La Somma Teologica. Seconda parte. Prima sezione [Vol. 2]
 9788870948523

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TOMMASO

o'

AQ!)INO

LA SOMMA TEOLOGICA SECONDA PARTE PRIMA SEZIONE

Testo latino dell'Edizione Leonina Traduzione italiana a cura dci Frati Domenicani Introduzione di Giuseppe Barzaghi

EDIZIONI STUDIO DOMENICANO

Titolo originale: Summa Theologiae, Prima Secundae. Testo latino: dell'Edizione Leonina, pubblicato in 35 volumi da ESD a partire dal 1984, e integralmente rivisto. Traduzione italiana: curata da Tito Sante Centi, Roberto Coggi, Giuseppe Barzaghi, Giorgio Carbone.

Piano dell'Opera: vol. l , Prima Parte vol. 2, Seconda Parte, Prima Sezione vol. 3, Seconda Parte, Seconda Sezione vol. 4, Terza Parte

Il testo latino può essere scaricato liberamente da www.edizionistudiodomenicano.it, dalla pagina dedicata a quest'opera. La traduzione italiana è consultabile dalla stessa pagina, che consente la ricerca per parola.

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Presentazione Fin da quando pubblicammo la traduzione italiana di Jean-Pierre Torrell, Amico della verità. Vita e opere di Tommaso d'Aquino, avevamo annunciato una nuova edizione della Somma teologica. Era il 2006. Subito da più parti iniziarono a manifestarsi segni di interessamento a questa nuova impresa. Dopo anni di attesa e lavoro, quasi costretti, abbiamo rotto gli indugi. Adesso pos­ siamo presentare con gioia e soddisfazione una nuova edizione in quattro agili volumi. TI testo latino è quello messo a punto dalla Commissione Leonina. In particolare ci siamo serviti del testo latino pubblicato nella nostra edizione in 35 volumi. In esso abbiamo inserito tra parentesi quadre i riferimenti agli Autori che Tommaso cita direttamente o, talvolta, indirettamente, control­ landoli e integrandoli, tenendo conto delle edizioni critiche, ove possibile. Per tali citazioni abbia­ mo usato abbreviazioni e sigle, la cui esplicitazione si trova nelle pagine che seguono. Inoltre, se nella risposta a un'obiezione Tommaso cita il brano di un'opera, già citato nell'obiezione a cui sta rispondendo, abbiamo evitato di riprodurre la fonte: il lettore la troverà nell'obiezione iniziale. Per i libri biblici si tenga presente che i riferimenti numerici dei versetti erano assenti nel testo di Tommaso, e che sono stati introdotti dalle edizioni a stampa successive al XVI secolo. Infine, ricor­ diamo che la suddivisione e quindi la numerazione di alcuni libri di Aristotele, come la Metafisica e la Fisica, sono cambiate rispetto a quelle usate da Tommaso.

La traduzione italiana deriva principalmente dalla ptima edizione in lingua italiana curata tra il 1950 e il 1974 in modo prevalente da Tito Sante Centi O. P., pubblicata inizialmente a Firenze da Salani, e poi continuamente ripubblicata a Bologna dalla nostra Casa editrice. Deriva poi anche da una revisione curata nel 1996 da Roberto Coggi O. P., e pubblicata nella nostra edizione in 6 volumi solo in lingua italiana. Rispetto a queste due traduzioni, l'intervento di curatela di Giuseppe Barzaghi O. P. e Giorgio Carbone O. P. ha apportato alcune innovazioni. La prima consiste nella ver­ sione stessa: non è una nuova traduzione, ma semplicemente una revisione delle traduzioni prece­ denti, revisione che talvolta ha comportato il ritàcimento della traduzione mirando a migliorare la comprensione del testo di Tommaso. La seconda novità consiste nell'aver reso in fmma interrogati­ va diretta i titoli di tutti gli articoli, poiché il genere letteratio della Somma teologica richiama quello della questione disputata. La tert.a è la traduzione letterale dei brani biblici citati da Tommaso: non abbiamo fatto ricorso alle due traduzioni CEI, ma abbiamo tenuto semplicemente conto della Bibbia latina della versione Vulgata, che Tommaso cita alla lettera o a memoria, integralmente o con allusioni riportando solo l'inizio di un brano, secondo la versione parigina o quelle che circola­ vano nella nostra penisola dopo la metà del Xill secolo. La quarta consiste nell'aver riportato solo nel testo latino e tra parentesi quadre i rifetimenti alle opere bibliche, filosofiche e patristiche citate da san Tommaso. Tale scelta è stata motivata dalla volontà di aiutare il lettore a frequentare il testo latino e dalla necessità di non rendere troppo lungo il testo in lingua italiana. Tutto il testo latino e parte della traduzione italiana saranno anche disponibili sul sito: www.edizionistudiodomenicano.it

Questa nuova edizione non avrebbe visto la luce senza l'aiuto disinteressato e generoso di alcu­ ne catissime persone. Perciò con soddisfazione e riconoscenza ringraziamo Malia Marconi, Luigi Carbone, Luciana Felici, Alfonso Carbone, Guido Balestrero, Rosalba Barucco, Bruno Viglino, Antonia Salzano e Andrea Acutis. Giorgio Carbone O. P.

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Abbreviazioni e sigle a.: articolo

De mor. Ecc.: De moribus Ecclesiae, Agostino

Ab:Abacuc

De nat. et grat.: De natura et gratia, Agostino

Act.:Atti degli apostoli

De nat. horn.: De natura hominis, Nemesio

Adv. Iovin.:Adversus Iovinianum, Girolamo

De nupt.: De nuptiis et concupiscentia, Agostino

Am:Amos

De off.: De officiis, Cicerone e Ambrogio

Antiq.:Antiquitates iudaicae, Giuseppe Flavio

De Parad.: De Paradiso, Ambrogio

Ap:Apocalisse di Giovanni

De partibus animai.: De partibus animalium, Aristotele

Apoc.:Apocalisse di Giovanni

De perfect. iust.: De perfectione iustitiae hominis,

At:Atti degli apostoli

Agostino

Bar: Baruc

De praedest.: De praedestinatione sanctorum, Agostino

Cant.: Cantico dei Cantici

De princ.: Peri Archon, detto anche De principiis,

Cat.: Categorie, dette anche Praedicamenta, Aristotele

Origene

Cent.: Centiloquium, Tolomeo

De probl.: De problematibus, Pseudo Aristotele

co.: corpus/corpore, corpo dell'articolo

De quaest. Evang.: De quaestionibus Evangeliorum,

Codex: Codex lustinianus Col.: Lettera ai Colossesi Conf.: Confessiones, Agostino Contra Faust.: Contra Faustum, Agostino

Agostino De serm. Dom.: De sermone Domini in monte, Agostino De spir. et litt.: De spiritu et littera, Agostino

Contra Max.: Contra Maximinum Haereticum, Agostino

De Trin.: De Trinitate, autori: Ilario, Agostino

l 2 Cor.: Lettere ai Corinzi

De Tuscul. q.: De Tusculanis Quaestionibus, Cicerone

l 2 Cr.: l 2 Cronache

De vera rei.: De vera religione, Agostino

Ct: Cantico dei Cantici

Deut.: Deuteronomio

Dan.: Daniele

Differ.: Differentiarum, Isidoro

DCH: De caelesti hierarchia, Dionigi

Dig.: Digesta, Corpus Iuris Civilis

DDN: De divinis nominibus, Dionigi

Dn: Daniele

De an.: De anima, Aristotele o Averroè

Dt: Deuteronomio

De cael. hier.: vedi DCH

Eb: Lettera agli Ebrei

De caelo: De caelo et mundo, Aristotele

Ecci. Hier.: vedi DEH

De civ. Dei: De civitate Dei, Agostino

Eccle.: Ecclesiaste o Qoèlet

De consol.: De consolatione philosophiae, Boezio

Eccli.: Ecclesia'itico o Siracide

De corr.: De correptione et gratia, Agostino

Ef: Lettera agli Efesini

De Differ. Top.: De differentiis topici, Boezio

Enarr. in Ps.: Enarrationes in Psalmos, Agostino

De div. nom.: vedi DDN

Ench.: Enchiridion, Agostino

De doctr. chr.: De doctrina christiana, Agostino

Ep.: Epistola

De duabus an.: De duabus animabus, Agostino

Eph.: Lettera agli Efesini

De dupl. praedest. Dei: De duplici praedestinatione

Es: Esodo

Dei, Fulgenzio De ecci. dogmat.: De ecclesiasticis dogmatibus, Gennadio

Esd: Esdra Eth. Eud.: Etica a Eudemo, Aristotele Ethic.: Etica a Nicomaco, Aristotele

De fide et op.: De fide et operibus, Agostino

Etymol.: Etymologiae, Isidoro

De fide: De fide orthodoxa, Giovanni Damasceno

Ex.: Esodo

De gener.: De generatione et corruptione, Aristotele

Ez.: Ezechiele

De generat. an.: De generatione animalium, Aristotele

Fil: Lettera ai Filippesi

De gratia et lib. arb.: De concordia praescentiae et prae-

Gal.: Lettera ai Galati

destinatione necnon gratiae Dei cum libero arbitrio,

Gb: Giobbe

Anselmo

Gc: Lettera di Giacomo

De hebd.: De hebdomadibus, Boezio

Gdc: Giudici

De lib. arb.: De libero arbitrio, Agostino

Gen.: Genesi

De long. vitae: De longitudine et brevitate vitae,

Ger: Geremia

Aristotele

Glos. int.: Glossa interlineare

7 Glos. ord.: Glossa ordinaria

Perplex.: Dux sive Doctor perplexorum, Mosè Maimonide

Gs: Giosuè

l 2 Petr.: Lettere di Pietro

Gv: Vangelo secondo Giovanni

Phil.: Lettera ai Filippesi

l 2 Gv: Lettere di Giovanni

Philem.: Lettera a Filemone

Hab.: Abacuc

Phys.: Physica, Aristotele

Hebr.: Lettera agli Ebrei

Poi.: Politica, Aristotele

Hyp.: Hypomnesticon, Pseudo Agostino

Post.: Analytica Posteriora, Aristotele

lac.: Lettera di Giacomo

Pr: Proverbi

ler.: Geremia

Praed.: Praedicamenta, dette anche Categoriae,

In l

Aristotele

Sent.: Super primos libros Sententiarum, Tommaso d'Aquino

Prov.: Proverbi

In B. De Trin.: In Boetium De Trinitate, Tommaso

Ps.: Salmi

l 2 Pt: Lettere di Pietro

d'Aquino In Cat.: vedi In Praed.

Q. in V. T.: Questioni sull'Antico Testamento, Isidoro

In Ev. h.: In Evangelium homiliae, Gregorio Magno

q.: questione

In Ioan. tract: In Ioannis evangelium tractatus, Agostino

Qo: Qoèlet o Ecclesiaste

In Luc.: Expositio Evangelii secundum Lucam,

l

Ambrogio

l

In Praed.: Commento in Praedicamenta, Simplicio In Som. S.: In Somnum Scipionis, Macrobio

2 Re: Libri dei Re 01g: 3 4 Reg) 2 Reg.: Libri di Samuele

3 4 Reg.: Libri dei Re Reg. ad Mon.: Regola monastica, Benedetto

Ioan.: Vangelo secondo Giovanni

Retract.: Retractationum, Agostino

l 2 Ioan.: Lettere di Giovanni

Rhet.: Retorica, Aristotele

Iob: Giobbe

Rm: Lettera ai Romani

ls.: Isaia

Rom.: Lettera ai Romani

ludic.: Giudici

S.: Supplementum

1.: lectio, lezione

S. Th.: Summa Theologiae, Tommaso d'Aquino

Lam: Lamentazioni

Sal: Salmi

Le: V angelo secondo Luca

l

Lev.: Levitico

Sap.: Sapienza

Luc.: Vangelo secondo Luca

Sed c.: sed contra

Lv: Levitico

Sent.: Sententiarum Libri, Pietro Lombardo,

l 2 Mac: l 2 Maccabei l 2 Mach.: l 2 Maccabei

Sir: Siracide o Ecclesiastico

2 Sam: Libri di Samuele 01g: l 2 Reg)

detto il Maestro

Malach.: Malachia

Soli!.: Soliloquiorum Libri, Agostino

Mare.: Vangelo secondo Marco

Suff.: Sufficentia, Avicenna

Matth.: Vangelo secondo Matteo

Super Ez.: Commento a Ezechiele, Girolamo o Gregorio

Mc: Vangelo secondo Marco

Super Gen.: Super Genesim ad litteram, Agostino

Met.: Metaphysica, Aristotele

Syn.: Synonyma, Isidoro

Meteor.: Meteorologica, Aristotele

Tb:Tobia

2 Thess.: Lettere ai Tessalonicesi

Mi: Michea

l

Mich.: Michea

Thren.: Lamentazioni

MI: Malachia

l

2 Tm: Lettere a Timoteo

Mor.: Moralia in lob, Gregorio Magno

Tob.:Tobia

Mt: Vangelo secondo Matteo

Top.:Topica, Aristotele

Nm:Numeri

l 2 Ts: Lettere ai Tessalonicesi

Num.:Numeri

Vg: Vulgata, versione latina della Bibbia

Octoginta trium Q.: De diversis quaestionibus LXXXIl,l Os.: Osea l

2 Parai.: Paralipomeni,

Zach.: Zaccruia Zc: Zaccaria

Agostino l e 2 Cronache

Peri Herm.: vedi Perih. Perih.: Perihermenias sive De interpretatione, Aristotele

9 Introduzione alla Prima Secundae La Seconda parte della Somma Teologica raccoglie la riflessione morale. La scienza morale nasce quando l'ordine della ragione è posto nelle azioni volontarie. La morale riguarda le azioni umane ordinate al fine, considerando l'uomo come singolo (morale monastica), oppure come parte della società domestica (morale economica) o civile (politica)!. La morale è una scienza speculativo-pratica e segue un metodo che si dice razionale quanto al termine. In quanto speculativa essa è subaltema ad altre due scienze: alla psicologia, dalla quale trae i principi relativi alla libertà dell'atto umano2 e alle inclinazioni connaturali alla natura dell'uo­ mo3; alla metafisica, dalla quale desume la nozione obiettiva del fme ultimo beatificante (Dio). Tutto questo perché la morale ha per soggetto l'uomo in quanto agisce liberamente per il fine. Così, dalla libertà dell'uomo e dalla riferibilità ai fini obiettivi intermedi (autoconservazione, ses­ sualità, amicizia, conoscenza: conclusioni psicologiche) e dal fme ultimo (Dio: conclusione metafi­ sica), nascono la nozione di responsabilità-moralità e il giudizio valutativo e direttivo dell'azione umana. La filosofia morale dimostra principalmente attraverso la causa finale4; ma anche attraver­ so la causa efficiente, cioè l'agente, la causa quasi formale, cioè l'oggetto specificante l'atto e le circostanze completive, e la causa quasi materiale, ossia la volontarietà dell'atto. In quanto pratica, la scienza morale dirige l'azione particolare e contingente. Essa offre la motivazione della premes­ sa maggiore del sillogismo pratico, che spetterà poi alla prudenza portare imperativamente a con­ clusione. Il procedimento della filosofia morale si dice razionale quanto al termine, cioè non rigo­ rosamente risolutivo, così da rimanere in una certa opinabilità, dovuta all'assoluta contingenza e infmita variabilità della materia consideratas. La ragione universale si dice ragion pratica, quando ha come fine la direzione dell'azione6, sia transitiva che immanente7. Essa ha come oggetto l'operabile, considerato in universale e soprattutto in particolare. L'operabile in universale è la regola del fare (arte); oppure la norma dell'agire, la legge morale conosciuta attraverso la ragione superiore (legge etema, divina) o la ragione inferiore (legge naturale) nella loro funzione pratica. L'operabile in particolare è il contingente operabiles. La ragione pratica discorre di nozione universale in nozione pat ticolare9, secondo uno sviluppo analo­ gamente proporzionale a quello della ragione speculativa: nell'ambito pratico, il fme sta ai mezzi come nell'ambito speculativo i principi stanno alle conclusionitO. La novità differenziale apportata dalla ragion pratica sta nella maggior complessità di articolazione del suo sviluppo, che comprende due fasi. Nella prima fase, prevalentemente considerativo-progettuale (speculativo-pratica), suppo­ sto l'imperativo generale della sinderesi (il bene è da farsi e il male da evitarsi) e le inclinazioni natu­ rali dell'uomo a determinati fini (che hanno sempre ragione di bene), si passa alla formulazione delle norme o leggi speciali universali (precetti affermativi e negativi). Queste norme devono regola­ re l'azione libera dell'uomo nel suo concreto esercizio! t. La seconda fase è prevalentemente applica­ tiva (pratico-pratica). Supposta la norma universale (es. si devono onorare i genitori), motivata dal principio generale (il bene è da farsi) e dal giudizio di valore specifico (onorare i genitori è un bene),

t Cf. In I Ethic. l. l. 2 Cf. In 2 Seni. 24,3,2. 3 Cf. S. Th.

1-11,94,2.

4 Cf. In 5 Mel.

l. l.

5 Cf. In B. Trin.

2,2, 1 ,1 ad 3. 1,79, 11. Th. 1-11,57,4. Th. 11-11,47,3.

6 Cf. S. Th .

7 Cf. S. 8 Cf. S.

9 Cf. In 3 De anima 1.16. IO Cf. S. Th. 1,83,4; 1-11,9,3 . II Cf. S. Th. 1-11,94,2.

IO

secondo la ragione superiore (perché è conforme al comando di Dio), o secondo la ragione inferiore (perché è un'azione onesta e dignitosa)t2, si passa alla formulazione particolare del riconoscimento dell'operabile situato qui e ora (questi sono i miei genitori; quest'azione è una concreta testimo­ nianza di onore)l3. Quindi scatta conclusivamente la presa di coscienza qui e ora del dovere (devo onorarli!), e la decisione imperativa dell'esecuzione libera, qui e ora, della normat4. Ciò che è forma­ le nella scienza morale è la direzione dell'azione libera, nella sua concreta particolarità, e non tanto l'aspetto universale e deduttivols. Giuseppe Barzaghi O. P.

12 Cf. In 2 Sent. 24,2,2. 13 Cf. In 3 De anima l. 16; In

6 Ethic. 11.1 e 2.

14 Cf. In 2 Sent. 24,2, 4 c. e ad 2. IS Cf. S. Th. II-Il, Pro!.; 1,22,4.

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LA SOMMA TEOLOGICA SECONDA PARTE PRIMA SEZIONE

PROOEMIUM

PROLOGO

Quia, sicut Damascenus [De fide 2,12] dicit, homo factus ad imaginem Dei dicitur, secun­ dum quod per imaginem significatur intel­ lectuale et arbitrio liberum et per se potesta­ tivum; postquam praedictum est de exemplari, scilicet de Deo, et de his quae processerunt ex divina potestate secundum eius voluntatem; restat ut consideremus de eius imagine, idest de homine, secundum quod et ipse est suorum operum principium, quasi liberum arbitrium habens et suorum operum potestatem.

Come insegna il Damasceno, si dice che l'uo­ mo è stato fatto a immagine di Dio inten­ dendo per immagine «Un essere dotato di intelligenza, di libero arbitrio e di dominio dei propri atti». Perciò, dopo aver parlato dell'e­ semplare, cioè di Dio, e di quanto è derivato dalla divina potenza secondo la sua volontà, rimane da trattare della sua immagine, cioè dell'uomo, in quanto è anch'egli principio delle proprie azioni, in forza del libero arbi­ trio e del dominio che ha su di esse.

QUAESTIO l DE ULTIMO FINE HOMINIS

QUESTIONE l IL FINE ULTIMO DELVUOMO

Ubi primo considerandum occurrit de ultimo fine humanae vitae; et deinde de his per quae homo ad hunc finem pervenire potest, vel ab eo deviare [q. 6], ex fine enim oportet accipere rationes eorum quae ordinantur ad finem. Et quia ultimus finis humanae vitae ponitur esse beatitudo, oportet primo considerare de ultimo fine in communi; deinde de beatitudine [q. 2]. Circa primum quaeruntur octo. Primo, utrum hominis sit agere propter finem. Se­ cundo, utrum hoc sit proprium rationalis na­ turae. Tertio, utrum actus hominis recipiant speciem a fine. Quarto, utrum sit aliquis ulti­ mus finis humanae vitae. Quinto, utrum unius hominis possint esse plures ultimi fines. Sexto, utrum homo ordinet omnia in ultimum finem. Septimo, utrum idem sit finis ultimus omnium hominum. Octavo, utrum in illo ultimo fine omnes aliae creaturae conveniant.

L a prima cosa da considerare sull'argomento è il fine ultimo della vita umana; la seconda saranno i mezzi che permettono all'uomo di raggiungerlo, o ciò che da esso lo fa deviare: infatti dal fine va desunta la ragione di quan­ to è ordinato al fine. E una volta ammesso che la beatitudine è il fine ultimo della vita umana, prima di tutto bisogna trattare del fine ultimo in generale, quindi della beatitu­ dine. Sul primo argomento si pongono otto questioni: l . Appartiene all'uomo agire per un fine? 2. Ciò è una proprietà della natura razionale? 3. Gli atti umani sono specificati dal fine? 4. Esiste un tine ultimo della vita umana? 5. Un uomo può avere più fini ul­ timi? 6. L'uomo ordina tutto al fine ultimo? 7. Il fine ultimo è identico per tutti gli uo­ mini? 8. Questo fine è comune anche alle altre creature?

Articulus l Utrum homini conveniat agere propter finem

Articolo l Appartiene ali 'uomo agire per un fine?

Ad primum sic proceditur. Vìdetur quod ho­ mini non conveniat agere propter finem. l. Causa enim naturaliter prior est. Sed finis habet rationem ultimi, ut ipsum nomen sonat. Ergo finis non habet rationem causae. Sed propter illud agit homo, quod est causa actionis, cum haec praepositio propter designet habi­ tudinem causae. Ergo homini non convenit agere propter finem. 2. Praeterea, illud quod est ultimus finis, non

Sembra di no. Infatti: l. La causa per sua natura dice priorità. n fi­ ne, al contrario, ha ragione di ultimo, come dice il nome stesso. Quindi il fine non ha ra­ gione di causa. Ma l'uomo agisce per ciò che è causa dell'azione: infatti la preposizione per sta a indicare un rapporto causale. Quindi all'uomo non appartiene agire per un fine. 2. Ciò che costituisce il fine ultimo non è or­ dinato a un fine. Ma in certi casi le azioni

Q. l , A. l

Ilfine ultimo

est propter finem. Sed in quibusdam actiones sunt ultimus finis; ut patet per philosophum in l Ethic. [ 1,2]. Ergo non omnia homo agit propter finem. 3. Praeterea, tunc videtur homo agere propter finem, quando deliberat. Sed multa homo agit absque deliberatione, de quibus etiam quan­ doque nihil cogitat; sicut cum aliquis movet pedem vel manum aliis intentus, vel fricat barbam. Non ergo homo omnia agit propter finem. Sed contra, ornnia quae sunt in aliquo genere, derivantur a principio illius generis. Sed finis est principium in operabilibus ab homine; ut patet per philosophum in 2 Phys. [9,5] Ergo homini convenit omnia agere propter finem. Respondeo dicendum quod actionum quae ab homine aguntur, illae solae proprie dicuntur hu­ manae, quae sunt propriae hominis inquantum est homo. Differt autem homo ab aliis irrationa­ libus creaturis in hoc, quod est suorum actuum dominus. Unde illae solae actiones vocantur proprie humanae, quarum homo est dominus. Est autem homo dominus suorum actuum per rationem et voluntatem, unde et liberum arbi­ trium esse diciturfacultas volwuatis et rationis. Illae ergo actiones proprie humanae dicuntur, quae ex voluntate deliberata procedunt. Si quae autem aliae actiones homini conveniant, pos­ sunt dici quidem hominis actiones; sed non proprie humanae, cum non sint hominis inquan­ tum est homo. - Manifestum est autem quod ornnes actiones quae procedunt ab aliqua poten­ tia, causantur ab ea secundum rationem sui obiecti. Obiectum autem voluntatis est finis et bonum. Unde oportet quod omnes actiones humanae propter finem sint. Ad primum ergo dicendum quod finis, etsi sit postremus in executione, est tamen primus in intentione agentis. Et hoc modo habet rationem causae. Ad secundum dicendum quod, si qua actio humana sit ultimus finis, oportet eam esse vo­ luntariam, alias non esset humana, ut dictum est. Actio autem aliqua dupliciter dicitur vo­ luntaria, uno modo, quia imperatur a volun­ tate, sicut ambulare vel loqui; alio modo, quia elicitur a voluntate, sicut ipsum velle. Impos­ sibile autem est quod ipse actus a voluntate elicitus sit ultimus finis. Nam obiectum vo­ luntatis est finis, sicut obiectum visus est color, unde sicut impossibile est quod primum

del/ 'uomo

14

stesse costituiscono il fine ultimo, come di­ mostra il Filosofo. Quindi l'uomo non sempre agisce per un fine. 3. L'uomo agisce per un fine quando delibera. Ma l'uomo spesso agisce senza deliberazione alcuna, e talora perfino senza pensarci affatto: come quando muove il piede o la mano, op­ pure si gratta la barba, pensando ad altro. Quindi non sempre l'uomo agisce per un fine. In contrario: le cose appartenenti a un dato genere derivano tutte dal principio di quel ge­ nere. Ma il fine è il principio dell'agire uma­ no, come dimostra il Filosofo. Quindi convie­ ne che l'uomo agisca sempre per un fine. Risposta: tra le azioni che l'uomo compie so­ no dette umane in senso stretto soltanto quelle compiute dall'uomo in quanto uomo. Ora, l'uomo si distingue dalle altre creature non ra­ zionali perché è padrone dei propri atti. Quin­ di, in senso stretto, si dicono umane le sole azioni di cui l'uomo ha la padronanza. D'altra parte l'uomo è padrone dei suoi atti mediante la ragione e la volontà: infatti si dice che il libero arbitrio è «una facoltà della volontà e della ragione». Quindi propriamente sono de­ nominate umane le azioni che procedono da una volontà deliberata. Le altre azioni invece che vengono attribuite ali' uomo potranno es­ sere dette azioni dell 'uomo, ma non azioni umane in senso proprio, non appartenendo esse all'uomo in quanto uomo. - Ora, tutti gli atti che procedono da una data facoltà ne deri­ vano secondo la ragione formale del suo oggetto. Ma l'oggetto della volontà è il fine e il bene. Quindi è necessario che tutte le azioni umane siano per un fine. Soluzione delle difficoltà: l . TI fine, pur essen­ do l'ultima cosa in ordine di esecuzione, è tut­ tavia la prima nell'intenzione dell'agente. Ed è così che possiede la ragione di causa. 2. Un'azione umana, per essere l'ultimo fine, deve essere volontaria: altrimenti non sarebbe un'azione umana, come si è detto. Ma un'a­ zione può essere volontaria in due modi: pri­ mo, perché è comandata dalla volontà, come ad es. camminare o parlare; secondo, perché è emessa dalla volontà, come il volere stesso. Ora, è impossibile che l'atto stesso emesso dalla volontà sia il fine ultimo, poiché il fine è oggetto della volontà come il colore è oggetto della vista: come quindi è impossibile che il primo oggetto visivo sia il vedere medesimo,

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Ilfine ultimo del/ 'uomo

Q.

l, A. l

visibile sit ipsum videre, quia omne videre est alicuius obiecti visibilis; ita impossibile est quod primum appetibile, quod est finis, sit ipsum velle. Unde relinquitur quod, si qua actio humana sit ultimus finis, quod ipsa sit imperata a voluntate. Et ita ibi aliqua actio hominis, ad minus ipsum velle, est propter finem. Quidquid ergo homo faciat, verum est dicere quod homo agit propter tìnem, etiam agendo actionem quae est ultimus finis. Ad tertium dicendum quod huiusmodi actiones non sunt proprie humanae, quia non procedunt ex deliberatione rationis, quae est proprium principium humanorum actuum. Et ideo ha­ bent quidem finem imaginatum, non autem per rationem praestitutum.

poiché ogni atto visivo è la visione di un og­ getto visibile, così è assurdo che il primo og­ getto appetibile, cioè il fine, sia il volere me­ desimo. Rimane dunque che un'azione uma­ na, per essere il fine ultimo, deve essere co­ mandata dalla volontà. E così anche in tal ca­ so si riscontra almeno un'azione dell'uomo, cioè la volizione, che è per un fine. Quindi è vero che l'uomo, qualunque azione compia, agisce sempre per un ìine, anche se compie un'azione che si identifica con il fine ultimo. 3. Le azioni indicate non sono propriamente azioni umane: poiché non procedono da una deliberazione della ragione, che è il vero prin­ cipio degli atti umani. Quindi esse hanno un fine in rapporto ali'immaginativa, ma non un fine prestabilito dalla ragione.

Articulus 2 Utrum agere propter finem sit proprium rationalis naturae

Articolo 2 Agire per un fine è una proprietà esclusiva deUa natura razionale?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod agere propter finem sit proprium rationalis naturae. l . Homo enim, cuius est agere propter finem, nunquam agi t propter finem ignotum. Sed mul­ ta sunt quae non cognoscunt finem, vel quia omnino carent cognitione, sicut creaturae insen­ sibiles; vel quia non apprehendunt rationem fi­ nis, sicut bruta animalia. Videtur ergo proprium esse rationalis naturae agere propter finem. 2. Praeterea, agere propter finem est ordinare suam actionem ad finem. Sed hoc est rationis opus. Ergo non convenit his quae ratione carent. 3. Praeterea, bonum et finis est obiectum vo­ luntatis. Sed voluntas in ratione est, ut dicitur in 3 De an. [9,3]. Ergo agere propter finem non est nisi rationalis naturae. Sed contra est quod philosophus probat in 2 Phys. [5,2], quod non solum intellectus, sed

Sembra di sì. Infatti: l . L'uomo, che certamente agisce per un fine, non agisce mai per un fine che non conosce. Ma vi sono molti esseri che non conoscono il fine: o perché sono del tutto privi di cono­ scenza, come le creature insensibili, o perché non capiscono il rapp01to di finalità, come gli animali bruti. Quindi è proprietà esclusiva della natura razionale agire per un fine. 2. Agire per un fine significa indirizzare verso tale fine la propria azione. Ma ciò è opera del­ la ragione. Quindi non compete a esseri privi di ragione. 3. n fine, come il bene, è oggetto della volontà. Ma «la volontà ha sede nella ragione», come dice Aristotele. Quindi agire per un fine spetta soltanto alla natura razionale. In contrario: Aristotele prova che «non solo l'intelletto, ma anche la natura agisce per un fine». Risposta: è necessario che tutti gli agenti agi­ scano per un fine. Infatti in una serie di cause ordinate fra loro non si può eliminare la prima causa senza eliminare anche le altre. Ora, la prima fra tutte le cause è la causa finale. E lo dimostra il fatto che la materia non raggiunge la forma senza la mozione della causa agente: infatti nulla conduce se stesso dalla potenza all'atto. Ma la causa agente non muove senza mirare al fine. Se infatti l'agente non fosse

etiam natura agit propterfinem. Respondeo dicendum quod omnia agentia necesse est agere propter ìinem. Causarum enim ad invicem ordinatarum, si prima sub­ trahatur, necesse est alias subtrahi. Prima autem inter omnes causas est causa finalis. Cuius ratio est, quia materia non consequitur formam nisi secundum quod movetur ab agente, nihil enim reducit se de potentia in actum. Agens autem non movet nisi ex inten­ tione finis. Si enim agens non esset detennina-

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Ilfine ultimo del/ 'uomo

tum ad aliquem effectum, non magis ageret hoc quam illud, ad hoc ergo quod determina­ turo effectum producat, necesse est quod de­ terminetur ad aliquid certum, quod habet ratio­ nem finis. Haec autem detenninatio, sicut in rationali natura fit per rationalem appetitum, qui dicitur voluntas; ita in aliis fit per inclina­ tionem naturalem, quae dicitur appetitus natu­ ralis. - Tamen considerandum est quod aliquid sua actione vel motu tendit ad finem dupliciter, uno modo, sicut seipsum ad finem movens, ut homo; alio modo, sicut ab alio motum ad fi­ nem, sicut sagitta tendit ad determinatum fi­ nem ex hoc quod movetur a sagittante, qui suam actionem dirigit in finem. Illa ergo quae rationem habent, seipsa movent ad finem, quia habent dominium sumum actuum per liberum arbitrium, quod est facultas voluntatis et ratio­ nis. Illa vero quae ratione carent, tendunt in finem per naturalem inclinationem, quasi ab alio mota, non autem a seipsis, cum non co­ gnoscant rationem finis, et ideo nihil in finem ordinare possunt, sed solum in finem ab alio ordinantur. Nam tota irrationalis natura com­ paratur ad Deum sicut instrumentum ad agens principale, ut supra [I q. 22 a. 2 ad 4; q. l 03 a. l ad 3] habitum est. Et ideo proprium est naturae rationalis ut tendat in finem quasi se agens vel ducens ad finem, naturae vero irrationalis, quasi ab alio acta vel ducta, sive in finem apprehensum, sicut bruta animalia, sive in tinem non apprehensum, sicut ea quae omnino cognitione carent. Ad primum ergo dicendum quod homo, quan­ do per seipsum agit propter finem, cognoscit finem, sed quando ab alio agitur vel ducitur, puta cum agit ad imperium alterius, vel cum movetur altero impellente, non est necessa­ rium quod cognoscat finem. Et ita est in crea­ turis irrationalibus. Ad secundum dicendum quod ordinare in fi­ nem est eius quod seipsum agit in finem. Eius vero quod ab alio in finem agitur, est ordinari in finem. Quod potest esse irrationalis natu­ rae, sed ab aliquo rationem habente. Ad tertium dicendum quod obiectum volunta­ tis est finis et bonum in universali. Unde non potest esse voluntas in his quae carent ratione et intellectu, cum non possint apprehendere universale, sed est in eis appetitus naturalis vel sensitivus, determinatus ad aliquod bonum particulare. Manifestum autem est quod

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determinato a un dato effetto non verrebbe mai a compiere una cosa piuttosto che un'al­ tra: quindi, perché produca un dato effetto, è necessario che venga determinato a qualcosa di definito, che acquista così la ragione di fine. Ora questa determinazione, che nell'essere razionale è dovuta ali' appetito intellettivo, detto volontà, negli altri esseri viene prodotta dali'inclinazione naturale, chiamata appunto appetito naturale. - Thttavia dobbiamo ricor­ dare che un essere può tendere verso il fine, con la propria operazione o moto, in due modi: primo, muovendo se stesso verso il fi­ ne, come fa l'uomo; secondo, facendosi muo­ vere da altri verso il fine, come la freccia che tende a un fine detenninato perché è mossa dali'arciere, il quale ne indirizza l'operazione verso il bersaglio. Quindi gli esseri dotati di ragione muovono se stessi al raggiungimento del fine, poiché sono padroni dei loro atti me­ diante il libero arbitrio, che è «Una facoltà del­ la volontà e della ragione». Gli esseri invece privi di ragione tendono al tine in forza di un'inclinazione naturale, come sospinti da altri e non da se stessi: e ciò perché non cono­ scono la finalità delle cose, per cui non posso­ no ordinare nulla verso il fine, ma vengono ordinati da altri al suo raggiungimento. Ab­ biamo infatti già spiegato che tutta la natura priva di ragione si rapporta a Dio come uno strumento all'agente principale. E così è pro­ prio della natura razionale tendere al tine muovendo e guidando se stessa al suo rag­ giungimento, mentre la natura priva di ragione è come guidata da altri o verso un fine cono­ sciuto, come nel caso degli animali bruti, o verso un fine non conosciuto, come nel caso degli esseri assolutamente privi di conoscenza. Soluzione delle difficoltà: l . Quando l'uomo agisce direttamente per un fine certamente conosce il fine, ma quando è mosso o guidato da altri, come quando agisce sotto il comando altrui, o perché spinto da un altro, non è ne­ cessario che conosca il fine. E così avviene per gli esseri irrazionali. 2. Ordinare o indirizzare al fine spetta a chi può muovere se stesso verso il fine. A chi invece è portato da altri al raggiungimento del fine spetta di essere ordinato al fine da altri. E ciò può capitare anche alla natura priva di ragione, però sotto l'azione di un essere dota­ to di ragione.

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particulares causae moventur a causa univer­ sali, sicut rector civitatis, qui intendit bonum commune, movet suo imperio omnia particu­ laria offida civitatis. Et ideo necesse est quod omnia quae carent ratione, moveantur in fines particulares ab aliqua voluntate rationali, quae se extendit in bonum universale, scilicet a voluntate divina.

3. Oggetto della volontà è il fine e il bene nella sua universalità. Per cui non ci può esse­ re volontà negli esseri privi di ragione e di in­ telligenza, non avendo essi la capacità di apprendere l'universale, ma in essi esiste l'ap­ petito naturale o sensitivo, determinato a dei beni particolari. Ora, è evidente che le cause particolari sono mosse da quelle universali: il capo di uno stato, p. es., che mira al bene co­ mune, muove col suo comando tutti i fun­ zionari particolari della città. È necessario quindi che tutti gli esseri privi di ragione sia­ no mossi al conseguimento dei fini particolari da una volontà intelligente che ha di mira il bene universale, cioè dalla volontà divina.

Articulus 3 Utrum actus humani non recipiant speciem a fine

Articolo 3 Gli atti umani ricevono la loro specificazione dal fine?

Ad tertium sic proceditur. Videtur quod actus humani non recipiant speciem a fine. l . Finis enim est causa extrinseca. Sed unum­ quodque habet speciem ab aliquo principio intrinseco. Ergo actus humani non recipiunt speciem a fine. 2. Praeterea, illud quod dat speciem, oportet esse prius. Sed finis est posterior in esse. Ergo actus humanus non habet speciem a fine. 3. Praeterea, idem non potest esse nisi in una specie. Sed eundem numero actum contingit ordinari ad diversos fines. Ergo finis non dat speciem actibus humanis. Sed contra est quod dicit Augustinus, in libro De moribus Ecclesiae et Manichaeorum [2, 1 3],

Sembra di no. Infatti: l . n fine è una causa estrinseca. Ma ogni cosa riceve la sua specie da un principio intrinseco. Quindi gli atti umani non la ricevono dal fine. 2. Ciò che dà la specie deve avere una priorità. Ma il fine è posteriore in ordine antologico. Quindi l'atto umano non può ricevere la spe­ cie dal fine. 3. Una medesima cosa non può avere che una sola specie. Ora, può capitare che il medesi­ mo atto venga ordinato a diversi fini. Quindi il fine non può determinare la specie degli atti umani. In contrario: Agostino dice: «Le nostre opere sono colpevoli o lodevoli secondo che è col­ pevole o lodevole il loro fine». Risposta: ogni cosa deriva la sua specie dal­ l' atto e non dalla potenza: infatti gli esseri composti di materia e forma raggiungono la specie mediante le loro forme. E la stessa cosa vale per il moto in senso stretto. Infatti l'azione e la passione, in cui il moto si distin­ gue, derivano la loro specie dall'atto: e cioè l'azione dall'atto che è il plincipio operativo, la passione invece dall'atto che è il termine del moto. Infatti il riscaldamento ali'attivo non è altro che il moto derivante dal calore, e il riscaldamento al passivo non è altro che il moto verso il calore; e la definizione d'altra parte non fa che esprimere la natura della spe­ cie. - Ora, gli atti umani considerati in tutti e due i modi, o come azioni o come passioni,

secundum quod finis est culpahilis ve! lauda­ bilis, secundum hoc sunt opera nostra culpa­ bilia vel laudabilia. Respondeo dicendum quod unumquodque sortitur speciem secundum actum, et non secundum potentiam, unde ea quae sunt com­ posita ex materia et forma, constituuntur in suis speciebus per proprias formas. Et hoc etiam considerandum est in motibus propriis. Cum enim motus quodammodo distinguatur per actionem et passionem, utrumque homm ab actu speciem sortitur, actio quidem ab actu qui est principium agendi; passio vero ab actu qui est tetminus motus. Unde calefactio actio nihil aliud est quam motio quaedam a calore procedens, calefactio vero passio nihil aliud est quam motus ad calorem, definirlo autem mani-

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Ilfine ultimo del/ 'uomo

festat rationem speciei. - Et utroque modo actus humani, sive considerentur per modum actionum, sive per modum pa.;;sionum, a fine speciem sortiuntur. Utroque enim modo pos­ sunt considerari actus humani, eo quod homo movet seipsum, et movetur a seipso. Dictum est autem supra [a. l] quod actus dicuntur humani, inquantum procedunt a voluntate deliberata. Obiectum autem voluntatis est bo­ num et tìnis. Et ideo manifestum est quod principium humanorum actuum, inquantum sunt humani, est finis. Et similiter est terminus eorundem, nam id ad quod terminatur actus humanus, est id quod voluntas intendit tan­ quam finem; sicut in agentibus naturalibus for­ ma generati est conformis formae generantis. Et quia, ut Ambrosius dicit, Super Lucam [prol.], mores proprie dicuntur humani, actus morales proprie speciem sortiuntur ex fine, nam idem sunt actus morales et actus humani. Ad primum ergo dicendum quod finis non est omnino aliquid extrinsecum ab actu, quia comparatur ad actum ut principium vel termi­ nus; et hoc ipsum est de ratione actus, ut scilicet sit ab aliquo, quantum ad actionem, et ut sit ad aliquid, quantum ad passionem. Ad secundum dicendum quod finis secundum quod est prior in intentione, ut dictum est [a. l ad 1], secundum hoc pertinet ad voluntatem. Et hoc modo dat speciem actui humano sive morali. Ad tertium dicendum quod idem actus numero, secundum quod seme! egreditur ab agente, non ordinatur nisi ad unum finem proximum, a quo habet speciem, sed potest ordinari ad plures fines remotos, quorum unus est finis alterius. Possibile tamen est quod unus actus secundum speciem naturae, ordinetur ad diversos fines voluntatis, sicut hoc ipsum quod est occidere hominem, quod est idem secundum speciem naturae, potest ordinari sicut in finem ad con­ servationem iustitiae, et ad satistàciendum irae. Et ex hoc erunt diversi actus secundum speciem moris, quia uno modo erit actus virtutis, alio modo erit actus vitii. Non enim motus recipit speciem ab eo quod est terminus per accidens, sed solum ab eo quod est terminus per se. Fines autem morales accidunt rei naturali; et e con­ verso ratio naturalis finis accidit morali. Et ideo nihil prohibet actus qui sunt iidem secundum speciem naturae, esse diversos secundum speciem moris, et e converso.

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ricevono la loro specie dal fine. Intàtti gli atti umani possono essere considerati in entrambi i modi: poiché l'uomo muove se stesso, ed è mosso da se stesso. Ora, abbiamo spiegato che gli atti sono detti umani in quanto proce­ dono da una volontà deliberata. �a l'oggetto della volontà è il bene e il fine. E perciò evi­ dente che il fine costituisce il principio degli atti umani in quanto umani. E così pure ne costituisce il termine: intàtti l'atto umano ha il suo termine in ciò che la volontà persegue come suo fine; come anche nella generazione naturale la forma del generato è conforme a quella del generante. E dal momento che, come dice Ambrogio, «i costumi morali sono propriamente umani», ne viene che gli atti morali ricevono la loro specie propriamente dal fine: infatti gli atti umani e gli atti morali si identificano. Soluzione delle difficoltà: l . Il fine non è qualcosa di totalmente estrinseco all'atto: poi­ ché si rapporta all'atto come principio e come termine; ed è proprio dell'atto come tale deri­ vare da un principio in quanto azione, e ten­ dere a un termine in quanto passione. 2. Abbiamo già spiegato che il fine appartiene alla volontà in quanto è primo nell'intenzione. E proprio in questo modo esso specifica le azioni umane o morali. 3. Un solo e medesimo atto, in quanto pro­ mana in concreto da un agente, è sempre or­ dinato a un solo fine prossimo, dal quale rice­ ve la specie, ma può essere ordinato a più fini t.:_emoti dei quali l'uno sia tìne dell'altro. E tuttavia possibile che un atto, unico se con­ siderato nella sua specie fisica, sia ordinato a fini diversi nell'ordine volitivo: come l'ucci­ sione di un uomo, che fisicamente è sempre di una medesima specie, può essere ordinata sia all'esecuzione della giustizia che all'appa­ gamento dell'ira. E si avranno allora atti spe­ cificamente diversi nell'ordine morale: poi­ ché nel primo caso si avrà un atto di virtù e nel secondo un atto peccaminoso. n moto in­ fatti non riceve la specie da un termine acci­ dentale, ma solo dal suo termine proprio. Ora, i fini morali sono accidentali per le real­ tà naturali, e al contrario la finalità naturale è accidentale neII' ordine morale. Nulla perciò impedisce che atti specificamente identici n eli'ordine tìsico siano diversi neIl'ordine morale, e viceversa.

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Ilfine ultimo dell 'uomo

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Articulus 4 Utrum sit aliquis ultimus finis humanae vitae

Articolo 4 Esiste un fine ultimo della vita umana?

Ad quartum sic proceditur. Videtur quod non sit aliquis ultimus finis humanae vitae, sed procedatur in finibus in infinitum. l . Bonum enim, secundum suam rationem, est diffusivum sui; ut patet per Dionysium, 4 cap. De div. nom. [20]. Si ergo quod procedit ex bono, ipsum etiam est bonum, oportet quod illud bonum diffundat aliud bonum, et sic processus boni est in infinitum. Sed bo­ num habet rationem finis. Ergo in finibus est processus in infinitum. 2. Praeterea, ea quae sunt rationis, in infinitum multiplicari possunt, unde et mathematicae quantitates in infinitum augentur. Species etiam numerorum propter hoc sunt infinitae, quia, dato quolibet numero, ratio alium maiorem excogitare potest. Sed desiderium finis sequitur apprehensionem rationis. Ergo videtur quod etiam in finibus procedatur in infinitum. 3. Praeterea, bonum et finis est obiectum vo­ luntatis. Sed voluntas infinities potest reflecti supra seipsam, possum enim velle aliquid, et velle me velle illud, et sic in infinitum. Ergo in finibus humanae voluntatis proceditur in infinitum, et non est aliquis ultimus finis hu­ manae voluntatis. Sed contra est quod philosophus dicit, 2 Met. [l ,2,9], quod qui infinitum faciunt, auferunt naturam boni. Sed bonum est quod habet rationem finis. Ergo contra rationem finis est quod procedatur in infinitum. Necesse est ergo ponere unum ultimum finem. Respondeo dicendum quod, per se loquendo, impossibile est in finibus procedere in infini­ tum, ex quacumque parte. In omnibus enim quae per se habent ordinem ad invicem, oportet quod, remoto primo, removeantur ea quae sunt ad primum. Unde philosophus probat, in 8 Phys. [5,2], quod non est possibile in causis moventibus procedere in infinitum, quia iam non esset primum movens, quo subtracto alia movere non possunt, cum non moveant nisi per hoc quod moventur a primo movente. In finibus autem invenitur duplex ordo, scilicet ordo intentionis, et orda executionis, et in utroque ordine oportet esse aliquid primum. Id enim quod est primum in ordine intentionis est quasi principium movens appetitum, unde,

Sembra di no. Infatti: l. n bene è per natura ordinato a diffondersi, come dimostra Dionigi. Ora, se quanto proce­ de dal bene è un bene esso stesso, è necessa­ rio che tale bene diffonda dell'altro bene: e così la diffusione del bene è senza limiti. Ma il bene ha ragione di fine. Quindi tra i fini c'è un procedimento all'infinito. 2. Le entità dipendenti dalla ragione possono moltiplicarsi all'infinito: infatti le quantità matematiche possono crescere senza limiti. E le specie dei numeri sono anch'esse infini­ te, poiché, posto qualsiasi numero, la ragione può sempre escogitarne uno più grande. Ma il desiderio del fine segue l'apprensione della ragione. Quindi anche nei fini si procede all'infinito. 3. TI bene, o fine, è oggetto della volontà. Ma la volontà può riflettere su se stessa infinite volte: posso cioè volere una cosa, e quindi volere di volerla, e così all'infinito. Quindi si ha un processo all'infinito nei fini del volere, e si esclude l'esistenza di un fine ultimo della volontà umana. In contrario: il Filosofo dice: «Distruggono l'essenza del bene coloro che lo riducono a un processo indefinito». Ma il bene è precisamen­ te ciò che ha ragione di fine. Quindi il 12rocesso all'infinito è contro la ragione di fine. E perciò necessario ammettere un fine ultimo. Risposta: è da escludersi sotto tutti gli aspetti un vero processo all'infinito tra i fini. Infatti in ogni serie di cose ordinate tra loro avviene necessariamente che, tolta la prima, vengono a cessare anche le altre connesse con quella. n Filosofo infatti dimostra che è impossibile procedere all'infinito tra le cause del moto, poiché se non esistesse un primo motore gli altri non potrebbero muovere, derivando essi il loro moto da quel primo motore. Ora, tra i fini esistono due tipi di ordine, cioè l'ordine del­ l'intenzione e l'ordine dell'esecuzione: e in tutti e due deve esistere un termine primo. Ciò che infatti è primo nell'ordine dell'intenzione costituisce come il principio motore degli appetiti, per cui, eliminato il principio, l'ap­ petito rimane inerte. Il principio invece nel­ l'ordine dell'esecuzione è il primo passo che

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Ilfine ultimo del/ 'uomo

subtracto principio, appetitus a nullo movere­ tur. Id autem quod est principium in executio­ ne, est unde incipit operatio, unde, isto princi­ pio subtracto, nullus inciperet aliquid operari. Principium autem intentionis est ultimus finis, principium autem executionis est primum eorum quae sunt ad finem. Sic ergo ex neutra parte possibile est in infinitum procedere, quia si non esset ultimus finis, nihil appetere­ tur, nec aliqua actio terminaretur, nec etiam quiesceret intentio agentis; si autem non esset primum in his quae sunt ad tinem, nullus inciperet aliquid operari, nec terminaretur consilium, sed in infinitum procederet. - Ea vero quae non habent ordinem per se, sed per accidens sibi invicem coniunguntur, nihil pro­ hibet infinitatem habere, causae enim per accidens indeterminatae sunt. Et hoc etiam modo contingit esse infinitatem per accidens in finibus, et in his quae sunt ad finem. Ad primum ergo dicendum quod de ratione boni est quod aliquid ab ipso effluat, non tamen quod ipsum ab alio procedat. Et ideo, cum bonum habeat rationem finis, et primum bonum sit ultimus finis, ratio ista non probat quod non sit ultimus finis; sed quod a fine primo supposito procedatur in infinitum in­ ferius versus ea quae sunt ad finem. Et hoc quidem competeret, si consideraretur sola virtus primi boni, quae est infinita. Sed quia primum bonum habet diffusionem secundum intellectum, cuius est secundum aliquam certam formam profluere in causata; aliquis certus modus adhibetur bonorum eftluxui a primo bono, a quo omnia alia bona partici­ pant virtutem diffusivam. Et ideo diffusio bonorum non procedit in infinitum, sed, sicut dicitur Sap. 11 [21], Deus omnia disposuit

in numero, pondere et mensura. Ad secundum dicendum quod in his quae sunt per se, ratio incipit a principiis na­ turaliter notis, et ad aliquem terminum pro­ greditur. Unde philosophus probat, in l Post. [3,2], quod in demonstrationibus non est processus in infinitum, quia in demonstra­ tionibus attenditur ordo aliquomm per se ad invicem connexomm, et non per accidens. In his autem quae per accidens connectuntur, nihil prohibet rationem in infinitum proce­ dere. Accidit autem quantitati aut numero praeexistenti, inquantum huiusmodi, quod ei addatur quantitas aut unitas. Unde in huius-

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uno compie nell'operare, per cui, eliminando questo, nessuno comincerebbe mai un'o­ perazione. Ora, il principio nell'ordine del­ l'intenzione è il fine ultimo, il principio invece n eli' ordine dell'esecuzione è il primo dei mezzi ordinati al fine. Quindi da nessuna delle due parti è possibile procedere all'infinito: poiché senza fine ultimo non ci sarebbe ap­ petizione alcuna, nessuna azione avrebbe un termine e l'intenzione dell'agente non sarebbe mai soddisfatta; e d'altra parte senza un primo nell'ordine esecutivo nessuno comincerebbe mai a operare, e il consiglio o deliberazione nella scelta dei mezzi non avrebbe mai termi­ ne, ma procederebbe all'infinito. -Le cose invece che non hanno un ordine essenziale tra loro, ma solo un ordine accidentale, possono avere una [certa] infinità: infatti le cause acci­ dentali sono indeterminate. E in questo senso ci può essere accidentalmente un'infinità sia nei fini che nei mezzi ordinati al fine. Soluzione delle difficoltà: l . È insita nella ragione di bene l'emanazione di qualcosa da esso, non già l'emanazione di esso da un altro bene. Quindi, avendo il bene ragione di fine, ed essendo il primo bene l'ultimo fine, la ragione invocata non dimostra che non esiste un ultimo fine ma soltanto che, stabilito un fine ultimo, si potrebbe avere un processo all'infinito in ordine discendente, cioè nei mezzi ordinati al fine. E si arriverebbe a ciò se si considerasse la sola potenza del bene supremo, che è infinita. Siccome però il bene supremo si diffonde seguendo l'intelligenza, la quale influisce sugli effetti secondo forme determinate, così il fluire dei vari beni dal bene supremo, dal quale gli altri beni parteci­ pano l'attitudine a diffondersi, avviene secon­ do una misura determinata. Perciò l'attitudine dei beni a effondersi non ha un processo all'infinito ma piuttosto, come è detto in Sap: Dio ha disposto tutto con calcolo, peso

e misura. 2. Nelle cose ordinate tra loro in maniera necessaria, la ragione parte da princìpi per sé noti per giungere a un termine definito. E il Filosofo prova che nelle dimostrazioni non c'è un processo all'infinito proprio perché in esse si ha di mira un ordine di cose connesse tra loro non accidentalmente, ma necessaria­ mente. Nulla impedisce invece che si proceda all'infinito trattandosi di cose connesse tra

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Ilfine ultimo del/ 'uomo

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modi nihil prohibet rationem procedere in infinitum. Ad tertium dicendum quod illa multiplicatio actuum voluntatis reflexae supra seipsam, per accidens se habet ad ordinem finium. Quod patet ex hoc, quod circa unum et eundem finem indifferenter semel vel pluries supra seipsam voluntas reflectitur.

loro accidentalmente. A una quantità, p. es., o a un numero, presi come tali, può sempre essere fatta l ' aggiunta di un'altra quantità, o di altre unità. Quindi in questo campo la ragione non trova ostacoli nel procedere ali' infinito. 3. n ripetersi degli atti della volontà che riflet­ te su se stessa è accidentale nell'ordine dei fini. E lo dimostra il fatto che, rispetto a un medesimo fine, la volontà può riflettere indif­ ferentemente una o più volte.

Articulus 5 Utrum unius hominis possint esse plures ultimi fines

Articolo 5

Un uomo può avere più fini ultimi?

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod possibile sit voluntatem unius hominis in plura ferri simul, sicut in ultimos fines. l . Dicit enim Augustinus, 1 9 De civ. Dei [ 1 .4], quod quidam ultimum hominis tinem posuerunt in quatuor, scilicet in voluptate, in quiete, in primis naturae, et in virtute. Haec autem manifeste sunt plura. Ergo unus homo potest constituere ultimum finem suae volun­ tatis in multis. 2. Praeterea, ea quae non opponuntur ad in­ vicem, se invicem non excludunt. Sed multa inveniuntur in rebus quae sibi invicem non op­ ponuntur. Ergo si unum ponatur ultimus finis voluntatis, non propter hoc alia excluduntur. 3. Praeterea, voluntas per hoc quod constituit ultimum finem in aliquo, suam liberam po­ tentiam non amittit. Sed antequam constitu­ eret ultimum finem suum in ilio, puta in volup­ tate, poterat constituere finem suum ultimum in alio, puta in divitiis. Ergo etiam postquam constituit aliquis ultimum finem suae volun­ tatis in voluptate, potest simul constituere ulti­ mum finem in divitiis. Ergo possibile est vo­ luntatem unius hominis simul ferri in diversa, sicut in ultimos fines. Sed contra, illud in quo quiescit aliquis sicut in ultimo fine, hominis affectui dominatur, quia ex eo totius vitae suae regulas accipit. Unde de gulosis dicitur Phil. 3 [ 1 9] , quorum Deus venter est, quia scilicet constituunt ultimum finem in deliciis ventris. Sed sicut dicitur Matth. 6 [24], nemo potest duobus dominis servire, ad invicem scilicet non ordinatis. Ergo impossibile est esse plures ultimos fines unius hominis ad invicem non ordinatos.

Sembra di sì. Infatti: l . Agostino scrive che alcuni hanno riposto il fine ultimo dell' uomo in queste quattro cose: «Nel piacere, nella tranquillità, nei beni di natura e nella virtù». Ora, qui è evidente che si tratta di più cose. Quindi un medesimo uomo può stabilire più cose come fine ultimo del suo volere. 2. Cose che tra loro non si oppongono, nep­ pure si escludono. Ma nella realtà ci sono molte cose che non si oppongono. Se quindi una di esse costituisce l'ultimo fine della volontà, non per questo si escludono le altre. 3. La volontà non perde la sua libertà per il fatto che ha posto il suo ultimo fine in un dato oggetto. Ma prima di fissare in esso, p. es. nel piacere, il suo ultimo fine, poteva fissarlo in un oggetto diverso, p. es. nelle ricchezze. Quindi, dopo aver stabilito il fine ultimo della propria volontà nel piacere, un uomo rimane libero di stabilirlo simultaneamente nelle ric­ chezze. E così è possibile che la volontà di un uomo possa volere insieme oggetti diversi come ultimi fini. In contrario: l' oggetto nel quale uno stabilisce il suo ultimo fine domina totalmente l'affetto di un uomo: poiché da esso questi prende la norma di tutta la sua vita. Infatti, a proposito dei golosi in Fil è detto: Hanno come dio il loro ventre, vale a dire: nei piaceri del ventre hanno riposto il loro fine ultimo. Ma come è detto in Mt. Nessuno può servire a due padroni, i quali cioè non siano subordinati tra loro. Quindi è inconcepibile che uno stesso uomo possa avere più fini ultimi non subordinati fra loro.

Q. l , A. S

Ilfine ultimo del/ 'uomo

Respondeo dicendum quod impossibile est quod voluntas unius hominis simul se habeat ad diversa, sicut ad ultimos fines. Cuius ratio potest triplex assignari. Prima est quia, cum unumquodque appetat suam perfectionem, illud appetit aliquis ut ultimum fmem, quod appetit, ut bonum perfectum et completivum sui ipsius. Unde Augustinus dicit, 19 De civ. Dei [ l ], finem boni nunc dicimus, non quod

consumatur ut non sit, sed quod pe1jìciatur ut plenum sit. Oportet igitur quod ultimus finis

ita impleat totum hominis appetitum, quod nihil extra ipsum appetendum relinquatur. Quod esse non potest, si aliquid extraneum ad ipsius perfectionem requiratur. Unde non po­ test esse quod in duo sic tendat appetitus, ac si utrumque sit bonum perfectum ipsius. - Secun­ da ratio est quia, sicut in processu rationis principium est id quod naturaliter cognosci­ tur, ita in processu rationalis appetitus, qui est voluntas, oportet esse principium id quod na­ turaliter desideratur. Hoc autem oportet esse unum, quia natura non tendit nisi ad unum. Principium autem in processu rationalis ap­ petitus est ultimus finis. Unde oportet id in quod tendit voluntas sub ratione ultimi finis, esse unum. - Tertia ratio est quia, cum actiones voluntarie ex fine speciem sortiantur, sicut supra [a. 3] habitum est, opmtet quod a fine ultimo, qui est communis, sortiantur rationem generis, sicut et naturalia ponuntur in genere secundum formalem rationem communem. Cum igitur omnia appetibilia voluntatis, in­ quantum huiusmodi, sint unius generis, opor­ tet ultimum finem esse unum. Et praecipue quia in quolibet genere est unum primum principium, ultimus autem finis habet ratio­ nem primi principi i, ut dictum est. - Sicut autem se habet ultimus finis hominis simplici­ ter ad totum humanum genus, ita se habet ultimus finis huius hominis ad bune homi­ nem. Unde oportet quod, sicut omnium homi­ num est naturaliter unus finis ultimus, ita huius hominis voluntas in uno ultimo fine statuatur. Ad primum ergo dicendum quod omnia illa plura accipiebantur in ratione unius boni perfecti ex his constituti, ab his qui in eis ultimum finem ponebant. Ad secundum dicendum quod, etsi plura accipi possint quae ad invicem oppositionem non habeant, tamen bono perfecto opponitur

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Risposta: è impossibile che la volontà di un uomo si trovi a volere diversi oggetti come fini ultimi. E possiamo dimostrarlo con tre argo­ menti. Primo. Un uomo desidera quale ultimo fine ciò che vuole come bene perfetto e com­ pletivo di se medesimo, poiché ogni cosa desi­ dera la propria perfezione. Per cui Agostino dice: «Chiamiamo qui fine dell'uomo non ciò che si consuma fino a non essere, ma ciò che si perfeziona per essere pienamente». È perciò necessario che l'ultimo fine riempia talmente l'appetito dell'uomo da non lasciare nulla di desiderabile all' infuori di esso. E ciò non potrebbe avvenire se si richiedesse qualche altra cosa per la sua perfezione. Quindi non può verificarsi che la volontà voglia contem­ poraneamente due oggetti come se l'uno e l'altro fossero per essa il bene perfetto. - Secon­ do. Come nel processo della ragione il princi­ pio è ciò che è conosciuto naturalmente, così nel processo dell'appetito razionale, che è la volontà, il principio deve essere ciò che è desi­ derato naturalmente. Ma questo oggetto deve essere unico: poiché la natura tende a un unico termine. D'altra patte il fine ultimo ha funzio­ ne di principio nel processo dell'appetito ra­ zionale. Quindi è necessario che sia unico l'oggetto verso cui tende la volontà come al suo ultimo fine. - Terzo. Le azioni volontarie ricevono la loro specie dal fine, come si è già dimostrato: è quindi necessario che esse rice­ vano il loro genere dal fine ultimo allo stesso modo in cui gli esseri materiali vengono clas­ sificati in un genere secondo una ragione for­ male comune. Ora, siccome tutti gli oggetti razionalmente appetibili appartengono, come tali, a un unico genere, è necessario che unico sia il fine ultimo. E specialmente se conside­ riamo che ciascun genere ha un unico primo principio, e d'altra parte l'ultimo fine, come si è detto, ha ragione di primo principio. - Ora, il fine ultimo di un dato uomo sta a questo uomo particolare come il fine ultimo dell'uomo in generale sta a tutto il genere umano. Come quindi ci deve essere per natura un unico fine ultimo per tutti gli uomini, così è necessario che la volontà di ciascun uomo sia determina­ ta a un unico fine ultimo. Soluzione delle difficoltà: l . Tutte quelle cose venivano considerate, da coloro che riponeva­ no in esse il loro fine ultimo, come un solo bene perfetto risultante dalla loro somma.

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Ilfine ultimo del/ 'uomo

quod sit a liquid de p erfectione r e i extra ipsum. Ad tertium dicendum quod potestas volunta­ tis non habet ut faciat opposita esse simul. Q u o d c o n t in g e re t , si t e n deret in p lu r a disparata sicut in ultimos fines, u t e x dictis [co. et ad 2] patet.

Q. l , A. 5

2. Benché si trovino molte cose che non si

oppongono tra di loro, tuttavia si oppone alla nozione di bene perfetto l 'esistenza di ele­ menti capaci di integrarlo dall 'esterno. 3. La volontà non può arrivare al punto di ridurre gli opposti a esistere simultaneamente. Il che avverrebbe, come si è visto, se essa potesse perseguire oggetti disparati come fini ultimi.

Articulus 6 Utrum homo omnia quae vult, velit propter ultimum finem

Articolo 6 Vuomo vuole tutto ciò che vuole in ordine al fine ultimo?

Ad sextum sic proceditur. Videtur quod non omnia quaecumque homo vult, propter ulti­ mum finem velit. l . Ea enim quae ad finem ultimum ordinantur, seriosa dicuntur, quasi utilia. Sed iocosa a seriis distinguuntur. Ergo ea quae homo iocose agit, non ordinat in u ltimum tìnem. 2. Praeterea , philosophus dicit, in principio Met . [ l ,2,3.5], quod scientiae speculativae propter seipsas quaeruntur. Nec tamen potest dici quod quaelibet earum sit u ltimus finis. Ergo non omnia quae homo appetit, appetit propter ultimum finem. 3. Praeterea, quicumque ordinat aliquid in fi­ nem aliquem, cogitat de i lio fine . Sed non semper homo cogitat de ultimo fine in omni eo quod appetit aut facit. Non ergo omnia ho­ mo appetit aut facit propter ultimum finem. Sed contra est quod dicit Augustinus, 19 De civ. Dei [1], illud est ftnis boni nostri, propter

Sembra di no. Infatti: l . Le azioni ordinate al fine ultimo vengono dette serie, cioè utili. Ma i divertimenti sono distinti dalle azioni serie. Quindi l 'uomo non ordina a l fine ultimo le cose fatte per divertimento. 2. Le scienze speculative, insegna il Filosofo, sono cercate per se stesse . E tuttavia non si può affermare che ciascuna di esse sia il fine ultimo. Quindi l'uomo non desidera tutto in virtù del fine ultimo. 3. Chi ordina un'azione verso un fine pensa a quel fine. Ma non sempre l'uomo pensa al fine ultimo in tutto ciò che compie o desidera. Quindi l'uomo non ordina al fine ultimo tutto ciò che compie o desidera. In contrario: Agostino dice: «li nostro bene supremo è quella cosa in vista della qua le amiamo le a ltre, mentre essa è amata per se medesima». Risposta: necessariamente l 'uomo desidera tutto ciò che vuole in ordine al fine ultimo. E ciò appare evidente per due motivi. Primo, per­ ché l'uomo tutto desidera sotto l'aspetto del bene. E questo bene, se non è desiderato come bene perfetto, cioè come ultimo fine, sarà ne­ cessariamente desiderato come tendente al be­ ne perfetto: infatti l'inizio di una cosa è sempre ordinato al suo completamento; e ciò è eviden­ te sia nelle opere della natura che in quelle dell'arte. Quindi ogni inizio di perfezione è ordinato alla perfezione completa, che si rag­ giunge con l'ultimo fine. - Secondo, il fine ultimo sta al moto dell 'appetito come il primo motore sta agli altri [motori e ai loro] movi­ menti. Ora, è evidente che i motori subordina­ ti non possono muovere se non sono mossi dal primo motore. Quindi anche gli appetibili

quod amantur cetera, illud autem propter seipscun. Respondeo dicendum quod necesse est quod omnia quae homo appetit, appetat propter ul­ timum finem. Et hoc apparet duplici ratione. Primo quidem, quia quidquid homo appetit, appetit sub ratione boni. Quod quidem si non appetitur ut bonum perfectum, quod est ulti­ mus finis, necesse est ut appetatur ut tendens in bonum perfectum, quia semper inchoatio alicuius ordinatur ad consummationem ipsius; sicut patet tam in his quae fiunt a natura, quam in his quae fiunt ab arte. Et ideo omnis inchoatio perfectionis ordinatur in perfectio­ nem consummatam, quae est per ultimum finem. - Secundo, quia ultimus finis hoc modo se habet in movendo appetitum, sicut se habet in aliis motionibus primum movens. Manife-

Q. l , A. 6

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stum est autem quod causae secundae moven­ tes non movent nisi secundum quod moventur a primo movente. Unde secunda appetibilia non movent appetitum nisi in ordine ad pri­ mum appetibile, quod est ultimus finis. Ad primum ergo dicendum quod actiones ludi­ crae non ordinantur ad aliquem finem extrin­ secum; sed tamen ordinantur ad bonum ipsius ludentis, prout sunt delectantes vel requiem praestantes. Bonum autem consummatum hominis est ultimus finis eius. Et similiter dicendum ad secundum, de scientia speculativa; quae appetitur ut bonum quoddam speculantis, quod comprehenditur sub bono completo et perfecto, quod est ultimus finis. Ad tertium dicendum quod non oportet ut semper aliquis cogitet de ultimo fine, quando­ cumque aliquid appetit vel operatur, sed vir­ tus primae intentionis, quae est respectu ulti­ mi finis, manet in quolibet appetitu cuius­ cumque rei, etiam si de ultimo fine actu non cogitetur. Sicut non oportet quod qui vadit per viam, in quolibet passu cogitet de fine.

secondari non possono muovere l'appetito se non in vista del primo appetibile, che è l 'ulti­ mo fine. Soluzione delle difficoltà: l. Il divertimento non è certamente ordinato a un fine estrinse­ co: è però ordinato al bene di chi si diverte, in quanto è una cosa piacevole e riposante. Ora, il bene dell'uomo portato alla sua perfezione non è altro che il fine ultimo. 2. La stessa osservazione vale per la difficoltà riguardante la scienza speculativa, che viene desiderata come un bene dello studioso com­ preso nel bene totale e perfetto che è il fine ultimo. 3. Non è necessario che nell'agire o nel deside­ rare qualsiasi cosa uno pensi sempre al fine ultimo, ma l'influsso della prima intenzione ri­ volta al fine ultimo rimane nel desiderio di qualsiasi cosa, anche se attualmente non si pensa a quel fine. Come non è necessario che il viandante a ogni passo pensi al termine del viaggio.

Articulus 7 Utrum sit unus ultimus finis omnium hominum

Articolo 7 Il fine ultimo è unico per tutti gli uomini?

Ad septimum sic proceditur. Videtur quod non omnium hominum sit unus finis ultimus. l. Maxime enim videtur hominis ultimus finis esse incomrnutabile bonum. Sed quidam aver­ tuntur ab incomrnutabili bono, peccando. Non ergo omnium hominum est unus ultimus finis. 2. Praeterea, secundum ultimum finem tota vita hominis regulatur. Si igitur esset unus ultimus finis omnium hominum, sequeretur quod in hominibus non essent diversa studia vivendi. Quod patet esse falsum. 3. Praeterea, finis est actionis terminus. Actiones autem sunt singulruium. Homines autem, etsi conveniant in natura speciei, tamen differunt secundum ea quae ad individua pertinent. Non ergo omnium hominum est unus ultimus finis. Sed contra est quod Augustinus dicit, 1 3 De Trin. [3], quod omnes homines conveniunt in appetendo ultimum finem, qui est beatitudo. Respondeo dicendum quod de ultimo fine possumus loqui dupliciter, uno modo, secun­ dum rationem ultimi finis; alio modo, se­ cundum id in quo finis ultimi ratio invenitur. Quantum igitur ad rationem ultimi finis, omnes

Sembra di no. Infatti: l . È evidente che se c'è un fine ultimo, questo è il bene incommutabile. Ma molti con il pec­ cato si allontanano da esso. Quindi non esiste un unico fine ultimo per tutti gli uomini. 2. n fine ultimo regola tutta la vita di un uo­ mo. Se dunque tutti gli uomini avessero un unico fine ultimo non ci sarebbero tra loro sistemi diversi di vita. Il che invece è falso in maniera evidente. 3 . Il fine non è che il termine dell'azione, che è sempre individuale. Ora gli uomini, sebbe­ ne possiedano una comune natura specifica, differiscono tuttavia nei dati individuali . Quindi il tine ultimo non è unico per tutti gli uomini. In contrario: Agostino insegna che tutti gli uomini concordano nel desiderare il fine ulti­ mo, che è la beatitudine. Risposta: possiamo considerare il fine ultimo sotto due aspetti : ptimo, fermandoci alla ra­ gione [astratta] di ultimo fine; secondo, cer­ cando l ' oggetto in cui la ragione suddetta si trova. Stando dunque alla ragione di ultimo

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Q. l , A. 7

conveniunt in appetito finis ultimi, quia omnes appetunt suam perfectionem adimpleri, quae est ratio ultimi finis, ut dictum est [a. 5]. Sed quantum ad id in quo ista ratio invenitur, non omnes homines conveniunt in ultimo fine, nam quidam appetunt divitias tanquam consumma­ tum bonum, quidam autem voluptatem, quidam vero quodcumque aliud. Sicut et omni gustui delectabile est dulce, sed quibusdam maxime delectabilis est dulcedo vini, quibusdam dulce­ do mellis, aut alicuius talium. lllud tamen dul­ ce oportet esse simpliciter melius delectabile, in quo maxime delectatur qui habet optimum gustum. Et similiter illud bonum oportet esse completissimum, quod tanquam ultimum fi­ nem appetit habens affectum bene dispositum. Ad primum ergo dicendum quod illi qui pec­ cant, ave1tuntur ab eo in quo vere invenitur ra­ tio ultimi finis, non autem ab ipsa ultimi finis intentione, quam quaerunt falso in aliis rebus. Ad secundum dicendum quod diversa studia vivendi contingunt in hominibus propter diver­ sas res in quibus quaeritur ratio summi boni. Ad tertium dicendum quod, etsi actiones sint singularium, tamen primum principium agen­ di in eis est natura, quae tendit ad unum, ut dictum est [a. 5].

fine tutti concordano nel desiderio del fine ultimo: poiché tutti desiderano il raggiungi­ mento della propria perfezione, costitutivo, come si è detto, della ragione di ultimo fine. Non tutti invece concordano nell'ultimo fine quando si tratta di stabilire l'oggetto in cui la suddetta ragione si trova: alcuni infatti desi­ derano come bene perfetto le ricchezze, altri i piaceri, altri ancora qualunque altra cosa. Co­ me anche per ogni gusto è piacevole il dolce, ma qualcuno preferisce il dolce del vino, un altro quello del miele o di altre cose ancora. Thttavia il dolce più buono e piacevole dovrà essere in a>, come dice Ambrogio [Agostino]. Ora, un oggetto ha dei rapporti diversi con la conoscenza umana e con la co­ noscenza divina: poiché la conoscenza uma­ na viene causata dagli oggetti conosciuti, mentre la conoscenza divina ne è la causa. Quindi la perfezione del bene umano, cioè la beatitudine, non può essere causata dalla co­ noscenza degli uomini, ma piuttosto questa deriva dalla beatitudine di un dato soggetto, e in qualche modo è causata dalla stessa beati­ tudine umana, iniziale o perfetta. E così la beatitudine dell' uomo non può consistere nella fama o nella gloria. n bene dell' uomo invece ha la sua causa nella conoscenza divi­ na. Quindi la beatitudine umana ha una di­ pendenza causale dalla gloria esistente presso Dio; e così è detto nel Sal: Lo salverò e lo

glorificherò. Lo sazierò di lunghi giorni e gli mostrerò la mia salvezza. - Si deve anche considerare il fatto che la conoscenza umana spesso si inganna, specialmente nei singolari contingenti, tra i quali rientrano le azioni umane. Quindi spesso la gloria umana è fal­ lace. La gloria di Dio, invece, è sempre vera, poiché Dio non J?UÒ ingannarsi. Per cui è detto in 2 Cor: E approvato colui che il

Signore raccomanda.

Soluzione delle difficoltà: l . In quel testo Paolo non parla della gloria proveniente dagli uomini, ma di quella che viene da Dio al cospetto dei suoi angeli. Per cui è scritto in

Mc: Il Figlio dell'uomo lo onorerà nella glo­ ria del Padre suo, al cospetto dei suoi angeli. 2. Il bene di un uomo conosciuto da molti mediante la fama, o la gloria, dovrà dipende­ re da un bene già esistente in lui, se si tratta di conoscenza vera: e allora presuppone la beatitudine, o perfetta o iniziale. Se invece tale conoscenza è falsa, allora non concorda con la realtà: e così nella persona celebre e famosa non c ' è il bene. Quindi in nessun caso la t'ama può rendere un uomo beato. 3. La fama è priva di stabilità, anzi, facilmen­ te viene perduta per una falsa diceria. E se talora persevera stabilmente, ciò avviene per caso. La beatitudine invece deve avere una stabilità intrinseca e perenne.

I costitutivi della beatitudine umana

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Articulus 4

Articolo 4

Utrum beatitudo hominis consistat in potestate

La beatitudine dell'uomo consiste nel potere?

Ad quartum sic proceditur. Vìdetur quod bea­ titudo consistat in potestate. l . Omnia enim appetunt assimilari Deo, tanquam ultimo fini et primo principio. Sed homines qui in potestatibus sunt, propter si­ militudinem potestatis, maxime videntur esse Deo conformes, unde et in Scriptura dii vo­ cantur, ut patet Ex. 22 [28], diis non detrahes. Ergo in potestate beatitudo consistit. 2. Praeterea, beatitudo est bonum perfectum. Sed perfectissimum est quod homo etiam alios regere possit, quod convenit his qui in potestatibus sunt constituti. Ergo beatitudo consistit in potestate. 3. Praeterea, beatitudo, cum sit maxime appeti­ bilis, opponitur ei quod maxime est fugien­ dum. Sed hornines maxime fugiunt servitutem, cui contraponitur potestas. Ergo in potestate beatitudo consistit. Sed contra, beatitudo est perfectum bonum. Sed potestas est maxime imperfecta. Ut enim dicit B oetius, 3 De conso l . [5], potestas

Sembra di sì. Infatti: l . Tutte le creature tendono alla somiglianza con Dio, loro principio e loro ultimo fine. Ma gli uomini costituiti in autorità, per la somi­ glianza nel potere, sembrano più degli altri conformi a Dio: intatti la Scrittura talora li chia­ ma dèi, come si vede in Es: Non calunnierai gli dèi. Quindi la beatitudine consiste nel potere. 2. La beatitudine è un bene perfetto. Ma la cosa più perfetta sta nella possibilità per l'uo­ mo di governare gli altri, il che si verifica per coloro che hanno in mano il potere. Quindi la beatitudine si identifica con il potere. 3. La beatitudine, essendo la cosa più deside­ rabile, si oppone alla cosa più ripugnante. Ma la cosa più ripugnante per gli uomini è la schiavitù, che ha come contrapposto il potere. Quindi la beatitudine consiste nel potere. In contrario: la beatitudine è un bene perfetto. Il potere invece è sommamente imperfetto. Come infatti dice Boezio: «TI potere umano è incapace di eliminare il morso delle preoccu­ pazioni, e l a spina del timore». E continua: «Tu stimi forse potente colui che è circondato di satelliti, che più egli spaventa, più gli fanno paura?». Quindi la beatitudine non consiste nel potere. Risposta: è impossibile che la beatitudine con­ sista nel potere, per due motivi. Primo, perché il potere ha natura di principio, come dimostra Aristotele, mentre la beatitudine ha ragione di fine ultimo. - Secondo, perché il potere è indifferentemente buono o cattivo, mentre la beatitudine è il bene proprio e perfetto dell'uo­ mo. Quindi una certa beatitudine potrebbe tro­ varsi più nel buon uso del potere, dovuto alla virtù, che non nel potere medesimo. - Si pos­ sono poi portare quattro argomenti generali per dimostrare che la beatitudine non consiste in nessuno dei predetti beni esterni. Primo, perché la beatitudine è incompatibile col male di qualsiasi genere, essendo essa il bene som­ mo dell' uomo. Invece tutti i beni suddetti pos­ sono trovarsi sia nei malvagi che nei buoni. Secondo, perché non è ammissibile la man­ canza di un bene qualsiasi necessario all'uo­ mo una volta raggiunta la beatitudine, essen­ do questa per natura sua «per sé sufficiente»,

humana sollicitudinum morsus expellere, formidinum aculeos virare nequit. Et postea, potentem censes cui satellites latus ambiunt qui quos terret, ipse plus metuit? Non igitur beatitudo consistit in potestate. Respondeo dicendum quod impossibile est beatitudinem in potestate consistere, propter duo. Primo quidem, quia potestas habet rationem principii, ut patet in 5 Met. [4, 1 2, 1]. Beatitudo autem habet rationem ultimi finis. Secondo, quia potestas se habet ad bonum et ad malum. Beatitudo autem est proprium et perfectum hominis bonum. Unde magis pos­ set consistere beatitudo aliqua in bono usu potestatis, qui est per virtutem, quam in ipsa potestate. - Possunt autem quatuor generales rationes induci ad ostendendum quod in nullo praemissorum exteriorum bonorum beatitudo consistat. Quarum prima est quia, cum beati­ tudo sit summum hominis bonum, non com­ patitur secum aliquod malum. Omnia autem praedicta possunt inveniri et in bonis et in malis. - Secunda ratio est quia, cum de ratione beatitudinis sit quod sit per se sufficiens, ut patet in l Ethic. [7 ,6], necesse est quod, beatitudine adepta, nullum bonum homini

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I costitutivi della beatitudine umana

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necessarium desit. Adeptis autem singulis praemissorum, possunt adhuc multa bona ho­ mini necessaria deesse, puta sapientia, sanitas corporis, et huiusmodi . - Tertia, quia, cum beatitudo sit bonum perfectum, ex beatitudine non potest aliquod malum alicui provenire. Quod non convenit praemissis, dicitur enim Eccle. 5 [ 1 2], quod divitiae interdum con­ servantur in malum domini sui; et simile patet in aliis tribus. - Quarta ratio est quia ad bea­ titudinem homo ordinatur per principia in­ teriora, cum ad ipsam naturaliter ordinetur. Praemissa autem quatuor bona magis sunt a causis exterioribus, et ut plurimum a for­ tuna, unde et bona fortunae dicuntur. Unde patet quod in praemissis nullo modo bea­ titudo consistit. Ad primum ergo d i cendum quod divina potestas est sua bonitas, unde uti sua potestate non potest nisi bene. Sed hoc in hominibus non invenitur. Unde non sufficit ad beatirudinem hominis quod assimiletur Deo quantum ad potestatem, nisi etiam assimiletur ei quantum ad bonitatem. Ad secundum dicendum quod, sicut optimum est quod aliquis utatur bene potestate i n regimine multorum, ita pessimum est s i male utatur. Et ita potestas se habet et ad bonum et ad malum. Ad tertium dicendum quod servitus est impe­ dimentum boni usus potestatis, et ideo natura­ liter homines eam fugiunt, et non quasi in potestate hominis sit summu m bonum.

come dice Aristotele. Invece dopo il conse­ guimento dei singoli beni sopra indicati pos­ sono ancora mancare all ' uomo molti beni necessari , come la sapienza, la salute del corpo, ecc. - Terzo, perché dalla beatitudine non può mai derivare un male, essendo la beatitudine il bene perfetto. Non è così invece per i beni suddetti : infatti in Qo è detto che le ricchezze spesso vengono conservate a danno di chi le possiede; e lo stesso si dica per gli altri beni enumerati. - Quarto, perché l' uomo deve essere ordinato alla beatitudine da princìpi interiori, essendo ordinato ad essa per natura. Invece i quattro beni ricordati derivano piuttosto da cause esterne, e spesso dalla for­ tuna: infatti sono anche chiamati beni di for­ tuna. È perciò evidente che in nessun modo la beatitudine può consistere nei beni suddetti. Soluzione delle difficoltà: l . Il potere di Dio si identifica con la sua bontà: egli quindi non può servirsene altro che in bene. Ciò invece non accade per gli uomini. Quindi non basta, per la beatitudine dell'uomo, che egli assomi­ gli a Dio nel potere se non gli assomiglia anche nella bontà. 2. Come servirsi bene del potere nel governo di una moltitudine è cosa ottima, così servirsene male è cosa pessima. Quindi il potere è qual­ cosa di indifferente tispetto al bene e al male. 3. La schiavitù è di ostacolo al buon uso del potere, ed è per questo che gli uomini natural­ mente la aborriscono, non già perché pensino che nel potere si trovi il sommo bene.

Articulus 5 Utrum beatitudo hominis consistat in aliquo corporis bono

Articolo 5 La beatitudine dell'uomo consiste in qualche bene del corpo?

Ad quintum sic proceditur. Videtur quod beatitudo hominis consistat in bonis corporis. l. Dicitur enim Eccli . 30 [ 1 6], non est census supra censum salutis corporis. Sed i n eo quod est optimum, consistit beatitudo. Ergo consistit in corporis salute. 2. Praeterea, Dionysius dicit, 5 cap. De div. nom. [3], quod esse est melius quam vivere, et vivere melius quam alia quae consequuntur. Sed ad esse et vivere hominis requiritur salus corporis. Cum ergo beatitudo sit summum bonum hominis, videtur quod salus corporis maxime pertineat ad beatitudinem. 3. Praeterea, quanto aliquid est communius,

Sembra di sì. Infatti: l . In Sir è detto: Non

c'è ricchezza superiore rispetto alla salute del corpo. Ma la beatitudi­

ne consiste nella cosa più preziosa. Quindi essa consiste nella salute del corpo. 2. Dionigi insegna che l' essere vale più del vivere, e il vivere vale più di tutte le perfezio­ ni susseguenti. Ma l'essere e il vivere umano dipendono dalla salute del corpo. Poiché dun­ que la beatitudine corrisponde al bene supre­ mo dell'uomo, è chiaro che specialmente la salute del corpo fa parte della beatitudine. 3. Quanto più una cosa è universale, tanto più alto è il principio da cui dipende: poiché

Q. 2, A. 5

I costitutivi della beatitudine umana

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tanto ab altiori principio dependet quia quanto causa est superior, tanto eius virtus ad plura se extendit. Sed sicut causalitas causae effi­ cientis consideratur secundum influentiam, ita causalitas finis attenditur secundum appeti­ tum. Ergo sicut prima causa efficiens est quae in omnia influit, ita ultimus finis est quod ab omnibus desideratur. Sed ipsum esse est quod maxime desideratur ab omnibus. Ergo in his quae pertinent ad esse hominis, sicut est salus corporis, maxime consistit eius beatitudo. Sed contra, secundum beatitudinem homo excellit omnia alia animalia. Sed secundum bona corporis, a multis animalibus superatur, sicut ab elephante in diuturnitate vitae, a leo­ ne in fortitudine, a cervo in cursu. Ergo bea­ titudo hominis non consistit in bonis corporis. Respondeo dicendum quod impossibile est beatitudinem hominis in bonis corporis consi­ stere, propter duo. Primo quidem, quia im­ possibile est quod illius rei quae ordinatur ad aliud sicut ad finem, ultimus finis sit eiusdem conservatio in esse. Unde gubernator non intendit, sicut ultimum finem, conservationem navis sibi comrnissae; eo quod navis ad aliud ordinatur sicut ad finem, scilicet ad navigan­ dum. Sicut autem navis committitur guberna­ tori ad dirigendum, ita homo est suae volun­ tati et rationi commissus; secundum i llud quod dicitur Eccli. 1 5 [ 14], Deus ab initio

quanto più una cosa è di ordine superiore, tanto più vasto è il suo raggio di azione. Ma come la virtù di una causa agente si misura dal suo influsso, così la causalità del fine si misura dagli appetiti. Come quindi la prima causa efficiente deve estendere il suo influsso a tutte le cose, così il fine ultimo deve essere da tutti desiderato. Ma la cosa da tutti mag­ giormente desiderata è l ' essere. Quindi la beatitudine di un uomo consiste specialmente in ciò che è richiesto per la sua esistenza, quindi nella salute del corpo. In contrario: per la beatitudine l'uomo è supe­ riore a tutti gli altri animali. Ma nei beni del corpo egli è superato da molti di essi: dall'ele­ fante, p. es., nella durata della vita, dal leone nella forza, dal cervo nella velocità. Quindi la beatitudine dell'uomo non consiste nei beni del corpo. Risposta: è impossibile che la beatitudine del­ l 'uomo consista nei beni del corpo, per due motivi. Primo, perché è impossibile che l'ulti­ mo fine di una cosa sia la conservazione della medesima quando quest'ultima è già ordinata a un fine distinto da essa. Un pilota, p. es., non può considerare la conservazione della nave a lui affidata come ultimo fine, poiché la nave è già ordinata a un fine più remoto, cioè alla navigazione. Ora, come la nave è affidata alla direzione di un pilota, così l' uomo è affi­ dato alla volontà e alla ragione, secondo quanto è detto in Sir. Dio da principio creò

mo ordinatur ad aliquid sicut ad finem, non enim homo est summum bonum. Unde im­ possibile est quod ultimus finis rationis et voluntatis humanae sit conservatio humani esse. - Secundo quia, dato quod finis rationis et voluntatis humanae esset conservatio humani esse, non tamen posset dici quod finis homi­ nis esset aliquod corporis bonum. Esse enim hominis consistit i n anima et corpore, et quamvis esse corporis dependeat ab anima, es­ se tamen humanae animae non dependet a cor­ pore, ut supra [I q. 75 a. 2; q. 76 a. l ad 5-6; q. 90 a. 2 ad 2] ostensum est; ipsumque corpus est propter animam, sicut materia propter formam, et instrumenta propter moto­ rem, ut per ea suas actiones exerceat. Unde omni a bona corporis ordinantur ad bona animae, sicut ad fmem. Unde impossibile est quod in bonis corporis beatitudo consistat, quae est ultimus hominis finis.

l 'uomo, ,e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. E evidente d' altra parte che l ' uomo

constituit hominem, et reliquit eum in manu consilii sui. Manifestum est autem quod ho­

deve avere il suo fine in qualcosa: poiché l' uomo non è il sommo bene. Quindi è im­ possibile che la propria conservazione sia l 'ultimo fine della ragione e della volontà del­ l 'uomo. - Secondo, anche ammesso che la conservazione dell' esistenza umana fosse il fine della ragione e della volontà dell'uomo, non si potrebbe tuttavia concludere che il fine dell'uomo è un bene corporeo. Infatti l'essere dell'uomo abbraccia l'anima e il corpo; e seb­ bene l' essere del corpo dipenda dall' anima, tuttavia l'e..o;;sere dell' anima umana non dipen­ de dal corpo, come fu già dimostrato; il corpo inoltre è per l'anima, come la materia è per la forma e come gli strumenti sono per il loro principio motore, il quale si serve di essi per le proprie operazioni. Per cui tutti i beni del corpo hanno come fine i beni del l ' anima.

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I costitutivi della beatitudine umana

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Ad primum ergo dicendum quod, sicut cor­ pus ordinatur ad animam sicut ad finem, ita bona exteriora ad ipsum corpus. Et ideo rationabiliter bonum corporis praefertur bonis exterioribus, quae per censum significantur, sicut et bonum animae praefertur omnibus bonis corporis. Ad secundum dicendum quod esse simpliciter acceptum, secundum quod includit i n se omnem pertectionem essendi, praeerninet vi­ tae et omnibus subsequentibus, sic enim ip­ sum esse praehabet in se omnia subsequentia. Et hoc modo Dionysius loquitur. - Sed si con­ sideretur ipsum esse prout participatur in hac re vel in illa, quae non capiunt totam perfectio­ nem essendi, sed habent esse imperfectum, sicut est esse cuiuslibet creaturae; sic ma­ nifestum est quod ipsum esse cum perfectione superaddita est erninentius. Unde et Dionysius ibidem dicit quod viventia sunt meliora exis­ tentibus, et intelligentia viventibus. Ad tertium dicendum quod, quia finis re­ spondet principio, ex illa ratione probatur quod ultimus finis est primum principium essendi, in quo est omnis essendi perfectio, cuius similitudinem appetunt, secundum suam proportionem, q uaedam qui dem secundum esse tantum, quaedam secundum esse vivens, quaedam secundum esse vivens et intelligens et beatum. Et hoc paucorum est.

Quindi è impossibile che la beatitudine, ulti­ mo fine del l ' uomo, consista nei beni del corpo. Soluzione delle difficoltà: l . Come il corpo è per l'anima, così i beni esterni sono per il corpo. Quindi è giusto preferire il bene del corpo ai beni esterni, indicati col termine ricchezza, come va preferito il bene dell'anima ai beni del corpo. 2. L'essere preso in assoluto, in quanto inclu­ de tutte le perfezioni dell ' essere, vale più della vita e di ogni altra determinazione suc­ cessiva: poiché in tal caso l'essere precontie­ ne tutte le perfezioni susseguenti. E questo è il senso delle parole di Dionigi. - Se però si considera l' essere in quanto partecipato da soggetti determinati, i quali non possiedono l ' essere in tutta la sua petfezione, ma solo parzialmente, come avviene in tutte le creatu­ re, allora è evidente che l'essere vale di più se è accompagnato da altre pert'ezioni. Infatti Dionigi stesso fa osservare che i viventi val­ gono più dei semplici esistenti, e gli esseri intelligenti più dei viventi. 3. Esiste certo una corrispondenza tra il prin­ cipio e il fine, ma ciò prova soltanto che l'ulti­ mo fine coincide col ptimo ptincipio dell'es­ sere, nel quale si trovano tutte le petfezioni dell'essere: perfezioni di cui ciascuna creatura appetisce una somiglianza proporzionata, o fermandosi al semplice essere, o cercando l'essere e la vita, oppure aspirando all'essere dotato di vita, di intelligenza e di beatitudine. Ma questo è di pochi.

Articulus 6 Utrum beatitudo hominis consistat in voluptate

Articolo 6 La beatitudine dell'uomo consiste nel piacere?

Ad sextum sic proceditur. Videtur quod beati­ tudo hominis in voluptate consistat. l . Beatitudo enim, cum sit ultimus finis, non appetitur propter aliud, sed alia propter ipsam. Sed hoc maxime convenit delectationi, ridicu­

Sembra di sì. Infatti: l. Essendo la beatitudine il fine ultimo, essa non viene desiderata per altre cose, ma piutto­ sto le altre cose sono desiderate per essa. Ma ciò si riscontra specialmente nel piacere, «è ridicolo infatti chiedere a uno perché vo­ glia godere», come è detto nell'Etica. Quindi la beatitudine consiste specialmente nel pia­ cere e nel godimento. 2. «La causa ptima ha un influsso più marca­ to della causa seconda», come è detto nel De Causis. Ma l ' influsso del fine si misura dall'appetito corrispettivo. Quindi la cosa che

lwn est enim ab aliquo quaerere propter quid velit delectari, ut dicitur in l O Ethic. [2,2] . Ergo beatitudo maxime in voluptate et delec­ tatione consistit. 2. Praeterea, causa prima vehementius imprimit quam secunda, ut dicitur in libro De causis [1]. Influentia autem finis attenditur secundum eius appetitum. illud ergo videtur habere rationem

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I costitutivi della beatitudine umana

finis ultimi, quod maxime movet appetitum. Hoc autem est voluptas, cuius signum est quod delectatio intantum absorbet hominis voluntatem et rationem, quod alia bona con­ ternnere facit. Ergo videtur quod ultimus finis hominis, qui est beatitudo, maxime in volup­ tate consistat. 3 . Praeterea, cum appetitus sit boni, illud quod omnia appetunt, videtur esse optimum. Sed delectationem omnia appetunt, et sa­ pientes et insipientes, et etiam ratione ca­ rentia. Ergo delectatio est optimum. Consistit ergo in voluptate beatitudo, quae est summum bonum. Sed contra est quod Boetius dicit, in 3 De consol. [7] , tristes exitus esse voluptatum,

quisquis reminisci libidinum suarum volet, intelliget. Quae si beatos efficere possent, nihil causae est quin pecudes quoque beatae esse dicantur. Respondeo dicendum quod, quia delectatio­ nes corporales pluribus notae sunt, as­ sumpserunt sibi nomen voluptatum, ut dicitur 7 Ethic. [1 3,6], cum tamen sint aliae delecta­

tiones potiores. In quibus tamen beatitudo principaliter non consistit. Quia in unaquaque re aliud est quod pertinet ad essentiam eius, aliud est proprium accidens ipsius, sicut in homine aliud est quod est animai rationale mortale, aliud quod est risibile. Est igitur con­ siderandum quod omnis delectatio est quod­ dam proprium accidens quod consequitur beatitudinem, vel aliquam beatitudinis par­ tem, ex hoc enim aliquis delectatur quod habet bonum aliquod sibi conveniens, vel in re, vel in spe, vel saltem in memoria. Bonum autem conveniens, si quidem sit perfectum, est ipsa hominis beatitudo si autem sit imper­ fectum est quaedam beatitudinis participatio, vel propinqua, vel remota, vel saltem ap­ parens. Unde manifestum est quod nec ipsa delectatio quae consequitur bonum perfec­ tum, est ipsa essentia beatitudinis; sed quod­ dam consequens ad ipsam sicut per se ac­ cidens. - Voluptas autem corporalis non potest eti am modo praedicto sequi bonum per­ fectum. Nam sequitur bonum quod apprehen­ dit sensus, qui est virtus animae corpore utens. Bonum autem quod pertinet ad corpus, quod apprehenditur secundum sensum, non potest esse perfectum hominis bonum. Cum enim anima rationalis excedat proportionem

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più muove l'appetito è quella che più presenta la natura di fine ultimo. Ma questa è il piace­ re: e ne è segno il fatto che il piacere assorbe talmente la volontà e la ragione dell'uomo da fargli disprezzare ogni altro bene. Quindi l 'ultimo fine dell' uomo, ossia la beatitudine, consiste specialmente nel piacere. 3. Essendo il bene oggetto dell'appetito, il be­ ne più grande sarà quello che tutti appetiscono. Ma tutti desiderano il godimento, sia i sapien­ ti che gli ignoranti, anzi, pertino gli esseri privi di ragione. Quindi il piacere è il bene più grande. E così la beatitudine, che è il bene supremo, consiste nel piacere. In contrario: Boezio scrive: «Chiunque potrà capire le tristi conseguenze del piacere, purché voglia ricordarsi delle proprie dissolutezze. Se queste infatti potessero rendere felici non ci sarebbero ostacoli per proclamare beate le bestie». Risposta: Aristotele dice: «Le soddisfazioni corporali hanno assunto il nome di piaceri perché sono le più conosciute», pur essendoci soddisfazioni molto superiori. Tuttavia in nes­ suna di esse può consistere direttamente la beatitudine. Poiché in ogni cosa bisogna di­ stinguere gli elementi essenziali dagli acci­ denti propri: nell'uomo, p. es., una cosa è il suo essere animale, razionale e mortale, e al­ tra cosa è il suo essere capace di ridere. Biso­ gna perciò considerare che ogni godimento è un accidente proprio annesso alla beatitudine, sia totale che parziale: infatti uno gode perché nella realtà, nella speranza o nella memoria possiede un bene per lui conveniente. Ora, se questo bene è perfetto si identifica con la bea­ titudine stessa dell' uomo; se invece è imper­ fetto si ha una certa partecipazione, o prossi­ ma, o remota, o almeno apparente, della bea­ titudine. È evidente quindi che neppure il go­ dimento che accompagna il bene perfetto è l ' essenza stessa della beatitudine, ma è un qualcosa che ne deriva come un accidente proprio. - I piaceri del corpo poi non possono accompagnare neppure in questo modo il bene perfetto. Infatti essi derivano dal bene che è oggetto dei sensi, e questi sono facoltà dell'anima che si serve del corpo. Ma un bene che riguarda il corpo ed è appreso dai sensi non può essere i l bene perfetto dell' uomo. Essendo infatti l'anima razionale superiore a tutte le capacità della materia, la parte dell'a-

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I costitutivi della beatitudine umana

materiae corporalis, pars animae quae est ab organo corporeo absoluta, quandam habet in­ finitatem respectu ipsius corporis et partium animae corpori concretarum, sicut immateria­ lia sunt quodammodo infinita respectu mate­ rialium, eo quod forma per materiam quo­ dammodo contrahitur et finitur, unde forma a materia absoluta est quodammodo infinita. Et ideo sensus, qui est vis corporalis, cognoscit singulare, quod est determinatum per mate­ riam, intellectus vero, qui est vis a materia ab­ saluta, cognoscit universale, quod est abstrac­ tum a materia, et continet sub se infinita sin­ gularia. Unde patet quod bonum conveniens corpori, quod per apprehensionem sensus delectationem corporalem causat, non est per­ fectum bonum hominis, sed est minimum quiddam in comparatione ad bonum animae. Unde Sap. 7 [9], dicitur quod omne aurum, in

comparatione sapientiae, arena est exigua.

Sic igitur neque voluptas corporalis est ipsa beatitudo, nec est per se accidens beatitudinis. Ad primum ergo dicendum quod eiusdem ra­ tionis est quod appetatur bonum, et quod ap­ petatur delectatio, quae nihil est aliud quam quietatio appetitus in bono, sicut ex eadem virtute naturae est quod grave feratur deor­ sum, et quod ibi quiescat. Unde sicut bonum propter seipsum appetitur, ita et delectatio propter se, et non propter aliud appetitur, si ly propter dicat causam finalem. Si vero dicat causam formalem, vel potius motivam, sic de­ lectatio est appetibilis propter aliud, idest propter bonum, quod est delectationis obiectum, et per consequens est principium eius, et dat ei formam, ex hoc enim delectatio habet quod appetatur, quia est quies in bono desiderato. Ad secundum dicendum quod vehemens appetitus delectationis sensibilis contingit ex hoc quod operationes sensuum, quia sunt principia nostrae cognitionis, sunt magis per­ ceptibiles. Unde etiam a pluribus delectatio­ nes sensibiles appetuntur. Ad tertium dicendum quod eo modo omnes appetunt delectationem, sicut et appetunt bo­ num, et tamen delectationem appetunt ratione boni, et non e converso, ut dictum est [a. 1 ] . Unde non sequitur quod delectatio sit maxi­ mum et per se bonum, sed quod unaquaeque delectatio consequatur aliquod bonum, et quod aliqua delectatio consequatur id quod est per se et maximum bonum.

Q. 2, A. 6

nima che è indipendente dagli organi corporei ha una certa infinità rispetto al corpo e alle parti dell ' anima legate al corpo: come gli esseti immateriali sono in un certo senso infi­ niti rispetto a quelli materiali, poiché la forma viene come coartata e delimitata dalla mate­ tia, mentre la forma libera dalla materia è in qualche modo infinita. Quindi i sensi, che so­ no facoltà corporee, conoscono i singolari de­ terminati dalla matetia mentre l'intelletto, che è una facoltà indipendente dalla materia, co­ nosce gli universali, i quali sono astratti dalla materia e abbracciano infiniti singolari. Per cui è evidente che i beni corporali, i quali per­ cepiti dai sensi producono il godimento mate­ riale, non possono essere il bene perfetto del­ l'uomo, ma sono piuttosto dei beni insignifi­ canti paragonati al bene dell'anima. Per cui in Sap è detto: Tutto l'oro, al confronto con la sapienza, è un po ' di sabbia. Quindi il piacere corporeo non può essere né la beatitudine, né un suo accidente proprio. , Soluzione delle difficoltà: l . E unica la ragio­ ne su cui si fondano il desiderio del bene e quello del godimento annesso, il quale non è altro che l'acquietarsi dell'appetito nel bene raggiunto: come dipendono da un' unica forza natur.ùe la tendenza di un corpo grave a scen­ dere in basso e il suo stare fenno sul fondo. Quindi il godimento, come il bene, è desidera­ to per se stesso e non per altro motivo se con il per si intende la causa finale. Se invece si intende la causa formale, o addirittura motri­ ce, allora il godimento è appetibile per un' al­ tra cosa, cioè per il bene, che costituisce l' og­ getto, e quindi il principio e la forma, del go­ dimento: infatti il godimento è appetibile in quanto è l'appagamento nel bene desiderato. 2. La veemenza del desiderio dei piaceri sensibi­ li è dovuta al tàtto che le attività dei sensi, che sono alla radice della nostra conoscenza, sono più percettibili. Per questo i piaceri sensibili sono desiderati dalla maggioranza degli uomini. 3. Tutti desiderano il godimento allo stesso modo in cui desiderano il bene: tuttavia desi­ derano il godimento a motivo del bene, e non viceversa, come si è spiegato. Quindi non ne segue che il piacere sia il bene supremo ed essenziale, ma piuttosto che ogni godimento deriva da un bene, e che c'è pure un godimen­ to che deriva da quell'oggetto che è il bene sommo e per essenza.

Q. 2, A. 7

I costitutivi della beatitudine umana

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Articulus 7 Utrum beatitudo hominis consistat in aliquo bono animae

Articolo 7 La beatitudine dell'uomo consiste in qualche bene dell'anima?

Ad septimum sic proceditur. Videtur quod beatitudo consistat in aliquo bono animae. l . Beatitudo enim est quoddam hominis bo­ num. Hoc autem per tria dividitur, quae sunt bona exteriora, bona corporis, et bona ani­ mae. Sed beatitudo non consistit in bonis exterioribus, neque in bonis corporis, sicut supra [aa. 4-5] ostensum est. Ergo consistit in bonis animae. 2. Praeterea, illud cui appetimus aliquod bo­ num, magis amamus quam bonum quod ei appetimus, sicut magis amamus amicum cui appetimus pecuniam, quam pecuniam. Sed unusquisque quodcumque bonum sibi appetit. Ergo seipsum amat magis quam omnia alia bona. Sed beatitudo est quod maxime amatur, quod patet ex hoc quod propter ipsam omnia alia amantur et desiderantur. Ergo beatitudo consistit in aliquo bono ipsius hominis. Sed non in bonis corporis. Ergo in bonis animae. 3 . Praeterea, perfectio est aliquid eius quod perficitur. Sed beatitudo est quaedam perfec­ tio hominis. Ergo beatitudo est aliquid homi­ nis. Sed non est aliquid corporis, ut ostensum est [a. 5]. Ergo beatitudo est aliquid animae. Et ita consistit in bonis animae. Sed contra, sicut Augustinus dicit in libro De doctr. chr. [ 1 ,22], id in quo constituitur beata vita, propter se diligendum est. Sed homo non est propter seipsum diligendus, sed quidquid est in homine, est diligendum propter Deum. Ergo in nullo bono animae beatitudo consistit. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. l a. 8] dictum est, finis dupliciter dicitur, scilicet ipsa res quam adipisci desideramus; et usus, seu adeptio aut possessio illius rei. Si ergo loquamur de ultimo fine hominis quantum ad ipsam rem quam appetimus sicut ultimum finem, impossibile est quod ultimus finis hominis sit ipsa anima, vel aliquid eius. Ipsa enim anima, in se considerata, est ut in poten­ tia existens, fit enim de potentia sciente actu sciens, et de potentia virtuosa actu virtuosa. Cum autem potentia sit propter actum, sicut propter complementum, impossibile est quod id quod est secundum se in potentia existens, habeat rationem ultimi finis. Unde impossibi­ le est quod ipsa anima sit ultimus finis sui

Sembra di sì. Infatti: l . La beatitudine è un certo bene dell'uomo. Ora, tale bene si suddivide in beni esteriori, beni del corpo e beni dell'anima. Ma la beati­ tudine, come si è visto, non consiste nei beni esteriori, e neppure nei beni del corpo. Quindi consiste nei beni dell' anima. 2. Noi amiamo il soggetto per il quale deside­ riamo un bene più del bene per lui desiderato: amiamo p. es. un amico per il quale desideria­ mo il danaro più del danaro. Ma ciascuno desidera per se stesso ogni bene. Quindi ama se stesso più di tutti gli altri beni. Ora, la bea­ titudine è la cosa più amata: e lo dimostra il fatto che tutte le altre cose sono amate e desi­ derate per essa. Quindi la beatitudine deve consistere in un bene dell'uomo stesso. Ma non consiste nei beni del corpo. Quindi consi­ ste nei beni dell' anima. 3. La perfezione è una proprietà di colui che la possiede. Ma la beatitudine è una perfezio­ ne dell' uomo. Quindi la beatitudine stessa è una proprietà dell'uomo. Ma non è una pro­ prietà del corpo, come si è dimostrato. Quindi sarà una proprietà dell'anima. E allora dovrà consistere nei beni dell' anima. In contrario: Agostino dice: «Ciò che costitui­ sce la vita beata va amato per se stesso». L'uo­ mo invece non deve essere amato per se stes­ so, ma tutto ciò che si trova nell'uomo deve essere amato in ordine a Dio. Quindi la beati­ tudine non consiste in un bene dell' anima. Risposta: come si è già spiegato, il fine può indicare due cose, e cioè l'oggetto che deside­ riamo conseguire e l'uso, oppure il consegui­ mento o il possesso, di tale oggetto. Se quindi parliamo dell'ultimo fine dell' uomo inteso come oggetto desiderato, allora è impossibile che l ' anima stessa, o qualche suo accidente, sia l ' ultimo tine dell' uomo. Infatti l ' anima stessa di per sé è una realtà potenziale, poiché essendo prima in potenza a conoscere diviene poi attualmente conoscitiva, ed essendo vir­ tuosa in potenza lo diviene poi in atto. Ora, essendo la potenza ordinata ali' atto come al suo complemento, è impossibile che una realtà che di per sé è )n potenza abbia la fun­ zione di ultimo fine. E quindi impossibile che

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I costitutivi della beatitudine umana

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ipsius. - Similiter etiam neque aliquid eius, sive sit potentia, sive habitus, sive actus. Bonum enim quod est ultimus finis, est bonum perfec­ tum complens appetitum. Appetitus autem humanus, qui est voluntas, est boni universa­ lis. Quodlibet bonum autem inhaerens ipsi animae, est bonum participatum, et per consequens particulatum. Unde impossibile est quod aliquod eorum sit ultimus finis ho­ minis. - Sed si loquamur de ultimo fine homi­ nis quantum ad ipsam adeptionem vel posses­ sionem, seu quemcumque usum ipsius rei quae appetitur ut finis, sic ad ultimum finem pertinet aliquid hominis ex parte animae, quia homo per animam beatitudinem consequitur. Res ergo ipsa quae appetitur ut finis, est id in quo beatitudo consistit, et quod beatum facit, sed huius rei adeptio vocatur beatitudo. Unde dicendum est quod beatitudo est aliquid animae� sed id in quo consistit beatitudo, est aliquid extra animam. Ad primum ergo dicendum quod, secundum quod sub illa divisione comprehenduntur omnia bona quae homini sunt appetibilia, sic bonum animae dicitur non solum potentia aut habitus aut actus, sed etiam obiectum, quod est extrinsecum. Et hoc modo nihil prohibet dicere id i n quo beatitudo consistit, esse quoddam bonum animae. Ad secundum dicendum, quantum ad proposi­ rum pertinet, quod beatitudo maxime amatur tanquam bonum concupitum, amicus autem amatur tanquam id cui concupiscitur bonum� et sic etiam homo amat seipsum. Unde non est eadem ratio amoris utrobique. Utrum autem amore amiciliae aliquid homo supra se amet, erit locus considerandi cum de caritate agetur [II-II q. 26 a. 3]. Ad tertium dicendum quod beatitudo ipsa, cum sit perfectio animae, est quoddam animae bonum inhaerens, sed id in quo beatitudo con­ sistit, quod scilicet beatum facit, est aliquid extra animam, ut dictum est [co.].

l'anima stessa sia l'ultimo fine di se medesi­ ma. - E così non può esserlo un suo accidente, sia che si tratti di potenze, di atti o di abiti. In­ fatti il bene che costituisce l'ultimo fine è il bene perfetto che sazia l'appetito. Ma l'appeti­ to umano, che è la volontà, ha per oggetto il bene universale, mentre qualsiasi bene ineren­ te all'anima è un bene partecipato, e quindi particolare. Quindi è da escludersi che uno di questi beni possa essere l'ultimo fine dell'uo­ mo. - Se parliamo invece dell'ultimo fine del­ l'uomo inteso come conseguimento, possesso, o uso dell'oggetto stesso desiderato quale fine, allora troviamo un elemento dell'uomo, cioè dell'anima, che fa parte dell'ultimo fine: poi­ ché l 'uomo raggiunge la beatitudine con l'anima. Quindi la cosa stessa che è desiderata come fine costituisce l'oggetto della beatitudi­ ne, ed è ciò che rende beati� invece il conse­ guimento di essa è la beatitudine stessa. Si deve così concludere che la beatitudine è qual­ cosa dell'anima, ma l'oggetto che costituisce la beatitudine è qualcosa al di fuori di essa. Soluzione delle difficoltà: l . Se consideriamo compresi in quella suddivisione tutti i beni ap­ petibili dall'uomo si dovranno includere tra i beni dell' anima non soltanto le potenze, gli abiti e gli atti, ma anche gli oggetti, che sono e­ sterni. E allora nulla impedirà di affermare che la beatitudine consiste in un bene dell'anima. 2. Per limitarci a quanto ora ci riguarda, basta notare che la beatitudine è la cosa più amata in quanto bene desiderato, mentre l'amico è amato come colui per il quale si desidera il bene� e l'uomo ama anche se stesso in questa maniera. Quindi nei due casi la ragione del­ l'amore è diversa. Quando poi tratteremo del­ la carità, allora vedremo se l'uomo ami qual­ cosa più di se stesso con amore di amicizia. 3. La beatitudine stessa, essendo una perfe­ zione dell'anima, è un bene inerente all'ani­ ma� l'oggetto invece che costituisce la beati­ tudine, ed è beatificante, è esterno all'anima, come si è spiegato.

Articulus 8 Utrum beatitudo hominis consistat in aliquo bono creato

Articolo 8 La beatitudine dell'uomo consiste in qualche bene creato?

Ad octavum sic proceditur. Videtur quod beatitudo hominis consistat in aliquo bono creato.

Sembra di sì. Infatti: l . Dionigi dice che la divina sapienza «fa combaciare l 'estremo dei primi esseri con il

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I costitutivi della beatitudine umana

l . Dicit enim Dionysius, 7 cap. De div. nom. [3], quod divina sapientia coniungit fines primorum principiis secundorum, ex quo potest accipi quod summum inferioris naturae sit attingere infimum naturae superioris. Sed summu m hominis bonum est beatitudo. Cum ergo angelus n aturae ordine sit supra hominem, ut in Primo [q. 96 a. l ad l ; q. 108 a. 2 ad 3; a. 8 ad 2; q. 1 1 1 a. l ] habitum est; videtur quod beatitudo hominis consistat in hoc quod aliquo modo attingit ad angelum. 2. Pt-aeterea, ultimus finis cuiuslibet rei est in suo perfecto, unde pars est propter totum, sicut propter finem. Sed tota universitas creaturarum, quae dicitur maior mundus, comparatur ad hominem, qui in 8 Phys. [2,2] dicitur minor mundus, sicut perfectum ad i mperfectum. Ergo beatitudo h o m i n i s consistit i n tota universitate creaturarum. 3. Praeterea, per hoc homo efficitur beatus, quod eius naturale desiderium quietat. Sed naturale desiderium hominis non extenditur ad maius bonum quam quod ipse capere potest. Cum ergo homo non sit capax boni quod excedit limites totius creaturae, videtur quod per aliquod bonum creatum homo beatus fieri possit. Et ita beatitudo hominis in aliquo bono creato consistit. Sed contra est quod Augustinus dicit, 19 De civ. Dei [26], ut vita carnis anima est, ita

beata vita hominis Deus est; de quo dicitur, beatus populus cuius Dominus Deus eius.

Respondeo dicendum quod impossibile est beatitudinem hominis esse in aliquo bono creato. Beatitudo enim est bonum perfectum, quod totaliter quietat appetitum, alioquin non esset ultimus finis, si adhuc restaret aliquid appetendum. Obiectum autem voluntatis, quae est appetitus humanus, est universale bonum; sicut obiectum intellectus est univer­ sale verum. Ex quo patet quod nihil potest quietare voluntatem hominis, nisi bonum universale. Quod non invenitur in aliquo crea­ to, sed solum in Deo, quia omnis creatura habet bonitatem participatam. Unde solus Deus voluntatem hominis implere potest; secundum quod dicitur in Psalmo 102 [5], qui replet in bonis desiderium tuum. In solo igitur Deo beatitudo hominis consistit. Ad primum ergo dicendum quod superius hominis attingit quidem infimum angelicae naturae per quandam similitudinem; non

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principio dei secondi»: e da ciò si può arguire che la parte più elevata di una natura inferiore raggiunge quella più bassa della natura supe­ riore. Ora, il bene più alto per l' uomo è la beatitudine. Essendo dunque l' angelo supe­ riore all'uomo in ordine di natura, come si è visto nella Prima Parte, è evidente che la bea­ titudine dell'uomo consiste nel raggiungere in qualche modo l'angelo. 2. Il tine ultimo di ogni cosa consiste nell'es­ sere completo corrispettivo: infatti la parte è ordinata al tutto come al suo fine. Ma tutto l'insieme delle creature, o macrocosmo, sta in rapporto all ' uomo, che Aristotele chiama microcosmo, come l'essere completo all'in­ completo. Quindi la beatitudine dell' uomo consiste in tutto il complesso delle creature. 3. L'uomo è reso beato da ciò che appaga il suo desiderio naturale. Ma il desiderio natura­ le dell'uomo non si estende a un bene supe­ riore alla sua capacità. Non essendo dunque l'uomo capace di ricevere un bene che sor­ passa i limiti di tutto il creato, è evidente che può essere beato con un bene creato. Quindi la beatitudine dell'uomo consiste in un bene creato. In contrario: Agostino dice: «Come l'anima è la vita del corpo, così Dio è la vita beata del­ l'uomo; e in proposito sta scritto: Beato quel

popolo di cui Dio è il Signore». Risposta: è impossibile che la beatitudine

umana si trovi in un bene creato. Infatti la beatitudine è il bene perfetto che appaga total­ mente l'appetito: altrimenti, se lasciasse anco­ ra qualcosa da desiderare, non sarebbe l'ultimo fine. Ma l'oggetto della volontà, cioè dell' appetito umano, è il bene universale, come quello flell'intelletto è il vero nella sua universalità. E evidente quindi che nulla può appagare la volontà umana ali ' infuori del bene preso in tutta la sua universalità. Esso però non si trova in un bene creato, ma sol­ tanto in Dio: poiché ogni creatura ha una bontà partecipata. Quindi solo Dio può appa­ gare la volontà dell'uomo, come è detto nel

Sal: Dio è colui che colma di beni il tuo desi­ derio. Quindi la beatitudine dell'uomo si tro­

va soltanto in Dio. Soluzione delle difficoltà: l . La parte superio­ re dell'uomo raggiunge quella più bassa della natura angelica per una certa somiglianza, però non si ferma ad essa come nel suo ulti-

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I costitutivi della beatitudine umana

Q. 2, A. 8

tamen ibi sistit sicut in ultimo fine, sed proce­ dit usque ad ipsum universalem fontem boni, qui est universale obiectum beatitudinis omnium beatorum, tanquam infinitum et per­ fectum bonum existens. Ad secundum dicendum quod, si totum aliquod non sit ultimus finis, sed ordinetur ad finem ulteriorem, ultimus finis partis non est ipsum totum, sed aliquid aliud. Universitas autem creaturarum, ad quam comparatur homo ut pars ad totum, non est ultimus finis, sed ordinatur in Deum sicut in ultimum finem. Unde bonum universi non est ultimus finis hominis, sed ipse Deus. Ad tertium dicendum quod bonum creatum non est minus quam bonum cuius homo est capax ut rei intrinsecae et i nhaerentis, est tamen minus quam bonum cuius est capax ut obiecti, quod est infinitum. Bonum autem quod participatur ab angelo, et a toto universo, est bonum tinitum et contractum.

mo fine, bensì raggiunge la stessa fonte uni­ versale del bene, che è l' oggetto universale della beatitudine di tutti i beati, essendo il bene infinito e perfetto. 2. Se un tutto non è fine ultimo, ma è a sua volta ordinato a un fine superiore, l' ultimo fine delle sue parti non sarà il tutto medesimo, bensì qualche altro oggetto. Ora il complesso delle creature, che sta all'uomo come il tutto alla parte, non è fine ultimo, ma è ordinato a Dio come al suo fine ultimo. Quindi non il bene dell'universo, ma Dio stesso è l'ultimo fine dell'uomo. 3. n bene creato non è minore del bene di cui l'uomo è capace come di un bene a lui inte­ riore e inerente; è minore tuttavia del bene di cui l'uomo è capace a titolo di oggetto, poi­ ché questo è infinito. n bene partecipato agli angeli e a tutto l'universo è invece un bene finito e limitato.

QUAESTI0 3 QUID SIT BEATITUDO

QUESTIONE 3 L'ESSENZA DELLA BEATITUDINE

Deinde considerandum est quid sit beatitudo; et quae requirantur ad ipsam [q. 4] . Circa primum quaeruntur octo. Piimo, utrum beatitu­ do sit aliquid increatum. Secundo, si est aliquid creatum, utrum sit operatio. Tertio, utrum sit operatio sensitivae partis, an intellectivae tantum. Quarto, si est operatio intellectivae partis, utrum sit operatio intellectus, an volun­ tatis. Quinto, si est operatio intellectus, utrum sit operatio intellectus speculativi, aut practici. Sexto, si est operatio intellectus speculativi, utrum consistat in speculatione scientiarum speculativruum. Septimo, utrum consistat in speculatione substantiarum separatarum, scilicet angelorum. Octavo, utrum in sola spe­ culatione Dei qua per essentiam videtur.

Dobbiamo ora considerare che cosa sia la bea­ titudine, e quali elementi essa richieda. Sul primo argomento si presentano otto quesiti: l . La beatitudine è qualcosa di increato? 2. Ammesso che ,sia qualcosa di creato, è un'operazione? 3. E un'operazione della parte sensitiva o soltanto di quella intellettuale? 4. Se è un'operazione della parte intellettiva, è un atto dell'intelletto o della volontà? 5. Posto che sia un atto dell'intelletto, è un atto dell'in­ telletto speculativo o dell'intelletto pratico? 6. Ammesso che sia un atto dell'intelletto spe­ culativo, consiste nell'esercizio delle scienze speculative? 7. Consiste nella contemplazione delle sostanze separate, cioè degli angeli? 8. Consiste nella sola contemplazione di Dio visto nella sua essenza?

Articulus l Utrum beatitudo sit aliquid increatum

Articolo l La beatitudine è qualcosa di increato?

Ad primum sic proceditur. Videtur quod bea­ titudo sit aliquid increatum. l . Dicit enim Boetius, in 3 De consol. [ 10],

Sembra di sì. Infatti: l . Boezio scrive: «È necessario affermare che Dio è la stessa beatitudine». 2. La beatitudine è il sommo bene. Ma è pro­ prio di Dio essere il sommo bene. Non essen-

Deum esse ipsam beatitudinem necesse est confiteri.

Q. 3, A. l

L 'essenza della beatitudine

2. Praeterea, beatitudo est summum bonum. Sed esse summum bonum convenit Deo. Cum ergo non sint plura summa bona, videtur quod beatitudo sit idem quod Deus. 3. Praeterea, beatitudo est ultimus finis, in quem naturaliter humana voluntas tendit. Sed in nullum aliud voluntas tanquam in finem ten­ dere debet nisi in Deum; quo solo fruendum est, ut Augustinus [De doctr. chr. l ,5] dicit. Ergo beatitudo est idem quod Deus. Sed contra, nullum factum est increatum. Sed beatitudo hominis est aliquid factum, quia se­ cundum Augustinum, l De doctr. chr. [3], illis

rebus fruendwn est, quae nos beatos faciunt. Ergo beatitudo non est aliquid increatum. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. l a 8; q. 2 a 7] dictum est, finis dicitur dupliciter. Uno modo, ipsa res quam cupimus adipisci, sicut avaro est finis pecunia. Alio modo, ipsa adeptio vel possessio, seu usus aut fruitio eius rei quae desideratur, sicut si dicatur quod possessio pecuniae est finis avari, et frui re voluptuosa est finis intemperati. Primo ergo modo, ultimus hominis finis est bonum in­ creatum, scilicet Deus, qui solus sua infinita bonitate potest voluntatem hominis perfecte implere. Secundo autem modo, ultimus finis hominis est aliquid creatum in ipso existens, quod nihil est aliud quam adeptio vel fruitio finis ultimi. Ultimus autem finis vocatur bea­ titudo. Si ergo beatitudo hominis consideretur quantum ad causam vel obiectum, sic est aliquid i ncreatum, si autem consideretur quantum ad ipsam essentiam beatitudinis, sic est aliquid creatum. Ad primum ergo dicendum quod Deus est beatitudo per essentiam suam, non enim per adeptionem aut participationem alicuius alte­ rius beatus est, sed per essentiam suam. Homi­ nes autem sunt beati, sicut ibidem dicit Boetius [De consol. 3,10], per participationem; sicut et dii per participationem dicuntur. lpsa autem participatio beatitudinis secundum quam homo dicitur beatus, aliquid creatum est. Ad secundum dicendum quod beatitudo di­ citur esse summum hominis bonum, quia est adeptio vel fruitio summi boni. Ad tertium dicendum quod beatitudo dicitur ultimus finis, per modum quo adeptio finis dicitur finis.

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doci quindi più sommi beni, è evidente che la beatitudine si identifica con Dio. 3. La beatitudine è l'ultimo fine, al quale ten­ de per natura la volontà umana. Ma la volontà non deve avere come fine un oggetto diverso da Dio: poiché di lui soltanto dobbiamo frui­ re, come dice Agostino. Quindi la beatitudine è Dio stesso. In contrario: ciò che è fatto non è increato. Ma la beatitudine dell' uomo è qualcosa di fatto: poiché, secondo Agostino, «noi dobbia­ mo fruire di quelle cose che ci fanno beati». Quindi la beatitudine non è increata. Risposta: come si è già spiegato, il fine può indicare due cose. O l'oggetto che desideria­ mo conseguire: come l ' avaro ha il suo fine nelle ricchezze. Oppure il conseguimento o il possesso, l ' uso o il godimento dell'oggetto desiderato: e allora il possesso delle ricchezze è il fine dell'avaro, e il godimento dei piaceri quello dell'intemperante. Ora, ti ne ultimo del­ l ' uomo nel primo senso è il bene increato, cioè Dio, il quale nella sua bontà infinita è il solo capace di saziare perfettamente la volon­ tà umana. Invece nel secondo senso il fine ultimo dell'uomo è qualcosa di creato esisten­ te in lui, è cioè il conseguimento, o fiuizione, dell'ultimo fine. Se dunque consideriamo la beatitudine umana in rapporto alla sua causa e al suo oggetto, allora è qualcosa di increato; se invece ne consideriamo l'essenza, allora la beatitudine è qualcosa di creato. Soluzione delle difficoltà: l . Dio è la beatitu­ dine in forza della propria essenza. Egli infatti non è beato per il conseguimento o la parteci­ pazione di qualche altra cosa, ma per essenza. Gli uomini invece, come aggiunge Boezio, sono beati per partecipazione; come anche per partecipazione sono chiamati dèi. Ora, questa pmtecipazione della beatitudine, in forza della quale l' uomo è detto beato, è una realtà creata. 2. Si dice che la beatitudine è il sommo bene per l' uomo perché è il conseguimento o il go­ dimento del sommo bene. 3. La beatitudine è detta fine ultimo nel senso in cui è detto fine il conseguimento del fine.

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Q. 3, A. 2

Articulus 2 Utrum beatitudo sit operatio

Articolo 2 La beatitudine è un'operazione?

Ad secundum sic proceditur. Videtur quod beatitudo non sit operatio. l . Dicit enim apostolus, Rom. 6 [22], habetis

Sembra di no. Infatti: l . Dice Paolo in Rm: Avrete il vostJV frutto nel­ la santificazione, e comefine la vita eterna. Ma la vita non è un' operazione, bensì l ' essere stesso dei viventi. Quindi l'ultimo fine, cioè la beatitudine, non è un'operazione. 2. Boezio dice che la beatitudine «è uno stato risultante dall'insieme di tutti i beni». Ma uno stato non indica un' operazione. Quindi la beatitudine non è un' operazione. 3. La beatitudine, essendo l' ultima perfezione dell' uomo, sta a indicare una proprietà esi­ stente nei beati. L'operazione invece non indi­ ca un fatto esistente in chi opera, ma piuttosto un fatto che da lui procede. Quindi la beatitu­ dine non è un'operazione. 4. La beatitudine rimane stabilmente nei beati. L'operazione invece non rimane, ma è transito­ ria. Quindi la beatitudine non è un' operazione. 5. Un uomo non può avere che un'unica bea­ titudine. Le operazioni invece sono moltepli­ ci. Quindi la beatitudine non è un'operazione. 6. La beatitudine si trova nei beati senza inter­ ruzione. L'operazione umana invece spesso si interrompe, ad es. per il sonno, per altre occu­ pazioni o per il riposo. Quindi la beatitudine non è un'operazione. In contrario: il Filosofo dice: «La felicità è un'o­ perazione che promana da una virtù pertètta». Risposta: è necessario affermare che la beati­ tudine dell' uomo, in quanto è qualcosa di creato esistente in lui, è un' operazione. Infatti la beatitudine è l' ultima perfezione dell' uo­ mo. Ma ogni essere è perfetto nella misura della sua attualità: poiché la potenza priva dell' atto è imperfetta. Quindi è necessario che la beatitudine consista nell' atto ultimo del­ l ' uomo. Ora, è evidente che l ' operazione è l 'ultimo atto dell'operante, per cui dal Filoso­ fo è chiamata «atto secondo»: un essere infat­ ti, dal momento che ha una forma, è operante in potenza, come chi ha la scienza è conside­ rante in potenza. E per tale motivo anche a proposito degli altri esseri Aristotele afferma che ogni cosa è «per la sua operazione» . Quindi è necessario che la beatitudine del­ l'uomo sia un'operazione. Soluzione delle difficoltà: l . TI termine vita ha due significati. Prima di tutto significa l ' es-

fructum vestrum in sanctificationem, finem vem vitam aetemam. Sed vita non est operatio, sed ipsum esse viventium. Ergo ultimus finis, qui est beatitudo, non est operatio. 2. Praeterea, Boetius dicit, in 3 De consol. [2], quod beatitudo est status omnium bonorum aggregatione peifectus. Sed status non nomi­ nat operationem. Ergo beatitudo non est operatio. 3. Praeterea, beatitudo significat aliquid in bea­ to existens, cum sit ultima perfectio hominis. Sed operatio non significat ut aliquid existens in operante, sed magis ut ab ipso procedens. Ergo beatitudo non est operatio. 4. Praeterea, beatitudo permanet in beato. Operatio autem non permanet, sed transit. Er­ go beatitudo non est operatio. 5. Praeterea, unius hominis est una beatitudo. Operationes autem sunt multae. Ergo beatitu­ do non est operatio. 6. Praeterea, beatitudo inest beato absque in­ terruptione. Sed operatio humana frequenter interrumpitur puta somno, vel aliqua alia oc­ cupatione, vel quiete. Ergo beatitudo non est operatio. Sed contra est quod philosophus dicit, in l Ethic. [ 1 3, 1 ] , quod felicitas est operatio se­

cundum virtutem pe1jectam. Respondeo dicendum quod, secundum quod beatitudo hominis est aliquid creatum in ipso existens necesse est dicere quod beatitudo ho­ minis sit operatio. Est enim beatitudo ultima hominis perfecti o . Unumquodque autem intantum perfectum est, inquantum est actu, nam potentia sine actu imperfecta est. Oportet ergo beatitudinem i n ultimo actu hominis consistere. Manifestum est autem quod ope­ ratio est ultimus actus operantis; unde et actus secundus a philosopho nominatur, in 2 De an. [ 1 ,5], nam habens formam potest esse in po­ tentia operans, sicut sciens est in potentia con­ siderans. Et inde est quod in aliis quoque re­ bus res unaquaeque dicitur esse pmpter suam operationem, ut dicitur in 2 De caelo [3, 1 ] . Necesse est ergo beatitudinem hominis opera­ tionem esse.

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Ad primum ergo dicendum quod vita dicitur dupliciter. Uno modo, ipsum esse viventis. Et sic beatitudo non est vita, ostensum [q. 2 a. 5] est enim quod esse unius hominis, qualecum­ que sit, non est hominis beatitudo; solius enim Dei beatitudo est suum esse. - Alio modo dicitur vita ipsa operatio viventis, secundum quam principium vitae in actum reducitur, et sic nominamus vitam activam, vel contempla­ tivam, vel voluptuosam. Et hoc modo vita aetema dicitur ultimus finis. Quod patet per hoc quod dicitur loan. 1 7 [3], haec est vita ae­ tema, ut cognoscant te, Dewn ventm unum. Ad secundum d icendum quod B oetius, definiendo beatitudinem, consideravit ipsam communem beatitudinis rationem. Est enim communis ratio beatitudinis quod sit bonum commune perfectum; et hoc significavit cum dixit quod est status omnium bonorum aggre­ gatione perfectus, per quod nihil aliud signifi­ catur nisi quod beatus est in statu boni per­ fecti. Sed Aristoteles expressit ipsam essen­ tiam beatitudinis, ostendens [ l Ethic. 1 3, l ] per quid homo sit in huiusmodi statu, quia per operationem quandam. Et ideo in l Ethic. [7 ,3] ipse etiam ostendit quod beatitudo est bonum peifectum. Ad tertium dicendum quod, sicut dicitur in 9 Met. [8,8,9] , duplex est actio. Una quae procedit ab operante in exteriorem materiam, sicut urere et secare. Et talis operatio non potest esse beatitudo, nam talis operatio non est actio et perfectio agentis, sed magis pa­ tientis, ut ibidem dicitur. Alia est actio ma­ nens in ipso agente, ut sentire, intelligere et velle, et huiusmodi actio est perfectio et actus agentis. Et talis operatio potest esse beatitudo. Ad quartum dicendum quod, cum beatitudo dicat quandam ultimam perfectionem, se­ cundum quod diversae res beatitudinis capa­ ces ad diversos gradus perfectionis pertingere possunt, secundum hoc necesse est quod diversimode beatitudo dicatur. Nam in Deo est beatitudo per essentiam, quia ipsum esse eius est operatio eius, qua non fruitur alio, sed seipso. In angelis autem beatis est ultima per­ fectio secundum aliquam operationem, qua coniunguntur bono increato, et haec operatio in eis est unica et sempitema. In hominibus autem, secundum statum praesentis vitae, est ultima perfectio secundum operationem qua homo coniungitur Deo, sed haec operatio nec

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sere stesso del vivente. E in questo senso la beatitudine non è una vita: infatti abbiamo già dimostrato che l'essere di un uomo, quale che sia, non è la beatitudine dell ' uomo: poiché solo in Dio la beatitudine si identifica col suo proprio essere. - Altre volte invece il termine vita significa le operazioni del vivente, nelle quali il principio vitale si attua: e in questo senso parliamo di vita attiva, contemplativa o gaudente. Ora, la vita eterna è l'ultimo fine in questo senso. Il che è chiaro da quanto è detto in Gv: Questa è la vita eterna, che conoscano te, unico vero Dio. 2. Boezio, nel definire la beatitudine, ha di mi­ ra la sola nozione genetica della beatitudine. Infatti il concetto genetico di beatitudine com­ porta solo un bene universale perfetto; e ciò è indicato da quelle parole: «Stato risultante dal­ l'insieme di tutti i beni», espressione che si­ gnifica soltanto che i beati sono nello stato del bene perfetto. Aristotele invece volle esprime­ re l'essenza stessa della beatitudine, mettendo in evidenza ciò per cui l'uomo viene a trovarsi in tale stato, e che è precisamente un' operazio­ ne. Nell'Etica poi egli stesso dimostra che la beatitudine è «un bene perfetto». 3. Come spiega Aristotele, le azioni sono di due specie. Le une si riversano dali' agente sulla materia esteriore, come bmciare e segare. E la beatitudine non può essere una di queste: poiché tali azioni, nota lo stesso Aristotele, non costituiscono una perfezione per l'agente, ma per il paziente. Ci sono invece altre azioni che rimangono nell'agente medesimo, come sentire, intendere e volere: e tali azioni sono perfezioni e atti dell' agente. La beatitudine quindi può essere una di queste. 4. La beatitudine indica una certa perfezione ultima: perciò essa dovrà avere applicazioni diverse nei vari esseri capaci di raggiungere la beatitudine, secondo i diversi gradi di perfezio­ ne. Infatti la beatitudine si trova in Dio per essenza: poiché l'essere stesso in lui è la sua attività, mediante la quale egli non gode di altro che di se stesso. Negli angeli beati invece si ha la perfezione ultima secondo una certa operazione, mediante la quale essi si uniscono al bene increato: operazione che in essi è unica e sempitema Negli uomini, infine, la beatitu­ dine della vita presente è l'ultima perfezione raggiunta nell'atto mediante il quale l'uomo aderisce a Dio; ma tale atto non è continuo, e

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continua potest esse, et per consequens nec unica est, quia operatio intercisione multipli­ catur. Et propter hoc in statu praesentis vitae, perfecta beatitudo ab homine haberi non potest. Unde philosophus, in l Ethic. [10, 1 6], ponens beatitudinem hominis in hac vita, dicit eam imperfectam, post multa concludens, beatos autem dicimus ut homines. Sed pro­ m i ttitur nobis a Deo beatitudo perfecta, quando erimus sicut angeli in caelo, sicut di­ citur Matth. 22 [30]. - Quantum ergo ad illam beatitudinem perfectam, cessat obiectio, quia una et continua et sempitema operatione in ilio beatitudinis statu mens hominis Deo coniungetur. Sed in praesenti vita, quantum deficimus ab unitate et continuitate talis ope­ rationis, tantum deficimus a beatitudinis per­ fectione. Est tamen aliqua participatio beatitu­ dinis, et tanto maior, quanto operatio potest esse magis continua et una. Et ideo in activa vita, quae circa multa occupatur, est minus de ratione beatitudinis quam in vita contemplati­ va, quae versatur circa unum, idest circa veri­ tatis contemplationem. Et si aliquando homo actu non operetur huiusmodi operationem, ta­ men quia in promptu habet eam semper ope­ rari ; et quia etiam ipsam cessationem, puta somni vel occupationis alicuius naturalis, ad operationem praedictam ordinat; quasi vide­ tur operatio continua esse. Et per hoc patet solutio ad quintum, et ad sextum.

quindi non è unico, poiché un'operazione, interrompendosi, diviene molteplice. Quindi nella vita presente non ci può essere nell'uomo la beatitudine perfetta. Infatti il Filosofo nel determinare la beatitudine dell'uomo in questa vita la dice imperfetta, concludendo dopo mol­ te riflessioni:

  • : poiché la gioia è il coronamento della beatitudine. Soluzione delle difficoltà: l . La pace rientra nell'ultimo fine dell'uomo: non però nel sen­ so che sia essenzialmente la beatitudine stes­ sa, ma perché ne è un prerequisito, o una con­ seguenza. Prerequisito in quanto la beatitudi­ ne presuppone già rimossi tutti gli elementi che distraevano o trattenevano dall'ultimo fi­ ne. Conseguenza in quanto l' uomo, avendo raggiunto l'ultimo fine, rimane pacificato con l'appagamento del suo desiderio. 2. n primo oggetto della volontà non è il suo proprio atto: come il primo oggetto della vista non è il vedere, ma il visibile. Quindi dal fatto

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    L 'essenza della beatitudine

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    pertinet ad voluntatem tanquam primum obiec­ tum eius, sequitur quod non pertineat ad ipsam tanquam actus ipsius. Ad tertium dicendum quod finem primo ap­ prehendit intellectus quam voluntas, tamen motus ad finem incipit in voluntate. Et ideo voluntati debetur id quod ultimo consequitur consecutionem finis, scilicet delectatio vel fruitio. Ad quartum dicendum quod dilectio praeeminet cognitioni in movendo, sed cognitio praevia est dilectioni in attingendo, non enim diligitur nisi cognitum, ut dici t Augusti nus in l O De Trin. [ l ]. Et ideo intelligibilem finem primo at­ tingimus per actionem intellectus; sicut et fi­ nem sensibilem primo attingimus per actionem sensus. Ad quintum dicendum quod ille qui habet omnia quae vult, ex hoc est beatus, quod habet ea quae vult, quod quidem est per aliud quam per actum voluntatis. Sed nihil male velle requiritur ad beatitudinem sicut quaedam debita dispositio ad ipsam. Voluntas autem bona ponitur i n n umero bonorum quae beatum faciunt, prout est inclinatio quaedam in ipsa, sicut motus reducitur ad genus sui termini, ut alteratio ad qualitatem.

    stesso che la beatitudine appartiene alla vo­ lontà come suo primo oggetto segue che non le può appartenere come atto. 3. n fine è percepito dall'intelletto prima che dalla volontà, tuttavia il moto verso il fine ini­ zia dalla volontà. Quindi è dovuta alla volontà l'ultima conseguenza derivante dal consegui­ mento del fine, cioè il godimento, o fruizione. 4. L' amore supera la conoscenza nell' ordine dell' impulso, ma la conoscenza è anteriore al­ l'amore nel conseguimento: «Non si ama se non ciò che si conosce», come scrive infatti Agostino. Quindi il fine di ordine intelligibile viene raggiunto da noi prima di tutto median­ te un atto dell' intelletto: come anche un fine di ordine sensibile viene prima raggiunto con una percezione dei sensi. 5. Colui che possiede tutto ciò che vuole è beato per il fatto che possiede le cose che vuole; ma ciò avviene mediante un' operazio­ ne che non è un atto della volontà. Il non vo­ lere poi nulla malamente è un prerequisito della beatitudine, come debita disposizione verso di essa. La buona volontà è posta infine tra i beni che rendono felici quale propensio­ ne verso di essi, come i vari moti rientrano nel genere dei termini rispettivi: come ad es. l'alterazione rientra nel genere della qualità.

    Articulus 5 Utrum beatitudo sit operatio intellectus speculativi, an practici

    Articolo 5 La beatitudine è un'operazione deli 'intelletto pratico?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod beati­ tudo consistat in operatione intellectus practici. l . Finis enim ultimus cuiuslibet creaturae consistit in assimilatione ad Deum. Sed homo magis assimilatur Deo per intellectum practi­ cum, qui est causa rerum intellectarum, quam per intellectum speculativum, cuius scientia accipitur a rebus. Ergo beatitudo hominis ma­ gis consistit in operatione intellectus practici quam speculativi. 2. Praeterea, beatitudo est perfectum hominis bonum. Sed intellectus practicus magis ordina­ tur ad bonum quam speculativus, qui ordinatur ad verum. Unde et secundum perfectionem practici intellectus, dicimur boni, non autem secundum perfectionem speculativi intellectus, sed secundum eam dicimur scientes vel intelli­ gentes. Ergo beatitudo hominis magis consistit in actu intellectus practici quam speculativi.

    Sembra di sì. Infatti : l . L'ultimo fine d i ogni creatura consiste nella somiglianza con Dio. Ma l'uomo diventa più simile a Dio mediante l ' intelletto pratico, il quale causa le cose conosciute, che non me­ diante quello speculativo, la cui scienza deriva dalle cose. Quindi la beatitudine dell' uomo consiste più nell'operazione dell'intelletto pra­ tico che in quella dell'intelletto speculativo. 2. La beatitudine è il bene umano perfetto. Ma l'intelletto pratico è più ordinato al bene di quello speculativo, che è ordinato al vero. Infatti siamo denominati buoni in base alla per­ fezione dell' intelletto pratico, e non in base ali' eccellenza dell'intelletto speculativo, dalla quale risulta piuttosto la denominazione di sapienti o di intelligenti. Quindi la beatitudine dell'uomo consiste più nell'atto dell'intelletto pratico che in quello dell'intelletto speculativo.

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    L 'essenza della beatitudine

    3. Praeterea, beatitudo est quoddam bonum ipsius hominis. Sed speculativus intellectus occupatur magis circa ea quae sunt extra ho­ minem, practicus autem intellectus occupatur circa ea quae sunt ipsius hominis, scilicet circa operationes et passiones eius. Ergo beatitudo hominis magis consistit in operatione intel­ lectus practici quam intellectus speculativi. Sed contra est quod Augustinus dicit, in l De Trin. [8], quod contemplatio promittitur nobis,

    actionum omnium finis, atque aetema pelfec­ tio gaudiorum. Respondeo dicendum quod beatitudo magis consistit in operatione speculativi intellectus quam practici. Quod patet ex tribus. Primo quidem, ex hoc quod, si beatitudo hominis est operatio, oportet quod sit optima operatio hominis. Optima autem operatio hominis est quae est optimae potentiae respectu optimi obiecti. Optima autem potentia est intellectus, cuius optimum obiectum est bonum divinum, quod quidem non est obiectum practici intel­ lectus, sed speculativi. Unde in tali operatio­ ne, scilicet in contemplatione divinorum, ma­ xime consistit beatitudo. Et quia unusquisque videtur esse id quod est optimum in eo, ut di­ citur in 9 et 1 0 Ethic. [8,6; 7 ,9], ideo talis ope­ ratio est maxime propria homini, et maxime delectabilis. - Secundo apparet idem ex hoc quod contemplatio maxime quaeritur propter seipsam. Actus autem intellectus practici non quaeritur propter seipsum, sed propter actio­ nem. Ipsae etiam actiones ordinantur ad aliquem finem. Unde manifestum est quod ul­ timus finis non potest consistere in vita activa, quae pertinet ad intellectum practicum. - Tertio idem apparet ex hoc quod in vita contem­ plativa homo communicat cum superioribus, scilicet cum Deo et angelis, quibus per beati­ tudinem assimilatur. Sed in his quae pe1tinent ad vitam activam, etiam alia animalia cum homine aliqualiter communicant, licet imper­ fectae. - Et ideo ultima et pertecta beatitudo, quae expectatur in futura vita, tota consistit in contemplatione. Beatitudo autem imperfecta, qualis hic haberi potest, primo quidem et principaliter consistit in contemplatione, se­ cundario vero in operatione practici intellec­ tus ordinantis actiones et passiones humanas, ut dicitur in 10 Ethic. [7-8]. Ad primum ergo dicendum quod similitudo praedicta i ntellectus practici ad Deum, est

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    3. La beatitudine è un bene dell'uomo stesso. Ora, l ' intelletto speculativo si interessa piutto­ sto delle cose che sono fuori dell'uomo, men­ tre l'intelletto pratico si occupa di quelle che appartengono all' uomo stesso, cioè delle sue operazioni e delle sue passioni. Quindi la bea­ titudine dell'uomo consiste più in un'opera­ zione dell'intelletto pratico che in un' opera­ zione di quello speculativo. In contrario: Agostino scrive: «Ci è promessa la contemplazione, tine di tutte le azioni ed eterna pertezione del godimento». Risposta: la beatitudine consiste più in un'o­ perazione dell ' intelletto speculativo che i n un'operazione deli' intelletto pratico. E ciò è evidente per tre motivi. Primo, perché se la beatitudine è un'operazione umana, è neces­ sario che sia l'operazione umana più nobile. Ora, l' operazione umana più nobile è quella che spetta alla facoltà più nobile in rapporto all'oggetto più nobile. Ma la facoltà più nobi­ le è l ' intelletto e il suo oggetto più nobile è il bene divino, il quale non è oggetto dell'intel­ letto pratico, bensì di quello speculativo. Quindi la beatitudine consiste principalmente in tale operazione, cioè nella contemplazione delle realtà divine. E poiché, come dice Ari­ stotele, «ogni essere sembra identificarsi con ciò che in esso vi è di più nobile», tale opera­ zione è massimamente propria dell'uomo, e sommamente dilettevole. - Secondo, la stessa conclusione deriva dal tàtto che la contempla­ zione, più di ogni altra cosa, viene desiderata per se stessa. Invece le operazioni dell' intel­ letto pratico non sono desiderate per se stesse, ma per le azioni [esterne] . E queste azioni sono ordinate a qualche fine. Quindi è eviden­ te che l'ultimo fine non può consistere nella vita attiva, che è di competenza dell' intelletto pratico. - Terzo, la vita contemplativa affian­ ca l 'uomo agli esseri superiori, cioè a Dio e agli angeli, ai quali egli diviene simile in for­ za della beatitudine. Invece nelle operazioni della vita attiva gli animali stessi si affiancano all' uomo, sebbene in un grado interiore. Perciò la beatitudine ultima e perfetta, che ci attende nella vita futura, consiste totalmente nella contemplazione. Invece la beatitudine imperfetta che è possibile avere al presente consiste innanzitutto e principalmente nella contemplazione, però in modo secondario consiste anche nelle operazioni dell'intelletto

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    secundum proportionalitatem; quia scilicet se habet ad suum cognitum, sicut Deus ad suum. Sed assimilatio intellectus speculativi ad Deum, est secundum unionem vel informationem; quae est multo maior assimilatio. - Et tamen dici potest quod, respectu principalis cogniti, quod est sua essentia, non habet Deus prac­ ticam cognitionem, sed speculativam tantum. Ad secundum dicendum quod intellectus prac­ ticus ordinatur ad bonum quod est extra ipsum, sed intellectus speculativus habet bonum in seipso, scilicet contemplationem veritatis. Et si illud bonum sit perfectum, ex eo totus homo perficitur et fit bonus, quod quidem intellectus practicus non habet sed ad illud ordinat. Ad tertium dicendum quod ratio illa procede­ ret, si ipsemet homo esset ultimus finis suus, tunc enim consideratio et ordinatio actuum et passionum eius esset eius beatitudo. Sed quia ultimus hominis finis est aliquod bonum ex­ trinsecum, scilicet Deus, ad quem per opera­ tionem intellectus speculativi attingimus; ideo magis beatitudo hominis in operatione intellec­ tus speculativi consistit, quam in operatione intellectus practici.

    pratico che regola le azioni e le passioni uma­ ne, come dice Aristotele. Soluzione delle difficoltà: l . Questa somi­ glianza dell'intelletto pratico con Dio è secon­ do la proporzionalità: esso cioè sta al proprio oggetto come Dio sta al suo. Invece la somi­ glianza dell' intelletto speculativo con Dio ha carattere di unione e di «informazione», e questa è molto più intima. - E del resto si potrebbe anche rispondere che in rapporto al suo oggetto principale, che è la sua propria essenza, Dio non ha una conoscenza pratica, ma solo speculativa. 2. L'intelletto pratico è ordinato a un bene esterno ad esso; invece l'intelletto speculativo possiede in se stesso il bene, cioè la contem­ plazione della verità. E se questo bene è per­ fetto tutto l'uomo viene a essere perfezionato e diventa buono: cosa che non si verifica per l'intelletto pratico, il quale può soltanto predi­ sporre a quel bene. 3. L'argomento potrebbe valere se l ' uomo fosse l'ultimo fine di se stesso: allora infatti la considerazione e la disciplina delle proprie azioni e passioni potrebbe essere la sua beati­ tudine. Ma siccome l'ultimo fine dell'uomo è un bene estrinseco, e cioè Dio, raggiungibile mediante l'operazione dell'intelletto speculati­ vo, è evidente che la beatitudine dell'uomo consiste più nelle operazioni dell'intelletto speculativo che in quelle dell'intelletto pratico.

    Articulus 6 Utrurn beatitudo consistat in consideratione scientiarum speculativarum

    Articolo 6 La beatitudine consiste nell'esercizio delle scienze speculative?

    Ad sextum sic proceditur. Videtur quod bea­ titudo hominis consistat in consideratione speculativarum scientiarum. l. Philosophus enim dicit, in libro Ethic. [ 1,13,1], quodfelicitas est operatio secundum perfectam virtutem. Et distinguens virtutes, non ponit [6,7,3] speculativas nisi tres, scientiam, sa­ pientiam et intellectum; quae omnes pertinent ad considerationem scientiarum speculativa­ rum. Ergo ultima hominis beatitudo in consi­ deratione scientiarum speculativarum consistit. 2. Praeterea, illud videtur esse ultima hominis beatitudo, quod naturaliter desideratur ab omnibus propter seipsum. Sed huiusmodi est consideratio speculativarum scientiarum,

    Sembra di sì. Infatti: l . li Filosofo dice: «La felicità è un'operazio­ ne procedente da una virtù perfetta>>. E nel classificare le virtù si limita a ricordare, tra quelle speculative, «la scienza, la sapienza e l'intelletto» che rientrano tutte nell'esercizio delle scienze speculative. Quindi l 'ultima beatitudine dell'uomo consiste neli' esercizio delle scienze speculative. 2. L'ultima beatitudine dell'uomo è costituita da quel bene che tutti desiderano per se stesso. Ma tale è precisamente l'esercizio delle scien­ ze speculative: poiché «tutti gli uomini desi­ derano naturalmente il sapere», come scrive Aristotele; e nel medesimo libro egli aggiun­ ge che le scienze speculative sono ricercate

    Q. 3, A. 6

    L 'essenza della beatitudine

    quia, ut dicitur in l Met. [1,1], omnes homines natura scire desiderant; et post pauca subditur [ l ,2,3 .5] quod speculativae scientiae propter seipsas quaeruntur. Ergo in consideratione scientiarum speculativarum consistit beatitudo. 3. Praeterea, beatitudo est ultima hominis per­ fectio. Unumquodque autem perficitur secun­ dum quod reducitur de potentia in actum . lntellectus autem humanus reducitur in actum per considerationem scientiarum speculativa­ rum. Ergo videtur quod in huiusmodi consi­ deratione ultima hominis beatitudo consistat. Sed contra est quod dicitur Ier. 9 [23], non glorietur sapiens in sapientia sua; et loquitur de sapientia speculativarum scientiarum. Non ergo consistit in hamm consideratione ultima hominis beatitudo. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 2 ad 4] dictum est, duplex est hominis beatitu­ do, una perfecta, et alia imperfecta. Oportet autem intelligere petfectam beatitudinem, quae attingit ad veram beatitudinis rationem, beatitudinem autem imperfectam, quae non attingit, sed participat quandam particularem beatitudinis similitudinem. Sicut perfecta pm­ dentia invenitur in homine, apud quem est ratio rerum agibilium, imperfecta autem pru­ dentia est in quibusdam animalibus brutis, in quibus sunt quidam particulares instinctus ad quaedam opera similia operibus prudentiae. Perfecta igitur beatitudo in consideratione scientiarum speculativarum essentialiter con­ sistere non potest. Ad cuius evidentiam, con­ siderandum est quod consideratio speculati­ vae scientiae non se extendit ultra virtutem principiorum illius scientiae, quia in principiis scientiae virtualiter tota scientia continetur. Prima autem principia scientiarum speculati­ varum sunt per sensum accepta; ut patet per philosophum in principio Met. [ l , l ,4], et in fine Post. [2, 1 5,5] Unde tota consideratio scientiarum speculativarum non potest ultra extendi quam sensibilium cognitio ducere po­ test. In cognitione autem sensibilium non po­ test consistere ultima hominis beatitudo, quae est ultima eius perfectio. Non enim aliquid perficitur ab aliquo inferiori, nisi secundum quod in inferi01i est aliqua participatio supe­ rioris. Manifestum est autem quod forma la­ pidis, vel cuiuslibet rei sensibilis, est inferior homine. Unde per formam lapidis non perfi­ citur intellectus inquantum est talis forma, sed

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    per se stesse. Quindi la beatitudine consiste nell'esercizio delle scienze speculative. 3. La beatitudine è l' ultima perfezione del­ l 'uomo. Ma ogni essere viene reso perfetto in quanto passa dalla potenza all' atto, e d' altra parte l ' intelletto umano passa dalla potenza all' atto mediante l'esercizio delle scienze spe­ culative. Quindi in tale esercizio consiste l'ultima beatitudine dell'uomo. In contrario: in Ger è detto: Il sapiente non si glori della sua sapienza; e si intende la sa­ pienza delle scienze speculative. Quindi l'ulti­ ma beatitudine dell' uomo non consiste nell'e­ sercizio di tali scienze. Risposta: Abbiamo già detto che la beatitudi­ ne dell'uomo è di due specie: perfetta e im­ perfetta. Ora, per beatitudine perfetta si deve intendere quella che esaurisce la vera nozione di beatitudine, e per beatitudine i mperfetta quella che non la esaurisce, ma solo ne parte­ cipa un aspetto pruticolare. Come la prudenza perfetta si trova propriamente nell'uomo, che possiede la retta norma delle azioni da com­ piere, mentre la prudenza imperfetta si trova anche in certi animali, in cui si riscontrano particolari istinti a compiere opere simili a quelle dovute alla prudenza. - Dunque la bea­ titudine non può consistere essenzialmente nell'esercizio delle scienze speculative. Per averne la dimostrazione si deve considerare che l'esercizio di una scienza speculativa non si estende oltre alla virtualità dei suoi princìpi: poiché una scienza è contenuta tutta virtual­ mente nei suoi princìpi. Ora, i primi princìpi delle scienze speculative sono appresi me­ diante i sensi, come dimostra Aristotele. Quindi l'esercizio delle scienze speculative si può estendere solo entro quei limiti che pos­ sono essere raggiunti con la conoscenza delle realtà sensibili. Ma l 'ultima beatitudine del­ l 'uomo, che è poi la sua perfezione suprema, non può consistere nella conoscenza delle realtà sensibili. Nulla infatti può essere perfe­ zionato da una realtà inferiore se non in quan­ to quest'ultima partecipa in qualche modo di una realtà superiore. Ora, è evidente che l 'idea della pietra, o di qualsiasi altra realtà sensibile, è inferiore all'uomo. Quindi l'intel­ letto non acquista perfezione alcuna dall' idea della pietra come tale, ma solo in quanto in essa c'è una partecipazione di qualcosa che è al di sopra dell'intelletto umano, e cioè la luce

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    L 'essenza della beatitudine

    Q. 3, A. 6

    inquantum in ea participatur aliqua similitudo alicuius quod est supra intellectum humanum, scilicet l umen intelligibile, vel aliquid huiusmodi. Omne autem quod est per aliud, reducitur ad id quod est per se. Unde oportet quod ultima perfectio hominis sit per cogni­ tionem alicuius rei quae sit supra intellectum humanum. Ostensum [I q. 88 a. 2] est autem quod per sensibilia non potest deveniri i n cognitionem substantiarum separatarum, quae sunt supra intellectum humanum. Unde relin­ quitur quod ultima hominis beatitudo non pos­ sit esse in consideratione speculativarum scientiamm. - Sed sicut in formis sensibilibus participatur aliqua similitudo superiorum sub­ stantiarum, ita consideratio scientiarum specu­ lativarum est quaedam participatio verae et perfectae beatitudinis. Ad primum ergo dicendum quod philosophus loquitur in libro Ethic. [ 1 ,10, 1 6] de felicitate impertecta, qualiter in hac vita haberi potest, ut supra [a. 2 ad 4] dictum est. Ad secundum dicendum quod naturaliter de­ sideratur non solum perfecta beatitudo, sed etiam qualiscumque similitudo vel participa­ tio ipsius. Ad tertium dicendum quod per consideratio­ nem scientiarum speculativarum reducitur intellectus noster aliquo modo in actum, non autem in ultimum et completum.

    intelligibile, o altre cose del genere. Siccome dunque ciò che è per partecipazione si riporta a ciò che è per essenza, è necessario che l'ul­ tima perfezione dell' uomo sia attribuita alla conoscenza di qualcosa che è al di sopra del­ l'intelletto umano. Ora abbiamo già mostrato che attraverso le realtà sensibili non possiamo giungere alla conoscenza delle sostanze sepa­ rate, che sono al di sopra dell'intelletto uma­ no. E così rimane stabilito che l'ultima beati­ tudine deIl' uomo non può consistere nell'e­ sercizio delle scienze speculative. - Tuttavia, come nelle forme sensibili è partecipata una somiglianza delle sostanze superiori, così nel­ l' esercizio delle scienze speculative si trova una certa partecipazione della vera e perfetta beatitudine. Soluzione delle difficoltà: l . In quel passo il Filosofo parla della felicità imperfetta, rag­ giungibile, come si è visto, nella vita presente. 2. È desiderata naturalmente non soltanto la beatitudine perfetta, ma anche qualsiasi somi­ glianza o partecipazione della medesima. 3. Esercitandosi nelle scienze speculative il nostro intelletto passa all'atto, ma non all'atto ultimo e completo.

    Articulus 7 Utrum beatitudo consistat in cognitione substantiarum separatarum, scilicet angelorum

    Articolo 7 La beatitudine consiste nel conoscere le sostanze separate, cioè gli angeli?

    Ad septimum sic proceditur. Videtur quod beatitudo hominis consistat in cognitione substantiarum separatarum, idest angelorum. l . Dicit enim Gregorius, in quadam homilia [In Ev. 2,26] , nihil prodest interesse festis hominum, si non contingat interesse festis angelorum; per quod tinalem beatitudinem designat. Sed festis angelorum i nteresse possumus per eorum contemplationem. Ergo videtur quod in contemplatione angelorum ultima hominis beatitudo consistat. 2. Praeterea, ultima perfectio uniuscuiusque rei est ut coniungatur suo principio, unde et circulus dicitur esse figura perfecta, quia habet idem principium et finem. Sed principium cognitionis humanae est ab ipsis

    Sembra di sì. Infatti: l . Gregorio dice: «A nulla giova prendere parte alle feste degli uomini se non ci fosse dato di partecipare alle feste degli angeli», volendo designare così l'ultima beatitudine. Ma noi possiamo prendere parte alle feste degli angeli mediante la loro contemplazione. Quindi l'ultima beatitudine dell'uomo consi­ ste nella contemplazione degli angeli. 2. Qualsiasi essere trova la sua ultima perfe­ zione nell'unione col suo principio: infatti il cerchio è una figura perfetta proprio perché in esso il principio e la fine si identificano. Ma il principio della conoscenza umana deriva dagli angeli i quali, come insegna Dionigi, hanno l ' ufficio di illuminare gli uomini.

    Q. 3, A. 7

    L 'essenza della beatitudine

    angelis, per quos homines illuminantur, ut dicit Dionysius, 4 cap. De cael. hier. [2]. Ergo perfectio humani intellectus est in contempla­ tione angelorum. 3. Praeterea, unaquaeque natura perfecta est, quando coniungitur superiori naturae, sicut ultima perfectio corporis est ut coniungatur naturae spirituali. Sed supra intellectum hu­ manum, ordine naturae, sunt angeli. Ergo ul­ tima perfectio intellectus humani est ut co­ niungatur per contemplationem ipsis angelis. Sed contra est quod dicitur ler. 9 [24], in hoc glorietur qui gloriatw; scire et nosse me. Ergo ultim a hominis gloria, vel beatitudo, non consistit nisi in cognitione Dei. Respondeo dicendum quod, sicut dictum [a 6] est, perfecta hominis beatitudo non consistit in eo quod est perfectio intellectus secundum alicuius participationem, sed in eo quod est per essentiam tale. Manifestum est autem quod unumquodque intantum est perfectio alicuius potentiae, i nquantum ad i p s u m pertinet ratio proprii obiecti illius potentiae. Proprium autem obiectum intellectus est ve­ rum. Quidquid ergo habet veritatem participa­ tam, contemplatum non facit i ntellectum perfectum ultima perfectione. Cum autem eadem sit dispositio rerum in esse sicut in ve­ ritate, ut dicitur i n 2 Met. [ 1 , 1 ,5 ] ; quae­ cumque sunt entia per participationem, sunt vera per participationem. Angeli autem ha­ bent esse participatum, quia solius Dei suum esse est sua essentia, ut in Primo [q. 44 a. l ; q. 3 a. 4; q. 7 a. l ad 3 ; a. 2] ostensum est. Unde relinquitur quod solus Deus sit veritas per essentiam, et quod eius contemplatio faciat perfecte beatum. - Aliqualem autem beatitudinem imperfectam nihil prohibet at­ tendi in contemplatione angelorum; et etiam altiorem quam in consideratione scientiarum speculativarum. Ad primum ergo dicendum quod festis ange­ lorum intererimus non solum contemplantes angelos, sed simul cum ipsis, Deum. Ad secundum dicendum quod, secundum illos qui ponunt animas humanas esse ab an­ gelis creatas, satis conveniens videtur quod beatitudo hominis sit in contemplatione ange­ lorum, quasi in coniunctione ad suum princi­ pium [De causis 3]. Sed hoc est erroneum, ut in Primo [q. 90 a. 3] dictum est. Unde ultima perfectio intellectus humani est per coniunc-

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    Quindi la perfezione del l ' intelletto umano consiste nella contemplazione degli angeli. 3. Una natura è perfetta quando viene a unirsi a una natura superiore: come l' ultima perfe­ zione del corpo si ha nella sua unione con una natura spirituale. Ma in ordine di natura sopra l ' intelletto umano ci sono gli angeli. Quindi l ' ultima perfezione dell' i ntelletto umano sta nell'unirsi agli angeli mediante la contemplazione. In contrario: in Ger è scritto: Chi vuole glo­

    riarsi si vanti di questo, di avere senno e di conoscere me. Quindi l 'ultima gloria o beati­ tudine umana consiste solo nella conoscenza di Dio. Risposta: come si è già detto, la perfetta beati­ tudine dell'uomo non può consistere in qual­ cosa che è perfezione dell'intelletto secondo una certa partecipazione, ma che è tale per essenza. Ora, è evidente che una data cosa costituisce la pertezione di una potenza nella misura in cui in essa si trova la natura dell' og­ getto proprio della suddetta potenza. Ma l'og­ getto proprio dell'intelletto è la verità. Quindi tutti gli esseri che hanno una verità partecipata sono incapaci, in quanto oggetto di contem­ plazione, di perfezionare l'intelletto secondo l'ultima sua perfezione. E poiché, come dice Aristotele, le cose stanno alla verità come stanno all'essere, tutte le cose che sono enti per partecipazione sono anche vere per parte­ cipazione. Ma gli angeli hanno un essere par­ tecipato: poiché solo in Dio l'essere si identifi­ ca con l'essenza, come si è visto nella Prima Parte. Quindi rimane provato che solo Dio è la verità per essenza, e che solo la contemplazio­ ne di lui rende perfettamente felici. - Tuttavia nulla impedisce che si possa riscontrare nella contemplazione degli angeli una certa beatitu­ dine imperfetta, e anche maggiore che nell'e­ sercizio delle scienze speculative. Soluzione delle difficoltà: l . Condivideremo le teste angeliche non solo contemplando gli angeli, ma contemplando Dio con essi. 2. Secondo quelli che attribuiscono agli angeli la creazione delle anime è troppo logico che la beatitudine dell' uomo si trovi nella con­ templazione degli angeli, come nel congiun­ gimento al proprio principio. Ma ciò è falso, come si è visto nella Prima Parte. Quindi l ' ultima perfezione dell ' intelletto umano avviene nell'unione con Dio, primo principio

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    L 'essenza della beatitudine

    Q. 3, A. 7

    tionem ad Deum, qui est primum principium et creationis animae et illuminationis eius. Angelus autem illuminat tanquam minister, ut in Primo [q. I I I a. 2 ad 2] habitum est. Unde suo ministerio adiuvat hominem ut ad beatitu­ dinem perveniat, non autem est humanae bea­ titudinis obiectum. Ad tertium dicendum quod attingi superiorem naturam ab inferiori contingit dupliciter. Uno modo, secundum gradum potentiae partici­ pantis, et sic ultima perfectio hominis erit in hoc quod homo attinget ad contemplandum sicut angeli contemplantur. Alio modo, sicut obiectum attingitur a potentia, et hoc modo ultima perfectio cuiuslibet potentiae est ut attingat ad id in quo piene invenitur ratio sui obiecti.

    della creazione dell'anima e della sua illumi­ nazione. Invece l'angelo, come si disse, illu­ mina soltanto come ministro. Egli perciò col suo ministero aiuta l' uomo a raggiungere la beatitudine, ma non è l' oggetto della beatitu­ dine umana. 3. La natura i nferiore può raggiungere quella superiore in due modi. Primo, in rapporto al grado della facoltà partecipante: e in questo senso l'ultima perfezione umana consisterà nel fatto che l' uomo arriverà a contemplare come contemplano gli angeli. Secondo, i n rapporto all'oggetto raggiunto dalla facoltà: e allora l' ultima perfezione di qualsiai potenza consiste nel raggiungere la realtà in cui si trova pienamente attuata la ragione formale del suo oggetto.

    Articulus 8 Utrum beatitudo hominis sit in visione divinae essentiae

    Articolo 8 La beatitudine umana consiste nella visione dell'essenza divina?

    Ad octavum sic proceditur. Videtur quod beatitudo hominis non sit in visione ipsius divinae essentiae. l . Dicit enim Dionysius, in l cap. De myst. theol. [3], quod per id quod est supremum in­ tellectus, homo Deo coniungitur sicut omnino ignoto. Sed id quod videtur per essentiam, non est omnino ignotum. Ergo ultima intel­ lectus perfectio, seu beatitudo, non consistit in hoc quod Deus per essentiam videtur. 2. Praeterea, altioris naturae altior est perfectio. Sed haec est perfectio divini intellectus pro­ pria, ut suam essentiam videat. Ergo ultima perfectio intellectus humani ad hoc non per­ tingit, sed infra subsistit. Sed contra est quod dicitur l Ioan. 3 [2], cum

    Sembra di no. Infatti: l . Dionigi dice che l ' uomo con il supremo sforzo della sua intelligenza si unisce a Dio come a un essere totalmente sconosciuto. Ma ciò che è visto nella sua essenza non è del tutto sconosciuto. Quindi l 'ultima perfezione dell' intelletto, cioè la beatitudine, non può consistere nel vedere Dio per essenza. 2. Una natura superiore ha una perfezione superiore. Ma vedere la propria essenza è una perfezione peculiare dell' intelletto divino. Quindi la perfezione ultima dell' intelletto umano non può arrivare a tanto, ma deve re­ stare al disotto. In contrario: in l Gv è detto: Quando [Dio]

    apparuerit, similes ei erimus, et videbimus eum sicuti ipse est. Respondeo dicendum quod ultima et perfecta beatitudo non potest esse nisi in visione divi­ nae essentiae. Ad cuius evidentiam, duo consi­ deranda sunt. Primo quidem, quod homo non est perfecte beatus, quandiu restat sibi aliquid desiderandum et quaerendum. Secundum est, quod uniuscuiusque potentiae perfectio at­ tenditur secundum rationem sui obiecti . Obiectum autem intellectus est quod quid est, idest essentia rei, ut dicitur in 3 De an. [6,7]. Unde intantum procedit perfectio intellectus, inquantum cognoscit essentiam alicuius rei.

    si sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo cosi come egli è. Risposta: La beatitudine ultima e perfetta non può trovarsi che nella visione dell' essenza divina. Per averne la dimostrazione bisogna considerare due cose. La prima è che l'uomo non è perfettamente beato fino a che gli rima­ ne qualcosa da desiderare e da cercare. La seconda è che la perfezione di ciascuna po­ tenza è determinata dalla natura del suo og­ getto. Ora l'intelletto, come dice Aristotele, ha per oggetto la quiddità o essenza delle co­ se. Quindi la perfezione di un i ntelletto si misura dal suo modo di conoscere l'essenza di una cosa. Per cui se un intelletto viene a

    Q. 3, A. 8

    L 'essenza della beatitudine

    Si ergo intellectus aliquis cognoscat essen­ tiam alicuius effectus, per quam non possit cognosci essentia causae, ut scilicet sciatur de causa quid est; non dicitur intellectus attinge­ re ad causam simpliciter, quamvis per effec­ tum cognoscere possit de causa an sit. Et ideo remanet naturaliter hornini desiderium, cum cognoscit effectum, et scit eum habere cau­ sam, ut etiam sciat de causa quid est. Et illud desiderium est admirationis, et causat inquisi­ tionem, ut dicitur in principio Met. [l ,2,8. 1 1]. Puta si aliquis cognoscens eclipsim solis, considerat quod ex aliqua causa procedit, de qua, quia nescit quid sit, adrniratur, et adrni­ rando inquirit. Nec ista inquisitio quiescit quousque perveniat ad cognoscendum essen­ tiam causae. - Si igitur intellectus humanus, cognoscens essentiam alicuius effectus creati, non cognoscat de Deo nisi an est; nondum perfectio eius attingit simpliciter ad causam primam, sed remanet ei adhuc naturale desi­ derium inquirendi causam. Unde nondum est perfecte beatus. Ad perfectam igitur beatitudi­ nem requiritur quod intellectus pertingat ad ipsam essentiam primae causae. Et sic perfec­ tionem suam habebit per unionem ad Deum sicut ad obiectum, in quo solo beatitudo ho­ minis consistit, ut supra [aa. 1 .7; q. 2 a. 8] dictum est. Ad primum ergo dicendum quod Dionysius loquitur de cognitione eorum qui sunt in via, tendentes ad beatitudinem. Ad secundum dicendum quod, sicut supra [q. l a. 8] dictum est, finis potest accipi dupli­ citer. Uno modo, quantum ad rem ipsam quae desideratur, et hoc modo i dem est finis superioris et inferioris naturae, immo omnium rerum, ut supra [q. l a. 8] dictum est. Alio modo, quantum ad consecutionem huius rei, et sic diversus est finis superioris et infeiioris naturae, secundum diversam habitudinem ad rem talem. Sic igitur altior est beatitudo Dei suam essentiam intellectu comprehendentis, quam hominis vel angeli videntis, et non comprehendentis.

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    conoscere l'essenza di un effetto partendo dalla quale però non è possibile conoscere l'essenza o quiddità della causa, non si dirà che l'intelletto può raggiungere senz'altro la causa, sebbene possa conoscerne l'esistenza mediante gli effetti. Quando dunque l'uomo nel conoscere gli effetti arriva a comprendere che essi hanno una causa, conserva il deside­ rio naturale di conoscere la quiddità della causa. E si tratta di un desiderio dovuto alla meraviglia, come dice Aristotele, che stimola la ricerca. Come chi osserva le eclissi del sole capisce la loro dipendenza da una causa, la cui natura però gli sfugge: e allora si meravi­ glia, e mosso dalla meraviglia si pone alla ricerca. Ricerca che non cessa finché non giunge a conoscere la natura della causa. Ora, dal momento che l ' intelletto umano, conoscendo la natura di un effetto creato, arri­ va a conoscere solo l'esistenza di Dio, la per­ fezione da esso conseguita non è tale da rag­ giungere veramente la causa prima, ma rima­ ne ancora il desiderio naturale di indagame la natura. Quindi l'uomo non è perfettamente beato. Per la beatitudine perfetta si richiede dunque che l'intelletto raggiunga l'essenza stessa della causa ptima. E così esso avrà la sua perfezione unendosi a Dio come al suo oggetto, nella qual cosa soltanto si trova la beatitudine dell'uomo, come si è visto sopra. Soluzione delle difficoltà: l . Dionigi parla in questo caso della conoscenza dei viatori, che tendono alla beatitudine. 2. Come si è già spiegato, il fine può essere preso in due sensi. Primo, in quanto è l'ogget­ to stesso desiderato: e in questo senso il fine della natura superiore e di quella inferiore è identico, anzi esso è identico per tutti gli esse­ ri, come si è già visto. Secondo, in quanto in­ dica il conseguimento dell'oggetto: e allora il fine di una natura superiore differisce da quel­ lo della natura inferiore, in base alla diversità dei rapporti con tale oggetto. Quindi la beati­ tudine di Dio, il quale abbraccia e comprende perfettamente col suo intelletto la propria es­ senza, è supeiiore a quella dell'uomo o del­ l'angelo, i quali vedono quell'essenza senza averne la piena comprensione.

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    I requisiti della beatitudine

    Q. 4, A .

    l

    QUAESTI0 4 DE HIS QUAE AD BEATITUDINEM EXIGUNTUR

    QUESTIONE 4 I REQUISITI DELLA BEATITUDINE

    Deinde, considerandum est de his quae exi­ guntur ad beatitudinem. Et circa hoc quaerun­ tur octo. Primo, utrum delectatio requiratur ad beatitudinem. Secundo, quid sit principalius in beatitudine, utrum delectatio vel visio. Ter­ tio, utrum requiratur comprehensio. Quarto, utrum requiratur rectitudo voluntatis. Quinto, utrum ad beatitudinem hominis requiratur corpus. Sexto, utrum perfectio corporis. Sep­ timo, utrum aliqua exteriora bona. Octavo, utrum requiratur societas amicorum.

    Dobbiamo ora considerare che cosa è richie­ sto per la beatitudine. Sull' argomento si pon­ gono otto quesiti: l . Il godimento è un requi­ sito della beatitudine? 2. Per la beatitudine è più i mportante il godimento o la visione? 3. Si richiede la comprensione? 4. È richiesta la rettitudine della volontà? 5. La beatitudine dell'uomo richiede anche il corpo? 6. Esige la perfezione del corpo? 7. Sono richiesti dei beni esteriori? 8. Richiede la compagnia degli amici?

    Articulus l Utrum delectatio requiratur ad beatitudinem Ad primum sic proceditur. Videtur quod delectatio non requiratur ad beatitudinem. l . Dicit enim Augustinus, in l De Trin. [8], quod visio est tota merces fidei. Sed id quod est praemium vel merces virtutis, est beatitu­ do, ut patet per philosophum in l Ethic. [9,3]. Ergo nihil aliud requiritur ad beatitudinem nisi sola visio. 2. Praeterea, beatitudo est per se sufficientis­ simum bonum, ut philosophus dicit I Ethic. [7,6]. Quod autem eget aliquo alio, non est per se sufficiens. Cum igitur essentia beatitu­ dinis in visione Dei consistat, ut ostensum [q. 3 a. 8] est; videnrr quod ad beatitudinem non requiratur delectatio. 3. Praeterea, operationem felicitatis seu beati­ tudinis oportet esse non impeditam, ut dicitur in 7 Ethic. [ 1 3 ,2] . Sed delectatio impedit actionem intellectus comtmpit enim aestima­ tionem pntdentiae, ut dicitur in 6 Ethic. [5 ,6] . Ergo delectatio non requirinrr ad beatitudinem. Sed contra est quod Augustinus dicit, l O Conf. [23], quod beatitudo est gaudium de veritate. Respondeo dicendum quod quadrupliciter aliquid requiritur ad aliud. Uno modo, sicut praeambulum vel praeparatorium ad ipsum, sicut disciplina requiritur ad scientiam. Alio modo, sicut perficiens aliquid, sicut anima requiritur ad vitam corporis. Tertio modo, sicut coadiuvans extrinsecum, sicut amici requirunnrr ad aliquid agendum. Quarto mo-

    n

    Articolo l godimento è un requisito della beatitudine?

    Sembra di no. Infatti: l . Agostino dice: «La visione è tutta la ricom­ pensa della fede». Ma la beatitudine è il pre­ mio o mercede della virtù, come dimostra Aristotele. Quindi per la beatitudine non si richiede altro che la visione. 2. La beatitudine è «Un bene per se stesso suf­ ficientissiino», come dice il Filosofo. Ma ciò che ha bisogno di qualcosa non è di per sé sufficiente. Poiché dunque l' essenza della beatitudine consiste nella visione di Dio, come si è visto, è evidente che per la beatitu­ din� non si richiede il godimento. 3. E necessario che «l'operazione della feli­ cità» o beatitudine «non sia ostacolata», come dice Aristotele. Ma il godimento ostacola l'azione dell'intelletto, poiché «guasta il giu­ dizio della prudenza», come dice sempre il Filosofo. Quindi il godimento non è richiesto per la beatitudine. In contrario: Agostino dice che la beatitudine è «il godimento della verità>>. Risposta: una cosa può essere richiesta per un' altra in quattro modi. Primo, quale suo presupposto o prerequisito: come lo studio per la scienza. Secondo, quale elemento per­ fettivo: come l'anima è richiesta per la vita del corpo. Terzo, quale aiuto estrinseco: come sono richiesti dei compagni per compiere un'impresa. Quarto, quale elemento concomi­ tante: come se dicessimo che il calore è ri­ chiesto per il fuoco. Ed è in quest'ultimo mo-

    Q. 4, A. l

    I requisiti della beatitudine

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    do, sicut aliquid concomitans, ut si dicamus quod calor requiritur ad ignem. Et hoc modo delectatio requiritur ad beatitudinem. Delecta­ tio enim causatur ex hoc quod appetitus requiescit in bono adepto. Unde, cum beatitu­ do nihil aliud sit quam adeptio summi boni, non potest esse beatitudo sine delectatione concomitante. Ad primum ergo dicendum quod ex hoc ipso quod merces alicui redditur, voluntas merentis requiescit, quod est delectari. Unde in ipsa ra­ tione mercedis redditae delectatio includitur. Ad secundum dicendum quod ex ipsa visione Dei causatur delectatio. Unde ille qui Deum videt, delectatione indigere non potest. Ad tertium dicendum quod delectatio concomi­ tans operationem intellectus, non impedit ipsam, sed magis eam confortat, ut dicitur, in l O Ethic. [4,6], ea enim quae delectabiliter faci­ mus, attentius et perseverantius operamur. Delectatio autem extranea impedit operatio­ nem, quandoque quidem ex intentionis distrae­ tione; quia, sicut dictum est, ad ea in quibus de­ lectamur, magis intenti sumus; et dum uni ve­ hementer intendimus, necesse est quod ab alio intentio retrahatur. Quandoque autem etiam ex contrarietate, sicut delectatio sensus contraria rationi, impedit aestimationem prudentiae ma­ gis quam aestimationem speculativi intellectus.

    do che si richiede il godimento nella beatitu­ dine. Infatti il godimento nasce dall' acquie­ tarsi dell' appetito nel bene raggiunto. Non essendo quindi la beatitudine altro che il con­ seguimento del sommo bene, non ci può esse­ re la beatitudine senza i l godimento che l a accompagna. Soluzione delle difficoltà: l . Per il fatto stesso che viene corrisposta la ricompensa, la volontà di chi l 'ha meritata si acquieta, cioè ne gode. Quindi il godimento è incluso nella nozione stessa della retribuzione. 2. n godimento è causato dalla visione stessa di Dio. Quindi chi vede Dio non può essere privo di godimento. 3. La gioia che accompagna l'operazione del­ l'intelletto non è di impedimento a quest'ulti­ ma, anzi le dà vigore, come insegna Aristotele: infatti noi compiamo con maggiore attenzione e perseveranza le azioni piacevoli. Invece un go­ dimento estraneo ostacola l 'operazione: qual­ che volta perché distrae l'attenzione, poiché le cose che piacciono ci attirano di più, come si è detto; e mentre siamo attratti con forza verso una cosa l'attenzione è distolta dalle altre. Altre volte invece perché si tratta di cose contrarie: come un piacere sensibile contrario alla ragione impedisce il giudizio della prudenza più ancora che quello dell'intelletto speculativo.

    Articulus 2 Utrum in beatitudine sit principalius visio quam delectatio

    Articolo 2 Nella beatitudine la visione è più importante del godimento?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod delectatio sit principalius in beatitudine quam visio. l . Delectatio enim, ut dicitur in l O Ethic. [4,6.8], est peifectio operationis. Sed perfectio est potior perfectibili. Ergo delectatio est potior operatione intellectus, quae est visio. 2. Praeterea, illud propter quod aliquid est ap­ petibile, est potius. Sed operationes appetuntur propter delectationem ipsarum, unde et natura operationibus necessariis ad conservationem individui et speciei, delectationem apposuit, ut huiusmodi operationes ab animalibus non ne­ gligantur. Ergo delectatio est potior in beatitu­ dine quam operatio intellectus, quae est visio. 3. Praeterea, visio respondet fidei, delectatio autem, sive fruitio, caritati. Sed caritas est maior fide, ut dicit apostolus l ad Cor. 13 [13].

    Sembra di no. Infatti: l. «D godimento è la perfezione dell'operare», come dice Aristotele. Ma la perfezione è su­ periore al perfettibile. Quindi il godimento è più importante dell'operazione intellettiva che è la visione. 2. L'elemento che rende desiderabile una cosa è ad essa superiore. Ma le operazioni sono desiderabili per il piacere che procurano: in­ fatti la natura, per impedire che gli animali le trascurassero, ha unito il piacere alle azioni necessarie per la conservazione dell'individuo e della specie. Quindi nella beatitudine il go­ dimento è più importante dell'operazione in­ tellettiva, cioè della visione. 3. La visione corrisponde alla fede mentre il godimento, o fruizione, corrisponde alla carità. Ma la carità è superiore alla fede, come dice

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    I requisiti della beatitudine

    Ergo delectatio, sive fruitio, est potior visione. Sed contra, causa est potior effectu. Sed visio est causa delectationis. Ergo visio est potior quam delectatio. Respondeo dicendum quod istam quaestio­ nem movet philosophus in 10 Ethic. [4,1 1], et eam insolutam dimittit. Sed si quis diligenter consideret, ex necessitate oportet quod opera­ tio intellectus, quae est visio, sit potior delec­ tatione. Delectatio enim consistit in quadam quietatione voluntatis. Quod autem voluntas in aliquo quietetur, non est nisi propter boni­ tatem eius in quo quietatur. Si ergo voluntas quietatur in aliqua operatione, ex bonitate operationis procedit quietatio voluntatis. Nec voluntas quaerit bonum propter quietationem, sic enim ipse actus voluntatis esset finis, quod est contra praemissa [q. l a. l ad 2; q. 3 a. 4]. Sed ideo quaerit quod quietetur in operatione, quia operatio est bonum eius. Unde manife­ stum est quod principalius bonum est ipsa operatio in qua quietatur voluntas, quam quie­ tatio voluntatis in ipso. Ad primum ergo dicendum quod, sicut philo­ sophus ibidem [Ethic. l 0,4,8] dicit, delectatio

    petficit operationem sicut decor iuventutem, qui est ad iuventutem consequens. Unde delec­ tatio est quaedam perfectio concomitans vi­ sionem; non sicut perfectio faciens visionem esse in sua specie perfectam. Ad secundum dicendum quod apprehensio sensitiva non attingit ad communem rationem boni, sed ad aliquod bonum particulare quod est delectabile. Et ideo secundum appetitum sensitivum, qui est in animalibus, operationes quaeruntur propter delectationem. Sed intel­ lectus apprehendit universalem rationem boni, ad cuius consecutionem sequitur delec­ tatio. Unde principalius intendit bonum quam delectationem. Et inde est quod divinus intel­ lectus, qui est institutor naturae, delectationes apposuit propter operationes. Non est autem aliquid aestimandum simpliciter secundum ordinem sensitivi appetitus, sed magis secun­ dum ordinem appetitus intellectivi. Ad tertium dicendum quod caritas non quae­ rit bonum dilectum propter delectationem, sed hoc est ei consequens, ut delectetur in bo­ no adepto quod amat. Et sic delectatio non re­ spondet ei ut fmis, sed magis visio, per quam primo finis fit ei praesens.

    Q. 4, A. 2

    Paolo in l Cor. Quindi il godimento, o frui­ zione, è superiore alla visione. In contrario: la causa è superiore all'effetto. Ma la visione è la causa del godimento. Quin­ di la visione è superiore al godimento. Risposta: Aristotele ha sollevato il problema nel decimo libro dell'Etica, e lo ha lasciato insoluto. Ma per chi consideri la cosa con diligenza è evidente che l 'operazione dell'in­ telletto, ossia la visione, deve essere superiore al godimento. Infatti la gioia consiste in un acquietamento della volontà. Ora, che la vo­ lontà si acquieti in una data cosa dipende solo dalla bontà della cosa in cui essa si acquieta. Se quindi la volontà si acquieta in una data operazione, l'acquietarsi della volontà dipen­ de dalla bontà di tale operazione. E non è vero che la volontà cerchi il bene per tale acquietamento: se infatti così fosse, allora l'atto stesso della volontà sarebbe il suo fine, contro ciò che abbiamo già dimostrato. Essa invece cerca di acquietarsi nel l ' operazione perché l'operazione è il suo bene. E evidente quindi che è un bene più grande l'operazione stessa in cui la volontà si acquieta che non l'acquietarsi della volontà in essa. Soluzione delle difficoltà: l . Nel testo citato il Filosofo dice: >. Ora, è evidente che l'uomo può essere ostacolato in tutti gli atti di virtù dall'in­ fermità del corpo. - Se invece parliamo della beatitudine perfetta, allora troviamo alcuni i quali titennero che la beatitudine non richieda alcuna disposizione fisica: anzi, essa tichiede­ rebbe che l ' anima sia del tutto separata dal corpo. Infatti Agostino riferisce queste parole di Porfirio: «Perché l'anima sia beata, il corpo deve essere messo interamente da parte». - Ma

    Q. 4, A. 6

    I requisiti della beatitudine

    anima, omne corpus fugiendum est. Sed hoc est inconveniens. Cum enim naturale sit ani­ mae corpori uniri, non potest esse quod perfec­ tio animae naturalem eius perfectionem exclu­ dat. - Et ideo dicendum est quod ad beatitu­ dinem omnibus modis perfectam, requiritur perfecta dispositio corporis et antecedenter et consequenter. Antecedenter quidem, quia, ut Augustinus dicit 1 2 Super Gen. [35], si tale sit

    corpus, cuius sit difficilis et gravis adminis­ tratio, sicut caro quae corrumpitur et aggra­ vai animam, avertitur mens ab il/a visione summi caeli. Unde concludit quod, cum hoc corpus iam non erit animale, sed spirituale, tunc angelis adaequabitur, et erit ei ad glo­ riam, quod sarcinaefuit. - Consequenter vero, quia ex beatitudine animae fiet redundantia ad corpus, ut et ipsum sua perfectione potiatur. Unde Augustinus dicit, in Ep. ad Dioscorum

    [1 1 8,3], tam potenti natura Deusfecit animam, ut ex eius pienissima beatitudine redundet in inferiorem naturam incorruptionis vigor. Ad primum ergo dicendum quod in corporali bono non consistit beatitudo sicut in obiecto beatitudinis, sed corporale bonum potest fa­ cere ad aliquem beatitudinis decorem vel perfectionem. Ad secundum dicendum quod, etsi corpus nihil conferat ad illam operationem intellectus qua Dei essentia videtur, tamen posset ab hac impedire. Et ideo requiritur perfectio corporis, ut non impediat elevationem mentis. Ad tertium dicendum quod ad perfectam ope­ rationem intellectus requiritur quidem abstrac­ tio ab hoc corruptibili corpore, quod aggravat animam, non autem a corpore spirituali, quod erit totaliter spiritui subiectum, de quo in tertia parte huius operis dicetur [S. q. 82].

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    ciò non è logico. Essendo intatti naturale per l'anima l'unione con il corpo, non può essere che la perfezione dell'anima debba escludere la sua perfezione naturale. - Dobbiamo perciò concludere che tra i requisiti della beatitudine totalmente perfetta c'è anche la buona disposi­ zione del corpo, sia come condizione previa, sia come conseguenza. Come condizione pre­ via poiché, come dice Agostino: «Se il corpo è tale da rendere difficile e gravoso il suo gover­ no, come Io è una carne che si corrompe e che aggrava I' anima, la mente viene distratta dalla visione del cielo supremo». Quindi conclude: «Quando questo corpo non sarà più animale, ma spirituale, allora I' anima sarà uguale agli angeli, e ciò che era un fardello sarà per lei una gloria>>. - Come conseguenza perché dalla bea­ titudine dell'anima deiiva al corpo, per ridon­ danza, il raggiungimento della sua perfezione. Agostino infatti scrive: «Dio ha fatto l'anima di una natura così potente da tar ridondare dalla pienezza della sua beatitudine il vigore dell'in­ corruzione sulla natura inferiore». Soluzione delle difficoltà: l . Un bene mate­ riale non può costituire la beatitudine come oggetto della medesima, ma può contiibuire al decoro e alla perfezione della beatitudine. 2. Sebbene il corpo non dia alcun contiibuto a quell'operazione con la quale l'intelletto vede l' essenza di Dio, tuttavia potrebbe essere di ostacolo. Quindi si richiede la perfezione del corpo perché esso non impedisca l'elevazione dell'anima. 3. Possiamo concedere che per l' operazione perfetta dell'intelletto si richieda l'astrazione da questo corpo corruttibile, che aggrava l'anima, ma non dal corpo spirituale, che sarà totalmente soggetto allo spirito, e di cui parle­ remo nella Terza Pm1e di quest'opera.

    Articulus 7 Utrum ad beatitudinem requirantur aliqua exteriora bona

    Articolo 7 Per la beatitudine si richiedono dei beni esteriori?

    Ad septimum sic proceditur. Videtur quod ad beatitudinem requirantur etiam exteriora bona. l . Quod enim in praemium sanctis promittitur, ad beatitudinem pettinet. Sed sanctis repromit­ tuntur exteriora bona, sicut cibus et potus, divitiae et regnum, dicitur enim Luc. 22 [30],

    Sembra di sì. Infatti: l . Appartiene alla beatitudine ciò che Io Spiri­ to Santo promette come premio ai santi. Ma ai santi sono stati promessi dei beni esteriori, quali il cibo e la bevanda, le ricchezze e il re­ gno: infatti in Le è detto: Perché possiate man­

    ut edatis et bibatis super mensam meam in regno meo; et Matth. 6 [20], thesaurizate vobis

    e in Mt: Accumulate

    giare e bere alla mia mensa nel mio regno; tesori nel cielo; e ancora

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    I requisiti della beatitudine

    Q. 4, A. 7

    thesauros in caelo; et Matth. 25 [34], venite, benedicti Patris mei, possidete regnum. Ergo

    in Mt: Venite, benedetti dal Padre mio, riceve­ te in eredità il regno. Quindi per la beatitudi­

    ad beatitudinem requiruntur exteriora bona. 2. Praeterea, secundum Boetium, in 3 De consol. [2], beatitudo est status omnium bo­ norum aggregatione pe1jectus. Sed exteriora sunt aliqua hominis bona, licet minima, ut Augustinus dici t [De lib. arb. 2, 19]. Ergo ipsa etiam requiruntur ad beatitudinem. 3. Praeterea, Dominus, Matth. 5 [ 1 2] , dicit, merces vestra multa est in caelis. Sed esse in caelis significat esse in loco. Ergo saltem locus exterior requiritur ad beatitudinem. Sed contra est quod dicitur in Psalmo 72 [25],

    ne si richiedono dei beni esteriori. 2. Secondo Boezio la beatitudine è «lo stato di perfezione dovuto all'insieme di tutti i beni». Ma i beni esterni, sebbene minimi, come spiega Agostino, sono beni dell'uomo. Quin­ di sono anch'essi richiesti per la beatitudine. 3. In Mt il Signore dice: Grande è la vostra ricompensa nei cieli. Ma essere nei cieli è una determinazione di luogo. Quindi almeno il luogo esteriore è richiesto per la beatitudine. In contrario: nel Sal è detto: Chi altri avrò per

    quid enim mihi est in caelo? Et a te quid volui super terram? Quasi dicat, nihil aliud volo nisi hoc quod sequitur, mihi adhaerere Deo bonum est. Ergo nihil aliud exterius ad beati­

    Come a dire: Nient' altro io voglio se non quanto segue: Il mio bene è stare vicino a Dio. Quindi nessun bene esteriore è richiesto per la beatitudine. Risposta: per la beatitudine imperfetta quale può aversi in questa vita sono richiesti anche i beni esteriori come elementi non essenziali, bensì strumentali, della beatitudine, la quale consiste nell'esercizio delle virtù, come dice Aristotele. Infatti nella vita presente l'uomo ha bisogno di quanto serve al corpo, sia nel­ l'esercizio della contemplazione che nell'eser­ cizio delle virtù attive: anzi, per queste ultime si richiedono molte altre cose necessarie al compimento delle opere della vita attiva. - Per la beatitudine pertetta invece, consistente nella visione di Dio, tali beni non sono per nulla richiesti. E ciò perché tutti i beni esterni sono richiesti o per il sostentamento del corpo ani­ male, oppure per delle operazioni giovevoli alla vita umana che noi compiamo mediante il corpo animale. Ma la perfetta beatitudine con­ sistente nella visione di Dio si avrà o in un'a­ nima priva del corpo, o in un'anima unita a un corpo non più animale, ma spirituale. Quindi tali beni esterni non sono mai richiesti per la suddetta beatitudine, essendo ordinati alla vita animale. - E dato che in questa vita la beatitu­ dine della contemplazione è più simile alla pertetta beatitudine che non quella dell' azio­ ne, essendo anche più simile a Dio, come si è visto, ne segue che essa, al dire di Aristotele, ha meno bisogno di tali beni esteriori. Soluzione delle difficoltà: l . Thtte le promesse di ordine materiale esistenti nella sacra Scrit­ tura vanno intese in senso metaforico, poiché la Scrittura ha l ' abitudine di indicare i beni spirituali con quelli materiali «affinché noi»,

    tudinem requiritur. Respondeo dicendum quod ad beatitudinem impertectam, qualis in hac vita potest haberi, requiruntur exteriora bona, non quasi de es­ sentia beatitudinis existentia, sed quasi instru­ mentaliter deservientia beatitudini, quae con­ sistit in operatione virtutis, ut dicitur i n l Ethic. [ 1 3, 1 ]. Indiget enim homo in hac vita necessariis corporis tam ad operationem vir­ tutis contemplativae quam etiam ad opera­ tionem virtutis activae, ad quam etiam plura alia requiruntur, quibus exerceat opera activae virtutis. - Sed ad beatitudinem perfectam, quae in visione Dei consistit, nullo modo huiusmo­ di bona requiruntur. Cuius ratio est quia omnia huiusmodi bona exteriora vel requirun­ tur ad sustentationem animalis corporis; vel requiruntur ad aliquas operationes quas per animale corpus exercemus, quae humanae vitae conveniunt. Illa autem perfecta beatitu­ do quae in visione Dei consistit, vel erit in anima sine corpore; vel erit in anima corpori unita non iam animali, sed spirituali. Et ideo nullo modo huiusmodi exteriora bona requi­ runtur ad illam beatitudinem, cum ordinentur ad vitam animalem. - Et quia in hac vita rnagis accedit ad sirnilitudinem illius pertectae beati­ tudinis felicitas contemplativa quam activa, utpote etiam Deo sirnilior, ut ex dictis [q. 3 a. 5 ad l ] patet; ideo minus indiget huiusmodi bonis corporis, ut dicitur in l O Ethic. [8,5]. Ad primum ergo dicendum quod ornnes illae corporales prornissiones quae in sacra Scriptura continentur, sunt metaphorice intelligendae,

    me in cielo? Fumi di te nulla bramo sulla terra.

    Q. 4, A. 7

    I requisiti della beatitudine

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    secundum quod in Scripntris solent spiritualia per corporalia designaci, ut ex his quae novi­ mus, ad desiderandum incognita consurgamus, sicut Gregorius dicit in quadam homilia [In Ev. h. 2,1 1]. Sicut per cibum et potum intelligitur delectatio beatitudinis; per divitias, sufficientia qua homini sufficiet Deus; per regnum, exalta­ tio hominis usque ad coniunctionem cum Deo. Ad secundum dicendum quod bona ista deser­ vientia animali vitae, non competunt vitae spiri­ tuali in qua beatitudo perfecta consistit. Et tamen erit in illa beatitudine omnium bonorum congregatio, quia quidquid boni invenitur in istis, totum habebitur in surnmo fonte bonorum. Ad tertium dicendum quod, secundum Au­ gustinum in libro De serm. Dom. [ 1 ,5], mer­ ces sanctorum non dicitur esse in corporeis caelis, sed per caelos intelligitur altitudo spi­ ritualium bonorum. Nihilominus tamen locus corporeus, scilicet caelum empyreum, aderit beatis, non propter necessitatem beatitudinis, sed secundum quandam congruentiam et decorem.

    come dice Gregorio, «partendo dalle cose che conosciamo ci innalziamo a desiderare quelle che ci sono ignote». E così il cibo e la bevan­ da stanno a indicare il godimento della beati­ tudine, i tesori la sazietà che l'uomo proverà in Dio solo, il regno l'esaltazione dell'uomo fino all'unione con Dio. 2. Tutti questi beni necessari per la vita anima­ le non si addicono alla vita spirituale, in cui si trova la pett"etta beatitudine. E tuttavia anche in questa beatitudine vi sarà la somma di tutti i beni, poiché nella fonte suprema di tutti i beni si troverà tutta la bontà in essi contenuta. 3. Secondo Agostino non è detto che la ri­ compensa dei santi debba essere situata nei cieli materialmente presi, ma per cieli si deve i ntendere l 'elevatezza dei beni spirituali. Tuttavia i beati avranno anche un luogo mate­ riale, e cioè il cielo empireo, non perché lo esiga la necessità, ma per un certo rapporto di convenienza e di decoro.

    Articulus 8 Utrum ad beatitudinem requiratur societas amicorum

    Articolo 8 Per la beatitudine è richiesta la compagnia degli amici?

    Ad octavum sic proceditur. Videtur quod ami­ ci sint necessarii ad beatitudinem. l . Futura enim beatitudo in Scripturis frequen­ ter nomine gloriae designatur. Sed gloria con­ sistit in hoc quod bonum hominis ad notitiam multorum deducitur. Ergo ad beatitudinem requiritur societas amicorum. 2. Praeterea, Boetius [cf. Seneca, Ad Lucilium, ep. 6] dicit quod nullius boni sine consortio iucunda est possessio. Sed ad beatitudinem requiritur delectatio. Ergo etiam requiritur societas amicorum. 3. Praeterea, caritas in beatitudine perficitur. Sed caritas se extendit ad dilectionem Dei et proximi. Ergo videtur quod ad beatitudinem requiratur societas amicorum. Sed contra est quod dicitur Sap. 7 [1 1 ], vene­ nmt mihi omnia bona pariter cum il/a, scilicet cum divina sapientia, quae consistit in con­ templatione Dei. Et sic ad beatitudinem nihil aliud requiritur. Respondeo dicendum quod, si loquamur de felicitate praesentis vitae, sicut philosophus dicit in 9 Ethic. [9,4], felix indiget amicis, non

    Sembra di sì. Infatti: l . Nelle Scritture la beatitudine futura viene spesso designata col nome di gloria. Ma la gloria consiste nel fatto che la bontà di un uo­ mo viene portata a conoscenza di molti. Quin­ di per la beatitudine si richiede la compagnia degli amici. 2. Boezio dice: «ll possesso di un bene è sen­ za godimento se non è partecipato». Ma per la beatitudine si richiede il godimento. Quindi si richiede anche la compagnia degli amici. 3. Nella beatitudine si ha la perfezione della carità. Ma la carità abbraccia l'amore di Dio e del prossimo. Quindi per la beatitudine si richiede la compagnia degli amici. In contrario: in Sap è detto: Insieme con essa mi sono venuti tutti i beni, cioè insieme con la divina sapienza, che consiste nella contempla­ zione di Dio. Quindi per la beatitudine non si richiede altro. Risposta: se parliamo della felicità della vita presente allora l'uomo felice, come insegna Aristotele, ha bisogno degli amici: ma non per utilità propria, essendo egli già sufficiente a se

    I requisiti della beatitudine

    71

    quidem propter utilitatem, cum sit sibi suf­ ficiens; nec propter delectationem, quia habet i n seipso delectationem perfectam i n operatione virtutis; sed propter bonam opera­ tionem, ut scilicet eis benefaciat, et ut eos inspiciens benefacere delectetur, et ut etiam ab eis in benefaciendo adiuvetur. Indiget enim homo ad bene operandum auxilio amicorum, tam in operibus vitae activae, quam in operi­ bus vitae contemplativae. - Sed si loquamur de perfecta beatitudine quae erit in patria, non requiritur societa" amicorum de necessitate ad beatitudinem, quia homo habet totam plenitu­ dinem suae perfectionis in Deo. Sed ad bene esse beatitudinis facit societas amicorum. Unde Augustinus dicit, 8 Super Gen. [25], quod creatura spiritualis, ad hoc quod beata

    sit, non nisi intrinsecus adiuvatur aeternitate, veritate, caritate creatoris. E.xtrinsecus vero, si adiuvari dicenda est, fortasse hoc solo adiuva­ tw; quod invicem vident, et de sua societate gaudent in Deo. Ad primum ergo dicendum quod gloria quae est essentialis beatitudini, est quam habet homo non apud hominem, sed apud Deum. Ad secundum dicendum quod verbum illud intelligitur, quando in eo bono quod habetur, non est piena sufficientia. Quod in proposito dici non potest, quia omnis boni sufficientiam habet homo in Deo. Ad tertium dicendum quod perfectio caritatis est essentialis beatitudini quantum ad dilectio­ nem Dei, non autem quantum ad dilectionem proximi. Unde si esset una sola anima fruens Deo, beata esset, non habens proximum quem diligeret. Sed supposito proximo, se­ quitur dilectio eius ex perfecta dilectione Dei. Unde quasi concomitanter se habet amicitia ad beatitudinem perfectam.

    QUAESTI0 5

    DE ADEPTIONE BEATITUDINIS

    Q. 4, A. 8

    stesso, e neppure per il godimento, avendo in se stesso la gioia perfetta negli atti della virtù, bensì per il bene della sua azione, e cioè per beneficarli, per godere vedendo il bene che essi compiono, e anche per essere da loro aiu­ tato nel fare del bene. Infatti l'uomo ha biso­ gno di amici sia nelle opere della vita attiva che in quelle della vita contemplativa. - Se invece parliamo della beatitudine perfetta, che ci attende nella patria, allora non si richiede necessariamente per la beatitudine la compa­ gnia degli amici, poiché l'uomo ha in Dio la pienezza della sua perfezione. Tuttavia la com­ pagnia degli amici dà completezza alla bea­ titudine. Per cui Agostino dice: «Le creature spirituali per essere beate non trovano soccor­ so che dall'interno, nell'eternità, verità e carità del Creatore. Se però si dicesse che sono aiuta­ te dall'esterno, forse si dovrà ridun-e l'aiuto al fatto che esse si vedono reciprocamente, e che godono in Dio di tale compagnia». Soluzione delle difficoltà: l . La gloria essen­ ziale alla beatitudine non è quella che si ri­ scuote presso gli uomini, ma quella che si ri­ scuote presso Dio. 2. L' affermazione è esatta quando il bene pos­ seduto non ha in se stesso la piena capacità di saziare. E ciò nel nostro caso non si può dire, poiché l ' uomo trova in Dio la pienezza di ogni bene. 3. La perfezione della carità è essenziale alla beatitudine quanto all ' amore di Dio, non quanto all' amore del prossimo. Per cui se esi­ stesse un' anima sola ammessa a godere della v isione di Dio, essa sarebbe beata anche senza avere il prossimo da amare. Supposto però il prossimo, l' amore verso di esso deriva dal perfetto amore di Dio. E così l'amicizia è quasi un elemento concomitante della beatitu­ dine perfetta.

    QUESTIONE 5 IL CONSEGUIMENTO

    DELLA BEATITUDINE Deinde considerandum est de ipsa adeptione beatitudinis. Et circa hoc quaeruntur octo. Pri­ mo, utrum homo possit consegui beatitudinem. Secundo, utmm unus homo possit esse alio beatior. Tertio, utrum aliquis possit esse in hac vita beatus. Quarto, utrum beatitudo habita pos­ sit amitti. Quinto, utrum, homo per sua natura-

    Rimane ora da esaminare il conseguimento della beatitudine. Sull' argomento si pongono otto quesiti: l . L'uomo può conseguire la beati­ tudine? 2. Un uomo può essere più beato di un altro? 3. Uno può essere beato in questa vita? 4. È possibile perdere la beatitudine raggiunta?

    Q. 5, A. l

    IL conseguimento della beatitudine

    72

    lia possit acquirere beatitudinem. Sexto, utrum homo consequatur beatitudinem per actionem alicuius superioris creaturae. Septimo, utrum requirantur opera hominis aliqua ad hoc quod homo beatitudinem consequatur a Deo. Oc­ tavo, utrum omnis homo appetat beatitudinem.

    5. L'uomo può acquistare la beatitudine con le sue forze naturali? 6. L' uomo può acquista­ re la beatitudine mediante l ' azione di una creatura superiore? 7. Per ricevere da Dio la beatitudine l'uomo ha bisogno di compiere qualche azione? 8. Tutti gli uomini desidera­ no la beatitudine?

    Articulus l Utrum homo possit consequi beatitudinem

    Articolo l Vuomo può conseguire la beatitudine?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod ho­ mo beatitudinem adipisci non possit. l . Sicut enim natura rationalis est supra sensibilem ita natura intellectualis est supra rationalem ut patet per Dionysium in libro De div. nom., in multis locis [4, 1 -2; 6, 1 ; 7,2]. Sed bruta animalia, quae habent naturam sensibi­ lem tantum, non possunt pervenire ad finem rationalis naturae. Ergo nec homo, qui est ra­ tionalis naturae, potest pervenire ad finem intellectualis naturae, qui est beatitudo. 2. Praeterea, beatitudo vera consistit in visio­ ne Dei, qui est veritas pura. Sed homini est connaturale ut veritatem intueatur in rebus materialibus, unde species intelligibiles in phantasmatibus intelligit, ut dicitur in 3 De an. [7,5]. Ergo non potest ad beatitudinem pervenire. 3. Praeterea, beatitudo consistit in adeptione summi boni. Sed aliquis non potest pervenire ad summum, nisi transcendat media. Cum igitur inter Deum et naturam humanam media sit natura angelica, qurun homo transcendere non potest; videtur quod non possit beatitudi­ nem adipisci. Sed contra est quod dicitur in Psalmo 93 [ 1 2], beatus homo quem tu erudieris, Domine. Respondeo dicendum quod beatitudo nominat adeptionem perfecti boni. Quicumque ergo est capax perfecti boni, potest ad beatitudinem pervenire. Quod autem homo pertecti boni sit capax, ex hoc apparet, quia et eius intellectus apprehendere potest universale et perfectum bonum, et eius voluntas appetere illud. Et ideo homo potest beatitudinem adipisci. - Apparet etiam idem ex hoc quod homo est capax visionis divinae essentiae, sicut in Primo [q. 1 2 a. l ] habitum est; in qua quidem visione perfectam hominis beatitudinem consistere diximus [q. 3 a. 8].

    Sembra di no. Infatti: l . Come la natura razionale sorpassa quella sensitiva, così la natura intellettuale sorpassa quella razionale, come più volte ripete Dionigi. Ma gli animali bruti, forniti della sola natura sensitiva, non possono raggiungere il fine della natura razionale. Quindi neppure l'uomo, che è di natura razionale, può conseguire il fine della natura intellettuale, cioè la beatitudine. 2. La vera beatitudine consiste nella visione di Dio, che è la verità pura. Ma per l'uomo è connaturale percepire la verità nelle realtà ma­ teriali: infatti, come insegna Aristotele, «l'uo­ mo conosce le specie intelligibili nelle im­ magini della fantasia». Quindi l'uomo non è in grado di raggiungere la beatitudine. 3. La beatitudine consiste nel conseguimento del bene supremo. Ma nessuno può raggiun­ gere il bene supremo senza superare i gradi intermedi. Trovandosi dunque, tra Dio e la natura umana, la natura angelica, che l'uomo non è in grado di superare, è impossibile che l'uomo possa conseguire la beatitudine. In contrario: nel Sal è detto: Beato l'uomo che tu avrai istruito, Signore. Risposta: il termine beatitudine sta a indicare il conseguimento del bene perfetto. Quindi chiunque è capace del bene perfetto è in grado di raggiungere la beatitudine. Ora, che l'uomo sia capace del bene perfetto lo dimostra il tàtto che il suo intelletto è in grado di apprendere il bene universale e perfetto, e la sua volontà è in grado di desiderarlo. Quindi l'uomo può con­ seguire la beatitudine. - E ciò risulta anche dal fatto che l'uomo è capace di vedere l'essenza divina, come si è dimostrato nella Prima Parte, nella quale visione consiste la perfetta beatitudine dell'uomo, come si è detto. Soluzione delle difficoltà: l . La distanza che separa la natura razionale da quella sensitiva è

    Il conseguimento della beatitudine

    73

    Ad primum ergo dicendum quod aliter exce­ dit natura rationalis sensitivam, et aliter intel­ lectualis rationalem. Natura enim rationalis excedit sensitivam quantum ad cognitionis obiectum, quia sensus nullo modo potest co­ gnoscere universale, cuius ratio est cognosci­ tiva. Sed intellectualis natura excedit rationa­ lem quantum ad modum cognoscendi ean­ dem intelligibilem veritatem, nam intellectua­ lis natura statim apprehendit veritatem, ad quam rationalis natura per inquisitionem ra­ tionis pertingit, ut patet ex his quae in Primo [q. 58 a. 3; q. 79 a. 8] dieta sunt. Et ideo ad id quod intellectus apprehendit, ratio per quen­ dam motum pertingit. Unde rationalis natura consequi potest beatitudinem, quae est perfec­ tio intellectualis naturae, tamen alia modo quam angeli. Nam angeli consecuti sunt eam statim post principium suae conditionis, ho­ mines autem per tempus ad ipsam perveniunt. Sed natura sensitiva ad hunc finem nullo modo pertingere potest. Ad secundum dicendum quod homini, secun­ dum statum praesentis vitae, est connaturalis modus cognoscendi veritatem intelligibilem per phantasmata. Sed post huius vitae statum, habet alium modum connaturalem, ut in Primo [q. 84 a. 7; q. 89 a. l ] dictum est. Ad tertium dicendum quod homo non potest transcendere angelos gradu naturae, ut scilicet naturaliter sit eis superior. Potest tamen eos transcendere per operationem intellectus, dum intelligit aliquid super angelos esse, quod ho­ mines beatificat; quod cum pertècte conseque­ tur, perfecte beatus erit.

    Q. 5,

    di tipo diverso da quella che separa la natura intellettuale dalla natura razionale. Infatti que­ sta supera la natura sensitiva per l ' oggetto della conoscenza: poiché i sensi non possono conoscere in alcun modo l'universale cono­ sciuto dalla ragione. Invece la natura intellet­ tuale supera quella razionale per il modo di conoscere la medesima verità intelligibile: in­ fatti la natura intellettuale apprende in manie­ ra immediata quella verità che la natura razio­ nale raggiunge attraverso l ' i ndagine della ragione, come è evidente in base a quanto si disse nella Prima Parte. Quindi la ragione raggiunge con una specie di moto l'oggetto che l ' i ntelletto apprende. E così la natura razionale può conseguire la beatitudine, che è la perfezione della natura intellettuale: però in modo diverso dagli angeli. Mentre infatti gli angeli la raggiunsero subito dopo la loro crea­ zione, gli uomini vi arrivano attraverso i l tempo. L a natura sensitiva invece non può raggiungere questo fine in alcuna maniera. 2. Nello stato della vita presente è connaturale per l 'uomo conoscere la verità intelligibile mediante le immagini della fantasia, ma dopo lo stato di questa vita sarà connaturale all'uo­ mo un altro modo [di conoscere], come si è spiegato nella Prima Parte. 3. L'uomo non può oltrepassare gli angeli nel grado della natura, così da essere per natura superiore ad essi. Li può tuttavia superare con l'operazione intellettiva, nell' atto di compren­ dere che esiste qualcosa di superiore agli angeli, che rende l ' uomo beato; e quando avrà raggiunto perfettamente tale oggetto sarà perfettamente beato.

    Articulus 2

    Articolo 2

    Utrum unus homo possit esse beatior altero

    Un uomo può essere più beato di un altro?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod unus homo alia non possit esse beatior. l . Beatitudo enim est praemium virtutis, ut phi­ losophus dicit in l Ethic. [9,3]. Sed pro operibus virtutum omnibus aequalis merces redditur, dicitur enim Matth. 20 [ 1 0], quod omnes qui operati sunt in vinea, acceperunt singulos de­ narios; quia, ut dicit Gregorius [In Ev. h. 1 , 19],

    aequalem aetemae vitae retributionem sortiti sunt. Ergo unus non erit alia beatior. 2. Praeterea, beatitudo est summum bonum. Sed summo non potest esse aliquid maius.

    A. l

    Sembra di no. Infatti: l . La beatitudine è «la ricompensa della virtù», come dice il Filosofo. Ma la ricompensa è uguale per tutte le opere di virtù: infatti in Mt è detto che tutti gli operai della vigna ricevet­ tero ognuno un danaro, perché - come spiega Gregorio - «ricevettero la stessa retribuzione della vita eterna». Quindi uno non può essere più beato di un altro. 2. La beatitudine è il bene supremo. Ma nulla può essere superiore a ciò che è supremo.

    Q. 5, A. 2

    IL conseguimento della beatitudine

    Ergo beatitudine unius hominis non potest esse alia maior beatitudo. 3. Praeterea, beatitudo, cum sit peifectum et sufficiens bonum, desiderium hominis quietat. Sed non quietatur desiderium, si aliquod bonum deest quod suppleri possit. Si autem nihil deest quod suppleri possit, non poterit esse aliquid aliud maius bonum. Ergo vel homo non est beatus, vel, si est beatus, non potest alia maior beatitudo esse. Sed contra est quod dicitur loan. 14 [2], in domo Patris mei mansiones multae sunt; per quas, ut Augustinus [In Ioan. tract. 67] dicit, diversae meritorum dignitates intelliguntur in vita aeterna. Dignitas autem vitae aeternae, quae pro merito datur, est ipsa beatitudo. Ergo sunt diversi gradus beatitudinis, et non omnium est aequalis beatitudo. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. l a. 8; q. 2 a. 7] dictum est, in ratione beatitudi­ nis duo includuntur, scilicet ipse tinis ultimus, qui est summum bonum; et adeptio vel fruitio ipsius boni. Quantum igitur ad ipsum bonum quod est beatitudinis obiectum et causa, non potest esse una beatitudo alia maior, quia non est nisi unum summum bonum, scilicet Deus, cuius fruitione homines sunt beati. - Sed quan­ tum ad adeptionem huiusmodi boni vel frui­ tionem, potest aliquis alio esse beatior, quia quanto magis hoc bono fruitur, tanto beatior est. Contingit autem aliquem perfectius frui Deo quam alium, ex eo quod est melius di­ spositus vel ordinatus ad eius fruitionem. Et secundum hoc potest aliquis alio beatior esse. Ad primum ergo dicendum quod unitas de­ narii significat unitatem beatitudinis ex parte obiecti. Sed diversitas mansionum significat diversitatem beatitudinis secundum diversum gradum fruitionis. Ad secundum dicendum quod beatitudo dici­ tur esse summum bonum, inquantum est summi boni perfecta possessio sive fruitio. Ad tertium dicendum quod nulli beato deest aliquod bonum desiderandum, cum habeat ipsum bonum intìnitum, quod est bonum omnis boni, ut Augustinus [Enarr. in Psalm. 134,3] dicit. Sed dicitur aliquis alio beatior, ex diversa eiusdem boni participatione. Additio autem aliorum bonorum non auget beatitudi­ nem, unde Augustinus dicit, in 5 Conf. [4], qui te et alia novit, non propter illa beatior, sed propter te solum beatus.

    74

    Quindi non ci può essere una beatitudine su­ periore a quella di un beato qualsiasi. 3. La beatitudine acquieta il desiderio dell'uo­ mo, essendo «Un bene perfetto ed esauriente». Ma il desiderio non si acquieta se manca di un bene ancora da acquistare, e se d'altra par­ te non c'è più nulla da acquistare, non ci potrà essere un qualche bene maggiore. Quindi o uno non è beato oppure, se è beato, non ci può essere una beatitudine superiore alla sua. In contrario: in Gv è detto: Nella casa del Pa­ dre mio vi sono molti posti; e questi, spiega Agostino, «stanno a indicare i diversi gradi di merito nella vita eterna>>. Ma il grado di vita eterna assegnato per merito è la beatitudine. Quindi la beatitudine non è uguale per tutti, ma ci sono gradi diversi. Risposta: come si è già spiegato la beatitudine include due cose: il fine ultimo in se stesso, che è il sommo bene, e il conseguimento o fruizione di tale bene. Quanto dunque al bene stesso che è oggetto e causa della beatitudine non ci può essere una beatitudine maggiore di un'altra: poiché non esiste che un unico som­ mo bene, cioè Dio, la cui fruizione rende gli uomini beati. - Quanto invece al consegui­ mento o fruizione di tale bene uno può essere più beato di un altro: poiché quanto più si frui­ sce di quel bene, tanto più si è felici. E avviene che uno possa fruire di Dio più perfettamente di un altro per il fatto che è meglio disposto e ordinato alla sua fruizione. E in questo modo uno può essere più beato di un altro. Soluzione delle difficoltà: l . L'unico danaro sta a indicare l'unicità della beatitudine rispet­ to ali' oggetto. La diversità dei posti invece indica la diversità della beatitudine rispetto ai gradi della fruizione. 2. Si dice che la beatitudine è il sommo bene in quanto è la perfetta presa di possesso, o fruizione, del sommo bene. 3. A nessun beato manca un qualsiasi bene desiderabile, possedendo egli lo stesso bene infinito, che è «il bene di ogni bene», come dice Agostino. Si dice però che uno è più beato di un altro per la diversa partecipazione di tale bene. L'aggiunta poi di albi beni non accresce la beatitudine: infatti Agostino così pregava: «Chi conosce te e insieme altre cose, non è beato per tali cose, ma solo per te».

    75

    Il conseguimento della beatitudine Articulus 3 Utrum aliquis in hac vita possit esse beatus

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod beati­ tudo possit in hac vita haberi. l . Dicitur enim in Psalmo 1 1 8 [ 1], beati im­

    maculati in via, qui ambulant in lege Domini. Hoc autem in hac vita contingit. Ergo aliquis in hac vita potest esse beatus. 2. Praeterea, imperfecta participatio summi boni non adimit rationem beatitudinis, alioquin unus non esset alio beatior. Sed in hac vita ho­ mines possunt participare summum bonum, cognoscendo et amando Deum, licet imper­ fecte. Ergo homo in hac vita potest esse beatus. 3. Praeterea, quod a pluribus dicitur, non potest totaliter falsum esse, videtur enim esse natu­ rale quod in pluribus est; natura autem non totaliter deficit. Sed plures ponunt beatitu­ dinem in hac vita, ut patet per illud Psalmi

    143 [15], beatum dixerunt populum cui haec sunt, scilicet praesentis vitae bona. Ergo aliquis in hac vita potest esse beatus. Sed contra est quod dicitur Iob 14 [1],

    honw natus de muliere, brevi vivens tempore, repletur multis miseriis. Sed beatitudo excludit mise­

    riam. Ergo homo in hac vita non potest esse beatus. Respondeo dicendum quod aliqualis beatitu­ dinis participatio i n hac vita haberi potest, perfecta autem et vera beatitudo non potest haberi in hac vita. Et hoc quidem considerari potest dupliciter. Primo quidem, ex ipsa com­ munì beatitudinis ratione. Nam beatitudo, cum sit peifectum et sufficiens bonum, omne malum excludit, et omne desiderium implet. In hac autem vita non potest omne malum excludi. Multis enim malis praesens vita su­ biacet, quae vitari non possunt, et ignorantiae ex parte intellectus, et inordinatae affectioni ex parte appetitus, et multiplicibus poenalitati­ bus ex parte corporis; ut Augustinus diligenter prosequitur 19 De civ. Dei [4]. Similiter etiam desiderium boni in hac vita satiari non potest. Naturaliter enim homo desiderat perma­ nentiam eius boni quod habet. Bona autem praesentis vitae transitoria sunt, cum et ipsa vita transeat, quam naturaliter desideramus, et eam perpetuo permanere vellemus, quia natu­ raliter homo refugit mortem. Unde impossibile est quod in hac vita vera beatitudo habeatur. -

    Q. 5, A. 3

    Articolo 3 Qualcuno può essere beato in questa vita? Sembra di sì. Infatti: l . Nel Sal è detto: Beati

    coloro che sono di condotta immacolata, che camminano nella legge del Signore. Ma ciò avviene nella vita

    presente. Quindi uno può essere beato in que­ sta vita. 2. La partecipazione meno perfetta del som­ mo bene non distrugge la nozione di beatitu­ dine: altrimenti uno non potrebbe essere più beato di un altro. Ma nella vita presente gli uomini possono partecipare, sia pure imper­ fettamente, il sommo bene con la conoscenza e con l 'amore. Quindi l 'uomo può essere bea­ to in questa vita. 3. Non può essere totalmente falso ciò che è affermato dalla maggior parte degli uomini: infatti ciò che è più frequente si presenta co­ me naturale, e la natura non può mai sbagliare nel suo complesso. Ora, i più ripongono la beatitudine in questa vita, come risulta da quel passo del Sal: Hanno chiamato beato il popolo che possiede questi beni, cioè i beni della vita presente. Quindi uno può essere beato in questa vita. In contrario: in Gb è detto: L'uomo nato da

    donna, breve di giorni, è ripieno di molte mise­ rie. Ma la beatitudine esclude la miseria. Quin­ di l'uomo non può essere beato in questa vita. Risposta: in questa vita si può avere una certa partecipazione della beatitudine, ma non la vera e petfetta beatitudine. E ciò può essere confermato da due argomentazioni. Primo, partendo dalla nozione stessa universale di beatitudine. Infatti la beatitudine, essendo «Un bene perfetto ed esauriente», esclude ogni male e appaga ogni desiderio. Ma in questa vita è impossibile escludere ogni male. Infatti la vita presente soggiace a molti mali inevita­ bili: all' ignoranza dell ' intelletto, agli affetti disordinati dell'appetito, ai molteplici malan­ ni del corpo, come Agostino espone con dili­ genza nel De Civitate Dei. E così pure nella vita presente non può essere saziato il deside­ rio del bene. Infatti per natura l'uomo deside­ ra il perdurare del bene che possiede, e invece i beni di questa vita sono transitori: poiché è transitoria la vita stessa, che per natura desi­ deriamo e che vorremmo far durare in perpe-

    Q. 5, A. 3

    IL conseguimento della beatitudine

    Secundo, si consideretur id in quo specialiter beatitudo consistit, scilicet visio divinae es­ sentiae, quae non potest homini provenire in hac vita, ut in primo [q. l 2 a. 2] ostensum est. Ex quibus manifeste apparet quod non potest aliquis in hac vita veram et perfectam beatitu­ dinem adipisci. Ad primum ergo dicendum quod beati di­ cuntur aliqui in hac vita, vel propter spem bea­ titudinis adipiscendae in futura vita, secundum illud Rom. 8 [24], spe salvi jàcti sumus, vel propter aliquarn participationem beatitudinis, secundum aliqualem summi boni fruitionem. Ad secundum dicendum quod participatio beatitudinis potest esse imperfecta dupliciter. Uno modo, ex parte ipsius obiecti beatitudi­ nis, quod quidem secundum sui essentiam non videtur. Et talis imperfectio tollit ratio­ nem verae beatitudinis. Alio modo potest esse imperfecta ex parte ipsius participantis, qui quidem ad ipsum obiectum beatitudinis se­ cundum seipsum attingit, scilicet Deum, sed imperfecte, per respectum ad modum quo Deus seipso fruitur. Et talis imperfectio non tollit veram rationem beatitudinis, quia, cum beatitudo sit operatio quaedam, ut supra [q. 3 a. 2] dictum est, vera ratio beatitudinis, consi­ deratur ex obiecto, quod dat speciem actui, non autem ex subiecto. Ad tertium dicendum quod homines reputant in hac vita esse aliquam beatitudinem, propter aliquam similitudinem verae beatitudinis. Et sic non ex toto in sua aestimatione deficiunt.

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    tuo, avendo l'uomo un orrore istintivo della morte. Quindi è impossibile il possesso della beatitudine nella vita presente. - Secondo, considerando ciò in cui specialmente consiste la beatitudine, cioè la visione dell'essenza divina: visione che l'uomo non può consegui­ re in questa vita, come si è dimostrato nella Prima Parte. Per cui risulta evidente che nes­ suno in questa vita può acquistare la vera e petfetta beatitudine. Soluzione delle difficoltà: l . Alcuni ricevono in questa vita la denominazione di beati o per la loro speranza di acquistare la beatitudine nella vita futura, secondo il passo di Rm: Nella speranza siamo stati salvati, oppure per una qualche partecipazione della beatitudine, in forza di un possesso parziale del sommo bene. 2. La partecipazione della beatitudine può essere imperfetta in due modi. Primo, rispetto ali' oggetto stesso della beatitudine, quando questo non è visibile nella sua essenza. E tale imperfezione distrugge la nozione stessa della vera beatitudine. Secondo, può essere imper­ fetta rispetto al soggetto che ne partecipa, quando questo raggiunge in se stesso l' ogget­ to della beatitudine, cioè Dio, ma imper­ fettamente in rapporto al modo in cui Dio possiede se stesso. E tale imperfezione non elimina la nozione della vera beatitudine poi­ ché, essendo la beatitudine un'operazione, co­ me si è detto, la nozione della vera beatitudi­ ne viene determinata dall'oggetto che specifi­ ca l'atto, non dal soggetto. 3. Gli uomini ritengono che esista in questa vita una qualche beatitudine per una certa so­ miglianza con la vera beatitudine. E in questo senso non sbagliano del tutto nei loro giudizi.

    Articulus 4 Utrum beatitudo habita possit amitti

    la beatitudine raggiunta?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod beatitudo possit amitti. l . Beatitudo enim est perfectio quaedarn. Sed omnis pertectio inest perfectibili secundum mo­ dum ipsius. Cum igitur homo secundum suarn naturam sit mutabilis, videtur quod beatitudo mutabiliter ab homine participetur. Et ita vide­ tur quod homo beatitudinem possit amittere. 2. Praeterea, beatitudo consistit in actione in­ tellectus, qui subiacet voluntati. Sed voluntas

    Sembra di sì. Infatti: l . La beatitudine è una perfezione. Ma ogni perfezione si trova nel soggetto perfettibile secondo la natura di questo. Siccome dunque l'uomo è mutevole per natura, sembra che la beatitudine sia partecipata dall'uomo come cosa mutevole. Sembra quindi che l'uomo possa perdere la beatitudine. 2. La beatitudine consiste in un'operazione dell'intelletto, il quale è soggetto alla volontà.

    Articolo 4

    È possibile perdere

    77

    Il conseguimento della beatitudine

    se habet ad opposita. Ergo videtur quod possit desistere ab operatione qua homo beatificatur, et ita homo desinet esse beatus. 3. Praeterea, principio respondet finis. Sed beatitudo hominis habet principium, quia ho­ mo non semper fuit beatus. Ergo videtur quod habeat finem. Sed contra est quod dicitur Matth. 25 [46], de iustis, quod ibunt in vitam aeternam; quae, ut dictum est [a. 2, sed contra], est beatitudo sanctorum. Quod autem est aeternum, non deficit. Ergo beatitudo non potest amitti. Respondeo dicendum quod, si loquamur de beatitudine imperfecta, qualis in hac vita potest haberi, sic potest amitti. Et hoc patet in felicitate contemplativa, quae amittitur vel per oblivionem, puta cum corrumpitur scientia ex aliqua aegritudine; vel etiam per aliquas occu­ pationes, quibus totaliter abstrahitur aliquis a contemplatione. Patet etiam idem in felicitate activa, voluntas enim hominis transmutari po­ test, ut in vitium degeneret a virtute, in cuius actu principaliter consistit felicitas. Si autem virtus remaneat integra, exteriores transmuta­ tiones possunt quidem beatitudinem talem perturbare, inquantum impediunt multas ope­ rationes virtutum, non tamen possunt eam totaliter auferre, quia adhuc remanet operatio vittutis, dum ipsas adversitates homo laudabi­ liter sustinet. - Et quia beatitudo huius vitae amitti potest, quod videtur esse contra rationem beatitudinis; ideo philosophus dicit, in l Ethic. [ 10, 16] , aliquos esse in hac vita beatos, non simpliciter, sed sicut homines quorum natura mutationi subiecta est. Si vero loquamur de beatitudine perfecta quae expectatur post hanc vitam, sciendum est quod Origenes posuit [Peri Archon l ,5-6], quorundam Platonicorum errorem sequens, quod post ultimam beatitudinem homo potest fieri rniser. - Sed hoc manifeste apparet esse falsum dupliciter. Primo quidem, ex ipsa communi ratione beatitudinis. Cum enim ipsa beatitudo sit peifectum bonum et sufficiens, oportet quod desiderium hominis quietet, et omne malum excludat. Naturaliter autem homo desiderat retinere bonum quod habet, et quod eius retinendi securitatem obtineat, alioquin necesse est quod timore amittendi, vel dolore de certitudine amissionis, affliga­ tur. Requiritur igitur ad veram beatitudinem quod homo certam habeat opinionem bonum

    Q. 5, A. 4

    Ma la volontà può sempre determinarsi a cose opposte. Sembra dunque che possa desistere dali' operazione che dà la beatitudine: e così l'uomo cessa di essere beato. 3. TI fine deve corrispondere al principio. Ma la beatitudine dell'uomo ha un principio: poi­ ché l'uomo non sempre è stato beato. Quindi la beatitudine deve avere una fine. In contrario: in Mt è detto che i giusti andran­ no alla vita eterna; la quale è la beatitudine dei santi, come si è spiegato. Ma ciò che è eterno non può venir meno. Quindi la beatitu­ dine non può essere perduta. Risposta: se parliamo della beatitudine imper­ fetta, raggiungibile in questa vita, allora dicia­ mo che è possibile perderla. E ciò è evidente per la felicità della vita contemplativa, che si perde o con la dimenticanza, come quando viene meno la scienza in seguito a una malat­ tia, oppure a causa di certe occupazioni che distraggono completamente dalla contempla­ zione. Ed è pure evidente per la felicità della vita attiva: poiché la volontà dell'uomo può cambiare, passando dalla virtù, i cui atti prin­ cipalmente costituiscono la felicità, al vizio. Tuttavia se la virtù rimane integra le vicende esterne possono certamente turbare questa beatitudine con l'impedire non poche azioni virtuose, ma non possono totalmente distrug­ gerla, poiché rimane ancora l'esercizio della virtù, quando un uomo sopporta lodevolmente le avversità. - E proprio perché la beatitudine di questa vita è precaria, e ciò contro la nozio­ ne stessa di beatitudine, il Filosofo afferma che alcuni sono beati in questa vita non già in senso assoluto, ma «come uomini», la cui natura è soggetta al mutamento. Se invece par­ liamo della beatitudine perfetta promessa dopo la vita presente, allora va ricordato che Origene, seguendo l'enore di alcuni platonici, affermò che l'uomo può ricadere nella miseria dopo l'ultima beatitudine. - Ma si dimostra agevolmente che ciò è falso per due ragioni. Primo, partendo dalla stessa nozione generica di beatitudine. Essendo infatti la beatitudine «Un bene perfetto ed esauriente», è necessario che sazi il desiderio ed escluda ogni male. Ma per natura l'uomo desidera di conservare il bene che possiede e di ottenere la sicurezza di non perderlo: altrimenti il timore o la certezza di perderlo gli procureranno necessariamente una pena. Quindi per la vera beatitudine si

    Q. 5, A. 4

    IL conseguimento della beatitudine

    quod habet, nunquam se amissurum. Quae quidem opinio si vera sit, consequens est quod beatitudinem nunquam amittet. Si au­ tem falsa sit, hoc ipsum est quoddam malum, falsam opinionem habere, nam falsum est malum i ntellectus, sicut verum est bonum ipsius, ut dicitur in 6 Ethic. [2,3] Non igitur iam vere erit beatus, si aliquod malum ei inest. - Secundo idem apparet, si consideretur ratio beatitudinis in speciali. Ostensum est enim supra [q. 3 a. 8] quod pertecta beatitudo hominis in visione divinae essentiae consistit. Est autem impossibile quod aliquis videns di­ vinam essentiam, velit eam non videre. Quia omne bonum habitum quo quis carere vult, aut est insufficiens, et quaeritur aliquid suf­ ficientius loco eius, aut habet aliquod incom­ modum annexum, propter quod in tàstidium venit. Visio autem divinae essentiae replet animam omnibus bonis, cum coniungat fonti totius bonitatis, unde dicitur in Psalmo 1 6 [15], satiabor cum apparuerit gloria tua; et Sap. 7 [ 1 1 ] , dicitur, venerunt mihi omnia bona pariter cum il/a, scilicet cum contem­ platione sapientiae. Similiter etiam non habet aliquod incommodum adiunctum, quia de contemplatione sapientiae dicitur, Sap. 8 [ 1 6],

    non habet amaritudinem conversatio illius, nec taedium convictus eius. Sic ergo patet quod propria voluntate beatus non potest beati­ tudinem deserere. - Similiter etiam non potest eam perdere, Deo subtrahente. Quia, cum subtractio beatitudinis sit quaedam poena, non potest talis subtractio a Deo, iusto iudice, provenire, nisi pro aliqua culpa, i n quam cadere non potest qui Dei essentiam videt, cum ad hanc visionem ex necessitate sequatur rectitudo voluntatis, ut supra ostensum est. Similiter etiam nec aliquod aliud agens potest eam subtrahere. Quia mens Deo coniuncta super omnia alia elevatur; et sic ab huiusmodi coniunctione nullum aliud agens potest ipsam excludere. Unde inconveniens videtur quod per quasdam altemationes temporum transeat homo de beatitudine ad miseriam, et e con­ verso, quia huiusmodi temporales altematio­ nes esse non possunt, nisi circa ea quae subia­ cent tempori et motui. Ad primum ergo dicendum quod beatitudo est perfectio consummata, quae omnem defectum excludit a beato. Et ideo absque mutabilitate advenit eam habenti, faciente hoc virtute

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    richiede che l'uomo abbia la convinzione certa di non dover mai perdere il bene che possiede. E se questa convinzione è vera, è chiaro che non perderà mai la beatitudine. Se invece è falsa, già è un male avere tale convinzione: infatti il falso è il male dell'intelletto, come il vero ne è il bene, al dire di Aristotele. Quindi l'uomo non sarà perfettamente beato se in lui si trova un male qualsiasi. - Secondo, la me­ desima conclusione nasce dall'analisi del con­ cetto specifico della beatitudine. Sopra intàtti abbiamo spiegato che la pedetta beatitudine dell'uomo consiste nella visione dell'essenza di Dio. Ora, è impossibile che chi vede l'es­ senza divina non voglia più vederla. Poiché ogni bene posseduto che uno vuoi perdere o è insufficiente, per cui al suo posto se ne cerca uno che sia più completo, oppure è accompa­ gnato da qualche inconveniente che lo rende fastidioso. Ma la visione dell'essenza divina riempie l ' anima di ogni bene, unendola alla fonte di ogni bontà, poiché nel Sal è detto: Mi sazierò, quando sarà apparsa la tua gloria; e in Sap: Insieme con essa mi sono venuti tutti i beni, cioè insieme con la contemplazione della [divina] sapienza. E neppure è accompagnata da inconvenienti, poiché in Sap è detto a pro­ posito della contemplazione della sapienza: La

    sua compagnia non dà amarezza, né dolore la sua convivenza. Così dunque è evidente che un beato non può di volontà propria abbando­ nare la beatitudine. - E neppure può perderla per sottrazione da parte di Dio. Essendo infatti tale sottrazione una pena, è impossibile che essa provenga da Dio, giusto giudice, senza una colpa; nella quale colpa non può cadere chi vede l'essenza di Dio, poiché da questa visione deriva necessariamente la rettitudine della volontà, come si è già spiegato. - E nep­ pure la può sottrarre un' altra causa qualsiasi. Poiché la mente che è unita a Dio viene eleva­ ta al disopra di tutte le altre realtà, per cui nes­ sun agente la può escludere da tale unione. È quindi insostenibile che attraverso varie vicis­ situdini temporali l'uomo possa passare dalla beatitudine alla miseria, e viceversa: poiché tali vicissitudini possono alterare soltanto le realtà soggette al tempo e al moto. Soluzione delle difficoltà: l . La beatitudine è la perfezione assoluta che esclude ogni difetto in chi la possiede. Perciò questi viene a posseder­ la senza mutabilità alcuna, in forza della virtù

    79

    Il conseguimento della beatitudine

    Q. 5, A. 4

    divina, quae hominem sublevat in participa­ tionem aetemitatis transcendentis omnem mutationem. Ad secundum dicendum quod voluntas ad opposita se habet in his quae ad finem ordi­ nantur, sed ad ultimum finem naturali neces­ sitate ordinatur. Quod patet ex hoc, quod homo non potest non velle esse beatus. Ad tertium dicendum quod beatitudo habet principium ex conditione participantis, sed caret tine, propter conditionem boni cuius participatio facit beatum. Unde ab alio est initium beatitudinis; et ab alio est quod caret fine.

    divina, che solleva l'uomo alla partecipazione dell'eternità al disopra di ogni mutamento. 2. La volontà è indeterminata rispetto ai mez­ zi ordinati al fine, ma in rapporto all' ultimo fine è determinata da una necessità naturale. E ciò appare evidente dal fatto che l' uomo non può non desiderare di essere beato. 3. Che la beatitudine abbia un inizio dipende dalla condizione del soggetto che ne parteci­ pa; che invece non abbia tine dipende dalla condizione del bene la cui partecipazione rende beati. Quindi l 'inizio della beatitudine dipende da una causa e la sua indefettibilità da un'altra.

    Articulus 5 Utrum homo per sua naturalia possit acquirere beatitudinem

    Articolo 5 L'uomo può acquistare la beatitudine con le sue capacità naturali?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod homo per sua naturalia possit beatitudinem consequi. l . Natura enim non deficit in necessariis. Sed nihil est homini tam necessarium quam id per quod finem ultimum consequitur. Ergo hoc naturae humanae non deest. Potest igitur ho­ mo per sua naturalia beatitudinem consequi. 2. Praeterea, homo, cum sit nobilior irrationa­ libus creaturis, videtur esse sufficientior. Sed irrationales creaturae per sua naturalia pos­ sunt consequi suos fines. Ergo multo magis homo per sua naturalia potest beatitudinem consequi. 3. Praeterea, beatitudo est operatio peifecta, secundum philosophum [7 Ethic. 1 3,2]. Eius­ dem autem est incipere rem, et perficere ipsam. Cum igitur operatio imperfecta, quae est quasi principium in operationibus humanis, subdatur naturali hominis potestati, qua suorum actuum est dominus; videtur quod per naturalem potentiam possit pertingere ad operationem perfectam, quae est beatitudo. Sed contra, homo est principium naturaliter actuum suorum per intellectum et voluntatem. Sed ultima beatintdo sanctis praeparata, exce­ dit intellectum hominis et voluntatem, dicit enim apostolus, l ad Cor. 2 [9], oculus non

    Sembra di sì. Infatti: l . La natura non può mancare nelle cose necessarie. Ma nulla è più necessario all'uo­ mo di quanto è richiesto per raggiungere il fine ultimo. Quindi alla natura umana ciò non può mancare. Quindi l'uomo può conseguire la beatitudine con le sole forze naturali. 2. L' uomo, essendo superiore alle creature irrazionali, deve essere più completo. Ma le creature irrazionali, mediante le loro capacità naturali, possono raggiungere i propri fini. A maggior ragione dunque l'uomo deve essere in grado di raggiungere la beatitudine con le sue capacità naturali. 3. La beatitudine è «un'operazione perfetta», secondo il Filosofo. Ma spetta al medesimo principio iniziare una cosa e condurla a perfe­ zione. Siccome dunque l'operazione imperfet­ ta, che è come l'inizio dell' agire umano, ricade sotto il potere naturale dell'uomo, che lo rende padrone dei propri atti, è evidente che questi può giungere mediante il suo potere naturale all'operazione perfetta che è la beatitudine. In contrario: l'uomo è per natura principio dei suoi atti mediante l ' intelletto e la volontà. Ma l'ultima beatitudine preparata per i santi è al disopra dell'intelletto e della volontà dell'uo­ mo. Infatti Paolo in l Cor dice: Quelle cose

    vidit, et auris non audivit, et in cor hominis non ascendit, quae praeparavit Deus diligenti­ bus se. Ergo homo per sua naturalia non potest beatitudinem consequi. Respondeo dicendum quod beatitudo imper­ fecta quae in hac vita haberi potest, potest ab

    che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha prepa­ rato Dio per coloro che lo amano. Quindi l ' uomo non può raggiungere la beatitudine con le sue capacità naturali.

    Q. 5, A. 5

    IL conseguimento della beatitudine

    homine acquiri per sua naturalia, eo modo quo et virtus, in cuius operatione consistit, de quo infra [q. 63] dicetur. Sed beatitudo homi­ nis perfecta, sicut supra [q. 3 a. 8] dictum est, consistit in visione divinae essentiae. Videre autem Deum per essentiam est supra naturam non solum hominis, sed etiam omnis creatu­ rae, ut in primo ostensum est. Naturalis enim cognitio cuiuslibet creaturae est secundum modum substantiae eius, sicut de intelligentia dicitur in libro De causis [7], quod cognoscit

    ea quae sunt supra se, et ea quae sunt infra se, secundum modum substantiae sua e . Omnis autem cognitio quae est secundum modum substantiae creatae, deficit a visione divinae essentiae, quae in infinitum excedit omnem substantiam creatam. Unde nec ho­ mo, nec aliqua creatura, potest consequi bea­ titudinem ultimam per sua naturalia. Ad prirnum ergo dicendum quod, sicut natura non deficit homini in necessariis, quamvis non dederit sibi arma et tegumenta sicut aliis animalibus quia dedit ei rationem et manus, quibus possit haec sibi conquirere; ita nec deficit homini in necessariis, quamvis non daret sibi aliquod principium quo posset beati­ tudinem consequi; hoc enim erat impossibile. Sed dedit ei liberum arbitrium, quo possit con­ vetti ad Deum, qui eum faceret beatum. Quae

    enim per amicos possumus, per nos aliqualiter possumus, ut dicitur in 3 Ethic. [3,1 3]. Ad secundum dicendum quod nobilioris con­ ditionis est natura quae potest consequi per­ fectum bonum, licet indigeat exteriori auxilio ad hoc consequendum, quam natura quae non potest consequi perfectum bonum, sed conse­ quitur quoddam bonum imperfectum, licet ad consecutionem eius non indigeat exteriori auxilio, ut philosophus dicit in 2 De caelo [ 1 2,3] . Sicut melius est dispositus ad sanita­ tem qui potest consequi perfectam sanitatem, licet hoc sit per auxilium medicinae; quam qui solum potest consequi quandam im­ perfectam sanitatem, sine medicinae auxilio. Et ideo creatura rationalis, quae potest conse­ qui perfectum beatitudinis bonum, indigens ad hoc divino auxilio, est perfectior quam creatura inationalis, quae huiusmodi boni non est capax, sed quoddam imperfectum bonum consequitur virtute suae naturae. Ad tertium dicendum quod, quando imper­ fectum et perfectum sunt eiusdem speciei, ab

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    Risposta: l 'uomo può acquistare la beatitudine imperfetta, raggiungibile nella vita presente, come può acquistare le virtù, negli atti delle quali consiste tale beatitudine, come vedremo in seguito. Ma la perfetta beatitudine dell'uo­ mo consiste, e lo abbiamo già visto, nella visione dell'essenza divina. Ora, vedere Dio per essenza è al disopra della natura non sol­ tanto dell ' uomo, ma di qualsiasi creatura, come fu già dimostrato nella Prima Parte. Infatti la conoscenza naturale di una qualsiasi creatura segue il modo della sua sostanza, come il De Causis dice a proposito dell'intel­ ligenza [angelica] : «Conosce le cose che sono al disopra e quelle che sono al disotto di sé secondo il modo della propria sostanza». Ora, qualsiasi conoscenza che segua il modo di una sostanza creata è inadeguata alla visione del­ l'essenza divina, che sorpassa all'infinito ogni sostanza creata. Quindi né l'uomo né qualsiasi altra creatura può conseguire l'ultima beatitu­ dine con le sue capacità naturali. Soluzione delle difficoltà: l . La natura non è manchevole rispetto all'uomo per non averlo fornito di armi e di vesti come gli altri anima­ li, poiché gli ha concesso la ragione e le mani per acquistare tali cose; e allo stesso modo non è manchevole per non avergli accordato un mezzo per raggiungere la beatitudine: ciò infatti era impossibile. Gli ha donato però il libero arbitrio, con il quale può volgersi a Dio, che lo farà beato. «lntàtti, ciò che possia­ mo grazie agli amici in qualche modo lo pos­ siamo da noi stessi», dice Aristotele. 2. Come insegna il Filosofo, una natura che può conseguire il bene perfetto, sia pure con aiuti esterni, è sempre più nobile di quella che raggiunge un bene imperfetto senza aver biso­ gno di tali aiuti. Come colui che è in grado di conseguire la perfetta guarigione, sia pure con l'aiuto della medicina, è meglio disposto alla guarigione di chi può raggiungere soltanto una guarigione parziale senza tale aiuto. Quindi la creatura razionale, che può conse­ guire il bene perfetto della beatitudine ricor­ rendo all'aiuto divino, è superiore alla creatu­ ra irrazionale incapace di tale bene, pur rag­ giungendo questa un bene imperfetto con le capacità della sua natura. 3. Quando il bene perfetto e quello imperfetto sono della medesima specie possono derivare dallo stesso principio. Non necessariamente

    81

    Il conseguimento della beatitudine

    Q. 5, A. 5

    eadem virtute causari possunt. Non autem hoc est necesse, si sunt alterius speciei, non enim quidquid potest causare dispositionem materiae, potest ultimam perfectionem con­ ferre. Imperfecta autem operatio, quae subia­ cet naturali hominis potestati, non est eius­ dem speciei cum operatione illa perfecta quae est hominis beatitudo, cum operationis spe­ cies dependeat ex obiecto. Unde ratio non sequitur.

    invece se sono di specie differente: infatti non tutte le cause che possono produrre una disposizione della materia sono in grado di conferire l'ultima perfezione. Ora, l' operazio­ ne imperfetta che rientra nelle capacità natu­ rali dell'uomo non è della medesima specie a cui appartiene l'operazione perfetta che è la beatitudine umana: poiché la specie dell'ope­ razione dipende dall'oggetto. Quindi l' argo­ mento non regge.

    Articulus 6 Utrum homo consequatur beatitudinem per actionem alicuius superioris creaturae

    Articolo 6 L'uomo acquista la beatitudine mediante l 'influsso di una creatura superiore?

    Ad sextum sic proceditur. Vìdetur quod homo possit fieri beatus per actionem alicuius supe­ rioris creaturae, scilicet angeli. l . Cum enim duplex ordo inveniatur in rebus, unus partium universi ad invicem, alius totius universi ad bonum quod est extra universum; primus ordo ordinatur ad secundum sicut ad finem, ut dicitur 1 2 Met. [ 1 1 , 10,1 ] ; sicut ordo partium exercitus ad invicem est propter ordi­ nem totius exercitus ad ducem. Sed ordo par­ tium universi ad invicem attenditur secundum quod superiores creaturae agunt in inferiores, ut in P1imo [q. 1 9 a. 5 ad 2; q. 48 a. l ad 5; q. l 09 a 2] dictum est, beatitudo autem consistit in ordine hominis ad bonum quod est extra universum, quod est Deus. Ergo per actionem superioris creaturae, scilicet angeli, in homi­ nem, homo beatus efficitur. 2. Praeterea, quod est in potentia tale, potest reduci in actum per id quod est actu tale, sicut quod est potentia calidum, fit actu calidum per id quod est actu calidum. Sed homo est in potentia beatus. Ergo potest fieri actu beatus per angelum, qui est actu beatus. 3. Praeterea, beatitudo consistit in operatione intellectus, ut supra [q. 3 a. 4] dictum est. Sed angelus potest illuminare intellectum homi­ nis, ut in primo [q. 1 1 1 a. l] habitum est. Er­ go angelus potest tacere hominem beatum. Sed contra est quod dicitur in Psalmo 83 [ 1 2],

    gratiam et gloriam dabit Dominus.

    Sembra di sì. Infatti: l . Vi è un duplice ordinamento nell'universo: il primo è l'ordinamento delle varie parti fra di loro, l 'altro è l'ordinamento di tutto l'uni­ verso al bene che è fuori di esso. Il primo or­ dinamento però è ordinato al secondo come al suo fine, al dire di Aristotele, come l'ordi­ namento delle parti di un esercito è subordi­ nato ali ' ordinamento di tutto l ' esercito al proprio comandante supremo. Ma l 'ordine reciproco delle parti de li ' universo consiste nel fatto che le creature superiori influiscono su quelle inferiori, come è stato spiegato nella Prima Parte. D'altra parte la beatitudine consiste nell'ordine dell'uomo al bene che è fuori dell ' universo. Quindi l ' uomo diventa beato mediante l ' influsso di una creatura superiore, cioè di un angelo. 2. Ciò che è tale solo in potenza può diventar­ lo in atto mediante un essere già tale in atto: come un corpo che è caldo in potenza diviene attualmente caldo mediante un corpo già cal­ do i n atto. Ma l ' uomo è beato i n potenza. Quindi può diventare beato in atto mediante un angelo che è beato in atto. 3. La beatitudine consiste, come si è visto, in un' operazione dell'intelletto. Ma l ' angelo, come si è visto nella Prima Parte, può illumi­ nare l ' intelletto dell'uomo. Quindi l' angelo può rendere l'uomo beato. In contrario: nel Sal è detto: Il Signore darà

    Respondeo dicendum quod, cum omnis crea­ tura naturae legibus sit subiecta, utpote ha­ bens limitatam virtutem et actionem; illud quod excedit naturam creatam, non potest fieri virtute alicuius creaturae. Et ideo si quid

    Risposta: è impossibile che si compia per virtù di una qualsiasi creatura quanto sorpassa la natura creata: poiché ogni creatura è soggetta alle leggi della natura con le sue capacità e i

    grazia e gloria.

    Q. 5, A. 6

    IL conseguimento della beatitudine

    fieri oporteat quod sit supra naturam, hoc fit immediate a Deo; sicut suscitatio mortui, illu­ minatio caeci, et cetera huiusmodi. Ostensum est autem [a. 5] quod beatitudo est quoddam bonum excedens naturam creatam. Unde im­ possibile est quod per actionem alicuius crea­ turae conferatur, sed homo beatus fit solo Deo agente, si loquamur de beatitudine petfecta. Si vero loquamur de beatitudine imperfecta, sic eadem ratio est de ipsa et de virtute, in cuius actu consistit. Ad primum ergo dicendum quod plerumque contingit in potentiis activis ordinatis, quod perducere ad ultimum finem pertinet ad su­ premam potentiam, inferiores vero potentiae coadiuvant ad consecutionem illius ultimi fi­ nis disponendo, sicut ad artem gubemativam, quae praeest navifactivae, pertinet usus navis, propter quem navis ipsa fit. Sic igitur et in ordine universi, homo quidem adiuvatur ab angelis ad consequendum ultimum finem, se­ cundum aliqua praecedentia, quibus dispo­ nitur ad eius consecutionem, sed ipsum ulti­ mum finem consequitur per ipsum primum agentem, qui est Deus. Ad secundum dicendum quod, quando aliqua forma actu existit in aliquo secundum esse petfectum et naturale, potest esse principium actionis in alterum; sicut calidum per calorem calefacit. Sed si forma existit in aliquo imper­ fecte, et non secundum esse naturale, non potest esse principium communicationis sui ad alterum, sicut intentio coloris quae est in pupilla, non potest tacere album; neque etiam omnia quae sunt illuminata aut calefacta, pos­ sunt alia calefacere et illuminare; sic enim illu­ minatio at calefactio essent usque ad infini­ tum. Lumen autem gloriae, per quod Deus videtur, in Deo quidem est perfecte secundum esse naturale, in qualibet autem creatura est imperfecte, et secundum esse similitudinarium vel participatum. Unde nulla creatura beata potest communicare suam beatitudinem alteri. Ad tertium dicendum quod angelus beatus illumi nat intellectum homi nis, vel etiam inferioris angeli, quantum ad aliquas rationes divinorum operum non autem quantum ad visionem divinae essentiae, ut in primo [q. 1 06 a. l ] dictum est. Ad eam enim videndam, omnes immediate illuminantur a Deo.

    82

    suoi influssi limitati. Se quindi si tratta di compiere qualcosa che è al disopra della natu­ ra, ciò dipende immediatamente da Dio: come il far risorgere un morto, ridare la vista a un cieco e altre cose simili. Ora, si è dimostrato che la beatitudine è un bene che sorpassa la natura creata. Quindi è impossibile che essa derivi dali' operazione di una creatura, ma l'uomo, se parliamo della beatitudine perfetta, diviene beato soltanto per opera di Dio. - Se invece parliamo della beatitudine imperfetta, allora si dirà di essa quanto si dice della virtù, nell'esercizio della quale essa consiste. Soluzione delle difficoltà: l . Tra potenze attive subordinate, generalmente tocca alla facoltà suprema condurre all'ultimo fine, mentre quel­ le inferiori collaborano disponendo [il sog­ getto] al conseguimento di quel fine: come spetta ali' arte nautica, che presiede ali' arte di costruire le navi, l'uso della nave, per il quale la nave viene costruita. E così anche nell'ordi­ ne dell'universo l' uomo può essere aiutato dagli angeli a conseguire l'ultimo fine quanto a certi atti preparatori che dispongono al suo rag­ giungimento, ma esso viene raggiunto di fatto solo grazie al primo agente, che è Dio. 2. Quando una forma si trova attualmente in un soggetto secondo il suo essere perfetto e naturale, allora può esercitare un influsso cau­ sale su altri soggetti: come una cosa calda mediante il suo calore riscalda. Se però una forma si trova in un soggetto solo impetfetta­ mente e non secondo i l suo essere naturale, allora non può essere principio della sua comunicazione ad altri: come l'immagine del colore che è nella pupilla non può colorare un oggetto; e neppure sono in grado di illuminare e di riscaldare tutte le cose illuminate o riscal­ date: perché allora l'illuminazione e il riscal­ damento si propagherebbero all'infinito. Ora il lume di gloria, che serve per vedere Dio, si trova in Dio perfettamente nel suo essere na­ turale, ma in qualsiasi creatura si trova solo imperfettamente, per somiglianza o partecipa­ zione. Quindi nessuna creatura beata può comunicare ad altri la propria beatitudine. 3. L'angelo beato illumina l'intelletto dell'uo­ mo, o anche degli angeli inferiori, rispetto a determinate opere di Dio, ma non rispetto alla visione dell'essenza divina, come si è spiega­ to nella Prima Parte. Per tale visione infatti tutti sono illuminati immediatamente da Dio.

    Il conseguimento della beatitudine

    83 Articulus 7

    Q. 5, A. 7 Articolo 7

    Utrum requirantur aliqua opera bona ad hoc quod homo beatitudinem consequatur a Deo

    Sono richieste delle opere buone perché l'uomo ottenga da Dio la beatitudine?

    Ad septimum sic proceditur. Videtur quod non requirantur aliqua opera hominis ad hoc ut beatitudinem consequatur a Deo. l . Deus enim, cum sit agens infinitae virtutis, non praeexigit in agendo materiam, aut dispo­ sitionem materiae, sed statim potest totum producere. Sed opera hominis, cum non re­ quirantur ad beatitudinem eius sicut causa ef­ ficiens, ut dictum est [a. 6], non possunt re­ quiri ad eam nisi sicut dispositiones. Ergo Deus, qui dispositiones non praeexigit in agendo, beatitudinem sine praecedentibus operibus confert. 2. Praeterea, sicut Deus est auctor beatitudinis immediate, ita et naturam immediate instituit. Sed in prima institutione naturae, produxit creaturas nulla dispositione praecedente vel ac­ tione creaturae; sed statim fecit unumquodque perfectum in sua specie. Ergo videtur quod beatitudinem conferat homini sine aliquibus operationibus praecedentibus. 3 . Praeterea, apostolus dicit, Rom . 4 [6] , beatitudinem hominis esse cui Deus confert iustitiam sine operibus. Non ergo requiruntur aliqua opera hominis ad beatitudinem conse­ quendam. Sed contra est quod dicitur Ioan. 13 [17], si haec scitis, beati eritis sifeceritis ea. Ergo per actionem ad beatitudinem pervenitur. Respondeo dicendum quod rectitudo volunta­ tis, ut supra [q. 4 a. 4] dictum est, requiritur ad beatitudinem, cum nihil aliud sit quam debi­ tus ordo voluntatis ad ultimum finem; quae ita exigitur ad consecutionem ultimi finis, sicut debita dispositio materiae ad consecutio­ nero formae. Sed ex hoc non ostenditur quod aliqua operatio hominis debeat praecedere eius beatitudinem, posset enim Deus simul facere voluntatem recte tendentem in finem, et finem consequentem; sicut quandoque simul materiam disponit, et inducit formam. Sed ordo divinae sapientiae exigit ne hoc fiat, ut enim dicitur in 2 De caelo [ 1 2,3], eorum

    Sembra di no. Infatti: l . Dio, essendo un agente di potenza infinita, non richiede la matetia o le disposizioni della materia per agire, ma può produrre tutto in un istante. D'altra patte le opere dell'uomo, non essendo richieste come causa efficiente per la beatitudine, possono servire solo come dispo­ sizioni. Quindi Dio, il quale non ha bisogno di predisposizioni per agire, assegna la beati­ tudine senza opere precedenti. 2 . Dio è causa immediata della beatitudine come è stato causa immediata della natura. Ora, nella creazione della natura Dio produs­ se le creature senza il presupposto di disposi­ zioni o di operazioni delle creature stesse, ma costituì immediatamente ogni essere perfetto nella sua specie. Quindi egli conferisce la beatitudine all'uomo senza presupporre ope­ razione alcuna. 3. Paolo in Rm dice che la beatitudine appar­ tiene all' uomo al quale Dio conferisce la giu­ stizia indipendentemente dalle opere. Quindi per conseguire la beatitudine non sono richie­ ste delle opere umane. In contrario: in Gv è detto: Sapendo queste

    quae nata sunt habere bonum perfectum, aliquid habet ipsum sine nwtu, aliquid uno motu, aliquid pluribus. Habere autem per­ fectum bonum sine motu, convenit ei quod

    cose, sarete beati se le metterete in pratica.

    Quindi si raggiunge la beatitudine mediante le opere. Risposta: per la beatitudine è richiesta, come si è già detto, la rettitudine della volontà, con­ sistente nel debito ordine del volere rispetto all'ultimo fine; e viene richiesta per il conse­ guimento dell'ultimo fine come la buona di­ sposizione della materia per la ricezione della forma. Ma ciò non basta a dimostrare che la beatitudine dell'uomo deve essere preceduta da una sua operazione: infatti Dio potrebbe produrre una volontà che tende al fine e che simultaneamente lo raggiunge, come fa talora quando simultaneamente dispone la materia e dà la forma. Ma l'ordine della divina sapienza esige che così non avvenga: poiché, come os­ serva Aristotele, «tra gli esseri che sono capa­ ci di possedere il bene perfetto alcuni lo pos­ siedono senza moto, altri con un moto solo e altri con molti moti». Ora, possedere il bene perfetto senza moto appartiene a colui che lo

    Q. 5, A. 7

    IL conseguimento della beatitudine

    84

    naturaliter habet illud. Habere autem beatitu­ dinem naturaliter est solius Dei. Unde solius Dei proprium est quod ad beatitudinem non moveatur per aliquam operationem praece­ dente m . Cum autem beatitudo excedat omnem naturam creatam, nulla pura creatura convenienter beatitudinem consequitur abs­ que motu operationis, per quam tendit i n ipsam. Sed angelus, qui est superior ordine naturae quam homo, consecutus est eam, ex ordine divinae sapientiae, uno motu operatio­ nis meritoriae, ut in primo [q. 62 a. 5] exposi­ tum est. Homines autem consequuntur ipsam multis motibus operationum, qui merita di­ cuntur. Unde etiam, secundum philosophum [Etich. 1 ,9,3], beatitudo est praemium virtuo­ sarum operationum. Ad primum ergo dicendum quod operatio ho­ minis non praeexigitur ad consecutionem bea­ titudinis propter insufficientiam divinae virtutis beatificantis, sed ut servetur ordo in rebus. Ad secundum dicendum quod primas creatu­ ras statim Deus perfectas produxit, absque aliqua dispositione vel operatione creaturae praecedente, quia sic instituit prima individua specierum, ut per ea natura propagaretur ad posteros. Et similiter, quia per Christum, qui est Deus et homo, beatitudo erat ad alios derivanda, secundum illud apostoli ad Heb. 2 [ 10], qui multos filios in gloriam adduxerat; statim a principio suae conceptionis, absque aliqua operatione meritoria praecedente, anima eius fuit beata. Sed hoc est singulare in ipso, nam pueris baptizatis subvenit meritum Christi ad beatitudinem consequendam, licet desint eis merita propria, eo quod per Baptis­ mum sunt Christi membra effecti. Ad tertium dicendum quod apostolus lo­ quitur de beatitudine spei, quae habetur per gratiam iustificantem, quae quidem non datur propter opera praecedentia. Non enim habet rationem termini motus, ut beatitudo, sed magis est principium motus quo ad beatitu­ dinem tenditur.

    possiede per natura. E possedere per natura la beatitudine è soltanto di Dio. Quindi è proprio soltanto di Dio non muoversi verso la beatitu­ dine con un ' operazione che la preceda. Nessuna pura creatura invece raggiunge la beatitudine in maniera conveniente senza un moto operativo col quale tenda a raggiunger­ la. L'angelo tuttavia, che in ordine di natura è superiore all' uomo, l'ha raggiunta, secondo l ' ordine della sapienza divina, con un solo moto del suo agire meritorio, come fu spiega­ to nella Prima Parte. Gli uomini invece la raggiungono con i moti molteplici delle loro operazioni, cioè con i meriti. Per cui, come dice il Filosofo, la beatitudine è anche il pre­ mio delle azioni virtuose. Soluzione delle difficoltà: l . L' azione umana non è richiesta al conseguimento della beatitu­ dine per l'insufficienza della virtù divina a ren­ dere beati, ma per rispettare l'ordine nelle cose. 2. Dio produsse subito le prime creature nella loro perfezione, senza presupporre disposizio­ ni od operazioni del creato, perché si trattava di formare i primi individui delle specie, dai quali la natura si sarebbe propagata nei poste­ ri. E allo stesso modo, per il fatto che da Cri­ sto, uomo Dio, doveva detivare agli altri la beatitudine - secondo l'espressione di Eh: Vo­ lendo portare molti figli alla gloria -, fin dal principio del suo concepimento, senza alcuna azione meritoria precedente, l'anima di Cristo fu subito beata. Ma questa è una condizione singolare per lui: infatti nel caso dei bambini battezzati interviene il merito di Cristo per il conseguimento della beatitudine, sebbene manchino i meriti personali: poiché con il bat­ tesimo essi sono divenuti membra di Cristo. 3. Paolo parla della beatitudine della speran­ za, che si ha mediante la grazia della giustifi­ cazione, che non è concessa per le opere pre­ cedenti. Questa infatti non ha il carattere di termine di un moto, come la beatitudine, ma è piuttosto il principio del moto con cui si tende alla beatitudine.

    Articulus 8 Utrum omnis homo appetat beatitudinem

    Articolo 8 Ogni uomo desidera la beatitudine?

    Ad octavum sic proceditur. Videtur quod non omnes appetant beatitudinem. l . Nullus enim potest appetere quod ignorat, cum bonum apprehensum sit obiectum appe-

    Sembra di no. Infatti: l . Nessuno può considerare ciò che non co­ nosce poiché oggetto dell' appetito è il bene conosciuto, come dice Aristotele. Ma molti

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    Il conseguimento della beatitudine

    titus, ut dicitur in 3 De anima [10,4.6]. Sed multi nesciunt quid sit beatitudo, quod, sicut Augustinus dicit in 1 3 De Trin. [4], patet ex hoc, quod quidam posuerunt beatitudinem in voluptate corporis, quidam in virtute animi, quidam in aliis rebus. Non ergo omnes beati­ tudinem appetunt. 2. Praeterea, essentia beatitudinis est visio essentiae divinae, ut dictum est [q. 3 a. 8]. Sed aliqui [Amalricus de Bena] opinantur hoc esse impossibile, quod Deus per essentiam ab homine videatur, unde hoc non appetunt. Ergo non omnes homines appetunt beatitudinem. 3. Praeterea, Augustinus dicit, in 1 3 De Trin. [5] quod beatus est qui habet omnia quae vult, et nihil male vult. Sed non omnes hoc volunt, quidam enim male aliqua volunt, et tamen volunt illa se velle. Non ergo omnes volunt beatitudinem. Sed contra est quod Augustinus dicit, 1 3 De Trin. [3], si mimus dixisset, «omnes beati esse vultis, miseri esse non vultis», dixisset aliquid quod nullus in sua non cognosceret voluntate. Quilibet ergo vult esse beatus. Respondeo dicendum quod beatitudo duplici­ ter potest considerari. Uno modo, secundum communem rationem beatitudinis. Et sic ne­ cesse est quod omnis homo beatitudinem velit. Ratio autem beatitudinis communis est ut sit bonum perfectum, sicut dictum est [co.; a.4 ad 2] . Cum autem bonum sit obiectum voluntatis, perfectum bonum est alicuius, quod totaliter eius voluntati satisfacit. Unde appetere beatitudinem nihil aliud est quam appetere ut voluntas satietur. Quod quilibet vult. - Alio modo possumus loqui de beatitu­ dine secundum specialem rationem, quantum ad id in quo beatitudo consistit. Et sic non omnes cognoscunt beatitudinem, quia ne­ sciunt cui rei communis ratio beatitudinis conveniat. Et per consequens, quantum ad hoc, non ornnes eam volunt. Unde patet responsio ad primum. Ad secundum dicendum quod, cum voluntas sequatur apprehensionem intellectus seu rationis, sicut contingit quod aliquid est idem secundum rem, quod tamen est diversum secundum rationis considerationem; ita con­ tingit quod aliquid est idem secundum rem, et tamen uno modo appetitur, alio modo non appetitur. Beatitudo ergo potest considerati

    Q. 5, A. 8

    non conoscono che cosa sia la beatitudine: e ciò appare evidente dal fatto che, come osser­ va Agostino, «alcuni collocarono la beatitudi­ ne nei piaceri del corpo, altri nelle virtù del­ l'animo e alcuni in altre cose ancora». Quindi non tutti desiderano la beatitudine. 2. L'essenza della beatitudine consiste nella visione dell' essenza divina, come si è già spiegato. Ma alcuni ritengono che sia impos­ sibile per l'uomo vedere Dio per essenza, e quindi non lo desiderano. Quindi non tutti gli uomini desiderano la beatitudine. 3. Agostino dice: «È beato colui che possiede tutto ciò che vuole, e nulla vuole male». Ma non tutti hanno questo volere: infatti alcuni vogliono male certe cose, e tuttavia sono de­ cisi a volerle. Quindi non tutti vogliono la beatitudine. In contrario: Agostino dice: «Se quel mimo avesse detto: "Tutti volete essere felici e non volete essere infelici", avrebbe detto una cosa che nessuno avrebbe mancato di scorgere nella propria volontà». Quindi ognuno desi­ dera di essere beato. Risposta: la beatitudine può essere considerata in due modi. Primo, partendo dalla nozione universale di beatitudine. E in questo senso è necessario che ciascun uomo desideri la beati­ tudine. Infatti la beatitudine in genere consiste nel bene perfetto, come si è spiegato. Ma essendo il bene l'oggetto della volontà, il bene perfetto sarà quello che sazia totalmente la vo­ lontà. Quindi desiderare la beatitudine non è altro che desiderare l'appagamento della vo­ lontà. E questo tutti lo vogliono. - Secondo, possiamo parlare della beatitudine consideran­ do la sua nozione specifica, in rapporto all'og­ getto in cui essa consiste. E allora non tutti conoscono la beatitudine: poiché non tutti san­ no a quale oggetto si applichi la nozione uni­ versale di beatitudine. E per conseguenza, in questo senso, non tutti la desiderano. Soluzione delle difficoltà: l . Risulta così evi­ dente la risposta alla prima difficoltà. 2. La volontà segue la conoscenza dell' intel­ letto o ragione: come quindi può capitare che una cosa identica nella realtà presenti aspetti diversi ali' analisi della ragione, così capita che un oggetto in realtà identico sia desidera­ to per un verso e non desiderato per un altro. Ora, la beatitudine può essere considerata sotto l'aspetto di bene finale e perfetto che si

    IL conseguimento della beatitudine

    Q. 5, A. 8

    sub ratione finalis boni et perfecti, quae est communis ratio beatitudinis, et sic naturaliter et ex necessitate voluntas in illud tendit, ut dictum est [aa. 3-4]. Potest etiam considerari secundum alias speciales considerationes, vel ex parte ipsius operationis, vel ex parte po­ tentiae operativae, vel ex parte obiecti, et sic non ex necessitate voluntas tendit in ipsam. Ad tertium dicendum quod ista definitio beati­ tudi nis quam quidam [post Augustinum, De Trin. 13,5; Magister, Sent., 4,49,1] posue­ runt, beatus est qui habet omnia quae vult, vel, cui omnia optata succedunt, quodam modo intellecta, est bona et sufficiens ; alio vero modo, est imperfecta. Si enim intelligatur simpliciter de omnibus quae vult homo natu­ rali appetitu, sic verum est quod qui habet omnia quae vult, est beatus, nihil enim satiat naturalem hominis appetitum, nisi bonum perfectum, quod est beatitudo. Si vero intelli­ gatur de his quae homo vult secundum appre­ hensionem rationis, sic habere quaedam quae homo vult, non pertinet ad beatitudinem, sed magis ad miseriam inquantum huiusmodi ha­ bita impediunt horninem ne habeat quaecum­ que naturaliter vult, sicut etiam ratio accipit ut vera interdum quae impediunt a cognitione veritatis. Et secundum hanc considerationem, Augustinus addidit ad perfectionem beatitudi­ nis, quod nihil mali velit. Quamvis primum posset sufficere, si recte intelligeretur, scilicet quod beatus est qui habet omnia quae vult.

    QUAESTI0 6

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    identifica con la nozione universale di beatitu­ dine: e allora per natura e per necessità la volontà tende ad essa, come si è spiegato. Ma può anche essere considerata sotto altri aspetti più particolari, o in rapporto all' operazione, o in rapporto alla potenza operativa, o in rap­ porto all' oggetto: e allora la volontà non ten­ de necessariamente ad essa. 3. Questa definizione della beatitudine, adotta­ ta da qualcuno: «Beato è colui che possiede tutto ciò che vuole», oppure: «Colui del quale tutti i desideri si compiono», intesa in un certo senso è buona ed esauriente; in un altro senso invece è inadeguata. Se infatti ci si riferisce in modo assoluto a tutte le cose che l'uomo può desiderare per appetito di natura, allora è vero che è beato colui che possiede tutto ciò che vuole: poiché soltanto il bene perfetto, che è la beatitudine, sazia l' appetito naturale dell'uo­ mo. Se però ci si riferisce a quelle cose che un uomo vuole seguendo la sola conoscenza della sua ragione, allora possedere ciò che l'uomo vuole giova non alla beatitudine, ma piuttosto alla miseria, poiché il possesso di tali beni impedisce all'uomo di raggiungere pienamen­ te le cose desiderate dalla sua natura: come si compotta talora anche la ragione, prendendo per vere delle opinioni che impediscono di co­ noscere la verità. E per questo motivo Agostino aggiunge alla definizione della perfetta beati­ tudine l ' espressione: «Nulla vuole male». Sebbene la prima: «Beato è colui che possiede tutto ciò che vuole» possa bastare da sola, se intesa rettamente.

    QUESTIONE 6

    DE VOLUNTARIO ET INVOLUNTARIO

    LA VOLONTARIETÀ E VINVOLONTARIETÀ DEGLI ATTI

    Quia igitur ad beatitudinem per actus aliquos necesse est pervenire, oportet consequenter de humanis actibus considerare, ut sciamus qui­ bus actibus perveniatur ad beatitudinem, vel impediatur beatitudinis via. Sed quia operatio­ nes et actus circa singularia sunt, ideo omnis operativa scientia in particulari consideratione perficitur. Moralis igitur consideratio quia est humanorum actuum, primo quidem tradenda est in universali secundo vero, in particulari [II-m. - Circa universalem autem consideratio­ nem humanorum actuum, primo quidem con-

    Poiché dunque sono necessari, per giungere alla beatitudine, alcuni atti determinati, dovre­ mo ora logicamente prendere in esame gli atti umani, per distinguere quelli che servono a raggiungere la beatitudine da quelli che osta­ colano il cammino verso di essa. E siccome gli atti e le operazioni riguardano il singolare concreto, qualsiasi scienza operativa deve completarsi nel l ' i ndagine del particolare. Quindi la morale, che ha per oggetto gli atti umani, va esposta prima di tutto in generale, quindi in particolare. - Per quanto dunque ri-

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    La volontarietà e l 'involontarietà degli atti

    Q. 6,

    A. l

    siderandum occunit de ipsis actibus humanis; secundo, de principiis eorum [q. 49]. Humano­ rum autem actuum quidam sunt hominis proprii; quidam autem sunt homini et aliis animalibus communes. Et quia beatitudo est proprium ho­ minis bonum, propinquius se habent ad beatitu­ dinem actus qui sunt proprie humani, quam actus qui sunt homini aliisque animalibus com­ munes. Primo ergo considerandum est de acti­ bus qui sunt proprii hominis; secundo, de actibus qui sunt homini aliisque animalibus communes, qui dicuntur animae pa-;siones [q. 22]. - Circa primum duo consideranda occurrunt, primo, de conditione humanorum actuum; secundo, de distinctione eorum [q. 18]. Cum autem actus humani proprie dicantur qui sunt voluntarii, eo quod voluntas est rationalis appetitus, qui est proprius hominis; oportet considerare de actibus inquantum sunt voluntarii. Primo ergo considerandum est de voluntario et involun­ tario in communi; secundo, de actibus qui sunt voluntarii quasi ab ipsa voluntate eliciti, ut im­ mediate ipsius voluntatis existentes [q. 8]; tertio, de actibus qui sunt voluntarii quasi a vo­ luntate imperati, qui sunt ipsius voluntatis me­ diantibus aliis potentiis [q. 17]. - Et quia actus voluntarii habent quasdam circumstantias, se­ cundum quas diiudicantur, primo consideran­ dum est de voluntario et involuntario; et con­ sequenter de circumstantiis ipsorum actuum in quibus voluntarium et involuntarium invenitur [q. 7]. - Circa primum quaeruntur octo. Primo, utrum in humanis actibus inveniatur volunta­ rium. Secundo, utrum inveniatur in animalibus brutis. Tertio, utrum voluntarium esse possit absque omni actu. Quarto, utrum violentia voluntati possit inferri. Quinto, utrum violentia causet involuntarium. Sexto, utrum metus causet involuntarium. Septimo, utrum concupi­ scentia involuntarium causet. Octavo, utrum ignorantia.

    guarda l'indagine degli atti umani in genere si presentano alla nostra considerazione innan­ zitutto gli atti umani in se stessi, e in secondo luogo i loro princìpi. Tra gli atti umani poi alcuni sono propri dell' uomo e altri sono comuni all'uomo e agli animali. Essendo però la beatitudine un bene esclusivo dell'uomo, gli atti propriamente umani sono più vicini alla beatitudine degli atti comuni all'uomo e agli altri animali. Quindi dobbiamo trattare prima delle azioni proprie dell'uomo, e in se­ condo luogo di quelle comuni all'uomo e agli altri animali, cioè delle passioni. - Sul primo tema si presentano due argomenti: primo, la condizione degli atti umani; secondo, la loro distinzione. E poiché si dicono umani in sen­ so proprio gli atti volontari, essendo la vo­ lontà l'appetito razionale proprio dell'uomo, è necessario considerare questi atti in quanto sono volontari. Quindi bisogna trattare: pri­ mo, di ciò che è volontario o involontario in generale; secondo, degli atti che sono volon­ tari perché emessi dalla volontà ed esistenti nella volontà; terzo, degli atti che sono volon­ tari perché imperati dalla volontà, e che ap­ partengono alla volontà mediante le altre po­ tenze. - E poiché gli atti volontari hanno delle circostanze che li distinguono, bisogna consi­ derare prima di tutto la loro volontarietà e in­ volontarietà, quindi le circostanze di questi medesimi atti. - Sul primo argomento si pon­ gono otto quesiti: 1 . Negli atti umani si trova la volontarietà? 2. Si trova negli animali bruti? 3. La volontarietà può prescindere da qualsiasi atto? 4. Alla volontà si può fare violenza? 5. La violenza può causare atti involontari? 6. Li può causare il timore? 7. Li può causare la concupiscenza? 8. Oppure l'ignoranza?

    Articulus 1 Utrum in humanis actibus inveniatur voluntarium

    Articolo 1 Negli atti umani c'è la volontarietà?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod in humanis actibus non inveniatur voluntarium. l . Voluntarium enim est cuius principium est in ipso; ut patet per Gregorium Nyssenum [De nat. horn. 32], et Damascenum [De fide 2,24], et Aristotelem [3 Ethic. 1 ,20] . Sed

    Sembra di no. Infatti: l . Volontario è «ciò che possiede in se stesso il proprio principio», come dimostrano Gre­ gorio Nisseno, il Damasceno e Aristotele. Ora, il principio degli atti umani non è nell'uomo, ma fuori di esso: infatti l'appetito

    Q. 6, A. l

    La volontarietà e / 'involontarietà degli atti

    principium humanorum actuum non est in ipso homine, sed est extra, nam appetitus ho­ minis movetur ad agendum ab appetibili quod est extra quod est sicut movens non motum, ut dicitur in 3 De anima [10,6]. Ergo in humanis actibus non invenitur voluntarium. 2. Praeterea, philosophus in 8 Phys. [2,5] probat quod non invenitur in animalibus aliquis motus novus, qui non praeveniatur ab alio motu exteriori. Sed omnes actus hominis sunt novi, nullus enim actus hominis aeternus est. Ergo principiurn omnium hurnanorurn actuurn est ab extra. Non igitur in eis invenitur voluntarium. 3. Praeterea, qui voluntarie agit, per se agere potest. Sed hoc homini non convenir, dicitur enim Ioan. 1 5 [5] , sine me nihil potestis facere. Ergo voluntarium in humanis actibus non invenitur. Sed contra est quod dicit Damascenus, in 2 Libro [De fide 24], quod voluntarium est actus qui est operatio rationalis. Tales autem sunt actus humani. Ergo in actibus humanis invenitur voluntarium. Respondeo dicendum quod oportet in actibus humanis voluntarium esse. Ad cuius evi­ dentiam, considerandum est quod quomndam actuum seu motuum principium est in agente, seu in eo quod movetur; quomndam autem motuum vel actuum principium est extra. Cum enim lapis movetur sursum, principium huius motionis est extra lapidem, sed cum movetur deorsum, principium huius motionis est in ipso lapide. Eomm autem quae a princi­ pio intrinseco moventur, quaedam movent seipsa, quaedam autem non. Cum enim omne agens seu motum agat seu moveatur propter finem, ut supra [q. l a. 2] habitum est; illa per­ fecte moventur a principio intrinseco, in quibus est aliquod intrinsecum principium non solum ut moveantur, sed ut moveantur in fi­ nem. Ad hoc autem quod fiat aliquid propter finem, requiritur cognitio finis aliqualis. Quod­ cumque igitur sic agit vel movetur a prin­ cipio intrinseco, quod habet aliquam notitiam finis, habet in seipso principium sui actus non solum ut agat, sed etiam ut agat propter fi­ nem. Quod autem nullam notitiam finis habet, etsi in eo sit principium actionis vel motus; non tamen eius quod est agere vel moveri propter finem est principium in ipso, sed in alio, a quo ei imprimitur principium suae mo­ tionis in finem. Unde huiusmodi non dicuntur

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    dell'uomo viene mosso ad agire dall'oggetto appetibile esterno che, secondo Aristotele, è come un «motore immobile». Quindi negli atti umani non c'è volontarietà. 2. TI Filosofo dimostra che non c'è moto nuovo negli animali che non sia preceduto da un moto dall'esterno. Ma tutti gli atti umani sono nuovi: poiché nessun atto dell'uomo è eterno. Quindi il principio di tutti gli atti umani viene dal­ l'esterno. Quindi in essi non c'è volontarietà. 3. Chi agisce volontariamente può agire da se stesso. Ma questo l'uomo non è in grado di farlo, poiché in Gv è detto: Senza di me non potete far nulla. Quindi negli atti umani non c'è volontarietà. In contrario: il Damasceno dice: «La volonta­ rietà consiste in un atto che è un'operazione razionale». Ma tali sono gli atti umani. Quin­ di negli atti umani c'è la volontarietà. Risposta: negli atti umani ci deve essere la volontarietà. Per averne la dimostrazione bi­ sogna considerare che alcuni atti o moti han­ no il loro principio o causa nell'agente, cioè nel soggetto in movimento, e altri moti od operazioni hanno invece una causa estrinseca: quando infatti una pietra si muove verso l'alto il principio del suo movimento è esterno alla pietra; quando invece si muove verso il basso il principio del moto è nella pietra stessa. Ora, tra le cose che sono mosse da un principio intrinseco alcune muovono se stesse e altre no: se è vero infatti, come si è dimostrato, che ogni agente muove o agisce per un fine, sa­ ranno mosse perfettamente da un principio intrinseco quelle cose che ottengono da quel principio non solo di potersi muovere, ma anche di potersi muovere verso il fine. Ma perché un'azione sia fatta per un fine si ri­ chiede una certa conoscenza del fine: perciò ogni essere che agisce o viene mosso da un principio intrinseco, avendo una certa cono­ scenza del fine, ha in se stesso il principio della sua operazione non solo per poter agire, ma anche per agire in vista di tm fine. L'esse­ re invece che non ha alcuna conoscenza del fine, anche se è in possesso del principio intrinseco del suo agire o del suo movimento, non ha il principio del suo agire e del suo mo­ to verso il fine in se stesso, ma in qualcos'al­ tro dal quale gli viene impresso il plincipio della sua mozione verso il fine: per cui non si dice che tali esseri muovono se stessi, ma che

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    La volontarietà e l 'involontarietà degli atti

    movere seipsa, sed ab aliis moveri. Quae vero habent notitiam finis dicuntur seipsa movere, quia in eis est principium non solum ut agant, sed etiam ut agant propter finem. Et ideo, cum utrumque sit ab intiinseco principio, sci­ licet quod agunt, et quod propter finem agunt, horum motus et actus dicuntur voluntarii, hoc enim importat nomen voluntarii, quod motus et actus sit a propria inclinatione. Et inde est quod voluntarium dicitur esse, secundum de­ finitionem Aristotelis [3 Ethic. l ,20] et Gre­ gorii Nysseni [De nat. horn. 32] et Damasceni [De fide 2,24], non solum cuius principium est intra, sed cum additione scientiae. Unde, cum homo maxime cognoscat finem sui operis et moveat seipsum, in eius actibus maxime voluntarium invenitur. Ad primum ergo dicendum quod non omne principium est ptincipium ptimum. Licet ergo de ratione voluntarii sit quod principium eius sit intra, non tamen est contra rationem volun­ tarii quod principium intrinsecum causetur vel moveatur ab exteriori principio, quia non est de ratione voluntarii quod principium intrin­ secum sit principium primum. - Sed tamen sciendum quod contingit aliquod principium motus esse primum in genere, quod tamen non est primum simpliciter sicut in genere al­ terabilium primum alterans est corpus caele­ ste, quod tamen non est primum movens simpliciter, sed movetur motu locali a supe­ riori movente. Sic igitur principium intrinse­ cum voluntarii actus, quod est vis cognoscitiva et appetitiva, est primum principium in genere appetitivi motus, quamvis moveatur ab aliquo exteriori secundum alias species motus. Ad secundum dicendum quod motus animalis novus praevenitur quidem ab aliquo exteriori motu quantum ad duo. Uno modo, inquantum per motum exteriorem praesentatur sensui animalis aliquod sensibile, quod apprehen­ sum movet appetitum, sicut leo videns cer­ vum per eius motum appropinquantem, incipit moveri ad ipsum. Alio modo, inquan­ tum per exteriorem motum incipit aliqualiter immutari naturali immutatione corpus ani­ malis, pula per ftigus vel calorem; corpore autem immutato per motum exterioris cor­ poris, immutatur etiam per accidens appetitus sensitivus, qui est virtus organi corporei; sicut cum ex aliqua alteratione corporis commove­ tur appetitus ad concupiscentiam alicuius rei. -

    Q. 6, A. l

    sono mossi da altri. Invece gli esseri che hanno la conoscenza del fine si dice che muo­ vono se stessi, poiché si trova in essi il princi­ pio non soltanto dell'agire, ma anche dell'agi­ re per un fine. Siccome dunque le due cose, agire e agire per un fine, dipendono da un principio intrinseco, questi atti e questi moti si dicono volontari: la volontarietà infatti com­ porta precisamente che il moto, o l 'agire, dipenda dalla propria inclinazione. Per que­ sto, secondo la definizione di Aristotele, di Gregorio Nisseno e del Damasceno, la volon­ tarietà denomina non solo la derivazione da un principio intrinseco, ma anche l'aggiunta della conoscenza. - E poiché soprattutto l'uo­ mo conosce il fine del suo operare e muove se stesso, soprattutto nei suoi atti si deve trovare la volontarietà. Soluzione delle difficoltà: l . Non ogni princi­ pio è il primo principio: sebbene quindi la volontarietà richieda che il principio dell'atto sia intrinseco, non è detto che tale principio non possa essere causato o mosso da un prin­ cipio estrinseco: poiché non è essenziale per la volontarietà che il principio intrinseco sia il primo principio. - D'altra parte bisogna ricor­ dare che un principio di moto può essere primo nel suo genere senza essere primo in senso assoluto: come nel genere dei ptincìpi dell' alterazione il primo alterante è il corpo celeste, che però non è il primo motore in senso assoluto, ma è mosso di moto locale da un movente superiore. Così dunque i princìpi intrinseci dell' atto volontario, che sono le facoltà conoscitive e appetitive, sono il primo principio nel genere del moto appetitivo, seb­ bene siano mossi da cause estrinseche secon­ do altre specie di moto. 2. Il moto dell'animale può essere preceduto da un moto esterno in due modi. Primo, per­ ché un moto esterno può presentare al senso dell'animale un oggetto sensibile la cui perce­ zione muove l'appetito: come il leone, veden­ do il cervo che si avvicina, inizia a muoversi verso di esso. Secondo, perché un' azione esterna, p. es. quella del freddo o del caldo, può determinare una mutazione naturale nel corpo dell'animale; e una volta che il corpo è posto in movimento dal moto del corpo ester­ no, indirettamente viene mosso anche l' appe­ tito sensitivo, che è una facoltà legata a un organo corporeo: come quando un'alterazio-

    La volontarietà e / 'involontarietà degli atti

    Q. 6, A. l

    Sed hoc non est contra rationem voluntarii, ut dictum est [ad 1 ] : huiusmodi enim motiones ab exteriori principio sunt alterius generis. Ad tertium dicendum quod Deus movet homi­ nem ad agendum non solum sicut proponens sensui appetibile, vel sicut immutans corpus, sed etiam sicut movens ipsam voluntatem, quia omnis motus tam voluntatis quam na­ turae, ab eo procedit sicut a primo movente. Et sicut non est contra rationem naturae quod motus naturae sit a Deo sicut a primo mo­ vente, inquantum natura est quoddam instru­ mentum Dei moventis; ita non est contra ra­ tionem actus voluntarii quod sit a Deo, in­ quantum voluntas a Deo movetur. Est tamen communiter de ratione naturalis et voluntarii motus, quod sint a principio intrinseco.

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    ne del corpo spinge l ' appetito a desiderare qualcosa. Ma come si è detto ciò non infirma la volontarietà: infatti tali mozioni estrinseche sono di altro genere. 3. Dio muove l'uomo ad agire non solo pre­ sentando ai sensi l' oggetto, o tramutando i l corpo, m a muovendo l a stessa volontà: poiché ogni moto, sia della volontà che della natura, deriva da lui come dal primo motore. E come non distrugge la nozione di natura il fatto che il moto naturale derivi da Dio come dal primo motore, essendo la natura come uno strumen­ to che Dio muove, così non distrugge la no­ zione di atto volontario la sua derivazione da Dio, essendo la volontà sotto la mozione di Dio. E tuttavia sia il moto naturale che quello volontario hanno in comune la caratteristica di derivare da un principio intrinseco.

    Articulus 2

    Articolo 2

    Utrum voluntarium inveniatur in animalibus brutis

    La volontarietà si trova negli animali bruti?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod voluntarium non sit in brutis animalibus. l . Voluntarium enim a voluntate dicitur. Volun­ tas autem, cum sit in ratione, ut dicitur in 3 De anima [9,3], non potest esse in brutis anima­ libus. Ergo neque voluntarium in eis invenitur. 2. Praeterea, secundum hoc quod actus huma­ ni sunt voluntarii, homo dicitur esse dominus suorum actuum. Sed bruta animalia non habent dominium sui actus, non enim agunt, sed magis aguntur, ut Damascenus dicit [De fide 2,27]. Ergo in brutis animalibus non est voluntarium. 3. Praeterea, Damascenus dicit [De fide 2,24] quod actus vohmtarios sequitur laus et vitu­ perium. Sed actibus brutorum animalium non debetur neque laus neque vituperium. Ergo in eis non est voluntarium. Sed contra est quod dicit philosophus, in 3 Ethic. [2,2], quod pueri et bntta animalia com­ municant voluntario. Et idem dicunt Dama­ scenus [De fide 2,24] et Gregorius Nyssenus [De nat. horn. 32]. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1], ad rationem voluntarii requiritur quod principium actus sit intra, cum aliqua cognitio­ ne finis. Est autem duplex cognitio finis, per­ fecta scilicet, et imperfecta. Perfecta quidem fin i s cognitio est quando non solum ap-

    Sembra di no. Infatti: l . Volontarietà deriva da volontà; ma la vo­ lontà, trovandosi nella ragione, non può trovarsi negli animali bruti, come dice Aristo­ tele. Quindi i n questi non ci può essere la volontarietà. 2. Si dice che l'uomo è padrone dei suoi atti in quanto gli atti umani sono volontari. Ma gli animali non hanno il dominio dei propri atti: poiché essi «sono piuttosto azionati che atti­ vi», come dice il Damasceno. Quindi negli animali bruti non c'è volontarietà. 3. Il Damasceno dice: «Agli atti volontari so­ no connessi la lode e il biasimo». Ma gli atti dei bruti non meritano né lode, né biasimo. Quindi in essi non c'è volontarietà. In contrario: il Filosofo dice: «I bambini e gli animali bruti hanno in comune la volonta­ rietà». E lo stesso dicono il Damasceno e Gregorio di Nissa [Nemesio]. Risposta: la volontarietà richiede che il princi­ pio dell' atto sia interiore e accompagnato dal­ la conoscenza del fine. Ora, ci sono due modi di conoscere il fine, cioè perfettamente e im­ perfettamente. La conoscenza del fine è per­ fetta quando non solo viene percepita la cosa che costituisce il fine, ma viene conosciuto anche il suo aspetto di fine, e il rapporto di quanto è ordinato al fine col fine medesimo: e

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    La volontarietà e l 'involontarietà degli atti

    Q. 6, A. 2

    prehenditur res quae est finis sed etiam co­ gnoscitur ratio finis, et proportio eius quod ordinatur in finem ad ipsum. Et talis cognitio finis competit soli rationali naturae. Imperfec­ ta autem cognitio finis est quae in sola finis apprehensione consistit, sine hoc quod cogno­ scatur ratio finis, et proportio actus ad finem. Et talis cognitio finis invenitur in brutis ani­ malibus, per sensum et aestimationem natura­ lem. - Pertectam igitur cognitionem finis sequi­ tur voluntarium secundum rationem perfec­ tam, prout scilicet, apprehenso tine, aliquis potest, deliberans de fine et de his quae sunt ad finem, moveri in finem vel non moveri. lmperfectam autem cognitionem finis sequi­ tur voluntarium secundum rationem imper­ fectam, prout scilicet apprehendens finem non deliberat, sed subito movetur in ipsum. Unde soli rationali naturae competit volunta­ rium secundum rationem perfectam, sed se­ cundum rationem imperfectam, competit etiam brutis animalibus. Ad primum ergo dicendum quod voluntas nominat rationalem appetitum, et ideo non potest esse in his quae ratione carent. Volunta­ rium autem denominative dicitur a voluntate, et potest trahi ad ea in quibus est aliqua parti­ cipatio voluntatis, secundum aliquam conve­ n i e n t i a m ad v o l u n t a t em. Et h o c modo voluntarium attribuitur animalibus brutis, in­ quantum scilicet per cognitionem aliquam moventur in finem. Ad secundum dicendum quod ex hoc contin­ git quod homo est dominus sui actus, quod habet deliberationem de suis actibus, ex hoc enim quod ratio deliberans se habet ad appo­ sita, voluntas in utrumque potest. Sed secun­ dum hoc voluntarium non est in brutis anima­ Iibus, ut dictum est [co.]. Ad tertium dicendum quod laus et vituperium consequuntur actum voluntarium secundum perfectam voluntarii rationem; qualis non invenitur in brutis.

    tale conoscenza del fine appartiene soltanto all'essere razionale. Invece è imperfetta quel­ la conoscenza del fine che consiste nella sola percezione del fine senza conoscerne l'aspet­ to di fine, e il rapporto dell'atto col fine: e tale conoscenza del fine si trova negli animali bruti mediante il senso e l'istinto naturale. Quindi la volontarietà petfetta accompagna la perfetta conoscenza del fine: per cui uno, dopo la percezione del fine, è in grado di deli­ berare prima di tutto sul fine e sui mezzi diret­ ti al fine, e quindi di muoversi o di non muo­ versi verso di esso. Invece la conoscenza imperfetta del fine è accompagnata da una volontarietà imperfetta: per cui l'essere che percepisce il fine non delibera, ma subito si muove verso di esso. Quindi soltanto la natu­ ra razionale possiede la volontarietà perfetta. Tuttavia una certa volontarietà imperfetta compete anche agli animali bruti. Soluzione delle difficoltà: l . La volontà sta a indicare l'appetito razionale: perciò non si può trovare negli esseri privi di ragione. Inve­ ce la volontarietà deriva il suo nome dalla vo­ lontà, e può estendersi alle cose che in qual­ che modo ne partecipano, per un rapporto con essa. Ed è in questa maniera che agli animali bruti viene attribuita la volontarietà, cioè in quanto si muovono verso il fine mediante una certa conoscenza. 2. L'uomo è padrone dei suoi atti giacché può deliberare su di essi. Intàtti la volontà è indif­ ferente verso più soluzioni, poiché la ragione può avere di mira gli opposti. Ma la volonta­ rietà non si trova negli animali bruti in questo modo, come si è spiegato. 3. La lode e il biasimo accompagnano l'atto volontario secondo la volontarietà perfetta, che non si trova nei bruti.

    Articulus 3 Utrum voluntarium possit esse absque omni actu

    Articolo 3 Ci può essere volontarietà senza alcun atto?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod vo­ luntarium non possit esse sine actu. l . Voluntarium enim dicitur quod e s t a voluntate. Sed nihil potest esse a voluntate

    Sembra di no. Infatti: l . Ciò che è volontario deriva dalla volontà. Ma nulla può venire dalla volontà se non me­ diante un atto, almeno della volontà stessa.

    Q. 6, A. 3

    La volontarietà e / 'involontarietà degli atti

    nisi per aliquem actum, ad minus ipsius vo­ luntatis. Ergo voluntarium non potest esse sine actu. 2. Praeterea, sicut per actum voluntatis dicitur aliquis velle, ita cessante actu voluntatis dicitur non velle. Sed non velle involuntarium causat, quod opponitur volontario. Ergo voluntarium non potest esse, actu voluntatis cessante. 3. Praeterea, de ratione voluntarii est cognitio, ut dictum est [aa. 1-2]. Sed cognitio est per aliquem actum. Ergo voluntarium non potest esse absque aliquo actu. Sed contra, illud cuius domini sumus, dicitur esse voluntarium. Sed nos domini sumus eius quod est agere et non agere, velle et non velle. Ergo sicut agere et velle est voluntarium, ita et non agere et non velle. Respondeo dicendum quod voluntarium dici­ tur quod est a voluntate. Ab aliquo autem di­ citur esse aliquid dupliciter. Uno modo, di­ recte, quod scilicet procedit ab aliquo inquan­ tum est agens, sicut calefactio a calore. Alio modo, indirecte, ex hoc ipso quod non agit, sicut submersio navis dicitur esse a guberna­ tore, inquantum desistit a gubernando. Sed sciendum quod non semper id quod sequitur ad defectum actionis, reducitur sicut in cau­ sam in agens, ex eo quod non agit, sed salurn tunc cum potest et debet agere. Si enim gu­ bernator non posset navem dirigere, vel non esset ei commissa gubernatio navis, non im­ putaretur ei navis submersio, quae per absen­ tiam gubematoris contingeret. - Quia igitur vo­ luntas, volendo et agendo, potest impedire hoc quod est non velle et non agere, et ali­ quando debet; hoc quod est non velle et non agere, imputatur ei, quasi ab ipsa existens. Et sic voluntarium potest esse absque actu, quandoque quidem absque actu exteriori, cum actu interiori, sicut cum vult non agere; aliquando autem et absque actu interiori, sicut cum non vult. Ad primum ergo dicendum quod voluntarium dicitur non solum quod procedit a voluntate directe, sicut ab agente; sed etiam quod est ab ea indirecte, sicut a non agente. Ad secundum dicendum quod non velle dicitur dupliciter. Uno modo, prout sumitur in vi unius dictionis, secundum quod est infiniti­ vum huius verbi nolo. Unde sicut cum dico nolo legere, sensus est, volo non legere; ita

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    Quindi non ci può essere volontarietà senza un qualche atto. 2. Come si dice che uno vuole con un atto della volontà, così si dice che non vuole se questo atto viene a cessare. Ma il non volere causa l' involontarietà, che è l'opposto della volontarietà. Quindi non ci può essere volon­ tarietà se manca l'atto della volontà. 3. La conoscenza è essenziale alla volonta­ rietà, come si è detto. Ma la conoscenza av­ viene mediante un atto. Quindi non ci può essere volontarietà senza un qualche atto. In contrario: si dice che è volontario ciò di cui siamo padroni. Ma noi siamo padroni di agire e di non agire, di volere e di non volere. Co­ me quindi è volontario l'agire e il volere, così lo è pure il non agire e il non volere. Risposta: la volontarietà deriva dalla volontà. Ora, si dice che una cosa deriva da un'altra in due modi. Primo, direttamente, cioè come dal­ la causa agente: p. es. come il riscaldamento dal calore. Secondo, indirettamente, cioè per il fatto stesso che non agisce: come si dice che il naufragio della nave dipende dal pilota perché egli ha cessato di pilotare. Bisogna notare tut­ tavia che il risultato di un'azione mancata non deve essere sempre atttibuito alla causalità dell'agente per il semplice fatto che esso non agisce, ma soltanto quando esso può e deve agire. Se intàtti il pilota non potesse più ditige­ re la nave, oppure non fosse stato affidato a lui il suo comando, non gli si potrebbe imputare l'eventuale naufragio della nave che si verifi­ casse per l'assenza del pilota. - Ora, dato che la volontà con il volere e con l'agire può eli­ minare l ' assenza del volere e dell'agire, e qualche volta è tenuta a farlo, il fatto stesso di non volere e di non agire viene ad essa impu­ tato, come determinato da essa. E in questo caso ci può essere volontarietà anche senza atto: qualche volta senza l'atto esterno, ma con un atto interno, come quando si vuole non agire; altre volte anche senza alcun atto inter­ no, come quando ci si astiene pal volere. Soluzione delle difficoltà: l . E volontario non solo ciò che deriva direttamente dalla volontà perché essa agisce, ma anche ciò che da essa dipende indirettamente perché non agisce. 2. L'espressione non volere viene usata in due sensi. Primo, come un'unica dizione, cioè co­ me se fosse l'infinito del verbo latino nolo [non voglio]. Per cui, come il dire: Nolo legere,

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    La volontarietà e l 'involontarietà degli atti

    Q. 6, A. 3

    hoc quod est non velle legere, significat velle non legere. Et sic non velle causat involunta­ rium. - Alia modo sumitur in vi orationis. Et tunc non affirmatur actus voluntatis. Et huius­ modi non velle non causat involuntarium. Ad tertium dicendum quod eo modo requiritur ad voluntarium actus cognitionis, sicut et actus voluntatis; ut scilicet sit in potestate alicuius considerare et velle et agere. Et tunc sicut non velle et non agere, cum tempus fuerit, est voluntarium, ita etiam non considerare.

    equivale a: Voglio non leggere, così non voler leggere significa avere la volontà di non leg­ gere. Quindi il non volere in questo senso determinerebbe un fatto involontario [se la lettura fosse imposta con violenza]. - Secon­ do, come suona. E allora viene negato ogni atto della volontà. E questo non volere non determina un fatto involontario. 3. L'atto del conoscere è richiesto per la vo­ lontarietà come l'atto del volere: deve essere cioè in potere di uno considerare, volere e agire. Come quindi è un fatto di volontarietà il non volere e il non agire nel tempo debito, così lo è pure il non considerare.

    Articulus 4 Utrum violentia voluntati possit inferri

    Articolo 4 Si può fare violenza alla volontà?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod vo­ luntati possit violentia inferri. l. Unumquodque enim potest cogi a potentiori. Sed aliquid est humana voluntate potentius, scilicet Deus. Ergo saltem ab eo cogi potest. 2. Praeterea, omne passivum cogitur a suo activo, quando immutatur ab eo. Sed voluntas est vis passiva, est enim movens motum, ut dicitur in 3 De anima [ 1 0, 1 .7]. Cum ergo aliquando moveatur a suo activo, videtur quod aliquando cogatur. 3. Praeterea, motus violentus est qui est con­ tra naturam. Sed motus voluntatis aliquando est contra naturam; ut patet de motu volunta­ tis ad peccandum, qui est contra naturam, ut Damascenus dicit [De fide 4,20]. Ergo motus voluntatis potest esse coactus. Sed contra est quod Augustinus dicit, in 5 De civ. Dei [ l 0], quod si aliqui d fit voluntate, non fit ex necessitate. Omne autem coactum fit ex necessitate. Ergo quod fit ex voluntate, non potest esse coactum. Ergo voluntas non potest cogi ad agendum. Respondeo dicendum quod duplex est actus voluntatis, unus quidem qui est eius i m­ mediate, velut ab ipsa elicitus, scilicet velle; alius autem est actus voluntatis a voluntate imperatus, et mediante alia potentia exercitus, ut ambulare et loqui, qui a voluntate imperan­ tur mediante potentia motiva. Quantum igitur ad actus a voluntate imperatos, voluntas vio­ lentiam patì potest, inquantum per violentiam exteriora membra impediri possunt ne impe­ rium voluntatis exequantur. Sed quantum ad

    Sembra di sì. Infatti: l . Qualsiasi cosa può essere costretta da chi è più potente di essa. Ma esiste un essere che è più potente della volontà umana, cioè Dio. Quindi essa può venire costretta almeno da lui. 2. Ogni elemento passivo viene costretto dal­ l' elemento attivo corrispondente, sotto la mo­ zione di questo. Ma la volontà è una potenza passiva, essendo «Un motore mosso», come dice Aristotele. Siccome dunque tale mozione talvolta avviene, sembra che talvolta essa venga costretta. 3. Un moto contro natura è violento. Ma il moto della volontà qualche volta è contro natura, come è evidente nel moto della vo­ lontà verso il peccato, che è contro natura, se­ condo l'espressione del Damasceno. Quindi il moto della volontà può essere costretto. In contrario: Agostino dice che se una cosa avviene per volontà non avviene per neces­ sità. Ma tutto ciò che è per coazione avviene per necessità. Quindi ciò che avviene per volontà non può essere coatto. E così la vo­ lontà non può essere costretta ad agire. Risposta: due sono gli atti della volontà: il pri­ mo le appartiene immediatamente, poiché da essa promana, cioè il volere; il secondo ap­ partiene alla volontà perché è da essa coman­ dato, anche se viene compiuto da un'altra potenza, come camminare e parlare, che sono atti comandati dalla volontà mediante la facol­ tà del movimento. Quindi, rispetto agli atti da essa comandati la volontà può subire violenza, poiché con la violenza si può impedire che le

    Q. 6, A. 4

    La volontarietà e l 'involontarietà degli atti

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    ipsum proprium actum voluntatis, non potest ei violentia inferri. - Et huius ratio est quia actus voluntatis nihil est aliud quam inclinatio quaedam procedens ab interiori principio co­ gnoscente, sicut appetitus naturalis est quaedam inclinatio ab interiori principio et sine co­ gnitione. Quod autem est coactum vel violen­ tum, est ab exteriori principio. Unde contra rationem ipsius actus voluntatis est quod sit coactus vel violentus, sicut etiam est contra rationem naturalis inclinationis vel motus. Potest enim lapis per violentiam sursum ferri, sed quod iste motus violentus sit ex eius natu­ rali inclinatione, esse non potest. Similiter etiam potest homo per violentiam trahi, sed quod hoc sit ex eius voluntate, repugnat ra­ tioni violentiae. Ad primum ergo dicendum quod Deus, qui est potentior quam voluntas humana, potest voluntatem humanam movere; secundum il­ lud Prov. 21 [ l ], cor regis in manu Dei est, et quocumque voluerit, vertet illud. Sed si hoc esset per violentiam, iam non esset cum actu voluntatis nec ipsa voluntas moveretur, sed aliquid contra voluntatem. Ad secundum dicendum quod non semper est motus violentus, quando passivum immutatur a suo activo, sed quando hoc fit contra inte­ riorem inclinationem passivi. Alioquin omnes alterationes et generationes simplicium corpo­ rum essent innaturales et violentae. Sunt autem naturales, propter naturalem aptitudinem in­ teriorem materiae vel subiecti ad talem dispo­ sitionem. Et similiter quando voluntas movetur ab appetibili secundum propriam inclinatio­ nem, non est motus violentus, sed voluntarius. Ad tertium dicendum quod id in quod volun­ tas tendit peccando, etsi sit malum et contra rationalem naturam secundum rei veritatem, apprehenditur tamen ut bonum et conveniens naturae, inquantum est conveniens homini secundum aliquam passionem sensus, vel secundum aliquem habitum corruptum.

    membra eseguano il comando della volontà, ma all'atto proprio della volontà non è possi­ bile fare violenza. - E il motivo di ciò sta nel fatto che l'atto della volontà non è altro che una certa inclinazione originata da un princi­ pio interiore conoscitivo: come l'appetito na­ turale è un'inclinazione originata da un prin­ cipio interiore non conoscitivo. Invece la coa­ zione, o violenza, viene da un principio estrin­ seco. Quindi sarebbe contro la nozione stessa di atto volontario se questo fosse coatto o vio­ lento: come è anche contro la nozione di incli­ nazione o di moto naturale. Infatti con la vio­ lenza una pietra può essere portata in alto, ma non può essere che tale moto violento derivi dalla sua inclinazione naturale. E allo stesso modo anche un uomo può essere trascinato con la violenza, ma ripugna al concetto di vio­ lenza che tale fatto derivi dalla sua volontà. Soluzione delle difficoltà: l . Dio, che è più potente della volontà umana, può certamente muoverla, come è detto in Pr. Il cuore del re è in mano a Dio e lo dirige ovunque vuole. Ma se ciò avvenisse mediante una violenza sareb­ be incompatibile con l'atto della volontà, e non si avrebbe una mozione della volontà, ma un fatto ad essa contrario. 2. Quando l'elemento passivo viene modifica­ to da quello attivo non sempre si produce un moto violento, ma solo quando ciò avviene contro l'inclinazione interiore dell'elemento passivo. Altrimenti le alterazioni e le genera­ zioni dei corpi semplici sarebbero tutte inna­ turali e violente. Invece sono naturali, per la naturale attitudine interiore della materia o del soggetto alla nuova disposizione. E similmen­ te quando la volontà viene attratta dall'ogget­ to appetibile secondo la propria inclinazione non si ha un moto violento, ma volontario. 3. Sebbene l'oggetto verso cui tende la volon­ tà quando pecca sia realmente un male con­ trario alla ragione naturale, esso tuttavia viene considerato come un bene e come convenien­ te alla natura, in quanto conviene all'uomo secondo una qualche passione del senso, o secondo un'abitudine perversa.

    Articulus 5 Utrum violentia causet involuntarium

    Articolo 5 La violenza produce atti involontari?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod violentia non causet involuntarium.

    Sembra di no. Infatti: l . La volontarietà e l'involontarietà si desu-

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    La volontarietà e l 'involontarietà degli atti

    l . Voluntarium enim et involuntarium secun­ dum voluntatem dicuntur. Sed voluntati vio­ lentia infeni non potest, ut ostensum est [a. 4]. Ergo violentia involuntarium causare non potest. 2. Praeterea, id quod est involuntarium, est cum tristitia, ut Damascenus [De fide 2,24] et phi­ losophus [3 Ethic. l, 1 9] dicunt. Sed aliquando patitur aliquis violentiam, nec tamen inde trista­ tur. Ergo violentia non causat involuntruium. 3. Praeterea, id quod est a voluntate, non potest esse involuntarium. Sed aliqua violenta sunt a voluntate, sicut cum aliquis cum corpore gravi sursum ascendit; et sicut cum aliquis inflectit membra contra naturalem eorum flexibilita­ tem. Ergo violentia non causat involuntarium. Sed contra est quod philosophus [3 Ethic. 1,3] et Damascenus [De fide 2,24] dicunt, quod

    aliquid est involuntarium per violentiam. Respondeo dicendum quod violentia directe opponitur voluntario, sicut etiam et naturali. Commune est enim voluntario et naturali quod utrumque sit a principio intrinseco, violentum autem est a principio extrinseco . Et propter hoc, sicut in rebus quae cognitione carent, violentia aliquid facit contra naturam; ita in rebus cognoscentibus facit aliquid esse contra voluntatem. Quod autem est contra naturam, dicitur esse innaturale, et similiter quod est contra voluntatem, dicitur esse involuntarium. Unde violentia involuntarium causat. Ad primum ergo dicendum quod involun­ tarium voluntario opponitur. Dictum est autem supra [a. 4] quod voluntarium dicitur non solum actus qui est immediate ipsius voluntatis, sed etiam actus a voluntate impe­ ratus. Quantum igitur ad actum qui est im­ mediate ipsius voluntatis, ut supra [a. 4] dictum est, violentia voluntati infeni non po­ test, unde talem actum violentia involunta­ rium facere non potest. Sed quantum ad ac­ tum imperatum, voluntas potest pati violen­ tiam. Et quantum ad hunc actum, violentia in­ voluntarium facit. Ad secundum dicendum quod, sicut naturale dicitur quod est secundum inclinationem na­ turae, ita voluntarium dicitur quod est secun­ dum inclinationem voluntatis. Dicitur autem aliquid naturale dup liciter. Uno modo, quia est a natura sicut a plincipio activo, sicut cale­ facere est naturale igni. Alio modo, secundum principium passivum, quia scilicet est i n

    Q. 6, A. 5

    mono in rapporto alla volontà. M a alla vo­ lontà non si può fare violenza, come si è di­ mostrato. Quindi la violenza non può causare involontarietà. 2. Un fatto involontario è accompagnato dalla tristezza, come dicono i l Damasceno e i l Filosofo. Ma in certi casi chi patisce violenza non se ne rattrista. Quindi la violenza non provoca atti involontari. 3. Ciò che è dovuto alla volontà non può esse­ re involontario. Ma ci sono dei fatti violenti che sono dovuti alla volontà: come quando uno sale in alto nonostante la gravità del suo corpo, oppure quando piega le membra nel verso contrario alla loro flessibilità naturale. Quindi la violenza non causa involontarietà . In contratio: il Filosofo e il Damasceno dicono: «Ci sono dei fatti involontari dovuti a lla violenza>>. Risposta: la violenza si contrappone diretta­ mente alla volontarietà e alla spontaneità na­ turale. Tanto il fatto volontario quanto quello naturale derivano infatti da un p rincipio in­ trinseco, mentre il fatto violento deriva da un principio estrinseco. Come quindi negli esseri privi di conoscenza la violenza produce qual­ cosa di contrario alla natura, così in quelli do­ tati di conoscenza determina qualcosa di con­ trario alla volontà . E come ciò che è contro la natura viene detto innaturale, così ciò che è contrario alla volontà viene detto involontario. Quindi la violenza causa l'involontario. Soluzione delle difficoltà: l . L'involontarietà si oppone alla volontarietà . Ma sopra abbia­ mo spiegato che si denomina volontario non soltanto l'atto immediato della volontà, ma anche l'atto che è comandato dalla volontà. E abbiamo pure detto che rispetto ali' atto im­ mediato della volontà questa non può subire violenza: per cui la violenza non può ridurre quell'atto a un atto involontario. Invece la vo­ lontà può subire violenza rispetto agli atti im­ perati. E la violenza determina l'involontarie­ là proprio rispetto a tali atti. 2. Un fatto è detto volontario perché è confor­ me all'inclinazione della volontà, come viene detto naturale perché è conforme all'inclina­ zione della natura. Ma un fenomeno può dirsi naturale per due motivi. Primo, perché deriva dalla natura come da un principio attivo: co­ me Iiscaldare è naturale per il fuoco. Secon­ do, in forza di un principio passivo, cioè per-

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    La volontarietà e / 'involontarietà degli atti

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    natura inclinatio ad recipiendum actionem a principio extrinseco, sicut motus caeli dicitur esse naturalis, propter aptitudinem naturalem caelestis corporis ad talem motum, licet mo­ vens sit voluntarium. Et similiter voluntarium potest aliquid dici dupliciter, uno modo, se­ cundum actionem, puta cum aliquis vult aliquid agere; alio modo, secundum passionem, scilicet cum aliquis vult patì ab alio. Unde cum actio infertur ab aliquo exteriori, manente i n eo qui patitur voluntate patiendi, non est simpliciter violennun, quia licet ille qui patitur non conferat agendo, confert tamen volendo patì. Unde non potest dici involuntarium. Ad tertium dicendum quod, sicut philosophus dicit in 8 Phys. [4, 1 ] , motus animalis quo interdum movetur animai contra naturalem inclinationem corporis, etsi non sit naturalis corpori, est tamen quodammodo naturalis animali, cui naturale est quod secundum appetitum moveatur. Et ideo hoc non est violentum simpliciter, sed secundum quid. Et similiter est dicendum cum aliquis intlectit membra contra naturalem dispositionem. Hoc enim est violentum secundum quid, scilicet quantum ad membrum particulare non tamen simpliciter, quantum ad ipsum hominem.

    ché nella natura esiste un'inclinazione a rice­ vere l'azione da un principio estrinseco: come il moto del cielo è detto naturale per l' attitudi­ ne naturale del corpo celeste a un tale moto, sebbene il motore sia un essere dotato di vo­ lontà. E allo stesso modo un fatto può dirsi volontario in due modi: primo, all'attivo, co­ me quando si vuole compiere una data azio­ ne; secondo, al passivo, quando cioè la si vuo­ le subire da un altro. Perciò quando l' azione viene intlitta da un agente esterno rimanendo in colui che la subisce la volontà di subirla, allora l' atto non è violento assolutamente par­ l ando: poiché sebbene colui che s ubisce l'azione non vi contribuisca col suo agire, vi contribuisce però col suo voler subire. Quindi l 'atto non può essere considerato involontario. 3. Come spiega il Filosofo il movimento col quale gli animali talora si muovono contro l'inclinazione naturale dei corpi, sebbene non sia naturale per il loro corpo, tuttavia è natura­ le in qualche modo per gli animali, che sono fatti per muoversi seguendo l'appetito. Quindi questo è un fenomeno violento in senso non assoluto, ma soltanto relativo. - E lo stesso si dica del piegare le membra contro il loro ver­ so naturale. Questa infatti è un'azione violen­ ta in senso relativo, cioè rispetto a un membro particolare, ma non in senso assoluto, cioè in rapporto all'uomo come tale.

    Articulus 6 Utrum metus causet involuntarium simpliciter

    Articolo 6 Il timore può causare atti involontari in senso assoluto?

    Ad sextum sic proceditur. Videtur quod metus causet involuntarium simpliciter. l . Sicut enim violentia est respectu eius quod contrariatur praesentialiter voluntati, ita metus est respectu mali futuri quod repugnat volun­ tati. Sed violentia causat involuntarium sim­ pliciter. Ergo et metus involuntarium simpli­ citer causat. 2. Praeterea, quod est secundum se tale, quo­ libet addito remanet tale, sicut quod secun­ dum se est calidum, cuicumque coniungatur, nihilominus est calidum, ipso manente. Sed illud quod per metum agitur, secundum se est involuntarium. Ergo etiam adveniente metu est involuntmium. 3. Praeterea, quod sub conditione est tale, secundum quid est tale; quod autem absque

    Sembra di sì. Infatti: l . n timore sta al male futuro che ripugna alla volontà come la violenza sta a quanto contra­ sta la volontà come cosa presente. Ma la vio­ lenza causa atti involontari in senso assoluto. Quindi anche il timore causa l ' involontarietà in senso assoluto. 2. Ciò che di per sé ha una data qualità rimane tale qualunque cosa gli si aggiunga: come ciò che è caldo di per sé rimane sempre caldo fin­ ché non cessa di esistere, qualunque sia la cosa a cui viene congiunto. Ma un'azione compiuta per timore è involontaria di per sé. Quindi ri­ mane involontaria anche se interviene il timore. 3. Ciò che ha una data qualifica in forza di una condizione è tale sotto un certo aspetto; altrimenti è tale assolutamente parlando. Come

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    La volontarietà e l 'involontarietà degli atti

    conditione est tale, simpliciter est tale, sicut quod est necessarium ex conditione, est necessarium secundum quid; quod autem est necessarium absolute, est necessarium simpli­ citer. Sed id quod per metum agitur, est invo­ luntarium absolute, non est autem volunta­ rium nisi sub conditione, scilicet ut vitetur malum quod timetur. Ergo id quod per metum agitur, est simpliciter involuntarium. Sed contra est quod Gregorius Nyssenus [De nat. horn. 30] dicit, et etiam philosophus [3 Eth i c . l ,6] quod huiusmodi quae per metum aguntur, sunt magis voluntaria quam

    involuntaria. Respondeo dicendum quod, sicut philosophus dicit in 3 Ethic. [ l ,6], et idem dicit Gregorius Nyssenus i n libro suo De homine [De nat. horn. 30], huiusmodi quae per metum agun­ tur, mi.xta sunt ex voluntario et involuntario. Id enim quod per metum agitur, in se conside­ ratum, non est voluntarium, sed fit volun­ tarium in casu, scilicet ad vitandum malum quod timetur. - Sed si quis recte consideret, magis sunt huiusmodi voluntaria quam involun­ taria, sunt enim voluntaria simpliciter, invo­ lontaria autem secundum quid. Unumquodque enim simpliciter esse dicitur secundum quod est in actu, secundum autem quod est in sola apprehensione, non est simpliciter, sed se­ cundum quid. Hoc autem quod per metum agitur, secundum hoc est in actu, secundum quod fit, cum enim actus in singularibus sint, singulare autem, inquantum huiusmodi, est hic et nunc; secundum hoc id quod fit est in actu, secundum quod est hic et nunc et sub aliis conditionibus individualibus. Sic autem hoc quod fit per metum, est voluntarium, inquantum scilicet est hic et nunc, prout scili­ cet in hoc casu est impedimentum maioris mali quod timebatur, sicut proiectio mercium in mare fit voluntarium tempore tempestatis, propter timorem periculi. Unde manifestum est quod simpliciter voluntarium est. Unde et competit ei ratio voluntarii, quia principium eius est intra. - Sed quod accipiatur id quod per metum fit, ut extra hunc casum existens, prout repugnat voluntati, hoc non est nisi secundum considerationem tantum. Et ideo est involuntarium secundum quid, idest prout consideratur extra hunc casum existens. Ad primum ergo dicendum quod ea quae aguntur per metum et per vim, non solum

    Q. 6, A. 6

    il necessario ipotetico è necessario sotto un certo aspetto, mentre ciò che è essenzialmente necessario è tale assolutamente parlando. Ora, un'azione compiuta per timore è essenzial­ mente involontaria, e non è volontaria se non in forza di una condizione, cioè per evitare i l male che si teme. Quindi ciò che si compie per timore è involontario assolutamente parlando. In contrario: Gregorio Nisseno e il Filosofo insegnano che le cose fatte per timore sono «più volontarie che involontarie». Risposta: come insegnano concordemente il Filosofo e Gregorio Nisseno [Nemesio], le azioni compiute per timore «sono un misto di volontarietà e di involontarietà». Infatti l'azio­ ne compiuta per timore, considerata per se stessa, non è volontaria, ma diventa volontaria nella contingenza particolare, cioè per evitare il male che si teme. - Se però si considera la cosa attentamente, queste azioni sono più vo­ lontarie che involontarie: poiché sono volon­ tarie assolutamente parlando e involontarie sotto un certo aspetto. Infatti si dice che una cosa esiste in senso assoluto secondo che esi­ ste in atto, mentre in quanto esiste nella sola considerazione astratta ha un essere soltanto relativo. Ora, un'azione compiuta per timore esiste in atto nel modo in cui viene compiuta; e poiché gli atti consistono in fatti singolari, e il singolare come tale è una realtà ben circo­ stanziata, così l' azione che viene compiuta esiste in atto in quanto è definita nelle circo­ stanze di tempo e di luogo, con tutte le altre condizioni individuanti. Ed è per questo che l ' azione compiuta per timore è volontaria, proprio in quanto è un fatto concreto, cioè in quanto nel caso determinato è un rimedio a un male maggiore che si temeva: come getta­ re la merce in mare diviene un atto volontario durante la tempesta, per paura del pericolo. Quindi è evidente che, assolutamente parlan­ do, è un atto volontario. Perciò a una tale azione va attribuito anche il carattere proprio della volontarietà: poiché il suo principio è interiore. - Considerare invece l'azione com­ piuta per timore come avulsa dalle sue circo­ stanze determinate è soltanto un'astrazione. E così essa è un fatto involontario in senso rela­ tivo, cioè in quanto supposto esistente fuori delle circostanze concrete. Soluzione delle difficoltà: l . Le azioni com­ piute per timore differiscono da quelle dovute

    Q. 6, A. 6

    La volontarietà e / 'involontarietà degli atti

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    differunt secundum praesens et futurum, sed etiam secundum hoc, quod in eo quod agitur per vim, voluntas non consentit, sed omnino est contra motum voluntatis, sed id quod per metum agitur, fit voluntarium, ideo quia mo­ tus voluntatis fertur in id, licet non propter seipsum, sed propter aliud, scilicet ad repel­ lendum malum quod timetur. Sufficit enim ad rationem voluntarii quod sit propter aliud vo­ luntarium, voluntarium enim est non solum quod propter seipsum volumus ut finem, sed etiam quod propter aliud volumus ut propter finem. Patet ergo quod in eo quod per vim agitur, voluntas interior nihil agit, sed in eo quod per metum agitur, voluntas aliquid agit. Et ideo, ut Gregorius Nyssenus dicit [De nat. horn. 30] , ad excludendum ea quae per metum aguntur, in definitione violenti non solum dicitur quod violentum est cuius princi­ pium est extra, sed additur, nihil conferente vim passo, quia ad id quod agitur per metum, voluntas timentis aliquid confert. Ad secundum dicendum quod ea quae abso­ lute dicuntur, quolibet addito remanent talia, sicut calidum et album, sed ea quae relative dicuntur, variantur secundum comparationem ad diversa; quod enim est magnum compa­ ratum huic, est parvum comparatum alteri. Voluntarium autem dicitur aliquid non solum propter seipsum, quasi absolute, sed etiam propter aliud, quasi relative. Et ideo nihil prohibet aliquid quod non esset voluntarium alteri comparatum fieri voluntarium per com­ parationem ad aliud. Ad tertium dicendum quod illud quod per metum agitur, absque conditione est volunta­ rium, idest secundum quod actu agitur, sed involuntarium est sub conditione, idest si talis metus non immineret. Unde secundum illam rationem magis potest concludi oppositum.

    alla violenza non soltanto per il loro rispettivo rapporto a una cosa futura o presente, ma anche per il fatto che quanto si compie sotto la violenza è del tutto contrario alla mozione della volontà, mentre l'azione compiuta per timore diviene volontaria giacché la volontà si muove verso di essa, sebbene non abbia di mira tale azione, ma un'altra cosa, cioè la fuga del male che si teme. Infatti per avere la volon­ tarietà basta che una cosa sia voluta in vista di un'altra: per cui è volontaria non soltanto l'azione che vogliamo per se stessa come fine, tpa anche quella che vogliamo in vista del fine. E quindi evidente che la volontà interiore non prende parte in alcun modo a ciò che è dovuto alla violenza, mentre ha la sua parte nell' azio­ ne che si compie per timore. Quindi, come fa osservare Gregorio Nisseno [Nemesio], per escludere dalla definizione del violento le azio­ ni compiute per timore non si dice soltanto che «la violenza è una cosa che ha il suo principio al di fuori», ma si aggiunge: «Senza alcuna cooperazione del paziente»: proprio perché la volontà di chi teme coopera in qualche modo all'azione compiuta per timore. 2. Le cose che sono tali in senso assoluto, come il calore e la bianchezza, rimangono tali qualunque cosa ad esse sopravvenga, ma le cose che sono tali solo in senso relativo cam­ biano se vengono riferite a realtà diverse: in­ fatti ciò che è grande in rapporto a questo og­ getto è piccolo se viene paragonato a un altro. Ora, un fatto può essere volontario non solo per se stesso, in senso assoluto, ma anche in rapporto a un altro fatto, cioè in senso relati­ vo. Quindi nulla impedisce che ciò che in rap­ porto a una data cosa non sarebbe volontario diventi volontario in rapporto a un'altra. 3. L' atto compiuto per timore, prescindendo da ogni condizione, cioè in quanto viene posto attualmente, è volontario; è involontario invece in rapporto a una data condizione, cioè se non incombesse quel dato timore. Stando perciò all'argomento bisognerebbe piuttosto concludere il contrario.

    Articulus 7 Utrum concupiscentia causet involuntarium

    Articolo 7 La concupiscenza può causare atti involontari?

    Ad septimum sic proceditur. Videtur quod concupiscentia causet involuntarium.

    Sembra di sì. Infatti: l . La concupiscenza è una passione, come il

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    La volontarietà e l 'involontarietà degli atti

    l . Sicut enim metus est quaedam passio, ita et concupiscentia. Sed metus causat quodammo­ do involuntarium. Ergo etiam concupiscentia. 2. Praeterea, sicut per timorem timidus agit contra id quod proponebat, ita incontinens propter concupiscentiam. Sed timor aliquo modo causat involuntarium. Ergo et concupi­ scentia. 3. Praeterea, ad voluntarium requiritur cogni­ tio. Sed concupiscentia corrumpit cognitio­ nem, dicit enim philosophus, in 6 Ethic. [5,6] , quod delectatio, sive concupiscentia delec­ tationis, corntmpit aestimationem pntdentiae. Ergo concupiscentia causat involuntarium. Sed contra est quod Damascenus dicit [De fide 2,24], involuntarium est misericordia ve!

    indulgentia dignum, et cum tristitia agitur. Sed neutrum horum competit ei quod per concupiscentiam agitur. Ergo concupiscentia non causat involuntarium. Respondeo dicendum quod concupiscentia non causat involuntarium, sed magis facit aliquid voluntarium. Dicitur enim aliquid vo­ luntarium ex eo quod voluntas in id fertur. Per concupiscentiam autem voluntas inclinatur ad volendum id quod concupiscitur. Et ideo con­ cupiscentia magis facit ad hoc quod aliquid sit voluntarium, quam quod sit involuntarium. Ad primum ergo dicendum quod timor est de malo, concupiscentia autem respicit bonum. Malum autem secundum se contrariatur vo­ luntati, sed bonum est voluntati consonum. Unde magis se habet timor ad causandum involuntarium quam concupiscentia. Ad secundum dicendum quod in eo qui per metum aliquid agit, manet repugnantia volun­ tatis ad id quod agitur, secundum quod in se consideratur. Sed in eo qui agit aliquid per concupiscentiam, sicut est incontinens, non manet prior voluntas, qua repudiabat illud quod concupiscitur, sed mutatur ad volendum id quod prius repudiabat. Et ideo quod per metum agitur, quodammodo est involuntarium, sed quod per concupiscentiam agitur, nullo modo. Nam incontinens concupiscentiae agit contra id quod prius proponebat, non autem contra id quod nunc vult, sed timidus agit contra id quod etiam mmc secundum se vult. Ad tertium dicendum quod, si concupiscentia totaliter cognitionem auferret, sicut contingit in illis qui propter concupiscentiam tìunt amentes, sequeretur quod concupiscentia

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    timore. Ma il timore, a suo modo, causa atti involontari. Quindi anche la concupiscenza. 2. Come il pauroso agisce per timore contro i suoi intendimenti, così pure l'incontinente a motivo della concupiscenza. Ma il timore in qualche modo causa atti involontari. Quindi anche la concupiscenza. 3. Per la volontarietà si richiede la conoscen­ za. Ma la concupiscenza perverte la cono­ scenza: infatti il Filosofo afferma che «il pia­ cere - cioè la concupiscenza del piacere perverte il giudizio prudenziale». Quindi la concupiscenza causa involontarietà. In contrario: il Damasceno scrive: «L'atto involontario è degno di misericordia o di indulgenza, ed è compiuto con tristezza». Ma nessuna delle due cose spetta a quanto viene compiuto per concupiscenza. Quindi la con­ cupiscenza non causa atti involontari. Risposta: la concupiscenza non causa atti in­ volontari, ma piuttosto ne provoca la volonta­ rietà. Infatti si dice che un'azione è volontaria perché la volontà si inclina verso di essa. Ma la concupiscenza inclina la volontà a volere ciò che essa stessa appetisce. Quindi la con­ cupiscenza contribuisce più a rendere volon­ taria un'azione che a renderla involontaria. Soluzione delle difficoltà: l . Mentre il timore ha per oggetto il male, la concupiscenza ha per oggetto il bene. Ora, il male di per sé ripu­ gna alla volontà, mentre il bene è consono ad essa. Quindi il timore è più adatto della con­ cupiscenza a causare atti involontari. 2. In chi agisce per timore rimane la ripu­ gnanza della volontà verso l'azione che viene compiuta, considerata per se stessa. Invece in chi agisce per concupiscenza, p. es. nell'in­ continente, non rimane la volontà che in ante­ cedenza ripudiava l' allettamento, ma essa passa a volere ciò che prima ripudiava. Quin­ di ciò che viene compiuto per timore in qual­ che modo è involontario, mentre non lo è in alcun modo ciò che è compiuto per concupi­ scenza. Infatti chi non sa tenere a freno la concupiscenza agisce contro ciò che prima si proponeva, ma non contro ciò che vuole ades­ so; invece chi teme agisce contro ciò che anche adesso vuole di per sé. 3. Se la concupiscenza togliesse completamen­ te la conoscenza, come capita in coloro che a motivo di essa diventano pazzi, allora distrug­ gerebbe la volontarietà. Però neppure in questo

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    La volontarietà e / 'involontarietà degli atti

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    voluntarium tolleret. Nec tamen proprie esset ibi involuntarium, quia in his quae usum ra­ tionis non habent, neque voluntarium est ne­ que involuntarium. Sed quandoque in his quae per concupiscentiam aguntur, non tota­ liter tollitur cognitio, quia non tollitur potestas cognoscendi; sed solum consideratio actualis in particulari agibili. Et tamen hoc ipsum est voluntarium, secundum quod voluntarium di­ citur quod est in potestate voluntatis, ut non agere et non velle, similiter autem et non considerare, potest enim voluntas passioni re­ sistere, ut infra [q. lO a. 3; q. 77 a. 7] dicetur.

    caso si avrebbe un fatto involontario: poiché negli esseri privi di ragione non esistono né atti volontari né atti involontari. Tuttavia qualche volta negli atti compiuti per concupiscenza la conoscenza non è assente totalmente, poiché non viene a mancare la facoltà di conoscere, ma solo la considerazione attuale in un'azione particolare. Comunque anche tale atto è volon­ tario, in quanto si dice volontario quanto rica­ de sotto il potere della volontà, come il non agire e il non volere, e così pure anche il non considerare: infatti la volontà ha il potere di resistere alla passione, come vedremo.

    Articulus 8 Utrum ignorantia causet involuntarium

    Articolo 8 L'ignoranza può causare atti involontari?

    Ad octavum sic proceditur. Videtur quod ignorantia non causet involuntarium. l . lnvoluntarium enim veniam meretur, ut Damascenus dicit [De fide 2,24]. Sed inter­ dum quod per ignorantiam agitur, veniam non meretur; secundum illud l ad Cor. 14 [38], si quis ignorat, ignorabitur. Ergo ignorantia non causat involuntarium. 2. Praeterea, omne peccatum est cum igno­ rantia; secundum illud Prov. 14 [22], errant qui operantur malum. Si igitur ignorantia involuntarium causet, sequeretur quod omne peccatum esset involuntarium. Quod est con­ tra Augustinum dicentem [De vera rei. 1 4] quod omne peccatum est voluntarium. 3. Praeterea, involuntarium cum tristitia est, ut Damascenus dicit [De fide 2,24] . Sed quaedam ignoranter aguntur, et sine tristitia, puta si aliquis occidit hostem quem quaerit occidere, putans occi dere cervum. Ergo ignorantia non causat involuntarium. Sed contra est quod Damascenus [De fide 2,24] et philosophus [3 Ethic. 1 ,3] dicunt, quod involuntarium quoddam est per ignorantiam. Respondeo dicendum quod ignorantia habet causare involuntarium ea ratione qua privat cognitionem, quae praeexigitur ad volunta­ rium, ut supra [a. l ] dictum est. Non tamen quaelibet ignorantia huiusmodi cognitionem privat. Et ideo sciendum quod ignorantia tripliciter se habet ad actum voluntatis, uno modo, concomitanter; alio modo, conse­ quenter; tertio modo, antecedenter. Conco-

    Sembra di no. Infatti: l . «Un fatto involontario merita perdono», come dice il Damasceno. Invece certe azioni compiute per ignoranza non meritano perdo­ no, poiché in l Cor è detto: Chi ignora sarà ignorato. Quindi l'ignoranza non causa atti involontari. 2. Ogni peccato è accompagnato dall' igno­ ranza, secondo il detto di Pr: Errano coloro che operano il male. Se dunque l'ignoranza dovesse causare atti involontari ne seguirebbe che tutti i peccati sarebbero involontari. Ma ciò è contro quanto dice Agostino, che cioè «ogni peccato è volontario». 3. Come dice il Damasceno, >. Quindi le azioni umane non devono all' oggetto la loro bontà o la loro malizia. 2. L' oggetto è come la materia rispetto ali' o­ perazione. Ora, la bontà di una cosa non pro­ viene dalla materia, ma piuttosto dalla forma, che è un atto. Quindi il bene e il male non derivano alle nostre azioni dall'oggetto. 3. L'oggetto di una potenza attiva sta all'azio­ ne come un effetto sta alla causa. Ora, la bon­ tà di una cosa non dipende dall'effetto, ma piuttosto è vero il contrario. Quindi le azioni umane non devono la bontà o la malizia al loro oggetto. In contrario: in Os è detto: Diventarono abo­ minevoli come le cose che amarono. Ora, l ' uomo diventa abominevole dinanzi a Dio per la malizia delle sue opere. Quindi la mali­ zia dell'operare dipende dalla malizia dell' og-

    sunt abominabiles, sicut ea quae dilexerunt. Fit autem homo Deo abominabilis propter ma­ litiam suae operationis. Ergo malitia opera-

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    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

    tionis est secundum obiecta mala quae homo diligit. Et eadem ratio est de bonitate actionis. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1], bonum et malum actionis, sicut et cete­ rarum rerum, attenditur ex plenitudine essendi vel defectu ipsius. Primum autem quod ad plenitudinem essendi pertinere videtur, est id quod dat rei spec i e m . S i c u t autem res naturalis habet speciem ex sua forma, ita actio habet speciem ex obiecto; sicut et motus ex termino. Et ideo sicut prima bonitas rei na­ turalis attenditur ex sua forma, quae dat spe­ ciem ei, ita et prima bonitas actus moralis attenditur ex obiecto convenienti; unde et a quibusdam vocatur bonum ex genere; puta, uti re sua. Et sicut in rebus naturalibus pri­ mum malum est, si res generata non conse­ quitur formam specificam, puta si non gene­ retur homo, sed aliquid loco hominis; ita primum malum in actionibus moralibus est quod est ex obiecto, sicut accipere aliena. Et dicitur malum ex genere, genere pro specie accepto, eo modo loquendi quo dicimus humanum genus totam humanam speciem. Ad primum ergo dicendum quod, licet res exteriores sint in seipsis bonae, tamen non semper habent debitam proportionem ad hanc vel illam actionem. Et ideo inquantum consi­ derantur ut obiecta talium actionum, non habent rationem boni. Ad secundum dicendum quod obiectum non est materia ex qua, sed materia circa quam, et habet quodammodo rationem formae, in­ quantum dat speciem. Ad tertium dicendum quod non semper obiec­ tum actionis humanae est obiectum activae potentiae. Nam appetitiva potentia est quo­ dammodo passiva, inquantum movetur ab ap­ petibili, et tamen est principium humanorum actuum. - Neque etiam potentiarum activarum obiecta semper habent rationem effectus, sed quando iam sunt transmutata, sicut alimen­ tum transmutatum est effectus nutritivae po­ tentiae, sed alimentum nondum transmutatum comparatur ad potentiam nutritivam sicut ma­ teria circa quam operatur. Ex hoc autem quod obiectum est aliquo modo effectus potentiae activae, sequitur quod sit terminus actionis eius, et per consequens quod det ei formam et speciem, motus enim habet speciem a termi­ nis. - Et quamvis etiam bonitas actionis non causetur ex bonitate effectus, tamen ex hoc

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    getto che uno ama. E lo stesso si dica della bontà delle sue azioni. Risposta: come si è chiarito, il bene e il male dell' agire, come delle altre cose, viene desun­ to dalla pienezza o dall' incompletezza nel­ l 'essere. Ora, il primo elemento che contribui­ sce alla pienezza dell'essere è quello che dà a una cosa la sua specie. E come un essere cor­ poreo riceve la specie dalla sua forma, così l' azione riceve la specie dall' oggetto: come anche il moto dal termine. Come quindi la prima bontà di un essere fisico viene desunta dalla forma, che gli dona la specie, così la prima bontà dell' atto morale viene desunta dall' oggetto corrispettivo, per cui alcuni ne parlano come di un bene che è tale per il suo genere: come p. es. fare uso dei propri averi. E come il primo male per un essere corporeo è i l mancato raggiungimento della propria forma specifica - il fatto, p. es., che non è generato un uomo, ma qualcos' altro al posto di un uomo -, così il primo male per le azioni morali è quello che deriva dall'oggetto: p. es. prendere la roba altrui. E allora si parla di un male che è tale per il suo genere, prendendo il genere per la specie, come quando chiamia­ mo genere umano tutta la specie umana. Soluzione delle difficoltà: l . Sebbene le realtà esteriori in se stesse siano buone, tuttavia non sempre hanno la debita proporzione a questo o a quell' atto. Per cui in quanto sono conside­ rate come oggetto di tali atti, non sono buone. 2. L'oggetto non è la materia con la quale si compie un atto, bensì la materia intorno alla quale si agisce: esso perciò si presenta piutto­ sto come una forma, poiché dà la specie. 3. Non sempre l'oggetto dell'azione umana è l ' oggetto di una potenza attiva. Infatti la potenza appetitiva in qualche modo è passiva, poiché è mossa dall'oggetto appetibile: e tut­ tavia è il principio degli atti umani. - Del resto neppure I' oggetto delle potenze attive si presenta sempre come un effetto, ma solo quando ha già subìto una trasmutazione: co­ me gli alimenti assimilati sono un etl"etto del­ la potenza nutritiva, ma gli alimenti assimila­ bili stanno alla potenza nutritiva come la ma­ teria su cui essa opera. Dal fatto poi che l'og­ getto è in qualche maniera un effetto della potenza attiva segue che è tennine dell' agire di essa, e che quindi dà la forma e la specie all'azione: infatti il moto riceve la specie dal

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    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

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    dicitur actio bona, quod bonum effectum inducere potest. Et ita ipsa proportio actionis ad effectum, est ratio bonitatis ipsius.

    suo termine. - E sebbene la bontà dell'azione non sia causata dalla bontà dell'effetto, tutta­ via essa viene detta buona in quanto è capace di produrre un effetto buono. Quindi la stessa proporzione dell'azione all'effetto è il costitu­ tivo della sua bontà.

    Articulus 3 Utrum actio hominis sit bona vel mala ex circumstantia

    Articolo 3 Le azioni umane sono buone o cattive per le circostanze?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod actio non si t bona vel mala ex circumstantia. l . Circumstantiae enim circumstant actum sicut extra ipsum existentes, ut dictum est [q. 7 a. 1 ] . Sed bonum et malum sunt in ipsis rebus, ut dicitur in 6 Met. [5,4,1 ] . Ergo actio non habet bonitatem vel malitiam ex circumstantia. 2. Praeterea, bonitas vel malitia actus maxime consideratur in doctrina morum. Sed circum­ stantiae, cum sint quaedam accidentia actuum, videntur esse praeter considerationem artis, quia nulla ars considerar id quod est per acci­ dens, ut dicitur in 6 Met. [5,2, l ] . Ergo bonitas vel malitia actionis non est ex circumstantia. 3. Praeterea, id quod convenit alicui secun­ dum suam substantiam, non attribuitur ei per aliquod accidens. Sed bonum et malum con­ venit actioni secundum suam substantiam, quia actio ex suo genere potest esse bona vel mala, ut dictum est. Ergo non convenit actioni ex circumstantia quod sit bona vel mala. Sed contra est quod philosophus dicit, in libro Ethic. [2,3,5], quod viltuosus operatur secun­ dum quod oportet, et quando oportet, et se­ cundum alias circumstantias. Ergo ex contra­ rio vitiosus, secundum unumquodque vitium, operatur quando non oportet, ubi non oportet, et sic de aliis circumstantiis. Ergo actiones humanae secundum circumstantias sunt bo­ nae vel malae. Respondeo dicendum quod in rebus naturali­ bus non invenitur tota plenitudo pert'ectionis quae debetur rei, ex forma substantiali, quae dat speciem; sed multum superadditur ex su­ pervenientibus accidentibus, sicut in homine ex figura, ex colore, et huiusmodi; quorum si aliquod desit ad decentem habitudinem, con­ sequitur malum. Ita etiam est in actione. Nam plenitudo bonitatis eius non tota consistit in sua specie, sed aliquid additur ex his quae adveniunt tanquam accidentia quaedam. Et

    Sembra di no. Infatti: l . Le circostanze circondano l'atto quali dati esteriori, come si è spiegato in precedenza. Ma al dire di Aristotele «il bene e il male so­ no nelle cose stesse». Quindi gli atti non sono buoni o cattivi per le circostanze. 2. La bontà o la malizia dell'atto viene consi­ derata specialmente nell'etica. Ma le circo­ stanze, essendo accidenti degli atti, sono estranee alla considerazione delle scienze poi­ ché, come dice Aristotele, «nessun'arte consi­ dera ciò che è solo accidentale». Quindi la bontà o la malizia di un'azione non dipendo­ no dalle circostanze. 3. Ciò che appartiene a una cosa in forza della sua natura non le viene attribuito a motivo di qualche accidente. Ma il bene o il male appar­ tengono a un'azione in forza della sua natura: poiché, come si è detto, gli atti possono essere buoni o cattivi nel loro genere. Quindi un'azio­ ne non sarà buona o cattiva per le circostanze. In contrario: il Filosofo scrive che il virtuoso opera «Come si deve, quando si deve, e secon­ do le altre circostanze». Quindi al contrario il vizioso opera, secondo i diversi vizi, quando non si deve, dove non si deve, e così via per le altre circostanze. Quindi le azioni umane sono buone o cattive per le circostanze. Risposta: gli esseri corporei non devono tutta la pienezza della loro pert'ezione alla [sola] forma sostanziale, che determina la specie, ma devono molto anche agli accidenti che sopravvengono: come l'uomo molto deve alla figura, al colore e ad altre cose del genere; e se qualcuna di queste cose viene meno alla debita proporzione, abbiamo il male. Ora, la stessa cosa avviene anche nell'azione. Infatti la pienezza della sua bontà non consiste tutta nella sua specie, ma vi aggiungono qualcosa anche gli elementi accidentali che possono sopraggiungere. E tali sono le debite circo-

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    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

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    huiusmodi sunt circumstantiae debitae. Unde si aliquid desit quod requiratur ad debitas circumstantias, erit actio mala. Ad primum ergo dicendum quod circumstan­ tiae sunt extra actionem, inquantum non sunt de essentia actionis, sunt tamen in ipsa actio­ ne velut quaedam accidentia eius. Sicut et ac­ cidentia quae sunt in substantiis naturalibus, sunt extra essentias earum. Ad secundum dicendum quod non omnia ac­ cidentia per accidens se habent ad sua subiec­ ta, sed quaedam sunt per se accidentia; quae in unaquaque arte considerantur. Et per hunc modum considerantur circumstantiae actuum in doctrina morali. Ad tertium dicendum quod, cum bonum con­ vertatur cum ente, sicut ens dicitur secundum substantiam et secundum accidens, ita et bonum attiibuitur alicui et secundum esse suum essen­ tiale, et secundum esse accidentale, tam in rebus naturalibus, quam in actionibus moralibus.

    stanze. Se quindi manca un elemento richie­ sto perché si abbiano le debite circostanze, l'azione sarà cattiva. Soluzione delle difficoltà: l . Le circostanze sono esterne ali' atto perché non appartengono alla sua essenza; tuttavia si trovano n eli' atto medesimo come suoi accidenti. Come anche gli accidenti delle sostanze corporee sono estranei alla loro essenza. 2. Non tutti gli accidenti si trovano acciden­ talmente nel loro soggetto, ma ci sono degli accidenti propri, che ogni scienza deve pren­ dere in esame. E in questo modo vengono considerate le circostanze degli atti nell'etica. 3. Il bene si converte con l'ente: poiché dun­ que l'ente si predica delle sostanze e degli ac­ cidenti, così anche il bene può essere attribui­ to a una cosa sia secondo il suo essere sostan­ ziale che secondo il suo essere accidentale, tanto nel campo della natura quanto nel cam­ po delle azioni umane.

    Articulus 4 Utrum actio humana sit bona vel mala ex fine

    Articolo 4 Le azioni umane sono buone o cattive per il fine?

    Ad quartum sic proceditur. Vìdetur quod bonum et malum in actibus humanis non sint ex fine. l . Dicit enim Dionysius, 4 cap. De div. nom. [ 19.3 1], quod nihil respiciens ad malum opera­ tur. Si igitur ex fine derivaretur operatio bona vel mala, nulla actio esset mala. Quod patet esse falsum. 2. Praeterea, bonitas actus est aliquid in ipso exi­ stens. Finis autem est causa extrinseca Non ergo secundum fmem dicitur actio bona vel mala 3. Praeterea, contingit aliquam bonam opera­ tionem ad malum finem ordinari, sicut cum aliquis dat eleemosynam propter inanem glo­ riam, et e converso aliquam malam operatio­ nem ordinari ad bonum finem, sicut cum quis furatur ut det pauperi. Non ergo est ex fine actio bona vel mala. Sed contra est quod Boetius dicit, in Topic. [De Differ. Top. 2], quod cuius jinis bonus

    Sembra di no. Infatti: l. Dionigi afferma che «nessuno opera in vi­ sta del male». Se dunque il fatto che l'opera­ zione sia buona o cattiva dovesse derivare dal fine, nessun atto sarebbe cattivo. Il che evi­ dentemente è tàlso. 2. La bontà dell' atto è qualcosa di esistente in esso. Invece i l fine è una cosa estrinseca. Quindi le azioni non si dicono buone o cattive secondo il loro fine. 3. Un' azione buona può essere ordinata a un fine cattivo, come quando uno dà l'elemosina per vanagloria; e al contrario un'azione cattiva può essere ordinata a un fine buono, come quando uno ruba per soccorrere i poveri. Quin­ di l'azione non è buona o cattiva per il fine. In contrario: Boezio scrive che «la cosa il cui fine è buono è anch'essa buona; e quella il cui fine è cattivo è anch'essa cattiva». Risposta: le cose stanno alla bontà come stan­ no ali' essere. Ci sono infatti delle cose il cui essere non dipende da altro: e in esse basta considerare direttamente il loro essere. Ce ne sono invece di quelle il cui essere dipende da altro, per cui va messo in rapporto con la cau­ sa da cui dipende. Ora, come l 'essere di una

    est, ipsum quoque bonum est, et cuius finis malus est, ipsum quoque malwn est. Respondeo dicendum quod eadem est disposi­ tio rerum in bonitate, et in esse. Sunt enim quaedam quorum esse ex allo non dependet, et in his sufficit considerare ipsum eorum esse absolute. Quaedam vero sunt quorum esse de-

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    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

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    pendet ab allo, unde oportet quod consideretur per considerationem ad causam a qua depen­ det. Sicut autem esse rei dependet ab agente et forma, ita bonitas rei dependet a fine. Unde in personis divinis, quae non habent bonitatem dependentem ab allo, non consideratur allqua ratio bonitatis ex fine. Actiones autem huma­ nae, et alia quorum bonitas dependet ab alio, habent rationem bonitatis ex fine a quo depen­ dent, praeter bonitatem absolutam quae in eis existit. - Sic igitur in actione humana bonitas quadruplex consideraTi potest. Una quidem secundum genus, prout scilicet est actio, quia quantum habet de actione et entitate, tantum habet de bonitate, ut dictum est [a. 1 ] . Alia vero secundum speciem, quae accipitur secun­ dum obiectum conveniens. Tertia secundum circumstantias, quasi secundum accidentia quaedam. Quarta autem secundum finem, qua­ si secundum habitudinem ad causam bonitatis. Ad primum ergo dicendum quod bonum ad quod allquis respiciens operatur, non semper est verum bonum; sed quandoque verum bo­ num, et quandoque apparens. Et secundum hoc, ex fine sequitur actio mala. Ad secundum dicendum quod, quamvis finis sit causa extrinseca, tamen debita proportio ad finem et relatio in ipsum, inhaeret actioni. Ad tertium dicendum quod nihil prohibet actio­ ni habenti unam praedictarum bonitatum, deesse allam. Et secundum hoc, contingit actio­ nem quae est bona secundum speciem suam vel secundum circumstantias, ordinari ad finem malum, et e converso. Non tamen est actio bo­ na simpliciter, nisi omnes bonitates concurrant, quia quilibet singularis defectus causat malum, bonum autem causatur ex integra causa, ut Dionysius dicit, 4 cap. De div. nom. [30].

    cosa dipende dalla causa agente e dalla for­ ma, così la sua bontà dipende dal fine. Per cui la bontà delle persone divine, che non dipen­ de da altro, non ha alcun rapporto con il fine. Invece le azioni umane, e tutte le altre cose la cui bontà dipende da altro, desumono la loro bontà dal fine a cui tendono, oltre che dalla bontà intrinseca esistente in esse. - Si posso­ no quindi considerare quattro tipi di bontà nell'azione umana. La prima generica, cioè dell'azione come tale: poiché l'agire, come si è detto, per quanto ha di atto e di entità, altret­ tanto ha di bontà. La seconda specifica: che dipende dall'oggetto proporzionato. La terza secondo le circostanze, come se fossero degli accidenti. La quarta poi secondo il fine, cioè quasi in rapp01to alla causa della bontà. Soluzione delle difficoltà: l . D bene che uno ha di mira nell'operare non sempre è un bene vero, ma a volte vero e a volte apparente. E in base a ciò un'azione è cattiva in dipendenza dal fine. 2. Sebbene il fine sia una cosa estrinseca, tut­ tavia la debita proporzione al fine, come la relazione ad esso, è inerente all'azione. 3. Nulla impedisce che un atto possa avere una delle bontà enumerate e mancare delle altre. E così può capitare che un'azione, buo­ na nella sua specie o per le circostanze, sia ordinata a un fine cattivo, e viceversa. Però l'azione non è buona puramente e semplice­ mente se non vi concorrono tutti i tipi di bon­ tà: poiché, come insegna Dionigi, «qualsiasi difetto particolare causa il male, mentre il be­ ne risulta dall'integrità delle sue cause».

    Articulus 5 Utrum aliqua actio humana sit bona vel mala in sua specie

    Articolo 5 Un'azione umana è nella sua specie buona o cattiva?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod actus morales non differant specie secundum bo­ num et malum. l . Bonum enim et malum in actibus invenitur conformiter rebus, ut dictum est [a 1]. Sed in rebus bonum et malum non diversificant spe­ ciem, idem enim specie est homo bonus et malus. Ergo neque etiam bonum et malum in actibus diversificant speciem.

    Sembra di no. Infatti: l . Si è già detto che il bene e il male si trova­ no negli atti come si trovano nelle cose. Ma nelle cose il bene e il male non hanno una dif­ ferenza specifica: infatti l'uomo buono e quel­ lo cattivo sono dell' identica specie. Quindi il bene e il male non costituiscono specie distin­ te neppure negli atti. 2. ll male, essendo una privazione, è un non

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    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

    2. Praeterea, malum, cum sit privatio, est quoddam non ens. Sed non ens non potest esse differentia, secundum philosophum, in 3 Met. [2,3,8]. Cum ergo differentia constituat speciem, videtur quod aliquis actus, ex hoc quod est malus, non constituatur in aliqua specie. Et ita bonum et malum non diversifi­ cant speciem humanorum actuum. 3. Praeterea, diversorum actuum secundum speciem, diversi sunt effectus. Sed idem spe­ cie effectus potest consequi ex actu bono et malo, sicut homo generatur ex adulterio, et ex matrimoniali concubitu. Ergo actus bonus et malus non differunt specie. 4. Praeterea, bonum et malum dicitur in acri­ bus quandoque secundum circumstantiam, ut dictum est [a. 3]. Sed circumstantia, cum sit accidens, non dat speciem actui. Ergo actus humani non differunt specie propter bonita­ tem et malitiam. Sed contra, secundum philosophum, in 2 Ethic. [ 1 ,7], similes habitus similes actus reddunt. Sed habitus bonus et malus differunt specie, ut liberalitas et prodigalitas. Ergo et actus bonus et malus differunt specie. Respondeo dicendum quod ornnis actus spe­ ciem habet ex suo obiecto, sicut supra [a. 2] dictum est. Unde oportet quod aliqua diffe­ rentia obiecti faciat diversitatem speciei in ac­ tibus. Est autem considerandum quod aliqua differentia obiecti tàcit diftèrentiam speciei in actibus, secundum quod referuntur ad unum principium activum, quod non facit differen­ tiam in actibus, secundum quod referuntur ad aliud principium activum. Quia nihil quod est per accidens, constituit speciem, sed salurn quod est per se, potest autem aliqua differentia obiecti esse per se in comparatione ad unum activum principium, et per accidens i n comparatione ad aliud; sicut cognoscere colo­ rem et sonum, per se differunt per comparatio­ nem ad sensum, non autem per compara­ tionem ad intellectum. - In actibus autem hu­ manis bonum et malum dicitur per compara­ tionem ad rationem, quia, ut Dionysius dicit, 4 cap. De div. nom. [32], bonum hominis est secundum rationem esse, malum autem quod est praeter rationem. Unicuique enim rei est bonum quod convenit ei secundum suam formam; et malum quod est ei praeter ordinem suae formae. Patet ergo quod diftèrentia boni et mali circa obiectum considerata, compa-

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    ente. Ma un non ente non può essere una dif­ ferenza, come insegna il Filosofo. Poiché dunque la differenza costituisce la specie, è evidente che un atto non viene a inserirsi in una specie per il fatto che è cattivo. E così il bene e il male non determinano una differen­ za specifica tra gli atti umani. 3. Atti specificamente diversi devono avere effetti diversi. Ma da atti buoni e da atti cattivi è possibile avere il medesimo effetto specifi­ co: un uomo, p. es., può essere generato da un adulterio o da un atto coniugale. Quindi un atto buono non differisce specificamente da un atto cattivo. 4. Come si è visto, talora la bontà o la malizia di un atto dipendono dalle circostanze. Ma la circostanza, essendo un accidente, non può determinare la specie dell'atto. Quindi gli atti umani non differiscono nella specie per la loro bontà o malizia. In contrario: secondo il Filosofo, «abiti simili rendono simili gli atti». Ma un abito buono differisce specificamente da un abito cattivo: come la liberalità dalla prodigalità. Quindi anche l'atto buono differisce specificamente dall'atto cattivo. Risposta: ogni atto riceye la specie dal suo og­ getto, come si è visto. E quindi necessario che una differenza di oggetti produca una diversità specifica negli atti. Bisogna però considerare che certe differenze di oggetto producono dif­ ferenze specifiche negli atti in quanto si riferi­ scono a un determinato principio attivo, men­ tre non lo tànno in rapporto a un altro princi­ pio attivo. E questo perché ciò che è acciden­ tale non può costituire la specie, ma lo può solo ciò che è essenziale; ora, una differenza di oggetto può essere essenziale in rapporto a un determinato principio attivo e accidentale in rapporto a un altro: come il conoscere il co­ lore piuttosto che il suono costituisce una dif­ ferenza essenziale in rapporto ai sensi, non in­ vece in rapporto all'intelletto. - Ora, gli atti u­ mani vengono denominati buoni o cattivi in rapporto alla ragione; poiché, come insegna Dionigi, il bene umano consiste «nell'essere conforme alla ragione», e il male nell'essere «contrario alla ragione». Infatti per ogni cosa è bene ciò che le si addice secondo la sua for­ ma, e male ciò che contrasta con essa. Quindi è evidente che la differenza tra bene e male in rapporto all'oggetto ha un rapporto essenziale

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    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

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    ratur per se ad rationem, scilicet secundum quod obiectum est ei conveniens vel non con­ veniens. Dicuntur autem aliqui actus humani, vel morales, secundum quod sunt a ratione. Unde manifestum est quod bonum et malum diversificant speciem in actibus moralibus, differentiae enim per se diversificant speciem. Ad primum ergo dicendum quod etiam in rebus naturalibus bonum et malum, quod est secundum naturam et contra naturam, diversi­ ficant speciem naturae, corpus enim mortuum et corpus vivum non sunt eiusdem speciei. Et similiter bonum, inquantum est secundum ra­ tionem, et malum, inquantum est praeter ra­ tionem, diversificant speciem moris. Ad secundum dicendum quod malum impor­ tat privationem non absolutam, sed consequen­ tem talem potentiam. Dicitur enim malus actus secundum suam speciem, non ex eo quod nul­ lum habeat obiectum; sed quia habet obiectum non conveniens rationi, sicut tollere aliena. Unde inquantum obiectum est aliquid positive, potest constituere speciem mali actus. Ad tertium dicendum quod actus coniugalis et adulterium, secundum quod comparantur ad rationem, differunt specie, et habent effec­ tus specie differentes, quia unum eorum meretur laudem et praemium, aliud vitupe­ rium et poenam. Sed secundum quod compa­ rantur ad potentiam generativam, non diffe­ runt specie. Et sic habent unum effectum se­ cundum speciem. Ad quartum dicendum quod circumstantia quandoque sumitur ut differentia essentialis obiecti, secundum quod ad rationem compa­ ratur, et tunc potest dare speciem actui morali. Et hoc oportet esse, quandocumque circum­ stantia transmutat actum de bonitate in mali­ tiam, non enim circumstantia faceret actum malum, nisi per hoc quod rationi repugnat.

    con la ragione, secondo che l'oggetto concor­ da o non concorda con essa. Ora, certi atti sono denominati umani, o morali, in quanto dipendono dalla ragione. Quindi è evidente che il bene e il male distinguono specifica­ mente le azioni morali : infatti le differenze essenziali producono differenze specifiche. Soluzione delle difficoltà: l . Anche nelle real­ tà naturali il bene e il male, e cioè l'essere se­ condo natura o contro natura, diversificano la specie: infatti un corpo morto e un corpo vivo non sono della medesima specie. E similmen­ te il bene, in quanto conforme alla ragione, e il male, in quanto contrario ad essa, diversifi­ cano la specie morale. 2. Il male comporta una privazione non asso­ luta, ma relativa a una qualche potenza. Infatti si dice che un atto è cattivo nella sua specie non perché è privo di qualsiasi oggetto, ma perché ha un oggetto contrario alla ragione, come ad es. prendere la roba altrui. E così l'oggetto, per quello che ha di positivo, può costituire la specie dell'atto disonesto. 3. L'atto coniugale e l'adulterio in rapporto alla ragione differiscono nella specie, e hanno effetti specificamente differenti: poiché l'uno merita la lode e il premio, l'altro invece il bia­ simo e la punizione. Non differiscono invece specificamente in rapporto alla potenza gene­ rativa. E sotto questo aspetto hanno un unico effetto secondo la specie. 4. Le circostanze possono valere come diffe­ renze essenziali dell'oggetto in quanto sono considerate dalla ragione; e allora possono determinare la specie dell'atto morale. E ciò avviene necessariamente tutte le volte che una circostanza cambia un atto buono in un atto cattivo: poiché una circostanza non potrebbe determinare questo fatto se non perché ripu­ gna alla ragione.

    Articulus 6 Utrum actus habeat speciem boni vel mali ex fine

    Articolo 6 Vatto deriva la sua bontà o la sua malizia specifica dal fine?

    Ad sextum sic proceditur. Videtur quod bonum et malum quod est ex fine, non diversificent speciem in actibus. l . Actus enim habent speciem ex obiecto. Sed finis est praeter rationem obiecti. Ergo bonum et malum quod est ex fine, non diversificant speciem actus.

    Sembra di no. Infatti: l. Gli atti ricevono la specie dall'oggetto. Ma il fine è estraneo ali' oggetto come tale. Quin­ di il bene e il male derivanti dal fine non im­ plicano diversità di specie negli atti. 2. Abbiamo già detto che quanto è accidenta­ le non costituisce la specie. Ora, è accidentale

    Q. 1 8, A. 6

    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

    2. Praeterea, id quod est per accidens, non constituit speciem, ut dictum est [a. 5]. Sed accidit alicui actui quod ordinetur ad aliquem finem; sicut quod aliquis det eleemosynam propter inanem gloriam. Ergo secundum b o n u m et m a l u m quod est ex fine, n o n diversificantur actus secundum speciem. 3. Praeterea, diversi actus secundum speciem, ad unum finem ordinari possunt, sicut ad fi­ nem inanis gloriae ordinari possunt actus di­ versarum virtutum, et diversorum vitiorum. Non ergo bonum et malum quod accipitur se­ cundum finem, diversificat speciem actuum. Sed contra est quod supra [q. l a. 3] ostensum est, quod actus humani habent speciem a fine. Ergo bonum et malum quod accipitur secun­ dum fmem, diversificat speciem actuum. Respondeo dicendum quod aliqui actus dicuntur humani, inquantum sunt voluntarii, sicut supra [q. l a l] dictum est. In actu autem voluntario invenitur duplex actus, scilicet actus interior voluntatis, et actus exterior, et uterque horum actuum habet suum obiectum. Finis autem pro­ prie est obiectum interioris actus voluntarii, id autem circa quod est actio exterior, est obiectum eius. Sicut igitur actus exterior accipit speciem ab obiecto circa quod est; ita actus interior vo­ luntatis accipit speciem a fine, sicut a proprio obiecto. Id autem quod est ex parte voluntatis, se habet ut formale ad i d quod est ex parte exterioris actus, quia voluntas utitur membris ad agendum, sicut instrumentis; neque actus exte­ riores habent rationem moralitatis, nisi inquan­ tum sunt voluntarii. Et ideo actus humani species formaliter consideratur secundum finem, ma­ terialiter autem secundum obiectum exterioris actus. Unde philosophus dicit, in 5 Ethic. [2,4], quod ille qui furatur ut committat adulterium,

    est, per se loquendo, magis adulter quamfur. Ad primum ergo dicendum quod etiam finis habet rationem obiecti, ut dictum est [co.; q. l aa. 1 .3]. Ad secundum dicendum quod ordinari ad talem finem, etsi accidat exteriori actui, non tamen accidit actui interiori voluntatis, qui comparatur ad exteriorem sicut formale ad materiale. Ad tertium dicendum quod quando multi actus specie differentes ordinantur ad unum finem, est quidem diversitas speciei ex parte exteriorum actuum; sed unitas speciei ex par­ te actus interioris.

    1 98

    per un atto l'essere ordinato a qualche fine: come nel caso di chi dà l'elemosina per vana­ gloria. Quindi gli atti non si distinguono nella specie in forza del bene o del male derivanti dal fine. 3. Atti specificamente diversi possono essere ordinati a un unico fine: come alla vanagloria si possono ordinare atti di virtù e di vizi diver­ si. Quindi il bene e il male dovuti al fine non possono determinare una diversità specifica negli atti. In contrario: abbiamo già dimostrato che gli atti umani ricevono la specie dal fine. Quindi il bene e il male determinati dal fine distin­ guono specificamente gli atti. Risposta: certe azioni si dicono umane perché volontarie, come si è spiegato in precedenza. Ma in un'azione volontaria si possono distin­ guere due atti, cioè l' atto interiore della vo­ lontà e l'atto esterno: e sia l'uno che l'altro hanno il loro oggetto. Ora, il fine è propria­ mente l' oggetto dell' atto interiore della vo­ lontà, mentre l' oggetto è ciò che interessa l'a­ zione esterna. Come dunque l'atto esterno ri­ ceve la specie dall'oggetto su cui opera, così l'atto interno della volontà riceve la specie dal fine, che ne costituisce l' oggetto. - Ora, ciò che interessa la volontà è formale rispetto a ciò che interessa l ' atto esterno: poiché la volontà si serve, per agire, delle membra come di strumenti, e d'altra parte gli atti ester­ ni hanno u n aspetto morale solo perché volontari. Quindi la specie dell' atto umano viene determinata formalmente in base al fine e materialmente in base all'oggetto esterno. Per cui il Filosofo scrive che «Chi ruba per commettere un adulterio, propriamente par­ lando è più adultero che ladro». Soluzione delle difficoltà: l . Anche il fine, secondo le spiegazioni date, si presenta come oggetto. 2. Sebbene l'essere ordinato a un certo fine sia accidentale per l'atto esterno, tuttavia non è accidentale per l'atto interno della volontà, il quale sta all' atto esterno come l'elemento formale a quello materiale. 3. Quando molti atti di specie differente ven­ gono ordinati a un unico fine si ha diversità di specie negli atti esterni, ma unità di specie nell'atto interno.

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    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

    Q. l 8, A. 7

    Articulus 7 Utrum species quae est ex fine contineatur sub specie quae est ex obiecto sicut sub genere vel e converso

    Articolo 7 La specie data dal fine è contenuta, come nel suo genere, nella specie data dall'oggetto?

    Ad septimum sic proceditur. Videtur quod species bonitatis quae est ex fine, contineatur sub specie bonitatis quae est ex obiecto, sicut species sub genere, puta cum aliquis vult furari ut det eleemosynam. l . Actus enim habet speciem ex obiecto, ut dictum est [aa. 2.6]. Sed impossibile est quod aliquid contineatur in aliqua alia specie, quae sub propria specie non continetur, quia idem non potest esse in diversis speciebus non su­ balternis. Ergo species quae est ex fine, conti­ netur sub specie quae est ex obiecto. 2. Praeterea, semper ultima differentia consti­ tuit speciem specialissimam. Sed differentia quae est ex fine, videtur esse posterior quam differentia quae est ex obiecto, quia finis habet rationem ultimi. Ergo species quae est ex fine, continetur sub specie quae est ex obiecto, sicut species specialissima. 3. Praeterea, quanto aliqua differentia est ma­ gis formalis, tanto magis est specialis, quia differentia comparatur ad genus ut forma ad materiam. Sed species quae est ex fine, est formalior ea quae est ex obiecto, ut dictum est [a. 6] . Ergo species quae est ex tìne, conti­ netur sub specie quae est ex obiecto, sicut species specialissima sub genere subalterno. Sed contra, cuiuslibet generis sunt determi­ natae differentiae. Sed actus eiusdem speciei ex parte obiecti, potest ad infinitos fines ordi­ nari, puta furtum ad infinita bona vel mala. Er­ go species quae est ex fine, non continetur sub specie quae est ex obiecto, sicut sub genere. Respondeo dicendum quod obiectum exterio­ ris actus dupliciter potest se habere ad finem voluntatis, uno modo, sicut per se ordinatum ad ipsum, sicut bene pugnare per se ordinatur ad victoriam; alio modo, per accidens, sicut accipere rem alienam per accidens ordinatur ad dandum eleemosynam. Oportet autem, ut philosophus dicit in 7 Met. [6, 1 2,5], quod dif­ ferentiae dividentes aliquod genus, et consti­ tuentes speciem illius generis, per se dividant illud. Si autem per accidens, non recte proce­ dit divisio, puta si quis dicat, animalium aliud rationale, aliud inationale; et animalium irra­ tionalium aliud alatum, aliud non alatum,

    Sembra di sì: p. es. nel caso di chi voglia rubare per fare l'elemosina. Infatti: l . L'atto riceve la specie dall'oggetto, come si è visto. Ma è impossibile che una cosa sia contenuta in una seconda specie che non è inclusa nella propria specie: poiché la medesi­ ma realtà non può trovarsi in più specie non subalterne. Quindi la specie desunta dal fine ricade sotto la specie desunta dall'oggetto. 2. L' ultima differenza costituisce sempre la specie più particolare. Ma la differenza deri­ vante dal fine è posteriore a quella desunta dali ' oggetto: poiché il fine corrisponde al concetto di ultimo. Quindi la specie desunta dal fine rientra sotto la specie desunta dall'og­ getto, essendo la specie più particolare. 3. Più una differenza è formale, più è specia­ le: poiché la differenza sta al genere come la forma sta alla materia. Ma la specie desunta dal fine è più fotmale di quella desunta dal­ l' oggetto, come si è visto. Quindi la specie data dal fine è contenuta nella specie data dal­ l ' oggetto come la specie più particolare nel suo genere. In contrario: a ciascun genere conispondono differenze determinate. Invece un atto della medesima specie desunta dall' oggetto può essere ordinato a fini innumerevoli : un furto, p. es., può avere infiniti scopi, buoni o cattivi. Quindi la specie desunta dal fine non è conte­ nuta nella specie desunta dali' oggetto come in un genere. Risposta: l'oggetto di un atto esterno può avere due rapporti con i l fine inteso dal volere: primo, quale mezzo ad esso ordinato essen­ zialmente, come il combattere bene è ordinato alla vittoria; secondo, quale mezzo ad esso ordinato accidentalmente, come il prendere la roba altrui per fare l'elemosina. Ora è necessa­ rio, secondo il Filosofo, che le differenze che suddividono un genere, e costituiscono le sue specie, lo suddividano essenzialmente. Se in­ vece la suddivisione è accidentale, non è una buona divisione: come se uno dicesse: «Gli animali sono razionali e irrazionali; e gli ani­ mali in-azionali alati e non alati»: infatti avere le ali o non averle non è una determinazione

    Q. l 8, A. 7

    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

    alatum enim et non alatum non sunt per se determinativa eius quod est irrationale. Opor­ tet autem sic dividere, animalium aliud ha­ bens pedes, aliud non habens pedes; et ha­ bentium pedes, a l i u d h abet d u o s , a l i u d quatuor, aliud multos, haec enim per se de­ termi nant priorem differentiam. - Sic igitur quando obiectum non est per se ordinatum ad finem, ditl'erentia specifica quae est ex obiec­ to, non est per se determinativa eius quae est ex fine, nec e converso. Unde una istarum specierum non est sub alia, sed tunc actus moralis est sub duabus speciebus quasi dispa­ ratis. Unde dicimus quod ille qui furatur ut moechetur, committit duas malitias in uno actu. - Si vero obiectum per se ordinetur ad finem, una dictarum differentiarum est per se detenninativa alterius. Unde una istarum spe­ cierum continebitur sub altera. - Consideran­ dum autem restat quae sub qua. Ad cuius evidentiam, primo considerandum est quod quanto aliqua differentia sumitur a forma magis particolari, tanto magis est specifica. Secondo, quod quanto agens est magis uni­ versale, tanto ex eo est fonna magis univer­ salis . Tertio, quod quanto aliquis finis est posterior, tanto respondet agenti universaliori, sicut victoria, quae est ultimus finis exercitus, est finis intentus a summo duce; ordinatio autem huius aciei vel illius, est finis intentus ab aliquo inferiorum ducum. - Et ex istis sequitur quod differentia specifica quae est ex fine, est magis generalis; et differentia quae est ex obiecto per se ad talem finem ordinato, est specifica respectu eius. Voluntas enim, cuius proprium obiectum est finis, est univer­ sale motivum respectu omnium potentiarum animae, quarum propria obiecta sunt obiecta particularium actuum. Ad primum ergo dicendum quod secundum substantiam suam non potest aliquid esse in duabus speciebus, quarum una sub altera non ordinetur. Sed secundum ea quae rei adve­ niunt, potest aliquid sub diversis speciebus contineri. Sicut hoc pomum, secundum colo­ rem, continetur sub hac specie, scilicet albi, et secundum odorem, sub specie bene redolen­ tis. Et similiter actus qui secundum substan­ tiam suam est in una specie naturae, secun­ dum conditiones morales supervenientes, ad duas species referri potest, ut supra dictum est [q. l a. 3 ad 3].

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    essenziale dell'essere irrazionale. Invece biso­ gna dividere così: «Tra gli animali alcuni han­ no i piedi e gli altri non li hanno; e tra quelli che hanno i piedi alcuni ne hanno due, altri quattro, altri ancora di più»; queste ultime sud­ divisioni infatti detenninano essenzialmente la differenza antecedente. - Così dunque, quando l'oggetto non è ordinato essenzialmente al fi­ ne, la differenza specifica dovuta all'oggetto non determina essenzialmente quella dovuta al fine, e neppure viceversa. Quindi l' una specie non include l'altra, ma in questo caso l' atto morale si trova in due specie quasi disparate. Per cui diciamo che chi ruba per commettere adulterio assomma due malizie in un solo atto. - Se invece l'oggetto è ordinato essenzialmen­ te al fine, allora una differenza detennina diret­ tamente l'altra. Quindi una specie viene inclu­ sa nell'altra. - Rimane però da vedere quale include e quale viene inclusa. E per chiarire la cosa bisogna considerare: primo, che una dif­ ferenza è tanto più specifica quanto più è parti­ colare la fonna da cui dipende. Secondo, che quanto più una causa è universale, tanto più è universale la fonna da essa desunta. Terzo, che quanto più il fine è remoto, tanto più corri­ sponde a un agente dall'influsso più universa­ le: la vittoria, p. es., che è il fine ultimo di un esercito, è il fine inteso dal comandante supre­ mo, mentre la manovra di questa o di quell' al­ tra schiera è il fine inteso da un comandante subalterno. - E da ciò segue che la differenza specifica desunta dal fine è più generale, men­ tre la differenza desunta dali' oggetto ordinato essenzialmente a tale fine è specifica in rap­ porto ad esso. Infatti la volontà, che ha per oggetto suo proprio il fine, è la causa movente universale rispetto a tutte le potenze dell' ani­ ma, i cui oggetti propri sono gli oggetti degli atti particolari. Soluzione delle difficoltà: l . In forza della sua natura una cosa non può essere in due specie che non siano tra loro subordinate, ma i n forza delle contingenze che possono capitare una cosa può essere inclusa in specie diverse. Come questo fmtto per il colore è nella specie delle cose bianche, e per l'odore sotto la spe­ cie di quelle profumate. E allo stesso modo un atto che per sua natura appartiene a una determinata specie, per le condizioni morali che possono sopraggiungere può riferirsi a una seconda specie, come si è spiegato.

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    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

    Q. l 8, A. 7

    Ad secundum dicendum quod finis est postre­ mum in executione; sed est primum in inten­ tione rationis, secundum quam accipiuntur moralium actuum species. Ad tertium dicendum quod differentia com­ paratur ad genus ut forma ad materiam, in­ quantum facit esse genus in actu. Sed etiam genus consideratur ut formalius specie, se­ cundum quod est absolutius, et minus con­ tractum. Unde et partes definitionis reducun­ tur ad genus causae formalis, ut dicitur in libro Phys. [2,3,2] Et secundum hoc, genus est causa formalis speciei, et tanto erit forma­ lius, quanto communius.

    2. n fine è l'ultimo nell'esecuzione, ma è il pri­ mo nell'intenzione della ragione, in base alla quale si desumono le specie degli atti morali. 3. La differenza sta al genere come la fonna sta alla materia, in quanto lo rende attuale. Ma a sua volta il genere viene considerato più formale della specie in quanto è più assoluto e meno contratto. Per cui anche le parti della definizione vengono ricondotte al genere della causa formale, come insegna Aristotele. E sotto questo aspetto il genere è causa for­ male della specie. E sarà tanto più formale quanto più è universale.

    Articulus 8 Utrum aliquis actus sit indifferens secundum suam speciem

    Articolo 8 Ci può essere un atto specificamente indifferente?

    Ad octavum sic proceditur. Videtur quod non sit aliquis actus indifferens secundum suam speciem. l . Malum enim est privatio boni, secundum Augustinum [Ench. 2]. Sed privatio et habitus sunt opposita immediata, secundum philoso­ phum [Cat. 8, 16]. Ergo non est aliquis actus qui secundum speciem suam sit indifferens, quasi medium existens inter bonum et malum. 2. Praeterea, actus humani habent speciem a fine vel obiecto, ut dictum est [a. 6; q. l a. 3]. Sed omne obiectum, et omnis finis habet rationem boni vel mali. Ergo omnis actus humanus secundum suam speciem est bonus vel malus. Nullus ergo est indifferens secun­ dum speciem. 3. Praeterea, sicut dictum est [a. 1 ] , actus dicitur bonus, qui habet debitam perfectionem bonitatis; malus, cui aliquid de hoc deficit. Sed necesse est quod omnis actus vel habeat totam plenitudinem suae bonitatis, vel aliquid ei deficiat. Ergo necesse est quod omnis actus secundum speciem suam sit bonus vel malus, et nullus indifl'erens. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De serm. Dom. in monte [2, 1 8] , quod sunt quaedam facta media, quae possunt bono vel malo animo fieri, de quibus est temerarium iudicare. Sunt ergo aliqui actus secundum speciem suam indifferentes. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [aa. 2 . 5 ] , actus omnis habet speciem ab obiecto; et actus humanus, qui dicitur moralis,

    Sembra di no. Infatti: l . Come scrive Agostino, il male «è la priva­ zione di un bene». Ora, la privazione e il pos­ sesso, al dire del Filosofo, sono due opposti senza termini intermedi. Quindi non c'è un atto specificamente indifferente, che stia in mezzo tra il bene e il male. 2. Gli atti umani ricevono la specie dal fine o dali' oggetto, come si è visto. Ma l'oggetto e il fine hanno sempre ragione di bene o di male. Quindi l'atto umano è sempre, per la sua spe­ cie, o buono o cattivo. E così nessun atto è specificamente indifferente. 3. Come si è spiegato, un atto viene detto buono se ha la debita perfezione in fatto di bontà, cattivo invece se manca di qualcosa. Ma ogni atto necessariamente o possiede tutta la pienezza della sua bontà, o manca di qual­ cosa. Quindi è necessario che ogni atto sia specificamente o buono o cattivo, e nessuno sia indifferente. In contrario: Agostino scrive che «ci sono dei fatti intermedi, che si possono compiere con animo buono o cattivo, e che è temerario giu­ dicare». Quindi ci sono degli atti indifferenti nella loro specie. Risposta: come si è già dimostrato, ogni atto riceve la sua specie dall'oggetto; e l'atto uma­ no, o morale, riceve la specie dall'oggetto in rapporto al principio degli atti umani, che è la ragione. Se quindi l'oggetto di un atto implica qualcosa che è conforme ali' ordine della ra­ gione, l'atto sarà specificamente buono, come

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    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

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    habet speciem ab obiecto relato ad principium actuum humanorum, quod est ratio. Unde si obiectum actus includat aliquid quod conve­ niat ordini rationis, erit actus bonus secundum suam speciem, sicut dare eleemosynam indi­ genti. Si autem includat aliquid quod repu­ gnet ordini rationis, erit malus actus secun­ dum speciem, sicut furari, quod est tollere aliena. Contingit autem quod obiectum actus non includit aliquid pettinens ad ordinem ra­ tionis, sicut levare festucam de terra, ire ad campum, et huiusmodi, et tales actus secun­ dum speciem suam sunt indifferentes. Ad primum ergo dicendum quod duplex est privatio. Quaedam quae consistit in privatum esse, et haec nihil relinquit, sed totum aufert; ut caecitas totaliter aufert visum, et tenebrae lucem, et mors vitam. Et inter hanc privatio­ nem et habitum oppositum, non potest esse aliquod medium circa proprium susceptibile. Est autem alia privatio quae consistit in privari, sicut aegritudo est privatio sanitatis, non quod tota sanitas sit sublata, sed quod est quasi quaedam via ad totalem ablationem sanitatis, quae fit per mortem. Et ideo talis privatio, cum aliquid relinquat, non semper est immediata cum opposito habitu. Et hoc modo malum est privatio boni, ut Simplicius dicit in Commento super librum Praedic. [In Cat. l 0], quia non to­ tum bonum aufert, sed aliquid relinquit. Unde potest esse aliquod medium inter bonum et malum. Ad secundum dicendum quod omne obiectum vel finis habet aliquam bonitatem vel malitiam, saltem naturalem, non tamen semper importat bonitatem vel malitiam moralem, quae consideratur per comparationem ad rationem, ut dictum est [co.]. Et de hac nunc agitur. Ad tertium dicendum quod non quidquid habet actus, pertinet ad speciem eius. Unde etsi in ratione suae speciei non contineatur quidquid pertinet ad plenitudinem bonitatis ipsius, non propter hoc est ex specie sua malus, nec etiam bonus, sicut homo secundum suam speciem neque virtuosus, neque vitiosus est.

    dare l'elemosina a un povero. Se invece im­ plica qualcosa che ripugna all'ordine della ra­ gione, allora l'atto sarà specificamente catti­ vo, come l'atto di rubare, cioè il prendere la roba altrui. Ora, può accadere che l'oggetto non includa nulla che abbia rapporto con l'or­ dine della ragione, come sollevare una pa­ gliuzza da terra, andare in campagna e altre cose del genere; e tali atti sono specificamen­ te indifferenti. Soluzione delle difficoltà: l . Esistono due tipi di privazione: la prima consiste in una priva­ zione in atto; e questa non lascia nulla, ma toglie ogni cosa: come la cecità toglie com­ pletamente la vista, le tenebre la luce, la morte la vita. E tra questa privazione e il suo contrario non ci può essere un termine inter­ medio nel soggetto interessato. La seconda consiste invece in una privazione in divenire: come la malattia è privazione della salute non perché tutta la salute sia da essa eliminata, ma perché è come una via che conduce alla per­ dita totale della salute, che si verifica con la morte. Quindi tale privazione, lao;;ciando sem­ pre qualcosa, non è senza termini intermedi in rapporto alla proprietà opposta. Ora, il male è privazione del bene in questa maniera, come afferma Simplicio: poiché non toglie tutto il bene, ma lascia qualcosa. Quindi ci può esse­ re un termine intetmedio fra il bene e il male. 2. L'oggetto e il fine sono sempre o buoni o cattivi, almeno fisicamente, ma non sempre implicano una bontà o una malizia morale, che si misura in rapporto alla ragione, come si è spiegato. Ed è di questa che qui si tratta. 3. Non tutto ciò che si trova in un atto costi­ tuisce la sua specie. Quindi, sebbene una cosa non possieda tutto quanto è richiesto per la pienezza della sua bontà, non per questo è specificamente cattiva, e neppure è buona: come l'uomo, secondo la sua specie, non è né virtuoso né vizioso.

    Articulus 9 Utrum aliquis actus sit indifferens secundum individuum

    Articolo 9 Ci possono essere degli atti individuali indifferenti?

    Ad nonum sic proceditur. Videtur quod aliquis actus secundum individuum sit indifferens.

    Sembra di sì. Infatti : l . Non vi è nessuna specie che non conti o

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    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

    l . Nulla enim species est quae sub se non con­ tineat vel continere possit aliquod individuum. Sed aliquis actus est indifferens secundum suam speciem, ut dictum est [a. 8]. Ergo ali­ quis actus individualis potest esse indifferens. 2. Praeterea, ex individualibus actibus causan­ tur habitus conformes ipsis, ut dicitur in 2 Ethic. [ l , 7]. Sed aliquis habitus est indiffe­ rens. Dicit enim philosophus, i n 4 Ethic. [ 1 ,3 1 ], de quibusdam, sicut de placidis et pro­ digis, quod non sunt mali, et tamen constat quod non sunt boni, cum recedant a virtute, et sic sunt indifferentes secundum habitum. Er­ go aliqui actus individuales sunt indifferentes. 3. Praeterea, bonum morale pertinet ad virtu­ tem, malum autem morale pertinet ad vitium. Sed contingit quandoque quod homo actum qui ex specie sua est indifferens, non ordinat ad aliquem finem vel vitii vel virtutis. Ergo contingit aliquem actum individualem esse indifferentem. Sed contra est quod Gregorius dicit in quadam Homilia [In Ev. h. l ,6], otiosum verbum est

    quod utilitate rectitudinis, aut ratione iustae necessitatis aut piae utilitatis, caret. Sed verbum otiosum est malum, quia de eo reddent homines rationem in die iudicii, ut dicitur Matth. 1 2 [36] . Si autem non caret ratione iustae necessitatis aut piae utilitatis, est bonum. Ergo omne verbum aut est bonum aut malum. Pari ergo ratione, et quilibet alius actus vel est bonus vel malus. Nullus ergo individualis actus est indifferens. Respondeo dicendum quod contingit quando­ que aliquem actum esse indifferentem secun­ dum speciem, qui tamen est bonus vel malus in individuo consideratus. Et hoc ideo, quia actus moralis, sicut dictum est [a. 3], non sa­ lurn habet bonitatem ex obiecto, a quo habet speciem; sed etiam ex circumstantiis, quae sunt quasi quaedam accidentia; sicut aliquid convenit individuo horninis secundum acci­ dentia individualia, quod non convenit hornini secundum rationem speciei. Et oportet quod quilibet individualis actus habeat aliquam circumstantiam per quam trahatur ad bonum vel malum, ad minus ex parte intentionis finis. Cum enim rationis sit ordinare, actus a ratione deliberativa procedens, si non sit ad debitum finem ordinatus, ex hoc ipso repu­ gnat rationi, et habet rationem mali. Si vero ordinetur ad debitum finem, conveni t cum

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    non possa contare qualche individuo. Ma ci sono degli atti specificamente indifferenti, come si è dimostrato. Quindi ci possono esse­ re degli atti individuali indifferenti. 2. Da atti individuali vengono causati abiti ad essi conformi, come dice Aristotele. Ma ci sono degli abiti indifferenti. Infatti il Filosofo neli' Etica parla di alcuni che non sarebbero cattivi, come i placidi e i prodighi, e tuttavia consta che non sono buoni, scostandosi essi dalla virtù: quindi secondo l'abito sono indif­ ferenti. Quindi certi atti individuali sono indifferenti. 3. n bene morale si riferisce alla virtù, e il ma­ le morale al vizio. Ma può capitare che l'uo­ mo non ordini a un fine vizioso o virtuoso un atto specificamente indifferente. Quindi qual­ che atto individuale può essere indifferente. In contrario: Gregorio ha scritto: «È oziosa quella parola che manca di rettitudine, o non è motivata da vera necessità, o da pia utilità>>. Ma le parole oziose sono cattive, poiché di

    esse gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio, come è detto in Mt. Se invece una parola non manca di vera necessità, o pia utilità, è buona. Quindi ogni parola o è buona o è cattiva. E per lo stesso motivo ogni altro atto o è buono o è cattivo. Quindi nessun atto individuale è indifferente. Risposta: può capitare che un atto sia indiffe­ rente secondo la specie, mentre invece è buono o cattivo se viene considerato nella sua individualità o concretezza. E questo perché l'atto morale, come si è detto, desume la sua bontà non solo dall'oggetto che lo specifica, ma anche dalle circostanze, che ne formano come gli accidenti : al modo stesso in cui competono a un uomo, in forza degli acciden­ ti individuanti, delle qualifiche che non gli competono in forza della sua specie. Ed è ine­ vitabile che ciascun atto concreto e individua­ le abbia qualche circostanza che lo renda buono o cattivo, almeno dalla parte dell' inten­ zione del fine. Infatti la ragione ha il compito di ordinare: se quindi un atto dipendente dalla sua deliberazione non è ordinato al debito fine, per ciò stesso ripugna alla ragione ed è cattivo. Se invece l'atto è ordinato al debito fine, allora concorda con l'ordine della ragio­ ne, e quindi è buono. Ora, è inevitabile che esso sia o non sia ordinato al debito tìne. E così è necessario che ogni atto umano, dipen-

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    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

    ordine rationis, unde habet rationem boni. Ne­ cesse est autem quod vel ordinetur, vel non or­ dinetur ad debitum finem. Unde necesse est omnem actum hominis a deliberativa ratione procedentem, in individuo consideratum, bo­ num esse vel malwn. - Si autem non procedit a ratione deliberativa, sed ex quadam imaginatio­ ne, sicut cum aliquis fricat barbam, vel movet manum aut pedem; talis actus non est, proprie loquendo, moralis vel humanus; cum hoc habeat actus a ratione. Et sic erit indiiì'erens, quasi extra genus moralium actuum existens. Ad primum ergo dicendum quod aliquem ac­ tum esse indifferentem secundum suam spe­ ciem, potest esse multipliciter. Uno modo, sic quod ex sua specie debeatur ei quod sit indif­ ferens. Et sic procedit ratio. Sed tamen isto modo nullus actus ex sua specie est indiffe­ rens, non enim est aliquod obiectum humani actus, quod non possit ordinari vel ad bonum vel ad malum, per finem vel circumstantiam. Alio modo potest dici indifferens ex sua spe­ cie, quia non habet ex sua specie quod sit bo­ nus vel malus. Unde per aliquid aliud potest fieri bonus vel malus. Sicut homo non habet ex sua specie quod sit albus vel niger, nec tamen habet ex sua specie quod non sit albus aut niger, potest enim albedo vel nigredo su­ pervenire homini aliunde quam a principiis speciei. Ad secundum dicendum quod philosophus dicit [Ethic. 4, l ,32] illum esse malum proprie, qui est aliis hominibus nocivus. Et secundum hoc, dici t [Ethic. 4, l ,3 1 ] prodigum non esse malum, quia nulli alteri nocet nisi sibi ipsi. Et similiter de omnibus aliis qui non sunt proxi­ mis nocivi. Nos autem hic dicimus malum communiter omne quod est rationi rectae re­ pugnans. Et secundum hoc, omnis individualis actus est bonus vel malus, ut dictum est [co.]. Ad tertium dicendum quod omnis finis a ratione deliberativa i ntentus, pertinet ad bonum alicuius v i rtutis, vel ad malum alicuius vitii. Nam hoc ipsum quod aliquis agit ordinate ad sustentationem vel quietem sui corporis, ad bonum virtutis ordinatur in eo qui corpus suum ordinat ad bonum virtutis. Et idem patet in aliis.

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    dente dalla deliberazione della ragione, nella sua individualità sia buono o cattivo. - Se invece l'atto non dipende dalla deliberazione della ragione, ma da una semplice immagina­ zione, come quando uno si gratta la barba, o muove la mano o il piede, tale atto non è, pro­ priamente parlando, un atto morale o umano: poiché gli atti devono questa qualifica alla ragione. Sarà quindi un atto indifferente in quanto estraneo al genere degli atti morali. Soluzione delle difficoltà: l . L' affermazione che un atto è specificamente indifferente può essere intesa in più modi. Primo, nel senso che tale indifferenza gli è dovuta essenzial­ mente in forza della sua specie. E la difficoltà si basa su questa interpretazione. Ma in que­ sto senso nessun atto è indifferente nella sua specie: infatti non esiste un atto umano che non possa essere ordinato o al bene o al male, in forza del fine o delle circostanze. - Secon­ do, nel senso che l'atto può essere indifferente per la sua specie in quanto non ha bontà o malizia in base alla sua specie. Per cui può di­ ventare buono o cattivo in base a qualcos'al­ tro. E in questo senso l'uomo non deve alla sua specie il suo colore bianco o nero, tuttavia la sua specie non lo costringe a non essere né bianco né nero. Infatti il colore bianco o nero può venire detetminato nell'uomo in forza di princìpi diversi da quelli della specie. 2. Il Filosofo dice che è cattivo, propriamente, chi nuoce ad altri uomini. E in questo senso afferma che il prodigo non è cattivo, poiché non nuoce che a se stesso. E la stessa cosa va­ le per tutti coloro che non sono nocivi al pros­ simo. Noi invece qui chiamiamo cattivo in senso generale tutto ciò che ripugna alla retta ragione. E in questo senso ogni atto indivi­ duale è o buono o cattivo, come si è spiegato. 3. Qualsiasi fine perseguito dalla ragione deli­ berante appartiene al bene proprio di una virtù o al male di un vizio. Poiché il fatto stes­ so di agire ordinatamente per il sostentamento o per il riposo del proprio corpo è ordinato al bene onesto, in colui che ordina il proprio corpo alla virtù. E così negli altri casi.

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    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

    Q. 1 8, A. 1 0

    Articulus l O Utrum aliqua circumstantia constituat actum moralem in specie boni vel mali

    Articolo I O Una circostanza può rendere l'atto morale specificamente buono o cattivo?

    Ad decimum sic proceditur. Videtur quod circumstantia non possit constituere aliquam speciem boni vel mali actus. l . Species enim actus est ex obiecto. Sed circumstantiae differunt ab obiecto. Ergo cir­ cumstantiae non dant speciem actus. 2. Praeterea, circumstantiae comparantur ad actum moralem sicut accidentia eius, ut dic­ tum est [q. 7 a. 1 ]. Sed accidens non constituit speciem. Ergo circumstantia non constituit aliquam speciem boni vel mali. 3. Praeterea, unius rei non sunt plures species. Unius autem actus sunt plures circumstantiae. Ergo circumstantia non constituit actum mo­ ralem in aliqua specie boni vel mali. Sed contra, locus est circumstantia quaedam. Sed locus constituit actum moralem in quadam specie mali, furari enim aliquid de loco sacro est sacrilegium. Ergo circumstantia constituit actum moralem in aliqua specie boni vel mali. Respondeo dicendum quod, sicut species re­ rum naturalium constituuntur ex naturalibus formis, ita species moralium actuum con­ stituuntur ex formis prout sunt a ratione con­ ceptae, sicut ex supradictis [a. 5] patet. Quia vero natura detetminata est ad unum, nec po­ test esse processus naturae in infinitum, ne­ cesse est pervenire ad aliquam ultimam for­ mam, ex qua sumatur differentia specifica, post quam alia differentia specifica esse non possit. Et inde est quod in rebus naturalibus, id quod est accidens alicui rei, non potest accipi ut differentia constituens speciem. Sed processus rationis non est determinatus ad aliquid unum, sed quolibet dato, potest ul­ terius procedere. Et ideo quod in uno actu ac­ cipitur ut circumstantia superaddita obiecto quod determinat speciem actus, potest iterum accipi a ratione ordinante ut principali s conditio obiecti determinantis speciem actus. Sicut tollere alienum habet speciem ex ratione alieni, ex hoc enim constituitur in specie furti, et si consideretur super hoc ratio loci vel temporis, se habebit in ratione circumstantiae. Sed quia ratio etiam de loco vel de tempore, et aliis huiusmodi, ordinare potest; contingit conditionem loci circa obiectum accipi ut contrariam ordini rationis; puta quod ratio

    Sembra di no. Infatti: l . La specie di un atto è desunta dali' oggetto. Ma le circostanze non sono l'oggetto. Quindi le circostanze non possono determinare la specie dell'atto. 2. Le circostanze sono come gli accidenti del­ l'atto morale, secondo le spiegazioni già date. Ma gli accidenti non costituiscono la specie. Quindi una circostanza non può costituire una specie del bene o del male. 3. Un'unica realtà non può avere più di una specie. Ma un atto ha sempre più di una cir­ costanza. Quindi la circostanza non può ren­ dere un atto morale specificamente buono o cattivo. In contrario: il luogo è una circostanza. Ora, il luogo costituisce la malizia specifica di un atto morale: infatti rubare qualcosa da un luogo sacro è un sacrilegio. Quindi le circo­ stanze rendono l'atto morale specificamente buono o cattivo. Risposta: come le specie degli esseri naturali sono costituite dalle forme naturali, così le specie degli atti morali sono costituite dalle forme concepite dalla ragione nella maniera già indicata. Ora, essendo la natura determi­ nata a un unico effetto, e non potendo d'altra parte essere indefinito il processo naturale, è necessario giungere a una forma ultima da cui venga desunta la differenza specifica, e dopo la quale non si possano dare altre differenze specifiche. E da ciò segue che nelle realtà naturali un elemento accidentale non può mai diventare costitutivo della specie. Ma il pro­ cesso razionale non è determinato a un unico effetto: anzi, posta una qualsiasi determina­ zione, si può sempre procedere oltre. Quindi ciò che in un atto viene considerato come una circostanza aggiunta all'oggetto che ne deter­ mina la specie, può essere nuovamente consi­ derato dalla ragione ordinante come una delle condizioni principali dell'oggetto determinan­ te la specie dell'atto. L'atto di prendere la ro­ ba altrui, p. es., viene specificato dal fatto che si tratta di roba altrui, il che lo specifica come furto; e se si considerano oltre a ciò il luogo e il tempo, saranno delle circostanze. Ma poi­ ché la ragione può disporre del luogo e del

    Q. 1 8, A. I O

    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

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    ordinat non esse iniuriam faciendam loco sacro. Unde tollere aliquid alienum de loco sacro addit specialem repugnantiam ad ordi­ nem rationis. Et ideo locus, qui prius conside­ rabatur ut circumstantia, nunc consideratur ut principalis conditio obiecti rationi repugnans. Et per bune modum, quandocumque aliqua circumstantia respicit specialem ordinem rationis vel pro vel contra, oportet quod circumstantia det speciem actui morali vel bono vel malo. Ad primum ergo dicendum quod circumstan­ tia secundum quod dat speciem actui, consi­ deratur ut quaedam conditio obiecti, sicut dic­ tum est [co.], et quasi quaedam specifica dif­ ferentia eius. Ad secundum dicendum quod circumstantia manens in ratione circumstantiae, cum habeat rationem accidentis, non dat speciem, sed in­ quantum mutatur in principalem conditionem obiecti, secundum hoc dat speciem. Ad tertium dicendum quod non omnis circum­ stantia constituit actum moralem in aliqua specie boni vel mali, cum non quaelibet cir­ cumstantia importet aliquam consonantiam vel dis sonantiam ad rationem. Unde non oportet, licet sint multae circumstantiae unius actus, quod unus actus sit in pluribus spe­ ciebus. Licet etiam non sit inconveniens quod unus actus moralis sit in pluribus speciebus moris etiam disparatis, ut dictum est [a. 7 ad l ; q. l a. 3 ad 3].

    tempo e delle altre circostanze, può capitare che la condizione del luogo i n rapporto ali'oggetto sia vista come contraria ali'ordine della ragione: la ragione, p. es., ordina che non si deve fare oltraggio al luogo sacro, per cui prendere la roba altrui da un luogo sacro aggiunge una speciale contrarietà ali' ordine della ragione. E così il luogo, che prima era considerato una circostanza, ora viene consi­ derato come una condizione principale del­ l' oggetto nella sua contrarietà alla ragione. Per cui tutte le volte che una circostanza ri­ guarda uno speciale ordine della ragione, in senso favorevole o contrario, è necessario che essa determini la specie dell'atto morale, o in bene o in male. Soluzione delle difficoltà: l . La circostanza, in quanto dà la specie all'atto, viene conside­ rata una condizione dell' oggetto, come si è visto, e quasi una sua differenza specifica. 2. La circostanza che rimane semplice circo­ stanza, essendo un accidente, non può specifi­ care; può però specificare in quanto si muta in condizione principale dell'oggetto. 3. Non ogni circostanza può rendere l ' atto morale buono o cattivo, poiché non ogni cir­ costanza implica una particolare conformità o ripugnanza con la ragione. Per cui non è ne­ cessario che un atto si trovi in più specie per le molte circostanze, sebbene non ripugni che un atto morale si trovi in più specie morali, anche disparate, come si è visto.

    Articulus 1 1 Utrum omnis circumstantia augens bonitatem vel malitiam constituat actum moralem in specie boni vel mali

    Articolo 1 1 Ogni circostanza che accresca la bontà o la malizia conferisce all'atto morale una bontà o una malizia specifica?

    Ad undecimum sic proceditur. Videtur quod ornn i s circumstantia pertinens ad bonitatem vel malitiam, det speciem actui. l . Bonum enim et malum sunt differentiae speciticae moralium actuum. Quod ergo facit differentiam in bonitate vel malitia moralis actus, facit differre secundum differentiam specificam, quod est differre secundum spe­ ciem. Sed id quod addit in bonitate vel malitia actus, facit differre secundum bonitatem et malitiam. Ergo facit differre secundum spe­ ciem. Ergo omnis circumstantia addens in bo­ Ditate vel malitia actus, constituit speciem. 2. Praeterea, aut circumstantia adveniens

    Sembra di sì. Infatti: l . La bontà e la malizia sono differenze spe­ cifiche degli atti morali. Quindi ciò che pro­ duce una differenza nella bontà o nella mali­ zia di un atto morale produce una differenza specifica. Ma ciò che aggiunge bontà o mali­ zia a un atto produce una differenza nella sua bontà o malizia. Quindi produce una differen­ za specifica. E così ogni circostanza che ac­ cresce la bontà o la malizia di un atto ne costituisce la specie. 2. La circostanza dell' atto possiede o non possiede un'intrinseca bontà o malizia. Se non la possiede non può aggiungere nulla alla

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    La bontà e la malizia degli atti umani in generale

    habet in se aliquam rationem bonitatis vel malitiae, aut non. Si non, non potest addere in bonitate vel malitia actus, quia quod non est bonum, non potest facere maius bonum; et quod non est malum, non potest facere maius malum. Si autem habet in se rationem boni­ tatis vel malitiae, ex hoc ipso habet quandam speciem boni vel mali. Ergo omnis circum­ stantia augens bonitatem vel malitiam, consti­ tuit novam speciem boni vel mali. 3. Praeterea, secundum Dionysium, 4 cap. De div. nom. [30], malwn causatur ex singularibus defectibus. Quaelibet autem circumstantia ag­ gravans malitiam, habet specialem defectum. Ergo quaelibet circumstantia addit novam speciem peccati. Et eadem ratione, quaelibet augens bonitatem, videtur addere novam speciem boni, sicut quaelibet unitas addita numero, facit novam speciem numeri; bonum enim consistit in numero, pondere et mensura. Sed contra, magis et minus non diversiticant speciem. Sed magis et minus est circumstan­ tia addens in bonitate vel malitia. Ergo non omnis circumstantia addens in bonitate vel malitia, constituit actum moralem in specie boni vel mali. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1 0] , circumstantia dat speciem boni vel mali actui morali, inquantum respicit spe­ cialem ordinem rationis. Contingit autem quandoque quod circumstantia non respicit ordinem rationis i n bono vel malo, n i s i praesupposita alia circumstantia, a qua actus moralis habet speciem boni vel mali. Sicut tollere aliquid in magna quantitate vel parva, non respicit ordinem rationis in bono vel malo, nisi praesupposita aliqua alia conditio­ ne, per quam actus habeat malitiam vel boni­ tatem, puta hoc quod est esse alienum, quod repugnat rationi. Unde tollere alienum in ma­ gna vel parva quantitate, non diversificat speciem peccati. Tamen potest aggravare vel diminuere peccatum. Et similiter est in aliis malis vel bonis. Unde non omnis circumstan­ tia addens in bonitate vel malitia, variat spe­ ciem moralis actus. Ad primum ergo dicendum quod in bis quae intenduntur et remittuntur, differentia inten­ sionis et remissionis non diversificat speciem, sicut quod differt in albedine secundum ma­ gis et rninus, non differt secundum speciem coloris. Et similiter quod facit diversitatem in

    Q. l 8, A. l l

    bontà o alla malizia dell'atto: poiché ciò che non è buono non può rendere migliori altre cose, e ciò che non è cattivo non può renderle peggiori. Se invece ha in se stesso un' intrin­ seca bontà o malizia, per ciò stesso ha una specie nel bene o nel male. Quindi ogni circo­ stanza che accresce la bontà o la malizia [di un atto] produce una nuova specie di bontà o di malizia. 3. Secondo Dionigi , dice Atistotele. Ora i mostri non sono atti, ma sono degli esseri generati fuori dell' ordine della natura. D'altra parte le opere compiute dall'arte e dalla ragione imitano gli esseri che sono secondo natura, come nota lo stesso Aristotele. Quindi l'azione, per il fatto che è disordinata e cattiva, non implica la nozione di peccato. 2. Come insegna Aristotele, il peccato avvie­ ne nella natura e nell'arte quando non si rag­ giunge il fine inteso dalla natura o dali' arte. Invece la bontà o la malizia dell'atto umano consiste proprio nell'intenzione del fine, e nel suo conseguimento. Quindi la malizia di un atto non implica la nozione di peccato. 3. Se la malizia di un atto implicasse la ragione di peccato, ne seguirebbe che il peccato ver­ rebbe a trovarsi dovunque c'è un male. Ma ciò è falso: infatti la punizione, sebbene implichi la ragione di male, tuttavia non implica quella di peccato. Dal fatto quindi che un'azione è catti­ va non segue che abbia ragione di peccato. In contrario: come sopra abbiamo dimostrato, la bontà dell'atto umano dipende principal­ mente dalla legge eterna: di conseguenza la sua malizia consiste nell'essere discorde da tale legge. Ma ciò costituisce la ragione di peccato: infatti Agostino scrive: >. Risposta: come si è detto sopra, nella contem­ plazione della verità abbiamo il massimo godimento. Ora, ogni godimento allevia i l dolore, secondo le dimostrazioni date. Quindi la contemplazione della verità allevia la tri­ stezza, o dolore, nella misura in cui uno ama la sapienza. E così grazie alla contemplazione di Dio e della futura beatitudine gli uomini godono nelle tribolazioni, secondo l'esorta­ zione di Gc: Fratelli miei, considerate pelfet­ ta letizia quando subite ogni sorta di prove. Anzi, tale gioia si trova persino, ed è una cosa ancora più grande, fra i tormenti del corpo: come fu per «il martire Tiburzio, il quale nel camminare a piedi nudi sui carboni ardenti diceva: Mi sembra di passeggiare su petali di rose, nel nome di Gesù Cristo». Soluzione delle difficoltà: l . Si dice che «Chi accresce il sapere aumenta il dolore» o per le difficoltà e gli insuccessi che si incontrano nello scoprire la verità, oppure perché me­ diante la scienza uno viene a conoscere molte

    Q. 38, A. 4

    I rimedi alla tristezza o dolore

    385

    Et sic ex parte rerum cognitarum, scientia dolorem causat, ex parte autem contemplatio­ nis veritatis, delectationem. Ad secundum dicendum quod intellectus speculativus non movet animum ex parte rei speculatae, movet tamen animum ex parte ipsius speculationis, quae est quoddam bonum hominis, et naturaliter delectabilis. Ad tertium dicendum quod in viribus animae fit redundantia a superiori ad inferius. Et secundum hoc, delectatio contemplationis, quae est in superiori parte, redundat ad mitigandum etiam dolorem qui est in sensu.

    cose contrarie al suo volere. Quindi la scienza può causare dolore dalla parte delle cose conosciute; causa però godimento dalla parte della contemplazione della verità. 2. L'intelletto speculativo non muove l'animo in forza dell'oggetto contemplato, ma in forza della contemplazione stessa, che è un certo bene dell'uomo, e per sua natura piacevole. 3. Tra le facoltà dell'anima c'è una ridondan­ za dalle superiori nelle inferiori. E in questo modo il godimento della contemplazione, che risiede nella parte superiore, ridonda anche a sollievo del dolore che risiede nel senso.

    Articulus 5

    Utrum dolor et tristitia mitigentur per somnum et balnea Ad quintum sic proceditur. Videtur quod somnus et balneum non mitigent tristitiam. l . Tristitia enim in anima consistit. Sed som­ nus et balneum ad corpus pertinent. Non ergo aliquid faciunt ad mitigationem tristitiae. 2. Praeterea, idem effectus non videtur cau­ saci ex contrariis causis. Sed huiusmodi, cum sint corporalia, repugnant contemplationi ve­ ritatis, quae est causa mitigationis tristitiae, ut dictum est [a. 4]. Non ergo per huiusmodi tiistitia mitigatur. 3. Praeterea, tristitia et dolor, secundum quod pertinent ad corpus, in quadam transmuta­ tione cordis consistunt. Sed huiusmodi reme­ dia magis videntur pertinere ad exteriores sensus et membra, quam ad interiorem cordis dispositionem. Non ergo per huiusmodi tristi­ tia mitigatur. Sed contra est quod Augustinus dicit, 9 Conf. [12], audieram balnei nomen inde dictum, quod anxietatem pellat ex animo et infra, dormivi, et evigilavi, et non parva ex parte mitigatum inveni dolorem meum. Et i nducit quod in hymno Ambrosii [Hymn. 2] dicitur, quod quies artus solutos reddit /aboris usui, mentesque fessas allevar, luctusque solvit anxios. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 37 a. 4] dictum est, tristi ti a secundum suam speciem repugnat vitali motioni corporis. Et ideo illa quae reformant naturam corporalem in debitum statum vitalis motionis, repugnant tristitiae, et ipsam mitigant. Per hoc etiam quod huiusmodi remediis reducitur natura ad debitum statum, causatur ex bis delectatio,

    Articolo 5

    n

    dolore, o tristezza, è alleviato dal sonno e dal bagno?

    Sembra di no. Infatti: l . La tristezza risiede nell'anima. Ora, il sonno e il bagno riguardano il corpo. Quindi non pos­ sono far nulla per mitigare la tristezza. 2. n medesimo effetto non può essere prodot­ to da cause contrarie. Ma i rimedi suddetti, essendo corporali, sono contrari alla contem­ plazione della verità la quale, come si è visto, è un rimedio alla tristezza. Quindi i rimedi indicati non possono mitigare la tristezza. 3. La tristezza e il dolore consistono, nella lo­ ro parte materiale, in un'alterazione del cuore. Ma i rimedi indicati sembrano appartenere più ai sensi esterni e alle membra del corpo che ali' interna disposizione del cuore. Quindi la tristezza non viene alleviata da essi. In contrario: Agostino racconta: «Avevo sen­ tito dire che il termine bagno sarebbe derivato dal fatto che libera lo spirito dalle inquietudi­ ni». E aggiunge poco dopo: «Poi dormii, e quando mi svegliai mi trovai un poco solleva­ to dal mio dolore». E finalmente, citando le parole di un inno di Ambrogio, afferma che «il sonno le membra disciolte - ridona al la­ voro usitato - le anime stanche solleva l'ansiosa tristezza dissolve». Risposta: come si è visto sopra, la tristezza si contrappone specificamente al moto vitale del corpo. Quindi tutto ciò che riporta la natura corporea allo stato normale della mozione vitale [del cuore] è contrario alla tristezza, e ne è un rimedio. Dal fatto, anzi, che con que­ sti rimedi la natura viene ricondotta al suo stato normale, nasce da essi un piacere: infatti

    I rimedi alla tristezza o dolore

    Q. 38, A. 5

    hoc enim est quod delectationem facit, ut supra [q. 3 1 a. l ] dictum est. Unde, cum omnis delectatio tristitiam mitiget, per huius­ modi remedia corporalia tristitia mitigatur. Ad primum ergo dicendum quod ipsa debita corporis dispositio, inquantum sentitur, delec­ tationem causat, et per consequens tristitiam mitigat. Ad secundum dicendum quod delectationum una aliam impedit, ut supra [q. 3 1 a. 8] dictum est, et tamen omnis delectatio tristitiam mitigat. Unde non est inconveniens quod ex causis se invicem impedientibus tristitia mitigetur. Ad tertium dicendum quod omnis bona dispo­ sitio corporis redundat quodammodo ad cor, sicut ad principium et finem corporalium mo­ tionum, ut dicitur i n libro De causa motus animalium [ 1 1].

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    è questa la causa del piacere, come si è già detto. Quindi, siccome ogni piacere allevia la tristezza, anche i rimedi suddetti producono tale effetto. Soluzione delle difficoltà: l . La stessa buona disposizione del corpo, in quanto percepita, causa piacere, e quindi allevia la tristezza. 2. Come si è già detto, un godimento è di ostacolo all'altro; e tuttavia ogni godimento allevia la tristezza. Quindi nulla impedisce che la tristezza sia mitigata da cause contra­ stanti fra di loro. 3. Ogni buona disposizione del corpo si riper­ cuote in qualche modo sul cuore, essendo esso il principio e il fine di tutti i moti del corpo, come insegna Aristotele.

    QUAESTIO 39

    QU�STIONE 39

    DE BONITATE ET MALITIA TRISTITIAE SEU DOLORIS

    LA BONTA E LA MALIZIA DELLA TRISTEZZA O DOLORE

    Deinde considerandum est de bonitate et mali­ tia doloris vel tristitiae. Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, utmm omnis tristitia sit malum. Secundo, utrum possit esse bonum honestum. Tertio, utrum possit esse bonum utile. Quarto, utrum dolor corporis sit summum malum.

    Passiamo ora a considerare la bontà e la malizia del dolore o tristezza. Sull'argomento si pongo­ no quattro quesiti: l . Ogni dolore o tristezza è un male? 2. Può essere un bene onesto? 3. Può essere un bene utile? 4. ll dolore (del corpo) è il male supremo?

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum omnis tristitia sit mala

    Ogni tristezza è cattiva?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod omnis tristitia sit mala. l . Dicit enim Gregorius Nyssenus [De nat. horn. 1 9], omnis tristitia malum est, sui ipsius natura. Sed quod naturaliter est malum, semper et ubique est malum. Ergo omnis tristitia est mala 2. Praeterea, illud quod omnes fugiunt, etiam virtuosi, est malum. Sed tristitiam omnes fugiunt, etiam virtuosi, quia, ut dicitur in 7 Ethic. [1 1 ,4], etsi prudens non intendat delec­ tari, tame11 intendit 11011 tristari. Ergo tristitia est malum. 3. Praeterea, sicut malum corporale est obiec­ tum et causa doloris corporalis, ita malum spirituale est obiectum et causa tristitiae spi­ ritualis. Sed omnis dolor corporalis est malum corporis. Ergo omnis tristitia spiritualis est malum animae.

    Sembra di sì. Infatti: l . Gregorio di Nissa [Nemesio] scrive: «Ogni tristezza è un male per sua natura>>. Ora, ciò che è male per sua natura è un male sempre e dovunque. Quindi ogni tristezza è cattiva. 2. Quello che tutti, compresi i virtuosi, fuggo­ no, è un male. Ora tutti, compresi i virtuosi, fuggono la tristezza: poiché, come dice Ari­ stotele, «sebbene l'uomo prudente non cerchi di godere, tuttavia cerca di non essere contri­ stato». Quindi la tristezza è un male. 3. Come il male fisico è oggetto e causa del dolore fisico, così il male spirituale è oggetto e causa della tristezza spirituale. Ma ogni do­ lore fisico è un male del corpo. Quindi ogni tristezza spirituale è un male dell'anima. In contrruio: il rattristru-si del male si contrap­ pone al compiacersi nel male. Ma la compia-

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    La bontà e la malizia della tristezza o dolore

    Sed contra, tristitia de malo contrariatur delec­ tationi de malo. Sed delectatio de malo est mala, unde in detestationem quorundam dicitur Prov. 2 [ 1 4] , quod laetantur cum malefecerint. Ergo tristitia de malo est bona. Respondeo dicendum quod aliquid esse bo­ num vel malum, potest dici dupliciter. Uno modo, simpliciter et secundum se. Et sic omnis tristitia est quoddam malum, hoc enim ipsum quod est appetitum hominis anxiari de malo praesenti, rationem mali habet; impe­ ditur enim per hoc quies appetitus in bono. Alio modo dicitur aliquid bonum vel malum, ex suppositione alterius, sicut verecundia di­ citur esse bonum, ex suppositione alicuius turpis commissi, ut dicitur in 4 Ethic. [9,7]. Sic igitur, supposito aliquo contristabili vel do­ loroso, ad bonitatem pertinet quod aliquis de malo praesenti tristetur vel doleat. Quod enim non tristaretur vel non doleret, non posset esse nisi quia vel non sentiret, vel quia non reputa­ ret sibi repugnans, et utrumque istorum est malum manifeste. Et ideo ad bonitatem pertinet ut, supposita praesentia mali, sequatur tristitia vel dolor. Et hoc est quod Augustinus dicit, 8 Super Gen. [ 1 4], adhuc est bonum quod dolet amissum bonum, nam nisi aliquod bonum remansisset in natura, nullius boni amissi do/or esset in poena. Sed quia sermo­ nes morales sunt in singularibus, quorum sunt operationes, illud quod est ex suppositione bo­ num, debet bonum iudicari, sicut quod est ex suppositione voluntarium, iudicatur volunta­ rium, ut dicitur in 3 Ethic. [ 1 ,6], et supra [q. 6 a. 6] habitum est. Ad primum ergo dicendum quod Gregorius Nyssenus loquitur de tristitia ex parte mali tristantis, non autem ex parte sentientis et repudiantis malum. Et ex hac etiam parte omnes fugiunt tristitiam, inquantum fugiunt malum, sed sensum et refutationem mali non fugiunt. Et sic etiam dicendum est de dolore corporali, nam sensus et recusatio mali corporalis attestatur naturae bonae. Unde patet responsio ad secundum et tertium. -

    Q. 39, A. l

    cenza nel male è cattiva: infatti alcuni vengo­ no biasimati dai Pr perché godono nel fare il male. Quindi la tristezza del male è buona. Risposta: una cosa può essere considerata buona o cattiva in due modi. Primo, assoluta­ mente parlando e per se stessa. E in questo senso ogni tristezza è un male: infatti l' ango­ scia dell'appetito umano per la presenza del male si presenta come qualcosa di cattivo, poiché viene così ostacolata la quiete dell'ap­ petito nel bene. Secondo, una cosa può essere considerata buona o cattiva [ipoteticamente], in forza della presupposizione di un' altra: come si considera cosa buona la vergogna presupposto il compimento di un atto vergo­ gnoso, come nota Aristotele. Quindi, suppo­ sto un fatto rattristante e doloroso, è cosa buona che uno si rattristi e si addolori del male presente. Se infatti non si rattristasse o non si dolesse mostrerebbe o di non sentire, o di non stimare quel fatto come ripugnante: e l ' una e l ' altra cosa è certamente cattiva. Quindi è un bene, supposta la presenza del male, che ne segua la tristezza o il dolore. E q�;.�esto è quanto dice Agostino, il quale scrive: «E ancora un bene che uno si dolga del bene perduto: se infatti nella natura non fosse rima­ sto qualcosa di buono, nella pena non ci sarebbe dolore per alcun bene perduto». Ora, poiché in morale gli enunciati hanno per oggetto i singolari, a cui appartengono le ope­ razioni, le cose che sono buone ipoteticamen­ te vanno considerate buone: come un atto ipo­ teticamente volontario viene giudicato volon­ tario, secondo quanto dice Aristotele e come sopra abbiamo dimostrato. Soluzione delle difficoltà: l . Gregorio Nisseno [Nemesio] parla della tristezza o dolore dal punto di vista del male che affligge, non dal punto di vista del soggetto che lo sente e ne prova ripulsa. Da quel lato infatti tutti fuggo­ no i dolori in quanto fuggono il male: non fuggono però la percezione e la ripulsa del male. E lo stesso si dica per il dolore fisico: intatti la sensazione e la ripulsa del male fisi­ co dimostrano la bontà della natura. 2. 3. Sono così risolte anche la seconda e la terza difficoltà.

    La bontà e la malizia della tristezza o dolore

    Q. 39, A. 2

    388

    Articulus 2

    Articolo 2

    Utrurn tristitia possit esse bonum honestum

    La tristezza può essere un bene onesto?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod tristitia non habeat rationem boni honesti. l . Quod enim ad lnferos deducit, contrariatur honesto. Sed sicut dicit Augustinus, 1 2 Super Gen. [33], Iacob hoc timuisse videtw; ne nimia tristitia sic perturbaretw; ut non ad requiem beatorum iret, sed ad lnfe1Vs peccatorum. Ergo tristitia non habet rationem boni honesti. 2. Praeterea, bonum honestum habet rationem laudabilis et meritorii. Sed tristitia diminuit rationem laudis et meriti, dicit enim apostolus, 2 ad Cor. 9 [7], unusquisque prout destinavit in corde suo, non ex tristitia aut ex necessitate. Ergo tristitia non est bonum honestum. 3. Praeterea, sicut Augustinus dicit, 14 De civ. Dei [ 1 5], tristitia est de his quae, nobis no­ lentibus, accidunt. Sed non velle ea quae praesentialiter tiunt, est habere voluntatem repugnantem ordinationi divinae, cuius provi­ dentiae subiacent omnia quae aguntur. Ergo, cum conformitas humanae voluntatis ad di­ vinam pertineat ad rectitudinem voluntatis, ut supra [q. 1 9 a. 9] dictum est; videtur quod tristitia contrarietur rectitudini voluntatis. Et sic non habet rationem honesti. Sed contra, omne quod meretur praemium vitae aeternae, habet rationem honesti. Sed tristitia est huiusmodi, ut patet per id quod dicitur Matth. 5 [5], beati qui lugent, quoniam ipsi consolabuntur. Ergo tristitia est bonum honestum. Respondeo dicendum quod, secundum illam rationem qua tristitia est bonum, potest esse bonum honestum. Dictum est enim [a. l ] quod tristiti a est bonum secundum co­ gnitionem et recusationem mal i . Quae quidem duo in dolore corporali, attestantur bonitati naturae, ex qua provenit quod sensus sentit, et natura refugit laesivum, quod causat dolorem. In interiori vero tristitia, cognitio mali quandoque quidem est per rectum iudicium rationis; et recusatio mali est per voluntatem bene dispositam detestantem malum. Omne autem bonum honestum ex his duobus procedit, scilicet ex recti tudine rationis et voluntatis. Unde manifestum est quod tristitia potest habere rationem boni honesti.

    Sembra di no. Infatti: Ciò che conduce all'inferno si contrappone al bene onesto. Ora, stando a Agostino, «sembra che Giacobbe temesse di finire non nella pace dei beati, ma nell'inferno dei peccatori se si fosse lasciato turbare da una tristezza troppo forte». Quindi la tristezza non può presentarsi come un bene onesto. 2. n bene onesto implica la lode e il merito. Ma la tristezza diminuisce la lode e il merito: infatti Paolo in 2 Cor scrive: Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza. Quindi la tristezza non è un bene onesto. 3. Agostino dice: «La tristezza ha per oggetto le cose che accadono contro il nostro volere». Ora, non volere le cose che attualmente avvengono significa avere una volontà contra­ ria alle disposizioni di Dio, dalla cui provvi­ denza dipendono tutti i fatti che avvengono. Poiché dunque la conformità della volontà umana con quella divina è richiesta per la ret­ titudine del nostro volere, come sopra abbia­ mo detto, sembra che la tristezza si opponga alla rettitudine della volontà. E così non può essere un bene onesto. In contrario: tutto ciò che merita il premio della vita eterna è un bene onesto. Ma tale è la tristezza, come è chiaro da quanto è detto in Mt: Beati gli ajjlitti, perché saranno conso­ lati. Quindi la tristezza è un bene onesto. Risposta: l' aspetto che la rende buona per­ mette alla tristezza di essere un bene onesto. Infatti la tristezza è una cosa buona in quanto percezione e ripulsa del male, come si è detto. Ora, queste due cose nel dolore fisico dimostrano la bontà della natura, dalla quale nasce la percezione del senso e la ripulsa naturale per ciò che nuoce e provoca il dolo­ re. Invece nella tristezza interiore la cono­ scenza del male spesso dipende dal retto giu­ dizio della ragione, e l'avversione verso il male dipende dalla volontà ben disposta che lo detesta. Ora, ogni bene onesto deriva appunto da queste due cose, cioè dalla rettitu­ dine della ragione e della volontà. Quindi è evidente che la tristezza può essere un bene onesto.

    389

    La bontà e la malizia della tristezza o dolore

    Q. 39, A. 2

    Ad primum ergo dicendum quod omnes pas­ siones animae regulari debent secundum regulam rationis, quae est radix boni honesti. Quam transcendit immoderata tristitia, de qua loquitur Augustinus. Et ideo recedit a ratione boni honesti. Ad secundum dicendum quod, sicut tristitia de malo procedit ex voluntate et ratione recta, quae detestatur malum; ita tristitia de bono procedit ex ratione et voluntate perversa, quae detestatur bonum. Et ideo talis tristitia impe­ dit laudem vel meritum boni honesti, sicut cum quis facit cum tristitia eleemosynam. Ad tertium dicendum quod aliqua praesentia­ liter eveniunt, quae non fiunt Deo volente, sed Deo pennittente, sicut peccata. Unde voluntas repugnans peccato existenti vel in se vel in alio, non discordat a voluntate Dei. Mala vero poenalia praesentialiter contingunt, etiam Deo volente. Non tamen exigitur ad rectitudinem voluntatis, quod ea secundum se homo velit, sed solum quod non contranitatur ord i n i divinae iustitiae, ut supra [q. 1 9 a . 10] dictum est.

    Soluzione delle difficoltà: l . Tutte le passioni devono essere regolate secondo la regola della ragione, che è la radice del bene onesto. Ma tale regola è trasgredita dalla tristezza esage­ rata, di cui parla Agostino. Quindi tale tristez­ za si allontana dalla nozione di bene onesto. 2. Come la tristezza per il male proviene da una volontà e da una ragione retta, che detesta­ no il male, così la tristezza per il bene proviene da una ragione e da una volontà perverse, che detestano il bene. Quindi questa seconda tri­ stezza viene a infirmare il merito e la lode del bene onesto: come quando uno fa l'elemosina con tristezza. 3. Certe cose che avvengono attualmente non avvengono perché Dio le vuole, ma perché le permette: p. es. i peccati. Quindi la volontà che si ribella al peccato proprio o altrui non è in disaccordo con la volontà di Dio. Invece i casti­ ghi capitano nella realtà proprio perché Dio li vuole. Tuttavia per la rettitudine della volontà non si richiede che l'uomo li ami per se stessi, ma solo che non si ribelli all'ordine della divina giustizia, come sopra abbiamo spiegato.

    Articulus 3 Utrum tristitia possit esse bonum utile

    Articolo 3 La tristezza può essere un bene utile?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod tristi­ tia non possit esse bonum utile. l . Dicitur enim Eccli. 30 [25] , multos occidit

    tristitia, et non est utilitas in il/a. 2. Praeterea, electio est de eo quod est utile ad finem aliquem. Sed tristitia non est eligibilis, quinimmo idem sine tristitia, quam cum tristitia, est magis eligendum, ut dicitur in 3 Topic. [2, 1 6]. Ergo tristitia non est bonum utile. 3 . Praeterea, omnis res est propter suam operationem, ut dicitur in 2 De coelo [3, 1 ] . Sed tristitia impedir operationem, u t dicitur in 1 0 Eth i c . [5 ,5] . Ergo tristitia non habet rationem boni utilis. Sed contra, sapiens non quaerit nisi utilia. Sed sicut dicitur Eccle. 7 [5], cor sapientum ubi tristitia, et cor stultorum ubi laetitia. Ergo tristitia est utilis. Respondeo dicendum quod ex malo praesenti i n s urgi t duplex appetitivus motus. Unus quidem est quo appetitus contrariatur malo praesenti. Et ex ista parte tristitia non habet uti­ litatem, quia id quod est praesens, non potest non esse praesens. Secundus motus consurgit

    Sembra di no. Infatti : l . In Sir è detto: La tristezza

    ha ucciso molti, e in essa non c 'è utilità. 2. Ciò che è utile per un fine è oggetto di scel­

    ta. Ma la tristezza non è degna di scelta; anzi, come scrive Aristotele, «è meglio scegliere una cosa senza tristezza che con tristezza». Quindi la tristezza non è un bene utile. 3. «Ogni cosa è per la sua attività>>, insegna Aristotele. Ma egli scrive pure che «la tristez­ za disturba l' attività». Quindi la tristezza non ha l'aspetto di bene utile. In contrario: il sapiente cerca solo le cose utili. Ma come è detto in Qo, il cuore dei

    saggi è dov 'è la tristezza, e il cuore degli stol­ ti dove è l'allegria. Quindi la tristezza è utile.

    Risposta: dalla presenza del male insorgono due moti appetitivi. n primo è il moto di con­ trarietà al male presente. E da questo lato la tristezza non offre alcuna utilità: poiché ciò che è presente non può non essere presente. Il secondo moto nasce dall'appetito come fuga o come reazione al male che addolora. E qui la tristezza offre un'utilità, se ha per oggetto

    La bontà e la malizia della tristezza o dolore

    Q. 39, A. 3

    in appetitu ad fugiendum vel repellendum malum contristans. Et quantum ad hoc, tristitia habet utilitatem, si sit de aliquo quod est fu­ giendum. Est enim aliquid fugiendum duplici­ ter. Uno modo, propter seipsum, ex contrarie­ tate quam habet ad bonum; sicut peccatum. Et ideo tristitia de peccato utilis est ad hoc quod homo fugiat peccatum, sicut apostolus dicit, 2 ad Cor. 7 [9], gaudeo, non quia contristati estis, sed quia contristati estis ad poenitentiam. Alio modo est aliquid fugiendum, non quia sit secundum se malum, sed quia est occasio mali; dum vel homo nimis inhaeret ei per amorem, vel etiam ex hoc praecipitatur i n aliquod malum, sicut patet in bonis temporalibus. Et secundum hoc, tristitia de bonis temporalibus potest esse utilis, sicut dicitur Eccle. 7 [3],

    melius est ire ad domum luctus quam ad domum convivii, in il/a enim finis cunetorum admonetur hominum. Ideo autem tristitia in -

    omni fugiendo est utilis, quia geminatur fugiendi causa. Nam ipsum malum secundum se fugiendum est, ipsam autem tristitiam se­ cundum se omnes fugiunt, sicut etiam bonum omnes appetunt, et delectationem de bono. Sicut ergo delectatio de bono facit ut bonum avidius quaeratur, ita tiistitia de malo facit ut malum vehementius fugiatur. Ad primum ergo dicendum quod auctoritas illa intelligitur de immoderata tristitia, quae animum absorbet. Huiusmodi enim tristitia immobilitat animum, et impedit fugam mali, ut supra [q. 37 a. 2] dictum est. Ad secundum d icendum quod, s i c u t quodlibet eligibile fi t minus eligibile propter tiistitiam, ita quodlibet fugiendum redditur magis fugiendum propter tristitiam. Et quan­ tum ad hoc, tristitia est utilis. Ad tertium dicendum quod tristitia de opera­ tione aliqua, impedit operationem, sed tristitia de cessatione operationis, facit avidius operari. Articulus

    4

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    una cosa da fuggire. Infatti una cosa è degna di fuga per due motivi. Primo, per se stessa, in quanto è contraria al bene: p. es. il peccato. Quindi il dolore dei peccati serve all' uomo per fuggire il peccato; così infatti dice Paolo in 2 Cor: Ne godo, non perché siete stati con­

    tristati, ma perché questa tristezza vi ha por­ tato a pentirvi. Secondo, una cosa è degna di fuga non perché cattiva in se stessa, ma per­ ché occasione di male: o per il fatto che l'uomo vi si lega con l' amore, oppure perché ne prende occasione per cadere nel male; e ne abbiamo I' esempio nel caso dei beni tempo­ rali. Per questo i dolori e le tristezze aventi per oggetto i beni temporali possono essere utili, come è detto in Qo: È meglio andare in

    una casa in lutto che in una casa in festa; perché in quella è richiamata alla mente la fine di tutti gli uomini. Quindi la tristezza di -

    fronte a ogni cosa da fuggire è utile, poiché viene raddoppiata la causa che spinge alla fuga. Infatti il male in se stesso è degno di fuga, e d' altra parte tutti fuggono la stessa tii­ stezza, come tutti desiderano il bene e il suo godimento. Come dunque il godimento del bene fa sì che il bene sia cercato con maggio­ re avidità, così il dolore o tristezza per il male fa sì che il male sia fuggito con più impegno. Soluzione delle difficoltà: l . Quel testo si riferi­ sce alla tristezza esagerata, che assorbe l'animo. Infatti tale tristezza, come si è visto, immo­ bilizza l'animo e impedisce la fuga del male. 2. Come tutte le cose degne di scelta diventa­ no meno eleggibili per la tristezza, così tutte quelle che sono da fuggire diventano per la tristezza più degne di fuga. E in ciò sta l'utili­ tà della tiistezza. 3. Se la tristezza è motivata dall' attività ne costituisce un ostacolo, ma se è motivata dalla sua cessazione fa agire con più impegno.

    Articolo

    4

    Utrum dolor corporis sit summum malum

    Il dolore del corpo è il male supremo?

    Ad quartum sic proceditur. Vìdetur quod tii­ stitia sit summum malum. l . Optimo enim opponitur pessimum, ut dici­ tur in 8 Ethic. [10,2]. Sed quaedam delectatio est optimum, quae scilicet pertinet ad felicita­ tem. Ergo aliqua tiistitia est summu m malum.

    Sembra di sì. Infatti: l . Aristotele afferma che «la cosa migliore ha come suo contrario la cosa peggiore». Ora, c'è un godimento che costituisce la cosa mi­ gliore, e cioè la beatitudine. Quindi c'è un do­ lore che costituisce il male supremo.

    39 1

    La bontà e la malizia della tristezza o dolore

    2. Praeterea, beatitudo est summum bonum hominis, quia est ultimus hominis finis. Sed beatitudo consistit in hoc quod homo habeat quidquid velit, et nihil mali velit, ut supra [q. 3 a. 4 arg. 5; q. 5 a. 8 arg. 3] dictum est. Ergo summum bonum hominis est i mpletio voluntatis ipsius. Sed tristitia consistit in hoc quod accidit aliquid contra voluntatem, ut patet per Augustinum, 14 De civ. Dei [6. 15]. Ergo tristitia est summum malum hominis. 3. Praeterea, Augustinus sic argumentatur in Solil. [ 1 2], ex duabus partibus compositi sumus, ex anima scilicet et corpore, quarum pars deterior corpus est. Summum autem bonum est melioris partis optimum, swnmum autem malum, pessimum deterioris. Est autem optimum in animo sapientia, in corpore pessimum do/01: Summum igitur bonum hominis est sapere, summum malum dolere. Sed contra, culpa est magis malum quam poena, ut in primo [q. 48 a. 6] habitum est. Sed tristitia seu dolor pertinet ad poenam peccati; sicut frui rebus mutabilibus est malum culpae. Dicit enim Augustinus, in libro De vera rei. [ 1 2], quis est do/or qui dicitur animi, nisi carere mutabilibus rebus quibus fruebatur, aut frui se posse speraverat? Et hoc est totum quod dicitur malum, idest peccatum, et poena peccati. Ergo tri stitia seu dolor non est summum malum hominis. Respondeo dicendum quod impossibile est aliquam tristitiam seu dolorem esse summum hominis malum. Omnis enim tristitia seu dolor aut est de hoc quod est vere malum, aut est de aliquo apparenti malo, quod est vere bonum. Dolor autem seu tristitia quae est de vere malo, non potest esse summum malum, est enim aliquid eo peius, scilicet vel non iudicare esse malum illud quod vere est malum, vel etiam non refutare illud. Tristitia autem vel dolor qui est de apparenti malo, quod est vere bonum, non potest esse summum malum, quia peius esset omnino alienari a vero bono. Unde impossibile est quod aliqua tristitia vel dolor sit summum hominis malum. Ad primum ergo dicendum quod duo bona sunt communia et delectationi et tristitiae, scilicet iudicium verum de bono et malo; et ordo debitus voluntatis approbantis bonum et recusantis malum. Et sic patet quod in dolore vel tristitia est aliquod bonum per cuius privationem potest fieri deterius. Sed non in

    Q. 39, A. 4

    2. La beatitudine è il bene supremo dell'uomo, essendone l'ultimo fine. Ora, la felicità consi­ ste nel fatto che un uomo «ha ciò che vuole, e non vuole nulla di male», come sopra abbiamo detto. Perciò il bene supremo di un uomo è il compimento del suo volere. Ma la tristezza ha per oggetto quanto accade contro la propria volontà, come Agostino dimostra. Quindi la tristezza è per l'uomo il male supremo. 3. Nei Soliloqui Agostino porta questo argo­ mento: «Noi siamo composti di due parti, cioè di anima e di corpo, la peggiore delle quali è il corpo. Quindi il sommo bene è quel­ lo che vi è di meglio nella parte migliore, e il male supremo è ciò che vi è di peggio nella parte peggiore. Ora, ciò che vi è di meglio nell'animo è la sapienza, e ciò che vi è di peg­ gio nel corpo è il dolore. Quindi per l'uomo il bene supremo è la sapienza e il male supremo il dolore». In contrario: la colpa, come si è visto nella Prima Parte, è un male più grande della pena. Ora, la tristezza o dolore fa parte della pena dovuta al peccato, come la fruizione delle cose transitorie costituisce il male della colpa. Infatti Agostino insegna: «Che cosa è il dolo­ re attribuito all' anima se non la privazione delle cose transitorie di cui fruiva, o delle quali sperava di fruire? E questo è tutto quan­ to viene detto male, cioè il peccato e la pena del peccato». Quindi la tristezza o dolore non è il male supremo dell'uomo. Risposta: è impossibile che una tristezza o un dolore siano il male supremo dell'uomo. Ogni tristezza o dolore infatti ha per oggetto o un male vero o un male apparente, che in realtà è un bene. Ora, la tristezza per un male vero non può essere il male supremo: infatti esiste qual­ cosa di peggio, cioè il non ritenere un male ciò che lo è realmente, oppure il non respingerlo. D'altra parte la tristezza per un male apparen­ te, che è in realtà un bene vero, non può essere il male supremo, poiché sarebbe peggio allon­ tanarsi totalmente dal vero bene. Quindi è impossibile che una tristezza o un dolore siano il male supremo dell'uomo. Soluzione delle difficoltà: l . n piacere e la tri­ stezza hanno in comune due cose buone: un giudizio vero sul bene e sul male e la giusta disposizione della volontà che approva il bene e respinge il male. E così si dimostra che nel dolore o tristezza c'è qualcosa di buono, la

    La bontà e la malizia della tristezza o dolore

    Q. 39, A. 4

    omni delectatione est aliquod malum, per cuius remotionem possit fieri melius. Unde delectatio aliqua potest esse summum ho­ minis bonum, eo modo quo supra [q. 34 a. 3] dictum est, tristitia autem non potest esse summu m hominis malum. Ad secundum dicendum quod hoc ipsum quod est voluntatem repugnare malo, est quoddam bonum. Et propter hoc, tristitia vel dolor non potest esse summum malum, quia habet aliquam permixtionem boni. Ad tertium dicendum quod peius est quod nocet meliori, quam quod nocet peiori . Malum autem dicitur quia nocet, ut dicit Augustinus in Ench. [ 1 2] . Unde maius malum est quod est malum animae, quam quod est malum corporis. Unde non est efficax, ratio, quam Augustinus inducit non ex sensu suo sed ex sensu alterius.

    392

    cui perdita può costituire un male più grande. Invece non sempre si trova nel godimento un male la cui perdita possa costituire un bene più grande. Per cui ci può essere un godimen­ to che è il bene supremo dell'uomo, come si è spiegato, mentre la tristezza non può essere per l'uomo il male supremo. 2. Il fatto stesso che la volontà si ribelli al male è già un bene. E proprio per questo la tristezza o dolore non può essere il male su­ premo: poiché vi si trova mescolato del bene. 3. Come dice Agostino, una cosa viene detta male «perché nuoce». Ora, il male che dan­ neggia una cosa migliore è peggiore di quello che ne danneggia una peggiore. Quindi è peg­ giore il male dell'anima che quello del corpo. E così l'argomento che Agostino riporta, non come suo ma di altri [di Cornelio Celso], non ha valore.

    QUAESTI0 40

    QUESTIONE 40

    DE PASSIONIBUS IRASCIBILIS, ET PRIMO, DE SPE ET DESPERATIONE

    LE PASSIONI DELL'IRASCIBILE. LA SPERANZA E LA DISPERAZIONE

    Consequenter considerandum est de passioni­ bus irascibilis, et primo, de spe et desperatione; secundo, de timore et audacia [q. 41]; tertio, de ira [q. 46]. Circa primum quaeruntur octo. Primo, utrum spes sit idem quod desiderium vel cupiditas. Secundo, utrum spes sit in vi apprehensiva, vel in vi appetitiva. Tertio, utrum spes sit in brutis animalibus. Quarto, utrum spei contrarietur desperatio. Quinto, utrum causa spei sit experientia. Sexto, utrum in iuvenibus et ebriosis spes abundet. Septimo, de ordine spei ad amorem. Octavo, utrum spes conferat ad operationem.

    Dobbiamo ora studiare le passioni dell'irasci­ bile: primo, la speranza e la disperazione; secondo, il timore e l'audacia; terzo, l'ira. Sul primo argomento tratteremo otto problemi: l . La speranza si identifica col desiderio o cupidigia? 2. La speranza risiede in una facoltà conoscitiva o appetitiva? 3. La speran­ za si trova anche negli animali bruti? 4. La disperazione è il contrario della speranza? 5. L'esperienza è causa di speranza? 6. La speranza abbonda nei giovani e negli ubria­ chi? 7. I rapporti tra la speranza e l'amore; 8. La speranza aiuta nell'operare?

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum spes sit idem quod desiderium vel cupiditas

    La speranza si identifica col desiderio o cupidigia?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod spes sit idem quod desiderium sive cupiditas. l . Spes enim poni tur una quatuor principalium passionum. Sed Augustinus, enumerans quatuor principales passiones, ponit cupiditatem loco spei, ut patet in 14 De civ. Dei [3]. Ergo spes est idem quod cupidi­ tas sive desiderium. 2. Praeterea, passiones differunt secundum

    Sembra di sì. Infatti: La speranza è una delle quattro passioni prin­ cipali. Ora Agostino, nell'enumerare le quat­ tro passioni principali, mette la cupidigia al posto della speranza. Quindi la speranza si identifica con la cupidigia o desiderio. 2. Le passioni differiscono secondo i loro oggetti. Ma l'oggetto della speranza, cioè il bene futuro, si identifica con l'oggetto della

    393

    Le passioni del/ 'irascibile. La speranza e la disperazione

    obiecta. Sed idem est obiectum spe i , et cupiditatis sive desiderii , scilicet bonum futurum. Ergo spes est idem quod cupiditas sive desiderium. 3. Si dicatur quod spes addit supra desiderium possibilitatem adipiscendi bonum futurum, contra, id quod per accidens se habet ad obiectum, non variat speciem passionis. Sed possibile se habet per accidens ad bonum futurum, quod est obiectum cupiditatis vel desiderii , et spei. Ergo spes non est passio specie differens a desiderio vel cupiditate. Sed contra, diversarum potentiarum sunt di­ versae passione.� specie differente.�. Sed spes est in irascibili; desiderium autem et cupiditas in concupi scibili. Ergo spes differt specie a desiderio seu cupiditate. Respondeo dicendum quod species passionis ex obiecto consideratur circa obiectum autem spei quatuor conditiones attenduntur. Primo quidem, quod sit bonum, non enim, proprie loquendo, est spes nisi de bono. Et per hoc differt spes a timore, qui est de malo. Se­ condo, ut sit futurum, non enim spes est de praesenti iam habito. Et per hoc differt spes a gaudio, quod est de bono praesenti. Tertio, re­ quiritur quod sit aliquid arduum cum difficul­ tate adipiscibile, non enim aliquis dicitur aliquid sperare minimum, quod statim est in sua potestate ut habeat. Et per hoc differt spes a desiderio vel cupiditate, quae est de bono futuro absolute, unde pertinet ad concupisci­ bilem, spes autem ad irascibilem. Quarto, quod illud arduum sit possibile adipisci, non enim aliquis sperat id quod omnino adipisci non potest. Et secundum hoc differt spes a desperatione. Sic ergo patet quod spes differt a desiderio, sicut differunt passiones irasci­ bilis a passionibus concupiscibilis. Et propter hoc, spes praesupponit desiderium, sicut et omnes passiones irascibilis praesupponunt passiones concupiscibilis, ut supra [q. 25 a. l] dictum est. Ad primum ergo dicendum quod Augustinus ponit cupiditatem loco spei, propter hoc quod utmmque respicit bonum futurum, et quia bonum quod non est arduum, quasi nihil reputatur; ut sic cupiditas maxime videatur tendere in bonum arduum, in quod etiam tendit spes. Ad secundum dicendum quod obiectum spei non est bonum futurum absolute, sed cum

    Q. 40, A. l

    cupidigia o desiderio. Quindi la speranza si identifica con la cupidigia o desiderio. 3 . A chi poi rispondesse che la speranza aggiunge al desiderio la possibilità di rag­ giungere il bene futuro, si potrebbe replicare: ciò che è accidentale per l'oggetto non basta a distinguere specificamente le passioni. Ora, la raggiungibilità è accidentale per il bene futu­ ro, oggetto della cupidigia o desiderio. Quindi la speranza non è una passione specificamen­ te distinta dal desiderio o cupidigia. In contratio: passioni che appartengono a po­ tenze diverse sono specificamente diverse. Ora, la speranza è nell' irascibile, mentre il desidetio o cupidigia è nel concupiscibile. Quindi la speranza è specificamente distinta dal desiderio o cupidigia. Risposta: la specie di una passione viene de­ terminata in base all'oggetto. Ora, per l ' og­ getto della speranza si richiedono quattro con­ dizioni. Primo, che sia un bene: poiché, pro­ priamente parlando, non si può sperare che il bene. E in ciò la speranza differisce dal timo­ re, che ha per oggetto il male. Secondo, che sia futuro: poiché la speranza non riguarda ciò che attualmente si possiede. E in ciò la speranza differisce dal godimento, che ha per oggetto i l bene presente. Terzo, si richiede che sia qualcosa di arduo, raggiungibile con difficoltà: infatti uno non può dire di sperare cose da poco, che subito può avere in suo potere. E in ciò la speranza si distingue dal desiderio o cupidigia, che riguarda i l bene futuro in genere; per cui appartiene al concu­ piscibile, mentre la speranza va attribuita all'irascibile. Quarto, si richiede che tale cosa ardua sia raggiungibile: infatti uno non può sperare ciò che in nessun modo può raggiun­ gere. E in questo la speranza si distingue dalla disperazione. Così dunque è evidente che la speranza è distinta dal desiderio, come le pas­ sioni dell'irascibile sono distinte da quelle del concupiscibile. E per questo motivo la speran­ za presuppone il desiderio: come tutte le pas­ sioni dell' irascibile presuppongono quelle del concupiscibile, secondo le spiegazioni già date. Soluzione delle difficoltà: l . Agostino mette la cupidigia al posto della speranza perché entrambe riguardano un bene futuro; e poiché un bene che non è arduo quasi non viene con­ siderato, sembra che la cupidigia non abbia

    Q. 40, A. l

    Le passioni dell'irascibile. La speranza e la disperazione

    arduitate et difficultate adipiscendi, ut dicturn est [co.]. Ad tertium dicendum quod obiectum spei non tantum addit possibilitatem super obiec­ tum desiderii, sed etiam arduitatem, quae ad aliam potentiam facit spem pertinere, scilicet ad irascibilem, quae respicit arduum, ut in primo [q. 81 a. 2] dictum est. Possibile autem et impossibile non omnino per accidens se habent ad obiectum appetitivae virtutis. Nam appetitus est principium motionis, nihil autem movetur ad aliquid nisi sub ratione possibilis; nullus enim movetur ad id quod existimat i mpossibile adipisci. Et propter hoc, spes differt a desperatione secundum differentiam possibilis et impossibilis.

    394

    da tendere che verso il bene arduo, verso il quale tende pure la speranza. 2. L'oggetto della speranza non è semplicemen­ te il bene futuro, ma il bene futuro arduo e diffi­ cile da raggiungersi, come si è già spiegato. 3. L'oggetto della speranza aggiunge all'og­ getto del desiderio non soltanto la possibilità [o raggiungibilità], ma anche l'arduità: e que­ sta fa sì che la speranza appartenga a un'altra tàcoltà, cioè all'irascibile, che ha per oggetto l'arduo, come si è visto nella Prima Parte. Tuttavia la distinzione tra possibile e impossi­ bile non è del tutto accidentale per l'oggetto della facoltà appetitiva. Poiché l'appetito è un principio di moto, e ogni moto ha come ter­ mine una cosa possibile: infatti nessuno si muove verso ciò che ritiene impossibile rag­ giungere. In base a ciò dunque la speranza differisce dalla disperazione secondo la di­ stinzione tra possibile e impossibile.

    Articulus 2

    Articolo 2

    Utrum spes sit in vi apprehensiva an in vi appetitiva

    La speranza risiede nelle facoltà conoscitive?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod spes pertineat ad vim cognitivam. l . Spes enim videtur esse expectatio quaedam, dicit enim apostolus, Rom. 8 [25], si autem quod non videmus speramus, per patientiam expectamus. Sed expectatio videtur ad vim cognitivam pertinere, cuius est exspectare. Ergo spes ad cognitivam pertinet. 2. Praeterea, idem est, ut videtur, spes quod fi ducia, unde et sperantes confidentes vocamus, quasi pro eodem utentes eo quod est confidere et sperare. Sed fiducia, sicut et fides, videtur ad vim cognitivam pertinere. Ergo et spes. 3. Praeterea, certitudo est proprietas cogniti­ vae virtutis. Sed certitudo attribuitur spei. Ergo spes ad vim cognitivam pertinet. Sed contra, spes est de bono, sicut dictum est [a. 1]. Bonum autem, inquantum huiusmodi, non est obiectum cognitivae, sed appetitivae virtutis. Ergo spes non pertinet ad cognitivam, sed ad appetitivam virtutem. Respondeo dicendum quod, cum spes im­ portet extensionem quandam appetitus in bo­ num, manifeste pertinet ad appetitivam vir­ tutem, motus enim ad res pertinet proprie ad appetitum. Actio vero virtutis cognitivae

    Sembra di sì. Infatti: La speranza è un'aspettativa, infatti dice Paolo in Rm: Ma se speriamo quello che non vedia­ mo, lo attendiamo con perseveranza. Ora, l'aspettativa appartiene alla conoscenza, che ha l'ufficio di exspectare [guardare]. Quindi la speranza risiede nella parte conoscitiva. 2. La speranza sembra identificarsi con la fiducia: infatti di coloro che sperano diciamo che confidano, usando così promiscuamente confidare e sperare. Ma la fiducia, come la fede, appartiene alla facoltà conoscitiva. Quindi anche la speranza. 3. La certezza è una proprietà delle facoltà conoscitive. Ma essa viene attribuita alla spe­ ranza. Quindi la speranza appartiene alle facoltà conoscitive. In contrario: la speranza, come si è detto, ha per oggetto il bene. Ora, il bene come tale non è oggetto delle facoltà conoscitive, ma di quelle appetitive. Quindi la speranza appartie­ ne a queste ultime. Risposta: la speranza implica una tendenza dell'appetito verso il bene, perciò appartiene manifestamente a una facoltà appetitiva: infat­ ti il moto verso le cose è proprio dell'appetito. Invece l'atto delle facoltà conoscitive non si

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    Le passioni del/ 'irascibile. La speranza e la disperazione

    perficitur non secundum motum cognoscentis ad res, sed potius secundum quod res cogni­ tae sunt in cognoscente. Sed quia vis cogni­ tiva movet appetitivam, repraesentando ei suum obiectum; secundum diversas rationes obiecti apprehensi, subsequuntur diversi motus in vi appetitiva. Alius enim motus sequitur in appetitu ex apprehensione boni, et alius ex apprehensione mali, et similiter alius motus ex apprehensione praesentis et futuri, absoluti et ardui, possibilis et impossibilis. Et secundum hoc, spes est motus appetitivae virtutis consequens apprehensionem boni fu­ turi ardui possibilis adipisci, scilicet extensio appetitus in huiusmodi obiectum. Ad primum ergo dicendum quod, quia spes respicit ad bonum possibile, insurgit du­ pliciter homini motus spei, sicut dupliciter est ei aliquid possibile, scilicet secundum pro­ priam virtutem, et secundum virtutem al­ terius. Quod ergo aliquis sperat per propriam virtutem adipisci, non dicitur expectare, sed sperare tantum. Sed proprie dicitur expectare quod sperat ex auxilio virtutis alienae, ut dicatur exspectare quasi ex alio spectare, in­ quantum scilicet vis apprehensiva praecedens non solum respicit ad bonum quod intendit adipisci, sed etiam ad illud cuius virtute adipisci sperat; secundum illud Eccli. 51 [ 1 0], respiciens eram ad adiutorium hominum. Motus ergo spei quandoque dicitur expecta­ tio, propter inspectionem virtutis cognitivae praecedentem. Ad secundum dicendum quod illud quod homo desiderat, et aestimat se posse adipisci, credit se adepturum, et ex tali fide in cognitiva praecedente, motus sequens in appetitu fiducia nominatur. Denominatur enim motus appetitivus a cognitione praecedente, sicut effectus ex causa magis nota, magis enim cognoscit vis apprehensiva suum actum quarn actum appetitivae. Ad tertium dicendum quod certitudo attribui­ tur motui non solum appetitus sensitivi, sed etiarn appetitus naturalis, sicut dicitur quod lapis certitudinaliter tendit deorsum. Et hoc propter infallibilitatem quarn habet ex certitu­ dine cognitionis quae praecedit motum ap­ petitus sensitivi, vel etiam naturalis.

    Q. 40, A. 2

    compie quale moto del conoscente verso le cose, ma piuttosto come presenza delle cose nel conoscente. Siccome però le facoltà cono­ scitive muovono quelle appetitive, presentan­ do loro l'oggetto, secondo le diverse caratteri­ stiche dell'oggetto conosciuto seguono moti diversi nella parte appetitiva. Infatti il moto dell'appetito che accompagna la percezione del bene è diverso da quello che accompagna la percezione del male; e similmente è diverso il moto dell'appetito in seguito alle varie per­ cezioni del bene presente o futuro, ordinario o arduo, possibile o impossibile. E così la spe­ ranza è un moto della facoltà appetitiva deri­ vante dalla percezione di un bene futuro ar­ duo e raggiungibile, cioè la tendenza dell'ap­ petito verso un simile oggetto. Soluzione delle difficoltà: l . Essendo oggetto della speranza il bene possibile [o raggiungibi­ le], in due maniere può sorgere il moto della speranza, come in due maniere una cosa può essere raggiungibile: per virtù propria o in forza di altri. Ora, quando uno spera di rag­ giungere una cosa con la propria virtù non si parla di aspettativa, ma solo di speranza. Si dice invece propriamente che si aspetta ciò che uno spera dall'aiuto altrui: cosicché exspectare equivale a ex alio spectare [guardare dal lato di un altro], in quanto cioè la facoltà conosci­ tiva che precede non soltanto guarda al bene che intende raggiungere, ma anche a colui sulla cui virtù fa affidamento, secondo quel passo di Sir: Guardavo verso il soccorso degli uomini. Così dunque il moto della speranza è detto talora aspettativa per il riguardare della facoltà conoscitiva che lo precede. 2. L'uomo crede che potrà conseguire ciò che desidera e pensa di raggiungere; e il moto seguente dell'appetito è chiamato fiducia per tale fede che lo precede nella facoltà conosci­ tiva. Infatti il moto appetitivo viene denomi­ nato dalla conoscenza precedente, come un effetto da una causa più conosciuta, dato che la facoltà conoscitiva conosce il proprio atto meglio di quello delle facoltà appetitive. 3 . La certezza non è attribuita solo ai moti dell'appetito sensitivo, ma anche a quelli del­ l'appetito naturale: infatti si dice che una pie­ tra tende al basso con certezza. E questo per l'infallibilità derivante dalla certezza della co­ noscenza che precede il moto de li' appetito sensitivo, o anche di quello naturale.

    Q. 40, A. 3

    Le passioni del/ 'irascibile. La speranza e la disperazione

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    Articulus 3

    Articolo 3

    Utrum spes sit in brutis animalibus

    La speranza si trova anche negli animali bruti?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod in brutis animalibus non sit spes. l . Spes enim est de futuro bono, ut Damasce­ nus dicit [De fide 2, 1 2]. Sed cognoscere futu­ rum non pertinet ad animalia bruta, quae habent solum cognitionem sensitivam, quae non est futurorum. Ergo spes non est in brutis animalibus. 2. Praeterea, obiectum spei est bonum possi­ bile adipisci. Sed possibile et impossibile sunt quaedam differentiae veri et falsi, quae solum sunt in mente, ut philosophus dicit in 6 Met. [5,4, 1]. Ergo spes non est in brutis animali­ bus, in quibus non est mens. 3. Praeterea, Augustinus dicit, Super Gen. [9, 14], quod animalia moventur visis. Sed spes non est de eo quod videtur, nam quod videt quis, quid sperat? ut dicitur Rom. 8 [24]. Ergo spes non est in brutis animalibus. Sed contra, spes est passio irascibilis. Sed in brutis animalibus est irascibilis. Ergo et spes. Respondeo dicendum quod interiores pas­ siones animalium ex exterioribus motibus deprehendi possunt. Ex quibus apparet quod in animalibus brutis est spes. Si enim canis videat leporem, aut accipiter avem, nimis di­ stantem, non movetur ad ipsam, quasi non sperans se eam posse adipisci, si autem sit in propinquo, movetur, quasi sub spe adipi­ scendi. Ut enim supra [q. l a. 2; q. 26 a. l ; q. 35 a. l ] dictum est, appetitus sensitivus brutorum animalium, et etiam appetitus na­ turalis rerum insensibilium, sequuntur appre­ hensionem alicuius intellectus, sicut et ap­ petitus naturae intellectivae, qui dicitur vo­ luntas. Sed in hoc est differentia, quod vo­ luntas movetur ex apprehensione intellectus coniuncti, sed motus appetitus naturalis se­ quitur apprehensionem intellectus separati, qui naturam instituit; et similiter appetitus sensitivus brutorum animalium, quae etiam quodam instinctu naturali agunt. Unde in operibus brutorum animalium, et aliarum rerum naturalium, apparet similis processus sicut et in operibus artis. Et per hunc modum in animalibus brutis est spes et desperatio. Ad primum ergo dicendum quod, quamvis bruta animalia non cognoscant futurum ,

    Sembra di no. Infatti: l . La speranza, come dice il Damasceno, ha per oggetto il bene futuro. Ma gli animali, avendo la sola conoscenza sensitiva che esclude le cose future, non possono conoscere il futuro. Quindi la speranza non si trova negli animali. 2. Oggetto della speranza è il bene possibile a raggiungersi. Ora, possibile e impossibile sono differenze del vero e del falso, i quali non pos­ sono trovarsi che nell'intelligenza, come inse­ gna Aristotele. Quindi la speranza non si trova negli animali, che sono privi di intelligenza 3. Agostino scrive che gli animali «sono mos­ si da ciò che vedono». Ma la speranza ha per oggetto ciò che non si vede; dice infatti Paolo in Rm: Ciò che uno già vede, come poh·ebbe ancora sperar/o? Quindi la speranza non si trova negli animali bruti. In contrario: la speranza è una passione del­ l'irascibile. Ma negli animali bruti c'è l'irasci­ bile. Quindi anche la speranza. Risposta: le passioni interne degli animali possono essere rilevate dal loro comporta­ mento esterno. Ora, da questo appare eviden­ te che negli animali bruti c'è la speranza. Se infatti il cane vede una lepre, o l'avvoltoio un uccello, troppo distante, non si muove verso la preda, quasi disperando di poterla raggiun­ gere; si muove invece se è vicina, quasi nella speranza di raggiungerla. Come infatti si è detto sopra, l 'appetito sensitivo dei bruti, e persino l'appetito naturale degli esseri privi di senso, segue la conoscenza di un qualche intelletto, come fa l'appetito della natura in­ tellettiva, che è detto volontà. Ma la differen­ za sta in questo: che la volontà si muove in seguito alla conoscenza di un intelletto pro­ prio, mentre il moto deli' appetito naturale segue la conoscenza dell' intelletto separato che ha creato la natura; e questa è pure la con­ dizione dell'appetito sensitivo degli animali, portati anch'essi da un istinto naturale. Per cui nell'operare degli animali e degli altri esseri corporei si notano dei procedimenti analoghi a quelli della tecnica umana. Ed è in questo modo che negli animali si trovano la speranza e la disperazione.

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    Le passioni del/ 'irascibile. La speranza e la disperazione

    Q. 40, A. 3

    tamen ex instinctu naturali movetur animai ad aliquid in futurum, ac si futurum praevideret. Huiusmodi enim instinctus est eis inditus ab intellectu divino praevidente futura. Ad secundum dicendum quod obiectum spei non est possibile, prout est quaedam differen­ tia veri, sic enim consequitur habitudinem praedicati ad subiectum. Sed obiectum spei est possibile quod dicitur secundum aliquam potentiam. Sic enim distinguitur possibile in 5 M et. [4, 1 2, 9], scilicet i n duo possibilia praedicta. Ad tertium dicendum quod, licet id quod est futurum, non cadat sub visu; tamen ex his quae videt animai in praesenti, movetur eius appetitus in aliquod futurum vel prosequen­ dum vel vitandum.

    Soluzione delle difficoltà: l . Sebbene gli ani­ mali non conoscano il futuro, tuttavia, in for­ za dell'istinto naturale, si muovono verso di esso come se lo prevedessero. Un simile istin­ to infatti è stato posto in essi dall'intelletto di Dio, che prevede il futuro. 2. Il possibile che è oggetto della speranza non è il possibile che suddivide il vero, e che qualifica il rapporto tra soggetto e predicato. Oggetto della speranza è invece il possibile che è tale rispetto a una data potenza. E di questa distinzione parla pure Aristotele nel V libro della Metafisica. 3. Sebbene non si possa vedere il futuro, tut­ tavia ciò che l' animale vede al presente può sollecitare l'appetito a perseguire o a fuggire una cosa futura.

    Articulus 4 Utrum spei contrarietur desperatio

    Articolo 4 La disperazione è il contrario della speranza?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod de­ speratio non sit contraria spei. l . Uni enim unum est contrarium, ut dicitur in 1 0 Met. [9,4,5; 5 , 1 ] . Sed spei contrariatur timor. Non ergo contrariatur ei desperatio. 2. Praeterea, contraria videntur esse circa idem. Sed spes et desperatio non sunt circa idem, nam spes respicit bonum, desperatio au t e m e s t propter aliquod m a l u m impeditivum adeptionis boni. Ergo spes non contrariatur desperationi. 3. Praeterea, motui contrariatur motus, quies vero opponitur motui ut privatio. Sed despera­ tio magis videtur importare immobilitatem quam motum. Ergo non contrariatur spei, quae importat motum extensionis in bonum speratum. Sed contra est quod desperatio nominatur per contrarium spei. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 23 a. 2] dictum est, in mutationibus invenitur duplex contrarietas. Una secundum accessum ad contrarios terminos, et talis contrarietas sola invenitur in passionibus concupiscibilis, sicut amor et odium contrruiantur. Alio modo, per accessum et per recessum respectu eius­ dem termini, et talis contrarietas invenitur in passionibus irascibilis, sicut supra [q. 23 a. 2] dictum est. Obiectum autem spei, quod est bonum arduum, habet quide m rationem

    Sembra di no. Infatti: Scrive Aristotele che «per ciascuna cosa c'è un solo contrario». Ma il timore è il contrario della speranza. Quindi quest'ultima non ha come contrario la disperazione. 2. I contrari riguardano una stessa cosa. Ma la speranza e la disperazione non riguardano la stessa cosa: infatti la speranza riguarda il bene, mentre la disperazione nasce dal male che impedisce di raggiungere il bene. Quindi la disperazione non è il contrario della speranza. 3. n contrario di un moto è un altro moto; la quiete invece si oppone al moto come una pri­ vazione. Ora, la disperazione implica più l ' immobilità che il movimento. Quindi non è il contrario della speranza, la quale implica un moto di estensione verso il bene sperato. In contrario: la disperazione per lo stesso suo nome è il contrario della speranza. Risposta: come si è già spiegato, tra i moti si riscontrano due tipi di contrarietà. Il primo secondo l ' accesso a termini contrari: ed è questa la sola contrarietà che si riscontra tra le passioni del concupiscibile, quali ad es. l ' a­ more e l'odio. Il secondo in base all'accesso o al recesso rispetto al medesimo termine: e tale è la contrarietà che si riscontra nelle passioni dell'irascibile. Ora l 'oggetto della speranza, che è il bene arduo, si presenta attraente in quanto viene considerato raggiungibile: e da

    Q. 40, A. 4

    Le passioni dell'irascibile. La speranza e la disperazione

    attractivi, prout consideratur cum possibilitate adipiscendi, et sic tendit in ipsum spes, quae importat quendam accessum. Sed secundum quod consideratur cum impossibilitate obti­ nendi, habet rationem repulsivi, quia, ut dicitur in 3 Ethic. [3, 1 3], cum ventum fuerit ad aliquid impossibile, tunc homines disce­ dunt. Et sic respicit hoc obiectum desperatio. Unde importat motum cuiusdam recessus. Et propter hoc, contrariatur spei sicut recessus accessui. Ad primum ergo dicendum quod timor con­ trariatur spei secundum contrarietatem obiec­ torum, scilicet boni et mali, haec enim con­ trarietas invenitur in passionibus irascibilis, secundum quod derivantur a passionibus con­ cupiscibilis. Sed desperatio contrariatur ei so­ lum secundum contrarietatem accessus et recessus. Ad secundum dicendum quod desperatio non respicit malum sub ratione mali, sed per acci­ dens quandoque respicit malum, inquantum facit impossibilitatem adipiscendi. Potest au­ tem esse desperatio ex solo superexcessu boni. Ad tertium dicendum quod desperatio non importat solam privationem spei; sed importat quendam recessum a re desiderata, propter aestimatam impossibilitatem adipiscendi. Un­ de desperatio praesupponit desiderium, sicut et spes, de eo enim quod sub desiderio nostro non cadit, neque spem neque desperationem habemus. Et propter hoc etiam, utrumque eorum est de bono, quod sub desiderio cadit.

    questo lato la speranza, che implica una certa propensione, tende verso di esso. In quanto invece viene considerato irraggiungibile si presenta come ripulsivo: poiché, al dire di Aristotele, «quando si arriva a qualcosa di impossibile, gli uomini si ritirano». E da que­ sto lato vede l'oggetto la disperazione. Per cui essa implica un certo moto di allontanamento. Quindi si contrappone alla speranza come il recesso o allontanamento all'accesso. Soluzione delle difficoltà: l . Il timore è il contrario della speranza in base alla contra­ rietà dei loro oggetti, cioè del bene e del male: infatti questa contrarietà si riscontra nelle pas­ sioni dell'irascibile per derivazione dalle pas­ sioni del concupiscibile. Invece la disperazio­ ne è contraria alla speranza solo in base alla contrarietà esistente fra l'accesso e il recesso. 2. La disperazione non riguarda il male in quanto tale; però talora lo riguarda accidental­ mente, in quanto esso rende impossibile il conseguimento di una cosa. Tuttavia la dispe­ razione può dipendere anche dalla sola irrag­ giungibilità del bene. 3. La disperazione non è una semplice priva­ zione di speranza, ma implica un recedere dalla cosa desiderata per la creduta impossibi­ lità di raggiungerla. Per cui la disperazione, come la speranza, presuppone il desiderio: infatti noi non abbiamo né speranza né dispe­ razione per le cose che non desideriamo. Quindi sia l'una che l'altra riguardano il bene, che è l'oggetto del desiderio.

    Articulus 5

    Utrum causa spei sit experientia Ad quintum sic proceditur. Videtur quod ex­ perientia non sit causa spei. l . Experientia enim ad vim cognitivam per­ tinet, unde philosophus dicit, in 2 Ethic. [ 1 , 1 ], quod virtus intellectualis indiget expelimento et tempore. Spes autem non est in vi cognitiva, sed in appetitiva, ut dictum est [a. 2]. Ergo experientia non est causa spei. 2. Praeterea, philosophus dicit, in 2 Rhet. [ 1 3, I l ], quod senes sunt difficilis spei, propter experientiam, ex quo videtur quod experientia sit causa defectus spei. Sed non est idem causa oppositorum. Ergo experientia non est causa spei.

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    Articolo 5 Vesperienza

    può causare la speranza?

    Sembra di no. Infatti: l . L'esperienza appartiene alle facoltà cono­ scitive poiché, come insegna Aristotele, «la virtù intellettuale ha bisogno di esperienza e di tempo». Ora la speranza, come si è visto, risiede in una facoltà non conoscitiva, ma appetitiva. Quindi l'esperienza non è causa della speranza. 2. TI Filosofo scrive che «i vecchi hanno una speranza stentata a motivo deli' esperienza»: dal che si dimostra che l'esperienza produce una mancanza di speranza. Ora, uno stesso princi­ pio non può essere causa di realtà contrarie. Quindi l'esperienza non è causa di speranza.

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    Le passioni del/ 'irascibile. La speranza e la disperazione

    3. Praeterea, philosophus dicit, in 2 De caelo [5,2], quod de omnibus enuntiare aliquid, et nihil praetennittere, quandoque est signum stultitiae. Sed quod homo tentet omnia, ad magnitudinem spei pertinere videtur, stultitia autem provenit ex inexperientia. Ergo inexpe­ rientia videtur esse magis causa spei quam experientia. Sed contra est quod philosophus dicit, in 3 Ethic. [8, 1 3], quod aliqui sunt bonae spei, pmpter multoties et multos vicisse, quod ad experientiam pertinet. Ergo experientia est causa spei. Re...pondeo dicendum quod, sicut supra [a. l ] dictum est, spei obiectum est bonum futurum arduum possibile adipisci. Potest ergo aliquid esse causa spei, vel quia facit homini aliquid esse possibile, vel quia facit eum existimare aliquid esse possibile. Primo modo est causa spei omne illud quod auget potestatem ho­ rninis, sicut divitiae, fortitudo, et, inter cetera, etiam experientia, nam per experientiam homo acquirit facultatem aliquid de facili faciendi, et ex hoc sequitur spes. Unde Vegetius dicit, in libro De re militari [Instit. rei rnil. 1 , 1], nemo facere metuit quod se bene didicisse confidit. Alio modo est causa spei omne illud quod facit alicui existimationem quod aliquid sit sibi possibile. Et hoc modo et doctrina, et persuasio quaelibet potest esse causa spei. Et sic etiam experientia est causa spei, inquantum scilicet per experientiam fit hornini existimatio quod aliquid sit sibi possibile, quod impossi­ bile ante experientiam reputabat. Sed per hunc modum experientia potest etiam esse causa defectus spei. Quia sicut per experientiam fit homini existimatio quod aliquid sibi sit pos­ sibile, quod reputabat impossibile; ita e con­ verso per experientiam fit hornini existimatio quod aliquid non sit sibi possibile, quod pos­ sibile existimabat. - Sic ergo experientia est causa spei duobus modis, causa autem de­ fectus spei, uno modo. Et propter hoc, magis dicere possumus eam esse causam spei. Ad primum ergo dicendum quod experientia in operabilibus non solum causat scientiam; sed etiam causat quendam habitum, propter consuetudinem, qui facit operationem fa­ ciliorem. Sed et ipsa virtus intellectualis facit ad potestatem facile operandi, demonstrat enim aliquid esse possibile. Et sic causat spem.

    Q. 40, A. 5

    3 . Il Filosofo insegna che «pronunziarsi su tutto senza eccezioni, talora è segno di stol­ tezza». Ma è proprio di una grande speranza il tentare ogni cosa, mentre la stoltezza nasce dall'inesperienza. Quindi è più causa di spe­ ranza l'inesperienza che l' espetienza. In contrario: il Filosofo nota che «alcuni hanno molta speranza per aver vinto spesso e contro molti avversari», il che appartiene all'esperien­ za. Quindi l'espetienza è causa di speranza. Risposta: abbiamo già detto che l'oggetto del­ la speranza è il bene futuro arduo e raggiungi­ bile. Quindi una cosa può causare la speranza o perché rende possibile all'uomo una meta da raggiungere, oppure perché gliela fa crede­ re raggiungibile. Causa la speranza nel primo modo quanto accresce il potere umano, vale a dire le ricchezze, la potenza, e tra l'altro an­ che l'espetienza: infatti mediante l'esperienza l'uomo acquista la capacità di compiere age­ volmente una data cosa, dal che nasce la spe­ ranza. Per cui Vegezio scrive che >. Quindi il contrario del timore è la sicurezza, non l'audacia. In contrario: il Filosofo insegna che «l'auda­ cia è contraria al timore». Risposta: è caratteristico dei contrari «essere tra loro massimamente distanti», come dice Aristotele. Ora, ciò che più dista dal timore è l'audacia: infatti chi teme rifugge dal danno imminente, prevedendo di essere sopraffatto; invece l'audace affronta il pericolo imminen­ te, mirando a superarlo. Perciò è chiaro che il timore è il contrario dell'audacia. Soluzione delle difficoltà: l . Tutti i nomi delle passioni: ira, audacia, ecc., possono essere presi in due sensi. Primo, in quanto indicano semplicemente un moto dell'appetito sensitivo verso un oggetto buono o cattivo: e allora sono soltanto nomi di passioni. Secondo, in quanto indicano pure un allontanamento dali' ordine della ragione: e allora sono nomi di vizi. E in questo senso Agostino parla dell' audacia, mentre noi ne parliamo nel primo senso. 2. Una cosa non può avere più di un solo contrario sotto un unico aspetto, ma sotto aspetti differenti nulla impedisce che ne ab­ bia diversi. E in questo senso sopra si è detto che le passioni deli ' irascibile hanno una duplice contrarietà: la prima in base all'oppo­ sizione tra il bene e il male, e in questo senso il timore si contrappone alla speranza, la se­ conda invece in base all'opposizione tra l'ac­ cedere e il recedere, e in questo senso al ti­ more si contrappone l'audacia, e alla speran­ za la disperazione. 3 . La sicurezza non significa qualcosa di contrario al timore, ma la sola esclusione di esso: infatti chiamiamo sicuro chi non teme. Perciò la sicurezza si contrappone al timore come privazione, l'audacia invece come con­ trario. E poiché il contrario include in se s!esso la privazione, così l'audacia include la sicurezza.

    429

    L 'audacia

    Q. 45, A. 2

    Articulus 2 Utrum audacia consequatur spem

    Articolo 2 Uaudacia deriva dalla speranza?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod audacia non consequatur spem. l . Audacia eni m est respectu malorum et terribilium, ut dicitur in 3 Ethic. [7,7]. Spes autem respicit bonum. Ut supra [q. 40 a. l ] dictum est. Ergo habent diversa obiecta, et non sunt unius ordinis. Non ergo audacia consequitur spem. 2. Praeterea, sicut audacia contrariatur timori, ita desperatio spei. Sed timor non sequitur desperationem, quinimmo desperatio excludit timorem. Ut philosophus dicit, in 2 Rhet. [5, 1 4]. Ergo audacia non consequitur spem. 3. Praeterea, audacia intendit quoddam bo­ num, scilicet victoriam. Sed tendere in bonum arduum pertinet ad spem. Ergo audacia est idem spei. Non ergo consequitur ad spem. Sed contra est quod philosophus dicit, in 3 Ethic. [8,1 3], quod illi qui sunt bonae spei, sunt audaces. Videtur ergo audacia consequi spem. Respondeo dicendum quod, sicut iam pluries [q. 22 a. 2; q. 35 a. l ; q. 4 1 a. l ] dictum est, omnes huiusmodi passiones animae ad appe­ titivam potentiam pertinent. Omnis autem motus appetitivae potentiae reducitur ad pro­ secutionem vel fugam. Prosecutio autem vel fuga est alicuius et per se, et per accidens, per se quidem est prosecutio boni, fuga vero mali; per accidens autem potest prosecutio esse mali, propter aliquod bonum adiunctum, et fuga boni, propter aliquod malum adiunctum. Quod autem est per accidens, sequitur ad id quod est per se. Et ideo prosecutio mali, se­ quitur prosecutionem boni, sicut et fuga boni sequitur fugam mali. Haec autem quatuor pertinent ad quatuor passiones, nam prosecu­ tio boni pertinet ad spem, fuga mali ad timo­ rem, insecutio mali terribilis pertinet ad auda­ ciam, fuga vero boni pertinet ad desperatio­ nem. Unde sequitur quod audacia consequitur ad spem, ex hoc enim quod aliquis sperat superare terribile imminens, ex hoc audacter insequintr ipsum. Ad timorem vero sequitur desperatio, ideo enim aliquis desperat, quia timet difficultatem quae est circa bonum sperandum. Ad primum ergo dicendum quod ratio sequeretur, si bonum et malum essent obiecta non habentia ordinem ad invicem. Sed quia

    Sembra di no. Infatti: l . L'audacia riguarda cose cattive e temibili, come dice Aristotele. Invece la speranza riguarda il bene, secondo le spiegazioni date. Quindi esse hanno oggetti diversi, e non sono dello stesso ordine. Perciò l'audacia non deri­ va dalla speranza. 2. L'audacia si contrappone al timore, come la disperazione alla speranza. Ma il timore non deriva dalla disperazione: anzi, la dispe­ razione esclude il timore, come afferma il Filosofo. Quindi l'audacia non deriva dalla speranza. 3. L'audacia ha di mira un bene, cioè la vitto­ ria. Ma tendere verso il bene arduo appartiene alla speranza. Quindi l'audacia si identifica con la speranza. E così non deriva da essa. In contrario: il Filosofo insegna che «i provvi­ sti di solida speranza sono audaci». Quindi l'audacia deriva dalla speranza. Risposta: si è detto più volte che nttte queste passioni dell'anima appartengono alle poten­ ze appetitive. Ora, ogni moto delle facoltà appetitive si riduce a una propensione o a una fuga. E sia l'una che l'altra possono essere sia per se che per accidens: sono per se la pro­ pensione per il bene e la fuga per il male; so­ no invece per accidens la propensione verso un male in vista di un bene connesso, e la fuga da un bene motivata da un male che lo accompagna. Ora, ciò che è per accidens deriva sempre da ciò che è per se. E così la propensione verso un male deriva da quella verso il bene; come la fuga di un bene deriva dalla fuga di un male. Ma questi quattro atteg­ giamenti corrispondono a quattro passioni: infatti la propensione verso il bene corrispon­ de alla speranza, la fuga del male al timore, l'aggressione di un male temibile all'audacia e la fuga di un bene [arduo] alla disperazione. Per cui segue che l'audacia deriva dalla spe­ ranza: infatti uno prende ad assalire audace­ mente un male temibile perché spera di vin­ cerlo. Invece la disperazione deriva dal timo­ re: uno infatti dispera in quanto teme le diffi­ coltà che accompagnano il bene sperato. Soluzione delle difficoltà: l . L'argomento sa­ rebbe valido se il bene e il male non fossero correlativi . Il male i nvece è correlativo al

    L 'audacia

    Q. 45, A. 2

    malum habet aliquem ordinem ad bonum, est enim posterius bono, sicut privatio habitu; ideo audacia, quae insequitur malum, est post spem, quae insequitur bonum. Ad secundum dicendum quod, etsi bonum simpliciter sit prius quam malum, tamen fuga per prius debetur malo quam bono, sicut insecutio per prius debetur bono quam malo. Et ideo sicut spes est prior quam audacia, ita timor est prior quam desperatio. Et sicut ex timore non semper sequitur desperatio, sed quando fuetit intensus; ita ex spe non semper sequitur audacia, sed quando fuerit vehemens. Ad tertium dicendum quod audacia, licet sit circa malum cui coniunctum est bonum victo­ riae secundum aestimationem audacis, tamen respicit malum, bonum vero adiunctum respi­ cit spes. Et similiter desperatio respicit bonum directe, quod refugit, malum vero adiunctum respicit timor. Unde, proprie loquendo, auda­ cia non est pars spei, sed eius effectus, sicut nec desperatio est pars timoris, sed eius effectus. Et propter hoc etiam audacia princi­ palis passio esse non potest.

    430

    bene, essendo posteriore al bene come la pri­ vazione al possesso: perciò l'audacia, che per­ segue il male, presuppone la speranza, che persegue il bene. 2. Nonostante che il bene, assolutamente par­ lando, sia prima del male, tuttavia la fuga non ha come suo primo oggetto il bene, bensì il male: al contrario della propensione. Come quindi la speranza viene prima dell'audacia, così il timore viene ptima della disperazione. E come la disperazione deriva dal timore non sempre, ma solo se questo è grave, così l' au­ dacia deriva dalla speranza non sempre, ma solo quando questa è intensa. 3. Sebbene l'audacia abbia di mira un male a cui è annesso, secondo la persuasione dell'audace, il bene della vittoria, tuttavia ha per oggetto il male: il bene connesso è invece oggetto della speranza. E similmente la disperazione riguarda direttamente il bene che abbandona, mentre il timore riguarda il male connesso. Perciò, pro­ priamente parlando, l'audacia non fa parte della speranza, ma ne è un eftetto: così come la dispe­ razione non fa parte del timore, ma ne è un effet­ to. E anche per questo motivo l'audacia non può essere una delle passioni principali.

    Articulus 3

    Articolo 3

    Utrum defectus aliquis sit causa audaciae

    Un difetto può causare l'audacia?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod de­ fectus aliquis sit causa audaciae. l . Dicit enim philosophus, in libro De probl. [27,4], quod amatores vini sunt fortes et au­ daces. Sed ex vino sequitur defectus ebrieta­ tis. Ergo audacia causatur ex aliquo defectu. 2. Praeterea, philosophus dicit, in 2 Rhet. [5, 18], quod inexperti periculorum sunt audaces. Sed inexperientia defectus quidam est. Ergo audacia ex defectu causatur. 3 . Praeterea, iniusta passi audaciores esse solent; sicut etiam bestiae cum percutiuntur, ut dicitur in 3 Ethic. [8,1 1]. Sed iniustum pati ad defectum pertinet. Ergo audacia ex aliquo defectu causatur. Sed contra est quod philosophus dicit, in 2 Rhet. [5, 1 6], quod causa audaciae est, cum in phantasia spes fuerit salutarium ut prope existentium, timendorum autem aut non en­ tium, aut longe entium. Sed id quod pertinet ad defectum, vel pertinet ad salutarium re-

    Sembra di sì. Infatti: l . Il Filosofo scrive che «gli amici del vino sono forti e audaci». Ora, dal vino detiva il difetto dell'ubriachezza. Quindi l'audacia è causata da qualche deficienza. 2. Il Filosofo afferma che «gli inesperti dei pericoli sono audaci». Ma l'inesperienza è un difetto. Quindi l'audacia è causata da qualche deficienza. 3. Chi ha subito un'ingiustizia, d'ordinario è più audace: «come le bestie quando sono per­ cosse», osserva Aristotele. Ma subire un'in­ giustizia non è che una deficienza. Perciò l'audacia è causata da qualche deficienza. In contrario: il Filosofo insegna che si produ­ ce l'audacia «quando nell'immaginativa sorge la speranza di essere vicini ai mezzi di salvez­ za, e che i pericoli o non esistano o siano lon­ tani». Ora, i difetti si riducono o alla lonta­ nanza dei mezzi di salvezza, o alla vicinanza dei pericoli da temersi. Perciò nessuna defi­ cienza può essere causa dell'audacia.

    43 1

    L 'audacia

    motionem, vel ad terribilium propinquitatem. Ergo nihil quod ad defectum pertinet, est cau­ sa audaciae. Respondeo dicendum quod, sicut supra [aa. 1-2] dictum est, audacia consequitur spem, et con­ trariatur timori, unde quaecumque nata sunt causare spem, vel excludere timorem, sunt causa audaciae. Quia vero timor et spes, et etiam audacia, cum sint passiones quaedam, consistunt in motu appetitus et i n quadam transmutatione corporali; dupliciter potest ac­ cipi causa audaciae, sive quantum ad provo­ cationem spei, sive quantum ad exclusionem timoris, uno modo quidem, ex parte appetitivi motus; alio vero modo, ex parte transmutationis corporalis. - Ex parte quidem appetitivi mo­ tus, qui sequitm· apprehensionem, provocatur spes causans audaciam, per ea quae faciunt nos aesti mare quod possibile sit adipisci victoriam; vel secundum propriam potentiam, sicut fortitudo corporis, experientia in pericu­ lis, multitudo pecuniarum, et alia huiusmodi; sive per potentiam aliorum, sicut multitudo amicorum vel quorumcumque auxiliantium, et praecipue si homo confidat de auxilio di­ vino; unde illi qui se bene habent ad divina, audaciores sunt, ut etiam philosophus dicit, in 2 Rhet. [5,2 1 ] . Timor autem excluditur, secundum istum modum, per remotionem terribilium appropinquantium, puta quia ho­ mo non habet inimicos, quia nulli nocuit, quia non videt aliquod periculum imminere; illis enim videntur maxime pericula imminere, qui aliis nocuerunt. - Ex parte vero transmutationis corporalis, causatur audacia per provocatio­ nem spei et exclusionem timoris, ex his quae faciunt caliditatem circa cor. Unde philoso­ phus dicit, in libro De partibus animalium [3,4], quod illi qui habent parvum cor se­

    cundum quantitatem, sunt magis audaces; et animalia habentia magnum cor secundum quantitatem, suni timida, quia ca/or naturalis non tantum potest calefacere magnum cor; sicut parvum, sicut ignis non tantum potest calefacere magnam domum, sicut parvam. Et in libro De probl. [27,4] dicit quod habentes pulmonem sanguineum, sunt audaciores, propter caliditatem cordis exinde consequen­ tem. Et ibidem dicit quod vini amatores sunt magis audaces, propter caliditatem vini, unde et supra [q. 40 a. 6] dictum est quod ebrietas facit ad bonitatem spei, caliditas enim cordis

    Q. 45, A. 3

    Risposta: come si è detto, l' audacia deriva dalla speranza, ed è contraria al timore: per cui tutto ciò che può causare la speranza o esclu­ dere il timore è causa dell' audacia. Ma poiché il timore e la speranza, e anche l' audacia, essendo delle passioni, consistono ciascuna in un moto dell' appetito e in un'alterazione fisio­ logica, ne viene che la causa dell'audacia può essere considerata sotto due aspetti, sia nella sua dipendenza dalla speranza che nella sua incompatibilità col timore: primo, sotto l'a­ spetto del moto appetitivo; secondo, sotto l'a­ spetto dell'alterazione fisiologica. - Sotto l'as­ petto del moto appetitivo, che dipende dalla conoscenza, la speranza, quale causa dell' au­ dacia, viene suscitata da quei dati che ci fanno considerare possibile la vittoria: o mediante il nostro potere, come la robustezza del corpo, l'esperienza dei pericoli, l' abbondanza delle ricchezze e altre cose cons i m il i ; oppure mediante il potere di altri, come il numero degli amici o degli adepti, e specialmente la confidenza nell'aiuto di Dio: per cui, secondo l ' espressione del Filosofo, «quanti sono in buoni rapporti con le realtà divine sono più audaci». Ora, sotto questo primo aspetto il timore viene escluso eliminando la vicinanza delle cose temibili: è la situazione di chi, p. es., non ha nemici, non avendo fatto del male ad alcuno, e non si vede sovrastare alcun perico­ lo; infatti i pericoli sovrastano soprattutto coloro che hanno danneggiato gli altri. Invece sotto l'aspetto dell' alterazione fisiologi­ ca l' audacia, sia come effetto della speranza che come risultato dell'esclusione del timore, viene causata da ciò che produce il calore intorno al cuore. Scrive infatti il Filosofo che «Chi ha il cuore materialmente piccolo è più audace; invece gli animali che hanno il cuore grande sono più paurosi, poiché il calore natu­ rale non può riscaldare un cuore grande quanto uno piccolo: come il fuoco non può riscaldare una casa grande quanto una piccola». E nel libro dei Pmblemi nota che «i dotati di polmo­ ni sanguigni sono più audaci, per il calore del cuore che ne deriva». E aggiunge che «gli amanti del vino sono più audaci per il calore del vino» : infatti abbi amo già detto che l'ubriachezza contribuisce al vigore della spe­ ranza, poiché il calore del cuore allontana il timore e causa la speranza, a motivo della dila­ tazione e amplificazione del cuore medesimo.

    Q. 45, A. 3

    432

    L 'audacia

    repellit timorem, et causat spem, propter cor­ dis extensionem et amplificationem. Ad primum ergo dicendum quod ebrietas causat audaciam, non inquantum est defectus, sed inquantum facit cordis dilatationem, et in­ quantum etiam facit aestimationem cuiusdam magnitudinis. Ad secundum dicendum quod illi qui sunt inexperti periculorum, sunt audaciores, non propter defectum, sed per accidens, inquan­ tum scilicet, propter inexperientiam, neque debilitatem suam cognoscunt, neque praesen­ tiam periculorum. Et ita, per subtractionem causae timoris, sequitur audacia. Ad tertium dicendum quod, sicut philosophus dicit in 2 Rhet. [5,2 1 ], iniustum passi reddun­

    tur audaciores, quia aestimant quod Deus iniustum passis au.;rilium ferat. - Et sic patet quod nulius defectus causat audaciam nisi per accidens, inquantum scilicet habet adiunctam aliquam excellentiam, vel veram vel aesti­ matam, vel ex parte sui vel ex parte alterius.

    Soluzione delle difficoltà: l . L'ubriachezza produce l'audacia non perché è una deficien­ za, ma perché dilata il cuore; e anche perché dà la persuasione di [possedere] una certa grandezza. 2. Gli inesperti dei pelicoli sono più audaci non per il loro difetto, ma solo indirettamente: in quanto cioè la loro inesperienza fa sì che non conoscano la proplia debolezza, e nem­ meno la presenza dei pericoli. Quindi la loro audacia deriva dali' avere eliminato le cause del timore. 3. n Filosofo spiega che «chi ha subìto un'in­ giustizia diviene più audace in quanto pensa che Dio venga in aiuto a chi soffre ingiusta­ mente». - E così risulta chiaro che un difetto può causare l'audacia solo per accidens: cioè in quanto implica una certa superiorità, vera o presunta, o in se stessi o in altri.

    Articulus 4

    Articolo 4

    Utrum audaces sint promptiores in principio quam in fine in ipsis periculis

    Gli audaci sono più pronti all'inizio che nel momento del pericolo?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod audaces non sint promptiores in principio quam in ipsis periculis. l. Tremor enim ex timore causatur, qui con­ trariatur audaciae, ut ex dictis [a. l ; q. 44 a. 3] patet. Sed audaces quandoque in principio tremunt, ut philosophus dicit, in libro De probl. [27,3]. Ergo non sunt promptiores in principio quam in ipsis periculis existentes. 2. Praeterea, per augmentum obiecti augetur passio, sicut si bonum est amabile, et magis bonum est magis amabile. Sed arduum est obiectum audaciae. Augmentato ergo arduo, augmentatur audacia. Sed magis fit arduum et difficile periculum, quando est praesens. Ergo debet tunc magis crescere audacia. 3. Praeterea, ex vulneribus intlictis provocatur ira. Sed ira causat audaciam, dicit enim philo­ sophus, in 2 Rhet. [5,21 ], quod ira est ausivum. Ergo quando iam sunt in ipsis periculis, et percutiuntur, videtur quod magis audaces reddantur. Sed contra est quod dicitur in 3 Ethic. [7, 1 2], quod audaces praevolantes sunt et volentes

    Sembra di no. Infatti: l . n tremore è prodotto dal timore, che si con­ trappone ali' audacia, come si è visto. Ora, gli audaci da principio tremano, come nota Aristotele. Quindi sono meno pronti all'inizio che in mezzo ai pericoli. 2. Più vigore si dà all'oggetto e più si rafforza la passione: se p. es. un bene è amabile, un bene maggiore è ancora più amabile. Ora, l'audacia ha per oggetto l'arduo. Se dunque cresce l'arduità cresce anche l'audacia. Ma un pericolo diviene più arduo e difficile quando è presente. Perciò allora deve crescere maggior­ mente l'audacia. 3. Le ferite ricevute provocano l'ira. Ma l'ira causa l'audacia: infatti il Filosofo insegna che «l'ira rende audaci». Quindi chi si trova già nel pericolo e viene percosso dovrà essere sempre più audace. In contrario: Aristotele dice che «gli audaci prima del pericolo sono pieni di entusiasmo e di volontà, ma in esso tendono a cedere». Risposta: essendo l'audacia un moto dell' ap­ petito sensitivo, esso deriva dalla conoscenza sensitiva. Ora, le facoltà sensitive non posso-

    ante pericula, in ipsis autem discedunt.

    433

    L 'audacia

    Respondeo dicendum quod audacia, cum sit quidam motus appetitus sensitivi, sequitur apprehensionem sensitivae virtutis. Virtus autem sensitiva non est collativa nec inquisiti­ va singulorum quae circumstant rem, sed subitum habet iudicium. Contingit autem quandoque quod secundum subitam appre­ hensionem non possunt cognosci omnia quae difficultatem in aliquo negotio afferunt, unde surgit audaciae motus ad aggrediendum peri­ culum. Unde quando iam experiuntur ipsum periculum, sentiunt maiorem difficultatem quam aestimaverunt. Et ideo deficiunt. - Sed ratio est discussiva omnium quae afferunt difficultatem negotio. Et ideo fortes, qui ex iudicio rationis aggrediuntur pericula, in prin­ cipio videntur remissi, quia non passi, sed cum deliberatione debita aggrediuntur. Quan­ do autem sunt in ipsis periculis, non experiun­ tur aliquid improvisum; sed quandoque mi­ nora illis quae praecogitaverunt. Et ideo magis persistunt. Vel etiam quia propter bo­ num virtutis pericula aggrediuntur, cuius boni voluntas in eis perseverat, quantacumque sint pericula. Audace..:; autem, propter solam aesti­ mationem facientem spem et excludentem timorem, sicut dictum est [a. 3]. Ad primum ergo dicendum quod etiam in au­ dacibus accidit tremor, propter revocationem caloris ab exterioribus ad interiora, sicut etiam in timentibus. Sed in audacibus revocatur calor ad cor, in timentibus autem, ad interiora. Ad secundum dicendum quod obiectum amo­ ris est simpliciter bonum, unde augmentatum simpliciter augmentat amorem. Sed obiectum audaciae est compositum ex bono et malo; et motus audaciae in malum, praesupponit motum spei in bonum. Et ideo si tantum ad­ datur de arduitate ad periculum quod excedat spem, non sequetur motus audaciae, sed di­ minuetur. Si tamen sit motus audaciae, quanto maius est periculum, tanto maior audacia reputatur. Ad tertium dicendum quod ex laesione non causatur ira, nisi supposita aliqua spe, ut infra [q. 46 a. l ] dicetur. Et ideo si fuerit tantum periculum quod excedat spem victoriae, non sequetur ira. Sed verum est quod, si ira sequatur, audacia augebitur.

    Q. 45, A. 4

    no confrontare e vagliare le singole circostan­ di una cosa, ma hanno un giudizio imme­ diato. E così può capitare che nell'apprensio­ ne immediata uno non sia in grado di cono­ scere tutte le difficoltà di un'impresa, per cui sorge un moto di audacia che porta ad affron­ tare il pericolo. Quando però il pericolo viene sperimentato, costui avverte una certa diffi­ coltà, superiore a quella immaginata. E così tende a cedere. - Invece la ragione è capace di discutere tutto ciò che contribuisce alla diffi­ coltà di un'impresa. Quindi i coraggiosi, che affrontano i pericoli dietro il giudizio della ragione, in principio sembrano poco decisi: poiché, liberi dalla passione, iniziano con la dovuta deliberazione. Quando però sono in mezzo ai pericoli non sperimentano imprevi­ sti, anzi, talora trovano che le difficoltà sono minori di quelle immaginate. Perciò persisto­ no con più impegno. - O si può anche pensa­ re che chi affronta i pericoli per il bene della virtù rimane in tale buona disposizione d'ani­ mo per quanto grandi essi siano. Invece gli audaci lo fanno per la sola persuasione che provoca la speranza ed esclude il timore, secondo le spiegazioni già date. Soluzione delle difficoltà: l . Il tremore si pro­ duce anche nell'audacia per il richiamo del calore dall'esterno all'interno, come nel timo­ re. Ma nell' audacia il calore viene concentra­ to intorno al cuore, nel timore invece nel basso ventre. 2. L'oggetto dell'amore è il bene puro e sem­ plice: se quindi cresce il bene cresce anche l'a­ more. Invece l'oggetto dell'audacia è compo­ sto di bene e di male, per cui il moto dell' au­ dacia contro il male presuppone il moto della speranza verso il bene. Se quindi al pericolo si aggiunge tanta arduità da sorpassare i limiti della speranza, allora il moto dell'audacia ver­ rà a diminuire, o non seguirà affatto. Quando però il moto dell'audacia sussiste, questa si misura in base alla grandezza del pericolo. 3. Una lesione non provoca l'ira senza la pre­ supposizione di una speranza, come diremo. Se quindi il pericolo è così grave da sopraffa­ � la speranza di vincere, l'ira non si produce. E vero però che se insorge l' ira aumenta l'audacia. ze

    Q. 46, A. l

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    L 'ira in se stessa QUAESTI0 46

    QUESTIONE 46

    DE IRA SECUND� SE

    L'IRA IN SE STESSA

    Deinde considerandum est de ira. Et primo, de ira secundum se; secundo, de causa factiva irae, et remedio eius [q. 47]; tertio, de effectu eius [q. 48]. Circa primum quaeruntur octo. Primo, utrum ira sit passio specialis. Secundo, utrum obiectum irae sit bonum, an malum. Tertio, utrum ira sit in concupiscibili. Quarto, utrum ira sit cum ratione. Quinto, utrum ira sit naturalior quam concupiscentia. Sexto, utrum ira sit gravior quam odium. Septimo, utrum ira solum sit ad illos ad quos est iusti­ tia. Octavo, de speciebus irae.

    Veniamo ora a trattare dell'ira. E innanzitutto dell'ira in se stessa; secondo, delle cause che la provocano e dei suoi rimedi; terzo, dei suoi effetti. Sul primo tema ci porremo otto quesiti: l. L'ira è una passione speciale? 2. L'oggetto dell'ira è il bene o il male? 3. L'ira è nel con­ cupiscibile? 4. Implica la ragion�? 5. È più naturale della,concupiscenza? 6. E più grave dell'odio? 7. E rivolta solo contro coloro che hanno con noi rapporti di giustizia? 8. Quali sono le specie dell'ira?

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum ira sit specialis passio

    L'ira è una passione speciale?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod ira non sit passio specialis. l. Ab ira enim denominatur potentia irascibi­ lis. Sed huius potentiae non est una tantum passio, sed multae. Ergo ira non est una pas­ sio specialis. 2. Praeterea, cui libet passioni speciali est aliquid contrarium; ut patet inducenti per sin­ gula. Sed irae non est aliqua passio contraria, ut supra [q. 23 a. 3] dictum est. Ergo ira non est passio specialis. 3. Praeterea, una specialis passio non includit aliam. Sed ira includit multas passiones, est enim cum tristitia, et cum delectatione, et cum spe, ut patet per philosophum, in 2 Rhet. [2, 1-2]. Ergo ira non est passio specialis. Sed contra est quod Damascenus [De fide 2, 1 6] poni t i ram specialem passionem. Et similiter Tullius, 4 De Tuscul. q. [7]. Respondeo dicendum quod aliquid dicitur generale dupliciter. Uno modo, per praedica­ tionem, sicut animai est generale ad omnia animalia. Alio modo, per causam, sicut sol est causa generalis omnium quae generantur in his inferioribus, secundum Dionysium, i n 4 cap. De div. nom. [4] . Sicut enim genus conti­ net multas differentias potestate, secundum similitudincm materiae; ita causa agens conti­ net multos effectus secundum virtutem acti­ vam. Contingit autem aliquem effectum ex concursu diversarum causarum produci, et quia omnis causa aliquo modo i n effectu manet, potest etiam dici, tertio modo, quod

    Sembra di no. Infatti: l . Dall' ira viene denominata la potenza dell'i­ rascibile. Ora, a questa potenza appartengono più passioni, non una sola. Quindi l'ira non è una passione speciale. 2. Ogni passione speciale ha la sua passione contraria, come è evidente per chi voglia enu­ merarle. Ma l' ira non ha una passione contra­ ria, come si è visto. Quindi l'ira non è una passione speciale. 3. Una passione speciale non include le altre. Invece l'ira include molte passioni: infatti sta con la tristezza, con il piacere e con la speran­ za, come dimostra Aristotele. Perciò l'ira non è una passione speciale. In contrario: il Damasceno considera l'ira come una passione speciale. E lo stesso fa Cicerone. Risposta: una cosa può essere generale in due modi. Ptimo, per l'estensione della sua predi­ cazione: animale, p. es., è generale in questo senso rispetto a tutti gli animali. Secondo, per i suoi rapporti causali: come il sole, p. es., è una causa generale per tutti gli esseri generati sulla terra, secondo l'aft'ermazione di Dionigi. Come infatti il genere contiene potenzialmen­ te molte differenze, così la causa agente con­ tiene molti effetti in forza della sua potenza attiva. Può tuttavia capitare che un effetto sia prodotto dal concorso di molte cause: e poi­ ché ogni causa in qualche modo perdura nel­ l'effetto si può anche dire, in un terzo senso, che l' efl'etto prodotto dalla convergenza di molte cause ha una certa generalità, in quanto

    Q. 46, A. l

    L 'ira in se stessa

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    effectus ex congregatione multarum causarum productus, habet quandam generalitatem, in­ quantum continet multas causas quodammodo in actu. - Primo ergo modo, ira non est passio generalis, sed condivisa aliis passionibus, ut supra [q. 23 a. 4] dictum est. Similiter autem nec secundo modo. Non est enim causa aliarum passionum, sed per hunc modum po­ test dici generalis passio amor, ut patet per Augustinum, in 14 libro De civ. Dei [7]; amor enim est prima radix omnium passionum, ut supra [q. 27 a. 4] dictum est. Sed tertio modo potest ira dici passio generalis, inquantum ex concursu multarum passionum causatur. Non enim insurgit motus irae nisi propter aliquam tristitiam illatam et nisi adsit desiderium et spes ulciscendi, quia, ut philosophus dicit in 2 Rhet. [2,2] , iratus habet spem puniendi; appetir enim vindictam ut sibi possibilem. Un­ de si fuerit multum excellens persona quae no­ cumentum intulit, non sequitur ira, sed solum tristitia, ut Avicenna dicit, in libro De an. [4,6]. Ad primum ergo dicendum quod, vis irascibi­ lis denorninatur ab ira, non quia omnis motus huius potentiae sit ira, sed quia ad iram terrni­ nantur omnes motus huius potentiae; et inter alios eius motus, iste est manifestior. Ad secundum dicendum quod ex hoc ipso quod ira causatur ex contrariis passionibus, scilicet a spe, quae est boni, et a tristitia, quae est mali, includit in seipsa contrarietatem, et ideo non habet contrarium extra se. Sicut etiam in mediis coloribus non invenitur con­ trarietas, nisi quae est simplicium colorum, ex quibus causantur. Ad tertium dicendum quod ira includit multas passiones, non quidem sicut genus species, sed magis secundum continentiam causae et effectus.

    contiene in qualche modo attualmente molte cause. - Ebbene, l' ira non è una passione generale nel primo senso, ma ha il suo posto distinto fra le altre passioni, come si è già visto. E non lo è neppure nel secondo senso. Infatti non è causa delle altre passioni, mentre in questo senso può dirsi passione generale l'amore, come mostra Agostino: infatti, se­ condo le spiegazioni date i n precedenza, l'amore è la prima radice di tutte le passioni. Invece l'ira può essere detta passione generale nel terzo senso, in quanto è causata dal con­ corso di molte passioni. Infatti il moto dell'ira non nasce senza essere provocato da un dolo­ re o tristezza, e senza il desiderio e la speran­ za di vendi cars i : poiché, come dice i l Filosofo, «chi è adirato ha l a speranza d i pu­ nire: infatti desidera, nei limiti del possibile, la vendetta». Per cui, come fa osservare Avi­ cenna, se la persona che ha inflitto il danno è molto superiore non segue l'ira, ma soltanto la tristezza. Soluzione delle difficoltà: l . La facoltà dell' i­ rascibile è denominata dall' ira non perché tutti i moti di tale potenza si riducano all'ira, ma perché l'ira è il loro termine, e il suo moto è più evidente degli altri. 2. Per il fatto stesso che l'ira è causata da pas­ sioni contrastanti, cioè dalla speranza, che ha per oggetto il bene, e dalla tristezza, che ha per oggetto il male, include in se stessa delle contrarietà: quindi non ha contrari fuori di sé. Come anche nei colori intermedi non c'è altra contrarietà che quella dei colori semplici da cui essi derivano. 3. L'ira include molte passioni non come il genere include le specie, ma piuttosto come un effetto include le sue cause.

    Articulus 2

    Articolo 2

    Utrum obiectum irae sit malum

    L'oggetto dell'ira è il male?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod obiectum irae sit malum. l . Dicit enim Gregorius Nyssenus [De nat. horn. 2 1 ] quod ira est quasi armigera concu­ piscentiae, inquantum scilicet impugnat id quod concupiscentiam impedit. Sed omne impedimentum habet rationem mali. Ergo ira respicit malum tanquam obiectum.

    Sembra di sì. Infatti: l . Scrive Gregorio Nisseno [Nemesio] che l'ira è come «l'armigero della concupiscenza». E questo perché combatte ciò che ostacola la concupiscenza o desiderio. Ma ogni ostacolo si presenta come un male. Quindi l'ira ha per oggetto il male. 2. L'ira e l'odio concordano nell'effetto: infat-

    Q. 46, A. 2

    L 'ira in se stessa

    2. Praeterea, ira et odium conveniunt in effec­ tu, utriusque enim est inferre nocumentum al­ teri. Sed odium respicit malum tanquam obiectum, ut supra [q. 29 a. l ] dictum est. Er­ go etiam et ira. 3. Praeterea, ira causatur ex tristitia, unde phi­ losophus dicit, in 7 Ethic. [6,4], quod ira ope­ ratur cum tristitia. Sed tristitiae obiectum est malum. Ergo et irae. Sed contra est quod Augustinus dicit, in 2 Conf. [6], quod ira appetit vindictam. Sed ap­ petitus vindictae est appetitus boni, cum vin­ dicta ad iustitiam pertineat. Ergo obiectum irae est bonum. 2. Praeterea, ira semper est cum spe, unde et delectationem causat, ut dicit philosophus, in 2 Rhet. [2,2]. Sed spei et delectationis obiectum est bonum. Ergo et irae. Respondeo dicendum quod motus appetitivae virtutis sequitur actum virtutis apprehensivae. Vis autem apprehensiva dupliciter aliquid ap­ prehendit, uno modo, per modum incomplexi, sicut cum intelligimus quid est homo; alio modo, per modum complexi, sicut cum intel­ ligimus album inesse homini. Unde utroque modo vis appetitiva potest tendere in bonum et malum. Per modum quidem simplicis et in­ complexi, cum appetitus simpliciter sequitur vel inhaeret bono, vel refugit malum. Et tales motus sunt desidetium et spes, delectatio et tristitia, et alia huiusmodi. Per modum autem complexi, sicut cum appetitus fertur in hoc quod aliquod bonum vel malum insit vel fiat circa alterum, vel tendendo in hoc, vel refu­ giendo ab hoc. Sicut manifeste apparet in amore et odio, amamus enim aliquem, in­ quantum volumus ei inesse aliquod bonum; odimus autem aliquem, inquantum volumus ei inesse aliquod malum. Et similiter est in ira, quicumque enim irascitur, quaerit vindi­ cari de aliquo. Et sic motus irae tendit in duo, scilicet in ipsam vindictam, quam appetit et sperat sicut quoddam bonum, unde et de ipsa delectatur, tendit etiam in illum de quo quaetit vindictam, sicut in contrarium et nocivum, quod pertinet ad rationem mali. - Est tamen duplex differentia attendenda circa hoc, irae ad odium et ad amorem. Quarum prima est, quod ira semper respicit duo obiecta, amor vero et odium quandoque respiciunt unum obiectum tantum, sicut cum dicitur aliquis amare vinum vel aliquid huiusmodi, aut etiam

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    ti l'una e l'altro mirano a danneggiare qualcu­ no. Ma l'odio ha come oggetto il male, come si è spiegato. Quindi anche l'ira. 3. L'ira è causata dalla tristezza: infatti il Filo­ sofo afferma che «l'ira si attua con tristezza». Ma l'oggetto della tristezza è il male. Quindi anche quello dell' ira. In contrario: l. Agostino ha scritto che «l'ira brama la vendetta». Ma bramare la vendetta è desiderare un bene, poiché vendicare appar­ tiene alla giustizia. Quindi l'oggetto dell'ira è il bene. 2. L'ira implica sempre la speranza: infatti produce un godimento, come insegna il Filo­ sofo. Ma il godimento e la speranza hanno per oggetto il bene. Quindi anche l' ira. Risposta: il moto della facoltà appetitiva se­ gue l'atto delle facoltà conoscitive. Ora, una facoltà conoscitiva può conoscere una cosa in due modi: primo, quale oggetto semplice, come quando intendiamo l'essenza dell'uo­ mo; secondo, quale oggetto complesso, come quando intendiamo che in un uomo c'è la bianchezza. Perciò le facoltà appetitive posso­ no tendere verso il bene o verso il male sotto questi due aspetti. Sotto l'aspetto di cosa sem­ plice e piiva di composizione quando l'appe­ tito semplicemente mira o adetisce al bene, o rifugge dal male. E questi moti appetitivi cor­ rispondono al desiderio e alla speranza, al pia­ cere e alla tristezza, e così via. Sotto l'aspetto di cosa complessa invece quando l'appetito tende a far sì che il bene o il male si trovi o si produca in un dato soggetto, oppure sia elimi­ nato da questo. E ciò è evidente nel caso del­ l'amore e dell'odio: infatti amiamo qualcuno in quanto vogliamo che in lui si trovi un dato bene; e odiamo una persona in quanto le vogliamo qualche male. E lo stesso si dica dell'ira: infatti chi si adira cerca di vendicarsi di qualcuno. E così il moto dell'ira ha di mira due cose: la vendetta medesima, bramata e sperata come un bene, e quindi goduta, e la persona di cui si cerca di vendicarsi, in quanto considerata contraria e dannosa, e che riveste perciò l'aspetto di male. - Si devono però notare in ciò due differenze dell' ira rispetto all'odio e all'amore. La prima è il fatto che l' ira abbraccia sempre due oggetti, mentre l'amore e l'odio talora si limitano a un solo oggetto, come quando uno ama o odia il vino, oppure altre cose consimili. La seconda sta

    Q. 46, A. 2

    L 'ira in se stessa

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    adire. Secunda est, quia utrumque obiectorum quod respicit amor, est bonum, vult enim amans bonum alicui, tanquam sibi convenien­ ti. Utrumque vero eorum quae respicit odium, habet rationem mali, vult enim odiens malum alicui, tamquam cuidam inconvenienti. Sed ira respicit unum obiectum secundum ratio­ nem boni, scilicet vindictam, quam appetit, et aliud secundum rationem mali, scilicet homi­ nem nocivum, de quo vult vindicari. Et ideo est passio quodammodo composita ex con­ trariis passionibus. Et per hoc patet responsio ad obiecta.

    nel fatto che i due oggetti dell'amore sono beni entrambi: infatti chi ama vuole un bene a qualcuno che egli considera conveniente a se stesso. Al contrario i due oggetti dell'odio hanno entrambi l'aspetto del male: infatti chi odia vuole del male a qualcuno che egli con­ sidera nocivo. Invece l'ira riguarda un ogget­ to, cioè la vendetta desiderata, sotto l'aspetto del bene, e riguarda l' altro, cioè la persona nociva di cui vuole vendicarsi, sotto l'aspetto del male. Per cui è una passione in qualche modo composta di passioni contrarie. Sono così risolte anche le difficoltà.

    Articulus 3

    Articolo 3

    Utrum ira sit in concupiscibili

    L'ira è nel concupiscibile?

    Ad tertium sic proceditur. Vìdetur quod ira sit in concupiscibili. l . Dicit enim Tullius, in 4 De Tuscul. q. [9], quod ira est Libido quaedam. Sed libido est in concupiscibili. Ergo et ira. 2. Praeterea, Augustinus dicit, in Regula [ep. 2 1 1 ] , quod ira crescit in odium. Et Thllius dicit, in eodem libro [De Tuscul. q. 4,9], quod odium est ira inveterata. Sed odium est in concupiscibili, sicut amor. Ergo ira est in concupiscibili. 3. Praeterea, Damascenus [De fide 2, 16] et Gregorius Nyssenus [De nat. horn. 2 1 ] dicunt quod ira componitur ex tristitia et desiderio. Sed utrumque horum est in concupiscibili. Ergo ira est in concupiscibili. Sed contra, vis concupiscibilis est alia ab irascibili. Si igitur ira esset in concupiscibili, non denominaretur ab ea vis irascibilis. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 23 a. l ] dictum est, passiones irascibilis in hoc differunt a passionibus concupiscibilis, quod obiecta passionum concupiscibilis sunt bonum et malum absolute; obiecta autem passionum irascibilis sunt bonum et malum cum quadam elevatione vel arduitate. Dictum est autem [a. 2] quod ira respicit duo obiecta, scilicet vindictam, quam appetit; et eum de quo vindictam quaerit. Et circa utrumque quandam arduitatem ira re­ quirit, non enim insurgit motus irae, nisi aliqua magnitudine circa utrumque existente; quae­ cumque enim nihil sunt, aut modica va/de nullo digna aestimamus, ut dicit philosophus, in 2 Rhet [2,3]. Unde manifestum est quod ira non est in concupiscibili, sed in irascibili.

    Sembra di sì. Infatti: l . Cicerone afferma che l'ira è una specie di «libidine». Ma la libidine è nel concupiscibi­ le. Quindi anche l'ira. 2. Dice Agostino che «l'ira col crescere divie­ ne odio». E Cicerone scrive che «l'odio è un'ira inveterata». Ma l'odio, come l'amore, è nel concupiscibile. Quindi l'ira è nel concupi­ scibile. 3. ll Damasceno e Gregorio Nisseno [Neme­ sio] affermano che «l'ira è composta di tri­ stezza e di desiderio». Ma queste due passio­ ni sono nel concupiscibile. Quindi l'ira è nel concupiscibile. In contrario: la facoltà dell'irascibile è distinta da quella del concupiscibile. Se dunque l'ira fosse nel concupiscibile, la facoltà dell' irasci­ bile non potrebbe essere denominata da essa. Risposta: abbiamo già detto che le passioni dell'irascibile si distinguono da quelle del concupiscibile per il fatto che l' oggetto di queste ultime è il bene e il male puro e sem­ plice, mentre l'oggetto delle passioni dell'ira­ scibile è il bene e il male con una certa inten­ sità o arduità. Abbiamo poi anche visto che l'ira abbraccia due oggetti: la vendetta deside­ rata e la persona di cui cerchiamo di vendicar­ ci. E l' ira richiede una certa arduità rispetto all'una e all'altra cosa. Infatti il moto dell'ira non insorge se le due cose non hanno una qualche importanza: poiché, come dice il Fi­ losofo, «non prendiamo in considerazione co­ se di nessun valore, o di valore minimo». Per cui è evidente che l'ira non è nel concupisci­ bile, ma nell'irascibile.

    Q. 46, A. 3

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    L 'ira in se stessa

    Ad primum ergo dicendum quod Tullius [De Tuscul. q. 4,6] libidinem nominat appetitum cuiuscumque boni futuri non habita discre­ tione ardui vel non ardui. Et secundum hoc, ponit iram sub libidine, inquantum est ap­ petitus vindictae. Sic autem libido communis est ad irascibilem et concupiscibilem. Ad secundum dicendum quod ira dicitur cre­ scere in odium, non quod eadem numero pas­ sio quae prius fuit ira, postmodum tiat odium per quandam inveterationem, sed per quan­ dam causalitatem. Ira enim, per diutumita­ tem, causat odium. Ad tertium dicendum quod ira dicitur componi ex tristitia et desiderio, non sicut ex partibus, sed sicut ex causis. Dictum est autem supra [q. 25 a. 2] quod passiones concupiscibilis sunt causae passionum irascibilis.

    Soluzione delle difficoltà: l. Cicerone chiama libidine il desiderio di qualsiasi bene futuro, senza distinguere tra arduo e non arduo. E in base a ciò include anche l'ira nella libidine, in quanto è un desiderio di vendetta. Ma in que­ sto senso la libidine è comune sia all'irascibi­ le che al concupiscibile. 2. Si dice che l'ira crescendo diviene odio non nel senso che la medesima passione cessi di essere ira per diventare poi odio, per una spe­ cie di invecchiamento, ma in quanto lo causa. Intatti l'ira con la sua durata causa l'odio. 3. L' ira è composta di tristezza e di desiderio non a modo di parti, ma a modo di cause. In­ fatti si è già detto che le passioni del concupi­ scibile causano le passioni dell'irascibile.

    Articulus 4

    Articolo 4

    Utrum ira sit cum ratione

    L'ira implica la ragione?

    Ad quartum sic proceditur. Vìdetur quod ira non sit cum ratione. l . Ira enim, cum sit passio quaedam, est in appetitu sensitivo. Sed appetitus sensitivus non sequitur rationis apprehensionem, sed sensitivae partis. Ergo ira non est cum ratione. 2. Praeterea, animalia bmta carent ratione. Et tamen in eis invenitur ira. Ergo ira non est cum ratione. 3. Praeterea, ebrietas ligat rationem. Adiuvat autem ad iram. Ergo ira non est cum ratione. Sed contra est quod philosophus dicit, in 7 Ethic. [6, 1 ] , quod ira consequitur rationem

    Sembra di no. Infatti: l . Essendo una passione, l'ira risiede nell'ap­ petito sensitivo. Ma l'appetito sensitivo non dipende dalla conoscenza razionale, bensì da quella dei sensi. Quindi l'ira non implica la ragione. 2. Gli animali bmti sono privi di ragione. E tuttavia in essi si riscontra l'ira. Quindi l'ira è indipendente dalla ragione. 3. L'ubriachezza sospende l'uso della ragio­ ne. Eppure fomenta l'ira. Quindi l'ira non implica la ragione. In contrario: il Filosofo insegna che «l'ira in una certa misura segue la ragione». Risposta: come si è già detto, l'ira è una bra­ ma di vendetta. Ora, la vendetta implica un confronto tra la pena da infliggere e il danno subìto. Per cui, come dice il Filosofo, «chi deduce che è necessario affrontare qualcuno, subito si adira». Ma confrontare e dedurre è proprio della ragione. Quindi l'ira in qualche modo implica la ragione. Soluzione delle difficoltà: l . n moto di una potenza appetitiva può implicare la ragione in due modi. Primo, può implicarla come facoltà nonnativa: e in questo senso la ragione è solo nella volontà. Infatti la volontà è denominata appetito razionale. Secondo, può implicare la ragione come rivelatrice: e in questo senso la ragione è presente anche nell'ira. Infatti il

    aliqualiter. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 2] dictum est, ira est appetitus vindictae. Haec autem collationem importat poenae infli­ gendae ad nocumentum sibi illatum, unde, in 7 Ethic. [5, 1 ] , dicit philosophus quod syl­

    logizans quoniam oportet talem oppugnare, irascitur confestim. Conferre autem et syllo­ gizare est rationis. Et ideo ira est quodam­ modo cum ratione. Ad primum ergo dicendum quod motus ap­ petitivae virtutis potest esse cum ratione du­ pliciter. Uno modo, cum 111tione praecipiente, et sic voluntas est cum ratione; unde et dicitur appetitus rationalis. Alio modo, cum ratione denuntiante, et sic ira est cum ratione. Dicit enim philosophus, in libro De probl. [27,3],

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    L 'ira in se stessa

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    quod ira est cum ratione, non sicut praeci­ piente ratione, sed ut manifestante iniuriam. Appetitus enim sensitivus immediate rationi non obedit, sed mediante voluntate. Ad secundum dicendum quod bruta animalia habent instinctum naturalem ex divina ratione eis inditum, per quem habent motus interiores et exteriores similes motibus rationis, sicut supra [q. 40 a. 3] dictum est. Ad tertium dicendum quod, sicut dicitur in 7 Ethic. [6, l ] , ira audit aliqualiter rationem, sicut nuntiantem quod iniuriatum est ei, sed non pe1jecte audit, quia non observat regulam rationis in rependendo vindictam. Ad iram ergo requi ri tu r aliquis actus ration i s ; et addi tur i m pedimentum rati on i s . Unde philosophus dicit, in libro De probl. [3,2.27], quod illi qui sunt multum ebrii, tanquam nihil habentes de iudicio rationis, non irascuntur, sed quando sunt parum ebri i , irascuntur, tanquam habentes iudic iu m rationi s , sed impeditum. Articulus

    5

    Filosofo scrive che «I' ira implica la ragione non come ragione direttiva, ma come rivela­ trice dell'ingiuria». L'appetito sensitivo infatti non ubbidisce alla ragione direttamente, bensì con la mediazione della volontà. 2. Gli animali bruti hanno l'istinto naturale in­ serito in essi dalla ragione divina, mediante il quale esercitano dei moti esterni e interni simi­ li ai moti della ragione, come già si è notato. 3. Secondo Aristotele «l'ira ascolta la ragione in una certa misura», cioè come rivelatrice dell'ingiuria subita, «ma non la ascolta perfet­ tamente», poiché non rispetta la regola della ragione nel ripagare con la vendetta. Perciò l'ira richiede un atto della ragione, alla quale però aggiunge un impedimento. Per cui , come osserva i l Filosofo, quelli che sono molto ubriachi, essendo privi di ogni giudizio della ragione, non si adirano; si adirano inve­ ce quando sono leggermente ubriach i , i n quanto conservano i l giudizio della ragione, ma vincolato. Articolo

    5

    Utrum ira sit naturalior quam concupiscentia

    Vira è più naturale della concupiscenza o desiderio?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod ira non sit naturalior quam concupiscentia. l . Proprium enim hominis dicitur quod sit animai mansuetum natura. Sed mansuetudo opponitur irae, ut dicit philosophus, in 2 Rhet. [3, l]. Ergo ira non est naturalior quam concupiscentia, sed omnino vi detur esse contra hominis naturam. 2. Praeterea, ratio contra naturam dividitur, ea enim quae secundum rationem agunt, non dicimus secundum naturam agere. Sed ira est

    Sembra di no. Infatti: l . Si dice che per natura l'uomo è un animale mansueto. Ma «la mansuetudine si contrap­ pone all'ira», come ricorda il Filosofo. Quindi l 'ira non è più naturale della concupiscenza, ma è del tutto contraria alla natura umana. 2. La ragione e la natura sono termini con­ trapposti: infatti agire secondo ragione non equivale ad agire secondo la natura. Ora, secondo Aristotele, «l'ira implica la ragione, al contrario della concupiscenza>>. Quindi la concupiscenza è più naturale dell'ira. 3. L'ira è la brama di vendicarsi, mentre la concupiscenza è soprattutto la brama dei pia­ ceri del tatto, cioè dei piaceri venerei e della gola. Ora, queste cose sono più naturali all'uomo di quanto lo sia la vendetta. Quindi la concupiscenza è più naturale dell' ira. In contrario: il Filosofo insegna che «l' ira è più naturale della concupiscenza». Risposta: si considera naturale ciò che viene causato dalla natura, come spiega Aristotele. Quindi per decidere se una passione è più o meno naturale non c'è che da considerare la sua causa. Ora, stando alle cose già dette, la

    cum ratione, concupiscentia autem sine ratio­ ne, ut dicitur in 7 Ethic. [6, 1 ]. Ergo concupi­ scentia est naturalior quam ira. 3. Praeterea, ira est appetitus vindictae, con­ cupiscentia autem maxime est appetitus de­ lectabilium secundum tactum, scilicet cibo­ rum et venereorum. Haec autem sunt magis naturalia homini quam vindicta. Ergo concu­ piscentia est naturalior quam ira. Sed contra est quod philosophus dicit, in 7 Ethic. [6,2], quod ira est naturalior quam

    concupiscentia. Respondeo dicendum quod naturale dicitur illud quod causatur a natura, ut patet in 2

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    L 'ira in se stessa

    Phys. [ 1 ,5. 1 1]. Unde utrum aliqua passio sit magis vel minus naturalis, considerari non potest nisi ex causa sua. Causa autem passio­ nis, ut supra [q. 36 a. 2] dictum est, dupliciter accipi potest, uno modo, ex parte obiecti; alio modo, ex parte subiecti. Si ergo consideretur causa irae et concupiscentiae ex parte obiecti, sic concupiscentia, et maxime ciborum et venereorum, naturalior est quam ira, inquan­ tum ista sunt magis naturalia quam vindicta. S i autem consideretur causa irae ex parte subiecti, sic quodammodo ira est naturalior, et quodammodo concupiscentia. Potest enim natura alicuius hominis considerati vel secun­ dum naturam generis, vel secundum naturam speciei, vel secundum complexionem pro­ priam individui. Si igitur consideretur natura generis, quae est natura huius hominis in­ quantum est animai ; sic naturalior est con­ cupiscentia quam ira, quia ex ipsa natura communi habet homo quandam inclinatio­ nem ad appetendum ea quae sunt conservati­ va vitae, vel secundum speciem vel secun­ dum individuum. Si autem consideremus naturam hominis ex parte speciei, scilicet in­ quantum est rationalis; sic ira est magis natu­ ralis homini quam concupiscentia, inquantum ira est cum ratione magis quam concupiscen­ tia. Unde philosophus dicit, in 4 Ethic. [5, 12], quod humanius est punire, quod pertinet ad iram, quam mansuerum esse, unumquodque enim naturaliter insurgit contra contraria et nociva. Si vero consideretur natura huius indi­ vidui secundum propriam complexionem, sic ira naturalior est quam concupiscentia, quia scilicet habitudinem naturalem ad irascen­ dum, quae est ex complexione, magis de fa­ cili sequitur ira, quam concupiscentia vel aliqua alia passio. Est enim homo dispositus ad irascendum, secundum quod habet choleri­ cam complexionem, cholera autem, i nter alios humores, citius movetur; assimilatur enim igni. Et ideo magis est in promptu ut ille qui est dispositus secundum naturalem com­ plexionem ad iram, irascatur; quam de eo qui est dispositus ad concupiscendum, quod con­ cupiscat. Et propter hoc philosophus dicit, in 7 Ethic. [6,2], quod ira magis traducitur a parentibus in filios, quam concupiscentia. Ad primum ergo dicendum quod in homine considerari potest et naturalis complexio ex parte corporis, quae est temperata; et ipsa

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    causa di una passione può essere considerata d a due lati : primo, dal l ato del l ' oggetto; secondo, da quello del soggetto. Se dunque si considera la causa dell' ira e della concupi­ scenza dal lato dell'oggetto, allora la concupi­ scenza, specialmente quella relativa al cibo e alla sessualità, è più naturale dell'ira: essendo queste cose più naturali della vendetta. - Se invece consideriamo la causa dell'ira dal lato del soggetto, allora sotto un certo aspetto è più naturale l'ira, e sotto un altro è più naturale la concupiscenza. Infatti la natura di un uomo può essere considerata o nel suo genere, o nella sua specie, oppure nella complessione particolare dell'individuo. Se dunque la natura viene considerata nel suo genere, cioè se con­ sideriamo questo uomo come animale, allora la concupiscenza è più naturale dell' ira: poi­ ché l'uomo deve proprio alla sua natura gene­ rica una certa inclinazione a desiderare quanto giova alla conservazione della vita, sia della specie che dell'individuo. - Se invece si con­ sidera la natura di un uomo nella sua specie, cioè in quanto è un essere razionale, allora l 'ira è per l ' uomo più naturale della concupi­ scenza: poiché l' ira implica la ragione più della concupiscenza. Perciò il Filosofo può af­ fermare che «è cosa più umana il punire», che è l' atto proprio dell'ira, «che l' essere man­ sueto»: infatti uno insorge naturalmente con­ tro le cose contrarie e nocive. Se infine consi­ deriamo la natura di questo individuo nella sua particolare complessione, allora l'ira è più naturale della concupiscenza: poiché l'ira, più della concupiscenza o di altre passioni, è por­ tata a seguire l'eventuale tendenza ali' iracon­ dia dovuta alla complessione naturale. Se infatti un uomo ha una complessione biliosa, è predisposto ali' iracondia: ora la bile, fra tutti gli umori, è quello che si muove più veloce­ mente, tanto da essere paragonata al fuoco. Per cui è più facile che chi è predisposto all'i­ ra dalla sua complessione naturale si adiri, piuttosto che passi all'atto colui che è predi­ sposto alla concupiscenza. Per questo i l Filosofo afferma che l' ira s i trasmette dai ge­ nitori ai figli più della concupiscenza. Soluzione delle difficoltà: l . Nell'uomo si può considerare la complessione naturale del corpo, che è equilibrata, e la ragione. Secondo dunque la complessione organica l ' uomo per natura, cioè secondo la sua specie, non am-

    44 1

    Q. 46, A. 5

    L 'ira in se stessa

    ratio. Ex parte igitur complexionis corporalis, naturaliter homo, secundum suam speciem, est non habens superexcellentiam neque irae neque alicuius alterius passionis, propter tem­ peramentum suae complexionis. Alia vero animalia, secundum quod recedunt ab hac qualitate complexi onis ad dispositionem alicuius complexionis extremae, secundum hoc etiam naturaliter disponuntur ad excessum alicuius passionis, ut leo ad audaciam, canis ad iram, lepus ad timorem, et sic de aliis. - Ex parte vero rationis, est naturale homini et irasci et mansuetum esse, secundum quod ratio quodammodo causat iram, inquantum nuntiat causam irae; et quodammodo sedat iram, inquantum iratus non totaliter audit imperium rationis, ut supra [a. 4 ad 3] dictum est. Ad secundum dicendum quod ipsa ratio per­ tinet ad naturam hominis. Unde ex hoc ipso quod ira est cum ratione, sequitur quod se­ cundum aliquem modum sit homini naturalis. Ad tertium dicendum quod ratio illa procedit de ira et concupiscentia, ex parte obiecti. Articulus

    6

    Utrum ira sit gravior quam odium Ad sextum sic proceditur. Videtur quod ira sit gravior quam odium. l . Dicitur enim Prov. 27 [4], quod ira non ha­ ber misericordiam, nec erumpensfuror. Odium autem quandoque habet misericordiam. Ergo ira est gravior quam odium. 2. Praeterea, maius est pati malum et de malo dolere, quam simpliciter patì. Sed illi qui habet aliquem odio, sufficit quod ille quem odit, patiatur malum, irato autem non sufficit, sed quaerit quod cognoscat illud et de ilio doleat, ut dicit philosophus, in 2 Rhet. [4,3 1 ] . Ergo ira est gravio r quam odium. 3. Praeterea, quanto ad constitutionem alicuius plura concurrunt, tanto videtur esse stabilius, sicut habitus permanentior est qui ex pluribus actibus causatur. Sed ira causatur ex concursu plurium passionum, ut supra [a. l ] dictum est, non autem odium. Ergo ira est stabilior et gravior quam odium. Sed contra est quod Augustinus, in Regula [ep. 2 1 1 ] , odium comparat trabi, iram vero

    festucae.

    Respondeo dicendum quod species passionis, et ratio ipsius, ex obiecto pensatur. Est autem

    mette un predominio dell'ira né di altre pas­ sioni: per l ' equilibrio, appunto, dell a sua complessione. Invece gli altri animali, i n quanto s i allontanano d a questo equilibrio verso complessioni unilaterali, sono natural­ mente predisposti agli eccessi di qualche pas­ sione: il leone, p. es., eccede nell' audacia, il cane nell' ira, la lepre nel timore, e così via. Al contrario, considerando l ' uomo dal lato della ragione, è per lui naturale sia adirarsi che essere mansueto, poiché la ragione sotto un certo aspetto provoca l' ira, segnalando il motivo dell'irritazione, e sotto un altro aspetto la smorza, almeno in parte: poiché chi è adi­ rato, come dice Aristotele, «ascolta imperfet­ tamente il comando della ragione». 2. La ragione stessa fa parte della natura umana. Perciò dal fatto medesimo che l 'ira implica la ragione segue in un certo senso che essa è naturale per l'uomo. 3. L'argomento vale se consideriamo l'ira e la concupiscenza dal lato dell'oggetto.

    Articolo

    6

    Vira è più grave dell'odio? Sembra di sì. Infatti: l . In Pr è detto: L'ira

    non ha misericordia, e neppure il furore impetuoso. Invece l ' odio

    talora ha misericordia. Quindi l ' ira è più graye dell'odio. 2. E più grave subire un male e soffrirne che subirlo soltanto. Ora, chi odia si accontenta che la persona odiata subisca un male, mentre chi è adirato non se ne accontenta, ma vuole che Io conosca e che ne soffra, come nota il Filosofo. Quindi l' ira è più grave deli' odio. 3. Più sono le cause che concorrono a costi­ tuire una cosa, più essa è stabile: infatti un abito operativo è tanto più duraturo quanto più numerosi sono gli atti che lo hanno pro­ dotto. Ma l'ira, come si è visto, a differenza dell'odio, deriva dal concorso di molte pas­ sioni. Quindi l ' ira è più stabile e più grave dell'odio. In contrario: Agostino paragona l'odio a una trave e l'ira a una pagliuzza. Risposta: la specie e la natura di una passione si desumono dall' oggetto. Ora, l'oggetto del­ l ' ira e del l ' odio è materialmente identico: come infatti chi odia vuole il male della per-

    Q. 46, A. 6

    L 'ira in se stessa

    442

    obiectum irae et odii idem subiecto, nam sicut odiens appetit malum ei quem odit, ita iratus ei contra quem irascitur. Sed non eadem ratione, sed odiens appetit malum inimici, inquantum est malum; iratus autem appetit malum eius contra quem irascitur, non inquantum est malum, sed inquantum h abet quandam rationem boni, scilicet prout aestimat illud esse iustum, inquantum est vindicativum. Unde etiam supra [a. 2] dictum est quod odium est per applicationem mali ad malum; ira autem per applicationem boni ad malum. Manifestum est autem quod appetere malum sub ratione iusti, minus habet de ratione mali quam velle malum alicuius simpliciter. Velle enim malum alicuius sub ratione iusti, potest esse etiam secundum v irtutem iustitiae, si praecepto rationis obtemperetur, sed ira in hoc solum deficit, quod non obedit rationis praecepto in ulciscendo. Unde manifestum est quod odium est multo deterius et gravius quam ira. Ad primum ergo dicendum quod in ira et odio duo possunt considerari, scilicet ipsum quod desideratur, et intensio desiderii. Quan­ tum igitur ad id quod desideratur, ira habet magis mi sericordiam quam odi um. Quia enim odium appetit malum alterius secundum se, nulla mensura mali satiatur, ea enim quae secundum se appetuntur, sine mensura ap­ petuntur, ut philosophus dicit l Pol. [3, 1 7] , sicut avarus divitias. Unde dicitur Eccli. 1 2 [ 1 6] , inimicus si invenerit tempus, non satia­ bitur sanguine. Sed ira non appetit malum nisi sub ratione iusti vindicativi. Unde quando malum illatum excedit mensuram iustitiae, secundum aestimationem irascentis, tunc mi­ seretur. Unde philosophus dicit, in 2 Rhet. [4,3 1 ] , quod iratus, sifiant multa, miserebitur, odiens autem pro nullo. Quantum vero ad intensionem desiderii , ira magis excludit misericordiam quam odium, quia motus irae est impetuosior, propter cholerae inflamma­ tionem. Unde statim subditur [Prov. 27,4],

    sona odiata, così chi si adira vuole il male di chi ha provocato il suo sdegno. Ma non sotto lo stesso aspetto: infatti l' odio vuole il male del nemico in quanto male, mentre l' ira vuole il male di chi l'ha provocata non in quanto male, ma sotto l'aspetto di bene, cioè in quan­ to uno pensa che sia una giusta vendetta. Per cui anche sopra abbiamo notato che l'odio è come un addossare del male a un male, men­ tre l' ira è un addossare del bene a un male. Ora, è evidente che volere un male come atto di giustizia è cosa meno cattiva che volere semplicemente il male di qualcuno. Infatti volere il male di uno come atto di giustizia può anche coincidere con la virtù della giusti­ zia, se questo volere sottostà al comando della ragione: per cui il solo difetto dell'ira sta nel vendicarsi senza seguire la ragione. Quindi è evidente che l'odio è molto peggiore e più grave dell'ira. Soluzione delle difficoltà: l . Nell' ira e nell'o­ dio si possono distinguere due cose: ciò che si desidera e l' intensità del desiderio. Rispetto dunque a ciò che si desidera l' ira ha più mise­ ricordia dell'odio. Infatti l'odio non è saziato da nessun male, poiché vuole il male di un altro in quanto male, e ciò che è voluto per se stesso è voluto, al dire del Filosofo, senza mi sura, come l ' avaro vuole le ricchezze. Perciò in Sir è detto: Il nemico, se troverà

    impetum concitati spiritusferre quis poterit?

    2. Chi è adirato desidera il male di qualcuno, come si è detto, in quanto è una giusta ven­ detta. Ma la vendetta consiste nell' irrogazione di una pena, e questa viene concepita come afflittiva, contraria alla volontà e inflitta per una colpa. Perciò chi è adirato vuole che la persona colpita percepisca e soffra il castigo, e conosca che esso è dovuto ali' ingiustizia commessa. Invece chi odia non si cura di ciò:

    -

    Ad secundum dicendum quod, sicut dictum est [co.], iratus appetit malum alicuius, inquan­ tum habet rationem iusti vindicativi. Vindicta autem fit per illationem poenae. Est autem de ratione poenae quod sit contraria voluntati, et quod sit afflictiva, et quod pro aliqua culpa inferatur. Et ideo iratus hoc appetit, ut ille cui nocumentum infert, percipiat, et doleat, et

    l 'occasione, non si sazierà mai di sangue. Invece l' ira desidera il male soltanto come una giusta vendetta. Perciò quando l 'adirato vede che a suo giudizio i l male supera la misura del giusto, allora si muove a pietà. Per cui il Filosofo afferma che «chi è adirato si placa per le molte soddis fazioni; chi odia invece per nessuna>>. - Rispetto invece all'in­ tensità del desiderio l'ira esclude la misericor­ dia più dell'odio: poiché il moto dell'ira è più impetuoso, per il divampare della bile. Per cui sempre Pr aggiunge: E chi porrà reggere

    all'impeto di uno spirito concitato?

    Q. 46, A. 6

    L 'ira in se stessa

    443

    quod cognoscat propter iniuriam illatam sibi hoc provenire. Sed odiens de hoc nihil curat, quia appetit malum alterius i nquantum huiusmodi. Non est autem verum quod id de quo quis tristatur, sit peius, iniustitia enim et imprudentia, cum sint mala, quia tamen sunt voluntaria, non contristant eos quibus insunt, ut dicit philosophus, in 2 Rhet. [4,3 1]. Ad tertium dicendum quod id quod ex pluri­ bus causis causatur, tunc est stabilius, quando causae accipiuntur unius rationis, sed una causa potest praevalere multis aliis. Odium autem provenit ex permanentiori causa quam ira. Nam ira provenit ex aliqua commotione animi propter laesionem illatam, sed odium procedit ex aliqua dispositione hominis, secundum quam reputat sibi contrarium et nocivum id quod odit. Et ideo sicut passio citius transit quam dispositio vel habitus, ita ira citius transit quam odium; quamvis etiam odium s i t passio ex tali dispositione proveniens. Et propter hoc philosophus dicit, i n 2 Rhet. [4,3 1 ] , quod odium est magis

    poiché desidera il male del suo nemico per se stesso. Non è poi vero che sia peggiore il male di cui uno si rattrista: infatti, come nota il Filosofo, «l'ingiustizia e l'imprudenza, pur essendo dei mali, non rattristano quelli che le hanno», poiché sono volute. 3. Ciò che è prodotto da più cause è più stabile solo quando si tratta di cause della stessa natu­ ra; ma una sola causa può superarne molte altre. Ora, l'odio ha una causa più tenace dell'i­ ra. Infatti l'ira proviene da un turbamento del­ l' animo per un'offesa ricevuta, mentre l'odio deriva da una disposizione che fa considerare a un uomo come contrario e nocivo ciò che egli odia. Come quindi una passione è più labile di una disposizione o di un abito, così l'ira passa più facilmente dell'odio; sebbene anche l'odio sia una passione derivante dalla disposizione suddetta. Per cui il Filosofo scrive che «l'odio è più incurabile dell'ira».

    insanabile quam ira.

    Articulus 7

    Articolo 7

    Utrurn ira sit ad illos solum ad quos est iustitia

    L'ira si rivolge solo contro chi ha con noi rapporti di giustizia?

    Ad septimum sic proceditur. Videtur quod ira non solum sit ad illos ad quos est iustitia. l . Non enim est iustitia hominis ad res irratio­ nales. Sed tamen homo quandoque irascitur rebus irrationalibus, puta cum scriptor ex ira proiicit pennam, vel eques percutit equum. Ergo ira non salurn est ad illos ad quos est iustitia. 2. Praeterea, non est iustitia hominis ad seipsum, nec ad ea quae sui ipsius sunt, ut dicitur in 5 Ethic. [6,8] . Sed homo quandoque sibi ipsi irascitur, sicut poenitens propter peccatum, unde dicitur in Psalmo 4 [5], irascimini, et nolite peccare. Ergo ira non solum est ad quos est iustitia. 3. Praeterea, iustitia et iniustitia potest esse alicuius ad totum aliquod genus, vel ad totam aliquam communitatem, puta cum civitas aliquem laesit. Sed ira non est ad aliquod genus, sed solum ad aliquod singularium, ut dicit philosophus, in 2 Rhet. [6,3 1 ]. Ergo ira non proprie est ad quos est iustitia et iniustitia.

    Sembra di no. Infatti: l . Non esistono rapporti di giustizia tra l'uo­ mo e gli esseri irrazionali. E tuttavia l'uomo qualche volta si adira con gli esseri irraziona­ li: come fa lo scrivano che, adirato, butta via la penna, o il cavaliere che frusta il cavallo. Quindi l'ira non si rivolge soltanto a chi ha con noi rapporti di giustizia. 2. Come dice Aristotele, «l'uomo non ha le­ gami di giustizia con se medesimo, né con le proprie cose». Ma talora l'uomo si adira con se stesso, come fa il penitente per i suoi pec­ cati: infatti nel Sal è detto: Adiratevi, e non peccate. Quindi l'ira non si rivolge soltanto contro chi ha con noi rapporti di giustizia. 3. Si possono avere rapporti di giustizia e di ingiustizia con nttto un genere, o con una co­ munità intera: come quando lo stato ha dan­ neggiato qualcuno. Invece l'ira non riguarda mai un genere, ma soltanto «qualche singola­ re», come dice il Filosofo. Quindi l'ira non riguarda propriamente coloro che sono legati a noi da rapporti di giustizia e di ingiustizia.

    Q. 46, A. 7

    L 'ira in se stessa

    Sed contrarium accipi potest a philosopho in 2 Rhet. [2-3] . Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 6] dictum est, ira appetit malum, inquantum habet rationem iusti vindicativi. Et ideo ad eosdem est ira, ad quos est iustitia et iniustitia. Nam inferre vindictam ad iustitiam pertinet, laedere autem aliquem pertinet ad iniustitiam. Unde tam ex parte causae, quae est laesio illata ab altero; quam etiam ex parte vindictae, quam appetit iratus; manifestum est quod ad eosdem pertinet ira, ad quos iustitia et iniustitia. Ad primum ergo dicendum quod, sicut supra [a. 4 ad 2] dictum est, ira, quamvis sit cum ratione, potest tamen etiam esse in brutis ani­ malibus, quae ratione carent, inquantum na­ turali instinctu per imaginationem moventur ad aliquid simile operibus rationis. Sic igitur, cum in homine sit et ratio et imaginatio, du­ pliciter in homine potest motus irae insurgere. Uno modo, ex sola imaginatione nuntiante laesionem. Et sic insurgit aliquis motus irae etiam ad res irrationales et inanimatas, secun­ dum similitudinem illius motus qui est in animalibus contra quodlibet nocivum. Alio modo, ex ratione nuntiante laesionem. Et sic, ut philosophus dicit 2 Rhet. [3, 16], nullo mo­

    do potest esse ira ad res insensibiles, neque ad mortuos. Tum quia non dolent, quod ma­ xime quaerunt irati in eis quibus irascuntur. Tum etiam quia non est ad eos vindicta, cum eorum non sit iniuriam tacere. Ad secundum dicendum quod, sicut philoso­ phus dicit in 5 Ethic. [ 1 1 ,9], quaedam meta­

    phorica iustitia et iniustitia est hominis ad seipsum, inquantum scilicet ratio regit irasci­ bilem et concupiscibilem. Et secundum hoc etiam homo dicitur de seipso vindictam fa­ cere, et per consequens sibi ipsi irasci. Proprie autem et per se, non contingit aliquem sibi ipsi irasci. Ad tertium dicendum quod philosophus, in 2 Rhet. [4,3 1 ] , assignat unam differentiam inter odium et iram, quod odium potest esse ad

    aliquod genus, sicut habemus odio omne la­ tronum genus, sed ira non est nisi ad aliquod singulare. Cuius ratio est, quia odium causa­ tur ex hoc quod qualitas alicuius rei appre­ henditur ut dissonans nostrae dispositioni, et hoc potest esse vel in universali, vel in parti­ culari. Sed ira causatur ex hoc quod aliquis nos laesit per suum actum. Actus autem

    444

    In contrario: c'è l'insegnamento del Filosofo. Risposta: abbiamo già detto che l'ira vuole il male sotto l'aspetto di giusta vendetta. Perciò l' ira riguarda coloro che hanno rapporti di giustizia e di ingiustizia. Infatti vendicare è proprio della giustizia, mentre offendere è proprio dell'ingiustizia. Quindi sia dalla parte della causa, cioè dell'offesa, sia dalla parte della vendetta che l'adirato desidera, è evi­ dente che l'ira si rivolge contro coloro con cui abbiamo rapporti di giustizia e di ingiustizia. Soluzione delle difficoltà: l . Come si è già detto, pur implicando la ragione, l'ira può tro­ varsi anche negli animali privi di ragione, poiché essi dali' istinto naturale, e mediante l'immaginativa, sono portati a compiere cose che assomigliano agli atti della ragione. Per­ ciò, siccome nell'uomo c'è sia la ragione che l'immaginativa, i moti dell' ira possono insor­ gere in lui in due modi. Primo, in seguito alla presentazione del danno da parte della sola immaginativa. E così può insorgere qualche scatto d'ira anche verso gli esseri irrazionali e inanimati, simile ai moti istintivi degli anima­ li contro le cose nocive. Secondo, in seguito alla presentazione del danno da parte della ra­ gione. E così, come dice il Filosofo, «in nes­ sun modo l'ira si può rivolgere contro le cose inanimate, né contro i morti». E ciò sia per­ ché manca la soft"erenza, che chi è adirato soprattutto tenta di infliggere a chi ha causato la sua collera, sia perché nei loro riguardi non ci può essere vendetta, essendo essi incapaci di offendere. 2. Come osserva il Filosofo, «esiste una certa giustizia o ingiustizia metaforica dell'uomo verso se stesso», in quanto alla ragione spetta il dominio sull' irascibile e sul concupiscibile. E in questo senso si può dire che uno si ven­ dica di se stesso, e quindi si adira con se stes­ so. Parlando però propriamente nessuno può adirarsi con se stesso. 3. Nel libro citato il Filosofo porta questa sola differenza tra l'odio e l'ira, che «l'odio può riguardare tutto un genere: si odia, p. es., tutto il genere dei briganti, mentre l'ira si rivolge solo contro il singolo». E il motivo sta nel fatto che l'odio deriva dal considerare la qua­ lità di una data cosa come contraria alla nostra disposizione, e questa considerazione può essere universale o particolare. L'ira inve­ ce è prodotta dall'offesa compiuta da qualcu-

    L 'ira in se stessa

    445

    omnes sunt singularium. Et ideo ira semper est circa aliquod singulare. Cum autem tota civitas nos laeserit, tota civitas computatur sicut unum singulare.

    Q. 46, A. 7

    no col proprio atto. Ora, gli atti sono tutti individuali. Perciò l ' ira si rivolge sempre al singolare concreto. Se poi è tutto lo stato che ci offende, allora lo stato intero è considerato come un ente singolo.

    Articulus 8

    Utrum convenienter assignentur species irae

    Articolo 8

    Le specie dell'ira, cioè la bile, la mania e ilfurore sono ben determinate? ,

    Ad octavum sic proceditur. Videtur quod Da­ mascenus [De fide 2, I 6] inconvenienter assi­ gnet tres species irae, scilicet fel, maniam et

    furorem. l . Nullius enim generis specie..lì diversificantur secundum aliquod accidens. Sed ista tria di­ versificantur [De fide 2, 1 6] secundum aliquod accidens, principium enim motus irae fel

    vocatur; ira autem permanens dicitur mania; furor autem est ira observans tempus in vin­ dictam. Ergo non sunt diversae species irae. 2. Praeterea, Tullius, in 4 De Tuscul. q. [9], dicit quod excandescenria graece dicitur thymosis;

    et est ira modo nascens et modo desistens. Thymosis autem secundum Damascenum [De fide 2, 1 6] , est idem quod furor. Non ergo furor tempus quaerit ad vindictam, sed tem­ pore deficit. 3. Praeterea, Gregorius, 2 1 Mor. [5], ponit tres gradus irae, scilicet iram sine voce, et iram cum voce, et iram cum verbo expresso, secundum illa tria guae Dominus ponit Matth. 5 [22], qui irasciturfratri suo, ubi tangitur ira sine voce; et postea subdit, qui dixerit fratri suo, raca, ubi tangitur ira cum voce, sed necdum pieno verbo formata; et postea dicit, qui autem dixerit fratri suo, fatue, ubi exple­ tur vox peifectione sermonis. Ergo insuffi­ cienter divisit Damascenus iram, nihil ponens ex parte vocis. Sed contra est auctoritas Damasceni [De fide 2,1 6] et Gregorii Nysseni [De nat. horn. 2 1 ] . Respondeo dicendum quod tres species irae quas Damascenus ponit, et etiam Gregorius Nyssenus, sumuntur secundum ea quae dant irae aliquod augmentum. Quod quidem con­ tingit tripliciter. Uno modo, ex facilitate ipsius motus, et talem iram vocat fel, quia cito ac­ cenditur. Alio modo, ex parte tristitiae cau­ santis iram, guae diu in memoria manet, et haec pertinet ad maniam, quae a manendo dicitur. Tertio, ex parte eius quod iratus appe­ tit, scilicet vindictae, et haec pertinet ad

    Sembra di no. Infatti: l . Le specie non suddividono mai un genere in base a un accidente. Queste tre cose invece si distinguono in base a un accidente: infatti «l' inizio del moto dell'ira è chiamato bile, mentre l'ira che perdura è detta mania e il fu­ rore è l'ira che prende tempo per vendicarsi». Quindi non sono specie distinte dell'ira. 2. Scrive Cicerone che «l'escandescenza in greco è detta thymosis; ed è un'ira che presto nasce e presto si smorza». Invece secondo il Damasceno la thymosis si identifica colfurore. Quindi non è vero che il furore prende tempo per vendicarsi, ma col tempo si smorza. 3. Gregorio stabilisce tre gradi nell'ira, e cioè «l'ira senza voce», «l'ira con grida» e «l'ira con parole espresse»; e ciò in base alle parole del Signore in Mt: Chiunque si adira contro il stw fratello, dove egli riscontra «l'ira senza voce»; nelle parole invece: Chi dice al fratel­ lo, stupido, trova un accenno all' «ira con gri­ da, ma senza vere parole espresse»; nell'e­ spressione infine: E chi gli dice, pazzo, trova che «la voce prende forma e perfezione di parola». Perciò la divisione del Damasceno è insufficiente, non tenendo conto della voce. In contrario: bastano i testi del Damasceno e di Gregorio Nisseno [Nemesio]. Risposta: le tre specie dell'ira determinate dal Damasceno e dal Nisseno sono desunte dagli elementi che danno all'ira il suo vigore. Ora, ciò può dipendere da tre cose. Primo, dalla facilità del suo moto: e quest'ira è detta bile per la facilità con cui si accende. Secondo, dalla tristezza, che causa un' ira perdurante nella memoria: e si ha così la mania, termine desunto da manere [rimanere]. TerLo, da ciò che l'adirato desidera, cioè dalla vendetta: e allora si ha il furore, che non si acquieta fin­ ché non punisce. Perciò il Filosofo, parlando degli adirati, alcuni li chiama acuti, perché pronti all'ira, altri amari, perché la ritengono

    Q. 46, A. 8

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    L 'ira in se stessa

    furorem, qui nunquam quiescit donec puniat. Unde philosophus, in 4 Ethic. [5,9-1 1], quos­ dam irascentium vocat acutos, quia cito ira­ scuntur; quosdam amaros, quia diu retinent iram; quosdam difficiles, quia nunquam quie­ scunt nisi puniant. Ad primum ergo dicendum quod omnia illa per quae ira recipit aliquam petfectionem, non om­ nino per accidens se habent ad iram. Et ideo ni­ hil prohibet secundum ea species irae assignari. Ad secundum dicendum quod e.xcandescentia, quam Tullius ponit, magis videtur pertinere ad primam speciem i rae, quae perfi citur secundum velocitatem irae, quam ad furorem. Nihil autem prohibet ut thymosis graece, quod latine fta·or dicitur, utrumque importet, et velocitatem ad irascendum et flrmitatem propositi ad puniendum. Ad tertium dicendum quod gradus illi irae di­ stinguuntur secundum effectum irae, non au­ tem secundum diversam perfectionem ipsius motus irae.

    QUAESTI0 47

    a lungo, altri infine difficili, perché non si acquietano finché non si sono vendicati. Soluzione delle difficoltà: l . Le cose da cui l'ira riceve un perfezionamento non sono del tutto accidentali per essa. Perciò nulla impedi­ sce che le specie dell'ira siano desunte da esse. 2. L' escandescenza di cui parla Cicerone sembra appartenere più alla prima specie dell'ira, desunta dalla facilità dell'ira mede­ sima, che al furore. Però nulla impedisce che il greco thymosis implichi sia la tàcilità del­ l ' adirarsi che la fermezza nel proposito di vendicarsi. 3. I tre gradi ricordati sono distinti tra loro in base agli effetti dell' ira, e non in base alla diversa perfezione del moto stesso della pas­ sione.

    QUESTIONE 47

    DE CAUSA EFFECTIVA IRAE, ET DE REMEDIIS EIUS

    LE CAUSE E I RIMEDI DELVIRA

    Deinde considerandum est de causa effectiva irae, et de remediis eius. Et circa hoc quae­ runtur quatuor. Primo, utrum semper moti­ vum irae sit aliquid tàctum contra eum qui irascitur. Secundo, utrum sola parvipensio vel despectio sit motivum irae. Tertio, de causa irae ex parte irascentis. Quarto, de causa irae ex parte eius contra quem aliquis irascitur.

    Passiamo a considerare le cause e i rimedi dell' ira. In proposito tratteremo quattro argo­ menti: l . Il movente dell' ira è sempre un'a­ zione compiuta contro chi si adira? 2. Può esserlo solo la disistima o il disprezzo? 3. Le cause dell'ira dalla parte del soggetto; 4. Le cause dell'ira dalla parte di chi la subisce.

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum semper motivum irae sit aliquid factum contra eum qui irascitur

    Il movente dell'ira è sempre un'azione compiuta contro chi si adira?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod non semper aliquis irascatur propter aliquid contra se factum. l . Homo enim, peccando, nihil contra Deum facere potest, dicitur enim Job 35 [6], si

    Sembra di no. Intàtti: l . L'uomo, peccando, non può fare nulla con­ tro Dio, infatti in Gb è detto: Se moltiplicherai

    multiplicatae fuerint iniquitates tuae, quidfa­ cies contra illwn? Dicitur tamen Deus irasci contra homines propter peccata; secundum il­ lud Psalmi 105 [40], iratus est furore Domi­ nus in populum suum. Ergo non semper ali­ quis irascitur propter aliquid contra se factum.

    i tuoi peccati, che danno gli arrecherai? E tuttavia Dio s i adira contro gli uomini pe r i loro peccati, secondo l'espressione del Sal:

    Il Signore si accese di ira contro il suo popolo. Quindi non sempre uno si adira per cose fatte contro di lui. 2. L'ira è il desiderio di vendicarsi. Ora, uno può volere la vendetta anche per offese fatte

    447

    Le cause e i rimedi dell 'ira

    2. Praeterea, ira est appetitus vindictae. Sed aliquis appetit vindictam facere etiam de his quae contra alios fiunt. Ergo non semper motivum irae est aliquid contra nos factum. 3. Praeterea, sicut philosophus dicit, in 2 Rhet. [2, 13], homines irascuntur praecipue contra eos

    qui despiciunt ea circa quae ipsi maxime stu­ dent, sicut qui student in philosophia, irascun­ tur contra eos qui philosophiam despiciunt, et simile est in aliis. Sed despicere philosophiam non est nocere ipsi studenti. Non ergo semper irascimur propter id quod contra nos fit. 4. Praeterea, ille qui tacet contra contumelian­ tem, magis ipsum ad iram provocat, ut dicit Chrysostomus [In Rom. h. 22] . Sed in hoc contra ipsum nihil agit, quod tacet. Ergo non semper ira alicuius provocatur propter aliquid quod contra ipsum fit. Sed contra est quod philosophus dicit, in 2 Rhet. [4,3 1 ] , quod ira fit semper ex his quae

    ad seipsum. Inimicitia autem et sine his quae ad ipsum, si enim putemus talem esse odimus. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 46 a. 6] dictum est, ira est appetitus nocendi alteri sub ratione iusti vindicativi. Vindicta autem locum non habet nisi ubi praecessit iniuria. Nec iniuria omnis ad vindictam provocat, sed illa sola quae ad eum pertinet qui appetit vindictam, sicut enim unumquodque naturali­ ter appetit proprium bonum, ita etiam naturali­ ter repellit proprium malum. Iniuria autem ab aliquo facta non pertinet ad aliquem, n i s i aliquid fecerit quod aliquo modo s i t contra ipsum. Unde sequitur quod motivum irae ali­ cuius semper sit aliquid contra ipsum factum. Ad primum ergo dicendum quod ira non dici­ tur in Deo secundum passionem animi, sed secundum iudicium iustitiae, prout vult vindic­ tam facere de peccato. Peccator enim, peccan­ do, Deo nihil nocere effective potest, tamen ex parte sua dupliciter contra Deum agit. Primo quidem, inquantum eum in suis mandatis con­ temnit. Secundo, inquantum nocumentum aliquod infert alicui, vel sibi vel alteri, quod ad Deum pertinet, prout ille cui nocumentum in­ fertur, sub Dei providentia et tutela continetur. Ad secundum dicendum quod irascimur con­ tra illos qui aliis nocent et vindictam appe­ timus, inquantum illi quibus nocetur, aliquo modo ad nos pertinent, vel per aliquam affini­ tatem, vel per amicitiam, vel saltem per com­ munionem naturae.

    Q. 47, A. l

    contro altri. Quindi non sempre il movente dell'ira è un'azione compiuta contro di noi. 3. n Filosofo scrive che gli uomini si adirano specialmente contro quelli «Che disprezzano le cose di cui essi si occupano di più: quanti p. es. studiano la filosofia, si adirano contro coloro che la disprezzano»; e lo stesso si dica delle altre cose. Ora, disprezzare la filosofia non è offendere chi la studia. Perciò non sem­ pre ci si adira per delle azioni compiute con­ tro di noi. 4. Chi risponde col silenzio ali' ingiuria provo­ ca maggiormente all'ira, come nota il Criso­ stomo. Ma col tacere non si fa nulla contro chi ingimia. Quindi non sempre l'ira è provocata da un'azione compiuta contro chi si adira. In contrario: i l Filosofo insegna che «l'ira ri­ guarda sempre cose che i nteressano noi. L' inimicizia invece ne prescinde: noi infatti odiamo una persona anche solo perché ha certe determinate caratteristiche». Risposta: come si è detto, l'ira è il desiderio di nuocere a un altro per giusta vendetta. Ora, non si concepisce una vendetta senza presup­ porre un'ingiustizia. Non tutte le ingiustizie tuttavia provocano la vendetta, ma solo quelle che toccano chi vuole vendicarsi: infatti cia­ scuno respinge per natura il proprio male, come per natura aspira al proprio bene. Ora, un' ingiustizia commessa da altri non ci ri­ guarda se in qualche modo non ci colpisce. Perciò il movente dell' ira è sempre un' azione compiuta contro chi si adira. Soluzione delle difficoltà: l . Si dice che in Dio c'è l' ira non come passione, ma come giusto giudizio, che mira a vendicare il peccato. Infatti il peccatore non può nuocere a Dio efficacemente; tuttavia per quanto sta in lui agisce in due modi contro Dio. Primo, perché ne disprezza le leggi. Secondo, perché nuoce ad altri o a se medesimo: e ciò interessa Dio, poiché il danneggiato è sotto la provvidenza e la tutela di Dio. 2. Ci adiriamo contro chi nuoce ad altri, e desideriamo vendicarci di lui, perché i colpiti in qualche modo ci riguardano: o per una certa affinità, o per amicizia, o almeno per la comunanza della natura. 3. La cosa di cui più ci occupiamo la conside­ riamo come un nostro bene. Perciò quando viene disprezzata pensiamo di essere disprez­ zati anche noi, e ci consideriamo offesi.

    Q. 47, A. l

    448

    Le cause e i rimedi dell 'ira

    Ad tertium dicendum quod id in quo maxime studemus, reputamus esse bonum nostrum. Et ideo, cum illud despicitur, reputamus nos quoque despici, et arbitramur nos laesos. Ad quartum dicendum quod tunc aliquis ta­ cens ad iram provocat iniuriantem, quando videtur ex contemptu tacere, quasi parvipendat alterius iram. Ipsa autem parvipensio quidam actus est.

    4. Chi risponde col silenzio provoca all'ira chi lo offende quando mostra di tacere per di­ sprezzo, non dando peso all'ira dell'altro. Ma la disistima è già un certo atto.

    Articulus 2

    Articolo 2

    Utrum sola parvipensio vel despectio sit motivum irae

    La disistima o disprezzo è l'unico movente dell'ira?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod non sola parvipensio vel despectio sit moti­ vum irae. l . Dicit enim Damascenus [De fide 2, 1 6] quod iniuriam passi, vel aestimantes pati, irascimur. Sed homo potest iniuriam pati etiam absque despectu vel parvipensione. Er­ go non sola parvipensio est irae motivum. 2. Praeterea, eiusdem est appetere honorem, et contristari de parvipensione. Sed bruta animalia non appetunt honorem. Ergo non contristantur de parvipensione. Et tamen in eis provocantr ira propter hoc quod vulnerantur, ut dicit philosophus, in 3 Ethic [8, 10]. Ergo non sola parvipensio videtur esse motivum irae. 3 . Praeterea, philosophus, i n 2 Rhet. [2,9.20.26], ponit multas alias causas irae, puta oblivionem, et exultationem in infor­ tuniis, denuntiationem malorum, impedi­ mentum consequendae propriae voluntatis. Non ergo sola parvipensio est provocativum irae. Sed contra est quod philosophus dicit, in 2 Rhet. [2, l ], quod ira est appetints cum tristitia punitionis, propter apparentem parvipensio­ nem non convenienterfactam. Respondeo dicendum quod omnes causae irae reducuntur ad parvipensionem. Sunt enim tres species parvipensionis, ut dicitur in 2 Rhet. [2,3], scilicet despectus, epereasmus, idest impedimentum voluntatis implendae, et contumeliatio, et ad haec tria omnia motiva irae reducuntur. Cuius ratio potest accipi du­ plex. - Prima est, quia ira appetit nocumentum alterius, inquantum habet rationem iusti vin­ dicativi, et ideo intantum quaerit vindictam, inquantum videtur esse iusta. Iusta autem vindicta non fit nisi de eo quod est iniuste

    Sembra di no. Infatti: l . II Damasceno afferma che «Ci si adira per­ ché si è subita un'ingiustizia, o si pensa di averla subita». Ora, si può subire un'ingiusti­ zia senza disprezzo o disistima. Quindi la di­ sistima non è il solo movente dell'ira. 2. Rattristarsi del disprezzo equivale a deside­ rare di essere rispettati . Ma gli animali non cercano il rispetto. Quindi non si rattristano del disprezzo. Tuttavia «in essi non manca l'ira, provocata dalle ferite», come nota il Fi­ losofo. Perciò il disprezzo non è il solo mo­ vente dell'ira. 3. n Filosofo indica molte altre cause dell'ira, e cioè «la dimenticanza, il gioire nelle disgra­ zie aluui, il rinfacciare il male, l'ostacolare il conseguimento del proprio volere». Quindi il disprezzo non è l'unico movente dell'ira. In contrario: il Filosofo scrive che l'ira è «una brama di punire, accompagnata da tristezza, a causa di una disistima che si pensa di non meritare». Risposta: tutte le cause dell'ira si riducono al­ Ia disistima. Ci sono infatti tre specie di disi­ stima, come insegna Aristotele, e cioè il di­ sprezzo, la vessazione, con cui si ostacola l'a­ dempimento del volere, e la contumelia: e a queste tre cose si riducono tutti i moventi del­ l'ira. E due sono le ragioni di questo fatto. Primo, perché l'ira cerca il danno di un altro come giusta vendetta: quindi in tanto cerca la vendetta in quanto si presenta come giusta. Ma non si può fare una vendetta giusta se non per un'ingiustizia: perciò il movente dell'ira è sempre qualcosa di ingiusto. Per cui il Filoso­ fo scrive che «se qualcuno pensa di aver subi­ to un danno giustamente, non si adira: infatti l'ira non sorge contro ciò che è giusto». Ora,

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    Le cause e i rimedi dell 'ira

    factum, et ideo provocativurn ad iram semper est aliquid sub ratione iniusti. Unde dicit phi­ losophus, in 2 Rhet. [3, 1 5], quod si homines

    putaverint eos qui laeserunt, esse iuste passos, non irascuntur, non enim fit ira ad iustum. Contingit autem tripliciter nocumentum alicui inferri, scilicet ex ignorantia, ex passione, et ex electione. Tunc autem aliquis maxime iniustum facit, quando ex electione vel indu­ stria, vel ex certa malitia nocumentum infert, ut dicitur in 5 Ethic. [8,8. 1 1 ] . Et ideo maxime irascimur contra illos quos putamus ex indu­ stria nobis nocuisse. Si enim putemus aliquos vel per ignorantiam, vel ex passione nobis intulisse iniuriam, vel non irascimur contra eos, vel multo minus, agere enim aliquid ex ignorantia vel ex passione, diminuit rationem iniuriae, et est quodammodo provocativum misericordiae et veniae. Illi autem qui ex industria nocumentum inferunt, ex contemptu peccare videntur, et ideo contra eos maxime irascimur. Unde philosophus dicit, in 2 Rhet. [3, 1 1], quod his qui propter iram aliquidfece­

    runt, aut non irascimur, aut minus irascimur, non enim propter parvipensionem videntur egisse. Secunda ratio est, quia parvipensio excellentiae hominis opponitur, quae enim homines putant nullo digna esse, parvipen­ dunt, ut dicitur in 2 Rhet. [2,3]. Ex omnibus -

    autem bonis nostris aliquam excellentiam quaerimus. Et ideo quodcumque nocumen­ tum nobis inferatur, inquantum excellentiae derogat, videtur ad parvipensionem pertinere. Ad primum ergo dicendum quod ex quacum­ que alia causa aliquis iniuriam patiatur quam ex contemptu, illa causa minuit rationem iniu­ riae. Sed solus contemptus, vel parvipensio, rationem irae auget. Et ideo est per se causa irascendi. Ad secundum dicendum quod, licet animai brutum non appetat honorem sub ratione honoris, appetit tamen naturaliter quandam excellentiam, et irascitur contra ea quae illi excellentiae derogant. Ad tertium dicendum quod omnes illae causae ad quandam parvipensionem reducuntur. Oblivio enim parvipensionis est evidens si­ gnum, ea enim quae magna aestimamus, ma­ gis memoriae infigimus. Similiter ex quadam parvipensione est quod aliquis non vereatur contristare aliquem, denuntiando sibi aliqua tristia. Qui etiam in infortuniis alicuius hilari-

    Q. 47, A. 2

    uno può procurare un danno in tre modi: per ignoranza, per passione e per libera scelta. Ma l 'ingiustizia massima sta nel danneggiare deliberatamente, e con vera malizia, come nota Aristotele. Quindi ci adiriamo soprattutto contro coloro che, a nostro giudizio, ci hanno fatto del male apposta. Se infatti riteniamo che qualcuno ci ha offesi per ignoranza o per passione, o non ci irritiamo con lui, o lo fac­ ciamo in tono minore: poiché l' ignoranza e la passione diminuiscono l'offesa, e in qualche modo spingono alla misericordia e al perdo­ no. Invece quelli che fanno del male delibera­ tamente mostrano di peccare per disprezzo: quindi ci irritiamo specialmente contro di loro. Per cui il Filosofo scrive che «contro co­ loro che hanno commesso qualcosa per ira o non ci irritiamo, o ci irritiamo di meno: essi mostrano infatti di non aver agito per disisti­ ma». - Secondo, perché la disistima si con­ trappone al prestigio personale: infatti, come dice Aristotele, «gli uomini disistimano ciò che reputano buono a nulla». Ora, da tutti i nostri beni noi ci attendiamo un certo presti­ gio. Quindi qualsiasi offesa ci venga fatta si riduce alla disistima o al disprezzo, in quanto colpisce il nostro prestigio. Soluzione delle difficoltà: l . Se uno patisce un torto per qualsiasi altra causa diversa dal disprezzo, tale causa dimi nui sce il torto medesimo. Invece solo il disprezzo o disisti­ ma accresce il movente dell'ira. Quindi è di per sé la causa dell'ira. 2. Sebbene l' animale non brami l' onore come tale, tuttavia cerca una certa prestanza, e si irrita contro le cose che la compromettono. 3. Tutte le cause suddette si riducono al di­ sprezzo. La dimenticanza, p. es., è un segno evidente di disistima: infatti le cose che sti­ miamo importanti le imprimiamo maggior­ mente nella memoria. E similmente deriva dal disprezzo il non temere di contristare qualcu­ no, rinfacciandogli cose dolorose. E anche chi nelle disgrazie di qualcuno dà segni di con­ tentezza mostra di curarsi poco del bene o del male del prossimo. E così pure chi impedisce a un altro di attuare il suo proposito, senza che gliene venga un vantaggio personale, mostra di non preoccuparsi molto della sua amicizia. Perciò tutte queste cose sono incen­ tivi dell'ira in quanto sono segni di disprezzo.

    Q. 47, A. 2

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    Le cause e i rimedi del/ 'ira

    tatis signa ostendit, videtur parum curare de bono vel malo eius. Similiter etiam qui impe­ dit aliquem a sui propositi assecutione, non propter aliquam utilitatem sibi inde prove­ nientem, non videtur multum curare de amici­ tia eius. Et ideo omnia talia, inquantum sunt signa contemptus, sunt provocativa irae. Articulus 3

    Articolo 3

    Utrum excellentia irascentis sit causa irae

    Veccellenza di chi si adira è la causa del suo sdegno?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod excellentia alicuius non sit causa quod facilius irascatur. l . Dicit enim philosophus, in 2 Rhet. [2,9], quod maxime aliqui irascuntur cum tristantur;

    Sembra di no. Infatti: l . n Filosofo scrive che «alcuni sono irritabili al massimo quando soffrono: così i malati, i poveri e i delusi nei loro desideri». Ma tutte queste cose sono dei difetti. Quindi i difetti rendono inclini all'ira più dell'eccellenza. 2. Il Filosofo aggiunge che «alcuni sono irri­ tabili al massimo quando si può sospettare che in essi non ci sia una perfezione, o ci sia un difetto; quando invece pensano di eccelle­ re nelle cose in cui vengono disprezzati, non vi fanno caso». Ora, questo sospettare è dovu­ to a una deficienza. Quindi i difetti sono cau­ sa dell' ira più dell'eccellenza. 3. Le cose che contribuiscono alla propria prestanza sono quelle che rendono più affabi­ li e fiduciosi. Ora, il Filosofo afferma che «nel gioco, nel riso, nelle feste, nella prospe­ rità, nella riuscita delle loro imprese, nei go­ dimenti onesti e nella piena fiducia, gli uomi­ ni non si adirano». Quindi l 'eccellenza non causa l ' ira. In contrario: il Filosofo insegna che gli uomi­ ni si adirano per la loro prestanza. Risposta: in due modi si può considerare la causa dell'ira dalla parte del soggetto che si adira. Primo, in base al rapporto col movente dell' ira. E allora l'eccellenza personale è la causa per cui uno facilmente si adira. Infatti il movente dell' ira è, come si è detto, il disprez­ zo ingiusto. Ora, è evidente che quanto più uno è eccellente, pitt è ingiusto che venga disprezzato in ciò che lo distingue. Perciò quelli che eccellono in qualcosa si irritano al massimo se vengono in ciò disprezzati: come fa il ticco disprezzato nelle sue ricchezze, l 'oratore disprezzato nell' oratoria e così via. Secondo, la causa dell' ira dalla parte del sog­ getto che si adira può essere considerata in base alla disposizione che viene lasciata in lui

    ut infirmi, et egentes, et qui non habent id quod concupiscunt. Sed ornnia ista ad defec­

    tum pertinere videntur. Ergo magis facit pro­ num ad iram defectus quam excellentia. 2. Praeterea, philosophus dicit ibidem [Rhet. 2,2, 1 4] quod tunc aliqui maxime irascuntur;

    quando in eis despicitur id de quo potest esse suspicio quod vel non insit eis, vel quod insit eis debiliter; sed cum putant se multum excel­ lere in illis in quibus despiciuntur; non curant. Sed praedicta suspicio ex defectu provenit. Ergo defectus est magis causa quod aliquis irascatur, quam excellentia. 3. Praeterea, ea quae ad excellentiam perti­ nent, maxime faciunt homines iucundos et bonae spei esse. Sed philosophus dicit, in 2 Rhet. [3 , 1 2] , quod in ludo, in risu, in festo, in

    prosperitate, in consummatione operum, in delectatione non turpi, et in spe optima, homines non irascuntur. Ergo excellentia non

    est causa irae. Sed contra est quod philosophus, i n eodem libro [Rhet. 2,9, 1 . 1 2] , dicit quod homines propter excellentiam indignantur. Respondeo dicendum quod causa irae in eo qui irascitur, dupliciter accipi potest. Uno modo, secundum habitudinem ad motivum irae. Et sic excellentia est causa ut aliquis de facili irascatur. Est enim motivum irae iniusta parvipensio, ut dictum est [a. 2] . Constat autem quod quanto aliquis est excellentior, iniustius parvipenditur in hoc in quo excellit. Et ideo illi qui sunt i n aliqua excellentia, maxime irascuntur, si parvipendantur, puta si dives parvipenditur in pecunia, et rhetor in

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    Le cause e i rimedi dell 'ira

    Q. 47, A. 3

    loquendo, et sic de aliis. - Allo modo potest considerari causa irae in eo qui irascitur, ex parte dispositionis quae in eo relinquitur ex tali motivo. Manifestum est autem quod nihil mo­ vet ad iram, nisi nocumentum quod contristat. Ea autem quae ad defectum pertinent, maxi­ me sunt contristantia, quia homines defecti­ bus subiacentes facilius laeduntur. Et ista est causa quare homines qui sunt infirmi, vel in aliis defectibus, facilius irascuntur, quia faci­ lius contristantur. Et per hoc patet responsio ad primum. Ad secundum dicendum quod ille qui despi­ citur in eo in quo manifeste multum excellit, non reputat se aliquam iacturam pati, et ideo non contristatur, et ex hac parte minus irasci­ tur. Sed ex alia parte, inquantum indignius despicitur, habet maiorem rationem irascendi. Nisi forte reputet se non invideri vel subsan­ nari propter despectum; sed propter ignoran­ tiam, vel propter aliud huiusmodi. Ad tertium dicendum quod omnia illa impe­ diunt iram, inquantum impediunt tristitiam. Sed ex alia parte, nata sunt provocare iram, secundum quod faciunt hominem inconve­ nientius despici.

    da tale movente. È chiaro, infatti, che l'unica cosa capace di muovere all' ira è un danno che rattrista. Ora, le cose più rattristanti si riduco­ no a dei difetti: poiché quando gli uomini sono minorati si affliggono con più facilità. E questo è il motivo per cui i malati e gli infelici sono più portati all'ira: perché si addolorano con più facilità. , Soluzione delle difficoltà: l . E così risolta la ptima difficoltà. 2. Chi è disprezzato in cose dove eccelle par­ ticolarmente non ritiene di subire alcun dan­ no, per cui non si rattrista: e da questo lato ha meno motivo di adirarsi. Dall'altro lato inve­ ce, in quanto viene disprezzato più ingiusta­ mente, ne avrebbe un maggior motivo. A me­ no che egli non pensi di essere malvisto o deriso non per disprezzo, ma per ignoranza, o per altre cose del genere. 3. Tutte le cose indicate impediscono l 'ira in quanto impediscono la tristezza. Ma da un altro lato sono fatte per provocare l'ira, giac­ ché rendono più irragionevole il disprezzo.

    Articulus 4 Utrum defectus alicuius sit causa ut contra eum facilius irascamur

    Articolo 4 La causa per cui più facilmente ci irritiamo con qualcuno sono i suoi difetti?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod de­ fectus alicuius non sit causa ut contra ipsum facilius irascamur. l . Dicit enim philosophus, in 2 Rhet. [3,5], quod his qui confitentur et poenitent et humi­

    liantw; non irascimur, sed magis ad eos mitescimus. Unde et canes non mordent eos qui resident. Sed haec pertinent ad parvitatem et defectum. Ergo parvitas alicuius est causa ut ei minus irascamur. 2. Praeterea, nullus est maior defectus quam mortis. Sed ad mortuos desinit ira. Ergo defectus alicuius non est causa provocativa irae contra ipsum. 3. Praeterea, nullus aestimat aliquem parvum ex hoc quod est sibi arnicus. Sed ad arnicos, si nos offenderint, vel si non iuverint, magis offendimur, unde dicitur in Psalmo 54 [ 1 3], si

    inimicus meus maledixisset mihi, sustinuis­ sem utique. Ergo defectus alicuius non est causa ut contra ipsum facilius irascamur.

    Sembra di no. Infatti: l . Scrive il Filosofo che «non ci irritiamo, ma piuttosto ci calmiamo contro quelli che confessano, si pentono e si umiliano. Del resto anche i cani non mordono quelli che siedono». Ora, questi atti si riducono a difet­ ti o privazioni. Quindi la bassezza del sog­ getto attenua la nostra ira contro chi ci fa inquietare. 2. Non c'è difetto più grave della morte. Ma contro i morti l ' ira finisce. Quindi non sono incentivi dell'ira i difetti di chi la provoca. 3. Nessuno considera minore qualcuno per­ ché è suo amico. Ora, con gli amici ci irritia­ mo maggiormente se ci offendono o non ci aiutano: infatti nel Sal è detto: Se mi avesse insultato un nemico, l 'avrei sopportato. Per­ ciò non sono causa di maggiore irritazione i difetti di chi ci fa inquietare. In contrario: il Filosofo scrive che «il ricco si

    Q. 47, A. 4

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    Le cause e i rimedi dell 'ira

    Sed contra est quod philosophus dicit, in 2 Rhet. [2,7], quod dives irascitur contra pau­

    perem si eum despiciat; et principans contra subiectum. Respondeo dicendum quod, sicut supra [aa. 2-3] dictum est, indigna despectio est maxime provocativa irae. Defectus igitur vel parvitas eius contra quem irascimur, facit ad augmen­ tum irae, inquantum auget indignam despec­ tionem. Sicut enim quanto aliquis est maior, tanto indignius despicitur; ita quanto aliquis est minor, tanto indignius despicit. Et ideo nobiles irascuntur si despiciantur a rusticis, vel sapientes ab insipientibus, vel domini a servis. - Si vero parvitas vel defectus dimi­ nuat despectionem indignam, talis parvitas non auget, sed diminuit iram. Et hoc modo illi qui poenitent de iniuriis factis, et confitentur se male fecisse, et humiliantur et veniam pe­ tunt, mitigant iram, secundum illud Prov. 1 5 [ l ], responsio mollis frangit iram, inquantum scilicet tales videntur non despicere, sed ma­ gis magnipendere eos quibus se humiliant. Et per hoc patet responsio ad primum. Ad secundum dicendum quod duplex est causa quare ad mortuos cessat ira. Una, quia non possunt dolere et sentire, quod maxime quaerunt irati in bis quibus irascuntur. Alio modo, quia iam videntur ad ultimum malorum pervenisse. Unde etiam ad quoscumque gravi­ ter laesos cessat ira, inquantum eorum malum excedit mensuram iustae retributionis. Ad tertium dicendum quod etiam despectio quae est ab amicis, videtur esse magis indigna. Et ideo ex simili causa magis irascimur contra eos, s i despiciant, vel nocendo vel non iuvando, sicut et contra minores.

    adira contro il povero, se ne è disprezzato; e chi comanda contro il suddito». Risposta: abbiamo già detto che il disprezzo ingiusto è la causa che più provoca l'ira. Ora, il difetto o la piccolezza di chi ci fa inquietare contribuisce all' aumento dell' ira, poiché au­ menta l'ingiustizia del disprezzo. Se infatti è vero che più uno è superiore, più ingiustamen­ te viene disprezzato, è anche vero che più uno è inferiore, più ingiustamente disprezza. Per­ ciò i nobili si irritano se sono disprezzati dal volgo, i sapienti se disprezzati dagli ignoranti, i padroni dai servi. - Se invece l'inferiorità o il difetto, attenua l ' i ngiusto disprezzo, allora l'inferiorità non fa crescere l 'ira, ma piuttosto la fa diminuire. E in questo modo quelli che si pentono delle offese fatte, confessano di aver fatto male e si umiliano chiedendo perdono, calmano l' ira, secondo l' espressione di Pr: Una risposta dolce calma la collera; e ciò per­ ché essi mostrano non disprezzo, ma stima per coloro di fronte ai quali si umi)iano. Soluzione delle difficoltà: l . E così risolta an­ che la prima difficoltà. 2. Duplice è il motivo per cui cessa l 'ira verso i morti. Primo, perché essi non possono sof­ frire e sentire: il che è invece la cosa che più cerca chi è adirato in chi lo fa adirare. Secon­ do, perché i morti sembrano aver raggiunto l' estremo dei mali. Infatti l' ira cessa verso chiunque sia gravemente colpito: poiché i l loro male sorpassa la misura di u n a giusta vendetta. 3. Anche il disprezzo degli amici si presenta più ingiusto. Perciò, come contro gli inferiori, così anche contro di loro ci irritiamo mag­ giormente, quando ci disprezzano facendoci del male o negandoci un aiuto.

    QUAESTI0 48

    QUESTIONE 48

    DE EFFECTffiUS IRAE

    GLI EFFETTI DELL'IRA

    Deinde considerandum est de effectibus irae. Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, utrum ira causet delectationem. Secundo, utrum ma­ xime causet fervorem in corde. Tertio, utrum maxime impediat rationis usum. Quarto, utrum causet tacitumitatem.

    Dobbiamo infine trattare degli effetti dell'ira. Sull' argomento si pongono quattro quesiti: l . L' ira causa un godimento? '].. Causa nel cuore il massimo di ardore? 3. E il più grave ostacolo per l' uso della ragione? 4. Fa ammu­ tolire?

    Gli effetti dell 'ira

    453

    Q. 48, A. l

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum ira causet delectationem

    Vira causa un godimento?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod ira non causet delectationem. l . Tristitia enim delectationem excludit. Sed ira est semper cum tristitia, quia, ut dicitur in 7 Ethic. [6,4] , omnis qui facit aliquid per iram, facit tristatus. Ergo ira non causat de­ lectationem. 2. Praeterea, philosophus dicit, i n 4 Ethic. [5, 1 0] , quod punitio quietai impetum irae, delectationem pro tristitia faciens, ex quo potest accipi quod delectatio irato provenit ex punitione, punitio autem excludit iram. Ergo, adveniente delectatione, ira tollitur. Non est ergo effectus delectationi coniunctus. 3. Praeterea, nullus effectus impedit causam suam, cum sit suae causae conformis. Sed de­ lectationes impediunt iram, ut dicitur in 2 Rhet. [3, 1 2]. Ergo delectatio non est effectus irae. Sed contra est quod philosophus, in eodem li­ bro [Rhet. 2,2,2], inducit proverbium [Home­ ri, lliad. 1 8, l 09], quod ira multo dulcior melle

    Sembra di no. Infatti: l . La tristezza è incompatibile col godimento. Ma l' ira implica sempre la tristezza: poiché, come dice Aristotele, «chi fa una cosa per ira, la fa con tristezza». Quindi l'ira non causa un godimento. 2. TI Filosofo afferma che «la punizione ferma l'impeto dell' ira, sostituendo il piacere alla tristezza» : dal che si deduce che il piacere deriva dalla punizione. La punizione, però, toglie l'ira. Per cui l'ira cessa quando viene il piacere. Quindi non gli è congiunta. 3. Nessun effetto è di ostacolo alla propria causa, essendo ad essa conforme. Invece i pia­ ceri impediscono l'ira, come nota Aristotele. Quindi il piacere non è un effetto dell' ira. In contrario: il Filosofo nel medesimo libro rife­ risce quel detto: «L'ira molto più dolce del mie­ le stillante si diffonde nel petto degli uomini». Risposta: come nota il Filosofo, i piaceri, spe­ cialmente quelli sensibili e materiali, sono come delle medicine contro il dolore: perciò più grande è il dolore o l'angoscia che il godi­ mento è chiamato a lenire, più questo si fa sentire: più uno ha sete, p. es., e più gusta la bevanda. Om è evidente, da quanto abbiamo detto, che il moto dell' ira sorge da un' ingiuria che rattrista, e il cui rimedio è la vendetta. Perciò ali' atto della vendetta segue un godi­ mento, e tanto maggiore quanto più grave era stato il dolore. Se quindi la vendetta è già in atto si ha un godimento perfetto, che esclude del tutto la tristezza e acquieta il moto dell'i­ ra. Prima invece che la vendetta si attui nella realtà esso diviene presente a chi è adirato in due modi. Primo, mediante la speranza: poi­ ché, come si è visto, non ci si adira senza la speranza di vendicarsi. Secondo, mediante un pensiero insistente. Infatti chi ha un desiderio gode nel pensare a lungo a ciò che desidera: per cui sono piacevoli anche le immaginazio­ ni dei sogni. E così quando colui che è adirato continua a pensare dentro di sé alla vendetta, ne prova piacere. Tuttavia non è un godimen­ to perfetto, che escluda la tristezza, e quindi . l' rra. Soluzione delle difficoltà: l . Chi è adirato gode e si rattrista, ma non della stessa cosa: si rattrista infatti dell' offesa ricevuta, e gode

    distillante in pectoribus vironun crescit. Respondeo dicendum quod, sicut philosophus dicit in 7 Ethic. [14,4], delectationes, maxime sensibiles et corporales, sunt medicinae quaedam contra tristitiam, et ideo quanto per delectationem contra maiorem tristitiam vel an­ xietatem remedium praestatur, tanto delectatio magis percipitur; sicut patet quod quando aliquis sitit, delectabilior fit ei potus. Mani­ festum est autem ex praedictis [q. 47 aa. 1 .3] quod motus irae insurgit ex aliqua illata iniuria contristante; cui quidem tristitiae remedium adhibetur per vindictam. Et ideo ad praesen­ tiam vindictae delectatio sequitur, et tanto maior, quanto maior fuit tristitia. Si igitur vindicta fuerit praesens realiter, fit perfecta delectatio, quae totaliter excludit tristitiam, et per hoc quietat motum irae. Sed antequam vindicta sit praesens realiter, fit irascenti praesens dupliciter. Uno modo, per spero, quia nullus irascitur nisi sperans vindictam, ut supra [q. 46 a. l ] dictum est. Alio modo, secundum continuam cogitationem. Unicuique enim concupiscenti est delectabile immomri in cogi­ tatione eorum quae concupiscit, propter quod etiam imaginationes somniorum sunt delecta­ biles. Et ideo, cum iratus multum in animo suo cogitet de vindicta, ex hoc delectatur. Tamen

    Gli effetti dell 'ira

    Q. 48, A. l

    delectatio non est perfecta, quae tollat tristitiam, et per consequens iram. Ad primum ergo dicendum quod non de eodem iratus tristatur et gaudet, sed tristatur de illata iniuria, delectatur autem de vindicta cogitata et sperata. Unde tristitia se habet ad iram sicut principium, sed delectatio sicut effectus vel terminus. Ad secundum dicendum quod obiectio illa procedit de delectatione quae causatur ex reali praesentia vindictae, quae totaliter tollit iram. Ad tertium dicendum quod delectationes praecedentes impediunt ne sequatur tristitia; et per consequens i mpediunt iram. Sed delectatio de vindicta consequitur ipsam.

    454

    della vendetta pensata e sperata. Perciò il do­ lore si rapporta ali' ira come sua causa; il godimento invece come effetto o termine. 2. L'argomento vale per il godimento prodot­ to dalla reale attuazione della vendetta, il quale elimina totalmente l'ira. 3. I piaceri antecedenti impediscono il produr­ si della tristezza, e quindi dell'ira. Ma il godi­ mento della vendetta è conseguente all'ira.

    Articulus 2

    Articolo 2

    Utrum ira maxime causet fervorem in corde

    L'ira accende al massimo l'ardore del cuore?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod fervor non sit maxime effectus irae. l . Fervor enim, sicut supra [q. 28 a. 5 ad 1 -3 ; q . 3 7 a . 2 ] dictum est, pertinet ad amorem. Sed amor, sicut supra [q. 27 a. 4; q. 28 a. 6 ad 2; q. 41 a. 2 ad l ] dictum est, principium est et causa omnium passionum. Cum ergo causa sit potior effectu, videtur quod ira non faciat maxime fervorem. 2. Praeterea, illa quae de se excitant fervorem, per temporis assiduitatem magis augentur, sicut amor diutumitate convalescit. Sed ira per tractum temporis debilitatur, dicit enim philo­ sophus, in 2 Rhet. [3, 12], quod tempus quieta! iram. Ergo ira non proprie causat fervorem. 3. Praeterea, fervor additus fervori, augmentat fervorem. Sed maior ira superveniens facit iram mitescere, ut philosophus dicit, in 2 Rhet. [3, 1 3]. Ergo ira non causat fervorem. Sed contra est quod Damascenus dicit [De fide 2,16], quod ira est fervor eius qui circa cor est sanguinis, ex evaporationefellis fiens. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [q. 44 a. l], corporalis transmutatio quae est in passionibus animae, proportionatur motui appetitus. Manifestum est autem quod quili­ bet appetitus, etiam naturalis, fortius tendit in id quod est sibi contrarium, si fuerit praesens, unde videmus quod aqua calefacta magis congelatur, quasi frigido vehementius in cali­ dum agente. Motus autem appetitivus irae causatur ex aliqua i niuria illata, sicut ex

    Sembra di no. Infatti: l . Abbiamo già detto che l'ardore è proprio dell' amore. Ma abbiamo anche notato che l'amore è il principio e la causa di tutte le pas­ sioni. Ora, essendo la causa maggiore dell'ef­ fetto, sembra che l'ira non possa produrre il massimo ardore. 2. Le cose che di per sé eccitano l'ardore aumentano col tempo: come l' amore, col pro­ lungarsi, aumenta. Invece l'ira con l'andar del tempo si smorza: infatti il Filosofo nota che «il tempo calma l'ira». Quindi l'ira non è pro­ priamente causa dell'ardore. 3. Un calore, aggiungendosi a un altro calore, lo rafforza. Invece, come scrive il Filosofo, «col sopraggiungere di un'ira più grande, l'ira si attenua». Perciò l'ira non causa il calore. In contrario: il Damasceno dice: «L'ira è l'ar­ dore del sangue intorno al cuore, prodotto dall'evaporazione del fiele». Risposta: come si è già detto, l'alterazione fisiologica che accompagna le passioni corri­ sponde al moto dell'appetito. Ora, è noto che qualsiasi appetito, anche quello naturale, ten­ de con più forza verso il suo contrario quando esso è presente: per cui vediamo che l'acqua calda si congela maggiormente, perché allora il freddo agisce sul caldo con più vigore. Ora, il moto appetitivo dell 'ira è causato dall'in­ giustizia ricevuta come dalla presenza di un elemento contrario. Perciò l' appetito tende con tutte le sue forze a respingere l'ingiustizia

    455

    Gli effetti dell 'ira

    quodam contrario iniacente. Et ideo appetitus potissime tendit ad repellendum iniuriam per appetitum vindictae, et ex hoc sequitur magna vehementia et impetuositas in motu irae. Et quia motus irae non est per modum retractio­ nis, cui proportionatur frigus; sed magis per modum insecutionis, cui proportionatur calar; consequenter fit motus irae causativus cuius­ dam fervoris sanguinis et spirituum circa cor, quod est instrumentum passionum animae. Et exinde est quod, propter magnam perturbatio­ nem cordis quae est in ira, maxime apparent in iratis indicia quaedam in exterioribus mem­ bris. Ut enim Gregorius dicit, in 5 Mor. [45],

    irae suae stimulis accensum cor palpitat, corpus tremit, lingua se praepedit, facies ignescit, e.xasperantur oculi, et nequaquam recognoscuntur noti, ore quidem clamorem fonnat, sed sensus quid loquatur, ignorar. Ad primum ergo dicendum quod amor ipse non ita sentitur, nisi cum eum prodit indigentia, ut Augustinus dicit, in 10 De Trin. [ 12] . Et ideo quando homo patitur detrimentum ama­ tae excellentiae propter iniuriam illatam, magis sentitur amor; et ideo ferventius cor mutatur ad removendum impedimentum rei amatae; ut sic fervor ipse amoris per iram crescat, et magis sentiatur. - Et tamen fervor qui consequitur calorem, alia ratione pertinet ad amorem, et ad iram. Nam fetvor am01is est cum quadam dulcedine et lenitate, est enim in bonum amatum. Et ideo assimilatur calori aeris et sanguinis, propter quod, sanguinei sunt magis amativi; et dicitur quod cogit ama­ re iecur, in quo fit quaedam generatio sangui­ nis. - Fervor autem irae est cum amaritudine, ad consumendum, quia tendit ad punitionem contrarii . Unde assimilatur calori ignis et cholerae, et propter hoc Damascenus dicit [De fide 2, 1 6] quod procedit ex evaporatione

    fellis, etfellea nominatur. Ad secundum dicendum quod omne i l lud cuius causa per tempus diminuitur, necesse est quod tempore debilitetur. Manifestum est autem quod memoria tempore diminuitur, quae enim antiqua sunt, a memoria de facili excidunt. Ira autem causatur ex memoria iniuriae illatae. Et ideo causa irae per tempus paulatim diminui tur, quousque totaliter tollatur. Maior etiam videtur iniuria quando primo sentitur; et paulatim diminuitur eius aestimatio, secundum quod magis receditur a

    Q. 48, A. 2

    con la brama della vendetta: da cui la vivacità e la violenza del moto dell' ira. E poiché il moto dell'ira non è una fuga, a cui corrispon­ de il freddo, ma è piuttosto un' aggressione, a cui corrisponde il calore, il moto dell'ira pro­ voca un certo ardore del sangue e degli spiriti vitali i ntorno al cuore, che è lo strumento delle passioni dell'anima. Ed è per questo che soprattutto in chi si adira appaiono, per la grande agitazione del cuore, certi segni nelle membra esterne. Infatti, come scrive Grego­ rio, «acceso dall'impulso dell'ira il cuore pal­ pita, il corpo trema, la lingua si inceppa, il volto si infiamma, gli occhi si stravolgono e non si riconoscono più le persone; con la bocca uno emette delle grida, ma non sa più ciò che dice». Soluzione delle difficoltà: l . Come nota Ago­ stino, «anche l' amore non è mai sentito così intensamente come quando lo rivela l ' assen­ za>> [di ciò che si ama] . Perciò, quando si fa torto a un bene che noi amiamo, i l nostro amore diviene più sensibile: e così il cuore si accende maggiormente per rimuovere gli osta­ coli, per cui l'ira rende più forte e più sensibile l'ardore stesso deli' amore. - Tuttavia l'ardore che segue al calore non appartiene allo stesso modo all'amore e all'ira. Infatti l'ardore del­ l' amore è dolce e soave, avendo per oggetto il bene amato. Per cui è paragonato al calore dell'aria e del sangue: infatti i temperamenti sanguigni sono più portati ad amare; e si dice che «il fegato forza ad amare» perché in esso si riproduce il sangue. - Invece l'ardore dell'i­ ra è amaro, e tende alla consunzione: poiché tende a punire. Per cui è paragonato al calore del fuoco e del fiele: per questo il Damasceno dice che l' ira «deriva dall' evaporazione della bile, ed è detta biliosa>>. 2. Quanto dipende da una causa che si esauri­ sce col tempo è necessariamente soggetto a ridursi col tempo. Ora, è evidente che l a memoria diminuisce col passare del tempo: infatti le cose troppo lontane nel tempo ven­ gono dimenticate con facilità. Ma l' ira è cau­ sata dal ricordo di un'offesa ricevuta. Perciò la causa dell'ira diminuisce col tempo, finché non cessa totalmente. Inoltre un'offesa sem­ bra più grave da principio, e un po' per volta la sua percezione diminuisce, più ci si allonta­ na dalla prima impressione dell' offesa. E lo stesso si dica del l ' amore, se l a sua causa

    Gli effetti dell 'ira

    Q. 48, A. 2

    praesenti sensu iniuriae. Et similiter etiam est de amore, si amoris causa remaneat in sola memoria, unde philosophus dicit, in 8 Ethic. [5, 1 ], quod si diuturna fiat amici absentia, videtur amicitiae oblivionem facere. Sed in praesentia amici, semper per tempus multipli­ catur causa amicitiae, et ideo amicitia crescit. Et similiter esset de ira, si continue multipli­ caretur causa ipsius. - Tamen hoc ipsum quod ira cito consumitur, attestatur vehementi fer­ vori ipsius. Sicut enim ignis magnus cito ex­ tinguitur, consumpta materia; ita etiam ira, propter suam vehementiam, cito deficit. Ad tertium dicendum quod omnis virtus divi­ sa in plures partes, diminuitur. Et ideo quando aliquis iratus alicui, irascitur postmodum alteri, ex hoc ipso diminuitur ira ad primum. Et praecipue si ad secundum fuerit maior ira, nam iniuria quae excitavit iram ad ptimum, videbitur, comparatione secundae iniuriae, quae aestimatur maior, esse parva vel nulla.

    456

    rimane solo nel ricordo: infatti il Filosofo scrive che «se l'assenza dell'amico si prolun­ ga, produce la dimenticanza dell'amicizia». Se invece l'amico è presente, la causa dell'a­ micizia viene sempre a crescere. E lo stesso sarebbe per l'ira, se continuamente se ne pro­ lungasse la causa. - Tuttavia il fatto stesso che l' ira rapidamente si consuma ne mostra la violenza dell'ardore. Come i nfatti un gran fuoco, divorando il combustibile, rapidamente si estingue, così l'ira per la sua violenza rapi­ damente si smorza. 3. Ogni energia divisa in più parti diminuisce. E così quando chi è adirato con uno si adira con un altro, per ciò stesso sente diminuire l'ira verso il primo. E specialmente se l'ira contro il secondo è più grave: infatti in questo caso l'offesa che ha provocato l'ira verso il primo sembra poca cosa o nulla in confronto alla seconda, ritenuta maggiore.

    Articulus 3

    Articolo 3

    Utrum ira maxime impediat rationis usum

    Vira è il massimo impedimento per l'uso della ragione?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod ira non impediat rationem. l . Illud enim quod est cum ratione, non vide­ tur esse rationis impedimentum. Sed ira est cum ratione, ut dicitur in 7 Ethic. [6, 1 ] . Ergo ira non impedit rationem. 2. Praeterea, quanto magis i mpeditur ratio, tanto diminuitur manifestatio. Sed philoso­ phus dicit in 7 Ethic. [6,3], quod iracundus non est insidiatm; sed manifestus. Ergo ira non videtur impedire usum rationis, sicut concu­ piscentia; quae est insidiosa, ut ibidem dicitur. 3. Praeterea, iudicium rationis evidentius fit ex adiunctione contrarii, quia contraria iuxta se posita magis elucescunt. Sed ex hoc etiam crescit ira, dicit enim philosophus, in 2 Rhet. [2, 1 6] , quod magis homines irascuntut; si contraria praeexistunt, sicut lumorati si deho­ norentur; et sic de aliis. Ergo ex eodem et ira crescit, et iudicium rationis adiuvatur. Non ergo ira impedit iudicium rationis. Sed contra est quod Gregorius dici t, in 5 Mor. [45], quod ira intelligentiae lucem subtrahit, cum mentem permovendo confimdit. Respondeo dicendum quod mens vel ratio quamvis non utatur organo corporali in suo

    Sembra di no. Infatti: l . Ciò che implica la ragione sembra che non le possa essere di ostacolo. Ma «l'ira implica la ragione», come dice Aristotele. Quindi non può esserle di ostacolo. 2. Più si ostacola la ragione e più diminuisce la chiarezza. Ora, il Filosofo afferma che «l'iracondo non è insidioso, ma aperto». Per­ ciò l'ira non impedisce l'uso della ragione al pari della concupiscenza, che invece, come egli aggiunge, è insidiosa. 3. Il giudizio della ragione diviene più eviden­ te ravvicinando i contrari: poiché i contrari posti l'uno accanto all'altro si distinguono più chiaramente. Ma anche l'ira cresce in questo modo: infatti il Filosofo scrive che «gli uomi­ ni si adirano maggiormente per le situazioni precedenti contrarie: come quando, essendo prima onorati, vengono disonorati». Quindi l'ira cresce con ciò che aiuta il giudizio della ragione. E così l'ira non può ostacolarlo. In contrario: Gregorio dice: «L'ira toglie la lu­ ce all'intelligenza, confondendo la mente col turbamento». Risposta: la mente, o ragione, non si serve di un organo corporeo nel proprio atto; tuttavia

    457

    Gli effetti dell 'ira

    proprio actu; tamen, quia indiget ad sui actum quibusdam viribus sensitivis, quorum actus impediuntur corpore perturbato; necesse est quod perturbationes corporales etiam iudi­ cium rationis impediant, sicut patet in ebrieta­ te et somno. Dictum est autem [a. 2] quod ira maxime facit perturbationem corporalem cir­ ca cor, ita ut etiam usque ad exteriora membra derivetur. Unde ira, inter ceteras passiones, manifestius impedit iudicium rationis; secun­ dum illud Psalmi 30 [ I O], conturbatus est in ira oculus meus. Ad primum ergo dicendum quod a ratione est principium irae, quantum ad motum appetiti­ vum, qui est formalis in ira. Sed perfectum iudicium rationis passio irae praeoccupat quasi non perfecte rationem audiens, propter commotionem caloris velociter impellentis, quae est materialis in ira. Et quantum ad hoc, impedit iudicium rationis. Ad secundum dicendum quod iracundus di­ citur esse manifestus, non quia manifestum sit sibi quid facere debeat, sed quia manifeste operatur, non quaerens aliquam occultatio­ nem. Quod partim contingit propter impedi­ mentum rationis, quae non potest discernere quid sit occultandum et quid manifestandum, nec etiam excogitare occultandi vias. Partim vero est ex ampliatione cordis, quae pertinet ad magnanimitatem, quam facit ira, unde et de magnanimo philosophus dicit, in 4 Ethic. [3,28], quod est manifestus oditor et amator et manifeste dicit et operatur. Concupiscentia autem dicitur esse latens et insidiosa, quia, ut plurimum, delectabilia quae concupiscuntur, habent turpitudinem quandam et mollitiem, in quibus homo vult latere. In bis autem quae sunt virilitatis et excellentiae, cuiusmodi sunt vindictae, quaerit homo manifestus esse. Ad tettium dicendum quod, sicut dictum est [ad 1 ], motus irae a ratione incipit, et ideo secundum idem appositio contrarli ad contra­ rium adiuvat iudicium rationis, et auget iram. Cum enim aliquis habet honorem vel divitias, et postea incurrit alicuius detrimentum, illud detrimentum apparet maius, tum propter vici­ nitatem contrarii; tum quia erat inopinatum. Et ideo causat maiorem tristitiam, sicut etiam magna bona ex inopinato venientia, causant maiorem delectationem. Et secundum aug­ mentum tristitiae praecedentis, consequenter augetur et ira.

    Q.

    48, A. 3

    ha bisogno di alcune facoltà sensitive i cui atti vengono impediti se il corpo è alterato: e così necessariamente le alterazioni fisiologiche vengono a ostacolare il giudizio della ragione, come è evidente nell'ubriachezza e nel sonno. Ora, abbiamo detto che l'ira produce la mas­ sima alterazione fisiologica intorno al cuore, tanto che questa si ripercuote anche sulle membra esterne. Perciò, fra tutte le altre pas­ sioni, l'ira è quella che più chiaramente osta­ cola l'uso della ragione, secondo l'espressio­ ne del Sal: Il mio occhio è turbato dall'ira. Soluzione delle difficoltà: l . L'ira ha come principio la ragione rispetto al moto appetiti­ vo, che è la sua parte formale. Ma la passione dell'ira ostacola il perfetto giudizio dell'intel­ ligenza in quanto non ascolta perfettamente la ragione a causa del divampare del calore, che è la parte materiale dell'ira. Ed è per questo che impedisce l'uso della ragione. 2. Si dice che l'iracondo è aperto non perché abbia chiaro in se stesso ciò che deve fare, ma perché agisce apertamente, senza nascondere nulla. E ciò in parte accade perché la ragione è impedita, non potendo così distinguere ciò che va nascosto e ciò che va mostrato, e non potendo pensare al modo di dissimularlo. In parte invece accade a motivo di quella dilata­ zione del cuore, propria della magnanimità, che è prodotta dall'ira: per cui il Filosofo scri­ ve che il magnanimo «è aperto neli' amore e nell'odio, e parla e opera apertamente». Inve­ ce si dice che la concupiscenza è nascosta e insidiosa perché spesso le cose piacevoli che vengono desiderate rivestono una certa turpi­ tudine e mollezza, che l' uomo cerca di na­ scondere. Al contrario in ciò che sa di virile e di onorifico, ed è il caso della vendetta, l'uo­ mo cerca di mostrarsi. 3. Come si è già detto, il moto dell'ira nasce dalla ragione: quindi, per lo stesso motivo, il ravvicinare i contrari aiuta il giudizio della ragione e accresce l'ira. Se uno infatti possie­ de onori e ricchezze e ne viene in qualche modo privato, tale disgrazia gli appare più grande: sia per la vicinanza del suo contrario, sia perché imprevista. E così produce una tri­ stezza maggiore: come anche causa un piace­ re maggiore l'acquisto improvviso di grandi beni. E in base all'aumento della tristezza che la, . precede, conseguentemente cresce anche 1 rra.

    Gli effetti dell 'ira

    Q. 48, A. 4

    458

    Articulus 4

    Articolo 4

    Utrum ira maxime causet taciturnitatem

    Vira è ciò che più fa ammutolire?

    Ad quartum sic proceditur. Vìdetur quod ira non causet taciturnitatem. l . Taciturnitas enim locutioni opponitur. Sed per crementum irae usque ad locutionem pervenitur, ut patet per gradus irae quos Do­ minus assignat, Matth. 5 [22] , dicens, qui irascitur fratri suo; et, qui dixerit fratri suo, raca; et, qui dixerit fratri suo, fatue. Ergo ira non causat taciturnitatem. 2. Praeterea, ex hoc quod custodia rationis deficit, contingit quod homo prorumpat ad verba inordinata, unde dicitur Prov. 25 [28], sicut urbs patens et absque murorum ambitu, ita vir qui non potest cohibere in loquendo spiritum suum. Sed ira maxime impedit iudi­ cium rationis, ut dictum est [a. 3]. Ergo facit maxime profluere in verba inordinata. Non ergo causat tacitumitatem. 3. Praeterea, Matth. 12 [34] dicitur, ex abun­ dantia cordis os loquitur. Sed per iram cor maxime perturbatur, ut dictum est [a. 2]. Ergo maxime causat locutionem. Non ergo causat tacitumitatem. Sed contra est quod Gregorius dicit, in 5 Mor. [45 ] , quod ira per silentium clausa, intra mentem vehementius aestuat. Respondeo dicendum quod ira, sicut iam [a. 3; q. 46 a. 4] dictum est, et cum ratione est, et impedit rationem. Et ex utraque parte, potest taciturnitatem causare. Ex parte quidem rationis, quando iudicium rationis intantum viget quod, etsi non cohibeat affectum ab inordinato appetito vindictae, cohibet tamen linguam ab inordinata locutione. Unde Grego­ rius, in 5 Mor. [45], dicit, aliquando ira per­ turbato animo, quasi ex iudicio, silentium indicit. Ex parte vero impedimenti rationis, quia, sicut dictum est [a. 2], perturbatio irae usque ad exteriora membra perducitur; et maxime ad illa membra in quibus expressius relucet vestigium cordis, sicut in oculis et in facie et in lingua; unde, sicut dictum est [Mor. 5,45], lingua se praepedit, facies ignescit, exasperantur oculi. Potest ergo esse tanta per­ turbatio irae, quod omnino impediatur lingua ab usu loquendi. Et tunc sequitur tacitumitas. Ad primum ergo dicendum quod augmentum irae quandoque est usque ad impediendum ra­ tionem a cohibitione linguae. Quandoque au-

    Sembra di no. Infatti: l . Il tacere si oppone al parlare. Ma l'intensi­ ficarsi dell'ira spinge a parlare, come è evi­ dente nei gradi dell'ira stabiliti dal Signore in Mt: Chiunque si adira con il proprio fratel­ lo... ; Chi poi dice al suo fratello: stupido... ; E chi gli dice: pazzo... Quindi l' ira non fa ammutolire. 2. Venendo a mancare il controllo della ragione, l'uomo passa a proferire parole disordinate: per cui in Pr è detto: Come una città smantel­ lata e senza mura, così è l'uomo che non è capace di calmare il suo spirito nel parlare. Ma l'ira, come si è visto, ostacola al massimo il giudizio della ragione. Quindi in modo tutto particolare fa uscire in parole disordinate. Quindi non rende taciturni. 3. In Mt è detto: La bocca parla dall'abbon­ danza del cuore. Ma il cuore viene turbato nel modo più grave dall'ira, secondo le spiegazio­ ni date. Quindi l'ira è la causa più irresistibile della locuzione. Quindi non fa ammutolire. In contrario: Gregorio dice: «L'ira imprigio­ nata dal silenzio divampa con più forza dentro l'anima». Risposta: come si è già notato, l'ira implica la ragione ma ne è anche un ostacolo. E per l'uno e l'altro verso può impedire di parlare. Come associata alla ragione quando il giudi­ zio di questa, pur non essendo sufficiente a inibire il desiderio disordinato della vendetta, è tuttavia così forte da trattenere la lingua dal proferire p arole sconsiderate. Per cui Gregorio dice: «Talora l'ira impone il silen­ zio, con una specie di giudizio, all'animo tur­ bato». Come impedimento della ragione inve­ ce poiché, stando a quanto abbiamo detto, il turbamento dell' ira si ripercuote fino alle membra esterne; e specialmente su quelle in cui più chiaramente il cuore si manifesta, cioè sugli occhi, sul volto e sulla lingua: per cui, come si è visto, «la lingua si inceppa, il volto si infiamma, gli occhi si stravolgono». Quindi il turbamento dell'ira può essere così grave da impedire del tutto alla lingua di parlare. E allora uno ammutolisce. Soluzione delle difficoltà: l . L'aumento del­ l ' ira qualche volta giunge a impedire alla ragione di frenare la lingua. Altre volte invece

    Gli effetti dell 'ira

    459

    tem ultra procedit, usque ad impediendum motum linguae, et aliorum membrorum exteriorum. Et per hoc etiam patet solutio ad secundum. Ad tertium dicendum quod perturbatio cordis quandoque potest superabundare usque ad hoc, quod per inordinatum motum cordis impediantr motus exteriorum membrorum. Et tunc causatur taciturnitas, et immobilitas exteriorum membrorum, et quandoque etiam mors. Si autem non fuerit tanta perturbatio, tunc ex abundantia perturbationis cordis, sequitur oris locutio.

    Q. 48, A. 4

    giunge perfino a impedire di muovere la lin­ gu� e le altre membra esterne. 2. E così risolta anche la seconda difficoltà. 3. n turbamento del cuore è talora così ecces­ sivo da impedire i movimenti delle membra esterne. E allora viene a mancare la parola, si ha l'immobilità delle membra esterne e tal­ volta anche la morte. - Se invece il turbamen­ to non è così grave, allora l'abbondanza del turbamento del cuore spinge a parlare.

    QUAESTI0 49

    QUESTIONE 49

    DE HABITffiUS IN GENERALI QUOAD EORUM SUBSTANTIAM

    LA NATURA DEGLI ABITI IN GENERALE

    Post actus et passiones, considerandum est de principiis humanorum actuum. Et primo, de principiis intrinsecis; secundo, de principiis ex­ trinsecis [q. 90]. Principium autem intrinsecum est potentia et habitus; sed quia de potentiis in prima parte [qq. 77-83] dictum est, nunc restat de habitibus considenmdum. Et primo quidem, in generali; secundo vero, de virtutibus et vitiis, et aliis huiusmodi habitibus, qui sunt humano­ rum actuum principia [q. 55]. - Circa ipsos autem habitus in generali, quatuor consideran­ da sunt, primo quidem, de ipsa substantia habi­ tuum, secundo, de subiecto eorum [q. 50]; ter­ tio, de causa generationis, augmenti et corrup­ tionis ipsorum [q. 5 1 ] ; quarto, de distinctione ipsorum [q. 54]. Circa primum quaeruntur qua­ tuor. Primo, utrum habitus sit qualitas. Se­ cundo, utrum sit determinata species qualitatis. Tertio, utrum habitus importet ordinem ad actum. Quarto, de necessitate habitus.

    Dopo gli atti e le passioni dobbiamo conside­ rare i princìpi degli atti umani. E innanzitutto i princìpi intrinseci, poi i princìpi estrinseci. I princìpi intrinseci sono le potenze e gli abiti; ma avendo noi già trattato delle potenze nella Prima Parte, rimane ora da trattare degli abiti. Prima degli abiti in generale, quindi delle vir­ tù e dei vizi e di tutti gli altri abiti che sono princìpi degli atti umani. - Sugli abiti in gene­ rale quattro sono le questioni da considerare: primo, la natura degli abiti; secondo, il loro soggetto; terzo, le cause del loro nascere, cre­ scere ed estinguersi; quarto, la loro distinzio­ ne. Sul primo tema tratteremo qu�ttro argo­ menti: l . L'abito è una qualità? 2. E una qua­ lità specificamente distinta dalle altre? 3. L'a­ bito dice ordine all'operazione? 4. La neces­ sità degli abiti.

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum habitus sit qualitas

    L'abito è una qualità?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod habi­ tus non sit qualitas. l . Dicit enim Augustinus, in libro Octoginta t.J.ium Q. [73], quod hoc nomen habitus dic­ tum est ab hoc verbo quod est habere. Sed habere non solum pertinet ad qualitatem, sed ad alia genera, dicimur enim habere etiam quantitatem, et pecuniam, et alia huiusmodi. Ergo habitus non est qualitas.

    Sembra di no. Infatti: l . Agostino dice: . E la stessa cosa è ripetuta da Simplicio: «La sapienza esistente nell' anima è un abito, mentre quella che è nell'intelletto è sostanza. Infatti tutte le cose che sono divine sono per se stesse auto­ sufficienti, ed esistenti in se medesime». Ora, questa tesi in parte è vera e in parte è falsa. E chiaro infatti, da quanto si è detto, che soggetto dell 'abito è soltanto un essere i n potenza. Perciò i suddetti commentatoli, con­ siderando che gli angeli sono sostanze imma­ teriali, prive della potenza della materia, esclusero da essi l'abito e qualsiasi altro acci­ dente. Ma poiché negli angeli, pur mancando la potenza della materia, si trova ancora una certa potenzialità (infatti è esclusivo di Dio essere atto puro), in essi ci possono essere gli abiti nella misura in cui c'è in essi la potenza. Siccome però la potenza della materia e quel­ la di ordine intellettivo non sono della stessa natura, neppure gli abiti rispettivi sono della stessa natura. Simplicio infatti afferma che «gli abiti delle sostanze intellettive non sono simili agli abiti di quaggiù, ma sono piuttosto simili alle specie immateriali semplici che es­ se contengono in se stesse». - Tuttavia ri­ spetto a questi abiti l ' intelletto angelico si tro­ va in condizioni diverse dall'intelletto umano. Poiché l ' intelletto umano, essendo l' ultimo fra gli esseri intellettivi, è in potenza rispetto a tutti gli intelligibili, come la materia prima lispetto a tutte le forme sensibili, e quindi ha sempre bisogno di qualche abito per qualsiasi conoscenza. Invece l'intelletto angelico non è pura potenza tra gli esseri di ordine intellet-

    48 1

    Il soggetto degli abiti

    Q. 50, A. 6

    teria prima respectu omnium formarum sen­ sibilium, et ideo ad omnia intelligenda indiget aliquo habitu. Sed intellectus angelicus non se habet sicut pura potentia in genere intel­ ligibilium, sed sicut actus quidam, non autem sicut actus purus (hoc enim solius Dei est), sed cum permixtione alicuius potentiae, et tanto minus habet de potentialitate, quanto est supe­ rior. Et ideo, ut in primo [q. 55 a. l ] dictum est, inquantum est in potentia, indiget pertici habitualiter per aliquas species intelligibiles ad operationem propriam, sed inquantum est actu, per essentiam suam potest aliqua intel­ ligere, ad minus seipsum, et alia secundum modum suae substantiae, ut dicitur in Lib. De causis [7], et tanto perfectius, quanto est per­ fectior. - Sed quia nullus angelus pertingit ad perfectionem Dei, sed i n infinitum distat; propter hoc, ad attingendum ad ipsum Deum per intellectum et voluntatem, indigent aliquibus habitibus, tanquam in potentia existentes re­ spectu illius puri actus. Unde Dionysius dicit [DCH 7,1 ] habitus eorum esse deifonnes, qui­ bus scilicet Deo conformantur. - Habitus autem qui sunt dispositiones ad esse naturale, non sunt in angelis, cum sint immateriales. Ad primum ergo dicendum quod verbum maximi intelligendum est de habitibus et acci­ dentibus materialibus. Ad secundum dicendum quod quantum ad hoc quod convenit angelis per suam essen­ tiam, non indigent habitu. Sed quia non ita sunt per seipsos entes, quin participent sa­ pientiam et bonitatem divinam; ideo inquan­ tum indigent participare aliquid ab exteriori, intantum necesse est in eis ponere habitus. Ad tertium dicendum quod in angelis non sunt partes essentiae, sed sunt partes secun­ dum potentiam, inquantum intellectus eorum per plures species perficitur, et voluntas eorum se habet ad plura.

    tuale, ma è un determinato atto; non atto puro (essendo questo proprio di Dio soltanto), ma combinato con una certa potenzialità; e quan­ to più l 'intelletto angelico è superiore, tanto minore è la sua potenzialità. Perciò nella Prima Parte si è detto che in quanto è in po­ tenza ha bisogno di essere predisposto alla sua operazione mediante determinate specie fungenti da abiti, ma in quanto è in atto può intendere le cose mediante la propria essenza; per lo meno può intendere se stesso, e altro ancora secondo il grado della sua sostanza, come leggiamo nel De Causis: e tanto più perfettamente quanto piì:t è perfetto. - E poi­ ché nessun angelo può raggiungere la perfe­ zione di Dio, ma ne dista infinitamente, per­ ché possa raggiungere Dio con l'intelletto e la volontà l' angelo ha bisogno di determinati abiti, essendo in potenza rispetto a quell'atto puro. Perciò Dionigi insegna che gli abiti de­ gli angeli sono «deiformi», atti cioè a renderli conformi a Dio. - Invece negli angeli manca qualsiasi abito che sia una disposizione al loro essere naturale, essendo essi immateriali. Soluzione delle difficoltà: l . Le affermazioni di Massimo valgono per gli abiti e gli acci­ denti materiali. 2. In ciò che loro appartiene in forza della loro essenza gli angeli non hanno bisogno di abiti. Ma poiché non sono enti per se stessi, così da non dover partecipare della sapienza e della bontà divina, è necessario ammettere in essi degli abiti nella misura in cui hanno biso­ gno di partecipare di qualcosa dall'esterno. 3. Negli angeli l 'essenza non ha parti, ma le parti non mancano nelle loro facoltà, poi­ ché il loro intelletto raggiunge la sua perfe­ zione mediante una pluralità di specie inten­ zionali, e la loro volontà tende verso oggetti molteplici.

    QUAESTIO 5 1 DE CAUSA HABITUUM QUANTUM AD GENERATIONEM IPSORUM

    QUESTIONE 5 1 LA GENERAZIONE DEGLI ABITI

    Deinde considerandum est de causa habi­ tuum. Et primo, quantum ad generationem ipsorum; secundo, quantum ad augmentum [q. 52]; tertio, quantum ad diminutionem et conuptionem [q. 53]. Circa primum quaerun-

    Passiamo ora a studiare la causa degli abiti. Primo, rispetto alla loro genesi; secondo, rispetto al loro crescere; terzo, rispetto al loro decrescere e corrompersi . Sul primo argo­ mento si pongono quattro quesiti: l . Qualche

    La generazione degli abiti

    Q. 5 l , A. l

    tur quatuor. Primo, utrum aliquis habitus sit a natura. Secondo, utrum aliquis habitus ex actibus causetur. Tertio, utrum per unum actum possit generari habitus. Quarto, utrum aliqui habitus sint in hominibus infusi a Deo.

    482

    abito deriva dalla natura? 2. Qualche abito è causato dagli atti? 3. Un solo atto può produr­ re un abito? 4. Nell' uomo alcuni abiti sono infusi da Dio?

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum aliquis habitus sit a natura

    Qualche abito deriva dalla natura?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod nul­ lus habitus sit a natura. l . Eorum enim quae sunt a natura, usus non subiacet voluntati. Sed habitus est quo quis utitur cum voluerit, ut dicit Commentator, in 3 De anima [ 1 8]. Ergo habitus non est a natura. 2. Praeterea, natura non facit per duo quod per unum potest facere. Sed potentiae animae sunt a natura. Si igitur habitus potentiarum a natura essent, habitus et potentia essent unum. 3. Praeterea, natura non deficit in necessariis. Sed habitus sunt necessarii ad bene operan­ dum, ut supra [q. 49 a. 4] dictum est. S i igitur habitus aliqui essent a natura, videtur quod natura non deficeret quin omnes habitus necessarios causaret. Patet autem hoc esse fal­ sum. Ergo habitus non sunt a natura. Sed contra est quod in 6 Ethic. [6,2], inter alios habitus ponitur intellectus principiorum, qui est a natura, unde et principia prima di­ cuntur naturaliter cognita. Respondeo dicendum quod aliquid potest esse naturale alieni dupliciter. Uno modo, secundum naturam speciei, sicut naturale est homini esse risibile, et igni ferri sursum. Alio modo, secundum naturam individui, sicut naturale est Socrati vel Platoni esse aegrotati­ vum vel sanativum, secundum propriam com­ plexionem. Rursus, secundum utramque natu­ ram potest dici aliquid naturale dupliciter, uno modo, quia totum est a natura; alio modo, quia secundum aliquid est a natura, et secun­ dum aliquid est ab exteriori principio. Sicut cum aliquis sanatur per seipsum, tota sanitas est a natura, cum autem aliquis sanatur auxi­ lio medicinae, sanitas partim est a natura, par­ tim ab exteriori principio. - Sic igitur si lo­ quamur de habitu secundum quod est disposi­ tic subiecti in ordine ad forrnam vel naturam, quolibet praedictorum modorum contingit habitum esse naturalem. Est enim aliqua dispositio naturalis quae debetur humanae speciei, extra quam nullus homo invenitur. Et

    Sembra di no. Infatti : l . L'uso di quanto deriva dalla natura non sot­ tostà al nostro volere. Ma «l' abito è un mezzo di cui uno si serve quando vuole», come dice Averroè. Quindi non deriva dalla natura. 2. La natura non compie con due mezzi ciò che può fare con uno solo. Ma le potenze del­ l ' anima derivano dalla natura. Se dunque an­ che i loro abiti derivassero dalla natura, l' abi­ to e la potenza sarebbero una cosa sola. 3. La natura non ha mancanze in ciò che è necessario. Ma gli abiti sono [tutti] necessari a ben operare, come si è visto. Se quindi alcu­ ni abiti derivassero dalla natura, la natura per non mancare dovrebbe produrre tutti gli abiti necessari . Ma ciò è evidentemente falso. Quindi gli abiti non derivano dalla natura. In contrario: Aristotele mette tra gli altri abiti l ' intelletto dei primi princìpi, il quale deriva dalla natura: per cui anche i primi princìpi si dicono noti per natura. Risposta: una cosa può essere naturale per una creatura in due modi. Primo, in forza della natura specifica: e in questo senso è naturale per l'uomo essere visibile, e per il fuoco ten­ dere verso l'alto. Secondo, in forza della natu­ ra individuale: come è naturale per Socrate o per Platone avere, per complessione indivi­ duale, una buona o cattiva salute. - Inoltre, in forza dell' una e dell' altra di tali nature, una cosa può essere naturale in due modi: primo, perché dipende interamente dalla natura; se­ condo, perché dipende in parte dalla natura e in parte da un principio esterno. Quando uno, p. es., guarisce da solo, tutta la sua guarigione deriva dalla natura; quando invece guarisce con l'aiuto della medicina, la sua guarigione in parte deriva dalla natura e in parte da un principio esterno. - Se quindi parliamo dell' a­ bito in quanto disposizione del soggetto in ordine alla forma o alla natura, ci possono essere degli abiti naturali in ciascuno dei modi predetti. C i sono infatti delle disposizioni

    483

    La generazione degli abiti

    haec est naturalis secundum naturam speciei. Sed quia talis dispositio quandam latitudinem habet, contingit diversos gradus huiusmodi dispositionis convenire diversis hominibus secundum naturam individui. Et huiusmodi dispositio potest esse vel totaliter a natura, vel partim a natura et partim ab exteriori princi­ pio, sicut dictum est de his qui sanantur per artem. - Sed habitus qui est dispositio ad ope­ rationem, cuius subiectum est potentia ani­ mae, ut dictum est [q. 50 a. 2], potest quidem esse naturalis et secundum naturam speciei, et secundum naturam individui. Secundum qui­ dem naturam speciei, secundum quod se tenet ex parte ipsius animae, quae, cum sit forma corporis, est principium specificum. Secun­ dum autem naturam individui, ex parte corpo­ cis, quod est materiale principium. Sed tamen neutro modo contingit in hominibus esse ha­ bitus naturales ita quod sint totaliter a natura. In angelis siquidem contingit, eo quod habent species intelligibiles naturaliter inditas, quod non competit animae humanae, ut in primo [q. 55 a. 2; q. 84 a. 3] dictum est. - Sunt ergo in hominibus aliqui habitus naturales, tanquam partim a natura existentes et partim ab exte­ riori principio; aliter quidem in apprehensivis potentiis, et aliter in appetitivis. In apprehen­ sivis enim potentiis potest esse habitus natura­ lis secundum inchoationem, et secundum naturam speciei, et secundum naturam indivi­ dui. Secundum quidem naturam speciei, ex parte ipsius animae, sicut intellectus princi­ piorum dicitur esse habitus naturalis. Ex ipsa enim natura animae intellectualis, convenit homini quod statim, cognito quid est totum et quid est pars, cognoscat quod omne totum est maius sua parte, et simile est in ceteris. Sed quid sit totum, et quid sit pars, cognoscere non potest nisi per species intelligibiles a phantasmatibus acceptas. Et propter hoc philosophus, in tìne Posteriorum [2, 1 5,5], ostendit quod cognitio principiorum provenit nobis ex sensu. Secundum vero naturam indi­ vidui, est aliquis habitus cognoscitivus secun­ dum inchoationem naturalis, inquantum unus homo, ex dispositione organorum, est magis aptus ad bene intelligendum quam alius, inquantum ad operationem intellectus indige­ mus virtutibus sensitivis. - In appetitivis autem potentiis non est aliquis habitus naturalis secundum inchoationem, ex parte ipsius ani-

    Q. S l , A. l

    naturali dovute alla specie umana, di cui nes­ sun uomo può mancare. E queste sono natura­ li secondo la natura specifica. Ma poiché tali disposizioni hanno una certa ampiezza, posso­ no adattarsi in grado diverso ai diversi uomini secondo la loro natura individuale. E queste disposizioni possono derivare o totalmente dalla natura, oppure in parte dalla natura e in parte da princìpi esterni, come si è detto di coloro che sono guariti dalla medicina. - L'a­ bito invece che dispone ali' operazione, e che risiede nelle potenze dell'anima, come si è detto, può essere naturale sia secondo la natu­ ra specifica che secondo la natura individuale. Secondo la natura specifica in quanto dipende direttamente dall'anima che, essendo la forma del corpo, è il principio specifico. Secondo la natura individuale invece in quanto dipende dal corpo, che è il principio materiale. Ma in nessuno di questi due modi ci sono nell'uomo degli abiti naturali tali che dipendano total­ mente dalla natura. Ciò capita invece negli angeli, per il fatto che essi possiedono le spe­ cie intelligibili infuse per natura; il che non può dirsi dell'anima umana, come si è spiega­ to nella Prima Parte. Ci sono dunque nel­ l'uomo degli abiti naturali dovuti in parte alla natura e in parte a un altro principio; però nelle potenze conoscitive ciò avviene in modo diverso che in quelle appetitive. Infatti nelle potenze conoscitive ci possono essere abiti naturali incipienti, sia secondo la natura speci­ fica che secondo la natura individuale. Se­ condo la natura specifica in dipendenza dal­ l'anima: come si dice che l'intelletto dei prin­ cìpi è un abito naturale. Infatti grazie alla na­ tura stessa dell'anima intellettiva l'uomo ha la capacità di intendere che qualsiasi tutto è maggiore della sua parte, non appena cono­ sciuto il tutto e la parte: e così per gli altri princìpi. Ma egli non può conoscere il tutto e la parte se non mediante le specie intelligibili che riceve dai fantasmi; e per questo il Filoso­ fo dimostra che la nostra conoscenza dei prin­ cìpi deriva dai sensi. Secondo la natura indivi­ duale ci sono invece degli abiti conoscitivi na­ turali incipienti in quanto un uomo è più adat­ to di un altro a intendere in forza delle di­ sposizioni organiche, dato che per le funzioni dell'intelletto si richiedono le facoltà sensitive. - Invece nelle potenze appetitive non ci sono abiti naturali incipienti in dipendenza dall'ani-

    La generazione degli abiti

    Q. 5 l , A. l

    mae, quantum ad ipsam substantiam habitus, sed solum quantum ad principia quaedam ipsius, sicut principia iuris communis dicun­ tur esse seminalia virtutum. Et hoc ideo, quia inclinatio ad obiecta propria, quae videtur esse inchoatio habitus, non pertinet ad habi­ tum, sed magis pertinet ad ipsam rationem potentiarum. Sed ex parte corporis, secundum naturam individui, sunt aliqui habitus appetiti­ vi secundum inchoationes naturales. Sunt enim quidam dispositi ex propria corporis complexione ad castitatem vel mansuetudi­ nem, vel ad aliquid huiusmodi. Ad primum ergo diccndum quod obiectio illa procedit de natura secundum quod dividitur contra rationem et voluntatem, cum tamen ipsa ratio et voluntas ad naturam hominis pertineant. Ad secundum dicendum quod aliquid etiam naturaliter potest superaddi potentiae, quod tamen ad ipsam potentiam pertinere non potest. Sicut in angelis non potest pertinere ad ipsam potentiam i ntellectivam quod sit per se cognoscitiva omnium, quia oporteret quod esset actus omnium, quod solius Dei est. Id enim quo aliquid cognoscitur, oportet esse actualem similitudinem eius quod cognosci­ tur, unde sequeretur, si potentia angeli per seipsam cognosceret omnia, quod esset simi­ litudo et actus omnium. Unde op01tet quod superaddantur potentiae intellectivae ipsius aliquae species intelligibiles, quae sunt simili­ tudines rerum intellectarum, quia per partici­ pationem divinae sapientiae, et non per essen­ tiam propriam, possunt intellectus eorum esse actu ea quae intelligunt. Et sic patet quod non omne id quod pertinet ad habitum naturalem, potest ad potentiam pertinere. Ad tertium dicendum quod natura non aequa­ liter se habet ad causandas omnes diversitates habituum, quia quidam possunt causari a natura, quidam non, ut supra [co.] dictum est. Et ideo non sequitur, si aliqui habitus sint naturales, quod omnes sint naturales.

    484

    ma per quello che l'abito è in se stesso, ma soltanto in rapporto a certi suoi princìpi, quali i princìpi del diritto comune, che si dicono germi delle virtù. E questo perché l'incli­ nazione verso l 'oggetto proprio, che si po­ trebbe considerare l'inizio di un abito, non ap­ partiene all'abito, ma piuttosto alla natura del­ le potenze. In dipendenza dal corpo ci posso­ no i nvece essere degli abiti appetitivi inci­ pienti, secondo la natura individuale. Infatti alcuni dalla complessione particolare del loro corpo sono predisposti alla castità, alla man­ suetudine o ad altri abiti. Soluzione delle difficoltà: l . L'obiezione par­ te dalla natura come contraddistinta dalla ra­ gione e dalla volontà; ma anche la ragione e la 'X_olontà appartengono alla natura umana. 2. E sempre possibile che si aggiunga per natura alla potenza ciò che non può apparte­ nere alla potenza per se stessa. Come negli angeli non può appartenere alla stessa poten­ za intellettiva l' attitudine a conoscere tutte le cose: poiché bisognerebbe che essa fosse l'atto di tutte le cose, il che è esclusivo di Dio. Infatti il mezzo col quale si conosce deve es­ sere l'attuale immagine rappresentativa di ciò che viene conosciuto: per cui ne seguirebbe, se la potenza dell'angelo conoscesse per se stessa tutte le cose, che essa sarebbe l' irnma­ gine rappresentativa e l'atto di tutti gli esseri. Perciò è necessario che alla sua facoltà intel­ lettiva si aggiungano delle similitudini o im­ magini delle realtà conosciute: poiché l'intel­ letto degli angeli può essere attualmente le realtà che conosce non mediante la propria essenza, ma mediante una partecipazione della sapienza di Dio. Dal che si dimostra che non tutto ciò che appartiene a un abito natura­ le può appartenere alla potenza [correlativa]. 3. La natura non ha un'efficacia uniforme nel causare tutte le varietà degli abiti: poiché alcuni possono essere causati dalla natura e altri no, come si è spiegato. Perciò dal fatto che ci sono alcuni abiti naturali non segue che tutti gli abiti siano naturali.

    Articulus 2

    Articolo 2

    Utrum aliquis habitus causetur ex actibus

    Qualche abito è causato dagli atti?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod nullus habitus possit ex actu causari. l. Habitus enim est qualitas quaedam, ut supra

    Sembra di no. Infatti: l . Come si è visto, l'abito è una qualità. Ora, tutte le qualità sono causate in un dato sogget-

    485

    La generazione degli abiti

    [q. 49 a. l] dictum est. Omnis autem qualitas causatur in aliquo subiecto, inquantum est ali­ cuius receptivum. Cum igitur agens ex hoc quod agit, non recipiat aliquid, sed magis ex se emittat; videtur quod non possit aliquis habitus in agente ex propriis actibus generati. 2. Praeterea, illud in quo causatur aliqua qua­ litas, movetur ad qualitatem illam, sicut patet i n re calefacta vel infrigidata, quod autem producit actum causantem qualitatem, movet, ut patet de calefaciente vel infrigidante. Si igi­ tur in aliquo causaretur habitus per actum sui ipsius, sequeretur quod idem esset movens et motum, agens et patiens. Quod est impossibi­ le, ut dicitur in 7 Phys. [ 1 , 1]. 3. Praeterea, effectus non potest esse nobilior sua causa. Sed habitus est nobilior quam actus praecedens habitum, quod patet ex hoc, quod nobiliores actus reddit. Ergo habitus non potest causaci ab actu praecedente habitum. Sed contra est quod philosophus, in 2 Ethic. [ 1 ,4], docet habitus virtutum et vitiorum ex actibus causaci. Respondeo dicendum quod in agente quan­ doque est solum activum principium sui actus, sicut in igne est solum principium activum calefaciendi. Et in tali agente non potest aliquis habitus causaci ex proprio actu, et inde est quod res naturales non possunt ali­ quid consuescere vel dissuescere, ut dicitur in 2 Ethic. [ 1 ,2]. Invenitur autem aliquod agens in quo est principium activum et passivum sui actus, sicut patet in actibus humanis. Nam actus appetitivae virtutis procedunt a vi appeti­ tiva secundum quod movetur a vi apprehensi­ va repraesentante obiectum, et ulterius vis in­ tellectiva, secundum quod ratiocinatur de conclusionibus, habet sicut principium acti­ vum propositionem per se notam. Unde ex talibus actibus possunt in agentibus aliqui ha­ bitus causari, non quidem quantum ad pri­ mum activum principium, sed quantum ad principium actus quod movet motum. Nam omne quod patitur et movetur ab alio, dispo­ nitur per actum agentis, unde ex multiplicatis actibus generatur quaedam qualitas in poten­ tia passiva et mota, quae nominatur habitus. Sicut habitus vittutum moralium causantur in appetitivis potentiis, secundum quod moven­ tur a ratione, et habitus scientiarum causantur in intellectu, secundum quod movetur a primis propositionibus.

    Q. 5 l , A. 2

    to in quanto questo è ricettivo. Poiché dunque l ' agente dal fatto che agisce non riceve, ma piuttosto dona, sembra che nessun abito possa prodursi in un agente mediante i propri atti. 2. Il soggetto in cui viene causata una qualità è mosso verso quella qualità, come è evidente nelle cose che vengono riscaldate o raffredda­ te; invece chi produce l' atto che causa una qualità muove, come è evidente nelle cose che riscaldano e che raffreddano. Se quindi in un soggetto venisse causato l' abito dal pro­ prio atto, una medesima cosa sarebbe moven­ te e mossa, agente e paziente. Il che è assur­ do, come dimostra Aristotele. 3. Un effetto non può essere superiore alla sua causa. Ma l ' abito è superiore ali ' atto che lo precede, come è evidente dal fatto che l'abito accresce il valore degli atti. Quindi l'abito non può essere causato dall'atto che lo precede. In contrario: il Filosofo insegna che gli abiti delle virtù e dei vizi sono causati dagli atti. Risposta: nell' agente talora si trova soltanto il principio attivo del suo operare: come nel fuoco c'è il solo principio attivo del riscalda­ mento. E in tale agente è impossibile che un abito sia causato dal proprio atto: dal che deri­ va che gli esseri fi sici non sono capaci di acquistare o di perdere un' abitudine, come nota Aristotele. - Ci sono però degli agenti che hanno in se stessi sia il principio attivo, sia il principio passivo dei propri atti: come è evidente nel caso degli atti umani. Infatti gli atti della facoltà appetitiva derivano da essa sotto la mozione della facoltà conoscitiva, che presenta l ' oggetto; e a sua volta la facoltà intellettiva, nel trarre delle conclusioni, ha come principio attivo una data proposizione di per sé evidente. Perciò in forza di questi atti può essere causato qualche abito nell' agente non già rispetto al primo principio attivo, ma rispetto a quel principio dell' atto che muove perché mosso. Infatti tutto ciò che subisce l'atto o la mozione di qualcos' altro viene pre­ disposto dall' atto di questo: per cui dalla ripe­ tizione degli atti viene causata nella potenza passiva una qualità che prende il nome di abito. Allo stesso modo in cui gli abiti delle virtù morali sono prodotti nelle potenze appe­ titive per il fatto che queste sono mosse dalla ragione, e gli abiti delle scienze sono causati nell'intelletto per il fatto che quest'ultimo è mosso dai primi princìpi.

    La generazione degli abiti

    Q. 5 l , A. 2

    Ad primum ergo dicendum quod agens , inquantum est agens, non recipit aliquid. Sed inquantum agit motum ab alio, sic recipit ali­ quid a movente, et sic causatur habitus. Ad secundum dicendum quod idem, secun­ dum idem, non potest esse movens et motum. Nihil autem prohibet idem a seipso moveri secundum diversa, ut in 8 Phys. [5,8] probatur. Ad tertium dicendum quod actus praecedens habitum inquantum procedit a principio acti­ vo, procedit a nobiliori principio quam sit habitus generatus, sicut ipsa ratio est nobilius principium quam sit habitus virtutis moralis in vi appetitiva per actuum consuetudines ge­ neratus; et intellectus principiorum est nobi­ lius principium quam scientia conclusionum.

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    Soluzione delle difficoltà: l . L'agente non ri­ ceve nulla in quanto agente. Ma in quanto agisce sotto la mozione di altro può ricevere qualcosa da ciò che lo muove: ed è così che sono causati gli abiti. 2. Una stessa cosa non può essere insieme movente e mossa sotto il medesimo aspetto. Nulla però impedisce che una cosa sia mossa da se stessa sotto aspetti diversi, come dimo­ stra Aristotele. 3. L'atto che precede l'abito, in quanto è causa­ to da un principio attivo, proviene da un prin­ cipio superiore all'abito che ne deriva: come la stessa ragione è un principio più alto dell'abito delle virtù morali prodotto dagli atti nelle po­ tenze appetitive; e I' «intelletto dei primi princì­ pi» è superiore alla scienza delle conclusioni.

    Articulus 3

    Articolo 3

    Utrum per unum actum possit generari habitus

    Un abito può essere prodotto da un solo atto?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod per unum actum possit habitus generari. l . Demonstratio enim actus rationis est. Sed per unam demonstrationem causatur scientia quae est habitus conclusionis unius. Ergo habi­ tus potest causari ex uno actu. 2. Praeterea, sicut contingit actus crescere per multiplicationem, ita contingit actum crescere per intensionem. Sed multiplicatis actibus, ge­ neratur habitus. Ergo etiam si multum intenda­ tur unus actus, poterit esse causa generativa habitus. 3. Praeterea, sanitas et aegritudo sunt habitus quidam. Sed ex uno actu contingit hominem vel sanari vel infinnari . Ergo unus actus potest habitum causare. Sed contra est quod philosophus dicit, in l Ethic. [7, 1 6], quod una hirundo ver Jwnfacit, nec una dies, ita utique nec beatum nec feli­ cem una dies, nec paucum tempus. Sed beati­ tudo est operatio secundum habitum peJfec­ tae viltutis, ut dicitur in l Ethic. [7, 15]. Ergo habitus virtutis, et eadem ratione alius habi­ tus, non causatur per unum actum. Respondeo dicendum quod, sicut iam [a. 2] dictum est, habitus per actum generatur inquantum potentia passiva movetur ab aliquo principio activo. Ad hoc autem quod aliqua qualitas causetur in passivo, oportet quod acti­ vum totaliter vincat passivum. Unde videmus

    Sembra di sì. Infatti: l . La dimostrazione è un atto della ragione. Ma una sola dimostrazione è sufficiente a causare la scienza, quale abito di una data conclusione. Quindi l'abito può essere causa­ to da un solo atto. 2. Un atto può crescere sia di numero che di intensità. Ora, se moltiplicando il numero degli atti si può produrre un abito, intensifi­ cando un unico atto si potrà avere lo stesso risultato. 3. La salute e la malattia sono abiti. Ma un uo­ mo può guarire, o ammalarsi, per un unico at­ to. Quindi un unico atto può causare un abito. In contrario: il Filosofo scrive che «né una rondine né un giorno solo fanno la primavera; e così non rende beato e felice un giorno, op­ pure poco tempo». Ma la beatitudine, come egli dice, «è un'operazione secondo l' abito della virtù perfetta>>. Quindi l'abito della vir­ tù, e per lo stesso motivo ogni altro abito, non viene prodotto da un unico atto. Risposta: come si è già spiegato, l'abito viene a prodursi per il fatto che una potenza passiva viene mossa da un principio attivo. Ma perché in una potenza passiva si produca una qualità è necessario che il principio attivo la domini totalmente. Vediamo infatti che il fuoco, non potendo dominare subito il combustibile, non lo infiamma immediatamente, ma ne scaccia un

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    La generazione degli abiti

    quod, quia ignis non potest statim vincere suum combustibile, non statim i nflammat ipsum, sed paulatim abiicit contrarias disposi­ tiones, ut sic totaliter vincens ipsum, similitu­ dinem suam ipsi imprimat. - Manifestum est autem quod principium activum quod est ratio, non totaliter potest supervincere appetiti­ vam potentiam in uno actu, eo quod appetitiva potentia se habet diversimode et ad multa; iudicatur autem per rationem, in uno actu, ali­ qui d appetendum secundum determinatas rationes et circumstantias. Unde ex hoc non totaliter vincitur appetitiva potentia, ut feratur in idem ut in pluribus, per modum naturae, quod pertinet ad habitum virtutis. Et ideo habitus virtutis non potest causari per unum actum, sed per multos. - In apprehensivis autem potentiis considerandum est quod duplex est passivum, unum quidem ipse intellectus possi­ bilis; aliud autem i ntellectus quem vocat Aristoteles [De an. 3,5,2] passivum, qui est ratio particularis, idest vis cogitativa cum memorativa et imaginativa. Respectu igitur primi passivi, potest esse aliquod activum quod uno actu totaliter vincit potentiam sui passivi, sicut una propositio per se nota con­ vincit intellectum ad assentiendum tirrniter conclusioni ; quod quidem non facit propositio probabilis. Unde ex multis actibus rationis oportet causari habitum opinativum, etiam ex parte intellectus possibilis, habitum autem scientiae possibile est causari ex uno rationis actu, quann1m ad intellectum possibilem. Sed quantum ad inferiores vires apprehensivas, necessarium est eosdem actus pluries reiterari, ut aliquid firmiter memoriae imprimatur. Unde philosophus, in libro De memoria et rerniniscentia [ 1], dicit quod meditatio confir­ mat memoriam. Habitus autem corporales possibile est causari ex uno actu, si activum fuerit magnae virtutis, sicut quandoque medi­ cina fortis statim inducit sanitatem. Et per hoc patet responsio ad obiecta. -

    Articulus

    4

    Utrum aliqui habitus sint hominibus infusi a Deo Ad quartum sic proceditur. Videtur quod nul­ lus habitus horninibus infundatur a Deo. l . Deus enim aequaliter se habet ad omnes. Si igitur quibusdam infundit habitus aliquos, omni­ bus eos infunderet. Quod patet esse falsum.

    Q. 5 l , A. 3

    po' per volta le disposizioni contrarie, in modo da dominarlo totalmente e imprimervi la sua somiglianza. - Ora, è evidente che la ragione, quale principio attivo, non può dominare total­ mente la potenza appetitiva in un unico atto: poiché la potenza appetitiva è predisposta in molte maniere a una molteplicità di oggetti, mentre il giudizio della ragione, in un unico atto, stabilisce che una data cosa è da desiderare secondo determinati motivi e circostanze. Perciò da questo fatto la potenza appetitiva non è dominata totalmente in modo da indirizzarsi poi ordinariamente verso il medesimo oggetto quasi per natura, come accade con l' abito vir­ tuoso. Perciò l'abito della virtù non può essere prodotto da un atto unico, ma da molti. - Si deve poi notare che nelle potenze conoscitive c'è un duplice soggetto passivo: il primo è lo stesso intelletto possibile, mentre il secondo è quell'intelletto che Aristotele chiama passivo, vale a dire la ragione particolare, cioè la cogita­ tiva accompagnata dalla memoria e dali' imma­ ginativa. Rispetto dunque al primo si può trova­ re un elemento attivo capace di dominarne totalmente la passività con un unico atto: come un principio per sé noto può costringere l'intel­ letto ad assentire stabilmente a una conclusione; il che non può fare un principio soltanto proba­ bile. Per cui è necessario ricorrere a molti atti della ragione per produrre un abito in materia opinabile, anche per quanto riguarda l'intelletto possibile; mentre in tale intelletto si può produr­ re un abito di scienza con un unico atto della ragione. - Invece per le facoltà conoscitive infe­ riori è necessario ripetere più volte i medesimi atti, per imprimere l'oggetto nella memoria. Per cui il Filosofo scrive che «la meditazione raffor­ za la memoria». - È possibile invece produrre con un unico atto gli abiti del corpo, se il princi­ pio attivo è di grande vigore: come talora una medicina potente può subito ridare la salute. Sono così risolte anche le difficoltà. Articolo 4 Neli 'uomo alcuni abiti

    sono infusi da Dio? Sembra di no. Intàtti: l . Dio è uguale con tutti. Se dunque infondes­ se degli abiti in qualcuno, li infonderebbe in tutti. Il che è falso.

    Q. 5 l , A. 4

    La generazione degli abiti

    2. Praeterea, Deus operatur in omnibus secun­ dum modum qui convenit naturae ipsorum, quia divinae pmvidentiae est naturam salvare, ut dicit Dionysius, 4 cap. De div. nom. [33]. Sed habitus in homine naturaliter causantur ex actibus, ut dictum est [a. 2] . Non ergo causat Deus in hominibus aliquos habitus absque actibus. 3. Praeterea, si aliquis habitus a Deo infundi­ tur, per illum habitum homo potest multos actus producere. Sed ex illis actibus causatur similis habitus, ut in 2 Ethic. [ l , 7] dicitur. Sequitur ergo duos habitus eiusdem speciei esse in eodem, unum acquisitum, et alterum infusum. Quod videtur esse impossibile, non enim duae formae unius speciei possunt esse in eodem subiecto. Non ergo habitus aliquis infunditur homini a Deo. Sed contra est quod dicitur Eccli. 1 5 [5],

    implevit eum Dominus spiritu sapientiae et intellectus. Sed sapientia et intellectus quidam habitus sunt. Ergo aliqui habitus homini a Deo infunduntur. Respondeo dicendum quod duplici ratione aliqui habitus homini a Deo infunduntur. Prima ratio est, quia aliqui habitus sunt qui­ bus homo bene disponitur ad finem exceden­ tem facultatem humanae naturae, qui est ulti­ ma et perfecta hominis beatitudo, ut supra [q. 5 a. 5] dictum est. Et quia habitus oportet esse proportionatos ei ad quod homo disponitur secundum ipsos, ideo necesse est quod etiam habitus ad huiusmodi finem disponentes, excedant facultatem humanae naturae. Unde tales habitus nunquam possunt homini inesse nisi ex infusione divina, sicut est de ornnibus gratuitis virtutibus. - Alia ratio est, quia Deus potest producere effectus causarum secun­ darum absque ipsis causis secundis, ut in primo [q. 1 05 a. 6] dictum est. Sicut igitur quandoque, ad ostensionem suae virtutis, pro­ ducit sanitatem absque naturali causa, quae tamen per naturam posset causari; ita etiam quandoque, ad ostendendam suam virtutem, infundit homini illos etiam habitus qui natu­ rali virtute possunt causari. Sicut apostolis dedit scientiam Scripturarum et omnium lin­ guarum, quam homines per studium vel con­ suetudinem acquirere possunt, licet non ita perfecte. Ad primum ergo dicendum quod Deus, quan­ tum ad suam naturam, aequaliter se habet ad

    488

    2. Dio agisce in tutti gli esseri in modo con­ forme alla loro natura: poiché, come scrive Dionigi, «è proprio della divina provvidenza salvare la natura». Ora, nell'uomo gli abiti in via naturale sono causati dagli atti, come si è spiegato. Quindi Dio non produce in noi certi abiti senza i nostri atti. 3. Se un abito viene infuso da Dio, con esso l'uomo può compiere molti atti. Ma «da que­ sti atti viene prodotto un abito consimile», al dire di Aristotele. Per cui ne seguirebbe che nel medesimo soggetto ci sarebbero due abiti della medesima specie, uno acquisito e l'altro infuso. n che sembra impossibile, poiché due forme della medesima specie non possono trovarsi nel medesimo soggetto. Quindi nes­ sun abito è infuso nell'uomo da Dio. In contrario: in Sir è detto: Il Signore lo riempì dello spirito di sapienza e di intelletto. Ma la sapienza e l'intelletto sono abiti. Quindi alcu­ ni abiti sono infusi nell'uomo da Dio. Risposta: alcuni abiti dell'uomo vanno attri­ buiti all' infusione da parte di Dio, per due motivi. - Primo, perché alcuni di essi servono a disporre l' uomo a un fine che supera la capacità della natura umana, cioè all'ultima e petfetta beatitudine, di cui abbiamo già parla­ to. E poiché gli abiti devono essere proporzio­ nati alla realtà a cui dispongono, è necessario che gli abiti che dispongono al suddetto fine siano superiori alla capacità della natura umana. Perciò tali abiti non possono trovarsi nell'uomo se non per un'infusione da parte di Dio: come è per tutte le virtù nell'ordine della grazia. - Secondo, perché Dio ha il potere di produrre tutti gli effetti delle cause seconde senza di esse, come si è spiegato nella Prima Parte . Perciò, come per mostrare la sua potenza talora egli produce delle guarigioni senza le cause naturali, che pure avrebbero la capacità di farlo, così, per lo stesso scopo, talora infonde nell'uomo quegli abiti che potrebbero essere prodotti dalle capacità della natura. Come Dio diede agli apostoli la cono­ scenza delle Scritture e di tutte le lingue, conoscenza che gli uomini possono acquista­ re, sia pure in modo meno perfetto, mediante lo studio e la pratica. Soluzione delle difficoltà: l . Rispetto alla loro propria natura Dio si comporta in modo ugua­ le con tutti, ma rispetto all'ordine della sua sapienza distribuisce ad alcuni, per determi-

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    Q. 5 l , A. 4

    La generazione degli abiti

    omnes, sed secundum ordinem suae sapien­ tiae certa ratione quaedam tribuit aliquibus, quae non tribuit aliis. Ad secundum dicendum quod hoc quod Deus in omnibus operatur secundum modum eorum, non excludit quin Deus quaedam operetur quae natura operari non potest, sed ex hoc sequitur quod nihil operatur contra id quod naturae convenit. Ad tettium dicendum quod actus qui produ­ cuntur ex habitu infuso, non causant aliquem habitum, sed confirmant habitum praeexisten­ tem, sicut medicinalia remedia adhibita homini sano per naturam, non causant aliquam sanita­ tem, sed sanitatem prius habitam corroborant.

    nati motivi, delle cose che non dà ad altri. 2. n fatto che Dio agisce in tutti gli esseri in conformità con la loro natura non esclude che egli compia in essi ciò che la natura non può compiere, ma da ciò segue soltanto che Dio non agisce mai contro ciò che è conforme alla natura. 3. Gli atti che sono prodotti da un abito infuso non causano un altro abito, ma rafforzano quello già esistente: come le medicine appli­ cate a un uomo naturalmente già sano non producono una nuova salute, ma rafforzano quella già posseduta.

    QUAESTI0 52

    QUESTIONE 52

    DE AUGMENTO HABITUUM

    L'AUMENTO DEGLI ABITI

    Deinde considerandum est de. Et circa hoc quaeruntur tria. Primo, utrum habitus augean­ tur. Secundo, utrum augeantur per additionem. Tertio, utrum quilibet actus augeat habitum.

    Passiamo ora a studiare l'aumento degli abiti. Sull'argomento si pongono tre quesiti. l . Gli abiti possono avere un aumento? 2. n loro aumento è dovuto a un'aggiunta? 3. Ogni atto provoca l'aumento dell'abito?

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum habitus augeantur

    Gli abiti possono avere un aumento?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod habi­ tus augeri non possint. l . Augmentum enim est circa quantitatem, ut dicitur in 5 Phys. [2,1 0]. Sed habitus non sunt in genere quantitatis, sed in genere qualitatis. Ergo circa eos augmentum esse non potest. 2. Praeterea, habitus est perfectio quaedam, ut dicitur in 7 Phys. [3,4]. Sed perfectio, cum importet finem et terminum, non videtur posse recipere magis et minus. Ergo habitus augeri non potest. 3. Praeterea, in bis quae recipiunt magis et minus, contingit esse alterationem, alterari enim dicitur quod de minus calido tit magis calidum. Sed in habitibus non est alteratio, ut probatur in 7 Phys. [3,4]. Ergo habitus augeri non possunt. Sed contra est quod fides est quidam habitus, et tamen augetur, unde discipuli Domino dicunt, Domine, adauge nobis fidem, ut habe­ tur Luc. 1 7 [5]. Ergo habitus augentur. Respondeo dicendum quod augmentum, sicut et alia ad quantitatem pertinentia, a quantitati-

    Sembra di no. Intàtti: l . L'aumento, come insegna Aristotele, inte­ ressa la quantità. Ma gli abiti non sono nel ge­ nere della quantità, bensì in quello della qua­ lità. Quindi in essi non ci può essere aumento. 2. L'abito è una perfezione, come nota Aristo­ tele. Ma una perfezione, implicando il concetto di fine e di termine, non ammette gradazioni. Quindi gli abiti non possono avere aumento. 3. Nelle cose che ammettono gradazioni tro­ viamo l'alterazione: infatti una cosa che da meno calda diventa più calda si dice che si altera. Ora, come Aristotele dimostra, negli abiti non ci sono alterazioni. Quindi gli abiti non possono aumentare. In contrario: la fede è un abito, e tuttavia può aumentare: per cui i discepoli dissero al Si­ gnore (Le): Signore, aumenta in noi la fede. Perciò gli abiti possono avere un aumento. Risposta: il termine aumento, come del resto tutti gli altri che si riferiscono alla quantità, dalla quantità materiale è passato a indicare realtà spirituali, data la connaturalità del

    Q. 52, A. l

    L 'aumento degli abiti

    bus corporalibus ad res spirituales intelligibi­ les transfertur; propter connaturalitatem intel­ lectus nostri ad res corporeas, quae sub imagi­ natione cadunt. Dicitur autem in quantitatibus corporeis aliquid magnum, secundum quod ad debitam perfectionem quantitatis perduci­ tur, unde aliqua quantitas reputatur magna in homine, quae non reputatur magna i n elephante. Unde et i n formis dicimus aliquid magnum, ex hoc quod est perfectum. Et quia bonum habet rationem perfecti, propter hoc in

    his quae non mole magna sunt, idem est esse maius quod melius, ut Augustinus dicit, in 6 De Trin. [8]. - Perfectio autem formae dupli­ citer potest considerari, uno modo, secundum ipsam formam; alio modo, secundum quod subiectum participat formam. Inquantum igi­ tur attenditur perfectio formae secundum ipsam formam, sic dicitur ipsa esse parva vel magna; puta magna vel parva sanitas vel scientia. Inquantum vero attenditur perfectio formae secundum participationem subiecti, dicitur magis et minus; puta magis vel minus album vel sanum. Non autem ista distinctio procedit secundum hoc, quod forma habeat esse praeter materiam aut subiectum, sed quia alia est consideratio eius secundum rationem speciei suae, et alia secundum quod participa­ tur in subiecto. - Secundum hoc igitur, circa intensionem et remissionem habituum et for­ marum, fuerunt quatuor opiniones apud phi­ losophos, ut Simplicius narrat in Commento praed. [In cat. 8]. Plotinus enim et alii Platoni­ ci ponebant ipsas qualitates et habitus susci­ pere magis et minus, propter hoc quod mate­ riales erant, et ex hoc habebant indetermina­ tionem quandam, propter materiae infinita­ tem. - Alii vero in contrarium ponebant quod ipsae qualitates et habitus secundum se non recipiebant magis et minus; sed qualia dicun­ tur magis et minus, secundum diversam parti­ cipationem; puta quod iustitia non dicatur magis et minus, sed iustum. Et hanc opinio­ nem tangit Aristoteles in Praed. [6,22] . Tertia fuit opinio Stoicorum, media inter has. Posuerunt enim quod aliqui habitus secun­ dum se recipiunl magis et minus, sicuti artes; quidam autem non, sicut virtutes. - Quarta opi­ nio fuit quorundam dicentium quod qualitates et formae immateriales non recipiunt magis et minus, materiales autem recipiunt. - Ut igitur huius rei veritas manifestetur, considerandum

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    nostro intelletto con gli esseri corporei, che cadono sotto l'immaginazione. Ora, un essere viene detto grande nella quantità materiale per il fatto che raggiunge la perfetta quantità a lui dovuta: per cui nell'uomo viene considera­ ta grande una certa quantità che invece non è grande in un elefante. Perciò, trattandosi di forme, diciamo che una cosa è grande per il fatto che è perfetta. E poiché il bene si identi­ fica con la perfezione, «negli esseri che non sono grandi in estensione il più si identifica con il meglio», come nota Agostino. - Ma la perfezione di una forma può essere considera­ ta da due Iati : primo, dal Iato della forma medesima; secondo, dal lato del soggetto che ne partecipa. In quanto dunque si considera la perfezione dal lato della f01ma, la forma stes­ sa viene denominata piccola o grande: e così si parlerà di grande o di scarsa salute, o scien­ za. In quanto invece si considera tale perfe­ zione dal lato del soggetto che ne partecipa, si dirà che una forma è più o meno intensa: si dirà, p. es., che un soggetto è più o meno bianco, o più o meno sano. Questa distinzione però non significa che la forma abbia un'esi­ stenza al di fuori della materia o del soggetto, ma significa soltanto che considerare la forma nella sua specie non è come considerarla in rapporto al soggetto che ne partecipa. - Ora, a proposito dello sviluppo e del decadimento degli atti e delle forme, ci furono presso i filo­ sofi quattro opinioni, come riferisce Simpli­ cio. Infatti Plotino e altri Platonici ritenevano che le qualità e gli abiti stessi avessero delle gradazioni, poiché sarebbero stati di ordine materiale, e quindi avrebbero avuto una certa indeterminazione, dato il carattere indefinito della materia. - Altri invece sostenevano che le qualità e gli abiti non avrebbero delle gra­ dazioni per se stessi, ma piuttosto l'avrebbero i soggetti qualificati, secondo la diversa parte­ cipazione delle qualità: le gradazioni, per es., non sarebbero nella giustizia, ma nel giusto. E Aristotele accenna a questa opinione nei Predicamenti. - La terza opinione, quella de­ gli Stoici, è una via di mezzo tra le due. Infatti essi ritenevano che alcuni abiti, le arti p. es., avessero in se stessi delle gradazioni, e altri invece no, p. es. le virtù. - La quarta opinione infine fu quella di quanti affermavano che le qualità immateriali non ammettono gradazio­ ni, mentre le ammettono quelle materiali. -

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    L 'aumento degli abiti

    est quod illud secundurn quod sortitur aliquid speciem, oportet esse fixum et stans, et quasi indivisibile, quaecumque enim ad illud attin­ gunt, sub specie continentur; quaecumque autem recedunt ab illo, vel in plus vel in minus, pertinent ad aliam speciem, vel perfec­ tiorem vel imperfectiorem. Unde philosophus dicit, in 8 Met. [7,3,8] , quod species rerum sunt sicut numeri, in quibus additio vel dimi­ nutio variat speciem. Si igitur aliqua forma, vel quaecumque res, secundum seipsam vel secundum aliquid sui, sortiatur rationem spe­ ciei; necesse est quod, secundum se conside­ rata, habeat determinatam rationem, quae neque in plus excedere, neque in minus defi­ cere possit. Et huiusmodi sunt calor et albedo, et aliae huiusmodi qualitates quae non dicun­ tur in ordine ad aliud, et multo magis substan­ tia, quae est per se ens. - Illa vero quae reci­ piunt speciem ex aliquo ad quod ordinantur, possunt secundum seipsa diversiticari in plus vel in minus, et nihilominus sunt eadem spe­ cie, propter unitatem eius ad quod ordinantur, ex quo recipiunt speciem. Sicut motus secun­ dum se est intensior et remissior, et tamen remanet eadem species, propter unitatem ter­ mini, ex quo specificatur. Et idem potest con­ siderari in sanitate, nam corpus pertingit ad rationem sanitatis, secundum quod habet di­ spositionem convenientem naturae animalis, cui possunt dispositiones diversae conve­ nientes esse; unde potest variari dispositio in plus vel in minus, et tamen semper remanet ratio sanitatis. Unde philosophus dicit, in l O Ethic. [3,3], quod sanitas ipsa recipit magis et minus, non enim eadem est commensuratio in omnibus, neque in uno et eodem semper; sed remissa permaner sanitas usque ad aliquid. Huiusmodi autem diversae dispositiones vel commensurationes sanitatis se habent secun­ dum excedens et excessum, unde si nomen sanitatis esset impositum soli perfectissimae commensurationi, tunc ipsa sanitas non dice­ retur maior vel minor. - Sic igitur patet qualiter aliqua qualitas vel forma possit secundum seipsam augeri vel minui, et qualiter non. - Si vero consideremus qualitatem vel formam se­ cundum participationem subiecti, sic etiam inveniuntur quaedam qualitates et formae re­ c ipere magis et minus, et quaedam non. Huiusmodi autem diversitatis causam Simpli­ cius assignat [In cat. 8] ex hoc, quod substan-

    Q. 52, A. l

    Per chiarire dunque la vera soluzione del pro­ blema bisogna tener presente che l'elemento determinante della specie deve essere qualco­ sa di fisso e di stabile, e quasi di indivisibile: per cui quanto ad esso si adegua fa parte della specie, mentre ciò che da esso si scosta, in più o in meno, appartiene a un'altra specie, o più perfetta o più imperfetta. Per cui il Filosofo afferma che le specie delle cose sono come i numeri, nei quali l'addizione e la sottrazione comportano una differenza specifica. Se dun­ que una fonna o un'altra entità qualsiasi ha ragione di specie, sia in se stessa che per qual­ che sua proprietà, è necessario che, considera­ ta in se stessa, abbia un'essenza così determi­ nata da non ammettere aumenti o diminuzio­ ni. Tali sono il calore, la bianchezza e altre qualità del genere, che non implicano una re­ lazione: e più ancora la sostanza, che è un ente per se. - Invece le cose che ricevono la specie dal termine a cui sono ordinate posso­ no avere per se stesse queste diversità di gra­ dazione, pur restando della medesima specie in forza dell'unicità del termine a cui sono ordinate e dal quale ricevono la specie. Il moto, p. es., è per se stesso più o meno inten­ so; e tuttavia rimane sempre della medesima specie, per l'unità del tennine da cui è specifi­ cato. E lo stesso si dica della salute: infatti il corpo raggiunge la salute in quanto ha le disposizioni che convengono alla natura del­ l' animale, disposizioni però che possono ri­ manere sempre convenienti anche se diverse: per cui tali disposizioni possono variare in più o in meno, entro i limiti della salute. Per cui il Filosofo afferma che «la salute ammette delle gradazioni: poiché l'equilibrio [degli umori] non è uguale in tutti, e non è sempre uguale in un medesimo soggetto, ma anche se diminui­ to fino a un certo limite Iimane sempre salu­ te». Ora, queste diverse disposizioni relative alla salute sono l'una superiore o inferiore all ' altra: se quindi il termine salute fosse riservato alla sola disposizione più perfetta, non si potrebbe parlare di una salute maggio­ re o minore. E così abbiamo chiarito in che modo una qualità o una forma è o non è, per se stessa, passibile di aumento o di diminu­ zione. - Se invece consideriamo le qualità o forme come partecipate e inerenti a un sog­ getto, anche allora troviamo che alcune sono passibili di gradazioni e altre no. Simplicio fa -

    Q. 52, A. l

    L 'aumento degli abiti

    tia secundum seipsam non potest recipere magis et minus, quia est ens per se. Et ideo omnis forma quae substantialiter participatur in subiecto, caret intensione et remissione, unde in genere substantiae nihil dicitur secun­ dum magis et minus. Et quia quantitas pro­ pinqua est substantiae, et figura etiam conse­ quitur quantitatem; inde est quod neque etiam in istis dicitur aliquid secundum magis aut minus. Unde philosophus dicit, in 7 Phys. [3,2], quod cum aliquid accipit formam et figuram, non dicitur alterari, sed magis fieri. Aliae vero qualitates, quae sunt magis distan­ te. a substantia, et coniunguntur passionibus et actionibus, recipiunt magis et minus secun­ dum participationem subiecti. - Potest autem et magis explicari huiusmodi diversitatis ratio. Ut enim dictum est, id a quo aliquid habet spe­ ciem, oportet manere fixum et stans in indivi­ sibili. Duobus igitur modis potest contingere quod forma non participatur secundum magis et minus. Uno modo, quia participans habet speciem secundum ipsam. Et inde est quod nulla forma substantialis participatur secun­ dum magis et minus. Et propter hoc philo­ sophus dicit, in 8 Met. [7,3 , 1 0], quod, sicut

    numerus non habet magis neque minus, sic neque substantia quae est secundum speciem, idest quantum ad participationem fonnae spe­ cificae; sed si quidem quae cum materia, idest, secundum materiales dispositiones invenitur magis et minus in substantia. - Alio modo potest contingere ex hoc quod ipsa indivisibilitas est de ratione formae, unde oportet quod, si aliquid participet formam illam, quod partici­ pet illam secundum rationem indivisibilitatis. Et inde est quod species numeri non dicuntur secundum magis et minus, quia unaquaeque species in eis constituitur per indivisibilem unitatem. Et eadem ratio est de speciebus quantitatis continuae quae secundum numeros accipiuntur ut bicubitum et tricubitum; et de relationibus, ut duplum et triplum; et de fi­ guris, ut trigonum et tetragonum. Et hanc rationem ponit Aristoteles in Praed. [6,23], ubi, assignans rationem quare figurae non recipiunt magis et minus, dicit, quae quidem

    enim reciphmt trigoni rationem et circuii, similiter trigona ve[ circuii sunt, quia scilicet indivisibilitas est de ipsa eorum ratione, unde quaecumque participant rationem eorum, oportet quod indivisibiliter participent. - Sic

    492

    dipendere questa diversità dal fatto che la sostanza per se stessa non ammette gradazio­ ni, essendo un ente per se, per cui qualsiasi forma venga ricevuta in un soggetto in manie­ ra sostanziale non ammette aumento o dimi­ nuzione: infatti nel genere della sostanza non si parla di gradazioni. E poiché la quantità è vicina alla sostanza, e la figura è legata alla quantità, anche in queste non si ammettono gradazioni. Per cui il Filosofo fa notare che quando una cosa riceve una forma o tigura non si dice che viene alterata, ma piuttosto che viene fatta. Invece le altre qualità, che sono più distanti dalla sostanza, e che sono connesse con le funzioni della passione e del­ l' azione, ammettono gradazioni secondo la diversa partecipazione del soggetto. - Però di tale differenza si può dare una spiegazione migliore. Come infatti si è già notato, l' ele­ mento che costituisce la specie di una cosa deve rimanere fisso e stabile in un dato indivi­ sibile. Quindi per due motivi la partecipazio­ ne di una forma può escludere delle gradazio­ ni. Primo, perché il soggetto partecipante è specificato da tale forma. Ed è per questo che nessuna fonna sostanziale viene partecipata secondo una gradazione. Per cui il Filosofo affenna che «come i l numero non ammette gradazioni, così non le ammette la sostanza in quanto rappresenta la specie», cioè quanto alla partecipazione della forma specitica; si può invece ammettere un più e un meno nella sostanza «Se questa viene considerata unita alla materia», cioè in forza delle disposizioni materiali. - Secondo, per il fatto che l' indivi­ sibilità stessa è implicita nel concetto di una data forma: per cui è necessario, se un essere partecipa di tale forma, che la partecipi nella sua indivisibile unità. Ed è per questo che le specie dei numeri non ammettono gradazioni: poiché i n essi ogni specie è costituita d i un'unità indivisibile. E l o stesso s i dica delle varie specie della quantità continua numerica­ mente detenninate, p. es. delle grandezze di due cubiti, tre cubiti ecc., oppure dei numeri correlativi, come il doppio e il triplo; ovvero delle misure geometriche, come il triangolo, il quadrilatero ecc. E Atistotele accenna a que­ sto argomento nel determinare il motivo per cui le figure non ammettono gradazioni: . E altrove nota che «molte amicizie si dissolvono per man­ canza di contatti». E per lo stesso motivo anche altri abiti virtuosi decadono o si perdo­ no per mancanza di esercizio. Risposta: come dice il Filosofo, una cosa può muovere in due modi: primo, direttamente, cioè mediante la natura stessa della propria forma, come il fuoco quando riscalda; secon­ do, indirettamente, come fa tutto ciò che toglie un ostacolo. Ora, la mancanza di eser­ cizio produce la distruzione o il decadimento degli abiti in questo secondo modo: cioè togliendo quegli atti che ostacolavano le cause di tale distruzione o decadimento. Infatti abbiamo detto sopra che gli abiti ven­ gono distrutti o menomati direttamente da agenti contrari. Ora, crescendo col passare del tempo tutte le disposizioni contrarie ai vari abiti, che invece andrebbero eliminate con gli atti, è chiaro che tali abiti vengono menomati, oppure totalmente distrutti per la prolungata mancanza di esercizio; come è evidente nel caso della scienza e della virtù. È infatti evi-

    503

    La dissoluzione e la diminuzione degli abiti

    scientia et in virtute. Manifestum est enim quod habitus virtutis moralis facit hominem promptum ad eligendum medium in operatio­ nibus et passionibus. Cum autem aliquis non utitur habitu virtutis ad moderandas passiones vel operationes proprias, necesse est quod proveniant multae passiones et operationes praeter modum virtutis, ex inclinatione appe­ titus sensitivi, et aliorum quae exterius mo­ vent. Unde corrumpitur virtus, vel diminuitur, per cessationem ab actu. - Similiter etiam est ex parte habituum intellectualium, secundum quos est homo promptus ad recte iudicandum de imaginatis. Cum igitur homo cessat ab usu intellectualis habitus, insurgunt imaginationes extraneae, et quandoque ad contrarium ducentes; ita quod, nisi per frequentem usum intellectualis habitus, quodammodo succidan­ tur vel comprimantur, redditur homo minus aptus ad recte iudicandum, et quandoque tota­ liter disponitur ad contrarium. Et sic per ces­ sationem ab actu diminuitur, vel etiam cor­ rumpitur intellectualis habitus. Ad primum ergo dicendum quod ita etiam calar per cessationem a calefaciendo corrum­ peretur, si per hoc incresceret frigidum, quod est cali di corruptivum. Ad secundum dicendum quod cessatio ab actu est movens ad corruptionem vel diminu­ tionem, sicut removens prohibens, ut dictum est [co.]. Ad tertium dicendum quod pars intellectiva animae secundum se est supra tempus, sed pars sensitiva subiacet tempori. Et ideo per temporis cursum, transmutatur quantum ad passiones appetitivae partis et etiam quantum ad vires apprehensivas. Unde philosophus dicit, in 4 Phys. [ 1 2, 10; 13,8], quod tempus est causa oblivionis.

    Q.

    53, A. 3

    dente che l' abito di una virtù morale rende l 'uomo pronto a scegliere il giusto mezzo negli atti e nelle passioni. Ora, se uno non fa uso dell'abito virtuoso nel moderare le pro­ prie passioni e i propri atti, necessariamente sorgono molti atti e passioni contrari alla virtù, a motivo delle inclinazioni dell'appetito sensitivo e di altre cause che muovono dall'e­ sterno. Perciò la virtù viene distrutta o meno­ mata dalla cessazione del suo atto. - E la stes­ sa cosa vale per gli abiti intellettivi, che ren­ dono l'uomo pronto a giudicare le realtà pre­ sentate dall'immaginativa. Quando perciò un uomo si astiene dall'esercitare un dato abito intellettivo insorgono delle immaginazioni estranee, che orientano talvolta in senso con­ trario: per cui senza l 'uso frequente di tale abito che in qualche modo le taglia e le soffo­ ca, quest'uomo diviene meno pronto a giudi­ care rettamente, e talora acquista addirittura una disposizione contraria. Quindi la mancan­ za d i esercizio può menomare o anche distruggere un abito intellettivo. Soluzione delle difficoltà: l . Anche il calore potrebbe perdersi cessando di riscaldare se nel frattempo crescesse il freddo, che ne è l'elemento distmttivo. 2. Come si è spiegato, la mancanza di eserci­ zio è causa movente della distruzione e del decadimento quale removens prohibens [cioè in quanto rimuove l'impedimento]. 3. La parte intellettiva dell'anima per se stessa è al disopra del tempo; non così però la parte sensitiva. Perciò quest'ultima col passare del tempo viene ad alterarsi, sia rispetto alle pas­ sioni dell' appetito che rispetto alle facoltà conoscitive. Per cui il Filosofo afferma che il tempo è causa di dimenticanza.

    QUAESTI0 54

    QUESTIONE 54

    DE DISTINCTIONE HABITUUM

    LA DISTINZIONE DEGLI ABITI

    Deinde considerandum est de distinctione habituum. Et circa hoc quaenmtur quatuor. Primo, utrum multi habitus possint esse in una potentia. Secundo, utrum habitus distin­ guantur secundum obiecta. Tertio, utrum habitus distinguantur secundum bonum et malum. Quarto, utrum unus habitus ex multis habitibus constituatur.

    Dobbiamo ora vedere come gli abiti si distin­ guono fra di loro. Sull'argomento si pongono quattro quesiti: l . In una sola potenza ci pos­ sono essere più abiti? 2. Gli abiti si distinguo­ no secondo i loro oggetti? 3. Si distinguono tra loro in base all'antinomia tra il bene e il male? 4. Un abito può constare di più abiti?

    La distinzione degli abiti

    Q. 54, A. l

    504

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum multi habitus possint esse in una potentia

    In una sola potenza possono trovarsi più abiti?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod non possint esse multi habitus in una potentia. l . Eorum enim quae secundum idem distin­ guuntur multipl icato uno, multiplicatur et aliud. Sed secundum idem potentiae et habitus distinguuntur, scilicet secundum actus et obiecta. Similiter ergo multiplicantur. Non er­ go possunt esse multi habitus in una potentia. 2. Praeterea, potentia est virtus quaedam sim­ plex. Sed in uno subiecto simplici non potest esse diversitas accidentium, quia subiectum est causa accidentis; ab uno autem simplici non videtur procedere nisi unum. Ergo in una potentia non possunt esse multi habitus. 3. Praeterea, sicut corpus formatur per figu­ ram, ita potentia formatur per habitum. Sed unum corpus non potest simul formari diversis figuris. Ergo neque una potentia potest simul formari diversis habitibus. Non ergo plures habitus possunt simu1 esse in una potentia. Sed contra est quod intellectus est una poten­ tia, in qua tamen sunt diversarum scientiarum habitus. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 49 a. 4] dictum est, habitus sunt dispositiones quaedam alicuius in potentia existentis ad ali­ quid, sive ad naturam, sive ad operationem vel finem naturae. Et de illis quidem habitibus qui sunt dispositiones ad naturam, manife­ stum est quod possunt plures esse in uno subiecto, eo quod unius subiecti possunt diversimode partes accipi, secundum quarum dispositionem habitus dicuntur. Sicut, si acci­ piantur humani corporis partes humores, prout disponuntur secundum naturam huma­ nam, est habitus vel dispositio sanitatis, si vero accipiantur partes similes ut nervi et ossa et carnes, earum dispositio in ordine ad nato­ ram, est fortitudo aut macies, si vero accipian­ tur membra, ut manus et pes et huiusmodi, earum dispositio naturae conveniens, est pul­ chritudo. Et sic sunt plures habitus vel disposi­ tiones in eodem. - Si vero loquamur de habi­ tibus qui sunt dispositiones ad opera, qui pro­ prie pertinent ad potentias; sic etiam contingit unius potentiae esse habitus plures. Cuius ratio est, quia subiectum habitus est potentia passiva, ut supra [q. 5 1 a. 2] dictum est,

    Sembra di no. Infatti: l . Tra cose che si distinguono per un identico elemento il numero delle une deve corrispon­ dere a quello delle altre. Ora, le potenze e gli abiti si distinguono in base al medesimo ele­ mento, cioè in base ai loro atti e oggetti. Quin­ di deve corrispondere anche il loro numero. E così non ci possono essere più abiti nella medesima potenza. 2. La potenza è una facoltà semplice. Ma in un soggetto semplice non ci può essere una diversità di accidenti: poiché il soggetto è causa dei suoi accidenti, e da una realtà sem­ plice sembra che debba derivare qualcosa di unico. Perciò in una potenza non ci possono essere più abiti. 3. Come un corpo prende forma mediante la figura, così la potenza prende torma mediante l'abito. Ma un corpo non può essere modellato simultaneamente secondo molteplici figure. Quindi neppure una potenza può essere si­ multaneamente informata da molteplici abiti. Perciò più abiti non possono coesistere in una medesima potenza. In contrario: l'intelletto è un'unica potenza, e tuttavia in essa si trovano gli abiti di molte scienze. Risposta: come si è già visto, gli abiti sono di­ sposizioni di un essere che è in potenza ri­ spetto a qualcosa, cioè o alla natura stessa, o all'operazione che è il fine della natura. Ora, quanto a quegli abiti che sono disposizioni alla natura, è evidente che possono essere molteplici in un unico soggetto: poiché in esso si possono considerare in più modi le varie parti, le cui disposizioni costituiscono altrettanti abiti. Se ad es. prendiamo come parte del corpo umano gli umori, in quanto essi sono disposti in armonia con la natura umana costituiscono l'abito o la disposizione della salute; se invece prendiamo le parti si­ mili, p. es. i nervi, le ossa e le carni, dalla rispettiva disposizione in ordine alla natura avremo la robustezza o la magrezza; se infine prendiamo le membra, p. es. le mani, i piedi e così via, dalla loro disposizione conforme alla natura avremo la bellezza. E così in un mede­ simo essere vi sono più abiti o disposizioni. -

    505

    La distinzione degli abiti

    potentia enim activa tantum non est alicuius habitus subiectum, ut ex supradictis [q. 5 1 a. 2] patet. Potentia autem passiva comparatur ad actum determinatum unius speciei, sicut ma­ teria ad formam, eo quod, sicut materia deter­ minatur ad unam formam per unum agens, ita etiam potentia passiva a ratione unius obiecti activi determinatur ad unum actum secundum speciem. Unde sicut plura obiecta possunt movere unam potentiam passivam, ita una potentia passiva potest esse subiectum diver­ sorum actuum vel perfectionum secundum speciem. Habitus autem sunt quaedam quali­ tates aut formae inhaerentes potentiae, quibus inclinatur potentia ad determinatos actus se­ cundum speciem. Unde ad unam potentiam possunt plures habitus pertinere, sicut et plures actus specie differentes. Ad primum ergo dicendum quod, sicut i n rebus naturalibus diversitas specierum est secundum formam, diversitas autem generum est secundum materiam, ut dicitur in 5 Met. [4,28,5] (ea enim sunt diversa genere, quorum est materia diversa), ita etiam diversitas obiec­ torum secundum genus, facit distinctionem potentiarum (unde phi losophus dicit, in 6 Ethic. [ l ,5], quod ad ea quae sunt genere

    altera, sunt etiam animae particulae aliae); diversitas vero obiectorum secundum spe­ ciem, facit diversi tatem actuum secundum speciem, et per consequens habituum. Quae­ cumque autem sunt diversa genere, sunt etiam specie diversa, sed non convertitur. Et ideo diversarum potentiarum sunt diversi actus specie, et diversi habitus, non autem oportet quod diversi habitus sint diversarum potentia­ rum, sed possunt esse plures unius. Et sicut sunt genera generum, et species specierum; ita etiam contingit esse diversas species habi­ tuum et potentiarum. Ad secundum dicendum quod potentia, etsi sit quidem simplex secundum essentiam, est tamen multiplex virtute, secundum quod ad multos actus specie di1ì'erentes se extendit. Et ideo nihil prohibet in una potentia esse multos habitus specie differentes. Ad tertium dicendum quod corpus formatur per figuram sicut per propriam terminatio­ nem, habitus autem non est terminatio poten­ tiae, sed est dispositio ad actum sicut ad ulti­ mum terminum. Et ideo non possunt esse unius potentiae simul plures actus, nisi forte

    Q.

    54, A. l

    Se poi parliamo degli abiti che sono disposi­ zioni all'operazione, e che propriamente risie­ dono nelle potenze, anche allora accade che più abiti si trovino in un' unica potenza. E il motivo è che il soggetto dell ' abito è una potenza passiva, come sopra abbiamo affer­ mato: infatti una potenza che fosse soltanto attiva non potrebbe essere sede di abiti, come risulta chiaro da quanto detto. Ora, una poten­ za passiva sta a un atto specificamente deter­ minato come la materia sta alla forma: come infatti la materia prima può essere determina­ ta da un unico agente soltanto a una data forma, così una potenza passiva può essere determinata dalla ragione fonnale di un unico oggetto soltanto a un unico atto di una data specie. Per cui, come un'unica potenza passi­ va può essere posta in moto da molti oggetti, così potrà anche essere il soggetto di atti o perfezioni di specie diversa. Ma gli abiti sono delle qualità o forme inerenti alla potenza che servono a inclinarla verso atti di detenninate specie. Per cui a un' unica potenza possono appartenere più abiti, come le appartengono più atti di specie diversa. Soluzione delle difficoltà: l . Come tra gli esse­ ri materiali la diversità delle specie dipende dalla forma, mentre la diversità dei generi dipende piuttosto dalla materia, come dice Aristotele - infatti esseti di materia diversa so­ no diversi nel genere -, così la diversità ge­ nerica degli oggetti produce la distinzione delle potenze (per cui il Filosofo insegna che «a cose distinte nel genere corrispondono parti distinte dell 'anima»), mentre la diversità speci­ fica degli oggetti produce la diversità specifica degli atti, e per conseguenza degli abiti. D'altra parte cose diverse secondo il genere sono diverse anche secondo la specie; però non viceversa. Quindi gli atti e gli abiti di potenze diverse sono anch'essi diversi ; invece non è necessario che abiti diversi appartengano a potenze diverse, ma possono appartenere a una sola potenza. E come ci sono vari generi di generi, e varie specie di specie, così ci possono essere varie specie di abiti e di potenze. 2. Sebbene la potenza sia semplice nella sua essenza, è tuttavia molteplice nella sua virtua­ lità, in quanto si estende a molteplici atti di specie diversa. Perciò nulla impedisce che in una sola potenza ci siano più abiti specifica­ mente diversi .

    Q. 54, A. l

    506

    La distinzione degli abiti

    secundum quod unus comprehenditur sub alio, sicut nec unius corporis plures figurae, nisi secundum quod una est in alia, sicut lri­ gonum in tetragono. Non enim potest intel­ lectus simul multa actu intelligere. Potest tamen simul habitu multa scire.

    Articulus

    2

    3. Un corpo viene conformato dalla sua figura così da ricevere le proprie terminazioni; inve­ ce un abito non è la terminazione della poten­ za, ma è solo una disposizione all'ultimo ter­ mine, che è l' atto. Quindi un'unica potenza non può avere più atti simultaneamente, a meno che non siano subordinati fra loro: esat­ tamente come un unico corpo non può avere più di una figura, a meno che una non sia implicita nell'altra, come il triangolo nel qua­ drilatero. Infatti l 'intelletto non può pensare simultaneamente più cose: può però cono­ scerle simultaneamente in modo abituale. Articolo

    2

    Utrum habitus distinguantur secundum obiecta

    Gli abiti si distinguono secondo i loro oggetti?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod habitus non distinguantur secundum obiecta. l . Contraria enim sunt specie difterentia. Sed idem habitus scientiae est contrariorum, sicut medicina sani et aegri. Non ergo secundum obiecta specie differentia, habitus distinguuntur. 2. Praeterea, diversae scientiae sunt diversi habitus. Sed idem scibile pertinet ad diversas scientias, sicut terram esse rotundam demon­ strat et naturalis et astrologus, ut dicitur in 2 Phys. [2,2]. Ergo habitus non distinguuntur secundum obiecta. 3. Praeterea, eiusdem actus est idem obiec­ tum. Sed idem actus potest pertinere ad diver­ sos habitus virtutum, si ad diversos fines refe­ ratur, sicut dare pecuniam alicui, si sit propter Deum, pertinet ad caritatem; si vero sit prop­ ter debitum solvendum, pertinet ad iustitiam. Ergo etiam idem obiectum potest ad diversos habitus pertinere. Non ergo est diversitas habituum secundum diversitatem obiectorum. Sed contra, actus differunt specie secundum diversitatem obiectorum, ut supra [q. 1 8 a. 5] dictum est. Sed habitus sunt dispositiones quaedam ad actus. Ergo etiam habitus distin­ guuntur secundum diversa obiecta. Respondeo dicendum quod habitus et est forma quaedam, et est habitus. Potest ergo distinctio habituum secundum speciem attendi aut secundum communem modum quo for­ mae specie distinguuntur; aut secundum pro­ prium modum distinctionis habituum. Distin­ guuntur siquidem formae ad invicem secun­ dum diversa principia activa, eo quod omne

    Sembra di no. Infatti: l . I contrari sono specificamente diversi. Ep­ pure uno stesso abito di scienza ha per og­ getto dei contrari: come la medicina ha per oggetto tanto i sani quanto i malati. Quindi gli abiti non sono distinti in base a oggetti speci­ ficamente diversi. 2. Scienze diverse sono abiti diversi. Ma un medesimo dato scientifico può appartenere a scienze diverse: che la terra è rotonda, p. es., lo dimostra sia il fisico che l' astronomo, co­ me dice Aristotele. Perciò gli abiti non si di­ stinguono secondo gli oggetti. 3. Un dato atto non può avere che un unico oggetto. Invece un medesimo atto può appar­ tenere ad abiti di virtù diverse, se si riferisce a fini diversi: dare del danaro, p. es., se è fatto per amor di Dio appartiene alla carità, mentre se è fatto per saldare un debito spetta alla giu­ stizia. Perciò un medesimo oggetto può appar­ tenere ad abiti diversi. Quindi la diversità degli abiti non dipende dalla diversità degli oggetti. In contrario: gli atti, come si è già dimostrato, differiscono specificamente secondo la diver­ sità degli oggetti. Ma l'abito è una disposizio­ ne all'atto. Quindi anche gli abiti si distinguo­ no secondo i diversi oggetti. Risposta: ogni abito, oltre a essere un abito, è una forma. Perciò la distinzione specifica degli abiti può essere rilevata sia dal modo con cui comunemente si distinguono le forme nelle loro specie, sia dal modo proprio della distin­ zione degli abiti. Ora, le forme si distinguono tra loro in base ai diversi princìpi attivi: poiché

    507

    La distinzione degli abiti

    agens facit simile secundum speciem. Habitus autem importat ordinem ad aliquid. Omnia autem quae dicuntur secundum ordinem ad aliquid, distinguuntur secundum distinctionem eorum ad quae dicuntur. Est autem habitus dispositio quaedam ad duo ordinata, scilicet ad naturam, et ad operationem consequentem na­ turam. Sic igitur secundum tria, habitus spe­ cie distinguuntur. Uno quidem modo, secun­ dum principia activa talium dispositionum; alio vero modo, secundum naturam; tertio vero modo, secundum obiecta specie differentia; ut per sequentia [ad 1 -3; a. 3] explicabitur. Ad primum ergo dicendum quod in distinc­ tione potentiarum, vel etiam habituum, non est considerandum ipsum obiectum materiali­ ter; sed ratio obiecti differens specie, vel etiam genere. Quamvis autem contraria spe­ cie differant diversitate rerum, tamen eadem ratio est cognoscendi utrumque, quia unum per aliud cognoscitur. Et ideo inquantum con­ veniunt in una ratione cognoscibilis, pertinent ad unum habitum cognoscitivum. Ad secundum dicendum quod terram esse rotundam per aliud medium demonstrat natu­ ralis, et per aliud astrologus, astrologus enim hoc demonstrat per media mathematica, sicut per figuras eclipsium, vel per aliud huiusmo­ di; naturalis vero hoc demonstrat per medium naturale, sicut per motum gravium ad me­ dium, vel per aliud huiusmodi. Tota autem virtus demonstrationis, quae est syllogismus faciens scire, ut dicitur in l Post. [2,4], depen­ det ex medio. Et ideo diversa media sunt sicut diversa principia activa, secundum quae habi­ tus scientiarum diversificantur. Ad tertium dicendum quod, sicut philosophus dicit, in 2 Phys. [9,3] et in 7 Ethic. [8,4], ita se habet finis in operabilibus, sicut principium in demonstrativis. Et ideo diversitas finium diversificat virtutes sicut et diversitas activo­ rum principiorum. Sunt etiam ipsi fines obiecta actuum interiorum, qui maxime perti­ nent ad virtutes, ut ex supradictis [q. 1 8 a. 6; q. 1 9 a. 2 ad l ; q. 34 a. 4] patet. -

    Q.

    54, A. 2

    ogni agente produce un effetto ad esso simile nella specie. E a sua volta l'abito dice ordine a qualcosa. Ma tutte le qualità che dicono ordine a qualcosa si distinguono in base alla distin­ zione delle realtà a cui sono ordinate. D'altra parte l'abito è una disposizione che può essere ordinata a due cose: o alla natura, o ali' opera­ zione che accompagna la natura. - Così dun­ que gli abiti si distinguono tra loro specifica­ mente in tre modi. Primo, in base ai princìpi attivi di tali disposizioni; secondo, in base alla natura [del soggetto] ; terzo, in base agli ogget­ ti specificamente differenti. Ma tutto ciò sarà meglio spiegato in seguito. Soluzione delle difficoltà: l . Nella distinzione delle potenze, o anche degli abiti, non si deve considerare l 'oggetto materialmente, ma si deve considerare la ragione formale dell'og­ getto che differisce nella specie o nel genere. Ora, sebbene i contrari differiscano material­ mente secondo la specie, tuttavia la ragione della loro conoscenza è identica: poiché l'uno serve alla conoscenza dell' altro. In quanto dunque convengono in un'unica ragione di conoscibilità, appartengono a un unico abito conoscitivo. 2. Che la terra è rotonda viene dimostrato dal­ l' astronomo mediante princìpi matematici, cioè mediante la figura delle eclissi, o altre cose del genere; invece dal fisico è dimostrato per mezzo di princìpi fisici, cioè mediante il moto dei gravi verso il centro, o altri fatti del genere. Ora, tutta la forza della dimostrazio­ ne, che secondo Aristotele è «Un sillogismo che produce la scienza», dipende dal mezzo dimostrativo. Perciò mezzi dimostrativi diver­ si sono come princìpi attivi diversi, in base ai quali si differenziano gli abiti della scienza. 3. Come insegna il Filosofo, nelle operazioni il fine ha le funzioni che hanno i princìpi nelle dimostrazioni . Perciò la diversità del fine rende diverse le virtù, come anche la diversità dei princìpi attivi. Inoltre il tine è l'oggetto degli atti interni, che sono la parte principale delle virtù, come è evidente da quanto detto.

    Articulus 3

    Articolo 3

    Utrum habitus distinguantur secundum bonum et malum

    Gli abiti si distinguono tra loro in base all'opposizione tra bene e male?

    Ad tertium sic proceditur. Vìdetur quod habitus non distinguantur secundum bonum et malum.

    Sembra di no. Intàtti: l . n bene e il male sono contrari. Ma sopra

    Q. 54, A. 3

    La distinzione degli abiti

    l . Bonum enim et malum sunt contraria. Sed idem habitus est contrariorum, ut supra [a. 2 ad l ] habitum est. Ergo habitus non distingu­ untur secundum bonum et malum. 2. Praeterea, bonum convertitur cum ente, et sic, cum sit commune omnibus, non potest surni ut differentia alicuius speciei; ut patet per philosophum in 4 Top. [6,2] . Similiter etiam malum, cum sit privatio et non ens, non potest esse alicuius entis differentia. Non ergo secundum bonum et malum possunt habitus specie distingui. 3. Praeterea, circa idem obiectum contingit esse diversos habitus malos, sicut circa con­ cupiscentias intemperantiam et insensibilita­ tem, et similiter etiam plures habitus bonos, scilicet virtutem humanam et virtutem heroi­ cam sive divinam, ut patet per philosophum in 7 Ethic. [ 1 , 1 ]. Non ergo distinguuntur habi­ tus secundum bonum et malum. Sed contra est quod habitus bonus contraria­ tuT habitui malo, sicut virtus vitio. Sed contra­ ria sunt diversa secundum speciem. Ergo habitus differunt specie secundum differen­ tiam boni et mali. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 2], habitus specie distinguuntur non solum secundum obiecta et principia activa, sed etiam in ordine ad naturam. Quod quidem contingit dupliciter. - Uno modo, secundum convenientiam ad naturam, vel etiam secun­ dum disconvenientiam ab ipsa. Et hoc modo distinguuntur specie habitus bonus et malus, nam habitus bonus dicitur qui disponit ad actum convenientem naturae agentis; habitus autem malus dicitur qui disponit ad actum non convenientem naturae. Sicut actus virtu­ tum naturae humanae conveniunt, eo quod sunt secundum rationem, actus vero vitiorum, cum sint contra rationem, a natura humana d iscordan t . Et sic manifestum est quod secundum differentiam boni et mali, habitus specie distinguuntur. - Alio modo secundum naturam habitus distinguuntur, ex eo quod habitus unus disponit ad actum convenientem naturae inferimi; alius autem habitus disponit ad actum convenientem naturae superiori. Et sic vittus humana, quae disponit ad actum convenientem naturae humanae, distinguitur a divina virtute vel heroica, quae disponit ad actum convenientem cuidam superiori naturae.

    508

    abbiamo dimostrato che i contrari apparten­ gono a un unico abito. Quindi gli abiti non si distinguono tra loro in base all'opposizione tra bene e male. 2. Il bene è esteso quanto l' ente: essendo quindi comune a tutte le cose non può costi­ tuire una differenza specifica, come spiega Aristotele. E così anche il male: essendo pri­ vazione e non ente, non può costituire la dif­ ferenza di un ente. Perciò il bene e il male non possono determinare una distinzione spe­ cifica negli abiti. 3. Intorno a un medesimo oggetto ci possono essere abiti cattivi diversi: la concupiscenza, p. es., riguarda sia l'intemperanza che l'insen­ sibilità; e lo stesso si dica degli abiti buoni, tra i quali, al dire del Filosofo, troviamo viitù umane e virtù eroiche, o divine. Quindi gli abiti non sono tra loro distinti in base all'op­ posizione tra bene e male. In contrario : l ' abito buono è contrario a quello cattivo, come la virtù è contraria al vi­ zio. Ma i contrari sono specificamente diver­ si . Quindi gli abiti differiscono specifica­ mente tra loro in base all' antinomia tra bene e male. Risposta: gli abiti, come si è detto, si distin­ guono tra loro specificamente non soltanto in base agli oggetti e ai princìpi attivi, ma anche in ordine alla natura. E ciò può avvenire in due modi. - Primo, in base all' accordo o al disaccordo con la natura. Ed è così che gli abiti sono specificamente buoni o cattivi: un abito infatti è buono se predispone a un atto conveniente alla natura dell' agente; è invece cattivo se predispone a un atto che a quella natura non si addice. Come gli atti delle virtù si addicono alla natura umana perché sono conformi alla ragione, mentre gli atti dei vizi sono in contrasto con la natura umana i n quanto contrari alla ragione. È chiaro quindi che gli abiti sono tra loro specificamente di­ stinti in base alla differenza tra bene e male. Secondo, gli abiti possono essere tra loro di­ stinti in ordine alla natura per il fatto che alcu­ ni predispongono ad atti proporzionati a una natura inferiore, altri invece ad atti proporzio­ nati a una natura superiore. E così le virtù umane, che predispongono ad atti conformi alla natura umana, sono distinte dalle virtù divine ed eroiche, che predispongono invece ad atti conformi a una natura superiore.

    509

    La distinzione degli abiti

    Q. 54,

    A. 3

    Ad primum ergo dicendum quod contrario­ rum potest esse unus habitus, secundum quod contraria conveniunt in una ratione. Nunquam tamen contingit quod habitus contrarli sint unius speciei, contrarietas enim habituum est secundum contrarias rationes. Et ita secun­ dum bonum et malum habitus distinguuntur, scilicet inquantum unus habitus est bonus et alius malus, non autem ex hoc quod unus est boni et alius mali. Ad secundum dicendum quod bonum com­ mune omni enti non est differentia consti­ tuens speciem alicuius habitus, sed quoddam bonum determinatum, quod est secundum convenientiam ad determinatam naturam, sci­ licet humanam. Similiter etiam malum quod est differentia constitutiva habitus, non est pri­ vatio pura, sed est aliquid determinatum repu­ gnans determinatae naturae. Ad tertium dicendum quod plures habitus boni circa idem specie, distinguuntur secun­ dum convenientiam ad diversas naturas, ut dictum est [co.]. Plures vero habitus mali distinguuntur circa idem agendum secundum diversas repugnantias ad id quod est secun­ dum naturam, sicut uni virtuti contrariantur diversa vitia circa eandem materiam.

    Soluzione delle difficoltà: l . I contrari posso­ no appartenere a un unico abito in quanto concordano in una ragione unica. Ma non può mai avvenire che abiti contrari appartengano a un'unica specie: infatti la contrarietà degli abiti è basata su ragioni [o differenze specifi­ che] contrarie. Perciò gli abiti sono tra loro distinti in base ali' opposizione tra bene e male non perché l'oggetto degli uni è il bene e quello degli altri è il male, ma perché alcuni di questi abiti sono buoni e altri cattivi. 2. La differenza che costituisce la specie di un abito non è il bene generico che viene attri­ buito a tutti gli enti, ma è un bene determina­ to, cioè conforme a una determinata natura, ossia alla natura umana. E lo stesso si dica del male che costituisce la differenza specifica di un abito: esso non è una pura privazione, ma è un male determinato in contrasto con una determinata natura. 3. Più abiti buoni riguardanti un medesimo og­ getto possono distinguersi specificamente tra loro in base alla loro conformità con nature diverse, come si è visto. Invece più abiti cattivi nelle stesse condizioni si distinguono tra loro in base a ripugnanze diverse rispetto alla natu­ ra: una virtù, p. es., può essere contrastata da vizi diversi relativi alla stessa materia.

    Articulus 4 Utrum unus habitus ex multis habitibus constituatur

    Articolo 4

    Un abito può constare di più abiti?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod unus habitus ex pluribus habitibus constituatur. l . lllud enim cuius generatio non simul perfi­ citur, sed successive, videtur constitui ex plu­ ribus partibus. Sed generatio habitus non est simul, sed successive ex pluribus actibus, ut supra [q. 5 1 a. 3] habitum est. Ergo unus habitus constituitur ex pluribus habitibus. 2. Praeterea, ex partibus constituitur totum. Sed uni habitui assignantur multae partes, sicut Tullius [Rhet. 2,54] ponit multas partes fortitudinis, temperantiae et aliarum virtutum. Ergo unus habitus constituitur ex pluribus. 3. Praeterea, de una sola conclusione potest scientia haberi et actu et habitu. Sed multae conclusiones pertinent ad unam scientiam totam, sicut ad geometriam vel arithmeticam. Ergo unus habitus constituitur ex multis. Sed contra, habitus, cum sit qualitas quae-

    Sembra di sì. Infatti: l . Un'entità la cui produzione non avviene tutta insieme, ma per fasi successive, mostra di essere costituita di più parti. Ora, la produ­ zione di un abito non è simultanea, ma avvie­ ne in fasi successive mediante molteplici atti, come si è spiegato. Quindi un abito può esse­ re costituito di più abiti. 2. Un tutto è costituito di parti. Ma di un uni­ co abito si possono determinare varie parti: Cicerone, p. es., assegna varie parti alla for­ tezza, alla temperanza e ad altre virtù. Quindi un abito può constare di molteplici abiti. 3. Una sola conclusione può già costituire l'oggetto di un atto o di un abito di scienza. Ma a un'unica scienza globale, come la geo­ metria o l' aritmetica, appartengono molte conclusioni. Quindi un unico abito può con­ stare di più abiti.

    Q. 54, A. 4

    La distinzione degli abiti

    dam, est forma simplex. Sed nullum simplex constituitur ex pluribus. Ergo unus habitus non constituitur ex pluribus habitibus. Respondeo dicendum quod habitus ad opera­ tionem ordinatus, de quo nunc principaliter intendimus, est perfectio quaedam potentiae. Omnis autem perfectio proportionatur suo perfectibili. Unde sicut potentia, cum sit una, ad multa se extendit secundum quod conve­ niunt in aliquo uno, idest in generali quadam ratione obiecti; ita etiam habitus ad multa se extendit secundum quod habent ordinem ad aliquod unum, puta ad unam specialem ratio­ nem obiecti, vel unam naturam, vel unum principium, ut ex supradictis [aa. 2-3] patet. ­ Si igitur consideremus habitum secundum ea ad quae se extendit, sic inveniemus i n eo quandam multiplicitatem. Sed quia illa multi­ plicitas est ordinata ad aliquid unum, ad quod principaliter respicit habitus, i nde est quod habitus est qualitas simplex, non constituta ex pluribus habitibus, etiam si ad multa se exten­ dat. Non enim unus habitus se extendit ad multa, nisi in ordine ad unum, ex quo habet unitatem. Ad primum ergo dicendum quod successio in generatione habitus non contingit ex hoc quod pars eius generetur post partem, sed ex eo quod subiectum non statim consequitur dispositionem firmam et difficile mobilem; et ex eo quod primo imperfecte incipit esse in subiecto, et paulatim perficitur. Sicut etiam est de aliis qualitatibus. Ad secundum dicendum quod partes quae singulis virtutibus cardinalibus assignantur, non sunt partes integrales, ex quibus consti­ tuatur totum sed partes subiectivae sive poten­ tiales, ut infra [q. 57 a. 6 ad 4; 11-11 q. 48] patebit. Ad tertium dicendum quod ille qui in aliqua scientia acquirit per demonstrationem scien­ tiam conclusionis unius, habet quidem habi­ tum, sed imperfecte. Cum vero acquirit per aliquam demonstrationem scientiam conclu­ sionis alterius, non aggeneratur in eo alius habitus; sed habitus qui prius inerat fit perfec­ tior, utpote ad plura se extendens; eo quod conclusiones et demonstrationes unius scien­ tiae ordinatae sunt, et una derivatur ex alia.

    510

    In contrario: l' abito, essendo una qualità, è una forma semplice. Ma nessuna entità sem­ plice è costituita di più parti. Quindi un abito non può constare di molteplici abiti. Risposta: l ' abito operativo, del quale princi­ palmente ora pm·Iiamo, è una perfezione della facoltà. Ora, ogni perfezione è proporzionata al soggetto che l a riceve. Per cui come la facoltà, pur essendo unica, si estende a più cose in quanto esse convengono sotto un uni­ co aspetto, cioè nella comune ragione di og­ getto, così anche l'abito si estende a più cose ma in quanto dicono ordine a un che di unico, p. es. a una detenninata ragione di oggetto, o a un' unica natura, o a un unico principio, secondo le spiegazioni date in precedenza. Se quindi consideriamo l ' abito in rapporto agli oggetti a cui si estende, troviamo in esso una certa molteplicità. Ma poiché tale molte­ plicità è ordinata a qualcosa di unico, che forma l 'oggetto principale dell'abito, è chiaro che l' abito stesso è una qualità semplice non costituita di più abiti, anche se si estende a realtà molteplici. Infatti un abito si estende a più cose soltanto in ordine a un unico oggetto, dal quale riceve la propria unità. Soluzione delle difficoltà: l . La gradualità che si riscontra nella produzione di un abito è dovuta non al fatto che le parti di esso siano prodotte una dopo l ' altra, ma al fatto che il soggetto non acquista subito una disposizione ferma e difficilmente amovibile, trovandosi essa in principio solo i mperfettamente nel soggetto, per crescere poi gradatamente. n che avviene anche per le altre qualità. 2. Le parti attribuite alle singole virtù cardina­ li non sono parti integranti, cioè parti costitu­ tive di un tutto, ma parti soggettive o poten­ ziali, come spiegheremo in seguito. 3. Chi in una data disciplina acquista la scien­ za di una conclusione mediante il ragiona­ mento possiede l'abito scientifico, però im­ perfettamente. Quando poi acquista con una dimostrazione la scienza di una seconda con­ clusione non si produce in lui un secondo abito, ma l'abito che prima era imperfetto si perfeziona, estendendosi a un numero mag­ giore di oggetti : poiché le conclusioni e le dimostrazioni di un' unica scienza sono tra loro ordinate, e l'una deriva dall'altra.

    511

    Q. 55, A. l

    Le virtù nella loro essenza QUAESTIO 55

    QUESTION� 55

    DE VIRTUTIBUS, QUANTUM AD SUAS ESSENTIAM

    LE VIRTU NELLA LORO ESSENZA

    Consequenter considerandum est de habitibus in speciali. Et quia habitus, ut dictum est [q. 54 a 3], distinguuntur per bonum et malum, pri­ mo dicendum est de habitibus bonis, qui sunt virtutes et alia eis adiuncta, scilicet dona, bea­ titudines et tìuctus [q. 68]; secundo, de habi­ tibus malis, scilicet de vitiis et peccatis [q. 71]. Circa virtutes autem quinque consideranda sunt, primo, de essentia virtutis; secundo, de subiecto eius [q. 56]; tertio, de divisione virtutum [q. 57]; quarto, de causa virtutis [q. 63]; quinto, de qui­ busdam proprietatibus virtutis [q. 64]. Circa pri­ mum quaeruntur quatuor. Primo, utrum virtus humana sit habitus. Secundo, utrum sit habitus operativus. Tertio, utrum sit habitus bonus. Quarto, de definitione virtutis.

    Veniamo ora a parlare degli abiti in particola­ re. E poiché essi si distinguono, come si è vi­ sto, in base all' opposizione tra bene e male, prima tratteremo degli abiti buoni, ossia delle virtù e di altre disposizioni affini , quali sono i doni, le beatitudini e i frutti [dello Spirito Santo], e poi degli abiti cattivi, cioè dei vizi e dei peccati. A proposito delle virtù si devono considerare cinque argomenti: primo, l'essen­ za della virtù; secondo, il suo soggetto; terzo, la divisione delle virtù; quarto, la loro causa; quinto, alcune loro proprietà. Sul primo pun­ to si pongono quattro problemi : l . Le virtù umane sono abiti ? 2. Sono abiti operativi? 3. Sono abiti buoni? 4. La definizione della vrrtù . '.

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum virtus humana sit habitus

    Le virtù umane sono abiti?

    Ad primum sic proceditw-. Vìdetur quod vir­ tus humana non sit habitus. l . Virtus enim est ultimum potentiae, ut dici­ tur i n l De caelo [ 1 1 ,7-8 ] . Sed ultimum uniuscuiusque reducitur ad genus illud cuius est ultimum, sicut punctum ad genus lineae. Ergo virtus reducitur ad genus potentiae, et non ad genus habitus. 2. Praeterea, Augustinus dicit, in 2 De lib. arb. [19], quod virlus est bonus usus liberi arbitrii. Sed usus liberi arbitrii est actus. Ergo virtus non est habitus, sed actus. 3 . Praeterea, habitibus non meremur, sed actibus, alioquin homo mereretur continue, etiam dormiendo. Sed virtutibus meremur. Ergo virtutes non sunt habitus, sed actus. 4. Praeterea, Augustinus dicit, in libro De mor. Ecc. [ 1 5] , quod virtus est ordo amoris. Et in libro Octoginta trium Q. [30], dicit quod

    Sembra di no. Infatti: l . Come dice Aristotele, la virtù è «l'ultimo termine della potenza». Ma in ogni genere di cose l'ultima rientra nel genere a cui appartiene come ultima: come il punto rientra nel genere della linea. Quindi le virtù rientrano nel genere delle potenze, e non in quello degli abiti. 2. Agostino insegna che «la virtù è il buon uso del libero arbitrio». Ma l'uso del libero arbitrio è un atto. Perciò la virtù non è un abi­ to, ma un atto. 3. Si merita non con gli abiti, ma con gli atti: altrimenti un uomo meriterebbe di continuo, anche quando dorme. Ora, noi meritiamo con le virtù. Quindi le virtù non sono abiti, ma atti. 4. Agostino scrive che >, come dice Dionigi. E quin­ di necessario che la virtù di qualsiasi cosa sia indirizzata al bene. Per cui la virtù umana, che è un abito operativo, deve essere un abito buono, e fatto per compiere il bene. Soluzione delle difficoltà: l . Stando alle spie­ gazioni del Filosofo, quando nelle cose catti­ ve si parla di perfezione il termine è impro­ prio, come quando si parla di bontà: si usa infatti parlare di un buon ladro o di un buon brigante. E lo stesso si dica del termine virtù applicato al male. Per cui la legge è chiamata «Virtù del peccato» in quanto occasionalmen­ te diede incremento al peccato, tanto da per­ mettergli di giungere al massimo della sua potenza. 2. Il male dell'ubriachezza e degli eccessi nel bere consiste in un difetto nell'ordine della ragione. Ora, tale difetto non impedisce che una potenza inferiore possa raggiungere la perfezione nel suo genere, pur rimanendo l'opposizione o il difetto della ragione. Però la perfezione di tale potenza, essendo accom­ pagnata da un difetto della ragione, non può essere considerata una virtù umana. 3. La ragione si rivela tanto più perfetta quanto più è capace di vincere, ossia di sopportare, la debolezza del corpo e delle facoltà interiori. Perciò la virtù umana, che va attribuita alla ra­ gione, «ha la sua perfezione nella debolezza» non della ragione, bensì del corpo e delle potenze inferiori. un

    Q. 55, A. 4

    516

    Le virtù nella loro essenza

    Articulus 4

    Articolo 4

    Utrum virtus convenienter definiatur

    La virtù è ben definita?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod non sit conveniens definitio virtutis quae solet assignari, scilicet, virtus est bona qualitas mentis, qua recte vivitur, qua nullus male uti­ tur, quam Deus in nobis sine nobis operatur. l . Virtus enim est bonitas hominis, ipsa enim est quae bonum facit habentem. Sed bonitas non videtur esse bona, sicut nec albedo est alba. Igitur inconvenienter dicitur quod virtus est bona qualitas. 2. Praeterea, nulla differentia est communior suo genere, cum sit generis divisiva. Sed bonum est communius quam qualitas, con­ vertitur enim cum ente. Ergo bonum non debet poni in definitione virtutis, ut differentia qualitatis. 3. Praeterea, sicut Augustinus dicit, in 12 De Trin. [8], ubi primo occurrit aliquid quod non sit nobis pecoribusque commune, illud ad mentem pertinet. Sed quaedam virtutes sunt etiam irrationabilium partium; ut philosophus dicit, in 3 Ethic. [ 1 0, 1 ]. Non ergo omnis vir­ tus est bona qualitas mentis. 4. Praeterea, rectitudo videtur ad iustitiam pertinere, unde idem dicuntur recti, et iusti. Sed iustitia est species virtutis. Inconvenienter ergo ponitur rectum in definitione virtutis, cum dicitur, qua recte vivitur. 5. Praeterea, quicumque superbit de aliquo, male utitur eo. Sed multi superbiunt de virtu­ te, dicit enim Augustinus, in Regola [ep. 21 1 ] , quod superbia etiam bonis operibus insidiatur, ut pereant. Falsum est ergo quod nemo virtute male utatur. 6. Praeterea, homo per virtutem iustificatur. Sed Augustinus dicit [Serm. ad pop. 169,2; In Ioan. 72], super illud loan. [ 14, 1 2], maiora horum faciet, qui creavit te sine te, non iustificabit te sine te. Inconvenienter ergo dicitur quod virtu­ tem Deus in nobis sine nobis operatur. Sed contra est auctoritas Augustini, ex cuius verbis praedicta definitio colligitur, et praeci­ pue in 2 De lib. arb. [ 1 9]. Respondeo dicendum quod ista definitio per­ fecte complectitur totam rationem virtutis. Perfecta enim ratio uniuscuiusque rei colligi­ tur ex omnibus causis eius. Comprehendit autem praedicta defìnitio omnes causas vittu­ tis. Causa namque formalis virtutis, sicut et

    Sembra che non sia buona la definizione che si è soliti dare della virtù, cioè: «La virtù è una qualità buona della mente umana, con la quale si vive rettamente, di cui nessuno usa malamente, e che Dio produce in noi senza di noi». Infatti: l . La virtù è la bontà di un uomo: poiché «rende buono chi la possiede». Ma la bontà non può dirsi buona, come la bianchezza non è bianca. Quindi non è corretta l'affermazione che la virtù è «una qualità buona>>. 2. Una differenza non può essere più estesa del suo genere: essendo una suddivisione del genere. Ora, la bontà è più estesa della qua­ lità: infatti il bene coincide con l'ente. Quindi la «bontà» non deve entrare nella definizione della virtù come differenza della qualità. 3. Agostino scrive: «Quando troviamo che un elemento non è comune a noi e alle bestie, esso appartiene all'anima». Ora, certe virtù appartengono anche alle facoltà inferiori, co­ me dimostra il Filosofo. Perciò non tutte le virtù sono «buone qualità della mente». 4. La rettitudine fa parte della giustizia: infatti le stesse persone sono dette insieme rette e giuste. Ma la giustizia è una specie della virtù. Non è dunque corretto mettere la rettitudine nella definizione della virtù con l'espressione: «con la quale si vive rettamente». 5. Chiunque si insuperbisce di una cosa, ne usa male. Ma sono molti quelli che si insuper­ biscono della virtù: infatti Agostino afferma che «la superbia tende insidie anche alle opere buone, per renderle vane». Quindi è falso che «della virtù nessuno usa malamente». 6. L' uomo viene giustificato mediante l a virtù. Ora Agostino, spiegando quel passo di Gv: Ne farà anche di maggiori, dice: «Colui che ti ha creato senza di te non ti giustificherà senza di te». Perciò non è a proposito l'affer­ mazione che «Dio produce in noi la virtù sen­ za di noi». In contrario: sta l'autorità di Agostino, dalle cui parole questa definizione è stata tratta, e spe­ cialmente dal II libro del De libero Arbitrio. Risposta: questa definizione abbraccia perfet­ tamente tutto ciò che è essenziale alla virtù. Infatti la perfetta nozione di una cosa è desun­ ta dalle sue cause. Ora, la suddetta definizione

    517

    Le virtù nella loro essenza

    cuiuslibet rei, accipitur ex eius genere et diffe­ rentia, cum dicitur qualitas bona, genus enim virtutis qualitas est, differentia autem bonum. Esset tamen convenientior definitio, si loco qualitatis habitus poneretur, qui est genus pro­ pinquum. - Virtus autem non habet materiam ex qua, sicut nec alia accidentia, sed habet materiam circa quam; et materiam in qua, sci­ licet subiectum. Materia autem circa quam est obiectum virtutis; quod non potuit in praedic­ ta detinitione poni, eo quod per obiectum determinatur virtus ad speciem; hic autem assignatur definitio virtutis in communi. Unde ponitur subiectum loco causae materialis, cum dicitur quod est bona qualitas mentis. Finis autem vittutis, cum sit habitus opera­ tivus, est ipsa operatio. Sed notandum quod habituum operativorum aliqui sunt semper ad malum, sicut habitus vitiosi ; aliqui vero quan­ doque ad bonum, et quandoque ad malum, sicut opinio se habet ad verum et ad falsum; virtus autem est habitus semper se habens ad bonum. Et ideo, ut discematur virtus ab his quae semper se habent ad malum, dicitur, qua recte vivitur, ut autem discematur ab his quae se habent quandoque ad bonum, quandoque ad malum, dicitur, qua nullus male utitur. Causa autem efl:ìciens virtutis infusae, de qua definitio datur, Deus est. Propter quod dicitur, quam Deus in nobis sine nobis operatur. Quae quidem particula si auferatur, reliquum defini­ tionis erit commune omnibus virtutibus, et acquisitis et infusis. Ad primum ergo dicendum quod id quod primo cadit in intellectu, est ens, unde uni­ cuique apprehenso a nobis attribuimus quod sit ens; et per consequens quod sit unum et bonum, quae convertuntur cum ente. Unde dicimus quod essentia est ens et una et bona; et quod unitas est ens et una et bona; et similiter de bonitate. Non autem hoc habet locum in specialibus formis, sicut est albedo et sanitas, non enim omne quod apprehendi­ mus, sub ratione albi et sani apprehendimus. Sed tamen considerandum quod sicut acci­ dentia et formae non subsistentes dicuntur entia, non quia ipsa habeant esse, sed quia eis aliquid est; ita etiam dicuntur bona vel una, non quidem aliqua alia bonitate vel unitate, sed quia eis est aliquid bonum vel unum. Sic igitur et virtus dicitur bona, quia ea aliquid est bonum.

    Q. 55, A. 4

    abbraccia tutte le cause della virtù. Poiché dunque la causa formale della virtù, come di qualsiasi altra cosa, è desunta dal suo genere e dalla sua differenza, nell'espressione: «qualità buona» troviamo il genere della virtù nella qualità, e la differenza nella bontà. Tuttavia la definizione sarebbe più conveniente se al posto di qualità si mettesse abito, che è il genere prossimo. - S i noti però che la virtù, come qualsiasi accidente, non ha una materia da cui deriva [ex qua], ma ha solo una materia che la interessa [circa quam, cioè l'oggetto] , e una materia in cui risiede [in qua], vale a dire il soggetto. Ora, la materia che la riguarda è l'oggetto della virtù; e non era possibile indi­ carlo nella suddetta defi n i zione, poi ché l 'oggetto serve a determinare la specie della virtù, mentre qui si tratta di definire la virtù in generale. Perciò come causa materiale viene indicato il soggetto, quando si afferma che la virtù è una buona qualità «della mente». - n fine poi della virtù, che è un abito operativo, è l'operazione stessa. Si osservi però che tra gli abiti operativi alcuni sono sempre volti al male, cioè gli abiti viziosi, e altri sono indiffe­ renti al bene e al male, come l 'opinione, che può essere sia vera che falsa: la vittù invece è sempre ordinata al bene. Per distinguere quin­ di la vittù dagli abiti che sono sempre cattivi si dice che «con essa si vive rettamente», e per distinguerla da quelli che possono essere sia buoni che cattivi si dice che «di essa nes­ suno usa malamente». - Infine la causa effi­ ciente della virtù infusa, che qui viene defini­ ta, è Dio. Per cui si dice che «Dio la produce in noi senza di noi». Ma se togliamo quest'ul­ tima parte, il resto della definizione è comune a tutte le virtù, sia acquisite che infuse. Soluzione delle difficoltà: l . La prima nozio­ ne che viene appresa dall'intelletto è l ' ente: infatti di qualsiasi cosa diciamo che è un ente; e per conseguenza diciamo che è uno e che è bene, nozioni queste che coincidono con l ' ente. Per cui possiamo affermare che l'essenza, come l ' unità e la bontà, è ente, è una ed è buona. Ma ciò non avviene per le forme particolati, quali sono la bianchezza e la salute: infatti non tutto ciò che conosciamo lo conosciamo sotto l' aspetto di bianco e di sano. Si deve però notare che come gli acci­ denti e le forme ptive di sussistenza non ven­ gono dette enti perché hanno l ' essere i n se

    Q. 55, A. 4

    518

    Le virtù nella loro essenza

    A d secundum dicendum quod bonum quod ponitur in definitione virtutis, non est bonum commune, quod convertitur cum ente, et est in plus quam qualitas, sed est bonum rationis, secundum quod Dionysius dicit, in 4 cap. De div. nom. [32], quod bonum animae est

    seczmdum rationem esse. Ad tertium dicendum quod virtus non potest esse in irrationali parte animae, nisi inquan­ tum participat rationem, ut dicitur in l Ethic. [13,15.20]. Et ideo ratio, sive mens, est pro­ prium subiectum virtutis humanae. Ad quartum dicendum quod iustitiae est pro­ pria rectitudo quae constituitur circa res exte­ riores quae in usum hominis veniunt, quae sunt propria materia iustitiae, ut infra [q. 60 a. 2; II-II q. 58 a. 8] patebit. Sed rectitudo quae importat ordinem ad finem debitum et ad legem divinam, quae est regula voluntatis humanae, ut supra [q. 19 a. 4] dictum est, communis est omni virtuti. Ad quintum dicendum quod virtute potest aliquis male uti tanquam obiecto, puta cum male sentit de virtute, cum odit eam, vel superbit de ea, non autem tanquam principio usus, ita scilicet quod malus sit actus virtutis. Ad sextum dicendum quod virtus infusa cau­ satur in nobis a Deo sine nobis agentibus, non tamen sine nobis consentientibus. Et sic est intelligendum quod dicitur, quam Deus in nobis sine nobis operatur. Quae vero per nos aguntur, Deus in nobis causat non sine nobis agentibus, ipse enim operatur in omni volun­ tate et natura.

    QUAESTIO

    stesse, ma perché alcune cose l ' hanno i n forza di esse, così si attribuisce loro l a bontà e l 'unità in forza della bontà o dell'unità stessa con la quale rendono buono o uno l'essere in cui si trovano. Ed è in questo senso che viene detta buona la virtù, poiché in forza di essa una certa cosa è buona. 2. La bontà che è posta nella definizione della virtù non è il bene in generale, che coincide con l'ente, e che è più esteso della qualità, ma è il bene di ordine razionale, riferendosi al quale Dionigi afferma che «il bene dell'anima è di essere secondo la ragione». 3. La virtù non può trovarsi nelle parti irrazio­ nali dell'anima se non in quanto esse parteci­ pano della ragione, come nota Aristotele. Perciò la ragione, o mente, è il soggetto pro­ prio delle virtù umane. 4. La rettitudine propria della giustizia si rife­ risce alle cose esterne deputate all'uso del­ l 'uomo e che costituiscono la materia specifi­ ca della giustizia, come vedremo, ma la retti­ tudine che dice ordine al debito fine e alla legge divina, e che secondo le spiegazioni già date forma la regola della volontà umana, è una qualità comune a tutte le virtù. 5. Si può fare un cattivo uso della virtù come oggetto, cioè nel senso che uno può non sti­ marla, odiarla, oppure insuperbirsi di essa; ma se la si considera come principio operativo nessuno può farne cattivo uso, nel senso di rendere cattivo l' atto stesso della virtù. 6. Le virtù infuse vengono causate in noi da Dio senza la nostra opera, non però senza il nostro consenso. Ed è così che vanno intese le parole: «che Dio produce in noi senza di noi». Invece le operazioni che noi compiamo Dio le causa in noi non senza la nostra opera: poiché egli agisce in ogni volere e in ogni natura.

    QUESTIONE 56

    56

    DE SUBIECTO VIRTUTIS Deinde considerandum est de subiecto virtutis. Et circa hoc quaerunnrr sex. Primo, utrum vir­ tus sit in potentia animae sicut in subiecto. Secundo, utrum una vittus possit esse in pluri­ bus potentiis. Tertio, utrum intellectus possit esse subiectum virtutis. Quarto, utrum irascibi­ lis et concupiscibilis. Quinto, utrum vires ap­ prehensivae sensitivae. Sexto, utrum voluntas.

    IL

    ,

    SOGGETTO DELLE VIRTU

    Passiamo a considerare il soggetto delle virtù. Sull'argomento si pongono sei quesiti: l . Le vir­ tù risiedono nelle potenze dell'anima? 2. Una virtù può risiedere in più di una potenza? 3. L' intelletto può essere sede delle virtù? 4. Possono esserlo l'irascibile e il concupisci­ bile? 5. Possono esserlo le potenze sensitive? 6. Può esserlo la volontà?

    519

    Il soggetto delle virtù

    Q.

    56, A. l

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum virtus sit in potentia animae sicut in subiecto

    Le virtù risiedono nelle potenze dell'anima?

    Ad primum sic proceditur. Vìdetur quod vir­ tus non sit in potentia animae sicut in subiec­ to. l . Dicit enim Augustinus, in 2 De lib. arb. [ 19], quod virtus est qua recte vivitur. Vivere autem non est per potentiam animae, sed per eius essentiam. Ergo virtus non est in potentia animae, sed in eius essentia. 2. Praeterea, philosophus dicit, in 2 Ethic. [6,2], virtus est quae bonum facit habentem, et opus eius bonum reddit. Sed sicut opus constituitur per potentiam, ita habens virtutem constituitur per essentiam animae. Ergo virtus non magi s pertinet ad potentiam animae, quam ad eius essentiam. 3. Praeterea, potentia est in secunda specie qualitatis. Vìrtus autem est quaedam qualitas, ut supra [q. 55 a. 4] dictum est. Qualitatis autem non est qualitas. Ergo virtus non est in potentia animae sicut in subiecto. Sed contra, virtus est ultimum potentiae, ut dicitur in l De caelo [ 1 1 ,7-8]. Sed ultimum est in eo cuius est ultimum. Ergo virtus est in potentia animae. Respondeo dicendum quod virtutem perline­ re ad potentiam animae, ex tribus potest esse manifestum. Primo quidem, ex ipsa ratione virtutis, quae importat perfectionem poten­ tiae, perfectio autem est in eo cuius est per­ fectio. Secundo, ex hoc quod est habitus ope­ rativus, ut supra [q. 55 a. 2] dictum est, omnis autem operatio est ab anima per ali­ quam potentiam. Tertio, ex hoc quod disponit ad optimum, optimum autem est finis, qui vel est operatio rei, vel aliquid consecutum per operationem a potentia egredientem. Unde virtus humana est in potentia animae sicut in subiecto. Ad primum ergo dicendum quod vivere dupliciter sumitur. Quandoque enim dicitur vivere ipsum esse viventis, et sic pertinet ad essentiam animae, quae est viventi essendi principium. Alio modo vivere dicitur operatio viventis, et sic virtute recte vivitur, inquantum per eam aliquis recte operatur. Ad secundum dicendum quod bonum vel est finis, vel in ordine ad finem dicitur. Et ideo, cum bonum operantis consistat in operatione,

    Sembra di no. Infatti: l . Agostino afferma che «la virtù è una qua­ lità con la quale si vive rettamente». Ora, non si vive con le potenze dell'anima, bensì con la sua essenza. Perciò la virtù non risiede nelle potenze dell' anima, ma nella sua essenza. 2. Il Filosofo scrive: «La virtù rende buono chi la possiede, e buona l ' azione che egli compie». Ora, come un' azione deve il proprio essere alla potenza, così chi possiede una virtù lo deve ali ' essenza della sua anima. Quindi le virtù non appartengono alle potenze più che all'essenza dell'anima. 3. La potenza si trova nella seconda specie della qualità. Ma la virtù, come abbiamo detto sopra, è una qualità, e questa non può appar­ tenere a un' altra qualità. Quindi la virtù non può aver sede nelle potenze dell' anima. In contrario: come dice Aristotele, «la virtù è l 'ultimo termine della potenza». Ma il termi­ ne ultimo risiede nella realtà che esso termi­ na. Quindi le virtù risiedono nelle potenze dell'anima. Risposta: con tre argomenti si può dimostrare che la viitù risiede nelle potenze dell' anima. Primo, partendo dalla stessa nozione di virtù, che dice perfezione di una potenza: e una per­ fezione deve risiedere nella realtà che essa perfeziona. Secondo, dal fatto che la virtù è un abito operativo, come sopra abbiamo detto: infatti ogni operazione procede dal l ' anima mediante qualche potenza. Terzo, dal fatto che è una disposizione all'ottimo. Ora, l' ottimo è il fine, che è o l' operazione di una cosa, oppu­ re qualcosa che deriva dalla potenza mediante l 'operazione. Perciò le virtù umane hanno la loro sede nelle potenze dell'anima. Soluzione delle difficoltà: l . Vivere ha due significati. Talora si dice vivere l 'essere stesso di un vivente: e in questo caso appartiene al­ l'essenza dell'anima, che nel vivente è il prin­ cipio dell'essere. Altre volte per vivere si in­ tende l'operazione di un vivente: e in questo caso si vive rettamente con la virtù in quanto con essa uno agisce rettamente. 2. La bontà viene attribuita o al fine o a ciò che è ordinato al fine. Siccome quindi il bene di chi opera consiste nell'operare, ne viene

    Q. 56, A. l

    520

    Il soggetto delle virtù

    hoc etiam ipsum quod virtus facit operantem bonum, refertur ad operationem, et per conse­ quens ad potentiam. Ad tertium dicendum quod unum accidens dicitur esse in alio sicut in subiecto, non quia accidens per seipsum possit sustentare aliud accidens, sed quia unum accidens inhaeret substantiae mediante alio accidente, ut color corpori mediante supertìcie; unde superfi­ cies dicitur esse subiectum coloris. Et eo modo potentia animae dicitur esse subiec­ tum virtutis.

    che anche l'attitudine della virtù a rendere buono l'operante si riferisce ali' operazione, e conseguentemente alla potenza. 3. Si può dire che un accidente è il soggetto o la sede di un altro accidente non nel senso che possa sostentarlo, ma perché un accidente può risiedere in una sostanza mediante un al­ tro accidente: come il colore è nel corpo me­ diante la superficie, per cui si dice che la su­ perficie è la sede o il soggetto del colore. Ed è in questo modo che le potenze dell'anima so­ no la sede delle virtù.

    Articulus 2

    Articolo 2

    Utrum una virtus possit esse in pluribus potentiis

    Una virtù può risiedere in più di una potenza?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod una virtus possit esse in duabus potentiis. l . Habitus enim cognoscuntur per actus. Sed unus actus progreditur diversimode a diversis potentiis, sicut ambulatio procedit a ratione ut a dirigente, a voluntate sicut a movente, et a potentia motiva sicut ab exequente. Ergo etiam unus habitus virtutis potest esse in plu­ ribus potentiis. 2. Praeterea, philosophus dicit, in 2 Ethic. [4,3], quod ad virtutem tria requiruntur, scilicet scire, ve/le et immobiliter operari. Sed scire pertinet ad intellectum, velle ad voluntatem. Ergo virtus potest esse in pluribus potentiis. 3. Praeterea, prudentia est in ratione, cum sit recta ratio agibilium, ut dicitur in 6 Ethic. [5,4-6; 13,5] . Est etiam in voluntate, quia non potest esse cum voluntate perversa, ut in eodem libro [Ethic. 6, 12, 10] dicitur. Ergo una virtus potest esse in duabus potentiis. Sed contra, vntus est in potentia animae sicut in subiecto. Sed idem accidens non potest esse in pluribus subiectis. Ergo una virtus non potest esse in pluribus potentiis animae. Respondeo dicendum quod aliquid esse in duobus, contingit dupliciter. Uno modo, sic quod ex aequo sit in utroque. Et sic impossi­ bile est unam virtutem esse in duabus poten­ tiis, quia diversitas potentiarum attenditur secundum generales conditiones obiectorum, diversitas autem habituum secundum specia­ les; unde ubicumque est diversitas potentia­ rum, est diversitas habituum, sed non conver­ titur. Alio modo potest esse aliquid in duobus vel pluribus, non ex aequo, sed ordine quo-

    Sembra di sì. Infatti: l . Gli abiti sono conosciuti mediante i loro atti. Ma un atto può derivare in modo diverso da diverse potenze: come il camminare deriva dalla ragione che dirige, dalla volontà che muove e dalla potenza locomotiva che ese­ gue. Quindi un abito virtuoso può risiedere in diverse potenze. 2. Il Filosofo insegna che per la virtù si richie­ dono tre cose, cioè «sapere», «volere» e «operare con fermezza>>. Ma sapere spetta al­ l'intelletto, volere invece alla volontà. Quindi una virtù si può trovare in più di una potenza. 3. La prudenza risiede nella ragione essendo, come dice Aristotele, «la retta ragione dell'a­ gire». Ma si trova pure nella volontà: poiché, come nota il medesimo, essa è incompatibile con una volontà perversa. Perciò una virtù può risiedere in due potenze. In contrario: la virtù ha come sede, o sogget­ to, qualche potenza dell'anima. Ma il medesi­ mo accidente non può risiedere in più sogget­ ti. Quindi una virtù non può trovarsi in più di una potenza dell'anima. Risposta: la presenza di una qualità in due soggetti può essere concepita in due modi. Primo, a parità di condizioni nell'uno e nel­ l' altro. E in questo modo è impossibile che una virtù si trovi in due potenze, poiché la distinzione delle potenze viene desunta dalle differenze generiche degli oggetti, mentre la distinzione degli abiti da quelle specifiche: se quindi c'è una distinzione di potenze ci sarà pure una distinzione di abiti, sebbene non sia vero l'inverso. Secondo, una qualità può tro-

    Q. 56,

    Il soggetto delle virtù

    52 1

    A. 2

    dam. Et sic una virtus pertinere potest ad plu­ res potentias; ita quod in una sit principaliter, et se extendat ad alias per modum diffusionis, vel per modum dispositionis; secundum quod una potentia movetur ab alia, et secundum quod una potentia accipit ab alia. Ad primum ergo dicendum quod idem actus non potest aequaliter, et eodem ordine, perti­ nere ad diversas potentias, sed secundum diversas rationes, et diverso ordine. Ad secundum dicendum quod scire praeexi­ gitur ad virtutem moralem, inquantum virtus moralis operatur secundum rationem rectam. Sed essentialiter in appetendo virtus moralis consistit. Ad tertium dicendum quod prudentia realiter est in ratione sicut in subiecto, sed praesuppo­ nit rectitudinem voluntatis sicut principium, ut infra [a. 3 q. 57 a. 4] dicetur.

    varsi in due o più soggetti non a parità di con­ dizioni, ma secondo un certo ordine. E allora una virtù può appartenere a più di una poten­ za, così da trovarsi in una di esse in maniera principale, e nelle altre per estensione o come predisposizione, secondo la mozione che una potenza esercita sull'altra, e per il fatto che l'una riceve qualcosa dall'altra. Soluzione delle difficoltà: l . ll medesimo atto non può appartenere a potenze diverse a parità di condizioni, ma lo può secondo ragio­ ni diverse e secondo un ordine differente. 2. n sapere è un prerequisito della virtù mora­ le in quanto una virtù morale agisce secondo la retta ragione. Ma essenzialmente la virtù morale consiste in un fatto appetitivo. 3. Sostanzialmente, come vedremo, la pruden­ za risiede nella ragione, ma presuppone quale suo principio la rettitudine della volontà.

    Articulus 3 Utrum intellectus possit esse subiectum virtutis

    Articolo 3 L'intelletto può essere sede di virtù?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod intel­ lectus non sit subiectum virtutis. l . Dicit enim Augustinus, in libro De mor. Ecc. [ 1 5], quod omnis virtus est amor. Su­ biectum autem amoris non est intellectus, sed salurn vis appetitiva. Ergo nulla virtus est in intellectu. 2. Praeterea, virtus ordinatur ad bonum, sicut ex supradictis [q. 55 a. 3] patet. Bonum autem non est obiectum intellectus, sed appetitivae virtutis. Ergo subiectum virtutis non est intel­ lectus, sed appetitiva virtus. 3 . Praeterea, virtus est quae bonum facit habentem, ut philosophus [Ethic. 2,6,2] dicit. Sed habitus perficiens intellectum non facit bonum habentem, non enim propter scientiam vel artem dicitur homo bonus. Ergo intellec­ tus non est subiectum virtutis. Sed contra est quod mens maxime dicitur intel­ lectus. Subiectum autem virtutis est mens; ut patet ex definitione virtutis supra [q. 55 a. 4] inducta. Ergo intellecnts est subiecntm virtutis. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 55 a. 3] dictum est, virtus est habitus quo quis be­ ne operatur. Dupliciter autem habitus aliquis ordinatur ad bonum actum. Uno modo, in­ quantum per huiusmodi habitum acquiritur homini facultas ad bonum actum, sicut per

    Sembra di no. Infatti: l . Agostino insegna che ogni virtù è amore. Ora, l 'amore non risiede nell'intelletto, ma soltanto nelle potenze appetitive. Quindi nes­ suna virtù risiede nell'intelletto. 2. La virtù, come si è dimostrato, è ordinata al bene. Ora, il bene non è oggetto dell'intelletto, ma delle potenze appetitive. Quindi la sede delle virtù non è l'intelletto, ma la potenza appetitiva. 3. Al dire del Filosofo, «la virtù rende buono chi la possiede». Ma l ' abito che perfeziona l'intelletto non rende buono chi lo possiede: infatti un uomo non è detto buono per la sua scienza o per la sua arte. Quindi l'intelletto non è sede di virtù. In contrario: mente si dice in modo specialis­ simo dell' intelletto. Ora, il soggetto proprio delle virtù è la mente, come risulta chiaro dal­ la definizione riportata sopra. Quindi l'intel­ letto è sede di virtù. Risposta: la virtù, come si è detto, è un abito che serve a ben operare. Ora, un abito può es­ sere ordinato a ben operare in due modi. Pri­ mo, in quanto esso conferisce a un uomo la sola capacità di compiere bene degli atti: co­ me l'abito della grammatica dà a un uomo la capacità di parlare correttamente. Ma la gram­ matica non fa sì che egli parli sempre corretta-

    Q. 56, A. 3

    Il soggetto delle virtù

    habiturn grammaticae habet homo facultatem recte loquendi. Non tamen grammatica facit ut homo semper recte loquatur, potest enim grammaticus barbarizare aut soloecismum facere. Et eadem ratio est in aliis scientiis et artibus. Alio modo, aliquis habitus non solum facit facultatem agendi, sed etiam facit quod aliquis recte facultate utatur, sicut iustitia non solum facit quod homo sit promptae volunta­ tis ad iusta operandum, sed etiam facit ut iuste operetur. - Et quia bonum, sicut et ens, non dicitur simpliciter aliquid secundum id quod est in potentia, sed secundum id quod est in actu; ideo ab huiusmodi habitibus simpliciter dicitur homo bonum operari , et esse bonus, puta quia est iustus vel temperatus; et eadem ratio est de similibus. Et quia virtus est quae bonum facit habentem, et opus eius bonum reddit, huiusmodi habitus simpliciter dicuntur virtutes, quia reddunt bonum opus in actu, et simpliciter faciunt bonum habentem. Primi vero habitus non simpliciter dicuntur virtutes, quia non reddunt bonum opus nisi in quadam facultate, nec simpliciter faciunt bonum ha­ bentem. Non enim dicitur simpliciter aliquis homo bonus, ex hoc quod est sciens vel artifex, sed dicitur bonus solum secundum quid, puta bonus grammaticus, aut bonus faber. Et propter hoc, plerumque scientia et ars contra virtutem dividitur, quandoque autem virtutes dicuntur, ut patet in 6 Ethic. [3, 1 ; 2,6]. - Subiectum igitur habitus qui secun­ dum quid dicitur virtus, potest esse intellec­ tus, non solum practicus, sed etiam intellectus speculativus, absque omni ordine ad volun­ tatem, sic enim philosophus, in 6 Ethic. [3, l ], scientiam, sapientiam et intellectum, et etiam artem, ponit esse i ntellectuales virtutes. Subiectum vero habitus qui simpliciter dicitur virtus, non potest esse nisi voluntas; vel aliqua potentia secundum quod est mota a voluntate. Cuius ratio est, quia voluntas movet omnes alias potentias quae aliqualiter sunt rationales, ad suos actus, ut supra [q. 9 a. l ; q. 17 aa. 1-5; I q. 82 a. 4] habitum est, et ideo quod homo actu bene agat, contingit ex hoc quod homo habet bonam voluntatem. Unde virtus quae facit bene agere in actu, non solum in facultate, oportet quod vel sit in ipsa voluntate; vel in ali­ qua potentia secundum quod est a voluntate mota. - Contingit autem intellectum a volun­ tate moveri, sicut et alias potentias, considerat

    522

    mente: infatti un grammatico può anche per­ mettersi dei barbarismi o dei solecismi. E lo stesso si dica delle altre scienze o arti. Secon­ do, in quanto un abito non dà solo la capacità di agire, ma anche quella di usare bene di que­ sta capacità: come la giustizia non soltanto fa sì che un uomo sia di pronta volontà nel com­ piere cose giuste, ma anche fa sì che agisca secondo giustizia. - Ora, è in forza di tali abiti che uno opera il bene e che è buono in senso assoluto, p. es. giusto, temperante, ecc.: poi­ ché una cosa viene detta buona, o ente, in senso assoluto non quando è in potenza, ma quando è in atto. E poiché «la virtù è ciò che rende buono chi la possiede, e buone le azioni che egli compie», a questi abiti si applica per­ fettamente il temtine di virtù: poiché rendono attualmente buona u n ' azione, e rendono buono in senso assoluto chi la possiede. Inve­ ce gli abiti del primo tipo non sono virtù in senso assoluto: poiché rendono buona l' azio­ ne solo rispetto a una data capacità; e neppure rendono buono in senso assoluto chi li possie­ de. Se infatti uno è scienziato o artista, non si dice che è buono in senso assoluto, ma si dice che è buono soltanto in senso relativo: si dirà, p. es., che è un buon grammatico, o un buon artigiano. Ed è per questo che d'ordinario le scienze e le arti vengono contrapposte alle vir­ tù; qualche volta però, come fa Aristotele nel VI libro dell'Etica, sono denominate virtù. Perciò l'intelletto, non solo quello pratico, ma anche quello speculativo, può essere sede di quegli abiti che sono virtù in senso relativo, senza alcuna subordinazione alla volontà: il Filosofo, p. es., mette tra le virtù intellettive la scienza, la sapienza, l'intelletto e persino le arti. Invece per gli abiti che sono virtù i n senso assoluto l'unica sede è l a volontà; op­ pure qualche altra potenza in quanto è mossa dalla volontà. E questo perché la volontà muove ai loro atti tutte le altre potenze che in qualche modo sono razionali, come sopra abbiamo spiegato: perciò il retto agire di un uomo dipende dal fatto che egli ha buona la volontà. E così la virtù che porta ad agire bene non solo per la capacità, ma anche per l'atto che produce, deve trovarsi nella volontà medesima; oppure in una potenza sotto la sua mozione. - L'intelletto però può essere mosso dalla volontà come le altre potenze: infatti uno pensa attualmente una cosa perché lo vuole.

    Il soggetto delle virtù

    523

    enim aliquis aliquid actu, eo quod vult. Et ideo intellectus, secundum quod habet ordinem ad voluntatem, potest esse subiectum virtutis sim­ pliciter dictae. Et hoc modo intellectus specu­ lativus, vel ratio, est subiectum fidei, movetur enim intellectus ad assentiendum his quae sunt fidei, ex imperio voluntatis; nullus enim credit nisi volens [Augustinus, In Ioan. 26] . Intel­ lectus vero practicus est subiectum prudentiae. Cum enim prudentia sit recta ratio agibilium, requiritur ad prudentiam quod homo se bene habeat ad principia huius rationis agendorum, quae sunt fines; ad quos bene se habet homo per rectitudinem voluntatis, sicut ad principia speculabilium per naturale lumen intellectus agentis. Et ideo sicut subiectum scientiae, quae est ratio recta speculabilium, est intellectus speculativus in ordine ad intellectum agentem; ita subiectum prudentiae est intellectus practi­ cus in ordine ad voluntatem rectam. Ad primum ergo dicendum quod verbum Au­ gustini intelligendum est de virtute simpliciter dieta non quod omnis talis virtus sit sim­ pliciter amor; sed quia dependet aliqualiter ab amore, inquantum dependet a voluntate, cuius prima affectio est amor, ut supra [q. 25 aa. 1-3; q. 27 a. 4; I q. 20 a. l ] dictum est. Ad secundum dicendum quod bonum unius­ cuiusque est finis eius, et ideo, cum verum sit finis intellectus, cognoscere verum est bonus actus intellectus . Unde habitus perficiens intellectum ad verum cognoscendum, vel in speculativis vel in practicis, dicitur virtus. Ad tertium dicendum quod ratio illa procedit de virtute simpliciter dieta.

    Q. 56,

    A. 3

    Perciò, in quanto subordinato alla volontà, l 'intelletto può essere sede o soggetto di virtù propriamente dette. E in questo senso l'intel­ letto speculativo, o ragione, è il soggetto della fede: poiché l'intelletto viene mosso a dare l'assenso alle realtà di fede dal comando della volontà: infatti «nessuno crede se non perché lo vuole». Invece l'intelletto pratico è il sog­ getto della prudenza. Essendo infatti questa la retta ragione dell'agire umano, si richiede che l' uomo prudente sia ben disposto rispetto ai princìpi dell'agire razionale, cioè rispetto ai fi­ ni di esso; e questa buona disposizione di­ pende dalla rettitudine della volontà, come la buona disposizione rispetto ai princìpi specu­ lativi dipende dal lume naturale dell' intelletto agente. Come quindi l 'intelletto speculativo, per la sua dipendenza dall' intelletto agente, è la sede o il soggetto della scienza, che è la ret­ ta ragione rispetto alle verità speculative, così il soggetto della prudenza è l ' intelletto pratico, per la sua dipendenza dalla volontà retta. Soluzione delle difficoltà: l . Le parole di Agostino vanno applicate alla virtù propria­ mente detta: non nel senso che ogni virtù del genere sia amore in senso assoluto, ma perché essa dipende in qualche modo dall'amore, in quanto dipende dalla volontà, il cui primo moto è l' amore, come si è spiegato. 2. Il bene di ciascun essere è il proprio fine: perciò, essendo fine dell ' intelletto i l vero, conoscere il vero è l'atto buono dell'intelletto. Quindi l'abito che dà la perfezione all'intellet­ to con la conoscenza del vero, sia in campo speculativo che in campo pratico, è detto virtù. 3. L'argomento è valido se si tratta della virtù in senso assoluto.

    Articulus 4

    Articolo 4

    Utrum irascibilis et concupiscibilis sint subiectum virtutis

    L'irascibile e il concupiscibile possono essere sede di virtù?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod ira­ scibilis et concupiscibilis non possint esse subiectum virtutis. l . Huiusmodi enim vires sunt communes nobis et brutis. Sed nunc loquimur de virtute secundum quod est propria homini, sic enim dicitur virtus humana. Non igitur humanae virtutis potest esse subiectum irascibilis et concupiscibilis, quae sunt partes appetitus sensitivi, ut in primo [q. 81 a. 2] dictum est.

    Sembra di no. Infatti: l . Queste facoltà sono comuni a noi e ai bruti. Ma noi ora parliamo delle virtù proprie del­ l ' uomo, cioè delle virtù umane. Perciò le virtù umane non possono risiedere nell' irascibile e nel concupiscibile, che sono potenze dell' ap­ petito sensitivo, secondo le spiegazioni date nella Prima Parte. 2. L' appetito sensitivo è una facoltà organica. Ora, il bene della virtù non può trovarsi nel

    Q. 56, A. 4

    Il soggetto delle virtù

    524

    2. Praeterea, appetitus sensitivus est vis utens

    corpo dell'uomo, infatti in Rm Paolo dice:

    organo corporali. Sed bonum virtutis non potest esse in corpore hominis, dicit enim apostolus, Rom. 7 [ 1 8], scio quod non habitat in carne mea bonum. Ergo appetitus sensiti­ vus non potest esse subiectum virtutis. 3. Praeterea, Augustinus probat, in libro De mor. Ecc. [5], quod virtus non est in corpore, sed in anima, eo quod per animam corpus regitur, unde quod aliquis corpore bene utatur, totum refertur ad animam; sicut si mihi auri­

    Io so che nella mia carne non abita il bene.

    ga obtemperans, equos quibus praeest, recte regit, hoc totum mihi debetur. Sed sicut anima

    regit corpus, ita etiam ratio regit appetitum sensitivum. Ergo totum rationali parti debetur, quod irascibilis et concupiscibilis recte regan­ tur. Sed virtus est qua recte vivitur, ut supra [q. 55 a. 4] dictum est. Virtus igitur non est in irascibili et concupiscibili, sed salurn in parte rationali. 4. Praeterea, principalis actus virtutis moralis est electio, ut dicitur in 8 Ethic. [ 1 3,1 1 ] . Sed electio non est actus irascibilis et concupisci­ bilis, sed rationis, ut supra [q. 1 3 a. 2] dictum est. Ergo virtus moralis non est in irascibili et concupiscibili, sed in ratione. Sed contra est quod fortitudo ponitur esse in irascibili, temperantia autem in concupiscibili. Unde philosophus dicit, in 3 Ethic. [ 1 0, 1], quod hae virtutes sunt irrationabilium partium. Respondeo dicendum quod irascibilis et con­ cupiscibilis dupliciter considerari possunt. Uno modo secundum se, inquantum sunt par­ tes appetitus sensitivi. Et hoc modo, non com­ peti t eis quod sint subiectum virtutis. Alio modo possunt considerari inquantum partici­ pant rationem, per hoc quod natae sunt rationi obedire. Et sic irascibilis vel concupiscibilis potest esse subiectum virtutis humanae, sic enim est principium humani actus, inquantum participat rationem. Et in his potentiis necesse est ponere virtutes. - Quod enim in irascibili et concupiscibili sint aliquae virtutes, patet. Actus enim qui progreditur ab una potentia secundum quod est ab alia mota, non potest esse perfectus, nisi utraque potentia sit bene disposita ad actum, sicut actus artificis non potest esse congruus, nisi et artifex sit bene dispositus ad agendum, et etiam ipsum instru­ mentum. In his igitur circa quae operatur ira­ scibilis et concupiscibilis secundum quod sunt a ratione motae, necesse est ut aliquis

    Quindi un appetito sensitivo non può essere sede o soggetto di virtù. 3. Agostino dimostra che la virtù non è nel corpo, ma nell' anima, per il fatto che il cor­ po è retto dali' anima: che quindi uno usi be­ ne del corpo va attribuito totalmente all'ani­ ma: «come se un cocchiere conducesse sulla strada giusta i cavalli seguendo le mie indi­ cazioni, tutto il merito sarebbe mio». Ora, come l'anima dirige il corpo, così la ragione dirige l' appetito sensitivo. Perciò la retta condotta dell'irascibile e del concupiscibile è dovuta interamente alle potenze razionali. D'altra parte sopra si è detto che «la virtù è la disposizione per cui si vive rettamente». Quindi la virtù non può trovarsi nell'irascibi­ le e nel concupiscibile, ma soltanto nella parte razionale. 4. «L'atto principale di una virtù morale è la scelta», come scrive Aristotele. Ma la scelta non è un atto dell'irascibile o del concupisci­ bile, bensì della ragione, secondo le spiega­ zioni date. Quindi una virtù morale non può risiedere nell'irascibile o nel concupiscibile, ma solo nella ragione. In contrario: si è soliti collocare la fortezza nell'irascibile, e la temperanza nel concupisci­ bile. Per cui il Filosofo afferma che «queste virtù appartengono alle facoltà irrazionali». Risposta: l'irascibile e il concupi scibile pos­ sono essere considerati sotto due punti di vista. Primo, in se stessi, come facoltà del­ l'appetito sensitivo. E da questo lato non pos­ sono essere sede di virtù. Secondo, come facoltà partecipi della ragione, in quanto sono fatte per obbedire alla ragione. - E da questo lato l 'irascibile e il concupiscibile possono essere sede di virtù umane: poiché sotto que­ sto aspetto, in quanto partecipi della ragione, sono princìpi degli atti umani. E a potenze di questo gen((re non si possono non attribuire delle virtù. E infatti evidente che nell'irascibi­ le e nel concupiscibile ci sono delle virtù. Poiché l' atto che promana da una potenza sotto la mozione di un'altra non può essere perfetto se entrambe le potenze non sono ben disposte ali' operazione: come l' atto di un artefice non può essere ben appropriato se I' artefice e lo strumento stesso non sono ben disposti all'operazione. Perciò nelle azioni

    525

    Il soggetto delle virtù

    habitus perficiens ad bene agendum sit non solum in ratione, sed etiam in irascibili et concupiscibili. Et quia bona dispositio poten­ tiae moventis motae, attenditur secundum conformitatem ad potentiam moventem; ideo virtus quae est in irascibili et concupiscibili, nihil aliud est quam quaedam habitualis conformitas istarum potentiarum ad rationem. Ad prirnum ergo dicendum quod irascibilis et concupiscibilis secundum se consideratae, prout sunt partes appetitus sensitivi, commu­ nes sunt nobis et brutis. Sed secundum quod sunt rationales per participationem, ut obedien­ tes rationi, sic sunt propriae hominis. Et hoc modo possunt esse subiectum virtutis humanae. Ad secundum dicendum quod, sicut caro hominis ex se quidem non habet bonum virtu­ tis, fit tamen instrumentum virtuosi actus, inquantum, movente ratione, membra nostra exhibemus ad serviendum iustitiae [Rom. 6,19], ita etiam irascibilis et concupiscibilis ex se quidem non habent bonum virtutis sed magis infectionem fomitis; inquantum vero conformantur rationi, sic in eis adgeneratur bonum virtutis moralis. Ad tertium dicendum quod alia ratione regi­ tur corpus ab anima, et irascibilis et concupi­ scibilis a ratione. Corpus enim ad nutum obe­ dit animae absque contradictione, in his in quibus natum est ab anima moveri, unde phi­ losophus dicit, in l Poi. [2,1 1], quod anima regit co1pus despotico principatu, idest sicut dominus servum. Et ideo totus motus cor­ poris refertur ad animam. Et propter hoc in corpore non est virtus, sed solum in anima. Sed irascibilis et concupiscibilis non ad nutum obediunt rationi, sed habent proprios motus suos, quibus interdum rationi repu­ gnant, unde in eodem libro [Poi. l ,2, 1 1 ] philosophus dicit quod ratio regit irascibilem et concupiscibilem principatu politico, quo scilicet reguntur liberi, qui habent in aliqui­ bus propriam voluntatem. Et propter hoc etiam oportet in irascibili et concupiscibili esse aliquas virtutes, quibus bene disponantur ad actum. Ad quartum dicendum quod in electione duo sunt, scilicet intentio finis, quae pertinet ad virtutem moralem; et praeacceptio eius quod est ad tinem, quod pettinet ad prudentiam; ut dicitur in 6 Ethic. [12,6]. Quod autem habeat

    Q.

    56, A. 4

    compiute dall'irascibile e dal concupiscibile sotto la mozione della ragione è necessario, per ben operare, che vi sia il perfezionamento di qualche abito non soltanto nella ragione, ma anche nell'irascibile e nel concupiscibile stessi. E poiché la buona disposizione di una potenza che muove perché mossa viene de­ sunta dalla conformità di essa con la potenza motrice, di conseguenza la virtù che risiede nell'irascibile e nel concupiscibile non è altro che una conformità abituale di tali potenze con la ragione. Soluzione delle difficoltà: l . Considerate in se stesse, cioè in quanto parti dell'appetito sensi­ rivo, le facoltà dell'irascibile e del concupisci­ bile sono comuni a noi e alle bestie. Ma nella misura i n cui sono razionali per partecipazio­ ne, in quanto sottomesse alla ragione, sono proprie dell'uomo. E sotto questo aspetto pos­ sono essere sede di virtù umane. 2. La carne di un uomo di per sé non possiede il bene della virtù, tuttavia diviene strumento di atti virtuosi in quanto, sotto la mozione della ragione, offriamo Le nostre membra per servire La giustizia [Rm] . E allo stesso modo anche l'irascibile e il concupiscibile di per sé non possiedono il bene della virtù, ma piutto­ sto l'infezione del fomite; però il bene della virtù morale si ingenera in essi in quanto si conformano alla ragione. 3. li modo con cui l'anima regge il corpo è diverso da quello con cui la ragione regge l'irascibile e il concupiscibile. Infatti il corpo obbedisce pienamente all'anima senza con­ trasti nelle cose in cui naturalmente deve seguirne la mozione: per cui il Filosofo dice che «I' anima regge il corpo con un dominio dispotico», cioè come un padrone fa col suo schiavo. Perciò il moto del corpo si riferisce interamente ali' anima. E per questo nel corpo non ci possono essere delle virtù, ma soltanto nell'anima. Invece l'irascibile e il concupisci­ bile non obbediscono pienamente alla ra­ gione, ma hanno dei moti peculiari che talora contrastano con la ragione: per cui il Filosofo aggiunge che la ragione regge l'irascibile e il concupiscibile «con un dominio politico», cioè come vengono governate le persone libe­ re, che in certe cose conservano la propria volontà. E per questo è necessario che anche nell'irascibile e nel concupiscibile ci siano delle virtù, per ben disporli ai loro atti.

    Q. 56, A. 4

    526

    Il soggetto delle virtù

    rectam intentionem finis circa passiones ani­ mae, hoc contingit ex bona dispositione ira­ scibilis et concupiscibilis. Et ideo virtutes mo­ rales circa passiones, sunt in irascibili et con­ cupiscibili, sed prudentia est in ratione.

    Articulus 5 Utrum vires apprehensivae sensitivae sint subiectum virtutis Ad quintum sic proceditur. Videtur quod in viribus sensitivis apprehensivis intedus, possit esse aliqua virtus. l . Appetitus eni m sensitivus potest esse subiectum virtutis, inquantum obedit rationi. Sed vires sensitivae apprehensivae interius, rationi obediunt, ad imperium enim rationis operatur et imaginativa et cogitativa et memo­ rativa. Ergo in his viribus potest esse virtus. 2. Praeterea, sicut appetitus rationalis, qui est voluntas, in suo actu potest impediri, vel etiam adiuvari , per appetitum sensitivum; ita etiam intellectus vel ratio potest impediri, vel etiam iuvari, per vires praedictas. Sicut ergo i n viribus sensitivis appetitivis potest esse vir­ tus, ita etiam in apprehensivis. 3. Praeterea, prudentia est quaedam virtus, cuius partem ponit Tullius memoriam, in sua Rhetorica [2,53]. Ergo etiam in vi memorati­ va potest esse aliqua virtus. Et eadem ratione, in aliis interioribus apprehensivis viribus. Sed contra est quod omnes virtutes vel sunt intellectuales, vel morales, ut dicitur in 2 Ethic. [ l , l ] . Morales autem virtutes omnes sunt in patte appetitiva, intellectuales autem in intellectu vel ratione, sicut patet in 6 Ethic. [ 1 ,4] . Nulla ergo virtus est in viribus sensitivis apprehensivis interius. Respondeo dicendum quod in viribus sensiti­ vis apprehensivis interius, ponuntur aliqui habitus. Quod patet ex hoc praecipue quod philosophus dicit, in libro De memoria [2], quod in memorando unum post aliud, opera­

    tur consuetudo, quae est quasi quaedam natura, nihil autem est aliud habitus consue­ tudinalis quam habitudo acquisita per consue­ tudinem, quae est in modum naturae. Unde de

    4. Nella scelta, secondo Aristotele, si devono considerare due cose: l ' intenzione del fine, che spetta a una virtù morale, e la scelta dei mezzi, che spetta alla prudenza. Ora, dipende proprio dalla buona disposizione dell' irascibi­ le e del concupiscibile avere la retta intenzione del fine in materia di passioni. Perciò le virtù morali riguardanti le passioni sono nell' irasci­ bile e nel concupiscibile, mentre la prudenza è nella ragione.

    5 di ordine conoscitivo sono sede di virtù? Articolo

    Le potenze sensitive

    Sembra di sì. Infatti: l . L'appetito sensitivo può essere sede di virtù in quanto obbedisce alla ragione. Ma anche i sensi interni obbediscono alla ragione: infatti l ' immaginativa, la cogitativa e la memoria sottostanno al comando della ragione. Quindi in tali potenze si possono trovare delle virtù. 2. Come l 'appetito razionale, cioè la volontà, può essere ostacolato o agevolato dali' appeti­ to sensitivo, così l'intelletto, ossia la ragione, può essere ostacolato o agevolato dalle pre­ dette facoltà. Quindi nelle facoltà sensitive di ordine conoscitivo si può trovare la virtù co­ me in quelle appetitive. 3. La prudenza è una virtù alla quale Cicerone assegna come parte la memoria. Perciò anche nella facoltà della memoria ci può essere una virtù. E per lo stesso motivo in tutte le altre facoltà sensitive. In contrario: tutte le virtù o sono intellettuali o sono morali, come insegna Aristotele. Ora, tutte le virtù morali sono nella parte appetiti­ va; le intellettuali invece sono nell'intelletto o ragione, come egli dimostra. Quindi nessuna virtù può trovarsi nei sensi interni. Risposta: nei sensi interni bisogna ammettere l 'esistenza di alcuni abiti. E ciò è dimostrato specialmente da quanto fa notare il Filosofo, cioè dal fatto che «nel ricordare una cosa dopo l' altra influisce la consuetudine, che è come una seconda natura>>: ora, questo abito consuetudinario non è altro che l' abitudine acquisita mediante la consuetudine, che opera come una seconda natura. Cicerone quindi può affermare che la virtù è «un abito che si unif01ma alla ragione in maniera quasi conna­ turale». Nell'uomo però ciò che viene acqui-

    Il soggetto delle virtù

    527

    virtute dicit Thllius, in sua Rhetorica [2,53], quod est habitus in modum naturae, rationi consentaneus. In homine tamen id quod ex consuetudine acquiritur in memoria, et in aliis viribus sensitivis apprehensivis, non est habi­ tus per se; sed aliquid annexum habitibus intellectivae partis, ut supra [q. 50 a. 4 ad 3] dictum est. - Sed tamen si qui sunt habitus in talibus viribus, virtutes dici non possunt. Virtus enim est habitus perfectus, quo non contingit nisi bonum operari, unde oportet quod virtus sit in illa potentia quae est con­ summativa boni operis. Cognitio autem veri non consummatur in viribus sensitivis appre­ hensivis; sed huiusmodi vires sunt quasi prae­ paratoriae ad cognitionem intellectivam. Et ideo in huiusmodi viribus non sunt virtutes, quibus cognoscitur verum; sed magis in intel­ lectu vel ratione. Ad primum ergo dicendum quod appetitus sensitivus se habet ad voluntatem, quae est appetitus rationis, sicut motus ab eo. Et ideo opus appetitivae virtutis consummatur in ap­ petitu sensitivo. Et propter hoc, appetitus sen­ sitivus est subiectum virtutis. Virtutes autem sensitivae apprehensivae magis se habent ut moventes respectu intellectus, eo quod phan­ tasmata se habent ad animam intellectivam, sicut colores ad visum, ut dicitur in 3 De ani­ ma [7,3]. Et ideo opus cognitionis in intellec­ tu terminatur. Et propter hoc, virtutes cogno­ scitivae sunt in ipso intellectu vel ratione. Et per hoc patet solutio ad secundum. Ad tertium dicendum quod memoria non ponitur pars prudentiae, sicut species est pars generis, quasi ipsa memoria sit quaedam virtus per se, sed quia unum eorum quae requiruntur ad prudentiam, est bonitas memoriae; ut sic quodammodo se habeat per modum partis integralis.

    Q. 56,

    A. 5

    sito per consuetudine dalla memoria e dalle altre facoltà sensitive non è un abito a sé stan­ te, ma un elemento annesso agli abiti della parte intellettiva, come si è già ricordato. Tuttavia anche se in queste potenze ci sono degli abiti, questi non possono essere consi­ derati virtù. Infatti la virtù è un abito perfetto, col quale non si può operare che il bene: per­ ciò è necessario che la virtù risieda in quella potenza che può compiere un atto buono. Ora, la conoscenza della verità non ha compi­ mento nelle facoltà sensitive, ma queste facoltà sono come preparatorie alla conoscen­ za intellettiva. E così le virtù riguardanti la co­ noscenza del vero non sono in queste facoltà, ma piuttosto nell'intelletto o nella ragione. Soluzione delle difficoltà: l . L'appetito sensi­ tivo rispetto alla volontà, che è l'appetito ra­ zionale, ha la funzione di uno strumento che ne subisce il moto. Perciò l'operazione delle facoltà appetitive ha il suo compimento nel­ l ' appetito sensitivo. E così quest' ultimo è sede di virtù. Invece le potenze sensitive di ordine conoscitivo sono piuttosto moventi ri­ spetto all'intelletto: poiché i fantasmi stanno all'anima intellettiva come i colori alla vista, secondo l' espressione di Aristotele. Perciò l'operazione conoscitiva termina neli' intellet­ to. E così le virtù di ordine conoscitivo sono nel}'intelletto, o nella ragione. 2. E così risolta anche la seconda difficoltà. 3. Non si dice che la memoria fa parte della prudenza come una specie fa parte del genere, come se la memoria fosse una virtù a sé stan­ te; siccome però fra le cose richieste per la prudenza c'è anche la bontà della memoria, sotto questo aspetto la memoria ne è una par­ te integrante.

    Articulus 6

    Articolo 6

    Utrum voluntas possit esse subiectum virtutis

    La volontà può essere sede di virtù?

    Ad sextum sic proceditur. Videtur quod vo­ luntas non sit subiectum alicuius virtutis. l . Ad id enim quod convenit potentiae ex ipsa ratione potentiae, non requiritur aliquis habi­ tus. Sed de ipsa ratione voluntatis, cum sit in ratione, secundum phi losophum i n 3 De anima [9,3], est quod tendat in id quod est

    Sembra di no. Infatti: l . Non si richiede alcun abito per orientarsi verso ciò che conviene a una data facoltà in forza della sua natura. Ora, essendo la volontà nella ragione, come afferma i l Filosofo, in forza della sua natura essa tende, come del resto tutte le virtù, verso ciò che è conforme alla ragione, poiché ogni essere desidera per

    Q. 56, A. 6

    Il soggetto delle virtù

    bonum secundum rationem, ad quod ordinatur omnis virtus, quia unumquodque naturaliter appetit proprium bonum, virtus enim est habi­

    tus per modum naturae, consentaneus rationi, ut Tullius dicit in sua Rhetorica [2,53]. Ergo voluntas non est subiectum virtutis. 2. Praeterea, omnis virtus aut est intellectu­ alis, aut moralis, ut dicitur in l [1 3,20] et 2 Ethic. [ l , l ] . Sed virtus intellectualis est, sicut in subiecto, in intellectu et ratione, non autem in voluntate, virtus autem moralis est, sicut in subiecto, in irascibili et concupiscibili, quae sunt rationales per participationem. Ergo nulla virtus est in voluntate sicut in subiecto. 3. Praeterea, omnes actus humani, ad quos virtutes ordinantur, sunt voluntarii. Si igitur respectu aliquorum humanorum actuum sit aliqua virtus in voluntate, pari ratione respec­ tu omnium actuum humanorum erit virtus in voluntate. Aut ergo in nulla alia potentia erit aliqua virtus, aut ad eundem actum ordina­ buntur duae virtutes, quod videtur inconve­ niens. Voluntas ergo non potest esse subiec­ tum virtutis. Sed contra est quod maior perfectio requiritur in movente quam in moto. Sed voluntas movet irascibilem et concupiscibilem. Multo ergo magis debet esse virtus in voluntate, quam in irascibili et concupiscibili. Respondeo dicendum quod, cum per habitum perticiatur potentia ad agendum, ibi indiget potentia habitu perficiente ad bene agendum, qui quidem habitus est virtus, ubi ad hoc non suflicit propria ratio potentiae. Omnis autem po­ tentiae propria ratio attenditur in ordine ad obiectum. Unde cum, sicut dictum est [q. 19 a. 3], obiectum voluntati sit bonum rationis vo­ luntati proportionatum, quantum ad hoc non in­ diget voluntas virtute perficiente. Sed si quod bonum immineat homini volendum, quod exce­ dat proportionem volentis; sive quantum ad totam speciem humanam, sicut bonum divinum, quod transcendit limites humanae naturae, sive quantum ad individuum, sicut bonum proximi; ibi voluntas indiget virtute. Et ideo huiusmodi virtutes quae ordinant affectum hominis in Deum vel in proximum, sunt in voluntate sicut in subiecto; ut caritas, iustitia et huiusmodi. Ad primum ergo dicendum quod ratio illa habet locum de virtute quae ordinat ad bonum proprium ipsius volentis, sicut temperantia et fortitudo, quae sunt circa passiones humanas

    528

    natura il proprio bene: infatti, come scrive Cicerone, «la virtù è un abito connaturato, che si confonna alla ragione». Quindi la vo­ lontà non è sede di virtù. 2. Qualsiasi virtù o è intellettuale o è morale, come dice Aristotele. Ora, le virtù intellettuali risiedono nell' intelletto e nella ragione, ma non nella volontà; le virtù morali invece risie­ dono nell'irascibile e nel concupiscibile, che sono potenze razionali per pattecipazione. Quindi nessuna virtù risiede nella volontà. 3. Thtti gli atti umani, ai quali le virtù sono ordinate, sono atti volontrui. Se dunque ci fos­ se una virtù nella volontà per alcuni atti uma­ ni, per lo stesso motivo bisognerebbe ammet­ terla per tutti. Quindi o si dovranno escludere le virtù in tutte le altre facoltà, oppure al me­ desimo atto dovranno essere ordinate due vir­ tù differenti : il che sembra inammissibile. Quindi la volontà non può essere sede o sog­ getto di virtù. In contrario: ciò che muove richiede una per­ fezione maggiore di ciò che subisce la mo­ zione. Ma la volontà muove l ' irascibile e il concupiscibile. Quindi la virtù deve trovarsi nella volontà più che nell'irascibile e nel con­ cupiscibile. Risposta: l'abito ha il compito di predisporre la potenza all'operazione: perciò una potenza per ben operare ha bisogno di un abito, cioè di una virtù, quando a ciò non sia sufficiente la sua stessa natura. Ora, la natura propria di ciascuna potenza si desume dal l ' oggetto. Avendo quindi noi già dimostrato che l' og­ getto della volontà è il bene di ordine raziona­ le ad essa proporLionato, è chiaro che rispetto a tale bene la volontà non ha bisogno di esse­ re predisposta da una virtù. Se però un uomo è tenuto a volere un bene che supera le pro­ porzioni del volente, o rispetto a tutta la spe­ cie umana, come il bene divino, che trascende i limiti della natura umana, o rispetto a un detenninato individuo, come il bene del pros­ simo, allora la volontà ha bisogno di virtù. Perciò le virtù che ordinano l' affetto dell'uo­ mo verso Dio e verso il prossimo, come la carità, la giustizia e simili, hanno la loro sede nella volontà. Soluzione delle difficoltà: l . Il primo argo­ mento è valido per le virtù che dispongono al bene proprio di colui che vuole, come la tem­ peranza e la fortezza, che, come si è visto,

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    Il soggetto delle virtù

    Q.

    56, A. 6

    et alia huiusmodi, ut ex dictis [q. 25 a. 6 ad 3; I q. 21 a. l ad l ; q. 59 a. 4 ad 3] patet. Ad secundum dicendum quod rationale per participationem non salurn est irascibilis et concupiscibilis; sed omnino, idest universali­ ter, appetitivum, ut dicitur in l Ethic. [13,18]. Sub appetitivo autem comprehenditur volun­ tas. Et ideo, si qua virtus est in voluntate, erit moralis, nisi sit theologica, ut infra [q. 58 a. 3 ad 3; q. 62 a. 3] patebit. Ad tertium dicendum quod quaedam virtutes ordinantur ad bonum passionis moderatae, quod est proprium huius vel illius hominis, et in talibus non est necessarium quod sit aliqua virtus in voluntate, cum ad hoc sufficiat natu­ ra potentiae, ut dictum est [co.] . Sed hoc salurn necessarium est in illis virtutibus quae ordinantur ad aliquod bonum extrinsecum.

    hanno per oggetto le passioni umane o altre cose del genere. 2. Razionale per partecipazione non è soltanto l' irascibile o il concupiscibile, ma «tutto il genere appetitivo», come dice Aristotele. E n eli' appetito è compresa anche la volontà. Perciò ogni virtù che eventualmente ha sede nella volontà è una virtù morale, a meno che non sia teologale, come vedremo in seguito. 3. Alcune virtù sono ordinate ad assicurare un bene che consiste nella moderazione delle passioni, cioè un bene particolare e proprio di ciascuno: e da questo punto di vista non è necessario che vi siano delle virtù nella volontà, poiché a ciò basta la natura della potenza, come si è detto. Rimangono però necessarie quelle virtù che sono ordinate a un bene che sorpassa quei limiti.

    QUAESTI0 57 DE DISTINCTIONE VIRTUTUM INTELLECTUALIUM

    QUESTION� 57 LE VIRTU INTELLETTUALI

    Deinde considerandum est de distinctione virtu­ tum. Et primo, quantum ad virtutes intellectua­ les; secundo, quantum ad morales [q. 58]; tertio, quantum ad theologicas [q. 62]. Circa primum quaeruntur sex. Primo, utrum habitus intellec­ tuales speculativi sint virtutes. Secundo, utrum sint tres, scilicet sapientia, scientia et intellectus. Tertio, utrum habitus intellectualis qui est ars, sit virtus. Quarto, utrum prudentia sit virtus distinc­ ta ab arte. Quinto, utrum prudentia sit virtus necessaria homini. Sexto, utrum eubulia, synesis et gnome sint virtutes adiunctae prudentiae.

    Passiamo così a esaminare la divisione delle virtù Primo, quanto alle virtù intellettuali; se­ condo, quanto alle virtù morali; terzo, quanto alle virtù teologali. Sul primo argomento si pongono sei quesiti: l . Gli abiti intellettivi di ordine speculativo sono virtù? 2. Sono tre, cioè la sapienza, la scienza e l'intelletto? 3. Quel­ l'abito intellettivo che è l'arte è una virtù? 4. La prudenza è una virtù distinta dall'arte? 5. La prudenza è per l'uomo una virtù necessaria? 6. L' eubulia, la synesis e la gnome sono virtù annesse alla prudenza?

    Articulus l Utrum habitus intellectuales speculativi sint virtutes

    Articolo l Gli abiti intellettivi di ordine speculativo sono virtù?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod habi­ tus intellectuales speculativi non sint virtutes. l . Vrrtus enim est habitus operativus, ut supra [q. 55 a. 2] dictum est. Sed habitus speculativi non sunt operativi, distinguitur enim specula­ tivum a practico, idest operativo. Ergo habitus intellectuales speculativi non sunt virtutes. 2. Praeterea, virtus est eorum per quae fit homo felix sive beatus, eo quod felicitas est vb1utis praemium, ut dicitur in l Ethic. [9,3]. Sed habitus i ntellectuales non considerant

    Sembra di no. Infatti: l . La virtù, come si è visto, è un abito operativo. Ma gli abiti speculativi non sono operativi : infatti speculativo s i contrappone a pratico, cioè a operativo. Quindi gli abiti speculativi dell'intelletto non sono virtù. 2. La virtù va attribuita a quelle cose per cui un uomo è reso felice, o beato: poiché, come dice Aristotele, «la felicità è il premio della virtù». Ora gli abiti intellettivi, più che degli atti e degli altri beni umani che assicurano

    .

    Q. 57, A. l

    Le virttì intellettuali

    actus humanos, aut alia bona humana, per quae homo beatitudinem adipiscitur, sed ma­ gis res naturales et divinas. Ergo huiusmodi habitus virtutes dici non possunt. 3. Praeterea, scientia est habitus speculativus. Sed scientia et virtus disti nguuntur sicut diversa genera non subalternatim posita; ut patet per philosophum, in 4 Top. [2, 1 ] . Ergo habitus speculativi non sunt virtutes. Sed contra, soli habitus speculativi conside­ rant necessaria quae impossibile est aliter se habere. Sed philosophus ponit, in 6 Ethic. [ 1 ,5], quasdam virtutes intellectuales in parte animae quae considerat necessaria quae non possunt aliter se habere. Ergo habitus intellec­ tuales speculativi sunt virtutes. Respondeo dicendum quod, cum omnis virtus dicatur in ordine ad bonum, sicut supra [q. 55 a. 3] dictum est, duplici ratione aliquis habitus dicitur virtus, ut supra [q. 56 a. 3] dictum est, uno modo, quia facit facultatem bene operan­ di; allo modo, quia cum facultate, facit etiam usum bonum. Et hoc, sicut supra [q. 56 a. 3] dictum est, pertinet solum ad illos habitus qui respiciunt partem appetitivam, eo quod vis appetitiva animae est quae facit uti omnibus potentiis et habitibus. - Cum igitur habitus intellectuales speculativi non perliciant par­ tem appetitivam, nec aliquo modo ipsam respiciant, sed solam intellectivam; possunt quidem dici virtutes inquantum faciunt facul­ tatem bonae operationis, quae est consideratio veri (hoc enim est bonum opus intellectus), non tamen dicuntur virtutes secundo modo, quasi facientes bene uti potentia seu habitu. Ex hoc enim quod aliquis habet habitum scientiae speculativae, non inclinatur ad uten­ dum, sed fit potens speculari verum in his quorum habet scientiam, sed quod utatur scientia habita, hoc est movente voluntate. Et ideo virtus quae perficit voluntatem, ut caritas vel iustitia, facit etiam bene uti huiusmodi speculativis habitibus. Et secundum hoc etiam, in actibus horum habituum potest esse meritum, si ex caritate fiant, sicut Gregorius dicit, in 6 Mor. [37], quod contemplativa est

    maioris meriti quam activa. Ad primum ergo dicendum quod duplex est opus, scilicet exterius, et interius. Practicum ergo, vel operativum, quod dividitur contra speculativum, sumitur ab opere exteriori, ad quod non habet ordinem habitus speculativus.

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    all'uomo la beatitudine, si interessano della natura e di Dio. Perciò tali abiti non possono essere considerati virtù. 3. La scienza è un abito speculativo. Ora, Aristotele dimostra che la scienza e la virtù sono distinte come due geneli non subaltema­ ti. Quindi gli abiti speculativi non sono virtù. In contrario: soltanto gli abiti speculativi con­ siderano le realtà necessarie, che sono immu­ tabili. Ma il Filosofo pone delle vittù intellet­ tive nella parte dell'anima che ha per oggetto le realtà necessarie e immutabili. Quindi gli abiti speculativi dell'intelletto sono virtù. Risposta: come si è già spiegato, la virtù si de­ finisce in rapporto al bene, per cui un abito può dirsi virtù in due modi: primo, perché conferi­ sce una capacità di ben operare; secondo, per­ ché con la capacità dà anche il buon uso di essa. Ma questo, come si è detto, appartiene solo agli abiti della parte appetitiva: poiché spetta alla parte appetitiva dell'anima l'uso di tutte le potenze e degli abiti. - Siccome dunque gli abiti intellettivi di ordine speculativo non perfezionano, e in nessun modo riguardano, la parte appetitiva, ma soltanto la parte intelletti­ va, possono certo essere denominati virtù in quanto conferiscono la capacità di quella buo­ na operazione che è la considerazione [attuale] del vero (questo infatti è il ben operare dell'in­ telletto), tuttavia non sono virtù in quell'altro senso, cioè non conferiscono il buon uso della facoltà e dell'abito. Chi infatti ha l'abito di una scienza speculativa non ha per questo l'inclina­ zione a usame, bensì la sola capacità di scorge­ re la verità nelle cose di cui ha la scienza; ma che faccia uso della sua scienza dipende dalla mozione della volontà. Quindi le virtù che per­ fezionano la volontà, come la carità e la giu­ stizia, rendono anche moralmente buono l'uso di queste scienze speculative. Ed è per questo che ci può essere un merito anche nell' e­ sercizio di questi abiti, quando proviene dalla carità: anzi, Gregorio afferma che la vita «con­ templativa è più meritolia di quella attiva». Soluzione delle difficoltà: l . L'operazione è di due specie: esteriore e interiore. Perciò il pra­ tico od operativo che si contrappone allo spe­ culativo si liferisce all'operazione esteriore, con la quale non ha rapporto l'abito speculati­ vo. Questo però si riferisce all'operazione inte­ liore dell'intelletto, cioè alla speculazione del vero. E in questo senso è un abito operativo.

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    Q. 57, A. l

    Le virtù intellettuali

    Sed tamen habet ordinem ad interius opus intellectus, quod est speculari verum. E t secundum hoc est habitus operativus. Ad secundum dicendum quod virtus est ali­ quorum dupliciter. Uno modo, sicut obiecto­ rum. Et sic huiusmodi virtutes speculativae non sunt eorum per quae homo fit beatus; nisi forte secundum quod ly per dicit causam effi­ cientem vel obiectum completae beatitudinis, quod est Deus, quod est summum specula­ bile. Alio modo dicitur virtus esse aliquorum sicut actuum. Et hoc modo virtutes intellec­ tuales sunt eorum per quae homo tit beatus. Tum quia actus harum virtutum possunt esse meritorii, sicut dictum est [co.]. Tum etiam quia sunt quaedam inchoatio perfectae beati­ tudinis, quae in contemplatione veli consistit, sicut supra [q. 3 a. 7] dictum est. Ad tertium dicendum quod scientia dividitur contra virtutem secundo modo dictam, quae pertinet ad vim appetitivam.

    2. In due modi una virtù può riguardare una cosa. Primo, considerandola come suo ogget­ to. E in questo senso le virtù speculative non riguardano ciò per cui un uomo diviene beato; a meno che non si prenda il per come indicativo della causa efficiente o dell'ogget­ to della beatitudine perfetta, cioè di Dio, che è l'oggetto principale della speculazione. Se­ condo, considerando una data cosa come atto [della virtù]. E in questo senso le virtù intel­ lettuali riguardano ciò per cui un uomo divie­ ne beato. Sia perché gli atti di queste virtù possono essere meritori, secondo le spie­ gazioni date, sia anche perché essi sono un preludio della perfetta beatitudine, la quale consiste, come si è detto, nella contemplazio­ ne della verità. 3. La scienza si contraddistingue dalla virtù se prendiamo quest'ultima nel secondo dei modi indicati, perché allora è propria delle potenze appetitive.

    Articulus 2

    Articolo 2

    Utrum sint tantum tres habitus intellectuales speculativi scilicet sapientia, scientia et intellectus

    Ci sono solo tre abiti intellettuali di ordine speculativo, cioè la sapienza, la scienza e l'intelletto?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod inconvenienter distinguantur tres virtutes intellectuales speculativae, scilicet sapientia, scientia et intellectus. l . Species enim non debet condividi generi. Sed sapientia est quaedam scientia, ut dicitur in 6 Ethic. [7 ,3] . Ergo sapientia non debet condividi scientiae, in numero virtutum intel­ lectualium. 2. Praeterea, in distinctione potentiarum, ha­ bituum et actuum, quae attenditur secundum obiecta, attenditur principaliter distinctio quae est secundum rationem formalem obiecto­ rum, ut ex supradictis [q. 54 a. 2 ad l ; I q. 77 a. 3] patet. Non ergo diversi habitus debent distingui secundum materiale obiectum; sed secundum rationem formalem illius obiecti. Sed principium demonstrationis est ratio sciendi conclusiones. Non ergo intellectus principiorum debet poni habitus alius, aut alia virtus, a scientia conclusionum. 3. Praeterea, virtus intellectualis dicitur quae est in ipso rationali per essentiam. Sed ratio, etiam speculativa, sicut ratiocinatur syllogi­ zando demonstrative; ita etiam ratiocinatur

    Sembra di no. Infatti: l . Un genere non può affiancarsi in una stessa suddivisione con una sua specie. Ora la sapien­ za, al dire di Aristotele, è una specie della scien­ za. Quindi la scienza non va affiancata alla sa­ pienza nell'enumerazione delle virtù intellettuali. 2. Nella distinzione delle potenze, degli abiti e degli atti che viene desunta in base agli oggetti, si deve insistere principalmente sulla ragione formale degli oggetti, come risulta chiaro da quanto detto. Perciò non si devono distinguere i diversi abiti in base ai vari oggetti materiali, ma in base alla loro ragione formale. Ora, i princìpi dimostrativi sono la ragione della scienza delle conclusioni. Quindi l'intelletto dei princìpi non va considerato come abito o virtù distinta dalla scienza delle conclusioni. 3. Si denomina virtù intellettuale quella che risiede nella facoltà razionale per essenza. Ma la ragione, anche quella speculativa, svolge il raziocinio sia con sillogismi dimostrativi, sia con sillogismi dialettici. Se quindi la scienza che è prodotta da un sillogismo dimostrativo è una virtù intellettuale di ordine speculativo, lo deve essere anche l'opinione.

    Q. 57, A. 2

    Le virttì intellettuali

    syllogizando dialectice. Ergo sicut scientia, quae causatur ex syllogismo demonstrativo, ponitur virtus intellectualis speculativa; ita etiam et opinio. Sed contra est quod philosophus, 6 Ethic. [7,3; 3 , 1 ], ponit has solum tres virtutes intel­ lectuales speculativas, scilicet sapientiam, scientiam et intellectum. Respondeo dicendum quod, sicut iam [a. l ] dictum est, virtus intellectualis speculativa est per quam intellectus speculativus perficitur ad considerandum verum, hoc enim est bonum opus eius. Verum autem est dupliciter consi­ derabile, uno modo, sicut per se notum; alio modo, sicut per aliud notum. Quod autem est per se notum, se habet ut principium; et perci­ pitur statim ab intellectu. Et ideo habitus per­ ficiens intellectum ad huiusmodi veri consi­ derationem, vocatur intellectus, qui est habi­ tus principiorum. - Verum autem quod est per aliud notum, non statim percipitur ab intellec­ tu, sed per inquisitionem rationis, et se habet in ratione termini. Quod quidem potest esse dupliciter, uno modo, ut sit ultimum in aliquo genere; alio modo, ut sit ultimum respectu totius cognitionis humanae. Et quia ea quae

    sunt posterius nota quoad nos, sunt priora et magis nota secundum naturam, ut dicitur in l Phys. [ l ,2] ; ideo i d quod est ultimum respectu totius cognitionis humanae, est id quod est primum et maxime cognoscibile secundum naturam. Et circa huiusmodi est sapientia, quae considerat altissimas causas, ut dicitur in l Met. [ 1 , 1 , 1 2; 2,7]. Unde conve­ nienter iudicat et ordinat de omnibus, quia iudicium perfectum et universale haberi non potest nisi per resolutionem ad primas causas. Ad id vero quod est ultimum in hoc vel in ilio genere cognoscibilium, perficit intellectum scientia. Et ideo secundum diversa genera sci­ bilium, sunt diversi habitus scientiarum, cum tamen sapientia non sit nisi una. Ad primum ergo dicendum quod sapientia est quaedam scientia, inquanntm habet id quod est commune omnibus scientiis, ut scilicet ex principiis conclusiones demonstret. Sed quia habet aliquid proprium supra alias scientias, inquantum scilicet de omnibus iudicat; et non solum quantum ad conclusiones, sed etiam quantum ad prima principia, ideo habet ratio­ nem perfectioris vittutis quam scientia. Ad secundum dicendum quod quando ratio

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    In contrario: il Filosofo enumera soltanto que­ ste tre virtù intellettuali di ordine speculativo, cioè la sapienza, la scienza e l'intelletto. Risposta: come si è già detto, le virtù intellet­ tuali speculative sono quelle disposizioni che perfezionano l ' intelletto speculativo nella considerazione del vero: costituendo questo il suo ben operare. Ora, il vero da considerare è di due specie: primo, quello noto per se stes­ so; secondo, quello conosciuto per mezzo di altre nozioni. Ma ciò che è per sé noto ha na­ tura di principio, e viene percepito dall' intel­ letto in maniera istantanea. Perciò l'abito che predispone l ' intelligenza alla considerazione di queste verità è detto intelletto, ed è l'abito dei [primi] princìpi. - Invece le verità cono­ sciute mediante altre nozioni sono percepite non all ' istante dall ' intelletto, ma mediante una ricerca della ragione; e hanno natura di termine ultimo. n quale può essere di due tipi: ultimo di un dato genere e ultimo in rapporto a tutta la conoscenza umana. E poiché, come dice il Filosofo, «le cose che noi conosciamo da ultime sono le prime e le più note per natu­ nt», ciò che è ultimo rispetto a tutta la cono­ scenza umana è al primo posto come l' og­ getto più conoscibile per natura. E di ciò si occupa precisamente la sapienza, la quale considera le cause supreme, come scrive Ari­ stotele. Per cui giustamente essa coordina e giudica tutte le cose: poiché non si può dare un giudizio perfetto e universale se non me­ diante un processo risolutivo fino alle prime cause. Invece rispetto a ciò che è ultimo in questo o in quell' altro genere di conoscibili l ' intelletto ottiene il suo compimento con la scienza. E così ai diversi generi di conoscibili corrispondono abiti di scienze diverse; la sapienza invece non può essere che una. Soluzione delle difficoltà: l . La sapienza è una specie della scienza in quanto possiede ciò che è comune a tutte le scienze, cioè l'attitudine a dimostrare delle conclusioni dai princìpi. Avendo però qualcosa di proprio al disopra delle altre scienze, cioè l'attitudine a giudicare tutto, non solo le conclusioni, ma anche i princìpi, si presenta come una virtù più perfetta della scienza. 2. Quando la ragione formale di un oggetto è riferita alla potenza o all'abito in forza di un unico atto, allora gli abiti e le potenze non si possono distinguere fondandosi sulla distin-

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    Q. 57, A. 2

    Le virtù intellettuali

    obiecti sub uno actu refertur ad potentiam vel habitum, tunc non distinguuntur habitus vel potentiae penes rationem obiecti et obiectum materiale, sicut ad eandem potentiam visivam pertinet videre colorem, et lumen, quod est ratio videndi colorem et simul cum ipso vide­ tur. Principia vero demonstrationis possunt seorsum considerari, absque hoc quod consi­ derentur conclusiones. Possunt etiam conside­ rari simul cum conclusionibus, prout principia in conclusiones deducuntur. Considerare ergo hoc secundo modo principia, pertinet ad scien­ tiam, quae considerar etiam conclusiones, sed considerare principia secundum seipsa, perti­ net ad intellectum. - Unde, si quis recte consi­ deret, istae tres virtutes non ex aequo distin­ guuntur ab invicem, sed ordine quodam; sicut accidit in totis potentialibus, quorum una pars est perfectior altera, sicut anima rationalis est perfectior quam sensibilis, et sensibilis quam vegetabilis. Hoc enim modo, scientia dependet ab intellectu sicut a principaliori. Et utrumque dependet a sapientia sicut a principalissimo, quae sub se continet et intellectum et scien­ tiam, ut de conclusionibus scientiarum diiudi­ cans, et de principiis earundem. Ad tertium dicendum quod, sicut supra [q. 55 aa. 3-4] dictum est, habitus virtutis determina­ te se habet ad bonum, nullo autem modo ad malum. Bonum autem intellectus est verum, malum autem eius est falsum. Unde soli illi habitus virtutes intellectuales dicuntur, quibus semper dicitur verum, et nunquam falsum. Opinio vero et suspicio possunt esse veri et falsi. Et ideo non sunt intellectuales virtutes, ut dicitur in 6 Ethic. [3, l ] .

    zione tra oggetto formale e oggetto materiale: come spetta a un'unica potenza visiva vedere il colore e la luce, che è la ragione formale dell'atto visivo, il quale abbraccia il colore e la luce stessa. Invece i princìpi dimostrativi possono essere considerati a parte, senza con­ siderare le conclusioni. E possono essere con­ siderati anche uniti alle conclusioni, in quanto queste da essi derivano. Considerare dunque i princìpi in questa seconda maniera appartiene alla scienza, la quale si estende alle conclusio­ ni; considerare invece i princìpi in se stessi appartiene all'intelletto. - Se quindi vogliamo precisare bene la cosa, diremo che queste tre virtù non sono distinte tra loro con un criterio di uguaglianza, ma di subordinazione; come accade nella suddivisione di ogni tutto poten­ ziale, in cui una parte è più perfetta dell'altra: l' anima razionale, p. es., è più perfetta di quella sensitiva, e quella sensitiva più di quel­ la vegetativa. In questo modo infatti la scienza riconosce la preminenza dell' intelletto da cui dipende. E l ' una e l 'altro dipendono dalla sapienza, che ha una preminenza assoluta, e abbraccia sotto di sé sia l ' intelletto che la scienza, in quanto giudica sia le conclusioni delle scienze, sia i loro princìpi. 3. Abbiamo già detto che le virtù sono sempre indirizzate al bene, e in nessun modo al male. Ora, il bene dell'intelletto è il vero, e il suo male è il falso. Perciò possono dirsi virtù intellettuali soltanto quegli abiti con cui si afferma sempre la verità, e mai la thlsità. Invece l'opinione e la congettura possono avere per oggetto sia il vero che il falso. Quindi, come insegna Aristotele, esse non sono virtù intellettuali.

    Articulus 3

    Articolo 3

    Utrum habitus intellectualis qui est ars sit virtus

    Gli abiti intellettuali delle arti sono virtù?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod ars non sit virtus intellectualis. l. Dicit enim Augustinus, in libro De lib. arb. [2,1 8- 1 9], quod virtute nullus male utitur. Sed arte aliquis male utitur, potest enim aliquis artifex, secundum scientiam artis suae, male operari. Ergo ars non est virtus. 2. Praeterea, virtutis non est virtus. A rtis autem est aliqua virtus, ut dicitur in 6 Ethic. [5,7]. Ergo ars non est virtus. 3. Praeterea, artes liberales sunt excellentiores

    Sembra di no. Infatti: l . Agostino insegna che «della virtù nessuno usa malamente». Invece alcuni fanno un catti­ vo uso della loro arte: infatti un artigiano può lavorare malamente, rispetto ai princìpi della sua arte. Quindi le arti non sono virtù. 2. Non ci può essere la virtù di una virtù. In­ vece, al dire del Filosofo, «esiste una certa virtù dell'arte». Quindi l'arte non è una virtù. 3. Le arti liberali sono più nobili delle arti meccaniche. Ora, come le arti meccaniche

    Q. 57, A. 3

    Le virttì intellettuali

    quam artes mechanicae. Sed sicut artes mechanicae sunt practicae, ita artes liberales sunt speculativae. Ergo si ars esset virtus intellectualis, deberet virtutibus speculativis annumerari. Sed contra est quod philosophus, in 6 Ethic. [3, 1 ; 7,3], ponit artem esse virtutem; nec tamen connumerat eam virtutibus specula­ tivis, quarum subiectum ponit scientificam partem animae. Respondeo dicendum quod ars nihil aliud est quam ratio recta aliquorum operum faciendo­ rum. Quorum tamen bonum non consistit in eo quod appetitus humanus aliquo modo se habet, sed in eo quod ipsum opus quod fit, in se bonum est. Non enim pertinet ad laudem artificis, inquantum artifex est, qua voluntate opus faciat; sed quale sit opus quod facit. Sic igitur ars, proprie loquendo, habitus operativus est. Et tamen in aliquo convenit cum habitibus speculativis, quia etiam ad ipsos habitus spe­ culativos pertinet qualiter se habeat res quam considerant, non autem qualiter se habeat appetitus humanus ad illas. Dummodo enim verum geometra demonstret, non refert qualiter se habeat secundum appetitivam partem, utrum sit laetus vel iratus, sicut nec in artifice refert, ut dictum est [a. 2 ad 3]. Et ideo eo modo ars habet rationem vittutis, sicut et habitus speculativi, inquantum scilicet nec ars, nec habitus speculativus, faciunt bonum opus quantum ad usum, quod est proprium virtutis perficientis appetitum; sed solum quantum ad facultatem bene agendi. Ad primum ergo dicendum quod, cum aliquis habens artem operatur malum artificium, hoc non est opus artis, immo est contra artem, sicut etiam cum aliquis sciens verum mentitur, hoc quod dicit non est secundum scientiam, sed contra scientiam. Unde sicut scientia se habet semper ad bonum, ut dictum est [a. 2 ad 3], ita et ars, et secundum hoc dicitur virtus. In hoc tamen deficit a perfecta ratione virtutis, quia non facit ipsum bonum usum, sed ad hoc aliquid aliud requiritur, quamvis bonus usus sine arte esse non possit. Ad secundum dicendum quod, quia ad hoc ut homo bene utatur arte quam habet, requiritur bona voluntas, quae perficitur per virtutem moralem; ideo philosophus dicit quod artis est virtus, scilicet moralis, inquantum ad bonum usum eius aliqua v irtus morali s

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    sono pratiche, così quelle liberali sono specu­ lative. Se quindi l'arte fosse una virtù intellet­ tuale, dovrebbe essere annoverata fra le virtù speculative. In contrario: il Filosofo nell'Etica insegna che l'arte è una virtù; e tuttavia non la enumera tra le virtù speculative, la cui sede egli ripone nel potere scientifico dell'anima. Risposta: l'arte non è altro che la retta norma per compiere determinate opere. E il bene in questi casi non consiste nel fatto che il volere umano si comporta in una data maniera, ma nel fatto che è buona la cosa stessa prodotta. Infatti non torna a lode dell'artefice come tale l'intenzione con la quale egli compie la sua opera, ma solo la qualità dell'opera che egli compie. Perciò, propriamente parlando, l'arte è un abito operativo. E tuttavia in qualcosa coincide con gli abiti speculativi: poiché anche gli abiti speculativi hanno di mira la situazione delle cose conosciute, e non il comportamento della volontà umana nei loro riguardi. Infatti, purché il geometra faccia una dimostrazione vera, non importa il suo stato d'animo, se cioè è contento o adirato: e così non interessa nel caso di un artista o di un artigiano, come si è detto. Perciò le arti hanno natura di virtù come gli abiti speculativi: nel senso cioè che né le arti né gli abiti speculativi rendono buona l'opera quanto all'uso, poiché questo è il com­ pito proprio delle virtù morali, ma solo quanto alla capacità di ben operare. Soluzione delle difficoltà: l . Quando chi pos­ siede un mestiere compie un'opera difettosa fa un'opera non degna, ma indegna della sua arte: come anche quando uno mente cono­ scendo la verità, il suo dire non è secondo la scienza, ma contrario ad essa. Come quindi la scienza è sempre legata al bene, come si è detto, così anche l'atte: e da questo lato viene denominata virtù. Non raggiunge però la per­ fetta natura di virtù perché non rende buono anche l'uso, per il quale si richiede qualche altra cosa; sebbene non ci possa essere il buon uso [di una facoltà] senza l'arte. 2. Perché un uomo usi bene della sua arte si richiede che abbia la volontà retta, e questa raggiunge la sua perfezione con la virtù mora­ le: per questo il Filosofo parla di virtù, morale si intende, dell'arte, in quanto il suo buon uso richiede delle virtù morali. Infatti è chiaro che la giustizia, che dà rettitudine alla volontà,

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    Q. 57, A. 3

    Le virtù intellettuali

    requiritur. Manifestum est enim quod artifex per iustitiam, quae facit voluntatem rectam, inclinatur ut opus fidele faciat. Ad terti um dicendum quod etiam in ipsis speculabilibus est aliquid per modum cuius­ dam operis, puta constructio syllogismi aut orationis congruae aut opus numerandi vel mensurandi. Et ideo quicumque ad huiusmo­ di opera rationis habitus speculativi ordinan­ tur, dicuntur per quandam similitudinem artes, sed liberales; ad differentiam illarum artium quae ordinantur ad opera per corpus exercita, quae sunt quodammodo serviles, inquantum corpus serviliter subditur animae, et homo secundum animam est liber. Illae vero scientiae quae ad nullum huiusmodi opus ordinantur, simpliciter scientiae dicun­ tur, non autem artes. Nec oportet, si liberales artes sunt nobiliores, quod magis eis conveniat ratio artis.

    farà sì che un artigiano sia portato a compiere un' opera genuina. 3. Anche nell'attività speculativa ci sono degli esercizi che si presentano come opere: p. es. la costruzione di un sillogismo, di un buon discorso, oppure le operazioni di numerazio­ ne o di misurazione. Perciò tutti gli abiti spe­ culativi che sono ordinati a queste opere del raziocinio, per una certa somiglianza vengono dette arti, però l iberali : per distinguerle da quelle arti che sono ordinate a opere da com­ piersi mediante il corpo, e che sono in qual­ che modo servili, in quanto il corpo è sottopo­ sto all'anima come schiavo, mentre l'uomo in forza dell ' anima è libero. Invece le scienze che non sono ordinate ad alcuna opera vengo­ no dette semplicemente scienze, non arti. Per il fatto poi che le arti liberali sono più nobili non è detto che ad esse convenga maggior­ mente il carattere di arte.

    Articulus 4

    Articolo 4

    Utrum prudentia sit virtus distincta ab arte

    La prudenza è una virtù distinta dall'arte?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod pru­ dentia non sit alia virtus ab arte. l . Ars enim est ratio recta aliquorum operum. Sed diversa genera operum non faciunt ut ali­ quid amittat rationem artis, sunt enim diver­ sae artes circa opera valde diversa. Cum igitur etiam prudentia sit quaedam ratio recta ope­ rum, videtur quod etiam ipsa debeat dici ars. 2. Praeterea, prudentia magis convenit cum arte quam habitus speculativi, utrumque enim eorum est circa contingens a/iter se habere, ut dicitur in 6 Ethic. [6, 1]. Sed quidam habi­ tus speculativi dicuntur artes. Ergo multo magis prudentia debet dici ars. 3. Praeterea, ad prudentiam pertinet bene consiliari, ut dicitur in 6 Ethic. [5, 1 ] . Sed etiam in quibusdam artibus consiliari contin­ git, ut dicitur in 3 Ethic. [3,8], sicut in arte militari, et gubemativa, et medicinali. Ergo prudentia ab arte non distinguitur. Sed contra est quod philosophus distinguit prudentiam ab arte, in 6 Ethic. [3, 1 ; 5,3.7]. Respondeo dicendum quod ubi invenitur di­ versa rat i o v i rtuti s , i b i oportet v i rtutes distingui. Dictum est autem supra quod aliquis habitus habet rationem virtutis ex hoc solum quod faci t facultatem boni operis, aliquis

    Sembra di no. Infatti : l . L' arte è la retta norma dell' operare. Ma la diversità dei generi delle opere da compiere non può far sì che qualcosa cessi di essere un' arte: esistono infatti arti diverse per opere molto diverse. Perciò, essendo anche la pru­ denza una retta norma dell'operare, sembra che anch'essa debba considerarsi un'arte. 2. La prudenza è più affine all' arte degli abiti speculativi: infatti anch'essa, come dice Aristo­ tele, «ha per oggetto i contingenti». Ma alcuni abiti speculativi sono denominati arti. Quindi a maggior ragione deve dirsi arte la prudenza. 3. «Alla prudenza spetta la bontà del delibera­ re», dice il Filosofo. Ma egli nota pure che anche in alcune arti le deliberazioni non man­ cano: p. es. nell' arte militare, nell' arte del governo e neli' arte medica. Quindi la pruden­ za non si distingue dall'arte. In contrario: il Filosoto distingue la prudenza dall'arte. Risposta: dove si tiscontrano ragioni diverse delle virtù è necessario che le virtù siano distinte. Ma abbiamo detto sopra che alcuni abiti si presentano come virtù per il solo fatto che conferiscono la capacità di compiere bene un'opera, altti invece per i l fatto che danno

    Q. 57, A. 4

    Le virttì intellettuali

    autem ex hoc quod faci t non solum facul­ tatem boni operis, sed etiam usum. Ars autem facit solum facultatem boni operis, quia non respicit appetitum. Prudentia autem non solum facit boni operis facultatem, sed etiam usum, respicit enim appetitum, tanquam prae­ supponens rectitudinem appetitus. - Cuius dif­ ferentiae ratio est, quia ars est recta ratio factibilium; prudentia vero est recta ratio agi­ bilium. Differt autem tacere et agere quia, ut dicitur in 9 Met. [8,8,9], tactio est actus transiens in exteriorem materiam, sicut aedificare, secare, et huiusmodi ; agere autem est actus permanens in ipso agente, sicut videre, velle, et huiusmodi. Sic igitur hoc modo se habet prudentia ad huiusmodi actus humanos, qui sunt usus potentiarum et habituum, sicut se habet ars ad exteriores factiones, quia utraque est perfecta ratio respectu illorum ad quae comparatur. Perfectio autem et rectitudo ratio­ nis in speculativis, dependet ex principiis, ex quibus ratio syllogizat, sicut dictum est [a. 2 ad 2] quod scientia dependet ab intellectu, qui est habitus principiorum, et praesupponit ipsum. In humanis autem actibus se habent fines sicut principia in speculativis, ut dicitur in 7 Ethic. [8,4]. Et ideo ad prudentiam, quae est recta ratio agibilium, requiritur quod homo sit bene dispositus circa tìnes, quod quidem est per appetitum rectum. Et ideo ad prudentiam requiritur moralis virtus, per quam fit appetitus rectus. Bonum autem artifi­ cialium non est bonum appetitus humani, sed bonum ipsorum operum artificialium, et ideo ars non praesupponit appetitum rectum. Et inde est quod magis laudatur artifex qui volens peccat, quam qui peccat nolens; magis autem contra prudentiam est quod aliquis peccet volens, quam nolens, quia rectitudo voluntatis est de ratione prudentiae, non autem de ratione artis. Sic igitur patet quod prudentia est virtus distincta ab arte. Ad primum ergo dicendum quod diversa genera artificialium omnia sunt extra homi­ nem, et ideo non diversificatur ratio virtutis. Sed prudentia est recta ratio ipsorum actuum humanorum, unde diversificatur ratio virtutis, ut dictum est [co.]. Ad secundum dicendum quod prudentia magis convenit cum arte quam habitus specu­ lativi, quantum ad subiectum et materiam, utrumque enim est in opinativa parte animae,

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    non solo tale capacità, ma anche il buon uso di essa. Ora, l'arte conferisce la sola capacità di compiere bene un'opera: poiché non inte­ ressa l' appetito [o volontà]. Invece la pruden­ za non dà soltanto la capacità di ben operare, ma ne dona anche il buon uso: essa infatti interessa l' appetito, poiché presuppone la sua rettitudine. - E il motivo di ciò sta nel fatto che l ' arte è «la retta ragione delle cose da farsi», mentre la prudenza è «la retta ragione delle azioni da compiersi». Ora, come ricorda Aristotele, c'è differenza tra fare e agire, poi­ ché il fare è un atto [transitivo] che passa su oggetti esterni, come fabbricare, segare e così via, mentre l'agire è un atto [intransitivo] che rimane nell'agente medesimo, come vedere, volere e simili. Perciò la prudenza sta alle azioni umane suddette, che costituiscono l'uso delle potenze e degli abiti, come l'arte sta alle operazioni esterne: poiché l ' una e l ' altra sono la perfetta ragione rispetto alle cose a cui si riferiscono. Ora, la perfezione o rettitudine della ragione in campo speculativo dipende dai princìpi dai quali la ragione argo­ menta: infatti abbiamo notato che la scienza presuppone l'intelletto, cioè l' abito dei [pri­ mi] princìpi, e da esso dipende. Ma le funzio­ ni che i princìpi svolgono in campo speculati­ vo nell'agire umano spettano ai fini, come nota Aristotele. Perciò la prudenza, che è la retta ragione delle azioni da compiersi, richie­ de che l'uomo sia ben disposto rispetto ai suoi fini: e ciò si ottiene mediante la rettitudine della sua volontà. E così la prudenza presup­ pone le virtù morali che rendono buona la volontà. Invece nelle opere dell'arte la bontà non appartiene alla volontà umana, ma alle stesse opere dell'atte: per cui l'arte non pre­ suppone una volontà retta. Ed è per questo che l ' artefice che sbaglia volontat·iamente è più apprezzato dell' artefice che sbaglia senza volerlo: poiché la bontà del volere è essenzia­ le alla prudenza, mentre non lo è per l 'arte. Così dunque risulta chiaro che la prudenza è una virtù distinta dall'arte. Soluzione delle difficoltà: l . I vari generi dei prodotti dell'arte sono tutti esterni all'uomo: essi perciò non costituiscono una differenza nella nozione di virtù. Invece la prudenza è la retta norma degli stessi atti umani, e quindi implica una variazione nell ' ambito della virtù, come si è spiegato.

    Q. 57, A. 4

    Le virtù intellettuali

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    et circa contingens aliter se habere. Sed ars magis convenit cum habitibus speculativis in ratione virtutis, quam cum prudentia, ut ex dictis [co.; a. 3] patet. Ad tertium dicendum quod prudentia est bene consiliativa de bis quae pertinent ad totam vitam hominis, et ad ultimum finem vitae humanae. Sed in artibus aliquibus est consilium de bis quae pertinent ad fines proprios illarum artium. Unde aliqui, inquantum sunt bene consiliativi in rebus bellicis vel nauticis, dicuntur prudentes duces vel gubernatores, non autem prudentes simpliciter, sed illi solum qui bene consiliantur de bis quae con­ ferunt ad totam vitam.

    2. La prudenza è affine all'arte più degli abiti speculativi sia per il soggetto che per la mate­ ria di cui si occupa: infatti l'una e l'altra risie­ dono nella parte opi nativa dell' anima, e si occupano di fatti contingenti. Ma quanto alla nozione di virtù l'arte è più affine agli abiti speculativi che alla prudenza, come è eviden­ te dalle spiegazioni date. 3. La prudenza porta a ben deliberare intorno a ciò che interessa tutta la vita di un uomo, e al tine ultimo della vita umana. Invece i n alcune arti interviene la deliberazione in ordi­ ne a cose riguardanti i fini particolari di tali arti. Per cui alcuni, in quanto sono adatti a ben deliberare in cose di guerra o di naviga­ zione, sono detti prudenti come capitani e piloti, ma non pmdenti in senso assoluto: tali sono invece coloro che sono atti a ben delibe­ rare in cose che interessano tutta la vita.

    Articulus 5

    Articolo 5

    Utrum prudentia sit virtus necessaria homini

    La prudenza è una virtù necessaria per l'uomo?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod pru­ denti a non sit virtus necessaria ad bene vivendum. l . Sicut enim se habet ars ad factibilia, quo­ rum est ratio recta; ita se habet prudentia ad agibilia, secundum quae vita hominis conside­ ratur, est enim eorum recta ratio prudentia, ut dicitur in 6 Ethic. [5,4]. Sed ars non est neces­ saria in rebus factibilibus nisi ad hoc quod fiant, non autem postquam sunt factae. Ergo nec prudentia est necessaria homini ad bene vivendum, postquam est virtuosus, sed forte solum quantum ad hoc quod virtuosus fiat. 2. Praeterea, prudentia est per quam recte consiliamur, ut dicitur in 6 Ethic. [5,1 ; 7,6]. Sed homo potest ex bono consilio agere non solum proprio, sed etiam alieno. Ergo non est necessarium ad bene vivendum quod ipse homo habeat prudentiam; sed sufficit quod prudentum consilia sequatur. 3. Praeterea, virtus intellectualis est secundum quam contingit semper dicere verum, et nun­ quam falsum. Sed hoc non videtur contingere secundum prudentiam, non enim est huma­ num quod in consiliando de agendis nun­ quam erretur; cum humana agibilia sint con­ tingentia aliter se habere. Unde dicitur Sap. 9 [ 1 4 ] , cogitationes mortalium timidae, et

    Sembra di no. Infatti: l . Come l'arte sta alle opere da farsi, di cui è la retta ragione, così la prudenza sta alle azio­ ni da compiersi, secondo le quali si considera la vita umana: infatti la prudenza è la retta ragione di queste azioni, come insegna Aristotele. Ora, l'arte è necessaria per le ope­ re da farsi solo fino a che queste siano com­ piute. Quindi anche la prudenza non è neces­ saria all'uomo per ben vivere quando è già virtuoso, ma caso mai solo per diventarlo. 2. Aristotele dice che «la prudenza è fatta per ben consigliarsi» nel deliberare. Ma uno può agire anche dietro un buon consiglio di altri. Perciò non è necessario che uno per ben vive­ re abbia egli stesso la prudenza, ma basta che segua i consigli di persone prudenti. 3. Una virtù intellettuale fa sì che si dica sem­ pre la verità e mai il falso. Ma ciò non può accadere nel caso della prudenza: infatti non è umano che nel deliberare su azioni da compie­ re non si sbagli mai, essendo le azioni umane realtà contingenti. Perciò in Sap è detto: I ragionamenti dei m011ali sono timidi e incer­ te le nostre riflessioni. Quindi la prudenza non va enumerata fra le virtù intellettuali. In contrario: in Sap la prudenza è ricordata fra le virtù necessarie alla vita umana, là dove si

    Q. 57, A. 5

    Le virttì intellettuali

    incertae providentiae nostrae. Ergo videtur quod prudentia non debeat poni intellectualis virtus. Sed contra est quod Sap. 8 [7], connumeratur aliis virtutibus necessariis ad vitam humanam, cum dicitur de divina sapientia, sobrietatem et prudentiam docet, iustitiam et virtutem, qui­ bus utilius nihil est in vita hominibus. Respondeo dicendum quod prudentia est vir­ tus maxime necessaria ad vitam humanam. Bene enim vivere consistit in bene operari. Ad hoc autem quod aliquis bene operetur, non salurn requiritur quid faciat, sed etiam quomodo faciat; ut scilicet secundum electio­ nem rectam operetur, non salurn ex impetu aut passione. Cum autem electio sit eorum quae sunt ad finem, rectitudo electionis duo requirit, scilicet debitum finem; et id quod convenienter ordinatur ad debitum finem. Ad debitum autem finem homo convenienter disponitur per virtutem quae perticit partem animae appetitivam, cuius obiectum est bo­ num et finis. Ad id autem quod convenienter in finem debitum ordinatur, oportet quod homo directe disponatur per habitum rationis, quia consiliari et eligere, quae sunt eorum quae sunt ad finem, sunt actus rationis. Et ideo necesse est in ratione esse aliquam vir­ tutem intellectualem, per quam perficiatur ratio ad hoc quod convenienter se habeat ad ea quae sunt ad finem. Et haec virtus est pru­ dentia. Unde prudentia est virtus necessaria ad bene vivendum. Ad primum ergo dicendum quod bonum artis consideratur non in ipso artifice, sed magis in ipso artificiato, cum ars sit ratio recta factibi­ lium, factio enim, in exteriorem materiam transiens, non est perfectio facientis, sed facti, sicut motus est actus mobilis; ars autem circa factibilia est. Sed prudentiae bonum attenditur i n ipso agente, cuius perfectio est ipsum agere, est enim prudentia recta ratio agibi­ lium, ut dictum est [a. 4] . Et ideo ad artem non requiritur quod artifex bene operetur, sed quod bonum opus faciat. Requireretur autem magis quod ipsum artificiatum bene operare­ tur, sicut quod cultellus bene incideret, vel serra bene secaret; si proprie horum esset agere, et non magis agi , quia non habent dominium sui actus . Et i deo ars non est necessaria ad bene vivendum ipsi artificis; sed salurn ad faciendum artificiatum bonum, et

    538

    Essa insegna la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza, delle quali nulla è più utile agli uo­ mini nella vita. dice della divina sapienza:

    Risposta: la prudenza è una virtù sommamen­ te necessaria per la vita umana. Infatti il ben vivere consiste nel ben operare. Ma perché uno operi bene non si deve considerare solo ciò che compie, ma anche il modo in cui lo compie: si richiede cioè che agisca non per un impeto di passione, ma seguendo un'opzione retta. E poiché l'opzione, o scelta, ha per og­ getto i mezzi indirizzati a un fine, la rettitudi­ ne dell'opzione richiede due cose: il debito fine e i mezzi ad esso proporzionati. Ora, un uomo viene ben orientato al debito fine da quelle virtù che pe1fezionano la parte appetiti­ va dell' anima, che ha per oggetto il bene e il fine. Invece la buona predisposizione di un uomo rispetto ai mezzi richiede il diretto intervento di un abito della ragione: poiché deliberare e scegliere atti aven!i per oggetto i mezzi appartiene alla ragione. E quindi neces­ sario che nella ragione vi sia una virtù intel­ lettuale che le conferisca una predisposizione retta nei riguardi dei mezzi ordinati al fine. E questa vittù è la pmdenza. Quindi la prudenza è una virtù necessaria a ben vivere. Soluzione delle difficoltà: l . La bontà nel campo delle arti non risiede nell' artefice, ma nei suoi prodotti, essendo l'arte la retta norma delle cose da farsi: infatti il produrre, essendo un'azione transitiva, non è la perfezione di chi produce, ma del prodotto, come il moto è l'atto del soggetto posto in movimento; e l' arte ha per oggetto le cose fattibili. n bene della pru­ denza invece appartiene ali' agente medesimo, che ottiene la sua perfezione proprio nell'agire: infatti la prudenza è la retta norma delle azioni da compiere, come si è detto. Perciò nell'arte non si richiede il ben operare dell'artefice, ma soltanto la bontà del suo prodotto. Piuttosto si richiederebbe il ben operare del prodotto medesimo, cioè che il coltello tagliasse bene o la sega segasse bene, se invece di essere cose fatte per essere usate, mancando loro il domi­ nio dei propri atti, fossero cose capaci di agire. Quindi l'arte non è richiesta per il ben vivere dell'artigiano medesimo, ma solo per costruire e conservare un buon prodotto. Invece la pru­ denza è necessaria all'uomo per vivere bene, e non soltanto per diventare buono.

    539

    Le virtù intellettuali

    Q. 57, A. 5

    ad conservandum ipsum. Prudentia autem est necessaria homini ad bene vivendum, non solum ad hoc quod fiat bonus. Ad secundum dicendum quod, cum homo bonum operatur non secundum propriam rationem, sed motus ex consilio alterius; non­ duro est omnino perfecta operatio ipsius, quantum ad rationem dirigentem, et quantum ad appetitum moventem. Unde si bonum ope­ retur, non tamen simpliciter bene; quod est bene vivere. Ad tertium dicendum quod verum intellectus practici aliter accipitur quam verum intellec­ tus speculativi, ut dicitur in 6 Ethic. [2,3] . Nam verum intellectus speculativi accipitur per conformitatem intellectus ad rem. Et quia intellectus non potest infallibiliter conformati rebus in contingentibus, sed solum in neces­ sariis; ideo nullus habitus speculativus contin­ gentium est intellectualis virtus, sed solum est circa necessaria. Verum autem intellectus practici accipitur per conformitatem ad appetitum rectum. Quae quidem conformitas in necessariis locum non habet, quae volunta­ te humana non fiunt, sed solum in contingen­ tibus quae possunt a nobis fieri, sive sint agi­ bilia interiora, sive factibilia exteriora. Et ideo circa sola contingentia ponitur virtus intellec­ tus practici, circa factibilia quidem, ars; circa agibilia vero prudentia.

    2. Quando un uomo compie il bene mosso dal consiglio altrui, e non dal proprio, la sua ope­ razione non è del tutto perfetta, rispetto alla ragione dirigente e all ' appetito movente. Perciò, anche se compie il bene, non lo com­ pie bene puramente e semplicemente, come invece richiederebbe il ben vivere. 3. La verità dell'intelletto pratico va giudicata diversamente dalla verità dell'intelletto specu­ lativo, come nota Aristotele. Infatti la verità dell'intelletto speculativo viene misurata in base alla conformità dell'intelletto con la real­ tà. E poiché l'intelletto non può conformarsi con esattezza alla realtà nelle cose contingen­ ti, ma soltanto in quelle necessarie, nessun abito speculativo che si interessi del contin­ gente può essere una virtù intellettuale, ma lo possono solo quegli abiti che riguardano il necessario. Invece la vetità dell'intelletto pra­ tico viene desunta dalla conformità col retto volere. La quale conformità non esiste nel campo del necessario, che non dipende dalla volontà umana, ma solo nel campo dei con­ tingenti che possono essere compiuti da noi, siano essi azioni da compiersi o opere esterne da farsi. Ed è per questo che la virtù dell'in­ telletto pratico si limita ai soli contingenti: virtù che rispetto alle cose fattibili è arte, mentre rispetto alle azioni da compiere è pru­ denza.

    Articulus 6 Utrum eubulia, synesis et gnomen sint virtutes adiunctae prudentiae

    Articolo 6 L'eubulia, la synesis e la gnome sono virtù annesse alla prudenza?

    Ad sextum sic proceditur. Videtur quod in­ convenienter adiungantur prudentiae eubulia, synesis et gnome. l . Eubulia enim est habitus quo bene consi­ liamur, ut dicitur in 6 Ethic. [9,4]. Sed bene consiliari pertinet ad prudentiam, ut i n eodem libro [Ethic. 6,5, 1 ; 7,6] dicitur. Ergo eubulia non est virtus adiuncta prudentiae, sed magis est ipsa prudentia. 2. Praeterea, ad superiorem pertinet de infe­ rioribus iudicare. Illa ergo virtus videtur su­ prema, cuius est actus iudicium. Sed synesis est bene iudicativa. Ergo synesis non est vir­ tus adiuncta prudentiae, sed magis ipsa est principalis. 3. Praeterea, sicut diversa sunt ea de quibus est iudicandum, ita etiam diversa sunt ea de

    Sembra di no. Infatti: l . L' eubulia, come scrive Aristotele, è «un abito mediante il quale deliberiamo bene». Ma egli dice pure che «il ben deliberare spetta alla prudenza». Quindi l' eubulia non è una virtù aggiunta, ma la stessa prudenza. 2. Spetta al superiore giudicare degli inferiori. Perciò si presenta come suprema quella virtù che viene esercitata nel giudizio. Ma la synesis è fatta per ben giudicare. Quindi la synesis non è una virtù aggiunta alla prudenza, ma una virtù principale. 3. Le cose da giudicare sono diverse, come diverse sono quelle su cui si deve deliberare. Ma per tutte le cose da deliberare viene indi­ cata una sola virtù, cioè l' eubulia. Quindi per ben giudicare sulle azioni da compiere non è

    Q. 57, A. 6

    Le virttì intellettuali

    quibus est consiliandum. Sed circa omnia consiliabilia ponitur una virtus, scilicet eubu­ lia. Ergo ad bene iudicandum de agendis, non oportet ponere, praeter synesim, aliam virtu­ tem, scilicet gnomen. 4. Praeterea, Tullius ponit, in sua Rhetorica [2,53], tres alias partes prudentiae, scilicet

    memoriam praeteritorum, intelligentiam prae­ sentiwn, etprovidentiamfuturorum. Macrobius

    etiam ponit, super Somnium Scipionis [ l ,8], quasdam alias partes prudentiae, scilicet cau­ tionem, docilitatem, et alia huiusmodi. Non videntur igitur solae huiusmodi virtutes pru­ dentiae adiungi. Sed contra est auctoritas philosophi, in 6 Ethic. [ I l ,2], qui has tres virtutes ponit pru­ dentiae adiunctas. Respondeo dicendum quod in omnibus poten­ tiis ordinatis illa est principalior, quae ad principaliorem actum ordinatur. Circa agibilia autem humana tres actus rationis inveniuntur, quorum primus est consiliari, secundus iudica­ re, tertius est praecipere. Primi autem duo respondent actibus intellectus speculativi qui sunt inquirere et iudicare, nam consilium inquisitio quaedam est. Sed tertius actus pro­ prius est practici intellectus, inquantum est operativus, non enim ratio habet praecipere ea quae per hominem fieri non possunt. Ma­ nifestum est autem quod in his quae per ho­ minem fiunt, principalis actus est praecipere, ad quem alii ordinantur. Et ideo virtuti quae est bene praeceptiva, scilicet prudentiae, tanquam principaliori, adiunguntur tanquam secundariae, eubulia, quae est bene consiliativa, et synesis et gnome, quae sunt partes iudicativae ; de quarum distinctione dicetur [ad 3] . Ad primum ergo dicendum quod prudentia est bene consiliativa, non quasi bene consiliari sit immediate actus eius, sed quia hunc actum perficit mediante virtute sibi subiecta, quae est eubulia. Ad secundum dicendum quod iudicium in agendis ad aliquid ulterius ordinatur, contingit enim aliquem bene iudicare de aliquo agendo, et tamen non recte exequi. Sed ultimum com­ plementum est, quando ratio iam bene praeci­ pit de agendis. Ad tertium dicendum quod iudicium de una­ quaque re fit per propria pri ncipia eius. Inquisitio autem nondum est per propria ptin­ cipia, quia his habitis, non esset opus inquisì-

    540

    necessario stabilire una seconda virtù oltre alla synesis, vale a dire la gnome. 4. Cicerone enumera tre altre parti della pru­ denza, cioè: «la memoria del passato, l' intelli­ genza del presente» e «la previdenza del futu­ ro». E anche Macrobio aggiunge altre parti alla prudenza: «la cautela, la docilità>> e altre cose del genere. Quindi le virtù ricordate non sono le uniche da aggiungere alla prudenza. In contrario: c'è l'autorità del Filosofo il qua­ le presenta le tre virtù suddette come aggiunte alla prudenza. Risposta: tra potenze subordinate la principa­ le è quella che è ordinata all'atto più impor­ tante. Ora, rispetto alle azioni umane trovia­ mo tre atti della ragione, dei quali il primo è il deliberare, il secondo il giudicare, il terzo il comandare. Ora, i primi due corrispondono agli atti dell'intelletto speculativo che sono la ricerca e il giudizio: infatti la deliberazione o consiglio è una specie di ricerca. Invece il terzo è proprio dell'intelletto pratico, in quan­ to operativo: infatti la ragione non ha il com­ pito di comandare le cose che uno non può fare. Ora, è evidente che fra tutte le cose che uno compie l'atto principale è il comandare, a cui gli altri atti sono subordinati. Perciò alla virtù che ha il compito di ben comandare, cioè alla pmdenza, vanno aggiunte come virtù secondarie l' eubulia, che ha il compito di ben deliberare, nonché la synesis e la gnome, che hanno quello di giudicare, e della cui distin­ zione parleremo. Soluzione delle difficoltà: l . La prudenza inclina a ben deliberare non nel senso che la buona deliberazione sia il suo atto, ma perché compie tale atto mediante una virtù subalter­ na, che è appunto l' eubulia. 2. In campo operativo il giudizio è ordinato a qualche altra cosa: infatti uno può giudicare bene sull'atto da compiere, e tuttavia eseguir­ lo malamente. Invece l'ultima perfezione si ha quando la ragione passa a comandare bene sull'azione da compiere. 3. n giudizio su una cosa si compie mediante i princìpi propri di essa. Invece l'inquisizione o ricerca non può ancora fondarsi su tali princì­ pi: se infatti fossero posseduti non ci sarebbe più bisogno di inquisizione, ma la verità sareb­ be già stata trovata. Quindi si richiede una sola virtù per ben deliberare, e due per ben giudica­ re: poiché la distinzione non si compie tra i

    54 1

    Q. 57, A. 6

    Le virtù intellettuali

    tione, sed iam res esset inventa. Et ideo una sola virtus ordinatur ad bene consiliandum, duae autem virtutes ad bene iudicandum, quia distinctio non est in communibus principiis, sed in propriis. Unde et in speculativis una est dialectica inquisitiva de omnibus, scientiae autem demonstrativae, quae sunt iudicativae, sunt diversae de diversis. Distinguuntur autem synesis et gnome secundum diversas regulas quibus iudicatur, nam synesis est iudicativa de agendis secundum communem legem; gnome autem secundum ipsam rationem naturalem, in his in quibus deficit lex communis; sicut plenius infra [II-TI q. 5 1 a. 4] patebit. Ad quartum dicendum quod memoria, intelli­ gentia et providentia, similiter etiam cautio et docilitas, et alia huiusmodi, non sunt virtutes diversae a prudentia, sed quodammodo com­ parantur ad ipsam sicut partes integrales, inquantum omnia ista requiruntur ad perfectio­ nem prudentiae. Sunt etiam et quaedam partes subiectivae, seu species prudentiae, sicut oeco­ nomica, regnativa, et huiusmodi. Sed praedicta tria sunt quasi partes potentiales prudentiae, quia ordinantur sicut secundarium ad principa­ le. Et de his infra [11-11 q. 48] dicetur.

    princìpi comuni, ma tra quelli propri. Per cui in campo speculativo una sola dialettica serve per la ricerca in tutti i campi, mentre le scienze dimostrative, che hanno il compito di giudica­ re, sono diverse secondo la diversità degli oggetti. Ora, la synesis e la gnome si distin­ guono in base alla diversità delle norme con cui giudicano: infatti la synesis ha il compito di giudicare delle azioni da compiere in base alla legge comune; la gnome invece si spinge a giudicare, in base alla ragione naturale, di cose a cui la legge comune non arriva, come vedremo meglio in seguito. 4. La memoria, l ' intelligenza e la previdenza, come anche la cautela, la docilità e simili, non sono virtù distinte dalla prudenza, ma in qual­ che modo sono rispetto ad essa come parti integrali, in quanto sono tutte richieste per la sua perfezione. Ci sono poi anche le parti soggettive, cioè le specie della prudenza: come la prudenza economica, quella politica, ecc. Le tre virtù sopra indicate sono invece quasi parti potenziali della prudenza: poiché sono ordinate ad essa come gli elementi secondari a quello principale. E anche di que­ sto parleremo in seguito.

    QUAESTI0 5 8

    QUESTIONE 58

    DE DISTINCTIONE VIRTUTUM MORALIUM AB INTELLECTUALIBUS

    LA DISTINZIONE DELLE VIRTÙ MORALI DA QUELLE INTELLETTUALI

    Deinde considerandum est de virtutibus mora­ libus. Et primo, de distinctione earum a vir­ tutibus intellectualibus; secundo, de distinctione earum ab invicem, secundum propriam mate­ riam [q. 59]; tertio, de distinctione principalium, vel cardinalium, ab aliis [q. 6 1 ] . Circa primum quaeruntur quinque. Primo, utrum omnis virtus sit virtus moralis. Secondo, utrum virtus mora­ lis distinguatur ab intellectuali. Tertio, utrum sufficienter dividatur virtus per intellectualem et moralem. Quarto, utrum moralis virtus possit esse sine intellectuali. Quinto, utrum e conver­ so, intellectualis virtus possit esse sine morali.

    Passiamo così a trattare delle virtù morali . Primo, della loro distinzione dalle virtù intel­ lettuali; secondo, della loro distinzione reci­ proca in base alla materia di ciascuna; terzo, della distinzione esistente tra le principali, o cardinali, e le altre virtù. Sul primo argomento si pongono cinque quesiti: l . Ogni virtù è una virtù morale? 2. Una virtù morale è distinta dalle virtù i ntellettuali? 3. La divisione tra virtù intellettuali e morali è adeguata? 4. Ci può essere una virtù morale senza le virtù intellettuali? 5. Ci possono essere, al contrario, delle virtù intellettuali senza le virtù morali?

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum omnis virtus sit moralis

    Ogni virtù è una virtù morale?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod omnis virtus sit moralis.

    Sembra di sì. Infatti: l . La virtù morale prende la sua denomina-

    Q. 58, A. l

    La distinzione delle virtù morali da quelle intellettuali

    542

    et intellectus non sunt morales. Quae tamen sunt virtutes, sicut supra [q. 57 a. 2] dictum est. Non ergo omnis virtus est moralis. Respondeo dicendum quod ad huius evidentiam, considerare oportet quid sit mos, sic enim scire poterimus quid sit moralis virtus. Mos autem duo significat. Quandoque enim signi­ ficat consuetudinem, sicut dicitur Act. 1 5 [1],

    zione da mos [moris], che significa consuetu­ dine. Ora, noi possiamo rendere consueti gli atti di tutte le virtù. Perciò tutte le virtù sono virtù morali. 2. Il Filosofo scrive che «la virtù morale è un abito elettivo che tende a fissarsi nel giusto mezzo della ragione». Ma tutte le virtù sono abiti elettivi: poiché possiamo compiere per scelta l ' atto di qualsiasi virtù. Inoltre ogni virtù tende in qualche modo, come vedremo in seguito, a fissarsi nel giusto mezzo della ragione. Quindi ogni virtù è una virtù morale. 3. Cicerone dice che «la virtù è un abito con­ naturato, consentaneo alla ragione». Ora le virtù umane, essendo ordinate al bene dell'uo­ mo, devono tutte convenire con la ragione: poiché, come insegna Dionigi, il bene dell'uo­ mo consiste : e così l'una non è più importan­ te dell'altra. Ma tutte le virtù morali dividono per contrapposizione il genere virtù. Perciò nessuna di esse deve dirsi principale. 2. n fine è più importante dei mezzi. Ma le virtù teologali hanno per oggetto il fine, men­ tre le virtù morali si limitano ai mezzi . Quindi devono dirsi principali, o cardinali, non certe virtù morali, ma piuttosto quelle teologiche. 3. Ciò che è per essenza viene prima di ciò che è per partecipazione. Ma le virtù intellet­ tuali appartengono a un soggetto razionale

    57 1

    Le virtù cardinali

    nem. Sed virtutes intellectuales pertinent ad rationale per essentiam, virtutes autem mora­ les ad rationale per participationem, ut supra [q. 26 a. 6 ad 2; q. 58 a. 3; q. 59 a. 4 arg. 2] dictum est. Ergo virtutes morales non sunt principales, sed magis virtutes intellectuales. Sed contra est quod Ambrosius dicit [5, super 6,20], super Lucam [Luc. 6,20] , exponens illud, beati pauperes spiritu, scimus virtutes esse quatuor cardinales, scilicet temperan­ tiam, iustitiam, prudentiam, fortitudinem. Hae autem sunt virtutes morales. Ergo virtutes morales sunt cardinales. Respondeo dicendum quod, cum simpliciter de virtute loquimur, intelligimur loqui de vir­ tute humana. Virtus autem humana. ut supra [q. 56 a. 3] dictum est, secundum perfectam rationem virtutis dicitur, quae requirit rectitu­ dinem appetitus, huiusmodi enim virtus non solum facit facultatem bene agendi, sed ipsum etiam usum boni operis causat. Sed secundum irnperfectam rationem virtutis dicitur virtus quae non requirit rectitudinem appetitus, quia solum facit facultatem bene agendi, non autem causat boni operis usum. Constat autem quod perfectum est principalius imperfecto. Et ideo virtutes quae continent rectitudinem appetitus, dicuntur principales. Huiusmodi autem sunt virtutes morales; et inter intellectuales, sola prudentia, quae etiam quodammodo moralis est, secundum materiam, ut ex supradictis [q. 57 a. 4; q. 58 a. 3 ad l ] patet, unde convenien­ ter inter virtutes morales ponuntur illae quae dicuntur principales, seu cardinales. Ad primum ergo dicendum quod, quando ge­ nus univocum dividitur in suas species, tunc partes divisionis ex aequo se habent secundum rationem generis; licet secundum naturam rei, una species sit principalior et perfectior alia. sicut homo aliis animalibus. Sed quando est divisio alicuius analogi, quod dicitur de pluri­ bus secundum prius et posterius; tunc nihil prohibet unum esse principalius altero, etiam secundum comrnunem rationem; sicut sub­ stantia principalius dicitur ens quam accidens. Et talis est divisio virtutum in diversa genera virtutum, eo quod bonum rationis non secun­ dum eundem ordinem invenitur in omnibus. Ad secundum dicendum quod virtutes theolo­ gicae sunt supra hominem, ut supra [q. 58 a 3 ad 3] dictum est. Unde non proprie dicuntur vir­ tutes hwnanae, sed superhumanae, vel divinae.

    Q. 6 1 , A. l

    per essenza, mentre le virtù morali apparten­ gono a facoltà razionali per partecipazione, come si è visto. Quindi le virtù principali non saranno le morali, ma piuttosto le intellettuali. In contrario: Ambrogio, commentando il passo evangelico di Le: Beati i pove1i in spilito, scrive: «Sappiamo che ci sono quattro virtù cardinali, cioè la temperanza, la giustizia. la prudenza e la fortezza». Ma queste sono virtù morali. Quindi cette virtù morali sono cardinali. Risposta: quando parliamo della virtù senza restrizioni intendiamo parlare della virtù uma­ na. Ora, stando alle spiegazioni date, si dice virtù umana in tutto il rigore del termine quel­ la virtù che richiede la rettitudine dell'appeti­ to: infatti tale virtù non dà soltanto la capacità di agire bene, ma lo stesso esercizio del ben operare. Invece la virtù che non richiede la rettitudine dell' appetito corrisponde a una nozione inadeguata della virtù: poiché dà la sola capacità di agire bene, ma non causa l'esercizio del ben operare. Ora, è chiaro che una cosa perfetta è principale rispetto a quan­ to è imperfetto. Perciò le virtù che implicano la rettitudine dell'appetito sono dette princi­ pali. Ora, tali sono le virtù morali; e fra le intellettuali c'è la sola prudenza che in qual­ che modo, cioè per la materia di cui si occu­ pa, è una virtù morale, come si è spiegato sopra. È quindi logico che si pongano tra le virtù morali quelle che sono denominate prin­ cipali o cardinali. Soluzione delle difficoltà: l . Quando si divide nelle sue specie un genere univoco, allora le parti sono alla pari rispetto alla natura del genere; sebbene in realtà una specie sia più importante e più perfetta dell' altra: come l'uomo rispetto agli altri animali. Quando in­ vece si ha la divisione di un genere analogo, il quale viene predicato di più cose secondo una gradualità, allora nulla impedisce che uno [dei membri della suddivisione] sia più im­ portante dell'altro anche rispetto alla nozione che hanno in comune: come la sostanza è più ente degli accidenti. E tale è la divisione delle virtù nei loro vari generi: poiché il bene di ordine razionale non è in tutte secondo il me­ desimo rapporto. 2. Le virtù teologali, come si è già detto, tra­ scendono l'uomo. Esse perciò non possono chiamarsi umane, essendo sovrumane, cioè divine.

    Q. 6 1 , A. l

    Le virtù cardinali

    Ad tertium dicendum, quod aliae virtutes intel­ lectuales a prudentia, etsi sint principaliores quam morales quantum ad subiectum; non tamen sunt principaliores quantum ad rationem virtutis, quae respicit bonum, quod est obiec­ tum appetitus. Articulus

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    3. Eccettuata la prudenza, le altre virtù intel­ lettuali non sono piincipali Iispetto alla nozio­ ne di virtù, che si ricollega al bene che è og­ getto dell' appetito; sebbene siano più impor­ tanti delle virtù morali per il soggetto in cui risiedono. Articolo

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    Utrum sint quatuor virtutes cardinales

    Le virtù cardinali sono quattro?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod non sint quatuor virtutes cardinales. l . Prudentia enim est directiva aliarum virtu­ tum moralium, ut ex supradictis [q. 58 a. 4] patet. Sed id quod est directivum aliorum, principalius est. Ergo prudentia sola est virtus principalis. 2. Praeterea, virtutes principales sunt aliquo modo morales. Sed ad operationes morales ord inamur per rationem pract i c a m , et appetitum rectum, ut dicitur in 6 Ethic. [2,2]. Ergo solae duae virtutes cardinales sunt. 3. Praeterea, inter alias etiam virtutes una est principalior altera. Sed ad hoc quod virtus dicatur principalis, non requiritur quod sit principalis respectu omnium, sed respectu quarundam. Ergo videtur quod sint multo plures principales virtutes. Sed contra est quod Gregorius dicit, in 2 Mor. [49], in quatuor virtutibus tora boni operis

    Sembra di no. Infatti: l . Più sopra abbiamo dimostrato che la pru­ denza ha il compito di dirigere le altre virtù morali. Ma ciò che ha il compito di dirigere è principale. Quindi la prudenza è la sola virtù principale. 2. Le virtù principali in qualche modo devono essere morali. Ma noi siamo portati a compie­ re azioni morali sia dalla ragione pratica che dal retto appetito, come insegna Aristotele. Perciò le virtù cardinali sono due soltanto. 3. Anche fra le altre virtù una è più importan­ te dell'altra. Ora, perché una virtù sia princi­ pale non si richiede che sia la più importante in rapporto a tutte, ma basta che lo sia in rap­ porto ad alcune. Quindi le virtù principali sa­ ranno molto più [di quattro] . In contrario: Gregorio dice: «Tutto l'edificio del ben operare si compone di quattro virtù». Risposta: il numero di certe cose può essere desunto o in base ai piincìpi formali o in base ai soggetti: e in tutti e due i modi si riscontra­ no quattro virtù cardinali. Infatti il principio formale delle virtù delle quali ora parliamo è il bene della ragione. E questo può essere considerato sotto due aspetti. Primo, in quan­ to si attua nel l ' esercizio medesimo dell a ragione. E allora abbiamo la prima virtù prin­ cipale, che è la prudenza. Secondo, in quanto l'ordine della ragione viene imposto ad altre cose. E allora o si tratta di operazioni, e così avremo la giustizia, o si tratta di passioni, e in questo caso si richiedono due virtù. Infatti l'ordine della ragione rispetto alle passioni va imposto in considerazione della ripugnanza di queste ultime alla ragione stessa. E questa può presentarsi in due modi. Primo, in quanto la passione spinge verso cose contrarie alla ragione: e allora è necessario reprimerla, e da ciò viene il nome della temperanza. Secondo, in quanto la passione trattiene dal compiere ciò che la ragione comanda, come fa, p. es., il

    structura consurgit. Respondeo dicendum quod numerus ali­ quorum accipi potest aut secundum principia formalia aut secundum subiecta, et utroque modo inveniuntur quatuor cardinales virtutes. Principium enim formale virtutis de qua nunc loquimur, est rationis bonum. Quod quidem dupliciter potest cons iderari. Uno modo, secundum quod i n ipsa consideratione ra­ tionis consistit. Et sic erit una virtus piincipa­ lis, quae dicitur prudentia. Alia modo, se­ cundum quod circa aliquid ponitur rationis orda. Et hoc vel circa operationes, et sic est iustitia, vel circa passiones, et sic necesse est esse duas virtutes. Ordinem enim rationis ne­ cesse est ponere circa passiones, considerata repugnanti a ipsarum ad rati onem . Quae quidem potest esse dupliciter. Uno modo se­ cundum quod passio impellit ad aliquid con­ trarium rationi, et sic necesse est quod passio reprimatur, et ab hoc denominatur temperan­ tia. Alia modo, secundum quod passio re-

    573

    Le virtù cardinali

    Q. 6 1 , A. 2

    trahit ab eo quod ratio dictat, sicut timor pe­ riculorum vel laborum, et sic necesse est quod homo firmetur in eo quod est rationis, ne recedat; et ab hoc denominatur fortitudo. - Si­ militer secundum subiecta, idem numerus invenitur. Quadruplex enim invenitur subiec­ tum huius virtutis de qua nunc loquimur, sci­ licet rationale per essentiam, quod prudentia perficit; et rationale per participationem, quod dividitur in tria; idest in voluntatem, quae est subiectum iustitiae; et in concupiscibilem, quae est subiectum temperantiae; et in irasci­ bilem, quae est subiectum fortimdinis. Ad primum ergo dicendum quod prudentia est simpliciter principalior omnibus. Sed aliae po­ nuntur principales unaquaeque in suo genere. Ad secundum dicendum quod rationale per participationem dividitur in tria, ut dictum est [co.] Ad tertium dicendum quod omnes aliae virtu­ tes, quarum una est principalior alia, reducun­ tur ad praedictas quatuor, et quantum ad subiectum, et quantum ad rationes formales.

    timore dei pericoli o della fatica: e allora è necessario che uno venga fortificato per non recedere dal bene di ordine razionale, e da ciò viene il nome della fortezza. - E anche in base ai soggetti risulta il medesimo numero. Infatti per le virtù di cui parliamo si possono riscontrare quattro sedi distinte: un soggetto razionale per essenza, il cui perfezionamento è affidato alla prudenza, e un soggetto razio­ nale per partecipazione, il quale si suddivide in tre facoltà, cioè nella volontà, che è la sede della giustizia, nel concupiscibile, che è la sede della temperanza e neli' irascibile, che è la sede dellafortezza. Soluzione delle difficoltà: l . La prudenza è senz'altro la principale fra tutte [le virtù] . Ma le altre hanno un posto principale ciascuna nel suo genere. 2. Il soggetto razionale per partecipazione si suddivide in tre, come si è visto. 3. Thtte le virtù che hanno una priorità rispet­ to alle altre si riducono alle quattro virtù indi­ cate, sia per il loro soggetto, sia per la loro ragione formale.

    Articulus 3 Utrum aliae virtutes magis debeant dici principales quam istae

    Articolo 3 Altre virtù debbono dirsi principali più di queste?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod aliae virtutes debeant dici magis principales quam istae. l . Id enim quod est maximum in unoquoque genere, videtur esse principalius. Sed magnani­

    Sembra di sì. Infatti: l . In qualsiasi genere quanto c'è di più grande sembra essere principale. Ora, stando ad Aristotele, «la magnanimità opera ciò che è grande in tutte le virtù». Quindi specialmente la magnanimità deve dirsi virtù principale. 2. Ptincipale deve essere specialmente quella virtù che dona stabilità alle altre. Ma tale è l'u­ miltà: infatti Gregorio fa osservare che «Chi raduna le altre virtù senza l'umiltà non fa che esporre delle pagliuzze al vento». Quindi l'u­ miltà è una virtù quanto mai principale. 3. Dire principale è come dire la cosa più per­ fetta. Ora, questa qualifica spetta alla pazien­ za, secondo l'espressione di Gc: La pazienza rende l'opera peifetta. Quindi la pazienza de­ ve considerarsi come principale. In contrario: Cicerone riduce a queste quattro tutte le altre virtù. Risposta: abbiamo già visto che queste quat­ tro virtù cardinali si desumono dalle quattro ragioni formali della virtù morale. Queste però si riscontrano principalmente in detenni-

    mitas operatur magnum in omnibus virtutibus, ut dicitur in 4 Ethic. [3,4]. Ergo magnanimitas maxime debet dici principalis virtus. 2. Praeterea, illud per quod aliae viitutes fir­ mantur, videtur esse maxime principalis vir­ tus. Sed humilitas est huiusmodi, dicit enim Gregorius [In Ev. 1,7] quod qui ceteras virtu­

    tes sine humilitate congregar, quasi paleas in ventum portar. Ergo humilitas videtur esse

    maxime principalis. 3 . Praeterea, illud videtur esse principale, quod est perfectissimum. Sed hoc pertinet ad patientiam; secundum illud lacobi l [4], pa­ tientia opus peifectum habet. Ergo patientia debet poni principalis. Sed contra est quod Tullius, in sua Rhetorica [2,53], ad has quatuor omnes alias reducit. Respondeo dicendum quod sicut supra [a. 2]

    Q. 6 1 , A. 3

    Le virtù cardinali

    dictum est, huiusmodi quatuor virtutes cardina­ les accipiuntur secundum quatuor formales ra­ tiones virtutis de qua loquimur. Quae quidem in aliquibus actibus vel passionibus princi­ paliter inveniuntur. Sicut bonum consistens in consideratione rationis, principaliter invenitur in ipso rationis imperio; non autem in consilio, neque in iudicio, ut supra [q. 57 a. 6] dictum est. Similiter autem bonum rationis prout poni­ tur in operationibus secundum rationem recti et debiti, principaliter invenitur in commutatio­ nibus vel distributionibus quae sunt ad alterum cum aequalitate. Bonum autem refraenandi passiones principaliter invenitur in pa�sionibus quas maxime difficile est reprimere, scilicet in delectationibus tactus. Bonum autem finnitatis ad standum in bono rationis contra impetum passionum, praecipue invenitur in periculis mortis, contra quae difficillimum est stare. Sic igitur praedictas quatuor virtutes dupliciter considerare possumus. Uno modo, secundum communes rationes formales. Et secundum hoc, dicuntur principales, quasi generales ad omnes virtutes, utputa quod omnis virtus quae facit bonum in consideratione rationis, dicatur prudentia; et quod omnis virtus quae facit bonum debiti et recti in operationibus, dicatur iustitia; et omnis virtus quae cohibet passiones et deprimit, dicatur temperantia; et omnis vir­ tus quae facit fmnitatem animi contra quas­ cumque passiones, dicatur fortitudo. Et sic multi loquuntur de istis virtutibus, tam sacri doctores [Ambrosius, De off. 1 ,36; Augusti­ nus, De mor. Ecci. 1 , 15; Gregorius, Mor. 22, 1 ] quam etiam philosophi [Seneca, Ad Lucilium, ep. 67]. Et sic aliae virtutes sub ipsis continen­ tur unde cessant omnes obiectiones. - Allo vero modo possunt accipi, secundum quod istae virtutes denominantur ab eo quod est praeci­ puum in unaquaque materia. Et sic sunt specia­ les virtutes, contra alias divisae. Dicuntur tamen principales respectu aliarum, propter principalitatem materiae, puta quod prudentia dicatur quae praeceptiva est; iustitia, quae est circa actiones debitas inter aequales; temperan­ tia, quae reprimit concupiscentias delectatio­ num tactus; fortitudo, quae firmat contra peri­ cula mortis. Et sic etiam cessant obiectiones, quia aliae virtutes possunt habere aliquas alias principa­ litates, sed istae dicuntur principales ratione materiae, ut supra dictum est [co.].

    574

    nati atti e passioni. n bene p. es. che si attua nell'esercizio medesimo della ragione si ri­ scontra principalmente nel comando della stessa, come si è notato, e non nel consiglio o nel giudizio. E così il bene di ordine raziona­ le, presente nelle operazioni sotto l'aspetto di cosa retta o dovuta, si riscontra principalmen­ te negli scambi o nelle ripartizioni che indica­ no rapporti con altri su una base di uguaglian­ za. Invece il bene che consiste nel frenare le passioni si trova principalmente nelle passioni che sono più difficili a reprimersi, cioè nei piaceri del tatto. La bontà poi che consiste nel persistere nel bene di ordine razionale contro l'impeto delle passioni si riscontra principal­ mente nei pericoli di morte, contro i quali è difficilissimo resistere. - Quindi possiamo considerare le quattro virtù suddette in due modi. Primo, sotto l'aspetto di ragioni formali universali. E in questo senso si dicono princi­ pali, ossia generali rispetto a tutte le virtù, cioè: tutte le virtù che attuano la bontà nell'e­ sercizio della ragione vengono denominate prudenza; tutte le virtù che nelle operazioni [della volontà] pongono in atto ciò che è retto e dovuto vengono denominate giustizia; tutte le virtù che reprimono e moderano le passioni vengono dette temperanza; tutte le virtù infine che danno fennezza d'animo contro qualsiasi passione vengono dette fortezza. Ed è così che molti, sia fra i santi dottori che tra i filoso­ fi, parlano di queste virtù. Le quali così ven­ gono a contenere anche le altre. Per cui cado­ no tutte le difficoltà. - Secondo, le suddette virtù possono essere considerate in quanto sono denominate da ciò che costituisce l' ele­ mento principale nella materia rispettiva. E al­ lora sono virtù specifiche, contraddistinte dal­ le altre. Tuttavia si dicono principali rispetto alle altre per la priorità della loro materia: così denomineremo prudenza la virtù che ha per oggetto il comando; giustizia quella che ri­ guarda le azioni dovute agli uguali ; tem­ peranza quella che reprime le concupiscenze o desideri dei piaceri del tatto; fortezza, quella che dà la costanza di fronte ai pericoli di morte. E anche da questo lato cadono le difficoltà: poiché le altre virtù possono avere preminen­ ze di altro genere, ma quanto alla materia le principali sono queste, come si è dimostrato.

    Q. 6 1 , A. 4

    Le virtù cardinali

    575 Articulus

    4

    Articolo 4

    Utrum quatuor virtutes cardinales differant ab invicem

    Le quattro virtù cardinali sono distinte fra di loro?

    Ad quartum sic proceditur. Vìdetur quod qua­ tuor praedictae viltutes non sint diversae vir­ tutes, et ab invicem distinctae. l . Dicit enim Gregorius, in 22 Mor. [ l ], prn­

    Sembra di no. Infatti: l . Scrive Gregorio: «Non è vera la prudenza se non è giusta, temperante e forte; non è per­ fetta la temperanza se non è forte, giusta e prudente; non è integra la fortezza se non è prudente, temperante e giusta; non è vera la giustizia se non è prudente, forte e temperan­ te». Ora, così non sarebbe se le quattro virtù indicate fossero tra loro distinte: poiché le specie diverse di un dato genere non possono denominarsi l'una con l' appellativo dell'altra. Quindi le suddette virtù non sono distinte fra di loro. 2. Quando delle cose sono distinte fra di loro, ciò che è attributo all'una non può valere per 1' altra. Ora, ciò che è proprio della temperan­ za viene attribuito anche alla fortezza; scrive i nfatti Ambrogio: «Giustamente si deve parla­ re di fortezza quando uno vince se stesso, e non si lascia snervare e piegare da nessuna seduzione». E a proposito della temperanza afferma che «essa custodisce la misura e l' or­ dine di tutte le cose che pensiamo di dover fare o di dover dire». Perciò queste virtù non sono distinte fra di loro. 3. Il Filosofo insegna che nella virtù si devono riscontrare le seguenti cose: «Primo, se uno conosce; secondo, se sceglie, e sceglie per un fine; terzo, se è fermo e immobile nelle dispo­ sizioni e nell'operare». Ora, la prima di que­ ste cose sembra appartenere alla prudenza, che è la retta ragione delle azioni da compie­ re; la seconda, cioè la scelta, alla temperanza, giacché uno agisce non per passione, ma per scelta, tenendo a freno le passioni; la terza, cioè il fatto che uno opera per il debito fine, implica una certa rettitudine, che sembra appartenere alla giustizia; il resto poi, cioè la fermezza e l'immobilità, è proprio della for­ tezza. Perciò ognuna di queste virtù è ge­ nerale rispetto a tutte le altre. Quindi esse non si distinguono fra loro. In contrario: Agostino insegna che «la virtù si divide in quattro abiti, secondo le variazioni dell ' amore»: e seguita parlando di queste quattro virtù. Quindi esse sono distinte fra di loro. Risposta: come si è già accennato, queste

    dentia vera non est, quae iusta, temperans et fortis non est; nec perfecta temperantia, quae fortis, iusta et prudens non est; nec fortitudo integra, quae prudens, temperans et iusta non est; nec vera iustitia, quae prudens, fm1is et temperans non est. Hoc autem non contingeret, si praedictae quatuor viltutes essent ab invicem distinctae, diversae enim species eiusdem ge­ neris non denominant se invicem. Ergo prae­ dictae virtutes non sunt ab invicem distinctae. 2. Praeterea, eorum quae ab invicem sunt distincta, quod est unius, non attribuitur alteri. Sed illud quod est temperantiae, attribuitur fortitudini, dicit enirn Ambrosius, in l libro De off. [36], iure eafortitudo vocatur; quando

    unusquisque seipsum vincit, nullis illecebris emollitur atque inflectitur. De temperantia etiam dicit [24] quod modum ve! ordinem servat omnium quae vel agenda ve[ dicenda arbitramur. Ergo videtur quod huiusmodi vittutes non sunt ab invicem distinctae. 3. Praeterea, philosophus dicit, in 2 Ethic. [4,3] , quod ad virtutem haec requiruntur,

    primum quidem, si sciens; deinde, si eligens, et eligens propter hoc; te1tium autem, si fimze et immobiliter habeat et operetur. Sed horum primum videtur ad prudentiam pertinere, quae est recta ratio agibilium; secundum, scilicet eligere, ad temperantiam, ut aliquis non ex passione, sed ex electione agat, passionibus refraenatis; tertium, ut aliquis propter debitum finem operetur, rectitudinem quandam con­ tinet, quae videtur ad iustitiam pertinere aliud, scilicet firmitas et immobilitas, pertinet ad fortitudinem. Ergo quaelibet harum virtutum est generalis ad omnes virtutes. Ergo non distinguuntur ad invicem. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De mor. Ecc. [ 15], quod quadripartita dicitur virtus, ex ipsius amoris vario affectu, et subiungit de praedictis quatuor virtutibus. Praedictae ergo quatuor viltutes sunt ab invi­ cem distinctae. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 3]

    Q. 6l, A. 4

    Le virtù cardinali

    dictum est, praedictae quatuor virtutes dupli­ citer a diversis accipiuntur. Quidam enim ac­ cipiunt eas, prout significant quasdam genera­ les conditiones humani animi, quae inveniun­ tur in omnibus virtutibus, ita scilicet quod prudentia nihil sit aliud quam quaedam recti­ tudo discretionis in quibuscumque actibus vel materiis; iustitia vero sit quaedam rectitudo animi, per quam homo operatur quod debet in quacumque materia; temperantia vero sit quaedam dispositio animi quae modum qui­ buscumque passionibus vel operationibus imponit, ne ultra debitum efferantur; fortitudo vero sit quaedam dispositio animae per quam firmetur in eo quod est secundum rationem, contra quoscumque impetus passionum vel operationum labores. Haec autem quatuor sic distincta, non important diversitatem ha­ bituum virtuosorum quantum ad iustitiam, temperantiam et fortitudinem. Cuilibet enim virtuti morali, ex hoc quod est habitus, conve­ nit quaedam firmitas, ut a contrario non mo­ veatur, quod dictum est ad fortitudinem per­ tinere. Ex hoc vero quod est virtus, habet quod ordinetur ad bonum, in quo importatur ratio recti vel debiti, quod dicebatur ad iusti­ tiam pertinere. In hoc vero quod est virtus moralis rationem participans, habet quod mo­ dum rationis in omnibus servet, et ultra se non extendat, quod dicebatur pertinere ad tempe­ rantiam. Solum autem hoc quod est discretio­ nem habere, quod attribuebatur prudentiae, videtur distingui ab aliis tribus, inquantum hoc est ipsius rationis per essentiam; alia vero tria important quandam participationem ratio­ nis, per modum applicationis cuiusdam ad passiones vel operationes. Sic igitur, secun­ dum praedicta, prudentia quidem esset virtus distincta ab aliis tribus, sed aliae tres non es­ sent virtutes distinctae ab invicem; manife­ stum est enim quod una et eadem virtus et est habitus, et est virtus, et est moralis. - Alii vero, et melius, accipiunt has quatuor virtutes se­ cundum quod determinantur ad materias spe­ ciales; unaquaeque quidem illarum ad unam materiam, in qua principaliter laudatur illa generalis conditio a qua nomen virtutis acci­ pitur, ut supra [a. 3] dictum est. Et secundum hoc, manifestum est quod praedictae virtutes sunt diversi habitus, secundum diversitatem obiectorum distincti. Ad primum ergo dicendum quod Gregorius

    576

    quattro virtù vengono spiegate in due modi differenti. Infatti alcuni le prendono come condizioni generali dello spirito umano, pre­ senti in tutte le virtù: cosicché la prudenza non sarebbe altro che la rettitudine nel discri­ minare tra i vari atti o materie dell' attività; la giustizia una certa rettitudine dell' anima, in forza della quale un uomo compie ciò che deve in qualsiasi campo; la temperanza invece una disposizione dello spirito che impone moderazione a tutte le passioni e operazioni, perché non vadano oltre il dovuto; la fortezza infine una disposizione che rafforza lo spirito in ciò che è secondo la ragione, contro qual­ siasi impulso delle passioni o delle difficoltà che si incontrano nelle operazioni. Ora queste quattro disposizioni, distinte in questo modo, non implicano una diversità di abiti virtuosi quanto alla giustizia, alla temperanza e alla fortezza. Infatti qualsiasi virtù morale, essen­ do un abito, deve avere una certa fermezza, per non essere distolta dal suo contrario: e questo, come si è detto, è proprio della fortez­ za. In quanto poi è una virtù deve essere ordi­ nata al bene, il quale implica la nozione di cosa retta o dovuta: e abbiamo detto che ciò appartiene alla giustizia. In quanto infine è una virtù morale, e quindi razionale per parte­ cipazione, deve rispettare in tutto la misura della ragione, così da non varcarne i limiti: e questo si diceva appartenere alla temperanza. Soltanto la capacità di scegliere invece, attri­ buita alla prudenza, appare distinta dagli altri tre aspetti, in quanto appartenente essenzial­ mente alla ragione stessa, mentre le altre disposizioni implicano una certa partecipazio­ ne della ragione, come applicazioni di essa a certe passioni od operazioni. Perciò, stando a queste spiegazioni, la prudenza sarebbe una virtù distinta dalle altre, ma le altre tre non sarebbero virtù distinte fra di loro: poiché è chiaro che la medesima virtù è insieme abito, virtù e virtù morale. - Altri invece, e con più ragione, prendono queste quattro virtù i n quanto vengono determinate a speciali mate­ rie: e ciascuna di esse è ristretta a quella sola matelia in cui principalmente viene apprezza­ ta quella proplietà dalla quale è derivato il suo nome, come sopra abbiamo spiegato. Stando dunque a ciò, è chiaro che queste virtù sono abiti diversi, distinti secondo la diversità degli oggetti.

    Q. 6 1 , A. 4

    Le virtù cardinali

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    loquitur de praedictis quatuor virtutibus secundum primam acceptionem. - Vel potest dici quod istae quatuor virtutes denominantur ab invicem per redundantiam quandam. Id enim quod est prudentiae, redundat in alias virtutes, inquantum a prudentia diriguntur. Unaquaeque vero aliarum redundat in alias ea ratione, quod qui potest quod est difficilius, potest et id quod minus est difficile. Unde qui potest ret'raenare concupiscentias delectabi­ lium secundum tactum, ne modum excedant, quod est difficillimum; ex hoc ipso redditur habilior ut refraenet audaciam in periculis martis, ne ultra modum procedat, quod est longe facilius; et secundum hoc, fortitudo dicitur temperata. Temperantia etiam dicitur fortis, ex redundantia fortitudinis in tempe­ rantiam, inquantum scilicet ille qui per forti­ tudinem habet animum fitmum contra pericu­ la martis, quod est difficillimum, est habilior ut retineat animi tirmitatem contra impetus delectationum; quia, ut dicit Tullius in l De off. [20], non est consentaneum ut qui metu

    non frangitur, cupiditate frangatur; nec qui invictum se a labore praestiterit, vinci a voluptate. Et per hoc etiam patet responsio ad secun­ dum. Sic enim temperantia in omnibus mo­ dum servat, et fortitudo contra illecebras vo­ luptatum animum servat inflexum, vel in­ quantum istae virtutes denominant quasdam generales conditiones v irtutu m ; vel per redundantiam praedictam. Ad tertium dicendum quod illae quatuor ge­ nerales virtutum conditiones quas ponit philo­ sophus, non sunt propriae praedictis virtuti­ bus. Sed possunt eis appropriaci, secundum modum iam [co.] dictum.

    Soluzione delle difficoltà: l . Gregorio parla delle virtù suddette secondo la prima accezio­ ne. - Oppure si può rispondere che queste quattro virtù si scambiano le denominazioni per una certa ridondanza. Ciò che infatti è proprio della prudenza ridonda sulle altre virtù, in quanto queste sono da essa guidate. E delle rimanenti ciascuna ridonda sulle altre in base al principio che chi è capace del più è capace anche del meno. E così chi può tratte­ nere la brama dei piaceri del tatto entro i giu­ sti limiti, che è la cosa più difficile, con ciò stesso diviene più adatto a contenere nei giu­ sti limiti l' audacia di fronte ai pericoli di morte, il che è molto più facile: e in questo senso la fortezza potrà dirsi temperante. E la temperanza può dirsi forte per il ridondare in essa della fortezza: in quanto cioè chi grazie alla fortezza ha I' animo fermo contro i peri­ coli di morte, che è la cosa più difficile, è meglio disposto a conservare la fermezza d'animo contro l'impulso dei piaceri: poiché, come dice Cicerone, «non è probabile che si lasci vincere dalla cupidigia chi non si piega al timore; o che si lasci vincere dal piacere chi si è mostrato invincibile di fronte alla fatica». 2. Così è risolta anche la seconda difficoltà. Infatti la temperanza conserva la misura in ogni cosa, e la fortezza mantiene I' animo inflessibile contro gli allettamenti del piacere, o in quanto queste virtù indicano certe condi­ zioni generali delle virtù, o per I' accennata ridondanza. 3. Le quattro condizioni generali delle virtù poste dal Filosofo non sono esclusive delle virtù cardinali. Possono tuttavia essere appro­ priate ad esse nel modo indicato sopra.

    Articulus 5

    Articolo 5

    Utrum virtutes cardinales convenienter dividantur in virtutes politicas, purgatorias, purgati animi et exemplares

    Le virtù cardinali sono ben ripartite in virtù politiche, purificanti, proprie di un animo purificato ed esemplari?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod in­ convenienter huiusmodi quatuor virtutes divi­ dantur in virtutes exemplares, purgati animi, purgatorias, et politicas. l . Ut enim Macrobius dicit, in l super Som­ nium Scipionis [8], virtutes exemplares sunt quae in ipsa divina mente consistunt. Sed phi­ losophus, in 10 Ethic. [8,7], dicit quod ridicu-

    Sembra di no. Infatti: l . Macrobio insegna che «Sono esemplari quelle virtù che si trovano nella mente stessa di Dio». Il Filosofo però osserva che «è ridi­ colo attribuire a Dio la giustizia, la fortezza, la temperanza e la prudenza>>. Quindi tali virtù non possono essere esemplari.

    Q. 6 1 , A. 5

    Le virtù cardinali

    lum est Deo iustitiam, fortitudinem, tempe­ rantiam et prudentiam attribuere. Ergo virtu­ tes huiusmodi non possunt esse exemplares. 2. Praeterea, virtutes purgati animi dicuntur quae sunt absque passionibus, dicit enim ibidem Macrobius [In Som. S. l ,8] quod tem­

    perantiae purgati animi est terrenas cupidi­ tates non reprimere, sed penitus oblivisci; fortitudinis autem passiones ignorare, non vincere. Dictum est autem supra [q. 59 a. 5] quod huiusmodi virtutes sine passionibus esse non possunt. Ergo huiusmodi virtutes purgati animi esse non possunt. 3. Praeterea, virtutes purgatorias dicit [Macro­ bius, In Som. S. l ,8] esse eorum qui quadam humanontm fuga solis se inserunt divinis. Sed hoc videtur esse vitiosum, dicit enim Tullius, in l De off. [21 ], quod qui despicere se dicunt ea

    quae plerique mirantur imperia et magistratus, his non modo non /audi, verum etiam vitio dandum puto. Ergo non sunt aliquae virtutes purgatoriae.

    4. Praeterea, virtutes politicas esse dicit [Ma­ crobous, In Som. Scip. l ,6] quibus boni viri reipublicae consulunt, urbesque tuentur. Sed ad bonum commune sola iustitia legalis ordi­ natur; ut philosophus dicit, in 5 Ethic. [ 1 , 1 3]. Ergo aliae virtutes non debent dici politicae. Sed contra est quod Macrobius ibidem [In Som. S. 1 ,8] dicit, Plotinus, inter philoso­

    phiae professores cum Platone princeps, «quatuor sunt», inquit, «quatemarum genera virtutum. Ex his primae politicae vocantur; secundae, purgatoriae; tertiae autem, iam purgati animi; quartae, exemplares». Respondeo dicendum quod, sicut Augustinus dicit in libro De mor. Ecc. [6] , oportet quod

    anima aliquid sequatur, ad hoc quod ei possit virtus innasci, et hoc Deus est, quem si sequi­ mur, bene vivilmts. Oportet igitur quod exem­ plar humanae virtutis in Deo praeexistat, sicut et in eo praeexistunt omnium rerum rationes. Sic igitur virtus potest consideraci vel prout est exemplariter in Deo, et sic dicuntur virtutes exemplares. Ita scilicet quod ipsa divina mens in Deo dicatur pmdentia; temperantia vero, conversio divinae intentionis ad seipsum, sicut in nobis temperantia dicitur per hoc quod concupiscibilis conformatur rationi; fortitudo autem Dei est eius immutabilitas; iustitia vero Dei est observatio legis aetemae in suis operi­ bus, sicut Plotinus dixit. - Et quia homo se-

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    2. Le virtù degne di un animo purificato sa­ rebbero quelle senza passioni: infatti Macro­ bio aggiunge che «appartiene alla temperanza di un animo purificato non già reprimere, ma dimenticare del tutto le terrene cupidigie; e alla fortezza non già vincere, ma ignorare le passioni». Ora, sopra si è detto che queste vir­ tù non possono stare senza le passioni. Quindi non possono essere le virtù proprie di un animo pmiticato. 3. Per Macrobio le virtù purificanti apparten­ gono a coloro «che fuggendo le realtà umane si immergono in quelle divine». Ma ciò è pec­ caminoso: infatti Cicerone scrive che «coloro i quali dicono di disprezzare il comando e le magistrature che i più ambiscono, non solo non li considero degni di lode, ma li considero in colpa>>. Perciò non esistono virtù purificanti. 4. Per Macrobio le virtù politiche sarebbero «quelle con le quali gli uomini onesti provve­ dono allo stato e difendono la città». Ora, è la sola giustizia legale che è ordinata al bene comune, come insegna il Filosofo. Quindi le altre virtù non possono dirsi politiche. In contrario: Macrobio scrive: «Plotino, che con Platone tiene il primato tra i filosofi, diceva: "Quattro sono i generi delle quattro virtù. Le prime tra di esse sono politiche; le seconde purificanti ; le terze proprie di un animo purifi­ cato; le quatte esemplari"». Risposta: come insegna Agostino, «è necessa­ rio che l'anima abbia un modello da seguire, per poter concepire una virtù: e ques!o è Dio, seguendo il quale viviamo bene». E quindi necessario che in Dio preesista l' esemplare delle virtù umane, come preesistono in lui le ragioni di tutte le cose. Perciò le virtù posso­ no essere considerate in quanto sono «esem­ plarmente» i n Dio: e allora vengono dette esemplari. E in questo senso la pmdenza in Dio sarà la stessa mente divina; la temperanza sarà i l volgersi dell'intenzione divina verso Dio stesso, come in noi si dice temperanza il conformarsi del concupiscibile alla ragione; la fortezza di Dio sarà la sua immutabilità; la giustizia sarà la sua osservanza della legge eterna nel compimento delle sue opere, come diceva Plotino. - E poiché l'uomo è per natu­ ra un animale politico queste virtù, in quanto si trovano nell'uomo in conformità a tale sua natura, vengono dette politiche: poiché l ' uo­ mo in forza di esse ottiene la disposizione atta

    579

    Le virtù cardinali

    cundum suam naturam est animai politicum, virtutes huiusmodi, prout in homine existunt secundum conditionem suae naturae, po­ liticae vocantur, prout scilicet homo secun­ dum has virtutes recte se habet in rebus hu­ manis gerendi s . Secundum quem modum hactenus de his virtutibus locuti sumus. - Sed quia ad hominem pertinet ut etiam ad divina se trahat quantum potest, ut etiam philoso­ phus dicit, in 1 0 Ethic. [7,8]; et hoc nobis in sacra Scriptura multipliciter commendatur, ut est illud Matth. 5 [48], estote pelfecti, sicut et Pater vester caelestis pelfectus est, necesse est ponere quasdam virtutes medias inter poli­ ticas, quae sunt virtutes humanae, et exempla­ res, quae sunt virtutes divinae. Quae quidem virtutes distinguuntur secundum diversitatem motus et termini. Ita scilicet quod quaedam sunt virtutes transeuntium et in divinam simi­ litudinem tendentium, et hae vocantur virtutes purgatoriae. lta scilicet quod prudentia omnia mundana divinorum contemplatione despi­ ciat, omnemque animae cogitationem in di­ vina sola dirigat; temperantia vero relinquat, inquantum natura patitur, quae corporis usus requirit; fortitudinis autem est ut anima non terreatur propter excessum a corpore, et ac­ cessum ad superna; iustitia vero est ut tota anima consentiat ad huius propositi viam. Quaedam vero sunt virtutes iam assequen­ tium divinam similitudinem, quae vocantur virtutes iam purgati animi. Ita scilicet quod prudentia sola divina intueatur; temperantia terrenas cupiditates nesciat; fortitudo passio­ nes ignoret; iustitia cum divina mente perpe­ tuo foedere societur, eam scilicet i mitando. Quas quidem virtutes dicimus esse beatorum, vel aliquorum in hac vita perfectissimorum. Ad primum ergo dicendum quod philosophus loquitur de his virtutibus secundum quod sunt circa res humanas, puta iustitia circa emptio­ nes et venditiones, fortitudo circa timores, temperantia circa concupiscentias. Sic enim ridiculum est eas Deo attribuere. Ad secundum dicendum quod virtutes huma­ nae sunt circa passiones, scilicet virtutes hominum in hoc mundo conversantium. Sed virtutes eorum qui plenam beatitudinem as­ sequuntur, sunt absque passionibus. Unde Plo­ tinus [cf. Macrobium, In So m. S . l ,8] dicit quod passiones politicae virtutes molliunt, idest ad medium reducunt; secundae, scilicet

    Q. 6 1 , A. 5

    a eseguire i compiti umani. E noi finora ci siamo limitati a parlare di queste virtù stando su questo piano. - Siccome però l'uomo ha il compito di adeguarsi per quanto è possibile alle realtà divine, come nota anche il Filosofo, e questo ci viene più volte raccomandato dalla sacra Scrittura, come in Mt: Siate petfet­ ti come è peifetto il Padre vostro celeste, è necessario ammettere delle virtù intermedie tra quelle politiche, che sono virtù umane, e quelle esemplari, che sono virtù divine. E tali virtù si suddividono in base alla distinzione esistente fra il moto e il suo termine. Alcune sono proprie di coloro che camminano verso la somiglianza con Dio: e queste sono dette purificanti. E allora la prudenza ha il compito di disprezzare tutte le realtà mondane in vista della contemplazione delle cose di Dio, e di indirizzare tutti i pensieri dell' anima soltanto verso queste ultime; la temperanza invece ha il compito di abbandonare, per quanto è pos­ sibile alla natura, ciò che il corpo richiede; la fortezza poi fa sì che l'anima non si spaventi per l'abbandono del corpo e l 'accesso ai beni superiori; la giustizia finalmente fa sì che tutta l ' anima acconsenta a percorrere la via di que­ sto proposito. - Altre invece sono proprie di coloro che hanno già raggiunto la somiglian­ za con Dio: e queste vengono dette proprie di un animo già purificato. E allora la prudenza si riduce alla contemplazione delle sole cose divine; la temperanza al misconoscimento delle cupidigie terrene; la fortezza all'imper­ turbabilità di fronte alle passioni; la giustizia a un' alleanza perpetua con la volontà di Dio, mediante l'imitazione di essa. E queste virtù le possiamo attribuire ai beati, e in questa vita a pochi perfettissimi. Soluzione delle difficoltà: l . n Filosofo parla di queste virtù in quanto limitate alle cose umane: p. es. della giustizia limitata alla com­ pravendita, della fortezza limitata ai timori e della temR_eranza limitata ai desideri o concu­ piscenze. E in questo senso infatti che sarebbe ridicolo attribuire a Dio queste virtù. 2. Le virtù umane, cioè le virtù degli uomini esistenti in questo mondo, riguardano sempre le passioni, ma le virtù di coloro che hanno raggiunto la perfetta beatitudine sono senza passioni. Infatti Plotino osserva che «le virtù politiche addolciscono le passioni», cioè le riducono al giusto mezzo; «le seconde», ossia

    Le virtù cardinali

    Q. 6 1 , A. 5

    purgatoriae, aufenmt; tertiae, quae sunt purgati animi, obliviscuntur; in qumtis, scilicet exem­ plaribus, nefas est nominari. Quamvis dici pos­ sit quod loquitur hic de passionibus secundum quod significant aliquos inordinatos motus. Ad tertium dicendum quod deserere res hu­ manas ubi necessitas imponitur, vitiosum est, alias est virtuosum. Unde pamm supra Tullius [De off. 1 ,2 1 ] praemittit, his forsitan conce­

    dendum est rempublicam non capessentibus, qui excellenti ingenio doctrinae se dederunt; et his qui aut valetudinis imbecillitate, aut aliqua graviori causa impediti, a republica recesserunt; cum eius administrandae pote­ statem aliis laudemque concederent. Quod consonat ei quod Augustinus dicit, 19 De civ. Dei [ 19], otium sanctum quaerit caritas veri­

    tatis; negotium iustum suscipit necessitas ca­ ritatis. Quam sarcinam si nullus imponit, per­ cipiendae atque intuendae vacandum est veri­ fati, si autem imponitur, suscipienda est, pmpter caritatis necessitatem. Ad quartum dicendum quod sola iustitia Iega­ Iis directe respicit bonum commune, sed per imperium omnes alias virtutes ad bonum commune trahit, ut in 5 Ethic. [ 1 , 1 5] . dicit philosophus. Est enim considerandum quod ad politicas virtutes, secundum quod hic di­ cuntur, pertinet non solum bene operari ad commune, sed etiam bene operari ad partes communis, scilicet ad domum, vel aliquam singularem personam.

    580

    quelle purificanti, «le eliminano»; «le terze», cioè quelle degne di un animo purificato, «le dimenticano»; «le quarte» poi, cioè le esem­ plari, «considerano peccato solo il nominar­ le». Si potrebbe però anche rispondere che Macrobio parla delle passioni nel senso di moti disordinati. 3. Abbandonare le cose umane quando una necessità lo impone è riprovevole, ma negli altri casi è virtuoso. Infatti Cicerone poco so­ pra aveva detto: «Forse dobbiamo concedere che hanno fatto bene a non assumere respon­ sabilità politiche quelli che con ingegno ec­ cellente si dedicarono allo studio; e anche quelli che ne furono impediti o dalla malfer­ ma salute o da una causa più grave, sebbene apprezzassero quelli che accettavano le cari­ che». E ciò concorda con quanto scrive Ago­ stino: «La carità della verità richiede una santa tranquillità, e il dovere della carità ci fa assumere un incarico giusto. Se nessuno ci impone un tale peso, si deve attendere alla contemplazione della verità; se invece ci vie­ ne imposto, Io si deve accettare per un dovere di carità». 4. La sola giustizia legale riguarda diretta­ mente il bene comune, ma essa convoglia verso tale bene tutte le altre virtù col suo co­ mando, come insegna il Filosofo. Si deve in­ fatti osservare che alle virtù politiche, secon­ do il significato che qui viene loro riconosciu­ to, appartiene il ben operare non soltanto a favore della collettività, ma anche a favore delle sue parti, cioè di una famiglia o di una persona particolare.

    QUAESTIO 62 DE VIRTUTIBUS THEOLOGICIS

    QUE�TIONE 62 LE VffiTU TEOLOGALI

    Deinde considerandum est de virtutibus theo­ logicis. Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, utrum s i nt aliqu ae v i rtutes theologicae. Secundo, utrum virtutes theologicae distin­ guantur ab intellectualibus et moralibus. Tertio, quot, et quae sint. Quarto, de ordine earum.

    Passiamo a trattare delle virtù teologali. Sul tema studieremo quattro argomenti: l . Ci so­ no delle virtù teologali? 2. Le virtù teologali sono distinte da quelle intellettuali e morali? 3. Quante e quali sono? 4. Il loro ordine.

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum sint aliquae virtutes theologicae

    Ci sono delle virtù teologali?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod non sint aliquae virtutes theologicae.

    Sembra di no. Infatti: l . Aristotele ha scritto che >, cioè la fortezza, «è utile in guerra e l'altra», cioè la giustizia, «lo è in guerra e in pace». Dopo la fortezza viene la temperanza, che sottomette l'appetito alla ragione rispetto a quei beni che sono ordinati immediatamen­ te o alla vita dell'individuo o a quella della specie, cioè rispetto al cibo e alla sessualità. E così queste tre virtù, assieme alla prudenza, sono denominate principali anche a motivo della dignità. - Diciamo invece che una virtù è superiore o maggiore i n senso relativo secondo che offre alla virtù ptincipale una rifinitura o un ornamento. Come la sostanza di per sé [simpliciter] è superiore all'acciden­ te, tuttavia qualche accidente sotto un certo aspetto [secundum quid] è superiore alla so­ stanza, in quanto perfeziona la sostanza in un modo di essere accidentale. Soluzione delle difficoltà: l . L'atto della libe­ ralità deve fondarsi sull'atto della giustizia: infatti, come nota Aristotele, «non si avrebbe una donazione liberale se uno non desse del

    62 1

    L 'uguaglianza delle virtù

    Q. 66, A. 4

    potest esse sine liberalitate. Unde iustitia simpli­ citer est maior liberalitate, tanquam communior, et fundamentum ipsius, liberalitas autem est secundum quid maior, cum sit quidam omatus iustitiae, et complementum eius. Ad secundum dicendum quod patientia dici­ tur habere opus perfectum in tolerantia malo­ rum, in quibus non solum excludit iniustam vindictam, quam etiam excludit iustitia; ne­ que solum odium quod facit caritas; neque so­ lum iram, quod facit mansuetudo; sed etiam excludit tristitiam inordinatam, quae est radix omnium praedictorum. Et ideo in hoc est per­ fectior et maior, quod in hac materia extùpat radicem. Non autem est simpliciter perfectior omnibus aliis virtutibus. Quia fortitudo non solum sustinet molestias absque perturbatio­ ne, quod est patientiae, sed etiam ingerit se eis, cum opus fuerit. Unde quicumque est for­ tis, est patiens, sed non convertitur, est enim patientia quaedam fmtitudinis pars. Ad tertium dicendum quod magnanimitas non potest esse nisi aliis virtutibus praeexi­ stentibus, ut dicitur in 4 Ethic. [3, 1 6]. Unde comparatur ad alias sicut omatus earum. Et sic secundum quid est maior omnibus aliis, non tamen simpliciter.

    proprio». Perciò la liberalità non potrebbe esi­ stere senza la giustizia, la quale stabilisce ciò che appartiene a ciascuno. Invece la giustizia può esistere anche senza la liberalità. Quindi la giustizia di per sé è superiore alla liberalità, in quanto più comune e fondamentale; tutta­ via la liberalità è superiore sotto un certo aspetto, essendo come un ornamento della giustizia, e un suo complemento. 2. Si dice che la pazienza ha «l' opera perfet­ ta» per la sopportazione dei mali poiché in rapporto ad essi esclude non solo le ingiuste vendette, come fa la giustizia; non solo l' odio, come fa la carità; non solo l'ira, come fa la mansuetudine, ma anche l' eccessiva tristezza, che è la radice dei difetti accennati. E così è più perfetta e superiore, proprio perché i n questo campo estirpa i l male alla radice. Ma essa non è superiore puramente e semplice­ mente a tutte le altre virtù. Poiché la fortezza non solo sopporta le prove senza turbamento, come fa la pazienza, ma quando è necessario ne va in cerca. Per cui colui che è forte è anche paziente, ma non viceversa: infatti la pazienza è solo una parte della fortezza. 3. Come insegna Aristotele, la magnanimità si fonda sulla preesistenza delle altre virtù. Infatti essa ne è come un ornamento. E così in un certo senso è superiore a tutte le altre; non però in senso assoluto.

    Articulus 5 Utrum sapientia sit maxima inter virtutes intellectuales

    Articolo 5 La sapienza è la più grande delle virtù intellettuali?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod sa­ pientia non sit maxima inter virtutes intel­ lectuales. l. Imperans enim maius est eo cui imperatur. Sed prudentia videtur imperare sapientiae, di­ citur enim l Ethic. [2,6], quod qua/es discipli­

    Sembra di no. Infatti: l . Chi comanda è superiore a chi è comandato. Ora, sembra che la prudenza comandi alla sa­ pienza, poiché al dire di Aristotele la politica, che è una parte della prudenza, «preordina quali siano le discipline da stabilirsi nelle cit­ tà, e quali di esse ciascuno debba apprendere, e fino a qual punto». Ora, dal momento che tra le discipline c'è anche la sapienza, sembra che la prudenza le sia superiore. 2. Per definizione la virtù è fatta per ordinare l'uomo alla felicità: infatti la virttl è «la dispo­ sizione di un essere perfetto all' ottimo», co­ me dice Aristotele. Ma la prudenza è la retta ragione delle azioni da compiere, mediante le quali l'uomo arriva alla felicità, mentre la sa-

    narum debitum est esse in civitatibus, et qua­ les unumquemque addiscere, et usquequo, haec praeordinat, scilicet politica, quae ad prudentiam pertinet, ut dicitur in 6 Ethic. [8, l]. Cum igitur inter disciplinas etiam sapientia contineatur, videtur quod pmdentia sit maior quam sapientia. 2. Praeterea, de ratione virtutis est quod ordi­ net hominem ad felicitatem, est enim virtus dispositio perfecti ad optimum, ut dicitur in 7

    Q. 66, A. 5

    L 'uguaglianza delle virtù

    Phys. Sed prudentia est recta ratio agibilium, per quae homo ad felicitatem perducitur, sa­ pientia autem non considerat humanos actus, quibus ad beatitudinem pervenitur. Ergo pru­ dentia est mai or virtus quam sapientia. 3. Praeterea, quanto cognitio est perfectior, tanto videtur esse maior. Sed perfectiorem co­ gnitionem habere possumus de rebus humanis, de quibus est scientia, quam de rebus divinis, de quibus est sapientia, ut distinguit Augusti­ nus in 12 De Trin. [14], quia divina incompre­ hensibilia sunt, secundum illud Iob 36 [26],

    ecce Deus magnus, vincens scientiam nostram. Ergo scientia est maior virtu...;; quam sapientia. 4. Praeterea, cognitio principiorum est dignior quam cognitio conclusionum. Sed sapientia concludit ex principiis indemonstrabilibus, quo­ rum est intellectus; sicut et aliae scientiae. Ergo intellectus est maior virtus quam sapientia. Sed contra est quod philosophus dicit, in 6 Ethic. [7,3], quod sapientia est sicut caput inter virtutes intellectuales. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 3], magnitudo virtutis secundum suam spe­ ciem, consideratur ex obiecto. Obiecturn autem sapientiae praecellit inter obiecta omnium vir­ tutum intellectualium, considerat enim causam altissimam, quae Deus est, ut dicitur in prin­ cipio Met. [ 1 , 1 , 12; 2,7. 10]. Et quia per causam iudicatur de effectu, et per causam superiorem de causis inferioribus; inde est quod sapientia habet iudicium de omnibus aliis virtutibus intellectualibus; et eius est ordinare omnes; et ipsa est quasi architectonica respectu omnium. Ad primum ergo dicendum quod, cum pruden­ tia sit circa res humanas, sapientia vero circa causam altissi mam ; impossibile est quod prudentia sit maior virtus quam sapientia, nisi, ut dicitur in 6 Ethic. [7,3], maximum eorum quae sunt in mundo, esset homo. Unde dicen­ dum est, sicut in eodem libro [Ethic. 6,13,8] dicitur, quod prudentia non imperat ipsi sa­ pientiae, sed potius e converso, quia spiritualis iudica! omnia, et ipse a nemine iudicatur, ut dicitur l ad Cor. 2 [ 1 5]. Non enim prudentia habet se intromittere de altissimis, quae consi­ derat sapientia, sed imperat de his quae ordi­ nantur ad sapientiam, scilicet quomodo ho­ mines debeant ad sapientiam pervenire. Unde in hoc est prudentia, seu politica, ministra sa­ pientiae, introducit enim ad eam, praeparans ei viam, sicut ostiarius ad regem.

    622

    pienza non considera gli atti umani che porta­ no alla beatitudine. Quindi la prudenza è una virtù superiore alla sapienza. 3. Più una conoscenza è perfetta, più grande è il suo valore. Ma noi possiamo avere una co­ noscenza più perfetta delle realtà umane, og­ getto della scienza, che delle realtà divine, og­ getto della sapienza, secondo la distinzione di Agostino: poiché le realtà divine sono incom­ prensibili, come è detto in Gb: Ecco, Dio è così grande che non lo comprendiamo. Quindi la scienza è una virtù superiore alla sapienza. 4. La conoscenza dei princìpi è superiore alla conoscenza delle conclusioni. Ma la sapienza, come le altre scienze, trae le sue conclusioni da princìpi indimostrabili, che appartengono ali' intelligenza. Quindi l ' intelligenza è una virtù superiore alla sapienza. In contrario: il Filosofo afferma che la sapien­ za è «come il capo» tra le virtù intellettuali. Risposta: si è già detto che la grandezza spe­ cifica di una virtù viene desunta dal suo og­ getto. Ora, l' oggetto della sapienza sorpassa l ' oggetto di tutte le virtù intellettuali: essa infatti, come insegna Aristotele, considera la causa suprema, che è Dio. E poiché median­ te la causa si giudicano gli effetti, e mediante la causa superiore le cause inferiori, ne se­ gue che alla sapienza spetta di giudicare di tutte le altre virtù intellettuali, di ordinarie e di avere come una funzione architettonica su tutte. Soluzione delle difficoltà: l . È impossibile che la prudenza sia una virtù più grande della sapienza, dal momento che la prudenza ha per oggetto le realtà umane e la sapienza la causa suprema; «a meno che l'uomo», come nota Aristotele, «non sia la più grande realtà esistente nell'universo». Perciò bisogna con­ venire con lui che la prudenza non comanda anche alla sapienza, ma si verifica piuttosto il contrario: poiché l 'uomo spirituale giudica

    ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno, come è detto in l Cor. Infatti la pru­ denza non ha il compito di intromettersi nelle realtà supreme, oggetto della sapienza, ma comanda quanto è preordinato alla sapienza, cioè le vie per cui l'uomo deve raggiungere la sapienza. Perciò in questo troviamo che la prudenza, o la politica, è al servizio della sa­ pienza: infatti introduce ad essa preparandole la via, come fa l'usciere col suo re.

    623

    L 'uguaglianza delle virtù

    Ad secundum dicendum quod prudentia con­ siderat ea quibus pervenitur ad felicitatem, sed sapientia considerat ipsum obiectum felicitatis, quod est altissimum intelligibile. Et si quidem esset perfecta consideratio sapien­ tiae respectu sui obiecti, esset perfecta felici­ tas in actu sapientiae. Sed quia actus sapien­ tiae in hac vita est imperfectus respectu prin­ cipalis obiecti, quod est Deus; ideo actus sa­ pientiae est quaedam inchoatio seu partici­ patio futurae felicitatis. Et sic propinquius se habet ad felicitatem quam prudentia. Ad tertium dicendum quod, sicut philosophus dicit, in l De anima [ 1 , 1], una 1wtitia praefer­

    tur alteri aut ex eo quod est nobiliorum, aut propter certitudinem. Si igitur subiecta sint aequalia in bonitate et nobilitate, illa quae est certior, erit maior virtus. Sed illa quae est minus certa de altioribus et maioribus, prae­ fertur ei quae est magis certa de inferioribus rebus. Unde philosophus dicit, in 2 De caelo [ 12, 1], quod magnum est de rebus caelestibus aliquid posse cognoscere etiam debili et topi­ ca ratione. Et in l De partibus animai. [5], dicit quod amabile est magis parvum aliquid

    cognoscere de rebus nobilioribus quam multa cognoscere de rebus ignobilioribus. Sapientia igitur ad quarn pertinet Dei cognitio, homini, maxime in statu huius vitae, non potest per­ fecte advenire, ut sit quasi eius possessio; sed hoc solius Dei est, ut dicitur in l Met. [ 1 ,2,9]. Sed tamen illa modica cognitio quae per sa­ pientiam de Deo haberi potest, omni alii co­ gnitioni praetertur. Ad quartum dicendum quod veritas et cogni­ tio principiorum indemonstrabilium dependet ex ratione terminorum, cognito enim quid est totum et quid pars, statim cognoscitur quod ornne totum est maius sua parte. Cognoscere autem rationem entis et non entis, et totius et partis, et aliorum quae consequuntur ad ens, ex quibus sicut ex terminis constituuntur prin­ cipia indemonstrabilia, pertinet ad sapientiam, quia ens commune est proprius eftectus cau­ sae altissimae, scilicet Dei. Et ideo sapientia non solum utitur principiis indemonstrabili­ bus, quorum est intellectus, concludendo ex eis, sicut aliae scientiae; sed etiam iudicando de eis, et disputando contra negantes. Unde sequitur quod sapientia sit maior virtus quarn intellectus.

    Q. 66, A. 5

    2. La prudenza considera i mezzi per raggiun­ gere la felicità; invece la sapienza considera l'oggetto stesso della felicità, cioè l'intelligi­ bile supremo. E se la considerazione della sapienza rispetto al proprio oggetto fosse per­ fetta, in quest'atto della sapienza avremmo la perfetta felicità. Siccome però l 'atto della sapienza nella vita presente è imperfetto in rapporto all'oggetto principale, che è Dio, ne viene che l' atto della sapienza è una certa anticipazione o partecipazione della felicità futura. E così la sapienza è più vicina alla feli­ cità di quanto lo sia la prudenza. 3. n Filosofo nota che «una conoscenza è pre­ feribile a un'altra o perché riguarda cose più nobili, o per la sua certezza». Se quindi gli oggetti rispettivi sono uguali in bontà e nobil­ tà, tra due virtù sarà superiore quella che è più certa. Però la conoscenza anche meno certa di realtà più alte e più grandi è da preferirsi a quella più certa di realtà inferiori. Infatti il Filosofo insegna che è cosa grande poter co­ noscere qualcosa dei fenomeni celesti, sia pu­ re con ragioni deboli e dialettiche. E scrive che «è preferibile conoscere poco di realtà più nobili che conoscere molto di realtà meno nobili». Ora la sapienza, alla quale spetta la conoscenza di Dio, non può appartenere al­ l'uomo come un vero possesso, soprattutto nello stato della vita presente: poiché «ciò ap­ partiene solo a Dio», come dice Aristotele. Tuttavia quella poca conoscenza di Dio che la sapienza può procurare è da preferirsi a ogni altra conoscenza. 4. La verità e la conoscenza dei princìpi indi­ mostrabili dipende dalla nozione dei termini: infatti una volta conosciuto che cosa è il tutto e che cosa è la parte, subito si conosce che il tutto è maggiore della sua parte. Ma conosce­ re la nozione di ente e di non ente, di tutto e di parte e degli attributi immediati dell'ente, con cui vengono costituiti i primi princìpi indimo­ strabili, spetta alla sapienza: poiché l' ente nella sua universalità è l'effetto proprio della causa suprema, cioè di Dio. E così la sapienza si serve dei princìpi indimostrabili, oggetto dell'intelligenza, non solo per trarre le sue conclusioni, come le altre scienze, ma anche per giudicarli e disputare contro chi li nega. Perciò la sapienza è una virtù superiore alla semplice intelligenza.

    Q. 66, A. 6

    L 'uguaglianza delle virtù

    Articulus 6 Utrum caritas sit maxima inter virtutes theologicas Ad sextum sic proceditur. Videtur quod caritas non sit maxima inter virtutes theologicas. l . Cum enim fides sit in intellectu, spes autem et caritas in vi appetitiva, ut supra [q. 62 a. 3] dictum est; videtur quod fides comparetur ad spem et caritatem, sicut virtus intellectualis ad moralem. Sed virtus intellectualis est maior morali, ut ex dictis [a. 3] patet. Ergo fides est maior spe et caritate. 2. Praeterea, quod se habet ex additione ad aliud, videtur esse maius eo. Sed spes, ut vide­ tur, se habet ex additione ad caritatem, prae­ supponit enim spes amorem, ut Augustinus dicit in Enchirid. [8]; addit autem quendam motum protensionis in rem amatam. Ergo spes est maior caritate. 3. Praeterea, causa est potior effectu. Sed tides et spes sunt causa caritatis, dicitur enim Matth. l [2], in Glossa [int.], quod fides generat spem, et spes caritatem. Ergo fides et spes sunt maiores caritate. Sed contra est quod apostolus dicit, l ad Cor. 13 [ 1 3], nwzc autem manentfides, spes, caritas,

    624

    Articolo 6 La carità è la più alta fra le virtù teologali? Sembra di no. Infatti: l . La fede risiede nell'intelletto, la speranza invece e la carità risiedono nella potenza ap­ petitiva, come sopra abbiamo detto: perciò sembra che la fede stia alla speranza e alla ca­ rità come le virtù intellettuali stanno alle virtù morali, come si è visto. Ma le vittù intellet­ tuali sono superiori a quelle morali. Quindi la fede è superiore alla speranza e alla carità. 2. Ciò che si comporta come aggiunta rispetto a una cosa sembra essere maggiore di essa. Ma la speranza, come sembra, è un'aggiunta alla carità: infatti la speranza, al dire di Ago­ stino, presuppone l'amore, e vi aggiunge un certo moto di propensione verso la cosa ama­ ta. Perciò la speranza è superiore alla carità. 3. La causa è al di sopra del suo effetto. Ma la fede e la speranza sono causa della carità: la Glossa infatti, commentando Mt, spiega che «la fede genera la speranza, e la speranza la carità». Quindi la fede e la speranza sono superiori alla carità. In contrario: Paolo in l Cor dice: Queste sono

    tria haec; maior autem horum est caritas.

    le tre cose che rimangono: lafede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità.

    Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 3] dictum est, magnitudo virtutis secundum suam speciem, consideratur ex obiecto. Cum autem tres virtutes theologicae respiciant Deum sicut proprium obiectum, non potest una earum dici maior altera ex hoc quod sit circa maius obiectum; sed ex eo quod una se habet propinquius ad obiectum quam alia. Et hoc modo caritas est maior aliis. Nam aliae irnportant in sui ratione quandam distantiam ab obiecto, est enim fides de non visis, spes autem de non habitis. Sed amor caritatis est de eo quod iam habetur, est enim amatum quodammodo in amante, et etiam amans per affectum trahitur ad unionem amati; propter quod dicitur l Ioan. 4 [ 1 6] , qui man et in

    Risposta: la grandezza specifica di una virtù viene misurata in base all'oggetto, come si è spiegato. Siccome però tutte e tre le virtù teolo­ gali riguardano Dio come proprio oggetto, l'una non può dirsi maggiore dell'altra per la superiorità dell'oggetto, ma per il fatto che lo riguarda più da vicino. E in questo modo la carità è superiore alle altre virtù. Queste infatti implicano nella loro nozione una distanza dal­ l' oggetto, essendo la fede di realtà che non si vedono, e la speranza di realtà che non si pos­ siedono. Invece l'amore di carità ha per ogget­ to una realtà già posseduta, poiché l'amato in qualche modo è già in chi lo ama; e chi ama, mediante l' affetto, raggiunge l 'unione con l'amato: per cui è detto in l Gv: Chi dimora

    caritate, in Deo manet, et Deus in eo.

    nella carità dimora in Dio, e Dio dimora in lui.

    Ad primum ergo dicendum quod non hoc modo se habent fides et spes ad caritatem, sicut prudentia ad vÌltutem moralem. Et hoc propter duo. Primo quidem, quia virtutes theologicae habent obiectum quod est supra animam humanam, sed prudentia et virtutes morales sunt circa ea quae sunt infra hominem. In his

    Soluzione delle difficoltà: l . La fede e la spe­ ranza non stanno alla carità come la prudenza alle virtù morali. E ciò per due motivi. Primo, poiché le virtù teologali hanno un oggetto che trascende l'anima umana, mentre la prudenza e le virtù morali riguardano realtà inferiori all'uomo. Ora, nelle realtà che sono al di sopra

    L 'uguaglianza delle virtù

    625

    Q. 66, A. 6

    autem quae sunt supra hominem, nobilior est dilectio quam cognitio. Perficitur enim cogni­ tio, secundum quod cognita sunt in cogno­ scente, dilectio vero, secundum quod diligens trahitur ad rem dilectam. Id autem quod est supra hominem, nobilius est in seipso quam sit in homine, quia unumquodque est in altero per modum eius in quo est. E converso autem est in his quae sunt infra hominem. Secundo, quia prudentia moderatur motus appetitivos ad mo­ rales virtutes pertinentes, sed fides non mode­ ratur motum appetitivum tendentem in Deum, qui pertinet ad viltutes theologicas; sed solum ostendit obiectum. Motus autem appetitivus in obiectum, excedit cognitionem humanam; se­ cundum illud ad Eph. 3 [ 1 9], supereminentem

    dell'uomo l'amore è superiore alla conoscen­ za. Infatti la conoscenza avviene mediante la presenza dell'oggetto nel conoscente, l'amore invece mediante l'attrazione di chi ama verso la cosa amata. Ora, ciò che è al di sopra del­ l'uomo è più nobile in se stesso che nell'uomo: poiché ogni cosa si trova in un'altra subendone il modo di essere. Capita invece il contrario per le realtà che sono al di sotto dell'uomo. Secon­ do, poiché la prudenza modera i moti appetitivi appartenenti alle virtù morali, mentre la fede non modera l' appetito tendente verso Dio, pro­ prio delle virtù teologali, ma si limita a mostra­ re l'oggetto. Anzi, questo moto appetitivo ver­ so l'oggetto trascende la conoscenza umana, secondo l'espressione di Ef, La carità di Cristo

    scientiae caritatem Christi.

    che sorpassa ogni conoscenza.

    Ad secundum dicendum quod spes praesup­ ponit amorem eius quod quis adipisci se sperat, qui est amor concupiscentiae, quo quidem amore magis se amat qui concupiscit bonum, quam aliquid aliud. Caritas autem importat amorem amicitiae, ad quam perveni­ tur spe, ut supra [q. 62 a. 4] dictum est. Ad tertium dicendum quod causa perficiens est potior effectu, non autem causa disponens. Sic enim calor ignis esset potior quam anima, ad quam disponit materiam, quod patet esse falsum. Sic autem fides generat spem, et spes caritatem, secundum scilicet quod una disponit ad alteram.

    2. La speranza presuppone l'amore di ciò che spera di raggiungere, cioè l' amore di concupi­ scenza: col quale amore chi desidera il bene ama più se stesso che un'altra cosa. La carità invece comporta un amore di amicizia, alla quale si giunge con la speranza, secondo le spiegazioni date. 3. La causa principale è certamente superiore al suo effetto, ma non la causa dispositiva. Se infatti così fosse, il calore del fuoco sarebbe superiore all' anima, di cui prepara la ricezio­ ne disponendo la materia: il che è falso i n maniera evidente. Ora, è così che la fede genera la speranza, e la speranza la carità: cioè in quanto l 'una dispone all'altra.

    QUAESTI0 67 DE DURATIONE VIRTUTUM POST HANC VITAM

    QUESTIONE 67 , LA PERMANENZA DELLE VIRTU DOPO QUESTA VITA

    Deinde considerandum est de duratione virtu­ tum post hanc vitam. Et circa hoc quaeruntur sex. Primo, utrum virtutes morales maneant post hanc vitam. Secundo, utrum virtutes in­ tellectuales. Tertio, utrum fides. Quarto, utrum remaneat spes. Quinto, utrum aliquid fidei maneat, vel spei. Sexto, utrum maneat caritas.

    Rimane ora da considerare la permanenza del­ le virtù dopo questa vita. Sull'argomento si pongono sei quesiti: l . Dopo questa vita ri­ mangono le virtù morali? 2. Rimangono le virtù intellettuali? 3. Rimane la fede? 4. Rima­ ne la speranza? 5. Resta qualcosa della tede, o della speranza? 6. Rimane la carità?

    Articulus l Utrum virtutes morales maneant post hanc vitam

    Articolo l Le virtù morali rimangono dopo questa vita?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod vir­ tutes morales non maneant post hanc vitam.

    Sembra di no. Infatti: l . Nello stato di gloria gli uomini saranno

    Q. 67, A. l

    La permanenza delle virtù dopo questa vita

    l . Homines enim in statu futurae gloriae erunt similes angelis, ut dicitur Matth. 22 [30]. Sed ridiculum est in angeli s ponere virtutes morales, ut dicitur in l O Ethic. [8, 7]. Ergo neque in hominibus, post hanc vitam, erunt virtutes morales. 2. Praeterea, virtutes morales perficiunt homi­ nem in vita activa. Sed vita activa non manet post hanc vitam, dicit enim Gregorius, in 6 Mor. [37], activae vitae opera cwn corpore transeunt. Ergo virtutes morales non manent post hanc vitam. 3 . Praeterea, temperantia et fortitudo, quae sunt virtutes morales, sunt irrationalium par­ tium, ut philosophus dicit, in 3 Ethic. [ 10, 1]. Sed irrationales partes animae corrumpuntur, corrupto corpore, eo quod sunt actus organo­ rum corporalium. Ergo videtur quod virtutes morales non maneant post hanc vitam. Sed contra est quod dicitur Sap. l [ 1 5] , quod

    iustitia pe1petua est et immmtalis. Respondeo dicendum quod, sicut Augustinus dicit, in 14 De Trin. [9], Thllius posuit post hanc vitam quatuor virtutes cardinales non esse; sed in alia vita homines esse beatos sola

    cognitione naturae, in qua nihil est melius aut amabilius, ut Augustinus dicit ibidem [De Trin. 14,9], ea natura quae creavit omnes na­ turas. Ipse autem postea determinat huiusmo­ di quatuor virtutes i n futura vita existere, tamen alio modo. - Ad cuius evidentiam, scien­ dum est quod in huiusmodi virtutibus aliquid est formale; et aliquid quasi materiale. Ma­ teriale quidem est in his virtutibus inclinatio quaedam partis appetitivae ad passiones vel operationes secundum modum aliquem. Sed quia iste modus determinatur a ratione, ideo formale in omnibus virtutibus est ipse ordo rationis. - Sic igitur dicendum est quod huius­ modi virtutes morales in futura vita non ma­ nent, quantum ad id quod est materiale in eis. Non enim habebunt in futura vita locum concupiscentiae et delectationes ciborum et venereorum; neque etiam timores et audaciae circa pericula martis; neque etiam distributio­ nes et communicationes rerum quae veniunt in usum praesentis vitae. Sed quantum ad id quod est formale, remanebunt in beatis per­ fectissimae post hanc vitam, inquantum ratio uniuscuiusque rectissima erit circa ea quae ad ipsum pertinent secundum statum illum; et vis appetitiva omnino movebitur secundum

    626

    simili agli angeli, come è detto in Mt. Ora, secondo Aristotele è ridicolo porre le virtù morali negli angeli . Quindi le virtù morali non ci saranno neppure negli uomini dopo questa vita. 2. Le virtù morali rendono perfetto l' uomo nella vita attiva. Ma la vita attiva non rimane dopo la vita presente: dice infatti Gregorio che «le opere della vita attiva passano col cmpo». Perciò le virtù morali non timangono dopo questa vita. 3. La temperanza e la fortezza, che sono virtù morali, risiedono nella parte irrazionale, come insegna il Filosofo. Ma le parti irrazionali del­ l' anima, essendo atti di organi corporei, ven­ gono distrutte con la distruzione del corpo. Quindi le virtù morali dopo questa vita non rimangono. In contrario: in Sap è detto: La giustizia è

    perenne e immortale. Risposta: come riferisce Agostino, Cicerone riteneva che dopo questa vita le virtù cardinali non esistessero più; e che nell'altra vita gli uomini «sarebbero beati per la sola conoscen­ za di quella natura di cui nulla può essere migliore o più amabile», cioè «di quella natu­ ra che ha creato tutte le nature», secondo l'e­ spressione di Agostino. Questi però in seguito dimostra che le quattro virtù suddette esistono nella vita futura, sebbene in un altro modo. Per chiarire la cosa bisogna ricordare che in queste virtù c'è un elemento formale e un ele­ mento materiale. L'elemento materiale è una certa inclinazione della parte appetitiva verso le passioni e le operazioni secondo una deter­ minata misura. Siccome però questa misura è stabilita dalla ragione, di conseguenza l'ele­ mento formale in tutte le virtù è l'ordine stes­ so della ragione. - Si deve dunque concludere che le virtù morali non rimangono nella vita futura quanto al loro elemento materiale. In­ fatti nella vita futura non ci potranno essere né le concupiscenze, né i piaceri della gola o venerei; né i timori o le audacie relative ai pericoli di morte; e neppure le ripartizioni o le comunicazioni dei beni che servono alla vita presente. Invece queste virtù dureranno per­ fettissimamente nei beati, dopo questa vita, quanto al loro elemento fonnale: poiché la ragione in ciascuno di essi sarà rettissima rispetto a quanto li riguarderà in quello stato; e la potenza appetitiva si muoverà i n tutto

    627

    La permanenza delle virtù dopo questa vita

    ordinem rationis, in his quae ad statum illum pertinent. Unde Augustinus ibidem [De Trio. 14,9] dicit quod prudentia ibi erit sine ullo

    periculo erroris; fortitudo, sine molestia tole­ randorwn malorum; temperantia, sine repu­ gnatione libidinum. Ut pntdentiae sit nullum bonum Deo praeponere vel aequare; fortitu­ dinis, ei firmissime cohaerere; temperantiae, nullo defectu noxio delectari. De iustitia vero manifestius est quem actum ibi habebit, scili­ cet esse subditwn Deo, quia etiam in hac vita ad iustitiam pertinet esse subditum superiori. Ad primum ergo dicendum quod philosophus loquitur [Ethic. 10,8,7] ibi de huiusmodi vir­ tutibus moralibus, quantum ad id quod ma­ teriale est in eis, sicut de iustitia, quantum ad commutationes et depositiones; de fortitudine, quantum ad terribilia et pericula; de tempe­ rantia, quantum ad concupiscentias pravas. Et similiter dicendum est ad secundum. Ea enim quae sunt activae vitae, materialiter se habent ad virtutes. Ad tertium dicendum quod status post hanc vitam est duplex, unus quidem ante resurrec­ tionem, quando animae erunt a corpmibus separatae; alius autem post resurrectionem, quando animae iterato corporibus suis unien­ tur. In ilio ergo resurrectionis statu, erunt vires iiTationales in organis corporis, sicut et nunc sunt. Unde et poterit in irascibili esse fortitu­ do, et in concupiscibili temperantia, inquan­ tum utraque vis perfecte erit disposita ad obediendum rationi. - Sed in statu ante resur­ rectionem, partes irrationales non erunt actu in anima, sed solum radicaliter in essentia ipsius, ut in primo [q. 77 a. 8] dictum est. Un­ de nec huiusmodi virtutes erunt in actu nisi in radice, scilicet in ratione et voluntate, in qui­ bus sunt seminalia quaedam harum virtutum, ut dictum est [q. 63 a. 1 ] . Sed iustitia, quae est i n voluntate, etiam actu remanebit. Unde specialiter de ea dictum est [sed c.] quod est perpetua et immortalis, tum ratione subiecti, quia voluntas incorruptibilis est; tum etiam propter similitudinem actus, ut prius [co.] dictum est.

    Q. 67, A. l

    secondo l'ordine della ragione. Perciò Agosti­ no scrive che «allora la prudenza sarà senza pericolo di errore; la fortezza senza la mole­ stia dei mali da sopportare; la temperanza senza la resistenza delle passioni. Cosicché la prudenza avrà il compito di non preferire e di non equiparare a Dio nessun bene, la fortezza quello di aderire fermissimamente a lui e la temperanza quello di non compiacersi di alcuna minorazione nociva». Per la giustizia poi è evidente l'atto che allora dovrà avere, cioè «la sottomissione a Dio»: poiché anche in questa vita spetta alla giustizia l'essere sot­ tomessi ai superiori. Soluzione delle difficoltà: l . Nel passo citato il Filosofo parla delle virtù morali rispetto al loro elemento materiale: cioè nella giustizia considera «le compravendite e i mutui», nella fortezza «le cose temibili e i pericoli» e nella temperanza «le concupiscenze sregolate». 2. La risposta vale anche per la seconda diffi­ coltà. Infatti le realtà che costituiscono la vita attiva sono l'elemento materiale delle virtù. 3. Due sono gli stati che seguiranno questa vita: uno precedente la risurrezione, nel quale le anime saranno separate dal corpo, e un altro dopo la risurrezione, nel quale le anime torneranno a essere unite al loro corpo. Nello stato di risurrezione, dunque, negli organi cor­ porei ci saranno le potenze in-azionali, come ci sono adesso. E allora nell'irascibile ci potrà essere la fortezza, e nel concupiscibile la tem­ peranza : poiché le due facoltà saranno perfet­ tamente disposte a obbedire alla ragione. Invece nello stato che precede la risurrezione le facoltà irrazionali non saranno nell' anima attualmente, ma solo radicalmente nella sua essenza, come si è visto nella Prima Parte. Perciò anche le suddette virtù potranno esiste­ re attualmente solo in radice, cioè nella ragio­ ne e nella volontà, nelle quali si trovano i ger­ mi di queste virtù, secondo le spiegazioni da­ te. La giustizia invece, che risiede nella vo­ lontà, rimane anche in atto. Per cui particolar­ mente di essa sta scritto che è «immortale»: sia a motivo del soggetto, poiché la volontà è incotTuttibile, sia anche per la somiglianza degli atti, come sopra si è notato.

    La permanenza delle virtù dopo questa vita

    Q. 67, A. 2 Articulus

    2

    628 Articolo

    2

    Utrum virtutes intellectuales maneant post hanc vitam

    Le virtù intellettuali rimangono dopo questa vita?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod virtu­ tes intellectuales non maneant post hanc vitam. l . Dicit enim apostolus, l ad Cor. 1 3 [8-9], quod scientia destruetur, et ratio est quia ex parte cognoscimus. Sed sicut cognitio scien­ tiae est ex parte, idest impertècta; ita etiam cognitio aliarum virtutum intellectualium, quandiu haec vita durat. Ergo omnes virtutes intellectuales post hanc vitam cessabunt. 2. Praeterea, philosophus dicit, in Praed. [6,4], quod scientia, cum sit habitus, est qualitas diffi­ cile mobilis, non enim de facili amittitur, nisi ex aliqua forti transmutatione vel aegritudine. Sed nulla est tanta transmutatio corporis humani sicut per mortem. Ergo scientia et aliae virtutes intellectuales non manent post hanc vitam. 3 . Praeterea, virtutes intellectuales perticiunt intellectum ad bene operandum proprium actum. Sed actus intellectus non videtur esse post hanc vitam, eo quod nihil intelligit anima sine phantasmate, ut dicitur in 3 De anima [7,3] ; phantasmata autem post hanc vitam non manent, cum non sint nisi in organis cor­ poreis. Ergo virtutes intellectuales non ma­ nent post hanc vitam. Sed contra est quod firmior est cognitio uni­ versalium et necessariorum, quam particula­ rium et contingentium. Sed in homine re­ manet post hanc vitam cognitio particularium contingentium, puta eorum quae quis fecit vel passus est; secundum illud Luc. 1 6 [25],

    Sembra di no. Infatti: l. Paolo in l Cor dice che la scienza svanirà: e questo perché la nostra conoscenza è im­ pelfetta. Ora, come è parziale e imperfetta la conoscenza della scienza, così lo è anche quella delle altre virtù intellettuali , tinché dura la vita presente. Perciò dopo questa vita cesseranno tutte le virtù intellettuali. 2. n Filosofo insegna che la scienza, essendo un abito, è una qualità difficilmente amovibile: infatti non si perde facilmente, ma solo per una forte trasmutazione o malattia. Ora, nes­ suna trasmutazione del corpo umano è più grave di quella della morte. Quindi la scienza e le altre virtù intellettuali non rimangono dopo questa vita. 3. Le virtù intellettuali pertèzionano l'intel­ letto perché possa compiere bene il proprio atto. Ma dopo questa vita non pare che l' atto dell'intelletto possa ancora esistere poiché, al dire di Aristotele, «I' anima non intende nulla senza i fantasmi»; e d' altra parte i fantasmi non possono allora rimanere, trovandosi essi soltanto in organi corporei. Quindi le virtù intellettuali dopo questa vita non rimangono. In contrario: la conoscenza dell 'universale e del necessario è più stabile che quella del sin­ golare e del contingente. Ora, dopo questa vita rimane nell'uomo la conoscenza dei sin­ golari contingenti, quali sono, p. es., le cose che uno ha fatto o patito, come è detto in Le:

    recordare quia recepisti bona in vita tua, et Lazarus similiter ma/a. Ergo multo magis

    Ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali. Perciò

    remanet cognitio universalium et necessario­ rum, quae pertinent ad scientiam et ad alias virtutes intellectuales. Respondeo dicendum quod, sicut in primo [q 79 a. 6] dictum est, quidam [Avicenna, De an. 5,6] posuerunt quod species intelligibiles non permanent i n intellectu possibili nisi quandiu actu intelligit, nec est aliqua conser­ vatio specierum, cessante consideratione ac­ tuali, nisi in viribus sensitivis, quae sunt actus corporalium organomm, scilicet in imagina­ tiva et memorativa. Huiusmodi autem vires corrumpuntur, corrupto corpore. Et ideo se­ cundum hoc, scientia nullo modo post hanc vitam remanebit, corpore corrupto; neque

    a maggior ragione rimane la conoscenza delle cose universali e necessarie, che appartengo­ no alla scienza e alle altre virtù intellettuali. Risposta: come si è già visto nella Prima Pwte, alcuni ritenevano che le specie intelligibili ri­ manessero nell'intelletto possibile soltanto nel­ l'atto del conoscere, e che cessata l'intellezione attuale non ci fosse una conservazione delle specie se non nelle potenze sensitive, che sono atti di organi corporei, cioè neli' immaginativa e nella memoria. Ma queste facoltà vengono distrutte con la distruzione del corpo. Stando perciò a questa teoria, dopo la distruzione del corpo in nessun modo può rimanere la scienza, e neppure qualsiasi altra virtù intellettuale. -

    .

    629

    La permanenza delle virtù dopo questa vita

    aliqua alia i ntellectualis virtus. - Sed haec opinio est contra sententiam Aristotelis, qui in 3 De anima [4,6] dicit quod intellectus possi­

    Q. 67, A. 2

    cies intelligibiles recipiuntur in intellectu pos­ sibili immobiliter, secundum modum reci­ pientis. Unde et intellectus possibilis dicitur focus specierum [De an. 3,4,4] , quasi species intelligibiles conservans. - Sed phantasmata, ad quae respiciendo homo intelligit in hac vita, applicando ad ipsa species intelligibiles, ut in primo [q. 84 a. 7; q. 85 a. l ad 5] dictum est, corrupto corpore corrumpuntur. Unde quan­ tum ad ipsa phantasmata, quae sunt quasi ma­ terialia in virtutibus intellectualibus, virtutes intellectuales destruuntur, destructo corpore, sed quantum ad species intelligibiles, quae sunt in intellectu possibili, virtutes intellectua­ les manent. Species autem se habent in virtu­ tibus intellectualibus sicut formales. Unde in­ tellectuales virtutes manent post hanc vitam, quantum ad id quod est formale in eis, non autem quantum ad id quod est materiale, sicut et de moralibus dictum est [a. 1 ]. Ad primum ergo dicendum quod verbum a­ postoli est intelligendum quantum ad id quod est materiale in scientia, et quantum ad modum intelligendi, quia scilicet neque phantasmata remanebunt, destructo corpore; neque erit usus scientiae per conversionem ad phantasmata. Ad secundum dicendum quod per aegritudi­ nem corrumpitur habitus scientiae quantum ad id quod est materiale in eo, scilicet quantum ad phantasmata, non autem quantum ad species intelligibiles, quae sunt in intellectu possibili. Ad tertium dicendum quod anima separata post mortem habet alium modum intelligendi quam per conversionem ad phantasmata, ut in primo [q. 89 a. l ] dictum est Et sic scientia manet, non tamen secundum eundem modum operandi, sicut et de virtutibus moralibus dictum est [a. 1].

    Ma questa opinione è contro il pensiero di Ari­ stotele, i l quale nel De Anima afferma che «l'intelletto possibile è in atto quando, come conoscente, diviene le singole cose; tuttavia è anche in potenza a pensare attualmente». Ed è inoltre contro la ragione: poiché le specie intel­ ligibili sono ricevute nell' intelletto possibile in modo stabile, secondo la natura del ricevente. Infatti l'intelletto possibile viene anche chiama­ to [da Atistotele] «luogo delle specie», come per dire che conserva le specie intelligibili. Però i fantasmi, guardando ai quali l ' uomo intellettualmente conosce nella vita presente mediante l'applicazione delle specie intelligibi­ li, come si è spiegato nella Prima Parte, vengo­ no distrutti con la distmzione del corpo. E così dalla parte dei fantasmi, che ne sono come l'elemento materiale, le virtù intellettuali ven­ gono distmtte con la distmzione del corpo; dalla parte invece delle specie intelligibili, che risiedono nell' intelletto possibile, tali virtù rimangono. E tali specie sono come l'elemento formale nelle virtù intellettuali. Quindi le virtù intellettuali dopo questa vita rimangono nel loro elemento formale, ma non nel loro ele­ mento materiale, come si è detto anche a pro­ posito di quelle morali. Soluzione delle difficoltà: l . Le parole di Pao­ lo vanno applicate all' elemento materiale della scienza, e al modo della conoscenza in­ tellettiva: poiché dopo la distruzione del cor­ po cesseranno i fantasmi, e l'uso della scienza mediante il ricorso ai fantasmi. 2. La malattia può distruggere un abito scien­ tifico nel suo elemento materiale, cioè rispetto ai fantasmi, ma non rispetto alle specie intel­ legibili che sono nell'intelletto possibile. 3. Dopo la morte, come si è detto nella Prima Parte, l' anima separata ha un modo di cono­ scere diverso dali' attuale, che avviene median­ te il ricorso ai fantasmi. E così la scienza rimar­ rà, non però secondo i l medesimo procedimen­ to; come si è detto anche delle virtù morali.

    Articulus 3 Utrum fides maneat post hanc vitam

    Articolo 3 La fede rimane dopo questa vita?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod fides maneat post hanc vitam. l . Nobilior enim est fides quam scientia. Sed scientia manet post hanc vitam, ut dictum est [a. 2]. Ergo et fides.

    Sembra di sì. Infatti: l . La fede è superiore alla scienza. Ma la scienza dopo questa vita rimane, come si è detto. Quindi anche la fede. 2. In l Cor è detto: Nessuno può porre un

    bilis est in actu, cum fit singula, sicut sciens; cum tamen sit in potentia ad considerandum in actu. Est etiam contra rationem, quia spe­

    Q. 67, A. 3

    La permanenza delle virtù dopo questa vita

    2. Praeterea, l ad Cor. 3 [ 1 1 ] dicitur, jùnda­

    mentum aliud nemo potest ponere, praeter id quod positum est, quod est Christus lesus,

    630

    fondamento diverso da quello che già è stato posto, e che è Gesù Cristo, cioè la fede in Ge­

    idest fides Christi Iesu. Sed sublato funda­ mento, non remanet id quod superaedificatur. Ergo, si fides non remanet post hanc vitam, nulla alia virtus remaneret. 3. Praeterea, cognitio fidei et cognitio gloriae differunt secundum perfectum et imperfectum. Sed cognitio imperfecta potest esse simul cum cognitione pertecta, sicut in angelo simul po­ test esse cognitio vespertina cum cognitione matutina; et aliquis homo potest simul habere de eadem conclusione scientiam per syllogi­ smum demonstrativum, et opinionem per syl­ logismum dialecticum. Ergo etiam fides simul esse potest, post hanc vitam, cum cognitione gloriae. Sed contra est quod apostolus dicit, 2 ad Cor. 5 [6-7], quandiu sumus in corpore, peregrina­

    sù Cristo. Ma tolto il fondamento, non può rimanere ciò che vi è edificato sopra. Se quin­ di dopo questa vita non rimane la fede, non rimane alcun'altra virtù. 3. La conoscenza della fede e quella della gloria differiscono come l'imperfetto e il per­ fetto. Ma la conoscenza imperfetta può coesi­ stere con la conoscenza perfetta: come nel­ l'angelo possono stare insieme la conoscenza vespertina e quella mattutina; e come u n uomo può avere a proposito d i una data con­ clusione una conoscenza scientifica derivata da un sillogismo dimostrativo e un' opinione basata su un sillogismo dialettico. Perciò dopo questa vita la fede può anch'essa coesi­ stere con la visione della gloria. In contrario: Paolo in 2 Cor afferma: Finché siamo in questo corpo, siamo lontano dal Si­

    mur a Domino, perfidem enim ambulamus, et non per speciem. Sed illi qui sunt in gloria,

    gnore; camminiamo nella fede, e non nella vi­ sione. Ora, quelli che sono nella gloria non

    non peregrinantur a Domino, sed sunt ei prae­ sentes. Ergo fides non manet post hanc vitam in gloria. Respondeo dicendum quod oppositio est per se et propria causa quod unum excludatur ab alio, inquantum scilicet in omnibus oppositis includitur oppositio affirmationis et negatio­ nis. Invenitur autem in quibusdam oppositio secundum contrarias formas, sicut in colori­ bus album et nigrum. In quibusdam autem, secundum perfectum et impertectum, unde in alterationibus magis et minus accipiuntur ut contraria, ut cum de minus calido fit magis calidum, ut dicitur in 5 Phys. [2, 1 1 ]. Et quia perfectum et imperfectum opponuntur, im­ possibile est quod simul, secundum idem, sit perfectio et imperfectio. - Est autem conside­ randum quod imperfectio quidem quandoque est de ratione rei , et pertinet ad speciem ipsius, sicut defectus rationis pertinet ad ratio­ nem speciei equi vel bovis. Et quia unum et idem numero manens non potest transterri de una specie in aliam, inde est quod, tali imper­ fectione sublata, tollitur species rei, sicut iam non esset bos vel equus, si esset rationalis. Quandoque vero imperfectio non pertinet ad rationem speciei, sed accidit individuo secun­ dum aliquid aliud, sicut alicui homini quan­ doque accidit defectus rationis, inquantum impeditur in eo rationis usus, propter som-

    sono in esilio lontano dal Signore, ma sono a lui presenti. Quindi la fede non rimane nella gloria dopo questa vita. Risposta: la causa dell 'incompatibilità di una cosa con un'altra è la loro opposizione: poi­ ché tra gli opposti è sempre inclusa l'opposi­ zione esistente tra l' affermazione e la nega­ zione. Ora, l'opposizione in certe cose è fon­ data su forme contrarie: come avviene nei co­ lori tra il bianco e il nero. In altre invece è fondata sulla perfezione e l ' imperfezione: nelle alterazioni, p. es., il più e il meno vengo­ no presi come contrari, come quando una co­ sa poco calda diventa molto calda, come dice Aristotele. E poiché il perfetto e l ' imperfetto si contrappongono, è impossibile che simulta­ neamente e sotto il medesimo aspetto possa­ no esistere la perfezione e l ' imperfezione. L' imperfezione però talora è nella natura di una cosa, e fa parte della sua specie: come il mancare della ragione rientra nella natura specifica del cavallo o del bue. E poiché un'identica cosa non può passare da una spe­ cie a un'altra, se si toglie questa imperfezione si distrugge la sua natura: il bue p. es., o il ca­ vallo, non esisterebbero più se diventassero razionali. - Altre volte invece l'imperfezione non appartiene alla natura specifica, ma capita a un dato soggetto per altri motivi: come a un uomo può capitare una deficienza della ragio-

    63 1

    La permanenza delle virtù dopo questa vita

    num vel ebrietatem vel aliquid huiusmodi. Patet autem quod, tali imperfectione remota, nihilominus substant.ia rei manet. - Manifestum est autem quod imperfectio cognitionis est de ratione fidei. Ponitur enim in eius definitione, fides enim est substantia sperandarum rerum, argumentum non apparentium, ut dicitur ad Heb. 1 1 [ 1 ] . Et Augustinus [In Ioan., tract. 40, super 8,32] dicit, quid estfides? Credere quod non vides. Quod autem cognitio sit sine appa­ rit.ione vel visione, hoc ad imperfectionem co­ gnitionis pertinet. Et sic imperfectio cognitio­ nis est de ratione fidei. Unde manifestum est quod fides non potest esse perfecta cognitio, eadem numero manens. - Sed ulterius consi­ derandum est utrum simul possit esse cum co­ gnitione perfecta, nihil enim prohibet aliquam cognitionem imperfectam simul esse aliquan­ do cum cognitione perfecta. Est igitur consi­ derandum quod cognitio potest esse imper­ fecta tripliciter, uno modo, ex parte obiecti cognoscibilis; alio modo, ex parte medii; ter­ tio modo, ex parte subiecti. Ex parte quidem obiecti cognoscibilis, differunt secundum perfectum et imperfectum cognitio matutina et vespertina in angelis, nam cognitio matuti­ na est de rebus secundum quod habent esse in verbo; cognitio autem vespertina est de eis secundum quod habent esse in proptia natura, quod est imperfectum respectu primi esse. Ex parte vero medii, differunt secundum perfec­ tum et i mperfectum cognitio quae est de aliqua conclusione per medium demonstra­ tivum, et per medium probabile. Ex parte vero subiecti differunt secundum perfectum et imperfectum opinio, fides et scientia. Nam de ratione opinionis est quod accipiatur unum cum formidine alterius oppositi, unde non habet finnam inhaesionem. De ratione vero scientiae est quod habeat firmam inhaesio­ nem cum visione intellectiva, habet enim cer­ titudinem procedentem ex intellectu princi­ piorum. Fides autem medio modo se habet, excedit enim opinionem, in hoc quod habet firmam inhaesionem; deticit vero a scientia, in hoc quod non habet visionem. - Manifestum est autem quod perfectum et imperfectum non possunt simul esse secundum idem, sed ea quae differunt secundum perfectum et imperfectum, secundum aliquid idem possunt simul esse in aliquo alio eodem. Sic igitur co­ gnitio perfecta et imperfecta ex parte obiecti,

    Q. 67, A. 3

    ne per il fatto che l'uso della ragione viene in lui ostacolato dal sonno, dall'ubriachezza, o da altre cose del genere. Ora, è evidente che eliminando queste i111.perfezioni la sostanza della cosa rimane. - E chiaro a questo punto che l ' imperfezione del conoscere fa parte del­ la natura della fede: rientra infatti nella sua definizione, perché essa è il fondamento delle

    cose che si sperano e la prova di quelle che non si vedono, come è detto in Eb. E Agosti­ no scrive: «Che cos'è la fede? Credere ciò che non vedi». Ora, conoscere senza vedere costituisce un'imperfezione per la conoscen­ za. E così l'imperfezione rientra nella natura della fede. Per cui è evidente che la fede non può diventare una conoscenza perfetta, se rimane numericamente identica a se stessa. Ma bisogna ancora considerare se possa coe­ sistere con una conoscenza perfetta: infatti nulla impedisce che una conoscenza imper­ fetta possa talora coesistere con una cono­ scenza perfetta. Bisogna dunque notare che una conoscenza può essere imperfetta in tre modi: primo, a motivo dell'oggetto; secondo, a motivo del mezzo conoscitivo; terzo, a motivo del soggetto. A motivo dell'oggetto di conoscenza differiscono secondo la perfezio­ ne e l'imperfezione la conoscenza mattutina e quella vespertina degli angeli: infatti la cono­ scenza mattutina Iiguarda le cose in quanto hanno la loro esistenza nel Verbo, mentre la conoscenza vespertina riguarda le cose in quanto sussistono nella loro propria natura, esistenza questa imperfetta rispetto alla pri­ ma. Per il mezzo conoscitivo invece differi­ scono secondo la perfezione e l'imperfezione la conoscenza di una conclusione raggiunta mediante un mezzo dimostrativo e quella rag­ giunta mediante un tennine medio probabile. A motivo del soggetto differiscono infine tra loro secondo la perfezione e l ' imperfezione l ' opinione, la fede e la scienza. Infatti nel concetto di opinione è implicita la scelta in un' alternativa col timore che sia vero il con­ trario: per cui manca la ferma adesione. Inve­ ce nella nozione di scienza è implicita la fer­ ma adesione accompagnata dalla visione in­ tellettiva: essa infatti ha una certezza che deri­ va dall'intuizione dei primi princìpi. Invece la fede è a mezza strada: è superiore all' opinio­ ne, perché ha un' adesione ferma, ma è al disotto della scienza, non avendo la visione. -

    Q. 67, A. 3

    La permanenza delle virtù dopo questa vita

    nullo modo possunt esse de eodem obiecto. Possunt tamen convenire in eodem medio, et in eodem subiecto, nihil enim prohibet quod unus homo simul et semel per unum et idem medium habeat cognitionem de duobus, quo­ rum unum est perfectum et aliud imperfec­ tum, sicut de sanitate et aegritudine, et bono et malo. Similiter etiam impossibile est quod cognitio perfecta et imperfecta ex parte medii, conveniant in uno medio. Sed nihil prohibet quin conveniant i n uno obiecto, et i n uno subiecto, potest enim unus homo cognoscere eandem conclusionem per medium probabile, et demonstrativum. Et est similiter impossibi­ le quod cognitio perfecta et imperfecta ex par­ te subiecti, sint simul in eodem subiecto. Fi­ des autem in sui ratione habet imperfectio­ nem quae est ex parte subiecti, ut scilicet cre­ dens non videat id quod credit, beatitudo autem de sui ratione habet perfectionem ex parte subiecti, ut scilicet beatus videat id quo beatificatur, ut supra [q. 3 a. 8] dictum est. Unde manifestum est quod impossibile est quod fides maneat simul cum beatitudine in eodem subiecto. Ad primum ergo dicendum quod fides est nobilior quam scientia, ex parte obiecti, quia eius obiectum est veritas prima. Sed scientia habet petfectiorem modum cognoscendi, qui non repugnat perfectioni beatitudinis, scilicet visioni, sicut repugnat ei modus fidei. Ad secundum dicendum quod tides est funda­ mentum quantum ad id quod habet de co­ gnitione. Et ideo quando perficietur cognitio, erit perfectius fundamentum. Ad tertium patet solutio ex his quae dieta sunt [co.].

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    Ora, è evidente che il perfetto e l ' imperfetto non possono coesistere sotto il medesimo aspetto; tuttavia due cose che differiscono se­ condo la perfezione e l' imperfezione possono coesistere in un dato soggetto sotto un certo aspetto comune, pur essendo diverse quanto a perfezione. Perciò la conoscenza perfetta e quella imperfetta dalla parte dell' oggetto in nessun modo possono coesistere a proposito di u n medesimo oggetto. Possono invece coincidere nell'identico mezzo dimostrativo, e nell'identico soggetto: infatti nulla impedi­ sce che un uomo simultaneamente e mediante un unico mezzo dimostrativo abbia la cono­ scenza di due cose, di cui I' una è perfetta e l'altra imperfetta, della salute, p. es., e della malattia, del bene e del male. Parimenti è impossibile che due conoscenze, perfetta e imperfetta dalla parte del mezzo, possano convenire in un unico mezzo. Nulla però im­ pedisce che possano convenire neli' oggetto e nel soggetto: infatti un uomo può conoscere una medesima conclusione e con un termine medio probabile, e con u n termine medio dimostrativo. Così pure è impossibile che due conoscenze, perfetta e imperfetta in rapporto al soggetto, possano coesistere nel medesimo soggetto. Ora, la fede implica nel suo concet­ to un'imperfezione in rapporto al soggetto: implica cioè che il credente non veda ciò che crede; invece la beatitudine, come si è già visto, implica nel suo concetto la perfezione del conoscere rispetto al soggetto: implica cioè che il beato veda ciò da cui è reso beato. Perciò è evidente che è impossibile la coesi­ stenza della fede con la beatitudine nel mede­ simo soggetto. Soluzione delle difficoltà: l . La fede è supe­ riore alla scienza nell'oggetto: poiché il suo oggetto è la prima verità. Ma la scienza ha un modo di conoscere più perfetto, il quale non ripugna alla perfezione della beatitudine, cioè alla visione, come invece vi ripugna la fede. 2. La fede è fondamento nella misura in cui fornisce una conoscenza. Perciò quando la conoscenza raggiungerà la sua perfezione, avremo un fondamento più perfetto. 3. La soluzione è evidente dopo quanto abbia­ mo detto.

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    La permanenza delle virtù dopo questa vita

    Q. 67, A. 4

    Articulus 4 Utrum spes maneat post mortem in statu gloriae

    Articolo 4 La speranza rimane dopo la morte nello stato di gloria?

    Ad quartum sic proceditur. Vìdetur quod spes maneat post mortem in statu gloriae. l . Spes enim nobiliori modo perficit appeti­ tum humanum quam virtutes morales. Sed virtutes morales manent post hanc vitam, ut patet per Augustinum, in 1 4 De Trin. [9] . Ergo multo magis spes. 2. Praeterea, spei opponitur timor. Sed timor manet post hanc vitam, et in beatis quidem timor filialis, qui manet in saeculum; et i n damnatis timor poenarum. Ergo spes, pari m­ tione, potest permanere. 3. Praeterea, sicut spes est futuri boni, ita et desiderium. Sed in beatis est desiderium futu­ ri boni, et quantum ad gloriam corporis, quam animae beatorum desiderant, ut dicit Augusti­ nus, 1 2 Super Geo. [35] ; et etiam quantum ad gloriam animae, secundum illud Eccli. 24

    Sembra di sì. Infatti: l. La speranza nobilita l' appetito umano più delle virtù morali. Ora le virtù morali, come dimostra Agostino, rimangono dopo questa vita. A maggior ragione, quindi, rimane la speranza. 2. La speranza si contrappone al timore. Ma il timore dopo questa vita rimane: nei beati come timore filiale, che dura eternamente, e nei dan­ nati come timore delle pene. Quindi, per lo stesso motivo, può rimanere anche la speranza. 3. La speranza ha per oggetto un bene futuro, come il desiderio. Ma nei beati si trova il de­ siderio dei beni futuri: sia rispetto alla gloria del corpo, che le anime dei beati desiderano, come dice Agostino, sia rispetto alla gloria del l ' anima, secondo l ' espressione di Sir:

    [29], qui edunt me, ad/1Uc esurient, et qui bi­ bunt me, adhuc sitient; et l Petr. l [ 1 2] , dici­ tur, in quem desiderant angeli prospicere. Er­ go videtur quod possit esse spes post hanc vitam in beatis. Sed contra est quod apostolus dicit, Rom. 8 [24], quod videt quis, quid sperat? Sed beati vident id quod est obiectum spei, scilicet Deum. Ergo non sperant. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 3], id quod de ratione sui importat imper­ fectionem subiecti, non potest simul stare curo subiecto opposita perfectione perfecto. Sicut patet quod motus in ratione sui importat imperfectionem subiecti, est enim actus exi­ stentis in potentia, inquantum huiusmodi, unde quando illa potentia reducitur ad actum, iam cessat motus; non enim adhuc albatur, post­ quam iam aliquid factum est album. Spes autem importat motum quendam in id quod non habetur; ut patet ex his quae supra de passione spei diximus [q. 40 aa. 1-2]. Et ideo quando habebitur id quod speratur, scilicet divina fruitio, iam spes esse non poterit. Ad primum ergo dicendum quod spes est nobilior virtutibus moralibus quantum ad obiectum, quod est Deus. Sed actus virtutum moralium non repugnant perfectioni beatitu­ dinis, sicut actus spei; nisi forte ratione mate­ riae, secundum quam non manent. Non enim

    Quanti si nutrono di me avranno ancora fame, e quanti bevono di me avranno ancora sete; e in l Pt è detto: Cose che gli angeli desiderano fissare con lo sguardo. Perciò sembra che la spe­ ranza possa trovarsi

    nei beati dopo questa vita. In contrario: Paolo in Rm dice: Ciò che uno

    già vede, come potrebbe ancora sperar/o? Ma i beati vedono ciò che forma l' oggetto della speranza, cioè Dio. Quindi non sperano. Risposta: come sopra si è detto, ciò che impli­ ca nella sua nozione un'imperfezione del suo soggetto non può coesistere con un soggetto dotato della perfezione opposta. n moto, p. es., implica nella sua nozione un'imperfezione del proprio soggetto, essendo «l' atto di ciò che è in potenza in quanto è in potenza»; per cui quando questa potenza passa all' atto, il moto cessa: quando infatti una cosa è ormai bianca, l'imbiancatura finisce. Ora, la speranza impli­ ca un moto verso ciò che non si possiede, secondo le spiegazioni da noi date a proposito della passione della speranza. Perciò quando avremo ciò che speriamo, cioè la fruizione di Dio, non ci potrà più essere la speranza. Soluzione delle difficoltà: l . La speranza è più nobile delle virtù morali per il suo ogget­ to, che è Dio. Ma gli atti delle virtù morali, eccetto la loro materia che non sempre rima­ ne, non ripugnano, come gli atti della speran­ za, alla perfezione della beatitudine. Intàtti la virtù morale non nobilita l'appetito soltanto in

    Q. 67, A. 4

    La permanenza delle virtù dopo questa vita

    virtus moralis perficit appetitum solum in id quod nondum habetur; sed etiam circa id quod praesentialiter habetur. Ad secundum dicendum quod timor est duplex, servilis et filialis, ut infra [ll-ll q. 19 a. 2] dicetur. Servilis quidem est timor poenae, qui non poterit esse in gloria, nulla possibi­ litate ad poenam remanente. Timor vero fi­ lialis habet duos actus, scilicet revereri Deum, et quantum ad hunc actum manet; et timere separationem ab ipso, et quantum ad hunc actum non manet. Separari enim a Deo habet rationem mali, nullum autem malum ibi time­ bitur, secundum illud Prov. l [33], abundantia peifruetur, malorwn timore sublato. Timor autem opponitur spei oppositione boni et mali, ut supra [q. 23 a. 2; q. 40 a. l ] dictum est, et ideo timor qui remanet in gloria, non oppo­ nitur spei. - In damnatis autem magis potest esse timor poenae, quam in beatis spes glo­ riae. Quia in damnatis erit successio poena­ rum, et sic remanet ibi ratio futuri, quod est obiectum timoris, sed gloria sanctorum est absque successione, secundum quandam aeternitatis participationem, in qua non est praeteritum et futurum, sed solum praesens. Et tamen nec etiam in damnatis est proprie timor. Nam sicut supra [q. 42 a. 2] dictum est, timor nunquam est sine aliqua spe evasionis, quae omnino in damnatis non erit. Unde nec timor; nisi communiter loquendo, secundum quod quaelibet expectatio mali futuri dicitur timor. Ad tertium dicendum quod quantum ad glo­ riam animae, non potest esse in beatis deside­ rium, secundum quod respicit futurum, ratio­ ne iam [ad 2] dieta. Dicitur autem ibi esse esuries et sitis, per remotionem fastidii, et eadem ratione dicitur esse desiderium in an­ gelis. Respectu autem gloriae corporis, in ani­ mabus sanctorum potest quidem esse deside­ rium, non tamen spes, proprie loquendo, ne­ que secundum quod spes est virtus theolo­ gica, sic enim eius obiectum est Deus, non autem aliquod bonum creatum; neque secun­ dum quod communiter sumitur. Quia obiec­ tum spei est arduum, ut supra [q. 40 a. l ] dic­ tum est, bonum autem cuius iam inevitabilem causam habemus, non comparatur ad nos in ratione ardui. Unde non proprie dicitur aliquis qui habet argentum, sperare se habiturum aliquid quod statim in potestate eius est ut emat. Et similiter illi qui habent gloriam

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    ordine alle cose non ancora possedute, ma anche in ordine a quelle che attualmente si possiedono. 2. Il timore, come vedremo, è di due specie: servite e filiale. Quello servite è il timore della pena: e questo non ci potrà essere nella gloria, dove non esiste alcuna possibilità di pena. Invece il timore filiale ha due atti, cioè la riverenza verso Dio, e quanto a questo atto rimane, e la paura di separarsi da lui, e quanto a quest'altro atto non rimane. Infatti separarsi da Dio ha natura di male; ma di nessun male là si potrà temere, come è detto in Pr: Godrà

    nell'abbondanza, sicwv dal timore del male. Ora il timore, secondo le spiegazioni date, si oppone alla speranza in base all' antinomia tra bene e male: perciò il timore che rimane nella gloria non si contrappone alla speranza. - Nei dannati invece il timore della pena può trovar­ si più che la speranza della gloria nei beati. Poiché nei dannati ci sarà un succedersi di pene, e quindi rimane salva la nozione di cosa futura, oggetto dei timore; invece la gloria dei santi è senza successione, per una certa parte­ cipazione dell'eternità, nella quale non esiste il passato e il futuro, ma solo il presente. Tut­ tavia neppure nei dannati esiste propriamente il timore. Infatti il timore, come si è visto so­ pra, non esiste mai senza una qualche speran­ za di scampo: e questa nei dannati non ci può essere. Per cui non si può parlare di timore che in senso generale, nel senso cioè di una qualsiasi aspettativa di un male futuro. 3. Rispetto alla gloria dell' anima, nei beati non ci può essere il desiderio quanto al futuro, per la ragione accennata. Si dice comunque che vi sarà allora fame e sete per escludere la nausea; e per lo stesso motivo si parla di desi­ derio negli angeli. Invece quanto alla gloria del corpo nelle anime dei santi ci può essere il desiderio, ma non la speranza, propriamente parlando: né la speranza come virtù teologale, il cui oggetto è Dio e non un bene creato, né la speranza in senso ordinario. Poiché oggetto della speranza è il bene arduo, come si disse sopra: ora, un bene di cui possediamo già la causa indefettibile non si presenta più come cosa ardua. Per cui quando uno possiede il danaro occorrente non si dice che spera di possedere ciò che potrebbe subito comprare. Parimenti non si può dire con proprietà di lin­ guaggio che quanti hanno la gloria dell'anima

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    La permanenza delle virtù dopo questa vita

    Q. 67, A. 4

    animae, non proprie dicuntur sperare gloriam corporis; sed solum desiderare.

    sperano la gloria del corpo, ma solo che la desiderano.

    Articulus 5 Utrum aliquid fidei vel spei remaneat in gloria

    Articolo 5 Nella gloria resta qualcosa della fede o della speranza?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod aliquid fidei vel spei remaneat in gloria. l. Remoto enim eo quod est proprium, rema­ net id quod est commune, sicut dicitur in libro De causis [1], quod, remoto rationali, rema­ net vivum; et remoto vivo, remanet ens. Sed in fide est aliquid quod habet commune cum beatitudine, scilicet ipsa cognitio, aliquid autem quod est sibi proprium, scilicet aenig­ ma; est enim fides cognitio aenigmatica. Er­ go, remoto aenigmate fidei, adhuc remanet ipsa cognitio fidei. 2. Praeterea, fides est quoddam spirituale lu­ men animae, secundum illud Eph. l [ 1 7- 1 8],

    Sembra di sì. Infatti: l . Tolto ciò che è proprio, rimane l'elemento comune, come dice il De Causis: «Tolto il razionale rimane il vivente; e tolto il vivente, rimane l'ente». Ora, la fede ha qualcosa di comune con la beatitudine, cioè la conoscen­ za, e ha qualcosa di proprio, cioè l'enigma: infatti essa è una conoscenza enigmatica. Tolto quindi l'enigma della fede, ne rimane la conoscenza. 2. La fede è una luce spirituale dell'anima, secondo l'espressione di Ef Siano illuminati

    illuminatos oculos cordis veshi in agnitionem Dei; sed hoc lumen est imperfectum respectu

    gli occhi della vostra mente nella conoscenza di Dio; è però una luce imperfetta rispetto alla luce della gloria, di cui è scritto in Sal: Nella tua luce vediamo la luce. Ora una luce imper­

    luminis gloriae, de quo dicitur in Psalmo 35 [ 1 0], in lumine tuo videbimus lumen. Lumen autem imperfectum remanet, superveniente tu­ mine perfecto, non enim candela extinguitur, claritate solis superveniente. Ergo videtur quod ipsum lumen fidei maneat cum lumine gloriae. 3. Praeterea, substantia habitus non tollitur per hoc quod subtrahitur materia, potest enim homo habitum liberalitatis retinere, etiam amissa pecunia; sed actum habere non potest. Obiectum autem fidei est veritas prima non visa. Ergo, hoc remoto per hoc quod videtur veritas prima, adhuc potest remanere ipse habitus fidei. Sed contra est quod fides est quidam habitus simplex. Simplex autem vel totum tollitur, vel totum manet. Cum igitur fides non totaliter maneat, sed evacuetur, ut dictum est [a. 3]; videtur quod totaliter tollatur. Respondeo dicendum quod quidam dixerunt quod spes totaliter tollitur, fides autem partim tollitur, scilicet quantum ad aenigma, et par­ tim manet, scilicet quanntm ad substantiam cognitionis. Quod quidem si sic intelligatur quod maneat non idem numero, sed idem genere, verissime dictum est, fides enim cum visione patriae convenit in genere, quod est cognitio. Spes autem non convenit cum beati­ tudine i n genere, comparatur enim spes ad

    fetta, al giungere di quella perfetta, non si estingue: infatti la chiarezza del sole non spe­ gne la candela. Quindi anche la luce della fede rimane con la luce della gloria. 3. La sostanza di un abito non viene eliminata perché viene a mancare la materia: infatti uno può conservare l'abito della liberalità anche dopo aver perduto le ricchezze; non ne può invece avere l'atto. Ora, l'oggetto della fede è la prima verità nella condizione di cosa non vista. Tolta quindi questa condizione con la visione della prima verità, l'abito della fede può ancora rimanere. In contrario: la fede è un abito semplice. Ora, una realtà semplice o viene eliminata tutta, o rimane tutta. Siccome dunque la fede, stando a quanto detto, non rimane tutta intera, ma viene svuotata [di ciò che la caratterizza], vie­ ne a essere eliminata interamente. Risposta: alcuni hanno affermato che la spe­ ranza viene eliminata totalmente, mentre la fede in parte sarebbe tolta, cioè quanto all'e­ nigma, e in parte rimarrebbe, cioè quanto alla sostanza della conoscenza. Ora, se ciò viene inteso nel senso che la fede non rimane nella sua identità numerica, ma soltanto nel suo genere, è verissimo: poiché la fede coincide nel genere, che è la conoscenza, con la visione della patria. Invece la speranza non ha alcuna

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    La permanenza delle virtù dopo questa vita

    beatitudinis fruitionem, sicut motus ad quie­ tem in termino. - Si autem intelligatur quod eadem numero cognitio quae est fidei, maneat in patria; hoc est omnino impossibile. Non enim, remota differentia alicuius speciei, re­ manet substantia generis eadem numero, sicut, remota differentia constitutiva albedinis, non remanet eadem substantia coloris nume­ ro, ut sic idem numero color sit quandoque albedo, quandoque vero nigredo. Non enim comparatur genus ad differentiam sicut mate­ ria ad formam, ut remaneat substantia generis eadem numero, differentia remota; sicut re­ manet eadem numero substantia materiae, remota forma. Genus enim et differentia non sunt partes speciei, alioquin non praedicaren­ tur de specie. Sed sicut species significat to­ tum, idest compositum ex materia et forma in rebus materialibus, ita differentia significat totum, et similiter genus, sed genus denomi­ nat totum ab eo quod est sicut materia; dif­ ferentia vero ab eo quod est sicut forma; spe­ cies vero ab utroque. Sicut in homine sensiti­ va natura materialiter se habet ad intellecti­ vam, animai autem dicitur quod habet natu­ ram sensitivam; rationale quod habet intellec­ tivam; homo vero quod habet utrumque. Et sic idem totum significatur per haec tria, sed non ab eodem. - Unde patet quod, cum diffe­ rentia non sit nisi designativa generis, remota differentia, non potest substantia generis eadem remanere, non enim remanet eadem anirnalitas, si sit alia anima constituens ani­ mal. Unde non potest esse quod eadem nu­ mero cognitio, quae prius fuit aenigmatica, postea fiat visio aperta. Et sic patet quod nihil idem numero vel specie quod est in fide, re­ manet in patria; sed solum idem genere. Ad primum ergo dicendum quod, remoto rationali, non remanet vivum idem numero, sed idem genere, ut ex dictis [co.] patet. Ad secundum dicendum quod imperfectio luminis candelae non opponitur perfectioni solaris luminis, quia non respiciunt idem subiectum. Sed imperfectio fidei et perfectio gloriae opponuntur ad invicem, et respiciunt idem subiectum. Unde non possunt esse simul, sicut nec claritas aeris cum obscuritate eius. Ad tertium dicendum quod ille qui amittit pecuniam, non arnittit possibilitatem habendi pecuniam, et ideo convenienter remanet habitus liberalitatis. Sed in statu gloriae non

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    affinità generica con la beatitudine: infatti la speranza sta alla fruizione della beatitudine come il moto sta alla quiete nel suo termine. Se invece ciò viene inteso nel senso che la conoscenza della fede rimane numericamente identica nella patria, allora la tesi è del tutto insostenibile. Eliminando infatti la differenza di una specie, non può rimanere in concreto l 'identica sostanza del genere: togliendo, p. es., la differenza costitutiva della bianchezza, non può rimanere numericamente identica la sostanza del colore, così da permettere all'i­ dentico colore di essere alternativamente bian­ co e nero. n genere infatti non sta alla differen­ za come la materia alla forma, in modo cioè che la sostanza del genere rimanga numerica­ mente identica dopo l 'eliminazione della dif­ ferenza come rimane numericamente identica la sostanza della materia dopo aver perduto la forma. Infatti il genere e la differenza non so­ no parti integranti della specie: alttjmenti non si potrebbero predicare di essa. E invece il tutto, cioè il composto di materia e forma per gli esseri corporei, che come è indicato dalla specie, così è indicato anche dalla differenza e dal genere: il genere però denomina il tutto in base a ciò che si presenta come materia, la dif­ ferenza invece in base a ciò che si presenta co­ me forma; e la specie in base a entrambi gli aspetti. Nell' uomo, p. es., la natura sensitiva è come materiale rispetto a quella intellettiva: e quindi animale indica [nell' uomo] un essere dotato di natura sensitiva, razionale un essere dotato di natura intellettiva e uomo un essere dotato di entrambe le nature. Quindi il medesi­ mo tutto viene indicato da queste tre cose, non però sotto il medesimo aspetto. - Perciò è evi­ dente che non può rimanere la medesima sostanza del genere se viene eliminata la diffe­ renza, poiché la differenza non è altro che una specificazione del genere: infatti l 'animalità non rimane la stessa se l 'animale viene costi­ tuito da un'altra anima. Quindi è impossibile che una conoscenza numericamente identica, che prima era una conoscenza enigmatica, diventi in seguito un'aperta visione. E così risulta dimostrato che in patria la fede non può in alcun modo rimanere identica nel numero e nella specie, ma soltanto nel genere. Soluzione delle difficoltà: l . Tolto il razionale, il vivente che rimane non è identico nel nume­ ro, ma solo nel genere, come si è dimostrato.

    La permanenza delle virtù dopo questa vita

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    solum actu tollitur obiectum fidei, quod est non visum; sed etiam secundum possibilita­ tem, propter beatitudinis stabilitatem. Et ideo frustra talis habitus remaneret.

    Q. 67, A. 5

    2. L' imperfezione della luce di una candela non si contrappone alla perfezione della luce solare: poiché le due luci non risiedono nel medesimo soggetto. Invece l ' imperfezione della fede e la perfezione della gloria si contrappongono, e riguardano il medesimo soggetto. Quindi sono incompatibili, come sono incompatibili la lumi­ nosità dell' ruia e la sua oscurità. 3. Chi perde le ricchezze non perde la possi­ bilità di averne ancora: perciò giustamente ri­ mane l'abito della liberalità. Ma nello stato di gloria l ' oggetto della fede, formato di cose non viste, viene tolto non solo di fatto, ma an­ che come possibilità, data la durata perpetua della beatitudine. Perciò tale abito rimarrebbe inutilmente.

    Articulus 6

    Articolo 6

    Utrum remaneat caritas post hanc vitam in gloria

    Nella gloria, dopo questa vita, rimane la carità?

    Ad sextum sic proceditur. Videtur quod caritas non maneat post hanc vitam in gloria. l. Quia, ut dicitur l ad Cor. 1 3 [ 1 0] , cum

    Sembra di no. Infatti: l . In l Cor è detto: Quando verrà ciò che è peifetto, ciò che è impe1jetto scomparirà. Ma la carità dei viatori è imperfetta. Quindi finirà quando verrà la perfezione della patria. 2. Gli abiti e gli atti sono distinti secondo gli oggetti; ma l ' oggetto dell'amore è il bene co­ nosciuto: essendo quindi la conoscenza della vita presente diversa da quella della vita futu­ ra, sembra che la carità non possa essere iden­ tica nei due casi. 3. Se due realtà hanno la medesima natura, quella imperfetta può raggiungere la stessa per­ fezione di quella perfetta mediante un continuo aumento. Invece la carità dei viatori, per quan­ to aumenti, non potrà mai raggiungere l 'ugua­ glianza con la carità della patria Perciò sembra che la carità dei viatori non rimruTà in patria. In contrario: Paolo in l Cor dice: La carità

    venerit quod peifectum est, evacuabitur quod ex parte est, idest quod est imperfectum. Sed caritas viae est imperfecta. Ergo evacuabitur, adveniente perfectione gloriae. 2. Praeterea, habitus et actus distinguuntur se­ cundum obiecta. Sed obiectum amoris est bo­ num apprehensum. Cum ergo alia sit appre­ hensio praesentis vitae, et alia apprehensio fu­ turae vitae; videtur quod non maneat eadem caritas utrobique. 3. Praeterea, eorum quae sunt unius rationis, imperfectum potest venire ad aequalitatem perfectionis, per continuum augmentum. Sed caritas viae nunquam potest pervenire ad ae­ qualitatem caritatis patriae, quantumcumque augeatur. Ergo videtur quod caritas viae non remaneat in patria. Sed contra est quod apostolus dicit, l ad Cor. 1 3 [8], caritas nunquam excidit. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 3] dictum est, quando imperfectio alicuius rei non est de ratione speciei ipsius, nihil prohi­ bet idem numero quod prius fuit imperfec­ tum, postea perfectum esse, sicut homo per augmentum perficitur, et albedo per intensio­ nem. Caritas autem est amor; de cuius ratione non est aliqua imperfectio, potest enim esse et habiti et non habiti, et visi et non visi. Unde

    non avrà mai fine.

    Risposta: secondo le spiegazioni date, se l' im­ perfezione di una cosa non rientra nella sua natura specifica, nulla impedisce che un'enti­ tà numericamente identica, che prima era im­ perfetta, diventi in seguito perfetta: come l'uomo giunge alla perfezione con il suo svi­ luppo, e la bianchezza con la sua intensifica­ zione. Ora, la carità è amore, nella cui nozio­ ne non si trova imperfezione alcuna: infatti l' amore può avere per oggetto sia il bene pos­ seduto che quello non posseduto, sia quello

    Q. 67, A. 6

    La permanenza delle virtù dopo questa vita

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    caritas non evacuatur per gloriae perfectio­ nem, sed eadem numero manet. Ad primum ergo dicendum quod imperfectio caritatis per accidens se habet ad ipsam, quia non est de ratione amoris imperfectio. Remoto autem eo quod est per accidens, nihilominus remanet substantia rei. Unde, evacuata imper­ fectione caritatis, non evacuatur ipsa caritas. Ad secundum dicendum quod caritas non habet pro obiecto ipsam cognitionem, sic enim non esset eadem in via et in patria. Sed habet pro obiecto ipsam rem cognitam, quae est eadem, scilicet ipsum Deum. Ad terlium dicendum quod caritas viae per augmentum non potest pervenire ad aequali­ tatem caritatis patriae, propter differentiam quae est ex parte causae, visio enim est quae­ dam causa amoris, ut dicitur in 9 Ethic. [5,3]. Deus autem quanto perfectius cognoscitur, tanto perfectius amatur.

    visto che quello non visto. Perciò l a carità non verrà eliminata dalla perfezione della gloria, ma resterà sempre numericamente identica. Soluzione delle difficoltà: l . L'imperfezione è solo accidentale alla carità: poiché nella no­ zione dell'amore non rientra imperfezione al­ cuna. Ora, eliminando ciò che è accidentale, rimane pur sempre la sostanza di una cosa. Togliendo quindi l'imperfezione della carità non verrà eliminata la carità medesima. 2. La carità non ha per oggetto la conoscenza stessa, nel qual caso non potrebbe essere identica in via e in patria. Ha invece per og­ getto la stessa realtà conosciuta, che rimane identica, cioè Dio medesimo. 3. Se la carità dei viatori aumentando non può giungere a uguagliare la carità della patria beata, è a motivo della diversità della causa che interviene: come infatti nota Aristotele, la visione è una delle cause dell' amore. Ora, quanto più perfettamente Dio è conosciuto, tanto più perfettamente è amato.

    QUAESTI0 68 DE DONIS

    QUESTIONE 68 I DONI

    Consequenter considerandum est de donis. Et circa hoc quaeruntur octo. Primo, utrum dona differant a virtutibus. Secundo, de necessitate donorum. Tertio, utrum dona sint habitus. Quarto, quae, et quot sint. Quinto, utrum dona sint connexa. Sexto, utrum maneant in patria. Septimo, de comparatione eorum ad invicem. Octavo, de comparatione eorum ad virtutes.

    Passiamo ora a trattare dei doni. Su questo tema si possono considerare otto argomenti: l . I doni sono distinti dalle virtù? 2. La neces­ sità dei doni; 3. I doni sono abiti? 4. Quali e quanti sono? 5 . I doni sono connessi? 6. Rimangono nella patria? 7. Loro confronto reciproco; 8. Loro confronto con le virtù.

    Articulus l Utrum dona differant a virtutibus

    Articolo l I doni sono distinti dalle virtù?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod dona non distinguantur a virtutibus. l . Dicit enim Gregorius, in l Mor. [27], expo­ nens illud Iob [ 1 ,2], nati sunt ei septem filii: septem nobis nascunturfilii, cum per concep­ tionem bonae cogitationis, Sancti Spiritus septem in nobis virtutes oriuntur. Et inducit illud quod habelur Isaiae 1 1 [2-3], requiescet super eum spiritus intellectus etc., ubi enume­ rantur septem Spiritus Sancti dona. Ergo septem dona Spiritus Sancti sunt virtutes. 2. Praeterea, Augustinus dicit, in libro De quaestionibus Evangeliorum [ l q . 8 ] ,

    Sembra di no. Infatti: l. Gregorio, commentando il passo di Gb: Gli erano nati selle figli, dice: «Nascono a noi sette figli quando mediante la concezione di un pensiero buono sorgono in noi le sette virtù dello Spirito Santo». E riporta il passo di ls: Su di lui si poserà lo spirito di intelletto..., in cui sono enumerati i sette doni dello Spirito Santo. Quindi i sette doni dello Spirito Santo sono virtù. 2. Agostino, spiegando il passo di Mt: Allora va a prendere sette altri spiriti..., afferma: «l sette vizi sono contrari alle sette virtù dello Spirito

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    exponens illud quod habetur Matth. 1 2 [45], tunc vadit, et assumit septem alios spiritus etc.: septem vitia sunt contraria septem virtu­ tibus Spiritus Sancti, idest septem donis. Sunt autem septem vitia contraria virtutibus com­ muniter dictis. Ergo dona non distinguuntur a virtutibus communiter dictis. 3. Praeterea, quorum est definitio eadem, ipsa quoque sunt eadem. Sed definitio virtutis convenit donis, unumquodque enim donum est bona qualitas mentis qua recte vivitur, et cetera. Similiter definitio doni convenit virtutibus infusis, est enim donum datio irreddibilis, secundum philosophum [Top. 4,4, 1 2]. Ergo virtutes et dona non distinguuntur. 4. Praeterea, plura eorum quae enumerantur inter dona, sunt virtutes. Nam sicut supra [q. 57 a. 2] dictum est, sapientia et intellectus et scientia sunt virtutes intellectuales; consilium autem ad prudentiam pertinet; pietas autem species est iustitiae; fortitudo autem quaedam virtus est moralis. Ergo videtur quod virtutes non distinguantur a donis. Sed contra est quod Gregorius, l Mor. [27], distinguit septem dona, quae dicit significari per septem filios lob, a tribus virtutibus theologicis, quas dicit significari per tres filias lo b. Et in 2 M or. [49] , distingui t eadem septem dona a quatuor virtutibus cardinalibus, quae dicit significari per quatuor angulos domus. Respondeo dicendum quod, si loquamur de dono et virtute secundum nominis rationem, sic nullam oppositionem habent ad invicem. Nam ratio virtutis sumitur secundum quod perficit hominem ad bene agendum, ut supra [q. 55 aa. 3-4] dictum est, ratio autem doni sumitur secundum comparationem ad causam a qua est. Nihil autem prohibet illud quod est ab alia ut donum, esse perfectivum alicuius ad bene operandum, praesertim cum supra [q. 63 a. 3] dixerimus quod virtutes quaedam nobis sunt infusae a Deo. Unde secundum hoc, donum a virtute distingui non potest. Et ideo quidam posuerunt quod dona non essent a virtutibus distinguenda. Sed eis remanet non minor difficulta, ut scilicet rationem assignent quare quaedam virtutes dicantur dona, et non omnes; et quare aliqua computantur inter dona, quae non computantur inter virtutes, ut patet de timore. - Unde alii dixerunt dona a

    ! doni

    Q. 68, A. l

    Santo», cioè ai sette doni. Ora, i sette vizi sono contrari alle virtù comunemente dette. Perciò i doni non si distinguono dalle virtù comunemente dette. 3. Le cose che hanno l'identica definizione sono identiche realmente. Ma la definizione della virtù si addice ai doni: infatti ogni dono è «una buona qualità dell'anima, mediante la quale si vive rettamente», ecc. E parimenti la definizione del dono si addice alle virtù infu­ se: infatti il dono, al dire del Filosofo, è «ciò che si dà senza restituzione». Quindi le virtù e i doni non si distinguono. 4. La maggior parte di ciò che viene enume­ rato fra i doni appartiene alle virtù. Infatti, come sopra abbiamo detto, la sapienza, l'intelletto e la scienza sono virtù intellettuali; il consiglio poi appartiene alla prudenza, la pietà è tma specie della giustizia e la fortezza è una virtù morale. Perciò sembra che le virtù non siano distinte dai doni. In contrario: Gregorio distingue i sette doni, che raffigura nei sette figli di Giobbe, dalle tre virtù teologali, che egli vede adombrate nelle tre figlie di Giobbe. Inoltre distingue i mede­ simi sette doni dalle quattro virtù cardinali, che secondo lui sono indicate dai quattro angoli della casa. Risposta: se parliamo dei doni e delle virtù stando al significato del loro nome non vi tro­ viamo alcuna opposizione reciproca. Infatti la nozione di virtù è desunta dal fatto che essa potenzia l'uomo perché possa operare il bene, come si è già detto, mentre la nozione di dono è desunta dal rapporto con la causa da cui esso deriva. Ora, nulla impedisce che quanto deriva da altri come dono sia un potenzia­ mento di un dato essere sul piano operativo: specialmente se pensiamo che certe virtù sono infuse in noi da Dio, come si è visto. Perciò da questo lato i doni non si possono distinguere dalle virtù. Per cui alcuni pensaro­ no che i doni non dovessero venire distinti dalle virtù. Questi autori però devono scio­ gliere una non minore difficoltà: devono cioè spiegare come mai soltanto alcune virtù siano chiamate doni, e non tutte; e come mai siano computate fra i doni certe cose, come il timo­ re, che non sono computate fra le virtù. Perciò altri hanno affermato che i doni vanno distinti dalle virtù, ma non sono riusciti a tro-

    Q. 68, A. l virtutibus esse distinguenda; sed non assigna­ verunt convenientem distinctionis causam, quae scilicet ita communis esset virtutibus, quod nullo modo donis, aut e converso. Consi­ derantes enim aliqui quod, inter septem dona, quatuor pertinent ad rationem, scilicet sapien­ tia, scientia, intellectus et consilium; et tria ad vim appetitivam, scilicet fortitudo, pietas et timor; posuerunt quod dona perficiebant li­ berum arbitrium secundum quod est tacultas rationis, virtutes vero secundum quod est fa­ cultas voluntatis, quia invenerunt duas solas virtutes in ratione vel intellectu, scilicet fidem et prudentiam, alias vero in vi appetitiva vel affectiva. Oporteret autem, si haec distinctio esset conveniens, quod omnes virtutes essent in vi appetitiva, et omnia dona in ratione. Quidam vero, considerantes quod Gregorius dicit, in 2 Mor. [49], quod donum Spiritus

    Sancti, quod in mente sibi subiecta format temperantiam, prudentiam, iustitiam etfmtitu­ dinem; eandem mentem munit contra singula tentamenta per septem dona, dixerunt quod virtutes ordinantur ad bene operandum, dona vero ad resistendum tentationibus. Sed nec ista distinctio sufficit. Quia etiam virtutes tentatio­ nibus resistunt, inducentibus ad peccata, quae contrariantur virtutibus, unumquodque enim resistit naturaliter suo contrario. Quod praeci­ pue patet de caritate, de qua dicitur Cant. 8 [7],

    aquae multae non potuerunt extinguere ca­ ritatem. - Alii vero, considerantes quod ista dona traduntur in Scriptura secundum quod fuerunt in Christo, ut patet lsaiae 1 1 dixerunt quod virtutes ordinantur simpliciter ad bene operandum; sed dona ordinantur ad hoc ut per ea conformemur Christo, praecipue quantum ad ea quae passus est, quia in passione eius praecipue huiusmodi dona resplenduerunt. Sed hoc etiam non videtur esse sufficiens. Quia ipse Dominus praecipue nos inducit ad sui conformitatem secundum humilitatem et mansuetudinem, Matth. 1 1 [29], discite a me, quia mitis swn et humilis corde; et secundum caritatem, ut Ioan. 1 5 [ 1 2], diligatis invicem, sicut di/ed vos. Et hae etiam vittutes praecipue in passione Christi refulserunt. - Et ideo ad distinguendum dona a virtutibus, debemus sequi modum loquendi Scripturae, in qua no­ bis traduntur non quidem sub nomine dono­ rum, sed magis sub nomine spirituum, sic enim dicitur Isaiae 1 1 [2-3], requiescet super

    ! doni

    640 vare una causa plausibile della distinzione, cioè una qualità comune alle virtù e in nessun modo ai doni, o viceversa. Infatti alcuni, con­ siderando che fra i sette doni quattro appar­ tengono alla ragione, cioè l a sapienza, la scienza, l ' intelletto e il consiglio, e tre alle potenze appetitive, cioè la fortezza, la pietà e il timore, sostennero che i doni rafforzerebbe­ ro i l l ibero arbitrio i n quanto facoltà della ragione, le virtù invece lo potenzierebbero in quanto facoltà della volontà: poiché per costoro due sole sarebbero le virtù della ragione o intelletto, cioè la fede e la prudenza, mentre le altre si troverebbero nelle potenze appetitive o affettive. Ma se questa distinzione avesse valore bisognerebbe che tutte le virtù si trovassero nelle potenze appetitive, e tutti i doni nella ragione. - Alni invece, consideran­ do l' affermazione di Gregorio, per i l quale «il dono dello Spirito Santo, che nell'anima a lui soggetta forma la temperanza, la pruden­ za, la giustizia e la fortezza, la difende poi con i sette doni contro le varie tentazioni», affer­ marono che le virtù sono ordinate a ben ope­ rare, i doni invece a resistere alle tentazioni. Ma questa distinzione non basta. Poiché an­ che le virtù resistono alle tentazioni contrarie, che inducono al peccato: infatti ogni cosa per natura fa resistenza al suo contrario. Il che è evidente specialmente nella carità, di cui in Ct è detto: Le grandi acque non poterono spe­ gnere l'amore. - Altri ancora, osservando che questi doni sono nominati dalla Scrittura in quanto esistenti in Cristo - come è chiaro da Is - sostennero che le virtù sarebbero ordinate semplicemente a ben operare, mentre i doni sarebbero ordinati a conformarci a Cristo, specialmente nelle sue sofferenze: poiché specialmente nella sua passione risplendettero tali doni. Ma anche questo non basta. Poiché il Signore stesso ci esorta a imitarlo special­ mente nel l ' umiltà e nella mansuetudine, come è detto in Mt: Imparate da me, che sono mite e umile di cuore; e nella carità, come è detto in Gv: Che vi amiate gli uni gli altri, co­ me io vi ho amato. E anche queste virtù ri­ fulsero in maniera particolare nella passione di Cristo. Per distinguere quindi i doni dalle virtù dobbiamo seguire il modo di esprimersi della Scrittura, dalla quale essi ci vengono pre­ sentati non sotto il nome di doni, ma piuttosto sotto quello di spiriti: così infatti è detto in /s:

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    / doni

    Q. 68, A. l

    eum spiritus sapientiae et intellectus, et cetera. Ex quibus verbis manifeste datur intelligi quod ista septem enumerantur ibi, secundum quod sunt in nobis ab inspiratione divina Inspiratio autem significar quandam motionem ab exte­ riori. Est enim considerandum quod in homine est duplex principium movens, unum quidem interius, quod est ratio; aliud autem extetius, quod est Deus, ut supra [q. 9 aa. 4.6] dictum est; et etiam philosophus hoc dicit, in cap. De bona fortuna [cf. Eth. Eud. 7 , 1 4,20] . - Ma­ nitestum est autem quod ornne quod movetur, necesse est proportionatum esse motori, et haec est perfectio mobilis inquantum est mo­ bile, dispositio qua disponitur ad hoc quod bene moveatur a suo motore. Quanto igitur movens est altior, tanto necesse est quod mobi­ l e perfectiori dispositione ei proportionetur, sicut videmus quod perfectius oportet esse discipulum dispositum, ad hoc quod altiorem doctrinam capiat a docente. Manifestum est autem quod virtutes humanae perficiunt homi­ nem secundum quod homo natus est moveri per rationem in his quae intetius vel exterius agit. Oportet igitur inesse homini altiores per­ fectiones, secundum quas sit dispositus ad hoc quod divinitus moveatur. Et istae perfectiones vocantur dona, non solum quia infunduntur a Deo; sed quia secundum ea homo disponitur ut efficiatur prompte mobilis ab inspiratione divina, sicut dicitur Isaiae 50 [5] , Dominus

    Su di lui si poserà lo spirito... di sapienza e di intelligenza . . . Da tali parole si può capire

    aperuit mihi aurem; ego autem non contradi­ co, retrorsum non abii. Et philosophus etiam

    aperto l'orecchio e io non ho opposto resi­ stenza, non mi sono tirato indietro. E il Filo­

    dicit, in cap. De bona fortuna [cf. Eth. Eud. 7, 1 4,22], quod his qui moventur per instinctum divinum, non expedit consiliari secundum ra­ tionem humanam, sed quod sequantur interio­ rem instinctum, quia moventur a meliori prin­ cipio quam sit ratio humana. Et hoc est quod quidam dicunt, quod dona perficiunt hominem ad altiores actus quam sint actus virtutum. Ad ptimum ergo dicendum quod huiusmodi dona nominantur quandoque virtutes, secun­ dum communem rationem virtutis. Habent tamen aliquid supereminens rationi communi virtutis, inquantum sunt quaedam divinae vir­ tutes, perficientes hominem inquantum est a Deo motus. Unde et philosophus, in 7 Ethic. [ 1 , 1 ], supra virtutem communem ponit quan­ dam virtutem heroicam vel divinam, secun­ dum quam dicuntur aliqui divini viri. Ad secundum dicendum quod vitia, inquan-

    sofo stesso notava che coloro i quali sono mossi per istinto divino non hanno bisogno di deliberare secondo la ragione umana, ma devono seguire l'istinto interiore: poiché sono mossi da un principio superiore alla ragione umana. E questa è la tesi di chi afferma che i doni abilitano l'uomo ad atti più nobili degli atti dovuti alle virtù. Soluzione delle difficoltà: l . I suddetti doni talora sono denominati virtù, secondo la nozio­ ne generica di virtù. Essi però hanno delle par­ ticolarità superioti al concetto comune di virtù, per il fatto che sono delle virtù divine predispo­ nenti l'uomo alla mozione di Dio. Per cui lo stesso Filosofo al di sopra della virtù comune pone una virtù «eroica» o «divina», in forza della quale alcuni sono detti «uomini divini». 2. I vizi in quanto contrastano col bene della ragione sono contrari alle virtù, ma in quanto

    facilmente che queste sette cose sono qui enu­ merate come conferite a noi per ispirazione divina. Ora, l' ispirazione indica sempre una mozione dall' esterno. Si deve infatti ricordare che nell'uomo si danno due princìpi di moto: il primo interiore, che è la ragione, il secondo esteriore, che è Dio, come si disse sopra: e ciò è affermato anche dal Filosofo. - Ora, è evi­ dente che quanto viene mosso deve essere proporzionato al suo motore; e la disposizio­ ne a essere ben mosso dal proprio motore è la perfezione del mobile come tale. Perciò, quanto più alta è la causa movente, tanto più si esige che il soggetto mobile gli sia propor­ zionato con una disposizione più perfetta: vediamo infatti che più alta è la dottrina da apprendere e più perfettamente il discepolo deve essere preparato. Ora, è evidente che le v i rtù umane potenziano l ' uomo [solo] i n quanto è fatto per assecondare la mozione della ragione nei suoi atti interni ed esterni. Perciò è necessario che esistano nell'uomo perfezioni più alte, in modo che egli sia da esse predisposto alla mozione divina. E que­ ste perfezioni sono chiamate doni: non solo perché vengono infusi da Dio, ma anche per­ ché da essi l'uomo viene disposto ad assecon­ dare con prontezza le ispirazioni divine, secondo l'espressione di /s: Il Signore mi ha

    Q. 68, A. l

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    ! doni

    tum sunt contra bonum rationis, contrariantur virtutibus, inquantum autem sunt contra divi­ num instinctum, contrariantur donis. Idem enim contrariatur Deo et rationi, cuius lumen a Deo derivatur. Ad tertium dicendum quod definitio illa datur de virtute secundum communem modum vir­ tutis. Unde si volumus definitionem restringe­ re ad virtutes prout distinguuntur a donis, di­ cemus quod hoc quod dicitur, qua recte vivi­ tur, intelligendum est de rectitudine vitae quae accipitur secundum regulam rationis. Si­ militer autem donum, prout distinguitur a vir­ tute infusa, potest dici id quod datur a Deo in ordine ad motionem ipsius; quod scilicet facit hominem bene sequentem suos instinctus. Ad quartum dicendum quod sapientia dicitur intellectualis virtus, secundum quod procedit ex i udicio rationis, dicitur autem donum, secundum quod operatur ex instinctu divino. Et similiter dicendum est de aliis.

    contrastano con l ' ispirazione divina sono con­ trari ai doni. Infatti ciò che è contrario a Dio è contrario anche alla ragione, il cui lume deri­ va da Dio. 3. La definizione suddetta spetta alla virtù nella sua accezione comune. Se quindi vo­ gliamo restringere la definizione alle sole vir­ tù in quanto distinte dai doni, diremo che l'e­ spressione «mediante la quale si vive retta­ mente» va intesa della vita condotta secondo la regola della ragione. E parimenti possiamo dire che il dono, come distinto dalla virtù infusa, è quanto viene dato da Dio in ordine alla sua stessa mozione, cioè quanto rende l'uomo ben disposto a seguime gli impulsi. 4. La sapienza è una virtù intellettuale in quanto procede da un giudizio della ragione, ma è un dono in quanto opera sotto l' ispirazio­ ne divina. E lo stesso si dica degli altri doni.

    Articulus 2 Utrum dona sint necessaria homini ad salutem

    Articolo 2 I doni sono necessari ali 'uomo per salvarsi?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod dona non sint necessruia homini ad salutem. l . Dona enim ordinantur ad quandam perfec­ tionem ultra communem perfectionem virtu­ tis. Non autem est homini necessarium ad sa­ lutem ut huiusmodi perfectionem consequatur, quae est ultra communem statum virtutis, quia huiusmodi perfectio non cadit sub praecepto, sed sub consilio. Ergo dona non sunt necessa­ ria homini ad salutem. 2. Praeterea, ad salutem hominis sufficit quod homo se bene habeat et circa divina et circa humana. Sed per virtutes theologicas homo se habet bene circa divina; per virtutes autem morales, circa humana. Ergo dona non sunt homini necessaria ad salutem. 3. Praeterea, Gregorius dicit, in 2 Mor. [49], quod Spiritus Sanctus dat sapientiam contra

    Sembra di no. Infatti: l. I doni sono ordinati a una perfezione supe­ riore alla comune petfezione delle virtù. Ora, per salvarsi non è necessario all' uomo il con­ seguimento di una simile perfezione, che sor­ passa lo stato comune delle virtù, poiché tale perfezione non è di precetto, ma solo di con­ siglio. Quindi i doni non sono necessari al­ l'uomo per salvarsi. 2. Per la salvezza basta che un uomo sia ben disposto rispetto alle cose divine e a quelle umane. Ma l' uomo è ben disposto rispetto al­ le cose divine mediante le virtù teologali, e ri­ spetto a quelle umane mediante le virtù mo­ rali. Perciò i doni non sono necessari all' uo­ mo per la salvezza. 3. Gregorio insegna che «lo Spirito Santo do­ na la sapienza contro la stoltezza, I' intelletto contro l'ottusità, il consiglio contro la precipi­ tazione, la fortezza contro il timore, la scienza contro I' ignoranza, la pietà contro la durezza, il timore contro la superbia». Ma a togliere tutti questi mali bastano le virtù. Quindi i doni non sono necessari all'uomo per salvarsi. In contrario: tra i doni il più alto è la sapienza e i l più basso i l timore. Ora, sia l ' uno che

    stultitiam, intellectum contra hebetudinem, consilium contra praecipitationem, fortitudi­ nem contra timorem, scientiam contra igno­ rantiam, pietatem contra duritiam, timorem contra superbiam. Sed sufficiens remedium potest adhiberi ad omnia ista tollenda per vir­ tutes. Ergo dona non sunt necessaria homini ad salutem.

    643 Sed contra, inter dona summum videtur esse sapientia, infimum autem timor. Utrumque autem horum necessarium est ad salutem, quia de sapientia dicitur, Sap. 7 [28], neminem di­

    ligit Deus nisi eum qui cum sapientia inhabi­ tat, et de timore dicitur, Eccli. l [28], qui sine timore est, non poterit iustificari. Ergo etiam alia dona media sunt necessaria ad salutem. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1 ] , dona sunt quaedam hominis perfectio­ nes, quibus homo disponitur ad hoc quod be­ ne sequatur instinctum divinum. Unde in his in quibus non sufficit instinctus rationis, sed est necessarius Spiritus Sancti instinctus, per consequens est necessarium donum. - Ratio autem hominis est perfecta dupliciter a Deo, primo quidem, naturali perfectione, scilicet secundum lumen naturale rationis; alio modo, quadam supematurali perfectione, per virtutes theologicas, ut dictum est supra [q. 62 a. 1 ] . E t quamvis haec secunda perfectio sit maior quam prima, tamen prima perfectiori modo habetur ab homine quam secunda, nam prima habetur ab homine quasi piena possessio, se­ cunda autem habetur quasi imperfecta; imper­ fecte enim diligimus et cognoscimus Deum. Manifestum est autem quod unumquodque quod perfecte habet naturam vel formam aliquam aut vittutem, potest per se secundum illam operari, non tamen exclusa operatione Dei, qui in omni natura et voluntate interius operatur. Sed id quod imperfecte habet natu­ ram aliquam vel formam aut virtutem, non potest per se operari, nisi ab altero moveatur. Sicut sol, quia est perfecte lucidus, per sei­ psum potest illuminare, luna autem, in qua est imperfecte natura lucis, non illuminat nisi il­ luminata. Medicus etiam, qui perfecte novit artem medicinae, potest per se operari, sed di­ scipulus eius, qui nondum est piene instructus, non potest per se operari, nisi ab eo instruatur. Sic igitur quantum ad ea quae subsunt hu­ manae rationi, in ordine scilicet ad tinem con­ naturalem homini, homo potest operari per iudicium rationi s . S i tamen etiam in hoc homo adiuvetur a Deo per speci al e m instinctum, hoc erit superabundantis bonitatis, unde secundum philosophos [Artist., Ethic. 7, 1 , 1 ; Albertus Magnus, In Ethic. 7, 1 , 1], non quicumque habebat vittutes morales acquisi­ tas, habebat virtutes heroicas vel divinas. Sed in ordine ad finem ultimum supematuralem,

    / doni

    Q. 68, A. 2 l ' altro sono necessari per salvarsi , poiché della sapienza è detto in Sap: Dio non ama se non chi vive con la sapienza; e del timore è detto in Sir: Chi è senza timore non potrà es­ sere giustificato. Perciò anche gli altri doni intermedi sono necessari per salvarsi. Risposta: come si è detto, i doni sono perfe­ zioni mediante le quali l'uomo viene predi­ sposto ad assecondare l ' ispirazione divina. Perciò nelle cose in cui non bastano i suggeri­ menti della ragione, ma si richiedono quelli del­ lo Spirito Santo, i doni sono indispensabili. Ora, la ragione umana viene condotta da Dio alla perfezione in due modi: primo, con una perfezione naturale, cioè mediante la luce nantrale della ragione; secondo, con una per­ fezione soprannaturale, mediante le virtù teo­ logali, come sopra si è spiegato. E sebbene questa seconda perfezione sia superiore alla prima, tuttavia la prima è posseduta dall'uo­ mo più perfettamente della seconda: poiché della prima egli ha come il pieno possesso, della seconda invece ha un possesso imperfet­ to: infatti noi conosciamo e amiamo Dio im­ perfettamente. Ora, è evidente che ogni essere che possieda perfettamente una natura, o una forma, o una virtù, può agire da se stesso in conformità con essa: senza escludere però l'azione di Dio, il quale opera interiormente in ogni natura e volontà. Invece l'essere che possiede imperfettamente una natura o una forma o una virtù non può agire da se stesso senza una mozione esterna. Come i l sole, essendo perfettamente luminoso, può illumi­ nare da se stesso, mentre la luna, in cui la luce è in uno stato imperfetto, non illumina se non è illuminata. E così pure il medico che cono­ sce perfettamente l' arte medica può agire da se stesso, mentre un suo allievo che non è pie­ namente istruito non può agire da se stesso se non è guidato da lui. - Così dunque, rispetto alle cose soggette alla ragione umana, cioè in ordine al suo fine connaturale, l 'uomo può agire mediante il giudizio della ragione. Che se poi anche in questo ambito un uomo viene aiutato da Dio con un'ispirazione speciale, ciò è dovuto a una sovrabbondanza della bontà divina: infatti, secondo i filosofi, non tutti quelli che hanno le virtù morali acquisite hanno le virtù eroiche o divine. In ordine al fine soprannaturale invece, verso cui muove la ragione in quanto è in certo qual modo e

    ! doni

    Q. 68, A. 2 ad quem ratio movet secundum quod est aliqualiter et imperfecte formata per virtutes theologicas, non sufficit ipsa motio rationis, nisi desuper adsit instinctus et motio Spiritus Sancti, secundum illud Rom. 8 [ 14- 1 7], qui

    Spiritu Dei aguntur, hifilii Dei sunt; et si filii, et haeredes, et in Psalmo 142 [ I O] dicitur, Spiritus tuus bonus deducet me in terram rec­ tam; quia scilicet in haereditatem illius terrae beatorum nullus potest pervenire, nisi movea­ tur et deducatur a Spiritu Sancto. Et ideo ad illum finem consequendum, necessarium est homini habere donum Spiritus Sancti. Ad primum ergo dicendum quod dona exce­ dunt communem perfectionem virtutum, non quantum ad genus operum, eo modo quo con­ silia excedunt praecepta, sed quantum ad mo­ dum operandi, secundum quod movetur ho­ mo ab altiori principio. Ad secundum dicendum quod per virtutes theologicas et morales non ita perticitur homo i n ordine ad ultimum finem, quin semper indigeat moveri quodam superiori instinctu Spiritus Sancti, ratione iam [co.] dieta. Ad tertium dicendum quod rationi humanae non sunt omnia cognita, neque omnia possibi­ lia, sive accipiatur ut perfecta perfectione naturali, sive accipiatur ut perfecta theologicis virtuti bus. Unde non potest quantum ad omnia repellere stultitiam, et alia huiusmodi, de quibu s ibi fit mentio. Sed Deus cuius scientiae et potestati ornnia subsunt, sua mo­ tione ab omni stultitia et ignorantia et hebetu­ dine et duritia et ceteris huiusmodi, nos tutos reddit. Et ideo dona Spiritus Sancti, quae faciunt nos bene sequentes instinctum ipsius, dicuntur contra huiusmodi defectus dari. Articulus

    3

    644 imperfettamente formata dalle virtù teologali, non basta la mozione della ragione stessa senza l'ispirazione e la mozione dello Spirito Santo, secondo le parole di Rm: Tutti quelli

    che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio; ... e se figli anche eredi; e nel Sal è detto: Il tuo Spirito buono mi guidi in terra piana: poiché nessuno può consegui­ re l 'eredità di quella terra dei beati senza la mozione e la guida dello Spirito Santo. E così per conseguire quel tine è necessario che l'uomo abbia i doni dello Spirito Santo. Soluzione delle difficoltà: l . I doni sorpassa­ no la comune perfezione delle virtù non per il genere delle opere, cioè non come i consigli sorpassano i precetti, ma per il modo di agire, il quale deriva da un pdncipio più alto. 2. Per la ragione già data, le virtù teologali e morali non possono mai portare l' uomo a una perfezione in ordine all' ultimo fine tale per cui non vi sia più bisogno di un'ispirazione dello Spirito Santo. 3. La ragione umana non è in grado né di conoscere né di compiere tutte le cose, sia che la si consideri perfetta secondo la perfezione naturale, sia che la si consideri perfetta secon­ do le virtù teologal i. Essa quindi non è in grado di respingere sempre la stoltezza e gli altri difetti ricordati da Gregorio. Dio invece, alla cui scienza e al cui potere tutte le cose sono soggette, con la sua mozione ci rende immuni da ogni stoltezza, ignoranza, ottusità, durezza, e da tutti gli altri difetti. Perciò si di­ ce che i doni dello Spirito Santo, i quali ci rendono pronti ad assecondare i suoi impulsi, sono dati contro questi difetti.

    Articolo

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    Utrum dona Spiritus Sancti sint habitus

    I doni dello Spirito Santo sono abiti?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod dona Spiritus Sancti non sint habitus. l . Habitus enim est qualitas in homine ma­ nens, est enim qualitas difficile mobilis, ut di­ citur in Praed. [6,4]. Sed proprium Christi est quod dona Spiritus Sancti in eo requiescant, ut dicitur Isaiae I l [2-3]. Et Ioan. l [33], dicitur,

    Sembra di no. Intàtti: l . L' abito è una qualità stabile nell'uomo: poiché, come dice Aristotele, è «una qualità difficilmente amovibile». Ora, è una preroga­ tiva di Cristo possedere stabilmente i doni dello Spirito Santo, secondo le parole di /s. E in Gv è detto: L'uomo sul quale vedrai scen­ dere e rimanere lo Spirito, è colui che battez­ za; parole che Gregorio così commenta: «In tutti i fedeli viene lo Spirito Santo, ma soltan­ to nel Mediatore rimane sempre i n modo sin-

    super quem videris Spiritum descendentem, et manentem super eum, hic est qui baptizat, quod exponens Gregorius, i n 2 Mor. [56], dicit, in cunctis fidelibus Spiritus Sanctus

    645

    venit; sed in solo mediatore semper singulari­ ter permanet. Ergo dona Spiritus Sancti non sunt habitus. 2. Praeterea, dona Spiritus Sancti pertìciunt hominem secundum quod agitur a Spiritu Dei, sicut dictum est [aa. 1-2]. Sed inquantum homo agitur a Spiritu Dei, se habet quodam­ modo ut instrumentum respectu eius. Non autem convenit ut instrumentum perficiatur per habitum, sed principale agens. Ergo dona Spiritus Sancti non sunt habitus. 3. Praeterea, sicut dona Spiritus Sancti sunt ex inspiratione divina, ita et donum prophetiae. Sed prophetia non est habitus, non enim semper spiritus prophetiae adest prophetis, ut Gregorius dicit, in l homilia Ezechielis. Ergo neque etiam dona Spiritus Sancti sunt habitus. Sed contra est quod Dominus dicit discipulis, de Spiritu Sancto loquens, Ioan. 14 [ 1 7], apud vos manebit, et in vobis erit. Spiritus autem Sanctus non est in hominibus absque donis eius. Ergo dona eius manent in horninibus. Ergo non solum sunt actus vel passiones, sed etiam habitus permanentes. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1 ], dona sunt quaedam perfectiones homi­ nis, quibus disponitur ad hoc quod homo bene sequatur instinctum Spiritus Sancti. Manife­ stum est autem ex supradictis [q. 58 a. 2] quod virtutes morales perficiunt vim appetitivam secundum quod participat aliqualiter ratio­ nem, inquantum scilicet nata est moveri per imperium rationis. Hoc igitur modo dona Spi­ ritus Sancti se habent ad hominem in compa­ ratione ad Spiritum Sanctum, sicut virtutes morales se habent ad vim appetitivam in comparatione ad rationem. Virtutes autem morales habitus quidam sunt, quibus vires ap­ petitivae disponuntur ad prompte obediendum rationi. Unde et dona Spiritus Sancti sunt quidam habitus, quibus homo perficitur ad prompte obediendum Spiritui Sancto. Ad primum ergo dicendum quod Gregorius ibidem [Mor. 2,56] solvit, dicens quod in illis

    donis sine quibus ad vitam perveniri non potest, Spiritus Sanctus in electis omnibus semper manet, sed in aliis non semper manet. Septem autem dona sunt necessaria ad salu­ tem, ut dictum est [a. 2]. Unde quantum ad ea, Spiritus Sanctus semper manet in sanctis. Ad secundum dicendum quod ratio i l l a procedit de instrumento cuius non est agere,

    / doni

    Q. 68, A. 3

    golare». Quindi i doni dello Spirito Santo non sono abiti. 2. Si è detto che i doni dello Spirito Santo predispongono immediatamente l'uomo a su­ bire l'impulso dello Spirito di Dio. Ma l'uo­ mo, in quanto subisce l'impulso dello Spirito di Dio, rispetto a lui è come uno strumento. Ora, non si richiede che sia lo strumento, bensì l'agente principale a essere predisposto mediante un abito. Perciò i doni dello Spirito Santo non sono abiti. 3. Come sono dovuti all'ispirazione divina i doni, così lo è anche il dono della profezia. Ma la profezia non è un abito: infatti, come dice Gregorio, «non sempre lo spirito di pro­ fezia si trova nei profeti». Quindi neppure i doni dello Spirito Santo sono abiti. In contrario: il Signore disse (in Gv) ai suoi discepoli, parlando dello Spirito Santo : Dimorerà presso di voi, e sarà in voi. Ma lo Spirito Santo non viene a stare in un uomo senza i suoi doni. Perciò i suoi doni rimango­ no nell'uomo. Quindi non sono soltanto atti o passioni, ma anche abiti permanenti. Risposta: abbiamo detto che i doni sono delle perfezioni che dispongono l'uomo a ben asse­ condare gli impulsi dello Spirito Santo. Ora è evidente, in base alle spiegazioni date in pre­ cedenza, che le virtù morali costituiscono la perfezione delle potenze appetitive in quanto queste partecipano in qualche modo della ragione, cioè in quanto sono fatte per asse­ condarne il comando. Così dunque il rapporto che i doni hanno con l'uomo nei confronti dello Spirito Santo è analogo a quello che le virtù morali hanno con le potenze appetitive nei confronti della ragione. Ma le virtù morali sono abiti che predispongono le potenze appetitive a obbedire prontamente alla ragio­ ne. Perciò anche i doni dello Spirito Santo sono abiti che servono a predisporre l'uomo a obbedire prontamente allo Spirito Santo. Soluzione delle difficoltà: l . La difficoltà è risolta da Gregorio stesso, il quale aggiunge che «lo Spirito Santo rimane sempre in tutti gli eletti con quei doni senza dei quali non si può giungere alla vita; mentre non rimane sempre con gli altri». Ora, come si è spiegato, i sette doni sono necessari per la salvezza. Quindi lo Spirito Santo rimane sempre con essi nei santi. 2. L'argomento vale per gli strumenti che non hanno la capacità di operare, ma solo quella

    ! doni

    Q. 68, A. 3 sed salurn agi. Tale autem instrumentum non est homo; sed sic agitur a Spiritu Sancto, quod etiam agit, inquantum est liberi arbitrii. Unde indiget habitu. Ad tertium dicendum quod prophetia est de donis quae sunt ad manifestationem Spiritus, non autem ad necessitatem salutis. Unde non est simile. Articulus

    4

    646 di essere adoperati. Ora, l'uomo non è uno strumento di questo genere, poiché lo Spirito Santo lo muove in maniera da farlo anche operare, in quanto è dotato di libero arbitrio. Perciò ha bisogno di abiti [operativi] . 3. La profezia è uno dei doni ordinati alla manifestazione dello Spirito, ma non necessa­ ri alla salvezza. Perciò il confronto non regge. Articolo

    4

    Utrum convenienter septem dona Spiritus Sancti enumerentur

    È esatta l'enumerazione dei sette doni

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod inconvenienter septem dona Spiritus Sancti enumerentur. l . In illa enim enumeratione ponuntur quatuor pertinentia ad virtutes intellectuales, scilicet sapientia, intellectus, scientia et consilium, quod pertinet ad prudentiam, nihil autem ibi ponitur quod pertineat ad artem, quae est quinta virtus intellectualis. Similiter etiam ponitur aliquid pertinens ad iustitiam, scilicet pietas, et aliquid pertinens ad fortitudinem, scilicet donum fortitudinis, nihil autem poni­ tur ibi pertinens ad temperantiam. Ergo insuf­ ficienter enumerantur dona. 2. Praeterea, pietas est pars iustitiae. Sed circa fortitudinem non ponitur aliqua pars eius, sed ipsa fortitudo. Ergo non debuit poni pietas, sed ipsa iustitia. 3. Praeterea, virtutes theologicae maxime or­ dinant nos ad Deum. Cum ergo dona perfi­ ciant hominem secundum quod movetur a Deo, videtur quod debuissent poni aliqua dona pertinentia ad theologicas virtutes. 4. Praeterea, sicut Deus timetur, ita etiam ama­ tur, et in ipsum aliquis sperat, et de eo delec­ tatur. Amor autem, spes et delectatio sunt pas­ siones condivisae timori. Ergo, sicut timor po­ nitur donum, ita et alia tria debent poni dona 5 . Praeterea, intellectui adiungitur sapientia quae regit ipsum; fortitudini autem consilium, pietati vero scientia. Ergo et timori debuit addi aliquod donum directivum. Inconvenienter ergo septem dona Spiritus Sancti enumerantur. Sed in contrarium est auctoritas Scripturae, Isaiae I l [2-3] . Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 3], dona sunt quidam habitus perficientes hominem ad hoc quod prompte sequatur instinctum Spiritus Sancti, sicut virtutes mo-

    Sembra di no. Infatti: l . In questa enumerazione troviamo quattro doni riguardanti le virtù intellettuali, cioè la sapienza, l'intelletto, la scienza e il consiglio, il quale ultimo appartiene alla prudenza, ma non troviamo nulla che ti guardi l ' arte, che pure è la quinta virtù intellettuale. Parimenti vi si trova un dono che appartiene alla giusti­ zia, cioè la pietà, e uno che riguarda la fortez­ za, ossia il dono della fortezza, ma non trovia­ mo nulla che riguardi la temperanza. Quindi l'enumerazione dei doni è insufficiente. 2. La pietà è una parte della giustizia. Ma per la fortezza non troviamo una sua patte, bensì la fortezza medesima. Quindi non si doveva porre la pietà, bensì la giustizia medesima. 3. Le virtù teologali sono quelle che più ci ordinano a Dio. Siccome dunque i doni predi­ spongono l' uomo alla mozione di Dio, non doveva mancare nell' elenco qualche dono appartenente alle virtù teologali. 4. Dio non solo è temuto, ma è anche oggetto di amore, di speranza e di godimento. Ora l'amore, la speranza e il godimento sono pas­ sioni che rientrano con il timore in un'unica suddivisione. Perciò anche queste tre cose dovevano essere enumerate fra i doni, come il timore. 5. All'intelletto viene affiancata la sapienza, che lo dirige, alla fortezza il consiglio, alla pietà la scienza. Quindi anche al timore biso­ gnava affiancare un dono direttivo. Perciò l ' enumerazione dei sette doni dello Spirito Santo non è esatta. In contrario: sta l' autorità della sacra Scrittura di /s i i . Risposta: i doni sono abiti che predispongono l'uomo a seguire prontamente le ispirazioni dello Spirito Santo, come le virtù morali pre-

    dello Spirito Santo?

    647 rales perficiunt vires appetitivas ad obedien­ dum ration i . Sicut autem vires appetitivae natae sunt moveri per imperium rationis, ita omnes vires humanae natae sunt moveri per instinctum Dei, sicut a quadam superiori po­ tentia. Et ideo in omnibus viribus hominis quae possunt esse principia humanorum actuum, sicut sunt virtutes, ita etiam sunt dona, scilicet in ratione, et in vi appetitiva. - Ratio autem est speculativa et practica, et in utraque consideratur apprehensio veritatis, quae per­ tinet ad inventionem; et iudicium de veritate. Ad apprehensionem igitur veritatis, perficitur speculativa ratio per intellectum; practica vero per consilium. Ad recte autem iudicandum, speculativa quidem per sapientiam, practica vero per scientiam perficitur. Appetitiva au­ tem viitus, in his quidem quae sunt ad alte­ rum, perficitur per pietatem. In his autem quae sunt ad seipsum, perficitur per fortitudi­ nem contra terrorem periculorum, contra con­ cupiscentiam vero inordinatam delectabilium, per timorem, secundum illud Prov. 1 5 [27],

    per timorem Domini declinat omnis a malo; et in Psalmo 1 1 8 [ 1 20], confige timore tuo cames meas, a iudiciis enim tuis timui. Et sic patet quod haec dona extendunt se ad omnia ad quae se extendun t v i rt u tes tam intellectuales quam morales. Ad primum ergo dicendum quod dona Spi­ ritus Sancti perficiunt hominem in his quae pertinent ad bene vivendum, ad quae non ordinatur ars, sed ad exteriora factibilia; est enim ars ratio recta non agibilium, sed factibi­ lium, ut dicitur in 6 Ethic. [4,3.5]. Potest ta­ men dici quod, quantum ad infusionem dono­ rum, ars pertinet ad Spiritum Sanctum, qui est principaliter movens; non autem ad homines, qui sunt quaedam organa eius dum ab eo moventur. Temperantiae autem respondet quodammodo donum timoris. Sicut enim ad virtutem temperantiae pertinet, secundum eius propriam rationem, ut aliquis recedat a delectationibus pravis propter bonum rationis; ita ad donum timoris pertinet quod aliquis recedat a delectationibus pravis propter Dei timorem. A d secundum d icendum quod nomen iustitiae imponitur a rectitudine rationis, et ideo nomen virtutis est convenientius quam nomen doni. Sed nomen pietatis importat reverentiam quam habemus ad patrem et ad

    / doni

    Q. 68, A. 4 dispongono le potenze appetitive a obbedire alla ragione. Ora, come le potenze appetitive sono fatte per essere guidate dal comando della ragione, così tutte le facoltà umane sono fatte per essere guidate dali' impulso di Dio come da una facoltà superiore. Perciò anche i doni, come le virtù, sono in tutte le facoltà dell'uomo che possono essere princìpi di atti umani: cioè nella ragione e nella facoltà appe­ titiva. - Ma la ragione è speculativa e pratica: e in entrambe l' apprensione della verità, che tà parte della ricerca, è distinta dal giudizio sulla verità. Quindi per apprendere la verità la ragione speculativa viene predisposta dall'in­ telletto, e la ragione pratica dal consiglio. Per poi giudicare rettamente la ragione speculati­ va viene perfezionata dalla sapienza, e quella pratica dalla scienza. La facoltà appetitiva invece viene predisposta dalla pietà a compie­ re i doveri verso gli altri, mentre rispetto ai doveri verso se stessi viene premunita dalla fortezza contro la paura dei pericoli, e dal timore contro la concupiscenza disordinata dei piaceri. Infatti in Pr è detto: Col timore del Signore ognuno evita il male; e nel Sal: Tu

    faifremere di spavento la mia carne, io temo i tuoi giudizi. E così è evidente che i doni indi­ cati hanno tutta l 'estensione delle virtù, sia intellettuali che morali. Soluzione delle difficoltà: l . I doni dello Spirito Santo attuano la perfezione dell'uomo in ciò che riguarda il ben vivere, mentre l'arte non è ordinata a questo, ma alle opere ester­ ne: intàtti l 'arte è la retta ragione non delle azioni da compiere, ma delle cose da farsi, come insegna Aristotele. Tuttavia si potrebbe rispondere che nell'infusione dei doni l' arte appartiene allo Spirito Santo, che è l' agente principale, e non già all'uomo, che è come uno stmmento quando è mosso da lui. Alla temperanza, poi, corrisponde i n qualche modo il dono del timore. Come infatti spetta alla virtù della temperanza far sì che uno si astenga dai piaceri cattivi per il bene di ordine razionale, così spetta al dono del timore tàr sì che uno si astenga dai piaceri cattivi per il timore di Dio. 2. Il tennine giustizia deriva dalla rettitudine della ragione: perciò è più adatto a denomina­ re una virtù che un dono. Invece il termine pietà indica la riverenza che abbiamo verso il padre e verso la patria. E poiché Dio è il pa-

    ! doni

    Q. 68, A. 4 patriam. Et quia Pater omnium Deus est, etiam cultus Dei pietas nominatur; ut Augu­ stinus dicit, 10 De civ. Dei [ 1 ] . Et ideo conve­ nienter donum quo aliquis propter reveren­ tiam Dei bonum operatur ad omnes, pietas nominatur. Ad tertium dicendum quod animus hominis non movetur a Spiritu Sancto, nisi ei secun­ dum aliquem modum uniatur, sicut instru­ mentum non movetur ab artifice nisi per con­ tactum, aut per aliquam aliam unionem. Pri­ ma autem unio hominis est per fidem, spem et caritatem. Unde istae virtutes praesuppo­ nuntur ad dona, sicut radices quaedam dono­ rum. Unde omnia dona pertinent ad has tres virtutes, sicut quaedam derivationes praedic­ tarum virtutum. Ad quartum dicendum quod amor et spes et delectatio habent bonum pro obiecto. Sum­ mum autem bonum Deus est, unde nomina harum passionum transferuntur ad virtutes theologicas, quibus anima coniungitur Deo. Timoris autem obiectum est malum, quod Deo nullo modo competit, unde non importat coniunctionem ad Deum, sed magis recessum ab aliquibus rebus propter reverentiam Dei. Et ideo non est nomen virtutis theologicae, sed doni, quod eminentius retrahit a malis quam virtus moralis. Ad quintum dicendum quod per sapientiam dirigitur et hominis intellectus, et hominis af­ fectus. Et ideo ponuntur duo correspondentia sapientiae tanquam directivo, ex parte qui­ dem intellectus, donum intellectus; ex parte autem affectus, donum timoris. Ratio enim timendi Deum praecipue sumitur ex conside­ ratione excellentiae divinae, quam considerat sapientia. Articulus

    5

    Utrum dona Spiritus Sancti sint connexa Ad quintum sic proceditur. Videtur quod dona non sint connexa. l . Dicit enim apostolus, l ad Cor. 1 2 [8], alii

    648 dre di tutti gli esseri, anche il culto di Dio vie­ ne denominato pietà, come dice Agostino. Perciò è conveniente che sia denominato pietà il dono mediante il quale in ossequio a Dio uno fa del bene al prossimo. 3 . L' anima umana non viene mossa dallo Spirito Santo senza unirsi in qualche modo con lui: come lo strumento non è mosso dal­ l' artigiano senza un contatto, o una qualsiasi altra unione. Ora, la prima unione dell'uomo [con Dio] avviene mediante la tede, la speran­ za e la carità. Per cui queste virtù sono pre­ supposte ai doni, come loro radici. E così tutti i doni appartengono a queste tre virtù come loro derivazioni. 4. L'amore, la speranza e il godimento hanno per oggetto il bene. Ma il sommo bene è Dio: quindi i nomi di queste tre passioni sono usati per le virtù teologali, che uniscono l ' anima con Dio. Invece il timore ha per oggetto il male, che in nessun modo può essere attribui­ to a Dio: esso perciò non implica l ' unione con Dio, ma piuttosto la fuga da certe cose per rispetto verso Dio. Perciò non è il nome di una virtù teologale, ma di un dono, il quale distoglie dal male meglio delle virtù morali. 5. La sapienza regola sia l'intelletto che l' af­ fetto dell'uomo. Quindi sono enumerati due doni come sottoposti alla sua direzione: dalla parte dell 'intelletto il dono dell'i ntelletto e , dalla parte dell affetto il dono del timore. n motivo intàtti che suggerisce di temere Dio viene desunto dalla considerazione della divi­ na grandezza, che spetta alla sapienza.

    Articolo

    5

    I doni dello Spirito Santo sono connessi? Sembra di no. Infatti: l. Paolo in l Cor dice:

    datur per Spiritum sermo sapientiae, alii sermo scientiae secundum eundem Spiritum.

    A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a tm altro invece, per mezzo dello stesso Spiri­ to, il linguaggio di scienza. Ma la sapienza e

    Sed sapientia et scientia inter dona Spiritus Sancti computantur. Ergo dona Spiritus Sancti dantur diversis, et non connectuntur sibi invicem i n eodem.

    la scienza sono enumerate fra i doni dello Spirito Santo. Quindi i vari doni dello Spirito Santo sono dati a persone distinte, e non sono tra loro connessi in un medesimo soggetto.

    649 2. Praeterea, Augustinus dicit, in 14 De Trin. [ l ], quod scientia non pollent fide/es plurimi, quamvis polleant ipsa fide. Sed fidem conco­ mitatur aliquod de donis, ad minus donum timoris. Ergo videtur quod dona non sint ex necessitate connexa in uno et eodem. 3. Praeterea, Gregorius, in l Mor. [32], dicit quod minor est sapientia, si intellectu careat;

    et va/de inutilis est intellectus, si ex sapientia non subsistat. Vile est consilium, cui opus fortitudinis deest; et va/de fortitudo destruitur, nisi per consiliumfulciatw: Nulla est scientia, si utilitatem pietatis 11011 habet; et va/de i11utilis est pietas, si scientiae discretione caret. Tznwr quoque ipse, si no11 has virtutes habuerit, ad nullum opus bonae actionis surgit. Ex quibus videtur quod unum donum possit sine alio haberi. Non ergo dona Spiritus Sancti sunt connexa. Sed contra est quod ibidem Gregorius [Mor. 1 ,32] praemittit, dicens, illud in hoc filiorum

    convivio perscntta11dum videtur, quod semeti­ psos invicem pascunt. Per filios autem Iob, de

    quibus loquitur, designantur dona Spiritus Sancti. Ergo dona Spiritus Sancti sunt conne­ xa, per hoc quod se invicem reficiunt. Respondeo dicendum quod huius quaestionis veritas de facili ex praemissis potest haberi. Dictum est enim supra [a. 3] quod sicut vires appetitivae disponuntur per virtutes morales in comparatione ad regimen rationis, ita omnes vires animae disponuntur per dona in com­ paratione ad Spiritum Sanctum moventem. Spiritus autem Sanctus habitat in nobis per caritatem, secundum illud Rom. 5 [5], caritas

    Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiri­ rum Sanctum, qui datus est nobis, sicut et ratio nostra perficitur per prudentiam. Unde sicut virtutes morales connectuntur sibi invi­ cem i n prudentia, ita dona Spiritus Sancti connectuntur sibi invicem in caritate, ita scilicet quod qui caritatem habet, omnia dona Spiritus Sancti habet; quorum nullum sine caritate haberi potest. Ad primum ergo dicendum quod sapientia et scientia uno modo possunt consideraci secun­ dum quod sunt gratiae gratis datae, prout scilicet aliquis abundat intantum in cognitione rerum divinarum et humanarurn, ut possit et fideles instruere et adversarios confutare. Et sic loqui tur ibi apostolus de sapientia et scientia, unde signanter fit mentio de semw11e

    / doni

    Q. 68, A. 5 2. Agostino insegna che «molti fedeli non hanno la scienza, sebbene abbiano la fede». Ora, la fede è sempre accompagnata da qual­ cuno dei doni, almeno dal dono del timore. Perciò i doni non sembrano necessariamente connessi in un solo e identico soggetto. 3. Gregorio dice: «La sapienza è minorata se manca l'intelletto, e l'intelletto è inutile se la sapienza non lo sorregge. È spregevole il con­ siglio a cui manca il soccorso della fortezza, e la fortezza è molto debilitata se non è sorretta dal consiglio. La scienza è nulla senza l'utilità della pietà, e del tutto inutile è la pietà se le manca la discrezione della scienza. E il timo­ re stesso, se non ha queste virtù, non affronta nessuna fatica per un' opera buona». Dalle quali parole sembra che si possa avere un dono senza gli altri . Qui ndi i doni dello Spirito Santo non sono connessi. In contrario: Gregorio al citato discorso pre­ mette questa affermazione: «In questo convito dei figli [di Giobbe] si deve considerare una cosa, che essi si invitano a pranzo a vicenda». Ora, nei figli di Giobbe di cui si parla sono indicati i doni dello Spirito Santo. Quindi tali doni sono connessi, in quanto si ristorano reciprocamente. Risposta: da quanto si è detto si può avere facilmente la soluzione di questo problema. Infatti sopra abbiamo spiegato che tutte le potenze dell' anima vengono predisposte dai doni, nei confronti dello Spirito Santo che le muove, come le potenze appetitive sono predi­ sposte dalle virtù morali nei confronti della ragione che le guida. Ora, come la nostra ragione ottiene la sua perfezione mediante la prudenza, così lo Spirito Santo abita in noi mediante la carità, secondo l'espressione di Rm: La carità di Dio è stata riversata nei

    nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Perciò, come le virtù morali sono tra loro connesse nella prudenza, così i doni dello Spirito Santo sono tra loro connessi nella carità: in modo cioè che chi ha la carità possiede tutti i doni dello Spirito Santo, men­ tre senza di essa non se ne può avere alcuno. Soluzione delle difficoltà: l . La sapienza e la scienza possono essere innanzitutto considera­ te come grazie gratis datae, cioè come abbon­ danza nella conoscenza delle cose divine e umane, per cui uno è capace di istruire i fedeli e di confutare gli avversari. E nel testo citato

    Q. 68, A. 5

    650

    ! doni

    sapientiae et scientiae.

    Ali o modo possunt accipi prout sunt dona Spiritus Sancti. Et sic sapientia et scientia nihil aliud sunt quam quaedam perfectiones humanae mentis, se­ cundum quas disponitur ad sequendum instin­ ctus Spiritus Sancti in cognitione divinorum vel humanorum. Et sic patet quod huiusmodi dona sunt in omnibus habentibus caritatem. Ad secundum dicendum quod Augustinus ibi loquitur de scientia exponens praedictam auctoritatem aposto l i , unde loquitur de scientia praedicto modo accepta, secundum quod est gratia gratis data. Quod patet ex hoc quod subdit [De Trin. 1 4, 1 ] , aliud enim est

    scire tantummodo quid homo credere debeat propter adipiscendam vitam beatam, quae non nisi aeterna est; aliud aute m scire quemadmodum hoc ipsum et piis opituletur; et contra impios defendatur; quam proprio appellare vocabulo scientiam videtur apostolus. Ad tertium dicendum quod, sicut uno modo connexio virtutum cardinalium probatur per hoc quod una earum perficitur quodammodo per aliam, ut supra [q. 65 a. l ] dictum est; ita Gregorius eodem modo vult probare connexionem donorum, per hoc quod unum sine alio non potest esse perfectum. Unde praemittit dicens [Mor. l ,32], va/de singula

    quaelibet destituitur; si non una alii virtus virtuti su.ffragetur. Non ergo datur intelligi quod unum donum possit esse sine alio, sed quod intellectus, si esset sine sapientia, non esset donum; sicut temperantia, si esset sine iustitia, non esset virtus.

    Articulus 6

    Paolo parla della sapienza e della scienza in questo senso: infatti di proposito parla di «lin­ guaggio di sapienza» e «di scienza». In se­ condo luogo esse possono venir considerate come doni dello Spirito Santo. E allora la sa­ pienza e la scienza non sono altro che perfe­ zioni dell'anima umana mediante cui essa vie­ ne preparata ad assecondare le ispirazioni dello Spirito Santo nella conoscenza delle realtà di­ vine e umane. E così è evidente che questi do­ ni si trovano in tutti coloro che hanno la carità. 2. Agostino in quel testo parla della scienza spiegando il passo di Paolo ora ricordato: per­ ciò parla della scienza presa nel senso sopra indicato, cioè in quanto grazia gratis data. n che è evidente da quanto egli aggiunge: «Al­ tro è sapere soltanto ciò che un uomo deve credere per raggiungere la vita beata, la quale non può essere che eterna, e altro è sapere in che modo ciò possa giovare alle persone pie, ed essere di difesa contro gli empi: il quale sapere sembra che Paolo voglia denominare propriamente col termine scienza>>. 3. Come la connessione delle virtù cardinali, stando a quanto si è detto, viene dimostrata partendo dal fatto che l'una è in qualche modo completata dall'altra, così Gregorio vuoi dimo­ strare alla stessa maniera la connessione dei doni partendo dal fatto che l'uno non può esse­ re perfetto senza l' altro. Prima infatti aveva affermato: «Ciascuna di queste virtù decade di molto, se una non viene soccorsa dall' altra». Perciò il passo non può essere inteso nel senso che un dono possa esistere senza l'altro, ma nel senso che se l'intelletto fosse senza la sapienza non sarebbe un dono: come la temperanza non sarebbe una virtù senza la giustizia Articolo 6

    Utrum dona Spiritus Sancti remaneant in patria

    I doni dello Spirito Santo rimangono nella patria?

    Ad sextum sic proceditur. Videtur quod dona Spiritus Sancti non maneant in patria. l . Dicit enim Gregorius, in 2 Mor. [49], quod

    Sembra di no. Infatti: l. Gregorio afferma che «lo Spirito Santo con i sette doni conforta l'anima contro le varie tentazioni». Ma nella patria [beata] non ci sa­ rà tentazione alcuna, secondo le parole di /s:

    Spiritus Sanctus contra singula tentamenta septem donis erudir mentem. Sed in patria non erunt aliqua tentamenta; secundum illud Isaiae 1 1 [9], non nocebunt et non occident in universo monte sancto meo. Ergo dona Spiritus Sancti non erunt in patria. 2. Praeterea, dona Spiritus Sancti sunt habitus

    Non nuoceranno e non uccideranno più su tutto il mio santo monte. Quindi nella patria non ci saranno i doni dello Spirito Santo. 2. Come sopra si è detto, i doni dello Spirito Santo sono abiti. Ma gli abiti sarebbero inutili

    65 1

    quidam, ut supra dictum est. Frustra autem es­ sent habitus, ubi actus esse non possunt. Actus autem quorundam donorum in patria esse non possunt, dicit enim Gregorius, in I Mor. [32], quod intellectus facit audita penetrare, et con­ silium prohibet esse praecipitem, et fortitudo facit non metuere adversa, et pietas replet cor­ dis viscera operibus misericordiae; haec autem non competunt statui patriae. Ergo huiusmodi dona non erunt in statu gloriae. 3. Praeterea, donorum quaedam perficiunt ho­ minem in vita contemplativa, ut sapientia et intellectus; quaedam in vita activa, ut pietas et fortitudo. Sed activa vita cum hac vita termi­ natur; ut Gregorius dicit, in 6 Mor. [37]. Ergo in statu gloriae non erunt ornni a dona Spiritus Sancti. Sed contra est quod Ambrosius dicit, in libro De Spiritu Sancto [ 1 6], civitas Dei il/a, Ieru­ salem caelestis, non meatu alicuius fluvii ter­ restris abluitur; sed ex vitae fonte procedens Spiritus Sanctus, cuius nos brevi satiamur haustu, in illis caelestibus spiritibus redun­ dantius videtur ajjluere, pieno septem virtu­ tum spiritualiumfervens meatu. Respondeo dicendum quod de donis dupliciter possumus loqui. Uno modo, quantum ad essentiam donorum, et sic petfectissime erunt in patria, sicut patet per auctoritatem Ambrosii inductam. Cuius ratio est quia dona Spiritus Sancti perficiunt mentem humanam ad sequendam motionem Spiritus Sancti, quod praecipue erit i n patria, quando Deus erit omnia in omnibus, ut dicitur l ad Cor. 15 [28], et quando homo erit totaliter subditus Deo. Alio modo possunt considerali quantum ad materiam circa quam operantur, et sic in praesenti habent operationem circa aliquam materiam circa quam non habebunt opera­ tionem in statu gloriae. Et secundum hoc, non manebunt in patria, sicut supra de virtutibus cardinalibus dictum est [q. 67 a. 1 ]. Ad primum ergo dicendum quod Gregorius [Mor. 2,49] loquitur ibi de donis secundum quod competunt statui praesenti, sic enim donis protegimur contra tentamenta malorum. Sed in statu gloriae, cessantibus malis, per dona Spiritus Sancti perficiemur in bono. Ad secundum dicendum quod Gregorius qua­ si in singulis donis ponit aliquid quod transit cum statu praesenti, et aliquid quod permanet etiam in futuro. Dicit enim [Mor. 1 ,32] quod

    / doni

    Q. 68, A. 6

    in mancanza degli atti. Ora, nella patria non si possono avere gli atti di certi doni: infatti Gregorio afferma che «l'intelletto fa penetrare le cose udite, il consiglio impedisce la preci­ pitazione, la fortezza fa non temere le cose avverse e la pietà riempie le viscere del cuore con opere di misericordia>>: tutte cose incom­ patibili con le condizioni della patria beata. Perciò questi doni non ci saranno nello stato di gloria. 3. Alcuni doni perfezionano l'uomo nella vita contemplativa, come la sapienza e l'intelletto, altri invece nella vita attiva, come la pietà e la fortezza. Ma al dire di Gregorio «la vita attiva termina con la vita presente». Quindi nello stato di gloria non ci saranno i doni dello Spirito Santo. In contrario: Ambrogio insegna: «La città di Dio, la Gerusalemme celeste, non viene puri­ ficata dal corso di alcun fiume terrestre, ma il fiume che nasce dalla fonte di vita dello Spirito Santo, di cui noi gustiamo un piccolo sorso, scorrerà con sovrabbondanza tra quegli spiriti celesti, straripante col fuoco delle sue sette spirituali virtù». Risposta: possiamo considerare i doni sotto due aspetti. Primo, nella loro essenza: e da questo lato ci saranno, e perfettissimamente, nella patria, come è dimostrato dalle parole di Am­ brogio sopra riportate. E il motivo è che i doni predispongono l'anima umana ad assecondare la mozione dello Spirito Santo: il che avverrà specialmente nella patria, quando Dio sarà tutto in tutti, come è detto in l Cor, e l'uomo sarà totalmente sottomesso a Dio. Secondo, li pos­ siamo considerare rispetto alla materia intorno alla quale operano: e così al presente hanno un'operazione che non potranno avere nello stato di gloria. E in questo senso non potranno rimanere nella patria, come sopra si è detto a proposito delle virtù cardinali. Soluzione delle difficoltà: l . Gregorio qui parla dei doni come si addicono allo stato pre­ sente: adesso, i nfatti, i doni ci proteggono dalle tentazioni del male. Nello stato di gloria invece, venendo a cessare il male, i doni dello Spirito Santo ci stabiliranno nel bene. 2. Gregorio quasi per ciascun dono determina ciò che passa con lo stato presente e ciò che rimane anche in quello futuro. Infatti egli inse­ gna che «la sapienza nutre l'anima con la spe­ ranza e con la certezza delle realtà eterne»:

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    ! doni

    sapientia mentem de aetemorum spe et ceni­ tudine reficit, quorum duorum spes transit, sed certitudo remanet. Et de intellectu dicit quod in eo quod audita penetrat, reficiendo cor, tenebras eius illustrar, quorum auditus transit, quia non docebit vir fratrem suum, ut dicitur Ier. 3 1 [34]; sed illustratio mentis ma­ nebit. De consilio autem dicit quod pmhibet esse praecipitem, quod est necessarium in praesenti, et iterum quod ratione animum replet, quod est necessarium etiam in futuro. De fortitudine vero dicit quod adversa non metuit, quod est necessarium in praesenti, et iterum quod confidentiae cibos apponi!, quod permanet etiam in futuro. De scientia vero unum tantum ponit, scilicet quod ignorantiae ieiunium supera!, quod pertinet ad statum praesentem. Sed quod addit, in ventre mentis, potest figuraliter intelligi repletio cognitionis, quae pertinet etiam ad statum futurum. De pietate vero dicit quod cordis viscera miseri­ cordiae operibus replet. Quod quidem secun­ dum verba, pertinet tantum ad statum prae­ sentem. Sed ipse intimus affectus proximo­ rum, per viscera designatus, pertinet etiam ad futurum statum; in quo pietas non exhibebit misericordiae opera, sed congratulationis affectum. De timore vero dicit quod premit mentem, ne de praesentibus superbia!, quod pertinet ad statum praesentem; et quod de fu­ turis cibo spei confortai, quod etiam pertinet ad statum praesentem, quantum ad spem; sed potest etiam ad statum futurum pertinere, quantum ad confortationem de rebus hic speratis, et ibi obtentis. Ad tertium dicendum quod ratio illa procedit de donis quantum ad materiam. Opera enim activae vitae non erunt materia donorum, sed omnia habebunt actus suos circa ea quae pertinent ad vitam contemplativam, quae est vita beata.

    e di queste due cose la speranza passa, mentre la certezza rimane. Dell'intelletto afferma che «nell'atto in cui penetra le cose udite, mentre rinfranca il cuore, ne illumina le tenebre»: e anche qui l'ascoltare passa, poiché l'uomo non istruirà più il suofratello, come è detto in Ger; mentre l'illuminazione della mente rimarrà. A proposito del consiglio dice che «impedisce la precipitazione», il che si richiede al presente, e poi che «riempie l'animo con la ragione», e questo è necessario anche nel futuro. Sulla fortezza dice che «non teme le avversità», e ciò è necessario al presente, e poi che «am­ mannisce il cibo della fiducia», il che rimane anche nel futuro. A proposito della scienza indica una cosa soltanto, cioè che essa «toglie il digiuno dell'ignoranza», il che riguarda lo stato presente. Nominando però poi «il ventre della mente» può far pensare in senso figurato alla pienezza di conoscenza che spetta allo stato futuro. Invece a proposito della pietà afferma che «riempie le viscere del cuore con opere di misericordia». Espressione questa che, così come suona, si riferisce allo stato presente. Ma l'intima tenerezza verso il pros­ simo, indicata nelle «viscere del cuore», appartiene anche allo stato futuro, nel quale la pietà non offrirà opere di misericordia, bensì un tributo di congratulazioni. Del timore infine dice che «umilia l'anima, perché non si insu­ perbisca delle cose presenti», e questo si riferi­ sce allo stato attuale, e ancora che «la conforta col cibo della speranza quanto alle realtà futu­ re»: e anche questo appartiene allo stato pre­ sente, quanto alla speranza; può tuttavia appartenere anche allo stato futuro quanto al conforto che procurano le stesse realtà, qui sperate e là possedute. 3. L'argomento fa forza sulla materia dei do­ ni: infatti le opere della vita attiva non potran­ no più essere materia dei doni; questi però avranno i loro atti per le cose riguardanti la vita contemplativa, che è la vita beata.

    Articulus 7 Utrum dignitas donorum attendatur secundum enumerationem Isaiae 11

    Articolo 7 La dignità dei doni è secondo l'enumerazione di Isaia 11?

    Ad septimum sic proceditur. Videtur quod dignitas donorum non attenditur secundum enumerationem qua enumerantur Isaiae 1 1 . l . Illud enim videtur esse potissimum in

    Sembra di no. Infatti: l . n principale tra i doni deve essere quello che Dio più richiede dall' uomo. Ora, Dio richiede dall'uomo soprattutto il timore, poi-

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    donis, quod maxime Deus ab homine requirit. Sed maxime requirit Deus ab homine timorem, dicitur enim Deut. l O [ 1 2] , et nune, lsrael, quid

    Dominus Deus tuus petit a te, nisi ut timeas Dominum Deum tuum ? Et Malach. l [6] , dicitur, si ego Dominus, ubi timor meus? Ergo videtur quod timor, qui enumeratur ultimo, non sit infimum donorum, sed maximum. 2. Praeterea, pietas videtur esse quoddam bonum universale, dicit enim apostolus, l ad Tim. 4 [8], quod pietas ad omnia utilis est. Sed bonum universale praefertur particulari­ bus bonis. Ergo pietas, quae penultimo enu­ meratur, videtur esse potissimum donorum. 3. Pt-aeterea, scientia perficit iudicium homi­ nis; consilium autem ad inquisitionem perti­ net. Sed iudicium praeeminet inquisitioni. Ergo scientia est potius donum quam consi­ lium, cum tamen post enumeretur. 4. Praeterea, fortitudo pertinet ad vim appeti­ tivam; scientia autem ad rationem. Sed ratio est eminentior quam vis appetitiva. Ergo et scientia est eminentius donum quam fortitu­ do, quae tamen primo enumeratur. Non ergo dignitas donorum attenditur secundum ordi­ nem enumerationis eorum. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De Serm. Dom. [ 1 ,4], videtur mihi septifor­

    mis operatio Spiritus Sancti, de qua lsaias lo­ quitur, his gradibus sententiisque congruere (de quibus fit mentio Matth. 5 [3 sqq.]); sed interest ordinis. Nam ibi (scilicet in Isaia) enumeratio ab excellentioribus coepit, hic ve­ IV, ab inferioribus. Respondeo dicendum quod dignitas donorum dupliciter potest attendi, uno modo, simpliciter, scilicet per comparationem ad proprios actus prout procedunt a suis principiis; alio modo, secundum quid, scilicet per comparationem ad materiam. Simpliciter autem loquendo de di­ gnitate donorum, eadem est ratio compa­ rationis in ipsis et in virtutibus, quia dona ad omnes actus potentiarum animae perticiunt hominem, ad quos perficiunt virtutes, ut supra [a. 4] dictum est. Unde sicut virtutes intellec­ tuales praeferuntur virtutibus moralibus; et in ipsis vittutibus intellectualibus contemplativae praeferuntur activis, ut sapientia intellectui, et scientia prudentiae et arti; ita tamen quod sapientia praefertur intellectui, et intellectus scientiae, sicut prudentia et synesis eubuliae, ita etiam in donis sapientia et intellectus, scien-

    / doni

    Q. 68, A. 7

    ché in Dt è detto: Ora, Israele, che cosa ti

    chiede il Signore tuo Dio se non che tu tema il Signore tuo Dio?; e in MI è detto: Se io sono il Signore, dov 'è il timore di me ? Perciò il timore, che è enumerato per ultimo, non è l'infimo, ma il primo dei doni. 2. La pietà si presenta come un bene universa­ le: infatti Paolo in l Tm dice: La pietà è utile a tutto. Ora, un bene universale va preferito ai beni pruticolari. Quindi la pietà, elencata al penultimo posto, è il più grande dei doni. 3. La scienza pedeziona il giudizio dell'uo­ mo, mentre il consiglio fa parte della ricerca. Ma il giudizio è superiore alla ricerca. Quindi la scienza è un dono supetiore al consiglio; e invece è enumerata dopo di esso. 4. La fortezza spetta a una potenza appetitiva; la scienza, invece, alla ragione. Ma la mgione è più nobile delle potenze appetitive. Quindi la scienza è un dono superiore alla fortezza, che però viene prima nell' enumerazione. Perciò la dignità dei doni non è secondo l'or­ dine della loro enumerazione. In contrario: Agostino ha scritto: «A me sem­ bra che la settiforme operazione dello Spirito Santo, di cui parla Isaia, corrisponda a questi gradi e a queste sentenze» di cui si parla in Mt; «ma c'è una differenza nell'ordine. Infatti in Isaia l'enumerazione comincia dai gradi superiori, qui invece dagli inferioti». Risposta: la dignità di un dono può essere con­ sidemta sotto due aspetti: primo, assolutamente parlando [simpliciter], cioè in rapporto al pro­ prio atto in quanto deriva dai suoi princìpi; secondo, in senso relativo [secundum quid], cioè in rapporto alla sua materia. Se parliamo dunque della dignità dei doni in senso assoluto, allora troviamo che il criterio per un loro raf­ fronto è identico a quello stabilito per le virtù: poiché i doni predispongono l'uomo a tutti gli atti delle facoltà dell'anima ai quali predispon­ gono le virtù, come sopra si è detto. Per cui, come le virtù intellettuali vengono prima delle virtù morali, e tra le stesse virtù intellettuali quelle contemplative vengono ptima di quelle attive, ossia la sapienza, l'intelletto e la scienza ptima della prudenza e dell'arte - in modo però che la sapienza preceda l'intelletto, e l'intelletto la scienza, come la prudenza e la synesis precedono l' eubulìa , così anche tra i doni la sapienza e l'intelletto, la scienza e il consiglio vengono prima della pietà, della for-

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    ! doni

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    tia et consilium, praeferuntur pietati et fortitu­ dini et timori; in quibus etiam pietas praefertur fortitudini, et fortitudo timori, sicut iustitia fortitudini, et fortitudo temperantiae. Sed quan­ tum ad materiam, fortitudo et consilium prae­ feruntur scientiae et pietati, quia scilicet fortitu­ do et consilium in arduis locum habent; pietas autem, et etiam scientia, in communibus. Sic igitur donorum dignitas ordini enumerationis respondet, partim quidem simpliciter, se­ cundum quod sapientia et intellectus omnibus praeteruntur, partim autem secundum ordinem materiae, secundum quod consilium et fortitu­ do praefenmtur scientiae et pietati Ad primum ergo dicendum quod timor maxi­ me requiritur quasi primordium quoddam perfectionis donorum, quia initium sapientiae timor Domini, non propter hoc quod sit ceteris dignius. Prius enim est, secundum ordinem generationis, ut aliquis recedat a malo, quod fit per timorem, ut dicitur Prov. 1 6 [6] ; quam quod operetur bonum, quod fit per alia dona. Ad secundum dicendum quod pietas non comparatur in verbis apostoli, ornnibus donis Dei, sed soli corporali exercitationi, de qua praemittit quod ad modicum utilis est. Ad tertium dicendum quod scientia etsi praeferatur consilio ratione iudicii, tamen consilium praefettur ratione materiae, nam consilium non habet locum nisi in arduis, ut dicitur in 3 Ethic. [3, 1 0] ; sed iudicium scien­ tiae in omnibus locum habet. Ad quartum dicendum quod dona directiva, quae pertinent ad rationem, donis exequenti­ bus digniora sunt, si considerentur per com­ parationem ad actus prout egrediuntur a po­ tentiis, ratio enim appetitivae praeeminet, ut regulans regulato . Sed ratione materi ae, adiungitur consilium fortitudini, sicut directi­ vum exequenti, et similiter scientia pietati, quia scilicet consilium et fortitudo in arduis locum habent, scientia autem et pietas etiam in communibus. Et ideo consilium simul cum fortitudine, ratione materiae, numeratur ante scientiam et pietatem.

    tezza e del timore. E tra questi ultimi la pietà va preferita alla fortezza, e la fortezza al timore; come la giustizia va preferita alla fortezza, e la fortezza alla temperanza. In rapporto invece alla materia la fortezza e il consiglio vengono prima della scienza e della pietà: poiché la for­ tezza e il consiglio intervengono nelle cose ardue, mentre la pietà, e anche la scienza, nelle cose comuni. - Perciò la dignità dei doni corri­ sponde all'ordine dell'enumerazione: in parte secondo un ordine assoluto, in base al quale la sapienza e l'intelletto vengono prima di tutti, e in patte secondo un ordine di materia, in base al quale il consiglio e la fortezza vengono pre­ feriti alla scienza e alla pietà. Soluzione delle difficoltà: l . Il timore viene massimamente richiesto in quanto preludio alla perfezione dei doni, poiché l 'inizio della sapienza è il timore del Signore, e non perché è superiore agli altri. Infatti in ordine genetico viene prima l 'abbandono del male, determi­ nato secondo Pr dal timore, che il compimen­ to del bene, dovuto agli altri doni. 2. Paolo non confronta la pietà con tutti i doni di Dio, ma solo con «l'esercizio fisico», di cui afferma che è utile a poco. 3. Sebbene la scienza sia preferibile al consi­ glio quanto al giudizio, tuttavia il consiglio va preferito quanto alla materia: infatti il consi­ glio non ha luogo che nelle cose ardue, come nota Aristotele, mentre il giudizio della scien­ za ha luogo in tutte le cose. 4. I doni direttivi, che appartengono alla ra­ gione, sono superiori ai doni esecutivi se ven­ gono considerati i n rapporto ai loro atti in quanto promanano dalle potenze: infatti la ra­ gione è superiore alle potenze appetitive, co­ me chi comanda è superiore a chi è comanda­ to. Rispetto però alla materia il consiglio sta alla fortezza come l 'elemento direttivo, e così la scienza alla pietà: e questo perché il consi­ glio e la fortezza hanno luogo soltanto nelle cose ardue, mentre la scienza e la pietà anche in quelle ordinarie. Perciò il consiglio, abbina­ to alla fortezza a motivo della materia, viene enumerato prima della scienza e della pietà.

    Articulus 8 Utrum virtutes sint praeferendae donis

    Articolo 8 Le virtù sono da preferirsi ai doni?

    Ad octavum sic proceditur. Videtur quod virtutes sint praeferendae donis.

    Sembra di sì. Infatti: l. Agostino così scrive, parlando della carità:

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    / doni

    Q. 68, A. 8

    l. Dicit enim Augustinus, in 15 De Trin. [ 1 8], de caritate loquens, nullum est isto Dei dono

    .

    Articulus 4 Utrum praemia beatitudinum convenienter enumerentur

    Articolo 4 I premi delle beatitudini sono enumerati convenientemente?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod prae­ mia beatitudinum inconvenienter enumerentur. l. In regno enim caelorum, quod est vita aeter­ na, bona omnia continentur. Posito ergo regno caelorum, non oportuit alia praemia ponere. 2. Praeterea, regnum caelorum ponitur pro praemio et in prima beatitudine et in octava. Ergo, eadem ratione, debuit poni in omnibus. 3 . Praeterea, in beatitudinibus proceditur ascendendo, sicut Augustinus dicit [De serm. Dom. l ,4] . In praemiis autem videtur procedi descendendo, nam possessio terrae est minus quam regnum caelorum. Ergo inconvenienter huiusmodi praemia assignantur. Sed contra est auctoritas ipsius Domini, praemia huiusmodi proponentis [Matth. 5,3; Luc. 6,20]. Respondeo dicendum quod praemia ista con­ venientissime assignantur, considerata condi­ tione beatitudinum secundum tres beatitudi­ nes supra [a. 3] assignatas. Tres enim primae beatitudines accipiuntur per retractionem ab his in quibus voluptuosa beatitudo consistit, quam homo desiderat quaerens id quod natu­ raliter desideratur, non ubi quaerere debet, scilicet in Deo, sed in rebus temporalibus et caducis. Et ideo praemia trium primarum beatitudinum accipiuntur secundum ea quae in beatitudine terrena aliqui quaerunt. Quae­ runt enim homines in rebus exterioribus, scilicet divitiis et honoribus, excellentiam

    Sembra di no. Infatti: l . Nel regno dei cieli, che è la vita eterna, sono contenuti tutti i beni. Posto quindi come premio il regno dei cieli, era inutile aggiunge­ re altro. 2. li regno dei cieli è posto come premio sia nella prima che nell'ottava beatitudine. Quin­ di, per lo stesso motivo, bisognava porlo in tutte. 3. Secondo Agostino, nelle beatitudini si pro­ cede salendo. Invece nei premi sembra che si proceda discendendo: infatti il possesso della terra è meno del regno dei cieli. Quindi tali premi non sono assegnati convenientemente. In contratio: sta l'autorità stessa del Signore, il quale ha proposto questi premi. Risposta: i premi in questione sono assegnati in maniera convenientissima, in base ai rap­ porti delle beatitudini con i tre tipi di felicità sopra indicati. Infatti le prime tre beatitudini derivano da altrettante ripulse di quanto costi­ tuisce la felicità voluttuaria: felicità questa che l'uomo desidera quando cerca l'oggetto del desiderio naturale non dove si deve, cioè in Dio, ma in cose temporali e caduche. Per­ ciò i premi o ricompense delle prime tre bea­ titudini sono stabiliti in rapporto a quanto viene cercato da alcuni nella felicità terrena. Infatti gli uomini cercano nei beni esterni, cioè nelle ricchezze e negli onori, una certa

    Q. 69, A. 4

    Le beatitudini

    quandam et abundantiam, quorum utrumque importat regnum caelorum, per quod homo consequitur excellentiam et abundantiam bonorum in Deo. Et ideo regnum caelorum Dominus pauperibus spiritu repromisit. Quae­ runt autem homines feroces et immites per litigia et bella securitatem sibi acquirere, inimicos suos destruendo. Unde Dominus re­ promisit mitibus securam et quietam posses­ sionem terrae viventium, per quam signifi­ catur soliditas aetemorum bonorum. Quae­ runt autem homines in concupiscentiis et delectationibus mundi, habere consolationem contra praesentis vitae labores. Et ideo Domi­ nus consolationem lugentibus repromittit. Aliae vero duae beatitudines pertinent ad ope­ ra activae beatitudinis, quae sunt opera vir­ tutum ordinantium hominem ad proximum, a quibus operibus aliqui retrahuntur propter inordinatum amorem proprii boni. Et ideo Dominus attribuit illa praemia his beatitudi­ nibus, propter quae homines ab eis discedunt. Discedunt enim aliqui ab operibus iustitiae, non reddentes debitum, sed potius aliena rapientes ut bonis temporalibus repleantur. Et ideo Dominus esurientibus iustitiam, saturita­ tem repromisit. Discedunt etiam aliqui ab operibus misericordiae, ne se i mmisceant miseriis alienis. Et ideo Dominus misericor­ dibus repromittit misericordiam, per quam ab omni miseria liberentur. - Aliae vero duae ultimae beatitudines pertinent ad contemplati­ vam felicitatem seu beatitudinem, et ideo se­ cundum convenientiam dispositionum quae ponuntur in merito, praemia redduntur. Nam munditia oculi disponit ad clare videndum, unde mundis corde divina visio repromittitur. Constituere vero pacem vel in seipso vel inter alios, manifestat hominem esse Dei imitato­ rem, qui est Deus unitatis et pacis. Et ideo pro praemio redditur ei gloria divinae filiationis, quae est in perfecta coniunctione ad Deum per sapientiam consummatam. Ad prirnum ergo dicendum quod, sicut Chry­ sostomus dicit [In Matth. 1 5], omnia praemia ista unum sunt in re, scilicet beatitudo aeter­ na; quam intellectus humanus non capit. Et ideo oportuit quod per diversa bona nobis nota, describeretur, observata convenientia ad merita qui bus praemia attribuuntur. Ad secundum dicendum quod, sicut octava beatitudo est finnitas quaedam omnium beati-

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    eccellenza e abbondanza: e queste cose sono incluse entrambe nel regno dei cieli, mediante il quale l ' uomo raggiunge in Dio una vera eccellenza e abbondanza di beni. Perciò il Si­ gnore ha promesso il regno dei cieli ai poveri in spirito. Inoltre gli uomini crudeli e prepo­ tenti cercano di conquistare la sicurezza di­ struggendo i loro nemici. Perciò il Signore ha promesso ai miti il possesso sicuro e pacifico della terra dei viventi: che sta a indicare la solidità dei beni eterni. Gli uomini poi, come rimedio ai travagli della vita presente, cercano consolazione nelle concupiscenze e nei piace­ ri del mondo. Perciò il Signore promette la consolazione a coloro che piangono. - Le due beatitudini che seguono appartengono invece alle opere della felicità [propria della vita] attiva, opere che spettano alle v irtù che dispongono bene l' uomo verso il prossimo, ma che trovano ostacolo nell'amore disordi­ nato del proprio bene. Perciò il Signore a que­ ste beatitudini assegna come premio le cose stesse a motivo delle quali gli uomini sono distolti da tali opere. Infatti alcuni sono distol­ ti dalle opere della giustizia, non rendendo ciò che devono, ma piuttosto sottraendo le cose altrui, per saziarsi di beni temporali. E allora il Signore promette la sazietà a chi ha fame di giustizia. Altri invece si Iitraggono dalle ope­ re di misericordia per non immischiarsi nelle miserie altru i . Perciò ai misericordiosi i l Signore promette l a misericordia, che dovrà liberarli da ogni miseria. - Finalmente le due ultime beatitudini appartengono alla felicità [della vita] contemplativa: quindi in esse ven­ gono assegnati dei premi corrispondenti alle disposizioni poste come meriti. Infatti la pu­ rezza dell' occhio dispone a vedere chiara­ mente: e così ai puri di cuore è promessa la visione di Dio. Il fatto poi di stabilire la pace, o in se stessi o fra gli altri, mostra che un uomo è imitatore di Dio, che è il Dio dell'u­ nità e della pace. E allora come premio gli viene concessa la gloria della figliolanza divi­ na, che consiste in una particolare unione con Dio mediante una sapienza perfetta. Soluzione delle difficoltà: l . Come insegna il Crisostomo, tutti questi premi in realtà sono una cosa sola, cioè la beatitudine eterna, che l 'intelletto umano non può comprendere. Per­ ciò era necessario che questa ci venisse de­ scritta mediante i diversi beni da noi cono-

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    Q. 69, A. 4

    Le beatitudini

    tudinum, ita debentur sibi omnium beatitudi­ num praemia. Et ideo redit ad caput, ut intelli­ gantur sibi consequenter omnia praemia at­ tribui. Vel, secundum Ambrosium [In Luc. 5, super 6,20], pauperibus spiritu repromittitur regnum caelorum, quantum ad gloriam ani­ mae, sed passis persecutionem in corpore, quantum ad gloriam corporis. Ad tertium dicendum quod etiam praemia se­ cundum additionem se habent ad invicem. Nam plus est possidere terram regni caelo­ rum, quam simpliciter habere, multa enim habemus quae non firmiter et pacifice possi­ demus. Plus est etiam consolari in regno, quam habere et possidere, multa enim cum dolore possidemus. Plus est etiam saturari quam simpliciter consolari, nam saturitas abundantiam consolationis importat. Miseri­ cordia vero excedit saturitatem, ut plus sci­ licet homo accipiat quam meruerit, vel desi­ derare potuerit. Adhuc autem maius est Deum videre, sicut maior est qui in curia regis non solum prandet, sed etiam faciem regis videt. Summam autem dignitatem in domo regia filius regis habet.

    sciuti, osservando una corrispondenza con i meriti ai quali tali beni vengono attribuiti. 2. L'ottava beatitudine è una specie di confer­ ma di tutte le beatitudini, e quindi ad essa si addicono i premi di tutte le beatitudini. Perciò si ritorna da capo, per far capire che ad essa si i ntendono attribuiti tutti i premi . Oppure si può rispondere con Ambrogio che ai poveri in spirito è promesso il regno dei cieli quanto alla gloria dell' anima, mentre a chi soffre per­ secuzione nel corpo è promesso [direttamen­ te] quanto alla gloria del corpo. 3. Anche i premi sono ordinati fra loro secon­ do una progressione. Infatti possedere la terra del regno dei cieli è più che avere tale regno: poiché delle cose che abbiamo molte non le possediamo in modo stabile e pacifico. Inoltre essere consolati nel regno è più che averlo e possederlo: infatti molte cose le possediamo con dolore. Ancora, è cosa più grande essere saziati che essere semplicemente consolati: i nfatti la sazietà implica un' abbondanza di consolazione. La misericordia poi è superiore alla sazietà: in quanto uno riceve più di quello che poteva meritare o desiderare. Ma vedere Dio è una cosa ancora più grande: come è più grande in una reggia chi in essa non solo è ammesso al pranzo, ma anche gode della pre­ senza del re. Però la dignità più sublime nella casa del re è quella di essere suo figlio.

    QUAESTI0 70

    QUESTIONE 70

    DE FRUCTIBUS SPIRITUS SANCTI

    I FRUTTI DELLO SPIRITO SANTO

    Deinde considerandum est de fructibus. Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, utrum fructus Spiritus Sancti sint actus. Secundo, utrum differant a beatitudinibus. Tertio, de eorum numero. Quarto, de oppositione eorum ad opera carnis.

    Dobbiamo infine considerare i frutti [dello Spirito Santo] . Sull' argomento esaminere­ mo quattro punti : l . I frutti dello Spirito Santo sono atti? 2. Differiscano dalle beati­ tudini? 3. Il loro numero; 4. La loro con­ trapposizione alle opere della carne.

    Articulus 1 Utrum fructus Spiritus Sancti quos apostolus nominat ad Galatas V sint actus

    Articolo 1 I frutti dello Spirito Santo di cui parla Paolo sono atti?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod fruc­ tus Spiritus Sancti quos apostolus nominat ad Gal. 5 [22-23], non sint actus. l . Id enim cuius est alius fructus, non debet dici fructus, sic enim in infinitum iretur. Sed

    Sembra di no. Infatti: l . Una cosa da cui ci si attendono dei frutti non deve essa stessa essere denominata frutto: perché allora si andrebbe all'infinito. Ora, dai nostri atti derivano già dei frutti, poiché in Sap è detto: Il frutto delle opere buone è glo-

    Q. 70, A. l

    Ifrutti dello Spirito Santo

    actuum nostrorum est aliquis fructus, dicitur enim Sap. 3 [ 1 5] , bonorwn laborum gloriosus est fructus; et Ioan. 4 [ 3 6 ] , qui metit,

    mercedem accipit, et fructum congregar in vitam aeternam. Ergo ipsi actus nostri non

    dicuntur fiuctus. 2. Praeterea, sicut Augustinus dicit, in l O De Trin. [ I O],fruimur cognitis in quibus voluntas propter ipsa delectata conquiescit. Sed volun­ tas nostra non debet conquiescere in actibus nostris propter se. Ergo actus nostri fructus dici non debent. 3. Praeterea, inter fructus Spiritus Sancti enu­ merantur ab apostolo aliquae virtutes scilicet caritas, mansuetudo, fides et castitas. Vrrtutes autem non sunt actus, sed habitus, ut supra [q. 55 a l] dictum est. Ergo fructus non sunt actus. Sed contra est quod dicitur Matth. 12 [33], ex fructu arbor cognoscitur; idest, ex operibus suis homo, ut ibi exponitur a sanctis [glos. ord.]. Ergo ipsi actus humani dicuntur fructus. Respondeo dicendum quod nomen fructus a corporalibus ad spiritualia est translatum. Dicitur autem in corporalibus fructus, quod ex pianta producitur cum ad perfectionem perve­ nerit, et quandam in se suavitatem habet. Qui quidem fructus ad duo comparaci potest, sci­ licet ad arborem producentem ipsum; et ad hominem qui fructum ex arbore adipiscitur. Secundum hoc igitur, nomen fructus in rebus spiritualibus dupliciter accipere possumus, uno modo, ut dicatur fructus hominis, quasi arboris, id quod ab eo producitur; alio modo, ut dicatur fructus hominis id quod homo adipiscitur. Non autem omne id quod adipiscitur homo, habet rationem fructus, sed id quod est ultimum, delectationem habens. Habet enim homo et agrum et arborem, quae fructus non dicuntur; sed solum id quod est ultimum, quod scilicet ex agro et arbore homo intendit habere. Et secundum hoc, fructus hominis dicitur ultimus hominis finis, quo debet frui. - Si autem dicatur fructus hominis id quod ex homine producitur, sic ipsi actus humani fructus dicunmr, operatio enim est actus secundus operantis, et delecta­ tionem habet, si sit conveniens operanti. Si igitur operatio hominis procedat ab homine se­ cundum facultatem suae rationis, sic dicitur es­ se fructus rationis. Si vero procedat ab homine secundum altiorem virtutem, quae est virtus Spiritus Sancti; sic dicitur esse operatio homi­ nis fructus Spiritus Sancti, quasi cuiusdam

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    rioso; e in Gv: Chi miete riceve salario e rac­ coglie frutto per la vita eterna. Quindi i nostri atti non possono dirsi frutti. 2. Agostino insegna che «noi fruiamo di que­ gli oggetti di conoscenza nei quali la volontà riposa godendoli per se stessi». Ma la nostra volontà non deve riposare nei nostri atti per se stessi. Quindi i nostri atti non possono dirsi frutti. 3. Tra i frutti dello Spirito Santo nominati da Paolo ci sono delle virtù, cioè la carità, la mansuetudine, la fede e la castità. Ma le virtù non sono atti, bensì abiti, come si è visto. Perciò i frutti non sono atti. In contrario: è detto in Mt: Dal frutto si cono­ sce l'albero; cioè, al dire dei santi [dottori], l 'uomo dalle sue opere. Quindi gli stessi atti umani sono denominati frutti. Risposta: il termine frutto dalle realtà mate­ riali è passato a indicare quelle spirituali. Ora, nelle realtà materiali si dice frutto ciò che la pianta produce quando è giunta alla sua per­ fezione, e che ha in se stesso una certa dol­ cezza. E questo frutto si può riferire a due cose: all ' albero che lo produce e all ' uomo che dali ' albero lo raccoglie. Per analogia dunque anche nelle realtà spirituali il frutto può avere questi due significati: primo, può indicare ciò che l' uomo produce, come se l'uomo fosse l'albero; secondo, può indicare ciò che l'uomo ottiene. - Ora, non tutto ciò che l ' uomo ottiene si presenta come frutto, ma solo ciò che è ultimo e insieme piacevole. Infatti l'uomo possiede il campo e l' albero, ma questi non vengono chiamati frutti, bensì solo ciò che è ultimo, quello cioè che l' uomo intende ricavare dal campo e dall'albero. E in questo senso il frutto dell'uomo è il fine ulti­ mo, di cui egli deve fruire. - Se però si consi­ dera frutto dell' uomo ciò che egli produce, allora gli stessi atti umani si dicono frutti: infatti l 'operazione è l' atto secondo del sog­ getto operante, ed è piacevole, se è ad esso proporzionata. Se dunque u n ' operazione umana deriva da un uomo secondo la capa­ cità della sua ragione, si dice che è un frutto della ragione. Se invece deriva dall' uomo per una virtù superiore, che è quella dello Spirito Santo, allora si dice che l'operazione dell'uo­ mo è un frutto dello Spirito Santo, come pro­ veniente da un seme divino; poiché in l Gv è detto: Chiunque è nato da Dio non commet-

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    Ifrutti dello Spirito Santo

    Q. 70, A. l

    divini seminis, dicitur enim l Ioan. 3 [9], omnis qui natus est ex Deo, peccatum non facit, quoniam semen ipsius in eo manet. Ad primum ergo dicendum quod, cum fructus habeat quodammodo rationem ultimi et finis, nihil prohibet alicuius fructus esse alium fiuc­ tum, sicut finis ad finem ordinatur. Opera igitur nostra inquantum sunt effectus quidam Spiritus Sancti in nobis operantis, habent rationem fructus, sed inquantum ordinantur ad finem vi­ tae aetemae, sic magis habent rationem florum. Unde dicitur Eccli. 24 [23], jlores mei fructus honoris et honestatis. Ad secundum dicendum quod, cum dicitur voluntas in aliquo propter se delectari, potest intelligi dupliciter. Uno modo, secundum quod ly propter dicit causam finalem, et sic propter se non delectatur aliquis nisi in ultimo fine. Alio modo, secundum quod designat causam formalem, et sic propter se aliquis potest delec­ tari in omni eo quod delectabile est secundum suam formam. S icut patet quod i nfirmus delectatur in sanitate propter se, sicut in fine; in medicina autem suavi, non sicut in fine, sed sicut in habente saporem delectabilem; in medicina autem austera, nullo modo propter se, sed solum propter aliud. Sic igitur dicen­ dum est quod in Deo delectari debet homo propter se, sicut propter ultimum finem, in actibus autem virtuosis, non sicut propter fi­ nem, sed propter honestatem quam continent, delectabilem virtuosis. Onde Ambrosius dicit [De Parad. 1 3] quod opera virtutum dicuntur fructus, quia suos possessores sancta et since­ ra delectatione reficiunt. Ad tertium dicendum quod nomina virtutum sumuntur quandoque pro actibus earum, sicut Augustinus dici t quod fides est credere quod non vides [In Ioan. 40, super 8,32]; et caritas est motus animi ad diligendum Deum et pmximum [De doctr. chr. 3, 10]. Et hoc modo sumuntur nomina virtutum in enumeratione fructuum.

    te peccato, perché un genne divino dimora in lui. Soluzione delle difficoltà: l . Sebbene il frutto abbia in qualche modo natura di ultimo e di fine, nulla tuttavia impedisce che un frutto abbia un altro frutto, come un fine può essere ordinato a un altro fine. Perciò le nostre opere, in quanto sono effetti dello Spirito Santo operante in noi, hanno natura di frutto; in quanto però sono ordinate al tine della vita eterna, hanno piuttosto natura di fiori. Perciò in Sir è detto: I miei fiori sono frutti di onore e di bellezza. 2. Quando si dice che la volontà gode di una cosa per se stessa, l'affermazione può essere intesa in due modi. Primo, in quanto la prepo­ sizione per indica la causa finale: e in questo senso uno non gode per se stesso che dell'ul­ timo fine. Secondo, in quanto la preposizione indica la causa formale: e in questo senso uno può godere di tutto ciò che è piacevole per la sua forma. Un malato, p. es., gode della gua­ rigione per se stessa come di un fine; di una medicina dolce invece non come di un fine, bensì come di una cosa avente un buon sapo­ re; di una medicina amara infine in nessun modo per se stessa, ma solo in vista di un'al­ tra cosa. - Perciò bisogna rispondere che l'uomo deve fruire solo di Dio per se stesso come del fine ultimo, e rallegrarsi degli atti virtuosi non come se fossero un fine, ma per l'onestà che essi contengono, piacevole per le persone virtuose. Perciò Ambrogio afferma che le opere virtuose vengono dette frutti «in quanto saziano chi le possiede con una santa e sincera gioia». 3. Talora i nomi delle virtù stanno per i loro atti, per cui Agostino scrive che «la fede è cre­ dere ciò che uno non vede», e che la carità è il moto dell'animo «verso l'amore di Dio e del prossimo». E in questo senso sono presi i nomi delle virtù nell'enumerazione dei frutti.

    Articulus 2 Utrum fructus a beatitudinibus differant

    Articolo 2 I frutti differiscono dalle beatitudini?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod fiuctus a beatitudinibus non differant. l . Beatitudines enim attribuuntur donis, ut supra [q. 69 a. l ad l ] dictum est. Sed dona perficiunt hominem secundum quod movetur

    Sembra di no. Infatti: l . Le beatitudini sono attribuite ai doni, come si è detto. Ma i doni assicurano all'uomo la perfezione derivante dalla mozione dello Spi­ rito Santo. Quindi le stesse beatitudini sono frutti dello Spirito Santo.

    Q. 70, A. 2

    Ifrutti dello Spirito Santo

    a Spirito Sancto. Ergo beatitudines ipsae sunt fructus Spiritus Sancti. 2. Praeterea, sicut se habet fructus vitae aeter­ nae ad beatitudinem futuram, quae est rei; ita se habent fructus praesentis vitae ad beatitudines praesentis vitae, quae sunt spei. Sed fructus vitae aeternae est ipsa beatitudo futura. Ergo fructus vitae praesentis sunt ipsae beatitudines. 3 . Praeterea, de ratione fructus est quod sit quiddam ultimum et delectabile. Sed hoc pertinet ad rationem beatitudinis, ut supra [q. 3 a. l ; q. 4 a. l] dictum est. Ergo eadem ratio est fructus et beatitudinis. Ergo non debent ab invicem distingui. Sed contra, quorum species sunt diversae, ipsa quoque sunt diversa. Sed in diversas par­ tes dividuntur et fructus et beatitudines; ut patet per numerationem utrorumque. Ergo fructus diffemnt a beatitudini bus. Respondeo dicendum quod plus requiritur ad rationem beatitudinis, quam ad rationem fructus. Nam ad rationem fructus sufficit quod sit aliquid habens rationem ultimi et delecta­ bilis, sed ad rationem beatitudinis, ulterius requiritur quod sit aliquid perfectum et excel­ lens. Unde omnes beatitudines possunt dici fructus, sed non convertitur. Sunt enim fructus quaecumque virtuosa opera, in quibus homo delectatur. Sed beatitudines dicuntur solum perfecta opera, quae etiam, ratione suae per­ fectionis, magis attribuuntur donis quam vir­ tutibus, ut supra [q. 69 a. l ad l ] dictum est. Ad primum ergo dicendum quod ratio illa probat quod beatitudines sint fructus, non autem quod omnes fructus beatitudines sint. Ad secundum dicendum quod fructus vitae aeternae est simpliciter ultimus et perfectus, et ideo in nullo distinguitur a beatitudine futura. Fructus autem praesentis vitae non sunt simpliciter ultimi et perfecti, et ideo non omnes fructus sunt beatitudines. Ad tertium dicendum quod aliquid amplius est de ratione beatitudinis quam de ratione fructus, ut dictum est [co.] .

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    2. I frutti della vita presente stanno alle beati­ tudini della vita presente, proprie della spe­ ranza, come i frutti della vita eterna stanno alla beatitudine futura, propria della realtà. Ma il fmtto della vita eterna non è altro che la beatitudine futura. Perciò anche i frutti della vita presente non sono altro che le beatitudini. 3. Il frutto è essenzialmente qualcosa di ulti­ mo e di piacevole. Ma secondo le spiegazioni date, ciò rientra nell'essenza della beatitudine. Quindi l'essenza del frutto e quella della bea­ titudine si identificano. Quindi non vanno distinte fra loro. In contrario: se due cose hanno specie diver­ se, sono diverse anche fra di loro. Ma le sud­ divisioni delle beatitudini e dei frutti sono diverse, come risulta evidente dalle rispettive enumerazioni. Perciò i fmtti differiscono dalle beatitudini. Risposta: per la beatitudine si richiede più che per il frutto. Per il frutto infatti basta che una cosa si presenti come ultima e p iacevole, mentre per la beatitudine si richiede inoltre che sia qualcosa di perfetto e di eccellente. E così tutte le beatitudini possono dirsi frutti, ma non viceversa. Infatti qualunque azione virtuosa compiuta con gioia è un fmtto. Inve­ ce si dicono beatitudini le sole azioni perfette: le quali inoltre, a motivo della loro perfezio­ ne, sono attribuite più ai doni che alle virtù, come si è già notato. Soluzione delle difficoltà: l . L'argomento dimostra che le beatitudini sono frutti, ma non che tutti i frutti sono beatitudini. 2. n fmtto della vita eterna è ultimo e perfetto in senso assoluto, e quindi non si distingue in nulla dalla beatitudine futura. Invece i frutti della vita presente non sono ultimi e perfetti in senso assoluto, per cui non tutti i frutti sono beatitudini. 3. Come si è spiegato, la nozione di beatitudi­ ne richiede qualcosa di più che la nozione di frutto.

    Articulus 3

    Articolo 3

    Utrum fructus convenienter enumerentur ab apostolo

    I frutti sono ben enumerati da Paolo in Gal?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod aposto­ lus inconvenienter enumeret, ad Gal. 5 [22-23], duodecim fructus.

    Sembra di no. Infatti: l . Altrove Paolo dice che c'è solo un frutto della vita presente, così in Rm: Avete il vostro

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    Ifrutti dello Spirito Santo

    l . Alibi enim dicit esse tantum unum fructum praesentis vitae; secundum illud Rom. 6 [22], habetis fructum vestrum in sanctificatione et Isaiae 27 [9] dicitur, hic est omnis fructus, ut auferatur peccatum. Non ergo ponendi sunt duodecirn fructus. 2. Praeterea, fructus est qui ex spirituali semine exoritur, ut dictum est [a. 1 ] . Sed Dominus, Matth. 1 3 [23], ponit triplicem terrae bonae fructum ex spirituali semine provenientem, sci­ licet centesimum, et sexagesimum, et trigesi­ mum. Ergo non sunt ponendi duodecim fructus. 3. Praeterea, fructus habet in sui ratione quod sit ultimum et delectabile. Sed ratio ista non invenitur in omnibus fructibus ab apostolo enumeratis, patientia enim et longanimitas videntur in rebus contristantibus esse; fides autem non habet rationem ultimi, sed magis rationem primi fundamenti. Superflue igitur huiusmodi fructus enumerantur. Sed contra, videtur quod insuftìcienter et di­ minute enumerentur. Dictum est [a. 2] enim quod ornnes beatitudines fructus dici possunt, sed non ornnes hic enumerantur. Nihil etiam hic ponitur ad actum sapientiae pertinens, et multarum aliarum virtutum. Ergo videtur quod insufficienter enumerentur fructus. Respondeo dicendum quod numerus duode­ cim fructuum ab apostolo enumeratorum, conveniens est, et possunt signitìcari per duo­ decim fructus de quibus dicitur Apoc. ult. [2], ex utraque parte fluminis lignum vitae, affe­ rens ftuctus duodecim. Quia vero fructus di­ citur quod ex aliquo principio procedit sicut ex semine vel radice, attendenda est distinctio horum fructuum secundum diversum proces­ sum Spiritus Sancti in nobis. Qui quidem pro­ cessus attenditur secundum hoc, ut primo mens hominis in seipsa ordinetur; secundo vero, ordinetur ad ea quae sunt iuxta; tertio vero, ad ea quae sunt infra. - Tunc autem bene mens hominis disponitur in seipsa, quando mens hominis bene se habet et in bonis et in malis. Prima autem dispositio mentis huma­ nae ad bonum, est per amorem, qui est prima affectio et omnium affectionum radix, ut su­ pra [q. 27 a. 4; q. 28 a. 6 ad 2; q. 4 1 a. 2 ad l ] dictum est. Et ideo inter fructus Spiritus pri­ mo ponitur caritas; in qua specialiter Spiritus Sanctus datur, sicut in propria similitudine, cum et ipse sit amor. Unde dicitur Rom. 5 [5], caritas Dei diffusa est in cordibus nostris per

    Q. 70, A. 3

    flutto nella santificazione. E in Is è detto: E questo è tutto il flutto, che il peccato sia ri­ mosso. Quindi non si devono enumerare do­ dici frutti. 2. D frutto, come si è visto, nasce da un seme spitituale. Ma il Signore in Mt fa derivare tre soli tipi di frutto dal seme spirituale, ossia il cento per uno e il sessanta per uno e il trenta per uno. Perciò non si possono ammettere dodici frutti. 3. Il frutto deve essere essenzialmente qualco­ sa di ultimo e di piacevole. Ora, questa nozio­ ne non si riscontra in tutti i frutti enumerati da Paolo: infatti la pazienza e la longanimità sembrano consistere in cose rattristanti, men­ tre la fede non si presenta come cosa ultima, bensì come primo fondamento. Perciò questa enumerazione dei frutti è eccessiva. In contrario: sembra che l'enumerazione sia insufficiente. Infatti abbiamo dimostrato che tutte le beatitudini possono essere chiamate frutti: ma qui non tutte vengono enumerate. Inoltre non c'è nulla che si riferisca all'atto della sapienza e di molte altre virtù. Quindi sembra che l ' enumerazione dei frutti sia insufficiente. Risposta: il numero dei dodici frutti enume­ rati da Paolo è giustifi cato: e possiamo vedeme un'immagine nei dodici frutti di cui è detto in Ap: Da una parte e dall'altra del fiume si tmva wz albem di vita, che fa dodici frutti. La distinzione poi di questi frutti va presa in rapporto ai vari progressi dello Spi­ rito Santo in noi: poiché il frutto è ciò che deriva come un effetto dal seme o dalla radi­ ce. Ora, tali progressi hanno questo sviluppo: prima ordinano l'anima dell'uomo in se stes­ sa; poi la ordinano rispetto alle cose che sono intorno; infine la ordinano rispetto a quelle che sono al di sotto. - Ora, l'anima è ordinata in se medesima quando nel bene e nel male ha una retta disposizione. E la prima sua disposizione al bene è dovuta ali' amore, che è il primo degli aft'etti e la radice di tutti gli altri, come si è visto in precedenza. Perciò tra i frutti dello spirito al primo posto abbiamo la carità, nella quale lo Spirito Santo viene dato in maniera speciale, come nella sua propria somiglianza, essendo egli stesso amore. Infatti in Rm è detto: La carità di Dio è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Ma all'amo-

    Q. 70, A. 3

    Ifrutti dello Spirito Santo

    Spiritum Sanctum, qui datus est nobis. Ad amorem autem caritatis ex necessitate sequitur gaudium. Omnis enim amans gaudet ex coniunctione amati. Caritas autem semper ha­ bet praesentem Deum, quem amat; secundum illud l Ioan. 4 [16], qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo. Unde sequela cari­ tatis est gaudium. Perfectio autem gaudii est p a x, quantum ad duo. Primo quidem, quantum ad quietem ab exterioribus contur­ bantibus, non enim potest perfecte gaudere de bono amato, qui in eius fruitione ab aliis perturbatur; et iterum, qui pertecte cor habet in uno pacatum, a nullo alio molestati potest, cum alia quasi nihil reputet; unde dicitur in Psalmo 1 1 8 [165], pax multa diligentibus legem tuam, et non est illis scandalum, quia scilicet ab exterioribus non perturbantur, quin Deo fruantur. Secundo, quantum ad seda­ tionem desiderii fluctuantis, non enim perfec­ te gaudet de aliquo, cui non sufficit id de quo gaudet. Haec autem duo importat pax, scilicet ut neque ab exterioribus perturbemur; et ut desideria nostra conquiescant in uno. Unde post caritatem et gaudium, tertio ponitur pax. In malis autem bene se habet mens quantum ad duo. Primo quidem, ut non perturbetur mens per imminentiam malorum, quod per­ tinet ad patientiam. Secundo, ut non pertur­ betur in dilatione bonorum, quod pertinet ad longanimitatem, nam cw·ere bono habet ra­ tionem mali, ut dicitur in V Ethic. [cf. Cicero, Tuscul. 1,36; Arist., Ethic. 5,3,1 4]. - Ad id autem quod est iuxta hominem, scilicet proxi­ mum, bene disponitur mens hominis, primo quidem, quantum ad voluntatem bene facien­ di. Et ad hoc p ertinet bonitas. Secundo, quantum ad beneficentiae executionem. Et ad hoc pertinet benignitas, dicuntur enim benigni quos bonus ignis amoris fervere facit ad bene­ faciendum proximis. Tertio, quantum ad hoc quod aequanimiter tolerentur mala ab eis il­ lata. Et ad hoc pertinet mansuetudo, quae cohibet iras. Quarto, quantum ad hoc quod non solum per iram proximis non noceamus, sed etiam neque per fraudem vel per dolum. Et ad hoc pertinet fides, si pro fidelitate suma­ tur. Sed si sumatur pro tìde qua creditur in Deum, sic per hanc ordinatur homo ad id quod est supra se, ut scilicet homo intellectum suum Deo subiiciat, et per consequens omnia quae ipsius sunt. - Sed ad id quod infra est,

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    re di carità segue necessariamente la gioia. Poiché chi ama gode sempre dell'unione con l' amato, e d'altra parte la carità ha sempre presente Dio che ama, secondo quanto è scritto in l Gv: Chi sta nel/'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui. Per cui alla carità segue la gioia. La perfezione poi della gioia è la pace, nei suoi due elementi. Primo, rispetto alla quiete dai turbamenti esterni: infatti non può godere perfettamente del bene amato chi a motivo di altre cose viene distolto dalla fruizione di esso; ma chi ha il cuore perfetta­ mente appagato in una cosa non può essere molestato dalle altre, poiché non le considera affatto; per cui è detto nel Sal: Grande pace a coloro che amano la tua legge, e non hanno inciampo, perché eventi esterni non li distol­ gono dal godere di Dio. Secondo, rispetto alla sazietà del desiderio fluttuante: poiché non si può godere perfettamente se ciò di cui si gode non basta. Ora, la pace implica que­ ste due cose: il non essere turbati dalle realtà esteriori e l'acquietarsi del desiderio in un unico oggetto. Perciò, dopo la carità e l a gioia, a l terzo posto troviamo l a pace. Rispet­ to al male invece la buona disposizione del­ l' anima richiede due cose. Primo, l'assenza di turbamento nell'imminenza di cose dolo­ rose: e ciò si riduce alla pazienza. Secondo, l' assenza di turbamento nella dilazione di co­ se piacevoli: e ciò si riduce alla longanimità; infatti, al dire di Aristotele, «la mancanza di un bene ha l'aspetto di male». - Rispetto poi alle cose che sono vicine all' uomo, cioè ri­ spetto al prossimo, l'anima umana viene ben disposta: primo, quanto alla volontà di fare del bene. E in ciò abbiamo la bontà. Secon­ do, quanto all'esercizio effettivo della benefi­ cenza. E in ciò abbiamo la benignità: infatti si dicono benigni coloro che il buon igne [o fuoco] dell'amore rende fervidi nel benefica­ re il prossimo. Terzo, nell'equanime soppor­ tazione del male ricevuto. E in ciò abbiamo la mansuetudine, che frena l' ira. Quarto, nel non limitarsi a non nuocere al prossimo con l'ira, ma neppure con la frode o con l'ingan­ no. E in ciò abbiamo la fede, se le diamo il senso di fedeltà. Se invece la prendiamo co­ me fede in Dio, allora da essa l'uomo viene ordinato alle cose che sono sopra di lui: così che sottometta a Dio il suo intelletto, e quindi tutte le sue cose. Rispetto alle cose infine che

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    Ifrutti dello Spirito Santo

    bene disponitur homo, primo quidem, quan­ tum ad exteriores actiones, per modestiam, quae in omnibus dictis et factis modum obser­ vat. Quantum ad interiores concupiscentias, per continentiam et castitatem, sive haec duo distinguantur per hoc, quod castitas refrenat hominem ad illicitis, continentia vero etiam a licitis; sive per hoc quod continens patitur concupiscentias sed non deducitur, castus autem neque patitur neque deducitur. Ad primum ergo dicendum quod sanctificatio fit per omnes virtutes per quas etiam peccata tolluntur. Unde fructus ibi singulariter nomi­ natur propter unitatem generis, quod in mul­ tas species dividitur, secundum quas dicuntur multi fructus. Ad secundum dicendum quod fructus centesi­ mus, sexagesimus et trigesimus non diversifi­ cantur secundum diversas species virtuosorum actuum, sed secundum diversos perfectionis gradus etiam unius virtutis. Sicut continentia coniugalis dicitur [Hieronimus, Adv. lovin. l ,3] significari per fructum trigesimum; con­ tinentia vidualis per sexagesimum; virginalis autem per centesimum. Et aliis etiam modis sancti distinguunt tres evangelicos fructus secundum tres gradus virtutis. Et ponuntur tres gradus, quia cuiuslibet rei perfectio attenditur secundum principium, medium et finem. Ad tertium dicendum quod ipsum quod est in tristitiis non perturbari, rationem delectabilis habet. Et fides etiam si accipiatur prout est fundamentum , habet quandam rationem ultimi et delectabilis, secundum quod continet certitudinem, unde Glossa [glos. ord . et Lomb., super Gal. 5,23] exponit, fides, idest

    de invisibilibus certitudo. Ad quartum dicendum quod, sicut Augustinus dicit, Super epistolam ad Gal. [super 5,22],

    apostolus non hoc ita suscepit, ut doceret quod sunt (vel opera camis, vel fructus Spiritus); sed ut ostenderet in quo genere il/a vitanda, illa vero sectanda sint. Unde potuissent vel plures, vel etiam pauciores fructus enumerari. Et tamen omnes donorum et virtutum actus possunt se­ cundum quandam convenientiam ad haec re­ duci, secundum quod omnes virtutes et dona necesse est quod ordinent mentem aliquo prae­ dictorum [co.] modorum. Unde et actus sapien­ tiae, et quorumcumque donorum ordinantium ad bonum, reducuntur ad cru.itatem, gaudium et pacem. Ideo tamen potius haec quam alia

    Q. 70, A. 3

    sono al di sotto di sé l'uomo viene ben dispo­ sto innanzitutto, quanto alle azioni esterne, dalla modestia, che ne regola tutti i gesti e le parole. Quanto alle concupiscenze interiori invece dalla continenza e dalla castità: sia che esse si distinguano per il fatto che, mentre la castità trattiene l'uomo dai piaceri illeciti, la continenza lo trattiene anche da quelli leciti, sia che si distinguano per il tàtto che mentre il continente prova le concupiscenze, ma non ne è trascinato, il casto non le prova e non ne è trascinato. Soluzione delle difficoltà: l. La santificazio­ ne avviene mediante tutte le virtù, attraverso le quali vengono tolti anche i peccati. Perciò in quei testi si parla di frutto al singolare data l 'unità del genere: questo però si suddivide in più specie, per cui si parla di una pluralità di frutti. 2. I suddetti tre tipi di frutti non dividono il genere secondo le varie specie degli atti vir­ tuosi, ma secondo i diversi gradi anche nel­ l' ambito di una stessa virtù. Così si dice che la continenza coniugale è indicata dal trenta per uno, quella vedovile dal sessanta e quel­ la verginale dal cento per uno. E i santi dot­ tori distinguono questi tre tipi di frutti anche in altri modi, secondo tre gradi di virtù. E si parla di tre gradi perché la perfezione di una cosa può essere considerata nel suo principio, i n un punto intermedio e nel suo termine. 3. La stessa assenza di turbamento nelle cose tristi ha l'aspetto di cosa piacevole. E anche la fede, se viene presa come fondamento, ha un aspetto di cosa ultima e piacevole, i n quanto implica certezza, da cui l'espressione della Glossa: «La fede, cioè la certezza delle realtà invisibili». 4. Agostino nota che «Paolo non si è impe­ gnato a insegnare quali siano» le opere della carne o i frutti dello spirito, «ma a mostrare in quale genere si trovino le cose da evitare, e in quale quelle da perseguire». Cosicché si sa­ rebbe potuto enumerare un numero maggiore o minore di frutti. Però tutti gli atti delle virtù e dei doni si possono in qualche modo ridurre a questi [dodici], giacché le virtù e i doni devono tutti necessariamente ordinare l'ani­ ma in uno dei modi indicati. Quindi gli atti della sapienza e degli altri doni riguru.·danti il bene si riducono alla carità, alla gioia e alla

    Q. 70, A. 3

    Ifrutti dello Spirito Santo

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    enumeravit, quia hic enumerata magis im­ portant vel fruitionem bonorum, vel sedationem malorum; quod videtur ad rationem fructus pertinere.

    pace. Tuttavia Paolo ha enumerato questi a preferenza di altri in quanto implicanti me­ glio o la fruizione del bene o la sedazione del male; il che è legato alla nozione di frutto.

    Articulus 4 Utrum fructus Spiritus Sancti contrarientur operibus carnis

    Articolo 4 I frutti dello Spirito Santo sono contrari alle opere della carne?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod fructus non contrarientur operibus carnis quae apo­ stolus enumerat [Gal. 5, 1 9] . l . Contraria enim sunt i n eodem genere. Sed opera carnis non dicuntur fructus. Ergo fructus Spiritus eis non contrariantur. 2. Praeterea, unum uni est contrarium. Sed plura enumerat apostolus opera carnis quam fructus Spiritus. Ergo fructus Spiritus et opera carnis non contratiantur. 3. Praeterea, inter fructus Spiritus primo po­ nuntur caritas, gaudium, pax, quibus non cor­ respondent ea quae primo enumerantur inter opera carnis, quae sunt fornicatio, immundi­ tia, impudicitia. Ergo fructus Spiritus non contrariantur operibus carnis. Sed contra est quod apostolus dicit ibidem [Gal. 5, 17], quod caro concupiscit adversus Spiritum, et Spiritus adversus carnem. Respondeo dicendum quod opera camis et fructus Spiritus possunt accipi dupliciter. - Uno modo, secundum communem rationem. Et hoc modo in communi fructus Spiritus Sancti contrariantur operibus carnis. Spiritus enim Sanctus movet humanam mentem ad id quod est secundum rationem, vel potius ad id quod est supra rationem, appetitus autem carnis, qui est appetitus sensitivus, trahit ad bona sensibilia, quae sunt infra hominem. Unde sicut motus sursum et motus deorsum con­ trariantur in naturalibus, ita in operibus hu­ manis contrariantur opera camis fructibus Spiritus. - Allo modo possunt considerari se­ cundum proprias rationes singulorum fruc­ tuum enumeratorum, et operum carnis. Et sic non oportet quod singula singulis contrapo­ nantur, quia, sicut dictum est [a. 3 ad 4] , apostolus non intendit enumerare omnia ope­ ra spiritualia, nec omnia opera carnalia. Sed tamen, secundum quandam adaptationem, Augustinus, super epistolam ad Gal. [super 5,22] , contraponit singulis operibus camis singulos fructus. Sicut fornicationi, quae est

    Sembra di no. Infatti: l. I contrari sono nel medesimo genere. Ma le opere della carne non sono chiamate frutti. Quindi i frutti dello spirito non sono ad esse contrari. 2. A una data cosa corrisponde un solo con­ trario. Paolo invece enumera più opere della carne che frutti dello spirito. Perciò i frutti dello spirito e le opere della carne non sono contrari fra di loro. 3. Tra i frutti dello spirito al primo posto tro­ viamo la carità, la gioia e la pace: ad esse però non corrispondono le opere della carne enumerate al primo posto, e che sono la forni­ cazione, l'impurità e l'impudicizia. Quindi i frutti dello spirito non sono contrari alle opere della carne. In contrario: Paolo in Gal dice che la carne ha desideri contrari allo spirito, e lo spirito ha desideri contrari alla carne. Risposta: le opere della carne e i fmtti dello spirito possono essere considerati sotto due aspetti. - Primo, nella loro natura comune. E da questo lato tutti insieme i frutti sono contrari alle opere della carne. Intatti lo Spirito Santo muove l'anima umana verso ciò che è confor­ me alla ragione, o piuttosto verso ciò che è al di sopra di essa; invece l'appetito della carne, cioè l'appetito sensitivo, trascina verso i beni sensibili, che sono al disotto dell'uomo. Perciò, come nel mondo fisico il moto verso l'alto e quello verso il basso sono contrari, così nel­ l'uomo le opere della carne sono contrarie ai frutti dello spirito. - Secondo, possono essere considerati nella natura propria di ciascun frut­ to e di ciascuna opera della carne. E da questo lato non è necessario che ciascuno abbia il suo contrario: poiché, come si è già ricordato, Paolo non intendeva enumerare né tutte le opere spirituali, né tutte quelle carnali. Tutta­ via, secondo una certa corrispondenza, Agosti­ no contrappone alle singole opere della carne detenninati frutti. Così «alla fornicazione, che

    675

    Q. 70, A. 4

    Ifrutti dello Spirito Santo

    amor explendae libidinis a legitimo connubio solutus, opponitur caritas, per quam anima coniungitur Deo in qua etiam est vera casti­ las. Immunditiae autem sunt omnes perturba­ tiones de il/a fomicatione conceptae, quibus gaudium tranquillitatis opponitur. ldolorum autem servitus, propter quam bellum est gestum adversus Evangelium Dei, opponitur paci. Contra veneficia autem, et inimicitias et contentiones et aemulationes, animositates et dissensiones, opponuntur longanimitas, ad sustinendwn ma/a hominum inter quos vivi­ mus; et ad curandum, benignitas; et ad ignoscendum, bonitas. Haeresibus autem op­ ponitur fides, invidiae, mansuetudo; ebrie­ tatibus et comessationibus, continentia. Ad p r imum ergo dicendum quod id quod procedit ab arbore contra naturam arboris, non dicitur esse fructus eius, sed magis cor­ ruptio quaedam. Et quia virtutum opera sunt connaturalia rationi, opera vero vitiorum sunt contra rationem; ideo opera virtutum fructus dicuntur, non autem opera vitiorum. Ad secundum dicendum quod bonum contin­ git uno modo, malum vero omnifariam, u t Dionysius dicit, 4 cap. De div. nom. [3 1 ], unde et uni virtuti plura vitia opponuntur. Et propter hoc, non est mirum si plura ponuntur opera carni s quam fructus Spiritus. Ad tertium patet solutio ex dictis [co.].

    è l'amore di soddisfare il piacere fu ori del legittimo matrimonio, si contrappone la carità, che unisce l'anima a Dio, e nella quale anche si trova la vera castità. Le impurità poi sono tutti i turbamenti concepiti in seguito a tale fornica­ zione: e ad esse si contrappone la gioia della tranquillità. Inoltre la schiavitù degli idoli, che ha provocato la guerra contro il vangelo di Dio, si contrappone alla pace. Invece il contrario dei venefici, delle inimicizie e delle discordie sono la longanimità, che aiuta a sopportare i mali delle persone tra le quali si vive, la benignità, che aiuta a porvi rimedio, e la bontà, che li fa dimenticare. Alle eresie poi si contrappone la fede, all'invidia la mansuetudine e alle ubria­ chezze e alle gozzoviglie la continenza>>. Soluzione delle difficoltà: l . Ciò che emana da un albero contro la sua natura non può essere detto frutto dell'albero, ma piuttosto corruzio­ ne di esso. Poiché dunque le opere virtuose sono connaturali alla ragione, mentre quelle viziose sono ad essa contrarie, le opere virtuo­ se sono dette fmtti, e non invece quelle viziose. 2. Secondo Dionigi «il bene avviene in u n modo solo, i l male invece i n qualsiasi manie­ ra>> : e così a una sola virtù si contrappongono molti vizi. Per cui non c'è da meravigliarsi che le opere della carne siano più numerose dei frutti dello spirito. 3. La risposta è chiara in base a quanto detto.

    QUAESTI0 7 1

    QUESTIONE 7 1

    DE VITIIS ET PECCATIS

    I VIZI E I PECCATI CONSIDERATI IN SE STESSI

    Consequenter considerandum est de vitiis et peccatis. Circa quae sex consideranda occur­ runt, primo quidem, de ipsis vitiis et peccatis secundum se; secundo, de distinctione eorum [q. 72]; tertio, de comparatione eorum ad invi­ cem [q. 73] ; quarto, de subiecto peccati [q. 74]; quinto, de causa eius [q. 75]; sexto, de effectu ipsius [q. 85 ]. Circa primum quaeruntur sex. Primo, utrum vitium contrarietur virtuti. Se­ cundo, utrum vitium sit contra naturam. Tertio, quid sit peius, utrum vitium vel actus vitiosus. Quarto, utrum actus vitiosus possit esse simul cum virtute. Quinto, utrum in omni peccato sit aliquis actus. Sexto, de definitione p eccati quam Augustinus ponit, 22 Contra Faustum [27], peccatum est dictum ve l factum vel

    concupitum contra legem aetemam.

    Logicamente dobbiamo ora trattare dei vizi e dei peccati. Su questo tema si offrono alla nostra considerazione sei argomenti: primo, i vizi e i peccati nella loro natura intrinseca; se­ condo, le loro distinzioni; terzo, il loro con­ fronto reciproco; quarto, la sede [psicologica] del peccato; quinto, le sue cause; sesto, i suoi effetti. Sul primo argomento si pongono sei quesiti: l . n vizio è il contr� o della virtù? 2. Il vizio è contro natura? 3. E peggiore il vi­ zio o l'atto vizioso? 4. L'atto vizioso è com­ possibile cçn la virtù? 5. In ogni peccato c'è un atto? 6. E esatta la definizione di Agostino: «li peccato è una parola, un'azione o un desi­ derio contro la legge eterna>>?

    Q. 7 l , A. l

    I vizi e i peccati considerati in se stessi

    676

    Articulus l Utrum vitium contrarietur virtuti

    Articolo l Il vizio è il contrario della virtù?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod vitium non contrarietur virtuti. l . Uni enim unum est contrarium, ut probatur in 1 0 Met. [9,4,4; 9, 5 , 1 ] . Sed virtuti contra­ riantur peccatum et malitia. Non ergo contra­ riatur ei vitium, quia vitium dicitur etiam si sit indebita dispositio membrorum corporalium, vel quarumcumque rerum. 2. Praeterea, virtus nominat quandam perlec­ tionem potentiae. Sed vitium nihil nominat ad potentiam pertinens. Ergo vitium non contra­ riatur virtuti. 3. Praeterea, Tullius dicit, in 4 De Tuscul. q. [ 1 3], quod virtus est quaedam sanitas ani­ mae. Sanitati autem opponitur aegritudo vel morbus, magis quam vitium. Ergo virtuti non contrariatur vitium. Sed contra est quod dicit Augustinus, in libro De perlectione iustitiae [2], quod vitium est

    Sembra di no. Infatti: l . Come insegna Aristotele, ogni cosa ha un solo contrario. Ora, la virtù ha come contrario il peccato e la malizia. Quindi il suo contrario non è il vizio: poiché si chiama vizio anche la disposizione indebita delle membra corporee, o di qualsiasi altra cosa. 2. La virtù sta a indicare una perfezione della potenza. Invece il vizio non esprime alcun rapporto con la potenza. Perciò il vizio non è il contrario della virtù. 3. Cicerone insegna che «la virtù è una specie di salute dell'anima>>. Ma alla salute, più che il vizio, si contrappone l' infennità, o la malattia. Quindi il vizio non è il contrario della virtù. In contrario: Agostino scrive che «il vizio è una qualità che rende l' animo cattivo». Invece la virtù è «una qualità che rende buono chi la possiede», come si è visto. Quindi il vizio è il contrario della virtù. Risposta: nella virtù si possono considerare due cose, cioè l 'essenza stessa della virtù e l'atto a cui essa è ordinata. Ora, nell'essenza della virtù alcuni elementi rientrano diretta­ mente e altri indirettamente. Direttamente la virtù implica la disposizione particolare di un soggetto conforme alla sua natura, per cui il Filosofo insegna che «la virtù è la disposizio­ ne di ciò che è perletto all'ottimo; e chiamo perletto ciò che è disposto secondo natura>>. Indirettamente poi ne viene che la virtù è una certa bontà: infatti la bontà di ogni cosa consi­ ste nel suo adeguarsi al modo della propria natura. L' atto poi a cui la vita è ordinata è l'atto buono, come risulta evidente da quanto abbiamo detto. - In base a ciò, dunque, tre so­ no le cose che si oppongono alla virtù. La pri­ ma di esse è il peccato, che si contrappone al­ l 'atto a cui la virtù è ordinata: infatti il peccato sta a indicare l'atto disordinato, mentre l'atto della virtù è retto e ordinato. In quanto invece la virtù implica la bontà, ad essa si contrappo­ ne la malizia. Per quanto infine ne costituisce direttamente la ragione di virtù, ad essa si contrappone il vizio: infatti il vizio, per ogni cosa, consiste nel suo non essere disposta se­ condo la propria natura. Per cui Agostino può affermare: «Chiama vizio ciò che vedrai man­ care alla perfezione di una natura>>.

    qualitas secundum quam malus est animus. Virtus autem est qualitas quae facit bonum habentem, ut ex supradictis [q. 55 aa. 3-4]

    patet. Ergo vitium contrariatur virtuti. Respondeo dicendum quod circa virtutem duo possumus considerare, scilicet ipsam essen­ tiam virtutis; et id ad quod est viitus. In es­ sentia quidem virtutis aliquid considerari po­ test directe; et aliquid ex conseguenti. Directe quidem virtus importat dispositionem quan­ dam alicuius convenienter se habentis secun­ dum modum suae naturae, unde philosophus dicit, in 7 Phys. [3,4] quod virtus est dispositio

    pe1jecti ad optimum; dico autem peifecti, quod est dispositum secundum naturam. Ex

    conseguenti autem sequitur quod virtus sit bo­ nitas quaedam, in hoc enim consistit unius­ cuiusque rei bonitas, quod convenienter se habeat secundum modum suae naturae. Id autem ad quod virtus ordinatur, est actus bo­ nus, ut ex supradictis [q. 56 a. 3] patet. - Se­ cundum hoc igitur tria inveniuntur opponi virtuti. Quorum unum est peccatum, quod opponitur sibi ex parte eius ad quod virtus ordinatur, nam peccatum proprie nominat actum inordinatum, sicut actus virtutis est actus ordinatus et debitus. Secundum autem quod ad rationem virtutis consequitur quod sit bonitas quaedam, opponitur virtuti malitia. Sed secundum id quod directe est de ratione

    677

    I vizi e i peccati considerati in se stessi

    virtutis, opponitur virtuti vitiurn, vitiurn enirn uniuscuiusque rei esse videtur quod non sit disposita secundum quod convenit suae naturae. Unde Augustinus dicit, in 3 De lib. arb. [ 14], quod pe1jectioni naturae deesse perspexeris, id voca vitium. Ad primum ergo dicendum quod illa tria non contrariantur virtuti secundurn idem, sed peccatum quidem contrariatur secundum quod viltus est operativa boni; malitia autem secundum quod est bonitas quaedam; vitium autem proprie secundum quod est virtus. Ad secundum dicendum quod virtus non solum importat perfectionem potentiae quae est principium agendi, sed etiam importat debitam dispositionem eius cuius est virtus, et hoc ideo quia unumquodque operatur secun­ dum quod actu est. Requiritur ergo quod aliquid sit in se bene dispositum, quod debet esse boni operativum. Et secundum hoc vir­ tuti vitium opponitur. Ad tertium dicendum quod, sicut Tullius dicit, in 4 De Tuscul. q. [ 1 3], morbi et aegro­ tationes pmtes sunt vitiositatis, in corporibus enim morbwn appellant totius corporis cor­ rnptionem, puta febrem vel aliquid huiusmodi; aegrotationem vero, morbum cum imbecil­ litate; vitium autem, cum partes corporis inter se dissident. Et quamvis in corpore quando­ que sit morbus sine aegrotatione, puta cum aliquis est interius male dispositus, non tamen exterius praepeditur a solitis operationibus; in animo tamen, ut ipse dicit [De Thscul. q. 4,1 3], haec duo non possunt nisi cogitatione secer­ ni. Necesse est enim quod quandocumque aliquis interius est male dispositus, habens inordinatum affectum, quod ex hoc imbecillis reddatur ad debitas operationes exercendas, quia unaquaeque arbor ex suofructu cognosci­ tur, idest homo ex opere, ut dicitur Matth. 1 2 [33]. Sed vitium animi, u t Tullius ibidem dicit, est habitus aut affectio animi in tota vita inconstans, et a seipsa dissentiens. Quod quidem invenitur etiam absque morbo vel ae­ grotatione, ut puta cum aliquis ex infirmitate vel ex passione peccat. Unde in plus se habet vitium quam aegrotatio vel morbus, sicut etiam virtus in plus se habet quam sanitas, nam sanitas etiam quaedam virtus ponitur in 7 Phys. [3,4]. Et ideo virtuti convenientius opponitur vitium quam aegrotatio vel morbus.

    Q. 7 1 , A. l

    Soluzione delle difficoltà: l . Le tre cose indi­ cate non si contrappongono alla virtù nella stessa maniera: poiché il peccato le si con­ trappone in quanto la virtù porta a operare il bene, la malizia in quanto è una certa bontà e il vizio propriamente in quanto essa è virtù. 2. La virtù non implica soltanto la perfezione della potenza operativa, ma anche la debita disposizione del soggetto a cui appartiene: e ciò perché ogni cosa agisce conformemente al suo attuale modo di essere. Perciò si richie­ de che una cosa, per compiere il bene, abbia in sé una buona disposizione. E sotto questo aspetto il vizio si contrappone alla virtù. 3. Come spiega lo stesso Cicerone, «le malat­ tie e le infermità fanno parte della condizione viziosa di un essere»: i nfatti nel corpo «si chiama malattia la conuzione di tutto l'orga­ nismo», come la febbre e le affezioni consi­ mili, mentre «si chiama infermità la malattia accompagnata dalla debolezza, e vizio la disgregazione delle parti fra di loro». Ora, sebbene nel corpo ci possa essere la malattia senza l ' infermità, come quando uno è mal disposto internamente senza essere impedito dal compiere ali' esterno le solite attività, «nell'animo invece queste due cose non si possono distinguere che col pensiero», come affetma il medesimo autore. E infatti inevita­ bile che ogni qual volta uno è mal disposto i nteriormente per un affetto disordinato, divenga per ciò stesso incapace di compiere le operazioni dovute: poiché, come è detto in Mt, dal frutto si conosce albero, cioè l'uomo viene riconosciuto in base alle sue opere. Ma «il vizio dell'animo», secondo Cicerone, «è un abito o una affezione spirituale che rende incostante e incoerente tutta la vita». E ciò si riscontra anche senza malattie o infermità, come quando uno pecca per debolezza o per passione. Perciò il vizio è più esteso dell'in­ fermità o della malattia; e la virtù stessa ha un'estensione maggiore della salute poiché, secondo Aristotele, anche la salute è da consi­ derarsi una virtù. Quindi alla virtù si contrap­ pone più direttamente il vizio che l'infermità o la malattia.

    Q. 7 l , A. 2

    I vizi e i peccati considerati in se stessi

    678

    Articulus 2 Utrum vitium sit contra naturam

    Articolo 2 D vizio è contro natura?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod vitium non sit contra naturam. l . Vitium enim contrariatur virtuti, ut dictum est [a. 1 ] . Sed virtutes non sunt in nobis a natura, sed causantur in nobis per infusionem aut ab assuetudine, ut dictum est. Ergo vitia non sunt contra naturam. 2. Praeterea, ea quae sunt contra naturam, non possunt assuefieri, sicut lapis nunquam assuescit ferri sursum, ut dicitur in 2 Ethic. [q. 63 aa. 1 -3]. Sed aliqui a._>. Risposta: abbiamo già spiegato che il vizio è contrario alla virtù, e che la virtù di ciascuna cosa consiste neli' essere ben disposta secon­ do le esigenze della sua natura. Quindi in cia­ scuna cosa vanno denominate vizi le disposi­ zioni contrarie a quanto conviene alla sua natura. Per cui è di questo che ogni cosa viene vituperata: anzi, al dire di Agostino, «Sembra che il termine vituperio derivi da vizio». - Si deve però notare che, per qualsiasi cosa, la natura è data soprattutto dalla forma da cui essa riceve la propria specie. Ora, l ' uomo viene costituito nella sua specie dall' anima razionale. Perciò quanto è contrario all'ordine della ragione è propriamente contrario alla natura dell'uomo come tale; invece quanto è conforme alla ragione è conveniente al la natura dell' uomo come tale. Per cui, come afferma Dionigi, il bene dell' uomo è essere secondo la ragione, e il male dell' uomo è «essere contro la ragione». Quindi la virtù

    679

    I vizi e i peccati considerati in se stessi

    minis est secundum rationem esse, et malum hominis est praeter rationem esse, ut Diony­ sius dicit, 4 cap. De div. nom. [32]. Unde vir­ tus humana, quae hominem facit bonum, et opus ipsius bonum reddit, intantum est secun­ dum naturam hominis, inquantum conveni t rationi, vitium autem intantum est contra na­ turam hominis, inquantum est contra ordinem rationis. Ad primum ergo dicendum quod virtutes, etsi non causentur a natura secundum suum esse perfectum, tamen inclinant ad id quod est secundum naturam, idest secundum ordinem rationis, dicit enim Tullius, in sua Rhetorica [2,53], quod virtus est habitus in modum na­ turae rationi consentaneus. Et hoc modo vhtus dicitur esse secundum naturam, et per contrarium intelligitur quod vitium sit contra naturam. Ad secundum dicendum quod philosophus ibi loquitur de his quae sunt contra naturam, secundum quod esse contra naturam op­ ponitur ei quod est esse a natura, non autem secundum quod esse contra naturam op­ ponitur ei quod est esse secundum naturam, eo modo quo virtutes dicuntur esse secundum naturam, inquantum inclinant ad id quod naturae convenit. Ad tertium dicendum quod in homine est duplex natura, scilicet rationalis et sensitiva. Et quia per operationem sensus homo perve­ nit ad actus rationis, ideo plures sequuntur in­ clinationes naturae sensitivae quam ordinem rationis, plures enim sunt qui assequuntur principium rei, quam qui ad consummatio­ nem perveniunt. Ex hoc autem vitia et pec­ cata in hominibus proveniunt, quod sequuntur inclinationem naturae sensitivae contra ordi­ nem rationis. Ad quartum dicendum quod quidqui d est contra rationem artificiati, est etiam contra naturam artis, qua artificiatum producitur. Lex autem aeterna comparatur ad ordinem rationis h umanae sicut ars ad artificiatum. Unde eiusdem rationis est quod vitium et peccatum sit contra ordinem rationis humanae, et quod sit contra legem aeternam. Unde Augustinus dicit, in 3 De lib. arb. [ 1 5], quod a Dea habent

    omnes naturae quod naturae sunt, et intan­ tum sunt vitiosae, inquantum ab eius, qua factae sunt, arte discedunt.

    Q. 7 1 , A. 2

    umana, che «rende buono l ' uomo e buona l'opera che egli compie», in tanto è secondo la natura umana in quanto concorda con la ragione; il vizio invece in tanto è contro la na­ tura dell'uomo in quanto è contrario all'ordi­ ne della ragione. Soluzione delle difficoltà: l . Sebbene allo stato perfetto le virtù non siano prodotte dalla natura, tuttavia esse inclinano verso ciò che è secondo la natura, cioè secondo l'ordine della ragione: infatti Cicerone scrive che «la virtù è un abito connaturale ossequiente alla ragio­ ne». E in questo senso si dice che la virtù è conforme alla natura, mentre il vizio viene concepito come contrario ad essa. 2. In questo caso il Filosofo parla di cose con­ tro natura nel significato di fenomeni contrari al procedimento naturale, e non nel senso di cose difformi dalla natura, cioè nel senso cor­ rispettivo a quello secondo cui le virtù vengo­ no dette secondo natura in quanto inclinano a ciò che è conforme alla natura. 3. Nell'uomo ci sono due nature, quella razio­ nale e quella sensitiva. E poiché l'uomo arriva agli atti della ragione attraverso l 'attività dei sensi, sono più quelli che seguono le inclina­ zioni della natura sensitiva che quelli che seguono la ragione: sono più numerosi infatti quelli che iniziano un' opera che non quelli che la portano a compimento. Ora, tra gli uomini i vizi e i peccati derivano proprio da questo, che essi seguono l'inclinazione della natura sensitiva contro l ' ordine della ragione. 4. Tutto ciò che è contro un' opera d' arte è anche contro la natura dell'arte che lo ha pro­ dotto. Ma la legge eterna sta all' ordine della ragione umana come l' arte al suo prodotto. Perciò l' opposizione del vizio e del peccato all'ordine della ragione umana è dello stesso tipo dell' opposizione alla legge eterna. Per cui Agostino può affermare che «tutte le natu­ re hanno da Dio di essere nature; e in tanto sono viziose in quanto si scostano dall'arte di colui da cui furono create».

    Q. 7 l , A. 3

    I vizi e i peccati considerati in se stessi

    680

    Articulus 3 Utrum vitium sit peius quam actus vitiosus

    Articolo 3 Il vizio è peggiore deli'atto vizioso?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod vi­ tium, idest habitus malus sit peius quam pec­ catum, idest actus malus. l . Sicut enim bonum quod est diutumius, est melius; ita malum quod est diuturnius, est peius. Sed habitus vitiosus est diuturnior quam actus vitiosi, qui statim transeunt. Ergo habitus vitiosus est peior quam actus vitiosus. 2. Praeterea, plura mala sunt magis fugienda quam unum malum. Sed habitus malus vir­ tualiter est causa multorum malorum actuum. Ergo habitus vitiosus est peior quam actus vitiosus. 3. Praeterea, causa est potior quam effectus. Sed habitus perficit actum tam in bonitate quam in malitia. Ergo habitus est potior actu et in bonitate et in malitia. Sed contra, pro actu vitioso aliquis iuste puni­ tur, non autem pro habitu vitioso, si non pro­ cedat ad actum. Ergo actus vitiosus est peior quam habitus vitiosus. Respondeo dicendum quod habitus medio modo se habet inter potentiam et actum. Manifestum est autem quod actus in bono et in malo praeeminet potentiae, ut dicitur in 9 Met. [8,9, 1 ] , melius est enim bene agere quam posse bene agere; et similiter vitupera­ bilius est male agere quam posse male agere. Unde etiam sequitur quod habitus in bonitate et in malitia medium gradum obtineat inter potentiam et actum, ut scilicet, sicut habitus bonus vel malus praeeminet in bonitate vel malitia potentiae, ita etiam subdatur actui. Quod etiam ex hoc apparet, quod habitus non dicitur bonus vel malus nisi ex hoc quod inclinat ad actum bonum vel malum. Unde propter bonitatem vel malitiam actus, dicitur habitus bonus vel malus. Et sic potior est actus in bonitate vel malitia quam habitus, quia pmpter quod unumquodque tale, et illud magis est. Ad primum ergo dicendum quod nihil prohi­ bet aliquid esse simpliciter altero potius, quod tamen secundum quid ab eo deficit. Simpli­ citer enim potius iudicatur quod praeeminet quantum ad id quod per se consideratur in utroque, secundum quid autem quod prae­ eminet secundum id quod per accidens se

    Sembra di sì. Infatti: l . Come è migliore il bene più duraturo, così è peggiore il male di più lunga durata. Ma l'abito vizioso ha più durata degli atti viziosi, che subito passano. Quindi l'abito vizioso è peggiore dell'atto vizioso. 2. Più mali sono da fuggire più di un male unico. Ma un abito cattivo, virtualmente, è causa di molte azioni cattive. Perciò l'abito vizioso è peggiore dell'atto peccaminoso. 3 . La causa è superiore all'effetto. Ora, è l'abito che compie l'atto, sia nel bene che nel male. Quindi l'abito è superiore all'atto, sia nella bontà che nella malizia. In contrario: uno può essere punito giusta­ mente per un atto vizioso; non così invece per un abito vizioso, qualora non passi all'atto. Quindi l'atto è peggiore dell'abito vizioso. Risposta: l'abito è qualcosa di mezzo tra la potenza e l'atto. Ora, è evidente che nel bene e nel male l'atto è superiore alla potenza, co­ me insegna Aristotele: infatti è meglio agire bene che avere la sola capacità di farlo; e similmente è più riprovevole agire malamente che averne solo la capacità. Per cui ne conse­ gue che l' abito, nel bene come nel male, occupa un grado intermedio fra la potenza e l'atto: come cioè l' abito buono o cattivo è superiore, in bontà o in malizia, alla facoltà, così è inferiore all'atto. E ciò si dimostra anche dal fatto che un abito non viene detto buono o cattivo se non perché inclina a degli atti buoni o cattivi . Per cui un abito viene detto buono o cattivo per la bontà o la malizia dell'atto. E così l'atto, in bontà o in malizia, è superiore agli abiti: poiché «ciò per cui una cosa è tale, lo è maggiormente». Soluzione delle difficoltà: l . Nulla impedisce che ci sia una cosa sostanzialmente superiore a un' altra la quale tuttavia, sotto un certo aspetto, le sia inferiore. Infatti si deve giudi­ care sostanzialmente superiore quella cosa che è tale in rapporto a quanto direttamente viene considerato nell'una e nell ' altra, e superiore sotto un certo aspetto quella che eccelle in un elemento marginale. Ora, noi abbiamo dimostrato, in base alla nozione stessa di atto e di abito, che l'atto, in bontà o

    68 1

    I vizi e i peccati considerati in se stessi

    Q. 7 1 , A. 3

    habet ad utrumque. Ostensum est autem [co.] ex ipsa ratione actus et habitus, quod actus est potior in bonitate et malitia quam habitus. Quod autem habitus sit diuturnior quam actus, accidit ex eo quod utrumque invenitur in tali natura quae non potest semper agere, et cuius actio est i n motu transeunte. Unde simpliciter actus est potior tam in bonitate quam in malitia, sed habitus est potior secun­ dum quid. Ad secundum dicendum quod habitus non est simpliciter plures actus, sed secundum quid, idest virtute. Unde ex hoc non potest concludi quod habitus sit simpliciter potior in bonitate vel malitia quam actus. Ad tertium dicendum quod habitus est causa actus in genere causae efficientis, sed actus est causa habitus in genere causae finalis, secundum quam consideratur ratio boni et m al i . Et ideo in bonitate et malitia actus praeeminet habitui.

    in malizia, è superiore all'abito. n fatto invece che l ' abito abbia una maggiore durata dell 'at­ to dipende occasionalmente dal trovarsi ambedue in una natura particolare, che non è capace di agire di continuo, e la cui azione consiste in un moto transeunte. Per cui di per sé l' atto è superiore all'abito, sia nella bontà che nella malizia, ma l'abito è superiore al­ l'atto sotto un certo aspetto. 2. L'abito non è una pluralità di atti in senso assoluto, ma solo sotto un certo aspetto, cioè virtualmente. Perciò non si può concludere senz' altro che l ' abito sia superiore all ' atto nella bontà o nella malizia. 3. L' abito è causa dell'atto come causa effi­ ciente, ma l'atto è causa dell' abito come cau­ sa finale, in base alla quale si desume la ra­ gione di bene e di male. Perciò in fatto di bontà e di malizia l' atto è superiore all'abito.

    Articulus 4 Utrum peccatum simul possit esse cum virtute

    Articolo 4 D peccato può coesistere con la virtù?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod actus vitiosus, sive peccatum, non possit simul esse cum virtute. l . Contraria enim non possunt esse simul in eodem. Sed peccatum quodammodo contra­ riatur virtuti, ut dictum est [a. 1 ] . Ergo pecca­ rum non potest simul esse cum virtute. 2. Praeterea, peccatum est peius quam vitium, idest actus malus quam habitus malus. Sed vi­ tium non potest simul esse in eodem cum vir­ tute. Ergo neque peccatum. 3. Praeterea, sicut peccatum accidit in rebus voluntariis, ita et in rebus naturalibus, ut dici­ tur in 2 Phys. [8,8] . Sed nunquam in rebus naturalibus accidit peccatum nisi per aliquam corruptionem virtutis naturalis, sicut monstra

    Sembra di no. Infatti: l . I contrari non possono coesistere nel mede­ simo soggetto. Ma il peccato da un certo punto di vista, come si è spiegato, è il contra­ rio della virtù. Quindi il peccato non può coe­ sistere con essa. 2. n peccato è peggiore del vizio, cioè l 'atto cattivo è peggiore dell' abito vizioso. Ma il vizio non è compatibile con la virtù. Quindi neppure il peccato. 3 . Secondo Aristotele il peccato si verifica tanto nelle realtà naturali quanto nell' attività volontaria. Ma nelle realtà naturali il peccato dipende sempre dalla corruzione di una virtù naturale: dice infatti il Filosofo che «i mostri derivano dalla corruzione di qualche principio nel seme». Perciò anche nell'attività volonta­ ria il peccato si verifica soltanto per la corru­ zione di qualche virtù dell' anima. E così il peccato e la virtù sono incompatibili nel me­ desimo soggetto. In contrario: il Filosofo insegna che la virtù si genera e si corrompe in forza di princìpi con­ trari. Ma sopra abbiamo dimostrato che un solo atto vittuoso non causa la vittù. Quindi neppure un solo atto peccaminoso può di-

    accidunt comtpto aliquo principio in semine, ut dicitur in 2 Phys. [8,8]. Ergo etiam in rebus voluntariis non accidit peccatum nisi corrupta aliqua virtute animae. Et sic peccatum et virtus non possunt esse in eodem. Sed contra est quod philosophus dicit, in 2 Ethic. [3, 1 1 ] , quod per contraria virtus ge­ neratur et comunpitur. Sed unus actus virtuo­ sus non causat virtutem, ut supra [q. 5 1 a. 3] habitum est. Ergo neque unus actus peccati

    Q. 7 l , A. 4

    I vizi e i peccati considerati in se stessi

    tollit virtutem. Possunt ergo simul in eodem esse. Respondeo dicendum quod peccatum compara­ tur ad virtutem sicut actus malus ad habitum bonum. Aliter autem se habet habitus in anima, et forma in re naturali. Forma enim naturalis ex necessitate producit operationem sibi conve­ nientem, unde non potest esse simul cum forma naturali actus formae contrariae; sicut non potest esse cum calore actus infrigidationis, neque simul cum !evitate motus descensionis, nisi forte ex violentia exterioris moventis. Sed habitus in anima non ex necessitate producit suam operationem, sed homo utitur eo cwn voluerit. Unde simul habitu in homine existente, potest non uti habitu, aut agere contrarium actum. Et sic potest habens virtutem procedere ad actum peccati. - Actus autem peccati, si comparetur ad ipsam virtutem prout est habitus quidam, non potest ipsam conumpere, si sit unus tantum, sicut enim non generatur habitus per unum actum, ita nec per unum actum cor­ rumpitur, ut supra [q. 63 a. 2 ad 2] dictum est. Sed si comparetur actus peccati ad causam vir­ tutum, sic possibile est quod per unum actum peccati aliquae virtutes corrumpantur. Quodlibet enim peccatum mortale contrariatur caritati, quae est radix omnium virtutum infusarum, in­ quantum sunt viitutes, et ideo per unum actum peccati mortalis, exclusa caritate, excluduntur per consequens omnes virtutes infusae, quan­ tum ad hoc quod sunt virtutes. Et hoc dico propter fidem et spem, quarum habitus rema­ nent intormes post peccatum mortale, et sic non sunt virtutes. Sed peccatum veniale, quod non contrariatur caritati nec excludit ipsam, per con­ sequens etiam non excludit alias virtutes. Vrr­ tutes vero acquisitae non tolluntur per unum ac­ tum cuiuscumque peccati. - Sic igitur peccatum mortale non potest simul esse cum virtutibus infusis, potest tamen simul esse cum virtutibus acquisitis. Peccatum vero veniale potest simul esse et cum virtutibus infusis, et cum acquisitis. Ad primum ergo dicendum quod peccatum non contrariatur virtuti secundum se, sed se­ cundum suum actum. Et ideo peccatum non potest simul esse cum actu virtutis, potest tamen simul esse cum habitu. Ad secundum dicendum quod vitium directe contrariatur virtuti, sicut et peccatum actui virtuoso. Et ideo vitium excludit virtutem, sicut peccatum excludit actum virtutis.

    682

    struggerla. Perciò le due cose possono coesi­ stere nel medesimo soggetto. Risposta: il peccato sta alla virtù come un atto cattivo sta a un abito buono. Ma un abito non si trova nell'anima come la forma in un essere di ordine naturale. Una forma naturale, infatti, produce per necessità l'operazione rispettiva: per cui l'atto della forma contraria non è com­ patibile con una data forma naturale: col calo­ re, p. es., non è compatibile l'atto del raffred­ damento, e con la levità non è possibile il moto verso il basso, se non per la violenza di una causa esterna. L'abito invece non produce la sua operazione nell'anima per necessità, ma l'uomo «Se ne serve quando vuole». Per cui rimanendo l'abito in lui, l'uomo può non usame, o può compiere un atto contrario. In questo modo dunque, pur possedendo una virtù, uno può passare all'atto contrario del peccato. - L'atto del peccato quindi, confron­ tato con la virtù in quanto questa è un abito, non può corromperla, se è un atto unico: come infatti un abito non può essere generato da un unico atto, così non può esserne distrut­ to, secondo le spiegazioni date. Se invece l'atto peccaminoso viene confrontato con la causa delle virtù, allora è possibile che certe virtù siano distrutte da un solo atto peccami­ noso. Infatti ogni peccato mortale è contrario alla carità, radice di tutte le vittù infuse in quanto virtù: perciò da un solo peccato morta­ le, con la perdita della carità, vengono distrut­ te conseguentemente tutte le virtù infuse, sotto l' aspetto di virtù. E dico questo a motivo della fede e della speranza, i cui abiti informi rimangono dopo il peccato mortale; ma allora non sono virtù. Invece il peccato veniale, che non è contrario alla carità e non la esclude, non esclude neppure le altre virtù. Quanto poi alle virtù acquisite, esse non vengono mai di­ strutte da un unico atto di qualsiasi peccato. Così dunque il peccato mortale non è compa­ tibile con le virtù infuse; è però compatibile con le virtù acquisite. Invece il peccato venia­ le è compatibile con le une e con le altre. Soluzione delle difficoltà: l . Il peccato non è direttamente contrario alla virtù, ma al suo atto. Esso perciò è incompatibile con l'atto della virtù, ma può coesistere con il suo abito. 2. n vizio è direttamente contrario alla virtù, co­ me il peccato all'atto virtuoso. Perciò il vizio e­ sclude la virtù, come il peccato ne esclude l'atto.

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    I vizi e i peccati considerati in se stessi

    Ad tertium dicendum quod virtutes naturales agunt ex necessitate, et ideo, integra existente virtute, nunquam peccatum potest in actu inveniri. Sed virtutes animae non producunt actus ex necessitate, unde non est sirnilis ratio. Articulus 5 Utrum in quolibet peccato sit aliquis actus Ad quintum sic proceditur. Videtur quod in quolibet peccato sit aliquis actus. l. Sicut enim meritum comparatur ad virtu­ tem, ita peccatum ad vitium comparatur. Sed meritum non potest esse absque aliquo actu. Ergo nec peccatum potest esse absque aliquo actu. 2. Praeterea, Augustinus dicit, in libro De lib. arb. [3 , 1 8] , quod omne peccatum adeo est

    voluntarium, quod si non sit voluntarium, non est peccatum. Sed non potest esse aliquid voluntarium nisi per actum voluntatis. Ergo omne peccatum habet aliquem actum. 3. Praeterea, si peccatum esset absque aliquo actu, sequeretur quod ex hoc ipso quod aliquis cessat ab actu debito, peccaret. Sed continue aliquis cessat ab actu debito, ille scilicet qui nunquam actum debitum operatur. Ergo se­ queretur quod continue peccaret, quod est falsum. Non ergo est aliquod peccatum ab­ sque actu. Sed contra est quod dicitur Iac. 4 [17], !-J'Cienti bonum facere et non facienti, peccatum est ilii. Sed non tacere non importat aliquem actum. Ergo peccatum potest esse absque actu. Respondeo dicendum quod quaestio i sta principaliter movetur propter peccatum ornis­ sionis, de quo aliqui diversimode opinantur. Quidam enim dicunt quod in ornn i peccato omissionis est aliquis actus vel interior vel exterior. Interior quidem, sicut cum aliquis vult non ire ad Ecclesiam quando ire tenetur. Exterior autem, sicut cum aliquis illa bora qua ad Ecclesiam ire tenetur, vel etiam ante, oc­ cupat se talibus quibus ab eundo ad Ec­ clesiam impeditur. Et hoc quodammodo vi­ detur in primum redire, qui enim vult aliquid cum quo aliud simul esse non potest, ex conseguenti vult ilio carere; nisi forte non perpendat quod per hoc quod vult facere, im­ peditur ab eo quod tacere tenetur; in quo casu posset per negligentiam culpabilis iudicari.

    Q. 7 1 , A. 4

    3. Le virtù naturali agiscono per necessità: fin­ ché dunque la virtù è integra, non si può mai riscontrare un peccato nell'operazione. Invece le virtù dell' anima non producono i loro atti per necessità: per cui il paragone non regge. Articolo 5 In ogni peccato c'è un atto? Sembra di sì. Intatti: l . Il peccato sta al vizio come il merito sta alla virtù. Ma il merito non può sussistere senza un atto. Quindi neppure il peccato. 2. Agostino insegna che «ogni peccato è tal­ mente volontario, che se non è volontario non è peccato». Una cosa però non può essere volontaria che mediante un atto della volontà. Quindi ogni peccato deve avere un atto. 3. Se un peccato potesse verificarsi senza qualche atto, ne seguirebbe che uno commet­ terebbe peccato per il tatto che cessa dali' atto dovuto. Ma c'è qualcuno che cessa di conti­ nuo dall' atto dovuto, e cioè colui che non compie mai le azioni dovute. Di conseguenza costui peccherebbe di continuo: il che è falso. Quindi non ci possono essere dei peccati senza alcun atto. In contrario: in Gc è detto: Chi sa fare il bene e non lo compie, commette peccato. Ora, il non fare non implica un atto. Quindi ci può essere un peccato senza alcun atto. Risposta: il problema nasce principalmente per il peccato di omissione, a proposito del quale ci sono diverse opinioni. Alcuni infatti dicono che in ogni peccato di omissione c'è un atto, o interno o esterno. Interno, come quando uno vuole non andare in chiesa quan­ do è tenuto ad andarci. Esterno, come quando uno che è tenuto ad andare in chiesa, n eli' ora fissata, oppure prima, si applica ad altre cose che gli impediscono di andarvi. Anche questo caso, però, in qualche modo rientra nel primo: infatti chi vuole una cosa che è incompatibile con un' altra logicamente vuole privarsi di quest'ultima; eccetto forse il caso in cui non si renda conto dell'incompatibilità di quanto vuoi fare con ciò che è tenuto a fare: nel quale caso potrebbe essere giudicato colpevole di negligenza. Altri invece affermano che nel peccato di omissione non si richiede alcun atto, poiché lo stesso non fare ciò che uno è tenuto a fare è già un peccato. - Ora, nell'una

    Q. 7 1 , A. 5

    I vizi e i peccati considerati in se stessi

    Alii vero dicunt quod in peccato omissionis non requiritur aliquis actus, ipsum enim non facere quod quis facere tenetur, peccatum est. Utraque autem opinio secundum aliquid veri­ tatem habet. Si enim intelligatur in peccato omissionis illud solum quod per se pertinet ad rationem peccati, sic quandoque omissionis peccatum est cum actu interiori, ut cum aliquis vult non ire ad Ecclesiam, quandoque vero absque omni actu vel interiori vel exte­ riori, sicut cum aliquis hora qua tenetur ire ad Ecclesiam, nihil cogitat de eundo vel non eundo ad Ecclesiam. Si vero in peccato omis­ sionis intelligantur etiam causae vel occasio­ nes omittendi, sic necesse est in peccato omissionis aliquem actum esse. Non enim est peccatum omissionis nisi cum aliquis praeter­ mittit quod potest facere et non facere. Quod autem aliquis declinet ad non faciendum illud quod potest facere et non facere, non est nisi ex aliqua causa vel occasione coniuncta vel praecedente. Et si quidem causa illa non sit in potestate hominis, omissio non habet ratio­ nem peccati, sicut cum aliquis propter infir­ mitatem praetermittit ad Ecclesiam ire. Si vero causa vel occasio omittendi subiaceat voluntati, omissio habet rationem peccati, et tunc semper oportet quod ista causa, inquan­ tum est voluntaria, habeat aliquem actum, ad minus interiorem voluntatis. - Qui quidem actus quandoque directe fertur in ipsam omis­ sionem, puta cum aliquis vult non ire ad Ec­ clesiam, vitans laborem. Et tunc talis actus per se pertinet ad omissionem, voluntas enim cuiuscumque peccati per se pertinet ad pecca­ rum illud, eo quod voluntarium est de ratione peccati. Quandoque autem actus voluntatis directe fertur in aliud, per quod homo impedi­ tur ab actu debito, sive illud in quod fertur voluntas, sit coniunctum omissioni, puta cum aliquis vult ludere quando ad Ecclesiam debet ire; sive etiam sit praecedens, puta cum aliquis vult diu vigilare de sero, ex quo se­ quitur quod non vadat hora matutinali ad Ec­ clesiam. Et tunc actus iste interior vel exterior per accidens se habet ad omissionem, quia omissio sequitur praeter intentionem; hoc autem dicimus per accidens esse, quod est praeter intentionem, ut patet in 2 Phys. [5,3]. Unde manifestum est quod tunc peccatum omissionis habet quidem aliquem actum coniunctum vel praecedentem, qui tamen per

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    e nell' altra opinione c'è qualcosa di vero. Infatti se nel peccato di omissione si conside­ ra solo ciò che costituisce direttamente la ragione di peccato, talora il peccato di omis­ sione implica un atto interiore, come quando uno vuole positivamente non andare in chie­ sa; talora invece prescinde da ogni atto inter­ no o esterno, come nel caso di chi al momen­ to in cui dovrebbe andare in chiesa non pensa né di andare né di non andare. Se viceversa nel peccato di omissione si considerano anche le cause o le occasioni dell'omissione stessa, allora è necessario che in ogni peccato di que­ sto genere ci sia un atto. Non si dà infatti un peccato di omissione se uno non tralascia ciò che è in grado di fare e di non fare. Ora, tale astensione non avviene senza una causa o un'occasione concomitante o precedente. E se tale causa non è in potere dell'interessato, l'omissione non ha natura di peccato: come quando uno lascia di andare in chiesa per malattia. L'omissione è invece peccaminosa se la causa o l'occasione di tralasciare la cosa dipende dalla volontà: e allora è necessario che tale causa, in quanto volontaria, sia sem­ pre accompagnata da un atto, almeno da un atto interiore della volontà. - Ora, questo atto qualche volta investe direttamente l ' omis­ sione stessa: p. es. quando uno non vuole andare in chiesa per pigrizia. E allora tale atto appartiene essenzialmente fpe r se] all' omis­ sione: infatti la volizione di un peccato qual­ siasi appartiene essenzialmente a tale atto, essendo la volontarietà essenziale al peccato. Altre volte invece l'atto della volontà investe direttamente la cosa che distoglie dal compie­ re l ' azione dovuta: sia essa concomitante all'omissione, come quando uno vuole gioca­ re nel momento in cui ha il dovere di andare in chiesa, sia essa precedente, come quando uno vuole vegliare a lungo la sera, dal che segue il non andare in chiesa al mattino. E allora questo atto interno o esterno è solo accidentale all'omissione: poiché l'omissione nel caso è preterintenzionale; e noi denomi­ niamo accidentale ciò che esula dall'intenzio­ ne, come dimostra Aristotele. Perciò è evi­ dente che in questo caso il peccato di omis­ sione è legato a un atto concomitante o prece­ dente, ma quest'ultimo è solo accidentale al peccato di omissione. Ora, bisogna giudicare le cose dagli elementi per se [o essenziali],

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    I vizi e i peccati considerati in se stessi

    accidens se habet ad peccatum omissionis. lu­ dicium autem de rebus dandum est secundum illud quod est per se, et non secundum illud quod est per accidens. Unde verius dici potest quod aliquod peccatum possit esse absque omni actu. Alioquin etiam ad essentiam aliorum peccatorum actualium pertinerent actus et occasiones circumstantes. Ad primum ergo dicendum quod p lura requiruntur ad bonum quam ad malum, eo quod bonum contingit ex tota integra causa, malum autem ex singularibus defectibus, ut Dionysius dicit, 4 cap. De div. nom. [30]. Et ideo peccatum potest contingere sive aliquis faciat quod non debet, sive non faciendo quod debet, sed meri tum non potest esse n i s i aliquis faciat voluntarie quod debet. E t ideo meritum non potest esse sine actu, sed pec­ catum potest esse sine actu. Ad secundum dicendum quod aliquid dicitur voluntarium non solum quia cadit super ipsum actus voluntatis, sed quia in potestate nostra est ut fiat vel non fiat, ut dicitur in 3 Ethic. [5,6]. Unde etiam ipsum non velle po­ test dici voluntarium, inquantum in potestate hominis est velle et non velle. Ad tertium dicendum quod peccatum omis­ sionis contrariatur praecepto affirmativo, quod obligat semper, sed non ad semper. Et ideo solum pro tempore illo aliquis cessando ab actu peccat, pro quo praeceptum affirmati­ vum obligat. Articulus 6 Utrurn convenienter definiatur peccaturn esse dicturn vel facturn vel concupiturn contra legem aeternam A d sextum sic proceditur. Videtur quod inconvenienter definiatur peccatum, cum dicitur, peccatum est dictum vel factum vel concupitum conlra legem aeternam [In litt. Magistri, Sent. 2,35,1 ] . l . Dictum enim, vel factum, vel concupitum, importat aliquem actu m . Sed non omne peccatum importat aliquem actum, ut dictum est [a. 5]. Ergo haec definitio non includit omne peccatum. 2. Praeterea, Augustinus dicit, in libro De duabus animabus [ 1 1 ] , peccatum est voluntas

    retinendi vel consequendi quod iustitia vetat. Sed voluntas sub concupiscentia comprehen-

    Q. 7 1 , A. 5

    non già dagli elementi per accidens. Quindi è più esatto affermare che un peccato può esi­ stere senza alcun atto. Altrimenti dovremmo considerare essenziali gli atti e le occasioni concomitanti anche per gli altri peccati attuali [di commissione] . Soluzione delle difficoltà: l . Per i l bene si richiedono più cose che per il male: poiché, come scrive Dionigi, «il bene dipende da una causa integra e perfetta, il male invece dai difetti particolari» . Perciò i l peccato può dipendere sia dal fatto che uno compie ciò che non deve, sia dal fatto che uno non com­ pie ciò che deve; il merito invece si ha soltan­ to quando uno compie volontariamente ciò che deve. Perciò il merito non può sussistere senza un atto, i l peccato invece può verificarsi anche senza alcun atto. 2. Si dice che una cosa è volontaria non solo perché su di essa cade l'atto della volontà, ma anche per il solo fatto che è in nostro potere far sì che avvenga o che non avvenga, come spiega Aristotele. Per cui può dirsi volontario anche lo stesso non volere, in quanto è i n potere dell'uomo volere e non volere. 3. Il peccato di omissione ha contro di sé un precetto affetmativo, il quale obbliga sempre, ma non di continuo. Quindi uno pecca soltan­ to quando cessa da quell'atto al quale è obbli­ gato in forza del precetto affermativo.

    Articolo

    6

    È esatto definire il peccato come «una parola, un'azione o un desiderio contro la legge eterna»? Sembra di no. Infatti: l . La parola, l'azione o il desiderio implicano sempre un atto. Ma si è appena visto che non tutti i peccati implicano un atto. Quindi que­ sta definizione non include tutti i peccati. 2. Agostino ha scritto: «ll peccato è la volontà di ritenere o di conseguire ciò che la giustizia non permette». Ora, la volontà rientra nella concupiscenza, se questa viene presa in senso lato per un appetito qualsiasi. Perciò bastava dire che «il peccato è un desiderio contro la legge eterna», e non era necessario aggiunge­ re: «una parola o un'azione». 3. n peccato propriamente consiste nello sco-

    Q. 7 1 , A. 6

    I vizi e i peccati considerati in se stessi

    ditur, secundum quod concupiscentia largo modo sumitur, pro omni appetitu. Ergo suf­ fecisset dicere, peccatum est concupitum contra legem aetemam; nec oportuit addere, dictum velfactum. 3. Praeterea, peccatum proprie consistere vi­ detur in aversione a fine, nam bonum et ma­ lum principaliter considerantur secundum fi­ nem, ut ex supradictis [q. 1 8 a. 6] patet. Unde et Augustinus, in l De lib. arb. [ l I ], per com­ parationem ad finem definit peccatum, dicens quod peccare nihil est aliud quam, neglectis rebus aetemis, temporalia sectari, et in libro Octoginta trium Q. [30], dicit quod omnis humana perversitas est uti fruendis et frui utendis. Sed in praemissa definitione nulla fit mentio de aversione a debito fine. Ergo insufficienter definitur peccatum. 4. Praeterea, ex hoc dicitur aliquid esse prohi­ bitum, quia Iegi contrariatur. Sed non omnia peccata sunt mala quia prohibita, sed quaedam sunt prohibita quia mala. Non ergo in com­ munì definitione peccati debuit poni quod sit contra legem Dei. 5. Praeterea, peccatum significat malum ho­ minis actum, ut ex dictis patet. Sed malum hominis est contra rationem esse, ut Diony­ sius dicit, 4 cap. De div. nom. [32] . Ergo potius debuit dici quod peccatum sit contra rationem, quam quod peccatum sit contra legem aeternam. In contrarium sufficit auctoritas Augustini. Respondeo dicendum quod, sicut ex dictis [a. l ] patet, peccatum nihil aliud est quam actus humanus malus. Quod autem aliquis actus sit humanus, habet ex hoc quod est voluntarius, sicut ex supradictis [q. l a. l ] patet, sive sit voluntarius quasi a voluntate elicitus, ut ipsum velle et eligere; sive quasi a voluntate imperatus, ut exteriores actus vel locutionis vel operationis. Habet autem actus humanus quod sit malus, ex eo quod caret debita com­ mensuratione. Omnis autem commensuratio cuiuscumque rei attenditur per comparatio­ nem ad aliquam regulam, a qua si divertat, incommensurata erit. Regula autem voluntatis humanae est duplex, una propinqua et homo­ genea, scilicet ipsa humana ratio; alia vero est prima regula, scilicet lex aeterna, quae est quasi ratio Dei. Et ideo Augustinus in definì­ tione peccati posuit duo, unum quod pettinet ad substantiam actus humani, quod est quasi

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    starsi dal fine: come infatti si è già notato, il bene e il male si giudicano principalmente dal fine. Per cui, nel definire il peccato in rapporto al fine, Agostino afferma che «peccare non è altro che attendere alle cose temporali trascu­ rando le eterne»; e altrove afferma che «tutta la malvagità umana consiste nell'usare ciò di cui si deve fruire, e nel fruire di ciò che si deve usare». Ma nella definizione indicata non si parla affatto dell'allontanamento dal debito fine. Quindi essa non definisce bene il peccato. 4. Si dice che una cosa è proibita perché è contraria alla legge. Ma non tutti gli atti pec­ caminosi sono cattivi perché proibiti, dato che alcuni sono proibiti perché cattivi . Quindi nella definizione generica del peccato non si doveva mettere che è contro la legge di Dio. 5. Dalle cose dette in precedenza è chiaro che il peccato indica un atto cattivo dell'uomo. Ma al dire di Dionigi «la cattiveria dell'uomo consiste nell'essere in contrasto con la ragio­ ne». Perciò bisognava dire che il peccato è contro la ragione, piuttosto che contro la leg­ ge eterna. In contrario: basta l'autorità di Agostino. Risposta: dalle cose dette in precedenza è evi­ dente che il peccato non è altro che l' atto umano cattivo. E così pure è evidente in base a quanto detto che un atto è umano perché è volontario: sia esso volontario perché emesso dalla volontà, come la volizione e la scelta, sia perché comandato dalla volontà, come gli atti esterni del parlare o dell'agire. Ora, un atto umano deve la sua cattiveria al fatto che man­ ca della debita misura. D'altra parte la misura per qualsiasi cosa viene desunta da una rego­ la, scostandosi dalla quale la cosa diviene sre­ golata. Ora, ci sono due regole della volontà umana: una [è quella] prossima e omogenea, l'altra invece è la regola ptima, cioè la legge eterna, che è come la ragione di Dio. Quindi Agostino nella definizione del peccato incluse due elementi: il ptimo che costituisce la so­ stanza dell'atto umano, ed è come l'elemento matetiale del peccato, quando dice: «una pa­ rola, un'azione o un desiderio»; il secondo invece che riguarda l'aspetto di male, ed è come l'elemento formale del peccato, quando dice: «contro la legge eterna>>. Soluzione delle difficoltà: l . L'affermazione e la negazione appartengono a un medesimo genere: come in campo trinitario generato e

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    I vizi e i peccati considerati in se stessi

    materiale in peccato, cum dixit, dictum vel factum vel concupitum; aliud autem quod pertinet ad rationem mali, quod est quasi formale in peccato, cum dixit, contra legem aetemam. Ad primum ergo dicendum quod affumatio et negatio reducuntur ad idem genus, sicut in divinis genitum et ingenitum ad relationem, ut Augustinus dicit, i n 5 De Trin. [6]. Et ideo pro eodem est accipiendum dictum et non dictum,factum et nonfactum. Ad secundum dicendum quod prima causa peccati est in voluntate, quae imperat omnes actus voluntarios, in quibus solum invenitur peccatum, et ideo Augustinus quandoque per solam voluntatem definit peccatum. Sed quia etiam ipsi exteriores actus pertinent ad sub­ stantiam peccati, cum sint secundum se mali, ut dictum est [q. 20 aa. 1 -3], necesse fuit quod in definitione peccati poneretur etiam aliquid pertinens ad exteriores actus. Ad tertium dicendum quod lex aeterna primo et principaliter ordinat hominem ad finem, con­ sequenter autem facit hominem bene se habere circa ea quae sunt ad finem. Et ideo in hoc quod dicit contra legem aetemam, tangit aver­ sionem a fine, et omnes alias inordinationes. Ad quartum dicendum quod, cum dicitur quod non omne peccatum ideo est malum quia est prohibitum, intelligitur de prohibitio­ ne facta per ius positivum. Si autem referatur ad ius naturale, quod continetur primo quidem in lege aeterna, secondario vero in naturali iudicatorio rationis humanae, tunc omne peccatum est malum quia prohibitum, ex hoc enim ipso quod est inordinatum, iuri naturali repugnat. Ad quintum dicendum quod a theologis con­ sideratur peccatum praecipue secundum quod est offensa contra Deum, a philosopho autem morali, secundum quod contrariatur rationi. Et ideo Augustinus convenientius definit peccatum ex hoc quod est contra legem aeter­ nam, quam ex hoc quod est contra rationem, praecipue cum per legem aeternam regulemur in multis quae excedunt rationem humanam, sicut in his quae sunt fidei.

    Q. 7 1 , A. 6

    ingenerato, al dire di Agostino, si riducono alla relazione. Perciò nei termini parola e azione vanno intese anche le parole e le azio­ ni omesse.

    2. La causa prima del peccato sta nella vo­ lontà, che comanda tutti gli atti volontari, nei quali soltanto ci può essere il peccato: per cui Agostino talora definisce il peccato mediante la sola volontà. Ma poiché anche gli atti ester­ ni appartengono alla sostanza del peccato, per la loro malizia intrinseca, come si è già detto, era necessario indicare nella definizione qual­ cosa che riguardasse anche gli atti esterni. 3. La legge eterna ordina l ' uomo prima di tutto e principalmente al fine, e conseguente­ mente lo dispone come si conviene all ' uso dei mezzi in rapporto al fine. Quando perciò si dice: «contro la legge eterna>>, si accenna ali' allontanamento dal fine e a tutti gli altri disordini. 4. Quando si dice che non tutti i peccati sono cattivi perché proibiti, si intende di una proi­ bizione del diritto positivo. Ma quando si trat­ ta del diritto naturale, che è contenuto prima­ riamente nella legge eterna, e secondariamen­ te nella facoltà di giudizio della ragione uma­ na, allora tutti i peccati sono cattivi perché proibiti. Infatti essi ripugnano al diritto natu­ rale proprio perché sono atti disordinati. 5. Il peccato viene considerato dai teologi principalmente come offesa di Dio, mentre dai filosofi moralisti è considerato principal­ mente come atto contrario alla ragione. Perciò Agostino giustamente lo definisce come con­ trario alla legge eterna piuttosto che come contrario alla ragione; tanto più che la legge eterna ci dà delle norme in molti campi che sorpassano la ragione umana, p . es. nelle realtà di fede.

    Q. 72, A. l

    La distinzione dei peccati

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    QUAESTI0 72 DE DISTINCTIONE PECCATORUM

    QUESTIONE 72 LA DISTINZIONE DEI PECCATI

    Deinde considerandum est de distinctione peccatorum vel vitiorum. Et circa hoc quae­ runtur novem. Primo, utrum peccata distin­ guantur specie secundum obiecta. Secundo, de distinctione peccatorum spiritualium et cama­ lium. Tertio, utrum secundum causas. Quarto, utrum secundum eos in quos peccatur. Quinto, utrum secundum diversitatem reatus. Sexto, utrum secundum omissionem et commissio­ nem. Septimo, utrum secundum diversum processum peccati. Octavo, utrum secundum abundantiam et defectum. Nono, utrum secun­ dum diversas circumstantias.

    Passiamo ora a trattare della distinzione dei peccati, o dei vizi. Sull'argomento si pongono nove quesiti: l . I peccati sono tra loro specifica­ mente distinti secondo l'oggetto? 2. La distin­ zione tra peccati spirituali e carnali; 3. I peccati sono distinti specificamente secondo le cause? 4. Si distinguono secondo coloro contro i quali vengono commessi? 5. Questa distinzione può dipendere dalla diversità della pena o del reato? 6. Dipende dal fatto di essere omessi o com­ messi? 7. Dipende dalla diversa esecuzione del peccato? 8. Dipende dall'eccesso e dal difetto? 9. Dipende dalle diverse circostanze?

    Articulus l Utrum peccata differant specie secundum obiecta

    Articolo l I peccati sono specificamente distinti secondo l'oggetto?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod pec­ cata non differant specie secundum obiecta. l . Actus enim humani praecipue dicuntur boni vel mali per comparationem ad finem, ut supra [q. 1 8 a. 6] ostensum est. Cum igitur peccatum nihil aliud sit quam actus horninis malus, sicut dictum est [q. 21 a. l ; q. 71 a. 1], videtur quod secundum fines peccata debeant distingui specie, magis quam secundum obiecta. 2. Praeterea, malum, cum sit privatio, di­ stinguitur specie secundum diversas species oppositorum. Sed peccatum est quoddam malum in genere humanorum actuum. Ergo peccata magis distinguuntur specie secundum opposita, quam secundum obiecta. 3 . Praeterea, si peccata specie differrent se­ cundum obiecta, impossibile esset idem pec­ catum specie circa diversa obiecta inveniri. Sed inveniuntur aliqua huiusmodi peccata, nam superbia est et in rebus spiritualibus et in corporalibus, ut Gregorius dicit, in libro 34 Mor. [23]; avaritia etiam est circa diversa genera rerum. Ergo peccata non distinguuntur specie secundum obiecta. Sed contra est quod peccatum est dictum vel factum ve/ concupitum contra legem Dei [Augustinus, Contra Faust. 22,27]. Sed dieta vel facta vel concupita distinguuntur specie secundum diversa obiecta, quia actus per obiecta distinguuntur, ut supra [q. 1 8 a. 5;

    Sembra di no. Infatti: l. Gli atti umani si dicono buoni o cattivi principalmente in rapporto al fine, come si è visto. Ora, siccome il peccato non è altro che l'atto umano cattivo, come si è detto, sembra più logico distinguere specificamente i pecca­ ti secondo i fini che secondo gli oggetti. 2. Il male, essendo una privazione, ha le sue distinzioni specifiche secondo le diverse spe­ cie dei suoi opposti. Ma il peccato è un male nel genere degli atti umani. Quindi i peccati derivano la distinzione specifica più dalle vir­ tù opposte che dal loro oggetto. 3. Se i peccati si distinguessero specifica­ mente per il loro oggetto, sarebbe impossi­ bile che un peccato specificamente identico potesse abbracciare oggetti diversi. Invece tali peccati esistono: infatti la superbia, al dire di Gregorio, abbraccia cose spirinmli e cose materiali, e anche l'avarizia si estende a realtà di diverso genere. Quindi i peccati non si distinguono specificamente secondo il 1oro oggetto. In contrario: «Il peccato è una parola, un'a­ zione o un desiderio contro la legge di Dio». Ora le parole, le azioni e i desideri si distin­ guono secondo i diversi oggetti, poiché se­ condo le dimostrazioni date gli atti si distin­ guono in base ai loro oggetti. Perciò anche i peccati si distinguono specificamente secon­ do i loro oggetti.

    689

    La distinzione dei peccati

    I q. 77 a. 3] dictum est. Ergo etiam peccata

    secundum obiecta specie distinguuntur. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [q. 7 1 a. 6], ad rationem peccati duo concur­ runt, scilicet actus voluntarius; et inordinatio eius, quae est per recessum a lege Dei. Horum autem duorum unum per se comparatur ad peccantem, qui intendit ta1em actum volun­ tarium exercere in tali materia, aliud autem, scilicet inordinatio actus, per accidens se habet ad intentionem peccantis; nullus enim intendens ad malum operatur, ut Dionysius dicit, 4 cap. De div. nom. [ 1 9. 3 1 ]. Manife­ stum est autem quod unumquodque, con­ sequitur speciem secundum illud quod est per se, non autem secundum i d quod est per accidens, quia ea quae sunt per accidens, sunt extra rationem speciei. Et ideo peccata specie distinguuntur ex parte actuum voluntariorum, magis quam ex parte inordinationis in peccato existentis. Actus autem voluntari i distin­ guuntur specie secundum obiecta, ut in supe­ rioribus ostensum est [q. 1 8 a. 5]. Unde se­ quitur quod peccata proprie distinguantur specie secundum obiecta. Ad primum ergo dicendum quod finis prin­ cipaliter habet rationem boni, et ideo com­ paratur ad actum voluntatis, qui est primor­ dialis in omni peccato, sicut obiectum. Unde in idem redit quod peccata differant secun­ dum obiecta, vel secundum fines. Ad secundum dicendum quod peccatum non est pura privatio, sed est actus debito ordine privatus. Et ideo peccata magis distinguuntur specie secundum obiecta actuum, quam se­ cundum opposita. Quamvis etiam si distin­ guantur secundum oppositas virtutes, in idem rediret, virtutes enim distinguuntur specie secundum obiecta, ut supra [q. 60 a. 5] habitum est. Ad tertium dicendum quod nihil prohibet in diversis rebus specie ve! genere differentibus, invenire unam formalem rationem obiecti, a qua peccatum speciem recipit. Et hoc modo superbia circa diversas res excellentiam quae­ rit, avaritia vero abundantiam eorum quae usui humano accommodantur.

    Q. 72, A. l

    Risposta: abbiamo già detto che il peccato consta di due elementi: di un atto volontario e del suo disordine, che dipende dal suo sco­ starsi dalla legge di Dio. Ora, il primo di que­ sti elementi si rapporta a colui che pecca come ciò che è essenziale [per se], poiché costui intende compiere tale atto volontario in una determinata materia; il secondo invece, cioè il disordine dell'atto, è accidentale [per accidens] all'intenzione di chi pecca. Intatti, come dice Dionigi, >. Ora, queste sono esattamente le diver­ se circostanze: infatti «prima del tempo» è ptima del dovere, «troppo» più del necessa­ Iio, e così via. Quindi le specie del peccato sono distinte secondo le diverse circostanze. In contrario: il Filosofo insegna che è proprio il difetto di ciascun vizio l'agire «più di quan­ to conviene, e quando non conviene», e così per tutte le altre circostanze. Quindi da ciò non può dipendere la diversità specifica dei peccati. Risposta: abbiamo già detto che dove si ri­ scontra un motivo diverso come spinta al pec­ cato, lì si ha una specie diversa di peccato: poiché il motivo è il fine e l'oggetto del pec­ cato. Ora, in certi casi gli abusi relativi a cir­ costanze diverse hanno l ' identico motivo: l'avarizia, p. es., è spinta da un unico motivo, cioè dal desiderio di accumulare danaro, a prendere quando non si deve, dove non si deve, più del dovuto, e così per tutte le altre circostanze. E in questi casi gli abusi relativi a circostanze diverse non producono diversità specifiche nei peccati, ma appartengono a un'unica specie di peccato. - Invece in altri casi i disordini relativi a circostanze diverse derivano da motivi diversi. La fretta di man­ giare, p. es., può dipendere dal fatto che uno non può sopportare la dilazione del cibo per il celere consumo dell'elemento umido, mentre il desiderio di un vitto troppo abbondante può dipendere da una forte capacità di assimila­ zione, e il desiderio di cibi ricercati può di­ pendere dalla brama dei piaceri della gola.

    Q. 72, A. 9

    La distinzione dei peccati

    705

    humiditatis; quod vero appetat immoderatum cibum, potest contingere propter virtutem naturae potentem ad convertendum multum cibum; quod autem aliquis appetat cibos deli­ ciosos, contingit propter appetitum delectatio­ nis quae est in cibo. Unde in talibus diversa­ rum circumstantiarum corruptiones inducunt diversas peccati species. Ad primum ergo dicendum quod malum, inquantum huiusmodi, privatio est, et ideo di­ versificatur specie secundum ea quae privan­ tur, sicut et ceterae privationes. Sed peccatum non sortitur speciem ex parte privationis vel aversionis, ut supra [a. l ] dictum est; sed ex conversione ad obiectum actus. Ad secundum dicendum quod circumstantia nunquam transfert actum in aliam speciem, nisi quando est aliud motivum. Ad tertium dicendum quod in diversis specie­ bus gulae diversa sunt motiva, sicut dictum est [co.] .

    Per cui i disordini relativi a queste diverse circo­ stanze implicano una diversa specie di peccato. Soluzione delle difficoltà: l . n male come tale è una privazione e quindi, come tutte le priva­ zioni, ha le sue diversità specifiche in base ai beni corrispondenti. Ma il peccato non riceve la sua specie dalla parte della privazione o del l ' allontanamento, come si è già detto, bensì da quella della conversione o tendenza verso l' oggetto. 2. Una circostanza non può cambiare la spe­ cie di un atto se non quando vi inserisce un motivo nuovo. 3. Come si è già spiegato, nelle diverse specie del peccato di gola ci sono motivi diversi.

    QUAESTI0 73

    QUESTIONE 73

    DE COMPARATIONE PECCATORUM AD INVICEM

    IL CONFRONTO RECIPROCO TRA I PECCATI

    Deinde considerandum est de comparatione peccatorum ad invicem. Et circa hoc quae­ runtur decem. Primo, utrum omnia peccata et vitia sint connexa. Secundo, utrum omnia sint paria. Tertio, utrum gravitas peccatorum atten­ datur secundum obiecta. Quarto, utrum secun­ dum dignitatem virtutum quibus peccata oppo­ nuntur. Quinto, utrum peccata camalia sint graviora quam spiritualia. Sexto, utrum secun­ dum causas peccatorum attendatur gravitas peccatorum. Septimo, utrum secundum cir­ cumstantias. Octavo, utrum secundum quanti­ tatem nocumenti. Nono, utrum secundum con­ ditionem personae in quam peccatur. Decimo, utrum propter magnitudinem personae peccan­ tis aggravetur peccatum.

    Passiamo a considerare il confronto reciproco tra i peccati. Sull'argomento si pongono dieci quesiti: l . I vizi e i peccati sono tutti connessi? 2. Sono tutti uguali? 3. La gravità dei peccati si misura dall' oggetto? 4. Si misura dall'im­ portanza delle virtù contrarie? 5. I peccati car­ nali sono più gravi di quelli spirituali? 6. La gravità dei peccati si misura dalle loro cause? 7. Si misura dalle circostanze? 8. Si misura dalla gravità del danno? 9. Dipende dalla con­ dizione della persona contro la quale si pecca? l o. n peccato è più grave per la dignità della persona che pecca?

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum omnia peccata sint connexa

    Thtti i peccati sono connessi?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod omnia peccata sint connexa. l . Dicitur enim Iac. 2 [ 1 0], quicumque totam

    Sembra di sì. Infatti: l . In Gc è detto: Chiunque osservi tutta la

    legem servaverit, offendat autem in uno, factus est omnium reus. Sed idem est esse

    legge, ma la trasgredisca anche in un punto solo, diventa colpevole di tutto. Ora, essere colpevole di tutti i precetti della legge equiva-

    Q. 73, A. l

    Il confronto reciproco tra i peccati

    reum omnium mandatorum legis, quod habe­ re omnia peccata, quia, sicut Ambrosius dicit [De parad. 8], peccatum est transgressio legis

    divinae, et caelestium inobedientia mandato­ rum. Ergo quicumque peccat uno peccato, subiicitur omnibus peccatis. 2. Praeterea, quodlibet peccatum excludit virtutem sibi oppositam. Sed qui caret una virtute, caret omnibus, ut patet ex supradictis [q. 65 a. 1 ] . Ergo qui peccat uno peccato, privatur omnibus virtutibus. Sed qui caret virtute, habet vitium sibi oppositum. Ergo qui habet unum peccatum, habet omnia peccata. 3 . Praeterea, virtutes omnes sunt connexae quae conveniunt in uno principio, ut supra [q. 65 aa. 1 -2] habitum est. Sed sicut virtutes conveniunt in uno principio, ita et peccata, quia sicut amor Dei, qui facit civitatem Dei, est principium et radix omnium virtutum, ita amor sui, quifacit civitatem Babylonis, est ra­ dix omnium peccatorum; ut patet per Augu­ stinum, 1 4 De civ. Dei [28] . Ergo etiam omnia vitia et peccata sunt connexa, ita ut qui unum habet, habeat omnia. Sed contra, quaedam vitia sunt sibi invicem contraria, ut patet per philosophum, in 2 Ethic. [8,4] . Sed impossibile est contraria simul inesse eidem. Ergo impossibile est omnia peccata et vitia esse sibi invicem connexa. Respondeo dicendum quod aliter se habet in­ tentio agentis secundum virtutem ad sequen­ dum rationem, et aliter intentio peccantis ad divertendum a ratione. Cuiuslibet enim agen­ tis secundum virtutem intentio est ut rationis regulam sequatur, et ideo omnium virtutum intentio in idem tendit. Et propter hoc omnes virtutes habent connexionem ad invicem in ratione recta agibilium, quae est prudentia, sicut supra [q. 65 a. l ] dictum est. Sed inten­ tio peccantis non est ad hoc quod recedat ab eo quod est secundum rationem, sed potius ut tendat in aliquod bonum appetibile, a quo speciem sortitur. Huiusmodi autem bona in quae tendit intentio peccantis a ratione rece­ dens, sunt diversa, nullam connexionem ha­ bentia ad invicem, immo etiam interdum sunt contraria. Cum igitur vitia et peccata speciem habeant secundum illud ad quod convertun­ tur, manifestum est quod, secundum illud quod perficit speciem peccatorum, nullam connexionem habent peccata ad invicem. Non enim peccatum committitur in accedendo a

    706

    le ad avere tutti i peccati: poiché, come dice Ambrogio, «il peccato è trasgressione della legge divina e disobbedienza ai comanda­ menti celesti». Perciò chi commette un pecca­ to si carica di tutti i peccati. 2. Ogni peccato esclude la virtù contraria Ma chi manca di una virtù manca di tutte, secondo le spiegazioni date. Perciò chi commette un peccato viene privato di tutte le virtù. Ora, chi manca di una virtù possiede il vizio contrario. Quindi chi ha un peccato ha tutti i peccati. 3. Secondo le spiegazioni date in precedenza, sono tra loro connesse tutte le virtù che conven­ gono in un unico principio. Ora, convengono in un unico principio non solo le virtù, ma anche i peccati: poiché, secondo quanto scrive Agosti­ no, come «l'amore di Dio, che costruisce la cit­ tà di Dio», è il principio e la radice di tutte le virtù, così «l'amore di sé, che costruisce la città di Babilonia>>, è la radice di tutti i peccati. Per­ ciò anche i vizi e i peccati sono tutti connessi fra di loro, in modo che chi ne ha uno li ha tutti. In contrario: certi vizi, come dimostra Aristo­ tele, sono contrari fra di loro. Ora, qualità contrarie sono incompatibili nel medesimo soggetto. Quindi è impossibile che i vizi e i peccati siano tutti connessi fra di loro. Risposta: l'intenzione di chi agisce virtuosa­ mente per seguire la ragione ha un carattere diverso da quella di chi pecca scostandosi da essa. Infatti l'intenzione del primo mira a se­ guire la regola della ragione: per cui tutte le virtù mirano all'identico scopo. E così tutte le virtù, come si è visto, hanno una connessione reciproca nella retta ragione pratica, cioè nella prudenza. Invece l ' intenzione di chi pecca non mira direttamente ad allontanarsi da ciò che è conforme alla ragione, ma tende piutto­ sto verso un bene desiderabile, dal quale [il suo atto] riceve la specificazione. Ora, questi beni verso cui mira l'intenzione di chi pecca scostandosi dalla ragione sono diversi fra di loro, senza alcuna connessione reciproca: an­ zi, talora sono contrari. Poiché dunque i vizi e i peccati vengono specificati dagli oggetti verso cui tendono, è evidente che essi non hanno alcuna connessione in ciò che ne costi­ tuisce la specie. Infatti non si commette il peccato andando dal molteplice verso l'unità, come avviene per le virtù che sono tra loro connesse, ma piuttosto allontanandosi dall'u­ nità verso il molteplice.

    707

    Il confronto reciproco tra i peccati

    multitudine ad unitatem, sicut accidit in virtu­ tibus quae sunt connexae, sed potius in rece­ dendo ab unitate ad multitudinem. Ad primum ergo dicendum quod Iacobus loquitur de peccato non ex parte conversionis, secundum quod peccata distinguuntur, sicut dictum est [q. 72 a. l ], sed loquitur de eis ex parte aversionis, inquantum scilicet homo peccando recedit a legis mandato. Omnia autem legis mandata sunt ab uno et eodem, ut ipse ibidem dicit, et ideo idem Deus contem­ nitur in omni peccato. Et ex hac parte dicit quod qui offendit in uno, factus est omnium reus, quia scilicet uno peccato peccando, incurrit poenae reatum ex hoc quod contemnit Deum, ex cuius contemptu provenit omnium peccatorum reatus. Ad secundum dicendum quod, sicut supra [q. 7 1 a . 4] dictum est, non per quemlibet actum peccati tollitur virtus opposita, nam peccatum veniale virtutem non tollit; peccatum autem mortale tollit virtutem infusam, inquantum avertit a Deo; sed unus actus peccati etiam mortalis, non tollit habitum virtutis acquisitae. Sed si multiplicentur actus intantum quod ge­ neretur contrarius habitus, excluditur habitus virtutis acquisitae. Qua exclusa, excluditur prudentia, quia cum homo agit contra quam­ cumque vittutem, agit contra prudentiam. Si­ ne prudentia autem nulla virtus moralis esse potest, ut supra [q. 58 a. 4; q. 65 a. l ] habitum est. Et ideo per consequens excluduntur ornnes virtutes morales, quantum ad perfec­ tum et formale esse virtutis, quod habent se­ cundum quod participant prudentiam, rema­ nent tamen inclinationes ad actus virtutum, non habentes rationem virtutis. - Sed non se­ quitur quod propter hoc homo incurrat omnia vitia vel peccata. Primo quidem, quia uni virtuti plura vitia opponuntur, ita quod virtus potest privari per unum eorum, etsi alterum non adsit. Secundo, quia peccatum directe opponitur virtuti quantum ad inclinationem virtutis ad actum, ut supra [q. 71 a. l ] dictum est, unde, remanentibus aliquibus inclinationi­ bus virtuosis, non potest dici quod homo ha­ beat vitia vel peccata opposita. Ad tertium dicendum quod amor Dei est con­ gregativus, inquantum affectum hominis a multis ducit in unum, et ideo virtutes, quae ex amore Dei causantur, connexionem habent. Sed amor sui disgregat affectum hominis in

    Q. 73, A. l

    Soluzione delle difficoltà: l . Giacomo non parla del peccato come conversione [alle creature], cioè dal lato che, secondo le spiega­ zioni date, viene considerato per distinguere i peccati fra di loro, ma ne parla sotto l'aspetto dell'allontanamento [da Dio], cioè in quanto l'uomo col peccato si scosta da un precetto della legge. Ora, tutti i precetti della legge derivano da un unico legislatore, come nota lo stesso Apostolo: perciò è sempre il medesimo Dio che viene disprezzato in ogni atto pecca­ minoso. E in questo senso egli scrive: Chi manca in un punto, diventa colpevole di tutto: commettendo infatti un peccato diviene meri­ tevole di pena per il suo disprezzo verso Dio, disprezzo che determina la punibilità per tutti i peccati. 2. Come si è già spiegato, la virtù contraria non viene distrutta da qualsiasi atto peccami­ noso: infatti il peccato veniale non la distrug­ ge, e il peccato mortale, da parte sua, distrug­ ge certamente le virtù infuse, in quanto allon­ tana da Dio, tuttavia un unico atto peccamino­ so, anche se mortale, non distrugge l'abito di una virtù acquisita. Se però gli atti si moltipli­ cano al punto di produrre l' abito contrario, allora viene eliminato anche l ' abito di una virtù acquisita. Ora, eliminando una virtù acquisita si elimina anche la prudenza, poiché chi agisce contro una virtù qualsiasi agisce contro la prudenza; ma senza la prudenza non può sussistere alcuna virtù morale, come si è visto. Per conseguenza si eliminano tutte le virtù morali sotto l' aspetto formale e perfetto di virtù, che esse desumono dalla prudenza; tuttavia rimangono le inclinazioni verso gli atti virtuosi, prive del carattere di virtù. - Da ciò non segue però che l'uomo incorra in tutti i vizi e in tutti i peccati. Primo, perché a una virtù unica si contrappongono vizi molteplici: per cui una virtù può essere eliminata da uno solo di essi, anche in assenza degli altri. Secondo, perché il peccato, come si è visto, si oppone direttamente alla virtù quanto alla sua inclinazione verso l'atto: per cui, rimanendo alcune inclinazioni virtuose, non si può dire che uno contragga i vizi o i peccati ad esse contrari. 3. L' amore di Dio è unitivo in quanto conduce l'affetto umano dal molteplice all'unità: per­ ciò le virtù, prodotte da questo amore, sono tra loro connesse. Invece l'amore di sé disgre-

    Q. 73, A. l

    Il confronto reciproco tra i peccati

    708

    diversa, prout scilicet homo se amat appe­ tendo sibi bona temporalia, quae sunt varia et diversa, et ideo vitia et peccata, quae causan­ tur ex amore sui, non sunt connexa.

    ga l'affetto umano verso realtà disparate, poi­ ché l'uomo ama se stesso desiderando a se stesso dei beni temporali, che sono disparati e molteplici: perciò i vizi e i peccati, prodotti dall'amore di sé, non sono connessi.

    Articulus 2 Utrum omnia peccata sint paria

    Articolo 2 I peccati sono tutti uguali?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod omnia peccata sint paria. l . Hoc enim est peccare, facere quod non licet. Sed facere quod non licet, uno et eodem modo in omnibus reprehenditur. Ergo peccare uno et eodem modo reprehenditur. Non ergo unum peccatum est alio gravius. 2. Praeterea, omne peccatum consistit in hoc quod homo transgreditur regulam rationis, quae ita se habet ad actus humanos, sicut regula linearis in corporalibus rebus. Ergo pec­ care simile est ei quod est lineas transilire. Sed lineas transilire est aequaliter et uno modo, etiam si aliquis longius recedat vel propinquius stet, quia privationes non recipiunt magis et minus. Ergo omnia peccata sunt aequalia. 3. Praeterea, peccata virtutibus opponuntur. Sed omnes virtutes aequales sunt, ut Tullius dicit, in Paradoxis [3]. Ergo omnia peccata sunt paria. Sed contra est quod Dominus dicit ad Pilatum, Ioan. 1 9 [ 1 1 ], qui tradidit me tibi, maius pec­ catum habet. Et tamen constat quod Pilatus aliquod peccatum habuit. Ergo unum pecca­ turo est maius alio. Respondeo dicendum quod opinio Stoicorum fuit, quam Tullius prosequitur in Paradoxis [Par. 3], quod omnia peccata sunt paria. Et ex hoc etiam derivatus est quorundam haeretico­ rum error, qui, ponentes omnia peccata esse paria, dicunt etiam omnes poenas Inferni esse pares. Et quantum ex verbis Tullii perspici potest, Stoici movebantur ex hoc quod consi­ derabant peccatum ex parte privationis tan­ tum, prout scilicet est recessus a ratione, unde simpliciter aestimantes quod nulla privatio susciperet magis et minus, posuenmt omnia peccata esse paria. - Sed si quis diligenter con­ sideret, inveniet duplex privationum genus. Est enim quaedam simplex et pura privatio, quae consistit quasi in corruptum esse, sicut mors est privatio vitae, et tenebra est privatio luminis. Et tales privationes non recipiunt

    Sembra di sì. Infatti: l. Peccare è fare ciò che non si deve. Ma que­ sto tare ciò che non si deve viene rimprovera­ to allo stesso modo in tutti i casi. Quindi il peccato merita sempre lo stesso rimprovero. Perciò un peccato non è più grave di un altro. 2. II peccato consiste sempre nel fatto che uno trasgredisce la regola della ragione, la quale sta agli atti umani come la riga sta al disegno geometrico. Perciò peccare è come sbagliare una linea. Ma la linea sbagliata è sempre sba­ gliata, anche se una si scosta di più [dalla riga] e un'altra di meno: poiché le privazioni non hanno gradazioni. Quindi tutti i peccati sono uguali. 3. I peccati si contrappongono alle virtù. Ma secondo Cicerone, tutte le virtù sono uguali. Quindi anche i peccati sono tutti uguali. In contrario: il Signore disse a Pilato (Gv): Chi mi ha consegnato nelle tue mani ha un peccato più grande. Ora, è evidente che Pilato commise un peccato. Quindi un peccato può essere più grave di un altro. Risposta: gli Stoici e Cicerone con essi, rite­ nevano che tutti i peccati fossero uguali. E da ciò è derivato anche l'errore di certi eretici i quali, persuasi dell'uguaglianza di tutti i pec­ cati, affermano che le pene dell'inferno sono tutte uguali. Ora, per quanto si può arguire dalle parole di Cicerone, gli Stoici erano giunti a questa opinione per il fatto che consi­ deravano il peccato solo come privazione, cioè come dissonanza dalla ragione: quindi, ritenendo puramente e semplicemente che una privazione non ammette gradazioni, con­ clusero che tutti i peccati sono uguali. - Ma se uno riflette bene, si accorge che ci sono due tipi di privazione. Esiste infatti una priva­ zione pura e semplice che consiste in una distruzione già avvenuta: come la morte è pri­ vazione della vita e le tenebre sono privazione della luce. E queste privazioni non ammetto­ no gradazioni: poiché non rimane nulla della

    709

    Il confronto reciproco tra i peccati

    magis et minus, quia nihil residuum est de habirn opposito. Unde non minus est morrnus aliquis primo die mortis, et tertio vel quarto, quam post annum, quando iam cadaver fuerit resolutum. Et similiter non est magis tene­ brosa domus, si lucerna sit operta plmibus ve­ laminibus, quam si sit operta uno solo vela­ mine tornm lumen intercludente. - Est autem alia privatio non simplex, sed aliquid retinens de habitu opposito; quae quidem privatio magis consistit in corrumpi, quam in cor­ ruptum esse, sicut aegritudo, quae privat debitam commensurationem humorum, ita tamen quod aliquid eius remanet, alioquin non remaneret animai vivum; et simile est de turpitudine, et aliis huiusmodi. Huiusmodi autem privationes recipiunt magis et minus ex parte eius quod remanet de habirn contrario, multum enim refert ad aegritudinem vel rnrpirndinem, utrum plus vel minus a debita commensuratione humorum vel membrorum recedatur. Et similiter dicendum est de vitiis et peccatis, sic enim in eis privarnr debita commensuratio rationis, ut non totaliter ordo rationis tollatur; alioquin malum, si sit inte­ grum, destruit seipsum, ut dicitur in 4 Ethic. [5 ,7] ; non enim posset remanere substantia actus, vel affectio agentis, nisi aliquid rema­ neret de ordine rationis. Et ideo mulrnm in­ terest ad gravitatem peccati, utrum plus vel minus recedatur a rectitudine rationis. Et secundum hoc dicendum est quod non omnia peccata sunt paria. Ad primum ergo dicendum quod peccata com­ mittere non licet, propter aliquam deordina­ tionem quam habent. Unde illa quae maiorem deordinationem continent, sunt magis illicita; et per consequens graviora peccata. Ad secundum dicendum quod ratio illa procedit de peccato, ac si esset privatio pura. Ad tertiu m dicendum quod virtutes sunt aequales proportionaliter i n uno et eodem, tamen una virtus praecedit aliam dignitate secundum suam speciem; et unus etiam homo est alio virrnosior in eadem specie virrntis, ut supra [q. 66 aa. 1 -2] habirnm est. - Et tamen si virtutes essent pares, non sequeretur vitia esse paria, quia virrntes habent connexionem, non autem vitia seu peccata.

    Q. 73, A. 2

    disposizione precedente. Per cui uno non è meno morto il primo, il terzo o il quarto gior­ no dalla morte di quanto lo sia dopo un anno, quando il cadavere è decomposto. E simil­ mente quando la lampada è coperta da molti veli la casa non è più al buio di quando la lampada è coperta da un solo velo che oscura totalmente la luce. - Esiste però una seconda privazione, la quale non è assoluta, ma con­ serva qualcosa della disposizione contraria; e questa privazione consiste in un processo distruttivo più che in una distruzione compiu­ ta: come la malattia, che toglie la debita pro­ porzione degli umori in modo però da lasciar­ la in parte, altrimenti l'animale non rimarreb­ be vivo. E lo stesso si dica della bruttezza, e di altre cose del genere. Ora, tali privazioni ammettono gradazioni, basate su ciò che rimane della disposizione contraria. Infatti non è indifferente per la malattia, o per la bruttezza, che sia maggiore o m i nore l a distanza dalla giusta proporzione degli umori, o delle varie membra. E lo stesso si dica dei vizi e dei peccati: infatti in essi la privazione dell' accordo con la ragione non è totale; altri­ menti, come dice Aristotele, «se il male fosse integrale distruggerebbe se stesso». Se infatti non restasse qualcosa dell'ordine della ragio­ ne non potrebbe rimanere la sostanza dell'at­ to, o la disposizione affettiva di chi lo compie. Perciò sulla gravità del peccato incide molto la discordanza maggiore o minore dalla retti­ rndine della ragione. Bisogna dunque conclu­ dere che i peccati non sono rutti uguali. Soluzione delle difficoltà: l . Non è lecito commettere i peccati a motivo di un qualche disordine che essi includono. Perciò quei pec­ cati che implicano un disordine più grande sono più illeciti, e quindi anche più gravi. 2. L'argomento intende il peccato come pura privazione. 3. In un dato soggetto le virtù sono proporzio­ nalmente uguali, però l'una precede l'altra in dignità, secondo la propria specie; e così pure, secondo le spiegazioni date, un uomo può essere più virtuoso di un altro in una data virtù. - E tuttavia, anche se le virtù fossero rntte uguali, non ne seguirebbe l' uguaglianza dei vizi: poiché le virtù sono connesse fra di loro, non invece i vizi o i peccati.

    710

    Il confronto reciproco tra i peccati

    Q. 73, A. 3 Articulus 3

    Articolo 3

    Utrum gravitas peccatorum varietur secundum obiecta

    La gravità del peccato si misura dali' oggetto?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod pec­ catorum gravitas non varietur secundum obiecta. l . Gravitas enim peccati pertinet ad modum vel qualitatem ipsius peccati. Sed obiectum est materia ipsius peccati. Ergo secundum diversa obiecta, peccatorum gravitas non variatur. 2. Praeterea, gravitas peccati est intensio ma­ litiae ipsius. Peccatum autem non habet ratio­ nem malitiae ex parte conversionis ad pro­ prium obiectum, quod est quoddam bonum appetibile; sed magis ex parte aversionis. Er­ go gravitas peccatorum non variatur secun­ dum diversa obiecta. 3 . Praeterea, peccata quae habent diversa obiecta, sunt diversorum generum. Sed ea quae sunt diversorum generum, non sunt comparabilia, ut probatur in 7 Phys. [4,4] . Ergo unum peccatum non est gravius altero secundum diversitatem obiectorum. Sed contra, peccata recipiunt speciem ex obiectis, ut ex supradictis [q. 72 a. l ] patet. Sed aliquorum peccatorum unum est gravius altero secundum suam speciem, sicut homici­ dium furto. Ergo gravitas peccatorum differt secundum obiecta. Respondeo dicendum quod, sicut ex supra­ dictis [a. 2] patet, gravitas peccatorum differt eo modo quo una aegritudo est alia gravior, s i c u t e n i m bonum sanitatis c on s i s t i t i n quadam commensuratione humorum per con­ venientiam ad naturam animalis, ita bonum virtutis consistit in quadam commensuratione humani actus secundum convenientiam ad regulam rationis. Manifestum est autem quod tanto est gravior aegritudo, quanto tollitur de­ bita humorum commensuratio per commen­ surationem prioris principii, sicut aegritudo quae provenit in corpore humano ex corde, quod est principium vitae, vel ex aliquo quod appropinquat cordi, periculosior est. Unde oportet etiam quod peccatum sit tanto gra­ v i u s , quanto deordin atio contingit c i rc a aliquod principium quod est prius i n ordine rationis. - Ratio autem ordinat omnia in agibili­ bus ex fine. Et ideo quanto peccatum contin­ git in actibus humanis ex altiori fine, tanto

    Sembra di no. Infatti: l . La gravità di un peccato riguarda la qualità o il modo del peccato medesimo. L'oggetto invece costituisce l a materia del peccato. Quindi la gravità dei peccati non dipende dalla diversità dell'oggetto. 2. La gravità di un peccato non è che l'inten­ sità della sua malizia. Ma la malizia di un peccato non viene desunta dalla conversione verso il proprio oggetto, che è sempre un bene desiderabile, ma dali' allontanamento [da Dio] . Quindi la gravità dei peccati non si misma dalla diversità del loro oggetto. 3 . La diversità del l ' oggetto produce una diversità di genere tra i peccati. Ma realtà di genere diverso, come dimostra Aristotele, non sono comparabili tra loro. Quindi un peccato non può essere più grave di un altro secondo la diversità dell'oggetto. In contrario: come si è visto in precedenza, i peccati ricevono la loro specie dall'oggetto. Ora, certi peccati sono l'uno più grave dell'al­ tro per la loro specie: l' omicidio, p. es., è spe­ cificamente più grave del furto. Quindi la gra­ vità dei peccati viene misurata dali' oggetto. Risposta: secondo le spiegazioni date, la gra­ vità dei peccati varia in modo analogo alla gravità delle malattie : come infatti il bene della salute consiste in una proporzione tra gli umori in rapporto alla natura dell' animale, così il bene della virtù consiste in una propor­ zione dell'atto umano in rapporto alla regola della ragione. Ora, è evidente che una malat­ tia è tanto più grave quanto più fondamentale è il principio rispetto al quale viene compro­ messa la giusta proporzione degli umori: p. es. la malattia che nel corpo umano proviene dal cuore, che è l'organo principale della vita, o da altri organi vicini al cuore, è più perico­ losa. Perciò è necessario che un peccato sia tanto più grave quanto più alto nell' ordine della ragione è il principio che il suo disordi­ ne colpisce. - Ora, in campo pratico la ragio­ ne ordina ogni cosa al fine. Perciò negli atti umani il peccato è tanto più grave quanto più alto è il fine da esso frustrato. Ma stando a quanto si è già detto, gli oggetti sono precisa­ mente i fini dei nostri atti. Perciò la gravità

    Il confronto reciproco tra i peccati

    711

    peccatum est gravius. Obiecta autem actuum sunt fines eorum, ut ex supradictis [q. 72 a. 3 ad 2] patet. Et ideo secundum diversitatem obiectorum attenditur diversitas gravitatis in peccatis . Sicut patet quod res exteriores ordinantur ad hominem sicut ad :finem; homo autem ordinatur ulterius in Deum sicut i n finem. Unde peccatum quod est circa ipsam substantiam hominis, sicut homicidium est gravius peccato quod est circa res exteriores, sicut furtum; et adhuc est gravius peccatum quod immediate contra Deum committitur, sicut infidelitas, blasphemia et huiusmodi. Et in ordine quorumlibet horum peccatorum unum peccatum est gravius altero, secundum quod est circa aliquid principalius vel rninus principale. Et quia peccata habent speciem ex obiectis, differentia gravitatis quae attenditur penes obiecta, est prima et principalis, quasi consequens speciem. Ad primum ergo dicendum quod obiectum, etsi sit materia circa quam terminatur actus, habet tamen rationem finis, secundum quod intentio agentis fertur in ipsum, ut supra [q. 72 a. 3 ad 2] dictum est. Forma autem actus moralis dependet ex fine, ut ex superioribus [q. 1 8 a. 6; q. 72 a. 6] patet. Ad secundum dicendum quod ex i p s a indebita conversione ad aliquod bonum com­ mutabile, sequitur aversio ab incommutabili bono, in qua pertìcitur ratio mali. Et ideo oportet quod secundum diversitatem eorum quae pertinent ad conversionem, sequatur diversa gravitas malitiae in peccatis. Ad tertium dicendum quod omnia obiecta humanorum actuum h abent ordinem ad invicem, et ideo omnes actus humani quo­ dammodo conveniunt in uno genere, se­ cundum quod ordinantur ad ultimum finem. Et ideo nihil prohibet omnia peccata esse comparabilia.

    Q. 73, A. 3

    dei peccati si misura sulla diversità degli og­ getti. Per portare un esempio: le cose sono ordinate all'uomo come a loro fine, e l' uomo a sua volta è ordinato a Dio. Quindi un pecca­ to che colpisce direttamente l' uomo, come l' omicidio, è più grave di un peccato che, come il furto, colpisce le cose o i beni esterni; ed è ancora più grave un peccato commesso direttamente contro Dio, come l'infedeltà, la bestemmia e simili. Nell' ambito poi di cia­ scuna categoria di peccati un peccato è più grave dell' altro secondo l'importanza di ciò che esso colpisce. E siccome i peccati ricevo­ no la specie dall'oggetto, la graduatoria fon­ data sull' oggetto è la prima e la principale, in quanto connessa immediatamente con la specie. Soluzione delle difficoltà: l . Secondo le spie­ gazioni date, l'oggetto, pur essendo la materia [circa quam] a cui l' atto termina, ha tuttavia ragione di fine, in quanto richiama su di sé l ' intenzione dell' agente. Ora, come si è visto, la forma dell' atto morale dipende dal fine. 2. L'allontanamento dal bene incommutabile, nel quale consiste la malizia di un atto, è una conseguenza dell'indebita conversione verso un bene transitorio. Perciò il diverso grado di malizia dedva nei peccati dalla diversità di ciò che riguarda la conversione. 3. Tutti gli oggetti degli atti umani hanno un ordine reciproco: perciò gli atti umani appar­ tengono tutti in qualche modo a un unico genere, in quanto sono ordinati al fine ultimo. Perciò nulla impedisce che tutti i peccati sia­ no paragonabili fra di loro.

    Articulus 4

    Articolo 4

    Utrum gravitas peccatorum differat secundum dignitatem virtutum quibus opponuntur

    La gravità dei peccati si misura secondo l'importanza delle virtù contrarie?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod gravitas peccatorum non differat secundum d i g n itatem virtutum quibus peccata opponuntur, ut scilicet maiori virtuti gravius peccatum opponatur.

    Sembra di no. Infatti : l . In Pr è detto: Nella massima giustizia vi è la massima virtù. Ora, il Signore in Mt dice che una giustizia superiore esclude l'ira, che è un peccato più piccolo dell'omicidio, escluso

    Q. 73, A. 4

    Il confronto reciproco tra i peccati

    l . Quia u t dicitur Prov. 15 [5], in abundanti iu­ stitia virtus maxima est. Sed sicut dicit Domi­ nus, Matth. 5 [20 sqq.], abundans iustitia co­ hibet iram; quae est minus peccatum quam ho­ micidium, quod cohibet minor iustitia. Ergo maximae virtuti opponitur minimum peccatum. 2. Praeterea, in 2 Ethic. [3, l O] dicitur quod virtus est circa difficile et bonum, ex quo vi­ detur quod maior virtus sit circa magis diffici­ le. Sed minus est peccatum si homo deficiat in magis difficili, quam si deticiat in minus difficili. Ergo maiori virtuti minus peccatum opponitur. 3. Praeterea, carita� est maior virtus quam fides et spes, ut dicitur l ad Cor. 1 3 [ 1 3]. Odium autem, quod opponitur caritati, est minus peccatum quam infidelitas vel desperatio, quae opponuntur fidei et spei. Ergo maiori virtuti opponitur minus peccatum. Sed contra est quod philosophus dicit, in 8 Ethic. [ 1 0,2], quod pessimum optimo contra­ rium est. Optimum autem in moralibus est maxima virtus; pessimum autem, gravissi­ mum peccatum. Ergo maximae virtuti oppo­ nitur gravissimum peccatum. Respondeo dicendum quod virtuti opponitur aliquod peccatum, uno quidem modo principa­ liter et directe, quod scilicet est circa idem obiectum, nam contraria circa idem sunt. Et hoc modo oportet quod maiori virtuti oppo­ natur gravius peccatum. Sicut enim ex parte obiecti attenditur maior gravitas peccati, ita etiam maior dignitas virtutis, utrumque enirn ex obiecto speciem sortitur, ut ex supradictis [q. 60 a. 5; q. 72 a. l] patet. Unde oportet quod maximae virtuti directe contrarietur maximum peccatum, quasi maxime ab eo distans in eodem genere. Alio modo potest considerari oppositio virtutis ad peccatum, secundum quandam extensionem virtutis cohibentis pec­ catum, quanto enirn fuerit virtus maior, tanto magis elongat hominem a peccato sibi con­ trario, ita quod non solum ipsum peccatum, sed etiam inducentia ad peccatum cohibet. Et sic manifestum est quod quanto aliqua virtus fuerit maior, tanto etiam m inora peccata cohibet, sicut etiam sanitas, quanto fuerit maior, tanto etiam minores distemperantias excludit. Et per hunc modum maiori virtuti minus peccatum opponitur ex parte effectus. Ad primum ergo dicendum quod ratio illa procedi t d e oppositi on e quae attenditur

    712

    invece da una giustizia minore. Perciò a una virtù più grande si contrappone un peccato più piccolo. 2. Aristotele insegna che «la virtù ha di mira il difficile e il bene»: dal che è evidente che una virtù superiore riguarda cose più difficili. Ma se un uomo manca nelle cose più difficili, il peccato è minore che se mancasse in quelle più facili. Quindi a una virtù superiore si con­ trappone un peccato più piccolo. 3. La carità è una virtù maggiore della tede e della speranza, come è detto in l Cor. Ora l'odio, che è contro la carità, è un peccato mino­ re dell'infedeltà o della disperazione, che sono contro la fede e la speranza. Qtùndi a una virtù superiore si contrappone un peccato più leggero. In contrario: secondo il Filosofo, «il pessimo è il contra.tio dell'ottimo». Ma in campo morale I' ottimo è la virtù più grande, mentre il pes­ simo è il peccato più grave. Quindi alla virtù più grande si contrappone il peccato più grave. Risposta: un peccato si contrappone alla virtù in vari modi. Primo, in maniera diretta e prin­ cipale, in quanto si riferisce al medesimo og­ getto: infatti i contrari riguardano la stessa materia. E in questo senso a una virtù supe­ riore deve corrispondere un peccato più gra­ ve. Infatti dall'oggetto non si desume soltanto una maggiore gravità del peccato, ma anche una maggiore nobiltà della virtù: poiché, come si è spiegato, l'uno e l'altra ricevono la specie dali' oggetto. Per cui è necessario che alla virtù più sublime si contrapponga diretta­ mente il più grave peccato, come il termine più distante nel medesimo genere. Secondo, I' opposizione tra peccato e virtù può essere considerata in base ali' efficacia repressiva di quest'ultima nei riguardi della colpa: e allora quanto maggiore è la virtù, tanto più l'uomo si allontana dal peccato contrario, così da reprimere non solo il peccato, ma anche quei moti che inducono ad esso. E in questo senso è evidente che quanto più grande è la virtù, tanto più la repressione si estende ai peccati più piccoli: allo stesso modo, cioè, della salu­ te, che, quanto più è perfetta, tanto più esclu­ de disturbi minori. E in questo senso a una virtù più grande si contrappone dalla parte dell'effetto un peccato più piccolo. Soluzione delle difficoltà: l . La difficoltà con­ sidera l' opposizione fondata sulla repressione del peccato: sotto questo aspetto infatti una

    Il confronto reciproco tra i peccati

    713

    secundum cohibitionem peccati, sic enim a­ bundans iustitia etiam minora peccata cohibet. Ad secundum dicendum quod maiori virtuti, quae est circa bonum magis difficile, contra­ riatur directe peccatum quod est circa malum magis difficile. Utrobique enim invenitur quaedam eminentia, ex hoc quod ostenditur voluntas proclivior in bonum vel in malum, ex hoc quod difficultate non vincitur. Ad tettium dicendum quod caritas non est qui­ cumque amor, sed amor Dei. Unde non oppo­ nitur ei quodcumque odium directe, sed odium Dei, quod est gravissimum peccatorum.

    Q. 73, A. 4

    giustizia superiore reprime anche i peccati più piccoli. 2. A una virtù superiore, impegnata in cose più difficili, si contrappone direttamente il peccato riguardante un male di maggiore dif­ ficoltà. Infatti in entrambi i casi vi è una certa eminenza nel fatto che la volontà si mostra particolarmente proclive al bene o al male, non lasciandosi vincere dalla difficoltà. 3. Per carità non si intende qualsiasi amore, ma l'amore di Dio. Perciò ad essa non si con­ trappone direttamente un odio qualsiasi, ma l'odio di Dio, che è il più grave dei peccati.

    Articulus 5

    Articolo 5

    Utrum peccata carnalia sint minoris culpae quam spiritualia

    I peccati carnali sono meno gravi di quelli spirituali?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod pec­ cata carnalia non sint minoris culpae quam peccata spiritualia. l . Adulterium enim gravius peccatum est quam furtum, dicitur enim Prov. 6 [30-32],

    Sembra di no. Infatti: l . L' adulterio è un peccato più grave del furto, poiché in Pr è detto: Non è gran colpa se uno

    non grandis est culpae cum quis furatus fuerit. Qui autem adulter est, propter cordis inopiam perdet animam suam. Sed furtum

    furto appartiene all'avarizia, che è un peccato spirituale, l'adulterio appartiene alla lussuria, che è un peccato carnale. Quindi i peccati car­ nali implicano una colpa più grave. 2. Agostino afferma che il demonio gode spe­ cialmente dei peccati di lussuria e di idolatria. Ora, egli gode maggiormente delle colpe più gravi. Essendo dunque la lussuria un peccato carnale, sembra che i peccati più gravi siano quelli carnali. 3. ll Filosofo dimostra che «l' intemperanza è più vergognosa nella concupiscenza che nel­ l'ira>>. Ma l' ira, stando a Gregorio, è tra i pec­ cati spirituali, mentre la concupiscenza è tra i peccati carnali. Perciò un peccato carnale è più grave di un peccato spirituale. In contrario: Gregorio afferma che i peccati carnali sono di minore colpa, ma di maggiore infamia. Risposta: i peccati spirituali sono più gravi di quelli carnali. Però questa affermazione non va intesa nel senso che qualunque peccato spirituale sia più grave di qualunque peccato carnale, ma nel senso che, a parità di condi­ zioni, considerando questa sola differenza, i peccati spirituali sono più gravi degli altri. E di questo fatto possiamo indicare tre ragioni. La prima può essere desunta dal soggetto. Infatti i peccati spirituali risiedono nello spiri-

    pertinet ad avari tiam, quae est peccatum spirituale; adulterium autem ad luxuriam, quae est peccatum carnale. Ergo peccata carnalia sunt maioris culpae. 2. Praeterea, Augustinus dicit, Super Lev. [De civ. Dei 2 , 4 . 26] , quod diabolu s maxime gaudet de peccato luxuriae et idololatriae. Sed de maiori culpa magis gaudet. Ergo, cum luxuria sit peccatum carnale, videtur quod peccata carnalia sint maximae culpae. 3. Praeterea, philosophus probat, in 7 Ethic. [6, 1 .5], quod incontinens concupiscentiae est turpior quam incontinens irae. Sed ira est peccatum spirituale, secundum Gregorium, 31 Mor. [45] ; concupiscentia autem pertinet ad peccata carnalia. Ergo peccatum carnale est gravius quam peccatum spirituale. Sed contra est quod Gregorius dicit [33 , 1 2] , quod peccata carnalia sunt minoris culpae, et maioris infamiae. Respondeo dicendum quod peccata spiritualia sunt maioris culpae quam peccata carnalia. Quod non est sic intelligendum quasi quodlibet peccatum spirituale sit maioris culpae quolibet peccato carnali, sed quia, considerata hac sola differentia spiritualitatis et carnalitatis, gra-

    ha rubato. Ma l 'adultero, poiché è privo di senno, perde la sua anima. Ora, mentre il

    Q. 73, A. 5

    Il confronto reciproco tra i peccati

    viora sunt quam cetera peccata, ceteris paribus. Cuius ratio triplex potest assignari. - Prima quidem ex parte subiecti. Nam peccata spiri­ malia pertinent ad spiritum, cuius est converti ad Deum et ab eo averti, peccata vero carnalia consummantur in delectatione carnalis appeti­ tus, ad quem principaliter pertinet ad bonum corporale converti. Et ideo peccatum carnale, inquantum huiusmodi, plus habet de conver­ sione, propter quod etiarn est maioris adhae­ sionis, sed peccatum spirituale habet plus de aversione, ex qua procedit ratio culpae. Et ideo peccatum spirituale, inquantum huiusmodi, est maioris culpae. - Secunda ratio potest sumi ex parte eius in quem peccatur. Nam peccatum carnale, inquantum huiusmodi, est in corpus proprium; quod est minus diligendum, secun­ dum ordinem caritatis, quam Deus et proxi­ mus, in quos peccatur per peccata spiritualia. Et ideo peccata spiritualia, inquantum huiusmcr di, sunt maioris culpae. - Tertia ratio potest sumi ex parte motivi. Quia quanto est gravius impulsivum ad peccandum, tanto homo mi­ nus peccat, ut infra [a. 6] dicetur. Peccata autem carnalia habent vehementius impulsi­ vum, i dest ipsam concupiscentiam carnis nobis innatam. Et ideo peccata spiritualia, inquantum huiusmodi, sunt maioris culpae. Ad p1imum ergo dicendum quod adulterium non salurn pertinet ad peccatum luxuriae, sed etiam pertinet ad peccatum iniustitiae. Et quantum ad hoc, potest ad avaritiam reduci; ut Glossa [glos. ord. et Lomb.] dicit, ad Eph. 5 [5], super illud, omnis fornicator, aut immundus, aut avarus. Et tunc gravius est adulterium quarn furtum, quanto homini cariar est uxor quam res possessa. Ad secundum dicendum quod diabolus dicitur maxiine gaudere de peccato luxuriae, quia est maximae adhaerentiae, et difficile ab eo homo potest eripi, insatiabilis est enim delectabilis appetitus, ut philosophus dicit, in 3 Ethic. [12,7]. Ad tertium dicendum quod philosophus dicit [Ethic. 7,6, 1 .5], turpiorem esse incontinentem concupiscentiae quam incontinentem irae, quia minus participat de ratione. Et secundum hoc etiam dicit, in 3 Ethic. [10, 1 1], quod peccata in­ temperantiae sunt maxime exprobrabilia, quia sunt circa illas delectationes quae sunt commu­ nes nobis et brutis, unde quodammodo per ista peccata homo brutalis redditur. Et inde est quod, sicut Gregorius dicit, sunt maioris infamiae.

    714

    to, al quale spetta la conversione a Dio o l'al­ lontanamento da lui; invece i peccati carnali si attuano nei piaceri dell' appetito carnale, al quale spetta principalmente l'adesione al bene materiale. Perciò di per sé il peccato carnale accentua maggiormente l' aspetto di conver­ sione [alle creature] , e quindi di maggiore adesione, mentre il peccato spirituale accen­ tua maggiormente l' aspetto di allontanamento [da Dio], da cui deriva la ragione di colpa. Quindi un peccato spirituale di per sé implica una colpa più grave. - La seconda ragione può essere desunta dal soggetto contro il quale si pecca. Infatti il peccato carnale di per sé è diretto contro il proprio corpo il quale, secondo l' ordine della carità, deve essere amato meno di Dio e del prossimo, contro i quali invece si pecca con i peccati spirituali. Quindi i peccati spirituali di per sé sono più gravi. - La terza ragione può essere desunta dall'impulso [che trascina al peccato] . Come infatti spiegheremo nell' articolo seguente, più forte è l' impulso verso la colpa, meno grave è il peccato. Ora, i peccati carnali hanno un impulso più forte, che è la stessa concupi­ scenza della carne, innata in noi . Quindi i peccati spirituali sono, come tali, di maggiore gravità. Soluzione delle difficoltà: l . L' adulterio non appartiene soltanto al peccato di lussUiia, ma anche al peccato di ingiustizia. E sotto tale aspetto può essere ridotto all'avarizia, come fa la Glossa nel commentare Ef Ognifornicatore, o impuro, o avaro... E in questo senso l'adul­ terio è più grave del furto, nella misura in cui a un uomo è più cara la moglie che gli averi. 2. Si dice che il demonio gode soprattutto dei peccati di lussuria per la fortissima adesione che provocano, e che l' uomo difficilmente riesce poi a superare: poiché, al dire del Filcr sofo, «l' appetito dei piaceri è insaziabile». 3. li Filosofo scrive che l' intemperanza nella concupiscenza è più vergognosa che nell'ira perché la prima è più lontana dalla ragione. E in questo senso egli aggiunge che i peccati di intemperanza sono i più riprovevoli, in quanto hanno per oggetto quei piaceri che abbiamo in comune con le bestie: per cui l'uomo con tali peccati diviene in qualche modo bestiale. Quindi dice bene Gregorio che essi sono di maggiore infamia.

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    Q. 73, A. 6

    Il confronto reciproco tra i peccati

    Articulus 6 Utrum gravitas peccatorum attendatur secundum causam peccati

    Articolo 6 La gravità dei peccati si misura dalla loro causa?

    Ad sextum sic proceditur. Videtur quod gravi­ tas peccatorum non attendatur secundum causam peccati. l . Quanto enim peccati causa fuerit maior, tanto vehementius movet ad peccandum, et ita diffi­ cilius potest ei resisti. Sed peccatum dirninuitur ex hoc quod ei difficilius resistitur, hoc enim pertinet ad infirrnitatem peccantis, ut non facile resistat peccato; peccatum autem quod est ex infmnitate, levius iudicatur. Non ergo peccatum habet gravitatem ex parte suae causae. 2 . Praeterea, concupiscentia est generali s quaedam causa peccati, unde dicit Glossa [glos. ord., int. et Lomb.] , super illud Rom. 7 [7] , nam concupiscentiam nesciebam etc.,

    Sembra di no. Infatti: l . Tanto maggiore è la causa del peccato, tanto più fortemente essa spinge a peccare, e quindi più diftìcile è la resistenza. Ma il pec­ cato diminuisce se la resistenza è più difficile: intàtti la difficoltà a resistere è dovuta alla fra­ gilità di chi pecca, e d' altra parte i peccati di fragilità sono giudicati più leggeri. Quindi la gravità dei peccati non dipende dalla loro causa. 2. La concupiscenza è una delle cause genera­ li del peccato, per cui la Glossa così commen­ ta i l passo di Rm: Non avrei conosciuto la concupiscenza. . : «Buona è la legge, che col proibire la concupiscenza proibisce ogni ma­ le». Ma quanto maggiore è la concupiscenza, da cui un uomo è superato, tanto minore è il peccato. Quindi la gravità del peccato dimi­ nuisce col crescere della sua causa. 3. Come la rettitudine della ragione è causa dell' atto virtuoso, così la mancanza di razio­ nalità è causa del peccato. Ora, più grave è la mancanza di razionalità e più diminuisce il peccato: fino al punto che l 'assenza totale del­ l ' uso di ragione scusa completamente dal peccato; e il peccato di ignoranza è un pecca­ to più leggero. Quindi la gravità dei peccati non si misura in base alla grandezza della loro causa. In contrario: aumentando la causa, aumenta l ' effetto. Se quindi la causa del peccato è maggiore, il peccato sarà più grave. Risposta: nel peccato, come in qualsiasi altro genere di cose, si possono considerare due tipi di cause. La prima è la sua causa diretta, che è la volontà di peccare: essa infatti sta all'atto del peccato come l'albero sta ai suoi frutti, secondo l 'espressione della Glossa a commento del passo di Mt: Un albem buono non può pmdurre frutti cattivi. E quanto più questa causa cresce, tanto più grave diviene il peccato: poiché quanto maggiore è la volontà di peccare, tanto più gravemente l ' uomo pecca. - Le altre cause del peccato, invece, sono come estrinseche e remote, e sono quel­ le che sollecitano la volontà a peccare. E tra queste cause bisogna distinguere. Alcune in­ fatti inducono la volontà a peccare seguendo

    bona est lex, quae, dum concupiscentiam pmhibet, omne malum pmhibet. Sed quanto homo fuerit victus maiori concupiscentia, tanto est minus peccatum. Gravitas ergo pec­ cati dirninuitur ex magnitudine causae. 3. Praeterea, sicut rectitudo rationis est causa virtuosi actus, ita defectus rationis videtur esse causa peccati . Sed defectus rationis, quanto fuerit maior, tanto est rninus pecca­ tum, intantum quod qui carent usu rationis, omnino excusentur a peccato; et qui ex igno­ rantia peccat, levius peccat. Ergo gravitas peccati non augetur ex magnitudine causae. Sed contra, multiplicata causa, multiplicatur etì"ectus. Ergo, si causa peccati maior fuerit, peccatum erit gravius. Respondeo dicendum quod in genere peccati, sicut et in quolibet alio genere, potest accipi duplex causa. Una quae est propria et per se causa peccati, quae est ipsa voluntas peccan­ di, comparatur enim ad actum peccati sicut arbor ad fructum, ut dicitur in Glossa [glos. ord.], super illud Matth. 7 [ 1 8], non potest arbor bonafructus malosjàcere. Et huiusmodi cau­ sa quanto fuerit maior, tanto peccatum erit gravius, quanto enim voluntas fuerit maior ad peccandum, tanto homo gravius peccat. - Aliae vero causae peccati accipiuntur quasi extrin­ secae et remotae, ex quibus scilicet voluntas inclinatur ad peccandum. Et in his causis est distinguendum. Quaedam enim harum indu­ cunt voluntatem ad peccandum, secundum ipsam naturam voluntatis, sicut finis, quod est

    .

    Q. 73, A. 6

    Il confronto reciproco tra i peccati

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    proprium obiecturn voluntatis. Et ex tali causa augetur peccatum, gravius enim peccat cuius voluntas ex intentione peioris finis inclinatur ad peccandum. - Aliae vero causae sunt quae inclinant voluntatem ad peccandum, praeter naturam et ordinem ipsius voluntatis, quae nata est moveri libere ex seipsa secundum iudicium rationis. Unde causae quae dimi­ nuunt iudicium rationis, sicut ignorantia; vel quae diminuunt liberum motum voluntatis, sicut infirmitas vel violentia aut metus, aut aliquid huiusmodi, diminuunt peccatum, sicut et diminuunt voluntarium, intantum quod si actus sit omnino involuntarius, non habet ra­ tionem peccati. Ad primum ergo dicendum quod obiectio illa procedit de causa movente extrinseca, quae di­ minuit voluntarium, cuius quidem causae aug­ mentum diminuit peccatum, ut dicturn est [co.]. Ad secundum dicendum quod si sub con­ cupiscentia includatur etiam ipse motus vo­ luntatis, sic ubi est maior concupiscentia, est maius peccatum. Si vero concupiscentia di­ catur passio quaedam, quae est motus vis concupiscibilis, sic maior concupiscentia praecedens iudicium rationis et motum volun­ tatis, diminuit peccatum, quia qui maiori concupiscentia stimulatus peccat, cadit ex graviori tentatione; unde minus ei imputatur. Si vero concupiscentia sic sumpta sequatur iudicium rationis et motum voluntatis, sic ubi est maior concupiscentia, est maius pecca­ tum, insurgit enim interdum maior concupi­ scentiae motus ex hoc quod voluntas inef­ frenate tendit in suum obiectum. Ad tertium dicendum quod ratio illa procedit de causa quae causat involuntarium, et haec dirninuit peccatum, ut dictum est [co.].

    la natura stessa della volontà: come il fine, che è l'oggetto proprio della volontà. E queste cause aggravano il peccato: infatti chi ha la volontà inclinata a peccare per l'intenzione di un fine peggiore, pecca più gravemente. Altre invece inclinano la volontà a peccare fuori della natura e dell'ordine della volontà medesima, la quale è fatta per muoversi libe­ ramente da sé, secondo il giudizio della ragio­ ne. Perciò le cause che compromettono il giu­ dizio della ragione, come l'ignoranza, o che riducono la libertà di movimento della volon­ tà, come la fragilità, la violenza, il timore o altre cose del genere, diminuiscono il peccato, come diminuiscono la volontarietà: fino al punto che, se l'atto è del tutto involontario, non è neppure un peccato. Soluzione delle difficoltà: l . L'obiezione con­ sidera la causa movente estrinseca, che dimi­ nuisce la volontarietà; e il crescere di una tale causa, come si è detto, riduce il peccato. 2. Se nel termine concupiscenza si include an­ che il moto della volontà, allora quando c'è una maggiore concupiscenza c'è anche un peccato più grave. Se invece per concupiscenza si in­ tende la passione, cioè il moto del concupiscibi­ le, allora una maggiore concupiscenza che pre­ cedesse il giudizio della ragione e il moto della volontà diminuirebbe il peccato: poiché chi pecca sotto lo stimolo di una maggiore con­ cupiscenza cade per una tentazione più grave, e quindi è meno colpevole. Se invece questa con­ cupiscenza è conseguente al giudizio della ragione e al moto della volontà, allora una mag­ giore concupiscenza è anche un peccato più grave: poiché talora il moto della concupiscen­ za insorge più forte per il fatto che la volontà tende senza freno verso il proprio oggetto. 3. Il terzo argomento si fonda su una causa che produce l'involontarietà: e questa, come si è detto, diminuisce il peccato.

    Articulus 7 Utrum circumstantia aggravet peccatum

    Articolo 7 Le circostanze possono aggravare il peccato?

    Ad septimum sic proceditur. Videtur quod circumstantia non aggravet peccatum. l . Peccatum enim habet gravitatem ex sua spe­ cie. Circumstantia autem non dat speciem pec­ cato, cum sit quoddam accidens eius. Ergo gra­ vitas peccati non consideratur ex circumstantia.

    Sembra di no. Infatti: l . n peccato deve la sua gravità alla propria specie. Ma le circostanze non danno la specie al peccato, essendo suoi semplici accidenti. Quindi la gravità di un peccato non può dipendere dalle circostanze.

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    Il confronto reciproco tra i peccati

    2. Praeterea, aut circumstantia est mala, aut non. Si circumstantia mala est, ipsa per se causat quandam speciem mali, si vero non sit mala, non habet unde augeat malum. Ergo circumstantia nullo modo auget peccatum. 3. Praeterea, malitia peccati est ex parte aver­ sionis. Sed circumstantiae consequuntur pec­ catum ex patte conversionis. Ergo non augent malitiam peccati. Sed contra est quod ignorantia circumstantiae diminuit peccatum, qui enim peccat ex igno­ rantia circumstantiae, meretur veniam, ut di­ citur in 3 Ethic. [ 1 , 1 5]. Hoc autem non esset, nisi circumstantia aggravaret peccatum. Ergo circumstantia peccatum aggravat. Respondeo dicendum quod unumquodque ex eodem natum est augeri, ex quo causatur; sicut philosophus dicit de habitu virtutis, in 2 Ethic. [2,8 ] . Manifestum est autem quod peccatum causatur ex defectu alicuius cir­ cumstantiae, ex hoc enim receditur ab ordine rationis, quod aliquis in operando non obser­ vat debitas circumstantias. Unde manifestum est quod peccatum natum est aggravari per circumstantiam. - Sed hoc quidem contingit tripliciter. Uno quidem modo, inquantum cir­ cumstantia transfert in aliud genus peccati. Sicut peccatum fornicationis consistit in hoc quod homo accedit ad non suam, si autem addatur haec circumstantia, ut illa ad quam accedit sit alterius uxor, transfertur iam in aliud genus peccati, scilicet in iniustitiam, inquantum homo usurpat rem alterius. Et se­ cundum hoc, adulterium est gravius peccatum quam fornicatio. Aliquando vero circumstan­ tia non aggravat peccatum quasi trahens in aliud genus peccati, sed solum quia multi­ plicat rationem peccati. Sicut si prodigus det quando non debet, et cui non debet, multi­ plicius peccat eodem genere peccati, quam si solum det cui non debet. Et ex hoc ipso pec­ catum fit gravius, sicut etiam aegritudo est gravior quae plures partes corporis inticit. Unde et Tullius dicit, in Paradoxis [3], quod in patris vita violanda, multa peccantur, violatur enim is qui procreavit, qui aluit, qui erudivit, qui in sede ac domo, atque in repu­ blica collocavit. Tertio modo circumstantia aggravat peccatum ex eo quod auget de­ formitatem provenientem ex alia circurnstantia. Sicut accipere alienum constituit peccatum furti, si autem addatur haec circurnstantia, ut

    Q. 73, A. 7

    2. Una circostanza o è cattiva, o non lo è. Se è cattiva, già di per se stessa produce la specie dell'atto cattivo; se poi non è cattiva, non ha elementi per aggravare il male. Perciò in nes­ sun caso una circostanza può aggravare un peccato. 3. La malizia del peccato si misura dall'allon­ tanamento [da Dio] . Le circostanze invece accompagnano il peccato in quanto conver­ sione [alle creature]. Quindi esse non accre­ scono la malizia del peccato. In contrario: l'ignoranza di alcune circostanze diminuisce il peccato: come infatti insegna Aristotele, chi pecca ignorando le circostanze merita perdono. Ma ciò non sarebbe vero se le circostanze non aggravassero il peccato. Quindi le circostanze aggravano il peccato. Risposta: come insegna il Filosofo a proposi­ to delle virtù, la causa dell'aumento è identica a quella della produzione di una cosa. Ora, è evidente che il peccato può essere prodotto da qualche circostanza difettosa: dal momento infatti che uno nell'agire non rispetta le debite çircostanze, si scosta dali' ordine della ragione. E chiaro quindi che il peccato può essere ag­ gravato dalle circostanze. - E ciò può avvenire in tre modi. Primo, in quanto una circostanza fa cambiare il genere del peccato. n peccato di fornicazione, p. es., consiste nel fatto che un uomo si avvicina a una donna che non è sua; se però si aggiunge la circostanza che la donna a cui si avvicina è moglie di un altro, si passa a un altro genere di peccato, cioè si pas­ sa a un'ingiustizia, poiché si viene a usurpare una cosa altrui. Perciò l'adulterio è un pec­ cato più grave della fornicazione. [Secondo], altre volte le circostanze aggravano il peccato non perché ne cambiano il genere, ma perché ne moltiplicano gli aspetti peccaminosi. Se il prodigo, p. es., dà quando non deve e a qual­ cuno a cui non deve, pecca nel medesimo genere di peccato in più modi di quanto pec­ cherebbe se desse soltanto a colui a cui non deve. E così il peccato diviene più grave: come è più grave una malattia che colpisce più parti del corpo. Per cui Cicerone afferma che «nel parricidio si commettono molti pec­ cati: si uccide chi ci ha procreati, chi ci diede il sostentamento, chi ci educò, chi ci diede un posto nella patria e nello stato». Terzo, una circostanza può aggravare il peccato accre­ scendo i l disordine proveniente da un'altra

    Q. 73, A. 7

    Il confronto reciproco tra i peccati

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    multum accipiat de alieno, est peccatum gra­ vius; quamvis accipere multum vel parum, de se non dicat rationem boni vel mali. Ad primum ergo dicendum quod aliqua cir­ cumstantia dat speciem actui morali, ut supra [q. 1 8 a. IO] habitum est. Et tamen circum­ stantia quae non dat speciem, potest aggravare peccatum. Quia sicut bonitas rei non solum pensatur ex sua specie, sed etiam ex aliquo ac­ cidente; ita malitia actus non solum pensatur ex specie actus, sed etiam ex circumstantia. Ad secundum dicendum quod utroque modo circumstantia potest aggravare peccatum. Si enim sit mala, non tamen propter hoc oportet quod semper constituat speciem peccati, po­ test enim addere rationem malitiae in eadem specie, ut dictum est [co.]. Si autem non sit mala, potest aggravare peccatum in ordine ad malitiam alterius circumstantiae. Ad tertium dicendum quod ratio debet ordi­ nare actum non solum quantum ad obiectum, sed etiam quantum ad omnes circumstantias. Et ideo aversio quaedam a regula rationis attenditur secundum corruptionem cuiuslibet circumstantiae, pula si aliquis operetur quan­ do non debet, vel ubi non debet. Et huiusmodi aversio sufficit ad rationem mali. Hanc autem aversionem a regula rationis, sequitur aversio a Deo, cui debet homo per rectam rationem coniungi.

    circostanza. Prendere la roba altrui, p. es., co­ stituisce il peccato di furto; se però si aggiun­ ge la circostanza che si tratta di una grande quantità, il peccato è più grave; sebbene il prendere di più o di meno di per sé non abbia il carattere né di bene né di male. Soluzione delle difficoltà: l . Come fu spiega­ to in precedenza, ci sono anche delle circo­ stanze che danno la specie ali' atto morale. E tuttavia anche le circostanze che non danno la specie possono aggravare il peccato. Come quindi la bontà di una cosa non si misura sol­ tanto in base alla sua specie, ma anche in base agli accidenti, così la malizia di un atto non si misura soltanto in base alla specie, ma anche in base alle circostanze. 2. Una circostanza può aggravare il peccato in tutti e due i modi. Se infatti è cattiva, non è detto che debba sempre costituire la specie del peccato: come infatti si è visto, può accrescer­ ne la malizia neli' ambito di una data specie. Se poi non è cattiva, può aggravare i l peccato aggravando la malizia di un'altra circostanza. 3. La ragione deve ordinare l'atto non solo rispetto all'oggetto, ma anche in tutte le sue circostanze. Perciò il disprezzo di una qual­ siasi circostanza, come l'agire quando o dove non si deve, produce un allontanamento dalla regola della ragione. E questo allontanamento basta per dare il carattere di male. Ad esso poi segue l'allontanamento da Dio, a cui l'uomo è tenuto ad aderire mediante la retta ragione.

    Articulus 8 Utrurn gravitas peccati augeatur secundurn rnaius nocurnenturn

    Articolo 8 La gravità del peccato dipende dalla gravità del danno arrecato?

    Ad octavum sic proceditur. Videtur quod gra­ vitas peccati non augeatur secundum maius nocumentum. l . Nocumentum enim est quidam eventus consequens actum peccati. Sed eventus se­ quens non addit ad bonitatem vel malitiam actus, ut supra [q. 20 a. 5] dictum est. Ergo peccatum non aggravatur propter maius nocumentum. 2. Praeterea, nocumentum maxime invenitur in peccatis quae sunt contra proximum, quia sibi ipsi nemo vult nocere; Deo autem nemo potest nocere, secundum illud Iob 35 [6-8], si multiplicatae fuerint iniquitates tuae, quid facies contra illum? Homini, qui similis tibi

    Sembra di no. Infatti: l . n danno è un evento successivo ali' atto del peccato. Ma un evento successivo, come so­ pra si è detto, non aggiunge bontà o malizia a un atto. Perciò un peccato non è più grave per un danno maggiore. 2. n danno o nocumento si ha specialmente nei peccati contro il prossimo: poiché nessu­ no vuole nuocere a sé stesso, e d'altra parte nessuno può nuocere a Dio, come è detto in Gb: Se moltiplichi le tue iniquità, cosa gli [a Dio] fai? La tua empietà nuocerà all'uomo, che è tuo simile. Se quindi il peccato si aggra­ vasse col crescere del danno, ne seguirebbe che un peccato contro il prossimo sarebbe più

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    Il confronto reciproco tra i peccati

    est, nocebit impietas tua. Si ergo peccatum aggravaretur propter maius nocumentum, sequeretur quod peccatum quo quis peccat in proxi mum, esset gravius peccato quo quis peccat in Deum vel in seipsum. 3. Praeterea, maius nocumentum infe1tur alicui cum privatur vita gratiae, quam cum privatur vita naturae, quia vita gratiae est melior quam vita naturae, intantum quod homo debet vitam naturae contemnere ne amittat vitam gratiae. Sed ille qui inducit aliquam mulierem ad for­ nicandum, quantum est de se, privat eam vita gratiae, inducens eam ad peccatum mortale. Si ergo peccatum esset gravius propter maius nocumentum, sequeretur quod simplex forni­ cator gravius peccaret quam homicida, quod est manifeste falsum. Non ergo peccatum est gravius propter maius nocumentum. Sed contra est quod Augustinus dicit, in 3 De lib. arb. [14], quia vitium naturae adversatur,

    tantum additur malitiae vitiorum, quantum integritati naturarum minuitur. Sed dirninutio integritatis naturae est nocumentum. Ergo tanto gravius est peccatum, quanto maius est nocumentum. Respondeo dicendum quod nocumentum tripliciter se habere potest ad peccatum . Quandoque enim nocumentum quod provenit ex peccato, est praevisum et intentum, sicut cum aliquis aliquid operatur animo nocendi alteri, ut homicida vel fur. Et tunc directe quantitas nocumenti adauget gravitatem pec­ cati, quia tunc nocumentum est per se obiec­ tum peccati. - Quandoque autem nocumentum est praevisum, sed non intentum, sicut cum aliquis transiens per agrum ut compendiosius vadat ad fomicandum, infert nocumentum his quae sunt seminata in agro, scienter, licet non animo nocendi. Et sic etiam quantitas nocu­ menti aggravat peccatum, sed indirecte, in­ quantum scilicet ex voluntate multum incli­ nata ad peccandum, procedit quod aliquis non praetermittat facere damnum sibi vel alii, quod simpliciter non vellet. - Quandoque autem nocumentum nec est praevisum nec in­ tentum. Et tunc si per accidens se habeat ad peccatum, non aggravat peccatum directe, sed propter negligentiam considerandi nocumenta quae consequi possent, imputantur homini ad poenam mala quae eveniunt praeter eius intentionem, si dabat operam rei illicitae. - Si vero nocumentum per se sequatur ex actu

    Q. 73, A. 8

    grave di un peccato contro Dio, o contro se stessi. 3. È più grave il danno della privazione della grazia che quello della privazione della vita naturale: poiché la vita della grazia è tanto superiore a quella naturale che un uomo deve disprezzare quest'ultima per non perdere la prima. Ora, chi induce una donna alla fornica­ zione, per parte sua la priva della vita della grazia, trattandosi di un peccato mortale. Se quindi la gravità del peccato dipendesse dal danno, ne seguirebbe che un semplice forni­ catore commetterebbe un peccato più grave dell'omicida: il che è falso in maniera eviden­ te. Perciò la gravità del peccato non si misura in base alla gravità del danno. In contrario: Agostino dice: «Essendo il vizio contrario alla natura, tanto più cresce la mal­ vagità dei vizi quanto più essi diminuiscono l ' integrità della natura». Ora, la minorazione dell' integrità della natura è un danno. Quindi la gravità del peccato corrisponde a quella del danno. Risposta: il danno può avere tre rapporti col peccato. Talora infatti il danno che proviene dal peccato è previsto e cercato: quando p. es. uno agisce con l' intenzione di nuocere, come fanno l'omicida e il ladro. E allora la gravità del danno incide direttamente sulla gravità del peccato: poiché in tal caso il danno è oggetto diretto del peccato. - Talora invece il danno è previsto, ma non cercato: quando uno, p. es., attraversando un campo per andare più lesto a fornicare, fa scientemente un danno al semi­ nato, senza però l ' intenzione di nuocere. E anche in questo caso la gravità del danno aggrava il peccato, ma in modo indiretto: poi­ ché il fatto che uno non si astenga dal provo­ care a se stesso o ad altri un danno che di per sé non vorrebbe, deriva da una volontà molto incline al peccato. - Talora, infine, il danno non è né previsto né cercato. E in questo caso, se il danno ha un rapporto accidentale col peccato, non lo aggrava direttamente; tuttavia, per la negligenza nel considerare gli eventuali danni, il male preterintenzionale viene impu­ tato a un uomo come pena, se l'azione da lui intrapresa è illecita. - Se invece il danno con­ segue di per sé all' atto peccaminoso allora, anche se non è né voluto né previsto, esso aggrava direttamente il peccato: poiché tutti gli elementi che di per sé accompagnano il

    Q. 73, A. 8

    Il confronto reciproco tra i peccati

    peccati, licet non sit intentum nec praevisum, directe peccatum aggravat, quia quaecumque per se consequuntur ad peccatum, pertinent quodammodo ad ipsam peccati speciem. Puta si aliquis publice fomicetur, sequitur scanda­ lum plurimorum, quod quamvis ipse non intendat, nec forte praevideat, directe per hoc aggravatur peccatum. - Aliter tamen videtur se habere circa nocumentum poenale, quod incurrit ipse qui peccat. Huiusmodi enim no­ cumentum, s i per accidens se habeat ad actum peccati, et non sit praevisum nec inten­ tum, non aggravat peccatum, neque sequitur maiorem gravitatem peccati, sicut si aliquis currens ad occidendum, impingat et laedat sibi pedem. Si vero tale nocumentum per se consequatur ad actum peccati, licet forte nec sit praevisum nec intentum, tunc maius no­ cumentum non facit gravius peccatum; sed e converso gravius peccatum inducit gravius nocumentum. Sicut aliquis infidelis, qui nihil audivit de poenis Inferni, graviorem poenam in Inferno patietur pro peccato homicidii quam pro peccato furti, quia enim hoc nec intendit nec praevidet, non aggravatur ex hoc peccatum (sicut contingit circa fidelem, qui ex hoc ipso videtur peccare gravius, quod maiores poenas contemnit ut impleat volun­ tatem peccati), sed gravitas huiusmodi no­ cumenti solum causatur ex gravitate peccati. Ad primum ergo dicendum quod, sicut etiam supra [q. 20 a. 5] dictum est, cum de bonitate et malitia exteriorum actuum ageretur, even­ tus sequens, si sit praevisus et intentus, addit ad bonitatem vel malitiam actus. Ad secundum dicendum quod, quamvis nocu­ mentum aggravet peccatum, non tamen se­ quitur quod ex solo nocumento peccatum ag­ gravetur, quinimmo peccatum per se est gra­ vius propter inordinationem, ut supra [aa. 2-3] dictum est. Unde et ipsum nocumentum aggravat peccatum, inquantum tàcit actum esse magis inordinatum. Unde non sequitur quod, si nocumentum maxi m e habeat locum i n peccatis quae sunt contra proximum, quod illa peccata sunt gravissima, quia multo maior inordinatio invenitur in peccatis quae sunt contra Deum, et in quibusdam eorum quae sunt contra seipsum. Et tamen potest dici quod, etsi Deo nullus possit nocere quantum ad eius substantiam, potest tamen nocumentum atten­ tare i n his quae Dei sunt, sicut extirpando

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    peccato appartengono in qualche modo alla specie stessa del peccato. Se uno, p. es., com­ mette una fornicazione pubblica, ne segue lo scandalo di molti; e questo fatto, sebbene egli non lo cerchi e forse neppure Io preveda, ag­ grava direttamente il suo peccato. - Diverso è i nvece il caso del danno penale nel quale incorre chi pecca. Questo danno infatti, se è occasionale e non è né previsto né cercato, non aggrava il peccato, e neppure rivela una maggiore malizia: è il caso di chi, p. es., cor­ rendo per uccidere, inciampa e si ferisce un piede. Se invece questo danno è legato diret­ tamente ali ' atto del peccato, anche senza essere forse né previsto né cercato, allora col suo aggravarsi non rende più grave il peccato, ma piuttosto avviene il contrario, che cioè un peccato più grave produce un danno maggio­ re. Come un infedele che ignora le pene del­ l ' inferno soffrirà all ' inferno una pena più grave per un peccato di omicidio che per un peccato di furto: poiché infatti non ha cercato o previsto la pena, ciò non incide sul peccato (come capita invece per un cristiano, il quale mostra di peccare più gravemente in quanto disprezza le pene più gravi pur di sfogare la volontà di peccare), ma la gravità di tale dan­ no è prodotta unicamente dalla gravità del peccato. Soluzione delle difficoltà: l . Come si è spie­ gato trattando della moralità degli atti esterni, gli eventi successivi, se previsti e cercati, ac­ crescono la bontà o la malizia dell'atto. 2. È vero che il danno aggrava il peccato, ma non è detto che il peccato sia aggravato dal solo danno; anzi, il peccato di per sé è più grave per il suo disordine, come si è già nota­ to. Per cui anche lo stesso danno aggrava il peccato in quanto rende l'atto più disordinato. Dal fatto quindi che il danno si ha special­ mente nei peccati contro il prossimo non segue che questi peccati siano i più gravi: poi­ ché nei peccati contro Dio, e in certi peccati contro se stessi, il disordine è molto maggio­ re. Ma si potrebbe anche rispondere che, seb­ bene nessuno possa nuocere a Dio in se stes­ so, può tuttavia attentare alle cose di Dio, p. es. estirpando la fede o violando le cose sa­ cre, e commettere così dei peccati gravissimi. E anche a se stesso uno può infliggere scien­ temente e volontariamente del danno, come è evidente nel caso dei suicidi: sebbene in defi-

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    Il confronto reciproco tra i peccati

    Q. 73, A. 8

    fidem, violando sacra, quae sunt peccata gra­ vissima. Sibi etiam aliquis quandoque scienter et volenter infert nocumentum, sicut patet in his qui se interimunt, licet finaliter hoc referant ad aliquod bonum apparens, puta ad hoc quod liberentur ab aliqua angustia. Ad tertium dicendum quod illa ratio non se­ quitur, propter duo. Primo quidem, quia ho­ micida intendit directe nocumentum proximi, fomicator autem qui provocat mulierem, non intendit nocumentum, sed delectationem. Se­ cundo, quia homicida est per se et sufficiens causa corporalis mortis, spiritualis autem mortis nullus potest esse alteri causa per se et sufficiens; quia nullus spiritualiter moritur nisi propria voluntate peccando.

    nitiva essi cerchino nel suicidio un bene appa­ rente, cioè la liberazione da una data angustia. 3 . L'argomento addotto non vale per due motivi. Primo, perché mentre l'omicida cerca direttamente il danno del prossimo, il fornica­ tore che seduce una donna non cerca il danno, ma il piacere. Secondo, perché mentre l' omi­ cida è causa efficace e diretta della morte cor­ porale, nessuno può essere invece direttamen­ te la causa efficace della morte spirituale di un altro: poiché nessuno muore spiritualmente se non peccando di propria volontà.

    Articulus 9 Utrum peccatum aggravetur ratione personae in quam peccatur

    Articolo 9 La condizione della persona contro la quale si pecca può aggravare il peccato?

    Ad nonum sic proceditur. Videtur quod propter conditionem personae i n quam peccatur, peccatum non aggravetur. l. Si enim hoc esset, maxime aggravaretur ex hoc quod aliquis peccat contra aliquem virum iustum et sanctum. Sed ex hoc non aggravatur peccatum, minus enim laeditur ex iniuria il­ lata virtuosus, qui aequanimiter tolerat, quam alii, qui etiam interius scandalizati laeduntur. Ergo conditio personae in quam peccatur, non aggravat peccatum. 2. Praeterea, si conditio personae aggravaret peccatum, maxime aggravaretur ex propin­ quitate, quia sicut Tullius dicit in Paradoxis [3], in servo necando seme/ peccatur, in pa­ tris vita violanda multa peccantur. Sed pro­ pinquitas personae in quam peccatur, non vi­ detur aggravare peccatum, quia unusquisque sibi ipsi maxime est propinquus; et tamen minus peccat qui aliquod darnnum sibi infert, quam si inferret alteri, puta si occideret equum suum, quam si occideret equum alterius, ut patet per philosophum, in 5 Ethic. [ 1 1 ,7] . Ergo propinquitas personae non aggravat peccatum. 3 . Praeterea, conditio personae peccantis praecipue aggravat peccatum ratione dignitatis vel scientiae, secundum illud Sap. 6 [7], potentes potenter tormenta patientur; et Luc. 12 [47] , servus sciens voluntatem domi­ ni, et non faciens, plagis vapulabit multis.

    Sembra di no. Infatti: l . Se così fosse, il peccato più grave sarebbe quello commesso contro un uomo giusto e santo. Invece da ciò il peccato non viene ad aggravarsi: infatti per un'ingiuria subita riceve meno danno un uomo virtuoso, il quale la sopporta con pazienza, che non gli altri, i qua­ li ne sono danneggiati anche interiormente, patendone scandalo. Quindi la condizione della persona contro la quale si pecca non ag­ grava il peccato. 2. Se la condizione delle persone aggravasse il peccato, ciò avverrebbe specialmente per l ' affinità: poiché, come afferma Cicerone, «uccidendo uno schiavo si commette un pec­ cato solo, mentre col parricidio se ne commet­ tono molti». Ma l'affinità della persona contro cui si pecca non sembra aggravare il peccato: poiché sta il fatto che la massima affinità uno l ' ha con se stesso, eppure pecca meno chi infligge un danno a se stesso che non chi lo intligge a un altro; p. es. è meno grave uccide­ re il proprio cavallo che quello di un altro, come risulta dal Filosofo. Quindi l'affinità della persona [offesa] non aggrava il peccato. 3. La condizione della persona che pecca aggrava il peccato specialmente per la sua dignità o per la sua scienza, come è detto in Sap: I potenti subiranno potenti tormenti; e in Le: Il servo che conosce la volontà del padro­ ne e non la compie riceverà molte percosse.

    Q. 73, A. 9

    Il confronto reciproco tra i peccati

    Ergo, pari ratione, ex parte personae in quam peccatur, magis aggravaret peccatum dignitas aut scientia personae in quam peccatur. Sed non videtur gravius peccare qui facit iniuriam personae ditiori vel potentiori, quam alicui pauperi, quia non est personarum acceptio apud Deum [Rom. 2, 1 1 ] , secundum cuius iudicium gravitas peccati pensatur. Ergo con­ ditio personae in quam peccatur, non aggravat peccatum. Sed contra est quod in sacra Scriptura spe­ cialiter vituperatur peccatum quod contra ser­ vos Dei committitur, sicut 3 Reg. 1 9 [ 1 4], altaria tua destru.xerunt, et prophetas tuos oc­ ciderunt gladio. Vituperatur etiam specialiter peccatum commissum contra personas pro­ pinquas, secundum illud Mich. 7 [6], filius contumeliamfacit patri,filia consurgit adversus matrem suam. Vituperatur etiam specialiter peccatum quod committitur contra personas in dignitate constitutas, ut patet Iob 34 [ 1 8], qui dicit regi, apostata; qui vocat duces impios. Ergo conditio personae in quam peccatur, aggravat peccatum. Respondeo dicendum quod persona in quam peccatur, est quodammodo obiectum peccati. Dictum est autem supra [a. 3] quod prima gravitas peccati attenditur ex parte obiecti. Ex quo quidem tanto attenditur maior gravitas in peccato, quanto obiectum eius est principalior finis. Fines autem principales humanorum actuum sunt Deus, ipse homo, et proximus, quidquid enim facimus, propter aliquod horum facimus; quamvis etiam horum trium unum sub altero ordinetur. Potest igitur ex parte horum trium considerari maior vel minor gravitas in peccato secundum conditio­ nem personae in quam peccatur. Primo quidem, ex parte Dei, cui tanto magis aliquis homo coniungitur, quanto est virtuosior vel Deo sacratior. Et ideo iniuria tali personae illata, magis redundat in Deum, secundum illud Zach. 2 [8], qui vos tetigerit, tangit pupillam oculi mei. Unde peccatum fit gravius ex hoc quod peccatur i n personam magis Deo coniunctam, vel ratione virtutis vel ratione officii. - Ex parte vero sui ipsius, manifestum est quod tanto aliquis gravius peccat, quanto in magis coniunctam personam, seu naturali necessitudine, seu beneficiis, seu quacumque coniunctione, peccaverit, quia videtur i n seipsum magis peccare, et pro tanto gravius

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    Dunque, per lo stesso motivo, il peccato viene ad aggravarsi rispetto alla persona contro cui si pecca in proporzione della sua dignità o della sua scienza. Ma non sembra che sia un peccato più grave fare del male a una persona più ricca o più potente piuttosto che a un povero: poiché non c 'è parzialità presso Dio [Rm; Col], secondo il cui giudizio va misurata la gravità del peccato. Perciò la condizione della persona contro cui si pecca non aggrava il peccato. In contrario: nella sacra Scrittura è rimprove­ rato in modo speciale il peccato commesso contro i servi di Dio, come è detto in l Re: Hanno denwlito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. E un altro rimprovero speciale si ha per i peccati commessi contro le persone di casa, come è detto in Mi: Il figlio insulta il padre, la figlia si rivolta contro la madre. E anche in modo particolare per il peccato commesso contro le persone costitui­ te in dignità, come è chiaro in Gb: Lui che dice al re: "Apostata"; che chiama i principi empi. Quindi la condizione della persona con­ tro cui si pecca aggrava il peccato. Risposta: la persona contro cui si pecca è in qualche modo l' oggetto del peccato. Ora, sopra si è spiegato che la prima gravità della colpa viene desunta dali' oggetto. Quindi la gravità del peccato è tanto maggiore quanto più alto è il fine che costituisce il suo oggetto. Ora, i tini principali degli atti umani sono: Dio, l'uomo stesso [che agisce] e il prossimo: poiché tutto quanto facciamo lo facciamo per qualcuno di questi tre soggetti; sebbene ci sia una subordinazione tra loro. Di conseguenza possiamo considerare, in relazione a questi tre fini, la maggiore o minore gravità del peccato secondo la condizione della persona contro cui si pecca. Prima di tutto in rapporto a Dio, al quale l'uomo è tanto più unito quanto più è virtuoso, o a lui più consacrato. Perciò un'in­ giustizia contro tali persone ricade su Dio stesso, secondo il passo di Zc: Chi vi tocca, tocca la pupilla dei miei occhi. Quindi il pec­ cato si aggrava per il fatto che viene commes­ so contro una persona più unita a Dio, o per la sua virtù, o per l'ufficio che esercita. - E evi­ dente, poi, che in rapporto a se stessi si pecca tanto più gravemente quanto più la persona oltraggiata è unita a noi o per vincoli naturali, o per benefici ricevuti, o per qualsiasi altro

    Il confronto reciproco tra i peccati

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    14 [5], qui sibi nequam est, cui bonus eri t? Ex parte vero

    peccat, secundum illud Eccli.

    proximi, tanto gravius peccatur, quanto pec­ catum plures tangit. Et ideo peccatum quod fit in personam publicam, puta regem vel princi­ pem, qui gerit personam totius multitudinis, est gravius quam peccatum quod committitur contra unam personam privatam, unde spe­ cialiter dicitur Ex. 22 [18], principi populi tui non maledices. Et similiter iniuria quae fi t alicui famosae personae, videtur esse gravior, ex hoc quod in scandalum et in turbationem plurimorum redundat. Ad primum ergo dicendum quod ille qui infert iniuriam virtuoso, quantum est in se, turbat eum et interius et exterius. Sed quod iste inte­ rius non turbetur, contingit ex eius bonitate, quae non diminuit peccatum iniuriantis. Ad secundum dicendum quod nocumentum quod quis sibi ipsi infert in his quae subsunt dominio propriae voluntatis, sicut in rebus possessis, habet minus de peccato quam si alteri inferatur, quia propria voluntate hoc agit. Sed in his quae non subduntur dominio voluntatis, sicut sunt naturalia et spiritualia bona, est gravius peccatum nocumentum sibi ipsi inferre, gravius enim peccat qui occidit seipsum, quam qui occidit alterum. Sed quia res propinquorum nostrorum non subduntur voluntatis nostrae dominio, non procedit ratio quantum ad nocumenta rebus i llorum illata, quod circa ea minus peccetur; nisi forte velint, vel ratum habeant. Ad tertium dicendum quod non est acceptio personarum si Deus gravius punit peccantem contra excellentiores personas, hoc enim fit propter hoc quod hoc redundat i n plurium nocumentum.

    Articulus

    lO

    Utrum magnitudo personae peccantis aggravet peccatum

    Q. 73, A. 9

    legame: poiché si pecca maggiormente contro se stessi, e quindi si pecca più gravemente, secondo il detto di Sir: Chi è cattivo con se stesso, con chi sarà buono? Riguardo al pros­ simo, finalmente, il peccato è tanto più grave quanto più numerose sono le persone che esso riguarda. E così il peccato che colpisce una persona pubblica che impersona tutto un popo­ lo, sia essa re o principe, è più grave del pecca­ to che viene commesso contro una persona privata; per cui è detto in modo speciale in Es: Non maledirai il principe del tuo popolo. Pari­ menti è più grave un'ingiuria commessa con­ tro una persona celebre, per l 'estensione dello scandalo e del turbamento che ne deriva. Soluzione delle difficoltà: l . Chi fa ingiuria a un uomo virtuoso, per parte sua lo turba interna­ mente ed esternamente. Che poi questi non si turbi internamente dipende dalla sua bontà, la quale non sminuisce il peccato di chi lo ingiuria. 2. n danno che uno infligge a se stesso in cose soggette al dominio della propria volontà, p. es. negli averi, è meno peccaminoso di quello inflitto a un altro: poiché lo fa di sua volontà. Ma in cose che non sono soggette al proprio dominio, ossia nei beni naturali e spirituali, è un peccato più grave infliggere un danno a se stessi che agli altri: infatti chi uccide se stesso fa un peccato più grave di chi uccide un altro. Ora, siccome gli averi del nostro prossimo non sono soggetti al dominio della nostra vo­ lontà, l 'argomento non vale per sostenere che il danno arrecato a tali averi è un peccato minore; a meno che gli interessati non siano consenzienti o condiscendenti. 3. Dio non usa parzialità se punisce più grave­ mente chi pecca contro le persone più i n vista: poiché ciò dipende dal danno arrecato a un maggior numero di persone. Articolo 10 L'importanza della persona che pecca aggrava il peccato? Sembra di no. Infatti: l. L'uomo acquista importanza specialmente con la sua adesione a Dio, secondo il detto di

    Ad decimum sic proceditur. Videtur quod magnitudo personae peccantis non aggravet peccatum. l . Homo enim maxime redditur magnus ex hoc quod Deo adhaeret, secundum i llud Eccli. 25 [1 3], quam magnus est qui invenit

    Sir. Quanto è grande chi ha trovato la sapien­ za e la scienza! Ma non è superiore a chi teme Dio. Ora, quanto più uno aderisce a Dio,

    sapientiam et scientiam. Sed non est super timentem Deum. Sed quanto aliquis magis

    tanto meno le cose gli sono imputate a pecca­ to, poiché in 2 Cr è detto: Il Signore buono

    Il confronto reciproco tra i peccati

    Q. 73, A. lO

    Deo adhaeret, tanto minus imputatur ei aliquid ad peccatum, dicitur enim 2 Parai. 30 [ 1 8-19],

    Dominus bonus propitiabitur cunctis qui in foto corde requirunt Dominum Deum patrum suorum, et non imputabitur eis quod minus sanctificati sunt. Ergo peccatum non aggra­ vatur ex magnitudine personae peccantis. 2. Praeterea, non est personarum acceptio apud Deum, ut dicitur Rom. 2 [ 1 1 ] . Ergo non magis punit pro uno et eodem peccato, unum quam alium. Non ergo aggravatur ex magni­ tudine personae peccantis. 3. Praeterea, nullus debet ex bono incommo­ dum reportare. Reportaret autem, si id quod agit, magis ei imputaretur ad culpam. Ergo propter magnitudinem personae peccantis non aggravatur peccatum. Sed contra est quod Isidorus dicit, in 2 De sum­ mo bono [Sent 2, 1 8], tanto maius cognoscitur

    peccatum esse, quanto maior qui peccat habetur. Respondeo dicendum quod duplex est pecca­ tum. Quoddam ex subreptione proveniens, propter infirmitatem humanae naturae. Et tale peccatum minus imputatur ei qui est maior in virtute, eo quod minus negligit huiusmodi pec­ cata reprimere, quae tamen omnino subter­ fugere infirmitas humana non sinit. Alia vero peccata sunt ex deliberatione procedentia. Et ista peccata tanto magis alicui i mputantur, quanto maior est. Et hoc potest esse propter quatuor. Primo quidem, quia facilius possunt resistere peccato maiores, puta qui excedunt in scientia et virtute. Unde Dominus dicit, Luc. 12 [47], quod servus sciens voluntatem domini sui, et non faciens, plagis vapulabit multis. Secun­ do, propter ingratitudinem, quia omne bonum quo quis magnificatur, est Dei beneficium, cui homo fit ingratus peccando. Et quantum ad hoc, quaelibet maimitas, etiam in temporalibus bonis peccatum aggravat, secundum illud Sap. 6 [7], potentes potenter tonnenta patientur. Ter­ tio, propter specialem repugnantiam actus pec­ cati ad magnitudinem personae, sicut si princeps iustitiam violet, qui ponitur iustitiae custos; et si sacerdos tomicetur, qui castitatem vovit. Quar­ to, propter exemplum, sive scandalum: quia, ut Gregorius dicit in Pastorali [ l ,2], in exemplum -

    culpa vehementer extendina; quando pro re­ verentia gradus peccator honoratur. Ad plu­ rium etiam notitiam perveniunt peccata magno­ rum; et magis homines ea indigne ferunt.

    724

    sarà propizio a tutti coloro che cercano il Si­ gnore Dio con tutto il cuore e non imputerà loro di non essersi sufficientemente santificati. Quindi il peccato non viene ad aggravarsi per l 'importanza di chi pecca. 2. In Dio non c 'è parzialità, come è detto in Rm. Perciò egli non punisce diversamente due persone per I' identico peccato. Quindi il pec­ cato non risulta aggravato per l'importanza della persona che lo commette. 3. Uno non deve ricevere un danno dalla pro­ pria bontà. Ma ci sarebbe un danno se le azio­ ni gli venissero imputate maggiormente a col­ pa. Quindi la colpa non si aggrava per il valo­ re della persona che pecca. In contrario: Isidoro dice: «Tanto maggiore si considera il peccato quanto maggiore è stima­ to chi pecca>>. Risposta: il peccato può essere di due generi. C'è un peccato che capita di sorpresa, dovuto alla fragilità dell'umana natura: e questo pecca­ to viene imputato di meno a chi è più virtuoso, poiché costui è più zelante nel reprimere gli atti, che però l'umana fragilità non permette di eliminare del tutto. Ci sono invece altri peccati che derivano da una deliberazione. E questi peccati sono imputati a ciascuno in proporzio­ ne del proprio valore. - E ciò può venire giusti­ ficato per quattro motivi. Primo, perché chi sta più in alto nella scienza e nella virtù può resi­ stere più facilmente al peccato. Per cui il Si­ gnore in Le dice: Il servo che conosce la

    volontà del padrone e non la compie riceverà molte percosse. Secondo, per l'ingratitudine: poiché ogni bene di cui uno viene dotato è un beneficio di Dio, verso cui l' uomo si dimostra ingrato peccando. E da questo Iato qualsiasi superiorità, anche nei beni temporali, aggrava il peccato, secondo le parole di Sap: l potenti subiranno potenti tormenti. Terzo, per la spe­ ciale ripugnanza dell' atto peccaminoso alla dignità della persona: ripugna p. es. che il prin­ cipe, messo a tutela della giustizia, ne violi le norme; e che il sacerdote, il quale fa voto di castità, commetta una fornicazione. Quarto, per il cattivo esempio, o scandalo: poiché, come dice Gregorio, «la colpa si estende vigorosa­ mente quanto all'esempio quando chi pecca è onorato per il decoro del suo grado». Inoltre i peccati delle persone importanti vengono cono­ sciuti da un maggior numero di persone; e la gente ne è maggiormente sdegnata.

    Il confronto reciproco tra i peccati

    725

    Q. 73, A. l O

    Ad primum ergo dicendum quod auctoritas illa loquitur de his quae per subreptionem in­ firmitatis humanae negligenter aguntur. Ad secundum dicendum quod Deus non accipit personas, si maiores plus punit, quia ipsorum maioritas facit ad gravitatem peccati, ut dictum est. Ad tertium dicendum quod homo magnus non reportat i ncommodum ex bono quod habet, sed ex malo usu illius.

    Soluzione delle difficoltà: l . n testo parla di quelle negligenze che vengono commesse come di sorpresa, per la fragilità umana. 2. Dio non usa parzialità punendo maggior­ mente le persone superiori: poiché la loro superiorità incide sulla gravità del peccato, come si è spiegato. 3. Una persona eminente non riceve un danno dal bene che possiede, ma dal cattivo uso che ne fa.

    QUAESTI0 74 DE SUBIECTO PECCATORUM

    QUESTIONE 74 IL SOGGETTO DEL PECCATO

    Deinde considerandum est de subiecto vitio­ sive peccatorum. Et circa hoc quaeruntur decem. Primo, utrum voluntas possit esse subiectum peccati. Secundo, utrum voluntas sola sit peccati subiectum. Tertio, utrum sensualitas possit esse subiectum peccati. Quarto, utrum possit esse subiectum peccati mortalis. Quinto, utrum ratio possit esse subiectum peccati. Sexto, utrum delectatio morosa, vel non moro­ sa, sit in ratione inferiori sicut in subiecto. Septimo, utrum peccatum consensus in actum sit in superiori ratione sicut in subiecto. Octa­ vo, utrum ratio inferior possit esse subiectum peccati mortalis. Nono, utrum ratio superior possit esse subiectum peccati venialis. Decimo, utrum in ratione superiori possit esse peccatum veniale circa proprium obiectum.

    Dobbiamo ora b> . Invece tutto ciò che viene da Dio è una realtà. Quindi l' atto del peccato non deriva da Dio. 2. Si dice che un uomo è causa del peccato solo perché ne causa l ' atto: poiché per il resto, al dire di Dionigi, «nessuno agisce cer­ cando il male». Ora Dio, come si è detto, non è causa del peccato. Quindi non è neppure causa dell'atto del peccato. 3. Secondo quanto detto in precedenza, certi atti sono cattivi e peccaminosi nella loro spe­ cie. Ora, chi è causa di una cosa, è causa di ciò che ad essa si addice secondo la sua spe­ cie. Se quindi Dio fosse causa dell' atto del peccato verrebbe a essere causa del peccato. Ma ciò è falso, come si è dimostrato. Quindi Dio non è causa dell'atto del peccato. In contrario: l'atto del peccato è un moto del libero arbitrio. Ora, come insegna Agostino, «la volontà di Dio è la causa di ogni mozio­ ne». Quindi la volontà di Dio è la causa del­ l 'atto del peccato. Risposta: l'atto del peccato è un ente, ed è un atto; e sotto questi due aspetti deve a Dio la sua esistenza. Ogni ente infatti, in qualsiasi modo esista, deve derivare dal primo ente, come è dimostrato da Dionigi. Parimenti ogni azione è causata da una realtà esistente in atto, poiché agisce solo ciò che è in atto; e d' altra parte ogni ente in atto fa risalire la sua causalità al primo atto, cioè a Dio, che è atto in forza della propria essenza. Per cui rimane

    785

    Le cause esterne del peccato. Primo, dalla parte di Dio

    relinquitur quod Deus sit causa omnis actionis, inquantum est actio. - Sed peccatum nominat ens et actionem cum quodam defectu. Defec­ tus autem ille est ex causa creata, scilicet li­ bero arbitrio, inquantum deficit ab ordine primi agentis, scilicet Dei. Unde defectus iste non reducitur in Deum sicut in causam, sed in liberum arbitrium, sicut defectus claudicationis reducitur in tibiam curvam sicut in causam, non autem in virtutem motivam, a qua tamen causatur quidquid est motionis in claudicatio­ ne. Et secundum hoc, Deus est causa actus peccati, non tamen est causa peccati, quia non est causa huius, quod actus sit cum defectu. Ad primum ergo dicendum quod Augustinus nominat ibi rem id quod est res simpliciter, scilicet substantiam. Sic enim actus peccati non est res. Ad secundum dicendum quod in hominem sicut in causam reducitur non salurn actus, sed etiam ipse defectus, quia scilicet non subditur ei cui debet subdi, licet hoc ipse non intendat principaliter. Et ideo homo est causa peccati. Sed Deus sic est causa actus, quod nullo modo est causa defectus concomitantis actum. Et ideo non est causa peccati. Ad tertium dicendum quod, sicut dictum est supra [q. 18 a. 5 ad 2; q. 54 a. 3 ad 2], actus et habitus non recipiunt speciem ex ipsa priva­ tione, in qua consistit ratio mali; sed ex aliquo obiecto cui coniungitur talis privatio. Et sic ipse defectus, qui dicitur non esse a Deo, pertinet ad speciem actus consequenter, et non quasi differentia specifica.

    Q. 79, A. 2

    che Dio è la causa di tutte le azioni in quanto tali. - Tuttavia il peccato sta a indicare un ente e un' azione con annesso un difetto. Ora, tale difetto dipende da una causa creata, cioè dal libero arbitrio in quanto decade dall'ordi­ ne del primo agente, cioè di Dio. Perciò tale difetto non risale causalmente a Dio, ma al libero arbitrio: come il difetto dello zoppicare risale alla curvatura della tibia, e non alla facoltà di locomozione, dalla quale tuttavia viene causato quanto c ' è di mozione nello zoppicare. E sotto questo aspetto Dio è causa dell' atto del peccato, ma non del peccato: poi­ ché non è causa del fatto che tale azione sia accompagnata da un difetto. Soluzione delle difficoltà: l . Agostino in quel testo denomina realtà la sostanza, che è realtà in senso assoluto. In questo senso infatti l ' atto del peccato non è una realtà. 2. Alla causalità dell'uomo non si riporta sol­ tanto l 'atto, ma anche il difetto di esso: poiché egli non sta sottomesso a chi di dovere, seb­ bene non sia questo il suo intento principale. Perciò l ' uomo è causa del peccato. Invece Dio è causa dell' atto senza esserlo in alcun modo dei difetti che Io accompagnano. Egli quindi non è causa del peccato. 3. Come si è visto in precedenza, gli atti e gli abiti non ricevono la specie dalla privazione, che invece costituisce la ragione del male, ma da un oggetto al quale è connessa tale privazione. Perciò il difetto, di cui neghiamo la derivazione da Dio, appartiene alla specie dell'atto come di riflesso, e non come una differenza specifica

    Articulus 3

    Articolo 3

    Utrum Deus sit causa excaecationis et indurationis

    Dio è causa d eli' accecamento e dell'indurimento?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod Deus non sit causa excaecationis et indurationis. l . Dicit enim Augustinus, in libro Octoginta trium Q. [3], quod Deus non est causa eius quod homo sit deterior. Sed per excaecationem et obdurationem fit homo deterior. Ergo Deus non est causa excaecationis et obdurationis. 2. Praeterea, Fulgentius dicit [De dupl. prae­ dest. Dei l , 19] quod Deus non est ultor illius rei cuius est auctor. Sed Deus est ultor cordis obdurati, secundum illud Eccli. 3 [27], cor durum male habebit in novissimo. Ergo Deus non est causa obdurationis.

    Sembra di no. Infatti: l . Agostino insegna che «Dio non è causa del fatto che uno diventi peggiore». Ma l'acceca­ mento e l ' indurimento rendono peggiore un uomo. Quindi Dio non ne è causa. 2. Fulgenzio afferma che «Dio non fa vendet­ ta di quanto egli compie». Ma Dio fa vendetta del cuore indurito, come è detto in Sir: Un cuore indurito alla fine cadrà nel male. Per­ ciò Dio non è causa dell' indurimento. 3. Un medesimo effetto non può essere attri­ buito a cause contrarie. M a si dice che la causa dell' accecamento è la malizia umana,

    Q. 79, A. 3

    Le cause esterne delpeccato. Primo, dalla parte di Dio

    3. Praeterea, idem effectus non attribuitur causis contrariis. Sed causa excaecationis di­ citur esse malitia hominis, secundum illud Sap. 2 [21 ], excaecavit enim eos malitia eorum; et etiam diabolus, secundum illud 2 ad Cor. 4 [4] , Deus huius saeculi excaecavit mentes infidelium; quae quidem causae videntur esse contrariae Deo. Deus ergo non est causa excaecationis et obdurationis. Sed contra est quod dicitur Isaiae 6 [10], ex­

    caeca cor populi huius, et aures eius aggrava. Et Rom. 9 [ 1 8] dicitur, cuius vult, miseretur; et

    quem vult, indurat. Respondeo dicendum quod excaecatio et obduratio duo important. Quorum unum est motus animi humani inhaerentis malo, et aversi a divino lumine. Et quantum ad hoc Deus non est causa excaecationis et obdura­ tionis, sicut non est causa peccati. Aliud autem est subtractio gratiae, ex qua sequitur quod mens divinitus non illuminetur ad recte videndum, et cor hominis non emolliatur ad recte vivendum. Et quantum ad hoc Deus est causa excaecationis et obdurationis. - Est autem considerandum quod Deus est causa universalis illuminationis animarum, secun­ dum illud Ioan. l , [9 ] erat lux vera quae

    illuminar omnem hominem venientem in hunc mundum, sicut sol est universalis causa illumi­ nationis corporum. Aliter tamen et aliter, nam sol agit illuminando per necessitatem naturae; Deus autem agit voluntarie, per ordinem suae sapientiae. Sol autem, licet quantum est de se omnia corpora illuminet, si quod tamen impe­ dimentum inveniat in aliquo corpore, relinquit illud tenebrosum, sicut patet de domo cuius fenestrae sunt clausae. Sed tamen illius obscurationis nullo modo causa est sol, non enim suo iudicio agit ut lumen interius non immittat, sed causa eius est solum ille qui claudit fenestram. Deus autem proprio iudicio lumen gratiae non immittit illis in quibus obstaculum invenit. Unde causa subtractionis gratiae est non solum i l l e qui p o n i t obstaculum gratiae, sed etiam Deus, qui suo iudicio gratiam non apponit. Et per hunc modum Deus est causa excaecationis, et ag­ gravationis aurium, et obdurationis cordis. Quae quidem distinguuntur secundum effectus gratiae, quae et perficit intellectum dono sapientiae, et affectum emollit igne caritatis. Et quia ad cognitionem intellectus

    786

    secondo l'espressione di Sap: La loro malizia li ha accecati; oppure il demonio, come è det­ to in 2 Cor. Il dio di questo mondo ha acce­ cato la loro mente incredula: tutte cause con­ trarie a Dio. Quindi Dio non è causa dell'ac­ cecamento e dell'indurimento. /s è detto: Acceca il cuore di questo popolo, rendi/o dwv d'udito. E in Rm:

    In contrario: in

    Dio usa misericordia con chi vuole, e induri­ sce chi vuole. Risposta: l'accecamento e l'indurimento im­ plicano due cose. La prima è il moto di ade­ sione dell'animo umano al male, e il suo sco­ starsi dalla luce di Dio. E da que.>. Ma l'opposizione alla legge di Dio fa sì che il peccato sia mortale. Quindi ogni pecca­ to è mortale. Non è giusto quindi distinguere il peccato veniale dal mortale. 2. Paolo in l Cor dice: Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Ora, chi pecca agisce contro questo precetto: infatti il peccato non viene commesso per la gloria di Dio. Poiché dtmque l'agire contro i precetti è peccato mortale, sembra che chiunque pecca, pecchi mortalmente. 3. Chi aderisce a una cosa vi aderisce o per fruirne o per usame, come dimostra Agostino. Ma chi pecca non aderisce ai beni transitori per usame: infatti non li indirizza al bene che ci rende beati, nel che consisterebbe propria­ mente l'uso, secondo lo stesso Agostino. Per­ ciò chi pecca mira sempre a fruire dei beni transitoti. Ma «fruire delle cose da usare co­ stituisce la perversità umana>>, come dice il medesimo Autore. Siccome dunque la perver­ sità sta a indicare il peccato mortale, sembra che chi pecca pecchi sempre mortalmente. 4. Chi si avvicina a uno dei termini, per ciò stesso si allontana dal suo contrario. Ora, chi pecca si avvicina al bene transitorio. Dunque si allontana dal bene indefettibile, per cui pecca mortalmente. Non è quindi giusto distinguere il peccato veniale in opposizione al mortale. In contrario: Agostino insegna che «è crimine ciò che merita la dannazione, mentre è veniale ciò che non la merita>>. Ora, «crimine» sta per peccato mortale. Quindi è giusto distinguere il peccato veniale in opposizione al mortale. Risposta: certi termini presi in senso proprio non sembrano opposti, mentre invece lo sono se presi in senso metaforico. Ridere, p. es., non si contrappone a inaridirsi, se è preso in senso proprio; ma in quanto si dice metafori­ camente del prato fiorito e verdeggiante rivela tale opposizione. Parimenti, se si prende il termine mortale in senso proprio, esso non mostra alcuna opposizione a veniale [perdo­ nabile], che non sembra appartenere neppure

    Articolo l nendo il veniale al mortale?

    859

    Il peccato veniale e il peccato mortale

    ei quod est arescere; sed secundum quod ride­ re metaphorice de prato dicitur propter eius floritionem et virorem, opponitur ei quod est arescere. Similiter si mortale proprie accipia­ tur, prout refertur ad mortem corporalem, non videtur oppositionem habere cum veniali, nec ad idem genus pertinere. Sed si mortale acci­ piatur metaphorice, secundum quod dicitur in peccatis, mortale opponitur ei quod est venia­ le. - Cum enim peccatum sit quaedam infirmi­ tas animae, ut supra [q. 7 1 a. l ad 3; q. 72 a. 5; q. 74 a. 9 ad 2] habitum est, peccatum aliquod mortale dicitur ad similitudinem morbi, qui dicitur mortalis ex eo quod inducit defectum irreparabilem per destitutionem alicuius prin­ cipii, ut dictum est [q. 72 a. 5]. Principium autem spiritualis vitae, quae est secundum vir­ tutem, est ordo ad ultimum finem, ut supra [q. 72 a. 5; q. 87 a. 3] dictum est. Qui quidem si destitutus fuerit, reparari non potest per ali­ quod principium intrinsecum, sed solum per virtutem divinam, ut supra [q. 87 a. 3] dictum est, quia inordinationes eorum quae sunt ad finem, reparantur ex fine, sicut error qui acci­ dit circa conclusiones, per veritatem principio­ rum. Defectus ergo ordinis ultimi finis non potest per aliquid aliud reparari quod sit prin­ cipalius; sicut nec error qui est circa principia. Et ideo huiusmodi peccata dicuntur mortalia, quasi in-eparabilia. Peccata autem quae habent inordinationem circa ea quae sunt ad finem, conservato ordine ad ultimum finem, reparabi­ lia sunt. Et haec dicuntur venialia, tunc enim peccatum veniam habet, quando reatus poenae tollitur, qui cessat cessante peccato, ut dictum est [q. 87 a. 6]. - Secundum hoc ergo, mortale et veniale opponuntur sicut reparabile et irre­ parabile. Et hoc dico per principium interius, non autem per comparationem ad virtutem divinam, quae omnem morbum et corporalem et spiritualem potest reparare. Et propter hoc veniale peccatum convenienter dividitur con­ tra mortale. Ad primum ergo dicendum quod divisio pec­ cati venialis et mortalis non est divisio generis in species, quae aequaliter participent ratio­ nem generis, sed analogi in ea de quibus prae­ dicatur secundum prius et posterius. Et ideo perfecta ratio peccati, quam Augustinus ponit, convenit peccato mortali. Peccatum autem veniale dicitur peccatum secundum rationem imperfectam, et in ordine ad peccatum morta-

    Q. 88, A. l

    al medesimo genere. Se però si prende il ter­ mine in senso metaforico, in quanto si riferi­ sce ai peccati, allora si oppone a veniale. Essendo infatti il peccato, come si è visto, un' infermità dell'anima, un peccato viene detto mortale per analogia con le malattie, che si dicono mortali quando producono difetti irreparabili attraverso la distmzione di un principio vitale, secondo le spiegazioni date in precedenza. Ora, il principio della vita spi­ rituale, impostata sulla virtù, è l'ordine al fine ultimo, come si è detto. Ordine, questo, che una volta distrutto non può essere riparato da un principio intrinseco, ma solo dalla virtù di­ vina, come si è accennato sopra: poiché i di­ sordini relativi ai mezzi si riparano col fine, come si ripara l'errore delle conclusioni me­ diante la verità dei primi princìpi. Perciò la mancanza dell' ordine al tìne ultimo non è riparabile con qualcosa di superiore: come neppure è riparabile l'errore relativo ai primi princìpi. E così questi peccati vengono detti mortali, cioè irreparabili. Invece i peccati che implicano un disordine relativo ai mezzi, salvo l'ordine al fine ultimo, sono riparabili. E si dicono veniali [o perdonabili] : infatti un peccato ottiene venia, o perdono, quando vie­ ne tolta l'obbligazione alla pena, che decade col cessare del peccato, come si è visto. - Per­ ciò veniale e mortale si contrappongono come riparabile e in-eparabile. Questo, però, sempre in rapporto ai princìpi intrinseci, non in rap­ porto alla virtù di Dio, che può sempre ripara­ re qualsiasi malattia del corpo e deli' anima. E così il peccato veniale si distingue giustamen­ te in contrapposizione al mortale. Soluzione delle difficoltà: l . La divisione del peccato in mortale e veniale non è la divisio­ ne di un genere nelle sue specie, che parteci­ pano in modo uguale la natura del genere stesso, ma è la divisione di un termine analo­ go nei vari soggetti di cui viene predicato se­ condo una certa gradazione. Perciò la nozione perfetta di peccato, indicata da Agostino, si addice al peccato mortale. Invece il peccato veniale è peccato secondo una ragione imper­ fetta, e in ordine al peccato mortale: come l' accidente viene detto ente in ordine alla sostanza, secondo un' imperfetta ragione di ente. Infatti il peccato veniale non è contro la legge di Dio: poiché chi pecca venialmente non fa ciò che la legge proibisce, e non trala-

    Q. 88, A. l

    Il peccato veniale e il peccato mortale

    le, sicut accidens dicitur ens in ordine ad sub­ stantiam, secundum imperfectam rationem entis. Non enim est contra legem, quia venia­ liter peccans non facit quod lex prohibet, nec praetermittit id ad quod lex per praeceptum obligat; sed faci t praeter legem, quia non observat modum rationis quem lex intendit. Ad secundum dicendum quod illud praecep­ tum apostoli est affirmativum, unde non obli­ gat ad semper. Et sic non facit contra hoc praeceptum quicumque non actu refert in glo­ riam Dei omne quod facit. Sufficit ergo quod aliquis habitualiter referat se et omnia sua in Deum, ad hoc quod non semper mortaliter peccet, cum aliquem actum non refert in glo­ riam Dei actualiter. Veniale autem peccatum non excludit habitualem ordinationem actus humani in gloriam Dei, sed solum actualem, quia non excludit caritatem, quae habitualiter ordinat in Deum. Unde non sequitur quod ille qui peccat venialiter, peccet mortaliter. Ad tertium dicendum quod ille qui peccat venialiter, inhaeret bono temporali non ut fruens, quia non constituit in eo finem; sed ut utens, referens in Deum non actu, sed habitu. Ad quartum dicendum quod bonum commu­ tabile non accipitur ut terminus contrapositus incommutabili bono, nisi quando constituitur in eo tì nis. Quod enim est ad tì nem, non habet rationem termini.

    860

    scia ciò che essa comanda, ma agisce al di fuori della legge, non osservando la misura esatta che la legge intende stabilire. 2. Quel precetto di Paolo è affermativo: perciò non obbliga in ogni momento. Quindi chi non riferisce attualmente tutto ciò che fa alla gloria di Dio, non pecca. Basta dunque che uno ordi­ ni abitualmente se stesso e tutte le sue cose a Dio per non peccare mortalmente ogni qual volta non riferisce a Dio in modo attuale le proprie azioni. Ora, il peccato veniale non esclude il riferimento abituale degli atti umani alla gloria di Dio, ma solo quello attuale: poi­ ché non toglie la carità, che ordina a Dio in modo abituale. Perciò non segue che pecchi mortalmente chi commette un peccato veniale. 3. Chi commette un peccato veniale non ade­ risce al bene transitorio per fruire di esso, in quanto non mette in esso il proprio fine, ma per usarne, riferendolo a Dio in modo non attuale, ma abituale. 4. Il bene transitorio non si contrappone al bene indefettibile se non quando uno costitui­ sce in esso il proprio fine. Infatti i mezzi ordi­ nati al fine non hanno ragione di fine.

    Articulus 2 Utrum peccatum mortale et veniale differant genere

    D peccato mortale e quello veniale

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod pec­ catum veniale et mortale non ditferant genere, ita scilicet quod aliquod sit peccatum mortale ex genere, et aliquod veniale ex genere. l . Bonum enim et malum ex genere in actibus humanis accipitur per comparationem ad ma­ teriam sive ad obiectum, ut sopra [q. 1 8 a. 2] dictum est. Sed secundum quodlibet obiectum vel materiam, contingit peccare mortaliter et venialiter, quodlibet enim bonum commutabi­ le potest homo diligere vel infra Deum, quod est peccare venialiter, vel supra Deum quod est peccare mortaliter. Ergo peccatum veniale et mortale non differunt genere. 2. Praeterea, sicut dictum est supra [a. l ; q. 72 a. 5 ; q. 87 a. 3], peccatum mortale dicitur quod est irreparabile, peccatum autem veniale

    Sembra di no. Infatti: l . L'atto umano viene detto buono o cattivo nel suo genere in base alla materia, ossia all'ogget­ to, come si è rilevato in precedenza. Ora, in qualsiasi materia si può peccare sia mortal­ mente che venialmente: infatti un uomo può amare un bene transitorio o al disotto di Dio, e si ha il peccato veniale, o al disopra di Dio, e si ha il peccato mortale. Perciò i peccati veniale e mortale non ditl"eriscono nel genere. 2. Si è detto sopra che il peccato mortale è irreparabile e quello veniale riparabile. Ora, l'irreparabilità è propria del peccato di mali­ zia, che secondo alcuni è imperdonabi le; invece è proprio del peccato di debolezza, o di ignoranza, di essere riparabile o perdonabi­ le. Quindi il peccato mortale e quello veniale

    Articolo 2

    differiscono nel genere?

    86 1

    Il peccato veniale e il peccato mortale

    quod est reparabile. Sed esse irreparabile con­ venit peccato quod fit ex malitia, quod secun­ dum quosdam irremissibile dicitur, esse autem reparabile convenit peccato quod fit per infirmitatem vel ignorantiam, quod dicitur remissibile. Ergo peccatum mortale et veniale differunt sicut peccatum quod est ex malitia commissum, vel ex infitmitate et ignorantia. Sed secundum hoc non differunt peccata genere, sed causa, ut supra [q. 77 a. 8 ad l ] dictum est. Ergo peccatum veniale et mortale non differunt genere. 3. Praeterea, supra [q. 74 a. 3 ad 3; a. 1 0] dic­ tum est quod subiti motus tam sensualitatis quam rationis, sunt peccata venialia. Sed subiti motus inveniuntur in quolibet peccati genere. Ergo non sunt aliqua peccata venialia ex genere. Sed contra est quod Augustinus, in sermone De Purgatorio [Serm. ad pop. 1 04], enumerat quaedam genera peccatorum venialium, et quaedam genera peccatorum mortalium. Respondeo dicendum quod peccatum veniale a venia dicitur. Potest igitur aliquod peccatum dici veniale uno modo, quia est veniam conse­ cutum, et sic dicit Ambrosius [De Parad. 14] quod omne peccatum per poenitentiam fit veniale. Et hoc dicitur veniale ex eventu. Alio modo dicitur veniale, quia non habet in se unde veniam non consequatur vel totaliter vel in parte. In parte quidem, sicut cum habet in se aliquid diminuens culpam, ut cum fit ex in­ firmitate vel ignorantia. Et hoc dicitur veniale ex causa. In toto autem, ex eo quod non tollit ordinem ad ultimum finem, unde non meretur poenam aeternam, sed temporalem. Et de hoc veniali ad praesens intendimus. - De primis enim duobus constat quod non habent genus aliquod determinatum. Sed veniale tertio mo­ do dictum, potest habere genus detetmina­ tum, ita quod aliquod peccatum dicatur venia­ le ex genere, et aliquod mortale ex genere, secundum quod genus vel species actus deter­ minantur ex obiecto. Cum enim voluntas fer­ tur in aliquid quod secundum se repugnat caritati, per quam homo ordinatur in ultimum finem, peccatum ex suo obiecto habet quod sit mortale. Unde est mortale ex genere, sive sit contra dilectionem Dei, sicut blasphemia, periurium, et huiusmodi; sive contra dilectio­ nem proximi, sicut homicidium, adulterium, et sirrùlia. Unde huiusmodi sunt peccata mor-

    Q. 88, A. 2

    differiscono fra loro come i peccati di malizia e quelli di debolezza o di ignoranza. Ma in tal caso non differiscono nel genere, bensì nelle loro cause, come si è visto sopra. Quindi i peccati veniale e mortale non differiscono nel genere. 3. Sopra si è detto che i moti improvvisi, sia della sensualità che della ragione, sono pecca­ ti veniali. Ma tali moti si verificano in ogni genere di peccato. Quindi non esistono pecca­ ti veniali nel loro genere. In contrario: Agostino enumera alcuni generi di peccati veniali, e altri generi di peccati mortali. Risposta: il peccato veniale deriva il suo no­ me da venia [o perdono]. Perciò un peccato può dirsi veniale: primo, perché è stato perdo­ nato; e in questo senso, come dice Ambrogio, «qualsiasi peccato col pentimento diventa veniale». E questo peccato è detto veniale di fatto. Secondo, un peccato può essere veniale perché non ha in se stesso, in parte o in tutto, gli elementi che ne impediscono il perdono. In parte, se in se stesso contiene qualcosa che ne diminuisce la colpa, come quando è com­ piuto per fragilità o per ignoranza. E in questo caso è detto veniale nelle sue cause. In tutto, quando non toglie l'ordine al fine ultimo, così da meritare una pena non eterna, ma tempora­ le. Ed è questo il peccato veniale di cui ora intendiamo parlare. - Infatti è chiaro che i primi due [tipi di peccato] non hanno alcun genere determinato. Invece il peccato veniale del terzo tipo può avere un genere determina­ to: cosicché certi peccati sono detti nel loro genere veniali, e altri mortali, in quanto il genere o la specie dell'atto sono determinati dall' oggetto. Quando infatti la volontà si volge a qualcosa che di per sé si oppone alla carità, alla quale spetta ordinare l'uomo al fine ultimo, il peccato per il suo oggetto è mortale. Per cui è mortale nel suo genere: sia esso contro l'amore di Dio, come la bestem­ mia, il giuramento falso e altro del genere, sia esso contro l' amore del prossimo, come l'omicidio, l'adulterio e simili. Questi peccati sono quindi mortali nel loro genere. Talora invece la volontà del peccatore si volge verso cose che contengono in se stesse un certo disordine, senza però opporsi ali' amore di Dio e del prossimo: tali sono le parole oziose, le risate smodate e altre cose sirrùli. E questi

    Q. 88, A. 2

    Il peccato veniale e il peccato mortale

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    talia ex suo genere. Quandoque vero voluntas peccantis fertur in id quod in se continet quandam inordinationem, non tamen contra­ riatur dilectioni Dei et proximi, sicut verbum otiosum, risus superfluus, et alia huiusmodi. Et talia sunt peccata venialia ex suo genere. Sed quia actus morales recipiunt rationem boni et mali non solum ex obiecto, sed etiam ex aliqua dispositione agentis, ut supra [q. 1 8 aa. 4.6] habitum est; contingit quandoque quod id quod est peccatum veniale ex genere ratione sui obiecti, fit mortale ex parte agen­ tis, vel quia in eo constituit finem ultimum, vel quia ordinat ipsum ad aliquid quod est peccatum mortale ex genere, puta cum aliquis ordinat verbum otiosum ad adulterium com­ mittendum. Similiter etiam ex parte agentis contingit quod aliquod peccatum quod ex suo genere est mortale, fit veniale, propter hoc scilicet quod actus est imperfectus, idest non deliberatus ratione, quae est principium pro­ prium mali actus, sicut supra [q. 74 a. 10] dic­ tum est de subitis motibus infidelitatis. Ad primum ergo dicendum quod ex hoc ipso quod aliquis eligit id quod repugnat divinae caritati, convincitur praefen·e illud caritati divinae, et per consequens plus amare ipsum quam Deum. Et ideo aliqua peccata ex gene­ re, quae de se repugnant caritati, habent quod aliquid diligatur supra Deum. Et sic sunt ex genere suo mortalia. Ad secundum dicendum quod ratio illa proce­ dit de peccato veniali ex causa. Ad tertium dicendum quod ratio illa procedit de peccato quod est veniale propter imperfec­ tionem actus.

    peccati sono veniali nel loro genere. - Sicco­ me però gli atti morali traggono l'aspetto di bene o di male non solo dall'oggetto, ma an­ che dalla disposizione dell'agente, secondo le spiegazioni date in precedenza, talora capita che quanto è peccato veniale nel suo genere a motivo dell'oggetto divenga mortale dalla parte dell'agente: o perché questi costituisce in esso il fine ultimo, o perché lo indirizza a qualcosa che è peccato mortale, come chi si servisse di una parola oziosa per preparare un adulterio. E similmente può capitare che quanto nel suo genere è peccato mortale divenga invece veniale dalla parte dell'agente: per il fatto, cioè, che l'azione è imperfetta, ossia non deliberata dalla ragione, principio proprio dell' atto peccaminoso; come si è detto sopra parlando dei moti improvvisi con­ tro la fede. Soluzione delle difficoltà: l . Per il fatto che uno sceglie un oggetto che si oppone alla ca­ rità di Dio mostra di preferirlo alla carità, e di amarlo più di Dio. Quindi certi peccati che nel loro genere si oppongono alla carità im­ plicano l'amore di qualcosa al disopra di Dio. E così nel loro genere sono mortali. 2. L'obiezione si ti ferisce ai peccati detti ve­ niali per le loro cause. 3. L' obiezione vale per i peccati che sono veniali per l'imperfezione dell'atto.

    Articulus 3 Utrum peccatum veniale sit dispositio ad mortale

    Articolo 3 Il peccato veniale predispone al mortale?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod pec­ catum veniale non sit dispositio ad mortale. l . Unum enim oppositum non disponit ad aliud. Sed peccatum veniale et mortale ex op­ posito dividuntur, ut dictum est [a. 1 ]. Ergo peccatum veniale non est disposi tio ad mortale. 2. Praeterea, actus disponit ad aliquid simile in specie sibi, unde in 2 Ethic. [ 1,4] dicitur quod ex similibus actibus generantur similes dispositiones et habitus. Sed peccatum morta­ le et veniale differunt genere seu specie, ut

    Sembra di no. Infàtti: l . Trattandosi di opposti, l'uno non predispo­ ne all'altro. Ora, il peccato veniale e il morta­ le si dividono per contrapposizione, come si è detto sopra. Quindi il peccato veniale non predispone al mortale. 2. Un atto predispone a qualcosa della sua medesima specie: infatti Aristotele insegna che «da atti consimili sono generati abiti e disposizioni somiglianti». Ma si è dimostrato sopra che i peccati veniale e mortale differi-

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    Il peccato veniale e il peccato mortale

    dictum est [a. 2]. Ergo peccatum veniale non disponit ad mortale. 3. Praeterea, si peccatum dicatur veniale quia disponit ad mortale, oportebit quod quaecum­ que disponunt ad mortale peccatum, sint pec­ cata venialia. Sed omnia bona opera dispo­ nunt ad peccatum mortale, dicit enim Augustinus, in Regula [ep. 2 1 1], quod super­ bia bonis operibus insidiatur, ul pereant. Ergo etiam bona opera erunt peccata venialia, quod est inconveniens. Sed contra est quod dicitur Eccli. 1 9 [ l], qui spemit minima, paulatim dejluit. Sed ille qui peccat venialiter, videtur minima spemere. Ergo paulatim disponitur ad hoc quod totaliter defluat per peccatum mortale. Respondeo dicendum quod disponens est quodammodo causa. Unde secundum du­ plicem modum causae, est duplex dispositio­ nis modus. Est enim causa quaedam movens directe ad effectum, sicut calidum calefacit. Est etiam causa indirecte movens, removendo prohibens, sicut removens columnam dicitur removere lapidem superpositum. Et secun­ dum hoc, actus peccati dupliciter ad aliquid disponit. - Uno quidem modo, directe, et sic disponit ad actum similem secundum spe­ ciem. Et hoc modo, primo et per se peccatum veniale ex genere non disponit ad mortale ex genere, cum differant specie. Sed per bune modum peccatum veniale potest disponere, per quandam consequentiam, ad peccatum quod est mortale ex parte agentis. Augmen­ tata enim dispositione vel habitu per actus peccatorum venialium, intantum potest libido peccandi crescere, quod ille qui peccat, finem suum constituet in peccato veniali, nam uni­ cuique habenti habitum, inquantum huiusmo­ di, finis est operatio secundum habitum. Et sic, multoties peccando venialiter, disponetur ad peccatum mortale. - Alio modo actus humanus disponit ad aliquid removendo prohibens. Et hoc modo peccatum veniale ex genere potest disponere ad peccatum mortale ex genere. Qui enim peccat venialiter ex ge­ nere, praetermittit aliquem ordinem, et ex hoc quod consuescit voluntatem suam in minoribus debito ordini non subiicere, disponitur ad hoc quod etiam voluntatem suam non subiiciat ordini ultimi finis, eligendo id quod est pecca­ tum mortale ex genere. Ad primum ergo dicendum quod peccatum

    Q. 88, A. 3

    scono nel genere, cioè nella specie. Quindi il peccato veniale non predispone al mortale. 3. Se un peccato venisse detto veniale perché dispone al mortale, bisognerebbe che fosse peccato veniale tutto ciò che dispone al pec­ cato mortale. Ma tutte le opere buone predi­ spongono al peccato mortale: poiché, come dice Agostino, «la superbia tende insidie alle opere buone per rovinarle». Perciò anche le opere buone sarebbero peccati veniali: il che non è ammissibile. In contrario: in Sir è detto: Chi disprezza il poco cade presto in rovina. Ma chi pecca ve­ nialmente mostra di disprezzare il poco. Quin­ di si predispone un po' per volta ad andare totalmente in rovina col peccato mortale. Risposta: ciò che predispone esercita una cer­ ta causalità. Per cui, in base al duplice eserci­ zio della causalità, due sono i tipi di predispo­ sizione. C'è infatti una causa che influisce direttamente sull'effetto, come il fuoco che scalda. E c'è una causa che muove indiretta­ mente, togliendo un ostacolo: come chi spo­ stando una colonna muove la pietra che essa sorregge. Perciò anche un atto peccaminoso può predisporre in due modi. - Primo, diret­ tamente: col predispon·e a un atto specifica­ mente simile. E in questa prima maniera un peccato che è veniale nel suo genere non pre­ dispone di per sé a un peccato mortale nel suo genere: poiché sono atti specificamente diversi. Tuttavia da questo lato un peccato veniale può predisporre a un peccato che è mortale dalla parte di chi lo compie, a modo di conseguenza. Aumentata infatti la disposi­ zione o l'abito con gli atti del peccato venia­ le, l'attrattiva del peccato può aumentare fino al punto che colui che pecca giungerà a porre il proprio fine nel peccato veniale: infatti in chiunque ha un abito, di per sé il fine è l' ope­ rare secondo tale abito. E così, con la ripeti­ zione di molti peccati veniali, uno si disporrà al peccato mortale. - Secondo, un atto umano può predisporre togliendo gli ostacoli. E in questo senso un peccato che nel suo genere è veniale può predisporre a un peccato che nel suo genere è mortale. Infatti chi commette un peccato nel suo genere veniale trasgredisce un ordine; e così, per il fatto che la sua vo­ lontà si abitua a non sottostare all'ordine de­ bito nelle piccole cose, si dispone a non sot­ tostare ali' ordine riguardante il fme ultimo,

    Q. 88, A. 3

    Il peccato veniale e il peccato mortale

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    veniale et mortale non dividuntur ex opposito, sicut duae species unius generis, ut dictum est [a. l ad l ], sed sicut accidens contra substan­ tiam dividitur. Unde sicut accidens potest esse dispositio ad formam substantialem, ita et veniale peccatum ad mortale. Ad secundum dicendum quod peccatum veniale non est simile mortali in specie, est tamen simile ei in genere, inquantum utrum­ que importat defectum debiti ordinis, licet ali­ ter et aliter, ut dictum est [aa. 1-2]. Ad tertium dicendum quod opus bonum non est per se dispositio ad mortale peccatum, pote.o;;t tamen esse materia vel occasio peccati mortalis per accidens. Sed peccatum veniale per se disponit ad mortale, ut dictum est [co.].

    scegliendo cose che nel loro genere sono pec­ cati mortali. Soluzione delle difficoltà: l . Si è già detto che il peccato veniale non si distingue dal mortale per contrapposizione, come se fossero due specie di un genere, ma come l'accidente si distingue dalla sostanza. Come quindi un ac­ cidente può predisporre alla forma sostanzia­ le, così il peccato veniale può predisporre al mortale. 2. n peccato veniale non assomiglia al morta­ le nella specie, tuttavia gli assomiglia nel genere: poiché implicano entrambi una man­ canza di ordine, sebbene in grado diverso, come si è detto. 3. Un'opera buona non è una predisposizione al peccato mortale di per sé, anche se per accidens può esserne materia od occasione. Invece il peccato veniale predispone per se stesso al mortale, secondo le spiegazioni date.

    Articulus 4 Utnun peccatum veniale possit fieri mortale

    Articolo 4 Un peccato veniale può divenire mortale?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod pec­ catum veniale possit fieri mortale. l . Dicit enim Augustinus [In Ioan. 1 2, super 3, 1 9], exponens illud Ioan. 3 [36], «qui incre­ dulus est Filio, non videbit vitam»: peccata minima (idest venialia), si negligantu1; occi­ dunt. Sed ex hoc dicitur peccatum mortale, quod spiritualiter occidit animam. Ergo pec­ catum veniale potest fieri mortale. 2. Praeterea, motus sensualitatis ante consen­ sum rationis est peccatum veniale, post con­ sensum vero est peccatum mortale, ut supra [q. 74 a. 8 ad 2] dictum est. Ergo peccatum veniale potest fieri mortale. 3. Praeterea, peccatum veniale et mortale dif­ ferunt sicut morbus curabilis et incurabilis, ut dictum est [a. l]. Sed morbus curabilis potest fieri incurabilis. Ergo peccatum veniale potest fieri mortale. 4. Praeterea, dispositio potest fieri habitus. Sed peccatum veniale est dispositio ad morta­ le, ut dictum est [a. 3]. Ergo veniale peccatum potest fieri mortale. Sed contra, ea quae differunt in infinitum, non transmutantur in invicem. Sed peccatum mor­ tale et veniale differunt in infinitum, ut ex praedictis [q. 72 a. 5 ad l ; q. 87 a. 5 ad l ] patet. Ergo veniale non potest fieri mortale.

    Sembra di sì. Infatti: l . Agostino, commentando quel passo di Gv: Chi non crede al Figlio non vedrà la vita, scrive: «i peccati più piccoli», cioè quelli veniali, «se vengono trascurati uccidono». Ma un peccato viene detto mortale per il fatto che uccide spiritualmente l'anima. Quindi un pec­ cato veniale può divenire mortale. 2. Si è visto sopra che un moto di sensualità prima del consenso della ragione è peccato veniale, mentre dopo il consenso è peccato mortale. Quindi un peccato veniale può dive­ nire mortale. 3. Il peccato veniale e quello mortale differi­ scono, come si è detto, come una malattia curabile e una incurabile. Ora, una malattia da curabile può divenire incurabile. Perciò un peccato veniale può trasformarsi in mortale. 4. Una disposizione può divenire abito. Ma un peccato veniale è disposizione al mortale, come si è dimostrato. Quindi un peccato veniale può divenire mortale. In contrario: cose che differiscono infinita­ mente tra loro non possono mutarsi l'una nel­ l'altra. Ma il peccato mortale e quello veniale differiscono tra loro in questo modo, come sopra si è dimostrato. Quindi un peccato ve­ niale non può divenire mortale.

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    Il peccato veniale e il peccato mortale

    Respondeo dicendum quod peccatum veniale fieri mortale, potest tripliciter intelligi. - Uno modo sic quod idem actus numero, primo sit peccatum veniale, et postea mortale. Et hoc esse non potest. Quia peccatum principaliter consistit in actu voluntatis, sicut et quilibet actus moralis. Unde non dicitur unus actus moraliter, si voluntas mutetur, quamvis etiam actio secundum naturam sit continua. S i autem voluntas non mutetur, non potest esse quod de veniali fiat mortale. - Alio modo potest intelligi ut id quod est veniale ex genere, fiat mortale. Et hoc quidem possibile est, inquan­ tum constituitur in eo finis, vel inquantum refertur ad mortale peccatum sicut ad finem, ut dictum est [a 2]. - Tertio modo potest intel­ ligi ita quod multa venialia peccata constituant unum peccatum mortale. Quod si sic intelli­ gatur quod ex multis peccatis venialibus inte­ graliter constituatur unum peccatum mortale, falsum est. Non enim omnia peccata venialia de mundo, possunt habere tantum de reatu, quantum unum peccatum mortale. Quod patet ex parte durationis, quia peccatum mortale habet reatum poenae aeternae, peccatum autem veniale reatum poenae temporalis, ut dictum est [q. 87 aa. 3.5]. Patet etiam ex parte poenae damni, quia peccatum mortale mere­ tur carentiam visionis divinae, cui nulla alia poena comparati potest ut Chrysostomus dicit [In Matth. h. 23]. Patet etiam ex parte poenae sensus, quantum ad vermem conscientiae, licet forte quantum ad poenam ignis, non sint improportionales poenae. Si vero intelligatur quod multa peccata venialia faciunt unum mortale dispositive, sic verum est, sicut supra [a. 3] ostensum est, secundum duos modos dispositionis, quo peccatum veniale disponit ad mortale. Ad primum ergo dicendum quod Augustinus loquitur in ilio sensu, quod multa peccata ve­ nialia dispositive causant mortale. Ad secundum dicendum quod ille idem motus sensualitatis qui praecessit consensum ratio­ nis nunquam fiet peccatum mortale, sed ipse actus rationis consentientis. Ad tertium dicendum quod morbus corporalis non est actus, sed dispositio quaedam penna­ nens, unde eadem manens, potest mutari. Sed peccatum veniale est actus transiens, qui resu­ mi non potest. Et quantum ad hoc, non est simile.

    Q. 88, A. 4

    Risposta: in tre modi si può intendere il cam­ biamento di un peccato veniale in mortale. Primo, nel senso che un identico atto prima è peccato veniale e poi mortale. E ciò è impos­ sibile. Poiché il peccato, come ogni atto mo­ rale, consiste principalmente nell' atto della volontà. Per cui non si può parlare di un'unica azione morale se la volontà cambia, anche se l ' azione ha una continuità fisica. Se poi la volontà non cambia, è impossibile che un peccato veniale divenga mortale. - Secondo, si può intendere nel senso che quanto nel suo genere è veniale può divenire mortale. E ciò è possibile: o perché si ripone in esso il fine ultimo, o perché viene indirizzato a un pecca­ to mortale, secondo le spiegazioni date. Terzo, si può intendere nel senso che più pec­ cati veniali possono costituire un peccato mortale. E questo, se lo si intende nel senso che da molti peccati veniali messi insieme si forma un peccato mortale, è falso. Infatti tutti i peccati veniali del mondo non possono rag­ giungere il reato di un solo peccato mortale, come è evidente in base alla durata della pe­ na: infatti il peccato mortale me1ita una pena eterna, mentre il peccato veniale, come si è detto, merita una pena temporale. Ed è evi­ dente anche in base alla pena del danno: poi­ ché il peccato mortale merita la perdita della visione di Dio, alla quale nessuna pena, è pa­ ragonabile, come dice il Crisostomo. E evi­ dente infine anche in base alla pena del senso, quanto al verme della coscienza: sebbene quanto alla pena del fuoco le pene non siano del tutto incomparabil i . Se però ciò viene inteso nel senso che molti peccati veniali pro­ ducono una colpa mortale come disposizioni, allora può essere vero, come si è visto sopra, in base alle due maniere in cui un peccato veniale può dispone al mmtale. Soluzione delle difficoltà: l . Agostino intende parlare nel senso che molti peccati veniali predispongono al mortale. 2. Quel moto di sensualità che ha preceduto il consenso della ragione non potrà mai diventa­ re un peccato mortale, ma potrà diventarlo solo l'atto della ragione che vi acconsente. 3. Una malattia corporale non è un atto, ma una disposizione continuata: perciò, pur re­ stando la stessa, può mutare. Invece un peccato veniale è un atto transitorio, che non può essere ripetuto. E da questo lato non c'è somiglianza.

    Q. 88, A. 4

    Il peccato veniale e il peccato mortale

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    Ad quartum dicendum quod dispositio quae fit habitus, est sicut imperfectum in eadem specie, sicut imperfecta scientia, dum perfici­ tur, fit habitus. Sed veniale peccatum est dispositio alterius generis, sicut accidens ad formam substantialem, in quam nunquam mutatur.

    4. La disposizione che diviene abito è come un'entità imperfetta della medesima specie: come diviene abito la scienza imperfetta che si perfeziona. Invece il peccato veniale è una disposizione di genere diverso, come l'acci­ dente rispetto alla forma sostanziale, nella quale non potrà mai trasformarsi.

    Articulus 5 Utrum circumstantia possit facere de veniali mortale

    Articolo 5 Una circostanza può cambiare un peccato da veniale a mortale?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod cir­ cumstantia possit de veniali peccato facere mortale. l . Dicit enim Augustinus, in sermone De Pur­ gatorio [Serm. ad pop. 104], quod si diu te­

    Sembra di sì. Infatti: l . Agostino insegna che «Se l 'ira ha lunga durata, e se l'ubriachezza è frequente, passa­ no nel numero dei peccati mortali». Ora, l'ira e l'ubriachezza nel loro genere non sono pec­ cati mortali, ma veniali: altrimenti sarebbero sempre mortali. Quindi una circostanza rende mortale un peccato veniale. 2. Il Maestro delle Sentenze afferma che la dilettazione, se è morosa, è peccato mortale; se invece non è morosa, è peccato veniale. Ma la morosità è una circostanza. Quindi una circostanza può cambiare in mortale un pec­ cato veniale. 3. C'è più distanza tra il bene e il male che tra un peccato veniale e uno mortale, che sono entrambi mali. Ma una circostanza può rende­ re cattivo un atto buono: come è evidente quando uno fa l 'elemosina per vanagloria. Perciò è assai più facile per essa far cambiare un peccato da veniale a mortale. In contrario: essendo la circostanza un acci­ dente, la sua grandezza non può sorpassare la grandezza specifica dell'atto a cui appartiene: infatti il soggetto è sempre superiore al pro­ prio accidente. Se quindi l'atto nel suo genere è un peccato veniale, non potrà diventare mortale per le circostanze: poiché un peccato mortale, come si è detto, sorpassa infinita­ mente, in un certo senso, la grandezza del peccato veniale. Risposta: sopra, trattando delle circostanze, abbiamo detto che esse, in quanto tali, sono degli accidenti dell'atto morale: tuttavia può capitare che una circostanza sia considerata come una differenza specifica dell'atto mora­ le, e allora perde il carattere di circostanza e costituisce la specie morale dell'atto. Ora, ciò avviene quando una circostanza aggiunge al peccato una deformità di altro genere. Quando

    neatur iracundia, et ebrietas si assidua sit, transeunt in numerum peccatorum mortalium. Sed ira et ebrietas non sunt ex suo genere pec­ cata mortalia, sed venialia, alioquin semper essent mortalia. Ergo circumstantia facit pec­ catum veniale esse mortale. 2. Praeterea, Magister dicit, 24 dist. 2 libri Sent. [ 1 2], quod delectatio, si sit morosa, est peccatum mortale; si autem non sit morosa, est peccatum veniale. Sed morositas est quae­ dam circumstantia. Ergo circumstantia facit de peccato veniali mortale. 3. Praeterea, plus differunt malum et bonum quam veniale peccatum et mortale, quorum utrumque est in genere mali. Sed circumstantia facit de actu bono malum, sicut patet cum quis dat eleemosynam propter inanem gloriam. Ergo multo magis potest facere de peccato veniali mortale. Sed contra est quod, cum circumstantia sit ac­ cidens, quantitas eius non potest excedere quantitatem ipsius actus, quam habet ex suo genere, semper enim subiectum praeeminet accidenti. Si igitur actus ex suo genere sit pec­ catum veniale, non poterit per circumstantiam fieri peccatum mortale, cum peccatum mortale in infmitum quodammodo excedat quantita­ tem venialis, ut ex dictis [q. 72 a. 5 ad l ; q. 87 a. 5 ad l ] patet. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 7 a. l ; q. 1 8 a. 5 ad 4; aa. 1 0- 1 1 ] dictum est, cum de circumstantiis ageretur, circumstantia, inquantum huiusmodi, est accidens actus mo­ ralis, contingit tamen circumstantiam accipi ut differentiam specificam actus moralis, et tunc

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    Il peccato veniale e il peccato mortale

    amittit rationem circumstantiae, et constituit speciem moralis actus. Hoc autem contingit in peccatis quando circumstantia addit deformi­ tatem alterius generis sicut cum aliquis accedit ad non suam, est actus deformis deformitate apposita castitati; sed si accedat ad non suam quae est alterius uxor, additur deformitas ap­ posita iustitiae, contra quam est ut aliquis usurpet rem alienam; et secundum hoc huius­ modi circumstantia constituit novam speciem peccati, quae dicitur adulterium. - Impossibile est autem quod circumstantia de peccato ve­ niali faciat mortale, nisi afferat deformitatem alterius generis. Dictum est enim [a. l ] quod peccatum veniale habet deformitatem per hoc quod importat deordinationem circa ea quae sunt ad finem, peccatum autem mortale habet deformitatem per hoc quod importat deordina­ tionem respectu ultimi finis. Unde manifestum est quod circumstantia non potest de veniali peccato tacere mortale, manens circumstantia, sed salurn tunc quando transfert in aliam spe­ ciem, et fit quodammodo differentia specifica moralis actus. Ad primum ergo dicendum quod diuturnitas non est circumstantia trahens in aliam spe­ ciem, similiter nec frequentia vel assiduitas, nisi forte per accidens ex aliquo supervenien­ ti. Non enim aliquid acquitit novam speciem ex hoc quod multiplicatur vel protelatur, nisi forte in actu protelato vel multiplicato super­ veniat aliquid quod variet speciem, puta ino­ bedientia vel contemptus, vel aliquid huius­ modi. - Dicendum est ergo quod, cum ira sit motus animi ad nocendum proximo, si sit tale nocumentum in quod tendit motus irae, quod ex genere suo sit peccatum mortale, sicut homicidium vel furtum, talis ira ex genere suo est peccatum mortale. Sed quod sit peccatum veniale, habet ex imperfectione actus, inquan­ tum est motus subitus sensualitatis. Si vero sit diuturna, redit ad naturam sui generis per con­ sensum rationis. Si vero nocumentum in quod tendit motus irae, esset veniale ex genere suo, puta cum aliquis in hoc irascitur contra ali­ quem, quod vult ei dicere aliquod verbum leve et iocosum, quod modicum ipsum contri­ stet; non erit ira peccatum mortale, quantum­ cumque sit diuturna; nisi forte per accidens, puta si ex hoc grave scandalum oriatur, vel propter aliquid huiusmodi. - De ebrietate vero dicendum est quod secundum suam rationem

    Q. 88, A. 5

    uno, p. es., si unisce a una donna che non è la propria moglie, si ha nell'atto la sola deformità contraria alla castità; se però si unisce alla moglie di un altro, allora si aggiunge la defor­ mità contraria alla giustizia, che proibisce di usurpare il bene alt:J.ui. E in questo caso la cir­ costanza costituisce una nuova specie di pecca­ to, cioè l' adulterio. È quindi impossibile che una circostanza renda mortale un peccato veniale se non implica una deformità di altro genere. Intatti la deformità del peccato veniale consiste in un disordine relativo ai mezzi, men­ tre la deformità del peccato mortale implica un disordine rispetto al fine ultimo. Per cui è evi­ dente che una circostanza non può cambiare un peccato da veniale a mortale rimanendo cir­ costanza, ma solo quando fa passare l'atto a una nuova specie, e diviene in qualche modo la sua differenza specifica. Soluzione delle difficoltà: l . La durata non è una circostanza che t'a passare l'atto a un'altra specie; e lo stesso si dica della ripetizione e della frequenza, se non intervengono altri ele­ menti . Infatti un' azione non acquista una nuova specie per il fatto che si ripete o si pro­ lunga, a meno che nell' atto così ripetuto o prolungato non intervenga qualcosa che ne muti la specie, come la disobbedienza, il di­ sprezzo o altre cose del genere. - Perciò si deve rispondere che, essendo l' ira un moto dell' animo tendente a nuocere al prossimo, se il danno a cui tende è, nel suo genere, un pec­ cato mortale, come l'omicidio o il furto, l'ira nel suo genere è un peccato mortale. E solo l'imperfezione dell'atto ne fa un peccato ve­ niale, quando cioè è un moto improvviso del­ la sensualità. Se però è prolungata, ritorna alla natura del suo genere, per il consenso della ragione. Se invece il danno a cui tende fosse nel suo genere veniale, come quando uno si adira con un altro col proposito di contristarlo con una parola leggermente offensiva o gio­ cosa, allora non si ha un peccato mortale, per quanto tale ira possa essere prolungata. Tut­ t'al più lo può essere per accidens, cioè per un eventuale scandalo grave che ne derivasse, o per altri motivi del genere. - A proposito dell' ubtiachezza si deve invece rispondere che essa per sua natura è un peccato mortale: che infatti un uomo, senza una necessità e per il solo piacere del vino, si renda incapace di usare la ragione, con la quale deve ordinare se -

    Q. 88, A. 5

    Il peccato veniale e il peccato mortale

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    habet quod sit peccatum mortale, quod enim homo absque necessitate reddat se impoten­ tem ad utendum ratione, per quam homo in Deum ordinatur et multa peccata occurrentia vitat, ex sola voluptate vini, expresse contra­ riatur virtuti. Sed quod sit peccatum veniale, contingit propter ignorantiam quandam vel infirmitatem, puta cum homo nescit virtutem vini, aut propriam debilitatem, unde non putat se inebriari, tunc enim non imputatur ei ebrie­ tas ad peccatum, sed solum superabundantia potus. Sed quando frequenter inebriatur, non potest per hanc ignorantiam excusari quin vi­ deatur voluntas eius eligere magis pati ebrie­ tatem, quam abstinere a vino superfluo. Unde redit peccatum ad suam naturam. Ad secundum dicendum quod delectatio mo­ rosa non dicitur esse peccatum mortale, nisi in his quae ex suo genere sunt peccata morta­ Ha; i n quibus si delectatio non morosa sit, peccatum veniale est ex imperfectione actus, sicut et de ira dictum est [ad l]. Dicitur enim ira diuturna, et delectatio morosa, propter approbationem rationis deliberantis. Ad tertium dicendum quod circumstantia non facit de bono actu malum, nisi constituens speciem peccati, ut supra [q. 1 8 a. 5 ad 4] etiam habitum est.

    stesso a Dio ed evitare eventuali peccati, è espressamente contrario alla virtù. Se dunque talora è peccato veniale, ciò è dovuto solo al­ l' ignoranza o alla fragilità, cioè al fatto che uno ignora la gradazione del vino, o la pro­ pria debolezza, e quindi non pensa di ubria­ carsi: infatti allora non gli viene imputata co­ me peccato l'ubriachezza, ma il solo eccesso nel bere. Quando però uno si ubriaca spesso non può più essere scusato da questa ignoran­ za: perché allora la sua volontà mostra di pre­ ferire l'ubriachezza alla moderazione nell'uso del vino. Perciò il peccato torna alla propria natura. 2. La dilettazione morosa è peccato mortale solo in quella materia che nel suo genere è peccato mortale; e se in questa materia non è morosa, allora è veniale per l ' imperfezione dell' atto, come si è detto a proposito dell' ira. Infatti si dice che l'ira è prolungata, e che la dilettazione è morosa, per il consenso delibe­ rato della ragione. 3. Come si è spiegato prima, le circostanze non rendono cattivo un atto buono se non costitui­ scono direttamente la specie del peccato.

    Articulus 6 Utrum peccatum mortale possit fieri veniale

    Articolo 6 Un peccato mortale può divenire veniale?

    Ad sextum sic proceditur. Videtur quod pec­ catum mortale possit fieri veniale. l . Aequaliter enim distat peccatum veniale a mortali, et e contrario. Sed peccatum veniale fit mortale, ut dictum est [a. 4]. Ergo etiam peccatum mottale potest fieri veniale. 2. Praeterea, peccatum veniale et mortale ponuntur differre secundum hoc, quod pec­ cans mortaliter diligit creaturam plus quam Deum, peccans autem venialiter diligit creato­ ram infra Deum. Contingit autem quod ali­ quis committens id quod est ex genere suo peccatum mortale, diligat creaturam infra Deum, puta si aliquis, nesciens fornicationem simplicem esse peccatum mortale et contra­ riam divino amori, fornicetur, ita tamen quod propter divinum amorem paratus esset forni­ cationem praeterrnittere, si sciret fornicando se contra divinum amorem agere. Ergo pecca-

    Sembra di sì. Infatti: l . Dal peccato mortale al veniale c ' è la stessa distanza che si trova dal veniale al mortale. Ma un peccato veniale, come si è detto, può divenire mortale. Quindi anche un peccato mortale può divenire veniale. 2. La differenza che si riscontra tra il peccato veniale e il mortale sta in questo: che chi pec­ ca mortalmente ama la creatura più di Dio, mentre chi pecca venialmente la ama al disot­ to di Dio. Ora, può capitare che qualcuno, nel commettere azioni che nel loro genere sono peccati mortali, ami la creatura al disotto di Dio: p. es. se uno fornicasse ignorando che la semplice fornicazione è un peccato mortale ed è contraria alla carità di Dio, e fosse pronto per amore di Dio ad astenersi da essa se cono­ scesse di agire con la fornicazione contro la carità di Dio. Costui dunque peccherà venial-

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    Il peccato veniale e il peccato mortale

    bit venialiter. Et sic peccatum mortale potest fieri veniale. 3. Praeterea, sicut dictum est [a. 5 arg. 3], plus differt bonum a malo quam veniale a mortali. Sed actus qui est de se malus, potest fieri bonus, sicut homicidium potest fieri actus iustitiae, sicut patet in iudice qui occidit latro­ nem. Ergo multo magis peccatum mortale potest fieri veniale. Sed contra est quod aetemum nunquam potest fieri temporale. Sed peccatum mortale meretur poenam aeternam, peccatum autem veniale poenam temporalem. Ergo peccatum mortale nunquam pote..> e «utile». In contrario: basta l'autorità dello stesso Isidoro. Risposta: la forma del mezzo che è ordinato al fine deve essere proporzionata al fine mede­ simo: come la forma di una sega, per portare l'esempio di Aristotele, è tale da servire a sega­ re. E così pure qualsiasi cosa retta e misurata è necessario che abbia la sua forma in armonia con la sua regola o misura. Ora, la legge uma­ na ha questi due aspetti: è un mezzo ordinato a un fine ed è una regola o misura regolata o misurata da una certa misura superiore, che poi è duplice, cioè la legge divina e la legge natura­ le, delle quali abbiamo già parlato. n fine poi della legge umana è il bene utile all'uomo, co-

    sta, iusta, possibilis secundum naturam, secundum consuetudinem patriae, loco tem­ porique conveniens, necessaria, utilis; mani­ festa quoque, ne aliquid per obscuritatem in captionem contineat; nullo privato commodo, sed pro communi utilitate civium scripta. l . Supra [Etymol. 5,3] enim in tribus conditio­ nibus qualitatem legis explicaverat, dicens, !ex

    erit omne quod ratione constiterit, dumtaxat quod religioni congrua!, quod disciplinae con­ venia!, quod saluti pro.ficiat. Ergo superflue postmodum conditiones legis multiplicat. 2. Praeterea, iustitia pars est honestatis; ut Tul­ lius dicit, in l De oftic. [7]. Ergo postquam dixerat honesta, superflue additur iusta. 3. Praeterea, lex scripta, secundum lsidorum [Etymol. 2, 1 0; 5,3], contra consuetudinem dividitur. Non ergo debuit in definitione legis poni quod esset secundum consuetudinem

    patriae. 4. Praeterea, necessarium dupliciter dicitur. Scilicet id quod est necessarium simpliciter, quod impossibile est aliter se habere, et huius­ modi necessarium non subiacet humano iudicio, unde talis necessitas ad legem huma­ nam non pertinet. Est etiam aliquid necessari­ um propter finem, et talis necessitas idem est quod utilitas. Ergo superflue utrumque poni­ tur, necessaria et utilis. Sed contra est auctoritas ipsius Isidori. Respondeo dicendum quod uniuscuiusque rei quae est propter finem, necesse est quod forma determinetur secundum proportionem ad finem; sicut forma serrae talis est qualis convenit sectioni; ut patet in 2 Phys. [9,2.6]. Quaelibet etiam res recta et mensurata oportet quod habeat formam proportionalem suae regulae et mensurae. Lex autem humana utrumque habet, quia et est aliquid ordinatum ad finem; et est quaedam regula vel mensura regulata vel mensurata quadam superiori men­ sura; quae quidem est duplex, scilicet lex divi­ na et lex naturae, ut ex supradictis [a. 2; q. 93 a 3] patet. Finis autem humanae legis est utili­ tas hominum; sicut etiam iurisperitus [Dig. l

    Q. 95, A. 3

    La legge umana

    t. 3 l. 25] dicit. Et ideo lsidorus in conditione legis, primo quidem tria posuit, scilicet quod religioni congruat, inquantum scilicet est pro­ portionata legi divinae; quod disciplinae con­ veniat, inquantum est proportionata legi natu­ rae; quod saluti proficiat, inquantum est pro­ portionata utilitati humanae. - Et ad haec tria omnes aliae conditiones quas postea ponit, reducuntur. Nam quod dicitur honesta, refer­ tur ad hoc quod religioni congruat. Quod autem subditur, iusta, possibilis secundum

    naturam, secundum consuetudinem patriae, loco temporique conveniens, additur ad hoc quod conveniat disciplinae. Attenditur enim humana disciplina primum quidem quantum ad ordinem rationis, qui i mportatur in hoc quod dicitur iusta. Secundo, quantum ad facultatem agentium. Debet enim esse disci­ plina conveniens unicuique secundum suam possibilitatem, observata etiam possibilitate naturae (non enim eadem sunt imponenda pueris, quae imponuntur viris perfectis); et secundum humanam consuetudinem; non enim potest homo solus in societate vivere, aliis morem non gerens. Tertio, quantum ad debitas circumstantias, dicit, loco temporique conveniens. Quod vero subditur, necessaria, utilis, etc., refertur ad hoc quod expediat salu­ ti, ut necessitas referatur ad remotionem ma­ Iorum; utilitas, ad consecutionem bonorum; manifestatio vero, ad cavendum nocumentum quod ex ipsa Iege posset provenire. Et quia, sicut supra [q. 90 a. 2] dictum est, lex ordina­ tur ad bonum commune, hoc ipsum in ultima parte determinationis ostenditur. Et per hoc patet responsio ad obiecta.

    Articulus 4 Utrum Isidorus convenienter ponat divisionem humanarum legum Ad quartum sic proceditur. Videtur quod in­ convenienter lsidorus divisionem legum hu­ manarum ponat, sive iuris humani. l . Sub hoc enim iure comprehendit ius gen­ tium, quod ideo sic nominatur, ut ipse dicit [Etymol. 5,6], quia eo omnes fere gentes utuntur. Sed sicut ipse dicit [Etymol. 5,4] , ius

    naturale est quod est commune omnium nationum. Ergo ius gentium non continetur

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    me nota il Digesto. E così lsidoro tra le condi­ zioni della legge enumera innanzi tutto queste tre cose: che sia «in armonia con la religione», in quanto cioè è conforme alla legge divina; che sia «a incremento della disciplina», in quanto è conforme alla legge naturale; che sia «a vantaggio della salute pubblica>>, in quanto è adatta al bene dell'uomo. - E a queste tre condizioni si riducono tutte le altre enumerate i n seguito. Infatti I ' onestà si riferisce alla conformità con la religione. E l'espressione: «giusta, possibile secondo la natura e le con­ suetudini del paese, proporzionata ai luoghi e ai tempi» specifica la sua funzionalità per la di­ sciplina. Infatti la disciplina viene considerata prima di tutto in rapporto ali' ordine della ra­ gione, indicato dall'aggettivo «giusta>>. In se­ condo luogo poi va regolata sulla capacità dei soggetti. Infatti la disciplina deve essere pro­ porzionata a ciascuno, secondo le sue possibi­ lità, sia quanto alla natura (poiché non si pos­ sono imporre le stesse cose ai bambini e agli uomini maturi), sia quanto alle consuetudini umane: infatti un uomo non può vivere in mez­ zo alla società come un solitario, senza confor­ marsi alle abitudini degli altri. In terzo luogo infine va regolata sulle debite circostanze, per cui si dice: «proporzionata ai luoghi e ai tem­ pi». Le espressioni poi che seguono: «necessa­ ria, utile» ecc., si riferiscono al suo essere van­ taggiosa per la salute: quindi la necessità indica I' eliminazione del male, I 'utilità il consegui­ mento del bene e la chiarezza esclude ogni danno che potrebbe sorgere dalla legge stessa. Siccome poi la legge, come sopra si è detto, è ordinata al bene comune, ciò viene illustrato nell'ultima parte della descrizione. Sono così risolte anche le difficoltà. Articolo 4

    È accettabile la divisione delle leggi umane proposta da Isidoro? Sembra di no. Infatti: l . In questo diritto Isidoro include «il diritto delle genti» il quale, come dice lui stesso, viene denominato così perché «in uso presso quasi tutte le genti». Ma lui stesso afferma che «il diritto comune a tutte le nazioni è un diritto naturale». Perciò il diritto delle genti non fa parte del diritto positivo umano, ma piuttosto del diritto naturale.

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    La legge umana

    sub iure positivo humano, sed magis sub iure naturali. 2. Praeterea, ea quae habent eandem vim, non videntur formaliter differre, sed solum materia­ liter. Sed leges, plebiscita, senatusconsulta, et alia huiusmodi quae ponit [Isid., Etymol. 5,9], omnia habent eandem vim. Ergo videtur quod non differant nisi materi aliter. Sed tal i s distinctio i n arte non est curanda, cum possit esse in intinitum. Ergo inconvenienter huius­ modi divisio humanarum legum introducitur. 3. Praeterea, sicut in civitate stmt principes et sacerdotes et milites, ita etiam sunt et alia ho­ minum offida. Ergo vidctur quod, sicut poni­ tur [Isid., Etymol. 5,7-8] quoddam ius militare, et ius publicum, quod consistit in sacerdotibus et magistratibus; ita etiam debeant poni alia iura, ad alia offida civitatis pertinentia. 4. Praeterea, ea quae sunt per accidens, sunt praetermittenda. Sed accidit legi ut ab hoc vel ilio homine tèratur. Ergo inconvenienter ponitur [Isid., Etymol. 5,15] divisio legum humanarum ex nominibus legislatorum, ut scilicet quaedam dicatur Cornelia, quaedam Falcidia, et cetera. In contrarium auctoritas Isidori sufficiat. Respondeo dicendum quod unumquodque potest per se dividi secundum id quod in eius ratione continetur. Sicut in ratione animalis continetur anima, quae est rationalis vel irra­ tionalis, et ideo animai proprie et per se divi­ ditur secundum rationale et irrationale; non autem secundum album et nigrum, quae sunt omnino praeter rationem eius. Sunt autem multa de ratione legis humanae, secundum quorum quodlibet lex humana proprie et per se dividi potcst. - Est cnim primo dc ratione legis humanae quod sit derivata a lege natu­ rae, ut ex dictis [a. 2] patet. Et secundum hoc dividitur ius positivum in ius gentium et ius civile, secundum duos modos quibus aliquid derivatur a lege naturae, ut sopra [a. 2] dictum est. Nam ad ius gentium pertinent ea quae derivantur ex lege naturae sicut conclusiones ex principiis, ut iustae emptiones, venditiones, et alia huiusmodi, sine quibus homines ad invicem convivere non possent; quod est de lege naturae, quia homo est naturaliter animai sociale, ut probatur in l Poi. [ 1 ,9]. Quae vero derivantur a lege naturae per modum particu­ laris detenninationis, pertinent ad ius civile, secundum quod quaelibet civitas aliquid sibi accommodum determinat. - Secondo est de

    Q. 95, A. 4

    2. Le norme dotate di un medesimo vigore non si distinguono formalmente, ma solo materialmente. Ora «le leggi, i plebisciti, i senatoconsulti» e altre cose del genere che egli pone hanno il medesimo vigore. Quindi differiscono solo materialmente. Ma una divi­ sione del genere non va presa in considerazio­ ne nel campo delle arti, potendo essa conti­ nuare all'infinito. Quindi una simile divisione delle leggi umane non è accettabile. 3. In uno stato ci sono i principi, i sacerdoti e i soldati, ma ci sono pure altri impieghi. Perciò, come vengono indicati un «diritto militare» e un «diritto pubblico», che interessano i sacer­ doti e i magistrati, così bisognava indicare allo stesso modo gli altri diritti riguardanti gli altri impieghi della vita sociale. 4. Le cause occasionali o accidentali non van­ no prese in considerazione. Ora, è del tutto ac­ cidentale per una legge essere sancita da uno o da un altro. Quindi non è giusto dividere le leggi secondo il nome dei legislatori, chia­ mandole legge cornelia, leggefalcidia, ecc. In contrario: basti l'autorità di Isidoro. Risposta: ogni cosa può essere correttamente divisa in base a uno dei suoi elementi essen­ ziali. Il costitutivo essenziale dell'animale, p. es., è l'anima, che può essere razionale o irrazionale: perciò l'animale propriamente e formalmente si divide in animale razionale e animale irrazionale, non invece in animale bianco e animale nero, essendo il colore estra­ neo alla sua essenza. Ora, i costitutivi essen­ ziali della legge umana sono molteplici, ed essa può dividersi in maniera propria e forma­ le partendo da ciascuno di essi. - Prima di tut­ to infatti è essenziale alla legge umana il deri­ vare, secondo le spiegazioni date, dalla legge naturale. E in base a ciò il diritto positivo si divide in diritto delle genti e diritto civile, se­ guendo i due modi caratteristici di derivazio­ ne dalla legge naturale di cui si è già parlato. Infatti al diritto delle genti appartengono le cose che delivano dalla legge naturale come conclusioni dai princìpi: p. es. la giustizia nel­ le compravendite e altre cose del genere, sen­ za delle quali non è possibile la convivenza umana; e questo diritto è di legge naturale, poiché l'uomo è per natura un animale socie­ vole, come spiega Aristotele. Le cose invece che derivano dalla legge naturale come deter­ minazioni particolari appartengono al diritto

    Q. 95, A. 4

    La legge umana

    ratione legis humanae quod ordinetur ad bo­ num commune civitatis. Et secundum hoc lex humana dividi potest secundum diversitatem eorum qui specialiter dant operam ad bonum commune, sicut sacerdotes, pro populo Deum orantes; principes, populum gubernantes; et milites, pro salute populi pugnantes. Et ideo istis hominibus specialia quaedam iura aptan­ tur. - Tertio est de ratione legis humanae ut instituatur a gubernante communitatem civi­ tatis, sicut supra [q. 90 a. 3] dictum est. Et se­ cundum hoc distinguuntur leges humanae se­ cundum diversa regimina civitatum. Quorum unum, secundum philosophum, i n 3 Poi. [5,2.4] , est regnum, quando scilicet civitas gubernatur ab uno, et secundum hoc accipiun­ tur constitutiones principum. Aliud vero regi­ men est aristocratia, idest principatus optimo­ rum, vel optimatum, et secundum hoc sumun­ tur responsa prudentum, et etiam senatuscon­ sulta. Aliud regimen est oligarchia, idest prin­ cipatus paucorum divitum et potentum, et secundum hoc sumitur ius praetorium, quod etiam honorarium dicitur. Aliud autem regi­ men est populi, quod nominatur democratia, et secundum hoc sumuntur p/ebiscita. Aliud autem est tyrannicum, quod est omnino cor­ ruptum, unde ex hoc non sumitur aliqua lex. Est etiam aliquod regimen ex istis commix­ tum, quod est optimum, et secundum hoc sumitur lex, quam maiores natu simul cum plebibus sanxenmt, ut Isidorus dicit [Etymol. 5, 1 0; 2,10] . - Quarto vero de ratione legis hu­ manae est quod sit directiva humanorum actu­ um. Et secundum hoc, secundum diversa de quibus leges feruntur, distinguuntur leges, quae interdum ab auctoribus nominantur, sicut di­ stinguitur lex lulia de adulteriis [Dig. 48 t. 5], [ex Cornelia de sicariis [Dig. 48 t. 8], et sic de aliis, non propter auctores, sed propter res de quibus sunt. Ad primum ergo dicendum quod ius gentium est quidem aliquo modo naturale homini, se­ cundum quod est rationalis, inquantum deri­ vatur a lege naturali per modum conclusionis quae non est multum remota a principiis. Unde de facili in huiusmodi homines consen­ serunt. Distinguitur tamen a lege naturali, max:ime ab eo quod est ornnibus animalibus communis. Ad alia patet responsio ex his quae dieta sunt [co.] .

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    civile, il quale viene determinato nel modo più adatto per ciascuno stato. - Secondo, è essenziale alla legge umana essere ordinata al bene comune dello stato. E in base a ciò tale legge può essere divisa secondo le distinzioni di coloro che in modo speciale sono deputati al bene comune, e che sono: i sacerdoti, i qua­ li pregano Dio per il popolo; i magistrati, che lo governano; i soldati, che lo difendono con le armi. E così a queste categorie corrispondo­ no leggi particolari. - Terzo, alla legge umana è essenziale essere emanata da chi governa lo stato, come sopra si è visto. E in base a ciò le leggi umane si dividono secondo le diverse forme di governo. La prima delle quali, se­ condo il Filosofo, è la monarchia, che si ha quando lo stato è governato da uno solo: e in questo caso abbiamo le costituzioni dei principi. Un altro regime è invece quello aristocratico, cioè il comando degli ottimati: e in questo caso abbiamo i responsi dei prudenti, e i sena­ toconsulti. Un altro regime ancora è l' oligar­ chia, cioè il comando di poche persone facol­ tose e potenti: e in questo caso si parla di dirit­ to pretorio, che viene detto pure onorario. Vi è poi il regime di tutto il popolo, chiamato democrazia: e questo dà luogo ai plebisciti. E c'è anche il regime tirannico, che è del tutto corrotto: per cui da esso non viene denomina­ ta alcuna legge. Vi è finalmente un regime composto di tutti i precedenti, e che è il regi­ me migliore: e da questo viene denominata quella legge «che i maggiorenti sancirono d' accordo con il popolo», come dice lsidoro. ­ Quarto, rientra ne Il' essenza della legge uma­ na di essere direttiva delle azioni umane. E in base a ciò le leggi si distinguono secondo la mateiia di cui trattano, e vengono spesso de­ nominate dai loro autori: da cui le distinzioni di Legge giulia degli adulteri, Legge cornelia dei sicari, e così via; non a motivo dei loro autori, ma di ciò a cui si riferiscono. Soluzione delle difficoltà: l . n diritto delle genti in qualche modo è naturale per l 'uomo, se­ condo che è un essere razionale, in quanto de­ riva dalla legge naturale a modo di conclusione non molto lontana dai princìpi. Per cui gli uomi­ ni su tale diritto si sono trovati d'accordo. Tht­ tavia è distinto dalla legge naturale, specialmen­ te in ciò che è comune a tutti gli animali. 2-4. Le altre difficoltà sono risolte in base a quanto si è già detto.

    933

    Ilpotere della legge umana

    Q. 96, A. l

    QUAESTI0 96 DE POTESTATE LEGIS HUMANAE

    QUESTIONE 96 IL POTERE DELLA LEGGE UMANA

    Deinde considerandum est de potestate legis humanae. Et circa hoc quaeruntur sex. Primo, utrum lex humana debeat poni in communi. Secundo, utrum lex humana debeat omnia vitia cohibere. Tertio, utrum omnium virtutum actus habeat ordinare. Quarto, utrum imponat homini necessitatem quantum ad forum con­ scientiae. Quinto, utrum omnes homines legi humanae subdantur. Sexto, utrum his qui sunt sub lege, liceat agere praeter verba legis.

    Dobbiamo ora considerare il potere della leg­ ge umana. Su li' argomento si pongono sei quesiti: l . La legge umana deve porsi in ter­ mini universali? 2. Deve reprimere tutti i vizi? 3. Deve ordinare gli atti di tutte le virtù? 4. Obbliga in coscienza? 5. Tutti gli uomini sono soggetti alla legge umana? 6. E lecito, a chi vi è soggetto, agire senza conformarsi alle parole della legge?

    Articulus l Utrum lex humana debeat poni in communi magis quam in particolari

    Articolo l La legge umana deve porsi in termini universali?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod lex humana non debeat poni in communi, sed magis in particulari. l . Dicit enim philosophus, in 5 Ethic. [7,1], quod legalia sunt quaecumque in singularibus lege ponunt; et etiam sententialia, quae sunt etiam singularia, quia de singularibus actibus sententiae feruntur. Ergo lex non solum poni­ tur in communi, sed etiam in singulari. 2. Praeterea, lex est directiva humanorum actuum, ut supra [q. 90 aa. 1 -2] dictum est. Sed humani actus in singularibus consistunt. Ergo leges humanae non debent in universali ferri, sed magis in singulari. 3. Praeterea, lex est regula et mensura huma­ norurn actuum, ut supra [q. 90 aa. 1-2] dictum est. Sed mensura debet esse certissima, ut di­ citur in I O Met. [9, 1 ,9]. Cum ergo in actibus humanis non possit esse aliquod universale certum, quin in particularibus deficiat; videtur quod necesse sit leges non in universali, sed in singulmi poni. Sed contra est quod iurisperitus dicit [Dig. l t 3 11. 3-4], quod iura constitui oportet in his

    Sembra di no. Infatti: l . ll Filosofo insegna che «l'ordine legale si estende a tutti i casi particolari contemplati dalla legge e alle sentenze dei giudici», che sono anch'esse particolari, poiché riguardano atti singoli. Quindi la legge non va posta solo in termini universali, ma deve anche riferirsi ai casi particolari. 2. La legge, come si è detto, è fatta per dirige­ re gli atti umani. Ma gli atti umani sono fatti particolmi Quindi le leggi umane non vanno poste in termini universali, ma particolari. 3. La legge è regola e misura degli atti umani, come si è spiegato. Ma la misura, come dice Aristotele, deve essere certissima. Siccome dunque negli atti umani non vi può essere nulla di universalmente certo, così da non pa­ tire eccezioni nei casi particolari, sembra ne­ cessario che le leggi non abbiano una portata universale, bensì particolare. In contrario: il Digesto dice che «le leggi van­ no stabilite in rapporto a quanto avviene di frequente, e non in rapporto a quanto può ca­ pitare in un caso singolo». Risposta: tutto ciò che esiste quale mezzo ordinato a un fine deve essere proporzionato a tale fine. Ma la legge ha come fine il bene comune: poiché, come dice lsidoro, «la legge non è scritta per un'utilità privata, ma per il bene comune dei cittadini». Per cui le leggi devono essere proporzionate al bene comune. Ma il bene comune implica una molteplicità. Quindi la legge deve riferirsi a una pluralità di persone, di attività e di tempi. Infatti la comu-

    quae saepius accidunt, ex his autem quae forte uno casu accidere possunt, iura non constituuntur.

    Respondeo dicendum quod unumquodque quod est propter finem, necesse est quod sit fini proportionatum. Finis autem legis est bonum commune, quia, ut Isidorus dicit, in libro Etymol. [2, 10; 5,21], nullo privato com­

    modo, sed pro communi utilitate civium /ex debet esse conscripta. Unde oportet leges

    Q. 96, A. l

    Il potere della legge umana

    humanas esse proportionatas ad bonum com­ mune. Bonum autem commune constat ex multis. Et ideo oportet quod lex ad multa respiciat, et secundum personas, et secundum negotia, et secundum tempora. Constituitur enim communitas civitatis ex multis personis; et eius bonum per multiplices actiones procu­ ratur; nec ad hoc solum instituitur quod aliquo modico tempore duret, sed quod omni tempore perseveret per civium successionem, ut Augustinus dicit, in 22 De civ. Dei [6]. Ad primum ergo dicendum quod philosophus in 5 Ethic. [7, l] poni t tres partes iusti legalis, quod est ius positivum. Sunt enim quaedam quae simpliciter in communi ponuntur. Et haec sunt leges communes. Et quantum ad huius­ modi, dicit quod legale est quod ex principio quidem nihil differt sic vel a/iter, quando autem ponitur, dijfert, puta quod captivi statuto pretio redimantur. Quaedam vero sunt quae sunt communia quantum ad aliquid, et singularia quantum ad aliquid. Et huiusmodi dicuntur pri­ vilegia, quasi leges privatae [Gratianus, Decre­ tum P. l d. 3 can. 3], quia respiciunt singulares personas, et tamen potestas eorum extenditur ad multa negotia Et quantum ad hoc, subdit, adhuc quaecumque in si11gularibus lege po11UI1t. Dicuntur etiam quaedam legalia, non quia sint leges, sed propter applicationem le­ gum communium ad aliqua particularia facta; sicut sunt sententiae, quae pro iure habentur. Et quantum ad hoc, subdit, et sententialia. Ad secundum dicendum quod illud quod est directivum, oportet esse plurium directivum, unde in 1 0 Met. [9, 1 ,7] , philosophus dicit quod ornnia quae sunt unius generis, mensu­ rantur aliquo uno, quod est primum in genere ilio. Si enim essent tot regulae vel mensurae quot sunt mensurata vel regulata, cessaret uti­ litas regulae vel mensurae, quae est ut ex uno multa possint cognosci. Et ita nulla esset utili­ tas legis, si non se extenderet nisi ad unum singularem actum. Ad singulares enim actus dirigendos dantur singularia praecepta pru­ dentium, sed lex est praeceptum commune, ut supra [q. 92 a. 2 arg. l ] dictum est. Ad tertium dicendum quod 11011 est eadem certitudo quaerenda in omnibus, ut in l Ethic. [3, 1 ] dicitur. Unde in rebus contingentibus, sicut sunt naturalia et res humanae, sufficit talis certitudo ut aliquid sit verum ut in plu­ ribus, licet interdum deficiat in paucioribus.

    934

    nità di uno stato consta di molte persone; e il suo bene viene procurato da molti atti; e non viene istituita per durare solo un po' di tempo, ma per durare in ogni tempo mediante la suc­ cessione dei cittadini, come nota Agostino. Soluzione delle difficoltà: l . li Filosofo di­ stingue in tre parti il diritto legale, o diritto positivo. Ci sono infatti delle disposizioni che sono poste senz'altro in termini universali. E queste sono le leggi ordinarie. E in proposito egli afferma che «è legale quanto all'inizio è indifferente a essere in una maniera o nell'al­ tra, ma una volta stabilito non è [più] indiffe­ rente»: p. es. che gli schiavi siano riscattati a un dato prezzo. Ci sono invece altre disposi­ zioni che sono universali sotto un aspetto e particolari sotto un altro. E tali sono i privilegi, che suonano quasi private leggi: poiché ri­ guardano persone determinate, e tuttavia ab­ bracciano una molteplicità di affari. E ad essi accenna Aristotele scrivendo: «Ci sono anco­ ra tutte quelle cose che la legge regola nei casi singoli». Ci sono poi delle disposizioni che vengono dette legali non in quanto leggi, ma in quanto applicazioni delle leggi comuni a casi particolari: come sono le sentenze, consi­ derate quali n01me giuridiche. E quanto a ciò egli accenna alle «sentenze giudizialie». 2. Ciò che è fatto per dirigere deve regolare una molteplicità di cose: per cui il Filosofo afferma che quanto appartiene a un dato genere è misurato da quell'unica cosa che è la prima in tale genere. Se infatti ci fossero tante regole o misure quante sono le cose misurate o regolate cesserebbe l'utilità della regola o misura, che consiste proplio nel poter giudi­ care più cose con una sola. Quindi la legge non avrebbe più scopo, se si limitasse a un unico atto singolare. Infatti per dirigere gli atti singoli ci sono i precetti particolari delle per­ sone prudenti: la legge invece è «un precetto universale», come si è spiegato. 3. Secondo Aristotele «non si deve pretendere in tutte le cose la medesima certezza». Perciò nelle realtà contingenti, quali sono i fenomeni fisici e le cose umane, basta la certezza per cui una cosa è vera nella maggior parte dei casi, sebbene vi siano delle eccezioni.

    Ilpotere della legge umana

    935

    Q. 96, A. 2

    Articulus 2 Utrum ad legem humanam pertineat omnia vitia cohibere

    Articolo 2 La legge umana ha il compito di reprimere tutti i vizi?

    Ad secundum sic proceditur. Vìdetur quod ad legem humanam pertineat omnia vitia cohibere. l . Dicit enim Isidorus, in libro Etymol. [5,20], quod leges sunt factae ut earum metu coer­ ceatur audacia. Non autem sufficienter coer­ ceretur, nisi quaelibet mala cohiberentur per legem. Ergo lex humana debet quaelibet mala cohibere. 2. Praeterea, intentio legislatoris est cives fa­ cere virtuosos. Sed non potest esse aliquis vir­ tuosus, nisi ab omnibus vitiis compescatur. Ergo ad legem humanam pertinet ornni a vitia compescere. 3. Praeterea, lex humana a lege naturali deri­ vatur, ut supra [q. 95 a. 2] dictum est. Sed ornni a vitia repugnant legi naturae. Ergo lex humana omnia vitia debet cohibere. Sed contra est quod dicitur in l De lib. arb. [5] ,

    Sembra di sì. Infatti: l . lsidoro insegna che «le leggi sono fatte per reprimere l' audacia col loro timore». Ma la repressione non sarebbe sufficiente se la legge non colpisse tutto i l male. Perciò la legge umana deve reprimere ogni male. 2. Il legislatore tende a rendere virtuosi i citta­ dini. Ma uno non può essere virtuoso se non si tiene lontano da tutti i vizi. Quindi la legge umana ha il compito di reprimere tutti i vizi. 3. La legge umana deriva dalla legge naturale, come si è visto. Ma tutti i vizi sono in contra­ sto con la legge naturale. Quindi la legge deve reprimere tutti i vizi. In contrario: Agostino dice: «Mi sembra che la legge emanata per governare il popolo per­ metta a buon diritto queste cose, che la divina provvidenza penserà a punire». Ma la divina provvidenza non punisce se non i vizi. Quindi la legge fa bene a permettere dei vizi, senza reprimerli. Risposta: la legge, come si è visto, è stabilita come regola o misura degli atti umani. Ma la misura deve essere omogenea con quanto ne è misurato, come dice Aristotele: infatti cose diverse hanno misure diverse. Quindi le leggi devono essere imposte agli uomini secondo la loro condizione: poiché, secondo Isidoro, la legge deve essere «possibile, sia secondo la natura, sia secondo le consuetudini del pae­ se». Ora, la capacità di agire deriva dall'abito o dalla disposizione interiore: poiché la stessa cosa non è ugualmente possibile all' uomo virtuoso e a chi è privo di virtù; come non è ugualmente possibile al bambino e all'uomo maturo. E per questo motivo non si fissa una medesima legge per i bambini e per gli adulti: infatti ai bambini si permettono delle cose che sono punite o riprovate dalla legge negli adul­ ti. E allo stesso modo si devono permettere agli uomini imperfetti nella virtù molte cose che sarebbero intollerabili negli uomini vir­ tuosi. - Ora, la legge umana viene data per la moltitudine, di cui la maggior parte è formata di uomini non perfetti nella virtù. Quindi non sono proibiti da questa legge tutti i vizi da cui i virtuosi si astengono, ma soltanto quelli più gravi, dai quali è possibile ritrarre la moltitu-

    videtur mihi legem istam quae populo regendo scribitw; recte ista pennittere, et divinam pro­ videntiam vindicare. Sed divina providentia non vindicat nisi vitia. Ergo recte lex humana permittit aliqua vitia, non cohibendo ipsa. Respondeo dicendum quod, sicut iam [q. 90 aa. 1-2] dictum est, lex ponitur ut quaedam regula vel mensura humanorum actuum. Mensura autem debet esse homogenea men­ surato, ut dicitur in 10 Met. [9, 1 , 1 3], diversa enim diversis mensuris mensurantur. Unde oportet quod etiam leges imponantur homini­ bus secundum eorum conditionem, quia, ut Isidorus dicit [Etymol. 2, 10; 5,21], lex debet esse possibilis et secundum naturam, et secundum consuetudinem patriae. Potestas autem sive facultas operandi ex interiori habi­ tu seu dispositione procedit, non enim idem est possibile ei qui non habet habitum virtutis, et virtuoso; sicut etiam non est idem possibile puero et viro perfecto. Et propter hoc non ponitur eadem lex pueris quae ponitur adultis, multa enim pueris permittuntur quae in adul­ tis lege puniuntur, vel etiam vituperantur. Et similiter multa sunt permittenda hominibus non perfectis virtute, quae non essent toleran­ da in hominibus virtuosis. Lex autem huma­ na ponitur multitudini hominum, in qua maior pars est hominum non perfectorum virtute. Et ideo lege humana non prohibentur omnia -

    Il potere della legge umana

    Q. 96, A. 2

    vitia, a quibus virtuosi abstinent; sed solum graviora, a quibus possibile est maiorem par­ tem multitudinis abstinere; et praecipue quae sunt in nocumentum aliorum, sine quorum prohibitione societas humana conservari non posset, sicut prohibentur lege humana homi­ cidia et furta et huiusmodi. Ad primum ergo dicendum quod audacia per­ tinere videtur ad invasionem aliorum. Unde praecipue pertinet ad illa peccata quibus iniu­ ria proximis irrogatur; quae lege humana prohibentur, ut dictum est [co.]. Ad secundum dicendum quod lex humana i ntendit homines inducere ad virtutem, non subito, sed gradatim. Et ideo non statim mol­ titudini imperfectorum imponit ea quae sunt iam virtuosorum, ut scilicet ab omnibus malis abstineant. Alioquin imperfecti, huiusmodi praecepta ferre non valentes, in deteriora mala prorumperent, sicut dicitur Prov. 30 [33], qui nimis emungit, elicit sanguinem; et Matth. 9 [ 1 7] dicitur quod, si vinum novum, idest prae­ cepta perfectae vitae, mittatur in utres veteres, idest in homines imperfectos, uh·es rumpun­ tur, et vinwn effimditur, idest, praecepta con­ ternnuntur, et homines ex contemptu ad peio­ ra mala prorumpunt. Ad tertium dicendum quod lex naturalis est quaedam participatio legis aetemae in nobis, lex autem humana deficit a lege aetema. Dicit enim Augustinus, in l De lib. arb. [5], /ex ista

    quae regendis civitatibus je11ur, multa conce­ dir atque impunita relinquit, quae per divinam providentiam vindicantur. Neque enim quia non omnia facit, ideo quae facit, improbanda sunt. Unde etiam lex humana non omnia potest

    936

    dine; e specialmente quelli dannosi per gli altri, senza la cui proibizione l 'umana società non può sussistere, quali l'omicidio, il furto e simili. Soluzione delle difficoltà: l . L'audacia si pre­ senta come un'aggressione. Perciò si riferisce specialmente a quei peccati in cui si fa ingiu­ ria al prossimo: e questi sono puniti dalla legge umana, come si è notato. 2. La legge umana intende portare gli uomini alla virtù, però non di colpo, ma gradatamen­ te. Quindi non impone subito a una massa di persone imperfette cose riservate a persone già virtuose, come l 'astensione da ogni male. Altrimenti questa gente imperfetta, nell' inca­ pacità di sopportare una legge simile, cadreb­ be in mali peggiori: infatti in Pr è detto: Chi preme troppo il naso ne fa uscire il sangue; e in Mt: il vino nuovo, cioè i precetti della vita perfetta, viene messo in otri vecchi, ossia in uomini imperfetti, gli otri si rompono e il vino si versa: cioè i precetti vengono disprezzati e gli uomini di conseguenza cadono in mali peggiori. 3. La legge naturale è una partecipazione in noi della legge eterna; invece la legge umana non raggiunge la perfezione della legge eterna. Infatti Agostino afferma: «La legge emanata per governare gli stati concede e lascia impu­ nite molte cose che saranno colpite dalla divi­ na provvidenza. Ma per il fatto che è incapa­ ce di fare tutto non può essere rimproverata per ciò che fa». Perciò la legge umana non può proibire tutto ciò che proibisce la legge naturale.

    prohibere quae prohibet lex naturae. Articulus 3

    Articolo 3

    Utrum lex humana praecipiat actus omnium virtutum

    La legge umana può comandare gli atti di tutte le virtù?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod lex humana non praecipiat actus omnium virtutum. l . Actibus enim virtutum opponuntur actus vitiosi. Sed lex humana non prohibet omnia vitia, ut dictum est [a. 2] . Ergo etiam non praecipit actus omnium virtutum. 2. Praeterea, actus virtutis a virtute procedit. Sed virtus est finis legis, et ita quod est ex vir­ tute, sub praecepto legis cadere non potest.

    Sembra di no. Infatti: l . Gli atti virtuosi si contrappongono agli atti viziosi. Ma la legge umana, come si è visto sopra, non proibisce tutti i vizi. Quindi neppu­ re comanda gli atti di tutte le virtù. 2. Un atto di virtù procede dalla virtù. Ma se la virtù è il fine inteso dalla legge, non può ricadere sotto la legge quanto deriva dalla virtù. Quindi la legge umana non può coman­ dare gli atti di tutte le virtù.

    937

    Ilpotere della legge umana

    Ergo lex humana non praecipit actus omnium virtutum. 3. Praeterea, lex ordinatur ad bonum com­ mune, ut dictum est [q. 90 a. 2]. Sed quidam actus virtutum non ordinantur ad bonum commune, sed ad bonum privatum. Ergo lex non praecipit actus omnium virtutum. Sed contra est quod philosophus dicit, in 5 Ethic. [ 1 , 14], quod praecipit /ex fortis opera

    facere, et quae temperati, et quae mansueti; similiter autem secundum alias virtutes et mali­ tias, haec quidem iubens, haec autem p1vhibens. Respondeo dicendum quod species virtutum distinguuntur secundum obiecta, ut ex supra­ dictis [q. 54 a. 2; q. 60 a. l ; q. 62 a. 2] patet. Omnia autem obiecta virtutum referri possunt vel ad bonum privatum alicuius personae, vel ad bonum commune multitudinis, sicut ea quae sunt fortitudinis potest aliquis exequi vel propter conservationem civitatis, vel ad conservandum ius amici sui; et simile est in aliis. Lex autem, ut dictum est [q. 90 a. 2], ordinatur ad bonum com­ mune. Et ideo nulla virtus est de cuius actibus lex praecipere non possit. Non tamen de omnibus actibus omnium virtutum lex humana praecipit, sed salurn de illis qui sunt ordinabiles ad bonum commune, vel immediate, sicut cum aliqua directe propter bonum commune fiunt; vel mediate, sicut cum aliqua ordinantur a legis­ latore pertinentia ad bonam disciplinam, per quam cives informantur ut commune bonum iustitiae et pacis conservent. Ad primum ergo dicendum quod lex humana non prohibet omnes actus vitiosos, secundum obligationem praecepti, sicut nec praecipit omnes actus virtuosos. Prohibet tamen aliquos actus singulorum vitiorum, sicut etiam praecipit quosdam actus singularum virtutum. Ad secundum dicendum quod aliquis actus dicitur esse virtutis dupliciter. Uno modo, ex eo quod homo operatur virtuosa, sicut actus iustitiae est facere recta, et actus fortitudinis facere fortia. Et sic lex praecipit aliquos actus virtutum. Alio modo dicitur actus virtutis, quia aliquis operatur virtuosa eo modo quo virtuo­ sus operatur. Et talis actus semper procedit a virtute, nec cadit sub praecepto legis, sed est finis ad quem legislator ducere intendit. Ad tertium dicendum quod non est aliqua vir­ tus cuius actus non sint ordinabiles ad bonum commune, ut dictum est [co.], vel mediate vel immediate.

    Q. 96, A. 3

    3. La legge, come si è spiegato, è ordinata al bene comune. Ma certi atti di virtù non sono ordinati al bene comune, bensì al bene priva­ to. Perciò la legge non può comandare gli atti di tutte le virtù. In contrario: il Filosofo scrive che «la legge comanda di compiere le opere proprie del­ l ' uomo forte, temperante e mansueto; e così pure dispone rispetto alle altre virtù e ai vizi, comandando le prime e proibendo i secondi». Risposta: si è già visto che le varie specie di virtù si distinguono secondo l ' oggetto. Ma qualsiasi oggetto delle vimt si può riferire sia al bene privato di una persona che al bene comune della società: come uno può compie­ re atti di fortezza sia per difendere la patria che per difendere i diritti di un amico. Ora la legge, come si è detto, è ordinata al bene comune. Perciò non esiste una virtù di cui la legge non possa ordinare gli atti. Tuttavia la legge umana non comanda tutti gli atti di tutte le virtù, ma soltanto quelli che sono ordinabili al bene comune, sia in maniera diretta, come quelli da compiere immediatamente per i l bene comune, sia in maniera indiretta, come quando il legislatore dà delle disposizioni atte a favorire la buona educazione, che prepara i cittadini a conservare il bene comune della giustizia e della pace. Soluzione delle difficoltà: l . La legge umana non proibisce, con i suoi precetti, tutti gli atti viziosi, come non comanda tutti gli atti vir­ tuosi . Come tuttavia proibisce alcuni atti di ogni singolo vizio, così comanda alcuni atti di ogni singola virtù. 2. Un atto può essere attribuito alla virtù in due modi. Primo, in quanto è il compimento di cose virtuose: come il rispetto dei diritti altrui è un atto di giustizia, e l'attuazione di gesti coraggiosi è un atto di fortezza. E i n questo senso la legge può comandare degli atti di virtù. Secondo, un atto può dirsi di virtù perché uno lo esegue nel modo in cui lo com­ pie il virtuoso. E questo atto emana sempre dalla virtù; e non ricade sotto il precetto della legge, ma è il fine inteso dal legislatore. 3. Non esiste una virtù i cui atti non siano ordinabili al bene comune, direttamente o indirettamente, secondo le spiegazioni date.

    Il potere della legge umana

    Q. 96, A. 4

    938

    Articulus 4

    Articolo 4

    Utrum lex hurnana imponat homini necessitatem in foro conscientiae

    La legge umana obbliga in coscienza?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod lex humana non imponat homini necessitatem in foro conscientiae. l . Inferior enim potestas non potest imponere legem in iudicio superioris potestatis. Sed potestas hominis, quae fert legem humanam, est infra potestatem divinam. Ergo lex humana non potest imponere legem quantum ad iudi­ cium divinum, quod est iudicium conscientiae. 2. Praeterea, iudicium conscientiae maxime dependet ex divinis mandatis. Sed quandoque divina mandata evacuantur per leges huma­ nas; secundum illud Matth. 1 5 [6], irritum

    Sembra di no. Infatti: l . Un' autorità inferiore non può imporre una legge facendosi forte del giudizio di un'auto­ rità superiore. Ma l ' autorità dell' uomo che sancisce la legge umana è al disotto dell'auto­ rità divina. Quindi la legge umana non può imporre una legge in rapporto a un giudizio divino, qual è il giudizio della coscienza. 2. n giudizio della coscienza dipende special­ mente dai comandamenti di Dio. Ma talora le leggi umane svuotano i comandamenti di Dio, secondo l' espressione di Mt: Così avete

    fecistis mandatum Dei propter traditiones vestras. Ergo lex humana non imponit neces­ sitatem homini quantum ad conscientiam. 3. Praeterea, leges humanae frequenter inge­ runt calumniam et i n i uriam h o m in i b u s ; secundum illud Isaiae I O [ l sq.], vae qui con­

    dunt leges iniquas, et scribentes iniustitias scripserunt, ut opprimerent in iudicio paupe­ res, et vim facerent causae humilium populi mei. Sed licitum est unicuique oppressionem et violentiam evitare. Ergo leges humanae non imponunt necessitatem homini quantum ad conscientiam. Sed contra est quod dicitur l Petr. 2 [ 1 9] ,

    haec est gratia, si propter conscientiam susti­ neat quis tristitias, patiens iniuste. Respondeo dicendum quod leges positae humanitus vel sunt iustae, vel iniustae. Si qui­ dem iustae sint, habent vim obligandi in foro conscientiae a lege aetema, a qua derivantur; secundum illud Prov. 8 [ 1 5 ] , per me reges

    regnant, et legum conditores iusta decernunt. Dicuntur autem leges iustae et ex fine, quan­ do scilicet ordinantur ad bonum commune; et ex auctore, quando scilicet lex lata non exce­ dit potestatem ferentis; et ex forma, quando scilicet secundum aequalitatem proportionis imponuntur subditis onera in ordine ad bo­ num commune. Cum enim unus homo sit pars multitudinis, quilibet homo hoc ipsum quod est et quod habet, est multitudinis, sicut et quaelibet pars id quod est, est totius. Unde et natura aliquod detrimentum infert parti, ut salvet totum. Et secundum hoc, leges huiusmodi, onera proportionabiliter inferentes,

    annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Perciò la legge umana non obbliga in coscienza. 3. Spesso le leggi umane possono apportare offesa e danno alle persone, secondo le parole di /s: Guai a coloro che fanno leggi inique, a

    coloro che scrivono sentenze ingiuste, per op­ primere in giudizio i poveri e violare il diritto degli umili del mio popolo. Ora, a chiunque è lecito resistere all'oppressione e alla violenza. Quindi le leggi umane non obbligano l' uomo in coscienza. In contrario: in l Pt è detto: È una grazia su­

    bire afflizioni per motivi di coscienza, soffren­ do ingiustamente. Risposta: le leggi umane positive o sono giu­ ste o sono ingiuste. Se sono giuste ricevono la forza di obbligare in coscienza dalla legge eterna da cui derivano, secondo il detto di Pr:

    Per mezzo mio regnano i re, e i legislatori emettono leggi giuste. Ora, le leggi devono essere giuste sia in rapporto al fine, essendo ordinate al bene comune, s i a in rapporto all'autore, non eccedendo il potere di chi le emana, sia in rapporto al loro tenore, impo­ nendo ai sudditi dei pesi in ordine al bene comune secondo una proporzione di ugua­ glianza. Essendo infatti l ' uomo parte della società, tutto ciò che ciascuno possiede appar­ tiene alla società: così come una parte i n quanto tale appartiene al tutto. Per cui anche la natura sacrifica la parte per salvare il tutto. E così le leggi che ripartiscono gli oneri pro­ porzionalmente sono giuste, obbligano i n coscienza e sono leggi legittime. - Le leggi possono invece essere ingiuste in due modi. -

    Il potere della legge umana

    939

    iustae sunt, et obligant in foro conscientiae, et sunt leges legales. - Iniustae autem sunt leges dupliciter. - Uno modo, per contrarietatem ad bonum humanum, e contrario praedictis, vel ex fine, sicut cum aliquis praesidens leges imponit onerosas subditis non pertinentes ad utilitatem communem, sed magis ad propriam cupiditatem vel gloriam; vel etiam ex auctore, sicut cum aliquis legem fert ultra sibi com­ missam potestatem; vel etiam ex forma, puta cum inaequaliter onera multitudini dispen­ santur, etiam si ordinentur ad bonum commu­ ne. Et huiusmodi magis sunt violentiae quam leges, quia, sicut Augustinus dicit, in libro De lib. arb. [ 1 ,5], !ex esse non videtur, quae iusta non fuerit. Unde tales leges non obligant in foro conscientiae, nisi forte propter vitandum scandalum vel turbationem, propter quod etiam homo iuri suo debet cedere, secundum illud Matth. 5 [40-4 1 ] , qui angariaverit te

    mille passus, vade cum eo alia duo; et qui abstulerit tibi tunicam, da ei et palliwn. - Alio modo leges possunt esse iniustae per contra­ rietatem ad bonum divinum, sicut leges tyran­ norum inducentes ad idololatriam, vel ad quodcumque aliud quod sit contra legem divi­ nam. Et tales leges nullo modo licet observa­ re, quia sicut dicitur Act. 5 [ 29] obedire ,

    oportet Deo magis quam hominibus. Ad primum ergo dicendum quod, sicut apo­ stolus dicit, ad Rom. 1 3 [sq.], omnis potestas

    humana a Deo est, et ideo qui potestati resi­ sti!, i n his quae ad ordinem potestatis perti­ nent, Dei ordinationi resistit. Et secundum hoc efficitur reus quantum ad conscientiam. Ad secundum dicendum quod ratio illa proce­ dit de legibus humanis quae ordinantur contra Dei mandatum. Et ad hoc ordo potestatis non se extendit. Unde in talibus legi humanae non est parendum. Ad tertium dicendum quod ratio illa procedit de lege quae infert gravamen iniustum subdi­ tis, ad quod etiam ordo potestatis divinitus concessus non se extendit. Unde nec in talibus homo obligatur ut obediat legi, si sine scanda­ lo vel maiori detrimento resistere possit.

    Q. 96, A. 4

    Primo, perché i n contrasto col bene umano precisato nei tre elementi sopra indicati: o per il fine, come quando chi comanda impone ai sudditi delle leggi onerose non per il bene comune, ma piuttosto per la sua cupidigia e per il suo prestigio personale; oppure per l ' au­ torità, come quando uno emana una legge superiore ai propri poteri; oppure anche per il tenore, come quando si spartiscono gli oneri in maniera disuguale, anche se vengono ordi­ nati al bene comune. E tali norme sono piut­ tosto violenze che leggi: poiché, come dice Agostino, «non sembra che sia una legge quella che non è giusta». Perciò simili leggi non obbligano in coscienza; a meno che non si tratti di evitare scandali o turbamenti, nel qual caso l'uomo è tenuto a cedere il proprio diritto, come è detto in Mt: Se uno ti costrin­

    gerà a fare un miglio, tu fanne con lui due; e a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. ­ Secondo, le leggi possono essere ingiuste per­ ché contrarie al bene divino: come le leggi dei tiranni che portano all'idolatria o a qualsiasi altra cosa contraria alla legge divina. E tali leggi non vanno in alcun modo osservate, poi­ ché bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, come è detto in At. Soluzione delle difficoltà: l . Paolo in Rm dice:

    Ogni autorità umana proviene da Dio; e per­ ciò chi si oppone all 'autorità, in cose che riguardano il suo potere, si oppone ali'ordine stabilito da Dio. E in questo senso diviene colpevole in coscienza. 2. L'argomento parte dalle leggi umane che sono contrarie ai comandamenti di Dio. E a ciò non si estende il loro potere. Perciò in questi casi non si deve ubbidire alla legge umana. 3. L'argomento parte dalla legge che impone ai sudditi un onere ingiusto: e anche qui i l potere concesso da Dio non s i estende fino a questo punto. Per cui neppure in simili casi l'uomo è tenuto a ubbidire alla legge, se può disubbidire senza scandalo e senza un danno più grave.

    Articulus 5

    Articolo 5

    Utrum omnes subiiciantur legi

    Thtti sono soggetti alla legge [umana]?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod non omnes legi subiiciantur.

    Sembra di no. Infatti : l . Sono soggetti alla legge soltanto coloro per

    Q. 96, A. 5

    Il potere della legge umana

    l . Illi enim soli subiiciuntur legi, quibus lex ponitur. Sed apostolus dicit, l ad Tim. l [9], quod iusto non est /ex posita. Ergo iusti non subiiciuntur legi humanae. 2. Praeterea, Urbanus Papa dicit, et habetur in Decretis, 1 9 qu. 2 [Gratianus, Decretum P. 2 causa 1 9 q. 2 can. 2], qui lege privata ducitur,

    nulla ratio exigit ut publica constringatur. Lege autem privata Spiritus Sancti ducuntur omnes viri spirituales, qui sunt fil i i Dei ; secundum illud Rom. 8 [14], qui Spiritu Dei aguntur, hi .filii Dei sunt. Ergo non omnes homines legi humanae subiiciuntur. 3 . Praeterea, iurisperitus [Dig. l t. 3 l . 3 1 ] dicit quod princeps legibus solutus est. Qui autem est solutus a lege, non subditur legi. Ergo non omnes subiecti sunt legi. Sed contra est quod apostolus dicit, Rom. 1 3 [ 1 ] , omnis anima potestatibus sublimioribus subdita sit. Sed non videtur esse subditus potestati, qui non subiicitur legi quam fert potestas. Ergo omnes homines debent esse legi humanae subiecti. Respondeo dicendum quod, sicut ex supra­ dictis [q. 90 aa. 1-2; a. 3 ad 2] patet, lex de sui ratione duo habet, primo quidem, quod est regula humanorum actuum; secundo, quod habet vim coactivam. Dupliciter ergo aliquis homo potest esse legi subiectus. - Uno modo, sicut regulatum regulae. Et hoc modo omnes illi qui subduntur potestati, subduntur legi quam fert potestas. Quod autem aliquis pote­ stati non subdatur, potest contingere duplici­ ter. - Uno modo, quia est simpliciter absolutus ab eius subiectione. Unde illi qui sunt de una civitate vel regno, non subduntur legibus prin­ cipis alterius civitatis ve! regni, sicut nec eius dominio. - Alio modo, secundum quod regi­ tur superiori lege. Puta si aliquis subiectus sit proconsuli, regulari debet eius mandato, non tamen in his quae dispensantur ei ab impera­ tore, quantum enim ad illa, non adstringitur mandato inferioris, cum superiori mandato dirigatur. Et secundum hoc contingit quod ali­ quis simpliciter subiectus legi, secundum ali­ qua legi non adstringitur, secundum quae regitur superiori lege. - Alio vero modo dicitur aliquis subdi legi sicut coactum cogenti. Et hoc modo homines virtuosi et iusti non sub­ duntur legi, sed soli mali . Quod enim est coactum et violentum, est contrarium volun­ tati. Voluntas autem bonorum consonat legi, a

    i quali essa è fatta. Ora, Paolo in l

    940

    dice: Quindi i giusti non sono soggetti alla legge umana. 2. Il papa Urbano dichiara: «Non c ' è ragione di costringere alla legge pubblica chi è retto da una legge privata». Ma tutte le persone spi­ rituali, che sono figli di Dio, sono rette dalla legge privata dello Spirito Santo, secondo l 'espressione di Rm: Tutti quelli che sono gui­

    Tm

    La legge non è fatta per il giusto.

    dati dallo Spirito di Dio, costoro sonofigli di Dio. Quindi non tutti gli uomini sono soggetti alla legge umana. 3. Nel Digesto si dice che «il principe è esen­ te dalle leggi». Ma chi è esente dalla legge non è ad essa soggetto. Quindi non tutti sono soggetti alla legge. In contrario: Paolo in Rm ammonisce: Cia­

    scuno sia sottomesso alle autorità costituite. Ora, non può essere sottomesso ali' autorità chi non è soggetto alla legge da essa emanata. Perciò tutti gli uomini devono essere soggetti alla legge umana. Risposta: come si è visto sopra, la legge im­ plica due aspetti nella sua nozione: primo, è una regola degli atti umani; secondo, ha forza coattiva. Perciò uno può essere soggetto alla legge in due sensi. - Primo, quale individuo regolato dalla sua regola. E in questo senso sono soggetti a una legge tutti i sudditi del­ l'autorità che la emana. Ora, può capitare in due maniere che uno non sia soggetto a una data autorità. - Prima di tutto perché può essere totalmente estraneo al suo dominio. E così chi appartiene a un'altra città o a un altro regno non è soggetto alle leggi emanate dal principe di una data città o di un dato regno, come è estraneo al suo dominio. - In secondo luogo perché uno è governato da una legge superiore. Se uno, p. es., è soggetto al procon­ sole, deve stare al suo comando, non però in quelle cose in cui c'è una dispensa dell' impe­ ratore: infatti in questo caso non è tenuto al comando del subalterno, essendo governato da un comando superiore. E in questo senso può capitare che uno, pur essendo di per sé soggetto a una legge, non sia ad essa tenuto in certe cose, in quanto è guidato da una legge superiore. - Secondo, uno può essere sogget­ to alla legge come un forzato alla sua catena. E in questo senso non sono soggetti alla legge gli uomini virtuosi e giusti, ma soltanto i mal­ vagi. Infatti ciò che è forzato e violento è con-

    941

    Il potere della legge umana

    qua malorum voluntas discordat. Et ideo secundum hoc boni non sunt sub lege, sed solum mali. Ad primum ergo dicendum quod ratio illa procedit de subiectione quae est per modum coactionis. Sic enim iusto non est lex posita, quia ipsi sibi sunt lex, dum ostendunt opus legis scriptum in cordibus suis, sicut aposto­ lus, ad Rom. 2 [ 14- 1 5 ] , dicit. Unde i n eos non habet lex vim coactivam, sicut habet in iniustos. Ad secundum dicendum quod lex Spiritus Sancti est superior omni lege humanitus posi­ ta. Et ideo viri spirituale..>. Ma i precetti riguardanti la fede, la speranza e la carità non sono figurabili. Quindi non devono esserlo neppure i precetti cerimoniali. 4. TI Signore in Gv ha detto: Dio è Spirito, e

    Spiritus est Deus, et eos qui adorant eum, in spiritu et veritate adorare oportet. Sed figura

    sa: anzi, le due cose si contrappongono. Perciò i precetti cerimoniali, che riguardano il culto di Dio, non devono essere figurali. In contrario: Paolo in Col dice: Nessuno vi

    non est ipsa veritas, immo contra se invicem dividuntur. Ergo caeremonialia, quae perti­ nent ad cultum Dei, non debent esse figuralia. Sed contra est quod apostolus dicit, ad Col. 2 [ 1 6], nemo vos iudicet in cibo aut in potu, aut

    in parte diei festi aut Neomeniae aut sabbato­ rum, quae sunt umbra futurorum. Respondeo dicendum quod, sicut iam [a. l ; q. 99 aa. 3-4] dictum est, praecepta caeremo­ nialia dicuntur quae ordinantur ad cultum Dei. Est autem duplex cultus Dei, interior, et exte­ rior. Cum enim homo sit compositus ex anima et corpore, utrumque debet applicari ad colen­ dum Deum, ut scilicet anima colat interiori cultu, et corpus exteriori, unde dicitur in Psalmo 83 [3], cor meum et caro mea exulta­ venmt in Deum vivum. Et sicut corpus ordina­ tur in Deum per animam, ita cultus exterior or­ dinatur ad interiorem cultum. Consistit autem interior cultus in hoc quod anima coniungatur Deo per intellectum et affectum. Et ideo se­ cundum quod diversimode intellectus et affec­ tus colentis Deum Deo recte coniungitur, secundum hoc diversimode exteriores actus hominis ad cultum Dei applicantur. - In statu enim futurae beatitudinis, intellectus humanus ipsam divinam veritatem in seipsa intuebitur. Et ideo exterior cultus non consistet in aliqua figura, sed solum in laude Dei, quae procedit ex interiori cognitione et affectione; secundum illud Isaiae 5 1 [3], gaudium et laetitia inveni­ etur in ea, gratiarum actio et vox laudis. - In statu autem praesentis vitae, non possumus divinam veritatem in seipsa intueri, sed oportet

    quelli che lo adorano devono adorarlo in spi­ rito e verità. Ma la figura non è la verità stes­

    condanni più in fatto di cibo e di bevanda, o riguardo a feste, a noviluni e a sabati: tutte cose queste che sono ombra dellefuture. Risposta: si è già detto che sono cerimoniali i precetti ordinati al culto di Dio. Ora, il culto di Dio è di due specie: interno ed esterno. Essendo infatti l' uomo composto di anima e di corpo, sia l ' uno che l' altro componente deve essere applicato al culto di Dio: l'anima per onorario con il culto interno e il corpo per onorario con il culto esterno. Per cui nel Sal è detto: Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente. E come il corpo è ordinato a Dio mediante l'anima, così il culto esterno è ordi­ nato a quello interno. Ora, il culto interno consiste nell'unione intellettiva e affettiva del­ l ' anima con Dio. Perciò gli atti esterni del culto hanno applicazioni diverse secondo i diversi gradi di unione intellettiva e affettiva dei fedeli con Dio. - Infatti nello stato della beatitudine futura l'intelletto umano vedrà la stessa verità divina nella sua essenza. Quindi allora il culto esterno non consisterà in qual­ che figura, ma solo nella lode di Dio che sgorga dalla conoscenza e dali' affetto interio­ re, secondo le parole di /s: Giubilo e gioia sa­

    ranno in essa, ringraziamenti e inni di lode. ­ Invece nello stato della vita presente non sia­ mo in grado di vedere la verità divina in se stessa, ma è necessario che ci giunga un rag­ gio di essa sotto qualche figura sensibile, come insegna Dionigi: però in maniera diver-

    1 007

    Iprecetti cerimoniali in se stessi

    quod radius divinae veritatis nobis illucescat sub aliquibus sensibilibus figuris, sicut Diony­ sius dicit, l cap. Cael. Hier. , diversimode tamen, secundum diversum statum cognitionis humanae. In veteri enim lege neque ipsa divi­ na veritas i n seipsa manifesta erat, neque etiam adhuc propalata erat via ad hoc perve­ niendi, sicut apostolus dicit, ad Heb. 9 [8]. Et ideo oportebat exteriorem cultum veteris legis non salurn esse tigurativum futurae vetitatis manifestandae in patria; sed etiam esse figura­ tivum Chtisti, qui est via ducens ad illam pa­ triae vetitatem. Sed in statu novae legis, haec via iam est revelata. Unde hanc praefigurati non oportet sicut futuram, sed commemorati oportet per modum praetetiti vel praesentis, sed salurn oportet praefigurari futuram verita­ tem gloriae nondum revelatam. Et hoc est quod apostolus dicit, ad Heb. 10 [ 1 ] , umhram

    hahet lexfuturorum honorum, non ipsam ima­ ginem rerum, umbra enim minus est quam imago; tanquam imago pertineat ad novam legem, umbra vero ad veterem. Ad primum ergo dicendum quod divina non sunt revelanda hominibus nisi secundum eorum capacitatem, alioquin daretur eis praecipitii ma­ teria, dum contemnerent quae capere non pos­ sent. Et ideo utilius fuit ut sub quodam figura­ rum velamine divina mysteria rudi populo trade­ rentur, ut sic saltem ea implicite cognoscerent, dum illis figuris deservirent ad honorem Dei. Ad secundum dicendum quod, sicut poetica non capiuntur a ratione humana propter defectum veritatis qui est in eis, ita etiam ratio humana p erfecte capere non potest divina propter excedentem ipsorum veritatem. Et ideo utro­ bique opus est repraesentatione per sensibiles figuras. Ad tertium dicendum quod Augustinus ibi loquitur de cultu interiore; ad quem tamen ordinati oportet exteriorem cultum, ut dictum est [co.] . Et similiter dicendum est ad quartum, quia per Chtistum homines plenius ad spiritualem Dei cultum sunt introducti.

    Q. 1 0 1 , A. 2

    sa secondo i vari stati della conoscenza umana. Infatti nell' antica legge né la verità divina si era manifestata in se stessa, né era stata ancora aperta la via per giungervi, come è detto in Eh. Perciò era necessario che il culto dell'antica legge non si limitasse a figu­ rare la verità che in futuro doveva essere ma­ nifestata nella patria, ma che figurasse anche Cristo, il quale è la via che conduce alla verità della patria. Invece nello stato della legge nuova questa via è ormai rivelata. Per cui non è necessario prefigurarla come futura, ma solo rammentarla come cosa passata o pre­ sente; si deve invece prefigurare la verità futu­ ra della gloria, che ancora non è svelata. Per questo in Eh è detto: La legge ha solo un 'om­

    bra dei beni futuri, e non l'immagine stessa delle cose: infatti l'ombra è meno dell'imma­ gine; come per dire che l'immagine si riferi­ sce alla legge nuova, l'ombra invece a quella antica. Soluzione delle difficoltà: l . Le realtà divine vanno rivelate agli uomini secondo la loro capacità: altrimenti si offrirebbe soltanto un motivo di inciampo, poiché essi disprezzereb­ bero ciò che non potrebbero capire. Era quin­ di più utile che i divini misteri venissero inse­ gnati al popolo sotto il velo delle figure, in modo che venissero conosciuti almeno impli­ citamente, e si prestasse così onore a Dio mediante tali figure. 2. Come le espressioni poetiche non sono capite dalla ragione umana per la mancanza di verità che in esse si trova, così la ragione umana non può capire perfettamente neppure le realtà divine per l'eccesso della loro verità. Quindi in entrambi i casi si deve ricorrere alle figure sensibili. 3. In quel testo Agostino parla del culto inter­ no; al quale però, come si è spiegato, va subordinato il culto esterno. 4. Lo stesso si dica per la quarta difficoltà: poiché con Cristo gli uomini furono iniziati pienamente al culto spirituale di Dio.

    Articulus 3 Utrum debuerint esse multa caeremonialia praecepta

    Articolo 3 I precetti cerimoniali dovevano essere molti?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod non debuerint esse multa caeremonialia praecepta.

    Sembra di no. Infatti: l. I mezzi devono essere proporzionati al fine.

    Q. 1 0 1 , A. 3

    I precetti cerimoniali in se stessi

    l . Ea enim quae sunt ad finem, debent esse fini proportionata. Sed caeremonialia prae­ cepta, sicut dictum est [aa. 1-2], ordinantur ad cultum Dei et in figuram Christi. Est autem

    unus Deus, a quo omnia; et unus Dominus Jesus Christus, per quem omnia, ut dicitur l ad Cor. 8 [ 6]. Ergo caeremonialia non debue­ runt multiplicari. 2. Praeterea, multitudo caeremonialium prae­ ceptorum transgressionis erat occasio; secun­ dum illud quod dicit Petrus, Act. 1 5 [ 1 0], quid

    tentatis Deum, imponere iugum super cervi­ cem discipulorum, quod neque nos, neque patres nostri, pm1are potuimus? Sed transgres­ sio divinorum praeceptorum contrariatur humanae saluti. Cum igin1r lex omnis debeat saluti congruere hominum, ut Isidorus dicit [Etymol. 2, l O; 5,3], videtur quod non debue­ rint multa praecepta caeremonialia dari. 3. Praeterea, praecepta caeremonialia pertine­ bant ad cultum Dei exteriorem et corporalem, ut dictum est [a. 2]. Sed huiusmodi cultum corporalem lex debebat diminuere, quia ordi­ nabat ad Christum, qui docuit homines Deum colere in spiritu et veritate, ut habetur Ioan. 4 [23]. Non ergo debuerunt multa praecepta caeremonialia dari. Sed contra est quod dicitur Osee 8 [12], scribam eis multiplices leges intus; et Iob 1 1 [6], ut

    ostenderet tibi secreta sapientiae, quod multi­ p/ex sit lex eius. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 96 a. l ] dictum est, omnis lex ali cui populo datur. In populo autem duo genera hominum continentur, quidam proni ad malum, qui sunt per praecepta legis coercendi, ut supra [q. 95 a. l ] dictum est; quidam habentes inclinatio­ nem ad bonum, vel ex natura vel ex consuetu­ dine, vel magis ex gratia; et tales sunt per legis praeceptum instruendi et in melius pro­ movendi. Quantum igitur ad utrumque genus hominum, expediebat praecepta caeremonia­ lia in veteri lege multiplicari. - Erant enim in illo populo aliqui ad idololatriam proni, et ideo necesse erat ut ab idololatriae cultu per praecepta caeremonialia revocarentur ad cul­ tum Dei. Et quia multipliciter homines idolo­ latriae deserviebant, oportebat e contrario multa institui ad singula reprimenda, et ite­ rum multa talibus imponi, ut, quasi oneratis ex his quae ad cultum Dei impenderent, non vacaret idololatriae deservire. - Ex parte vero

    1 008

    Ma i precetti cerimoniali, come si è detto, sono mezzi ordinati al culto di Dio e a raffigu­ rare Cristo. Ora, Uno è Dio da cui tutto pro­

    viene; e uno è il Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose, come è detto in l Cor. Quindi i precetti cerimoniali non dovevano essere molteplici. 2. La molteplicità dei precetti cerimoniali era occasione di trasgressioni, come dice Pietro in

    At: Perché continuate a tentare Dio, imponen­ do sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di por­ tare ? Ma la trasgressione dei divini precetti si oppone alla salvezza umana. Siccome dunque qualsiasi legge deve giovare al bene degli uomini, come insegna Isidoro, sembra che non si dovessero dare molti precetti cerimoniali. 3. I precetti cerimoniali appartenevano al culto esterno e materiale di Dio, come si è spiegato. Ma la legge doveva ridurre tale culto: poiché doveva ordinare a Cristo, che insegnò agli uomini ad adorare Dio in spirito e verità, come si ha in Gv. Quindi non si dovevano dare numerosi precetti cerimoniali. In contrario: in Os è detto: Scriverò in loro molteplici leggi; e in Gb: Per manifestarti i

    segreti della sapienza, e come sia molteplice la sua legge. Risposta: come si è detto sopra, tutte le leggi sono date al popolo. Ma nel popolo ci sono due categorie di uomini: alcuni sono portati al male, e la legge ha il compito di tenerli a freno, come si è visto; altri sono invece inclini al bene, o per natura o per abitudine, o più ancora per grazia: ed essi dal precetto della legge devono essere istruiti e indirizzati a una bontà superiore. Ora, per entrambe le categorie era giusto che nell'antica legge i precetti cerimo­ niali fossero molteplici. - Infatti nel popolo ebreo alcuni erano inclini ali' idolatria: era quindi necessario distoglierli da essa e richia­ marli al culto di Dio con i precetti cerimoniali. E poiché gli uomini si davano all'idolatria in molte maniere, era necessario istituire molte pratiche contrarie per reprimerla e imporre a costoro molti precetti, in modo che, gravati dalle pratiche del culto di Dio, non avessero tempo per attendere a quelle dell'idolatria. - E anche per quelli che erano disposti al bene era necessaria la molteplicità dei precetti cerimo­ niali. Sia perché la loro mente veniva riportata a Dio in maniere molteplici e con più assi-

    1 009

    I precetti cerimoniali in se stessi

    eorum qui erant prompti ad bonum, etiam necessaria fuit multiplicatio caeremonialium praeceptorum. Tum quia per hoc diversimode mens eorum referebatur in Deum, et magis assidue. Tum etiam quia mysterium Christi, quod per huiusmodi caeremonialia figuraba­ tur, multiplices utilitates attulit mundo, et multa circa ipsum consideranda erant, quae oportuit per diversa caeremonialia figurari. Ad primum ergo dicendum quod, quando id quod ordinatur ad finem, est sufficiens ad du­ cendum in finem, tunc sufficit unum ad unum finem, sicut una medicina, si sit efficax, sufficit quandoque ad sanitatem inducendam, et tunc non oportet multiplicari medicinam. Sed prop­ ter debilitatem et imperfectionem eius quod est ad finem, oportet eam multiplicari, sicut multa remedia adhibentur infinno, quando unum non sufficit ad sanandum. Caeremoniae autem veteris legis invalidae et imperfectae erant et ad repraesentandum Christi mysterium, quod est superexcellens; et ad subiugandum mentes hominum Deo. Unde apostolus dicit, ad Heb. 7 [ 1 8] , reprobatio fit praecedentis mandati,

    propter infinnitatem et inutilitatem, nihil enim ad peifectum adduxit lex. Et ideo oportuit huiusmodi caeremonias multiplicari. Ad secundum dicendum quod sapientis legis­ latoris est minores transgressiones pennittere, ut maiores caveantur. Et ideo, ut caveretur transgressio idololatriae, et superbiae quae in Iudaeorum cordibus nasceretur si ornni a prae­ cepta legis implerent, non propter hoc praeter­ misit Deus multa caeremonialia praecepta tradere, quia de facili sumebant ex hoc trans­ grediendi occasionem. Ad tertium dicendum quod vetus lex in multis diminuit corporalem cultum. Propter quod statuit quod non in omni loco sacrificia offer­ rentur, neque a quibuslibet. Et multa huius­ modi statuit ad dirninutionem exterioris cul­ tus; sicut etiam Rabbi Moyses Aegyptius dicit [Perplex. 3,32] . Oportebat tamen non ita attenuare corporalem cultum Dei, ut homines ad cultum daemonum declinarent. Articulus 4 Utrum caeremoniae veteris legis convenienter dividantur in sacrificia, sacramenta, sacra et observantias Ad quartum sic proceditur. Videtur quod caere-

    Q. 1 0 1 , A. 3

    duità; sia anche perché il mistero di Cristo, prefigurato da queste cerimonie, doveva porta­ re al mondo molteplici vantaggi, e su di lui molte erano le cose da considerare, e quindi da prefigurare con cerimonie molteplici. Soluzione delle difficoltà: l . Quando il mezzo è adeguato al raggiungimento del fine, ne basta uno per ogni fine: se una medicina sola, p. es., è sufficiente a dare la guarigione, non è necessario moltiplicare le medicine. Invece l'inefficacia e l'imperfezione dei mezzi ne impone la pluralità: come si somministrano molteplici rimedi all' infermo quando uno solo non basta a guarirlo. Ora, le cerimonie dell'antica legge erano inadeguate sia a rap­ presentare il sovraeminente mistero di Cristo, sia a sottomettere le menti umane a Dio. Per cui in Eh è detto: Si ha l'abrogazione di un

    ordinamento precedente a causa della sua debolezza e inutilità: la legge infatti non ha portato nulla alla pe1jezione. Era quindi neçessaria la molteplicità di tali cerimonie. 2. E proprio di un legislatore sapiente permet­ tere trasgressioni più piccole per evitarne di più grandi. E così per prevenire l ' idolatria, nonché la superbia che sarebbe nata nel cuore degli ebrei se questi avessero adempiuto tutti i precetti della legge, Dio non omise di istituire molteplici precetti cerimoniali, nonostante la facilità con la quale li avrebbero trasgrediti. 3. La legge antica ridusse sotto molti aspetti il culto materiale. Infatti stabilì che si offrissero sacrifici non in ogni luogo, e non da tutti, e al­ tre cose ancora, per diminuire il culto esterno; come notò anche l'egiziano Mosè Maimonide. Tuttavia non era opportuno ridurre il culto esterno al punto di far sì che gli uomini si vol­ gessero al culto dei demoni.

    Articolo 4 Le cerimonie dell'antica legge sono ben divise in sacrifici, cose sacre, sacramenti e osservanze? Sembra di no. Infatti:

    Q. 1 0 1 , A. 4

    I precetti cerimoniali in se stessi

    moniae veteris legis inconvenienter dividantur in sacrificia, sacra, sacramenta et observantias. l . Caeremoniae enim veteris legis figurabant Christum. Sed hoc solum fiebat per sacrificia, per quae figurabatur sacrificium quo Christus se obtulit oblationem et hostiam Deo, ut dici­ tur ad Eph. 5 [2] . Ergo sola sacrificia erant caeremonialia. 2. Praeterea, vetus lex ordinabatur ad novam. Sed in nova lege ipsum sacrificium est sacra­ mentum altaris. Ergo in veteri lege non debue­ runt distingui sacramenta contra sacrificia. 3. Praeterea, sacrum dicitur quod est Deo dicatum, secundum quem modum tabemacu­ lum et vasa eius sacrificari dicebantur. Sed omnia caeremonialia erant ordinata ad cultum Dei, ut dictum est [a. 1 ] . Ergo caeremonialia omnia sacra erant. Non ergo una pars caere­ monialium debet sacra nominari. 4 . Praeterea, observantiae ab observando dicuntur. Sed omnia praecepta legis observari debebant, dicitur enim Deut. 8 [ 1 1 ] , observa

    et cave ne quando obliviscaris Domini Dei tui, et negligas mandata eius atque iudicia et caeremonias. Non ergo observantiae debent poni una pars caeremonialium. 5. Praeterea, solemnitates inter caeremonialia computantur, cum sint in umbram futuri, ut patet ad Col. 2 [ 1 6]. Similiter etiam oblatio­ nes et munera; ut patet per apostolum, ad Heb. 9 [9]. Quae tamen sub nullo horum con­ tineri videntur. Ergo inconveniens est praedic­ ta distinctio caeremonialium. Sed contra est quod in veteri lege singula praedicta caeremoniae vocantur. Sacrificia enim dicuntur caeremoniae Num. 1 5 [24],

    offerat vitulum et sacrificia eius ac libamenta, ut caeremoniae eius postulant. De sacramen­ to etiam ordinis dicitur Lev. 7 [35], haec est unctio Aaron et filiorum eius in caeremoniis. De sacris etiam dicitur Ex. 38 [2 1 ] , haec sunt instrumenta tabernaculi testimonii in caere­ moniis Levitanun. De observantiis etiam dicitur 3 Reg. 9 [6], si aversi jùeritis, non sequentes me, nec observantes caeremonias quas pro­ posui vobis. Respondeo dicendum quod, sicut supra [aa. 1-2] dictum est, caeremonialia praecepta ordinan­ tur ad cultum Dei. In quo quidem cultu consi­ derari possunt et ipse cultus, et colentes, et instrumenta colendi. Ipse autem cultus specia­ liter consistit in sacrificiis, quae in Dei reve-

    IO I O

    l . Le cerimonie dell'antica legge prefigurava­ no Cristo. Ma per questo bastavano i sacrifici, che prefiguravano il sacrificio con cui Cristo offrì se stesso in offerta e vittima, come è detto in Ef Perciò soltanto i sacrifici erano cerimoniali. 2. La legge antica era ordinata a quella nuova. Ma neiia nuova legge il sacrificio dell'altare è anche sacramento. Perciò nell' antica legge i sacramenti non dovevano essere contraddi­ stinti dai sacrifici. 3. Si dice sacro quanto è dedicato a Dio: per cui si parlava di consacrazione a Dio del tabernacolo e dei vasi relativi. Ora, tutto ciò che era di ordine cerimoniale era ordinato al culto di Dio, come si è visto. Quindi tutto era sacro. Perciò non bisogna denominare sacra solo una parte delle realtà cerimoniali. 4. Le osservanze vengono da osservare. Ora, dovevano essere osservati tutti i precetti della legge, infatti in Dt è detto: Guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio, così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue cerimonie. Quindi le osservanze non de­

    vono essere inserite fra le cerimonie. 5. Tra le cerimonie rientrano anche le feste: poiché esse erano ombra del futuro, come è chiaro da Col. E lo stesso vale per le ablazioni e per le offerte, come è chiaro da Eb. Ora, queste cose non sembra che rientrino in nes­ suna delle quattro indicate. Perciò questa divi­ sione delle cerimonie non è adeguata. In contrario: nell' antica legge le singole cose ricordate sono chiamate cerimonie. Così infatti per i sacrifici è detto in Nm: Offrirà un gioven­

    co con la sua oh/azione e la sua libazione, co­ me le cerimonie prescrivono. E anche per il sa­ cramento dell' ordine in Lv è detto: Questa è l'unzione di Aronne e dei suoi figli nelle ceri­ monie. E circa le cose sacre in Es è detto: Questi sono gli strumenti del tabemacolo della testimonianza nelle cerimonie dei !eviti. E a proposito delle osservanze in l Re è detto: Se vi allontanerete da me e non seguirete me, non ossen,ando le cerimonie che vi ho imposto. Risposta: come si è già detto, i precetti ceri­ moniali sono ordinati al culto di Dio, nel quale si possono considerare: il culto stesso, gli adoratori e gli strumenti del culto. Ora, il culto consiste specialmente nei sacrifici, offerti in omaggio a Dio. Gli strumenti del cul­ to erano invece le cose sacre: il tabernacolo,

    101 1

    I precetti cerimoniali in se stessi

    rentiam offeruntur. Instrumenta autem colendi pertinent ad sacra, sicut est tabemaculum, et vasa, et alia huiusmodi. Ex parte autem colen­ tium duo possunt considerari. Scilicet et eorum institutio ad cultum divinum, quod fit per quandam consecrationem vel populi, vel ministrorum, et ad hoc pertinent sacramenta. Et iterum eorum singularis conversatio, per quam distinguuntur ab his qui Deum non co­ lunt, et ad hoc pertinent observantiae, puta in cibis et vestimentis et aliis huiusmodi. Ad primum ergo dicendum quod sacriticia oportebat offeni et in aliquibus locis, et per aliquos homines, et totum hoc ad cultum Dei pertinet. Unde sicut per sacrificia significatur Christus immolatus, ita etiam per sacramenta et sacra i llorum figurabantur sacramenta et sacra novae legis; et per eorum observantias figurabatur conversatio populi novae legis. Quae omnia ad Christum pertinent. Ad secundum dicendum quod sacriticium novae legis, idest Eucharistia, continet ipsum Christum, qui est sanctificationis auctor, sanc­ tificavit enim per suum sanguinem populum, ut dicitur ad Heb. ult. [ 1 2]. Et ideo hoc sacrifi­ cium etiam est sacramentum. Sed sacrificia veteris legis non continebant Chtistum, sed ipsum figurabant, et ideo non dicuntur sacra­ menta. Sed ad hoc designandum seorsum erant quaedam sacramenta in veteri lege, quae erant figurae futurae consecrationis. Quamvis etiam quibusdam consecrationibus quaedam sacrificia adiungerentur. Ad tertium dicendum quod etiam sacrificia et sacramenta erant sacra. Sed quaedam erant quae erant sacra, utpote ad cultum Dei dicata, nec tamen erant sacrificia nec sacramenta, et ideo retinebant sibi commune nomen sacrorum. Ad quartum dicendum quod ea quae pertine­ bant ad conversationem populi colentis Deum, retinebant sibi commune nomen observantia­ rum, inquantum a praemissis deficiebant. Non enim dicebantur sacra, quia non habebant immediatum respectum ad cultum Dei, sicut tabemaculum et vasa eius. Sed per quandam consequentiam erant caeremonialia, inquan­ tum pertinebant ad quandam idoneitatem populi colentis Deum. Ad quintum dicendum quod, sicut sacrificia offerebantur in determinato loco ita etiam offerebantur in determinatis temporibus, unde etiam solemnitates inter sacra computari vi-

    Q. 1 0 1 , A. 4

    gli arredi e altro del genere. Riguardo agli adoratori poi si possono considerare due cose, cioè la loro iniziazione al culto divino, che avviene mediante una certa consacrazione, sia del popolo che dei ministri: e allora abbiamo i sacramenti. Oppure il loro particolare modo di vivere, che li distingue da quelli che non adorano Dio: e allora abbiamo le osservanze, p. es. a proposito dei cibi, delle vesti e di altre simili cose. Soluzione delle difficoltà: l . I sacrifici dove­ vano essere offerti in determinati luoghi, e mediante uomini determinati: e tutto ciò rien­ trava nel culto di Dio. Come quindi i sacrifici prefiguravano il Cristo immolato, così i sacra­ menti e le cose sacre prefiguravano i sacra­ menti e le cose sacre della nuova legge; e le osservanze di quei tempi prefiguravano il genere di vita proprio della nuova legge. Tutte cose che si riferiscono a Cristo. 2. D sacrificio della nuova legge, cioè l'Eucari­ stia, contiene Cristo medesimo, che è l'artefice della santificazione: Egli santificò il popolo con il proprio sangue, come è detto in Eh. E così questo sacrificio è anche un sacramen­ to. Invece i sacrifici dell'antica legge non con­ tenevano Cristo, ma lo prefiguravano: per cui non sono chiamati sacramenti. Per indicare tuttavia questo aspetto vi erano nell' antica legge alcuni sacramenti, figure della futura consacrazione. Sebbene a certe consacrazioni fossero annessi anche dei sacrifici. 3. I sacrifici e i sacramenti erano certamente delle cose sacre. Vi erano tuttavia delle cose sacre, in quanto dedicate al culto di Dio, che tuttavia non erano né sacrifici, né sacramenti: esse perciò ritenevano il nome generico di cose sacre. 4. Quanto riguardava la vita del popolo di Dio, essendo al disotto degli elementi prece­ denti, conservava il nome generico di osser­ vanze. Infatti tali usi non potevano dirsi cose sacre, poiché non avevano un rapporto imme­ diato col culto di Dio, come invece avevano il tabernacolo e i suoi arredi. Erano però ceri­ moniali in quanto servivano a preparare il popolo al culto di Dio. 5. I sacrifici, come erano offerti in determinati luoghi, così venivano offerti in determinati tempi: perciò anche le feste vanno computate fra le cose sacre. Le ablazioni e le offerte, invece, vanno computate fra i sacrifici, poiché

    Q. 1 0 1 , A. 4

    1012

    I precetti cerimoniali in se stessi

    dentur. Oblationes autem et munera compu­ tantur cum sacrificiis, quia Deo offerebantur, unde apostolus dicit, ad Heb. 5 [ l ], omnis pon­

    tifex ex hominibus assumptus, pro hominibus constituitur in his quae sunt ad Deum, ut offerat dona et sacrificia.

    Eb è detto: Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici. erano presentate a Dio; perciò i n

    QUAESTIO 1 02 DE CAEREMONIALIUM PRAECEPTORUM CAUSIS

    1 02 LE CAUSE DEI PRECETTI CERIMONIALI

    Deinde considerandum est de causis caere­ monialium praeceptorum. Et circa hoc quae­ runtur sex. Primo, utrum praecepta caeremo­ nialia habeant causam. Secundo, utrum ha­ beant causam litteralem, vel solum figuralem. Tertio, de causis sacrificiorum. Quarto, de causis sacramentorum. Quinto, de causis sa­ crorum. Sexto, de causis observantiarum.

    Passiamo ora a considerare le cause o motiva­ zioni dei precetti cerimoniali. Su questo tema tratteremo sei argomenti: l . I precetti cerimo­ niali hanno una causa o ragion d' essere? 2. Hanno una causa del loro senso letterale, o solo di quello figurale? 3. Le cause dei sacrifici; 4. Le cause dei sacramenti; 5. Le cause delle cose sacre; 6. Le cause delle osservanze.

    QUESTIONE

    Articulus l

    Articolo

    l

    I precetti cerimoniali hanno una causa o ragion d'essere?

    Utrum caeremonialia praecepta habeant causam Ad primum sic proceditur. Videtur quod caere­ monialia praecepta non habeant causam. l . Quia super illud Eph. 2 [ 1 5] , legem mandato­ rum decretis evacuans, dicit Glossa [glos. int. et Lomb.] , idest, evacuans legem veterem quan­

    tum ad camales observantias, decretis, idest praeceptis evangelicis, quae ex ratione sunt. Sed si observantiae veteris legis ex ratione erant, frustra evacuarentur per rationabilia decreta novae legis. Non ergo caeremoniales observan­ tiae veteris legis habebant aliquam rationem. 2. Praeterca, vetus lex successit legi naturae. Sed in lege naturae fuit aliquod praeceptum quod nullam rationem habebat nisi ut hominis obedientia probaretur; sicut Augustinus dicit, 8 Super Gen. [6. 1 3], de prohibitione ligni vi­ tae. Ergo etiam in veteri lege aliqua praecepta danda erant in quibus hominis obedientia pro­ baretur, quae de se nullam rationem haberent. 3. Praeterea, opera hominis dicuntur moralia secundum quod sunt a ratione. Si igitur caere­ monialium praeceptomm sit aliqua ratio, non different a moralibus praeceptis. Videtur ergo quod caeremonialia praecepta non habeant aliquam causam, ratio enim praecepti ex ali­ qua causa sumitur. Sed contra est quod dicitur in Psalmo 1 8 [9] ,

    praeceptum Domini lucidum, illuminans oculos.

    Sembra di no. Infatti: l . Spiegando le parole di

    Ef Annullando la legge fatta di prescrizioni, la Glossa com­

    menta: «Cioè annullando la legge antica, quanto alle osservanze materiali ... con i de­ creti, vale a dire con i precetti evangelici, fon­ dati sulla ragione». Ora, se le osservanze del­ l' antica legge fossero state fondate sulla ra­ gione, inutilmente sarebbero state annullate dai decreti della nuova legge. Quindi le osser­ vanze cerimoniali dell'antica legge non ave­ vano alcuna giustificazione razionale. 2. La legge antica seguì la legge di natura. Ma in quest'ultima c' erano dei precetti che non avevano altra ragione che quella di mettere alla prova l'obbedienza dell'uomo, come Agostino afferma a proposito della proibizione relativa all' albero della vita. Perciò nella legge antica, per mettere alla prova l'obbedienza dell'uomo, non dovevano mancare dei precetti i quali non avessero in sé alcuna giustificazione. 3. Le azioni umane si dicono morali in quanto derivano dalla ragione. Se quindi i precetti ceri­ moniali avessero una ragione, non si distingue­ rebbero da quelli morali. Quindi i precetti ce­ rimoniali non hanno una causa: infatti la ragio­ ne di un precetto viene desunta dalla sua causa. In contrario: nel Sal è detto: Il comando del

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    Sed caeremonialia sunt praecepta Dei. Ergo sunt lucida. Quod non esset nisi haberent rationabilem causam. Ergo praecepta caere­ monialia habent rationabilem causam. Respondeo dicendum quod, cum sapientis sit ordinare, secundum philosophum, in l Met. [2,3], ea quae ex divina sapientia procedunt, oportet esse ordinata, ut apostolus dicit, ad Rom. 13 [ l ] . Ad hoc autem quod aliqua sint ordinata, duo requiruntur. Primo quidem, quod aliqua ordinentur ad debitum finem, qui est principium totius ordinis in rebus agendis, ea enim quae casu eveniunt praeter intentio­ nem finis, vel quae non serio fi.unt sed ludo, dicimus esse inordinata. Secundo oportet quod id quod est ad finem, sit proportionatum fini. Et ex hoc sequitur quod ratio eorum quae sunt ad fi nem, sumitur ex fine, sicut ratio dispositionis serrae surnitur ex sectione, quae est finis eius, ut dicitur i n 2 Phys. [9,2.6] . Manifestum est autem quod praecepta caere­ monialia, sicut et omnia alia praecepta legis, sunt ex divina sapientia instituta, unde dicitur Deut. 4 [6], haec est sapientia vestra et intel­ lectus coram populis. Unde necesse est dicere quod praecepta caeremonialia sint ordinata ad aliquem finem, ex quo eorum rationabiles causae assignari possunt. Ad primum ergo dicendum quod observantiae veteris legis possunt dici sine ratione quantum ad hoc, quod ipsa facta in sui natura rationem non habebant, puta quod vestis non conficere­ tur ex lana et lino. Poterant tamen habere rationem ex ordine ad aliud, inquantum scili­ cet vel aliquid per hoc figurabatur, vel aliquid excludebatur. Sed decreta novae legis, quae praecipue consistunt in fide et dilectione Dei, ex ipsa natura actus rationabilia sunt. Ad secundum dicendum quod prohibitio ligni scientiae boni et mali non fuit propter hoc quod illud lignum esset naturaliter malum, sed tamen ipsa prohibitio habuit aliquam ra­ tionem ex ordine ad aliud, inquantum scilicet per hoc aliquid figurabatur. Et sic etiam caere­ monialia praecepta veteris legis habent ra­ tionem in ordine ad aliud. Ad tertium dicendum quod praecepta moralia secundum suam naturam habent rationabiles causas, sicut, non occides, non .furtum facies. Sed praecepta caeremonialia habent ratio­ nabiles causas ex ordine ad aliud, ut dictum est [co.].

    Q. 1 02, A. l

    Signore è limpido, dà luce agli occhi.

    Ma i precetti cerimoniali sono da Dio. Quindi sono limpidi. n che non sarebbe se non avessero una causa ragionevole. Quindi i precetti ceri­ moniali hanno una causa ragionevole. Risposta: come nota il Filosofo, «ordinare è proprio del sapiente»: perciò quanto procede dalla sapienza divina è ordinato, secondo le parole di Rm. Ora, perché una cosa sia ordi­ nata si tichiedono due condizioni. Primo, che sia ordinata al debito fine, fine che è il princi­ pio universale neli' ordine deli' agire: poiché quanto si fa casualmente, senza tendere a un fine, oppure per gioco, è un'azione disordina­ ta. Secondo, è necessario che i mezzi siano proporzionati al fine. E da ciò deriva che la giustificazione dei mezzi viene desunta dal fine: p. es. la ragione della struttura di una sega, come fa osservare Aristotele, è desunta dal segare, che è il suo fine. Ora, è evidente che i precetti cerimoniali, come tutti gli altri precetti della legge, furono emanati dalla sapienza divina: per cui in Dt è detto: Questa

    sarà la vostra saggezza e la vostra intelligen­ za agli occhi dei popoli. Perciò si deve con­ cludere che i precetti cerimoniali sono ordina­ ti a un fine, in base al quale si possono deter­ minare le ragioni che li giustificano. Soluzione delle difficoltà: l . Le osservanze dell'antica legge, come quella p. es. di non tes­ sere un vestito con lana e lino, possono essere considerate prive di ragione per il tàtto che non avevano una giustificazione in se medesime. Tuttavia potevano avere una ragione in ordine ad altro: in quanto cioè prefiguravano o esclu­ devano qualche altra cosa. Invece i precetti della nuova legge, che riguardano principal­ mente la fede e l' amore di Dio, sono ragione­ voli per la natura stessa degli atti rispettivi. 2. La proibizione relativa all' albero della scienza del bene e del male non dipendeva dal fatto che tale pianta fosse cattiva per natura, ma dal tàtto che la proibizione era ordinata a uno scopo, in quanto cioè raffigurava qualco­ sa. Ed è precisamente in questo senso che anche i precetti cerimoniali dell'antica legge hanno una ragione. 3. I precetti morali, come p. es.: Non ucciderai, Non ruberai, hanno una giustificazione intrin­ seca. Invece i precetti cerimoniali hanno delle cause giustificanti in ordine ad altre cose, secondo le spiegazioni date.

    Q. 1 02, A. 2

    Le cause dei precetti cerimoniali

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    Articulus 2 Utrum praecepta caeremonialia habeant causam litteralem, vel figuralem tantum

    Articolo 2 I precetti cerimoniali hanno una ragion d'essere anche per il loro senso letterale?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod praecepta caeremonialia non habeant causam litteralem, sed figuralem tantum. l . Inter praecepta enim caeremonialia praecipua erant circumcisio, et immolatio agni paschalis. Sed utrumque istorum non habebat nisi causam figuralem, quia utrumque istorum datum est in signum. Dicitur enim Gen. 17 [ I l], circumcide­

    Sembra di no. Infatti: l . La circoncisione e l'immolazione dell'a­ gnello pasquale erano tra i precetti cerimoniali più importanti. Eppure queste due cose non avevano una causa se non neli' ordine figurale: poiché erano state date come segni. Intatti in Gen è detto: Circonciderete la came del vostro

    tis carnem praeputii vestri, ut sit in signum foederis inter me et vos. Et de celebratione phase dicitur Ex. 1 3 [9], erit quasi signum in manu tua, et quasi monumentum ante oculos tuos. Ergo multo magis alia caeremonialia non habent nisi causam figuralem. 2. Praeterea, effectus proportionatur suae cau­ sae. Sed omnia caeremonialia sunt figuralia, ut supra [q. 1 0 1 a. 2] dictum est. Ergo non habent nisi causam figuralem. 3. Praeterea, illud quod de se est indifferens utrum sic vel non sic fiat, non videtur habere ali­ quam litteralem causam. Sed quaedam sunt in praeceptis caeremonialibus quae non videntur differre utrum sic vel sic fiant, sicut est de nume­ ro animalium offerendorum, et aliis huiusmodi particularibus circumstantiis. Ergo praecepta veteris legis non habent rationem litteralem. Sed contra, sicut praecepta caeremonialia fi­ gurabant Christum, ita etiam historiae Veteris Testamenti, dicitur enim l ad Cor. 1 0 [ 1 1 ] , quod omnia infiguram contingebant illis. Sed in historiis Veteris Testamenti, praeter intel­ lectum mysticum seu figuralem, est etiam in­ tellectus litteralis. Ergo etiam praecepta caere­ monialia, praeter causas figurales, habebant etiam causas litterales. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. l] dictum est, ratio eorum quae sunt ad finem, oportet quod a fine sumatur. Finis autem prae­ ceptorum caeremonialium est duplex, ordina­ batur enim ad cultum Dei pro tempore ilio, et ad figurandum Christum; sicut etiam verba prophetarum sic respiciebant praesens tempus, quod etiam in figuram futuri dicebantur, ut Hieronymus dicit, Super Osee [ l super 1 ,3]. Sic igitur rationes praeceptorum caeremoniali­ um veteris legis dupliciter accipi possunt. Uno modo, ex ratione cultus divini qui erat pro tempore ilio observandus. Et rationes istae

    prepuzio come segno de/l 'alleanza tra me e voi. E a proposito della Pasqua è detto in Es: Sarà come segno sulla tua mano e ricordo davanti ai tuoi occhi. Perciò a maggior ragio­ ne avranno avuto una causa esclusivamente di ordine figmale le altre cerimonie. 2. L'effetto e la causa si corrispondono. Ora, tutte le norme cerimoniali sono figurabili, come sopra si è dimostrato. Quindi esse non hanno che cause di ordine figurale. 3. Ciò che è indifferente a essere determinato in una maniera o in un'altra mostra di non ave­ re una causa secondo il significato letterale. Ora, nei precetti cerimoniali ci sono non po­ che cose di questo genere, come la determina­ zione del numero delle vittime da offrire, e altre simili circostanze particolari. Quindi i precetti dell'antica legge non hanno una ra­ gione nel loro significato letterale. In contrario: i precetti cerimoniali prefigurano Cristo, come anche i tatti storici dell'Antico Testamento: infatti in l Cor è detto: Tutto accadeva loro in figura. Ma nei fatti dell'An­ tico Testamento, oltre al senso mistico o figu­ rale, c'è anche il senso letterale. Quindi i pre­ cetti cerimoniali, oltre ad avere delle motiva­ zioni nell'ordine figurale, ne hanno pure nel­ l'ordine letterale. Risposta: come sopra si è spiegato, la ragione che giustifica i mezzi va desunta dal fine. Ora, il fine dei precetti cerimoniali è duplice: essi infatti erano ordinati all'antico culto di Dio e a essere figura di Cristo; come le parole dei profeti che riguardavano il presente in modo da prefigurare anche il futuro, secondo l'affer­ mazione di Girolamo. Perciò le ragioni dei precetti cerimoniali possono venire desunte da due fonti distinte. - Primo, dalle esigenze del culto divino praticato negli antichi tempi. E queste ragioni riguardano il senso letterale: sia che si tratti di evitare il culto idolatrico o

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    Le cause dei precetti cerimoniali

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    sunt litterales, sive pertineant ad vitandum ido­ lolatriae cultum; sive ad rememoranda aliqua Dei beneficia; sive ad insinuandam excellen­ tiam divinam; vel etiam ad designandam dispositionem mentis quae tunc requirebatur i n colentibus Deum. - Alio modo possunt eorum rationes assignari secundum quod ordi­ nantur ad figurandum Christum. Et sic habent rationes figurales et mysticas, sive accipiantur ex ipso Christo et Ecclesia, quod pertinet ad allegoriam; sive ad mores populi Christiani, quod pertinet ad moralitatem; sive ad statum futurae gloriae, prout in eam introducimur per Christum, quod pertinet ad anagogiam. Ad primum ergo dicendum quod, sicut intel­ lectus metaphoricae locutionis in Scripturis est litteralis, quia verba ad hoc proferuntur ut hoc significent; ita etiam significationes caere­ moniarum legis quae sunt commemorativae beneficiorum Dei propter quae instituta sunt, vel aliorum huiusmodi quae ad illum statum pertinebant, non transcendunt ordinem littera­ lium causarum. Unde quod assignetur causa celebrationis phase quia est signum liberationis ex Aegypto, et quod circumcisio est signum pacti quod Deus habuit cum Abraham, per­ tinet ad causam litteralem. Ad secundum dicendum quod ratio illa proce­ deret, si caeremonialia praecepta essent data solum ad figurandum futurum, non autem ad praesentialiter Deum colendum. Ad tertium dicendum quod, sicut in legibus humanis dictum est [q. 96 aa. 1 .6] quod i n universali habent rationem, non autem quan­ tum ad particulares conditiones, sed haec sunt ex arbitrio instituentium; ita etiam multae particulares determinationes in caeremoniis veteris legis non habent aliquam causam litte­ ralem, sed solam figuralem; in communi vero habent etiam causam litteralem.

    di ricordare un beneficio divino, sia che si cerchi di inculcare la grandezza della divinità o di mostrare le disposizioni dell' anima che allora si richiedevano negli adoratori di Dio. Secondo, le ragioni possono venire desunte dali' ordine di questi precetti a prefigurare Cristo. E in questo senso abbiamo di essi ragioni di ordine figurale o mistico: sia che vengano desunte da Cristo e dalla Chiesa, dando luogo all'allegoria, sia che si riferisca­ no ai costumi del popolo cristiano, concretan­ dosi in ragioni morali, sia che riguardino lo stato della gloria futura in cui Cristo ci intro­ duce, dando luogo ali' anagogia. Soluzione delle difficoltà: l . Come una locu­ zione metaforica della Scrittura ha un senso letterale, poiché le parole sono profedte per dare questo significato, così quel significato delle cerimonie della legge che consiste o nel ricordo dei benefici di Dio per cui furono isti­ tuite, o in cose consimili attinenti all' antico patto, non trascende le spiegazioni di ordine letterale o storico. Per cui rientrano in questo ordine di cause sia il fatto che la Pasqua stesse a ricordare la liberazione dall ' Egitto, sia il fatto che la circoncisione fosse il segno del patto stabilito da Dio con Abramo. 2. La ragione sarebbe valida se i precetti ceri­ moniali fossero dati solo come prefigurazione del futuro, escludendo il culto attuale di Dio. 3. A proposito delle leggi umane, sopra si è detto che in genere esse hanno delle ragioni intrinseche, mentre nelle determinazioni par­ ticolari dipendono dall' arbitrio del legislatore. E così anche molte determinazioni delle anti­ che cerimonie hanno cause di ordine non let­ terale, ma solo figurale; in genere però hanno anche quelle.

    Articulus 3 Utrum possit assignari conveniens ratio caeremoniarum quae ad sacrificia pertinent

    Articolo 3 Si può trovare una ragione plausibile delle cerimonie riguardanti i sacrifici?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod non possit conveniens ratio assignari caeremonia­ rum quae ad sacrificia pertinent. l . Ea enim quae in sacrificium offerebantur, sunt illa quae sunt necessruia ad sustentandam humanam vitam, sicut animalia quaedam, et

    Sembra di no. Infatti: l . Le cose che venivano offerte nei sacrifici erano quelle necessarie al sostentamento della vita umana, ossia alcuni tipi di animali e di pani. Ora, Dio non ha bisogno di tale sosten­ tamento, secondo l'espressione del Sal: Man­

    gerò forse La carne dei tori, berrò forse il san-

    Q. 1 02, A. 3

    Le cause dei precetti cerimoniali

    panes quidam. Sed tali sustentamento Deus non indiget; secundum illud Psalmi 49 [ 1 3] ,

    numquid manducabo carnes taurorum, aut sanguinem hircorum potabo? Ergo inconve­ nienter huiusmodi sacrificia Deo offerebantur. 2. Praeterea, in sacrificium divinum non offe­ rebantur nisi de tribus generibus animalium quadrupedum, scilicet de genere bovum, ovium et caprarum; et de avibus, communiter quidem turtur et columba; specialiter autem in emundatione leprosi fiebat sacrificium de passeribus. Multa autem alia animalia sunt eis nobiliora. Cum igitur omne quod est opti­ mum Deo sit exhibendum, videtur quod non solum de istis rebus fuerint Deo sacrificia offerenda. 3. Praeterea, sicut homo a Deo habet dominium volatilium et bestiarum, ita etiam piscium. Inconvenienter igitur pisces a divino sacrificio excludebantur. 4. Praeterea, indifferenter offerri mandantur tur­ tures et columbae. Sicut igitur mandantur offer­ ri pulii columbarum, ita etiam pulli turturum. 5. Praeterea, Deus est auctor vitae non solum hominum, sed etiam animalium; ut patet per id quod dicitur Gen. l [20 sqq.]. Mors autem op­ ponitur vitae. Non ergo debuerunt Deo offerri animalia occisa, sed magis animalia viventia. Praecipue quia etiam apostolus monet, Rom.

    12 [1], ut exhibeamus nostra co1pora hostiam vivenlem, sanctam, Deo placentem. 6. Praeterea, si animalia Deo in sacrificium non otierebantur nisi occisa, nulla videtur es­ se differentia qualiter occidantur. Inconve­ nienter igitur determinatur modus immolatio­ nis, praecipue in avibus, ut patet Lev. l [ 1 5]. 7. Praeterea, omnis defectus animalis via est ad conuptionem et mortem. Si igitur animalia occisa Deo offerebantur, inconveniens fuit prohibere oblationem animalis imperfecti, puta claudi aut caeci, aut aliter maculosi. 8. Praeterea, illi qui offerunt hostias Deo, de­ bent de his participare; secundum illud apostoli, l Cor. 1 0 [ 1 8], nonne qui edunt hostias, pwti­ cipes sunt altaris ? Inconvenienter igitu r quaedam partes hostiamm offerentibus sub­ trahebantur, scilicet sanguis et adeps, et pec­ tusculum et armus dexter. 9. Praeterea, sicut holocausta offerebantur in honorem Dei, ita etiam hostiae pacificae et hostiae pro peccato. Sed nullum animai femi­ nini sexus offerebatur Deo in holocaustum,

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    gue dei capri?

    Quindi non era conveniente che venissero offerti a Dio tali sacrifici. 2. Venivano offerti in sacrificio a Dio soltanto tre generi di animali quadrupedi, e cioè i bovini, gli ovini e le capre; fra gli uccelli inve­ ce, d' ordinario, le tortore e le colombe; per la guarigione poi della lebbra venivano offerti dei passeri. Ora, ci sono molti animali più nobili di questi. Poiché dunque a Dio va offerto quanto c'è di meglio, sembra che non si dovessero offrire in sacrificio a Dio soltanto questi animali. 3. L'uomo ha ricevuto da Dio il dominio sui pesci, oltre a quello sui volatili e sulle bestie. Quindi non c'era motivo di escludere i pesci dal sacrificio a Dio. 4. Le tortore e le colombe sono indifferenti in certe prescrizioni di sacrifici. Quindi doveva essere indifferente anche scegliere tra piccion­ cini e tortorelle. 5. Dio è l'autore della vita non solo degli uo­ mini, ma anche degli animali, come è evidente dalle parole di Gen. Ma la morte è il contrario della vita. Perciò non si dovevano offrire a Dio animali morti, ma vivi. Specialmente perché anche Paolo in Rm ammonisce di offrire i

    nostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio. 6. Se a Dio gli animali non venivano offetti se non uccisi, sembra che dovesse essere indiffe­ rente la maniera della loro uccisione. Quindi è inutile che si determini la maniera dell' immo­ lazione, specialmente a proposito degli uccel­ li, come appare in Lv. 7. Ogni difetto dell' animale è un passo verso la corruzione e la morte. Se quindi a Dio si dovevano offrire animali uccisi, non c'era bi­ sogno di proibire l'offerta di un animale im­ perfetto, cioè zoppo, cieco o in altro modo difettoso. 8. Chi offre a Dio dei sacrifici deve parteci­ parne, secondo le parole di l Cor. Quelli che

    mangiano le vittime sacrifica/i non sono forse in comunione con l 'altare? Perciò non era giusta la norma di sottrarre agli offerenti certe parti delle vittime, cioè il sangue e il grasso, il petto e la spalla destra. 9. Gli olocausti erano offerti in onore di Dio, come lo erano le ostie pacifiche e quelle per il peccato. Ora, nessun animale di sesso femmi­ nile veniva offetto a Dio in olocausto; e tutta­ via si facevano olocausti sia di quadrupedi

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    fiebant tamen holocausta tam de quadrupedi­ bus quam de avibus. Ergo inconvenienter in hostiis pacificis et pro peccato offerebantur animalia feminini sexus; et tamen in hostiis pacificis non offerebantur aves. l O. Praeterea, omnes hostiae pacificae unius generis esse videntur. Non ergo debuit poni ista differentia, quod quorundam pacificorum car­ nes non possent vesci in crastino, quorundam autem possent, ut mandatur Lev. 7 [ 1 5 sq.]. 1 1 . Praeterea, omnia peccata in hoc conve­ niunt quod a Deo avertunt. Ergo pro omnibus peccatis, in Dei reconciliationem, unum genus sacrificii debuit offerri. 12. Praeterea, omnia animalia quae offereban­ tur in sacrificium, uno modo offerebantur, sci­ li cet occisa. Non videtur ergo conveniens quod de terrae nascentibus diversimode fiebat oblatio, nunc enim offerebantur spicae, nunc simila, nunc panis, quandoque quidem coctus in clibano, quandoque in sartagine, quando­ que in craticula. 1 3. Praeterea, omnia quae in usum nostrum veniunt, a Deo recognoscere debemus. Incon­ venienter ergo praeter animalia, solum haec Deo offerebantur, panis, vinum, oleum, thus et sal. 14. Praeterea, sacrificia corporalia exprimunt interius sacrificium cordis, quo homo spiri­ turo suum offert Deo. Sed in interiori sacrifi­ cio plus est de dulcedine, quam repraesentat mel, quam de mordacitate, quam repraesentat sal, dicitur enim Eccli. 24 [27], spiritus meus super mel dulcis. Ergo inconvenienter prohi­ bebatur in sacrificio apponi mel et fermen­ tum, quod etiam facit panem sapidum; et praecipiebatur ibi apponi sal, quod est mordi­ cativum, et thus, quod habet saporem ama­ rum. Videtur ergo quod ea quae pertinent ad caeremonias saclificiorum, non habeant ratio­ nabilem causam. Sed contra est quod dicitur Lev. l [ 1 3], oblata

    omnia adolebit sacerdos super altare in holo­ caustum et odorem suavissimum Domino. Sed sicut dicitur Sap. 7 [28], neminem diligit Deus nisi qui cum sapientia inhabitat, ex quo potest accipi quod quidquid est Deo accep­ tum, est cum sapientia. Ergo illae caeremo­ niae saclificiorum cum sapientia erant, velut habentes rationabiles causas. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. 2] dictum est, caeremoniae veteris legis dupli-

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    che di uccelli. Quindi l'offerta di animali fem­ mine quali ostie pacifiche e per il peccato era irragionevole; come era irragionevole l' esclu­ sione dei volatili dalle ostie pacifiche. l O. Tutte le vittime pacifiche appartengono a un unico genere. Perciò non si doveva prescri­ vere, come è comandato in Lv, questa diffe­ renza: che di alcune non si potessero mangia­ re le carni il giorno dopo, mentre di altre si potevano. 1 1 . Tutti i peccati concordano nel fatto che allontanano da Dio. Quindi per tutti i peccati ci doveva essere un unico genere di sacrifici, per ottenere la riconciliazione con Dio. 1 2. Gli animali offerti in sacrificio erano offerti tutti allo stesso modo, cioè uccisi. Non era quindi giusto che i prodotti della terra venissero offerti invece in diverse maniere: ora infatti si offlivano le spighe, ora la fatina, ora il pane, cotto secondo i casi nel forno, in pad�lla o sulla graticola. 1 3. E un dovere riconoscere che tutte le cose di cui facciamo uso vengono da Dio. Perciò non era conveniente limitarsi a offrire a Dio, oltre agli animali, soltanto il pane, il vino, l'olio, l'incenso e il sale. 14. I sacrifici materiali devono esprimere il sacrificio interiore del cuore, col quale l'uo­ mo offre a Dio il suo spirito. Ora, il sacrificio interiore ha più della dolcezza del miele che del pizzicore del sale: intàtti in Sir è detto: Il mio �pirito è più dolce del miele. Quindi non era ragionevole proibire nei sacrifici il miele e il lievito, che pure rendono il pane più sapori­ to, mentre si comandava di usare il sale, che ha un sapore pungente, e l'incenso, che è amaro. Quindi le prescrizioni riguardanti le cerimonie dei sacrifici non avevano una moti­ vazione ragionevole. In contrario: nel Lv è detto: Il sacerdote

    offrirà in olocausto tutte le offerte sull'altare, come profumo dolcissimo al Signore. Ma come è detto in Sap: Dio non ama se non chi vive con sapienza, e ciò può essere inteso nel senso che quanto è accetto a Dio è tàtto con sapienza. Quindi quelle cerimonie dei sacrifi­ ci erano fatte con sapienza, avendo le loro cause ragionevoli. Risposta: abbiamo già spiegato sopra che le cerimonie dell'antica legge avevano una du­ plice causalità: una secondo il loro significato letterale, cioè in quanto erano ordinate al

    Q. 1 02, A. 3

    Le cause dei precetti cerimoniali

    cem causam habebant, unam scilicet littera­ lem, secundum quod ordinabantur ad cultum Dei� aliam vero figuralem, sive mysticam, secundum quod ordinabantur ad figurandum Christum. Et ex utraque parte potest conve­ nienter assignari causa caeremoniarum quae ad sacrificia pertinebant. Secundum enim quod sacrificia ordinabantur ad cultum Dei, causa sacrificiorum dupliciter accipi potest. Uno modo, secundum quod per sacriticia repraesentabatur ordinatio mentis in Deum, ad quam excitabatur sacrificium offerens. Ad rectam autem ordinationem mentis in Deum pertinet quod omnia quae homo habet, reco­ gnoscat a Deo tanquam a primo principio, et ordinet in Deum tanquam in ultimum finem. Et hoc repraesentabatur in oblationibus et sacrificiis, secundum quod homo ex rebus suis, quasi in recognitionem quod haberet ea a Deo, in honorem Dei ea offerebat; secun­ dum quod dixit David, l Parai. 29 [ 1 4], tua

    sunt omnia; et quae de manu tua accepimus, dedimus tibi. Et ideo in oblatione sacrificio­ rum protestabatur homo quod Deus esset pri­ mum principium creationis rerum et ultimus finis, ad quem essent omnia referenda. - Et quia pertinet ad rectam ordinationem mentis in Deum ut mens humana non recognoscat alium primum auctorem rerum nisi solum Deum, neque in aliquo alio finem suum con­ stituat; propter hoc prohibebatur in lege offer­ re sacrificium alicui alteri nisi Deo, secundum illud Ex. 22 [20], qui immolar diis, occidetur, praeter Domino soli. Et ideo de causa caere­ moniarum circa sacrificia potest assignari ratio alio modo, ex hoc quod per huiusmodi homines retrahebantur a sacrificiis idolorum. Unde etiam praecepta de sacrificiis non fue­ runt data popolo ludaeorum nisi postquam declinavit ad idololatriam, adorando vitulum conflatilem, quasi huiusmodi sacrificia sint instituta ut populus ad sacrificandum prom­ ptus, huiusmodi sacrificia magis Deo quam idolis offerret. Unde dicitur ler. 7 [22], non

    swn locutus cum patribus vestris, et non prae­ cepi eis, in die qua eduxi eos de terra Aegypti, de verbo holocautomatum et victimarum.

    -

    lnter omnia autem dona quae Deus humano generi iam per peccatum lapso dedit, praeci­ puum est quod dedit filium suum, unde dici­ tur Ioan. 3 [ 1 6], sic Deus dilexit mundum ut

    Filium suum unigenitum daret, ut omnis qui

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    culto di Dio, l'altra invece nell'ordine figurale o mistico, in quanto cioè queste cerimonie erano ordinate a prefigurare Cristo. Ora, dal­ l'una e dall' altra parte è possibile stabilire la causa delle cerimonie riguardanti i sacrifici. Considerando infatti quei sacrifici come ordi­ nati al culto di Dio si può riscontrare una du­ plice causa. Innanzitutto osservando che essi erano fatti per rappresentare l' ordinamento dell'anima a Dio, che si voleva sollecitare in chi offriva il sacrificio. Ora, il retto ordina­ mento dell'anima a Dio implica il riconosci­ mento da parte dell' uomo che quanto egli possiede viene da Dio come dal primo princi­ pio, e che egli deve ordinare a Dio come al suo ultimo fine tutte le cose. E ciò veniva rap­ presentato nelle offerte e nei sacrifici, per il fatto che l'uomo offriva in onore di Dio le co­ se proprie, riconoscendo di averle ricevute da lui, secondo le parole di Davide in l Cr: Tutte

    le cose sono tue; e ciò che riceviamo dalla tua mano lo ridiamo a te. Quindi nell' offrire i sacrifici l'uomo protestava che Dio era il pri­ mo principio e l'ultimo fine della creazione, al quale si dovevano riferire tutte le cose. - E poiché il retto ordine dell'anima verso la divi­ nità esige che non si riconosca altra causa prima dell'universo all'infuori di Dio, e che non si ponga in altre cose il proptio fine; per­ ciò nella legge era comandato di non offrire sacrifici se non a Dio: Colui che offre un

    sacrificio agli dèi, oltre al solo Signore, sarà votato allo sterminio (Es). Così dunque si possono spiegare le cerimonie suddette in un' altra maniera, cioè in base al fatto che erano dei mezzi per distogliere dai sacrifici degli idoli. Infatti i precetti relativi ai sacrifici non furono dati agli ebrei se non dopo la loro caduta neli' idolatria, con l' adorazione del vitello d'oro: come per dire che tali sacrifici furono istituiti perché il popolo, già portato a simili immolazioni, preferisse farle a Dio piuttosto che agli idoli. Perciò in Ger è detto:

    Io non parlai né diedi comandi sull'olocausto e sul sacrificio ai vostri padri, quando li feci uscire dal paese d'Egitto. - Ma fra tutti i doni che Dio ha fatto al genere umano dopo il pec­ cato, il principale è quello di aver dato il Fi­ glio suo, come è detto in Gv: Dio ha tanto

    amato il mondo da dare il suo Figlio unigeni­ to, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Quindi il sacrificio

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    credit in ipsum non pereat, sed habeat vitam aetemam. Et ideo potissimum sacrificium est quo ipse Christus seipsum obtulit Deo in odorem suavitatis, ut dicitur ad Eph. 5 [2]. Et propter hoc omnia alia sacrificia offerebantur in veteri lege ut hoc unum singulare et prae­ cipuum sacrificium figuraretur, tanquam per­ fectum per imperfecta. Unde apostolus dicit, ad Heb. 1 0 [ 1 1 sq.] , quod sacerdos veteris legis easdem saepe offerebat hostias, quae

    nunquam possunt auferre peccata, Christus autem pro peccatis obtulit unam in sempiter­ num. Et quia ex figurato sumitur ratio tigurae, ideo rationes sacrificiorum figuralium veteris legis sunt sumendae ex vero sacrificio Christi. Ad primum ergo dicendum quod Deus non volebat h u iu s modi sacrifi c i a sibi offerri propter ipsas res quae offerebantur, quasi cis indigeret, unde dicitur Isaiae l [ 1 1 ] , holo­

    causta arietum, et adipem pinguium, et san­ guinem vitulorum et hircorum et agnorum, nolui. Sed volebat ca sibi offerri, ut supra [co.] dictum est, tum ad excludendam idolola­ triam; tum ad significandum debitum ordi­ nem mentis humanae in Deum; tum etiam ad figurandum mysterium redemptionis huma­ nae factae per Christum. Ad secundum dicendum quod quantum ad omnia praedicta [ad 1 ] , conveniens ratio fuit quare ista animalia offerebantur Deo in sacri­ ficium, et non alia. - Primo quidem, ad exclu­ dendum idololatriam. Quia omnia alia anima­ lia offerebant idololatrae diis suis, vel cis ad maleficia utebantur, ista autem animalia apud Aegyptios, cum quibus conversati erant, abo­ rninabilia erant ad occidendum, unde ca non offerebant in sacrificium diis suis; unde dici­ tur Ex. 8 [26], abominationes Aegyptiorum immolabimus Domino Deo nostro. Oves enim colebant; hircos venerabantur, quia in eorum figura daemones apparebant; bobus autem utebantur ad agriculturam, quam inter res sacras habebant. - Secundo, hoc conveniens erat ad praedictam ordinationem mentis i n Deum. Et hoc dupliciter. Primo quidem, quia huiusmodi animalia maxime sunt per quae sustentatur humana vita, et cum hoc mundis­ sima sunt, et mundissimum habent nutrimen­ tum. Alia vero animalia vel sunt silvestria, et non sunt communiter hominum usui deputa­ ta, vel, si sunt domestica, immundum habent nutrimentum, ut porcus et gallina; solum

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    più grande è quello nel quale Cristo ha offerto

    se stesso a Dio in sacrificio di soave odore (Ej). E così tutti gli altri sacrifici dell'antica legge venivano offerti per raffigurare questo unico e principale sacrificio, che ne era il coronamento e la perfezione. Per cui in Eh è detto che il sacerdote deli' antica legge offriva

    molte volte gli stessi sacrifici, che non posso­ no mai eliminare i peccati. Cristo invece offrì un solo sacrificio una volta per sempre. E poiché il valore rappresentativo di una figura viene desunto dalla realtà raffigurata, conse­ guentemente le ragioni dei sacrifici figurali del l ' antica legge vanno desunte dal vero sacrificio di Cristo. Soluzione delle difficoltà: l . Dio voleva che gli si offrissero questi sacrifici non per le offerte medesime, quasi che avesse bisogno di tali cose: infatti in /s è detto: Non voglio

    olocausti di arieti e del grasso di giovenchi; il sangue di vitelli e di agnelli e di capri. Voleva invece queste offerte per i motivi già detti: e cioè sia per distogliere dall' idolatria, sia per indicare il dovuto ordine dell'anima umana verso Dio, s i a anche per rappresentare i l mistero della redenzione compiuta da Cristo. 2. Rispetto a tutti e tre i motivi indicati si tro­ va una ragione per spiegare come mai veniva­ no offerti a Dio in sacrificio questi e non altri animali. - Primo, per stornare dall' idolatria. Poiché tutti gli altri animali erano offerti ai loro dèi dagli idolatri, o da essi erano usati per fare dei malefici : inoltre presso gli egiziani, con i quali gli ebrei erano vissuti, era cosa abominevole uccidere gli animali ricordati, che quindi non erano offerti in sacrificio agli dèi: perciò in Es è detto: Quello che noi im­

    moleremo al Signore nostro Dio è abominio per gli egiziani. Questi infatti adoravano le pecore e veneravano i capretti, poiché i demo­ ni apparivano sotto tali sembianze; e si servi­ vano dei buoi per l 'agricoltura, che considera­ vano cosa sacra. - Secondo, le offerte suddet­ te erano indicate per ricordare l 'ordinamento dell' anima a Dio. E ciò per due motivi. Pri­ mo, perché questi animali sono quelli che più servono al sostentamento della vita umana: e inoltre sono quelli più mondi, avendo il nutri­ mento più pulito. Invece gli altri animali o sono selvatici, e quindi d' ordinario non sono fatti per l'uso dell'uomo, oppure, se dome­ stici, hanno un nutrimento immondo, come il

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    autem id quod est purum, Deo est attribuen­ dum. Huiusmodi autem aves specialiter offe­ rebantur, quia habentur in copia in terra pro­ missionis. Secundo, quia per immolationem huiusmodi animalium puritas mentis designa­ tur. Quia, ut dicitur in Glossa Lev. l [glos. ord.; Isid., Q. in V. T., In Lev. 1], vitulum of­

    ferimus, cum carnis superbiam vincimus; agnum, cum irrationales motus corrigimus; haedum, cum lasciviam superamus; turturem, dum castitatem servamus; panes azymos, cum in azymis sinceritatis epulamur. In co­ lumba vero manifestum est quod significatur caritas et simplicitas mentis. - Tertio vero, conveniens fuit haec animalia offerri in figu­ ram Christi. Quia, ut in eadem Glossa dicitur [glos. ord . ; Isid. , Q. i n V. T., In Lev. 1 ] ,

    Christus in vitulo offertUI; propter virtutem crucis; in agna, propter innocentiam; in arie­ te, propter principatum; in hirco, propter similitudinem carnis peccati. In turture et columba duarum naturarum coniunctio mon­ strabatur, vel in turture castitas, in columba caritas significatur. In similagine aspersio cre­ dentium per aquam baptismifigurabatur. Ad tertium dicendum quod pisces, quia in aquis vivunt, magis sunt alieni ab homine quam alia animalia, quae vivunt in aere, sicut et homo. Et itemm pisces, ex aqua extracti, statim moriuntur, unde non poterant in tempio offerri, sicut alia animalia. Ad quartum dicendum quod in turturibus meliores sunt maiores quam pulli; in columbis autem e converso. Et ideo, ut Rabbi Moyses dicit [Petplex. 3,46], mandantur offerri turtu­ res et pulii columbamm, quia omne quod est optimum, Deo est attribuendum. Ad quintum dicendum quod animalia in sacri­ ficium oblata occidebantur, quia veniunt in usum hominis occisa, secundum quod a Deo dantur homini ad esum. Et ideo etiam igni cre­ mabantur, quia per ignem decocta fiunt apta humano usui. Similiter etiam per occisionem animalium significatur destmctio peccatomm. Et quod homines erant digni occisione pro pec­ catis suis, ac si illa animalia loco eomm occi­ derentur, ad significandum expialionem pecca­ torum. Per occisionem etiam huiusmodi ani­ malium significabatur occisio Christi. Ad sextum dicendum quod specialis modus occidendi animalia immolata determinabatur in lege ad excludendum alios modos, quibus

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    maiale e la gallina. A Dio invece non si può offrire se non quanto è puro. In particolare poi si offrivano quei volatili perché erano abbon­ danti nella terra promessa. - Secondo, perché l'immolazione di tali animali stava a indicare l a purezza del l ' anima. Infatti secondo la Glossa: «Noi offriamo un vitello quando vin­ ciamo la superbia della carne, un agnello quando freniamo i moti irrazionali, un capret­ to quando superiamo l'impudicizia, una torto­ ra quando custodiamo la carità e pani azimi quand� banchettiamo negli azimi della since­ rità». E poi evidente che nella colomba è indi­ cata la carità e la semplicità dell ' anima. Terzo, l' offerta dei suddetti animali era adatta per figurare Cristo. Poiché la stessa Glossa dice: «Cristo veniva offe1to nel vitello per in­ dicare la virtù della croce, nell' agnello per l ' innocenza, nel capro per il principato, nel capretto per la somiglianza della carne del peccato. Nella tortora e nella colomba veniva poi indicata l'unione delle due nature»; oppu­ re nella tortora era rappresentata la castità e nella colomba la carità. «Nel fiore di farina veniva infine prefigurato il lavacro dei creden­ ti mediante l'acqua del battesimo». 3. I pesci, vivendo nell' acqua, sono più estra­ nei all'uomo di tutti gli altri animali, che vi­ vono come lui nell'aria. Inoltre i pesci muoio­ no subito, appena estratti dali' acqua: quindi non potevano essere offerti nel tempio come gli altri animali. 4. Nelle tortore i piccoli valgono meno degli animali adulti, mentre nelle colombe è il con­ trario. Per questo dunque, come scrive Mosè Maimonide, viene comandato di offrire torto­ re e piccioncini: poiché a Dio vanno attribuite le cose migliori. 5. Gli animali offerti in sacrificio venivano uccisi perché è in tale condizione che essi ser­ vono all' uomo, avendoli Dio dati all' umanità come cibo. E per lo stesso motivo venivano anche bmciati: perché il fuoco li prepara a es­ sere usati dall'uomo. Inoltre l' uccisione degli animali stava a indicare la distmzione dei pec­ cati, e faceva anche comprendere che, essen­ do gli uomini degni di morte per i loro pecca­ ti, quegli animali venivano uccisi come in loro sostituzione, per esprimere l'espiazione dei peccati. Infine l'uccisione di tali animali prefigurava la morte di Cristo. 6. n modo di uccidere gli animali immolati

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    Le cause dei precetti cerimoniali

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    etiam immisericordia offerentium, et deterio­ ratio animalium occisorum. Ad septimum dicendum quod, quia animalia maculosa solent haberi contemptui etiam apud homines, ideo prohibitum est ne Deo in sacriticium offerrentur, propter quod etiam prohibitum erat [Deut. 23, 1 8] ne mercedem

    era determinato dalla legge per evitare quei modi con cui gli idolatri immolavano agli idoli le loro vittime. Oppure, come nota Mosè Maimonide, «la legge ha scelto un tipo di uccisione che facesse meno soffrire gli ani­ mali». E ciò per escludere ogni crudeltà nei sacrificanti, e lo scempio degli animali uccisi. 7. Gli animali difettosi sono deprezzati anche presso gli uomini: perciò era proibito di offrir­ li in sacrificio a Dio. E per lo stesso motivo era proibito offrire nella casa del Signore la

    prostibuli, aut pretium canis, in domum Dei offerrent. Et eadem etiam ratione non offere­

    mercede del meretricio o il prezzo di un cane [Dt]. E così non dovevano offrirsi gli animali

    bant animalia ante septimum diem, quia talia animalia erant quasi abortiva, nondum piene consistentia, propter teneritudinem. Ad octavum dicendum quod triplex erat sacri­ ficiorum genus. - Quoddam erat quod totum comburebatur, et hoc dicebatur holocaustum, quasi totum incensum. Huiusmodi enim sacri­ ficium offerebatur Deo specialiter ad reveren­ tiam maiestatis ipsius, et amorem bonitatis eius, et conveniebat perfectionis statui i n impletione consiliorum. Et ideo totum com­ burebatur, ut sicut totum animai, resolutum in vaporem, sursum ascendebat, ita etiam signi­ ficaretur totum hominem, et 01nnia quae ipsius sunt, Dei dominio esse subiecta, et ei esse offerenda. - Aliud autem erat sacrificium pro peccato, quod offerebatur Deo ex necessi­ tate remissionis peccati, et conveniebat statui poenitentium in satisfactione peccatorum. Quod dividebatur in duas partes, nam una pars eius comburebatur, alia vero cedebat in usum sacerdotum; ad significandum quod expiatio peccatorum fit a Deo per ministe­ rium sacerdotum. Nisi quando offerebatur sacrificium pro peccato totius populi, vel spe­ cialiter pro peccato sacerdotis, tunc enim totum comburebatur. Non enim debebant in usum sacerdotum venire ea quae pro peccato eorum offerebantur, ut nihil peccati in eis remaneret. Et quia hoc non esset satisfactio pro peccato, si enim cederet in usum eonun pro quorum peccatis offerebatur, idem esse videretur ac si non offerrent. - Tertium vero sacrificium vocabatur hostia pacifica, quae offerebatur Deo vel pro gratiarum actione, vel pro salute et prosperitate offerentium, ex debito beneficii vel accepti vel accipiendi, et convenit statui proticientium in impletione mandatorum. Et ista dividebantur in tres partes,

    prima del settimo giorno: poiché tali esseri erano quasi abortivi e non ancora pienamente costituiti, data la loro gracilità. 8. Vi erano tre generi di sacrifici. - n primo, interamente bruciato, era detto olocausto, che suona tutto bruciato. Tale sactificio veniva infatti offerto a Dio come uno speciale omag­ gio alla sua maestà, e come un atto di amore per la sua bontà: e corrispondeva allo stato dei perfetti, che abbracciano la pratica dei consigli [evangelici]. Esso perciò veniva bruciato affin­ ché tutta la vittima sotto forma di vapore salis­ se in alto, in modo da esprimere che tutto l'uomo, e quanto egli possiede, è soggetto al dominio di Dio e deve essere a lui offerto. Viene poi il sacrificio per il peccato, che era offerto a Dio per la necessaria remissione del peccato: e corrispondeva allo stato dei peniten­ ti, che cercano la remissione dei peccati. Esso veniva diviso in due parti: infatti una [parte offerta] veniva bruciata, mentre l' altra era lasciata al sacerdote; e ciò per indicare che l'espiazione dei peccati è compiuta da Dio mediante il ministero dei sacerdoti. Si eccet­ tuava però il sacrificio offerto per i peccati di tutto il popolo, o del sacerdote in particolare: allora infatti si bmciava tutto. Poiché non dove­ va essere lasciato in uso dei sacerdoti quanto era offerto per i loro peccati, affinché non rimanesse in loro scoria alcuna di peccato. E inoltre sarebbe venuta a mancare la soddisfa­ zione per il peccato: se intatti coloro che sacri­ ficavano per il peccato avessero tratto beneficio da ciò che offrivano, era come se non avessero offerto nulla - Vi era poi un terzo tipo di sacri­ ficio chiamato ostia pacifica, che veniva offer­ to a Dio come ringraziamento, oppure per la salvezza e la prosperità degli offerenti, cioè per un dovere connesso a un beneficio ricevuto o

    idololatrae animalia idolis immolabant. Vel etiam, ut Rabbi Moyses dicit [Perplex. 3,48],

    !ex elegit genus occisionis quo animalia minus a.ffligebantur occisa. Per quod excludebatur

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    nam una pars i ncendebatur ad honorem Dei, alia pars cedebat in usum sacerdotum, tertia vero pars in usum offerentium; ad signi­ ficandum quod salus hominis procedit a Deo, dirigentibus ministris Dei, et cooperantibus ipsis hominibus qui salvantur. - Hoc autem generaliter observabatur, quod sanguis et adeps non veniebant neque in usum sacerdo­ tum, neque in usum oftèrentium, sed sanguis effundebatur ad crepidinem altaris, in hono­ rem Dei; adeps vero adurebatur in igne. Cuius ratio una quidem fuit ad excludendam idolo­ latriam. Idololatrae enim bibebant de san­ guine victimarum, et comedebant adipes; secundum illud Deut. 32 [38], de quorum vic­

    timis comedebant adipes, et bibebant vinum libaminum. Secunda ratio est ad informa­ tionem humanae vitae. Prohibebatur enim eis usus sanguinis, ad hoc quod horrerent humani sanguinis effusionem, unde dicitur Gen. 9 [4],

    carnem cum sanguine non comedetis, san­ guinem enim animarum vestrarum requiram. Esus vero adipum prohibebatur eis ad vitan­ dam lasciviam, unde dicitur Ez. 34 [3], quod crassum erat, occidebatis. Tertia ratio est propter reverentiam divinam. Quia sanguis est maxime necessarius ad vitam, ratione cuius dicitur anima esse in sanguine, adeps autem abundantiam nutrimenti demonstrat. Et ideo ut ostenderetur quod a Deo nobis est et vita et omnis bonorum suffi.cientia, ad honorem Dei effundebatur sanguis, et adurebatur adeps. Quarta ratio est quia per hoc figurabatur effu­ sio sanguinis Christi, et pinguedo caritatis eius, per quam se obtulit Deo pro nobis. - De hostiis autem pacificis in usum sacerdotis ce­ debat pectusculum et armus dexter, ad exclu­ dendum quandam divinationis speciem quae vocatur spatulamantia, quia scilicet in spatulis animalium immolatorum divinabant, et simi­ liter in osse pectoris. Et ideo ista offerentibus subtrahebantur. Per hoc etiam significabatur quod sacerdoti erat necessaria sapientia cordis ad instruendum populum, quod significabatur per pectus, quod est tegumentum cordis; et etiam fortitudo ad sustentandum defectus, quae significatur per armum dextrum. Ad nonum dicendum quod, quia holocaustum erat perfectissimum inter sacrificia, ideo non offerebatur in holocaustum nisi masculus, nam femina est animai imperfectum. Oblatio autem turturum et columbarum erat propter

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    da ricevere: e tale sacrificio rispondeva allo stato dei proficenti, [cioè di coloro che progre­ discono] nell'osservanza dei comandamenti. E questa offerta era divisa in tre parti: la prima veniva bruciata a onore di Dio, la seconda ser­ viva ai sacerdoti, la terza veniva mangiata dagli offerenti; e ciò per indicare che la salvezza del­ l'uomo procede da Dio sotto la direzione dei suoi ministri, e con la cooperazione di coloro che si salvano. - Ora, generalmente si osserva­ va questa prassi: il sangue e il grasso non veni­ vano ceduti né ai sacerdoti né agli ofterenti, ma il sangue veniva sparso sugli orli dell'altare a onore di Dio; il grasso invece veniva bruciato sul fuoco. E la prima ragione di questo fatto era di escludere l'idolatria. Infatti gli idolatri bevevano il sangue delle vittime e ne mangia­ vano il grasso, secondo le parole di Dt: Quelli

    che mangiavano il grasso dei loro sacrifici, che bevevano il vino delle loro libazioni. La seconda ragione invece parte dall'intento di moralizzare la vita umana. Veniva infatti proi­ bito di cibarsi del sangue perché tutti sentissero orrore di spargere il sangue umano: per cui è detto in Gen: Non mangerete la carne con il

    suo sangue: infatti io domanderò conto del sangue delle vostre anime. Era proibito poi di

    mangiare il grasso per evitare la dissolutezza: infatti in Ez è detto: Ammazzavate le pecore più grasse. La terza ragione poi è desunta dal rispetto verso Dio. Poiché il sangue è la cosa più necessaria alla vita, tanto che si dice che l ' anima è nel sangue; il grasso poi mostra l'abbondanza del nutrimento. Quindi, per con­ fessare che da Dio viene la nostra vita e l'ab­ bondanza di ogni bene, si spargeva il sangue e si bruciava il grasso in onore di Dio. La quarta ragione infine sta nel fatto che ciò prefigurava lo spargimento del sangue di Cristo, e l'ab­ bondanza della sua carità, che lo spinse a of­ frirsi a Dio per noi. - Nelle ostie pacifiche veniva poi ceduto al sacerdote il petto e la spal­ la destra per evitare quel tipo di divinazione che prende il nome di �patulamanzia: poiché si divinava osservando la spalla delle vittime o I' osso [lo sterno] del petto. E così queste parti venivano tolte agli offerenti. Ciò stava poi anche a significare che al sacerdote era neces­ saria, per istruire il popolo, la sapienza del cuore, indicata dal petto, che ne è la custodia, e per sosteneme le debolezze la fortezza, indica­ ta dalla spalla destra.

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    paupertatem offerentium, qui maiora animalia offerre non poterant. Et quia hostiae pacificae gratis offerebantur, et nullus eas offerre coge­ batur nisi spontaneus; ideo huiusmodi aves non offerebantur inter hostias pacificas, sed inter holocausta et hostias pro peccato, quas quandoque oportebat offerre. Aves etiam huiusmodi, propter altitudinem volatus, con­ gruunt perfectioni holocaustorum, et etiam hostiis pro peccato, quia habent gemitum pro cantu. Ad decimum dicendurn quod inter omnia sa­ crificia holocaustum erat praecipuum, quia totum comburebatur in honorem Dei, et nihil ex eo comedebatur. Secundum vero locum in sanctitate tenebat hostia pro peccato, quae co­ medebatur solum in atrio a sacerdotibus, et in ipsa die sacrificii. Tertium vero gradum tene­ bant hostiae pacificae pro gratimum actione, quae comedebantur ipso die, sed ubique in Ierusalem. Quartum vero locum tenebant ho­ stiae pacificae ex voto, qumum carnes poterant etiarn in crastino comedi. Et est ratio huius or­ dinis quia maxime obligatur homo Deo propter eius maiestatem, secundo, propter offensam commissam; tertio, propter beneficia iam su­ scepta; quarto, propter beneficia sperata. Ad undecimum dicendum quod peccata aggra­ vantur ex statu peccantis, ut supra [q. 73 a. l O] dictum est. Et ideo alia hostia mandatur oftèr­ ri pro peccato sacerdotis et principis, vel alte­ rius privatae personae. Est autem attenden­ dum, ut Rabbi Moyses dicit [Perplex. 3,46],

    quod quanto gravius erat peccatum, tanto vilior species animalis offerebatur pro eo. Unde capra, quod est vilissimum animai, offerebatur pro idololatria, quod est gravissi­ mum peccatum; pro ignorantia vero sacerdo­ tis offerebatur vitulus; pro negligentia autem principis, hircus. Ad duodecimum dicendum quod lex in sacri­ ficiis providere voluit paupertati oftèrentium, ut qui non posset habere animai quadrupes, saltem oftè1Tet avem; quam qui habere non posset, saltem offerret panem; et si hunc habere non posset, saltem offerret farinam vel spicas. - Causa vero figuralis est quia panis significat Christum, qui est panis vivus, ut dicitur Ioan. 6 [41.5 1 ]. Qui quidem erat sicut i n spica, pro statu legis naturae, i n fide patrum; erat autem sicut simila in doctrina legis prophetarum; erat autem sicut panis for-

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    9. L'olocausto era il sacrificio più perfetto, per cui non si offriva in olocausto altro che il maschio, essendo la femmina un animale im­ perfetto. Invece l'offerta delle tortore e delle colombe era permessa per la povertà degli of­ ferenti, che non potevano ofiìire animali supe­ riori. E poiché le ostie pacifiche erano offerte gratuitamente, e nessuno era costretto a offrirle se non spontaneamente, tali volatili non erano ammessi, ma venivano offerti solo come ostie per il peccato, che erano prescritte in date cir­ costanze. Inoltre tali uccelli per l'altezza del loro volo si addicono alla perfezione dell'olo­ causto; e si addicono anche al sacrificio per il peccato, poiché il loro canto è un gemito. 1 0. Fra tutti i sacrifici il principale era l'olocau­ sto: poiché veniva bruciato interamente a onore di Dio, e nessuna parte veniva mangiata. Al secondo posto, per santità, c'era il sacrificio per il peccato, che veniva mangiato solo nell'a­ trio dai sacerdoti, e soltanto nel giorno dell'im­ molazione. Al terzo posto poi c'erano le ostie pacifiche di ringraziamento, che venivano mangiate il giorno stesso, ma in qualsiasi luogo di Gerusalemme. Al quarto posto infine trovia­ mo le ostie pacifiche connesse con un voto, le cui carni potevano essere mangiate anche il giorno dopo. E la ragione di quest'ordine è il fatto che l'uomo si trova obbligato nei riguardi di Dio prima di tutto per la sua maestà; secon­ do, per l'offesa commessa; terzo, per i benefici ricevuti; quarto, per quelli sperati. 1 1 . Come si è spiegato in precedenza, i pecca­ ti diventano più gravi secondo lo stato di chi pecca. E così la vittima prescritta per il pecca­ to del sacerdote e del principe è diversa da quella imposta a una persona privata. «Si de­ ve però notare», scrive Mosè Maimonide, «che quanto più grave era il peccato, tanto più vile era la specie dell'animale da offrire per esso. Perciò la capra, che è l'animale più vile, era offerta per il peccato di idolatria, che è quello più grave; invece per l'ignoranza del sacerdote era offerto un vitello, e per la negli­ genza del principe un capretto». 1 2. La legge, nel prescrivere i sacrifici, volle provvedere alla povertà degli offerenti: in mo­ do che chi non atTivava a possedere un qua­ drupede offrisse almeno un volatile; e chi non arrivava a questo offrisse il pane; e se uno non aveva il pane, offrisse almeno farina o spighe. - La causa di ciò nell'ordine figurale

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    matus post humanitatem assumptam; coctus igne, idest formatus Spirito Sancto in clibano uteri virginalis; qui etiam fuit coctus in sarta­ gioe, per labores quos in mundo sustinebat; in cruce vero quasi in craticula adustus. Ad decimumtertium dicendum quod ea quae in usum hominis veniunt de terrae nascentibus, vel sunt in cibum, et de eis offerebatur panis. Vel sunt in potum, et de his offerebatur vinum. Vel sunt in condimentum, et de his offerebatur oleum et sal. Vel sunt in medicamentum, et de his offerebatur thus, quod est aromaticum et consolidativum. - Per panem autem figuratur caro Christi; per vinum autem sanguis eius, per quem redempti sumus; oleum figurat gratiam Christi; sal scientiam; thus orationem. Ad decimumquartum dicendum quod mel non offerebatur in sacrificiis Dei, tum quia consue­ verat offerri in sacrificiis idolorum. Tum etiam ad excludendam omnem camalem dulcedi­ nem et voluptatem ab his qui Deo sacrificare intendunt. Fermentum vero non offerebatur, ad excludendam corruptionem. Et forte etiam in sacrificiis idolorum solin1m erat offerri. Sal autem offerebatur, quia impedit corruptio­ nem putredinis, sacrificia autem Dei debent esse incorrupta. Et etiam quia in sale significa­ tur discretio sapientiae; vel etiam mortificatio carnis. - Thus autem offerebanu· ad designan­ dam devotionem mentis, quae est necessaria oftèrentibus; et etiam ad designandum odorem bonae famae, nam thus et pingue est, et odori­ ferum. Et quia sacrificium zelotypiae non pro­ cedebat ex devotione, sed magis ex suspicio­ ne, ideo in eo non offerebatur thus.

    Articulus 4 Utrum assignari possit certa ratio caeremoniarum quae ad sacra pertinent Ad quartum sic proceditur. Videtur quod cae­ remoniarum veteris legis quae ad sacra perti­ nent sufficiens ratio assignari non possit. l . Dicit enim Paulus, Act. 17 [24], Deus, qui

    fecit mundum et omnia quae in eo sunt, hic, caeli et terrae cum sit Dominus, non in manu­ factis templis habitat. Inconvenienter igitur ad

    sta invece nel fatto che il pane significa Cri­ sto, che è il pane vivo, come è detto in Gv. E questo, durante lo stato della legge di natura, era come nella spiga, nella fede dei patriarchi; era come fior di farina nella dottrina della legge e dei profeti; era come pane formato dopo l'incarnazione: cotto al fuoco, cioè for­ mato dallo Spirito Santo nel forno dell'utero verginale; che fu anche cotto nella casseruola per le fatiche sostenute nel mondo, e sulla croce fu quasi arrostito come su una graticola. 13. I prodotti della terra di cui l'uomo si ser­ ve, o sono cibi: e di essi veniva offerto il pane. O sono bevande: e di esse veniva offerto il vino. O sono condimenti: e di questi si offriva l'olio e il sale. O sono medicine: e tra queste si offriva l'incenso, che è aromatico e corro­ borante. - Inoltre il pane figura la carne di Cristo, e il vino il sangue da cui siamo stati redenti; l'olio rappresenta la grazia di Cristo; il sale la scienza; l'incenso la devozione. 14. Nei divini sacrifici non si offriva il miele sia perché esso era usato nei sacrifici idolatrici, sia per evitare ogni dolcezza e voluttà carnale in coloro che intendono sacrificare a Dio. Invece il lievito non lo si offriva per escludere la corruzione. E forse era anch'esso in uso nei sacrifici degli idoli. - n sale invece veniva of­ ferto perché impedisce la corruzione e la pu­ tredine: infatti i sacrifici fatti a Dio devono es­ sere incorrotti. E anche perché il sale significa la discrezione della sapienza, nonché la morti­ ficazione della carne. - L'incenso infine veniva offerto per indicare la devozione interiore necessaria negli offerenti; e anche per indicare I' odore della buona fama: infatti I' incenso è viscoso e odoroso. E poiché il sacrificio della gelosia non nasceva dalla devozione, ma dal sospetto, in esso non si offriva l'incenso. Articolo 4

    È possibile determinare una ragione plausibile delle cerimonie relative alle cose sacre? Sembra di no. Infatti: l . Paolo in At dice: Il Dio che ha fatto il mon­

    do e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non dimora in templi co­ struiti dalle mani dell'uomo. Perciò è priva di senso per il culto di Dio l'istituzione del taber­ nacolo e del tempio fatta dalla legge antica.

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    cultum Dei tabemaculum, vel templum, in lege veteri est institutum. 2. Praeterea, status veteris legis non fuit immu­ tatus nisi per Christum. Sed tabemaculum desi­ gnabat statum veteris legis. Non ergo debuit mutari per aedificationem alicuius templi. 3. Praeterea, divina lex praecipue etiam debet homines inducere ad divinum cultum. Sed ad augmentum divini cultus pertinet quod fiant multa altaria et multa tempia, sicut patet in nova lege. Ergo videtur quod etiam in veteri lege non debuit esse solum unum templum aut unum tabernaculum sed multa. 4. Praeterea, tabernaculum, seu templum, ad cultum Dei ordinabatur. Sed in Deo praecipue oportet venerari unitatem et simplicitatem. Non videtur igitur fuisse conveniens ut tabernaculum, seu templum, per quaedam vela distingueretur. 5. Praeterea, virtus primi moventis, qui est Deus, primo apparet in parte orientis, a qua parte incipit primus motus. Sed tabernaculum fuit institutum ad Dei adorationem. Ergo de­ bebat esse dispositum magis versus orientem quam versus occidentem. 6. Praeterea, Ex. 20 [4], Dominus praecepit ut non facerent sculptile, neque aliquam similitu­ dinem. Inconvenienter igitur in tabernaculo, vel in tempio, fuerunt sculptae imagines che­ rubim. Similiter etiam et arca, et propitiato­ rium, et candelabrum, et mensa, et duplex altare, sine rationabili causa ibi fuisse videntur. 7. Praeterea, Dominus praecepit, Ex. 20 [24], altare de terra facietis mihi. Et iterum [26],

    non ascendes ad altare meum per gradus.

    Inconvenienter igitur mandatur postmodum altare fieri de lignis auro vel aere contextis; et tantae altitudinis ut ad illud nisi per gradus ascendi non posset. Dicitur enim Ex. 27 [1],

    facies et altare de lignis setim, quod habebit quinque cubitos in longitudine, et totidem in latitudine, et tres cubitos in altitudine; et ope­ ries illud aere. Et Ex. 30 [ l ] dicitur, facies altare ad adolendwn thymiamata, de lignis setim, vestiesque illud auro purissimo. 8. Praeterea, in operibus Dei nihil debet esse superfluum, quia nec in operibus naturae ali­ quid superfluum invenitur. Sed uni tabernacu­ lo, vel domui, sufficit unum operimentum. Inconvenienter igitur tabernaculo fuerunt apposita multa tegumenta, scilicet cortinae, saga cilicina, pelles arietum rubricatae, et pel­ les hyacintinae.

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    2. Lo stato dell'antica legge fu mutato solo da Cristo. Ma il tabernacolo designava lo stato dell'antica legge. Quindi non doveva essere mutato con la costruzione di un tempio. 3. La legge divina ha il compito precipuo di disporre gli uomini al culto di Dio. Ora, al­ l' accrescimento del culto di Dio giova la mol­ teplicità degli altari e dei templi: come è evi­ dente nella nuova legge. Quindi anche nel­ l ' antica legge non ci doveva essere un solo tempio e un solo tabernacolo, bensì molti. 4. n tabernacolo, o il tempio, era ordinato al culto di Dio. Ma in Dio si deve onorare l'uni­ tà e la semplicità. Quindi non era giusto che il tabernacolo, o il tempio, fosse sezionato me­ diante alcuni veli. 5. La virtù del primo motore, che è Dio, si rivela prima di tutto a oriente, poiché da qui ha inizio il primo moto. Ora, il tabernacolo fu istituito per il culto di Dio. Perciò doveva essere disposto verso oriente piuttosto che verso occidente. 6. In Es Dio aveva comandato di non fare idolo o immagine alcuna. Quindi non era giu­ sto che nel tempio fossero scolpite delle im­ magini di cherubini. E così sembrano fuori posto l'arca, il propiziatorio, il candelabro, la mensa e il duplice altare. 7. In Es il Signore aveva comandato: Farete per me un altare di terra. E ancora: Non sali­ rai sul mio altare per mezzo di gradini. Perciò è irragionevole il comando successivo di costruire altari di legno coperti d'oro, o di rame, e di tale altezza da non potervi salire senza scalini. Infatti in Es è detto: Farai l'al­

    tare di legno di acacia: avrà cinque cubiti di lunghezza e cinque cubiti di larghezza. Avrà l'altezza di tre cubiti. Lo rivestirai di bronzo. E poi: Farai un altare sul quale bruciare l'in­ censo: lofarai in legno di acacia e lo coprirai di oro purissimo.

    8. Nelle opere di Dio non ci deve essere nulla di superfluo: poiché il superfluo è escluso an­ che dalle opere della natura. Ora, per una sola tenda, o casa, basta un'unica copertura. Quin­ di non c'era ragione di sovrapporre parecchie coperture per il tabernacolo, cioè cortine, sai di pelo, pelli rosse di capretti e pelli violacee. 9. La consacrazione esterna sta a significare la santità interiore, che risiede nell' anima. Non c ' era quindi motivo di consacrare i l tabernacolo e i suoi arredi, trattandosi di cose inanimate.

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    9. Praeterea, consecratio exterior interiorem

    sanctitatem significat, cuius subiectum est anima. Inconvenienter igitur tabemaculum et eius vasa consecrabantur, cum essent quae­ dam corpora inanimata. l O. Praeterea, in Psalmo 33 [2] dicitur, bene­

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    10. Nel Sal è detto: Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode. Ora, le feste furono istituite per lodare

    dicam Dominum in omni tempore, semper laus eius in ore meo. Sed solemnitates insti­

    Dio. Quindi non era ragionevole che venisse­ ro istituiti per le feste detenninati giorni. Così dunque le cerimonie relative sembrano prive di ragioni plausibili. In contrario: in Eb è detto: Quelli che offivno i

    tuuntur ad laudandum Deum. Non ergo fuit conveniens ut aliqui certi dies statuerentur ad solemnitates peragendas. Sic igitur videtur quod caeremoniae sacrorum convenientes causa non haberent. Sed contra est quod apostolus dicit, ad Heb. 8 [4] , quod il/i qui offerunt secundum legem

    doni secondo la legge attendono a un servizio che è una copia e un 'ombra delle realtà cele­ sti, secondo quanto Dio disse a Mosè quando stava per costruire la tenda: Guarda, disse, di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte. Ora, ciò che rappre­ senta l'immagine delle realtà celesti è assai

    munera, exemplari et umbrae deserviunt caele­ stium, sicut responsum est Moysi, cum consum­ maret tabemaculum, vide, inquit, omnia facito secundum exemplar quod tibi in monte mon­ stratum est. Sed valde rationabile est quod ima­

    ragionevole. Quindi le cerimonie relative alle cose sacre hanno una causa ragionevole. Risposta: il culto esterno è sempre ordinato principalmente a disporre gli uomini al rispet­ to verso Dio. Ora, l'affetto umano è portato a rispettare ben poco le cose ordinarie, mentre si ferma con ammirazione dinanzi a quelle che si distinguono per una certa eccellenza. E di qui è nato l'uso da parte dei re e dei princi­ pi, che devono essere rispettati dai sudditi, di coprirsi di vesti preziose e di abitare case più ampie e più belle. Quindi era necessario ordi­ nare al culto di Dio dei giorni speciali, una dimora speciale e degli arredi e ministri spe­ ciali, per indurre gli uomini a un maggior rispetto verso Dio. - Inoltre, come si è detto, lo stato dell'antica legge era destinato a prefi­ gurare il mistero di Cristo. Ora, ciò che deve raffigurare un oggetto deve essere qualcosa di determinato, così da esserne una somiglianza. Anche per questo dunque era necessario che si rispettassero speciali norme nelle cose ri­ guardanti il culto di Dio. Soluzione delle difficoltà: l . li culto di Dio riguarda due cose: Dio e gli uomini che lo adorano. Dio dunque, che è l ' oggetto del culto, non può essere racchiuso in alcun luogo: quindi per lui non era necessario costruire il tabernacolo, o il tempio. Ma gli uomini che lo adorano sono esseri corporei, e per essi bisognava costruire uno speciale tabernacolo, o tempio, per due motivi. Primo, perché radunandosi in tale luogo con il pen­ siero che esso è deputato al culto di Dio vi sarebbero accorsi con maggior rispetto. Secondo, affinché mediante la disposizione di tale tempio, o tabernacolo, venissero indicati

    ginem caelestium repraesentat. Ergo caeremo­ niae sacrorum rationabilem causam habebant. Respondeo dicendum quod totus exterior cul­ tus Dei ad hoc praecipue ordinatur ut hornines Deum in reverentia habeant. Habet autem hoc humanus affectus, ut ea quae communia sunt, et non distincta ab aliis, minus revereatur; ea vero quae habent aliquam excellentiae discre­ tionem ab aliis, magis admiretur et revereatur. Et inde etiam horninum consuetudo inolevit ut reges et principes, quos oportet in reverentia haberi a subditis, et pretiosioribus vestibus ornentur, et etiam ampliores et pulchriores habitationes possideant. Et propter hoc opor­ tuit ut aliqua specialia tempora, et speciale habitaculum, et specialia vasa, et speciales ministri ad cultum Dei ordinarentur, ut per hoc animi horninum ad maiorem Dei reverentiam adducerentur. - Similiter etiam status veteris legis, sicut dictum est [a. 2; q. 100 a. 1 2; q. 101 a. 2], institutus erat ad figurandum mysterium Christi. Oportet autem esse aliquid determina­ tum id per quod aliud tigurari debet, ut scilicet eius aliquam similitudinem repraesentet. Et ideo etiam oportuit aliqua specialia observari in his quae pertinent ad cultum Dei. Ad primum ergo dicendum quod cultus Dei duo respicit, scilicet Deum, qui colitur; et homines colentes. Ipse igitur Deus, qui colitur, nullo corporali loco clauditur, unde propter ipsum non oportuit tabernaculum fieri, aut templum. Sed homines ipsum colentes corpo-

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    rales sunt, et propter eos oportuit speciale tabemaculum, vel templum, institui ad cultum Dei, propter duo. Primo quidem, ut ad huius­ modi locum convenientes cum hac cogitatione quod deputaretur ad colendum Deum, cum maiori reverentia accederent. Secundo, ut per dispositionem talis templi, vel tabemaculi, significarentur aliqua pettinentia ad excellen­ tiam divinitatis vel humanitatis Christi. - Et hoc est quod Salomon dicit, 3 Reg. 8 [27], si

    caelum et caeli caelontm te capere non pos­ sunt, quanto magis domus haec, quam aedifi­ cavi tibi? Et postea subdit [29 sq.], sint oculi tui aperti super domum hanc, de qua dixisti, erit nomen meum ibi; ut exaudias deprecatio­ nem servi tui et populi tui lsrael. Ex quo patet quod domus sanctuarii non est instituta ad hoc quod Deum capiat, quasi localiter inhabitan­ tem; sed ad hoc quod nomen Dei habitet ibi, idest ut notitia Dei ibi manifestetur per aliqua quae ibi fiebant vel dicebantur; et quod, propter reverentiam loci, orationes fierent ibi magis exaudibiles ex devotione orantium. Ad secundum dicendum quod status veteris legis non fuit immutatus ante Christum quan­ tum ad i mpletionem legis, quae facta est solum per Christum, est tamen immutatus quantum ad conditionem populi qui erat sub lege. Nam primo populus fuit in deserto, non habens certam mansionem; postmodum autem habuerunt varia bella cum finitimis gentibus; ultimo autem, tempore David et Salomonis, populus ille habui t quietissimum statum. Et tunc primo aedificatum fuit tem­ plum, in loco quem designaverat Abraham, ex divina demonstratione, ad immolandum. Dicitur enim Gen. 22 [2] , quod Dominus mandavit Abrahae ut offerret filium suum in

    holocaustum super unum montium quem monstravero tibi. Et postea [ 1 4] dicit quod appellavi! nomen illius foci, Dominus videt, quasi secundum Dei praevisionem esset locus ille electus ad cultum divinum. Propter quod dicitur Deut. 12 [5], ad locum quem elegerit

    Dominus Deus vester, venietis, et offeretis holocausta et victimas vestras. Locus autem -

    ille designati non debuit per aedi ficationem templi ante tempus praedictum, propter tres rat i o n e s , quas R abbi Moyses assignat [Perplex. 3,45]. Prima est ne gentes appropria­ rent sibi locum illum. Secunda est ne gentes ipsum destruerent. Tertia vero ratio est ne

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    dei particolari relativi ali' eccellenza della divinità o dell'umanità di Cristo. - E al primo motivo accenna Salomone in l Re: Se il cielo

    e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costntito. E poi aggiunge: Siano aperti i tuoi occhi su questa casa, di cui hai detto: Là sarà il mio nome; perché tu esaudisca le preghiere del tuo servo e del tuo popolo Israele. Dal che si dimostra che il santuario non fu edificato per contenere Dio fisicamente in un'abitazione, ma perché «là abitasse il suo nome», cioè affinché là si manifestasse la conoscenza di Dio, mediante le cose che vi si facevano o dicevano; e per­ ché mediante il rispetto del luogo le preghiere divenissero più degne di essere esaudite, per la devozione degli oranti. 2. Prima di Cristo non ci fu mutazione nello stato dell'antica legge rispetto al compimento della legge, che avvenne solo con Cristo: tut­ tavia ci fu un mutamento rispetto alla condi­ zione del popolo soggetto alla legge. Questo infatti prima si trovava nel deserto, senza fissa dimora; quindi ci furono diverse guerre con i popoli vicini; finalmente al tempo di Davide e di Salomone il popolo godette di una grande pace. E allora fu edificato il tempio per la prima volta, nel luogo designato da Abramo per i l sacrificio, dietro indicazione divina. Infatti in Gen è detto che Dio comandò ad Abramo di ojjt·ire suo figlio in olocausto su quel monte che gli avrebbe indicato. E poi aggiunge che [Abramo] chiamò quel luogo il Signore provvede, come per dire che secondo le previsioni di Dio quel luogo era stato scelto per il culto di Dio. Per cui in Dt è detto: Vi

    recherete al luogo che il Signore Dio vostro sceglierà, e offrirete i vostri olocausti e le vostre vittime. - Ma questo luogo non doveva essere designato per l'edificazione del tempio prima del tempo sopra indicato per i tre moti­ vi ricordati da Mosè Maimonide. Primo, per­ ché i gentili non se ne impossessassero. Se­ condo, perché non lo distruggessero. Terzo, affinché non nascessero liti e contese tra le varie tribù, volendolo ciascuna per sé nella divisione del territorio. Perciò il tempio fu edificato solo dopo che esse ebbero un re, capace di reprimere tali contese. Prima invece al culto di Dio era deputato un tabernacolo portatile, come per indicare che non c'era un luogo determinato per il culto. E questa è la

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    quaelibet tribus vellet habere locum illum in sorte sua, et propter hoc orirentur lites et iur­ gia. Et ideo non fuit aedificatum templum donec haberent regem, per quem posset huius­ modi iurgium compesci. Antea vero ad cul­ tum Dei erat ordinatum tabernaculum portati­ le per diversa loca, quasi nondum existente determinato loco divini cultus. Et haec est ratio litteralis diversitatis tabernaculi et templi. - Ratio autem tiguralis esse potest quia per haec duo significatur duplex status. Per taber­ naculum enim, quod est mutabile, significatur status praesentis vitae mutabilis. Per templum vero, quod erat fixum et stans, significatur status futurae vitae, quae omnino invariabilis est. Et propter hoc in aedificatione templi dicitur quod non est auditus sonitus mallei vel securis, ad significandum quod omnis pertur­ bationis tumultus longe erit a statu futuro. Vel per tabernaculum significatur status veteris legis, per templum autem a Salomone con­ structum, status novae legis. Unde ad con­ structionem tabernaculi soli Iudaei sunt ope­ rati, ad aedificationem vero templi cooperati sunt etiam gentiles, scilicet Tyrii et Sidonii. Ad tertium dicendum quod ratio unitatis tem­ pli, vel tabernaculi, potest esse et litteralis, et figuralis. Litteralis quidem est ratio ad exclu­ sionem idololatriae. Quia gentiles diversis diis diversa tempia constituebant, et ideo, ut fir­ maretur in animis hominum tìdes unitatis divinae, voluit Deus ut in uno loco tantum sibi sacrificium offerretur. Et iterum ut per hoc ostenderet quod corporalis cultus non propter se erat ei acceptus. Et ideo compesce­ bantur ne passim et ubique sacrificia offer­ rent. Sed cultus novae legis, in cuius sacrificio spiritualis gratia continetur, est secundum se Deo acceptus. Et ideo multiplicatio altarium et templorum acceptatur in nova lege. Quantum vero ad ea quae pertinebant ad spi­ ritualem cultum Dei, qui consistit in doctrina legis et prophetarum, erant etiam in veteri lege diversa loca deputata in qtùbus convenie­ bant ad laudem Dei, quae dicebantur synago­ gae, sicut et nunc dicuntur Ecclesiae, in qui­ bus populus Christianus ad laudem Dei con­ gregatur. Et sic Ecclesia nostra succedit in locum et templi et synagogae, quia ipsum sacrificium Ecclesiae spirituale est; unde non distinguitur apud nos locus sacriticii a loco doctrinae. - Ratio autem figuralis esse potest

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    ragione letterale [o storica] del passaggio dal tabernacolo al tempio. - Invece la ragione figurale [o mistica] può essere il fatto che que­ ste due cose designano due stati. n tabernaco­ lo, con la sua mutabilità, potrebbe significare lo stato mutevole della vita presente. n tempio invece, con la sua fissità, potrebbe significare lo stato della vita futura, che è del tutto inva­ riabile. S i dice infatti che nella costruzione del tempio non si sentivano i mmmi dei martelli e delle accette, per indicare che nello stato futu­ ro sarà allontanato ogni tumulto e ogni turba­ mento. Oppure il tabernacolo potrebbe signifi­ care lo stato della legge antica, e il tempio di Salomone lo stato della legge nuova. Infatti alla costruzione del tabernacolo lavorarono soltanto gli Ebrei, mentre alla costruzione del tempio cooperarono anche i gentili, cioè gli abitanti di Tiro e di Sidone. 3. n motivo che spiega l'unità del tempio, o del tabernacolo, può essere sia di ordine stori­ co che di ordine mistico. n motivo storico, o letterale, è quello di preservare dall'idolatria. Poiché i gentili per i diversi dèi costruivano templi diversi: per fissare quindi nella mente degli uomini la fede nell'unità di Dio, questi volle che gli venissero offerti dei sacrifici in un luogo soltanto. - E anche per dimostrare che il culto esterno non gli era accetto per se stesso. Era quindi proibito di offrire sactifici qua e là e in ogni luogo. Invece il culto della nuova legge, il cui sacrificio contiene la grazia spiri­ tuale, è accetto a Dio per se stesso. E così nella legge nuova è ammessa la pluralità degli altari e dei templi. - Rispetto però agli elementi del culto spirituale di Dio, consistente nella dottri­ na della legge e dei profeti, anche nell'antica legge erano molti i luoghi designati perché vi ci si raccogliesse per la lode di Dio, e che erano chiamati sinagoghe: analogamente alle nostre chiese, in cui il popolo cristiano si rac­ coglie per lodare Dio. E così la nostra chiesa è succeduta al tempio e alla sinagoga, perché il sacrificio stesso della Chiesa è spirituale; quin­ di per noi il luogo del sacrificio non è distinto da quello dell'insegnamento. - Il motivo poi di ordine figurale può essere il fatto che questa unicità designa l'unità della Chiesa, sia mili­ tante che trionfante. 4. Come l' unicità del tabernacolo rappresen­ tava l ' unità di Dio, così le varie sezioni di esso rappresentavano la distinzione delle cose

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    quia per hoc significatur unitas Ecclesiae, vel militantis vel triumphantis. Ad quartum dicendum quod, sicut in unitate templi, vel tabernaculi, repraesentabatur uni­ tas Dei, vel unitas Ecclesiae; ita etiam in distinctione tabernaculi, vel templi, repraesen­ tabatur distinctio eorum quae Deo sunt subiecta, ex quibus in Dei venerationem con­ surgimus. Distinguebatur autem tabernacu­ lum in duas partes, in unam quae vocabatur Sanctc1 Sanctorum, quae erat occidentalis; et aliam quae vocabatur Sancta, quae erat ad orientem. Et itemm ante tabernaculum erat atrium. Haec igitur distinctio duplicem habet rationem. Unam quidem, secundum quod tabernaculum ordinatur ad cultum Dei. Sic enim diversae partes mundi in distinctione tabernacoli figurantur. Nam pars illa quae sancta sanctorum dicitur, figurabat saeculum altius, quod est spiritualium substantiamm, pars vero illa quae dicitur sancta, exprimebat mundum corporalem. - Et ideo sancta a sanctis sanctorum distinguebantur quodam velo, quod quatuor coloribus erat distinctum, per quos quatuor elementa designantur, scilicet bysso, per quod designatur terra, quia byssus, idest linum, de terra nascitur; purpura, per quam significatur aqua, fiebat enim purpureus color ex quibusdam conchis quae inveniuntur in mari; hyacintho, per quem signiticatur aer, quia habet aereum colorem; et cocco bis tinc­ to, per quem designatur ignis. Et hoc ideo quia materia quatuor elementorum est impedi­ mentum per quod velantur nobis incorporales substantiae. Et ideo in interius tabernaculum, idest in sancta sanctorum, solus summus sacerdos, et semel in anno, introibat, ut designaretur quod haec est finalis perfectio hominis, ut ad illud saeculum introducatur. In tabernaculum vero exterius, idest in sancta, introibant sacerdotes quotidie, non autem populus, qui salurn ad atrium accedebat, quia ipsa corpora populus percipere potest; ad inte­ riores autem eomm rationes soli sapientes per considerationem attingere possunt. - Secundum vero rationem figuralem, per exterius taber­ naculum, quod dicitur sancta, significatur sta­ tus veteris legis, ut apostolus dicit, ad Heb. 9 [6 sqq.], quia ad illud tabernaculum semper

    introibant sacerdotes sacrificiorum offida consummantes. Per interius vero tabernacu­ lum, quod dicitur sancta sanctorum, signifi-

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    a lui soggette, e dalle quali ci eleviamo all'a­ dorazione di Dio. Ora, il tabernacolo era divi­ so in due parti: la prima, posta a occidente, era chiamata il Santo dei Santi; l'altra, posta a oriente, era chiamata il Santo. Dinanzi al tabernacolo, poi, vi era un atrio. Ora, questa divisione aveva due motivi. Il primo si riferi­ sce al culto di Dio, a cui il tempio era ordina­ to. E in questo senso nelle sezioni del taberna­ colo sono indicate le varie parti dell'universo. Infatti la parte denominata Santo dei Santi rappresentava il mondo superiore delle so­ stanze spirituali; invece il Santo indicava il mondo corporeo. - E così il Santo era diviso dal Santo dei Santi con un velo di quattro colori: del bisso, che designa la terra, poiché il bisso, cioè il lino, nasce dalla terra; della porpora, che indica l'acqua, poiché veniva estratta da certe conchiglie marine; del giacin­ to, che indica l'aria, poiché ha un colore ceru­ leo; del cocco tinto due volte, che sta a indica­ re il fuoco. E ciò perché la materia dei quattro elementi ci è di ostacolo allo svelamento delle sostanze incorporee. Quindi nel tabernacolo più recondito, cioè nel Santo dei Santi, entra­ va una sola volta all' anno il solo sommo sacerdote: per indicare che l'ultima perfezio­ ne dell'uomo consiste nell'essere ammesso in tale mondo. Invece nel tabernacolo antistante, cioè nel Santo, i sacerdoti entravano ogni giorno, ma non vi entrava il popolo, che era ammesso solo nell'atrio: poiché il popolo è capace di percepire solo le realtà materiali, mentre i soli sapienti sono capaci di raggiun­ gere con la riflessione le ragioni ultime delle cose. - Stando poi al secondo motivo, che è di ordine figurale, il tabernacolo antistante, ossia il Santo, indica lo stato dell' antica legge, come è detto in Eb: poiché in questo taberna­ colo entravano in qualunque momento i

    sacerdoti, per compiere il loro servizio relati­ vo ai sacrifici. Invece i l tabernacolo più recondito, cioè il Santo dei Santi, indicava o la gloria celeste, oppure lo stato spirituale della nuova legge, che è un preludio della glo­ ria futura. Nel quale stato ci ha introdotti Cristo, il che veniva prefigurato dal fatto che una volta all'anno il solo sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi. Il velo poi stava a indicare che negli antichi sacrifici erano sot­ tintesi i sacrifici spirituali [della nuova legge]. E tale velo era di quattro colori: bianco, per

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    catur vel caelestis gloria, vel etiam status spiri­ tualis novae legis, qui est quaedam inchoatio futurae gloriae. In quem statum nos Christus introduxit, quod figurabatur per hoc quod summus sacerdos, semel in anno, solus in sancta sanctorum intrabat. Velum autem figu­ rabat spiritualium occultationem sacrificio­ rum in veteribus sacrificiis. Quod velum quatuor coloribus erat ornatum, bysso qui­ dem, ad designandam carnis puritatem; pur­ pura autem, ad figurandum passiones quas sancti sustinuemnt pro Deo; cocco bis tincto, ad significandum caritatem geminam Dei et proximi; hyacintho autem significabatur cae­ lestis meditatio. Ad statum autem veteris legis aliter se habebat populus, et aliter sacerdotes. Nam populus ipsa corporalia sacrificia consi­ derabat, quae in atrio offerebantur. Sacerdotes vero rationem sacrificiorum considerabant, habentes fidem magis explicitam de mysteriis Christi. Et ideo intrabant in exterius tabemacu­ lum. Quod etiam quodam velo distinguebatur ab atrio, quia quaedam erant velata populo circa mysterium Christi, quae sacerdotibus erant nota. Non tamen erant eis piene revela­ ta, sicut postea in Novo Testamento, ut habe­ tur Eph. 3 [5] . Ad quintum dicendum quod adoratio ad occi­ dentem fuit introducta in lege ad excluden­ dam idololatriam, nam omnes gentiles, i n reverentiam solis, adorabant ad orientem; u n de d i c i tu r Ez. 8 [ 1 6] , quod q u i d a m

    habebant dorsa contra templum Domini et facies ad orientem, et adorabant ad ortum solis. Unde ad hoc excludendum, tabernacu­ lum habebat sancta sanctorum ad occidentem, ut versus occidentem adorarent. - Ratio etiam figuralis esse potest quia totus status prioris t abernac u l i ord i nabatur ad figurandum mortem Christi, quae significatur per occa­ sum; secundum illud Psalmi 67 [5 ] , qui

    ascendit super occasum, Dominus nomen illi. Ad sextum dicendum quod eorum quae in tabernaculo continebantur, ratio reddi potest et litteralis et figuralis. Litteralis quidem, per relationem ad cultum divinum. Et quia dic­ tum est [ad 4] quod per tabernaculum inte­ rius, quod dicebatur Sancta Sanctorum, signi­ ficabatur saeculum altius spiritualium sub­ stantiarum, ideo in ilio tabernaculo tria conti­ nebantur. Scilicet arca testamenti, in qua erat

    urna aurea habens manna, et virga Aaron

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    indicare la purezza dei corpi; porpora, per raf­ figurare le tribolazioni che i santi avrebbero sofferto per Dio; scarlatto, tinto due volte, per significare la duplice carità di Dio e del pros­ simo; celeste, per indicare la contemplazione delle realtà celesti. Però nello stato dell' antica legge diversa era la condizione del popolo e dei sacerdoti. Infatti il popolo guardava ai sacrifici offerti nell' atrio. I sacerdoti invece consideravano le ragioni di tali sactifici, aven­ do una fede più esplicita nei misteri di Cristo. Per cui essi entravano nel tabernacolo anti­ stante. E questo era separato dali' atrio me­ diante un velo: poiché alcune cose riguardanti Cristo erano velate al popolo, ma note ai sa­ cerdoti . Tuttavia, esse non erano state loro svelate pienamente, come avvenne poi nel Nuovo Testamento, come è detto in Ef 5. Nella legge fu introdotta l'adorazione verso l 'occidente per preservare dall'idolatria: infat­ ti tutti i gentili, per venerazione verso il sole, adoravano volti a oriente; infatti in Ez è detto che alcuni erano con le 5palle voltate al tem­

    pio e la faccia a oriente, e adoravano il sole che sorge. Per evitare dunque questo pericolo il tabernacolo aveva il Santo dei Santi a occi­ dente, perché adorassero in tale direzione. Inoltre la ragione figurale poteva essere que­ sta: che tutto l 'ordinamento del primo taber­ nacolo era preordinato a raffigurare la morte di Cristo, indicata dall'occaso, secondo l'e­ spressione del Sal: Colui che s 'avanza sopra

    l'occaso, "Signore" è il suo nome. 6. Di quanto era contenuto nel tabernacolo si possono dare ragioni letterali e figurali. Le ragioni letterali [o storiche] si riferiscono al culto di Dio. E poiché si è detto che il taber­ nacolo più recondito, cioè il Santo dei Santi, stava a indicare il mondo superiore delle sostanze spirituali, in esso si conservavano tre cose. Cioè l'arca dell 'alleanza, in cui c'era il

    vaso d'oro con la manna, la verga di Aronne che era fiorita e le tavole dei dieci comanda­ menti della legge [Eh] . E quest' arca era posta tra due cherubini, che si guardavano recipro­ camente. Sull'arca poi c'era una tavola chia­ mata propiziatorio, che poggiava sulle ali dei cherubini, come se fosse da essi portata, quasi si immaginasse che quella tavola fosse il trono di Dio. Perciò era chiamata propiziato­ rio: quasi che, sollecitato dalle preghiere del sommo sacerdote, di là Dio si mostrasse pro-

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    quaefronduerat, et tabulae [Hebr. 9,4] in qui­ bus erant scripta decem praecepta legis. Haec autem arca sita erat inter duos cherubim, qui se mutuis vultibus respiciebant. Et super arcam erat quaedam tabula, quae dicebatur propitiatorium, super alas cherubim, quasi ab ipsis cherubim portaretur, ac si imaginaretur quod illa tabula esset sedes Dei. Unde et pro­ pitiatorium dicebatur, quasi exinde populo propitiaretur, ad preces summi sacerdotis. Et ideo quasi portabatur a cherubim, quasi Deo obsequentibus, arca vero testamenti erat quasi scabellum sedentis supra propitiatorium. Per haec autem tria designantur tria quae sunt in ilio altiori saeculo. Scilicet Deus, qui super omnia est, et incomprehensibilis omni creatu­ rae. Et propter hoc nulla similitudo eius ponebatur, ad repraesentandam eius invisibili­ tatem. Sed ponebatur quaedam figura sedis eius, quia scilicet creatura comprehensibilis est, quae est subiecta Deo, sicut sedes sedenti. Sunt etiam in illo altiori saeculo spirituales substantiae, quae angeli dicuntur. Et hi signi­ ficantur per duos cherubim; mutuo se respi­ cientes, ad designandam concordiam eorum ad invicem, secundum illud Iob 25 [2], qui facit concordiam in sublimibus. Et propter hoc etiam non fuit unus tantum cherubim, ut designaretur multitudo caelestium spitituum, et excluderetur cultus eorum ab his quibus praeceptum erat ut solum unum Deum cole­ rent. Sunt etiam in ilio intelligibili saeculo rationes omnium eorum quae in hoc saeculo perficiuntur quodammodo clausae, sicut ra­ tiones effectuum clauduntur in suis causis, et rationcs artificiatorum in artifice. Et hoc si­ gnificabatur per arcam, in qua repraesenta­ bantur, per tria ibi contenta, tria quae sunt potissima in rebus humanis, scilicet sapientia, quae repraesentabatur per tabulas testamenti; potestas regiminis, quae repraesentabatur per virgam Aaron; vita, quae repraesentabatur per manna, quod fuit sustentamentum vitae. Vel per haec tria significabantur tria Dei attributa, scilicet sapientia, in tabulis; potentia, in virga; bonitas, in manna, tum propter dulcedinem, tum quia ex Dci misericordia est populo da­ tum, et ideo in memoriam divinae misericor­ diae conservabatur. - Et haec tiia etiam figurata sunt in visione Isaiae [6]. Vidit enim Domi­ num sedentem super solium excelsum et ele­ vatum; et seraphi m assistentes; et domum

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    pizio al popolo. E veniva portata dai cherubini per mostrare la sudditanza degli angeli a Dio, mentre l'arca dell 'alleanza era come lo sga­ bello di colui che sedeva sul propiziatorio. Ora, queste tre cose indicano le tre realtà che si riscontrano nel mondo superiore. Cioè Dio, che è sopra tutti gli esseri, e trascende qualsia­ si creatura. Perciò di lui non si dava alcuna immagine, per ricordare la sua invisibilità. Si era invece collocata una figura del suo trono: poiché la creatura, che è sottoposta a Dio come il trono a chi vi si siede, è sempre com­ prensibile. In questo mondo superiore ci sono poi le sostanze spirituali, ossia gli angeli. E questi venivano indicati dai due chembini, i quali si guardavano reciprocamente per indi­ care la loro mutua concordia, secondo le parole di Gb: Egli mantiene la pace nel!'alto dei cieli. E non fu posto un chembino solo per indicare la molteplicità degli spiriti celesti, e per escludere il loro culto da parte di coloro ai quali era stato comandato di adorare un unico Dio. Inoltre in tale mondo di esseri intellettua­ l i si trovano come racchiuse le ragioni di quanto si compie nel nostro mondo, come le ragioni degli effetti sono racchiuse nelle loro cause, e quelle dei manufatti si trovano nel­ l ' artigiano. E ciò viene indicato dall' arca, nella quale erano raffigurate le tre realtà prin­ cipali del vivere umano, mediante le tre cose ivi contenute: la sapienza, rappresentata dalle tavole dell'alleanza; il potere, rappresentato dalla verga di Aronne; la vita, rappresentata dalla manna, che della vita era stata il sosten­ tamento. Oppure si può dire che da queste tre cose venivano espressi tre degli attributi divi­ ni: la sapienza dalle tavole; la potenza dalla verga; la bontà dalla manna, sia per la sua dolcezza, sia perché concessa al popolo dalla misericordia di Dio, per cui veniva conservata in ricordo della divina misericordia. - E que­ ste tre cose furono indicate anche nella visio­ ne di Isaia. Egli vide infatti il Signore che sedeva sopra un trono eccelso ed elevato, i seratini che lo assistevano e l'edificio ripieno della gloria di Dio. Per cui i serafini gridava­ no: Tutta la terra è piena della sua gloria. E così le immagini dei serafini non furono prescritte perché fossero adorate, il che era proibito dal primo precetto della legge, ma per indicare il loro ministero, come si è ac­ cennato. - E anche nel tabernacolo esterno, -

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    impleri a gloria Dei. Unde et seraphim dice­ bant, piena est omnis terra gloria eius. - Et sic similitudines seraphim non ponebantur ad cultum, quod prohibebatur primo legis prae­ cepto, sed in signum ministerii, ut dictum est. In exteriori vero tabernaculo, quod significat praesens saeculum, continebantur etiam tria, scilicet altare thymiamatis, quod erat directe contra arcam; mensa propositionis, super quam duodecim panes apponebantur, erat posita ex parte aquilonari; candelabrum vero ex parte australi. Quae tria videntur responde­ re tribus quae erant in arca clausa, sed magis manifeste eadem repraesentabant, oportet enim rationes rerum ad manifestiorem de­ monstrationem perduci quam sint in mente divina et angelorum, ad hoc quod homines sapientes eas cognoscere possint qui signifi­ cantur per sacerdotes ingredientes tabernacu­ lum. In candelabro igitur designabatur, sicut in signo sensibili, sapientia quae intelligibili­ bus verbis exprimebatur in tabulis. - Per alta­ re vero thymiamatis signiticabatur officium sacerdotum, quorum erat populum ad Deum reducere, et hoc etiam significabatur per vir­ gam. Nam in ilio altari incedebatur thymiama boni odoris, per quod significabatur sanctitas populi acceptabilis Deo, dicitur enim Apoc. 8 [3], quod per fumum aromatum significantur iustificationes sanctorum. Convenienter autem sacerdotalis dignitas in arca significa­ batur per virgam, in exteriori vero tabernaculo per altare thymiamatis, quia sacerdos media­ tor est inter Deum et populum, regens popu­ lum per potestatem divinam, quam v i rga significat; et fructum sui regiminis, scilicet sanctitatem populi, Deo offert, quasi in altari thymiamatis. - Per mensam autem significa­ tur nutrimentum vitae, sicut et per manna. Sed hoc est communius et grossius nunimentum, illud autem suavius et subtilius. - Convenienter autem candelabrum ponebatur ex parte Australi, mensa autem ex parte aquilonari, quia Australis pars est dextera pars mundi, aquilonaris autem sinistra, ut dicitur in 2 De caelo et mundo [2, l O]; sapientia autem perti­ net ad dextram, sicut et cetera spiritualia bona; temporale autem nutrimentum ad sini­ stram, secundum illud Prov. 3 [ 1 6], in sinistra illius divitiae et gloria. Potestas autem sacer­ dotalis media est inter temporalia et spiritua­ lem sapientiam, quia per eam et spiritualis

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    che simboleggiava il mondo presente, vi erano tre cose: l'altare degli incensi, che era di­ rimpetto all'arca; la mensa della proposizione, su cui si deponevano dodici pani, che era col­ locata verso settentrione; il candelabro, dalla parte di mezzogiorno. E queste tre cose sem­ brano corrispondere alle tre racchiuse nell'ar­ ca, rappresentando le stesse verità, però in modo più evidente: i nfatti le ragioni delle cose hanno bisogno di una manifestazione più evidente di quella che hanno nella mente di Dio e degli angeli, se si vuole che le possa­ no conoscere anche gli uomini saggi, indicati nei sacerdoti che avevano accesso al taberna­ colo. Perciò nel candelabro veniva indicata, come in un segno sensibile, la sapienza, che i nvece era espressa nelle tavole con parole intelligibili. - L' altare degli incensi indicava invece l ' ufficio dei sacerdoti, che hanno i l compito d i condurre il popolo a Dio: e ciò era indicato anche dalla verga. Infatti in questo altare erano bruciati incensi dall' odore grade­ vole, mediante cui si indicava la santità del popolo accetto a Dio: poiché in Ap è detto che il profumo degli aromi indica le buone opere dei santi. Ed era giusto che nell'arca la digni­ tà sacerdotale fosse indicata dalla verga, men­ tre nel tabernacolo esterno era indicata dal­ l' altm·e dell' incenso: poiché il sacerdote è il mediatore tra Dio e il popolo, governando il popolo col potere di Dio, raffigurato dalla verga; e offre il frutto del suo governo, cioè la santità del popolo, come sull' altare dell' in­ censo. - La mensa poi, come anche la manna, sta a indicare il nutrimento vitale. Ma il nutri­ mento della mensa è più ordinario e grossola­ no, mentre quello della manna è più dolce e raffinato. - Era giusto, inoltre, che il candela­ bro fosse verso il meridione, e la mensa verso il settentrione: poiché il meridione è la parte destra del mondo, mentre il settentrione ne è la sinistra, come insegna Aristotele; ora la sapienza, con gli altri doni spirituali, appartie­ ne alla destra, e il nutrimento materiale alla sinistra, secondo le parole di Pr: Nella sua sinistra ricchezza e onore. Invece il potere sacerdotale sta in mezzo, fra le realtà tempo­ rali e la sapienza spirituale: poiché esso di­ spensa sia la sapienza spirituale che i beni temporali. - Tuttavia di tutte queste cose si può dare una spiegazione ancora più letterale. Infatti nell' arca erano conservate le tavole

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    Le cause dei precetti cerimoniali

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    sapientia et temporalia dispensantur. - Potest autem et homm alia ratio assignari magis lit­ teralis. In arca enim continebantur tabulae legis, ad tollendam legis oblivionem, unde dicitur Ex. 24 [ 1 2], dabo tibi duas tabulas

    della legge, per evitarne la dimenticanza: per cui in Es è detto: 1i darò le due tavole di pietra,

    la legge e i comandamenti che io ho scritto perché tu istruisca i.figli di Israele. - La verga

    lapideas et legem ac mandata quae scripsi, ut doceasfilios Jsrael. - Virga vero Aaron pone­

    di Aronne stava invece là per togliere ogni disputa nel popolo sul sacerdozio di Aronne: così infatti si dice nei Nm: Riporta la verga di

    batur ibi ad comprimendam dissensionem populi de sacerdotio Aaron, unde dicitur Num. 17 [l 0], refer virgam Aaron in taber­

    Aronne davanti alla tenda della testimonian­ za, perché sia conservata come un monito per i ribelli figli di Israele. - La manna, ancora,

    naculum testimonii, ut servetur in signum rebellium filiorum lsrael. - Manna autem con­

    era conservata nell'arca in ricordo dei benefi­ ci di Dio verso i figli d'Israele nel deserto: poiché in Es è detto: Riempitene un omer e

    servabatur in arca, ad commemorandum bene­ ficium quod Dominus praestitit filiis Israel in deserto, unde dicitur Ex. 1 6 [32] , imple gomor ex eo, et custodiatur in futuras retro

    generationes, ut noverint panes de quibus alui vos in solitudine. - Candelabmm vero erat insti­ tutum ad honorificentiam tabemaculi, pertinet enim ad magnificentiam domus quod sit bene luminosa. Habebat autem candelabrum septem calamos, ut losephus dicit [Antiq. 3,7,7], ad signiticandum septem planetas, quibus totus mundus illuminatur. Et ideo po­ nebatur candelabrum ex parte Australi, quia ex illa parte est nobis planetarum cursus. Altare vero thymiamatis erat institutum ut iugiter in tabernaculo esset fumus boni odo­ ris, tum propter venerationem tabernaculi; tum etiam in remedium fetoris quem oporte­ bat accidere ex effusione sanguinis et occisio­ ne animalium. Ea enim quae sunt fetida, despiciuntur quasi vilia, quae vero sunt boni odoris, homines magis appretiant. - Mensa autem apponebatur ad significandum quod sacerdotes tempio servientes, in tempio vic­ tum habere debebant, unde duodecim panes superpositos mensae, in memoriam duodecim tribuum, solis sacerdotibus edere licitum erat, ut habetur Matth. 1 2 [4]. Mensa autem non ponebatur directe in medio ante propitiato­ rium, ad excludendum ritum idololatriae, nam gentiles in sacris lunae proponebant mensam coram idolo lunae; unde dicitur ler. 7 [ 1 8],

    mulieres conspergunt adipem ut faciant pla­ centas reginae caeli. In atrio vero extra -

    tabernaculum continebatur altare holocausto­ rum, in quo offerebantur Deo sacrificia de his quae erant a populo possessa. Et ideo in atrio poterat esse populus, qui huiusmodi Deo offe­ rebat per manus sacerdotum. Sed ad altare interius, in quo ipsa devotio et sanctitas populi

    conservatelo per i vostri discendenti, perché vedano il pane che vi ho dato da mangiare nel dese11o. Il candelabro poi era stato ordi­ -

    nato al decoro del tabernacolo: i nfatti la buona illuminazione contribuisce alla magni­ ficenza di un edificio. E come Giuseppe Fla­ vio riferisce, il candelabro aveva sette braccia per indicare i sette pianeti che illuminano tutto il mondo. E così il candelabro era posto verso mezzogiorno: poiché da quella parte si svolge per noi il corso dei pianeti. - Invece l 'altare degli incensi fu istituito perché nel tabernacolo ci fosse sempre un fumo profu­ mato: sia per il rispetto verso il tabernacolo, sia per togliere il fetore connesso con l' effu­ sione del sangue e con l'uccisione degli ani­ mali. Infatti le cose maleodoranti sono di­ sprezzate come vili, mentre si apprezzano di più quelle profumate. - La mensa poi sta a indicare che i sacerdoti, addetti al tempio, devono avere dal tempio il loro vitto: come si ha in Mt, soltanto ai sacerdoti era permesso di mangiare i dodici pani che vi si ponevano sopra in memoria delle dodici tribù. La mensa però non era posta nel mezzo di fronte al pro­ piziatorio, per evitare un rito idolatrico: infatti i pagani nei sacrifici offerti alla luna metteva­ no la mensa davanti al suo idolo; per cui in Ger è detto: Le donne impastano la farina per preparare focacce alla regina del cielo. Nell' atrio fuori del tabernacolo si trovava invece l'altare degli olocausti, in cui si offri­ vano a Dio sacrifici di quanto il popolo posse­ deva. Perciò nell'atrio era ammesso il popolo che offriva a Dio tali cose, servendosi delle mani dei sacerdoti. Invece all'altare interno, in cui si offriva a Dio la devozione e la santità stessa del popolo, non potevano accedere che i sacerdoti, a cui spettava il compito di offrire

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    Le cause dei precetti cerimoniali

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    Deo offerebatur, non poterant accedere nisi sacerdotes, quorum erat Deo offerre populum. Est autem hoc altare extra tabemaculum in atrio constitutum, ad removendum cultum idolola­ triae, nam gentiles infra tempia altaria consti­ tuebant ad immolandum idolis. - Figuralis vero ratio omnium horum assignari potest ex rela­ tione tabemaculi ad Christum, qui figurabatur. Est autem considerandum quod ad designan­ dum imperfectionem legalium tigurarum, diversae figurae fuerunt institutae in tempio ad significandmn Christmn. - Ipse enim signi­ ficatur per propitiatorium, quia ipse est pmpi­ tiatio pm peccatis nostris, ut dicitur l Ioan. 2 [2] . Et convenienter hoc propitiatorium a cherubim portatur, quia de eo scriptum est, adorent eum omnes angeli Dei, ut habetur Heb. l [6]. lpse etiam significatur per arcam, quia sicut arca erat constructa de lignis setim, ita corpus Christi de membris purissimis con­ stabat. Erat autem deaurata, quia Christus fuit plenus sapientia et caritate, quae per aurum signiticantur. Intra arcam autem erat urna aurea, idest sancta anima; habens manna, idest omnem plenitudinem divinitatis [Col. 2,9]. Erat etiam in arca virga, idest potestas sacerdotali s. quia ipse est factus sacerdos in aeternum [Hebr. 6,20]. Erant etiam ibi tabulae testamenti , ad designandum quod i pse Christus est legis dator. - Ipse etiam Christus significatur per candelabrum, quia ipse dicit [loan. 8, 12], ego sum lux mundi, per septem lucemas, septem dona Spiritus Sancti. Ipse est spiritualis cibus, secundum illud Ioan. 6 [4 1 .5 1 ] , ego sum panis vivus, duodecim autem panes significant duodecim apostolos, vel doctrinam eorum. Sive per candelabrum et mensam potest significari doctrina et fides Ecclesiae, quae etiam illuminat et spiritualiter reficit. - lpse etiam Christus significatur per duplex altare holocaustorum et thymiamatis. Quia per ipsum oportet nos Deo offerre omnia virtutum opera, sive illa quibus camem aftli­ gimus, quae offeruntur quasi in altari holo­ caustorum; sive illa quae, maiore mentis per­ fectione, per spiritualia perfectorum desideria, Deo offeruntur in Christo, quasi in altari thy­ miamatis, secundum illud ad Heb. ult. [ 1 5],

    il popolo a Dio. Ma l'altare suddetto era stato predisposto fuori del tabernacolo, per elimina­ re il culto idolatrico: infatti i pagani erigevano gli altari dentro i templi per immolare agli idoli. - La ragione poi figurale [o mistica] di tutte queste cose va assegnata considerando i rapporti del tabernacolo con Cristo. Si tenga però presente che, per esprimere l'imperfezio­ ne delle antiche figure, nel tempio furono sta­ bilite figure molteplici per indicare il Cristo. Egli viene infatti indicato dal propiziatorio, perché egli stesso è la pmpiziazione per i no­ stri peccati, come è detto in l Gv. Ed è giusto che tale propiziatorio sia portato dai cherubini, poiché di lui è detto: Lo adorino tutti gli ange­ li di Dio (Eb). Inoltre egli viene indicato dal­ l ' arca: poiché come l'arca era stata costruita con legno di acacia, così il corpo di Cristo era costituito di membra purissime. Ed era dorata: poiché Cristo fu pieno di sapienza e di carità, rappresentate dall'oro. E dentro l'arca c'era un vaso d'oro, cioè un'anima santa, il quale con­ teneva la manna, cioè tutta la pienezza della divinità [Col]. E nell'arca c'era la verga, ossia il potere sacerdotale: poiché Cristo divenne sacerdote in eterno [Eb]. E vi erano anche le parole dell'alleanza, per indicare che Cristo era il vero legislatore. - Inoltre Cristo è raffi­ gurato dal candelabro, poiché egli stesso disse: Io sono la luce del mondo [ Gv] ; e le sette lucerne indicano i sette doni dello Spirito Santo. E viene raffigurato dalla mensa, essen­ do egli il cibo spirituale, secondo le parole di Gv: Io sono il pane vivo; e i dodici pani raffigurano i dodici apostoli, o la loro dottrina. Oppure il candelabro e la mensa possono indi­ care la dottrina e la fede della Chiesa, che insieme illumina e ristora spiritualmente. Inoltre Cristo viene indicato dai due altari degli olocausti e degli incensi. Poiché noi dob­ biamo servirei della sua mediazione per offrire a Dio tutte le azioni virtuose: sia quelle in cui affliggiamo la nostra carne, e che offriamo in qualche modo sull'altare degli olocausti, sia quelle che con una perfezione spirituale più grande i perfetti offrono a Dio in Cristo con i loro desideri, come sull'altare degli incensi, secondo le parole di Eb: Per mezzo di lui

    per ipsum ergo offeramus hostiam laudis semper Deo.

    dunque offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio. 7. n Signore comandò la costruzione degli al­

    Ad septimum dicendum quod Dominus prae­ cepit altare construi ad sacrificia et munera

    tari per offrire doni e sacrifici in onore di Dio

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    offerenda, in honorem Dei et sustentationem ministrorum qui tabernaculo deserviebant. De constructione autem altaris datur a Domino duplex praeceptum. Unum quidem in princi­ pio legis, Ex. 20 [24 sqq.], ubi Dominus man­ davit quod facerent altare de terra, vel saltem de lapidibus non sectis; et iterum quod non facerent altare excelsum, ad quod oporteret per gradus ascendere. Et hoc, ad detestan­ dum idololatriae cultum, gentiles enim idolis construebant altaria ornata et sublimia, in qui­ bus credebant aliquid sanctitatis et numinis esse. Propter quod etiam Dominus mandavit, Deut. 1 6 [2 1 ], non plantabis lucum, et omnem arborem, iuxta altare Domini Dei tui, idolola­ trae enim consueverunt sub arboribus sacrifi­ care, propter amoenitatem et umbrositatem. Quorum etiam praeceptorum ratio figuralis fuit. Quia in Christo, qui est nostrum altare, debemus confiteri veram carni s naturam, quantum ad humanitatem, quod est altare de terra facere, et quantum ad divinitatem, debe­ mus in eo confiteri patris aequalitatem, quod est non ascendere per gradus ad altare. Nec etiam iuxta Christum debemus admittere doc­ trinam gentilium, ad lasciviam provocantem. Sed facto tabernaculo ad honorem Dei, non erant timendae huiusmodi occasiones idolola­ tiiae. Et ideo Dominus mandavit quod fieret altare holocaustorum de aere, quod esset omni populo conspicuum; et altare thymia­ matis de auro, quod soli sacerdotes videbant. Nec erat tanta pretiositas aeris ut per hoc populus ad aliquam idololatriam provocaretur. - Sed quia Ex. 20 ponitur pro ratione huius praecepti, non ascendes per gradus ad altare meum, id quod subditur, ne reveletur turpitu­ do tua; considerandum est quod hoc etiam fuit institutum ad excludendam idololatriam, nam in sacris Priapi sua pudenda gentiles populo denudabant. Postmodum autem indic­ tus est sacerdotibus feminalium usus ad tegi­ men pudendorum. Et ideo sine peticulo insti­ tui potuit tanta altaris altitudo ut per aliquos gradus ligneos, non stantes sed portatiles, in hora sacrificii, sacerdotes ad altare ascenderent sacrificia offerentes. Ad octavum dicendum quod corpus taberna­ culi constabat ex quibusdam tabulis in longi­ tudinem erectis, quae quidem interius tege­ bantur quibusdam cortinis ex quatuor colo­ ribus variatis, scilicet de bysso retorta, et

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    e per il sostentamento dei ministri del santua­ rio. Ora, per la costruzione dell' altare il Si­ gnore diede due comandi. n primo all' inizio della legge in Es, nel quale comandò che costruissero un altare di terra, oppure di pie­ tre non lavorate, e quindi non un altare alto, al quale bisognerebbe salire con dei gradini. E ciò per condannare il culto idolatrico: infatti i pagani costruivano altari ornati e sublimi, nei quali credevano di trovare qualcosa di santo e di divino. E per la stessa ragione il Signore in Dt diede anche questo comando:

    Non pianterai né boschi né alberi vicino all'altare del Signore tuo Dio; invece gli ido­ latri usavano sacrificare sotto gli alberi, per l'amenità e per l' ombra. - E questi precetti ebbero anche una ragione figurale [o mistica]. In Cristo infatti, che è il nostt·o altare, dobbia­ mo ammettere una carne reale, rispetto all'u­ manità, il che equivale a costruire un altare di terra; e rispetto alla sua divinità dobbiamo ammettere in lui l' uguaglianza con il Padre, che equivale a non salire per gradini ali' altare. E neppure dobbiamo tollerare accanto a Cri­ sto la dottrina dei pagani che provoca alla lus­ suria. - Una volta però costruito il tabernaco­ lo in onore di Dio, non c'era più motivo di temere queste occasioni di idolatria. Perciò il Signore comandò di costruire l' altare degli olocausti in bronzo, e in modo che fosse visi­ bile da tutto il popolo; e di usare l' oro nel costruire l' altare dell'incenso, visibile ai soli sacerdoti. D'altra parte la preziosità del bron­ zo non era così grande da provocare il popolo all'idolatria. - Siccome però in Es si dà la ra­ gione di questo precetto, cioè Non salirai sul

    mio altare per mezzo di gradini, perché non si scopra la tua nudità, si deve notare che anche questo mirava a combattere l'idolatria: infatti nei sacrifici di Priapo i pagani scoprivano le loro vergogne. Ma i n seguito ai sacerdoti venne imposto l'uso delle mutande, per copri­ re le vergogne. E allora si poté stabilire senza pericolo un' altezza dell' altare tale per cui i sacerdoti neli' offiire i sacrifici dovevano sali­ re dei gradini di legno, non fissi, ma portatili. 8. n corpo del tabernacolo era costituito di un certo numero di tavole erette su tutta la sua lunghezza, tavole che internamente erano coperte di cortine dai vari colori: bianco, vio­ laceo, porpora e rosso vermiglio. Ma tali corti­ ne coprivano soltanto i lati del tabernacolo;

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    hyacintho, ac purpura, coccoque bis tincto. Sed huiusmodi cortinae tegebant solum latera tabernaculi, in tecto autem tabernaculi erat operimentum unum de pellibus hyacinthinis; et super hoc aliud de pellibus arietum rubri­ catis; et desuper tertium de quibusdam sagis cilicinis, quae non tantum operiebant tectum tabernacoli, sed etiam descendebant usque terram, et tegebant tabulas tabernaco l i exterius. Horum autem operimentorum ratio litteralis in communi erat ornatus et protectio tabernaculi, ut in reverentia haberetur. In spe­ ciali vero , secundum quosdam [ Petrus Comestor, Hist. Schola-;t., Ex. 58], per corti­ nas designabatur caelum sydereum, quod est diversis stellis variatum; per saga, aquae quae sunt supra firmamentum; per pelles rubri­ catas, caelum Empyreum, in quo sunt angeli; per pelles hyacinthinas, caelum Sanctae Trinitatis. - Figuralis autem ratio horum est quia per tabulas ex quibus construebatur tabernaculum, significantur Christi fideles, ex quibus construitur Ecclesia. Tegebantur autem interius tabulae cortinis quadricolo­ ribus, quia fideles interius ornantur quatuor virtutibus; nam in bysso retorta, ut Glossa [glos. ord.] dicit, significatur caro castitate

    renitens; in hyacintho, mens superna cupiens; in purpura, caro passionibus subiacens; in cocco bis tincto, mens inter passiones Dei et proximi dilectione praefulgens. Per operimen­ ta vero tecti designantur praelati et doctores, in quibus debet renitere caelestis conversatio, quod significatur per pelles hyacinthinas; promptitudo ad martyrium, quod significant pelles rubricatae; austeritas vitae et tolerantia adversorum, quae significantur per saga cilici­ na, quae erant exposita ventis et pluviis, ut Glossa [glos. ord.] dicit. Ad nonum dicendum quod sanctificatio taber­ nacoli et vasorum eius habebat causam littera­ lem ut in maiori reverentia haberetur, quasi per huiusmodi consecrationem divino cultui depu­ tatum. Figuralis autem ratio est quia per huius­ modi sanctificationem significatur spiritualis sanctificatio viventis tabernaculi, scilicet fide­ lium, ex quibus constituitur Ecclesia Christi. Ad decimum dicendum quod in veteri lege erant septem solemnitates temporales, et una continua, ut potest colligi Num. 28 et 29. Erat enim quasi continuum festum, quia quotidie mane et vespere immolabatur agnus. Et per

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    invece sul tetto c'era una prima copertura di pelli violacee; e su di essa una seconda di pelli tinte di rosso; e finalmente una terza copertura di sai di crine, e questi non coprivano soltanto il tetto del tabernacolo, ma scendevano fino a terra, e coprivano all ' esterno le tavole del tabernacolo. Ora, la ragione storica o letterale di queste coperture era l'ornamento e la prote­ zione del tabernacolo, perché fosse venerato. Tuttavia in particolare, secondo alcuni, le cor­ tine avrebbero designato il cielo sidereo, abbellito dalle varie costellazioni; i sai avreb­ bero raffigurato le acque esistenti sopra il fir­ mamento; le pelli tinte di rosso il cielo empi­ reo in cui si trovano gli angeli; le pelli violacee il cielo della santissima Trinità. - La ragione figurale invece sta nel fatto che le tavole, che formavano la struttura del tabernacolo, simbo­ leggiavano i semplici cristiani, che formano la Chiesa. Le tavole poi erano coperte di cortine di quattro colori perché i fedeli sono ornati interiormente di quattro virtù: infatti, come nota la Glossa, «nel colore del bisso ritorto viene indicata l a carne splendente per l a castità; nel violetto l ' anima desiderosa delle cose celesti; nella porpora la carne soggetta alle tribolazioni; nel cocco vermiglio tinto due volte è raffigurata l'anima che tra le sofferenze rifulge per l' amore di Dio e del prossimo». Invece le coperture del tetto indicano i prelati e i maestri: nei quali deve risplendere la vita celeste, indicata dalle pelli violacee; la pron­ tezza al martirio, indicata dalle pelli tinte di rosso; l'austerità della vita e la sopportazione delle avversità, indicate, come dice la Glossa, dal saio di crine esposto ai venti e alle piogge. 9. La consacrazione del tabernacolo e dei suoi arredi aveva come ragione storica lo scopo di conferire ad essi maggiore riverenza, median­ te tale consacrazione al culto di Dio. E come ragione figurale tale consacrazione stava a indicare la consacrazione spirituale del taber­ nacolo vivente, cioè dei fedeli, che costitui­ scono la Chiesa di Cristo. 10. Nell' antica legge vi erano sette feste tran­ sitorie e una continua, come si rileva dal libro dei Nm. Infatti vi era come una festa continua per il fatto che ogni giorno, mattina e sera, si immolava un agnello. E tale festa continua del «Sacrificio permanente» rappresentava la perpetuità della divina beatitudine. - La prima poi delle feste transitorie era quella che si

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    illud continuum festum iugis sacrificii reprae­ sentabatur perpetuitas divinae beatitudinis. Festorum autem temporalium primum erat quod iterabatur qualibet septimana. Et haec erat solemnitas sabbati, quod celebrabatur in memoriam creationis rerum, ut supra [q. l 00 a 5] dictum est. - Alia autem solemnitas iteraba­ tur quolibet mense, scilicet festum Neomeniae, quod celebrabatur ad commemorandum opus divinae gubernationis. Nam haec inferiora praecipue variantur secundum motum lunae, et ideo celebrabatur hoc festum in novitate lunae. Non autem in eius plenitudine, ad evi­ tandum idololatrarum cultum, qui in tali tem­ pore lunae sacrificabant. Haec autem duo beneficia sunt communia toti humano generi, et ideo frequentius iterabantur. - Alia vero quinque festa celebrabantur semel in anno, et recolebantur in eis beneficia specialiter illi populo exhibita. Celebrabatur enim festum Phase primo mense, ad commemorandum beneficium liberationis ex Aegypto. Celebra­ batur autem festum Pentecostes post quinqua­ ginta dies, ad recolendum beneficium legis datae. - Alia vero tria festa celebrabantur in mense septimo, qui quasi totus apud eos erat solemnis, sicut et septimus dies. In prima enim die mensis septimi erat festum Tubarum, in memoriam liberationis Isaac, quando Abraham invenit arietem haerentem cornibus, quem repraesentabant per cornua quibus buc­ cinabant. Erat autem festum tubarum quasi quaedam invitatio ut praepararent se ad sequens festum, quod celebrabatur decimo die. Et hoc erat festum Expiationis, in memo­ riam illius beneficii quo Deus propitiatus est peccato populi de adoratione vituli, ad preces Moysi. Post hoc autem celebrabatur festum Scenopegiae, idest Tabernaculorum, septem diebus, ad commemorandum beneficium divi­ nae protectionis et deductionis per desertum, ubi in tabernaculis habitaverunt. Unde in hoc festo debebant habere fructum arboris pul­ cherrimae, idest citrum, et lignum densarum frondium, idest myrtum, quae sunt odorifera; et spatulas palmantm, et salices de torrente, quae diu retinent suum virorem; et haec inve­ niuntur in terra promissionis; ad significan­ dum quod per aridam terram deserti eos duxe­ rat Deus ad terram deliciosam. Octavo autem die celebrabatur aliud festum, scilicet Coetus atque Col/ectae, in quo colligebantur a popu-

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    ripeteva ogni settimana. E questa era la solen­ nità del Sabato, celebrata in ricordo della creazione dell'universo, come sopra si è spie­ gato. - La seconda veniva ripetuta ogni mese, ed era la festa della Neomenia: essa veniva celebrata per ricordare il govemo divino del mondo. Infatti gli esseri inferiori cambiano specialmente secondo il moto della luna: quindi tale solennità veniva celebrata nella lu­ na nuova; non invece nel plenilunio, per e­ scludere il culto degli idolatri, i quali proprio allora sacrificavano alla luna. Ora, questi due benefici sono comuni a tutto il genere umano: quindi tali solennità erano ripetute più spesso. Le altre cinque feste invece venivano celebra­ te una volta all'anno; e in esse venivano ricor­ dati i benefici speciali accordati al popolo ebreo. Infatti nel primo mese veniva celebrata la Pasqua, per ricordare la liberazione dal­ l'Egitto. Dopo cinquanta giorni si celebrava poi la festa di Pentecoste, per ricordare la pro­ mulgazione della legge. - Le altre tre feste venivano celebrate invece nel settimo mese, che presso gli ebrei era quasi tutto festivo, come il giorno settimo. Infatti nel primo gior­ no del settimo mese c ' era la festa delle Trombe, in ricordo della liberazione di Isacco, quando Abramo trovò un montone impigliato per le coma, ricordate con i corni utilizzati per suonare. Ma la festa delle Trombe era come un invito a prepararsi alla festa successiva, che si celebrava il decimo giomo. E questa era la festa dell'Espiazione, in memoria del perdono accordato da Dio alle preghiere di Mosè per il peccato commesso dal popolo con l'adorazione del vitello d' oro. Seguiva ancora la festa della Scenopegia, cioè dei Tabernacoli, di sette giorni, per ricordare la guida e l a protezione divina attraverso il deserto, dove gli ebrei abitarono nelle tende. Perciò in questa solennità essi dovevano por­ tare «il frutto dell'albero più bello», cioè del cedro, e «l'albero dalle folte fronde», cioè il mirto, tutti alberi odorosi; dovevano portare «rami e palme» e «Salici di torrente», che conservano a lungo la loro freschezza e che si trovano nella teiTa promessa, per indicare che Dio attraverso la terra arida del deserto li aveva condotti in una terra deliziosa. Nel gior­ no ottavo infine veniva celebrata un' altra festa, quella cioè dell'Assemblea e della Colletta, nella quale venivano raccolte tra il

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    Le cause dei precetti cerimoniali

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    lo ea quae erant necessaria ad expensas cultus divini. Et significabatur adunatio popoli et pax praestita in terra promissionis. - Figuralis autem ratio horum festorum est quia per iuge sacrificium agni figuratur perpetuitas Christi, qui est Agnus Dei; secundum illud Heb. ult. [8], /esus Christus heri et hodie, ipse et in saecula. Per sabbatum autem significatur spiritualis requies nobis data per Christum, ut habetur ad Heb. 4. Per Neomeniam autem, quae est incoeptio novae lunae, significatur illuminatio primitivae Ecclesiae per Christum, eo praedicante et miracula faciente. Per festum autem Pentecostes significatur descen­ sus Spiritus Sancti in apostolos. Per festum autem tubarum significatur praedicatio apo­ stolorum. Per festum autem expiationis signi­ ficatur emundatio a peccatis popoli christiani. Per festum autem tabernaculorum, peregrina­ tio eorum in hoc mundo, in quo ambulant in virtutibus proticiendo. Per festum autem coe­ tus atque collectae significatur congregatio fidelium in regno caelorum, et ideo istud festum dicebatur sanctissimum esse. Et haec tria festa erant continua ad invicem, quia oportet expiatos a vitiis proficere in virtute, quousque perveniant ad Dei visionem, ut dici­ tur in Psalmo 83 [8].

    popolo le offerte necessarie al culto divino. E veniva espressa la concordia del popolo e la pace ottenuta nella terra promessa. - E la ragione figurale di tali feste sta in questo, che il sacrificio perenne dell'agnello prefigura la perpetuità di Cristo, che è l'Agnello di Dio [Gv], secondo le parole di Eb: Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre. Il Sabato inve­ ce significa il riposo spirituale procuratoci da Cristo, come si ha in Eb. Le Neomenie, cioè le lune nuove, indicano l'illuminazione della Chiesa primitiva da parte di Cristo, sia con la predicazione che con i miracoli. La Pente­ coste prefigura la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. La festa delle Trombe prean­ nunzia la predicazione degli apostoli. La festa dell'Espiazione prefigma la purificazione dai peccati nel popolo cristiano. Quella dei Taber­ nacoli invece il peregrinare di tale popolo in questo mondo, in cui si cammina progreden­ do nelle virtù. La festa dell'Assemblea e della Colletta infine prefigura l' accolta dei fedeli nel regno dei cieli: per cui si diceva che que­ sta solennità era «santissima». E queste ulti­ me tre feste si susseguivano senza inter­ ruzione: poiché colui che è purgato dai vizi deve progredire nella viitù fino a raggiungere la visione di Dio, come è detto nel Sal.

    Articulus 5 Utrum sacramentorum veteris legis conveniens causa esse possit

    Articolo 5 C'è una ragione che spieghi i sacramenti deli' antica legge?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod sacramentorum veteris legis conveniens causa esse non possit. l . Ea enim quae ad cultum divinum fiunt, non debent esse similia his quae idololatrae obser­ vabant, dicitur enim Deut. 1 2 [3 1], non facies

    Sembra di no. Intatti: l . Quanto si compie per il culto di Dio non deve assomigliare alle pratiche degli idolatri: nel Dt infatti si legge: Non ti comporterai in tal

    -

    similiter Domino Deo tuo, omnes enim abomi­ nationes quas aversatur Dominus, fecerunt diis suis. Sed cultores idolorum in eorum cultu se incidebant usque ad effusionem sanguinis, dicitur enim 3 Reg. 18 [28], quod incidebant

    se, iuxta ritum suwn, cultris et lanceolis, donec peifunderentur sanguine. Propter quod Domi­ nus mandavit, Deut. 14 [1], non vos incidetis, nec facietis calvitium super mmtuo. Inconve­ nienter igitur circumcisio erat instituta in lege. 2. Praeterea, ea quae in cultum divinum fiunt, debent honestatem et gravitatem habere; secundum illud Psalmi 34 [ 1 8], in populo

    -

    modo riguardo al Signore tuo Dio; perché essi facevano per i loro dèi quanto è abominevole per il Signore. Ora, gli idolatri usavano nei loro riti ferirsi fino allo spargimento del sangue. Infatti in l Re è detto: Essi si fecero delle inci­

    sioni secondo il loro costume con coltelli e /ance, fino a bagnarsi tutti di sangue. Per que­ sto il Signore aveva comandato in Dt: Non vi farete incisioni, e non vi raderete i capelli per un morto. Quindi la circoncisione istituita dalla legge è ingiustificabile. 2. Le azioni riguardanti il culto di Dio devono essere oneste e gravi, secondo le parole del Sal: In mezzo a un popolo grave io ti loderò. Ora, mangiare in fretta sa di leggerezza. Quindi non

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    gravi laudabo te. Sed ad levitatem quandam pertinere videtur ut homines festinanter co­ medant. Inconvenienter igitur praeceptum est, Ex. 1 2, ut comederent festinanter agnum paschalem. Et alia etiam circa eius comestio­ nem sunt instituta, quae videntur omnino irra­ tionabilia esse. 3. Praeterea, sacramenta veteris legis figurae fuerunt sacramentorum novae legis. Sed per agnum paschalem signiticatur sacramentum Eucharistiae; secundum illud l ad Cor. 5 [7], Pasclw nostrum immolatus est Christus. Ergo etiam debuerunt esse aliqua sacramenta in lege quae praefigurarent alia sacramenta novae legis, sicut confirmationem et extremam unc­ tionem et matrimonium, et alia sacramenta 4. Praeterea, puri:ficatio non potest convenien­ ter fieri nisi ab aliquibus immunditiis. Sed quantum ad Deum, nullum corporale reputa­ tur immundum, quia omne corpus creatura Dei est; et omnis creatura Dei bona, et nihil

    reiiciendum quod cum gratiarum actione per­ cipitur, ut dicitur l ad Tim. 4 [4]. Inconve­ nienter igitur purificabantur propter contac­ tum hominis mortui, vel alicuius huiusmodi corporalis infectionis. 5. Praeterea, Eccli. 34 [4] dicitur, ab immundo quid mundabitur? Sed cinis vitulae rufae quae comburebatur, immundus erat, quia immundum reddebat, dicitur enim Num. 1 9 [7 sqq.], quod sacerdos qui immolabat eam, commaculatus erat usque ad vesperum; simi­ liter et ille qui eam comburebat; et etiam ille qui eius cineres colligebat. Ergo inconvenien­ ter praeceptum ibi fuit ut per huiusmodi cine­ rem aspersum immundi purificarentur. 6. Praeterea, peccata non sunt aliquid corpo­ rale, quod possit deferri de loco ad locum, neque etiam per aliquid immundum potest homo a peccato mundari. Inconvenienter igi­ tur ad expiationem peccatorum populi, sacer­ dos super unum hircorum confitebatur pecca­ ta filiorum Israel, ut portaret ea in desertum, per alium autem, quo utebantur ad purificatio­ nes, simul cum vitulo comburentes extra castra, immundi reddebantur, ita quod oporte­ bat eos lavare vestimenta et camem aqua. 7. Praeterea, illud quod iam est mundatum, non oportet iterum mundari. Inconvenienter igitur, mundata lepra hominis, vel etiam do­ mus, alia purificatio adhibebatur; ut habetur Lev. 14.

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    è ragionevole il comando di mangiare in fretta l'agnello pasquale (Es). Del resto anche le altre prescrizioni riguardanti tale banchetto sembra­ no del tutto irragionevoli. 3. I sacramenti della legge antica erano figura dei sacramenti della legge nuova. Ma come l'agnello pasquale prefigurava l 'Eucarestia, secondo le parole di l Cor: Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato, così ci dovevano es­ sere altri sacramenti per rappresentare gli altri sacramenti della nuova legge, quali la Conter­ mazione, l'Estrema Unzione e il Matrimonio. 4. Una puriticazione è ragionevole soltanto per delle immondezze. Ma rispetto a Dio nes­ suna cosa materiale è da ritenersi immonda: poiché ogni corpo è creatura di Dio; e come è detto in l Tm: Tutto ciò che è stato creato da

    Dio è buono, e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie. Perciò non era ragionevole purificarsi per il contatto di un morto, o per altre simili contaminazioni corporali. 5. In Sir è detto: Dall'impuro che cosa potrà uscire di puro? Ora, la cenere ricavata dalla combustione della vacca rossa era immonda, poiché rendeva immondi: infatti in Nm è detto che il sacerdote che l a immolava restava immondo fino al vespro, e così pure chi la bru­ ciava; e persino chi ne raccoglieva la cenere. Quindi non era ragionevole la prescrizione di purificare gli immondi aspergendoli con questa cenere. 6. I peccati non sono qualcosa di materiale tra­ sportabile da un luogo a un altro; e così pure l'uomo non può essere mondato dai peccati con qualcosa di immondo. Quindi non era ragionevole che per purificare il popolo dai peccati il sacerdote confessasse sopra un capro i peccati dei figli d'Israele perché li portasse nel deserto; e che si servisse di un altro capro per le purificazioni bruciandolo fuori degli accampamenti insieme con un vitello, restan­ done così contaminato, per cui doveva purifi­ care con l'acqua il corpo e le vesti. 7. Non c'è bisogno di mondare chi è già mon­ dato. Perciò non era ragionevole la prescrizio­ ne di Lv di compiere una purificazione dopo che un uomo o anche una casa erano stati mondati dalla lebbra. 8. L' immondezza spirituale non può essere tolta con l'acqua materiale, o col radersi i peli. Perciò sembra irragionevole la prescrizione

    Q. 1 02, A. 5

    Le cause dei precetti cerimoniali

    8. Praeterea, spiritualis immunditia non potest per corporalem aquam, vel pilorum rasuram, emundari. Irrationabile igitur videtur quod Dominus praecepit Ex. 30 [ 1 8 sqq.], ut fieret labium aeneum cum basi sua ad lavandum manus et pedes sacerdotum qui ingressuri erant tabemaculum; et quod praecipitur Num. 8 [7], quod Ievitae abstergerentur aqua Iustra­ tionis, et raderent omnes pilos carnis suae. 9. Praeterea, quod maius est, non potest sanc­ tificari per illud quod minus est. Inconvenien­ ter igitur per quandam unctionem corpora­ lem, et corporalia sacrificia, et oblationes cor­ porales, fiebat in lege consecratio maiorum et minorum sacerdotum, ut habetur Lev. 8; et le­ vitarum, ut habetur Num. 8 [5 sqq.]. 1 0. Praeterea, sicut dicitur l Reg. 1 6 [7] ,

    homines vident ea quae parent, Deus autem intuetur cor. Sed ea quae exterius parent in homine, est corporalis dispositio, et etiam in­ dumenta [Maimonides, Perplex. 3,45]. Incon­ venienter igitur sacerdotibus maioribus et mi­ noribus quaedam specialia vestimenta deputa­ bantur, de quibus habetur Ex. 28. Et sine ratione videtur quod prohiberetur aliquis a sacerdotio propter corporales defectus, secun­ dum quod dicitur Lev. 2 1 [ 1 7 sqq.], homo de

    semine tuo perfamilias qui habuerit maculam, non offeret panes Deo suo, si caecusfuerit, vel claudus, et cetera. Sic igitur videtur quod sacramenta veteris legis irrationabilia fuerint. Sed contra est quod dicitur Lev. 20 [8], ego sum Dominus, qui sanctifico vos. Sed a Deo nihil sine ratione fit, dicitur enim in Psalmo I 03 [24], omnia in sapientia fecisti. Ergo in sacramentis veteris legis, quae ordinabantur ad hominum sanctificationem, nihil erat sine rationabili causa. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 101 a. 4] dictum est, sacramenta proprie dicuntur illa quae adhibebantur Dei cultoribus ad quandam consecrationem, per quam scili­ cet deputabantur quodammodo ad cultum Dei. Ctùtus autem Dei generali quidem modo pertinebat ad totum populum; sed speciali modo pertinebat ad sacerdotes et Levitas, qui erant ministri cultus divini. Et ideo in istis sacramentis veteris legis quaedam pertinebant communiter ad totum populum; quaedam autem specialiter ad ministros. - Et circa utros­ que tria erant necessaria. - Quorum primum est institutio in statu colendi Deum. Et haec

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    data dal Signore in Es di costruire una vasca di rame col suo basamento per lavare le mani e i piedi dei sacerdoti che entravano nel taberna­ colo; e l' altra prescrizione di Nm fatta ai leviti di pulirsi con l'acqua lustraie e di radersi tutti i peli del corpo. 9. Chi è superiore non può essere santificato da qualcosa di inferiore. Perciò è irragionevole l'uso dell' antica legge di consacrare i leviti (Nm) e i sacerdoti maggiori e minori (Lv), con unzioni, sacrifici e offerte materiali. 10. Come è detto in l Sam: Mentre l'uomo

    guarda l'apparenza, il Signore guarda dentro il cuore. Ma ciò che appare in un uomo sono gli indumenti e le disposizioni fisiche. Quindi non c'era motivo di prescrivere speciali indu­ menti per i sacerdoti superiori e inferiori (Es). E così è priva di senso l'interdizione del sa­ cerdozio per dei difetti fisici, secondo le parole di Lv: Nessun uomo della tua stilpe che abbia

    qualche defomzità pohil accostarsi a offrire il pane del suo Dio; né il cieco, né lo zoppo. Quindi i sacramenti dell' antica legge erano privi di ragionevolezza. In contrario: in Lv è detto: Io sono il Signore, che vi vuole fare santi. Ora, Dio non fa nulla senza ragione poiché, nel Sal è detto: Tutto hai fatto con sapienza. E così nei sacramenti del­ l' antica legge, ordinati alla santificazione uma­ na, non vi era nulla che non avesse un motivo ragionevole. Risposta: come si è spiegato sopra, si dicono propriamente sacramenti quei riti che gli ado­ ratori di Dio usavano come consacrazione, mediante la quale cioè essi venivano abilitati in certo qual modo al culto di Dio. Ora, il culto di Dio in maniera generica riguardava tutto il popolo, mentre in modo speciale riguardava i sacerdoti e i leviti, ministri di tale culto. Perciò tra questi sacramenti dell'antica legge alcuni si estendevano a tutto il popolo, altri invece erano riservati ai ministri del culto. - Ma sia con gli uni che con gli altri si perseguivano tre cose. Primo, l'incardinazione nello stato di cultori di Dio. E tale incardinazione in generale e per tutti veniva fatta con la circoncisione, senza della quale nessuno era ammesso alle osser­ vanze legali; invece per i sacerdoti c'era una consacrazione speciale. - Secondo, si richiede­ va l'uso di quanto si riferisce al culto divino. E per questo il popolo aveva la consumazione del convito pasquale, dal quale erano esclusi tutti

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    quidem institutio communiter quantum ad omnes, fiebat per circumcisionem, sine qua nullus admittebatur ad aliquid legalium, quan­ tum vero ad sacerdotes, per sacerdotum conse­ crationem. - Secondo requirebatur usus eorum quae pertinent ad divinum cultum. Et sic quantum ad populum, erat esus paschalis con­ vivii, ad quem nullus incircumcisus admitte­ batur, ut patet Ex. 12 [43 sqq.], et quantum ad sacerdotes, oblatio victimarum, et esus panum propositionis et aliorum quae erant sacerdotum usibus deputata. - Tertio requirebatur remotio eorum per quae aliqui impediebantur a cultu divino, scilicet immunditiarum. Et sic quantum ad populum, erant institutae quaedam purifica­ tiones a quibusdam exterioribus immunditiis, et etiam expiationes a peccatis, quantum vero ad sacerdotes et Levitas, erat instituta ablutio manuum et pedum, et rasio pilorum. - Et haec omnia habebant rationabiles causas et lit­ terales, secundum quod ordinabantur ad cul­ tum Dei pro tempore ilio; et figurales, secun­ dum quod ordinabantur ad figurandum Christum; ut patebit per singula. Ad primum ergo dicendum quod litteralis ratio circumcisionis principalis quidem fuit ad p rotestationem fidei unius Dei. Et quia Abraham fuit primus qui se ab infidelibus separavit, exiens de domo sua et de cognatio­ ne sua, ideo ipse primus circumcisionem accepit. Et hanc causam assignat apostolus, ad Rom. 4 [9 sqq.], signum accepit circumci­ sionis, signaculum iustitiae fidei quae est in praeputio, quia scilicet in hoc legitur Abrahae fides reputata ad iustitiam, quod contra spem in spem credidit, scilicet contra spem naturae in spem gratiae, utfieret pater multarwn gen­ tium, cum ipse esset senex, et uxor sua esset anus et sterilis. Et ut haec protestatio, et imita­ ti o fidei Abrahae, firmaretur in cordibus ludaeorum, acceperunt signum in carne sua, cuius oblivisci non possent, unde dicitur Gen. 1 7 [ 1 3], erit pactum meum in carne vestra in foedus aetemum. Ideo autem tiebat octava die, quia antea puer est valde tenellus, et pos­ set ex hoc graviter laedi, et reputatur adhuc quasi quiddam non solidatum, unde etiam nec animalia offerebantur ante octavum diem. Ideo vero non magis tardabatur, ne propter dolorem aliqui signum circumcisionis refuge­ rent, et ne parentes etiam, quorum amor increscit ad filios post frequentem conversa-

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    gli incirconcisi, come è evidente da Es; mentre i sacerdoti avevano l' oblazione delle vittime e l'uso del pane della proposizione e di quanto era loro riservato. - Terzo, si perseguiva l'eliminazione di quanto poteva distogliere dal culto divino, cioè delle impurità. E a tale scopo per il popolo erano state istituite delle purifica­ zioni da certe impurità esterne, e alcune espia­ zioni per i peccati, mentre per i sacerdoti e i leviti erano prescritte delle lavande delle mani e dei piedi, nonché la rasatura dei peli. - E tutto ciò aveva delle motivazioni ragionevoli, sia letterali, in quanto era ordinato al culto divi­ no di quel tempo, sia figurali o mistiche, in quanto ordinato a prefigurare Cristo, come vedremo nei singoli casi. Soluzione delle difficoltà: l . La principale ra­ gione storica della circoncisione fu la profes­ sione di fede in un solo Dio. E poiché Abramo fu il primo a separarsi dagli infedeli, uscendo dalla sua casa e dalla sua parentela, per primo egli ricevette la circoncisione. E questo è il motivo indicato da Paolo in Rm: Egli ricevette il segno della circoncisione quale sigillo della giustizia derivante dalla fede che aveva già ottenuta quando non era ancora circonciso; si legge infatti che ad Abramo la fede fu accredi­ tata a giustizia, poiché contro ogni speranza credette nella speranza: cioè contro la speranza di ordine naturale, essendo egli già vecchio ed essendo sua moglie vecchia e sterile, credette nella speranza di ordine soprannaturale di diventare padre di molti popoli. E affinché la professione e l'imitazione della fede di Abra­ mo si radicasse nel cuore degli ebrei, questi ricevettero un segno indelebile nella loro carne, come è detto in Gen: La mia alleanza sussi­ sterà nella vostra carne come alleanza perenne. E ciò veniva fatto l'ottavo giorno perché prima il bambino troppo tenero ne poteva ricevere un grave danno, essendo considerato come non ancora consolidato: infatti anche gli animali non venivano oft'erti prima dell'ottavo giorno. E non si tardava di più affinché nessuno rifiu­ tasse la circoncisione per il dolore, e anche per­ ché i genitori, il cui amore verso i figli aumenta con la frequenza dei rapporti e con la crescita, non li sottraessero poi a quel rito. Il secondo motivo poteva essere quello di frenare la con­ cupiscenza in quel membro. n terzo potrebbe essere quello di fare uno spregio ai riti di Venere e di Priapo, nei quali si onorava questa

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    tionem et eorum augmentum, eos circumci­ sioni subtraherent. Secunda ratio esse potuit ad debilitationem concupiscentiae in membro ilio. Tertia ratio, in sugillationem sacrorum Veneris et Priapi, in quibus illa pars corporis honorabatur. Dominus autem non prohibuit nisi incisionem quae in cultum idolorum fiebat, cui non erat similis praedicta circumcisio. Figuralis vero ratio circumcisionis erat quia tigurabatur ablatio corruptionis tienda per Christum, quae perfecte complebitur in octa­ va aetate, quae est aetas resurgentium. Et quia omnis corruptio culpae et poenae provenit in nos per carnalem originem ex peccato primi parentis, ideo talis circumcisio fiebat in mem­ bro generationis. Unde apostolus dicit, ad Colos. 2 [ 1 1 ] , circumcisi estis in Christo cir­

    cumcisione non manu facta in expoliatione corporis camis, sed in circumcisione Domini nostri Iesu Christi. Ad secundum dicendum quod litteralis ratio paschalis convivii fuit in commemorationem beneficii quo Deus eduxit eos de Aegypto. Unde per huiusmodi convivii celebrationem profitebantur se ad illum populum pertinere quem Deus sibi assumpserat ex Aegypto. Quando enim sunt ex Aegypto liberati, prae­ ceptum est eis ut sanguine agni linirent super­ liminaria domorum, quasi protestantes se recedere a ritibus Aegyptiorum, qui arietem colebant. Unde et liberati sunt per sanguinis agni aspersionem vel linitionem in postibus domorum, a periculo exterrninii quod immi­ nebat Aegyptiis. - In ilio autem exitu eorum de Aegypto duo fuerunt, scilicet festinantia ad egrediendum, impellebant enim eos Aegyptii ut exirent velociter, ut habetur Ex. 1 2; imrni­ nebatque periculum ei qui non festinaret exire cum multitudine, ne remanens occideretur ab Aegyptiis. Festinantia autem designabatur dupliciter. Uno quidem modo per ea quae comedebant. Praeceptum enim erat eis quod comederent panes azymos, in huius signum, quod non poterant fermentari, cogentibus exire Aegyptiis [Ex. 1 2,30]; et quod comede­ rent assum igni, sic enim velocius praepara­ batur; et quod os non comrninuerent ex eo, quia in festinantia non vacat ossa frangere. Alio modo, quantum ad modum comedendi. Dicitur enim [Ex. 1 2, 1 1], renes vestros accin­

    getis, calceamenta habebitis in pedibus, tenentes baculos in manibus, et comedetis

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    parte del corpo. Del resto il Signore aveva proi­ bito solo le incisioni delle pratiche idolatriche: ma ad esse la circoncisione non assomigliava affatto. - Invece la ragione figurale della cir­ concisione era quella di rappresentare il rigetto della corruzione che sarebbe stato compiuto da Cristo, e che avrà il suo compimento nell' otta­ va età [del mondo], cioè al tempo della risurre­ zione finale. E poiché in noi ogni corruzione di peccato o di pena deriva dal peccato miginale del nostro progenitore, tale circoncisione si faceva nel membro della generazione. Infatti Paolo in Col dice: In Cristo voi siete stati

    anche circoncisi, di una circoncisione però non fatta da mano di uomo, mediante la spogliazione del nostro corpo di carne, ma della circoncisione del Signore nostro Gesù Cristo. 2. La ragione storica del convito pasquale fu quella di commemorare la liberazione del popolo ebreo dall'Egitto. Quindi con la cele­ brazione di questo convito si confessava di appartenere a quel popolo che Dio si era pre­ scelto in Egitto. Quando infatti essi furono liberati dall'Egitto, fu loro comandato di tinge­ re col sangue dell'agnello i battenti superiori delle porte di casa, come per affermare che essi abbandonavano i riti degli egiziani, i quali ado­ ravano il montone. Perciò essi furono liberati, mediante l 'aspersione del sangue dell'agnello sulle porte delle case, dal pericolo dello stermi­ nio che incombeva sugli egiziani. - Ora, in quella loro uscita dall'Egitto, come si legge in Es, ci furono due circostanze: la fretta di uscire, per l'incalzare degli egiziani, e il pericolo, per chi non si affrettava, di restare isolato dal popo­ lo che trasmigrava, e di essere così ucciso dagli egiziani. Ora, tale fretta era designata in due modi. Primo, con ciò che mangiavano. Infatti era stato loro comandato di mangiare pane azzimo, per esprimere il fatto che non avevano

    potuto farlo fermentare, sotto la pressione degli egiziani, di mangiare l'agnello arrostito al fuoco, che così veniva preparato più rapida­ mente, e di non spezzargli le ossa, perché nella fretta non c'è tempo di farlo. Secondo, con la maniera di mangiare. Infatti è detto: W cingere­

    te (fianchi, avrete i calzari ai piedi e il bastone in mano, lo mangerete in fretta; il che designa chiaramente degli uomini pronti per viaggiare. E lo stesso si dica per l' altra prescrizione: Lo

    mangerete tutto in una sola casa; non porterete

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    Q. 1 02, A. 5

    festinanter, quod manifeste designat homines

    le sue carni al difuori: perché appunto la fretta

    existentes in promptu itineris. Ad idem etiam pertinet quod eis praecipitur [Ex. 1 2,46], in

    non dava tempo d i mandarne i n regalo . Finalmente l e amarezze sofferte i n Egitto erano indicate dalle lattughe di campo. - La ragione mistica poi, o figurale, è evidente. Poiché nel­ l'immolazione dell'agnello pasquale era prefi­ gurata l' immolazione di Cristo, secondo le parole di l Cor: Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato. E il sangue dell'agnello, che libera dallo sterminio con la sua comparsa sulle porte delle case, sta a significare la tooe nella passio­ ne di Cristo nel cuore e sulla bocca dei fedeli, la quale fede ci libera dal peccato e dalla morte, secondo le parole di l Pt: Siete stati

    una domo comedetis, neque feretis de carni­ bus eius foras, quia scilicet, propter festinan­ tiam, non vacabat invicem mittere exennia. Amaritudo autem quam passi fuerant i n Aegypto, significabatur per lactucas agrestes. Figuralis autem ratio patet. Quia per immola­ tionem agni paschalis significabatur immola­ tio Christi; secundum illud l ad Cor. 5 [7],

    Pascha nostrum immolatus est Christus. Sanguis vero agni liberans ab exterminatore, linitis superliminaribus domorum, significat fidem passionis Christi in corde et ore fide­ lium, per quam liberamur a peccato et a morte; secundum illud l Petr. l [ 1 8 sq. ] ,

    redempti estis pretioso sanguine Agni imma­ culati. Comedebantur autem cames illae, ad

    significandum esum corporis Christi in sacra­ mento. Erant autem assae igni, ad significan­ dum passionem, vel caritatem Christi. Come­ debantur autem cum azymis panibu s , ad significandam puram conversationem fidelium sumentium corpus Christi, secundum illud l ad Cor. 5 [8], epulemur in azymis sinceritatis et veritatis. Lactucae autem agrestes addeban­ tur, in signum poenitentiae peccatorum, quae necessaria est sumentibus corpus Christi . Renes autem accingendi sunt cingulo castita­ tis. Calceamenta autem pedum sunt exempla mortuorum patrum. Baculi autem habendi in manibus, significant pastoralem custodiam. Praecipitur autem quod in una domo agnus paschalis comedatur, idest in Ecclesia Catho­ licorum, non in conventiculis haereticorum. Ad tertium dicendum quod quaedam sacramen­ ta novae legis habuerunt in veteri lege sacra­ menta figuralia sibi correspondentia. Nam cir­ cumcisioni respondet Baptismus, qui est fidei sacramentum, unde dicitur ad Col. 2 [ 1 1 sq.],

    circumcisi esris in circumcisione Domini nostri lesu Christi, consepulti ei in baptismo. Convivio vero agni paschalis respondet in no­ va lege sacramentum Eucharistiae. Omnibus autem purificationibus veteris legis respondet in nova lege sacramentum poenitentiae. Con­ secrationi autem pontificum et sacerdotum re­ spondet sacramentum ordinis. Sacramento autem confirmationis, quod est sacramentum plenitudinis gratiae, non potest respondere in veteri lege aliquod sacramentum, quia non-

    liberati con il sangue prezioso dell'Agnello immacolato. Quelle cami poi venivano man­ giate per indicare la consumazione del corpo di Cristo nel sacramento. Ed erano arrostite al fuoco per indicare la passione, oppure la carità di Cristo. Erano poi mangiate col pane azzimo per designare la vita illibata dei fedeli ammessi a cibarsi del corpo di Cristo, secondo le parole di l Cor: Celebriamo la festa con azzimi di sincerità e di verità. E si aggiungevano le lattu­ ghe di campo in segno della penitenza dei pec­ cati, necessaria a chi riceve il corpo di Cristo. Le reni poi vanno cinte col cingolo della castità. E i calzari dei piedi sono gli esempi dei santi Padri già morti . Il bastone da tenere in mano indica invece la vigilanza pastorale. E viene prescritto di mangiare l'agnello pasquale in una sola casa, cioè nella Chiesa Cattolica, e non nelle conventicole degli eretici. 3. Alcuni sacramenti della nuova legge ebbero nella legge antica dei sacramenti figurali corri­ spondenti. Infatti alla circoncisione corrispon­ de il Battesimo, che è il sacramento della fede; poiché, come è detto in Col: Siete stati cir­

    concisi della circoncisione del Signore nostm Gesù Cristo, sepolti con lui nel battesimo. Al convito dell'agnello pasquale corrisponde inve­ ce nella nuova legge il sacramento dell'Eucari­ stia. E a tutte le purificazioni dell'antica legge corrisponde nella legge nuova il sacramento della Penitenza. Finalmente alla consacrazione dei pontefici e dei sacerdoti corrisponde il sacramento dell'Ordine. Al sacramento della Confermazione invece, che è il sacramento della pienezza della grazia, non poteva cotTi­ spandere alcun sacramento nella legge antica: poiché non era ancora giunto il tempo della pienezza, per il fatto che la legge non ha p01tato

    Q. 1 02, A. 5

    Le cause dei precetti cerimoniali

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    neminem ad pelfectum adduxit lex [Hebr.

    niente alla peifezione [Eb]. E lo stesso si dica per l'Estrema Unzione, che è una preparazione

    7, 1 0]. Similiter autem et sacramento extremae unctionis, quod est quaedam immediata prae­ paratio ad introitum gloriae, cuius aditus non­ dum patebat in veteri lege, pretio nondum soluto. Matrimonium autem fuit quidem in veteri lege prout erat in officium naturae; non autem prout est sacramentum coniunctionis Christi et Ecclesiae, quae nondum erat facta. Unde et in veteri lege dabatur libellus repudii, quod est contra sacramenti rationem. Ad quartum dicendum quod, sicut dictum est [co.], purificationes veteris legis ordinabantur ad removendum impedimenta cultus divini. Qui quidem est duplex, scilicet spiritualis, qui consistit in devotione mentis ad Deum; et cor­ poralis, qui consistit in sacrificiis et oblationi­ bus et aliis huiusmodi. - A cultu autem spiri­ tuali impediuntur homines per peccata, qui­ bus homines pollui dicebantur, sicut per ido­ lolatriam et homicidium, per adulteria et ince­ stus. Et ab istis pollutionibus purificabantur homines per aliqua sacrificia vel communiter oblata pro tota multitudine, vel etiam pro pec­ catis singulorum. Non quod sacrificia illa car­ nalia haberent ex seipsis virtutem expiandi peccatum, sed quia significabant expiationem peccatorum futuram per Christum, cuius par­ ticipes erant etiam antiqui, protestantes fidem redemptoris in figuris sacrificiorum. - A cultu vero exteriori impediebantur homines per quasdam immunditias corporales, quae qui­ dem primo considerabantur in hominibus; consequenter etiam in aliis animalibus, et in vestimentis et domibus et vasis. In hominibus quidem immunditia reputabatur partim qui­ dem ex ipsis hominibus; partim autem ex contactu rerum immundarum. Ex ipsis autem hominibus immundum reputabatur omne illud quod corruptionem aliquarn iarn habe­ bat, vel erat corruptioni expositum. Et ideo, quia mors est corruptio quaedam, cadaver hominis reputabatur immundum. Similiter etiam, quia lepra ex corruptione humorum contingit, qui etiam exterius erumpunt et alios inficiunt, leprosi etiam reputabantur immundi. Similiter etiam mulieres patientes sanguinis fluxum, sive per infinnitatem, sive etiam per naturam vel temporibus menstruis vel etiarn tempore conceptionis. Et eadem ratione viri reputabantur immundi fluxum seminis pa-

    immediata a entrare nella gloria, le cui porte non erano ancora aperte nell'antica legge, non essendone stato ancora versato il prezzo. n Ma­ trimonio poi esisteva nell'antica legge solo in quanto compito di natura, e non già in quanto è il sacramento dell'unione di Cristo con la Chie­ sa, la quale non era stata ancora costituita. In­ tàtti nell'antica legge era ammesso il libello del ripudio, che è contro la natura del sacramento. 4. Le purificazioni dell'antica legge erano ordi­ nate a togliere gli ostacoli del culto divino. n quale culto è di due specie: spirituale, consi­ stente nella devozione dell'anima a Dio, e cor­ porale, consistente nei sacrifici, nelle oblazioni e in altre cose del genere. - Ora, gli uomini sono ostacolati nel culto spirituale dai peccati: dall'idolatria, p. es., dall'omicidio, dagli adul­ teri e dall'incesto, dai quali essi vengono con­ taminati. E da queste contaminazioni gli uomi­ ni venivano purificati con dei sacrifici, che erano offerti o per tutto il popolo, oppure per i peccati dei singoli. Non perché questi sacrifici materiali avessero di per se stessi la virtù di espiare i peccati, ma perché prefiguravano l'espiazione futura di Cristo, di cui erano parte­ cipi anche gli antichi, professando la fede nel Redentore attraverso le figure dei sacrifici. Gli uomini erano poi ostacolati nel culto ester­ no da certe contaminazioni corporali: princi­ palmente da quelle che si riscontravano in loro stessi, ma di conseguenza anche da quelle degli animali, delle vesti, delle cose e dei vasi. E la contaminazione personale poteva derivare in parte dalla persona stessa, in parte invece dal contatto con esseri immondi. Dalla parte del­ l'uomo stesso veniva considerato immondo tutto ciò che presentava già una corruzione, e che era ad essa esposto. E poiché la morte è una corruzione, il cadavere di un uomo era considerato immondo. E così pure erano consi­ derati immondi i lebbrosi, poiché la lebbra deriva dalla corruzione degli umori, i quali pro­ manano anche al di fuori e infettano gli altri. E così le donne soggette al flusso di sangue, o per malattia, o per natura, sia al tempo delle mestruazioni che nel tempo del concepimento. E per lo stesso motivo erano considerati immondi gli uomini che soffrivano perdite di spenna, o per malattia, o per una polluzione notturna, o anche per il rapporto sessuale. In-

    dum advenerat tempus plenitudinis, eo quod

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    tientes, vel per infirmitatem, vel per pollu­ tionem nocturnam, vel etiam per coitum. Nam omnis humiditas praedictis modis ab homine egrediens, quandam immundam in­ fectionem habet. Inerat etiam hominibus im­ munditia quaedam ex contactu quarumcumque rerum i mmundaru m . - Istarum autem immunditiarum ratio erat et litteralis, et figu­ ralis. Litteralis quidem, propter reverentiam eorum quae ad divinum cultum pertinent. Tum quia homines pretiosas res contingere non solent cum fuerint immundi. Tum etiam ut ex raro accessu ad sacra, ea magis venera­ rentur. Cum enim omnes huiusmodi immun­ ditias raro aliquis cavere possit, contingebat quod raro poterant homines accedere ad attin­ gendum ea quae pettinebant ad divinum cul­ tum, et sic quando accedebant, cum maiori reverentia et humilitate mentis accedebant [Maimonides, Perplex. 3,47]. Erat autem in quibusdam horum ratio litteralis ut homines non reformidarent accedere ad divinum cul­ tum, quasi refugientes consortium leprosorum et similium infirmorum, quorum morbus abo­ minabilis erat et contagiosus. In quibusdam etiam ratio erat ad vitandum idololatriae cul­ tum, quia gentiles in ritu suorum sacrificio­ rum utebantur quandoque humano sanguine et semine. Omnes autem huiusmodi immun­ ditiae corporales purificabantur vel per solam aspersionem aquae, vel quae maiores erant, per aliquod sacrificium ad expiandum pecca­ tum, ex quo tales infirmitates contingebant. Ratio autem figuralis harum immunditiarum fuit quia per huiusmodi exteriores immundi­ tias figurabantur diversa peccata. Nam im­ munditia cadaveris cuiuscumque significat immunditiam peccati, quod est mors animae. Immunditia autem leprae significat immundi­ tiam haereticae doctrinae, tum quia haeretica doctrina contagiosa est, sicut et lepra; tum etiam quia nulla falsa doctrina est quae vera falsis non admisceat, sicut etiam in superficie corporis leprosi apparet quaedam distinctio quarundam macularum ab alia carne integra. Per immunditiam vero mulieris sanguinifluae, designatur immunditia idololatriae, propter immolatitium cruorem. Per immunditiam ve­ ro viri seminiflui, designatur immunditia vanae locutionis, eo quod semen est verbum Dei [Luc. 8, 1 1]. Per immunditiam vero coi­ tus, et mulieris parientis, designatur immundi-

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    fatti ogni secrezione del genere presenta una certa contaminazione di immondezza. Si ri­ scontrava poi un'altra fonte di contaminazione nel contatto con qualsiasi essere immondo. Ora, in queste contaminazioni possiamo trova­ re ragioni letterali e figurali. Le prime si ridu­ cono al rispetto per le cose riguardanti il culto divino. Sia perché gli uomini non osano tocca­ re oggetti preziosi quando sono sporchi, sia anche perché l'avvicinarsi di rado alle cose sacre ne accresce la venerazione. Essendo infatti difficile che uno potesse evitare tutte quelle impurità, capitava di rado che gli uomini potessero avere un contatto con quanto riguar­ dava il culto divino: e allora, quando si avvici­ navano, lo facevano con maggiore rispetto e interiore umiltà di cuore. In certi casi però la ragione letterale era quella di far sì che gli uomini non temessero di praticare il culto divi­ no per evitare la compagnia dei lebbrosi o di altri malati ripugnanti e contagiosi. In altri casi poi si voleva togliere il pericolo dell'idolatria: poiché i pagani nei loro riti talora usavano il sangue e lo sperma umano. Ora, tutte queste contaminazioni corporali venivano eliminate o mediante la sola aspersione dell'acqua, oppure, quando erano più gravi, mediante un sacrificio per espiare il peccato, dal quale esse proveniva­ no. - Invece la ragione figurale di queste impu­ tità era quella di rappresentare nelle contami­ nazioni esterne i diversi peccati . Infatti l'immondezza di qualsiasi cadavere sta a indi­ care l'immondezza del peccato, che è la morte dell'anima. Invece l'immondezza della lebbra sta a indicare l'immondezza delle dottrine ere­ ticali: sia perché la dottrina degli eretici è con­ tagiosa come la lebbra, sia anche perché non c'è una falsa dottrina che non abbia del vero mescolato alla sua falsità, come sulla pelle del lebbroso la carne integra appare vicina alle chiazze di quella maculata. L' impurità poi di un'emorroissa sta a designare l'impurità dell'i­ dolatria, per il sangue dei sacrifici, mentre l'impurità dell'uomo che soffre perdite di sper­ ma, o seme, rappresenta l'impurità del parlare inutile: poiché il seme è la pamla di Dio [Le]. L'immondezza invece del rapporto sessuale e del parto ricorda l' immondezza del peccato originale. E quella della donna mestmata rap­ presenta l'impurità dell'anima rammollita dai piaceri. E in genere le contaminazioni dovute ai contatti con le cose immonde rappresentano

    Le cause dei precetti cerimoniali

    Q. 1 02, A. 5

    tia peccati originalis. Per immunditiam vero mulieris menstruatae, designatur immunditia mentis per voluptates emollitae. Universaliter vero per immunditiam contactus rei immun­ dae designatur immunditia consensus in pec­ catum alterius; secundum illud 2 ad Cor. 6 [ 1 7], exite de medio eorum et separamini, et immundum ne tetigeritis. Huiusmodi autem immunditia contactus derivabatur etiam ad res inanimatas, quidquid enim quocumque modo tangebat immundus, immundum erat. In quo lex attenuavit superstitionem genti­ lium, qui non solum per contactum immundi dicebant immunditiam contrahi, sed etiam per collocutionem aut per aspectum, ut Rabbi Moyses dicit [Perplex. 3,47] de muliere men­ struata. Per hoc autem mystice significabatur id quod dicitur Sap. 14 [9], similiter odio sunt Deo impius et impietas eius. - Erat autem et immunditia quaedam ipsarum rerum inani­ matarum secundum se, sicut erat immunditia leprae in domo et in vestimentis. Sicut enim morbus leprae accidit in hominibus ex humo­ re com1pto putrefaciente carnem et corrom­ pente, ita etiam propter aliquam corruptionem et excessum humiditatis vel siccitatis, fit quandoque aliqua corrosio in lapidibus do­ mus, vel etiam in vestimento. Et ideo hanc corruptionem vocabat lex lepram, ex qua domus vel vestis immunda iudicaretur. Tum quia omnis corruptio ad immunditiam perti­ nebat, ut dictum est. Tum etiam quia contra huiusmodi corruptionem gentiles deos Penates colebant, et ideo lex praecepit huiusmodi domus, in quibus fuerit talis corruptio perse­ verans, destrui, et vestes comburi, ad tollen­ dam idololatriae occasionem. Erat etiam et quaedam immunditia vasorum, de qua dicitur Num. 1 9 [ 1 5] , vas quod non habuerit cooper­ -

    culum et ligaturam desupe1; immundum erit. Cuius immunditiae causa est quia in talia vasa de facili poterat aliquid immundum cadere, unde poterant immundari. Erat etiam hoc praeceptum ad declinandam idololatriam, cre­ debant enim idololatrae quod, si mures aut lacertae, vel aliquid huiusmodi, quae immola­ bant idolis, cito caderent in vasa vel in aquas, quod essent diis gratiosa. Adhuc etiam ali­ quae mulierculae vasa dimittunt discooperta in obsequium nocturnorum numinum, quae ianas vocant. - Harum autem immunditiarum ratio est figuralis quia per lepram domus

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    la contaminazione dell'acconsentire ai peccati altrui, come è detto in 2 C01: Uscite di mezzo a

    Iom e riparatevi; non toccate nulla d'impuro. ­ E questa contaminazione per contatto si esten­ deva persino alle cose inanimate: tutto ciò infatti che toccava un essere immondo diventa­ va immondo. E in ciò la legge mitigò la super­ stizione dei gentili, per i quali la contaminazio­ ne non si estendeva solo mediante il contatto, ma anche col conversare e col guardare: come nota Mosè Maimonide parlando della donna mestruata. In senso mistico poi ciò esprime quanto è detto in Sap: Sono ugualmente in odio a Dio l'empio e la sua empietà. - Vi era poi una certa contaminazione diretta delle cose inanimate: come vi era l' immondezza della lebbra nelle case e nelle vesti. Come infatti dalla corruzione degli umori, che imputridisce e corrode la carne, viene la lebbra nell'uomo, così dalla corruzione o da un eccesso di umi­ dità o di siccità avviene talora una corrosione nelle pietre della casa, o anche nelle vesti. Per cui un simile guasto è chiamato lebbra dalla legge, in quanto rendeva immonde la casa e le vesti: sia perché qualsiasi corruzione implica una contaminazione, come si è spiegato, sia anche per il fatto che i pagani contro una tale corruzione veneravano gli dèi Penati. Perciò la legge presctisse che dove si fosse prodotto un guasto persistente di questo genere, le case venissero distrutte e le vesti bruciate, per togliere un' occasione di idolatria. Vi era poi una contaminazione dei vasi, di cui in Nm è detto: Ogni vaso scoperlo, sul quale non sia un coperchio o una legatura, sarà immondo. E la causa di questa immondezza sta nel fatto che facilmente poteva cadere in quei vasi qualcosa d'immondo, che li avrebbe contaminati. E ciò era comandato anche per evitare l' idolatria: infatti gli idolatri credevano che se dei topi o delle lucertole, oppure altri animali del genere, che essi immolavano agli idoli, fossero caduti improvvisamente nell'acqua, ciò sarebbe stato gradito agli dèi. E anche adesso ci sono delle donnicciole che lasciano scoperti i vasi in osse­ quio a divinità della notte, che esse chiamano Giane. - Ora, il motivo di queste contamina­ zioni sta nel fatto che la lebbm della casa signi­ fica l' immondezza delle congreghe ereticali. Invece la lebbra sulle vesti di lino indica la per­ versione dei costumi dovuta alla durezza del­ l ' animo, mentre la lebbra sulle vesti di lana

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    Le cause dei precetti cerimoniali

    significatur imrnunditia congregationis haere­ ticorum. Per lepram vero in veste linea signi­ ficatur perversitas morum ex amaritudine mentis. Per Iepram vero vestis laneae signifi­ catur perversitas adulatorum. Per Iepram in stamine significantur vitia animae, per lepram vero in subtegmine significantur peccata car­ nalia, sicut enim stamen est in subtegmine, ita anima in corpore. Per vas autem quod non habet operculum nec ligaturam, signiticatur homo qui non habet aliquod velamen tacitur­ nitatis, et qui non constringitur aliqua censura disciplinae. Ad quintum dicendum quod, sicut dictum est [ad 4], duplex erat imrnunditia in Iege. Una quidem per aliquam corruptionem mentis vel corporis, et haec immunditia maior erat. Alia vero erat immunditia ex solo contactu rei immundae, et haec minor erat, et faciliori ritu expiabatur. Nam imrnunditia prima expiaba­ tur sacrificio pro peccato, quia omnis corrup­ tio ex peccato procedit et peccatum significat, sed secunda immunditia expiabatur per solam aspersionem aquae cuiusdam, de qua quidem aqua expiationis habetur Num. 19. - Mandatur enim ibi a Domino quod accipiant vaccam rufam, in memoriam peccati quod comrnise­ runt i n adoratione vituli. Et dicitur vacca magis quam vitulus, quia sic Dominus syna­ gogam vocare consuevit; secundum illud Osee 4 [ 1 6], sicut vacca /asciviens declinavit Israel. Et hoc forte ideo quia vaccas in morem Aegyptii, coluerunt; secundum illud Osee l O [5], vaccas Bethaven coluerunt. Et in detesta­ tionem peccati idololatriae, immolabatur extra castra. Et ubicumque sacrificium fiebat pro expiatione multitudinis peccatorum, cre­ mabatur extra castra totum. Et ut significare­ tue per hoc sacrificium emundari populus ab universitate peccatorum, intingebat sacerdos digitum in sanguine eius, et aspergebat contra fores sanctuarii septem vicibus, quia septena­ rius universitatem significat. Et ipsa etiam aspersio sanguinis pertinebat ad detestatio­ nem idololatriae, in qua sanguis immolatitius non effundebatur, sed congregabatur, et circa ipsum homines comedebant in honorem idolo­ rum. - Comburebatur autem in igne. Vel quia Deus Moysi in igne apparuit, et in igne data est lex. Vel quia per hoc significabatur quod idololatria totaliter erat extirpanda, et omne quod ad idololatriam pertinebat, sicut vacca

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    indica la perversità degli adulatori. La lebbra sull'ordito indica poi i vizi dell'anima, e quella sulla trama indica i peccati carnali: come infatti l'ordito è incluso nella trama, così l'anima nel corpo. I vasi poi privi di coperchio o di legatura stanno a indicare l'uomo a cui manca la custo­ dia del silenzio, e che è sciolto da qualsiasi norma di disciplina. 5. Come si è già notato, c'erano due specie di immondezza legale. La prima era connessa a una corruzione dell'anima o del corpo: e que­ sta era l'immondezza più grave. La seconda invece derivava dal solo contatto con le cose immonde: e questa immondezza era minore, e veniva espiata con un rito più semplice. Infatti la prima veniva espiata col sacrificio per il pec­ cato, poiché qualsiasi corruzione deriva dal peccato ed esprime il peccato; l'altra invece veniva espiata mediante la sola aspersione con l'acqua, e cioè con quell'acqua di espiazione di cui parla Nm. - Qui infatti il Signore comanda­ va che si prendesse una vacca rossa in ricordo del peccato commesso con l'adorazione del vitello d'oro. E si parla di una vacca invece che di un vitello perché così il Signore usa denomi­ nare la sinagoga; per esempio in Os: Israele si è ribellato come una vacca ribelle. O forse perché gli ebrei avevano adorato delle vacche, sull'esempio degli egiziani, secondo le parole di Os: Adorarono le vacche di Bet Avèn. E a riprovazione del peccato di idolatria essa veni­ va immolata fuori degli accampamenti. Del resto tutte le volte che si faceva un sacrificio per I' espiazione dei peccati del popolo, si bru­ ciava tutto fuori degli accampamenti. Per indi­ care poi che mediante questo sacrificio il popo­ lo era purificato da tutti i peccati, il sacerdote intingeva le dita nel sangue della vittima, e Io spruzzava verso la parte del santuario per sette volte: poiché il numero sette indica la totalità. E I' aspersione stessa del sangue si riduceva a una riprovazione dell'idolatria, nella quale il sangue delle vittime non veniva sparso, ma raccolto, in modo che intorno ad esso gli uomi­ ni mangiassero in onore degli idoli. - Inoltre la vittima veniva bruciata nel fuoco. O perché Dio comparve a Mosè in mezzo al fuoco, e nel fuoco fu data la legge. Oppure perché si voleva ricordare che l' idolatria, e quanto ad essa appartiene, doveva essere estirpata totalmente: come la vacca che veniva bruciata dando alle

    fiamme anche la pelle, le carni, il sangue e gli

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    Le cause dei precetti cerimoniali

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    cremabatur, tam pelle et camibus, quam san­ guine etfimo, jlammae traditis. Adiungebatur -

    etiam in combustione lignum cedrinum, hys­ sopus, coccusque bis tinctus, ad significan­ dum quod, sicut ligna cedrina non de facili putrescunt, et coccus bis tinctus non amittit colorem, et hyssopus retinet odorem etiam postquam fuerit desiccatus; ita etiam hoc sa­ crificium erat in conservationem ipsius popu­ li, et honestatis et devotionis ipsius. Unde dicitur [Num. 19,9] de cineribus vaccae, ut

    sint multitudini filiorum Israel in custodiam. Vel, secundum Iosephum [forte De bello iudaico 5,5,4], quatuor elementa significata sunt, igni enim apponebatur cedrus, signifi­ cans terram, propter sui terrestreitatem; hys­ sopus, significans aerem, propter odorem; coccus, significans aquam, eadem ratione qua et purpura, propter tincturas, quae ex aquis sumuntur, ut per hoc exprimeretur quod illud sacrificium offerebatur Creatori quatuor ele­ mentorum. - Et quia huiusmodi sacrificium offerebatur pro peccato idololatriae, in eius detestationem et comburens, et cineres colli­ gens, et ille qui aspergit aquas in quibus cinis ponebatur, immundi reputabantur, ut per hoc ostenderetur quod quidquid quocumque mo­ do ad idololatriam pertinet, quasi immundum est abiiciendum. Ab hac autem immunditia purificabantur per solam ablutionem vesti­ mentorum, nec indigebant aqua aspergi prop­ ter huiusmodi immunditiam, quia sic esset processus in infinitum. llle enim qui asperge­ bat aquam, immundus fiebat, et sic si ipse se­ ipsum aspergeret, immundus remaneret; si autem alius eum aspergeret, ille immundus esset; et similiter ille qui illum aspergeret, et sic in infinitum. - Figuralis autem ratio huius sacrificii est quia per vaccam rufam signifi­ catur Christus secundum infirmitatem as­ sumptam, quam femininus sexus designat. Sanguinem passionis eius designat vaccae color. Erat autem vacca rufa aetatis integrae, quia omnis operatio Christi est perfecta. In qua nulla erat macula, nec portavit iugum, quia non portavit iugum peccati. Praecipitur autem adduci ad Moysen, quia imputabant ei transgressionem Mosaicae legis in violatione sabbati. Praecipi tur etiam tradì Eleazaro sacerdoti, quia Christus occidendus in manus sacerdotum traditus est. Immolatur autem extra castra, quia extra portam Christus

    escrementi. E si bruciava anche il legno di cedro, l'issopo e il cocco tinto due volte, per indicare che come i legni di cedro non imputri­ discono facilmente, e il cocco tinto due volte non perde il colore, e l'issopo conserva l'odore anche dopo l ' essiccazione, così questo sacrificio doveva servire a conservare sia il popolo che la sua onestà e devozione. Perciò a proposito delle ceneri di questa vacca si dice: -

    Affinché servano a preservare la moltitudine dei figli d'Israele. Oppure si può dire, con Giuseppe Flavio, che così venivano indicati i quattro elementi: infatti al fuoco si aggiungeva il cedro, che per la sua origine terrestre signifi­ ca la terra, l'issopo, che per il suo odore signifi­ ca l'aria, e il cocco, che per la derivazione marina del suo colore, a somiglianza della por­ pora, significa l ' acqua. E così si esprimeva l'idea che questo sacrificio era offerto al Crea­ tore dei quattro elementi. - E poiché questo sacrificio veniva offerto per il peccato di idola­ tria, a riparazione di essa veniva reputato immondo sia chi bruciava la vittima, sia chi ne raccoglieva le ceneri, sia chi aspergeva l'acqua in cui erano state versate tali ceneri: per dimo­ strare che qualunque oggetto appartenga in qualsiasi maniera ali ' idolatria va rigettato come cosa immonda Ma da questa contami­ nazione si era purificati con la sola aspersione degli indumenti, e non c'era bisogno di lavarsi con l'acqua, perché altrimenti ci sarebbe stato un processo all'infinito. Intàtti chi aspergeva l'acqua diveniva immondo: se quindi avesse asperso se stesso, sarebbe restato immondo; e se lo avesse asperso un altro, questi sarebbe divenuto immondo; e così pure chi avesse asperso costui, e così all'infinito. - La ragione figurale di questo sacrificio sta invece nel fatto che la vacca rossa prefigurava Cristo secondo l'infermità [della came] assunta, indicata dal sesso femminile. n colore della vacca designa inoltre il sangue della sua passione. La vacca poi era di un'età perfetta: poiché ogni opera­ zione di Cristo è perfetta. E non aveva mac­ chie, e mai aveva portato il giogo: poiché Cristo non portò mai il giogo del peccato. E fu comandato di condurla a Mosè: poiché a Cristo si volle imputare la trasgressione della legge mosaica nella violazione del sabato. E fu comandato anche di consegnarla al sacerdote Eleazaro: poiché Cristo fu consegnato nelle mani dei sacerdoti per essere ucciso. E veniva

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    passus est [Hebr.

    Le cause dei precetti cerimoniali

    1 3,12]. Intingit autem sacerdos digitum in sanguine eius, quia per discretio­ nem, quam digitus significat, mysterium pas­ sionis Christi est considerandum et imitan­ dum. Aspergitur autem contra tabemaculum, per quod synagoga designatur, vel ad con­ demnationem Iudaeorum non credentium; vel ad purificationem credentium. Et hoc septem vicibus, vel propter septem dona Spiritus Sancti; vel propter septem dies, in quibus omne tempus intelligitur. Sunt autem omnia quae ad Christi incarnationem pertinent, igne cremanda, idest spiritualiter intelligenda, nam per pellem et carnem exterior Christi operatio significatur; per sanguinem, subtilis et interna virtus exteriora vivificans; per fimum, lassitu­ do, sitis, et omnia huiusmodi ad infirmitatem pertinentia. Adduntur autem tria, cedrus, quod significat altitudinem spei, vel contem­ plationis; hyssopus, quod significat humilita­ tem, vel fidem; coccus bis tinctus, quod signi­ ficat geminam caritatem; per haec enim debe­ mus Christo passo adhaerere. Iste autem cinis combustionis colligitur a viro mundo, quia reliquiae passionis pervenerunt ad gentiles, qui non fuerunt culpabiles in Christi morte. Apponuntur autem cineres in aqua ad expian­ dum, quia ex passione Christi Baptismus sorti­ tur virtutem emundandi peccata. Sacerdos autem qui immolabat et comburebat vaccam, et ille qui comburebat, et qui colligebat cineres, immundus erat, et etiam qui aspergebat aquam, vel quia Iudaei facti sunt immundi ex occisione Christi, per quam nostra peccata expiantur; et hoc usque ad vesperum, idest usque ad finem mundi, quando reliquiae Israel convertentur. Vel quia illi qui tractant sancta intendentes ad emundationem aliorum, ipsi etiam aliquas immunditias contrahunt, ut Gregorius dicit, in Pastorali [5]; et hoc usque ad vesperum, idest usque ad finem praesentis vitae. Ad sextum dicendum quod, sicut dictum est [ad 5], immunditia quae ex corruptione pro­ veniebat vel mentis vel corporis, expiabatur per sacrificia pro peccato. Offerebantur autem specialia sacrificia pro peccatis singulorum, sed quia aliqui negligentes erant circa expia­ tionem huiusmodi peccatorum et immunditia­ rum; vel etiam propter ignorantiam ab expia­ tione huiusmodi desistebant; institutum fuit ut semel in anno, decima die septimi mensis, fieret sacrificium expiationis pro toto populo.

    Q. 1 02, A. 5

    immolata fuori degli accampamenti: poiché Cristo patì fuori della porta [Eh]. Inoltre il sacerdote intingeva il dito nel sangue della vit­ tima: poiché mediante la discrezione, rappre­ sentata dal dito, bisogna considerare e imitare il mistero della passione di Cristo. li sangue veniva poi asperso contro il tabernacolo, che designava la sinagoga: o come per indicare la condanna degli ebrei increduli, oppure per indicare la purificazione dei credenti. E ciò per sette volte: o in vista dei sette doni dello Spirito Santo, oppure per i giorni della settimana, che indicano tutto il tempo. Inoltre tutto ciò che riguarda l'incarnazione di Cristo deve e..>. E ancora: «Quali sono le leggi divine che Dio stesso ha scritto nei cuori, se non la presenza medesima dello Spirito Santo?». Tuttavia la legge nuova con­ tiene alcuni dati, sia in materia di fede che di costumi, che sono come elementi atti a predi­ sporre alla grazia dello Spirito Santo, e all'uso di tale grazia; ed essi sono aspetti secondari della legge nuova che i cristiani devono ap­ prendere, o mediante la parola viva o median­ te gli scritti. Si deve quindi concludere che la legge nuova principalmente è una legge infu­ sa, e secondariamente è una legge scritta. Soluzione delle difficoltà: l . Nello scritto dei Vangeli è contenuto solo ciò che riguarda la grazia dello Spirito Santo o come predisposi­ zione, o come mezzo riguardante il suo uso. Come predisposizione di ordine intellettivo alla fede, a cui è connessa la grazia dello Spirito Santo, si trovano nel Vangelo le parole che ma­ nifestano la divinità e l'umanità di Cristo. Co­ me predisposizione di ordine affettivo si trova­ no invece nel Vangelo le parole di esortazione al disprezzo del mondo, che rende l 'uomo disposto alla grazia dello Spirito Santo: infatti il mondo, cioè chi ama il mondo, non può rice­ vere lo Spirito Santo (Gv 14). L'uso invece del­ la grazia spirituale si ha nelle azioni virtuose, che sono raccomandate agli uomini in molte maniere dagli scritti del Nuovo Testamento. 2. Un principio può essere infuso nell'uomo in due modi. Primo, come elemento appartenen­ te alla natura umana: e così è infusa la legge naturale. Secondo, come elemento sovrappo­ sto alla natura mediante un dono di grazia. E così è infusa nell'uomo la legge nuova, non solo come norma indicatrice delle cose da farsi, ma anche come aiuto per compierle. 3. Nessuno ha mai ricevuto la grazia dello Spirito Santo se non mediante la fede in Cri­ sto, esplicita o implicita. Ora, mediante la fede in Cristo un uomo appartiene al Nuovo Testamento. E così chiunque abbia avuto l'in­ fusione della legge della grazia, per ciò stesso appartiene al Nuovo Testamento.

    Articulus 2 Utrum lex nova iustificet

    Articolo 2 La legge nuova dà la giustificazione?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod lex nova non iustificet. l . Nullus enim iustificatur nisi legi Dei obe-

    Sembra di no. Infatti: l . Nessuno può essere giustificato se non ubbidisce alla legge di Dio: infatti secondo le

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    Q. 1 06, A. 2

    La legge evangelica, o legge nuova, in se stessa

    diat; secundum illud ad Heb. 5 [9],factus est, scilicet Christus, omnibus obtemperantibus sibi causa salutis aeternae. Sed Evangelium non semper hoc operatur quod homines ei obediant, dicitur enim Rom. 1 0 [ 1 6] , non omnes obediunt Evangelio. Ergo lex nova non iustificat. 2. Praeterea, apostolus probat, ad Rom., quod lex vetus non iustificabat, quia ea adveniente praevaricatio crevit, habetur enim ad Rom. 4 [ 1 5], !ex iram operatur, ubi enim non est !ex, nec praevaricatio. Sed multo magis lex nova praevaricationem addidit, maiori enim poena est dignus qui post legem novam datam adhuc peccat; secundum illud Heb. 10 [28 sq.], irri­ tam quis faciens legem Moysi, sine ulla mise­ ratione, duobus vel tribus testibus, moritw: Quanto magis putatis deteriora mereri suppli­ cia, qui Filium Dei conculcaverit, et cetera? Ergo lex nova non iustificat, sicut nec vetus. 3. Praeterea, iustificare est proprius effectus Dei; secundum illud ad Rom. 8 [33], Deus qui iustijicat. Sed lex vetus fuit a Deo, sicut et lex nova. Ergo lex nova non magis iustificat quam lex vetus. Sed contra est quod apostolus dicit, ad Rom. l [ 1 6], non erubesco Evangelium, virtus enim Dei est in salutem omni credenti. Non autem est salus nisi iustificatis. Ergo lex Evangelii iustificat. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 1 ] , ad legem Evangelii duo pertinent.­ Unum quidem principaliter, scilicet ipsa gra­ tia Spiritus Sancti interius data. Et quantum ad hoc, nova lex iustificat. Unde Augustinus dicit, in libro De spiritu et littera [ 1 7], ibi, sci­ li cet in Veteri Testamento, /ex extrinsecus posita est, qua iniusti terrerentur, hic, scilicet in Novo Testamento, intrinsecus data est, qua iustificarentur. Aliud pertinet ad legem Evangeli i secundario, scilicet documenta fidei, et praecepta ordinantia affectum huma­ num et humanos actus. Et quantum ad hoc, lex nova non iustificat. Unde apostolus dicit, 2 ad Cor. 3 [6], littera occidit, �piritus autem vivificar. Et Augustinus exponit, in libro De spiri tu et littera [ 14. 1 7] , quod per litteram intelligitur quaelibet Scriptura extra homines existens, etiam moral ium praeceptorum qualia continentur in Evangelio. Unde etiam littera Evangelii occideret, nisi adesset inte­ rius gratia fidei sanans. -

    parole di Eb Cristo divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli ubbidiscono. Ma il Vangelo non sempre fa sì che tutti ubbi­ discano: infatti in Rm è detto: Non tutti ubbi­ discono al Vangelo. Quindi la legge nuova non dà la giustificazione. 2. Paolo in Rm dimostra che la legge antica non giustificava per il fatto che con la sua pro­ mulgazione crebbe la disobbedienza: La leg­ ge provoca l 'ira; al contrario, dove non c'è legge, non c 'è nemmeno trasgressione. Ma molto di più accrebbe la prevaricazione la legge nuova: infatti chi pecca ancora dopo la sua promulgazione è degno di un castigo più grave, secondo le parole di Eb: Uno che ha violato la legge di Mosè, senza alcuna pietà, è messo a morte sulla parola di due o tre testi­ moni. Di quanto maggior castigo allora pen­ sate che sarà ritenuto degno chi avrà calpe­ stato il Figlio di Dio ? Quindi, al pari della legge antica, la legge nuova non giustifica. 3. Giustificare è opera esclusiva di Dio, per­ ché, come è detto in Rm, Dio è colui che giu­ stifica. Ora, la legge antica deriva da Dio non meno della legge nuova. Perciò la legge nuo­ va non giustifica più dell'antica. In contrario: Paolo in Rm dice: Non mi vergo­ gno del Vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede. Ora, non vi è salvezza che per i giustificati. Quindi la legge evangelica dà la giustificazione. Risposta: come si è detto, alla legge evangeli­ ca appartengono due cose. La prima come elemento principale, ed è la grazia interiore dello Spirito Santo. E sotto questo aspetto la legge nuova giustifica. Infatti Agostino scrive: «Là», cioè nell'Antico Testamento, «fu impo­ sta una legge dali' esterno, per intimorire i perversi; qui invece», ossia nel Nuovo Testa­ mento, «fu data dall' interno, per renderli giu­ sti». - La seconda cosa appartiene alla legge evangelica in maniera secondaria, e si tratta degli insegnamenti della fede e dei precetti che predispongono la volontà dell'uomo agli atti umani. E sotto questo aspetto la legge nuova non giustifica. Per cui Paolo in 2 Cor dice: La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita. E Agostino spiega che per lettera va inte­ sa qualsiasi scrittura esistente fuori dell'uo­ mo, anche se si tratta di precetti morali, quali sono quelli contenuti nel Vangelo. Perciò an­ che la lettera del Vangelo potrebbe uccidere, -

    Q. 1 06, A. 2

    La legge evangelica, o legge nuova, in se stessa

    l l l6

    Ad primum ergo dicendum quod illa obiectio procedit de lege nova non quantum ad id quod est principale in ipsa, sed quantum ad id quod est secundarium in ipsa, scilicet quan­ tum ad documenta et praecepta exteriu s homini proposita vel verbo vel scripto. Ad secundum dicendum quod gratia Novi Testamenti, etsi adiuvet hominem ad non pec­ candum, non tamen ita confirmat in bono ut homo peccare non possit, hoc enim pertinet ad statum gloriae. Et ideo si quis post accep­ tam gratiam Novi Testamenti peccaverit, maiori poena est dignus, tanquam maioribus beneficiis ingratus, et auxilio sibi dato non utens. Nec tamen propter hoc dicitur quod lex nova iram operatur, quia quantum est de se, sufficiens auxilium dat ad non peccandum. Ad tertium dicendum quod legem novam et veterem unus Deus dedit, sed aliter et aliter. Nam legem veterem dedit scriptam in tabulis lapideis, legem autem novam dedit scriptam in tabulis cordis camalibus, ut apostolus dicit, 2 ad Cor. 3 [3]. Proinde sicut Augustinus dicit, in libro De spiritu et littera [ 1 8], litteram istam extra hominem scriptam, et ministra­ tionem martis et ministrationem damnationis apostolus appellar. Hanc autem, scilicet Novi Testamenti legem, ministrationem Spiritus et ministrationem iustitiae dicit, quia per donum Spiritus operamur iustitiam, et a praevarica­ tionis damnatione liberamur.

    se non ci fosse la grazia interiore della fede che salva. Soluzione delle difficoltà: l . L' obiezione parte dalla legge nuova considerata non in ciò che ha di principale, ma in quanto ha di secondario: cioè rispetto alle dottrine e ai pre­ cetti presentati all'uomo dall'esterno, o con la parola o con lo scritto. 2. Sebbene la grazia del Nuovo Testamento aiuti l'uomo a non peccare, tuttavia non lo rende impeccabile, essendo questa una prero­ gativa dello stato di gloria. Se quindi uno pecca dopo aver ricevuto la grazia del Nuovo Testamento, è degno di un castigo più grave, giacché abusa di benefici più grandi e non approfitta dell' aiuto che gli viene offerto. Tuttavia non si dice per questo che la legge nuova «produce l'ira>>: poiché di per sé offre un aiuto efficace per non peccare. 3. La legge antica e la legge nuova furono date da un unico Dio, però in maniera diversa. Infatti la legge antica fu scritta su tavole di pie­ tra, mentre la legge nuova fu scritta sulle tavole di came dei cuori, come dice Paolo in 2 Cor. E Agostino spiega che «Paolo chiama ministero di morte e di dannazione questa scrittura ester­ na all'uomo, mentre chiama ministero di spiri­ to e di giustizia questa legge del Nuovo Testa­ mento: poiché mediante il dono dello Spirito operiamo la giustizia, e siamo liberati dalla dannazione della disobbedienza>>.

    Articulus 3 Utrum lex nova debuerit dari a principio mundi

    Articolo 3 La legge nuova doveva essere data all'inizio del mondo?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod lex nova debuerit dari a principio mundi. l . Non enim est personarum acceptio apud Deum, ut dicitur ad Rom. 2 [ I l ]. Sed omnes homines peccaverunt, et egent gloria Dei, ut dicitur ad Rom. 3 [23 ] . Ergo a principio mundi lex Evangelii dari debuit, ut omnibus per eam subveniretur. 2. Praeterea, sicut in diversis locis sunt diversi homines, ita etiam in diversis temporibus. Sed Deus, qui vult omnes homines salvos fieri, ut dicitur l ad Tim. 2 [4], mandavit Evangelium praedicari in omnibus locis; ut patet Matth. ult. [ 1 9] , et Mare. ult. [ 1 5]. Ergo omnibus temporibus debuit adesse lex Evangelii, ita quod a principio mundi daretur.

    Sembra di sì. Infatti: l . In Dio non c'è preferenw di persone, come è detto in Rm. Ora, tutti gli uomini hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, come è detto in Rm. Quindi bisognava dare la legge evangelica dall'inizio del mondo, per soccorrere tutti. 2. Gli uomini, come abitano in diversi luoghi, così si trovano a vivere in diversi tempi. Ma Dio il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati, come è detto in l Tm, ha comandato che si predichi il Vangelo in tutti i luoghi (Mt 28; Mc 1 6). Perciò la legge evangelica doveva esserci in tutti i tempi, e così doveva essere data all'inizio del mondo. 3. Per l'uomo è più necessaria la salute dello spirito, che è eterna, che non quella del corpo,

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    La legge evangelica, o legge nuova, in se stessa

    3 . Praeterea, magis est necessaria homini salus spiritualis, quae est aetema, quam salus corporalis, quae est temporalis. Sed Deus ab initio mundi providit homini ea quae sunt necessaria ad salutem corporalem, tradens eius potestati omnia quae erant propter homi­ nem creata, ut patet Gen. l . Ergo etiam lex nova, quae maxime est necessaria ad salutem spiritualem, debuit hominibus a principio mundi dari. Sed contra est quod apostolus dicit, l ad Cor. 1 5 [46], non prius quod spirituale est, sed quod animale. Sed lex nova est maxime spiri­ tualis. Ergo lex nova non debuit dari a princi­ pio mundi. Respondeo dicendum quod triplex ratio potest assignari quare lex nova non debuit dari a principio mundi. - Quarum prima est quia lex nova, sicut dictum est [a. 1], principaliter est gratia Spiritus Sancti; quae abundanter dari non debuit antequam impedimentum peccati ab humano genere tolleretur, consummata redemptione per Christum; unde dicitur loan. 7 [39], nondum erat Spiritus datus, quia /esus nondum erat glor{ficatus. Et hanc rationem manifeste assignat apostolus ad Rom. 8 [2 sqq.], ubi, postquam praemiserat de lege Spiritus vitae, subiungit, Deus, Filium suum mittens in similitudinem carnis peccati, de peccato damnavit peccatum in carne, ut iustifi­ catio legis imp/eretur in nobis. - Secunda ratio potest assignari ex perfectione legis novae. Non enim aliquid ad pertectum adducitur sta­ tim a principio, sed quodam temporali succes­ sionis ordine, sicut aliquis prius fit puer, et postmodum vir. Et hanc rationem assignat apostolus ad Gal. 3 [24 sq.], /ex paedagogus noster fidt in Christo, ut ex fide iustificemur. At ubi venitfides, iam 1wn swnus sub paedagogo. Tertia ratio sumitur ex hoc quod lex nova est lex gratiae, et ideo primo oportuit quod homo relinqueretur sibi in statu veteris legis, ut, in peccatum cadendo, suam infirmitatem co­ gnoscens, recognosceret se gratia indigere. Et hanc rationem assignat apostolus ad Rom. 5 [20] , dicens, /ex subintravit ut abundaret delictum, ubi autem abundavit delictum, superabundavit et grafia. Ad primum ergo dicendum quod humanum genus propter peccatum primi parentis meruit privari auxilio gratiae. Et ideo quibuscumque non datur. hoc est ex iustitia, quibuscumque

    Q. 1 06, A. 3

    che è temporale. Ora, fin dall'inizio del mon­ do Dio diede all'uomo ciò che è necessario alla salute del corpo, mettendo in suo potere tutte le cose create ( Gen l ). Quindi anche la legge nuova, che è sommamente necessaria alla salute dello spirito, doveva essere data all'uomo fin dal principio del mondo. In contrario: Paolo in l Cor dice: Non vi fu prima ciò che è spirituale, ma ciò che è ani­ male. Ora, la legge nuova è sommamente spi­ rituale. Quindi non andava data all'inizio del mondo. Risposta: si possono portare tre ragioni per provare che la legge nuova non andava data all'inizio del mondo. - La prima sta nel fatto che tale legge consiste principalmente, come si è detto, nella grazia dello Spirito Santo, che non doveva essere concessa in abbondanza ptima che fosse tolto dal genere umano, con la redenzione di Cristo, l'ostacolo del pecca­ to. Per cui in Gv è detto: Non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato. E questa è la ragione portata espressamente da Paolo in Rm quando, dopo aver ticordato la legge dello Spirito che dà vita, aggiunge: Dio, mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del pecca­ to, ha condannato il peccato nella carne, per­ ché la giustizia della legge si adempisse in noi. - La seconda ragione può essere desunta dalla perfezione della legge nuova. Infatti nulla raggiunge la perfezione all' inizio, ma dopo un certo tempo: come prima si è bambi­ ni, e poi uomini. E anche questa ragione la sostiene Paolo in Gal: La legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotti a Cristo, perchéfossimo giustificati per la fede. Ma appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto un pedagogo. - La terza ragione viene desunta dal fatto che la legge nuova è una legge di grazia: perciò era necessario che l'uomo fosse lasciato a se stesso nello stato della legge antica affinché, cadendo in pecca­ to, costatasse la proptia infermità, e ricono­ scesse di aver bisogno della grazia. E anche questa ragione l a sostiene Paolo in Rm: La legge poi sopraggiunse cosicché abbondò il peccato: ma dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia. Soluzione delle difficoltà: l . li genere umano per il peccato del suo progenitore meritò la privazione dell' aiuto della grazia. Perciò

    Q. 1 06, A. 3

    La legge evangelica, o legge nuova, in se stessa

    ut Augustinus dicit, in libro De perfect. iustit. Unde non est acceptio personarum apud Deum ex hoc quod non omnibus a principio mundi legem gratiae proposuit, quae erat debito ordine proponen­ da, ut dictum est [co.] . Ad secundum dicendum quod diversitas loco­ rum non variat diversum statum humani gene­ ris, qui variatur per temporis successionem. Et ideo omnibus locis proponitur lex nova, non autem omnibus temporibus, licet omni tempo­ re fuerint aliqui ad Novum Testamentum per­ tinentes, ut supra [a. l ad 3] dictum est. Ad tertium dicendum quod ea quae pertinent ad salutem corporalem, deserviunt homini quantum ad naturam, quae non tollitur per peccatum. Sed ea quae pertinent ad spiritua­ lem salutem, ordinantur ad gratiam, quae amittitur per peccatum. Et ideo non est similis ratio de utrisque.

    autem datur, hoc est ex grafia,

    «verso coloro a cui esso non è concesso si ha un atto di giustizia; per coloro invece a cui viene concesso si ha un dono gratuito», come nota Agostino. Quindi non c'è preferenza di persone in Dio per il fatto che fin dall'inizio del mondo non fu concessa a tutti la legge della grazia, che doveva essere data con un certo ordine, come si è spiegato. 2. Non la diversità dei luoghi determina i diversi stati del genere umano, ma la succes­ sione dei tempi. E così la legge nuova viene proposta in tutti i luoghi, ma non in tutti i tempi: sebbene in tutti i tempi ci siano state delle persone che appartenevano al N uovo Testamento, come si è già notato. 3. Le cose richieste alla salute del corpo ser­ vono ali' uomo per conservare la propria natu­ ra, che non è distrutta dal peccato. Invece le cose richieste per la salute dello spirito sono ordinate alla grazia, che si perde col peccato. Quindi il paragone non regge.

    Articulus 4

    Articolo 4

    Utrum lex nova sit duratura usque ad finem mundi

    La legge nuova deve durare sino alla fine del mondo?

    Ad quartum sic proceditur. Vìdetur quod lex nova non sit duratura usque ad finem mundi. l . Quia ut apostolus dicit, l ad Cor. 1 3 [ 10],

    cum venerit quod pe1jectum est, evacuabitur quod ex parte est. Sed lex nova ex parte est, dicit enim apostolus ibidem [9] , ex parte cognoscimus, et ex parte prophetamus. Ergo lex nova evacuanda est, alio perfectiori statu succedente. 2. Praeterea, Dominus, Ioan. 1 6 [ 1 3], promisit discipulis suis in adventu Spiritus Sancti Para­ cleti cognitionem omnis veritatis. Sed nondum Ecclesia omnem veritatem cognoscit, in statu Novi Testamenti. Ergo expectandus est alius status, in quo per Spiritum Sanctum omnis ver­ itas manifestetur [Denifle, Chartularium, 243]. 3. Praeterea, sicut Pater est alius a Filio et Filius a Patre, ita Spiritus Sanctus a Patre et Filio. Sed fuit quidam status conveniens per­ sonae Patris, scilicet status Veteris Legis, in quo homines generationi intendebant. Similiter etiam est alius status conveniens personae Filii, scilicet status Novae Legis, in quo clerici, intendentes sapientiae, quae appropriatur Filio, principantur. Ergo erit status tertius Spiritus Sancti, in quo spirituales viri principabuntur.

    l l l8

    Sembra di no. Infatti: l . Come dice Paolo in

    l Cor, quando verrà ciò che è pelfetto, quello che è impeifetto scomparirà. Ma la legge nuova è imperfetta, poiché Paolo afferma: La nostra conoscenza è impeifetta, e impelfetta la nostra profezia. Quindi la legge nuova deve finire, col soprag­ giungere di un nuovo stato. 2. n Signore in Gv promise ai suoi discepoli, con la venuta dello Spirito Santo Paraclito, la conoscenza di tutta la verità. Ma la Chiesa non conosce ancora tutta la verità, nello stato del Nuovo Testamento. Quindi si deve atten­ dere un altro stato, in cui lo Spirito Santo ren­ derà manifesta tutta la verità. 3. Come il Padre è distinto dal Figlio e il Figlio dal Padre, così lo Spirito Santo è distinto dal Padre e dal Figlio. Ora, ci fu uno stato appro­ priato alla persona del Padre: cioè lo stato della legge antica, in cui gli uomini attendevano alla generazione. Così pure vi è uno stato appro­ priato alla persona del Figlio: ed è lo stato della legge nuova, in cui predominano i chierici, che attendono alla sapienza, attribuita al Figlio. Quindi vi sarà un terzo stato dello Spirito San­ to in cui predomineranno gli spirituali.

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    La legge evangelica, o legge nuova, in se stessa

    4. Praeterea, Dominus dicit, Matth. 24 [ 1 2], praedicabitur hoc Evangelium regni in univer­ so orbe, et tunc veniet consummatio. Sed Evangelium Christi iamdiu est praedicatum in universo orbe; nec tamen adhuc venit con­ summatio. Ergo Evangelium Christi non est Evangelium regni, sed futurum est aliud Evangelium Spiritus Sancti, quasi alia lex [Denifle, Chartularium, 243]. Sed contra est quod Dominus dicit, Matth. 24 [34], dico vobis quia non praeteribit generatio haec donec omnia fiant, quod Chrysostomus [In Matth. h. 78] exponit de generatione fideliwn Christi. Ergo status fidelium Christi manebit usque ad consummationem saeculi. Respondeo dicendum quod status mundi variari potest dupliciter. - Uno modo, secun­ dum diversitatem legis. Et sic huic statui novae legis nullus alius status succedet. Successit enim status novae legis statui vete­ ris legis tanquam perfectior imperfectiori. Nullus autem status praesentis vitae potest esse perfectior quam status novae legis. Nihil enim potest esse propinquius fini ultimo quam quod i mmediate in finem ultimum introducit. Hoc autem facit nova lex, unde apostolus dicit, ad Heb. IO [ 1 9 sqq.], habentes itaque, fratres, fiduciam in introitu sanctorum in sanguine Christi, quam initiavit nobis viam novam, accedamus ad eum. Unde non potest esse aliquis perfectior status praesentis vitae quam status novae legis, quia tanto est unumquodque perfectius, quanto ultimo fini propinquius. - Alio modo status hominum vari­ ari potest secundum quod homines diversi­ mode se habent ad eandem legem, vel perfec­ tius vel minus perfecte. Et sic status veteris legis frequenter fuit mutatus, cum quandoque leges optime custodirentur, quandoque omni­ no praetennitterentur. Sic etiam status novae legis diversificatur, secundum diversa loca et tempora et personas, i nquantum gratia Spiritus Sancti perfectius vel minus pert'ecte ab aliquibus habetur. Non est tamen expectan­ dum quod sit aliquis status futurus in quo per­ fectius gratia Spiritus Sancti habeatur quam hactenus habita fuerit, maxime ab apostolis, qui primitias Spiritus acceperunt, idest et tem­ pore prius et ceteris abundantius, ut Glossa [glos. int. et glos. Lomb.] dicit Rom. 8 [23]. Ad primum ergo dicendum quod, sicut Dionysius dicit, in Eccl. Hier. [5], triplex est

    Q. 1 06, A. 4

    4. li Signore in Mt dice: Questo Vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, e allora verrà la fine. Ora, il Vangelo di Cristo è stato già predicato in tutto il mondo, e tutta­ via ancora non viene la fine. Perciò il Vangelo di Cristo non è il Vangelo del regno, ma deve venire un Vangelo dello Spirito Santo, cioè un'altra legge. In contrario: il Signore in Mt dice: Non pas­ serà questa generazione prima che tutto que­ sto accada; e il Crisostomo spiega che si trat­ ta «della generazione dei credenti in Cristo». Quindi lo stato dei credenti in Cristo durerà sino alla fine del mondo. Risposta: lo stato del mondo può mutare in due modi. - Primo, col variare della legge: e in questo senso allo stato presente della legge nuova non seguirà alcun altro stato. Infatti questo stato seguì a quello dell'antica legge come ciò che è perfetto segue a ciò che è imperfetto. Ora, nessuno stato della vita pre­ sente può essere più perfetto di quello della legge nuova. Poiché nulla può essere più vici­ no al fine ultimo di quanto introduce diretta­ mente a tale fine. E la legge nuova fa precisa­ mente questo, per cui in Eb è detto: Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inau­ gurato per noi, accostiamoci a lui. Quindi non ci può essere nella vita presente uno stato più pertètto dello stato della legge nuova: poi­ ché ogni cosa tanto più è perfetta quanto più si avvicina al fine ultimo. - Secondo, lo stato dell'umanità può variare per il diverso com­ portamento degli uomini verso una medesima legge, che essi possono osservare più o meno perfettamente. E in questo senso spesso subì mutazioni lo stato della legge antica: poiché in certi periodi le leggi erano ottimamente osservate, in altri invece del tutto trascurate. E così può variare anche lo stato della legge nuova, secondo la diversità di luoghi, di tempi e di persone, in quanto la grazia dello Spirito Santo è posseduta in maniera più o meno per­ fetta. Non si deve però attendere uno stato futuro in cui si possa avere la grazia dello Spirito Santo più perfettamente di quanto è avvenuto finora, soprattutto rispetto agli apo­ stoli, i quali ricevettero «le primizie dello Spirito, cioè, prima degli altri e più in abbon­ danza>> come spiega la Glossa.

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    La legge evangelica, o legge nuova, in se stessa

    hominum status, primus quidem veteris legis; secundus novae legis; tertius status succedit non in hac vita, sed in patria. Sed sicut primus status est figuralis et imperfectus respectu sta­ tus evangelici, ita hic status est figuralis et i mperfectus respectu status patriae; quo veniente, iste status evacuatur, sicut ibi dicitur [ 1 2] , videmus mmc per speculum in aenig­ mate, tune autemfacie adfaciem. Ad secundum dicendum quod, sicut Augustinus dicit in libro Contra Faustum, Montanus et Priscilla posuerunt quod promis­ sio Domini de Spiritu Sancto dando non fuit completa in apostolis, sed in cis. Et similiter Manichaei posuerunt quod fuit completa in Manichaeo, quem dicebant esse Spiritum Paracletum [Augustinus, De haeresibus 46]. Et ideo utrique non recipiebant Actus aposto­ lorum, in quibus manifeste ostenditur quod illa promissio fuit in apostolis completa, sicut Dominus iterato eis promisit, Act. l [5], bap­ tizamini in Spiritu Sancto non post multos hos dies; quod impletum legitur Act. 2. Sed istae vanitates excluduntur per hoc quod dicitur Ioan. 7 [39], nondum erat Spiritus datus, quia Iesus nondum erat glorificatus, ex quo datur intelligi quod statim glorificato Christo in resurrectione et ascensione, fuit Spiritus Sanctus datus. Et per hoc etiam excluditur quorumcumque vanitas qui dicerent esse expectandum aliud tempus Spiritus Sancti. Docui t autem Spiri tus Sanctus apostolos omnem veritatem de his quae pertinent ad necessitatem salutis, scilicet de credendis et agendis. Non tamen docuit eos de omnibus futuris eventibus, hoc enim ad eos non perti­ nebat, secundum illud Act. l [7], non est vestrum nosse tempora ve/ momenta, quae Pater posuit in sua potestate. Ad tertium dicendum quod Lex Vetus non solum fuit Patris, sed etiam Filii, quia Christus in Veteri Lege figurabatur. Unde Dominus dicit, Ioan. 5 [46], si crederetis Moysi, credere­ tisforsitan et mihi, de me enim il/e scripsit. Si­ militer etiam Lex Nova non solum est Christi, sed etiam Spiritus Sancti; secundum illud Rom. 8 [2], lex Spiritus vitae in Christo Iesu, et cetera. Unde non est expectanda alia lex, quae sit Spiritus Sancti. Ad quartum dicendum quod, cum Christus statim in principio evangelicae praedicationis dixerit, appropinquavit regnum caelorum

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    Soluzione delle difficoltà: l . Come dice Dionigi, tre sono gli stati dell'umanità: il primo è quel­ lo della legge antica; il secondo quello della legge nuova; il terzo si avrà non in questa vita, ma nella patria beata. Ora, come il primo è figurale e imperfetto in rapporto allo stato evangelico, così quest'ultimo è figurale e im­ perfetto in rapporto allo stato della patria; alla venuta del quale lo stato presente finirà, come è detto in l Cor. Ora vediamo come in uno specchio, in modo enigmatico; ma allora vedremo afaccia afaccia. 2. Racconta Agostino che Montano e Priscilla ritenevano che la promessa dello Spirito Santo fatta dal Signore non si fosse compiuta negli apostoli, bensì in loro. E similmente per i Manichei si sarebbe avverata in Manete, che essi identificavano con lo Spirito Paraclito. Di conseguenza gli uni e gli altri non accettavano gli Atti degli apostoli, in cui si mostra chiara­ mente che quella promessa si avverò negli apostoli (At 2), secondo la ripetuta affermazio­ ne del Signore (A t l ): Sarete battezzati in Spi­ rito Santo, fra non molti giorni. Ma queste vanità sono escluse da quanto è detto in Gv: Non c 'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato; secondo le quali parole si vede chiaramente che lo Spirito Santo fu dato subito, non appena Cristo fu glorificato con la risurrezione e l'ascensione. E ciò serve anche a escludere le fantasticherie di chiunque dicesse che si deve aspettare una nuova epoca dello Spirito Santo. - Inoltre lo Spirito Santo istruì gli apostoli su tutte le verità necessarie alla salvezza: cioè su tutte le cose da credere e da praticare. Invece non li ammaestrò sugli eventi futuri; poiché ciò non rientrava nei loro compiti, secondo le parole di At: Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta. 3. L'antica legge non era soltanto del Padre, ma anche del Figlio: poiché l'antica legge pre­ figurava Cristo. Per cui il Signore dice in Gv: Se credeste a Mosè, credereste anche a me; perché di me egli ha scritto. E così pure la legge nuova non è soltanto di Cristo, ma an­ che dello Spirito Santo, secondo le parole di Rm: La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù. Perciò non si deve attendere un'altra legge che sia dello Spirito Santo. 4. Fin dal principio della predicazione evangeli­ ca Cristo ha affermato: Il regno dei cieli è vicino.

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    La legge evangelica, o legge nuova, in se stessa

    Q. 1 06, A. 4

    [Matth. 4,1 7], smltissimum est dicere quod Evangelium Christi non sit Evangelium regni. Sed praedicatio Evangelii Christi potest intel­ ligi dupliciter. - Uno modo, quantum ad di­ vulgationem notitiae Christi, et sic praedicatum fuit Evangelium in universo orbe etiam tem­ pore apostolorum, ut Chrysostomus dicit [In Matth., h. 75]. Et secundum hoc, quod additur [Matth. 24, 1 4] , et lune erit consummatio, intelligitur de destructione lerusalem, de qua tunc ad litteram loquebatur. - Alio modo potest intelligi praedicatio Evangelii in universo orbe cum pieno effectu, ita scilicet quod in qualibet gente fundetur Ecclesia. Et ita, sicut dicit Augustinus, in Epistola ad Hesych. [ep. 199, 12], nondum est praedicatum Evangelium in universo orbe, sed, hoc facto, veniet consum­ matio mundi.

    Perciò è cosa stoltissima dire che il Vangelo di Cristo non è il Vangelo del regno. Thttavia la predicazione del Vangelo di Cristo può essere intesa in due modi. - Primo, come di­ vulgazione della fama di Cristo, e in questo senso il Vangelo fu predicato in tutto il mon­ do già al tempo degli apostoli, come nota il Crisostomo. E in questo caso la predizione: E allora verrà lafine va intesa della distruzio­ ne di Gerusalemme, di cui Gesù parlava in senso letterale. - Secondo, può essere intesa come predicazione del Vangelo in tutto i l mondo con pienezza d i effetti, cioè con la fondazione della Chiesa in qualsiasi nazione. E in questo senso, come dice Agostino, il Vangelo non è stato ancora predicato in tutta la terra; ma una volta che ciò sarà avvenuto, verrà la fine del mondo.

    QUAESTIO 1 07 DE COMPARATIONE LEGIS NOVAE AD VETEREM

    QUESTIONE 1 07 CONFRONTO FRA LA LEGGE NUOVA E L'ANTICA

    Deinde considerandum est de comparatione legis novae ad legem veterem. Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, utrum lex nova sit alia lex a lege veteri. Secundo, utrum lex no­ va impleat veterem. Tet1io, utrum lex nova contineatur in veteri. Quarto, quae sit gravior, utrum lex nova vel vetus.

    Passiamo ora al confronto fra la legge nuova e l'antica. Sull' argomento si pongono quattro quesiti: l . La legge nuova è una legge distinta da quella antica? 2. La legge nuova completa l'antica? 3. La legge nuova è contenuta nel­ l ' antica? 4. È più gravosa la legge nuova o l'antica?

    Articulus l Utrum lex nova sit alia a lege veteri

    Articolo l La legge nuova è distinta dalla legge antica?

    Ad primum sic proceditur. Vìdetur quod lex nova non sit alia a lege veteri. l . Utraque enim lex datur fidem Dei habenti­ bus, quia sinefide impossibile estpiacere Deo, ut dicitur Heb. 1 1 [6]. Sed eadem fides est an­ tiquorurn et modemorurn, ut dicitur in Glossa [glos. ord., int. et Lomb., super 2 Cor. 4, 1 3] Matth. 2 1 [9]. Ergo etiam est eadem lex. 2. Praeterea, Augustinus dicit, in libro Contra Adamantum Manich. discip. [ 1 7], quod brevis difjèrentia legis et Evangelii est timor et amor. Sed secundum haec duo nova lex et vetus diversificari non possunt, quia etiam in veteri lege proponuntur praecepta caritatis; Lev. 1 9 [ 1 8], diliges proximum tuum; et Deut. 6 [5], diliges Dominum Deum tuum. - Similiter etiam

    Sembra di no. Infatti: l . Ambedue le leggi sono date a coloro che credono in Dio, poiché senza la fede è impos­ sibile piacere a Dio, come è detto in Eh. Ora, la Glossa afferma che la fede degli antichi è identica a quella di oggi. Quindi è identica anche la legge. 2. Agostino scrive: «Tra la Legge e il Vangelo la distanza è breve, quella cioè che passa fra il timore e l'amore». Ma le due leggi ricordate non si possono distinguere su questo punto, poiché anche nell'antica legge troviamo i pre­ cetti della carità: Amerai il tuo prossimo (Lv 1 9), e Amerai il Signore tuo Dio (Dt 6). E così pure non si possono distinguere secon­ do l ' altra differenza proposta da Agostino,

    Q. 1 07, A. l

    Confronto fra la legge nuova e l 'antica

    diversificari non possunt per aliam differen­ tiam quam Augustinus assignat, Contra Faustum [4,2], quod Vetus Testamentum habuit

    promissa temporalia, Novum Testamentum habet promissa spiritualia et aeterna. Quia etiam in Novo Testamento promittuntur aliqua promissa temporalia; secundum illud Mare. l O [3 0] , accipiet centies tantum in tempore hoc, domos et ji-atres, et cetera. Et in Veteri Testa­ mento sperabantur promissa spiritualia et aeterna; secundum illud ad Heb. 1 1 [ 1 6], mmc

    autem meliorem patriam appetunt, idest caele­ stem, quod dicitur de antiquis patribus. Ergo videtur quod nova lex non sit alia a veteri. 3 . Praeterea, apostolus videtur distinguere utramque legcm, ad Rom. 3 [27] , veterem legem appellans legem factontm, legem vero novam appellans legemfidei. Sed lex vetus fuit etiam fidei; secundum illud Heb. 1 1 [ 3 9] , omnes testimonio fidei probati sunt, quod dicit de patribus Veteris Testamenti. Similiter etiam lex nova est lex factorum, dicitur enim Matth. 5 [44], benefacite his qui oderunt vos; et Luc. 22 [ 1 9] , hoc facile in meam commemora­ tionem. Ergo lex nova non est alia a lege veteri. Sed contra est quod apostolus dicit, ad Heb. 7 [ 1 2], translato sacerdotio, necesse est ut legis translatio.fìat. Sed aliud est sacerdotium Novi et Veteris Testamenti, ut ibidem apostolus probat. Ergo est etiam alia lex. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 90 a. 2; q. 9 1 a. 4] dictum est, omnis lex ordinat conversationem humanam in ordine ad ali­ quem finem. Ea autem quae ordinantur ad finem, secundum rationem finis dupliciter diversificari possunt. Uno modo, quia ordi­ nantur ad diversos fincs, et haec est diversitas speciei, maximc si sit finis proximus. Alio modo, secundum propinquitatem ad finem vel distantiam ab ipso. Sicut patet quod motus differunt specie secundum quod ordinantur ad diversos terminos, secundum vero quod una pars motus est propinquior termino quam alia, attenditur differentia in motu secundum perfectum et imperfectum. - Sic ergo duae leges distingui posstmt dupliciter. Uno modo, quasi omnino diversae, utpote ordinatae ad diversos fines, sicut !ex civitatis quae esset ordinata ad hoc quod populus dominaretur, esset specie differens ab illa lege quae esset ad hoc ordinata quod optimates civitat i s dominarentur. Alio modo duae leges distingui

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    cioè per il fatto «che l'Antico Testamento pre­ sentava promesse temporali, mentre il Nuovo presenta promesse spirituali ed eterne». Infatti anche nel Nuovo Testamento si fanno delle promesse temporali, come in quel passo di

    Mc: Riceverà al presente cento volte tanto in case, fratelli.. . ; mentre anche nell' Antico Testamento si aveva la speranza di cose spiri­ tuali ed eterne, secondo le parole di Eb: Essi

    aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. E ciò viene detto degli antichi patriar­ chi. Quindi sembra che la legge nuova non si distingua dali'antica. 3. Sembra che Paolo in Rm voglia distinguere le due leggi col chiamare l'antica legge delle opere, e la nuova legge della fede. Ma la legge antica fu anch'essa della fede, secondo le paro­ le di Eb: Tutti costom ebbem una buona testi­ monianza per la lom fede, riferite ai padri del­ l' Antico Testamento. E d'altra parte anche la legge nuova è una legge di opere, poiché in Mt è detto: Fate del bene a quelli che vi odiano; e in Le: Fate questo in memoria di me. Quindi la legge nuova non si distingue dall'antica. In contrario: in Eb è detto: Mutato il sacerdo­

    zio, avviene necessariamente anche un muta­ mento della legge. Ma il sacerdozio del Nuovo Testamento, come si dimostra nel brano citato, è distinto da quello dell'Antico Testamento. Quindi è distinta anche la legge. Risposta: come si è già visto, qualsiasi legge ordina la vita umana a un determinato fine. Ora, le cose che dicono ordine a un fine pos­ sono differenziarsi tra loro in rapporto al fine per due motivi. Primo, perché sono ordinate a fini diversi: e allora si ha una differenza speci­ fica, soprattutto se si tratta del fine immediato. Secondo, in base alla vicinanza o alla lonta­ nanza dal fine. I vari moti, p. es., differiscono specificamente fra loro in quanto sono indiriz­ zati verso termini differenti; per il fatto invece che una fase del moto è più vicina di un'altra al termine si ha una differenza nel moto stesso come fra l ' imperfetto e il perfetto. - Perciò due leggi si possono distinguere fra loro in due modi. Primo, come del tutto diverse, per­ ché ordinate a fini diversi: come la legge di uno stato ordinato a un regime popolare diffe­ risce specificamente da quella di uno stato ordinato a un regime aristocratico. Secondo, due leggi possono distinguersi fra loro per il fatto che una è ordinata al fine più immediata-

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    Confronto fra la legge nuova e L 'antica

    Q. 1 07, A. l

    possunt secundum quod una propinquius ordinat ad fmem, alia vero remotius. Puta in una et eadem civitate dicitur alia lex quae imponitur viris perfectis, qui statim possunt exequi ea quae pertinent ad bonum commu­ ne; et alia lex de disciplina puerorum, qui sunt instruendi qualiter postmodum opera virorum exequantur. - Dicendum est ergo quod secun­ dum primum modum, lex nova non est alia a lege veteri, quia utriusque est unus fmis, scili­ cet ut homines subdantur Deo; est autem unus Deus et Novi et Veteris Testamenti, secun­ dum illud Rom. 3 [30], unus Deus est qui

    mente dell'altra. In un medesimo stato, p. es., la legge imposta alle persone mature, che sono già capaci di eseguire quanto è richiesto dal bene comune, è diversa dalla legge riguar­ dante l 'educazione dei bambini, che devono essere formati a eseguire più tardi le azioni dei grandi. - Dobbiamo quindi concludere che la legge nuova non differisce dali' antica nel primo modo: essendo unico il fine di entram­ be, cioè la sottomissione degli uomini a Dio; ed essendo d ' altra parte unico il Dio del Nuovo e dell'Antico Testamento, secondo le parole di Rm: Unico è il Dio che giustificherà

    iusti:fìcat circumcisionem ex .fide, et praepu­ tium perfidem. Alio modo, lex nova est alia a

    per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi. La legge nuova si

    veteri . Quia lex vetus est quasi paedagogus puerorum, ut apostolus dicit, ad Gal. 3 [24], lex autem nova est lex perfectionis, quia est lex caritatis, de qua apostolus dicit, ad Col. 3 [ 1 4] , quod est vinculum peifectionis. Ad primum ergo dicendum quod unitas fidei utriusque Testamenti attestatur unitari fmis, dic­ tum est enim supra [q. 62 a. 2] quod obiectum theologicarum virtutum, inter quas est fides, est finis ultimus. Sed tamen fides habuit alium sta­ turo in veteri et in nova lege, nam quod illi cre­ debant futurum, nos credimus factum. Ad secundum dicendum quod omnes differen­ tiae quae assignantur inter novam legem et veterem, accipiuntur secundum perfectum et imperfectum. Praecepta enim legis cuiuslibet dantur de actibus virtutum. Ad operanda autem vittutum opera aliter inclinantur imper­ fecti, qui nondum habent virtutis habitum; et aliter illi qui sunt per habitum virtutis perfecti. Illi enim qui nondum habent habitum virtutis, inclinantur ad agendum virtutis opera ex ali­ qua causa extrinseca, puta ex comminatione poenarum, vel ex promissione aliquarum extrinsecarum remunerationum, puta honoris vel divitiarum vel alicuius huiusmodi. Et ideo lex vetus, quae dabatur imperfectis, idest non­ duro consecutis gratiam spiritualem, dice­ batur !ex timoris, inquantum inducebat ad observantiam praeceptorum per commina­ tionem quarundam poenarum. Et dicitur habere temporalia quaedam promissa. Illi autem qui habent virtutem, inclinantur ad vir­ tutis opera agenda propter amorem virtutis, non propter aliquam poenam aut remunera­ tionem extrinsecam. Et ideo lex nova, cuius principalitas consistit in ipsa spirituali gratia

    distingue invece dall' antica nell'altro modo. Poiché la legge antica è come il pedagogo dei bambini, come Paolo dice in Gal, mentre la legge nuova è una legge di perfezione, in quanto legge della carità, di cui in Col Paolo afferma che è il vincolo della peifezione. Soluzione delle difficoltà: l . L' unità della fede dei due Testamenti dimostra l'unità del fine: infatti sopra si è spiegato che l'oggetto delle virtù teologali, tra le quali c'è la fede, è il fine ultimo. Tuttavia la fede ebbe stati diver­ si nell' antica e nella nuova legge: poiché quanto allora veniva creduto come cosa futu­ ra, oggi lo si crede come cosa avvenuta. 2. Tutte le differenze che si è soliti stabilire fra l ' antica e la nuova legge sono concepite in base ai rapporti fra una cosa imperfetta e la sua perfezione. Infatti i precetti di qualsiasi legge riguardano sempre gli atti delle virtù. Ma a compiere tali atti non sono spinti allo stesso modo gli uomini imperfetti, che non hanno ancora l'abito della virtù, e quelli già perfetti grazie ai loro abiti virtuosi. Poiché chi è privo dell 'abito virtuoso è spinto ad agire virtuosamente da una causa estrinseca: p. es. dalla minaccia del castigo, o dalla promessa di un premio, come gli onori, le ricchezze o altro del genere. E così la legge antica, che fu data a uomini imperfetti, cioè privi della grazia spi­ rituale, veniva detta legge del timore, poiché induceva ali ' osservanza dei precetti con la minaccia di determinati castighi. E si dice che aveva delle promesse di beni temporali. Invece gli uomini provvisti di virtù sono spinti all' esercizio delle azioni virtuose dall' amore della vittù, e non da qualche castigo o premio estrinseco. E così la legge nuova, che consiste

    Q. 1 07, A. l

    Confronto fra la legge nuova e l 'antica

    indita cordibus, dicitur /e.x amoris. Et dicitur habere promissa spiritualia et aetema, quae sunt obiecta virtutis, praecipue caritatis. Et ita per se in ea inclinantur, non quasi in extranea, sed quasi in propria. Et propter hoc etiam lex vetus dicitur cohibere manum, non animum, quia qui timore poenae ab aliquo peccato abstinet, non simpliciter eius voluntas a pec­ cato recedit, sicut recedit voluntas eius qui amore iustitiae abstinet a peccato. Et propter hoc lex nova, quae est lex amoris, dicitur ani­ mum cohibere. - Fuerunt tamen aliqui in statu Veteris Testamenti habentes caritatem et gratiam Spiritus Sancti, qui principaliter expectabant promissiones spirituales et aetemas. Et secun­ dum hoc pertinebant ad legem novam. Similiter etiam in Novo Testamento sunt ali­ qui camales nondum pertingentes ad perfec­ tionem novae legis, quos oportuit etiam i n novo testamento induci a d virtutis opera per timorem poenarum, et per aliqua temporalia promissa. - Lex autem vetus etsi praecepta caritatis daret, non tamen per eam dabatur Spiritus Sanctus, per quem diffunditur caritas in cordibus nostris, ut dicitur Rom. 5 [5]. Ad tertium dicendum quod, sicut supra [q. l 06 aa. 1 -2] dictum est, lex nova dicitur /ex fidei, inquantum eius principalitas consistit in ipsa gratia quae interius datur credentibus, unde dicitur gratia fidei. Habet autem secun­ dario aliqua facta et moralia et sacramentalia, sed in his non consistit principalitas legis novae, sicut principalitas veteris legis in eis consistebat ll1i autem qui in Veteri Testamento Deo fuerunt accepti per fidem, secundum hoc ad Novum Testamentum pertinebant, non enim iustificabantur nisi per fidem Christi, qui est auctor Novi Testamenti. Unde et de Moyse dicit apostolus, ad Heb. 1 1 [26], quod

    maiores divitias aestimabat thesauro Aegyptiorum, improperium Christi.

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    principalmente nella grazia divina infusa nei cuori, viene chiamata legge dell'amore. E si dice che ha promesse spirituali ed eterne, che sono l'oggetto stesso della virtù, specialmente della carità. Perciò a queste le persone virtuo­ se sono portate per se stesse, non come verso cose estranee, ma come verso il proprio og­ getto. E per questo stesso motivo si dice che l ' antica legge «tratteneva la mano, ma non l ' animo»: poiché quando uno si astiene dal peccato per paura del castigo la sua volontà non desiste dalla colpa in senso assoluto, come fa invece la volontà di colui che se ne allontana per amore del l 'onestà. Per cui si dice che la legge nuova, che è una legge di amore, «trattiene l ' animo». - Tuttavia nel­ l' Antico Testamento ci furono delle anime ri­ piene di carità e di grazia dello Spirito Santo, che guardavano principalmente alle promesse spirituali ed eterne. E sotto tale aspetto costo­ ro appartenevano alla legge nuova. - E così pure nel Nuovo Testamento ci sono degli uomini carnali che non hanno ancora raggiun­ to la perfezione della legge nuova, e che biso­ gna indurre alle azioni virtuose con la paura del castigo, o con la promessa di beni tempo­ rali. - In ogni caso però la legge antica, anche se dava i precetti della carità, non era tuttavia in grado di offrire lo Spirito Santo, per mezzo del quale l 'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori, come dice Paolo in Rm. 3. Come sopra si è detto, la legge nuova viene denominata legge della fede in quanto il suo elemento principale consiste nella grazia inte­ riore concessa ai credenti: tanto che è deno­ minata anche grazia della fede. Come ele­ mento secondario troviamo tuttavia in essa delle azioni sia morali che sacramentali; ma esse non costituivano l'aspetto principale del­ la legge nuova, come invece lo costituiscono per quella antica. Quelli però che nell'Antico Testamento furono accetti a Dio per la fede, sotto questo aspetto appartenevano al Nuovo Testamento: infatti essi non venivano giustifi­ cati se non dalla fede in Cristo, artefice del Nuovo Testamento. Per cui riguardo a Mosè così è detto in Eb: Stimava l 'obbrobrio di

    Cristo ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto.

    Confronto fra la legge nuova e l 'antica

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    Q. 1 07, A. 2

    Articulus 2

    Articolo 2

    Utrum lex nova legem veterem impleat

    La legge nuova dà compimento all'antica?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod lex nova legem veterem non impleat. l . Impletio enim contrariatur evacuationi. Sed lex nova evacuat, vel excludit observantias legis veteris, dicit enim apostolus, ad Gal. 5 [2], si circumcidimini, Christus nihil vobis proderit. Ergo lex nova non est impletiva veteris legis. 2. Praeterea, contrarium non est impletivum sui contrarii. Sed Dominus in lege nova pro­ posuit quaedam praecepta contraria praeceptis veteris legis. Dicitur enim Matth. 5 [27.3 1 sqq . ] , audistis quia dictum est antiquis,

    Sembra di no. Infatti: l . n compimento è il contrario dello svuota­ mento. Ora, la legge nuova svuota, cioè aboli­ sce, le osservanze dell' antica. Infatti Paolo in Gal dice: Se vi circoncidete, Cristo non vi gioverà a nulla. Quindi la legge nuova non dà compimento alla legge antica. 2. n contrario di una cosa non può esserne il compimento. Ma il Signore nella legge nuova ha dato dei precetti contrari a quelli della legge antica. Infatti in Mt è detto: Avete inteso chefu

    quicumque dimiserit uxorem suam, det ei libellum repudii. Ego autem dico vobis, quicumque dimiserit uxorem suam, facit eam moechari. Et idem consequenter patet in pro­ hibitione iuramenti, et etiam in prohibitione talionis, et in odio inimicorum. Similiter etiam videtur Dominus exclusisse praecepta Veteris Legis de discretione ciborum, Matth. 1 5 [ 1 1],

    non quod intrat in os, coinquinat hominem. Ergo lex nova non est impletiva veteris. 3 . Praeterea, quicumque contra legem agit, non implet legem. Sed Christus in aliquibus contra legem fecit. Tetigit enim leprosum, ut dicitur Matth. 8 [3], quod erat contra legem. Similiter etiam videtur sabbatum pluries vio­ lasse, unde de eo dicebant ludaei, Ioan. 9 [ 1 6], non est hic homo a Deo, qui sabbatum non custodi!. Ergo Christus non implevit legem. Et ita lex nova data a Christo, non est veteris impletiva. 4. Praeterea, in veteri lege continebantur prae­ cepta moralia, caeremonialia et iudicialia, ut supra [q. 99 a. 4] dictum est. Sed Dominus, Matth. 5, ubi quantum ad aliqua legem imple­ vit, nullam mentionem videtur facere de iudi­ cialibus et caeremonialibus. Ergo videtur quod lex nova non sit totaliter veteris impletiva. Sed contra est quod Dominus dicit, Matth. 5 [ 1 7], non veni so/vere legem, sed adimplere. Et postea, subdit [ 1 8], iota unum, aut unus apex,

    non praeteribit a lege, donec omniafiant. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. l ], lex nova comparatur ad veterem sicut perfectum ad imperfectum. Ornne autem per­ fectum adimplet id quod imperfecto deest. Et

    detto: Chi ripudierà la propria moglie, le dia l 'atto del ripudio. Ma io vi dico: Chiunque ripudia sua moglie la espone all 'adulterio. E così fece quando proibì il giuramento, la legge del contrappasso e l'odio dei nemici. Inoltre il Signore mostra di abrogare i precetti deli' antica legge sulla distinzione dei cibi, quando in Mt dice: Non quello che entra nella bocca contamina l 'uomo. Perciò l a legge nuova non è il compimento deli' antica. 3. Chi agisce contro una legge non le dà com­ pimento. Ora, Cristo in certi casi ha agito contro la legge. Infatti egli toccò un lebbroso, come è detto in Mt: il che era proibito dalla legge. E così sembra che abbia violato più volte il sabato, tanto che gli ebrei dicevano:

    Quest'uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato (Gv). Quindi Cristo non ha adempiuto la legge. E così la legge nuova da lui data non è il compimento dell ' antica. 4. La legge antica abbracciava precetti morali, cerimoniali e giudiziali, come si è visto sopra. Ma il Signore, nell'enunciare il compimento di certi precetti della legge in Mt, non accenna per nulla ai precetti giudiziali e cerimoniali. Quindi la legge nuova non sembra essere il compimento di tutta la legge antica. In contrario: il Signore in Mt dice: Non sono

    venuto per abolire, ma per dare compimento. Non passerà neppure un iota o un apice dalla legge senza che tutto sia compiuto. E aggiunge:

    Risposta: la legge nuova, come si è detto, sta alla legge antica come il perfetto all'imperfet­ to. Ora, tutto ciò che è perfetto dà compimen­ to a quanto manca nell'imperfetto. E in que­ sto senso la legge nuova compie la legge anti­ ca, colmandone le deficienze. - Ma nella

    Q. 1 07, A. 2

    Confronto fra la legge nuova e l 'antica

    secundum hoc lex nova adimplet veterem legem, inquantum supplet illud quod veteri legi deerat. - In veteri autem lege duo possunt considerari, scilicet finis; et praecepta conten­ ta in lege. Finis vero cuiuslibet legis est ut homines efficiantur iusti et virtuosi, ut supra [q. 92 a. l ] dictum est. Unde et fmis veteris legis erat iustificatio hominum. Quam qui­ dem lex efficere non poterat, sed figurabat quibusdam caeremonialibus factis, et promit­ tebat verbis. Et quantum ad hoc, lex nova implet veterem legem iustificando virtute passionis Christi. Et hoc est quod apostolus dicit, ad Rom. 8 [3], quod impossibile erat

    legi, Deus, Filium suum mittens in simili­ tudinem carnis peccati, damnavit peccatum in carne, ut iustijicatio legis impleretur in nobis. Et quantum ad hoc, lex nova exhibet quod lex vetus promittebat; secundum illud 2 ad Cor. l [20], quotquot promissiones Dei sunt, in ilio est, idest in Christo. Et iterum quantum ad hoc etiam complet quod vetus lex figurabat. Unde ad Col. 2 [ 1 7] dicitur de caeremonialibus quod erant umbra futuro­ rum, corpus autem Christi, idest, veritas per­ tinet ad Christum. Unde lex nova dicitur lex veritatis, lex autem vetus wnbrae velfìgurae. ­ Praecepta vero vetetis legis adimplevit Chri­ stus et opere, et doctrina. Opere quidem, quia circumcidi voluit, et alia legalia observare, quae erant ilio tempore observanda; secun­ dum illud Gal. 4 [4] , factum sub lege. Sua autem doctrina adimplevit praecepta legis tri­ pliciter. Primo quidem, verum intellectum legis exprimendo. Sicut patet in homicidio et adulterio, in quorum prohibitione Scribae et Pharisaei non intelligebant nisi exteriorem actum prohibitum, unde Dominus legem adimplevit, ostendendo etiam interiores actus peccatorum cadere sub prohibitione. Se­ cundo, adimplevit Dominus praecepta legis, ordinando quomodo tutius observaretur quod lex vetus statuerat. Sicut lex vetus statuerat ut homo non peiuraret, et hoc tutius observa­ tur si ornnino a iuramento abstineat, nisi in casu necessitatis. Tet1io, adimplevit Dominus praecepta legis, superaddendo quaedam per­ fectionis consilia, ut patct Matth. 1 9 [2 1 ], ubi Dominus dicenti se observasse praecepta veteris legis, dicit, unum tibi deest. Si vis per­

    fectus esse, vade et vende omnia quae habes, et cetera.

    l l 26

    legge antica si possono considerare due cose: il fine e i precetti della legge. Ora, come si è già spiegato, il fine di ogni legge è di rendere gli uomini giusti e virtuosi . Quindi il fine della legge antica era la giustificazione degli uomini, cosa tuttavia che superava le sue capacità, e veniva soltanto prefigurata da certe sue cerimonie, e promessa dalle sue parole. E da questo lato la legge nuova dà compimento alla legge antica giustificando in virtù della passione di Cristo. Così infatti si esprime Pao­ lo in Rm: Ciò che era impossibile alla legge,

    Dio lo ha reso possibile: mandando il pmprio Figlio in una carne simile a quella del pecca­ to, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi. E da questo lato la legge nuova dà ciò che l'antica aveva promesso, secondo le paro­ le di 2 Cor: Tutte le promesse di Dio sono divenute "sì" in lui, cioè in Cristo. Inoltre da questo lato essa dà compimento a quanto l ' antica legge prefigurava. Infatti in Col è detto che i precetti cerimoniali erano ombra

    delle cose future, mentre la realtà è Cristo, cioè la verità riguarda Cristo. Per cui la legge nuova è detta legge della verità, mentre quella antica è detta dell'ombra, o delle figure. ­ Quanto poi ai precetti dell'antica legge Cristo ha dato loro compimento con l' opera e con la dottrina. Con l'opera, poiché volle essere cir­ conciso e osservare tutte le altre pratiche lega­ li che erano allora in vigore, secondo le parole di Gal: Nato sotto la legge. Col suo insegna­ mento, poi, diede compimento alla legge in tre modi. Primo, spiegandone il vero signifi­ cato. Come è evidente nel caso dell'omicidio e dell'adulterio, la cui proibizione gli Scribi e i Farisei riducevano al solo atto esterno: e così il Signore diede compimento alla legge mo­ strando che anche gli atti interni ricadono sotto quella proibizione. Secondo, indicando la maniera più sicura per osservare le norme date dall'antica legge. Quest'ultima, p. es., ordinava di non giurare il falso; ma ciò viene osservato con maggiore sicurezza se ci si astiene del tutto dal giurare, eccetto i casi di necessità. Tert:o, aggiungendovi certi consigli di perfezione: il che è evidente là dove il Si­ gnore, in risposta a chi gli diceva di aver os­ servato i precetti della legge antica, replicava:

    Una sola cosa ti manca. Se vuoi essere per­ fetto, va', vendi quello che possiedi... (Mt).

    1 1 27

    Confronto fra la legge nuova e L 'antica

    Ad primum ergo dicendum quod lex nova non evacuat observantiam veteris legis nisi quantum ad caeremonialia, ut supra [q. l 03 aa. 3-4] habitum est. Haec autem erant in figuram futuri. Unde ex hoc ipso quod caere­ monialia praecepta sunt impleta, perfectis his quae figurabantur, non sunt ulterius observan­ da, quia si observarentur, adhuc significaretur aliquid ut futurum et non impletum. Sicut etiam promissio futuri doni locum iam non habet, promissione iam impleta per doni exhi­ bitionem et per hunc modum, caeremoniae legis tolluntur cum implentur. Ad secundum dicendum quod, sicut Augusti­ nus dicit, Contra Faustum [ 1 9,26], praecepta illa Domini non sunt contraria praeceptis ve­ teris legis quod enim Dominus praecepit de uxore non dimittenda, non est contrarium ei quod /ex praecepit. Neque enim ait le.x, qui voluerit, dimittat uxorem; cui esset contra­ rium non dimittere. Sed utique nolebat dimitti uxorem a viro, qui hanc inte1posuit moram, ut in dissidium animus praeceps libelli conscrip­ tione refractus absisteret. Unde Dominus, ad hoc confirmandum ut non .facile uxor dimit­ tatur, solam causam .fornicationis e.x:cepit. Et idem etiam dicendum est in prohibitione iura­ menti, sicut dictum est [co.]. Et idem etiam patet in prohibitione talionis. Taxavit enim modum vindictae lex, ut non procederetur ad immoderatam vindictam, a qua Dominus per­ fectius removit eum quem monuit omnino a vindicta abstinere. Circa odium vero inimico­ rum, removit falsum Pharisaeorum intellec­ tum, nos monens ut persona odio non habere­ tur, sed culpa. Circa discretionem vero cibo­ rum, quae caeremonialis erat, Dominus non mandavit ut tunc non observaretur, sed osten­ dit quod nulli cibi secundum suam naturam erant immundi, sed solum secundum figuram, ut supra [q. 1 02 a. 6 ad l ] dictum est. Ad tertium dicendum quod tactus leprosi erat prohibitus in lege, quia ex hoc incurrebat homo quandam irregularitatis immunditiam, sicut et ex tactu mortui, ut supra [q. l 02 a. 6 ad l ; a. 5 ad 4] dictum est. Sed Dominus, qui erat mun­ dator leprosi, immunditiam incurrere non poterat. Per ca autem quae fecit in sabbato, sabbatum non solvit secundum rei veritatem, sicut ipse magister in Evangelio ostendit, tum quia operabatur miracula virtute divina, quae semper operatur in rebus; tum quia salutis

    Q. 1 07, A. 2

    Soluzione delle difficoltà: l . La legge nuova abolisce l'osservanza della legge antica solo nel campo dei precetti cerimoniali, come sopra si è dimostrato. Ma questi servivano soltanto a prefigurare le realtà future. Per il fatto stesso quindi che i precetti cerimoniali ebbero compimento con l'attuazione di quan­ to prefiguravano, non sono più da osservarsi: poiché se venissero osservati indicherebbero che qualcosa deve ancora avvenire, e non si è compiuto. Come anche la promessa di un dono non ha più ragion d'essere una volta che la promessa è adempiuta con l'offerta del do­ no. E così le cerimonie figurali dell'antica legge sono abrogate con il loro compimento. 2. Come spiega Agostino, questi precetti del Signore non sono contrari ai precetti della leg­ ge antica. «Quando infatti il Signore comanda di non rimandare la moglie, non va contro ciò che comanda la legge. Poiché la legge non di­ ce: Chi vuole, rimandi la moglie, al che sa­ rebbe contrario il comando di non rimandarla. Non voleva invece che rimandasse la moglie colui che imponeva un ritardo, affinché l'ani­ mo infiammato dal dissidio avesse modo di calmarsi, riflettendo nello scrivere il libello del ripudio». «Per cui il Signore, a conferma di questa prescrizione di non rimandare facil­ mente la moglie, fece eccezione per il solo ca­ so dell'adulterio». E lo stesso si dica della proibizione del giuramento, come si è già spie­ gato. E così pure della proibizione del contrap­ passo. Infatti la legge impose delle norme alla vendetta perché non ci si abbandonasse a una vendetta esagerata; e il Signore distoglie per­ fettamente da questo pericolo esortando ad astenersi da qualsiasi vendetta. Rispetto poi al­ l'odio verso i nemici egli corregge la falsa in­ terpretazione dei Farisei, esortandoci a odiare non la persona, ma la sua colpa. E a proposito dei cibi, trattandosi di leggi cerimoniali, i l Signore non comandò che allora non si osser­ vassero, ma dimostrò che nessuno di quei cibi era immondo per sua natura, ma solo in quan­ to era figura di altro, come si è visto sopra. 3. II contatto con i lebbrosi era proibito dalla legge perché l'uomo contraeva con esso una specie di irregolarità, come nel contatto con un morto, secondo le spiegazioni date. Ma il Si­ gnore, che era il guaritore dei lebbrosi, non po­ teva contraJ.Te la lebbra. - Inoltre non si può dire che egli abbia realmente violato il sabato

    Q. 1 07, A. 2

    Confronto fra la legge nuova e l 'antica

    humanae opera faciebat, cum Pharisaei etiam saluti animalium in die sabbati providerent; tum quia etiam ratione necessitatis discipulos excusavit in sabbato spicas colligentes. Sed videbatur solvere secundum superstitiosum intellectum Pharisaeorum, qui credebant etiam a salubribus operibus esse in die sabbati ab­ stinendum, quod erat contra intentionem legis. Ad quartum dicendum quod caeremonialia praecepta legis non commemorantur Matth. 5, quia eorum observantia totaliter excluditur per impletionem, ut dictum est [ad l ] . - De iudicialibus vero praeceptis commemoravit praeceptum talionis, ut quod de hoc diceretur, de omnibus aliis esset intelligendum. In quo quidem praecepto docuit legis intentionem non esse ad hoc quod poena talionis quaerere­ tur propter livorem v indictae, quem ipse excludit, monens quod homo debet esse para­ tus etiam maiores iniurias sufferre, sed solum propter amorem iustitiae. Quod adhuc in nova lege remanet.

    Articulus

    3

    l l 28

    con le opere da lui compiute in esso, come di­ mostra il Maestro medesimo nel Vangelo: sia perché compiva i miracoli con la potenza divi­ na, che opera continuamente nel mondo, sia perché compiva opere necessarie alla salvezza degli uomini, mentre i Farisei in giorno di sa­ bato provvedevano a salvare anche gli animali, sia perché a motivo della necessità ebbe a scu­ sare anche gli apostoli quando raccoglievano le spighe in giorno di sabato. Sembrava invece che egli violasse il sabato secondo la supersti­ ziosa interpretazione dei Farisei, i quali crede­ vano che in giorno di sabato bisognasse aste­ nersi anche dalle opere richieste per la salute: il che era contrario alle intenzioni della legge. 4. I precetti cerimoniali non sono ricordati da Matteo perché la loro osservanza è del tutto abo­ lita in seguito al loro adempimento, come si è detto. - Invece tra i precetti giudiziali viene ri­ cordata la legge del contrappasso affinché quan­ to si dice di essa possa essere esteso a tutte le altre. Ora, a proposito di questo precetto egli in­ segna che non era intenzione della legge esigere la pena del taglione per fare sfogare il livore della vendetta, che egli proibisce, ma solo per amore della giustizia; e fa questo ricordando che si deve essere disposti a soffrire ingiurie anche più gravi. n che rimane anche nella legge nuova. Articolo 3

    Utrum lex nova in lege veteri contineatur

    La legge nuova è contenuta nell'antica?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod lex nova in lege veteri non contineatur. l . Lex enim nova praecipue in fide consistit, unde dicitur !ex .fidei, ut patet Rom. 3 [27]. Sed multa credenda traduntur in nova lege quae in veteri non continentur. Ergo lex nova non continetur in veteri. 2. Praeterea, quaedam Glossa dicit, Matth. 5, super illud [ 1 9], qui solverit unum de manda­ tis istis minimis, quod mandata legis sunt minora, in Evangelio vero sunt mandata maio­ ra. Maius autem non potest contineri in mi­ nori. Ergo lex nova non continetur in veteri. 3. Praeterea, quod continetur in altero, simul habetur habito illo. Si igitur lex nova contine­ retur in veteri, sequeretur quod, habita veteri lege, habeatur et nova. Superfluum igitur fuit, habita veteri lege, iterum dari novam. Non ergo nova lex continetur in veteri.

    Sembra di no. Infatti: l . La legge nuova consiste principalmente nella fede, tanto che è detta la legge della fede, come è evidente da Rm. Ma nella legge nuova vengono insegnati molti dogmi di fede che non sono contenuti nell' antica. Quindi la legge nuova non è contenuta in essa. 2. Una certa Glossa, commentando il passo di

    Mt: Chi avrà violato uno solo di questi precet­ ti, anche minimi, afferma che i precetti della legge sono minori, mentre quelli del Vangelo sono maggiori. Ora, una cosa maggiore non può essere contenuta in una minore. Quindi la legge nuova non è contenuta nell'antica. 3. Una cosa che è contenuta in un'altra è si­ multanea a quella che la contiene. Se quindi la legge nuova fosse contenuta neli' antica, posta l'antica ne seguirebbe la presenza anche della nuova. E così era inutile dare la legge

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    Confronto fra la legge nuova e L 'antica

    Sed contra est quod, sicut dicitur Ez. l [ 1 6] ,

    rota erat in rota, idest Novum Testamentum in Veteli, ut Gregorius exponit [In Ez. l ,6]. Respondeo dicendum quod aliquid continetur in alio dupliciter. Uno modo, in actu, sicut locatum in loco. Alio modo, virtute, sicut ef­ fectus in causa, vel complementum in incom­ pleto, sicut genus continet species potestate, et sicut tota arbor continetur in semine. Et per hunc modum nova lex continetur in veteri, dictum est [a. l ] enim quod nova lex compa­ ratur ad veterem sicut perfectum ad imperfec­ tum. Unde Chrysostomus exponens illud quod habetur Mare. 4 [28], ultro fetTa fructifi­

    cat primum herbam, deinde spicam, deinde plenum frumentum in spica, sic dicit, primo herbam fructificat in lege naturae; postmo­ dum spicas in lege Moysi; postea plenum ji-tt­ mentum, in Evangelio. Sic igitur est lex nova

    in veteri sicut fructus in spica. Ad primum ergo dicendum quod omnia quae credenda traduntur i n Novo Testamento explicite et aperte, traduntur credenda in Veteri Testamento, sed implicite sub figura. Et secundum hoc etiam quantum ad credenda lex nova continetur in veteri. Ad secundum dicendum quod praecepta novae legis dicuntur esse maiora quam praecepta veteris legis, quantum ad explicitam manifesta­ tionem. Sed quantum ad ipsam substantiam praeceptorum Novi Testamenti, omnia conti­ nentur in Veteri Testamento. Unde Augustinus dicit, Contra Faustum [ 1 9,28], quod pene

    omnia quae monuit vel praecepit Dominus, ubi adiungebat, ego autem dico vobis, inveniuntur etiam in illis vetelibus libris. Sed [ 1 9,23] quia non intelligebant homicidium nisi peremptio­ nem corporis humani, aperuit Dominus omnem iniquum motum ad nocendum ji·atri, in homicidii genere deputari. Et quantum ad huiusmodi manifestationes, praecepta novae legis dicuntur maiora praeceptis veteris legis. Nihil tamen prohibet maius in minori virtute contineri, sicut arbor continetur in semine. Ad tertium dicendum quod illud quod impli­ cite datum est, oportet explicari. Et ideo post veterem legem latam, oportuit etiam novam legem dari.

    Q. 1 07, A. 3

    nuova, essendovi già l'antica. Quindi la legge nuova non è contenuta n eli' antica. In contrario: in Ez è detto: Una ruota era den­ tro l'altra mota, cioè: «Il Nuovo Testamento era dentro l'Antico», come spiega Gregorio. Risposta: una cosa può essere contenuta in un' altra in due modi. Primo, in maniera attua­ le: cioè come un corpo in un luogo. Secondo, in maniera virtuale, come un effetto nella sua causa, o come il completamento in una cosa incompleta: cioè come il genere contiene vir­ tualmente la specie, e come il seme contiene l' albero intero. E in questa seconda maniera la legge nuova è contenuta nell' antica: infatti si è già visto che la legge nuova sta a quella antica come il perfetto all'imperfetto. Per cui il Crisostomo, commentando il passo di Mc:

    La terra produce da se stessa il frutto: prima l'erba, poi la spiga, poi il grano nella spiga,

    fa questa applicazione: «Prima produce l'erba con la legge naturale; poi le spighe con la legge di Mosè; quindi il grano perfetto con il Vangelo». Perciò la legge nuova è contenuta nell' antica come il frutto nella spiga. Soluzione delle difficoltà: l . Tutti i dogmi che il Nuovo Testamento propone a credere in mo­ do chiaro ed esplicito sono insegnati anche dal­ l' Antico Testamento, però in maniera implicita e figurale. Perciò anche da questo lato dei dogmi la legge nuova è contenuta nell'antica. 2. I precetti della legge nuova sono maggiori di quelli contenuti nell' antica per una più e­ splicita chiarezza, ma quanto alla sostanza so­ no già tutti contenuti nell'Antico Testamento. Infatti Agostino nota che «quasi tutti gli am­ monimenti c i precetti dati dal Signore sotto la forma: "Ma io vi dico", si trovano anche in quegli antichi libri. Siccome però si intendeva per omicidio solo l'uccisione del corpo uma­ no, il Signore spiegò che ogni moto cattivo che tende a danneggiare un fratello rientra nel genere deli' omicidio». Ora, i precetti della legge nuova sono detti maggiori dei precetti della legge antica a motivo di queste chiarifi­ cazioni. Tuttavia nulla impedisce che una co­ sa p i ù grande sia contenuta virtualmente in una più piccola: come l'albero è contenuto nel seme. 3 . Ciò che è implicito ha bisogno di essere spiegato. Quindi dopo la legge antica era ne­ cessaria la promulgazione della legge nuova.

    Q. 1 07, A. 4

    l l 30

    Confronto fra la legge nuova e l 'antica Articulus 4

    Articolo 4

    Utrum lex nova sit gravior quam vetus

    La legge nuova è più gravosa dell'antica?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod lex nova sit gravior quam lex vetus. l . Matth. enim 5, super illud [ 1 9], qui solverit unum de mandatis his minimis, dicit Chrysosto­ mus [cf. Ps. Chrys., Op. impetf. In Matth. h. l 0],

    Sembra di sì. Infatti: l . ll Crisostomo così commenta il passo di Mt:

    mandata Moysi in actujàcilia sunt, non occides, non adulterahis. Mandata autem Chlisti, idest, non irascaris, non concupiscas, in actu dffficilia sunt. Ergo lex nova est gravior quam vetus. 2. Praeterea, fàcilius est terrena prosperitate uti quam tribulationes perpeti. Sed in Veteri Testa­ mento observationem veteris legis conseque­ batur prosperitas temporalis, ut patet Deut. 28 [ 1 - 1 4]. Observatores autem novae legis conse­ quitur multiplex adversitas, prout dicitur 2 ad Cor. 6 [4 sqq.], exhibeamus nosmetipsos sicut

    Dei ministros in multa patientia, in tribulatio­ nibus, in necessitatibus, in angustiis, et cetera.

    Ergo lex nova est gravior quam lex vetus. Praeterea, quod se habet ex additione ad alterum, videtur esse difficilius. Sed lex nova se habet ex additione ad veterem. Nam lex vetus prohibuit periurium, lex nova etiam iuramentum, lex vetus prohibuit discidium uxoris sine libello repudii, lex autem nova omnino discidium prohibuit, ut patet Matth. 5 [3 1 sqq.], secundum expositionem Augustini [De serm. Dom. 1 , 1 4. 1 7; Contra Faustum 1 9,23]. Ergo lex nova est gravior quam vetus. Sed contra est quod dicitur Matth. 1 1 [28] ,

    3.

    venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis. Quod exponens Hilarius dicit [In Matth. super 1 1 ,28], legis d{fficultatibus laborantes, et peccatis saeculi oneratos, ad se advocat. Et postmodum de iugo Evangelii subdit [30],

    iugum enim meum suave est, et onus meum leve. Ergo lex nova est levior quam vetus. Respondeo dicendum quod circa opera virtutis, de quibus praecepta legis dantur, duplex diffi­ cultas attendi potest. - Una quidem ex parte exteriorum operum, quae ex seipsis quandam difficultatem habent et gravitatem. Et quantum ad hoc, lex vetus est multo gravior quam nova, quia ad plures actus exteriores obligabat lex vetus in multiplicibus caeremoniis, quam lex nova, quae praeter praecepta legis naturae, pau­ cissima superaddidit in doctrina Christi et apo­ stolorum; licet aliqua sint postmodum superad-

    Chi trasgredirà uno solo di questi precetti, «I

    precetti di Mosè: "Non uccidere, Non com­ mettere adulterio", nella pratica sono facili. In­ vece i precetti di Cristo: "Non ti adirare, Non desiderare", in pratica sono difficili». Quindi la lçgge nuova è più gravosa dell' antica. 2. E più facile godere la prosperità che sop­ portare le tribolazioni. Ora, nell'antico Testa­ mento l'osservanza della legge era accompa­ gnata dalla prosperità terrena, come è eviden­ te da Dt 28. Invece quelli che osservano la legge nuova sono perseguitati da molteplici avversità, come è detto in 2 Cor: Ci presentia­

    mo come ministri di Dio, con molta pazienza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle ango­ sce... Quindi la legge nuova è più gravosa del­ l'antica. 3. Ciò che si aggiunge risulta più difficile. Ma la legge nuova si aggiunge all'antica. Infatti l'antica legge proibiva lo spergiuro, e la legge nuova proibisce anche il giuramento; l'antica legge proibiva il divorzio fàtto senza il libello di tipudio, e la legge nuova lo proibisce del tutto, come è chiaro da Mt 5, secondo le spie­ gazioni di Agostino. Quindi la legge nuova è più gravosa dell'antica. In contrario: in Mt è detto: Venite a me voi tutti, che siete affaticati e oppressi. E Ilario spiega: «Egli chiama a sé coloro che sono af­ faticati per la difficoltà della legge, e oppressi dai peccati del mondo». Alla legge evangelica si riferiscono poi le parole che seguono: Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero. Perciò la legge nuova è più leggera dell'antica. Risposta: nelle azioni virtuose, che sono l'oggetto delle norme della legge, si possono considerare due tipi di difficoltà. - n primo deriva dalle opere esterne, che in se stesse presentano una certa difficoltà e gravezza. E quanto a ciò la legge antica è molto più gra­ vosa della nuova: poiché l'antica legge obbli­ gava a un maggior numero di atti esterni nelle molteplici cerimonie, a differenza della legge nuova la quale, nell'insegnamento di Cristo e degli apostoli, aggiunge ben poche cose ai precetti della legge naturale; sebbene in segui-

    1 13 1

    Confronto fra la legge nuova e L 'antica

    dita ex institutione sanctorum patrum. In quibus etiam Augustinus dicit esse moderationem attendendam, ne conversatio fidelium onerosa reddatur. Dicit enim, Ad inquisitiones Ianuarii [ep. 55, 1 9], de quibusdam, quod ipsam religio­

    nem nostram, quam in manifestissimis et pau­ cissimis celebrationum sacramentis Dei miseri­ cordia voluit esse liberam, servilibus premunt oneribus, adeo ut tolerabilior sit conditio lu­ daeorum, qui legalibus sacramentis, non hu­ manis praesumptionibus subiiciuntur. - Alia autem difficultas est circa opera virtutum in in­ terioribus actibus, puta quod aliquis opus virtu­ tis exerceat prompte et delectabiliter. Et circa hoc difficile est virtus, hoc enim non habenti virtutem est valde difficile; sed per virtutem redditur facile. Et quantum ad hoc, praecepta novae legis sunt graviora praeceptis veteris legis, quia in nova lege prohibentur interiores motus animi, qui expresse in veteri lege non prohibebantur in omnibus, etsi in aliquibus prohiberentur; in quibus tamen prohibendis poena non apponebatur. Hoc autem est difficil­ limum non habenti virtutem, sicut etiam philo­ sophus dicit, in 5 Ethic. [9, 14], quod operari ea quae iustus operatur, facile est; sed operari ea eo modo quo iustus operatur, scilicet delectabi­ liter et prompte, est difficile non habenti iusti­ tiam. Et sic etiam dicitur l Ioan. 5 [3], quod mandata eius gravia non sunt, quod exponens Augustinus dicit [De nat. et grat. 69; De perfect. iust. IO; Serm. ad pop. 70,3] quod non sunt gravia amanti, sed non amanti sunt gravia. Ad primum ergo dicendum quod auctoritas illa expresse loquitur de difficultate novae legis quantum ad expressam cohibitionem interiorum motuum. Ad secundum dicendum quod adversitates quas patiuntur observatores novae legis, non sunt ab ipsa lege impositae. Sed tamen prop­ ter amorem, in quo ipsa lex consistit, faciliter tollerantur, quia sicut Augustinus dicit, in libro De verbis Domini [Serm. ad pop. 70,3],

    omnia saeva et immania.facilia et prope nulla f!!ficit amor.

    Ad tertium dicendum quod illae additiones ad praecepta veteris legis, ad hoc ordinantur ut facilius impleatur quod vetus lex mandabat, sicut Augustinus dicit [De serm. Dom. 1 , 1 7.21 ; Contra Faustum 1 9,23.26] . Et ideo per hoc non ostenditur quod lex nova sit gravior, sed magis quod sit facilior.

    Q. 1 07, A. 4

    to siano state aggitmte alcune prescrizioni per iniziativa dei santi Padri. Nelle quali aggiunte però, dice Agostino, va usata moderazione, affinché la vita dei fedeli non risulti penosa. Infatti egli critica certuni i quali «aggravano di pesi serviti anche la nostra religione - che la misericordia di Dio ha invece voluto rende­ re libera con la pratica di pochi ed evidentissi­ mi sacramenti -, così da rendere addirittura più tollerabile la condizione dei Giudei, i quali nell' osservanza dei sacramenti legali non sono soggetti a presuntuose invenzioni umane». - n secondo tipo di difficoltà nelle opere virtuose deriva invece dalle disposizioni interiori: è difficile, p. es., compiere un atto di virtù prontamente e con piacere. Ed è a questa difficoltà che sopperiscono le virtù: infatti per chi non ha la virtù ciò è molto difficile, men­ tre la virtù lo rende facile. E quanto a ciò i precetti della legge nuova sono più gravosi dei precetti della legge antica: poiché nella legge nuova vengono proibiti i moti interiori del l ' animo, che invece non erano proibiti dalla legge antica se non in materie particola­ ri, e senza comunque una pena che rafforzas­ se tale proibizione. Ora, questa è una cosa dif­ ficilissima per chi non ha la virtù: e il Filosofo stesso afferma che compiere le opere del giu­ sto è cosa facile, ma compierle nel modo in cui le compie il giusto, cioè con piacere e prontezza, è difficile per chi non possiede l'abito della giustizia. E così anche in l Gv è detto che i suoi comandamenti non sono gra­ vosi. E Agostino spiega: «Non sono gravosi per chi ama, ma sono tali per chi non ama». Soluzione delle difficoltà: l . In quel passo si parla espressamente della difficoltà del la legge nuova quanto alla repressione diretta dei moti interiori. 2. Le tribolazioni che soffrono quanti osserva­ no l a legge nuova non sono i mposte dalla legge stessa. E tuttavia mediante l'amore, in cui tale legge consiste, sono facilmente sop­ portate: poiché, come dice Agostino, «l' amo­ re riduce quasi a nulla ogni crudeltà e ogni barbarie». 3. Le aggiunte fatte ai precetti della legge antica sono ordinate a renderne più facile l'adempimento, come nota Agostino. E così ciò non dimostra che la legge nuova è più gra­ vosa, ma piuttosto che è più facile.

    l l 32

    Il contenuto della legge nuova

    Q. 1 08, A. l QUAESTIO l 08

    QUESTIONE l 08

    DE HIS QUAE CONTINENTUR IN LEGE NOVA

    IL CONTENUTO DELLA LEGGE NUOVA

    Deinde considerandum est de his quae conti­ nentur in lege nova. Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, utrum lex nova debeat aliqua opera exteriora praecipere vel prohibere. Se­ cundo, utmm sufficienter se habeat in exterio­ ribus actibus praecipiendis vel prohibendis. Tertio, utrum convenienter instituat homines quantum ad actus interiores. Quarto, utrum convenienter superaddat consilia praeceptis.

    Passiamo ora a trattare del contenuto della leg­ ge nuova. Sul!' argomento si pongono quattro quesiti: l . La legge nuova deye comandare o proibire degli atti esterni? 2. E esauriente nel comandare o nel proibire gli atti esterni? 3. Guida bene gli uomini quanto agli atti inter­ ni? 4. Aggiunge in modo conveniente i consi­ gli ai precetti?

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum lex nova aliquos exteriores actus debeat praecipere vel prohibere

    La legge nuova deve comandare o proibire degli atti esterni?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod lex nova nullos exteriores actus debeat praecipere vel prohibere. l . Lex enim nova est Evangelium regni; se­ cundum illud Matth. 24 [ 1 4], praedicabitur hoc Evangelium regni in universo orbe. Sed regnum Dei non consistit in exterioribus acti­ bus, sed solum in interioribus; secundum illud Luc. 1 7 [2 1 ], regnum Dei in tra vos est; et Rom. 14 [ 1 7], non est regnum Dei esca et

    Sembra di no. Infatti : l . La legge nuova non è che il Vangelo del regno, come è detto in Mt: Questo Vangelo

    potus, sed iustitia etpax et gaudium in Spiritu Sancto. Ergo lex nova non debet praecipere

    ve! prohibere aliquos exteriores actus. 2. Praeterea, lex nova est /ex Spiritus, ut dici­ tur Rom. 8 [2]. Sed ubi Spiritus Domini, ibi libertas, ut dicitur 2 ad Cor. 3 [ 1 7]. Non est autem libertas ubi homo obligatur ad aliqua exteriora opera facienda ve! vitanda. Ergo lex nova non continet aliqua praecepta vel prohi­ bitiones exteriorum actuum. 3. Praeterea, omnes exteriores actus pertinere intelliguntur ad manum, sicut interiores actus pertinent ad animum. Sed haec ponitur diffe­ rentia inter novam legem et veterem, quod

    vetus !ex cohibet manum, sed /ex nova cohi­ bet animum. Ergo in lege nova non debent

    poni prohibitiones et praecepta exteriorum actuum, sed solum interiorum. Sed contra est quod per 1egem novam effi­ ciuntur homines filii lucis, unde dicitur Ioan.

    1 2 [36], credile in lucem, ut filii lucis sitis.

    Sed fi lios lucis decet opera lucis facere, et opera tenebrarum abiicere; secundum illud Eph. 5 [8], eratis a/iquando tenebrae, nunc

    del regno sarà annunziato in tutto il mondo.

    Ora, il regno di Dio non consiste in atti esterni, ma solo in atti interni, secondo le parole di Le: Il regno di Dio è dentro di voi; e di Rm: Il re­

    gno di Dio non è questione di cibo o di be­ vanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spi­ rito Santo. Quindi la legge nuova non deve comandare o proibire atti esterni. nuova è la legge dello Spirito, co­ me è detto in Rm. Ma in 2 Cor è detto anche:

    2. La legge

    Dove c 'è lo Spirito del Signore c'è libertà. Ora, non c'è libertà quando l'uomo viene obbliga­ to a fare o a evitare delle opere esterne. Quin­ di la legge nuova non deve contenere alcun precetto o proibizione che riguardi le azioni esterne. 3. Tutti gli atti esterni vengono attribuiti alla mano, come gli atti interni vengono attribuiti all'animo. Ma tra la nuova e l 'antica legge si riscontra questa differenza, che «la legge anti­ ca trattiene la mano, mentre la nuova trattiene l ' animo». Perciò nella legge nuova non ci devono essere proibizioni o comandi di atti esterni, ma solo di atti interni. In contrario: la legge nuova rende gli uomini figli della luce, infatti in Gv è detto: Credete nella luce, per diventare figli della luce. Ma i figli della luce devono compiere le opere del­ Ia luce e fuggire le opere delle tenebre, secon­ do le parole di Ef Se un tempo eravate tene­

    bra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi

    1 1 33

    Il contenuto della legge nuova

    autem lux in Domino. Ut filii lucis ambulate. Ergo lex nova quaedam exteriora opera debuit prohibere, et quaedam praecipere. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [q. 106 aa. 1 -2], principalitas legis novae est gratia Spiritus Sancti, quae manifestatur in fide per dilectionem operante. Hanc autem gratiam consequuntur homines per Dei Filium hominem factum, cuius humanitatem primo replevit gratia, et exinde est ad nos derivata. Unde dicitur Ioan. l [ 14], Verbum caro fac­ tum est; et postea subditur, plenum gratiae et veritatis; et infra [ 1 6], de plenitudine eius nos

    omnes accepimus, et gratiam pro grafia. Unde subditur [ 1 7] quod gratia et veritas per Iesum Christum jàcta est. Et ideo convenit ut per aliqua exteriora sensibilia gratia a Verbo incarnato profluens in nos deducatur; et ex hac interiori gratia, per quam caro spiritui subditur, exteriora quaedam opera sensibilia producantur. - Sic igitur exteriora opera dupli­ citer ad gratiam pertinere possunt. Uno modo, sicut inducentia aliqualiter ad gratiam. Et talia sunt opera sacramentorum quae in lege nova sunt instituta, sicut Baptismus, Eucharistia, et alia huiusmodi. Alia vero sunt opera exteriora quae ex instinctu gratiae producuntur. Et in his est quaedam differentia attendenda. Quaedam enim habent necessariam convenientiam vel contrarietatem ad interiorem gratiam, quae in fide per dilectionem operante consistit. Et huiusmodi exteriora opera sunt praecepta vel prohibita in lege nova, sicut praecepta est confessio fidei, et prohibita negatio; dicitur enim Matth. 10 [32 sq.], qui confìtebitur me

    coram hominibus, confitebor et ego eum coram Patre meo. Qui autem negaverit me coram hominibus, negabo et ego eum coram Patre meo. Alia vero sunt opera quae non habent necessariam contrarietatem vel conve­ nientiam ad fidem per dilectionem operan­ tem. Et talia opera non sunt in nova lege prae­ cepta vel prohibita ex ipsa prima legis institu­ tione; sed relicta sunt a legislatore, scilicet Christo, unicuique, secundum quod aliquis curam gerere debet. Et sic unicuique liberum est circa talia determinare quid sibi expediat facere vel vitare; et cuicumque praesidenti, circa talia ordinare suis subditis quid sit in talibus faciendum vel vitandum. Unde etiam quantum ad hoc dicitur lex Evangelii !ex libertatis, nam lex vetus multa determinabat,

    Q. 1 08, A. l

    perciò come ifigli della luce.

    Quindi la legge nuova doveva proibire certe opere e coman­ darne altre. Risposta: come si è detto, l' elemento princi­ pale della legge nuova è la grazia dello Spirito Santo, che si manifesta nella fede che opera mediante l' amore. Ma gli uomini ottengono questa grazia dal Figlio di Dio fatto uomo, la cui umanità fu per prima riempita da questa grazia che poi si riversò su di noi. Per cui in Gv è detto: Il Verbo si fece came; e ancora: Pieno di grazia e di verità; e più sotto: Dalla

    sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto, gra­ zia su grazia. Per cui aggiunge che la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Perciò è giusto che la grazia giunga a noi dal Verbo fucamato mediante certe realtà esterne; e che da questa grazia interiore, che sottomet­ te la carne allo spirito, vengano prodotte delle opere esterne e sensibili. - Così dunque le azioni esterne appartengono alla grazia in due modi. Primo, come atti che concorrono a pro­ durre la grazia. E tali sono le azioni sacra­ mentali istituite nella legge nuova: come il battesimo, l 'eucaristia, ecc. - Ci sono invece altri atti esterni che sono prodotti sotto la mozione della grazia. Ma in questi si deve notare una distinzione. Infatti alcuni hanno un' affinità o una contrarietà necessaria con la grazia intetiore, che consiste nella fede ope­ rante mediante l' amore. E questi atti sono o comandati o proibiti dalla legge nuova: come è comandato di confessare la tede, ed è proi­ bito di negarla; infatti in Mt è detto: Chi mi

    riconoscerà davanti agli uomini, anch 'io lo riconoscerò davanti al Padre mio. Chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio. Altri atti invece non hanno una contrarietà o un'affinità necessaria con la fede che opera mediante l 'amore. E questi atti non sono comandati o proibiti nella legge nuova in forza della sua prima istituzione, ma dal suo legislatore, cioè da Cristo, sono stati lasciati a ciascuno secon­ do la funzione di guida che questi deve eser­ citare. E così ognuno è libero riguardo a que­ sti atti di determinare ciò che gli sembra di dover fare o evitare; e a ogni superiore è con­ cesso in proposito di ordinare ai propri sudditi ciò che devono fare o non fare. E così anche per questo aspetto la legge evangelica è chia­ mata legge della libertà: infatti la legge antica

    Q. 1 08, A. l

    l l 34

    Il contenuto della legge nuova

    et pauca relinquebat hominum libertati deter­ minanda. Ad primum ergo dicendum quod regnum Dei in interioribus actibus principaliter consistit, sed ex consequenti etiam ad regnum Dei per­ tinent omnia illa sine quibus interiores actus esse non possunt. Sicut si regnum Dei est interior iustitia et pax et gaudium spirituale, necesse est quod omnes exteriores actus qui repugnant iustitiae aut paci aut gaudio spiri­ tuali, repugnent regno Dei, et ideo sunt i n Evangelio regni prohibendi. Illa vero quae indifferenter se habent respectu horum, puta comedere hos vel illos cibos, in bis non est regnum Dei, unde apostolus praemittit, non

    determinava moltissime cose, delegandone poche alla libertà degli uomini. Soluzione delle difficoltà: l . TI regno di Dio con­ siste principalmente negli atti interni, ma indiret­ tamente appartengono ad esso anche tutte quelle cose senza di cui gli atti interni non possono sussistere. Se il regno di Dio, p. es., è giustizia interiore, pace e gioia spiritttale, è necessario che tutti gli atti esterni contrari alla giustizia o alla pace o alla gioia spirituale siano contrari al regno di Dio: per cui vanno proibiti nel Vangelo del regno. Invece tutto ciò che è indifferente in rapporto a questi atti interni, come mangiare questi o quegli altri cibi, non costituisce il regno di Dio: per cui Paolo premette: Il regno di Dio

    est regnum Dei esca et potus.

    non è questione di cibo o di bevanda.

    Ad secundum dicendum quod, secundum phi­ losophum, in l Met. [2,9], liber est qui sui causa est. Ille ergo libere aliquid agit qui ex seipso agit. Quod autem homo agit ex habitu suae naturae convenienti, ex seipso agit, quia habitus inclinat in modum naturae. Si vero habitus esset naturae repugnans, homo non ageret secundum quod est ipse, sed secundum aliquam corruptionem sibi supervenientem. Quia igitur gratia Spiritus Sancti est sicut inte­ rior habitus nobis infusus inclinans nos ad recte operandum, facit nos libere operati ea quae conveniunt gratiae, et vitare ea quae gra­ tiae repugnant. - Sic igitur lex nova dicittu· lex libertatis dupliciter. Uno modo, quia non arctat nos ad facienda vel vitanda aliqua, nisi quae de se sunt vel necessaria vel repugnantia salu­ ti, quae cadunt sub praecepto vel prohibitione legis. Secundo, quia huiusmodi etiam prae­ cepta vel prohibitiones facit nos libere imple­ re, inquantum ex interiori instinctu gratiae ea implemus. Et propter haec duo lex nova dici­ tur !ex peifectae libertatis, Iac. 1 [25]. Ad tertium dicendum quod lex nova, com­ bendo animum ab inordinatis motibus, opor­ tet quod etiam cohibeat manum ab inordinatis actibus, qui sunt effectus interiorum motuum.

    2. Secondo il Filosofo, «è libero colui che è causa di se stesso». Agisce dunque liberamen­ te chi agisce da se stesso. Ora, quando un uomo agisce mediante un abito conveniente alla natura umana, agisce da se stesso: poiché l'abito inclina a modo di natura. Se invece questo abito fosse contro natura, allora l'uomo non agirebbe secondo ciò che egli è, ma se­ condo una corruzione a lui accidentale. Poiché dunque la grazia dello Spirito Santo è come un abito inteiiore infuso in noi che ci spinge a ben operare, esso ci fa compiere liberamente gli atti che sono in armonia con la grazia, e ci fa evitare quelli che ad essa si oppongono. Così dunque la legge nuova viene detta legge della libertà per due motivi. Primo, perché non ci obbliga a fare o a evitare troppe cose, ma solo, rispettivamente, quelle indispensabili alla salvezza o incompatibili con essa, che sono comandate o proibite dalla legge. Secondo, perché ci fa osservare questi stessi precetti o proibizioni liberamente, facendoci agire sotto la spinta interiore della grazia. E per queste due ragioni la legge nuova è chiamata legge

    della peifetta libertà (Gc 1). 3 . La legge nuova, trattenendo l ' animo dai moti disordinati, necessariamente trattiene anche la mano dalle azioni disordinate, che sono l'effetto di quei moti interiori.

    Articulus 2

    Articolo 2

    Utrum lex nova sufficienter exteriores actus ordinaverit

    La legge nuova ha ordinato in maniera adeguata gli atti esterni?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod lex nova insufficienter exteriores actus ordinaverit.

    Sembra di no. Infatti: l. Alla legge nuova spetta principalmente la

    1 1 35

    Il contenuto della legge nuova

    l . Ad legem enim novam praecipue pertinere videtur fides per dilectionem operans; secun­ dum illud ad Gal. 5 [6], in Christo Iesu neque

    circumcisio aliquid valet neque praeputium, sed jìdes quae per dilectionem operatur. Sed lex nova explicavit quaedam credenda quae non erant in veteri lege explicita, sicut de fide Trinitatis. Ergo etiam debuit superaddere ali­ qua exteriora opera moralia, quae non erant in veteri lege determinata. 2. Praeterea, in veteri lege non solum instituta sunt sacramenta, sed etiam aliqua sacra, ut supra [q. 101 a. 4; q. 102 a. 4] dictum est. Sed in nova lege, etsi sint instituta aliqua sacramen­ ta, nulla tamen sacra instituta a Domino viden­ tur, puta quae pertineant vel ad sanctificatio­ nem alicuius templi aut vasorum, vel etiam ad aliquam solemnitatem celebrandam. Ergo lex nova insufficienter exteriora ordinavit. 3. Praeterea, in veteri lege, sicut erant quae­ dam observantiae pertinentes ad Dei mini­ stros, ita etiam erant quaedam observantiae pertinentes ad populum; ut supra [q. 101 a. 4; q. l 02 a. 6] dictum est, cum de caeremoniali­ bus veteris legis ageretur. Sed in nova lege videntur aliquae observantiae esse datae mini­ stris Dei, ut patet Matth. l O [9] , nolite possi­

    dere aurum neque argentum, neque pecuniam in zonis vestris, et cetera quae ibi sequuntur, et quae dicuntur Luc. 9 et l O. Ergo etiam debuerunt al iquae observantiae institui in nova lege ad populum fidelem pertinentes. 4. Praeterea, in veteri lege, praeter moralia et caeremonialia, fuerunt quaedam iudicialia praecepta. Sed in lege nova non traduntur ali­ qua iudicialia praecepta. Ergo lex nova insuf­ ficienter exteriora opera ordinavit. Sed contra est quod Dominus dicit, Matth. 7

    [24], omnis qui audit verba mea haec et facit ea, assimilabitur viro sapienti qui aedificavit domum suam supra petram. Sed sapiens aedi­ ficator nihil omittit eorum quae sunt necessa­ ria ad aedificium. Ergo in verbis Christi su:ffi­ cienter sunt ornni a posita quae pertinent ad salutem humanam. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. l ], le x nova in exterioribus illa solum praecipere debuit vel prohibere, per quae in gratiam introducimur, vel quae pertinent ad rectum gratiae usum ex necessitate. Et quia gratiam ex nobis consequi non possumus, sed per Christum solum, ideo sacramenta, per

    Q. 1 08, A. 2

    fede operante per mezzo della carità, secondo le parole di Gal: In Cristo Gesù non è la cir­

    concisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità. Ora, la legge nuova esplicitò dei dogmi che erano impliciti nella legge antica, come i l dogma della Trinità. Quindi doveva aggiun­ gere anche qualche atto esterno di ordine mo­ rale che nella legge antica era indeterminato. 2. Nella legge antica non furono istituiti solo dei sacramenti, ma anche delle cose sacre, come sopra si è detto. Invece nella legge nuo­ va, pur trovandosi l'istituzione di certi sacra­ menti, non si trova che il Signore abbia istitui­ to delle cose sacre, relative p. es. alla consa­ crazione dei templi o dei vasi sacri, oppure alla celebrazione delle feste. Perciò la legge nuova ha ordinato in modo insufficiente gli atti esterni. 3. Nell'antica legge, come c'erano osservanze relative ai ministri di Dio, così pure c'erano osservanze che riguardavano il popolo, come si è visto sopra trattando delle cerimonie del­ l ' antica legge. Ora, nella legge nuova ci sono delle osservanze imposte ai ministri di Dio, come è evidente in Mt: Non procuratevi oro, né argento, né danaro... ; e dai passi analoghi di Le. Quindi nella legge nuova si dovevano istituire anche delle osservanze riguardanti i l popolo cristiano. 4. Neli' antica legge, oltre ai precetti morali e cerimoniali, ce n' erano anche di giudiziali. Invece nella legge nuova non si trova alcun precetto giudiziale. Quindi la legge nuova non ha ordinato in maniera adeguata le opere esterne. In contrario: in Mt il Signore dice: Chiunque

    ascolta queste mie parole e le mette in prati­ ca, è simile a un uomo saggio che ha costrui­ to la sua casa sulla roccia. Ora, il saggio costruttore non trascura nulla di quanto è necessario all'edificio. Quindi dalla parola di Cristo è stabilito in maniera adeguata quanto riguarda la salvezza umana. Risposta: come si è già spiegato, la legge nuo­ va doveva comandare o proibire, tra gli atti esterni, soltanto quelli che ci procurano la gra­ zia, o che sono strettamente richiesti per il suo retto uso. E poiché non possiamo conseguire la grazia da noi stessi, ma solo per mezzo di Cristo, il Signore medesimo istituì i sacra­ menti che ce la procurano: cioè il battesimo,

    Q. 1 08, A. 2

    Il contenuto della legge nuova

    quae gratiam consequimur, ipse Dominus instituit per seipsum, scilicet Baptismum, Eucharistiam, ordinem ministrorum novae legis, instituendo apostolos et septuaginta duos discipulos, et poenitentiam, et matrimo­ nium indivisibile. Confirmationem etiam pro­ misit per Spiritus Sancti missionem. Ex eius etiam institutione apostoli leguntur oleo infir­ mos ungendo sanasse, ut habetur Mare. 6 [ 1 3] . Quae sunt novae legis sacramenta. Rectus autem gratiae usus est per opera cari­ tatis. Quae quidem secundum quod sunt de necessitate virtutis, pertinent ad praecepta moralia, quae etiam in veteri lege tradebantur. Unde quantum ad hoc, lex nova super vete­ rem addere non debuit circa exteriora agenda. Determinatio autem praedictomm opemm in ordine ad cultum Dei, pertinet ad praecepta caeremonialia legis; in ordine vero ad proxi­ mum, ad iudicialia; ut supra [q. 99 a. 4] dic­ tum est. Et ideo, quia istae determinationes non sunt secundum se de necessitate interioris gratiae, in qua l ex consistit; idcirco non cadunt sub praecepto novae legis, sed relin­ quuntur humano arbitrio; quaedam quidem quantum ad subditos, quae scilicet pertinent singillatim ad unumquemque; quaedam vero ad praelatos temporales vel spirituales, quae scilicet pertinent ad utilitatem communem. Sic igitur lex nova nulla alia exteriora opera determinare debuit praecipiendo vel prohi­ bendo, nisi sacramenta, et moralia praecepta quae de se pertinent ad rationem virtutis, puta non esse occidendum, non esse furandum, et alia huiusmodi. Ad primum ergo dicendum quod ea quae sunt fidei, sunt supra rationem humanam, unde in ea non possumus pervenire nisi per gratiam. Et ideo, abundantiori gratia superveniente, oportuit plura credenda explicari. Sed ad opera virtutum dirigimur per rationem natura­ lem, quae est regula quaedam operationis humanae, ut supra [q. 19 a. 3; q. 63 a. 2] dic­ tum est. Et ideo in his non oportuit aliqua praecepta dari ultra moralia legis praecepta, quae sunt de dictamine rationis. Ad secundum dicendum quod in sacramentis novae legis datur gratia, quae non est nisi a Christo, et ideo oportuit quod ab ipso institu­ tionem haberent. Sed in sacris non datur ali­ qua gratia, puta in consecratione templi vel altaris vel aliorum huiusmodi, aut etiam i n

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    l'eucaristia, l'ordine dei ministri della legge nuova, mediante l 'istituzione degli apostoli e dei settantadue discepoli, la penitenza e il ma­ trimonio indissolubile. Promise inoltre la con­ fermazione mediante la missione dello Spirito S anto. E si legge che per suo comando gli apostoli guarivano gli infermi ungendoli con l'olio (Mc 6). E questi sono i sacramenti della nuova legge. - D ' altra parte il retto uso della grazia consiste nelle opere della carità. Ora queste, in quanto sono atti indispensabili alla virtù, appartengono ai precetti morali, rivelati già nell'antica legge. Quindi da questo lato la legge nuova non doveva aggiungere nulla al­ l ' antica riguardo agli atti esterni . Invece la determinazione di questi atti in ordine al culto di Dio apparteneva ai precetti cerimoniali del­ la legge, mentre in ordine al prossimo ap­ parteneva ai precetti giudiziali, come si è visto sopra. Queste determinazioni dunque non so­ no indispensabili di per sé alla grazia interio­ re, che è il costitutivo della legge nuova; e così non cadono sotto i suoi precetti, ma sono la­ sciate all' arbitrio dell'uomo: alcune all'arbi­ trio dei sudditi, cioè quelle che riguardano i singoli; altre invece, cioè quelle che riguarda­ no il bene comune, all' arbitrio dei supetiori, sia laici che ecclesiastici. - Perciò la legge nuova, con i suoi comandi o le sue proibizio­ ni, non doveva determinare alcun' altra azione esterna all'infuori dei sacramenti e dei precetti morali essenzialmente legati alla nozione di virtù, come non uccidere, non rubare, e altri comandamenti del genere. Soluzione delle difficoltà: l . I dogmi di fede sorpassano la ragione umana, per cui non pos­ siamo raggiungerli che mediante la grazia. Al sopraggiungere quindi di una grazia più ab­ bondante era giusto che venissero esplicitate molteplici verità da credere. Invece alle opere della virtù noi siamo guidati dalla ragione na­ turale, che è la regola dell'agire umano, come si è visto sopra. Non era quindi necessario aggiungere qualcosa ai precetti morali della legge, che sono dettati anche dalla ragione. 2. Nei sacramenti della legge nuova viene da­ ta la grazia, che detiva solo da Cristo: perciò era necessario che essi fossero da lui istituiti. Invece nell' ambito delle cose sacre, p. es. nel­ la consacrazione di un tempio o di un altare, o in altre cose del genere, o anche nella celebra­ zione delle feste, non viene data la grazia.

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    Il contenuto della legge nuova

    ipsa celebritate solemnitatum. Et ideo talia, quia secundum seipsa non pertinent ad neces­ sitatem interioris gratiae, Dominus fidelibus instituenda reliquit pro suo arbitrio. Ad tertium dicendum quod illa praecepta Dominus dedit apostolis non tanquam caere­ moniales observantias, sed tanquam moralia instituta. Et possunt intelligi dupliciter. - Uno modo, secundum Augustinum, in libro De consensu Evangelist. [30], ut non sint prae­ cepta, sed concessiones. Concessit enim eis ut possent pergere ad praedicationis officium sine pera et baculo et aliis huiusmodi, tan­ quam habentes potestatem necessaria vitae accipiendi ab illis quibus praedicabant, unde subdit [Luc. 1 0,7], dignus enim est operarius cibo suo. Non autem peccat, sed supererogat, qui sua portat, ex quibus vivat in praedicatio­ nis officio, non accipiens sumptum ab his qui­ bus Evangelium praedicat, sicut Paulus fecit. Alio modo possunt intelligi, secundum alio­ rum sanctorum expositionem, ut sint quae­ dam statuta temporalia apostolis data pro ilio tempore quo rnittebantur ad praedicandum in Iudaea ante Christi passionem. Indigebant enim discipuli, quasi adhuc parvuli sub Christi cura existentes, accipere aliqua specia­ lia instituta a Christo, sicut et quilibet subditi a suis praelatis, et praecipue quia erant paula­ tim exercitandi ut temporalium sollicitudinem abdicarent, per quod reddebantur idonei ad hoc quod Evangelium per universum orbem praedicarent. Nec est mirum si, adhuc durante statu Veteris Legis, et nondum perfectam libertatem Spiritus consecutis, quosdam determinatos modos vivendi instituit. Quae quidem statuta, imminente passione, removit, tanquam discipulis iam per ea sufficienter exercitati s. Unde Luc . 22 [3 5 sq.], dixit, quando misi vos sine sacculo et pera et cal­ ceamentis, numquid aliquid defuit vobis? At il/i dixerunt, nihil. Dixit ergo eis, sed nunc qui habet sacculum, tol/at; similiter et peram. Iam enim imminebat tempus perfectae liber­ tatis, ut totaliter suo dimitterentur arbitrio in his quae secundum se non pertinent ad neces­ sitatem vittutis. Ad quartum dicendum quod iudicialia etiam, secundum se considerata, non sunt de neces­ sitate virtutis quantum ad talem determinatio­ nem sed solum quantum ad communem ratio­ nem iustitiae. Et ideo iudicialia praecepta reli-

    Q. 1 08, A. 2

    E così il Signore lasciò ai suoi fedeli il potere di determinare tali cose di loro arbitrio, non essendo esse necessariamente collegate con la grazia interiore. 3. Il Signore diede questi comandi agli apo­ stoli non come osservanze cerimoniali, ma come nonne morali. E di essi possiamo dare due spiegazioni. - Primo, stando a Agostino, essi non sarebbero comandi, ma concessioni. Cioè egli concedeva loro di poter affrontare il compito della predicazione senza bisaccia, senza bastone ecc., in quanto avevano la fa­ coltà di ricevere il necessario alla vita da parte di coloro a cui predicavano; aggiunge infatti: L'operaio ha diritto al suo nutrimento. Perciò non pecca, ma fa un'opera supererogatoria chi nella predicazione porta con sé di che vivere, senza ricevere un compenso da coloro a cui predica: così come fece Paolo. - Secon­ do, stando ad altri santi Padri, si può pensare che agli apostoli siano state date delle norme provvisorie per il tempo in cui furono manda­ ti a predicare nella Giudea prima della passio­ ne di Cristo. Infatti allora i discepoli, essendo come dei bambini alla scuola di Cristo, aveva­ no bisogno di ricevere da lui speciali ordina­ menti, come i sudditi dai loro prelati: special­ mente perché avevano bisogno di imparare a deporre ogni sollecitudine delle realtà tempo­ rali, rendendosi così idonei a predicare il Vangelo in tutto il mondo. E non fa meravi­ glia che Cristo abbia istituito un certo deter­ minato modo di vivere mentre ancora durava lo stato dell'antica legge, e i discepoli non avevano ancora conseguito la perfetta libertà dello Spirito. Ma queste norme egli le abrogò nell'imminenza della passione, essendo ormai i discepoli già abbastanza esercitati in esse. Infatti in Le è detto: Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa? Risposero: Nulla. Ed egli soggiunse: Ma ora chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia. Allora infatti era prossimo il tempo della perfetta libertà, nel quale dovevano essere lasciati completa­ mente al loro arbitrio in ciò che non è neces­ sariamente connesso con la virtù. 4. I precetti giudiziali, considerati in se stessi, non sono necessariamente connessi con la virtù nelle loro determinazioni particolari, ma solo sotto l'aspetto generale del giusto. Perciò il Signore lasciò la facoltà di disporre dei pre-

    Q. 1 08, A. 2

    Il contenuto della legge nuova

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    quit Dominus disponenda his qui curam alio­ rum erant habituri vel spiritualem vel tempo­ ralem. Sed circa iudicialia praecepta veteris legis quaedam explanavit, propter malum intellectum Pharisaeorum, ut infra [a. 3 ad 2] dicetur.

    cetti giudiziali a coloro che avrebbero avuto la cura spirituale e temporale degli altri. Volle però spiegare alcune cose riguardanti i precet­ ti giudiziali dell' antica legge a motivo delle false interpretazioni dei Farisei, come vedre­ mo in seguito.

    Articulus 3 Utrum lex nova hominem circa interiores actus sufficienter ordinaverit

    Articolo 3 La legge nuova ha ordinato l'uomo in maniera adeguata quanto agli atti interni?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod circa interiores actus lex nova insufficienter homi­ nem ordinaverit. l . Sunt enim decem praecepta Decalogi ordi­ nantia hominem ad Deum et proximum. Sed Dominus solum circa tria illorum aliquid adimplevit, scilicet circa prohibitionem homi­ cidii, et circa prohibitionem adulterii, et circa prohibitionem periurii. Ergo videtur quod in­ sufficienter hominem ordinaverit, adimple­ tionem aliorum praeceptorum praetermittens. 2. Praeterea, Dominus nihil ordinavit in Evan­ gelio de iudicialibus praeceptis nisi circa re­ pudium uxoris, et circa poenam talionis, et circa persecutionem inimicorum. Sed multa sunt alia iudicialia praecepta veteris legis, ut supra [q. 1 04 a. 4; q. 105] dictum est. Ergo quantum ad hoc, insufficienter vitam hominum ordinavit. 3. Praeterea, in veteri lege, praeter praecepta moralia et iudicialia, erant quaedam caeremo­ nialia. Circa quae Dominus nihil ordinavit. Ergo videtur insufficienter ordinasse. 4. Praeterea, ad interiorem bonam mentis dispositionem pertinet ut nullum bonum opus homo faciat propter quemcumque tempora­ lem finem. Sed multa sunt alia temporalia bona quam favor humanus, multa etiam alia sunt bona opera quam ieiunium, eleemosyna et oratio. Ergo inconveniens fuit quod Domi­ nus docuit salurn circa haec tria opera glo­ riam favotis humani vitari, et nihil aliud terre­ norum bonorum. 5. Praeterea, naturaliter homini inditum est ut sollicitetur circa ea quae sunt sibi necessaria ad vivendum, in qua etiam sollicitudine alia animalia cum homine conveniunt, unde dici­ tur Prov. 6 [6.8], vade ad fonnicam, o piger,

    Sembra di no. Infatti: l . I precetti del decalogo che ordinano l'uo­ mo verso Dio e verso il prossimo sono dieci. Ma il Signore ne completò tre soli, cioè quelli riguardanti la proibizione dell'omicidio, del­ l' adulterio e dello spergiuro. Quindi non ordi­ nò l' uomo in maniera adeguata, trascurando di dare compimento agli altri precetti. 2. n Signore nel Vangelo non determinò nulla riguardo ai precetti giudiziali all'infuori delle norme sul ripudio della moglie, la pena del ta­ glione e la vendetta sui nemici. Ma nell' antica legge, come già si disse, ci sono molti altri pre­ cetti giudiziali. Quindi da questo lato il Signo­ re non ordinò adeguatamente la vita umana. 3. Nella legge antica vi erano i precetti ceri­ moniali, oltre a quelli morali e giudiziali. Ma su tali precetti il Signore non determinò nulla. Perciò la sua determinazione è inadeguata. 4. Per la buona disposizione interiore dell'ani­ mo si richiede che l'uomo non compia alcuna opera buona per un fine terreno. Ora, esistono molti beni terreni oltre alla vanagloria; come pure ci sono molte altre opere buone oltre al digiuno, all'elemosina e alla preghiera. Quin­ di non è giusto che il Signore si sia limitato a insegnare la fuga della sola vanagloria in que­ ste opere buone, senza accennare agli altri beni terreni. 5 . L'uomo ha insito per natura di preoccuparsi del necessario alla vita, e tale preoccupazione è comune anche agli animali: per cui in Pr è detto: Va dalla formica, o pigro, guarda le sue

    et considera vias eius. Parat in aestate cibum sibi, et congregat in messe quod comedat. Sed omne praeceptum quod datur contra

    abitudini e diventa saggio. Essa d'estate si provvede il vitto, al tempo della mietitura accumula il cibo. Ora, un precetto che è dato contro l'inclinazione della natura è ingiusto, in quanto contrario alla legge naturale. Perciò non sembra conveniente la proibizione del S ignore di preoccuparsi del vitto e del vestito.

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    Il contenuto della legge nuova

    inclinationem naturae, est iniquum, utpote contra legem naturalem existens. Ergo incon­ venienter videtur Dominus prohibuisse solli­ citudinem victus et vestitus. 6. Praeterea, nullus actus virtutis est prohiben­ dus. Sed iudicium est actus iustitiae; secun­ dum illud Psalmi 93 [15], quousque iustitia convertatur in iudicium. Ergo inconvenienter videtur Dominus iudicium prohibuisse. Et ita videtur lex nova insufficienter hominem ordi­ nasse circa interiores actus. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De serm. Dom. [ 1 , 1 ] , considerandum est quia, cum dixit, qui audit verba mea haec, satis signifìcat sermonem istum Domini omni­ bus praeceptis quibus christiana vita forma­ tur, esse pelfectum. Respondeo dicendum quod, sicut ex inducta auctoritate Augustini apparet, sermo quem Dominus in monte proposuit, totam informa­ rionero Christianae vitae continet. In quo per­ fecte interiores motus hominis ordinantur. Nam post declaratum beatitudinis finem; et commendata apostolica dignitate, per quos erat doctrina evangelica promulganda; ordinat interiores hominis motus, primo quidem quan­ tum ad seipsum; et deinde quantum ad proxi­ mum. - Quantum autem ad seipsum, dupliciter; secundum duos interiores hominis motus circa agenda, qui sunt voluntas de agendis, et inten­ tio de fine. Unde primo ordinat hominis vo­ luntatem secundum diversa legis praecepta, ut scilicet abstineat aliquis non salurn ab exterio­ ribus operibus quae sunt secundum se mala, sed etiam ab interioribus, et ab occasionibus malorum. Deinde ordinat intentionem hominis, docens quod in bonis quae agimus, neque quaeramus humanam gloriam, neque mun­ danas divitias, quod est thesaurizare in terra. Consequenter autem ordinat interiorem homi­ nis motum quoad proximum, ut scilicet eum non temerarie aut iniuste iudicemus, aut prae­ sumptuose; neque tamen sic simus apud proxi­ mum remissi, ut eis sacra committamus, si sint indigni. - Ultimo autem docet modum adim­ plendi evangelicam doctrinam, scilicet im­ plorando divinum auxilium; et conatum ap­ ponendo ad ingrediendum per angustam por­ tam perfectae virtutis; et cautelam adhibendo ne a seductoribus corrumpamur. Et quod observatio mandatorum eius est necessaria ad virtutem, non autem sufficit sola confessio

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    6. Nessun atto di virtù può essere proibito. Ma il giudicare è un atto della giustizia, se­ condo le parole del Sal: Fino a che la giusti­ zia non tomi a giudicare. Quindi non è ragio­ nevole la proibizione di giudicare fatta dal S ignore. E così sembra che la nuova legge non abbia ordinato convenientemente l'uomo quanto ai suoi atti interni. In contrario: Agostino scrive: «Si deve notare che l'espressione Chi ascolta queste mie parole sta a indicare che questo discorso del Signore esaurisce tutti i precetti atti a informare la vita cristiana». Risposta: come appare già dalle parole appena c itate di Agostino, i l discorso tenuto dal Signore sulla montagna contiene tutto il pro­ gramma della vita cristiana. E in esso sono perfettamente ordinati i moti interiori dell'uo­ mo. Infatti dopo aver ricordato il fine, che è la beatitudine, ed esaltata la dignità degli aposto­ li, chiamati a promulgare la dottrina evangeli­ ca, il Signore passa a ordinare i moti interiori dell'animo: prima in se stessi, poi verso i l prossimo. - I n se stesso dunque l'uomo viene ordinato in due maniere, in base ai due suoi moti interiori verso le azioni da compiere, che sono la volizione degli atti e l'intenzione del fme. Infatti il Signore prima ordina la volontà dell'uomo secondo i diversi precetti della leg­ ge: portando l'uomo, cioè, non solo ad aste­ nersi dalle opere esterne cattive in se stesse, ma anche dagli atti interni e dalle occasioni del male. Quindi ordina l'intenzione dell'uo­ mo: insegnandoci a non cercare, nel compiere il bene, né la gloria umana, né la ricchezza del mondo, il che significherebbe farsi un tesoro terreno. - Passa poi a ordinare i moti interiori dell'uomo in ordine al prossimo: cioè a non giudicarlo in modo temerario, ingiusto o pre­ suntuoso; senza però essere remissivi al punto di affidare le cose sacre agli indegni. - Final­ mente insegna il modo di mettere in pratica la dottrina evangelica: cioè implorando l'aiuto di Dio, sforzandosi di entrare per la porta stretta della perfetta virtù e guardandosi dai sedutto­ ri. Inoltre ricorda che per la virtù è necessaria l'osservanza dei comandamenti, e non basta la semplice professione della fede, o il compi­ mento dei miracoli, o il solo ascolto. Soluzione delle difficoltà: l . Il Signore diede compimento a quei precetti della legge di cui i Farisei davano una falsa interpretazione.

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    Il contenuto della legge nuova

    fidei, vel miraculorum operatio, vel solus auditus. Ad primum ergo dicendum quod Dominus circa illa legis praecepta adimpletionem appo­ suit, in quibus Scribae et Pharisaei non rectum intellectum habebant. Et hoc contingebat prae­ cipue circa tria praecepta Decalogi. Nam circa prohibitionem adulterii et homicidii, aestima­ bant solum exteriorem actum prohiberi, non autem interiorem appetitum. Quod magis cre­ debant circa homicidium et adulterium quam circa furtum vel falsum testimonium, quia motus irae in homicidium tendens, et concupi­ scentiae motus tendens in adulterium, videntur aliqualiter nobis a natma inesse; non autem appetitus furandi, vcl falsum testimonium di­ cendi. Circa periurium vero habebant falsum intellectum, credentes periurium quidem esse peccatum; iuramentum autem per se esse ap­ petendum et frequentandum, quia videtur ad Dei reverentiam pertinere. Et ideo Dominus ostendit iuramentum non esse appetendum tanquam bonum; sed melius esse absque iura­ mento loqui, nisi necessitas cogat. Ad secundum dicendum quod circa iudicialia pracccpta duplicitcr Scribae et Pharisaci erra­ bant. - Primo quidem, quia quaedam quac in lege Moysi erant tradita tanquam permissio­ nes, aestimabant esse per se iusta, scilicet repudium uxoris, et usuras accipere ab extra­ neis. Et ideo Dominus prohibuit uxoris repu­ dium, Matth. 5 [32]; et usurarum accep­ tionem, Luc. 6 [3 5 ] , dicens, date mutuum nihil inde sperantes. - Alio modo errabant credentes quaedam quae lex vetus instituerat facienda propter iustitiam, esse exequenda ex appetitu vindictae; vcl ex cupiditate tcmpora­ Iium rerum; vel ex odio inimicorum. Et hoc in tribus praeceptis. Appetitum enim vindic­ tae credebant esse licitum, propter praecep­ tum datum de poena talionis. Quod quidem fuit datum ut iustitia servaretur, non ut homo vindictam quaereret. Et ideo Dominus, ad hoc removendum, docet animum hominis sic de­ bere esse praeparatum ut, si necesse sit, etiam paratus sit plura sustinere. - Motum autem cupiditatis aestimabant esse licitum, propter praccepta iudicialia in quibus mandabatur restitutio rei ablatae fieri etiam cum aliqua additione, ut supra [q. l 05 a. 2 ad 9] dictum est. Et hoc quidem lex mandavit propter iusti­ tiam observandam, non ut daret cupiditati

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    E ciò avveniva specialmente per quei tre pre­ cetti del decalogo. Infatti a proposito della proibizione del l ' adulterio e dell ' omicidio costoro ritenevano che fosse proibito il solo atto esterno, e non il desiderio interiore. E ciò lo pensavano p i ù per l ' o m i c i d i o e per l'adulterio che non per il furto o per la falsa testimonianza, poiché il moto dell' ira che porta ali' omicidio e i moti della concupiscen­ za che tendono all' adulterio sembrano quasi connaturati in noi; non così invece il desiderio di rubare o di dire falsa testimonianza. Inoltre avevano un concetto sbagliato dello spergiuro, pensando che e..-;so solo fosse pec­ cato, mentre il giuramento sarebbe stato per se stesso da desiderare e da praticare, presen­ tandosi come un atto di ossequio a Dio. E così il Signore dimostrò che il giuramento non è di per sé desiderabile come cosa buona, e che era invece meglio parlare senza giura­ menti, salvo in caso di necessità. 2. Intorno ai precetti giudiziali gli scribi e i Farisei erravano in due modi. - Primo, perché ritenevano giuste per se stesse certe cose che nella legge di Mosè erano solo delle conces­ sioni : come ad es., il ripudio della moglie e l'esercizio dell' usura con gli stranieri. Per cui i l Signore proibì il ripudio della moglie in Mt 5 e il prestare a usura in Le 6 dicendo: Prestate senza sperame nulla. - In secondo luogo sbagliavano nel credere che certe pene disposte dalla legge antica per ristabilire la giustizia potessero essere intlitte per desiderio di vendetta, o per cupidigia di beni temporali, oppure per odio verso i nemici. E ciò in tre precetti. Credevano infatti che il desiderio della vendetta fosse lecito, a motivo dei pre­ cetti relativi alla pena del taglione. Questi invece erano stati posti per salvaguardare la giustizia, non perché l'uomo cercasse la ven­ detta. li Signore dunque, per correggere que­ sto errore, insegna che l ' uomo deve essere così spiritualmente disposto da essere pronto, in caso di necessità, a sopportare ulteriori ingiustizie. - Inoltre essi ritenevano leciti gli appetiti della cupidigia, poiché i precetti giu­ diziali comandavano la restituzione dei beni rubati con un sovrappiù, come si è visto. E anche qui il comando della legge mirava a ristabilire la giustizia, non a fomentare la cupidigia. E così il S ignore insegna a non reclamare la roba nostra per cupidigia, ma a

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    locum. Et ideo Dominus docet ut ex cupidita­ te nostra non repetamus, sed simus parati, si necesse fuerit, etiam ampliora dare. - Motum vero odi i credebant esse licitum, propter prae­ cepta legis data de hostium interfectione. Quod quidem lex statuit propter iustitiam im­ plendam, ut supra [q. 1 05 a. 3 ad 4] dictum est, non propter odia exsaturanda. Et ideo Do­ minus docet ut ad inimicos dilectionem ha­ beamus, et parati simus, si opus fuerit, etiam benefacere. Haec enim praecepta secundum praeparationem animi sunt accipienda, ut Augustinus exponit [De serm. Dom. l , 1 9]. Ad tertium dicendum quod praecepta moralia omnino in nova lege remanere debebant, quia secundum se pertinent ad rationem virtutis. Praecepta autem iudicialia non remanebant ex necessitate secundum modum quem lex deter­ minavit; sed relinquebatur arbitrio hominum utrum sic vel aliter esset determinandum. Et ideo convenienter Dominus circa haec duo ge­ nera praeceptorum nos ordinavit. Praecepto­ rum autem caeremonialium observatio totaliter per rei impletionem tollebatur. Et ideo circa huiusmodi praecepta, in illa communi doctri­ na, nihil ordinavit. Ostendit tamen alibi quod totus corporalis cultus qui erat determinatus in lege, erat in spiritualem commutandus; ut patet loan. 4 [2 1 .23], ubi dixit, venit hora quando

    neque in monte hoc neque in lerosolymis ado­ rabitis Patrem; sed veri adoratores adorabunt Patrem in spiritu et veritate. Ad quartum dicendum quod omnes res mun­ danae ad tria reducuntur, scilicet ad honores, divitias et delicias; secundum illud l Ioan. 2

    [ 1 6], omne quod est in mundo, concupiscen­ tia carnis est, quod pertinet ad delicias camis; et concupiscentia oculorum, quod pertinet ad divitias; et superbia vitae, quod pertinet ad

    ambitum gloriae et honoris. Superfluas autem camis delicias lex non repromisit, sed magis prohibuit. Repromisit autem celsitudinem ho­ noris, et abundantiam divitiarum, dicitur enim Deut. 28 [ l ], si audieris vocem Domini Dei

    tui, faciet te excelsiorem cunctis gentibus, quantum ad primwn; et post pauca subdit [v. 1 1 ], abundare te facie! omnibus bonis, quantum

    ad secundum. Quae quidem promissa sic prave intelligebant Iudaei, ut propter ea esset Deo serviendum, sicut propter finem. Et ideo Dominus hoc removit, docens primo, quod opera virtutis non sunt facienda propter huma-

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    essere pronti, se è necessario, a cedere anche di più. - Finalmente credevano lecito il senti­ mento dell'odio, dato che la legge comandava di uccidere i nemici. La legge però non aveva dato queste norme, come si è già fatto notare, per dare libero sfogo ali' odio, ma per ristabili­ re la giustizia. E allora il Signore comanda di amare i nemici e di essere pronti, se necessa­ rio, a far loro del bene. Infatti, come nota Agostino, questi precetti vanno intesi «secon­ do la disposizione dell'animo». 3. I precetti morali dovevano rimanere inalte­ rati nella nuova legge, poiché appartengono direttamente ali' essenza della virtù. Invece i precetti giudiziali non dovevano rimanere necessariamente nel modo in cui la legge li aveva detenninati, ma veniva lasciato all' arbi­ trio del l ' uomo determinarne in concreto le norme. Perciò giustamente il Signore ci volle dare delle indicazioni relative a questi due generi di precetti. Invece l'osservanza dei pre­ cetti cerimoniali veniva del tutto abrogata con il compimento delle profezie. E così il Signo­ re non ricordò affatto questi precetti in quella sua istruzione generale. Tuttavia altrove egli chiarì che tutto il culto esterno determinato dalla legge doveva trasformarsi in un culto spirituale, come è evidente dal passo di Gv:

    E giunto il momento in cui né su questo mon­ te, né in Gerusalemme adorerete il Padre, ma i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. 4. Tutti i beni terreni si riducono a tre, vale a

    dire agli onori, alle ricchezze e ai piaceri, secondo le parole di l Gv: Tutto ciò che è nel

    mondo è concupiscenza della carne, concupi­ scenza degli occhi e superbia della vita. Ora,

    la legge non permetteva gli eccessi del piace­ re, ma piuttosto li proibiva. Invece prometteva grandezza di onori e abbondanza di ricchez­ ze: infatti in Dt è detto: Se tu obbedirai fedel­

    mente alla voce del Signore tuo Dio, egli ti metterà sopra tutte le nazioni della terra; e poco dopo: TI concederà abbondanza di beni.

    I Giudei però intendevano così male tali pro­ messe da pensare che si dovesse servire Dio per tali beni, come se fossero il fine ultimo. Perciò il Signore esclude il suddetto errore insegnando in primo luogo che gli atti virtuo­ si non vanno compiuti per la gloria mondana. E accenna a tre di queste azioni, che compen­ diano le altre: infatti tutto ciò che si fa per

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    nam gloriam. Et ponit tria opera, ad quae omnia a l i a reducuntur, nam omnia quae aliquis facit ad refrenandum seipsum in suis concupiscentiis, reducuntur ad ieiunium; quaecumque vero fiunt propter dilectionem proximi, reducuntur ad eleemosynam; quae­ cumque vero propter cultum Dei fiunt, redu­ cuntur ad orationem. Ponit autem haec tria specialiter quasi praecipua, et per quae homi­ nes maxime solent gloriam venari. Secundo, docuit quod non debemus finem constituere in divitiis, cum dixit [Matth. 6, 1 9], nolite the­

    tenere a freno se stessi nelle proprie concupi­ scenze si riduce al digiuno; tutto ciò che si compie per amore del prossimo si riduce all'elemosina; quanto infine si compie per il culto di Dio si riduce alla preghiera. E nomina in particolare queste tre azioni virtuose perché sono le principali, e poiché con esse gli uomi­ ni sono soliti procurarsi la gloria. In secondo luogo poi insegna a non mettere il nostro fine nelle ricchezze, dicendo: Non vogliate accu­

    saurizare vobis thesauros in terra.

    ne necessaria, ma quella eccessiva. Ora, quat­ tro sono gli eccessi da evitare in questa preoc­ cupazione delle cose tetTene. Primo, dobbia­ mo evitare di mettere in tali cose il nostro fine, e di servire Dio per le necessità del vitto e del vestito. Per cui dice: Non vogliate accumulare tesori... Secondo, non dobbiamo essere preoc­ cupati delle cose temporali al punto di non fidarci del l ' aiuto divino. Perciò il S ignore dice: Il Padre vostro sa che avete bisogno di tutte queste cose. Terzo, la preoccupazione non deve essere presuntuosa: l 'uomo cioè non deve pensare che la sua industria basti a pro­ curargli il necessario alla vita, senza bisogno dell'aiuto di Dio. Perciò il Signore in proposi­ to ricorda che l 'uomo non può aggiungere nulla alla propria statura. Quarto, questa preoccupazione non deve anticipare il tempo dovuto: nel senso cioè che non ci si deve preoccupare in questo momento di ciò che riguarda non il presente, ma solo il futuro. Perciò dice: Non vi preoccupate del domani. 6. n Signore non proibisce il giudizio secondo giustizia, senza il quale non sarebbe possibile negare le cose sante agli indegni. Proibisce invece, come si è detto, il giudizio sregolato.

    Ad quintum dicendum quod Dominus sollici­ tudinem necessariam non prohibuit, sed solli­ citudinem inordinatam. Est autem quadruplex inordinatio sollicitudinis vitanda circa tempo­ ralia. Primo quidem, ut in eis finem non con­ stituamus , neque Deo serviamus propter necessaria victus et vestitus. Unde dicit [Mat­ th. 6, 1 9], nolite thesaurizare vobis et cetera. Secundo, ut non sic sollicitemur de temporali­ bus, cum desperatione divini auxilii. Unde Dominus dicit [Matth. 6,32], scit Pater vester quia his omnibus indigetis. Tertio, ne sit solli­ citudo praesumptuosa, ut scilicet homo confi­ dat se necessaria vitae per suam sollicitudinem posse procurare, absque divino auxilio. Quod Dominus removet per hoc quod [Matth. 6,27]

    homo non potest aliquid adiicere ad staturam suam. Quarto, per hoc quod homo sollicitudi­ nis tempus praeoccupat, quia scilicet de hoc sollicitus est nunc, quod non pertinet ad curam praesentis temporis, sed ad curam futuri. Unde dicit, nolite sol/iciti esse in crastinum. Ad sextum dicendum quod Dominus non prohibet iudicium iustitiae, sine quo non pos­ sent sancta subtrahi ab indignis. Sed prohibet iudicium inordinatum, ut dictum est [co.] . Articulus 4

    mulare tesori sulla terra. 5. li Signore non ha proibito la preoccupazio­

    Articolo 4

    È giusto che nella legge nuova

    Utrum convenienter in lege nova consilia quaedam determinata sint proposita

    vengano proposti determinati consigli?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod in­ convenienter in lege nova consilia quaedam determinata sint proposita. l . Consilia enim dantur de rebus expedienti­ bus ad finem; ut supra [q. 14 a. 2] dictum est, cum de consilio ageretur. Sed non eadem omnibus expediunt. Ergo non sunt aliqua consilia determinata omnibus proponenda.

    Sembra di no. Infatti: l . Trattando del consiglio, si è detto che esso riguarda i mezzi adatti al raggiungimento del fine. Ma non a tutti sono adatte le medesime cose. Quindi non è il caso di propolTe a tutti determinati consigli. 2. I consigli hanno per oggetto il meglio, ma nel meglio non c i sono gradi determinati.

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    Il contenuto della legge nuova

    2. Praeterea, consilia dantur de meliori bono. Sed non sunt determinati gradus melioris boni. Ergo non debent aliqua determinata consilia dari . 3 . Praeterea, consilia pertinent ad perfectio­ nem vitae. Sed obedientia pertinet ad perfec­ tionem vitae. Ergo inconvenienter de ea con­ silium non datur in Evangelio. 4. Praeterea, multa ad petfectionem vitae per­ tinentia inter praecepta ponuntur, sicut hoc quod dicitur [Matth. 5,44], diligite inimicos vestros; et praecepta etiam quae dedit Domi­ nus apostolis, Matth. 1 0. Ergo inconvenienter traduntur consilia in nova lege, tum quia non omnia ponuntur; tum etiam quia a praeceptis non distinguuntur. Sed contra, consilia sapientis amici magnam utilitatem afferunt; secundum illud Prov. 27

    [9], unguento et variis odoribus delectatur cor, et bonis amici consiliis anima dulcoratur. Sed Christus maxime est sapiens et amicus. Ergo eius consilia maximam utilitatem conti­ nent, et convenientia sunt. Respondeo dicendum quod haec est differen­ tia inter consilium et praeceptum, quod prae­ ceptum importat necessitatem, consilium autem in optione ponitur eius cui datur. Et ideo convenienter in lege nova, quae est lex libertatis, supra praecepta stmt addita consilia, non autem in veteri lege, quae erat lex setvi­ tutis. Opottet igitur quod praecepta novae legis intelligantur esse data de his quae sunt necessaria ad consequendum finem aetemae beatitudinis, in quem lex nova immediate introducit. Consilia vero oportet esse de illis per quae melius et expeditius potest homo consequi finem praedictum. - Est autem homo constitutus inter res mundi huius et spiritualia bona, in quibus beatitudo aetema consistit, ita quod quanto plus inhaeret uni eorum, tanto plus recedit ab altero, et e converso. Qui ergo totaliter inhaeret rebus huius mundi, ut in eis finem constituat, habens eas quasi rationes et regulas suomm opemm, totaliter excidit a spiritualibus bonis. Et ideo huiusmodi mordi­ natio tollitur per praecepta. Sed quod homo totaliter ea quae sunt mundi abiiciat, non est necessarium ad perveniendum in fincm prae­ dictum, quia potest homo utcns rebus huius mundi, dummodo in eis finem non constituat, ad beatitudinem aeternam pervenire. Sed expeditius perveniet totaliter bona huius

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    Perciò non si devono proporre dei consigli determinati. 3. I consigli appartengono alla perfezione spi­ rituale. Ma a questa perfezione appartiene pure l ' obbedienza. Quindi è ingiustificabile che nel Vangelo essa non sia stata consigliata. 4. Molte cose che rientrano nella perfezione spirituale sono poste tra i precetti: p. es. il co­ mando: Amate i vostri nemici, e tutte le norme date dal Signore agli apostoli in Mt l O. Perciò i consigli non sono dati convenientemente nella legge nuova: sia perché non ci sono tutti, sia perché non sono distinti dai precetti. In contrario: i consigli di un amico sapiente offrono grandi vantaggi, secondo le parole di

    Pr. Il profumo e l'incenso allietano il cuore, i buoni consigli di un amico rassicurano l'ani­ ma. M a Cristo è sommamente sapiente e amico. Quindi i suoi consigli portano il massi­ mo vantaggio e sono quanto mai convenienti. Risposta: la differenza tra il consiglio e il pre­ cetto sta nel fatto che il precetto implica una necessità, mentre il consiglio è lasciato all' op­ zione di chi lo riceve. Era quindi giusto che nella nuova legge di libertà, oltre ai precetti, venissero proposti dei consigli: non così inve­ ce nella legge antica, che era una legge di schiavitù. Perciò si deve concludere che i pre­ cetti della legge nuova riguardano le cose necessarie per conseguire il fine della beatitu­ dine eterna, nel quale la legge nuova introdu­ ce immediatamente. I consigli invece devono avere per oggetto quei mezzi che servono all'uomo per raggiungere meglio e più spedi­ tamente tale fine. - Ora, l 'uomo è posto fra le realtà di questo mondo e i beni spirituali, che costituiscono la beatitudine eterna: cosicché più aderisce alle une e più si allontana dagli altri, e viceversa. Chi dunque aderisce total­ mente alle realtà di questo mondo ponendo in esse il proprio fine e regolando su di esse la propria condotta, decade totalmente dai beni spirituali. Perciò questo disordine viene elimi­ nato dai precetti. Tuttavia per raggiungere il fine suddetto non è necessario che l' uomo abbandoni del nmo le realtà del mondo: poi­ ché un uomo che usa le cose di questo mondo senza mettere in esse il proprio fine può arri­ vare anch'egli alla beatitudine eterna. Vi giun­ gerebbe però più speditamente rinunziando del tutto ai beni del mondo. E di ciò appunto trattano i consigli evangelici. - Ora, i beni ter-

    Q. 1 08, A. 4

    Il contenuto della legge nuova

    mundi abdicando. Et ideo de hoc dantur con­ silia Evangelii. - Bona autem huius mundi, quae pertinent ad usum humanae vitae, in tribus consistunt, scilicet in divitiis exterio­ rum bonorum, quae pertinent ad concupiscen­ tiam oculorum; in deliciis camis, quae perti­ nent ad concupiscentiam carnis; et in hono­ ribus, quae pertinent ad superbiam vitae; sicut patet l loan. 2 [ 1 6]. Haec autem tria totaliter derelinquere, secundum quod possibile est, pertinet ad consilia evangelica. In quibus etiam tribus fundatur omnis religio, quae sta­ tum perfectionis profitetur, nam divitiae abdi­ cantur per paupertatem; deliciae camis per perpetuam castitatem; superbia vitae per obe­ dientiae servitutem. - Haec autem simpliciter observata pertinent ad consilia simpliciter proposita. Sed observatio uniuscuiusque eorum in aliquo speciali casu, pertinet ad con­ silium secundum quid, scilicet in casu ilio. Puta cum homo dat aliquam eleemosynam pauperi quam dare non tenetur, consilium sequitur quantum ad factum illud. Similiter etiam quando aliquo tempore determinato a delectationibus camis abstinet ut orationibus vacet, consilium sequitur pro tempore ilio. Similiter etiam quando aliquis non sequitur voluntatem suam in aliquo facto quod licite posset facere, consilium sequitur in casu illo, puta si benefaciat inimicis quando non tene­ tur, vel si offensam remittat cuius iuste posset exigere vindictam. Et sic etiam omnia consi­ lia particularia ad illa tria generalia et perfecta reducuntur. Ad primum ergo dicendum quod praedicta consilia, quantum est de se sunt omnibus expedientia, sed ex indispositione aliquorum contingit quod alicui expedientia non sunt, quia eorum affectus ad haec non inclinatur. Et ideo Dominus, consilia evangelica proponens, semper facit mentionem de idoneitate homi­ num ad observantiam consiliorum. Dans enim consilium perpetuae paupertatis, Matth. 1 9 [21 ], praemittit, si vis pe1.fectus esse; et postea subdit, vade et vende omnia quae habes. Similiter, dans consilium perpetuae castitatis, cum dixit [ib. 12], sunt eunuchi qui castrave­ runt seipsos propter regnum caelorum, statim subdit, qui potest capere, capiat. Et similiter apostolus, l ad Cor. 7 [35], praemisso consilio virginitatis, dicit, porro hoc ad utilitatem vestram dico, non ut /aqueum vobis iniiciam.

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    reni che servono alla vita umana consistono, come è evidente da l Gv, in queste tre cose: nelle ricchezze esteriori, che si richiamano alla concupiscenza degli occhi; nei piaceri della carne, che si richiamano alla concupi­ scenza della carne; negli on01i, che si richia­ mano alla superbia della vita. Ora, l'abban­ dono totale di queste tre cose, nei limiti del possibile, è oggetto dei consigli evangelici. E su di essi si fonda ogni istituto religioso, che professa lo stato di perfezione: infatti si rinun­ zia alle ricchezze con la povertà, ai piaceri della carne con la castità perpetua e alla su­ perbia della vita con la sottomissione dell' ob­ bedienza. - Ora, l'osservanza assoluta di que­ ste cose appartiene ai consigli suddetti pura­ mente e semplicemente. Invece l'osservanza dell'una o dell'altra in qualche caso particola­ re appartiene anch'essa ai consigli, ma solo sotto un certo aspetto, cioè relativamente a quel particolare caso. Quando uno, p. es., dà a un povero un'elemosina che non è tenuto a dare, segue il consiglio relativamente a tale atto. E così pure quando uno si astiene per un dato tempo dai piaceri della carne per atten­ dere alla preghiera, segue il consiglio per quel dato tempo. E così ancora quando uno non segue la propria volontà in una data azione che pure potrebbe lecitamente compiere, se­ gue il consiglio in quel dato caso: come quan­ do uno fa del bene ai nemici senza esservi te­ nuto, o perdona un'offesa di cui potrebbe esi­ gere la giusta riparazione. Perciò anche gli al­ tri consigli particolari si riducono tutti a quei tre, che sono generali e perfetti. Soluzione delle difficoltà: l . I consigli ricorda­ ti sono di per sé utili a tutti, ma per le contrarie disposizioni di certuni capita che non siano utili per loro, poiché il loro affetto non è ad essi inclinato. Perciò il Signore, nel propoiTe i consigli evangelici, accenna sempre all'attitu­ dine degli uomini a osservarli. Infatti nel dare il consiglio della povertà assoluta fece questa premessa: Se vuoi essere peifetto, e poi ag­ giunse: Va ' e vendi quello che possiedi. E così pure nel dare il consiglio della castità perpe­ tua, dopo aver detto: W sono degli eunuchi che si sono resi tali per il reg1w dei cieli, subito continuò: Chi può capire, capisca. E anche Paolo in l Cor, dopo aver premesso il consi­ glio della verginità, aggiunge: Questo lo dico per il vostro bene, non per gettarvi un laccio.

    Q. 1 08, A. 4

    Il contenuto della legge nuova

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    Ad secundum dicendum quod meliora bona particulariter in singulis sunt indeterminata. Sed illa quae sunt simpliciter et absolute meliora bona in universali, sunt determinata. Ad quae etiam omnia illa particularia redu­ cuntur, ut dictum est [co.]. Ad tertium dicendum quod etiam consilium obedientiae Dominus intelligitur dedisse in hoc quod dixit [Matth. 1 6,24], et sequatur me; quem sequimur non solum imitando opera, sed etiam obediendo mandatis ipsius; secundum illud loan. l O [2 7] . Oves meae vocem meam audiunt, et sequuntur me. Ad quartum dicendum quod ea quae de vera dilectione inimicorum, et similibus, Dominus dicit Matth. 5 et Luc. 6, si referantur ad prae­ parationem animi, sunt de necessitate salutis, ut scilicet homo sit paratus benefacere inimi­ cis, et alia huiusmodi facere, cum necessitas hoc requirat. Et ideo inter praecepta ponuntur. Sed ut aliquis hoc inimicis exhibeat prompte in actu, ubi specialis necessitas non occurrit, pertinet ad consilia patticularia, ut dictum est [co.]. - Illa autem quae ponuntur Matth. l O, et Luc. 9, et 1 0, fuerunt quaedam praecepta disciplinae pro tempore ilio, vel concessiones quaedam, ut supra dictum est [a. 2 ad 3]. Et ideo non inducuntur tanquam consilia.

    meglio nei casi particolari è indetermina­ to. Però sono determinate le cose che sono universalmente migliori in senso assoluto. E ad esse si riduce anche il meglio nei casi particolati, come si è spiegato. 3. Si deve ritenere che il Signore diede il con­ siglio dell ' obbedienza con quelle parole: E mi segua: poiché noi lo seguiamo non sol­ tanto imitandone le opere, ma anche obbe­ dendo ai suoi comandi, secondo le parole di Gv: Le mie pecore ascoltano la mia voce, e mi seguono. 4. Quanto il Signore disse a proposito dell'a­ more dei nemici in Mt 5 e in Le 6, se viene inteso come disposizione d' animo, è una norma strettamente necessaria alla salvezza: l 'uomo cioè deve essere disposto a fare del bene ai nemici, e altre cose del genere, quan­ do la necessità lo richiede. E così questa norma è posta tra i precetti. Che invece uno compia attualmente questo bene con prontez­ za quando non vi è una speciale necessità è matetia particolare di un consiglio, come si è detto. - Quanto poi alle raccomandazioni contenute in Mt 10 e in Le 9-1 0, esse erano norme disciplinari limitate a quel tempo, oppure concessioni, come si è visto sopra. Perciò non vengono ricordate fra i consigli. 2. n

    QUAESTIO l 09

    QUESTIONE l 09

    DE NECESSITATE GRATIAE

    LA NECESSITA DELLA GRAZIA

    Consequenter considerandum est de exteriori principio humanorum actuum, scilicet de Deo, prout ab ipso per gratiam adiuvamur ad recte agendum. Et primo, considerandum est de gratia Dei; secundo, de causa eius [q. 1 1 2]; tertio, de eius effectibus [q. 1 1 3 ] . Prima autem consideratio erit tripartita, nam primo considerabimus de necessitate gratiae; secun­ do, de ipsa gratia quantum ad eius essentiam [q. 1 1 0]; tertio, de eius divisione [q. 1 1 1]. Cir­ ca primum quaeruntur decem. Primo, utrum absque gratia possit homo aliquod verum cognoscere. Secundo, utrum absque gratia Dei possit homo aliquod bonum facere vel velle. Tertio, utrum homo absque gratia possit Deum diligere super omnia. Quarto, utrum absque gratia possit praecepta legis observare. Quinto, utrum absque gratia possit mereri vitam aetemam. Sexto, utrum homo possit se

    Siamo così giunti a trattare del principio esterno degli atti umani, cioè di Dio, in quan­ to ci aiuta ad agire rettamente per mezzo della grazia. n trattato va diviso in tre parti: primo, la grazia di Dio in se stessa; secondo, le sue cause; terzo, i suoi effetti. La prima parte sarà così suddivisa: primo, la necessità della gra­ zia; secondo, la grazia nella sua essenza; terzo, le divisioni della grazia. Sul primo di questi argomenti si pongono dieci quesiti: l. L'uomo senza la grazia può conoscere qualche vetità? 2. Può senza la grazia com­ piere o volere qualcosa di buono? 3. Senza la grazia può amare Dio sopra tutte le cose? 4. Senza la grazia può osservare i precetti della legge? 5. Senza la grazia può meritare la vita eterna? 6. Può prepararsi alla grazia senza la grazia? 7. Senza la grazia può risor­ gere dal peccato? 8. Senza la grazia può evita-

    Q. 1 09, A. l

    La necessità della grazia

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    ad gratiam praeparare sine gratia. Septimo, utrum homo sine gratia possit resurgere a peccato. Octavo, utrum absque gratia possit homo vitare peccatum. Nono, utrum homo gratiam consecutus possit, absque alio divino auxilio, bonum facere et vitare peccatum. Decimo, utrum possit perseverare in bono per seipsum.

    re il peccato? 9. Un uomo in grazia può fare il bene ed evitare il peccato senza l ' aiuto di Dio? 1 0. Può da se stesso perseverare nel bene?

    Articulus l Utrum homo sine grafia aliquod verum cognoscere possit

    Articolo l L'uomo privo della grazia può conoscere una qualche verità?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod homo sine gratia nullum verum cognoscere possit. l . Quia super illud l Cor. 1 2 [3], nemo potest dicere, Dominus lesus, nisi in Spiritu Sancto, dicit Glossa Ambrosii [glos. Lomb.], omne verum, a quocumque dicatw; a Spiritu Sancto est. Sed Spiritus Sanctus habitat in nobis per gratiam. Ergo veritatem cognoscere non pos­ sumus sine gratia. 2. Praeterea, Augustinus dicit, in l Solil. [6], quod disciplinarum certissima talia sunt qua­ lia illa quae a sole illustrantur ut videri pos­ sint; Deus autem ipse est qui illustrat; ratio autem ita est in mentibus ut in oculis est aspectus; mentis autem oculi sunt sensus ani­ mae. Sed sensus corporis, quantumcumque sit purus, non potest aliquod visibile videre sine solis illustratione. Ergo humana mens, quantumcumque sit perfecta, non potest ratiocinando veritatem cognoscere absque illustratione divina. Quae ad auxilium gratiae pertinet. 3. Praeterea, humana mens non potest verita­ tem intelligere nisi cogitando; ut patet per Augustinum 14 De Trin. [7]. Sed apostolus dicit, 2 ad Cor. 3 [5], non sufficientes sumus aliquid cogitare a nobis, quasi ex nobis. Ergo homo non potest cognoscere veritatem per seipsum sine auxilio gratiae. Sed contra est quod Augustinus dicit, in l Retract. [4], non approbo quod in oratione di'Ci, Deus, qui non nisi mundos verum scire voluisti. Responderi enim potest multos etiam non mundos multa scire vera. Sed per gratiam homo mundus efficitur; secundum illud Psalmi 50 [ 1 2] , cor mundum crea in me, Deus; et spiritum rectum innova in visceribus meis. Ergo sine gratia potest homo per seipsum veritatem cognoscere.

    Sembra di no. Infatti: l . Commentando le parole di l Cor. Nessuno può dire: "Gesù è Signore " se non sotto l'a­ zione dello Spirito Santo, la Glossa di Am­ brogio afferma: «Ogni verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito Santo». Ma lo Spiri­ to Santo abita in noi mediante la grazia. Quin­ di non possiamo conoscere la verità senza la grazia. 2. Agostino dice che «le discipline più certe sono simili agli oggetti resi visibili dalla luce del sole; ma Dio è lui stesso la luce, mentre la ragione è nella mente come lo sguardo negli occhi, e gli occhi della mente sono i sensi del­ l'anima». Ora, i sensi del corpo, per quanto puri, non possono vedere un oggetto visibile senza la luce del sole. Perciò la mente umana, per quanto perfetta, non può col raziocinio conoscere una verità senza l'illuminazione divina. E questa rientra nell'aiuto della grazia. 3. La mente umana non può capire una verità se non pensando, come dimostra Agostino. Ora, Paolo in 2 Cor dice: Da noi stessi non siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi. Quindi l'uomo non può conoscere da se stesso la verità senza l'aiuto della grazia In contrario: Agostino dichiara: «Non appro­ vo quanto scrissi in una preghiera: "O Dio, che hai voluto riservare ai puri la conoscenza della verità". Si potrebbe infatti rispondere che anche molti non puri conoscono molte verità>>. Ma l'uomo diviene puro mediante la grazia, secondo le parole del Sal: Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spi­ rito saldo. Quindi l'uomo privo della grazia può conoscere da solo la verità. Risposta: conoscere la verità consiste nell'usare o esercitare la luce dell'intelletto, poiché secon­ do Paolo tutto quello che si manifesta è luce.

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    La necessità della grazia

    Respondeo dicendum quod cognoscere veri­ tatem est usus quidam, vel actus, intellectualis luminis, quia secundum apostolum, ad Eph. 5 [ 1 3] , omne quod manifestatur, lumen est. Usus autem quilibet quendam motum impor­ tat, large accipiendo motum secundum quod intelligere et velle motus quidam esse dicun­ tur, ut patet per philosophum in 3 De anima [4,9; 7, 1 ] . Videmus autem in corporalibus quod ad motum non solum requiritur ipsa forma quae est principium motus vel actionis; sed etiam requiritur motio primi moventis. Primum autem movens in ordine corporalium est corpus caeleste. Unde quantumcumque ignis habeat perfectum calorem, non alteraret n i s i per motionem caelestis corpor i s . Mani festum est autem quod, sicut omnes motus corporales reducuntur in motum cae­ lestis corporis sicut in primum movens corpo­ rale; ita omnes motus tam corporales quam spirituales reducuntur in primum movens simpliciter, quod est Deus. Et ideo quantum­ cumque natura aliqua corporalis vel spiritua­ l i s ponatur perfecta, non potest i n suum actum procedere nisi moveatur a Deo. Quae quidem motio est secundum suae providen­ tiae rationem; non secundum necessitatem naturae, sicut motio corporis caelestis. Non solum autem a Deo est omnis motio sicut a primo movente; sed etiam ab ipso est omnis formalis perfectio sicut a primo actu. Sic igi­ tur actio intellectus, et cuiuscumque entis creati, dependet a Deo quantum ad duo, uno modo, inquantum ab ipso habet formam per quam agit; alio modo, inquantum ab ipso movetur ad agendum. - Unaquaeque autem forma indita rebus creatis a Deo, habet effica­ ciam respectu alicuius actus determinati, in quem potest secundum suam proprietatem, ultra autem non potest nisi per aliquam for­ mam superadditam, sicut aqua non potest calefacere nisi calefacta ab igne. Sic igitur intellectus humanus habet aliquam formam, scilicet ipsum intelligibile lumen, quod est de se sufficiens ad quaedam intelligibilia cagno­ scenda, ad ea scilicet in quorum notitiam per sensibilia possumus devenire. Altiora vero intelligibilia intellectus humanus cognoscere non potest nisi fortiori lumine perficiatur, sicut lumine fidei vel prophetiae; quod dicitur lumen gratiae, inquantum est naturae super­ additum. - Sic igitur dicendum est quod ad

    Q. 1 09, A. l

    Ora, qualsiasi uso implica un moto, se pren­ diamo il termine moto in senso lato, cioè nel senso in cui, secondo le spiegazioni del Filosofo, si dice che anche l ' intendere e il volere sono un certo moto. Ma negli esseri materiali noi vediamo che per i l moto s i richiede non soltanto l a forma che è il princi­ pio del moto e dell'operazione, bensì anche la mozione del primo motore. Ora, il primo motore per gli esseri materiali è il corpo cele­ ste. Per cui lo stesso calore del fuoco, per quanto sia perfetto, non potrebbe alterare senza la mozione del corpo celeste. Ora, è evidente che come tutti i moti di ordine fisico hanno nel moto del corpo celeste il primo motore di ordine materiale, così tutti i moti, sia corporali che spirituali, hanno un primo motore assoluto, che è Dio. Perciò una qual­ siasi natura, sia materiale che spirituale, per quanto perfetta possa essere, non può com­ piere il proprio atto senza la mozione di Dio. Mozione che però segue l' ordine della sua provvidenza, e non una necessità di natura, come la mozione dei corpi celesti. Ora, da Dio deriva non solo ogni mozione come dal primo motore, ma anche ogni perfezione for­ male come dall'atto primo. Così dunque l'at­ to dell ' intelletto e di qualsiasi ente creato dipende da Dio sotto due aspetti : primo, in quanto da lui riceve la forma in forza della quale agisce; secondo, in quanto da lui è mos­ so ad agire. - Ora, qualsiasi forma posta da Dio nelle realtà create ha efficacia rispetto a certi atti determinati che corrispondono alle sue proprietà, ma oltre a quelli non può arri­ vare senza una nuova forma supplementare: come l ' acqua non può riscaldare se non è riscaldata dal fuoco. Perciò anche l ' intelletto umano ha una forma, cioè la luce intellettua­ le, che è di per sé sufficiente a conoscere alcu­ ni intelligibili, vale a dire quelle realtà di cui possiamo formarci un'idea mediante le realtà sensibili; tuttavia esso non può conoscere le realtà intelligibili superiori senza essere perfe­ zionato da una luce più forte, come potrebbe essere la luce della fede, o il lume profetico. E questa viene detta luce della grazia, giacché viene ad aggiungersi a quella della natura. Perciò si deve concludere che l' uomo, per conoscere qualsiasi verità, ha bisogno del­ l' aiuto di Dio perché il suo intelletto si muova ad agire. Non ha però bisogno di una nuova

    Q. 1 09, A. l

    La necessità della grazia

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    cognitionem cuiuscumque veri, homo indiget auxilio divino ut intellectus a Deo moveatur ad suum actum. Non autem indiget ad cogno­ scendam veritatem in omnibus, nova illustra­ tione superaddita naturali illustrationi; sed in quibusdam, quae excedunt naturalem cogni­ tionem. Et tamen quandoque Deus miraculo­ se per suam gratiam aliquos instruit de his quae per naturalem rationem cognosci pos­ sunt, sicut et quandoque miraculose facit quaedam quae natura facere potest. Ad primum ergo dicendum quod omne ve­ rum, a quocumque dicatur, est a Spiritu Sancto sicut ab infundente naturale Iumen, et moven­ te ad intelligendum et loquendum veritatem. Non autem sicut ab inhabitante per gratiam gratum facientem, vel sicut a largiente aliquod habituale donum naturae superadditum, sed hoc solum est in quibusdam veris cognoscen­ dis et Ioquendis; et maxime in illis quae perti­ nent ad fidem, de quibus apostolus loquebatur. Ad secundum dicendum quod sol corporalis illustrat exterius; sed sol intelligibilis, qui est Deus, illustrat interius. Unde ipsum lumen naturale animae inditum est illustratio Dei, qua illustramur ab ipso ad cognoscendum ea quae pertinent ad naturalem cognitionem. Et ad hoc non requiritur alia illustratio, sed solum ad illa quae naturalem cognitionem excedunt. Ad tertium dicendum quod semper indige­ mus divino auxilio ad cogitandum quodcum­ que, inquantum ipse movet intellectum ad agendum, actu enim intelligere aliquid est cogitare, ut patet per Augustinum, 14 De Trin. [7].

    illuminazione aggiunta a quella naturale in tutti i casi, ma solo quando si tratta di oggetti che sorpassano la conoscenza naturale. Tutta­ via talora Dio istruisce miracolosamente qual­ cuno con la sua grazia anche su cose che potrebbero essere conosciute con la ragione naturale: come anche compie talvolta miraco­ losamente dei fenomeni che la natura stessa può compiere. Soluzione delle difficoltà: l . Qualsiasi verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito Santo che infonde la luce naturale [dell'intelligenza], e muove a intendere e a esprimere la verità. Non deriva però da lui in quanto inabitante mediante la grazia abituale, o in quanto elar­ gente qualche dono abituale aggiunto alla natu­ ra: ciò avviene infatti solo quando si conosco­ no ed esprimono certe verità, e specialmente le verità della fede, a cui Paolo si riferisce. 2. Il sole materiale illumina esternamente, mentre il sole spirituale, che è Dio, illumina internamente. Perciò anche la luce naturale posta da Dio nell ' anima è una luce divina mediante la quale Dio ci illumina perché pos­ siamo conoscere gli oggetti che rientrano nella conoscenza naturale. E per questo non si richiede una nuova illuminazione, ma solo per ciò che sorpassa la conoscenza naturale. 3. Per conoscere abbiamo sempre bisogno dell' aiuto di Dio in quanto movente l'intellet­ to ad agire: infatti intendere qualcosa in atto equivale a pensare, come spiega Agostino.

    Articulus 2 Utrum homo possit velle et facere bonum absque gratia

    Articolo 2 Vuomo può volere e compiere il bene senza la grazia?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod ho­ mo possit velie et facere bonum absque gratia. l . Illud enim est in hominis potestate cuius ipse est dominus. Sed homo est dominus suo­ rum actuwn, et maxime eius quod est velie, ut supra [q. l a. l ; q. 13 a. 6] dictum est. Ergo homo potest velle et facere bonum per se­ ipsum absque auxilio gratiae. 2. Praeterea, unumquodque magis potest in id quod est sibi secundum naturam, quam in id quod est sibi praeter naturam. Sed peccatum est contra naturam, ut Damascenus dicit, in 2

    Sembra di sì. Infatti: l . È in potere dell'uomo quanto ricade sotto il suo dominio. Ma l 'uomo ha il dominio dei propri atti, e specialmente del volere, come si è spiegato in precedenza. Quindi l'uomo può volere e compiere il bene da se stesso, senza I ' aiuto della grazia. 2. Qualsiasi essere ha più capacità per le cose che sono secondo la sua natura che per quelle a lui innaturali. Ora, come dimostra il Dama­ sceno, il peccato è contro natura, mentre gli atti virtuosi per l'uomo sono secondo natura,

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    La necessità della grazia

    libro [De fide 4.30; 4,20], opus autem virtutis est homini secundum naturam, ut supra [q. 7 1 a . l ] dictum est. Cum igitur homo per se­ ipsum possit peccare, videtur quod multo ma­ gis per seipsum possit bonum velle et facere. 3. Praeterea, bonum intellectus est verum, ut philosophus dicit, in 6 Ethic. [2,3]. Sed intel­ lectus potest cognoscere verum per seipsum, sicut et quaelibet alia res potest suam natura­ lem operationem per se facere. Ergo multo magis homo potest per seipsum facere et vel­ le bonum. Sed contra est quod apostolus dicit, Rom. 9 [ 1 6], non est volentis, scilicet velle, neque cun·entis, scilicet currere, sed miserentis Dei. Et Augustinus dicit, in libro De corr. et gratia [2], quod sine gratia nullum prorsus, sive

    cogitando, sive volendo et amando, sive agendo, faciunt homines bonum. Respondeo dicendum quod natura hominis dupliciter potest considerari, uno modo, in sui integritate, sicut fuit in primo parente ante peccatum; alio modo, secundum quod est corrupta in nobis post peccatum primi paren­ tis. Secundum autem utrumque statum, natura humana indiget auxilio divino ad faciendum vel volendum quodcumque bonum, sicut primo movente, ut dictum est [a. l ]. Sed in statu naturae integrae, quantum ad su:fficien­ tiam operativae virtutis, poterat homo per sua naturalia velle et operari bonum suae naturae proportionatum, quale est bonum virtutis acquisitae, non autem bonum superexcedens, quale est bonum virtutis infusae. Sed in statu naturae corruptae etiam deficit homo ab hoc quod secundum suam naturam potest, ut non possit totum huiusmodi bonum implere per sua naturalia. Quia tamen natura humana per peccatum non est totaliter corrupta, ut scilicet toto bono naturae privetur; potest quidem etiam in statu naturae corruptae, per virtutem suae naturae aliquod bonum particulare agere, sicut aedificare domos, piantare vineas, et alia huiusmod i ; non tamen totum bonum sibi connaturale, ita quod in nullo deficiat. Sicut homo infirmus potest per seipsum aliquem motum habere; non tamen perfecte potest moveri motu hominis sani, nisi sanetur auxilio medicinae. - Sic igitur vittute gratuita super­ addita virtuti naturae indiget homo in statu naturae integrae quantum ad unum, scilicet ad operandum et volendum bonum supematura-

    Q. 1 09, A. 2

    stando alle conclusioni precedenti . Potendo quindi l ' uomo peccare da se stesso, a più forte ragione sarà in grado di volere e di com­ piere il bene da se stesso. 3. Come nota il Filosofo, il bene dell'intelletto è la verità. Ma l'intelletto può conoscere la ve­ rità da se stesso, poiché qualsiasi cosa può compiere da se stessa la propria funzione na­ turale. Quindi a più forte ragione l' uomo sarà in grado di fare e di volere il bene da se stesso. In contrario: in Rm Paolo dice: Non è di chi vuole il volere, né di chi corre il correre, ma di Dio che usa misericordia. E Agostino inse­ gna che «senza la grazia gli uomini non fanno assolutamente alcun bene nel pensare, nel volere, nell'amare e nell'agire». Risposta: la natura umana può essere conside­ rata da due punti di vista: primo, nella sua integrità, cioè come era nei progenitori prima del peccato; secondo, in quanto risulta corrot­ ta in noi dopo il primo peccato. Ora, in tutti e due gli stati suddetti la natura umana ha biso­ gno, per compiere e volere qualsiasi bene, dell' aiuto offerto da Dio come primo motore, secondo le spiegazioni già date. Ma nello stato di natura integra l' uomo era in grado, per l'efficacia delle sue facoltà operative, di volere e di compiere con le sue forze naturali il bene proporzionato alla sua natura, cioè il bene delle virtù acquisite; non però un bene superiore, qual è quello delle virtù infuse. Invece nello stato di natura corrotta l'uomo è impari anche a quanto potrebbe compiere secondo la sua natura, per cui non è in grado di realizzare tutto questo bene con le sue forze naturali. Non essendo tuttavia la natura umana corrotta del tutto a causa del peccato, in modo cioè da essere privata di ogni bene naturale, l'uomo anche in tale condizione può compiere determinati beni particolari, come costruire case, piantare vigne e altre cose del genere; non può invece compiere tutto il bene a lui connaturale senza venir meno in qualco­ sa. Come un malato può da se stesso compie­ re alcuni movimenti, ma non è in grado di compiere perfettamente i moti di un uomo sano se non viene risanato con l' aiuto della medicina. - Perciò nello stato di natura inte­ gra l'uomo ha bisogno di un soccorso gratuito aggiunto alla sua virtù naturale per un solo motivo, cioè per compiere e per volere il bene soprannaturale. Invece nello stato di natura

    Q. 1 09, A. 2

    La necessità della grazia

    l i SO

    le. Sed in statu naturae corruptae, quantum ad duo, scilicet ut sanetur; et ulterius ut bonum supernaturalis virtutis operetur, quod est meri­ torium. Ulterius autem in utroque statu indi­ get homo auxilio divino ut ab ipso moveatur ad bene agendum. Ad primum ergo dicendum quod homo est dominus suorum actuum, et volendi et non volendi, propter deliberationem rationis, quae potest flecti ad unam partem vel ad aliam. Sed quod deliberet vel non deliberet, si huius etiam sit dominus, oportet quod hoc sit per deliberationem praecedentem. Et cum hoc non procedat in infinitum, oportet quod finali­ ter deveniatur ad hoc quod libemm arbitrium hominis moveatur ab aliquo exteriori princi­ pio quod est supra mentem humanam, scilicet a Deo; ut etiam philosophus probat in cap. De bona fortuna. Unde mens hominis etiam sani non ita habet dominium sui actus quin indi­ geat moveri a Deo. Et multo magis libemm arbitrium hominis infirmi post peccatum, quod impeditur a bono per corruptionem naturae. Ad secundum dicendum quod peccare nihil aliud est quam deficere a bono quod convenit alicui secundum suam naturam. Unaquaeque autem res creata, sicut esse non habet nisi ab alio, et in se considerata est nihil, ita indiget conservari in bono suae naturae convenienti ab alio. Potest autem per seipsam deficere a bono, sicut et per seipsam potest deficere i n non esse, nisi divinitus conservaretur. Ad tertium dicendum quod etiam vemm non potest homo cognoscere sine auxilio divino, sicut supra dictum est [a. l ]. Et tamen magis est natura humana corrupta per peccatum quantum ad appetitum boni, quam quantum ad cognitionem veri.

    corrotta ne ha bisogno per due motivi: per essere guarito e inoltre per compiere il bene di ordine soprannaturale, che è meritorio. Inoltre in tutti e due gli stati l'uomo ha biso­ gno dell'aiuto di Dio che dà la mozione per compiere il bene. Soluzione delle difficoltà: l . L'uomo ha il do­ minio dei suoi atti, cioè ha la facoltà di volerli e di non volerli, per la deliberazione della ragione, che può volgersi in un senso o nel­ l ' altro. Ma il deliberare o il non deliberare, pur ricadendo sotto tale dominio, dipende da una deliberazione precedente. Non essendo però possibile procedere in tal modo all'infi­ nito, bisogna giungere ad ammettere che il libero arbitrio del l ' uomo sia mosso da un principio esterno, superiore alla mente uma­ na, cioè da Dio; come fa anche Aristotele. Perciò la mente dell'uomo, anche se integra, non ha sul proprio atto un dominio tale da non aver bisogno della mozione divina. E a maggior ragione ne ha bisogno il libero arbi­ trio dell'uomo decaduto dopo il peccato, es­ sendo ostacolato nel bene a motivo della cor­ ruzione della natura. 2. Peccare non è altro che venire meno nel bene che a uno si addice secondo la sua natu­ ra. Ora ogni cosa creata, come ha l'essere ri­ cevuto da un altro, e in sé considerata è nulla, così ha bisogno di essere conservata da un al­ tro nel bene che si addice alla sua natura. Può invece da se stessa venire meno nel bene, come anche da se stessa può ricadere nel non essere, se Dio non la conserva. 3. L'uomo ha bisogno dell' aiuto di Dio anche per conoscere la verità, come si è detto. Tuttavia la natura umana è stata corrotta dal peccato più nell' appetito del bene che nella conoscenza del vero.

    Articulus 3 Utrum homo possit diligere Deum super omnia ex solis naturalibus sine gratia

    Articolo 3 L'uomo può amare Dio sopra tutte le cose con i soli mezzi naturali senza la grazia?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod homo non possit diligere Deum super omnia ex solis naturalibus sine gratia. l . Diligere enim Deum super omnia est pro­ prius et principalis caritatis actus. Sed carita­ tem homo non potest habere per seipsum, quia caritas Dei diffùsa est in cordibus nostris

    Sembra di no. Infatti: l. Amare Dio sopra tutte le cose è l'atto pro­ prio e principale della carità. Ora, l'uomo non può possedere la catità da se stesso poiché

    l 'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5). Quindi l' uomo non può

    1 15 1

    La necessità della grazia

    per Spiritum Sanctum, qui datus est nobis, ut dicitur Rom. 5 [5]. Ergo homo ex solis natura­ libus non potest Deum diligere super omnia. 2. Praeterea, nulla natura potest supra se­ ipsam. Sed diligere aliquid plus quam se, est tendere in aliquid supra seipsum. Ergo nulla natura creata potest Deum diligere supra se­ ipsam sine auxilio gratiae. 3. Praeterea, Deo, cum sit summum bonum, debetur summus amor, qui est ut super omnia diligatur. Sed ad summum amorem Deo impendendum, qui ei a nobis debetur, homo non sufficit sine gratia, alioquin frustra gratia adderetur. Ergo homo non potest sine gratia ex solis naturalibus diligere Deum super omnia. Sed contra, primus homo in solis naturalibus constitutus fuit, ut a quibusdam ponitur. In quo statu manifestum est quod aliqualiter Deum dilexit. Sed non dilexit Deum aequali­ ter sibi, vel minus se, quia secundum hoc pec­ casset. Ergo dilexit Deum supra se. Ergo homo ex solis naturalibus potest Deum dilige­ re plus quam se, et super omnia. Respondeo dicendum quod, sicut supra dic­ tum est in primo [q. 60 a. 5], in quo etiam circa naturalem dilectionem angelorurn diver­ sae opiniones sunt positae; homo in statu naturae integrae poterat operari virtute suae naturae bonum quod est sibi connaturale, absque superadditione gratuiti doni, licet non absque auxilio Dei moventis. Diligere autem Deum super omnia est quiddam connaturale homini; et etiam cuilibet creaturae non solum rationali, sed irrationali et etiam inanimatae, secundum modwn amoris qui unicuique crea­ turae competere potest. Cuius ratio est quia unicuique naturale est quod appetat et amet aliquid, secundum quod aptum natum est esse, sic enim agit unumquodque, prout aptum natum est, ut dicitur in 2 Phys. [8,4]. Manifestum est autem quod bonum partis est propter bonum totius. Unde etiam naturali appetitu vel amore unaquaeque res particu­ laris amat bonum suum proprium propter bonum commune totius universi, quod est Deus. Unde et Dionysius dicit, in libro De div. nom. [4, 1 0], quod Deus convertit omnia ad amorem sui ipsius. Unde homo in statu naturae integrae dilectionem sui ipsius refere­ bat ad amorem Dei sicut ad fmem, et similiter dilectionem omnium aliarum rerum. Et ita

    Q. 1 09, A. 3

    amare Dio sopra tutte le cose con i soli mezzi naturali. 2. Nessuna natura può superare se stessa. Ma amare qualcosa più di se stessi significa ten­ dere a qualcosa che è al disopra di noi stessi. Quindi nessuna natura creata può amare Dio più di se stessa senza l'aiuto della grazia. 3. Essendo Dio il sommo bene, si deve a lui un amore sommo, che consiste nell'amarlo sopra tutte le cose. Ma per rendere a Dio un simile amore l'uomo è impari senza la grazia: altrimenti la grazia sarebbe poi data inutil­ mente. Perciò l'uomo non può amare Dio sopra tutte le cose con i soli mezzi naturali, senza la grazia. In contrario: alcuni ritengono che l'uomo sia stato creato nelle sue sole facoltà naturali. Ora, è evidente che in tale stato egli amava Dio in qualche modo. Ma non poteva amare Dio come se stesso, perché allora avrebbe peccato. Quindi amava Dio al disopra di sé. Quindi l' uomo con i soli mezzi naturali può amare Dio più di se stesso, e più di ogni altra cosa. Risposta: come si è detto nella Prima Pm1e, quando abbiamo esposto le diverse opinioni a proposito dell'amore naturale degli angeli, l'uomo nel suo stato di natura integra avrebbe potuto compiere il bene a lui connaturale con le forze della sua natura, senza l'aiuto di un dono di grazia, sebbene non senza l' aiuto della mozione divina. Ora, amare Dio sopra tutte le cose è connaturale all'uomo, come anche a qualsiasi creatura non solo razionale, ma persino irrazionale e inanimata, secondo le espressioni dell'amore di cui ciascuna crea­ tura è capace. E la ragione sta nel fatto che per ogni cosa è naturale amare nella misura in cui è partecipe dell'essere: come infatti dice Aristotele, «ogni cosa agisce secondo la sua disposizione naturale». Ora, è evidente che il bene della parte è per il bene del tutto. Quindi per amore o appetito naturale ciascuna cosa particolare ama il proprio bene mirando al bene comune di tutto l'universo, che è Dio. Infatti Dionigi insegna che «Dio volge tutte le cose al suo amore». Perciò nello stato di natu­ ra integra l' uomo indirizzava l'amore di sé all'amore di Dio; e così pure l'amore di ogni altra cosa. Per cui egli amava Dio più di se stesso, e più di ogni cosa. Nello stato di natu­ ra decaduta invece l'uomo è imprui a ciò per quanto riguarda l'appetito della sua volontà

    Q. 1 09, A. 3

    La necessità della grazia

    1 1 52

    Deum diligebat plus quam seipsum, et super omnia. Sed in statu naturae corruptae homo ab hoc deficit secundum appetitum voluntatis rationalis, quae propter corruptionem naturae sequitur bonum privatum, nisi sanetur per gra­ tiam Dei. Et ideo dicendum est quod homo in statu natw11e integrae non indigebat dono gra­ tiae superadditae naturalibus bonis ad diligen­ dum Deum naturaliter super omnia; licet indi­ geret auxilio Dei ad hoc eum moventis. Sed in statu naturae corruptae indiget homo etiam ad hoc auxilio gratiae naturam sanantis. Ad primum ergo dicendum quod caritas dili­ git Deum super omnia eminentius quam natu­ ra. Natura enim diligit Deum super omnia, prout est principium et finis naturalis boni, caritas autem secundum quod est obiectum beatitudinis, et secundum quod homo habet quandam societatem spiritualem cum Deo. Addit etiam caritas super dilectionem natura­ lem Dei promptitudinem quandam et delecta­ tionem, sicut et quilibet habitus virtutis addit supra actum bonum qui fit ex sola naturali ratione hominis virtutis habitum non habentis. Ad secundum dicendum quod, cum dicitur quod nulla natura potest supra seipsam, non est intelligendum quod non possit ferri in ali­ quod obiectum quod est supra se, manifestum est enim quod intellectus noster naturali cognitione potest aliqua cognoscere quae sunt supra seipsum, ut patet in natumli cognitione Dei. Sed intelligendum est quod natura non potest in actum excedentem proportionem suae virtutis. Talis autem actus non est dilige­ re Deum super ornnia, hoc enim est naturale cuilibet naturae creatae, ut dictum est [co.]. Ad tertium dicendum quod amor dicitur sum­ mus non solum quantum ad gradum dilectio­ nis, sed etiam quantum ad rationem diligendi, et dilectionis modum. Et secundum hoc, supre­ mus gradus dilectionis est quo caritas diligit Deum ut beatificantem, sicut dictum est [ad l ]

    razionale, che a motivo della corruzione della natura persegue il bene privato, se non è risa­ nata dalla grazia di Dio. Perciò dobbiamo affermare che l ' uomo nello stato di natura integra non aveva bisogno di un dono di gra­ zia aggiunto ai doni di natura per amare natu­ ralmente Dio sopra tutte le cose, sebbene avesse sempre bisogno della mozione di Dio. Nello stato di natura decaduta invece l'uomo ha bisogno dell' aiuto della grazia anche per il risanamento della sua natura. Soluzione delle difficoltà: l . La carità ama Dio sopra tutte le cose in una maniera supe­ riore alla natura. Infatti la natura ama Dio sopm tutte le cose in quanto principio e fine dei beni naturali ; la carità invece lo ama in quanto oggetto della beatitudine, e in quanto l'uomo forma con Dio una cetta società spiri­ tuale. Inoltre la carità aggiunge all' amore naturale di Dio prontezza e piacere, come fa qualsiasi abito virtuoso rispetto all'atto buono compiuto con la sola ragione naturale da parte di un uomo privo dell' abito della virtù. 2. L' affermazione che nessuna natura può superare se stessa non va intesa nel senso che non possa avere per oggetto una realtà ad essa superiore: è chiaro infatti che il nostro intel­ letto può conoscere neli' ordine natur.ùe realtà che gli sono supetiori, come è evidente nella conoscenza naturale di Dio. L'affermazione va intesa invece nel senso che la natura non può compiere un atto che sorpassi i limiti del­ le sue capacità. Ora, amare Dio sopra tutte le cose non è un atto di questo genere, essendo ciò naturale a ogni natura creata, come si è spiegato. 3 . Un amore è sommo non soltanto per i l grado d i intensità, m a anche per i l motivo che lo ispira, e per il modo in cui viene attuato. E così il grado supremo dell'amore è quello in cui la carità ama Dio come oggetto della bea­ titudine, secondo le spiegazioni date.

    Articulus 4 Utrum homo sine gratia per sua naturalia Iegis praecepta implere possit

    Articolo 4 L'uomo senza la grazia può adempiere i precetti della legge con i suoi mezzi naturali?

    .

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod homo sine gratia per sua naturalia possit prae­ cepta legis implere. l . Dicit enim apostolus, ad Rom. 2 [ 1 4], quod

    Sembra di sì. Infatti: l . Paolo in Rm afferma che

    i pagani che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge. Ma quanto l'uomo fa naturalmente

    1 1 53

    La necessità della grazia

    gentes, quae legem non habent, natura/iter ea quae legis sunt faciunt. Sed illud quod natu­ raliter homo facit, potest per seipsum facere absque gratia. Ergo homo potest legis prae­ cepta facere absque gratia. 2. Praeterea, Hieronymus dicit, in Expositione cathol icae fide i [cf. Pelagium, ep . l Ad Demetriadem 1 6], illos esse maledicendos qui Deum praecepisse homini aliquid impossibile dicunt. Sed impossibile est homini quod per seipsum implere non potest. Ergo homo potest implere omnia praecepta legis per seipsum. 3. Praeterea, inter omnia praecepta legis maxi­ mum est illud, diliges Dominwn Deum tuum ex foto corde tuo; ut patet Matth. 22 [37 sqq.]. Sed hoc mandatum potest homo implere ex solis naturalibus, diligendo Deum super omnia, ut supra [a. 3] dictum est. Ergo omnia mandata legis potest homo implere sine gratia. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De haeresibus [88], hoc pertinere ad haeresim Pelagianorum, ut credant sine gratia posse hominemfacere omnia divina mandata. Respondeo dicendum quod implere mandata legis contingit dupliciter. - Uno modo, quan­ tum ad substantiam operum, prout scilicet homo operatur iusta et fortia, et alia virtutis opera. Et hoc modo homo in statu naturae integrae potuit omnia mandata legis implere, alioquin non potuisset in statu illo non pecca­ re, cum nihil aliud sit peccare quam transgre­ di divina mandata. Sed in statu naturae cor­ ruptae non potest homo implere omnia man­ data divina sine gratia sanante. - Alio modo possunt impleri mandata legis non solum quantum ad substantiam operis, sed etiam quantum ad modum agendi, ut scilicet ex caritate fiant. Et sic neque in statu naturae integrae, neque in statu naturae corruptae, potest homo implere absque gratia legis man­ data. Unde Augustinus, in libro De corr. [2], cum dixisset quod sine gratia nullum prorsus bonum homines faciunt, subdit, non solum ut, monstrante ipsa quid faciendum sit, sciant; verum etiam ut, praestante ipsa, faciant cum dilectione quod sciunt. Indigent insuper in utroque statu auxilio Dei moventis ad manda­ ta implenda, ut dictum est [aa. 2-3]. Ad primum ergo dicendum quod, sicut Augustinus dicit, in libro De spir. et litt. [27], non moveat quod natura/iter eos dixit quae /egis sunt facere, hoc enim agit Spiritus gra-

    Q. 1 09, A. 4

    può farlo da se stesso, senza la grazia. Quindi l'uomo può adempiere i precetti della legge senza la grazia. 2. Girolamo scrive che «sono da maledirsi coloro i quali affermano che Dio ha coman­ dato all'uomo cose impossibili». Ora, impos­ sibile è ciò che uno non può compiere da se stesso. Quindi l 'uomo può compiere tutti i precetti della legge da se stesso. 3. Fra tutti i precetti della legge il massimo è questo: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, come è evidente in Mt. Ma l'uomo può adempiere questo precetto con le sue sole for­ ze naturali, amando Dio sopra tutte le cose, come si è visto. Perciò l'uomo può osservare tutti i precetti della legge senza la grazia. In contrario: Agostino insegna che è proprio deli' eresia pelagiana «credere che l ' uomo possa adempiere tutti i divini precetti senza la grazia». Risposta: in due modi si possono adempiere i precetti della legge. - Primo, quanto alla so­ stanza delle opere: cioè in quanto uno compie azioni giuste e forti, e altre azioni virtuose. E in questo modo l' uomo poteva adempiere tutti i precetti della legge nello stato di natura integra: alttimenti in tale stato non avrebbe potuto non peccare, non essendo il peccato altt·o che la trasgressione dei divini precetti. Invece nello stato di natura con·otta l'uomo non può adempiere tutti i divini precetti senza la grazia sanante. - Secondo, i precetti della legge possono essere adempiuti non solo quanto alla sostanza delle opere, ma anche quanto al modo di compierle, cioè mossi dalla carità. E in questo senso l'uomo senza la gra­ zia non è in grado di adempiere i precetti della legge né nello stato di natura integra, né in quello di natura corrotta. Per cui Agostino, dopo aver affetmato che «senza la grazia gli uomini non compiono assolutamente alcun bene», aggiunge che «hanno bisogno della grazia non solo per conoscere con la sua luce quanto devono compiere, ma anche per adempiere con amore mediante il suo aiuto quanto sanno di dover fare». Inoltre nell'uno e nell'altro stato gli uomini hanno bisogno della mozione di Dio per adempiere i precetti, come si è già ricordato. Soluzione delle difficoltà: l . Come spiega Agostino, «non deve impressionare l'afferma­ zione che essi fanno per natura le cose della

    Q. 1 09, A. 4

    La necessità della grazia

    tiae, ut imaginem Dei, in qua natura/iterfacti sumus, instauret in nobis. Ad secundum dicendum quod illud quod pos­ sumus cum auxilio divino, non est nobis omnino impossibile; secundum illud philo­ sophi, in 3 Ethic. [3, 1 3] , quae per amicos

    possumus, aliqualiter per nos possumus.

    Unde et Hieronymus [cf. Pelagium, Libellum fidei ad Innocentium] ibidem confitetur sic

    nostrum liberum esse arbitrium, ut dicamus nos semper indigere Dei auxilio.

    Ad tettium dicendum quod praeceptum de dilectione Dei non potest homo implere ex puris naturalibus secundum quod ex caritate impletur, ut ex supradictis [a. 3] patet.

    Articulus 5 Utrum homo possit mereri vitam aeternam sine gratia Ad quintum sic proceditur. Videtur quod ho­ mo possit mereri vitam aeternam sine gratia. l . Dicit enim Dominus, Matth. 19 [ 1 7], si vis ad vitam ingredi, serva mandata, ex quo vide­ tur quod ingredi in vitam aeternam sit consti­ tutum in hominis voluntate. Sed id quod in nostra voluntate constitutum est, per nos ipsos possurnus. Ergo videtur quod homo per se­ ipsum possit vitam aeternam mereri. 2. Praeterea, vita aeterna est praemium vel merces quae homin ibus redditur a Deo; secundum illud Matth. 5 [ 1 2], merces vestra multa est in caelis. Sed merces vel praemium redditur a Deo homini secundum opera eius; secundum illud Psalmi 61 [ 1 3], tu reddes uni­ cuique secundum opera eius. Cum igitur ho­ mo sit dominus suorum operum, videtur quod in eius potestate constitutum sit ad vitam aetemam pervenire. 3 . Praeterea, vita aeterna est ultimus finis humanae vitae. Sed quaelibet res naturalis per sua naturalia potest consequi finem suum. Ergo multo magis homo, qui est altioris natu­ rae, per sua naturalia potest pervenire ad vitam aeternam absque aliqua gratia. Sed contra est quod apostolus dicit, ad Rom. 6 [23], grafia Dei vita aeterna. Quod i deo dicitur, sicut Glossa [glos. ord. et Lomb.] ibi­ dem dicit, ut intelligeremus Deum ad aeter­

    nam vitam pro sua miseratione nos perducere.

    1 1 54

    legge: poiché si tratta di un'opera compiuta dallo Spirito di grazia per instaurare in noi l'immagine di Dio, nella quale per natura sia­ mo stati creati». 2. Ciò che possiamo con l'aiuto di Dio non è per noi impossibile in modo assoluto: poiché, come dice il Filosofo, «quanto possiamo con l'aiuto degli amici, in qualche modo lo pos­ siamo da noi stessi». Infatti Girolamo nel me­ desimo passo confessa che «il nostro libero arbitrio è tale da dover sempre riconoscere la nostra indigenza dell'aiuto di Dio». 3. L'uomo non può adempiere il precetto del­ l ' amore di Dio con le sole forze naturali secondo che esso viene adempiuto con la carità, stando alle spiegazioni date. Articolo 5 L'uomo può meritare la vita eterna senza la grazia? Sembra di sì. Infatti: l . In Mt il Signore dice:

    Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti; dal che si rileva

    chiaramente che entrare nella vita eterna dipende dalla volontà umana. Ora, ciò che dipende dalla nostra volontà lo possiamo otte­ nere da noi stessi. Quindi l'uomo da se stesso può meritare la vita eterna. 2. La vita eterna è un premio o ricompensa che Dio assegna agli uomini, secondo le paro­ le di Mt: Grande è la vostra ricompensa nei cieli. Ma la ricompensa, o premio, viene asse­ gnata all'uomo secondo le sue opere, come è detto nel Sal: Secondo le sue opere tu ripaghi ogni uomo. Ora, avendo l'uomo il dominio dei propri atti, è chiaro che è in suo potere il raggiungere la vita eterna. 3 . La vita eterna è il fine ultimo della vita umana. Ma qualsiasi essere esistente in natura è i n grado di raggiungere i l proprio fine mediante le sue facoltà naturali. A maggior ragione quindi l ' uomo, che è di una natura più nobile, sarà in grado di raggiungere con tali facoltà la vita eterna senza alcuna grazia. In contrario: in Rm Paolo dice: La vita etema è grazia di Dio. E dice questo, come spiega la Glossa, «per farci intendere che Dio ci condu­ ce alla vita eterna per la sua misericordia». Risposta: Gli atti che ci devono condurre a un fine devono essere proporzionati a tale fine. Ora, nessun atto sorpassa la misura del princi-

    1 1 55

    La necessità della grazia

    Respondeo dicendum quod actus perducentes ad finem oportet esse fini proportionatos. Nullus autem actus excedit proportionem principii activi. Et ideo videmus in rebus natu­ ralibus quod nulla res potest perficere effec­ tum per suam operationem qui excedat vir­ tutem activam, sed solum potest producere per operationem suam effectum suae virtuti proportionatum. Vita autem aetema est finis excedens proportionem naturae humanae, ut ex supradictis [q. 5 a. 5] patet. Et ideo homo per sua naturalia non potest producere opera meritoria proportionata vitae aeternae, sed ad hoc exigitur altior virtus, quae est virtus gratiae. Et ideo sine gratia homo non potest mereri vitam aeternam. Potest tamen facere opera perducentia ad aliquod bonum homini conna­ turale, sicut laborare in agro, bibere, mandu­ care, et habere amicum, et alia huiusmodi; ut Augustinus dicit, in tertia responsione contra Pelagianos [Hyp. 3,4]. Ad primum ergo dicendum quod homo sua voluntate facit opera meritoria vitae aeternae, sed, sicut Augustinus in eodem libro [Hyp. 3,4] dicit, ad hoc exigitur quod voluntas hominis praeparetur a Deo per gratiam. Ad secundum dicendum quod, sicut Glossa [glos. Lomb.] dicit Rom. 6 [23], super illud,

    gratia Dei vita aeterna, certum est vitam aeternam bonis operibus reddi, sed ipsa opera quibus redditw; ad Dei gratiam perti­ nent, cum etiam supra [a. 4] dictum sit quod ad implendum mandata legis secundum debi­ tum modum, per quem eorum impletio est meritoria, requiritur gratia. Ad tertium dicendum quod obiectio illa pro­ cedit de fine homini connaturali . Natura autem humana, ex hoc ipso quod nobilior est, potest ad altiorem ftnem perduci, saltem auxi­ lio gratiae, ad quem inferiores naturae nullo modo pertingere possunt. Sicut homo est melius dispositus ad sanitatem qui aliquibus auxiliis medicinae potest sanitatem consequi, quam ille qui nullo modo; ut philosophus introducit in 2 De caelo [ 1 2,5]. Articulus 6 Utrum homo possit seipsum ad gratiam praeparare per seipsum, absque exteriori auxilio gratiae Ad sextum sic proceditur. Videtur quod homo

    Q. 1 09, A. 5

    pio attivo che lo produce. Vediamo infatti che nella natura una cosa non può mai realizzare un effetto superiore alla propria virtù attiva, ma con la sua operazione può produrre sol­ tanto un effetto proporzionato alla propria capacità. Ora, la vita eterna è un fine che sor­ passa la misura della natura umana, come si è dimostrato. Quindi l 'uomo con le sue facoltà naturali non può compiere opere meritorie proporzionate alla vita eterna, ma si esige per questo una virtù superiore, qual è quella della grazia. Perciò l'uomo non può meritare la vita eterna senza la grazia. Thttavia può compiere senza la grazia qualche bene di ordine natura­ le: p. es., come nota Agostino rispondendo ai Pelagiani, «lavorare i campi, bere, mangiare e contran·e amicizie». Soluzione delle difficoltà: l . L'uomo compie di propria volontà le opere della vita eterna; però, come nota Agostino nello stesso luogo, per questo si richiede che la volontà umana sia trasformata da Dio mediante la grazia. 2. Commentando le parole di Rm: La vit� eterna è grazia di Dio, la Glossa afferma: «E certo che la vita eterna è data per le opere buone; ma le stesse opere buone così rimune­ rate sono dovute alla grazia di Dio». Poiché, come si è già spiegato, per osservare i precetti della legge nel debito modo, cioè in maniera meritoria, si richiede la grazia. 3. L'obiezione vale per un fine proporzionato alla natura umana. Ma questa natura, per il fatto che è più nobile, può raggiungere, sia pure con l ' aiuto della grazia, un fine più alto, non raggiungibile in alcun modo dagli esseri inferiori. Come un uomo che può guarire con l 'aiuto della medicina è più disposto alla gua­ rigione di uno che non può guarire in alcun modo, come fa notare Aristotele.

    Articolo 6 Uuomo può prepararsi da solo alla grazia, senza l'aiuto esterno della grazia? Sembra di sì. Infatti:

    Q. 1 09, A. 6

    La necessità della grazia

    possit seipsum ad gratiam praeparare per se­ ipsum, absque exteriori auxilio gratiae. l . Nihil enim imponitur homini quod sit ei impossibile, ut supra [a. 4 arg. 2] dictum est. Sed Zach. l [3] dicitur, convertimini ad me, et ego conve1tar ad vos, nihil autem est aliud se ad gratiam praeparare quam ad Deum converti. Ergo videtur quod homo per seipsum possit se ad gratiam praeparare absque auxilio gratiae. 2. Praeterea, homo se ad gratiam praeparat faciendo quod in se est, quia si homo facit quod in se est, Deus ei non denegat gratiam; dicitur enim Matth. 7 [ 1 1 ] , quod Deus dat Spiritum bonum petentibus se. Sed illud in nobis esse dicitur quod est in nostra potestate. Ergo videtur quod in nostra potestate sit con­ stitutum ut nos ad gratiam praeparemus. 3 . Praeterea, si homo indiget gratia ad hoc quod praeparet se ad gratiam, pari ratione indigebit gratia ad hoc quod praeparet se ad illam gratiam, et sic procederetur in infinitum, quod est inconveniens. Ergo videtur standum in primo, ut scilicet homo sine gratia possit se ad gratiam praeparare. 4. Praeterea, Prov. 1 6 [ l ] dicitur, hominis est praeparare animum. Sed illud dicitur esse hominis quod per seipsum potest. Ergo vide­ tur quod homo per seipsum se possit ad gra­ tiam praeparare. Sed contra est quod dicitur Ioan. 6 [44], nemo

    potest venire ad me, nisi Pate1; qui misit me, traxerit eum. Si autem homo seipsum praepa­ rare posset, non opotteret quod ab alio trahe­ retur. Ergo homo non potest se praeparare ad gratiam absque auxilio gratiae. Respondeo dicendum quod duplex est prae­ paratio voluntatis humanae ad bonum. Una quidem qua praeparatur ad bene operandum et ad Deo fìuendum. Et talis praeparatio vo­ luntatis non potest fieri sine habituali gratiae dono, quod sit principium operis meritorii, ut dictum est [a. 5]. Alio modo potest intelligi praeparatio voluntatis humanae ad conse­ quendum ipsum gratiae habitualis donum. Ad hoc autem quod praeparet se ad susceptionem huius doni, non oportet praesupponere ali­ quod aliud donum habituale in anima, quia sic procederetur in infinitum, sed oportet praesupponi aliquod auxilium gratuitum Dei interius animam moventis, sive inspirantis bonum propositum. His enim duobus modis indigemus auxilio divino, ut supra dictum est

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    l . Sopra abbiamo detto che è assurdo imporre all'uomo delle cose impossibili. Ora, in Zc è detto: Convertitevi a me, e io mi rivolgerò a voi. Ma prepararsi alla grazia equivale a vol­ gersi, o convertirsi, a Dio. Quindi l'uomo è in grado di prepararsi da se stesso alla grazia, senza l'aiuto della grazia. 2. Facendo quanto sta in lui, l'uomo si prepara alla grazia: poiché se l'uomo compie quanto sta in lui, Dio non gli nega la grazia: intatti in Mt è detto che Dio dà lo Spirito buono a colo­ ro che glielo domandano. Ora, si dice che sta in noi quanto è in nostro potere. Perciò sembra essere in nostro potere prepararci alla grazia. 3. Se uno ha bisogno della grazia per prepa­ rarsi alla grazia, per lo stesso motivo avrà bi­ sogno di un'altra grazia per prepararsi a quel­ la grazia, e così all'infinito: il che è assurdo. Bisogna quindi stare alla prima ipotesi, che cioè l'uomo può prepararsi alla grazia senza la grazia. 4. In Pr è detto: All 'uomo (}petta preparare l'animo. Ma si dice che spetta all'uomo quan­ to egli può fare da se stesso. Quindi l'uomo può prepararsi da se stesso alla grazia. In contrario: in Gv il Signore dice: Nessuno

    può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato. Ma se l'uomo potesse prepa­

    rarsi da solo, non sarebbe necessario che fosse attratto da un altro. Quindi l' uomo non può prepararsi alla grazia senza l'aiuto della grazia. Risposta: esistono due preparazioni della vo­ lontà umana al bene. Una la predispone al compimento del bene e al possesso di Dio. E tale preparazione non può verificarsi senza il dono abituale della grazia, principio di ogni atto meritorio, come si è detto. C'è poi una preparazione della volontà umana per ottene­ re il dono stesso della grazia abituale. Ora, perché un uomo si prepari a ricevere tale dono non è necessario presupporre un altro dono abituale nell'anima, poiché così si pro­ cederebbe all' infinito; è necessario però pre­ supporre un aiuto gratuito di Dio che muova l'anima interiormente, o ne ispiri i buoni pro­ positi. Infatti, come sopra si è spiegato, noi abbiamo bisogno dell ' aiuto di Dio in questi due modi. - Che poi noi abbiamo bisogno del l ' aiuto di Dio è evidente. Ogni causa, infatti, deve necessariamente volgere i suoi effetti al proptio fine, poiché ogni causa agen­ te agisce per un fine. E poiché l 'ordine delle

    1 1 57

    La necessità della grazia

    [aa. 2-3]. - Quod autem ad hoc indigeamus auxilio Dei moventis, manifestum est. Neces­ se est enim, cum omne agens agat propter finem, quod omn i s causa convertat suos effectus ad suum finem. Et ideo, cum secun­ dum ordinem agentium sive moventium sit ordo fmium, necesse est quod ad ultimum finem convertatur homo per motionem primi moventis, ad finem autem proximum per mo­ tionem alicuius inferiorum moventium, sicut animus militis convertitur ad quaerendum victoriam ex motione ducis exercitus, ad se­ quendum autem vexillum alicuius aciei ex motione tribuni. Sic igitur, cum Deus sit pri­ mum movens simpliciter, ex eius motione est quod omnia in ipsum convertantur secundum communem intentionem bon i , per quam unumquodque intendit assimilari Deo secun­ dum suum modum. Unde et Dionysius, in libro De div. nom. [4, l 0], dicit quod Deus convertit omnia ad seipsum. Sed homines iustos convertit ad seipsum sicut ad specialem finem, quem intendunt, et cui cupiunt adhae­ rere sicut bono proprio; secundum i l lud Psalmi 72 [28], mihi adhaerere Deo bonum est. Et ideo quod homo convertatur ad Deum, hoc non potest esse nisi Deo ipsum conver­ tente. Hoc autem est praeparare se ad gratiam, quasi ad Deum converti, sicut ille qui habet oculum aversum a lumine solis, per hoc se praeparat ad recipiendum Iumen solis, quod oculos suos convertit versus solem. Unde patet quod homo non potest se praeparare ad lumen gratiae suscipiendum, nisi per auxi­ lium gratuitum Dei interius moventis. Ad primum ergo dicendum quod conversio hominis ad Deum fit quidem per liberum arbitrium; et secundum hoc homini praecipi­ tur quod se ad Deum convertat. Sed Iiberum arbitrium ad Deum converti non potest nisi Deo ipsum ad se convertente; secundum illud Ier. 3 1 [ 1 8], converte me, et convertar, quia tu Dominus Deus meus; et Thren. ult. [2 1 ], con­

    verte nos, Domine, ad te, et convertemur. Ad secundum dicendum quod nihil homo po­ test facere nisi a Deo moveatur; secundum il­ lud loan. 1 5 [5], sine me nihil potestisfacere. Et ideo cum dicitur homo facere quod in se est, dicitur hoc esse in potestate hominis se­ cundum quod est motus a Deo. Ad tertium dicendum quod obiectio illa pro­ cedit de gratia habituali, ad quam requiritur

    Q. 1 09, A. 6

    cause agenti corrisponde all'ordine dei fini, è necessario che l ' uomo venga indirizzato al fine ultimo dalla mozione della causa prima, e al fine prossimo dalla mozione delle cause inferiori. L'animo del soldato, p. es., è volto a conseguire la vittoria dalla mozione del co­ mandante supremo dell ' esercito, mentre è volto dal tribuno a impadronirsi della bandie­ ra di un fortilizio. Essendo quindi Dio il pri­ mo motore assoluto, dipende dalla sua mozio­ ne il volgersi di tutte le cose a lui secondo la ragione comune di bene, mediante la quale ogni cosa tende, a suo modo, alla somiglianza con Dio. Per cui anche Dionigi afferma che Dio «volge a sé tutte le cose». Ma gli uomini giusti Dio li volge a sé come a un fine specia­ le, al quale essi tendono e al quale desiderano aderire come al proprio bene, secondo l ' e­ spressione del Sal: Il mio bene è aderire a Dio. Quindi il volgersi dell'uomo a Dio non può avvenire senza che Dio rivolga l 'uomo verso di sé. Ora, prepararsi alla grazia signifi­ ca appunto volgersi a Dio: come colui il cui sguardo è distolto dal sole si prepara a rice­ verne )a luce rivolgendo gli occhi verso di esso. E quindi evidente che l'uomo non può prepararsi a ricevere la luce della grazia se non mediante un aiuto gratuito di Dio che lo muova interiormente. Soluzione delle difficoltà: l . La conversione dell'uomo a Dio avviene certamente median­ te il libero arbitrio; e per questo si comanda all'uomo di convertirsi a Dio. Ma il libero arbitrio non può volgersi a Dio se Dio non lo piega verso di sé, secondo le parole di Ger:

    Converlimi e mi convertirò, perché tu sei il Si­ gnore mio Dio; e di Lam: Conve11ici a te, Si­ gnore, e noi ci convernremo. 2. L'uomo non può fare nulla senza la mozio­ ne di Dio, secondo le parole di Gv: Senza di me non potete far nulla. Quando perciò si dice che l'uomo fa ciò che è in suo potere, ci si riferisce al potere che egli ha sotto l a mozione di Dio. 3. L'obiezione riguarda la grazia abituale, che richiede una certa preparazione, poiché ogni forma richiede un soggetto predisposto. Ma se si tratta di ricevere una mozione da parte di Dio non è richiesta una mozione precedente, essendo Dio il primo motore. E così non c'è da procedere all'infinito. 4. Spetta all'uomo preparare l ' animo poiché

    La necessità della grazia

    Q. 1 09, A. 6

    aliqua praeparatio, quia omnis forma requirit susceptibile dispositum. Sed hoc quod homo moveatur a Deo non praeexigit aliquam aliam motionem, cum Deus sit primum movens. Unde non oportet abire in infinitum. Ad quartum dicendum quod hominis est prae­ parare animum, quia hoc facit per libenun arbi­ trium, sed tamen hoc non facit sine auxilio Dei moventis et ad se attrahentis, ut dictum est [co.].

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    ciò dipende dal suo libero arbitrio; ma questa preparazione egli non può compierla senza l'aiuto di Dio che muove e attira, secondo le spiegazioni date.

    Articulus 7

    Articolo 7

    Utrum homo possit resurgere a peccato sine auxilio gratiae

    Vuomo può risorgere dal peccato senza l'aiuto della grazia?

    Ad septimum sic proceditur. Videtur quod homo possit resurgere a peccato sine auxilio gratiae. l . Illud enim quod praeexigitur ad gratiam, fit sine gratia. Sed resurgere a peccato praeexigi­ tur ad illuminationem gratiae, dicitur enim ad Eph. 5 [ 1 4], exwge a mortuis, et illuminabit te Christus. Ergo homo potest resurgere a pec­ cato sine gratia. 2. Praeterea, peccatum virtuti opponitur sicut morbus sanitati, ut supra [q 7 1 a. l ad 3] dic­ tum est. Sed homo per virtutem naturae potest resurgere de aegritudine ad sanitatem sine auxilio exterioris medicinae, propter hoc quod intus manet principium vitae, a quo procedit operatio naturalis. Ergo videtur quod, simili ratione, homo possit reparari per seipsum, redeundo de statu peccati ad statum iustitiae, absque auxilio exterioris gratiae. 3 . Praeterea, quaelibet res naturalis potest redire ad actum convenientem suae naturae, sicut aqua calefacta per seipsam redit ad natu­ ralem frigiditatem, et lapis sursum proiectus per seipsum redit ad suum naturalem motum. Sed peccatum est quidam actus contra natu­ ram; ut patet per Damascenus, in 2 libro [De fide 4.30]. Ergo videtur quod homo possit per seipsum redire de peccato ad statum iustitiae. Sed contra est quod apostolus dicit, ad Gal. 2 [2 1 ] , si data est /ex quae potest iustificare, ergo Christus gratis mortuus est, idest sine causa. Pari ergo ratione, si homo habet natu­ ram per quam potest iustificari, Christus gra­ tis, idest sine causa, m011uus est. Sed hoc est inconveniens dicere. Ergo non potest homo per seipsum iustificari, idest redire de statu culpae ad statum iustitiae. Respondeo dicendum quod homo nullo modo potest resurgere a peccato per seipsum sine

    Sembra di sì. Infatti: l . Quanto è prerequisito alla grazia avviene senza la grazia. Ma la risurrezione dal peccato è un prerequisito all ' illuminazione della gra­ zia, poiché in Ef è detto: Déstati dai morti, e Cristo ti illuminerà. Quindi si può risorgere dal peccato senza la grazia. 2. n peccato, secondo le spiegazioni date, si contrappone alla virtù come la malattia alla salute. Ma l ' uomo con la sua virtù naturale può tornare dalla malattia alla salute senza l ' aiuto esterno della medicina, poiché inte­ riormente rimane il ptincipio vitale, dal quale l 'operazione naturale procede. Per lo stesso motivo dunque sembra che l'uomo possa risa­ narsi da sé, tornando dallo stato di peccato allo stato di giustizia, senza l ' aiuto esterno della grazia. 3. Qualunque essere naturale può tornare al­ l' atto corrispondente alla sua natura: l' acqua ri­ scaldata, p. es., torna da se stessa alla sua na­ turale frigidità, e il sasso lanciato in alto torna da se stesso al suo moto naturale. Ma il peccato è un atto contro natura, come dimostra il Damasceno. Perciò l'uomo può tornare con le sue sole forze dal peccato allo stato di giustizia In contrario: Paolo in Gal dice: Se la giustifi­

    .

    cazione viene dalla legge, Cristo è morto inva­ no, cioè senza motivo. Parimenti dunque, se l'uomo ha una natura che lo può giustificare, Cristo è mm1o invano, cioè senza motivo. Ma ciò è inammissibile. Quindi l'uomo non può giustificarsi da sé, cioè tornare con le sue sole forze dallo stato di colpa a quello di giustizia. Risposta: in nessun modo l'uomo può risorge­ re dal peccato con le sue forze, senza l' aiuto della grazia. Infatti il peccato, pur essendo passeggero come atto, rimane come reato,

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    La necessità della grazia

    auxilio gratiae. Cum enim peccatum transiens actu remaneat reatu, ut supra [q. 87 a. 6] dic­ tum est; non est idem resurgere a peccato quod cessare ab actu peccati. Sed resurgere a peccato est reparari hominem ad ea quae pec­ cando amisit. Incurrit autem homo triplex de­ trimentum peccando, ut ex supradictis [q. 85 a. l ; q. 86 a. l ; q. 87 a. l] patet, scilicet macu­ lam, corruptionem naturalis boni, et reatum poenae. Maculam quidem incun1t, inquantum privatur decore gratiae ex deformitate peccati. Bonum autem naturae corrumpitur, inquan­ tum natura hominis deordinatur voluntate hominis Deo non subiecta, hoc enim ordine sublato, consequens est ut tota natura hominis peccantis inordinata remaneat. Reatus vero poenae est per quem homo peccando mortali­ ter meretur damnationem aetemam. - Mani­ festum est autem de singulis horum trium, quod non possunt reparari nisi per Deum. Cum enim decor gratiae proveniat ex illustra­ tione divini luminis, non potest talis decor in anima reparari, nisi Deo denuo illustrante, unde requiritur habituale donum, quod est gratiae lumen. Similiter ordo naturae reparari non potest, ut voluntas hominis Deo subiicia­ tur, nisi Deo voluntatem hominis ad se trahen­ te, sicut dictum est [a. 6]. Similiter etiam rea­ tus poenae aeternae remitti non potest nisi a Deo, in quem est offensa commissa, et qui est hominum iudex. Et ideo requiritur auxilium gratiae ad hoc quod homo a peccato resurgat, et quantum ad habituale donum, et quantum ad interiorem Dei motionem. Ad primum ergo dicendum quod illud indicitur homini quod pertinet ad actum liberi arbitrii qui requiritur in hoc quod homo a peccato resurgat. Et ideo cum dicitur, exsurge, et illumi­ nabit te Christus, non est intelligendum quod tota exurrectio a peccato praecedat illuminatio­ nem gratiae, sed quia cum homo per liberurn arbitrium a Deo motum surgere conatur a pec­ cato, recipit lumen gratiae iustificantis. Ad secundum dicendum quod naturalis ratio non est sufficiens principium huius sanitatis quae est in homine per gratiam iustificantem; sed huius principium est gratia, quae tollitur per peccatum. Et ideo non potest homo per seipsum reparari, sed indiget ut denuo ei lumen gratiae infundatur, sicut si corpori mor­ tuo resuscitando denuo infi.mderetur anima. Ad tertium dicendum quod, quando natura est

    Q. 1 09, A. 7

    secondo le spiegazioni già date in precedenza, per cui risorgere dal peccato non è lo stesso che cessare dall' atto peccaminoso. Ma per l' uomo risorgere dal peccato equivale a essere reintegrato nei beni perduti con la colpa. Ora l'uomo, peccando, subisce tre danni, come si disse sopra: la macchia, la corruzione dei beni di natura e il reato della pena. Contrae una macchia in quanto viene privato dello splen­ dore della grazia per la deformità del peccato. Si corrompono i beni di natura in quanto la natura dell'uomo cade nel disordine, quando la volontà umana non è soggetta a Dio: elimi­ nalo infatti quest' ordine, ne segue che tutta la natura dell' uomo in stato di peccato rimane disordinata. Il reato della pena infine consiste nel fatto che l'uomo, peccando mortalmente, merita la dannazione eterna. - Ora, è evidente per tutte e tre queste cose che soltanto Dio può ripararle. Infatti la bellezza della grazia deriva da un' illuminazione divina, per cui tale bellezza non può tornare in un' anima senza una nuova illuminazione da parte di Dio: e così è necessru1o quel dono abituale che è la luce della grazia. Similmente l'ordine della natura, che implica la sottomissione della vo­ lontà umana a quella di Dio, non può essere riparato se Dio non trae a sé la volontà del­ l'uomo, come si è detto. E così pure nessuno, all 'infuori di Dio, può condonare il reato della pena eterna, essendo egli l'offeso, e il giudice degli uomini. Perché dunque l'uomo risorga dal peccato si richiede l'aiuto della grazia, sia come dono abituale, sia come mozione inte­ riore di Dio. Soluzione delle difficoltà: l . Nella risurrezione umana dal peccato viene comandato all'uomo di compiere quanto appartiene all' atto del li­ bero arbitrio. Perciò la frase: «Déstati, e Cristo ti illuminerà>> non va intesa nel senso che la risurrezione dal peccato debba precedere inte­ ramente l'illuminazione della grazia, ma nel senso che l'uomo riceve la luce della grazia santificante mentre col suo libero arbitrio, mos­ so da Dio, si sterza di risorgere dal peccato. 2. La ragione naturale non è il principio ade­ guato della salute prodotta nell' uomo dalla grazia santificante, ma il principio di essa è la grazia, che il peccato distrugge. E così l'uo­ mo non può guarire da se stesso, ma ha biso­ gno di una nuova infusione della luce della grazia: come se si trattasse di infondere nuo-

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    La necessità della grazia

    Q. 1 09, A. 7

    integra, per seipsam potest reparari ad id quod est sibi conveniens et proportionatum, sed ad id quod superexcedit suam proportionem, reparari non potest sine exteriori auxilio. Sic igitur humana natura defluens per actum pec­ cati, quia non manet integra sed com1mpitur, ut supra [co.] dictum est, non potest per se­ ipsam reparari neque etiam ad bonum sibi connaturale; et multo minus ad bonum super­ naturalis iustitiae.

    vamente l'anima in un corpo da risuscitare. 3. Quando la natura è integra può tornare da sé nelle disposizioni ad essa connaturali e proporLionate; non però, senza un aiuto ester­ no, nei beni che sorpassano la sua misura. Quando poi la natura umana è decaduta per il peccato, non essendo più integra, ma corrotta, come si è spiegato, non può tornare da sé né al bene ad essa connaturale, né tanto meno al bene della giustizia soprannaturale.

    Articulus 8

    Articolo 8

    Utrum sine gratia possit non peccare

    Vuomo senza la grazia può non peccare?

    Ad octavum sic proceditur. Videtur quod ho­ mo sine gratia possit non peccare. l . Nullus enim peccat in eo quod vitare non potest; ut Augustinus dicit, in libro De duabus an. [ I 0- 1 1 ], et De l i b. arb. [3, 1 8] . Si ergo homo existens in peccato mortali non possit vitare peccatum, videtur quod peccando non peccet. Quod est inconveniens. 2. Praeterea, ad hoc corripitur homo ut non peccet. Si igitur homo in peccato mortali exi­ stens non potest non peccare, videtur quod frustra ei correptio adhibeatur. Quod est inconveniens. 3. Praeterea, Eccli. 1 5 [ 1 8] dicitur, ante homi­

    Sembra di sì. Infatti: l . Come affe1ma Agostino, «nessuno pecca facendo ciò che non può evitare». Se quindi un uomo in peccato mortale non potesse evi­ tare il peccato, peccando non peccherebbe. n che è assurdo. 2. S i corregge un uomo perché non pecchi. Ma se uno che è in peccato mortale non può non peccare, è inutile correggerlo. n che è inammissibile. 3. In Sir è detto: Davanti ali 'uomo stanno la

    nem vita et mors, bonum et malum, quod pla­ cuerit ei, dabitur illi. Sed aliquis peccando non desinit esse homo. Ergo adhuc i n eius potestate est eligere bonum ve1 malum. Et ita potest homo sine gratia vitare peccatum. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De perfect. iustit. [2 1 ], quisquis negat nos

    orare debere ne intremus in tentationem (negai autem hoc qui contendit ad non pec­ candum gratiae Dei adiutorium non esse homini necessarium, sed, sola lege accepta, humanam sujjìcere voluntatem), ab auribus omnium removendum, et ore omnium anathe­ matizandum esse non dubito. Respondeo dicendum quod de homine dupli­ citer loqui possumus, uno modo, secundum statum naturae integrae; alio modo, secun­ dum statum naturae corruptae. Secundum sta­ tum quidem naturae integrae, etiam sine gra­ tia habituali, poterat homo non peccare nec mortaliter nec venialiter, quia peccare nihil aliud est quam recedere ab eo quod est secun­ dum naturam, quod vitare homo poterat in

    vita e la morte, il bene e il male: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà. Ma quando uno pecca non cessa di essere un uomo. Quindi rimane ancora in suo potere lo sce­ gliere tra il bene e il male. E così l ' uomo privo della grazia può evitare il peccato. In contrario: Agostino dice: «Chiunque neghi che noi siamo tenuti a pregare per non cadere in tentazione (e lo nega chi sostiene che non è necessaria la grazia divina per non peccare, ma basta la volontà umana, con la sola accet­ tazione della legge), non esito a considerarlo inascoltabile da qualsiasi orecchio, e degno di essere scomunicato dalla bocca di tutti». Risposta: l ' uomo può essere considerato sotto due aspetti: primo, nello stato di natura inte­ gra; secondo, nello stato di natura corrotta. Nello stato di natura integra, anche senza la grazia abituale, egli poteva non peccare né mortalmente né venialmente: poiché peccare non è altro che scostarsi da ciò che è secondo natura, e questo l'uomo poteva evitarlo men­ tre la natura era integra. Tuttavia bisognava che Dio lo conservasse nel bene, poiché senza questo aiuto divino la stessa natura ricadrebbe nel nulla. - Nello stato di natura corrotta inve-

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    La necessità della grazia

    integritate naturae. Non tamen hoc poterat sine auxilio Dei in bono conservantis, quo subtracto, etiam ipsa natura in nihilum deci­ deret. - In statu autem naturae corruptae, indi­ get homo gratia habituali sanante naturam, ad hoc quod omnino a peccato abstineat. Quae quidem sanatio primo fit in praesenti vita secundum mentem, appetitu carnali nondum totaliter reparato, unde apostolus, ad Rom. 7 [25], in persona hominis reparati, dicit, ego

    ipse mente servio /egi Dei, came autem /egi peccati. In quo quidem statu potest homo abstinere a peccato mortali quod in ratione consistit, ut supra [q. 74 a. 4] habitum est. Non autem potest homo abstinere ab omni peccato veniali, propter corruptionem inferio­ ris appetitus sensualitatis, cuius motus singu­ los quidem ratio reprimere potest (et ex hoc habent rationem peccati et voluntarii), non autem omnes, quia dum uni resistere nititur, fortassis alius insurgit; et etiam quia ratio non semper potest esse pervigil ad huiusmodi motus vitandos; ut supra [q. 74 a. 3 ad 2] dic­ tum est. - Similiter etiam antequam hominis ratio, in qua est peccatum mortale, reparetur per gratiam iustificantem, potest singula pec­ cata mortalia vitare, et secundum aliquod tempus, quia non est necesse quod continuo peccet in actu. Sed quod diu maneat absque peccato mortali, esse non potest. Unde et Gregorius dici t, Super Ez. [ l , 1 1 ], quod pecca­

    tum quod mox per poenitentiam 11011 deletur, suo pondere ad a/iud trahit. Et huius ratio est quia, sicut rationi subdi debet inferior appeti­ tus, ita etiam ratio debet subdi Deo, et in ipso constituere finem suae voluntatis. Per finem autem oportet quod rcgulentur omnes actus humani, sicut per rationis iudicium regulari debent motus inferioris appetitus. Sicut ergo, inferiori appetitu non totaliter subiecto rationi, non potest esse quin contingant inordinati motus in appetitu sensitivo; ita etiam, ratione hominis non existente subiecta Deo, conse­ quens est ut contingant multae inordinationes in ipsis actibus rationis. Cum enim homo non habet cor suum frrmatum in Deo, ut pro nullo bono consequendo vel malo vitando ab eo separari vellet; occummt multa propter quae consequenda vel vitanda homo recedit a Deo contemnendo praecepta ipsius, et ita peccat mortaliter, praecipue quia in repentinis homo operatur secundum fmem praeconceptum, et

    Q. 1 09, A. 8

    ce l'uomo, per potersi astenere totalmente dal peccato, ha bisogno della grazia abituale che risani la natura. E questo risanamento avviene in questa vita dapprima nella mente, mentre l 'appetito carnale non è ancora completamen­ te risanato: per cui in Rm Paolo parla così a nome dell'uomo redento: Io dunque con la

    mente servo la legge di Dio, con la carne in­ vece la legge del peccato. E in tale stato l'uo­ mo può astenersi dal peccato mortale, che si attua nella ragione, come sopra si è detto. Non può astenersi invece da ogni peccato ve­ niale, per la com1zione degli appetiti inferiori della sensualità, i cui moti la ragione è i n grado di reprimere singolarmente (e a ciò essi devono la loro natura di atti peccaminosi vo­ lontari), senza però poterli reprimere global­ mente tutti: poiché mentre tenta di resistere a uno forse ne insorge un altro; e anche perché la ragione non è sempre pronta a evitare que­ sti moti, come sopra si è spiegato. - Così pure, similmente, prima che la sua ragione, in cui si attua il peccato mortale, sia risanata dal­ la grazia, l 'uomo può evitare i peccati mortali singolarmente e per un dato tempo: poiché non è necessario che subito pecchi in maniera attuale; è però impossibile che rimanga a lungo senza peccare mortalmente. Infatti Gre­ gorio afferma che «il peccato non riparato subito con la penitenza, col suo peso trascina ad altri peccati». E ciò si spiega col fatto che, come l ' appetito inferiore deve essere sotto­ messo alla ragione, così la ragione deve esse­ re sottoposta a Dio, e stabilire in lui il fine della sua volontà. Ma il fine deve regolare tutti gli atti umani, come il giudizio della ra­ gione deve regolare i moti dell'appetito infe­ riore. Ora, come quando l'appetito inferiore non è pienamente sottoposto alla ragione so­ no inevitabili certi moti disordinati nell' appe­ tito sensitivo, così, quando la ragione umana non è del tutto sottoposta a Dio, sono inevita­ bili molteplici disordini negli atti della ragio­ ne. Se infatti l'uomo non ha il cuore ben fisso in Dio, così da non volersi da lui separare né per conseguire qualsiasi bene, né per evitare qualsiasi male, capiteranno troppe cose per raggiungere e per evitare le quali egli si allon­ tanerà da Dio trasgredendone i precetti: e così peccherà mortalmente. E ciò specialmente perché nei casi improvvisi l ' uomo agisce secondo il fine prestabilito, e secondo l 'abito

    Q. 1 09, A. 8

    La necessità della grazia

    secundum habitum praeexistentem, ut philo­ sophus dicit, in 3 Ethic. [8,1 5] ; quamvis ex praemeditatione rationis homo possit aliquid agere praeter ordinem finis praeconcepti, et praeter inclinationem habitus. Sed quia homo non potest semper esse in tali praemeditatio­ ne, non potest contingere ut diu permaneat quin operetur secundum consequentiam voluntatis deordinatae a Deo, nisi cito per gratiam ad debitum ordinem reparetur. Ad primum ergo dicendum quod homo potest vitare singulos actus peccati, non tamen omnes, nisi per gratiam, ut dictum est [co.]. Et tamen quia ex eius defectu est quod homo se ad gratiam habendam non praeparet, per hoc a peccato non excusatur, quod sine gratia peccatum vitare non potest. Ad secundum dicendum quod correptio utilis est ut ex dolore correptionis voluntas regene­

    rationis oriatur. Si tamen qui corripitur filius est promissionis, ut, strepitu correptionis forinsecus insonante ac flagellante, Deus in ilio intrinsecus occulta inspiratione operetur et ve/le; ut Augustinus dicit, in libro De corr. et grat. [ l ] . Ideo ergo necessaria est correptio, quia voluntas hominis requiritur ad hoc quod a peccato abstineat. Sed tamen correptio non est sufficiens sine Dei auxilio, unde dicitur Eccle. 7 [ 14], considera opera Dei, quod

    nemo possit corrigere quem il/e despexerit. Ad tettium dicendum quod, sicut Augustinus dicit, in Hyp. [3,2], verbum illud intelligitur de homine secundum statum naturae integrae, quando nondum erat servus peccati, unde poterat peccare et non peccare. Nunc etiam quodcumque vult homo, datur ei. Sed hoc quod bonum velit, habet ex auxilio gratiae. Articulus 9 Utrum ille qui iam consecutus est gratiam, per scipsum possit opcrari bonum et vitare peccatum absque auxilio gratiae Ad nonum sic proceditur. Videtur quod ille qui iam consecutus est gratiam, per seipsum possit operari bonum et vitare peccatum, absque alio auxilio gratiae. l . Unumquodque enim aut fìustra est, aut im­ perfectum, si non implet illud ad quod datur. Sed gratia ad hoc datur nobis ut possimus bonum facere et vitare peccatum. Si igitur per

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    preesistente, come dice il Filosofo; sebbene possa agire scostandosi da quel fine e dalle inclinazioni abituali con la riflessione della ragione. Ma poiché l' uomo non sempre ha la possibilità di riflettere in tal modo, non può di conseguenza rimanere a lungo senza agire in conformità alla spinta della sua volontà non orientata verso Dio, a meno che dalla grazia non venga presto ristabilito nel debito ordine. Soluzione delle difficoltà: l . L'uomo senza la grazia può evitare i singoli atti del peccato, ma non tutti, come si è detto. Siccome però è per sua negligenza che egli non si è preparato a ricevere la grazia, il fatto che non possa evi­ tare la colpa senza la grazia non lo scusa dal peccato. 2. La correzione serve, come dice Agostino, «a far sì che dal dolore della correzione sorga la volontà della rigenerazione. Purché chi viene corretto sia figlio della promessa: e così, mentre lo strepito della correzione suona e flagella all'esterno, Dio opera in lui il volere dall' interno, con un' ispirazione occulta». La correzione è quindi necessaria giacché si richiede la volontà dell'interessato per fuggire il peccato. Ma la correzione non è efficace senza l' aiuto di Dio; per cui in Qo è detto:

    Osserva le opere di Dio, come nessuno possa correggere colui che egli non cura. 3. Come spiega Agostino, quell' affermazione vale per l'uomo nello stato di natura integra, quando non era schiavo del peccato, per cui poteva peccare e non peccare. Tuttavia anche adesso viene dato all'uomo ciò che egli vuole. Che però voglia il bene dipende dall' aiuto della grazia.

    Articolo 9 Chi è già in grazia può fare il bene ed evitare il peccato da solo, senza l'aiuto della grazia? Sembra di sì. Infatti: l . Se un aiuto non raggiunge l'effetto per cui viene dato, o è inutile, o è imperfetto. Ora, la grazia ci è data perché noi possiamo fare il bene ed evitare il peccato. Se quindi con la grazia l' uomo non ha questo potere, la grazia o è data inutilmente, o è imperfetta. 2. Mediante la grazia lo stesso Spirito Santo abita in noi, come è detto in l Cor. Non sapete

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    La necessità della grazia

    gratiam hoc homo non potest, videtur quod vel gratia sit frustra data, vel sit impetfecta. 2. Praeterea, per gratiam ipse Spiritus Sanctus in nobis habitat; secundum illud l ad Cor. 3 [ 1 6],

    nescitis quia templum Dei estis, et Spiritus Dei habitat in vobis? Sed Spiritus Sanctus, cum sit omnipotens, sufficiens est ut nos inducat ad bene operandum, et ut nos a pec­ cato custodiat. Ergo homo gratiam consecutus potest utrumque praedictorum absque alio auxilio gratiae. 3. Praeterea, si homo consecutus gratiam adhuc alio auxilio gratiae indiget ad hoc quod recte vivat et a peccato abstineat, pari ratione et si illud aliud auxilium gratiae consecutus fuerit, adhuc alio auxilio indigebit. Procedetur ergo in infinitum, quod est inconveniens. Ergo ille qui est in gratia, non indiget alio auxilio gratiae ad hoc quod bene operetur et a peccato abstineat. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De natura et gratia [26], quod sicut oculus

    corporis pienissime sanus, nisi candore lucis adiutus, non potest cernere; sic et homo per­ fectissime etiam iust[ficatus, nisi aeterna luce iustitiae divinitus adiuvetur, recte non potest vivere. Sed iustificatio fit per gratiam; secun­ dum illud Rom. 3 [24], lustifìcati gratis per gratiam ipsius. Ergo etiam homo iam habens gratiam indiget alio auxilio gratiae ad hoc quod recte vivat. Respondeo dicendum quod, sicut supra [aa. 23 .6] dictum est, homo ad recte vivendum dupliciter auxilio Dei indiget. Uno quidem modo, quantum ad aliquod habituale donum, per quod natura humana corrupta sanetur; et etiam sanata elevetur ad operandum opera meritoria vitae aetemae, quae excedunt propor­ tionem naturae. Alio modo indiget homo auxi­ lio gratiae ut a Deo moveatur ad agendum. Quantum igitur ad primum auxilii modum, homo in gratia existens non indiget alio auxi­ lio gratiae quasi aliquo alio habitu infuso. Indiget tamen auxilio gratiae secundum alium modum, ut scilicet a Deo moveatur ad recte agendum. - Et hoc propter duo. Primo quidem, ratione generali, propter hoc quod, sicut supra [a. l ] dictum est, nulla res creata potest in quemcumque actum prodire nisi virtute mo­ tionis divinae. - Secundo, ratione speciali, propter conditionem status humanae naturae. Quae quidem licet per gratiam sanetur quan­ tum ad mentem, remanet tamen in ea corrup-

    Q. 1 09, A. 9

    che siete il tempio di Dio, e che lo Spirito di Dio abita in voi? Ma lo Spirito Santo, essen­ do onnipotente, è in grado di indurci a com­ piere il bene e di custodirci dal peccato. Quindi l 'uomo in grazia è provveduto di que­ ste due capacità, senza bisogno di altri aiuti della grazia. 3. Se un uomo in grazia avesse ancora biso­ gno della grazia per vivere onestamente e per astenersi dal peccato, una volta conseguita questa seconda grazia avrebbe bisogno anco­ ra di un altro aiuto. E così si andrebbe all'infi­ nito: il che è assurdo. Perciò chi è in grazia non ha bisogno deli' aiuto della grazia per compiere il bene ed evitare il peccato. In contrario: Agostino insegna che «come un occhio corporeo del tutto sano non può vede­ re, se non è aiutato dal fulgore della luce, così un uomo anche pienamente giustificato non può vivere rettamente se non è soccorso da Dio con l'eterna luce della giustizia». Ora, la giustificazione avviene mediante l a grazia, secondo le parole di Rm: Giustificati gratuita­ mente per la sua grazia. Perciò, anche se è in grazia, l'uomo ha sempre bisogno dell'aiuto della grazia per vivere onestamente. Risposta: abbiamo già detto sopra che l'uo­ mo, per vivere rettamente, ha bisogno di esse­ re aiutato da Dio in due modi. Primo, median­ te il dono di un abito che risani la natura umana corrotta e che la elevi, anche se risana­ ta, a compiere opere meritorie per la vita eter­ na, poiché ciò sorpassa le capacità della natu­ ra. Secondo, ha bisogno dell' aiuto della gra­ zia in quanto attende da Dio la mozione ad agire. Ora, chi è in grazia non ha bisogno di un altro aiuto della grazia che sia, come nel primo caso, un nuovo abito infuso. Ha però bisogno dell'altro tipo di aiuto gratuito, cioè ha bisogno di essere mosso da Dio a ben ope­ rare. - E ciò per due motivi. Primo, per un motivo generale: per il tàtto cioè che nessuna realtà creata può emettere, come si è già spie­ gato, un qualsiasi atto se non in forza della mozione divina. - Secondo, per un motivo particolare, data la condizione attuale della natura umana. La quale, anche se quanto alla mente è risanata dalla grazia, conserva tutta­ via la corruzione e l ' infezione quanto alla carne, in cui serve alla legge del peccato, co­ me è detto in Rm. Inoltre nell'intelletto rima­ ne una certa ombra di ignoranza, in ragione

    Q. 1 09, A. 9

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    La necessità della grazia

    tio et infectio quantum ad carnem, per quam ut dicitur ad Rom. 7 [25]. Remanet etiam quaedam ignorantiae obscuri­ tas in intellectu, secundum quam, ut etiam d i c i tu r Rom. 8 [26] , quid oremus sicut oportet, nescimus. Propter varios enim rerum eventus, et quia etiam nosipsos non perfecte cognoscimus, non possumus ad plenum scire quid nobis expediat; secundum illud Sap. 9

    servit legi peccati,

    [ 14], cogitationes mortalium timidae, et in­ certae providentiae nostrae. Et ideo necesse est nobis ut a Deo dirigamur et protegamur, qui omnia novit et omnia potest. Et propter hoc etiam renatis in filios Dei per gratiam, convenit dicere, et ne nos inducas in tentatio­ nem, et, .fiat voluntas tua sicut in caelo et in terra, et cetera quae in oratione dominica continentur ad hoc pertinentia. Ad primum ergo dicendum quod donum habitualis gratiae non ad hoc datur nobis ut per ipsum non indigeamus ulterius divino auxilio, indiget enim quaelibet creatura ut a Deo conservetur in bono quod ab ipso acce­ pit. Et ideo si post acceptam gratiam homo adhuc indiget divino auxilio, non potest con­ cludi quod gratia sit in vacuum data, vel quod sit imperfecta. Quia etiam in statu gloriae, quando gratia erit omnino perfecta, homo divino auxilio indigebit. Hic autem aliqualiter gratia imperfecta est, inquantum hominem non totaliter sanat, ut dictum est [co.]. Ad secundum dicendurn quod operatio Spiri­ tus Sancti qua nos movet et protegit, non cir­ cumscribitur per effectum habitualis doni quod in nobis causat; sed praeter hunc effectum nos movet et protegit, simul curn Patre et Filio. Ad tertium dicendurn quod ratio illa concludit quod homo non indigeat alia habituali gratia. Articulus

    lO

    della quale non sappiamo che cosa sia conve­ niente domandare, come è detto anche in Rm. Data infatti la varietà degli avvenimenti e l ' imperfetta conoscenza che abbiamo di noi stessi, non possiamo conoscere pienamente le cose d i cui abbiamo bisogno: secondo le parole di Sap: I ragionamenti dei mortali

    sono timidi, e incerte le nostre riflessioni. Perciò abbiamo bisogno di essere guidati e protetti da Dio, il quale tutto può e tutto cono­ sce. E così anche coloro che la grazia ha rige­ nerato come figli di Dio hanno il dovere di ripetere : Non ci indurre in tentazione, Sia

    fatta la tua volontà, come in cielo così in terra, e le altre formule del Padre Nostro che si riferiscono a questo punto. Soluzione delle difficoltà: l . Il dono della grazia abituale non ci viene dato perché con esso cessiamo di avere bisogno dell'aiuto di Dio: qualsiasi creatura infatti ha bisogno di essere conservata da Dio nel bene che da lui ha ricevuto. Se quindi dopo aver ricevuto la grazia l 'uomo ha ancora bisogno dell' aiuto divino, non si può concludere che la grazia è stata data inutilmente, o che è imperfetta. Poiché anche nello stato di gloria, quando la grazia sarà assolutamente perfetta, l ' uomo avrà sempre bisogno dell' aiuto divino. Ades­ so tuttavia la grazia è in certo qual modo imperfetta poiché, come si è detto, non risana l'uomo totalmente. 2. L' azione con cui lo Spirito Santo ci muove e ci protegge non si limita al dono abituale che causa in noi, ma oltre a ciò egli ci muove e ci protegge, in unione con il Padre e con il Figlio. 3. L'argomento dimostra soltanto che l'uomo non ha bisogno di un' altra grazia abituale. Articolo 1 0

    Utrum homo in gratia constitutus indigeat auxilio gratiae ad perseverandum

    Chi è i n grazia ha bisogno dell'aiuto della grazia per perseverare?

    Ad decimum sic proceditur. Videtur quod ho­ mo in gratia constitutus non indigeat auxilio gratiae ad perseverandum. l . Perseverantia enim est aliquid minus vir­ tute, sicut et continentia, ut patet per philoso­ phum in 7 Ethic. [ 1 ,4; 9,6]. Sed homo non indiget alio auxilio gratiae ad habendum vir­ tutes, ex quo est iustificatus per gratiam. Ergo

    Sembra di no. Infatti: l . Come dice il Filosofo, la perseveranza, al pari della continenza, è qualcosa di inferiore alla virtù. Ma l'uomo non ha bisogno di un nuovo aiuto della grazia per avere le virtù, una volta che sia giustificato dalla grazia. Molto meno, dunque, ne avrà bisogno per avere la perseveranza.

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    La necessità della grazia

    multo minus indiget auxilio gratiae a d haben­ dum perseverantiam. 2. Praeterea, omnes virtutes simul infundun­ tur. Sed perseverantia ponitur quaedam virtus. Ergo videtur quod, simul cum gratia infusis aliis virtutibus, perseverantia detur. 3 . Praeterea, sicut apostolus dicit, ad Rom. 5 [ 1 5 sqq.], plus restitutum est homini per do­ num Christi, quam amiserit per peccatum Adae. Sed Adam accepit unde posset perseve­ rare. Ergo multo magis nobis restituitur per gratiam Christi ut perseverare possimus. Et ita homo non indiget gratia ad perseverandum. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De perseverantia [2], cur perseverantia posci­

    tur a Deo, si non datur a Deo? An et ista irri­ soria petitio est, cum id ab eo petitur quod sci­ tur non ipsum dare, sed, ipso non dante, esse in hominis potestate? Sed perseverantia petitur

    etiam ab illis qui sunt per gratiam sanctificati, quod intelligitur cum dicimus, sanctificetur nomen tuum, ut ibidem [De dono persev. 2] Augustinus confirmat per verba Cypriani. Ergo homo etiam in gratia constitutus, indiget ut ei perseverantia a Deo detur. Respondeo dicendum quod perseverantia tri­ pliciter dicitur. - Quandoque enim significat habitum mentis per quem homo firmiter stat, ne removeatur ab eo quod est secundum vir­ tutem, per tristitias irruentes, ut sic se habeat perseverantia ad tristitias sicut continentia ad concupiscentias et delectationes ut philo­ sophus dicit, in 7 Ethic. [7, l ] . - Alio modo po­ test dici perseverantia habitus quidam secun­ dum quem habet homo propositum perseve­ randi in bono usque in finem. Et utroque isto­ rum modorum, perseverantia simul cum gra­ tia infunditur sicut et continentia et ceterae virtutes. - Alio modo dicitur perseverantia con­ tinuatio quaedam boni usque ad finem vitae. Et ad talem perseverantiam habendam homo in gratia constitutus non quidem indiget ali­ qua alia habituali gratia, sed divino auxilio ipsum dirigente et protegente contra tentatio­ num impulsus, sicut ex praecedenti quaestio­ ne [a. 9] apparet. Et ideo postquam aliquis est iustificatus per gratiam, necesse habet a Deo petere praedictum perseverantiae donum, ut scilicet custodiatur a malo usque ad finem vitae. Multis enim datur gratia, quibus non datur perseverare in gratia. Ad primum ergo dicendum quod obiectio illa

    Q. 109, A. lO

    2. Le virtù vengono infuse tutte insieme. Ma la perseveranza è elencata tra le virtù. Quindi sembra che la perseveranza sia infusa con la grazia assieme alle altre virtù. 3. Come Paolo dice in Rm, per il dono di Cri­ sto l'uomo riacquistò più di quanto aveva per­ duto col peccato di Adamo. Ma Adamo aveva avuto la facoltà di poter perseverare. Perciò con la grazia di Cristo tale facoltà viene con­ cessa ancora di più a noi. E così l'uomo non ha bisogno della grazia per perseverare. In contrario: Agostino scrive: «Perché si chie­ de a Dio la perseveranza se questa non è data da Dio? Si tratta forse di una domanda irriso­ ria, sapendo noi che quanto gli si chiede non è dato da lui, ma è in potere dell'uomo, senza che egli lo conceda?». Ora, la perseveranza viene chiesta anche da coloro che sono stati già santificati dalla grazia: poiché tale doman­ da è implicita nelle parole sia santificato il tuo nome, come spiega Agostino, servendosi dell'autorità di Cipriano. Quindi l'uomo, an­ che se è in grazia, ha bisogno di ricevere da Dio la perseveranza. Risposta: tre sono le accezioni del termine per­ severanza. - Talora infatti significa quell'abito dell'anima per cui l'uomo è costante e non si lascia distogliere dall' agire secondo la virtù nonostante l'assalto delle tristezze: e in questo senso la perseveranza sta alle tristezze come la continenza sta ai piaceri, secondo le parole del Filosofo. - In secondo luogo la perseveranza può indicare l'abito in forza del quale l'uomo concepisce il proposito di perseverare nel bene sino alla fine. E in tutte e due queste accezioni la perseveranza viene infusa assieme alla gra­ zia, come la continenza e le altre virtù. - In un altro modo invece si chiama perseveranza il continuare nel bene sino alla fine della vita. E per avere questa perseveranza l'uomo in grazia ha bisogno non già di una nuova grazia abitua­ le, ma dell'aiuto di Dio che lo guidi e lo pro­ tegga contro gli assalti delle tentazioni, come si è visto. E così chi è già santificato dalla gra­ zia ha bisogno di chiedere a Dio questo dono della perseveranza, cioè deve chiedere di esse­ re custodito dal male sino alla fine della vita. Infatti la grazia viene data a molti a cui non è dato di perseverare nella grazia. Soluzione delle difficoltà: l . L'obiezione vale per il primo significato del termine perseve­ ranza, come la successiva vale per il secondo.

    Q. 1 09, A. I O

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    La necessità della grazia

    procedit de primo modo perseverantiae, sicut et secunda obiectio procedit de secundo. Unde patet solutio ad secundum. Ad tertium dicendum quod, sicut Augustinus dicit, in libro De natura et gratia [c( De corr. et grat. 1 2], homo in primo statu accepit donum

    per quod perseverare posset, non autem acce­ pit ut perseverare!. Nunc autem per gratiam Christi multi accipiunt et dommi gratiae quo perseverare possunt, et ulterius eis datur quod perseverent. Et sic donum Christi est maius quam delictum Adae. Et tamen facilius homo per gratiae donum perseverare poterat in statu innocentiae, in quo nulla erat rebellio carnis ad spiritum, quam nunc possumus, quando repa­ ratio gratiae Christi, etsi sit inchoata quantum ad mentem, nondum tamen est consummata quantum ad carnem. Quod erit in patria, ubi homo non solum perseverare poterit, sed etiam peccare non poterit.

    2. È così risolta anche la seconda difficoltà. 3. Come insegna Agostino, «nello stato pri­ mitivo fu dato all'uomo un dono che gli offri­ va la possibilità di perseverare, ma non gli fu dato di perseverare. Invece adesso, per la gra­ zia di Cristo, molti ricevono sia i l dono della grazia per poter perseverare, sia ancora il per­ severare di fatto». E così il dono di Cristo è più grande del peccato di Adamo. Tuttavia l 'uomo poteva perseverare più facilmente con la grazia dello stato di innocenza, in cui non c'era alcuna ribellione della carne allo spirito, di quanto non possiamo noi ora. Poiché la restaurazione della grazia di Cristo, sebbene sia iniziata quanto allo spirito, non è ancora compiuta quanto alla carne. Il che avverrà nella patria, dove l'uomo non solo potrà per­ severare, ma sarà anche in condizione di non poter peccare.

    QUAESTIO 1 1 O DE GRATIA DEI QUANTUM AD EIUS ESSENTIAM

    QUESTIONE 1 1 O LA GRAZIA DI DIO NELLA SUA ESSENZA

    Deinde considerandum est de gratia Dei quan­ tum ad eius essentiam. Et circa hoc quaeruntur quatuor. Primo, utrum gratia ponat aliquid in anima. Secundo, utmm gratia sit qualitas. Tertio, utrum gratia differat a virtute infusa. Quarto, de subiecto gratiae.

    Passiamo ora a considerare la grazia di Dio nella sua essenza. Su questo tema tratteremo quattro argomenti: l . La grazia pone qualcosa nell' anima? 2. La grazia è una qualità? 3. La grazia differisce dalle virtù infuse? 4. n sog­ getto della grazia.

    Articulus l

    Articolo

    l

    Utrum gratia ponat aliquid in anima

    La grazia pone qualcosa nell'anima?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod gra­ tia non ponat aliquid in anima. l . Sicut enim homo dicitur habere gratiam Dei, ita etiam gratiam hominis, unde dicitur Gen. 39 [2 1 ] , quod Dominus dedit Ioseph gratiam in conspectu principis carceris. Sed per hoc quod homo dicitur habere gratiam hominis, nihil ponitur in eo qui gratiam alte­ rius habet; sed in eo cuius gratiam habet, ponitur acceptatio quaedam. Ergo per hoc quod homo dicitur gratiam Dei habere, nihil ponitur in anima, sed solum significatur acceptatio divina. 2. Praeterea, sicut anima vivificat corpus, ita Deus vivificat animam, unde dicitur Deut. 30 [20], ipse est vita tua. Sed anima vivificat cor-

    Sembra di no. Infatti: l. Si dice che uno ha la grazia di Dio come si è soliti dire che uno ha la grazia di un uomo, secondo l'espressione di Gen: Il Signore fece

    trovare grazia a Giuseppe presso il capo del carcere. Ora, per i l fatto che uno ottiene la

    grazia di un uomo non viene ad avere in sé qualcosa, ma si riscontra piuttosto una specie di compiacenza in chi la concede. Per cui quando si dice che l 'uomo ha la grazia di Dio non si viene a porre qualcosa nell'anima, ma si vuole solo indicare la compiacenza divina. 2. Come l'anima vivifica il corpo, cqsì Dio vivifica l' anima, per cui in Dt è detto: E lui la tua vita. M a l ' anima vivifica i l corpo i n maniera immediata. Quindi non c ' è nulla di

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    La grazia di Dio nella sua essenza

    pus immediate. Ergo etiam nihil cadit medium inter Deum et animam. Non ergo gratia ponit aliquid creatum in anima. 3. Praeterea, ad Rom. l , super illud [7], grafia vobis et pax, dicit Glossa [glos. int. et Lomb.]. Grafia, idest remissio peccatorum, sed remis­ sio peccatorum non ponit in anima aliquid, sed solum in Deo, non imputando peccatum; sectmdum illud Psalmi 3 1 [2], beatus vir cui non imputavi! Dominus peccatum. Ergo nec gratia ponit aliquid in anima. Sed contra, lux ponit aliquid in illuminato. Sed gratia est quaedam lux animae, unde Augustinus dicit, in libro De natura et gratia [22], praevaricatorem legis digne lux deserit veritatis, qua desertus utique fit caecus. Ergo gratia ponit aliquid in anima. Respondeo dicendum quod secundum com­ munem modum loquendi, gratia tripliciter accipi consuevit. Uno modo, pro dilectione alicuius, sicut consuevimus dicere quod iste miles habet gratiam regis, idest, rex habet eum gratum. Secundo sumitur pro aliquo dono gratis dato, sicut consuevimus dicere, hanc gratiam facio tibi. Tertio modo sumitur pro recompensatione beneficii gratis dati, secundum quod dicimur agere gratias benefi­ ciorum. Quorum trium secundum dependet ex primo, ex amore enim quo aliquis alium gratum habet, procedit quod aliquid ei gratis impendat. Ex secundo autem procedit ter­ tium, quia ex beneficiis gratis exhibitis gratia­ rum actio consurgit. - Quantum igitur ad duo ultima, manifestum est quod gratia aliquid ponit in eo qui gratiam accipit, primo quidem, ipsum donum gratis datum; secundo, huius doni recognitionem. Sed quantum ad pri­ mum, est differentia attendenda circa gratiam Dei et gratiam hominis. Quia enim bonum creaturae provenit ex voluntate divina, ideo ex dilectione Dei qua vult creaturae bonum, profluit aliquod bonum in creatura. Voluntas autem hominis movetur ex bono praeexisten­ te in rebus, et inde est quod dilectio hominis non causat totaliter rei bonitatem, sed prae­ supponit ipsam vel in parte vel in toto. Patet igitur quod quamlibet Dei dilectionem sequi­ tur aliquod bonum in creatura causatum quandoque, non tamen dilectioni aetemae coaetemum. Et secundum huiusmodi boni differentiam, differens consideratur dilectio Dei ad creaturam. Una quidem communis,

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    intermedio fra Dio e l'anima. Quindi la grazia non pone nulla di creato nell'anima. 3. Commentando le parole di Rm: Grazia a voi e pace, la Glossa spiega: «Grazia, cioè la remissione dei peccati». Ora, la remissione dei peccati non pone nulla nell' anima, ma solo presuppone in Dio la non imputazione del peccato, secondo le parole del Sal: Beato l'uo­ mo a cui Dio non imputa il peccato. Quindi neppure la grazia pone qualcosa nell'anima. In contrario: la luce pone qualcosa in chi è illuminato. Ma la grazia è una certa luce del­ l' anima, da cui le parole di Agostino: «li tra­ sgressore della legge è giustamente abbando­ nato dalla luce della verità, privo della quale diviene realmente cieco». Perciò la grazia pone qualcosa neli' anima. Risposta: secondo l 'uso comune il termine grazia può avere tre significati. Primo, può indi­ care l'amore di qualcuno: come si dice, p. es., che un soldato ha la grazia del re, nel senso che il re lo gradisce. Secondo, può indicare un dono gratuito, come quando si dice: «Ti fac­ cio questa grazia». Terzo, può avere il senso di riconoscenza per un beneficio gratuito: come quando si parla di rendimento di grazie. Di questi tre sensi il secondo dipende dal primo: infatti dall' amore per cui a uno è gra­ dita una data persona derivano le gratificazio­ ni verso di essa. Il terzo poi dipende dal secondo: poiché il rendimento di grazie segue ai benefici offerti gratuitamente. - Ora, negli ultimi due casi è evidente che la grazia impli­ ca qualcosa in colui che la riceve: nel primo caso lo stesso dono gratuito, nel secondo la riconoscenza per esso. Nel primo di questi due casi invece bisogna notare la differenza esistente fra la grazia di Dio e la grazia degli uomini. Derivando infatti il bene delle creatu­ re dalla volontà di Dio, conseguentemente dall' amore con cui Dio vuole il bene della creatura protluisce qualche bene nella creatu­ ra stessa. Invece la volontà dell'uomo viene mossa dal bene preesistente nelle cose: e così l' amore dell' uomo non causa totalmente la bontà delle ,cose, ma la presuppone, o in parte o in tutto. E quindi evidente che ogni atto di amore da parte di Dio fa nascere nella creatu­ ra un bene che è causato, e non è mai coeter­ no ali' eterno amore. E in base alle differenze di tali beni si possono stabilire le differenze dell'amore di Dio verso la creatura. C'è infatti

    Q. 1 1 0, A. l

    La grazia di Dio nella sua essenza

    secundum quam diligit omnia quae sunt, ut dicitur Sap. 1 1 [25]; secundum quam esse naturale rebus creatis largitur. Alia autem est dilectio specialis, secundum quam trahit crea­ turam rationalem supra conditionem naturae, ad participationem divini boni. Et secundum hanc dilectionem dicitur aliquem diligere simpliciter, quia secundum hanc dilectionem vult Deus simpliciter creattrrae bonum aeter­ num, quod est ipse. - Sic igitur per hoc quod dicitur homo gratiam Dei habere, significatur quiddam supematurale in homine a Deo pro­ veniens. Quandoque tamen gratia Dei dicitur ipsa aetema Dei dilectio, secundum quod dicitur etiam gratia praedestinationis, inquan­ tum Deus gratuito, et non ex meritis, aliquos praedestinavit sive elegit; dicitur enim ad Eph. l [5 sq.], praedestinavit nos in adoptio­

    nemjìliorum, in laudem gloriae gratiae suae. Ad primum ergo dicendum quod etiam in hoc quod dicitur aliquis habere gratiam hominis, intelligitur in aliquo esse aliquid quod sit homini gratum, sicut et in hoc quod dicitur aliquis gratiam Dei habere; sed differenter. Nam illud quod est homini gratum in alio homine, praesupponittrr eius dilectioni, causa­ tur autem ex dilectione divina quod est in homine Deo gratum, ut dictum est [co.]. Ad secundum dicendum quod Deus est vita animae per modum causae efficientis, sed anima est vita corporis per modum causae for­ malis inter formam autem et materiam non cadit aliquod medium, quia fotma per seipsam informat materiam vel subiectum. Sed agens informat subiectum non per suam substan­ tiam, sed per formam quam in materia causat. Ad tertium dicendum quod Augustinus dicit, in libro Retract. [25], ubi dixi gratiam esse

    remissionem peccatorum, pacem vero in reconciliatione Dei, non sic accipiendum est ac si pax ipsa et reconciliatio non pertineant ad gratiam generalem; sed quod specialiter nomine gratiae remissionem signiflcaverit peccatorum. Non ergo sola remissio peccato­ rum ad gratiam pertinet, sed etiam multa alia Dei dona. Et etiam remissio peccatorum non fit sine aliquo effectu divinitus in nobis causa­ to, ut infra [q. 1 13 a. 2] patebit.

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    un amore universale, con il quale egli ama tutte le cose esistenti, come è detto in Sap, e in forza del quale viene elargita l ' esistenza naturale a tutte le realtà create. C'è poi un amore speciale, con cui Dio innalza la creatu­ ra razionale alla partecipazione del bene divi­ no, sopra la condizione della natura. E in que­ st'ultimo caso si dice che Dio ama qualcuno in senso assoluto: poiché con questo amore Dio vuole in senso assoluto per la creatura quel bene eterno che è lui medesimo. - Così dunque quando si dice che uno ha la grazia di Dio si vuole indicare un dono soprannaturale prodotto da Dio nell' uomo. Tuttavia talora si denomina grazia di Dio lo stesso amore eter­ no di Dio: si parla così anche della grazia della predestinazione, in quanto Dio non per i meriti, ma gratuitamente, ha scelto o predesti­ nato alcuni; infatti in Ef è detto: Ci ha prede­

    stinati a essere suoifigli adottivi, a lode e glo­ ria della sua grazia. Soluzione delle difficoltà: l . Anche quando si parla della grazia che uno riscuote da parte degli uomini si vuole intendere che in lui c'è qualcosa che lo rende gradito, come quando si dice che uno ha la grazia di Dio: ci sono però delle differenze. Infatti ciò che rende gradito un uomo a un altro è presupposto a tale amore o gradimento, mentre ciò che rende graditi a Dio viene causato dall' amore di Dio, come si è detto. 2. Dio è la vita dell'anima come causa efficien­ te; l ' anima invece è la vita del corpo come causa formale. Ora, tra la forma e la materia non ci possono essere elementi intermedi: poi­ ché la forma da se stessa informa la materia, o il soggetto. Invece la causa agente non informa il soggetto con la sua sostanza, ma mediante la forma che essa produce nella materia. 3. Agostino scrive: «Quel passo nel quale affermai che la grazia è la remissione dei pec­ cati, mentre la pace consiste nella riconcilia­ zione di Dio, non va inteso nel senso che la pace stessa e la riconciliazione non siano da attribuire alla grazia nel suo significato ordi­ nario, ma nel senso che il termine grazia può indicare in modo speciale la remissione dei peccati». Perciò la grazia non abbraccia sol­ tanto la remissione dei peccati, ma anche molti altri doni di Dio. E la stessa remissione dei peccati non avviene senza che Dio produ­ ca in noi un certo effetto, come vedremo.

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    Q. 1 1 0, A. 2

    La grazia di Dio nella sua essenza Articulus 2

    Articolo 2

    Utrurn grafia sit qualitas anirnae

    La grazia è una qualità deli' anima?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod gratia non sit qualitas animae. l . Nulla enim qualitas agit in suum subiectum, quia actio qualitatis non est absque actione subiecti, et sic oporteret quod subiectum age­ ret in seipsum. Sed gratia agit in animam, iu­ stificando ipsam. Ergo gratia non est qualitas. 2. Praeterea, substantia est nobilior qualitate. Sed gratia est nobilior quam natura animae, multa enim possumus per gratiam ad quae natura non sufficit, ut supra [q. l 09] dictum est. Ergo gratia non est qualitas. 3. Praeterea, nulla qualitas remanet postquam desinit esse in subiecto. Sed gratia remanet. Non enim corrumpitur, quia sic in nihilum redigeretur, sicut ex nihilo creatur, unde et dicitur nova creatura, ad Gal. ult. [ 1 5]. Ergo gratia non est qualitas. Sed contra est quod, super illud Psalmi l 03 [ 1 5], ut e.x:hilaret.faciem in oleo, dicit Glossa [glos. ord. et Lomb.] quod grafia est nitor ani­ mae, sanctum concilians amorem. Sed nitor animae est quaedam qualitas, sicut et pulchritu­ do corporis. Ergo gratia est quaedam qualitas. Respondeo dicendum quod, sicut iam [a. l ] dictum est, in eo qui dicitur gratiam Dei habe­ re, significatur esse quidam effectus gratuitae Dei voluntatis. Dictum est autem supra [q. 1 09 aa. 1 -2 . 5 ] quod dupliciter ex gratuita Dei voluntate homo adiuvatur. - Uno modo, in­ quantum anima hominis movetur a Deo ad aliquid cognoscendum vel volendum vel agendum. Et hoc modo ipse gratuitus effectus in homine non est qualitas, sed motus quidam animae, actus enim moventis in moto est motus, ut dicitur in 3 Phys. [3, l ] . - Alio modo adiuvatur homo ex gratuita Dei voluntate, secundum quod aliquod habituale donum a Deo animae infunditur. Et hoc ideo, quia non est conveniens quod Deus minus provideat bis quos diligit ad supernaturale bonum habendum, quam creaturis quas diligit ad bonum naturale habendum. Creaturis autem naturalibus sic providet ut non solum moveat eas ad actus naturales, sed etiam largiatur eis formas et virtutes quasdam, quae sunt prin­ cipia actuum, ut secundum seipsas inclinentur ad huiusmodi motus. Et sic motus quibus a Deo moventur, fiunt creaturis connaturales et

    Sembra di no. Infatti: l . Nessuna qualità agisce sul proprio sogget­ to: poiché l' azione della qualità è inseparabile dall'azione del soggetto, per cui quest'ultimo verrebbe ad agire su se stesso. Ma la grazia agisce sull' anima. Quindi la grazia non è una qualità. 2. La sostanza è più nobile della qualità. Inve­ ce la grazia è più nobile della natura dell'ani­ ma: poiché con la grazia possiamo fare molte cose alle quali non ba>. Quindi la grazia non è una virtù. Risposta: alcuni ritennero che la grazia si identifichi essenzialmente con la virtù, distin­ guendosi da essa solo concettualmente: essa cioè verrebbe detta grazia in quanto rende l'uomo gradito a Dio, oppure in quanto viene data gratuitamente, mentre sru·ebbe detta virtù in quanto dispone a ben operare. E sembra che questa fosse l'opinione del Maestro delle Sentenze. Se però si considera bene la no­ zione di virtù, ci si accorge che così non può essere. Come dice infatti il Filosofo, ; per cui risulta chiaro che la virtù di una realtà qualsiasi è relativa a una natura preesi­ stente: si parla cioè di virtù quando un essere è disposto in conformità con la sua natura. Ora, è evidente che le virtù acquisite con gli atti umani, e delle quali abbiamo già trattato, sono disposizioni che dispongono l'uomo in ordine alla natura umana. Le virtù infuse invece dispongono l ' uomo in una maniera superiore, e a un fine più alto: perciò è neces­ sario che esse si ricolleghino a una qualche natura superiore. E questa è la natura divina partecipata, come è detto in 2 Pt: Ci ha dona­

    to i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina. E per avere noi ricevuto questa natura possiamo dire di essere stati rigenerati come figli di Dio. - Come dunque la luce naturale della ragione è distin­ ta dalle virtù acquisite, che si ricollegano a tale luce, così la luce della grazia, che è una partecipazione della natura divina, è distinta dalle virtù infuse, che da essa derivano e ad essa sono ordinate. Per cui anche Paolo in Ef dice: Un tempo eravate tenebra, ora siete

    luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce. Come infatti le virtù acquisite predispongono l' uomo a camminare in modo conforme alla luce naturale della ragione, così le virtù infuse lo predispongono a camminare in modo conforme alla luce della grazia. Soluzione delle difficoltà: l . Agostino deno­ mina grazia la fede operante mediante la carità poiché l' atto di tale fede è il primo atto in cui si manifesta la grazia santificante. 2. La bontà di cui si parla nella definizione della virtù viene concepita come conformità a una natura preesistente, o essenziale o parteci­ pata. Non è questa invece la bontà che viene attribuita alla grazia, a cui la bontà viene attri­ buita come alla radice della bontà nell'uomo, secondo le spiegazioni date. 3. La grazia appartiene alla prima specie della qualità. Però non si identifica con la virtù, essendo invece un abito presupposto alle virtù infuse, quale loro principio e radice.

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    Q. 1 1 0, A. 4

    La grazia di Dio nella sua essenza Articulus 4

    Articolo 4

    Utrum gratia sit in essentia animae sicut in subiecto an in aliqua potentiarum

    La grazia risiede nell'essenza dell'anima?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod gra­ tia non sit in essentia animae sicut in subiecto, sed in aliqua potentiarum. l . Dicit enim Augustinus, in Hyp. [3,2], quod gratia comparatur ad voluntatem, sive ad li­ berum arbitrium, sicut sessor ad equum. Sed vo­ luntas, sive liberum arbitrium, est potentia quaedam, ut in primo [q. 83 a 2] dictum est. Er­ go gratia est in potentia animae sicut in subiecto. 2. Praeterea, ex grafia incipiunt merita homi­ nis, ut Augustinus dicit [De grat. et lib. arb. 6]. Sed meritum consistit in actu, qui ex aliqua potentia procedit. Ergo videtur quod gratia sit perfectio alicuius potentiae animae. 3 . Praeterea, si essentia animae sit proprium subiectum gratiae, oportet quod anima inquan­ tum habet essentiam, sit capax gratiae. Sed hoc est falsum, quia sic sequeretur quod ornni s anima esset gratiae capax. Non ergo es­ sentia animae est proprium subiectum gratiae. 4. Praeterea, essentia animae est prior poten­ tiis eius. Prius autem potcst intelligi sine po­ steriori. Ergo sequetur quod gratia possit in­ telligi in anima, nulla parte vel potentia ani­ mae intellecta, scilicet neque voluntate neque intellectu neque aliquo huiusmodi. Quod est inconveniens. Sed contra est quod per gratiam regeneramur in filios Dei. Sed generatio per prius termina­ tur ad essentiam quam ad potentias. Ergo gra­ tia per prius est in essentia animae quam in potentiis. Respondeo dicendum quod ista quaestio ex praecedenti [a. 3] depcndet. Si enim gratia sit idem quod virtus, necesse est quod sit in potentia animae sicut in subiecto, nam poten­ tia animae est proprium subiectum virtutis, ut supra [q. 56 a. l ] dictum est. Si autem gratia differt a virtute, non potest dici quod potentia animae sit gratiae subiectum, quia ornnis per­ fectio potentiae animae habet rationem virtu­ tis, ut supra [q. 55 a. l ; q. 56 a. l ] dictum est. Unde relinquitur quod gratia, sicut est prius virtute, ita habeat subiectum prius potentiis animae, ita scilicet quod sit in essentia animae. Sicut enim per potentiam intellectivam homo participat cognitionem divinam per virtutem fidei; et secundum potentiam voluntatis amo-

    Sembra di no. Infatti: l . Scrive Agostino che l a grazia sta alla volontà, o al libero arbitrio, «come il cavaliere sta al cavallo». Ora la volontà, o libero arbi­ trio, è una facoltà, come si è visto nella Prima Parte. Quindi la grazia risiede in una tàcoltà dell' anima. 2. Come insegna Agostino, «dalla grazia deri­ vano i meriti degli uomini». Ma i meriti con­ sistono in determinati atti, i quali promanano da una potenza. Quindi la grazia è dotazione di una potenza dell' anima. 3. Se l' essenza dell' anima è la sede propria della grazia, allora è necessario che l ' anima sia capace della grazia in quanto è un'anima. Ma ciò è falso: perché allora qualsiasi [specie di] anima sarebbe capace della grazia. Perciò l'essenza dell'anima non è il soggetto proprio della grazia. 4. L' essenza dell'anima viene prima delle sue facoltà. Ma ciò che viene prima può essere concepito senza ciò che viene dopo. E così si potrebbe concepire la grazia in un' anima a prescindere dalle parti o facoltà di quest'ulti­ ma, cioè a prescindere dalla volontà, dall'in­ telligenza, ecc. Il che è assurdo. In contrario: mediante la grazia veniamo rige­ nerati come tigli di Dio. Ma la generazione ha come termine l ' essenza più che le facoltà. Quindi la grazia è più neli' essenza deli' anima che nelle sue potenze. Risposta: questo problema dipende da quello precedente. Se infatti la grazia si identifica con le virtù è necessario che abbia la sua sede nelle potenze dell' anima. Infatti le potenze del l ' anima sono i l soggetto proprio delle virtù, come si è detto sopra. Se invece la gra­ zia differisce dalle virtù è inammissibile che le tàcoltà dell' anima siano la sede della gra­ zia: infatti qualsiasi perfezionamento delle facoltà dell'anima ha natura di virtù, come si è detto. Perciò rimane stabilito che la grazia, come precede le virtù, così deve avere una sede che preceda le potenze dell'anima: essa cioè deve risiedere nell' essenza dell'anima. Come infatti l'uomo partecipa la conoscenza divina mediante la facoltà dell'intelletto con la virtù della fede, e l 'amore divino mediante

    Q. I IO, A. 4

    l l 74

    La grazia di Dio nella sua essenza

    rem divinum, per virtutem caritatis; ita etiam per naturam animae participat, secundum quandam similitudinem, naturam divinam, per quandam rcgencrationem sive rccreationem. Ad primum ergo dicendum quod, sicut ab essentia animae eftluunt eius potentiae, quae sunt operum principia; ita etiam ab ipsa gratia effluunt virtutes in potentias animae, per quas potentiae moventur ad actus. Et secundum hoc grati a comparatur ad voluntatem u t movens ad motum, quae est comparatio ses­ soris ad equum, non autem sicut accidens ad subiectum. Et per hoc etiam patet solutio ad secundum. Est enim gratia principium meritorii operis mcdiantibus virtutibus, sicut essentia animae est principium operum vitae mediantibus potentiis. Ad tertium dicendum quod anima est subiec­ tum gratiae secundum quod est in specie intellectualis vel rationalis naturae. Non autem constituitur anima in specie per ali­ quam potentiam, cum potentiae sint proprie­ tates naturales animae speciem consequentes. Et ideo anima secundum suam essentiam dif­ fert specie ab aliis animabus, scilicct bruto­ rum animalium et plantatum. Et propter hoc, non sequitur, si essentia animae humanae sit subiectum gratiae, quod quaelibet anima pos­ sit esse gratiae subiectum, hoc enim convenit essentiae animae inquantum est talis speciei. Ad quartum dicendum quod, cum potentiae animae sint naturales proprietates speciem consequentes, anima non potest sine his esse. Dato autem quod sine his esset, adhuc tamen anima diceretur secundum speciem suam intellectualis vel rationalis, non quia actu haberet has potentias; sed propter speciem talis essentiae ex qua natae sunt huiusmodi potentiae effluere.

    QUAESTIO 1 1 1

    la facoltà volitiva con la virtù della carità, così mediante l a natura dell' anima partecipa la natura divina, secondo una certa somiglianza, con una certa generazione o licreazione. Soluzione delle difficoltà: l . Come dall'es­ senza dell'anima emanano le sue facoltà, che sono i princìpi degli atti, così dalla grazia emanano nelle varie facoltà dell ' anima le virtù, che muovono le facoltà all'atto. E così la grazia viene riferita alla volontà come il motore a ciò che è mosso, cioè come il cava­ liere al cavallo, non come un accidente al suo soggetto. 2. E così risolta anche la seconda difficoltà. Infatti la grazia è principio degli atti meritori mediante le virtù, come l'essenza dell'anima è principio degli atti vitali mediante le facoltà. 3. L' anima è sede della grazia in quanto ap­ partiene alla specie delle nature intellettive, o razionali . Ora, l ' anima non è costituita nella sua specie da qualcuna delle sue facoltà, essendo queste ultime proprietà naturali che seguono la specie. Perciò l'anima umana dif­ ferisce specificamente dalle altre anime, cioè da quelle delle bestie e delle piante, in forza della propria essenza. Se quindi l ' essenza del l ' anima umana è sede o soggetto della grazia, non ne segue che qualsiasi anima pos­ sa essere sede della grazia: ciò infatti convie­ ne all'essenza dell'anima in quanto apprutie­ ne a tale specie. 4. Essendo le facoltà dell ' anima proprietà naturali che accompagnano la specie, l'anima non può esistere senza di esse. Ma anche ammesso che esistesse in tale modo, l ' anima dovrebbe ancora dirsi intellettiva o razionale nella sua specie: non in quanto dotata di tali potenze in maniera attuale, ma per la specie di quell 'essenza dalla quale tali potenze per natura derivano.

    QUESTIONE 1 1 1

    DE DIVISIONE GRATIAE

    DIVISIONE DELLA GRAZIA

    Deinde considerandum est de divisione gra­ tiae. Et circa hoc quaeruntur quinque. Primo, utrum convenienter dividatur gratia per gra­ tiam gratis datam et gratiam gratum facien­ tem. Secundo, de divisione gratiae gratum facientis per operantem et cooperantem. Tertio, de divisione eiusdem per gratiam prae-

    Passiamo ora a considerare la divisione della grazia. Su questo tema tratteremo cinque ar­ gomenti: l . La grazia è ben divisa in grazia gratis data e grazia santificante, o gratum faciens? 2. La divisione della grazia santifi­ cante in operante e cooperante; 3. La divisio­ ne della stessa grazia in grazia preveniente e

    1 1 75

    Q. l l l , A. l

    Divisione della grazia

    venientem et subsequentem. Quarto, de divi­ sione gratiae gratis datae. Quinto, de compa­ ratione gratiae gratum facientis et gratis datae. Articulum l Utrum gratia convenienter dividatur per gratiam gratum facientem et gratiam gratis datam Ad primwn sic proceditur. Videtur quod gra­ tia non convenienter dividatur per gratiam gratum facientem et gratiam gratis datam. l . Gratia enim est quoddam Dei donum, ut ex supradictis [q. 1 1 O a. l ] patet. Homo autem ideo non est Deo gratus quia aliquid est ei datum a Deo, sed potius e converso, ideo enim aliquid datur alicui gratis a Deo, quia est homo gratus ei. Ergo nulla est gratia gratum faciens. 2. Praeterea, quaecwnque non dantur ex meri­ tis praecedentibus, dantur gratis. Sed etiam ipsum bonum naturae datur homini absque merito praecedenti, quia natura praesupponitur ad meritum. Ergo ipsa natura est etiam gratis data a Deo. Natura autem dividitur contra gra­ tiam. Inconvenienter igitur hoc quod est gratis datum, ponitur ut gratiae differentia, quia invenitur etiam extra gratiae genus. 3. Praeterea, omnis divisio debet esse per op­ posita. Sed etiam ipsa gratia gratum faciens, per quam iustificamur, gratis nobis a Deo conceditur; secundum illud Rom. 3 [24], iustifìcati gratis per gratiam ipsius. Ergo gra­ tia gratum faciens non debet dividi contra gratiam gratis datam. Sed contra est quod apostolus utrumque attri­ buit gratiae, scilicet et gratum facere, et esse gratis datum. Dicit enim quantum ad primwn, ad Eph. l [6], gratificavi! nos in dilecto Filio suo. Quantum vero ad secundum, dicitur ad Rom. 1 1 [6], si autem grafia, iam non ex ope­

    ribus, alioquin gratia iam non est gratia.

    Potest ergo distingui gratia quae vel habet unwn tantum, vel utrumque. Respondeo dicendum quod, sicut apostolus dicit, ad Rom. 1 3 [ l ], quae a Deo sunt, ordi­ nata sunt. h1 hoc autem ordo rerum consistit, quod quaedam per alia in Deum reducuntur; ut Dionysius dicit, in Cael. Hier. [4,3]. Cwn igitur gratia ad hoc ordinetur ut homo reduca­ tur in Deum, ordine quodam hoc agitur, ut scilicet quidam per alios in Deum reducantur. Secundum hoc igitur duplex est gratia. Una

    susseguente; 4. Le suddivisioni della grazia 5. n confronto tra la grazia santi­ ficante e la grazia gratis data.

    gratis data;

    Articolo l

    È giusto dividere la grazia in grazia santificante, o gratum faciens, e grazia gratis data? Sembra di no. Intàtti: l . Come si è visto, la grazia è un dono di Dio. Ora, un uomo non diviene gradito a Dio per il fatto che Dio gli dona qualcosa, ma è vero piuttosto il contrario: poiché Dio dà a qualcu­ no gratuitamente qualcosa proprio perché quella persona gli è gradita. Perciò nessuna grazia è gratumfaciens, o santificante. 2. Quanto viene dato senza meriti precedenti è dato gratis. Ma anche i beni di natura sono dati all' uomo senza un merito precedente: poiché la natura è presupposta al merito. Quindi anche la natura è data gratis da Dio. Ora, la natura viene considerata come il con­ trario della grazia. Quindi non è giusto consi­ derare la gratuità come una differenza della grazia: poiché la si riscontra anche fuori del genere della grazia. 3. Ogni divisione va fatta per termini opposti. Ora, anche la grazia santificante, con la quale veniamo giustificati, ci viene concessa da Dio gratuitamente, secondo le parole di Rm: Giu­ stificati gratuitamente per la sua grazia. Quin­ di la grazia santificante non va contrapposta, nella divisione, alla grazia gratis data. In contrario: Paolo attribuisce alla grazia que­ ste due proprietà: rendere graditi [o santifica­ re] ed essere data gratis. Infatti quanto alla prima dice in Ef Ci ha resi graditi nel suo Figlio diletto. E quanto alla seconda in Rm dice: Se è per grazia, non è per le opere; altri­ menti la grazia non è più grazia. Si può quindi distinguere la grazia che ha soltanto una delle due proprietà da quella che le ha entrambe. Risposta: come Paolo dice in Rm, le cose che sono da Dio, sono ordinate. Ora, l'ordine delle cose consiste in questo, che alcune sono neon­ dotte a Dio mediante altre, come spiega Diotù­ gi. E poiché la grazia è ordinata appunto a ricondurre l' uomo a Dio, quest'opera avviene con un certo ordine, in maniera che alcuni ritornano a Dio mediante alni Da qui dunque i due tipi di grazia. C'è infatti una grazia che

    Q. I I I , A. l

    Divisione della grazia

    quidem per quam ipse homo Deo coniungitur, quae vocatur grafia gratum.faciens. Alia vero per quam unus homo cooperatur alteri ad hoc quod ad Deum reducatur. Huiusmodi autem donum vocatur grafia gratis data, quia supra facultatem naturae, et supra meritum perso­ nae, homini conceditur, sed quia non datur ad hoc ut homo ipse per eam iustificetur, sed potius ut ad iustificationem alterius coopere­ tur, ideo non vocatur gratum faciens. Et de hac dicit apostolus, l ad Cor. 12 [7], unicui­ que datur manffestatio Spiritus ad utilitatem, scilicet aliorum. Ad primum ergo dicendum quod gratia non dicitur facere gratum effective, sed formaliter, scilicet quia per hanc homo iustificatur, et dignus efficitur vocari Deo gratus; secundum quod dicitur ad Col. l [ 1 2], dignos nos.fecit in partem sortis sanctomm in lumine. Ad secundum dicendum quod gratia, secun­ dum quod gratis datur, excludit rationem debiti. Potest autem intelligi duplex debitum. Unum quidem ex merito proveniens, quod refertur ad personam, cuius est agere merito­ ria opera; secundum illud ad Rom. 4 [4], ei qui operatur, merces imputatur secundum debitum, non secundum gratiam. Aliud est debitum ex conditione naturae, puta si dica­ mus debitum esse homini quod habeat ratio­ nem et alia quae ad humanam pertinent natu­ ram. Neutro autem modo dicitur debitum propter hoc quod Deus creaturae obligatur, sed potius inquantum creatura debet subiici Deo ut in ea divina ordinario impleatur, quae quidem est ut talis natura tales conditiones vel proprietates habeat, et quod talia operans talia consequatur. Dona igitur naturalia carent primo debito, non autem carent secundo debi­ to. Sed dona supematuralia utroque debito carent, et ideo specialius sibi nomen gratiae vindicant. Ad tertium dicendum quod gratia gratum faciens addit aliquid supra rationem gratiae gratis datae quod etiam ad rationem gratiae pertinet, quia scilicet hominem gratum facit Deo. Et ideo gratia gratis data, quae hoc non facit, retinet sibi nomen commune, sicut in pluribus aliis contingit. Et sic opponuntur duae partes divisionis sicut gratum .faciens et non.faciens gratum.

    l l 76

    ricongiunge l'uomo direttamente a Dio: ed è la grazia [santificante, o] gratum faciens. C'è poi un'altra grazia, mediante la quale un uomo aiuta l'altro a tornare a Dio. E questo dono viene chiamato grazia gratis data, poiché si tratta di una facoltà superiore alla natura e ai meriti personali: non venendo però concessa per la santificazione di chi la riceve, ma affi n­ ché uno cooperi alla santificazione altrui, non viene chiamata grazia santificante. E di essa Paolo dice in l Cor: A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune, cioè per l'utilità degli altri. Soluzione delle difficoltà: l . La grazia rende graditi non come causa efficiente, ma come causa formale: cioè per il fatto che con essa l'uomo viene giustificato, e diventa degno di essere considerato come gradito a Dio, secon­ do quanto è detto in Col: Ci ha resi degni di partecipare alla sorre dei santi nella luce. 2. La grazia, in quanto viene data gratuitamen­ te, esclude il concetto di debito. Ora, il debito può essere di due tipi. Uno dipende dal merito, e riguarda la persona capace di compiere opere meritorie; e ad esso si applicano le paro­ le di Rm: A chi lavora, il salario non viene calcolato come un dono, ma come wz debito. C'è poi un altro debito che dipende dalle esi­ genze della natura: e in tal senso si dice che a un uomo è dovuta la ragione, e le altre facoltà riguardanti la natura umana. Ora, in nessuno di questi due modi si parla di debito nel senso che Dio sia obbligato verso le creature, ma piuttosto in quanto la creatura deve sottomet­ tersi a Dio affinché in essa si compia l'ordine da lui stabilito, il quale esige che tale natura abbia tali condizioni e proprietà, e che facendo quelle date opere raggiunga quei dati fini. Nei doni naturali dunque manca il primo tipo di debito, ma non manca il secondo. Invece nei doni soprannaturali manca l'uno e l'altro: e così questi doni rivendicano per sé in modo più particolare il nome di grazia. 3. La grazia santificante, o gratum faciens, aggiunge alla nozione di grazia gratis data qualcosa che rientra sempre nel concetto di grazia: cioè il rendere l'uomo gradito a Dio. E così la grazia gratis data, che non ha questo compito, ritiene i l nome comune: come avviene in moltissimi altri casi. Perciò i due membri della divisione si oppongono tra loro come gratumfaciens e non gratumfaciens.

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    Q. 1 1 1 , A. 2

    Divisione della grazia

    Articulus 2 Utrum gratia inconvenienter dividatur per operantem et cooperantem

    È giusto dividere la grazia

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod gratia inconvenienter dividatur per operantem et cooperantem. l . Gratia enim accidens quoddam est, ut su­ pra [q. l lO a. 2 ad 2] dictum est. Sed accidens non potest agere in subiectum. Ergo nulla gra­ tia debet dici operans. 2 . Praeterea, si gratia aliquid operetur in nobis, maxime operatur iustificationem. Sed hoc non sola gratia operatur in nobis, dicit enim Augustinus [Serm. ad pop. I 69, I 1 ] , super illud Ioan. 1 4 [ 1 2], opera quae ego jàcio, et ipsefaciet, qui creavit te sine te, non iustificabit te sine te. Ergo nulla gratia debet dici simpliciter operans. 3. Praeterea, cooperari alicui videtur pertinere ad inferius agens, non autem ad principalius. Sed gratia principalius operatur in nobis quam liberum arbitrium; secundum illud Rom. 9 [16], non est volentis neque cun-entis, sed miserentis Dei. Ergo gratia non debet dici cooperans. 4. Praetcrea, divisio dcbct dari per opposita. Sed operari et coopcrari non sunt opposita, idem enim potest operari et cooperari. Ergo inconvenienter dividitur gratia per operantem et cooperantem. Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro De grat. et lib. arb. [ 1 7], cooperando Deus in nobis per.fìcit quod operando incipit, quia ipse ut velimus operatur incipiens, qui volen­ tibus cooperatur pe1jìciens. Sed operationes Dei quibus movet nos ad bonum, ad gratiam pertinent. Ergo convenienter gratia dividitur per operantem et cooperantem. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 109 aa. 2-3.6.9; q. 1 10 a. 2] dictum est, gratia dupliciter potest intelligi, uno modo, divinum auxilium quo nos movet ad bene volendum et agendum; alio modo, habituale donum nobis divinitus inditum. Utroque autem mo­ do gratia dieta convenienter dividitur per operantem et cooperantem. Operatio enim alicuius efTectus non attribuitur mobili, sed moventi. In illo ergo effectu in quo mens no­ stra est mota et non movens, solus autem Deus movens, operatio Deo attribuitur, et se­ cundum hoc dicitur grafia operans. In illo autem effectu in quo mens nostra et movet et

    Sembra di no. Infatti: l . La grazia è un accidente, come si è detto. Ma gli accidenti non possono agire sul soggetto. Quindi nessuna grazia può essere detta operante. 2. Se la grazia opera qualcosa in noi, opera specialmente la giustificazione. Ma questa non viene prodotta in noi soltanto dalla gra­ zia: infatti Agostino commenta così quel pas­ so di Gv: Anch 'egli compirà le opere che io compio: «Chi ti ha creato senza di te, non ti giustificherà senza di te». Perciò nessuna gra­ zia deve dirsi operante in senso assoluto. 3. Cooperare con qualcuno è proprio di un agente subordinato, non della causa agente principale. Ma in noi l'azione della grazia è superiore a quella del libero arbitrio, secondo le parole di Rm: Non è di chi vuole, né di chi corre, ma di Dio che usa misericordia. Quin­ di la grazia non deve dirsi cooperante. 4. Una divisione va data per termini opposti. Ma operare e cooperare non sono opposti, poiché la medesima cosa può operare e coo­ perare. Quindi non è giusto dividere la grazia in operante e cooperante. In contrario: Agostino dice: «Cooperando, Dio compie in noi quanto aveva iniziato ope­ rando: poiché è lui stesso a far sì che da prin­ cipio noi vogliamo, e a cooperare con coloro che vogliono nella conclusione dell'opera». Ma le operazioni con cui Dio muove al bene appartengono alla grazia. Quindi è giusto dividere la grazia in operante e cooperante. Risposta: come si è già notato, per grazia si possono intendere due cose: primo, l'aiuto col quale Dio ci muove a volere e a compiere il be­ ne; secondo, il dono di un abito infuso in noi da Dio. E nell'uno e nell'altro senso la grazia si divide giustamente in operante e cooperante. Infatti il compimento di un effetto non viene attribuito al soggetto mosso, ma a chi lo muo­ ve. Se quindi si considerano quegli effetti nei quali la nostra mente non muove, ma è soltanto mossa, mentre Dio solo ne è il motore, l'opera­ zione va attribuita a Dio: e allora si parla di grazia operante. Invece negli effetti in cui la nostra mente muove ed è mossa l'operazione non è attiibuita solo a Dio, ma anche all'anima: e allora si parla di grazia cooperante. - Ora, in

    Articolo 2

    in operante e cooperante?

    Q. l l l , A. 2

    Divisione della grazia

    movetur, operatio non solum attribuitur Deo, sed etiam animae, et secundum hoc dicitur grafia cooperans. - Est autem in nobis duplex actus. Primus quidem, interior voluntatis. Et quantum ad istum actum, voluntas se habet ut mota, Deus autem ut movens, et praeser­ tim cum voluntas incipit bonum velle quae prius malum volebat. Et ideo secundum quod Deus movet humanam mentem ad hunc actum, dicitur gratia operans. Alius autem actus est exterior; qui cum a voluntate impe­ retur, ut supra [q. 1 7 a. 9] habitum est, conse­ quens est ut ad hunc actum operatio attribua­ tur voluntati. Et quia etiam ad hunc actum Deus nos adiuvat, et interius confirmando voluntatem ut ad actum perveniat, et exterius facultatem operandi praebendo; respectu huius actus dicitur gratia cooperans. Unde post praemissa verba subdit Augustinus, ut

    autem velimus operatur, cum autem volumus, ut petficiamus nobis cooperatur. - Sic igitur si gratia accipiatur pro gratuita Dei motione qua movet nos ad bonum meritorium, conve­ nienter dividitur gratia per operantem et coo­ perantem. - Si vero accipiatur gratia pro habi­ tuali dono, sic etiam duplex est gratiae effec­ tus, sicut et cuiuslibet alterius formae, quo­ rum primus est esse, secundus est operatio; sicut caloris operatio est facere calidum, et exterior calefactio. Sic igitur habitualis gra­ tia, inquantum animam sanat vel iustificat, sive gratam Deo facit, dicitur gratia operans, inquantum vero est principium operis merito­ fii, quod etiam ex libero arbitrio procedit, dicitur cooperans. Ad primum ergo dicendum quod, secundum quod gratia est quaedam qualitas accidentalis, non agit in animam effective; sed formaliter, sicut albedo dicitur facere albam superficiem. Ad secundum dicendum quod Deus non sine nobis nos iustificat, quia per motum liberi arbitrii, dum iustificamur, Dei iustitiae con­ sentimus. Ille tamen motus non est causa gra­ tiae, sed effectus. Unde tota operatio pe1tinet ad gratiam. Ad tertium dicendum quod cooperari dicitur aliquis alicui non solum sicut secundarium agens principali agenti, sed sicut adiuvans ad praesuppositum finem. Homo autem per gra­ tiam operantem adiuvatur a Deo ut bonum velit. Et ideo, praesupposito iam fme, conse­ quens est ut gratia nobis cooperetur.

    l l 78

    noi ci sono due tipi di atti. Il primo è l ' atto interno della volontà. E riguardo a questo atto la volontà è mossa, mentre Dio ne è il motore: specialmente poi quando una volontà che prima voleva il male comincia a volere il bene. Perciò la mozione di Dio che porta la mente umana a questo atto viene denominata grazia operante. Il secondo tipo di atti è invece costi­ tuito dagli atti esterni; i quali essendo imperati dalla volontà, come si è visto, vengono ad essa attribuiti. E poiché Dio ci aiuta anche in questi atti, sia rafforzando interiormente la volontà per giungere ad essi, sia dando esternamente la capacità di compierli, rispetto a questi atti la grazia è detta cooperante. Per cui Agostino nel passo riferito aggiunge: «[Dio] opera affinché vogliamo; e quando vogliamo coopera con noi affinché completiamo l ' operazione» . - S e quindi per grazia si intende l a mozione gratuita con la quale Dio ci muove a compiere il bene meritorio, giustamente la grazia si divide in operante e cooperante. - Se invece per grazia si intende il dono abituale, anche allora notiamo due effetti della grazia, come in qualsiasi altra forma: il primo è l'essere, il secondo l'opera­ zione. n calore, p. es., ha come primo effetto il rendere caldo un oggetto, e come secondo il far sì che esso riscaldi esternamente. Perciò la gra­ zia abituale, in quanto risana e giustifica l'ani­ ma rendendola gradita a Dio, è detta grazia operante; in quanto invece è principio delle opere meritorie, che derivano anche dal libero arbitrio, è detta cooperante. Soluzione delle difficoltà: l . Essendo la gra­ zia una qualità accidentale, essa agisce nell'a­ nima non come causa efficiente, ma come causa formale: cioè si comporta come la bian­ chezza rispetto a una parete bianca. 2. Dio non ci giustifica senza di noi giacché nell'atto della giustificazione noi acconsentia­ mo alla giustizia di Dio col moto del nostro libero arbitrio. Però questo moto non è causa, ma effetto della grazia. E così l ' operazione appartiene interamente alla grazia. 3. Si può dire che uno coopera con un altro non solo perché è un agente secondario ri­ spetto a una causa agente principale, ma an­ che perché è di aiuto nel raggiungimento di un fine prestabilito. Ora, l' uomo viene aiutato da Dio a volere il bene con la grazia operante. Una volta quindi presupposto il fine, la grazia viene di conseguenza a cooperare con noi.

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    Q. l l l , A. 2

    Divisione della grazia

    Ad quartum dicendum quod gratia operans et cooperans est eadem gratia, sed distinguitur se­ cundum diversos effectus, ut ex dictis [co.] patet.

    4. La grazia operante e quella cooperante so­ no la medesima grazia, ma sono distinte se­ condo i diversi effetti, come si è visto.

    Articulus 3 Utrum gratia convenienter dividatur in praevenientem et subsequentem

    È giusto dividere la grazia

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod gratia inconvenienter dividatur in praevenientem et subsequentem. l . Gratia enim est divinae dilectionis effectus. Sed Dei dilectio nunquam est subsequens, sed semper praeveniens; secundum illud l Ioan. 4 [ 1 0], non quasi nos dile.x:erimus Deum, sed quia ipse prior dilexit nos. Ergo gratia non debet poni praeveniens et subsequens. 2. Praeterea, gratia gratum faciens est una tan­ tum in homine, cum sit sufficiens, secundum illud 2 ad Cor. 1 2 [9], sufficit tibi gratia mea. Sed idem non potest esse prius et posterius. Ergo gratia inconvenienter dividitur in prae­ venientem et subsequentem. 3. Praeterea, gratia cognoscitur per effectus. Sed infiniti sunt effectus gratiae, quorum unus praeccdit alium. Ergo si pcnes hoc gratia deberet dividi in praevenicntem et subsequen­ tem, videtur quod infinitae essent species gra­ tiae. Infinita autem relinquuntur a qualibet arte. Non ergo gratia convenienter dividitur in praevenientem et subsequentem. Sed contra est quod gratia Dei ex eius misericor­ dia provenit. Sed utrumque in Psalmo [58, 1 1 ] legitur, misericordia eius praeveniet me; et iterum [Ps. 22,6], misericordia eius subseque­ tur me. Ergo gratia convenienter dividitur in praevcnientem et subsequentem. Respondeo dicendum quod, sicut gratia divi­ ditur in operantem et cooperantem secundum diversos effectus, ita etiam in praevenientem et subsequentem, qualitercumque gratia acci­ piatur. Sunt autem quinque effectus gratiae in nobis, quorum primus est ut anima sanetur; secundus est ut bonum velit; tertius est ut bo­ num quod vult, efficaciter operetur; quartus est ut in bono perseveret; quintus est ut ad glo­ riam perveniat. Et ideo gratia secundum quod causat in nobis ptimum effectum, vocatur praeveniens respcctu secundi effectus; et prout causat in nobis secundum, vocatur subsequens respectu primi effectus. Et sicut unus effectus est posterior uno effectu et prior alio, ita gratia

    Articolo

    3

    in preveniente e susseguente? Sembra di no. Infatti: l . La grazia è un effetto dell' amore di Dio. Ora, l' amore col quale Dio ci ama non è mai susseguente, ma sempre preveniente, secondo le parole di l Gv: Non siamo stati noi ad ama­

    re Dio, ma è lui che per primo ha amato noi. Quindi non si deve parlare di grazia preve­ niente e susseguente. 2. La grazia santificante è unica nell'uomo, essendo essa sufficiente, secondo le parole di 2 Cor: Ti basta la mia grazia. Ora, una mede­ sima cosa non può essere anteriore e posterio­ re. Perciò non è giusto dividere la grazia in preveniente e susseguente. 3. La grazia viene conosciuta dagli effetti. Ma gli effetti della grazia sono infiniti, e uno pre­ cede l 'altro. Se quindi si dovesse dividere la grazia in preveniente e susseguente, in base a ciò vi dovrebbero essere infinite specie di gra­ zia. Ma qualsiasi scienza trascura queste sud­ divisioni infinite. Quindi non è giusto dividere la grazia in preveniente e susseguente. In contrario: la grazia di Dio proviene dalla sua misericordia. Ora, nei Salmi si leggono queste due cose: La sua misericordia mi pre­ verrà; e altrove: La sua misericordia mi se­ guirà. Quindi è giusto dividere la grazia in preveniente e susseguente. Risposta: la grazia, in qualsiasi modo venga intesa, come si divide in operante e cooperan­ te, così si divide in preveniente e susseguente secondo la diversità dei suoi effetti. Ora, cin­ que sono gli effetti che la grazia produce in noi: innanzitutto fa sì che l' anima venga risa­ nata; secondo, che voglia il bene; terzo, che possa compiere efficacemente il bene voluto; quarto, che perseveri nel bene; quinto, che raggiunga la gloria. E così la grazia, in quanto causa in noi il primo effetto, è chiamata pre­ veniente rispetto al secondo; e in quanto causa il secondo è detta susseguente rispetto al primo. E come un effetto può essere poste­ riore a un altro, pur essendo anteriore a un terzo, così la grazia relativa a un dato effetto

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    Divisione della grazia

    Q. I I I , A. 3

    potest dici et praeveniens et subsequens secundum eundem effectum, respectu diverso­ rum. Et hoc est quod Augustinus dicit, in libro De nat. et grat. [3 1 ], praevenit ut sanemur,

    subsequitur ut sanati vegetemur, praevenit ut vocemur, subsequitur ut glorificemur. Ad primum ergo dicendum quod dilectio Dei nominat aliquid aetemum, et ideo nunquam potest dici nisi praeveniens. Sed gratia signifi­ cat effectum temporalem, qui potest praece­ dere aliquid et ad aliquid subsequi. Et ideo gratia potest dici praeveniens et subsequens. Ad secundum dicendum quod gratia non diver­ sificatur per hoc quod est praeveniens et subse­ quens, secundum essentiam, sed solum secun­ dum effectum, sicut et de operante et cooperan­ te dictum est [a. 2 ad 4]. Quia etiam secundum quod gratia subsequens ad gloriam pertinet, non est alia numero a gratia praeveniente per quam nunc iustificamur. Sicut enim caritas viae non evacuatur, sed perficitur in patria, ita etiam et de lumine gratiae est dicendum, quia neu­ trum in sui ratione imperfectionem importat Ad tertium dicendum quod, quamvis effectus gratiae possint esse infiniti numero, sicut sunt infiniti actus humani; tamen omnes reducun­ tur ad aliqua determinata in specie. Et praete­ rea omnes conveniunt i n hoc quod unus alium praecedit.

    può dirsi sia preveniente che susseguente in rapporto a cose diverse. Ed è quanto dice Agostino: «Previene per guarirci, segue per­ ché guariti ci irrobustiamo; previene per chia­ marci, segue per glorificarci». Soluzione delle difficoltà: l . L' amore di Dio indica qualcosa di eterno: per cui può essere detto solo preveniente. La grazia invece indica un effetto temporale, che può precedere una cosa ed essere successivo a un'altra. E così la grazia può essere preveniente e susseguente. 2 . La grazia preveniente non ditierisce da quella susseguente in maniera essenziale, ma solo quanto agli effetti: come si è visto per la grazia operante e cooperante. Poiché anche la grazia susseguente propria della gloria sarà numericamente identica alla grazia prevenien­ te che adesso ci giustifica. Come infatti la carità della vita presente non viene distrutta, ma è sublimata nella patria, così anche la luce della grazia: poiché entrambe escludono ogni imperfezione nella loro natura. 3. Sebbene gli effetti della grazia possano es­ sere numericamente infiniti, come sono infi­ niti gli atti umani, tuttavia si riducono tutti a delle specie determinate. Inoltre tutti concor­ dano nel fatto che l'uno precede l'altro.

    Articulus 4

    Articolo 4

    Utrum gratia gratis data convenienter ab apostolo dividatur

    La grazia gratis data è ben suddivisa da Paolo?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod gra­ tia gratis data inconvenienter ab apostolo distinguatur. l . Omne enim donum quod nobis a Deo gra­ tis datur, potest dici gratia gratis data. Sed in­ finita sunt dona quae nobis gratis a Deo con­ ceduntur, tam in bonis animae quam in bonis corporis, quae tamen nos Deo gratos non faciunt. Ergo gratiae gratis datae non possunt comprehendi sub aliqua certa divisione. 2. Praeterea, gratia gratis data distinguitur con­ tra gratiam gratum facientem. Sed fides perti­ net ad gratiam gratum facientem, quia per ipsam iustificamur, secundum illud Rom. 5 [ l ], iustificati ergo e.:r fide, et cetera. Ergo incon­ venienter fides ponitur inter gratias gratis datas, praesertim cum aliae virtutes ibi non ponantur, ut spes et caritas.

    Sembra di no. Infatti: l. Qualsiasi dono gratuito di Dio può essere detto grazia gratis data. Ora, infiniti sono i doni a noi concessi gratuitamente da Dio, sia nei beni del corpo che in quelli dell'anima, che però non ci rendono a lui graditi. Quindi le grazie gratis datae non sono passibili di una divisione determinata. 2. La grazia gratis data si contrappone a quel­ la santificante. Ma la fede appartiene alla gra­ zia santificante, poiché siamo da essa giustifi­ cati, secondo le parole di Rm: Giustificati dunque per la fede. . Non è quindi giusto elencare la fede tra le grazie gratis datae: tanto più che in tale elenco mancano altre virtù, come la speranza e la carità. 3. Il dono delle guarigioni e il dono delle lin­ gue sono un certo tipo di miracoli. E così pure .

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    Divisione della grazia

    3 . Praeterea, operati o sanitatum, et loqui diversa genera linguarum, miracula quaedam sunt. Interpretatio etiam sermonum ad sapien­ tiam vel scientiam pertinet; secundum illud Dan. l [ 1 7], pueris his dedit Deus scientiam et disciplinam in omni libro et sapientia. Ergo inconvenienter dividitur gratia sanitatum, et genera linguarum , contra operationem virtu­ tum; et interpretatio sermonum contra sermo­ nem sapientiae et scientiae. 4. Praeterea, sicut sapientia et scientia sunt quaedam dona Spiritus Sancti, ita etiam intel­ lectus et consilium, pietas, fortitudo et timor, ut supra [q. 68 a. 4] dictum est. Ergo haec etiam deberent poni inter gratias gratis datas. Sed contra est quod apostolus dicit, l ad Cor. 1 2 [8 sqq.], a/ii per Spiritum datur sermo

    sapientiae, alii autem senno scientiae secun­ dum eundem Spiritum, alteri fides in eodem Spiritu, a/ii gratia sanitatum, alii operatio virtutum, a/ii prophetia, a/ii discretio spiri­ tuum, a/ii genera linguarum, alii intetpretatio sermonum. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. l ] dictum est, gratia gratis data ordinatur ad hoc quod homo alteri cooperetur ut reducatur ad Deum. Homo autem ad hoc operari non potest interius movendo, hoc enim solius Dei est; sed solum exterius docendo vel persuadendo. Et ideo gratia gratis data illa sub se continet quibus homo indiget ad hoc quod alterum instruat in rebus divinis, quae sunt supra rationem. Ad hoc autem tria requiruntur. Pri­ mo quidem, quod homo sit sortitus pleni­ tudinem cognitionis divinorum, ut ex hoc possit alios instruere. Secundo, ut possit con­ firmare vel probare ea quae dicit, alias non esset efficax eius doctrina. Tertio, ut ea quae concipit, possit convenienter auditoribus pro­ ferre. - Quantum igitur ad primum, tria sunt necessaria, sicut etiam apparet in magisterio humano. Oportet enim quod ille qui debet alium instruere in aliqua scientia, primo qui­ dem, ut principia illius scientiae sint ei certis­ sima. Et quantum ad hoc ponitur .fides, quae est certitudo de rebus invisibilibus, quae sup­ ponuntur ut principia in catholica doctrina. Secundo, oportet quod doctor recte se habeat circa principales conclusiones scientiae. Et sic ponitur sermo sapientiae, quae est cognitio divinorum. Tertio, oportet ut etiam abundet exemplis et cognitione effectuum, per quos

    Q. l l l , A. 4

    l ' interpretazione delle lingue rientra nella sa­ pienza, o nella scienza, secondo le parole di

    Dn: Dio concesse a questi quattro giovani scienza e conoscenza in ogni genere di libro e di sapienza. Quindi non è giusto distinguere il dono delle guarigioni e il dono delle lingue dalla potenza di compiere prodigi; come è errato distinguere l'interpretazione delle lin­ gue dalla parola di sapienza e di scienza. 4. Secondo le spiegazioni date, l ' intelletto, il consiglio, la pietà, la fortezza e il timore sono doni dello Spirito Santo, come la sapienza e la scienza. Quindi anch'essi dovrebbero veni­ re elencati fra le grazie gratis datae. In contrario: Paolo in l Cor dice: A uno dallo

    Spbito è data la parola della sapienza, a Wl al­ tro la parola della scienza secondo lo stesso Spi­ rito; a un alflv la fede nel medesimo Spirito; a un altm ancora il dono delle guarigioni nell'u­ nico Spirito; a un altro la potenza dei pmdigi, a un altiV la profezia, a un altm il discemimento degli spiriti, a un altm la varietà delle lingue, a un altm l'intetpretazione delle lingue. Risposta: come si è già detto, la grazia gratis data è ordinata a far sì che un uomo possa cooperare nel ricondurre a Dio un' altra perso­ na. Ora, l' uomo non può lavorare a tale scopo muovendo interiormente, come Dio solo può fare, ma unicamente insegnando e persuaden­ do dall' esterno. Perciò la grazia gratis data abbraccia tutti quei mezzi di cui l'uomo ha bisogno per istruire un altro nelle realtà divi­ ne, che sono al di sopra della ragione. Ora, per questo si richiedono tre cose. In primo luogo che uno abbia raggiunto la piena conoscenza delle realtà divine per poterle insegnare agli altri. In secondo luogo che abbia la possibilità di confermare o provare le cose che dice: altri­ menti il suo insegnamento non sarebbe effica­ ce. In terzo luogo che abbia la capacità di esporre convenientemente agli uditori quanto ha concepito. - Ora, rispetto al primo punto si richiedono tre cose, come risulta anche dal­ l ' insegnamento umano. In primo luogo chi ha il compito di insegnare ad altri una data scien­ za deve possedere in modo certissimo i princì­ pi di essa. E a tale esigenza corrisponde la fede, che è la certezza delle realtà invisibili, che sono come i princìpi fondamentali della dottrina cattolica. Secondo: chi insegna deve conoscere le principali conclusioni della scienza. E a ciò corrisponde la parola della

    Q. I I I , A. 4

    Divisione della grazia

    interdum oportet manifestare causas. Et quan­ tum ad hoc ponitur sermo scientiae, quae est cognitio rerum humanarum, quia invisibilia

    Dei per ea quae facta sunt, conspiciuntur [Rom. l ,20]. - Confrrmatio autem in his quae subduntur rationi, est per argumenta. In his autem quae sunt supra rationem divinitus reve­ lata, confirmatio est per ea quae sunt divinae virtuti propria. Et hoc dupliciter. Uno quidem modo, ut doctor sacrae doctrinae faciat quae solus Deus facere potest, in operibus miracu­ losis, sive sint ad salutem corporum, et quan­ tum ad hoc ponitur gratta sanitatum; sive ordinentur ad solam divinae potestatis mani­ festationem, sicut quod sol stet aut tene­ brescat, quod mare dividatur; et quantum ad hoc ponitur operatio virtutum. Secundo, ut possit manifestare ea quae solius Dei est scire. Et haec sunt contingentia futura, et quantum ad hoc ponitur prophetia; et etiam occulta cordium, et quantum ad hoc ponitur dise1·etio spirituum. - Facultas autem pronun­ tiandi potest attendi vel quantum ad idioma in quo aliquis intelligi possit, et secundum hoc ponuntur genera linguarum, vel quantum ad sensum eorum quae sunt proferenda, et quan­ tum ad hoc ponitur inte1pretatio sermonum. Ad primum ergo dicendum quod, sicut supra [a. l ] dictum est, non omnia beneficia quae nobis divinitus conceduntur, gratiae gratis datae dicuntur, sed solum illa quae excedunt facultatem naturae, sicut quod piscator abun­ det sermone sapientiae et scientiae et aliis huiusmodi. Et talia ponuntur hic sub gratia gratis data. Ad secundum dicendum quod fides non numeratur hic inter gratias gratis datas secun­ dum quod est quaedam virtus iustificans ho­ minem in seipso, sed secundum quod impor­ tat quandam supereminentem certitudinem fidei, ex qua homo sit idoneus ad instruendum alios de his quae ad fidem pertinent. Spes autem et caritas pertinent ad vim appetitivam, secundum quod per eam homo in Deum ordinatur. Ad tertium dicendum quod gratia sanitatum distinguitur a generali operatione virtutum, quia habet specialem rationem inducendi ad fidem; ad quam aliquis magis promptus red­ ditur per beneficium corporalis sanitatis quam per fidei virtutem assequitur. Similiter etiam loqui variis linguis, et interpretari sermones,

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    sapienza,

    che è la conoscenza delle realtà di Dio. Terzo: deve anche abbondare negli esem­ pi e nella conoscenza degli effetti, dei quali talora è necessario servirsi per far conoscere le cause. E a ciò corrisponde la parola della scienza, che è la conoscenza delle realtà umane: poiché le realtà invisibili di Dio pos­

    sono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute [Rm]. - La riprova poi, o conferma, nelle cose soggette alla ragione avviene mediante argomentazioni . Invece nelle verità divinamente rivelate e superiori alla ragione avviene mediante opere che sono proprie della potenza di Dio. E ciò in due modi. Primo, per il fatto che chi insegna la dottrina compie dei miracoli che Dio solo può fare. E ciò sia quanto alla salute del corpo, e allora abbiamo il dono delle guarigioni, sia anche quanto a semplici manifestazioni della potenza di Dio, come quando il sole si ferma o si oscura, o il mare si divide: e allora abbia­ mo la potenza dei prodigi. Secondo, per i l fatto che [il predicatore evangelico] manifesta cose che Dio solo può conoscere. E queste sono o i futuri contingenti, e si ha allora la profezia, oppure anche i segreti dei cuori, e si ha allora il discernimento degli spiriti. - Final­ mente per la capacità di esporre si richiede sia la lingua necessaria per farsi capire, e così è ricordata la varietà delle lingue, sia la com­ prensione dei termini da usare, e così si ha

    l'inte1pretazione delle lingue.

    Soluzione delle difficoltà: l . Come si è già spiegato, non tutti i benefici a noi concessi da Dio sono grazie gratis datae, ma soltanto quelli che eccedono la capacità della natura: p. es. che un pescatore sia riccamente fornito di parole di sapienza e di scienza, e altre cose del genere. E tali doni sono qui elencati come grazie speciali gratis datae. 2. La fede è qui elencata fra le grazie gratis datae non in quanto è una virtù che santifica l'uomo in se stesso, ma in quanto implica una sovraeminente certezza nel credere, tale da rendere l'uomo idoneo a istruire gli altri nelle verità di fede. Invece la speranza e la carità appartengono alla potenza appetitiva, e si limi­ tano a ordinare direttamente l'uomo a Dio. 3. II dono delle gumigioni è distinto dalla ca­ pacità generale di compiere prodigi in quanto è particolatmente adatto a indulTe alla fede, alla quale uno è reso più disponibile grazie al

    Q. l l l , A. 4

    Divisione della grazia

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    habent speciales quasdam rationes movendi ad fidem, et ideo ponuntur speciales gratiae gratis datae. Ad quartum dicendum quod sapientia et scientia non computantur inter gratias gratis datas secundum quod enumerantur inter dona Spiritus Sancti, prout scilicet mens hominis est bene mobilis per Spiritum Sanctum ad ea quae sunt sapientiae vel scientiae, sic enim sunt dona Spiritus Sancti, ut supra [q. 68 aa. 1 .4] dictum est. Sed computantur inter gratias gratis datas secundum quod important quandam abundantiam scientiae et sapientiae, ut homo possit non solum in seipso recte sapere de divinis, sed etiam alios instruere et contradicentes revincere. Et ideo inter gratias gratis datas signanter ponitur senno sapien­ tiae, et senno scientiae, quia ut Augustinus dicit, 14 De Trin. [ 1 ] , aliud est scire tantum­

    modo quid homo credere debeat propter adipiscendam vitam beatam; aliud, scire quemadmodum hoc ipsum et piis opituletur, et contra impios dejèndatur.

    beneficio della salute fisica ottenuta in virtù della fede. E così pure hanno speciali attitu­ dini a predisporre alla fede il dono delle lin­ gue e l'interpretazione delle lingue: per cui sono elencati fra le specie delle grazie gratis

    datae. 4. La sapienza e la scienza non sono elencate fra le grazie gratis datae nello stesso senso in cui sono annoverate fra i doni dello Spirito Santo, cioè in quanto sono predisposizioni prodotte dallo Spirito Santo nella mente di un uomo rigu ardo agl i i nsegnamenti d e l l a sapienza o della scienza: così infatti sono doni dello Spirito Santo, come si è detto. Sono invece elencate fra le grazie gratis datae in quanto comportano una certa sovrabbondanza di scienza e di sapienza, in modo che l'uomo sia non soltanto capace di conoscere retta­ mente per sé le cose di Dio, ma anche di istruire gli altri e di confutare gli oppositori. Perciò nell'elenco delle grazie gratis datae si parla espressamente di parole di sapienza e di parole di scienza: poiché, come insegna Ago­ stino, «altro è sapere unicamente ciò che l ' uomo deve credere per raggiungere la vita eterna, e altro è sapere come mettere tutto ciò a servizio dei buoni e difenderlo dagli empi».

    Articulus 5

    Articolo 5

    Utrum gratia gratis data sit dignior quam gratia gratum faciens

    La grazia gratis data è superiore alla grazia santificante?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod gra­ tia gratis data sit dignior quam gratia gratum faciens. l . Bonum enim gentis est melius quam bonum unius; ut philosophus dicit, in l Ethic. [2,8] . Sed gratia gratum faciens ordinatur solum ad bonum unius hominis, gratia autem gratis data ordinatur ad bonum commune totius Ecclesiae, ut supra [aa. 1 .4] dictum est. Ergo gratia gratis data est dignior quam gratia gra­ tum faciens. 2. Praeterea, maioris virtutis est quod aliquid possit agere in aliud, quam quod solum in se­ ipso perficiatur, sicut maior est claritas corpo­ ris quod potest etiam alia corpora illuminare, quam eius quod ita in se lucet quod alia illu­ minare non potest. Propter quod etiam philo­ sophus dicit, in 5 Ethic. [ l , 1 5], quod iustitia est praeclarissùna viltutum, per quam homo recte se habet etiam ad alios. Sed per gratiam

    Sembra di sì. Infatti: l . Come dice il Filosofo, «il bene del popolo è più eccellente del bene di un individuo». Ma la grazia santificante è ordinata al bene di una sola persona, mentre la grazia gratis data è per il bene comune di tutta la Chiesa, come si è notato sopra. Perciò la grazia gratis data è superiore alla grazia santificante. 2. li poter agire su altri è segno di una virtù più grande che il limitarsi a perfezionare se stessi: come lo splendore di un corpo che può illuminare anche altri corpi è superiore a quel­ lo di un corpo luminoso in se stesso, ma inca­ pace di illuminarne altri. Per cui il Filosofo insegna che «la giustizia è la più nobile delle virtù», poiché essa si estende a regolare se­ condo rettitudine anche i rapporti con gli altri. Ora, con la grazia santificante l'uomo acqui­ sta una perfezione per se stesso, mentre con la grazia gratis data opera per l a perfezione

    Q. l l l , A. S

    Divisione della grazia

    gratum facientem homo perficitur in seipso, per gratiam autem gratis datam homo operatur ad perfectionem aliorum. Ergo gratia gratis data est dignior quam gratia gratum faciens. 3. Praeterea, id quod est proprium meliorum, dignius est quam id quod est commune omnium, sicut ratiocinari, quod est proprium hominis, dignius est quam sentire, quod est commune omnibus animalibus. Sed gratia gratum faciens est communis omnibus mem­ bris Ecclesiae, gratia autem gratis data est proprium donum digniorum membrorum Ec­ clesiae. Ergo gratia gratis data est dignior quam gratia gratum faciens. Sed contra est quod apostolus, l ad Cor. 12, enumeratis gratiis gratis datis, subdit [v. 3 1 ],

    adhuc e.xcellentiorem viam vobis demonstro, et sicut per subsequentia patet, loquitur de caritate, quae pertinet ad gratiam gratum facientem. Ergo gratia gratum faciens excel­ lentior est quam gratia gratis data. Respondeo dicendum quod unaquaeque vir­ tus tanto excellentior est, quanto ad altius bonum ordinatur. Semper autem fmis potior est his quae sunt ad finem. Gratia autem gra­ tum faciens ordinat hominem immediate ad coniunctionem ultimi finis. Gratiae autem gratis datae ordinant hominem ad quaedam praeparatoria fmis ultimi, sicut per prophe­ tiam et miracula et alia huiusmodi homines inducuntur ad hoc quod ultimo fini coniun­ gantur. Et ideo gratia gratum faciens est multo excellentior quam gratia gratis data. Ad primum ergo dicendum quod, sicut philo­ sophus dicit, in 1 2 Met. [ 1 1 , 1 0, 1 ] , bonum multitudinis, sicut exercitus, est duplex. Unum quidem quod est in ipsa multitudine, puta ordo exercitus. Aliud autem quod est separa­ turo a multitudine, sicut bonum ducis, et hoc melius est, quia ad hoc etiam illud aliud ordi­ natur. Gratia autem gratis data ordinatur ad bonum commune Ecclesiae quod est ordo ecclesiasticus, sed gratia gratum faciens ordi­ natur ad bonum commune separatum, quod est ipse Deus. Et ideo gratia gratum faciens est nobilior. Ad secundum dicendum quod, si gratia gratis data posset hoc agere in altero quod homo per gratiam gratum facientem consequitur, seque­ retur quod gratia gratis data esset nobil ior, sicut excellentior est claritas solis illuminantis quam corporis illuminati. Sed per gratiam gra-

    l l 84

    degli altri. Quindi la grazia gratis data è mol­ to superiore alla grazia santificante. 3. Ciò che è prerogativa dei migliori è più nobile di ciò che è comune a tutti : come il ragionare, che è proprio dell ' uomo, è più nobile del sentire, che è comune a tutti gli ani­ mali. Ma la grazia santificante è comune a tutti i membri della Chiesa, mentre la grazia gratis data è un dono proprio dei suoi mem­ bri più nobili. Perciò essa è superiore alla gra­ zia santificante. In contrario: Paolo in l Cor, dopo aver elen­ cato l e grazie gratis datae, aggiunge: Vi mostro una via migliore di tutte; e si vede poi che parla della carità, che appartiene alla gra­ zia santificante. Quindi quest'ultima è supe­ riore alla grazia gratis data. Risposta: una virtù è tanto più nobile quanto più alto è il bene a cui è ordinata; e il fine d' altra parte è sempre superiore ai mezzi che sono ad esso ordinati. Ora, la grazia santifican­ te ordina l'uomo a raggiungere direttamente il suo fine ultimo, mentre le grazie gratis datae ordinano l 'uomo ai mezzi che predispongono ad esso: come le profezie, i miracoli e altre cose del genere preparano gli uomini a predì­ sporsi al fine ultimo. Quindi la grazia santifi­ cante è molto superiore alla grazia gratis data. Soluzione delle difficoltà: l . Come spiega il Filosofo, il bene della moltitudine, p. es. quel­ lo di un esercito, è duplice. C'è un bene in­ trinseco alla stessa moltitudine: come l'ordine dell'esercito. C'è poi un secondo bene separa­ to dalla moltitudine, che è il bene del coman­ dante supremo: e questo è superiore, poiché anche il primo è ordinato ad esso. Ora, men­ tre la grazia gratis data è ordinata al bene co­ mune della Chiesa, che è il suo ordine in­ terno, la grazia santificante è ordinata al bene comune separato, che è Dio stesso. Perciò la grazia santificante è superiore. 2. Se la grazia gratis data potesse produrre negli altri quanto uno consegue con la grazia santificante, sarebbe da ritenersi superiore: come la luce del sole che illumina è più forte di quella di un corpo illuminato. Invece me­ diante la grazia gratis data uno non può cau­ sare negli altri quell' unione con Dio di cui egli gode mediante la grazia santificante, ma produce soltanto alcune disposizioni per tale unione. Per cui non segue che la grazia gratis data sia più eccellente: come anche nel fuoco

    Divisione della grazia

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    tis datam homo non potest causare in alio coniunctionem ad Deum, quam ipse habet per gratiam gratum facientem; sed causat quas­ dam dispositiones ad hoc. Et ideo non oportet quod gratia gratis data sit excellentior, sicut nec in igne calor manifestativus speciei eius, per quam agit ad inducendum calorem in alia, est nobilior quam forma substantialis ipsius. Ad tertium dicendum quod sentire ordinatur ad ratiocinari sicut ad finem, et ideo ratioci­ nari est nobilius. Hic autem est e converso, quia id quod est proprium, ordinatur ad id quod est commune sicut ad finem. Unde non est simile.

    Q. l l l , A. S

    il calore che ne mostra la natura, e che agisce per riscaldare altri corpi, non è più nobile della forma sostanziale del fuoco. 3. Il sentire è ordinato al raziocinio come al proprio fine, per cui il ragionare è una cosa più nobile. Qui invece avviene il contrario: poiché ciò che è peculiare è ordinato a ciò che è comune come al suo fine. Quindi il parago­ ne non regge.

    QUAESTIO 1 1 2

    QUESTIONE 1 1 2

    DE CAUSA GRATIAE

    LA CAUSA DELLA GRAZIA

    Deinde considerandum est de causa gratiae. Et circa hoc quaeruntur quinque. Primo, utrum solus Deus sit causa e:fficiens gratiae. Secundo, utrum requiratur aliqua dispositio ad gratiam ex parte recipientis ipsam, per actum liberi arbitrii. Tertio, utrum talis dispo­ sitio possit esse neccssitas ad gratiam. Quarto, utrum gratia sit aequalis in omnibus. Quinto, utrum aliquis possit scire se habere gratiam.

    Passiamo ora a considerare la causa della grazia. Sull' argomento si pongono cinque quesiti: l. Solo Dio è la causa efficiente della grazia? 2. Da parte di chi la riceve si richiede una disposizione alla grazia mediante un atto del libero arbitrio? 3. Tale predisposizione rende necessaria la grazia? 4. La grazia è uguale per tutti? 5. Qualcuno può sapere di essere in grazia?

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum solus Deus sit causa gratiae

    Solo Dio è la causa della grazia?

    Ad primum sic proceditur. Videtur quod non solus Deus sit causa gratiae. l . Dicitur enim loan. l [ 1 7], gratia et veritas per Jesum Christum facta est. Sed in nomine Iesu Christi intclligitur non solum natura divina assumens, sed etiam natura creata assumpta. Ergo aliqua creatura potest esse causa gratiae. 2 . Praeterea, ista differentia ponitur inter sacramenta novae legis et veteris, quod sacra­ menta novae legis causant gratiam, quam sacramenta veteris legis solum significant. Sed sacramenta novae legis sunt quaedam visibilia elementa. Ergo non solus Deus est causa gratiae. 3. Praetcrea, secundum Dionysium, in libro Cael. Hier. [3,2; 4,2; 7,3; 8,2], angeli purgant et illuminant et perficiunt et angelos inferiores et etiam homines. Sed rationalis creatura pur­ gatur, illuminatur et perficitur per gratiam.

    Sembra di no. Infatti: l . In Gv è detto: La grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Ma quando si parla di Gesù Cristo non si intende soltanto la natu­ ra divina, bensì anche la natura creata da lui assunta. Quindi una creatura può essere causa della grazia. 2. Tra i sacramenti della nuova e quelli del­ l'antica legge si nota questa differenza, che i sacramenti della prima causano la grazia, mentre quelli della seconda la significano sol­ tanto. Ma i sacramenti della nuova legge sono realtà visibili. Quindi non soltanto Dio è la causa della grazia. 3. Come insegna Dionigi, gli angeli purifica­ no, illuminano e perfezionano sia gli angeli inferiori che gli uomini. Ma una creatura razionale è purificata, illuminata e perfeziona­ ta dalla grazia. Quindi non soltanto Dio è la causa della grazia.

    Q. 1 12, A. l

    l l 86

    La causa della grazia

    Sal

    è detto:

    Il Signore darà

    Ergo non solus Deus est causa gratiae. Sed contra est quod in Psalmo 83 [ 1 2] dicitur,

    In contrario: nel

    gratiam et gloriam dabit Dominus.

    Risposta: nessuna cosa può agire oltre ai limi­ ti della sua specie, poiché la causa deve essere sempre superiore ai suoi effetti. Ora, il dono della grazia sorpassa tutte le capacità della natura creata, non essendo altro che una par­ tecipazione della natura divina, che trascende ogni altra natura. Perciò va escluso che una natura creata possa causare la grazia. Quindi, come soltanto il fuoco può far sì che una cosa si infuochi, così è necessario che Dio solo deifichi, comunicando il consorzio della natu­ ra divina mediante una certa partecipazione assimilativa. Soluzione delle difficoltà: l . L'umanità di Cristo è «come uno strumento della sua divi­ nità>>, secondo l'espressione del Damasceno. Ora, uno strumento non compie l'azione del­ l' agente principale con la virtù propria, ma con quella del l ' agente pri ncipale. E così l' umanità di Cristo non causa la grazia per virtù propria, ma per la virtù della divinità a cui è unita, la quale fa sì che le azioni dell'u­ manità di Cristo siano salutari. 2. Come nella persona di Cristo l' umanità causa con la grazia la nostra salvezza princi­ palmente per influsso della virtù divina, così anche nei sacramenti della nuova legge istitui­ ti da Cristo la grazia viene causata strumental­ mente dai sacramenti, ma principalmente dalla virtù dello Spirito Santo che opera in essi, secondo le parole di Gv: Se uno non

    Respondeo dicendum quod nulla res agere potest ultra suam speciem, quia semper oportet quod causa potior sit effectu. Donum autem gratiae excedit omnem facultatem naturae creatae, cum nihil aliud sit quam quaedam par­ ticipatio divinae naturae, quae excedit omnem aliam naturam. Et ideo impossibile est quod aliqua creatura gratiam causet. Sic enim neces­ se est quod solus Deus deificet, communican­ do consortium divinae naturae per quandam similitudinis participationem, sicut impossibile est quod aliquid igniat nisi solus ignis. Ad primum ergo dicendum quod humanitas Christi est sicut quoddam organum divinitatis eius; ut Damascenus dicit, in 3 libro [De fide 1 9]. Instrumentum autem non agit actionem agen­ tis principalis propria virtute, sed virtute prin­ cipalis agentis. Et ideo humanitas Christi non causat gratiam propria virtute, sed virtute divinitatis adiunctae, ex qua actiones humani­ tatis Christi sunt salutares. Ad secundum dicendum quod, sicut in ipsa persona Christi humanitas causat salutem nostram per gratiam, virtute divina principali­ ter operante; ita etiam in sacramentis novae legis, quae derivantur a Christo, causatur gra­ tia instrumentaliter quidem per ipsa sacra­ menta, sed ptincipaliter per vittutem Spiritus Sancti in sacramentis operantis; secundum illud Ioan. 3 [5], nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto, et cetera. Ad tertium dicendum quod angelus purgat, illuminat et perficit angelum vel hominem, per modum instructionis cuiusdam, non autem iustificando per gratiam. Unde Dionysius dicit, 7 cap. De div. nom. [cf. DCH 7,3], quod huius­ modi purgatio, illuminano etpeifectio nihil est

    aliud quam divinae scientiae assumptio.

    grazia e gloria.

    rinascerà dall'acqua e dallo Spirito Santo ... 3. L' angelo purifica, illumina e perfeziona un altro angelo, o un uomo, mediante un am­ maestramento, non già santificando con la grazia. Per cui Dionigi affetma che questa «purificazione, illuminazione e perfeziona­ mento altro non è che una partecipazione della scienza divina>>.

    Articulus 2

    Articolo 2

    Utrum requiratur aliqua praeparatio et dispositio ad gratiam ex parte hominis

    Si richiede una preparazione o disposizione alla grazia da parte dell'uomo?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod non requiratur aliqua praeparatio sive disposi­ rio ad gratiam ex parte hominis. l . Quia ut apostolus dicit, Rom. 4 [4] , ei qui

    Sembra di no. Infatti : l . Paolo in Rm dice:

    operatur, merces non imputatur secundum

    grazia mediante

    A chi lavora il salario non viene calcolato come un dono, ma come un debito. Ora, la preparazione umana alla il libero arbitrio non avviene

    1 1 87

    La causa della grazia

    gratiam, sed secundum debitum.

    Q. 1 1 2, A. 2

    Sed praepa­ ratio hominis per liberum arbitrium non est nisi per aliquam operationem. Ergo tolleretur ratio gratiae. 2. Praeterea, ille qui in peccato progreditur, non se praeparat ad gratiam habendam. Sed aliquibus in peccato progredientibus data est gratia, sicut patet de Paulo, qui gratiam conse­ cutus estdum esset spirans minarum et caedis in discipulos Domini, ut dicitur Act. 9 [ 1 ] . Ergo nulla praeparatio ad gratiam requiritur ex parte hominis. 3 . Praeterea, agens infinitae v i rtutis non requirit dispositionem in materia, cum nec ipsam materiam requirat, sicut in creatione apparet; cui collatio gratiae comparatur, quae dicitur nova creatura, ad Gal. ult. [ 1 5]. Sed solus Deus, qui est infmitae virtutis, gratiam causat, ut dictum est [a. 1 ] . Ergo nulla prae­ paratio requiritur ex parte hominis ad gratiam consequendam. Sed contra est quod dicitur Amos 4 [ 1 2] , praeparare in occursum Dei tui, Israel. Et l Reg. 7 [3] dicitur, praeparate corda vestra

    senza un 'attività. Quindi essa eliminerebbe l 'aspetto di grazia. 2. Chi progredisce nel peccato non si prepara alla grazia. Ma la grazia fu data ad alcuni che progredivano nel peccato, come è evidente nel caso di Paolo, il quale ricevette la grazia mentre era fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore (At 9). Quindi non si richiede alcuna preparazione alla grazia da parte dell'uomo. 3. Una causa agente di potenza infinita non richiede delle disposizioni nella materia: anzi, non richiede neppure la materia, come è evi­ dente nella creazione, a cui viene paragonato il conferimento della grazia, denominata ap­ punto nuova creatura (Gal 6). Ma la grazia, come si è detto, viene causata soltanto da Dio, che è di potenza infinita. Quindi non si richie­ de alcuna preparazione da parte dell' uomo per conseguire la grazia. In contrario: in Am è detto: Preparati all'in­ contro con il tuo Dio, o Israele. E in l Sam:

    Domino.

    Risposta: come sopra si è notato, col termine grazia si possono intendere due cose: talora si intende il dono abituale di Dio, ma spesso si intende lo stesso aiuto di Dio che muove l ' a­ nima al bene. Presa dunque nel primo senso la grazia esige una preparazione: poiché una forma non può trovarsi in una materia che non sia disposta. Se invece parliamo della grazia in quanto aiuto attuale di Dio che muo­ ve al bene, allora non si richiede alcuna pre­ parazione da parte dell'uomo come preceden­ te all' aiuto di Dio: anzi, qualunque possa essere la preparazione da parte dell' uomo, essa va attribuita ali' aiuto di Dio che muove l'anima al bene. E in base a ciò lo stesso moto virtuoso del libero arbitiio con cui uno si pre­ para a ricevere il dono della grazia è un atto del libero arbitrio mosso da Dio: per cui si può dire che l'uomo si prepara, come in Pr : Sta all 'uomo preparare l'animo. E tuttavia esso va attlibuito principalmente alla mozione esercitata da Dio sul libero arbitrio: per cui è detto che spetta a Dio predisporre la volontà dell'uomo [Pr 8], e che il Signore dirige i suoi

    Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. l 09 aa. 2-3.6.9; q. 1 1 O a. 2; q. 1 1 1 a. 2] dictum est, gratia dupliciter dicitur, quandoque quidem ipsum habituale donum Dei; quandoque autem ipsum auxilium Dei moventis animam ad bonum. Primo igitur modo accipiendo gra­ tiam, praeexigitur ad gratiam aliqua gratiae praeparatio, quia nulla forma potest esse nisi in materia disposita. Sed si loquamur de gra­ tia secundum quod significat auxilium Dei moventis ad bonum, sic nulla praeparatio requiritur ex parte hominis quasi praeveniens divinum auxilium, sed potius quaecumque praeparatio in homine esse potest, est ex auxi­ l i o Dei moventis animam ad bonum. Et secundum hoc, ipse bonus motus liberi arbi­ trii quo quis praeparatur ad donum gratiae suscipiendum, est actus liberi arbitrii moti a Deo, et quantum ad hoc, dicitur homo se praeparare, secundum illud Prov. 1 6 [ 1 ] , hominis est praeparare animum. Et est princi­ paliter a Deo movente liberum arbitrium, et secundum hoc, dicitur a Deo voluntas homi­ nis praeparari [Prov. 8,35], et a Domino gressus hominis dirigi [Ps. 36,23]. Ad primum ergo dicendum quod praeparatio hominis ad gratiam habendam, quaedam est

    Fate in modo che il vostro cuore sia indirizza­ to al Signore e servite lui solo.

    passi [Sal 36]. Soluzione delle difficoltà: l . C'è una prepara­ zione alla grazia che è simultanea all' infusio­ ne della grazia. E questo atto è meritorio: non

    Q. 1 12, A. 2

    La causa della grazia

    simul cum ipsa infusione gratiae. Et talis ope­ ratio est quidem meritoria; sed non gratiae, quae iam habetur, sed gloriae, quae nondum habetur. Est autem alia praeparatio gratiae imperfecta, quae aliquando praecedit donum gratiae gratum facientis, quae tamen est a Deo movente. Sed ista non sufficit ad meri­ turo, nondum homine per gratiam iustificato, quia nullum meritum potest esse nisi ex gra­ tia, ut infra [q. 1 14 a. 2] dicetur. Ad secundum dicendum quod, cum homo ad gratiam se praeparare non possit nisi Deo eum praeveniente et movente ad bonum, non refert utrum subito vel paulatim aliquis ad perfectam praeparationem perveniat, dicitur enim Eccli. 1 1 [23], quod jàcile est in oculis Dei subito honestare pauperem. Contingit autem quandoque quod Deus movet homi­ nem ad aliquod bonum, non tamen perfec­ tum, et talis praeparatio praecedit gratiam. Sed quandoque statim perfecte movet ipsum ad bonum, et subito homo gratiam accipit; secundum illud Ioan. 6 [45], omnis qui audi­ vit a Patre et didicit, venit ad me. Et ita conti­ git Paulo, quia subito, cum esset in progressu peccati, perfecte motum est cor eius a Deo, audiendo et addiscendo et veniendo; et ideo subito est gratiam consecutus. Ad te11ium dicendum quod agens infinitae virtutis non exigit materiam, vel dispositio­ nem materiae, quasi praesuppositam ex alte­ rius causae actione. Sed tamen oportet quod, secundum conditionem rei causandae, in ipsa re causet et materiam et dispositionem debi­ tam ad formam. Et similiter ad hoc quod Deus gratiam infundat animae, nulla praepa­ ratio exigitur quam ipse non faciat.

    1 1 88

    però della grazia che già allora si possiede, bensì della gloria che ancora non si possiede. C'è poi un'altra preparazione imperfetta alla grazia, che talora precede il dono della grazia santificante, e che tuttavia viene dalla mozio­ ne di Dio. Ma questa non basta per meritare, non essendo ancora l'uomo giustificato dalla grazia: poiché, come vedremo, non ci può essere alcun merito senza la grazia. 2. Non potendo l'uomo prepararsi da solo alla grazia se Dio non lo previene e non lo muove al bene, non importa che egli raggiunga la perfetta preparazione in modo gradl!ale o improvvisamente: infatti è detto in Sir. Efaci­ le per il Signore arricchire un povero all'im­ provviso. Capita però talvolta che Dio muova l'uomo a un certo bene, non tuttavia perfetto: e questa preparazione precede la grazia. Talora invece lo muove subito perfettamente al bene, e l'uomo riceve immediatamente la grazia, secondo le parole di Gv: Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. E così avvenne per Paolo: poiché all'im­ provviso, mentre sprofondava nei peccati, il suo cuore fu mosso perfettamente da Dio ad ascoltare, a imparare e a venire. Per cui con­ seguì immediatamente la grazia. 3. Una causa agente di potenza infinita non ha bisogno né della materia né della disposizione di essa come di presupposti dovuti ad altre cause. Tuttavia è necessario che essa, secondo la condizione dell'essere da produrre, causi tanto la materia quanto la dovuta disposizione alla forma. E similmente perché Dio infonda nell'anima la grazia non si esige alcuna pre­ parazione che non produca egli stesso.

    Articulus 3

    Articolo 3

    Utrum necessario detur gratia se praeparanti ad gratiam, vel facienti quod in se est

    La grazia viene concessa necessariamente a chi si prepara ad essa, facendo quanto sta in lui?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod ex necessitate detur gratia se praeparanti ad gra­ tiam, vel facienti quod in se est. l . Quia super illud Rom. 5 [ l ], iustificati ex fide pacem habeamus etc., dicit Glossa [glos. ord. super Rom. 3,22; et Lomb. super Rom. 3 ,2 1 ], Deus recipit eum qui ad se confugit, a/iter esset in eo iniquitas. Sed impossibile est in Deo iniquitatem esse. Ergo impossibile est

    Sembra di sì. Infatti: l . La Glossa spiega così quel passo di Rm: Giustificati dalla fede abbiamo pace... : «Dio accoglie chi ricorre a lui: altrimenti in lui ci sarebbe iniquità». Ora, è impossibile che in Dio vi sia iniquità. Quindi è impossibile che Dio non accolga chi a lui ricorre. E così co­ stui riceve necessariamente la grazia. 2. Anselmo insegna che il motivo per cui Dio

    1 1 89

    La causa della grazia

    quod Deus non recipiat eum qui ad se confu­ git. Ex necessitate igitur gratiam assequitur. 2. Praeterea, Anselmus dicit, in libro De casu diaboli [3], quod ista est causa quare Deus non concedit diabolo gratiam, quia ipse non voluit accipere, nec paratus fuit. Sed remota causa, necesse est removeri effectum. Ergo si aliquis velit accipere gratiam, necesse est quod ei detur. 3. Praeterea, bonum est communicativum sui; ut patet per Dionysium, in 4 cap. De div. nom. [20] . Sed bonum gratiae est melius quam bonum naturae. Cum igitur forma natu­ ralis ex necessitate adveniat materiae disposi­ tac, v i detur quod multo magis grat i a ex necessitate detur praeparanti se ad gratiam. Sed contra est quod homo comparatur ad Deum sicut lutum ad figulum; secundum il­ lud Ier. 1 8 [6], sicut lutum in manu figuli, sic vos in manu mea. Sed lutum non ex necessi­ tate accipit formam a figulo, quantumcumque sit praeparatum. Ergo neque homo recipit ex necessitate gratiam a Deo, quantumcumque se praeparet. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a 2] dictmn est, praeparatio ad hominis gratiam est a Deo sicut a movente, a libero autem arbitrio sicut a moto. Potest igitur praeparatio dupliciter consideraci. - Uno quidem modo, sectmdum quod est a libero arbitrio. Et secundum hoc, nullam necessitatem habet ad gratiae consecu­ tionem, quia donum gratiae excedit omnem praeparationem virtutis humanae. - Alio modo potest consideraci secundum quod est a Deo movente. Et tunc habet necessitatem ad id ad quod ordinatur a Deo, non quidem coactionis, sed infallibilitatis, quia intentio Dei deficere non potest; secundum quod et Augustinus dicit, in libro De praedest. [cf. De dono persev. 14], quod per beneficia Dei certissime liberantur quicumque liberantur. Unde si ex intentione Dei moventis est quod homo cuius cor movet, gratiam consequatur, infallibiliter ipsam conse­ quitur; secundum illud Ioan. 6 [45], omnis qui

    audivit a Patre et didicit, venit ad me. Ad primum ergo dicendum quod Glossa illa loquitur de illo qui confugit ad Deum per actum meritorium liberi arbitrii iam per gra­ tiam informati, quem si non reciperet, esset contra iustitiam quam ipse statuit. Vel si refe­ ratur ad motum liberi arbitrii ante gratiam, loquitur secundum quod ipsum confugium

    Q. 1 1 2, A. 3

    non concesse la grazia al demonio è che que­ sti non la volle ricevere, e non vi si preparò. Ma tolta la causa viene eliminato anche l' ef­ fetto. Se quindi uno vuole ricevere la grazia, questa gli viene necessariamente concessa. 3. n bene tende a comunicarsi, come insegna Dionigi. Ma il bene della grazia è superiore al bene della natura. Dal momento quindi che una forma naturale sopraggiunge necessaria­ mente in una materia predisposta, a maggior ragione deve essere necessariamente concessa la grazia a chi vi si è preparato. In contrario: l'uomo sta a Dio come l'argilla al vasaio, secondo le parole di Ger: Come

    l'argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani. Ora l'argilla, per quanto pre­ parata, non riceve dal vasaio una data forma in maniera necessaria. Quindi neppure l'uo­ mo riceve da Dio necessariamente la grazia, per quanto vi si prepari. Risposta: come si è appena visto, la prepara­ zione di un uomo alla grazia appartiene a Dio come alla causa movente, e al libero arbitrio come al soggetto di tale moto. La preparazio­ ne può dunque essere considerata sotto due aspetti. - Primo, in quanto appartiene al libero arbitlio. E da questo lato essa non determina alcuna necessità quanto al conseguimento della grazia: poiché il dono della grazia tra­ scende ogni preparazione della virtù umana. Secondo, può essere considerata in quanto appartiene alla mozione divina. E allora essa implica una necessità rispetto allo scopo a cui è ordinata da Dio; però non una necessità di coazione, ma di infallibilità: poiché l' inten­ zione di Dio non può fallire, stando anche alle parole di Agostino, il quale afferma che «me­ diante i benefici di Dio sono certissimamente liberati coloro che sono liberati». Se quindi è intenzione di Dio che l ' uomo di cui egli muove il cuore ottenga la grazia, infallibil­ mente essa sarà ottenuta; come confermano le parole di Gv: Chiunque ha udito il Padre e ha

    imparato da lui, viene a me. Soluzione delle difficoltà: l . La Glossa riferi­ ta parla di colui che ricorre a Dio con un atto meritorio del libero arbitrio già informato dal­ la grazia. E se Dio non accogliesse tale atto, ciò sarebbe certamente contro la giustizia da Dio stesso stabilita. Oppure, se si riferisce al moto del libero arbitrio prima della grazia, parla del ricorso dell' uomo a Dio in quanto

    l l 90

    La causa della grazia

    Q. 1 12, A. 3

    hominis ad Deum est per motionem divinam, quam iustum est non deficere. Ad secundum dicendum quod defectus gra­ tiae prima causa est ex nobis, sed collationis gratiae prima causa est a Deo; secundum illud Osee 1 3 [9], perditio tua, lsrael, tantummodo

    dipende dalla mozione divina: la quale è giu­ sto che non fallisca. 2. La prima causa della privazione della gra­ zia va cercata in noi, mentre la prima causa del suo conferimento va cercata in Dio, secondo le parole di Os: Sei tu la tua rovina, o

    Ad tertium dicendum quod etiam in rebus naturalibus dispositio materiae non ex neces­ sitate consequitur formam, nisi per virtutem agentis qui dispositionem causat.

    3. Anche nelle realtà naturali la disposizione della materia è seguita necessariamente dalla forma solo per la virtù dell' agente che produ­ ce tale disposizione.

    ex me auxilium tuum.

    Israele, mentre solo in me sta il tuo aiuto.

    Articulus 4

    Articolo 4

    Utrum gratia sit maior in uno quam in alio

    Ci può essere maggior grazia in uno che in un altro?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod gra­ tia non sit mai or in uno quam in allo. l . Gratia enim causatur in nobis ex dilectione divina, ut dictum est [q. 1 1 0 a. 1 ] . Sed Sap. 6 [8] dicitur, pusillum et magnum ipse fecit, et aequaliter est illi cura de omnibus. Ergo omnes aequaliter gratiam ab eo consequuntur. 2. Praeterea, ea quae in summo dicuntur, non recipiunt magis et minus. Sed gratia in summo dicitur, quia conitmgit ultimo fini. Ergo non recipit magis et minus. Non ergo est maior in uno quam in alio. 3 . Praeterea, gratia est vita animae, ut supra [q. I l O a. l ad 2] dictum est. Sed vivere non dicitur secundum magis et minus. Ergo etiam neque gratia. Sed contra est quod dicitur ad Eph. 4 [7], uni­

    Sembra di no. Infatti: l . La grazia è causata in noi dall' amore di Dio, come si è visto. Ma in Sap è detto: Egli

    cuique data est gratia secundum mensuram donationis Christi. Quod autem mensurate

    datur, non omnibus aequaliter datur. Ergo non omnes aequalem gratiam habent. Respondeo dicendum quod, sicut supra [q. 52 aa. 1 -2; q. 66 aa. 1 -2] dictum est, habitus duplicem magnitudinem habere potest, unam ex parte finis vel obiecti, secundum quod dicitur una virtus alia nobilior inquantum ad maius bonum ordinatur; aliam vero ex parte subiecti, quod magis vel minus participat habitum inhaerentem. Secundum igitur pri­ mam magnitudinem, gratia gratum faciens non potest esse maior et minor, quia gratia secundum sui rationem coniungit hominem summo bono, quod est Deus. Sed ex parte subiecti, gratia potest suscipere magis vel mi­ nus, prout scilicet unus perfectius illustratur a lumine gratiae quam alius. - Cuius diver-

    ha creato il piccolo e il grande, e si cura ugualmente di tutti. Quindi tutti ricevono da

    lui la grazia in uguale misura. Quando si tratta di cose che attingono il sommo, il più e il meno non sono possibili. Ma la grazia attinge il sommo, poiché unisce l'uomo al fine ultimo. Quindi non ammette né il più né il meno. E così in uno non può essere maggiore che in un altro. 3. La grazia è la vita dell' anima, come sopra si è visto. Ma la vita non ammette gradazioni. Quindi neppure la grazia. In contrario: in Ef è detto: A ciascuno è stata

    2.

    data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Ma ciò che è dato con misura non è

    dato a tutti ugualmente. Quindi non tutti han­ no la grazia allo stesso grado. Risposta: secondo le spiegazioni date in pre­ cedenza, un abito può avere due tipi di gran­ dezza: uno relativo al fine o all' oggetto, i l quale rende una virtù superiore a un'altra i n quanto l a ordina a un bene maggiore, l' altro relativo al soggetto, i l quale può partecipare più o meno l ' abito che lo riveste. Secondo dunque il primo tipo di grandezza la grazia santificante non può essere maggiore o mino­ re: poiché l a grazia per sua natura unisce l'uomo al sommo bene, che è Dio. Ma la gra­ zia può essere maggiore o minore in rapporto al soggetto: cioè nel senso che uno può essere illuminato dalla luce della grazia più perfetta­ mente di un altro. E la ragione di questa diversità è in parte dovuta a colui che si pre-

    1 191

    Q. 1 1 2, A. 4

    La causa della grazia

    sitatis ratio quidem est aliqua ex parte praepa­ rantis se ad gratiam, qui enim se magis ad gratiam praeparat, pleniorem gratiam accipit. Sed ex hac parte non potest accipi prima ratio huius diversitatis, quia praeparatio ad gratiam non est hominis nisi inquantum liberum arbi­ trium eius praeparatur a Deo. Unde prima causa huius diversitatis accipienda est ex parte ipsius Dei, qui diversimode suae gratiae dona dispensat, ad hoc quod ex diversis gradibus pulchritudo et perfectio Ecclesiae consurgat, sicut etiam diversos gradus rerum instituit ut esset universum perfectum. Unde apostolus, ad Eph. 4, postquam dixerat [7], unicuique data est grafia secundum mensuram donationis Christi, enumeratis diversis gratiis, subiungit [ 1 2], ad consummationem sanctorum, in aedi­ ficationem corporis Christi. Ad primum ergo dicendum quod cura divina dupliciter considerati potest. Uno modo, quan­ tum ad ipsum divinum actum, qui est simplex et uniformis. Et secundum hoc, aequaliter se habet eius cura ad omnes, quia scilicet uno actu et simplici et maiora et minora dispensat. Alio modo potest considerari ex parte eorum quae in creaturis ex divina cura proveniunt. Et secundum hoc invenitur inaequalitas, inquan­ tum scilicet Deus sua cura quibusdam maiora, quibusdam minora providet dona. Ad secundum dicendum quod ratio illa proce­ dit secundum primum modum magnitudinis gratiae. Non enim potest gratia secundum hoc maior esse, quod ad maius bonum ordinet, sed ex eo quod magis vel minus ordinat ad idem bonum magis vel minus participandum. Potest enim esse diversitas intensionis et re­ missionis secundum participationem subiecti, et in ipsa gratia et in finali gloria. Ad tertium dicendum quod vita naturalis per­ tinet ad substantiam hominis, et ideo non reci­ pit magis et minus. Sed vitam gratiae partici­ pat homo accidentaliter, et ideo eam potest homo magis vel minus habere.

    para alla grazia: infatti chi meglio si prepara riceve una grazia più abbondante. Ma l a prima ragione di tale diversità non può deriva­ re da ciò: poiché la preparazione alla grazia non appartiene all'uomo se non in quanto il suo libero arbittio viene predisposto da Dio. Per cui la prima causa di questa diversità va desunta dalla parte di Dio, il quale dispensa i doni della sua grazia in diversa misura affin­ ché dalla varietà dei gradi tisulti la bellezza e la perfezione della Chiesa; come anche creò i diversi gradi degli esseri per la perfezione del­ l ' universo. Per cui in Ef Paolo, dopo aver detto che a ciascuno è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo, enume­ ra diverse grazie e conclude: per il peifezio­ namento dei santi, al fine di edificare il cmpo di Cristo. Soluzione delle difficoltà: l . La cura che Dio ha delle cose può essere considerata sotto due aspetti. Primo, in quanto è un atto divino sem­ plice e uniforme. E da questo lato la sua cura si estende ugualmente a tutti gli esseri: poiché Dio con un unico semplice atto dispensa i do­ ni più grandi come quelli più piccoli. Secon­ do, in rapporto agli effetti prodotti nelle cose dal governo di Dio. E sotto questo aspetto ci sono delle diversità: poiché Dio ad alcuni es­ seri offre doni maggiori, e ad altti minori. 2. L'argomento vale per il primo tipo di gran­ dezza applicato alla grazia. Infatti la grazia, sotto tale aspetto, non può divenire più grande ordinando a un bene maggiore, ma solo ordi­ nando un uomo a partecipare in misura mag­ giore o minore a un identico bene. Ci possono essere infatti variazioni di intensità secondo la partecipazione del soggetto sia nella grazia medesima, sia nella gloria celeste. 3. La vita naturale appartiene all'essenza del­ l'uomo, per cui non ammette gradazioni. La vita della grazia invece, l'uomo la partecipa in maniera accidentale: e così l'uomo può pos­ sederla più o meno intensamente.

    Articulus 5 Utrum homo possit scire se habere gratiam

    Articolo 5 L'uomo può sapere di essere in grazia?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod homo possit scire se habere gratiam. l . Gratia enim est in anima per sui essentiam. Sed certissima cognitio animae est eorum

    Sembra di sì. Infatti: l . La grazia risiede nell' anima per la sua es­ senza. Ora, Agostino dimostra che l'anima ha una conoscenza certissima delle realtà esi-

    Q. 1 12, A. 5

    La causa della grazia

    quae sunt in anima per sui essentiam; ut patet per Augustinum, 12 Super Gen. [25.3 1]. Ergo gratia certissime potest cognosci a Deo qui gratiam habet. 2. Praeterea, sicut scientia est donum Dei, ita et gratia. Sed qui a Deo scientiam accipit, scit se scientiam habere; secundum illud Sap. 7

    [ 17], Dominus dedit mihi horum quae sunt veram scientiam. Ergo pari ratione qui accipit

    gratiam a Deo, scit se gratiam habere. 3 . Praeterea, lumen est magis cognoscibile quam tenebra, quia secundum apostolum, ad Eph. 5 [ 1 3], omne quod man(festatUI; lumen est. Sed peccatum, quod est spiritualis tene­ bra, per certitudinem potest sciri ab eo qui habet peccatum. Ergo multo magis gratia, quae est spirituale lumen. 4. Praeterea, apostolus dicit, l ad Cor. 2 [12],

    nos autem non spiritum huius mundi accepi­ mus, sed Spiritum qui a Deo est, ut sciamus quae a Deo donata sunt nobis. Sed gratia est

    praecipuum donum Dei. Ergo homo qui acce­ pit gratiam per Spiritum Sanctum, per eun­ dem Spiritum scit gratiam esse sibi datam. 5. Praeterea, Gen. 22 [12], ex persona Domini dicitur ad Abraham, mmc cognovi quod timeas Dominum, idest, cognoscere te jèci. Loquitur autem ibi de timore casto, qui non est sine gratia. Ergo homo potest cognoscere se habere gratiam. Sed contra est quod dicitur Eccle. 9 [ l ] , nemo scit utrum sit dignus odio ve! amore. Sed gra­ tia gratum faciens facit hominem dignum Dei amore. Ergo nullus potest scire utrum habeat gratiam gratum facientem. Respondeo dicendum quod tripliciter aliquid cognosci potest. - Uno modo, per revelatio­ nem. Et hoc modo potest aliquis scire se habere gratiam. Revelat enim Deus hoc aliquando ali­ quibus ex speciali privilegio, ut securitatis gau­ dium etiam in hac vita in eis incipiat, et confi­ dentius et fortius magnifica opera prosequantur, et mala praesentis vitae sustineant, sicut Paulo dictum est, 2 ad Cor. 12 [9], sufficit tibi gratta mea. Alio modo homo cognoscit aliquid per seipsum, et hoc certitudinaliter. Et sic nullus potest scire se habere gratiam. Certitudo enim non potest haberi de aliquo, nisi possit diiudica­ ri per proprium principium, sic enim certitudo habetur de conclusionibus demonstrativis per indemonstrabilia universalia principia; nullus autem posset scire se habere scientiam alicuius -

    1 1 92

    stenti in essa per la loro essenza. Quindi la grazia può essere conosciuta con assoluta cer­ tezza da chi la possiede. 2. La grazia è un dono di Dio come la scienza. Ma chi riceve da Dio la scienza sa di averla: così è detto in Sap: Il Signore mi ha concesso la vera conoscenza delle cose. Per lo stesso motivo, quindi, chi riceve da Dio la grazia sa di avere la grazia. 3. La luce è più conoscibile delle tenebre poi­ ché, secondo Paolo (Ef 5), tutto quello che si manifesta è luce. Ora il peccato, che è tenebra spirituale, può essere conosciuto con certezza da chi è in peccato. Perciò a maggior ragione lo sarà la grazia, che è luce spirituale. 4. Paolo in l Cor dice: Noi non abbiamo rice­

    vuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio, per conoscere tutto ciò che Dio ci ha do­ nato. Ma la grazia è il più importante fra i

    doni di Dio. Quindi l 'uomo che ha ricevuto la grazia dello Spirito Santo apprende dal mede­ simo Spirito che egli ha ricevuto la grazia. 5. In Gen così il Signore fa dire [da un ange­ lo] ad Abramo: Ora so che tu temi Dio, cioè «Te l'ho fatto conoscere». Ma qui si parla del timore casto, o filiale, che non può stare senza la grazia. Quindi l ' uomo può conoscere di essere in grazia. In contrario: in Qo è detto: Nessuno sa se è degno di amore o di odio. Ma la grazia santi­ ficante rende l ' uomo degno dell ' amore di Dio. Quindi nessuno può sapere se ha la gra­ zia santificante. Risposta: una cosa può essere conosciuta in tre modi. - Primo, per rivelazione. E per que­ sta via uno può sapere di essere in grazia. Infatti Dio talora lo rivela ad alcuni per uno speciale privilegio, per iniziare in essi già in questa vita la gioia della sicurezza, e perché essi con maggiore fortezza e confidenza pro­ seguano le loro grandi opere, e affrontino le contrarietà della vita presente, come fu detto a Paolo (2 Cor): Ti basta la mia grazia. - Se­ condo, l'uomo può conoscere una cosa da se stesso e con certezza. E in questo modo nessu­ no può sapere di essere in grazia. Infatti non si può avere la certezza di una cosa se non pos­ siamo giudicarre i n base alle sue cause o princìpi propri. E così infatti che si ha la cer­ tezza delle conclusioni dimostrative mediante i princìpi universali indiscutibili, mentre nes­ suno potrebbe avere la scienza di una conclu-

    1 1 93

    La causa della grazia

    conclusionis, si principium ignoraret. Princi­ pium autem gratiae, et obiectum eius, est ipse Deus, qui propter sui excellentiam est nobis ignotus; secundum illud Iob 36 [26], ecce, Deus magnus, vincens scientiam nostram. Et ideo eius praesentia in nobis vel absentia per certitu­ dinem cognosci non potest; secundum illud Iob 9 [1 1], si venerit ad me, non videbo eum, si autem abierit, non intelligam. Et ideo homo non potest per certitudinem diiudicare utrum ipse habeat gratiam; secundum illud l ad Cor. 4 [3 sq.], sed neque meipsum iudica, qui autem iudicat me, Dominus est. - Tertio modo cogno­ scitur aliquid coniecturaliter per aliqua signa. Et hoc modo aliquis cognoscere potest se habere gratiam, inquantum scilicet percipit se delectari in Deo, et contemnere res mundanas; et inquan­ tum homo non est conscius sibi alicuius peccati m01talis. Secundum quem modum potest intel­ ligi quod habetur Apoc. 2 [ 1 7], vincenti dabo

    Q. 1 1 2, A. 5

    sione se non conoscesse i princìpi. Ora, i l principio e l ' oggetto della grazia è Dio, il quale per la sua trascendenza è a noi scono­ sciuto, secondo le parole di Gb: Ecco, Dio è

    così grande che è superiore alla nostra capa­ cità di conoscere. Perciò la sua presenza o la sua assenza in noi non la possiamo conoscere con certezza, secondo le parole di Gb: Se

    verrà verso di me, non lo vedrò; se invece si allontanerà, non lo capirò. E così l'uomo non può giudicare con certezza di essere in grazia; come è detto in l Cor: Neppure io giudico me stesso: chi mi giudica è il Signore. - Terzo, si può conoscere una cosa in maniera indiziale, attraverso certi segni. E in questo modo uno può sapere di essere in grazia: cioè in quanto trova in Dio la sua gioia, disprezza le cose del mondo e non ha coscienza di alcun peccato mortale. E in questo senso possono intendersi le parole di Ap: Al vincitore darò la manna

    manna absconditum, quod nemo novit nisi qui accipit, quia scilicet ille qui accipit, per quan­

    nascosta, che nessuno conosce all'infuori di chi la riceve: in quanto cioè chi la riceve spe­

    dam experientiam dulcedinis novit, quam non experitur ille qui non accipit. lsta tamen cogni­ tio impetfecta est. Unde apostolus dicit, l ad Cor. 4 [4], nihil mihi conscius sum, sed non in hoc iusftficatus sum. Quia ut dicitur in Psalmo

    rimenta una dolcezza che è ignota a chi non la riceve. Thttavia questa conoscenza è imper­ fetta. Per cui Paolo in l Cor dice: Anche se

    1 8 [ 1 3], delicta quis intelligit? Ab occultis meis munda me, Domine. Ad primum ergo dicendum quod illa quae sunt per essentiam sui in anima, cognoscuntur experimentali cognitione, inquantum homo experitur per actus principia intrinseca, sicut voluntatem percipimus volendo, et vitam in operibus vitae. Ad secundum dicendum quod de ratione scientiae est quod homo certitudinem habeat de his quorum habet scientiam, et similiter de ratione fidei est quod homo sit certus de his quorum habet fidem. Et hoc ideo, quia certitu­ do pettinet ad petfectionem intellectus, in quo praedicta dona existunt. Et ideo quicumque habet scientiam vel fidem, certus est se ha­ bere. Non est autem similis ratio de gratia et caritate et aliis huiusmodi, quae perficiunt vim appetitivam. Ad tertium dicendum quod peccatum habet pro principio et pro obiecto bonum commuta­ bile, quod nobis est notum. Obiectum autem vel finis gratiae est nobis ignotum, propter sui luminis immensitatem; secundum illud l ad Tim. ult. [ 1 6], lucem habitat inaccessibilem.

    non sono colpevole di colpa alcuna, non per questo sono giustificato. Perché, come è detto nel Sal, le inavvertenze chi le discerne? As­ solvimi dalle colpe che twn vedo. Soluzione delle difficoltà: l . Le realtà che si trovano nell' anima per la loro essenza sono conosciute con una conoscenza sperimentale, in quanto l'uomo attraverso le operazioni spe­ rimenta i loro princìpi interiori. Come perce­ piamo la volontà volendo, e la vita nelle ope­ razioni vitali. 2. La natura della scienza implica che l'uomo abbia la certezza dei dati scientifici; e così pure la natura della fede implica che un uomo sia certo delle cose che crede. E questo per­ ché la certezza costituisce la perfezione del­ l'intelletto, nel quale tali doni risiedono. Per­ ciò chiunque abbia la scienza, o la fede, è cer­ to di averla. Non è invece la stessa cosa per la grazia, per la carità e per gli altri abiti che risiedono nella potenza appetitiva. 3. Il peccato ha come principio e come ogget­ to un bene transitorio, che ci è noto. Invece l' oggetto o il fine della grazia è a noi scono­ sciuto, per l' immensità della sua luce: poiché secondo le parole di l Tm: Egli abita una luce

    inaccessibile.

    1 1 94

    La causa della grazia

    Q. 1 12, A. 5

    Ad quartum dicendum quod apostolus ibi loquitur de donis gloriae [l Cor. 2,9], quae sunt nobis data in spe, quae certissime cogno­ scimus per fidem; licet non cognoscamus per certitudinem nos habere gratiam, per quam nos possumus ea promereri. Vel potest dici quod loquitur de notitia privilegiata, quae est per revelationem. Unde subdit [v. 1 0], nobis

    4. Paolo parla in quel testo dei doni della glo­ ria, che sono stati offerti alla nostra speranza e che noi conosciamo in maniera certissima per fede, sebbene non siamo in grado di sapere con certezza se abbiamo la grazia con cui li possia­ mo meritare. Oppme dobbiamo dire che egli parla della conoscenza straordinaria che si ha per rivelazione. Infatti aggiunge: A noi Dio lo

    autem revelavit Deus per Spiritum Sanctl1m.

    ha rivelato per mezzo dello Spirito Santo.

    Ad quintum dicendum quod illud etiam ver­ bum Abrahae dictum, potest referri ad noti­ tiam expetimentalem, quae est per exhibitio­ nem operis. In opere enim ilio quod fecerat Abraham, cognoscere potuit expetimentaliter se Dei timorem habere. Vel potest etiam ad revelationem referri.

    5. Anche le parole tivolte ad Abramo possono essere applicate alla conoscenza sperimentale, che si ottiene attraverso il compimento delle opere. Infatti nel gesto compiuto Abramo po­ teva conoscere sperimentalmente di avere il timore di Dio. Oppure possono riferirsi a una rivelazione.

    QUAESTIO 1 1 3

    QUESTIONE 1 1 3

    DE EFFECTIBUS GRATIAE. PRIMO, DE IUSTIFICATIONE IMPII

    GLI EFFETTI DELLA GRAZIA. PRIMO, LA GIUSTIFICAZIONE DEL PECCATORE

    Deinde considerandum est de effectibus gratiae. Et primo, de iustificatione impii, quae est effectus gratiae operantis; secundo, de merito, quod est effectus gratiae cooperantis [q. 1 1 4]. Circa primum quaeruntur decem. Primo, quid sit iustificatio impii . Secundo, utrum ad eam requiratur gratiae infusio. Tertio, utrum ad eam requiratur aliquis motus liberi arbitrii. Quarto, utrum ad eam requiratur motus fidei. Quinto, utrum ad eam requiratur motus liberi arbittii contra peccatum. Sexto, utrum prae­ missis sit connumeranda remissio peccato­ rum. Septimo, utrum in iustificatione impii sit ordo temporis, aut sit subito. Octavo, de natu­ rali ordine eorum quae ad iustificationem concurrunt . Nono, utrum iustificatio impii sit maximum opus Dei. Decimo, utrum iustifica­ tio impii sit miraculosa.

    Passiamo ora a considerare gli effetti della grazia: primo, la giustificazione del peccatore, che è l'effetto della grazia operante; secondo, il merito, che è l' effetto della grazia coope­ rante. Sul primo argomento si pongono dieci quesiti: l . Che cos'è la giustificazione? 2. Per essa si tichiede l' infusione della grazia? 3. Si richiede l 'esercizio del libero arbitrio? 4. S i richiede un atto di fede? 5. Si richiede un moto del l ibero arbitrio contro il peccato? 6. A queste cose si deve aggiungere anche la remissione dei peccati? 7. Nella giustificazio­ ne del peccatore c'è un processo di tempo, o avviene all'istante? 8. Qual è l'ordine naturale degli elementi che concorrono alla giustifica­ zione? 9. La giustificazione del peccatore è la più grande opera di Dio? I O. La giustificazio­ ne del peccatore è miracolosa?

    Articulus l

    Articolo l

    Utrum iustificatio impii sit remissio peccatorum

    La giustificazione del peccatore consiste nella remissione dei peccati?

    Ad ptimum sic proceditur. Videtur quod iusti­ ficatio impii non sit remissio peccatorum. l . Peccatum enim non solum iustitiae opponi­ tur, sed omnibus virtutibus; ut ex supradictis [q. 7 1 a l ] patet. Sed iustificatio significat mo­ tum quendam ad iustitiam. Non ergo omnis

    Sembra di no. Infatti: l . Come sopra si è detto, il peccato non si contrappone soltanto alla giustizia, ma a qual­ siasi virtù. Invece la giustificazione sta a indi­ care un moto verso la giustizia. Quindi non ogni remissione dei peccati è una giustifica-

    1 1 95

    Gli effetti della grazia. Primo, la giustificazione del peccatore

    peccati remissio est iustificatio, cum omnis motus sit de contrario in contrarium. 2. Praeterea, unumquodque debet denominati ab eo quod est potissimum in ipso, ut dicitur in 2 De anima [4, 1 5]. Sed remissio peccato­ rum praecipue fit per fidem, secundum illud Act. 15 [9], jide purifìcans corda eorum; et per caritatem, secundum illud Prov. 10 [12], universa delicta operit caritas. Magis ergo remissio peccatorum debuit denominati a fide vel a caritate, quam a iustitia. 3. Praeterea, remissio peccatorum idem esse videtur quod vocatio, vocatur enim qui distat; distat autem aliquis a Deo per peccatum. Sed vocatio iustificationem praecedit; secundum illud Rom. 8 [30], quos vocavit, hos et iustifìcavit. Ergo iustificatio non est remissio peccatorum. Sed contra est quod, Rom. 8 [30] super illud, quos vocavit, hos et iustifìcavit, dicit Glossa [glos. int. et Lomb.], remissione peccatorum. Ergo remissio peccatorum est iustificatio. Respondeo dicendum quod iustificatio passi­ ve accepta importat motum ad iustitiam; sicut et ca1efactio motum ad ca1orem. Cum autem iustitia de sui ratione importet quandam recti­ tudinem ordinis, dupliciter accipi potest. Uno modo, secundum quod importat ordinem rectum in ipso actu hominis. Et secundum hoc iustitia ponitur virtus quaedam, sive sit particularis iustitia, quae ordinat actum homi­ nis secundum rectitudinem in comparatione ad alium singularem hominem; sive sit iusti­ tia legalis, quae ordinat secundum rectitudi­ nem actum hominis i n comparatione ad bonum commune multitudinis; ut patet in 5 Ethic. [ 1 , 1 2; 2, 1 ] . - Alio modo dicitur iustitia prout importat rectitudinem quandam ordinis in ipsa interiori dispositione hominis, prout scilicet supremum hominis subditur Deo, et inferiores vires animae subduntur supremae, scilicet rationi. Et hanc etiam dispositionem vocat philosophus, in 5 Ethic. [ I l ,9], iustitiam metaphorice dictam. Haec autem iustitia in homine potest fieri dupliciter. Uno quidem modo, per modum simplicis generationis, quae est ex privatione ad formam. Et hoc modo iustificatio posset competere etiam ei qui non csset in peccato, dum huiusmodi iustitiam a Deo acciperet, sicut Adam dicitur accepisse originalem iustitiam. - Alio modo potest fieri huiusmodi iustitia i n homine secundum rationem motus qui est de contra-

    Q. 1 1 3, A. l

    zione, essendo ogni moto un passaggio da un contrario all'altro. 2. Ogni cosa deve essere denominata dal suo elemento principale, come nota Aristotele. Ora, la remissione dei peccati avviene princi­ palmente mediante la fede, secondo l' espres­ sione di At: Purificandone i cuori con la fede, e mediante la carità, secondo le parole di Pr: La carità copre tutti i peccati. Perciò la remis­ sione dei peccati deve essere denominata più dalla fede e dalla carità che dalla giustizia. 3. La remissione dei peccati si identifica con la vocazione, o chiamata: infatti viene chia­ mato chi è distante, e uno è distante da Dio per il peccato. Ma la vocazione precede la giustificazione, come è detto in Rm: Quelli che ha chiamati, li ha anche giustificati. Quindi la giustificazione non consiste nella remissione dei peccati. In contrario: la Glossa, spiegando il passo di Rm: Quelli che ha chiamati li ha anche giusti­ ficati, aggiunge «mediante la remissione dei peccati». Quindi la remissione dei peccati non è altro che la giustificazione. Risposta: la giustificazione al passivo implica un moto verso la giustizia, come il riscalda­ mento implica un moto verso il calore. Ma poiché la giustizia nel suo concetto implica la rettitudine di un ordine, essa può essere presa in due sensi diversi. - Primo, in quanto impli­ ca un ordine retto nell'atto medesimo dell'uo­ mo. E in questo senso, come insegna Aristote­ le, la giustizia è una virtù speciale: sia che si tratti della giustizia particolare, che ordina ret­ tamente l 'atto di un uomo in rapporto a un'al­ tra persona singola, sia che si tratti della giusti­ zia legale, che ordina rettamente gli atti di un uomo in rapporto al bene comune della collet­ tività - Secondo, la giustizia può indicare la rettitudine dell'ordine nella stessa disposizione interna dell' uomo: cioè la subordinazione della sua parte superiore a Dio, e delle potenze inferiori dell'anima alla facoltà suprema, ossia alla ragione. E anche questa disposizione è chiamata da Aristotele giustizia «in senso me­ taforico». E questa giustizia nell'uomo può at­ tuarsi in due modi. Primo, come semplice ge­ nerazione, che parte dalla privazione della forma E in questo senso la giustificazione può essere attribuita anche a colui che, senza esse­ re in peccato, ricevesse tale giustizia da Dio: è così infatti che Adamo ricevette la giustizia

    Q. 1 1 3, A. l

    Gli effetti della grazia. Primo, la giustificazione delpeccatore

    rio in contrarium. Et secundum hoc, iustifica­ tio importat transmutationem quandam de statu iniustitiae ad statum iustitiae praedictae. Et hoc modo loquimur hic de iustificatione impii; secundum illud apostoli, ad Rom. 4 [5] , ei qui non operatur, credenti autem in eum qui iustificat impium, et cetera. Et quia motus magis denominatur a termino ad quem quam a termino a quo, ideo huiusmodi trans­ mutatio, qua aliquis transmutatur a statu iniu­ stitiae per remissionem peccati, sortitur nomen a termino ad quem, et vocatur iustifi­ catio impii. Ad primum ergo dicendum quod omne pec­ catum, secundum quod importat quandam inordinationem mentis non subditae Deo, iniustitia potest dici praedictae [co.] iustitiae contraria; secundum illud l Ioan. 3 [4], omnis

    qui facit peccatum, et iniquitatem facit, et peccatum est iniquitas. Et secundum hoc, remotio cuiuslibet peccati dicitur iustificatio. Ad secundum dicendum quod fides et caritas dicunt ordinem specialem mentis humanae ad Deum secundum intellectum vel affectum. Sed iustitia importat generaliter totam recti­ tudinem ordinis. Et ideo magis denominatur huiusmodi transmutatio a iustitia quam a cari­ tate vel fide. Ad tertium dicendum quod vocatio refertur ad auxilium Dei interius moventis et excitan­ tis mentem ad deserendum peccatum. Quae quidem motio Dei non est ipsa remissio pec­ cati, sed causa eius.

    1 1 96

    originale. - Secondo, quest'ultima giustizia può attuarsi nell'uomo attraverso il passaggio da un dato termine al suo contrario. In questo senso dunque la giustificazione implica la tra­ smutazione da uno stato precedente di ingiu­ stizia a tale giustizia. Ed è in questo modo che si parla della giustificazione del peccatore, secondo le parole di Rm: A chi non lavora, ma crede in colui che giustifica il peccatore... E poiché un moto viene denominato più dal ter­ mine di arrivo che da quello di partenza, que­ sta trasmutazione, in cui uno abbandona lo stato di ingiustizia con la remissione dei pec­ cati, viene detta giustificazione del peccatore in base al termine di arrivo. Soluzione delle difficoltà: l . Qualsiasi peccato, in quanto implica un'insubordinazione dell'a­ nima a Dio, può essere considerato un'ingiusti­ zia, contraria alla giustizia di cui abbiamo parla­ to. Così è detto in l Gv: Chiunque commette il

    peccato commette violazione della legge, per­ ché il peccato è violazione della legge. E in questo senso l'eliminazione di qualsiasi peccato è una giustificazione. 2. La fede e la carità indicano un ordine specia­ le dell' anima umana verso Dio, secondo l' in­ telletto o la volontà. Invece la giustizia indica in generale tutta la rettitudine dell'ordine. E co­ sì la trasmutazione suddetta viene denominata più dalla giustizia che dalla carità o dalla fede. 3. La vocazione dice rapporto all'aiuto di Dio che muove interiormente e sollecita l'anima ad abbandonare i l peccato . Ora, questa mozione divina non è la remissione stessa del peccato, ma la sua causa.

    Articulus 2

    Articolo 2

    Utrum ad remissionem culpae quae est iustificatio impii requiratur gratiae infusio

    La remissione del peccato, ossia la giustificazione del peccatore, richiede l'infusione della grazia?

    Ad secundum sic proceditur. Videtur quod ad remissionem culpae, quae est iustificatio impii, non requiratur gratiae infusio. l . Potest enim aliquis removeri ab uno contra­ rio sine hoc quod perducatur ad alterum, si con­ traria sint mediata. Sed status culpae et status gratiae sunt contratia mediata, est enim medius status innocentiae, in quo homo nec gratiam habet nec culpam. Ergo potest alicui remitti culpa sine hoc quod perducatur ad gratiam. 2. Praeterea, rernissio culpae consistit in repu­ tatione divina; secundum illud Psalmi 3 1 [2],

    Sembra di no. Infàtti: l . Uno può recedere da un termine senza rag­ giungere il termine contrario, se si tratta di con­ trari che ammettono un termine intermedio. Ora, fra lo stato di grazia e lo stato di colpa c'è uno stato intermedio, cioè lo stato di innocenza, nel quale l'uomo è privo sia della grazia che della colpa Quindi a uno può essere condonata la colpa senza che per questo consegua la grazia. 2. La remissione della colpa si riduce a una decisione di Dio, secondo le parole del Sal:

    1 1 97

    Gli effetti della grazia. Primo, la giustificazione del peccatore

    beatus vir cui non imputavit Dominus pecca­ tum. Sed infusio gratiae ponit etiam aliquid in nobis, ut supra [q. 1 1 O a. l] habitum est. Ergo

    Q. l l 3, A. 2

    Beato l'uomo a cui Dio non ha imputato il peccato. Invece l' infusione della grazia mette

    infusio gratiae non requiritur ad remissionem culpae. 3 . Praeterea, nullus subiicitur simul duobus contrariis. Sed quaedam peccata sunt contra­ ria, sicut prodigalitas et illiberalitas. Ergo qui subiicitur peccato prodigalitatis, non simul subiicitur peccato illiberalitatis. Potest tamen contingere quod ptius ei subiiciebatur. Ergo peccando vitio prodigalitatis, liberatur a pec­ cato illiberalitatis. Et sic remittitur aliquod peccatum sine gratia. Sed contra est quod dicitur Rom. 3 [24], iusti­

    in noi qualcosa, come sopra si è detto. Quindi per la remissione dei peccati non si richiede l'infusione della grazia. 3. Nessuno può avere contemporaneamente due atti contrari. Ora, certi peccati sono con­ trari fra loro, come la prodigalità e l' avarizia. Quindi chi pecca di prodigalità non può pec­ care simultaneamente di avarizia. Può tuttavia darsi che lo abbia fatto in precedenza. Pec­ cando quindi di prodigalità uno si libera del peccato contrario . E così viene rimesso un peccato senza la grazia. In contrario: in Rm è detto: Giustificati gratui­

    ficati gratis per gratiam ipsius.

    tamente per la sua grazia.

    Respondeo dicendum quod homo peccando Deum offendit, sicut ex supradictis [q. 7 1 a. 6; q. 87 a. 3] patet. Offensa autem non remittitur alicui nisi per hoc quod animus offensi pacatur offendenti. Et ideo secundum hoc peccatum nobis remitti dicitur, quod Deus nobis pacatur. Quae quidem pax consistit in dilectione qua Deus nos diligit. Dilectio autem Dei, quantum est ex parte actus divini, est aetema et immu­ tabilis, sed quantum ad effectum quem nobis imprimit, quandoque intemunpitur, prout sci­ licet ab ipso quandoque deficimus et quan­ doque iterum recuperamus. Effectus autem divinae dilectionis in nobis qui per peccatum tollitur, est gratia, qua homo fit dignus vita aeterna, a qua peccatum mortale excludit. Et ideo non posset intelligi remissio culpae, nisi adesset infusio gratiae. Ad primum ergo dicendum quod plus requiri­ tur ad hoc quod offendenti remittatur offensa, quam ad hoc quod simpliciter aliquis non offendens non habeatur odio. Potest enim apud homines contingere quod unus homo ali­ quem alium nec diligat nec odiat; sed si eum offendat, quod ei dimittat offensam, hoc non potest contingere absque speciali benevolen­ tia. Benevolentia autem Dei ad hominem reparari dicitur per donum gratiae. Et ideo licet, antequam homo peccet, potuerit esse sine gratia et sine culpa; tamen post peccatum, non potest esse sine culpa nisi gratiam habeat. Ad secundum dicendum quod, sicut dilectio Dei non solum consistit in actu voluntatis divinae, sed etiam importat quendam gratiae effectum, ut supra [q. 1 1 O a. l ] dictum est; ita etiam et hoc quod est Deum non imputare

    Risposta: l 'uomo peccando offende Dio, co­ me sopra si è visto. Ora, un'offesa viene con­ donata solo perché l' animo dell' offeso si rap­ pacifica con il colpevole. Perciò si dice che a noi sono rimessi i peccati in quanto Dio si rappacifica con noi. E questa pace consiste nell' amore con cui Dio ci ama. Ora l'amore di Dio, pur essendo eterno e immutabile co­ me atto divino, negli effetti che imprime in noi talora si interrompe, in quanto cioè talvol­ ta noi abbandoniamo Dio e talvolta lo ritro­ viamo nuovamente. Ma l 'effetto prodotto in noi dall'amore che Dio ci porta, e che il pec­ cato distrugge, è la grazia, che rende l'uomo degno della vita eterna, dalla quale il peccato mortale esclude. Quindi non si può concepire la remissione del peccato senza l ' infusione della grazia. Soluzione delle difficoltà: l . Si richiede di più per condonare a qualcuno un' offesa che per limitarsi a non odiare chi non offende. Può infatti capitare tra gli uomini che un uomo non abbia né amore né odio per un'altra per­ sona; se però questa lo offende, non può per­ donarla senza una particolare benevolenza. Ora, la benevolenza di Dio verso l ' uomo viene ristabilita col dono della grazia. E così l'uomo, sebbene prima del peccato avrebbe potuto anche trovarsi senza grazia e senza colpa, tuttavia dopo il peccato non può libe­ rarsi dalla colpa senza ricevere la grazia. 2. Come l'amore di Dio non consiste soltanto in un atto della volontà divina, ma implica un effetto della grazia, come sopra abbiamo ac­ cennato, così anche il suo non imputare la colpa implica un effetto neli' uomo al quale

    Q. 1 1 3, A. 2

    Gli effetti della grazia. Primo, la giustificazione delpeccatore

    peccatum homini, importat quendam effec­ tum in ipso cuius peccatum non imputatur. Quod enim alicui non imputetur peccatum a Deo, ex divina dilectione procedit. Ad tertium dicendum quod, sicut Augustinus dicit, in libro De nupt. [ I ,26], si a peccato

    desistere, hoc esset non habere peccatum, suf­ ficeret ut hoc moneret Scriptura [Eccli. 2 1 , 1 ], fili, peccasti, non adiicias iterum. Non autem sufficit, sed additw; et de pristinis deprecare, ut tibi remittantur. Transit enim peccatum actu, et remanet reatu, ut supra [q. 87 a. 6] dictum est. Et ideo cum aliquis a peccato unius vitii transit in peccatum contrarli vitii, desinit quidem habere actum praeteriti, sed non desinit habere reatum, unde simul habet reatum utriusque peccati. Non enim peccata sunt sibi contraria ex parte aversionis a Deo, ex qua parte peccatum reatum habet.

    1 1 98

    tale colpa non è imputata. Infatti la non impu­ tazione del peccato da parte di Dio deriva dal suo amore. 3. Come insegna Agostino, «se per non avere più il peccato bastasse desistere dal commet­ terlo, la Scrittura si limiterebbe ad ammonire: "Figlio, hai peccato, non lo fare più". Invece non basta, e aggiunge: "Pentiti del passato, per ottenere i l perdono"». Infatti i l peccato passa come atto, ma rimane come reato, secondo le spiegazioni date in precedenza. Perciò quando uno passa da un dato peccato a quello del vizio contrario cessa di avere l' atto del vizio precedente, ma non cessa di averne il reato: per cui assomma il reato di entrambi. Infatti i peccati non sono contrari fra loro dalla parte dell'allontanamento da Dio, da cui si desume il reato.

    Articulus 3

    Articolo 3

    Utrum ad iustificationem impii requiratur motus liberi arbitrii

    Per la giustificazione del peccatore si richiede l'esercizio del libero arbitrio?

    Ad tertium sic proceditur. Videtur quod ad iustificationem impii non requiratur motus liberi arbitrii. l . Videmus enim quod per sacramentum Baptismi iustificantur pueri absque motu libe­ ri arbitrii, et etiam interdum adulti, dicit enim Augustinus, in 4 Conf. [4], quod cum quidam suus amicus laboraret febribus, iacuit diu sine

    Sembra di no. Infatti: l . Vediamo che i bambini, e talora anche gli adulti, vengono giustificati col sacramento del battesimo senza l ' esercizio del libero arbitrio. Agostino racconta infatti di un suo amico che, mentre era in preda alla febbre, «rimase a lungo privo di sensi in un sudore di morte; e considerato ormai perduto, fu bat­ tezzato senza che egli se ne accorgesse, e ot­ tenne la rigenerazione», la quale avviene me­ diante la grazia santificante. Ora, Dio non ha legato la sua potenza ai sacramenti. Quindi egli potrebbe giustificare gli uomini anche senza i sacramenti, e senza alcun moto del libero arbitrio. 2. Mentre donne l'uomo non ha l'uso della ragione, senza il quale è impossibile l' eserci­ zio del libero arbitrio. Eppure Salomone rice­ vette da Dio il dono della sapienza mentre dormiva, come narrano l Re 3 e 2 Cr l . Per lo stesso motivo quindi può essere talora con­ cesso all'uomo il dono della grazia giustifi­ cante senza l'esercizio del libero arbitrio. 3. Identica è la causa che produce la grazia e la conserva: infatti Agostino dice che «l'uo­ mo deve rivolgersi a Dio in modo da essere reso giusto da lui per sempre». Ma la grazia si conserva nell'uomo senza l 'esercizio del libe-

    sensu in sudore letali; et dum desperaretur, baptizatus est nesciens, et recreatus est; quod fit per gratiam iustificantem. Sed Deus poten­ tiam suam non alligavit sacramentis. Ergo etiam potest iustificare hominem sine sacra­ mentis absque omni motu liberi arbitrii. 2. Praeterea, in donniendo homo non habet usum rationis, sine quo non potest esse motus liberi arbitrii . Sed Salomon in dormiendo consecutus est a Deo donum sapientiae; ut habetur 3 Reg. 3 [5 sqq.], et 2 Parai. l [7 sqq.]. Ergo etiam, pari ratione, donum gratiae iustificantis quandoque datur homini a Deo absque motu liberi arbitrii. 3. Praeterea, per eandem causam gratia pro­ ducitur in esse et conservatur, dicit enim Augustinus, 8 Super Gen. [ 1 2], quod ita se

    debet homo ad Deum convertere, ut ab ilio semper fiat iustus. Sed absque motu liberi arbitrii gratia in homine conservatur. Ergo

    1 1 99

    Gli effetti della grazia. Primo, la giustificazione del peccatore

    absque motu liberi arbitrii potest a principio infundi. Sed contra est quod dicitur loan. 6 [45],

    omnis qui audit a Patre et didicit, venit ad me. Sed discere non est sine motu liberi arbi­ trii, addiscens enim consentit docenti . Ergo nullus venit ad Deum per gratiam iustifican­ tem absque motu liberi arbitrii. Respondeo dicendum quod iustificatio impii fit Deo movente hominem ad iustitiam, ipse enim est qui iustificat impium, ut dicitur Rom. 4 [5]. Deus autem movet omnia secundum modum uniuscuiusque, sicut in naturalibus videmus quod aliter moventur ab ipso gravia et aliter levia, propter diversam naturam utrius­ que. Unde et homines ad iustitiam movet secundum conditionem naturae humanae. Homo autem secundum propriam naturam habet quod sit liberi arbitrii. Et ideo in eo qui habet usum liberi arbitrii, non fit motio a Deo ad iustitiam absque motu liberi arbitrii; sed ita infundit donum gratiae iustificantis, quod etiam simul cum hoc movet liberum arbitrium ad donum gratiae acceptandum, in bis qui sunt huius motionis capaces. Ad primum ergo dicendum quod pueri non sunt capaces motus liberi arbitrii, et ideo moventur a Deo ad iustitiam per solam infor­ mationem animae ipsorum. Non autem hoc fit sine sacramento, quia sicut peccatum origi­ nale, a quo iustificantur, non propria voluntate ad eos pervenit, sed per carnalem originem; ita etiam per spiritualem regenerationem a Christo in eos gratia derivatur. Et eadem ratio est de furiosis et amentibus qui nunquam usum liberi arbitrii habuerunt. Sed si quis ali­ quando habuerit usum liberi arbitrii, et post­ modum eo careat ve] per infinnitatem vel per sornnum; non consequitur gratiam iustifican­ tem per Baptismum exterius adhibitum, aut per aliquod aliud sacramentum, nisi prius habuerit sacramentum in proposito; quod sine usu liberi arbitrii non contingit. Et hoc modo ille de quo loquitur Augustinus, recreatus fuit, quia et prius et postea baptismum acceptavit [Conf. 4,4]. Ad secundum dicendum quod etiam Salomon donniendo non meruit sapientiam, nec acce­ pit. Sed in somno declaratum est ei quod, propter praecedens desiderium, ei a Deo sapientia infunderetur, unde ex eius persona dicitur, Sap. 7 [7], optavi, et datus est mihi

    Q. 1 1 3, A. 3

    ro arbitrio. Quindi anche all'inizio può essere infusa senza il suo intervento. In contrario: in Gv è detto: Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Ma l' apprendimento non avviene senza l ' eser­ cizio del libero arbitrio: infatti chi i mpara acconsente a chi insegna. Perciò nessuno va a Dio con la grazia santificante senza l' eserci­ zio del libero arbitrio. Risposta: la giustificazione del peccatore av­ viene perché Dio muove l ' uomo alla giusti­ zia: è lui infatti che giustifica il peccatore, co­ me è detto in Rm. Dio però muove tutti gli es­ seri secondo la natura di ciascuno: come ve­ diamo tra gli esseri fisici che egli muove i corpi gravi diversamente da quelli leggeri, per la loro diversa natura. E così egli muove l'uo­ mo alla giustizia secondo la condizione della natura umana. Ma l'uomo secondo la sua na­ tura è dotato di libero arbitrio. Perciò in chi possiede l'uso del libero arbitrio non c'è una mozione di Dio verso la giustizia senza l 'eser­ cizio di esso; e Dio non infonde il dono della grazia giustificante senza muovere al tempo stesso il libero arbitrio ad accettarlo, in coloro che sono capaci di esercitare tale facoltà. Soluzione delle difficoltà: l . I bambini non sono capaci di esercitare il libero arbitrio, e quindi sono mossi da Dio alla giustizia me­ diante la sola trasfonnazione della loro anima. Ciò però non avviene senza il sacramento: poi­ ché come per essi non fu volontaria la propaga­ zione del peccato originale, dal quale vengono mondati, ma fu prodotta dall'origine carnale, così anche la grazia viene prodotta mediante la loro rigenerazione spirituale in Cristo. E lo stesso si dica dei pazzi furiosi e dei dementi che non hanno mai avuto l'uso del libero arbi­ trio. Se invece uno ebbe per un certo tempo tale uso, e dopo lo perde, per una malattia o per il sonno, non può conseguire la grazia santifi­ cante col battesimo o con altri sacramenti am­ ministrati esternamente se prima non ha avuto il proposito di riceverli: e ciò è impossibile sen­ za l'esercizio del libero arbitrio. Perciò colui di cui parla Agostino fu rigenerato perché sia prima che dopo accettò il battesimo. 2. Anche Salomone non meritò e non ricevet­ te la sapienza mentre donniva, ma nel sonno gli fu soltanto dichiarato che Dio gli avrebbe infuso la sapienza per il suo desiderio prece­ dente: per cui l ' agiografo, parlando a suo

    Q. 1 1 3, A. 3

    1 200

    Gli effetti della grazia. Primo, la giustificazione delpeccatore

    sensus.

    Vel potest dici quod ille somnus non fuit naturalis, sed somnus prophetiae; secun­ dum quod dicitur Num. 12 [ 6], si quis fuerit

    inter vos propheta Domini, per somnium aut in visione loquar ad eum. In quo casu aliquis usum liberi arbitrii habet. - Et tamen sciendum est quod non est eadem ratio de dono sapien­ tiae et de dono gratiae iustificantis. Nam donum gratiae iustificantis praecipue ordinat hominem ad bonum, quod est obiectum voluntatis, et ideo ad ipsum movetur homo per motum voluntatis, qui est motus liberi arbitrii. Sed sapientia perficit intellectum, qui praecedit voluntatem, unde absque completo motu liberi arbitrii, potest intellectus dono sapientiae i lluminari. Sicut etiam videmus quod in dormiendo aliqua hominibus revelan­ tur, sicut dicitur Iob 33 [ 1 5 sq.], quando irruit

    sopor super homines et dormiunt in lectulo, tunc aperit aures virorum, et erudiens eos instruit disciplina. Ad tertium dicendum quod in infusione gra­ tiae iustificantis est quaedam transmutatio animae, et ideo requiritur motus proprius ani­ mae humanae, ut anima moveatur secundum modum suum. Sed conservatio gratiae est absque transmutatione, unde non requiritur aliquis motus ex parte animae, sed sola conti­ nuatio in:fluxus divini.

    Articulus

    4

    nome, dice in Sap: Pregai e mi fu elargita la Oppure si può pensare che quel sonno non fosse naturale, ma profetico, come quello di cui si dice in Nm: Se uno di voi sarà

    sapienza.

    profeta del Signore, io gli parlerò nel sogno o in visione. Nel qual caso si conserva l' uso del libero arbitrio. - Tuttavia bisogna notare che non è identica la condizione dei doni della sapienza e quella della grazia santificante. Intàtti il dono della grazia santificante ha il compito principale di ordinare l'uomo al be­ ne, con un moto della volontà che è un moto del libero arbitrio. Invece la sapienza si espli­ ca nell'intelletto, il quale precede la volontà: per cui l'intelletto può essere illuminato col dono della sapienza senza un moto completo del libero arbitrio. E così vediamo che alcune cose sono rivelate agli uomini nel sonno, come è detto in Gb: Quando il sopore cade

    sugli uomini e si addormentano nel letto, allora apre l'orecchio degli uomini, e li istrui­ sce nella disciplina. 3. Nella [prima] infusione della grazia santifi­ cante avviene una trasmutazione dell'anima: per cui si richiede un esercizio proprio della stessa anima, affinché essa si muova secondo la sua natura. Invece la conservazione della grazia avviene senza trasmutazioni: per cui non si richiede un moto da parte dell' anima, ma la sola continuazione dell'influsso divino. Articolo

    4

    Utrum ad iustificationem impii requiratur motus fidei

    Per la giustificazione del peccatore si richiede un atto di fede?

    Ad quartum sic proceditur. Videtur quod ad iustificationem impii non requiratur motus fidei. l . Sicut enim per fidem iustificatur homo, ita etiam et per quaedam alia. Scilicet per timo­ rem; de quo dicitur Eccli. l [27 sq.], timor

    Sembra di no. Infatti: l . L'uomo è giustificato dalla fede come da altri moti virtuosi. Cioè dal timore, di cui in Sir è detto: Il timore di Dio scaccia il peccato; chi è

    Domini expellit peccatum, nam qui sine timore est, non poterit iustificari. Et iterum per carita­ tem; secundum illud Luc. 7 [47], dimissa sunt ei peccata multa, quoniam dilexit multum. Et iterum per humilitatem; secundum illud Iac. 4 [6] , Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam. Et iterum per misericordiam; secundum illud Prov. 1 5 [27], per misericor­ diam et fidem purgantur peccata. Non ergo magis motus fidei requiritur ad iustificationem quam motus praedictarum virtutum.

    senza timore non potrà essere giustificato. sono perdonati i suoi molti peccati, perché molto ha amato. Dall'umiltà, come è detto in Gc: Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia. E infine dalla misericordia, secon­ do le parole di Pr. Per la misericordia e per la fede sono cancellati i peccati. Perciò nella Dalla carità, secondo le parole di Le: Le

    giustificazione il moto della fede non è richie­ sto più di quelli delle virtù ricordate. 2. L'atto di fede non è richiesto nella giustifi­ cazione se non perché con la fede l ' uomo conosce Dio. Ma l'uomo può conoscere Dio

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    Gli effetti della grazia. Primo, la giustificazione del peccatore

    2. Praeterea, actus fidei non requiritur ad iustifi­ cationem nisi inquantum per fidem homo co­ gnoscit Deum. Sed etiam aliis modis potest ho­ mo Deum cognoscere, scilicet per cognitionem naturalem, et per donum sapientiae. Ergo non requiritur actus fidei ad iustificationem impii. 3. Praeterea, diversi sunt articuli fidei. Si igi­ tur actus fidei requiratur ad iustificationem impii, videtur quod oporteret hominem, quan­ do primo iustificatur, de omnibus atticulis fidei cogitare. Sed hoc videtur inconveniens, cum talis cogitatio longam temporis moram requirat. Ergo videtur quod actus fidei non requiratur ad iustificationem. Sed contra est quod dicitur Rom. 5 [ l ], iustifi­

    cati igitur exfide, pacem habeamus ad Deum. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est [a. 3], motus liberi arbitrii requiritur ad iustifi­ cationem irnpii, secundum quod mens hominis movetur a Deo. Deus autem movet animam hominis convertendo eam ad seipsum; ut dicitur in Psalmo 84 [7], secundum aliam lit­ teram, Deus, tu convertens vivfficabis nos. Et ideo ad iustificationem irnpii requiritur motus mentis quo convertitur in Deum. Prima autem conversio in Deum fit per fidem; secundum illud ad Heb. 1 1 [6], accedentem ad Deum op01tet credere quia est. Et ideo motus fidei requiritur ad iustificationem irnpii. Ad primum ergo dicendum quod motus fidei non est perfectus nisi sit caritate informatus, unde sirnul in iustificatione irnpii cum motu fidei, est etiam motus caritatis. Movetur autem liberum arbitrium in Deum ad hoc quod ei se subiiciat, unde etiam concurrit actus timoris filia­ lis, et actus humilitatis. Contingit enim unum et eundem actum liberi arbitrii diversarum virtu­ tum esse, secundum quod una imperat et alia imperatur, prout scilicet actus est ordinabilis ad diversos fines. Actus autem misericordiae opera­ tur contra peccatum per modum satisfactionis, et sic sequitur iustificationem, vel per modum praeparationis, inquantum misericordes miseri­ cordiam consequuntur [Matth. 5,7], et sic etiam potest praecedere iustificationem; vel etiam ad iustificationem concurrere simu1 cum praedictis virtutibus, secundum quod misericordia inclu­ ditur in dilectione proximi. Ad secundum dicendum quod per cognitionem naturalem homo non convertitur in Deum inquantum est obiectum beatitudinis et iustifi­ cationis causa, unde talis cognitio non sufficit

    Q. 1 1 3, A. 4

    anche in altri modi: cioè con una conoscenza naturale, oppure con il dono della sapienza. Quindi per la giustificazione del peccatore non si richiede un atto di fede. 3. Gli articoli della fede sono molteplici. Se quindi per la giustificazione del peccatore fosse necessario un atto di fede, bisognerebbe che l ' uomo nella sua prima giustificazione pensasse a tutti questi articoli. Ma ciò è inam­ missibile, poiché tale riflessione esigerebbe lungo tempo. Quindi per la giustificazione non è richiesto alcun atto di fede. In contrario: in Rm è detto: Giustificati dun­

    que per lafede, noi siamo in pace con Dio. Risposta: abbiamo già visto che per la giusti­ ficazione è richiesto un atto del libero arbitrio in quanto l ' anima dell'uomo viene mossa da Dio. Ora, Dio muove l ' anima dell'uomo con­ vertendola verso se stesso, secondo le parole che riscontriamo in una versione del Sal 84: Dio, convertendoci, ci darai vita. Quindi per la giustificazione dei peccatori si richiede un moto di conversione della mente a Dio. M a la prima conversione verso Dio avviene me­ diante la fede, come è detto in Eh: Chi si

    accosta a Dio deve credere che egli esiste. Quindi per la giustificazione è richiesto un atto di fede. Soluzione delle difficoltà: l . Un atto di fede non è perfetto se non è informato dalla carità: quindi nella giustificazione del peccatore l'atto di fede è accompagnato da un atto di carità. Inoltre il libero arbitrio si muove verso Dio per sottomettersi a lui, e quindi vi concorre un atto di timore filiale, come pure un atto di umiltà. Infatti non si esclude che un medesimo atto del libero arbitrio possa appartenere a diverse virtù in quanto l'una è imperante e l'altra ese­ cutrice: cioè in quanto un atto è ordinabile a diversi fini. L'atto di misericordia, poi, può agire contro il peccato o come soddisfazione, e allora è successivo alla giustificazione, oppu­ re come preparazione, in quanto i misericor­ diosi tmveranno misericordia [Mt 5], e allora può anche precederla; e può anche concorrere alla giustificazione assieme alle virtù sopra ricordate, in quanto la misericordia è inclusa nella catità verso il prossimo. 2. Con la conoscenza naturale l' uomo non si rivolge a Dio in quanto è oggetto della beati­ tudine e causa della giustificazione: perciò ta­ le conoscenza non basta per giustificare un'a-

    Q. 1 1 3, A. 4

    Gli effetti della grazia. Primo, la giustificazione delpeccatore

    ad iustificationem. Donum autem sapientiae praesupponit cognitionem fidei, ut ex supra­ dictis [q. 68 a. 2; a. 4 ad 3] patet. Ad tertium dicendum quod, sicut apostolus dicit, ad Rom. 4 [5], credenti in eum qui iusti­

    ficat impium, reputabitur fides eius ad iusti­ tiam, secundum propositum gratiae Dei. Ex quo patet quod in iustificatione impii requiri­ tur actus fidei quantum ad hoc, quod homo credat Deum esse iustificatorem hominum per mysterium Christi.

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    nima. n dono della sapienza poi presuppone, come si è visto, la conoscenza della fede. 3. Come Paolo dice in Rm, a chi crede in co­

    lui che giustifica il peccatore la fede è ac­ creditata come giustizia, secondo il proposito della grazia di Dio. Dal che tisulta evidente che nella giustificazione del peccatore l'atto di fede è richiesto nel senso che l'uomo creda che Dio giustifica gli uomini mediante i l mistero d i Cristo.

    Articulus 5

    Articolo 5

    Utrum ad iustificationem impii requiratur motus liberi arbitrii in peccatum

    La giustificazione del peccatore richiede un moto del libero arbitrio contro il peccato?

    Ad quintum sic proceditur. Videtur quod ad iustificationem impii non requiratur motus liberi arbitrii in peccatum. l . Sola enim caritas sufficit ad deletionem pec­ cati, secundum illud Prov. IO [ 1 2], universa de­ lieta operit caritas. Sed caritatis obiectum non est peccatum. Ergo non requiritur ad iustifica­ tionem impii motus liberi arbitrii in peccatum. 2. Praeterea, qui in anteriora tendit, ad poste­ riora respicere non debet; secundum illud apostoli, ad Phil. 3 [ 1 3 sq.], quae quidem retro

    Sembra di no. Infatti: l . Per cancellare il peccato basta la carità, secondo le parole di Pr. La carità copre tutti i peccati. Ma l'oggetto della carità non è il pec­ cato. Quindi per la giustificazione del pecca­ tore non si richiede un moto del libero arbitrio contro il peccato. 2. Chi tende ad avanzare non deve guardare indietro, secondo le parole di Paolo in Fil:

    sunt obliviscens, ad ea vero quae sunt priora extendens meipsum, ad destinatum persequor bravium supemae vocationis. Sed tendenti in iustitiam retrorsum sunt peccata praeterita. Ergo eorum debet oblivisci, nec in ea se debet extendere per motum liberi arbitrii. 3. Praeterea, in iustificatione impii non remit­ titur unum peccatum sine alio, impium enim est a Deo dimidiam sperare veniam. Si igitur in iustificatione impii oporteat liberum arbi­ trium moveri contra peccatum, oporteret quod de omnibus peccatis suis cogitaret. Quod videtur inconveniens, tum quia require­ retur magnum tempus ad huiusmodi cogita­ tionem; tum etiam quia peccatorum quorum est homo oblitus, veniam habere non posset. Ergo motus liberi arbitrii in peccatum non requiritur ad iustificationem impii. Sed contra est quod dicitur in Psalmo 3 1 [5],

    dixi, confitebor adversum me iniustitiam meam Domino, et tu remisisti impietatem peccati mei. Respondeo dicendum quod, sicut supra [a. l ] dictum est, iustificatio impii est quidam motus quo humana mens movetur a Deo a statu pec-

    Dimentico del passato e proteso verso ilfutu­ ro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù. Ora, per chi tende alla giustizia il passato sono i pecca­ ti commessi. Perciò egli è tenuto a dimenti­ carli, e non a muoversi verso di essi col moto del libero arbitrio. 3. Nella giustificazione del peccatore non viene rimesso un peccato senza il perdono degli alni. Infatti è empio sperare da Dio un perdono a metà. Se quindi nella giustificazio­ ne si richiedesse un moto del libero arbitrio contro il peccato, bisognerebbe che uno pen­ sasse a tutti i suoi peccati. Ma ciò è impossi­ bile: sia perché tale lipensamento Iichiedereb­ be molto tempo, sia perché altrimenti uno non sarebbe in grado di ottenere il perdono dei peccati dimenticati. Quindi la giustificazione del peccatore non richiede un moto del libero arbitrio contro il peccato. In contratio: nel Sal è detto: Ho detto: "Con­ fesserò al Signore la mia colpa ", e tu hai ri­

    messo la malizia del mio peccato. Risposta: come sopra si è visto, la giustificazio­ ne del peccatore è un moto con cui Dio condu­ ce l'anima umana dallo stato di peccato a quel-

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    Gli effetti della grazia. Primo, la giustificazione del peccatore

    cati in statum iustitiae. Oportet igitur quod humana mens se habeat ad utrumque extre­ morum secundum motum liberi arbitrii, sicut se habet corpus localiter motum ab aliquo movente ad duos terminos motus. Manifestum est autem in motu locali corporum quod cor­ pus motum recedit a termino a quo, et accedit ad terminum ad quem. Unde oportet quod mens humana, dum iustificatur, per motum liberi arbitrii recedat a peccato, et accedat ad iustitiam. Recessus autem et accessus in motu liberi arbitrii accipitur secundum detestatio­ nem et desiderium, dicit enim Augustinus, Super Ioan. [tract. 46 super 1 0, 1 2] exponens illud [Ioan. l O, 1 2], mercenarius autem fugit,

    affectiones nostrae motus animorum sunt, lae­ titia animi diffusio, timor animi jùga est; pro­ grederis animo cum appetis, jùgis animo cum metuis. Oportet igitur quod in iustificatione impii sit motus liberi arbitrii duplex, unus quo per desiderium tendat in Dei iustitiam; et alius quo detestetur peccatum. Ad primum ergo dicendum quod ad eandem virtutem pertinet prosequi unum apposito­ rum, et refugere aliud. Et ideo sicut ad carita­ tem pertinct diligcrc Dcum, ita ctiam detcstari peccata, per quae anima scparatur a Deo. Ad secundum dicendum quod ad posteriora non debet homo regredi per amorem; sed quantum ad hoc debet ea oblivisci, ut ad ea non afficiatur. Debet tamen eorum recordari per consideratio­ nem ut ea detestetur, sic enim ab eis recedit Ad tertium dicendum quod in tempore praece­ dente iustificationem, oportet quod homo sin­ gula peccata quae commisit detestetur, quo­ rum memoriam habet. Et ex tali consideratio­ ne praecedenti subsequitur in anima quidam motus detestantis univcrsaliter omnia peccata commissa, inter quae etiam includuntur pec­ cata oblivioni tradita, quia homo in statu ilio est sic dispositus ut etiam de his quae non meminit, contereretur, si memoriae adessent. Et iste motus concurrit ad iustificationem.

    Q. 1 1 3, A. 5

    lo di giustizia. È necessario quindi che l'anima secondo il moto del libero arbitrio si rapporti ai due termini estremi, come un corpo mosso localmente si rapporta ai due termini del moto. Ora è evidente, nel moto locale dei corpi, che il corpo mosso si allontana dal termine 4i parten­ za e si avvicina a quello di arrivo. E quindi necessario che la mente umana nella giustifica­ zione abbandoni i l peccato con un moto del suo libero arbittio, e si avvicini alla giustizia. Ma questi moti di allontanamento e di avvici­ namento, nel libero arbitrio, corrispondono alla detestazione e al desiderio. Infatti, commentan­ do il passo di Gv: Il mercenario invece fugge, Agostino così scrive: «l nostri affetti sono i moti dello spirito: la gioia è la dilatazione del­ l' anima, il timore ne è la fuga; avanzi con l'ani­ ma quando desideri, fuggi con essa quando hai paura». Nella giustificazione del peccatore si richiedono quindi due moti del libero arbitrio: uno per tendere alla giustizia di Dio col deside­ rio, l' altro per detestare il peccato. Soluzione delle difficoltà: l . Spetta a un'unica virtù perseguire un dato oggetto e fuggire il suo contrario. Siccome quindi spetta alla carità amare Dio, appartiene ad essa anche detestare i peccati, che separano l'anima da lui. 2. L' uomo non deve tornare al passato con l ' affetto, ma da questo punto di vista deve piuttosto dimenticarlo, per non esserne preso. Deve però ricordarsene per detestarlo: è così infatti che se ne allontana. 3. Nel tempo che precede la giustificazione l'uomo deve detestare i singoli peccati com­ messi di cui si ricorda. E da questa previa considerazione segue nell' anima un moto di detestazione universale per tutti i peccati commessi, tra i quali sono inclusi anche quelli dimenticati: poiché un uomo si trova allora in tale disposizione da essere pronto a pentirsi anche di ciò che non ricorda, se potesse ri­ chiamarlo alla memoria. Ed è questo moto che concorre alla giustificazione.

    Articulus 6

    Articolo 6

    Utrum remissio peccatorum debeat numerari inter ea quae requiruntur ad iustificationem impii

    La remissione dei peccati è da enumerarsi tra le cose richieste per la giustificazione?

    Ad sextum sic proceditur. Videtur quod re­ missio peccatorum non debeat numerari inter ea quae requiruntur ad iustificationem impii.

    Sembra di no. Infatti: l . La sostanza di una cosa non può essere an­ noverata fra gli elementi che la compongono:

    Q. 1 1 3, A. 6

    Gli effetti della grazia. Primo, la giustificazione delpeccatore

    1 . Substantia enim rei non connumeratur his quae ad rem requiruntur, sicut homo non debet connumerari animae et corpori. Sed ipsa iusti­ ficatio impii est remissio peccatorum, ut dic­ tum est [a. 1 ] . Ergo remissio peccatorum non debet computari inter ea quae ad iustificatio­ nem impii requiruntur. 2. Praeterea, idem est gratiae infusio et culpae remissio, sicut idem est illuminatio et tenebra­ rum expulsio. Sed idem non debet connume­ rari sibi ipsi, unum enim multitudini opponi­ tur. Ergo non debet culpae remissio connume­ rari infusioni gratiae. 3. Praeterea, remissio peccatorum consequitur ad motum liberi arbitrii in Deum et in pecca­ tum, sicut effectus ad causam, per fidem enim et contritionem remittuntur peccata. Sed ef­ fectus non debet connumerari suae causae, quia ea quae connumerantur quasi ad invicem condivisa, sunt simul natura. Ergo remissio culpae non debet connumerari aliis quae requiruntur ad iustificationem impii. Sed contra est quod in enumeratione eorum quae requiruntur ad rem, non debet praetennitti finis, qui est potissimum in unoquoque. Sed remissio peccatorum est finis in iustificatione impii, dicitur enim Isaiae 27 [9], iste est omnis fructus, ut aujèratur peccatum eius. Ergo remissio peccatonun debet conntunerari inter ea quae requiruntur ad iustificationem impii. Respondeo dicendum quod quatuor enume­ rantur quae requiruntur ad iustificationem impii, scilicet gratiae infusio; motus liberi arbitrii in Deum per fidem; et motus liberi arbitrii in peccatum; et remissio culpae. Cuius ratio est quia, sicut dictum est [a. l ], iustifica­ tio est quidam motus quo anima movetur a Deo a statu culpae in statum iustitiae. In quo­ libet autem motu quo aliquid ab altero move­ tur, tria requiruntur, primo quidem, motio ipsius moventis; secundo, motus mobilis; et tertio, consummatio motus, sive perventio ad fmem. Ex parte igitur motionis divinae, acci­ pitur gratiae infusio; ex parte vero liberi arbi­ trii moti, accipiuntur duo motus ipsius, secun­ dum recessum a tennino a quo, et accessum ad terminum ad quem; consummatio autem, sive perventio ad terminum huius motus, importatur per remissionem culpae, in hoc enim iustificatio consummatur. Ad primum ergo dicendum quod iustificatio impii dicitur esse ipsa remissio peccatorum,

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    come l'uomo non può essere computato as­ sieme all'anima e al corpo. Ma la giustifica­ zione del peccatore non è altro che la stessa remissione dei peccati, come si è visto. Quin­ di la remissione dei peccati non può essere annoverata fra le cose richieste per la giustifi­ cazione del peccatore. 2. L'infusione della grazia si identifica con la remissione della colpa, come l'illuminazione si identifica con l'eliminazione delle tenebre. Ora, una cosa non può essere annoverata con se stes­ sa: poiché l'unità si contrappone alla pluralità. Perciò la remissione del peccato non può essere annoverata as..>. E in Ez è detto: Il re di Babilonia ha

    fatto compiere al suo esercito una grave impre­ sa contro Tiro, e non ha ricevuto alcun com­ penso; e poco dopo: Come mercede darò a quell'esercito la terra d'Egitto, per le fatiche che ha sostenuto per me. Quindi i beni tempo­ rali sono oggetto di merito. 3. TI bene sta al merito come il male al deme­

    rito. Ora, per i l demerito dei peccati alcuni

    1 23 1

    Il merito

    3. Praeterea, sicut bonum s e habet ad meri­

    tum, ita malum se habet ad demeritum. Sed propter demeritum peccati aliqui puniuntur a Deo temporalibus poenis, sicut patet de Sodomitis, Gen. 1 9. Ergo et bona temporalia cadunt sub merito. Sed contra est quod illa quae cadunt sub merito, non similiter se habent ad omnes. Sed bona temporalia et mala similiter se habent ad bonos et malos; secw1dum illud Eccle. 9 [2],

    universa aeque eveniunt iusto et impio, bono et malo, mundo et immundo, immolanti victi­ mas et sacrificia contemnenti. Ergo bona tem­

    poralia non cadunt sub merito. Respondeo dicendum quod illud quod sub merito cadit, est pracmium vcl mcrccs, quod habet rationem alicuius boni. Bonum autem hominis est duplex, unum simpliciter, et aliud secundum quid. Simpliciter quidem bonum hominis est ultimus finis eius, secundum illud Psalmi 72 [28], mihi autem adhaerere Deo bonum est, et per consequens omnia illa quae ordinantur ut ducentia ad hunc finem. Et talia simpliciter cadunt sub merito. Bonum autem secundum quid et non simpliciter hominis, est quod est bonum ci ut nunc, vel quod ci est secundum aliquid bonum. Et huiusmodi non cadunt sub merito simpliciter, sed secundum quid. - Sectmdum hoc ergo dicendum est quod, si temporalia bona considerentur prout sunt utilia ad opera virtutum, quibus perducimur in vitam aetemam, secundum hoc directe et sim­ pliciter cadunt sub merito, sicut et augmen­ tum gratiae, et omnia illa quibus homo adiu­ vatur ad perveniendum in beatitudinem, post primam gratiam. Tantum enim dat Deus viris iustis dc bonis tcmporalibus, et ctiam dc malis, quantum cis expedit ad pcrvcniendum ad vitam aetemam. Et intantum sunt simpliciter bona huiusmodi temporalia. Unde dicitur in Psalmo [33, 1 1 ], timentes autem Dominum non minuentur omni bono; et alibi [Ps. 36,25], non vidi iustum dere/ictum. - Si autcm consideren­ tur huiusmodi temporalia bona secundum se, sic non sunt simpliciter bona hominis, sed secundum quid. Et ita non simpliciter cadunt sub merito, sed secundum quid, inquantum scilicet homincs movcntur a Dco ad aliqua temporaliter agenda, in quibus suum proposi­ turo consequuntur, Deo favente. Ut sicut vita aeterna est simpliciter praemium operum iustitiae per relationem ad motionem divi-

    Q. l l4, A. I O

    sono pWliti da Dio con pene temporali , come è evidente nel caso dei Sodomiti (Gen 1 9). Perciò i beni temporali sono oggetto di merito. In contrario: quanto è oggetto di merito non può riguardare tutti allo stesso modo. Invece i beni e i mali temporali riguardano allo stesso modo i buoni e i cattivi, secondo le parole di

    Qo: Tutto accade in modo equo per il giusto e l'empio, per il buono e per il cattivo, per il puro e l'impuro, per chi immola vittime e per chi si rifiuta di offrire sacrifici. Perciò i beni temporali non sono oggetto di merito. Risposta: quanto è oggetto di merito è un pre­ mio o una mercede, vale a dire un bene. Ora, il bene umano può essere di due specie: bene in senso assoluto e bene in senso relativo. Bene dell'uomo in senso assoluto è il fme ultimo, secondo le parole del Sal: Il mio bene è aderire a Dio; e di conseguenza tutto ciò che è fatto per condurre a questo fine. Tali cose dunque sono oggetto di merito in senso assoluto. E invece un bene per l'uomo in sen­ so relativo quanto è un bene per lui momen­ taneamente e in rapporto a qualcosa. E questo bene non è oggetto di merito in senso assolu­ to, ma solo in senso relativo. - Si deve perciò concludere che se i beni temporali vengono considerati come utili agli atti virtuosi con cui si raggiunge la vita eterna, allora essi sono oggetto di merito in senso diretto e assoluto: cioè allo stesso modo dell'aumento della gra­ zia e di tutto ciò con cui l'uomo viene soccor­ so perché giunga alla beatitudine, dopo la prima grazia. Infatti Dio concede ai giusti quel tanto di beni temporali, e anche di mali, che giova ad essi per giungere alla vita eterna. E in questa misura tali beni sono beni in sen­ so assoluto. Perciò si dice nel Sa/: Coloro che

    temono il Signore non mancano di alcun be­ ne; e ancora: Non ho mai visto il giusto ab­ bandonato. - Se invece questi beni temporali

    vengono considerati in se stessi, allora sono beni umani in senso non assoluto, ma relativo. Per cui sono oggetto non diretto, ma solo indiretto del merito: in quanto cioè gli uomini sono mossi da Dio a compiere certe azioni temporali nelle quali, con l'aiuto divino, rag­ giungono le loro aspirazioni. In modo che come la vita eterna, secondo le spiegazioni date, è il premio diretto delle opere buone in rapporto alla mozione divina, così i beni tem­ porali, considerati in se stessi, hanno l'aspetto

    Q. l l4, A. I O

    Il merito

    nam, sicut supra [a. 3] dictum est; ita tempo­ ralia bona in se considerata habeant rationem mercedis, habito respectu ad motionem divi­ naro qua voluntates hominum moventur ad haec prosequenda; licet interdum in his non habeant homines rectam intentionem. Ad primum ergo dicendum quod, sicut Augusti­ nus dicit, Contra Faustum, libro 4 [2], in illis temporalibus promissisfigurae fuerunt futuro­ rum spiritualium, quae implentur in nobis. Camalis enim populus promissis vitae prae­ sentis inhaerebat, et illorum non tantum lin­ gua, sed etiam vitaprophetica.fùit. Ad secundum dicendum quod illae retributiones dicuntur esse divinitus factae secundum compa­ rationem ad divinam motionem, non autem secundum respectum ad malitiam voluntatis. Praecipue quantum ad regem Babylonis, qui non impugnavit Tyrum quasi volens Deo servi­ re, sed potius ut sibi dominium usurparet. Simi­ liter etiam obstetrices, licet habuerunt bonam voluntatem quantum ad liberationem puerorum, non tamen fuit earum recta voluntas quantum ad hoc quod mendacium confinxerunt. Ad tertium dicendum quod temporalia mala infliguntur in poenam impiis, inquantum per ea non adiuvantur ad consecutionem vitae aetemae. Iustis autem, qui per huiusmodi mala iuvantur, non sunt poenae, sed magis medici­ nae, ut etiam supra [q. 87 a. 7] dictum est. Ad quartum dicendum quod omnia aeque eveniunt bonis et malis, quantum ad ipsam substantiam bonorum vel malorum tempora­ lium. Sed non quantum ad fmem, quia boni per huiusmodi manuducuntur ad beatitudi­ nem, non autem mali. Et haec de moralibus in communi dieta sufficiant.

    1 232

    di mercede in rapporto a quella mozione divi­ na che muove il volere umano a perseguirli; sebbene talora gli uomini non abbiano in ciò una retta intenzione. Soluzione delle difficoltà: l . Come insegna Agostino, «in quelle promesse temporali tro­ viamo le figure dei futuri beni spirituali che si sono compiute in noi. Infatti quel popolo car­ nale si attaccava alle promesse della vita pre­ sente; e di esso non soltanto le parole, ma an­ che la vita fu una profezia». 2. Quelle ricompense vengono attribuite a Dio a causa della mozione divina, non già in rapporto alla malizia del volere [umano]. Spe­ cialmente per quanto riguarda il re di Babilo­ nia, il quale assediò Tiro non per servire Dio, ma per usurpare un regno. E così pure le leva­ triei [egiziane], sebbene avessero una volontà retta nel salvare i bambini, tuttavia non l' eb­ bero nel concertare una menzogna. 3. I mali temporali sono inflitti ai cattivi come castighi poiché essi non se ne servono per raggiungere la vita eterna. Invece per i giusti, che si avvantaggiano di questi mali, essi non sono castighi, ma piuttosto medicine, come si è già detto in precedenza. 4. [S.e.]. Tutto capita ugualmente ai buoni e ai cattivi quanto alla sostanza stessa dei beni o dei mali temporali. Non così però quanto al fine: poiché i buoni da tali cose vengono gui­ dati alla beatitudine, a differenza dei cattivi. E ciò basti per quanto riguarda la morale in generale.

    1 233 Schema della Seconda Parte, Prima Sezione

    Il fine ultimo e la beatitudine suprema dell'uomo (qq. 1 -5) Le azioni umane, mezzi per raggiungere il fine A. Le azioni umane in quanto proprie degli uomini l . Sotto l 'aspetto della volontarietà a. Il volontario e l'involontario (qq. 6-7) b. Analisi dell' azione umana (qq. 8- 1 7) 2. Sotto l 'aspetto della moralità a. La bontà e la malizia delle azioni umane (qq. 1 8-20) b. Le conseguenze di tale bontà o malizia (q. 2 1 )

    B . Le azioni umane in quanto comuni con alcuni animali l . Le passioni in generale (qq. 22-25) 2. Le singole passioni (qq. 26-48) C. I principi intrinseci delle azioni umane l . Gli abiti in generale (qq. 49-54) 2. Gli abiti buoni e ciò che vi è connesso a. Le virtù (qq. 55-67) b. I doni dello Spirito Santo (q. 68) c. Le beatitudini (q. 69) d. I frutti dello Spirito Santo (q. 70) 3. I vizi e i peccati (qq. 7 1 -89)

    D. I principi estrinseci delle azioni umane l . La legge a. La legge in generale (qq. 90-92) b. Le singole leggi (qq. 93- 1 08) 2. La grazia a. La grazia in se stessa (qq. 1 09- 1 1 1 ) b. La causa della grazia (q. 1 1 2) c. Gli effetti della grazia (qq. 1 13- 1 14)

    1 235

    INDICE

    Presentazione

    5

    Abbreviazioni e sigle

    6

    Introduzione alla Prima Secundae

    9

    Testo e traduzione Prologo

    Q.

    l

    13

    n fine ultimo dell'uomo l

    Appartiene all'uomo agire per un fine?

    13

    A.

    2

    Agire per un fine è una proprietà esclusiva della natura razionale?

    15

    A.

    3

    Gli atti umani ricevono la loro specificazione dal fine?

    17

    A. 4 Esiste un fine ultimo della vita umana? A.

    Q. 2

    Q. 3

    13

    A.

    5

    Un uomo può avere più fini ultimi?

    19 21

    A.

    6

    L'uomo vuole tutto ciò che vuole in ordine al fine ultimo?

    23

    A.

    7

    II fine ultimo è unico per tutti gli uomini?

    24

    A.

    8

    Le

    25

    altre creature concordano anch'esse nella ricerca di questo ultimo fine?

    I costitutivi della beatitudine umana

    26

    A.

    l

    La beatitudine dell'uomo consiste nella ricchezza?

    27

    A.

    2

    La beatitudine dell'uomo consiste negli onori?

    29

    La beatitudine dell'uomo consiste nella gloria?

    30

    A.

    3

    A.

    4 La beatitudine dell'uomo consiste nel potere?

    32

    A.

    5

    La beatitudine dell'uomo consiste in qualche bene del corpo?

    33

    A.

    6

    La beatitudine dell'uomo consiste nel piacere?

    35

    A.

    7

    La beatitudine dell'uomo consiste in qualche bene dell'anima?

    38

    A.

    8

    La beatitudine dell'uomo consiste in qualche bene creato?

    39

    L'essenza della beatitudine

    41

    A.

    l

    La beatitudine è qualcosa di increato?

    41

    A.

    2

    La beatitudine è un'operazione?

    43

    A.

    3

    La beatitudine è un' operazione della parte sensitiva?

    A.

    4 La beatitudine è un atto della volontà?

    A.

    5

    A.

    6 La beatitudine consiste nell'esercizio delle scienze speculative?

    A.

    7

    La beatitudine consiste nel conoscere le sostanze separate, cioè gli angeli?

    53

    A.

    8

    La beatitudine umana consiste nella visione dell'essenza divina?

    55

    La beatitudine è un'operazione dell'intelletto pratico?

    45 47 49 51

    1 236

    Q. 4

    I requisiti della beatitudine A.

    l

    A.

    2 Nella beatitudine la visione è più importante del godimento?

    Il godimento è un requisito della beatitudine?

    A.

    3

    Per la beatitudine si richiede la comprensione?

    A. 4 La beatitudine richiede la rettitudine della volontà?

    Q. 5

    5

    A.

    6 Per la beatitudine è richiesta una certa perfezione del corpo?

    Q. 8

    Q. 9

    58 60 61 63 67

    A.

    7 Per la beatitudine si richiedono dei beni esteriori?

    68

    8 Per la beatitudine è richiesta la compagnia degli amici?

    70

    Il conseguimento della beatitudine

    71

    A.

    l

    L'uomo può conseguire la beatitudine?

    72

    A.

    2 Un uomo può essere più beato di un altro?

    73

    A.

    3

    Qualcuno può essere beato in questa vita?

    75

    A. 4

    È possibile perdere la beatitudine raggiunta?

    76

    A.

    5

    L'uomo può acquistare la beatitudine con le sue capacità naturali?

    79

    A.

    6 L'uomo acquista la beatitudine mediante l'influsso di una creatura superiore?

    A.

    Q. 7

    57

    A.

    A. 7

    Q. 6

    Per la beatitudine dell'uomo si richiede anche il corpo?

    A.

    57

    Sono richieste delle opere buone perché l ' uomo ottenga d a Dio la beatitudine?

    8 Ogni uomo desidera la beatitudine?

    La volontarietà e l'involontarietà degli atti Negli atti umani c'è la volontarietà?

    81 83 84 86 87

    A.

    l

    A.

    2 La volontarietà si trova negli animali bruti?

    90 91

    A.

    3

    Ci può essere volontarietà senza alcun atto?

    A.

    4

    Si può fare violenza alla volontà?

    93

    A.

    5

    La violenza produce atti involontari?

    94

    A.

    6

    Il timore può causare atti involontari in senso assoluto?

    96

    A.

    7

    La concupiscenza può causare atti involontari?

    A.

    8

    L'ignoranza può causare atti involontari?

    Le circostanze degli atti umani Le circostanze sono accidenti dell'atto umano?

    98 1 00 l 02

    A.

    l

    A.

    2 Le circostanze degli atti umani debbono interessare il teologo?

    A.

    3

    Le circostanze sono bene enumerate nel m Libro deli' Etica?

    l 06

    A.

    4

    Le principali circostanze sono il perché e le cose in cui si estrinseca l'operazione?

    l 07

    L'oggetto della volizione A.

    1

    A.

    2 Il volere ha per oggetto soltanto il fine?

    A.

    3

    La volizione ha per oggetto solo il bene? Il volere tende con uno stesso atto verso il fine e verso ciò che è ad esso ordinato?

    Le cause moventi della volontà A.

    l

    La volontà è mossa dall 'intelletto?

    A.

    2 La volontà è mossa dall'appetito sensitivo?

    A.

    3

    La volontà può muovere se stessa?

    A.

    4 La volontà può essere mossa da una causa esterna?

    A.

    5

    A.

    6 La volontà è mossa solo da Dio come d a principio esterno del suo movimento?

    La volontà è mossa dai corpi celesti?

    102 1 04

    1 09 1 09 111 1 13 1 14 1 15 1 17 1 18 1 19 121 123

    1 237

    Q. lO Come la volontà subisce la mozione A.

    l

    A.

    2 La volontà è mossa in maniera necessitante dal proprio oggetto?

    A.

    3

    La volontà è mossa verso qualcosa per natura? La volontà subisce una mozione necessitante da parte degli appetiti inferiori?

    A. 4 La volontà è mossa in maniera necessitante da quel motore esterno che è Dio?

    Q. ll La fruizione, atto della volontà A.

    l

    La fruizione è un atto della potenza appetitiva?

    A.

    2 La fruizione appartiene soltanto alle creature razionali?

    A.

    3

    A.

    4 La fruizione è soltanto del fine raggiunto?

    La fruizione è soltanto dell'ultimo fine?

    Q. 12 L'intenzione

    1 25 1 25 1 27 1 29 131 1 32 1 33 1 34 1 35 1 37 1 39

    L'intenzione è un atto dell' intelletto?

    1 39

    A.

    2

    L'intenzione ha per oggetto soltanto l'ultimo fine?

    140

    A.

    3

    Si possono perseguire simultaneamente due oggetti?

    141

    A.

    4

    È un identico atto l ' i ntenzione del fine e la volizione dei mezzi?

    143

    A.

    5

    L'intenzione si trova anche negli animali irrazionali?

    144

    A.

    Q. 13 La scelta, atto della volontà relativo ai mezzi A.

    l

    La scelta è un atto della volontà?

    A.

    2 La scelta compete agli animali irrazionali?

    A.

    3

    La scelta riguarda solo i mezzi?

    145 146 147 149

    A. 4

    La scelta ha per oggetto soltanto le nostre azioni?

    1 50

    A.

    5

    La scelta si limita alle cose possibili?

    151

    A.

    6

    La scelta dell'uomo è necessaria?

    153

    Q. 14 Il consiglio, o deliberazione, che precede la scelta

    1 55

    A.

    l

    Il consiglio è una ricerca?

    155

    A.

    2

    Il consiglio ha per oggetto soltanto i mezzi?

    1 57

    A.

    3

    Il consiglio riguarda soltanto le nostre azioni?

    1 58

    ll consiglio ha per oggetto tutte le nostre azioni?

    1 59

    A. 4 A.

    5 Il consiglio procede in ordine risolutivo?

    161

    A.

    6 Il consiglio procede all'infinito?

    1 62

    Q. lS n consenso, atto della volontà relativo ai mezzi A.

    l

    A.

    2 Il consenso conviene agli animali irrazionali?

    A.

    3

    A. 4

    Il consenso è l'atto di una potenza conoscitiva?

    1 63 1 64 1 65

    Il consenso ha per oggetto il fine?

    1 66

    Il consenso ad agire appartiene esclusivamente alla parte superiore dell'anima?

    1 68

    Q. 16 L'uso, atto della volontà relativo a i mezzi

    1 69

    A.

    l

    L'uso è un atto della volontà?

    1 69

    A.

    2

    L'uso conviene agli animali privi di ragione?

    171

    A.

    3

    L'uso può avere per oggetto anche il fine ultimo?

    1 72

    L'uso precede la scelta?

    173

    A. 4

    Q. 17 Gli atti comandati dalla volontà A.

    l

    Comandare è un atto della ragione?

    A.

    2 Gli animali bruti possono comandare?

    A.

    3

    L'uso precede il comando?

    1 75 175 177 178

    1 238 A.

    4 Il comando e l'atto comandato sono un unico atto?

    A.

    5

    L' atto della volontà può essere comandato?

    181

    A.

    6 L'atto della ragione può essere comandato?

    1 82

    1 79

    A. 7

    Gli atti dell' appetito sensitivo possono essere comandati?

    1 83

    A.

    8

    Gli atti dell'anima vegetativa possono essere comandati?

    1 85

    A.

    9 Gli atti delle membra esterne possono essere comandati?

    1 87

    Q. l8 La bontà e la malizia degli atti umani in generale

    1 89

    A.

    l

    Tutte le azioni umane sono buone?

    1 89

    A.

    2

    191

    1 95

    A.

    3

    A.

    4

    Le azioni umane derivano la bontà o la malizia dal loro oggetto? Le azioni umane sono buone o cattive per le circostanze? Le azioni umane sono buone o cattive per il fine?

    A.

    5

    Un' azione umana è nella sua specie buona o cattiva?

    A.

    6 L'atto deriva la sua bontà o la sua malizia specifica dal fine?

    1 93 1 94 1 97

    A. 7

    La specie data dal fine è contenuta, come nel suo genere, nella specie data dall'oggetto?

    1 99

    A.

    8

    Ci può essere un atto specificamente indifferente?

    201

    A.

    9

    Ci possono essere degli atti individuali indifferenti?

    202

    A. IO

    Una circostanza può rendere l ' atto morale specificamente buono o cattivo?

    205

    A. l i

    Ogni circostanza che accresca la bontà o la malizia conferisce all'atto morale una bontà o una malizia specifica?

    Q. l9 La bontà e la malizia dell'atto interno della volontà A.

    l

    A.

    2 La bontà della volontà dipende unicamente dall'oggetto?

    A. 3

    La bontà della volontà dipende dall'oggetto? La bontà della volontà dipende dalla ragione?

    A. 4 La bontà della volontà dipende dalla legge eterna? A.

    5

    La volontà che discorda dalla ragione erronea è cattiva?

    206 208 208 210 21 1 212 214

    A. 6

    La volontà che concorda con la ragione erronea è buona?

    216

    A. 7

    La bontà della volizione dei mezzi dipende dall'intenzione del fine?

    218

    A.

    8

    Nella volizione la misura della bontà o della malizia è pari al bene o al male esistente neli' intenzione?

    A.

    9 La bontà della volontà dipende dalla conformità con la volontà di Dio?

    A. 1 0

    È necessario che l a volontà umana, per essere buona, si conformi all' oggetto della volontà divina?

    Q. 20 La bontà e la malizia degli atti umani esterni A.

    l

    La bontà e la malizia sono prima nell'atto esterno?

    A.

    2 Tutta la bontà o la malizia dell'atto esterno dipende dalla bontà della volizione?

    A.

    3

    A.

    4 L'atto esterno aggiunge qualcosa alla bontà o alla malizia dell' atto interno?

    A.

    5

    A.

    6 Un identico atto esterno può essere buono e cattivo?

    L' atto esterno e quello interno condividono l'identica bontà o malizia? Gli eventi successivi possono accrescere la bontà o la malizia dell'atto esterno?

    Q. 21 Le conseguenze degli atti umani in rapporto alla loro bontà o malizia A.

    l

    L'atto umano, in quanto buono o cattivo, implica la nozione di rettitudine o di peccato?

    A.

    2 L'atto umano, in quanto buono o cattivo, ha l' aspetto di cosa lodevole o colpevole?

    A.

    3

    A. 4

    220 222 223 227 227 228 230 232 233 235 237 237 239

    L'atto umano, in quanto buono o cattivo, ha carattere di merito o demerito?

    241

    L'atto umano, in quanto buono o cattivo, ha carattere di merito o demerito presso Dio?

    242

    1 239

    Q. 22 La sede delle passioni

    244

    244

    A.

    l

    A.

    2 La passione appartiene più alla parte conoscitiva?

    Ci sono delle passioni nell'anima?

    246

    A.

    3

    La passione risiede più nell'appetito sensitivo?

    248 250

    Q. 23 La distinzione delle passioni A.

    l

    Le passioni del concupiscibile sono distinte da quelle dell'irascibile?

    A.

    2 La contrarietà delle passioni dell'irascibile si riduce alla contrarietà fra il bene e il male? C'è una passione dell'anima senza il suo contrario?

    A.

    3

    A.

    4 Nella medesima potenza ci sono delle passioni specificamente distinte non contrarie fra di loro?

    250 252 254 255

    Q. 24 La bontà e la malizia delle passioni

    257 258

    A.

    l

    Nelle passioni ci può essere la bontà o la malizia morale?

    A.

    2

    Ogni passione è moralmente cattiva?

    259

    A.

    3

    La passione diminuisce la bontà o la malizia dell'atto?

    260

    A.

    4

    Qualche passione è buona o cattiva secondo la sua specie?

    262 264

    Q. 25 I rapporti reciproci tra le passioni

    Le passioni dell 'irascibile precedono quelle del

    A.

    l

    concupiscibile?

    A.

    2 L' amore è la prima tra le passioni del concupiscibile?

    A.

    3

    A.

    4 La gioia, la tristezza, la speranza e il timore sono le quattro passioni principali?

    La speranza è la prima tra le passioni dell'irascibile?

    Q. 26 L'amore L' amore è nel concupiscibile?

    A. A.

    2 L' amore è una passione?

    A.

    3

    A.

    4 L' amore è ben diviso in amore di amicizia e amore di concupiscenza?

    L' amore si identifica con la dilezione?

    Q. 27 La causa dell'amore L'unica causa dell' amore è il bene?

    264 266 268 270 272 272 274 275 276 278 278

    A.

    l

    A.

    2 La conoscenza è causa dell'amore?

    279

    A.

    3

    La somiglianza è causa dell'amore?

    28 1

    A.

    4

    Un'altra passione può causare l'amore?

    Q. 28 Gli effetti dell'amore A.

    l

    A.

    2 La mutua intimità o inerenza è un effetto dell' amore?

    L'unione è un effetto dell'amore? L'estasi è un effetto dell'amore?

    A.

    3

    A.

    4 Lo zelo [o gelosia] è un effetto dell'amore?

    A.

    5

    A.

    6 L' amore è la causa di tutto ciò che compie colui che ama?

    L' amore è una passione che nuoce a colui che ama?

    283 284 284 286 288 289 291 293 294

    Q. 29 L'odio A.

    l

    Il male è la causa e l'oggetto dell'odio?

    A.

    2 L'odio è causato dall' amore?

    A.

    3

    294 295

    L'odio è più forte dell'amore?

    296

    A.

    4

    Qualcuno può odiare se stesso?

    298

    A.

    5

    Qualcuno può odiare la verità?

    299

    A.

    6

    Una cosa può essere odiata nella sua universalità?

    301

    1 240

    Q. 30 Il desiderio o concupiscenza A.

    l

    A.

    2 La concupiscenza è una passione speciale?

    A.

    3

    Il desiderio o concupiscenza è soltanto nell' appetito sensitivo? Alcuni desideri sono naturali e altri non naturali ?

    A. 4 La passione del desiderio è infinita?

    Q. 31 Il piacere in se stesso A.

    l

    302 302 304 306 307 309

    Il piacere è una passione?

    309

    A.

    2

    Il piacere è misurato dal tempo?

    31 1

    A.

    3

    n piacere è distinto dalla gioia?

    313

    A. 4 Il piacere può trovarsi nell'appetito intellettivo?

    314

    A.

    5

    A.

    6 I piaceri del tatto sono superiori a quelli degli altri sensi?

    318

    A.

    7 Ci sono dei piaceri non naturali?

    320

    A.

    8

    I piaceri corporali e sensibili sono più forti dei piaceri spirituali e intellettuali?

    Un piacere può essere contrario all'altro?

    Q. 32 Le cause del piacere A.

    l

    L'operazione è la causa propria del piacere?

    A.

    2 Il mutamento è causa di piacere?

    A.

    3

    La speranza e la memoria sono causa di piacere?

    A. 4 La tristezza è causa di piacere?

    315

    321 323 323 324 326 328

    A.

    5

    Le azioni degli altri sono per noi causa di piacere?

    329

    A.

    6

    Il beneficare gli altri è causa di piacere?

    330

    A.

    7 La somiglianza è causa di piacere?

    A.

    8

    La meraviglia è causa di piacere?

    Q. 33 Gli effetti del piacere

    332 334 336

    A.

    l

    La dilatazione è un effetto del piacere?

    336

    A.

    2

    Il piacere provoca la sete o il desiderio di se stesso?

    337

    A.

    3

    n piacere intralcia l'uso della ragione?

    339

    A.

    4 Il piacere dà compimento all'operazione?

    Q. 34 La bontà e la malizia dei piaceri

    341 342

    A.

    l

    Tutti i piaceri sono cattivi?

    342

    A.

    2 Tutti i piaceri sono buoni?

    345

    A.

    3

    A. 4

    Qualche piacere è il massimo bene?

    346

    Il piacere è la misura o la regola per giudicare il bene o il male in campo morale?

    348

    Q. 35 Il dolore o tristezza

    350

    A.

    l

    n dolore è una passione dell'anima?

    350

    A.

    2 La tristezza si identifica con il dolore?

    352

    A.

    3

    La tristezza, o dolore, è il contrario del piacere?

    353

    A.

    4

    Ogni tristezza è contraria a tutti i piaceri?

    355

    A.

    5

    Ci sono dolori o tristezze contrari al godimento della contemplazione?

    357

    A.

    6

    Si deve fuggire la tristezza più di quanto si debba desiderare il piacere?

    360

    A.

    7 Il dolore esterno è maggiore di quello interno?

    A.

    8

    Ci sono soltanto quattro specie di dolore o di tristezza?

    Q. 36 Le cause della tristezza, o dolore A.

    l

    La causa del dolore è il bene perduto piuttosto che il male presente?

    362 365 367 367

    1 24 1 A.

    2

    Il desiderio è causa di tristezza?

    369

    A.

    3

    L' amore dell'unità o integrità è causa di dolore?

    370

    Una potenza a cui non si può resistere è causa di dolore?

    372

    A. 4

    Q. 37 Gli effetti del dolore o tristezza

    373

    A.

    l

    Il dolore toglie la facoltà di apprendere?

    373

    A.

    2

    La depressione dell'animo è un effetto della tristezza o dolore?

    375

    A.

    3

    La tristezza o dolore debilita ogni attività?

    376

    La tristezza è più nociva al corpo delle altre passioni dell'anima?

    377

    A. 4

    Q. 38 I rimedi alla tristezza o dolore A.

    379

    Il dolore o tristezza è alleviato da qualsiasi piacere?

    380

    A.

    2

    Il dolore o tristezza è alleviato dal pianto?

    38 1

    A.

    3

    n dolore e la tristezza sono alleviati dalla compassione degli amici?

    383

    A. 4

    II dolore e la tristezza sono alleviati dalla contemplazione della verità?

    384

    A.

    Il dolore, o tristezza, è alleviato dal sonno e dal bagno?

    385

    5

    Q. 39 La bontà e la malizia della tristezza o dolore Ogni tristezza è cattiva?

    386

    A.

    l

    A.

    2 La tristezza può essere un bene onesto?

    388

    A.

    3

    La tristezza può essere un bene utile?

    389

    A.

    4 Il dolore del corpo è il male supremo?

    Q. 40 Le passioni dell'irascibile. La speranza e la disperazione A.

    l

    La speranza si identifica col desiderio o cupidigia?

    A.

    2 La speranza risiede nelle facoltà conoscitive?

    A.

    3

    386

    390 392 392 394

    La speranza si trova anche negli animali bruti?

    396

    A. 4

    La disperazione è il contrario della speranza?

    397

    A.

    5

    L'esperienza può causare la speranza?

    398

    A.

    6

    La speranza abbonda nei giovani e negli ubriachi?

    400

    A.

    7

    La speranza causa l'amore?

    401

    A.

    8

    La speranza favorisce la nostra attività?

    Q. 41 n timore in se stesso A.

    l

    A.

    2 II timore è una passione speciale?

    A.

    3

    A.

    4 Sono bene enumerate le specie del timore?

    Il timore è una passione dell'anima? Esiste un timore naturale?

    Q. 42 L'oggetto del timore

    402 403 403 405 406 408 410

    A.

    l

    L'oggetto del timore è il bene?

    410

    A.

    2

    Il male fisico è oggetto di timore?

    41 1

    A.

    3

    Il timore ha per oggetto il male della colpa?

    413

    A.

    4

    Si può temere lo stesso timore?

    414

    A.

    5

    Si temono maggiormente i mali improvvisi?

    415

    A.

    6

    I mali irrimediabili sono i più temuti?

    417

    Q. 43 Le cause del timore

    418

    A.

    l

    La causa del timore è l'amore?

    418

    A.

    2

    I difetti sono causa di timore?

    420

    1 242

    Q. 44 Gli effetti del timore

    421

    A.

    l

    Il timore produce una contrazione?

    421

    A.

    2

    Il timore dispone al consiglio o deliberazione?

    424

    A.

    3

    Il timore produce il tremore?

    A. 4 Il timore ostacola l' attività?

    425 426

    Q. 45 L'audacia

    427

    A.

    L'audacia è contraria al timore?

    427

    A.

    2

    L'audacia deriva dalla speranza?

    429

    A.

    3

    Un difetto può causare l' audacia?

    430

    A. 4 Gli audaci sono più pronti all'inizio che nel momento del pericolo?

    Q. 46 L'ira in se stessa L'ira è una passione speciale?

    A.

    432 434 434

    A.

    2

    L'oggetto dell'ira è il male?

    435

    A.

    3

    L'ira è nel concupiscibile?

    437

    A.

    4

    L'ira implica la ragione?

    438

    A.

    5

    L'ira è più naturale della concupiscenza o desiderio?

    439

    A.

    6

    L'ira è più grave dell'odio?

    441

    A.

    7

    L'ira si rivolge solo contro chi ha con noi rapporti di giustizia?

    A.

    8 Le specie dell' ira, cioè la bile, la mania e ilfttrore, sono ben determinate?

    Q. 47 Le cause e i rimedi dell'ira Il movente dell'ira è sempre un'azione compiuta contro chi si adira?

    A.

    l

    A.

    2 La disistima o disprezzo è l'unico movente dell'ira?

    A.

    3

    A. 4

    443 445 446 446 448

    L'eccellenza di chi si adira è la causa del suo sdegno?

    450

    La causa per cui più facilmente ci irritiamo con qualcuno sono i suoi difetti?

    45 1

    Q. 48 Gli effetti dell'ira

    452

    A.

    l

    L' ira causa un godimento?

    453

    A.

    2

    L'ira accende al massimo l'ardore del cuore?

    454

    A.

    3

    L'ira è il massimo impedimento per l'uso della ragione?

    456

    A.

    4

    L'ira è ciò che più fa ammutolire?

    458

    Q. 49 La natura degli abiti in generale A.

    l

    L'abito è una qualità?

    459 459

    A.

    2 L'abito è una qualità specificamente distinta dalle altre?

    46 1

    A.

    3

    465

    A.

    4 Gli abiti sono necessari?

    L'abito dice ordine all'operazione?

    Q. SO n soggetto degli abiti

    467 469

    A.

    l

    Un abito può risiedere nel corpo?

    A.

    2

    L'anima è sede degli abiti nella sua essenza?

    472

    Un abito può risiedere nelle potenze della parte sensitiva?

    473

    A.

    3

    469

    A. 4

    Nell'intelletto stesso ci può essere qualche abito?

    475

    A.

    5

    Nella volontà ci può essere qualche abito?

    478

    A.

    6

    Negli angeli ci possono essere degli abiti?

    479

    Q. Sl La generazione degli abiti

    481

    A.

    1

    Qualche abito deriva dalla natura?

    482

    A.

    2

    Qualche abito è causato dagli atti?

    484

    1 243 Un abito può essere prodotto da un solo atto?

    A.

    3

    A.

    4 Nell'uomo alcuni abiti sono infusi da Dio?

    Q. 52 L'aumento degli abiti

    Q. 53

    l

    Gli abiti possono avere un aumento?

    2

    Gli abiti debbono ad un'aggiunta il loro aumento?

    493

    A.

    3

    Qualsiasi atto può aumentare l'abito?

    496

    La dissoluzione e la diminuzione degli abiti A.

    l

    A.

    2 Un abito può diminuire?

    A.

    3

    Un abito può dissolversi? Gli abiti possono dissolversi o diminuire per la sola mancanza di esercizio?

    489

    497 497 500 502 503

    A.

    l

    In una sola potenza possono trovarsi più abiti?

    504

    A.

    2

    Gli abiti si distinguono secondo i loro oggetti?

    506

    A.

    3

    Gli abiti si distinguono tra loro in base all'opposizione tra bene e male?

    507

    A.

    4 Un abito può constare di più abiti?

    A.

    l

    Le virtù umane sono abiti?

    A.

    2 Le virtù umane sono abiti operativi?

    A.

    3

    A.

    4 La virtù è ben definita?

    Le virtù umane sono abiti buoni?

    n soggetto delle virtù

    509 51 1 511 513 5 14 516 518

    Le virtù risiedono nelle potenze dell'anima?

    519

    2

    Una virtù può risiedere in più di una potenza?

    520

    3

    L'intelletto può essere sede di virtù?

    521

    A.

    l

    A. A. A.

    4 L' irascibile e il concupiscibile possono essere sede di virtù?

    523

    A.

    5

    Le potenze sensitive di ordine conoscitivo sono sede di virtù?

    526

    A.

    6 La volontà può essere sede di virtù?

    Le virtù intellettuali Gli abiti intellettivi di ordine speculativo sono virtù?

    A. A.

    527 529 529

    2 Ci sono solo tre abiti intellettuali di ordine speculativo, cioè la sapienza, la scienza e l ' intelletto?

    53 1

    A.

    3

    Gli abiti intellettuali delle arti sono virtù?

    533

    A.

    4 La prudenza è una virtù distinta dall'arte?

    535

    A.

    5

    A.

    6 L' eubulia, la synesis e la gnome sono virtù annesse alla prudenza?

    La prudenza è una virtù necessaria per l'uomo?

    Q. 58 La distinzione delle virtù morali da quelle intellettuali

    Q. 59

    489

    A.

    Q. 55 Le virtù nella loro essenza

    Q. 57

    487

    A.

    Q. 54 La distinzione degli abiti

    Q. 56

    486

    Ogni virtù è una virtù morale?

    537 539 541

    A.

    l

    A.

    2 Le virtù morali sono distinte dalle virtù intellettuali?

    A.

    3

    A.

    4 Ci può essere una virtù morale senza le virtù intellettuali?

    547

    A.

    5

    Ci può essere una virtù intellettuale senza le virtù morali?

    549

    La divisione delle virtù in morali e intellettuali è adeguata?

    I rapporti fra le virtù morali e le passioni A.

    l

    La virtù morale è una passione?

    A.

    2 Le virtù morali sono compatibili con le passioni?

    541 543 545

    551 55 1 552

    1 244 A.

    Q. 60

    Le virtù morali sono compatibili con la tristezza?

    557

    A.

    558

    5 Può esistere una virtù morale senza alcuna passione?

    La distinzione delle virtù morali tra loro

    559

    A.

    560

    l

    Esiste solo una virtù morale?

    A.

    2 Le virtù morali riguardanti le operazioni sono distinte da quelle riguardanti le passioni?

    A.

    3

    Q. 63

    563

    A. 4 Ci sono virtù morali diverse per le diverse passioni?

    565

    5

    Le virtù morali si distinguono secondo i diversi oggetti delle passioni?

    Le virtù cardinali

    566 570

    2

    [Certel virtù morali debbono considerarsi cardinali, o principali ? Le virtù cardinali sono quattro?

    572

    Altre virtù debbono dirsi principali più di queste?

    573

    A.

    l

    A. A.

    3

    A.

    4 Le quattro virtù cardinali sono distinte fra di loro?

    A.

    5

    Le virtù cardinali

    570

    575

    sono ben ripartite in virtù politiche, purificanti, 577 580

    Le virtù teologali A.

    l

    Ci sono delle virtù teologali?

    A.

    2 Le virtù teologali sono distinte da quelle intellettuali e morali?

    È giusto porre come virtù teologali la fede, la speranza e la carità?

    A.

    3

    A.

    4 La fede precede la speranza, e la speranza la carità?

    580 582 584 585

    La causa delle virtù

    587

    A.

    l

    587

    A.

    2 Una virtù può essere causata in noi dalla ripetizione degli atti?

    589

    A.

    3

    591

    A.

    4 La virtù acquisita è specificamente uguale alla corrispettiva virtù infusa?

    Le nostre virtù sono innate? Alcune virtù morali si trovano in noi per infusione?

    Q. 64 n giusto mezzo delle virtù

    Q. 65

    561

    C'è una sola virtù morale riguardante le operazioni?

    proprie di un animo purificato ed esemplari? Q. 62

    554

    A. 4 Tutte le virtù morali riguardano le passioni?

    A. Q. 61

    3

    593 595

    A.

    l

    Le virtù morali consistono nel giusto mezzo?

    595

    A.

    2

    Il giusto mezzo delle virtù morali è di ragione?

    597

    A.

    3

    Le virtù

    598

    A.

    4 Le virtù teologali consistono in un giusto mezzo?

    intellettuali consistono in un giusto mezzo?

    La connessione delle virtù

    600 602

    A.

    2

    Le virtù morali sono connesse tra loro? Le virtù morali possono esistere senza la carità?

    A.

    3

    La carità può esistere senza le altre virtù morali?

    608

    A.

    4 La fede e la speranza possono stare senza la carità?

    610

    A.

    5

    61 1

    A.

    La carità può esistere senza la fede e la speranza?

    Q. 66 L'uguaglianza delle virtù A.

    l

    Una virtù può essere maggiore o minore?

    A.

    2 Le virtù esistenti simultaneamente nel medesimo soggetto sono tutte uguali?

    A.

    3

    Le virtù morali

    sono superiori a quelle intellettuali?

    A.

    4 La giustizia è la prima tra le virtù morali?

    A.

    5

    A.

    6 La carità è la più alta fra le virtù teologali?

    La sapienza è la più grande delle virtù intellettuali?

    602 606

    613 613 615 617 619 621 624

    1 245

    Q. 67 La permanenza delle virtù dopo questa vita

    Q. 68

    A.

    l

    Le virtù morali rimangono dopo questa vita?

    625

    A.

    2

    Le virtù intellettuali rimangono dopo questa vita?

    628

    A.

    3

    La fede rimane dopo questa vita?

    629

    A.

    4

    La speranza rimane dopo la morte nello stato di gloria?

    633

    A.

    5

    Nella gloria resta qualcosa della fede o della speranza?

    635

    A.

    6

    Nella gloria, dopo questa vita, rimane la carità?

    637

    I doni

    638

    A.

    l

    I doni sono distinti dalle virtù?

    A.

    2

    I doni sono necessari all'uomo per salvarsi?

    642

    A.

    3

    I doni dello Spirito Santo sono abiti?

    644

    A.

    4

    È esatta l 'enumerazione dei sette doni dello Spirito Santo?

    646

    A.

    5

    I doni dello Spirito Santo sono connessi?

    A.

    6 I doni dello Spirito Santo rimangono nella patria?

    A.

    7

    La dignità dei doni è secondo l 'enumerazione di Isaia I l ?

    652

    8

    Le virtù sono da preferirsi ai doni?

    654

    A.

    Q. 69 Le beatitudini

    638

    648 650

    657

    A.

    l

    Le beatitudini sono distinte dalle virtù e dai doni?

    657

    A.

    2

    I premi assegnati alle beatitudini appartengono a questa vita?

    658

    A.

    3

    L'enumerazione delle beatitudini è esatta?

    660

    A.

    4 I premi delle beatitudini sono enumerati convenientemente?

    Q. 70 I frutti dello Spirito Santo

    Q. 71

    625

    665 667

    A.

    l

    I frutti dello Spirito Santo di cui parla Paolo sono atti?

    667

    A.

    2

    I frutti differiscono dalle beatitudini?

    669

    A.

    3

    I frutti sono ben enumerati da Paolo in Gal?

    670

    A.

    4

    I frutti dello Spirito Santo sono contrari alle opere della carne?

    674

    I vizi e i peccati considerati in se stessi n vizio

    è il contrario della virtù?

    675 676

    A.

    l

    A.

    2 Il vizio è contro natura?

    A.

    3

    A.

    4 Il peccato può coesistere con la virtù?

    68 1

    A.

    5

    In ogni peccato c'è un atto?

    683

    A.

    6

    È esatto definire il peccato come «una parola, un'azione o un desiderio

    n

    vizio è peggiore dell'atto vizioso?

    contro la legge eterna»?

    Q. 72 La distinzione dei peccati A.

    l

    I peccati sono specificamente distinti secondo l' oggetto?

    A.

    2

    È giusto distinguere i peccati in spirituali e carnali?

    A.

    3

    A. 4

    678 680

    685 688 688 690

    I peccati sono specificamente distinti secondo le loro cause?

    692

    È giusto distinguere i peccati in peccati verso Dio, verso se stessi e verso il prossimo?

    694

    La divisione dei peccati secondo la pena comporta una diversità specifica?

    696

    A.

    5

    A.

    6 C'è differenza tra il peccato di commissione e quello di omissione?

    A.

    7

    È giusto dividere i peccati in peccati di pensiero, di parola e di azione?

    A.

    8

    L'eccesso e il difetto distinguono specificamente i peccati?

    702

    A.

    9

    La distinzione specifica dei peccati dipende dalle diverse circostanze?

    704

    698 700

    1 246

    Q. 73 Il confronto reciproco tra i peccati A.

    l

    A.

    2 I peccati sono tutti uguali?

    A.

    3

    Tutti i peccati sono connessi? La gravità del peccato si misura dall'oggetto?

    A. 4 La gravità dei peccati si misura secondo l ' importanza delle virtù contrarie?

    705 705 708 710 711

    A.

    5 I peccati carnali sono meno gravi di quelli spirituali?

    713

    A.

    6 La gravità dei peccati si misura dalla loro causa?

    715

    A.

    7

    Le circostanze possono aggravare il peccato?

    716

    A.

    8 La gravità del peccato dipende dalla gravità del danno arrecato?

    718

    A.

    9 La condizione della persona contro la quale si pecca può aggravare il peccato?

    721

    A. l O L'importanza della persona che pecca aggrava i l peccato?

    Q. 74 Il soggetto del peccato

    723 725

    A.

    l

    La volontà può essere sede del peccato?

    A.

    2

    Soltanto la volontà è la sede del peccato?

    727

    A.

    3

    Il peccato può risiedere nella sensualità?

    728

    Nella sensualità ci può essere il peccato mortale?

    730

    Il peccato si può trovare nella ragione?

    73 1

    A. 4

    725

    A.

    5

    A.

    6 Il peccato di indugio nel compiacimento è nella ragione?

    732

    A.

    7 Il consenso all' atto peccaminoso è nella ragione superiore?

    734

    A.

    8

    736

    A.

    9 Nella ragione superiore, in quanto regola le potenze inferiori, ci possono essere

    Acconsentire al piacere è un peccato mortale? dei peccati veniali?

    A. I O Nella ragione superiore, considerata i n se stessa, c i può essere i l peccato veniale?

    Q. 75 Le cause del peccato io generale

    740 741 743

    A.

    l

    Il peccato ha una causa?

    743

    A.

    2

    Il peccato ha una causa interna?

    745

    A.

    3

    Il peccato ha delle cause esterne?

    747

    A. 4 Un peccato può essere causa di peccato?

    748

    Q. 76 Le cause del peccato in particolare: l'ignoranza L'ignoranza può essere causa di peccato?

    A.

    l

    A.

    2 L'ignoranza è un peccato?

    A.

    3

    L'ignoranza scusa totalmente dal peccato?

    A. 4 L'ignoranza sminuisce il peccato?

    Q. 77 I peccati di passione

    750 750 752 754 756 758

    A.

    l

    La volontà può essere mossa da una passione dell'appetito sensitivo?

    758

    A.

    2

    La ragione può essere vinta dalle passioni rispetto al suo sapere?

    760

    A.

    3

    Il peccato di passione deve essere chiamato di debolezza o fragilità?

    763

    A.

    4 L' amore di sé è il principio di ogni peccato?

    A.

    5

    765

    È giusto enumerare tra le cause dei peccati «la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita»?

    767

    A.

    6 La passione sminuisce il peccato?

    A.

    7

    La passione scusa totalmente dal peccato?

    770

    A.

    8

    Un peccato di passione può essere mortale?

    772

    769

    1 247

    Q. 78 l peccati di malizia Qualcuno può peccare per vera malizia?

    773

    A.

    l

    A.

    2 Chiunque pecca per abito pecca per malizia?

    776

    A.

    3

    778

    A.

    4 Chi pecca per malizia pecca più gravemente di chi pecca per passione?

    Chi pecca per malizia pecca per abito?

    Q. 79 Le cause esterne del peccato. Primo, dalla parte di Dio A.

    l

    Dio può essere causa del peccato?

    774

    780 781 782

    A.

    2 L' atto del peccato deriva da Dio?

    784

    A.

    3

    785

    A.

    4 L' accecamento e l ' i ndurimento sono sempre ordinati alla salvezza di chi li subisce?

    Dio è causa dell'accecamento e dell' indurimento?

    Q. 80 n demonio come causa del peccato

    787 789

    A.

    l

    n demonio può essere per l 'uomo causa diretta di peccato?

    789

    A.

    2

    Il demonio può indurre al peccato istigando interiormente?

    79 1

    A.

    3

    Il demonio può costringere a peccare?

    793

    A.

    4

    Tutti i peccati degli uomini dipendono dalla suggestione del demonio?

    794

    Q. 81 L'uomo come causa del peccato A.

    l

    Il primo peccato del nostro progenitore si trasmette ai discendenti per via di origine?

    A.

    2 Anche gli altri peccati di Adamo o degli altri antenati più prossimi si trasmettono ai posteri? ll peccato di Adamo si trasmette per via di origine a tutti gli uomini?

    795 796 799

    A.

    3

    A.

    4 Un uomo formato miracolosamente da un corpo umano contrarrebbe il peccato originale?

    802

    A.

    5

    804

    Se avesse peccato Eva, e non Adamo, i figli avrebbero contratto il peccato originale?

    Q. 82 La natura del peccato originale Il peccato originale è un abito?

    80 l

    805

    A.

    l

    A.

    2 In ogni uomo ci sono più peccati originali?

    807

    A.

    3

    Il peccato originale si identifica con la concupiscenza?

    809

    A.

    4

    Il peccato originale è uguale in tutti?

    810

    Q. 83 I l soggetto del peccato originale A.

    l

    n peccato originale risiede più nel corpo che nell'anima?

    A.

    2 I l peccato risiede più nell'essenza dell ' anima che nelle sue potenze?

    A.

    3

    A.

    4 La potenza generativa, il concupiscibile e il tatto sono più infette delle altre potenze?

    Il peccato originale colpisce più l a volontà che l e altre potenze?

    Q. 84 I l peccato come causa d i altri peccati A.

    l

    La cupidigia è l a radice d i tutti i peccati?

    A.

    2 La superbia è l'inizio d i tutti i peccati?

    A.

    3 4

    812 812 815 8 16 818 819 819 821

    Oltre alla superbia e all ' avarizia altri peccati specifici sono da considerarsi peccati capitali?

    A.

    806

    È giusto enumerare sette vizi capitali?

    Q. 85 Gli effetti del peccato. La corruzione dei beni di natura A.

    l

    A.

    2 Nell' uomo i beni di natura possono essere distrutti totalmente dal peccato?

    A.

    3

    A.

    4 La privazione della misura, della bellezza e dell 'ordine è un effetto del peccato?

    Il peccato può menomare i beni di natura?

    823 824 827 828 830

    Le piaghe inflitte alla natura dal peccato sono la fragilità, l ' ignoranza, la malizia

    e la concupiscenza?

    832 834

    1 248 A.

    5

    La morte e le altre miserie corporali sono effetti del peccato?

    835

    A.

    6

    La morte e gli altri difetti sono naturali per l'uomo?

    837

    Q. 86 La macchia del peccato

    839

    A.

    l

    A.

    2 La macchia resta nell'anima dopo l 'atto peccaminoso?

    Il peccato produce una macchia nell'anima?

    840

    Q. 87 Il reato o obbligazione alla pena

    841 843

    A.

    l

    A.

    2 Un peccato può essere punizione di altri peccati?

    845

    A.

    3

    846

    Il reato, o obbligazione alla pena, è un effetto del peccato? Certi peccati possono meritare una pena eterna?

    A. 4 Il peccato merita una pena quantitativamente infinita?

    843

    848

    A.

    5

    A.

    6 L'obbligazione alla pena rimane dopo il peccato?

    85 1

    A.

    7 Tutte le pene [della vita] sono dovute a una colpa?

    853

    A.

    8

    855

    Tutti i peccati rendono meritevoli di una pena eterna?

    Qualcuno può essere punito per i peccati altrui?

    Q. 88 n peccato veniale e il peccato mortale

    850

    857

    A.

    l

    È giusto distinguere i peccati contrapponendo il

    A.

    2

    Il peccato mortale e quello veniale differiscono nel genere?

    860

    A.

    3

    Il peccato veniale predispone al mortale?

    862

    A.

    4 Un peccato veniale può divenire mortale?

    veniale al mortale?

    858

    864

    A.

    5

    Una circostanza può cambiare un peccato da veniale a mortale?

    866

    A.

    6

    Un peccato mortale può divenire veniale?

    868

    Q. 89 Il peccato veniale in se stesso

    870

    A.

    l

    A.

    2

    I peccati veniali sono ben indicati con i termini

    A.

    3

    Nello stato di innocenza l'uomo poteva peccare venialmente?

    874

    A. 4

    Un angelo, buono o cattivo, può peccare venialmente?

    876

    A.

    5

    Negli infedeli, i primi moti della sensualità sono peccati mortali ?

    878

    A.

    6

    Il peccato veniale si può trovare in qualcuno con il solo peccato originale?

    Il peccato veniale può causare una macchia nell'anima?

    legna, fieno e paglia?

    Q. 90 I costitutivi essenziali della legge

    870 872

    879 88 1

    A.

    l

    A.

    2 La legge è sempre ordinata al bene comune?

    883

    A.

    3

    885

    A.

    4 La promulgazione è essenziale alla legge?

    La legge appartiene alla ragione? Basta la ragione di un privato per creare una legge?

    Q. 91 Le divisioni della legge

    88 1

    886 887

    A.

    l

    C'è una legge eterna?

    887

    A.

    2

    C'è in noi una legge naturale?

    888

    A.

    3

    Esiste una legge umana?

    890

    A.

    4 Era necessaria l'esistenza di una legge divina [positiva]?

    892

    A.

    5

    La legge divina è una soltanto?

    894

    A.

    6

    Esiste una legge del fomite?

    896

    Q. 92 Gli effetti della legge A.

    l

    La legge ha l'effetto di rendere buoni gli uomini?

    A.

    2 Sono bene indicati gli atti della legge quali «comandare, proibire, permettere e punire»?

    898 898 900

    1 249

    Q. 93 La legge eterna A.

    l

    A.

    2 La legge eterna è nota a tutti?

    A.

    3

    La legge eterna è la ragione suprema esistente in Dio? Ogni legge deriva dalla legge eterna?

    A. 4 Le realtà necessarie ed eterne sono soggette alla legge eterna? Gli esseri fisici contingenti sono soggetti alla legge eterna?

    A.

    5

    A.

    6 Tutte le realtà umane sono soggette alla legge eterna?

    902 902 904 905 907 909 910

    Q. 94 La legge naturale

    913

    A.

    l

    La legge naturale è un abito?

    913

    A.

    2

    La legge naturale abbraccia molti precetti?

    915

    A.

    3

    Tutti gli atti di virtù rientrano nella legge naturale?

    917

    A . 4 La legge naturale è unica per tutti? La legge naturale può mutare?

    A.

    5

    A.

    6 La legge naturale può essere cancellata dal cuore dell'uomo?

    Q. 95 La legge umana

    È stata opportuna l'istituzione di leggi umane?

    919 921 923 924

    A.

    l

    A.

    2 Ogni legge umana positiva deriva dalla legge naturale?

    927

    A.

    3 Isidoro ha ben descritto le caratteristiche della legge positiva?

    929

    A. 4

    È accettabile la divisione delle leggi umane proposta da Isidoro?

    Q. 96 Il potere della legge umana La legge umana deve porsi in termini universali?

    A.

    l

    A.

    2 La legge umana ha il compito di reprimere tutti i vizi?

    A.

    3

    A. 4 A. A.

    924

    930 933 933 935

    La legge umana può comandare gli atti di tutte le virtù?

    936

    La legge umana obbliga in coscienza?

    938

    5

    Tutti sono soggetti alla legge [umana]?

    939

    6

    È lecito ai sudditi agire senza conformarsi alle parole della legge?

    942

    Q. 97 La mutazione delle leggi La legge umana deve mutare in qualche modo?

    943 944

    A.

    l

    A.

    2 La legge umana va sempre mutata, quando si prospetta un miglioramento?

    A.

    3

    La consuetudine può acquistare vigore di legge?

    947

    A. 4

    Chi comanda può dispensare dalle leggi umane?

    949

    Q. 98 La legge antica La legge antica era buona?

    945

    950 95 1

    A.

    l

    A.

    2 La legge antica veniva da Dio?

    953

    A.

    3

    955

    La legge antica è stata data per mezzo di angeli?

    A. 4 La legge antica doveva essere data al solo popolo ebraico?

    957

    A.

    5

    Tutti gli uomini erano obbligati a osservare la legge antica?

    959

    A.

    6 Era giusto che la legge antica fosse data al tempo di Mosè?

    961

    Q. 99 I precetti della legge antica

    963

    A.

    l

    La legge antica contiene un unico precetto?

    A.

    2

    La legge antica contiene dei precetti morali?

    964

    A.

    3

    Oltre ai precetti morali la legge antica contiene dei precetti cerimoniali?

    966

    A.

    4

    963

    Oltre ai precetti morali e cerimoniali ci sono anche dei precetti giudiziali o legali?

    968

    1 250 A.

    5

    Oltre a quelli morali, giudiziali e cerimoniali, ci sono nella legge antica altri precetti?

    A.

    6 La legge antica doveva indurre all' osservanza dei precetti con promesse e minacce di ordine temporale?

    Q. 100 I precetti morali della legge antica A.

    l

    A. A.

    970 972 974

    Tutti i precetti morali appartengono alla legge naturale?

    974

    2

    I precetti morali della legge riguardano gli atti di tutte l e virtù?

    976

    3

    Tutti i precetti morali dell'antica legge si riducono ai dieci precetti del decalogo?

    978

    A. 4

    I precetti del decalogo sono ben divisi?

    979

    A.

    5

    I precetti del decalogo sono convenientemente enumerati ?

    982

    A.

    6 I dieci precetti del decalogo sono convenientemente ordinati?

    987

    A.

    7

    I precetti del decalogo sono convenientemente formulati?

    989

    A.

    8

    Si può dispensare dai precetti del decalogo?

    99 1

    A.

    9

    Ricade sotto il precetto il modo virtuoso di adempierlo?

    994

    A. l O Ricade sotto il precetto divino l ' adempierlo secondo il modo della carità? A. I l

    È giusto distinguere altri precetti morali della legge oltre al decalogo?

    A. 1 2

    I precetti morali dell'antica legge potevano giustificare?

    Q. 101 I precetti cerimoniali in s e stessi

    996 998 1 00 1 l 003

    A.

    l

    La ragione specifica dei precetti cerimoniali consiste nel fatto che sono ordinati al culto di Dio? l 003

    A.

    2

    I precetti cerimoniali sono figurali ?

    l 005

    A.

    3

    I precetti cerimoniali dovevano essere molti?

    1007

    A. 4 Le cerimonie dell' antica legge sono ben divise in sacrifici, cose sacre, sacramenti e osservanze?

    Q. 102 Le cause dei precetti cerimoniali A.

    I precetti cerimoniali hanno una causa o ragion d' essere?

    1 009 1012 1012

    A . 2 I precetti cerimoniali hanno una ragion d'essere anche per il loro senso letterale?

    1014

    A.

    3

    Si può trovare una ragione plausibile delle cerimonie riguardanti i sacrifici?

    1015

    A.

    4

    È possibile determinare una ragione plausibile delle cerimonie relative alle cose sacre? l 024

    A.

    5

    C'è una ragione che spieghi i sacramenti dell'antica legge?

    1 038

    A.

    6 Le osservanze cerimoniali avevano un motivo ragionevole?

    1 057

    Q. 103 La durata dci precetti cerimoniali A.

    l

    Le cerimonie legali esistevano già prima della legge?

    A.

    2 Le cerimonie dell' antica legge avevano allora la virtù di giustificare?

    l 068 1 068 1 070

    A.

    3 Le cerimonie dell' antica legge sono cessate con la venuta di Cristo?

    1 073

    A.

    4

    I 075

    Dopo la passione si possono osservare le cerimonie legali senza peccato mortale?

    Q. 104 I precetti giudiziali

    1 079

    A.

    l

    Il costitutivo dei precetti giudiziali è il fatto che essi sono ordinati al prossimo?

    A.

    2

    I precetti giudiziali hanno un valore figurale?

    1 08 1

    A.

    3

    I precetti giudiziali dell' antica legge obbligano in perpetuo?

    1 083

    A. 4 I precetti giudiziali possono avere una chiara divisione?

    Q. 105 I motivi dei precetti giudiziali A.

    l

    L'antica legge ha ben disposto riguardo ai principi?

    1 079

    l 085 1 086 1 086

    A.

    2 Erano giusti i precetti giudiziali relativi ai rapporti sociali del popolo?

    1 09 1

    A.

    3

    1 103

    I precetti giudiziali relativi agli stranieri erano ragionevoli ?

    A. 4 L'antica legge ha dato buoni precetti riguardo alle persone di famiglia?

    1 107

    1 25 1

    Q. 106 L a legge evangelica, o legge nuova, in s e stessa La legge nuova è una legge scritta?

    1 1 12 1 1 13

    A.

    l

    A.

    2 La legge nuova dà la giustificazione?

    1 1 14

    A.

    3

    1 1 16

    A.

    4 La legge nuova deve durare sino alla fine del mondo?

    La legge nuova doveva essere data all'inizio del mondo?

    Q. 107 Confronto fra la legge nuova e l'antica La legge nuova è distinta dalla legge antica?

    1 118 1 12 1

    A.

    l

    A.

    2 La legge nuova d à compimento all' antica?

    1 125

    A.

    3 La legge nuova è contenuta nell' antica?

    1 128

    A.

    4 La legge nuova è più gravosa dell'antica?

    1 1 30

    Q. 108 Il contenuto della legge nuova

    1 12 1

    1 1 32

    A.

    l

    La legge nuova deve comandare o proibire degli atti esterni?

    1 132

    A.

    2

    La legge nuova ha ordinato i n maniera adeguata gli atti esterni?

    1 134

    A.

    3

    La legge nuova ha ordinato l'uomo in maniera adeguata quanto agli atti interni?

    1 1 38

    A.

    4

    È giusto che nella legge nuova vengano proposti determinati consigli?

    1 142

    Q. 109 La necessità della grazia L'uomo privo della grazia può conoscere una qualche verità?

    1 145 1 146

    A.

    l

    A.

    2 L'uomo può volere e compiere il bene senza la grazia?

    1 148

    A.

    3

    1 1 50

    L'uomo può amare Dio sopra tutte l e cose con i soli mezzi naturali senza l a grazia?

    A . 4 L'uomo senza la grazia può adempiere i precetti della legge con i suoi mezzi naturali?

    1 1 52 1 1 54

    A.

    5

    A.

    6 L'uomo può prepararsi da solo alla grazia, senza l'aiuto esterno della grazia?

    A.

    7

    L'uomo può risorgere dal peccato senza l' aiuto della grazia?

    1 1 58

    A.

    8

    L'uomo senza la grazia può non peccare?

    1 1 60

    A.

    9

    Chi è già in grazia può fare il bene ed evitare il peccato da solo, senza l'aiuto della grazia?

    1 162

    Chi è in grazia ha bisogno dell'aiuto della grazia per perseverare?

    1 1 64

    A. l O

    L'uomo può meritare la vita eterna senza la grazia?

    Q. 110 La grazia di Dio nella sua essenza La grazia pone qualcosa nell'anima?

    1 155

    1 1 66 1 166

    A.

    l

    A.

    2 La grazia è una qualità dell' anima?

    1 169

    A.

    3

    La grazia si identifica con la virtù?

    1 17 1

    A . 4 La grazia risiede nell'essenza dell'anima?

    1 173

    Q. 1 1 1 Divisione della grazia

    È giusto dividere la grazia in grazia santificante, o gratum faciens, e grazia gratis data? È giusto dividere la grazia in operante e cooperante? È giusto dividere la grazia i n preveniente e susseguente?

    A.

    l

    A.

    2

    A.

    3

    A.

    4 La grazia gratis data è ben suddivisa da Paolo?

    A.

    5

    La grazia gratis data è superiore alla grazia santificante?

    Q. 1 12 La causa della grazia

    1 174 1 1 75 1 1 77 1 179 1 1 80 1 1 83 1 185

    A.

    l

    Solo Dio è la causa della grazia?

    1 1 85

    A.

    2

    Si richiede una preparazione o disposizione alla grazia da parte dell'uomo?

    1 1 86

    La grazia viene concessa necessariamente a chi si prepara ad essa, facendo quanto sta in lui?

    A.

    3

    A.

    4 Ci può essere maggior grazia in uno che in un altro?

    1 190

    A.

    5

    1 19 1

    L'uomo può sapere di essere in grazia?

    1 1 88

    1 252

    Q. 113 Gli effetti della grazia. Primo, la giustificazione del peccatore A.

    l

    A.

    2 La remissione del peccato, ossia la giustificazione del peccatore,

    La giustificazione del peccatore consiste nella remissione dei peccati?

    A.

    3 Per la giustificazione del peccatore si richiede l'esercizio del libero arbitrio?

    richiede l ' infusione della grazia?

    1 194 1 194 1 196 1 198

    A. 4 Per la giustificazione del peccatore si richiede un atto di fede?

    1 200

    A.

    5 La giustificazione del peccatore richiede un moto del libero arbitrio contro il peccato?

    1 202

    A.

    6 La remissione dei peccati è da enumerarsi tra le cose richieste per la giustificazione?

    1 203

    A.

    7 La giustificazione del peccatore è istantanea?

    1 205

    A.

    8 L'infusione della grazia in ordine di natura è la prima tra le cose richieste

    A.

    9 La giustificazione del peccatore è la più grande opera di Dio?

    per la giustificazione del peccatore? A. 1 0 La giustificazione del peccatore è un ' opera miracolosa?

    1 209 1 21 1 1 213

    Q. 114 Il merito

    1215

    A.

    Un uomo può meritare qualcosa da Dio?

    1215

    A. 2

    Senza la grazia uno può meritare la vita eterna?

    1217

    A.

    Chi è i n grazia può meritare l a vita eterna a rigore d i giustizia?

    1219

    l 3

    A. 4 L a grazia è i l principio del merito più attraverso l a carità che attraverso l e altre virtù?

    1 22 1

    A.

    5

    Uno può meritare a se stesso l a prima grazia?

    1 222

    A.

    6

    Si può meritare per un altro la prima grazia?

    1 224

    A.

    7 Uno può meritare di risorgere dopo un peccato?

    1 226

    A.

    8

    A.

    9 L'uomo può meritare la perseveranza?

    L'uomo può meritare l' aumento della grazia o della carità?

    A. 1 0 I beni temporali possono essere oggetto di merito?

    Schema della Seconda Parte, Prima Sezione

    1 227 1 229 1 230

    1 23 3

    1 253

    OPERE DI TOMMASO D'AQUINO edite da ESD *

    Catena aurea, Glossa continua super Evangelia vol. l , Matteo 1 - 12, introd. , testo latino e trad. it. , pp. 992 ; vol. 2, Matteo 1 3 -28, testo latino e trad. it. , pp. 10 16; vol. 3, Marco, testo latino e trad. it. , pp. 656. Commento ai Libri di Boezio, Super Boetium De Trinitate, Expositio Libri Boetii

    De Ebdomadibus, introd. e trad. it. , pp. 320. Commento ai Nomi Divini di Dionigi, Super Librum Dionysii

    de Divinis Nominibus vol. l , Libri I-IV, introd., testo latino e trad. it. , pp. 584 ; vol. 2, Libri V-XIII, testo latino e trad. it. , comprende anche De ente et essentia, pp. 568. Commento al Corpus Paulinum, Expositio et lectura super Epistolas Pauli Apostoli vol. l , Romani, introd., testo latino e trad. it., pp . 1 024 ; vol. 2 , l Corinzi, introd., testo latino e trad. it. , pp. 928; vol. 3 , 2 Corinz� Galati, introd., testo latino e trad. it., pp. 928; vol. 4, E/esim: Filippes� Colossesi, introd. , testo latino e trad. it., pp. 760; vol. 5, Tessalonices� Timoteo, Tito, Filemone, introd. , testo latino e trad. it., pp. 720; vol. 6, Ebrei, introd., testo latino e trad. it. , pp. 784. Commento al Libro di Boezio De Ebdomadibus. L'essere e la partecipazione, Expositio Libri Boetii

    De Ebdomadibus, introd., testo latino e trad. it., pp. 152. Commento al Libro di Giobbe, Expositio super ]oh ad litteram, introd., trad. it., pp. 528. Commento all'Etica Nicomachea di Aristotele, Sententia Libri Ethicorum vol. l , Libri I-V, introd. e trad. it., pp. 672; vol. 2, Libri VI-X, trad. it. , pp. 608.

    * Le Opere sono ordinate secondo il titolo dell'edizione italiana. Al titolo dell'edizione italiana segue il titolo della tradizione latina consolidata, segnalato in carattere corsivo. Cf. TORRELL J.-P., Amico

    della verità. Vita e opere di Tommaso d'Aquino, ESD, Bologna 2006.

    1 254

    Commento alla Fisica di Aristotele, Sententia super Physicorum vol. l , Libri I-III, introd., testo latino e trad. it. , pp. 640; vol. 2 , Libri IV-VI, testo latino e trad. it. , pp. 776; vol. 3, Libri, VII-VIII, testo latino e trad. it. , pp. 704 . Commento alla Metafisica di Aristotele, Sententia super Metaphysicorum vol. l , Libri I-IV, introd., testo latino e trad. it. , pp. 800; vol. 2, Libri V-VIII, testo latino e trad. it. , pp. 840; vol. 3 , Libri IX-XII, testo latino e trad. it., pp. 848. Commento alla Politica di Aristotele, Sententia Libri Politicorum, introd., trad. it., pp. 464. Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo,

    Scriptum super Libros Sententiarum vol.

    l , Libro I, dd. 1 -2 1 , introd., testo latino e trad. it. , pp. 1 1 04;

    vol.

    2, Libro I, dd. 22-48, testo latino e trad. it. , pp. 1 056;

    vol. 3 , Libro II, dd. 1 -20, testo latino e trad. it. , pp. 1 000; vol. 4, Libro II, dd. 2 1 -44, testo latino e trad. it., pp. 1 120; vol.

    5, Libro III, dd. 1 -22, testo latino e tra d. it., pp. 1 17 6;

    vol.

    6, Libro III, dd. 23 -40, testo latino e trad. it. , pp. 1088;

    vol.

    7, Libro IV, dd. 1 - 13 , testo latino e trad. it., pp. 1024;

    vol.

    8, Libro IV, dd. 14-23 , testo latino e trad. it. , pp. 1 0 1 6;

    vol.

    9, Libro IV, dd. 24-42 , testo latino e trad. it. , pp. 9 12;

    vol. 10, Libro IV, dd. 43 -50, testo latino e trad. it., pp. 1000. Compendio di teologia, Compendium theologiae, introd., trad. it. , pp. 3 84 . Credo. Commento al Simbolo degli apostoli, introd., trad. it, pp . 128. Fondamenti dell'antologia tomista. TI Trattato De ente et essentia, introd., commento, testo latino e trad. it, pp. 320. I Sermoni e le due Lezioni inaugurali, Sermones, Principia "Rigans montes'' ,

    "Hic est liber" , introd., commento e trad. it., pp. 3 68. La conoscenza sensibile. Commenti ai libri di Aristotele:

    TI senso e il sensibile; La memoria e la reminiscenza, Sentencia Libri De sensu et sensato cuius secundus tractatus est De memoria et reminiscencia, introd., trad. it. , pp. 256. La legge dell'amore. La carità e i dieci comandamenti, In decem preceptis, introd., trad. it. , pp. 128. La perfezione cristiana nella vita consacrata: Contro gli avversari del culto di Dio e della vita religiosa,

    1 255

    La perfezione della vita spirituale, Contro la dottrina di quanti distolgono dalla vita religiosa, Contra impugnantes Dei cultum et religionem, De per/ectione spiritualis vitae, Contra pesti/eram doctrinam retrahentium homines a religionis ingressu, introd., trad. it., pp. 448. La preghiera cristiana. Il Padre nostro, l'Ave Maria e altre preghiere, introd., trad. it. , pp. 128. La Somma contro i Gentili, Summa contra Gentiles vol. l , Libri I-II, introd., testo latino e trad. it., pp. 784; vol. 2, Libro III, testo latino e trad. it. , pp. 640; vol. 3 , Libro IV, testo latino e trad. it. , pp. 464. La Somma Teologica, Summa Theologiae, in 35 volumi, introduzione a ogni sezione, testo latino e trad. it. La Somma Teologica, Summa Theologiae, in 6 volumi, sola traduzione italiana vol. l , Parte I, pp. l 040; vol. 2 , Parte I-II, pp. 976; vol. 3 , Parte II-II, qq. 1 -79, pp. 6 1 6; vol. 4, Parte II-II, qq. 80- 1 89, pp. 8 1 6; vol. 5, Parte III, pp. 920; vol. 6, Supplemento, pp. 848. La virtù della fede, Summa Theologiae II-II, qq. 1 - 16, introd. , trad. it. , pp. 248. L'unità dell'intelletto, De unitate intellectus, L'eternità del mondo,

    De aeternitate mundi- introd., testo latino e trad. it. , pp. 240. Le Questioni Disputate, Quaestiones Disputatae vol. l , La Verità, De Veritate, introd., testo latino e trad. it., qq. I-IX, pp. 968; vol. 2, La Verità, De Ventate, introd., testo latino e trad. it., qq. X-XX, pp. 896; vol. 3 , La Verità, De Veritate, introd. , testo latino e trad. it. , qq. XXI-XXIX, pp. 992; vol. 4, L'anima umana, De Anima,· Le creature spirituali, De spiritualibus creaturis, introd., testo latino e trad. it., pp. 83 2; vol. 5 , Le virtù, De virtutibus in communi, De caritate,

    De correctione fraterna, De spe, De virtutibus cardinalibus; L' unione del Verbo Incarnato, De unione Verbi Incarnati, introd., testo latino e trad. it. , pp. 688; vol. 6, Il male, De malo, introd., testo latino e trad. it., qq. I-VI, pp. 624; vol. 7, Il male, De malo, testo latino e trad. it., qq. VII-XVI, pp. 736; vol. 8, La potenza divina, De potentia Dei, introd., testo latino e trad. it., qq. I-V, pp. 784;

    1 256

    vol.

    9, La potenza divina, De potentia Dei, testo latino

    e trad. it. , qq. VI-X, pp. 672; vol. 10, Su argomenti vari, Quaestiones quodlibetales, introd., testo latino e trad. it., qq. VII-XI, pp. 520;

    vol. 1 1 , Su argomenti vari, Quaestiones quodlibetales, testo latino e trad. it. , qq. I-VI, XII, pp. 848. Logica dell'enunciazione. Commento al libro di Aristotele Peri Hermeneias) Expositio

    Libri Peryermenias, introd., trad. it., pp. 264. Opuscoli politici: Il governo dei principi, Lettera alla duchessa del Brabante, La dilazione nella compravendita,

    De Regno ad Regem Cypri, Epistola ad Ducissam Brabantiae, De emptione et venditione ad tempus, introd., trad. it. , pp. 464. Opuscoli spirituali: Commenti al Credo, Padre Nostro, Ave Maria, Dieci Comandamenti, Ufficio e Messa per la Festa del Corpus Domini, Le preghiere di san Tommaso, Lettera a uno studente,

    In Symbolum Apostolorum, In orationem dominicam, In salutationem angelicam, In duo praecepta caritatis et in decem legis praecepta expositio, 0//icium de Pesto Corporis Christi, Piae Preces, Ad ]oannem, introd. , trad. it., pp. 352. Pagine di filosofia: Filosofia della natura, antropologia, gnoseologia, teologia naturale, etica, politica, pedagogia, De Principiis naturae) testo latino e trad. it., introduzioni e antologia di brani, pp. 224.

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    ALTRE OPERE su TOMMASO D'AQUINO edite da ESD }EAN-PIERRE ToRRELL, Amzco della verità. Vita e opere di Tommaso d)Aquino, pp. 568. BATTISTA MONDIN, Dizionario enciclopedico del pensiero di san Tommaso d)Aquino, 2a ed., pp. 764.

    Edizioni Studio Domenicano Via dell'Osservanza 72 - 40136 Bologna - ITALIA Tel. +39 05 1582034 · Fax. +39 05 133 1583 [email protected] www.edizionistudiodomenicano.it

    Finito di stampare: febbraio 2014, SAB Snc, Budrio (BO)