Il Vangelo di Giovanni 8839911340, 9788839911346

Questo originale commento al quarto vangelo valorizza appieno la prospettiva storico-critica nella lettura delle fonti c

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Il Vangelo di Giovanni
 8839911340, 9788839911346

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Klaus Wengst

IL VANGELO

DI GIOVANNI

QUERINIANA

Titolo originale Das ]ohannesevangelium. l. Teilband: Kapite/1-10. 2. Teilband: Kapite/11-21. ©

2000, 20042 2001

©

2005

(ed. riveduta e corretta): vol. l vol. 2 by W. Kohlhammer GmbH, Sruttgart - Berlin - Koln by Editrice Queriniana, Brescia via Ferri, 75- 25123 Brescia (Italia/UE) tel. 030 2306925- fax 030 2306932 internet: www.queriniana.it e-mail: [email protected]

Tutti i diritti sono riservati. È pertanto vietata la riproduzione, l'archiviazione o la trasmissione, in qualsiasi for­ ma e con qualsiasi mezzo, comprese la fotocopia e la digitalizzazione, senza l'auto­ rizzazione scritta dell'Editrice Queriniana. ISBN

88-399-1134-0

Traduzione dal tedesco di CARLO DANNA Edizione italiana a cura di GASTONE BoscoLO Stampato dalla Tipolitografia Queriniana, Brescia

TOMO PRIMO capitoli 1-1 O

Prefazione

Una volta rielaborata e ampliata la mia monografia sul vangelo di Giovanni per la terza edizione, avevo pensato di poter finalmente abbandonare questo campo. Ma prima della pubblicazione di tale rielaborazione il prof. dr. Peter von der 0sten-Sacken prese l'iniziativa di una serie di commentari, ·che si propone di rin­ novare il rapporto ebraico-cristiano mediante una interpretazione storico-teologi­ ca del Nuovo Testamento e, quindi, mediante una conoscenza non polemica, og­ gettiva e teologicamente approfondita del popolo ebraico•. lo accettai di soddisfa­ re tale richiesta per quanto riguardava il vangelo di Giovanni, per cui questo ha continuato a impegnarmi e a tenermi compagnia per anni. La prima cosa che facemmo per mettere in piedi questa serie di commentari ri­ sale a una decina di anni fa. Coloro che avevano aderito al progetto dovevano mettersi in qualche modo d'accordo prima di procedere. Per molto tempo il colle­ ga von der Osten-Sacken fu al riguardo lo spiritus rector, cosa per la quale non possiamo che ringraziarlo. Peccato che proprio quando la collana comincia a ve­ dere la luce, egli si sia ritirato dalla direzione. Soprattutto grazie alla signora e collega prof.ssa dr.ssa Luise Schottroff fu poi preso in considerazione un secondo punto di vista, e cioè quello di essere sensi­ bili agli aspetti evidenziati dalla ricerca della teologia femministica. Per parte mia ho cercato di tenerne conto meglio che ho potuto, anche se per me più importan­ te rimane il primo punto di vista. Specialmente in esso io vedo la giustificazione di una nuova serie di commentari. A questo è dovuto anche il fatto che non mi sono proposto di dialogare in maniera esauriente con la bibliografia specialistica. È sicuramente vero che non ho preso in considerazione molte cose, da cui avrei potuto certamente imparare. Invece mi sono proposto di prestare ascolto a coloro a cui nella nostra tradizione si era prestato poco ascolto, e cioè ai testimoni ebrei. Metto volutamente in conto questa unilateralità e spero che il risultato la legittimi.

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Prefazione

Probabilmente qualcuno arriccerà il naso nel vedere come in questo commen· tario si parli poco delle 'questioni introdunive'. Chi è interessato ad esse potrà prenderne visione in una 'Introduzione al Nuovo Testamento'. Nell'introduzione al commentario presento solo ciò che è importante per il mio lavoro. Il fatto che il primo volume della collana ad essere pubblicato abbracci solo un mezzo vangelo ne contraddice la concezione su un punto. Se si vuole commenta­ re in un solo volume anche gli scritti neotestamentari più lunghi, non bisogna trattare tutte le parti con la stessa intensità . Ma a me questa cosa non è riuscita, e neppure volevo che mi riuscisse quando cominciai a stendere il testo. L'evangeli­ sta ha chiaramente ritenuto che, quanto egli ha scritto, meritava anche di essere letto, ascoltato e meditato; e tutto il vangelo è già da molto tempo un testo cano­ nico. La preparazione di questo primo volume è durata più a lungo di quanto inizial­ mente progettato. Si sono verificate continue interruzioni. Per la maggior parte l'ho composto durante quattro anni di decanato. Spero di poter scrivere il secondo volume in un tempo sostanzialmente più breve, ma non mi sento di annunciare quando esso comparirà, dopo essermi già di molto sbagliato una volta. Ringrazio anzitutto la mia segretaria, signora Ilse Bornemann, che ha preparato il dattiloscritto. Poiché esso ha preso corpo durante un periodo di tempo piutto­ sto lungo e poiché questo volume è il primo ad essere pubblicato di una nuova collana, i cui criteri formali sono stati stabiliti solo relativamente tardi, si sono rese necessarie varie rielaborazioni, non da ultimo anche l'uniformazione alla nuova ortografia. Per la trasposizione del dattiloscritto sul computer la signora Bome­ mano è stata efficacemente affiancata da Kathrin Mudrack, studentessa di teolo­ gia. Claudia Giinther e jens Maschmeier, anch'essi studenti di teologia, hanno ve­ rificato l'esattezza delle citazioni e mi hanno inoltre fornito indicazioni e suggeri­ menti sostanziali utili. All'inizio del lavoro la Deutsche Forschungsgemeinschaft ha richiesto un sag­ gio a proposito del cap. 7. La mia attuale assistente, dr.ssa Elke Tonges, ha raccol:.. to nel 1991/92, in veste di studente ausiliaria, mediante concordanze e altri stru­ menti e con un paziente lavoro da certosino, testi rabbinici che potevano servire da retroterra per un dialogo. Questo lavoro è diventato nel frattempo molto più semplice grazie alla 'Tora-Bibliothek' su CD-ROM, senza la quale non riesco più a immaginare il mio lavoro quotidiano. Un grazie di cuore dico anche al mio diretto collega di Bochum, prof. dr. Horst Balz, che nella pianificazione dei semestri mi ha continuamente lasciato il vangelo di Giovanni, anche se egli poteva tenere al riguardo lezioni molto interessanti, che avrebbero meritato di essere ascoltate più frequentemente di quanto la sua generosità nei miei confronti abbia permesso di fare. Ringrazio il collega, prof. dr. Ekkehard Stegemann, per le tante parole di incoraggiamento e per le correzioni

Prefazione

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suggeritemi, cosl come ringrazio il signor Jiirgen Schileider della casa editrice che,

allorquando il gruppo degli autori si presentò a lui con la proposta di una nuova collana, l'ha accolta e l'ha assecondata con costanza e con competenza. Dedico il volume agli ami ci e alle amiche, con cui collaboro nella Arbeitsge­ meinschaft Juden u nd Christen (Gruppo di lav oro composto da ebrei e cristiani) del Deutscher Evangelische Kirchentag Nella sit uazione di crisi della seconda guerra del Golfo ho dovuto assumermi delle responsabilità al suo interno. Negli anni successivi ho potuto fare molte esperienze gratificanti, frutto di riflessione, di lavoro e di vita in comune tra ebrei e cristiani, però ho anche dovuto constatare ­ più di quanto avessi voglia di fare - come la pianticella di un rinnovato rapporto tra cristiani ed ebrei in Germania sia sensibile ed esposta a pericoli. Spero che questo commentario contribuisca a farla ulteriormente fiorire .

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Bochum, maggio 2000

Prefazione alla 2a edizione

Per questa edizione ho rivisto completamente il testo, corretto sviste ed errori di stampa, effettuato piccoli cambiamenti e apportato alcune integrazioni. Sono state aggiunte soprattutto citazioni di Origene e Agostino, come pure di Lutero e Marquardt. Inoltre ho ampliato le note con un paio di titoli della più recente lette­ ratura specializzata con le rispettive citazioni e, all'occasione, ne ho portato la spiegazione. Hanno collaborato come assistenti nel lavoro preparatorio le studen­ tesse Angelika Angerer e Susanne Streckmann; quest'ultima e Elfi Runkel hanno preparato gli indici: per questo le ringrazio di cuore. Mediante le integrazioni non elimino certo la povertà di questo commentario - non informa sullo 'stato della ricerca' e su posizioni circa problemi assai discussi, l'apparato delle note non ri­ porta nessun sostanzioso elenco di nuova o nuovissima letteratura secondaria. Mi sembra tuttavia problematico che esista qualcosa come uno 'stato della ricerca'. E"7 sistono diversi dibattiti. Nessuno può prendere parte a tutti, e ad alcuni non vo­ glio partecipare. Ciò che intendo offrire con questo commentario è precisato nella introduzione. Il fatto che abbia usato abbastanza unilateralmente per la comprensione del vangelo di Giovanni le fonti giudaico-rabbiniche, è stato qualificato come grave offesa al necessario dovere di inforn1azione di un commentario storico-critico: questo si può lasciar correre. Ma che facendo questo non abbia lasciato parlare il testo del vangelo e lo abbia tendenziosamente deformato, questo non lo posso accettare. Non si può davvero negare che il Nuovo Testamento abbia radici giu­ daiche. La maggior parte degli scrittori neotestamentari erano giudei o avevano un'immagine giudaica di se stessi. Chi si pone la domanda da quando esista il cri­ stianesimo, si rende conto che non è per niente facile dare una risposta. Rivendi­ care i testi neotestamentari come 'cristiani' di fronte ai testi giudaici, è con tutta probabilità un anacronismo. Quando dunque in questo commentario - cosa che

Prefazione alla 2" edizione

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senza dubbio rimane· ipotetica, ma qualche ipotesi devo pur porre - presuppongo l'origine del vangelo di Giovanni in una situazione di conflitto intragiudaico, nel quale l'Autore si trova di fronte la maggioranza della gente del suo paese che è stata plasmata dalla scuola di Jamnia, perché mai non dovrebbero essere consul­ tati i testi che furono composti in questa scuola e nella tradizione successiva? Nel tentativo di comprendere frase dopo frase il vangelo di Giovanni, questi testi mi si sono rivelati utili. Inoltre il testo del vangelo parla non solo attraverso la traduzione di ciascuno dei singoli passi, ma anche, quasi totalmente, nello svi­ lupparsi della interpretazione. Dove non posso condividere le affermazioni dell'e­ vangelista, lo dico in tutta franchezza e lo motivo. Nello stesso tempo non preten:.. do di essere •'moralmente' nel giusto• o "politicamente corretto��; per me si tratta molto di più dell'assunzione di una accresciuta responsabilità storica anche nell'e­ sercizio del lavoro esegetico. Come esegeta cristiano non desidero più fare alcuna affermazione teologica che metta in discussione l'identità giudaica e che ferisca l'integrità giudaica. Del resto ho sperimentato teologicamente come utile che non devo più percepire come autonome le affermazioni della tradizione giudaica, ma che posso comprenderle quali testimonianze intorno allo stesso Dio con il quale, attraverso Gesù Cristo, come membro della chiesa e uomo dai gentili, mi trovo messo in relazione. Che mediante la mia frequentazione dei testi rabbinici non sia 'all'altezza del dibattito critico', lo accetto. Di conseguenza non metto più a dura prova con i precisi metodi della critica storica i testi del Nuovo Testamento, e non faccio que­ sto neanche con quelli rabbinici. Di fronte al rimprovero che porrei Adolf Schlatter •con aria di sufficienza, occa­ sionalmente anche diffamandolo, in una posizione antigiudaica,, sottolineo che ho grande rispetto per Schlatter e apprezzo molto la sua preparazione sui testi giudaici relativi ai vangeli di Matteo e Giovanni. Mi ha però molto scandalizzato che uno che conosce così bene i testi giudaici faccia spesso così pesanti com­ menti antigiudaici. La cosa è diversa in Paul Billerbeck, del quale ammiro l'imma­ ne lavoro. Egli partecipa alla tradizionale e per il suo tempo ancora naturale ipo­ tesi della superiorità cristiana che devono mostrare i testi neotestamentari di fron­ te a quelli giudaici. Da questo è caratterizzato qualche commento introduttivo e qualche sezione dei testi giudaici da lui utilizzati, tanto che, a mio parere, il suo imponente lavoro deve essere utilizzato in modo che i testi da lui individuati ven­ gano consultati e pensati nel loro proprio contesto. Al contrario Schlatter si è po­ sto da solo nella suddetta 'posizione', non solo nel suo infausto scritto del 1935 relativo' alla questione se 'il giudeo ci vincerà', ma anche nel suo lavoro esegetico. Bisogna essere veramente ignoranti per non voler riconoscere questo. Tuttavia non ho alcuna ragione per essere superbo o altezzoso di fronte a Schlatter. Se le mie formulazioni sembrano tali, mi dispiace; non è voluto.

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Prefazione alla 2" edizione

Da ultimo, voglio rilevare ancora una volta che la mia interpretazione parte da un preciso presupposto che deve rimanere ipotetico. Esso ha solo una funzione euristica. Non pretendo naturalmente di offrire la 'esatta' interpretazione del van­ gelo di Giovanni, spero che sia una delle interpretazioni possibili. Il testo canoni­ co ha un potenziale che - grazie a Dio! - non può essere affatto esaurito in un commentario e da un commentatore. Che la mia interpretazione appaia come possibile, e si mostri forse anche utile, me lo indica la non piccola positiva riso­ nanza di questo lavoro come pure la necessità di questa seconda edizione, cose delle quali mi rallegro. Bochum, ottobre 2003

Introduzione

l. Alcune considerazioni preliminari

Comincio parlando di due esperienze contraddittorie, che ho fatto con il van­ gelo di Giovanni. Se presiedo una celebrazione della cena del Signore e non pre­ paro espressamente il saluto di commiato da rivolgere al termine dall'altare ai partecipanti alla celebrazione, mi vengono molto spesso spontaneamente in men­ te parole del vangelo di Giovanni. Tale vangelo è evidentemente un testo che rie­ sce a esprimere bene l'identità cristiana . . Nel marzo del 1988 mi trovavo invece per la prima volta in Israele come mem­ bro di un gruppo parrocchiale. La mattina del primo giorno il nostro parroco fece fermare l'autobus alla periferia di Tel Aviv per una meditazione e, per il testo, si attenne alla lettura continuativa della Bibbia, che prevedeva per quel giorno un brano del capitolo 8 di Giovanni. Io non potei fare a meno di ascoltare il testo con le orecchie della nostra guida ebrea, e per la vergogna, se avessi potuto, mi sarei nascosto sotto il sedile. Alcuni giorni dopo, allorché le chiesi che sentimenti avesse provato nell'ascoltare un testo del genere, mi rispose: ·Oh, Giovanni! Sem­ pre e solo 'i giudei', 'i giudei'. Le sue parole mi entrano da un orecchio e mi e­ scono subito dall'altro-. Da un lato constato perciò di utilizzare il vangelo di Giovanni con molta ov­ vietà per esprimere la mia autocoscienza cristiana e, dall'altro lato, di arrossire di vergogna, se esso viene letto davanti ad ebrei. Come posso sopportare queste due cose contraddittorie, e che significano esse per la mia ulteriore lettura di que­ sto vangelo? Devo lasciare che le cose continuino ad andare avanti così come so­ no andate avanti fino ad ora e rimuovere dalla mia mente la reazione ebraica, perché essa disturba la mia autocoscienza cristiana? Non devo semplicemente far·

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Introduzione

le caso, perché essa non ha alcuna impOrtanza? Ma questo non è possibile, una volta che ne ho preso atto. E non è possibile già per il fatto che, ogniqualvolta dei cristiani si radunano, è perlomeno presente un ebreo, se essi prendono sul serio quanto è loro promesso in Mt 18,20. Ma questa è solo una questione di cor­ tesia, di rispetto, o ha anche una qualche importanza? Essere sensibili al modo in cui gli ebrei reagiscono, quando sentono leggere il vangelo di Giovanni, non è u­ na questione di semplice cortesia, ma è una cosa importante già per il fatto che Gesù e i testimoni neotestamentari non hanno predicato alcun Dio nuovo e diver­ so, che sarebbe stato fino ad allora sconosciuto e non testimoniato, bensì hanno predicato il Dio testimoniato e confessato in Israele, perché il Padre di Gesù Cri­ sto è il Dio d'Israele, che ha promesso di essere fedele e rimane fedele al suo po­ polo e a cui questo popolo ha dimostrato e dimostra fedeltà. Se perciò non posso rinunciare, per amor di Dio, al fatto che anche delle orec­ chie ebraiche odano, non sarebbe meglio non leggere il vangelo di Giovanni o almeno alcune sue parti? Ma neppure questo è possibile. Tale vangelo fa parte del nostro canone, che non possiamo cambiare a piacimento e che dobbiamo in­ vece seguire; fa parte della nostra storia, che non possiamo rimuovere. Dovremmo perciò domandarci: esiste una possibilità di leggere il vangelo di Giovanni senza arrossire di vergogna di fronte a Israele? Posta così, però, la do­ manda non sarebbe posta in modo preciso e potrebbe perlomeno essere fraintesa. Se guardiamo alla storia dell'interpretazione e agli effetti da essa prodotti, abbiamo infatti un motivo reale per arrossire di vergogna davanti ad Israele; e tale vergogna non può essere velocemente eliminata con una diversa interpretazione, bensì va realmente riconosciuta e sopportata. Dovremmo invece domandarci se essa può aiutarci a leggere il vangelo di Giovanni in modo che tale lettura non renda in par­ tenza impossibile un dialogo con ebree e ebrei, bensì lo renda possibile. Come possiamo leggere e comprendere - realmente comprendere questo vangelo? Non possiamo !imitarci a constatare, nel caso di determinati passi, che essi non ci 'piacciono', per poi renderli in qualche modo accettabili. Il tentativo di comprendere esige anche che ci domandiamo perché le affermazioni tramandate nel vangelo di Giovanni e che suonano sconcertanti per Israele, sono così come sono. Dobbiamo cioè domandarci quali sono le condizioni in-cui questo vangelo è nato e qual era l'intenzione delle sue affermazioni in quella situazione. E com­ prendere significa poi anche riflettere sulla nostra situazione e renderei conto del­ la sua differenza dalla situazione iniziale. Una messa in luce del senso del testo sganciata dalle sue situazioni - da quella del suo autore e da quella dei suoi ricet­ tori- sarebbe un'esegesi astratta. Un'affermazione, ripetuta in una mutata situa­ zione, non rimane la medesima affermazione. Ciò costringe a riflettere sulla pro­ pria situazione già nell'esegesi e non solo nell'omiletica. Il discorso contro un"esegesi con cattiva coscienza' è di un'evidenza palmare, -

Introduzione

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ma rioil per. questo è uno �logan superficiale. Possiamo infatti avere una 'buona

coscienza'? Essa non sarebbe in ogni caso una coscienza ignorante? Non abbiamo giustamente una 'cattiva coscienza'? L'unica domanda giusta sarebbe allora quella su come ci comportiamo - anche esegeticamente - con essa. Se la cattiva co­ scienza ci conduce a 'distorcere' le affermazioni neotestamentarie o a muovere frettolosamente una critica al loro contenuto, allora a mio giudizio saremmo mal consigliati da tale coscienza. Ritengo invece assolutamente necessario che essa ci renda sensibili all'effetto che affermazioni neotestamentarie fanno in altri contesti e che ci spinga a teneme conto nell'interpretazione. Contro una separazione in un camp scientifico apparentemente oggettivo e in un campo 'morale', in cui sa­ rebbe concesso provare dei sentimenti, occorrerebbe integrare la coscienza nell'e­ secuzione del lavoro esegetico, occorrerebbe cioè praticare un'esegesi realmente 'coscienziosa' . Da questo approccio, dalla scoperta della situazione originaria con le sue spe­ cifiche condizioni e dalla riflessione sui cambiamenti, che hanno condotto alla nostra diversa situazione e che la costituiscono, mi attendo una possibile lettura del vangelo di Giovanni nell'orizzonte del dialogo ebraico-cristiano.

2. La nascita del vangelo di Giovanni in seno a una controversia intragiudaica1

Secondo la mia opinione, il punto di partenza decisivo per comprendere il vangelo di Giovanni sta nel rendersi conto che esso fu scritto nel contesto di un'aspra controversia scoppiata tra giudei, i quali ritenevano che Gesù fosse il Messia, e la maggioranza dei loro connazionali, che rifiutavano decisamente que­ sta fede e che avevano dei motivi per farlo. L'evangelista GiovannF riscrive la storia di Gesù. Egli la scrive in modo che la l Quanto propongo qui di seguito è un breve riassunto di quel che ho esposto nella mia mono­ grafia sul vangelo di Giovanni. Per ulteriori argomentazioni, documentazioni e discussioni in base ad altre prospettive rimando a tale mio libro: Bedrangte Gemeinde und verherrlichter Christus. Etn Ver­ such uber dasjohannesevangelium, Mtinchen 1992�. 1 Uso qui di seguito per comodità il nome tradizionale dell'autore, senza presupporre che questo vangelo sia stato effettivamente scritto da Giovanni di Zebedeo, dal 'presbitero' Giovanni o da un qualche altro Giovanni. Questa questione, che fu una volta nella ricerca del secolo XIX 'la questione giovannea', è stata programmaticamente ripresa di recente da M. Hengel. Della redazione della sua risposta a tale questione, pubblicata dapprima in inglese (cfr. M. HENGEL, La questione giovannea, Paideia, Brescia 1998) mi sono già occupato nell'epilogo (258-265) della mia monografia citata nella nota l. La redazione tedesca - sostanzialmente più ampia - nel frattempo pubblicata (Die jobannet-

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Introduzione

éOmunità, che legge e ascolta il vangelo, possa riconoscere nelle dispute di Gesù con 'i giudei' e con 'i farisei' le proprie dispute con la posizione giudaica maggio­ ritaria nel proprio ambiente e possa scoprirsi nella presentazione del discepolato di Gesù. Le esperienze fatte da Giovanni e dalla sua comunità nel loro presente si ripercuotono quindi sulla sua presentazione della storia di Gesù e, per cosi dire, la · influenzano. Egli riscrive perciò la storia di Gesù in modo da rinvigorire la co­ munità nelle controversie della sua situazione. Che la controversia tra una minoranza giudaica e la maggioranza giudaica sia effettivamente la situazione caratterizzante il presente di Giovanni e della sua co­ munità è cosa che risulta verosimilmente nella maniera più chiara dal motivo del­ l'espulsione dalla sinagoga, ricorrente tre volte nel vangelo. In tutti e tre i passi si presuppongono delle condizioni che non sono pensabili per il tempo narrato, per il tempo di Gesù, ma che concordano molto bene con il tempo successivo al 70 d.C., che fornirebbe così una data per la composizione più antica possibile del vangelo.

scbe Frage. Ein L6sungsversucb. Mit einem Beitrag zur Apokalypse vonjorg Frey, 1993) conferma da un lato il punto di vista di Hengel e lo rende dall'altro lato meno vulnerabile, in quanto non fa più 'del presbitero', autore del vangelo e delle lettere, anche l'autore dell'Apocalisse. L'obiezione princi­ pale da me mossa ad Hengel, e cioè che la sua visuale non permette di spiegare perché e per quale scopo il vangelo sia stato scritto, continua naturalmente a sussistere. La sua risposta, secondo la qua­ le si tratterebbe del •testamento cristologico dell'autore• (p. 6), non spiega nulla. Il rimando alla lette­ ra ai Romani di Paolo come a una presunta analogia non è pertinente, perché nel caso di tale lettera ci sono dei destinatari ben precisi, così come altrettanto chiari sono il motivo e Io scopo. Invece le indicazioni di Hengel a proposito del vangelo di Giovanni rimangono vaghe: ·Esso costituì per così dire il 'testamento' cristologico dell'Anziano per i suoi discepoli e per le sue comunità, anzi per tutta la Chiesa· (p. 204; cfr. 264.301). Che un dottore del secolo l, il quale secondo Hengel era •Un uomo del discorso orale· (p. 269) e che si attivava come scrittore di lettere solo a motivo di una concreta si­ tuazione di necessità e per risolverla, abbia scritto per decenni con lo sguardo rivolto al tempo suc­ cessivo alla sua morte è una cosa poco credibile. In questo modo non è neppure possibile spiegare perché la cristologia sia stata formulata così come essa compare nel vangelo. Per me non è chiaro quale contributo affermazioni della successiva tradizione dogmatica - l'evangelista sarebbe stato ·il primo nel cristianesimo primitivo a concepire, in tutta la sua profondità, il vere homo et vere deus co­ me il punto di partenza di tutta la genuina cristologia· (p. 257; cfr. 265; inoltre il discorso della ·divi­ nità e umanità di Gesù· a p. 266 o addirittura quello di ·Gesù vero essere 'divino-umano'• a p. 308) possano fornire alla comprensione storica. - Quel che Hengel propone è, come dice il sottotitolo del suo libro, ·un tentativo di soluzione-, una possibilità pensabile. Di più io non pretendo ovviamente neppure per il mio tentativo di ambientazione storica. L'importante è ciò che simili tentativi possono fornire per la comprensione del testo. A questo scopo mi sembra che la fissazione sulla questione dell'identità dell'autore dia un contributo relativamente piccolo. Perciò concludo questa nota con due citazioni scettiche circa la 'questione giovannea': ·Questa questione del valore e - quale suo presup­ posto - la questione della giusta comprensione del vangelo costituiscono realmente la questione gio­ vannea, non propriamente quella che oggi viene comunemente detta così, cioè la questione contro­ versa dell'autore, dell"autenticità' o dell"inautenticità' del libro· (HEITMÙLLER, Komm., 1 1). •Quanto alla 'questione giovannea' questa è la mia posizione: a motivo della risposta giovannea non riesco a pro­ vare alcun gusto per tale questione• (BARrn, ]ohannes-Evangelium, VIII).

Introduzione

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Il primo passo è 9,22, che ricorre all'interno della narrazione della guarigione di un cieco. Le autorità interrogano anzitutto il cieco guarito e poi convocano i suoi genitori per sapere se l 'uomo in questione è il loro figlio, che sarebbe nato cieco, nonché per sapere come mai egli adesso ci veda (v. 19). I genitori rispon­ dono molto chiaramente alla domanda sull'identità .del figlio, ma evitano di fi spandere alla domanda sulla sua guarigione, che li avrebbe costretti a chiamare in causa Gèsù, e si appellano per questo alla maggior età del figlio (v. 20s.). A proposito di questo comportamento Giovanni annota anzitutto: ·Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei giudei.. (v. 22a). Tale affermazione, riferi­ ta alla Gerusalemme del tempo di Gesù, sarebbe più che singolare. Che potrebbe mai significare il fatto (he i genitori, quasi non fossero anch'essi giudei, temevano 'i giudei'? Così si può parlare solo in un ambiente, in cui i giudei non sono gli u­ nici abitanti, ma in cui costituiscono la forza dominante. Se i genitori temono 'i giudei', benché non siano affatto descritti come seguaci di Gesù, e fingono di non sapere non appena si profila la persona di Gesù, ciò presuppone un'atmosfera di paura in cui appare opportuno non esser collegati con Gesù. Ciò è sottolineato dalla motivazione addotta nel v. 22b per spiegare la paura dei genitori: «Infatti i giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, ve­ nisse espulso dalla sinagoga•. Istruttivo è l'avverbio 'già'. Esso ci dice che ccr munque l'evento qui menzionato possa essersi svolto sul piano del tempo del racconto - si tratta in ogni caso di un evento, che è un'esperienza attuale familia­ re a Giovanni e alla cerchia dei suoi lettori e uditori e che è quindi di casa nel lo­ ro tempo. Il motivo dell'espulsione è la confessione di Gesù come Unto, come Messia. Al termine di un secondo interrogatorio del cieco guarito, in cui egli con­ fe�sa Gesù, leggiamo: ·E lo cacciarono fuori- (v. 34). Tali parole indicano anzitutto naturalmente la cacciata dal luogo del raduno. Ma tale proposizione non può es­ sere letta senza tener conto del v. 22. Quel che là i genitori temevano e che sep­ pero evitare con un comportamento tatticamente intelligente, colpisce qui il loro figlio: egli viene espulso dalla sinagoga. Il secondo passo: 12,42, dopo aver constatato l'incredulità generale, parla di u­ na fede presente, che però non si manifesta realmente: «Tuttavia, anche tra i capi, molti credettero in lui, ma non lo riconoscevano apertamente a causa dei farisei, per non essere espulsi dalla sinagoga... Questa affermazione è inimmaginabile nel tempo antecedente il 70 d.C., in cui i farisei erano un gruppo tra gli altri, ma non disponevano affatto del potere qui loro attribuito. Invece essa diventa comprensi­ bile, se rispecchia esperienze del tempo della composizione del vangelo: la comu­ nità aveva tra la classe dirigente dei simpatizzanti, che però non manifestavano a­ pertamente tale loro simpatia per paura delle conseguenze e preferivano occultar­ la. Essi 'credono' dentro di sé, ma non 'confessano', non manifestano la loro fede. Infine il terzo passo è 16,2, in cui il Gesù che sta per congedarsi preannuncia ..

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Introduzione

ai suoi discepoli: ·Vi càcceranno dalle sinagoghe•. Qui risulta chiarissimo che l'e­ spulsione dalla sinagoga non è una misura del tempo di Gesù e che essa riguarda il tempo postpasquale. Poiché anche altrove nei discorsi di addio i discepoli rap­ presentano la comunità, per cui Giovanni fa parlare Gesù, attraverso i discepoli, ai propri lettori e uditori, è in partenza verosimile che l'espulsione dalla sinagoga qui preannunciata non sia un problema da lungo tempo passato per la comunità e che non la riguardi più. Si tratta piuttosto di un'esperienza dolorosa del suo presente; e poiché essa fa questa esperienza, Giovanni la fa predire da Gesù per poterla sopportare. Come possiamo precisare e descrivere meglio la situazione caratterizzata dali' e­ spulsione dalla sinagoga? In 16,2 la predizione dell'espulsione è accompagnata da quella delle uccisioni. Comunque queste ultime vadano intese, già il semplice ac­ coppiamento delle due predizioni mostra che l'espulsione dalla sinagoga va im­ maginata come l'atto di una separazione definitiva. Essa non può perciò consiste­ re nella scomunica, in una esclusione temporanea dalla comunità sinagogale che mira a correggere un membro che ha mancato e che ha come scopo la sua riam­ missione. Un'esclusione definitiva è nel modo migliore immaginabile nel tempo posteriore al 70, e precisamente nei confronti di eretici. Parlare di eretici per il tempo anteriore al 70 è cosa che non ha alcun senso, perché in quel tempo il giudaismo è contraddistinto dall'esistenza di gruppi diversi. Solo dopo il 70 si for­ ma, condizionato e richiesto dalle circostanze storiche, un giudaismo di tipo fari­ saico-rabbinico, che rende possibile e caratterizza l'ulteriore storia del popolo e­ braico. Solo coloro che si discostano da tale giudaismo possono essere indicati come eretici. �'anno 70 costituisce, con la fine della quadriennale guerra giudaico-romana, u­ na profonda cesura nella storia del giudaismo: il paese sfinito dalla guerra, una grande parte della popolazione uccisa o venduta come schiava, molte città e loca­ lità distrutte, Gerusalemme rasa al suolo, il suo tempio - centro religioso - dato al­ le fiamme. Il partito ribelle degli zeloti era stato annientato dall'esito della guerra. I sadducei avevano perso con il tempio la loro base economica. Il centro spirituale degli esseni, la loro biblioteca centrale di Qumran con una propria produzione di rotoli della Scrittura, era già stato completamente distrutto dai romani nell'estate del 68. I resti della biblioteca, nascosti immediatamente prima in caverne circo­ stanti, rimasero là. Nessuno poteva andare a riprenderli per usarli di nuovo3. In questa situazione catastrofica e desolata come poteva sopravvivere il giudaismo? ' Su Qumran vedi, dopo le sensazionali notizie pseudoscientifiche pubblicate a proposito del 'do­ cumento segreto' riguardante Gesù, la solida informazione fornita da M. KRUPP, Qumran-Texte zum Streit um]esus und das Urchrlstentum, Giitersloh 1993; nonché il libro di H. STEGEMANN, Die Essener, Qumran, ]obannes der Tdufer und ]esus, 19932 [trad. it., Gli Esseni, Qumran, Giovanni Battista e Ge­ sù. Una monografia, EDB, Bologna 1996).

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Prima della fine della gUerra due discepoli trafugart>no in una bara il loro· mae­ stro johanan ben Sakkaj dalla Gerusalemme assediata4• Egli ottenne dal generale Vespasiano, il futuro imperatore, di poter aprire una scuola nella località di jam­ nia lungo la costa, scuola che divenne la cellula germinale della sopravvivenza giudaica dopo la catastrofe dell'anno 70. Le vie per una formazione dell'identità giudaica in una mutata situazione furono cercate e trovate nel legame con la To­ rah e nell'adozione e prosecuzione della Tradizione. I dottori di Jamnia dovettero prender atto del fatto posto dai vincitori, cioè della distruzione del tempio senza prospettive di una ricostruzione. Tale fatto sembrava rendere obsolete ampie parti della Torah che riguardano il tempio e le sue molteplici funzioni. La distruzione del tempio era una dura realtà determinata dai romani. I dottori di Jamnia non la ignorarono certo, ne tennero indubbiamente conto, ma non la riconobbero come la realtà decisiva. La realtà per eccellenza era per essi la Torah, che continuarono perciò a studiare in tutte le sue parti. Sicuramente utile a questo scopo si rivelò il fatto che· già nel periodo del tempio le prescrizioni relative alla purezza, che se­ condo la Torah valgono soltanto per i sacerdoti durante il servizio nel tempio, fossero state trasformate dai farisei in prescrizioni riguardanti gli atti della vita quotidiana, per cui qui esisteva già un culto di Dio nella vita quotidiana del mon­ do. Con la spiegazione della Torah, che riprendeva la Tradizione e la portava a­ vanti, i dottori di Jamnia indicarono, per la condotta concreta di tutti i giorni, del­ le vie che potevano essere percorse come vie prescritte da Dio. In merito fu permessa un'ampia discussione. Posizioni divergenti non furono represse e accantonate, ma furono tramandate assieme all'opinione della maggio­ ranza. Ciò dimostra uno sforzo per una vasta integrazione. I dottori di jamnia non cercarono di tracciare dei confini precisi, ma di radunare. Esistevano però anche dei gruppi che non volevano integrarsi e che erano incapaci di farlo, cioè gruppi che avanzavano una determinata rivendicazione esclusiva e che volevano render­ la vincolante per tutti, rivendicazione che però la maggioranza non poteva condi­ videre. Tra questi gruppi c'erano anche quei giudei, che vedevano in Gesù il Messia, che lavora vano affinché tutti gli altri abbracciassero questa fede e che, qualora essi non l'avessero abbracciata, minacciavano loro il giudizio di Dio. Pur astraendo dal fatto che proprio nella fase della neocolonizzazione dopo la guerra sembrava necessario che il giudaismo, già per motivi politici di sopravvivenza, prendesse le distanze da un movimento messianico, che correva il pericolo di es­ sere sospettato di mancanza di lealtà, c'erano anche dei motivi teologici per op­ porsi alla pretesa avanzata. Nessun vangelo rispecchia in maniera tanto forte co-

4 Cfr. in proposito J. EBACH, ·Des Treulosen Treue. Versuch iiber jochanan ben Zakkai•, in -Um­ gang mtt Niederlagen, Einwtlife 5, a cura di F.-W. Marquardt e altri, 1988, 28-39.

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me il vangelo di Giovanni la discussione cii·ca la messianicità o la non messiani­ cità di Gesù, come vedremo in dettaglio commentando i passi corrispondenti. Se la Bibbia viene letta alla luce della fede nella messianicità di Gesù, è senz'altro possibile che questa fede si veda da essa confermata. Ma se manca questo pre­ supposto, la lettura fornisce dei motivi in senso contrario. Così è possibile indica­ re aspetti della biografia di Gesù, che contrastano con determinate affermazioni della Scrittura e della Tradizione, il che permette allora di trarre solo questa con­ clusione: Gesù non può essere il Messia; si pretende a torto che quanto si afferma a suo riguardo sia vero. Gruppi, che avanzavano una rivendicazione esclusiva e minacciavano così di dividere la comunità giudaica e la mettevano in pericolo, furono dichiarati eretici e furono considerati peggiori dei non giudei dai dottori del giudaismo rabbinico che si andava formando e rappresentava la maggioranza5• Ciò ebbe come conse­ guenza che i deviazionisti si trovarono esposti alla discriminazione religiosa, all'i­ solamento sociale e al boicottaggio economico6• A queste esperienze il vangelo di Giovanni dovrebbe pensare, quando parla dell'espulsione dalla sinagoga. Dal punto di vista degli espulsi si tratta di espe­ rienze amare, che limitano fortemente le loro possibilità di vita. Se presupponia­ mo che il vangelo di Giovanni sia stato composto in questa situazione, cioè in u­ na situazione caratterizzata dal processo di separazione tra la maggioranza guida­ ta dai rabbini e una minoranza che faceva riferimento a Gesù, diventa comprensi­ bile un altro fenomeno testuale, che altrimenti rimane incomprensibile, vale a di­ re il singolare modo sommario di parlare de 'i giudei' e de 'i farisei', con per di più la particolarità che le medesime persone compaiono in un medesimo conte­ sto prima come 'i farisei' e poi come 'i giudei'. Dei gruppi giudaici nel vangelo di Giovanni compaiono in pratica soltanto i farisei; il giudaismo che incontriamo in esso è un giudaismo di stampo farisaico. Questo quadro non corrisponde né alla realtà del tempo di Gesù, né al tempo intercorso tra la morte di Gesù e la fine della guerra giudaico-romana, ma è piuttosto espressione del fatto che i farisei e la tradizione farisaica sono confluiti dopo il 70 nel giudaismo rabbinico e si sono in esso affermati. La controargomentazione teologica e le esperienze dell'isolamento sociale e del boicottaggio economico indussero evidentemente membri della comunità a distaccarsi da essa e a ritornare in seno alla maggioranza (cfr. 6,66; 8,31). In que-

� Così in tShab 13,5 (LIEBERMANN, p. 58) viene attribuita a Rabbi Tarfon la seguente affermazione: .Se un persecutore mi perseguitasse, entrerei in un tempio degli idoli, ma non entrerei nelle loro ca­ se (cioè degli eretici). Gli idolatri infatti non lo conoscono (cioè Dio) e lo rinnegano, ma costoro lo conoscono e lo rinnegamc;>•. 6 Cfr. l'Excursus su 9,'23.

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stà situazione Giovanni 'scrivè il suo vangelo. Egli �vtiole indurre ·a iiritanere ·e con­ vincere i rimasti che ��Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio• (20,31)7.

3. Conseguenze per l'interpretazione

La situazione, in cui noi leggiamo il vangelo di Giovanni, è chiaramente molto diversa da quella descritta nel punto precedente come la situazione in cui esso fu verosimilmente scritto. Tale cambiamento è forse diventato particolarmente chiaro a noi oggi, però esso è subentrato già nel primo periodo della diffusione del van­ gelo di Giovanni. Giovanni si rivolgeva - almeno in primo luogo - a destinatari giudei, che si trovavano in una difficile situazione di minoranza rispetto alla mag­ gioranza dei loro connazionali. In questa controversia ancora intragiudaica egli fa delle dure affermazioni sull'altra parte, affermazioni che sono in tutto e per tutto dettate dalle proprie esperienze negative e che vengono fatte nella piena convin­ zione di essere dalla parte della ragione, per cui finisce per non tener conto di possibili ragioni della controparte8• Che cosa diventano queste affermazioni, qua­ lora esse siano ripetute in una situazione non più contraddistinta da questa con­ troversia, qualora esse siano lette, udite e ripetute da non giudei? Esse non ven­ gono recepite da una chiesa ormai solo di gentili, che si contrappone al giudai­ smo, nel senso di una ostilità di principio contro i giudei? E una volta che questa chiesa è diventata potente, tali testi finiranno necessariamente - per dirla senza mezzi termini - per legittimare una ostilità assai concreta e assai pratica contro i giudei. Proposizioni formulate in base alla difficile situazione di una minoranza diventano così strumenti utilizzati senza scrupoli da una potente maggioranza contro la minoranza giudaica. Qui ricordo solo la punta estrema di questo svilup­ po, consistente nel fatto che la proposizione di Gv 8,44, che parla dei giudei co7 Nel lavoro indicato nella n. l ho cercato di localizzare rorigine del vangelo di Giovanni neUa zona a nord-est del Giordano durante il regno di Agrippa II (Gemeinde, 160-179). Questa è una pos­ sibilità che mi sembra sempre più probabile. Una identica localizzazione viene fatta da REIM, jocha­ nan, 410-424. Più importante dell'esatta localizzazione è tuttavia il posizionamento in un conflitto in­ tragiudaico. 8 Soding vuole intendere ·la forte e polemica critica contro i giudei che hanno rifiutato la fede in Gesù•, •non semplicemente• come reazione uscita da una tale situazione. ·La polemica contro 'i giu­ dei' ... si manifesta come contesa intorno al vero giudaismo• (Nazareth, 41). Di questo •vero giudai­ smo• aveva già parlato a p. 30 e aveva presentato positivamente le persone legatesi a Gesù. ·Con questi giudei, che per Giovanni sono giudei secondo il cuore di Dio, si associa il giudeo Gesù nel 'voi' di Gv 4,22·. Che cosa Soding implicitamente dica riguardo al giudaismo che non crede in Gesù, su questo purtroppo non esprime alcuna opinione.

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me dei figli del diavolo, servì alla preparazione e alla legittimazione del massacro degli ebrei in Germania nel secolo :xxAJ. Lo sgomento per questo fatto - per l'assassinio perpetrato e per la colpa cri­ stiana a suo riguar. do a motivo dell'ostilità cristiana verso i giudei- condusse do­ po tanto tempo le chiese cristiane e la teologia cristiana a rivedere le proprie po­ sizioni - anche se non tutti l'hanno ancora fatto - e a cambiare il rapporto con il giudaismo. Ma che significa questo per l'esegesi - certamente non solò per essa, però indubbiamente anche per essa - del vangelo di Giovanni? Una volta preso attentamente atto della situazione radicalmente cambiata, non è più evidentemen­ te possibile limitarsi a ripetere in maniera pura e semplice, a comprendere e a de­ scrivere quanto vi è scritto. Occorre piuttosto ripensare in maniera critica i testi, prendere coscienza del presupposto fondamentale della controversia di quel tem­ po, presupposto che malgrado tutta l'asprezza di tale controversia rimaneva sal­ damente inconcusso, vale a dire il comune riferimento all'unico Dio, al Dio d'I­ sraele. Questo presupposto rimane valido, anche se esso è velato dal fatto che il ' vangelo di Giovanni è pur sempre la testimonianza di un dialogo fallito. Tale van-. gelo presenta dei dialoghi, che in realtà non sono tali e che, a una più attenta considerazione, risultano essere delle proclamazioni della propria posizione, a cui anche la controparte deve in fondo servire. La riflessione critica e quindi la reale comprensione esigono perciò costitutivamente che si metta di nuovo in luce il possibile sfondo dei testi del vangelo di Giovanni, sfondo che può servire al dia­ logo, esigono che si ascolti l'altra parte con la stessa serietà con cui si ascolta l'ar­ gomentazione di Giovanni e che la si renda trasparente e forte in base ai suoi presupposti e ai suoi propri testi. Forse così il non dialogo manifesto nel vangelo di Giovanni potrebbe essere superato per entrare oggi in dialogo10• Dalla presup­ posta collocazione di questo vangelo deriva che, dal punto di vista della storia delle religioni, nell'interpretazione non si adducono e non si discutono tutti i pos­ sibili testi di riferimento. Con una voluta unilateralità ci si limita piuttosto sostan­ zialmente a fonti giudaiche e soprattutto a fonti giudaico-rabbiniche. Occorre ve­ rificare, per tutto il testo del vangelo di Giovanni, se e come l'impostazione qui proposta regge. A questo scopo non si tratta di acquisire dei punti di contrasto o di registrare dei semplici 'parallelismi', bensì lo scopo è soprattutto quello di sco­ prire e di descrivere con precisione, con l'aiuto di testi giudaici, dei contesti di dialogo, in cui le affermazioni del vangelo di Giovanni sono forse maturate. D'al­ tra parte, nella cura di comprendere i testi giudaico-rabbinici, lo scopo è quello di acquisire rispetto di fronte ad essi e di riconoscere che nella questione sono più 9 Cfr. le più precise indicazioni date nella spiegazione del passo.

10 Questo ricorre come programma. già in BLANK, Komm. la,9, però al riguardo si trovano poi in questo bel commentario solo alcuni spunti.

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le· rose che uniscono che qùetle che, a partire dalla situazione, sì sospetta che producano polemica. Poiché i testi giudaico-rabbinici sono fino ad oggi la base del giudaismo, rispetto nei loro confronti significa allo stesso tempo anche rispet­ to nei confronti del giudaismo del nostro tempo. A proposito della possibile obiezione metodologica, secondo la quale la massa dei testi giudaico-rabbinici è troppo recente per poter svolgere un ruolo per la comprensione del vangelo di Giovanni, dobbiamo notare due cose. Il primo pun­ to non è decisivo, però va tenuto presente: una tradizione, anche se si trova in u­ na raccolta 'recente', può ciononostante essere molto antica11• Questo tuttavia nel­ la maggior parte dei casi non è dimostrabile. L'argomento dell'antichità sarebbe importante se si mirasse a dimostrare delle 'dipendenze'. Non si tratta però di questo, bensì - e questo è il secondo punto - di scoprire dei possibili modi di parlare e dei possibili modelli di pensiero giudaici; e a questo scopo è relativa­ mente irrilevante sapere quanto un testo sia antico o recente. Allo stesso tempo bisogna anche considerare che di fronte al forte cambiamen­ to nella composizione della comunità che si richiama a Gesù Cristo, dagli inizi fi.:. no a metà del n secolo - da un gruppo giudaico si passa a una chiesa dei popoli -, da parte giudaica persiste una fortissima continuità con la tradizione. Anche questo relativizza l'argomento dell'antichità. Nella scuola di jamnia, mediante l'ac­ coglienza delle antiche tradizioni, venne posta la base per un costante sviluppo che si è condensato letterariamente nella Mishnah, nel Talmud e nei Midrashim. Anche un testo sicuramente recente che provenga da questa tradizione mostra che una affermazione che gli corrisponda nel Nuovo Testamento è un modo di e­ sprimersi giudaico.

4. n testo da Interpretare

La questione del testo da interpretare può sembrare strana. Bisogna natural­ mente interpretare il vangelo di Giovanni. Ma basta dare uno sguardo a due com­ menti per capire che non è affatto chiaro in partenza che cosa si debba intendere per 'vangelo di Giovanni'. A chi prende in mano il commento di Rudolf Bult­ mann, e vuoi sapere quale sia il senso di un passo del vangelo di Giovanni cer-

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Quale esempio eloquente in merito cito l'espressione •cattedra di Mosè', che in tutta la letteratu­ ra rabbinica ricorre solo in PesK 1 ,7 (MANDELBAUM, p. 12) e che tuttavia deve essere stata in uso già prima del 100 d.C. (Mt 23,2). Cfr. al riguardo H.-J. BECKER, Auj der Katbedra des Mose, 1990, 31-51.

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cando tale passo nel modo solito, può capitare di non trovarlo e di avet bisognd di ricorrere, a questo scopo, alla tabella posta al termine dell'indice e intitolata: ·Die Abschnitte der ErkHintng in der Reihenfolge des Textes des Evangeliums• [I capitoli della spiegazione seguendo il testo del vangelo]. Bultmann ha infatti note­ volmente cambiato il testo tradizionale e ha così pensato di ristabilire il vangelo 'originario'. Egli interpreta quest'ultimo e non il vangelo nella sua forma tradizio­ nale. Oltre a ciò egli ha distinto una 'redazione ecclesiale' dal vangelo 'originario', redazione che comprende soprattutto l'aggiunta del cap. 21, la pericope eucaristi­ ca di 6,51b-58, le affermazioni relative alla attesa tradizionale circa il futuro conte­ nute nel cap. 5s. , nonché ·alcune proposizioni. . . che disturbano formalmente o anche sostanzialmente la concatenazione•12• La 'più recente critica letteraria' ha ascritto alla 'redazione ecclesiale' un mate­ riale ancora notevolmente più ampio. Oltre a ciò si è cercato di ricostruire un processo pluristratificato della formazione del vangelo di Giovanni13• Uno dei ten­ tativi più ampi e radicali in questo senso è stato intrapreso e attuato soprattutto nel suo commento da Jiirgen Becker. Quel che egli interpreta è il 'vangelo' da lui ipoteticamente ricostruito. Prima di qualsiasi critica dettagliata, a una simile im­ presa bisogna rivolgere un'obiezione di fondo, dire cioè che il vangelo tradiziona­ le merita anzitutto che si presupponga che esso è un testo voluto così e in sé coerente. Solo se in esso viene data una indicazione a proposito di una redazione successiva, solo se nella storia del testo e nella ricezione del testo esistono testi­ monianze corrispondenti, o solo se il tentativo seriamente intrapreso di concepir­ lo come un testo unitario chiaramente fallisce, diventa necessario risalire al di là della forma testuale di cui disponiamo. La critica storica risulta frettolosa e fallisce il suo scopo se, anziché cercare di comprendere quanto è qui tramandato, si crea prima autonomamente con criteri discutibili l'oggetto da interpretare. Il fatto che già alla fine del secolo XIX e all'inizio del ·secolo xx ci sia stata una critica letteraria giovannea e che negli ultimi trent'anni del secolo xx si sia messa in moto una 'nuova' critica letteraria del vangelo di Giovanni mostra perlomeno che il testo tradizionale offre dei motivi per farlo, motivi che fanno pensare a una preistoria della sua forma tradizionale. La questione non è tuttavia quella di stabi­ lire se e come sia possibile far luce su questa preistoria distinguendo degli strati e individuando delle fonti, di sapere se il testo attuale. è formato e riformato in un modo che pone limiti stretti o addirittura barriere insuperabili a un simile tentati­ vo. Il vangelo di Giovanni non è certamente un'opera letteraria scritta di getto.

12 Bultmann ha esposto il problema e la sua solu�ione in modo sintetico nella voce -johannese­ vangelium•, in RGG3 3, 1959 (840-850), 840s . ; la citazione è desunta dalla col. 84L 13 Per la 'recente critica letteraria' rimando alla mia presa critica di posizione nel libro citato nella n. l, pp. 20-41.

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Esso ha una preistoria. C'è però da dubitare che sia possibile ricostruirla anche solo con una certa probabilità. Di fronte a questa situazione, di fronte al fatto che, da un lato, esistano indicazioni di tradizioni, di fonti e di un processo di forma­ zione e che, dall'altro lato, si manifestino una volontà che plasma tutto il vangelo, una concezione complessiva e una linguaggio unitario, sembra opportuno non progettare in partenza modelli di strati, tradizioni e fonti e poi far da essi determi­ nare l'interpretazione. A me sembra qui più adeguato un modo di procedere pragmatico, un modo che di volta in volta si domanda che cosa l'una o l'altra i­ potesi circa la preistoria può fornire per una migliore comprensione di un passo e se essa fornisce qualcosa a questo scopo. Ciò vale anche per la questione conti­ nuamente discussa del rapporto di Giovanni con i Sinottici, per cui ci si domanda se egli abbia conosciuto uno degli altri vangeli o anche tutti e tre o se abbia uti­ lizzato una tradizione comune o simile14• Noi la lasciamo aperta. Dove esistono dei punti di contatto con i Sinottici, occorre di volta in volta prenderli in conside­ razione. Poi bisogna mostrare se l'una o l'altra ipotesi fornisca qualche contributo per la comprensione del testo in discussione. Io cercherò pertanto di comprendere il vangelo di Giovanni nella sua forma tradizionale come una unità, con una sola eccezione. In un punto infatti lo stesso testo indica espressamente che si tratta di un diverso autore. In 21 ,24 il -discepolo che Gesù amava• viene indicato come colui che ·ha scritto questi fatti•. Tali parole sono seguite dalla assicurazione: ·E noi sappiamo che la sua testimonianza è ve­ ra•. Nel conclusivo v. 25 si parla alla prima persona singolare: ·Penso che•. Secon­ do questa chiara indicazione la conclusione deve quindi essere stata scritta, diver­ samente dal resto del vangelo, da qualcun altro che può unirsi con altri in un 'noi'. Naturalmente si può considerare questa differenziazione come un mezzo letterario di un unico autore. Ma la si può anche prendere, con egual, se non con· maggior ragione, alla lettera. Unitamente all'osservazione che in 20,30s. siamo di fronte a una vera conclusione, mi sembra perciò, ora come una volta, che più nu­ merose siano le cose che depongono in favore dell'ipotesi già da lungo tempo e­ sistente e molto diffusa, secondo la quale il cap. 21 sarebbe un'aggiunta successi­ va scritta da un'altra mano. Soprattutto H. Thyen si è decisamente impegnato a considerare Gv 21 come parte co­ stitutiva integrale del vangelo. A questo scopo egli si è richiamato in particolare alla tradizione testuale e ha da qui concluso: ·Il vangelo non è chiaramente mai esistito in

14 La posizione menzionata per ultima è tutt'oggi quella più convincente per me. Essa è sostenuta, ad esempio, da B. Lindars. Cfr. i saggi nr. 7-9 e 14 nel suo volume Essays on fohn, a cura di C.M. Tucket, Leuven 1992. - A proposito della posizione opposta, cfr. ad esempio HENGEL, bibliografia ivi citata nella n. 16.

Frage, 209, e la

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una forma diversa da quella a noi tramandata•15• Il manoscritto più antico a noi noto e testimoniante Gv 21 è il Papiro 66, che fu scritto alla fine del II o all'inizio del III seco­ lo. La distanza di circa l 00 anni dal tempo della composizione del vangelo di Giovanni è troppo grande perché il giudizio espresso da Thyen possa essere considerato come sicuro. Il fatto che M. Lattke richiami l'attenzione su un passo che testimonia come, al­ l'inizio del secolo III, Gv 20,31 costituisse la conclusione del vangelo, è realmente solo una •'piccola scoperta' non critica di critica testuale» (HENGEL, Frage 2 1 8s , nota 36 di p. 218; la citazione a p. 219)16? Tertulliano, nel suo scritto contro Prassea, polemizza con­ tro la cristologia modalistica di quest'ultimo e si occupa diffusamente del suo modo di utilizzare Gv 1 4 , 8s. A questo scopo egli passa in rassegna, da 2 1 , 1 fino a 25,4, tutto H vangelo di Giovanni, come afferma anche esplicitamente in 26, 1. Al termine di questa rassegna leggiamo .in 25,4: •Anche la conclusione (clausula) stessa del vangelo a che scop9 conferma (consignat) quanto è stato scritto, se non 'perché crediate', dice, 'che Gesù Cristo è il Figlio di Dio'? Pertanto tutte quelle argomentazioni che, tra queste, ti sembreranno utili per dimostrare l'identità del Padre con il Figlio, tu le dovrai adopera­ re solo per opporti alla affermazione conclusiva (definitivam sententiam) del vangelo. Esse non sono state scritte1' perché tu creda che Gesù Cristo è il Padre, ma perché tu creda che egli è il Figlio•. Sottolineiamo ancora una volta che Gv 20,31 non è qui citato casualmente, bensì al termine di una rassegna di tutto il vangelo. Il fatto che in questa rassegna Gv 21 non venga mai menzionato e che 20,31 sia invece espressamente pre­ sentato due volte come la conclusione del vangelo è perlomeno sorprendente. Tertul­ liano mostra in altri passi di conoscere Gv 21 (cfr. HENGEL, op. cit., 218s.), conoscenza che difficilmente può essere spiegata con la tradizione orale. Ciò però esclude il fatto che qui egli utilizzi un esemplare del vangelo privo del cap. 21? Questa mi sembra es­ sere in ogni caso la spiegazione più probabile del passo citato dello scritto contro Pras­ sea. Più importante è tuttavia l'osservazione fatta a proposito del testo stesso del vange­ lo. Il fatto che, a parte una sola possibile eccezione, in Tertulliano si trovino solo testi­ monianze testuali comprendenti il cap. 21 potrebbe dipendere dalla circostanza che l'e­ dizione del Nuovo Testamento effettuata già nel II secolo è diventata dominante per l'ulteriore tradizione testuale. Cfr. in merito D. TRoBISCH, Die Endredaktion des Neuen .

Testaments, 1996. Poiché nel testo tradizionale deilo stesso vangelo, e precisamente in 21 ,24s., viene indicata una differenziazione per quanto riguarda gli autori e poiché 20,30s. costituisce una conclusione del libro, io ritengo il cap. 21 un'aggiunta e considero

200; cfr. Io., ·Entwicklungen innerhalb der johanneischen Theologie und 21 und der Lieblingsjiingertexte des Evangeliums•, in L'Évangile de jean. Sources, rédactton, théologie, a cura di M. De jonge, BEThL 44, Leuven 1977 (259-299), 259. 16 ·Joh 20,30f. als Buchschluss•, in ZNW78 (1987) 288-292. 17 Nel testo latino ci sono le parole 'scripta sunt'. Esse dovrebbero essere state suggerite da Gv 20,31 ed essere state riprese di là. Per questo e per l'affermazione immediatamente successiva è chia ro che Tertulliano pensa sempre al passo di 20,31 e che perciò 'deftnitivam sententiam' va intesa nel 15 ]ohannesevangelium, Kirche im Spiegel von joh

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modo in cui l'abbiamo tradotta.

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anzitutto l'unità 1 , 1-20,31 come il testo da interpretare18• Poi bisognerà natural­ mente spiegare anche il capitolo aggiuntivo e domandarsi quali accenti vengono da esso posti retroattivamente sul testo precedente.

5. Genere letterario e suddivisione

Qualunque sia stato il modo in cui il vangelo di Giovanni è nato, ciò che o� noi abbiamo davanti - sia nella sua veste originaria dal cap. l al cap. 20, sia con l'aggiunta del cap. 21 - è nella sua forma letteraria un vangelo. Sotto questo a­ spetto esso non si distingue- dai tre vangeli sinottici. Come quelli, racconta la sto­ ria di Gesù di Nazaret, a cominciare dalla sua comparsa accanto a Giovanni Batti­ sta fino alla sua morte e alla sua risurrezione. Non sviluppa a modo di un trattato un'idea teologica, ma ha la forma di un racconto ininterrotto. Per quanto possa essere diverso dai vangeli sinottici quanto a linguaggio e 'atmosfera' generale, il carattere della narrazione è presente ed è anche per esso determinante. Questa non è una constatazione semplicemente formale, bensì una constata­ zione che contiene importanti indicazioni circa il modo in cui bisogna compren­ derlo e, in particolare, bisogna in esso comprendere la figura di Gesù. Il vangelo di Giovanni si distingue in modo radicale dagli scritti gnostici prodotti già nel n secolo - stranamente detti anche 'vangeli' -, che volatilizzano Gesù fino a fame un essere spirituale celeste e che furono respinti dalla chiesa come eretici nel cor­ so di un processo fatto di aspri dibattiti. Dal momento che Giovanni narra la sto­ ria di Gesù, non è più una cosa in discussione, bensì è un ovvio presupposto che egli si occupa di questo determinato uomo ebreo. Dalraltro lato bisogna prendere atto che non soltanto i vangeli sinottici, bensì anche il vangelo di Giovanni contiene sostanzialmente qualcosa di più di quel che S0ren Kierkegaard considerava come l'unica cosa importante: ·La realtà stori­ ca, il fatto che Dio è esistito in forma umana è la cosa principale, mentre le altre particolarità storiche non sono così importanti come lo sarebbero, s� qui si par­ lasse di un uomo anziché di Dio . . . Anche se la generazione di quel tempo non a­ vesse lasciato altro che le parole: 'Abbiamo creduto che nel tal anno Dio si è mo­ strato nella misera forma di un servo, è vissuto e ha insegnato tra di noi e poi è morto', ciò sarebbe più che sufficiente. La generazione di quel tempo ha fatto ciò che era necessario, perché questa piccola indicazione, questo N.(ota) B.(ene) del18 Questo testo, 1, 1-20,31, può essere visto come un testo concluso. Esso non è affatto un •0/)US nondum piene perfectu� o ·paene perfectu�, come dice Hengel (Frage, 258; cfr. 269.271).

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la storia universale basta per diventare una cosa interessante per i posteri; e·'211che il rapporto più circostanziato non potrebbe mai diventare qualcosa di più per essi·19• Ciò è stato adottato da R. Bultmann e attuato nella sua interpretazione del vangelo di Giovanni20• Certo, neppure quanto Giovanni racconta oltre a 'questa piccola indicazione' può naturalmente fondare la rivendicazione avanzata da Ge­ sù. Però, dall'altro lato, quanto di lui può essere narrato non è neppure chiara­ mente insignificante. Per Kierkegaard e per Bultmann d'importanza decisiva è sol·­ tanto il paradosso che Dio ci viene incontro in questo determinato uomo Gesù. Tale paradosso è già dato con il prologo; ad esso, secondo Bultmann, non si ag­ giunge oggettivamente più nulla. Ma il racconto di una storia non è già giunto al suo traguardo con l'inizio, bensì lo raggiunge soltanto alla fine. Il modo in cui il racconto procede verso il proprio traguardo, il modo in cui il vangelo di Giovanni è strutturato e articolato non è perciò indifferente. Esso racconta la storia di Gesù in maniera diversa da quella dei vangeli sinotti­ ci, e ciò anche dal punto di vista temporale e locale. I vangeli sinottici presup­ pongono che l'attività pubblica di Gesù sia durata soltanto un anno, attività che si svolge soprattutto in Galilea e che si estende solo occasionalmente ai territori confinanti a est, ovest e sud. Gesù si reca solo una volta a Gerusalemme per la festa di Pesah. Là viene arrestato, condannato e giustiziato. Invece il racconto di Giovanni comincia poco prima di una festa di Pesah. Il luogo è il territorio al di là del Giordano (1,28). Di là Gesù va in Galilea (1 ,43; 2, 1 . 1 2), sale per la festa di Pesah a Gerusalemme (2, 1 3), vi si trattiene (2,23) e poi va nella Giudea (3,22). Lascia la Giudea e attraversa la Samaria, per tornare di nuovo in Galilea (4,3s.). Si ferma due giorni a Sicar (4,5.40), prima di raggiungere nuovamente Cana in Gali­ lea (4,43.46.54). Infine risale per una festa a Gerusalemme (5,1). Si tratta sicura­ mente della festa di Shevuot. Poi si presuppone un salto temporale e locale più grande. Gesù si reca dall'altra parte del lago di Genesaret (6, 1) per poi andare a Cafarnao (6, 17. 2 1 . 59); quanto al tempo, viene annotata la vicinanza della festa di Pesah (6,4). Egli non sale però per questo Pesah a Gerusalemme e gira per la Ga­ lilea, perché teme che nella Giudea sarebbe perseguitato a morte (7, 1). Ma all'av-

19 Traduzione di E. Hirsch, Diisseldorf - Koln 1960, 100s. m

In una lettera del 10.12. 1926, indirizzata a K. Barth, Bultmann si è riferito espressamente all'af­ fennazione centrale di questo passo di Kierkegaard e l'ha citata con queste parole introduttive: ·lo so naturalmente bene che Kierkegaard ha in fondo ragione• (K. BARTH - R. BuLTMANN , Briefwecbsel 1922-1966, a cura di B. jaspert, Ztirich 1971 , 63-65; la citazione a p. 65). Per documentare la sua corrispondente visuale del vangelo di Giovanni rimando a p. 63s. della medesima lettera e cito una affermazione della sua Tbeologie des Neuen Testaments: ·Giovanni presenta dunque nel suo vangelo soltanto il fatto (il Dass) della rivelazione, ma senza illustrarne il contenuto (il Was)• (ed. rivista e completata da O. Merk, 19849, 419) [trad. it. , Teologia del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 19922, 398).

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vicinarsi della festa di Sukkot (7 ,2) si tratta di nuovo di sapere se egli salirà a Ge­ rusalemme, cosa che egli fa (7, 1 0). Si trattiene là per tutta la festa (7, 14.37) e an­ che dopo. Quando arriva la festa di Hanukkah è ancora a Gerusalemme (10,22), per poi tornare nel territorio al di là del Giordano, nel luogo che era stato il pun­ to di partenza del racconto (10,40). Di là si reca nel villaggio di Betania vicino a Gerusalemme (11,1. 17s.). Scompare di nuovo dalla scena pubblica della Giudea e si ritira a Efraim ai margini del deserto ( 1 1 ,54). Pesah è vicino (1 1 ,55), e sei giorni prima della festa egli va a Betania (12,1). Il giorno successivo entra in Gerusalem­ me (12,12s.). La sera del giorno antecedente la festa di Pesah cena con i suoi di­ scepoli (13,1s.), per poi recarsi con essi nel giardino al di là della valle del Ce­ dron (18 1) Là viene arrestato e portato la mattina successiva davanti a Pilato (18,28). Nello stesso tempo in cui gli agnelli della festa di Pesah venivano macel­ lati nel tempio, viene condannato e giustiziato (19,14). Giovanni racconta quindi di una attività di Gesù durata più di due anni, con dei cambiamenti di luogo relativamente frequenti tra il territorio al di là del Gior­ dano, la Galilea e la Giudea con al centro Gerusalemme, città che rappresenta chiaramente un punto focale21• L'osservazione che in Giovanni il tempo dell'atti­ vità di Gesù è oltre il doppio più lungo di quanto lo sia nei vangeli siilottici va o­ ra collegata con una osservazione a proposito della suddivisione. Tra il cap. 12 e il cap. 13 c'è senza dubbio una profonda cesura, che divide il vangelo in due par­ ti. In 12,37-43 Giovanni riflette retrospettivamente a lungo sulla mancanza di fede trovata da Gesù e gli fa tenere nei vv. 44-50 - corredati da una specifica introdu­ zione - un discorso, che riassume in modo concentrato il modo e l'intenzione della sua attività. In 13,1-3 segue un nuovo inizio messo fortemente e ampiamen­ te in risalto, che non introduce solo la successiva scena della lavanda dei piedi, bensì introduce nello stesso tempo anche tutta la seconda parte del vangelo, into­ nando la tematica dei discorsi di addio e avendo di mira la passione e la Pasqua. Gli eventi narrati in 1 , 19-12,50 abbracciano un periodo di più di due anni, men­ tre quelli descritti in 13,1-19,42 si svolgono in un solo giorno. Con 20, 1-23 si ag­ giunge il terzo giorno dopo la morte di Gesù, con 20,24-29 un'altra settimana. I tempi, su cui si estendono le due parti del vangelo, sono perciò del tutto spro­ porzionati rispetto alla parte loro riservata nel racconto. Da qui dobbiamo conclu,

.

21 Questa successione temporale e locale non è armonizzabile con quella sinottica. Se ci doman­ diamo quale sia più vicina alla realtà storica di Gesù, non è detto a mio giudizio che quella sinottica vada ovviamente preferita. Essa poggia infatti sulle concezioni marciane della rapida successione de­ gli eventi (cfr. il termine 'subito' presente 41 volte) e della contrapposizione deHa Ga1ilea, come luo­ go dell'attività e deUa sequela di Gesù, a Gerusalemme come luogo della sua passione. Se esaminia­ mo infatti la cosa dal punto di vista storico, il quadro giovanneo presenta una verosimiglianza sostan­ zialmente più grande, perché i pii ebrei deHa Galilea avevano l'abitudine di andare nei limiti del pos­ sibile in pellegrinaggio a Gerusalemme per le feste.

Introduzione

30

dere che nel vangelo di Giovanni viene atttibuita un'importanza straordinariamen­ te grande all'evento verificatosi nell'ultimo giorno della vita di Gesù e alla sua comprensione, vale a dire soprattutto alla sua morte in croce. Ciò è sottolineato anche dal fatto che già nella prima parte la passione e la morte di Gesù sono continuamente tenute presenti. Qui sembra stare il problema decisivo. Qui sta e­ videntemente la questione più grave nella descritta situazione della comunità: co­ me può essere il Messia uno che è stato giustiziato così vergognosamente in cro­ ce, visto che con il Messia arriva il regno della giustizia, in cui l'ingiustizia dei vio­ lenti non può più trionfare22? Giovanni cerca di scoprire e di mostrare come sia possibile pensare che Dio è presente e agisce in questo determinato destino di Gesù. A questo scopo egli ricorre a diverse idee e le elabora. Una, che ricorre in continuazione e che abbraccia tutto il vangelo, è l'idea dell'inviato. Alla sua luce è· forse possibile caratterizzare nel modo migliore le due parti del vangelo: l. L'atti­ vità di Gesù come inviato di Dio trova credenti e non credenti (1, 19-12,50). Il Ge­ sù che cammina verso la croce si presenta ai credenti come colui che torna a Dio· e promette loro la sua presenza nello Spirito (13, 1-20,29). Giovanni però, prima di cominciare a raccontare la storia di Gesù, indica molto chiaramente con il pro­ logo la prospettiva in cui questa storia va letta e ascoltata.

zz

Cfr. già HEI1'M01.I.ER, Komm., 17.

n prologo (1,1- 18)

1

1ln principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era (uguale a) Dio. zEgli era in principio presso Dio: -tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. "In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5e la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta. 6Venne un uomo mandato da Dio, e il suo nome era Giovanni. 'Egli venne come testimone per rendere testimonianza della luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. �gli non era la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce. 'Egli era la vera luce, che illumina ogni uomo al suo venire nel mondo. 10Egli era nel mondo, e il mondo fu fano per mezzo di lui, eppure il mondo non lo conobbe. 11Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto. uA quanti però l'hanno accolto, ha dato il potere

n prologo (1,1-18)

32 di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 13i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. 14E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unico dal Padre, pieno di grazia e di fedeltà. 15Giovanni gli è testimone e grida, dice: Era lui quegli di cui dissi: colui che viene dopo di me mi è passato davanti, perché era prima di me. 16Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. 1'Perché la Torah fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la fedeltà vennero per mezzo di Gesù Cristo. 1S0io nessuno l'ha mai visto; proprio l'unico, (uguale a) Dio, che è sul petto del Padre, lui lo ha spiegato.

Il passo 1 , 1-18 costituisce un'unità a sé stante, che precede come un'importan­ te prefazione il racconto che inizia in 1 , 19. Esistono certamente delle linee di col­ legamento tra questo prologo e il racconto successivo, in quanto in ambedue Ge­ sù viene presentato come la persona centrale e in quanto nel prologo risuonano dei temi a lui relativi, che saranno poi sviluppati nel racconto. Il collegamento più diretto tra il prologo e l'inizio del racconto è costituito dalla figura di Giovanni Battista quale testimone paradigmatico. Nel prologo la sua funzione di testimone viene posta ampiamente in risalto, mentre dall'altro lato vi risuona la sua stessa testimonianza. E con lui comincia anche il racconto. Non sarebbe tuttavia oppor­ tuno considerare tutto il cap. l come una doppia introduzione al vangelo•. L'ini­ zio del racconto è infatti caratterizzato da uno schema di sette giorni, che si spin-

1 Così M. THEoBALD nella sua grande monografia Die Fleischwerdung des Logos, 1988. Secondo lui 1 , 1-18 e 1 , 19-51 costituiscono ·le due tavole del dittico di apertura• (p. 295; cfr. a p. 294s. e a p. 489 la 'Zwischenbilanz' [Bilancio intermedio] a proposito delle pp. 164-294). Menzionata va anche la sua ampia storia della ricerca relativa al prologo nel secolo XIX e XX (pp. 3-161).

Sulla questione di un documento precedente

33

ge al di là del cap. l e che abbraccia l'inizio del cap. 2. Con 1 ,19 inizia il racconto progressivo di tutto il vangelo, da cui va chiaramente distinto ciò che lo precede. Ciò che lo precede comincia con l'inizio della creazione. Con la doppia menzione del Battista, con le allusioni inequivocabili alla storia di Gesù e con la menzione conclusiva del suo nome viene sì già preso in considerazione un evento storico ben determinato, ma esso viene descritto e caratterizzato in linea di principio. Es­ so viene proclamato e confessato, ma non descritto. Ciò risulta anche sotto il pro­ filo linguistico. A proposito di questi versetti possiamo parlare a ragione di prosa letteraria e ritmica. La traduzione tenta di tenerne conto. È perciò legittimo consi­ derare il passo 1 , 1-18 come un'unità a sé stante; ed è necessario domandarsi in quale rapporto esso stia con il racconto successivo, quale funzione svolga nei suoi confronti. Prima però dobbiamo parlare della sua struttura e prima ancora affrontare due problemi, che nella ricerca hanno talora svolto un grande ruolo, ma che a mio giudizio non hanno una grandissima importanza per la comprensione del testo at­ tuale, vale a dire la questione di un documento precedente e la questione del re­ troterra storico-religioso.

l. Sulla questione di un documento precedente

Come si è studiata la storia della nascita del vangelo nel suo complesso, così si è anche studiata quella del prologo in particolare. Non possiamo validamente contestare il fatto che Giovanni non formula qui del tutto ex novo, ma utilizza u­ na tradizione. Forse si trattava anche di un documento coerente. In questo senso depone soprattutto la posizione nel contesto dei vv. 6-8, che interrompono uno stretto collegamento tra il v. 4s. e i vv. 9-1 1 . Il fatto che nei vv. 9-1 1 il soggetto debba essere di nuovo la Parola (Verbo) risulta solo se lasciamo da parte i vv. 6-8 e ci ricolleghiamo ai vv. 1 5 . Una interruzione simile costituisce anche la seconda menzione del Battista nel v. 15. Ma se oltre a constatare che qui Giovanni adotta una tradizione, forse un documento precedente coerente, si vuole ricostruire tale documento, si entra in un campo in cui si possono acquisire soltanto dei risultati destinati a rimanere ipotetici. Trarre da essi ulteriori conclusioni significa solo au­ mentare l'insicurezza. Qui vale più che mai quanto H.J. Holtzmann ebbe a dire oltre cento anni fa sull'interpretazione del prologo nel suo complesso: ·Se diamo uno sguardo ai commenti, vediamo che l'esegesi del prologo si è da sempre ser-

n prologo (1, 1·18)

34

vita del metodo del tirare a indovinare•2• Ad ogni modo, comunque si voglia pro­ cedere a ricostruire, una cosa dovrebbe essere chiara: in questo luogo importante del suo vangelo, all'inizio, Giovanni non accoglie una tradizione perché la consi­ dera insufficiente o addirittura sbagliata e perché egli la pensa in maniera com­ pletamente diversa da essa, bensì l'accoglie perché esiste una concordanza di fondo, perché egli pensa di poter dire con essa quanto vuole dire. E se egli inter· rompe dei collegamenti precedenti, non bisogna pensare che lo faccia perché è maldestro, ma bisogna partire dal fatto che abbia i suoi buoni motivi per farlo. Anche qui vale perciò il principio che bisogna prendere il testo attuale così come esso è e tentare di comprenderlo nella forma che esso ha assunto come un'unità così voluta.

2. Sul retroterra storico-religioso

Si va delineando un consenso sempre più forte su un punto: se il prologo e la sua tradizione parlano come parlano, lo devono alle speculazioni giudaiche sulla sapienza. Esse si trovano già nella Bibbia ebraica, in Pr 8 e in Gb 28, nonché in libri contenuti aggiuntivamente nei Settanta, in Sir 24, in Sap 7-9 e in Bar 3,9-4,4, e in altri scritti ancora. Secondo questi passi la sapienza è la prima delle crearure di Dio. Essa lo ha aiutato nella creazione e ha cercato di stabilire la sua dimora tra gli uomini, ma fu respinta. Secondo una tradizione tornò allora al suo posto presso Dio, secondo un'altra trovò accoglienza in Israele. Il parallelismo tra le af­ fermazioni contenute nei testi menzionati e le affermazioni del prologo arriva qui fino al v. 12. Cito alcuni testi sulla sapienza, scelti in base ai motivi ricorrenti in Gv 1,1-12: ..Adonaj mi [la sapienza] ha creato all'inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, fin d'allo­ ra. Dall'eternità sono stata costituita, fin dal principio, dagli inizi della terra . . . Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull'abisso; quando condensa­ va le nubi in alto; quando fissava le sorgenti dell'abisso; quando stabiliva al mare i suoi limiti, sicché le acque non ne oltrepassassero la spiaggia; quando disponeva le fonda­ menta della terra, allora io ero con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni gior­ no, mi rallegravo davanti a lui in ogni istante; mi ricreavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli degli uomi i· (Pr8,22s.27- 3 1).

2

Komm., 21. Applico questo espressamente anche al tentativo da me compiuto nella mia tesi di Forme/n, 200-208.

laurea:

Sul retroterra storico-religioso

35

·La sapienza, artefice di tutte le cose- (Sap 7 ,21). ·È un riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell'attività di Dio e un'immagine della sua bontà. Sebbene unica, essa può tutto; pur rimanendo in se stes­ sa tutto rinnova• (Sap 7,26s.). ·Essa si estende da un confine all'altro con forza, governa con bontà eccellente ogni cosa· (Sap 8,1). •Quale ricchezza è più grande della sapienza, la quale tutto produce?· (Sap 8,5). ·Dio . . . che tutto hai creato con la tua parola, che con la tua sapienza hai formato l'uo­ mo• (Sap 9,1s.). ·Con te è la sapienza che conosce le tue opere, che era presente quando creavi il mon­ do· (Sap 9,9). ·lo sono uscita dalla bocca dell'Altissimo. . . Prima dei ·secoli, fin dal principio, egli mi creò . (Sir 24,3.9). ·Ma la sapienza da dove si trae? E il luogo dell'intelligenza dov'è? L'uomo non ne cono­ sce la via, essa non si trova sulla terra dei viventi . . . Ma da dove viene la sapienza? E il luogo dell'intelligenza dov'è? È nascosta agli occhi di ogni vivente ed è ignota agli uc­ celli del cielo- (Gb 28,12s.20s). ·La sapienza grida per le strade, nelle piazze fa Odire la voce; dall'alto delle mura essa chiama, pronunzia i suoi detti alle porte della città: fino a quando, o inesperti, amerete l'inesperienza, e i beffardi si compiaceranno delle loro beffe e gli sciocchi avranno in odio la scienza? Volgetevi alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il mio spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole. Poiché vi ho chiamato e avete rifiutato, ho steso la mia mano e nessuno ci ha fatto attenzione; avete trascurato ogni mio consiglio e la mia esortazione non avete accolto; anch'io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quan­ do su di voi verrà la paura . . . Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cer­ cheranno, ma non mi troveranno• (Pr 1,20-26 .28; dr. 8,1-1 1). ·La sapienza non trovò posto dove stare e la sua sede era nei cieli. Essa venne a stare tra i figli degli uomini e non trovò posto. Ritornò alla propria sede e si mise tra gli an­ geli· (l Hen 42,ls.). �Sulle onde del mare e su tutta la terra, su ogni popolo e nazione ho preso dominio. Fra tutti questi cercai un luogo di riposo, in quale possedimento stabilirmi. Allora il creatore dell'universo mi diede un ordine, il mio creatore mi fece piantare la tenda e mi disse: Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele· (Sir 24, 6-8). Dio ·ha scrutato tutta la via della sapienza e ne ha fatto dono a Giacobbe suo servo, a Israele suo diletto• (Bar 3,37)3• . .



In queste citazioni risuonano tutti i motivi e gruppi di motivi che - ad eccezio­ ne dell'interpolazione su Giovanni Battista - troviamo in Gv 1 , 1-12. Tuttavia il

3 La prosecuzione in 3,38 suona: ·Dopo è apparsa sulla terra e ha vissuto fra gli uomini•. Ciò sa­ rebbe un parallelismo al prologo che si spinge al di là d i Gv l, 12. Ma questo versetto, che solo con difficoltà si lascia inserire nel suo contesto, è probabilmente una interpolazione cristiana. Così W. RoTHSTEIN in APAT l , 221 nota g.

n prologo (1, 1-18)

prologo non parla della sapienza, bensì della Parola. Sapienza e Parola sono però molto affini tra di loro. Nei testi citati infatti la sapienza viene collegata anzitutto con la creazione e con la conservazione del mondo, due cose che sono frutto della parola creatrice di Dio. Perciò secondo il brano citato di Sir 24,3 si può dire che la sapienza esce dalla bocca di Dio; e secondo il passo di Sap 9,1s., parimenti già citato, la creazione dell'universo mediante la parola4 e quella dell'uomo me­ diante la sapienza sono poste fra di loro in parallelo. Questi passi mostrano a suf­ ficienza che era possibile parlare così come accade nel prologoS. Quando esami­ neremo i singoli versetti, vedremo che nei vv. 14-18 Giovanni utilizza altri possi­ bili modi di parlare. Non si tratta perciò di 'spiegare' il prologo partendo da modelli della storia delle religioni, bensì occorre domandarsi perché Giovanni utilizzi le possibilità a sua disposizione così come fa. Egli comincia chiaramente e consapevolmente, ri­ facendosi all'inizio della sua Bibbia ebraica, con la parola creatrice di Dio che può identificare con Gesù, perché in Gesù si verifica di nuovo un'azione creatrice di Dio. Ma perché comincia con la parola pronunciata da Dio al momento della creazione, se nel vangelo vuole narrare la storia di Gesù? Con questo è di nuovo posta la questione della funzione del prologo. Prima ancora però dobbiamo esa­ minarne la struttura, che può fornirci delle importanti indicazioni per la sua com­ prensione.

3. Struttura

Anzitutto è chiaro che tra il v. 1 3 e il v. 14 c'è una cesura. Ciò risulta for­ malmente dal fatto che nei vv. 1-13 si descrive e che i soggetti sono costantemen­ te alla terza persona, mentre nei vv. 14-18 ricorre anche, anzi è dominante, la pri­ ma persona; qui si confessa e si testimonia. Analogamente nei vv. 6-8 Giovanni Battista non viene citato in forma di locutore, bensì si registra la sua comparsa, si menziona la sua funzione e si indica come suo scopo il fatto che tutti credano. Di un'incipiente realizzazione di questo scopo riferisce il v. 12. Là, dopo la prece­ dente constatazione di un 3;mpio rifiuto, si parla anche di credenti, che nel v. 13

4 Sulla creazione mediante l a parola, dr. inoltre Sa/ 33,6; 4 Esd 6,38.43; 7,139; 2 Ba r 14,17. 5 Il fatto che anche in Filone di Alessandria ·le figure del ).Oyoç e della ao«pia compaiano una ac­

canto all'altra come figure parallele· (R. BULTMANN, ·Der religionsgeschichtliche Hintergrund des Pro­ logs zum Johannes-Evangelium•, in Io. , Exegetica, 1967 [10-35], 22) è un'ulteriore prova in questo senso.

Strunura

37

vengono meglio precisati. Quando perciò nel v. 14 si parla alla prima persona plurale, questo 'noi' non può che riferirsi ai credenti immediatamente prima men­ zionati. Diversamente dai vv. 6-8, nel v. 15 Giovanni Battista viene introdotto co­ me locutore, che prima rende la sua testimonianza in prima persona e poi si uni­ sce nel v. 16, in un comune 'noi', ai credenti che prima hanno parlato. Queste osservazioni pennettono anche di definire il rapporto tra le due parti. Il fatto che Giovanni Battista e i credenti ricorrano in ambedue le parti, una volta al­ l'interno della descrizione e un'altra volta come confessanti e testimonianti, esclu­ de la possibilità di leggere tutto il prologo nel senso di un evento raccontato in maniera progressiva, come se nel v. 14 venisse introdotto un evento di cui prima non si era ancora parlato. In ambedue le parti si guarda piuttosto allo stesso e­ vento. Prima esso viene descritto, e poi si risponde a tale descrizione con la con­ fessione e con la testimonianza. La prima parte comincia con la Parola originaria che chiamò in vita la creazione, mentre la seconda parte comincia con l'incarna­ zione della Parola nella storia. Ma nella prima parte è chiaro che, almeno a parti­ re dalla menzione di Giovanni Battista, la Parola originaria non è altri che colui a cui si rende testimonianza; e viceversa nella seconda parte si accenna, nella testi­ monianza di Giovanni, alla sua dimensione risalente molto indietro nel tempo, al­ lorché Giovanni motiva la superiorità di colui che viene dopo di lui dicendo che egli era prima di lui. Se ci domandiamo come le due parti siano articolate al loro interno, alcune ca­ ratteristiche formali del testo ci danno ancora una volta delle chiare indicazioni. Comincio con la seconda parte. Il v. 14 è la confessione espressa dai credenti in­ trodotti nel v. 1 2 . Il v. 15 introduce Giovanni Battista come testimone e presenta la sua testimonianza alla lettera alla prima persona singolare. Visto che poi il v. 16 segue immediatamente senza una nuova introduzione, il testo attuale non può es­ sere letto bene se non presupponendo che a continuare a parlare sia Giovanni

Battista6• Dato però che adesso siamo di fronte alla prima persona plurale, il mo­ do migliore per comprendere questo fatto è che il Battista si unisce da qui in poi ai credenti che prima parlavano nel v. 14. Poiché neppure dopo il v. 16 viene proposta una nuova introduzione, questo discorso comune prosegue sino alla fi­ ne del prologo. Nella prima parte c'è una cesura tra il v. 4 e il v. 5, come dimostra il fatto che nei vv. 1-4 i verbi sono mantenuti al passato, mentre nel v. 5 compare un presen­ te. I primi quattro versetti descrivono l'essere iniziale della Parola presso Dio e la sua attività creatrice. L'affermazione del v. 5 presuppone invece un grande salto, 6 Cfr. ORJGENE, Commento II, 35 sui vv. 15-18: ·Tutte queste parole sono pronunciate dal Battista per rendere testimonianza a Cristo, mentre alcuni, che non se ne sono accorti, ritengono che le paro­ le a cominciare da 'e dalla sua pienezza' fino alla fine siano da attribuire all'apostolo Giovanni•.

38

n prologo

(1, 1-18)

come risulta chiaro anche dal fatto che, in favore della Parola ora predicata come luce, viene addotto come testimone Giovanni Battista. Adesso ci si riferisce quindi concretamente alla comparsa e all'attività storica di Gesù, senza che il suo nome venga già menzionato. L'affermazione del v. 5: ·La luce splende nelle tenebre· corrisponde quindi oggettivamente all'affermazione fatta all'inizio della seconda parte nel v. 14a: ·E il Verbo si fece carne•. L'attività storica della Parola viene pre­ sentata anzitutto sotto il punto di vista del rifiuto cui essa è andata incontro (vv. 5.9-1 1). All'interno di questo contesto l'introduzione di Giovanni Battista costitui­ sce un excursus (vv. 6-8). La conclusione della prima parte è costituita da affer­ mazioni sull'accoglienza della Parola, per cui risulta la seguente articolazione: l. Descrizione dell'attività della Parola, del suo rifiuto e della sua accoglienza (vv. 1-13) l . L'essere e l'agire creatore della Parola all'inizio (vv. 1-4) 2. Il rifiuto della Parola operante storicamente (vv. 5.9-1 1) Excursus: Giovanni Battista, testimone della Parola (vv. 6-8) 3. L'accoglienza della Parola operante storicamente (v. 1 2s.) :.. d i. La confessione della Parola incarnata e la testimonianza in suo favore (vv. 14-18) l. La confessione dei credenti (v. 14) 2. La testimonianza di Giovanni (v. 15) 3. La confessione e testimonianza comune di Giovanni e dei credenti (vv. 16-18). È chiaro che in tutta la parte confessante e testimoniante e nella parte descritti­ va a partire dal v. 5 si pensa all'attività storica di Gesù, il cui nome viene infine menzionato nel v. 17. Gesù però viene inserito in una dimensione insuperabil­ mente ampia, allorché Giovanni Battista testimonia che egli esisteva già da prima, allorché viene detto che il mondo è stato fatto per mezzo di lui, allorché egli vie­ ne identificato con la Parola creatrice che era in principio presso Dio. Perché Gio­ vanni colloca Gesù in questa dimensione? Questa è contemporaneamente la que­ stione della funzione del prologo all'inizio del vangelo.

4. Punzione

All'inizio di questa parte dedicata al prologo abbiamo mostrato che esso prece­ de, come una unità a sé stante, il racconto che comincia con 1 , 19. Ora dobbiamo affrontare espressamente la questione del rapporto di questa prefazione con il re­ sto del vangelo, che così si era posta. A questo scopo può essere utile un con-

Funzione

39

frontò con gli inizi degli altri tre vangeli. Marco, prima di iniziare il racconto con la comparsa di Giovanni Battista, presenta un titolo conciso: ·Inizio del vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio .. , titolo con cui caratterizza il racconto successivo come 'vangelo'. Matteo antepone al racconto relativo a Giovanni Battista i racconti della nascita e della prima infanzia di Gesù. E prima ancora, proprio all'inizio del suo vangelo, propone una genealogia di Gesù che inizia con Abramo. Anche lui con­ ferisce così alla storia di Gesù una dimensione profonda, in quanto la àncora nel­ la storia di Dio con il suo popolo Israele. Questo aspetto è presente anche in Lù­ ca, allorché egli collega fra di loro i racconti relativi alla nascita di Giovanni Batti­ sta e di Gesù e soprattutto allorché evidenzia negli inni - nel Magnificai di Maria (Le 1 ,46-55), nel Benedictus di Zaccaria ( 1 ,68-79) e nel Nunc dimittis di Simeone (2,29-32) - lo stretto collegamento con la storia del popolo di Dio. Pure lui pro­ pone una genealogia, però solo alla fine del cap. 3, immediatamente prima del racconto della comparsa di Gesù, genealogia che prolunga al di là di Abramo fino a risalire ad Adamo e, attraverso di questi, a Dio. Il prologo del vangelo di Giovanni non può essere collocato su questa linea, come se in esso si sottolineasse solo più fortemente e si chiarisse solo più ampia­ mente questo inizio presso Dio. Giovanni non presenta una successione storica progressiva, come fa una genealogia; non disegna alcuna linea continua. Come in Marco, il racconto comincia in lui con Giovanni Battista. In due punti egli introdu­ ce il Battista già nel prologo, e precisamente come testimone della luce che splen­ de nelle tenebre e come testimone della Parola incarnata. Ma senza alcun anello intennedio propone poi, immediatamente accanto a ciò, il discorso dell'essere del­ la Parola in principio presso Dio. Questo deciso discorso del principio, posto all'i­ nizio del prologo, non intende perciò indicare un punto iniziale, da cui comincia uno sviluppo continuo, bensì intende indicare il fondamento iniziale, l'origine pu­ ra e semplice, a cui il racconto successivo si riferisce e su cui esso si fonda. Inoltre la constatazione che , il prologo non vuole essere una prefazione nel senso di un rendiconto letterario e di una indicazione dello scopo, come lo sono invece i primi versetti del vangelo di Luca (1,1-4), ci consente di mettere in luce un'altra particolarità. Il prologo è una pre-fazione nel senso pregnante di costitui­ re una ·guida per la lettura•' del racconto successivo. Esso amplia l'orizzonte e in­ dica la dimensione, in cui il vangelo va letto. I lettori ricevono qui una prima i­ struzione che li aiuta nella prosecuzione della lettura, viene loro fatto chiaramente balenare il contenuto di ciò che segue8•

' Cfr. H. Thyen: . . . mi sembra perciò che il prologo indichi al lettore il modo in cui tutto il vange­ lo va letto e capito• (7bR 39 [1975] 223). Altrove egli parla del prologo come di una ·guida alla lettu­ ra» (Jobannesevangelium, 213). 8 Cfr. H. THYEN, ]obannesevangelium, 201: •In questo modo eccellente il lettore condivide fin dal-

O prologo (1, 1-18)

40

Pertanto il prologo anticipa già in modo concentrato il vangelo, per cui è seri� za dubbio legittimo anche definirlo una •ouverture 9• Ciò che viene infatti conti­ nuamente detto e proposto nel vangelo, vale a dire che Gesù è venuto da Dio, che egli viene respinto da molti e che solo pochi credono in lui, è già delineato qui, è già descritto come la sorte della Parola, che Giovanni nel v. 17 identifica con Gesù. Quali istruzioni per la lettura dà egli ora con il prologo? In quale orizzonte col­ loca l'esposizione del vangelo? Se teniamo presente la descritta situazione della comunità, la risposta a tali domande non può essere che una: di fronte alla mas­ siccia messa in discussione, di. cui la comunità è fatta oggetto, il prologo deve e­ videnziare in partenza, in modo chiaro e inequivocabile, che nel vangelo, nella e­ sposizione della storia di Gesù si tratta niente di meno che di Dio stesso e che Dio è percepibile in questa storia. In questa dimensione si colloca subito il primo versetto del prologo, e tale dimensione viene mantenuta sino all'ultimo versetto, che presenta Gesù come 'esegeta' di Dio. Questo viene detto a una comunità, che in mezzo alle sue esperienze opprimenti non riusciva più a comprendere e a pro­ fessare il 'Dio in Gesù'. Nel prologo Giovanni dice ad essa di leggere il racconto successivo nella piena convinzione che, nelle parole di Gesù là riportate, parla Dio e che, nella sorte di Gesù là descritta, agisce Dio. In questo modo egli sottoli­ nea il fatto che nel Gesù umiliato e ucciso Dio stesso opera e si presenta qui sulla terra. Così diventa in partenza chiara una cosa: chi vede Gesù e crede in lui, non crede in lui come «in un uomo particolare, per quanto santo egli sia,'0, bensì cre­ de in colui che l'ha mandato, percepisce Gesù come il luogo della presenza di Dio. ..

l'inizio la conoscenza che Gesù ha della propria 'provenienza' e della propria 'destinazione' e acqui­ sisce così una caratteristica superiorità su tutti gli attori del racconto, che fraintendono in continua­ zione le parole e le azioni di Gesù. Pure i discepoli si portano sotto questo aspetto alla pari con il lettore solo nei loro incontri pasquali con il loro Signore (cfr. 1,18 con 20,28)•. Cfr. CULPEPPER, Ana­ tomy, 219. 9 Così HEITMùLLER, Komm., 37: ·Il prologo è una specie di ouverture rispetto al vangelo che segue. In esso risuonano già i motivi principali, che saranno poi più precisamente eseguiti·. 10 B ARRETI , Komm., 426.

Spiegazione analitica

41

5. Spiegazione analltica

a) L'ESSERE E L'AGIRE CREATORE DELLA PAROLA ALL'INIZIO (1,1-4) All'inizio del suo vangelo Giovanni ricorda l'inizio della sua Bibbia. Comincia con gli stessi due termini: ·In principio•, e continua così parlando de «la Parola· at­ traverso cui •tutto è stato fatto•. Egli riprende qui quanto nel racconto della creazione di Gen l ricorre continuamente secondo lo schema: ·Dio disse . . . e fu Però no­ tiamo subito anche una differenza: dal parlare creatore di Dio è nata ula Parola•, che è ·presso Dio» quasi come un soggetto, una 'ipostasi' operante in prima persona. Con questa Parola Giovanni pensa in partenza a Gesù. Ciò si delinea già allor­ ché nei vv. 6-8 egli introduce il Battista in veste di testimone della Parola predica­ ta come luce e allorché, nei vv. 10 1 2, descrive il destino di tale Parola come un destino caratterizzato da un vasto rifiuto e tuttavia anche da una successiva acco­ glienza; ciò diventa più chiaro quando, nel v. 14, egli parla della sua incarnazione e quando, nel v. 15, presenta ancora una volta il Battista con una nota testimo­ nianza; infine ciò diventa chiarissimo quando, nel v. 17, egli chiama finalmente in modo esplicito questa Parola con il nome di ·Gesù Cristo•. Così chi legge il van­ gelo per la prima volta viene guidato molto velocemente a identificare la Parola con Gesù, mentre lo sguardo di coloro che tornano a leggerlo è puntato fin dal primo versetto su Gesù. Tuttavia è importante ricordare che Giovanni conduce verso questa identificazione e che all'inizio non l'ha posta. Avrebbe potuto inizia­ re il suo vangelo con la frase: ·In principio era Gesù Cristo•. Solo dopo che ha fat­ to Paffermazione dell'incarnazione della Parola nel v. 14, può di tanto in tanto nel vangelo lasciar parlare Gesù di se stesso come del preesistente. Perché Giovanni parla in questo modo a proposito dell'uomo Gesù, di cui vuel raccontare nel vangelo la storia? Perché può parlare così? Le indicazioni date nel punto 2 a proposito del retroterra storico-religioso, che citavano le affermazioni relative alla sapienza quale mediatrice della creazione, mostrano soltanto che esi­ ste la possibilità di parlare in questo modo, ma non offrono una vera spiegazione. Esse non dicono come questa possibilità vada utilizzata, perché e a quale scopo tali affermazioni sulla sapienza vengano collegate con il determinato uomo Gesù. •.

-

Ma prima di affrontare queste questioni, vediamo alcune analogie giudaiche circa l'i­ postatizzazione del parlare di Dio nella 'parola'. In bBB 121a.b e in bTaan 30b vie­ ne riportata una tradizione, secondo la quale, finché tutti gli appartenenti alla genera­ zione del deserto non furono morti, ·la parola (dibbUr)1 1 non fu con Mosè•. A questo 11 Altrettanto possibile è la traduzione 'il discorso'.

l

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Dprologo

(1, 1-18)

scopo viene citato Dt 2,t6s. , secondo il quale dopo che gli uonìini atti alla guerra defta

generazione del deserto furono passati nel numero dei morti, ·Adonaj mi [Mosè] disse• (wajedabbér). Ciò viene subito di nuovo spiegato: ·Mi fu rivolta la parola· (dibbur). La parola compare come soggetto attivamente operante nell'adozione della medesima tra­ dizione in ShirR 2 su Ct 2,13 (Wilna 17c): ·E la parola non parlò con Mosè fino a quan­ do tutta questa generazione non scomparve•. Qui l'ipostatizzazione è chiara. In alcuni altri passi, in cui al posto di 'parola' ricorrono altri termini e in cui sono ad essi associa­ te delle affermazioni sulla creazione, la via in questa direzione è perlomeno aperta. In mBer 6,2s. viene riportata come benedizione da pronunciare su una serie di alimenti: . . . tutto infatti ebbe esistenza per la sua parola· (dabar). In BerR 28,2 (Theodor/Albeck, p. 260s.) su Gen 6 ,7 vengono riportate riflessioni di Dio sull'annientamento degli uomi­ ni per mezzo del diluvio: ·Disse il Signore: Cancellerò ecc. Essi pensano che io abbia bisogno di accampamenti militari! Come io ho creato il mondo con la parola (dabdr), io pronuncio una parola e li tolgo dal mondo•. Qualcosa di simile leggiamo in Mekhj Beshallah (Shira) 10 (Horovitz/Rabin, p. 1 50): ·Il Santo, egli sia benedetto, quando creò il mondo, lo creò solo con la parola ( ma 'amar); è infatti detto: 'Dalla parola (dabar) del Signore furono fatti i cieli' (Sa/ 33,6)• 1 2• Perciò, anche se nella tradizione giudaica dell'evangelista Giovanni esisteva la possibilità di parlare della parola creatrice di Dio, rimane tuttavia da domandarsi perché egli l'utilizzi; più precisamente ancora: perché l'utilizzi in ordine a Gesù, a una persona storica. Inoltre egli ripete sorprendentemente l'affermazione relativa alla mediazione creatrice, affermazione che non fa solo nel v. 3 a proposito della Parola che era in principio presso Dio, ma che fa anche nel v. l O a proposito del­ la Parola che era nel mondo e alla quale Giovanni Battista aveva reso testimo­ nianza, quindi a proposito dell'uomo Gesù. Giovanni come arriva a parlare così di Gesù? C'è da supporre che dietro determinate formulazioni ci siano determina­ te esperienze di uomini che tali formulazioni �ropongono e riprendon�. Nel prcr logo l'esperienza che condusse a fare l'affermazione sulla mediazione creatrice della Parola identificata con Gesù è espressamente indicata e quindi afferrabile. Coloro che nel v. 14 dicono 'noi' sono stati prima descritti nel v. 1 2s. come coloro che accolsero la Parola e credettero nel suo nome, come coloro a cui la Parola ·ha dato il potere di diventare figli di Dio· e che ·da Dio sono stati generati•. Pure qui si parla di un 'divenire', di creazione. Dietro di ciò sta l'esperienza della nasci­ ta della comunità per mezzo della predicazione di Gesù, che ha come suo pre12 Cfr. anche BerR 3,2 (THEoooR!ALBECK, p. 19): • . . . 'Con la parola di Adonaj furono fatti i cieli, e col soffio della·sua bocca ecc.' (Sal 33,6): non con fatica e con sforzo, ma con la parola•. Vedi su tut­ to questo: H. BIETENHARD, ·Logos-Theologie im Rabbinat. Ein Beitrag zur Lehre vom Wort Gottes im rabbinischen Schriftum•, in ANRW II 19.2 (1979) 580-618. Egli osserva a conclusione: ·Sia l'AT sia la letteratura rabbinica conoscono l'idea della 'parola' come ipostasi. Forse questa conoscenza entrerà un giorno in un commento a Giovanni . . . • (616, n. 175).

spiegazione analttlcf'

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supposto la fede nell'azione creatrice svolta da Dio nella risurrezione di Gesù dai morti. Su questa base la comunità è concepita come la nuova creazione escatolo­ gica. Tale esperienza è descritta in Paolo come unificazione di giudei e greci, li­ beri e schiavi, uomini e donne, come una unificazione che supera i confini, crea una comunione fraterna ed è frutto dell'azione dello Spirito di Dio (cfr. 1 Cor 12, 13; Gal 3,28). Perciò egli può dire: •Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose- vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove• (2 Cor 5,17). Ciò assume nel vangelo di Giovanni questa forma: la comunità è concepita come discepolato di Gesù, mentre Gesù chiama i suoi discepoli ·amici· (15, 14s.). La nuova creazione, così come la comunità si concepisce anche qui (1,12s.; 3,3.5), sta in relazione con la creazione iniziale; essa è parte di tutta la creazione. La Pa­ rola creatrice di Dio all'inizio non è altro che quella che adesso prende forma nella predicazione del Gesù risuscitato e che effettua una nuova creazione. La Pa­ rola, mediante cui adesso nasce una nuova creazione, è la Parola di quello stesso Dio che, in principio, fece sorgere per mezzo di essa la creazione. Nel prologo vengono quindi certamente attribuite alla Parola identificata con Gesù una media­ zione creatrice e un'esistenza originaria presso Dio. Con questo però il prologo non mira a mitizzare il ben preciso uomo Gesù, che ha avuto una determinata storia con una determinata fine, e a farne un essere celeste preesistente13• Esso mira piuttosto a evidenziare l'identità del parlare di Dio nella creazione con il suo parlare nella nuova creazione. Il Dio che parla in Gesù non è altri che il Dio testi­ moniato dall'inizio della Bibbia ebraica come il creatore del cielo e della terra. Alla luce della menzionata esperienza, che induce a concepire la nascita e la vita della comunità come nuova creazione escatologica, il parlare creatore di Dio di Gen l già ipostatizzato nella tradizione giudaica diventa nel prologo la Parola, che porta per così dire i tratti di Gesù. In questo modo la figura di Gesù assume a sua volta una dimensione profonda, che si estende fino all'origine creatrice, al principio prima del quale non esiste alcun altro principio. E qui sta l'interesse particolare di Giovanni, dal momento che egli vuole narrare la storia di Gesù co­ me storia dell'incontro di Dio con il mondo e con gli uomini in esso abitanti. In Gesù parla e agisce semplicemente Dio stesso. In lui Dio parla come colui che e­ ra fin dal principio: ·In principio era il Verbo•14•

13 Le affennazioni, che ad esempio Wilckens fa a proposito del prologo, non sono suggerite dalla lettera del testo, bensì dal successivo sviluppo dogmatico: •Egli (Gesù) è 'la Parola', il Figlio uno e u­ nico di Dio, 'Dio da Dio, luce da luce'• (Komm., 20). ·Egli è il Figlio di Dio manifesto in Gesù, che e­ sisteva già in principio prima delJa creazione dell'universo come Figlio del Padre presso Dio­ (Komm., 25). 14 Cfr. E. Thumeysen, che comincia la sua interpretazione del v. i con queste proposizioni: .Ci troviamo con un balzo nel mezzo del mondo delle realtà ultraterrene, eterne e divine. Ma chiara . . è la relazione inespressa, eppur già effettiva fin dalla prima parola, di tutte le affermazioni con la per.

Ilprologo (1,1-18)

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Il fatto che alle spalle della prima parte del prologo ci sia chiarilmente ·ta tradi­ zione della sapienza (sophia), mentre Giovanni parla della Parola (16gos), non di­ pende dalla circostanza che egli vuole sostituire la sopbia femminile con il /6gos maschile, cosa che si addiceva meglio a Gesù a cui egli qui pensa. Questo cam­ biamento di terminologia dovrebbe esser stato provocato dal riferimento a Gen l , dove si parla del parlare di Dio. Giovanni, adottando il termine 'parola', si collega con esso nello stesso tempo sostanzialmente a una tradizione come quella espres­ sa, ad esempio, nel Sa/ 50,3: ·Viene il nostro Dio e non sta in silenzio•. La parola è comunicazione, manifestazione, apostrofe, interessamento. Dio, così come egli è testimoniato nella Bibbia, è un Dio che viene incontro e che rivolge la parola 15• La Parola iniziale ha il suo posto •presso Dio· (vv. lb.2). Essa viene accostata il più possibile a Dio, ma non identificata con lui. Rimane una differenza, che viene salvaguardata anche nel v. le: ·E il Verbo era (uguale a) Dio•. La traduzione •(u­ guale a) Dio· cerca di tener conto del fatto che nel testo greco in questo punto il termine 'Dio' ricorre - a differenza delle altre due sue ricorrenze nel v. l s. - sen­ za articolo. Nella stragrande maggioranza dei casi nel testo greco del vangelo di Giovanni il ter­ mine 'Dio' ha l'articolo. Esiste tuttavia un non piccolo numero di passi, in cui l'articolo manca. Al di fuori di 1 , 1 e 1,8 non esiste alcun altro passo in cui the6s ricorra in forma assoluta, cioè senza articolo, al nominativo. A questi due passi bisogna sostanzialmente aggiungere anche 10,33. L'articolo manca relativamente spesso in unione con preposi­ zioni, tre volte in unione con il genitivo (1,12; 6 ,45; 19,7; cfr. 1 Gv 3,1s.), tre volte in u­ nione con un pronome possessivo (8,54; 20, 17) e una volta con l'accusativo all'inizio della proposizione (1,18; cfr. 1 Gv 4,12). Un'affermazione analoga a quest'ultimo passo ricorre in 3 Gv 1 1 in un'altra costruzione grammaticale, e là c'è di nuovo l'articolo. La sua mancanza in 2 Gv 9 andrebbe spiegata con il fatto che l'oggetto all'accusativo è an­ teposto nella proposizione subordinata. La traduzione di the6s in 1,1.18 e 10,33 con •(u­ guale a) Dio• è suggerita, sulla base del passo 5,18 parallelo a 10,33, dallo stesso van­ gelo di Giovanni. In 5,18 ·i giudei· parlano in discorso indiretto; fanno questo, in di­ scorso diretto, anche in 10,33, ma qui usano come l'evangelista in 1 , 1 . 18 the6s senza ar­ ticolo. La sottile distinzione linguistic� del testo greco nella traduzione può diventare ir-

sona di Gesù Cristo. Ciò significa: non si tratta di speculazioni campate per aria, bensì di interpreta­ zioni di un dato effettivo, che però è in maniera inaudita di casa nel mondo delle realtà non qui pre­ senti, delle realtà eterne• («Der Prolog zumjohannes-Evangelium•, in ZZ 3 (1925) [1 2-371, 18). 15 Cfr P. v. d. Osten-Sacken su Gen 1: ·Rappresentare l'attività creatrice di Dio come un parlare ef­ ficace significa nello stesso tempo valorizzare altamente l'uomo quale essere dotato di linguaggio. Dio crea il mondo con la parola e agisce verso il mondo con la sua parola, che è rivolta a tutte le parti della creazione, ma che è in modo particolare un'apostrofe rivolta all'uomo dotato di linguag­ gio· (•'Am Anfang war . . . '. Biblisch-jiidische und biblisch-christliche Schopfungsgewissheit•, in FS Manfredjossutis, a cura di C. Bizer e altri, 1996 [2-14], 5). .

Spiegazione analitica

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riconoscibile. Denker cerca di renderla in modo corretto mediante la fonnulazione 'presenza di Dio' [ Gott(esgegenwart)] ( Wort, 186). Anche Origene nota nel v. l la differenza tra tbe6s con e senza articolo: egli osserva che Giovanni ha fatto molta attenzione dove porre e dove non porre l'articolo. ·Mette l'articolo quando il termine 'Dio' si riferisce al creatore increato dell'universo; lo omette quando esso si riferisce al L6gos· (Commento 2, II, 13s.). 'Dio' con l'artico1o è 'Dio in sé' (autothe6s - 2, II, 17). Il L6gos è 'Dio' per il suo 'essere presso Dio' (2, I, 10. 1 2 ; 2, II, 17.183). Marquardt mette in risalto che tra Dio con e senza articolo ·corre probabil­ mente il confine da rispettare tra Dio e il nome di Dio• (Christologie 2,113; circa questo confine, cfr. p. 1 1 2); cfr. del medesimo autore anche Utopie, 537s. Ne deriva quindi che l'articolo davanti a tbe6s non manca per caso nel v. le, bensì che esso viene tralasciato volutamente per differenziarlo dall'espressione •presso Dio· adoperata prima e dopo, espressione che nel testo greco ha l'articolo16• Una corrispondente distinzione tra 'Dio' e '(uguale a) Dio' viene espressamente fatta da Filone Alessandrino nella sua spiegazione di Gen 31,13 (LXX) : ·Il vero Dio è u­ no, quelli impropriamente detti così sono molti•. Il primo sarebbe indicato dalla Sacra Scrittura con l'articolo nel passo citato. La ricorrenza del termine senza articolo egli l'in­ terpreta in questo modo: ·La Scrittura chiama adesso come '(uguale a) Dio' la sua paro­ la più antica• (Som. l, 229s . ). Nello stesso modo, in cui Filone e Gv l l s distinguono tra 'Dio' con l'articolo e 'Dio' senza articolo, la tradizione rabbinica può distinguere tra e­ lobim e el e può parlare di Giacobbe come di un •(uguale a) Dio•. Gen 33,20 viene in.. teso e interpretato in bMeg18a nel modo seguente: ·Inoltre Rabbi Acha disse in nome di Rabbi Elasar: Come (possiamo documentare) che il Santo, egli sia benedetto, chiamò Giacobbe '(uguale a) Dio' (el) ? È infatti detto: 'E lo chiamò (uguale a) Dio (el), il Dio d'Israele (elobéjjisraél)' (Gen 33 20) Se pensi che Giacobbe abbia chiamato l'altare (u­ guale a) Dio: 'E Giacobbe lo chiamò', sta piuttosto serino: 'Ed egli lo, cioè Giacobbe, chiamò (uguale a) Dio'. E chi lo chiamò (uguale a) Dio? 'Il Dio d'Israele'•. In BerR 98,3 (Theodor/Albeck, p. 1252) due rabbini leggono la proposizione: aAscoltate Israele (elji­ sraél), vostro padre!· in modo diverso: ·Rabbi Judan disse: Ascoltate il Dio d'Israele vo­ stro padre! Rabbi Pinchas disse: (Uguale a) Dio (el) è Israele, vostro padre: come il Santo, egli sia benedetto, crea i mondi, così vostro padre crea i mondi; come il Santo, egli sia benedetto, spartisce i mondi, così vostro padre spartisce i mondi ... Nella sua ve­ ste di padre del popolo delle dodici tribù e di colui che benedice le tribù Giacobbe è posto qui in parallelo a Dio e deno (uguale a) Dio. ,

,

.

.

·E il Verbo era (uguale a) Dio•. Qui viene messa in risalto una grande vicinanza tra Dio e la Parola e viene salvaguardata nello stesso tempo una differenza, che è 16 ·Con l'omissione dell'articolo- Giovanni evita, secondo Brown, ..qualsiasi idea di una identifica­ zione personale della Parola con il Padre· (Komm. 1,24).

2

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3

Dprologo (1, 1-18)

sottolineata mediante il v. 2, il quale ripete in modo riassuntivo le prime due pnr posizioni del v. l : ·Egli era in principio presso Dio,.. Dio è distinto dalla sua Paro­ la, non si risolve in essa. Poiché con questa Parola si pensa in partenza a Gesù, ne viene che alla luce di questa distinzione Gesù non è concepito nel vangelo di Giovanni come ·il Dio che cammina al di sopra della terra•17• In lui però Dio parla realmente in maniera da creare la comunità come mondo nuovo18• Quello a cui nel v. la già si era accennato alludendo a Gen 1 , 1 , viene ora det� to espressamente nel v. 3: tutto ciò che esiste è stato creato mediante la Parola. ·Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di ciò che -esiste»19• Nulla di ciò che esiste è escluso. Tutto deve se stesso alla Parola creatri� ce. Sopra abbiamo già evidenziato che Giovanni parla della creazione mediante la Parola identificata con Gesù, perché conosce la comunità come nuova creazione. Ma se l'esperienza della nuova creazione induce a pensare al testo di Gen l e, con esso, a tutta la creazione, allora la comunità non può essere concepita come proiezione del celeste completamente separata dal terrestre20• Se 'niente' di ciò che esiste è escluso dall'esser stato fatto per mezzo della Parola, Giovanni non può coltivare in partenza un concetto docetico o addirittura un concetto gnostico della creazione e concepisce di conseguenza la comunità come creazione restituì� ta, come rappresentazione di ciò che il terreno è per mezzo di Gesù.

17 L'interpretazione liberale della cristologia giovannea è caratterizzata da questa espressione chia­ ve (cfr. HEt'TMÙLLER, Komm, 27: ·Il Cristo di Giovanni è, per dirla in breve, una divinità ambulante al di sopra della terra•), interpretazione che è stata ripresa in maniera eloquente da E. KAsEMANN, ]esu letzter Wille nach jobannes 1 7, 1966, 19713. 18 Lo stretto collegamento di Dio con la sua e da lui distinta Parola, viene così espresso da Lutero: ·Tutti riconoscono che nessuna immagine è così simile al cuore come la parola. Si riconosce l'uccello dal canto; quando canta con naturalezza è come se avesse il cuore presente nel canto. In Dio è la stessa cosa; la sua parola è così simile a lui che la divinità vi è ·tutta dentro, e chi ha la parola ha an­ che tutta la divinità• (Evangelien-Auslegung 4,5). Per quanto riguarda la contemporanea coesione e diversità tra Dio e la sua Parola in analogia a Dio e al suo nome nella Bibbia ebraica, cfr. MARQUARDT, Cbristologie 2,1 13s. 19 Non sarà mai possibile stabilire in maniera defmitiva se le parole -ciò che esiste• costituiscono la conclusione del v. 3 o se vanno lette come l'inizio del v. 4. Poiché il greco del vangelo di Giovanni è nel suo complesso un greco semitizzante e poiché a mio giudizio siamo anche qui di fronte a un se­ mitismo, mi decido in favore della prima possibilità. Alla luce di un retroterra linguistico ebraico la formulazione del v. 3b viene quasi automaticamente da sé. Poiché questa formulazione può essere così spiegata in modo convincente, non si vede perché si debba rendere la sua affermazione più complicata di quanto sia trasferendo la conclusione del v. 3 nel v. 4. Ciò però è possibile. In tal caso ho gbégonen (letteralmente 'ciò che è divenuto') sarebbe un 'nominativus pendens' (cfr. BDR § 466,2), che è assorbito da en autO: .Ciò che esiste, in lui c'era la vita•. In ogni caso zoi ('vita') an­ drebbe interpretato come nome predicativo, come suggerisce la mancanza dell'articolo, cosicché bi­ sogna pensare che il soggetto sia 'la Parola' (il Verbo). :zo Secondo Kasemann, Giovanni conosce la ·nuova creazione . . . solo nella forma dei rinati. Essi non rappresentano però più il mondo terreno, bensì il mondo celeste e quindi non rappresentano più neppure una creazione restaurata• ( Wille, 130s.; cfr. 137s.).

spiegazione analitica

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concezione della comunità come nuova creazione ha un'analogia nella tradizione giudaica, allorché Israele vi è concepito come 'nuova creazione'. La promessa fatta ad Abramo in Gen 12,2: ·Farò di te un grande popolo· è interpretata in BerR 39,1 1 (Theodor/Albe�k, p . 373) da Rabbi Berehja così: •Qui non sta scritto 'Ti porrò e ti ren­ derò', ma 'Farò di te'. Da quando io farò di te una creatura nuova, tu crescerai e ti mol­ tiplicherai•. Punto di partenza di questa interpretazione è l'uso del tennine 'fare' in Gen 12,2, che induce l'interprete a pensare all'azione creatrice di Dio così denominata in Gen 1,711• In questa luce la 'genesi' d'Israele viene considerata come nuova azione creatrice di Dio. Sulla medesima idea, secondo la quale il tennine 'fare' è un termine della creazione, poggia l'interpretazione di Nm 29,2, dove, nella cornice delle prescri­ zioni sacrificali, per ·il primo giorno del settimo mese• non si esorta a 'offrire', ma a 'fa­ ' re : ·Il Santo, egli sia benedetto, disse loro: Poiché nel giorno di capodanno vi siete presentati a me per il giudizio, andrete in pace. Ve lo accrediterò come se foste stati creati come nuova creazione•22• La nuova creazione d'Israele avviene qui attraverso la remissione dei peccati. Forse esiste un nesso con l'opinione di Rabbi Elieser ben Hyrkanos, tramandata in bRHSh lOb. l la, opinione impostasi (bRHSh 27a) e secondo la quale il mondo fu creato nel mese di Tisri, così còme parimenti' in tale mese un giorno Israele sarà redento. Ciò deporrebbe nello stesso tempo in favore della grande antichità di questa tradizione. Il collegamento tra nuova creazione e perdono dei peccati ricorre comunque spesso. Così leggiamo in PesR 40 (Friedmann, p. 1 69a): ·Il Santo, egli sia be­ nedetto, disse a Israele: Convertitevi in quei dieci giorni tra il capodanno e il giorno dell'espiazione, e io vi assolverò nel giorno dell'espiazione e farò di voi una nuova creazione•. Secondo MTeh 102,3 la maggioranza dei rabbi i interpreta il Sa/ 102,19 co­ sì: •Queste sono le generazioni che per le loro cattive azioni sono diventate colpevoli. Ma esse vengono, si convertono e pregano davanti a te nel giorno di capodanno e nel giorno dell'espiazione, e poiché esse rinnovano le loro azioni, il Santo, egli sia bene­ detto, le crea come nuova creazione•. Il perdono dei peccati concesso con la conver­ sione opera la nuova creazione. In WaR 30,3 (Margulies, p. 698) il Sa/ 102,18 viene e­ spressamente interpretato come se si riferisse al tempo successivo alla perdita del tem­ pio, tempo nel quale Israele •non ha altro che questa preghiera•: ·Davide disse davanti al Santo, egli sia benedetto: Signore del mondo, non disprezzare la loro preghiera! 'Questo è scritto per una generazione futura'. Questo (ci insegna) che il Santo, egli sia benedetto, accoglie coloro che si convertono. 'E un popolo nuovo darà lode ad Ado­ naf (Sa/ 102,19). Infatti il Santo, egli sia benedetto, li crea come nuova creazione•. Que­ sti diversi passi mostrano che la remissione dei peccati e la nuova creazione sono tra loro molto collegati nella tradizione. Che si tratti di una tradizione molto antica lo dice anche il passo parallelo oggettivamente affine di 2 Cor 5,17-19. La

In tutto ciò che è stato fatto per mezzo della Parola creatrice c'era, secondo il v. 4, ·la vita•. La parola era talmente vita da chiamare in vita e mediare la vita. E 21

Gen 1,7 è espressamente citalo nel testo parallelo di BemR 1 1 ,2 (Wilna 42a). jRHSh 4,8 (21a; KROTOSCHIN 59c); testi paralleli in PesK 23, 12 (ME�TIELRAUM, p. 346); WaR 29,12 (MARGULIF.S, p. 686). 12

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Rprologo (1, 1-18) r

in quanto Parola nOif�mediò la vita se non dando nello stesso tempo un orientamento: "E la vita era la luce degli uomini•. La novità del v. 4 è che adesso non si parla più di tutto il creato, ma del mondo degli uomini in particolare; e qui non si tratta della vita in senso generico, ma della vita giusta, della vita illuminata. Non è perciò la semplice vitalità fisica ad essere chiamata cela luce degli uomini•. Come potrebbe essa esserlo, dal momento che non impedisce agli uomini di incontrarsi in maniera sinistra e di spegnere l'un l'altro la luce della vita? Perciò il v. 4 non contiene neppure alcuna prova in favore di una 'teologia naturale' comunque concepita, e sbagliate sono tutte quelle considerazioni che vogliono vedere nella 'luce degli uomini' una 'luce interiore' loro data, la ragione che li distingue dagli animali23• La vita e la luce rimangono legate alla Parola, ricevono il loro senso preciso solo da lei. Poiché Giovanni identifica la Parola con Gesù, non è certamente un caso che proprio anche le denominazioni 'vita' e 'luce' ricorrano nel resto del vangelo in u­ nione con la formula 'io sono' di Gesù. Così in 8,12 Gesù, dopo essersi autodefi­ nito ·luce del mondo·, promette che i suoi seguaci non vivranno nelle tenebre, ma avranno ·la luce della vita•. Un modo di vivere nella sua luce porrà dei segni di vita. Tale vita non soggiace alla caducità. Poiché il Gesù che cammina verso la croce è ·la risurrezione e la vita•, è·possibile promettere la vita anche nonostante la morte e al cospetto della morte ( 1 1 ,25s.). Il fatto quindi che nella Parola c'era la vita e che la vita era la luce degli uomi­ ni induce coloro che non leggono e non odono per la prima volta il vangelo a pensare alla sequela di Gesù, in cui il cammino della vita riceve un orientamento, e in cui la vita viene sperimentata e viene promessa, anche di fronte alla morte, come una vita permanente. Tale fatto induce a pensare, in unione con il contesto precedente, in modo particolare alla creaturalità dell'uomo, a una vita che vuole essere vissuta in rapporto con il creatore e con le altre creature. E nel contesto giudaico l'affermazione relativa alla Parola che comunica una vita capace di o­ rientare non può che richiamare alla mente la Torah. Perciò in DevR 7,3 (Wilna 1 1 3d) leggiamo in un passo che paragona l'olio alle parole della Torah: ·Come l'olio è vita per il mondo, così anche le parole della Torah sono vita per il mon­ do. Come l'olio è luce per il mondo, così anche le parole della Torah sono luce per il mondo•24• Secondo 2 Bar 17,4 Mosè portò ·la Torah ai discendenti di Gia­ cobbe e accese una luce per la stirpe d'Israele•. Secondo Rabbi Akiba l'amore di

23 Così scrive, ad esempio, Calvino a proposito di questo passo riguardante gli uomini: . . . essi non sono infatti creati in maniera simile all'animale, bensì stanno, quali esseri dotati di ragione, su un gra­ dino superiore• (Komm., 1 1). 24 Cfr. anche SifDev § 306 su Dt 32,2 (FINKEISTEIN/HoRovrrz, p. 336): .Come la pioggia è vita per il mondo, così anche le parole della Torah sono vita per il mondo•.

Spiegazione analitica

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Dio per gli israeliti si manifesta 'nel fatto che, con la Torah, è •stato dato- ad essi ·uno strumento prezioso col quale fu creato il mondo· (mAv 3,14). Il Dio che nel­ la Torah parla a Israele non è altri che il creatore del mondo. Perciò non a caso all'inizio di questo passo della Mishnah si parla dell'amore di Dio per l'umanità, amore che si esprime nel fatto che Dio ha creato l'uomo a sua immagine. Qui non bisognerebbe tracciare frettolosamente dei confini. La struttura è in ogni caso la stessa: sia la parola consistente nella Torah sia quella che viene identificata con Gesù orientano verso una via, su cui si sperimenta e su cui viene promessa la vi­ ta. Quale sia il loro possibile rapporto ce lo domanderemo per la prima volta spiegando il passo di l , 17. Nei primi quattro versetti del suo vangelo Giovanni pone Gesù nella dimensio­ ne della Parola, con cui Dio si rende percepibile, con cui egli ha già parlato nella creazione. Parlando così della Parola, sa pendola esistente fin dal principio ·presso Dio· e facendo di essa per così dire il ·luogotenente• di Gesù25, Giovanni stabilisce una cornice di riferimento, all'interno della quale l'azione e il destino di Gesù narrati nel vangelo possono e devono essere concepiti come autocomunicazione di Dio.

b) IL RIFIOTo DELLA PAROLA OPERANTE STORICAMENTE (1 ,5.9-11) Parlando della struttura del prologo avevamo detto che tra il v. 4 e il v. 5 esiste un grande salto, un salto che sotto l'aspetto formale viene sì camuffato con la ri­ presa del termine 'luce', ma che ciononostante si manifesta con il cambiamento del tempo dei verbi. Mentre prima ricorrevano solo tempi al passato, e precisa­ mente in modo esclusivo tempi dei verbi 'essere' e 'essere fatto' o 'divenire', nel v. 5 si parla ora al presente. Inoltre il salto è riconoscibile anche in base alla testi­ monianza di Giovanni Battista descritta nei vv. 6-8. Se questi compare come testi­ mone della luce, che non può essere concepita se non come Gesù, il cui nome non è però ancora menzionato e del quale si parla inizialmente in modo implicito e poi anche esplicitamente come de 'la Parola', allora da qui deriva ancora una volta che 'la luce' del v. 4 non è una caratterizzazione generale dell'esistenza u­ mana, ma è legata a 'la Parola'. Con il v. 5 un evento determinato verificatosi nel tempo si colloca al centro e domina d'ora in poi la scena in modo tale che i versetti precedenti appaiono solo come un preliminare, un preliminare necessario che manifesta la dimensione profonda di questo evento. Il v. 5 si collega con il termine 'luce' a ciò che lo pre35 Cfr.

al riguardo BARTH, ]obannes-Evangelium, 27, nonché KD 11/2, l 03�

5

50

Ilprologo (1, 1-18)

cede, ma sotto il profilo del contenuto è orientato a ciò che segue. Ciò che vi è riferito, e cioè che la Parola caratterizzata come luce viene rifiutata, è qui antici­ pato sotto forma di tesi. L'evangelista Giovanni salta perciò subito dall'azione creatrice della Parola ·in principio· alla Parola che opera in Gesù. Il suo interesse dovrebbe essere qui quello di collegare fra di loro l'azione originaria di Dio con la sua azione escato­ logica: Dio parla in Gesù in modo non diverso da come ha parlato creativamente in principio. Da questa giustapposizione della creazione con la nuova creazione, che per amore della pregnanza del collegamento salta quanto v'è di mezzo, non bisogna adesso concludere che Giovanni non proverebbe alcun interesse per la storia di Dio con il suo popolo Israele. Egli non pensa ovviamente a un creatore che sarebbe diverso dal Dio d'Israele. Ciò risulta abbastanza spesso chiaro nel vangelo. Pure la parola pronunciata da Dio nella creazione egli la conosce infatti solo grazie alla sua Bibbia ebraica. E già nel prologo menziona espressamente Mosè e la Torah, senza farlo affatto in modo da prendere negativamente le distan­ ze da essi. Il fatto che adesso, dal momento che pensa alla Parola operante in Gesù, parli in primo luogo del rifiuto a cui essa è andata incontro, dovrebbe esse­ re condizionato dalla sua esperienza storica. Dell'uomo Gesù egli parla dunque, quando nel v. 5 scrive: ·La luce splende nelle tenebre•. Riprendendo dal versetto precedente il termine 'luce', egli sottoli­ nea il fatto che qui non splende una luce diversa da quella di cui aveva parlato nel contesto della creazione. Eppure adesso parla subito di 'tenebre' e non fa il minimo tentativo di derivare da qualche parte tali tenebre o di spiegarne la pre­ senza26. L'evangelista non specula, constata un fatto27• E per 'tenebre' egli non in­ tende altro che il mondo prima menzionato, che ha descritto con il termine 'tut­ to'. Alla luce della comparsa di Gesù egli riconosce che il mondo, così com'è, che la storia degli uomini, così come essa si svolge, non sono in ordine. Perciò da qui risulta con tutta chiarezza che le affennazioni del v.. 3s. non rappresentano una giustificazione, alla luce della teologia della creazione, della realtà storica di fatto

16 Egli non le presenta come un principio originario, non le fa risalire a una figura mitica, né fa al­ cuna considerazione sul modo in cui la luce poté penetrare in esse. Per un confronto si vedano qui i diversi tentativi intrapresi da pensatori gnostici (cfr. al riguardo anche solo K. RuooLPH, Die Gnosts, 1977, 67-74 [trad. it., La gnosi, Paideia, Brescia 2000]), per i quali la contrapposizione dualistica fra lu­ ce e tenebre e l'imprigionamento della luce nelle tenebre sono fondamentali; si noterà quanto il van­ gelo di Giovanni sia lontano dalla gnosi. r; Le tenebre, scrive Barth, sono per l'evangelista •una realtà che si colloca su quel piano, su cui non è possibile porre la questione dell'origine, su cui viene a mancare ogni possibilità di una consi­ derazione oggettiva, su cui all'uomo non rimane altro che tener conto delle realtà qui emergenti co­ me tali e confrontarsi con esse bellicosamente o pacificamente• (johannes-Evangelium, 55; cfr. anche

56).

Spiegazione analitica

51

distente. ta ci>mparsa di Gesù non fa apparire il mondo in una luce buona•. Le due cose vanno tenute insieme e non vanno separate: l'affennazione universale riguardante la creazione e, dall'altro lato, la caratterizzazione, alla luce della com­ parsa di Gesù, del mondo di fatto esistente come tenebre. Ciò implica la speranza in un rinnovamento di tutta la creazione29• Con Gesù è brillata in mezzo al mondo una realtà diversa dal decorso effettivo della storia, una realtà che la cambia ri­ cordando la creazione, una realtà che si fa strada mediante la sua sequela (cfr. 8,12). Il mondo può e deve essere diverso, e lo è nella sequela di Gesù. Le affermazioni sulla luce che splende nelle tenebre richiamavano alla mente dei primi lettori e ascoltatori del vangelo di Giovanni, che vivevano con la loro Bibbia e­ braica, due verità bibliche. La prima è la speranza nella salvezza (messianica) da una realtà sperimentata come tenebra. Così parla Israele in Mi 7,8: •Non gioire della mia sventura, o mia nemica! Se son caduta, mi rialzerò; se siedo nelle tenebre, Adonaj sarà la mia luce•. Così leggiamo in ls 9,1, in vista del bambino messianico menzionato poi nel v. 5: ·Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse•. L'altra verità riguarda il giusto comporta­ mento socio-etico, che possiede una forza irradiante e che deve rendere luminosa la vi­ ta di uomini oppressi, come leggiamo in Is 58, 10 e Sa/ 112,4 con il loro relativo conte­ sto; la salvezza è infatti una salvezza da una miseria concreta e mira a una vita ·nel di­ ritto e nella giustizia ora e sempre•, come afferma esplicitamente Is 9, 6 . Dove si tende a questa vita in modo concreto, risplendono già qui e ora luci promettenti del mondo fu­ turo. Queste verità ricorrono anche nella ricezione rabbinica dei passi biblici. In DevR 1 1 ,10 (Wilna 120a) Michele, angelo tutelare di Israele, dice così spiegando Mi 7,8: ·lo caddi infatti a motivo della scomparsa di Mosè e mi alzai a motivo della presidenza di Giosuè nel momento in cui egli sconfisse i 31 re. Io risiedo infatti nelle tenebre con la distru­ zione del primo e del secondo tempio, Adonaj è la mia luce per i giorni del Messia•. Cfr. anche l'interpretazione di Mi 7,8 in iJom 3,2 (14a; Krotoschin 40b); EstR 10,14 (Wtl­ na 15c); ShirR 6 ,10 (Wilna 34d). In MTeh 22, 15 il passo di ls 9,1 viene riferito al tempo di Mardocheo, che qui è considerato come il tempo peggiore e più oscuro per Israele, ·perché fu decretato 'di annientarli, di ucciderli e di cancellarli'. 'Ed essi videro una grande luce'. Spuntò infatti per essi un salvatore che li salvò. E chi fu questo salvatore? Fu Mardocheo•. In bBB 9b, oltre all'elemosina in favore dei poveri, viene detto che un'azione da compiere verso di loro è anche quella di parlare loro affabilmente, e si fa per questo riferimento a ls 58,10.

18

27) .

Thumeysen (vedi n.

14) osserva a

proposito del

v. 5: •Non tutto è buono cosi come esso è· (p.

19 Pure partendo da qui dobbiamo di nuovo dire contro Kasemann che nel vangelo di Giovanni 5, in tutti i passi in cui lo riporta, stra­ namente e significativamente in questa forma: ·La luce splende in direzione delle tenebre•, ·verso le tenebre (in die Finstemis)• ( Wille, 77. 132. 138).

non v'è alcun concetto dualistico della creazione. Egli cita il v.

Il prologo (1, 1-18)

52

·La luce' splende nelle tenebre•. L'evangelista Giovanni vede la luce, che brilla in Gesù, in queste dimensioni bibliche. Essa possiede un carattere critiço, accusa­ torio (3, 19; cfr. 7,7); al suo chiarore bisogna percorrere una via (8, 12; cfr. 3,21; 1 2,35s.), inoltre essa comunica la vita (8, 12; cfr. 12,47). ·Ma le tenebre non l'hanno accolta•, Giovanni afferma lapidariamente nel v. Sb. Il termine tedesco 'fassen', dai molti significati, è forse quello più adatto per esprimere quanto il termine greco katalambanein qui significa. Esso ha il signifi­ cato di 'abbracciare' e 'sperimentare', di 'prendere', 'afferrare' e 'comprendere'. Quanto è qui formulato viene infatti ripreso nel v. 10s. sotto un aspetto, allorché viene detto che ·il mondo non lo riconobbe", ·i suoi non l'hanno accolto•. L'altro aspetto compare in 12,35, quando Gesù esorta a non farsi 'sorprendere' (afferra­ re) dalle tenebre30. Il mondo può non 'fassen' la realtà di Dio in un doppio senso: a meno che Dio si renda 'fassbar' (afferrabile, comprensibile, accoglibile), ·na­ scondendosi però così di nuovo nello stesso tempo in tale 'Fassbarkeit' (afferrabi­ lità, comprensibilità, accoglibilità).

Una analogia oggettiva al riguardo è costituita dalla tradizione rabbinica secondo la quale tutto il mondo non può contenere la presenza (sbekinah) e· la gloria di Dio. Dio però può per così dire contrarsi, limitarsi al campo della tenda dell'assemblea, al tempio o anche a un altro luogo. Secondo BemR 12,3 (Wilna 46a) Dio dice a Mosè: ·Se chiedessi tutto il mondo, esso non potrebbe contenere la mia gloria . . . Io però non chiedo alla tua mano altro che venti (travi) a sud, venti a nord e otto a occidente•, cioè per la costruzione della tenda dell'assemblea; cfr. MTeh 91,1; PesR 4 (Friedmann 14a). Secondo ShemR 34,1 (Wilna 62d) Dio, dopo aver espresso il desiderio delle dette travi, promette: ·Scenderò e contrarrò la mia presenza cubito per cubito ... Con riferimento a Gb 38,1 leggiamo in PesR 47 (Friedmann 190a): ·Le altezze e le profondità non conten­ gono· la gloria del Santo, egli sia benedetto, ed egli si contrasse nel centro del turbine•. Leggendo in Gb 38, l 'capello' al posto di 'turbine',. che in ebraico suona ed è scritto in maniera quasi uguale, secondo BerR 4,4 (Theodor/Albeck, p. 28) si può anche dire: •Qualche volta il mondo e quanto lo riempie non riesce a contenere la gloria del suo Dio; qualche altra volta egli parla con l'uomo fra i capelli del suo capo•. Quando Giovanni qualifica Gesù come 'la luce', di cui prima ha parlato in con­ nessione con la Parola creatrice, ciò può anche essere inteso in questo senso: Dio concentra la propria gloria in Gesù in maniera tale che la sua luce risplende qui. A conclusioni simili ci porterà l'interpretazione del v. 14. ·Ma le tenebre non l'hanno accolta». Come potrebbero 'le tenebre' accogliere anche 'la luce': se lo fa­ cessero, non rimarrebbero infatti più quello che sono! Anche questa impossibilità

30

Nel testo greco c'è pure qui una fonna di katalambdnein.

Spiegazione analitica

53

logiCa può però essere superata da Diò, come l'evangelistà affermerà- ·rrel v. 12S� Ma prima egli inserisce nei vv. 6-8 un excursus. Excursus: Giovanni Battista, testimone della Parola (1 ,6-8) La menzione del tennine 'luce' induce l'evangelista a fare una chiara precisazione e a stabilire un ordine altrettanto chiaro. L'aspetto della precisazione si ma­ nifesta con tutta chiarezza nel v. Sa: Egli non era la luce��. Questa accentuata ne­ gazione, riferita a Giovanni Battista, ci dice che qui era evidentemente necessario respingere una rivendicazione concorrenziale. a

Pure dopo l'esecuzione capitale di Giovanni Battista da parte di Erode Antipa (cfr. Fla­ vio Giuseppe, Ant. 18, 1 1 6-1 19; Mc 6,17-29 par. Mt 14,3-12) esistevano delle comunità del Battista, che continuavano a ritenere Giovanni la figura escatologica (cfr. H. LicH TENBERGER, ·Taufergemeinden und friichristliche Tauferpolemik im letzten Drittel del l. jahrhunderts•, in Z1bK 84 [1987] 36-57). La rivalità tra la comunità cristiana e la comu­ nità del Battista ha lasciato tracce in tutti i vangeli - nei Sinottici essa risulta particolar­ mente chiara in Mt 3, 14s. - e soprattutto nel vangelo di Giovanni. Una retroproiezione di una simile rivalità nel tempo di Gesù ci dovrebbe essere in 3,22-26 e 4,1. Inoltre vanno inseriti in questo contesto il rifiuto di qualsiasi titolo per sé, fatto dal Battista in 1,19-27, nonché l'omissione in 1,29-34 del fatto che Giovanni ha battezzato Gesù e la cura con cui l'evangelista evita di chiamare Giovanni 'Battista'. Infine va qui ancora menzionata la confessione fatta dallo stesso Battista davanti ai propri discepoli in 3,273031. ...

Negaré così che Giovanni sia 'la luce' non equivale tuttavia affatto a dire che e­ gli appartenga per questo alle 'tenebre'. Egli viene piuttosto collegato in un modo positivo con 'la luce', che l'evangelista vede in Gesù. Questo ci dice con tutta chiarezza che i concetti di 'luce' e 'tenebre' (v. 4s.) non vengono concepiti in sen­ so dualistico. Perciò Giovanni viene presentato come ·inviato da Dio· (c(r. 1 ,33; 3,28). Essere inviato da Dio è una qualifica che nel resto del vangelo viene attri­ buita solo allo stesso Gesù - molto spesso - e al 'Consolatore', all"Aiutante', allo Spirito Santo (14,26; cfr. 15,26}u. Giovanni non è 'la luce', eppure è 'inviato da

31 Sulla predicazione di Giovanni Battista sul tema della conversione e sulla ricezione del suo messaggio da parte dei suoi discepoli, cfr. ST. voN DoBBELER, Das Gericht und das Erbarmen Gottes, 1988; J. ERNST, ]ohannes der Tiiufer, 1989; H. STEGEMANN , Die Essener, Qumran, johannes der Taufer undjesus, 1993, 292-313 [trad. it. cit.]; sulle tradizioni del Battista nel vangelo di Giovanni, M. STOWAS­ SER, johannes der Tiiufer im Vierten Evangelium, 1992. 32 L'evangelista parla così a proposito di Giovanni Battista in un modo, in cui non parla dei disce­ poli di Gesù. Essi sono mandati da Gesù: 4,38; 13.20; 17,18; 20,21.

6-8

n prologo (1, 1-18)

54

Dio'. Da qui deriVà ctie la qualifica che gJi ·spetta è quella del testimone. Glà nel prologo e poi subito dopo all'inizio del racconto in 1 , 1 9ss. egli viene presentato come il testimone per eccellenza, che rinvia a Gesù. ·Egli venne per testimoniare, per essere testimone della luce 33• La sua testimonianza in favore della luce aveva lo scopo di far sì che •tutti cre­ dessero per mezzo di lui•. Si tratta dello stesso scopo perseguito dall'evangelista con la stesura del suo vangelo (20,31). Con tale stesura egli non fa altro che se­ guire l'esempio che qui delinea nella figura di Giovanni. Quanto di Giovanni vie­ ne paradigmaticamente detto in questo passo viene poi esplicitato dal racconto in 1 , 19-37. ..

Perciò, anche se la situazione di rivalità tra la comunità credente in Gesù e la comunità ' del Battista è, secondo il vangelo di Giovanni, più vivace di quanto lo sia secondo i vangeli sinottici, in Giovanni la funzione positiva del Battista in ordine a Gesù è sostanzialmente più importante di quanto lo sia nei Sinottici. In questi ultimi il Battista è precursore e preparatore della via; nel vangelo di Giovanni è testimone. Colui che è oggetto della fede di un gruppo concorrente diventa qui il testimone della propria fe­ de. Non è certo un caso che nel racconto il Battista sia soprattutto testimone di Gesù come ·l'agnello di Dio· (1 ,29.36), quindi del Gesù sofferente e morente per il mondo. Quando in 4,1 i discepoli di Gesù e i discepoli del Battista sono accomunati dalla pro­ spettiva 'dei farisei', ciò potrebbe essere un sintomo del fatto che, dopo il 70, per il giu­ daismo farisaico-rabbinico la comunità del Battista e la comunità giovannea erano am­ bedue eretiche. I membri della comunità del Battista avrebbero quindi fano le stesse e­ sperienze dolorose della comunità giovannea. Non potrebbe essere che il ruolo emi­ nente del Battista come testimone del Gesù sofferente sia condeterminato dall'esperien­ za della comune oppressione, che per l'evangelista diventa la testimonianza in favore di colui che è il Sofferente per eccellenza? E una simile testimonianza proveniente dal­ l'esterno, che rimanda la comunità al suo proprio 'oggetto', non l'obbligherà ad essere solidale con questi testimoni? 9

Dopo l'excursus, che ha messo in risalto la funzione di Giovanni Battista, i vv. 9-1 1 descrivono il rifiuto della Parola operan�e nel mondo. Essi lo fanno ripren­ dendo la succinta constatazione del v. Sb. Da questa connessione deriva anche che il soggetto dei vv. 9-1 1 , non espressamente menzionato, deve essere 'la Paro-

-" Dal significato locale della preposizione peri ('attorno, circa'), possibile anche nel caso di un suo uso con il genitivo, ma che non compare più nel Nuovo Testamento, Barth trae una bella descri­ zione della testimonianza: ·Testimoniare è realmente e nel miglior senso del tennine un parlare at­ torno a una cosa, un descrivere in maniera precisa e completa, un indicare, confermare, ripetere, con la cosa che rimane pur sempre la cosa e che può parlare da sola, senza essere in qualche modo in­ serita in un discorso umano, senza essere da tale discorso soverchiata e violentata• (Jobannes-Evan­ gelium, 64).

spiegazione analitica

'

55 ·

iaf. Parlando di questa Paròfa si pensa però' adesso - cori'iè ha messo inequivoéa­ bilmente in chiaro l'excursus dei vv . 6-8 all'attività storica di Gesù. Per indicare questo fatto nella traduzione tedesca siamo anche passati all'uso del pronome personale maschile ('er', egli), perché diversamente dal greco in tedesco il termi­ ne Parola (' Worl') è neutro . Il v. 9 caratterizza anzitutto solo la sua attività come luce, con la qual cosa vie­ ne sostanzialmente ripreso ancora una volta e sviluppato il v. Sa: ��Egli era la luce vera, che illumina ogni uomo al suo venire nel mondo·. .

-

Questa traduzione lascia insoluto quanto non può essere deciso neppure in base al te­ sto greco, se cioè l'espressione venire nel mondo, posta al tennine del versetto, si ri­ ferisce a Gesù o agli uomini. Per due motivi possiamo però deciderci nel primo senso: l. Nella letteratura rabbinica l'espressione -coloro che vengono nel mondo· ricorre sì spesso come descrizione degli uomini, ma in nessun passo ricorre come determinazio­ ne più precisa di una menzione collettiva precedente di uomini. Ciò non stupisce, per­ ché essa non è appunto in grado di fornire una detenninazione più precisa. Invece es­ sa ricorre come espressione riferita a singoli uomini nominativamente menzionati (cfr. SifDev § 312 [Finkelstein/Horovitz, p. 353]). - 2. Il vangelo di Giovanni parla altrove di 'venire nel mondo' solo e sempre in relazione a Gesù (6, 14; 9,39; 1 1 ,27; 16,28; 18,37), due volte addirittura in unione con il termine 'luce' (3,19; 12,46; cfr. BAUER, Komm. , 18). Gesù, la Parola, viene dunque secondo il v. 9 nel mondo come ·la luce vera• e illumina tutti gli uomini. La caratterizzazione della Parola, che è Gesù, come luce vera dipende in questo contesto anzitutto dal fatto che immediatamente prima era stato sottolineato che Giovanni non è la luce. Qui si manifesta di nuovo la situa­ zione di rivalità con la comunità del Battista: Gesù viene segnatamente presentato come la luce vera, perché ci sono dei concorrenti che riconoscono in un altro la luce. L'aggettivo 'vera' contiene però ancora un altro aspetto, cioè l'aspetto della realtà e dell'essenzialità, da cui non è assolutamente possibile prescindere. Perciò dobbiamo domandarci quale verità, quale realtà possiamo riconoscere alla luce della comparsa di Gesù. In che modo egli 'illumina' la vita degli uomini? Qui ci può venire in aiuto il fatto che, nell'excursus precedente, l'evangelista ha presen­ tato Giovanni come testimone della luce; e questo induce coloro che non leggo­ no il vangelo per la prima volta a pensare soprattutto alla sua testimonianza in fa­ vore di Gesù come ·l'Agnello di Dio che porta il peccato del mondo· (1,29. 36). Questa è dunque la verità e la realtà che risplende in Gesù: in lui Dio viene in­ contro come un Dio misericordioso e perdonante al mondo e a tutti gli uomini, che perciò alla luce di Gesù, alla sua sequela, possono anche percorrere. una via che promette la vita (8, 12). In maniera sostanzialmente corrispondente la successiva tradizione rabbinica concepi-

56

Ilprologo (1, 1-18)

' SCe l'illuminazin O e di Dio pa rtendo dàlla Sua misericordia. In WaR 31,6 (Margulies, p� 724) sembra che si parli molto semplicemente della luce del sole e della luna: •'E sopra chi non sorge la sua luce?' ( Gb 25,3). Chi, tra tutti coloro che vengono nel mondo, vie­ ne e dice: Il sole non splende per me di giorno, e la luna non splende per me di notte? Tu splendi per le altezze e per le profondità e splendi per tutti coloro che vengono nel mondo; e brami la luce d'Israele. Questo è ciò che è scritto: 'Ordina ai figli d'Israele' (Lv 24,2}·. Ma l'esplicito appellativo di colui che illumina tutti, rivolto a Dio, fa balenare ancora un'altra dimensione. Essa è espressa già in precedenza nella medesima parasha, cioè in 31,1 (Margulies, p. 715): •'Chi è come te, o Dio?' (Sa/ 71, 19). Chi è come te nelle altezze e chi è come te nelle profondità? Chi è come te che abbatti la misura del diritto (e fai quindi prendere il sopravvento alla misura della misericordia)? Tu illumini le al­ tezze e le profondità, illumini tutti coloro che vengono nel mondo; e brami la luce d'I­ sraele. Questo è ciò che è scritto: 'Ordina ai figli d'Israele!' (Lv 24,2)·. Con il dono della Torah Dio si è rivolto in modo particolare a Israele e adesso si attende che anche Israe­ le illumini seguendo la Torah. Per questo anche un interprete della Torah può essere definito come uno che illumina. Secondo SitDev § 32 (Finkelstein/Horovitz, p. 57) Rab­ bi Tarfon dice all'ammalato Rabbi Elieser: ·Rabbi, per Israele tu sei più caro della ruota del sole. Perché la ruota del sole illumina in questo mondo, mentre tu hai illuminato in questo mondo e nel mondo futuro•. lOs.

I vv. 10 e 1 1 constatano un vasto rifiuto e lo fanno con fonnulazioni parallele. ·Egli era nel mondo, corrisponde a •venne fra la sua gente•, così come ·eppure il mondo non lo conobbe, corrisponde a "ma i suoi non l'hanno accolto��. Dato que­ sto preciso parallelismo, la parte mediana del v. l 0: ·e il mondo fu fatto per mez­ zo di lui•, dà l'impressione di essere eccedente. La ripresa dell'affermazione del v. 3 ribadisce che la Parola, che è Gesù, non soggiorna nel mondo come uno stra­ niero qualunque, bensì soggiorna nel mondo creato da Dio mediante la sua Par� la, ribadisce che il Dio presente in Gesù è lo stesso che pronunciò in principio la sua Parola creatrice. È ancora una volta chiaro che, nel vangelo di Giovanni, non è presente alcun concetto docetico della creazione. Tuttavia l'evangelista deve constatare che «il mondo non lo conobbe,.. 'Conobbe' andrebbe inteso nel senso di 'riconobbe'. Il mondo non riconosce che in Gesù quale 'luce vera' Dio è pre­ sente come il Dio misericordioso e perdonante, cosa che contiene nello stesso tempo la verità a proposito del mondo, e cioè la verità che le azioni del mondo sono cattive e che perciò esso ama più le tenebre che la luce (3,19; cfr. 7,7). Il rapporto del v. 11 con il v. 10 può essere concepito in due modi, senza che sia possibile stabilire quale sia quello giusto. Da un lato l'affermazione eccedente del v. 10, secondo la quale «il mondo fu fatto per mezzo di lui,, può essere letta come preparazione del v. 1 1 , cosicché questo non dice, sotto il profilo del conte­ nuto, più di quel che dice il v. lO e si limita a sottolineare con forza che il mondo e tutti gli uomini in esso abitanti sono sua proprietà, sono la 'sua' gente, 'i suoi'.

Spiegazione analitica

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La Parola non viene in una terra straniera, ma in una terra che è sua per così dire in partenza, però non viene accolta, viene trattata come uno straniero, perché il mondo si è allontanato dal suo creatore, che è in esso presente. Ma dall'altro lato il rapporto tra il v. 10 e il v. 1 1 può anche essere letto come un rapporto esistente tra due cerchi concentrici. Dopo tutto il mondo verrebbe perciò preso in considerazione un gruppo più ristretto, gruppo che non potrebbe essere che Israele, per cui ·la sua gente• e ·i suoi· indicherebbero il paese e i con­ nazionali di Gesù34• In modo simile già in Es 19,5 Israele viene detto "la proprietà· di Dio -tra tutti i popoli», Dio a cui tuttavia, come viene subito dopo precisato, ap­ partiene •tutta la terra•. Se adottiamo questo tipo di lettura, l'evangelista formula nel v. 1 1 b il rifiuto, a cui Gesù è andato incontro in Israele.

Se leggo questi versetti così, non posso far a meno di percepire contemporaneamente quanto nel frattempo è successo tra ebrei e cristiani nel corso della storia � quanto nel Nuovo Testamento Paolo dice a proposito dei suoi connazionali che non credono in Gesù quale Messia. Paolo coglie anzitutto qualcosa di positivo nel fatto che i giudei i­ gnorarono Gesù, allorché constata che solo così il messaggio è arrivato ai popoli (Rom l l , l l s . I ;.25.31). La chiesa così nata dalle nazioni, una volta divenuta potente, ha spesso costretto ehree e ebrei a prendere posizione verso Gesù, perché anch'essa riten­ ne che l'unica questione rilevante nei loro confronti fosse quella di stabilire se Gesù è o non è il Messia. Io devo prender atto che già a partire dal secolo II ebree e ebrei do­ vettero rispondere con un 'no' a tale questione, se essi volevano conservare la loro i­ dentità giudaica. Devo prender atto che il loro no detto a Gesù non significa affatto un no detto a un Dio, che è e rimane il Dio d'Israele. E vedo che Paolo non fa del vange­ lo di Gesù Cristo il criterio decisivo della percezione d'Israele da parte dei credenti in Cristo provenienti dai gentili, bensì vede tale criterio nella elezione permanentemente valida d'Israele (Rom 11 ,28s.).

c)

L'ACCOGUENZA DELLA

PAROLA OPERANTE STORICAMENTE (1 ,12s.)

Se i vv. 10 e 11 avevano parlato di un vasto rifiuto opposto a Gesù quale Parola, i vv . 12 e 13 conoscono anche delle eccezioni. Ci sono di quelli che lo hanno accolto, ci sono dei credenti. L'evangelista invita così la comunità a guardare a se stessa, alla propria esperienza. Essi, i membri della comunità, sono infatti coloro che hanno percepito che in Gesù ha parlato Dio. Tale loro percezione è confer-

� C osì Flavio Giuseppe parla di cittadini di Gerusalemme, che •Si rifugiarono presso gli stranieri e di quella salvezza di cui avevano disperato in mezzo ai loro connazionali venivano fatti degni presso

i romani· (B] 4,397).

12

O prologo (1, 1-18)

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mata e convalidata. Nello stesso tempo in questo passo, in cui la comunità com:. pare per la prima volta, viene messo molto chiaramente in risalto che essa non è nata per una decisione dei suoi membri e che non poggia sulla loro volontà, ben­ sì che essa esiste solo come miracolo, come opera di Dio, come la sua nuova creazione. Attivo e passivo, azione di Dio e azione degli uomini sono qui tra di loro indissolubilmente collegati. Gli uomini accolgono, credono, confidano; sono generati, diventano figli di Dio. La passività, il fatto che l'uomo non contribuisce in alcun modo alla propria nascita, e l'attività, l'accoglienza là dove la non-acco­ glienza è ciò che ci si aspetta e la cosa usuale, sono ambedue presenti nella na­ scita della comunità L'aspetto attivo è quindi descritto come una accoglienza e una accettazione di Gesù quale Parola, come un'accettazione del fatto che in lui parla Dio35• Coloro che lo fanno sono per questo nello stesso tempo «quelli che credono nel suo no­ me•. La menzione del «SUO nome· affiora qui del tutto inaspettata, perché finora non è stato menzionato alcun nome. Ciò dimostra che Giovanni presuppone dei lettori e degli ascoltatori, i quali già sanno di chi si tratta e già sanno qual è il suo nome, nome che egli menziona espressamente solo nel v. 17: Gesù Cristo. 'La Pa­ rola', di cui si parla nel prologo, ha quindi un nome, il nome di un determinato uomo. Credere nel suo nome significa credere in lui, perché il nome rappresenta la persona*. L'accettazione del fatto che in Gesù parla Dio può avvenire in un so­ lo modo: seguendo questa Parola, confidando nel Dio in essa presente. �ull'altro significa l'espressione 'credere nel suo nome'. Questi significati sono analogamente reperibili nell'espressione 'credere nel nome' di una tradizione rabbinica. ShemR 16,1 (Wilna 32b) affenna a proposito di Es 12,21: tlll Santo, egli sia benedetto, disse: Ecco, io ricompenso gli anziani, perché essi hanno in­ dotto Israele a confidare nel mio nome (o a credere nel mio nome). Quando Mosè dis­ se loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi, se gli anziani non avessero accolto le parole di Mosè, neppure tutto Israele le avrebbe accolte. Ma gli anziani le accolsero per primi, si tirarono dietro tutto Israele e lo indussero a confidare nel nome del Santo, egli sia benedeno 37• Pure qui si tratta di accogliere, di accettare come parola di Dio le parole di uno che pretende di essere inviato da Dio, si tratta quindi di confidare, di ..

35 Il fatto che dopo il verbo composto parélabon del v. 1 1 ci sia adesso il semplice élabon non è che un cambiamento stilistico. Per parlare dell'accettazione e non accettazione di Gesù, della sua te­ stimonianza o delle sue parole Giovanni adopera abitualmente il verbo semplice: 3,1 1 .32s.; 5,43; 12,48; 1 3,20. 36 L'espressione 'credere nel suo nome' ricorre, nel NT, solo negli scritti giovannei e precisamente, oltre che in questo passo, anche in Gv 2,23; 3,18; 1 Gv 3,23; 5,13. 3 7 Cfr. anche DevR 1 1 , 10 (Wilna 120a), dove Mosè dice a Dio: ·Signore del mondo, manifesti e no­ ti davanti a te sono il mio lavoro e la mia fatica, il fatto che mi sono impegnato fino allo stremo af­ finché Israele confidasse (credesse) nel tuo Nome•.

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credere nel Dio che qui parla. Ciò si manifesta di nuovo nella sequela della sua parola. Ma non c'è una grande differenza tra il fatto che qui si parla di credere nel nome di Dio e il fatto che nel testo giovanneo si parla della fede nel nome di Gesù? Al riguardo dobbiamo ricordare due cose. Anzitutto già biblicamente si può parlare, oltre che della fede in Dio, della fede in Mosè (Es 14,31 ; cfr. 19,9). La fiducia in Mosè è la fiducia nel fatto che egli non comunica una cosa qualunque, ma parole di Dio, nel fatto quindi che, in quanto egli dice al popolo, parla Dio stesso. La medesima cosa succede - e questo è il secondo punto - quando nel vangelo di Giovanni si parla della fede in Ge­ sù. Ciò viene espresso in modo particolarmente chiaro in 12,44, allorché nel discorso di Gesù che conclude la prima parte del vangelo leggiamo: ·Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato•38•

È pertanto chiaro che 'credere' non significa solo 'ritener per vero'. Per coloro che ritengono per vero il fatto che in Gesù parla il Dio d'Israele, tale verità diven­ ta una realtà molto concreta, perché essi ascoltano questo Dio, puntano su di lui, mettono a repentaglio la loro vita seguendo il modo in cui egli si è qui manifesta­ to. È perciò anche chiaro che alla fede si accompagnano necessariamente l'azione, la percorrenza di una via e la speranza che tale via non conduce al fallimento. «Quanti l'hanno accolto•, •quelli che credono nel suo nome• sono detti nel v. 12 ·figli di Dio•. In questo modo Giovanni riprende quel che nella Bibbia ebraica è detto di Israele. Così leggiamo, ad esempio, in Dt 14, 1 : ·Voi siete figli per Adonaj, Dio vostro,. Per Rabbi Akiba questo passo è la prova che gli israeliti sono amati da Dio e che l'amore particolare di Dio si manifesta nel fatto che egli ha anche rivela­ to loro tale figliolanza (mAv 3,14). A seconda della situazione, a seconda che si debba sottolineare l'implicito aspetto parenetico o che si debba sottolineare l'ele­ zione libera da parte di Dio, l'affermazione di Dt 14,1 può essere accolta in manie­ ra condizionata o incondizionata: ·Rabbi Jehuda dice: Se vi comportate come si conviene a figli, allora siete figli; se non vi comportate così, non siete neppure fi­ gli. Rabbi Meir dice: In un modo o nell'altro, 'voi siete figli di Adonaj, vostro Dio·39• Nel v. 1 2 Giovanni usa una formulazione più precisa, quando dice che egli ­ cioè Gesù nella sua veste di Parola - ·ha dato potere di diventare figli di Dio a quelli che credono nel suo nome•. Dietro il termine greco exusfa ('potere') ci do­ vrebbe essere l'ebraico reshuftO, che contiene i significati di 'permesso', 'autorizza­ zione', 'legittimazione'. Colui che nel vangelo sarà indicato e descritto come 'il Fi­ glio' per eccellenza, che concorda pienamente con la volontà del 'Padre', autorizza a diventare figli di Dio coloro che confidano nel Padre che in lui viene alla parola. 31

Del problema qui menzionato ci occuperemo, quando spiegheremo 12,44 e 14,1. " SifDev § 96 (FINKELSTEIN/HOROVITZ, p. 157); cfr. jQid 1,7 (2lb; KROTOSCHIN 61c); bQid 36a; bBB lOa. � Cfr. ScHI.ATI"ER, ]obannes,

18.

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Il v. 13 sottolinea il fatto che la figliolanza divina è realmente e totalmente opera di Dio: ·l quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati•41• Che dicono queste parole sui credenti? Natural­ mente anch'essi •sono stati generati• - esattamente come gli altri uomini - ·da sangue, da volere di carne e da volere di uomo•42, sono cioè venuti al mondo nel­ la maniera usuale. Sono infatti uomini corporei e non fantasmi. Ma credenti non lo sono in base a presupposti naturali. Il fatto che esistano delle persone, che co­ noscono e riconoscono la presenza del Dio d'Israele nell'azione e nel destino di Gesù, l'evangelista riesce a concepirlo solo come un miracolo, come un'azione di Dio stesso.

si esprime in modo molto efficace circa la nascita da Dio: Tutto l'uomo quin­ di deve entrare nel vangelo e diventare completamente nuovo, deve deporre la vecchia pelle; come fa il serpente che, quando la sua pelle diventa vecchia, cerca uno stretto buco nel terreno, si infila dentro, si toglie da sé la sua pelle e la lascia fuori davanti al buco, così anche l'uomo deve accogliere il vangelo e la parola di Dio e seguire con fi­ ducia le sue promesse; egli non mentirà; così si toglie la sua vecchia pelle, lascia uscire la sua luce, la sua presunzione, il suo volere, il suo amore, la sua bramosia, il suo par­ lare, il suo operare e diventa un uomo totalmente nuovo, che vede le cose in modo di­ verso da prima, che giudica, valuta, si considera, desidera, parla, ama in modo diverso, ha voglia di altre cose, agisce e cammina in modo diverso da prima• (Evangelien-Ausle­ gung 4,39).

Lutero



Con la menzione dei credenti si chiude la prima parte del prologo, quella de­ scrittiva. Tali credenti esprimono adesso all'inizio della seconda parte la loro con­ fessione e la loro testimonianza.

41 Soprattutto Tertulliano testimonia una lezione al singolare del v. 13: ·il quale . è nato•, riferen­ do quindi il versetto a Gesù e facendone di conseguenza una prova in favore della nascita verginale. Egli polemizza contro il modo di leggere il versetto al plurale dei valentiniani, lezione che essi pon­ gono in relazione con la loro idea del seme dei pneumatici (De carne Christi 19). Sulla critica testua­ le di questo passo si dilunga ScHNACKENBURG, Komm. 1,240s. [trad. it. 1 ,334s.]. '2 Secondo Agostino ·la parola carne è qui usata al posto di donna, così come qualche volta si usa spirito al posto di marito. E perché? Perché è lo Spirito che regge e la carne è retta: quello deve co­ mandare, questa servire. C'è disordine in quella casa dove la carne comanda e lo Spirito serve. Che c'è di peggio di una casa in cui la donna comanda sul marito? Ordinata è invece quella casa in cui è la donna che obbedisce al marito• (Commento 2,14). .

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d) LA CONFESSIONE DFJ CREDENil (1,14) Il cambiamento di stile, il 'noi' confessante che adesso segue alla descrizione in terza persona, è preparato dai credenti descritti nel v. 12s. come figli di Dio, verso i quali la prima parte tendeva. Essi prendono la parola; adesso parla la co­ munità confessante. Sulle sue labbra l'evangelista pone ciò che essa stessa deve ora da parte sua dire e rispondere dopo quanto è stato prima esposto a proposito de 'la Parola' e di fronte ad essa, nonché dopo e di fronte alla descrizione di essa prima là fatta. Alla proclamazione del Dio operante nella Parola creatrice e neo­ creatrice segue la ripetizione di questa proclamazione sotto forma di confessione. Alla descrizione segue, quale unica reazione adeguata, la confessione di coloro che si sono ritrovati nella descrizione come figli di Dio43. Essi confessano: "E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi•. Qui, all'inizio della seconda parte, viene ancora una volta ripreso il termine cen­ trale 'la Parola' adoperato tre volte all'inizio della prima parte nel v. l. Il parlare creatore di Dio assume una forma concreta, si cosifica addirittura, diventa monda­ no e oggettuale. Troviamo qui lo stesso termine 'carne', che è stato adoperato proprio nel v. 13, dove alla nascita ·da volere di carne, si contrapponeva la nasci­ ta da Dio. Nella tradizione biblica 'carne' indica, come termine antropologico, l'uomo nella sua fragilità e caducità4\ a differenza di Dio, che non è appunto 'car­ ne'4\ Della Parola che ·era in principio presso Dio•, che ha un principio al di là del quale non ne esiste alcun altro, che è il principio per eccellenza, viene ora detto che essa divenne carne e quindi materia fragile-caduca, che essa ha un principio nel tempo e, quindi, anche una fine in esso46. L'affermazione che ·il Verbo si fece carne• non autorizza a parlare dell"incarna­ zione di Dio'47, come noi cristiani ci siamo abituati a fare, cosicché in generale si potrebbe parlare teologicamente e antropologicamente di Gesù come del volto u­ mano di Dio. Giovanni dice più preCisamente che la parola di Dio si è fatta carne. Ancora

43 Se si tiene conto di questo legame tra le due parti del testo ne viene che il 'noi' del v. 14 (e del v. 16) non si riferisce a un gruppo ristretto di testimoni oculari della vita di Gesù, bensì ai credenti in generale, in cui sono ovviamente inclusi i primi testimoni . � Cfr. fs 40,6s.: ·Ogni uomo è come l'erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. Secca l'erba, il fiore appassisce, quando il soffio di Adonaj spira su di essi•. "5 Cfr. Ger 17,5.7; 2 Cr 32,8. 46 Barth scrive: ·Netto e chiaro è qui il paradosso: . . . la Parola divenne, essa fu qua. La concretez­ za, la contingenza, l'esistenza storica singola della Parola eterna, assoluta, divina è ciò che viene det­ to da questa proposizione· (johannes-Evangelium, 107). "7 Già Origene dice ·che Dio, che è al di sopra di tutte le creature, si è fatto uomo (enentbrfpe­

sen)· (Commento Il, 34, 202).

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più acutamente si potrebbe dire: la parola del Dio di Israele (si è fatta) carne giu­ daica48. Parallelamente nel v. ls. egli non aveva appunto identificato in maniera pura e semplice Dio con la Parola, bensì aveva mostrato che tra di essi esiste un nesso e una differenza. Dio non si risolve nella sua Parola, anche se si esprime completamente in essa ed è presente in essa. ·Il Verbo si fece carne•: Dio si co­ munica realmente nella concretezza dell'uomo Gesù di Nazaret, ma la sua rimane una comunicazione indiretta, mediata dalla comparsa e dal destino di quest'uo­ mo. L'evangelista non cerca di divinizzare Gesù - e meno che mai coloro che cre­ dono in lui -, bensì cerca di mostrare che in quest'uomo entra realmente in scena Dio stesso, che qui parla la sua Parola creatrice e pone quindi anche una nuova realtà. Una realtà che si manifesta nel fatto che questa Parola crea la comunità co­ me mondo nuovo49• ·E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi•. Le due metà di questa frase costituiscono un parallelismo sintetico. Coloro che parlano qui alla prima persona plurale sono certamente i credenti poco sopra menzionati nel v. 12, ma poiché l'·in mezzo a noi» corrisponde a 'carne', termine caratterizzante l'uomo nella sua caducità e fragilità, essi sono nel medesimo tempo rappresentan­ ti di tutti gli uomini, esattamente come in 3,16 la missione di Gesù è presentata come la dimostrazione dell'amore di Dio per il mondo. Giovanni, nel parlare così, utilizza delle espressioni e dei modi di dire giudaici. La fonnulazione 'abitare in mezzo a noi', l'idea della presenza di Dio in un even­ to storico, la relazione stretta e spinta fin quasi all'identificazione tra Dio e la sua Parola e la differenza ivi tuttavia conservata, tutto ciò presuppone l'idea giudaica della sbekindb, dell'abitazione di Dio, della sua presenza in seno al suo popolo e nel mondo50• Questa presupposizione vale soprattutto per l'espressione 'abitare in mezzo a rtoi'. Ma i testi da addurre in questo senso aiutano poi anche a compren­ dere la particolare fonnulazione dell'incarnazione della Parola. Citiamo anzitutto testi che parlano della discesa e dell'autoabbassamento di Dio per amore di Israele. Comincio con un midrash tardivo, secondo il quale il compito affidato al popolo attraverso Mosè di costruire un santuario a Dio è inter­ pretato da Dio stesso così: ·Di' agli israeliti: Non vi ordino di fabbricarmi una di-

48 Cfr. K. BARm, KD IV/l, 1953, 181: ·La parola divenne non 'carne', uomo, uomo umile e soffe­ rente in senso generico, ma carne giudaica-. Ancora, e con maggiore insistenza, in DENKER, Wort,

259-262. 19 Del tutto sbagliata mi sembra l'interpretazione del v. 14a data da Schnelle, che culmina nell'af­ fennazione: ·Gesù è diventato uomo ed è contemporaneamente rimasto Dio!• (Komm., 40). 'iO Su questa concezione, cfr. la grande monografia di A.M. GoLDBERG, Untersuchungen aber die

Vorstellung von der Scbekbinah in derfnlhen rabbinischen Literatur. Talmud und Midrash, 1969; per i testi citati qui di seguito, specialmente pp. 160-176.493·496. Una interessante relazione su •L'accam­ parsi di YHWH presso il suo popolo Israele· nell'AT viene offerta da DENKER, Wort, 268-272.

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mora perché altrimenti non avrei dove abitare; prima ancora che il mondo fosse creato il mio santuario era infatti già costruito in alto•. Dopo aver addotto delle prove scritturistiche in merito, la costruzione del santuario terreno è così motiva­ ta: ·Ma per amor vostro abbandono il santuario superiore, che era già pronto pri­ ma ancora che il mondo fosse creato, e scenderò e abiterò in mezzo a voi; è in­ fatti detto: 'Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro' (Es 25,8)•51• Concordante nella motivazione, ma per certi aspetti ancor più pregnante è la tra­ dizione seguente: •'Adonaj chiamò Mosè e dalla tenda del convegno gli disse' (Lv 1,1). 'Dalla tenda del convegno': potremmo supporre: da tutta la casa? L'insegna­ mento (la Scrittura) dice: 'da sopra il propiziatorio' (Es 25,22). Se da sopra il pro­ piziatorio, potremmo supporre: da sopra tutto il propiziatorio? L'insegnamento (la Scrittura) dice: 'in mezzo ai due cherubini' (Es 25,22). Parola di Rabbi Akiba. Shim'on ben Asaj disse: Io non sono come uno che solleva delle obiezioni contro le parole del suo maestro, ma come uno che le tramanda. La gloria, della quale è detto: 'Non riempio il cielo e la terra, parola di Adonaj?' (Ger 23,24), ecco fin do­ ve l'amore per gli israeliti ha spinto questa ricca gloria, fino cioè a contrarsi per apparire e per parlare dal propiziatorio tra i due cherubini•s:z. Per amore di Israele Dio scende dal cielo e abita nella tenda del convegno in mezzo al suo popolo, anzi contrae la sua gloria, che riempie il cielo e la terra, si­ no a farle occupare solo lo spazio ristretto tra i cherubini sul propiziatorio dell'ar­ ca dell'alleanza, per parlare di là ad Israele. Questo punto di vista, secondo il quale Dio fa abitare la sua gloria nella tenda del convegno, ricorre anche nella prosecuzione della tradizione citata per prima. Là Mosè, richiamandosi a testi co­ me Ger 23,24, obietta che nessuno potrebbe costruire una casa a Dio, ma si sente rispondere così: ·Non la richiedo secondo la mia forza, ma secondo la vostra forza . . . E non appena essi ebbero fatto la dimora, questa fu riempita dalla sua gl� ria . . . Allora i . principi dissero: Ecco, questa è l'ora di offrire un sacrificio con gioia, perché Dio è sceso nella sua presenza in mezzo a noi·53• L'inabitazione di Dio è adesso espressa nominalmente: shekinah, anzi è addirittura personalizzata. Forse il modo migliore di tradurre questo termine è quello di tradurlo con 'Dio nella sua presenza', come abbiamo appunto fatto. Inoltre compare qui - come ancora dovremo mostrare - un nesso anche altrove ricorrente tra abitazione di Dio, la sua gloria e la sbekinah. Questi sono tutti momenti importanti anche per Gv 1 ,14. In ambedue le tradizioni citate l'inabitazione di Dio avviene nella tenda del

51 TanB Naso 19 (18a). 53 Sifra Wajikra dibura dindava 1,2, 1 2 (FINKEISTEIN, p. 17s.); cfr. al riguardo LENHARDT/OSTEN-SACKEN, Akiva, 1 54-173. �} Del tutto simile è il passo parallelo di Tan Naso 11 (Wilna 254a).

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convegno, archetipo del tempio. Ma la sua presenza in· mezzo al suo popolo non è legata al tempio. Questo lo dimostrano nella maniera più chiara testi, secondo i quali Dio è andato e va nella sua presenza in esilio con il suo popolo. Così leg­ giamo nella seguente tradizione: .Ogniqualvolta Israele fu soggiogato, fu con essi per così dire soggiogata la shekindh. . . Rabbi Akiba dice: Se non fosse scritto nella Scrittura, non sarebbe possibile dirlo. Gli israeliti dissero davanti al Luogo ( Dio): Hai redento te stesso (cioè liberando Israele dall'Egitto). E così trovi che in ogni luogo, in cui essi andarono in esilio, la shekinah era con essi; è infatti detto: 'Esiliato, esiliato sono stato con la casa di tuo padre, quando essi in Egitto erano nella casa del faraone' (1 Sam 2,27). Essi andarono in esilio a Babilonia, e la shekindh con essi . . . (fs 43,14). Essi andarono in esilio in Elam, e la shekinah con essi. . . (Ger 49,38). Essi andarono in esilio in Edom, e la shekindh con essi. . . (fs 63, 1). E quando tornano, torna con essi la sbekinah . . . (Dt 30,3)•54• Dio e il suo popolo Israele sono inseparabilmente uniti fra di loro. Perciò è possibile dire: «Chiunque odia Israele è come se odiasse colui che parlò, e il mondo fu·; «Chiunque aiuta Israele è come se aiutasse colui che parlò, e il mondo fu·55• Qui non è possibile pensare a una cosa senza l'altra. Anche se il termine co­ me tale non ricorre, esiste tuttavia una 'incarnazione' della parola in Israele da A­ bramo in poi56• Questo può aiutare a comprendere Gesù nel quarto vangelo: =

S4 SifBam Beha'alotcha § 84 (HoRovrrz, p. 82s.); cfr. MekhJ Bo 14 (Hoaovrrz!RARTN, p. 51s.). In questo contesto bisogna inoltre citare: jSuk 4,3 (19a; KROTOSCHIN 54c); bMeg 29a; Siffiam Masej § 161 (Hoaovrrz, p. 222s.); BemR 7,10 (Wilna 21c); EkhaR § 34 (BuBER 19b). In quest'ultimo passo leggiamo che, quando Israele fu condotto in esilio in Babilonia, Dio fu ·per così dire incatenato•. In BemR 7,8 (verso la fine; Wilna 21a) da un lato viene detto che la sbekinab è, malgrado l'impurità degli israeliti, fra di loro; dall'altro lato leggiamo poco dopo in 7,10 che l'idolatria, la fornicazione e il versamento del sangue cacciano la sbekindh e portano Israele in esilio. Le due affermazioni non vanno conc;ide­ rate come contrapposte l'una all'altra, ma vanno tenute ambedue presenti. Da un lato viene sottoli­ neata l'inconcussa fedeltà di Dio e, dall'altro lato, la responsabilità di Israele nei confronti della pre­ senza di Dio. Quest'ultima può anche accompagnarsi al dono della Torah: ·Tu hai un modo di con­ trattare tale che colui che vende, viene venduto con la sua merce. Il Santo, egli sia benedetto, ha det­ to a Israele: Vi ho venduto la mia Torah: Io sono stato per così dire venduto con essa• (ShemR 33,1 [Wilna 6Ib]). Sulla ripresa della tradizione della sbekindh in 1 , 14, cfr. BROWN, Komm. 1,33s. e soprat­ tutto P. DSCHUUNIGG, Rabbiniscbe Gleichnisse und das Neue Testament, 1988, 6Js. 5 5 SifBam Beha'alotcha § 84 (HoRovrrz , pp. 81 e 82). Cfr. inoltre MekhJ Beshallah (Shira) 6 (HoRo­ vrrz/RABIN, p. 134s.); Tan Wajehi S (Wilna 74b); Tan Beshallah 16 (Wilna 1 15b. 1 16a). 56 Cfr. la raccolta di testi rabbinici e gli studi fatti al riguardo da KUHN, Selbsterniedrigung; cfr. inol­ tre K.-E. GRòZINGER, /cb bin der Herr, dein Gotti Bine rabbinische Homelie zum Ersten Gebot (PesR 20), 1976, 238-240. Alla luce del rapporto di Dio con Israele, Michael Wyschogrod scrive: Dio -è en­ trato nel mondo attraverso un popolo che si è scelto come luogo della sua residenza. Si giunge ad u­ na visibile presenza di Dio nell'universo dapprima nella persona di Abramo e più tardi nella sua di­ scendenza, il popolo di Israele· (Gott und Volk Israel. Dimensionen jii.dischen Glaubens, Stuttgart 2001, 23). Questo modo·di parlare si lascia definire senz'altro come incamatorio. Cfr. deJlo stesso au­ tore, ·lnkamation aus jiidischer Sicht•, in Ev1b 55 0995) 13-28, dove affenna che il giudaismo con l'i-

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quanto la Bibbia ebraica e la tradizione giudaica dicono di rutto Israele viene rife­ rito da Giovanni, con una enorme concentrazione, all'unico uomo Gesù57• L'idea della stretta relazione esistente fra Dio e il suo popolo non impedisce ai sapienti di parlare di tutto ll mondo come del luogo della presenza di Dio. Così alla que· stione del perché Dio abbia parlato con Mosè dal roveto, viene data la seguente rispo­ sta: ·Perché non esiste luogo che sarebbe libero dalla sbekinah: essa è addirittura nel roveto• (ShemR 2,5 [Shinan, p. 1 1 2], cfr. BemR 12,4 [Wilna 47b]; PesK 1,2 [Mandelbaum, p. 4]). Ciò può essere affiancato alla osservazione sopra fatta a proposito di Gv 1 ,14, se­ condo la quale il 'noi', in mezzo ai quali la Parola incarnata abitò, sono rappresentanti " del mondo. Coloro che osarono parlare dell'incarnazione della Parola e parlarono della sua abitazione ·in mezzo a noi•, confessano ulteriormente: ·E noi vedemmo la sua gloria·. Se consideriamo i passi contenenti il termine d6xa, riferiti a Gesù nel van­ gelo di Giovanni, vediamo che è possibile comprenderli in modo unitario se pre­ supponiamo che si tratti della gloria di Dio. Contemplare la gloria della Parola in­ carnata significa contemplare tutta la via di Gesù così come essa è descritta nel vangelo, una via che sfocia nell'estrema umiliazione della croce. Ma proprio per­ ché questa via è descritta come via dell'incontro con Dio bisogna parlare di 'glo­ ria'. Che la 'gloria' di un uomo, che è vista da altri, non indichi una qualità in lui insita, ma un onore concessogli da Dio, lo dimostra molto bene la seguente tradizione de­ sunta da bSan 59b: ·Rabbi jehuda ben Tema dice: Il primo uomo abitò come ospite nel giardino di Eden, e gli angeli ministranti arrostivano carne per lui e gli versavano del vino. Il serpente lo guardò, vide la sua gloria e ne divenne geloso•. Una versione paral­ lela, con leggere varianti, viene fatta risalire in ARN (A) l (Schechter 3a) a Rabbi Jehu­ da ben Batyra. La 'gloria' di Adamo è quindi qui riconosciuta in base a quel che gli an­ geli fanno per lui. Per quanto riguarda Gesù, cfr. sotto questo aspetto Gv 1,51 e la con­ clusione dei racconti della tentazione in Mc 1 , 13 e Mt 4,1 1 . I l fatto che in Gv l , 14 l'affermazione dell'abitazione della Parola incarnata ·in mezzo a noi, sia prolungata con l'affermazione della contemplazione della sua

dea dell'entrata di Dio nel mondo degli uomini è ·incamatori()t e che il cristianesimo ha -concretizza­

to questa tendenza· (22s.). s: Per noi uomini provenienti dalle nazioni, che abbiamo trovato unicamente per mezzo di questo ebreo la via di accesso al Dio d'Israele, la cosa importante sarebbe quella di non concepire questa relazione tra Dio e Gesù in modo esclusivo e antitetico rispetto a queJla esistente tra Dio e il suo po­ polo Israele, bensì di riconoscere l'analogia esistente tra le due e di percepire quindi i connazionali di Gesù come testimoni di Dio.

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gloria ha urta analogia nella stretta connessione esistente in testi rabbinici tra la presenza di Dio (shekinah) e la sua gloria (kab6d). Così la conclusione di Ez 43,2: ·La terra risplendeva della sua gloria· viene spiegata in questo modo: «Que­ sto è il volto della shekindb-58• Secondo un'altra tradizione Dio promette per il fu­ turo: ·Nel mondo futuro, quando farò tornare la mia shekinilh a Sion, sarò mani­ festo con la mia gloria su tutto Israele, ed essi mi vedranno e vivranno per me•S9. Il ritorno della shekinah a Sion e la sua permanente presenza là rendono manife­ sta la gloria di Dio. In essa lui stesso sarà visto; e ciò garantisce una vita che non può più essere messa in discussione. Nel vangelo di Giovanni, quando afferma­ zioni simili sono associate a Gesù, egli è concepito come il luogo della presenza escatologica di Dio. E dove Dio è qui nella sua presenza, lì si sperimentano sal­ vezza, consolazione e vita in mezzo alle tribolazioni. ·E noi vedemmo la sua gloria•: questa è la confessione pronunciata, contro le apparenze, da coloro che riconoscono in Gesù la Parola incarnata, di cui aveva parlato la prima proposizione del versetto. La gloria di Gesù: essa non è la sua gloria, la gloria dell'uomo di Nazaret, per esempio il suo incedere imponente e il suo modo autoritativo di parlare. Questa gloria, che tutti potevano vedere, era fi­ nita con la croce, cosa che similmente tutti potevano vedere. La gloria di Gesù è soltanto la gloria di Dio, che si mostra alla fede proprio e particolarmente sulla croce, dove non esiste più alcuna gloria umana. Perciò la gloria vista viene poi anche meglio precisata, con una apposizione, come ·gloria come di unigenito dal Padre•. Questa precisazione confenna l'affer­ mazione che la gloria, di cui qui si parla, è in fondo la gloria di Dio. È la gloria del Padre quella che incontriamo nel Figlio. In modo simile la tradizione rabbini­ ca può parlare di Israele come di figli di Dio. Dio trovò Israele nel deserto: ·Beate le orecchie che udirono come egli li amò, come egli li custodì, come egli li con­ servò: quasi come la sua pupilla. Ecco come li amò, li custodì, li conservò. Infatti il Santo, egli sia benedetto, disse a Mosè: Di' loro che mi devono costruire una di­ mora, e io abiterò in mezzo ad essi. Io abbandono per così dire le altezze e scen­ do e abito in mezzo a loro. E non solo questo, bensì farò di essi dei vessilli (de­ galim) del mio nome. Perché? Perché essi sono miei figli. È infatti detto: 'Voi siete figli per Adonaj vostro Dio' (Dt 14,1)i141• L'inabitazione di Dio in Israele è quindi 58 ARN (A) 2 (ScHECHI'ER 7a) . Cfr. anche BemR 2,12 (Wilna 6b), dove a proposito di Abramo viene detto: ·Egli condusse le creature sotto le ali della sbekindb e fece conoscere nel mondo la gloria del Santo, egli sia benedetto•. Di fronte a ciò non si riesce a capire come Wilckens possa affermare: .questa affermazione cristiana (?) della visione ininterrotta e chiara della gloria della 'Parola' in Gesù· mostrerebbe •un JiveHo completamente nuovo· (Komm., 33s.). w TanB Bemidbar 20 (9b); par. Tan Bemidbar 17 (WiJna 246a). Prima della frase citata vengono messe esattamente in parallelo fra di loro la visione della sbekinab e la visione della gloria di Dio. � TanB Bemidbar 14 (7a). Cfr. anche PesR 27,4 (fRIEDMANN 132b), dove Pr 23,22 e Dt 32,18 sono

Spiegazione analitica

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considerata come un'espressione del suo amore· per il suo popolo. Israele diventa perciò il segno dell'amore di Dio nel mondo. Possiamo addirittura dire, dal mo­ mento che dégel ha anche il significato di 'vessillo', 'bandiera': con Israele Dio e­ spone la sua bandiera. Ed egli lo può fare appunto perché essi sono suoi figli. Quel che qui vale di Israele nel suo complesso come di figli di Dio, nel vangelo di Giovanni viene detto di Gesù quale unico Figlio61• Gv 10,34-36 mostrerà che l'accentuazione dell'unicità non è concepita nel senso dell'esclusività. L'unicità qui espressa può essere concepita come concentrazione e come contemporanea estensione: il Padre ama il Figlio (cfr. 15,9) e, nella missione del Figlio, il mondo (cfr. 3,16; 1 Gv 4,9; 3,2). L'espressione posta alla fine del v. 14: ·Pieno di grazia e di fedeltà• presenta anzitutto un problema grammaticale. Il nominativo pléres ('pieno') non ha infatti nel contesto immediatamente precedente alcun termine di riferimento che sia al nominativo. Questo problema viene di regola risolto - il più delle volte richia­ mandosi a Deissmann - dicendo ché plires è indedinabile62• Così facendo si igno­ ra che Deissmann ha cercato di superare la difficoltà comunque poi rimasta - le. prove nel senso da lui proposto ricorrono solo nel linguaggio popolare, un lin­ guaggio che non contraddistingue affatto il prologo - in maniera floreale nel vero senso dell'espressione: ·La forma volgare in mezzo al prologo lapidario, un ane­ mone selvatico tra blocchi di manno . . . •63• Ciò permette perlomeno di vedere se e­ sista un'altra possibilità. A proposito di cbaris kài alJtbeia ('grazia e verità/fe­ deltà') si accenna sì molto spesso alla coppia di termini ebraici hésed ve-emét, ci­ tando in proposito anche Es 34,6 e altri passi64, però - per quanto ne so - solo Bomhauser richiama l'attenzione sul fatto che il loro nesso è ancora più stretto65• L'espressione pléres cbaritos kài aletbéias corrisponde esattamente all'espressione ebraica rav bésed ve-emét, è una possibile esatta traduzione di questo finale di Es 34,6 e Sa/ 86, 1566• collegati fra di loro: Israele deve prestar ascolto al suo padre celeste, che lo ha generato; •egli ti ha trattato come un figlio unico; e se non (lo ascolti), ti tratterà come schiavo•. Con l'aiuto della denominazione monogbenés (Unigenito) può essere studiato anche il racconto del sacrificio di Isacco (Gen 22; cfr. anche 3, 16). L"Unigenito' è qui colui sul quale poggia la promes­ sa. Circa il possibile significato di monoghen�s, cfr. OF.NKER, Wort, 279. Origene nel suo contesto filo­ sofico-culturale deve far incontrare questa denominazione con la categoria di 'essenza' (usia): •L'e­ spressione 'come di Unigenito dal Padre' porta ad ammettere che il Figlio deriva dalla sostanza del Padre (Commento, Frammento 9, 490). 62 Cfr. BAUER, Komm. , 26. 63 A. DEISSMANN , Ltcht vom Osten, 99s.; la citazione a p. 100. 64 Cfr. , per es., ScHNACKENRURG, Komm. 1 ,248 [trad. it. 1,344s.], nonché il saggio di A. HANsoN, -john I. 14-18 and Exodus XXXIV•, in NI'S 23 (1977) 90-101. � BoiOOIAusER, ]obannesevangeltum, 1 2s L'importanza di Es 34,6 e del suo contesto è già messa in risalto da Zahn, che però non si occupa della sua ricezione rabbi ica (Komm., 83s. con n. 92). 66 Cfr il saggio di HANsoN, p. 93, citato nella n. 64. "1

..

.

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Il prologo (1,1"-18)

Per romprendere l'espressione 'pieno eU grazia e di fedeltà', che conclude il v. 14, nonché la sua ripresa e prosecuzione nel v. 1 6s., vale la pena tener conto del contesto di E5 34,6 e della ricezione giudaica di questa espressione biblica. In Es 34 viene narra­ to che Mosè riceverà per la seconda volta le tavole con i dieci comandamenti, sulla ba­ se dei quali viene conclusa l'alleanza tra Dio e il suo popolo. Nell'incontro con Mosè sulla cima del monte Sinai Dio, presentando per così dire se stesso, proclama: ·Adonaj, Adonaj, Dio (divinità) misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fe­ deltà•. Un parallelismo molto stretto ricorre nel Sal 86, 15 sotto forma di apostrofe rivol­ ta a Dio. I Settanta traducono la conclusione in maniera imprecisa: polyéleos kài alethin6s (traducibile con 'ricco di misericordia e veritiero'). Alla luce del contesto im­ mediato dell'espressione rav hésed ve-emét dobbiamo anzitutto osservare che essa ri­ corre in una serie di termini che esprimono la misericordia di Dio. In un simile conte­ sto nel tennine emét è insito più l'aspetto della fedeltà che non quello della verità. rav hésed ve-emét è allora la compassione ricca e incessante di Dio. Egli pone della realtà ed è perciò naturalmente anche 'vero'. Poi occorre tener presente l'ulteriore contesto di Es 34. Stando a tale contesto, è proprio il Dio che dona le tavole - e con esse dona la Torah e conclude così l'alleanza - colui che si presenta come misericordioso, come 'pieno di grazia e di fedeltà'. Diversamente dal modo cristiano abituale di pensare, se­ condo il quale la legge e la grazia sono antitetiche, la grazia e la misericordia di Dio si manifestano qui proprio nel dono della Torah. L'espressione rav hésed ve-emét è citata al termine del Midrash Rabba su Ester nel con­ testo seguente: ·Trovi (nella Scrittura) che le buone misure (midd6t - 'dosaggi') del Santo, egli sia benedetto, esistono in sovrabbondanza, in quantità e in pienezza•. Ven­ gono menzionate: bontà, grazia, misericordia, giustizia, fedeltà, redenzione, benedizio­ ne, lode, pace. Come motivazione scritturistica della 'grazia' viene citato E5 34,6 (EstR 10,15; Wilna 1 5d)67• Come con Es 34,6 si ponga l'accento sul Dio pieno di grazia lo mo­ stra particolarmente bene bRHSh 17b: •'E Adonaj passò davanti a lui proclamando' (Es 34, 6). Rabbi johanan disse: Se non stesse scritto come Scrittura, sarebbe impossibile dirlo. Essa (il passo scritturistico citato) insegna che il Santo, egli sia benedetto, si velò (in un mantello della preghiera) come un incaricato della comunità ( colui che intona la preghiera) e mostrò a· Mosè l'ordinamento della preghiera. Egli gli disse: Ogniqual­ volta gli israeliti peccheranno, procederanno davanti a me secondo questo ordinamen­ to e io li perdonerò. 'Adonaj, Adonaj' - io lo sono (cioè sotto questa denominazione: benigno) prima che l 'uomo pecchi, e lo sono dopo che l'uomo ha peccato e si conver­ te. 'Dio, misericordioso e benigno'. Rabbi jehuda disse: È un'alleanza conclusa per le tredici misure (di Dio): esse non tornano vuote (della preghiera dell'uomo). È infatti detto: 'Ecco, io stabilisco un'alleanza' (Es 34,10)•. In mShevu 4,13 l'espressione 'longanime e ricco di grazia' non è considerata, assieme ad altre, solo come misura di Dio, bensì come appellativo (kinuj), come denominazio­ ne descrittiva. Come appellativi vengono ivi menzionati: Alef-Dalet ( Adonaj), jod-He =

=

67 Cfr. SES 6 (FRJEDMANN , p. 183), dove si parla delle '13 misure' di Dio , tra cui: "e ricco di grazia e verità (fedeltà)•.

Spiegazione analitica

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(:8 principio del tetragramma), Shaddaj, Z'vaot, Benigno e Misericordioso, Longanime e Pieno di grazia. Una enumerazione del tutto simile ricorre in MekhJ Mishpatim 20 (Ho­ rovitz/Rabin, p. 332). lvi leggiamo, in contrapposizione a denominazioni di dèi: ·Ma il Luogo ( Dio) è denominato con espressioni di lode: Divinità, Dio, Shaddaj, Z'vaot, Io sarò colui che sarò, Benigno e Misericordioso, Longanime e Pieno di grazia e fedeltà, Forte•. Immediatamente prima si parla del 'Nome'. Altrove simili denominazioni sono dette espressamente 'Nome': jMeg 1 ,9 (13a; Krotoschin 71d-72a); Sof 4,9; bShevu 35a. Da qui deriva la possibilità che anche 'Pieno di grazia e di fedeltà' fosse un appellativo di Dio. Questo sarebbe allora una possibile spiegazione del fatto che plires sta in Gv 1 , 1 4 al nominativo: l'evangelista considerò l'espressione pléres charitos kài atethéias co­ me l'esatta traduzione di questo appellativo di Dio68• Il collegamento di questa caratterizzazione di Dio come 'Pieno di grazia e di fedeltà' con la Torah, quale è presente già in Es 34, ricorre espressamente nella letteratura rab­ binica. In bBer 5b viene citato Pr 16,6: ·Mediante la grazia e la fedeltà viene coperto il peccato•. Poi i primi due tennini sono interpretati come 'benefici' e come 'Torah'. La medesima interpretazione troviamo nel Midrash Tehilim 25, 1 1 con questa prosecuzio­ ne: ·E a chi egli l'ha data? 'A coloro che osservano la sua alleanza' (Sa/ 25,10)•. Nello stesso passo leggiamo precedentemente, nell'interpretazione del Sa/ 25, 10: ·Tutti i sen­ tieri di Adonaj sono grazia e fedeltà. Potremmo pensare: per tutti? L'insegnamento (del­ la Scrittura) dice: 'Per coloro che osservano la sua alleanza'•. La grazia e la fedeltà di Dio si manifestano nella conclusione dell'alleanza con il suo popolo e hanno come conseguenza l'osservanza della Torah da parte di quest'ultimo69• =

Non siamo perciò costretti a presupporre la presenza di un linguaggio volgare, se riconosciamo che l'espressione posta a conclusione del v . 14 corrisponde esat­ tamente a rav hésed ve-emét e la consideriamo come un appellativo di Dio. Allora anche il suo riferimento al Padre è chiaro. Ed è inoltre chiaro che, alla luce di questo retroterra, è meglio tradurre alitheia con 'fedeltà' anziché con 'verità'. Si parla della ricca grazia e fedeltà di Dio, che si manifestano nell'incarnazione della Parola, nella comparsa di Gesù di Nazaret. Qui Dio si dice benigno e manifesta così la sua fedeltà. Pertanto se Giovanni si riallaccia così alla tradizione, alla Bib­ bia e alla sua interpretazione, è poi anche perfettamente chiaro che secondo lui Gesù non 'rivela' un Dio fino ad allora sconosciuto; egli vuole piuttosto eviden­ ziare che in Gesù non si manifesta altri che il Dio già conosciuto in Israele come benigno e fedele.

61

Questa è la tesi di Bomhauser citata nella n. 65. Cfr. anche ShemR 5,10 (SHINAN, p. 162s . ), dove a proposito del Sa/ 85, 1 1 (•grazia e fedeltà si in­ contrano, giustizia e pace si baciano•) viene detto: ·Grazia: questo è Aronne•, motivato con Dt 33,8; ·Fedeltà: questo è Mosè•, motivato con Nm 12,7. 69

Il prologo (1, 1-18)

70 e) LA TESTIMONIANZA DI GIOVANNI (1,15) 15

Giovanni Battista, come è stato introdotto nella prima_ parte del prologo, nella descrizione, così entra di nuovo in scena anche nella seconda parte, nella confes­ sione. Il 'noi' confessante è interrotto nel v. 1 5 ed è rafforzato con un testimone, che è così presentato: ·Giovanni gli è testimone e grida, dice•. L'affermazione principale dei vv. 6-8, cioè che Giovanni è venuto per rendere testimonianza, è ripetuta in questa introduzione. Sorprendente è il tempo presente. Il Battista è presentato dall'evangelista come testimone di Gesù anche nel suo tempo. Egli conserva questa funzione. Il secondo verbo dell'introduzione ha sì la forma grammaticale del perfetto, però si tratta di un 'perfetto' con valore di 'presente'70• Nel vangelo di Giovanni il verbo kraz6 ('esclamare') ricorre, oltre che in questo passo, altre tre volte per in­ trodurre delle affermazioni di Gesù (7,28.37; 12,44). Si tratta sempre di proclama zioni importanti. Esso non andrebbe perciò inteso semplicemente nel senso di 'e­ sclamare ad alta voce' o addirittura di 'gridare'71, bensì nel senso di una proclama­ zione e comunicazione, di una esclamazione ispirata. In questo modo Giovanni si colloca di nuovo nella tradizione giudaica, nella quale il corrispondente verbo e­ braico compare in contesti corrispettivF2• Questa introduzione annette dunque una grande importanza a Giovanni Batti­ sta. Il suo discorso letterale conclusivo contiene anch'esso ancora una volta una introduzione: ·Era lui quegli di cui io dissi•. Essa è sorprendente in ambedue le sue parti. 'Lui' può riferirsi solo alla Parola incarnata, quindi a Gesù. Come può il Battista parlare di lui al passato? 'Era lui' è infatti uno sguardo retrospettivo rivolto a tutta l'attività di Gesù, sguardo che egli non poteva affatto gettare, perché era scomparso dal palcoscenico della storia già prima di Gesù. Egli viene fatto qui, al di là del tempo della sua vita, il testimone che parla nel presente dell'evangelista. Quest'ultimo dovrebbe essere stato indotto ad adottare una simile formulazione dalla concorrenza della comunità del Battista. Il Battista stesso risolve qui la con­ �oversia, allorché dice: ·Era lui quegli•. Ma pure la seconda parte dell'introduzione costituita dalle stesse parole del Battista è sorprendente: ·di cui io dissi". Finora egli non ha mai parlato nel vange­ lo; ciò avviene qui per la prima volta. Eppure rimanda a qualcosa che ha già det..

70

Vedi BDR S 34 1 ,3. Cfr. anche

il testo di Plutarco su Catone citato da BAUER (Komm., 27).

71 Per dire questo l'evangelista adopera kraugdz6: 1 1 ,43; 12,13; 18,40; 19,6 .12. 15.

72 In Mekh] Beshallah (Schira) 3 (HoRovrrz/RABIN, p. 126), dopo una citazione biblica introdotta con •Israele dice•, viene riportata ogni volta, per quattro volte, un'altra citazione biblica con questa introduzione: ·E lo spirito santo proclama e dice dal cielo•. Questa introduzione ricorre abbastanza spesso nei nùdrashim haggadici. Soggetto può anche essere una voce celeste o 'il profeta'.

Spiegazione analitica

71

to. Nel racconto del vangelo le parole del Battista citate nel v. 15 sono· riportate solo nel v. 30 e, in una formulazione più vicina alla tradizione sinottica, nel v. 27. L'evangelista presuppone lettori e ascoltatori che conoscono già in partenza ciò a cui egli qui allude. La sua comunità conosce le parole del Battista dalla propria tradizione, così come esse sono poi anche citate nel v. 27, parole riguardanti que­ gli che viene dopo di lui e di cui egli non è degno di sciogliere i calzari. Tali parole sono però cambiate in un modo caratteristico: ·Colui che viene do­ po di me mi è passato avanti, perché era prima di me•73• Nelle corrispondenti pa­ role sinottiche del Battista viene espressa comparativamente la preminenza di Ge­ sù, in quanto Gesù è presentato come "Più forte�� (Mc 1 ,7parr.). Qui invece trovia­ mo solo categorie temporali. Secondo criteri cronologici era tuttavia proprio Gio­ vanni Battista quegli che era presente prima di Gesù. Questo può essere stato be­ nissimo un argomento della comunità del Battista, specie se questi aveva battez­ zato Gesù e le cose non si erano svolte inversamente. Nel v. 1 5 questo ordina­ mento cronologico viene anche espressamente conservato, allorché Gesù è pre­ sentato come colui che viene dopo il Battista. Qui non bisogna perciò applicare il criterio, secondo il quale ciò che precede nel tempo sarebbe l'originario e quindi il più importante. L'anteposizione temporale tuttavia proposta va perciò intesa in un senso diverso da quello semplicemente cronologico. A ciò allude anche il fat­ to che, nella frase comparativa conclusiva del v. 15, l'evangelista non adopera il comparativo pr6teros, bensì il superlativo protos. Questo senso può essere soltan­ to quello del v. ls. Gesù, pur essendo comparso nel tempo dopo Giovanni, è a lui antecedente, perché in lui parla la Parola del principio, in cui Dio promette la pienezza della sua grazia e fedeltà, pienezza che già da sempre è sua. Giovanni non avrebbe potuto cominciare il suo vangelo con la proposizione� ·In principio era Gesù Cristo... Dopo che egli ha cominciato: ·In principio era il Verbo.. ed ha proseguito: ·Il Verbo era presso Dio.. , adesso può far dire al Battista: ·Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me��. Però glielo può far dire soltanto adesso, dopo aver mostrato, mediante l'evidenziazione dell'identità della Parola pronunciata in Gesù Cristo con la Parola creatrice di Dio, per così dire la dimensione profonda di Gesù.

'� È possibile un'altra traduzione. Invece che con •mi è passato a vanti• l 'espressione può natural­ mente essere tradotta con ·è stato prima di me•, cosicché già qui verrebbe espressa l'anteposizione temporale. In tal caso ci troveremmo però di fronte a una strana tautologia, visto per di più che la proposizione conclusiva del v. 15 è aggiunta sotto fonna di motivazione. Perciò seguo Bauer: •supe­ rare, scalzare i l prestigio, non dare più retta• (Komm., 28; cfr. già HoLTZMANN , Komm., 30).

nprologo (1, 1-18)

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0 LA CONFESSIONÉ E LA TES11MONIANZA COMUNE DI GIOVANNI E DEI CREDENTI (1 ,16-18)

16

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Nel v. 15, introdotto propriamente come affermazione fatta dal Battista, questi aveva parlato alla prima persona singolare. Nel v. 16 incontriamo di nuovo, come nel v. 14, la prima persona plurale. Come abbiamo spiegato nell'introduzione al prologo, il modo migliore per capire questo fatto è quello di pensare che il Batti­ sta e i credenti sono adesso presentati come se parlassero insieme. Però è anche possibile che il v. 15 vada interpretato come una parentesi. La comunità conosce infatti l'affermazione del Battista, a cui qui si allude, e sa qual è la sua portata. In ogni caso si dovrebbe però riconoscere che l'intenzione è quella di far sfociare la testimonianza di Giovanni nella confessione della comunità: ��Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia". Qui ci si riallaccia alla denominazio­ ne di Dio menzionata al termine del v. 14: «Pieno di grazia e di fedeltà•. Dio, che possiede giustamente questo appellativo, si comunica esattamente come esso dice quando si presenta in Gesù. Il termine 'pienezza' mostra che quello a cui ci si ri­ ferisce è presente in misura sufficiente e più che sufficiente, anzi in una misura sovrabbondante: 'grazia', favore di Dio, la sua straripante amicizia. L'aspetto di u­ na pienezza inesauribile è sottolineato anche dalla ripetizione del termine 'gra­ zia'74. Qui dobbiamo ricordare il passo sopra citato di EstR 10,15, secondo il quale ·le buone misure del Santo, egli sia benedetto•, di cui fa parte anche la 'grazia' (hésed), ��esistono in sovrabbondanza, in quantità e in pienezza•. I 'noi' parlanti nel v. 16 sono anzitutto persone che prendono, che ricevono. Quando ricorre non solo 'noi', bensì segnatamente 'noi tutti ' , è in ogni caso ancora una volta sot­ tolineato l'aspetto della pienezza. E il v. 17 potrebbe dischiudere un'ulteriore di­ mensione ancora. Il versetto fonda raffermazione dell'avvenuta ricezione della grazia: ·Perché la Torah fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la fedeltà vennero per mezzo di Ge­ sù Cristo·75• Le due metà del versetto sono formulate in modo perfettamente parai-

'1 Il kat prima di cbaris è esplicativo: BDR § 442,6a. La ripetizione di 'grazia' potrebbe essere in­ fluenzata dalla prima coppia di termini di Es 34,6: ·benigno e misericordioso•. '5 Le due affermazioni di questo versetto sono spesso interpretate in senso antitetico. Anche Ori­ gene si lascia indurre alla constatazione: ·La legge data per mezzo di Mosè puniva i peccatori, senza perdonare ad alcuno le colpe commesse• (Commento, Frammento 9, 491). In modo analogo si espri­ me Agostino, accompagnato nel contesto da precise affennazioni paoline: ·La legge è stata data per mezzo di un servo, e ci ha resi colpevoli; la grazia ci è stata concessa per mezzo del sovrano, ed ha liberato i colpevoli• (Commento 3, 16). Cito l'esempio moderno di H. Weder, che in un suo saggio (Ev7b 52 [1992] 319-331) parte da Gv 1,17 come dalla ·chiave del contenuto del vangelo· (p. 320). E­ gli, pur osservando che l'evangelista ·usa delle fonnulazioni che non contengono alcun segnale fdo­ logicamente percepibile di una antitesi•, interpreta le sue parole in senso antitetico: ·Da un lato c è la -

'

Spiegazione analitica

73

lelo: all'inizio sta il rispettivo soggetto, cioè la Torah e poi la grazia ·e -la fedeltà. Segue l'indicazione del rispettivo mediatore: Mosè e Gesù Cristo. La conclusione è costituita dal rispettivo predicato in una forma grammaticalmente passiva che ri­ manda a Dio come al soggetto logico. Dio è il datore della Torah attraverso la mediazione di Mosè. Ed è anche colui che è venuto nella sua grazia e fedeltà me­ diante Gesù Cristo76• Dio è datore benigno mediante Mosè e mediante Gesù Cri­ sto La confessione del v. 16 d'aver ricevuto in sovrabbondanza la grazia viene quindi fondata in un doppio modo: anzitutto attraverso il dono della Torah me­ diato da Mosèn e poi attraverso la presenza del Dio benigno e fedele in Gesù Cri­ sto78. Alla luce di questa constatazione, secondo la quale il dono della Torah rientra nella categoria 'grazia', possiamo desumere che l'accentuato 'noi tutti' del v. 16 vada letto in modo inclusivo, cioè come comprendente coloro che hanno ricevu­ to la Torah, specie dal momento che, in base al v. 15, riteniamo che anche il giu­ deo Giovanni Battista, che non appartiene ai discepoli di Gesù, pronunci quel che segue. Il fatto che l'evangelista menzioni in questo passo Mosè potrebbe avere un .

legge data da Mosè al popolo. La legge è separabile da Mosè; egli la dà. Invece la grazia e la verità non sono separabili da Cristo, perché sono sorte per mezzo di lui. Esse non sono per così dire un dono, bensì Cristo stesso rappresenta la grazia e la verità· (ibid.). Ciò viene ulteriormente sviluppato e sfocia infine nella constatazione di un ·salto qualitativo dalla legge alla cristologia· (ibid.). Tali af­ fermazioni non sono sostenibili già semplicemente dal punto di vista fi1ologico: l . Mosè e Gesù Cri-' sto sono messi esattamente in parallelo; di ambedue viene ogni volta enunciata la mediazione (did co] gen.). 2. Mosè non è dunque i1 datore deJia legge, ma solo il mediatore. Ne] passivo ed6tbe i1 soggetto logico è Dio. Lui è i1 datore deJia Torah. 3. Anche Gesù è mediatore di 'grazia e fedeltà'. Pu­ re qui Dio è il soggetto logico come nella prima metà del versetto. 4. Nel v. 17b il predicato sta al singolare, anche se il soggetto è costituito da due 'nomina'. Questi sono pertanto concepiti come u­ na unità, cosa che potrebbe stare in rapporto con l'appellativo di Dio sopra menzionato. ll fatto che Weder sia costretto a connotare in modo negativo, in un contesto in cui sottolinea la 'ricezione', il verbo 'dare' mostra la singolarità della sua impresa. Cfr. invece BARm, jobannes-Evangelium, 1 5 1 : ·Mi sembra che sia soprattutto importante constatare che in questa breve proposizione non c'è neppure una sillaba che squalifichi Mosè o la legge . . . Non c'è alcun motivo di fiutare nell'innocente ÈbOih'J u­ na qualche inferiorità rispetto all'Èyiveto della seconda breve proposizione . . . Che c'è infatti di spre­ giativo nel fatto che la legge fu 'data'? Come se nel Nuovo Testamento non si parlasse in molti passi, in un modo o neH'altro, del dono della grazia!·. 76 Ghinomai può naturalmente avere il significato di 'nascere, sorgere, essere fatto' (così Weder in questo passo), così come nel prologo avviene nel v. 3 o v. 10. Ma può anche significare 'venire', co­ me risulta sempre ne] prologo dal v. 6 e v. 15. 77 Cfr. il passo di ShemR 33, 1 citato sopra nella n. 54, passo secondo il quale Dio, dando la Torah, dà anche se stesso; cfr. inoltre per es. MTeh 68, 1 1 , secondo i quali gli israeliti erano ricalcitranti, •ma quando ebbero ricevuto la Torah, Dio abitò fra di ]oro neUa sua presenza•. 78 Cfr. THYEN, johannesevangelium, 203: ·A motivo deUa struttura complessiva del prologo e so­ prattutto della mancanza di bé nella seconda proposizione non si tratta di un para11e1ismo antitetico, bensì di un parallelismo sintetico-climatico: in ambedue le proposizioni viene descritta una proposi­ zione salvifica...

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18

Dprologo (1, 1-18)

doppio motivo. Da un lato colui a cui egli aveva già alluso alla fine del v. 14 con la denominanzione di ·pieno di grazia e fedeltà• e l'espressione tradizionale di nuovo ripresa consigliavano di parlare adesso anche espressamente del dono del­ la Torah per mezzo di Mosè. Dall'altro lato potrebbe essere stata la situazione del­ la comunità, come quella rispecchiata paradigmaticamente in 9,28, ad indurlo ad affiancare Mosè e Gesù Cristo. In tale passo 'giudei' dicono al cieco nato guarito, che continua a riferirsi in modo positivo a Gesù: ·Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè•. Il cieco guarito, allorché continua a stare dalla parte di Gesù, viene cacciato fuori dagli altri (9,34). Ai loro occhi esiste un contrasto insuperabi­ le tra Mosè e Gesù. È ora importante vedere, e precisamente fin dalla prima con­ trapposizione tra Mosè e Gesù nel vangelo di Giovanni, che Giovanni non si limi­ ta da parte sua a dare solo una valutazione inversa a proposito di tale contrappo­ sizione. Egli non può e non vuole parlare qui di contrasto. Anche in questo passo quel che gli sta a cuore è l'unità di Dio, del Dio d'Israele. Colui che dà la Torah attraverso Mosè non è altri che il Presente in Gesù Cristo. Naturalmente per l'evangelista l'accento cade sulla seconda proposizione del v. 17. Qui egli menziona anche espressamente il nome che aveva presente fin dall'i­ nizio: Gesù Cristo. Il seguito del vangelo evidenzia che per lui la seconda Parola non è semplicemente parte di un doppio nome, ma ha conservato il suo suono messianico. Ciò che gli preme non è dequalificare il dono della Torah per mezzo di Mosè. Al di là dell'esperienza comune a tutti i giudei dell'amore benigno di Dio qui manifestatosi, egli vorrebbe piuttosto sottolineare in modo positivo che Dio è presente con la pienezza e ricchezza della sua grazia in Gesù. Il suo appel­ lativo di «pieno di grazia e di fedeltà• si lega escatologicamente al nome di que­ st'uomo messianico79• Ciò viene sottolineato nel v. 18. La proposizione introduttiva: ·Dio nessuno l'ha mai visto• è un'affermazione universalmente valida nella tradizione biblica. Citia­ mo in questo senso solo la frequente denominazione di Dio come di colui ·che tutto vede e non è visto•80• Parallelamente leggiamo in Es 33,20 in un discorso ri­ volto da Dio a Mosè: ��Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo•. Ma in qnesto contesto viene poi concessa a Mosè u­ na visione di Dio "di spalle•81• E in Dt 34, 10 leggiamo addirittura, in uno sguardo retrospettivo gettato su Mosè: ��Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, 79 Una ricezione attraverso la chiesa dei gentili che, ignorando il giudaismo, non percepisce più neppure il profilo giudaico del Nuovo Testamento, corre il pericolo -ed è stata continuamente vittima del pericolo di tradurre l'affiancamento di Mosè e di Gesù sotto la categoria della grazia, operato da Giovanni, in una antitesi tra la legge e la grazia. 80 Per es. BemR 1 2,3 (Wilna 46a): ·ll Santo, egli sia benedetto, che abita nel nascondimento del mondo: egli vede tutto e non è visto•. 81 Es 33, 18-23; cfr. l'evento simile riguardante Elia in 1 Re 19,11-13.

Spiegazione analitica

75

lui con il quale Adonaj parlava faccia a faccia•. Questo non elimina però la vali­ dità dell'affermazione, secondo la quale Dio rion viene visto. Su questo sfondo la particolarità della relazione di Mosè con Dio risulta piuttosto ancora più chiara. Non diversamente stanno le cose in Gv l, 18, dove sul medesimo sfondo di questa proposizione universalmente riconosciuta viene messa in risalto la particolarità della relazione di Gesù con Dio82• Giovanni lo fa anzitutto ripetendo la denominazione 'unico' del v. 1483, me­ diante la quale caratterizza la relazione tra Dio e Gesù come una relazione tra Pa­ dre e Figlio. Di nuovo viene perciò concentrato su Gesù quanto vale per tutto I­ sraele84. Poi egli riprende dal v. l la denominazione •(uguale a) Dio•�tS. Quel che là era stato detto della 'Parola' viene ora detto di Gesù Cristo. Ma questa affermazio­ ne può essere fatta a · suo riguardo soltanto perché essa era stata fatta nel v. l a proposito della 'Parola' e perché nel v. 14 si era parlato dell'incarnazione di que­ st'ultima. Neppure qui si tratta di mitizzare, di divinizzare un uomo, bensì del fat­ to che in quest'uomo parla realmente Dio. Questo è anche il senso della terza caratterizzazione di Gesù in questo verset­ to: ·Che è sul petto del Padre•. Possibile è anche la traduzione: ·Che è in grembo al Padre•. L'immagine che vi sta alla base potrebbe essere quella del bambino se­ duto in grembo al padre o alla madre. Così, secondo il racconto del giudizio di Salomone, una delle due donne prese il lattante dell'altra •e se lo mise in grembo­ (1 Re 3,20). Elifaz e Amalek crebbero nel grembo di !sacco e Esaù86• Nel racconto del profeta Natan l'unica pecora piccina del povero dormiva ·nel suo grembo ed era per lui come una figlia· (2 Sam 1 2,3). Mosè non vuole portare Israele nel suo grembo come una balia porta un lattante (Nm 1 1 , 1 2)t17• Un'altra stretta relazione è quella della donna che giace in grembo o in seno al marito (Mi 7,5; 2 Sam 1 2,8). Questa rappresentazione è usata in senso metaforico, quando alla domanda 'che

112 Che l'affennazione del v. 18a non sia la ricezione di una proposizione generale della tradizione biblico-giudaica, bensì una polemica esplicita contro le poche eccezioni a questa proposizione gene­ rale (così ad esempio B. DIETZFELBINGER, Komm. 1, 33), che quindi Giovanni contesti qui quanto nella sua Bibbia sta serino a proposito della visione di Dio avuta da Mosè e da Elia, mi sembra una suppo­ sizione assurda. 11:1 Letteralmente: 'unigenerato' o 'unigenito' . .. Nel midrash tardivo ShirS 1,1 compare al quarto posto, tra i 70 nomi, il nome di 'Unico'. 115 Al posto di 'un unico, (uguale a) Dio' o di 'l'unico, (uguale a) Dio', molti manoscritti hanno: 'l'unico figlio'. L'idea del Figlio è in ogni caso presente in questo versetto sia a motivo dell"unico' sia anche a motivo della successiva menzione 'del Padre'. Per questo è forse probabile che sia stato so­ stituito un the6s originario per rendere anche tenninologicamente esplicito 'il Figlio', e che ad essere sostituito non sia stato un 'Figlio' originario che non costituiva affatto uno scandalo. 86 DevR 2,20 (Wilna 102c). ff1 Parallela è la formulazione del bambino posto ·sulle ginocchia della madre•: jSot 5,4 (24b; KRo­ TOSCHIN 20c).

nprologo (1, 1-18)

76

cosa' èi sia 'nel seno dell'uomo', viene nsposto cosl: �l'alito della vita•, ·l'anima• (n 'sbamdb) (bHag 16a). Mentre per Gv 1 ,18 viene spontaneo pensare a una di queste due immagini a motivo della relazione padre-figlio contenuta in questo versetto, l'altra si fa prefe­ rire dalla ripresa dell'espressione in Gv 13,23, dove ·il discepolo che Gesù amava• si reclina, durante la cena, ·sul petto di Gesù•, assume cioè la posizione del confi­ dente più intimo. In ogni caso l'intenzione di questa determinazione locale di Ge­ sù 'sul petto' o 'in grembo al Padre' è stata espressa bene da Calvino, allorché e­ gli dice che fine di questa precisazione è quello di ·farci sapere che nel vangelo abbiamo per così dire il cuore di Dio aperto davanti a noi•88• In due passi della letteratura rabbinica questa immagine del giacere in grembo è collegata con la Torah. In ARN (A) 31 (Schechter 46a) leggiamo a proposito di Rabbi E­ lieser, figlio di Rabbi joses il Galileo: ·La Torah fu scritta 974 generazioni prima della creazione del mondo, giaceva in grembo al Santo, egli sia benedetto, e cantava con gli angeli ministranti•. Ciò viene motivato con Pr 8,30s., quindi con l'identificazione della sapienza con la Torah che ricorre anche altrove. In MTeh 90, 12 sono enumerate sette cose, che precedettero di 2000 anni il mondo. Tra di esse vi è la Torah, di cui poi viene detto: ·Ed essa giaceva sulle ginocchia del Santo, egli sia benedetto•. I due passi sono addotti da Hofius e chiamati in causa per Gv 1,18 (•'Der in des Vaters Schoss ist' joh 1,18·, in ZNWBO [1989) 163-171). Che il confronto con il primo passo permetta ·un giu­ dizio attendibile: le parole: ò rov elç tòv KoAAov toù xatQ6ç vanno tradotte con che è nel grembo del Padre• (p. 168), che quindi nel caso delle due possibilità sopra ricordate ci si debba decidere chiaramente nel senso della prima, non è cosa cogente di fronte agli altri testi citati. Sbagliata è l'ulteriore conseguenza tratta da Hofius, secondo la quale soltanto le parole appena citate del v. 18 e non già la denominazione di monogbenés predicherebbero Gesù come Figlio. Che cos'altro può significare qui - come già nel v. 14 - monoghenés? uno che è J!OVoyevT)ç in relazione a un Jtan]Q non può essere altri che l'unico Fig/iQt (Dono, Interpretation, 305). Sbagliato ritengo infine anche pensare che queste parole caratterizzino Gesù come Figlio preesistente. Nei due testi rabbinici citati si parla espressamente della preesistenza della Torah, ma essa non è indicata con l'espressione 'in grembo' e 'sulle ginocchia del Santo, egli sia benedetto'. Una corri­ spondente enunciazione della preesistenza di Gesù non si trova in Gv 1, 18. L'evangeli­ sta parla della preesistenza della Parola (vv. 1-4). Questa distinzione è tutt'altro che 'ar­ tificiale' (così il rimprovero di SòDING, Cbristologie, 191, n. 54), è invece offerta dal te­ sto del prologo. Giovanni non comincia il suo vangelo con la frase: ·In principio era il figlio (di Dio)•. A motivo della sua Bibbia, all'inizio può porre solo il 'L6gos' e parla quindi di conseguenza dell'incarnazione del L6gos. Al paragone costringe solo l'antolo­ gia greca. La tradizione biblico-giudaica permette a Giovanni di parlare in modo diffe­ renziato. ..



CALVINO, Komm., 27.

Spiegazione analitica

77

Di colui che è stato così in tre modi caratterizzato nella sua particolarità viene ora detto a conclusione del prologo: ·Lui lo ha spiegato". Il verbo qui usato è un verbo che significa interpretare, spiegare. Gesù, data la sua relazione addirittura intima con Dio, è legittimato come suo interprete. Quel che già la citazione di Calvino diceva viene così sottolineato ancora una volta prima che adesso cominci il racconto del vangelo. Gesù, così come è presentato nel vangelo, è la spiegazio­ ne di Dio, del Dio d'Israele; e non è il 'rivelatore' di un Dio fino ad allora scono­ sciuto, né porta 'notizia' di un Dio rimasto fino ad allora più o meno nascosto. Che egli spieghi il Dio conosciuto in Israele risulta già chiaro dalla prima proposi­ zione del prologo con la sua allusione a Gen l , l . Ciò posto, è cosa più che strana vedere Hofius ulteriormente scrivere nel citato saggio su Gv 1, 17s.: ·Al di fuori della rivelazione effettuata in Gesù Cristo non solo non esiste alcuna conoscenza della 'grazia', bensì non esiste alcuna conoscenza di Dio· (p. 170). Che bisogno si nasconde propriamente qui alle spalle, quando in questo breve saggio ricorrono con frequenza affermazioni altisonanti come queste: ·Esclusivamente Gesù Cristo è, nella sua persona e nella sua opera, la rivelazione salvante di Dio, mentre Dio, se astraiamo da Gesù Cristo, è e rimane radicalmente nascosto• (p. 163)? ·Il v. 17 formula subito una 'antitesi radicale', che contesta qualsiasi rilevanza salvifica di Mosè e della Torah data per mezzo di Mosè· (p. 169s.). Le cose stanno sempre in modo tale che è possibile acquisire una identità cristiana solo prendendo le distanze dal giudai­ smo, in particolare mediante una contrapposizione alla Torah? E anche se Hofius aves­ se esegeticamente ragione, oggi non dovremmo prender ano con rispetto di ciò che il giudaismo ha detto e dice nella sua lunga storia sul nesso tra Torah e grazia e riflettere su di esso? Se ascoltassimo così con attenzione, non riusciremmo verosimilmente e au­ tomaticamente più a ripetere in modo puro e semplice le affermazioni che parlano di esclusività e di assoluter�.a contenute nel vangelo di Giovanni.

pane prima

L'ATTIVITÀ DI GESÙ, QUALE INVIATO DA DIO, TROVA DEI CREDENTI E DEI NON CREDENTI (1 , 19--1 2 , 50)

l. La

prima settimana (1, 19-2,12)

In 1 , 19, dopo il prologo, il racconto del vangelo comincia con la figura di Gio­ vanni, che già era comparso in precedenza due volte in veste di testimone per eccellenza. Adesso si narra diffusamente della sua testimonianza e della reazione a catena da essa avviata. Il testo di cui qui ci occupiamo arriva fino a 2, 12. Esso è formalmente tenuto insieme da uno schema temporale, che abbraccia nel suo in­ sieme esattamente una settimana1• Il primo giorno è descritto in 1 , 1 9-28 e contie­ ne una testimonianza indiretta resa da Giovanni davanti a delle persone che gli pongono delle domande. L'indicazione ·il giorno dopo· di 1 , 29 assegna l'evento narrato in 1,29-34, cioè la testimonianza diretta di Giovanni di fronte a Gesù, che appare qui per la prima volta, al secondo giorno. Una uguale indicazione costitui­ sce in l ,35 la cesura successiva: il terzo giorno, in seguito alla testimonianza di Giovanni, i primi due discepoli si uniscono a Gesù ( 1 ,35-39). L'annotazione del v. 39, secondo la quale i due rimasero •quel giorno�� con Gesù, ci dice che la venuta di Simon Pietro, narrata in 1 ,40-42, avvenne il quarto giorno2• In 1 ,43 troviamo di nuovo l'espressione ·il giorno dopo•. Si tratta del quinto giorno, quello della par­ tenza per la Galilea, a cui è legato l'arrivo di Filippo e Natanaele (1 ,43-51). Quan­ do in questo contesto viene data, all'inizio di 2, l, l'indicazione temporale ·il terzo giorno•, non viene indicato il terzo giorno della settimana, il martedì, bensì tale indicazione va messa in relazione con quella di 1 ,43: il sesto giorno viene saltato; ciò che viene adesso narrato, le nozze di Cana, riempie dunque il settimo giorno. Il sesto è concepito come il giorno del viaggio. • Cfr. al riguardo R. RIEsNER, ·Bethany Beyond The Jordan (John 1:28). Topography, Theology And History in The Fourth Gospel·, in Tyndale Bulletin 38 (1987) (29-63) 45-47. A questo articolo faccio riferimento per quel che segue; ora più dettagliatamente Io., Betbanien, 13-76. l Cfr. l'argomentazione di BRoDIE, Komm., 130s., secondo la quale l'evento di 1 ,35-39 va contato come un giorno specifico.

L 'attività di Gesù (1, 1�12,50)

82

Questa articolazione secondo i giorni di una settimana all'inizio del racconto corrisponde a quanto viene presentato, anche alla sua fine, come una settimana. In 1 2 , 1 troviamo l'indicazione temporale: ·Sei giorni prima di Pesah (Pasqua),., e in 20, 1 si raggiunge, contando di qui, con ·il primo giorno della settimana.. o ·con il giorno dopo il sabato•, l'ottavo giorno. Il primo giorno della settimana viene per così dire ancora una volta addotto a conclusione, in quanto il racconto relati­ vo a Tommaso conclude in esso - «Otto giorni dopo• - il vangelo. In 2,13 Gesù si dirige verso Gerusalemme; e questa città è poi il teatro di quanto viene racconta­ to sino alla fine del cap. 3. Anche per questo la cesura dopo 2 , 1 2 è chiara. Questa prima unità di 1 , 19-2, 1 2 non è tenuta insieme solo dallo schema tem­ porale, bensì presenta anche un contenuto unitario dotato di un suo senso. Per prima cosa incontriamo la figura di Giovanni in veste di testimone, che distoglie lo sguardo da sé quando Gesù entra in scena e rinvia espressamente a lui. Que­ sto procura a Gesù i primi discepoli, che con la loro testimonianza gliene procu­ rano altri. Dopo la prima azione compiuta da Gesù essi dimostrano di essere co­ loro nei quali tale azione ha raggiunto il suo scopo, dal momento che viene detto che essi riposero la loro fiducia in lui (2, 1 1).

l. La testimonianza indiretta di Giovanni (1,19-28)

1'E questa è la testimonianza di Giovanni, quando i capi dei giudeP gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: .Chi sei tu?·. ZOEgli confessò e non negò, e confessò: ·lo non sono il Cristo•. 21Allora gli chiesero: ·Che cosa dunque? Sei Elia?•. Ri­ spose: •Non lo sono•. ·Sei il profeta?•. Rispose: ·No•. 22Gli dissero dunque: ·Chi sei? Per­ ché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te �tesso?•. 23Rispose: •lo sono voce di uno che grida: 'Nel deserto preparate la via del Si­ gnore (Adonaj!)', come disse il profeta Isaia•. 24Essi erano stati mandati da parte dei farisei. 2�Lo interrogarono e gli dissero: ·Perché dunque battezzi se tu non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?·. 2(Giovanni rispose loro: •lo battezzo con acqua, ma in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, 27uno che viene dopo di me, al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo��. 2&Questo avvenne in Betania, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

3 Dove Giovanni parla globalmente de 'i giudei aggiungo nella traduzione un aggettivo o un'e­ spressione risultante dal contesto, per eliminare dalle orecchie del lettore e dell'ascoltatore un suono antiebraico, che altrimenti inevitabilmente ne conseguirebbe. '

La prima settimana

(1, 19-2, 12)

83

Il brano è · suddiviso in due parti. Formalmente Ciò è segnalato dalla ripetizione in tennini un po' diversi dell'invio di coloro che devono interrogare Giovanni (vv. 19.24)4• Nella prima parte egli respinge la propria identificazione con figure esca­ tologiche di salvatori e si presenta come ��la voce di uno che grida·, di cui parla Is 40,3 (vv. 19-23); e nella seconda parte utilizza la domanda a proposito della sua attività di battista per accennare a colui al quale egli si subordina e rinvia comple­ tamente (vv. 24-28). Non esiste quindi alcun conflitto tra i versetti 19 e 24, bensì essi si corrispon­ dono l'un l'altro come segnali che articolano il racconto. Nello stesso tempo in questo modo viene creata subito all'inizio del racconto un'atmosfera, che per la comunità è trasparente: 'i giudei' e 'i farisei' compaiono come autorità che affida­ no incarichi, che inviano dal centro degli emissari per interrogare5, perché pre­ suppongono che dietro il battesimo impartito da Giovanni si nascondano delle ri­ vendicazioni messianiche (v. 25), cosa per la quale egli va interrogato. Nell'esposizione dell'evangelista la questione dell'identità di Giovanni mira in partenza a preparare l'entrata in scena di Gesù e a chiarire la questione della sua identità, alla quale Giovanni rende testimonianza. Perciò Giovanni rifiuta possibili sue identificazioni con figure escatologiche di salvatori e rivendica per sé esclusi­ vamente la funzione di testimone. In merito non è sicuramente un caso che al primo posto ci sia la negazione - introdotta in modo particolarmente solenne6 del fatto di essere 'l'Unto', il Cristo. Alla venuta dell'Unto, del Messia regale, si ac­ compagnano speranze nell'eliminazione della miseria e dell'oppressione, nella fine dell'ingiustizia e della violenza. Nel vangelo di Giovanni si discute continua­ mente se Gesù sia l'Unto. Al tempo dell'evangelista questo era il punto controverso essenziale tra il suo gruppo e la maggioranza giudaica. E poiché questa con­ troversa identificazione spetta, secondo il vangelo, a Gesù, Giovanni deve per prima cosa negare di essere lui il Messia. Dopo questo primo risultato negativo gli emissari proseguono l'interrogatorio nel v. 21a e fanno da parte loro una possibile offerta di identificazione: ·Che cosa dunque? Sei Elia?·.

4 Molti manoscritti hanno aggiunto, prima di tbtecna).pévol., un ot. In tal caso l'b va inteso in senso partitivo: ·E gli inviati appartenevano ai farisei•. I manoscritti migliori non contengono l'oi.. In tal caso l'èx va letto come sinonimo di um>, cosicché il v. 24 corrisponde oggettivamente al v. 19. In favore di questa lezione depone il fano che, nel vangelo di Giovanni, 'i giudei' e 'i farisei' vengono adoperati promiscuamente. 5 I 'sacerdoti e leviti', che nel vangelo di Giovanni compaiono soltanto qui, non sono presentati come gruppi autonomi, bensì solo in collegamento con 'i giudei' e con 'i farisei'. 6 L'accentuata introduzione del v. 20, utilizzando con 'confessare' e •non negare' la terminologia della testimonianza, allude in modo indiretto alla funzione effettivamente assegnata dall'evangelista a Giovanni.

19s.

21

84

L'attività di Gesù (1, 19-12,50) Secondo 2 Re 2,1-11 il profeta Ella non è mortd; ma è stato assuntò Vivo.in cielo fh· un carro di fuoco. C'era perciò da aspettarsi che a proposito della sua figura si formassero delle tradizioni e che egli continuasse a svolgere un ruolo. La formazione di questa tra­ dizione comincia già all'interno della Bibbia ebraica. La promessa di Ma/ 3,1: ·Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me•, viene ripresa nel v. 23s. in modo tale da identificare tale messaggero in Elia: «Ecco, io invierò il profeta Elia pri­ ma che giunga il giorno grande e terribile di Adonaj, perché converta il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri; così che io venendo non colpisca il paese con lo sterminio•. Ciò è ripreso e sviluppato in Sir 48,10 in un discorso rivolto ad Elia: ·Fosti designato a rimproverare i tempi futuri per placare l'ira prima che divampi, per ricondurre il cuore dei padri verso i figli e ristabilire le tribù d'Israele·. È possibile che il Giovanni Battista 'storico' si sia concepito come Elia redivivo7• In ogni caso nei testi neotestamentari il Battista è considerato come l'Elia ritornato: Mc 9,1 1-13 parr. Mt 17, 10-13; Le 1,17; cfr. Mt 11,14.

22

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Anche se Giovanni fu identificato con Elia e anche se non esiste alcuna tradi­ zione che concepisca Gesù come l'Elia ritornato'\ l'evangelista fa categoricamente negare a Giovanni di essere Elia. L'intenzione a ciò collegata è certamente quella di attribuirgli completamente e esclusivamente il ruolo di testimone. Dopo la rinnovata negazione gli emissari fanno una terza proposta di identifi­ cazione, che viene parimenti rifiutata: 'il profeta'. L'articolo evidenzia che non si pensa a un profeta qualunque. Verosimilmente si tratta dell'attesa di un profeta come Mosè, collegata a Dt 18,15.18 e che nel vangelo viene reclamata per Gesù (6,14; 7,40)9• Dopo che Giovanni ha così respinto per tre volte quel che egli non è, gli emissari gli chiedono di dire chi è, ·perché possiamo dare un risposta a co­ loro che ci hanno mandato•. Dare una risposta a coloro che hanno mandato e in­ caricato è, nella tradizione giudaica, una regola ovvia di vita10• Giovanni risponde parlando con la Scrittura e citando espressamente il profeta Isaia come autore delle sue parole: celo sono voce di uno che grida: nel deserto preparate la via del Signore (Adonaj!)•. Solo l"io' anteposto e identificante è ag­ giunto al testo di /s 40,3a. Diversamente dai Sinottjci, non è possibile dimostrare che questa citazione del vangelo di Giovanni dipenda dai Settanta 11• Il fatto che ' Cfr. H. SnGEMANN, Die Essener, Qumran, jobannes der Ttlufer und]esus, 19932, 298-301 [trad. it. dt.]. " Questa è, secondo Mc 6, 15; 8,28 parr., solo l'opinione di estranei. 9 Cfr. al riguardo MEEKS, Propbet-King, inoltre REIM, ]ochanan, 110-144 . . 10 In Mekhj Jitro (BaHodesh) 2 (HoRovrrz/RABIN 209s.) viene citato Es 19,8: ·E Mosè tornò da Ado­ naj e riferì le parole del popolo•. Perché egli ebbe bisogno di fare così? A questa domanda viene ri­ sposto che la Torah insegna qui una regola: ·Mosè venne e portò la risposta a colui che l'aveva man­ dato. Così infatti disse Mosè: Anche se egli lo sa ed è testimone, voglio portare la risposta a colui che mi ha mandato•. 11 In Mc 1,3 parr. viene citato tutto il versetto di fs 40,3. Nel v.b i Settanta divergono in modo ca­ ratteristico dal testo ebraico; esattamente con questa divergenza la citazione compare nei Sinottici.

La prima settimana (1, 19-2, 12)

85

l'evangelista adoperi un verbo diverso da quello dei Settanta, che corrisponde di più a quello usato nel testo ebraico, depone in favore di un influsso da parte di quest'ultimo. Pure il collegamento da lui stabilito tra l'indicazione «nel deserto• con la preparazione della via e non con colui che grida è in lui più probabile, perché egli non si rappresenta la comparsa di Giovanni nel deserto12• Giovanni non vuole perciò qui essere altro che ·la voce di uno che grida·, voce che invita a preparare la via a Dio. Con il kjrios della citazione l'evangelista non pensa a Ge­ sù, come se trasponesse a lui la trascrizione del nome di Dio adoperata nella Bib­ bia13. Egli non identifica Dio e Gesù. Differenzia tra kjrios senza articolo, che cor­ risponde alla trascrizione del nome di Dio con 'Adonaj', e kjrios con l'articolo quale denominazione di Gesù, che corrisponde all'aramaico mard-4• Per indicare questa differenziazione, nella traduzione abbiamo reso kjrios con 'Adonaj'. L'e­ vangelista però, dal momento che concepisce Giovanni come ·la voce di uno che grida· per preparare la via al Dio in procinto di venire a salvare e dal momento quindi che lo concepisce nello stesso tempo, come mostrano le parole successi­ ve, quale testimone in favore di Gesù, collega molto strettamente Dio e Gesù: con la comparsa di Gesù entra in scena Dio stesso per redimere e salvare. Il fatto che Giovanni si faccia positivamente conoscere come ·la voce di uno che grida· di Is 40,3 non soddisfa gli emissari, che riprendono il loro interrogatorio e si rifanno per questo alle negazioni: •Perché dunque battezzi se tu non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?· (v. 25). Solo adesso viene menzionata l'attività di Giovanni, il battezzare, quella che lo caratterizzava e che gli avrebbe procurato la denominazione specifica e caratteristica di 'Battista'. Tale denominazione però non gli viene attribuita nel vangelo di Giovanni, probabilmente perché qui non viene riconosciuta alcuna importanza soteriologica specifica al suo battesimo. Quest'ultimo serve solo a far conoscere colui a cui Giovanni si limita semplice­ mente a render testimonianza. Egli dice: ·lo battezzo con acqua•. Questa è la prima parte di una frase che ricorre anche in Mc 1 ,8 parr., ma che l'evangelista Giovanni riporta per intero solo nel v. 33, mentre l'affermazione antecedente in Mc 1,7 parr. egli la presenta a conclusione del v. 27. Il fano che alla semplice consta­ tazione che egli battezza con acqua segua subito l'affermazione che in mezzo a loro sta uno che essi non conoscono, suscita l'impressione, confermata da ciò che segue, che il suo battesimo serve unicamente a far conoscere questo individuo

12 'Il deserto' non svolge alcun ruolo nel vangelo di Giovanni. Oltre che qui, esso compare soltan­ to in seno ad altre citazioni scritturistiche che alludono al tempo passato da Israele nel deserto (3,14; 6,31.49), nonché in occasione del ritorno di Gesù a Efraim, 'vicina al deserto' (11 ,54). - Sulla localiz­ zazione 'in Betania' ritorneremo al v. 28. 13 Così ancora una volta DIETZFELBINGER, Komm. 1,45. 14 Già Schlatter lo aveva messo in risalto: jobannes, 42.

24s.

26

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L 'attività di Gesù

(1, 19-12,50)

ancbrn·-sèonosciuto15• Giovann i si pone còmpletamente in ordine a lui, rosa che fa anche dopo, quando nel v. 27 si dichiara indegno di sciogliere il laccio dei calzari a colui che viene dopo di lui'6• Così dicendo egli dichiara di essere inferiore a lui, di essere come uno schiavo nei confronti del suo padrone. Secondo tQid 1 , 5 ·la presa di possesso degli schiavi· avviene così: ·Egli (lo schiavo) gli (al suo compra­ tore) mette i sandali e glieli slega•17• La scena viene conclusa nel v. 28 con una notizia geografica, che colloca l'evento narrato e l'attività di Giovanni Battista •a Betania, al di là del Giordano-. Tradizionalmente si pensa che Giovanni battezzasse in un guado lungo il corso inferiore del Giordano. Nel m secolo Origene non riuscì a trovare alcuna località detta 'Betania al di là del Giordano'. Questo spiega le varianti 'Beta bara' e 'Betara­ ba'18. Ma a qualunque località si pensi lungo il corso inferiore del Giordano, per il vangelo di Giovanni ne risultano delle difficoltà insuperabili. Al luogo menziona­ to in 1 ,28 si fa ancora una volta riferimento in 10,40. Secondo questo passo Gesù ritorna là, prima di partire, dopo la morte di Lazzaro, per il villaggio di Betania vi­ cino a Gerusalemme ( 1 1 , 1 .18). Se spostiamo il luogo del battesimo di Giovanni, indicato con 'Betania', verso sud, la via di là verso Cana (2,1) è troppo lunga per poter essere percorsa in un giorno; e dall'altro lato la via di là a Betania vicino a Gerusalemme è troppo breve per spiegare il fatto che Lazzaro giacesse già da quattro giorni nel sepolcro (1 1 , 17). Queste difficoltà si risolvono se 'Betania' si trova a nord e viene identificata con la regione della Batanea posta ad oriente del lago di Genesaret'9•

1� Che l'evangelista non renda così giustizia al Giovanni 'storico' è naturalmente fuori discussione. Sul suo battesimo, cfr. G. BARrn, Die Taufe infritcbristlicher Zeit, 1981, 23-36 [trad. it., Il battesimo in epoca protocristiana, Paideia, Brescia 1987], e soprattutto ST. voN DoBBELER, Das Gericbt und das Er­ barmen Gottes. Die Botschaft ]ohannes des Tdufers und ibre Rezeption bei den johannesjùngern tm Rahmen der 7beologiegescbicbte des Friibjudentums, 1988. 16 Drastico Lutero, secondo il quale ·Giovanni getta da sé la sua santità che non vuole essere lo straccio con il quale si pulisce una scarpa sporca• (Evangelien-Auslegung 4,72). 17 Secondo ShemR 25,6 (Wilna 46b) Dio non si perita di rendere dei servigi da schiavo a Israele: ·Lo schiavo, fin che vive, mette i sandali al suo padrone. Ma il Santo, egli sia benedetto, non agisce così: 'Ti calzai con sandali di pelle di tasso' (Ez 16,10)•. Cfr. i passi paraleli in TanB Beshallah 10 (29b). 18 Per la critica del testo, cfr. RIF.sNER, Bethanien, 13-15; per la conoscenza del luogo da parte di 0rigene, ibid. , 15-18. 19 Cfr. al riguardo maggiori dettagli nell'articolo di Riesner, citato nella nota l. Nelle pp. 54-56 del suo libro, commentando l'espressione ·al di là del Giordano• (57-70), si fa portabandiera di questa te­ si: per Gv 1,28 espone la necessità di una localizzazione nel nord (71-77) e mostra la possibilità lin� guistica di una identificazione di 'Betania' con Batanea (78-80). Egli pone anche attenzione al fatto che il luogo del battesimo in 10,40 viene indicato con t6pos, mentre la Betania che si trova presso Gerusalemme in 1 1 , 1 .30 con kOme (80s.). HENGEL (Frage, 291 , n. 77) respinge in modo apodittico, senza alcuna argomentazione, l'identificazione di questa Betania con la Batanea.

La prima settimana (1, 1�2, 12)

87

2. la testimonianza diretta di Giovanni di fronte a Gesù (1,29-34)

Z9JI giorno dopo Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: ·Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che porta il peccato del mondo! 30f:cco colui del quale io dissi: Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me. 31lo non lo cono­ scevo, ma sono venuto a battezzare con acqua, perché egli fosse fatto conoscere a I­ sraele·. 32Giovanni rese testimonianza dicendo: ·Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. 33lo non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua, mi aveva detto: L'uomo, sul quale vedrai scende�e e rimanere lo Spirito, è colui che battezza in Spirito Santo. 3mpare dalla scena senza lasciare tracce, bensì rimane in essa presente sino alla fine. Egli arriva a confidare in Gesù senza aver già prima visto il segno che lo riguarda. Anche i due racconti del cap. 4 sono perciò tra loro collegati, in quanto i due personaggi principali che

43

stanno di fronte a Gesù, la donna samaritana e il funzionario del re, sono contro­ figure di Nicodemo. Il v. 43 costituisce un raccordo: ·Trascorsi due giorni•, che nel v. 40 erano stati menzionati come il tempo della permanenza a Sicar, Gesù parte per la Galilea.

44

Nel v. 44 Giovanni indica di nuovo una motivazione e un fine del viaggio in Gali­ lea. Nel v. l e 3 egli aveva motivato la partenza dalla Giudea per la Galilea dicen­ do che 'i farisei' avevano udito che Gesù faceva più discepoli di Giovanni. La sua attività era coronata da successo, la gente accorreva a lui. Ciò aveva fatto scalpore e aveva fatto apparire all'orizzonte 'i farisei' come un gruppo minaccioso. Quan­ do adesso nel v. 44 dice che il motivo per cui Gesù prosegue dalla Samaria, dove aveva similmente avuto molto successo, per la Galilea è il fatto che Gesù stesso aveva testimoniato che nessun profeta è apprezzato nella propria patria, ciò signi­ fica in questo contesto: Gesù pensa che in Galilea nessuno farà caso a lui, che là egli non farà notizia e che sarà quindi anche al riparo da possibili persecuzioni85•

ss Giovanni si riferisce qui a una affermazione di Gesù, che finora egli non ha riportato nel suo racconto e che neppure in seguito riferirà. Tale affermazione fa parte del patrimonio della tradizione della comunità, ed egli presuppone che i suoi lettori e i suoi ascoltatori la conoscano. Essa ricorre

VJaggio attraverso la Samaria e attività in Galilea (4, 1-54)

191

Quando però nel v. 45 egli raggiunge· la meta del viaggio prospettata nel v. 3, si accorge che le sue aspettative vanno deluse: ·l galilei lo accolsero•86• Questa acco­ glienza riservatagli in Galilea è motivata con il fatto che i galilei avevano preso parte alla festa in Gerusalemme e avevano visto le cose da lui compiute87• Dopo che il v. 45 si è riallacciato all'inizio del capitolo e ha accennato a 2,23, il v. 46a stringe un ulteriore rapporto con il contesto precedente: Gesù va 'di nuovo' a Cana, inoltre viene espressamente ricordato che là egli •aveva cambiato l'acqua in vino•. Queste parole lanciano un segnale, preparano il terreno al racconto

45

46

di un altro segno, che nel v. 46b viene introdotto così: ·Vi era a Cafamao un fun­ zionario del re118, che aveva un figlio malato•89• La notizia - prosegue il v. 47 - che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea spinge il funzionario ad andare da Cafarnao a Cana e a pregare Gesù di discendere a Cafamao per guarire suo figlio. Il perciò in Giovanni in un contesto del tutto diverso da quello in cui ricorre nei vangeli sinottici. In questi ultimi essa ricorre nel contesto della comparSa in pubblico di Gesù a Nazaret e motiva il rifiu­ to a cui egli va incontro in quella località (Mc 6,4; Mt 13,57; Le 4,24). ootQi.ç indica là la 'città di origi­ ne', mentre in Giovanni indica la 'patria' con riferimento a tutta la Galilea. 86 OÉXOf.&at ricorre soltanto qui nel vangelo di Giovanni. Esso corrisponde al À.a!'�Jcivm di 1,12; 5,43; 13,20. In tutti questi passi il significato è quello di 'accogliere', 'ricevere', 'accettare' fT7 Essi corrispondono perciò, come abbiamo già sopra detto, a coloro che sono menzionati in 2,23. • Basilik6s è 'uno che appartiene al re' o per legami di parentela o per qualche rapporto di servi­ zio. Poiché in Gv 4 quest'uomo ha a sua volta dei seiVi e può chiaramente disporre del suo tempo, non viene presentato come schiavo ma come un uomo libero relativamente benestante. Il 're', con cui egli viene messo in relazione, deve essere Erode Antipa. Ufficialmente questi era soltanto tetrarca, ma dal popolo era chiamato 're'. Cfr. anche Mc 6,14-29. Il basilik6s è quindi presentato piuttosto co­ me un 'uomo di corte', come un 'funzionario del re'. A differenza di quanto avviene nelle redazioni sinottiche egli non è qualificato come non giudeo ed è quindi considerato un giudeo. Schnelle obiet­ ta contro di ciò che -Giovanni non lo dice espressamente in nessun passo• (Komm., 96, n. 169). Ma con questo 'argomento' si potrebbero trasformare nel vangelo in non giudei un certo numero di giu­ dei. Il racconto si svolge in un contesto giudaico. Perciò va espressamente detto se le persone che in esso compaiono vanno riconosciute come non giudei. Sbagliata è l'interpretazione di Brodie a propo­ sito di questo passo, dal momento che egli fa anche dei galilei dei rappresentanti dei non giudei. 89 Con queste parole iniziali Giovanni presenta un racconto, che in altre formulazioni ricorre in Mt 8,5-13 e Le 7,1-10. La questione del rapporto fra i tre testi offre molto materiale per riflessioni nel campo della storia della tradizione e della critica letteraria, come ad esempio l'interessante osseiVa­ zione che il malato è in Matteo un pdis, termine che potrebbe indicare un figlio o uno schiavo. Tale termine ricorre anche nel vangelo di Luca e in quello di Giovanni. In Luca però il malato viene detto 'schiavo' e in Giovanni 'figlio'. Ma non intendo addentrarmi nella questione della preistoria dei tre te­ sti e delle loro relazioni letterarie. In merito si può scrivere un lavoro apposito: S. LANDIS, Das Verbaltnis desjobannesevangeltums zu den Synoptikern. Am .Beispiel von Mt 8,5-13; Lk 7, 1-10; ]oh 4,46-54, 1994. Cercherò solo di seguire il racconto giovanneo e di metteme in luce il profilo partico­ lare. Di tale profilo fa parte il fatto che l'interlocutore di Gesù non è un centurione pagano, ma un uomo galileo di corte, un funzionario del re. Sia la sua andata da Gesù, sia la sua richiesta espressa nel v. 47 sia anche la risposta datagli da Gesù nel v. 48, che è formulata al plurale, lo caratterizzano come un rappresentante dei galilei che, sulla base di quanto avevano visto a Gerusalemme, accetta­ no Gesù. La positiva descrizione di questo rappresentante dimostra che è sbagliato supporre che i galilei qui menzionati fossero animati da una •voglia di •spettacoli'• (così ScHENKE, Komm., 91).

47

L 'attività di Gesù (1, 1� 12,50)

192

carattere pressante di tale richiesta è sottolineato dall'infonnazione adesso aggiun-

48

ta che il figlio stava per morire. Gesù non aderisce ad essa, ma fa nel v. 48 una constatazione che è nello stesso tempo un biasimo che va al di là del richiedente e include tuttavia anche lui: ·Se non vedete segni e prodigi, voi non credete-. Queste parole corrispondono a quelle di 2,24, secondo le quali Gesù non si fida­ va da parte sua di coloro che confidavano nel suo nome, perché avevano visto i segni da lui compiuti. La cosa importante sarebbe perciò che la fiducia fosse indi­ pendente dai segni. E una fiducia del genere Gesù evidentemente non se l'aspetta in Galilea, perché usa parole quanto mai negative. Billerbeck adduce a questo punto un miracolo per lui singolare e eccentrico, per dimo­ strare 'la vogUa di miracoli' del giudaismo (II, 441). Schlatter cita - purtroppo con u­ na errata indicazione della fonte - la proposizione essenziale di un testo importante per questo contesto90• Tale testo riflette sul fatto che, per la fiducia riposta in Dio, per la fede, è d'importanza decisiva che essa non si fondi su segni, ma sulla promessa divina: •'Ed egli (Mosè) compì i segni davanti agli occhi del popolo . . . , e il popolo credette' (Es 4,30s.). Essi agirono così come il Santo, egli sia benedetto, aveva detto: 'Essi ascolteran­ no la sua voce' (Es 3, 18). Potremmo pensare che essi non credettero fin quando non videro i segni? No! Piuttosto: 'Essi intesero che Adonaj aveva visitato i figli d'Israele' (Es 4 3 1) Essi credettero perché avevano udito e non perché avevano visto i segni•91• ,

49

SO

.

Il funzionario del re non recede dalla sua richiesta per il biasimo ricevuto. Se nel v. 47 essa era stata avanzata con un discorso indiretto, adesso, nel v. 49, viene ripetuta con un discorso diretto: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia!•. A questa reiterata richiesta Gesù risponde adesso nel v. 50a con una pro­ messa: •Va', tuo figlio vive•. E benché nel v. 48 egli' avesse seccamente affermato che la gente non avrebbe mai e poi mai creduto se non vedeva dei segni e dei miracoli, adesso nel v. SOb leggiamo molto semplicemente: •Quell'uomo credette alla parola che gli aveva detto Gesù·. Egli crede alla promessa fattagli senza vede­ re o sapere come suo figlio stia in quel momento92• Qui sta la forma particolare di

90

]obannes, 1 38.

91 ShemR 5,13 (SHINAN, p. 166s.). L'espressione ·credettero perché avevano udito• corrisponde so­

stanzialmente in modo preciso e anche nell'uso delle parole all'affermazione paolina di Rom 10,17, secondo la quale ·la fede dipende dall'ascolto•. Ciò risulta anche dal seguito del racconto giovanneo, dove la fiducia ha per oggetto la promessa. 92 Cfr. LUTERO, Evangelien-Auslegung, 4, 188: -Questa è davvero una fede vera e forte. Un tale cuo­ re può credere a ciò che non vede e non comprende, contro ogni senso e ragione, si appoggia solo sulla parola. Qui nulla è visibile, non ha alcun altro aiuto se non quello della fede. In questa fede bi­ sogna allontanare dagli occhi ogni cosa, ad eccezione solo della parola di Dio• (cfr. anche pp. 196. 199.202s.). - Osserviamo tuttavia anche che, in questo racconto, Gesù vede le sue aspettative an­ dar due volte deluse: da un lato per quel che riguarda la sua accoglienza in Galilea e, dall'altro, per

Viaggio attraverso .la Samaria e attività in Galilea (4, 1-54)

193

questo racconto del vangelo di Giovanni, nel fatto che la fede viene messa in re­ lazione con la promessa, nel fatto che il credente si attiene ad essa: ece si mise in cammino·93• Questa promessa compie però poi anche dei segni; e così il racconto procede ovviamente sino alla fine. Mentre il funzionario del re sta ancora scendendo da Cana a Cafamao, alcuni servi gli vanno incontro e gli annunciano che suo figlio vive (v. 51). Il funzionario si informa meglio e apprende che il miglioramento era avvenuto esattamente nel momento in cui Gesù gli aveva fatto la sua promessa (vv. 52. 53a). Quando poi nel v. 53b viene ancora una volta detto che egli 'credette', ciò può unicamente significare in unione con il v. SO che il segno possiede la capacità di confermare la fede. E pure il fatto che si dica che non solo lui, bensì 'tutta la sua famiglia' credette, va similmente letto nel contesto di tutto il racconto. Tre volte viene detto che il figlio 'vive'. Ciò significa sul piano della narrazione che egli non muore, bensì guarisce; e ciò è importante quanto basta perché lo si racconti. Questa dimensione elementare non viene omessa nel caso di colui che prima, nel v. 42, era stato confessato come 'il salvatore del mondo'. Ma sul piano del vangelo dovrebbe aggiungersi qui un'ulteriore dimensione: il ritorno di un in­ dividuo dal pericolo di morte alla vita diventa il segno di un altro passaggio dalla morte alla vita, di cui Gesù parlerà in 5,2494• E non solo, là verrà poi anche tema­ tizzato il tema del nesso tra fede, fiducia e vita. A proposito della coincidenza tra l'ora in cui ·la febbre lo ha lasciato• e il momento in cui Gesù aveva constatato ciò da lontano - tratto significativo per il racconto - esiste un racconto parallelo relativo a Rabbi Hanina ben Dosa. Oltre a ciò quest'ultimo contiene anche il particolare che il rabbi g ià sa e agisce in corrispondenza prima anco­ ra che gli venga rivolta la richiesta: ·Una volta si ammalò il figlio di Rabban Gamaliel; allora egli inviò due dottori della legge presso Rabbi Hanina ben Dosa, affinché invo­ casse per lui la misericordia divina. Quando li vide, egli (Hanina ben Dosa) salì sulla terrazza e invocò per lui (il malato) la misericordia di Dio ; poi scese e disse loro: Anda­ te, perché la febbre lo ha lasciato. Gli dissero allora: Sei forse un profeta? Egli rispose loro: Non sono né profeta, né figlio di profeti (Am 7,14), ma ho una tradizione: se la preghiera esce scorrevole dalla mia bocca, io so che viene accettata, altrimenti so che è

quel che riguarda la fede del funzionario del re. Giovanni non presenta quindi Gesù sotto ogni a­ spetto e in ogni situazione come colui che tutto sa e tutto tiene sotto controllo. Questo motivo non è quindi per lui fine a se stesso, bensì svolge una determinata funzione in detenninati contesti. 93 A proposito della fiducia qui accentuata sulla parola, cfr. WELCK, Zeichen, 143. ,. Brown ha messo in risalto l'aspetto del dono della vita come un aspetto unificante i capitoli 3 e 4: •Nel dialogo con Nicodemo Gesù dice che Dio dà il suo unico Figlio, affinché tutti quelli che cre­ dono in lui abbiano la vita eterna (3, 16.36). Nel dialogo con la donna samaritana egli parla dell'ac­ qua che dà la vita. Infine in questa scena compie un segno che dà la vita. L'evangelista evidenzia questo fatto con l'accento posto sul termine 'vivere' nei versetti 50, 51 e 53· (Komm., 197).

51

52s.

L 'attività di Gesù (1, 19-12,50)

194

stata respinta95• Essi si sedettero e scrissero l'ora esatta e quando furono tornati da Rab­ ban Gamaliel, egli disse loro: Giuro sul culto! Non avete detto un momento di meno né un momento di più, ma in realtà i fatti si sono svolti così. È proprio quella l'ora in cui la febbre lo lasciò e ci chiese dell'acqua da bere•96•

54

L'osservazione del v. 54 costituisce per vari aspetti una conclusione. Anzitutto 'questo' si riferisce a quanto è stato immediatamente prima narrato. Poi la propo­ sizione dipendente •tornando dalla Giudea alla Galilea• riprende l'inizio del capi­ tolo, dove Gesù aveva progettato di lasciare la Giudea per la Galilea. Giovanni collega le due cose dicendo che questo segno è il secondo compiuto in Galilea97• Infine in questo modo tutto il contesto viene esteso - come era già stato fatto nel v. 46a, immediatamente prima del racconto del segno - fino a toccare l'inizio del cap. 2. Tutti questi riferimenti alludono a una certa conclusione, a cui si è adesso arrivati. In effetti dopo il cap. 4 troviamo una cesura all'interno della prima parte del vangelo di Giovanni. Finora le cose minacciose erano affiorate solo marginal­ mente. Dal cap. 5 fino al cap. 12 l'esposizione è invece caratterizzata da una a­ perta ostilità nei confronti di Gesù.

Excursus: La successione testuale dei capitoli 5- 7 è sconvolta? Spesso si rimane sorpresi di fronte alla successione tradizionale dei capp. 5 e 6 . L'indicazione di 6, l , secondo la quale Gesù ��andò all'altra riva del mare di Gali­ lea•, non si collegherebbe bene con il cap. 5, secondo il quale Gesù si trattiene in Gerusalemme. Invece capovolgendo la posizione dei capitoli si avrebbe una suc­ cessione logica. A ciò unito va di solito anche lo spostamento della posizione dei vv. 1-14 e 1 5-24 del cap. 7. Il riferimento dei vv. 19-23 al cap. 5 dimostrerebbe che il brano di 7,1 5-24 è la conclusione originaria del discorso che nel testo attua­ le tennina in 5,47. ·Possiamo quindi supporre che la successione originaria fosse 4; ·6 ; 5; 7,1 5-24; 7,1-14.25ss.•98• Si è spesso cercato di spiegare l'attuale successione

, Cfr. mBer

5,5.

bBer 34b. Una redazione più breve presenta jBer 5,5 (41 a ; KROTOSCHIN 9d). " Solo se si prende l'indicazione di questo numero come una indicazione assoluta e si vede in es­ sa enumerato il secondo miracolo, si può scorgere una contraddizione con la notizia di 2,23, dove si parla di segni al plurale, e prendere di qui lo spunto per intavolare delle discussioni di critica delle fonti. Ma fino a che punto si pensa allora che l'evangelista fosse sbadato, visto che in 4,45 richiama alla mente dei suoi lettori e ascoltatori questi segni, per poi dimenticarli di nuovo subito dopo nel v. 54 riportando un testo da una fonte senza correggerlo? Cfr. WELCK, Zetcben, 146-148. 98 Così P. VIELHAUER, Gescbicbte der urcbristlichen Literatur, 1975, 422, che qui citiamo in rappre­ sentanza di molti. Questa ipotesi viene ampiamente motivata in ScHNACKENBURG, Komm. 2,6-11 ltrad. 96

it.

2,9-17].

V.aggio attraverso la Samaria e attività in Galilea (4, 1-54)

195

testuale, diversa da quella supposta come originaria, dicendo che ci sarebbero stati degli scambi di fogli. Ciò presuppone però un'altra ipotesi non proprio vero­ simile: tutte le pagine scambiate avrebbero dovuto terminare casualmente con u­ na proposizione completa. A ciò si aggiunge il problema della diversa lunghezza testuale dei brani forse scambiati99• Ma se il presunto cambiamento della succes­ sione non è spiegabile come un cambiamento casùale, allora esso, qualora si sia realmente verificato, deve esser stato voluto così. E questo significa che dietro l'attuale successione si nasconde in ogni caso un'intenzione. Inoltre è perlomeno problematico che si debba supporre un successivo cambiamento di una succes­ sione testuale originaria. Nessun manoscritto greco o traduzione antica si scosta dalla successione tradizionale. Bisogna certo ammettere che la formulazione di 6,t · sarebbe più facilmente comprensibile, se si presupponesse come luogo del precedente soggiorno la Galilea. Ma non si potrà dire che essa sia impossibile da una prospettiva gerosolimitana. Non è vero che 7,1 si collega bene con il cap. 5, ma non con il cap. 6.

È vero il contrario. Se prima di 7,1 si presupponesse la si­

tuazione del cap . 5, vale a dire il soggiorno di Gesù in Gerusalemme, adesso si tratterebbe di un cambiamento dei territori dalla Giudea alla Galilea. Ma in tal ca­ so ci dovremmo attendere questa formulazione: ·Dopo questi fatti Gesù se ne andò in Galilea•100• La formulazione effettiva: ·Dopo questi fatti Gesù se ne andava per la Galilea• contraddice la supposizione di un cambiamento dei territori. Nella successione testuale tradizionale si presuppone che luogo della permanenza di Gesù prima di 7, l sia Cafarnao in Galilea. A ciò bene si collega la proposizione citata: egli continua a rimanere in Galilea. Tale permanenza nella Galilea è moti­ vata nel v. lb.c: ·Infatti non voleva più andare per la Giudea, perché i giudei cer­ cavano di ucciderlo•. Questa motivazione è necessaria, perché Gesù dovrebbe propriamente trovarsi nella Giudea per partecipare alla festa di Pesah, la cui vici­ nanza era stata menzionata in 6,4101• Gesù evita la Giudea sino alla festa delle Ca­ panne, di cui parla poi 7,2ss. Le ragioni che consigliano di rimanere al testo tradi­ zionale sono perciò più numerose di quelle che consigliano di scostarsene.

911

Cfr. H. THYEN, ]obannesevangellum, 209, con l'ulteriore rimando ivi effettuato. Cfr. 4,3. 101 Cfr. la fonnulazione corrispondente nell'invito fano dai fratelli di Gesù in 7,3 in ordine alla fe­ sta delle Capanne. 100

4. Seconda attività a Gerusalemme: la guarigione di un malato presso la piscina di Betesda ( 5 , 1 -47)

Il luogo, il tempo e l'azione fanno del cap. 5 un'unità a sé stante. In 5, l è indi­ cato un cambiamento di luogo dalla Galilea a Gerusalemme, in 6, l un cambia­ mento da Gerusalemme a un territorio ad est del lago di Genesaret. Luogo dell'at­ tività di Gesù è quindi adesso di nuovo Gerusalemme. Quanto al tempo, è indica­ ta •una festa dei giudei», che motiva l'ascesa di Gesù. Viene quindi prospettata u­ na delle tre feste di pellegrinaggio. L'ascesa precedente di Gesù a Gerusalemme era stata occasionata, secondo 2,13, dalla festa di Pesah. In 6,4 è di nuovo men­ zionata la vicinanza di Pesah. Questa cornice induce i lettori e gli ascoltatori del vangelo a pensare alla festa delle Settimane (Shevuot) o alla festa delle Capanne (Sukkot). Poiché nel cap. 7 si parla espressamente di una festa delle Capanne, la festa non precisata del cap. 5 dovrebbe piuttosto essere secondo Giovanni la fe­ sta di Shevuot. Il capitolo comincia con il racconto di una guarigione, con la quale viene po­ sto in relazione tutto quel che segue. Questo ci permette anche di comprendere la sua articolazione. La prima parte è costituita dal racconto del miracolo (vv. l9a). La seconda serve da raccordo (vv. 9b-16). Da un lato essa continua il raccon­ to della guarigione, precisando che questa e la successiva attività del guarito han­ no avuto luogo di sabato e architettando così un conflitto, in cui Gesù e 'i giudei' si affrontano e che determina quanto segue. In questo modo però i vv. 9b-16 pre­ parano, dall'altro lato, anche l'interpretazione del racconto del miracolo da parte di Gesù, interpretazione che costituisce la terza parte (vv. 1 7-47) e che viene data sullo sfondo del menzionato conflitto. Nel raccordo gli avversari di Gesù prendo­ no la parola di fronte al guarito, ma non di fronte a Gesù. Il discorso di questi è introdotto sia nel v. 17 che nel v. 19 come una 'risposta', ma non è preceduto da un corrispondente discorso degli avversari. Le loro obiezioni sono riportate nel v. 16 e nel v. 18 solo sotto forma di discorso indiretto per motivare il fatto che essi

Seconda attività a Gentsalemme (5, 1-4 7)

197

ayEi:v della citazione scritturistica. Essa sta nel punto in cui prima si parlava di venire a Gesù o di credere in lui; significa dun­ que in senso traslato la comunicazione con Gesù per mezzo della fede•74• All'inizio del passo il v. 47 riassume in modo molto pregnante ciò che risulta non soltanto da quel che precede immediatamente e da tutto il capitolo fino a questo punto, bensì anche ciò che risulta da numerose altre parti del vangelo, e lo introduce di nuovo solennemente con il doppio amen: ·Chi crede ha la vita e­ terna... 'Chi crede', 'chi confida': tali parole non indicano naturalmente una fiducia generica, una fiducia qualunque, ma indicano la fiducia nel Dio biblicamente te­ stimoniato, che Gesù rappresenta e di cui fa le vecP. Quanti confidano così han­ no la 'vita eterna', vivono realmente e perennemente, perché confidano nel Dio reale e sono da lui sostenuti e conservati, anche se ciò è ancora apparentemente contraddetto da molti fenomeni. Questa fiducia viene nutrita nei confronti di Ge-

73 ·l vv. 47-50 riassumono ancora una volta i motivi portanti del discorso sul pane, così come essi erano risuonati finora· (BLANK, Komm. ta,371). 74 ScHNACKENBURG, Komm. 2,8ls. [trad. it. 2, 1 1 7s.]. 75 Nel v . 47 pistéu6n ricorre nei manoscritti più antichi e migliori senza oggetto. La maggior parte dei manoscritti hanno aggiuntivamente 'in me', due antiche traduzioni siriache hanno 'in Dio'. Que­ sto dato ci dice che la redazione senza oggetto è verosimilmente quella originaria e che essa è stata poi variamente completata. Caratterizzare tali completamenti come 'congettura giusta' o 'sbagliata' (così BULTMANN, Komm., 1 70, n. l) è cosa che non ha senso, perché in ogni caso si tratta della fede in Dio mediata da Gesù.

Ultima attività sul mare di Galilea (6, 1-71)

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sù, che nel v. 48 ripete l'affermazione Cèntrale del v. 35: ·lo sono il pane della vita•. Egli assicura che la fiducia in Dio è garanzia di vita e non delusione e perdita, vita perduta. Fino a che punto egli possa fare questo, Giovanni cerca di mostrarlo nel v. 49s., stabilendo un nuovo confronto con il miracolo biblico della manna. Per prima cosa egli fa una constatazione: ·l vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti•. Qui parla in modo più pregnante che nel corso del primo confronto. Il mangiare la manna non ebbe come conseguenza una 'vita' reale; quanti ne mangiarono sono morti. Essa serviva solo a sostentare la vita effimera. Forse queste parole alludono anche al fatto che quanti furono nutriti miracolosa­ mente con la manna non entrarono nella terra promessa e morirono prima nel deserto. Ancora una volta dobbiamo osservare che il miracolo della manna viene così a trovarsi sullo stesso piano della miracolosa moltiplicazione dei pani prece­ dentemente raccontata. Relativizzarlo in questo modo non significa parlarne in maniera sprezzante76• La relativizzazione dipende piuttosto dal fatto che la manna non ha alcuna importanza definitiva, che essa non costituisce un evento escatolo­ gico, così come non lo costituisce il miracolo della moltiplicazione dei pani visto isolatamente in se stesso. Esso ha piuttosto il suo significato essenziale come segno, come ciò che rinvia all'evento escatologico, allo stesso Gesù. Perciò Giovanni dice nel v. SO: •Questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia•. Anche qui viene di nuovo ripreso qualcosa che è già stato detto prima, però troviamo anche nuovi accenti. Del ��pane che discende dal cielo· si era già parlato più volte; esso è stato identificato con Gesù. In contrapposizione al v. 49 questa metafora pone qui in risalto per così dire la qualità celeste di questo 'cibo' a differenza della manna che, nonostante il miracolo, è pur sempre un cibo 'abituale'. Su questa 'qualità celeste' è fondata la promessa. Se secondo il v. 35 la promessa consisteva nel placare la fame e la sete, adesso consiste nel non morire. Essa è valida di fronte alla morte e nonostante la morte, come poi sarà detto nella maniera più pregnante in 11 ,25: ·Chi crede in me, anche se muore, vivrà•. La pro­ messa è un nonostante; essa non ignora e non scavalca semplicemente la morte, ma è espressa contro di essa confidando nel Dio che proprio nella morte in croce di Gesù ha dimostrato di essere il Dio che vivifica.

'6 Il fatto che Giovanni operi qui una riduzione è stato spiegato sopra parlando del v. 32. La di­ mensione di cui soltanto egli qui parla è esposta in termini molto sobri: essi hanno mangiato e sono morti. È la dimensione della semplice necessità, la dimensione del pane quotidiano per mantenersi in vita. Quanto qui si fa non lo si fa certamente astraendo dalla fede, bensì traendone la conseguen­ za. Però non è questo il campo in cui la fede e l'incredulità sono costrette a separarsi. - Del tutto i­ nadeguata è la spiegazione data da Schnelle a proposito del v. 58, allorché, al fine di contrapporla nettamente al ·cibo dell'eucaristia che dona la vita•, parla della ·manna monifera della generazione di Mosè· (Komm., 134).

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Nel ;v. 35 la promessa era rivolta a coloro che vengono a Gesù e credono in lui. In questo passo, nel v. 50, si parla ora di 'mangiare' il ·pane che discende dal cielo•. Come abbiamo già detto all'inizio del passo, Schnackenburg ha visto in queste parole ·in senso traslato la comunicazione con Gesù per mezzo della fede•77• Ciò è sicuramente giusto. Ma quando qui si parla di 'mangiare' e di 'pane', traluce innegabilmente di nuovo anche la dimensione eucaristica. Perciò si tratta anche di una comunicazione mediante la comunione, e quindi siamo qui nello stesso tempo di fronte a un chiaro raccordo con il passo successivo.

e) CONCRETIZZAZIONE: IL DONO DI GESù, AVVIENE NELL'EUCARISTIA (6,51-58)

PANE DELIA VITA,

La valutazione di questo passo dal punto di vista letterario è molto controversa a partire dall'inizio del XX secolo. Siamo di fronte a una parte costitutiva integrale del vangelo, oppure a una aggiunta secondaria da parte di una •redazione ecclesiale', che al discorso del pane sovrappone per così dire alle spalle una interpretazione eucaristi­ ca? Il mio giudizio a proposito di questa questione è cambiato nel corso del tempo. U­ na volta avevo condiviso l'argomentazione di Bultmann78, cosa che invece adesso non posso più fare. Ciò può essere un indizio del fatto che qui non è possibile alcuna deci­ sione realmente sicura. La preistoria del vangelo a noi tramandato fa parte di quelle co­ se a proposito delle quali non possiamo sapere nulla di sicuro79• Di conseguenza non è possibile fare al riguardo alcuna affermazione apodittica. Stando così le cose, il testo canonicamente tramandato e adoperato nel corso di molte generazioni nella chiesa ha per me un •vantaggio'80• Ad esso bisogna perciò prestare ogni attenzione al fine di leg­ gerlo come una possibile unità. Per il passo 6,51-58 ciò significa che non è lecito di­ chiarare frettolosamente che esso contrasta con il suo contesto81 e che bisogna prima

Vedi sopra n. 74. Cfr. Komm., 161s. 79 Perfino in ordine ai Sinottici, dove la situazione è molto più favorevole a motivo del possibile confronto, l'ipotesi deJle due fonti rimane - anche se lo si dimentica spesso - una ipotesi. 110 Perché a proposito del cap. 21 do un giudizio diverso l'ho spiegato nell'introduzione (cfr. sopra p. 21s.). Però il problema da tale capitolo posto - che cosa potrebbe essere detto 'spiegazione cano­ nica' e quale diritto ha la 'critica storica' - andrà attentamente esaminato quando lo commenteremo. 81 A quanto è giudicato come •secondario' di regola si presta poi anche solo poca attenzione. Becker condanna in partenza questo passo ad essere soltanto una -aggiunta di un sacramentalista• (Komm. 1,265). Dietzfelbinger tratta la sezione 6,51-58 in maniera molto prudente e attenta (Komm. 1 , 166-179). Per la spiegazione utiHzza varie - e discutibili - ipotesi storiche. Sostiene come 'situazio­ ne di fatto' che l'evangelista tace e voleva tacere del battesimo e del pasto. Quando alla fme suppo­ ne che l'evangelista avrebbe dovuto reagire alla presunta diversa situazione e che ·non molto diver­ samente avrebbe fatto, come suo discepolo, il redattore• (p. 179), questo, a mio parere, stimola anco­ ra di più il tentativo di comprendere in modo coerente il testo che ci è stato trasmesso. 11

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saggiare tutte le possibilità che pennettono di comprenderlo in seno al suo contestoii!Z. Infatti, anche se esso fosse stato aggiunto, bisognerebbe - almeno per prima cosa presupporre che il redattore abbia concepito il materiale aggiunto come un materiale collegato con il testo già esistenteB'. In ogni caso questa parte conclusiva del discorso di Gesù è molto strettamente concatenata con le sue precedenti considerazioniM. La dimensione eucaristica, finora delineatasi già varie volte nel cap. 6, diventa adesso dominante. In proposito non vengono espres�amente menzionati né )"eu­ caristia', né il 'pane' e il 'vino' quali suoi 'elementi'. Si parla dell'eucaristia in ma­ niera da parlare solo e sempre dello stesso Gesù, di cui - della cui 'carne' e del cui 'sangue' - ci si 'nutre'. Questo discorso della 'carne' e del 'sangue' richiama nello stesso tempo la passione. Gesù è il pane della vita esattamente come colui che è dato a morte85• Del fatto che egli ha percorso questa via e che questa è sta­ ta nello stesso tempo la via di Dio, di questo ci si 'nutre' nella cena del Signore. Di questo si tratta in questi versetti, che non cedono la parola a un 'massiccio sa­ cramentalismo'86. Così intesi essi non contrastano con il precedente discorso del pane, bensì si pongono, mediante la teologia della passione, sulla stessa linea e offrono nella cena del Signore alla fede in Gesù, pane della vita, un luogo in cui essa può 'nutrirsi'. Il v. Sla.b può essere letto come riassunto di tutto il precedente discorso sul pane: ·Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno•. Con l'espressione 'io sono' si introduce adesso una variazione termino­ logica, invece che del 'pane della vita' (vv. 35.48), si parla di 'pane vivo', così come in 4,10 si era parlato di 'acqua viva'. Collegato a ciò - come nella citazione degli interlocutori di Gesù nel v. 41 è il motivo della discesa dal cielo spesso in­ contrato. La promessa che segue l'espressione 'io sono' riprende nella protasi il -

az Un tentativo del genere fa, ad esempio, ScHNACKENBURG, Komm. 2,85-89 [trad. it. 2,122-127). 83 Del resto sono convinto che con la critica letteraria non è possibile arrivare a capire un testo

canonico. Salgo troppo spesso sul pulpito per attendermi realmente qualche aiuto da essa. 84 Cfr. BLANK, Komm. la, 373, secondo il quale •l'annessione al discorso sul pane è un capolavoro in fano di composizione-. - In favore di questo stretto concatenamento depone chiaramente anche la circostanza che, dal v. 48 fino al v. Slc, vengono proposti degli agganci assai diversi per l'inizio deU"aggiunta'. 85 Barth fa dire a Gesù secondo il v. 52ss.: ·Tutto quello che è detto del pane della vita riguarda e si riferisce alla mia carne e al mio sangue. Così e non diversamente io sono il pane della vita• (Johannes-Evangelium, 325). Cfr. HIRSCH, Evangelium, 1 82: ·Gesù è il pane di Dio dispensatore di vi­ ta perché muore per noi•. � Cfr. BARRETI, Komm., 308: ·È effettivamente un errore madornale ritenere che egli (Giovanni) (o l'autore dei vv. Slc-58) concepisca il pane e il vino come una specie di medicina, che elargisce l'im­ mortalità attraverso mezzi quasi magici... - Nel commento del testo bisognerà prestare attenzione al carattere metaforico de) discorso del mangiare la carne e del bere il sangue preesistente nella tradi­ zione biblica.

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motivo del 11lingiare il pane introdotto · nel passo precedente e contiene così la dimensione eucaristica là delineatasi. Ciò che nel v. 50 era stato formulato in mo­ do negativo ('non morire'), è presentato nell'apodosi in forma positiva ('vivere in eterno'), cosa che ripropone un motivo già più volte toccato prima nel corso del capitolo (vv. 27.40.47). Se in queste due proposizioni è sinteticamente riassunto il risultato del prece­ dente discorso sul pane, il v. 51c si spinge più avanti con una proposizione defi­ nitoria: ·E il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo,.. Il tema euca­ ristico già prima compresente comincia adesso a diventare dominante. Così balza però nello stesso tempo in primo piano la tematica della passione collegata con l'eucaristia. Gesù appare qui come il donatore87 e, nel contempo, come il dono. Ciò è possibile perché si delinea la sua 'dedizione per'. Donandosi per altri, egli è donatore e dono. Nel v. 51c il 'dare' non è certo direttamente collegato con 'per'; ma a tale c"ollegamento bisogna pensare nel testo88• Con l'identificazione del pa­ ne, che Gesù darà, come sua 'carne', il dono del pane può essere presentato co­ me la sua dedizione. Mentre si parla di 'carne' in rapporto a Gesù, risuona anche l'affermazione del prologo contenuta in 1 ,14: ·E il Verbo si fece carne,., carne che percorre la via che la porta alla morte89• Il 'pane di Dio', che ..dà la vita al mondo· (v. 33), si presenta ora come dedizione di Gesù .. per la vita del mondo,.. Qui ap­ pare di nuovo la dimensione inclusiva dei popoli, già incontrata varie volte nel vangelo di Giovanni90• Il riassunto a forma di tesi e, nello stesso tempo, lo sviluppo collegati a una promessa del v. 51 sono posti in discussione nel v. 52 dall'esterno: «Allora i giudei si misero a discutere fra di loro,.. Questa introduzione corrisponde a quella del v. 41. Schnackenburg ha osservato che nel racconto biblico della peregrinazione nel deserto, .. oltre che del 'mormorare' . . . , si parla anche di un 'contendere' del popo87 Parallelamente nel v. 27 è stato detto che il Figlio dell'uomo darà un cibo -che dura per la vita eterna•. 88 L'inserimento della proposizione relativa -che io dare). tra la ·mia carne· e ·per la vita del mon· do•, presente in molti manoscritti, va sicuramente giudicata, dal punto di vista della critica testuale, come una lezione facilitante e quindi secondaria. Ma il contesto, che parla del dono del pane per mezzo di Gesù, che identifica questo pane con la sua carne e che fa ridondare quest'ultima a benefi­ cio della vita del mondo, può essere interpretato solo nel senso che qui aleggia sullo sfondo la tradi­ zione dell'espiazione vicaria, tradizione che è infatti collegata molto direttamente anche con l'eucari­ stia. Barren rimanda ai corrispondenti passi con hypér del vangelo di Giovanni e ne deduce a propo­ sito del v. 51c: -Questi passi mostrano in maniera convincente che qui c'è una allusione alla morte di Gesù· (Komm., 308s.). 89 Cfr. SCHNACKF.NBURG, Komm. 2, 83 [trad. it. 2, 119]: ·Il L6gos si è fatto aciQ� pet offrire questa alla morte-. Poiché prima si era parlato di mangiare il pane, che è adesso identjficato con la 'carne' di Gesù, a questo termine è collegata anche la dimensione eucaristica. Ciò risulterà ancor più chiara­ mente nei versetti successivi, che collegheranno la 'carne' e il 'sangue' con il 'mangiare' e il 'bere'. 90 Cfr. soprattutto il commento a 1,29 e 3,16.

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lo•, e afferma: •Non è certamente un caso se nella Bibbia ebraica al 'monnorare' del popolo in Es 16 (nutrimento con manna e quaglie) si aggiunge il 'contendere' (Es 17,2, acqua dalla roccia) e se le stesse espressioni si susseguono in Gv 6,41 e 52•91• A interloquire sono anche qui 'i giudei'. È perciò inverosimile che le succes­ sive considerazioni siano rivolte contro un fronte del tutto diverso, vale a dire contro il fronte gnostico-docetico92. Come mostra la testimonianza di Paolo in 1 Cor 1 1 ,23, già lui ha ricevuto il racconto dell'ultima cena come una tradizione. Bi­ sogna perciò supporre che tale tradizione e la prassi ad essa corrispondente siano esistite già molto presto nella comunità, e non stupisce che esse corressero in partenza il pericolo di essere erroneamente interpretate dagli estranei93• L'obiezione de 'i giudei' corrisponde nella forma alla conclusione del v. 41: ·Come può costui darci la sua carne da mangiare?•. Nemmeno qui si tratta di una vera domanda; sotto forma di domanda essa constata piuttosto una 'impossibilità'. E come nel v. 42, così neppure qui i giudei parlano a Gesù, ma parlano di lui. Quanto la domanda afferma, Gesù non l'ha prima detto in questo modo, però es­ sa è nella sostanza una conclusione pertinente tratta dai vv. 48s.50, una conclu­ sione che negli estranei, incapaci di vedere nella morte di Gesù una fonte di vita, suscita una reazione negativa94• Le successive considerazioni di Gesù hanno lo scopo di superare questa reazione di ripulsa e terminano per questo nel v. 58 con una ripetizione variata del v. 5 1 . Tuttavia Gesù si rivolge solo all'inizio del v. 53 a coloro che nel v. 52 ave­ vano espresso tale ripulsa. Questo ci dice che i veri destinatari non sono loro, ma quanti leggono e ascoltano il vangelo. Questi ultimi vanno assicurati di fronte alla messa in discussione proveniente dall'esterno. Perciò l'accento non è posto sulla

91 Komm. 2,89 [trad. it. 2,1271. - A proposito del 'discutere' egli rinvia inoltre a Nm 20,3.13. In tali passi il termine ebraico per 'discutere' è tradotto nei Settanta, come osserva anche Schnackenburg, con loidomsthai, però in altri passi esso è anche tradotto con mdchesthat, che è il termine usato in Gv 6,52. 92 Così ScHNACKENBURG, Komm 2,91 [trad. it. 2,129]. � Cfr. BLANK, Komm. 1a,376: ·Possiamo supporre che le parole eucaristiche esplicative 'Questo è il mio corpo' - 'Questo è il mio sangue' abbiano dato luogo già relativamente presto ad alcuni frainten­ dimenti e a corrispondenti discussioni per arrivare a una giusta 'comprensione della cena de] Signo­ re'. Soprattutto gli estranei, qualora fossero stati male informati, potevano capirci poco, come sappia­ mo da successive diffamazioni. Qui può anche darsi che la polemica sia di origine giudaica o giu­ deo-cristiana•. 94 Secondo Bultmann essi capiscono •molto bene che si tratta di mangiare rea]mente Ja sua carne, ma lo ritengono assurdo· (Komm., 175). Questa opinione - ·che si tratta di mangiare realmente (!) la sua carne• - così come poi anche la comprensione, ad essa corrispondente, della cena del Signore come di una ·medicina dell'immortalità· (ibid. , 162. 175) possono essere chiaramente attribuite con molta faci1ità a una 'redazione ecclesiale', per cui poi non si percepisce più nemmeno il carattere metaforico del linguaggio di questo brano. .

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esclusione degli estranei, bensì sul rinvigorimento di quanti sono 'dentro' e devo­ no 'rimanere'. Per l'ultima volta in questo discorso la risposta di Gesù è solennemente intro­ dotta nel v� 53 con il doppio amen. Partendo da una condizione non soddisfatta egli formula una tesi negativa: ·Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita•. Questa affermazione è so­ stanzialmente più complessa di quanto il più delle volte si percepisca nell'inter­ pretazione. Il riferimento all'eucaristia, fatto in un modo per determinati tratti pa­ ragonabile a quello che poi troveremo in Ignazio di Antiochia, è solo una dimen­ sione. Pensando ai cristiani imbevuti di docetismo, secondo i quali Gesù ha avuto solo un corpo apparente e ha di conseguenza anche sofferto solo apparentemente, Ignazio scrive in Sm 7, l : ·Stanno lontani dalla eucaristia e dalla preghiera, perché non ricono­ scono che l'eucaristia è la carne del nostro salvatore Gesù Cristo che ha sofferto per i nostri peccati e che il Padre nella sua bontà ha risuscitato•. Il contesto dell'eucaristia è qui espressamente menzionato. Come in Gv 6,51 , è ricordata solo la 'carne' di Gesù ' Cristo. Come là, così anche qui chiara è l'allusione alla teologia della passione. Se Gio­ vanni aveva parlato della carne di Gesù •per la vita del mondo•, qui essa è detta la car­ ne ·che ha sofferto per i nostri peccati•. Sempre con riferimento all'eucaristia parla di 'carne' e 'sangue' IgnRom 7,3, ove viene stabilita, come in Gv 6,27, una contrapposizio­ ne con il cibo che perisce: ·Non mi attirano il nutrimento della corruzione e i piaceri di questa vita. Voglio il pane di Dio che è la carne di Gesù Cristo, della stirpe di Davide, e come bevanda voglio il suo sangue che è l'amore incorruttibile•. Il fatto che Ignazio ve­ da espressamente nel sangue di Gesù Cristo 'l'amore incorruttibile' mostra che egli non pensa a una piatta identificazione del contenuto del calice con il sangue di Gesù Cristo. E a una simile identificazione egli non pensa neppure in Phi/ 4,1, allorché rivolge ai suoi destinatari questa esortazione: ·Preoccupatevi di attendere a una sola eucaristia. U­ na è la carne di nostro Signore Gesù Cristo e uno è il calice nell'unità del suo sangue-. Egli collega il sangue di Cristo con l'amore anche in Trall 8,1 e Sm 1 , 1 . Tutto ciò mette in guardia dall'attribuirgli un 'sacramentalismo'. Diversamente dalla tradizione dell'ultima cena tramandata in Paolo e nei Sinot­ tici, che parla del 'corpo' come di un equivalente della persona e del 'sangue ver­ sato' come di una espressione per la morte violenta, in Gv 6,51-58 troviamo sol­ tanto - così come in Ignazio di Antiochia - o il termine 'carne' oppure i termini correlativi 'carne' e 'sangue' Tali termini richiamano anzitutto - come abbiamo già più volte rilevato - la teologia della passione e anche l'affermazione sull'incar­ nazione di 1 , 14. In secondo luogo può aver fatto sentire qui il suo influsso l'e­ spressione 'carne e sangue' straordinariamente frequente nella tradizione giudai­ ca, espressione che descrive ruomo evidenziandone soprattutto la differenza da

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Dio95• Infine i predicati 'mangiare' e 'bere', che nella tradizione dell'ultima cena si riferiscono al pane e al calice, possono avere per oggetto diretto la 'carne' e il 'sangue' indicati dal pane e dal calice. Mentre tuttavia si parla ora di mangiare la carne e di bere il sangue, si introducono, sullo sfondo della tradizione biblica, un'altra dimensione e un altro significato. Di mangiare 1a carne e di bere n sangue nel senso vero e proprio dell'espressione parla Ez 39,17-20, che invita gli uccelli e gli animali selvatici a farlo; lo scenario immagi­ nato è quello di un campo di battaglia. Invece parla di ciò in senso metaforico, anche se chiaramente sullo sfondo del significato vero e proprio dell'espressione, la sentenza di Balaam di Nm 23,24. In essa Balaam paragona Israele a una leonessa e poi prosegue: ·Non si accovaccia finché non abbia divorato96 la preda e bevuto il sangue degli uccisi•. Tali parole intendono dire che Israele trae profitto da quanto ricava dai popoli sconfini. Secondo 1 Cr 1 1 , 18s. Davide non beve l'acqua che tre dei suoi uomini gli portano dalla Betlemme occupata dai filistei e la offre invece in sacrificio di libazione a Dio. Poiché i suoi tre uomini hanno rischiato nel corso di tale azione la vita, egli non vuole 'bere ll' loro 'sangue'. Schlatter rinvia a un testo eloquente di Flavio Giuseppe, contenuto in B] 5,344 (johannes, 178), ove a proposito dei difensori di Gerusalemme nel 70, in occasio­ ne della battaglia per il secondo muro, leggiamo: ·Era ancora possibile mangiare97 a prezzo delle calamità popolari e bere a prezzo del sangue cittadino•. Il contesto mostra che tali espressioni vanno interpretate in senso metaforico, cioè nel senso che i combat­ tenti approfittano della miseria e della morte del resto della popolazione. Mangiare la carne di uno e berne il sangue, significa presuppome la morte. E della morte di Gesù approfittano coloro che mangiano 'la sua carne' e bevono 'il suo sangue'. Ecco che cosa intende esprimere questo modo di parlare apparente­ mente tanto ripugnante: i partecipanti all'eucaristia 'mangiano' della morte di Ge­ sù, 'hanno' grazie ad essa 'in sé la vita'. Non si tratta di un sacramentalismo magi­ co. A proposito di coloro che mangiano della morte di Gesù è perciò possibile di­ re quel che in 5,26 era stato detto del Padre e del Figlio, e cioè che essi hanno in sé la vita. Ciò è possibile dirlo perché qui non si parla di una morte qualunque, ma della morte con cui Dio si è identificato e mediante la quale ha operato una nuova creazione. Ciò risulta in questo passo dal fatto che si parla della carne e del sangue 'del Figlio dell'uomo' e si allude quindi alla elevazione e alla glorifica­ zione di Gesù in croce. Il v. 53 enuncia quindi in termini negativi, rivolgendosi a coloro che ritengono

� Nel Nuovo Testamento, cfr. Mt 16,17. Letteralmente: 'mangiato dò che è stato lacerato'. n versetto parla dell'animale predatore, che lacera la preda e ne mangia la carne. fTI Nel testo greco c'è esthietn, letteralmente 'mangiare'. 96

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tfnpossibile acquisire la Vita dalla mbrte di Gesù, che· essi non hanno la vita se non mangiano di questa morte. Il v. 54 riprende ciò in termini positivi, con Gesù che parla di nuovo adesso - come nel v. Slc - alla prima persona della 'mia car­ ne' e poi anche del 'mio sangue'. La sua identificazione con il Figlio dell'uomo e­ ra qui ndi presupposta come ovvia. ·Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna•. Il verbo che indica 'mangiare' cambia adesso. Esso può anche avere il significato di 'mordere', 'masticare'. Ma nel vangelo di Giovanni, così co­ me neli 'uso neotestamentario e cristiano primitivo in genere nulla ci dice che esso venga inteso in un senso che non sia quello del semplice 'mangiare'. Ciò va detto, tra gli altri, contro Schlatter, il quale pensa che il termine triigbein accen­ tui •intenzionalmente il significato inquietante, e offensivo per il sentimento, che esso ha· (Johannes, 179). Gv 13,18 cita il Sa/ 41, 10: ·Chi mangia il mio pane•; i Settanta hanno qui esthion. In Mt 24,38 'mangiare e bere' stanno uno accanto all'altro senza alcuna ac­ centuazione particolare. Pure in Barn 10,2 e in Herm sim 5,3,7 tr6g6 ha il semplice si­ gnificato di 'mangiare'. Il cambiamento da phagomai a trog6 in Gv 6,49-57 va quindi vi­ sto come una variazione stilistica. Se vogliamo imitarla nella traduzione tedesca, è op­ portuno passare a 'verzehren' (consumare). Ciò ha nello stesso tempo il vantaggio che nel semplice 'zebren' (rosicchiare) traluce pure la dimensione metaforica, che è presen­ te nelle espressioni 'mangiare la carne' e 'bere il sangue' usate in Gv 6,51-58. A coloro che partecipano all'eucaristia e che mangiano quindi della morte di Gesù viene promessa una vita reale. E in effetti: la celebrazione della cena del Si­ gnore è una forma specifica di 'esperienza della vita'. Il non andar perduti, bensì il vivere realmente era stato prima promesso nel v. 39s. a quelli che sono dati da Dio a Gesù, che confidano. Essi non sono altri che coloro che celebrano l'eucari­ stia. Con ciò essi non sono esentati dalla provvisorietà di questo mondo e dall'e­ sperienza della morte. Non celebrano neppure ininterrottamente, per cui la cena del Signore dimostra anche di essere un viatico e un pegno. Perciò anche qui se­ gue adesso al termine del v. 54, come là, la promessa della 'permanenza' e della 'consistenza' definitiva: ·E io lo risusciterò nell'ultimo giorno•. Nulla costringe a interpretare il v. 54 nel senso di un sacramentalismo magicamente o­ perante. Bultmann afferma: ·Chi partecipa al banchetto sacramentale porta in sé la po­ tenza che gli garantisce la risurrezione• (Komm., 175). Becker interpreta similmente la conclusione del v. 53 come •avere in sé la sostanza della vita• e poi prosegue: ·Perciò un simile commensale può contare sulla risurrezione nell'ultimo giorno. La morte è so­ lo un 'sonno', la risurrezione attualizzazione della sostanza della vita sacramentalmente incorporata• (Komm. 1,268). Così si deforma quanto è qui detto: all'antipatica 'redazio­ ne ecclesiale' è chiaramente possibile attribuire con generosità ogni sorta di male, al fi­ ne di poterla tanto più facilmente espungere come 'secondaria'. Se la cosa importante

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fosse veramente la sostanza incorporata della vita' o la 'potenza', dovremmo perlome­ no attenderci di leggere alla fine del v. 54: ·Ed essi risorgeranno nell'ultimo giorno•. '

La tesi, una volta così esposta in tennini negativi e poi in termini positivi, è spiegata nel v. 55: ·Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda·. Cibo e bevanda, «le due cose unite costituiscono ciò che mantiene l'uomo in vita•98• Il fatto che il cibo e la bevanda siano qui caratterizzati come 'veri' lascia trasparire un mantenimento della vita che va al di là del mantenimento della vita naturale. Ciò di cui è realmente possibile mangiare è la morte di Gesù; ciò di cui un uomo, che non vive di solo pane, può realmente vivere, è la parola di Dio, che egli ha qui pronunciato in modo creativo nuovo99. Il v. 56 riprende alla lettera la protasi della tesi positiva del v. 54, ma la sviluppa in modo diverso: ·Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui•. Che qui non si tratti di 'incorporazione', di 'medicina dell'immortalità', lo mostra adesso il reciproco modo di parlare: «lui in me e io in lui,100• Gesù, che va verso la morte, non è perciò 'lontano', ma 'dimora', 'rimane'. Egli rimane presso coloro che da parte loro continuano a ritenere che dalla sua morte scaturisce la vita e che sperimentano tale vita nella celebrazione della cena del Signore. La promessa collegata con Gesù nel v. 56 è riallacciata nel v. 57 a Dio: ·Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me•. Le due espressioni 'mangiare la mia carne' e 'bere il mio sangue' sono adesso riprese in un'unica fonnulazione: 'mangiare di me': ·Ciò conferma la tesi che 'carne e sangue' indicano tutta la persona di Gesù•101• Di tale persona e del suo destino si 'mangia'102• Di essa è possibile mangiare, perché la via di Gesù verso la morte non è stata un evento casuale e il frutto di un destino cieco, ma è stata una 'missione' da parte di Dio, di quel Dio che è qui accen­ tuatamente presentato come «il Padre che ha la vita•, come colui dal quale Gesù, la cui morte è sempre sotto gli occhi in questo passo, soltanto ha la vita103• E Gesù

98 ScHLATIER, jobannes, 179 . L'unione dei due tennini 'cibo e bevanda', anche collegata con in­ terpretazioni metaforiche, è molto frequente nella letteratura della tradizione giudaica. 99 Secondo Bultmann il v. 55 non si può che interpretare così: ·La carne di Gesù è cibo reale, e il suo sangue è una bevanda reale!· (Komm., 176). Neppure a una 'redazione ecclesiale' bisognerebbe attribuire senza necessità un cannibalismo magico. Cfr. invece ScHNACKENBURG, Komm. 2,93 [trad. it. 2, 1311: ·Il v. 55 non vuole fondare l'atto realistico del mangiare e del bere, bensì fornire l'assicurazione a ciò collegata: l'acquisizione della vita eterna•. 100 Esso, ulteriormente ampliato, ricorrerà spesso nei discorsi di addio: 14,20; 15,4-7; 17,23. -

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BAR,RETI Komm., 310.

Schnackenburg osserva giustamente che ·Pespressione abbreviata è importante perché porta lontano da una concezione sacramentale esteriore• (Komm. 2,95 n. 2 [trad. it. 2,134, n. 60]). 103 • Questa denominazione di Dio svela perché qui la morte diventa la causa della vita• (Son.ATIER,

]ohannes, 179).

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media la vita a coloro che confidano nel Dio presente in lui•ot, che confidano in lui nella vita e nella morte, che credono quindi e che perciò celebrano non da ul­ timo anche la cena del Signore. Il v. 58 formula a conclusione una tesi riassuntiva. Essa ripete con una variazione l'affermazione del v. 5 1 , cosa che fornisce una chiara cornice per il passo 6,51-58. Nello stesso tempo però il v. 58 si riallaccia, al di là di tale passo, al v. 49, per cui costituisce un vero e proprio punto conclusivo di tutto il discorso sul pane105: •Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i vostri padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno•.

3. La conseguenza: separazione tra i discepoli (6,59-71)

59Queste cose disse Gesù, insegnando nella sinagoga a Cafarnao. 60Molti dei suoi disce­ poli, dopo aver ascoltato, dissero: •Questa parola è dura; chi può intenderla?•. 61Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse lo­ ro: •Questo vi scandalizza? 62E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima? "È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spi­ rito e vita. 64Ma vi sono alcuni tra voi che non credono•. Gesù infatti sapeva fm da prin­ cipio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. 65E continuò: ·Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio•. 66Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro, e non andavano più con lui. 6'Disse allora Gesù ai Dodici: ·Porse anche voi volete andarvene?•. 68Gli rispose Simon Pietro: ·Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; 69noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio•. 70Gli rispose Gesù: •Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!•. 71Egli parlava di Giuda, figlio di Simone Isca­ nota: questi infatti stava per tradirlo, uno dei Dodici. A conclusione del discorso del pane viene raccontata in quest'ultima parte del capitolo una doppia conseguenza, la defezione e la confessione. Gli interlocutori precedenti di Gesù - dapprima presentati come 'la folla' e poi indicati nel v. 41 e 52, con l'acuirsi del confronto, come 'i giudei' - sono scomparsi dalla scena. A­ desso balza di nuovo in primo piano - come già all'inizio del capitolo nel raccon­ to della moltiplicazione dei pani e dell'incontro con.Gesù sul lago - il gruppo dei discepoli, in seno al quale avviene una divisione. 104 Cfr. BARRm, Komm., 310: ·La vita cristiana è vita mediata•. 105 Sullo stretto collegamento della sezione eucaristica con

Grammatik, 375s.379-386.

il discorso sul pane di vita, cfr. PoPP,

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a) ABBANDONO DA PARTE Dt MOLTI DrSCEPOIJ (6,59-66) L'osservazione scenica del v. 59, secondo la quale -queste cose disse Gesù, insegnando nella sinagoga di Cafamao•, può essere lena come conclusione del di­ scorso sul pane. A tale discorso si guarda infatti adesso espressamente in modo retrospettivo. Alla fine del v. 24 e nel v. 25 tale discorso era stato scenicamente preparato con l'indicazione di Cafarnao come luogo dell'azione, senza ulteriori precisazioni. Se adesso Giovanni precisa a posteriori l'indicazione del luogo e menziona la sinagoga106, ciò può anche essere interpretato come preparazione della nuova scena. La divisione verificatasi in seno ai discepoli di Gesù e qui rac­ contata lascia trasparire delle esperienze al tempo dell'evangelista107, il cui gruppo viene sempre più isolato dalla comunità della sinagoga, con 'molti' che abbando­ nano di nuovo tale gruppo e si tirano 'indietro' e se ne vanno108• Nel v. 60 «molti dei suoi discepoli· reagiscono negativamente al precedente discorso di Gesù, che nel v. 59 era stato sinteticamente indicato come un 'insegna­ mento'. Tale 'insegnamento' riguardava la stessa persona di Gesù. Il punto con­ troverso decisivo - anche nella discussione intracomunitaria - è quindi la cristologia. La reazione negativa dei discepoli è nel v. 60 verbale; nel v. 66 alcuni trarranno di qui la conseguenza esistenziale. Essi definiscono 'duro' il discorso di Gesù109• L'espressione greca 'parola dura' corrisponde esattamente all'ebraico kasbéb ba­ dabar. Secondo mNid 8,3 Rabbi Akiba prende una decisione halakica permissiva. Quando vede il modo in cui i discepoli si guardano l'un l'altro - evidentemente con a­ ria stupita -, dice: ·Perché questa parola (questa cosa) vi sembra dura?•. La stessa do-

106 Concludere da qui che, quanto al tempo, si debba supporre che fosse un sabato - come fanno già il Cantabrigiensis, alcuni veterolatini, alcuni manoscritti della Vulgata e Agostino -, cosa che per­ metterebbe l'ulteriore conclusione che Giovanni non si preoccupa della presupposta violazione del sabato - il lungo cammino intrapreso da Gesù, dai suoi discepoli e dalla folla -, non è cosa che si possa fare. Nel testo non si trova alcun accenno al sabato. Dedurlo qui dalla menzione della sinag* ga è una conclusione analogica di autori cristiani, secondo la cui esperienza le chiese tengono una funzione solo di domenica. 107 Cfr. WENGsr, Gemeinde, 241. l(ll Quando oggi si legge, lontano da queste discussioni storiche e sen za commento, Gv 6,22-71 davanti a gruppi di turisti cristiani sulle rovine della sinagoga di Cafamao, c'è il pericolo di evocare un fantasma, vale a dire il fantasma dell'antigiudaismo. 109 •Questa parola· si riferisce a tutto il precedente discorso di Gesù, per cui sarebbe meglio tra­ durre tale espressione con 'questo linguaggio', 'questo discorso' o con 'questa cosa', dal momento che la caratterizzazione 'duro' si riferisce a quanto è stato trattato nel discorso. Io ho tuttavia tradotto 'parola' per conservare lo stesso suono di altri passi, in cui è usato bo l6gos. Basta che sia chiaro che non si tratta di una singola parola, di una singola frase. Il discorso di Gesù si riferisce a lui stesso, che già nel prologo era stato presentato come 'la Parola' per antonomasia.

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manda egli fa in un contesto simile sec::ondo bNid 45a. Secondo bShab 130b e bjev 1 6a, quando si tratta di prendere certe decisioni, ·la parola (la cosa) è dura per i saggi•. 61

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Quanto Gesù ha detto viene caratterizzato come 'duro', ripugnante, scandaloso, anzi addirittura insopportabile, come mostra la conclusione del v. 60: ·Chi può sopportarlo?·. Nel v. 61 Giovanni introduce la risposta di Gesù in un modo che e­ videnzia come egli non sia sorpreso dalla reazione dei discepoli. Egli ·conosceva dentro di sé»110 quel che essi avrebbero fatto. Il motivo del Gesù che conosce in anticipo è già risuonato nel v. 6 a proposito della sua propria attività e ricorrerà ancora più spesso a proposito di quello che gli accadrà. Esso intende dire che Gesù non è vittima di un destino casuale, ma domina sovranamente un evento necessario111• Qui la sua conoscenza si riferisce al fatto che ·i suoi discepoli mor­ moravano•. Essi fanno così la stessa cosa fatta dagli interlocutori di Gesù nella parte precedente, interlocutori che, quando si misero a 'mormorare' (v. 41) e a 'discutere' (v. 52), furono indicati come 'i giudei'. In questo modo essi nel fronte, che al tempo dell'evangelista è costituito dal suo gruppo e dalla maggioranza giu­ daica, si collocano già qui dall'altra parte prima di compiere anche esternamente questo passo nel v. 66. Gesù rivolge loro questa domanda al termine del v. 61: •Questo vi scandaliz­ za?•. Il pronome 'questo' riassume il precedente discorso di Gesù: la discesa del pane vivo dal cielo, che è lui stesso, fino alla sua concretizzazione nell'eucaristia. Ciò fa 'inciampare' ed è così 'scandaloso' da far 'cadere'112• La domanda del v. 61 ha un accento particolare: ·Già questo vi scandalizza?•, · come si awerte quando Gesù nel v. 62 prosegue: ·E se vedeste il Figlio dell'uomo salire dov'era prima?•. A questo 'salire' corrisponde il già menzionato 'discendere'. Già di questo ci si scan­ dalizza, perché Gesù non è altri che 'il figlio di Giuseppe', di cui •conosciamo il padre e la madre• (v. 42). Data questa corrispondenza è chiaro che }"ascesa' ac­ centua enormemente lo scandalo113• E se essa è il punto che provoca lo scandalo, 110 Questa espressione - non frequente in greco -, che parla di 'conoscere dentro di sé', ricorre in testi giudeo-rabbinici in due formulazioni. In jDem 1,3 (4a; KRoTOSCHIN 22a) essa recita: ·Chi nella sua anima sa . . . •; e in bTaan 20b viene detto di un rabbi: •Quando egli conobbe dentro di sé . . . •. A questi due passi rimanda ScHLATIER (jobannes, 180). Cfr. inoltre bKer 24a, dove viene usata due volte l'espressione -egli conosce dentro di sé•. 111 Cfr. WENGST, Gemeinde, 195s. 112 Il termine greco skandalizein corrisponde alla redice ebraica k, sb, l. In mRHSh 1 ,6 si racconta che Rabbi Akiba impedì a Lod, in un giorno di sabato, a più di 40 coppie di testimoni di proseguire per la luna nuova, affinché non profanassero il sabato. ·Rahban Gamaliel gli mandò a dire: Se tu trat­ tieni la gente (letteralmente: i molti), sarai considerato come uno che li fa inciampare per l'avvenire•. Tale racconto ricorre anche in vari altri passi del Talmud gerosolimitano, mentre l'espressione ricorre spesso in quello babilonese. 11 3 Secondo Bauer il v. 62 •non vuole affatto aumentare ulterionnente lo muivbCIÀOV, ma vuole piut­ tosto risolvere l'enigma del suo (di Gesù) discorso paradossale• (Komm., 101; ripreso da ScHNEIDER,

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allora è chiaro che qui" non può trattarsi di una ascesa · :manifesta alla gloria114• Quel che i discepoli di Gesù vedranno è piuttosto la sua crocifissione. Ma pro­ prio jl fatto che Dio entra qui in scena è espresso dal discorso dell'ascesa del Fi­ glio dell'uomo là dov'egli era prima, discorso che segnala nello stesso tempo il superamento dello scandalo. Il v. 63 contiene la prosecuzione della risposta di Gesù ai discepoli che mormorano: ·È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spirito e vita•. Queste affermazioni diventano comprensibili nel loro contesto, se le consideriamo contrapposte alla caratterizzazione del discorso di Gesù come 'duro' da parte dei discepoli scandalizzati nel v. 60. Allora l'accento cade sulla seconda parte del versetto: le parole di Gesù non sono un 'discorso duro', ma sono al contrario 'spirito e vita', perché dischiudono la realtà di Dio e i­ naugurano e danno così vita. Le parole di Gesù sono qui concepite in maniera analoga alle parole di Dio, le pa­ role della Torah, nella tradizione giudaica. In SifDev § 45 (Finkelstein/Horovitz, p. 103) l'invito di Dt 11,18: ·Porrete dunque nel cuore queste mie parole· è interpretato con un gioco di parole possibile soltanto in ebraico così: ·E fate di queste mie parole una me­ dicina per il vostro cuore! Essa (la Scrittura) indica così che le parole della Torah sono paragonate a una medicina vitale•. In MekhJ Beshallah (Wajassa) l (Horovitz/Rabin, p. 158) leggiamo: ·Il Santo, egli sia benedetto, disse a Mosè: Di' a Israele: Tutte le parole della Torah che vi ho dato: guarigione esse sono per voi, vita esse sono per voi•. Nulla costringe a leggere Gv 6,63 in antitesi alla tradizione giudaica qui delineantesi, come fa Barrett: ·Gesù prende il posto della Torah come fonte della vita• (Komm., 315). Ma 'la carne', l'uomo con le sue proprie possibilità, non riesce a percepire che le parole di Gesù sono 'spirito e vita' e le percepisce solo e sempre come una 'parola dura', che è insopportabile. Solo lo Spirito può far comprendere che tali parole sono 'spirito e vita', lo Spirito che vivifica e che dona la vita ai morti.

Komm., 156). Cfr. invece BECKER, Komm. 1 ,258s.: .Se la nascita terrena contrasta con la pretesa di Ge­ sù di essere disceso dal cielo, la crocifissione contrasta con l'ascesa in cielo. Ambedue le volte il ter­ renamente visibile e conoscibile depone contro ]'affermata dimensione celeste dell'evento ... Nel caso della crocifissione questo contrasto è ancora più forte, perché non una normalità terrena (la nascita), ma addirittura un'anomalia terrena, vale a dire la morte in croce, è interpretata come un trionfo•. 114 Qui dobbiamo convenire con Bultmann: ·Se si volesse obiettare che l'ava�ai.VELV di Gesù non potrebbe essere uno oxav6aÀ.ov, ma eliminerebbe piuttosto lo scandalo de1lo mtÀ1')Qòç À.Oyoç, si misco­ noscerebbe il fatto che questo àvafJai.vetv non realizza affatto la dimostrazione gloriosa della M;a di Gesù davanti al mondo; esso non è altro che l'\)1J'oriHlvm e il 6o�aoiHjvm verificatisi sulla croce· (Komm., 341).

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Secondo la tradizione giudaica lo spirito di Dio fa vivere nel mondo e nel tempo futu­ ro. Così leggiamo in ShemR 48,4 (Wilna 78d): ·Il Santo, egli sia benedetto, disse a Israe­ le: In questo mondo e in questo tempo il mio spirito vi è stato dato come sapienza, ma nel tempo futuro il mio spirito vi farà vivere. È infatti detto: 'Farò entrare in voi il mio spirito e vivrete' (Ez 37, 14)•. Lo spirito di Dio dato nel tempo finale fa vivere i morti.

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Qui si vede ancora una volta che Giovanni - come dice Barrett - scrive •con l'opera completa di Cristo in mente•115, opera dalla quale scaturisce il dono dello Spirito escatologico, che già adesso fa vivere i 'morti' nel modo descritto in 5,24. Le parole di Gesù non possono contare sul fatto che la 'carne' abbia voglia di a­ scoltarle e sia disposta a comprenderle; la 'carne' le giudica una 'parola dura'. Es­ se devono prima procurarsi, in qualità di parola di Dio, il loro uditorio, cosa che fanno. Questo è il significato del discorso dello-Spirito che vivifica. Non tutti credono alle sue parole, come dice Gesù nel v. 64: "Ma vi sono alcuni tra voi che non credono,.. A questo punto Giovanni inserisce una osservazione, che riprende di nuovo il motivo della conoscenza di Gesù: ·Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avreb­ be tradito•. Con i discepoli che non credono è ora collegato, come caso estremo, il discepolo che tradisce Gesù. Questo tema affiora qui per la prima volta e sarà trattato subito più a lungo nel v. 70s., punto nel quale anche noi ci soffermeremo a commentarlo. Con esso Giovanni si collega alla passione. Sottolineando già qui la conoscenza di Gesù ·fin da principio•, egli ci dice che Gesù non è vittima di un destino cieco, ma percorre consapevolmente la via della passione. Le considerazioni fatte nel v. 63s. riprendono di nuovo anche il tema dell'excursus dei vv. 36-46. Il v. 65 si riferisce espressamente ad esso, allorché Gesù af­ ferma a proposito di coloro che non credono: ·Per questo vi ho detto che nessu­ no può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio•. Qui sono richiamate alla mente proposizioni del discorso sul pane: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me• (v. 37). ·Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha man­ dato• (v. 44). Così questo brano è ancora una volta concatenato con il discorso del pane, e in modo particolare con la riflessione dei vv. 36-46 sulla fede come o­ pera di Dio e decisione dell'uomo. Da qui risulta chiaro che tale riflessione fu fat­ ta sullo sfondo concreto della situazione della comunità e che serviva a far fronte all'esperienza che molti l'abbandonavano. Tale esperienza non viene affrontata interpretando la defezione come manifestazione di una riprovazione da parte di Dio. Nel caso positivo, nel caso della fede, si argomenta partendo da Dio: Dio 'dà', addirittura 'attira': diversamente non si dà fede. Nel caso dell'incredulità si formula partendo dall'uomo: egli non confida. Le due prospettive sono strettam

Komm., 314.

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mente congiunte: la fede non è opera dell'uomo, ma azione e dono di Dio, e tut­ tavia l'uomo è responsabile; l'uomo non può ascrivere la propria difettosa o man­ chevole fiducia a un rifiuto da parte di Dio. È lui, l'uomo, che rifiuta di confidare. Il v. 66 conclude la scena riportando la conseguenza pratica, che adesso traggono coloro che trovano 'duro' il discorso di Gesù: ·Da allora116 molti dei suoi di­ scepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui•. Qui non si parla solo di 'andare via', ma si parla espressamente di tirarsi 'indietro', per cui tale affennazione assume un significato particolare. I discepoli di Gesù mettono fine alla comu­ nione con lui, alla sequela, e tornano indietro117• Sul piano del tempo dell'evangelista tali parole assumono un senso preciso, se le interpretiamo come parole indi­ canti l'abbandono del suo gruppo e il ritorno alla maggioranza giudaica.

b) LA. CONFESSIONE DI COLORO CHE SONO RIMASTI FEDEU (6, 67-71) Questo passo ha un corrispettivo nel racconto sinottico della confessione di Pietro (Mc 8,27-30 parr.). La corrispondenza, è vero, consiste soltanto nel fatto che è Simon Pietro a fare, come portavoce dei discepoli, una professione di fede nei confronti di Gesù. Questo però è un punto così importante che bisogna ammettere l'esistenza di un collegamento nella storia della tradizione. In questo passo è a mio giudizio possibile dimostrare che Giovanni non ha verosimilmente conosciuto e utilizzato i Sinottici. Ciò risulta dal titolo adoperato nella confessione. In Mc 8,29 troviamo 'l'Unto' (ho christ6s). In Le 9,20 tale titolo è completato con un genitivo: 'l'Unto di Dio'. Secondo Mt 1 6 ,1 6 Si­ mon Pietro dice: ·Tu sei l'Unto, il Figlio del Dio vivente•. In tutti e tre i Sinottici trovia­ mo perciò il titolo 'l'Unto', un titolo per il quale Giovanni prova un grande interesse. Secondo 20,31 lo scopo di tutto il suo vangelo è infatti quello che ·crediate che Gesù è l'Unto, il Figlio di Dio·. Sulla questione se Gesù è l'Unto, il Messia, si svolge una inten­ sa discussione nel suo vangelo, specialmente nel cap. 7 1 18• Eppure in questo passo si­ gnificativo egli non propone tale titolo. Gesù è qui confessato come 'il Santo di Dio', un titolo che nel vangelo ricorre soltanto qui e per il quale Giovanni non mostra perciò un interesse particolare. A tale titolo c'è sicuramente collegato qualcosa, altrimenti egli non lo avrebbe adoperato. Ma è chiaro che egli ha un interesse incomparabilmente più grande per il titolo 'l'Unto'. Se avesse conosciutp i Sinottici, avrebbe lasciato stare que­ sto titolo in un passo così importante. Egli deve aver trovato la denominazione 'il Santo di Dio' già nella fonte da lui utilizzata, che risale al di là della tradizione sinottica. Tale 116 ek tUtu può indicare, da un lato, il moti\ro ('perciò'), dall'altro lato il momento temporale ('da allora in poi'). Qui dovrebbe indicare ambedue le cose. In tedesco si possono forse esprimere nel modo migliore ambedue le cose con 'darauf' 117 Essi fanno così ciò che, secondo fs 50,5, il servo di Dio appunto non fa: ·Adonaj, Dio, mi ha a­ perto l'orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro•. 118 Cfr. al riguardo WENGST, Gemetnde, 106-116.

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-denominazione rappresenta qui la tradizione originaria. È infatti più fadlrnente immagi­ nabile che nella tradizione essa sia stata sostituita dal titolo 'l'Unto', che nella comunità aveva acquisito un'importanza sostanzialmente più grande, che non l'inverso. 67

Dopo la defezione di molti discepoli il v. 67 inaugura una nuova scena: ·Disse allora Gesù ai Dodici•. La situazione è presentata così: dopo la defezione i disce­ poli che continuano a rimanere accanto a Gesù sono soltanto i DodicP19• 'I Dodi­ ci' - menzionati ancora una volta in 20,24 - sono qui introdotti direttamente. Gio­ vanni si riallaccia quindi a una tradizione che presuppone nota ai suoi lettori e a­ scoltatori, senza soffermarsi ulteriormente su di essa120• In lui 'i Dodici' sono qui quei discepoli che in una situazione critica non se ne vanno; sul piano del suo tempo essi rappresentano perciò quanti rimangono nella comunità. Ad essi Gesù rivolge la domanda: ·Forse anche voi volete andarvene?•121• Se a tale domanda fos­ se stato risposto 'sì', ciò avrebbe significato la fine del discepolato di Gesù. Qui dovrebbe di nuovo trasparire la situazione della comunità: per essa questa do­ manda non era chiaramente soltanto una domanda retorica, che doveva dar luo­ go soltanto a una confessione momentanea. Sembra piuttosto che in gioco ci fos­ se la sua esistenza, che le domande su Gesù e che si chiedevano se non fosse meglio lasciarlo perdere fossero serie. In questa situazione Simon Pietro parla in rappresentanza dei Dodici. Il fatto che Simon Pietro pronunci la confessione come rappresentante dei Dodici è espresso in Giovanni in maniera sostanzialmente più chiara che non nei Sinottici. Pu­ re nei Sinottici Gesù domanda alla seconda persona plurale: ·E voi chi dite che io sia?· (Mc 8,29a parr.). Pure l'osservazione conclusiva della scena tiene presenti tutti i disce­ poli: ·E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno• (Mc 8,30 parr.). In Mt Sirnon Pietro viene tuttavia interpellato direttamente, tra l'una e l'altra cosa, alla secon­ da persona singolare (16,17s.). Giovanni non fa parlare Gesù alla seconda persona plu-

119 Cfr. BoRNHAUSER, ]ohannesevangelium, 46: ·Una grande differenza tra l'inizio e la fme del capi­ tolo! Là Gesù era circondato da migliaia di persone speranzose, qui ci sono solo i Dodici, e fra di es­ si uno è un traditore•. 120 Nel contesto giudaico il numero 12 è naturalmente collegato in modo indissolubile con il po­ polo delle dodici tribù, con Israele. Esso, quando viene sfruttato ecclesiologicamente - cosa che ac­ cade in continuazione nel Nuovo Testamento, in maniera particolarmente eloquente in Ap 7 e 21 -, ricorda le relazioni che legano la chiesa ad Israele. Agostino interpreta il numero 12 così: gli apostoli in tutto il mondo, cioè ai quattro punti cardinali, avrebbero annunciato la Trinità. Tre per quattro fa dodici (Commento 27,10). 121 Nel testo greco la domanda è formulata con Jl�. Ad essa si risponde abitualmente con un 'no', per cui andrebbe tradotto con 'forse'. Ma nella situazione prospettata la risposta non è tanto ovvia. Barrett cita la grammatica di Moulton, secondo la quale Jl� può avere nelle proposizioni interrogative anche un'altra funzione ancora, e cioè quella di esprimere ·una ipotesi in un modo molto prudente e titubante-, cosa in favore della quale si cita Gv 4,29 (Komm., 316; cfr. anche BDR § 427,2, n. 2).

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