apostoli, 2 ad Cor. 12 [ 15], ego autem li­

bentissime impendam, et superimpendar ipse pro animabus vestris.

Questo infatti, come dice Agostino, «è pro­ prio dei perfetti figli di Dio». Secondo, rispet­ to all'intensità dell'amore: e questa risulta da ciò che si disprezza per il prossimo, nel senso cioè che l'uomo arrivi a disprezzare per il prossimo non solo i beni esterni, ma anche i patimenti del corpo, e persino la morte, se­ condo le parole di Gv 15 [ 1 3]: Nessuno ha un

amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Terzo, rispetto agli effetti di questo amore: in quanto cioè l'uomo offre al suo prossimo dei benefici non solo temporali, ma anche spirituali, e finalmente se stesso, come è detto in 2 Cor 12 [ 1 5] : Mi prodigherò

volentieri, anzi consumerò vostre anime.

me

stesso per le

Articulus 3 Utrum perfectio viae consistit in praeceptis, sed in consiliis

Articolo 3 La perfezione nella vita presente consiste nell'osservanza dei precetti?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod per­ fectio viae non consistit in praeceptis, sed in consiliis. l . Dicit enim Dominus, Matth. 19 [21], si vis

Sembra di no. Infatti: l . In Mt 1 9 [21 ] è detto: Se vuoi essere peifet­

peifectus esse, vade et vende omnia quae habes et da pauperibus, et veni, sequere me. Sed istud est consilium. Ergo perfectio attenditur secun­ dum consilia, et non secundum praecepta. 2. Praeterea, ad observantiam praeceptorum ornnes tenentur, cum sint de necessitate sa­ lutis. Si ergo perfectio christianae vitae con­ sistat in praeceptis, sequitur quod perfectio sit de necessitate salutis, et quod ornnes ad eam teneantur. Quod patet esse falsum. 3. Praeterca, perfectio christianae vitae attendi­ tur secundum caritatem, ut dictum est [a. 1]. Sed perfectio caritatis non videtur consistere in observantia praeceptorum, quia perfectionem caritatis praecedit et augmentum et inchoatio ipsius, ut patet per Augustinum, Super Canoni­ cam Ioan. [In l Ioan. tract. 9 super 4,1 8]; non autem potest caritas inchoari ante observa­ tionem praeceptorum, quia, ut dicitur Ioan. 14 [23], si quis diligit me, se1monem meum selva­ bit. Ergo petfectio vitae non attenditur secun­ dum praccepta, sed secundum consilia. Sed contra est quod dicitur Deut. 6 [5], diliges Dominum Deum tuum ex roto corde tuo. Et Lev. 1 9 [ 1 8] dicitur, diliges proximum tuum sicut teipsum. Haec autem sunt duo praecepta de quibus Dorninus dicit, Matth. 22 [40], in

to, va ', vendi quello che possiedi, dallo ai po­ veri, poi vieni e seguimi. Ma questo è un con­

siglio. Quindi la perfezione consiste nei con­ sigli e non nei precetti. 2. Ali' osservanza dei comandamenti sono te­ nuti tutti, essendo essi necessari per salvarsi. Se quindi la perfezione della vita cristiana consistesse nell'osservare i comandamenti, anch' essa sarebbe necessaria per salvarsi, e tutti vi sarebbero tenuti. n che è falso. 3. La perfezione della vita cristiana consiste nella carità, come si è visto. Ora, la perfezione della carità non consiste nell' osservanza dei comandamenti: infatti la perfezione della ca­ rità è preceduta dal suo inizio e dal suo aumento, come dimostra Agostino; ma la cari­ tà non può iniziare prima dell'osservanza dei comandamenti, poiché in Gv 14 [23] è detto:

Se uno mi ama, osserverà la mia parola.

Quindi la perfezione non consiste nell' osser­ vanza dei comandamenti, bensì dei consigli. In contrario: in Dt 6 [5] è detto: Amerai il Si­ gnore tuo Dio con tutto il cuore. E in Lv 19 [ 1 8] : Amerai il pmssimo tuo come te stesso. Ora, a proposito di questi due precetti il Si­ gnore dice: Da questi due comandamenti di­ pende tutta la Legge e i Profeti (Mt 22,40). Ora la perfezione della carità, che rende perfetta la vita cristiana, consiste nell'amare

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Lo stato di perfezione in generale

his duobus praeceptis pendet !ex et prophetae. Perfectio autem caritatis, secundum quam di­ citur vita christiana esse perfecta, attenditur secundum hoc quod Deum ex toto corde dili­ gamus et proximum sicut nos ipsos. Ergo videtur quod perfectio consistat in observantia praeceptorum. Respondeo dicendum quod perfectio dicitur in aliquo consistere dupliciter, uno modo, per se et essentialiter; alio modo, secundario et accidentaliter. Per se quidem et essentialiter consistit perfectio christianae vitae in caritate, principaliter quidem secundum dilectionem Dei, secundario autem secundum dilectionem proximi, de quibus dantur praecepta principa­ lia divinae legis, ut dictum est [sed c.; 1-11 q. 100 a. 3 ad l ; a. 2]. Non autem dilectio Dei et proximi cadit sub praecepto secundum aliquam mensuram, ita quod id quod est plus sub consilio remaneat, ut patet ex ipsa forma praecepti, quae perfectionem demonstrat, ut cum dicitur, diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo, totum enim et pe1jectum idem sunt, secundum philosophum, in 3 Phys. [6,9]; et cum dicitur, diliges proximum tuum sicut teipsum, unusquisque enim seipsum ma­ xime diligit. Et hoc ideo est quia finis prae­ cepti caritas est, ut apostolus dicit, l ad Tim. l [5], in fine autem non adhibetur aliqua men­ sura, sed solum in his quae sunt ad tinem, ut philosophus dicit, in l Poi. [3, 17]; sicut me­ dicus non adhibet mensuram quantum sanet, sed quanta medicina vel diaeta utatur ad sanandum. Et sic patet quod perfectio essen­ tialiter consistit in praeceptis. Unde Augu­ stinus dicit, in libro De perfectione iustitiae [8], cur ergo non praeciperetur homini ista peifectio, quamvis eam in hac vita nemo ha­ beat? - Secundario autem et instrumentaliter petfectio consistit in consiliis. Quae omnia, sicut et praecepta, ordinantur ad caritatem, sed aliter et aliter. Nam praecepta alia ordi­ nantur ad removendum ea quae sunt caritati contraria, cum quibus scilicet caritas esse non potest, consilia autem ordinantur ad remo­ vendum impedimenta actus caritatis, quae tamen caritati non contrariantur, sicut est ma­ trimonium, occupatio negotiorum saecula­ rium, et alia huiusmodi. Unde Augustinus di­ cit, in Ench. [ 1 2 1 ] , quaecumque mandat Deus, ex quibus unum est, non moechaberis; et quaecumque non iubentur, sed speciali

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Dio con tutto il cuore e il prossimo come noi stessi. Quindi la perfezione sembra consistere nell'osservanza dei comandamenti. Risposta: in due sensi si può dire che la perfe­ zione consiste in una data cosa: essenzial­ mente e accidentalmente. Essenzialmente la perfezione della vita cristiana consiste nella carità: in maniera principale nell' amore di Dio e in maniera secondaria nell'amore del prossimo, su di che sono dati i principali comandamenti della legge divina, come si è appena visto. Ora, l'amore di Dio e del pros­ simo non sono comandati secondo una certa misura, così da lasciare il di più come consi­ glio: come risulta dalla stessa formulazione del precetto, che mira alla perfezione: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore; infatti, secondo il Filosofo «tutto e perfetto sono la stessa cosa»; e così pure dalle parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso, poiché ciascuno ama se stesso in grado sommo. E questo per­ ché il.fine del precetto è la carità (l Tm 1 ,5), e d'altra parte la misura non si applica al fine, bensì ai mezzi, secondo l'insegnamento del Filosofo: come il medico non misura la guari­ gione da produrre, ma la meç.icina e la dieta da usarsi per la guarigione. E chiaro quindi che la perfezione consiste essenzialmente nei precetti. Per cui Agostino insegna: «Perché non comandare all' uomo questa perfezione, sebbene nessuno la possieda in questa vita?». - Secondariamente invece e strumentalmente la perfezione consiste nei consigli. I quali, co­ me anche i precetti, sono ordinati alla carità, ma in maniera diversa. Infatti i precetti distinti dalla carità sono ordinati a togliere ciò che è incompatibile con la carità, mentre i consigli sono ordinati a togliere quegli ostacoli al­ l'esercizio della carità che non sono incompa­ tibili con essa, come il matrimonio, le occu­ pazione secolari e altre cose del genere. Da cui le parole di Agostino: «Tutto ciò che Dio comanda, come non commettere adulterio, e tutto ciò che consiglia senza imposizione, come è bene per l 'uonw non toccare donna, è osservato a dovere quando è riferito all'amore di Dio, o all'amore del prossimo in ordine a Dio, sia nella vita presente che in quella futura>>. E l' Abate Mosé diceva: «l digiuni, le veglie, la meditazione delle Scritture, la nu­ dità, la plivazione di tutti gli agi non sono la perfezione, ma suoi strumenti: poiché il fine

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Lo stato di perfezione in generale

consilio monentur, ex quibus unum est, bo­ num est homini mulierem non tangere, tunc recte fiunt cum referuntur ad diligendum Deum et proximum propter Deum, et in hoc saeculo et infuturo. Et inde est quod in Colla­ tionibus Patrum [Cassianus 1 ,7] dicit abbas Moyses, ieiunia, vigiliae, meditatio Scriptura­ rum, nuditas ac privatio omnium facultatum, non pe1jectio, sed pe1jectionis instrumenta sunt quia non in ipsis consisti! disciplinae illius finis, sed per illa pervenitur adfinem. Et supra praemisit quod ad pe1jectionem carita­ tis istis gradibus conscendere nitimur. Ad primum ergo dicendum quod in illis ver­ bis Domini aliquid ponitur quasi via ad per­ fectionem, hoc scilicet quod dicitur, vade et

vende omnia quae habes et da pauperibus,

aliud autem subditur in quo perfectio consi­ stit, scilicet quod dicit, et sequere me. Unde Hieronymus dicit, Super Matth. [2 super 1 9,27], quod quia non sufficit tantum relin­ quere, Petrus iungit quod pe1jectum est, idest [Matth. 1 9,27; Mare. 1 0,28; Luc. 1 8,28] , secuti sumus te. Ambrosius autem, super illud Luc. 5 [27], sequere me, dicit [5 super 1 9,27],

sequi iubet non corporis gressu, sed mentis affectu, quod fit per caritatem. Et ideo ex ipso

modo loquendi apparet quod consilia sunt quaedam instrumenta perveniendi ad petfec­ tionem, dum dicitur, si vis peifectus esse, va­ de et vende etc., quasi dicat, hoc faciendo ad

huncfinem pervenies.

Ad secundum dicendum quod, sicut Augusti­ nus dicit, in libro De perfectione iustitiae [8], perfectio caritatis homini in hac vita praecipi­ tur, quia recte non curritur si quo currendum

est nesciatur. Quonwdo autem sciretur, si nul­ lis praeceptis ostenderetur? Cum autem id

quod cadit sub praecepto diversimode possit impleri, non efficitur transgressor praecepti aliquis ex hoc quod non optimo modo implet, sed sufficit quod quocumque modo impleat illud. Perfectio autem divinae dilectionis uni­ versaliter qtùdem cadit sub praecepto, ita quod etiam perfectio patriae non excluditur ab ilio praecepto, ut Augustinus dicit [De perfectione iustitiae 8] , sed transgressionem praecepti evadit qui quocumque modo perfectionem divinae dilectionis attingit. Est aut infimus divinae dilectionis gradus ut nihil supra eum, aut contra eum, aut aequaliter ei diligatur, a quo gradu perfectionis qui deficit, nullo modo

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del loro esercizio non consiste in essi, ma con essi si raggiunge il fine». E sopra aveva detto che «noi cerchiamo di elevarci alla perfezione della carità per mezzo di questi gradini». Soluzione delle difficoltà: l . In quelle parole del Signore bisogna distinguere due parti: la prima indica il cammino che conduce alla perfezione, espresso con la frase: Va ', vendi quello che possiedi e dallo ai poveri; la secon­ da invece forma il costitutivo della perfezione: Poi vieni e seguimi. Infatti Girolamo afferma che, «non essendo sufficiente abbandonare, Pietro aggiunge ciò che è perfetto», cioè: «Ti abbiamo seguito». E Ambrogio, spiegando l' espressione evangelica: Seguimi, scrive: «Comanda di seguirlo non con i passi del cor­ po, ma con l'affetto dell'anima>>, cioè con la carità. Perciò dalla stessa espressione evange­ lica appare che i consigli sono dei mezzi per giungere alla perfezione: «Se vuoi essere per­ tetto, va' , vendi», ecc., come se dicesse: «Fa­ cendo questo, raggiungerai questo fine». 2. Come nota Agostino, nella vita presente al­ l 'uomo è comandata l a perfezione perché «non si può correre bene se non si conosce la meta. E come potrebbe essere conosciuta se non fosse mostrata da alcun precetto?». Dal momento però che quanto è di precetto può essere eseguito in più modi, uno non diventa trasgressore per il fatto che non lo osserva nel migliore dei modi, ma basta che lo osservi in qualche maniera. Ora, la perfezione dell' amo­ re di Dio cade sotto il precetto in tutta la sua estensione, così da includere la perfezione stessa della patria, come nota Agostino; tutta­ via evita la trasgressione del precetto chiun­ que in qualche modo raggiunge la perfezione della carità verso Dio. Ora, il grado più basso dell'amore verso Dio consiste nel non amare nulla più di lui, o contro di lui, o al pari di lui: e chi non raggiunge questo grado di perfezio­ ne non osserva il precetto in alcun modo. C'è poi un grado di carità così perfetto che non può essere raggiunto in questa vita, come si è detto: e chi non lo raggiunge è chiaro che non trasgredisce il precetto. Parimenti non lo tra­ sgredisce chi non raggiunge i gradi intermedi della perfezione, purché raggiunga il grado infimo. 3. Come l'uomo fin dalla nascita ha una certa perfezione della propria natura, che è essen­ ziale alla specie, e quindi una seconda perfe-

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implet praeceptum. Est autem aliquis gradus perfectae dilectionis qui non potest impleri in via, ut dictum est [a. 2], a quo qui deficit, ma­ nifestum est quod non est transgressor prae­ cepti. Et similiter non est transgressor praecep­ ti qui non attingit ad medios petfectionis gra­ dus, dummodo attingat ad infimum. Ad tertium dicendum quod, sicut homo habet quandam perfectionem suae naturae statim cum nascitur, quae pertinet ad rationem spe­ ciei, est autem alia perfectio ad quam per aug­ mentum adducitur, ita etiam est quaedam per­ fectio caritatis pertinens ad ipsam speciem ca­ ritatis, ut scilicet Deus super omnia diligatur et nihil contra eum ametur; est autem alia perfectio caritatis, etiam in hac vita, ad quam aliquis per aliquod spirituale augmentum per­ venit, ut puta cum homo etiam a rebus licitis abstinet, ut liberius divinis obsequiis vacet.

zione a cui giunge col crescere, così esiste anche una perfezione della carità che ne costi­ tuisce la specie, e che consiste nell'amare Dio sopra tutte le cose, senza amare nulla di con­ trario a lui, e c'è una seconda perfezione della carità, anche nella vita presente, a cui si giun­ ge con una crescita spirituale: come quando uno si astiene anche da certe cose lecite per attendere più liberamente al servizio di Dio.

Articulus 4 Utrum quicumque est perfectus, sit in statu perfectionis

Articolo 4 I perfetti sono tutti nello stato di perfezione?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod qui­ cumque est perfectus, sit in statu perfectionis. l . Sicut enim per augmentum corporale perve­ nitur ad perfectionem corporalem, ita per aug­ mentum spirituale pervenitur ad perfectionem spiritualem, ut dictum est [a. 3 ad 3]. Sed post augmentum corporale aliquis dicitur esse in sta­ tu perfectae aetatis. Ergo etiam videtur quod post augmentum spirituale, cum quis iam adep­ tus est pertectionem, sit in statu pertèctionis. 2. Praeterea, eadem ratione qua aliquid move­ tur de contrario in contrarium, movetur etiam aliquid de minori ad maius, ut dicitur in 5 Phys. [2, 1 1 ] . Sed quando aliquis transmutatur de peccato ad gratiam, dicitur mutare statum, prout distinguitur status culpae et status gra­ tiae. Ergo videtur quod, pari ratione, cum aliquis proficit de minori gratia ad maiorem quousque perveniat ad perfectum, quod adi­ piscatur pedèctionis statum. 3. Praeterea, statum adipiscitur aliquis ex hoc quod a servitute liberatur. Sed per caritatem aliquis liberatur a servitute peccati, quia uni­ versa delicta operit caritas, ut dicitur Prov. l O [ 1 2] . Sed perfectus dicitur aliquis secundum caritatem, ut dictum est [a. 1 ] . Ergo videtur quod quicumque habeat petfectionem, ex hoc ipso habeat perfectionis statum.

Sembra di sì. Infatti: l . Come con la crescita materiale si raggiun­ ge la perfezione del corpo, così con la crescita spirituale si raggiunge la perfezione dello spi­ rito, come sopra si è detto. Ma dopo la cresci­ ta materiale si dice che uno è nello stato del­ l'età pertètta. Perciò sembra che uno, dopo la crescita spirituale, avendo uno raggiunto la perfezione, sia nello stato di perfezione. 2. Se è un moto il passare «da uno dei contra­ ri al suo termine opposto», è un moto anche il passare «dal meno al più», come nota Aristo­ tele. Ma quando uno passa dal peccato alla grazia, muta il suo stato: poiché lo stato di colpa è distinto dallo stato di grazia. Quindi, per lo stesso motivo, quando uno progredisce da una grazia minore a una grazia più grande, fino a raggiungere la perfezione, sembra che acquisti lo stato di pertèzione. 3. Uno acquista un nuovo stato per il fatto che è liberato dalla schiavitù. Ma con la carità si è liberati dalla schiavitù del peccato: poiché la carità copre tutti i peccati (Pr 1 0, 1 2). Ora, uno è detto perfetto per la carità, come si è spiegato. Perciò sembra che chiunque abbia la perfezione, per ciò stesso abbia lo stato di perfezione. In contrario: nello stato di perfezione si trova-

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Lo stato di perfezione in generale

Sed contra est quod aliqui sunt in statu per­ fectionis qui omnino caritate et gratia carent, sicut mali episcopi aut mali religiosi. Ergo videtur quod e contrario aliqui habent perfec­ tionem vitae qui tamen non habent perfectio­ nis statum. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 183 a. l] dictum est, status proprie pertinet ad conditionem libertatis vel servitutis. Spiri­ tualis autem libertas aut servitus potest in ho­ mine attendi dupliciter, uno modo, secundum id quod interius agitur; alio modo, secundum id quod agitur exterius. Et quia, ut dicitur l Reg. 1 6 [7], homines vident ea quae parent, sed Deus intuetur cor, inde est quod secundum interiorem hominis dispositionem accipitur conditio spiritualis status i n homine per comparationem ad iudicium divinum, secun­ dum autem ea quae exterius aguntur, accipitur spiritualis status in homine per comparationem ad Ecclesiam. Et sic nunc de statibus loquimur, prout scilicet ex diversitate statuum quaedam Ecclesiae pulchritudo consurgit. - Est autem considerandum quod, quantum ad homines, ad hoc quod aliquis adipiscatur statum libertatis vel servitutis, requititur, primo quidem, aliqua obligatio vel absolutio. Non enim ex hoc quod aliquis servit alicui, efficitur servus, quia etiam liberi serviunt secundum illud Gal. 5 [ 1 3], per caritatem spiritus servite invicem. Neque etiam ex hoc quod aliquis desinit servire, eftìcitur liber, sicut patet de servis fugitivis. Sed ille proprie est servus qui obligatur ad serviendum, et ille est liber qui a servitute absolvitur. Secondo requiritur quod obligatio praedicta cum aliqua solemnitate fiat, sicut et ceteris quae inter homines obtinent perpetuam firmitatem, quaedam solemnitas adhibetur. Sic igitur et in statu perfectionis proprie dicitur esse aliquis, non ex hoc quod habet actum di­ lectionis perfectae, sed ex hoc quod obligat se perpetuo, cum aliqua solemnitate, ad ea quae sunt perfectionis. Contingit etiam quod aliqui se obligant qui non servant, et aliqui implent ad quod non se obligaverunt, ut patet Matth. 2 1 [28 sqq.] de duobus filiis, quomm unus patri dicenti, operare in vinea, respondit nolo, postea abiit; alter autem respondens ait, eo, et non ivit. Et ideo nihil prohibet aliquos esse perfectos qui non sunt in statu perfectionis, et aliquos esse in statu perfectionis qui non sunt perfecti.

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no alcuni privi totalmente della carità e della grazia: come i cattivi vescovi e i cattivi reli­ giosi. Quindi sembra al contrario che alcuni abbiano la perfezione della vita senza avere la perfezione dello stato. Risposta: come si è detto, lo stato è concepito in rapporto alla condizione di libertà o di schiavitù. Ora, la libertà e la schiavitù possono essere considerate nell'uomo sotto due aspetti: primo, dall'interno; secondo, dall'esterno. E poiché l'uomo guarda l'apparenza, mentre il Signore guarda il cuore (l Sam 1 6,7), di con­ seguenza lo stato spirituale dell'uomo rispetto alle disposizioni interiori è stabilito in base al giudizio divino, mentre il comportamento esterno detrmina lo stato spirituale dell'uomo rispetto alla Chiesa. E qui noi parliamo degli stati in questo secondo senso, cioè in quanto dalla varietà degli stati la Chiesa acquista una certa bellezza. - Ora, si deve notare che per acquistare uno stato di libertà, o di schiavitù, si richiede innanzi tutto un obbligo o un'esenzio­ ne. Infatti uno non diventa schiavo per il fatto che serve una persona, poiché servono anche le persone libere, secondo le parole di Gal 5 [ 1 3]: Mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Né per il fatto che uno cessa di servire diventa libero: come è evidente nel caso degli schiavi fuggitivi. Schiavo in senso proprio è invece colui che è obbligato a ser­ vire; ed è libero colui che è esente da questo obbligo. In secondo luogo si richiede che que­ sta obbligazione rivesta una certa solennità: come si è soliti fare in tutte le cose che fra gli uomini ottengono una perpetua stabilità. Così dunque si dice propriamente che uno si trova nello stato di perfezione non perché l'atto della sua carità è perfetto, ma perché egli si obbliga in perpetuo, con una qualche solen­ nità, a ciò che appartiene alla perfezione. Ca­ pita però che alcuni si obblighino senza poi osservare ciò che hanno promesso, mentre altri invece osservano ciò a cui non si sono obbligati: come risulta da Mt 2 1 [28], il primo figlio al padre che gli comandava: Va ' a lavo­ rare nella vigna, rispose: Non ne ho voglia, ma poi ci andò; l'altro figlio invece rispose: Sì Signore, ma non andò. Perciò nulla impedisce che vi siano dei perfetti i quali non sono nello stato di perfezione; e che al contrario nello stato di pertezione vi siano alcuni che non sono perfetti.

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Q. 1 84, A. 4

Lo stato di perfezione in generale

Ad primum ergo dicendum quod per aug­ mentum corporale aliquis proficit in his quae pertinent ad naturam, et ideo adipiscitur natu­ rae statum, praesertim quia quod est secun­ dum naturam, quodammodo immutabile est, inquantum natura determinatur ad unum. Et similiter per augmentum spirituale interius aliquis adipiscitur perfectionis statum quan­ tum ad divinum iudicium. Sed quantum ad distinctiones ecclesiasticorum statuum, non adipiscitur aliquis statum perfectionis nisi per augmentum in his quae exterius aguntur. Ad secundum dicendum quod illa etiam ratio procedit quantum ad interiorem statum. Et tamen, cum aliquis transit de peccato ad gra­ tiam, transit de servitute ad libertatem, quod non contingit per simplicem profectum gra­ tiae, nisi cum aliquis se obligat ad ea quae sunt gratiae. Ad tertium dicendum quod illa etiam ratio procedit quantum ad interiorem statum. Et tamen , l icet caritas variet conditionem spiritualis servitutis et libertatis, hoc tamen non facit caritatis augmentum.

Soluzione delle difficoltà: l . Con la crescita del corpo si progredisce nelle funzioni appar­ tenenti alla natura, per cui uno acquista lo sta­ to perfetto della sua natura: specialmente perché «quanto è secondo natura è in qualche modo immutabile», essendo la natura deter­ minata a una sola cosa. Parimenti con la crescita spirituale si acquista interiormente uno stato di perfezione rispetto al giudizio di Dio, ma rispetto alla distinzione degli stati caratteristici della Chiesa non si acquista lo stato di perfezione se non mediante la crescita nelle azioni esterne. 2. La difficoltà argomenta anch'essa in base allo stato interiore. Tuttavia, quando uno passa dal peccato alla grazia, passa realmente dalla schiavitù alla libertà; il che invece non avviene con il semplice progresso nella grazia, a meno che uno non si obblighi alle opere di questa. 3. Anche questo argomento vale per lo stato interiore. E anche qui si deve dire che, sebbene la carità cambi effettivamente la condizione di schiavitù spirituale in quella della libertà, que­ sto non lo fa invece il semplice suo aumento.

Articulus 5

Articolo 5

Utrum praelati et religiosi sint in stato perfectionis

I prelati e i religiosi sono nello stato di perfezione?

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod prae­ lati et religiosi non sint in statu perfectionis. l . Status enim perfectionis distinguitur contra statum incipientium et proficientium. Sed non sunt aliqua genera hominum deputata specia­ liter statui proficientium vel incipientium. Er­ go videtur quod nec etiam debeant esse aliqua genera hominum deputata statui perfectionis. 2. Praeterea, status exterior debet interiori sta­ tui respondere, alioquin incurritur menda­ cium, quod non solum est in falsis verbis, sed etiam in simulatis operibus, ut Ambrosius di­ cit, in quodam sermone [Serm. de temp. 30] . Sed multi sunt praelati vel religiosi qui non habent interiorem perfectionem caritatis. Si ergo omnes religiosi et praelati sunt in statu perfectionis, sequeretur quod quicumque eorum non sunt perfecti, sint in peccato mor­ tali, tanquam simulatores et mendaces. 3. Praeterea, perfectio secundum caritatem at­ tenditur, ut supra [a. l ] habitum est. Sed per­ fectissima caritas videtur esse in martyribus, secundum illud Ioan. 15 [ 1 3], maiorem dilec-

Sembra di no. Intàtti: l . Lo stato di perfezione si distingue in opposi­ zione allo stato dei principianti e dei proficien­ ti. Ora, non ci sono delle categorie di uomini deputate espressamente allo stato dei pro­ fidenti, o dei principianti. Quindi sembra che non ci debbano essere neppure delle categorie di uomini deputati allo stato di perfezione. 2. Lo stato esteriore deve corrispondere a quello interiore: altrimenti si cade nella men­ zogna, la quale, come dice Ambrogio, «non consiste solo in parole, ma anche in opere simulate». Ora, ci sono molti prelati e religio­ si che non hanno la perfezione interiore della carità. Se quindi tutti i religiosi e i prelati fos­ sero nello stato di perfezione, ne seguirebbe che quanti fra di loro non sono perfetti sareb­ bero in peccato mortale, in quanto simulatori e bugiardi. 3. La perfezione consiste nella carità, come si è visto. Ma la carità più perfetta si trova nei martiri : poiché nessuno ha un amore più

grande di questo: dare la vita per i propri

Lo stato di perfezione in generale

Q. 1 84, A. 5

tionem nemo habet quam ut animam suam ponat quis pro amicis suis. Et super illud Hebr. 12 [ 14], nondum enim usque ad san­ guinem etc., dicit Glossa [Lomb.; Aug., Serm. ad pop. 1 59, 1 ] pe1jectior in hac vita dilectio nulla est ea ad quam sancti martyres perve­ nerunt, qui contra peccatum usque ad sangui­ nem certaverunt. Ergo videtur quod magis debeat attribui perfectionis status martyribus quam religiosis et episcopis. Sed contra est quod Dionysius, in 5 cap. Ecci. Hier. [ l ,5], attribuit perfectionem episcopis tanquam pe1jectoribus. Et in 6 cap. eiusdem libri [ib. 1 ,3], attribuit perfectionem religiosis, quos vocat monachos vel therapeutas, idest, Deo famulantes, tanquam peifectis. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 4], ad statum petfectionis requirintr obliga­ tio perpetua ad ea quae sunt perfectionis, cum aliqua solemnitate. Utrumque autem horum competit et religiosis et episcopis. Religiosi enim voto se adstringunt ad hoc quod a rebus saecularibus abstineant quibus licite uti pote­ rant, ad hoc quod liberius Deo vacent, in quo consistit perfectio praesentis vitae. Unde Dionysius dicit, 6 cap. Ecci. Hier. [l ,3], de re­ ligiosis loquens, alii quidem therapeutas, idest famulos, ex Dei pum servitio etfamula­ tu, alii vero monachos ipsos nominant, ex indivisibili et singulari vita uniente ipsos, indivisibilium sanctis convolutionibus, idest contemplationibus, ad deifonnem unitatem et amabilem Deo peifectionem. Horum etiam obli gatio fit cum quadam solemnitate professionis et benedictionis. Unde et ibidem [ib. 6, 1 ,3] subdit Dionysius, propter quod, peifectam ipsis dona11S gratiam, sancta legis­ latio quadam ipsos dignata est sanctificativa invocatione. Similiter etiam et episcopi obligant se ad ea quae sunt perfectionis, pastorale assumentes officium, ad quod per­ tinet ut animam suam ponat pastor pm ovibus suis, sicut dicitur Ioan. I O [1 1]. Unde aposto­ lus dicit, l ad Tim. 6 [ 1 2], confessus es bo­ nam confessionem coram multis testibus, idest in tua ordinatione, ut Glossa [int. et Lomb.] ibidem dicit. Adhibetur etiam quaedam solemnitas consecrationis simul cum professione praedicta, secundum illud 2 ad Tim. l [6], resuscites gratiam Dei quae est in te per impositionem manuum mearum, quod Glossa [int. et Lomb.] exponit de gratia -

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amici (Gv 1 5 , 1 3). E spiegando Eb 1 2 [4]: Non avete ancora resistito fino al sangue, la Glos­ sa afferma: «In questa vita non c'è una perfe­ zione più grande di quella a cui giunsero i martiri, i quali lottarono fino al sangue contro il peccato». Perciò sembra che lo stato di per­ fezione debba essere attribuito ai martiri, piut­ tosto che ai religiosi e ai vescovi. In contrario: Dionigi attribuisce la perfezione ai vescovi quali «perfezionatori». La attribui­ sce poi anche ai religiosi, che egli chiama «monaci» o «terapeuti», cioè «servitori di Dio», in qualità di «perfetti». Risposta: come si è già visto, per lo stato di perfezione si richiede un'obbligazione perpe­ tua alle pratiche della perfezione, contratta con una certa solennità. Ora, queste due cose appartengono sia ai religiosi che ai vescovi. Infatti i religiosi si obbligano con voto ad aste­ nersi dai beni del mondo, che avrebbero po­ tuto usare lecitamente, per attendere a Dio con più libertà: e in ciò consiste la perfezione della vita presente. Perciò Dionigi afferma parlando dei religiosi: «Alcuni li chiamano terapeuti», cioè servi, «perché consacrati al servizio e al culto di Dio; altri invece li chiamano monaci, per la vita indivisibile e singolare che li unisce, mediante sante e indivisibili convoluzioni», cioè contemplazioni, «alla deiforme unità e all'amabile perfezione divina». Inoltre la loro obbligazione è fatta con la solennità della professione e della benedizione. Dionigi infatti aggiunge: «Per questo la santa legislazione, nel concedere loro la grazia perfetta, li degna di un'invocazione santificante». - Parimenti anche i vescovi si obbligano alle pratiche della perfezione con l'assumere l'ufficio pastorale, il quale esige che il pastore dia la vita per le sue pecore (Gv 10, I l). Per cui Paolo dice: Tu hai fatto la tua bella pmfessione di fede da­ vanti a molti testimoni (l Tm 6,12), cioè >. E aggiunge poco dopo: «Non anteponete la vo­ stra tranquillità alle necessità della Chiesa: poiché senza l'aiuto dei buoni disposti ad as­ sisterla nel parto, voi stessi non sareste potuti nascere». Risposta: nel considerare l'accettazione del­ l' episcopato si devono tener presenti due pun­ ti: primo, che cosa l'uomo debba desiderare di volontà propria; secondo, in che cosa uno

l'imposizione deli' episcopato?

Q. 1 85, A. 2

Lo stato dei vescovi

quidem, quid deceat hominem appetere se­ cundum propriam voluntatem; secundo, quid hominem deceat facere ad voluntatem alte­ rius. Quantum igitur ad propriam voluntatem, convenit homini principaliter insistere pro­ priae saluti, sed quod aliorum saluti intendat, hoc convenit homini ex dispositione alterius potestatem habentis, sicut ex supra [a. l ad 3] dictis patet. Unde sicut ad i nordinationem voluntatis pertinet quod aliquis proprio motu feratur i n hoc quod aliorum gubernationi praeficiatur; ita etiam ad inordinationem vo­ luntatis pertinet quod aliquis omnino, contra superioris iniunctionem, praedictum guberna­ tionis officium finaliter recuset, propter duo. Primo quidem, quia hoc repugnat caritati pro­ ximorum, quorum utilitati se aliquis debet exponere pro loco et tempore. Unde Augusti­ nus dicit, 1 9 De civ. Dei [ 1 9], quod negotium iustum suscipit necessitas caritatis. Secundo, quia hoc repugnat humilitati, per quam aliquis superiorum mandatis se subiicit. Unde Grego­ rius dici t, in Pastor. [l ,6], quod tunc ante Dei

oculos vera est humilitas, cum ad respuen­ dum hoc quod utiliter subire praecipitur, per­ tinax non est.

Ad primum ergo dicendum quod quamvis, simpliciter et absolute loquendo, vita contem­ plativa potior sit quam activa, et amor Dei quam dilectio proximi; tamen ex alia parte bonum multitudinis praeferendum est bono unius. Unde Augustinus dicit, in verbis prae­ missis [ep. 48], neque otium vestrum necessi­ tati bus Ecclesiae praeponatis. Praesertim quia et hoc ipsum ad dilectionem Dei pertinet quod aliquis ovibus Christi curam pastoralem impendat. Unde super illud Ioan. 2 1 [ 1 7], pasce oves meas, dicit Augustinus [In Ioann. tract. 1 23 super 2 1 , 1 7], sit amoris officium

pascere dominicum gregem, sicut fuit timoris indiciwn negare Pastorem. Similiter etiam praelati non sic transferuntur ad vitam acti­ vam ut contemplativam deserant. Unde Au­ gustinus dicit, 1 9 De civ. Dei [ 1 9] , quod, si

imponatur sarcina pastoralis officii, nec sic deserenda est delectatio veritatis, quae sci­

licet in contemplatione habetur. Ad secundum dicendum quod nullus tenetur obedire praelato ad aliquod illicitum, sicut patet ex his quae supra [q. 1 04 a. 5] dieta sunt de obedientia. Potest ergo contingere quod ille cui iniungitur praelationis officium, in se

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debba sottomettersi alla volontà altrui. Rispet­ to dunque alla propria volontà è giusto che uno attenda soprattutto alla propria salvezza, mentre l ' attendere alla salvezza degli altri conviene all'uomo per le disposizioni di altri che hanno in mano il potere, come risulta evidente da quanto abbiamo detto sopra. Co­ me quindi è un disordine della volontà aspira­ re al governo altrui di proprio arbitrio, così è un disordine che uno rifiuti decisamente l'uf­ ficio di governare, contro l 'imposizione del superiore. E ciò per due motivi. Primo, perché ciò è incompatibile con la carità verso il pros­ simo, per il cui bene uno deve esporre se stesso secondo le opportunità di tempo e di luogo. Per cui Agostino afferma che «la ne­ cessità della carità accetta un incarico giusto». Secondo, perché ciò è incompatibile con l ' u­ miltà, la quale fa sì che uno si sottometta al comando dei superiori. Cosicché Gregorio scrive che «l'umiltà vera dinanzi a Dio si ha quando non si è pertinaci nel rifiutare ciò che è imposto per il bene altrui». Soluzione delle difficoltà: l . Sebbene assolu­ tamente parlando la vita contemplativa sia su­ periore ali'attiva, e l'amore di Dio sia superiore all'amore del prossimo, tuttavia il bene del po­ polo va preferito al bene personale. Da cui le parole di Agostino: «Non anteponete la vostra tranquillità alle necessità della Chiesa». So­ prattutto perché la stessa cura pastorale del­ l'ovile di Cristo rientra nell'amore di Dio. In­ fatti, a proposito di Gv 2 1 [ 17]: Pasci le mie pe­ core, Agostino scrive: «Sia un ministero d'a­ more pascere il gregge del Signore; come era stato un segno di timore rinnegare il Pastore». Inoltre i prelati non sono immessi nella vita attiva così da abbandonare quella contemplati­ va. Agostino infatti afferma che «Se è imposto il peso dell'ufficio pastorale, non si deve tutta­ via tralasciare il godimento della verità», quale si ha appunto nella contemplazione. 2. Nessuno è tenuto a ubbidire al superiore in cose illecite: come appare evidente da quanto abbiamo detto a proposito dell' obbedienza. 1\tttavia può capitare che colui al quale è im­ posta una prelatura riscontri in se stesso qual­ cosa che gliene rende illecita l' accettazione. Ora, tale impedimento può essere talvolta ri­ mosso da colui stesso a cui è imposto l'uffi­ cio: se p. es. uno avesse il proposito di pecca­ re, può egli stesso abbandonarlo. E in questo

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Lo stato dei vescovi

aliquid sentiat per quod non liceat ei praela­ tionem accipere. Hoc autem impedimentum quandoque quidem removeri potest per ipsummet cui pastoralis cura iniungitur, puta si habeat peccandi propositum, quod potest deserere. Et propter hoc non excusatur quin finaliter teneatur obedire praelato iniungenti. - Quandoque vero impedimentum ex quo fit ei illicitum pastorale officium, non potest ipse removere, sed praelatus qui iniungit, puta si sit irregularis vel excommunicatus. Et tunc debet defectum suum praelato iniungenti estendere, qui si i mpedimentum removere voluerit, tenetur humiliter obedire. Unde Exodi 4, cum Moyses dixisset [ 1 0], obsecro, Domine, non sum eloquens ab heri et nudius tertius, Domi­ nus respondit [12] ad eum, ego em in ore tuo, doceboque te quid loquaris. - Quandoque vero non potest removeri impedimentum nec per iniungentem nec per eum cui iniungitur, sicut si archiepiscopus non possit super irregu­ laritate dispensare. Unde subditus non tenetur ei obedire ad suscipiendum episcopatum, vel etiam sacros ordines, si sit irregularis. Ad tertium dicendum quod accipere episco­ patum non est de se necessarium ad salutem, sed fit necessarium ex superioris praecepto. His autem quae sic sunt necessaria ad salu­ tem, potest aliquis impedimentum licite appo­ nere antequam fiat praeceptum, alioquin, non liceret alicui transire ad secundas nuptias, ne per hoc impediretur a susceptione episcopatus vel sacri ordinis. Non autem hoc liceret in his quae per se sunt de necessitate salutis. Unde beatus Marcus non contra praeceptum egit sibi digitum amputando, quamvis credibile sit ex instinctu Spiritus Sancti hoc fecisse, sine quo non licet alicui sibi manus iniicere. Qui autem votum emittit de non suscipiendo epi­ scopatum, si per hoc intendat se obligare ad hoc quod nec per obedientiam superioris praelati accipiat, illicite vovet. Si autem inten­ dit ad hoc se obligare ut, quantum est de se, episcopatum non quaerat; nec suscipiat, nisi necessitate imminente, licitum est votum, quia vovet se facturum id quod hominem fa­ cere decet.

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caso egli non è scusato dali' obbligo di ubbidi­ re in definitiva al superiore che gli impone di accettare l'incarico. - Talora invece egli non può da se stesso eliminare l'impedimento che rende illecita l'accettazione, ma può farlo il prelato che gliela impone: p. es. nel caso che uno fosse colpito da irregolarità o da scomu­ nica. Per cui egli è tenuto a manifestare la cosa al prelato che gli impone l'ufficio; e se questi preferisce togliere l'impedimento, egli è tenuto a ubbidire umilmente. Per cui in Es 4 [ l 0. 1 2] quando Mosè disse a Dio: Ti prego, Signore, io non sono un buon parlatore, il Signore gli rispose: lo sarò sulla tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire. - Talora infine l'impedimento non può essere rimosso né da chi impone l'ufficio, né da chi dovrebbe riceverlo: come nel caso in cui un arcivescovo non potesse dispensare I' irregolarità incorsa. E allora il suddito colpito da irregolarità non è tenuto a ubbidirgli accettando l'episcopato, e neppure gli ordini sacri. 3. Ricevere l'episcopato non è di per sé ne­ cessario alla salvezza, ma diventa tale per il comando del superiore. Ora, alle cose che so­ no necessarie alla salvezza in questo modo uno può mettere lecitamente un ostacolo pri­ ma che intervenga il precetto: altrimenti uno non potrebbe passare a seconde nozze, per non essere così impedito di ricevere l' episco­ pato o gli ordini sacri. Ciò invece non sarebbe lecito per quelle cose che sono di necessità per la salvezza. Per cui Marco non agì contro nessun precetto amputandosi il dito; sebbene si debba credere che egli abbia agito così per un'ispirazione dello Spirito Santo, in mancan­ za della quale non è lecito ad alcuno inflig­ gersi una menomazione. - Chi dunque fa il voto di non accettare l'episcopato, se intende con ciò obbligarsi a non sottostare all'obbe­ dienza di un prelato più alto, fa un voto illeci­ to. Se invece intende obbligarsi a non accetta­ re l'episcopato nel senso di non desiderarlo per quanto sta in lui, e di non accettarlo se non costretto dalla necessità, allora il voto è lecito, poiché egli promette di fare ciò che conviene che l'uomo faccia.

Lo stato dei vescovi

Q. 1 85, A. 3

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Articulus 3

Articolo 3

Utrurn oporteat eum qui ad episcopatum assumitur, esse ceteris meliorem

Chi è assunto all'episcopato deve essere migliore degli altri?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod opor­ teat eum qui ad episcopatum assumitur, esse ceteris meliorem. l . Dominus enim Petrum, cui commissurus erat pastorale officium, examinavit si se dili­ geret plus ceteris. Sed ex hoc aliquis melior est quod Deum plus diligit. Ergo videtur quod ad episcopatum non sit assumendus nisi ille qui est ceteris melior. 2. Praeterea, Symmachus Papa dicit [cf. De­ cretum, p. 2, causa l , q. l , can. 45 ; cf. Enno­ dium Ticinencem, Dictiones 3 ] , vilissimus

Sembra di sì. Infatti: l . A Pietro, a cui stava per affidare l'ufficio di pastore, il Signore [Gv 2 1 , 1 5] chiese se lo amava più degli altri. Ora, uno è migliore pro­ prio per il fatto che ama di più Dio. Quindi sembra che non si debba assumere ali' episco­ pato se non chi è migliore degli altri. 2. li papa Simmaco afferma: «Deve ritenersi come il più vile chi eccelle in dignità senza distinguersi per scienza e santità». Ma chi si distingue per scienza e santità è migliore. Quindi uno non deve essere assunto all' epi­ scopato se non è migliore di tutti gli altri. 3. In ogni genere di cose le inferiori sono go­ vernate dalle superiori: nel modo in cui gli es­ seri corporei sono retti da quelli spirituali e i corpi inferiori da quelli superiori, come nota Agostino. Ora, il vescovo è deputato al gover­ no degli altri . Quindi deve essere migliore degli altri. In contrario: le Decretali affermano che basta eleggere uno che sia idoneo, e non è necessa­ rio eleggere il migliore. R isposta: nell'assunzione di una persona al­ l'episcopato, altro è il dovere di chi è assunto e altro è quello di chi assume. Da parte di chi assume, o eleggendo o istituendo, si richiede che dispensi fedelmente i ministeri sacri. I quali devono essere conferiti a vantaggio del­ la Chiesa, come è detto in l Cor 14 [ 1 2] : Cer­

computandus est, nisi scientia et sanctitate praecellat, qui est dignitate praestantior. Sed ille qui praecellit scientia et sanctitate, est melior. Ergo non debet aliquis ad episcopa­ tum assumi nisi sit ceteris melior. 3. Praeterea, i n quolibet genere minora per maiora reguntur, sicut corporalia reguntur per spiritualia, et inferiora corpora per superiora, ut Augustinus dicit, in 3 De Trin [4] . Sed epi­ scopus assumitur ad regimen aliorum. Ergo debet esse ceteris meli or. Sed contra est quod Decretalis [Decretai. Gregor. IX, l ,6,32] dicit quod sufficit eligere bonum, nec oportet eligere meliorem. Respondeo dicendum quod circa assumptio­ nem alicuius ad episcopatum, aliquid est consi­ derandum ex parte eius qui assumitur, et aliquid ex parte eius qui assumit. Ex parte enim eius qui assumit, vel eligendo vel provi­ dendo, requiritur quod fideliter divina ministe­ ria dispenset. Quae quidem dispensari debent ad utilitatem Ecclesiae, secundum illud l ad Cor. 1 4 [ 1 2] , ad aedificationem Ecclesiae quaerite ut abundetis, non autem ministeria di­ vina hominibus committuntur propter eorum remunerationem, quam expectare debent in futuro. Et ideo ille qui debet aliquem eligere in episcopum, vel de eo providere, non tenetur assumere meliorem simpliciter, quod est se­ cundum caritatem, sed meliorem quoad regi­ men Ecclesiae, qui scilicet possit Ecclesiam et instruere et defendere et pacifice gubernare. Unde contra quosdam Hieronymus dicit [In Tit. super 1 ,5; cf. Decretum, p. 2, causa 8, q. l , can. 6] quod quidam non quaerunt eos in

Ecclesia columnas erigere quos plus cogno-

cate di avere in abbondanza per l'edificazio­ della Chiesa; e non vanno conferiti come

ne

un premio, poiché questo va atteso nella vita futura. Perciò chi deve eleggere o istituire un vescovo non è tenuto a scegliere il migliore in senso assoluto, cioè in base alla carità, ma il migliore per il governo di una chiesa: uno cioè che sia capace di istruirla, di difenderla e di governarla pacificamente. Da cui il rimpro­ vero di Girolamo nei riguardi di quanti «non cercano di erigere nella Chiesa quelle colonne che più potrebbero giovarle, ma quelli che es­ si amano, o che sono ad essi devoti; oppure che sono pi\:1 raccomandati da persone in­ fluenti, o ancora, per tacere motivi più igno­ bili, quelli che ottennero di diventare chierici con dei regali». Ora, ciò rientra nell'accetta­ zione di persone, che i n questo caso è u n

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Lo stato dei vescovi

scant Ecclesiae prodesse, sed quos vel ipsi amant, vel quorum sunt obsequiis deliniti, vel pro quibus maiorum quispiam rogaverit, et, ut deteriora taceam, qui ut clerici fierent mLmeri­ bus impetrarunt. Hoc autem pertinet ad accep­ tionem personarum, quae in talibus est grave peccatum. Unde super illud Iac. 2 [l], fratres mei, nolite in personarum acceptione etc., dicit Glossa [ord.; Aug., Ep. ad Hieron. 5] Augusti­ ni, si hanc distantiam sedendi et standi ad ho­ nores ecclesiasticos referamus, non est putan­ dum leve esse peccatum in personarum accep­ tione habere fidem Domini gloriae. Quis enim ferat eligi divitem ad sedem hmwris Ecclesiae, contemplo paupere instructiore et sanctiore? Ex parte autem eius qui assumitur, non requiri­ tur quod reputet se aliis meliorem, hoc enim esset superbum et praesumptuosum, sed suffi­ cit quod nihil in se inveniat per quod illicitum ei reddatur assumere praelationis officium. Un­ de licet Petrus interrogatus esset an Dominum plus ceteris diligeret, in sua responsione non se praetulit ceteris, sed respondit simpliciter quod Christum amaret. Ad primum ergo dicendum quod Dominus in Petro sciebat ex suo munere esse idoneitatem etiam quantum ad alia, Ecclesiam gubernan­ di. Et ideo eum de ampliori dilectione exami­ navit ad ostendendum quod, ubi alias inveni­ tur homo idoneus ad Ecclesiae regimen, prae­ cipue attendi debet in ipso eminentia divinae dilectionis. Ad secundum dicendum quod auctoritas illa est intelligenda quantum ad studium illius qui in dignitate est constitutus, debet enim ad hoc intendere ut talem se exhibeat ut ceteros et scientia et sanctitate praecellat. Unde Grego­ rius dicit, in Pastor. [2, 1], tantum debet actio­ nem populi actio transcendere praesulis, quantum distare solet a grege vita pastoris. Non autem sibi imputandum est si ante prae­ lationem excellentior non fuit, ut ex hoc de­ beat vilissimus reputari. Ad tertium dicendum quod, sicut dicitur l ad Cor. 1 2 [4 sqq.], divisiones gratiarum et mini­ strationum et operationum sunt. Unde nihil prohibet aliquem esse magis idoneum ad offi­ cium regiminis qui tamen non excellit in gra­ tia sanctitatis. Secus autem est in regimine or­ dinis naturalis, in quo id quod est superius naturae ordine, ex hoc ipso habet maiorem idoneitatem ad hoc quod interiora disponat.

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peccato mortale. Infatti Agostino, spiegando Gc 2 [l]: Fratelli miei, non fate distinzioni di persona... , scrive: «Se queste differenze fra lo stare in piedi e lo stare seduti sono riferite alle dignità ecclesiastiche, non si creda che l'accet­ tazione di persone in ciò che riguarda la fede del Signore della gloria sia un peccato veniale. Chi infatti può tollerare che sia dato al ricco un posto onorifico nella Chiesa disprezzando il povero più istruito e più santo?». - Dalla parte poi di chi è assunto all'episcopato non si richiede che egli consideri se stesso migliore degli altri, poiché questo sarebbe un atto di superbia e di presunzione, ma basta che egli non riscontri in se stesso nulla che possa rendergli illecita l'accettazione dell'ufficio. Pietro infatti, pur essendo interrogato dal Si­ gnore se lo amava più degli altri, nella sua ri­ sposta non si mise al di sopra degli altri, ma ri­ spose semplicemente che lo amava [ Gv 2 1 , 1 5]. Soluzione delle difficoltà: l . il Signore sapeva che Pietro, per sua concessione, era idoneo a quel compito anche quanto alle altre doti richieste per il governo della Chiesa. Perciò egli lo interrogò sull'intensità del suo amore per insegnare che, quando per il resto uno è idoneo al governo della Chiesa, si deve consi­ derare in lui specialmente la grandezza del­ l'amore di Dio. 2. Le parole riferite riguardano l'impegno di chi è costituito in dignità: egli infatti deve fare in modo di essere superiore agli altri nella scienza e nella santità. Per cui Gregorio scrive: «La condotta del vescovo deve essere tanto su­ periore a quella del popolo quanto la vita del pastore è superiore a quella del gregge». Ma non gli si può rimproverare di non essere stato migliore prima dell'episcopato, e quindi non lo si può per questo considerare il più vile. 3. Come è detto in l Cor 12 [4], vi sono di­ versità di carismi, di ministeri e di operazioni. Perciò nulla impedisce che sia più idoneo al­ l'ufficio di governare uno che non emerge nella santità. Diverso invece è il caso della su­ bordinazione nell'ordine naturale, in cui l'es­ sere che è superiore per natura ha per ciò stes­ so una maggiore capacità di influire sugli es­ seri inferiori.

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Lo stato dei vescovi Articulus

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Articolo 4

Utrum episcopus possit licite curam episcopalem deserere, ut ad religionem se transferat

Un vescovo può lecitamente abbandonare l'incarico pastorale per entrare in religione?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod epi­ scopus non possit licite curam episcopalem deserere, ut ad religionem se transferat. l . Nulli enim de statu perfectiori licet ad minus perfectum statum transire, hoc enim e s t respicere retm, quod est damnabile, secundum Domini sententiam dicentis, Luc. 9 [62] , nemo

Sembra di no. Infatti: l . Non è lecito a nessuno passare da uno stato più perfetto a uno stato meno perfetto, poiché ciò sarebbe un «volgersi indietro», meritando così la condanna del Signore: Nessuno che ha

mittens manum ad aratrum et aspiciens ret1V, aptus est regno Dei. Sed statu.� episcopalis est

messo mano ali 'aratm e poi si volge indietm è adatto per il regno di Dio (Le 9,62). Ora, lo stato episcopale è più perfetto dello stato reli­ gioso, come si è visto. Come quindi non è

perfectior quam status religionis, ut supra [q. 184 a. 7] habitum est. Ergo, sicut non licet de statu religionis redire ad saeculum, ita non licet de statu episcopali ad religionem transire. 2. Praeterea, ordo gratiae est decentior quam ordo naturae. Sed secundum naturam, non movetur idem ad contraria, puta, si lapis natura­ liter deorsum movetur, non potest naturaliter a deorsum redire in sursum. Sed secundum ordi­ nem gratiae, licet transire de statu religionis ad statum episcopalem. Ergo non licet e converso de statu episcopali redire ad statum religionis. 3. Praeterea, nihil in operibus gratiae debet esse otiosum. Sed ille qui est seme! in episcopum consecratus, perpetuo retinet spiritualem po­ testatem conferendi ordines, et alia huiusmodi faciendi quae ad episcopale officium pertinent, quae quidem potestas otiosa remanere videtur i n eo qui curam episcopalem dirnittit. Ergo videtur quod episcopus non possit curam epi­ scopalem dimittere et ad religionem transire. Sed contra, nullus cogitur ad id quod est se­ cundum se illicitum. Sed illi qui petunt ces­ sionem a cura episcopali, ad cedendum com­ pelluntur, ut patet extra, De Renunt., cap. Quidam [Decretai. Gregor. IX, 1 ,5, 1 2]. Ergo videtur quod deserere curam episcopalem non sit illicitum. Respondeo dicendum quod perfectio episco­ palis status in hoc consistit quod aliquis ex di­ vina dilectione se obligat ad hoc quod saluti proximorum insistat. Et ideo tandiu obligatur ad hoc quod curam pastoralem retineat, quan­ diu potest subditis sibi commissis proficere ad salutem. Quam quidem negligere non debet, neque propter divinae contemplationis quietem, cum apostolus propter necessitatem subdito­ rum etiam a contemplatione futurae vitae se

lecito dallo stato religioso tornare al secolo, così non è lecito dallo stato episcopale passa­ re alla vita religiosa. 2. L' ordine della grazia è più armonico del­ l' ordine della natura. Ora, nell' ordine della natura un identico essere non si muove verso direzioni opposte: se la pietra, p. es., si muove per natura verso il basso, non può per natura ritornare in alto. Ma nell'ordine della grazia è lecito passare dallo stato religioso all' episco­ pato. Quindi non è lecito passare inversamen­ te dall' episcopato allo stato religioso. 3. Nelle opere della grazia non ci deve essere nulla di inutile. Ora, chi una volta è stato con­ sacrato vescovo conserva in perpetuo il potere di conferire gli ordini e di compiere altre fun­ zioni del genere proprie dell'ufficio episcopa­ le; ma questo potere diviene inutile in colui che abbandona la cura pastorale. Perciò sem­ bra che il vescovo non possa abbandonare la cura pastorale entrando nella vita religiosa. In contrario: nessuno può essere costretto a compiere una cosa per se stessa illecita. Ora, coloro che chiedono di essere esonerati dal­ l 'episcopato sono costretti dai Canoni a rinun­ ziarvi. Quindi rinunziare alla cura pastorale non è illecito. Risposta: la perfezione dello stato episcopale consiste nel fatto che uno per amore di Dio si obbliga ad attendere alla salvezza delle ani­ me. Perciò uno è obbligato a conservare la cura pastorale fino a che è in grado di giovare alla salvezza delle anime a lui affidate. Com­ pito questo che egli non deve trdScurare nep­ pure per attendere alla contemplazione di Dio; poiché Paolo, per il bene dei fedeli, tolle­ rava con pazienza persino il differimento del­ la contemplazione propria della vita futura,

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differri patienter toleraret; secundum illud Phil. l [22 sqq.], ecce, quid eligam ignoro. Coarctor enim e duobus, desiderium habens dissolvi et esse cum Christo, multo magis melius est; permanere autem in carne est ne­ cessarium propter vas. Et hoc confidens, scio quia manebo. Neque etiam propter quaecum­ que adversa vitanda vel lucra conquirenda, quia, sicut dicitur Ioan. 10 [ 1 1], bonus pastor animam suam ponit pro ovibus suis. - Contin­ git tamen quandoque quod episcopus impedi­ tur procurare subditorum salutem, multiplici­ ter. Quandoque quidem propter proprium de­ fectum, vel conscientiae, sicut si sit homicida vel simoniacus; vel etiam corporis, puta si sit senex vel infirmus; vel etiam scientiae quae sufficiat ad curam regiminis; vel etiam irregu­ laritatis, puta si sit bigamus. Quandoque autem propter defectum subditorum, in qui­ bus non potest proficere. Unde Gregorius dicit, in 2 Dial. [3], ibi aequanimiter portandi sunt mali, ubi inveniuntur aliqui qui adiuven­ tur boni. Ubi autem omnimodo fructus de bonis deest, fit aliquando de malis labor su­ pervacuus. Unde saepe agitur in animo per­ fectorum quod, cum /aborem suum sinefructu esse considerant, in loco alia ad laborem cum fructu migrant. Quandoque autem contingit ex parte aliorum, puta cum de praelatione alicuius grave scandalum suscitatur. Nam, ut apostolus dicit, l ad Cor. 8 [ 1 3], si esca scan­ dalizat fratrem meum, non manducabo car­ nes in aetemum. Dum tamen scandalum non oriatur ex malitia aliquorum volentium fidem aut iustitiam Ecclesiae conculcare. Propter huiusmodi enim scandalum non est cura pastoralis dimittenda, secundum illud Matth. 1 5 [14], sinite illos, scilicet qui scandaliza­ bantur de veritate doctrinae Christi, caeci sunt duces caecorum. Oportet tamen quod, sicut curam regiminis assumit aliquis per providen­ tiam superioris praelati, ita etiam per eius auctoritatem, ex causis praedictis, deserat su­ sceptam. Unde extra, De Renuntiatione [cf. Decretai. Gregor. IX, 1 ,9, 1 0], dicit Innocen­ tius III, si pennas habeas quibus satagas in solitudinem avo/are, ita tamen adstrictae sunt nexibus praeceptorum ut liberum non habeas, absque nostra permissione, volatum. Soli enim Papae licet dispensare in voto perpetuo, quo quis se ad curam subditorum adstrinxit episcopatum suscipiens. -

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secondo le parole di Fil l [22 ss.]: Ecco, non so cosa scegliere. Sono messo alle strette fra queste due cose: da una parte desidem essere sciolto dal cotpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d'altra pa11e è più ne­ cessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò. E neppure deve abbandonare il suo ufficio per evitare avversità di qualsiasi genere, o per altri vantaggi; poiché il buon Pastore offre la vita per le pecore (Gv 1 0, 1 1 ). - Talvolta però può capitare che a un vescovo, in una maniera o nell'altra, sia impedito di procurare il bene dei suoi sudditi Qualche volta per un difetto personale, o di ordine morale, come in caso di omicidio o di simonia, o di ordine corporale, come in caso di vecchiaia o di infermità, o anche di scienza, nel caso che questa risul­ tasse insufficiente per il governo delle anime; ovvero a motivo di qualche irregolarità, p. es. se è stato sposato due volte. Talora invece l'impedimento può nascere da un difetto dei sudditi, ai quali egli non è più in grado di far� del bene. Da cui le parole di Gregorio: «E giusto sopportare i cattivi là dove ci sono dei buoni che è possibile aiutare. Ma dove man­ chi ogni frutto nei buoni, il travaglio che si sopporta per i cattivi diventa inutile. E così talora i perfetti, considerando la sterilità dei loro sforzi, pensano di andare altrove, per lavorare con frutto in altri luoghi». Talora infi­ ne l' impedimento può derivare da terze per­ sone: come quando l'elezione di un individuo suscita gravi scandali. Paolo diceva infatti: Se un cibo scandalizza un mio fratello, piuttosto non mangerò mai più carne (l Cor 8, 1 3). Purché tuttavia lo scandalo non sia dovuto alla malizia di chi vuole osteggiare la fede o i diritti della Chiesa. In tal caso infatti lo scan­ dalo non deve far depmTe la cura pastorale, sull'esempio di Cristo, il quale, a proposito di chi si scandalizzava della verità del suo inse­ gnamento, diceva: Lasciatelij Sono ciechi e guide di ciechi (Mt 15, 14). - E tuttavia neces­ sario che come uno riceve l'incarico da un prelato superiore, così anche nei casi indicati lo deponga con la sua autorizzazione. Da cui le parole di Innocenzo III : «Se anche hai le ali per tentare il volo verso la solitudine, tuttavia esse sono così legate dai precetti che tu non lo puoi fare liberamente senza il nostro permes­ so». Infatti solo il papa ha la facoltà di dispen-

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Lo stato dei vescovi

Ad primum ergo dicendum quod perfectio religiosorum et episcoporum secundum diver­ sa attenditur. Nam ad perfectionem religionis pertinet studium quod quis adhibet ad pro­ priam salutem. Ad perfectionem autem episco­ palis status pertinet adhibere studium ad proxi­ morum salutem. Et ideo, quandiu potest esse aliquis utilis proximorum saluti, retrocederet si ad statum religionis vellet transire, ut solum suae saluti insisteret, qui se obligavit ad hoc quod non solum suam salutem, sed etiam aliorum procuraret. Unde lnnocentius m dicit, in Decretali praedicta [Decretai. Gregor. IX, 1 ,9, 10], quod facilius indulgetur ut nwnachus

ad praesulatum ascendat, quam praesul ad monachatum descendat, sed si salutem aliorum procurare non possit, conveniens est ut suae saluti intendat. Ad secundum dicendum quod propter nullum impedimentum debet homo praetermittere studium suae salutis, quod pettinet ad reli­ gionis statum. Potest autem esse aliquod impe­ dimentum procurandae salutis alienae. Et ideo monachus potest ad statum episcopatus assu­ mi, in quo etiam suae salutis curam agere potest. Potest etiam episcopus, si impedimen­ tum alienae salutis procurandae interveniat, ad religionem transire. Et impedimento cessante, potest iterato ad episcopatum assumi, puta per correctionem subditorum, vel per sedationem scandali, vel per curationem infirmitatis, aut depulsa ignorantia per instructionem sufficien­ tem. Vel etiam, si simoniace sit promotus eo ignorante, si se ad regularem vitam, episcopatu dimisso, transtulerit, poterit iterato ad alium episcopatum promoveri. - Si vero aliquis prop­ ter culpam sit ab episcopatu depositus, et in monasterium detrusus ad poenitentiam peragendam, non potest iterato ad episcopatum revocari. Unde dicitur 7, q. l [Decretum, p. 2, causa 7, q. l , can. 45], praecipit sancta synodus

ut quicumque de pontifica/i dignitate ad mona­ chorum vitam et poenitentiae descenderit locum, nequaquam ad pontificatum resurgat. Ad tertium dicendum quod etiam in rebus naturalibus, propter impedimentum superve­ niens potentia remanet absque actu, sicut propter infirmitatem oculi cessat actus visio­ nis. Et ita etiam non est inconveniens si, prop­ ter exterius impedimentum superveniens, po­ testas episcopalis remaneat absque actu.

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sare dal voto perpetuo con cui il vescovo si è obbligato alla cura dei suoi sudditi. Soluzione delle difficoltà: l . La perfezione dei religiosi e quella dei vescovi non sono desunte dalle stesse cose. Infatti la perfezione religiosa è costituita dall'impegno personale a curare la propria salvezza, mentre la perfe­ zione dello stato episcopale implica la cura della salvezza del prossimo. Perciò fino a che un vescovo può essere utile alla salvezza del prossimo, egli si volgerebbe indietro se voles­ se entrare nello stato religioso per attendere solo alla propria salvezza, dopo essersi obbli­ gato a procurare anche quella degli altri. Per questo Innocenzo m scrive che «è più facile pennettere a un monaco di salire all'episco­ pato che a un vescovo di discendere allo stato monastico: se però egli non è più in grado di procurare la salvezza degli altri, è bene che attenda alla propria salvezza». 2. Nessun ostacolo può impedire a un uomo di attendere alla propria salvezza, che è il fine dello stato religioso. Ci possono essere invece ostacoli nel procurare la salvezza altrui. Per questo un religioso può essere assunto all' epi­ scopato, in cui è sempre in grado di curare la propria salvezza. E così pure un vescovo, se è impedito di attendere alla salvezza altrui, può passare alla vita religiosa. Venuto poi a cessa­ re l'impedimento, uno può essere assunto di nuovo all'episcopato: nel caso p. es. di resipi­ scenza dei sudditi, di cessazione dello scanda­ lo, di guarigione dalla propria infermità o di acquisto della scienza sufficiente. O ancora, nel caso che uno sia passato alla vita religiosa per essere stato promosso con simonia a pro­ pria insaputa, può essere di nuovo promosso a un'altra sede episcopale. - Se invece uno è stato deposto per colpa propria e chiuso in un monastero per fare penitenza, non può essere di nuovo promosso all'episcopato. Infatti nel Decreto si legge: «Il santo concilio ordina che chiunque dalla dignità episcopale è stato ridotto per punizione allo stato monacale, non sia mai più assunto ali' episcopato». 3. Anche nell'ordine naturale ci sono delle facoltà che rimangono prive del loro atto per il sopraggiungere di qualche impedimento: come una malattia dell'occhio può impedire l'atto della vista. E così nulla impedisce che il potere episcopale rimanga inoperoso per il sopraggiungere di un ostacolo esterno.

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Lo stato dei vescovi

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Articulus 5 Utnnn liceat episcopo, propter aliquam persecutionem, corporaliter deserere gregem sibi commissum

Articolo 5 Al vescovo è lecito per una persecuzione abbandonare fisicamente il gregge a lui affidato?

Ad quintum sic proceditur. Videtw· quod non liceat episcopo, propter aliquam persecutio­ nem, corporaliter deserere gregem sibi com­ missum. l . Dicit enim Dominus, Ioan. 1 0 [ 1 2], quod ille est mercenarius, et non vere pastm; qui videt lupum venientem, et dimittit oves et fu­ git. Dicit autem Gregorius, in Homilia [In Ev. h. 1 , 1 4], quod lupus super oves venit, cum quilibet iniustus et raptor fide/es quosque atque humiles opprimit. Si ergo propter perse­ cutionem alicuius tyranni, episcopus gregem sibi commissum corporaliter deserat, videtur quod sit mercenarius, et non pastor. 2. Praeterea, Prov. 6 [ l ] dicitur,fi/i, si sponde­ ris pro amico tuo, defixisti apud extraneum manum tuam, et postea subdit, discurre, fe­ stina, suscita amicum tuum. Quod exponens Gregorius, in Pastor. [3,4], dicit, spandere pro amico est animam alienam in periculo suae conversationis accipere. Quisquis autem ad vivendum aliis in exemplum praeponitur; non solum ut ipse vigilet, sed etiam ut amicum suscitet, admonetur. Sed hoc non potest facere si corporaliter deserat gregem. Ergo videtur quod episcopus non debeat, causa perse­ cutionis, corporaliter suum gregem deserere. 3. Praeterea, ad perfectionem episcopalis sta­ tus pertinet quod proximis curam impendat. Sed non licet ei qui est statum perfectionis professus, ut omnino deserat ea quae sunt perfectionis. Ergo videtur quod non licet epi­ scopo se corporaliter subtrahere ab executio­ ne sui officii, nisi forte ut operibus perfectio­ nis in monasterio vacet. Sed contra est quod Dominus apostolis, quo­ rum successores sunt episcopi, mandavit, Matth. l O [23] , si vos persecuti fuerint in una civitate, fugite in aliam. Respondeo dicendum quod in qualibet obliga­ tione praecipue attendi debet obligationis finis. Obligant autem se episcopi ad exequendum pastorale officium propter subditorum salutem. Et ideo, ubi subditorum salus exigit personae pastoris praesentiam, non debet pastor perso­ naliter suum gregem deserere, neque propter aliquod commodum temporale, neque etiam

Sembra di no. Infatti: l . Il Signore afferma che è un mercenario, non un vero pastore, colui che vedendo venire il lupo lascia le pecore e fugge (Gv 1 0, 1 2) . E Gregmio spiega che «il lupo viene addosso alle pecore quando un iniquo o un predone qualsiasi opprime gli umili e i fedeli». Se quindi un vescovo per la persecuzione di un ti­ ranno abbandona fisicamente il proprio gregge sembra «Un mercenario, non un pastore». 2. In Pr 6 [ I ] è detto: Figlio, se ti seifatto ga­ rante per un amico, sei caduto in potere di un estraneo. E poco dopo [3]: Va ', corri, affrettati, scuoti il tuo amico. E Gregorio commenta: «Farsi garante per un amico significa esporre al pericolo la propria vita per quella di un altro. Ora, chi è proposto all'esempio altrui è esortato a vigilare non solo su se stesso, ma anche sugli amici». Ma non si può fare questo abbandonando corporalmente i l gregge. Quindi sembra che il vescovo per una perse­ cuzione non debba abbandonare il gregge. 3. La perfezione dello stato episcopale impli­ ca la cura spirituale del prossimo. Ora, a chi professa uno stato di perfezione non è lecito abbandonare del tutto le pratiche della perfe­ zione. Perciò sembra che al vescovo non sia lecito sottrarsi fisicamente all'esercizio del proprio ufficio, se non forse per dedicarsi alle pratiche della perfezione in un monastero. In contrario: il Signore diede questo comando agli apostoli, di cui i vescovi sono i successori: Quando vi perseguiteranno in una città, fug­ gite in un 'altra (Mt 10,23). Risposta: in qualsiasi obbligazione si deve considerare soprattutto il suo fine. Ora, i ve­ scovi si obbligano ad esercitare l 'ufficio pa­ storale per il bene dei sudditi. Perciò, quando il bene dei sudditi esige la presenza del pasto­ re, questi non deve abbandonare fisicamente il gregge, né per un vantaggio temporale, né per un pericolo personale imminente: poiché il buon pastore è tenuto a dare la vita per le sue pecore [Gv 10, 1 1 ] . Se invece si può prov­ vedere efficacemente al bene dei sudditi con altre persone, in assenza del pastore, allora questi può lasciare fisicamente il gregge, sia

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propter aliquod personale periculum immi­ nens, cum bonus pastor animam suam ponere teneatur pro ovibus suis. Si vero subditorum saluti possit sufficienter in absentia pastoris per alium provideri, tunc licet pastori, vel propter aliquod Ecclesiae commodum, vel propter personae periculum, corporaliter gregem deserere. Unde Augustinus dicit, in Epistola ad Honoratum [ep. 228], fugiant de civitate in

civitatem se1vi Christi, quando eorum quisque specialiter a persecutoribus quaeritUJ; ut ab aliis, qui non ita quaeruntur, non deseratur Ecclesia. Cum autem omnium est commune periculum, hi qui aliis indigent, non deserantur ab his quibus indigent. Si enim pemiciosum est nautam in tranquillitate navem deserere, quanto magis in .fluctibus, ut dicit Nicolaus Papa [ep. Ad Huntfridum Episc.], et habetur 7, q. l [Decretum, p. 2, causa 7, q. l, can. 47]. Ad primum ergo dicendum quod ille tanquam mercenarius fugit qui commodum temporale, vel etiam salutem corporalem, spirituali saluti proximorum praeponit. Unde Gregorius dicit, in Hornilia [In Ev. h. 1 ,14], stare in periculo

ovium non potest qui in eo quod ovibus praeest, non oves diligit, sed lucnan terrenum quae1it, et ideo opponere se contra periculum trepidat, ne hoc quod diligit amittat. llle autem qui ad evitandum periculum recedit absque detri­ mento gregis, non tanquam mercenarius fugit. Ad secundum dicendum quod ille qui spondet pro aliquo, si per se implere non possit, sufficit ut per alium impleat. Unde praelatus, si habet i mpedimentum propter quod non possit personaliter curae subditorum intendere, suae sponsioni satisfacit si per alium provideat. Ad tertium dicendum quod ille qui ad episco­ patum assurnitur, assurnit statum perfectionis secundum aliquod perfectionis genus, a quo si impediatur, ad aliud genus perfectionis non te­ netur, ut scilicet necesse sit eum ad statum re­ ligionis transire. Imminet tamen sibi necessitas ut animum retineat intendendi proximorum sa­ luti si opportunitas adsit et necessitas requirat.

per un vantaggio della Chiesa, sia per sfuggi­ re a un pericolo personale. Da cui le parole di Agostino: «l servi di Cristo fuggano da una città all'altra quando uno di loro in particolare è cercato dai persecutori: in modo però che la Chiesa non sia abbandonata dagli altri che non sono perseguitati personalmente. Quando invece il pericolo è generale, chi è in necessità non deve essere abbandonato da chi ha i l dovere d i assisterlo». Infatti i l papa Niccolò I ha scritto: «Se è pericoloso che il pilota ab­ bandoni la nave nella bonaccia, lo è tanto di più durante la tempesta». Soluzione delle difficoltà: l . Fugge come un mercenario colui che antepone un vantaggio temporale, o anche la vita del corpo, al bene spiritu�e del prossimo. Scrive infatti Grego­ rio: «E incapace di rimanere in mezzo al pericolo del gregge colui che non ama le pe­ core, ma cerca un guadagno terreno», e quin­ di «teme di affrontare il pericolo per non per­ dere ciò che ama». Chi invece per evitare il pericolo si allontana senza danno per il greg­ ge non fugge come un mercenario. 2. Se colui che si fa garante per una persona non può corrispondere da se stesso, basta che cotTisponda all'impegno mediante un altro. E così, se un prelato è impedito di attendere per­ sonalmente alla cura dei suoi sudditi, si di­ simpegna se provvede con dei sostituti. 3. Chi è eletto all'episcopato assume lo stato di perfezione secondo un dato genere di per­ fezione; e se è impedito di attuare questo ge­ nere, non è tenuto a un altro tipo di perfezio­ ne, così da essere costretto a entrare nello sta­ to religioso. Egli però ha l'obbligo di conser­ vare l' intenzione di attendere alla salvezza spirituale del prossimo se le condizioni Io per­ mettono e la necessità lo richiede.

Articulus 6 Utrum episcopo liceat aliquid proprium possidere

Articolo 6 Al vescovo è lecito possedere personalmente qualcosa?

Ad sextum sic proceditur. Videtur quod epi­ scopo non liceat aliquid proprium possidere. l . Dominus enim dicit, Matth. 19 [21], si vis

Sembra di no. Infatti: l . n Signore dice: Se vuoi essere peifetto, va',

vendi quello che possiedi e dallo ai poveri; poi

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Lo stato dei vescovi

peifectus esse, vade et vende omnia quae habes et da pauperibus, et veni, sequere me, ex quo videtur quod volontaria paupertas ad per­ fectionem requiratur. Sed episcopi assumuntur ad statum perfectionis. Ergo videtur quod non liceat eis proprium possidere. 2. Praeterea, episcopi in Ecclesia tenent locum apostolorum, ut dicit Glossa [ord.; Beda, In Luc. 3 super 10,1], Luc. 10 [ 1 ] . Sed apostolis Dominus praecepit ut nihil proprium posside­ rent, secundum illud Matth. 1 0 [9], no/ire possi­

dere aurwn neque argentum, neque pecuniam in zonis vestris. Unde et Petrus, pro se et pro aliis apostolis, dicit, ecce, nos reliquimus omnia et secuti swnus te, Matth. 19 [27]. Ergo videtur quod episcopi teneantur ad huius mandati observantiam, ut nihil proprium possideant. 3. Praeterea, Hieronymus dicit, Ad Nepotia­ num [ep. 52], clems graece, latine sors appel­

latur. Pmpterea clerici dicuntur, quia de sorte Domini sunt, vel quia ipse Dominus sors, idest pars, clericorum est. Qui autem Dominum possidet, nihil extra Deum habere potest. Si autem aunun, si argentum, si possessiones, si variam supellectilem habet, cum istis pmtibus non dignatur Dominus fieri pars eius. Ergo videtur quod non solum episcopi, sed etiam clerici debeant proprio carere. Sed contra est quod dicitur 1 2, q. l [Decretum, p. 2, causa 1 2, q. I , can. I 9], episcopus de

rebus pmpriis vel acquisitis, vel quidquid de proprio habet, heredibus suis derelinquat.

Respondeo dicendum quod ad ea quae sunt su­ pererogationis nullus tenetur, nisi se specialiter ad illud voto adstringat. Unde Augustinus dicit, in Epistola ad Paulinam et Armentarium [ep.

127], quia iam vovisti, iam te obstrinxisti, aliud tibifacere non licet. Priusquam esses voti reus, liberum fuit quod esses inferior. Manifestum est autem quod vivere absque propiio supere­ rogationis est, non enim cadit sub praecepto, sed sub consilio. Unde cum, Matth. 19 [ 17], dixisset Dorninus adolescenti, si vis ad vitam ingredi, serva mandata, postea [21 ] superad­ dendo subdidit, si vis peifectus esse, vade et

vende omnia quae habes et da pauperibus.

Non autem episcopi in sua ordinatione ad hoc se obligant ut absque proprio vivant, nec etiam vivere absque proprio ex necessitate requiiitur ad pastorale officium, ad quod se obligant. Et ideo non tenentur episcopi ad hoc quod sine proprio vivant.

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vieni e seguimi (Mt 1 9,21 ). Dal che sembra che la povertà volontaiia sia un'esigenza della per­ fezione. Ma i vescovi sono chiamati allo stato di perfezione. Quindi sembra che ad essi non sia lecito possedere dei beni propii. 2. Nella Chiesa i vescovi occupano il posto degli apostoli, come dice la Glossa Ma agli apostoli il Signore comandò di non possedere nulla di propiio: Non abbiate né oro, né argen­

to, né moneta di rame nelle vostre cinture (Mt l 0,9). E Pietro di sé e degli altri apostoli dice: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito (Mt 19,27). Quindi sembra

che i vescovi siano tenuti a osservare questo precetto, di non avere cioè nulla di proprio. 3. Girolamo afferma: «Cleros è una parola che in latino equivale a sorte. E i chierici sono così chiamati perché fonnano l'eredità del Signore; oppure perché il Signore stesso è la loro ere­ dità. Ora, chi possiede il Signore non può avere nient'altro all'infuoti di lui. Se invece uno pos­ siede oro, argento, poderi e suppellettili varie, allora il Signore non si degna di essere annove­ rato fra le parti a lui spettanti». Perciò sembra che non solo i vescovi, ma anche i chierici deb­ bano fare a meno di possedere in proprio. In contrario: il Decreto stabilisce: «ll vescovo può lasciare ai suoi eredi i propri beni, acqui­ stati o posseduti in proprio». Risposta: nessuno è obbligato alle opere supe­ rerogatorie se non si è legato con un voto ad osservarle. Scrive infatti Agostino: «Dal mo­ mento che hai fatto il voto, ti sei obbligato e non ti è più lecito fare altrimenti. Prima che tu fossi legato dal voto eri invece libero di essere meno perfetto». Ora, è evidente che vivere sen­ za possedere è una cosa supererogatoria: poi­ ché non è di precetto, ma di consiglio. Per que­ sto il Signore, dopo aver detto al giovane: Se

vuoi entrare nella vita, osserva i comanda­ menti, aggiunge: Se vuoi essere pe1jetto, va ', vendi quello che possiedi e dallo ai poveri (Mt 1 9, 1 7). Ma i vescovi nella loro ordinazio­

ne non si obbligano a vivere senza una pro­ prietà personale; e ciò non è neppure stretta­ mente richiesto dall'ufficio pastorale a cui si consacrano. Perciò i vescovi non sono tenuti a vivere senza possedere in proprio. Soluzione delle difficoltà: l . La perfezione del­ la vita cristiana, come si è visto, non consiste essenzialmente nella povertà volontaria, ma questa è solo uno strumento della perfezione.

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Ad primum ergo dicendum quod, sicut supra [q. 1 84 a. 3 ad l ] habitum est, perfectio Chri­ stianae vitae non consistit essentialiter in vo­ luntaria paupertate, sed voluntaria paupertas in­ strumentaliter operatur ad perfectionem vitae. Unde non oportet quod ubi est maior pauper­ tas, ibi sit maior perfectio. Quinimmo potest esse summa perfectio cum magna opulentia, nam Abraham, cui dictum est, Gen. 1 7 [ 1 ] , ambula coram me et esto peifectus, legitur di­ ves fuisse [Gen. 1 3,2.6]. Ad secundum dicendum quod verba illa Domi­ ni tripliciter possunt intelligi. Uno modo, mysti­ ce, ut non possideamus aurum neque argentum, idest, ut praedicatores non innitantur princi­ paliter sapientiae et eloquentiae temporali; ut Hieronymus exponit [In Matth. l super 1 0, 1 0]. - Alio modo, sicut Augustinus exponit, in libro De consensu Evangelistarum [2,30], ut intelli­ gatur hoc Dominum non praecipiendo, sed magis permittendo dixisse. Permisit enim eis ut absque auro et argento et aliis sumptibus ad praedicandum irent, accepturi sumptus vitae ab his quibus praedicabant. Unde subdit [ 1 0] , digmts est enim operarius cibo suo. Ita tamen quod, si aliquis propriis sumptibus uteretur in praedicatione Evangelii, ad supererogationem pertineret, sicut Paulus de seipso dicit, l ad Cor. 9 [ 1 2. 1 5 ] . - Tertio modo, secundum quod Chrysostomus exponit [Horn. 2 in Rom. 16,3 h. 1], ut intelligatur illa Dominum discipulis prae­ cepisse quantum ad illam missionem qua mitte­ bantur ad praedicandum Iudaeis, u t per hoc exercerentur ad confidendum de virtute ipsius, qui eis absque sumptibus provideret. Ex quo tamen non obligabantur ipsi, vel successores eorum, ut absque propriis sumptibus Evange­ lium praedicarent. Nam et de Paulo legitur, 2 ad Cor. I l [8], quod ab aliis Ecclesiis stipendium accipiebat ad praedicandum Corinthiis, et sic patet quod aliquid possidebat ab aliis sibi missum. Stultum autem videtur dicere quod tot sancti pontifices, sicut Athanasius, Ambrosius, Augustinus, illa praecepta transgressi fuissent, si ad ea observanda se crederent obligari. Ad tertium dicendum quod omnis pars est mi­ nor toto. me ergo cum Deo alias partes habet, cuius studium diminuitur circa ea quae sunt Dei, dum intendit his quae sunt mundi. Sic autem non debent nec episcopi nec clerici proprium possidere, ut, dum curant propria, defectum faciant in his quae pertinent ad cultum divinum.

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Per cui non è detto che dove c'è una maggiore povertà ci sia anche una maggiore perfezione. Anzi, ci può essere una somma perfezione uni­ ta a una grande ricchezza: infatti Abramo, a cui [il Signore] disse: Cammina alla mia presenza e sii pe1jetto (Gen 17, 1), era ricco. 2. Quelle parole del Signore si possono spiega­ re in tre modi. Primo, in senso mistico: per cui il non possedere oro e argento significa che i predicatori non devono appoggiarsi principal­ mente sulla sapienza e sull'eloquenza umana, come spiega Girolamo. - Secondo, a detta di Agostino il Signore avrebbe parlato non in senso precettivo, ma permissivo. Avrebbe cioè permesso che essi andassero a predicare senza oro, argento e altri sussidi perché ricevessero il sostentamento da coloro a cui predicavano. Infatti conclude dicendo [ 1 0]: Perché l'operaio ha diritto al suo nutrimento. In modo tuttavia che, se uno nella predicazione del Vangelo spendesse del suo, farebbe un'opera superero­ gatoria, come Paolo riferisce di se stesso (l Cor 9, 1 2. 1 5). - Terzo, secondo l ' interpreta­ zione del Crisostomo il Signore avrebbe dato tali istruzioni ai discepoli per la loro missione di predicatori fra i Giudei, al fine di esercitarli a confidare nel suo aiuto, dato che li avrebbe assistiti senza provviste. Egli però non avrebbe inteso obbligare né loro né i successori a predi­ care il Vangelo facendo a meno di qualsiasi risorsa personale. Infatti si legge di Paolo (2 Cor 1 1 ,8) che, quando predicava ai Corinzi, riceveva soccorsi da altre chiese: per cui evi­ dentemente possedeva qualcosa che riceveva da altri. Sembra poi stolto affermare che dei pontefici così numerosi e santi come Atanasio, Ambrogio e Agostino avrebbero trasgredito tali precetti se avessero ritenuto di essere obbli­ gati a osservarli. 3 . Ogni parte è minore del tutto. Perciò ammet­ te assieme a Dio altre parti colui che diminui­ sce l'impegno per le cose di Dio mentre atten­ de alle cose del mondo. Ed è in questo senso che i vescovi e i chierici non devono possedere in proprio, in modo cioè da trascurare le cose attinenti al culto di Dio per curare i propri beni.

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Articulus 7 Utrum episcopi mortaliter peccent si bona ecclesiastica quae procurant, pauperibus non largiantur

Articolo 7 I vescovi peccano mortalmente non distribuendo ai poveri i beni ecclesiastici che amministrano?

Ad septimum sic proceditur. Videtur quod epi­ scopi mortaliter peccent si bona ecclesiastica quae procurant, paupetibus non largiantur. l . Dicit enim Ambrosius [Sermones, serm. 81, Domin. 8 post Pentecosten, et desumitur a Basilio, h. 3 In Luc. 12, 1 6, interprete Rufino; cf. Decretum, p. l , d. 47, can. 8], exponens illud Luc. XII, hominis cuiusdam divitis uberes jntctus ager attulit, nemo proprium dicat quod est commune, plus quam sufficiat sumptui, violenter obtentum est. Et postea subdit, neque minus est criminis habenti tollere quam, cum possis et abundas, denegare indigentibus. Sed violenter tollere alienum est peccatum mortale. Ergo episcopi mortaliter peccant si ea quae eis supersunt, pauperibus non largiantur. 2. Praeterea, Isaiae 3, super illud [ 14], rapina pauperum in domo vestra, dici t Glossa [ord.; Hieronymus, In Isaiam 2 super 3,14] Hiero­ nymi quod bona ecclesiastica sunt pauperum. Sed quicumque id quod est alterius sibi reser­ vat aut aliis dat, peccat mortaliter et tenetur ad restitutionem. Ergo, si episcopi bona ecclesia­ stica quae eis superfluunt, sibi retineant vel consanguineis vel amicis largiantur, videtur quod teneantur ad restitutionem. 3. Praeterea, multo magis aliquis potest de rebus Ecclesiae ea quae sunt sibi necessaria ac­ cipere, quam superflua congregare. Sed Hiero­ nymus dicit, in Epistola ad Damasum Papam [cf. Decretum, p. 2, causa l , q. 2, can 6; causa 16, q. l , can 68; cf. Hieronymum, Reg. Mon. 4], clericos illos conveni! Ecclesiae stipendiis sustentari quibus parentum et propinquorum nulli suffragantur; qui autem bonis parentum et opibus sustentari possunt, si quod paupe­ rum est accipiunt, sacrilegium incurrunt. Unde et apostolus dicit, l ad Tim. 5 [ 1 6], si quis fidelis habet viduas, subministret illis, et non gravetur Ecclesia, ut his quae vere viduae sunt sufficiat. Ergo multo magis episcopi mortaliter peccant si ea quae eis superfluunt de bonis ecclesiasticis, pauperibus non largiantur. Sed contra est quod plures episcopi ea quae supersunt non largiuntur pauperibus, sed expen­ dere videntur laudabiliter ad reditus ecclesiae ampliandos.

Sembra di sì. Infatti: l . Ambrogio, spiegando Le 1 2 [ 1 6]: La cam­ pagna di Wl uomo ricco aveva dato un buon raccolto, afferma: «Nessuno dica proprio ciò che è di tutti: ciò che supera le proprie esigen­ ze è una rapina». E aggiunge: «Negare all'in­ digente quando sei nell'abbondanza non è un delitto minore che rubare a chi possiede». Ma rubare è un peccato mortale. Quindi i vescovi peccano mortalmente se non elargiscono ai poveri il sovrappiù. 2. Girolamo, spiegando fs 3 [ 14]: Le cose tol­ te ai poveri sono nelle vostre case, affenna che i beni della Chiesa sono dei poveri. Ma chi si appropria della roba altrui, o la dà ad altri, pecca mortalmente, ed è tenuto alla re­ stituzione. Se quindi i vescovi ritengono per sé o elargiscono ai parenti e agli amici i beni ecclesiastici che loro sopravanzano, sembra che siano tenuti alla restituzione. 3. È molto più ammissibile prendere dai beni ecclesiastici il necessario che ammassare il superfluo. Eppure Girolamo scrive: «È un do­ vere sostentare con i beni della Chiesa quei chierici che non sono assistiti né dai genitori né dalla parentela; quelli invece che possono essere sostentati dai beni e dalle rendite patri­ moniali, se prendono ciò che è dei poveri, commettono un sacrilegio». Per cui anche Paolo dice: Se una donna credente ha con sé delle vedove, provveda lei stessa a loro e non ricada il peso sulla Chiesa, perché questa possa così venire incontro a quelle che sono veramente vedove (l Tm 5 , 1 6). Quindi a mag­ gior ragione peccano mmtalmente i vescovi se non distribuiscono ai poveri il superfluo dei beni ecclesiastici. In contrario: molti vescovi non danno ai po­ veri i beni che loro sopravanzano, ma li spen­ dono lodevolmente per accrescere le rendite della loro chiesa. Risposta: bisogna distinguere fra i beni perso­ nali che i vescovi possono possedere, e i beni ecclesiastici. Dei beni propri infatti i vescovi hanno un vero dominio. Quindi di per sé non sono in obbligo di darli ad altri, ma possono trattenerli o distribuirli a loro arbitrio. Nel-

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Respondeo dicendurn quod aliter est dicendurn de propriis bonis, quae episcopi possidere possunt, et de bonis ecclesi astic i s . Nam propriorum bonorum verum dominium habent. Unde ex ipsa rerum conditione non obligantur ut eas aliis conferant, sed possunt vel sibi retinere, vel aliis pro libitu elargiri. Possunt tamen in earum dispensatione peccare, vel propter inordinationem affectus, per quam con­ tingit quod vel sibi plura conferant quam opor­ teat; vel etiam aliis non subveniant secundurn quod requirit debitum caritatis. Non tamen tenetur ad restitutionem, quia huiusmodi res sunt eius dominio deputatae. - Sed ecclesiasti­ corum bonorum sunt dispensatores vel procu­ ratores, dicit enim Augustinus, Ad Bonifacium [ep. 185,9], si privatum possidemus quod nobis

l' amministrarli però possono peccare, o per un attaccamento eccessivo, che li porta a go­ derne più del bisogno, oppure anche perché non soccorrono gli altri come la carità esige­ rebbe. Tuttavia non sono tenuti per questo alla restituzione: poiché si tratta di cose di loro proprietà. - Invece dei beni ecclesiastici essi sono soltanto dispensieri, o amministratori, come dice Agostino: «Se abbiamo dei beni personali che ci bastano, questi altri non ap­ partengono a noi, ma a quelli di cui siamo gli amministratori : badiamo quindi a non riven­ dicarli con una riprovevole usurpazione». Ora, da un amministratore si richiede la fe­ deltà, secondo le parole di l Cor 4 [2]: Quan­

sufficiat, non illa nostra sunt, sed illorum quorum procurationem gerimus, non proprie­ tatem nobis usurpatione damnabili vindi­ cemus. Ad dispensatorem autem requiritur bona fides, secundurn illud l ad Cor. 4 [2], hic iam quaeritur inter dispensatores utfidelis quis inveniatur. Sunt autem bona ecclesiastica

rò non sono destinati soltanto ai poveri, ma anche al culto di Dio e alle necessità dei suoi ministri. «Delle rendite ecclesiastiche e delle offerte dei fedeli», dice infatti il Decreto di Graziano, «solo una parte è del vescovo; altre due devono essere impiegate dal sacerdote, sotto pena di deposizione, per gli edifici ec­ clesiastici e per l 'erogazione ai poveri; l' ulti­ ma poi va divisa tra i chierici secondo i meriti di ciascuno». - Se quindi i beni destinati al vescovo sono distinti da quelli destinati ai po­ veri, ai ministri e al culto, e il vescovo ritiene per sé cose da erogarsi per tali scopi, allora non c'è dubbio che agisce contro la fedeltà necessaria ali' amministratore, pecca mortal­ mente ed è tenuto alla restituzione. Invece per i beni destinati espressamente a lui vale la conclusione stabilita per i beni personali: cioè il vescovo pecca se per un attaccamento e un impiego eccessivi se ne riserva più del giusto, e non aiuta gli altri come esige la carità. - Se invece i beni suddetti non sono distinti, allora la loro distribuzione è affidata alla sua onestà. E se in ciò sbaglia di poco, in più o in meno, può darsi che non intacchi la fedeltà: poiché in simili questioni non è possibile per l'uomo determinare ciò che è dovuto con assoluta esattezza. Se però l'eccesso è considerevole, non può rimanere inavvertito: per cui appare incompatibile con l' onestà. E allora non è senza peccato mortale, infatti è detto in Mt 24

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non solum in usus pauperum, sed etiam ad cultum divinum et necessitates ministrorum expendenda. Unde dicitur 12, q. 2 [cf. Decre­ tum, p. 2, causa 12, q. 2, can. 28], de reditibus

Ecc/esiae vel oblatione fidelium, sola episcopo ex his una p011io emittatur; duae ecc/esiasticis fabricis el eroga/ioni pauperum profuturae a presbytero, sub periculo sui ordinis, ministren­ tur; ultima clericis, pro singulorum meritis, dividatur. - Si ergo distincta sint bona quae

debent in usum episcopi cedere, ab his quae sunt pauperibus et ministris et cultui Ecclesiae eroganda; et aliquid sibi retinuerit episcopus de his quae sunt pauperibus eroganda, vel in usum ministrorum aut in cultum divinum expenden­ da, non est dubium quod contra fidem dispen­ sationis agit, et mortaliter peccat, et ad restitu­ tionem tenetur. De his autem quae sunt specia­ liter suo usui deputata, videtur esse eadem ratio quae est de propriis bonis, ut scilicet propter im moderatum affectum et usum peccet quidem, si immoderata sibi retineat, et aliis non subveniat sicut requirit debitum caritatis. - Si vero non sint praedicta bona distincta, eorum distributio fidei eius committitur. Et si quidem in modico deficiat vel superabundet, potest hoc fieri absque bonae fidei detrimento, quia non potest homo in talibus punctaliter accipere illud

to si richiede negli amministratori è che ogmmo risulti fedele. I beni ecclesiastici pe­ -

[48]: Ma se questo servo malvagio dicesse in cuor suo: "Il mio padrone tarda a venire ", disprezzando così il giudizio di Dio, e comin­ ciasse a percuotere i suoi compagni, mac-

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quod fieri oportet. Si vero sit multus excessus, non potest latere, unde videtur bonae fidei repugnare. Et ideo non est absque peccato mortali, dicitur enim Matth. 24 [48 sqq.], quod, si dixerit malus servus in corde suo, moram facit Dominus meus venire, quod pertinet ad divini iudicii contemptum; et coeperit percu­ tere conservos suos, quod pertinet ad super­ biam; manducet autem et bibat cum ebriosis, quod pertinet ad luxuriam, veniet Dominus servi illius in die qua non sperar, et divider eum, scilicet a societate bonorum, et partem eius ponet cum hypocritis, scilicet in inferno. Ad primurn ergo dicendum quod verbum illud Ambrosii non solum est referendum ad dispen­ sationem ecclesiasticarum rerum, sed quo­ rumcumque bonorum ex quibus tenetur aliquis, debito caritatis, providere necessitatem pa­ tientibus. Non tamen potest determinali quando sit ista necessitas quae ad peccatum mortale obliget, sicut nec cetera particularia quae in humanis actibus considerantur. Horum enim determinatio relinquitur hurnanae prudentiae. Ad secundum dicendum quod bona Eccle­ siarum non sunt solum expendenda in usus pauperum, sed etiam in alios usus, ut dictum est [in co.]. Et ideo si de eo quod usui episco­ pi vel alicuius clerici est deputatum, velit aliquis sibi subtrahere et consanguineis vel aliis dare, non peccat, dummodo id faciat mo­ derate, idest, ut non indigeant, non autem ut ditiores inde fiant. Unde Ambrosius dicit, in libro De off. [ 1,30; cf. Decretum, p. l , d. 86, can. 16], est approbanda liberalitas, ut proximos seminis tui ne despicias, si egere cognoscas, non tamen ut il!i ditiores fieri velint ex eo quod tu potes conferre inopibus. Ad tertium dicendum quod non omnia bona Ecclesiarum sunt pauperibus largienda, nisi forte in articulo necessitatis, in quo etiam, pro redemptione captivorum et aliis necessitatibus pauperum, vasa cultui divino dicata distra­ huntur, ut Ambrosius dicit [De off. 2,28; cf. Decretum, p. 2, causa 1 2, q. 2, can. 70]. Et in tali necessitate peccaret clericus si vellet de rebus Ecclesiae vivere, dummodo haberet patrimonialia bona, de quibus vivere possit. Ad quartum dicendum quod bona Ecclesi­ arum usibus pauperum deservire debent. Et ideo si quis, necessitate non imminente provi­ dendi pauperibus, de his quae superlluunt ex proventibus Ecclesiae possessiones emat, vel

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chiandosi di superbia, e a bere e a mangiare con gli ubriaconi, abbandonandosi alla lussu­ ria, arriverà il padrone quando il servo non se l'aspetta, lo separerà dalla compagnia dei buoni e gli infliggerà la sorte degli ipocriti nell'inferno. Soluzione delle difficoltà: l . Quelle parole di Ambrogio non si riferiscono solo all'ammini­ strazione dei beni ecclesiastici, ma anche a quella di ogni altro bene che uno è tenuto a dare per provvedere agli indigenti. Ma qui non si può determinare quando la necessità obblighi sotto peccato mortale: come non si possono determinare altri casi particolari re­ lativi agli atti umani. Infatti queste determina­ zioni sono lasciate alla prudenza personale. 2. I beni ecclesiastici non vanno impiegati soltanto per i poveri, ma anche per altri usi, come si è visto. Se quindi un vescovo o un chierico si priva di quanto è riservato a suo uso per darlo ai parenti o ad altre persone, non commette peccato: purché lo faccia con moderazione, cioè in modo da togliere tali persone dall'indigenza e �on da arricchirle. Scrive infatti Ambrogio: «E una liberalità de­ gna di approvazione il non disprezzare il prossimo del tuo medesimo sangue, se lo sai in necessità; non però l'arricchirlo con quanto potresti dare ai poveri». 3. Non tutti i beni ecclesiastici vanno distri­ buiti ai poveri: se non forse in caso di estrema necessità, quando per redimere i prigionieri e per gli altri bisogni dei poveri si possono ven­ dere, come dice Ambrogio, anche i vasi desti­ nati al culto divino. E in tale necessità pecche­ rebbe un chierico che volesse vivere con i beni della Chiesa pur avendo beni patrimo­ niali sufficienti. 4. [S.e.] I beni ecclesiastici devono servire ai poveri. Se quindi uno, non essendoci la ne­ cessità urgente di provvedere ai poveri, impie­ ga il sovrappiù delle rendite ecclesiastiche per comprare altri beni, o lo mette da parte perché serva in seguito al bene della Chiesa e alle ne­ cessità dei poveri, agisce lodevolmente. Se in­ vece urge la necessità di provvedere ai poveri, allora è una preoccupazione eccessiva e disor­ dinata il conservare quei beni per l'avvenire; ed è contro le parole del Signore: Non affan­ natevi per il domani (Mt 6,34).

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in thesauro reponat in futurum utilitati Eccle­ siae et necessitatibus pauperum, laudabiliter facit. Si vero necessitas immineat pauperibus erogandi, superflua cura est et inordinata ut aliquis in futurum conservet, quod Dominus prohibet, Matth. 6 [34], dicens, nolite solliciti esse in crastinum. Articulus 8 Utrum religiosi qui promoventur in episcopos, non teneantur ad observantias regulares Ad octavum sic proceditur. Videtur quod reli­ giosi qui promoventur in episcopos, non te­ neantur ad observantias regulares. l . Dicitur enim 1 8, q. l [Decretum, p. 2, causa 1 8, q. l , can. 1], quod monachum cano­ nica electio a iugo regulae monasticae pro­ fessionis absolvit, et sacra ordinario de mona­ cho episcopum facit. Sed observantiae regu­ lares pertinent ad iugum regulae. Ergo reli­ giosi qui in episcopum assumuntur, non te­ nentur ad observantias regulares. 2. Praeterea, ille qui ab inferiori ad superiorem gradum ascendit, non videtur teneri ad ea quae sunt inferioris gradus, sicut supra [q. 88 a. 12 ad l ] dictum est quod religiosus non tenetur ad observanda vota quae in saeculo fecit. Sed religiosus qui assumitur ad episcopatum, ascendit ad aliquid maius, ut supra [q. 184 a. 7] habitum est. Ergo videtur quod non obligetur episcopus ad ea quae tenebatur observare in statu religionis. 3. Praeterea, maxime religiosi obligari viden­ tur ad obedientiam, et ad hoc quod sine proprio vivant. Sed religiosi qui assumuntur ad episcopatum, non tenentur obedire praela­ tis suarum religionum, quia sunt eis superio­ res. Nec etiam videntur teneri ad pauperta­ tem, quia, sicut in Decreto [Decretum, p. 2, causa 1 8, q. l , can. l ] supra inducto dicitur, quem sacra ordinario de monacho episcopum facit, velut legitimus heres, paternam sibi he­ reditatem iure vindicandi potestatem habeat. Interdum etiam conceditur eis testamenta conficere. Ergo multo minus tenentur ad alias observantias regulares. Sed contra est quod dicitur in decretis, 1 6, q. l [Decretum, p. 2, causa 1 6, q. l , can. 3] , de monachis qui diu morantes in monasteriis, si postea ad clericatus ordines pervenerint,

Articolo 8 I religiosi promossi all'episcopato

sono tenuti alle osservanze regolari?

Sembra di no. Infatti: l . Nei Canoni si legge che «l'elezione canoni­ ca scioglie il monaco dal giogo della regola monastica, e la sacra ordinazione ne fa un ve­ scovo». Ora, le osservanze regolari rientrano nel giogo della regola. Quindi i religiosi che sono assunti ali' episcopato non sono tenuti alle osservanze regolari. 2. Chi ascende a un grado superiore non è più tenuto agli obblighi del grado inferiore: il reli­ gioso, p. es., non è tenuto a osservare i voti fatti nella vita secolare, come sopra si è visto. Ma il religioso assunto all'episcopato ascende a un grado superiore, stando alle spiegazioni date. Perciò sembra che egli non sia più obbli­ gato alle osservanze dello stato religioso. 3. Gli obblighi più importanti della vita reli­ giosa sono l' obbedienza e la povertà. Ma i religiosi assunti ali' episcopato non sono più tenuti a ubbidire ai prelati del loro ordine: poiché sono superiori ad essi. E neppure sono tenuti alla povertà: poiché, come dice il De­ creto, «il monaco creato vescovo dalla sacra ordinazione può reclamare a norma del diritto I' eredità patema». Inoltre talora è ad essi con­ cesso di fare testamento. Molto meno, dun­ que, sono tenuti alle altre osservanze regolari. In contrario: nel Decreto si legge: «Riguardo ai monaci che dopo essere vissuti a lungo in monastero sono stati assunti allo stato clerica­ le, ordiniamo che essi non debbono recedere dal proposito precedente». Risposta: secondo le cose già dette, lo stato religioso sta alla perfezione come la via che ad essa conduce, mentre lo stato episcopale sta alla perfezione come un certo magistero di perfezione. Per cui lo stato religioso sta allo stato episcopale come il tirocinio scolastico all'insegnamento, e la disposizione alla perfe­ zione correlativa. Ora, la disposizione non è

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statuimus non debere eos a priori proposito discedere. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. l ad 2] dictum est, status religionis ad perfectio­ nem pertinet quasi quaedam via in perfectio­ nem tendendi, status autem episcopalis ad per­ fectionem pertinet tanquam quoddam perfec­ tionis magisterium. Unde status religionis comparatur ad statum episcopalem sicut di­ sciplina ad magisterium, et dispositio ad per­ fectionem. Dispositio autem non tollitur, per­ fectione adveniente, nisi forte quantum ad id in quo pertectioni repugnat; quantum autem ad id quod perfectioni congruit, magis confirmatur. Sicut discipulo, cum ad magistetium pervene­ Iit, non congruit quod sit auditor, congruit ta­ men sibi quod legat et meditetur, etiam magis quam ante. - Sic igitur dicendum est quod, si qua sunt in regularibus observantiis quae non impediant pontificale officium, sed magis va­ leant ad pettectionis custodiam, sicut est con­ tinentia, paupertas et alia huiusmodi, ad haec remanet religiosus, etiam factus episcopus, obligatus; et per consequens, ad portandum habitum suae religionis, qui est huius obligatio­ nis signum. - Si qua vero sunt in observantiis regularibus quae officio pontificali repugnent, sicut est solitudo, silentium, et aliquae absti­ nentiae vel vigiliae graves, ex quibus impotens corpore redderetur ad exequendum pontificale officium, ad huiusmodi observanda non tene­ tur. - In aliis tamen potest dispensatione uti, se­ cundum quod requmt necessitas personae vel officii, vel conditio hominum cum quibus vivit, per modum quo etiam praelati religionum in talibus secum dispensant. Ad ptimum ergo dicendum quod ille qui fit de monacho episcopus, absolvitur a iugo mo­ nasticae professionis, non quantum ad omnia, sed quantum ad illa quae officio pontificati repugnant, ut dictum est [in co.]. Ad secundum dicendum quod vota saecularis vitae se habent ad vota religionis sicut parti­ culare ad universale, ut supra [arg. 2] habitum est. Sed vota religionis se habent ad pontifica­ lem dignitatem sicut dispositio ad perfectio­ nem. Particulare autem superfluit, habito uni­ versali, sed dispositio adhuc necessaria est, perfectione obtenta. Ad tertium dicendum quod hoc est per acci­ dens quod episcopi religiosi obedire praelatis suarum religionum non tenentur, quia sibi

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eliminata al sopraggiungere della perfezione; se non forse in ciò che è incompatibile con la perfezione stessa, mentre in ciò che si accorda con la perfezione si ha piuttosto un potenzia­ mento. Come uno studente giunto al magistero non è più tenuto ad andare a scuola, ma è tenuto a leggere e a meditare, anche più di pri­ ma. - Così dunque tra le osservanze regolari ce ne sono alcune che non impediscono l'ufficio pastorale, ma servono piuttosto a salvaguardare la pertezione, come la continenza, la povertà e simili: ad esse il religioso è tenuto anche dopo l'elezione a vescovo; ed è obbligato a portare l'abito della sua religione, che è il segno ester­ no dell'obbligo suddetto. - Se invece tra le os­ servanze regolari ve ne sono alcune che ri­ sultano incompatibili con l'ufficio pastorale, come la solitudine, il silenzio e certe gravi asti­ nenze o vigilie che rendono il corpo incapace di attendere al proprio ufficio, allora il vescovo non è tenuto a tali osservanze. - Tuttavia anche rispetto alle altre osservanze egli può usare della dispensa, secondo le necessità della sua persona o del suo ufficio o la condizione degli uomini con cui vive, come anche i prelati dei vari ordini fanno con se stessi. Soluzione delle difficoltà: l . Chi da monaco è fatto vescovo è sciolto dal giogo della profes­ sione monastica non in tutto, ma solo in ciò che è incompatibile con l'ufficio pastorale, come si è spiegato. 2. I voti fatti nella vita secolare stanno ai voti religiosi come un singolare sta all'universale, secondo le spiegazioni date. Invece i voti reli­ giosi stanno alla dignità episcopale come la disposizione sta alla perfezione. Ora, mentre il singolare diviene superfluo in presenza del­ l 'universale, la disposizione è necessaria anche dopo che si è conseguita la perfezione. 3. Che i vescovi religiosi non siano tenuti a ubbidire ai prelati del loro ordine è un fatto accidentale, avendo essi cessato di essere sud­ diti, come del resto gli stessi superiori religio­ si. L'obbligazione del voto dunque rimane virtualmente: cioè nel senso che costoro sa­ rebbero tenuti a ubbidire se fosse loro prepo­ sto un superiore legittimo; poiché sono tenuti a ubbidire alle disposizioni della regola nel modo indicato, e ai loro superiori, nel caso che li abbiano. - In nessun modo però hanno la facoltà di possedere personalmente. Infatti non reclamano l 'eredità paterna come una

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subditi esse desierunt, sicut et ipsi praelati reli­ gionum. Manet tamen adhuc obligatio voti vir­ tualiter, ita scilicet quod, si eis legitime aliquis praeficeretur, obedire tenerentur, inquantum tenentur obedire statutis regulae per modum praedictum [in co.], et suis superioribus, si quos habent - Proprium autem nullo modo habere possunt Non enim hereditatem patemam vindi­ cant quasi propriam, sed quasi Ecclesiae debi­ tam. Unde ibidem [Decretum, p. 2, causa 1 8, q. l, can. l] subditur quod, postquam episcopus ordinatur, ad altare ad quod sanctificatur, quod acquirere potuit restituat. - Testamentum autem nullo modo facere potest, quia sola dispensatio ei committitur rerum ecclesiastica­ rum, quae morte finitur, ex qua incipit testa­ mentum valere, ut apostolus dicit, ad Hebr. 9 [ 16]. Si tamen ex concessione Papae testamen­ tum faciat, non intelligitur ex proprio facere testamentum, sed apostolica auctoritate intelli­ gitur esse ampliata potestas suae dispensationis, ut eius dispensatio possit valere post mortem.

cosa propria, ma come un bene della Chiesa. Il Decreto infatti aggiunge che, «Una volta ordinato, il vescovo deve restituire ali' altare per cui è stato ordinato ciò che avesse potuto acquistare». - In nessun modo poi il vescovo religioso può fare testamento, poiché a lui è affidata la sola amministrazione dei beni ec­ clesiastici, che tìnisce con la morte, a partire dalla quale comincia a valere il testamento, come è detto in Eh 9 [ 1 6]. E se fa testamento per concessione del papa, non si deve inten­ dere che egli lo faccia dei propri beni, ma piuttosto che il potere della sua amministra­ zione è esteso per autorità apostolica in modo che possa valere dopo la morte.

QUAESTIO 1 86 DE HIS IN QUIBUS PRINCIPALITER CONSISTIT RELIGIONIS STATUS

QUESTIONE 1 86 I PRINCIPALI ELEMENTI CHE COSTITUISCONO LO STATO RELIGIOSO

Deinde considerandum est de his quae per­ tinent ad statum religionis. Circa quod occurrit quadruplex consideratio, quarum prima est de his in quibus principaliter consistit religionis status� secunda, de his quae religiosis licite convenire possunt [q. 1 87]; tertia, de distinc­ tione religionum [q. 1 88]; quarta, de religionis ingressu [q. 1 89]. - Circa primum quaeruntur decem. Primo, utrum religiosorum status sit perfectus. Secundo, utrum religiosi teneantur ad omnia consilia. Tertio, utmm voluntaria paupertas requiratur ad religionem. Quarto, utrum requiratur continentia. Quinto, utrum requiratur obedientia. Sexto, utrum requiratur quod haec cadant sub voto. Septimo, de suffi­ cientia horum votorum. Octavo, de compara­ tione eorum ad invicem. Nono, utrum religio­ sus semper mortaliter peccet quando transgre­ ditur statutum suae regulae. Decimo, utrum, ceteris paribus, in eodem genere peccati plus peccet religiosus quam saecularis.

Siamo giunti così a considerare ciò che ri­ guarda lo stato religioso. In proposito esami­ neremo quattro argomenti: primo, gli ele­ menti principali che costituiscono lo stato re­ ligioso; secondo, ciò che può convenire le­ citamente ai religiosi; terzo, la distinzione de­ gli ordini religiosi; quarto, l'entrata in religio­ ne. - Sul primo argomento si pongono dieci quesiti: l . Lo stato religioso è uno stato di perfezione? 2. I religiosi sono tenuti a tutti i consigli? 3. Per lo stato religioso si richiede la povertà volontaria? 4. Si richiede la castità? 5. Si richiede l'obbedienza? 6. Si richiede che queste cose siano promesse con un voto? 7. Questi tre voti sono sufficienti? 8. n loro confronto reciproco; 9. Un religioso pecca sempre mmtalmente quando trasgredisce una prescrizione della sua regola? 10. A parità di condizioni, e nel medesimo genere di pecca­ to, un religioso pecca più gravemente di un secolare?

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Iprincipali elementi che costituiscono lo stato religioso

Q. 1 86, A. l

Articulus l Utrum religio importet statum perfectionis

Articolo l La vita religiosa implica uno stato di perfezione?

Ad primum sic proceditur. Vìdetur quod reli­ gio non importet statum perfectionis. l . Dlud enim quod est de necessitate salutis, non videtur ad statum perfectionis pertinere. Sed religio est de necessitate salutis, quia per eam uni vero Deo religamur, sicut Augusti­ nus dicit in libro De vera rel.[55]; vel religio dicitur ex eo quod Deum reeligimus, quem amiseramus negligetztes, ut Augustinus dicit i n 1 0 De civ. Dei [3] . Ergo videtur quod religio non norninet perfectionis statum. 2. Praeterea, religio, secundum Tullium [Rhet. 2,53], est quae naturae divinae cultum et caeremoniam affert. Sed afferre Deo cultum et caeremoniam magis videtur pertinere ad rnini­ steria sacrorum ordinum quam ad diversitatem statuum, ut ex supra [q. 40 a. 2; q. 1 83 a. 3] dictis patet. Ergo videtur quod religio non no­ rninet perfectionis statum. 3. Praeterea, status perfectionis distinguitur contra statum incipientium et proficientium. Sed etiam in religione sunt aliqui incipientes et aliqui proficientes. Ergo religio non norni­ nat perfectionis statum. 4. Praeterea, religio videtur esse poenitentiae locus, dicitur enim in Decretis, 7, q. l [Decre­ tum, p. 2, causa 7, q. l , can. 45], praecipit sancta Synodus ut quicumque de potztifìcali dignitate ad monachorum vitam et poeniten­ tiae descenderit locum, nunquam ad ponti.fi­ catum resurgat. Sed locus poenitentiae oppo­ nitur statui perfectionis, unde Dionysius, 6 cap. Eccl. Hier. [ 1 , 1 ] , ponit poenitentes in infimo loco, scilicet inter purgandos. Ergo vi­ detur quod religio non sit status perfectionis. Sed contra est quod in Collationibus Patrum [Cassianus 1 ,7 ] , dicit abbas Moyses, de religiosis loquens, ieiuniorum inediam, vigi­ lias, labores, cmporis nuditatem, lectionem, ceterasque virtutes debere nos suscipere no­ verimus, ut ad perfectionem caritatis istis gradibus possimus conscendere. Sed ea quae ad humanos actus pertinent, ab intentione fi­ nis speciem et nomen recipiunt. Ergo religiosi pertinent ad statum perfectionis. - Dionysius etiam, 6 cap. Ecci. Hier. [ 1 ,3], dicit eos qui nominantur Dei famuli, ex Dei puro servitio etfamulatu uniri ad amabilem perfectionem.

Sembra di no. Infatti: l . Ciò che è indispensabile per salvarsi non è proprio dello stato di perfezione. Ma la reli­ gione è necessaria per salvarsi, poiché, secon­ do Agostino, è con essa che noi «ci uniamo all'unico vero Dio»; oppure, come egli dice ancora, perché è con essa che noi «eleggiamo di nuovo Dio, che avevamo perduto con le nostre negligenze». Quindi sembra che la vita religiosa non indichi uno stato di perfezione. 2. Secondo Cicerone la religione «rende culto ed ossequio alla natura divina». Ora, stando alle cose già dette, rendere a Dio culto e osse­ quio appa.ttiene più ai ministri degli ordini sacri che ai vari stati di vita. Quindi sembra che la religione non indichi uno stato di perfezione. 3. Lo stato di perfezione si contrappone allo stato degli incipienti e a quello dei proficienti. Ma anche nella religione ci sono degli inci­ pienti e dei proficienti. Quindi la vita religiosa non implica uno stato di perfezione. 4. La vita religiosa è un luogo di penitenza, poiché nel Decreto si legge: «Il sacro Conci­ lio comanda che chiunque sia disceso dalla dignità vescovile alla vita monastica e peni­ tenziale non sia mai più assunto all'episcopa­ to». Ora, lo stato di penitenza si oppone allo stato di perfezione: infatti Dionigi mette i penitenti all'ultimo posto, cioè tra «quelli che devono purificarsi». Perciò sembra che la vita religiosa non sia uno stato di perfezione. In contrario: nelle Conferenze dei Padri si leg­ gono queste parole dell'Abate Mosè: «Dob­ biamo ricordare che siamo tenuti ad abbrac­ ciare la macerazione dei digiuni, le veglie, i travagli, la nudità del corpo, le letture e tutte le altre virtù per poter salire con questi gradini alla perfezione della carità». Ora, quanto si riferisce agli atti umani riceve la specie e il nome dal fine a cui tende. Quindi i religiosi rientrano nello stato di perfezione. - Inoltre Dionigi afferma che «i servi di Dio si unisco­ no all'amabile perfezione mediante il culto e il servizio di Dio». Risposta: come si è già notato, ciò che è co­ mune a più cose è attribuito per antonomasia a quella a cui conviene per eccellenza: come il nome di fortezza è attribuito a quella virtù

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I principali elementi che costituiscono lo stato religioso

Respondeo dicendum quod, sicut ex supra [q. 1 4 1 a. 2] dictis patet, id quod communiter multis convenit, antonomastice attribuitur ei cui per excellentiam convenit, sicut nomen for­ titudinis vindicat sibi illa virtus quae circa dif­ ficillima firmitatem animi servat, et temperan­ tiae nomen vindicat sibi illa virtus quae tempe­ rat maximas delectationes. Religio autem, ut supra [q. 81 a. 2, a. 3 ad 2] habitum est, est quaedam virtus per quam aliquis ad Dei ser­ vitium et cultum aliquid exhibet. Et ideo anto­ nomastice religiosi dicuntur illi qui se totaliter mancipant divino servitio, quasi holocaustum Deo offerentes. Unde Gregorius dicit, Super Ez. [2,8], sunt quidam qui nihil sibimetipsis

reservant, sed sensum, linguam, vitam atque substantiam quam perceperunt, omnipotenti Deo immolant. In hoc autem perfectio hominis

consistit quod totaliter Deo inhaereat, sicut ex supra [q. 1 84 a. 2] dictis patet. Et secundum hoc, religio perfectionis statum nominat. Ad primum ergo dicendum quod exhibere aliqua ad cultum Dei est de necessitate salu­ tis, sed quod aliquis totaliter se et sua divino cultui deputet, ad perfectionem pertinet. Ad secundum dicendum quod, sicut supra [q. 81 a. l ad l ; a. 4 ad 1 -2; q. 85 a. 3] dictum est, cum de virtute religionis ageretur, ad reli­ gionem pertinent non solum oblationes sacri­ ficiorum, et alia huiusmodi quae sunt religioni propria, sed etiam actus omnium virtutum, se­ cundum quod referuntur ad Dei servitium et honorem, efficiuntur actus religionis. Et se­ cundum hoc, si aliquis totam vitam suam di­ vino servitio deputet, tota vita sua ad religio­ nem pertinebit. Et secundum hoc, ex vita religiosa quam ducunt, religiosi dicuntur qui sunt in statu perfectionis. Ad tertium dicendum quod, sicut dictum est [sed c.], religio nominat statum perfectionis ex intentione finis. Unde non oportet quod quicumque est in religione, iam sit perfectus, sed quod ad perfectionem tendat. Unde super illud Matth. 1 9 [21], si vis peifectus esse etc., dicit Origenes [In Matth. h. 1 5] quod ille qui

mutavit pro divitiis paupertatem ut fiat per­ fectus, non in ipso tempore quo tradiderit bo­ na sua pauperibus, fiet omnino peifectus, sed ex illa die incipiet speculatio Dei adducere eum ad omnes virtutes. Et hoc modo in reli­ gione non omnes sunt perfecti, sed quidam incipientes, quidam proficientes.

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che conserva la fermezza dell'animo nei casi più difficili, e il nome di temperanza a quella virtù che tempera o modera i piaceri più vio­ lenti. Ora la religione, come sopra si è spiega­ to, è la virtù con la quale si offre qualcosa per il culto e il servizio di Dio. Perciò si dicono religiosi per antonomasia coloro che si consa­ crano totalmente al divino servizio, offrendosi a Dio come in olocausto. Da cui le parole di Gregorio: «Ci sono alcuni che non riservano nulla per sé, ma immolano a Dio onnipotente il pensiero, la lingua, la vita e tutti i beni rice­ vuti». Ora, la perfezione dell'uomo consiste nell'unione totale con Dio, come si è visto. Quindi la vita religiosa sta a indicare uno stato di perfezione. Soluzione delle difficoltà: l . Offrire qualcosa al culto di Dio è necessario per salvarsi, ma che uno si consacri totalmente al culto divino è proprio della perfezione. 2. Come si è già visto trattando della virtù di religione, a questa virtù non appartengono soltanto le offerte dei sacrifici e gli altri atti propri della religione, ma anche gli atti di ogni altra virtù, secondo che sono fatti a ono­ re e a servizio di Dio, divenendo così atti di religione. Se dunque uno dedica tutta la sua vita al servizio di Dio, tutta la sua vita appar­ tiene alla religione. E in base a ciò, per la vita religiosa che conducono, quelli che sono nello stato di perfezione sono detti religiosi. 3. Come si è accennato, la vita religiosa indi­ ca uno stato di perfezione per il fine a cui tende. Non è quindi necessario che chi è in religione sia già perfetto, ma che tenda alla perfezione. Ecco perché Origene, a proposito di Mt 1 9 [21 ] : Se vuoi essere peifetto... , nota che «colui che ha scambiato le ricchezze con la povertà per essere perfetto non diventa del tutto perfetto nel momento in cui dà i suoi beni ai poveri; però da quel giorno la contem­ plazione di Dio comincia a disporlo a ogni virtù». E così nella vita religiosa non tutti so­ no perfetti, ma alcuni sono incipienti e altri proficienti. 4. Lo stato religioso fu istituito principalmen­ te per acquistare la perfezione mediante prati­ che atte a eliminare gli ostacoli che si oppon­ gono alla carità perfetta. Ma eliminando detti ostacoli, sono escluse più radicalmente anche le occasioni del peccato, il quale distrugge totalmente la carità. Avendo quindi i penitenti

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Ad quarturn dicendum quod religionis status principaliter est institutus ad petfectionem adi­ piscendam per quaedam exercitia quibus tol­ luntur impedimenta petfectae caritatis. Sublatis autem impedimentis petfectae caritatis, multo magis exciduntur occasiones peccati, per quod totaliter tollitur caritas. Unde, cum ad poeniten­ tem pertineat causas peccatorum excidere, ex consequenti status religionis est convenientis­ simus poenitentiae locus. Unde in Decretis, 33, q. 2, cap. Admonere [Decretum, p. 2, causa 33, q. 2, can. 8], consulitur cuidam qui uxorem occiderat, ut potius monasterium ingrediatur, quod dicit esse melius et levius, quam poe­ nitentiam publicam agat remanendo in saeculo.

il compito di togliere le cause dei peccati, ne segue che lo stato religioso è quello più indi­ cato per fare penitenza. Per questo nel Decreto si consiglia di entrare in monastero a uno che abbia ucciso la moglie, dicendo che si tratta di «una cosa migliore e più facile» della peniten­ za pubblica fatta rimanendo nel secolo.

Articulus 2 Utrurn quilibet religiosus teneatur ad ornnia consilia

Articolo 2 Ogni religioso è tenuto a osservare tutti i consigli?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod quilibet religiosus teneatur ad omnia consilia. l . Quicumque enim profitetur statum ali­ quero, tenetur ad ea quae illi statui conve­ niunt. Sed quilibet religiosus profitetur statum perfectionis. Ergo quilibet religiosus tenetur ad omnia consilia, quae ad perfectionis sta­ turo pertinent. 2. Praeterea, Gregorius dicit, Super Ez. [2,8], quod il/e qui praesens saeculum deserit et agii bona quae valet, quasi iam Aegypto dere­ lieto, sacrificium praebet in eremo. Sed dese­ rere saeculum specialiter pertinet ad religio­ sos. Ergo etiam eorum est agere omnia bona quae valent. Et ita videtur quod quilibet eorum teneatur ad omnia consilia implenda. 3. Praeterea, si non requiritur ad statum petfec­ tionis quod aliquis omnia consilia impleat, sufficiens esse videtur si quaedam consilia impleat. Sed hoc falsum est, quia multi in saecu­ lari vita existentes aliqua consilia implent, ut patet de bis qui continentiam servant. Ergo videtur quod quilibet religiosus, qui est in statu petfectionis, teneatur ad omnia quae stmt pertec­ tionis. Huiusmodi autem sunt omnia consilia Sed contra, ad ea quae sunt supererogationis non tenetur aliquis nisi ex propria obligatione. Sed quilibet religiosus obligat se ad aliqua determinata, quidam ad haec, quidam ad illa. Non ergo omnes tenentur ad omnia. Respondeo dicendum quod ad perfectionem aliquid pertinet tripliciter. Uno modo, essen-

Sembra di sì. Infatti: l. Chi professa uno stato di vita è tenuto agli obblighi propri di tale stato. Ora, qualsiasi reli­ gioso professa lo stato di perfezione. Quindi qualsiasi religioso è tenuto a tutti i consigli che sono propri dello stato di perfezione. 2. Gregorio afferma che «chi abbandona il secolo e compie il bene che può fare assomi­ glia a chi, dopo aver lasciato l'Egitto, sacrifica nel deserto». Ma abbandonare il secolo è pro­ prio dei religiosi. Perciò è anche loro dovere speciale compiere tutto il bene che possono. E così sembra che ciascuno di loro sia tenuto a osservare tutti i consigli. 3. Se lo stato di petfezione non esige che si os­ servino tutti i consigli, basterà che se ne os­ servino solo alcuni. Ma ciò è falso: poiché molti nella vita secolare osservano alcuni con­ sigli, come è evidente per la continenza. Perciò sembra che tutti i religiosi, che sono in stato di petfezione, siano tenuti a tutto ciò che è pro­ prio della petfezione, e quindi a tutti i consigli. In contrario: nessuno è tenuto alle opere supe­ rerogatorie se non per un'obbligazione perso­ nale. Ora, ciascun religioso si obbliga a deter­ minate cose: chi a queste, chi a quelle. Non sono quindi tenuti tutli a tutte. Risposta: una cosa può appartenere alla petfe­ zione in tre modi. Primo, in maniera essenzia­ le. E così appartiene alla perfezione la perfetta osservanza dei precetti della carità, come si è visto. Secondo, una cosa può appartenere alla

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I principali elementi che costituiscono lo stato religioso

tialiter. Et sic, sicut supra [q. 1 84 a. 3] dictum est, ad perfectionem pertinet perfecta obser­ vantia praeceptorum caritatis. Alio modo ad perfectionem pertinet aliquid consequenter sicut illa quae consequuntur ex perfectione caritatis, puta quod aliquis maledicenti bene­ dicat et alia huiusmodi impleat, quae, etsi secundum praeparationem animi sint in prae­ cepto, ut scilicet impleantur quando neces­ sitas requirit, tamen ex superabundantia cari­ tatis procedit quod etiam extra necessitatem quandoque talia impleantur. Tertio modo per­ tinet aliquid ad perfectionem instrumentaliter et dispositive, sicut paupertas, continentia, abstinentia et alia huiusmodi. - Dictum est autem [a. l sed c.] quod ipsa perfectio cari­ tatis est finis status religionis, status autem re­ ligionis est quaedam disciplina vel exercitium ad perfectionem perveniendi. Ad quam qui­ dem aliqui pervenire nituntur exercitiis di­ versis, sicut etiam medicus ad sanandum uti potest diversis medicamentis. Manifestum est autem quod illi qui operatur ad finem, non ex necessitate convenit quod iam assecutus sit finem, sed requiritur quod per aliquam viam tendat in finem. Et ideo ille qui statum reli­ gionis assumit, non tenetur habere perfectam caritatem, sed tenetur ad hoc tendere et operam dare ut habeat caritatem petfectam. Et eadem ratione, non tenetur ad hoc quod illa impleat quae perfectionem caritatis conse­ quuntur, tenetur autem ut ad ea implenda in­ tendat. Contra quod facit contemnens. Unde non peccat si ea praetermittat, sed si ea con­ temnat. Similiter etiam non tenetur ad omnia exercitia quibus ad perfectionem pervenitur, sed ad illa detenninate quae sunt ei taxata secundum regulam quam professus est. Ad primum ergo dicendum quod ille qui transit ad religionem, non profitetur se esse per­ fectum, sed profitetur se adhibere studium ad perfectionem consequendam, sicut etiam ille qui intrat scholas, non profitetur se scientem, sed profitetur se studentem ad scientiam acquirendam. Unde sicut Augustinus dicit, 8 De civ. Dei [2], Pythagoras noluit profiteri se sapientem, sed sapientiae amatorem. Et ideo religiosus non est transgressor professionis si non sit perfectus, sed solum si contemnat ad perfectionem tendere. Ad secundum dicendum quod, sicut diligere Deum ex toto corde tenentur omnes, est tamen

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perfezione come conseguenza, cioè i n quanto è un atto derivante dalla perfezione della cari­ tà: come nel caso di chi benedice o compie altre opere del genere verso chi dice male di lui. I quali atti, sebbene siano di precetto come predisposizioni d' animo, in quanto c'è l'obbligo di compierli quando la necessità lo esige, tuttavia sono compiuti talvolta anche fuori dei casi di necessità, a motivo dell a sovraeminenza della carità. Terzo, una cosa può appartenere alla perfezione in maniera strumentale e dispositiva: come la povertà, la castità, l ' astinenza e altre cose del genere. Ora, sopra noi abbiamo detto che la perfezio­ ne della carità è il fine dello stato religioso, e lo stato religioso è come un tirocinio o eserci­ zio per giungere alla perfezione. Ma a tale scopo i singoli si sforzano di giungere con esercizi diversi: come un medico, per guarire un malato, può usare diversi medicamenti. È evidente però che chi agisce in vista di un fine non è detto che lo abbia già raggiunto: si richiede però che tenda verso di esso per una qualche via. Perciò chi abbraccia lo stato reli­ gioso non è tenuto ad avere la carità perfetta, ma solo a tendervi e ad agire per averla. Per lo stesso motivo poi egli non è tenuto a compiere quanto deriva come conseguenza dalla perfe­ zione della cruità: è tenuto però a desiderare di compierlo, il che è incompatibile col disprez­ zo. Perciò egli non pecca se non lo osserva, ma solo se lo disprezza. Parimenti egli non è tenuto a tutte le pratiche con le quali si giunge alla perfezione, ma solo a quelle determinate dalla regola che ha professato. Soluzione delle difficoltà: l . Chi entra in reli­ gione non professa di essere perfetto, ma di impegnarsi a raggiungere la perfezione: come chi va a scuola non professa di sapere, ma si professa studente per acquistare la scienza. Per cui Agostino racconta in proposito che Pita­ gora non volle chiamarsi sapiente, ma «aman­ te della sapienza». Perciò il religioso non con­ traddice la sua professione se non è perfetto, ma solo se trascura di tendere alla perfezione. 2. Come tutti sono tenuti ad amare Dio con tutto il cuore, e tuttavia c'è una certa totalità che non può essere trascurata senza peccato mentre c'è un' altra totalità che può essere tra­ scurata senza peccato - purché, come si è già notato, non ci sia il disprezzo -, così tutti, sia religiosi che secolari, sono tenuti a fare tutto il

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aliqua perfectionis totalitas quae sine peccato praetermitti non potest, aliqua autem quae sine peccato praetermittitur, dum tamen desit con­ temptus, ut supra [ad l ] dictum est, ita etiam omnes, tam religiosi quam saeculares, tenentur aliqualiter facere quidquid boni possunt, omni­ bus enim communiter dicitur, Eccle. 9 [ I O] ,

quidquid potest manus

tua,

instanter operare;

est tamen aliqui s modus hoc praeceptum implendi quo peccatum vitatur, si scilicet ho­ mo faciat quod potest secundum quod requirit conditio sui status; dummodo contemptus non ads i t agendi meli ora, per quem animus obfrrmatur contra spiritualem profectum. Ad tertium dicendum quod quaedam consilia sunt quae si praetermitterentur, tota vita ho­ minis implicaretur negotiis saecularibus, puta si aliquis haberet proprium, vel matrimonio uteretur, aut aliquid huiusmodi faceret quod pertinet ad essentialia religionis vota. Et ideo ad omnia talia consilia observanda religiosi tenentur. Sunt autem quaedam consilia de quibusdam particularibus melioribus actibus, quae praetermitti possunt absque hoc quod vi­ ta hominis saecularibus actibus implicetur. Unde non oportet quod ad omnia talla religio­ si teneantur.

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bene che possono; poiché a tutti sono rivolte le parole di Qo 9 [ 1 0] : Tutto ciò che la tua mano può fare, fallo prontamente; c'è però una certa misura nell'adempimento di questo precetto, in base alla quale si evita il peccato: se cioè l'uomo fa quello che può fare secondo la condizione del suo stato; purché non ci sia verso il meglio quel disprezzo che chiude l'animo al progresso spirituale. 3. L' inosservanza di certi consigli fa sì che tutta la vita sia assorbita nelle faccende seco­ lari: è questo il caso dei possessi personali, del matrimonio o di altre cose del genere, che sono incompatibili con gli obblighi essenziali della vita religiosa. Perciò i religiosi sono tenuti a osservare tutti questi consigli. Ce ne sono invece altri che riguardano degli atti migliori particolari, e questi possono non essere osservati senza che per questo la vita di un uomo sia assorbita dalle faccende secolari. Per cui non è necessario che i religiosi siano obbligati a tutti questi consigli.

Articulus 3

Articolo 3

Utrum paupertas requiratur ad perfectionem religionis

La perfezione religiosa richiede la povertà?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod pauper­ tas non requiratur ad pertectionem religionis. l . Non enim videtur ad statum perfectionis pertinere illud quod illicite fit. Sed quod homo omnia sua relinquat, videtur esse illicitum, apostolus enim, 2 ad Cor. 8, dat formam fideli­ bus eleemosynas faciendi, dicens [ 1 2], si vo­

Sembra di no. Infatti: l . Non può essere richiesto per lo stato di per­ fezione ciò che è illecito. Ora, non è lecito che l'uomo lasci tulti i suoi beni: infalti Paolo così insegna ai fedeli riguardo al modo di fare l' elemosina: Se la volontà è pronta, è bene

luntas prompta est, secundum id quod habet, accepta est, idest, ut necessaria retineatis [int. et Lomb.] ; et postea subdit [2 Cor. 8, 1 3], non ut aliis sit remissio, vobis autem tribulatio, Glossa [int. et Lomb. super 2 Cor. 8, 1 3], idest, paupertas. Et super illud l ad Tim. 6 [8], ha­ bentes alimenta et quibus tegamur, dicit Glossa [Lomb.; cf. int. super 2 Cor. 8, 1 3], etsi nihil in­ tulerimus ve/ ablaturi simus, non tamen omni­ no abiicienda sunt haec temporalia. Ergo vi­

detur quod voluntaria paupertas non requiratur ad pertectionem religionis. 2. Praeterea, quicumque se exponit periculo,

accetta secondo quello che uno possiede (2 Cor 8, 1 2), «cioè in modo da ritenere i l necessario»; e aggiunge [ 1 3] : non si tratta di dare ad altri sollievo e a voi a.fllizione, «cioè povertà». E a proposito di l Tm 6 [8]: Avendo di che mangiare e di che coprirci, la Glossa

commenta: «Sebbene nulla abbiamo portato in questo mondo, e nulla porteremo via da esso, tuttavia i beni temporali non sono da disprezzarsi del tutto». Quindi la povertà vo­ lontaria non sembra indispensabile per la per­ fezione religiosa. 2. Chi si espone al pericolo commette pecca­ to. Ma chi, lasciati tutti i suoi beni, pratica la

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peccat. Sed ille qui, omnibus suis relictis, vo­ luntariam paupertatem sectatur, exponit se pe­ riculo, et spirituali, secundum illud Prov. 30 [9], ne forte, egestate compulsus, furer et periurem nomen Dei mei, et Eccli. 27 [ 1] , propter inopiam multi perierunt; et etiam corporali, dicitur enim Eccle. 7 [ 1 3], sicut pmtegit sapientia, sic pmtegit et pecunia. Et philosophus dicit, in 4 Ethic. [ 1 ,5], quod

povertà volontaria si espone al pericolo: sia al pericolo spirituale, secondo le parole di Pr 30 [9] : Perché ridotto all'indigenza non rubi e pmfani il nome del mio Dio, e di Sir 27 [ 1 ] : Per la miseria molti peccamno; sia al perico­ lo corporale, poiché i n Qo 7 [ 1 3] è detto:

videtur quaedam perditio ipsius hominis esse corruptio divitiarum, quia per has homo vivit.

l'uomo stesso, poiché con esse egli si sosten­ ta». Quindi sembra che la povertà volontaria non sia richiesta dalla perfezione della vita religiosa. 3. «La virtù consiste nel giusto mezzo», come insegna Aiistotele. Invece chi abbandona tutto con la povertà volontaria non sta nel giusto mezzo, ma va piuttosto a un estremo. Egli quindi non agisce in maniera virtuosa. Quindi ciò non appartiene alla perfezione della vita. 4. L'ultima perfezione dell'uomo consiste nella beatitudine. Ora, le ricchezze contribui­ scono alla beatitudine, poiché in Sir 3 1 [8] è detto: Beato il ricco che è tmvato senza mac­ chia. E il Filosofo insegna che le ricchezze servono «organicamente», ossia strumental­ mente, alla felicità. Quindi la povertà volonta­ ria non è richiesta dalla perfezione della vita religiosa. 5. Lo stato episcopale è più perfetto dello stato religioso. Ma i vescovi possono posse­ dere, come sopra si è visto. Quindi anche i religiosi. 6. Fare l'elemosina è un'opera graditissima a Dio: anzi, secondo il Crisostomo, «essa è il rimedio più efficace nella penitenza». Ora, la povertà impedisce l'elargizione dell'elemosi­ na. Quindi sembra che la povertà non sia richiesta dalla perfezione della vita religiosa. In contrario: Gregorio scrive: «Ci sono dei giusti che si preparano a scalare la cima della perfezione abbandonando tutti i beni esteriori, per il desiderio dei beni interiori tanto più ec­ celsi». Ora, disporsi a salire la vetta della per­ fezione è proprio dei religiosi, come si è detto. Quindi è indispensabile per essi abbandonare tutti i beni esterni con la povertà volontaria. Risposta: come si è già detto, lo stato religio­ so è un esercizio o tirocinio per giungere alla perfezione della carità. Ora, per questo è indi­ spensabile che uno distolga totalmente il pro­ prio affetto dalle cose del mondo. Dice infatti Agostino rivolgendosi a Dio: «Poco ti ama

Ergo videtur quod voluntaria paupertas non requiratur ad perfectionem religiosae vitae. 3 . Praeterea, virtus in medio consistit, ut di­ citur in 2 Ethic. [6,1 5]. Sed ille qui omnia di­ mittit per voluntariam paupertatem, non vide­ tur in medio consistere, sed magis in extremo. Ergo non agit virtuose. Et ita hoc non pertinet ad vitae perfectionem. 4. Praeterea, ultima perfectio hominis in bea­ titudine consistit. Sed divitiae conferunt ad beatitudinem, dicitur enim Eccli. 3 1 [8], bea­ tus est dives qui inventus est sine macula. Et philosophus dicit, in l Ethic. [8,1 6], quod di­ vitiae organice deserviunt ad felicitatem. Ergo voluntaria paupertas non requiritur ad perfectionem religionis. 5. Praeterea, status episcoporum est perfectior quam status religionis. Sed episcopi possunt proprium habere, ut supra [q. 1 85 a. 6] habi­ tum est. Ergo et religiosi. 6. Praeterea, dare eleemosynam est opus ma­ xime Deo acceptum, et, sicut Chrysostomus dicit [In Hebr. h. 9], medicamentum quod ma­ xime in poenitentia operatur. Sed paupertas excludit eleemosynarum largitionem. Ergo vi­ detur quod paupertas ad perfectionem religio­ nis non pertineat. Sed contra est quod Gregorius dicit, 8 Mor. [26], sunt nonnulli iustorum qui, ad compre­

hendendum culmen pelfectionis accincti, dum altiora interius appetunt, exterius cuncta de­ relinquunt. Sed accingi ad comprehendendum culmen perfectionis proprie pertinet ad reli­ giosos, ut dictum est [aa. 1-2]. Ergo eis com­ petit ut per voluntariam paupertatem cuncta exterius derelinquant. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 2] dictum est, status religionis est quoddam exercitium et disciplina per quam pervenitur ad perfectionem caritatis. Ad quod quidem necessarium est quod aliquis affectum suum

Come protegge la sapienza, così protegge anche il denam. E il Filosofo afferma che «la perdita delle ricchezze è come la perdita del­

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totaliter abstrahat a rebus mundanis, dicit enim Augustinus, in 10 Conf. [29], ad Deum loquens, minus te amat qui tecum aliquid amat quod non propter te amat. Unde et in li­ bro Octoginta trium Q. [36], dicit Augustinus quod nutrimentum caritatis est imminutio cupiditatis, pe1jectio, nulla cupiditas. Ex hoc autem quod aliquis res mundanas possidet, allicitur animus eius ad earum amorem. Unde Augustinus dicit, in Epistola ad Paulinum et Therasiam [ep. 3 1 ], quod terrena diliguntur

arctius adepta quam concupita. Nam unde iuvenis il/e tristis discessit, nisi quia magnas habebat divitias? Aliud est enim nolle incor­ porare quae desunt, aliud iam incorporata di­ vellere, il/a enim velut extranea repudiantur; ista velut membra praeciduntur. Et Chryso­ stomus dicit, Super Matth. [h. 63], quod ap­ positio divitiarum maiorem accendit jlam­ mam, et vehementior fit cupido. Et i nde est quod ad perfectionem caritatis acquirendam, primum fundamentum est volontaria pauper­ tas, ut aliquis absque proprio vivat, dicente Domino, Matth. 1 9 [2 1], si vis peifectus esse,

vade et vende omnia quae habes et da paupe­ ribus, et veni, sequere me.

Ad primum ergo dicendum quod, sicut Glos­ sa [Lomb. super 2 Cor. 8,13; cf. int.] ibidem subdit, non ideo dixit apostolus (scilicet, ut

vobis non sit tribulatio, idest paupertas), quin melius esser, sed infitmis timer, quos sic dare monet ut egestatem non patiantur. Unde simi­ liter etiam ex Glossa alia [ord. et Lomb. super l Tim. 6,8] non est intelligendum quod non

liceat omnia temporalia abiicere, sed quod hoc non ex necessitate requiritur. - Unde et Ambrosius dicit, in l De off. [30], Dominus non vult, scilicet ex necessitate praecepti,

simul effundi opes, sed dispensari, nisi forte ut Eliseus boves suos occidit et pavit paupe­ res ex eo quod habuit, ut nulla cura teneretur domestica. Ad secundum dicendum quod ille qui omnia sua dimittit propter Christum, non exponit se pericolo, neque spirituali neque corporali . Spirituale enim periculum ex paupertate pro­ venit quando non est volontaria, quia ex af­ fectu aggregandi pecunias, quem patiuntur illi qui involontarie sunt pauperes, incidit homo in multa peccata; secundum illud l ad T!m. 6 [9],

qui volunt divites fieri, incidunt in tentatio­ nem et in laqueum diaboli. Iste autem a:ffectus

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chi ama con te qualcosa che non ama per te». Per cui altrove egli dice che «il nutrimento della carità è la diminuzione della cupidigia; la sua perfezione l' assenza di ogni cupidigia>>. D'altra parte, se si possiedono i beni terreni, l ' animo è attratto ad amarl i . Scrive infatti Agostino che «i beni terreni posseduti sono più amati di quelli semplicemente desiderati. E in verità perché quel giovane si allontanò triste se non perché aveva grandi ticchezze? Poiché una cosa è il non voler incorporare ciò che non si ha, e un' altra il dover svellere ciò che è già incorporato: quello infatti è come un elemento estraneo che è ripudiato, questo è come un membro che si recide». E il Criso­ stomo afferma che «il possesso delle ricchez­ ze accende una fiamma più grande, e la cupi­ digia si fa più violenta>>. Dal che segue che per acquistare la perfezione della carità è in­ dispensabile come primo fondamento la po­ vertà volontaria, per cui uno vive senza alcu­ na proprietà personale, secondo le parole del Signore: Se vuoi essere peifetto, va ', vendi

quello che possiedi e dallo ai poveri; poi vieni e seguùni (Mt 1 9,2 1). Soluzione delle difficoltà: l . Come spiega bene nello stesso punto la Glossa, «Paolo non scrisse quelle parole (non si tratta di dare afflizione a voi, cioè povertà) per indicare ciò che era più perfetto, ma temendo per i deboli nella fede esorta a dare in modo da non esporsi al bisogno». E similmente l'altro testo della Glossa non va inteso nel senso che sia proibito disfarsi di tutti i beni temporali, ma nel senso che ciò non è indispensabile i n modo assoluto. - D a cui le parole di Ambro­ gio: «Il Signore non vuole», per necessità di precetto, «che le ricchezze siano date tutte in una volta, ma che siano distribuite: a meno che uno non voglia imitare Eliseo, il quale uc­ cise i suoi buoi e sfamò i poveri con le sue so­ stanze per liberarsi da ogni cura domestica>>. 2. Chi abbandona ogni cosa per Cristo non si espone ad alcun pericolo, né spirituale né cor­ porale. Dalla povertà infatti deriva un pericolo spirituale quando essa non è volontaria: poi­ ché l' uomo cade in molti peccati per il desi­ derio di arricchire, che è proprio dei poveri in­ volontari, secondo le parole di l Tm 6 [9] :

Coloro che vogliono diventare ricchi cadono nella tentazione e nel laccio del diavolo. Ma questa brama è deposta da coloro che abbrac-

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I principali elementi che costituiscono lo stato religioso

deponitur ab his qui voluntariam paupertatem sequuntur, magis autem dominatur in his qui divitias possident, ut ex dictis [in co.] patet. ­ Corporale etiam periculum non imminet illis qui, intentione sequendi Christum, omnia sua relinquunt, divinae providentiae se commit­ tentes. Unde Augustinus dicit, in libro De serm. Dom. [2, 17], quaerentibus regnum Dei

et iustitiam eius non debet subesse sollicitudo ne necessaria desint.

Ad tertium dicendum quod medium virtutis, secundum philosophum, in 2 Ethic. [6, 1 5] , accipitur secundwn rationem rectam, non secundum quantitatem rei . Et ideo quidquid potest fieri secundum rationem rectam, non est vitiosum ex magnitudine quantitatis, sed magis virtuosum. Esset autem praeter ratio­ nem rectam si quis omnia sua consumeret in intemperantiam, vel absque utilitate. Est au­ tem secundum rationem rectam quod aliquis divitias abiiciat ut contemplationi sapientiae vacet, quod etiam philosophi quidam fecisse leguntur. Dicit enim Hieronymus, in Epistola ad Paulinum [ep. 58], Crates ille Thebanus,

homo quondam ditissimus, cum ad philoso­ phandum Athenas pergeret, magnum auri pondus abiecit, nec putavit se posse simul di­ vitias et virtutes possidere. Unde multo magis secundum rationem rectam est ut homo omnia sua relinquat ad hoc quod Christum perfecte sequatur. Unde Hieronymus dicit, in Epistola ad Rusticum Monachum [ep. 1 25],

nudum Christum nudus sequere.

Ad quartum dicendum quod duplex est beati­ tudo sive felicitas, una quidem perfecta, quam expectamus in futura vita; alia autem imper­ fecta, secundum quam aliqui dicuntur in hac vita beati. Praesentis autem vitae felicitas est duplex, una quidem secundum vitam activam, alia vero secundum vitam contemplativam, ut patet per philosophum, in 1 0 Ethic. [7-8]. Ad felicitatem igitur vitae activae, quae consistit in exterioribus operationibus, divitiae instru­ mentaliter coadiuvant, quia, ut philosophus dicit, in 1 Ethic. [8, 1 6] multa operamur per

amicos, per divitias et per civilem potentiam, sicut per quaedam organa. Ad felicitatem

autem contemplativae vitae non multum ope­ rantur, sed magis impediunt, inquantum sua sollicitudine impediunt animi quietem, quae maxime necessaria est contemplanti. Et hoc est quod philosophus dicit, in 1 0 Ethic. [8,5],

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ciano la povertà volontaria, mentre domina i n coloro che possiedono l e ricchezze, come è evidente da quanto si è detto. E neppure esiste un pericolo corporale per coloro che abban­ donano tutto per seguire Cristo, poiché essi si affidano alla divina provvidenza. Da cui le parole di Agostino: «Chi cerca il regno di Dio e la sua giustizia non deve avere la preoccu­ pazione che gli manchi i l necessario». 3. n giusto mezzo della virtù, al dire del Filo­ sofo, va misurato «secondo la retta ragione», e non materialmente. Perciò tutto quanto me­ rita di essere fatto secondo la retta ragione non è peccaminoso per la sua grandezza, ma semmai è più virtuoso. Ora, sarebbe certo contro la retta ragione se uno sperperasse tutti i suoi beni nei bagordi, o senza utilità. Ma che uno si disfaccia delle ricchezze per attendere alla contemplazione della sapienza è secondo la retta ragione: e si legge che così hanno fatto anche alcuni filosofi. Scrive infatti Girolamo: «ll tebano Cratete, che un tempo era ricchissi­ mo, dirigendosi verso Atene per attendere alla filosofia gettò via una gran quantità di oro, pensando di non poter possedere insieme la virtù e la ricchezza>>. Molto più dunque è con­ forme alla retta ragione che uno abbandoni ogni cosa per seguire perfettamente Cristo. Da cui l 'esortazione di Girolamo: «Segui nu­ do Cristo nudo». 4. Ci sono due tipi di beatitudine, o felicità: la prima è la felicità perfetta che attendiamo nella vita futura. La seconda invece è imper­ fetta, ed è quella per cui chiamiamo felici alcuni uomini in questa vita. Ora la felicità della vita presente, come spiega il Filosofo, è anch'essa di due specie: la prima è propria della vita attiva, la seconda accompagna la vita contemplativa. Alla felicità dunque della vita attiva, che si esplica nelle azioni esterne, cooperano strumentalmente anche le ricchez­ ze, come scrive i l Filosofo: «Noi compiamo molte cose per mezzo degli amici, delle ric­ chezze e del potere civile, come servendoci di strumenti». Esse però non giovano molto nella vita contemplativa, ma sono piuttosto di impedimento, poiché con le loro preoccupa­ zioni disturbano la quiete deli' animo, che è sommamente necessaria ai contemplativi. Per questo il Filosofo sclive che «per l' azione si richiedono molte cose, ma per la speculazio­ ne non c'è bisogno di nessuna di esse», cioè

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ad actiones multis opus est, speculanti vero nullo talium, scilicet exteriorum bono­ rum, ad operationem necessitas, sed impedì­ menta sunt ad speculationem. Ad futuram quod

-

vero beatitudinem ordinatur aliquis per carita­ tem. Et quia voluntmia paupertas est efficax exercitium perveniendi ad perfectam carita­ tem, ideo multum valet ad caelestem beatitu­ dinem c onsequendam, unde et Dominus, Matth. 19 [2 1], dicit, vade et vende omnia

quae habes et da pauperibus, et habebis the­ saurum in caelo. Divitiae autem habitae per

se quidem natae sunt perfectionem caritatis impedire, principaliter alliciendo animum et distrahendo unde dicitur, Matth. 13 [22], quod sollicitudo saeculi et fallacia divitiarum suffocat verbum Dei; quia, ut Gregolius dicit [In Ev. h. 1 , 15 ] , dum bonum desiderium ad

cor intrare non sinunt, quasi aditum flatus vi­ talis necant. Et ideo difficile est calitatem

inter divitias conservare. Unde Dominus dicit, Matth. 19 [23], quod dives difficile intrabit in regnum caelorum. Quod quidem intelligen­ dum est de eo qui actu habet divitias, nam de eo qui affectum in divitiis ponit, dicit hoc esse impossibile, secundum expositionem Chryso­ stomi [In Matth., h. 63], cum subdit [24],faci­

lius est camelwn per fm·amen acus transire quam divitem intrare in regnum caelorum.

-

Et ideo non simpliciter dives dicitur [Eccli. 3 1,8] esse beatus, sed, qui inventus est sine macula et post aurum non abiit. Et hoc, quia rem difticilem fecit, unde subditur [9] , quis

est hic. Et laudabimus eum ? Fecit enim mira­ bilia in vita sua, ut scilicet, inter divitias posi­ tus, divitias non amaret. Ad quintum dicendum quod status episcopa­ lis non ordinatur ad perfectionem adipiscen­ dam, sed potius ut ex perfectione quam quis habet, alios gubernet, non salurn ministrando spiritualia, sed etiam temporalia. Quod perti­ net ad vitam activam, in qua multa operanda occurrunt instrumentaliter per divitias, ut dic­ tum est [ad 4]. Et ideo ab episcopis, qui profi­ tentur gubernationem gregis Christi, non exi­ gitur quod proprio careant, sicut exigitur a re­ ligiosis, qui profitentur disciplinam perfectio­ nis acquirendae. Ad sextum dicendum quod abrenuntiatio pro­ priarum divitiarum comparatur ad eleemosy­ narum largitionem sicut universale ad particu­ lare, et holocaustum ad sacrificium. Unde

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non servono i beni esterni; «anzi, essi sono di impedimento alla speculazione». - Alla beati­ tudine futura poi l'uomo è ordinato dalla carità. E poiché la povertà volontaria è un esercizio efficace per giungere alla carità per­ fetta, essa è un mezzo importante per conse­ guire la beatitudine celeste. Per cui il Signore dice: Va ', vendi quello che possiedi e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo (MI 19,21 ) . Invece le ricchezze possedute tendono per lo­ ro natura a impedire la perfezione della carità, principalmente in quanto seducono l'animo e lo distraggono. Infatti è detto che la preoccu­

pazione del mondo e l 'inganno della ricchez­ za soffocano la parola di Dio (Mt 13,22) , poi­ ché, come dice Gregorio, «non permettendo ai desideli buoni di entrare nel cuore, chiudo­ no la via alla linfa vitale». È quindi difficile conservare la carità in mezzo alle ricchezze. Per cui il Signore afferma che dij]icilmente un

ricco entrerà nel regno dei cieli (Mt 1 9,23). TI

che è da intendersi di chi possiede attualmen­ te le ricchezze: poiché, riguardo a chi mette il suo affetto nelle ricchezze, egli dice che è addilittura impossibile, stando alla spiegazio­ ne che il Crisostomo dà di quelle parole: È

più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli. Per cui è detto beato non il ricco in generale, ma quello che è trovato senza mac­ chia, e non corre dietm all 'oro. E ciò perché -

si tratta di una cosa difficile; il testo infatti continua [Sir 3 1 ,8]: Chi è costui, così che lo

loderemo ? Difatti egli ha compiuto meravi­ glie nella sua vita, è stato cioè tra le ricchezze

senza amare la ricchezza. 5. L o stato dei vescovi non è ordinato ad acquistare la perfezione, bensì a governare gli altri con la perfezione ormai raggiunta, ammi­ nistrando non solo i beni spirituali, ma anche quelli materiali. E questo è un compito della vita attiva, nella quale si presentano molte cose che vanno compiute servendosi delle ric­ chezze, come si è notato sopra. Perciò dai vescovi che hanno il compito di governare il gregge di Cristo non si esige la rinunzia alla proprietà come la si esige dai religiosi, i quali sono impegnati nell'acquisto della perfezione. 6. La rinunzia ai propri beni sta all'elemosina come l'universale sta al particolare, o come l' olocausto al sacrificio. Per cui Gregorio af­ ferma che «quanti soccorrono i poveri me-

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I principali elementi che costituiscono lo stato religioso

Gregorius dicit, Super Ez. [2,8], quod il/i qui ex possessis rebus subsidia egentibus ministrant, in bonis quae faciunt sacrificiwn offerunt, quia aliquid Deo immolant, et aliquid sibi reservant, qui vero nihil sibi rese111ant, offerunt holocaustum, quod est maius sacrificio. Unde etiam Hieronymus, Contra Vigil., dicit, quod autem asserir eos melius facere qui utantur rebus suis et pau/atim fructus possessionum pauperibus dividant, non a me eis, sed a Deo respondetur [Matth. 1 9,21 ], si vis pe1jectus esse, et cetera. Et postea subdit [Contra Vigil.], iste quem tu laudas, secundus et te11ius gradus est, quem et 1ws recipimus, dummodo sciamus prima secundis et tertiis praeferenda. Et ideo,

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tes cum dispensatione pauperibus erogare, melius est, pro intentione sequendi Dominum, insimul donare, et, absolutum sollicitudine, egere cum Christo.

diante il frutto dei loro averi, con il bene che fanno offrono un sacrificio, poiché immolano a Dio qualcosa riservandosi una parte; quelli invece che non si riservano nulla offrono un olocausto, che è più di un sacrificio». Da cui anche le parole di Girolamo: «Quando egli [Vigilanzio] afferma che fanno un'opera mi­ gliore quelli che usano dei loro beni e sparti­ scono ai poveri i l frutto dei loro averi, la risposta non la riceve da me, ma da Dio: Se vuoi essere peifetto», ecc. E continua: «Questo che tu lodi è [non il primo, ma] il secondo e il terzo grado: che anche noi accet­ tiamo, purché si riconosca che il primo va preferito al secondo e al terzo». Per confutare quindi l'errore di Vigilanzio� è detto nel De ec­ clesiasticis Dogmatibus: «E cosa buona fare elemosine ai poveri: è però cosa migliore dare tutto in una volta per seguire il Signore, e, li­ beri da ogni preoccupazione, essere indigenti con Cristo».

Articulus 4 Utrum perpetua continentia requiratur ad perfectionem religionis

Articolo 4 La perfezione religiosa richiede la continenza perpetua?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod per­ petua continentia non requiratur ad perfectio­ nem religionis. l . Omnis enirn Christianae vitae perfectio ab apostolis Christi coepit. Sed apostoli conti­ nentiam non videntur servasse, ut patet de Petro, qui socrum legitur habuisse, Matth. 8 [ 1 4] . Ergo videtur quod ad perfectionem religionis non requiratur perpetua continentia. 2. Practcrca, primum pcrfcctionis cxcmplar nobis in Abraham ostenditur, cui Dominus dixit, Gen. 17 [ 1 ], ambula coram me, et esto peifectus. Sed exemplatum non oportet quod excedat exemplar. Ergo non requiritur ad per­ fectionem religionis perpetua continentia. 3 . Praeterea, illud quod requiritur ad perfec­ tionem religionis, in omni religione invenitur. Sunt autem aliqtù religiosi qw uxoribus utun­ tur. Non ergo religionis perfectio exigit perpe­ tuam continentiam. Sed contra est quod apostolus dicit, 2 ad Cor. 7 [ 1 ], mundemus nos ab amni inquinamento

Sembra di no. Infatti: l. Tutta la perfezione della vita cristiana è ini­ ziata a partire dagli apostoli di Cristo. Ma sembra che gli apostoli non abbiano praticato la continenza, come è evidente nel caso di Pietro, il quale aveva la suocera (cf. Mt 8,14). Quindi per la perfezione dello stato religioso sembra che non sia richiesta la continenza perpetua. 2. n primo modello di perfezione noi lo tro­ viamo in Abramo, al quale il Signore disse:

camis et spiritus, perficientes sanctificatio­ nem nostram in tinwre Dei. Sed munditia car­

ogni macchia della carne e dello spirito, por­ tando a compimento la nostra santificazione nel timore di Dio (2 Cor 7, l ). Ora, la purezza

ad excludendum errorem Vigilantii, dicitur in libro De ecci. dogmat. [71], bonum estfaculta­

nis et spiritus conservatur per continentiam, dicitur enirn l ad Cor. 7 [34], mulier innupta

Cammina alla mia presenza e sii peifetto (Gen 17, l ). Ora, non è necessario che la copia sia superiore al modello. Quindi la perfezione dello stato religioso non esige la continenza perpetua. 3. Ciò che è richiesto per la perfezione dello stato religioso deve riscontrarsi in ogni reli­ gione. Ci sono invece dei religiosi che fanno vita coniugale. Quindi la perfezione religiosa non esige la continenza perpetua. In contrario: Paolo dice: Puri.fichiamoci da

della carne e dello spirito si custodisce me-

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et virgo cogitar quae Domini sunt, ut sit sancta corpore et spiritu. Ergo perfectio religionis requirit continentiam. Respondeo dicendum quod ad statum re­ ligionis requiritur subtractio eorum per quae homo impeditur ne totaliter feratur ad Dei ser­ vitium. Usus autem carnalis copulae retrahit animum ne totaliter feratur in Dei servitium, dupliciter. Uno modo, propter vehementiam delectationis, ex cuius frequenti expetientia augetur concupiscentia, ut etiam philosophus dicit, in 3 Ethic. [ 1 2,7]. Et inde est quod usus venereorum retrahit animam ab illa perfecta intentione tendendi in Deum. Et hoc est quod Augustinus dicit, in l Solil. [ 1 0], nihil esse sentio quod magis ex arce deiiciat animum vi­ rilem quam blandimenta feminae, corpo­ rumque il/e contactus sine quo uxor haberi non potest. - Alio modo, propter sollicitu­ dinem quam ingerit homini de gubematione uxoris et filiorum, et rerum temporalium quae ad eorum sustentationem sufficiant. Unde apostolus dicit [ l Cor. 7 , 3 2] quod qui sine uxore est, sollicitus est quae sunt Domini, quomodo placeat Deo, qui autem cum uxore est, sollicitus est quae sunt mundi, quomodo placeat uxori. Et ideo continentia perpetua requiritur ad perfectionem religionis, sicut et volontaria paupertas. Unde sicut damnatus est Vigilantius [cf. Contra Vigil.], qui adaequavit divitias paupertati; ita damnatus est Iovinia­ nus, qui adaequavit matrimonium virginitati. Ad primum ergo dicendum quod perfectio non solum paupertatis, sed etiam continen­ tiae, introducta est per Christum, qui dicit, Matth. 1 9 [ 1 2], sunt eunuchi qui castravenmt seipsos propter regnum caelontm, et postea subdit, qui potest capere, capiat. Et ne alicui spes perveniendi ad perfectionem tolleretur, assumpsit ad petfectionis statum etiam illos quos invenit matrimonio iunctos. Non autem poterat absque iniuria tìeri quod viri uxores desererent, sicut absque iniuria tìebat quod homines divitias relinquerent. Et ideo Petrum, quem invenit matrimonio iunctum, non sepa­ ravit ab uxore. Ioannem tamen nubere volen­ tem a nuptiis revocavit. Ad secundum dicendum quod, sicut Augusti­ nus dicit, in libro De bono coniug. [22], me­ Ilor est castitas caelibum quam castitas nup­ tiarum, quarum Abraham unam habebat in usu, ambas in habitu. Caste quippe coniugali-

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diante la continenza, poiché è detto: La donna non sposata, come la vergine, pensa alle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito (l Cor 7,34). Quindi la perfezione re­ ligiosa richiede la continenza. Risposta: lo stato religioso esige l'eliminazio­ ne di quanto impedisce all'uomo di attendere interamente al servizio di Dio. Ora, l'unione sessuale in due modi distoglie l'animo dal­ l'applicarsi totalmente al servizio di Dio. Pri­ mo, per la violenza del piacere, il cui frequen­ te godimento accresce la concupiscenza, co­ me nota anche il Filosofo. Per cui l'uso delle realtà veneree distoglie l'anima dal suo impe­ gno totale di tendere a Dio. Da cui le parole di Agostino: «Penso che per espugnare un ani­ mo virile nulla sia più efficace delle attrattive di una donna, e di quel contatto carnale indi­ spensabile nella vita coniugale». - Secondo, per le preoccupazioni derivanti dal governo della moglie, dei figli e dei beni temporali ne­ cessari al loro sostentamento. Infatti Paolo dice: Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Si­ gnore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie (l Cor 7 ,32). Quindi la perfezione religiosa richiede la continenza perpetua, come anche la povertà volontaria. Per cui come fu condannato Vigilanzio, il quale mise la ricchezza alla pari della povertà, così fu condannato Gioviniano, il quale equiparò il matrimonio alla verginità. Soluzione delle difficoltà: l . Non solo la per­ fezione della povertà, ma anche quella della continenza ebbe inizio da Cristo, il quale dis­ se: Ci sono degli eunuchi che si sono resi tali per il regno dei cieli, e aggiunse: Chi può capire, capisca (Mt 1 9, 1 2). Tuttavia, per non togliere a nessuno la speranza di raggiungere la perfezione, egli chiamò allo stato di perfe­ zione anche persone già sposate. Però non si poteva evitare di fare un torto se i mariti aves­ sero abbandonato le loro mogli, mentre non si faceva alcun torto abbandonando le ticchezze. E così il Signore non separò dalla moglie Pietro, che trovò già sposato. Egli invece «distolse dalle nozze» Giovanni, «che voleva sposarsi». 2. Come dice Agostino, «la castità dei celibi è superiore a quella degli sposati; e Abramo praticò solo la seconda, pur avendo l'abito di

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ter vixit, esse autem castus sine coniugio po­ tuit, sed tunc non oportuit. Nec tamen quia antiqui patres perfectionem animi simul cum divitiis et matrimonio habuerunt, quod ad magnitudinem virtutis pertinebat, propter hoc infirmiores quique debent praesumere se tantae virtutis esse ut cum divitiis et matrimo­ nio possint ad perfectionem pervenire, sicut nec aliquis praesumit hostes inermis invadere quia Samson cum mandibula asini multos hostium peremit. Nam illi patres, si tempus fuisset continentiae et paupertatis servandae, studiosius hoc implessent. Ad tertium dicendum quod illi modi vivendi secundum quos homines matrimonio utuntur, non sunt simpliciter et absolute loquendo religiones, sed secundum quid, inquantum scilicet in aliquo participant quaedam quae ad statum religionis pertinent.

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entrambe. Visse infatti nella castità coniugale, anche se avrebbe potuto vivere casto nel celi­ bato; ma allora ciò non era opportuno». Tutta­ via per il fatto che gli antichi Patriarchi, per la loro grande virtù, ebbero la peifezione spiri­ tuale nonostante le ricchezze e il matrimonio, le anime più deboli non devono presumere di avere una vittù così grande da raggiungere la perfezione facendo uso di tali cose: come nes­ suno presume di aftì"ontare inerme dei nemici per il fatto che Sansone uccise molti nemici con una mascella d'asino. Se infatti allora fosse stato il momento di osservare la conti­ nenza e la povertà, gli antichi Patriarchi l'a­ vrebbero osservata scrupolosamente. 3. Quei generi di vita nei quali si permette di usare il matrimonio, assolutamente parlando non sono istituti religiosi; lo sono però in sen­ so lato, in quanto hanno in uso certe pratiche che sono proprie dello stato religioso.

Articulus 5 Utrum obedientia pertineat ad perfectionem religionis

Articolo 5 La perfezione religiosa richiede l'obbedienza?

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod obedientia non pertineat ad perfectionem religionis. l . llla enim videntur ad petfectionem religionis pertinere quae sunt supererogationis, ad quae non omnes tenentur. Sed ad obediendum prae­ latis suis omnes tenentur, secundum illud apo­ stoli, Hebr. 1 3 [ 17], obedite praepositis vestris, et subiacete eis. Ergo videtur quod obedientia non pertineat ad peifectionem religionis. 2. Praeterea, obedientia proprie pertinere videtur ad eos qui debent regi sensu alieno, quod est indiscretorum. Sed apostolus dicit, ad Hebr. 5 [14], quod peifectorum est solidus

Sembra di no. Infatti: l . Alla peifezione religiosa appartengono le opere supererogatorie, alle quali non tutti sono tenuti. Ma a ubbidire ai propri superiori sono tenuti tutti, secondo le parole di Eb 1 3

nutrimento solido è per i pelfetti, per quelli cioè che hanno le facoltà esercitate a distin­ guere il bene dal male (Eb 5,14). Perciò sem­

go videtur quod obedientia non pertineat ad statum perfectorum. 3. Praeterea, si obedientia requireretur ad per­ fectionem religionis, oporteret quod omnibus religiosis conveniret. Non autem omnibus convenit, sunt enim quidam religiosi solita­ riam vitam agentes, qui non habent supe­ riores, quibus obediant. Praelati etiam religio­ num ad obedientiam non videntur teneri. Er­ go obedientia non videtur pertinere ad perfec­ tionem religionis.

bra che l 'obbedienza non riguardi lo stato di perfezione. 3. Se per la perfezione religiosa si richiedesse l'obbedienza, questa dovrebbe addirsi a tutti i religiosi. Invece non si addice a tutti: poiché ci sono dei solitari che non hanno dei superio­ ri a cui ubbidire. E del resto anche i prelati degli istituti religiosi non sono tenuti all' ob­ bedienza. Quindi l' obbedienza non è richiesta dalla perfezione religiosa. 4. Se il voto di obbedienza fosse richiesto dalla vita religiosa, i religiosi sarebbero tenuti a ubbidire in tutto ai loro prelati: come con il

cibus, qui pro consuetudine exercitatos ha­ bent sensus ad discretionem boni et mali. Er­

[ 17]: Obbedire ai vostri capi e state loro sot­ tomessi. Quindi l ' obbedienza non sembra essere tra i requisiti della perfezione religiosa. 2. L'obbedienza si addice a quelli che devono essere governati dal senno altrui in quanto mancanti di discernimento. Ora, è detto che il

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Iprincipali elementi che costituiscono lo stato religioso

4. Praeterea, si votum obedientiae ad religio­ nem requireretur, consequens esset quod reli­ giosi tenerentur praelatis suis in omnibus obe­ dire, sicut et per votum continentiae tenentur ab omnibus venereis abstinere. Sed non tenen­ tur obedire in omnibus, ut supra [q. 104 a 5] habitum est, cum de virtute obedientiae agere­ tur. Ergo votum obedientiae non requiritur ad religionem. 5. Praeterea, illa servitia sunt Deo maxime ac­ cepta quae liberaliter et non ex necessitate fiunt, secundum illud 2 ad Cor. 9 [7], non ex tristitia aut ex necessitate. Sed illa quae ex obedientia fiunt, fiunt ex necessitate praecep­ ti. Ergo laudabilius fiunt bona opera quae quis propria sponte facit. Votum ergo obedientiae non competit religioni, per quam homines quaerunt ad meliora promoveri. Sed contra, perfectio religionis max i me consistit in imitatione Christi, secundum illud Matth. 19 [2 1 ], si vis peifectus esse, vade et vende omnia quae habes et da pauperibus, et veni, sequere me. Sed in Christo maxime commendatur obedientia, secundum illud Phil. 2 [8], Jactus est obediens usque ad mor­ tem. Ergo videtur quod obedientia pertineat ad perfectionem religionis. Respondeo dicendum quod, sicut supra [aa. 2-3] dictum est, status religionis est quaedam di­ sciplina vel exercitium tendendi in perfectio­ nem. Quicumque autem instruuntur vel exerci­ tantur ut perveniant ad aliquem finem, oportet quod directionem alicuius sequantur, secun­ dum cuius arbitrium instruantur vel exer­ citentur, quasi discipuli sub magistro. Et ideo oportet quod religiosi, in his quae pertinent ad religiosam vitam, alicuius instructioni et impe­ rio subdantur. Unde et 7, q. l [Decretum, p. 2, causa 7, q. l , can. 45], dicitur, monachorum vita subiectionis habet verbum et discipulatus. Imperio autem et instructioni alterius subiicitur homo per obedientiam. Et ideo obedientia requiritur ad religionis pertectionem. Ad primum ergo dicendum quod obedire praelatis in his quae pertinent ad necessitatem virtutis, non est supererogationis, sed omni­ bus commune, sed obedire in bis quae perti­ nent ad exercitium petfectionis, pertinet pro­ prie ad religiosos. Et comparatur ista obedien­ tia ad aliam sicut universale ad particolare. llli enim qui in saeculo vivunt, aliquid sibi reti­ nent et aliquid Deo largiuntur, et secundum

Q. 1 86, A. 5

voto di castità sono tenuti ad astenersi da ogni piacere venereo. Invece essi non sono tenuti a ubbidire in tutto, come si è dimostrato sopra nel trattare della virtù dell'obbedienza. Quin­ di per la vita religiosa non si richiede il voto di obbedienza. 5. li servizio più gradito a Dio è quello presta­ to spontaneamente e non per necessità, secon­ do le parole di 2 Cor 9 [7]: Non con tristezza, né perforza. Ora, le cose tàtte per obbedienza sono fatte in forza di un precetto. Perciò sono più lodevoli le opere buone tàtte spontanea­ mente. Quindi il voto di obbedienza non si addice alla vita religiosa, con la quale si tende alle opere migliori. In contrario: la perfezione religiosa consiste soprattutto nell'imitazione di Cristo, secondo le sue stesse parole: Se vuoi essere perfetto, va ', vendi quello che possiedi e dallo ai po­ veri, poi vieni e seguimi (Mt 1 9,2 1 ). Ma la realtà più lodata in Cristo è l'obbedienza, se­ condo le parole di Fil 2 [8]: Si è fatto obbe­ diente sino alla morte. Quindi l'obbedienza sembra essere un requisito della perfezione religiosa. Risposta: come si è notato, lo stato religioso è un tirocinio o esercizio per raggiungere la per­ fezione. Ora, chi è istruito o esercitato per il conseguimento di un fine deve seguire la dire­ zione di qualcuno da cui dipenda nell'istruzio­ ne e f!ell' esercizio come un discepolo dal mae­ stro. E quindi necessario che i religiosi, in ciò che riguarda la vita religiosa, stiano soggetti all'istruzione e al comando di qualcuno. Nei Canoni infatti si legge: