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Italian Pages 168 Year 1990
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L'ARTE DELLA COMMEDIA ATTI DEL CONVEGNO DI STUDI SULLA DRAMMATURGIA DI EDUARDO a cura di ANTONELLA OTTAI e PAOLA QUARENGHI
BULZONI EDITORE
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BIBLIOTECA TEATRALE
65
CONSIGLIO REGIONALE
ARCI NOVA
DEL LAZIO
LAZIO
In collaborazione con
CENTRO TEATRO ATENEO — DIPARTIMENTO MUSICA E SPETTACOLO UNIVERSITÀ DI ROMA «LA SAPIENZA»
L'ARTE DELLA COMMEDIA ATTI DEL CONVEGNO DESTUDI SULLA DRAMMATURGIA DI EDUARDO (Teatro Ateneo,
21 settembre 1988)
a cura di ANTONELLA
OTTAI e PAOLA QUARENGHI
BULZONI EDITORE
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
ISBN 88-7119-262-1
© 1990 - by Bulzoni editore s.r.l. 00185 Roma - Via dei Liburni, 14
In copertina:
Bozzetto di Giovanni Brancaccio per Sik-Sik, l’artefice magico, 1930.
Si ringrazia Aida De Lellis del Dipartimento di Musica e Spettacolo per il contributo della redazione del volume.
INDICE
11
In forma di prologo. Conversazione su Eduardo, di Isabella Quarantotti De Filippo
15
Franca Angelini, Eduardo negli anni Trenta: abiti vecchi e nuovi
33
Paola Quarenghi, Da/ pari al dispari. Una commedia del repertorio di Eduardo
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Maurizio Grande, Un ballo in maschera
69
Huguette Hatem, 1948-1988. Quarant'anni di «Grande magia» e di «Voci di dentro»
83
Antonella Ottai, Le due scritture: il tondo e il corsivo nelle commedie di Eduardo
97
Roberto De Simone, Linguaggio e tradizione Eduardo
141
Agostino Lombardo, Eduardo e Shakespeare
155
In forma di epilogo. Una testimonianza, di Ferruccio Marotti
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L'Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale ha accolto l’invito a patrocinare il convegno sull’opera di Eduardo, che ha dato luogo a questa pubblicazione. Si è trattato, forse per la prima volta, di un incontro a carattere
scientifico, su un fenomeno importante della cultura italiana di questo secolo. Il teatro e l’opera complessiva di Eduardo hanno rappresentato, in particolare per il Lazio e per Roma, un filo rosso che ha percorso decenni dell’ultimo dopoguerra. Per molti cittadini di Roma e del Lazio gli appuntamenti all’Eliseo ed infine al Giulio Cesare, hanno costituito un richiamo intellettuale
ed affettivo di grande rilievo. Il messaggio di tolleranza e di civismo, che l’intera produzione di Eduardo comunicava è stato, per tutti noi, un patrimonio importante. Queste considerazioni ci hanno indotto a partecipare a questa pre-
gevole iniziativa. Il Consiglio regionale si impegna ad una distribuzione di questo volume, perché riteniamo che esso costituisca uno strumento utile di conoscenza. Avv. Angiolo Marroni Vice Presidente del Consiglio Regionale del Lazio
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Il convegno di studi L'arte della commedia, che si è tenuto al Teatro Ateneo il 21 settembre 1988, e che è stato promosso dall’ARCI NOVA e dall'Assessorato alla cultura della Regione Lazio insieme al Centro Teatro Ateneo e al Dipartimento di Musica e Spettacolo, ha cercato di privilegiare un aspetto specifico dell’opera complessiva di Eduardo, quella legata alla sua produzione di autore. Ma la riduzione di campo ad uno solo degli aspetti della sua attività, non potrà escludere una lettura della sua opera che veda integrate e in stretta reciproca relazione tutte le attività del suo mestiere teatrale: quella di attore, quella di capocomico, quella di regista. Tanta ricchezza di risorse artigianali e artistiche fa, del caso De Filippo, uno dei più rari e interessanti della cultura teatrale italiana del Novecento,
a cavallo
com'è fra una tradizione (di matrice dialettale) e una rivoluzione che passa attraverso i grandi personaggi e i grandi eventi del secolo: da Pirandello all'avvento del teatro di regia, alle «rivoluzioni» imposte,
anche in campo teatrale, dal fascismo, alle trasformazioni prodotte dalla guerra e dal dopo-guerra. Scrittura di scena e drammaturgia d’attore, il rapporto con i grandi autori a lui contemporanei e con i classici, l'individuazione di forme e temi ricorrenti nella sua drammaturgia, la relazione mai sufficientemente studiata con la tradizione, ma, allo stesso tempo, la ine-
vitabile emancipazione da essa, i tentativi di trasmissione non solo di un sapere teatrale, ma di un modo di essere teatro. Su questi argomenti il convegno ha prodotto alcune prospettive
interessanti che meritano un approfondimento, opportuno promuovere intanto la circolazione blicazione, per incoraggiare lo studio di questa ha accompagnato oltre cinquant'anni del nostro
ma di cui ci sembra sotto forma di pubfigura singolare che teatro.
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IN FORMA DI PROLOGO.
CONVERSAZIONE SU EDUARDO
di ISABELLA QUARANTOTTI DE FILIPPO
Vorrei non parlare io di Eduardo, bensì far parlare lui, leggendovi alcune sue opinioni sul teatro che non sono ancora note perché inedite. Nel 1982 la scuola elementare romana «Quarto Miglio» gli inviò Centouno domande sul teatro, a cui Eduardo cominciò a rispondere, ma fu poi costretto a interrompersi, a causa del gran lavoro di quei mesi e del disagio che gli provocava il costante indebolimento della vista. Delle poche a cui rispose, ne leggerò qualcuna. D. - Il teatro quanti anni ha e dove è nato? R. - Ha perlo meno la stessa età dell’uomo, ed è nato dovunque c'erano esseri umani. L'uomo, per fare diventare reale la propria vita, la deve fingere sul palcoscenico. Attraverso questa finzione, che è una sublimazione del vero, gli si chiariscono fatti, pensieri ed eventi. D.- Che cosa significa la parola teatro? R. - È una parola greca che significa «un posto per guardare», ed è bello, perché si può intendere un posto per guardare uno spettacolo, ma anche un posto per guardare noi stessi.
D. - Che futuro attende il teatro? R. - Non so dirlo con precisione, posso però affermare con l’esperienza di una lunga vita in teatro che questa forma d’arte procede a cicli. Ogni ciclo si sviluppa, cresce, diminuisce e termina, generando un nuovo ciclo che, a sua volta, ne genera un altro. Con maggiore o minore frequenza i cicli si ripetono. In altre parole, il futuro del teatro è il suo passato e il suo passato è il suo futuro. Un ser-
pente che si morde la coda.
12
Isabella Quarantotti De Filippo
D.- Esisterà sempre o finirà di esistere? R. - Fino a che ci sarà un filo d’erba sulla terra ci sarà un filo d’erba finta in palcoscenico. D.- Il teatro ha una meta? R. - Per me, la sua meta è rappresentare la vita dell’uomo. D.- Che cos'è il teatro realmente? R. - Prima di tutto è mistero, poi ogni definizione è buona, anche se incompleta. D. - E per l’attore che cos'è? R. - Senza teatro non c’è attore e senza attore non c’è teatro. Ecco,
la definizione meno incompleta del teatro è «il teatro è l'attore». D.- Il teatro è realtà o fantasia? R. - Il teatro riproduce la realtà attraverso la fantasia, la realtà riprodotta dalla fantasia diventa verosimiglianza. Diciamo: la realtà della fantasia.
Poi avevo pensato di parlarvi brevemente dell’ultima commedia che voleva scrivere Eduardo,
Carta canta. All’inizio il titolo era: È
arrivata la fine, poi lo cambiò in Carta canta. Cominciò a buttare giù la scaletta, ma la mise da parte per scrivere Gli esami non finiscono mai, che aveva, diciamo, il diritto di precedenza perché era un progetto che risaliva dalla fine degli anni ’40. Vi leggo l’inizio
della scaletta. «Siamo al terzo annuncio, il direttore di scena trasmette al pubblico, parlando al microfono. Dagli altoparlanti dell'ingresso e da quelli in sala si ode la sua voce: “I signori sono pregati di prendere posto in sala, ha inizio lo spettacolo”. I ritardatari si affrettano. Mezze luci in sala, in attesa dell’apertura del sipario. Si illumina la ribalta. Man mano che gli ultimi arrivati raggiungono i loro posti, il classico assordante fragore di un teatro esaurito in ogni ordine di posti si confonde con un vocio insolito, che di classico non ha proprio nulla, con
rumori sordi e cupi di passi frettolosi e concitati, accompagnati da
voci alterate che diventano allarmate, specie quando gli spettatori in sala si accorgono che quella sopraffazione al loro classico fragore proviene dal palcoscenico e che incalza sempre più. Incalza fino a distinguere ciò che da un capo all’altro del palcoscenico si gridano
In forma di prologo. Conversazione su Eduardo
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disperatamente gli attori, i tecnici, il capocomico, la prima attrice, eccetera. Le battute potranno essere press’a poco queste: “Io non vado in scena, non posso correre il rischio”. Ma viene sopraffatta da un’altra: “Chiamate il suggeritore... Dove sta? È sparito?”. “Ma non avevo
nessuna ragione di sparire, che volete da me?”. Purtroppo, di scritto c'è soltanto questo, però Eduardo me ne parlava molto spesso, era come affascinato dall’argomento. L'azione doveva scaturire da un fatto misterioso, improvviso, inspiegabile: la scomparsa della carta, contemporaneamente, in tutto il mondo. La compagnia teatrale di cui si parla nella scaletta è in preda al panico, perché senza copione il suggeritore non può seguire gli attori e dare loro lo spunto se dimenticano una battuta, ma via via, dal teatro, il panico si propaga negli archivi, nelle scuole, negli uffici, in parlamento. Segue un periodo di smarrimento durante il quale non si è più certi di niente: se si è sposati, se si devono pagare le tasse, perfino se si è nati. I politici sono sgomenti, sanno che il loro potere è legato alla carta. Questa prima parte avrebbe avuto la forma di una grande farsa, con equivoci, qui pro quo, colpi di scena, rivelazioni continue e contraddittorie, paradossi martellanti, per far sì che il pubblico si accorgesse in modo clamoroso di quanto la sua vita dipenda dalla carta, dalla burocrazia e dall’abitudine. Finito il crescendo comico, il mondo si divide in due gruppi: la gente qualunque si adatta alla mancanza di carta, anzi ne trae vantaggio perché ricomincia a usare il cervello, e si inventa una vita nuova, libera da vecchi pregiudizi e usanze paralizzanti. I documenti non esistono più, ma chi si ama rimane insieme anche senza il certificato di matrimonio; un bibliotecario non
può certo esercitare il suo mestiere, però se ne inventa un altro e così via. L’altra metà del mondo, la classe di potere, è nei guai: nessuno
dà più retta ai loro ordini e alle loro leggi, nessuno può più corrompere o essere corrotto, perché l’oro è un metallo troppo pesante e ingombrante per costituire una bustarella da passare sottobanco. An-
che gli alberi sono deperiti e scomparsi... Una situazione insostenibile. Il potere discute e si spreme le meningi per venire a capo del problema e si rivolge agli scienziati affidando loro il compito di ripopolare la terra di alberi da cui ricavare l'indispensabile carta. Dopo
14
Isabella Quarantotti De Filippo
errori e smacchi, gli scienziati decidono di «piantare» migliaia di uomini con la testa nella terra con la speranza che i loro capelli diventino radici... E qui finisce quel che so di Carta canta. Perché Eduardo non la scrisse? Certo non è facile mettere insieme il paradossale sberleffo della trovata con il significato sociale ed umano che egli voleva proporre al pubblico, ed è questa, io credo, la ragione principale. Ma influì negativamente anche l’artrosi deformante che gli aveva colpito le mani, rendendogli lo scrivere una vera tortura. E questo, per Eduardo, era un grosso handicap, giacché aveva bisogno di vedere, nero su bianco, ognuna delle parole che per anni aveva immaginato, pensato, soppesato. Per lui scrivere a mac-
china o dettare era impensabile. Per circa quattordici anni continuò a sviluppare la trama, a cambiarla, tra dubbi e incertezze, ma sentirlo
parlare di questa commedia è stata per me un’esperienza unica. Il suo intelletto libero, scanzonato, era insofferente della società in cui viveva; su un pezzetto di carta un giorno trovai scritto: «La logica vuole, la logica vuole... Ma io ho sempre voluto e voglio tutto ciò che la logica non vuole». Alla sua venerabile età mi appariva più giovane di tutti giovani
che conoscevo, più ribelle, più idealista, più rivoluzionario e più pronto a fare sacrifici per ottenere quel che voleva. Sognava un mondo nuovo, basato su sentimenti e pensieri veri e generosi che restituissero all'umanità il senso dell’avventura e della creatività, e a
questo mondo era pronto a sacrificare perfino la cultura e la civiltà e la tradizione che pur tanto amava.
FRANCA ANGELINI
EDUARDO NEGLI ANNI TRENTA: ABITI VECCHI ENUOVI
Tradizione-innovazione
A chi scriveva e recitava teatro nel decennio 1920-1930 si presen-
tavano tre strade: proseguire le tradizioni locali e specialmente quella napoletana che era dialettale ma, per la complessità delle sue forme, anche nazionale; scrivere e recitare testi propri; recitare testi di
altri e specialmente di Pirandello. Eduardo percorre tutte e tre queste strade; come i maggiori contemporanei, Viviani e Petrolini, scrive i suoi testi, mentre altri, che non riuscirono a compiere il salto dalla recitazione alla scrittura, rimasero ai margini dell'interesse della gran-
de cultura, malgrado il successo invece presso il pubblico. È questo il caso di Angelo Musco. Ancor oggi ci si pone il problema di stabilire le soglie della tradizione e quelle dell'innovazione in questi percorsi degli attori-scrittori; ma io credo che tali soglie siano interne ad ogni segmento del percorso, che la tradizione si scelga e che quindi nella tradizione siano già contenute le linee dell’innovazione. Eduardo lo dice a modo suo nel 1983 a Montalcino: «Se un giovane sa adoperare la tradizione nel modo giusto, essa può dargli le ali... Se ci serviamo della tradizione come d’un trampolino... arriveremo più in alto che se partissimo da terra» !
1 I. Quarantotti De Filippo, Eduardo, Milano, Bompiani ,1985, p. 82.
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Franca Angelini
Il trampolino di Eduardo è il comico delle parodie, dei travestimenti, della coppia Pulcinella-Sciosciammocca nella versione greve di Petito, alleggerita poi dal comico garbato di Scarpetta, nei rapporti infine tra questo teatro e lo sketch del Varietà, la scenetta e l’atto unico d’ambiente. Queste forme passano da Petito e Scarpetta a Viviani e Eduardo, con permanenze e innovazioni verso l’epica popolare in Viviani, verso il dramma storico-collettivo in Eduardo. Per la tradizione, senza congetturare, basta vedere i copioni di Eduardo, esclusi dalle edizioni: oltre alle riviste firmate con Mascaria
(Maria Scarpetta), Mangini e Curcio troviamo una trascrizione della
Monaca fauza di Trinchera, una riduzione della Palummella di Petito del 1954, una del Pulicenella che va truvanno ‘a fortuna soia pe’ Napule di Altavilla e scenari della Commedia dell'Arte che Eduardo ha continuato a usare, come Petrolini, perché ottimi esercizi d’attore.
La proposta recente delle quattro commedie degli Scarpetta e, con essa, la riproposta della «innovazione» scarpettiana rispetto alla pratica precedente, fanno intendere una somiglianza tra i due percorsi. Scarpetta viene presentato come comunemente si presenta Goldoni, riformatore della Commedia dell'Arte; ma è probabile che
Eduardo parli di sé quando espone il programma di Scarpetta: «fedeltà al copione scritto, abolizione delle improvvisazioni divenute ormai insopportabilmente lunghe e tediose, disciplina in compagnia e, nello scrivere, maggiore aderenza alla realtà e ai gusti del pubbliCO» 2, Noi possiamo andare oltre; tra convenzione petito-scarpettiana e
aderenza alla realtà, Eduardo trova diversi punti di equilibrio, verso il teatro o verso la vita, teatralizzando l’una e vitalizzando l’altra co-
me ad altri non riuscì di fare. Ultima tappa della dialettica goldoniana «monde e «teatro». Pensiamo a Viviani, l'esempio più prossimo, alle sue prime esperienze di apprendistato: tra il 17 e il 19 aveva scritto straordinari atti
2 Quattro commedie di Eduardo e Vincenzo Scarpetta, Torino, Einaudi, 1974, p. 55. Su questi temi vedi ora A. Barsotti, Eduardo drammaturgo, Roma, Bulzoni, 1988, p. 131 sgg.
Eduardo negli anni trenta: abiti vecchi e nuovi
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unici, in prosa versi e musica, rappresentanti le sue passeggiate liri-
co-corali dentro la città di Napoli,
’O vico, Piazza Ferrovia, Scalo
Marittimo, Porta Capuana, ecc.; tappe di un percorso immaginario nel ventre della città e titoli teatrali. Il primo tempo di questa passeggiata termina nell’Eden teatro del ‘19, ambientata all’interno di un teatro prima durante e dopo uno spettacolo di Varietà, coi suoi numeri e col suo particolare rapporto col pubblico. Rappresentando il teatro sembra che Viviani torni indietro, alla tradizione ottocentesca da cui nasce il Varietà. Ad esempio prendiamo la Francesca da Rimini di Petito; l’azione inizia a sipario calato, suona la sinfonia, il primo violino conversa col suggeritore. Un signore da un palco: «Eh, là, si può sapere cosa è successo». Pulcinella parla al pubblico, racconta cosa capita dietro le quinte; il suggeritore e uno del pubblico, inglese, intervengono altercando; lo spettacolo si arrangia, Pulcinella arriva in scena vestito da donna con cuffia da notte e lenzuolo appeso dietro, declama i versi della Francesca...
In realtà questo pasticcio comico è carico di futuro: il Varietà, genere, tra i piccoli teatri, preferito da Eduardo. A partire dalle parodie ottocentesche del teatro «alto» nasce una drammaturgia antinaturalistica, comica perché provoca la sequenza logica e propone una costruzione scenica continuamente
interrotta e mutata,
il numero.
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questa struttura frammentaria il punto fermo è l’attore; che si autorappresenta mentre recita, si esalta e esalta l’arte sua nel momento in
cui si mostra non come personaggio ma come artista, ovvero attore. Credo sia qui il motivo della permanenza della struttura metateatrale nel teatro d’attore del Novecento: Radioscopia, della coppia Petrolini-Cangiullo 3, futurista napoletano, e poi 7! padiglione delle meraviglie di Petrolini e, di Viviani, la Bobeme
dei comici,
Circo
equestre Sgueglia, Zingari sono casi in cui, espulso dalla scrittura, l'attore vi rientra attraverso la rappresentazione del teatro e della propria arte; le differenze tra i vari modi di rappresentare il teatro sono le differenze tra i vari attori e, schematizzando, Viviani accen-
3 Mi sia permesso un rimando al mio Radioscopia, scena e scrittura del Varietà in AA.VV., Petrolini. La maschera e la storia, Bari, Laterza, 1984, pp. 107-119.
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Franca Angelini
tua il carattere lirico-malinconico del varietà e si mette in scena,
nell’Eden teatro, come Raffaele Viviani attore; Petrolini pratica nel circo la forza e l’aggressività della sua maschera e, mettendo in scena una pensione per attori, sarà Gastone, la sua macchietta più fortunata. Eduardo sarà Sik-Sik, il secco lucido parco prestigiatore fallito e continuamente smentito dal principio di realtà, acerrimo nemico del
teatro. Questa origine dialettale, comica, rappresentata dal Varietà accompagna anche l’Eduardo maturo ed è un nucleo della dialettica tradizione-innovazione; il Varietà e il dialetto come tradizione salva-
no Eduardo dall’oleografia e dal naturalismo nei drammi «della vita», mentre le sue rappresentazioni metateatrali hanno sempre un occhio al tipo umano, alla condizione precaria, alla vita. Per questo tradizione e innovazione, diversamente dosate, procedono insieme.
Un rapporto eclettico Nella formazione di un primo repertorio che mescola il comico di Peppino, l’umoristico di Eduardo, mediati dalla presenza duttile di Titina ha importanza centrale la qualità degli attori e la bottega di Vincenzo Scarpetta. Quella che in Viviani nel 1928, per sua ammissione nell’autobiografia, era l'ossessione del repertorio, la necessità di cambiare continuamente e l'impossibilità di riesumare il metodo produttivo dei Comici dell'Arte, nei De Filippo è gioco delle parti e divisione del lavoro; è il periodo della Ribalta Gaia e del Teatro Umoristico, un teatro che può assumere un nome «pirandelliano» senza esserlo minimamente, anzi rovesciando la finalità dell’umorismo che, nella dizione o poetica di Pirandello, è un mezzo estremo
di salvare il tragico in un’epoca negata ai grandi conflitti e priva del centro cui riferirli. Mentre in Eduardo l'umorismo è ancora, in questi anni, solo un mezzo per nobilitare il comico, nella scrittura, e una suprema sapienza dell’attore nel passare dal riso al pianto senza interruzioni; come mostra un personaggio di Ditegli sempre di sì, il piccolo attore Luigi, quando finge prima una scena strappalacrime e
Eduardo negli anni trenta: abiti vecchi e nuovi
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poi ride: «Eh, l’arte, l’arte... ma ve site creduto che io chiagneva ove-
ramente...» 4. Per Eduardo è insomma «la parte amara della risata», la sapienza dell’attore che tiene i due toni contemporaneamente e che firma la
sua presenza nel testo scritto. Se dunque Eduardo non poteva non subire i temi pirandelliani, come nel caso dell'umorismo, conservò sempre un notevole scarto dal modello, mescolandolo col teatro di tradizione napoletana e infi-
ne restituendolo completamente trasformato: il suo è un pirandellismo da attore. Uomo e galantuomo, scritto nel 1922 e rappresentato nel 1924 dalla compagnia di Vincenzo Scarpetta e poi dal suo Teatro Umoristico il 23 febbraio del 1933 al Sannazzaro di Napoli, è un testo ove compare per la prima volta l’Eduardo futuro; qui troviamo il discorso sul teatro intrecciato al discorso sulla vita; una situazione alla Petito-
Scarpetta e un salto verso la grande illusione, cioè la pazzia simulata non nella forma pensosa e ragionatrice del Berretto a sonagli, piuttosto in quella dei comici dell'Arte: «Alberto: Grazie, compatitemi signore, io sono più disgraziato di voi... Figuratevi che l’Alfabeto, d'accordo con i quattro punti cardinali, mi ha rubato il progetto di una mia invenzione... »5; è una battuta del più puro barocco comico. Tre atti, tre sketches recitabili anche in modo indipendente l’uno dall’altro e una drammaturgia che chiamerei delle attrazioni, con molte parti a soggetto. Lo stesso metodo è adottato altre volte e per tutte nel Natale in casa Cupiello (dopo il successo dell’atto unico corrispondente al secondo atto). Ma interessa qui la struttura temati-
ca di Uomo e galantuomo: la messa in scena del mondo teatrale, gli attori miserabili che cucinano, fanno il bucato e, senza soluzione, provano, si intreccia alla farsa della vita, alla banale faccenda di cor-
na ispessita dalla necessità di simulare la pazzia; la teatralità del teatro si intreccia alla teatralità della vita.
4 In I capolavori di Eduardo, Torino, Einaudi, 1973, I, p. 14.
> In Cantata dei giorni pari, Torino, Einaudi, 1971, p. 47 e passim.
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Franca Angelini
Eduardo non farà che raffinare questo intreccio, spingendo il tema del teatro oppure quello della realtà ma ben dosandoli alla prova del successo e del consenso del pubblico. Questa la strategia di Eduardo, questo il motivo dell’oscuramento che il suo teatro ha esercitato sugli altri, e particolarmente su quello di Viviani. Dalla prova di Uomo e galantuomo derivano sia le commedie metateatrali (Sik-Sik e poi La grande magia) sia quelle della realtà (Natale in casa Cupiello e, con molte mediazioni, alcuni momenti dei drammi del dopoguerra). Pazzia e teatro: troviamo questo intreccio in Ditegli sempre di st,
scritto nel ’27 e rappresentato il 10 novembre del 1932, con l’attore che ride e piange e che teorizza — come Ciampa ancora una volta ma in chiave «comica» — le tre risate, la grassa, la ironica, la amara; e con il pazzo, colui che chiama le cose col loro nome, crea e nomina le si-
tuazioni, vedendo oltre il conformismo dell'apparenza. Il suo refrain, «c'è la parola adatta, perché non la dobbiamo usa-
re», è un appello al dialetto contro la lingua che nasconde, ma appartiene anche alla tradizione napoletana che sottolinea con la ripetizione il tic del personaggio e lo rende comico: così nei vecchi «Vicienzo m'è pate a me di Miseria e nobiltà e prima ancora la caratterizzazione del Feliciello petitiano che cantilena «mo nce ’o dico a mmammè»; come nello Scarfalietto di Scarpetta c’è l'avvocato Tartaglia che fa ridere impuntandosi e ripetendo. Rispetto a questo tipo di comicità Eduardo compie lo stesso intervento di umanizzazione che Goldoni, coi refrains © dei Rusteghi, «vegnimo a dire il merito» e «figuarse», aveva operato nei confronti della Commedia dell’Arte. Fino al ritornello famosissimo del Natale, su cui
Eduardo costruisce il I e il III atto, cioè il rapporto padre-figlio; qui evoca ancora una volta la magia di una scena, il presepio, contro la pesantezza della realtà o dei «fatti» che sta nell’altro ritornello «Voglio ’a zuppa ‘e latte». Luca allestisce una scena familiare, mitica, mentre la sua famiglia va in pezzi: «Na casa ’nguaiata». Così la tradizione rappresentata dal Natale produce innovazione teatrale, un nuovo tipo di comicità. 6 1 tic linguistici rappresentano una invariante del teatro comico italiano; di qui, attraverso la Commedia dell’Arte, passano a Molière.
Eduardo negli anni trenta: abiti vecchi e nuovi
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In Ditegli sempre di sì troviamo un’altra anticipazione al secondo atto, quando tutti sono intorno a un tavolo (qualcuno ha fatto il conto: il 45% delle sue commedie si svolge in una camera da pranzo) a pranzo finito, al dolce. Anche il pranzo è un elemento teatrale della tradizione, dalla Commedia
dell’Arte a Goldoni, e anche qui abbiamo un
uso consapevole, quindi innovativo della tradizione: intorno al tavolo gli attori mimano in piccolo la grande cerimonia del teatro, il tavolo funziona da micro palcoscenico dove la recita si condensa 7. Vediamo come la modernità penetra in questa situazione tradizionale e forse arcaica; l’attore Luigi già ricordato dice a tavola la sua poesia: “Ora mistica”. Ho immaginato due file di cipressi...» Una poesia «che si allontana dalla formula ermetica ma si aggancia alla formula idealistica e impressionistica...». Attraverso l’attore abbiamo una parodia del poeticismo, della poesia notturna, del linguaggio dei critici, dell’intellettualismo, della falsa avanguardia, guanto Petrolini aveva parodiato con tante macchiette e specialmente con la Canzone delle cose morte, quando faceva il Varietà novecentesco e tanto piaceva agli avanguardisti. La scena di Eduardo è lunghissima e ancor più petroliniana quando raggiunge toni alla Fortunello: «Un gufo veglia... e uccide Sergio Proculo chinato. Ecco l'alba... Che vedo intorno al loculo», vagamente alludente a una situazione amletica, bersaglio preferito di questi attori. Eduardo percorre tutte le strade che il teatro contemporaneo gli mette a disposizione; ma allo stesso tempo enuclea i «suoi» temi e i «suoi. modi, già visibili negli anni dal 1931 al 1934, cioè dalle diverse e successive elaborazioni del Natale. A partire dal primitivo nucleo, il pranzo coi re magi e la comica processione che, malgrado la maestria dello scrittore-attore era e resta uno sketch; e nelle successive
stesure del I e III atto, prima con l’umoristico conflitto padre-figlio, magia--fatti», poi con la finale sconfitta della conciliazione, che può avvenire solo nel sogno e nella morte. Quello che costituisce un filo conduttore verso il teatro futuro è che il mito della natalità è mito di una impossibile felicità familiare,
7 Si trova spesso in Goldoni; l'esempio principe è in Una delle ultime sere di Carnovale.
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ma si esprime come scena teatrale e così lo costruisce Luca, il bambino-regista; il Presepio è certo una scena primitiva — in ogni senso
possibile nella nostra cultura —, ma è anche una rappresentazione sacra che ha bisogno dei pastori, le luci, il ruscello, il monte, un picco-
lo teatro, per una grande magia. Questa scena Luca tenta di costruire, mentre gli altri (vita o realtà o «fatti») non fanno che distruggerla. Fare e disfare, nel piccolo teatro, per una grande magia; questa sembra una polarità che certo non esaurisce il teatro di Eduardo ma lo caratterizza negli anni 30 e prima della II guerra mondiale. «Qua ci metto l’erba, i pastori...» — dice Luca; assistiamo così all’organizzazione di un sogno attraverso una visione scenica, contro una richiesta di realtà o, meglio, un altro teatro; il figlio vuole restare
bambino, ma in modo diverso da quello del padre: i due refrains «Te piace o presebbio® e «voglio ’a zuppa ‘e latte», da elemento di caratterizzazione comico che ha valore più dal punto di vista del significante che del significato, diventa ora elemento carico di racconto, di mito, per un comico serio e direi alto. Se questa lettura coglie una verità, dovremo concludere che soltanto quando la realtà mostra la sua faccia più scostante il figlio capisce la forza non solo del sogno paterno ma del suo teatro. Quale? Utopistico ma brulicante di uomini, con una scenografia ma popolata da esseri viventi, un teatro di visione, libero dalla «schiavitù
della scrittura», come la chiamava Viviani: «Luca, ottenuto il sospirato “sì”, disperde lo sguardo lontano come per inseguire una visione incantevole... Un presepe grande come il mondo, sul quale scorge il brulichio festoso di uomini veri». È la didascalia conclusiva. Si capisce così come il Presepe scenografico che Luca tentava di allestire era figura, direbbe Auerbach, di questo sogno, che è sogno di ogni uomo di teatro.
Piccolo teatro, grande magia
Dunque Natale in casa Cupiello rappresenta non solo quello che tutti hanno visto, cioè l’inizio di una scrittura comica, tragicomica,
tragica verso, o contro, la forza della realtà; ma rappresenta anche
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l'aggiornamento della tradizione napoletana metateatrale e un suo discorso sul teatro. Per inseguire le declinazioni di questo discorso dovremmo rileggere tutto Eduardo; ma basterà pensare alla ripresa del piccolo teatro di Varietà e anche pulcinellesco o burattinesco, e alla promozione da lui eseguita verso il grande teatro e la sua complessa significazione. Per la fedeltà al teatro pulcinellesco pensiamo alla ripresa del Curaggio de nu pompiere napulitano di Eduardo Scarpetta, del 1877, rappresentato da De Filippo alla Pergola di Firenze il 23 dicembre 1974. C'è Felice Sciosciammoceca e il servo Pulcinella, e qui si vede da dove viene la coppia comica del Varietà, del cretino e del forbito, perbene, elegante, ecc. C'è una lanterna magica, nel II atto,
che è un omaggio al cinema e insieme un omaggio alla scena che si raddoppia come nelle scatole cinesi; infine c'è un elemento costante e variamente elaborato da Eduardo che qui si mostra nella sua forma archetipa, popolare, burattinesca: Rosina racconta un sogno e con
esso la serie delle apparizioni, dei fantasmi che l’hanno terrorizzata, come Petito aveva costruito tante farse su questo tema e, per tutte,
La morte dint’ ’o lietto ‘e don Felice, recentemente ripresa da Carlo Cecchi. Il fantasma della superstizione popolare diventerà il fantasma della realtà dannosa da rimuovere, il vuoto pieno di inquietudine e di pericolo dell’Eduardo maturo. È un teatro di convenzione, come abbiamo visto, questo di Petito
e di Scarpetta, un teatro antinaturalistico; perciò piace alla avanguardie anche recenti; e Eduardo viene da qui, dalla convenzione. La tardiva riproposta di Scarpetta significa un teatro «teatrale», cioè convenzionale nel senso ricordato al passato quasi remoto da Eduardo: «trucco pesante, ingenuo... le scene di carta dipinta; in palcoscenico comparivano solo gli oggetti indispensabili all’azione, tanto che, se il pubblico vedeva, per esempio, un cesto, subito si do-
mandava a che cosa sarebbe servito» 8. Anche se sia Scarpetta che De Filippo hanno cercato poi di nascondere questa origine convenzionale a vantaggio di una scena ric-
8. In Quattro commedie di Eduardo e Vincenzo Scarpetta, cit., p. 3.
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ca e perciò anche tendenzialmente naturalistica, sia pure verso la semplificazione, la naturalezza e l'aderenza alla verità della scena, questa origine non è mai del tutto smentita.
Eduardo sottolinea con la scrittura i mezzi con cui il teatro si appropria della realtà, mette in evidenza le strutture, oltre che i mezzi,
della finzione e per questa via incontra Petrolini e l’avanguardia europea, allontanandosi decisamente da Viviani nel senso, sia tematico che formale, dell’antinaturalismo.
La sintesi di questo procedimento sta nell’affermazione di Oreste Campese, ben nota: a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione. L’attore cita nello stesso testo Shakespeare e Molière rappresentati in pochi metri e su quattro tavole; ebbene io credo che questi due classici siano stati raggiunti da Eduardo (e il primo in modo testamentario e come uno stemma del suo proprio nome negli archivi dei teatri, con la traduzione della Tempesta), ma attraverso un teatro popolare tra virgolette: attraverso lo sketch del Varietà, la magia cioè la forza d’illusione che esso contiene, la forma super o meta-teatrale,
il primato dell’attore anche personaggio (illusionista, chantosa), il rapporto di intesa e il particolare patto che il «numer istituisce col pubblico. La grande magia nasce dal piccolo teatro. Qui la scrittura d’autore coincide con la scrittura dell’attore, cioè il suo tipo di recita. Parliamo in primo luogo dell’artefice magico, Sik-Sik, di colui che procura illusione con l’arte, o l’artificio; l’attore insomma 9. L'invenzione di Eduardo sta nel contro-numero, nel numero in-
terrotto ovvero fallito; sta nella epicizzazione consapevole del numero di Varietà, nella messa a nudo del trucco, nel percorso che si inceppa, che tartaglia e perciò mostra com'è fatta la parola 10.
? Cfr. A. Barsotti, Eduardo drammaturgo, cit,. p. 59. 10 Noteremo che altre piccole pièces sono costruite sull’impedimento e il fallimento momentaneo; ad esempio, La voce del padrone, del 1932, ambientata in una casa discografica intorno alle difficoltà di un’incisione sonora.
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In Sik-Sik, del 1929, il fallimento ovvero il contro-numero mette di
fronte, in collisione tragicomica, illusione e realtà ma anche scena e pubblico; Nicola si sottrae al ruolo di falso pubblico che l’illusionista vorrebbe assegnargli e, nel ruolo di pubblico «vero», fa fallire l’illusione. I numeri scelti — che sarebbero moltiplicabili com’è in questo tipo di scrittura — sono: un colombo che prende il volo (numero classico e allusione a Palummella zompa e vola di Petito, da Eduardo rifatta, come abbiamo visto, con Maria Scarpetta in anni successivi); la
donna nella cassa che deve sparire e ricomparire (prima idea della Grande magia), risibile e pietosa perché la donna è incinta; infine il numero
del pollo, che allude anche al tema della fame, basilare nel
teatro napoletano. Eduardo non si limita a mostrare la comicità del numero, ma compie un breve, fondamentale discorso sul teatro di tradizione e sul suo: in Sik-Sik l'illusione è inganno e patto col pubblico ma basato sulla malafede, perché l’attore finge una magia e il pubblico finge di crederci. Eduardo è perfettamente consapevole di questo discorso, se nell’edizione 1971, Einaudi, di Ogni anno punto e da capo, il numero di Sik-Sik, il quinto, è preceduto da un dialogo che è un «prologo tematico» tra due spettatori; uno dei due sostiene l'elegante diritto di non pagare a teatro: «Abbilo per massima. Il teatro non si deve pagarel», che annuncia il motivo della vendetta di Nicola; «Se vuoi il biglietto te lo vai a comprare al putechino! — gli aveva detto Sik-Sik !!. Spectator in fabula; come scrive Eduardo, «il pubblico, il coro...
è lui in definitiva a darmi le vere risposte ai miei interrogativi». In questa richiesta sta il carattere innovativo del suo teatro di varietà; sta nella presenza esplicita del pubblico nel rapporto con la scena, rapporto in genere nascosto o implicito. Non in Petrolini, com’è noto: per la tecnica dello «slittamento»,
cioè dell’entrata e uscita a vista del personaggio mediante l’appello diretto al pubblico, improvvisato o anche prescritto, come nell’uscita
11 Ed. Einaudi, 1971, cit., p. 35.
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di Nerone dal ruolo: «Bello questo coretto, ve lo faccio risentire»; oppure nei cinque finali di Benedetto fra le donne del ’27: Benedetto va alla ribalta e dice: «... temendo ehe questo non incontri il favore del pubblico, che io mi lusingo di mandar via soddisfatto, avrei diversi e svariati finaletti per tutti i gusti... a serie. Alla commedia aggiungo la ingiustamente dimenticata farsa, e con il vostro benevolo consenso, svolgo il secondo finale...» !2. Petrolini e Eduardo, lontani sia come attori che come scrittori, sono simili «per posizione»; entrambi raggiungono, non a caso, Pirandello, con Agro di limone Petrolini, con L'abito nuovo Eduardo;
mentre Pirandello, e con lui l'avanguardia, cerca e raggiunge il teatro degli attori e i modi del Varietà, quando ad esempio mette in scena il pubblico in Ciascuno a suo modo, quando vuole rinnovare la sua drammaturgia. Il percorso dello posiard in fabula dal piccolo numero fallito di Sik-Sik alla grande magia riuscita di Otto Marvuglia è il percorso del teatro di Eduardo. Nella platea c’è ora il mare, il motoscafo che porta via la moglie di Calogero, «Clienti dell'albergo e finto pubblico, perché quello vero deve fingersi mare». Vorrei sottolineare questa tarda immagine del pubblico, invisibile, liquida e, secondo certe interpretazioni del mare, simbolica dell'inconscio. Ma vorrei anche sottolineare l’estensione della commedia degli inganni nella Grande magia: il pubblico, i personaggi si ingannano a vicenda e ingannano anche se stessi, se Otto Marvuglia deve registrare un applauso finto, di folle oceaniche che non ci sono. La lettura di questo dramma richiederebbe molti dettagli, ma si
capisce la mia intenzione di sottrarlo alla metafisica del pirandellismo ossia della dialettica finzione-realtà per condurlo invece nella, diciamo così, fisica del discorso di Eduardo sul teatro.
In questo è centrale l'inversione dei ruoli: il marito ingannato entra nell’illusione («Ma non vi accorgete che il gioco lo state facendo voi») trasformando l'inganno in una difesa dell’inganno: ma vi entra anche l’ingannatore, il mago.
12 In Opere, a c. di A. Calò, Venezia, ed. Ruzante, 19774 pi307
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Come nelle alte sfere dell’ Enrico JV pirandelliano, lo shock della realtà, del tempo che torna come se non fosse passato, qui nella for-
ma della moglie pentita, non funziona e la rimozione teatralizzata ha la meglio. Ha la meglio l’illusione teatrale racchiusa nella canonica «scatola», immagine con cui anche si suole rappresentare il cosiddetto «teatro all'italiana».
L'abito nuovo
Accenniamo a due altri rapporti fondamentali a definire la prima drammaturgia eduardiana, quello col fratello Peppino e quello con Pirandello; il primo che rappresenta il passato, il secondo che indica il presente-futuro, un teatro che i due attori conoscono bene per averlo recitato. Constatiamo intanto che il primo repertorio della Compagnia si avvale in larga misura dei testi di Peppino. Ma un confronto più ravvicinato mostra come la tradizione in Eduardo contenga già i suoi elementi innovativi, mentre in Peppino gli stessi elementi servono a perfezionare un’arte che non vuole superare i suoi limiti. Eduardo
abbandona la farsa del tipo popolare caro al fratello, pure sperimentata ad esempio in Chi è cchiù felice ’e me?, a favore semmai di più antichi modelli teatrali, da Scarpetta a Petito alla Commedia dell'Arte; a favore di una grande drammaturgia del passato, di una tradizione che sarà l’arte dell’attore a rinnovare dall'interno. Peppino è invece un attor comico ostinatamente votato a perfe-
zionare il cliché senza modificarlo; era «popolare» — ancora tra virgolette —, questa volta nel senso della farsa paesana, il qui-pro-quo e la sgrammaticatura, il trucco pesante, l'andamento goffo da Fortunello del contado napoletano. Varrebbe tuttavia la pena di rileggere alcuni suoi testi di questi anni, testi non si sa se ingenui o molto furbi, in cui Peppino si traveste da Bertoldo e dice con molto coraggio che il Re è nudo.
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Pensiamo a Trampoli e cilindri!, del 1927, una farsa tragica con morte finale, che mette in scena una competizione tra il sorpassato pazzariello e il nuovo modo di reclamizzare le merci mediante l’uomo sui trampoli; qui si dice il passaggio drammatico dallo spettacolo artigianale a quello industriale, con chiaroveggenza e anche con molta crudeltà. Pensiamo a Miseria bella — un quadro realistico, sia pure nell’eccesso che gli consente di superare la censura, della povertà italiana di quegli stessi anni fascisti — e a Un ragazzo di campagna — con le artiste di Varietà che si spacciano per nobili e annusano, come il Gastone di Petrolini, la cocaina 13.
I primi contatti tra Eduardo e Pirandello fanno ormai parte di una
leggenda; a partire dalla traduzione in napoletano di Ziol4 da parte di Peppino, acclamatissimo anche nella parte del protagonista, alla prima il 21 maggio 1935, Teatro Odeon di Milano, e alle riprese del 5 giugno 1935, Teatro Argentina di Roma, del 25 ottobre 1935, Teatro Politeama di Napoli, infine del 12 maggio 1936 al Carignano di Torino. La messa
in scena di Liolà fu fortemente voluta da Eduardo,
mentre Peppino riluttava, con buoni motivi: Io ero giovane allora [...] Ero giovane e avevo in cima ai miei pensieri una cosa sola: le nostre commedie. Stimavo e veneravo Pirandello: però ritenevo sbagliato sacrificare per lui il nostro repertorio. Mio fratello Eduardo, invece, la pensava diversamente. L'idea del Liolà era venuta a lui e Pirandello si era
trovato subito d’accordo 14.
Nella commedia Eduardo sosteneva la parte di Don Emilio, lo zio Simone del testo originario; preludio a Ciampa del Berretto a sonagli, versione napoletana di Eduardo nella parte anche del protagoni-
13 I testi citati sono compresi in Peppino De Filippo, Farse & Commedie, Napoli, Marotta, 1984.
14 G. Grieco, in «Gente», 15 gennaio 1978.
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sta il 14 febbraio 1936 al Teatro dei Fiorentini di Napoli, così recensita da Renato Simoni: [...] Potente commedia, potente la rappresentazione che ieri sera ne hanno dato i fratelli De Filippo [...]}. Quanto a Eduardo, non è possibile descrivere per quali modi egli sia andato rendendo sempre più ansiosa la sua mitezza raziocinante, e come egli abbia fatto sobbalzare, fino al clima della tragedia, la sua debolezza e la sua umiliazione di vinto [...]. La sua maschera pareva incavarsi nel pallore, e, poi, riaccendersi madida; nella sua voce la sua disperazione talora si arrochiva e poi tremava del pianto che non saliva agli occhi 15.
Ci sono, in questa testimonianza, tutti gli elementi del grande attore Eduardo: «Ciampa era un personaggio che attendeva da vent’anni il suo vero interprete» — gli scrive Pirandello nel febbraio del 1936. Certo l’attore risolve un vecchio problema, quello del parlare bene anziché bello quindi del parlare il dialetto, nel segno della verità e non del regionalismo folklorico, che continuava a occupare la riflessione teorica del drammaturgo siciliano. Questa collaborazione leggendaria tra il vecchio Pirandello e il giovane Eduardo avviene in quindici giorni del dicembre 1935 a Roma; il primo, seduto in un’ampia poltrona, scriveva le battute «che davano il via alle scene principali», il secondo «traduceva in vernacolo il suo pensiero» 19. Quando la commedia andò in scena il I° aprile 1937 al Manzoni di Milano, Pirandello era già morto e Eduardo poté sembrarne l'erede. Dalla prima pubblicazione della novella L'abito nuovo nel «Corriere della Sera» del 16 giugno 1913 alla rappresentazione del dramma è passata tutta una stagione — anzi la grande stagione — del teatro italiano; in questo episodio si sintetizza sia il passato di Eduardo che il suo progetto futuro: essere sempre meno na-
15 Leggo questa recensione in L. Pirandello, Carteggi inediti, a c. di S. Zappulla Muscarà, «Quaderni dell'Istituto di Studi Pirandelliani», n. 2, Roma, Bulzoni, 1980, p.
366. 16 E. De Filippo, // giuoco delle parti, in AA.VV., Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando, Napoli, Edizioni Teatro San Ferdinando, 1954.
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poletano, alla maniera del suo passato col Teatro Umoristico, e sempre più italiano, alla maniera della sua versione napoletana di un testo di Pirandello; non dunque pirandelliano, e si capisce perché Eduardo abbia sempre rifiutato questa etichetta. La sua eredità è acquisizione-negazione della lezione paterna — così dovette sembrargli quella pirandelliana — cioè tradizione-innovazione da svolgere negli anni futuri nel proprio originale modo. Ma già L’abito nuovo, con la traduzione «in vernacolo», modifica profondamente la novella, scelta soprattutto perché ambientata a Napoli; ed ambientata a Napoli perché la protagonista è la madre, la chantosa che muore fuori scena quasi ad apertura di sipario del dramma. Abbiamo qui due elementi propriamente di Eduardo: l’uso «metateatrale» di una figura del teatro, in questo caso una chantosa, il pieno rilievo che la figura assente, la morta, il fantasma assume e assumerà nella sua drammaturgia. Non che questi elementi non si trovassero già in Pirandello: ma io credo, questa volta, per influenza appunto di quel tipo di teatro «popolare» e dialettale che anche Eduardo rappresentava per lui. Rimando per la lettura di questo dramma al saggio di Anna Barsotti già citato (v. nota 2). Mi limito ad osservare la centralità dell’assente, della morta nell’ Abito nuovo e il particolare che questo fantasma sia un'attrice di Varietà !7; metà cocotte metà corpo carico di eros represso negli altri e specialmente nel marito; metà madre metà prostituta teatrale: muore nella strada, dilaniata dai cavalli, mentre attraversa la città presentando uno spettacolo, alla maniera delle feste e fiere popolari. Come sempre poi in Eduardo, tra presenti e assenti, tra uomo e fantasma, vince il fantasma; in questo caso, un fantasma rappresentato novecentescamente da un manichino da spogliare e vestire come tanti facevano nel teatro alto, Bontempelli ad esempio, per non dire della pittura, di De Chirico e di Carrà.
17 Una schedatura della presenza della chantosa nel teatro di quegli anni coinvolgerebbe tutti i nostri scrittori, dal Pirandello di Questa sera si recita a soggetto ai grandi del Varietà, Petrolini, Viviani, infine lo stesso Eduardo, con Mariella Floramy ne Za voce del padrone, cit.
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Non più il fantasma carnoso, pesante e vivo di Madama Pace, ma un simulacro di secondo grado, la silhouette appendiabiti delle case di moda; citazione pirandelliana più che Pirandello. Escluso per Savinio e pochi altri, L'abito nuovo non ebbe successo, come tutti gli spettacoli eduardiani che non rispettavano l’etichetta naturalista attribuita dalla critica al teatro dialettale; un’altra etichetta, quella della cerebralità, dagli stessi critici attribuita a Pirandello, pesava negativamente sulle spalle dell’ancor giovane drammatur-
go (e a lungo vi peserà). A noi L'abito nuovo sembra oggi soprattutto una summa
temati-
ca; con un antieroe, rigido moralista, cui si oppone un fantasma erotico nella forma di un cliché teatrale, l’attrice, la madre che muore la-
sciando come eredità l'obbligo di una spinosa scelta, i soldi o il buon nome. Eduardo innesta, a un livello tematico profondo, non solo il «peso» del moralismo ma la sua ambiguità problematica, cioè la sua
funzione di censura rispetto alle pulsioni vitali rappresentate dal denaro e insieme rappresentate dalla vita contro la morte e dalla donna contro l’uomo. La figlia della chantosa infatti non avrà difficoltà ad indossare gli abiti della madre, mentre il padre accetterà quegli stessi abiti come smorfia provocatoria e tragica. Chi ha ragione? Il dramma sottolinea l'ambiguità della ragione e del torto, tra moralismo e vitalità, uomo e donna, paternità funesta e maternità amo-
rosa, temi tutti sui quali Eduardo fonderà gran parte della sua futura drammaturgia. Negli anni futuri Eduardo negherà di essere pirandelliano, credo giustamente; perché non solo quella drammaturgia aveva conosciuto dall'interno, come attore 18, ma anche la drammaturgia di Lucio d'Ambra, Luigi Antonelli, Gino Rocca, Ugo Betti, Augusto Novelli, tutti autori del suo eclettico repertorio e tutti indispensabili al suo passaggio dalla scrittura aperta, scomponibile e ricomponibile dello sketch-atto
18 Si ricorderà che Eduardo era stato Rico Verri in Questa sera si recita a soggetto, rappresentazione del 1936.
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unico, alla scrittura chiusa dei tre atti in crescendo, messa in parodia dai futuristi. I testi dei drammaturghi citati e di Pirandello gli servono a passare dalla drammaturgia dell'attrazione (che viene dal Varietà) a quella dell’azione (che viene dalla scrittura «letteraria»). Grazie alla pratica di questi autori Eduardo attua il suo progetto di passare dai margini al centro del teatro italiano; senza dimenticare le sue origini, cioè i moduli metateatrali, senza dimenticare l’astratta forza della convenzione ma rendendo vitale l’innesto tra teatro e vita; vitale attraverso il suo ruolo di attore, vitale attraverso uno sguardo at-
tento al suo presente, al suo modo di guardare la storia. Senza dimenticare la convenzione, si diceva, cioè la tradizione napoletana a partire da lontano, dalla Commedia dell'Arte a Petito, ai burattini, al Varietà:
credo che venga specialmente da qui la sua influenza sul teatro di 0ggi, la recita silenziosa di Pupella, quella sopra le righe dei Barra, i siparietti di Carlo Cecchi e anche i deliri verbali, i sogni, i travestimenti della nuova scuola napoletana dei Santanelli, Ruccello, Moscato.
Attraverso il suo modo di ricercare e riproporre la tradizione Eduardo trova quei classici che anche i comici dell’Arte avevano, al tempo loro, incontrato; ritrova gli autori di Campese, Molière e Shakespeare. La tempesta è perciò il suo testamento e irradia la sua luce anche sull’Eduardo precedente, perché tutti i suoi teatri vi sono presenti: magia e sogno, amore e morte, la tragedia della Corte e del potere politico e la commedia napoletana delle maschere e del vino che fa la parodia della grande tragedia; c'è Calibano sotto terra e c’è Ariel che vola; c’è l’amore e il tradimento e la magia di Prospero che evoca i fantasmi con la fantasia, luogo primo dove nasce il teatro: «a recitare li songo chiammate la mia fantasia...» 19. La tradizione del nuovo, la vita che continua comincia per Eduardo da Shakespeare, ultimo ma vorremmo dire primo suo testo.
19 «La tempesta» di William Shakespeare nella traduzione in napoletano di Eduardo De Filippo, Torino, Einaudi, 1984, p. 142.
PAOLA QUARENGHI DAL PARI AL DISPARI. UNA COMMEDIA DEL REPERTORIO DI EDUARDO*
Natale in casa Cupiello è un’opera dinamica, è come un organi smo vivente che si trasforma nel corso del tempo sia in modo oggettivo (cambia, cresce) sia soggettivo (muta il punto di vista dei diversi osservatori nelle varie epoche, col mutare dei gusti, delle mode, del-
le ideologie, ecc.). Dalle esuberanze e dai contrasti dell'infanzia e della giovinezza, l’opera passa alla riflessiva e certo più cupa e malinconica armonia della vecchiaia. Insieme col testo la trasformazione riguarda il suo interprete principale, Eduardo, che — fatto insolito nella cultura teatrale italiana del nostro tempo — si porta addosso questa commedia per quasi mezzo secolo, dalla matura giovinezza, trentun anni, fino alla vecchiaia, settantasette.
Pur nella eccezionalità della sua genesi, che Eduardo definisce «parto trigemino [i tre atti] con una gravidanza di quattro anni»!, Na* Ringrazio il professor Carlo Muscetta che in un primo momento avrebbe dovuto partecipare al convegno con una relazione su Natale in casa Cupiello, il quale ha avuto la bontà di mettere a mia disposizione dei documenti ricevuti da Eduardo al tempo della prima edizione Einaudi del suo teatro, da lui voluta e curata. Mi rife-
risco ad alcuni copioni della commedia tra cui quello originale nelle versioni in uno, due e tre atti. L'analisi critica e il confronto dei copioni e delle varie edizioni doveva rientrare nel piano del suo intervento. La presente relazione si inoltrerà in questo terreno solo per linee generali e ripercorrerà invece, sia pure in modo sintetico, la storia della commedia, delle sue fortune e delle sue trasformazioni, e insieme, quella del suo protagonista Luca-Eduardo.
1 Eduardo De Filippo, Primo... secondo (Aspetto il segnale), Il Dramma-, XIV, n. 240, 1936; ora in Eduardo. Polemiche, pensieri, pagine inedite, a cura di Isabella Q. De Filippo, Milano, Bompiani, 1985.
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tale in casa Cupiello mi sembra esemplare rispetto a un percorso che la drammaturgia di Eduardo stesso, nel suo complesso, ha compiuto: dal comico, al grottesco-umoristico, al tragico moderno, per usare una definizione suggerita da Eduardo stesso?. È vero che spesso questo spostamento di grado verso toni grotteschi o drammatici o amari riguarda testi diversi in diverse fasi della sua produzione teatrale — una cesura divide, secondo la sua stessa indicazione, le opere «pari» da quelle «dispari» —, ma a volte riguarda anche, nel corso degli anni, una stessa opera e le sue molteplici, diverse interpretazioni. Un'altra prerogativa molto importante e rara nel teatro del nostro secolo è per Eduardo quella di essere autore e, insieme, interprete dei suoi testi. Credo che tra coloro che hanno compreso meglio il significato di questa duplicità di ruolo sia stato Carmelo Bene, uomo dalla cultura teatrale certo diversa, ma dalla pratica in fondo non troppo dissimile. Bene ha usato, a proposito della drammaturgia di Eduardo, la definizione di «drammaturgia di scena»3. Per Eduardo, dice Carmelo Bene, il testo non ha molta importanza, perché egli io dimentica, lo cancella ogni volta per riscriverlo in scena. Senza sposare
la radicalità di questa affermazione, che fra l’altro annulla il valore di una coralità dell’interpretazione che Bene rinnega e Eduardo invece coltiva, credo che si debba riflettere su questo concetto di «riscrittura» in scena del testo e sull’idea del binomio inseparabile autore-attore (o attore-autore) che ne trasforma così profondamente i termini. Intanto è vero che all’inizio, per Eduardo, il testo non c'è; c'è il co-
pione: non un feticcio, ma un oggetto d’uso, che, ad un tempo, prelude e comprende in sé la scena (o l’esperienza di essa), e che può, se
2 Eduardo, nelle sue Lezioni di teatro (Torino, Einaudi, 1986, pp. 68-69), adotta la definizione di «tragedia moderna», vicina al concetto pirandelliano di umorismo, in particolare a proposito di Questi fantasmi/, ma la estende anche ad altre sue commedie. Nella tragedia moderna — dice Eduardo — si dà risalto al lato comico e grottesco di una situazione e quindi il pubblico si diverte anche se il caso è tragico, «ride, ma ride verde». > 3 L'argomento è stato affrontato da Carmelo Bene durante una conferenza tenuta nell’ambito del corso di drammaturgia di Eduardo, al teatro Ateneo di Roma, il 29 maggio 1982. Il testo della conferenza è inedito.
Dal pari al dispari. Una commedia del repertorio di Eduardo
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necessario, essere modificato4. Il testo, come ipotesi più oggettiva e durevole se non ancora come realtà definitiva, verrà solo in un secondo momento e porterà anch'esso in sé l’esperienza della scena.
Per Natale in casa Cupiello questo momento arriva nel 1943, dodici anni dopo la sua nascita, quando la rivista «Il Dramma»5 pubblica la commedia, destinandola ad un'utenza di lettori o di possibili futuri interpreti e metteurs en scéne, e consegnandola così, in un certo senso, alla storia (storia letteraria, storia di documenti scritti, non più so-
lo di eventi teatrali). All’inizio, dicevo, non c'è il testo, c’è il copione, un copione che
è come un canovaccio, già in parte riempito, ma con degli spazi implicitamente aperti all'invenzione degli interpreti e del regista (o del direttore), che ne è a sua volta interprete. Fatto ovvio, in certa misura, per tutti i testi, ma qui più che altrove consistente e significativo. Per l’autore-regista-interprete sarà automatico trasformare il copione, rinnovarlo, ammodernarlo, aggiornarlo, alla luce delle invenzioni
nate in scena. E, poiché l’autore è anche capocomico, sarà possibile adattarlo alle esigenze della compagnia: eliminare o aggiungere un personaggio o una battuta per adeguare il copione al numero degli attori o alle loro caratteristiche fisiche. Così Luca-Eduardo, riferendo-
si alla segaligna Concetta di Tina Pica, che si è appena riavuta dal
4 Tra i documenti consultati figura il copione manoscritto dell’atto unico originario, redatto su carta di quaderno e preceduto da una pagina di frontespizio che reca in alto a sinistra la scritta Teatro Kursaal e, in basso a destra il visto dell'Alto Commissa-
riato di Napoli del 23 dicembre 1931. Un altro visto, questa volta della Regia Prefettura di Bari del 22 maggio 1933, compare sullo stesso frontespizio probabilmente utilizzato, a quella data, per il nuovo copione ottenuto mettendo insieme il vecchio atto uni co manoscritto e il nuovo primo atto, dattiloscritto su fogli di quaderno dello stesso tipo. Il terzo atto, manoscritto, fu aggiunto poi ai primi due, con lo stesso sistema, presumibilmente in occasione della «prima» milanese della commedia, il 9 aprile 1934. Il copione ottenuto con questo montaggio contiene numerose
correzioni a matita che
potrebbero essere preliminari alla ripresa della commedia in tre atti, a Napoli, il 21 di-
cembre 1936. 5 «Il Dramma», n. 397-398, 1-15 marzo 1943. A questa edizione ne seguiranno altre due, nel 1959 e nel 1976, entrambe da Finaudi, con differenze abbastanza consistenti
fra loro e rispetto alla prima.
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malore del primo atto, potrà dire: «Ma chella è forte, è nu tipo asciutto, io crero ca chesta s'è talmente seccata ca nun more cchiù»°. Lo
stesso non dirà evidentemente della Concetta di Titina e infatti la battuta, presente nei primi copioni, scompare nelle versioni successive.
Si tratta in questo caso di una piccola variante, di una battuta che non cambia la natura profonda del personaggio, ma accarezza bonariamente, affettuosamente, la silhouette di una delle sue interpreti, molto amata, e contribuisce a creare fra attori e spettatori quel piccolo gioco di complicità così importante nel teatro di Eduardo. Altre volte esigenze di capocomico fanno nascere personaggi nuovi o ne fanno morire di vecchi (più raramente), o li trasformano. In Natale in casa Cupiello il numero dei casigliani al terzo atto si al-
larga o si restringe, a fisarmonica, da uno (la sola Carmela) che troviamo ancora nell'edizione del «Dramma» del ’43, ai tredici dell’edi-
zione radiofonica del ’59, per arrivare poi ai sette dell’edizione televisiva e all’ultima, riveduta, di Einaudi.
La farsa...
Natale in casa Cupiello nasce come sketch da avanspettacolo nel 1931. È proprio con questo lavoro che la Compagnia del Teatro Umoristico apre una stagione, che si rivelerà fortunatissima, al cine-
ma-teatro Kursaal. La compagnia dà tre spettacoli al giorno, tra un film e l’altro. I De Filippo si sono già fatti una buona esperienza come attori, hanno esordito come autori di sketch da rivista, e Eduardo ha scritto anche per Vincenzo Scarpetta, nella cui compagnia ha lavorato per anni, alcune commedie, anche di tre atti. Natale è un atto
unico, poco più che uno sketch, come Farmacia di turno, Sik-Sik, Quei figuri di trent'anni fa e altri, nati nel periodo trascorso al teatro
6 La battuta figura nel primo copione (frutto di una stesura in tre tempi) con visto della Prefettura di Bari del 22 maggio 1933, e in quello in due atti vistato dall'Ufficio Centrale il 23 agosto 1933 e poi ancora dalla Prefettura di Bari il 29 ottobre 1934 e il 17 ottobre 1936.
Dal pari al dispari. Una commedia del repertorio di Eduardo
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Nuovo nella compagnia di riviste Molinari. Il carattere del lavoro è comico, la vicenda, ridotta all'essenziale, può essere quella di una
commedia a equivoci: Luca Cupiello, un padre di famiglia svagato e di poca autorità combina un pasticcio invitando al pranzo di Natale un amico del figlio che è anche l'amante della figlia, sposata a un uomo che non ama (ma del carattere di questo genero, Nicolino, nulla ci viene detto: egli è una funzione, non ancora un personaggio; così Ninuccia, la figlia). La comicità nasce dal contrasto fra i personaggi che sanno (Concetta, Vittorio, Ninuccia, Nicolino) e quelli che non
sanno (Tommasino, Pasqualino, e, primo fra tutti Luca, che combina il guaio e fino alla fine dell'atto non saprà — ma il pubblico sa che egli dovrà per forza aprire gli occhi — quello che lo aspetta). Alla fine dell’atto in un’atmosfera di inopportuna e patetica festosità natalizia, Luca, Tommasino e Pasqualino (gli innocenti, ma anche gli inetti), ignari di tutto, si presentano in scena vestiti da Re Magi con barbe di stoppa e tappeti sulle spalle, per consegnare i doni di Natale a Concetta, che non c'è: assieme a Ninuccia è scesa in strada a tentare di
scongiurare un probabile dramma”. La struttura è quella di tanti sketch da rivista, ma si tratta di uno sketch particolare, in cui la sorpresa, che di solito nasce dalla battuta finale, nasce invece da un rovescia-
mento della situazione. Al centro c'è il protagonista che non sa quello che sta accadendo attorno a lui. Tra coloro che sanno è il pubblico, che ride (e, insieme, si impietosisce) della situazione del perso-
naggio?.
7 Nei primi copioni (cfr. nota 6), alla fine del secondo atto, i «Re Magi» entrano in silenzio e, al momento del loro ingresso, Concetta è già uscita di scena assieme alla figlia per raggiungere i due contendenti. Nell’edizione del Dramma» la didascalia finale segnala invece la presenza del personaggio in scena. Ma la modifica doveva essere stata introdotta in teatro già prima di essere registrata sui copioni, a giudicare da una foto di scena pubblicata nello stesso numero del «Dramma» in cui compare Tina Pica nel ruolo di Concetta, con una vistosa fasciatura in testa, contornata dai tre «Magi». La foto risale probabilmente ad una delle prime edizioni della commedia (anche se non alla prima, come recita la didascalia) e certamente non è posteriore alla stagione 193637, ultima per la Pica nella compagnia del Teatro Umoristico. 8 Una simile struttura la ritroviamo in molte commedie di Eduardo. Si pensi a Far-
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L’intreccio dell’atto unico, di per sé molto scarno in questa prima versione, è infarcito di tutta una serie di situazioni da farsa, non di-
rettamente legate al tema centrale, come il leit-motiv del bisticcio fra Tommasino, che ruba soldi allo zio Pasqualino (che ha, a sua volta il vizio di rubare), il tormentone del «Nun me piace ’o Presepio, o le
gags della lettera di Natale e dei capitoni fuggiti (entrambe aggiunte con l’indicazione «soggetto» al primo copione?), ma anche da altre, di cui solo in un secondo momento il copione prima, e il testo poi, prenderanno nota. Così, i personaggi che hanno un rilievo limitato nell'economia della vicenda (ai fini dell'intreccio Tommasino e Pasqualino potrebbero anche non esserci) diventano figure di primo piano quanto a risalto comico sulla scena. Nella prima edizione i loro ruoli erano affidati rispettivamente a Peppino e ad Agostino Salvietti, i due attori più importanti della compagnia dopo Eduardo, che ne era il direttore. Attorno a quel qualcosa che è già molto di più che un canovaccio, ma che non è ancora un testo, l’attore ha modo di ricamare bat-
tute e situazioni che il regista-autore regolerà e fisserà nel corso delle prove, e che gli attori stessi in gran parte sapranno già da sé controllare grazie ad un affiatamento che fa delle loro individualità artistiche un corpo unico. In anni tardi, quando la pratica dell’improvvisazione si era fatta molto meno frequente all’interno della sua compa-
macia di turno, Sik-Sik, l'artefice magico, Quei figuri di trent'anni fa, Chi è cchiù felice ‘è me?, e anche in alcune commedie «dispari», tra cui spicca, per la maestria con cui questa tecnica è impiegata, Questi fantasmi/. Da una fondamentale inadeguatezza
del protagonista nei confronti delle situazioni nasce la comicità, o piuttosto l’umorismo. Per tutta la commedia, comunque, salvo quella piega amara che il riso prende alla fine, si ride.
? In questo copione vistato dall'Alto Commissariato di Napoli in data 23 dicembre 1931, le indicazioni di questi due «soggetti» sono scritte con inchiostro più chiaro e presumibilmente aggiunte in un momento successivo alla prima stesura. Lo stesso copione contiene poi, allegati, due fogli, uno dei quali di pugno di Peppino, datati «Dicembre del 29-1-1932» (una data posteriore di circa un mese alla «prima» al Kursaal), che contengono due versioni, con alcune varianti, della lettera di Natale di Tommasi no alla madre. Anche nel copione in due atti, dattiloscritto, vistato 23 agosto 1933, le
gags non sono sviluppate ma vengono ancora indicate con la dicitura «soggetto».
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gnia (e Eduardo arriverà addirittura a negarla in certe sue dichiarazioni), a certi attori egli concedeva ancora qualche libertà. Basta ve-
dere nell'edizione televisiva di Natale del ’62 le scene tra Eduardo e Enzo Petito, compagno d’arte di vecchia data e attore di scuola tradizionale. E forse troppo parlare di improvvisazione, ma certo in quel gioco scenico ce n'è il ricordo.
... la commedia...
Quando, reduce dai successi inaspettati al Kursaal e al Reale, la Compagnia del Teatro Umoristico firma, per la stagione 1932-33, un
contratto con l’elegante teatro Sannazaro, Eduardo arricchisce la commedia di un altro atto, il primo. Quest’atto aggiunto serve da prologo e insieme introduce lo spettatore ad un’osservazione
più
accurata dell'ambiente familiare di casa Cupiello, delle abitudini quotidiane dei personaggi, del rapporto Concetta-Luca, dei caratteri e della vicenda familiare di Ninuccia e Nicolino, dei guasti provocati nei figli da un'educazione materna troppo comprensiva e da un’autorità paterna assente. Come nella prima versione in un atto, anche questo nuovo copione, che in realtà è un montaggio del nuovo primo atto (dattiloscritto) e del vecchio atto unico manoscritto (solo leggermente modificato a matita), è assai povero di didascalie e molte azioni sono sommariamente indicate con la sigla «c.a.c.», come a concerto. Anche qui l’aggiunta successiva dell’indicazione «soggetto» in diversi punti del copione sta a testimoniare una pratica che doveva partire dalla scena per arrivare al testo. Qualche «soggetto» sicuramente eseguito in scena !° non è del resto neppure se-
10 Per esempio quello di Nicolino che si presenta a casa dei suoceri elegante come al solito, ma con la «pettola» della camicia che vistosamente gli esce fuori dai pantaloni. La gag, che non compare nei primi copioni e che non è indicata nemmeno come «soggetto», era sicuramente eseguita in scena, visto che un cronista, nella sua re-
censione alla commedia durante la stagione romana 1933-34, la segnala come esem-
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gnalato in questo copione e sarà invece sviluppato, come gli altri,
nelle versioni a stampa. Anche con l’aggiunta del primo atto!! la commedia conserva un carattere eminentemente comico e a tratti farsesco, come nella scena del bisticcio fra Pasqualino e Tommasino, che si è venduto scarpe, cappotto e bretelle dello zio malato. Ulteriori accenni alle abitudini furtive dei due (successivamente tagliati) confermano il carattere caricaturale di quei personaggi e il tono ancora fondamentalmente farsesco della commedia. Quando Natale in casa Cupiello, nella versione in due atti, viene
data a Roma, nella stagione 1933-34, questi due personaggi dovevano avere un rilievo particolarissimo se un cronista della «Scena Italiana»!? (forse disattento, ma il fatto è comunque singolare) può arrivare a dire che il tema centrale del lavoro è «l’odio di un ragazzaccio verso lo zio» e che Eduardo questa volta «non era il protagonista». «Più che di una commedia, però — continua l’articolo —, si tratta di un
seguito di scene esilarantissime, durante le quali vari tipi napoletani si agitano, gridano, svengono o rompono piatti». Tra le critiche romane rintracciate non ce n’è una che riconosca qualche valore al testo, certo colpevole già in partenza di presentarsi come una commedia in dialetto (e non è piccola colpa in un’epoca che non apprezza troppo il teatro dialettale — si vedano a riguardo la posizione autorevole di Silvio d'Amico e la battaglia del regime fascista contro i regionalismi). Il soggetto conta poco, la commedia è un «pretesto — così la definisce il Vice di d’Amico sulla «Tribuna» —, senza nessuna
consi-
stenza, alla bravura dei due interpreti»!3. Ermanno Contini è ancora più radicalmente critico: «Si convincano [gli interpreti, ma — sottolinea — con essi anche gli autori] che si può far ridere anche con altri
pio di cattivo gusto e consiglia all’autore di eliminarla. Cfr. la recensione di Hermes in «La Scena Italiana», n. 15, 10 novembre 1933. 11 Il primo copione di questa versione è presumibilmente quello con visto della Prefettura di Bari in data 22 maggio 1933.
12 Cfr. nota 10. 13 La Tribuna», 5 novembre 1933.
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mezzi, anche presentando ambienti più decorosi: ci guadagnerebbe, oltre tutto, la dignità artistica degli interpreti che meritano ogni rispetto e ogni ammirazione. [...] Gli episodietti che illustrano sono decrepiti: fanno ridere, siamo d’accordo; ma è un riso che umilia»!4. E parla di fatica, intelligenza, impegno degli interpreti sprecati e quasi avviliti. Si può pensare, con buone probabilità, ad un atteggiamento miope da parte della critica, che non inquadra il fenomeno nei suoi termini di novità, che non capisce come le categorie allora dominanti (il testo d’autore, prima di tutto — e non comico, ma drammatico —, poi la
nascente figura del regista, poi l’attore come fedele esecutore e interprete) siano strumenti poco utili, se usati in modo esclusivo e con cri-
teri rigidi, alla comprensione di un fenomeno come quello dei De Filippo. E infatti è generale, in quegli anni, il coro degli amici, degli ammiratori, degli autori, dei critici che tentano in ogni modo di indirizzare questi attori (la cui compagnia, con i suoi successi di pubblico, rappresenta fra l’altro per un autore un ottimo affare) verso un repertorio più «alto» (Pirandello, Bontempelli, d'Ambra e più avanti fino a Betti), o solo più «introdotto», perché il loro grande talento d’attori non vada sprecato, anzi avvilito, come scrive Contini. Tanto insistente sarà il co-
ro delle proteste e degli incitamenti che nel ’33 Eduardo si vedrà costretto a inviare, a firma di Argeri, l'amministratore della compagnia, una precisazione piuttosto risentita alla rivista «La Scena Italiana» che ha pubblicato l'annuncio che i De Filippo si appresterebbero a mettere in scena una commedia di Amiel, La sorridente signora Beudet. «Preg.mo Signor Direttore — scrive Argeri —, dopo il primo brillante giro espletato in varie città d’Italia dalla Compagnia del Teatro Umoristico i De Filippo, non sono mancati amici premurosi, che continuano a for-
mulare per il nostro bene progetti seducenti, ed a ventilare idee loro personali circa il nuovo indirizzo e repertorio a noi convenienti. Tali idee e progetti, diffusi a nostra insaputa nei maggiori giornali italiani, che ritengono così di manifestarci il loro ben gradito apprezzamento, rischiano di creare intorno ai De Filippo un’atmosfera diversa dalla
14 Jl Messaggero», 4 novembre 1933.
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realtà, che conviene subito dissipare. I De Filippo sono troppo gelosi
della loro indipendenza artistica per lasciare ad altri, benché amici e simpatizzanti, la cura di formulare i propri programmi di lavoro. Essi sentono troppo gli obblighi assunti verso il pubblico — cui tutto devono — per deviare da un sentiero che ha così felicemente portato in primissimo piano la loro personalità, e se hanno, come è giusto, l’ambizione di ascendere ancora, sarà per riasserire, non mai per sconfessa-
re, il buon cammino già percorso. [...] Mentre si onoreranno di preparare amorose riduzioni da Pirandello, Bontempelli, Lucio D’Ambra e da altri illustri scrittori nazionali, continueranno a presentare tutte le commedie di Molise (Eduardo De Filippo) e Bertucci (Peppino De Filippo), che singolarmente interpretano il loro temperamento. [...}»!5.
... la «tragedia moderna»
Il 9 aprile 1934 Natale in casa Cupiello debutta a Milano al teatro Olimpia, dove la compagnia De Filippo si è appena trasferita dopo una fortunata stagione all’Odeon che l’ha imposta al pubblico e alla critica milanesi. Per l'occasione Eduardo ha scritto per la commedia un terz’atto, in cui tutto il peso dell’azione, dal punto di vista drammaturgico e scenico, si sposta su Luca Cupiello. Questo pater familias mancato, di fronte alla rivelazione del fallimento suo e della sua
famiglia (rivelazione a cui non assistiamo, ma che immaginiamo e che ci viene raccontata al terzo atto), non ha retto ed è in preda ad una malattia da cui non si riprenderà più. Renato Simoni è forse il primo critico ad accorgersi (senza storcere il naso) di quanto la drammaturgia di Eduardo, e con essa i suoi attori, siano impregnati di tradizione, una tradizione che affonda le sue radici fin nella Commedia dell’Arte. «La derivazione tradizionale
— scrive !9 — specialmente in Nennillo [Tommasino], è sensibile. Il
15 «La Scena Italiana», 1 dicembre 1933. 16 «Corriere della Sera», 10 aprile 1934.
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personaggio è ancora un poco involto nella corteccia del tipo fisso e
cerca di svincolarsene; ma quel misto che c’è in esso di vecchio e di giovane, di goffamente convenzionale e di beffardamente realistico, è molto interessante». Di Luca dice che sa creare «un’allegria [...] che oscilla tra la farsa e il grottesco, ma nella quale c’è un fondo di ottima osservazione umoristica». Conclude affermando, però, che la commedia «nella prima parte, si frantuma in troppi particolari». E il passaggio dal tono farsesco, a «tratti, espressioni e rappresentazioni
d’un realismo penoso è troppo audace. Quanto poi alla scena finale in cui Luca, prima di morire, benedice quelli che crede essere i due
sposi riconciliati mento
e che sono invece i due amanti (nuovo rovescia-
improvviso di situazione, in cui l’autore rende il suo perso-
naggio di nuovo che esso «lascia una sua forza e clude: «a tirar le
beatamente cieco prima della morte), Simoni scrive perplessi per la sua crudezza irritante, e tuttavia ha potenza che ci aiuta a superare il disgusto». Ma consomme, questo salto dalla aperta comicità a tanta an-
goscia, non è giustificato».
Queste affermazioni di Simoni portano la riflessione, oltre che su importanti questioni di carattere drammaturgico, anche su alcune considerazioni di costume. Già al cinema-teatro Reale, dove la Compagnia del Teatro Umoristico si è trasferita dopo la fortunata stagione al Kursaal nel 1931-32, la commedia, presentata nella sua versione in un atto, era stata vietata ad un pubblico minore di sedici anni. E ora questo nuovo finale, con un moribondo che si fa giurare eterna fedeltà da due amanti, risulta piuttosto difficile da accettare per una società perbenista che pone tra i suoi fondamenti il culto della famiglia (e in questo senso si possono individuare nella commedia le tracce di una battaglia verso un nuovo modello di famiglia che Eduardo porterà avanti, forse più consapevolmente, anche in opere successive).
Sarebbe interessante conoscere le ragioni (drammaturgiche, teatrali, morali?) per cui, dopo l'edizione milanese in tre atti, la commedia venne presentata fino alla stagione 1936-37, ancora e solo nella versione in due atti (e qualche volta anche come atto unico). In uno scritto che risale all’estate del 1936, Primo... secondo. (Aspetto il segnale), Eduardo spiega le ragioni che gli impedirono di rappresentare a Napoli, fino a quella data, la commedia nella sua versione in tre
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atti. Quest'ultimo — scrive — non ebbi mai il coraggio di recitarlo a Napoli, perché è pieno di amarezza dolorosa ed è particolarmente commovente per me, che conobbi quella famiglia. Non si chiamava
Cupiello, ma la conobbi [...}!7. Non è improbabile che quella famiglia si chiamasse De Filippo, la famiglia dei nonni materni di Eduardo, Luca e Concetta appunto, genitori di tre figlie femmine, una delle quali aveva nome Ninuccia. Se si vuol dare qualche credito ad un libro, per molti versi poco attendibile, come l'autobiografia di Peppino !8, i caratteri dei nonni di Eduardo (Luca egocentrico e inetto, Concetta accorta e pronta a risolvere ogni problema nato dalla inefficienza del suo uomo) ricordano tanto quelli dei personaggi loro omonimi, che si può pensare a qualcosa di più di una semplice coincidenza. Sarà proprio a Napoli, al teatro Mercadante, il 21 dicembre 1936, che Eduardo riprenderà Natale in casa Cupiello nella versione in tre atti. Leggendo la recensione di Achille Vesce sul «Mattino» del 22, si può capire come il tono dell’opera sia ormai completamente cambiato rispetto ai due atti presentati a Roma tre anni prima, ma sia anche
abbastanza trasformato rispetto all'edizione milanese in tre atti del °34. Confrontando il copione che presumibilmente è quello messo in scena all’Olimpia di Milano ?° con i copioni e con le edizioni successive, si notano differenze importanti. Nel finale della prima edizione Luca chiede ai due amanti di giurare che non si lasceranno più e, «turbatissima e sconvolta» Ninuccia esita, ma Luca insiste: «Giurate!» e
Ninuccia risponde: «V’ho (sic) giuro papà», e Vittorio: «Giuro». Luca conclude poi con un pistolotto finale, parecchio più lungo di quello delle versioni successive, poi tagliato a matita sullo stesso copione, così come il «giuro» di Vittorio. Assicuratosi di aver messo le cose a posto tra la figlia e il presunto genero, il moribondo ha ancora il tem-
Li Gir*nota 18 Peppino De Filippo, Una famiglia difficile, Napoli, Marotta, 1976. 19 Senza pensare che altre Concette, con caratteri e funzioni analoghe, si possono rintracciare anche in altre opere di Eduardo.
20Cfiinota:4;
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po di chiamare Tommasino e di rivolgergli la solita domanda: «Tummasì, te piace ‘o presebbio®. E il figlio (Ha uno scatto di dolore represso da tempo e getta le braccia al collo di Pasqualino) Pascali’, io voglio a papà...» Sullo stesso copione, le solite correzioni a matita tagliano quest'ultima battuta e la sostituiscono con un semplice «Sì papà...», eliminando questa poco plausibile pacificazione tra zio e nipote che per di più sposta la conclusione verso un tema non centrale. Un'altra annotazione a matita aggiunge a margine un sommario: «Che bellu presebbio, testimonianza di un cambiamento forse meditato in scena, e pro-memoria per la stesura di un futuro copione rinnovato. Nelle edizioni successive il giuramento dei due amanti non avrà questo rilievo: le battute di risposta verranno eliminate, prima quella di Vittorio, e poi anche quella di Ninuccia e le raccomandazioni di Luca ai due saranno di parecchio ridotte. Il risalto progressivamente maggiore che verrà dato infine alla visione di Luca morente (la «visione incantevole di un Presepe grande come il mond») finirà col lasciare un po’ in secondo piano il carattere sacrilego della benedizione agli amanti. Rimettendo mano al copione in vista dell'andata in scena della commedia a Napoli, Eduardo ha evidentemente dato ascolto ai suggerimenti di Simoni cercando di smussare i contrasti fra le due anime,
quella farsesca e quella dolorosamente realistica, dell’opera. Così come il finale viene reso più asciutto con l'eliminazione di battute che ne accentuavano il carattere patetico e quasi melodrammatico, allo stesso modo viene alleggerita la componente comica della commedia con il taglio di alcune battute troppo apertamente farsesche o di altre che insistono troppo su certi caratteri dei personaggi (particolarmente quelle sulle abitudini furtive di Tommasino e Pasqualino). L’alternarsi di elementi comici e tragici nella commedia, la sua doppia anima, che ne è uno dei pregi, ma che continuerà a destare ancora in futuro non poche discussioni, può essere letta, con Simoni, come il connubio fra strutture da farsa tradizionali e realismo moderno; ma può anche essere letta come il confronto e già quasi lo scontro fra due personalità di attori antitetiche e complementari insieme: quella di Eduardo e quella di Peppino; come il conflitto fra il ruolo di mamo e la personalità (oltre che l’esperienza pulcinellesca) di Peppi-
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no e il realismo doloroso, già venato di tragico, di Eduardo. Un conflitto che anche in scena si è tradotto spesso nella impersonazione di caratteri e ruoli opposti; un conflitto che, radicalizzandosi, portò i due fratelli (quali che siano state le cause sul piano personale e privato) alla dolorosa separazione del ‘44. Non credo di sostenere un'ipotesi troppo fantasiosa affermando che anche in Natale in casa Cupiello si ritrovano i germi e, insieme, le tracce di questo conflitto.
«L’abito vecchio» ovvero «Le minuzie dell’intimità»
Da quando, nel 1931, viene messa in scena dalla Compagnia De Filippo, Natale in casa Cupiello viene ripresa puntualmente ogni stagione fino al 1944, l’anno della separazione dei due fratelli. Nel 1941 Flaiano in un suo articolo?! attribuisce ormai alla commedia i caratteri del classico (ma un classico che appartiene al teatro dialettale e che, proprio alla sua dialettalità deve il successo). Lo spettatore conosce il testo quasi a memoria (certe battute anzi sono diventate luogo comune) per cui non va più a vedere la commedia, ma la sua esecuzione e gode di quel paradiso delle «minuzie dell’intimità» che essa è diventata e in cui, beatamente, si può rispecchiare. Questo piacere delle «minuzie» di cui parla Flaiano ci fa pensare che Natale in casa Cupiello si è ormai definitivamente allontanata dalla farsa un po’ sconquassata che doveva essere in origine, per farsi «copia» della vita. Sentiamo in essa non più lo strepito delle liti fra zio e nipote, o il gioco scenico pirotecnico dei suoi interpreti, ma piuttosto le pratiche quotidiane di un Luca abitudinario, ritmi domestici e situazioni che, lungi dall’essere assurdi o arcaicamente teatrali, potrebbero essere invece di tutti gli spettatori che li osservano. Dopo la separazione da Peppino, Natale in casa Cupiello viene abbandonata, ricordo forse troppo bruciante per Eduardo e per il
21 Ennio Flaiano, Le minuzie, «Oggi», 17 maggio 1941. Il titolo dell’articolo di Flaiano ricorda curiosamente quello del saggio di Ripellino su Stanislavskij, // teatro come bottega delle minuzie, in Il trucco e l’anima, Torino, Finaudi, 1965.
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pubblico, di un affiatamento e di un connubio magici, ormai distrutti
per sempre. Quando viene ripresa dalla Compagnia del Teatro di Eduardo, nella stagione 1956-57, con Pietro De Vico nel ruolo di Tommasino e Pupella Maggio in quello di Concetta (anche Titina ha già lasciato, per motivi di salute, la compagnia), la commedia ha superato definitivamente l’età dell’infanzia e della giovinezza ed è entrata nella maturità piena. Ha cessato di essere gioco ed è diventata miracolo, il «miracolo della personificazione», come definisce Raul Radice in un suo articolo «l'incanto della verità scenica, costruita di
dettaglio in dettaglio, così da suscitare la vita del personaggio» ?2. E non c'è più dubbio che al centro della commedia sia ormai definitivamente lui, Luca, ma anche lui, l’attore Eduardo. Il personaggio è ormai diventato un vecchio vestito che si porta senza più bisogno di atteggiarsi, senza nessun disagio, come se fosse una seconda pelle. E questa, nel caso di Luca-Eduardo, non è solo una metafora. Come mi raccontava Raimonda Gaetani, scenografa e costumista delle ultime edizioni della commedia, il costume di Luca, un vecchio tweed verdone, era stato già di Eduardo nella vita, poi era diventato abito di scena, anche per altre commedie e ormai da anni e anni era il vestito di Luca Cupiello; di edizione in edizione sempre più liso, sempre più sformato. Quel vestito, che un tempo era stato di buona qualità, ma che ora mostrava tutti i suoi anni, non aveva avuto biso-
gno di nessuna operazione di invecchiamento teatrale. Con verità, si portava addosso tutte le sue stagioni d’uso scenico. L’azione, forse più che il dialogo (lo si capisce da molte testimonianze), si arricchisce col tempo di mille impercettibili fiori che rendono, tutti insieme, il senso del vero. «L'autore ha anche imparato — scrive Prosperi — che si può fare del teatro di prim'ordine senza parlare» e cerca ormai non più «la trama, bensì le osservazioni dal vero» 23, Ed ecco la scena e l’interpretazione riempirsi di particolari: 0ggetti-simbolo, silenzi, iterazioni, gesti... Come quelle calze di lana
22 Raul Radice, «Il Giornale d'Italia», 26 aprile 1957.
23 Giorgio Prosperi, // presepio di Eduardo stagionato di vent'anni, La Settimana Incom Illustrata», 4 maggio 1957.
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sintetica che più si lavano e più s’allargano e s’allungano, e diventano l'emblema di una società mistificata; o quel verbo riflessivo «ci riuniamo», che Luca non riesce a pronunciare (la difficoltà a dire smaschera un’impossibilità a fare); o quel cappello rimediato che è per Concetta un irrinunciabile segno di distinzione e che essa non può non indossare anche solo per scendere a fare la spesa; o quella fasciatura che Luca si fa di notte per proteggersi dal freddo, di cui non c’è traccia nei primi copioni e che si andrà via via complicando: da un unico scialle di lana avvolto intorno al capo, fino ad una specie di sudario a più strati fatto di sciarpe e scialletti che l’attore si toglierà dalla testa uno alla volta, piano piano, procrastinando il momento della propria entrata in scena e godendosi, non senza una punto di cattiveria, la suspense del pubblico fino alla liberazione e all’interminabile applauso. Quando, nel 1976, Eduardo si ripresenta al pubblico nei panni di Luca dopo una malattia che lo ha tenuto qualche mese lontano dalle scene, questo gioco da parte dell’attore acquisterà un significato particolare e la risposta del pubblico si manifesterà in un applauso a scena aperta lungo dieci minuti. È un applauso all’attore e insieme al personaggio, perché mai come adesso Eduardo e Luca sono diventati una cosa sola. Del vestito, già sappiamo; ma anche quei mobili, quella casa sono i suoi, forse più veri e familiari nella loro finzione degli stessi suoi veri («La mia casa è il palcoscenico, là so esattamente come muovermi, cosa fare: nella vita sono uno sfollato»). Il testo, l’ultimo dell’edizione traccia, la memoria scritta, l'eco di assenti nei primi copioni, si sono getti, atteggiamenti con cura quasi
Einaudi riveduta, è diventato la quella scena. Le didascalie, quasi allungate; descrivono azioni, 0gpuntigliosa: Concetta «cerca in un
cassetto qualcosa di personale: delle forcine, un pettine, un rocchetto di filo bianco»... Anche i cassetti del comò si sono riempiti, come il vecchio canovaccio di un tempo. Luca, e con lui il testo di Natale,
sono passati attraverso vicende di ogni tipo, che li hanno riguardati da vicino o li hanno solo sfiorati. Come quel terz’atto, quella morte così controversa su cui i critici (e forse il pubblico, ma di lui chi può sapere?) fino all’ultimo non hanno saputo trovarsi d'accordo, giudicandola a volte inutile, a volte poetica, crudele, commovente, neces-
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saria, drammaturgicamente sbagliata. In questo ballottaggio Luca ha anche corso il rischio di sopravvivere: le battute del dottore, nel corso degli anni, si sono aperte e poi richiuse alla speranza. Assieme alla sua famiglia ha attraversato il Sessantotto e Tommasino si è trasformato da caricatura in personaggio realistico; Ninuccia e Concetta sono state osservate attraverso l’esperienza del femminismo; Eduardo nel ruolo di Luca è sembrato a qualche critico un attore brechtiano. E prima ancora c’è stata la guerra che ha trasformato il pari in dispari... Alla fine di questa lunga storia l’identificazione di Eduardo con Luca Cupiello è diventata così forte che l’attore non ha nemmeno più bisogno di recitare: «uccide il copione — scrive Cesare Garboli recensendo quella che è stata l’ultima edizione teatrale, nel ’76 — e lo fa rinascere,
improvvisando,
salivando le battute e rallentando i ritmi
dello “show” fino a non recitarli, pago del teatro che si manifesta ugualmente,
radiosamente,
nella sua taciturna presenza.
[...] Mentre
tiene la scena e vi spadroneggia, Eduardo ci dice che c’è stato un giorno della sua vita in cui egli si è tolto di mezzo, ha preso i voti, si è cancellato dal mondo. È morto e sopravvive ogni sera sotto le luci che lo inquadrano». Dopo la morte dell’autore, della simbiosi Luca-Eduardo ci resta tutt'al più qualche documento (foto, articoli, videoregistrazioni), pallide testimonianze di un rito che esiste solo mentre si celebra; ma il
testo di Natale in casa Cupiello ci parla anch'esso di questo rito e dei suoi officianti. Se Luca Cupiello ha sempre la stessa faccia, quella di Eduardo, gli altri personaggi conservano qualcosa di tutti gli interpreti che li hanno fatti vivere. Concetta è Tina Pica, Titina, Pupella Maggio, Nina De Padova; Tommasino è Peppino, Pietro De Vico, Luca De Filippo; Pasquale è Agostino Salvietti, Gennaro Pisano, Enzo Petito, Gino Maringola; e poi le Ninucce, i Nicolini, e i portieri (il so-
lito Rafele portiere...). Anche loro hanno lasciato nel testo, se non una parola, un gesto, un pensiero, un tratto del carattere, a cui l’autore, osservatore attento, ha dato forma. La commedia che Eduardo
24 Cesare Garboli, Quando il teatro diventa «vestizione», «Corriere della Sera», 7
maggio 1976.
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ci ha lasciato in questa versione, purtroppo definitiva, che è il con-
densato e la decantazione ad un tempo delle tante versioni precedenti, è come una casa abitata dai fantasmi, primo fra tutti, il suo. Ec-
co perché è così difficile oggi, in Italia, mettere in scena un testo di Eduardo, e Natale in particolare. Quell’essere una casa piena di troppi ricordi, di troppi segni lasciati da chi l’ha abitata per quasi mezzo secolo, quello che è insomma uno dei motivi di maggior fascino di questo testo, è anche la ragione di una difficoltà ad abitarlo di nuovo. Sarà forse necessario che le tracce ancora troppo vive di quel passaggio si cristallizzino, che si allontani in qualche modo la memoria, perché la casa possa accogliere nuovi abitanti. E a confermarci che questo sarà possibile, c'è la memoria recente delle innumerevoli rappresentazioni di Natale in casa Cupiello, al Malij di Mosca, che hanno visto in scena, dal 1956 a oggi, non uno ma tanti diversi Luca Cupiello.
MAURIZIO GRANDE
UN BALLO IN MASCHERA
0. Le modalità enigmatiche La logica del dramma si costituisce sulla base di due elementi formali diversamente interconnessi e fra loro regolati: la struttura spaziale dell'azione e la modalità di rivelazione degli antefatti (negli antefatti comprendo sia ciò che non è noto ai personaggi e al pubblico, sia il «carattere», le «tendenze e le «pulsioni» dei personaggi). La struttura del dramma è spaziale. obbedisce alla dislocazione e alla distribuzione nello spazio di quanto i personaggi fanno, o non fanno, possono fare o rinunciano a fare. L'azione appare inscritta nel registro del luogo di apparizione (ad un certo punto del dramma) e non nel registro del tempo di esposizione (a un certo momento dell’intreccio). Diversamente dalla struttura narrativa (regolata dal flusso temporale e dalla logica della «evoluzione o sviluppo delle situazioni e dei personaggi), la struttura drammatica è regolata dal disegno spaziale, da una logica della risoluzione che non fonda la conclusione e la soluzione finale sui «risultati» che seguono ad un accumulo (più o meno esteso e consistente) di fatti nel tempo. La logica della risoluzione fonda il suo principio sullo scioglimento dell'enigma posto alla base di molti drammi (forse anche quelli di «conversazione»); che avviene non
tanto per «esaurimento» del tempo concesso alla vicenda quanto per conclusione «formale» della questione, del problema che sta al fondo del dramma.
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Maurizio Grande
La struttura del dramma punta, dunque, sulla presenza/assenza del personaggio (e sulla articolazione spaziale della sua azione), piuttosto che sulla continuità/discontinuità del personaggio (e sulla articolazione temporale del suo agire/vivere). Da ciò discende la modalizzazione drammatica, che si può sintetizzare in una formula: rivelare parlando, agire apparendo; così come la modalizzazione narrativa si può sintetizzare nella formula: scoprire agendo, continuare a essere nel tempo. L'esistenza dei personaggi drammatici è, in tal modo, puntuale e finita; quella dei personaggi narrativi è durativa e illimitata. La vicenda drammatica è definitivamente compiuta al calar della tela (e perciò può essere «replicata» infinitamente senza variazioni di fatto); la vicenda narrativa è «infinitivamente» conclusa al termine del romanzo (è in realtà «interrotta», e può essere «ripresa» e «riavviata» senza limi-
ti di possibilità, anche dopo la morte del protagonista). Ne deriva che la struttura drammatica obbedisce al principio di risoluzione e quella narrativa al principio di rivelazione. il personaggio del dramma «risolve» l’intreccio nel quale è incappato, il personaggio narrativo «rivela» a se stesso (e al lettore) la struttura del mondo (e del suo ambiente) e le sue possibilità di azione. È in questo senso che la logica drammatica è regolata dalle modalità dell’enigma, così come la logica narrativa è regolata dalle modalità della scoperta (e ritrovamento). Il dramma mostra ciò che era insabbiato (antefatti, caratteri, predestinazioni, destini oscuri); il romanzo rivela ciò che era a portata di mano, le possibilità dell’eroe e la sua po-
sizione nel mondo. È ovvio che questo schema (risoluzione/rivelazione) non spacca in due metà nette la logica drammatica e la logica narrativa, poiché si possono avere intrecci di rivelazione nel dramma e intrecci di risoluzione nel romanzo (per esempio, il romanzo poliziesco), e anche modalità miste di risoluzione/rivelazione nel dramma e nel romanzo. Ciò che mi interessa stabilire sono le due diverse modalità di enunciazione di modelli costruttivi e logici distinti: quella del dramma fondata sullo scioglimento dell’'enigma (in relazione al modello costruttivo della spazialità), quella del romanzo basata sulla scoperta e sulla acquisizione delle possibilità future; sulla modificazione virtualmente infinita della situazione (in relazione al modello costruttivo della temporalità).
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Dunque: da una parte (dramma), l'enigma e il suo scioglimento; dall’altra parte (romanzo), l'ignoranza delle possibilità e la scoperta (o rivelazione) del futuro, l’eliminazione dell’incertezza e dell’oscurità. Chiamo modalità enigmatiche del dramma le procedure di svelamento progressivo delle forze in gioco (situazioni, conflitti, caratteri) che conducono alla risoluzione di quello speciale intoppo dell’azione che è l'intreccio drammaturgico. Le modalità procedurali dello svelamento progressivo che conduce alla risoluzione finale sono spazializzate in peculiari «tappe» dell’azione (fatti e dialoghi) che «di spazio in spazio», di luogo in luogo, condizionano sempre di più la stretta finale. Queste tappe dell’azione sono regolate spazialmente sulla pagina e sul palcoscenico, nel senso che segnano l’apparire e il disparire del personaggio e le sue possibilità di enunciare e ascoltare, così come segnano le entrate e le uscite di scena. Anzi. Si deve dire che il registro delle presenze e delle assenze dialogiche — dunque, la dislocazione delle battute che sposta sempre di piano in piano l’azione — è la mappa che orienta la presenza e l'assenza dell’attore sulla scena. Queste modalità sono modalizzazioni dell’enigmaticità del dramma, dal momento che lo pongono come tale nella speciale forma dell’azione drammatica: che è sempre attestazione dell’enigma e fornitura progressiva della chiave di risoluzione. Solo che, per capire meglio la struttura spaziale del dramma e le sue modalità enigmatiche, bisogna aver presente la natura e la struttura profonda dell’enigma. L'enigma è un cortocircuito logico. Consiste nella massima vicinanza 0 adiacenza di verità incompatibili, che comportano soluzioni sovrapponibili ma indistinguibili. L'enigma è un paradosso che si camuffa da mistero, è la compresenza di contrari insolubili, di verità duplici (o molteplici) indistinguibili, indiscernibili. Enigmatico è ciò che non può essere «risolto» o «sciolto», perché la sua verità profonda consiste nel dritto e rovescio del vero, nella moltiplicazione logica del plausibile. La «copertura» che conserva l'enigma non può essere tolta pena l’eclatante trionfo della banalità e dell'inganno. Enigmatico è l’illusionismo portato alle conseguenze estreme, dove non si può distinguere fra apparenza e realtà, fra sopra e sotto, fra sottigliezza e truffa.
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La struttura dell’enigma è tale per cui non si può optare per una soluzione o per la contraria, tale per cui i compresenti sono anche i co-esclusi. Una volta scoperta questa struttura, l’enigma (e il suo dramma) è condannato a morte e si rivela come trucco da baraccone. Si rivela come indovinello fin troppo facile per poter porre una alternativa. L'enigma è nella doppia verità di ciò che appare e di ciò che si cela, nella doppia verità di ciò che si afferma e di ciò che si nega. Anzi: nella doppia verità di ciò che si afferma perché sia negato, perché non venga preso alla lettera né creduto. L’enigma — in quanto struttura delle modalità drammatiche — ha un doppio regime: l'apparizione in un luogo e la sua ripetizione metamorfica in un altro. Solo che la sua verità profonda consiste nel cortocircuito fra apparizione e cancellazione, fra identità della presenza e mascheramento. È per questo che l’enigma non si può mai «risolvere» in termini propri. Se ne può sciogliere la struttura «a indovinello», ma resta la sua propria enigmaticità nel fondo. Questo è vero per Amleto e per i Sei personaggi pirandelliani, per quell’enigma-capostipite che è Edipo re, per Macbeth, Re Leare Questi fantasmi!; per La vita è sogno e per Don Giovanni; per Il malinteso e per Giorni felici. Sempre, ci troviamo dinanzi alla logica del dramma che mette in scacco la logica della comunicazione, che richiede un particolare addestramento ermeneutico per dirimere la questione senza risolvere il quesito, perché resta il mistero di una costruzione a domande incassate che nessuna soluzione riesce a soddisfare.
1. Somiglianze e parentele
Le modalità enigmatiche del dramma e la sua peculiare struttura spaziale si mettono particolarmente in luce in questi testi che intenzionalmente tematizzano il non-scioglimento dell’azione e il cui andamento o sviluppo conduce ad una apparente risoluzione del dramma. Mi riferisco a quelle opere il cui tema e la cui forma coincidono, cosicché le modalità enigmatiche non fanno che enunciare in forma analogica l’insolubilità enigmatica del dramma.
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C'è una specie di «camera isomorfica» che avvolge testi come Sei personaggi in cerca d'autore, Finale di partita, Re Lear, Questi fantasmi/, La grande magia, Amleto, Il gioco delle parti, Questa sera si recita a soggetto, Il malinteso e, naturalmente, Edipo re; per citare solo i casi più noti di intrecci enigmatici enunciati come tali e solo apparentemente «risolti» nella conclusione. Per «camera isomorfica» intendo quella speciale forma di enunciazione drammatica (propria di ogni drammaturgia) che in casi particolari fa tuttuno con l’enigmaticità della situazione e con l'impossibilità della sua soluzione; per cui l'enigma che sta alla base del tema coincide con le modalizzazioni enigmatiche della struttura enunciativa drammatica. L’isomorfismo fra contenuti profondi e forme espressive manifeste conduce ad una «rivelazione» finale che non è una «risoluzione», ma solo la conferma di una enigma cambiato di luogo, accresciuto di ambiguità, dislocato in una nuova situazione; che altro non è se non la conferma e la rivelazione dell’enig-
ma stesso. Questo modo di procedere per modalizzazioni enigmatiche della enunciazione drammatica è tipica di molto Pirandello e di molto Eduardo; laddove anche l’ovvietà più scontata della vita quotidiana si tinge di mistero e di segreto, anche se in apparenza vengono fornite le chiavi per sciogliere l’«indovinello». Solo che queste chiavi vengono fornite in maniera tale che il lettore o lo spettatore deve scegliere di sciogliere: lo scioglimento del dramma è solo convenzionale, illusorio,
fittizio, e indica almeno due possibilità tra le quali lo spettatore deve compiere una scelta interpretativa.
È un modo assai singolare e sofisticato di prendere di contropiede le premesse dalle quali si parte e la forma di comunicazione scelta e adottata. Nei testi di Pirandello e di Eduardo l’enigma e le modalità di enunciazione drammatica mettono in forse il senso di realtà e la scrittura naturalistica, inseriscono il fantasmatico nel reale e l'enigma nella natura (natura fisica e natura dei rapporti umani). Si ha così una forma di elaborazione fantasmatica del realismo e un modo di denaturare la rappresentazione naturalistica. Se è vero che il naturalismo è una poetica e una somma di tecniche enunciative e rappresentative atte a cancellare o sfumare la differenza artistica, cioè l’alterità estetica fra os-
servazione e rappresentazione della vita così come «cade sotto i nostri
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occhi; è vero anche che questo tipo di modalità enunciativa consiste nell’assorbire la rappresentazione dentro l'osservazione, di modo che
si produca un resoconto impersonale e quasi-automatico dei fatti e dei sentimenti.
Il naturalismo tende a nascondere le regole di composizione dell’opera e a ridurre le convenzioni artistiche, di modo che si produca un effetto di immediatezza percettiva, logica, espressiva che tende allo zero, cioè alla narcosi dell'espressione e ad un raccordo fluido e «naturale» fra vita e arte. La scrittura naturalistica aspira a farsi «calco» della vita quotidiana; da cui la scelta della descrizione indiretta e degli automatismi espressivi che azzerano le marche di genere e gli effetti convenzionali della scrittura, quel «patto» che si stipula fra scrittura e lettura. Il naturalismo tende a celare proprio quel «patto» convenzionale fra espressività artistica e rappresentazione di un oggetto quale che sia (reale o fantastico), in modo da fluidificare lo strofinio fra vita e arte. In Pirandello e Eduardo si assiste alla messa in crisi deliberata del naturalismo, al nuovo patto fra illusione e realtà, enunciato tematica-
mente e modalizzato di conseguenza nella struttura drammaturgica e nella scrittura testuale. Ma le somiglianze e le parentele non finiscono qui. Vorrei mostrare i calchi e i riporti, le citazioni e le deformazioni, un particolare rapporto di contaminazione parodistica che guida la scrittura di Eduardo e il suo sguardo a Pirandello; tanto che si potrebbe elaborare un segmento non indifferente di intertestualità dichiarata fra Eduardo e Pirandello. È quanto mi propongo di fare ponendo a confronto Questi fantasmi! e Sei personaggi in cerca d’autore, poiché ritengo che per più versi (e modi) i Sei personaggi siano il testo-madre che ha ispirato le modalità enigmatiche di Questi fantasmi, forse fino al calco parodico (dimostrabile in alcuni nodi centrali del testo di Eduardo). Solo che non si tratta di intenzione parodistica diretta o di una «ripresa» manifesta del testo di Pirandello. Credo che i Sei personaggi pirandelliani abbiano fornito a Eduardo il clima enigmatico e il modello di enunciazione drammatica per trattare nella forma più consona quanto stava a cuore ad Eduardo: il senso di stupefacente paradosso
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annidato nella banalità quotidiana, l’enigma di rapporti bili, il mistero di un modo del sentire e del comunicare dimento e incomprensione, alienazione e immutabilità a un certo punto e senza sapere perché, entrano in contatto che è il cortocircuito emozionale, intellettuale,
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umani irrisolviche è fraintendei destini che,
quello speciale morale.
2. Il Professor Santanna La costruzione di Questi fantasmi! è deliberatamente e dichiaratamente equivoca, giocata come è sulla indecidibilità logica del suo intreccio. L'equivoco di Questi fantasmi! enuncia l’illusorietà della «verità», se per verità si intende un dato di fatto acquisito e incontrovertibile (sulla base della percezione normale della realtà), o la attendibilità (logica e esistenziale) delle azioni umane. Equivocità e ambiguità sono aspetti tipici della comunicazione ordinaria e della espressione artistica. Nella vita quotidiana, l'equivoco e il fraintendimento segnalano la discrepanza fra intenti e mete dell’azione e le effettive possibilità, da parte del soggetto, di rivelarli e metterli in pratica. Segnalano la necessità di mascherare le pulsioni e la opportunità di adattarsi al mondo degli altri. Oppure, segnalano il tasso di oscurità e indeterminatezza che è proprio dell'accordo provvisorio fra i diversi agenti della interazione, per cui la comunicazione è spesso intenzionalmente ambigua e il linguaggio deliberatamente equivoco, onde consentire ai soggetti di depistare gli interlocutori e di lasciare uno spazio di manovra al mutamento di rotta. Quando gli scopi dell’azione sono chiari e univoci, il linguaggio ha il modo di «rappresentarli» e di «intenderli» con sufficiente precisione e appropriatezza espressiva (che corrispondono alla chiarezza dei punti di vista, degli obiettivi e delle reali possibilità di azione). Allora, paradossalmente, hanno termine la comunicazione e lo scambio, l’intendimento e l’interpretazione, e si approda ad una informazione circostanziata e standardizzata.
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Nell’arte, l'ambiguità è costitutiva dell'espressione e della comuni cazione, poiché l’arte tende alla polivocità del senso e alla complicazione delle forme, non accettando in via di principio una rappresentazione standard di oggetti e situazioni. L'arte nasce proprio come possi-
bilità di cogliere il reale nella sua indefinita complessità e di raffigurarlo secondo le tecniche della «differenza estetica»; che altro non è, se non l’intervento del senso nel mondo, che rende «non-indifferenti» la
natura e i modi di concepirla, gli uomini e i loro rapporti. L’equivoco, in Questi fantasmi!/, è deliberato e dichiarato, costitui-
sce la struttura logica e la modalità espressiva della commedia, teso, come è, a rendere ambiguo il senso di realtà e a contaminare quell’aspetto fondamentale della «verità» che è l'esattezza: vale a dire, la corrispondenza punto-per-punto fra mondo e rappresentazione. L’equivoco, in Questi fantasmi!, sta alla base della interazione fra i personaggi, della comunicazione e del modo di rappresentarsi la realtà come universo incerto, come regno della indiscernibilità fra vero e falso, fra illusione e esperienza. Eduardo provvede a far stare in bilico la realtà e l'illusione, sia in senso logico, sia in senso esistenziale e sia in senso morale (nel comportamento e nei valori). I personaggi sono presi nel vortice di un gigantesco equivoco, che diventa per alcuni (Pasquale Lojacono) strategia esistenziale di sopravvivenza, per altri (Alfredo Marigliano) strategia di manipolazione in una situazione difficile; per altri ancora (le mogli e i personaggi minori) spartito di una commedia assurda da recitare fino alla fine. L'illusionismo (come ne La grande magia) serve a far stare costantemente in bilico il protagonista fra la «ragione degli altri» e il suo avido
abbandonarsi al sogno, al «miracolo»; senza domandarsi mai — pena la fine del gioco — dove finisce il miraggio e dove inizia il trucco da baraccone. In questo modo di costruire personaggi che hanno perduto il centro di riferimento logico e morale, Eduardo trasfigura la scrittura naturalistica e fa della «verità» un equivoco continuato; così come fa
della «realtà» il corrispondente incongruo dei fantasmi del soggetto. Il personaggio è sottratto a quel patto convenzionale che lo vuole «vero» e credibile, responsabile — almeno in linea di principio, almeno nella sua coscienza — delle azioni che compie e delle scelte adottate. Qui, invece, il pubblico non è messo in grado di discernere fra illusione e
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inganno, fra raggiro e sogno a occhi aperti, fra disonestà e ingenuità del protagonista. Il pubblico non è in grado di accertare il quoziente di verità e di menzogna contenuto nei discorsi dei personaggi, i quali traggono dalla «commedia dell’equivoc le risorse per affrontare la vita e le sconfitte che essa infligge. Il pubblico non può decidere se Pasquale Lojacono ricorre all’autoinganno deliberato, per poter continuare a godere dei privilegi acquisiti «credendo ai fantasmi», oppure se, da giocato, si fa giocatore di se stesso, del suo avversario e di tutti gli altri. Non si può accertare se si ha di fronte uno sconsiderato sognatore ad occhi spalancati o un volgare truffatore e mercante di anime. L’intreccio di Questi fantasmi! è congegnato in maniera tale che non è mai possibile discernere la realtà dei fatti e le allucinazioni che riadattano il reale secondo un potente bisogno di illusione che rasenta la truffa. Ne viene fuori una scrittura in bilico fra «rivelazione e «illusione, fra distillazione ironica del dato immediato e architettonica delle
falsificazioni, fra «convenzioni di verità» e modalità dell’enigma che corteggia l’inganno. La commedia è un mirabile gioco di specchi fra illusione e inganno, fra raggiro e incoscienza, fra equivoco e metafora. Tutte le volte che la situazione sta per essere «svelata», sta per giungere alla «risoluzione» per cui dalla illusione si passerebbe alla realtà, interviene /a metafora come supporto dell'equivoco: un personaggio si esprime in
termini metaforici (particolarmente adatti e appropriati alla situazione) e l’altro li trasforma immediatamente in temini letterali (come nell’incontro fra la famiglia di Alfredo Marigliano e Pasquale Lojacono, su cui ritornerò). L’equivoco — come struttura dell’ambiguità e dell’enigma — è l’impianto logico ed esistenziale della commedia, fino a scavalcare il patto fra autore e lettore, fra dramma e spettatore. Un equivoco annunciato a chiare lettere, ma proprio per ciò, assunto come metafora, a partire dallo specchietto delle dramatis personae. Certo, Eduardo mette in guardia il lettore (ma non lo spettatore, e vedremo perché) fin dal titolo, dove quello che chiamava «punto ammirativo» sta già ad indicare una chiusa gnomica, un commento espressivo, una intonazione ironica, una sentenza che, come un mormorio di complicità e disapprova-
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zione, già non consente di prendere partito. Quel punto esclamativo
dice: «la so lunga, ma sto al gioco», senza però chiarire di quale gioco si tratti.
Ma veniamo alle dramatis personae. Le anime
Pasquale Lojacono (anima in pena) Maria, sua moglie (anima perduta) Alfredo Marigliano (anima irrequieta) Armida, sua moglie (anima triste) Silvia, 14 anni Arturo, 12 anni
}
loro figli (anime innocenti)
Raffaele, portiere (anima nera) Carmela, sua sorella (anima dannata) Gastone Califano, (anima libera) Saverio Califano, maestro di musica
} (anime inutili)
Maddalena, sua moglie Due facchini (anime condannate) Il Professor Santanna (anima utile, ma non compare mai)
I personaggi sono, dunque, anime (una probabile trasformazione dei «personaggi in cerca d’autore» di Pirandello). Sono anime il cui modo d’esistenza percettibile è il fantasma. Eduardo non ci dice (né dirà mai) se il termine «anime» è un modo di dire, una allegoria, oppure se la commedia parla veramente di anime (secondo le possibilità del fantastico) in una specie di «mondo parallelo» rispetto al mondo dei viventi. La commedia chiarirà che non si tratta di vere e proprie anime, e che il termine è impiegato in senso metaforico, quasi a dire: questo mondo è irreale, pur nella sua consistenza materiale, e tutti noi
non siamo che anime vaganti nell'universo. Tuttavia, resta questo gioco fra anime e anime (anime metaforiche e anime fantastiche), né lo spettatore può venirne a conoscenza, a meno che non sia lo spettatore scrupoloso che si legge la locandina. Almeno in linea di principio, dobbiamo dunque constatare che Eduardo decide di mantenere aperto, ambiguo, indistinto, il confine fra me-
tafora e letteralità fantastica dell’enunciazione (dunque: fra metafora e enigma).
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Però, la dizione che accompagna il personaggio del professor Santanna dovrebbe destare qualche sospetto. Definito «anima utile, ma non compare ma», il Professor Santanna è l’unica presenza che ci richiama alla realtà, è l'occhio libero da pregiudizi e illusioni che guarda dal di fuori cosa accade nella casa dirimpetto. È, in fondo, l’unica istanza razionale della commedia,
è lo specchio che non mente, la
presenza non allegorica; il tutore della «normalità» e la fonte di un giudizio non alterato dalla implicazione nel gioco che si tiene nella casa dei fantasmi. La formula «anima utile, ma non compare mai» sta per: «anima disinteressat@, vigilanza del mondo esterno e dell’esperienza comune sul mondo arroventato dell'interno, sui giochi pericolosi e sulle illusioni e gli inganni che alimentano la commedia degli equivoci. È lo spettatore virtuale, che ricorda ai personaggi e al pubblico la virgolettatura necessaria per assistere a una vicenda teatrale: teatro della vita portato sul palcoscenico. Il Professor Santanna è la sigla metateatrale di Questi fantasmi, e il suo non aver diritto alla parola lo esclude dall’essere personaggio. Si dice infatti di lui: 70n compare mai. Né attore, né personaggio, è il pubblico dietro le quinte, al quale il personaggio e l'attore si rivolgono come all’istanza «autoriale», come al supremo guardiano di ciò che accade. Il Professor Santanna costringe i personaggi, tutte le volte che lo scorgono, a mutare registro, a smettere di recitare. Così facendo, rammenta ai personaggi che sono attori di una commedia delle parti, e che c'è qualcuno che sa; per cui, ogni volta, i personaggi dovranno smettere d’essere attori e fingere d’essere persone che ubbidiscono alla logica della realtà. Ma veniamo all’equivoco interno al dramma e alla sua modalizzazione enigmatica, che mette in scacco qualsivoglia «soluzione», trasformando un intreccio di «risoluzione in un intreccio di «rivelazione». Ma si tratta di una «rivelazione» continuamente rinviata, spostata, dislocata
in un ulteriore inganno (e autoinganno) senza soluzione di continuità. L’equivoco interno al dramma è costruito sulla credenza nei fantasmi: credenza labile e sospettosa in tutti i personaggi; credenza certa e ossessiva, praticamente inalterabile, in Pasquale Lojacono. Il non poter «smontare questa credenza in Pasquale Lojacono è il motore del
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dramma e la sua struttura enigmatica dal punto di vista logico e esistenziale. La credenza nei fantasmi non è il tema della commedia; ne è il motore drammatico, il carburante che muove la macchina degli equivoci e degli inganni. La credenza nei fantasmi ha anche un ruolo pragmatico più sottile e problematico: consente ad Eduardo di spingere il pedale del fantastico e dell’illusorio all’interno di una cornice realistica,
fa passare una significazione più complessa all’interno di un impianto naturalistico convenzionale.
Il tema della commedia è l'«accomodarsi» degli individui in situazioni inaccettabili, con l’estro del paradosso e il gioco ben giocato della ipocrisia messa al riparo di una convenzione: la credenza nei fantasmi. È un modo di chiudere gli occhi dinanzi alla dolorosa palpabilità del mondo reale, un rifiutare di lasciarsi mettere in scacco dalla logica della realtà (con tutto quel che consegue sul piano dei valori e dei comportamenti: onore, rispetto, scelta e rinuncia). Così, agli uomini è concesso di andare e venire nella vita altrui come se fossero fantasmi. La faccia è salva, il cuore duole moderatamente, le difficoltà possono essere superate. Si può continuare a vivere senza pagare un prezzo troppo alto. Si può dare scacco alla realtà e alla sua logica che non sempre ripaga; che è fonte di angoscia e impotenza. Uno sguardo cini-
co sul mondo? Può darsi. Ma soprattutto uno sguardo acuminato su quel gran teatro di affanni che è la vita umana, su quella forsennata gesticolazione che non porta alla felicità. L'enigma della commedia resta, nonostante la si legga e rilegga da ogni lato e con mille occhi. Crede veramente Pasquale Lojacono che il suo benessere viene da un’anima buona che si prende cura della sua sorte e non da un uomo che vuole sottrargli la moglie con una beneficienza diabolica? Il gioco delle parti e gli incastri della commedia non consentono di dare una risposta univoca al quesito. Ci sono almeno due momenti-culmine nei quali Pasquale Lojacono rischia di essere smascherato, ma non nel senso che rischia di dover ammettere di sapere, che ba capito e continua a fingere di non avere inteso; piuttosto nel senso che sta per essere smascherato il gioco, e che la realtà dei fatti sta per distruggere la credenza (vera o falsa) nei fantasmi.
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Sono due scene-chiave del secondo atto, la prima con la moglie e la seconda con la famiglia del suo amante. Nel confronto serrato con Maria, Pasquale Lojacono rischia di dover mettere in gioco tutto: onore, dignità, rispetto per la donna e per la casa; ma se la cava con un’insolente alzata di spalle, con una cinica in-
differenza nei confronti di ciò che può «dire la gente» (cui si deve aggiungere anche la indifferenza nei confronti di ciò che pensa di lui la moglie). In questa scena, Lojacono è guidato dal suo istinto di sopravvivenza, dalla sua convinta ottusità dinanzi alla realtà. Non vuole sentire ragioni, non vuole rischiare di perdere il favore del «fantasma» per le chiacchiere della gente o per gli scrupoli della moglie. Più semplicemente, la verità non lo riguarda, il giudizio della moglie non gli interessa. Vuole continuare a godersi il privilegio del «fantasma» e il benessere che ne deriva, senza dover pagare o rinunciare. Fa un bel discorsetto sulla fine di ogni amore «cu’ ’a panza vacante, e sostiene con si-
curezza una beffarda filosofia della vita che, dal suo punto di vista, è inattaccabile: Cu’ ’a panza vacante, Marì, ‘e sense se perdeno... Giulietta e Romeo dovevano essere ricchissimi, se no dopo tre giorni se pigliàveno a capille... Nun da’ retta ’e chiacchiere... Al contrario, arriva un poco di benessere: donna Maria si ribella! Ma famm'’ ’o piacere! E guarda, t'avverto: non ci torniamo più sopra e non facciamo storie per l'avvenire, perché non è finito. Io voglio campà buono. Voglio mangià, bévere, voglio vestire bene. ’E ssigarette nun ’e voglio cuntà. A dumméneca voglio ’o dolce... e tutto quello che mi serve. Eh no, cara... He ’a vedé che ato ha d’arrivà ccà...
Ancora una volta, Pasquale Lojacono fuga qualsiasi rischio di smascheramento della situazione, affidandosi anima e corpo alla credenza cieca nei fantasmi; facendo intendere alla moglie che non c’è niente da fare, che è inutile finanche il sacrificio di confessare al marito la sua colpa, perché lui è al di fuori di qualsiasi possibilità di venire inchioda-
to a quel senso dell’onore e della «faccia» su cui si basa la rispettabilità. L’estraneità fra i due è completa, decisiva, irreversibile. Pasquale Lojacono ha sbarrato la strada alla moglie e alla verità, alla moglie come
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portatrice di una verità che danneggerebbe i suoi privilegi. Il patto è chiaro. Non: «so e taccio», ma: «sono sciocchezze, capricci di donna, e
non ne voglio sentir parlare». In tal modo, tutto il peso della questione ricade su Maria e sugli altri. Pasquale Lojacono è al sicuro, con i suoi fantasmi e le sue manovre allucinatorie. L'illusione ha sconfitto la realtà.
3. Il declino della realtà
C'è un altro momento in cui Pasquale Lojacono corre il rischio di perdere il privilegio dell'illusione, quando la famiglia del rivale sta per metterlo alle corde senza lasciare scampo ai sogni e ai «fantasmi». Ma ancora una volta, Eduardo dà scacco alla logica della realtà, costruendo una magnifica scena di malintesi e colpi di teatro che prolungano l’illusione del protagonista e l’enigmaticità della commedia, dando un’altra volta scacco alle attese dello spettatore. Alla fine di un aspro scontro fra Gastone Califano (cognato di Alfredo, amante di Maria) e Maria (moglie di Pasquale Lojacono), Pasquale Lojacono entra in scena e vede Gastone rimasto solo. Si badi che è il secondo «fantasma» che vede in casa, perché nel primo atto aveva già incontrato il «fantasma» di Alfredo Marigliano. Ne segue una «resa dei conti», durante la quale Pasquale Lojacono insiste a trattare Gastone come un «fantasma» e l’altro continua ad esprimersi da anima defunta, senza poter riuscire a inchiodare l’antagonista alla lettera delle cose. Proprio mentre Gastone sta per fare rivelazioni decisive che metterebbero in crisi la commedia dei fantasmi, succede una scena lugubre e spettrale che sembra presa di peso dai Sei personaggi in cerca
d'autore. Arriva la famiglia di Alfredo, introdotta come un gruppo di sonnambuli o anime del Purgatorio, che conferma il clima fantasmatico della situazione. Ma c'è di più. Qui Eduardo sembra parodiare la famiglia dei Sei personaggi, operando piccoli spostamenti e aggiustamenti, ma lasciando intatta quella immagine (si pensi che anche la famiglia di Alfredo è composta di sei persone: la moglie, due figli, il fratello della moglie, i genitori della moglie). La descrizione della famiglia conferma il taglio
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parodistico dell'apparizione dei Sei personaggi pirandelliani in teatro. Tanto che, alla fine della scena, dopo l’ingresso di Alfredo Marigliano,
Pasquale Lojacono — come il direttore di scena pirandelliano — prende ad assistere al dramma dei personaggi. La didascalia è esplicita: per vedere meglio sale sulle sedie, sui tavoli: assiste come uno spettatore che ha pagato il biglietto. La scena prosegue con gli equivoci linguistici che mantengono in
piedi il gioco dei fantasmi: il riferimento al «nobile cavaliere» di secoli prima in quella casa, alla sua anima vagante in eterno per aver ucciso gli amanti; mentre i bambini si aggrappano disperati al padre, fino alla baruffa finale fra tuoni e lampi e la rassicurazione în extremis al Professor Santanna circa l’inesistenza dei fantasmi. A questo punto, Pasquale Lojacono è certo dell’esistenza dei fantasmi, ma anche del fatto che si mostrano solo a lui, che solo a lui è destinata la replica di quel dramma antico scatenato dall'amore. E il secondo atto si chiude con il ritornello «Ah...l’ammore che fa fa’...», canticchiato da Pasquale ad uso del Professor Santanna (quel canticchiare pubblico e disinvolto che Lojacono si era impegnato ad ostentare ogni giorno da tutte le finestre
dell’appartamento, assieme ai tappeti stesi al sole, per dimostrare che la casa era abitata e che di fantasmi non ve n’erano). Ormai siamo all’epilogo, alla fine di ogni ragionevole illusione. Alfredo Marigliano si è convinto a rientrare in famiglia, Maria vive la sua mesta vita con Pasquale, i «fantasmi» si sono eclissati e le tasche sono vuote. Eppure, in questo triste meriggio dell’illusione, Eduardo ha un colpo di coda e scuote una volta ancora il lettore. Pasquale sta partendo per «una cosa urgente» e chiede a Maria un cenno d’affetto, un saluto più caloroso: non si sa mai, si può finire sotto un camion, si può mori-
re per un colpo di rivoltella giunto per sbaglio. Ma sa di aver perduto qualcosa per sempre, come afferma consapevole: «Avimmo perza ’a chiave, Mari"...». Esce, ma si nasconde sul balcone. Spera di vedere il fantasma, lo aspetta. E il fantasma giunge. È Alfredo Marigliano che è venuto a portar via Maria, e che l’ha convinta a non rinunciare all’amore per le convenzioni sociali e per un uomo come il marito.
Alfredo si accosta al balcone e Pasquale lo ferma. Gli parla. Si mette nelle sue mani per riottenere il suo favore e far felice Maria. Alfredo
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Maurizio Grande
sta al gioco, ma non per assecondare il rivale, sta veramente al gioco: «Grazie. Hai sciolto la mia condanna. Io fui condannato a vagare in questa casa fino a che un uomo non mi avesse parlato come mi stai parlando tu. Sul tavolo, guarda sul tavolo». L’enigma ha ristabilito il primato sull’eguivoco, il sogno sulla realtà, l'illusione sulla ragione. Inutile tentare un’interpretazione univoca, perché la struttura della commedia non la sopporta. Perché la modalizzazione enigmatica di questa commedia provvede a sbarrare il passo sia alla logica della realtà, sia alla univocità delle interpretazioni. Con un magistrale colpo di scena, Eduardo riavvia il gioco degli equivoci e, sotto questo gioco, mostra la maschera dell’enigma. L’enigma della sofferenza e della generosità. Forse. L’enigma della irrealizzabilità del desiderio, del sogno che deve continuare anche ad occhi aperti. Forse. L'enigma del «meraviglioso» e dello «stupefacente» annidato nella banalità più sconcertante. Forse. L’enigma dell’arte che non adotta le stesse conclusioni dei contabili e dei ragionieri della vita. Forse. Ma anche l’enigma del teatro, che solo l’attore può sciogliere. L’interpretazione dell’attore, infatti, può orientare la commedia verso la
mascherata e l’ironia, o verso l’inappellabile oscurità del tragico. Eduardo sapeva mantenersi in bilico — Eduardo attore, Eduardo-Pasquale Lojacono intendo — fra i due versanti dell’interpretazione, sfumando ancora di più la realtà scenica dei fantasmi e i fantasmi della vita. Quando pronunciava le ultime battute, non si sapeva mai quale senso attribuire agli enunciati: ironia, autoinganno deliberato, gioco macabro con il mondo, derisione del protagonista e degli spettatori, smontaggio delle certezze e della verità che spacca a metà il bene e il male, l'illusione e la realtà. Portava il suo segreto con sé e rinfocolava l'enigma della commedia. La faceva diventare una tragedia a fior di labbra, con il segreto insondabile della verità racchiuso dentro il cuore. Cuore di uomo, cuore d’attore. E al Professor Santanna non restava che stare ancora una volta al gioco, il gioco del testimone generoso che non porta in Tribunale la sua testimonianza. Il gioco che ogni pubblico sensibile dovrebbe saper giocare.
Un ballo in maschera
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PASQUALE [...] Professo’, professo’, avevate ragione voi... I fantasmi esistono... (ascolta). Come mi avevate consigliato voi. Vi ricordate, quando stamattina ci siamo incontrati? Ho fatto finta di partire, sono tornato e mi sono nascosto là fuori... Anzi pensavo di restare tutta la notte, invece si è mostrato subito. Ci ho parlato... Mi ha lasciato una somma di danaro... (Mostra i biglietti) Guardate... Però dice che ha sciolto la sua condanna, che non
comparirà mai più... (Ascolta) Come?... Sotto altre sembianze? È probabile... E speriamo...
In un breve giro di battute, nella stretta finale dell’epilogo, Eduardo non rinuncia a rincarare la dose di enigmaticità, restaura l'equivoco e lo rilancia come enigma. Il Professor Santanna asseconda Pasquale Lojacono e rilancia il gioco, affermando che forse «sotto altre sembianze fra Pasquale e la moglie ci sarà sempre un «fantasma». Ma Pasquale Lojacono ed Eduardo non sono da meno nel rispondere colpo su colpo: «E speriamo». La realtà non ha varchi nell’illusione, non ha chances dinanzi a quella meraviglia che è il sogno a occhi aperti. Pure quando il sognatore sa di sognare. Anzi. Allora è ancora più sogno. Deliberatamente sogno. Arte di sognare infinitamente più complicata dell’arte di
vivere.
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HUGUETTE HATEM
1948-1988. QUARANT'ANNI DI «GRANDE MAGIA» E DI «VOCI DI DENTRO»
Il tema del sogno e della magia ha sempre avuto una parte importante nel teatro di Eduardo, ma La grande magia e Le voci di dentro rappresentano un momento particolare nella sua opera. Il 1948 è un anno decisivo nell’evoluzione di questi temi; per la prima volta dopo Sik-Sik e Questi fantasmi/, i due piani, quello del reale e quello del fantastico, si affermano con forza e se anche lo spettatore arriva a distinguere ciò che appartiene all’uno e all’altro, essi hanno lo stesso rilievo. Lungi da costituire una evasione di tipo romantico
verso un mondo privo di pesantezza materiale, questo teatro mette in rilievo l’onnipotenza del sogno sui fatti, sui movimenti e sulle parole di ogni personaggio e non solo sui protagonisti posseduti dalle «voci di dentro». La grande magia e Le voci di dentro furono scritte nello stesso anno 1948. La grande magia che debuttò a Trieste ebbe un successo più che altro di stima; Eduardo fu amareggiato di non essere del tutto capito.
Certo la commedia era in anticipo sul suo tempo. Sembrò allora che il nuovo stile di Eduardo creasse perplessità. Fra le numerose critiche si ricordano quelle di Corrado Alvaro che seppe riconoscere l’importanza del tema, pur criticando la lingua usata da Eduardo. La grande magia fu ripresentata nel 1951 a Roma, poi ripresa anche dalla televisione per la RAI; ultimamente nel 1984, come sappiamo, Strehler la portò in scena al Piccolo Teatro di Milano «per riparare —
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come allora disse — ad un’ingiustizia e dare ad Eduardo la soddisfazione di vedersi capito». Eduardo venne finalmente capito in questa commedia, ma purtroppo il destino non gli concesse di assistere alla sua rivincita.
Le voci di dentro fu subito un successo: scritta in pochi giorni ma probabilmente pensata da tempo, nacque come un testo di «riserva» nel caso in cui un’altra commedia non avesse avuto immediato consenso. Debuttò a Milano nel ’48 rivelandosi subito come un grande successo di pubblico e di critica come attesta la bellissima recensione di Salvatore Quasimodo sul «Tempo» del 25 dicembre 1948. Eduardo poi riprese la commedia varie volte, ne fece due edizioni televisive e la recitò ancora nel 1977 a Roma. Per una curiosa coincidenza La grande magia e Le voci di dentro furono presentate a Parigi nello stesso giorno, una nella versione italiana di Strehler al Théatre de l'Europe, l’altra in francese al Théatre de l’Est Parisien (TEP), e tutte e due conobbero un eccellente esito.
Conosciamo la fonte dell’ispirazione di Eduardo de Filippo; l’ha dichiarato Eduardo stesso nel discorso pronunciato nel 1973 all’Accademia dei Lincei: «Alla base del mio teatro c’è sempre il conflitto fra individuo e società». «Le voci di dentro — scrive Renzo Tian nel 1987! — ci mostra come il sogno ossessivo di un uomo che sembrerebbe essere soltanto un visionario si riveli, invece, un messaggio di verità»; non è diversa,
continua, la situazione che si presenta nella Grande magia; le due commedie, scrive, «sconvolgono un ordine costituito sia all’esterno che all’interno di noi stessi. È esattamente quello che Eduardo vuol dire quando parla del conflitto tra individuo e società». Questa interpretazione è molto suggestiva e può essere senz’altro accettata. A me pare che inoltre le commedie offrano altre chiavi di lettura: cercherò quindi di darne un’altra, appoggiandomi sulle recenti scoperte della psicanalisi. Esamineremo prima Le voci di dentro, poi La grande magia.
1 «L’Avant Scène Théatre», n. 801-802, 1-15 gennaio 1987.
1948-1988. Quarant'anni di «Grande Magia» e di «Voci di dentro»
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Ricorderò l'argomento delle Voci di dentro. Alberto Saporito, noleggiatore di materiale di feste a Napoli, accusa i suoi vicini, la famiglia Cimmaruta, di aver ucciso l’amico Aniello Amitrano e li denuncia alla polizia. Mancano le prove e i Cimmaruta vengono liberati: «Ho sognato, ho sognato!» grida Alberto, ma ormai il sospetto è entrato in casa Cimmaruta. I membri della famiglia si accusano a vicenda proprio in casa del loro accusatore e in presenza di Zio Nicola, un vecchio che tace da molti anni perché il mondo è sordo, e non sente più le voci della verità. Egli parla coi nipoti solo facendo scoppiare dei fuochi d’artificio. Muore Zio Nicola. Alberto gli chiede ancora consiglio. Rispondono dall’al di là i soliti scoppi dei fuochi d’artificio, ma questa volta Alberto non capisce il messaggio: «Ha parlato, ha parlato, ma non ho capito». Così finisce la commedia. Il titolo della commedia indica che è il senso di chiusura che pervaderà ambienti e personaggi. Dapprima nel senso proprio della parola: Matilde, durante la guerra ha nascosto il marito «in una specie di casotto per il cane, per salvarlo — lei diceva — dai fascisti. Zi’ Nicola s'è chiuso in casa, abita in una specie di tana su di un mezzanino con una loggia riparata da vecchi stracci. L’intera commedia si svolge in luoghi chiusi. E se troviamo delle aperture nelle pareti, sono solo abbaini o buchi delle serrature (come quello della porta di Matilde) che non si aprono su niente se non su altri luoghi «chiusi» offrendo visioni interdette o almeno censurabili (visto il suo mestiere di cartomante/prostituta). In secondo luogo, è anche chiusura il fatto di non poter più comunicare o di parlare un linguaggio ermetico. Così ve-
diamo che i giovani non comunicano più con gli anziani. Ogni generazione ha il proprio codice di linguaggio, come vediamo nella scena fra Alberto e il giovane Luigi. Il caso limite dell’incomunicabilità è quello di zio Nicola che non vuole più parlare. Il suo silenzio sbocca del resto sulla morte, morte come chiusura della vita. I morti stessi sono chiusi nel legno dei mobili, come dice Alberto con un'immagine surreale, e terrificante. Da un punto di vista esistenziale, come nel teatro di Pirandello, si
può dire che ognuno è chiuso nell'immagine che l’altro gli sovrappone.
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Huguette Hatem
Pasquale dice: «Si fa presto a giudicare: “Quello? È così!” “Quell’altra? È così, così...” Ma che ne sanno perché uno è “così” e perché l’altra è “così”? (Atto ID. Le sole visioni d’esterno rimangono allo stato di progetto: si progetta una gita in mare... programmata del resto per un assassinio. E se le strade sono evocate, sono quelle d’una volta, con le loro feste,
ma ora non restano che le sedie e il materiale della festa in casa Saporito, dove si trovano le statue rotte ed abbandonate nel guazzabuglio del loro deposito-magazzino che funge da abitazione, e dove pendono a grappoli, dal soffitto, sedie polverose ed inutilizzate che fanno pensare ad una chiesa a rovescio. E se la famiglia Cimmaruta esce alla fine del primo atto, è per ritrovarsi guardata a vista, dunque di nuovo chiusa in questura. Da un punto di vista figurativo, per sfuggire al loro presente, i personaggi scendono nel più profondo del loro essere per ritrovare la loro purezza d’infanzia: Pasquale era un ragazzino dal costume alla marinara, Michele un bambino che sognava le operette... Ma i muri hanno i loro segreti: né i mattoni dietro la credenza, né la parete che separa la camera di Matilde dal piccolo corridoio parleranno. I personaggi sono imprigionati fra le loro stesse pareti, regna la legge del silenzio, l’hanno forse imparata durante il fascismo e la guerra. E se arriveranno a liberarsi è, come vedremo, attraverso strani sogni. Quali sono i sogni de Ze voci di dentro Essi sono vari e complessi; cercherò di fare un tentativo di decodificazione. I quattro sogni — voci di dentro dei personaggi — che percorrono la commedia, hanno in comune la presenza della morte. Nei primi due c’è l'omicidio nel senso vero della parola. Maria incontra per strada un mendicante al quale spara con una pistola seguendo i consigli del verme bianco dalla testa nera. Il mendicante si trasforma in fontana, in una fontana
2 Appoggiandosi a questa visione la scenografia della rappresentazione francese presentava una cucina che si apriva come a scatole cinesi su un’altra stanza, una specie di caverna di Alì Babà dei fratelli Saporito, la cui porta centrale si apriva su luoghi chiusi e bui.
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di sangue ove Maria beve, nutrendosi così del sangue del mendicante che lei stessa ha ucciso. Rosa sogna un capretto, lo strangola, lo cucina e quando lo presenta a tavola alla famiglia, si accorge che è un bel bimbo biondo e riccioluto, ma tutti ne mangiano con piacere. Questa donna non ha avuto bambini e si è attaccata affettivamente al nipote Luigi anche se lo ritiene ora troppo «sfasato»; l’ha visto crescere accanto a lei come il bambino riccioluto del sogno. Ora sospetta con convinzione del nipote fino a crederlo un assassino. Nel suo inconscio c’è assimilazione tra il nipote, oggi adulto, ed il bimbo che lei mangia dopo l’uccisione. Il capretto, poi bimbo, può essere la trasfigurazione del nipote. Rosa si ritiene responsabile di non aver saputo educare Luigi, creduto assassino e perciò forse si sente indirettamente colpevole, sino a chiedere di sostituirsi a lui nella espiazione della pena, dopo averlo accusato. Terzo sogno, appena accennato: anch’esso di morte; Teresa Amitrano ha fatto un sogno che ritiene premonitore: ha sognato di aver perduto tutti i denti; nel simbolismo popolare è un presagio di morte. Lei stessa lo dice nella scena finale del secondo atto, allorché le è
annunciata la scomparsa del marito. L'ultimo sogno sul quale si impernia tutta la commedia è quello di Alberto, che fantastica un assassinio e ne incolpa tutta la famiglia adducendo delle prove che mai si troveranno. Ma anche in questo caso il sogno è premonitore, perché in effetti i membri della famiglia, messi in subbuglio dalla serie di false circostanze rivelate da Alberto, giungeranno ad una situazione prossima all'omicidio dello stesso loro accusatore. Un aspetto curioso a cui credo si possa dedicare un accenno di analisi, è l’onomastica:
Saporito (i fratelli Alberto e Carlo), Aniello
(Amitrano), Pasquale (Cimmaruta). Quando Rosa racconta il sogno del capretto, sottolinea quanto quello sia «saporito»... È un caso o un richiamo cosciente nella scrittura di Eduardo? Ed ancora il capretto,
come l'agnello, ha un significato sacrificale nell'immaginario collettivo; nel sogno di Alberto, la vittima, cioè colui che è sacrificato, è Aniello, l’Amitrano. Infine Pasquale, il Cimmaruta (ma anche questo
nome sembra richiamare il motivo biblico dell'agnello o capretto pa-
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squale ), dà un appuntamento della chiesa di San Pasquale. oscillazione tra realtà e sogno. neare l’aspetto completamente
ad Alberto (per ucciderlo) all'angolo Spunta ancora questo nome in una E qui, la scenografia potrebbe sottolifantastico della commedia.
Ma le voci di dentro, sinora sentite attraverso i sogni, circolano
anche in modo più sottile tra personaggio e personaggio: Zi’ Nicola, che si esprime in un linguaggio pirotecnico — non per le parole che usa, ma per il rumore dei «botti» e dei fuochi d’artificio che accompagnano le sue apparizioni — influenza forse tutti i personaggi con la sua presenza insolita: per dare il segnale della propria morte accende un bengala verde. Verde, colore della speranza o colore di «via libera»? Solo prima di morire pronuncia le uniche parole: «Per favore, un po’ di pace. Si può notare che il linguaggio di Zi’ Nicola, fatto di fuochi artificiali, tenta di sostituirsi alle insufficienze della comunicazione
verbale, magari agli inganni della parola sviata dagli uomini; e Zi’ Nicola cerca di ritrovare una specie di linguaggio dell’infanzia che si esprime attraverso oggetti insoliti che esplodono in aria con rumore. Il tema della morte non è solo nei sogni, ma anche nei dialoghi. I morti «restano con noi» — dice Alberto. «Restano con noi. Vicino a nuie!... Restano dint’ ’e ssegge... dint’ ’e mobile... A notte sentite: “Ta...” È nu muorto ca s'è mmiso dint’ ’o llignamme ’e nu mobile...» (Atto D). Anche nei segni si allude alla morte: il portone a metà chiuso di cui parla il portiere rappresenta un rito funerario. Non lo chiuderà per un riguardo verso una persona del palazzo — la signora Ferraris — che non sopporterebbe tale rituale di morte, essendo lei stessa malata di cuore. Il motivo del cuore malato, che sta per cedere alla morte, si trova anche nel sogno simbolico di Maria. Lei vede il suo cuore correrle davanti staccato dal corpo, e grida «Fermati... Io comme campo senz’ ’o core...». Siamo nel ‘48, dopo la guerra. Questo appare come il simbolo delle persone sopravvissute alla guerra, egoiste, cioè senza cuore,
prive di vita spirituale. Voci di dentro o voci della coscienza. Nella commedia c’è tutta la colpevolezza dell’Italia che Eduardo denuncia: i morti del fascismo, le guerre, l’assenza di rispetto e di stima reciproca che conducono al delitto, e la ricerca del bene materia-
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VG,
le. Eduardo osserva la perdita dei valori morali. È l’Italia dell’«Ognuno per conto suo che Eduardo, sconfortato, mette in evidenza e traduce attraverso i segni e i sogni dello spettacolo. Ma il disordine sociale, che si scatena ancora di più a seguito di una falsa denuncia, maschera un disordine, in un certo modo, onto-
logico: qui il sogno, l’inconscio, l’Es sembrano quasi mostruosi: rivestono, per così dire, le parole e gli atti di personaggi così ordinari che qualsiasi persona potrebbe identificarsi in loro. Ma l’Es, l’inconscio dell’«altra scena», come è definita da una corrente della psicanalisi, si palesano non perché i personaggi sono liberati come belve, la cui gabbia — il Super-Io — è stata lasciata aperta per errore, ma perché, se l’Es non si lasciasse vedere di tanto in tanto, le crisi dell’uomo
sarebbero ancora più violente e drammatiche. Il richiamo all’ordine in occasione di piccoli drammi che potrebbero prendere una brutta piega e finire tragicamente, senza tuttavia che la commedia perda dal punto di vista del ritmo la sua vis comica, è un avvertimento. Per Maria, abbiamo visto, l’Es appare attraverso il suo incubo di vermi, di pioggia e di sangue; per la padrona, Rosa, attraverso il sogno del capretto e del bambino riccioluto. Ma chi prende atto di questi sogni premonitori? Nessuno. Poi arriva l’allucinazione di Alberto, che ha fantasticato un delitto perpetrato dai vicini. Nel secondo atto arriva l’ora della verità. L’Es si ritrova sul paicoscenico: infatti lo scenario del secondo atto, descritto con una grande precisione da Eduardo, con quello straordinario accumulo di 0ggetti, con quel groviglio inestricabile di cose irrisorie, è una metafora della confusione della psiche dei personaggi. In questo quadro, i membri della famiglia Cimmaruta si accusano a vicenda di essere assassini; nel terzo atto hanno in progetto di uccidere veramente Alberto, delitto che poi non avverrà. Ma ci dovrà pur essere un mezzo per uscire dal tormento di que-
sta vita spaventosa, in cui l’uomo non ha altra alternativa che quella d’immaginare il suo prossimo come un criminale, o quello di progettarne l'uccisione? E questo mezzo sembra che Zi’ Nicola voglia spiegarlo dall’al di là sempre con «botti», ma la sua solita «chiacchierata pirotecnica» è diventata indecifrabile, anche per colui che gli era così
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vicino durante la sua esistenza e lo capiva: Alberto, il solo che sente il messaggio. L’ambiguità scorre attraverso tutta la commedia di Eduardo. Le voci di dentro non termina né con una nota ottimistica, né con
una condanna definitiva. C'è qualche cosa da fare? Ma che cosa? Eduardo de Filippo non finirà mai di avvertirci, o meglio ancora di indicarci una via, di far vibrare una voce che uno crede di vedere o
crede di sentire in mezzo a quella nebbia luminosa che, nelle mattinate di novembre, si alza talvolta sul mare di Napoli. Ed è forse il significato del raggio di sole finale che illumina i due fratelli Saporito, fratelli nemici ma comunque fratelli. La Grande magia sembra svolgersi in ampi spazi e sviluppa un movimento diverso da quello delle Voci di dentro: le scene del primo atto si svolgono all’aperto nel giardino dell’albergo sul mare; il secondo atto, invece, in casa di Otto Marvuglia e il terzo nella casa semibuia di Calogero di Spelta. C'è dunque una progressiva riduzione della luce e dello spazio, che finiscono per essere concentrati sulla scatola giapponese, una specie di nuova scatola o vaso di Pandora. Ma vediamo la trama. La giovane Marta, moglie di Calogero di Spelta, abbandona all'improvviso il marito per fuggire con un amante, grazie all'intervento di un povero mago di periferia durante uno spettacolo di illusionismo: il mago la rinchiude in una scatola, esattamente in un sarcofago a due porte. Quando Calogero chiede la riapparizione della moglie, Otto Marvuglia, il mago, gli dimostra che è stato proprio lui, Calogero di Spelta, a far iniziare il gioco e che la donna è ormai rinchiusa dentro una scatola giapponese che Otto offre al povero marito. Se la apre e ha fede, la moglie tornerà. Passa qualche giorno. Invano Calogero si presenta in casa del mago con un brigadiere di polizia; il mago cerca ancora di illudere il disgraziato marito. Calogero, in preda alla grande magia, si convince che il tempo
non esiste, che un giorno il gioco finirà, e non lascia mai la scatola nella quale è racchiusa tutta la sua fede. Quattro anni sono passati, la moglie torna, ma Calogero rifiuta di considerare il gioco finito, congeda tutti e resta con la sua scatola ben chiusa, scegliendo così l’illusione.
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TUTI
È Calogero, il personaggio centrale della Grande magia, un rappresentante esemplare della condizione umana, o invece una specie di caso eccezionale che avrebbe varcato la soglia della follia? Calogero di Spelta è come Enrico IV, insieme vittima e non, dell’inganno,
del gioco d'’illusione fatto a spese sue dal mago Otto Marvuglia. Il personaggio per certi aspetti è pirandelliano. Enrico IV è pazzo o finge la pazzia, e ciò gli permette di sfuggire alla realtà ma anche di raggiungerla. La sua pazzia è indecifrabile o «indecidibile», come dicono i logici. Nell'opera di Eduardo ci si domanda analogamente se Calogero crede di trovarsi nel giardino dell’albergo alle prese con il giuoco di prestigio — sognando gli avvenimenti che si svolgono in seguito —, 0 finge di crederci, per non dover ammettere a se stesso la vergogna di non aver saputo tenersi la moglie. Ma la pazzia di Calogero, se pazzia c’è, è forse ancora più sovversiva di quella di Enrico IV. La follia di Enrico IV, diviso fra imperatore e borghese, non sembra essere un’esperienza sublimante. Per Calogero è probabilmente un’esperienza mistica che ci porta molto lontano, al punto di farci giungere alla constatazione che la nostra vita è solo un gioco organizzato da qualche mago supremo, in cui tutti saremmo costretti, mediante qualche tecnica spirituale (come l’abbandono a questo miscuglio d’istinto e di spontaneità che propone Otto al terzo atto), ad arrivare a terminare quel gioco per ritrovare gli
incanti del paradiso perduto, con il mormorîo delle onde: «Si sente... si sente... È mare... È mare...» (ultime parole del secondo atto); o ancora con la visione abbagliante dei colori che si rifrangono fra cielo e terra: «E forse troverai il tesoro ai piedi dell'arcobaleno, se la porterai con te ben chiusa, sempre (si riferisce alla scatola e sono le ultime parole della commedia). Possiamo, mi pare, riferirci alla fraseologia, ai discorsi del mago Otto Marvuglia, benché si consideri generalmente la sua fraseologia come un’accumulazione di sentenze prive di senso, che comportano solo una vernice mistico-filosofica. Cito Otto Marvuglia: «Tu credi che il tempo passi? Non è vero, il tempo è una convenzione... Dunque il tempo sei tu...». Poi: «Che significa un muro? Che cos'è un muro se non un giuoco preparato? Dunque devi essere d'accordo che
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non esiste...». Poi: «Jo che esercito la professione dell’illusionista, mi presto ad esperimenti esercitati da un altro prestigiatore più impor-
tante di me... e così via, via, fino alla perfezione... Ecco il giuoco prodigioso dell’illusione! (Atto II). Tutte queste affermazioni riprendono concezioni metafisiche o religiose molto antiche (il mondo considerato come soggettivo e non esistente) ma trovano qui un’espressione
nuova. Io credo di non essere infedele al pensiero di Eduardo proponendo un’interpretazione in chiave psicanalitica che fa apparire il simbolico e l’immaginario come ormai destinati ad avere ruoli uguali nella comunicazione intersoggettiva. (Adopero la parola «simbolico» nel senso lacaniano: essa si riferisce all'apparizione dei significanti, delle parole, delle convenzioni, a tutto ciò che sostituisce l’esperienza dell'immaginario vissuto nell’intimità materna prima che s'imponga la fase edipica). Intuiamo allora uno dei significati possibili di questa ricerca onirica: l’immaginario narcisistico e onnipotente parte alla ricerca della «madre perduta», secondo il concetto lacaniano,
cioè della natura primordiale che ne è il riflesso. L’immaginario oppone a questo mondo opprimente solo apparenze create dalla nostra attività mentale e «atavica», come dice Otto Marvuglia: «Jo, in possesso del terzo occhio, non ho fatto altro che fermare nel tuo cervello una convenzione atavica irradicata e dare al tuo pensiero immagi-
ni mnemoniche, le quali, a loro volta, ti danno per cosa reale certe sensazioni che possono semplicemente definirsi fenomeni di pura coscienza atavica: il tempo! (Atto II; parole che farà sue Calogero alla fine dell’opera. Certo è un linguaggio parodistico, clownesco, ma attraverso il filo del discorso, cerchiamone il senso. L’elemento simbolico richiede un ordine obiettivo delle cose,
«convenzioni significanti» probabilmente qui chiuse nella scatola giapponese che Calogero non lascia mai. Questa rappresenterebbe forse la dinamica del desiderio secondo la terminologia di Lacan: vale a dire il va e vieni del desiderio fra il soggetto (Calogero) e l’oggetto (Marta): forse è questa una chiave possibile di lettura. Cosa di più edipico di questo «padre» (il mago Otto) che mette fra le mani del figlio (Calogero) quello strumento di tortura del tutto castrante: se apre la scatola, rischia la perdita dell’oggetto del desiderio
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(Marta), ma se la lascia chiusa, vale a dire evita questo rischio, rinun-
cia per sempre ad avere Marta... Alla fine del terzo atto, il mago, cioè il «padre» fra virgolette, è cacciato via, ma rimane presente attraverso l'oggetto simbolo (la scatola), legato ormai alla persona di Calogero. Marta, la sposa pentita che in chiave psicanalitica rappresenta «a cattiva madre» colpevole d'aver abbandonato il bambino, è cacciata via. Alla fine, Calogero si ritrova solo, con la scatola chiusa, accettando di vivere nel suo immaginario, cioè senza svegliarsi, ma ricco di un’e-
sperienza che gli permetterà di esplorare le misteriose sponde della Vita autentica.
Ben lontano dal rifugiarsi nella pazzia, Calogero, quando rifiuta d’aprire la scatola, ammette in qualche modo senza saperlo, ciò che Lacan chiama «a realtà dell’inconscio», cioè la realtà della mancanza, della castrazione simbolica, l'accettazione di un’interdizione che lo costringerà a non poter mai scegliere fra il dubbio e la fede nella fe-
deltà della moglie. Nella bellissima regia di Strehler, il senso della fine era però cambiato, poiché Franco Parenti (Calogero) apriva la scatola allorché Marta era già riapparsa qualche secondo prima che lui prendesse la decisione. Queste due commedie rappresentano un teatro dell’allucinazione dove l’allucinazione è considerata come degna di verità, dove lo spettatore, appena sfiorato dal dubbio del suo valore, sceglie il sogno, la sua possibilità d’agire sul reale, il suo senso della vita e della verità. Certo è più difficile stabilire un parallelismo fra le due commedie quando si entra nei particolari delle due opere. Sono forse i sogni, le allucinazioni, o l'inconscio di un piccolo-borghese delle Vo-
ci di dentro tanto diversi da quelli dell’altolocato Calogero di Spelta della Grande magia? Non hanno forse nell’una e nell’altra commedia una funzione vitale? Nella prima commedia per risolvere drammaticamente una situazione d’insoddisfazione, di gelosia, in quel nido di serpenti formato dalle due famiglie d’inquilini; nella seconda, per permettere a Calogero di Spelta di illudersi sulla fedeltà della moglie. Alberto, elucubrando le prove d’un delitto, giunge a denunciare la corruzione della società. Calogero indicava una vaga direzione, era alla ricerca di un premio dopo la sua rinuncia: «il tesoro ai
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Huguette Hatem
piedi dell'arcobaleno». Guidato dal mago nella sua ricerca, si sbarazza di Otto affinché il suo sogno diventi realtà. Alberto sceglie un altro cammino, aiutato da Zi’ Nicola. E poco importa di sapere se il linguaggio pirotecnico che Alberto non capisce più dopo la morte dello zio, è o non è illusione, giacché Alberto è il solo a sentirlo insieme
agli spettatori. Essere il solo a sentire il messaggio non significa necessariamente isolarsi dalla società: è invece l’inizio d’un rinnovamento dei legami interpersonali basato su tale rivelazione; non capire il messaggio è meno grave di non aver ricevuto alcun messaggio: anche se è indecifrabile, tutta la vita d’Alberto può esserne cambiata. Con Le voci di dentro non siamo più in presenza di un caso, ma di un'illusione collettiva o più esattamente di diverse manifestazioni, in apparenza indipendenti, ma legate fra di loro: i sogni irrequieti di Maria, la professione solforosa di Matilde, la visione d’Alberto intorno alle prove del delitto commesso dai vicini, il linguaggio pirotecnico di Zi’ Nicola non sono forse esattamente il linguaggio dell’inconscio (un inconscio strutturato come un fuoco d'’artificio, per parafrasare Lacan), ma traggono la loro strumentazione verbale dai vulcani, simbolo delle forze sotterranee e incontenibili: le fiamme e il rombo. Bisogna dunque ritenere la data del 1948 come quella di una vera eruzione in cui la lava dell’inconscio si è sparsa in grandi opere eduardiane. Certo si sa — e già da Shakespeare — che «siamo della stessa stoffa dei nostri sogni» («We are such stuff /as dreams are made on»). Così, con Za grande magia, Eduardo concepisce una commedia che associa nelle stesse scene, colle stesse parole, due storie me-
scolate che non si possono distinguere, se non dal significato che acquistano in confronto ai personaggi: da una parte, una serie di avvenimenti oggettivi che si svolgono nello spazio e nel tempo abituale per tutti i personaggi della Grande magia meno Calogero, dall’altro un sogno in cui il sognatore sa che non ha abbandonato il luogo della sua ipnosi, che gli anni trascorsi nell’attesa non sono che illusione e saranno tolti alla sua esistenza appena sveglio. Eduardo va sino al fondo dell’affermazione shakespeariana: sogno e realtà sono mescolati, non vengono indicati specificamente con luci e luoghi diversi nella misura in cui si identificano con tale o talaltro personaggio, lo spettatore può scegliere di privilegiare sogno o realtà: egli può
1948-1988. Quarant'anni di «Grande Magia» e di «Voci di dentro»
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scegliere ad ogni momento o di stare dalla parte del sognatore, entrando nel gioco d’illusione proposto dal mago, o di rimanerne fuori, nella realtà dell'ambiente che lo circonda.
«E come l’attore — dice Agostino Lombardo3
+ trova la sua identi-
tà, e verità, solo sul palcoscenico (“La verità del teatro è la finzione”, scrive Eduardo), la finale difesa dell’uomo da questo mondo che è
teatro sta nel teatro stesso, nella finzione, nell’illusione che questi personaggi continuamente si creano, nel mondo alternativo in cui si
illudono di risanare le ferite del mondo reale e di cui è teatrale simbolo la scatola in cui il Calogero di Spelta de La grande magia si costringe a credere che l’illusionista Otto Marvuglia abbia rinchiuso la moglie che lo ha tradito». Eduardo ha compiuto con queste due commedie un lavoro di cui solo sono capaci i grandi scrutatori dell’uomo. Ci offre dubbiose certezze, fa sbilanciare la nostra percezione della realtà. Non ci dà solu-
zioni, ma ci fa intravvedere la speranza. Il sogno permette all'uomo di vivere e di trovare una via: gli permette di avviarsi verso la crisi, come presa di coscienza della collettività nelle sue colpevoli motivazioni o di trovare se stesso. Al di là della crisi, attraverso le prove iniziatiche del sogno o dell’illusione, l’uomo, se non soccombe, può sperare — come in quella commedia cosmica tanto amata da Eduardo al punto di tradurla in napoletano: La tempesta di Shakespeare —, di ritrovare armonia e concordia. Non si dice del resto che il suolo sul quale è colata la lava sarà più fertile dopo la devastazione?
3 Agostino Lombardo, Eduardo De Filippo da Napoli al mondo, programma di sala de La grande magia, «Piccolo Teatro di Milano», n. 3, stagione 1984-85.
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ANTONELLA OTTAI
LE DUE SCRITTURE: IL TONDO E IL NELLE COMMEDIE DI EDUARDO
CORSIVO
Le riflessioni seguenti nascono a latere di un’attenta analisi istituita tra il testo delle commedie di Eduardo De Filippo e le messinscene televisive degli anni ’60 e ’70, cercando di delineare, anche attraverso questo confronto, le strategie di una drammaturgia in cui scrittura, messinscena,
recitazione, regia televisiva interagiscono sta-
bilendo una serie di funzionalità significative. Quindi non si è trattato tanto di stabilire corrispondenze, di accertare l’esistenza di un’univocità di rapporti tra prescrizione e trascrizione, o di verificare priorità tra la scrittura e la scena, quanto di delineare le dinamiche e gli effetti di feed-back tra i diversi sistemi, in un’ottica complessiva. Anche il testo scritto quindi, indipendentemente dalle sue attualizzazioni in altri sistemi testuali (spettacolo teatrale e ripresa televisiva), si trova non soltanto a verificare la poetica teatrale di un autore nell’articolazione in cui si struttura e nelle tematiche che istruisce, ma nelle procedure che utilizza per inscrivere al suo interno la propria messinscena, o comunque l’idea di teatro che gli corrisponde. Nell’economia complessiva di un testo teatrale, l’area della didascalia è quella che in modo più esplicito funge da commutatore tra la pagina e la scena, e tra la scena e la pagina: in particolare, nel caso di Eduardo, quest'area si presenta talmente ricca di informazioni e provvida di dettagli, che sembra commutare continuamente nella scrittura quella triplice figura professionale dell’autore e proporsi come «corpo» dentro quello della commedia stessa. Un «corpo» corsivo,
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Antonella Ottai
puntigliosamente presente in quello «tondo», con una propria, autonoma letterarietà. Grazie dunque alla vastità del territorio che occupa, in un campione significativo dell’opera di Eduardo, la didascalia è stata interrogata al computer, per analizzare il tipo di informazioni e le funzioni peculiari che svolge rispetto al testo complessivo, nell’ipotesi di individuarvi lo switch di un sistema composito!. Già alcuni dati di ordine quantitativo risultano significativi: in Questi fantasmi/, ad esempio, la didascalia occupa un’area testuale pari a circa un terzo dell’intera
1 Ci riferiamo alla tesi della dott.ssa Carla Maria Ricci, dal titolo Un metodo di
analisi statistica applicata ai testi teatrali. Tre commedie di Eduardo De Filippo, discussa di recente presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Roma «La Sapienza» (rel. prof. Ferruccio Marotti, corr. dott.ssa Antonella Ottai), che affronta in realtà l’analisi computerizzata non solo della didascalia, ma dell’intero testo di tre commedie di Eduardo, selezionate secondo un criterio temporale: Uomo e galantuomo, Questi fantasmi!, Il sindaco del Rione Sanità: «dl nostro lavoro di analisi si centra su queste componenti ed effettua delle misurazioni sui testi delle tre commedie, utilizzando come unità di misura la parola. [...] Il nostro lavoro di esame del testo si è quindi basato, in una prima fase che definiamo analisi quantitativa, sul conteggio delle parole utilizzate attuando delle distinzioni tra didascalia e testo delle battute. [...] Nella seconda fase del lavoro, in cui si trattava di mettere in relazione personaggio ed elementi del testo, ci si è resi conto, per quanto riguardava la parte didascalica, che una suddivisione basata sulla semplice enucleazione di parole riferite ad un personaggio non era sufficiente ad evidenziare il contenuto prescrittivo della didascalia. [...] Per poter, invece, [...] condurre un’indagine sul tipo di prescrizioni contenute nelle didascalie, si è reso necessario sviluppare un altro percorso di analisi, definito come analisi qualitativa, che ha portato alla creazione di un archivio — gestito tramite personal computer — in cui le didascalie sono state classificate in base al personaggio a cui si riferiscono e al tipo di prescrizione che contengono. Questo archivio ci ha permesso, da un lato, di effettuare il conteggio delle parole riferite ai singoli personaggi e di allargare quindi i contenuti dell’analisi quantitativa, e dall’altra di attuare la distinzione per personaggio e per tipologia delle didascalie, raggiungendo così l’obiettivo di un'analisi sulle prescrizioni contenute nelle didascalie. La metodologia utilizzata per la costruzione di questo archivio permette inoltre di implementare l’archivio stesso con testi dello stesso autore o di autori diversi, e prevedere il collegamento con altri archivi contenenti informazioni relative agli attori, ai registi, alle critiche».
Le due scritture: il tondo e il corsivo nelle commedie di Eduardo
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commedia, e questa percentuale è rispettata, in media, in un numero di commedie, di diversa provenienza temporale. I dati a carattere
funzionale, invece, permettono di valutare la cospicuità delle differenti tipologie di informazioni presenti nelle didascalie, relazionandole ai personaggi a cui si riferiscono. Anche in questo caso è significativo notare, ad esempio, che il «peso scenico» di un personaggio non è direttamente proporzionale al numero di «direttive» che gli competono. In questa sede però ci interessa analizzare, prima ancora delle funzioni drammaturgiche complessive, o delle tracce di un work in progress, o del progetto di regia sotteso, i movimenti di una scrittura che entra ed esce continuamente dalle battute del dialogo: col proposito di individuarvi un sistema indiziario delle trasformazioni di quella figura in cui Eduardo di volta in volta si fingeva nella stesura
della commedia. Cominciamo da considerazioni di carattere generale: anche senza lavori analitici molto approfonditi, già alla prima lettura quello che colpisce, solo scorrendo le pagine delle commedie di Eduardo, è proprio l’attenzione visiva alla scena e al suo svolgersi, e la rappresentazione «spaziale» che vi è inscritta. C'è un’attenzione al quadro scenico che non viene mai meno; l’autore non affida mai il personaggio alle sole battute, il che significa che non abbandona mai il corpo attore solo perché il suo personaggio non è impegnato nel dialogo, ma si preoccupa sempre di dislocarlo nella scena, occupandolo nella minimalità delle pratiche quotidiane, nelle ossessioni dei piccoli automatismi del gesto, impegnandolo nelle complicità che lavorano lungo le direzioni degli sguardi, nei versus che presentificano rapporti, intenzioni, qualità dei sentimenti. La didascalia trascorre da una scena ad un’altra, da una battuta a un’altra, satura i vuoti e li trasforma, ove occorra, in silenzi, spazializ-
za i tempi di un discorso che si consuma a vista e che utilizza allo stesso modo
prossemiche,
sonorità, posture, gesti del volto e del
COrpo, e tutto l’universo del «fuori scena», per quel che la scena ne lascia traspirare. Contemporaneamente al dialogo, e al discorso diretto che svolge, la didascalia lavora reintroducendo nel testo la logica del discorso indiretto, la presenza forte di una terza persona che guarda
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Antonella Ottai
e ascolta insieme, esplorando continuamente le qualità sensoriali del quadro che si anima intorno a chi parla. In modo così fitto, che, per amor di paradosso, si potrebbe anche ribaltare a volte nei confronti del dialogo l’accusa di intrusione all’interno di un’altra scrittura, di interrompere una narrazione inserendo brandelli, strappi di discorso dentro il flusso prorompente del racconto visivo. Come esempio a caso, proviamo a leggere, con quest'ottica ribaltata, il ritorno di Gennaro in Napoli milionaria!, invertendo quindi il corsivo in tondo e viceversa: ADELAIDE Donn’Ama’, donn’Ama’!
AMALIA (un po’ richiamata dal vocio del vicolo, un po’ impressionata dal tono di voce di Adelaide, entra dalla «vinella» e chiede curiosa) Ch’è stato? ADELAIDE
’O marito vuosto!
GENNARO (entra dal fondo salutando con un gesto largo un po’ verso sinistra, un po’ in alto sui balconi) Grazie! Grazie a tuttu quante. Po’ ve conto... Po’ ve conto... (Veste miseramente con
indumenti di fortuna. Il berretto è italiano, il pantalone è americano, la giacca è di quelle a vento dei soldati tedeschi ed è mimetizzata. Il tutto è unto e lacero. Egli appare molto dimagrito dal primo atto. Il suo aspetto stanco è vivificato soltanto dalla gioia che ha negli occhi di rivedere finalmente la sua famiglia, e la sua casa. Porta con sé un involto di stracci, messo a
tracolla come un piccolo zaino e una scatola di latta di forma cilindrica, arrangiata con un filo di ferro alla sommità, che gli serve come scodella per il pranzo. Nel varcare la porta dà un
fugace sguardo intorno e ha un senso di sorpresa. La sua meraviglia poi giunge al colmo nel vedere la moglie in quell’abbigliamento così lussuoso. Quasi non la riconosce e, convinto
d’essersi sbagliato di porta, fa un gesto di scusa alla donna, dicendo rispettosamente) Perdonate, signora... (Ed esce). ADELAIDE (raggiunge Gennaro e lo invita a tornare sui suoi passi) È ccà, don Genna...
Trasîte... Chesta è ’a casa vosta...
‘A
mugliera vosta, ‘a vedite? Gennaro riappare incerto, quasi non osando rientrare. Guarda
ancora intorno intontito alla vista del nuovo volto della sua casa, poi i suoi occhi si concentrano su Amalia ed esprimono un
Le due scritture: il tondo e il corsivo nelle commedie di Eduardo
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che di ammirazione e di paura. Amalia è rimasta come impietrita: non osa parlare. Ha osservato lo stato miserevole del marito, ne ha subito intuito le sofferenze. Ora con un filo di voce
riesce a dire soltanto: AMALIA Gennari’... (Questo nome è proferito con un tono di voce in cui s'avverte come un’esclamazione, una meraviglia, un invito, un riconoscimento umano e anche solidale).
GENNARO
(quasi timido, come per scusarsi verso la moglie di
non averla riconosciuta subito) Ama... Scusa, ma... (Avanza di
qualche passo verso la donna; il suo volto si contrae in una espressione di dolore. Vorrebbe parlare, piangere, dare in ismanie gioiose, ma riesce appena
a formulare
un nome)
Ama?’... (Marito e moglie si abbracciano e si stringono teneramente. Amalia istintivamente piange. Gennaro con voce di commozione) Nu sèculo, Ama’... (Amalia pignucola; egli si asciuga una lagrima). Nu sèculo... (Scoppia in pianto) ?.
Siamo di fronte ad un sistema di scrittura che si rende trasparente alla scena e che rivela l'economia teatrale unica del doppio regime a cui si sottopone: esiste un universo, impossibile al discorso dialogico, che Eduardo sottrae alle battute e affida all’azione, al corpo/attore, al sistema del teatro. E, a loro volta, le battute, liberate da ogni funzione descrittiva, esplicativa del carattere, dell'atmosfera, del mi-
lieu, per un verso riconsegnano al personaggio il gioco delle implicitazioni, e per l’altro ristabiliscono tra quel che si vede e quel che si dice la possibilità di lavorare quasi in rapporto di scena/controscena. La teatralità che ne scaturisce, deriva anche dalla sottile dinamica dei
rapporti tra visibile e dicibile e la scrittura governa fino in fondo questo processo. Ma non si tratta solo di questo: se si analizza la didascalia delle commedie di Eduardo per trovarvi la perfetta specularità con la scena che le traduce o che le dovrebbe tradurre, si vede subito che
2? Eduardo De Filippo, Napoli milionaria!, in I capolavori di Eduardo, Torino, Einaudi, 1973, p. 220.
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Antonella Ottai
l’una contiene più funzioni di quante l’altra riesca ad assorbire. Restituiti al corpo, alla voce, allo spazio, agli oggetti tutti gli elementi loro pertinenti; sovrapposta all’azione agita la pagina che la scrive — o che la registra — , questa finisce con lo smarginare in alcune parti. Esiste quindi nella scrittura un residuo, un resto «scenicamente intrattabile», un luogo proprio che resiste al trattamento teatrale, e di cui la scena non riferisce. In questo luogo, a ben guardare, abitano diverse figure, quelle in cui l’autore si propone nel testo, e quelle a cui di volta in volta si propone, implicitandole idealmente. Proviamo a seguirne alcune epifanie, per esempio all’interno della «descrizione d’ambiente, rituale d’apertura di ogni commedia: «la stanza da pranzo di casa Cupiello», «o vascio ’e donna Amalia Iovine, il «grande camerone d’ingresso che disimpegna tutte le camere dell’antico appartamento» di Questi fantasmi, d’ampia e linda cucina» di Sabato, domenica e lunedì, e così via, indicano le scene di Eduardo come scene preva-
lentemente d’interni, a cui viene attribuita spesso una popolazione inequivocabile di oggetti e requisiti, identificabile in uno stile preciso: il brutto ottocento di Napoli milionaria, il seicento di Questi fantasmi, il novecento di Filumena Marturano, l’antico e il modernissimo insieme di Sabato, domenica e lunedì. Siamo nella parte più propriamente prescrittiva della didascalia, dove viene messa a regime la macchina teatrale e la sua immagine scenica, dove lo spazio viene definito nelle sue virtualità rappresentative. «Per la vicenda che mi accingo a narrare la disposizione d’obbligo è la seguente», inizia Questi fantasmi!, mentre la didascalia di Napoli milionaria! dopo aver elencato un numero non indifferente di oggetti, lascia al regista la scelta degli altri, non senza assegnargli però l’ambito ristretto del «brutto ottocento». Cifoniere, santi sotto vetro, batterie da cucina, letti
disfatti, tavole imbandite apparecchiano, ad apertura di sipario — e di commedia — quel teatro delle azioni quotidiane che i gesti attiveranno, ora come pratiche che figurano la familiarità degli affetti e dei sentimenti, ora come rituali, dove pratiche e gesti si sublimano in mi-
nisteri il cui protocollo contiene, per osservanza e trasgressione, il prorompere del conflitto3. Ogni inizio scena quindi assegna con 3 Per l’analisi delle pratiche quotidiane e dei rituali domestici in Eduardo, in par-
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estrema precisione una dotazione pertinente di oggetti, come se la
cura dei dettagli aiutasse a figurare non tanto il reale ma la teatralità del reale nei piccolissimi particolari quotidiani e la scena costituisse un sistema di messa a fuoco che tanto dilata, finché inquieta. Con attenzione quasi ossessiva, la didascalia iniziale rende conto del funzionamento dello spazio scenico, del sistema di entrate e di uscite, delle linee di forza e delle zone di gravitazione che attraversano la scena: il linguaggio che le designa è estremamente tecnico, spesso lavora in economia, per elisione del verbo, fornendo alla commedia un vero e proprio disegno spaziale. Da questo punto di vista, «o vascio ’e donna Amalia Jovine» è sufficientemente esemplificativo: affollato di oggetti, a predisporre la pluralità e la commistione delle pratiche che vi si svolgono, risolve nella presenza della vetrata di fondo il rapporto con quell’ «esterno/interno» che è dato dal vicolo, e allo stesso tempo, la sua vocazione a concludersi. Vocazione che persiste, persino quando lo studio televisivo lo fornisce di esterni, o quando la scena sfonda nel set. Questa disposizione, il cui schema ricorre spesso, permette alla scena di lavorare altrettanto bene, ai fini della commedia, quello che
mostra e quello che lascia intendere: fori, trasparenze, anfratti, porte in quinta e vetrate in fondo, amministrano tutto l’universo del «fuori scena» (quando non è lo stesso ribaltamento di questo verso la platea ad osare metafore più forti, come accade in Questi fantasmi!, oppure ne La grande magia, o in Sik-Sik, l'artefice magico, ecc.); inoltre
ticolare dei pranzi e della loro geometria del conflitto, cfr., tra gli altri, il saggio di Franca Angelini in questo stesso volume, Eduardo negli anni trenta: abiti vecchi e nuovi, p. 15 sgg., ed anche: Antonella Ottai, Mille e una scena, in Eduardo, Teatro TV Vita, a cura di Ferruccio Marotti, Videoelectronics, Roma
1989. Un'analisi della
scena in Eduardo, in relazione anche a quella di Pirandello, si trova in Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo, Roma, Bulzoni, 1988, p. 203 sgg. Cfr. anche Antonella Ottai, Lo spazio del dramma e il luogo della scena. La «casa» nel teatro di Eduardo de Filippo, in Rappresentare. La messa in scena dell'immagine, Quaderni Di, 8/1989, Napoli, Liguori, pp. 35-44. 4 Per un’analisi specifica della traduzione della scena negli studi televisivi, cfr. Valentina Valentini, Teatro in immagine, Roma, Bulzoni, 1987, vol. II, pp. 122 sgg.: e Paola Quarenghi, Lo spettatore col binocolo, in Eduardo. Teatro TV Vita, cit.
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Antonella Ottai
una «casa nella casa» — «un tramezzo costruito con materiali di fortuna, che guadagnando l’angolo, forma una specie di cameretta rettangolare angusta»5 — permette ig questo caso a Gennaro Jovine (così come un soppalco con tenda aveva permesso a Zi’ Nicola ne Le voci
di dentro) lunghi «fuori scena», di esserci e non esserci, di vedere senza essere visto. E ancora una «camera di là», «in prima quinta a sinistra», appunto, proietta in scena tutta la carica simbolica di Rituccia, personaggio assente, e della sua malattia, che è la malattia del vicolo
che trapela dal fondo, e la malattia di Napoli. Nella lunghissima didascalia iniziale che, come dicevamo, rende conto del sistema spaziale come luogo delle presenze e delle assenze, il punto di vista — quello che descrive la scena in quanto assume un punto da cui vederla — cambia diverse volte. La minuscola cameretta che rende presente Gennaro come voce ma ne nasconde il corpo e ne dilaziona l’entrata in scena, è vista tutta dal di dentro, dalla parte di chi l’abita e dice molto di più di quel che sarà possibile vedere dalla platea. Viceversa l’affollamento di oggetti presenti nel «va-
scio» dovrà dar conto «delle difficoltà di traffico, cui è sottoposta la famiglia, spesso numerosissima, che abita simili ambienti». In questa descrizione c'è un rapido passaggio dall’attore che si chiude addosso il proprio abitacolo, dopo averlo fornito degli elementi necessari al suo stare in scena, a prescindere dalla loro visibilità stessa, all'autore che per situare i suoi personaggi si riferisce ad una Napoli risaputa, di cui condividere la memoria con il metteur en scène. E questa memoria del luogo, che si produce in racconto, senza che sia necessario per questo tradursi in spazio e visione, ritorna in modo più forte
ancora ne Il sindaco del Rione Sanità, che peraltro adotta lo stesso impianto scenico (interno sfondato da una vetrata finale, porte in quinta, ecc...). Una lunga descrizione d'ambiente inframezza i primi gesti che avviano la commedia: nel silenzio in cui questi si orchestrano, la didascalia parla e racconta che:
? Per questa e per le altre citazioni di Eduardo, ove non sia espressamente indicato, vedi / capolavori di Eduardo, cit.
Le due scritture: il tondo e il corsivo nelle commedie di Eduardo
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dalla strada giunge un suono chioccio di sonagliere sospese al collo di denutriti cavalli che stentano a tirare i carretti colmi di ortaggi destinati ai mercati generali e roche voci di conducenti assonnati che ripetono i canti popolari tramandati di padre in figlio.
Questo «affetto ai luoghi» chiama in prima istanza non tanto uno spettatore, quanto un lettore, a perdersi per un attimo nel mondo del fuori scena, in una complicità di «amorosi sensi». Se passiamo dalla descrizione dell'ambiente a quella che introduce i personaggi, troviamo la medesima abbondanza di dettagli, relativi all'aspetto fisico, all’abito, al modo di muoversi e di parlare, anche
quando, come la Peppenella di Napoli milionaria! non hanno che una sola e rapidissima comparsa in scena. C'è più — anche in questo caso — della pura indicazione di un physique du réle, o della pratica capocomicale che già in sede di stesura consegna il personaggio all’attore che lo impersonerà: c’è piuttosto un’amorosità, una pietas, una
poesia della persona, che tratta e trattiene la figura nella narrazione prima che l’intreccio la declini nell'azione. E di questa sospensione di nuovo è partecipe un lettore, sia pure quello della locandina, in cui si trasferisce l'elenco dei personaggi di Questi fantasmi/, ironicamente designati come «anime. O quello, più legato invece alla forma del libro, a cui sono rivolte le istanze narrative che accompagnano in scena
i protagonisti di Filumena Marturano e li collocano ai «quattro cantoni», dove «sembra che stiano per divertirsi come dei bimbi, ed è la vita
invece che li ha scaraventati così, l’uno contro l’altro. Pausa lunga». Ma per quanto la pausa lunga risarcisca lo spettatore di quel che la didascalia ha già raccontato al lettore, lasciandogli intuire in termini di spazio il peso della rete di relazioni preesistenti che allaccia tra loro i personaggi stessi, difficilmente però questi potrà sapere dalla conformazione della scena e dall’atteggiamento degli attori che, ad esempio, il padre di Domenico Soriano, «Raimondo, era uno dei più ricchi e furbi dolcieri di Napoli che aveva fabbriche a Vergini e Forcella, nonché negozi accorsatissimi a Toledo e Foria» e che «non aveva occhi che per lui». Né tanto meno saprà dei capricci di Don Domenico, che si raccontano ancora a Napoli; la messinscena del passato, infatti, in questa
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Antonella Ottai
commedia pertiene ai lunghi monologhi di Filumena, o al monologo unico, ma esemplare dal punto di vista delle storie di vita con cui i personaggi secondari entrano in rapporto con la storia principale, di donna Rosalia Solimene: la coppia Filumena-Rosalia trova nella dimensione della memoria le ragioni «epiche» della solidarietà, di contro alla coppia Domenico-Alfredo, a cui il ricordo fornisce solo le ragioni «comiche» della complicità. Non a caso, quando servo e padrone evocano le imprese giovanili di cui sono stati protagonisti, si genera, per sfasamento, confusione e perdita dell’oggetto stesso del ricordo, la struttura dell’equivoco. Quello che la parte dialogica allora sottrae ai personaggi in termini di dramma, la didascalia iniziale risarcisce in termini di narrazione.
La pura enunciazione dell’antefatto immediato — la finta morte inscenata da Filumena — contiguo al tempo scenico nello spazio della «pausa lunga», che gela quello che è appena successo in quello che sta per succedere, riconduce la scrittura dentro la visione della scena, e torna a far coincidere il lettore con lo spettatore. In Sik-Sik, l'artefice magico, in un primo tempo, mentre in retro-
scena si improvvisa la sostituzione e si preparano le basi della doppia finzione della scena successiva, il testo dialogico prevale sulla didascalia e questa si limita a presentare i personaggi; ma nella seconda parte, quando l’azione comprende tanto la scena che il pubblico della misera performance di Sik-Sik, allora la scrittura assume effetti-
vamente un doppio binario. Alle battute rimane la parte di finzione, al sistema della didascalia tutto il resto; che è poi quello che non può essere detto, ma che costituisce l’evento scenico effettivo, in cui le battute funzionano quasi da contrappunto ad un altro discorso. La didascalia dà conto di un sistema scenico in cui azioni, espressioni, cenni, ammiccamenti trovano una scrittura trasparente che mette a vista l’intreccio nel gioco degli sguardi, nel concerto delle tonalità, attentamente ritmate dai versus. Quando il povero Sik-Sik in scena non riesce ad aprire la cassa in cui è rinchiusa la moglie incinta, nes-
suna delle parole che ha a disposizione viene spesa per indicare ansie e disperazione, a rivelare cedimenti nella finzione che deve espletare. Questi sentimenti sono indicati nella didascalia, che però non si limita a comunicare solo i gesti e i toni che li devono tradurre,
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al di là e al di sotto del discorso diretto: se organizza il meccanismo comico nella accurata ripartizione tra quello che si sente e quello che si vede, se enuncia la resistenza dell’uno ad accogliere l’altro e
lo scollamento tra ciò che si preannuncia e ciò che segue, racconta anche però la pietà per il personaggio e le sue vicende. E proprio quella pietà, residua rispetto al sistema di trascrizione scenica, che denuncia l’amore dell'autore per un personaggio che poi interpreterà come attore, fa decollare l’atto unico dalla matematica della gag all'umanità della commedia. Grazie anche all'impiego di una specie di «effetto di realtà», che questo percorso autore/attore/personaggio sortisce e che lascia intendere la finzione come una metafora del reale. A rafforzare il quale, l’istante prima che il sipario si levi, nello spazio di una pagina, premessa alla descrizione della scena, prende parola la prima persona: è il palcoscenico che guarda la platea, l’antefatto diventa la personificazione stessa dell’attore nel personaggio: Sono le ventuno e trenta. Il pubblico si affolla davanti al botteghino. Fra un quarto d’ora avrà inizio lo spettacolo. Ecco l’unico istante, nel quale sento la responsabilità formidabile del mio compito: questa folla è anonima, sconosciuta, esigente. E mai come in questo istante io sono fuori, ancora completamente fuori del cerchio della finzione. |...) Fino a che la luce della ribalta non m’acceca con le sue piccole stelle luminose e il buio della sala non spalanca il suo baratro infinito [...]. La tela si leva. Ecco le piccole stelle. Ecco il baratro. Ecco l’attore °.
Eduardo si è inserito a sua volta dentro il «teatro nel teatro» per dichiararsi, o per fingersi ulteriormente, ma in fondo è lo stesso: la veri-
tà della sua trasformazione, l’esperienza dell’attraversamento del vuoto, ogni sera uguale e diversa, che la fonda, produce il raddoppiamento della finzione scenica. L’io si affaccia alla scrittura a denunciare lo smarrimento d’identità — il vuoto, appunto — che precede il levarsi del sipario, ma allo stesso tempo l’io si dichiara quando l’equiva-
6 Eduardo De Filippo, Sik-Sik l'artefice magico, in Cantata dei giorni pari, Finaudi, Torino, 1959, p. 121.
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Antonella Ottai
lenza istituita tra persona, personaggio e attore gli permette di giocare indifferentemente nell’uno o nell’altro elemento le proprie ambiguità costitutive; di lavorare lo stesso «effetto di realtà» dell’espressione in prima persona per esplicitare la verità della finzione. E c'è proprio una sottile ironia nel fatto che questa confessione di un processo di personificazione, che per compiersi nell’attore ha bisogno di perdersi nello spettatore, preceda proprio la messinscena di tutte le materiali difficoltà che trattengono il povero Sik-Sik al di qua della barriera e che lo costringono a lavorare sempre contemporaneamente sul doppio versante, della platea e della scena. E comunque, quest’io vagante tra i diversi elementi della commedia chiama in gioco solamente un lettore, e stabilisce una comunicazione esclusiva, quasi complice, verso un antefatto che, come dicevamo, è quello stesso della convenzione di cui si partecipa, divenuta confidenza. Una confidenza di «vissuto» in prima persona, che riconnette all’interno della comunità teatrale — e della sua esperienza peculiare — autore, dramatis personae, spettatore e lettore. Ma il lettore che gode di questa confidenza è solo quello dell’edizione Einaudi del ’59, l’anno della prima edizione delle commedie di Eduardo. Nelle edizioni successive, questa breve premessa è destinata a scomparire, e la scena, come di consueto, torna ad aprirsi con la
descrizione degli arredi e della loro disposizione nello spazio scenico; subentra inoltre una lieve variazione nella presentazione di Giorgetta e del suo stato di gravidanza; il resto della didascalia — e della commedia — rimane immutato. Ma queste variazioni dicono che indubbiamente un’analisi corretta della didascalia e del sistema di scrittura che ne trapela, deve confrontarsi anche con l’evoluzione del testo, dal copione, alla pubblicazione, alle successive edizioni, anche
se questo non è oggetto specifico della presente relazione. E da questo punto di vista sarebbe interessante osservare il destino dei diversi «a soggetto», dal copione alle prime edizioni. Ma fermiamoci prima: il numero stesso delle edizioni Einaudi sta ad indicare sicuramente che tra data di scrittura, di messinscena, di pubblicazione ristretta (riviste
varie), di pubblicazione di successo, si è andato formando un pubblico di Eduardo che ha la doppia qualità di spettatore e di lettore, qualità non necessariamente coincidenti nella stessa persona: certo,
Le due scritture: il tondo e il corsivo nelle commedie di Eduardo
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vi saranno alcuni lettori di Filumena Marturano che sapranno con tredici anni di ritardo, rispetto al loro essere spettatori della stessa commedia, i trascorsi di don Mimì, ma ci saranno anche, allo stesso modo, lettori che li sapranno in anticipo, rispetto alle messinscene successive. Certo è che ci sono lettori, e lettori di tutto il mondo — nonostante le difficoltà del dialetto, molto più presenti nella lettura,
per chi non è napoletano, che non nell’ascolto. Di questo ampliarsi e consolidarsi di un pubblico di lettori, però, non è solo la didascalia che deve rendere conto, ma il testo nel suo complesso, l’attenuarsi
ad esempio delle forme più forti del dialetto, 0, appunto, la soppressione e l’esplicitazione degli «a soggetto». Ma per concludere e riassumere il nostro discorso: quella zona residua, sottratta allo spettatore da una scrittura che si dà tutta allo spettacolo e di cui abbiamo inteso decifrare alcuni comportamenti, se per un verso introduce la logica — e la visuale — dell’interprete, per l’altro corrisponde a vere e proprie «porzioni narrative».
E sono pro-
prio queste a sortire, all’interno del testo drammaturgico, quell’«effetto di realtà» che accredita scena e personaggi situandoli nei tempi e nei luoghi del vissuto e contemporaneamente afflata le intese in un universo di riferimenti comuni (ora vi racconto di quale don Mimì sto per parlarvi: vi ricordate quello che...). Ancora di più quando l’io narrante — figura statutaria del racconto «al vero» — esplicita, in apertura di commedia, la propria identità di attore nell’autore. Lasciando anche intendere che quel lettore «eccellente» che si affaccia nel testo, ha comunque con lo scrittore la complicità del teatro in quanto 0ggetto di discorso: e proprio la didascalia a volte offre le condizioni per uscire da quell’oggetto e condividere l’esperienza della sua visione, a volte descrivendola, a volte narrandola. Magari a se stessi: «Solamente quando mi sono chiari l’inizio e la fine dell’azione e quando conosco perfettamente vita e miracoli di ogni personaggio, anche secondario, mi metto a scrivere...».
Quello scollamento che la scrittura è lo stesso sapere in più che Eduardo pubblico, un sapere che la scena non un’area per muoversi liberamente da
insinua tra lettore e spettatore ha del personaggio rispetto al riesce a saturare, ma che offre una parte all’altra del sistema
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Antonella Ottai
teatrale; a lui, che di ribaltamenti tra scena e platea se ne intendeva parecchio e che legava così indissolubilmente le sue virtù teatrali alle sue capacità di osservatore, di saper essere anche e sempre, spettaLOL:
Se un’idea [...] è valida, con il tempo matura, migliora e allora la commedia si sviluppa come testo e anche come teatro, come spettacolo completo, messo in scena e recitato nei minimi particolari, esattamente come io l’ho voluto, visto e sentito e come, purtroppo, non lo sentirò mai più quando sarà diven-
tato realtà teatrale. [...] Finché tengo la commedia dentro di me, e ne sono il primo solo e beato spettatore, cerco di far sì che le mie tre attività teatrali si aiutino a vicenda...” E, a suo modo, la didascalia, con tutta la minuziosità delle sue
funzioni, anche di questo parla, dell’utopia di quello spettacolo perfetto che ci si è finti dentro, là dove attore e spettatore, nel cuore, nei sensi, nell’immaginazione, trasgrediscono ininterrottamente, tra loro,
in quel gioco dell’osservare e dell’essere osservati, dello scambio di persona e della visuale alternata, di cui il teatro è munifico con chi gli si affida.
7 Eduardo De Filippo, I Capolavori. .., cit., p. IX.
ROBERTO DE SIMONE
LINGUAGGIO E TRADIZIONE NEL TEATRO DI EDUARDO
Vorrei premettere che, di solito, io non sono abituato a parlare in pubblico, né intendo leggere una relazione scritta in precedenza. Insomma, parlando a braccio, per così dire, sono ben lieto di dare qui un mio contributo per quel che riguarda la figura di Eduardo, in rapporto ad un Teatro in senso assoluto, al di là del dialetto e della connotazione napoletana. Con tale premessa chiarisco subito che il mio intervento si limiterà a discutere del linguaggio teatrale di Eduardo; e parlo di linguaggio, non di dialetto, perché ritengo che il vero teatro si esprima attraverso una continua elaborazione dei linguaggi tradizionali (e non). In riferimento alla tradizione teatrale napoletana, i predecessori del teatro eduardiano possono sommariamente ravvisarsi in Antonio Petito e in Eduardo Scarpetta, pur tenendo presente una miriade di altri autori contemporanei alle prime esperienze di Eduardo-autore (Pignalosa,
Romano,
Ragosta,
Petraccone,
Chiurazzi,
Riccora, ecc.).
Costoro, intorno agli anni Venti, in vario modo esprimevano un teatro dialettale, che risentiva di diverse tendenze (dal tradizionale patetismo di fine secolo, al verismo, al bozzettismo, fino ai nuovi moduli derivati dal teatro di Varietà, ecc.). Ma è chiaro che ben presto Eduardo avvertì i limiti di un linguaggio ancorato, per lo più, a schemi espressivi di tipo ottocentesco, o a moduli ristagnanti o di consumo, e, gradualmente, seguì due orientamenti. Da un lato cominciò ad elaborare un linguaggio napoletano che fosse comprensibile anche ai non napoletani; insomma perseguì una italianizzazione del dialetto, e una dialettizzazione della lingua italia-
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Roberto De Simone
na. Tale procedimento, che probabilmente fu anche suggerito dal teatro pirandelliano, in realtà perseguiva un'esperienza letteraria già percorsa, in altro modo, dagli scrittori napoletani del ’600 e del ’700, i quali, per altri fini e in altro contesto, elaborarono un dialetto co-
struito con forme proprie della lingua italiana (o toscana, come allora si diceva). Da un altro lato, successivamente, Eduardo tende a confrontarsi
con le fonti di un linguaggio napoletano più antico, connotato da una solida formalizzazione letteraria. È in tale direzione che si collocano gli interessi di Eduardo per la settecentesca Monaca fauza di
Trinchera, o per la maschera di Pulcinella (vedi Pulcinella che va trovando la sua fortuna per Napoli?) fino alla traduzione de La tempesta, trasposta in lingua napoletana, ricalcata sui modelli della letteratura napoletana del ’600?. Insomma, nel graduale procedere del lavoro di Eduardo osserviamo da un lato una tendenza a superare il dialetto, e a rinnegarne la funzionalità totale per il teatro, e, dall’altro lato, notiamo una spinta a recuperare linguaggi napoletani più antichi (e in seguito cercheremo anche di comprenderne le cause). Ma a questo punto val la pena di tracciare un quadro dei linguaggi tradizionali,
e diremo che, tuttora, nella realtà di Napoli e della
Campania, constatiamo la presenza di tre tipi di dialetto. Un primo tipo, quello in uso quotidianamente, praticato all’interno delle quattro pareti di una stanza, abbonda di elisioni, di troncamenti sillabici, di aferesi; presenta un’articolazione ritmica poco accentuata e tende a una sillabazione sintetizzata al massimo; infine es-
so viene espresso con toni di voce basso-medî, in un arco vocale di limitata ampiezza. Tale linguaggio, in uso per la comunicazione fa-
1 Eduardo realizzò un rifacimento de La Monaca fauza che andò in scena nel 1962, al teatro Bracco di Napoli, per la regia di Gennaro Magliulo. Del Pulcinella di Altavilla curò adattamento e regia. Lo spettacolo andò in scena al Piccolo Teatro di Milano nel 1958. 2 «La tempesta» di William Shakespeare nella traduzione in napoletano di Eduardo De Filippo, Torino, Einaudi, 1984.
Linguaggio e tradizione nel teatro di Eduardo
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miliare, già si diversifica, sempre in un ambiente interno, qualora viene espresso durante un banchetto, a tavola o in un salotto, dove
sono raccolte più persone. In tale condizione i toni della voce tendono a divenire più alti, più acuti, le frasi acquistano connotazioni ritmiche più accentuate, e talune espressioni si presentano con caratte-
ristiche massimamente formalizzate. Un secondo tipo di dialetto, che diremo da strada o da cortile, si
osserva, appunto, nei cortili, nei mercati e nei luoghi pubblici. Tale linguaggio è connotato da un tono di voce medio-acuto, da catene fonetiche particolari, da ritmi e da espressioni formalizzate, che costituiscono un autentico repertorio espressivo. Insomma questo linguaggio, venutosi a formare per le esigenze comunicative di una comunità che vive quotidianamente nei vicoli, nelle strade, nei fondaci, si presenta con un notevole tasso di teatralità (di esso fanno parte talune esclamazioni, le ingiurie, le maledizioni, i richiami dei venditori ambulanti, le filastrocche dei banditori, ecc.).
Esiste poi un dialetto della ritualità: quello espresso principalmente nei canti tradizionali, il quale è osservabile nelle feste, nei momenti rituali, e, ovviamente, si manifesta in luoghi esterni, davanti ai Santuari; si articola con versi endecasillabi ed ottonari, e presenta ca-
tene fonetiche particolari, atte a facilitarne la pronuncia. Tuttavia, la struttura linguistica di tali canti si vale di un dialetto antico e, per alcuni aspetti, sembra collegarsi al dialetto letterario (tenendo presente che in quest’ultimo le catene fonetiche non hanno quella rigida formalizzazione richiesta dallo stile musicale del canto). Il dialetto letterario, invece, è derivato da tutti i tipi di linguaggio descritti, e si è sviluppato grazie ad una teatralità già insita nella tradizione orale napoletana, come abbiamo visto. I primi esempi di tale linguaggio li riscontriamo nel ’400 con gli strambotti del Cariteo, e di altri, ma la scrittura di testi poetici in dialetto si sviluppa nel ‘500 con la produzione delle villanelle, che ebbe favore in tutta Europa. Sulla base di tali esperienze, infine, si forma genialmente il linguaggio di Giambattista Basile, al quale si riconosce, con Lo cunto de li cunti, la prima opera in dialetto, cui attribuire dignità letteraria. Ma osserviamo, ora, le principali caratteristiche di tale linguaggio.
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Roberto De Simone
Innanzitutto, nel dialetto letterario, gli articoli determinativi (44, /o, la, i, gli, le) si presentano scritti in tal modo: /o, la, li, le, a differenza
del dialetto di tradizione orale, in cui gli stessi articoli si pronunciano ‘o, ’a, ‘i, ‘e. Similmente le preposizioni articolate dello, allo, dallo, nello, con lo, sullo, per lo, fra lo, tra lo, si trovano scritte: de /o, a lo,
da lo, ne lo, co lo, sopra lo e ncoppa lo, pe’ lo, nfra lo, tra lo, mentre quotidianamente si pronunciano d'’ ‘o, a ’o, da ‘o, int’ ’o, c° ‘0, ncopp’ ‘o, p’ o, fra ’o, tra ’o (la stessa cosa vale, ovviamente, per le
preposizioni articolate femminili e per le plurali). C'è da aggiungere che la preposizione articolata 4/lo (letterariamente scritta 4 /o) nella pratica del linguaggio parlato viene contratta in è; per tal motivo troveremo che l’espressione letteraria vaco a la casa viene detta dol dianamente vaco è casa. In secondo luogo, il modo infinito dei verbi, che nella pratica orale si trova sempre troncato, nello stile letterario si scrive per intero. Avremo così, per il verbo amare,
ama’ nell’uso corrente, e ama-
re nella pratica letteraria. Per il verbo venire. veni’, e venire, per il verbo giocare. juca’, e jocare, ecc.
Inoltre il dialetto scritto è caratterizzato da costruzioni ipotattiche, mentre è tipica dello stile orale una costruzione paratattica, ricca di frasi legate per congiunzione. In tal senso il linguaggio letterario fa largo uso di frasi principali e di secondarie, di frasi temporali, di finali, di consecutive, che nel dialetto orale si praticano in altro modo. Il modo gerundio si trova frequentemente impiegato, mentre, quotidianamente è usato di rado e in uno stile narrativo. Infine, letterariamente, si impiegano vocaboli ed espressioni della lingua italiana, tradotte in dialetto o dialettizzate. Ad esempio, l’espressione 4/ quale (inesistente nel parlato) si scrive a lo quale, a qual proposito si scrive a qua’ proposeto; voglia il cielo, voglia lo cieloicee
Ma a questo punto va anche chiarito che il linguaggio letterario non si riferisce ad un dialetto napoletano antico (come alcuni ritengono); a Napoli, anche nel Settecento, il dialetto di tradizione orale si differenziava notevolmente da quello letterario (e ciò è documentato
ampiamente). D'altronde, sulle differenze che esistono tuttora tra i
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vari tipi di dialetto nella tradizione orale, va fatta una particolare considerazione. Il dialetto usato quotidianamente, praticandosi familiarmente all’interno di una stanza, viene parlato con toni basso-medî e presenta una scansione ritmica poco accentuata. La pratica di tale attenua-
zione sonora e ritmica ha quindi prodotto quella frequenza di elisioni, di crasi, di aferesi e di troncamenti.
Già nel momento
in cui, in
ambienti privati, si verificano delle situazioni corali di dialogo (in un salotto, per un banchetto, un ricevimento, ecc.) il linguaggio si presenta con toni più alti e con scansioni ritmiche più accentuate.
In un cortile, in una strada, dove lo spazio e la situazione richiedono maggiori sonorità, la comunicazione si basa su toni di voce più alti e su un'articolazione sillabica più accentuata. In tale contesto, gli articoli determinativi si pronunciano senza aferesi e gli ‘o, ‘a, ‘e (della forma quotidiana) riacquistano le loro consonanti diventando /o, la, le, i verbi al modo
infinito vengono
pronunciati spesso senza
troncamenti, ed emergono espressioni che, in parte e in modo discontinuo, fanno uso di entrambe le forme. È chiaro, a questo punto, che il linguaggio tradizionale dei comici napoletani, praticandosi per tradizione nelle piazze e in luoghi di ampio spazio (camere teatrali, cortili, teatri, ecc.) abbia fatto riferimento, per lo più, a questo secondo tipo di linguaggio. Tale esigenza è scaturita dal fatto che in luoghi spaziosi la comprensione linguistica abbisogna di un parlato scandito e pronunciato con toni di voce più alta. Il dialetto che si ritrova nei canti tradizionali, si presenta totalmente diverso dal dialetto di uso quotidiano, sia per la forma, sia per i contenuti simbolici ed emblematici. Gli articoli e le preposizioni articolate si trovano senza aferesi; i verbi in parte si riscontrano con troncamento, sia senza; la forma del linguaggio è modellata median-
te versi endecasillabi ed ottonari. Ma è chiaro che l’espressività ed il significato di tale dialetto sono strettamente collegati alla ritualità corale, e al fatto che i distici del canto popolare sono cantati e spesso accompagnano il ballo tradizionale. È anche chiaro che la ritualità del momento corale richiede
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un linguaggio collettivo di carattere metastorico, in grado di rappresentare sia il tempo del presente, sia quello del passato. Il linguaggio letterario, infine, si è modellato su un linguaggio tradizionale che accoglieva sia le forme della teatralità di piazza, sia quelle espresse nei momenti rituali. Ma, come si è detto, esso faceva riferimento anche alla lingua italiana, dalla quale attingeva sia vocaboli, sia forme grammaticali. Per tali motivi fu questo il linguaggio adottato dagli scrittori, fino a tutto l’Ottocento. Già il Basile, per il suo Cunto de li cunti, aveva formalizzato un dialetto atto a stabilire una comunicazione di tipo teatrale (infatti il Cunto fu scritto per essere letto o recitato in pubblico, nei salotti, a scopo ludico di spettatori colti ed aristocratici). Sulle orme del Basile, gli scrittori di drammi ed oratorî musicali del ‘600, spesso introdussero personaggi e maschere popolari, il cui dialetto si modellava su quello del Cunto (si veda, ad esempio, il personaggio di Razzullo nel Verbo umanato o Cantata dei pastori di Andrea Perrucci). Al medesimo linguaggio si riferiscono successivamente, nel ’700, gli scrittori di commedie per musica, di opere buffe, di opere comiche, elaborando versi e forme poetiche, i cui modelli risalivano pur sempre alle Egloghe e a Le Muse napolitane del Basile. Lo stesso linguaggio si riscontra nelle produzioni teatrali del Trinchera, del Gennarantonio, del Corvo, del D’Avino, del Lorenzi e del Cerlone. Con irrilevanti modifiche la tradizione continua con Pasquale Altavilla, con il Cammarano, fino ad Antonio Petito, la cui produzione
risente di una profonda modifica subîta dalla società borghese napoletana, come in seguito vedremo. Il Petito era uomo di grande cultura teatrale, ma illetterato. Insomma, egli conosceva perfettamente il linguaggio dei comici tradizionali, ma non aveva cognizioni circa la formalizzazione letteraria napoletana, cui il teatro scritto faceva capo. Per tale motivo, dalla lettura dei manoscritti del Petito (a parte gli strafalcioni grammaticali) si rileva un linguaggio di tradizione teatrale, derivato dal teatro popolare con larghi riferimenti anche al parlato quotidiano. Purtuttavia, le stesse commedie del Petito, pubblicate a cura di Davide Petito dopo la morte di Antonio, furono rivedute e corrette per la stampa, dimo-
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doché si presentano con un linguaggio mediato secondo la convenzione letteraria. Ma ormai erano in atto grandi mutamenti che investivano anche il campo della tradizionale letteratura vernacolare. Difatti, le nuove tendenze artistiche, alla fine dell’Ottocento, si orienta-
vano verso un verismo, cui il mondo napoletano non poté sottrarsi storicamente. E la figura di Salvatore Di Giacomo fu determinante per quel che riguarda i futuri indirizzi della letteratura dialettale. Dopo l'Unità d'Italia e i problemi di una lingua nazionale, a Napoli cominciò ad essere discussa la validità storica di continuare a scrivere in un napoletano che, notoriamente, si discostava dalla par-
lata volgare. I sostenitori della tradizione si trincerarono nella Accademia dei Filopatridi, i cui Atti, a seguito di un convegno, vennero pubblicati nel 1879 in un opuscoletto intitolato // dialetto napolitano si dee scrivere come si parla?. Ed eccone l’inizio del Livigni: L’accademia dei Filopatridi, non ha guari fondata in Napoli nello scopo di studiare ed illustrare gli scrittori del nostro dialetto, stabilire le regole dell’ortografia e rendere morale il teatro, in varie tornate discusse sul tema importante: se il dialetto napolitano deve scriversi come si parla dal popolo. La quistione di carattere controverso, fu trattata da campioni favorevoli e contrari con molto calore 3.
Alla fine del convegno il Presidente Emmanuele Rocco emise la seguente delibera, approvata dalla maggioranza degli accademici e pubblicata nello stesso opuscoletto: Considerando che l'Accademia non potrebbe più a lungo questionare sopra un argomento abbastanza discusso ed assodato IDE IEBRERTÀ
Essere superflua ogni ulteriore discussione sull'argomento, ritenendo che, quantunque la plebe, parlando aferizzi gli artico-
3 Il dialetto napolitano si dee scrivere come si parla? Discorsi due di Emmanuele Rocco e di Giacomo Bugni, pubblicazione per cura di Vincenzo Livigni, Napoli, 1879, p. 7.
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li e le preposizioni, nello scrivere si debba seguire l'esempio
degli autori che ci precedettero‘. Tale delibera fu molto influenzata dalla relazione del Presidente Rocco, il quale acutamente rilevò che nella stessa tradizione popolare esistevano diverse forme di linguaggio: Che coesistano i due modi nel dialetto si può provare ancora con due forti argomenti, che debbono valer molto presso coloro che hanno orecchi lunghi e non sentono, o per meglio dire non vogliono sentire. [...] Inoltre, nei canti popolari, proprio quelli fatti dal popolo, gli articoli e le preposizioni si trovano quasi sempre nella loro interezza?.
Ma la questione del dialetto letterario a Napoli era strettamente connessa alle teorie del Manzoni circa la lingua italiana, argomento cui allude spesso il Rocco negli Atti del convegno: Da poco tempo in qua alcuni filologi fiorentini hanno messo innanzi l’idea della lingua parlata, sostenendo che i classici non contino un fico secco, e che i nostri maestri debbano essere i Fiorentini, i Pistoiesi, i Lucchesi, i Senesi... [...] Lo stesso sta succedendo pel nostro dialetto, ed alcuni già ci sono che vanno gridando doversi scrivere come si parla, e non doverci essere differenza alcuna fra dialetto parlato e dialetto scritto, ed i nostri maestri in ciò dover essere i trecconi e i barulli del Mercato, l’infima plebe del Mandracchio e del Lavinaro®.
Contro l'Accademia dei Filopatridi si schierò il giovane Di Giacomo, che, convinto assertore di una scrittura riferita al parlato, iniziò a pubblicare i suoi componimenti. La forza della sua poesia prevalse,
4 Ibidem, pp. 8-9.
Ibidem, p. 13. Ibidem, p.11.
Linguaggio e tradizione nel teatro di Eduardo
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ed i nuovi scrittori napoletani seguirono il suo esempio. Ma a tal punto cadrebbe in errore chi pensasse che il Di Giacomo volesse riprodurre nei suoi versi il linguaggio del dialetto corrente. La struttura linguistica del Di Giacomo rimane pur sempre letteraria, tant'è vero che spesso egli fece uso, nello stesso componimento, di articoli sia aferizzati, sia scritti per intero; e lo stesso dicasi per l’uso dei verbi e per le preposizioni. In tal senso, mediante una rilettura di Era de maggio, di Spingole francesi, di Canzone
appassiunata, ci si può
rendere conto di ciò che è stato detto. In ogni modo, la nuova grafia fu adottata anche dagli scrittori di teatro; per una chiara lettura del passaggio storico tra i due tipi di scrittura, risulta interessante confrontare le diverse edizioni di alcune commedie di Eduardo Scarpetta. Difatti, sia ’Na Santarella, sia Miseria e nobiltà, tra molte altre, furono pubblicate, in prima edizione, con la tradizionale scrittura letteraria (non è da ignorare che lo Scarpetta era uomo che aveva compiuto gli studi classici fino all’Università). Ma per le successive edizioni, lo Scarpetta approntò una nuova veste linguistica alle sue stesse commedie, secondo il dialetto comunemente parlato. E veniamo, adesso, ai contenuti e alle tematiche tradizionali della letteratura e del teatro vernacolare. Fin dal Cunto del Basile, una del-
le componenti più vistose e scoperte della scrittura dialettale è data dall'aspetto comico; vale a dire che la letteratura napoletana, fin dall'inizio, persegue intenti ironici e critici nei riguardi dell’ufficialità letteraria. Insomma è palese, nel Cunto, la parodia del marinismo, ossia di un genere letterario che all’epoca del Basile godeva del più largo consenso. Ma bisogna subito aggiungere che gli aspetti comici e parodistici della nostra letteratura poggiano le basi su un’ironia tradizionale della gente locale, cui è riconosciuto da tutti il dono di saper sorridere o ridere di tutto e di tutti, a cominciare da se stessi. Il secondo aspetto emergente, nelle stesse opere dialettali del Basile, è quello riferito a una cultura locale ricca di fantasia straripante fino al delirio; in fondo, anche i procedimenti formali dello stile barocco, quali l’elencazione, l'accumulo, la metafora, trovano una collocazio-
ne espressiva che non rientra solo nello stile di un'epoca, ma sono espressione di una cultura popolare, che con identiche caratteristi
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Roberto De Simone
che è rimasta inalterata per secoli (e che nello stile barocco ha trovato la sua collocazione ideale). Nel Settecento il teatro musicale napoletano fa dell’elemento parodistico uno dei cardini su cui poggia lo spirito della commedia musicale, dell’opera buffa e dell’opera comica. Si può affermare che, per molti aspetti, il melodramma comico nasce proprio come parodia del melodramma serio. Gli elementi di contraffazione spesso sono presenti nel testo letterario dell’opera, in cui quasi sempre si mette in caricatura un testo di Metastasio. Ma è anche il musicista che,
più sottilmente, mette in parodia la musica sacra, l'Oratorio musicale e ironicamente
anche se stesso.
Insomma,
a Napoli, la vocazione
all’irrisione dei linguaggi ufficiali produsse il teatro musicale comico. Difatti, molto sovente, non appena al teatro di San Carlo era rappresentata una nuova opera di successo, immediatamente se ne preparava la parodia. È così che nacquero opere famose come il Socrate immaginario (parodia dell Orfeo di Gluck), come La Dirindina (parodia della Didone abbandonata di Metastasio), Le cantatrici villa-
ne (parodia dell’Ezio di Metastasio) e tante altre. Connessa al teatro di parodia si sviluppò ed ebbe voga la tematica metateatrale (la rappresentazione del teatro nel teatro) in cui si mostra il variopinto ed effimero mondo delle cantanti, dei maestri di Cappella, dei poeti, degli impresari, delle madri delle cantanti, ecc. La diffusione di tale genere è attestata dalla quantità di opere sull'argomento (dal Maestro di Cappella di Pergolesi, da La Dirindina di Scarlatti, L’impresario delle Canarie, fino a Le convenienze ed inconvenienze teatrali di
Donizetti); del resto al medesimo genere appartengono le scene in cui si canta una serenata, o si rappresenta una lezione al cembalo (fino alla medesima scena inserita nel Barbiere rossiniano). Parallelamente, la fantasia delirante e i temi del sogno e della fol-
lia vennero espressi da Pulcinella, presente in molte commedie per musica; nel teatro di prosa la maschera fu frequentemente trattata da Francesco Cerlone che la inserì in molte sue commedie. Successivamente, nell’Ottocento, il favore goduto dal melodramma romantico fece declinare dalle scene musicali l’opera comica; il vento patriottico del nazionalismo trovava toni autorappresentativi solo nei cori verdiani anche a Napoli, cosicché il teatro dialettale
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continuò principalmente al teatro San Carlino, dove il Pulcinella Antonio Petito concluse al sommo grado una tradizione illustre. Sono famose, del Petito, le parodie del Trovatore, dell’ Aida, del Faust, del-
la Francesca da Rimini, nelle quali ancora una volta si espresse lo spirito napoletano di mettere in parodia quelle opere che venivano osannate al San Carlo. Ma i tempi erano mutati. Dopo l’Unità italiana la nuova borghesia non sapeva ridere di se stessa come la vecchia società illuministica faceva. Difatti, quando il Petito osò contraffare un ballo a sfondo patriottico, andato in scena al San Carlo, incontrò una inaspettata e durissima reazione. Si trattava di un ballo eseguito in occasione dell’avvenuta presa di Porta Pia, in cui le danzatrici del Massimo napoletano, in tutù romantico e con cappelli da bersagliere, manifestavano danzando il convenzionale ossequio all’Ufficialità del Potere. Ma quando, poche sere dopo, Antonio Petito, in maschera
pulcinellesca, travestito da ballerina-étoile con cappello alla bersagliere, si presentò alla ribalta parodiando le evoluzioni del ballo, fu violentemente fischiato e ricevette tante minacce dai patrioti napoletani che per qualche tempo dovette riparare a Roma. Migliore fortuna non ebbe Eduardo Scarpetta quando, nel 1904, rappresentò al teatro Mercadante di Napoli la parodia de La figlia di Iorio di D'Annunzio (I figlio di Iorio). Fu un fiasco clamoroso, né la reazione si arrestò con la stizzita cagnara avvenuta in teatro. Scarpet-
ta fu addirittura querelato da Marco Praga, quale Presidente della Società Italiana degli Autori, cui si affiancarono come
perìti il Bracco,
Scalinger e perfino Salvatore Di Giacomo. Insomma, ci volle l’illuminato intervento di Benedetto Croce, la cui autorità culturale riuscì ad
evitare allo Scarpetta una sentenza di condanna. Come si vede, la società non accettava più la corrosiva ironia del comico, della maschera, del Pulcinella, in nome del quale sul bocca-
scena del San Carlino si leggeva il motto «Castigat ridendo mores». Per tale motivo la maschera di Pulcinella morì: essa aveva esaurito il suo ruolo storico; la nuova società non le riconosceva più la funzione che al Pulcinella era assegnata in virtù di un’antica carica sacerdotale. A tal punto lo Scarpetta si guardò bene dal ricadere in simili rischi, per cui si limitò, con gran successo, a caricaturare solo la piccola borghesia, la cui immagine si personificò in Felice Sciosciammocca.
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Ma, in opposizione al teatro comico di Scarpetta, Salvatore Di Giacomo e altri artisti si orientarono verso un nuovo tipo di teatro
dialettale di carattere drammatico, che poi venne chiamato «Teatro d'Arte» (gli intenti di tale teatro si collegavano palesemente al verismo di tipo verghiano). Eppure, il genere drammatico era nuovo per il teatro napoletano, perché, fin dal Settecento, gli autori teatrali avevano praticato esclusivamente il genere comico (all’infuori di pochissime eccezioni). Anche stavolta il Di Giacomo la vinse e, dopo avere riformato la scrittura tradizionale, riuscì a far sviluppare un genere di teatro nuovo. Difatti, nel 1888, al teatro Nuovo, la compagnia di Gennaro Pantalena mise in scena ’O voto del Di Giacomo e di Goffredo Cognetti. Il successo fu grande ed aprì la strada a molti altri esperimenti in tal senso. Con Assunta Spina il Di Giacomo tentò di creare un modello per il futuro, ma l’intento gli riuscì parzialmente. Andato in scena nel 1909, il dramma mostrò subito le sue carenze strutturali. Infatti, men-
tre, nel primo Atto, la coralità riesce a raggiungere momenti di intensa teatralità, il secondo Atto, che si svolge tra le quattro pareti di una stanza, ristagna nel patetismo, e alla fine non riesce a superare i limiti di una drammaticità abbastanza convenzionale e scontata. A mio avviso, la carenza maggiore del dramma si palesa appunto nella struttura del linguaggio dialettale, lì dove, appunto, il dialetto quotidiano non riesce ad elevarsi poeticamente, e quando il poeta tenta il colpo d’ala, il concetto si irrigidisce nella convenzionalità da tavolino. È abbastanza evidente che, dopo la lacerazione del tradizionale linguaggio letterario, il dialetto del popolo, cui il Di Giacomo intendeva riferirsi, apriva diverse problematiche concernenti la recitazione, lo stile di rappresentazione, e le difficoltà espressive del naturalismo. Inoltre il Di Giacomo che, linguisticamente, con la struttura dei versi era a suo agio, con la scrittura di un testo teatrale in prosa si scontrava con la realtà cruda del dialetto, dove la ricercatezza eufonica spesso non si accorda con lo stile naturalistico del linguaggio (ed è anche vero che, in teatro, l'assunzione di un dialetto deve presupporre una teatralizzazione dello stesso, altrimenti si corrono notevoli rischi stilistici). Per tali motivi le carenze di Assunta Spina non
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furono né risolte né tantomeno superate dagli autori successivi, il cui
linguaggio, anziché indirizzarsi a una ricerca di nuova formalizzazione teatrale, finì spesso con lo scadere in un generico bozzettismo, in
un oleografico patetismo, in un banale sentimentalismo, i cui moduli, successivamente, si travasarono nella cosiddetta sceneggiata.
Contemporaneamente, dal teatro di Varietà erano scaturite nuove forme teatrali quali il bozzetto comico, la macchietta, il monologo musicale; e alcuni autori, quali Giuseppe Ascoli, tentavano un genere diverso, dove, all'impianto veristico-drammatico,
si affiancavano
generi musicali affini alla produzione del teatro di Varietà o di quello di folclore. In altre produzioni, il genere drammatico si alternava al comico, 0, peggio, al macchiettistico; tuttavia, il linguaggio dialettale non si discostava più dal compiaciuto naturalismo del modello digiacomiano.
In tale contesto Eduardo iniziò la sua attività di scrittore teatrale: vale a dire in un momento
di fermenti innovativi, ma anche di di-
sgregazione di linguaggi tradizionali. Difatti, se le nuove tendenze erano rappresentative di una piccola borghesia, l'antica plebe era sempre più emarginata dalla Città, e, con essa, la sua espressività. Si
tenga presente che in quegli anni si compiva l’azione del «Risanamento», mediante il quale la comunità popolare delle zone di Porto, Pendino,
Zecca, Vicaria e Mercato, era cacciata via dai suoi luoghi
tradizionali ed era costretta a disperdersi, mentre in quegli stessi luoghi venivano eretti gli eleganti palazzi del «rettifilo». Poco tempo dopo, la stessa sorte toccava ai quartieri di Santa Lucia e della zona di Monteoliveto, spianati a terra dai colpi del piccone comunale. Né era stato risparmiato il teatro San Carlino, abbattuto malgrado vantasse una gloriosa storia di circa due secoli. Ma, evidentemente, la maschera di Pulcinella, espressione di una cultura teatrale legata tradizionalmente ai Borboni, era guardata con sospetto dai liberali napoletani, che ne decretarono fatalmente la fine in nome della Civiltà e della Storia. D'altronde, in tale mutamento culturale, il linguaggio popolare diventò oggetto di ricerca da parte di studiosi quali l’Amalfi, l’Imbriani, Il Molinaro-Del Chiaro e lo stesso Croce. In poesia, il cantore di quella classe in dissoluzione può considerarsi Ferdinando Russo;
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Roberto De Simone
ma, per quel che riguarda il teatro, il mondo popolare era rappresentato in modo folkloristico o in modo macchiettistico (si vedano le varie canzonette-parodie, in cui si rappresentano comicamente i personaggi di uno spazzino, di un acquaiolo, di uno scugnizzo, di un venditore ambulante, di un cocchiere, ossia di tutti quei tipi popolari che, già durante l’Ottocento, avevano alimentato la produzione figu-
rativa di gouaches e di fotografie, richieste sul mercato dai turisti di passaggio per Napoli. Insomma, in questa babele napoletana di espressioni teatrali, quale era Napoli tra gli anni ’10 e gli anni ’20, maturano due gigantesche ed opposte personalità: Raffaele Viviani ed Eduardo De Filippo, ambedue trattando, in modo nuovo ed originale, l’uno il linguaggio popolare, l’altro il linguaggio derivatogli dalla esperienza dello Scarpetta. Ed ecco come acutamente scriveva dello Scarpetta un giornalista intorno agli anni ’20: Veniva su, intanto, tra il fasto e le feste del popolo che declinava e una casta intellettuale che maturava, una specie di terzo stato: quello che fu detto la piccola borghesia e che già aveva dato, con le opere della Serao, spunti cospicui alla materia artistica. Eduardo Scarpetta avvertì i contrasti sentimentali e ridicoli di questa classe media, incolta e pretenziosa, ingenua e buffa, aletterata e grafomane, e ne rese con sottile humour le comiche amarezze, i conflitti spirituali, gli errori di sintassi.
Da papà Scarpetta, dunque, il ventenne Eduardo assunse la forma strutturale della commedia e talune tematiche, perlomeno per la produzione compresa tra il 1920 e il 1930, in cui, tuttavia, hanno la loro influenza il teatro di Pirandello, di Murolo, di Bracco, di Rosso di San Secondo. Ma è chiaro che le tematiche scarpettiane, spesso,
anche in quella prima produzione, non sono solo riferite al mondo napoletano, ma assurgono a metafora nazionale, con la quale si rappresentavano le miopi aspirazioni e i banali ideali di quella piccola borghesia italiana post-unitaria. Per quel che riguarda la forma strutturale della commedia, invece, Eduardo, benché sperimentasse diverse strutture teatrali, rimase
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profondamente fedele al modello scarpettiano, e, fino agli ultimi anni, ne indicò la validità. Dalle registrazioni di sue lezioni, impartite all’Università di Roma, ricaviamo le sue tenaci convinzioni in proposito: Per scrivere una commedia valida occorre prima di tutto un’idea che faccia discutere il pubblico, che lo faccia contento. Un'altra regola è quella di tenere chiuso l'argomento, di far dialogare i personaggi sull'argomento senza però scoprire le mani, perché la commedia — qualunque sia il lavoro (tragico comico o farsesco) — si deve aprire al terzo atto (oppure all’ultimo quadro se fate la commedia a quadri). [...] Io mi sono comportato sempre così. Scusate se prendo il mio paragone, ma è necessario. Le commedie mie si aprono solamente al terzo atto, sennò non c'è modo di tenere il pubblico fermo, fisso in poltrona fino all'ultimo. [...] Per una regola matematica, tecnica, il primo atto può durare un'ora e dieci, un’ora e cinque; il secondo atto quarantacinque minuti; il terzo trentacinque minuti, massimo. [...] Questa è la proporzione che ho sempre usato e posso dirvi perfino la quantità di pagine di ogni atto. Non si tratta di pagine a macchina però, perché quando scrivo le commedie, devo scrivere a mano. A mano devono essere sessantaquattro pagine il primo atto, quaranta il secondo e quindici, venti pagine il terzo”.
Può risultare sorprendente, a tal punto, confrontare i vecchi copioni tradizionali, quelli scritti a mano ad uso degli attori e dei suggeritori; esaminando, infatti, le commedie napoletane dell’Ottocento,
quelle del Marulli, del Guarini, del Petito e infine dello Scarpetta, si constaterà che ogni manoscritto consta di circa 65-70 pagine, suddi-
vise, nei tre Atti, secondo le proporzioni indicate da Eduardo. Anche per il tipo di dialetto Eduardo si servì del modello scarpettiano, ossia di quel dialetto quotidiano, di cui abbiamo già parlato. Ed è logico che egli, ambientando le sue commedie, per lo più, in
7 Eduardo De Filippo, Lezioni di teatro, Torino, Einaudi, 1986, pp. 19-21.
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luoghi privati, si riferisse a quel tipo di linguaggio che già nella realtà si pratica tra le quattro pareti di una stanza e che viene parlato da quel ceto medio napoletano, di estrazione plebea, ma intento ad emulare e a scimmiottare le classi più elevate. E su tale argomento devo evidenziare che una vera ed importante innovazione Eduardo la portò nel campo dello stile di recitazione. Difatti, fino ad Eduardo, benché Di Giacomo e i successivi autori
avessero introdotto in teatro un tipo di dialetto quotidiano, gli attori continuarono a recitare con il vecchio stile del dialetto letterario, vale
a dire con un tipo di recitato-declamato, connotato da toni di voce medio-acuti e da una ritmica molto accentuata. In tal modo, i nuovi
testi teatrali, pur se scritti in riferimento a un tipo di parlato naturalistico, erano recitati con uno stile contraddittorio, che, tra lazzi improvvisati e battute ad effetto, finiva spesso per riferirsi alla vecchia tradizione dei comici del San Carlino. Per avere un’idea dell’antica recitazione dialettale, bisognerebbe ricordare, com’io ricordo, lo stile
rappresentativo di Salvatore De Muto (l’ultimo Pulcinella) e della sua compagnia che ancora agiva a Napoli intorno agli anni Cinquanta. Sia il De Muto che i suoi attori Rosa De Muto, Luisella Viviani, Nello Ascoli, Roberto De Simone, Eduardo Guerrera ed altri, recitavano
con intonazioni notevolmente ritmate e spesso quasi cantate; l’identico stile si riscontra in registrazioni fonografiche di attori napoletani che, agli inizi di questo secolo, incidevano dischi in dialetto, da vendere in America per gli emigrati. Infine, basterebbe ricordare, in tempi più recenti, gli attori Agostino Salvietti, Tecla Scarano, Ugo D’Alessio, Giulia Melidoni, Gennarino Palumbo, Gennaro Di Napoli, Fran-
co Sportelli e altri; tutti questi, nella commedie di Scarpetta o nei drammi di Di Giacomo inframezzavano al testo, tradizionalmente, delle battute a soggetto e recitavano secondo uno stile che, comun-
que, risaliva a quello dei più vecchi commedianti napoletani. Eduardo, invece, per le sue commedie, impose ai suoi attori un tipo di recitazione consono allo stile di un dialetto quotidiano, chiudendo lo spazio alle turbolenze dei lazzi a soggetto, ed esigendo toni di voce basso-medî accoppiati ad una ritmica dosata e ricca di pause. Nacque, insomma, un tipo di recitazione dialettale più moderno, più in linea con le tendenze del teatro italiano ed europeo,
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anche se oggi sul vero stile eduardiano permangono diversi equivoci. Difatti, si ritiene che Eduardo rappresenti in assoluto un modello di recitazione naturalistica, mentre bisognerebbe osservare che la naturalezza in scena di Eduardo era frutto di uno studio accuratissimo, di un’arte talmente rarefatta e controllata da raggiungere le vette del sublime e del surreale. Per tale motivo, il modello eduardiano, se non è compreso nella sua complessità e in senso profondo, può dar luogo a delle buone imitazioni di Eduardo, ma prive di spessore interiore. Inoltre, se lo
stile dato da Eduardo alla sua compagnia aveva forza ed efficacia per la funzionalità dello stesso teatro eduardiano, in altro contesto, che so, in una commedia napoletana del Settecento o dell’Ottocento, potrebbe risultare non consono e adatto per il tipo di linguaggio letterario che vi si ritrova. Del resto, Eduardo stesso, mentre raccomandava agli attori di non correre, di non gridare, di far capire le parole (ossia voleva una recitazione naturale ma studiata, non banalmente
spontanea) non proponeva se stesso come modello da imitare. A tale proposito ricaviamo dalle sue Lezioni di teatro: L'autore è quello che scrive le parole, ma il suo vero confessore è l’attore. [...] Il regista si deve sdoppiare e deve trovare il mezzo di comunicare all’attore e di consigliargli come dire quella battuta, con l’intonazione che lui sa che l’attore può avere e non come la saprebbe dire lui. Vi racconto un aneddoto su Raffaele Viviani che era un grande attore, scrittore ed un grande regista pure delle sue commedie; però aveva un difetto: faceva recitare tutti con lo stile suo. Se c'erano venti attori vi sembrava di sentire venti Viviani.
Come si vede, Eduardo regista non voleva assolutamente che i suoi attori lo imitassero, ma desiderava che trovassero un loro modo
di collocarsi in consonanza con il suo stile. E, a proposito di naturalezza in rapporto al teatro, e di stile, ecco ancora degli stralci dalle
Lezioni trascritte da Paola Quarenghi:
8 Ibidem, p. 57.
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Io credo che il linguaggio teatrale sia trattabile secondo il tipo di drammaturgia. [...] Ci sono tanti linguaggi da usare in teatro che fanno parte della lingua usuale, della lingua parlata. La lingua letteraria è un’altra cosa, ed io ritengo che sia sempre un carcere per il teatro. [...] Non esiste un linguaggio unico per il teatro; senza aggiungere poi che è anche un linguaggio perso-
nale. [...] I linguaggi sono tanti ed ogni stile esige un gesto. Il gesto in teatro deve essere soprattutto largo, perché la sala è grande. Se io muovo un braccio facendovi scudo col corpo, il gesto non si vede. Quindi, se mi trovo col profilo sinistro rivolto al pubblico devo comporre il gesto con la mano sinistra, poi la ritiro, mi volto ed uso quell’altra mano. Bisogna avere questa tattica da ballerino, da danzatore.
[...] Un’altra cosa importante per un attore ed anche per un cantante è di far capire bene le parole. [...] E per far capire bene le parole, la «» è una delle lettere fondamentali. [...] Il gesto invece deve essere come spontaneo. Badate, non «spontaneo», «ome spontaneo», perché se dicessi: «Devi essere spontaneo, devi agire spontaneamente, io tratterei l’attore come un cane da circo equestre che deve fare solo certi movi-
menti e basta. [...] Gesto e parola vanno riferiti alla scena che vi è dato di recitare al momento. E l’attore può impararlo solo con lo studio, piano piano...?.
Insomma, Eduardo, collegandosi ad una grande tradizione teatrale, benché perseguisse un tipo di teatro considerato naturalistico, affermava che il teatro non può essere altro che Arte della finzione, mediante la quale è possibile rappresentare la realtà; la recitazione e il gesto, quindi, appaiono tanto più verosimili in teatro, per quanto più sono studiati, controllati, tecnicizzati, artefatti.
È da notare che
solo da tale consapevolezza potrà emergere la lucida considerazione dei rapporti tra finzione come realtà e realtà come finzione, tanto
presenti nelle tematiche teatrali di Pirandello e di Eduardo. E pren-
? Ibidem, pp. 135-137.
Linguaggio e tradizione nel teatro di Eduardo
HIS;
diamo in esame, sommariamente, le principali tematiche dei primi componimenti di Eduardo, in cui già emerge la singolare personalità del giovane autore. In Uomo e galantuomo, che è del 1922, la tradizionale tematica metateatrale (il teatro nel teatro) viene proposta come realistico e drammatico vissuto quotidiano (i protagonisti appartengono a una Compagnia girovaga di guitti); il tema della follia simulata si trova recitato ed iterato con risvolti farseschi, secondo la vecchia tradizione del San Carlino. Tuttavia, gli «effetti comici — lazzi pulcinelleschi, trovate gestuali e verbali, espedienti farseschi d’intrigo e d’equivoco — non impediscono di cogliere il risvolto serio della situazione, come acutamente annota Anna Barsotti !°; insomma l’impianto farsesco lascia anche intravedere le ipocrite normalità di una società piccolo borghese, che cataloga i folli in uno spazio al di fuori della norma e, quindi, mostra un panico timore nel trovarsi in presenza della follia (anche quando questa è simulata). Ma in Ditegli sempre di sì (del 1927) il motivo della follia viene elaborato a cavallo fra tradizione petitiana, scarpettiana (vedi ’O miedeco d’ ‘e pazze) ed esperienza pirandelliana. Renato Simoni, in occasione del debutto a Milano di tale commedia, scriveva: «Il personaggio di Michele, a poco a poco, passa dalla semplicità più schietta e calma ai più arditi giochi di ilarità, sfiorando talora la farsa, superandola, per raggiungere il grottesco, mescolando il vero allo sconvolgimento del vero. È la follia della comicità; e tutto questo con una precisione di particolari osservati, impeccabili»?!. Ma in Eduardo pulsa la voce interiore del più antico Pulcinella, la cui vena folle e delirante trova una ricodificazione all’interno di un nuovo contesto storico-sociale. Per quel che riguarda il linguaggio, il giovane autore non si discosta dal modello scarpettiano, che però risente anche del teatro di Bracco e di Murolo; in sostanza Eduardo impiega un dialetto nei
10 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), Roma, Bulzoni, 1988, pp. 28-29.
11 «Corriere della Sera», 21 marzo 1934.
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punti più personali ed espressivi della commedia, servendosi della lingua italiana o di un dialetto italianizzato per le parti esplicative e chiarificanti. Con Sik-Sik, l’artefice magico (1929) la personalità del trentenne autore svela le sue potenzialità espressive e mostra in sintesi la maturazione di diverse e meditate esperienze. Alla tematica metateatrale (il protagonista è un illusionista da avanspettacolo) si associa la componente farsesca, ribaltata drammaticamente in un contesto ai limiti del tragico. Ma uno degli elementi più interessanti è costituito dall’impasto linguistico, la cui punta più elevata è rappresentata dal dialetto-lingua italiana, parlato da Sik-Sik durante il suo lavoro di illusionista. Si tratta di una contaminazione tra dialetto popolare e lingua nazionale colta, il cui grottesco contrasto era osservabile nel linguaggio dei ciarlatani, degli inciarmatori di strada, che a Napoli hanno agito nelle piazze fino al 1950. È chiaro che a tali personaggi Eduardo si è ispirato, ma, per quel che riguarda la formalizzazione stilistica, egli ha tenuto presente l’esperienza di Ferdinando Russo, che già nel 1898 aveva pubblicato una serie di componimenti poetici, intitolata Ncopp’ ‘o marciappiede. In tali poesie il Russo mette in evidenza la variegata e vasta gamma espressiva dei linguaggi popolari di strada, tra cui l’espressività dei pubblici arringatori, dei prestigiatori, dei venditori di farmaci miracolosi, ecc. Ecco, ad esempio,
l’inizio de ’O banditore.
Venghini ad ossirvari... È qui dipinti il più grandi finòmini vivanti! S'imbocchini, signori! E appena rinti
ristate sbalordati in un istanti!?.
Ed ecco ancora il linguaggio di La «buona fortuna» Ecco signori! Nella mia caiola ngi tengo il suricillo ammaistrato
12 Ferdinando Russo, Ncopp'’ o marciappiede, Napoli, Edizioni Pierro, 1898, p. 9.
Linguaggio e tradizione nel teatro di Eduardo
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che quanno gli rivòrdo la parola quello, in due botte, ha tutto risvelato 13,
In un altro componimento, intitolato ’£ fazzulette ’e seta, è proprio un illusionista a parlare: Attenti!... In questa scatola ch’è aperta sortisce un gioco, lesto al mio scongiuro! Ecco! Un serpente! Il cranio di un canguro! Appiccio un coppo, e sorte una lacerta!...14
Non diversamente parla Sik-Sik in uno dei suoi allucinati monologhi: Tutti i prestiggiatori dicono sempre: «L’imbroglio c'è ma non si vede. Io invece dico: «L’imbroglio non c'è, chi lo vede ha visto una cosa per un’altra». Anzi per avitare qualunque suspetto, io
risîrero un controllo! !5
Ma la tradizione teatrale di simili linguaggi è molto antica nella storia del teatro napoletano. Ad esempio, nella commedia L'amor di figlio posto al cimento o sia Il Cronvello di Francesco Cerlone (1760 ca.), si ritrova una scena in cui dei ciarlatani napoletani arringano il pubblico in una piazza di Londra: Signori Angrisi, ecco ccà il celebre napolitano, comunemente chiammato il distruttore dei morbi, mandato dal cielo per levarvi la salute che avete. [...] Il mio barzamo intitulato Mirabilia, è quell’istesso che ad onta della morte ha portato migliara al sipolcro. [...] I ciechi nati, con tre unzioni del nostro barzamo all’ubellicolo, hanno ricuperata la loro cecità; i scartellati unti col nostro barzamo intorno al gobbo, e poi coperto colla
13 Ibidem, p. 11. 14 Ibidem, p. 12. 15 Eduardo De Filippo, Sik-Sik, l'artefice magico, in Cantata dei giorni pari, Torino, Einaudi, 19798, pp. 170-171.
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carta straccia calda, posti sotto al torchio d’un maccaronaro
hanno adderizzati i scartelli...1°.
Altri esempi si ritrovano nelle commedie di Pasquale Altavilla e di altri autori, ma il significato di tali scene assume valore diverso da scrittore a scrittore. Difatti, in Cerlone, in Altavilla e in altri, il fine
drammaturgico è squisitamente ludico, vale a dire che il linguaggio ha lo scopo esclusivo di provocare il riso. I componimenti del Russo, invece, sono concepiti con il disegno di mettere in luce un linguaggio «da strada», plebeo, in opposizione alla letterarietà linguistica del Di Giacomo, tanto magnificata dal Croce. In Eduardo, infine, quello
stesso tipo di linguaggio, pur se tradizionale, è impiegato espressivamente come spia di una drammatica condizione, in un contesto dove assume valenza di tragico contrappunto.
La sensibilità di Eduardo per i linguaggi tradizionali è presente in tutta la sua opera; e per linguaggio non ci si riferisce al dialetto, ma alle strutture totali della comunicazione. In Eduardo, spesso, il dramma della incomunicabilità è strettamente connesso con l’impoverimento e con la graduale decodificazione dei linguaggi, che egli profondamente avvertiva. In sostanza, la tragedia di Luca Cupiello è rappresentata dalla perdita dei valori rituali, connessi al Natale e alla rappresentazione del presepe. È noto che, nell’antica cultura napoletana, le angosce collettive erano codificate e rappresentate mediante la struttura presepiale, in un tempo dove la Storia appariva sospesa, cancellata, al fine di poter ri-creare il nuovo ciclo annuale. All’interno di un tempo metastorico Luca Cupiello tenta di risolvere le angosce del suo quotidiano, ma ormai i linguaggi tradizionali non sono più in grado di instaurare quel «tempo sospes®, per cui egli, come la stessa struttura del presepe, rimane fuori dalla Storia e «muore per sempre. Muore perché il tempo moderno non cede più spazio alla ritualità, ai linguaggi collettivi; egli si confina da se stesso nella non-Storia, nel regno dei morti, dal quale il Fanciullo Divino
16 Francesco Cerlone, L’amor di figlio posto al cimento o sia Il Cronvello, in Commedie di F. Cerlone, Tomo XI, Napoli, 1827, pp. 164-165.
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non può più instaurare quell’eterno ritorno, per cui si rinnovava
l'antica comunità napoletana. Ma per la tematica natalizia connessa alla morte, Natale in casa Cupiello, pur denunciando la fine di una tradizione, si colloca all’interno della più autentica tradizione popolare (in senso etnico); molto più che in testi teatrali dove alcuni vorrebbero identificare un presunto contenuto «popolare» mediante un dialetto di tipo plebeo. Non a caso, invece, questo testo di Eduardo si è inserito nel repertorio rituale-liturgico della tradizione natalizia. Difatti, in diverse cittadine
della Campania, le Compagnie «di dilettanti che una volta, nel periodo natalizio, mettevano in scena l’antica Cantata dei pastori del Perrucci, oggi hanno sostituito quel testo con Natale in casa Cupiello. Affine al personaggio di Luca Cupiello, per diversi aspetti, è lo Zi’ Nicola de Le voci di dentro. Anche Zi’ Nicola si autoconfina in quel mondo rituale, ormai decodificato (si ricordi l'ambientazione in una
specie di magazzino ingombro di vecchi attrezzi piedigrotteschi, in cui vive il personaggio): insomma, un luogo che sembra segnare il confine tra realtà e mondo fantastico; quel mondo, nel quale una volta convergevano e si rappresentavano le tensioni visionarie e il bisogno di fantastico delle persone. Per tali motivi, in una società che ha rifiutato quei linguaggi, Zi’ Nicola si esprime solo con suoni riferiti agli antichi spari di festa (un linguaggio, insomma, che emerge solo come frammento, come vago ricordo, come relitto). Ma è il visionarismo l’elemento fondamentale della commedia, quel visionarismo sempre più presente nel teatro di Eduardo; e si tratta di quel medesimo visionarismo popolare, mediante il quale si modellava, fino a pochi anni orsono, il tradizionale culto ai «morti abbandonati». Per avere un’idea di quanto coincide il linguaggio visionario di Eduardo con l’autentico linguaggio popolare napoletano, vale la pena di riportare le trascrizioni di qualche documento sonoro, registrato da Patrizia Ciambelli, negli anni ‘70. Le registrazioni avvennero in alcuni ipogei di Napoli, lì dove convenivano, ogni lunedì, i fedeli di un culto extraliturgico, rivolto a morti sconosciuti. Tali morti, dalle testimonianze raccolte, apparivano in sogno ai loro fedeli svelando la loro identità, e si manifestavano con segnali sonori (rumori di catene, sibili, ecc.), per cui i fedeli convenuti negli ipogei, pregavano
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Roberto De Simone
ad alta voce, e accendevano
lumini intorni ai teschi e alle ossa dei
defunti. Ed ecco, appunto, la registrazione relativa all’identificazione di alcuni teschi, da parte di una donna di Napoli: Uno nun s'ha da mettere paura! Fuieno scuperte chelli tre capuzzelle ‘e muorte. Dicett’i: «Comm'è bella sta capuzzella! Vulesse sape’ si è maschio, o di è donna. Doppo tre o quattro giorni se ne venette int’ ’o suonno, se presentaie vestito comm’a vvuie, accussì, brunetto, nu bellu giovanotto cu ’o cuzzettiello
aret’ ’a capa, ’o cappelluccio cumm'’ ’o prevete. Me dicette: «Mi chiamo Franco Rossi!» E così ho saputo chi era. Quattro settimane fa... che io mi sognai... Dicett'io: «Vulesse sape’ sti ssorelle morte, vulesse vere’ chesti ccà, insomma!.
Comunque,
se pre-
sentaie a un’ ’e nuie, dint’ ’o lietto. Io steva durmenno, no? Si
presentaie na capuzzella ’e muorte, comm’a chelli Ilà. E tutta che se muveva e abballava! Dicette io comme
se chiammava, e
“a capuzzella mi ha detto che si chiamava Giovanna: cosa che io non mi scordo perché queste sono cose vere! proprio successe! perciò io non mi dimentico; avete capito?!7 E da una altro testimone sentiamo:
Per venire qua ci vuole la fede. Io vengo qui da quando tenevo dieci anni, pirciò, mò ne ho cinquanta, sono quarant’anni. [...] Bisogna venire perché questi qua fanno i miracoli, ma i mi-
racoli veri! Io ci ho passato, da quando facevo il militare, tenevo venti anni, perciò ci credo, e li ho visti proprio! Ci vuole la fede, con la fede si ottiene tutto, e si vede tutto! 18 Da un’altra ancora:
Io me le sogno sempre, me le sogno tutte le notti le anime del Purgatorio. Sono belle, sono di carne come noi, si fanno capi-
!7 Ciambelli-Guiotto, Quelle figlie, quelle spose, Roma, De Luca Editore, 1980, p. 208.
18 Ibidem, p. 223.
Linguaggio e tradizione nel teatro di Eduardo
dz
re. Loro cercano refrischi e lumini. Vonn’essere mise nu lumino. Vonn’essere rinfrescate! Io tutte le notti me le sogno, tutte le notti! Questi fanno le grazie. Fanno le grazie! !9
Non vi pare di ritrovare la parlata di Pasquale Lojacono in Questi fantasmi!/, o di Maria, la cameriera, in Le voci di dentro, o di Ninuccia in De Pretore Vincenzo? Insomma, un’attenta lettura di taluni documenti linguistici po-
trebbe essere una spia illuminante per ciò che riguarda l’attenzione e l'aderenza di Eduardo all’interiorità del mondo popolare napoletano (al di là del dialetto in senso banale). Ma, proprio per tale aderenza, io non credo a taluni contenuti,
che, a detta della critica, sarebbero presenti nelle opere di Eduardo. Ad esempio, a proposito del senso simbolico di Filumena Marturano, Mario B. Mignone scrive: Filumena rappresenta la sete eterna di giustizia degli uomini. Domenico è lo Stato costituito e i figli sono i suoi prodotti, cioè le varie classi sociali. Con Filumena il popolo prende coscienza di sé, dei suoi diritti, dell'inganno di cui è vittima, e si ribella, tenta di scuotere con la sua carica di amore e di odio lo
Stato incallito nella sua indifferenza e nella difesa dei privilegiati. Il Domenico che poi accetta la paternità collettiva, è lo Stato che solo con l'uguaglianza di tutte le forze sociali (simboleggiate dai tre figli di Filumena che sono rispettivamente operaio, commerciante e scrittore) può trovare il suo equilibrio, la piattaforma di lancio del proprio progresso [...]. L’atto di solidarietà e di comprensione di Domenico nei confronti di Filumena e dei suoi figli che è amore tra le categorie sociali è la soluzione che Eduardo indica e auspica per la società italiana dopo tanti anni di oppressione e disuguaglianza e ingiustizie sociali?0.
19 Ibidem, p. 243. 20 Mario B. Mignone, // teatro di Eduardo De Filippo. Critica sociale, Roma, Trevi Editore, 1974, p. 134.
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Orbene, io penso che, con la programmazione di un tale contenuto, nessun autore teatrale avrebbe potuto scrivere più di mezza pagina; e invece Filumena fu scritta di getto, «in pochissimo tempo», come dichiarò Eduardo stesso, obbediente, io credo, a uno stimolo violento ed entusiasmante come la possessione di una Magna Mater. In ogni modo, nel teatro di Eduardo è possibile riscontrare una polisemia, per cui si può leggere in Filumena anche un significato del genere, beninteso «a posteriori», ed inquadrabile nell’ottica parziale di un determinato momento storico.
Ma, a proposito di Filumena Marturano, vorrei porre in evidenza un elemento alla base del linguaggio dell’opera, un elemento posto saldamente da Eduardo a scanso di equivoci e di rischi stilistici: Filumena «non può piangere, forse «non sa piangere, «non vuole piangere. In tal senso ella è un personaggio epico, collettivo, una vera «mater popolare; ella è, semmai, «colei che fa piangere», ma non
potrebbe mai piangere di se stessa. Come non ricordare, allora, la magistrale interpretazione di Titina, che, rigorosamente,
non conce-
deva alcuno spazio al patetismo, al facile sentimentalismo, in cui il personaggio potrebbe facilmente scivolare? E invece Titina-Filumena aveva gli occhi sbarrati, la bocca serrata, manteneva la medesima rigidità delle Addolorate, delle Macarene spagnole, esaltate ambivalentemente dai figli, che, correndo ritualmente, le recano sulle spalle, colpevoli di essere futuri padri, sull'esempio dei vecchi padri, secondo la Tradizione. Comunque, ciò vale a dire che Filumena è un personaggio che
agisce con assoluta lucidità, con fredda premeditazione; ella sa prendere delle decisioni, al contrario di Domenico Soriano che non sa decidere; ella ha scelto il suo uomo, mentre Domenico si è adattata,
dopo averla conosciuta in una di quelle «case; ella conosce molto bene Domenico, e sa che, in ultimo, egli non farà altro che accettare la sua decisione; alla fine, Domenico riconoscerà il suo vero ruolo di
«figlio», abbandonando le presunte prerogative di «padre». Insomma, Filumena è un personaggio di complessa ambivalenza, e, per tale complessità, richiede un'attrice di raffinata intelligenza, di grande cultura teatrale, né potrebbe essere interpretato premendo sulla facile corda di una scontata emotività. Alla luce di tali considerazioni, si
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può affermare che Eduardo si serve di uno dei più tradizionali archetipi della cultura mediterranea (la madre), e lo reinventa attraverso un linguaggio nuovo, epico e tuttavia coinvolgente; solo in tal modo ne recupera tutti i più profondi e collettivi significati. Ma con Filumena Marturano (e già a partire da Napoli milionaria/) Eduardo pone sempre maggiore attenzione ai linguaggi dei suoi personaggi, in riferimento alle mutate condizioni della città di Napoli. Difatti, a partire dall’ultimo dopoguerra, la cultura dialettale subisce notevoli modifiche. Dalla Città sparisce definitivamente il linguaggio rituale (o resiste in forme sempre più degradate); il dialetto da cortile o da strada diventa connotazione delle classi popolari, e il dialetto quotidiano, su cui premono anche i mass-media, va accogliendo una quantità di neologismi e di sfaccettature, di contaminazioni, all’interno dei diversi ceti sociali.
Da un lato, la nuova classe di piccoli e medio-borghesi (il nuovo ceto di arricchiti nel dopoguerra) in famiglia si esprime con un italiano corrente, in cui permangono alcuni termini dialettali. I figli di questi nuovi ricchi, pur parlando l'italiano come segno distintivo di uno status, tra loro recuperano snobisticamente alcuni antichi termini plebei, e, in salotto o tra amici, li esibiscono ostentatamente, po-
nendoli tra virgolette. Da un altro lato, la classe proletaria continua a parlare l’antico dialetto con le sue forme, pur se accoglie man mano nuovi termini televisivi, espressioni americane,
ecc. Purtuttavia, tali
persone, in presenza dell’Ufficialità, o di una persona di ceto superiore, si esprimono in un italiano scorretto, costruito con vocaboli ed espressioni dialettali, banalmente italianizzate. A tali mutamenti linguistici Eduardo rivolge attenzione, per cui differenzia i suoi personaggi mediante connotazioni linguistiche di notevole rilievo. Se si rileggono in tal senso i personaggi di Filumena, de Le voci di dentro, de La grande magia, di Sabato, domenica
e lunedì, ecc., si può percorrere il profondo mutamento linguistico della città di Napoli e dei suoi diversi ceti sociali. Con ciò non si vuol dire che Eduardo ricreò semplicisticamente dei linguaggi realistici, di tipo cinematografico, 0, peggio, di tipo televisivo; egli riuscì, comunque, a comporre un suo distinto impasto linguistico, con indubbie
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connotazioni letterarie, perché tale linguaggio risulta stilisticamente inconfondibile. Alla graduale evoluzione stilistica si affianca, mano a mano, l’impegno civile delle tematiche, in riferimento allo sgretolamento della famiglia, ai conflitti vecchi-giovani, alla denuncia della corruzione politica, dell’ipocrisia borghese, ecc. A tale sensibilizzazione non fu certamente estraneo il ruolo occupato, negli anni ’50 e ’60, dalla cul-
tura di sinistra, cui un artista come Eduardo non poteva moralmente sottrarsi. Ma è pur vero che, oltretutto, egli fu sensibile testimone di due apocalissi napoletane: la prima, in conseguenza della degradazione della Città da capitale, in relazione alla perdita dei linguaggi letterarî, allo ”sventramento” edilizio, al conformismo piccolo borghese degli anni ’20; la seconda, in relazione all’ultimo dopoguerra, con il quale inizia il finale disfacimento di Napoli, abbandonata al laurismo, alla speculazione edilizia, alla corruzione politica, alla fuga degli intellettuali dalla Città, alla graduale rinascita della camorra. Tale consapevolezza è alla base di taluni lavori teatrali di Eduardo (vedi // figlio di Pulcinella, Il sindaco del Rione Sanità) e contribuisce a quella vena di pessimismo che si riscontra spesso nei testi scritti fra il 50 e il ’70. A tal punto bisogna pur dire che, in relazione a tutto ciò, la teatralità spesso ne risulta come compressa e raffreddata. Comunque, anche se lavori come Mia famiglia, Il contratto ed altri non saranno mai popolari come Filumena Marturano o Natale in
casa Cupiello, essi potranno avere futura vita in virtù dei valori teatrali, al di là del contesto storico in cui sono stati composti. Con ciò si vuole anche dire che urge una lucida rilettura delle opere eduardiane di quel periodo; una rilettura che di quelle opere evidenzi i veri valori teatrali, al di là dell’imbalsamazione mitica di Eduardo, al di là
delle ideologie partitiche e degli entusiasmi intellettualistici. Orbene, tralasciando la suddetta produzione contenutistica, vor-
rei riferirmi ad alcuni testi teatrali (quattro in tutto) che sembrano costituire una deviazione dell’iter eduardiano, e rappresentano un «ritorno», un tenace attaccamento ai linguaggi della tradizione napoletana. Scritto nel 1952, l’atto unico Amicizia è un improvviso salto all'indietro; un gioioso, irrefrenabile, quasi infantile ritorno al gioco
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della farsa più autentica e tradizionale. In proposito così la Di Franco scrive: «Questo atto unico sembra essere uno di quelli scritti da Eduardo negli anni Trenta. [...] Se effettivamente l'Autore l’ha scritto nel ’52, si è imitato molto bene»?!. L'azione si svolge in una rustica casa di montagna, dove il sessantenne Bartolomeo Ciaccia è morente. Lo assiste la sorella Carolina,
che, dopo averlo accompagnato lì in montagna, aspetta la morte del fratello per potersene tornare a Napoli. Improvvisamente giunge Alberto, amico fraterno di Bartolomeo, desideroso di porgere l’estremo saluto al moribondo. Ma Bartolomeo, vaneggiando, non vuole rivederlo, vorrebbe rivedere una sua vecchia zia. A questo punto Carolina convince Alberto a travestirsi da donna e, per amore dell'amico, a fingersi la zia Matilde. Successivamente, secondo i desideri del morente, Alberto si traveste da negro, da carabiniere, e in ultimo da no-
taio. A questo finto notaio Bartolomeo confessa di essere stato l'amante della moglie di Alberto, dichiarando perfino che il primo figlio dei coniugi è suo. Sulla grottesca costernazione dell’uomo tradito dalla moglie e dal suo migliore amico cala il sipario. Una trama più o meno simile (con più complicazioni) presenta la commedia di Cammarano Cumpare, corna e... bastonate??, in cui Pangrazio, sospettando della fedeltà coniugale di sua moglie, si finge moribondo. Giunge il suo compare Saturnino, ed egli, desiderando svergognarlo, chiede delirando di voler parlare con la comare. L’uomo si traveste da donna ed il finto moribondo le dice di sorvegliare suo marito, perché egli si è accorto che il compare ha una tresca con sua moglie. Ignaro di tutto, il povero Saturnino, travestito da donna, asseconda il delirio di Pangrazio, dicendo che bisogna perdonare se si vuol essere perdonati. Visto il fallimento del suo intento, Pangrazio dice alla moglie di volere confessarsi, e la donna costringe il compare ad indossare i panni di un prete. A costui, per vendicarsi, Pangrazio confessa di essere stato l'amante della moglie del suo ami-
21 Fiorenza Di Franco, Le commedie di Eduardo, Bari, Laterza, 1984, p. 169.
22 Questa commedia di Cammarano (così come quella del Guarino, citata più avanti) è conservata in manoscritto presso il fondo Viviani.
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co. Ma in tale commedia
l’azione termina a lieto fine, con lo sma-
scheramento del compare geloso e con la riappacificazione delle due coppie. In un’altra commedia del Guarino // pazzo per amore (1868 ca.), l’azione si svolge in due Atti. Anche qui vi è un marito geloso che, per smascherare la presunta tresca di sua moglie con un suo amico, fa allestire dai suoi servi una commedia scritta appositamente da lui. Nella seconda parte, la farsa presenta Pulcinella moribondo, mentre la sua donna Teresella, fingendo di piangere, dimostra di avere una relazione con Feliciello, il comparello di Pulcinella. L’azione segue più o meno il medesimo svolgimento, pure se qui l’azione
si finge «recitata» all’interno di un’altra commedia. Il finale, ovviamente, sarà a lieto fine per tutti i personaggi. Ma, come si vede, l'argomento di tali commedie deriva da un tradizionale canovaccio del repertorio dei comici, elaborato in diversi tempi da diversi autori; né mi meraviglierebbe ritrovarlo tra i seicenteschi canovacci della Commedia dell'Arte. Al mondo ideale di un antico teatro, dunque, Eduardo sembra qui fare capo, quasi per attingerne nuova linfa; in tal senso egli rinverdisce la Tradizione, negli anni Cinquanta, «con l’umorismo cattivo e grottesco delle primissime commedie, come scrive ancora la Di Franco.
Del resto, in un'intervista concessa ad Antonio Ghirelli, egli chiariva le sue idee riguardo al teatro e alla tradizione: In teatro non s'inventa niente, se parliamo di situazioni e di personaggi. Chi dice che inventa il teatro, dice una bugia: è un vanitoso o uno sbruffone. Naturalmente, la tradizione non basta. Devi sapertene servire, con la fantasia, con l’osservazione, con la riflessione: diversamente, la Commedia dell'Arte avrebbe avuto il solo merito di
divertirci, di farci ridere superficialmente. [...] Senza la Commedia dell'Arte non ci sarebbe stato il mio teatro 24.
23 Cfr. nota precendente. 24 Antonio Ghirelli, Eduardo: «Tradurrò Shakespeare in napoletano», «Corriere della Sera», 10 luglio 1983.
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Ad un’autentica favola popolare Eduardo s’ispira per il poemetto Vincenzo De Pretore (1951) e per il successivo ed omonimo lavoro teatrale. Il nucleo della leggenda popolare narra di un ladro che, devoto di San Giuseppe, dopo essere morto, si presenta in Paradiso e pretende di entrare, invocando l’intercessione del suo Santo protettore. San Pietro e il Padreterno si oppongono, ma, quando San Giuseppe
minaccia di andar via portando con sé la Madonna, Gesù Cristo e i Santi, acconsentono ad accogliere il ladro tra i beati. Su tale leggenda, diffusa in tutta Italia e all’estero, nel 1955 fu pubblicato un interessante studio di Guido Tammi (I devoto di San Giuseppe nella leggenda popolare®) in cui vengono prese in esame le fonti letterarie e quello orali della tradizione. Tra le fonti orali, oltre la versione vigevanese, quella milanese, la vicentina, la senese, la bresciana, la friulana, quella siciliana, una spagnola ed una canadese, il Tammi riporta anche la variante irpina, registrata a Morra Irpino nel 1931. La variante napoletana fu tramandata letterariamente in Le
Corricolo (1856) da Alexandre Dumas, il quale attribuì il racconto ad un popolare predicatore del 1700: il Padre Rocco. Dal racconto di Dumas, probabilmente, prende avvio il poemetto di Eduardo, il quale colloca la leggenda all’interno di una più complessa narrazione, i cui contenuti denunciano il malessere di tanti giovani napoletani, figli di N.N., emarginati socialmente e, quindi, la-
dri per necessità. Stilisticamente, il poemetto non fa alcun riferimento alla epicità narrativa di tipo popolare (è chiara, insomma, la derivazione letteraria della leggenda); il linguaggio del componimento non si discosta dalla convenzionale produzione vernacolare napoletana, connotata da quella facilità spontanea del verseggiare in endecasillabi, dalla frequenza di dialoghi in forma diretta e da spunti teatralmente ironici, vicini allo spirito del poemetto ‘N paraviso di Ferdinando Russo. A mio avviso, il pregio maggiore del poemetto di Eduardo consiste
25 Guido Tammi, // devoto di San Giuseppe nella leggenda popolare, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1955.
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in quella autoidentificazione che il protagonista compie nei confronti di un mito popolare già esistente e diffuso (identificazione nel mito che si riscontra nell’ambito dell’autentica religiosità popolare). Ma a tale proposito può risultare interessante che, in altro senso, un processo di autoidentificazione avvenne anche in Eduardo. Difatti, una volta che, discutendo del De Pretore, io gli riferii di avere registrato a Secondigliano una variante della leggenda, mi rispose: «Non ho mai sentito o letto nessuna leggenda popolare. Vincenzo De Pretore è
solo mio; l’ho scritto io». Un’identica risposta egli la diede a Guido Tammi, cui concesse il permesso di pubblicare il poemetto nel suddetto studio. Difatti, dopo la prima parte del componimento di Eduardo, nel riportare la parte centrale della leggenda, così il Tammi scrive in nota: È evidentissima la somiglianza con la leggenda popolare, anche se il poeta ha dichiarato, avendogli io fatta la richiesta, con una lettera del 25 maggio 1953 che «la vicenda è tutta opera
della sua fantasia» 20. Il significato della leggenda popolare differisce sostanzialmente dal poemetto di Eduardo. Nella favola folclorica si rappresenta il contrasto angoscioso tra misericordia e giustizia; in tal senso, la giu-
stizia è incarnata dall’Ufficialità come Chiesa (San Pietro e il Padreterno); la misericordia trionfante è attribuita a San Giuseppe (e in altre leggende è rappresentata dalla Madonna o da una Santo). Insomma, la leggenda popolare mette in luce il conflitto tra la Chiesa ufficiale e la Chiesa extraliturgica, in relazione a un cattolicesimo ufficiale e ad un cattolicesimo popolare. Nell’opera di Eduardo la tematica conflittuale si estende in un ambito totale, e investe i problemi delle marginalità sottoproletarie, delle insufficienze istituzionali,
dei coflitti sociali; in tale orizzonte si colloca la leggenda folclorica, il cui significato risulta totalmente reinventato, in rapporto all’identità che Vincenzo De Pretore assume nei riguardi del mito religioso. In-
26 Ivi, p. 90.
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somma la leggenda risulta assunta da Eduardo come «materiale», come elemento linguistico, inserito in un linguaggio unico, stilisticamente e contenutisticamente proprio di Eduardo. E veniamo al testo teatrale. De Pretore Vincenzo, del 1957, pre-
senta la particolarità di essere articolato in due Parti e sei Quadri. Nel primo Quadro l'Autore mette in luce il carattere visionario del protagonista, figlio di ignoti, povero ladruncolo, ma illuso di essere figlio di gran signori, e incline a confondere i confini del mondo reale con il fantastico. La seconda scena si svolge in una strada (ambientazione atipica per il teatro eduardiano). Ma in tale Quadro Eduardo si riferisce a una di quelle vecchie stradine di Napoli, presepialmente costruite a gradinate (come ce n’erano tante, una volta). L’ambientazione, insomma, più che riferirsi ad un luogo realmente esterno, si configura in un piccolo mondo-universo,
dove Vincenzo De Pretore
spinge il suo visionarismo ai limiti della confusione totale tra realtà e fantasia. Nel descrivere l’antica stradina napoletana, Eduardo sembra cedere alla convenzione di introdurre perfino i richiami dei venditori da strada (un’ovaiola e un pizzaiolo), ma tali elementi, al di fuori di
qualsiasi compiacimento folcloristico, sono da considerarsi elementi favolistici del mondo interiore di De Pretore. Nella scena del Paradiso, infine, si riscontra qualche attrito stilistico, dovuto inevitabilmen-
te all’opposizione semantica: realismo linguistico e surrealtà dell’azione-sogno. Consapevole di tale carenza, Eduardo, nel 1974, scrisse una seconda versione della scena del Paradiso, in cui tentò di risol-
vere il problema mediante una struttura linguistica articolata in versi. In ogni modo, egli avvertiva la problematicità linguistica del De Pretore, per cui, quando mi commissionò le musiche per la ripresa televisiva, mi disse: «Nelle prime scena, non credo che ci voglia molta musica, ma nella scena del Paradiso la musica non deve smettere mai. Non è musica di commento, perché se no non avrei chiamato voi. Dovete pensare di scrivere un’opera». Insomma, alla musica, come elemento di linguaggio estraniante, non coinvolgente né illustra-
tivo, egli pensava, proprio per liberare il dialetto e l’azione da ogni sospetto di naturalismo, al fine di creare un linguaggio composito, affine allo stile di una sacra rappresentazione (si valuti, alla fine della detta scena, l'indicazione della tradizionale Pastorale natalizia, can-
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tata da tutti i Santi nel paradiso-presepe di Vincenzo De Pretore, come di Luca Cupiello). A questo punto vorrei accennare al Tommaso d’Amalfi per due motivi; primo: perché, come il De Pretore, l’opera ha una struttura «diversa» dalla produzione di Eduardo; secondo: perché, sia in De Pretore che in Tommaso d’Amalfi, il protagonista è un esponente della classe popolare. Difatti, se si eccettua il personaggio di Filumena, i protagonisti delle commedie di Eduardo sono borghesi o piccoli borghesi. Commedie come Sabato, domenica e lunedì, o Mia famiglia, possono essere ambientate a via Petrarca, o al rione Amedeo,
o al Vomero, ossia in zone abitate prevalentemente da gente «bene». In sostanza, a questa classe l’Italia di fine secolo aveva attribuito il mantenimento di valori quali la famiglia, la verginità femminile, ecc.; al popolo si riconosceva una «alterità» culturale, la cui morale era guardata con sospetto, era considerata perlomeno «discutibile», e quindi era da correggere mediante l’educazione, l'istruzione e, infine, l’integrazione. Si veda, a tale proposito, come anche Filumena rifiuti in termini critici l'atteggiamento di suo padre, della sua famiglia, insensibili alla prostituzione di un loro congiunto. Insomma, è alla dissoluzione di valori tradizionali piccolo borghesi, che si rivolge l’accorata ispezione di Eduardo (e in tal senso il suo famigliarismo si accomuna
a una letteratura internazionale che, mediante il teatro,
denunciava il medesimo crollo di valori in tutta l'Europa post bellica). A tale riguardo è anche significativo che, in Inghilterra, proprio con Sabato, domenica e lunedì, Eduardo sia stato consacrato come
autore internazionale, al di fuori della sua connotazione napoletana. Con Tommaso d'’Amalfi la collocazione, quindi, è popolare anche se il protagonista è, come De Pretore, assunto come eroe di una
rappresentazione in bilico tra realismo e surrealismo. Anche stavolta l’opera è strutturata in due Tempi e diversi Quadri (addirittura venti), che sembrano rimandare a quegli ottocenteschi drammoni popolari, o alle rappresentazioni di «opere dei pupi». Come nel De Pretore, anche nel Tommaso d’Amalfi alcune scene sono ambientate in strada (Piazza Mercato), dove «ritornano, coloristicamente, i richiami dei venditori napoletani. Ma stavolta, invece di riferirsi alla tradizione «viva» del suo tempo, Eduardo si riferisce a «voci» desunte da un do-
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cumento letterario del tardo Settecento (si tratta della Collezione di tutti i termini e voci popolari dei Napoletani, alias Bazareoti, e venditori di tutti i generi di consumo all’usanza e secondo il costume di Napoli, composta da Domenico
Palmieri, e conservata in mano-
scritto alla Biblioteca Nazionale di Napoli). L'impiego di tali «voci» di venditori colloca la rappresentazione in un clima «antico», quasi da favola, al quale si sovrappone, come al solito, il linguaggio naturalistico dello stile eduardiano. Ma, in tale opera, i tipi di linguaggio sono numerosi e diversi. Caratteristico è
quello dei comici, che, in piazza, rappresentano una parodia della rivolta di Masaniello; il linguaggio del Viceré e della Viceregina non è dissimile da quello che, caricaturalmente, Antonio Petito metteva in bocca ai suoi personaggi nobili; eppure, ancora in riferimento al Viceré e alla Viceregina, la struttura del loro parlare in versi fa pensare ad alcune caratterizzazioni grottesche, presenti nel Teatro di Sergio Tofano. Masaniello e sua moglie Bernardina si esprimono in vario modo: in alcuni momenti essi parlano il dialetto naturalistico; in altri momenti, più epicamente, si esprimono in versi; in altri ancora, recitano un dialetto «arcaico», quasi di sapore rituale. Ma, tralasciando
altre considerazioni
sui contenuti
dell’opera,
pongo in evidenza un elemento che mi pare di fondamentale importanza. E mi riferisco all’erotismo, che in quasi tutta la produzione di Eduardo è assente o è scarsamente evidente. Nel Tommaso d'’Amalfi, invece, l'erotismo è scopertamente
presente in molti momenti
del
dramma, quasi a costituire la connotazione principale di Masaniello, del rivoltoso, del folle, dell’autentico personaggio popolare, che, proprio in virtù di un suo erotismo straripante, possiede una carica di vitalità e di presenza straordinarie. Solo in Filumena Marturano, non a caso, la protagonista allude spesso a situazioni erotiche (la risata di Domenico Soriano che risuonava significativamente nel bordello). Nelle altre commedie l’erotismo appare rimosso, così come è rimosso nella realtà della classe piccolo borghese. Ma, ponendo in argomento il mondo popolare, è comprensibile che Eduardo si serva di connotazioni della classe sociale che intende rappresentare. È così che egli individua in una religiosità delirante i tratti salienti di Vincenzo De Pretore, e in un erotismo panico, quelli di Masaniello.
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Il secondo Quadro dell’opera, difatti, viene ambientato in un «durido lupanare, situato in una taverna del Lavinaio. [...] Dall’interno del casino giungono voci roche di uomini ubriachi, schiamazzi e risate di donne anch'esse in preda ai fumi del vino». Dal casino, gestito da una tedesca, spinto da una donna negra quasi svestita, compare un soldato tedesco con la giubba sbottonata, le brache cadenti, com-
pletamente ubriaco. Completano l'ambientazione quattro «femminelli», quattro «ricchioncelli», detti «mantesenielli», praticati anche da Ma-
saniello che qui giunge per parlare con «Madama», ossia la tenutrice del bordello. Ma sopraggiunge Bernardina che, nel trovare il marito in quel luogo, fa una scenata: MASANIELLO (accorrendo, agitatissimo) Bernardi... BERNARDINA Cà staie, fetentone! MASANIELLO lo sto qua per altre ragioni.
BERNARDINA Staie ccà pe’ fa’ ’o cumandante d’ ’o burdello. [...] Pure ’e femmene nere? Faie schifo! A casa te faie ’o bagno, zezzuso! [...] MASANIELLO (aprendo la camicia con gesto teatrale e mostrando il ventre) Bernardi’, sopra alla pancia mia si possono mangiare i maccheroni! 27
Successivamente, quando Masaniello torna a casa e trova la porta chiusa a chiave, alle rimostranze di Bernardina, ristabilisce il rapporto con lei mediante il sesso, mediante l’erotismo: MASANIELLO Embè,
facimmo accussì. Tu ti spuoglie mentre io saglio mentre saglio già mi spoglio Appripara ‘o matarazzo. Bada a te, so’ ascito pazzo, uno zumpo e so’ sagliuto 28. 27 Eduardo De Filippo, Tommaso d’Amalfi, in Cantata dei giorni dispari, vol. III, Torino, Einaudi, 1979, pp. 99-100.
28. Ibidem, p. 102.
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Ma in tutta l’opera il protagonista stabilisce un contatto corporeo con la gente, con il suo popolo, perfino con i suoi nemici. Alla fine, la connotazione di folle che gli vien data dal Potere, sembra l’esorcismo a una carica erotica in grado di stabilire un contatto collettivo. La confusione tra eros e follia determina la fine del capopopolo, vittima anche di un timore, di una colpevolizzazione, di una «cattiveria» popolare, denunciata dall’Autore.
A questo punto può risultare interessante prendere in esame un testo teatrale, edito a Londra nel 1647, un anno dopo la famosa rivolta. Il testo si intitola 7be Rebellion of Naples, or the Tragedy of Massenello, e risulta scritto da un testimone
oculare degli accadimenti
napoletani del 1646; difatti sotto il titolo si legge Written by a Gentleman who was an eye-witness where this was really acted upon that bloody Stage, the streets of Naples. Il dramma, come cronicle play, è strutturato in cinque Atti e numerosi Quadri; contiene diversi linguaggi, quali la prosa, i versi, la musica, il canto e la danza. Inoltre, l'anonimo autore, testimone ocu-
lare così come egli si definisce, mette in grande evidenza la natura erotica e folle del protagonista. Difatti, alla fine, in un bel monologo, fa dire a Masaniello, già in preda alla follia, che la Morte e Cupido hanno albergato e dormito nella sua stessa stanza: Enter Massenello into the Mercato looking wildly; all the people about him; after a long pause, he speaks. MASSENELLO Wonders! Wonders! Without all bounds and measures! Death and Cupid quartered together last night in the same room.
Certamente Eduardo non ha mai letto questo dramma inglese, ma è interessante sottolineare qualche altra analogia. Il testo di Eduardo si conclude con i funerali di Masaniello, durante i quali, ancora una volta, si ode la voce del capopopolo che parla alla sua gente, con un linguaggio al di fuori del tempo. Similmente, nell’ultima scena della tragedia inglese si rappresentano i funerali del protagonista che, miracolosamente, viene resuscitato da un monaco, e quindi
parla per l’ultima volta al suo popolo. Ma l'ideologia dell’anonimo
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scrittore elisabettiano è tesa ad esaltare la restaurazione in Inghilterra dopo la rivoluzione di Cromwell. Per tale motivo, l’autore, pur mostrando la massima simpatia per il pescivendolo napoletano, alla fine, durante quella breve resurrezione, gli mette in bocca parole reazionarie. Insomma gli fa dire che le rivoluzioni sono inutili, e che a sostenere il vero Potere occorre una «testa regale», e non la testa di un folle. Tutto ciò sta ad evidenziare la sensibilità poetica di Eduardo, il quale era in grado di stabilire, per vie misteriose, un’assonanza con un testo teatrale, scritto trecento anni prima del suo. Purtuttavia, il Tommaso d’Amalfi risulta un componimento la cui complessità risiede proprio nel linguaggio non sempre omogeneo ed unitario. Bisogna però considerare che Eduardo assegnò alla musica un ruolo primario e determinante, che fosse cioè in grado di cementare, in un unico stile linguistico, le discrepanze del testo. Pertanto, si può auspicare che un musicista, attratto dall'idea, possa sperimentare il non poco arduo disegno di fornire unità al testo eduardiano, che, limitato alla sola lettura, risulta incompleto. Infine veniamo alla traduzione in dialetto de La tempesta di Shakespeare, lavoro che, a mio giudizio, costituisce il testamento artistico di Eduardo e una illuminante indicazione per la cultura napoletana. Orbene, limitandoci ad un sommario esame linguistico dell’opera, leggiamo, dalla Nota del traduttore: Quanto al linguaggio, come ispirazione ho usato il napoletano seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive oggi; sarebbe stato innaturale cercare una aderenza completa ad una lingua non usata ormai da secoli. Però... quanto è bello questo napoletano antico, così latino, con le sue parole piane, non tronche, con la sua musicalità, la sua dolcezza, l’eccezionale duttilità e con una possibilità di far vivere fatti e creature magici, misteriosi, che nessuna lingua moderna possiede
più 22.
29 «La tempesta»..., cit., p. 187.
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Come si vede, anche Eduardo credeva, come tanti, che il dialetto
impiegato da Basile e dal Cortese fosse realmente una lingua «antica», realmente «parlata», «usata», con preposizioni ed articoli non aferizzati, con parole piane e non tronche. Purtuttavia Eduardo avverte il valore dell’antico dialetto letterario e, con intuizione geniale, lo associa al mondo scespiriano, come linguaggio equivalente dell’inglese presente ne La tempesta. Ma, come egli stesso dichiara, Eduardo non intende ricreare filologicamente il dialetto di Basile, ma vuole ispirarsi ad esso per la sua musicalità, per la sua connotazione fantastica e letteraria. In sostanza, sebbene egli faccia uso di articoli non aferizzati, di verbi al modo infinito senza troncamenti, sebbene impieghi enclitiche e monosillabi d’appoggio, il linguaggio rimane quello eduardiano di sempre. Possiamo affermare che, con somma perizia d’attore, Eduardo si trucca da Giambattista Basile, fino ad immedesimarsi nel
ruolo, ma la lingua resta connotata dalle forme proprie dell’espressività di Eduardo. Insomma, potremmo parlare di un Eduardo Basile, di un Giambattista De Filippo, e invece sappiamo che il solo nome di Eduardo presuppone il suo cognome, mentre il solo nome di Giambattista non presuppone il cognome, e resta un figlio di N.N. In ogni modo, il dialetto impiegato ne La tempesta fa uso sia di forme letterarie sia di forme orali, come in questo esempio: ARIELE
[...] Me so’ fatto invisibile e ll’aggio accumpagnato a lu posto cchiù bello ‘e tutta l’isola 39
dove, nell'ultimo verso, si trova l’articolo senza aferesi «lu posto», e,
subito dopo, la preposizione de scritta con aferesi (per evidenti ragioni metriche). Insomma, se mai si potessero trovare dei versi simili di uno scrittore napoletano del Seicento, li troveremmo, per lo meno, scritti in questo modo:
30. Ibidem, p. 33.
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Me songo fatto ’nvisibbele e accompagnato l’aggio a lo luogo lo cchiù bello de tutta l’isola
o, meglio ancora: ’nvisibbele fatto me songo e accompagnato l’aggio a lo cchiù bello pizzo de tutta l’isola.
Diverse volte, inoltre, Eduardo usa termini letterariamente arcai-
ci, con un compiacimento che oserei definire dannunziano. Per quel che riguarda la struttura dei versi, egli impiega frequentemente l’endecasillabo, il settenario, il senario, l’ottonario, né mancano altri tipi
di versi, impiegati con moltissima libertà. Le forme poetiche sono da considerarsi assolutamente libere, per quanto, talvolta, si avverte il riferimento all’egloga di Basile (formata da settenari e da endecasillabi). Ma, come si è già detto, la costruzione linguistica rimane pur sempre quella di Eduardo, senza alcun riferimento ai procedimenti formali del barocco napoletano. Mancano, difatti, l'accumulo, l’elencazione, le metafore, il periodare frondoso, che, sul piano fantastico,
avrebbero costituito un ottimo parallelo al linguaggio de La tempesta. Ma il mondo fantastico di Eduardo cammina per altre strade. A lui preme di scoprire o di ri-scoprire la validità di un dialetto teatrale, liberato dal naturalismo della parlata quotidiana, l’espressività di un dialetto stilizzato, in grado di rappresentare un mondo interiore di Napoli, di Londra o di tutto il mondo. Ed allora: eccolo immergersi totalmente in questa fatica con la curiosità e la gioia di un bambino che scopre nuovi orizzonti e paesaggi mai esplorati. E la traduzione de La tempesta, per l’ottantenne Eduardo, acquista il significato di una rinascita, di un ritorno al mondo fantastico dell’infanzia, dell’adolescenza. In tal senso, difatti, egli scrisse nella Nota: La magia, i trucchi di scena, le creature soprannaturali che popolano questa commedia mi ricordano da vicino una interessante esperienza teatrale che vissi a diciannove,
vent’anni,
quando recitavo nella Compagnia di Vincenzo Scarpetta, il
Linguaggio e tradizione nel teatro di Eduardo
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quale decise di riprendere un genere teatrale antichissimo, la Féerie seicentesca che fino a metà dell’Ottocento fece parte di molte Compagnie. Scrisse perciò un adattamento della vecchia e celebre / cinque talismani, intitolandola La collana d’oro e aggiungendovi il personaggio di Felice Sciosciammocca. [...] Fu un grande successo, e l'incanto sottile di quell’ambiente fantastico, ingenuo e supremamente teatrale mi è rimasto den-
tro per oltre mezzo secolo, influenzando la mia scelta 31,
Come
si vede, è a un tipo di teatro tradizionale e barocco che
Eduardo si riferisce, anche se va considerato che quel repertorio era
già decaduto e decodificato negli anni ’20; tuttavia, da quel mondo teatrale-favolistico, già diventato «revival» ai suoi tempi, ritorna la figura di Felice Sciosciammocca, quasi padre benevolo, un padre favolistico che, nel ricordo dell’ottantenne Eduardo, sembra assumere i tratti di Felice-Prospero, o di un Felice-Prospero-Eduardo, che, nel
dialetto letterario già ripudiato, ritrova la possibilità di esprimersi nel nostro tempo e al di fuori del tempo. Insomma, con la traduzione de Za tempesta, Eduardo celebra, letterariamente, la definitiva morte di un dialetto naturalistico, ormai
in dissoluzione e svuotato di possibilità espressive. Il ritrovarsi in una lingua napoletana «costruita», così come «costruita» egli intendeva
la spontaneità teatrale, rappresenta l’ultimo messaggio alla cultura napoletana e al grande Teatro. Infine, va evidenziata l'aderenza di Eduardo al personaggio di Calibano, più che a quello di Prospero. Difatti, quando ascoltai la registrazione mediante la quale egli incise su nastro tutti i personaggi
maschili de La tempesta, constatai che il personaggio di Calibano era reso con una forza ed una maestria, che era poco definire geniali. Poi mi resi conto che in quel personaggio Eduardo esprimeva al meglio una sua nascosta interiorità «antica», libera finalmente da ogni moralismo convenzionale, da qualsiasi manicheismo; insomma egli mostrava un suo viso senza maschera, felice di vivere in teatro la sua
31 Ibidem, pp. 185-186.
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Roberto De Simone
«cattiveria infantile», la sua nobiltà selvaggia e primitiva di Nume degradato da Prospero. Ed allora, liberando anche la mia fantasia nella struttura scespiriana, ho ritrovato in questo Calibano di Eduardo l’arcaica maschera di Pulcinella, quel Pulcinella-Calibano-Antonio Petito, rimosso e degradato da Prospero-Felice-Eduardo Scarpetta, contro il quale egli rivendica i suoi diritti di antico principe dell’isola (Napoli?) ormai soggiogata e vinta dalla magia e dai trucchi del conquistatore. CALIBANO
[...] Chest’'isola è la mia! Me l’ha lassata màmmema Sicurace. Tu arrivaste,
e appriesso a Calibano te mettiste... Cu la furbizia toja me faciste li cerimonie e tutte li carizze
ca se fanno a nu figlio, [...] Ero lu Rre, ccà ncoppa, e mò so’ schiavo! Tu saie chi si”?
L’usurpatore mio! 32
E con la rivendicazione della maschera al viso scoperto dell’attore, del Pulcinella al Felice, della visceralità alla razionalità, e forse anche di Eduardo allo stesso papà Scarpetta, il testamento teatrale del Nostro sembra tutto condensarsi nella splendida canzone con cui Cali-
bano-Eduardo chiude il suo ultimo Atto del più grande Teatro: Bano bano s'ha truvato nu padrone affezionato, Cali, ca, Calibano! Bano bano l’ha lassàto lu padrone svergognato!
32 Ibidem, pp. 45-46.
Linguaggio e tradizione nel teatro di Eduardo
Cali, ca, Calibano! Bano bano cu na funa
è arrivato ncopp’ ’a luna! Cali, ca, Calibano, Cali, ca, Calibano Cali, ca, Calibano! 33
33 Ibidem, pp. 103-104.
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AGOSTINO LOMBARDO
EDUARDO E SHAKESPEARE
La comparsa,
nel 1984 (l’anno stesso della morte di Eduardo),
della «traduzione in napoletano» de La tempesta! potrebbe sembrare il frutto di una impresa bizzarra e persino velleitaria: ma in realtà Shakespeare è sempre presente, dal principio alla fine, nella lunga e memorabile carriera di Eduardo. Nelle Lezioni di teatro tenute all’Università di Roma «La Sapienza» e amorosamente raccolte e curate da Paola Quarenghi si può leggere: «Ho letto molto da giovane,
quando avevo gli occhi buoni, e prima di ogni altro autore scelsi naturalmente il primo della classe, Guglielmo Shakespeare?. E le ultime parole del libro sono: «Shakespeare da una parte ha danneggiato Shylock, ma dall’altra ha trovato pure il modo di salvarlo. Ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte. Pure in Am/eto ha fatto così. E ha fatto bene. Grande uomo di teatro!»3. Del resto, proprio a Shakespeare sono dedicate buona parte delle lezioni, e ciò perché, insieme agli studenti, in quella vera e propria «utopia» che era la scuola di drammaturgia da lui fondata presso il Centro Teatro Ateneo, egli elaborò una commedia intitolata L'erede di Shylock (poi portata a compimento da Luciana Luppi ‘);e può essere interessante rievocare il momento della proposta:
. 1 «La tempesta» di William Shakespeare tradotta in napoletano da Eduardo De Filippo, Torino, Einaudi, 1984. 2 Eduardo De Filippo, Lezioni di teatro, Torino, Einaudi, 1986, p. 81.
3 Ibid., p. 174. 4 Luciana Luppi, L'erede di Shylock, da un'idea di Eduardo De Filippo, Torino, Einaudi.
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Agostino Lombardo
Io vi propongo questa idea, e già dal titolo capirete: L’erede di Shylock. C'è una famiglia Shylock sottosopra perché il primogenito vuole riaprire il processo... Quello che può succedere in famiglia lo possiamo immaginare: chi vuole, chi non vuole, litigi; ma alla fine lui vince e rifà il processo... L'idea è questa. Voi dovrete fare tutte le ricerche, riunirvi, discutere... E speria-
mo che venga fuori un buon lavoro, che abbia un certo inte-
resse anche per gli storici 2.
Di qui molte e varie discussioni, oltre che sul lavoro degli studenti, sul Mercante di Venezia, sulle intenzioni di Shakespeare,
su
quella che Eduardo chiama spesso la sua «tattica»: Si trattava di un ebreo. Come avrebbe potuto Shakespeare difendere un ebreo in quell’epoca? Già era malvisto... Non solo avrebbero sputato addosso pure a lui, come a Shylock, ma lo avrebbero addirittura ammazzato. Quindi Shakespeare ha do-
vuto usare una tattica 5. E più avanti, in un passo illuminante: Io accuso la società in cui viveva Shakespeare. Come poteva fare? Come avrei potuto fare io durante il fascismo, se non far ridere il pubblico e poi in ultimo ammannirgli un capovolgimento dell’azione e mostrargli la tragedia? In quell’epoca anch'io ho dovuto usare una tattica. E Shakespeare si è trovato peggio di me, in condizione di far buon viso a cattivo gioco. Non ha potuto in quell’epoca dire: «Badate, l’usura l'avete imposta voi!» Però lo poteva dire Shylock perché era la verità. I re si servivano degli ebrei, si facevano prestare i quattrini. Io mi inchino davanti alla prontezza di spirito e alla tattica che ha usato Shakespeare in quell’epoca: è riuscito ad uscirne. E magari ne
° Eduardo De Filippo, Lezioni..., cit., pp. 83-84.
6 Ibid., p. 83.
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uscissero tutti come ne è uscito lui. Ma una tattica ha dovuto usarla. Prendiamo il caso mio. Lontano mille miglia dal pensare ad un accostamento con Shakespeare, ma la situazione per me è stata la stessa. Dopo la guerra... mi sono messo contro i magistra-
ti, i politici, tutti! L’avrei potuto fare all’epoca fascista?... Nel 27 scrissi Ditegli sempre di sì. È uno dei miei primi lavori. Quella era l’epoca d’oro del fascismo ed il titolo era allusivo... Erano allusioni, allegorie, un po’ di fantasia dentro, e poi si dava la battuta. Ma fino a quando c'era il fascismo ho dovuto chiudere dentro tutto quello che c’era da dire”.
Già queste citazioni (e altre sarebbe facile aggiungerne) possono suggerire la conoscenza, e conoscenza profonda, che Eduardo ebbe di Shakespeare (e che sembra essersi intensificata negli ultimi anni della sua vita: e mentre parlava ad Antonio Ghirelli dell'«esito straordinario» che avrebbe potuto avere la traduzione in napoletano di altre commedie shakespeariane oltre La tempesta, a chi scrive rivelava il proposito di tradurre in napoletano l’Aml/eto). Ma anche suggeriscono l’attrazione costantemente provata per un uomo che come lui era drammaturgo, attore (seppur non così grande...), capocomico e insomma
«teatrante»
— un
uomo
che
costituisce,
a mio
avviso,
l’influenza più estesa e più profonda della sua vicenda artistica. E non mi riferisco soltanto ai molti richiami espliciti, che pure ci sono, o alle numerose citazioni e allusioni a personaggi e opere shakespeariani, o appunto alle Lezioni che si sono ricordate: bensì ad un rapporto più intrinseco, su cui si è fin qui indagato troppo poco e che merita invece d’essere esaminato, se si vogliono affrontare certi punti nodali del teatro di Eduardo (un teatro che a me pare, insieme a quello di Pirandello, il più importante del Novecento italiano e tra i maggiori del Novecento europeo). E il rapporto è intrinseco perché non è generico. Certo, Eduardo
ammira ed ama Shakespeare come tutti noi, da lettori e spettatori, lo
7 Ibid., p. 107.
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ammiriamo ed amiamo, e si pone davanti a lui come davanti al massimo poeta del mondo moderno, ad un artista che è universale ed
assoluto ma ci apre, insieme, alla comprensione della nostra condizione storica. Ma Eduardo vi si pone davanti anche in modi più diretti e ravvicinati. Nei modi, così, del drammaturgo che trova, nei per-
sonaggi shakespeariani, i lineamenti di molti dei propri. E penso in primo luogo ad Amleto (centrale, io credo, all’ispirazione di Eduardo — che giunge a scrivere La parte di Amleto — come di tanti autori del Novecento), ma anche a quelle figure di esclusi (Shylock o Otello) o di vittime della storia, della guerra, del potere, per le quali i due autori provano una comune pietà. Nei modi, poi, dell’uomo di teatro che scava in quei grandi «copioni» per apprenderne il segreto teatrale — e possiamo ben immaginare che anche ai testi shakespeariani si applichino parole come queste: Ricordo che mio padre, Eduardo Scarpetta, mi regalò una scrivania per invogliarmi a copiare testi teatrali, a dieci pagine al giorno. Così fu che copiando commedie, farse e tragedie, a poco a poco, copia oggi e copia domani finii per capire il taglio d’una scena, il ritmo dei dialoghi, la durata giusta... 8.
Non v'è dubbio, comunque, che egli ricavi da Shakespeare lezioni fondamentali, e per esempio, come Pirandello, l’uso del «teatro nel teatro», 0 l'innesto del comico nel tragico («Shakespeare persino nell’Amf/eto ci ha messo le capriole, le macchiette e i tipi, i personaggi comici») e, ancor più, la «teatralità» della parola, che dev'essere, nel teatro, «di voce, non «d'inchiostro», e in cui perciò è sempre implicito il tono con cui l’attore dovrà pronunciarla, il gesto che dovrà compiere, l'atteggiamento che dovrà assumere, la maschera che dovrà indossare, la libertà stessa d'improvvisare che potrà prendersi.
$ Ringraziamento di Eduardo De Filippo in Allocuzioni pronunciate durante la cerimonia di consegna di lauree Honoris Causa, Roma, Università degli Studi,
1980, p. 19.
Eduardo e Shakespeare
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E tutto questo in un rapporto non di sudditanza ma direi di colleganza (si pensi al tono dei brani citati dalle Lezioni, dove spesso si dice esplicitamente che non bisogna avere «soggezione di Shakespeare). Di fatto, esso poggia sul riconoscimento, da parte di Eduardo, che Shakespeare è come lui un «teatrante, sia pure il più bravo di tutti, il «primo della classe». I testi sono essenziali, per Eduardo, ma il teatro non è letteratura bensì appunto teatro, un mondo i cui tratti
specifici egli delineava nel 1980, nel suo discorso alla Sapienza in occasione del conferimento della laurea «honoris causa, quando, ricordando il suo «vivere il teatro, abitare il palcoscenic®», indicava i van-
taggi faticosamente conquistati con questa scelta: Il primo è che, stando in teatro tutto il giorno ho imparato, con la pratica e con l’insegnamento di grandi maestri di quell’epoca, tutto ciò che c’è da imparare in palcoscenico. Facendo teatro, si viene a contatto non soltanto con le arti propriamente
teatrali: la recitazione, la drammaturgia, la regia, ma anche con la pittura, il disegno, la scultura, la musica, il canto, la danza e
s'impara di necessità un poco di tutto... In palcoscenico s’impara a conoscere anche l’artigianato, meno appariscente delle cose di cui v'ho parlato ma d'importanza altrettanto vitale per metter su uno spettacolo, e le maggiori soddisfazioni della mia carriera mi sono venute dal contatto con i tecnici, i quali provavano sollievo a trattare con un capocomico e regista che conosceva a fondo il loro lavoro e sapeva quel che poteva chiedere e quel che non doveva chiedere, che sapeva apprezzare la loro abilità e spesso poteva aiutarli a montare una scena difficile o a regolare una luce o a costruire un attrezzo di cartapesta. Oggi purtroppo gli attrezzi di cartapesta non si usano
più: impera la plastica e sui palcoscenici del mondo tutto è lucido e veristico, niente più è ingenuo, indicativo, teatrale. Io
però li uso ancora, ed essi svolgono ancora la loro funzione di
simboli teatrali.?
? Ibid., p. 18.
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Parole, tutte queste, che avrebbero potuto esser fatte proprie da Shakespeare, perché è questo legame col teatro, con la sua materiali-
tà e insieme con la sua simbolicità, che accomuna più di ogni altra cosa i due drammaturghi. Si pensi ai Cori dell’ Enrico V: Colmate col vostro pensiero le nostre lacune; di un uomo che vedete fatene mille e createvi un esercito imponente; se parliamo di cavalli immaginate di vederli realmente stampare gli zoccoli sul terreno molle che ne riceve le impronte; poiché è il vostro pensiero che ora deve vestire riccamente i nostri re e portarli qua e là, saltando intieri periodi di tempo e condensando i fatti di molti anni in un volger di clessidra... 10
E si legga un brano, davvero significativo, de L'arte della commedia (1964):
CAMPESE E il palcoscenico che era? Un boccascena di sei metri, questo è tutto. Sei metri per quattro di profondità. Ho recitato tutto quello che ho voluto, su quei pochi metri quadrati! Tutto Shakespeare e tutto Molière. Duemila anni di teatro si possono recitare su pochi metri quadrati di tavole. Perché, contano qualche cosa gli scenari? Quali scenari ho mai avuto io? Pochi stracci dipinti da me stesso, alla buona, con quattro pennellate... E il sipario? Una tendaccia che non scorreva mai liberamente: s'imbrogliavano le corde, s’impicciavano gli anelli... E il pubblico non diceva niente. «Pubblico rispettabile, perdonate l'incidente», e la chiusura della tenda la completavo io vestito da Otello, da servo, da principe di Danimarca... L’imprevisto eleva il teatro a forma d’arte sublime, singolare, unica. Qualunque sforzo tecnico o finanziario che si può compiere per
rendere il più possibile realistica una messa in scena potrà incuriosire il pubblico ma lo lascerà sempre scontento di non avere potuto usare l'immaginazione. Le strade vere, le piazze vere, gli alberi, i saloni autentici, l'ampiezza di un panorama di montagna, di campagna, di mare... tutto questo lo spettatore
10 william Shakespeare, Enrico V, Prologo.
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lo pretende dal cinematografo... ma a teatro, la fantasia del pubblico, sollecitata dalla parola del poeta, se le crea come vuole e come le vede lui le scene in cui si svolge una determinata azione... Quante volte, attaccandomi i baffi di Macbeth — io lo faccio coi baffi, Macbeth — me li sono attaccati intenzionalmente appena appena un poco storti, perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione... 1!
Ma le citazioni indicano anche che i due drammaturghi sono accomunati dal medesimo rapporto col pubblico. Per entrambi, i testi che scrivono sono testi da mettere in scena, da recitare o far recitare
davanti ad un pubblico. Tutto è teatro, in Shakespeare come in Eduardo, proprio perché in entrambi c'è il senso del pubblico non come elemento esterno alla rappresentazione, «patrono» da lusingare e sedurre, ma come parte integrante di essa, interlocutore necessario in un’arte che non può essere solitaria: complice, vittima, coro e in-
somma personaggio, unica garanzia dell’identità dell’attore. Eduardo del resto poteva scrivere: L'autore crea il personaggio ma l’attore deve dargli la vita. Oltre le parole, l’attore ha a sua disposizione i gesti, gli sguardi, i movimenti e il pubblico, che attraverso le sue reazioni può poco alla volta fargli conoscere la vera natura teatrale del personaggio. Io sono convinto che nonostante le riflessioni e le ripetizioni, il vero studio cominci soprattutto al contatto con il pubblico.
E si legga un’altra pagina delle Lezioni, in cui il pubblico che vi è evocato non è diverso da quello del Globe: Io ho una specie di istinto per tutto ciò che riguarda il teatro. Ne ho un’esperienza molto approfondita, perché solo questo
11 Eduardo De Filippo, L'arte della commedia, in Cantata dei giorni dispari, vol. III, Torino, Einaudi, 19798, pp. 202-203. A questa edizione in quattro volumi del teatro di Eduardo si fa riferimento anche per le citazioni successive.
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ho fatto, non mi sono perduto in altre cose. Non so... Per esempio, io posso dire dal rumore, dal parlottio che sento in sala prima del segnale del buio, prima di mandare su il sipario, posso dire l’incasso. Dalle prime risate o dal primo mormorio di approvazione o disapprovazione capisco la qualità del pubblico, capisco come devo recitare quella sera, quale deve essere la tattica da usare nei confronti di quel pubblico. Questo mi viene dalla grande pratica che ho acquisito attraverso i teatri che ho frequentato dall’inizio della mia carriera. Per esempio all’aperto si recita in tutt'altro modo. Col pubblico della diurna, quando si facevano due spettacoli domenicali, bisognava recitare in modo diverso dal solito perché c'erano i bambini, c'erano i bottegai, i negozianti, quelli che solo la domenica, alla diurna, potevano andare in teatro !?.
Ed è dallo Shakespeare «teatrante» e che dei problemi del teatro, dell’attore, scrive in tutta la sua opera, che Eduardo, più ancora che da Pirandello, impara ad interrogarsi sul conflitto tra realtà e illusione, trovando in lui l’anticipazione di una domanda — domanda appunto sul teatro — che è centrale anche alla sua opera. «Totus mundus agit histrionen», si leggeva all'ingresso del Globe, e il Jaques di Come vi piace poteva dire, nel suo discorso famoso, che «il mondo è tutto un palcoscenico,
e uomini
e donne,
tutti sono
attori. Hanno
proprie uscite e proprie entrate...» li,
Come per Shakespeare, e per Pirandello, anche per Eduardo «Il mondo è in fondo un gran palcoscenico e la vita una commedia allegra o triste secondo i casi. Per vivere, gli uomini debbono adattarsi a recitare la commedia e debbono anche fingere di divertirsi». Mentre il Grimaldi di una commedia poco nota, Uno coi capelli bianchi, dirà, a un certo punto: «Barba, baffi...
e diventiamo macchiette; tipi
buffi o tragici che devono prendere parte alla commedia scritta per noi prodigiosamente... Capelli lunghi, espressione funerea... Io sono
12 Eduardo De Filippo, Lezioni..., cit., p. 134 13 William Shakespeare, Come vi piace, atto II, scena VII.
Eduardo e Shakespeare
musicista...
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Un altro si trucca da pittore, avvocato, medico, scultore,
attore, poeta»!4. Anche chi non vuole truccarsi, per Eduardo, deve recitare — come recitano infatti tutti i suoi personaggi (al pari di quelli di Shakespeare), consciamente o inconsciamente: come deve recitare la gran-
de Filumena Marturano, o il piccolo Gennaro Jovine di Napoli milionaria/, che deve recitare la propria morte. Per Eduardo, come avveniva in Shakespeare (si pensi ai «ritratti d’attore» dietro Antonio o IagO; ai «ritratti d’attrice» dietro Porzia 0, supremo esempio, Cleopatra),
la condizione dell’attore diventa metafora di quella dell’uomo proprio nel senso che il suo dramma (il suo «paradosso») di essere sospeso tra la vita e il palcoscenico è il dramma stesso dell’uomo che si trova a dover vivere in uno stato di perenne ambiguità, in un mondo di cui non sa distinguere, come in Ze voci di dentro o Questi fantasmi/, le linee che separano la realtà dalla finzione, o dal sogno (così
come accade ai personaggi della Tempesta shakespeariana, che il teatrante Prospero ha calato nella follia). E come l’attore trova la sua identità, e verità, solo sul palcoscenico, la finale difesa dell’uomo da un mondo che è teatro sta nel teatro stesso, nella finzione, nell’illu-
sione che questi personaggi continuamente si creano, nel mondo alternativo in cui si illudono di comporre le lacerazioni del mondo reale e di cui è teatrale simbolo la scatola in cui il Calogero di Spelta de La grande magia si costringe a credere che l’illusionista Otto Marvuglia abbia rinchiuso la moglie che lo ha tradito. E certo non stupisce che Giorgio Strehler, dopo La tempesta, e dopo L'illusion di Corneille, la abbia messa in scena.
Come non dovrebbe stupire, dopo quel che s'è detto, che Eduardo, alla fine della sua vita, abbia tradotto in dialetto napoletano La tempesta, che dunque non è un episodio isolato ma la tangibile conclusione di un lungo colloquio. E se fa parte delle misteriose corrispondenze delle cose umane che essa sia l’ultima opera anche di
14 Eduardo De Filippo, Uno coi capelli bianchi, Cantata dei giorni pari, ed.
cit., p. 371.
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Shakespeare, dovrebbe apparir chiaro che la traduzione nasce da motivazioni profonde, che sono di carattere sia estetico sia intellettuale. Se essa è certamente un omaggio al «primo della classe», lo è, ancora una volta, sul terreno non della sudditanza ma della congenialità. E questa già si rivela nel rapporto col pubblico che Eduardo immediatamente instaura. Alla base della traduzione, infatti, c'è la crea-
zione di un pubblico: davanti a noi ci sono delle pagine scritte, ma scritte, possiamo dire, con la «voce» non l'«inchiostro» ed esse — ed è questo il primo risultato di un’operazione tanto affascinante ed estrosa quanto rigorosa e coerente — brulicano sia di personaggi sia di
spettatori ai quali i personaggi parlano, ammiccano, recitano le loro battute, indirizzano i loro gesti, stabilendo con loro un ininterrotto,
confidenziale rapporto. Siamo insomma in un teatro — e in un teatro
popolare, com’era non tanto il Blackfriars in cui 7be Tempest fu rappresentato tra il 1611 e il 1612, quanto il glorioso Globe del primo Shakespeare; un teatro come il San Ferdinando di Napoli, forse, con un pubblico assai simile a quello londinese del Globe, chiassoso e irrequieto, ingenuo e appassionato, ilare e beffardo ma anche pronto a calarsi totalmente (come avviene di fronte alla «sceneggiata») nell’azione drammatica, a farsi spaventare da Calibano, o incantare dalla magia teatrale, da quel mondo «fatto cu la stoffa de li suonne» di cui dice il Prospero di Eduardo. Ed è appunto per questo pubblico che Eduardo ha non solo tradotto ma inscenato sulla pagina La tempesta, da un lato attratto dalla somiglianza, come scrive in una nota, con «l’ambiente fantastico, ingenuo e supremamente teatrale» della féerie seicentesca, genere di cui aveva avuto in passato un’esperienza; dall’altro certamente sollecitato dai molti richiami a Napoli che l’opera contiene — e si ricorderà che se Prospero è il Duca di Milano esiliato su un’isola deserta, il suo antagonista, che Prospero costringe con la tempesta a sbarcare sull’isola, è il re di Napoli; che Miranda, figlia di Prospero, sposerà il
figlio del re di Napoli, Ferdinando; e che verso Napoli veleggerà alla fine la nave del re insieme a tutti i personaggi tranne Calibano, il «selvaggio» che torna ad essere padrone della sua isola: «