Grande antologia filosofica Marzorati. Il pensiero contemporaneo. Sezione seconda [Vol. 28]

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Grande antologia filosofica Marzorati. Il pensiero contemporaneo. Sezione seconda [Vol. 28]

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GRANDE ANTOLOGIA FILOSOFICA diretta da MICHELE FEDERICO SCIACCA coordinata da MARIA A. RASCHINI e PIER PAOLO OTTONELLO

MARZORATI- EDITORE- MILANO

Proprietà letteraria riservata CO Copyright 197.7 by Marzorati Editore S.r.L

Milano

IL PENSIERO CONTEMPORANEO (Sezione Seconda)

Volume Ventottesimo

IN D I C E

FRANCESCO BARONE

Neopositivismo e filosofia analitica

pag.

l

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451

hTRODUZIO:SE: I. l. a problemat·icità deU'inlerpretaz:ione. - II. Le­ fmtti ed i precedenti del noopositiL•ismo. . l. Il ve cchi o e il nuoyo po· sit'ivismo. • 2. E. )lach e l'empiriocriticismo . • 3. Logica e materna· tica. 4. Il « Tractatus >l di Wittgcnstein. - III. Il Neopositit:ismo. l. La sua prima fase: !lnalisi logica. del linguaggio c antimetafisica . • 2. Fisicalismo e scienza unificata. 3. La sintassi logica del linguaggio. 4. Dopo il Wiener Kreis: pragmatismo e s emantica logica. • 5. Pro ba. bilità ed induzione . • 6. La cr isi dell'empirismo radicale. - IV. La filo­ sofia analitica. l. La tradizione inglese dell'analisi. 2. Il c l' anali si a Cambridge. • 3. Due pensatori tra neo p osi · tivismo c filosofia analitica: W;lismann e Aver. · -l. Analisti di Oxford: Ryle, Austin, Stra\vson. 5. Hare e le ana Ù si del li nguaggio morale. • 6. La filosofia analitica e il problema religioso. - V. Al di fuori del· l'ortodossia neopositit:ista ed analitica. l. Quine. Popper. - Biblio· grafia eHenziale.

2. L. Wittgenstein. . 3. M. Schlick . . 4. P. TESTI: l. E. l\Iach. 6. R. Carnap. 7. H. Feigl. • 8. H. ReichcnFrank . • 5. O. �curath. bach. - 9. C.G. Hempel. . 10. F. Waismann. . 11. A.J. Ayer. . 12. G. 16. I.T. Ryle. 13. J.L. A ustin. • 14. P . F. Strawson. 15. R.M. H arc . Ramsey. • 17. W. v. Q. Quinc. 18. K.R. Poppcr.

GIANFRANCO MoRRA

Teologia e filosofia della religione dalla seconda metà dell'BOO ad oggi hrRODt!ZIONE: I. L'epoca del protestantesimo libenile. · Il. La crisi modernista . . III. • La fenomenologia de� sacro. IV. Ln filosofia feno­ menologica della re li gi o ne . V. L a teologia protestante. VI. La t eolo· gia cattolic.a . • VII. La teologia ortodos�a. . YIII. Ebraismo e teologia . • IX. La teologia radic.a)e. X. L11 teologia della ;;p e r anza . - Biblio · · wafia essen:;iale.

TESTI: I. L'EPOCA DEL PROTESrA:-IITSBIO UBERALE: l. E. Renan. 3. A. von Harnac.k. 4. A. Sabatier. - II. LA CRISI MODER:»ISTA: l. A. Lo i s y . 2. G. Tyrrell. 3. F. \'On Hii gel. • 4. E. Buonaiuti. 5. L. Laberthonnière. 6. E. Le Ro}'. - III. LA 3. K. KeFENOMENOI.OGIA UF� SACRO: l. R. Otto. 2. F. Heiler. 5. M. Eliade. - IV. LA nr.osoFJA FE�O· rényi . • 4. G. van der Lecuw.

2. .·\. Ritschl.

VIII

INDICE

MENOLOGICA DELLA RELIGIONE: l. M. Scheler . • 2. N. Har lmann • • 3. H. Duméry. - V. LA TEOLOGIA PROTESTANTE: l. K. Barth. 2. E. Brunner. 3. R. Bultmann . • 4. P. Tillich . • 5. O . Cullmann. 6. A. �)·· gren . • 7. R. Niebuhr. • 8. F. Gogarten. - VI. LA TEOLOGU CATTOLICA; l. M.J. Scheeben. 2. K. Adam . • 3. R. Guardini. · 4. Ch. Journct. 5. H.U. von Balthasar . • 6. H. De Lubac. · � J. Daniélou . • 8. A. Brun· 10. K. Rahner. - VII. L\ TEOLOGIA ORTO· ncr. 9. H. Rahner. DOSSA: l. ((Racconti di un pellegrino russo''· • 2. S. Bulgakov. · 3. V, Losski. • �- P. Evdokimov. - VIII. EBRAIS;> (1). II cc neoempirismo» nel suo insieme avrebbe poi avuto una evoluzione arti­ colata in tre fasi : la prima, caratterizzata all'inizio del secolo dalla cc rivol­ ta antidealistica >> di Ruesell e Moore a Cambridge, ove si sarebbe formata anche la dottrina del Wittgenstcin; la seconda, dagli anni venti sino allo scoppio della guerra mondiale, costituita dallo sviluppo del Wiener Kreis concluso dalla sua diaspora in Inghilterra e in America; la terza, infine, a partire dagli anni del conflitto e tuttora aperta, con lo sviluppo dell'ana­ lisi linguistica inglese, l'epistemologia del Popper e le concezioni logico­ epistemologiche del Quine (2). È evidente che i titoli delle antologie hanno molto di convenzionale, e cosi è anche per quella, utilissima, del Pasquinelli. Ma le convenzioni possono essere talvolta fuorvianti. E cosi è nel caso in questione, specie per la connessione che si stabilisce tra il « neoempirismo >> e la tradizione empiristica classica. Infatti, se pare accettabile l'accostamento, diciamo, a Hume di alcuni temi iniziali del Circolo di Vienna, sarebbe almeno bisognosa di chiarificazione, invece, la qualifica di neoempirista per un Quine di cui pur si riporta lo scritto sui Due dogmi delr empirismo, ove si mostra mal fondata la > diventa equivoca, perché essi si differenzianq dall'empirismo tradizionale, in quanto il loro inte­ resse non è volto alla genesi empirica delle nostre idee a partire dai dati di senso, bensi a ciò che le nostre idee significano ed esprimono. Anche a prescindere da queste connotazioni specifiche, l'etichetta di vi ennese : in par­ ticolare, Ernst Mach e l'empiriocriticismo, e il pensiero del Wittgenstein secondo l'interpretazione del Wiener Kreis. È evidente che il momento preparatorio del neopositivismo va integrato anche di altri elementi, come il logicismo e l'atomismo logico di Bertrand Russell ( pur essendo i testi di questo autore non antologizzati in questa sezione). Seguirà un'analisi dei principali temi neopositivistici sia ·attraverso l'opera degli autol'i qui an­ tologizzati ( Schlick, Carnap, Frank, Neurath, Reichenhach, Feigl, Hempel), sia attraverso i contributi di pensatori che non appartengono al neopositi­ vismo in senso stretto e che pure hanno contribuito allo sviluppo delle sue idee (come Morris e Tarski). Attraverso la tradizione mooriana e russelliana, il pensiero del > Wittgenstein (ma nell'antologia dei testi, per comodità, i passi dalle Philosophische Untersuchungen sono posti subito di seguito a quelli tratti dal Tractatus) e quello di due pensatori come Waismann ed Ayer, che hanno vissuto sia l'esperienza neopositivista che quella pia stretta­ mente analitica, si passerà poi ad individuare vari aspetti della filosofia analitica inglese, soprattutto attraverso l'opera degli autori qui antologiz­ zati ( Ryle, Austin, Strawson). Ma ancor piu che per i neopositivisti, sa­ rebbe falsante voler forzare gli analisti entro l'àmbito di scuole (Cambridge, con Wisdom ad esempio, ed Oxford) o peggio ancora di un movimento uni­ tario. Integra questa sommaria indicazione della filosofia analitica, la considerazione dell'analisi del linguaggio morale dello Hare e quella del linguaggio religioso del Ramsey, che sono i due autori qui antologizzati, ma sono soltanto singoli esempi di una vastissima serie di autori che affron­ tano problemi analoghi con una gran varietà di orientamenti e di per­ sonali argomentazioni. Ho ritenuto infine opportuno concludere la scelta antologica con passi di due autori, come Quine e Popper, che non è possibile far rientrare in modo rigoroso né nell'àmbito del neopositivismo né in quello della filo­ sofia analitica e che tuttavia mostrano l'incidenza che hanno avuto ed han­ no queste due correnti sul pensiero contemporaneo, anche a proposito di autori che non accettano le tesi piu caratterizzanti di esse. Una testimonian­ za della loro attualità.

Il. LE FONTI ED I PRECEDENTI DEL NEOPOSITIVISMO l.

Il vecchio e il nuovo positivismo

Se, sulla base delle considerazioni precedenti, stabiliamo di indicare con il termine > il corpo delle concezioni sostenute da quel gruppo di pensatori che si presentò sulla scena filosofica internazionale verso la fine degli anni venti del nostro secolo con il nome di « Circolo di Vienna >> (W iener Kreis) e di tutti gli sviluppi che a quelle concezioni si

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ispirarono nel seguito in senso stretto, il primo problema che si presenta è quello della genesi storica di tale movimento. Esporremo in seguito le vicende concrete che portarono nel 1929 alla costituzione ufficiale del Cir­ colo - con la pubblicazione del suo «manifesto», composto dal sociologo Otto Neurath e firmato anche dal matematico Hans Hahn e dal filosofo Rudolf Carnap: Wissenschaftliche Weltauflassung: Der Wiener Kreis -e poi alla sua diffusione; ma è già possibile anticipare un'osservazione. Come risulta dalla stessa pluralità dei presentatori del manifesto, il Wiener Kreis non fu una «scuola>> , ma sin dall'inizio, un'associazione di uomini diversi per formazione ed attività professionale, uniti tuttavia da una comune esi­ genza: quella di una wissenschaftliche Weltauflassung, di una concezione scientifica de] mondo. Quale era il modello culturale a cui essi guardavano e da cui si senti­ vano accomunati nonostante le differenze dei loro interessi specifici? Che essi si siano a un certo punto associati dipende certo dalla particolare si­ tuazione accademica dell'Univeì-sità di Vienna in quegli anni; ma c'è anche una base ideale che ha reso possibile la loro associazione: un complesso di dottrine e di problemi vivi nella cultura del tempo e che essi sentivano tali anche indipendentemente dalle loro attività piti strettamente profes­ sionali. È questo insieme di dottrine e di problemi che costituisce le fonti ed i precedenti del neopositivismo. Si può tentare di ricostruirlo seguendo le indicazioni contenute nel sopra citato manifesto di presentazione del Wiener Kreis, ove si elencano le principali tendenze che confluirono assieme, dalla storia della scienza e della filosofia, nella prospettiva dei membri del Circolo, unitamente ai nomi degli autori piu rappresentativi di esse e particolarmente letti. u l) Po­ sitivismo ed empirismo: Hume, Illuminismo, Comte, J. S. MiJl, Richard Avenarius, Mach. 2) Fondamenti, scopi e metodi della scienza empirica (ipotesi in fisica, geometria, ecc.): Helmboltz, Riemann, Mach, Poincaré, Enriques, Duhem, Boltzmann, Einstein. 3) Logistica e sua applicazione al­ la realtà: Leibniz, Pcano, Fregc, Schroder, Russell, Whitehead, Wittgen­ st�in. 4) Assiomatica: Pasch, Peano, Vailati, Pieri, Hilbert. 5) Edonismo e sociologia positiva: Epicuro, Hume, Bentham, J. S. Mill, Comte, Feuerbach, Marx, Spencer, Miiller-Lycr, Popper.Lynkeus, Cari Menger (senior) >> (8). È un elenco lungo e caratteristico, perché gli autori vengono presi in considerazione non tanto per il complesso della loro opera, hensi per aspetti particolari di essa. Ciò che interessa in Leibniz, ad esempio, è soltanto la sua logica e non certo la sua metafisica monadologica o i suoi scritti di diritto e di morale, come se ciascuno di questi aspetti fosse isqlabile senza falsificazioni; cosi, per Marx si prende in considerazione solo la sua analisi scientifica della storia e non certo la sua logica dialet­ tica. n filo rosso che tiene assieme in un'unica prospettiva pensatori cosi diversi è allora facilmente individuabile : si tratta sempre di mettere in risalto, da punti di vista diversi, l'apprezzamento altamente positivo per l'atteggiamento > e per i metodi in esso elaborati. Viene cosi in luce la componente piu specifica del Wiener Kreis e del neopositivismo, quella che risulterà costante anche in tutti gli sviluppi e le polemiche interne: l'attenzione e la predilezione esclusiva per l'attegWeltauf/assung: 'Der Wiener Kreis, t r. ingl. in Ono NE t:· Empiricism and Sociology, ed. by M. Neurath and R. S. Cohen, Dordrccht-Boston,

(8) Cfr. Wissensclwftliche

RATH,

1973, p.

304.

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giamcnto ed i metodi della scienza, per lo spirito illuministico c la ricerca fattuale antimetafisica. Nonostante le resistenze e le reviviscenzc contrarie, i neopositivisti erano convinti che l'atteggiamento scientifico fosse destinato a subentrare ad ogni interpretazione mistica, teologica o metafisica della esperienza. Gli autori a cui si fa riferimento sono piu letti secondo questo canone ideale che secondo i loro principi. La connessione con il positivi­ amo ottoccntesco diventa in tal modo evidente. Non si tratta di riprendere le soluzioni o anche le a1·gomentazioni dei positivisti del secolo prece­ dente, poiché assai spesso esse erano ancora permeate di metafisica, non risentendo l'influsso diretto dei metodi della scienza; si tratta piuttosto di conservare su nuove basi l'entusiasmo e il tono mi pare esprimere nel modo piu efficace l'orientamento di fondo del Wiener Kr�is: la conti­ nuità e, al tempo stesso, l'innovazione rispetto al positivismo ottocentesco. Altre espressioni come o «empirismo logico n forse richiamano meglio il carattere dell'innovazione ; ma il termine suddetto è il piu opportuno per suggerire la predilezione per un rinnovamento della tradizione scicntista o s toricamente sussistente o idealmente «costruita>>. Il duplice richiamo a Hume, il pensatore che voleva estendere i meto­ di scientifici newtoniani anche alla considerazione dell'uomo, è significa­ tivo in proposito. Ma esso è significativo anche da un altro punto di vista; cioè, per ciò che concerne il carattere dell'innovazione del neopositivismo nei confronti del positivismo ottoccntesco. La celebre conclusione di An Enquiry Concerning Human .Understanding potrebbe infatti essere presa co­ me motto per la realizzazione del programma neopositivista : «Quando scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi principi, che cosa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, per esem­ pio' di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci : Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza? No. E al­ lora, gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie ed inganni>> (9). Si può dire che il rinnovamento del vecchio positivismo, pur nella conservazione del suo spirito scientistico, poteva attuarsi proprio attra­ verso la riassunzione della concezione humeana circa la «analiticità >> delle «relazioni di idee>> ( della matematica e della logica) c dell'«empiricità >> delle «questioni di fatto >>. Ma tra Hume e il Wiener Kreis era intercorso un lungo periodo di tempo, durante il quale s'era andata smarrendo la compresenza possibile di una fisica empiricamente fondata e di una ma­ tematica analiticamente necessaria. Nel positivismo ottocentesco, anche pe1· la matematica e per la logica si cercava una fondazione empirica, in modo analogo a quello per le conoscenze di fatto ( come nel caso di John Stuart Mill); e tale concezione - entro cui era difficile rendere conto deU'univer­ salità e necessità delle asserzioni matematiche - perdurava nonostante i singolari approfondimenti della ricerca matematica nel corso del secolo. La riassunzione della concezione humeana non poteva quindi essere im­ mediata : essa andava invece mediata attraverso gli apporti culturali della riflessione critica sia sulle scienze fisiche sia sulle discipline matematiche. Per la prima, i membri del Wiener Kreis disponevano di tutti ·

(9)

Tr.

it. in

D.

Hul\u:, Opere, Bari, 1971,

vol. II, p.

175.

lO

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gli elementi, poiché era proprio da Vienna che, tra i due secoli, Ernst Mach' aveva diffuso la sua concezione empiriocriticista di risonanza mon­ diale; per la seconda, essi si trovavano di fronte all'opera vastissima com­ piuta in campo logico e sui fondamenti della matematica e mirabilmente riassunta e potenziata, da un lato, da Gottlob Frege e Bertrand Ruesell e, dall'altro, dai lavori di assiomatica, da Pasch a Hilbert, attraverso l'opera dei logici e matematici italiani (Peano, Vailati, Pieri).

2. Ernst Mach e l'empiriocriticismo È noto che l'empiriocriticismo, o filosofia dell'« esperienza pura », ossia libera da tutte le eovrastrutture del pensiero e riportata al puro contenuto della sensazione, ha avuto due fondatori, Richard Avenarius ed Ernst Mach, del tutto indipendenti l'uno dall'altro e che nemmeno mai si incontrarono di persona. L'intento comune è quello di prescindere da ogni infiltrazione di concetti metafisici - quale che sia la loro origine: la soggettività, la tra­ dizione o l'ambiente - tra le testimonianze date dagli elementi dell'espe­ rienza pura, non trascendibile in alcun modo. È su questa base che va costruito l'intero edificio della conoscenza, che si presenta come scienti­ fico proprio in quanto prescinde da variazioni individuali e lascia cadere la distinzione tradizionale tra « mondo esterno>> e « mondo interno>>. La descrizione del contenuto e della forma dell'esperienza pura dà la base e il fondamento delle varie scienze particolari, il cui intento è di raggrup­ pare entro formule, secondo un principio economico di semplicità e abbre­ viazione, la molteplicità dei dati sensibili, al fine di previsioni o di un orien­ tamento pratico-biologico di ciò che indichiamo come > umani. La priorità cronologica nella costituzione dell'empiriocriticismo spetta in realtà all'Avenarius ( 1843-1896) che sin dal 1876 ne delineò i tratti es­ senziali nella sua dissertazione di abilitazione pubblicata a Lipeia, Philoso­ phie als Denken der Welt gemiiss dem Prinzip des kleinsten Kraftmasses, piu tardi sviluppati (Lipsia, 1888-90) nei due volumi della Kritik der reinen Erfahrung. La descrizione che Avenarius dà dell'esperienza pura, muovendo da presupposti biologici, è tuttavia condotta con una terminologia artifi­ ciosa ed ostica che ostacolò non poco la diffusione del suo pensiero. Certo, l'empiriocriticismo senza le doti di scrittore brillante e chiaro del Mach non avrebbe avuto il successo di cui godette. Basti confrontare, ad esempio, la complicata esposizione di ciò che Avenarius chiama il proce­ dimento di introiezione (da cui nasce il soggettivismo) con la condanna machiana del soggettivismo stesso, cioè dell'intendere la rappresentazione del mondo come rappresentazione. L'importanza dell'Avenarius nel1a preparazione del neopositiviemo è assai piu indiretta di quella del Mach. Essa si è manifestata attraverso l'opera di Joeef Petzoldt ( 18621929), autore di una Ein/iihrung in die ,Philosophie der reinen Erfahrung (Lipsia 1899-1904), e che fu anche tra gli editori delle opere postume del­ l'Avenarius. Egli mantenne viva la tradizione empiriocriticistica in Berlino, fondando nel 1912 la , ai cui lavori parteciparono Rane Reichenbach, W alter Dubislav e Kurt Grelling, cioè alcuni dei piu noti studiosi del gruppo berlinese che negli anni trenta si affiancò al Wiener Kreis. Dal '21 sino alla morte, inoltre, Petzoldt diresse gli >, che nel '30, con il titolo di ( 12). Sfugge cosi a Mach che ogni proposizione matematica, in quanto generale, necessita di premesse non basate su fatti sensibili, poiché la conoscenza sensibile è sempre ristretta a ciò ch'è parti­ colare. Di questa insufficienza vi erano fisici che già si erano resi conto ancora vivente Mach ; ancora il Frank, descrivendo le idee che egli andava discutendo dopo il 1907 (anno della sua laurea) con alcuni amici, tra cui il Neurath e lo Halm (futuri membri del Wiener Kreis), afferma : > come fili o raggi di luce) è certo possibile, se il comportamento degli enti fisici che si coordinano agli enti del sistema ipotetico-deduttivo è de­ scrivibile mediante le strutture di questo. Abbiamo allora un sistema di geo­ metria > o > che si può controllare empiricamente nella sua applicabilità ; ma tutto ciò non ha nulla .che vedere con la > della pura teoria geometrica come sistema ipotetico-deduttivo. Quello che conta in quest'ultimo è solo la consistenza delle conseguenze rispetto alle P,remesse. Questo esito della rivoluzione matematica ottocentesca ha due conse­ guenze di forte rilievo. In primo luogo, per ciò che concerne la genesi del neopositivismo, la rinuncia alla concezione kantiana della matematica come conoscenza sintetica a priori porta acqua al mulino della critica all'a priori in generale. Uno dei punti su cui fa leva l'empirismo radicale, anche quando ha ormai acquisito la consapevolezza dell'impossibilità della fondazione empirica della matematica, è proprio il fallimento del trascen­ dentalismo kantiano di fronte agli sviluppi della matematica ottocentesca. Se il ricorso trascendentale all'a priori non si giustifica nemmeno nel campo matematico, nonostante l'universalità e la necessità in esso presenti, si giustifica ancor meno a proposito delle categorie cui si fa appello nel­ l'interpretazione dell'esperienza fisica. In secondo luogo, attraverso l'assiomatizzazione - che esprime il « to­ no >> delle ricerche matematiche ottocentesche - si impone con forza an­ cora maggiore la questione circa la natura della > matematica. L'impostazione e la soluzione di tale questione era del resto condizionata da alcuni fatti che avevano accompagnato lo sviluppo della matematica nell'Ottocento : cioè, il rinnovamento delle ricerche di logica formale, fa­ vorito dalla stessa esigenza di revisione criticamente rigorosa di branche del­ la matematica (come l'algebra e l'analisi infinitesimale) o dalla costitu­ zione di nuove branche di essa, come la teoria degli insiemi. Ad esempio, proprio dalle ricerche dei matematici inglesi di metà Ottocento sui fonda­ menti dell'algebra è nata, ad opera di George Boole ( 1815-1864), quel­ l'« algebra della logica >> a cui si può far risalire la > della matematica e della logica (nel senso dei kantiani giudizi ana­ litici), una via, cioè, che negasse la portata conoscitiva di tali discipline. E fu appuuto tale mediazione che i neopositivisti trovarono nel Tractatus logico-philosophicus èli Ludwig Wittgenstein, uscito dapprima in tedesco nel 1921 sugli > e l'anno dopo a Londra, con traduzione inglese a fronte e introduzione di Bertrand Russell. 4. Il

>

del Wittgenstein

L'introduzione di Russell ebbe un peso decisivo sul « modo di leggere » il Tractatus sia in Inghilterra sia in Germania ed in Austria. Essa induceva il lettore a considerare quell'opera nel filone di pensiero a cui il Russell stesso aveva contribuito con le sue ricerche logiche ed epistemologiche : è significativo, ad esempio, che nella già ricordata lista dei precursori del Wiener Kreis data dal Neurath nell'opuscolo sulla wissenschaftliche Welt­ auffassung, il nome del Wittgenstein chiuda la serie di quelli elencati sotto il titolo >. « Fondat·e >> non può pit.i voler dire (come a lungo s'era inteso) ridurre un sistema ad un altro pit.i semplice, poiché non tutto ciò che è dicibile nel sistema piu ricco è riducibile a quello pit.i semplice (se que­ st'ultimo non è contraddittorio, il che lo renderebbe inutile a scopi dedutti­ vi); > , cc giusto », ecc.) non possono essere ridotti a ter­ mini di contenuto empirico. Ma ciò non significa, come riteneva Moore, che i valori siano qualcosa di oggettivo, da cogliere immediatamente nella loro assolutezza. Secondo il criterio empirico di significanza l'asserzione cc Que­ sto è buono >> è priva di significato, anche se ha la forma grammaticale di cc Questo è rosso >> . La soluzione del problema etico sta nel negare il carat­ tere di effettiva asserzione all'espressione cc Questo è buono >> : si tratta sem­ plicemente della manifestazione di un'emozione, di una preferenza pura­ mente soggettiva, che potrebbe benissimo essere sostituita da una esclama­ zione. In tal modo sembrava che il neopositivismo fosse esteso anche a campi d'indagine toccati solo marginalmente dal Wiener Kreis ; ma le conseguenze furono invece imprevedibili : la tesi etica dell'Ayer, non facilmente difendi­ bile, fu subito sottoposta a una vivace discussione in Inghilterra ; e ciò fa­ vori l'ampliamento dell'analisi di là dal linguaggio della scienza, ampli a­ mento che è tipico della :filosofia linguistica inglese. Nello stesso Ayer, del resto, vi è un graduale allontanamento dal neopo­ sitivismo. Nel libro del '40 dedicato a I fondamenti della conoscenza empirica, sono ancora percepibili le risonanze del verificazionismo. Ma egli sente for­ temente la carica :filosofica della tradizione empiristica inglese, a cui si ac­ costa, piuttosto che subire il fascino delle versioni fisicaliste del neopositi­ vismo, che per timore di ricadute nella metafisica pretendono che l'analisi non trascenda in alcun modo il linguaggio. Dando inizio nel '47 ai suoi corsi nell'università di Londra, cosi terminava la sua lezione inaugurale : > (44); le « stranezze >> metafisiche ci inducono in realtà a guardare con occhi diversi il mondo ed i fatti consueti. In questa concezione della filosofia che, attraverso l'analisi, rende piu nuova ed acuta la nostra visione del mondo vi sono molti punti di affinità tra Ayer e Waismann, sebbene essi siano giunti a questa comu­ nanza conclusiva battendo vie diverse. Ciò che merita d'essere sottolineato, tuttavia, è che essendo entrambi partiti dal neopositivismo - la fase « di­ struttiva >> di quella rivoluzione in filosofia che è costituita dall'analisi lin­ guistica - hanno personalmente visto l'esito di tale rivoluzione in un rin­ saldamento della continuità con il passato. -

4. Analisti di Oxford: Ryle, Austin, Strawson

Già s'è accennato in precedenza come il gruppo pm numeroso di anali­ sti inglesi si sia formato nell'Università di Oxford, tanto che si è parlato comunemente di una « Scuola di Oxford n o di > per indicare la corrente di pensiero che, tra le due guerre mondiali e, soprattut­ to, dopo la fine della seconda, ha concentrato l'attività filosofica sull'analisi del linguaggio ordinario._ Ma giova qui ripetere che il termine « scuola n va preso in senso molto lato, sia perché non si tratta di trasmissione di dot­ trine ma di analogie tra stili nel filosofare, sia perché non c'è un « capo­ scuola n che· abbia dato un tono univoco al movimento. Le personalità di Gilbert Ryle e di John Austin, che hanno esercitato l'influenza piu ampia e profonda, differiscono notevolmente tra di loro, nonostante il comune orien­ tamento analitico. Soffermeremo quindi la nostra attenzione su questi due pensatori e su Peter Frederick Strawson, che è la figura di maggior spicco tra gli analisti piu giovani, la cui attività filosofica rientra tutta nel dopo(43) A. J. AYEn, Philosophy and Language ( 1960), in The C.oncept of a Person and Other Essays, Londra, 1963, p. 28. (44) A. J. AYER. Metaphysics and Common Sense, Londra, 1969, p. 81.

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guerra. Ciò non significa che siano irrilevanti i contributi di una nutrita schiera di altri anaJisti (45); ma i tre filosofi suddetti illustrano in modo ec­ cellente la varietà entro l'unità dell'orientamento. Gli oxoniensi non furono certo chiusi alle suggestioni provenienti dal (( secondo » Wittgenstein, ma non si può considerare il movimento di Oxford come un semplice riflesso della rivoluzione filosofica di Cambridge. Le radici lontane dell'analisi del linguaggio ordinario si sprofondano nello . stesso am­ biente culturale di Oxford, ove alla fine del secolo scorso s'era verificato anzi, con un certo anticipo - qualcosa di analogo a quanto abbiamo già visto essere accaduto a Cambridge con il Moorc e con il Russell : il passaggio da un'iniziale adesione, in campo filosofico, al neohegelismo ad una critica in senso rea1istico delle tesi piu paradossali di questo. J ohn Cook Wilson ( 1849-1915) fu la figuu piu npprescntativa di tale mutamento : e la sua im­ portanza sta soprattutto nel modo di filosofare che gli fu proprio e nell'in­ flusso che esso esercitò su numerosi allievi ( H. A. Prichard, H. W. B. Joseph, W. D. Ross, ecc.) che costituiscono la generazione di docenti sotto cui si for­ marono gli (( analisti » piu anziani di Oxford. Austin, ad esempio, segui le lezioni di Harold Arthur Prichard. Il metodo del Wilson non mirava alla costruzione ed al sistema, ma era piuttosto critico ed analitico : i problemi erano affrontati singolarmente, senza tendere ad una visione d'insieme, e c'era piu interesse per mettere in luce gli errori logici delle soluzioni altrui che per la ricerca di una soluzione personale. Questa puntualità delle inda­ gini si tramanda ancor oggi attraverso il procedimento esemplificativo ed an­ tigeneralizzante degli analisti. Su questa comune matrice oxoniense ogni analista lascia poi l'impronta dei suoi interessi e della sua formazione specifica. Ciò si scorge con partico­ lare spicco in Gilbert Ryle, già filosoficamente operante negli anni trenta. Su Ryle, ad esempio, l'influsso del (( secondo >> Wittgenstein si esercita solo molto tardi, quando la sua problematica è già costituita, e non incide in modo decisivo sul suo orientamento. I classici studiati da Ryle, Platone ed Aristotele, gli forniscono dei modelli di analisi concettuale che conservano una validità attuale ; e un analogo orientamento verso tale tipo di analisi gli viene dalle dottrine contemporanee con cui egli si affronta nella sua gio­ vinezza : la fenomenologia husserliana e la logica russelliana. Alla fenome­ nologia - che poi in seguito criticherà nei suoi esiti trascendentalistici o esi­ stenzialistici - Ryle dà inizialmente la sua adesione in quanto descrizione di ciò che l'esperienza trova nel mondo, indipendentemente da pregiudicate costruzioni sistematiche e da ogni forma di psicologismo. E la logica russel­ liana, specie con le sue teorie delle descrizioni e dei tipi gli pare un ottimo strumento per eliminare paradossi ed antinomie logiche dalle costruzioni elevate sull'esperienza spregiudicata. Ma la fenomenologia gli appare sug­ gestiva soprattutto per lo sforzo ch'essa fa di trovare una collocazione all'at­ tività filosofica, senza ridurla a scienza particolare e pur conservandone la rigorosità. Ed anche se le soluzioni husserliane di tale problema non lo sod­ disfano, egli darà sempre un posto cent1·ale, nella sua speculazione, alla que­ stione circa la natura, il metodo e lo scopo della ricerca filosofica. (45) Tra i filosofi del gruppo oxoniense, il quale comprende ormai uomini di due ge. nerazioni, possono essere ricordati : G. E. M. Anscombe, I. Bcrlin, P. L. G a rdin er, H. P. Grice, H. L. A. Hart, B. Mc:Guinness, P. H. Nowell Smith, D. F. Pears, S. E. Toulmin. J. O. Urmson, G. J. Warnoc k , B. A. O. Williams.

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È in questa prospettiva che si viene delineando la sua concezione della filosofia come analisi linguistica. Non è certo il linguaggio ideale della lo­ gica quello che dev'essere al centro dell'attenzione, ma piuttosto il linguag­ gio ordinario. Esso è « pre-teorico >> nello stesso modo in cui è « pre-categoria­ le >> l'esperienza a cui mira la fenomenologia : ed è in questa base comune, attentamente descritta, che noi possiamo cogliere i lineamenti variati, il loro intreccio, la genesi delle costruzioni sistematiche. Ryle è d'accordo con Rus­ scll - come mostra il saggio giovanile Espressioni sistematicamente svian­ ti (46) - nel ritenere che noi siamo spesso « fuorviati >J dal linguaggio stesso che usiamo, perché essendo prigionieri di certi modelli linguistici, ci ser­ viamo di espressioni astratte da essi e non adatte a ciò di cui vogliamo par­ lare. Per l'analisi filosofica, un primo compito è scoprire queste violazioni dell'uso corrente che danno luogo a espressioni prive di senso : si tratta di mostrare gli « errori categoriali >> che sono impliciti in ciò. Se, ad esempio, si parla dell'homo oeconomicus e delle sue caratteristiche, sarebbe un co­ mico errore categoriale se -- suggestionati dal fatto che noi spesso parliamo di un signor X e delle sue caratteristiche anagrafiche - ci chiedessimo i dati anagrafici del suddetto homo oeconomicus, scambiato per un individuo. Ma gli errori categoriali piu interessanti nascono non quando non si sa usare correttamente un'espressione, bensi allorché, pur facendolo, non si è in grado di determinare le regole di tale uso : se non è troppo difficile parlare in modo sensato « mediante n i concetti, lo è assai di piu il parlare « intorno >> ad essi. Un ulteriore compito dell'analisi è quindi quello di determinare la > delle espressioni usate, cioè le loro relazioni con il con­ testo in cui significano, la loro potenza logica. C'è qui qualcosa di piu della terapia del Wittgenstein, di cui Ryle pur accetta la teoria funzionale del si­ gnificato. Egli non vede nei problemi filosofici solo imbarazzi grammaticali : come appare in Dilemmi ( 1954) la soluzione di annose controversie filosofi­ che diventa possibile quando - attraverso il potenziamento della « geografia logica >> si comprende che le tesi contrapposte appartengono a universi linguistici differenti. Ma in tal modo non c'è solo il dileguarsi di un dilemma, bensi anche una potenziata padronanza del nostro apparato concettuale. L'esemplificazione pio nota del procedimento ryleano è il Concetto tklla mente (1949) : la « geografia logica >> da studiare è qui quella che conceme i concetti fondamentali di cui ci serviamo per descrivere e interpretare la nostra vita mentale. L'esito a cui giunge Ryle è la distruzione del « mito cartesiano n della dualità fondamentale tra natura e spirito, corpo ed anima. Di fronte ai paradossi di questo mito pare piu sensata una spiegazione com­ portamentistico-biologica in cui il parlare delle nostre ed altrui proprietà e qualità « mentali n viene riportato al discorso sul contesto o.rganico e reale in cui si esplicano le nostre vite e, anche, i nostri « pensieri n . L'aspetto piu interessante dell'opera non è tuttavia l'implicito richiamo a quella che po­ trebbe essere considerata ( come lo è stato da qualcuno) una metafisica mo­ nistica. Esso sta piuttosto nelle sottili analisi con cui Ryle esamina espres­ sioni che noi usiamo di continuo (come « essere tristi n o « allegri n, « osser­ vare con attenzione » o « distrattamente » , « agire per vanità n o « per orgo­ glio n , ecc.), sicuri di essere capiti, ma in cui non è affatto chiaro ciò che vogliamo affermare. Quando passiamo sul piano teorico dell'esplicazione -

( 46)

Socicty

G. RYLE, Systematically Misleading Expressions, nei ed « apparenza » ( come avviene mediante gli aggettivi « apparente >> , « rea­ le >> , « illusorio >> o i verbi « apparire », « sembrare » , ccc.), ovc Austin per­ viene al risultato di porre in dubbio le basi della soluzione fcnomenista e scettica del problema della conoscenza. Oppure quello 1·elativo alle espres­ sioni di scusa, per ciò che concerne il problema della responsabilità ; o, an­ cora, quello dell'uso di « se » e « potere » ( come nella proposizione « posso farlo, se Io voglio >> ) per la questione della libertà e del determinismo. I ri­ sultati piu noti sono tuttavia quelli a cui Austin è pervenuto nell'analisi della contrapposizione di > , Austin ha insistito nel ricer­ care l'aspetto performativo anche in espressioni (come quelle che usano « co· noscere >> e « sapere >> ) che ne paiono prive. Si che - circa il problema del significato egli è pervenuto a riconoscere la fondamentale importanza che hanno sia le motivazioni e gli scopi di colui che parla ( l'atto illocutorio) sia le conseguenze che si producono o si tentano di produrre con l'atto del par­ lare ( atto perlocutorio ). Diventa cosi essenziale per il significato non sol· tanto il rapporto tra parole e cose, bensi anche il modo in cui l'attività lin­ guistica opera nei suoi intenti e nei suoi risultati, cioè, secondo l'indicativo titolo dato a una sua opera postuma, il modo « come si fanno delle cose con delle parole >> . L'apologia del linguaggio ordinario contro le . pretese dci difensori delle costruzioni linguistiche artificiali e tecniche è anche il punto di partenza del piu giovane dei tre analisti studiati in questo paragrafo, P. F. Strawson. Uno dei suoi primi lavori è, infatti, una critica alla teoria delle descrizioni del Russell ; e, in breve, egli giunse a una piu generale contrapposizione tra logica « formale >> e logica « informaJe >> . Il motivo profondo di ciò è che come Strawson ha cercato di mostrare nel suo volume Introduzione alla teo­ ria logica (1952) - non è possibile usare lo strumento della logica matema­ tica ( e nemmeno quello, piu semplice ma egualmente orientato, della logica aristotelica) per l'analisi del linguaggio ordinario, in quanto quest'ultimo non possiede una logica esatta. Il formalismo logico - utile, ad esempio, nelle questioni dei fondamenti della matematica - non è adatto per cogliere i fatti del linguaggio ordinario ; anzi, finisce con lo sviare la considerazione di essi o con l'occulta1·li perché concentra l'attenzione sulla forma deg]i enunciati, trascurando le questioni sia del loro riferimento sia del contesto m cui sono concretamente inseriti per i fini della comunicazione. L'attenzione esclusiva per la logica formale è del resto uno dei motivi -·

- ·

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per cui ( come è avvenuto per il Russell) si apre la via all'empirismo ed al conseguente riduzionismo, con i noti esiti scettici in campo filosofico. Con questi presupposti si comprende il tono !! kantiano » che assume lo sviluppo successivo dell'analisi dello Strawson, il quale ha dedicato anche un saggio alla Critica cklla ragion pura. L'empirismo è insufficiente per rispondere alla domanda sulla possibilità dell'uso concreto del linguaggio ; si tratta, piutto­ sto, di descrivere la struttura concettuale che sottostà al linguaggio e che ci permette di parlare del mondo e di comunicare tra di noi. In lndividuals ( 1959), Strawson ricerca quale schema concettuale sia quello con cui indi­ viduiamo e conosciamo ciò di cui si parla : è uno schema spazio-temporale entro cui le !< sostanze » ( i soggetti delle nostre proposizioni) sono gli og­ getti materiali e le persone. Con questa struttura, il linguaggio ordinario la­ scia dietro di sé, con un balzo, l'artificiosa questione della costituzione delle cose o delle persone a parthe dai dati di senso, questione che è il tormento paralizzante dell'empirismo scettico. Il caso di lndividuals è solo un esempio di quella « metafisica descritti­ va >> i n cui lo Strawson vede attualmente il compito dell'analisi. Egli distin­ gue due aspetti della metafisica, quello riformatore e quello descrittivo. n primo concerne tutto ciò che mira ad un ;miglioramento del sistema concet­ tuale di cui noi disponiamo effettivamente. Ma questo aspetto della ricerca metafisica è in certo modo subordinato a quello descrittivo. Aristotele e Kant sono i due maggiori esempi di metafisici descrittivi ; e lo Strawson si pro­ pone di continuare sulla via da essi aperta : cioè, la via che vuoi portare alla esplicitazione di quelle categorie e strutture concettuali del nostro pen­ siero e del nostro linguaggio che rimangono inalterate pur entro i mutamenti dell'ambiente storico. Sarebbe forzato voler desumere sicure indicazioni di tendenza all'interno di un movimento che, come quello della filosofia analitica inglese, è cosi multiforme e vivo da poter riservare ogni sorpresa. Ma, per quanto è già ac­ caduto, non è certo forzata una constatazione : come già s è visto nel caso del neopositivismo (nelle cui ultime manifestazioni cessa ogni funzione po­ lemica dell'originale empirismo), cosi anche nel movimento analitico, dal secondo Wittgenstein ad oggi, ci troviamo innanzi a una graduale attenua­ zione della funzione di rottur a dell'analisi ed a una sempre piu ampia aper­ tura di essa ad accogliere in chiave linguistica una genuina problematica fi­ losofica, con espliciti richiami al passato. '

5. Hare e le analisi del linguaggio morale Il quadro della filosofia analitica inglese non sarebbe tuttavia completo, anche soltanto nelle sue linee generali senza qualche cenno sulle indagini specifiche a proposito di alcuni usi particolari del linguaggio, come quello morale e religioso. Già s'è detto che la differenziazione piu evidente tra neo­ positivismo e filosofia analitica è soprattutto nell'interesse del primo esclu­ sivamente per il linguaggio scientifico, mentre la seconda si apre ad una consider> ( 52), ed in realtà molte delle discussioni sull'argomento faranno un chiaro riferimento alla tesi del Flew, che - avvalendosi della concezione popperiana della falsificazione come criterio di demarcazione tra le proposizioni metafisiche e quelle scientifi­ che - indica nella mancanza di falsificabilità « il male endemico del discor­ so teologico >> (53). Come si vedrà tra poco, parlando del Popper, la falsifica­ bilità non è un criterio di significanza, ma di scientificità, sicché il male del discorso teologico nc.n �.arebbe la mancanza di senso, bensi di p01'tata cono­ scitiva, di controllabilità empirica. Quando il credente parla di un amore di Dio per gJi uomini, è facile obiettargli la presenza dcl1a sofferenza nel mondo. Ma, per il credente, ciò non falsifica la sua tesi, poiché egli può ri· fugiarsi nell'ipotesi ad hoc secondo cui l'« amore divino >> va inteso in sen­ so diverso dal semplice amore umano ; c cosi via. Ma in tal modo, secondo F1e�-, l'affermare che Dio ama gli uomini, non può mai trovare qualcosa che lo smentisca, e quindi non ci dà alcuna conoscenza. Le risposte che meglio Eemhrano soddisfare alla sfida del Flew sono quel­ le che vengono da Ilare (54), l'analista del linguaggio morale, e da un gmp­ po di altri studiosi come Paul van Buren, R. B. Braithwaite e R. Hepbum, ecc. ( 55). Esse consistono, nel complesso, nel risolvere il discorso religioso ( 51) Cfr. A. l•'u:w, Theology and Falsification, in New Essays elc., cit. ( 52) Cfr. W. T. BLACKSTONE, The Problcm of Religious Knowledge, Englcwood Cliffs , 1963, p. 73. S i veda inoltre D. ANTISERI, Filosofia analitica e semantica del linguaggio reli. gio.m, Brescia, 19743, cap . 7. Il libro dell'Antiseri è assai utile per l'intera problcmatica di questo paragrafo. ( 53) Cfr. A. FLEW, Theulogy and Falsifi,clltiun, cit., p. 97. (54) R. M. HAR&, Theology and Falsification, in New Essays etc., cit. (55) Cfr. D. ANTISI>HI, op. cit., cap. 8. Si veda : di P. VAN BuREN, The Secular Meaning of the Gospel, Londra, 1963 ; di R. B. BRAITHWAITK, An Empiricist's View of the Nature of Religious Belief, Cambridge, 1955 ; di R. HEPDUHN, Christianity and Paradox, Londra, 1958.

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Fr�NCESCO BARONE

in quello etico, come una delle poi:sihilità che caratterizzano le scelte di fondo della vita morale. Questa è, tipicamente, la posizione dello H:nc che nel discorso religioso non vede una serie di proposizioni �>ul mondo, hcnsi piuttosto un orientamento globale verso di esso. Come ogni atteggiamento morale, anche quello religioso può avere una serie di controlli, ma non può essere definitivamente fondato.

V. AL DI FUORI DELJ}ORTODOSSIA NEOPOSITIVISTA ED ANALITICA l.

Quine

La fertilità delle idee sostenute dai neopositivisti e dai :filosofi anali­ tici si può cogliere ancor meglio �e non si guarda esclusivamente ai pensa­ tori che possono essere inclusi in senso stretto sotto quelle denominazioni. Non si tratta di assumere queste in semo troppo vago e generico ; né di fin· gersi immaginari sviluppi del neopositivismo e della :filosofia analitica che permettano di inserire sotto tali etichette pensatori che non le hanno ac· cettate : contro ciò già abbiamo messo in gua1·dia nella prima sezione di questa introduzione. La fertilità e attualità di quelle idee viene in luce at· traverso qualcosa di molto piu semplice : la loro presenza come tema di di­ scussione e spunto per sviluppi originali in pensatori che tuttavia banno una ben precisa ed autonoma :fisionomia. Una considerazione ampia ed esauriente in tale direzione implicherebbe un riferimento a tutto il pensiero contempo· 1·aneo che -- in senso positivo o negativo - non ha potuto non fare i conti con le correnti dell'analisi. Ma, poiché ciò non è qui né possibile né oppor· tuno, mi limiterò, a conclusione della mia presentazione, a dare un cen· no su due outsiders del neopositivismo e della :filosofia analitica, i qua­ li sono tra le personalità di maggior spicco del pensiero contemporaneo e mostrano con grande chiarezza l'importanza che nella formazione delle loro idee hanno avuto sia l'interesse per il linguaggio ed i suoi problemi di si gni­ ficato sia quello, dominante, per la ricerca epistemologica. Si tratta dello americano Willard Van Orman Quinc e dell'austriaco (poi naturalizzato in· glese) Karl Raimund Popper. I contributi tecnici dati dal Quine alla logica formale lo pongono tra i massimi logici del Novecento : basterebbe da solo alla sua fama il nuovo sistema di logica fondato sulla teoria della , ad esempio, ed una concezione nuova dell'epi­ stemologia, che non mira piu a ricostruzioni assolute e quindi a contenere in sé, in qualche modo, la scienza, bensi si riconosce parte della scienza.

(56) W. V. O. QUINE, Two Dogmas of Empiricism ( 1951 ; poi rist. in From a Logica! Point of View, Cambridge, Mass., 1953), tr. it. in Il neoempirismo, cit., p. 888. (57) W. V. O. QurNE, Ontological Relativity, in Oni!ological Relativity and Other Es.yays, Nuova York-Londr;�, 1969, pp. 26-27.

FIIANCESCO BARONE

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L'epistemologia è un capitolo della psicologia e quindi della scienza : « Essa studia un fenomeno naturale, cioè un soggetto fisico umano. A questo sog· getto è dato un certo input sperimentalmente controllato - per esempio, certe strutture di radiazioni in varie frequenze - e nel corso del tempo il soggetto trasmette come output una descrizione del mondo esterno tridimen­ sionale e della sua storia >> (58). Ed in questo suo parlare del mondo il soggetto porta tutto il condizionamento delle sue strutture : è questo, infatti, il significato dell'insistenza del Quine sulla > , a proposito delle questioni del significato e del linguaggio. In breve, per indicare sinteticamente l'aspetto specifico del > quineano, si può sottolineare il carattere tentativo e non garantito da alcuna certezza o distinzione assoluta che - attraverso le sue indagini - appare proprio del cononoscere e del vivere umani.

2. Popper A un esito non dissimile, sebbene lungo vie diverse, meno pragmat1sti· che e piu : ma le cose stanno ben diversamente. Non si tratta infatti di un criterio di . La co­ noscenza scientifica, come in genere ogni conoscenza, è costituita da suppo· sizioni, congetture o ipotesi che possono essere suggerite da tanti motivi. In ciò non si differenziano dalle congetture che si dicono (una serie grandissima di casi favorevoli non può fondare una legge universale), bensi possibilità che l'ipotesi venga smentita, cioè falsificata, dal­ l'esperienza. Cosi Popper ritiene di interpretare in modo corretto l'appello all'espe· rienza che viene da tutta la scienza moderna, e che spesso le concezioni fi. losofiche hanno travisato nel senso > di una costruzione della conoscenza assolutamente fondata sulla base dei dati di senso. Popper con­ sidera illusoria la fiducia in fonti privilegiate di conoscenza, siano poi esse individuate nei sensi o nella ragione o nell'unione ( neopositivistica) di em­ pirismo e concezione analitica della ragione. Non c'è alcuna garanzia della ( 58) Op. oit.,

pp. 82-83.

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validità del nostro conoscere ; è ve1·o anzi il contrario : noi cc possiamo im­ parare dagli errori >> (59). In questa prospettiva diventa insostenibile una epi­ stemologia di stampo induttivistico : conoscere non è accumulare dati, poi­ ché già nell'osservazione è all'opera la proposta di un'ipotesi e non c'è quindi alcun salto ( da giustificare induttivamente) tra l'osservazione pura e la legge universale. L'epistemologia non può quindi fare a meno di riconoscere l'im­ portanza dell'apriori. Popper è esplicito nel rifarsi a Kant che, per lui, era nel giusto quando sosteneva che il nostro intelletto non trae le leggi dalla natura ma le impone ad essa. cc Ma sbagliava nel ritenere che dette leggi fossero necessariamente vere, o che noi riuscis�;�imo senz'altro ad imporle alla natura. La natura assai spesso si oppone molto efficacemente, costringendoci ad abbandonare le nostre leggi in quanto confutate ; ma, finché viviamo, pos­ siamo riprovarci ancora n ( 60). Le conseguenze di questa concezione epistemologica non si linùtano al campo della metodologia delle scienze della natura. Nel mito della certezzà, combattuto dai suoi principi epistemologici, Popper vede non solo un peri­ colo per il progredire della conoscenza, bensi anche una minaccia per le istituzioni sociali e politiche. Alla convinzione di possedere le fonti sicure della verità, si accompagna spesso il cc fanatismo >> . Ed è dal punto di vista dell'apprezzamento della libertà individuale che Popper ha esaminato e cri­ ticato in The Open Society and lts Enemies le varie forme del fanatismo politico, da Platone al contemporaneo storicismo marxista. Anche in Popper, del resto, come in Quine, la concezione epistemologi­ ca implica una cc metafisica n , cioè una generale concezione dell'uomo e del­ l'essere. Ed anche eu questo punto vi sono affinità tra i due autori. Per Pop­ per, infatti, il procedere della scienza attraverso tentativi e correzioni di er­ rori non si spiegherebbe in un mondo retto da un rigido determinismo, ove ogni cosa fosse già prefissata dal passato. Esso si inquadra meglio, invece, in una concezione evoluzionistica che consideri il mondo fisico come un si· stema aperto e la vita stessa come un processo per tentativi ed eliminazioni di errori. Le congetture, le ipotesi e tutte le .argomentazioni della conoscenza scientifica sono certo prodotte dall'uomo, ma non si riducono alla vita psi­ chica di questo. Esse costituiscono un terzo mondo, oltre quello dei fatti fisici e quello degli eventi psichici : un mondo che ha una sua autonomia, un'oggettività di problemi ed una capacità di influire su ciascuno di noi, ' anche sull'individuo piu creativo. Il suo influsso su ciascuno di noi, anzi, va molto al di là dell'influsso che ognuno di noi può avere su di �sso. In altre parole, il mondo della cc cultura >> è si opera umana, ma, una volta costitui­ to, condiziona a fondo gli uomini che se lo trovano innanzi e che vivono in esso. Questo condizionamento, che a prima vista potrebbe sembrare qualco­ sa di negativo e limitante la nostra libertà, è in effetti, per Popper, la ca­ ratteristica piu tipica e differenziante della nostra maniera d'essere. cc Que­ sto è il modo con cui noi ci solleviamo da soli dalla palude della nostra igno­ ranza; è il modo con cui noi gettiamo la corda per poi attaccarci ad essa (se ne vale, seppur precariamente, la pena). Ciò che rende i nostri sforzi diversi da quelli di un animale o di una ameba è unicamente il fatto che la nostra corda può trovare un aggancio al terzo mondo della discussione cri· ·

59) K. R. POPI'ER, Conjeclurcs and Rcfutations, p. 3). (00) Op. cit., p. 3 7 .

Londra,

1969

( tr. it., Bologna, 1972,

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tica : il mondo del linguaggio della conoscenza oggettiva. E questo ci rende possibile scartare alcune delle nostre teorie in competizione. Talché, se sia­ mo fortunati, possiamo riuscire a sopravvivere ad alcune delle nostre teorie sbagliate (e parecchie lo sono), mentre l'ameba morirà insieme alla sua teo­ ria, la sua credenza e le sue abitudini » (61). Anche quella di Popper è una concezione (( naturalistica » come quella di Quine, sebbene paia in essa meglio emergere l'esigenza di precisare al­ l'interno dell'unico mondo qual è determinato dalla scienza la specifica po­ sizione dell'uomo. Ma, piu che le differenze, ci interessano qui le somiglian­ ze. Ed in entrambi i casi è manifesto che la , 36, 1939, pp. 124-32 ; R. VON MrsEs, Kleinès Lehrbuch de., Ppsitivismus, L'Aia, 1939 (tr. it. Manuale di critica scientifica e filosofi· ca, Milano, 1950) ; M. BLACK, Relation Between Logica[ Positivism and the Cambridge School of Analysis, > , 61, 1945, pp. 71-82 ; M. CoRNFORTH, Science

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«

Pure Empiricism

n

and Modern Lo·

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Einaudi, 1971, p.

Linguaggw privato e pubblico

244. In qual modo le parole si riferiscono a sensazioni? - Qui sembra che non ci sia nessun problema : non ci capita tutti i giorni di parlare di sensazioni e di nominarle ? Ma come viene istituita la connessione tra il nome e il nominato? La domanda è identica a quest'altra ; come impara un uomo il significato dei nomi di sen­ sazioni ? Per esempio, della parola « ·dolore »? Ecco qui una pos­ sibilità : Si collegano certe parole con l'espressione originaria, natu­ rale, della sensazione e si sostituiscono ad essa. Un bambino si è fatto male e grida ; gli adulti gli parlano e gli insegnano esclama­ zioni e, piu tardi, proposizioni. Insegnano al bambino un nuovo com­ portamento del dolore. « Tu dunque dici che la parola ' dolore ' significa propriamente quel gridare ? » - Al contrario : l'espressione verbale ·del dolore sostituisce, non descrive, il grido. 246. E in che senso le mie sensazioni sono private? - Ebbene, l so o io posso sapere se provo veramente un dolore ; l'altro può soltanto congetturarlo. - Per un verso ciò è falso, per un altro verso in­ sensato. Se usiamo la parola « sapere » come la si usa normal­ mente ( e come dovremmo usarla altrimenti? !) gli altri riescono molto spesso a sapere se provo dolore. - Già, ma certamente, non con la sicurezza con cui lo so io stesso ! - Di me non si può dire in generale ( se non per ischerzo) che so di provar dolore. Ma che cosa deve mai significare, - se non, forse, che provo do­ lore ? Non si può dire che gli altri apprendono la mia sensazione soltanto attraverso il mio comportamento, - perché di me non si può dire che l'apprendo. lo ce l'ho. Questo è vero : degli altri ha sen­ so dire che sono in dubbio se io provo dolore ; ma non ha senso dirlo di me stesso.

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248. La proposizione : « Le sensazioni sono private >> è parago­ nabile a : « Il solitario si giuoca da soli ». 2 57. . Negare il processo spirituale vorrebbe dire negare il ricor­ dare ; negare che qualcuno si ricordi mai di qualcosa. 307. « Allora sei un cripto-behaviorista. In fondo non dici che all'infuori del comportamento umano tutto è finzione ? ». - Se parlo di una finzione, allora si tratta di una finzione grammaticale. 308. Come si a�riva al problema filosofico dei processi e stati mentali e del behaviorismo ? - Il primo passo vien fatto del tutto inavvertitamente. Parliamo di processi e stati e lasciamo indecisa la loro natura ! Forse un giorno ne sapremo di piu - pensiamo. Ma pro­ prio mentre pensiamo cosi ci siamo impegnati per un determinato mo­ do di considerare la cosa. Infatti abbiamo un concetto ben ,preciso -

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di che cosa voglia dire : imparare a conoscere un processo p iti ·da VICino. (La mossa decisiva nel giuoco di prestigio è stata fatta, ed è proprio quella che ci sembrava una mossa innocente). - Ed ora l'analogia che avrebbe dovuto renderei comprensibili i nostri pen­ sieri viene meno. Dunque dobbiamo negare un processo non ancora compreso, che ha luogo in un mezzo non ancora esplorato. E cosi sembra che abbiamo negato i processi spirituali. E, naturalmente non li vogliamo negare. (Ricerche filoso{eche, cit., pa3sim).

Sulla matematica

( . . .) I nostri bambini imparano a contare proprio m questo modo : gli si fa posare tre fagioli, e poi ancora tre fagioli e poi gli si dice di contare quello che gli sta davanti. Se una volta venisse cinque, una volta sette (e questo perché, come diremmo adesso, una volta si aggiungesse da sé un fagiolo, U:n'altra volta ne scomparisse uno) diremmo che i fagioli non sono adatti ad insegnare a calco­ lare. Ma se la stessa cosa accadesse con le sbarre, con le dita, con i segmenti e con la maggior parte delle altre cose, questa sarebbe la fine dei calcoli. >. Infatti, è facile immaginare, ad esempio, di presenziare al funerale ·del proprio corpo continuando ad esistere senza di esso, poiché nulla è . mèno difficile che descrivere un mondo diverso da quello usuale solo per la completa aséenza di tutti i dati che chiamiamo parti del nostro corpo. Dobbiamo concludere che l'immortalità nel senso ·definito non può essere considerata un « problema metafisico », essendo piuttosto una ipotesi empirica, in quanto logicamente verificabile. Eséa potreb­ be venir verificata in base alla prescrizione : « aspetta di morire ! ». Il professor Lewis sembra sostenere che questo metodo non è soddi­ sfacente dal punto di vista della scienza. Egli dice : « l'ipoteéi del­ l'immortalità è inverificabile in un senso ovvio ;... se si asserisce che solo ciò che è scientificamente veriflcabile ha significato, allora tale concezione costituisce un caso da discutere. Difficilmente essa potrebbe venir verificata dalla scienza, e non c'è osservazione o esperimento che la scienza stessa possa fare, il cui risultato sia atto a confu­ tarla ». Immagino che in queste frasi il metodo di verificazione sogget­ tiva sia rigettato come non scientifico, poiché avrebbe valore solo per la singola persona che fa l'esperienza, mentre un'asserzione scien­ tifica dovrebbe essere suscettibile di una prova « universale », ripeti­ bile da ogni osservatore interessato. +'fa non vedo alcuna ragione, per­ ché anche questo sia dichiarato impossibile. Al contrario, è facile de­ scrivere esperienze tali, che l'ipotesi di un'esistenza invisibile degli esseri umani dopo la loro morte corporale rappresenti la spiegazione piu accettabile ·dei fenomeni osservati. Questi fenomeni, è vero, do­ vrebbero essere di una natura molto piu convincente dei ridicoli episodi che si pretende siano realmente avvenuti in riunioni di occultisti, ma penso che non possa esservi il minimo dubbio circa la possibilità (in senso logico) di fenomeni idonei ad assicurare una giustifica­ zione scientifica dell'ipotesi della sopravvivenza dopo la morte e tali da consentire uno studio parimenti scientifico di questa forma di vita. Certo, detta ipotesi non potrebbe essere mai verificata in maniera as-

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soluta, ma ciO e comune a tutte le ipotesi. Se si sostenesse che le anime dei trapassati possono abitare in qualche spazio ultraterreno, dove sarebbero inaccessibili ai nostri sensi, e che quindi la veri tà o la falsità dell'asserto ipotetico sono assolutamente incapaci di prova, la risposta sarebbe che, se le parole « spazio ultraterreno » avessero un qualche significato, quello spazio dovrebbe esser definito in modo tale da rendere l'impossibilità di raggiungerlo o di percepire qualcosa ·di esso puramente empirica, ossia tale che alcuni mezzi per superare le difficoltà potrebbero per lo meno essere descritti, anche se fosse al di là del potere umano il farne uso. Questa è la nostra conclusione. L'ipotesi dell'immortalità è una affermazione empirica, che deve il suo significato alla sua verificabi­ lità, e che non ha signirucato alcuno al di là di tale possibilità di verifi­ cazione. Se si deve ammettere che la scienza non possa fare alcun esperimento, il cui risultato negativo sia atto a confutarla, ciò va asserito nel medesimo senso in cui vale per molte altre ipotesi di struttura analoga, specialmente per quelle basate su ulteriori ele­ menti che non la conoscenza di una gran quantità di fatti destinati a conferire un'alta probabilità alla enunciazione ipotetica. (Significato e verifica:::ione, tr. it. cit.,

Positivismo

pp.

343-345).

e realisrrw

I risultati della nostra analisi si possono riassumere come segue. l) La tesi fondata e inoppugnabile dell'orientamento « positivi­ stico » mi pare risieda nel principio, secondo cui il senso di una pro­ posizione è interamente racchiuso nella sua verificazione in base al dato di fatto. Entro tale orientamento, tuttavia, detto principio si è manifesta­ to di rado con chiarezza, anzi, spesso vi è apparso frammisto a tante altre proposizioni insostenibili, che risulta necessaria una depurazio­ ne logica. Se si vuole denominare l'esito di questo positivismo, ciò che appare storicamente legittimo, allora bisognerebbe aggiungervi un aggettivo che lo qualifichi (talvolta si usa il termine « positi­ vismo logico ») ; altrimenti, mi sembrerebbe piu idonea la designa­ zione « empirismo critico ». 2) Tale principio non significa, né implica, che solo il dato di fatto sia reale. Una tale affermazione sarebbe priva ·di senso. 3) L'empirismo critico, pertanto, non nega l'esistenza di un mon­ do esterno. Rimanda solamente al senso empirico di questa asser­ zione esistenziale. 4) Non è affatto una teoria del « come-se »· Non dico : tutto si comporta come se vi fossero dei corpi fisici indipendenti. Anche

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in base al suddetto principio, è reale tutto ciò che per il fisico non filosofante risulta essere reale. Oggetto della fisica non sono le sensa­ zioni, ma le leggi. La tesi sostenuta da alcuni positivisti, secondo cui i corpi non sarebbero altro che « complessi di sensazioni », deve perciò respingersi. Piuttosto, le proposizioni sui corpi debbono essere trasformate in proposizioni equivalenti sulla presenza di sensazioni conformemente a leggi. 5) Pertanto, il positivismo logico e il realismo non sono in con­ trasto fra loro. Chiunque riconosca il nostro principio, deve addirit­ tura essere un realista empirico. 6) Un contrasto sussiste solo fra l'empirista critico e il meta­ fisico, tanto il metafisico realista quanto quello idealista, senza diffe­ renza alcuna (il primo, nella nostra discussione è stato indicato con l'appellattivo « realista » fra virgolette). 7) La negazione dell'esistenza ·di un mondo esterno trascendente sarebbe una proposizione metafisica allo stesso titolo della sua affer­ mazione. L'empirista critico, perciò, non nega il trascendente, ma mostra che tanto la sua affermazione, quanto la sua negazione sono allo stesso modo prive di senso. Quest'ultima distinzione è della massima importanza. Sono convin­ to che le principali resistenze contro la nostra concezione dipendono dal fatto che non si presta attenzione alla differenza sussistente fra la falsità e la mancanza di senso di una proposizione. La propo­ sizione : « il ·discorso su un mondo esterno metafì.sico è priva di sen­ so », non dice « non esiste un mondo esterno metafisico >>, bensi qualcosa di radicalmente diverso. L'empirista non dice al metafì.­ sico « le tue parole affermano il falso >>, bensi : « le tue parole non affermano assolutamente nulla » ! Non lo contraddice ; gli dice sol­ tanto : « non ti capisco ». (Positivismo e realismo, tr. it. cit.,

pp.

297-298).

Solipsismo massimo rilievo dovrebbe essere attribuito al fatto che l'espe­ rienza primitiva è assolutamente impersonale o, come Wittgenstein ha osservato una volta, che i dati immediati « non hanno padrone »· Il positivista genuino, negando ( con Mach, ecc.) che l'esperienza originaria abbia la qualità o lo stato corrispondenti all'espressione « prima persona » , non può eventualmente prendere sul serio la « dif­ ficoltà egocentrica » ; per lui essa non esiste. Il comprendere che l'espe­ rienza primitiva non è esperienza in prima persona mi sembra uno dei passi piu importanti che la filosofia deve compiere per la chiari­ ficazione dei suoi problemi piu profondi. Il

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L'unicità della posizione dell'« io » non è una proprietà di base di tutte le esperienze, ma è essa stessa un fatto di esperienza in mezzo ad altri fatti. L'idealismo (sia quello dell'« esse est percipi » di Berkeley, sia quello della tesi di Schopenhauer « Die Welt ist meine Vorstellung ») e le altre dottrine con tendenze all'egocentri­ smo commettono il grave errore di confondere la posizione indivi­ duale dell'ego, che è un fatto empirico, con �a verità logica a priori, o, piuttosto, commettono l'errore di sostituire l'una all'altra. ( . ..) Cosi, vediamo che, a meno che non decidiamo di chiamare il nostro corpo il possessore o il portatore di dati ( espressione che sembra piuttosto fuorviante), dobbiamo dire che i dati non hanno possessore o portatore. Questa neutralità dell'esperienza - contrap­ posta alla soggettività che l'idealista le attribuisce - è uno dei punti fondamentali del positivismo autentico. La frase « ogni esperienza è esperienza in prima persona » o indicherà il semplice fatto empirico che tutti i dati, sotto certi aspetti, sono ·dipendenti dallo stato del sistema nervoso del mio corpo M, oppure sarà priva di significato. Prima che questa circostanza fisiologica venga messa in luce, la esperienza non è affatto la « mia » esperienza ; essa è autosuffi­ ciente e non appartiene a nessuno. La proposizione « l'ego è il cen­ tro del mondo » può venir considerata un'ulteriore espressione della medesima circostanza e ha significato solo se si riferisce al corpo. Il concetto di « ego » è una costruzione basata sullo stesso fatto, e potremmo facilmente immaginare un mondo, in cui tale concetto non fosse formato e in cui non vi fosse l'idea di una barriera insor­ montabile fra ciò che è dentro M e ciò che è fuori. Sarebbe un mondo nel quale eventi come quelli corrispondenti alla proposizione R, e simili [« io posso percepire il dolore di qualsiasi altra persona al pari del mio »] , rappresenterebbero la regola, e nel quale i fatti di « memoria » non sarebbero cosi evidenti come nel nostro mondo reale. In dette condizioni, non saremmo tentati di cadere nella « dif­ fiocoltà egocentrica » ; anzi, la frase destinata a esprimere tale diffi­ coltà risulterebe priva di ogni significato. (Significato e veri/ica%ione, tr. it. cit., pp. 346-347, 355-356).

Sui limiti del conoscere

Il metodo conoscitivo non può essere in biologia diverso per prin­ cipio da quello della fisica. Anche le osservazioni aventi per oggetto gli organismi si possono descrivere in termini classici ; e il compito della scienza consiste nel trovare un formalismo che consenta di pre­ vedere il pio esattamente possibile, partendo dal comportamento os-

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servato ·di un organismo, il suo comportamento futuro (e anche que­ sto, in tal caso, ovviamente verrebbe descritto in termini classici). Ora, o esiste un simile formalismo - e allora, se lo si scopre, lo si scopre col metodo di ogni ricerca empirica, cioè induttivamente oppure non esiste : e allora ciò vorrebbe dire che non si dà alcuna legge, non già che ve ne sia una destinata a rimanerci per sempre nascosta. Di una inconoscibilità dei processi vitali non si può dunque affatto parlare. L'intera questione fornisce un'ottima illustrazione di una impor­ tante tesi dell'empirismo integrale, quale viene, per esempio, profes­ sato dalla Scuola di Vienna, cioè la tesi secondo cui nulla nel mondo è per principio inconoscibile. Ci sono problemi ai quali, per ragioni pratiche o tecniche, non si potrà mai dare una risposta, ma un problema per principio insolubile non è un problema, bensi solo uno pseudoproblema. Il limite del conoscere sùssiste solo là, dove non c'è nulla cui possa esser diretta una conoscenza. Là, dove la teoria dei quanti pone un limite al sapere causale, dove ci comanda di rinunciare alla ricerca di ulteriori cause, non si ·deve ritenere che vi siano delle leggi destinate a rimanere ignote ; non si dànno leggi siffatte e non se ne può neppure postulare l'esistenza, poiché · il pro­ blema ad esse relativo risulterebbe privo di senso. Ci basti il fatto che alla nostra conoscenza sono già posti tanti limiti pratici ; perché di limiti per principio non si può davvero par­ lare. ( Teoria dei quanti e conoscibilità del mondo [1937], trad. it. in Il Neoempirùmo,

cit., p. 381).

6. TEMI EPISTEMOLOGICI Leggi di natura

La differenza fra l'impostazione logico-matematica dei problemi e quella dell'indagine ·della natura può venir illustrata in maniera esemplare facendo riferimento alla differenza tra « frase » c « propo­ sizione », cui ho dovuto già far ricorso con molta insistenza entro un analogo contesto problematico in una precedente occasione. Con il termine « frase » vogliamo intendere la successione dei segni lin­ guistici, mediante i quali si può asserire qualcosa, per esempio, la successione delle lettere di una comunicazione orale, o anche la suc­ cessione delle impressioni nel solco di un ·disco fonografico utilizza­ bile per una comunicazione. Con il termine « proposizione » vogliamo invece intendere una tale frase insieme con il suo senso, il quale non va concepito come una specie di entità misteriosa riposta dentro

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o accompagnante la frase, bensi va inteso come costituito semplice­ mente dalle regole stabilite per l'effettiva applicazione della frase stessa, ossia per il suo uso concreto in vista della rappresentazione dei fatti reali. In breve, una . Poiché questa definizione concorda in parte con quella fornita dall'empiri­ smo logico, è ragionevole aspettarsi di trovare altre rassorp.iglianze

ancora. I punti principali di una dottrina scientifica collegata all'empi­ rismo logico, che ritroviamo nel materialismo dialettico sono proba­ bilmente questi : l) la scienza dev'essere « materialistica », ma non « meccanicistica » ; 2) il criterio ·di verità d'una proposizione dovreb­ be coincidere solamente con la sua conferma nella vita reale : la dot­ trina della « verità concreta » ; 3) il significato delle proposizioni s cientifiche deve essere ricavato non solo dalla loro connessione logica con le proposizioni degli stadi scientifici precedenti, ma altresi dalla connessione causale dei progressi scientifici con gli altri processi s� ciali. Questa connessione causale è oggetto di studio ·di una partico­ lare scienza fattuale, la sociologia della scienza. In questa sede desideriamo esaminare solamente i primi due punti.

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l) lnnanzitutto occorre aver ben chiaro ciò che intende il ma­ terialismo dialettico con la parola « materialismo ». Ciò che noi generalmente intendiamo con questa parola, cosi come viene usata negli scritti divulgativi e anche in quelli scientifici; è la concezione che tutti i fenomeni naturali, inclusa l'evoluzione umana, siano ana­ loghi alle macchine. Tale opinione verrebbe denominata ·dal mate­ rialismo dialettico « materialismo meccanicistico », o « meccanici• smo », ed è strenuamente avversata. Leggendo la definizione della parola « materialismo » dei testi ufficiali del materialismo dialettico, troviamo approssimativamente quanto segue : « per " materialismo " si intende la teoria che la scienza parli intorno a un mondo comple­ tamente indipendente ·da ogni arbitrarietà, un mondo che non è né la creazione di uno spirito cosmico, come sostiene l'idealismo og­ gettivo di Hegel, né la creazione della coscienza individuale, come ri­ tiene l'idealismo soggettivo di B erkeley ». Da questo tipo di definizione di materialismo, che ribadisce sem­ plicemente il carattere obiettivo dei principi scientifici, non siamo in grado di arrivare a nessuna conclusione specifica circa la conce­ zione materialistica. Se tuttavia osserviamo in qual modo tale defi­ nizione viene applicata nella pratica, troviamo che tutte le proposi­ zioni scientifiche devono contenere solamente termini che compaiono in asserzione intorno ai fatti osservabili. La descrizione d'un processo è utile dal punto di vista scientifico solo se essa abbraccia tutti gli aspetti osservabili ·del processo stesso. ( . .) ( . ) Tale concezione s'avvicina molto all'opinione che la scienza sia fondata su un linguaggio intersoggettivo, che Neurath e Carnap hanno piu precisamente individuato nel linguaggio fisicalistico. Come per il fisicalismo le proposizioni biologiche e psicologiche sono « fisiche in senso lato », cosi nel materialismo dialettico le proposi­ zioni circa lo sviluppo vitale e persino circa la storia umana sono proposizioni sulla materia. Tuttavia, come il fisicalismo non pretende di ridurre la psicologia a fisica vera e propria, cosi il materialismo dialettico non dice che lo sviluppo sociale dell'umanità ·debba essere ridotto a quelle leggi della materia che sono state scoperte dalla fisica. Secondo il materialismo dialettico, anche la sociologia scopre nuove leggi della materia. ( ..) 2) Il secondo punto essenziale per la comprensione del mate­ rialismo dialettico è la > se il nostro senso comune comprende la validità dei prin­ cipi immediatamente, ·senza bisogno ·di trarne da essi lunghe con­ catenazioni di conclusioni, e senza dovere controllare alcune di tali conclusioni mediante le nostre osservazioni. ( ...) L'asserzione di Einstein, che un corpo rigido ha lunghezze diverse rispetto a diversi sistemi di riferimento, può essere connessa in due modi con le espressioni del senso comune : possiamo ·descri­ vere direttamente il modo in cui la lunghezza dello stesso corpo ri­ gido può venire misurata, ponendo ·dall'una all'altra delle sue estre­ mità dei metri che abbiano velocità diverse rispetto al corpo. Con­ trariamente a questo tipo di connessione scientifica, l'interpretazione metafisica affermerebbe che l'espressione « una stessa lunghezza è valutata diversamente da diversi osservatori » ci riporta all'espe­ rienza della vita quotidiana, in cui una stessa lunghezza è valutata diver6amente dai ·diversi osservatori. Questa « soggettività » di tutti i giudizi intorno alla lunghezza sembra analoga all'asserzione di Ein­ stein che la lunghezza dipende dal sistema di riferimento. Quindi, l'asserzione di Einstein viene interpretata come l'affermazione della « soggettività » delle espressioni che gli uomini enunciano a proposito della lunghezza. Ciò verrebbe ancora una volta a coincidere con al­ cune proposizioni della filosofia idealistica. ( ... ) L'interpretazione metafisica è in realtà un tipo particolare di indagine semantica ; è una traduzione nel linguaggio del senso co­ mune. Noi ci troviamo d'accordo con l'eccellente analisi del « di­ scorso metafisico » condotta da Charles Morris. Esso è un « discorso formativo » come il ·discorso matematico, logico, grammaticale e retorico. Non si può applicare ad esso un criterio di verità simile al criterio di « verità scientifica ». Il discorso metafisico ha una funzione nell'organizzazione del comportamento umano ed ha, quindi, « significato ». Questo mio saggio intende essere pio specifico, e descrivere il linguaggio usato nella metafisica come il risultato di un tentativo di interpretare i principi generali della scienza con l'uso ·delle espressioni del senso comune. Le interpre­ tazioni scientifiche « materialistiche » o « idealistiche » debbono la loro attrattiva al significato che il senso comune attribuisce ai termi­ ni « materia » e « mente », e non al loro significato scientifico che è difficile stabilire con precisione. Da queste considerazioni è facile giudicare quale ruolo giochi la metafisica nel progresso effettivo della scienza. Ciò che noi chia­ miamo vagamente « senso comune >> in realtà è un vecchio sistema scientifico che è stato abbandonato perché nuove scop erte esigevano

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un nuovo schema concettuale, un nuovo linguaggio scientifico ; per­ ciò il tentativo di interpretare i principi scientifici mediante il « sen­ so comune » è effettivamente un. tentativo di formulare la nostra scienza presente con lo schema concettuale che era adeguato per uno stadio scientifico precegica c della metafisica nel progrc.> , 4, 1951, pp. 377-393 ; F. BARONE, Il neopositivismo logico, Torino, 1953, pp. 67-81 ; M. CAPEK, The Development of R.'s Epistemology, cc Review of Metaph. » , 1957, pp. 42-67; P . AcHINSTEN, s. v . R . in The Encyclopedia of Philosophy, ed. da P. Edwards, Nuova, York, 1967, vol. VII, pp. l l5-ll8; F. BARONE, s. v. R. in Scienziati e tecnologi contemporanei, Milano, 1974, vol. Il, pp. 408-410.

l. LA POSIZIONE DEL REICHENBACH ALL'INTERNO DEL NEOPOSITIVISMO

Le idee di questo libro sono germinate dal suolo di un movi­ mento filosofico che, seppure · limitato a piccoli gruppi, s'è esteso nel mondo intero. I pragmatisti e behavioristi americani, gli epistemo­ logi logicisti inglesi, i positivisti austriaci, i rappresentanti tedeschi dell'analisi della scienza, i logici polacchi sono i gruppi principali a cui si ·deve l'origine di quel movimento filosofico che ora chiamia­ mo « empirismo logico »- ( .) Pertanto si troveranno in questo li­ bro molte cose che sono già state dette prima da altri, come ad esempio : la concezione fisicalista del linguaggio e l'importanza at­ tribuita all'analisi linguistica, la connessione di significato e verifi­ cabilità e la concezione hehavioristica della psicologia. Ciò può essere giustificato in parte dall'intenzione di dare WI resoconto di quei risultati che oggi possono essere considerati come un'acquisizione sicura del movimento filosofico descritto : tuttavia, questa non è l'uni..

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ca intenzione. Se questo libro prende ancora una volta a discutere tali problemi fondamentali, è perché le indagini precedenti non hanno ded icato un'attenzione sufficiente ad un problema che penetra tutte le relazioni logiche costruite in questi campi : cioè, il concetto di pro· babilità. È intenzione di questo libro mostrare il posto fondamentale occupato da tale concetto nel sistema della conoscenza ed indicare le conseguenze implicate in una considerazione del carattere pro· babilistico della conoscenza. L'idea che la conoscenza sia un sistema approssimativo che non diverrà mai « vero » è stata riconosciuta da quasi tutti gli scrittori del gruppo empirista ; ma mai si sono colte sufficientemente le conseguenze logiche di tale idea. Il carattere ap· prossimativo della scienza è stato considerato come un · male neces­ sario, inevitabile per tutta la conoscenza che si ha praticamente, ma da non essere annoverato tra i tratti e.ssenziali della conoscenza : l'elemento probabilistico nella scienza fu considerato un aspetto prov­ visorio, che appare nella ricerca scientifica fin che essa si trova sulla via della scoperta, ma che scompare nella conoscenza come sistema definitivo. Cosi un sistema definitivo fittizio di conoscenza fu messo a base della ricerca epistemologica, con il risultato che si dimenticò tosto il carattere schematico di tale base, e la costruzione fittizia venne identificata con il sistema effettivo. Una delle leggi elemen­ tari del procedimento d'approssimazione è che le conseguenze tratte da una concezione schematica non valgono al di fuori dei limiti dell'approssimazione, in particolare, che non si possono trarre conse­ guenze da caratteristiche proprie soltanto della natura della schema­ tizzazione e non dell'oggetto coordinato. Il matematico sa che per molti scopi il numero 1t può assumere con sufficiente approssimazione il valore di 22 / 7 ; ma non è in alcun modo permesso inferire da ciò che 7t è un numero razionale. Molte inferenze dell'epistemologia tra­ dizionale ed anche del positivismo, ·devo ammetterlo, non mi appaiono molto migliori. È particolarmente il dominio della concezione verifica· zionista del significato e delle questioni con essa connesse, quale il problema dell'esistenza delle cose esterne, che è stato invaso da para­ logismi di tal tipo. Di fronte a tali errori di base divenne in me sem­ pre piu forte la convinzione che una chiave per la comprensione del met Y' E P). Si assuma come esempio : se l'evento X< è il lancio di un dado ( classe 0), allora sussiste una proprietà p = l / 6 che l'evento coordinato y; ap-

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partenga alla classe P delle uscite del 6 ; e questo vale per tutti 1 casi x; e y;. ( ) Accanto al segno per la probabilità, nelle formule probabilistiche compaiono solo i segni logici. Si può, per esempio, porre il problema della probabilità di una ·disgiunzione P 1\ Q (P vel Q), o della probabilità di una congiunzione P . Q (P et Q). I segni logici che in tal modo entrano a far parte delle formule probabili­ stiche si trattano secondo le regole della logica simbolica. ( . . ) ( ) Gli assiomi del ,calcolo delle probabilità appaiono quindi come una serie di formule in cui, accanto ai segni logistici appare in piu solo il segno " ::::) , ovvero, nell'altra notazione, il segno W ( ). Queste formule contengono regole per. l'uso del nuovo segno P ::::) , ov­ vero W ( ) . Sono, pertanto, ·da considerare come una serie di defi­ nizioni implicite del concetto di probabilità. In conseguenza di ciò, si possono applicare alla probabilità le considerazioni già note del procedimento delle definizioni implicite, secondo cui un simile sistema assiomatico si può trattare in duplice maniera. In primo luogo, cioè, il sistema si può trattare in modo formale, ossia noi possia­ mo operare con le formule senza attribuire al nuovo segno della probabilità un qualche significato contenutistico. In secondo luogo, invece, noi possiamo associare al nuovo segno della probabilità una qualche interpretazione contenutistica ; in questo caso, sarà con­ sentita ogni interpretazione compatibile con le proprietà del nuovo segno definite dagli assiomi. È una situazione analoga a quella della geo­ metria formulata assiomaticamente. Si può concepire questa geo­ metria in modo puramente formale, ma si può anche ·dare ai con­ cetti fondamentali defi:Oiti da essa, « punto », « retta », ecc., un'in­ terpretazione per mezzo dei termini « particella », « raggio di lu­ ce », ecc., e produrre con questo una geometria applicata. La corre­ lazione di un significato a un segno la chiamiamo anche definizione coordinativa. Questo doppio trattamento del sistema assiomatico si dimostra pre­ zioso anche per il calcolo delle probabilità. Noi possiamo, cioè, de­ d1Irre dal suo sistema assiomatico tutti i teoremi già noti del cal­ colo delle probabilità, senza esse·re costretti, nel far questo, a tener conto di una qualche interpretazione contenutistica del concetto di probabilità. Ma, d'altra parte, possiamo trasformare il calcolo delle probabilità cosi ottenuto con procedimento puramente formale in un calcolo contenutisticamente inteso, pe� esempio, interpretando la pro­ babilità come frequenza. E allora la teoria cosi costruita finisce con l'includere tutte le proposizioni di un calcolo deJle probabilità fon­ dato sulla interpretazione frequentistica. Introduciamo l'interpretazione frequentistica in tendendo con pro­ babilità il limite della frequenza relativa, cosi come per primo l'ha •..

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...

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definito von Mises [cfr. R. von MISES, Grundlagen der Wahrschein­ lichkeitsrechung, in « Math, Zeitschrift », 5, 1919, pp. 52 sgg. ] . Ma la noslra teoria s i distingue da quella d i von Mises perché non esige ulteriori proprietà definitorie del concetto di probabilità. Con ciò, noi rinunciamo alle regole per l'ordinamento delle succes­ sioni di probabilità che von Mises stabilisce con il cosiddetto prin­ cipio della completa irregolarità. Ogni successione, in cui la frequenza degli eventi tenda a un limite, è per noi una successione di pro­ babilità. È un fatto che, con tale interpretazione frequentistica della probabilità, si può mostrare che tutti gli assiomi del calcolo delle probabilità sono tautologie. Questa è la prova che detta interpre­ tazione rappresenta un modello appropriato per il nostro sistema as­ siomatico. ( .) ..

La logica probabilistica

( ) Non vogliamo qui entrare nel merito delle molteplici appli­ cazioni matematiche, di cui è capace questa teoria, ma ci limitiamo a riferire un risultato d'importanza fondamentale per le successive considerazioni filosofiche. Un tale risultato è ·da vedere nel fatto che, per applicare il calcolo delle probabilità alla realtà, non abbiamo bi­ sogno che di un solo presupposto. Ed è che se noi possediamo un procedimento con cui, data una successione di eventi, siamo in grado di determinare il limite della frequenza ( ammesso, naturalmente, che esista), con ciò è garantita anche l'applicabilità del calcolo delle probabilità. Tutto quello che vi si aggiunge non è altro che tra­ sformazione tautologica, in quanto gli assiomi del calcolo delle pro­ babilità, nel caso delle successioni caratterizzate da un limite, ven­ gono soddisfatti tautologicamente. ( . ) Nel calcolo delle probabi­ lità ( . ) non abbiamo che da decidere una sola questione, ossia se si possa determinare il limite ·della frequenza di una data succes­ sione. Naturalmente, una tale questione ci fa entrare in tutta una serie di problemi particolari, che costituiscono la vera e propria diffi­ coltà filosofica del tema della probabilità. ( ...) Fin dall'inizio abbiamo accennato al fatto che una via d'uscita da questa difficoltà ci appare possibile, solo a patto di lasciar cadere, in relazione a tali enunciati, l'alternativa vero-falso della logica clas­ sica, per sostituirvi una scala continua di valori di verità. Una simile logica probabilistica, ( .) corrisponde al comportamente ef­ fettivo assunto tanto dall'uomo della strada, quanto dallo scienziato nei confronti della situazione inerente agli enunciati probabilistici. Cioè, nel caso che una data sezione della successione (purché sia sufficientemente ampia) realizzi una frequenza approssimativamente ...

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uguale a un valore previsto p, si vedrà in ciò senz'altro una con­ ferma della ipotesi, mentre nel caso di un valore fortemente diver­ gente da p si penserà a una sua confutazione. La peculiarità di que­ sta decisione consiste, però, nel fatto che ci sono anéhe dei casi inter­ medi, secondo che la differenza tra p e la frequenza osservata sia piti o meno rilevante. Pertanto, qui non abbiamo piti a che fare con una decisione alternativa poiché si può solo asserire un giudizio di maggiore o minore probabilità. Ora, è chiaro che in un primo momento resta ·del tutto problematico donde noi traiamo il diritto di dare un tale giudizio di probabilità. Infatti, non si può a tutta prima capire per quale ragione noi crediamo che le successioni os­ servate solo in parte si sviluppino con frequenza costante. ( ...) Que­ sto problema ( ) poi non è altro che quello dell'inferenza indut­ tiva. ( ..) ...

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Probabilità di successioni proposizionali e probabilità di un evento È una peculiarità della logica probabilistica cosi costruita il fatto che essa faccia uso dell'interpretazione frequentistica, nello stesso senso in cui ciò avviene normalmente entro il calcolo delle proba­ bilità. All'interno di questo, il carattere ·della probabilità non inerisce alla proposizione singola, ma alla successione proposizionale. La ri­ duzione del valore della probabilità a una enumerazione di valori di verità che con ciò si compie, può essere detta riduzioll€ estensio­ nale della logica probabilistica. ( . ) Tuttavia, con questa riduzione estensionale, una delle ·difficoltà che per principio ineriscono a ogni interpretazione della probabilità come frequenza si riversa nella logica probabilistica. Se la proba­ bilità è solo una proprietà di successioni pr.oposizionali, quale signi­ ficato può mai avere il grado di probabilità dei singoli casi? Tanto nella vita quotidiana, come nella scienza, vi sono numerose occasioni in cui, stando a tutte le apparenze, abbiamo a che fare con la pro­ babilità di casi singoli. Per esempio, ci chiediamo la probabilità che domani faccia bel tempo, ovvero che una determinata azione. che ci proponiamo di fare, abbia buon esito, ovvero che un esperimento scientifico, impostato in un certo modo, fornisca il risultato che ci aspettiamo. A che ci serve, in questi casi, la logica probabilistica, dal momento che essa è in grado ·di parlare solo di probabilità di una successione proposizionale, cioè di una serie di proposizioni somi­ glianti tra loro ? In questo pròblema si è voluto vedere una diffi­ coltà fondamentale di ogni interpretazione frequentistica. Ma a noi pare che tale opinione non abbia motivo di sussistere. Infatti, vi è una via di uscita che, senza rinunciare all'interpretazione frequen..

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tishca, conduce a una soluzione soddisfacente per il problema degli enunciati singolarmente presi. Possiamo render perspicua questa solu­ zione rammentandoci del comportamento di un giocatore. Ogni vol­ ta, prima di giocare, egli deve fare una previsione, pur sapendo che la probabilità calcolata ha un significato solo per gran·di numeri di giocate ; ed egli si decide scommettendo, cioè assumendo l'evento piti probabile. Questa scommessa non significa ch'egli consideri certo l'esito. Non rappresenta affatto un giudizio sul caso singolo di cui si tratta, ma implica solo che lo scommettere sul caso piti probabile costituisce un comportamento, alla lunga, piti vantaggioso che il non farlo. ( . ) Il concetto di assunzione, o di scommessa, assicura, dun­ que, un ponte tra la probabilità della successione proposizionale e la necessità di fare una scelta in rapporto al singolo caso. ( ...) Vogliamo denominare una scommessa corrispondente al princi­ pio del massimo numero di vincite scommessa ottimale. La proba­ bilità pertinente a tale scommessa viene detta il suo peso ; questo è dunque la probabilità ·della corrispettiva successione di proposizioni, di cui la scommessa in· questione è un elemento. ll concetto di peso subentra pertanto in luogo di quello, insostenibile, della probabilità di un enunciato singolo. ( . . ) La scommessa ottimale, certo, non è che una forma limitata­ mente applicabile di scommessa. Essa, infatti, presuppone che noi conosciamo già il corrispondente peso, ossia la probabilità della corri­ spettiva successione proposizionale. Ma esistono casi in cui le pro­ babilità sono sconosciute. Ora, dobbiamo {)creare di scoprire che cosa rappresenti, in situazioni del genere, il comportamento piti vantag­ gioso. ( ..) ( ..) Ora, è vero che anche a proposito di una scommesssa concer­ nente un limite si può parlare di peso corrispondente. In questo caso, si tratta della probabilità dell'avverarsi di una certa probabilità, cioè di una probabilità di secondo grado, ed è senz'altro possibile estendere la teoria ·della probabilità a simili probabilità di grado superiore. An­ che l'interpretazione frequentistica si può applicare a tale caso. ( ) Ma questa determinazione si può effettuare solo se è data una serie di successioni. Inve{)e, noi abbiamo a che fare, in generale, con una singola successione, e � questo caso non possiamo determinare la probabilità di secondo grado. Quindi, sebbene la determinazjone di un peso corrispondente sia possibile in linea ·di principio, noi ci troviamo qui nella situazione tutta particolare per cui dobbiamo fare una scom­ messa senza conoscere il peso corrispettivo. ( ..) Tuttavia, si può trovare una giustificazione anche per que­ sta specie di scommessa. A tale proposito ci è di aiuto la seguente considerazione. Ammesso che la successione tenda, in generale, a un .

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qualche limite, allora deve esserci un n, a partire dal quale la detta scommessa conduce al risultato giusto. ( .. ) Vogliamo chiamare una scommessa di questo genere una scommessa approssimativa. È un procedimento approssimativo, in quanto anticipa il risultato e viene utilizzato come se lo scopo fosse già stato raggiunto. Questo scom­ mettere sul persistere della frequenza ·del valore da ultimo osservato trova la sua giustifieazione, come abbiamo visto, nel fatto che tale procedimento coglierà infilne nel segno, se esiste un limite della fre­ quenza. ( ) .

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L'inferenza induttiva

La conoscenza scientifica comincia con delle scommesse primarie. Ma noi non rimaniamo fermi a queste, bensi passiamo alle scom­ messe secondarie, le quali consentono di stabilire il peso delle scom­ messe primarie e con ciò coordinano ad esse un grado ·di probabilità. Le scommesse primarie acquistano, conseguentemente, il carattere di enunciati ritenuti non veri o falsi, bensi piu o meno probabili. Sulla base delle probabilità cosi determinate, le scommesse primarie possono venir trasformate in scommesse ottimali, in virtu del loro peso. Nel far questo, tuttavia, le scommesse secondarie rimangono dap· prima senza peso alcuno, ossia non si sa se siano ottimali. Tutto quel che sappiamo, è che sono delle scommesse approssimative nel senso della nostra definizione. Ma noi possiamo ripetere il medesimo procedimento e passare a delle scommesse terziarie, le quali permet­ tono di stabilire il peso delle scommesse secondarie. Con questo, il carattere approssimativo si sposta sulle scommesse terziarie, e cosi via. ( .) La conoscenza scientifica rappresenta, dunque, un sistema ·di as­ sunzioni o di scommesse éoncatenate, il quale in se stesso appare ordinato secondo il criterio della scommessa ottimale, ma che, visto dal­ l'esterno, è come campato in aria. ( .. ) Dobbiamo quindi concepire il sìstema degli enunciati scientifici non come un sistema di proposizioni vere nel senso della logica biva­ lente, bensi come un sistema di assunzioni o di scommesse nel qua­ dro della logica probabilistica. L'unico presupposto non analitico di questo sistema è quello dell':inferenza induttiva, la quale va inter­ pretata, secondo quanto si è visto, mediante il concetto di scommessa approssimativa. Essa rappresenta un procedimento di approssimazio­ ne, cui siamo autorizzati a ricorrere ogni volta che le successioni considerate risultano contraddistinte da un limite. Si tratta dell'unico procedimento di approssimazione che, soddisfatta la suddetta condi­ zione appare soddisfacente. ( ..) Questa è, in effetti, un'ampia giu..

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stifit:azione ·dell'inferenza induttiva ; ma occorre ancora risolvere il problema della t:ondizione sopra riferita. ( ... ) Sarebbe azzardato se, per una ragione qualsiasi volessimo a que­ sto punto inferire che tutte le successioni date in natura debbano avere un limite della frequenza. La filosofia aprioristica sarebbe cer­ tamente pronta a fornire una simile pseudodimostrazione. Noi dob­ biamo, invece, aver ben chiaro in mente che una tale assunzione, cioè un 'assunzione circa il contenuto di ogni possibile esperienza, è indimostrabile, e t:he non abbiamo nes:mna ragione per credervi. No­ nostante questa difficoltà, possiamo, comunque, procedere nelle no­ stre considerazioni. Che cosa succederebbe, se le 6uccessioni date in natura non pos­ sedessero un limite della frequenza ? In tal caso, diventerebbe impos­ sibile qualsiasi previsione sistematica. Una previsione potrebbe av­ verarsi di vo lta in volta casualmente, ma mancherebbe la possibi­ lità di confermarla in modo consistente, come anche la possibilità di costruire un sistema contraddistinto da una migliore convergenza. Il tentativo della scienza di pervenire a un sistema di previsioni confermabili sarebbe del tutto vano. Che cosa ne deriva ? Ne consegue che la scommessa approssima­ tiva, ossia l'inferenza induttiva, non ha alcuna gi ustificazione se sap­ piamo che le successioni date in natura non hanno affatto un li­ mite della frequenza. Sarebbe certamente sbagliato dire : « non sap­ piamo che c'è un limite della frequenza » ; ma sarebbe altrettanto falso dire : « sappiamo che non c'è un limite della frequenza ». Il fatto è, invece, che siamo qui di fronte a un 'indeterminatezza : non sappiamo se vi sia un limite della frequenza. In questa situazione, la scommessa approssimativa presenta un vantaggio determinante su tutte le altre scommesse. Nel caso che le successioni date in natura abbiano un limite della frequenza, usan­ do il procedimento della scommessa approssimativa noi perverremo infine a delle previsioni giuste. Ma se un tale limite non esiste, non vi perverremo mai. Se, dunque, si può mai conseguire alcunché, raggiungeremo lo scopo col procedimento della scommessa approssi­ mativa. In caso contrario, non otterremo mai nulla. ( .. .) ( ...) È stato riconosciuto da tempo che una giustificazione logica nel senso ·di una ga ranzia che assicuri infallibilmente il successo del­ l'inferenza induttiva non può esser data. Ma sarebbe errato dedurre da ciò che l'inferenza induttiva non rappresenti altro che un atto completamente arbitrario e che, in un certo senso, sia una faccenda privata di ogni singolo uomo il volere o non volere agire confor­ memente al principio dell'inferenza induttiva. Se la cosa stesse cosi, se, cioè, non vi fosse nessuna ragione per preferire la scommessa mo-

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tivata dall'inferenza induttiva alle altre scommesse, allora saremmo completamente privi di un qualsiasi criterio -di fronte a tutte le si­ tuazioni della vita quotidiana. Ma tutto il nostro comportamento con la sua continua applicazione dell'inferenza induttiva, dimostra che noi non crediamo affatto all'equivalenza di tutte le possibili scommesse, hensi che ne preferiamo un determinato tipo, per l'ap­ punto quello che si attua secondo il principio dell'inferenza induttiva. Il significato della nostra teoria sta nel fatto che essa riesce a stabi­ lire la preminenza ·di questo tipo di scommessa. Il procedimento della correzione da noi descritto è concepibile come lo stabilimento di un ordine fra tutte le scommesse. E anche se non possiamo affatto garantire la certezza del successo nell'applicazione di detto procedi­ mento, ci sarà, tuttavia, consentito di sostenere almeno che, se mai un successo è possibile, procedendo in tal modo abbiamo istituito fra le scommesse il miglior ordinamento realizzabile. Proprio per questa ragione, possiamo considerare la nostra teoria dell'inferenza induttiva una soluzione del problema corrispondente, in quanto, a dispetto di tutta l'incertezza riguardante il divenire futuro, siamo in grado di giustificare la superiorità logica di tutte le azioni com­ piute conformemente al principio dell'induzione. ( ... ) Di tale inferenza, che ·dal tempo di Hume tutti gli empi­ risti hanno considerato il tema centrale della gnoseologia, noi siamo ora in grado di fornire un'e6plicazione. Questa viene attinta inglo­ bando l'inferenza induttiva nel quadro generale della logica proba­ bilistica e mostrando che essa rappresenta un procedimento di appros­ simazione, avente il carattere di una condizione necessaria per fare delle previsioni. A chi volesse una sicurezza maggiore, a chi non ardisse esprimere alcuna previsione prima ·di poter credere con .certezza nel suo avverarsi, nulla sapremmo dire come consiglio. A noi basta, invece, conoscere un procedimento con cui almeno poter scommet­ tere sul futuro ; ci basta sapere di aver fatto del nostro meglio per conseguire il successo, dal momento che una garanzia di riuscita non figura tra le nostre prerogative. (Le basi lo'giche del calcolo probabilistioo [1932-33] , tr. it. in Il neoempiri.smo,

pp. "53-456, 457-459, 464-4()7, 468-470, 473-477, 478-480).

cit.,

Credenza nell'induzione, credenza nell'uniformità del mondo, cre­ denza in un'armonia mistica tra natura e ragione - tutto dò appartie­ ne alla sovrastruttura ; la solida base soggiacente è il sistema delle operazioni induttive. La difficoltà di una giustificazione logica di tali operazioni sviò i filosofi a cercare una giustificazione della so­ vrastruttura, a tentare una giustificazione ontologica della credenza induttiva, ricercando qualità necessarie del mondo che assicurereb-

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bero il successo delle inferenze induttive. Tutti i tentativi di questa specie falliranno, perché non saremo mai in grado di dare una prova cogente di un presupposto contenutivo concernente la natura. La via verso la comprensione del passo ·dall'esperienza alla predizione sta nella sfera logica : per trovarla dobbiamo liberarci da un pregiu­ dizio profondamente radicato : dal presupposto che il sistema della conoscenza debba essere un sistema di proposizioni vere. Se cancel­ liamo tale assunzione entro la teoria della conoscenza, le difficoltà scom­ paiono e con esse si dissolve la nube mistica che sovrasta i meto·di di ricerca della scienza. Dovremmo allora interpretare la conoscenza come un sistema di poste o scommesse ; con ciò la questione della giustificazione assume come sua forma la questione se la conoscenza scientifica è la nostra scommessa migliore. L'analisi logica mostra che si può dare tale dimostrazione, che il procedimento induttivo della scienza è distinto dagli altri metodi ·di predizione in quanto porta alle poste pio favorevoli. Cosi noi scommettiamo sulle predi­ zioni della scienza e scommettiamo sulle predizioni ·della saggezza pratica : scommettiamo sul sorgere del sole domani, scommettiamo che il cibo domani ci nutrirà, scommettiamo che i nostri piedi do­ mani ci porteranno. La posta non è piccola ; tutta la nostra esistenza personale, la nostra vita stessa, è in gioco. Confessare l'ignoranza di fronte al futuro è il tragico dovere di ogni filosofia scientifica ; ma, se siamo esclusi dal conoscere predizioni vere, ci accontenteremo almeno del fatto che conosciamo la strada per le nostre scommesse migliori. (Experience and Prediction, cii., pp. 403-404).

4. FILOSOFIA SCIENTIFICA E FILOSOFIA SPECULATIVA

Molti considerano la filosofia inseparabile dalla speculazione e ritengono che il filosofo non possa usare metodi conoscitivi, né con­ nessi con il sapere empirico, né connessi con la conoscenza dei rap­ porti logici. Essi pensano che l'attività filosofica, escludendo l'impiego di linguaggi soggetti a criteri di verifica, sia affatto priva di carat­ tere scientifico. Scopo ·del presente lavoro è invece. sostenere la tesi opposta, ossia, mostrare tanto che . la speculazione è solo una fase transitoria della filosofia, propria dei periodi caratterizzati dall'emer­ gere di problemi intellettuali e dalla mancanza dei corrispondenti mezzi logici per risolverli, quanto che esiste ed è sempre esistito un tipo scientifico di filosofare. A ciò si aggiunga il proposito di render conto dello sviluppo ·della filosofia scientifica, che nella scienza odierna ha rinvenuto gli strumenti necessari per la soluzione di problemi

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antecedentemente affrontati con semplici procedure congetturali. In breve, questo libro è stato scritto con l'intento d'illustrare il tra­ passo della ricerca filosofica dalla speculazione alla scienza. Un'opera di tal genere risulta inevitabilmente contraddistinta da istanze critiche nei confronti delle filosofie del passato. Perciò, la prima parte ·della presente indagine è intesa a denunciare i limiti del pensiero tradizionale, a mettere in luce le radici psicologiche della filosofia speculativa. Si tratta di un attacco analogo a quello lanciato da Bacone contro gli idola theatri, i sistemi filosofici delle epoche anteriori, l'influsso dei quali è ancora abbastanza forte da sfidare le critiche tre secoli dopo la morte dello stesso Bacone. Questo esame è seguito ·dalla seconda parte, ossia, dall'esposizione dei risultati della filosofia scientifica contemporanea, coincidenti con le conclusioni filosofiche raggiunte attraverso l'analisi della scienza moderna e l'uso della logica simbolica. (La nascita della filosofia scientifica [1951], tr. it. a cura di A. Pasquinelli, Bolob'lla, 7).

Il Mulino, 1961, p.

I caratteri differenzianti

Nel presente capitolo vorrei riassumere i risultati filosofici emersi dall'analisi della scienza e confrontarli con le idee sviluppate dalla filosofia speculativa. Questa ha cercato di raggiungere una conoscenza di generalità , una conoscenza ·dei principi piu generali governanti l'universo. È stata cosi indotta a dar vita a sistemi che oggi appaiono ingenui tentativi di stabilire una fisica generale, una fisica nella quale il ruolo della spiegazione scientifica era assolto da elementari analogie con l'espe­ rienza quotidiana. Essa ha tentato altresi di esplicare la natura del metodo conoscitivo mediante analogie metaforiche, anziché mediante l'analisi logica. La filosofia scientifica, invece, lascia interamente allo scienziato il compito ·di spiegare l'universo e fonda la propria teoria della conoscenza sull'esame dei risultati della scienza, consapevole che né la fisica dell'universo né quella dell'atomo sono comprensibili in termini di concetti tratti dall'esperienza quotidiana. La filosofia speculativa ha perseguita la certezza assoluta. Am­ mettendo l'impossibilità di prevedere eventi singoli, essa ha comunque ritenute conoscibili le leggi generali governanti gli eventi tutti, leggi da derivare col potere ·della ragione. Questa, legislatrice dell'univer­ so, ha rivelata alla mente umana l'essenza di ogni cosa : ecco una tesi basilare di tutti i sistemi speculativi. Viceversa, la filosofia scien­ tifica si rifiuta di co:r:tcepire qualunque cognizione riguardante il mondo fisico come assolutamente certa. Né gli eventi singoli né

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le leggi che li governano possono venir stabiliti con certezza, la quale attingibile unicamente nella logica c nella matematica. Ma i prin­ cipi di tali discipline sono vuoti. La certezza è indisgiungibile dalla vacuità ; non esiste sintetico a priori alcuno. La filosofia speculativa si è sforzata di elaborare direttive mo­ rali nello stesso modo in cui ha sviluppato un sistema di conoscenze assoluto. Nella ragione ha visto la fonte delle leggi morali oltre che di quelle conoscitive, da scoprire entrambe con un atto di visione rivelante la natura piu profonda dell'universo. AI contrario, la filo­ sofia scientifica ha completamente abbandonata l'idea di stabilire nor­ me morali. Considera le finalità etiche prodotte da atti di volizione, non ·da atti di cognizione ; solo i rapporti fra tali finalità, tra fini e mezzi, possono costituire oggetto di conoscenza. Le norme etiche fondamentali non sono giustificabili in termini conoscitivi, ma ven­ gono assunte unicame;nte perché volute dagli uomini, i quali vor­ rebbero altresi che tutti i loro simili a derissero alle medesime norme personalmente seguite. Le volizioni non sono derivabili dalle cogni­ zioni. La volontà umana è causa e giudice di se stessa.

è

Questo è il bilancio di un rapido confronto fra la vecchia e la nuo­ va filosofia. Il filosofo moderno rinuncia a molto, ma guadagna almeno altrettanto. Che ·differenza tra la scienza fondata sugli espe• rimenti e quella costruita con la sola ragione ! Quanto piu atten­ dibili, nonostante la loro incertezza, sono le previsioni dello scien­ ziato rispetto a quelle del filosofo che pretendeva di avere un'intui­ zione immediata delle leggi fondamentali dell'universo ! Che supe­ riorità rivela un'etica non vincolata ·da presunte leggi dovute a una autorità sovrumana allorché si delineano nuove condizioni sociali, imprevedibili per i sistemi etici antichi ! Eppure vi sono ·dei filosofi che si rifiutano di considerare la filosofia scientifica una filosofia, che desiderano incorporarne i risultati in un capitolo introduttivo della scienza, sostenendo che esiste una filosofia autonoma che non ha mùla a che fare con la ricerca scientifica, perché capace di attin­ gere ·direttamente per proprio conto la verità. Si tratta di pretese che, a mio avviso, denotano mancanza di senso critico. Quelli che non si accorgono degli errori della filosofia tradizionale, non desi­ derano rinunciare ai suoi metodi o ai suoi risultati, e preferiscono continuare a b attere una via che la scienza ha abbandonata. Riser­ hano il nome di filosofia per i loro fallaci tentativi di elaborare una conoscenza sovrascientifica, rifiutando di accettare come filosofico un. metodo di analisi concepito sul modello dell'indagine scientifica. ( . ..) Vorrei considerare le possibili cause psicologiche di tale avversione. La prima è che per comprendere la nuova filosofia è necessario

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molto lavoro tecnico. ( .. . ) La risposta usuale è che la filosofia scien­ tifica, essendo orientata troppo matematicamente, non può rendere giustizia alle scienze sociali e storiche. Ciò, tuttavia, rappresenta uni­ camente un ulteriore fraintendimento del programma della filosofia scientifica. In base ad esso, è auspicato ogni serio tentativo d'intro­ durre nello studio delle scienze sociali un metodo filosofico analogo a quello utilizzato con tanto successo nelle scienze naturali. È invece osteggiato qualsiasi atteggiamento filosofico tendente a separare con linea di demarcazione netta le scienze sociali da quelle naturali e mirante ad attribuire significati diversi nei due campi ai concetti fondamentali di spiegazione, legge scientifica, tempo, e simili. ( ...)

( . ..) Il secondo possibile motivo ·di avversione nei confronti della filosofia scientifica è l'idea che questa misconosca gli aspetti affettivi della vita, che l'analisi logica privi la filosofia della propria dimen­ sione sentimentale. ( . .. ) Il filosofo scientifico non vuole sminuire il valore delle emozioni, né desidererebbe assolutamente farne a meno. La sua vita può benissimo essere emotivamente ricca quanto quella di qualsiasi letterato, ma egli si rifiuta di mescolare sentimento e conoscenza, apprezzando l'aria pura dell'analisi e della chiarificazione logiche. Con un'analogia piu terrena, il gusto dell'analisi logica è paragonabile a quello delle ostriche, nel senso che occorre imparare ad apprezzarlo. Ma come la persona che mangia ostriche gradisce un bicchiere di vino, cosi lo studente di logica non è tenuto a rinun­ ciare al vino di esperienze emotive offerte da attività logicamente meno perfette.

( . . . ) Il terzo possibile motivo di opposiziOne nei confronti della filosofia scientifica è costituito dal fatto che essa non assicura alcuna guida morale. ( . . .) ( . . .) La soluzione del problema ·dell'etica suggerita dalla filosofia scientifica assomiglia sotto molti aspetti a quella del problema della geometria ( . . .) : mentre i matematici antichi consideravano le verità geometriche necessarie, i matematici odierni attribuiscono un carat­ tere di necessità solo alle implicazioni tra assiomi e teoremi, esclu­ dendo gli assiomi stessi dal dominio delle asserzioni matematiche. Analogamente, il filosofo scientifico distingue gli assiomi o le pre­ messe morali dalle implicazioni etiche e ritiene solo queste suscetti­ bili ·di prova. Resta, tuttavia, una differenza fondamentale. Gli as­ siomi della geometria possono risultare asserzioni vere se intesi come asserzioni fisiche basate su definizioni di corrispondenza e provate em" piricamente ; in tal caso, essi possiedono una verità empirica. Vice-

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versa, gli assiomi dell'etica non possono in alcun modo risultare as­ serzioni conoscitive ; non esiste interpretazione alcuna in grado di renderli veri. Es&i rappresentano delle mere decisioni soggettive. Quan­ do il filosofo scientifico nega la possibilità di un'etica come scienza, si riferisce a tale fatto. Egli non negherà mai la cospicua rilevanza delle scienze sociali in tutte le applicazioni di decisioni etiche, né pre­ senterà mai i cosiddetti assiomi morali come premesse immutabili, va­ lide in qualsiasi tempo e condizione. Anche le premesse etiche gene­ rali possono variare con il variare dell'ambiente sociale, e il deno­ minarle assiomi significa soltanto che entro il contesto dato esse sono assunte senza riserve. ' (La nascita della filosofia scientifica,

cit., pp.

292-294, 296-297, 299-300, 303, 306-307).

9. CARL GUSTAV HEMPEL

Cari Gustav Hempel ( familiarmente ribat.tezzato in « Peter )) da amici e colleghi) è nato a Oranienburg (Germania) nel 1905. Studiò nelle Università di Gottinga ( dove ebbe come maestri Hilbert e Behemann), Heidelberg, Vien­ na e Berlino. Qui fu allievo di Reichenbach e, nel 1934, consegui il titolo di ) ; mentre al primo congresso per l'epistemologia del­ le scienze esatte tenuto a Praga nel '29 (in cui comparve per la prima volta ufficialmente il gruppo del Wiener Kreis) Waismann presentò una relazione sulla concezione logica della probabilità, che suscitò molte discussioni e fu poi ripresa, oltre che dallo Schlick, anche dal C amap : Logische Analyse des Wahrscheinlichkeitsbegriffs, « Erkenntnis » , 1930, pp. 22848. Durante gli anni della fioritura del Wiener Kreis ( dal '29 al '32), Waismann fu colui che con lo Schlick mantenne stretti rapporti con il Wittgenstein (tornato in Inghilterra nel '29), e negli incontri con questo, durante i suoi soggiorni viennesi, recepi per primo la radicale svolta nel pensiero dell'autore del Tractatus logico-philosophicus. W aismann annotò i punti salienti di queste discussioni che furono poi pubblicati da B. F. McGuinness : Wittgenstein und der Wiener Kreis (Francoforte, 1967, tr. it., Firenze, 1975). Da un manoscritto inedito del Wittgenstein (poi pubblicato postumo nel '56, come Bemerkungen iiber die Grundlagen der Mathematik) egli trasse le idee guida del suo primo ed unico volume da lui pubblicato : Einfuhrung in das mathernatische Den­ ken (Vienna, 1936). Qualcosa del nuovo orientamento suggerito da Wittgen­ stein, orientamento che inclinava al passaggio del neopositivismo ad una filosofia analitica intesa in senso piu liberale e meno sèientistico, traspare anche negli articoli che Waismann pubblica sulla rivista cc Erkenntnis )) , so­ prattutto : Ober den Begriff der Identitiit, ivi, 1936, pp. 56-64, e Wast ist logische Analyse ?, ivi, 1938, pp. 265-289. Dopo la morte di Schlick nel '36, anche Waismann non si senti pio sicuro a Vienna e nel '37 si trasferi in Inghilterra, dapprima come lettore a Cam­ bridge e poi, nel '39, a Oxford ove insegnò come lettore, in un primo tempo, di filosofia della matematica e, successivamente, di filosofia della scienza. Mori a Oxford il 4 novemb1·e 1959. Del periodo inglese va ricordato il sag­ gio The Relevance of Psychology to Logic ( cc Proceedings of the Aristotelian Society », Suppl. Vol. 15, 1938), ma soprattutto l'attività dedicata dal Wais­ mann all'esplicazione dei motivi della seconda fase del pensiero del Witt­ genstein cd a un ]oro superamento. Già durante il soggiorno a Cambridge, Waismann aveva pronto un piccolo libro sulle idee wittgensteiniane, che fu composto in prime bozze nel '39. Ma ]o scoppio della guerra ne impedi la pubblicazione (per la quale il Wittgenstein non mostrava del resto molto entusiasmo). Da aUora sino al '53, W aismann rie1aborò ed ampliò il mate-

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riale, che fu poi pubblicato postumo a Londra dal suo successore a Oxford, R. Harré, nel 1965 : The Principles of Linguistic Philosophy. Negli anni del­ la guerra e del dopoguerra, tuttavia, Waismann pubblicò una dozzina di sag­ gi in cui espone sue concezioni personali e mostra di avviarsi verso una con­ cezione della filosofia come visione, libera dalle pastoie sia dello scientismo neopositivista sia dell'analisi terapeutica wittgensteiniana. Tra essi è soprat­ tutto importante How I See Philosophy, in Contemporary British Philosophy, III, by H. D. Lewis, Londra, 1956, pp. 447-490. Tale saggio dà il titolo alla raccolta pure postuma di questi scritti curata da R. Harré : How I See Philo­ sophy, Londra, 1968 (contenente, oltre al saggio omonimo : Verifiability, 1945 ; Are There A lternative Logics ?, 1945 ; The Many-Level Structure of Language, 1946 ; Language Strata, 1953 ; Analytic-Synthetic, 1949-53 ; Decay and Fall of Causality, 1959). Nel 1973 a Francoforte è stata pubblicata la raccolta : Was ist logische Analyse. Gesammelte Aufsiitze. Sono tradotti in italiano i seguenti scritti del Waismann : Introduzione

al pensiero matematico. La formazione dei concetti nella matematica moder­ na, a cura di L. Geymonat, Torino, 1939 (nuova ediz. con pref. di C. Man­ gione, Torino, 1971); I principi della filosofia linguistica, a cura di E. Mi­ stretta, Roma, 1969 ; Analisi linguistica e filosofia. Una nuova prospettiva, a cura di A. Verdino, Roma, 1970 (trad. di How I See Philosophy).

Sul pensiero del Waismann, oltre alle opere generali sul neopositivismo, non vi sono molti studi. Ricordiamo : F. B ARONE Il neopositivismo logico, Torino, 1953, pp. 2ll-215 ; A. L. LEROY, F. W. (1896-1959) , « Revue philoso­ phique de la France et de l'Etranger », 1960, pp. 135-136 ; S. HAMPSHmE, F. W. 1896-1959, British Academy Lecture, Londra, 1961 ; A. B. LEVISON, W. on Proof and Philosophical Argument, cc Mind », 1964, pp. lll-ll6 ; F. BARONE, Dal neopositivisnio alle correnti analitiche, cc Terzoprogramma », 1973, n. l, pp. 42-51. ,

l. SUI FONDAMENTI DELLA MATEMATICA L'induzione nwtematica

Cominciamo dunque a domandarci : dovremo vedere nel ragiona­ mento induttivo una semplice prova rivolta alla dimostrazione del nostro asserto (« la tale proprietà è valida per tutti i numeri ») o riterremo invece che l'unico significato di quest'asserto sia « la pro­ prietà anzidetta vale per l e, se vale per c, vale anche per c + l »? Secondo l'opinione comune, il nostro asserto ( cioè l'enunciato del teorema) esprimerebbe proprio la constatazione del fatto che quella certa proprietà è valida per tutti i numeri, mentre il ragionamento induttivo costituirebbe soltanto uno dei metodi che ci conducono a riconoscere la verità del teorema. Si distingue dunque fra l'enunciato, che si ritiene abbia un senso in sé e per sé, e la ·dimostrazione, che servirebbe soltanto ad aprirci la via verso di esso. A quest'opi­ nione comune noi obiettiamo : che senso può avere l'enunciato di un teorema generale come quello ora discusso, se prescindiamo dalla sua

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dimostrazione induttiva ? Si vorrà dire forse che tal enunciato sta per « la nostra proprietà vale per l, per 2, e cosi via all'infinito »? Ma a ben riflettere si vede subito che queste parole non spiegano nulla. Esse cioè non rispondono affatto alle domande : « In quali casi è lecito concludere che' il nostro enunci,ato è vero? Che cosa può venir assunto come criterio della sua verità ? ». È ovvio infatti che noi non possiamo percorrere tutta la serie dei numeri, né porre infiniti problemi ; e non lo possiamo fare, non già per mancanza di tempo o di carta, ma perché ciò non significa nulla essendo logica­ mente impossibile. In realtà la dimostrazione induttiva è proprio l'u­ nico criterio da noi posseduto per verificare l'anzidetto enunciato. Ma allora il senso di quest'enunciato deriva completamente da quella dimostrazione. La cosa, del resto, può ripetersi nel caso generale : volendo sapere che cosa significhi una proposizione, ci si deve chie­ dere : « In qual modo possiamo verificarla ? »- Solo rispondendo a questa domanda si determina quel significato. L'anzidetta osservazione ci fornisce la chiave per comprendere il principio induttivo. È certamente naturalissimo affermare : « La no­ stra dimostrazione prova che un ·dato teorema è valido per tutti i nu­ meri » ; bisogna però tener ben presente che solo la nostra stessa dimostrazione riesce a spiegarci qual senso preciso vada attribuito al termine « tutti ». E non v'è dubbio che esso risulti affatto di­ verso dal senso del medesimo termine nella proposizione : « Tutte le sedie di questa camera sono di legno ». Se infatti nego l'ultima affermazione, io vengo a dire con ciò : « Esiste almeno una sedia in questa camera che non è ·di legno » ; se al contrario nego l'affer­ mazione « A vale per tutti i numeri naturali » , io dico in realtà solo questo : « Una delle eguaglianze che compaiono nella dimostra­ zione di A è falsa », e non « Esiste un numero per cui la proprietà A è non valida » (salvo che si voglia proprio fissare con quest'ul­ timo criterio il senso dell'anzidetta affermazione). A conferma e chia­ rimento di ciò possiamo ancora aggiungere quanto segue : se io nego una formula generale, per esempio la formula (a + bY=a2 + 2ab + b\ con tale mio atto io penso : « Non è questa la formula valida, ma quest'altra... », e dò la formula giusta. In tal caso la mia negazione ha dunque il solo scopo di contrapporre una formula generale a una altra formula pure generale ; non pretende di costituire un'afferma­ zione esistenziale. ( ...) In altri termini, le formule matematiche ge­ nerali e le affermazioni di esistenza non appartengono affatto al me­ desimo sistema logico. Questa è l'idea veramente giusta che Brouwer ha saputo mettere in luce, osservando che il dimostrare erronea una certa affermazione generale sui numeri non equivale affatto a far vedere l'esistenza di un esempio contrario.

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Ormai risulta chiaro il nucleo costitutivo dell'induzione : essa non è affatto un ragionamento che ci porti fin dentro l'infinito. La formula a + b b + a non costituisce un modo abbreviato di espri­ mere infinite uguaglianze particolari (che secondo una tale ma­ niera di intendere noi saremmo incapaci a scrivere Bolo per causa della nostra umana debolezza) ; ( . . .) Concepire in tal maniera la induzione, significherebbe proprio precludersi la possibilità di com­ prenderla. In realtà, col porre le formule a + b = b + a, a + ( b + c) = (a + b) + c, ... , noi iniziamo veramente un nuovo calcolo : calcolo assolutamente non deducibile da quelli ·dell'aritmetica elementare (e questa è l'idea giusta, eontenuta nell'osservazione ·di Poincaré, che il principio indut­ tivo non può venir dimostrato logicamente). Questo principio non costituisce però, come pensava Poincaré, un giudizio sintetico a prio­ ri: esso non costituisce una verità, ma stabilisce invece una conven­ zione. Tale convenzione è la seguente : « Se la formula l (x) è valida per x = l, e se è vero che l (c + l) segue da l (c), noi stabiliremo al­ lora che la formula l (x) risulta dimostrata per tutti i numeri na­ turali ». ( .. .) Con questo si spiega un indovinello che ha tormentato a lungo tanti studiosi : per qual motivo avviene che si possa predire il risul­ tato di una singola operazione senza eseguirla ? Che si possa per esempio predire che la moltiplicazione 63 X 289 darà l'identico ri­ sultato della moltiplicazione 289 X 63 ? L'inquietudine che si pro­ va innanzi a questa domanda è dovuta al fatto di non vedere come la predizione generale si connetta al calcolo particolare. Si fu perciò sempre inclini a interpretare la formula ab = ba come una ricapito11azione di tutti i singoli calcoli. Questo però non è a rigore il suo vero senso. Piuttosto si potrebbe paragonare la legge commutativa con una freccia : essa è diretta verso l 'infinito lungo la serie dei numeri. Il che non equivale a dire che questa legge riassuma in sé un infinito numero di teoremi particolari. ( . . .) Detta in poche parole, la nostra interpretazione è questa : nel porre a base dell'algebra le formule che corrispondono alla dimostra­ zione di tipo induttivo, noi non facciamo altro che adattare il cal­ colo letterale al calcolo numerico, portando il primo all'unisono con il secondo ( e cioè all'unisono con la forma che procurarono a quest'ultimo le note definizioni ricorsive dell'addizione, della molti­ plicazione, ecc.). =

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Le famiglie di concetti : il numero Le nostre ·discussioni costituiscono un ottimo termine di riferi­ mento per mettere alla prova le teorie della logica scolastica. Se­ condo questa logica i concetti dovrebbero venir costruiti o per astra­ zione (prescinde�do da alcune note caratteristiche) o per determina­ zione (aggiungendo alcune note caratteristiche). Avviene effettiva­ mente cosi ? Si parte proprio da un concetto generale di numero, e lo si restringe poi davvero a poco a poco con l'aggiunta di note specifiche, in modo ·da ottenere l'un dopo l'altro i concetti di nu­ mero complesso, di numero reale, ecc. ? O si parte invece dai con­ cetti dei diversi tipi particolari di numero e si sale poi da essi al concetto generale costruito con le proprietà comuni a tutti loro ? Ma qual è questo concetto generale di numero ? ( ... ) Lo strano della situazione è questo : qualunque sistema di condizioni si ponga, non si è mai sicuri di aver circoscritto con esso in maniera esatta il concetto di numero ; chi ci garantisce infatti che non vengano sco­ perti nuovi tipi ·di numeri, i quali non soddisfino piu alle nostre condizioni ? O dovremo dire in questo caso, che è illecito denotare tali enti col nome di numeri ? Noi saremo certo ben disposti a riconoscere che i concetti di « numero cardinale », >? Nei dialoghi di Platone in cui è trattato questo problema, i « discepoli » di Socrate fanno vari tentativi di rispondere a questa domanda. Uno di essi dice : « Il calzolaio ha una conoscenza delle scarpe », un altro dice : « TI flautista conosce il modo di suonare il flauto », o « L'architetto conosce il modo di costruire le case », ecc. Ma Socrate rifiuta tutte queste risposte as­ serendo di non aver chiesto quanti tipi di conoscenza vi siano, ma cosa sia la conoscenza. Noi crediamo che i « discepoli » abbiano a·dottato riguardo a que­ sto problema il solo procedimento corretto, quello cioè di dare esempi dell'uso della parola e nient'altro. La giusta risposta alla domanda di Socrate è, di fatto, un elenco dei modi ·differenti in cui la parola « conoscenza » viene usata. Noi diamo solo esempi. Non si dica faute de mieux, infatti noi intendiamo, in futuro, usare la parola conoscenza solo in casi concreti, come ad esempio in « La scoperta di Keplero è un importante contributo alla conoscenza », « L'enun· ciato ' A = A ' non comunica alcuna conoscenza », ecc. Una volta che siamo capaci di capire questa parola nei vari contesti in cui è usata, sappiamo cosa sia la conoscenza. Perché la parola « conoscen­ za » dovrebbe essere piu ·difficile da capire della parola « tavolo », se non per la ragione che la prima è usata in modo piu vago e piu complesso della seconda? ( .. .) ( ...) Ma non sono solo le insidie della lingua a prestare a certe parole quella strana · e particolare importanza che si risolve in una risonanza metafisica. S èmbra che vi sia coinvolta qualche altra cosa, uno strano cambiamento di senso delle nostre parole, a cui dobbiamo ora rivolgere l'attenzione. La parola « mondo » è un tipico esem­ pio. Originariamente significava qualcosa di vasto : non lo spazio ma qualcosa di limitato nello spazio. La parola « mondo » trae il suo peso, la sua importanza, la sua anima, ·dal fatto che suggerisce qual-

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cosa di meraviglioso : quel senso di vastità che accompagna l'uso di questa , parola è dunque · trascendentalizzato. È come se, dopo aver osservato la relatività di ogni misura, fossimo sopraffatti dall'esten­ sione del mondo ; e cosi quel particolare tipo di sensazioni, origina­ riamente associato al senso di vastità che la parola « mondo » sem­ brava comunicare, passa a-d un altro regno, o addirittura al campo della logica. È come se, benché « mondo » sia stato banalizzato e ab­ bia perso il suo valore, il suo alone si fosse trasferito altrove. Par­ liamo ora della vastità dello spazio invece che della vastità degli oggetti nello spazio, proprio come se la parola « vastità » significasse la stessa cosa in entrambi i casi. Come ha luogo questa trasformazione? Credo che si tratti qui di un fenomeno particolare che potrebbe essere chiarito dall'esempio che segue. Se si osserva una ruota che gira, per esempio un mulino a vento, e subito dopo il disegno di un tappeto, si ha ancora la sensazione che qualcosa stia girando. Si potrebbe ·dire che questo è un caso di movimento senza mutamento di posizione ; ma ciò non sarebbe corretto : noi non vediamo in realtà nessun movimento, né siamo colpiti da un'illusione ottica. È come se, in questa nuova espe­ rienza, fosse presente qualcosa della rotazione, eppure qualcosa man­ casse. È piu vero dire che un elemento dell'altra esperienza si è in­ trodotto nel modo in cui ora vediamo il tappeto. Questo esempio ci suggerisce altre esperienze di natura simile. Stare su un monte alto equivale a conoscere una sensazione di espan­ sione che è qualcosa ·di piu della consapevolezza di un certo numero di chilometri quadrati. Ancora, può accadere qualcosa dello stesso tipo quando contempliamo lo spettacolo delle stelle e quando ascol­ tiamo della musica ; può nascere in noi una « emozione cosmica » che non ha nulla a che fare con lo spazio e con le misure. La parola « mondo » è isolata, disincarnata ; è come se conservasse il suo peso senza piu la sua sostanza. Lo stesso cambiamento di significato si ha con parole come « real­ tà », « necessità » , « vita », o in tedesco « Angst » e « Sorge », ter­ mini che hanno nella vita d'ogni giorno un uso banale, ma che vengono poi trascendentalizzati e acquistano una dimensione meta­ fisica. Possiamo cosi rendere comprensibile la ben nota tendenza delle parole ad oscillare tra la banalità e la « importanza ». Una parola può, secondo un'interpretazione, avere una risonanza solenne, sebbene in un altro contesto sembri banale ; chiediamo allora : « Dove è an­ data a finire la reale importanza della parola ? ». Portiamo con noi nel regno della metafisica lo spirito piu profondo della parola ; e li il suo alone diviene irrefutabile.

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Il significato del significato

Qual è il significato di un enunciato ? La domanda, se posta in questa forma, è per vari aspetti fuorviante. Ci sembra quasi che i] significato sia un'ombra che sta dietro ai segni, un'immagine indi­ stinta della realtà che l'enunciato rappresenta. Questa opinione può dipendere dal fatto che quando esprimiamo o sentiamo un enunciato, spesso nella nostra mente vaga un'immagine di ciò che l'enunciato rappresenta. Ora, questa immagine è il significato ? Ma come può questa immagine portarci piu oltre? Come può fare da intermedia­ ria tra i segni e la realtà ? ( ...) Quello che si vorrebbe veramente dire è che il significato non è certamente una semplice combinazione ·di suoni, ma che ci deve essere qualcosa dietro di esso. Ma quel che sta « dietro » è il sistema, la lin­ gua di cui l'enunciato fa parte. E qui l'idea di « qualcosa die­ tro », quasi un elemento etereo, è dovuta ad un'illusione. In questo senso l'uso della parola « significato » è fuorviante� e in esso si può osservare la sopravvivenza di una concezione primitiva ed antiquata del linguaggio. La situazione è analoga quando sembra che un comando anti­ cipi in qualche vaga maniera la sua esecuzione. Si potrebbe doman­ ·dare : « Quando dico a qualcuno di andarmi a prendere una mela, come mai costui capisce quel che gli chiedo di fare ? ». Certo, il sem­ plice suono delle parole non gli dice che cosa egli farà quando ob­ bedirà al comando. Sembra ci sia un salto tra l'espressione e l'ese­ cuzione. I segni anticipano forse in qualche strano modo la loro tra­ duzione in azione come mi 'ombra vaga ? Ma in che cosa poi consi­ ste questa ombra ? Se cercassi ·di portare l'espressione del comando il phi vicino possibile all'esecuzione attesa, se, per esempio, espri­ messi il comando indicando una mela e facendo il gesto di andarla a prendere, come potrebbe riuscire a capire che cosa significhi tutto ciò la persona a cui mi 'rivolgo ? Sembra che, malgrado i miei tentativi, il comando sia destinato a non trovare un'espressione adeguata. Dal momento che non è la semplice espressione verbale, siamo ten­ tati di dire che è il significato del comando che in qualche modo contiene la sua esecuzione. E qui di nuovo torniamo a immaginare il significato come un'ombra che stia dietro all'espressione del co­ mando. Il significato, o il pensiero, diciamo, è in grado di fare ciò che nessun segno materiale può fare : anticipare quello che al mo­ mento in cui si dà il comando non esiste. Questo è un motivo per cui si presume che il pensiero abbia una sua specifica natura ani­ mata, e che la psiche abbia una sua vita propria con capacità di­ verse da quelle dei morti segni. In un certo senso un comando non

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anticipa reahnente la sua esecuzione se con ciò intendiamo che le parole che formano il comando dicano ciò che si deve fare per ese­ guirlo. Il comando indica che è una mela e non una pera quella che si deve andare a prendere ; che si deve andare a prendere e non portar via la mela. Sembra che abbia qui un senso chiedere ri­ guardo a questa o qualsiasi altra spiegazione : « Che cosa si propo­ ne essa di preciso ? ». Ma che genere di risposta ci aspettiamo di ricevere a questa domanda ? Qualsiasi risposta dovrà essere ancora un altro enunciato ; dunque, questo tipo di domanda non ci è di alcun aiuto. Non si può continuare a chiedere all'infinito : « E che cosa significa questo enunciato ? », proprio come non si può chie­ dere : « Che enunciato è quello formato da queste parole ? ». Sostituiamo alla domanda : « Qual è il significato di un enuncia­ to ? » la domanda : « Come usiamo l'espressione ' significato di un enunciato ' ? ». Per esempio, in quali casi diremmo : « Capisco il si­ gnificato di questo enunciato », « Questi due enunciati hanno lo stesso significato », « Il loro significato è diverso », ecc. ? Porre la questione in questi termini ci riconduce sulla terra. Inoltre, dobbiamo stare attenti a difenderci ·dal pregiudizio che vi sia un uso chiaro della parola « significato », laddove l'uso di « significato » cosi come quello di « capire », è fluttuante. Si potrebbe dire che l'uso della pa­ rola « significato » sia costituito da un gran numero di giochi cor­ relati che sono, metaforicamente parlando, le sue diverse sfaccetta­ ture. Ed è proprio l'interconnessione di queste sfaccettature, que­ sta relazione cioè che forma l'unicità del concetto, che ci conduce a parlare de il significato. Ma, se vogliamo essere precisi, possiamo solo dare una descrizione frammentaria della grammatica di « si­ gnificato » e indicare come gli usi di questa parola differiscano l'uno dall'altro in contesti diversi. ( l principi della filosofia linguistica [1965], tr. it. a cura di E. Mistretta, Roma, Uhal. dini, 1969, pp. 75-76, 91, 92-93, 345-3{7).

Strutture aperte di concetti

È lo sport nazionale dei filosofi inglesi ' analizzare ' sedie c gatti in modelli di dati sensoriali. Analogamente, i comportamentisti ame­ ricani si compiacciono di ' ridurre ' le asserzioni psicologiche ad asserzioni riguardanti il comportamento umano. Cosi facendo, essi hanno trascurato un punto importantissimo : la ' struttura aperta ' di moltissimi dei nostri concetti empirici (Porositiit der Begriffe). Ciò che intendo dire è questo. Supponiamo che io debba verificare un'asserzione quale : « C'è un gatto nella stanza accanto », suppo· niamo che io mi avvii verso la stanza accanto, apra la porta, guardi

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dentro e effettivamente veda un gatto. È sufficiente questo a dimo­ strare la mia asserzione ? Oppure devo anche toccare il gatto, acca­ rezzarlo e in duri o a far le fusa ? E, supponendo che io abbia fatto tutto ciò, posso essere assolutamente certo a questo punto che la mia asserzione è vera ? Immediatamente ci troviamo di fronte la ben nota batteria di argomentazioni scettiche accumulata fin dai tempi antichi. Che cosa direi, per esempio, se quella creatura cominciasse poi a crescere fino a raggiungere dimensioni gigantesche? Se essa mostrasse un qualche strano comportamento che non si trova -d'ordi­ nario nei gatti ; se, poniamo, in certe condizioni, essa potesse es­ sere risuscitata da morte, mentre per i gatti normali ciò non è possi­ bile? Dirò, in un caso del genere, che una nuova specie è venuta alla luce ? O che quello era un gatto dotato di facoltà eccezionali? Ancora, supponiamo che io dica > , 1969, pp. 277-282 ; F. M. BAK, A.}.A.'s Criterion of Verifiability, Padova, 1970, J. RUYTINX, La théorie émotiviste de A. et la communication, in La Communicatio�, Montréal, 1971, pp. 69-72 ; CH. HARTSHORNE, Mind and Matter in Ryle, A. and C. I. Lewis, « ldealistic Studies >> , 1971, pp. 13-32 ; P. M. S. HACKER, Other Minds and Professar A:s Concept of a Person, > sono autentiche proposizioni sintetiche, e tuttavia non si possono in nessun modo rappresentare a buon diritto come ipotesi che oiano usate per pre­ dire il corso delle nostre sensazioni ; e, pertanto, se ne concluderà che l'esistenza dell'etica e dell'estetica come rami della conoscenza speculativa costituisce un'insuperabile obiezione alla nootra tesi em­ piristica radicale. Contro questa obiezione dovremo dar ragione dei « giudizi ·di valore » in un modo che sia per sé soddisfacente e insieme coerente

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con i nostri princip'i empiristici. Ci disporremo a mostrare che nella misura in cui sono significative, le affermazioni di valore sono normali affermazioni « scientifiche » ; e, nella misura in cui non ri­ sultano scientifiche, non sono significative nel senso letterale della parola ma sono semplicemente espressioni di emozione, che non possono essere né vere né false. N el sostenere questa prospettiva per il momento ci possiamo limitare al caso delle affermazioni eti­ che. Quanto diciamo di queste si troverà che vale, mutatis mutan­ dis, anche nel caso ·delle affermazioni estetiche. ( ... ) Rifiutiamo la prospettiva soggettivistica, per cui chiamare giusta l'azione, o moralmente buona la cosa, equivale a dirle gene­ ralmente approvate, perché non risulta in sé contraddittorio asserire che alcune azioni generalmente approvate non sono giuste, o che al­ cune cose generalmente approvate non sono moralmente buone. E rifiutiamo la tesi offerta in alternativa, sempre all'interno della pro­ spettiva soggettivistica, per cui chi asserisce giusta una certa azione� o buona una certa cosa, dice semplicemente che egli da parte sua l'approva, per la ragione che chi confessasse di avere talora appro­ vato cosa cattiva o azione ingiusta, non si contraddirebbe. E una ' critica consimile riesce fatale all'utilitarismo. Non possiamo concedere l'equivalenza fra il chiamare giusta l'azione e il ·dire che fra tutte le azioni possibili ·nelle date circostanze questa causerebbe o avrebbe probabilità di causare la massima felicità o il massimo equilibrio a favore del piacere sul dolore, o del desiderio soddisfatto su quello insoddisfatto. ( . ) Cosi dicendo naturalmente non neghiamo la possibilità ·di in­ ' trodurre un linguaggio in cui tutti i simboli etici siano definibili in termini non-etici. Non neghiamo neppure che sia desiderabile so­ stituire con un linguaggio simile quello da noi solitamente usato ; neghiamo soltanto che la riduzione suggerita, di affermazioni eti­ che ad altre non etiche, possa mai riuscire compatibile con le con­ venzioni del nostro linguaggio effettivo. Cioè, non rifiutiamo l'utili­ tarismo e il soggettivismo quali proposte di sostituire i concetti etici attuali con altri nuovi, ma proprio e solo come come analisi inadeguate dei nostri effettivi concetti etici. ( ...) ..

Ammettendo l'irriducibilità dei concetti etici normativi a con­ cetti empirici, sembra che noi si lasci aperta la via alla prospettiva « assolutistica » dell'etica - cioè a quella prospettiva per cui le af­ fermazioni di valore non sono mai sottoposte al controllo dell'os­ servazione, come lo sono le normali proposizioni empiriche, ma solo a quello di una misteriosa « intuizione intellettuale »· ( ..) .

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Tenendo presente l'uso da noi fatto del principio per cui la pro­ posizione sintetica ha significato solo se è empiricamente verifica­ bile, accettare una teoria « assolutistica » dell'etica compromettereb­ be evidentemente tutta la nostra argomentàzione principale. E poi­ ché abbiamo già rifiutato le teorie « naturalistiche » che comune­ mente si suppone forniscano la sola alternativa all'« assolutismo » in etica, sembra che siamo giunti a una posizione difficile. Affron­ teremo la ·difficoltà mostrando che il modo corretto di trattare le affermazioni etiche è offerto da una terza teoria, del tutto compa­ tibile con il nostro radicale empirismo. Per eominciare ammettiamo che i concetti etici fon-damentali, in quanto non sussiste nessun criterio per metter alla prova la vali­ dità dei giudizi in cui figurano, non sono analizzabili. Fin qui siamo d'accordo con gli assolutisti. Ma, diversamente dagli assolutisti, noi siamo in grado di spiegare questo fatto relativo ai concetti etici. Diciamo che la ragione per cui non sono analizzabili, sta nel loro essere puri e semplici pseudo-concetti. La presenza del simbolo. etico nella proposizione non aggiunge nulla al suo contenuto fattuale. ·Cosi, per esempio, se dico a qualcuno : « Hai agito male rubando quel denaro », non sto dicendo nulla di piu che se avessi detto semplicemente : « Hai rubato quel denaro ». Aggiungendo che questa azione è male, non faccio nessun'altra affermazione in proposito. Vengo semplicemente a mettere in evidenza la mia disapprovazione morale del fatto. È come se avessi detto « Tu hai rubato quel de­ naro », con un particolare tono di ripugnanza, o lo avessi scritto con l'aggiunta speciale di alcuni punti esclamativi. Il tono di ripugnan­ z a o i punti esclamativi non aggiungono nulla al significato lette­ rale dell'enunciato. Servono solo a mostra�e che in chi parla l'espressione dell'enunciato si accompagna a certi sentimenti. Se poi generalizzo la mia affermazione precedente e dico : >, ma qui l'accento del comando ha meno enfasi. Nell'enunciato « È bene dire la verità » il comando diviene poco piu di un suggerimento. E allo stesso modo sussistono differenze fra il « significato >> della parola « bene » nell'uso etico corrente, e quellt delle parole « do:vere » e « ·dovrebbesi ». Di fatto possiamo definire il significato dei vari termini etici sia con i diversi sentimenti che si presume esprimano nell'uso comune, sia con le diverse risposte che con essi si conta di provocare. (Linguaggio verità

e

logica [1936] , tr. it. di G. De Toni� Milano, Feltrinelli, 1961,

pp. 128-129, 131-133, 134,.137, 138-139) .

( ...) È mio dovere riconoscere che qui la teoria viene presentata molto sommariamente e le occorre il sostegno di un'analisi di mo­ delli tipici di giudizi etici piu dettagliata -di quanto io abbia mai cercato di dare. ( ... ) Cosi, fra le altre cose, ho mancato di mettere in risalto il fatto che gli oggetti comuni dell'approvazione o disap­ provazione morale non sono tanto azioni determinate quanto piutto­ sto classi di azioni ; se cioè l'azione si qualifica giusta o ingiusta, buona o cattiva, secondo i casi, ciò avviene, voglio dire, perché si pensa che essa sia un'azione di un certo tipo. E questo punto mi sembra importante, perché a mio parere quanto sembra un giudizio etico, molto spesso è la classificazione dell'azione come appartenente a qualche classe di azioni verso cui chi parla si dispone per abitu­ dine in un certo atteggiamento morale. Chiamando giusta un'azione, un utilitarista convinto, per esempio, può voler dire semplicemente che essa tende a promuovere, o piu probabilmente è il tipo di azione che tende a promuovere, la felicità di tutti ; nel qual caso la validità della sua affermazione diviene una questione di fatto empirica. Pa­ rimenti, chi fonda la propria concezione etica su convinzioni reli­ giose, chiamando giusta o ingiusta quell'azione può non voler dire effettivamente altro se non che essa è il tipo d'azione prescritto o

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vietato da qualche autorità ecclesiastica ; e anche questo SI può ve­ rificare empiricamente. ( . . .) ( . . . ) Ma, sebbene si possa dare un certo numero di casi dove questo termine etico per sé va inteso in senso descrittivo, io non penso che sia sempre cosi. Penso sussistano molte affermazioni dove il termine etico è usato in modo puramente normativo, ed è per affermazioni ·di questo genere che intendo far valere la teoria emo­ tiva dell'etica. (Linguaggio, verità e logica [« Introduzione » alla II ed., 1946], tr. it. cit., pp. 240-241).

2.

ESAME CRITICO DELLA TEOLOGIA

La prova ontologica e quella della causa

sm

L'idea che Dio esiste necessariamente merita d'essere indagata, poiché è implicata in due dei tentativi piu conosciuti per dimostrare che c'è un Dio. Il primo di questi è dovuto originariamente a Sant' Anselmo ed è noto come l'argomento ontologico. ( . ..) Una versione di esso, non molto diversa da quella di Sant'Anselmo, fu anche proposta da Descartes ( . ..). La prima premessa dell'argomento è che Dio è perfetto, in un senso che implica che non è immaginabile alcun essere maggiore. Ciò lo si ritiene vero per definizione. Non è detto esattamente che cosa è compresa nella perfezione o grandezza, ma ciò non ha rilevanza per l'argomento, a condizione ch'esso possa procedere alla sua seconda premessa, la quale è che un essere pura­ mente immaginario non è cosi grande come uno reale. Anche ciò lo si considera vero per definizione. Si argomenta allora che se Dio non esistesse, egli non sarebbe il maggior essere immaginabile. Ma, poiché, per definizione, egli è il maggior essere immaginabile, ne segue che esiste. Dire in questo contesto ch'egli esiste necessaria­ mente è proprio lo stesso che dire che la sua esistenza segue dalla sua essenza o, in altre parole, dal modo in cui è stato definito. Benché alcuni filosofi, anche ai giorni nostri, siano stati con­ vinti da questo argomento, esso è sicuramente fallace. La maniera piu comune di respinger!o, che fu suggerita da Kant ( . . .) è negare che qualcosa possa includere l'esistenza nella sua definizione. Defi· nire un oggetto è elencare i predicati ch'esso deve soddisfare e l'esi­ stenza, si è detto, non è un predicato. Per esempio, si può definire un centauro come una creatura che ha capo, tronco e braccia di uomo uniti al corpo e alle gambe di un cavallo. Se poi si procede dicendo che il centauro esiste, non si aggiunge un'altra proprietà alla definizione né si predica qualcosa ·dell'oggetto a cui essa si applica ,

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come sarebbe se si dicesse che i centauri erano bellicosi. Si sta fa­ cendo un'asserzione d'ordine diverso, cioè Ja falsa asserzione che la definizione è soddisfatta. Allo stesso modo, si possono enumerare le proprietà che costituiscono la perfezione di un Dio, come consistenti nell'onnipotenza, onniscienza, benevolenza suprema, o cosi via, ma con l'aggiungere l'esistènza non si elenca una proprietà ulteriore ; si dice, veramente o falsamente, che c'è qualcosa a cui esse proprietà appartengono. Penso che questa risposta sia nel giusto, ma non è ·del tutto sod­ disfacente perché pone troppo l'accento su una regola di formazione di definizioni che è lecito pensare potrebbe essere violata. Per esem­ pio, se si cerca la parola ' centauro ' in un dizionario si troverà che i centauri sono accreditati non solo delle proprietà che ho elen­ cato, ma anche dell'essere favolosi. Se ciò fosse preso seriamente come parte della defin�zione, allora, nel caso improbabile che si trovasse qualcosa che corrisponde alle altre specificazioni di un centauro, non si potrebbe propriamente chiamarla cosi : si dovrebbe trovare qual­ che altro termine per designare tale creatura che differisce da un centauro proprio per il suo non essere favolosa. Allo stesso modo, suppongo che qualcuno potrebbe insistere nel considerare parte del senso del termine ' Dio ', o invero di ogni altro termine, che esso porti un'assunzione di esistenza. Per una tale persona, dire ', Dio non esiste ' sarebbe un uso errato del linguaggio, poiché l'attributo della non-esistenza negherebbe ciò che l'uso del termine-soggetto ha presupposto. Ma ora diventa chiaro che non si ha alcun vantaggio con questa manovra, poiché rimane una questione aperta se il ter­ mine-soggetto ha un uso. Ammettiamo che sia scritto nella defini­ zione di un essere perfetto ch'egli non è immaginario. Si può ancora rispondere ' No ' in modo significativo alla questione se c'è un essere che ha tutte le altre proprietà di un essere perfetto ed è anche non immaginario. Cosi, anche se concediamo a Sant'Anselmo che con­ cepire il maggior essere immaginabile è concepirlo esistente, non consegue ancora che ci sia effettivamente qualcosa a cui questo con­ cetto si applichi. ( . ..) Talvolta, quando si dice che Dio è un essere necessario, si intende ch'egli è un essere, e invero il solo essere, che contiene in se stesso la· ragione della sua propria esistenza. Questa fu la posizione, o una delle posizioni, presa da S. Tommaso d'Aquino, che non riteneva valido l'argomento ontologico, ma pensava ci dovesse essere un es­ sere necessario nel senso precedente. Questa definizione di Dio fu accettata da Spinoza e ( . . .) essa nel suo caso portò all'identifica· zione di Dio con la Natura. La difficoltà ( ...) è di intendere come una simile definizione potrebbe essere possibilmente soddisfatta. Se

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ciò che s'intende con una ragione è un fondamento logico, l'impli­ cazione sarebbe che l'esistenza di Dio segue dalla sua essenza, e siamo daccapo con l'argomento ontologico. Se ciò che s'intende è una causa, è difficile vedere qual senso possa essere dato alla proposizione che qualcosa causa se stessa. Quale differenza, si potrebbe chiedere, c'è tra il dire che qualcosa causa se stessa e il dire che essa non ha alcuna causa? Nel caso di S. Tommaso, l'idea fondamentale pare essere stata che al mondo non può proprio capitare d'esistere nel modo in cui esiste. Abbiamo teorie che rendono conto con successo maggiore o minore ·dei fatti osservabili, ma le propo6izioni che compaiono in tali teorie sono esse stesse contingenti o, se le teorie prendono la forma di sistemi deduttivi, è una materia contingente che i loro as­ siomi siano soddisfatti. Portare i fatti sotto leggi non è mostrare che essi non potrebbero essere stati altrimenti, ma solo disporli in strutture generali. Noi cerchiamo di semplificare queste strutture sviluppando teorie pio ampie, tuttavia, per quanto lontano procedia­ mo, sempre perveniamo alla posizione che questo è come le cose sono generalmente. La domanda perché esse sono cosi è soddisfatta solo con la produzione di un'altra teoria che ci lascia con la stessa domanda a cui si deve ancora rispondere. La risposta di cui abbi­ sogniamo è una che ci assicuri non già che questo è come le cose sono, bensi che questo è come esse devono necessariamente essere. Ma una simile risposta può venir fuori solo se la spiegazione finale è trovata nell'esistenza di tlna divinità le cui azioni procedono dalla sua natura e la cui natura non possa essere diversa da ciò che è. C'è un'eco di questo ragionamento negli scritti degli esistenzia­ listi moderni, che concludono che il mondo è assurdo, proprio per­ ché in esso ogni cosa avrebbe potuto essere altrimenti. Quelli che assumono questa posizione non vi vedono una ragione per credere che c'è un.. Dio, ma essi sostengono che solo se ci fosse un Dio, il mondo avrebbe un significato di cui tragicamente manca. In ciò essi errano. La ricerca di una ragione ultima è compren­ sibile emozionalmente, ma non è intellettualmente coerente. Tanto per cominciare, il ricorso a una divinità non spiega alcunché, a meno che esso dia ipotesi che possiamo escogitare con successo, e vedremo subito che è dubbio che sia cosi. Supponiamo, tuttavia, che tale condizione possa essere soddisfatta. Supponiamo di poter attribuire a Dio scopi che rendano conto ·del modo in cui il mondo è organiz­ zato. Non sarebbe un fatto contingente che egli abbia questi scopi ? No, si dice, perché essi saranno iu accordo con la sua natura. Essendo ciò che è, egli è costretto ad avere questi scopi. Ma non è allora un fatto contingente che e'gli abbia questa natura, ch'egli sia, per esem-

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pio, benevolente anziché malevolente ? No, si dice ancora, perché la sua natura è inclusa nella sua definizione. Ma allora torniamo alla fallacia dell'argomento ontologico. Non solo ciò, bensi sono incompatibili la necessità che è attri­ . buita alle azioni di Dio e la funzione esplicatoria che si suppone esse abbiano. Da proposizioni necessarie seguono solo proposizioni necessarie. Il loro contenuto è completamente astratto. Esse sono con· sistenti con qualsiasi cosa potrebbe effettivamente accadere. Ma una spiegazione deriva la sua potenza dal non essere consistente con ogni cosa che potrebbe di fatto acca·dere ; essa favorisce una struttura effettiva in contrasto con altre che sono logicamente possibili. Cosi, se si potesse pensare alla storia del mondo come se fosse regolata dalle decisioni di un Dio, si dovrebbe ammettere tanto che la sua storia avrebbe potuto concepibilmente essere stata diversa, quanto che anche le decisioni di Dio avrebbero potuto essere diverse, se le si dovesse esse stesse spiegare. Anche qui ci dovrebbe essere un punto in cui la spiegazio:Q.e si fermasse. Non sarebbe data alcuna ulteriore ra­ gione perché la natura di Dio era ciò che era o, se ciò fosse posto come una questione di necessità, perché. c'era un essere con tale natura. Se 'fosse razionale perseguire una spiegazione di questa specie, la ragione sarebbe non ch'essa elimini la contingenza, ma che essa dà senso alle nostre esperienze in un modo che le teorie scientifiche non fanno. Ma allora si sarebbè dovuto mostrare che era cosi. Non sarebbe abbastanza dire che c'era qualche spiegazione di questa specie che noi non abbiamo approfondito. Ciò sarebbe permesso solo se l'esistenza di Dio fosse stata stabilita indipendentemente. Se la posi­ zione di una divinità dev'essere giustificata col suo valore espli­ catorio, la spiegazione dev'essere effettivamente data. La prova teleologica Può essere data ? Soltanto, sembrerebbe� se fossimo in grado di scoprire una struttura nel corso degli eventi che si possa dire con­ validare l'ipotesi che essi sono pianificati. ( ) ..•

( ... ) Il fatto che si possano scoprire regolarità non è sufficiente, poiché s'è visto che nessun mondo descrivibile può mancare di esibire qualche regolarità. Né è sufficiente che alcuni processi in esso siano diretti a fini, poiché il fatto che fini siano perseguiti e talvolta rag­ giunti entro un sistema non è una prova che il sistema come tutto sia diretto verso un fine. Ciò che si deve mostrare è che l'intero universo presenta l'aspetto di un sistema . teleologico. Se uno prefe­ risce l'analogia con il teatro, la commedia deve avere una mm·ale

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- o almeno una trama discernibile. Si può soddisfare tale richiesta ? Non sembra che si possa. Nessuno di coloro che ha paragonato il mondo a un'immensa macchina non ha mai fatto un tentativo serio per dire a che cosa la macchina servirebbe. Essi hanno parlato di uno scopo onnincludente, ma non hanno detto quale era. Ancora, non basta dire che c'è un piano, ma troppo complicato da appro­ fondire per noi. Questa risposta potrebbe essere considerata soddisfa­ cente se l'esistenza di una divinità fosse stata stabilita indipendente­ mente, ma se la sola ragione data per credere nella sua esistenza è che il libro della natura deve aver avuto un autore, allora si ·devono esibire i motivi per prendere sul serio tale metafora. ( ...) Il sens.o della vita

Ci potrebbero essere tuttavia coloro che dicono che nell'indagare la questione se c'è una testimonianza adeguata dell'esistenza di Dio, noi ci siamo accostati in modo errato all'argomento della religione. Secondo essi la questione che noi avremmo dovuto porre non è se la proposizione che Dio esiste è vera come materia ·di fatto, o accetta­ bile come un'ipotesi esplicatoria, ma piuttosto quale funzione com­ pie la credenza in Dio nelle vite di coloro che la posseggono. Si può allora dire che la giustificazione per la credenza è che essa rende significanti per coloro che la posseggono le proprie vite in un modo che altrimenti non sarebbe. Questa è sostanzialmente la posizione presa dal pragmatista Wil­ liam James. Avendo parlato in un libro ( .. .) della « brama della no­ stra. natura per una pace ultima di là da tutte le tempeste, un azzurro zenith sopra tutte le nubi », egli critica in un altro ( . ..) i tentativi di ciò ch'egli chiama ' teologia sistematica ', per ·definire gli attributi di Dio. ( ... ) Similmente, nelle sue lezioni Gi:fford su Le varieta dell'esperienza religi.osa, egli p�rla del suo desiderio di difendere « la credenza istintiva dell'umanità : Dio è reale perché produce effetti reali » , ed egli ritiene che tali effetti reali siano nulla piu che i sentimenti di maggior energia, di sicurezza e soddisfazione che ritiene goduti da coloro che posseggono credenze religiose. Come ipotesi psicologica, ciò potrebbe essere messo in questione. ( ...) · D'altra parte, non c'è dubbio che molte persone traggono sol­ lievo dall'idea di avere un padre spirituale che veglia sopra loro, specialmente quando tale idea si associa con la speranza che egli assicurerà loro in una vita futura quella felicità ch'essi possono non aver trovato in questa. ( ... ) Ciò è sulla stessa linea della conce­ zione di alcuni teisti contemporanei che la dottrina associata con le pratiche religiose in cui essi si impegnano è accettabile come un

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utile mito. ( ...) Un mito che generalmente è considerato come mito, si trova necessariamente in un qualche rischio di perdere la sua uti­ lità. ( ...) Ma, senza l'aiuto di tale mito, si può veder la vita come avente un significato ? La semplice risposta è che essa può avere tanto si­ gnificato quanto uno è in grado di por'vL Non c'è invero alcun motivo per pensare che la vita umana serva a uno scopo ulteriore, ma ciò non è un ostacolo al fatto che un uomo provi soddisfazione in molte delle attività che completano la sua vita, o al suo dar valore ai fini èh'egli persegue, inclusi quelli ch'egli non vedrà realizzati nella sua vita. Si può deplorare il fatto che; la: vita sia cosi breve, ma se essa non fosse indipendentemente degna d'es'sère! vissuta, non ci sarebbe alcuna buona ragione per desiderare di prolungarla. Dove lo scartare il mito cristiano può avere un effetto crudele è nella negazione, per quelli le èui vite non sono state felici, di ogni seria speranza ch'essi sopravviveranno per trovare l'equilibrio ristabilito. È stato talvolta ritenuto che coloro i quali non possono trarte conforto dalla religione Io possono trovare nella filosofia. L'idea, che rìsale agli stoici greci e romani, è che il filosofo�: pervenend·o a vedere le cose nella loro giusta prospettiva, è in grado di staccarsi dalle vicissitudini della vita. Consapevole della propria .· 'rettitudine; egli rimane felice anche nella piti dura sofferenza. A ciò si può contrapporre l'idea marxista che compito della filosofia noli. è sem­ plicemente capire il mondo ma cambiarlo. In realtà non molti filo­ . sofi hanno assunto l'una o l'altra ·di queste posizioni, né c'è qual­ cosa da sorprendersi, per la natura della questione. Un filosofo può diventare staccato dalle questioni ordinarie, ìna lo può anche un artista o un matematico. Egli può ritenere che sia suo dovere impegnarsi negli affari pubblici, i:Ii.a la linea che segue non deve necessariamente essere connessa con le sue 'teorie · filosofiche. Ciò non vuoi dire che la filosofia sia incapace di cambiare il mondo. Ab­ biamo visto che il mondo non può essere apprezzato al di fuori ·della nostra maniera di concepirlo : e la nostra concezione del mondo è qualcosa che la filosofia può contribuire a cambiare. Eppure nean: che questa è la fonte del suo fascino per molti di coloro che la praticano. Per essi il suo valote consiste nell'interesse delle questioni che solleva e nel successo che ottiene nel risolverle. ;

(The Central Questions of Philosophy, Londra, Weidenfeld and Nicolson, 1 973, pp. 213217' 219-220, 233-235).

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ll pregw dello scetticisnw Dipende certo dall'esperienza se delle ipotesi s'imbattono in istan­ ze contrarie, sicché può sembrare che l'opinione, per la quale ogni ragionamento induttivo sarebbe illegittimo, abbia qualche sostegno empirico. Ma questa conclusione sarebbe erronea, o piuttosto falsi­ ficherebbe il punto di vista dello scettico. La sua tesi, infatti, non è che ogni teoria o ipotesi alla fine cadrà, ma che l'accumulazione di casi favorevoli, per quanto a lungo proseguita, non ci fornisce alcuna buona ragione per credere in questa ipotesi, ed è chiaro che la validità di questa obiezione è indipendente dal corso reale della nostra esperienza. Se l'esperienza non può giustificare lo scettico, non può però contraddirlo. Da un punto di vista psicologico, tuttavia, egli può ricevere un incoraggiamento dal fatto che noi, seguendo i nostri criteri di prova già accettati, arriviamo talvolta a delle credenze che risultano poi false ; sarebbe difficile per lui ottenere ascolto se i procedimenti ch'egli pone in questione non ci conducessero mai fuori strada. Ma non è essenziale alla sua posizione che ciò accada. Tutto ciò che egli richiede è che gli errori siano possibili, non che essi si verifichino realmente, poiché ciò che egli imputa ai nostri cri­ teri di prova non è che essi funzionano male ; egli non suggerisce che ce ne siano degli altri che funzionino meglio. II fondamento del suo attacco contro quei criteri sta nel fatto che essi sono logica­ mente difettosi o, se non proprio difettosi, almeno logicamente du­ bitabili. Quando pretendiamo di avere il diritto di esser certi della verità òi una qualsiasi asserzione, la base della nostra pretesa può essere o che l'asserzione è evidente di per sé, o che la sua verità è garan­ tita direttamente dalla nostra esperienza, o anche che è validamente derivabile da qualche altra asserzione o insieme di asserzioni, di cui abbiamo il diri tto di essere certi. Perciò, se si vogliono attaccare queste pretese, si può sostenere o che le asserzioni che noi assu­ miamo come non bisognose di prova ulteriore, oltre all'appello al­ l'intuizione o all'esperienza, non sono esse stesse certe, oppure che i metodi di derivazione da noi considerati come validi non lo sono veramente. Queste argomentazioni non si escludono reciprocamente, e sono state di fatto seguite ambedue. S'è dubitato che noi possiamo esser mai in condizione di dire di un'asserzione che non vi siano dubbi sulla sua verità, e questo dubbio si estende anche alla vali­ dità del ragionamento deduttivo, poiché se nulla è certo, non è nem­ meno certo che un'asserzione segua da un'altra. Ma la nostra giu­ stificazione nel derivare le proposizioni l'una dall'altra è posta in

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questione principalmente nei casi in cui il passaggio non è deduttivo, almeno non è esplicitamente tale. Esiste, o si è creduto che esista, un problema generale dell'induzione che concerne la validità ·di ogni tipo di inferenza di fatto ; ma, come abbiamo notato, esistono anche problemi speCiali concernenti il nostro diritto di passare da un genere di asserzioni ad un altro ; ne deriva per esempio la questione se e come noi siamo giustificati nel fare asserzioni su oggetti fisici sulla base delle nostre esperienze sensibili, o nell'attribuire esperienze agli altri, basandoci sul loro comportamento, o ancora nel considerare i nostri ricordi come capaci di darci una conoscenza del passato. È costringendosi a considerare questioni di questo genere che lo scet­ tico rende il suo miglior servizio alla filosofia. 0

(Il problema della conoscenza [1956], tr. it. di F. Costa, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 40-42).

3. SuLLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA

Nonostante l'esempio di Bertrand Russell, non c'è tra i filo­ sofi inglesi lo stesso interesse per la logica formale o la credenza nell'utilità delle tecniche simboliche per chiarificare le questioni filo­ sofiche, come si trova negli Stati Uniti. Né c'è lo stesso desiderio di connettere la filosofia con la scienza. Il mio Language, Truth an.d Logic, la cui prima edizione comparve nel 1936, fece qualcosa per rendere popolare quella che può essere chiamata la posizione clas­ sica del Circolo di Vienna ; ma, dalla guerra, la tendenza preva­ lente in Inghilterra è stata quella di sostituire questo positivismo senza compromessi con la sua completa ripulsa della metafisica, il suo rispetto per il metodo scientifico, la sua assunzione che i pro­ blemi filosofici, in quanto sono genuini, sono tutti definitivamente risolvibili mediante l'analisi logica, mediante un approccio alla filo­ sofia che è empirico nel senso politico, nel senso in cui Burke fu un campione dell'empirismo. Le generalizzazioni sono sospette, gli esempi particolari sono moltiplicati e sezionati attentamente. Si ten­ ta di illuminare ogni aspetto di un problema, piuttosto che elabo­ rare o produrre una soluzione, il senso comune regna come un mo­ narca costituzionale, se non come uno assoluto, le teorie filosofiche sono sottoposte alla pietra di paragone del modo in cui le parole sono effettivamente usate. Il metafisica non è pio trattato come un criminale, ma come un malato : ci possono essere delle buone ra­ gioni perché egli dica le cose che dice. Questa tecnica terapeutica, come è stata chiamata, è ben sviluppata nell'opera di John Wisdom, ora professore a Cambridge, che mise assieme Yolumi di articoli,

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Other Minds e Philosophy and Psycho-Analysis, comparsi nel 1952 e 1953. Una forma pio robusta di terapia è praticata da Gilhert Ryle, professore di metafisica a Oxfonl, il cui Concept of Mind ( 1 949), con il suo attacco al mito cartesiano dello « spettro nella macchina », ha avuto una influenza molto grande. Ryle condivide con Wisdom un gusto, e un dono, per l'analogia e ia metafora, e una predilezione per l'accumulare ese:mpi, ma egli è meno spaventato da una generalizza­ zione, meno tollerante dell'allontanamento dall'uso ordinario, piti di­ retto nel suo metodo che ogni wittgensteiniano contemporaneo, e pio pronto a sostenere che un problema filosofico ha una soluzione cor­ retta. Quella che ora è talvolta chiamata la scuola di Oxford, che prende il suo tono da J. L. Austin piti che da Ryle, spinge il suo inte­ resse per l'uso ordinario del linguaggio ad un punto tale che si può pensare che l'analisi filosofica abbia ceduto il posto allo studio della filologia. Ma questa tendenza non è onniprevalente. L'opera di filo­ sofi come Stuart Hampshire, P. F. Strawson e David Pears mostra che anche all'interno della struttura della maniera oxoniense c'è ancora spazio per una varietà discretamente ampia di approcci. L'accusa di scolasticismo ch'è stata portata contro la « filosofia oxoniense » non è interamente priva di fondamento·; ma è una imputazione non sinceramente giustificata. Nelle sue opere pio recenti, Carnap ha riconosciuto la . legit­ timità della semantica ed ha dedicato invero una considerevole at­ tenzione tanto allo sviluppo della teoria semantica quanto alla co­ E>truzione di sistemi semantici. Un effetto interessante di ciò è stato un notevole ammorbidimento della sua austerità filosofica. Avendo acquisito il diritto di parlare ·del riferimento delle parole alle cose, egli ha ammesso quasi ogni tipo di parole per denotare la sua specie particolare di oggetti, ricreando cosi l'universo baroccò che Russell s'era affaticato a spopolare. La sua difesa di questa apparente stra­ vaganza la si trova nel 'suo saggio « Empiricism, Semantics and Ontology », dove egli distingue tra problemi « interni » , che sorgono entro una data struttura concettuale, e problemi « esterni » che con­ cernono lo stato e la legittimità della struttura stessa. Carnap stesso è sempre stato molto interessato alle questioni esterne : ha pensato che fosse suo compito di filosofo costruire sistemi linguistici ed elabo­ rare concetti che saranno utili per lo scienziato. E nessuno neghe­ rebbe che questa è , un'attività seria e legittima. Dove egli erra, io ritengo, è nel presumere che le questioni esterne non presentino alcun problema serio : ché niente è pio discutibile che la scelta delle forme linguistiche. È questa disattenzione per le questioni concernenti lo stato delle

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sue strutture linguistiche che distingue Carnap dai filosofi ameri­ cani, come Quine e Goodman, che gli assomigliano per il lor� ap­ proccio sistematico alla filosofia e per la loro preferenza per le tecni­ che formali. Questi filosofi hanno interesse per ciò ch'essi chiamano ontologia, cioè, per la questione di quanto la scelta che uno fa del ]inguaggo lo costringe a dire che esistono certe cose. « Essere », djce Quine, « è essere il valore di una variabile » : e ciò significa çhe l'ampiezza di ciò che Russell chiamava « il mobilio » del mondo di­ pende dall'àmbito di predicati che occorrono per descriverlo. Tanto Quine quanto Goodman vogliono che questo .mobilio sia il piu possibile scarso e solido. Essi « rinunciano alle entità astratte » non perché vogliano esercitare la loro acutezza logica nel vedere come si possa ben fare senza di esse, ma perché non posson� indursi a cre­ dere che esse esistano. Nello stesso, spirito, Goo-dman rinuncia a far uso della nozione ·di cose possibili, come. opposte alle reali; o della distinzione tra connessioni causali e accidentali, o di quella tra as­ serzioni analitiche e sintetiche. « Voi potete svilire >>, egli dice, « al­ cuni di questi scrupoli, e affermare che ci sono piu cose in cielo e in terra di quante se ne sognino nella mia filosofia. n mio pro­ blema, piuttosto, è che non ci dovrehber() essere piu cose sognate nella mia filosofia di quante ce ne sono in cielo e in terra ». Non è tuttavia chiaro, né nel suo caso né in quello di Quine, su che cosa si basi questa richiesta di stretta economia. Quine, invero, am­ mette alla fine che la questione di ·çiò che c'è va risolta. s.u basi pragmatiche. E cosi si riconnette a Carnap ; ma il suo pragmatis!Do è molto nieno sereno. Un interesse per le categorie, che è un'altra maniera di acco­ starsi al problema di ciò che c'è, è caratteristico anche dei filosofi inglesi che sono sta:ti influenzati · dal lavoro pi'4 lardo ' ,dì Wittgen�. stein. Ma, per la maggior parte, essi non si occupano· tanto di cercare di eliminare certi tipi di entità, o di « ridurre » l'una al­ l'altra, quanto di far apparire le somiglianze e le differenze nel funzionamento delle asserzioni che manifestamente si riferiscono ad esse. Una tecnica che lo stesso Wittgenstein usa a tale scopo è quella di escogitare ciò ch'egli chiama giochi linguistici. L'idea è che, studian­ do modelli distorti o semplificati del nostro linguaggio e:ffettivò, pos­ siamo ottenere una visione piu chiara del modo in cui esso funziona realmente. Questa è una maniera di proteggersi dali' errore, in cui cadiamo facilmente, di presumere che qualcosa dev'essere, invece di guardare e vedere ciò ch'è effettivamente. ( ...) Molto spesso i pro­ cessi mentali che noi siamo portati a postulare non capitano affatto. ( ... ) Tali osservazioni preannunciano l'attacco di Ryle allo « spettro nella macchina ». ( ...) ·

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Io suppongo che Wittgenstein è principalmente responsabi�e del­ l'interesse prevalente per la questione come le parole sono usate ordi­ nariamente, benché si debba anche tener conto dell'influnza di G . E. Moore. Non mi pare tuttavia che Moore sia mai stato cosi tanto impegnato con l'uso ordinario come tale. Egli s'è battuto per difendere la « concezione del senso comune » del mondo e per analizzare le proposizioni che la esemplificano ; ma egli non ha insistito che ci limitiamo all'uso ordinario nel procedere a tale ana­ lisi. Quando egli fa appello all'uso ordinario, lo fa soprattutto come un'arma per trattare gli altri filosofi. Egli mostra che se le loro parole sono prese letteralmente, essi le usano per fare asserzioni che sono manifestamente false. Rimane possibile ch'essi dicano qualcosa di complctament� diverso da ciò ch'essi vorrebbero sembrar dire, ma allora la scoperta dei loro significati presenta un problema. Se essi non stanno usando le parole nel senso ordinario, si deve r.:,ndere chiaro il senso in cui le stanno usando. A mio giudizio� il principale risultato della « scuola del linguaggio ordinario » è stato il loro esame attento e la loro dissezione degli usi « non scientifici » del linguaggio. Un buon esempio di ciò è la descrizione che J. L. Austin fa di quelle ch'egli chiama asserzioni per­ formative : di asserzioni come « Io so . . » o « Io prometto .. », il cui scopo non è di asserire un fatto, ma di ·disporre in certe maniere colui che parla o di offrire una qualche specie di garanzia. ( . .) La concezione corrente dell'analisi filosofica s'è estesa assai oltre l'idea che aveva Ramsey della filosofia come semplicemente fluente in defi­ nizioni. Ma Ramsey era nel giusto dicendo che essa è « la massima parte dell'opera vitale di chiarificare ed organizzare i nostri pensieri ». .

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(« Editor's Introduction » a Free Press, 1959, pp. 8·9, 26-28).

Logical Positivism, cd. da A. J. Ayer, Glencoe, Ill., The

4. FENOMF;NISMO Mi occuperò in questo saggio del fenomenismo in quanto teoria della percezione. N ella forma in cui oggigiorno. è usualmente soste· nuto, esso consiste nella teoria in base alla quale gli oggetti fisici sono costruzioni logiche da dati sensoriali. ( . .) ( ... ) E poiché dire che percepisco una scatola di fiammiferi im­ plica dire che la scatola di fiammiferi esiste, l'asserzione che questa scatola di fiammiferi esiste deve anche essere, in questo caso, equi­ valente a una serie di asserzioni sui dati sensoriali. E dire, come fanno i fenomenisti, che gli oggetti fisici sono costruzioni logiche da .

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dati sensoriali, è semplicemente un altro modo di esprimere questo. Non significa che gli oggetti fisici siano letteralmente composti di dati sensoriali, o che gli oggetti fisici siano finzioni e soltanto i ·dati sensoriali reali. Significa semplicemente che le asserzioni sugli oggetti fisici sono in qualche modo riducibili alle asserzioni sui dati senso­ riali, o, come si fa qualche volta, che dire qualcosa sugli oggetti fisici, è dire qualcosa, per quanto non necessariamente la stessa cosa, sui dati sensoriali. Questa dunque è la pretesa che dobbiamo discu­ tere. ( . ) Se ci limitiamo ai dati sensoriali reali, questa pretesa non può evidentemente essere sostenuta. Infatti per ritornare al nostro esempio, questa scatola di fiammiferi non è percepita continuamente o da me o da qualche altro. E tuttavia nel momento in cui nes­ suno la percepisce, cioè quando non vi sono dati sensoriali che siano direttamente attinenti alla sua esistenza, può darsi che la scatola di fiammiferi esista ancora. ( ..·.) Di conseguenza, se il linguaggio del dato sensoriale deve svolgere il lavoro che il fenomenista gli richiede, deve permetterei ·di riferirei a dati sensoriali possibili. E questo significa che almeno alcune delle asserzioni sui dati sensoriali che si suppone diano come risultato l'equivalenza di asserzioni sugli oggetti fisici dovranno essere ipotetiche. Esse dovranno asserire non che qualche dato sensoriale abbia avuto luogo, o avrà luogo, ma che in certe spe­ cificabili condizioni certi dati sensoriali avrebbero luogo. ( .. ) ..

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( ..) Suggerisco allora che l'analisi del fenomenista di una sem­ plice proposizione su un oggetto fisico di un certo tipo, in un certo luogo, durante un certo perio·do di tempo, debba prendere la forma seguente. Una protasi, che includerà essa stessa un numero di ipo­ tetiche secondarie, descriventi esperienze sensoriali tali da essere sufficienti ad identificare il luogo e il tempo in questione, o in altre parole a situare l'oggetto fisico nel suo ambiente adatto ; seguita da un'apodosi che descriva esperienze sensoriali tali da essere suffi­ cienti a verificare la presenza dell'oggetto fisico in questione : e anche questa apodosi dovrà contenere un numero di ipotetiche secondarie per escludere la possibilità di un'illusione. Se questo fosse fatto pen­ so che la verità dell'intera ipotetica potrebbe passare per una condi­ zione sufficiente della verità della proposizione che si intendeva ana­ lizzare. Non sarebbe, tuttavia, una condizione necessaria a causa della indeterminatezza relativa della proposizione a livello fisico. Ma, come è stato già dimostrato, formulare una condizione sufficiente in termini puramente sensoriali, è il massimo che il fenomenista possa ragionevolmente sperare di fare. ( . ) .

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Il fatto è che finché ci limitiamo a dare una spiegazione generale del modo in cui gli oggetti fisici sonò ' costruiti ', da dati sensoriali, o una spiegazione generale del modo in cui lo spazio e il tempo fisici sono ' costrùiti ' da spazi e tempi sensoriali, non sembra che il fenomenista risolva alcun ostacolo insuperabile. Ma non appena egli cerca di ridurre qualsiasi asserzione particolare su un oggetto fisico, anche la piu semplice, ad un'asserzione, o serie di asserzioni, su dati sensoriali, incorre in difficoltà che, per quanto egli possa far luce su di esse in teoria, in pratica lo sopraffanno. La ragione di ciò può trovarsi soltanto nell'estrema complessità della sua impresa. Ma penso che vi possa essere una ragione piu seria. Penso che si potrebbe arguire che egli si sia assegnato un compito che non poteva, per la sua stessa natura, essere adempiuto soddisfacen­ temente. Infatti il linguaggio nel quale ci riferiamo agli oggetti fi­ sici ha la sua propria logica. Ora il linguaggio sensoriale al quale il fenomenista cerca di ridurre l'altro ·deve anch'esso avere la sua lo­ gica, e questa logica deve essere o la stessa del linguaggio fisico o differente. Se è fatta nello stesso modo - se, per esempio, il feno­ menista ammette di parlare di ' sensibilia ' aventi un'esistenza con­ tinuata e distinta nello spazio e nel tempo - allora siamo propensi a dire che non ha realizzato il suo programma, perché questi sensi­ bilia sono soltanto oggetti fisici, o oggetti fisici attenuati, travestiti . . Ma se la logica del linguaggio sensoriale è differente, allora siamo propensi a dire che le asserzioni espresse in esso non sono traduzioni perfette delle asserzioni a livello fisico, appunto perché la loro logica è differente. Cosi, che deve fare il fenomenista ? Se questa linea di argomentazione è corretta, allora la soluzione del ' problema della percezione ' può essere quella di trattare le no­ stre credenze sugli oggetti fisici come se costituissero una teoria, la cui funzione sia di spiegare il corso delle nostre esperienze senso­ riali. Può darsi allora che le asserzioni espresse nei termini della teoria non possano essere riprodotte esattamente come asserzioni sui dati sensoriali ; cioè può non essere del tutto possibile riscriverle come asserzioni sui dati sensoriali. Tuttavia, esse funzioneranno sol­ tanto come mezzi per raggruppare dati sensoriali : e sarà un fatto contingente che i dati sensoriali siano organizzati in modo tal � che. la teoria sia valida. Si può allora richiedere al filosofo di chiarire in cosa consista questa organizzazione : cioè, di mostrare in modo generale quali relazioni ·debbano stabilirsi fra i dati sensoriali per­ ché siano soddisfatte le esigenze della teoria. Cosi, per far eco a Kant, egli può essere rappresentato come se tentasse di rispondere alla do­ manda : come è possibile il linguaggio dell'oggetto fisico ? E penso

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che il fenomenista abbia il necessario per rispondere in modo soddi­ sfacente a questa domanda. (Saggi filosofici,

tr.

it. di P. Ganduzza, Padova, Marsilio, 1967, pp. l ll, 1 17·118. 141 -142.

Il saggio è del 1947-48).

5. L'ANAIJSI FILOSOFICA In generale, credo che l'odierna enfasi filosofica sul fatto, in quanto opposto alla teoria, sia stata esagerata. Troppo spesso, la pretesa di fare a meno ·della teoria è un modo di mascherare assunzioni che, per quanto valide, sarebbe meglio se fossero por­ tate alla luce. Ma, a parte questo, la diffidenza che giustamente abbiamo verso la metafisica EJpeculativa non è una buona ragione per limitare il campc. di indagine dell'analisi filosofica : non c'è ragio­ ne alcuna per supporre che i soli concetti degni ·di esame siano quelli che hanno una sfera complessivamente ristretta, oppure che tutto ciò che possiamo utilmente fare sia descrivere in che modo concetti di questo tipo sono di fatto usati. È ugualmente possibile, e forse di maggior rilevanza, esaminare le caratteristiche architettoniche del nostro sistema concettuale ; dedicare le tecniche analitiche all'inda­ gine delle categorie. Ci sono, certo, sintomi molto apprezzabili, per esempio nell'opera recente di Strawson [lndividuals] e del profes­ sor Hampshire [Trought and Action] , di un movimento in questa direzione. A un certo grado il movimento segna un ritorno a Ka.nt ; una rinascita non esattamente delle dottrine di Kant, ma del suo metodo di approccio. C'è, comunque, un pericolo nel seguire Kant troppo da vicino : ed è il pericolo di soccombere a un tipo di antropologia aprioristica, di presumere che certe caratteriE>tiche fondamentali del sistema con­ cettuale a noi proprio sono necessità di linguaggio, che è l'equiva­ lente moderno delle necessità di pensiero. Cosi si può sostenerè che è impossibile l'esistenza di un linguaggio che non riconosca la di­ stinzione tra particolari e universali, oppure che gli oggetti fisici devono necessariamente essere i particolari primari in qualunque uni­ verso di discorso paragonahile al nostro. Tesi come queste diventano certo piu plausibili quando vengono limitate a linguaggi le cui capa­ cità devono uguagliare quelle deil'inglese ordinario, ma tale quali­ fica rischia anche di renderli triviali. Poiché si può allora argomen� tare che l'opera che un linguaggio compie dipende dalla sua propria struttura categoriale ; cosi nessun linguaggio che differisca radical­ mente dal nostro, da questo punto di vista, è in gra·do di com­ piere esattamente lo stesso lavoro. Ma la risposta a ciò è la seguente :

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anche se non rigorosamente inter-traducihili, linguaggi di struttura diversa possono comunque essere costruiti in modo da fornire so­ stanzialmente le stesse conoscenze ; per ogni fatto che può essere as­ serito nell'uno, esisterà il fatto correlativo che può essere asserito nell'altro. Per esempio, un linguaggio privo di tempi, o di altri segni auto-riflessivi [termini la cui denotazione è relativa a chi par­ la J, non può essere un modello esatto di un linguaggio che Ii pos­ siede. Non avrà alcun equivalente preciso per enunciati tipo « L'ho incontrato ieri »· Comunque, se il linguaggio dispone di mezzi oppor­ tuni per descrivere le persone alle quali i pronomi si riferiscono, se ci dà la possibilità di designare la data che è indicata da « ieri » ( ...) allora otteremo in pratica lo stesso risultato. Ci sarà una per­ dita di economia, ma nessuna perdita di conoscenze. Stando cosi le cose, non vedo alcuna ragione a priori per cui anche un concetto importante come quello di oggetto fisico dovrebbe essere considerato indispensabile. Non potrebbero forse sostanzial­ mente gli stessi fatti essere espressi in un linguaggio che riflette un universo di discorso in cui i particolari di base sono eventi transi­ tori ? E ci sono altre possibilità. Degna di considerazione è quella in base alla quale le regioni dello spazio-tempo sono considerate come i soli individui. Né è certo che ci sia alcun bisogno di fare riferi­ mento agli individui. La tendenza principale della teoria delle de­ scrizioni di Russell, come è sviluppata soprattutto dal professor Quine [ Word and Object] , è in direzione ·dell'eliminazione dei ter­ mini singolari. Si può certo sostenere che i tentativi finora com­ piuti per arrivare a cio non sono stati del tutto soddisfacenti, ma personalmente non vedo alcun motivo per dedurre da ciò che l'im­ presa è irrealizzabile. Ma perché ci si dovrebbe occupare di questioni di questo tipo, se non per un esercizio di ingegnosità ? Possono esserci varie ra­ gioni. Per esempio, l'eliminazione dei termini singolari può essere considerata come la sola via d'uscita dalle difficoltà inerenti al con­ cetto di sostanza. Ma la risposta piu convincente è che difficilmente può esserci un modo migliore per ottenere una comprensione del­ l'opera che questi concetti di fatto compiono, se non vedeudo come sia possibile sostituirli. Infine, qualsiasi opinione possiamo avere circa gli interessi piu specialistici della filosofia linguistica, rimane sempre il problema di chiarire il concetto stesso di linguaggio. Uno dei debiti che ah­ biamo verso Wittgcnstein, e prima di lui verso i pragmatisti, è la presa di coscienza del ruolo attivo che il linguaggio svolge nella costi­ tuzione dei fatti. Se « il mondo è tutto ciò che accade » [Tractatu.s Logico-Philosophicu.s, l ] , allora ciò che può accadere dipende dal

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nostro sistema concettuale. Ma a che cosa esattamente ciò porti, e come ciO possa essere riconciliato con l'oggettività di fatto, sono pro­ blemi ancora da risolvere. Ci fanno anche intravvedere la possibilità di elaborare una teoria generale del significato. Attualmente tali qu estioni sono sospette proprio a causa della loro estrema generalità. Il mio punto ·di vista è che questa è piuttosto una ragione per con­ tinuare nella ricerca. Credo che sia il modo migliore per salvare la filosofia analitica dallo scolasticismo che ha minacciato di travol­ gerla. (Il concetto di persona e altri saggi, tr. i t. di F. Mondadori, Milano, Il Saggiatorc, 1966, pp. 40-42. Il saggio è del 1960).

6. METAFISICA E SENSO COMUNE È diventata una moda, di recente, affermare in difesa della me­ tafisica che, sebbene essa non ci procuri conoscenza, nel senso di stabilire proposizioni vere, può tuttavia procurarci penetrazioni ap­ prezzabili. Non è comunque molto facile da vedere che cosa tali pene­ trazioni possano essere, o perché siano apprezzabili, se non sono esprimibili come verità. Ciò che si intende, forse, è ch'è illuminante essere messi in grado di considerare il mondo in una maniera radi­ calmente diversa da quella a cui siamo abituati, ed io sono d'accordo su ciò, ammesso che si possa mostrare esistente la maniera alter­ nativa di considerare il mondo. Ma questa è una riserva ampia e non conosco un sistema metafisico in cui sia adeguatamente soddi­ sfatta. Anche stando cosi le cose, non ne ·deriva che la fatica di coloro che hanno costruito tali sistemi sia stata interamente spre­ cata per niente. A mio modo di vedere, il servizio principale che ci rendono è di indurci a considerare criticamente lo sfondo teoretico delle operazioni della scienza e ·del senso comune. Sono sollevati pro­ blemi ardui circa la relazione di soggetto e predicato, o il funzio­ namento dei termini generali, o 'lo stato delle entità astratte, o il significato della necessità, o la divisibilità infinita dell'estensione spa­ ziale e temporale, o il dualismo ·di mente e materia, od a propo­ sito della nostra giustificazione per attribuire esperienze alle altre persone o per credere nell'esistenza degli oggetti esterni. Eccetto il raro caso in cui il problema ha una portata scientifica, la soluzione di questi enigmi non aumenta la nostra capacità di controllare il nostro ambiente, o di predire il corso futuro degli eventi, ma c'è un senso in cui essa può accrescere la nostra comprensione del mon­ do, aprendoci gli occhi sulle implicazioni teoriche dei modi in cui noi lo descriviamo. Io non ho alcuna ricetta sovrana per risolvere, o dis-

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sol vere, gli enigmi filosofici, ma in alcuni casi, almeno, penso che la soluzione può prendere la forma ' metafisica ' di mostrare che qual­ che classe di entità è eliminabile, o che il carattere di qualche concetto, o serie .di concetti, è stato inteso erroneamente, o che qual­ che concetto potrebbe, con vantaggio, venire definito piu rigorosa­ mente o modificato in qualche maniera. Il fatto che si possano sollevare problemi esterni ci induce anche a tollerare asserzioni metafisiche come quella che siamo noi a in­ tro-durre il tempo nel mondo. L'implicazione è che la realtà è con­ dizionata dal nostro metodo di descriverla e che sta a noi decidere quale metodo impiegare, cosicché in un certo senso noi non scopriamo propriamente, ma determiniamo come il mondo è. Anche qui, tut­ tavia, se dobbiamo parlare ·di metodi alternativi di descrizione, dob­ biamo accertarci che esistano, ed è arduo vedere come ci potrebbe essere una descrizione intelligibile del mondo che non includesse la categoria di tempo. Non va inoltre dimenticato che quando parliamo di noi stessi come facenti questo o quello, stiamo già operando al­ l'interno di lUl sistema concettuale. Poiché, che cosa siamo noi, se non corpi fisici che occupano una posizione nello spazio e nel tempo? Ma, fino a che stiamo operando entro un sistema concettuale, siamo legati ai suoi criteri di realtà ; e allora dire che introduciamo il tempo nel mondo è. dire che capitò niente prima della comparsa sulla terra di esseri umani, il che è completamente falso, proprio com'è completamente falso, se uno sta operando entro un sistema che pone la . condizione degli oggetti fisici, dire che questi non esistono quan­ do non sono percepiti. Ciò che il metafisico gradirebbe fare è di assumere una posizione al di fuori d{ un sistema concettuale : ma ciò non è possibile. Il mas­ simo ch'egli può sperare di ottenere è qualche modificazione del pre­ valente orientamento generale ; trovare un modo, per esempio, di eli­ minare i termini singolari o forse anche escogitare ·di rappresentare se stesso e le cose attorno a sé come costruzioni logiche a partire dalle loro apparenze. Ma se tale avventura dev'e�;sere comprensi­ bile, e sia pur soltanto di interesse teorico, essa deve avere almeno una corrispondenza grossolana con il modo in cui le cose sono ordi­ nariamente concepite. Cosi, se un filosofo vuole riuscire non soltanto a coinvolgerci in enigmi logici o semantici o epistemologici, ma nel cambiare o nell'affinare la nostra visione del mondo, egli non può lasciare troppo dietro di sé il senso comune. Questo non significa, tuttavia, ch'egli ·debba vincolarsi stretta­ mente alle sue dande. L'insistenza sul fatto che il linguaggio ordina­ rio è perfettamente a posto è stata lin correttivo assai utìle ai voli piu sregolati della speculazione metafisica, ma, se presa troppo Ietterai-

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mente, può portare al nostro lasciar andare cose che potrebbero es­ ser� poste in. questione e al mobilitarci in difesa di ciò che non bi6o­ gnerebhe difendere. È certo meglio ordinare le pietre miliari lungo la strada principale dell'uso ordinario che parlare con grande entusia­ smo della Nullità o dell' Essenza dell' Uomo ; ma sarebbe un errore rinunciare alle specie piti ricche d'immaginazione dell'esplorazione concettuale, puramente a causa del maggior rischio ·di perdersi. In filosofia niente dovrebbe essere assolutamente sacrosanto : neppure il senso comune. (Metaphysics and Common Sense, Lortdra, MacMillan, 1269, pp. 30·81. Il saggio è del 1966).

12. GILBERT RYLE

Nato a Brighton il 19 agosto 1900 ( da Reginald e Catherine Scott), il Ryle compi gli studi di cultura classica e di filosofia, nonché di scienze poli­ tiche, al Queen's College di Oxford. Nel 1924 divenne Lecturer e nel 1925 Student and Tutor in filosofia al Christ Church di Oxford, dove rimase fino al­ Io scoppio della seconda guerra mondiale. Durante quegli aDlli di studio ma­ turarono i suoi interessi fondamentali verso la ricerca logica e metafilosofica, in entrambe le direzioni ricevendo egli stimolo sia da un'approfondita cono­ scenza dei classici, in particolar modo di Platone e di Aristotele, sia dalla fa­ miliarità con il pensiero di Moore, di Wittgenstein, di Russell e di Husserl. Nelle recensioni e negli articoli pubblicati in varie riviste a partire dal 1929 (ora ristampati nei due volumi dei Collected Papers, Londra, 1971) si con· densano i ripensamenti originali del Ryle su temi quali, ad esempio, quelli delle cheramento di confusioni concettuali. Nel '45, dopo aver partecipato alla guerra, divenne fellmv del Magdalen College e Waynflete Professar of Metaphysical Philoso· phy dell'Università di Oxford, ove ha insegnato fino al 1968 e dove risiede tuttora. Dal 1947 al 1971 egli è stato, inoltre, editor della rivista > . Vopera ryliana fondamentale, anche per l'influenza che tuttora esercita nel mondo di lingua inglese, rimane The Concept of Mind, ( Londra, 1949; tr. it. di F. Rossi-Landi, col tit. Lo spirito come comportamento, Torino, 1955), che è stato definito dal suo stesso autore > . Esso deriva il suo valore, infatti, da una enorme messe di sottili e acute analisi sui concetti della vita mentale, le quali val­ gono ad esemplificare la natura e le origini tipiche dei problemi filosofici. Questi, nell'opera del '49, hanno la loro radice in una serie di errori catego· riali legati al (( mito )) cartesiano, ossia al dualismo mente-corpo ; invece, nei Dilemmas ( Cambridge, 1954 ; tr. it. di E. Mistretta, Roma, 1968), la fonte del dilemma filosofico risiede ancora in confusioni categoriali, ma nel senso che noi non teniamo ben conto delle somiglianze e dissimiglianze tra i molteplici métiers logici dei concetti che adoperiamo. Un contributo del Ryle alla storia della filosofia è il libro Plato'.� Pro­ gress (Cambridge, 1966), che ha colpito i critici per l'originalità delle sue ipotesi sui rapporti tra ' Platone e Aristotele e sulla cronologia di alcuni dialoghi. Sono disponibili in italiano, oltre quelle già citate, le traduzioni dei sag· gi : Il problema delle categorie ( 1938), La struttura degli argomenti filosofi­ ci ( 1945), Gerarchie linguistiche ( 1951 ), Previsione e inferenza ( 1957) : in Il Neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, Torino, 1969. Una bibliografia degli scritti di Ryle fino al 1968 si trova in Ryle. A Col-

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lection of Critical Essays, a cura di P. Wood e G. Pitcher, Nuova York, 1970, 1 68 ; per, gli anni successivi al '68, cenni bibliografici sono nella In· PP · 46 troduction ai Collected Papers, cit., voi l. p. vii. La letteratura critica sul Ryle è molto ampia, trattandosi soprattutto di recensionl e di articoli, della maggior parte dei quali si trova menzione in R. PmvESAN, s. v. Ryle in Enciclopedia filosofica, Firenze, 19672, vol. V, coli. 938-944. Tra gli studi piu significativi si segnalano : F. N. SIBLEY, Seeking, Scrutinizing and Seeing, 4] è necessario attribuendo in questo modo la responsabilità dell'opacità all'astrazio­ ne intensionale. Sarebbero cosi le proposizioni a venire intese come ciò che è necessario e possibile. Allora ( ... ) potremmo cercare di rendere le modalità selettivamente trasparenti, quando vogliamo� passando selettivamente dalle proposizioni agli attributi. Otteniamo : ( 9) x [x > 4] è necessario di 9 il quale differisce da ( 8) nel dare a « 9 » una posizione puramente referenziale, che può essere quantificaJa e in cui può essere sostitui­ to « il numero dei pianeti principali ». Ora la manovra sembrava abbastanza remunerativa nel caso delle attitudini proposizionali ( ... ). Ma in rapporto alle modalità produce qualcosa di sconcertante addirittura p ili sconcertante delle modalità stesse ; ossia, il parlare di una differenza fra attributi necessari e contingenti di un oggetto. Forse posso evocare il senso appropriato di smarrimento nel modo che segue. È concepibile affermare che i matematici sono ne­ cessariamente razionali, e non necessariamente bipedi ; e i ciclisti ne­ cessariamente bipedi, e non necessariamente razionali. Ma che dire .

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di un individuo che conta fra le proprie eccentricità sia la mate­ matica che il ciclismo ? Quest'individuo concreto è necessariamente ra­ zionale e contingentemente bipede o viceversa ? Nei limiti in cui stiamo parlando referenzialmente dell'oggetto, senza alcuna partico­ lare propensione a favore del concetto di matematico o a favore del concetto di ciclista, non c'è alcuna parvenza di senso nel con­ siderare alcuni dei suoi attributi come necessari e altri come contin­ genti. Alcuni dei suoi attributi sono giudicati importanti e altri privi d'importanza, certo ; alcuni perduranti e altri transitori ; ma nessuno necessario o contingente. Curiosamente, esiste una tradizione filosofica proprio per que­ sta distinzione fra attributi necessari e contingenti. Tale tradizione perdura nei termini « essenza » e « accidente », « relazione interna » e « relazione esterna ». È una distinzione che viene attribuita ad Aristotele (salvo smentite da parte degli studiosi, tale essendo la penalità che si paga attribuendo qualcosa ad Aristotele). Ma per quanto venerabile, la distinzione è sicuramente insostenibile ; e sicu­ ramente allora la costruzione ( 9) che cosi pianamente la rende ef­ fettiva deve essere eliminata. ( Parola

240·245).

e

oggetto [1960],

tr.

it. di

F.

Mondadori, Milano, Il Saggiatorc, 1970,

pp.

3. OGGETTI E TEORIE

Tendiamo a immaginare che, quando qualcuno propone una teoria concernente qualche genere di oggetti, la nostra comprensione di ciò che egli dice avrà due fasi : prima dobbiamo capire di che oggetti si. tratta, e poi dobbiamo capire quello che la teoria dice di essi. Nel caso delle molecole queste due fasi sono abbastanza sepa­ rabili, grazie alle analogie moderatamente buone che rendono ef­ fettiva la prima fase ; pure, gran parte della nostra comprensione di « che cosa sono gli oggetti » attende la seconda fase. Nel caso delle onde-particelle, non c'è praticamente alcuna separazione signi­ ficativa ; il nostro arrivare a comprendere che cosa sono gli oggetti equivale in pratica alla nostra padronanza di quello che la teoria dice di essi. Non c'è separazione fra la fase in cui capiamo di quali oggetti si tratta e la fase in cui parliamo di essi. Immaginiamo due fisici che discutono se i neutrini abbiano massa. Stanno discutendo gli stessi oggetti? Sono entrambi d'accordo che la teoria fisica da loro inizialmente condivisa, la teoria del preneutrino, deve essere emendata alla luce di un risultato speri­ mentale cui ora si trovano di fronte. Uno dei due fisici raccomanda

415

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emendamento che implica la posizione di una nuova categoria di particelle, senza massa. L'altro raccomanda un emendamento al­ ternativo che implica la posizione di una nuova categoria di par­ ticelle, con massa. Il fatto che entrambi i fisici usino la parola « neu­ trino » non è importante. In questo caso, discernere due fasi, dove la prima è un accordo relativo a quali sono gli oggetti (ossia, neu­ trini), e la seconda è un disaccordo relativo alle loro proprietà (con o senza massa), è assurdo. un

(Parola

e

oggetto,

tr.

4. L ' ESPERIMENTO

it. cit., pp.

26-27).

)

MENTALE ( GEDANKENEXPERIMENT ZIONE RADICALE E L' INDETERMINATEZZA LINGUISTICA

DELLA TRADU·

Immaginatevi tra dei selvaggi pronti ad incominciare ad impa­ rare il loro linguaggio mediante una ricerca empirica non aiutata da manuali o interpreti. Raccogliete un'espressione dei nativi che, stando alle sue circostanze, potrebbe significare « coniglio ». Confer­ mate questa ipotesi ponendo come domanda questa espressione in cir­ costanze successive e trovando che i nativi vi danno ciò che pren­ dete per un assenso alla domanda ogni qualvolta viene indicato un coniglio e un dissenso quando viene indicata qualche altra cosa. Per principio, qualunque risultato di tale natura sarebbe egualmente compatibile con qualche traduzione alternativa ma perversa della espressione dei nativi. Non c'è distinzione dopotutto, tra indicare un coniglio e indicare una fase temporale di un coniglio o una parte non distaccata di un coniglio. Per principio non c'è nessun modo per decidere tra le traduzioni « coniglio », « fase di coniglio », « parte non staccata di coniglio », eccetto che ponendo domande ai nativi in termini non ancora traducibili : termini che ·dipen­ dono dal singolare e dal plurale, dall'identità e differenza. Ho ar­ gomentato altrove che la traduzione di questo apparato di singo­ lare e plurale e di identità e differenza nella lingua dei nativi può esso stesso essere variato e manipolato in modo compensativo tale da sistemare la scelta perversa « fase di coniglio » o « parte· non staccata di coniglio » non meno della scelta naturale « coniglio »· Per principio, allora, qualunque delle traduzioni di cui sopra potrebbe essere sostenuta - « coniglio » o una piu perversa tranne, naturalmente, l'imposizione di qualche principio restrittivo. Ma di fatto imporremmo, quantunque inconsciàmente, questo prin­ cipio restrittivo : dove c'è scelta favoriamo la traduzione piu breve. Una lezione che può essere imparata a questo punto è una le­ zione di cautela nei confronti di ciò che i linguisti chiamano univer-

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sali linguistici. Supponiamo che un linguista proponesse, come uni­ versale linguistico, una legge di Gestalt. Questa legge potrebbe dire all'incirca che i parlanti ·di tutti i linguaggi tendono a favorire delle espressioni brevi quali « coniglio » per delle cose durature che si assomigliano l'una con l'altra e .contrastano col loro ambiente in colore e movimento. Sarebbe una legge plausibile, confermata dal­ l'osservazione di linguaggi e predicibile in ogni modo a partire dalla psicologia del senso comune. Ma ciò che un linguista non cauto circa i suoi universali è pronto a dimenticare è che l'osservazione di lin­ guaggi è qui irrilevante. La legge proviene dalla nostra massima, in­ consciamente imposta, di favorire delle traduzioni brevi. La psico­ logia del senso comune è pertinente solo in quanto giustifica questa massima e non in quanto spiega una tendenza oggettiva nel comportamento linguistico. . Nei vecchi tempi, quando l'idea dell'idea era suprema, c'era una confortevole illusione della determinatezza della traduzione. Co�­ prendere un linguaggio significava mettere le sue etichette sulle idee giuste. Si potevano fare. errori, ma c'era tuttavia una risposta og­ gettivamente giusta ·da trovare. E, per supposizione, essa poteva sempre essere trovata sebbene il metodo non venisse spiegato. Era troppo intuitivo per spiegarlo. Appena riconosciamo che non c'è niente nel significato che non sia nel comportamento, d'altra parte, siamo costretti ad aspettarci delle indeterminatezze basilari nella traduzione. Per regolare tali indeterminatezze facciamo ricorso come nell'esempio del coniglio a scelte o ad analogie arbitrarie o a massime adottate inconsciamente. Piii. le nostre traduzioni dipendono ·da que­ ste guide autoimposte, meno possiamo dire in tnodo giusto a fa­ vore degli universali linguistici. È la struttura soggetto-predicato un universale linguistico o è imposta ? Quali supposti universali lingui­ stici posspno resistere a un esame severo della testimonianza del comportamento ? L'indeterminatezza della tra·duzione chiede insistentemente di es­ sere esplorata anche indipendentemente dagli universali linguistici. La traduzione radicale è una impresa induttiva diretta solo nella sua fase iniziale dove quello che costruiamo sono gli enunciati os­ ·servativi. Un enunciato osservativo è un enunciato occasionale, vale a dire un enunciato il cui valore di verità varia da un'occasione ·di pro­ nunciarlo ad un'altra ; ma è un genere speciale di enunciato occasio­ nale : è un enunciato il cui valore di verità dipende interamente dalle circostanze che sono osservabili intersoggettivamente nell'occasione in cui esso viene pronunciato. Tutti i parlanti concordano abbastanza bene nell'assentire a un enunciato osservativo o nel dissentirne quan­ do vengano loro fornite le medesime stimolazioni concorrenti. Que-

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sta uniformità costituisce anche un criterio comportamentale che di­ stingue gli enunciati osservativi dagli altri. Appena un linguista, che sia al lavoro sul campo, abbia deciso in via provvisoria su che cosa prendere come segni di àssenso e di dissenso da parte dei nativi, si trova nella posizione di fare degli esperimenti e di tirare delle conclusioni induttive riguardo ai significati ·degli enunciati osserva­ tivi dei nativi. Può stabilire induttivamente, fino alla sua completa soddisfazione, quali stimolazioni muoverebbero l'assenso all'enunciato e quali il dissenso. E ciò, per un enunciato osservativo, è, abbastanza, il significato. Egli si trova a questo punto nella posizione di tra­ durre l'enunciato osservativo in italiano sebbene solamente in modo olofrastico, vale a dire senza imputare nessuna rilevanza alle pa­ role italiane al di là della situazione osservabile che esse contri­ buiscono a riportare. Egli può tradurlo « quello è un coniglio » am­ messo che questo enunciato venga preso solamente come legato alla presenza di conigli e quindi di fasi di coniglio e parti di coniglio. Egli non può senza andare oltre questa testimonianza, imputare al­ l'enunciato ·dei nativi o a qualunque segmento di esso il signifi­ cato distintivo di « coniglio » invece di « fase di coniglio » o « parte di coniglio ». I grandi passi successivi che sono necessari per tradurre il lin· guaggio dei nativi dipendono pesantemente da ciò che chiamo ipo· tesi analitiche. Queste possono cominciare come equazioni esplora­ tive tra i segmenti degli enunciati osservativi ·dei nativi e le parole italiane, equazioni la cui sola giustificazione è che fanno venire fuori in modo verificabile le traduzioni di enunciati osservativi interi. Alcune ipotesi analitiche possono essere guidate da delle massime quali quella che ho chiamato la legge di Gestalt. Questa massima favorirebbe > in cui pose in chiaro le propcic divergenze. L'anno successivo {ma con la data 1935) usci la Logik der Forschung ( as-

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sai meno della metà del citato manoscritto originale) e le discussioni si fecero piu vivaci e polemiche. II libro fu recensito da Carnap ( « Erkenntnis » , 1935, V), da Neurath ( ibidem) c da Hempel ( « Deutache Literaturzeitung )), 1937, pp . 309-314), mentre Reichenbach ne esaminò criticamente i capitoli sull'in­ duzione e la probabilità ( cc Erkenntnis )) , 1935, V). A Neurath spettò il com­ pito di definire Popper cc oppositore ufficiale » del Circolo, anche se Carnap riconobbe ben presto in Testability and Meaning ( 1936-37) il proprio debito alla critica popperiana del criterio di significato. Oppositore del nazismo e profeta dell'Anschluss, ma anche critico spie­ tato dello sterile messianismo dei marxisti, lasciò Vienna : nel 1935-36, invi­ tato da S. Stebbing, fu in Inghilterra, dove tenne conferenza alla presenza di Russell, Moore, Aycr, Ryle, Berlin, Hayek, Robbins, Gombrich e Schro­ dinger, e nel '36 partecipò, a Copenaghen, al Congresso internazionale di filosofia della scienza, incontrandosi con N. Bohr. Nel 1936 gli fu offerta ospitalità accademica dall'università di Cambridge, ma quando fu invitato ad assumere la carica di Lecturer in filosofia al Canterbury College ( al­ lora parte dell'Università della Nuon Zclanda) andò in Nuova Zelanda do­ ve rimase nove anni ( 1937-45). Qui, meditando sulla tragedia europea, com­ pose, fra l'altro, Thc Poverty of Historicism, comparso in tre puntate sulla .tivista cc Economica '' ( 1944-45) dopo essere stato rifiutato da « Mind >>, e i due volumi Thc Open Society arul it.ç Enemies ( 1945). Con queste opere appassionate ma lucide e rigorose, Popper sottopose a critica impietosa le radici teoriche e storiche delle piu prestigiose e influenti concezioni totali­ tarie da Platone a Hcgel a Marx, e difese, con tenacia pari a1la forza argo­ mentativa, un suo modello liberale di società aperta. L'eco fu subito vaBtn ; il (C redivivo Antistene » , attaccato da sponde diverse, si trovò al centro di un ampio dibattito che tuttora perdura, come testimoniano i ritorni ricor­ renti delle critiche c le numerose riedizioni e traduzioni delle opere. Nel gennaio 1946 gli fu offerto un posto di Reader in Logica e me­ todo scientifico alla London School of Economics dove nel 1949 divenne Pro­ fessore e successivamente Capo del Dipartimento di Filosofia, Logica e Me­ todo Scientifico. Il suo insegnamento e i suoi scritti, insistentemente pole­ mici contro le tendenze ncopositiviste e analitiche contemporanee, hanno avuto risonanza mondiale e hanno suscitato frequenti controversie (tra le piu note, quella con Carnap e quella, recente, con T. Kuhn), ma anche ampi consensi di cui sono testimonianza un'agguerrita schiera di allievi e i rico­ noscimenti da parte di studiosi insigni, dal Premio Nobel Sir P. Medawar, dall'astronomo Sir H. Bondi allo storico e teorico dell'arte Sir E. \:r0mbrich. Ripetutamente Visiting Profes.mr in Università statunitensi, fra cui Prin­ ceton dove ebbe colloqui con Einstein e Godei, ha tenuto lezioni, oltre che in molti paesi europei, a Hong Kong, in India, in Giappone. Nel 1965 è stato nominato Sir. Oltre che nell'ampia autobiografia comparsa nel recente volume della collana dei cc Living Philosophers » edita dallo Schilpp, The Philosophy of J(. R. Popper (La Salle, 1974), pochi dati essenziali sulla vita di Poppcr si possono trovare in appendice alla traduzione italiana dell'articolo Pro­ ble ms, Aims, and Responsabilities of Sciences ( « L'industria Il , 1966, n. 2) e nell'Introduzione del volume di B. MAGEE, Popper, Londra, 1973 ( tr. it. Ro­ ma, 1975). La bibliografia completa ( al 1 974 ) è nel citato volume dello Schilpp ; aggiornata a] 1971 è in D. ANTISERI, K. R. P., epi.çtemologia e società aperta, Roma, 1972. Una parte abbondante della produzione di Popper è

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però tuttora inedita ; fra gli altri, il Postscript alla Logica che, cresciuto a dismisura rispetto alle intenzioni. ori ginali, ha assunto le di mensioni di un libro ed è i n bozze fin dal 1957. A nnunci ato è pure Philosophy and Physics, mentre recente è la raccolta di saggi Objective Knowledge. An Evolutionary Approach, Londra, 1972. . In italiano sono comp ars i : Scienza e filosofia. Cinque saggi, a cura di M. Trinchero, Torino, 1969; Logica della scoperta scientifica, tr. di M. Trin­ chero, Torino, 1970 (condotta sulla versione inglese la cui prima edizione fu pubblicata nel 1959 con l'aggiunta di numerose note e appendici ) ; Con­ getture e confutazioni, tr. di G. Pancaldi, Bologna, 1972 ( P ed. i ngl 1963); Miseria dello storicismo, d apprima in quattro parti sulla rivista « L'indu­ stria » ( 1952, n. 3 e 1953, nn. l, 2, 3), poi in volume per i tipi della stessa rivista ( 1954) e ancora in volume ( tr. di C. Montaleone, Milano, 1975) ; Epi­ stemologia, razionalità e libertà, tr. di D. Antiseri, Roma, 1972 ( contiene le traduzioni di Epistemology Without a Knowing Subject e Of Clouds and Clocks) ; La società aperta e i suoi nemici, 2 voli., tr. di R. Pavetto, a cura di D. Antiseri, Roma, 1973 ; Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evolu­ zionistico, tr. di A. Rossi, Roma, 1975. La bibliografia degli scritti su Popper è molto ampi a ; un'abbondante collezione di titoli si può trovare nel citato vòlume di D. Antiseri. Oltre al libro di quest'ultimo e al volumetto citato del M a gec, ci limitiamo a segna­ lare, fra le opere d'insieme, M. BuNGE (ed.), The Critical Approach tò Science and Philosophy; Essays in Honor of K. R. P., Londra, 1964; A. WELLMER, Methodologie als Erkenntnistheorie. Z�tr Wissenschaftslehre K. R. P.s, Fran­ coforte, 1967. Stu di piu specifici : G. J. DE VRIE S Antisthenes Redivit•us : P.'s A ttack on Plato, A msterda m, 1952 ; M. CoRNFORTH, The Open Philoso­ phy and the Open Soc'iety : a Reply to Dr. K. P.'s Refutations of Marxism,' Londra, 1968 ; A. C. MICHALOS, The P.-Carnap Controversy, L'Aia, l 9ì l . . Fondamentale è il volume curato dallo Schlipp che, seguito dalle Replies to My Critics, contiene i seguenti saggi : V. KRAFT, P. and the Vienna Cir­ cle ; W. C. KNEALE, The Demarcation of Science ; W. V. QuiNE, On P.'s Negative Methodology ; H. PUTNAM, The « Corroboration » of theories ; I. LAKATOS, P. on Demarcation and lnduction; P. MEDAWAR, Hypothesis and lmagination ; G. MAXWELL, Corroboration without Demarcation ; A. LEVI­ SON, P., H�tme, and the Traditional Problem of lnduction ; Y. BAn-HILLEL, P.'s Theory of Corroboration ; J. C. Ecci.Es, The World of 0/)jective Know­ ledge ; J. W.N. WATKINS, The Unity of P.'s Thought; D. T. CAMPBELL, Evo­ lutionary Epistemology ; E. FREEMAN, H. SKOUMOWSKI, The Search for Ob jec­ tivity in Peirce and P. ; H. FEIGL, P. E. MEEHL, The Determinism-Freedom and Body-Mind Problems ; A. E. MusGRAVE, The Objectivi.�m of P.'s Epi­ stemology ; P. B ERNAYS, Concerning Rationality ; J. BnoNOWSKI, Humanism and the Growth of Knowledge ; C. LEJEWSKI, P.'s Theory of Formal or De­ ductive lnference ; G. ScHLESINGER, P. on Self-Reference ; A. J. AYER, Truth, Verification and Verisimilitude ; J. AGASSI, Modified Conventionalism is 111ore Comprehensive than Modified E.�sentialism ; T. SETTLE, Induction and Probability Unfused; H. MARGENAU, On P.'s Philosophy of Science ; P. SUPPES, P.'s Analysis of Probability in Quant1tm Mechanics ; A. GRUNBAUM, P.'s Views on the A rrow of Time ; T. KuHN, Logic of discovery or Psy­ chology of Research? ; J. O. WrsDOM, The Nature of > (P.E. LAMANNA, La religione nella vita dello spirito ( 1914) ; II ed., Firenze, 1967, p. 446). Purtroppo l'influenza dell'idealismo greco, soprattutto per opera di Tom­ maso d'Aquino, ha largamente dissolto il realismo cristiano, conducendo al­ l'intellettualismo scolastico. Laberthonnière non intende negare la filosofia cristiana, ma solo mettere prima ciò che è prima : l'esperienza religiosa vis­ suta, rispetto alla quale la filosofia è secondaria c derivata ( anche se in un senso autonoma). Nell'esperienza religiosa, infatti, si ha (Saggi di filosofia religiosa, tr. it., p. ll2). Nonostante il momento difficile in cui visse, le polemiche in cui fu coinvolto e lo s tile impetuoso con cui si espresse, Laberthonnière, che pur sfiorò piu volte l'eterodossia, si senti sempre intimamente unito alla Chìesa cattolica, al cui giudizio sempre si sottomise.

6. E. Le Roy Non sarebbe facile cercare la stessa profondità e lo stesso tormento in Eduard Le Roy, scrittore facile ed efficace. Da lui, del resto, Blondel e Laberthonnière presero le distanze sin dall'epoca delle > , cercando di mostrare come il Le Roy fosse andato ben oltre il rinnovamento dell'apo­ logetica propugnato dai sostenitori del ), in quanto provocate dalla rivelazione di un aspetto della potenza divina. Il numinoso si singolarizza come qualcosa di ganz andere, di radi­ �almente e totalmente diverso : non assomiglia a nulla di umano né di co­ smico : nei suoi confronti l'uomo ha la sensazione della propria nullità, di > (il totalmente Altro). Di fronte a questa imprevedibile e agghiacciante rive1 azione, l'uomo riconosce di non essere che una creatura, « pulvis et cinis >> , indegna di allacciare i san­ dali dell'Altissimo. All'inserzione oggettiva del Sacro corrisponde nel sog­ getto il sentimento di crcaturalità (Kreaturgefiihl), che è la consapevolezza che ogni creatura è « unum purum nihil » - per dirla con un autore tanto caro a Otto, Meister Eckhardt -, che solo Dio è sacro c che tutto il resto è profano. Il sentimento di creaturalità non è un concetto, ma una espe­ rienza vissuta in quel « htivido » , in cui consiste la piU. alta caratteristica della spiritualità umana, giusta i versi di Goethe che Otto assume come motto dell'opera :

Das Schaudern ist der Menschheit bestes Teil; Wie auch die Welt ihm das Gefuhl verteuere Ergriffen fuhlt er tief das Ungeheuere. ( « Il brivido è la migliore parte dell'umanità. Per quanto il mondo faccia pagar caro il sentimento, l'uomo, quando è commosso, vive lo smisurato .nel profondo >> Faust, Il parte, vv. 6272-4 ; tr. Manacorda). « La pelle d'oca è qualcosa di soprannaturale >> (Das Heilige, tr. it., p. 26). Il Sacro è ambivalente. Esso viene sperimentato con una bipolarità affet­ tiva che è, insieme, di terrore e di amore, di paura c di speranza, di sbigot­ timento c di al1cttamento . II Sacro atterrisce e, .insieme, attrae irresistibil­ mente : come nel1a vertigine, l'uomo teme l'abisso, in cui non può non pre­ cipitare. Il Dio che vive nell'inaecessibile solitudine ( « nell'alto deì cieli >l ) è anche il Dio benefico ( « Padre nostro » ) ; l'Altissimo e Onnipotente del -

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« Cantico delle creature >> è anche il « bon Signore >> . Ora, come duplice è il Sacro, cosi anche il sentimento di creaturalità è ambivalente : la crea­ tura sperimenta se stessa come un puro niente ; ma, insieme, come segnata dall'orma del creatore ( cc signatum est super nos lumen vultus tui, Domine >> ). Non è se non una creatura, cioè un fiore che presto appassisce ; ma è anche una creatura, nella quale, in qualche modo, risplende la luce divina. Vali­ damente O tto si riferisce ad Agostino, il quale nelle Confessioni cosi esprime questa antinomica bipolarità della creatura : > ( Tersteegen). .Sentimcntalismo, dunque, e pertanto soggettivismo ? Non ci sembra. Pur riconoscendo i suoi debiti nei confronti dello Schleiermacher, Otto prende le distanze dal teologo romantico. Ciò che preme a Otto è la fondazione a priori della categoria del > (p. XII ; non tradotto nell'ed. hai.). Né va dimen­ ticata l'influenza di Feuerhach : il suo radicale antropocentrismo ateo rap­ presenta, agli occhi di B arth, lo smascheramento del sottile e falsificato sentimentalismo di Schleiermacher, questo (( cattivo maestro di teologia » (Das Wort Gottes und die Theologie, Monaco, 1924, p. 164) : (( se è vero quello che dice Schleiermacher, allora è vero quello che dice Feuerbach ; ma dato che non può essere vero quello che dice Feuerhach, allora non può essere vero quello che dice Schleiermacher » {cosi si potrebbe rias­ sumere l'acutissima analisi condotta da Barth su Feuerbach ; cfr. L. Feuer­ bach, in Die Theologie und die Kirche, Zurigo, s. d., pp. 212-39 ; tr. i t. nel­ l'Antologia a cura di E. RIVERSO, Milano, 1 964, pp. 105-34 ; Die protestan­ tische Theologie im 1 9. ]ahrhundert, Zurigo, 1947, pp. 469-83). Riferen­ dosi a queste fonti, uno dei principali conoscitori italiani di B arth cosi riassume tutta la problematica barthiana : (( Il complesso, non ancora del tutto accertato, delle fonti harthiane può essere delimitato in due cicli fon­ damentali ; il primo è di natura piJ: propriamente metafisica ed esisten­ ziale ; mentre il secondo è di natura piu propriamente religiosa e cristiana. Entrambi questi cicli implicano una mobile vicenda che va da un influsso

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dualistico, quello della rottura che può essere espresso nei termini che ven. nero indicati come centrali da Luigi Pareyson, Dio è Dio e l'uomo non è Dio, ad u·n influsso dialettico di riaccostamento e di implicazione dei ter­ mini stessi. Nel ciclo metafisica il momento della rottura si rifà al dua­ lismo di Kant e di Platone. Martinetti vi vede anche l'influsso della "vi­ sione comune a tanti mistici ed a tanti filosofi dell' Occidente e dell' Orien. te". Mentre il momento dialettico passa attraverso Dostoevskij e attraverso Kierkegaard. Nel ciclo religioso la dottrina della rottura fra cristianesimo e mondo, inteso come storia e cultura, è ripresa anche sotto l'influsso delle correnti illuministiche o ad esse affini, come Overbeck e lo stesso Feuer­ bach ; mentre il momento positivo dell'affermazione cherigmatica, pur non escludendo i " positivi " del precedente momento metafisico, vi aggiunge l'influenza dei Blumhardt, di Kutter, Calvino e Paolo stesso. Ed è proprio questa vasta gamma di influssi religiosi e pastorali che il kierkegaardismo contribui a purificare trascendentalmentc » ( 1. MANCINI, Filosofia della re­ ligione, Roma, 1968, p. 121). Dunque : Dio è Dio e ruomo non è Dio. Dio è il Tutt'Altro, è lo stra­ niero ; e l'uomo è creatura, cioè peccato. I due termini dell'antitesi dialet­ tica vanno riconosciuti nella loro antinomicità, che la categoria di peccato definisce in tutta la sua tragedia, dato che dal peccato de1·iva la morte ( la Todeslinie divide l'uomo da Dio). Ma la teologia dialettica, come contrap­ pone ( e unisce ! ) Dio e uomo, cosi rivela, di fronte al peccato, il dono irrichiesto e impossibile : la grazia. Adamo e Cristo sono le figure antro­ pologiche fondamenta1i : . Ciò che è impossibile a parte hominis, è reale a parte Dei : la grazia, in­ fatti, non si aggiunge armonicamente alla natura, ma nega e condanna la natura come peccato, redimendo l'uomo con una l ( = passaggio) dalla morte alla vita. La grazia non è una possibilità divina di fianco alla possibilità umana, ma la possibilità divina oltre e contro la possibilità umana : > (Ro­ merbrief, cit., p. 35). La grazia è il paradosso assoluto, totalmente incom· prensibile da parte della ragione naturale, che di fronte ad essa fa naufra­ gio (e solo cosi si salva) : questa crisi della ragione naturale è, appunto, la fede. In tanto l'uomo può dire « si n, in quanto dice « no » a tutte le possibilità umane : no aJla storia, no alla morale, no alla religione. Il niente creatnrale viene nicntificato dalla impossibile possibilità e solo allora l'uomo può dire « io sono » , quando, cioè, ricambia con la propria fedeltà la fedeltà di Dio ( > ) : « la scoperta dell'insignificanza è anche la rivelazione del significato >> (Romerbrief, p. 51). La crisi è me· tànoia, conversione, fine dell'uomo vecchio e nascita del nuovo ; il cristia­ nesimo è escatologia, il fine (la salvezza) è possibile solo mediante la fine (dell'uomo naturale) : > (Romerbrief, p. 231).

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Di fronte alla grazia tutte le possibilità umane riconoscono il loro fal­ limento, in quanto sono tutte preescatologiche. Famiglia e stato, scienza e tecnica, società, scuola e cultura, tutte vengono polverizzate dalla grazia : anche la religione, la quale è certo la piti vicina alla fede, ma ne è ancora tanto lontana. La religione è la penultima possibilità ed è, pertanto, an­ cora preescatologica. La religione non salva, perché rimane, nonostante tutto , carne e legge ; non è ancora e non potrà mai essere grazia : « La storia della religione, la storia della Chiesa è " debole " in senso assoluto. Essa è tale in virtU. della infinita differenza qualitativa tra Dio e l'uomo. Essa è carne anche quando si drappeggia come " storia sacra ". E d ogni carne è com:c l'erba. L'erba si secca, il fiore appassisce, ma la parola del ·nostro Dio rimane eternamente i> (Romerbrief, p. 257). La religione è la piu alta possibilità umana, in quanto ricorda all'uomo la sua finitezza e la sua morte - essa gli toglie, cosi, 1\ùtima fiducia e lo rende disponibile per il salto della grazia ; ma questa piU. alta fra le possibilità umane, ri­ mane pur sempre una possibilità umana, cioè una impossibilità. Se viene assolutizzata, l'uomo rimane ancora al di qua della linea della morte. Per oltrepassarla non c'è che un S. Cristoforo : Cristo. Tutta la teologia di Barth è cristocentrica, in quanto · solo Cristo, l'uomo-Dio, o meglio : il Dio fattosi uomo, può stabilire, con la sua inserzione verticale nella sto­ ria, l'intersezione tra due grandezze eterogenee : l'uomo e Dio. L' infinita differenza qualitativa può essere colmata solo dall'Amore infinito : « " nel­ l'alto dei cieli " significa semplicemente : Egli è colui che si trova al di sopra di noi, come !JUre al di sopra dei nostri piu elevati e profondi sen­ timenti, sforzi, intuizioni, al di sopra dei risultati dello spirito umano, siano pure i piU. sublimi. Dio nell'alto dei cieli vuoi dire innanzi tutto colui che in tutti i sensi e asssolutamcnte è fondato su se stesso cd è reale proprio per questo. Egli è colui che si rivela e si rivelerà a noi uomini non per merito del nostro cercare e del nostro trovare, del nostro sentire e pen­ sare, ma ancora una volta unicamente per se stesso. Proprio questo Dio nell'alto dei cieli si è rivolto all'uomo come tale, gli si è donato, gli s'è reso manifesto. Dio nell'alto dei cieli non vuoi dire un essere completa­ mente a noi estraneo, che non ha nulla a che fare con noi, che non ci riguarda, che resta a noi eternamente straniero ; ma, secondo il simbolo cristiano della fede, egli è colui che appunto dall'alto dei cieli si china verso di noi. Dio nell'alto dei cieli è quel Dio che si dimostra vero Dio e perciò non è in alcuna maniera in nostro potere ; ma che s'è preso però cura di noi, per l'appunto, come piu gli è piaciuto. Dio è colui che solo merita di essere chiamato Dio, a differenza di tutti gli dèi, diverso da tutto ciò che esiste al di fuori di lui e che, tuttavia, si è congiunto a noi. Quando noi diciamo con le parole del simbolo di fede : Io credo a Dio, oppure : io credo in Dio, è con questo Dio che abbiamo a che fare n (Dog­ matik im Grundriss, tr. it., pp. 68-9). Ogni iniziativa umana sembra, dunque, del tutto vana. Anche l'impegno etico resta interno al peccato. Ogni morale è, infatti, la pretesa di una giustizia umana : empietà e insubordinazione, mistificate come « legge >> ; ma Cristo è, invece, la fine di ogni legge. Anche l'etica deve entrar(1 in crisi : la fine della legge è il trionfo della grazia. M a la presenza della gra­ zia, mentre distrugge l'etica antropocentrica dell'autonomia, fonda l'unica etica genuina, che riconosce una presupposizione ( Voraussetzung ), che è Djo stesso : « L'etica può cercare la propria fondazione soltanto nella vo-

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lontà pura di Dio e non mai nel diritto immanente di ciò che indipenden­ temente da questa vogliamo in virtu della nostra vitalità e foss'anche la piu elevata ; perciò il suo sviluppo può consistere soltanto in una critica generale di quello che l'individuo e la società hanno fatto, fanno e fa­ ranno, ma non mai nella loro giustificazione c convalidazione e neppure nella loro repressione e confutazione » ( Romerbrief, p. 275). L'imperativo dell'etica in tanto sarà possibile, in quanto fondato sull'indicativo della grazia : l'uomo deve diventare ciò che già è in Cristo. In questa : dopo il peccato l'uo�o è schiavo o della carne o dello . sPirito. Solo mettendo in crisi la presunta e presun­ tuosa libertà antropoc�ntrica, l'uomo potrà aprirsi alla genuina libertà, che è la gioiosa accettazione della grazia c l'agire ad essa conforme in quanto su di essa fondato. Il fondamento primo dell'etica e della libertà è, dunque, il pentimento, ossia « chiamare Dio Dio e l'uomo uomo » (Ro­ merbrief, p. 419), che significa, anche, riconoscere che ( L. MA· J,EVEZ, La pensée d' E. Brunner sur rho mme et le peché, in (( R.echerch.es de sciences religicuses >> , 1947-48 ; abregé in P. 0RTEGAT, Philosophie de la religion, cit., p. 828). 3. R. Bultmann

Demitologizzazione ed escatologia : questi i poli dialettici della ten· sione speculativa di Rudolf Bultmann. Solo se demitologizzato, infatti, il messaggio evangelico potrà es8ere sottratto alla duplice contaminazione na­ turalistica c cronostorica, e inserito cosi nella sua piu genuina dimensione storico-escatologica. Bultmann non ha dubbi circa l'incapacità dell'uomo moderno di comprendere il kerygma evangelico in una forma mitologica : l'espressione di questo annuncio non poté, infatti, non rivestire la forma storico-linguistica delle comunità giudaiche in cui venne prodotto ; e que· sta rappresentazione cosmologica dell'universo, la quale finisce per coinvol­ gere anche la descrizione del rapporto con il sacro, non è piu comprcn· sibile per l'uomo moderno, tutto imbevuto di scienza e di tecniea. Il pro· blema, dunque, è quello di liberare l'originalità perenne del kerygma dalle sovrastrutture anacronistiche del mythos : come è possibile, infatti, che l'uomo del XX secolo, il quale adopera la luce elettrica e la radio, si cura in cliniche specializzate e guarda la televisione, possa ancora credere in miti come gli > e i (Storia ed esca· tologia, tr. it., p. 57). Questo carattere imprescindibilmente escatologico dèl kerygma andò incontro, nei secoli, ad una progressiva perdita, parallela ad un indebolimento della tensione essenziale della dialettica religiosa : quel­ la tra il peccato e la grazia. L'escatologia si è sempre pia secolarizzata e laicizzata ed è cosi che il mondo contemporaneo ha conservato il finali­ smo storico, ma ha depauperato il telos escatologico a « maggiore felicità per il maggior numero >> : > che consente al­ l'uomo di accettare di essere quel vero se stesso, che con le proprie forze esaurite dal peccato e senza l'intervento della grazia salvifica non po· trebbe mai essere : « L'uomo deve essere o diventare libero da se stesso ;

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ma non può conquistare una tale libertà grazie al proprio volere e alle proprie forze perché in questo sforzo rimarrebbe il vecchio uomo ; può solo riceverla come un dono » (op. cit., p. 172). Risulta cosi chiaro in che senso Gesti è l'ephapax : (( Gesti Cristo è l'evento escatologico non come un fatto accaduto una volta per sempre nel passato, ma come ripetuta­ mente presente, che si rivolge a me e a te, hic et nunc, nella predicazione >> (op. cit., p. 17). Ora, questo duplice carattere, historisch e geschichtlich dell'evento unico, si ripete nell'evento salvifico di ognuno, per cui, pur vivendo nel mondo cronistorico (tempo profano), il credente vive però fondamentalmente nel mondo storico della salvezza ( tempo sacro) ; vive, insomma, nel mondo come se non ci fosse, giusta l'avvertimento esisten­ ziale dell'os me paolino ( l Cor 7, 29-3 1 ) : (( Questo è il paradosso dell'esi­ stenza cristiana : il credente è tolto dal mondo e, per cosi dire, esiste fuori del mondo, c nello stesso tempo rimane nel mondo e nella sua stori­ cità » (op. cit., p. 173). L'evento d( Cristo mostra qui la sua . incommensu­ rabilità con il tempo storico, la sua alterità radicale rispetto al tempo pro­ fano e a quelle stesse esigenze mondane che ne richiedono la demitolo­ gi�zazione. Da ciò il carattere pcrsonalistico della storia escatolqgica, la sua dimensione esistenziale c tcofanica : (( per il cristiano l'avvento di Cri­ sto non fu un evento di quel .{J rocesso temporale che noi intendiamo oggi per storia. Fu un evento nella storia della salvezza ; nel regno dell'eter­ nità, un momento escatologico in cui, piuttosto, ebbe fine la storia pro­ fana del mondo [ ... ] . L'avvento di Cristo è un evento nel regno dell'eter­ nità, incommensurabile col tempo storico [ ... ] . Non guardare intorno a te alla storia universale, ma guarda alla tua personale. Nel tuo presente è sempre contenuto il senso della storia, e tu non puoi guardarlo come uno spettatore, ma solo nelle tue decisioni responsabili. In ogni momento dorme la possibilità di essere il momento escatologico. Tu devi risve­ gliarla » (op. cit., pp. 174, 176). Sottolineare l'importanza di questo richiamo al carattere escatologico del kerygma appare superfluo. Essso costituisce un tratto comune a tutti i moderni interpreti dell'Evangelo, da Barth a Guardini, da Cullmann a Butterfield ( del quale cfr. Christianity and History, tr. it., Alba, 1959). Va piuttosto notato come la riscoperta dell'escatologia, compiuta dal Bult­ mann, non sia andata esente da critiche radicali, le quali tutte ne hanno indicato il limite nella riduzione antropologica della fede al (( qui, ora, per me n. Difficile discernere in questa fede che cosa non è certo c che cosa è realtà, che cosa deriva da una oggettiva Realtà trascendente e che cosa è proiezione soggettiva dell'uomo nel " trascendente ". Il mirabile ten­ tativo di recuperare la purezza della fides qua si traduce in un notevole impoverimento della fides quae. Non va dimenticato che il Bultmann fu e rimase un esegeta e che i suoi studi su La storia della tradizione sinot­ tica ( 1921), su Il Vangelo di Giovanni ( 1941) e ·su La teologia del Nuovo Testamento ( 1953) sono giustamente famosi. Bultmann fa parte, insieme con MARTIN DIDELIUS (Die Formgeschichte des Evangeliums, Tubinga, 1919) e K. LV DWI C SCHMIDT (Der Rahmen der Geschichte }esu, Berlino, 1919), della corrente esegetica della Formgeschichte, che si avvale di un metodo storico-morfologico per lo studio delle (( forme letterarie » della tradizione cristiana. I risultati delle ricerche esegetiche di Bultmann pos­ sono essere riassunti con le sue stesse parole : (( Le fonti ci offrono anzi­ tutto la predicazionc della comunità, che ne attribuisce certamente la

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maggior parte a Gesu. Naturalmente, questo non significa che tutte le parole che essa pone in bocca a Gesti siano state veramente pronunciate da lui. In molti casi, si può anche dimostrare che derivano solo dalla co­ munità, in altri casi che la comunità le ha riclaborate. L'analisi critica mostra che tutta la tradizione su Gesu, contenuta nei tre vangeli sinottici di Matteo, Marco e Luca, si scompone in una serie di strati che, in genere, possono essere separa ti gli uni dagli altri in maniera assai sicura ; accade tuttavia, per quanto riguarda alcuni casi particolari, che la separazione degli strati sia difficile e resti contestabile. Il vangelo di Giovanni non entra in fin dei conti fra le fonti della predicazione di Gesti ; per que­ sto non lo prendiamo in considerazione. La separazione dei diversi strati nei vangeli sinottici ha come punto di partenza il fatto che essi furono composti in greco, entro la civiltà ellenistica, mentre Gesu e la comunità primitiva vivevano in Palestina e parlavano in aramaico JJ (}esus, 1926 ; tr. fr., Parigi, 1968, pp. 37-8). Che (dass) Cristo sia esistito, è indubitabile ; che cosa (was) abbia veramente detto e insegnato, è problematico. Va, inoltre, aggiunto, che ogni elemento soprannaturale presente nei testi �a­ cri viene interiorizzato come fede della comunità e proiettato come ; e lo Spirito .Santo sarà meglio inteso se defi­ nito il > (B. MoN­ DIX, P. Tillich e la transmitizzazione del cristianesimo, Milano, 1967, p p. 158-60). Di questa proposta « simbolista >l del Tillich non può sfuggire l'interesse : essa corrisponde ad una esigenza apologetica particolarmente presente nella nostra epoca, che è di diffusa quanto irrefrenabilc secolariz­ zazionc. Tillich cerca di rendere accettabile la verità cristiana all'uomo del XX secolo : la sua intenzione è certo valida ; ma lo è altrettanto la sua soluzione ? Riesce Tillich a modernizzare il messaggio cristiano senza dis­ solverlo ? In che misura le categorie tecnologiche dell'homo faber cessano di essere le destina triei della Parola per divenirne il criterio di verifica? cosa rimane ancora del depositJ.tm fidei nella transmitizzazione? La rispo­ sta a queste domande non è difficile, nonostante la mctodologia ambigua e Io stile allusivo del Tillich, se si considerano le affermazioni della sua teologia, volta pi a ad un eclettismo diffuso che a delle precise distinzioni. Il salvataggio deH'umanità dal naufragio religioso del mondo moderno avviene per mezzo di una zattera vacillante e sconnessa : trascendenza e realtà di Dio, divinità, sacrificio e resurrezione di Cristo, valore salvifico dei sacramenti, originalità del cristianesimo rispetto alle altre religioni sono tutte affermazioni che perdono nella teologia del Tillich il loro consueto significato, per assumerne un altro chiaramente soggettivistico e antropologico. Interessante, ci sembra, è la seguente dichiarazione, rila­ sciata da Tillich poche settimane prima della morte, nella quale il sim­ bolismo religioso viene indicato senza ambiguità in tutta la sua disponi­ bilità e in tutta la sua astrattezza : l ( V. METIIA, Teologi senza Dio, Torino, 1 969, T). 60). Fr� tutti i teologi protestanti Tillich è il piu aperto alla filosofia, al -

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punto da definire la sua ricerca « teologia filosofica > > : Platone, Kant, Re­ gel , Schelling e Heidegger vi sono gli autori piu presenti. Fo1·se anche per questo il grande sistema tillichiano non ha molto di teologico, almeno nel senso consueto, tanto che non potrà apparire troppo drastico questo giudizio che di lui dà uno storico della teologia : > ). Il ruolo centrale d ell'incarn azi one, morte, resurrezione di Gesu nella storia della salvezza ottiene nella Cristologia cullmanniana una convincente riproposizio nc . La cristologia trova il suo fondamento e

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il suo punto di partenza in un fatto storico : la vita di Gcsu Cristo, la sua morte, la sua resurrezione. La presenza di Cristo è dunque una presenza storica, che si pone al centro della storia della salvezza, di cui costituisce la possibilità : questa storicità del Dio-Uomo deve essere necessariamente e rigorosamente affermata, contro le eresie docctiste di tutti i tempi, contro ogni presunzione di demitologizzare ciò che non è mito, ma realtà storica. In Cristo la persona e l'opera costituiscono, con la loro coincidenza, il centro della storia della salvezza, che dalla creazione attraverso il peccato e la redenzione giungerà alla finale parousia : Prima della creazione C R I S T O Tra la creazione e la parousia Dopo la parousia. Per intendere questo carattere storico della figura di Cristo bisogna liberarsi delle mitologie gnostiche introdotte dalla filosofia greca nel cri­ stianesimo. Nel pensiero greco, infatti, sussiste tra tempo cd eternità, come pure tra corpo e anima, una radicale eterogeneità. La salvezza dell'anima non può porsi se non come la negazione del corpo ; la redenzione del tempo non è possibile : esso deve annullarsi nell'eternità. La raffigurazione ciclica del tempo, tipica di tutto il pensiero ellenico, si oppone radicalmente alla raffigurazione rettilinea del pensiero giudaico-cristiano. Nell'ebraismo, però, il centro di questa linea retta non è ancora fissato, è ancora futuro (il Messia da venire) ; mentre nel cristianesimo il centro è già stabilito, perché coincide con l'incarnazione-morte-resurrezione del Cristo. Per il cri­ stiano - come per l'ebreo - la fine deve ancora venire ; ma per il cri­ stiano - diversamente che per l'ebreo - la fine è instaurata con . Cristo. Di qui la complessità dell'escatologia cristiana : in Cristo il futuro è già compiuto, ma deve ancora venire ; dopo la venuta di Cristo il cristiano vive già in una nuova era, in un'era piu vicina alla fine ; ma la fine deve an­ cora venire. La conseguenza di questa prospettiva è una piu ricca tcmatica - svolta in Cristo e il tempo - intorno al rapporto storia-escatologia nel cristia­ nesimo. Ne consegue, infatti, che il cristianesimo non è né meramente sto­ rico, né meramcnte escatologico ; esso è, insieme; storico ed escatologico : storico, in quanto l'evento salvifico è avvenuto, una volta per tutte, nella storia ; escatologico, in quanto la parousia si è avvicinata c fatta certa, ma deve ancora veni�e. Questa tensione storico-escatologica caratterizza il cri­ stianesimo primitivo e costituisce il fondamento della Chiesa, come della comunità che, nell'ultimo tempo che va dalla resurrezione di Gesu alla parousia, rappresenta il corpo terrestre di Cristo. Se, infatti, la fine è certa, ma non è ancora venuta, il compito della Chiesa è la predicazione della fine durante il tempo che conduce alla fine : « La concezione della predicazione del V angelo come parte integnnte del piano divino di sal­ vezza - parte integrante che dimostra come la linea della salvezza si pro­ lunghi tcmporalmente nel presente - assume nel cristianesimo primitivo quella forma precisa che ritroveremo in tutto il Nuovo Testamento : la fine del mondo non verrà prima che il Vangelo sia stato predicato a tutti i popoli. V a notato, innanzi tutto, che il testo non dice che la fine del mondo non verrà prima che tutti siano convertiti. All'attesa escatologica dei primi cristiani si accompagna infatti la convinzione che il male aumenterà negli

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ultimi tempi. Ciò che importa qui, è che il Vangelo sia annunziato a tutti » (Cristo e il tempo, tr. it., p. 191). Questo piti problematico orienta­ mento interpretativo conduce a risultati positivi anche nel campo della ese gesi neotestamcntaria, in quanto induce il Cullmann a rifiutare certe preclusioni preconcette della teologia liberale e lo apre ad un intendimento piu pieno sulla struttura della Chiesa. In un'opera assai acuta e serena, Petrus, Apostel, ]unger, Miirtirer ( 1952), Cullmann giunge alle seguenti con­ clusioni : I) Pietro fu a Roma e a Roma martirizzato ; 2) il passo Mt. 16, 18 (Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam), tanto contestato e cosi sovente dichiarato apocrifo, risponde pienamente a quella tensione, che caratterizza la situazione del cristiano nell'ultima tappa della storia della salvezza. Il cristiano è responsabile, sin quando la fine non sia venuta, di continuare l'opera salvifica del Cristo : « La storia universale parte dalla stessa linea da cui inizia la storia della salvezza per ritornare poi sulla medesima linea. Il presente storico-salvifico si trova già, dopo la resurrezione di Cristo, sulla via del ritorno. Cristo regna già su tutto, ma questo regno non è visibile che alla fede. Nell'annunzio di questa realtà, ch'essa coglie nella fede, la Chiesa adempie la missione di condurre lo svol­ gimento a quel termine in cui la sovranità di Cristo, attualmente invisi­ bile, diventerà visibile a tutti >> (Cristo e il tempo, p. 218). Le analisi del Cullmann illuminano, cosi, anche il problema della re­ sponsabilità politica del cristiano. Chi intenda a fondo la tensione esca­ tologico-temporale riuscirà ad evitare due pcricòli : _ l ) la tesi della coin­ cidenza di Stato e Chiesa, che può assumere le forme, apparentemente con­ trastanti, ma sostanzialmente simili, della teocrazia e del cesaropapismo ; 2) la tesi della separazione netta tra Stato e Chiesa, che induce il cristiano al disinteresse pe� la vita politica e abbandona la sfera della società laica alle forze areligiose. Questi due pericoli possono essere evitati, se si con­ sidera che Cristo non è solo al centro della st01ia della salvezza, ma an­ che al centro della storia universale, la quale pure contribuisce, anche se negativamente (Augusto, Erode, Pilato) alla storia della salvezza. Questa situazione viene indicata dal Cullmann ( Cristo e il tempo, p. 222) con la seguente figura : ·

C R, R2 R,

= = = +

Il Cristo La Chiesa II Mondo R2 = Regnum Christi

Cu11mann cosi la delucida : « ].a grande _ superficie circolare rappresenta il ' regno di Cristo nella sua totalità con al centro Cristo, il Kyrios, e la su­ perficie minore compresa nel cerchio piu interno rappresenta la Chiesa. Cristo regna sulla Chiesa e sul mondo iBtero. La Chiesa è naturalmente a lui piu vicina, in quanto è il suo corpo. Anche lo Stato appartiene allo stesso " ordine ", alla Sua sovranità, ma si trova da lui piti lontano, perché i suoi membri non conoscono questa sovranità. Questo duplice carattere ci ricorda che, dal punto di vista temporale, il regno di Cristo non è an­ cora il regno di Dio, il quale succederà al regno di Cristo soltanto alla fine, quando Cristo avrà sottomesso a Dio tutte le cose. · Soltanto nel regno di Dio non vi saranno piu due sfere, perché allora cc Dio sarà tutto in tutte le cose » ( l Cor 15, 28) >> ( Cristo e il tempo, p. 244). Ogni potere, dunque, deriva da Dio : sia quello politico sia quello religioso. Nella taxis divina

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entrambi realizzano, sia pure diversamente, una funzione insostituibile : Chiesa e S tato sono entrambi servitori di Dio, ma non nello stesso grado : > ; disprezz �va il collaborazionista Erode, la « volpe n, e derideva i sovrani « benefattori >> ; tra i dodici apo­ stoli uno, Simone, era stato Zelota, ma forse anche 'Pietro e Giuda lsca­ riota lo erano stati ; la purifìcazione del tempio e l'entrata in Gerusalem­ me ; l'episodio delle spade e il fatto che alcuni discepoli realmente ne avessero nel Getsemani. Tuttavia, gli accenni antizeloti non sono meno pre­ senti : il frequente richiamo alla non-violenza ; l'impegno di non resistere al male ; l'amore per i nemici ; l'ordine di non impugnare le spade ; la fe­ deltà al1a legge ; i rapporti amichevoli con i pubhlicani ; la scelta dell'asino (e non del regale cavallo) per entrare a Gerusalemme ; i continui richiami escatologici. Questa apparente contraddizione può essere superata solo pen­ sando alla speranza centrale di Gesu : l'attesa di un Regno futuro. Essa conduce alla critica radicale di tutte le istituzioni mondane, le quali sono provvisorie e caduche, in quanto appartengono ad un mondo la cui figura passerà senza lasciare traccia. Ma proprio questa critica induce Cristo a

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non pl'Oporre la modificazione di queste istituzioni, dato che esse verreb­ bero in ogni caso sostituite con altre istituzioni egualmente negative c prov­ visorie. Anche di fronte alle ingiustizie sociali Gesti è sensibilissimo e con­ danna i ricchi : ma la sua deplorazione non è sociale, ma religiosa ; essa non mira a rendere poveri i ricchi per arricchire i poveri, ma a proporre quella povertà interiore che costituisce la premessa necessaria della sal­ vezza, di n1odo che nu1la è piti lontano dallo spirito del cristianesimo delle preoccupazioni per le necessità materiali. La stessa povertà materiale, ri­ chiesta ai discepoli, era volontaria e la comunione dei beni ne1le comu­ nità primitive non era obbligatoria. La Chiesa di cui parla Gesti è la Chiesa dci « poveri >>, non la Chiesa dei « non-ricchi n. È naturale, però, che il capovolgimento interiore proclamato da Gesti finisca per modificare, attra­ verso gli uomini, anche la loro azione sociale, dato che il discepolo di Crist!l deve sin d'ora attuare le norme del Regno. Ma la riforma voluta da Gcsu non è sociale, ma interiore. Assai giustamente il Cullmann riprende il tema della tentazione di Gesti, mostrando come Satana proponga a lui l'ideale del Re terreno ; e indica nell'episodio di J o 18, 33 la chiave del problema : alla domanda di Pilato : « Sei il Re dei Giudei ? n , Gesti risponde : cc Il mio regno non è di questo mondo n . Viene cosi nuovamente convalidata la tesi dell'atteggiamento critico di Gesti nei confronti della società, che egli non accetta e non condanna. Cristo non è né collaborazionista né ri­ voluzionario : l'accettazione acritica e l'opposizione violenta gli sono en­ trambe estranee. Il tema della rivelazione come storia, che induce il Cullmann a una apertura notevole nei confronti dei temi della cc tradizione » e della cc Chie" s a n, viene ripreso in lleil als Geschichte ( 1965), dove il bersaglio pole­ mico costante è soprattutto la teologia di Rudolf Bultmann, che finisce per svalutare la dimensione temporale de1la storia della salvezza in nome de1la cc contemporaneità » della decisione esistenziale. Se Bultmann accentua trop· po l'inserzione verticale, Cullmann ritiene che l'evento-Cristo, senza dubbio inserzione verticale di Dio nella storia, sia comprensibile solo a partire dalla orizzontalità di base della storia de1la salvezza. Rispetto a Heil als Geschichte, Cristo e il tempo è stato il prolegomeno : cc Vi avevo definito la salvezza e la rivelazione nel Nuovo Testamento come una storia di ca­ rattere particolare. Tuttavia, mentre là il mio scopo era quello di mettere in evidenza solo lo schema di una storia della salvezza neotestamentaria, qui intendo valutare il suo contenuto da ogni punto di vista : nel suo sor· gere, nella sua intera portata, pure nel suo rapporto con l'escatologia ; mi propongo di definirlo nei confronti delle correnti teologiche ed esegetiche oggi dominanti, ma anche di p1·ecisarlo positivamente, attraverso questa vivace discussione, su punti importanti e di illustrarlo nella sua comples­ sità là dove nelle mie precedenti esposizioni i problemi apparivano ·troppo semplificati » (Il mistero della Redenzione nella storia, pp. 7-8). Cullmann non contesta il primato della escatologia, ma la inserisce nel contesto della storia della salvezza, nella tensione tra il presente e il futuro, in un tempo che è già tempo-della-fine, anche se non è ancora la fine ; Cullmann sotto· linea il cristocentrismo, imperniando in Cristo ogni momento della storia della salvezza, ma Cristo non è un cc concetto )) , è un cc evento )) : cc Il pregio certamente maggiore di Oscar Cullmann è quello di aver saputo offrire al mondo teologico d'oggi una sintesi originale del Cristianesimo, nella quale si ammira cosi l'apparato critico, come l'organizzazione interna delle parti,

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tutte concepite in connessione alle idee fondamentali della Heilsgeschichte. Si può essere grati al Cullmann, in questo momento uso alla memoria del cristianesimo e agli smembramenti della rivelazione, per aver ampiamente documentato, con il suo coerente impcgiJ.o storico-esegetico-teologico, che il cristianesimo non è un complesso amorfo di spunti isolati ed isolabili, né la teologia di un biblicismo estrinseco e discontinuo, ma una unità perfetta di vari elementi attorno all'idea centrale della salvezza come storia progressiva >> ( B . GHERARDINI, La seconda Riforma, II, pp. 275-6). 6. A. Nygren Il rifiuto della teologia liberale implicava una riconquista del signifi­ cato genuino della Trascendcnza della Parola e, pertanto, della assoluta originalità del cristianesimo , rispetto alle altre religioni. In questa opera di ritrovamento del tema essenziale della Parola, un posto importante spetta ad Anders Nygt"en, con la sua grande opera Eros e A gape ( 1930-36). Il metodo usato dallo Svedese nel confronto tra il cristianesimo c le altre religioni consiste nel porne in evidenza il motivo di fondo. Prendiamo le altre religioni (e civiltà) che piu hanno influito sull'Occidente : giudaismo, ellenismo c cristianesimo. Ciascuna di esse cerca un rapporto con l'Eterno (Dio), ma in maniera diversa. Il giudaismo è la religione della legge : Dio ha stabilito la norma e l'uomo si attiene scrupolosamente ad essa. L'elle­ nismo è la religione dell'eros e il cristianesimo dell'agape. Eros e agape significano entrambe 'amore', ma in maniera affatto diversa. L'eros è l'amore egocentrico : esso parte dall'uomo, che cerca un compimento in Dio _tdal meno al Piu, amore di bisogno, tensione di ricerca - evidentissima'ì nel Convito di Platone). L'agape è l'amore di Dio, nel senso che è Dio che ama per pri:rp.o ( dal Piu al m:eno, amore come dono, come sovrabbondanza). L'agape è teocentrica e gratuita. Paolo ha insistito piu di ogni altro su questo carattere gratuito dell'agape, che è tutt'uno con la Incarnazione del Cristo ( la teologia dell'agape è una theologia crucis). Piu tardi, in tutta la storia del cristianesimo, i tre motivi - nomos, eros e agape ri�ul­ tano intrecciati : il concetto agostiniano di caritas, ad esempio, mescola insieme motivi erotici e motivi agapici. In Lutero Nygren trova la piu ra­ dicale rivalutazione del ruolo originale dell'agape È s tato notato che Nygren accentua a tal punto il contrasto tra eros e agape da concludere in un dualismo manicheo ( anche Barth, Kirchliche Dogmatik, IV/2, p. 840, gli muove questo rimprovero). È senza dubbio naturale che uno studioso, quando enuncia e svolge una scoperta, la accentui e, in qualche modo, la esasperi (e B arth avrebbe dovuto saperlo ! } ; tuttavia l'accusa sem­ bra esagerata. Non si dovrebbe dimenticare che Nygren si proponeva di rispondere, in continuità con la e e sostenerla con la fede : u Né la fede cristiana né il cosiddetto cristianesimo e la moralità con questo le­ gata devono essere abbandonati. Ma certamente devono essere· riconosciuti enh·ambi -per ciò che sono. Infatti, se il fenomeno della secolarizzazione non viene giustamente riconosciuto e ci si rifiuta di dargli il significato che ad esso spetta, qui come là, vengono coperti e contraffatti entrambi. La fede cristiana -oerché cade vittima senza speranza del fraintendimento di tipo - morale ; il cristianesimo perché passa irrimediabilmente dall'essere una struttura secolarizzata ad esserne una secolaristica. Le due cose sono strettamente legate l'una con l'altra >> (op. cit., p. 221). Il tema gogartiano della secolarizzazione, insieme con il tema bultmanniano della demitizza· zione, eserciteranno una notevole influenza sulla teologia della morte di Dio e sulla teologia della speranza. -

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VI. LA TEOLOGIA CATTOLICA l. M. ]. Scheeben

La teologia cattolica ndla seconda metà del XIX secolo è rappresen­ tata da numerosi autori, dei quali in altre sezioni di questa opera viene parlato. Un posto preminente spetta a M. J. Scheeben, soprattutto per la sua opera : Die Mysterien des Christentums ( 1865). Dotato di una forte pre· parazione storica e patristica, egli riesce a mantenersi lontano sia dalla teo·

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Iogia intellettualistica, sia dal sentimento formale. I « misteri >> del cristia· nesimo vengono descritti non solo nel loro fondamento soprannaturale e nelle loro conseguenze spirituali, ma altresi nel loro reciproco collegamento (nexus mysteriorum inter se), il quale fa si che il corpo della teologia cat­ tolica (Dio, Cristo, la Chiesa) si presenti come una stretta unità teoretica e pratica. Nella valutazione dello Scheeben gli storici della teologia espri­ mono un concorde giudizio fortemente positivo ; bastino queste poche pa· role di K. Algermissen : « il piu grande dogmatico della �eoscolastica, che rimase fino ai nostri giorni, e ancor piu lo sarà per l'avvenire, una guida, un indirizzo, un punto di riferimento in tutto l'ulte1·iore progresso dello studio teologico. Lo Scheeben si mostra una mente speculativa veramente geniale, e insieme di una profonda interiorità mistica, grande nell'indagine filosofica come nella severa critica dei fatti storici. Con la sua Dogmatica in quattro volumi, coi suoi Misteri del Cristianesimo, con le sue Meraviglie della grazia divina, è degno di stare al fianco dei più grandi teologi di tutti secoli >> (La Chiesa e le Chiese, Brescia, 1944, pp. 286-7). 2. K. Adam Teologia e apologetica raggiungono una sintesi assai fedele alla tradi­ zione e, insieme, largamente aperta alla mentali tà dell'uomo del XX se­ colo, in K. Adam. Il carattere originalmente umano e unicamente umano della religione viene da lui mostrato con efficacia, insieme con la caratte­ ristica > della religione, nella quale confluiscono tutte le ener· gie dell'uomo : sentimento, ragione, fede (come risposta alla grazia). Il cri­ stianesimo, religione per eccellenza, risponde ai bisogni religiosi dell'uomo di ogni epoca c, quindi, anche dell'uomo contemporaneo, sradicato dalla fede ma non insensibile ad un suo recupero. Il cristianesimo è la realtà di Dio, attraverso Cristo, nella Chiesa : « Il fondamento �:: attolico della fede si lascia formulare in una sola proposizione : io giungo alla viva fede del Dio Uno e Trino, attraverso Cristo, nella sua Chiesa. Colgo l'azione del Dio vivente attraverso il Cristo che agisce nella sua Chiesa. Come si vede, la certezza cattolica della fede poggia sulla santa triade : Dio, Cristo, la Chiesa >> (L'essenza del cattolice;imo, Brescia, 1955, pp. 65-6).

3. R. Guardini La difficoltà di un discorso su Romano Guardini si basa sull'originalità del suo metodo di ricerca. La vastità dei suoi interessi, l'originalità delle sue tematiche, l'attualità del suo discorso ne hanno fatto non solo lo scrit­ tore piu letto nell'ambito della cultura religiosa cattolica, ma anche un maestro per molti teologi. Eppure egli non fu, in senso stretto, teologo, quanto piuttosto un filosofo della religione. Non che gli mancasse il fon­ damento teologico, ma i vari trattati > , > , > , etc., da lui digeriti negli anni seminariali, sono stati utilizzati come uno sfondo fisso, dinanzi al quale fare agire le tematiche -più vive del nostro tempo ( fenomenologia, esistenzialismo, psicanalisi), non mai ri­ fiutate o assorbite, ma criticamente utilizzate e superate. La teologia, nel suo discorso, è un elemento, che, insieme con la filosofia, la scienza e l'arte, si traduce in una ricerca antropologica, la cui definizione potrebbe essere

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quella dei due poli indicati nel titolo della traduzione italiana di un suo libro : L'esistenza e la fede (o, nei termini del « suo » Agostino : « Dio e l'anima » ). Scrittore unitario, ma non sistematico, sono presenti in lui tutti i temi delle . B a­ sterebbe, a indicue ciò, riflettere su quali sono stati gli autori di filosofia da lui maggiormente studiati : Socrate, Agostino, Bonaventura, Pasca], Kier­ kegaard. La morte di Socrate ( 1947) si sforza di vedere nell'Ateniese la « pre-disposizione >> al Cristo : la lettura del messaggio di Socrate, che Guar­ dini compie attraverso i dialoghi socratici di Platone, induce a una aper­ tura verso la trascendenza e la religione, che unicamente darebbero fon­ damento al dialogo ( come consistenza nella Verità) e al sacrificio ( come obbedienza al Dio). Anche se in Socrate ciò non era del tutto chiaro ( c come poteva esserlo prima del Cristo ? ), era tuttavia implicitamente · pre­ sente. La conversione di Sant'Agostino ( 1935) esprime l'esemplare rapporto di > tra uomo e Dio. L'uomo è alla ricerca di se stesso, ma si rende conto che il suo vero Sé è radicato nella interiorità della Trascen­ denza : « inveni me, inveni Te >> . Filosofia e teologia non sono ancora di­ vise, ma costituiscono i due aspetti complementari di un unico movimento. Dalle Confessioni Guardini enuclea la figura eidctica del cristiano, che comprende se stesso solo nella fede : > per il Cristo rimane esemplare. In Kierkegaard Socrate è lasciato alle spalle, in quanto il Totum Novum si è rivelato. Non meno che nei suddetti filosofi, Guardini ritrova la definizione del dramma esistenziale dell'uomo in alcuni poeti, letti non già con i criteri estetizzanti della critica romantica, ma con la mentalità medievale del­ runità antropologica, per la quale il poeta è, insieme, il veggente, il pen· satore, l'interprete di esistenza. Anzitutto, Dante : la sua visione unitaria della realtà, la sua salda visione del mondo cattolica, la sua concezione dell'arte come (L'opposizione polare, i n Scritti filosofici, tr. it., l, p. 269). La (P. FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità, Milano, 1974, p. 612). Questo non significa che l'ortodosso non comprenda le problematiche dell'uomo attuale, i suoi dubbi e le sue incertezze ; ma solo che assume come punto di giudizio sul mondo la rivelazione, e non viceversa. È naturale, allora, che i teologi ortodossi della seconda metà del XIX secolo, in clima di trionfante positivismo e di pscudomessianismo socialista, rivolgano la loro attenzione al ripristino della tradizione contro il razionalismo e il nichilismo. La teologia assume un orientamento slavofilo, in polemica contro le tendenze filooccidentali della lntellighentzia : il pansla�ismo non vuole essere una tendenza poli­ tica, ma religiosa, per preservare la tradizione cristiana ortodossa daJla in­ credulità occidentale. Di tale contrasto sono manifestazione evidente tutti i romanzi di FEDOR MICHAILOVIC DosTOEVSKIJ ( 1821-1881). Ricordiamo gli scritti principali, dei quali si hanno numerose traduzioni italiane : Povera gente ( 1846), Memorie di una casa dei morti ( 1861), Umiliati e offesi ( 1861), Le memorie del sot­ tosuolo ( 1864), Delitto e castigo ( 1865-66), L' idiota ( 1868), I demoni ( 1871), I fratelli Karamazov ( 1878-80), Diario di uno scrittore ( 1873-80). La viva prohlematica religiosa di Dostoevskij è stata messa in luce da tutti i :moi critici. Noi qui ricordiamo soltanto gli scritti piu noti e piu spiccatamente

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filosofico-religiosi : S. ZwEIG, Drei Meister: Balzac, Dickens und Dostoev­ skij, Lipsia, 1923 (tr. it., Milano, s. a.); R. GUARDINI, Religiose Gestalte'n in Dostoevskijs Werke, Lipsia, 1939 ( tr. it., Brescia, 1951); D. MEREZKOVSKIJ, Tolstoi e Dostoevskij, tr. it., Roma, 1939 ; N. BERDIAEV, La concezione di Dostoevskij, tr. i t., Roma, 1945 ; R. CANTONI, Crisi dell'uomo : il pensiero di Dostoevskij, Milano, 1948 (le due monografìe di Berdiaev e Cantoni pos·

sono essere assunte come i due tipi essenziali della interpretazione mistico­ religiosa e storico-problcmatica); L. SESTOV, La filosofia della tragedia: Dostoevskij e Nietzsche, tr. it., Napoli, 1950; R. LAUTH, Die Philosophie Dostoevskijs in systematischer Darstellung, Mo:riaco, 1950 ; J. MADAU LE, Do­ stoevskij, Parigi, 1956 ( tr. it., Torino, 1965). In tutte le opere di Dostoevskij - e, in particolare, ne I fratelli Ka­ è dato ritrovare una vasta fenomenologia religiosa, in quanto ramazov tutti i suoi personaggi esprimono altrettanti diversi rapporti con Dio. L'uo­ mo, il suo destino, la sua libertà - ecco il Leit-motiv del mondo religioso di Dostoevskij, come ha indicato felicemente N. Berdiaev : « Non si può colpire l'eccezionale antropologismo e antropocentrismo di Dostoevskij. Nell'invasamento di Dostoevskij per l'uomo v'è qualcosa di furioso e di eccezionale. L'uomo per lui non è un fenomeno del mondo naturale, non è un fenomeno fra gli altri, sia pure il supremo. L'uomo è un microcosmo, il centro dell'essere, un sole attorno a cui tutto s'aggira. Tutto è nell'uomo e per l'uomo. Nell'uomo è il mistero della vita universale. Risolvere il pro­ bl�ma dell'uomo significa risolvere il problema di Dio. Tutta l'opera di Dostoevskij è una dif� sa dell'uomo e del suo destino, spinta sino all'cm· pietà, ma che si risolve col confidare il destino dell'uomo al Dio-uomo, Cristo. Siffatta eccezionale coscienza antropologica è possibile solo nel mondo cristiano, nell'epoca cristiana della storia. Il mondo antico ha igno· rato un simile atteggiamento verso l'uomo. Proprio il cristianesimo ha con· verso tutto il mondo verso l'uomo e ha fatto dell'uomo il sole del mondo. L'antropologismo di Dostoevskij è profondamente cristiano. Appunto l'cc· cezionale atteggiamento di Dostoevskij verso l'uomo fa di lui uno scrittore cristiano. Gli umanitari ignorano un atteggiamento simile verso l'uomo, per essi l'uomo è soltanto un .essere naturale. Vedremo che Dostoevskij mette a nudo il vizio interiore dell'umanesimo, la sua impotenza a risol­ vere la tragedia del destino umano >> (La concezione di Dostoevskij, Roma, 1945, p. 41). Dos toevskij rivela che la soluzione dell'enigma-uomo n� n è nell'uomo, ma oltre l'uomo. La tipologia delle reazioni dell'uomo di fronte a Dio, assunte dai personaggi dostoevskìj ani, può essere schematizzata seguendo Romano Guardini - in tre possibilità : l) i credenti : Sonia Marmeladova, la prostituta-santa, capace di redimere il superuomo-criminale Raskolnikov, assumendone il peccato ( non la rivoluzione o le riforme re­ dimono l'uomo, ma la fede); gli uomini pneumatici, che vivono in Dio per la redenzione dell'intero cosmo {Macario, Markèl, Zosima) ; Aliosha, per il quale, sollevato oltre l'umano, > . 2) i ribelli a Dio : lvan, l'indemoniato che nega il demonio e insorge contro il Dio creatore, col­ pevole (se esistesse) del dolore del mondo (ateismo della sofferenza); Ki­ rilov, che uccide se stesso per essere libero di > Dio (ateismo postulatorio) ; Stavrogin, il nichilista che ha - assunto come scopo della vita la distruzione dell'essere e del bene ; VerGhovenskij, l' amorale che vive in stato di perpetua allucinazione, incapace anche del coraggio del male. 3) il principe Mishin, simbolo di Cristo : povero e disponibile, egli incarna -

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l'amore per tutto c per tutti, è il santo che il mondo non può compren­ dere e la scienza definisce « idiota )) , Ora, tutta questa tipologia religiosa, che culmina nel dramma del « Grande Inquisitore )) - non importa se cat­ tolico o socialista -, esprime la tragedia e la fine del mondo moderno e del suo mito dell'uomo autonomo. Come ha intuito sottilmente Remo Cantoni, Dostoevskij ha sottolineato la problematicità e l'oscurità dell'esistenza umana, la « crisi dell'uomo )) : > ( 1. ::\fA:\'CINI, Bon­ hoeffer, Firenze, 1969, pp. 457-9). È appunto al Bonhoeffer che si collega la teologia radicale. Lo svolgimento meramente filantl'Opico del messaggio cristiano, che pretende di limitare il senso del kerygma a un generico amore del prossimo sgan­ ciato da ogni amore di Dio, si è incontrato con tutte le non-cristiane « reli­ gioni >J dell'Umanità, che caratterizzano, da Gioacchino da Fiore a Carlo Marx, il processo di laicizzazione dell'escatologia cristiana. Essere cristiani non significa piu amare-il-mondo-in-Dio ; ma l'amore del mondo e del pros­ simo, tinto di tutte le utopie democratiche e socialiste ( quelle che Rosmini chiamava « perfettistich� » ), diviene esso stesso amore di Dio (amare-Dio­ nel-mondo). L'Amore di Chi ha amato per primo non è piu il fondamento, ma diviene l'effetto dell'amore del prossimo. Non si può non riconoscere che Bonhoeffer non sarebbe giunto a q1,1este conclusioni, che altri hanno tratto. in suo nome ; tuttavia, le valide istanze su è di fondare una religione della solidarietà umana non impediscono di scorgere la debolezza della sua pro­ posta. Una religione di questo tipo diventa mera morale e politica, mero impegno storico per rendere gli uomini piti « buoni >l e piti e quello del carattere , il cristiano disperde e vaporizza la sua autenticità. Non deve stupire il giudizio assai severo formulato dal piu grande teologo del nostro secolo, Karl Barth : che l'errore del Bonhoef­ fer e della sua generazione è stato di trasferire l'attenzione da Dio all'uo­ mo, accettando supinamente i modelli del pensiero contemporaneo ; che gli scritti del Bonhoeffer sono opere l ; che il vero problema non è quello dell'interpretazione non-religiosa dei concetti biblici, ma quello della fondazione biblica dell'interpretazione della religione, affinché preceda ciò che deve precedere : non l'uomo con la sua presunzione e le sue o pere edificate sulla sabbia ; ma la Parola di Dio nel Figlio dell'uomo.

2. }. A. T. Robinson Già in Bonhoeffer, e ancor piu nella teologia radicale, il discorso l nasce sul piano della urgenza pastorale, non diversamente - se pure con minore fondatezza - dalle risposte di Bultmann e Tillich. Il punto di partenza è la constatazione della fine di una certa immagine di Dio : quella della teologia tradizionale. Se insistiamo - sostiene J . A. T. Robin­ son - nel mantcnerci attaccati a un'immagine di Dio ormai muta, non riusciremo mai a scoprire il Dio vivente. L'uomo secolarizzato è consape­ vole - insieme con Bultmann e Bonhoeffer - che l'immagine tradizionale

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di Dio è idolatria : « Dio non è cosi >> . È giunto il tempo di essere cc leali con Dio » ( Honest to God, 1963) : e ciò significa rifiutame l'immagine di « Atto puro » o di « Essere supremo » , per tradurla in termini sensibili al travaglio dell'uomo di oggi. L'uomo contemporaneo nulla sa di un Dio trascendente e considera Dio come la piu profonda essenza e il piu alto i deale dell'Uma­ nità. Tillich e Buber lo hanno acutamente compreso : « Affermare che " Dio è amore " significa credere che nell'amore si venga a contatto con la realtà piu profonda ed essenziale dell'universo, che lo stesso Essere abbia in defi­ nitiva questo carattere. Significa dire, con Buber, che " ogni singolo Tu è un canale d'osservazione verso il Tu eterno " ; che è " tra uomo e uomo " che noi incontriamo Dio, e non, come vorrebbe Feuerbach, che " l'uomo con l'uomo - e cioè l'unità di lo e Tu - sia Dio ". Ciò nonostante, come sot­ tolinea Bonhoeffer, "Dio è !"aldilà' che sta nel mezzo, ciò che è trascen­ dente non è infinitamente lontano, ma a portata di mano ". Il Tu eterno in­ fatti lo si incontra soltanto in, con e sotto il Tu finito, sia nel contatto con le altre persone che nell'adesione all'ordine naturale delle cose » (Dio non è cosi, Firenze, 1965, p. 77). L'essenza della religione è l'amore del pros­ simo : essa non è fuga dal mondo, ma ritrovamento di Dio nel mondo. Il sacro non è opposto al secolare, ma ne è piuttosto la profondità ; Dio è c< con noi » e Cristo non è fuggito nell'altro mondo, ma è venuto in questo­ mondo, a soffrire e morire per l'Uomo. Solo di fronte a un Dio di questo tipo, uomo tra uomini, il c�istiano del XX secolo potrà aprirsi, superando l'atteggiamento giustamente chiuso, ch'egli non poteva non assumere di fronte al Dio > e che (! l'uomo è maggiorenne >> . Vahanian Iion manca di cogliere quanto v'è di valido nella tesi protestante delle radici bibliche del processo di secola­ rizzazione ( Gogarten, in special modo), ma, insieme, mette in guardia con· tro la notevole superficialità e incultura della teologia radicale. Come mo­ stra l'ultima opera di Vahanian : No Other God ( 1966), il suo accordo con

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la teologia della morte di Dio non è nelle soluzioni o nella prospettiva, ma unic amente nella ricerca storica e sociologica. Vahanian non intende dare alcun nuovo annuncio teologico, ma descrivere soltanto un fenomeno cultu­ rale : come, cioè, la civiltà cristiana occidentale sia tramontata, nella misura in cui la cultura è trascorsa da una visione cristiana a una concezione seco­ larizzata e tecnocratica, che Vahanian non esita a definire « idolatria antro­ pocentrica paganamente cristiana >> . Ma descrivere un evento non signific a accettarne le motivazioni né riconoscerne una funzione anche solo indiretta­ mente positiva. Vahanian è in proposito assai esplicito. L'uomo contempo­ raneo scambia la malattia per il rimedio e ritiene che proprio un mondo che ha volto le spalle a Dio e alla religione sia in grado di pervenire alla concezione piu valida di Dio e all'impegno religioso piu sincero. È vero che la teologia deve tener conto delle categorie mentali e affettive dell'uomo di ogni epoca storica ; è vero che anche la teologia deve > , nel tentativ� di rendere viva e attuale la parola di Dio ; ma quando l'aggiorna­ mento diviene imitazione, adattamento e camuffamento, allora la parola di Dio, che è per essenza in contrasto con ogni struttura culturale, diventa ac­ comodante e nulladicente. Accade cosi che il cristianesimo, nella irrealiz­ zabile pretesa di guadagna1·e il mondo, perde in realtà la propria . anima : > in ritardo retrocedono in realtà a Feuerbach, il quale affermava con tanta maggiore efficaci � : « Ciò che ieri ancora era religione, oggi non è. piti tale ; e quello che oggi è atei­ smo, domani sarà religione n . Vahanian richiama i teologi alle definizioni chiare e oneste. Togliete da Gesu Cristo ogni riferimento soprannaturale, togliete Dio ; e ciò che resta altro non è che Gesu come figura storica : « Senza Dio niente Gesti ll (op. cit., p. 17). La desacralizzazione non è la secolarità. Si può accettare la tesi che la Bibbia ha desacralizzato la natura.; ma è inaccettabile la tesi di una totale e irreversibile secolarizzazione del mondo. Il mondo non può essere detto santo, perché solo Dio è santo ; ma il cri­ stiano non sperimenta il mondo come profano io senso assoluto, io quanto

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anche in esso sono presenti le orme e le vestigia di Dio. Il Dio totaliter aliter, che ha creato il mondo, che si è incarnato nel mondo, che ha redento l'uomo nel mondo, non è completamente assente dal mondo. Questo Dio è, · certo, assente nella sua essenza ; ma è anche presente nel mondo, come grazia e dono. Ciò che Vah ani an di scopre è la finalità segreta della teologia della morte di Dio : l'accordo col mondo. Egli riconosce di buon grado che il cristianesimo, verità soprannaturale e metastorica., deve cercare di incarnarsi, senza esaurirsi, in ogni t�truttura sociale e culturale. Nel medioevo, ad esem­ pio, tale inserimento, avvenuto non senza contrasti o difficoltà, fu operato in una cultura permeata di platonismo e di aristotelismo. Ora il cristia­ nesimo cerca di inserirsi - e in tal modo di sopravvivere - in una cultura dominata dal pragmatismo. e dallo scientismo b �rghesi e socialisti. Cosi deve accadere, ma solo a certe condizioni. Vahanian, infatti, avverte, con molta criticità, che non v'è neppure un confronto tra la cultura medievale e la nostra. Nessuna delle due - come del resto nessuna cultura - è di per �é cristiana, ma la cultura medievale era permeata di valori almeno intenzio­ nalmente religiosi, organicistici e finalistici ; mentre la cultura odierna è rigo­ rosamente antireligiosa, in quanto - sullo schema di Comte - considera finite le ere della teologia e della metafisica e crede valida solo la conoscenza scientifica : « il fossato che divide il mondo moderno dal cristianesimo è infinitamente piu largo di quello che s'apriva tra il cristianesimo nascente e il mondo pre-cristiano. La mentalità sostanzialmente atea del nostro se­ colo semhra del tutto estranea alle premesse del cristianesimo 11 (op. ci t., p. 33). L'era post-cristiana è piti lontana dal cristianesimo dell'era pre-cri­ stiana. V ahanian non vuole avere niente a che fare con la proposta dei teologi radicali : « Quella che io ho denunciato altrove come la carta di una incipiente idolatria post-cristiana, viene ora proclamata come il primo articolo di una religiosità di carattere immanentistico. Il cosiddetto " atei­ smo cristiano " si vanta precisamente di ciò che io ho deplorato quando per primo usai l'espressione " morte di Dio " ; e per giunta lo si può fare solo appellandosi all'estraniata, benché ancora residuatamente cristiana, religio­ sità dell'�omo occidentale. L'oggetto della mia denuncia trova ora difesa negli " atei cristiani ", ma solo perché essi in effetti hanno trasformato in programma soteriologico la definizione dell'uomo come passione inutile data da Sartre, senza tener conto che se, una volta ateo, l'uomo non ha piu bi­ sogno di Dio per comprendere se stesso, nemmeno - come mostrano Sartre e Camu� - ha bisogno di Dio per istituirai come propria contraddizione. Avrei sperato che gli " atei cristiani " non rimanessero cosi indietl'o rispetto agli atei reali 11 (op. cit., p. 16). Vahaoian ritiene accettabili le analisi dei teologi radicali, per la loro lucida coscienza del processo di secolarizzazione ; ma non accetta il loro secolarismo e la loro pretesa di adattarvi il cristianesimo. Del resto, la teo­ logia radicale, con la sua esplosione e il suo successo editoriale, rimane feno­ meno strettamente legato alla cultura nordamericana e all'industria cultu­ rale di massa, cui fornisce piatti pronti da supermarket religioso, certo allettanti negli astucci e nelle confezioni, ma difficilmente gradevoli per palati fini, in quanto derivati da un sincretismo spento di teologia liberale e Bonhoeffer, demitizzazione e Tillich, Feuerbach e Nietzsche, Marx e Freud ( con molti coloranti artificiali, piu o meno consentiti). Del resto tutti i teologi atei non sfuggono a d una reale contraddizione, in quanto finiscono

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per dissolvere il cristianesimo in quella struttura sociale, della quale do­ vrebbe essere il « sale » e il « lievito » . Un cristianesimo tradotto in termini non-religiosi è mera filantropia, banale socialismo e piatto umanitarismo. La secolarizzazione diventa rivoluzione, cioè apologia della lotta di classe e della violenza. Cristo diventa un profeta rivoluzionario, un Eroe al pari di Marx e Freud ; l'impegno religioso si confonde a tal punto con l'impegno politico da non avere piu alcuna specificità ; il kerygma del Cristo, lungi dal­ l'essere « sale della terra », si confonde con l'insipida !abilità mitica dei valori mondani. Un cristianesimo siffatto, ooi, non offre all'uomo della tec­ nopoli, che le ricerche psico-sociologiche- ci mostrano incontestabilmente frustrato e inibito, niente piu di quello che offrono le ideologie secolari. Un cristianesimo secolarizzato non è soltanto una bestemmia religiosa, è anche un errore pastorale. Il processo di secolarizzazione è un processo di umanizzazione : un cristianesimo secolarizzato è un cristianesimo solamente umano. Il vero umanesimo, però, non è stato fondato dall'uomo, ma d'al­ l'Uomo, dal Cristo. Un cristianesimo soltanto secolare, che compete per fina­ lità mondane con le ideologie terrene, è destinato a essere un cristianesimo fallimentare. In questo mondo, i figli delle tenebre saranno sempre piu astuti dei figli della luce. Un cristianesimo secolarizzato non è neppure un cristianesimo. Esso intanto può conservare una sua autenticità ed autonomia, in quanto non si limiti a essere quello che sono le altre visioni della vita : umanesimo umano. Un umanesimo solamente umano non è neppure un uma­ nesimo. Che poi questo umanesimo parziale e fallimentare venga predicato da cristiani in nome di Cristo, non è solo paradossale, ma anche sgradevole.

X. LA TEOLOGIA DELLA SPERANZA Se la teologia della morte di Dio è un prodotto prevalentemente pro­ testante, la teologia della speranza, anch'essa protestante come nascita, si è largamente estesa anche al campo cattolico. Se si volesse fissare un atto di nascita di questa corrente teologica, forse si dovrebbe dire : 1964, quando compare l'opera del principale teologo della speranza, Jiirgen Moltmann (Theologie der Hoffnung). Questo scritto può in larga misura essere consi­ derato il manifesto programmatico del movimento. Si tratta, come si com­ prende, di una corrente teologica in pieno svolgimento, tanto che il di­ scorso su di essa non può che essere incipiente e provvisorio. l. ], Moltmann La teologia della speranza rappresenta, nella sua esigenza fondamentale, il tentativo di accentuare i temi ottimistici legati al messaggio cristiano, contro ogni tendenza pessimistica ed eccessivamente soprannaturalistica. Il momento dell'angoscia esistenziale è ormai alle spalle : l'umanità, per mezzo del progresso scientifico-tecnico, va risolvendo i problemi suoi piu gravi e va unificandosi in una ecumene di persone interdipendenti. Non è piu una umanità che, kierkegaardianamente, dispera, ma che spera, marxianamente, in un avvenire migliore. Non va dimenticato che tutti i teologi della speranza riconoscono il loro debito nei confronti del filosofo marxista >

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Ernst Bloch e della sua « summa ll Das Prinzip Hoffnung ( 1954-59). Come Moltmann ha piu volte sottolineato, il problema fondamentale del cristia­ nesimo è il problema escatologico, cioè il problema del futuro. La dimen­ sione privilegiata del cristiano è il futuro e la speranza è la tensione verso il futuro fondata e garantita da Dio in Cristo. Dio si rivela come promessa : egli non è, come riteneva la teologia tradizionale corrotta dall'ellenismo, un Dio statico e immobile (la > ( op. cit., pp. 85-6). Un. orientamento cosi storicista e politico non poteva fondarsi se non sul rifiuto della tradizionale immagine di Cristo, come venne definita tanti anni fa dai dogmi dell'unione ipostatica delle due nature in una sola per­ sona e del sacrificio vicario. Dietro l'impulso dello storicismo e dell'evoluzio­ nismo, in particolare di Teilhard de Chardin, viene enunciata una nuova cristologia (cfr. soprattutto A. HuLBoscH, ]ezus Christus, gekend als Mens, beleden als Zoon Gods, in cc Tijdschrift voor Theologie >> , 1966, pp. 250-73 ; del quale v. anche l'interpretazione cc evoluzionistica >> del peccato origi­ nale e della storia della salvezza : Die Schopfung Gottes. Zur Theologie der Schopfung. Siinde und Erlosung in evolutionistischen Weltbild, Vienna, 1965). Cristo è vero uomo ; si può anche dire che è vero Dio, in quanto in lui il Padre viene riconosciuto. In questo tentativo rientra anche 'il pro­ getto di Peter S choonenherg. Egli vede in Gesti l'esempio per l'umanità dell'azione di Dio : non phi due nature, ma la presenza salvi fica di Dio nel­ l'uomo Gesu, che è figlio di Dio sulla base del suo essere uomo, della sua co­ scienza di essere un Tu di fronte a Dio : è la presenza di Dio in quanto Verbo, diventa il Figlio personale solo nell'uomo Gesti >> (Kenosis, in cc Con­ cilium >> , 1 966, n. 2, p. 29). Il Dio del Vangelo è un Dio di uomini, che non li priva della loro libertà, ma fornisce loro un progetto di speranza per il futuro. .

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4. E. Schillebeeckx Pia complessa - e piti fondata - la problematica di Edward Schille­ b eeckx, scrittore non facile ma fertilissimo. Egli svolge un tomismo « mo­ demista >> eli tipo antropocentrico, nel tentativo di mostrare nel cristiane­ simo l'antopologia piu completa e attuale. Egli riconosce, insieme con il pensiero moderno, che il punto di partenza del discorso religioso è l'espe­ rienza ; ma di Dio non può esservi esperienza diretta, ma solo ineliretta. Si tratta, allora, di esaminare l'esperienza umana per scorgervi un rimando a qualcosa di diverso, che si rivela, parla e salva. Dio è l' Evento-Parola che si rivela in Cristo : ma la formulazione di questa rivelazione è sempre storicamente condizionata. Anche la fede è « in prospettiva >J : il compito della teologia è di chiarire il dato della fede, senza tradirlo, nei termini eli ogni epoca. La teologia è sempre una ermeneutica, che sottolinea i1 mo­ mento della precomprensione, ossia delle condizioni che accompagnano l'ascolto della Parola. Schillebeeckx, consapevole dell'accentuato pluralismo teologico e mosso da istanze ecumeniche, non propone alcun criterio teo­ rico per la verifica della fede. Certo il quadro di riferimento teorico è im­ portante, ma è solo l'ortoprassi che verifica l'ortodossia. L'ortoprassi, infatti, è sempre un progetto per il futuro : comprendere là fede significa esprimere nel presente il significato del passato in una prospettiva futura. Scrive Schillebeeckx : « In base alla fede in Dio come futuro dell'uomo, possiamo dire : la fede non poggia su dati eli fatto controllabili empiricamente' ed og­ gettivamente, ma rientra ne'Ila categoria della possibilità dell'esistere umano. Perciò il principio della verifica della fede cristiana e della sua speranza escatologica può essere proposto solo indirettamente. Esso consiste nel fatto che i cristiani, come « comunità di coloro che sperano >J , mostrano nella loro vita pratica di possedere una speranza capace di trasformare il mondo già sin d'ora, di tradurre la storia, deformata dall'uomo in teatro di perdizione, in storia di salvezza dove può essere garantito il bene di tutti. Una fede in Dio considerato come colui che verrà, come il futuro della persona e della comunità, deve mostrare la propria efficacia già in questo mondo, se vuole risultare credibile all'uomo d'oggi ed alla sua precomprensione. Una fede che ha come contenuto la promessa divina di una realizzazione finale nella dimensione dell'escatologi a per ogni singolo e proclama Dio come colui che viene bensi, ma viene nella storia che egli sempre trascende, deve inverare nella storia la promessa accolta nel Credo J> (Dio, il futuro dell'uomo, Roma 1967, pp. 194-5). Tutto il messaggio evangelico è volto al futuro : per questo la tendenza del mondo attuale, secolaristiea e atea, non va contro il cristia­ nesimo, ma lo purifica e lo attualizza, Dio non è meno presente nel mondo secolarizzato di quanto non lo fosse nel mondo sacrale del passato ; anzi, nel mondo attuale, in cui l'uomo adulto celebra la sua libertà e costruisce con le sue sole forze un mondo migliore, Dio è presente in maniera piti autentica. Dio cessa di essere la Causa prima o il Motore inimobile, per divenire l'ideale futuro di verità e di bene per l' Umanità. La fede cristiana va ripensata nella dimensione della speranza : Dio eliviene la Potenza che offre all',uomo la capacità di progredire. Dio non è tanto, come voleva Rudolf Otto, il cc Totalmente-Altro >J ; esso è, piuttosto, come vuole Ernst Bloch, il cc Totum­ Novum J> .

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5. P. Schoonenberg Nel tentativo di rendere la dogmatica cattolica so1lecitante per l'uomo moderno, non pochi teologi si aprono a una concezione mistico-evoluzioni­ stica del cosmo, che incorpora e cristianizza le tematiche darwiniane. Fo rte, in tal senso, fu l'esplosione violenta ed effimera del fenomeno teologico­ industriai-culturale ( non senza implicazioni politiche) del cc teilhardismo » . PIERRE TEILHARD D E CHARDIN ( n. a Sorcenat [Auvcrgne] 1-5-1881 m . a New York 10-4-1955), della Compagnia di Gesu, geologo e antropologo, estese i suoi interessi anche alla filosofia, alla teologia e alla mistica. Le sue Oeu­ vres, a cura di C. CL"ENOT, sono stampate a Parigi, a partire del 1955. Fra 1e traduzioni italiane, ricordiamo : Il fenomeno umano, Milano 1968 ; L' am­ bientè divino, Milano 1968. Teilhard intende superare la concezione mate­ rialistica della scienza, di tipo evoluzionistico-meccanicistico, mediante un nuovo intendimento finalistico-religioso dell'evoluzione. L'ipotesi darwiniana dell'evoluzione non va limitata alla scienza naturale, ma estesa a tutta la realtà (evoluzionismo integrale). Tcilhard non intende trovare un accordo tra cristianesimo ed evoluzione, ma mostrare come l'evoluzionismo, se giu­ stamente inteso (in chiave paolina), coincida con lo stesso cristianesimo, li­ berato dalle sovrastrutture ellenistiche. I momenti dell'evoluzione sono : al­ cuni miliardi di anni fa si formarono gli astri, il sistema solare e la terra ( cosmogenesi); sulla terra comparve poi la vita � proteine, virus, batteri, piante, animali ( biogenesi); con 1a comparsa dell'uomo (ominizzazione me­ diante la cefalizzazione) ci si immette nella noosfera, che è la storia del pro­ gressivo trionfo sociale del bene e delJa giustizia ; la storia si concluderà nel > filosofiche e teologiche, mentre si salverebbero i motivi scientifici e mistici ( cfr. C. CUE• NOT, L'evoluzione di Teilhard de Chardin, Milano 1962 ; H. DE LUBAC, Il •

pensiero religioso di p. Teilhard de Chardin; La preghiera di p. Teilhard de Chardin ; Teilhard de Chardlin, missionario del nostro tempo, Brescia 1965, 1966, 1967). Che, del resto, nel sistema di Tei'l hard entrino in crisi concetti fonda­ mentali della teologia cristiana ( creazione, peccato, cristologia, male, grazia, etc.), venne mostrato dal cc Monitum » del S. Uffizio ( durante il pontificato di Giovanni XXIII, 30-6-1962). Anche per questo alcuni autori hanno espresso nei confronti di Teilhard una irriducibile avversione : PHILIPPE DE LA TRI­ NITÉ, Teilhard et le teilhardisme, Roma 1962 ; e Rome et Teilhard ere Char·

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din, Parigi 1964 ; M. VERNET, La grand illusion de Teilhard de Chardin, Parigi 1964 ; E. GILSO!\', Problemi d'oggi, Torino 1967 ; J . MARITAIN, Il con· tadino della Garonna, Brescia 1969. Fra i teologi teilhardiani, un posto preminente spetta a P. Schoonen· berg. Egli considera l'evoluzione naturale e la storia umana come momenti di un'unica storia della salvezza. Creazione ed evoluzione, lungi dal contrap· porsi, si integrano a vicenda e sono due diverse maniert> di intendere l a l'antropomorfismo e l'intellettualismo siano stati posti s tessa cosa, non appena da parte. Le stess� dottrine deÌl a creazione dell'uomo, del peccato e dell'esca­ tologia, trovano una spiegazione c una modemizzazione evoluzionistica, non solo per opera di Schoonenherg, ma anche di altri teologi ( cfr. A. HuLSBOSCH, Storia della creazione, storia della salvezza, tr. it., Firenze 1967 ; Z. ALSZEGHY· M. FLicK, Metodologia per una teologia dello sviluppo, Brescia 1970). Non si tratta, in ogni caso, del vecchio problema del modernismo, cioè di trovare un accordo tra creazionismo ed evoluzionismo ; si tratta, invece, di comprendere come la scoperta darwiniana dell'evoluzione, estesa dalla neces­ sità naturale alla libertà umana, non solo sia compatibile con il creazioni­ smo, ma riesca a svelame il senso piu profondo : > (Il mondo di Dio in evoluzione, Brescia 1968, p, 65). È comprensibile che n�n si� no stati pochi i teologi, i quali hanno posto in luce la larga vanificazione della dogmatica cattolica operata da Schoonen­ berg e da altri teologi olandesi. Abbiamo già espresso, nel corso della esposizione, le maggiori perples­ sità nei confronti di questa (C. FABRO, L'uomo e # rischio di Dio, Roma 1967). Non pochi dubi­ tano che ancora di religione e di cristianesimo si tratti ; certo, se si tratta ancora di teologia, si tratta di una teo-logia senza lògos e senza theòs.

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