Experiencing the Landscape in Antiquity: I Convegno Internazionale di Antichità – Università degli Studi di Roma 'Tor Vergata' 9781407357409, 9781407357416

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Experiencing the Landscape in Antiquity: I Convegno Internazionale di Antichità – Università degli Studi di Roma 'Tor Vergata'
 9781407357409, 9781407357416

Table of contents :
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Title Page
Copyright
Of Related Interest
Summario
Perchè un convegno sull’Experiencing the Landscape in Antiquity.
1. Il paesaggio del Sinus baianus tra abbandono e riutilizzo.
Gioconda Di Luca
Bibliografia
2. Reuse in the Ancient Architecture: a Contribution from Punic-Roman Site of Tharros (Sardinia).
Melania Marano
Bibliography
3. For a New Reading and Interpretation of an Imperial Building Complex at the 16th Mile of the Via Appia.
Giulia Moretti Cursi
1. Ager Aricinus: pre-existences and erudite narratives.
2. From historical cartography to data interpretation.
Bibliography
4. Trasformazioni urbanistiche nella Sicilia centro-occidentale di età tardoellenistica e protoimperiale1.
Riccardo Olivito
Bibliografia
5. L’assetto topografico dell’Ager Labicanus:
fonti antiche ed evidenze archeologiche nel territorio di Colonna.
Matteo Pucci
Bibliografia
6. Un’attestazione tardoantica fuori dall’antica agora di Argos:
l’epigrafe del monastero dalle cd. terme A (ICG 3413).
Priscilla Ralli
1. La scoperta dell’epigrafe ICG 3413.
2. La città alle soglie della Tardantichità.
3. La città tardoantica.
4. Le evidenze paleocristiane di Argos.
5. L’epigrafe ICG 3413.
6. Il contesto di rinvenimento dell’epigrafe
Conclusioni
Bibliografia
7. Dinamiche di trasformazione dei vici in Italia settentrionale
tra III e VI secolo d.C. Una proposta metodologica.
Eleonora Rossetti
1. I vici rurali tra età romana e Tarda Antichità. Un contributo per la ricostruzione del paesaggio antico.
2. Una proposta metodologica.
Bibliografia
8. Progetto Survey Media Valle del Cedrino: il riutilizzo di epoca storica.
Francesca Basso, Lorenzo Bonazzi, Dario Di Michele, Arianna Gaspari, Alessia Grandi, Smeralda Riggio,
Camilla Simonini & Barbara Valdinoci
Introduzione
1. Il Progetto Media Valle del Cedrino
2. Il riutilizzo delle strutture tra il VII sec. a.C. e il V sec. d.C.
3. Il riutilizzo di areali connessi ai luoghi di approvvigionamento idrico.
4. Il caso dei villaggi senza nuraghe.
5. L’insediamento romano CA 24
Conclusioni e prospettive di ricerca
Bibliografia
9. Le trasformazioni del paesaggio urbano di
Catania tra età romana e prima età bizantina:
elementi di continuità e di rottura.
Viviana Spinella
Introduzione.
1. Catania tra IV e V secolo d.C.
2. Catania tra VI e VII secolo.
Conclusioni
Bibliografia
10. Adulis e il Corno d’Africa in età tardo antica.
Cristianizzazione e paesaggio come elementi
deterministici nella lunga durata.
Gabriele Castiglia
1. Premessa.
2. Adulis: il contesto e le fonti.
3. Adulis: il dato archeologico.
4. Adulis: il paesaggio, le risorse e la experiencing of the landscape.
Bibliografia
11. Settimio Severo:
l’ultimo imperatore che cambiò il paesaggio di Roma?
Maria Grazia Cinti
Bibliografia
12. Una possibile proprietà imperiale al IX miglio della
via Appia antica.
Andrea Corbascio
1. Il ‘Palombaro Maruffi’: cenni storici.
2. Il paesaggio e monumenti in età romana.
3. I ritrovamenti archeologici nel ‘Palombaro’ Maruffi tra XVIII e XX secolo.
Conclusioni
Bibliografia
13. Le strade e il paesaggio del potere nella provincia di Baetica. Un nuovo sguardo sulle pietre miliari e sull’epigrafia rurale.
Sergio España-Chamorro
1. La rete di trasporto nel sud della penisola iberica.
2. Le pietre miliari betiche: una visione territoriale e diacronica dei paesaggi del potere.
3. Le pietre miliari e la propaganda nella Baetica.
Bibliografia
14. Il paesaggio fortificato: il caso della Sicilia di Agatocle tra propaganda e gestione del territorio.
Davide Falco
Bibliografia
15. Scenografie territoriali: complessi forensi e costruzione del paesaggio nell’Hispania alto-imperiale.
Alessandro Labriola
Bibliografia
16. Italica (Santiponce, Spain) as a Territorial Model:
New Data about its Amphitheatre.
José David Mendoza Álvarez & José Manuel Serrano Álvarez
Introduction.
1. Roman Interaction with the Italica landscape.
2. Italica promotion and boom
3. Problem of abandonment and continuity of the Italica amphitheatre.
4. New contributions to the Italica amphitheatre.
5. Brief historiographical synthesis and final comments on the Italica amphitheatre.
Bibliografia
17. Colonia Augusta Verona Gallieniana: Italia come paesaggio del potere attraverso l’epigrafia imperiale della domus Licinia Augusta (253–268 d.C.).
David Serrano Ordozgoiti
Abbreviazioni
Bibliografia
18. La talassocrazia minoica al tempo dei Romani.
Anna Smeragliuolo Perrotta
Bibliografia
19. Terrecotte architettoniche dalla Passoliera (Caulonia):
nuovi spunti di riflessione.
Greta Balzanelli
1. Le aree sacre in età arcaica.
1.1. Il colle della Passoliera.
1.2. La collina del Faro.
1.3. Il santuario di Punta Stilo.
Conclusioni
Bibliografia
20. Il paesaggio ʻidillico-sacraleʼ nei ʻmythologische Prachtreliefsʼ.
Mariella Cipriani
Bibliografia
21. The Sanctuary and its Natural Environment.
Silvanus as God of Boundaries in Pannonia.
Tibor Grüll
Bibliography
22. The Evolution of the Sacred Landscape of Early Olympia.
András Patay-Horváth
Bibliography
23. Myths and Rites of the Attic Pallene: A Sanctuary Between
the Archaic Territories of Paralia and Pedion.
Miriam Valdés Guía
1. The League of Athena Pallenis: a shrine located between the archaic territories of Pedion and Paralia.
2. Battle myths and ‘history’ in Pallene: Pallantids, Eurystheus, Peisistratos and Heracles.
3. Kallinikos komos: the hero and the parthenos in chariot.
Conclusion.
Bibliography
24. La trasformazione del paesaggio agrario in età romana in
un settore del Territorium Lyppiense.
Paola Guacci
1. Sfruttamento del territorio e persistenze centuriali in località Ossano di Cavallino.
2. La gestione del territorio attraverso l’infrastruttura viaria: la via Traiana-calabra.
Bibliografia
25. Mysia and Gargara in Georgic 1: Learned Trip through Toponyms and Topical Places (Saturnalia, 5, 20).
Florence Kesseler
Introduction.
1. One place can hide another one.
2. Virgil’s mastery of words and literary topoi.
Conclusion.
Bibliography
26. Tra Raetia e Venetia. Definizione e costruzione del paesaggio rurale a nord di Vicenza in epoca romana.
Michele Matteazzi
1. Il contesto geomorfologico.
2. Il contesto storico-archeologico.
3. Metodologia d’indagine
4. Risultati dell’analisi archeomorfologica.
5. Evoluzione del paesaggio rurale tra la seconda etàdel Ferro e la Tarda Antichità
Bibliografia
27. Linking Seascapes and Landscapes: the Case of Tarraco (Tarragona, Spain) during the Roman Empire.
Maria del Carmen Moreno Escobar
Introduction.
1. Previous work in the ager Tarraconensis.
2. Archaeological evidence and interpretations on Tarraco hinterland.
3. Archaeological evidence, analysis and interpretations on Tarraco port system.
Conclusions.
Bibliography
28. Urban Development and Land Use Connected to Municipalization: a Case Study in Central Apennine Italy.
Chiara Blasetti Fantauzzi
Bibliography
29. Il faggio in Virgilio: elemento identitario
nel paesaggio delle Bucoliche.
Francesca Boldrer
Bibliografia
30. Il Paesaggio come marcatore d’identità nel XII libro
dei Geōgraphika di Strabone.
Francesco Carriere
Bibliografia
31. Family and Political Power in the Landscape: the Villa of
the Gens Volusia at Lucus Feroniae.
Armando Cristilli
Bibliography
32. Thessalian Landscapes and Ethnicity in Hellenistic Poetry: the Ethnic Catalogue of Rhianus’ Thessalica (frr. 26–38 Powell).
Manolis Spanakis
Introduction.
1. The Ethnographical Poem Thessalica.
1.1. The Thessalica Ethnic Catalogue (Books 4–7).
Conclusion.
Bibliography
33. Timeo e la tradizione letteraria sulla fonte Aretusa:
la storia, il mito e il paesaggio.
Ilaria Starnino
Bibliografia
34. Un paesaggio ameno contro la guerra. Aristofane e l’idealizzazione della campagna attica.
Stefano Ceccarelli
Bibliografia
35. Uomo e natura in equilibrio: riflessioni sui
paesaggi ‘idillico-sacrali’ a partire da un
nuovo affresco pompeiano.
Constantin Kappe
1. La scoperta.
2. Descrizione del contesto e dell’affresco.
3. Datazione
4. Interpretazione.
5. Il carattere dei paesaggi idillico-sacrale.
Conclusioni
Bibliografia
36. Disassembling the Idyllic Image of the Roman Urban Landscape: Empty Spaces and Vacant Areas in
Hispano-Roman Cities.
Diego Romero Vera
Introduction.
1. The documentary evidence
2. The archaeological evidence
3. Final remarks
Bibliography
37. Incipe mea tibia: il paesaggio sonoro delle Bucoliche.
Benedetta D’Anghera
Bibliografia
38. Lingua Latina, suoni e silenzio nella relegatio di Ovidio.
Rosa Mauro
1. I suoni della tempesta.
2. I suoni del Ponto Eusino.
3. Roma vs. Tomi.
4. Il canto degli uccelli.
Conclusioni
Bibliografia
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Experiencing the Landscape in Antiquity I Convegno Internazionale di Antichità – Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ Edited by

Armando Cristilli, Alessia Gonfloni, and Fabio Stok B A R I N T E R NAT I O NA L S E R I E S 3 0 1 5

2020

Experiencing the Landscape in Antiquity I Convegno Internazionale di Antichità – Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ Edited by

Armando Cristilli, Alessia Gonfloni, and Fabio Stok B A R I N T E R NAT I O NA L S E R I E S 3 0 1 5

2020

Published in 2020 by BAR Publishing, Oxford BAR International Series 3015 Experiencing the Landscape in Antiquity isbn  

978 1 4073 5740 9 paperback isbn   978 1 4073 5741 6 e-format

doi  https://doi.org/10.30861/9781407357409

A catalogue record for this book is available from the British Library © the editors and contributors severally 2020 cov er i m age

Greece. The Messene Stadium Porch. Photo by Armando Cristilli

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BAR International Series 2874

Sommario Perchè un convegno sull’Experiencing the Landscape in Antiquity............................................................................... xi 1. Il paesaggio del Sinus baianus tra abbandono e riutilizzo....................................................................................... 1 Gioconda Di Luca Bibliografia.................................................................................................................................................................... 7 2. Reuse in the Ancient Architecture: a Contribution from Punic-Roman Site of Tharros (Sardinia).................... 9 Melania Marano Bibliography................................................................................................................................................................ 13 3. For a New Reading and Interpretation of an Imperial Building Complex at the 16th Mile of the Via Appia.............................................................................................................................................................. 17 Giulia Moretti Cursi 1. Ager Aricinus: pre-existences and erudite narratives.............................................................................................. 17 2. From historical cartography to data interpretation.................................................................................................. 19 Bibliography................................................................................................................................................................ 22 4. Trasformazioni urbanistiche nella Sicilia centro-occidentale di età tardoellenistica e protoimperiale............. 25 Riccardo Olivito Bibliografia.................................................................................................................................................................. 32 5. L’assetto topografico dell’Ager Labicanus: fonti antiche ed evidenze archeologiche nel territorio di Colonna.................................................................................................................................................................. 35 Matteo Pucci Bibliografia.................................................................................................................................................................. 41 6. Un’attestazione tardoantica fuori dall’antica agora di Argos: l’epigrafe del monastero dalle c.d. terme A (ICG 3413)............................................................................................................................................. 43 Priscilla Ralli 1. La scoperta dell’epigrafe ICG 3413........................................................................................................................ 43 2. La città alle soglie della Tardantichità..................................................................................................................... 43 3. La città tardoantica.................................................................................................................................................. 44 4. Le evidenze paleocristiane di Argos........................................................................................................................ 46 5. L’epigrafe ICG 3413................................................................................................................................................ 46 6. Il contesto di rinvenimento dell’epigrafe................................................................................................................ 47 Conclusioni.................................................................................................................................................................. 48 Bibliografia.................................................................................................................................................................. 49 7. Dinamiche di trasformazione dei vici in Italia settentrionale tra III e VI secolo d.C. Una proposta metodologica...................................................................................................................................... 51 Eleonora Rossetti 1. I vici rurali tra età romana e Tarda Antichità. Un contributo per la ricostruzione del paesaggio antico................. 51 2. Una proposta metodologica..................................................................................................................................... 52 Bibliografia.................................................................................................................................................................. 55 8. Progetto Survey Media Valle del Cedrino: il riutilizzo di epoca storica............................................................... 59 Francesca Basso, Lorenzo Bonazzi, Dario Di Michele, Arianna Gaspari, Alessia Grandi, Smeralda Riggio, Camilla Simonini & Barbara Valdinoci Introduzione................................................................................................................................................................. 59 1. Il Progetto Media Valle del Cedrino........................................................................................................................ 59 2. Il riutilizzo delle strutture tra il VII sec. a.C. e il V sec. d.C................................................................................... 60 3. Il riutilizzo di areali connessi ai luoghi di approvvigionamento idrico................................................................... 62 v

Experiencing the Landscape in Antiquity 4. Il caso dei villaggi senza nuraghe............................................................................................................................ 63 5. L’insediamento romano CA 24................................................................................................................................ 65 Conclusioni e prospettive di ricerca............................................................................................................................ 65 Bibliografia.................................................................................................................................................................. 65 9. Le trasformazioni del paesaggio urbano di Catania tra età romana e prima età bizantina: elementi di continuità e di rottura............................................................................................................................ 67 Viviana Spinella Introduzione................................................................................................................................................................. 67 1. Catania tra IV e V secolo d.C.................................................................................................................................. 68 2. Catania tra VI e VII secolo...................................................................................................................................... 71 Conclusioni.................................................................................................................................................................. 74 Bibliografia.................................................................................................................................................................. 74 10. Adulis e il Corno d’Africa in età tardo antica. Cristianizzazione e paesaggio come elementi deterministici nella lunga durata............................................................................................................................. 77 Gabriele Castiglia 1. Premessa.................................................................................................................................................................. 77 2. Adulis: il contesto e le fonti..................................................................................................................................... 78 3. Adulis: il dato archeologico..................................................................................................................................... 79 4. Adulis: il paesaggio, le risorse e la experiencing of the landscape......................................................................... 82 Bibliografia.................................................................................................................................................................. 83 11. Settimio Severo: l’ultimo imperatore che cambiò il paesaggio di Roma?............................................................ 85 Maria Grazia Cinti Bibliografia.................................................................................................................................................................. 91 12. Una possibile proprietà imperiale al IX miglio della via Appia antica................................................................. 93 Andrea Corbascio 1. Il ‘Palombaro Maruffi’: cenni storici....................................................................................................................... 93 2. Il paesaggio e monumenti in età romana................................................................................................................. 94 3. I ritrovamenti archeologici nel ‘Palombaro’ Maruffi tra XVIII e XX secolo.......................................................... 94 Conclusioni.................................................................................................................................................................. 98 Bibliografia.................................................................................................................................................................. 98 13. Le strade e il paesaggio del potere nella provincia di Baetica. Un nuovo sguardo sulle pietre miliari e sull’epigrafia rurale................................................................................................................................................. 101 Sergio España-Chamorro 1. La rete di trasporto nel sud della penisola iberica................................................................................................. 101 2. Le pietre miliari betiche: una visione territoriale e diacronica dei paesaggi del potere........................................ 102 3. Le pietre miliari e la propaganda nella Baetica..................................................................................................... 107 Bibliografia................................................................................................................................................................ 107 14. Il paesaggio fortificato: il caso della Sicilia di Agatocle tra propaganda e gestione del territorio................... 109 Davide Falco Bibliografia................................................................................................................................................................ 115 15. Scenografie territoriali: complessi forensi e costruzione del paesaggio nell’Hispania alto-imperiale..............117 Alessandro Labriola Bibliografia................................................................................................................................................................ 123 16. Italica (Santiponce, Spain) as a Territorial Model: New Data about its Amphitheatre.................................... 125 José David Mendoza Álvarez & José Manuel Serrano Álvarez Introduction............................................................................................................................................................... 125 1. Roman Interaction with the Italica landscape....................................................................................................... 125 2. Italica promotion and boom.................................................................................................................................. 125 3. Problem of abandonment and continuity of the Italica amphitheatre................................................................... 126

vi

Sommario 4. New contributions to the Italica amphitheatre...................................................................................................... 126 5. Brief historiographical synthesis and final comments on the Italica amphitheatre............................................... 131 Bibliografia................................................................................................................................................................ 132 17. Colonia Augusta Verona Gallieniana: Italia come paesaggio del potere attraverso l’epigrafia imperiale della domus Licinia Augusta (253–268 d.C.)......................................................................................... 135 David Serrano Ordozgoiti Abbreviazioni............................................................................................................................................................ 140 Bibliografia................................................................................................................................................................ 140 18. La talassocrazia minoica al tempo dei Romani.................................................................................................... 143 Anna Smeragliuolo Perrotta Bibliografia................................................................................................................................................................ 145 19. Terrecotte architettoniche dalla Passoliera (Caulonia): nuovi spunti di riflessione.......................................... 147 Greta Balzanelli 1. Le aree sacre in età arcaica.................................................................................................................................... 147 1.1. Il colle della Passoliera.................................................................................................................................. 147 1.2. La collina del Faro......................................................................................................................................... 148 1.3. Il santuario di Punta Stilo.............................................................................................................................. 149 Conclusioni................................................................................................................................................................ 149 Bibliografia................................................................................................................................................................ 150 20. Il paesaggio ʻidillico-sacraleʼ nei ʻmythologische Prachtreliefsʼ.......................................................................... 153 Mariella Cipriani Bibliografia................................................................................................................................................................ 157 21. The Sanctuary and its Natural Environment. Silvanus as God of Boundaries in Pannonia............................ 159 Tibor Grüll Bibliography.............................................................................................................................................................. 164 22. The Evolution of the Sacred Landscape of Early Olympia................................................................................. 167 András Patay-Horváth Bibliography.............................................................................................................................................................. 170 23. Myths and Rites of the Attic Pallene: A Sanctuary Between the Archaic Territories of Paralia and Pedion................................................................................................................................................... 173 Miriam Valdés Guía 1. The League of Athena Pallenis: a shrine located between the archaic territories of Pedion and Paralia.............. 173 2. Battle myths and ‘history’ in Pallene: Pallantids, Eurystheus, Peisistratos and Heracles..................................... 176 3. Kallinikos komos: the hero and the parthenos in chariot...................................................................................... 178 Conclusions............................................................................................................................................................... 182 Bibliography.............................................................................................................................................................. 182 24. La trasformazione del paesaggio agrario in età romana in un settore del Territorium Lyppiense................... 185 Paola Guacci 1. Sfruttamento del territorio e persistenze centuriali in località Ossano di Cavallino............................................. 186 2. La gestione del territorio attraverso l’infrastruttura viaria: la via Traiana-calabra................................................ 189 Bibliografia................................................................................................................................................................ 191 25. Mysia and Gargara in Georgic 1: Learned Trip through Toponyms and Topical Places (Saturnalia, 5, 20)..................................................................................................................................................... 193 Florence Kesseler Introduction............................................................................................................................................................... 193 1. One place can hide another one............................................................................................................................. 194 2. Virgil’s mastery of words and literary topoi.......................................................................................................... 195 Conclusions............................................................................................................................................................... 196 Bibliography.............................................................................................................................................................. 196 vii

Experiencing the Landscape in Antiquity 26. Tra Raetia e Venetia. Definizione e costruzione del paesaggio rurale a nord di Vicenza in epoca romana........................................................................................................................................................... 199 Michele Matteazzi 1. Il contesto geomorfologico.................................................................................................................................... 199 2. Il contesto storico-archeologico............................................................................................................................ 201 3. Metodologia d’indagine......................................................................................................................................... 203 4. Risultati dell’analisi archeomorfologica................................................................................................................ 204 5. Evoluzione del paesaggio rurale tra la seconda età del Ferro e la Tarda Antichità............................................... 205 Bibliografia................................................................................................................................................................ 208 27. Linking Seascapes and Landscapes: the Case of Tarraco (Tarragona, Spain) during the Roman Empire................................................................................................................................................... 209 Maria del Carmen Moreno Escobar Introduction............................................................................................................................................................... 209 1. Previous work in the ager Tarraconensis.............................................................................................................. 210 2. Archaeological evidence and interpretations on Tarraco hinterland..................................................................... 211 3. Archaeological evidence, analysis and interpretations on Tarraco port system.................................................... 213 Conclusions............................................................................................................................................................... 214 Bibliography.............................................................................................................................................................. 215 28. Urban Development and Land Use Connected to Municipalization: a Case Study in Central Apennine Italy............................................................................................................................................ 217 Chiara Blasetti Fantauzzi Bibliography.............................................................................................................................................................. 222 29. Il faggio in Virgilio: elemento identitario nel paesaggio delle Bucoliche............................................................ 225 Francesca Boldrer Bibliografia................................................................................................................................................................ 231 30. Il Paesaggio come marcatore d’identità nel XII libro dei Geōgraphika di Strabone......................................... 233 Francesco Carriere Bibliografia................................................................................................................................................................ 237 31. Family and Political Power in the Landscape: the Villa of the Gens Volusia at Lucus Feroniae..................... 239 Armando Cristilli Bibliography.............................................................................................................................................................. 243 32. Thessalian Landscapes and Ethnicity in Hellenistic Poetry: the Ethnic Catalogue of Rhianus’ Thessalica (frr. 26–38 Powell)................................................................................................................. 245 Manolis Spanakis Introduction............................................................................................................................................................... 245 1. The Ethnographical Poem Thessalica................................................................................................................... 246 1.1. The Thessalica Ethnic Catalogue (Books 4–7).............................................................................................. 247 Conclusions............................................................................................................................................................... 250 Bibliography.............................................................................................................................................................. 250 33. Timeo e la tradizione letteraria sulla fonte Aretusa: la storia, il mito e il paesaggio........................................ 253 Ilaria Starnino Bibliografia................................................................................................................................................................ 258 34. Un paesaggio ameno contro la guerra. Aristofane e l’idealizzazione della campagna attica........................... 261 Stefano Ceccarelli Bibliografia................................................................................................................................................................ 265

viii

Sommario 35. Uomo e natura in equilibrio: riflessioni sui paesaggi ‘idillico-sacrali’ a partire da un nuovo affresco pompeiano.................................................................................................................................................. 267 Constantin Kappe 1. La scoperta............................................................................................................................................................. 267 2. Descrizione del contesto e dell’affresco................................................................................................................ 268 3. Datazione............................................................................................................................................................... 269 4. Interpretazione....................................................................................................................................................... 272 5. Il carattere dei paesaggi idillico-sacrale................................................................................................................ 273 Conclusioni................................................................................................................................................................ 274 Bibliografia................................................................................................................................................................ 275 36. Disassembling the Idyllic Image of the Roman Urban Landscape: Empty Spaces and Vacant Areas in Hispano-Roman Cities................................................................................................................ 277 Diego Romero Vera Introduction............................................................................................................................................................... 277 1. The documentary evidence.................................................................................................................................... 277 2. The archaeological evidence................................................................................................................................. 278 3. Final remarks......................................................................................................................................................... 279 Bibliography.............................................................................................................................................................. 280 37. Incipe mea tibia: il paesaggio sonoro delle Bucoliche........................................................................................... 283 Benedetta D’Anghera Bibliografia................................................................................................................................................................ 288 38. Lingua Latina, suoni e silenzio nella relegatio di Ovidio..................................................................................... 289 Rosa Mauro 1. I suoni della tempesta............................................................................................................................................ 289 2. I suoni del Ponto Eusino........................................................................................................................................ 291 3. Roma vs. Tomi....................................................................................................................................................... 292 4. Il canto degli uccelli.............................................................................................................................................. 293 Conclusioni................................................................................................................................................................ 294 Bibliografia................................................................................................................................................................ 294

ix

Perchè un convegno sull’Experiencing the Landscape in Antiquity. L’idea di un convegno interdisciplinare e internazionale nasce dalla costante attività promossa dalla scuola di Dottorato di Ricerca di Antichità Classiche e Loro Fortuna dell’Università degli studi di Roma ‘Tor Vergata’1 che da diversi anni favorisce progetti di ampio respiro, stimolando i propri dottorandi al confronto e al dialogo continuo. È in quest’ottica che tale convegno, intitolato “Land Experience in Antiquity. Costruire. Ridefinire. Abitare”, che introduciamo in questa raccolta di atti dei papers presentati, si è configurato come una vera e propria necessità da parte degli antichisti afferenti allo stesso dottorato, necessità che da subito si è palesata non solo negli organizzatori, ma anche in tutti i membri dei vari cicli di studio che sono intervenuti in questa iniziativa. L’esigenza di creare un punto di confronto proficuo e multidisciplinare si è, dunque, trasformata in questo inconsueto appuntamento a carattere internazionale, fissando come obiettivi di lavoro: riprendere e ridiscutere questioni e problematiche poste da tempo come paradigmi assoluti; far confluire diversi dati, fonti, reperti e attestazioni; confrontare metodi e prospettive di ricerche più aggiornati; far dialogare differenti discipline e saperi nell’esplorazione delle varie declinazioni possibili della tematica scelta, il Paesaggio, o meglio l’Experiencing the Landscape in Antiquity.

territorio. Il paesaggio appare, così, come l’unità di misura attraverso la quale l’uomo costruisce la sua identità, ma è al contempo anche lo strumento con il quale si definiscono i fenomeni storici e culturali e i processi derivati dal loro svolgersi in un determinato luogo. Nell’analisi dei rapporti e delle relazioni che si innestano con e nel paesaggio, è innegabile che l’archeologia, la filologia, la letteratura, la storia, l’epigrafia e la geografica trovino un terreno fertile di applicazione e di esplorazione. Per questo, ai relatori è stato chiesto di focalizzare le interrelazioni degli antichi con l’ambiente mediterraneo, rispondendo a domande del tipo: in che modo l’arte e l’architettura hanno agito e si sono strutturate all’interno del paesaggio; come e quanto le conoscenze degli antichi hanno avuto un impatto sul paesaggio tanto da poterlo sfruttare; come e in che misura la visione artistica, la propaganda e la pubblicistica personale hanno interagito con l’ambiente; quali erano le relazioni tra ambiente, arte e costruzioni dell’identità sia essa di pensiero, di religione e/o di gruppo; quali processi e concezioni hanno consentito agli antichi di cambiare e di abitare l’ambiente secondo modalità che ne hanno modellato la risposta al paesaggio; quale è stata la percezione del paesaggio nell’uomo antico; quanto e come gli eventi naturali hanno condizionato l’esperienza insediativa in un territorio già frequentato.

Data la sua portata, l’argomento ha da sempre costituito l’oggetto di studio per numerosi filoni di ricerca, soprattutto in funzione della comprensione e della rivalutazione del territorio (nel nostro caso in un range cronologico compreso tra il VI sec. a.C. e il VII sec. d.C.). Nello specifico, il punto di partenza è stata l’idea di “paesaggio” nella sua accezione di frutto dell’azione di molteplici fattori, tra loro anche molto eterogenei: da un certo punto di vista, infatti, il landscape esprime compiutamente le dinamiche di scambio natura-uomo che vanno dalle modalità con cui questo da sempre si insedia in un luogo alle relazioni materiali e ideali che hanno fatto ricostruire, ridefinire e/o abitare una determinata porzione di

Durante la fase di progettazione del convegno, gli organizzatori si sono concentrati sulle tematiche da affrontare, cercando di fornire un panorama il più possibile esaustivo e, soprattutto, includendo quelle discipline concernenti il mondo antico scelte tra quelle comprese nella Scuola di Dottorato di Antichità Classiche e Loro Fortuna di ‘Tor Vergata’. Questi argomenti sono stati poi opportunamente sintetizzati e divisi in più sezioni o panels, offrendo a nostro avviso un ventaglio sufficientemente ampio di spunti di riflessione. La prima sezione dei papers (pp. 1–76) presenta una riflessione di ampio respiro sulla tematica dell’abbandono e del riutilizzo del paesaggio. Le crisi politiche, economiche e demografiche, le incursioni nemiche, gli eventi naturali, i processi degenerativi o i semplici cambi socio-culturali possono essere letti e documentati attraverso diversi tipi di mutamenti del paesaggio che vanno, appunto, dal suo abbandono alla sua rioccupazione o, più semplicemente, al suo riutilizzo, ma sempre come frutti dei nuovi equilibri e delle nuove dinamiche che si sono instaurate nel tempo. E in questi processi si sono venuti così a delineare paesaggi che in parte appaiono, nonostante tutto, ancora caratterizzati come in passato, ma che il più delle volte diventano altro, talvolta uno spazio separato dal suo immediato circondario o anche un topos

Trovano qui spazio i più sentiti ringraziamenti a quanti hanno contributo in maniera fattiva alla realizzazione di questo convegno, in particolar modo: il Direttore del Dipartimento di Studi letterari, filosofici e di Storia dell’arte della Macroarea di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ Prof. E. Paoli; il Prof. A. Filippin, che è intervenuto nella presentazione del convegno in qualità di vicario del Direttore; la Prof.ssa M. Bonanno e il Prof. V. Costa per i loro generosi contributi alle sessioni di convegno; così come i professori che hanno preso parte alla moderazione degli interventi B. Cacciotti, E. Cerbo, E. Ghisellini, G. Rocco, L. Spera, C. Pace e M. Pisani. Ci è, inoltre, gradito ringraziare anche il Prof. E. Dettori per il fattivo sostegno a questa iniziativa, la Prof.ssa A. Inglese per i preziosi consigli, il dott. M. Chighine per la sua costante disponibilità e per il suo insostituibile lavoro e i colleghi dottori e dottorandi che hanno collaborato con encomiabile impegno nella parte logistica del convegno: R. Alteri, S. Calabrese, S. De Luca, N. De Troia, F. Fumante, A. Iacoviello e F. Lizzani.

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Experiencing the Landscape in Antiquity dell’immaginario letterario con modalità, tempistiche e soluzioni differenti e multiformi. Il tema anima il dibattito scientifico ormai da decenni con soluzioni interpretative diversificate a seconda dell’area geografica: basti considerare che talune cesure del paesaggio, lette come ‘abbandono’, si sono poi rivelate solo contrazioni d’uso o indici di nuove forme di frequentazione. Perché spesso la difficoltà è sta nel riconoscere labili segnali, creando un gap metodologico che ostacola la ricostruzione filologica e quantitativa del paesaggio antico nel divenire del suo cambiamento. I papers in linea con questo panel, hanno messo in luce i processi determinatisi in condizioni di abbandono, riuso e rioccupazione, soprattutto i loro effetti e le loro novità, i modelli intervenuti, i fattori interni ed esterni in rapporto ai mutamenti del paesaggio, la società interessata da tali modificazioni, le prospettive alternative di analisi dei cambiamenti del paesaggio, in particolare quelli disomogenei che sfuggono a univoci criteri di classificazione.

paesaggio può essere trasformato in modo profondo da strutture o da processi antropici che hanno lasciato segni indelebili, diventandone l’elemento più sintomatico anche per lungo tempo. Nel mondo mediterraneo la forte attrattività delle componenti naturalistiche, delle posizioni geografiche più peculiari, degli approdi naturali ha favorito processi di forte antropizzazione, capaci di portare alla costruzione di nuovi paesaggi. La terza sezione (pp. 147–184) raccoglie i contributi legati al paesaggio del sacro, che richiama, per sua definizione, una molteplicità di fattori (naturali, architettonici, culturali, politici, spirituali) che il più delle volte non possono essere scissi per una sua piena comprensione. L’uomo antico ha sempre espresso dinamicamente il senso del sacro attraverso rituali, segni, strutture e descrizioni, tutti tesi a evidenziare spazi e paesaggi ritenuti intimamente connessi alla divinità, a prima vista per questioni di morfogenetica, ma non sempre solo per queste. Dunque, un complesso di aspetti diversi interviene nella scelta del sito per l’edificazione del santuario o del tempio o dell’edicola e per il culto che in essi si svolgeva. In questo senso sono state accolte ricerche volte all’indagine, sotto il profilo storico-culturale, di quanto ha originato il paesaggio sacro e di quanto lo abbia istituzionalizzato come tale, ricercandone le tracce nel territorio e nelle fonti alla luce delle prospettive più recenti, come anche le osservazioni volte a determinare l’evoluzione dello spazio cultuale e le sue trasformazioni nel tempo nel Mediterraneo antico.

La seconda sezione (pp. 77–146) si è concentrata, invece, sulla tematica del “paesaggio del potere” che, soprattutto negli ultimi decenni, ha costituito un momento davvero funzionale per indagare il territorio, innanzitutto intendendolo come mezzo attraverso cui il potere concretizza se stesso all’interno dello spazio o con cui lo spazio viene da questo predisposto, sia esso fisico, artistico o linguistico-letterario. Il rapporto diretto tra paesaggio e potere è comunemente legato all’immagine di spazi e luoghi simbolici, magari anche architettonicamente definiti, spesso luoghi istituzionali. E su queste linee che le ricerche si sono diversificate e specializzate, analizzandone i vari aspetti e segni dai monumenti pubblici a quelli celebrativi, dagli atti di evergesia strutturata alle espressioni del controllo territoriale e dell’adesione ai programmi dell’establishment, siano essi momenti ex novo o trasformazioni o riutilizzi. Proprio le diverse prospettive di ricerca e i relativi risultati che si sono strutturati e si sono concentrati sui power landscapes nel bacino del Mediterraneo sono stati apprezzabili proprio perché focalizzati sulle modalità di concezione e di descrizione dello spazio di potere, sull’interazione delle varie forze interessate nel suo divenire e sulle evidenze antiche dell’esibizione di potere su un territorio. A tale prospettiva è collegato un ragionamento, se vogliamo, corollario, quello dell’hegemonic landscape: da questo punto di vista, infatti, il paesaggio riflette sempre il condizionamento esercitato dalla morfologia del territorio, aspetto che si fa ancora più macroscopico in presenza di centri e nuclei abitativi, nella fattispecie di insediamenti con tessuti storici compatti o di aree di più recente edificazione. Le realtà insediative, infatti, benché modifichino le morfologie spesso contraddittorie del territorio, talvolta si trovano a sfruttarle amplificandone la presenza e caricandole di significati a esse assolutamente estranei. Le strutture si trovano così a riflettere da un lato il condizionamento esercitato dalla singolare caratterizzazione territoriale, ma dall’altro costituiscono l’elemento più rappresentativo e significativo del paesaggio stesso. Ma, è altrettanto vero che, anche in assenza di particolari forme e strutture territoriali, il

Una quarta sezione (pp. 185–216) è stata dedicata all’inquadramento delle molteplici questioni connesse al paesaggio agrario nel bacino del Mediterraneo. Il nostro stato di conoscenze sul mondo antico è stato spesso condizionato dalla mancanza di punti di contatto fra gli storici delle campagne, gli storici delle rappresentazioni dello spazio e gli archeologi sul campo: da una parte, dunque, gli esploratori dei microsistemi rurali finiscono per rifarsi ai consueti compendi storici, dall’altra lo spazio viene designato come il campo esclusivo dello studioso di letteratura e di geografia, impedendo alla realtà di riunirsi all’immagine. Tuttavia, resta imprescindibile nel mondo antico la concezione che res rustica est res populi, forse in assoluto la definizione più ancestrale di paesaggio, poiché esso si definisce, fin dalle origini letterarie, come paesaggio agrario. Nella mentalità mediterranea antica, infatti, il paesaggio è stato in primo luogo un paesaggio agricolo, il cui studio appare determinante anche nella funzione storica che esso riveste. Ecco perché in questa occasione non è stata privilegiata solo la prospettiva archeologica del territorio rurale antico, ma sono stati promossi anche i filoni di ricerca focalizzati sulla sua evoluzione, la sua storia, le sue molteplici dinamiche interne ed esterne, per un momento di riflessione unico, in cui il landscape potesse farsi storia e memoria. La quinta sezione dei contributi (pp. 217–259) si focalizza sull’influenza del paesaggio nei processi di costruzione (/definizione?) dell’identità dell’individuo o della comunità. Il termine paesaggio, di fatto, non indica solo la realtà xii

Perchè un convegno sull’Experiencing the Landscape in Antiquity territoriale di un luogo, ma anche ciò che “la sua immagine letteraria, o quel poco che si può desumere della sua Gestalt collettiva, ha influito sulla sua formazione storica molto più di quanto possa apparire” (G. Traina, Paludi e bonifiche del mondo antico, Roma 1988, 18). La ricerca condotta in tal senso è volta a dimostrare che - sebbene la bibliografia sia effettivamente complessa e sconfinata, data la natura dei concetti di “paesaggio” e di “identità” l’osservazione e l’analisi a tutto tondo dei vari elementi che compongono il landscape (la natura, l’uomo, il costruito) consentono allo studioso di cogliere tratti di interpretazione delle identità personali e collettive delle comunità che con esso hanno convissuto e si sono definite. La presente sezione ha posto come nodo focale l’idea che un paesaggio sia un marcatore di identità, privilegiando così indagini che possono muoversi in varie prospettive: quando il paesaggio ha determinato la formazione e/o costruzione di un’identità personale e collettiva? In che modo queste identità si sono plasmate in relazione al paesaggio? In tali dinamiche di formazione, costruzione, definizione o ridefinizione, è possibile rintracciare un comune denominatore? Esiste un modello unitario oppure i vari fenomeni sono così specifici e sporadici al punto da giustificare un’indagine pluricentrista? Gli studiosi che hanno risposto a tali quesiti nodali hanno presentato ricerche di grande impegno e spessore.

dinamica sui fattori chiave di questo argomento come la fonosfera negli antichi, gli eventuali interrogativi che gli stessi si ponevano riguardo ai suoni, le rappresentazioni scritte dei versi animali e/o dei fenomeni naturali (il sibilo del vento, le onde del mare, l’eruzione dei vulcani), ma anche l’eventuale esistenza di un legame fra musica e musicologia nell’antichità.

Infine, la sesta e ultima sezione (pp. 261–294) ha riunito gli articoli concentrati sull’idea di paesaggio utopico/ utopie paesaggistiche e di paesaggio sonoro. Abbiamo definito paesaggio utopico quel ‘paesaggio che non c’è’, sia esso un luogo del pensiero o solo un luogo figurato che non trova spazio nella realtà, un topos  geografico plausibile o immaginario e in entrambi i casi inventato. Ma, il paesaggio utopico diventa talvolta anche paesaggio reale ed è qui che si passa attraverso un filo sottilissimo all’utopia paesaggistica: pensiamo al “tempio senza il tempio” che è l’Agorà degli dei a Thera, alle utopie paesaggistiche di Eschilo, Sofocle, Euripide e Aristofane, alle visioni del Simposio platonico, o anche al mitologico come utopico spazio effettuale nella produzione di Ovidio. Questa sezione, pertanto ha accolto soprattutto studi e ricerche volte a evidenziare riflessioni e modelli analitici generali o specifici sulla definizione e la puntualizzazione del tema proposto. Gli ultimi contributi dei presenti atti, attraverso un delicato fil rouge, sono dedicati al paesaggio sonoro nel mondo antico. Una delle eredità più ingombranti che il mondo greco e quello romano (e non solo) ci hanno trasmesso è il loro ‘assordante silenzio’: non siamo certi della pronuncia delle parole, non abbiamo idea di quanto o di come fosse marcato un determinato fonema a seconda della zona dialettale di riferimento, abbiamo ‘intuizioni’ fondate su studi comparati, molto apprendiamo dall’epigrafia che talvolta ci restituisce scivolamenti nello scritto di dizioni parlate. Tuttavia, la lingua resta a prescindere un fatto reale, vivo. È in quest’ottica che vale la pena interrogarsi sul paesaggio del sonoro, sulle sue caratteristiche, su quanto può essere ancora ricostruito. La proposta di questo tema è stato fissare una possibilità di un aggiornamento e di una discussione

Alessia Gonfloni [email protected]

Ci conforta la speranza che questo incontro, con tutte le difficoltà del caso, ma anche con tutto l’impegno e l’entusiasmo da parte di coloro che sono intervenuti a vario titolo, sia servito se non altro ad aggiornare il tema del landscape mediterraneo nell’Antichità e a contribuire all’interesse sempre crescente da parte degli studiosi, offrendo la possibilità di un proficuo scambio di conoscenze significative a riguardo. È giocoforza che ci sarebbe ancora molto da aggiungere sui temi affrontati, ma siamo anche consapevoli di aver cercato di fissare alcuni punti fermi nella ricerca che senza dubbio si sono dimostrati come forieri di nuovi e interessanti sviluppi ulteriori. Gli organizzatori Armando Cristilli [email protected]

Fabio Stok [email protected]

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1 Il paesaggio del Sinus baianus tra abbandono e riutilizzo. Gioconda Di Luca Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’ The real estate of the rich urban aristocracy in Baiae during its construction history is characterized by abandonments, re-occupations and degradations stratified over time and space of its villas since the republican age. However, the documentary value of the phenomena is not yet clear, nor have they been analysed in a chronological sense, condemning them to perform only the task of statistical data for their own sake. This research, on the other hand, is a focus to better define these building manifestations, placing them in their exact size and showing how they play a role in the historical dynamics underlying the aspect of the Sinus baianus landscape. Il patrimonio immobiliare della ricca aristocrazia urbana a Baiae durante la sua storia costruttiva è caratterizzato da abbandoni, riqualificazioni e degradi stratificati nel tempo e nello spazio delle sue ville fin dall’età repubblicana. Tuttavia, il valore documentario dei fenomeni non è ancora chiaro, né sono stati analizzati in senso cronologico, condannandoli, in questo modo, a svolgere solo il compito di dati statistici fini a se stessi. Questa ricerca, d’altra parte, è un focus per definire meglio queste manifestazioni edilizie, collocandole nella loro esatta dimensione e mostrando come giocano un ruolo importante nelle dinamiche storiche alla base del paesaggio del Sinus baianus. Keywords: Baie; Sinus baianus; villa; abandonment; re-occupation; spa La ricostruzione del landscape dell’antico Sinus baianus (Fig. 1.1), una zona della Campania assai nota e proprio per questo ampiamente studiata (seppur non sempre in modo appropriato), si è basata su un’articolata analisi delle diverse forme di occupazione succedutesi nel territorio tra l’età tardo-repubblicana e quella post-classica, lette attraverso quelle evidenze archeologiche che il Grand Tour (ma, per la verità, anche prima) ha registrato in svariati disegni, relazioni e stampe1. Com’è facile comprendere, questo è un paesaggio modificato irreversibilmente sia dalla natura vulcanica della regione, con una struttura geomorfologica molto complessa2, sia da interventi antropici massicci3: e, infatti, fin da subito la ricerca ha dovuto fare i conti con una continuità d’uso, spesso sventata (obliterando, come ha fatto, parte delle costruzioni antiche sotto strade ed edifici moderni, quando non sono state cancellate dalla Ferrovia Cumana), e con una lacunosità di affidabili dati di scavo che hanno reso difficile disporre di informazioni chiare e dettagliate per andare al di là delle tradizionali ipotesi di lavoro. Senza dimenticare, poi, che nel corso del tempo il bradisismo ha portato a un rilevante abbassamento del suolo con la conseguente sommersione di molte delle sontuose ville che sorgevano lungo la costa orientale4

e a sua volta responsabile di quella visual dichotomy in rapporto ai complessi della Sella di Baia che ci impedisce ancora oggi di avere un’esatta e consapevole riproduzione del paesaggio antico, proprio perché ne riduce il grado di visibilità5. In effetti, il patrimonio immobiliare della ricca aristocrazia urbana nell’area dei Campi Flegrei, e più specificatamente quello di Baiae, è contrassegnata durante la sua storia edilizia da fenomeni di abbandono, defunzionalizzazione, rioccupazione, riorganizzazione stratificati nel tempo e nello spazio, fenomeni che in molte occasioni hanno dato vita a iniziative volte a sostenere il riuso degli ambienti o soltanto la loro rigenerazione. Senza dubbio, queste soluzioni si palesano anche come risposta a differenti ideologie insediative, economiche e sociali che sono state all’origine non solo del loro porsi in essere, ma anche della loro varietà e/o omogeneità di forme. L’osservazione di queste manifestazioni che hanno interessato le strutture del Sinus baianus ha anche evidenziato, però, una trasformazione del paesaggio antico dalle peculiarità del tutto nuove che appaiono strettamente connesse alle varie risposte dei suoi residenti, diventando un singolare oggetto di studio.

Di Liello 2016; Cicala - Illiano 2017, 358. In proposito: Pappalardo - Russo 2001, 107–119; Varriale 2004; Bellucci Sessa et alii 2008. 3 Per esempio, Cicala - Illiano 2017, 358. 4 Basti pensare che la quota della linea di costa in età romana è posta attualmente a una profondità compresa tra 9 e 11 m ca. Pappalardo Russo 2001, 115. 1 2

Come sappiamo, fin dal II sec. a.C. nelle fonti si allude a Baia sempre per le sue acque termali e i vapori captati 5

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Cambi - Terrenato 1994, 144–151.

Gioconda Di Luca

Fig. 1.1. Baia. Il Sinus baianus (Fotografia dell’autore).

che rivelano un’occupazione del territorio scandita dalla successione di ville, sorte in funzione del termalismo e della piscicoltura, che dal pendio digradavano verso il mare in un sistema di terrazze secondo il mos baianum15 che, in pratica, costituisce un’amplificazione della più tradizionale basis villae, con annessi complessi termali. Ne consegue che almeno fino al IV sec. d.C., in linea con quanto riportano le fonti letterarie, a Baiae si punta sul termalismo legato alla residenzialità. Ma emerge anche in modo evidente che le caratteristiche sismiche del territorio, veri e proprio markers paesaggistici, non devono aver creato particolari problemi di frequentazione, quanto piuttosto ispirare soluzioni architettoniche, talvolta anche originali, per contrastare o contenerne gli effetti: basti considerare, a puro titolo di esempio, l’utilizzo di archi di sbatacchio o di contrasto a valle tra la “Villa dell’Ambulatio” e il “Settore di Mercurio” come misura preventiva per il contenimento dei già noti effetti dell’attività bradisismica (Fig. 1.2)16.

dai magnifici complessi che si addensano lungo il suo sinus6 e relativi a famosi proprietari7. Questo trend non muta con i Giulio-Claudii, a parte la parentesi augusteotiberiana8, per poi declinare con i Flavi9 fino a Domiziano, quando si registrano nuovi restauri e nuove costruzioni. E questa rinnovata vitalità edilizia sembra perdurare almeno fino alla seconda metà del III sec. d.C. (per esempio, l’imperatore Tacito è a Baia al momento della sua elezione nel 275 d.C.10), per quanto con un cambiamento di tendenza, seppur ancora embrionale, nella funzionalità e nello sfruttamento delle ville11. E ancora nel tardo IV sec. d.C. la tradizione scritta registra l’esistenza di numerose magioni frequentate in questa zona, come quelle di Simmaco e di Censorino (forse il consularis Numidiae del 375–378 d.C.12), indicando quanto nel luxuriae sinus13 la vita continuasse a scorrere più o meno con gli stessi ritmi ancora per tutto il secolo14. La situazione prospettata dalle fonti sembra trovare una corrispondenza puntuale nei rinvenimenti archeologici

A ben vedere, proprio il mos baianum rappresenta il motivo conduttore del landscape locale, una sorta di sua cifra distintiva: le ville mostrano chiaramente di svilupparsi adattando le proprie strutture a un paesaggio naturale movimentato, di cui sfruttano le peculiarità senza rinunciare all’intento scenografico, ponendo l’attenzione contemporaneamente all’esterno e all’interno dell’orografia così da realizzare soluzioni tecniche altamente ingegnose e standardizzate in tutta l’area per sfruttare al meglio le potenzialità del territorio e del paesaggio17. Tutti i complessi baiani sopravvissuti, separati tra loro da clivi

Strabone, V, 4–5 e 7; ma anche Cassio Dione, XLVIII, 51. Di Luca 2009, 149; Medri 2013, 125–128. 7 Di Luca 2009. 8 Per esempio: Di Luca 2009, 149; Savino 2014; Mason 2015, 732–735. 9 Benché non sussistano evidenze scientifiche a riguardo, credo che sia possibile avanzare come ipotesi di lavoro che l’eruzione vesuviana del 79 d.C. abbia determinato l’abbandono delle ville della Sella di Baia, o di gran parte di esse, da parte dell’aristocrazia urbana. 10 Di Luca 2009, 151. 11 Di Luca 2009, 149–151. 12 Simmaco, Ep., I, 3, 3–5; I, 8; II, 26, 1; V, 93; VI, 9; VII, 24; VII, 27. D’Arms 1970, 206 e 226. 13 Simmaco, Ep., VII, 24. 14 Peduto 1999. Del resto, anche Ammiano Marcellino (XXVIII, 4, 18– 19) riferisce che le località della zona continuavano al suo tempo a essere mete frequentate dalla ricca aristocrazia romana. 6

Plinio, Ep., IX, 7. Giuliani 2011, 34 e 37–38. 17 di Pasquale 2005, 61. 15 16

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Il paesaggio del Sinus baianus tra abbandono e riutilizzo

Fig. 1.2. Baia, Parco archeologico delle Terme di Baia. Pianta (Rielaborazione di Di Luca 2009).

sul panorama del lacus e un’eccezionale visibilità nel paesaggio anche da lunghe distanze24. Si comprende perfettamente, a questo punto, quanto i proprietari abbiano percepito il potenziale autocelebrativo del landscape locale che dava la possibilità di essere ammirati attraverso le loro dimore d’ozio. La villa a Baiae costituisce un manufatto architettonico di alto standard ed è parte dello splendido paesaggio circostante con cui si fonda in una più che evidente miscela sociale e culturale.

scoperti18, sono caratterizzati da un panoramico quartiere residenziale posto nella parte sommitale della Sella di Baia (quasi sicuramente aperto sulla strada di servizio al centro antico che correva sulla cresta collinare19) e da una serie di terrazzamenti che scendono alla costa sistemati a giardini/portici e, come ha mirabilmente messo in evidenza Maura Medri (con un riscontro archeologico preciso a quanto indicato nella documentazione antica sul sito), ospitanti balnea privati a vapore secco nelle terrazze più alte20, a venute acquee e con sorgenti termominerali nelle terrazze più basse, oltre a cisterne (impiantate per lo più per raccogliere acque meteoriche21) e grandiose fontane con spettacolari giochi d’acqua, alimentate soprattutto dall’Aqua Augusta22 che passa in sotterraneo nella parte alta della collina23; a loro volta, le terrazze consentivano, per di più, una discesa privata a mare dai quartieri residenziali a monte. Dunque, il paesaggio del Sinus baianus è stato determinante nell’influenzare la forma finale, diventando la loro prerogativa, degli edifici di lusso qui installati con cui rafforzare l’identità e il senso di appartenenza dei padroni a uno specifico contesto sociale e culturale: il loro impianto viene definito attraverso una studiata disposizione scenografica dei moduli, secondo una sequenza strettamente vincolata alle caratteristiche geomorfologiche e idrotermali della Sella di Baia, tale da assicurare tutti i comfort possibili, un’ampia apertura

Il V sec. d.C., al contrario, costituisce un punto di svolta nella definizione del paesaggio baiano all’interno di un lento processo che ha avuto inizio già nella seconda metà del III sec. d.C., a giudicare da alcuni dati che emergono e che sono rimasti inosservati, benché il termalismo resti ancora una componente determinante nella sua frequentazione. Infatti, le ville sulla pendice della Sella di Baia, così come quelle oggi sommerse, offrono a riguardo una serie di elementi assai significativi per ricostruire le dinamiche sottese alle mutate modalità di fruizione del sito. Nel periodo compreso tra la metà del III sec. d.C. e quello successivo, a seguito del rovinoso crollo delle terrazze superiori delle ville (cioè dei quartieri residenziale veri e propri), infatti, si registrano restauri e rifacimenti in quasi tutte le strutture di Baiae, caratterizzati dall’impiego di opus vittatum e di opus vittatum mixtum, talvolta utilizzando materiale di reimpiego, chiara testimonianza dell’ancora intensa frequentazione della zona da parte dell’aristocrazia romana. Una prima evidenza è senza dubbio la copertura dei clivi di separazione tra le “Terme del livello intermedio” e il “Settore di Venere” e tra la “Villa

Di Luca 2009, 163–164. Cicala - Illiano 2017, 360. 20 Medri 2013; anche Ferrari - Guidone - Lamagna 2015. 21 A causa della mancanza di fonti potabili, tale approvvigionamento poteva essere garantito unicamente dalla raccolta e dalla conservazione nelle cisterne delle acque dolci, sia meteoriche sia erogate dal condotto dell’Aqua Augusta. Medri 2013, 135. 22 Da ultimi: Ferrari - Lamagna 2016, 24–33; Ferrari - Lamagna - Rognoni 2018, 61–62, 64 e 71. 23 Di Luca 2009, 155; Ferrara - Lamagna 2013. 18 19

24 Le evidenze della parte sommersa del Sinus baianus sicuramente non si dovevano sviluppare in altezza tanto quanto le ville sul lato opposto addossate alla Sella di Baia, per cui i settori più alti di queste ultime sicuramente dovevano essere visibili da mare.

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Gioconda Di Luca registriamo anche realizzazioni completamente ex novo che interessano la parte bassa della Sella di Baia: nello specifico, si tratta (da S verso N) del “Settore di Venere” e delle strutture SO del “Settore di Mercurio”33 con l’adiacente “Tempio di Diana” (Fig. 1.2)34. Questa diffusa ristrutturazione seguita ai crolli delle terrazze superiori delle ville baiane va plausibilmente attribuita a fenomeni di rilascio di versante, di certo più importanti di quelli già documentabili in precedenza35, che devono aver provocato un cedimento del fronte della collina e che sono da ritenersi quasi sicuramente legati all’intensificata attività sismica nel comprensorio flegreo.

dell’Ambulatio” e il “Settore di Mercurio”, un intervento che non può non parlare in favore di un accorpamento di questi complessi in almeno un paio di distinte proprietà unitarie25. Nella “Villa dell’Ambulatio” (Fig. 1.2) il sistema di cisterne a pettine viene abbandonato, erigendo un muro separatore e realizzando una cisterna lineare26, mentre contemporaneamente la parte inferiore della pluviale da sotto la terrazza dei c.d. hospitalia viene obliterata27, viene creata la lunga scala meridionale, vengono costruiti gli ambienti a S della terrazza G (l’ultima della basis villae), sopprimendone il peristilio28, e, infine, pare sia avvenuto anche un cambio di funzione della sala absidata della terrazza dell’ambulatio propriamente detta (C), come indicherebbe l’inserzione di piccoli nuclei di muratura in opera reticolata nelle nicchie (che ne alzano il livello rispetto al pavimento) e di un podio nell’abside29. Tra la metà del III e il IV sec. d.C., stando anche ai grossolani interventi edilizi individuabili, nel “Settore della Sosandra” (Fig. 1.2) si moltiplicano i vani a danno delle aree di passeggio e di svago che vengono defunzionalizzati soprattutto a vantaggio dei diversi complessi termali sorti tutt’intorno, modificandone gli spazi interni30: nel Livello II gli ambienti f e g vennero trasformati in cisterne e l’amb. b è riconvertito in balneum, con l’aggiunta di tegulae mammatae e tubuli e la tamponatura del passaggio voltato sulla parete occidentale; l’emiciclo del terrazzo sottostante è suddiviso in dodici ambienti separati da tramezzi in reticolato, giustapposti alla parete di fondo, aprendo in alcune arcate passaggi agli ambienti retrostanti (Fig. 1.3); nei lati S e O del peristilio del Livello IV furono ricavati ambienti, fu rifatta la decorazione parietale e furono creati collegamenti con i complessi a N e a S dell’edificio. Nello stesso periodo si aggiungono un frigidarium nell’angolo NE del cortile delle “Piccole Terme” (abolendone il precedente peristilio) e una latrina nell’amb. a, nell’amb. g viene ingrandita l’apertura del canale di captazione dei vapori caldi, si collega il “Settore della Sosandra” attraverso il vano a N dell’amb. b, riallestito tamponando la nicchia sulla parete E e ospitando banchi in muratura lungo i lati N e S (Fig. 1.2)31. Quest’ultimo, così come l’amb. c, ora è riscaldato grazie alla creazione di un ipocausto, mentre nell’amb. f sono aggiunte due vasche sui lati E e O (Fig. 1.2)32. Si verificano anche trasformazioni e riorganizzazioni di tutti gli ambienti del “Settore di Venere” (Fig. 1.2), molto probabilmente da collocarsi tra la seconda metà del III e gli inizi del IV sec. d.C., creando il nuovo accesso tramite il frigidarium e la lunga scalinata che corre a N delle terme. Ma in questo stesso momento

Dunque, i dati emersi sono assai interessanti ai fini di questa ricerca, soprattutto perché qualificano i decenni tra la metà del III sec. d.C. e il IV sec. d.C. come centrali nella storia del landscape baiano. L’intenso, per quanto complesso, fervore edilizio, insieme all’accorpamento delle proprietà, testimoniano che ormai l’uso delle ville di Baiae è fatalmente cambiato36, con la trasformazione degli edifici (ora collegati tra loro) in una estesa area termale e con una frequentazione che si concentra sempre di più verso i livelli più bassi, interessando e riadattando le terrazze e le strutture connesse essenzialmente alle sorgenti termominerali. Ma, nel contempo, è altrettanto evidente che i complessi baiani si fanno portatori di nuovi significati ideologici, diventando gli edifici parte di più ampie costruzioni come riflesso, da un lato, di una modifica avvenuta nella destinazione specifica delle singole costruzioni e, dall’altro, della globale trasformazione che stava inesorabilmente informando il paesaggio del Sinus baianus. Proprio attraverso i dati archeologici forniti dalle ville, opportunamente integrati con le informazioni storiche e le analisi geologiche laddove disponibili, possiamo ricostruire le trasformazioni del landscape baiano così condizionate prima dal messaggio di autorappresentazione dei proprietari, in forme quanto mai spettacolari in una dinamica che coniugava residenzialità a termalismo, e successivamente dal suo intensivo e quasi esclusivo utilizzo termale, soddisfacendo un concetto progettuale di sfruttamento in cui le specifiche del territorio flegreo diventavano condizione predominante. È altrettanto vero, però, che il termalismo baiano ha mutato il suo carattere precedente, perdendo, come altrove, quell’iniziale carattere ludico che anche l’aveva resa celebre, oltre che consacrarla a località di villeggiatura per eccellenza. Nel 527 d.C. Cassiodoro ci fornisce una chiara testimonianza di questo mutamento della cultura termale romana37: seppur resta discussa la conoscenza diretta dei luoghi da parte della fonte38, è innegabile che una qualche documentazione in merito deve essere stata certamente disponibile, restando chiaro, comunque, il riscontro archeologico.

Di Luca 2009, 163–164. Ferrari - Lamagna - Rognoni 2018, 68 e 70. 27 Ferrari - Lamagna - Rognoni 2018, 70–71. 28 De Angelis d’Ossat 1977, 232; Giuliani 1977, 375; Di Luca 2009, 155–156. 29 Di Luca 2009, 156. 30 Di Luca 2009, 160–161. 31 Di Luca 2009, 162. 32 Di Luca 2009, 162.

Quasi certamente il complesso è stato realizzato dopo i danni strutturali occorsi alla Villa dell’Ambulatio. Giuliani 1977, 372. 34 De Angelis d’Ossat 1977, 260–264; Rakob 1988; McKay 1989, 163; Rakob 1992; Yegül 1992, 109. 35 Ferrari - Lamagna - Rognoni 2018, 70. 36 Di Luca 2009, 164. 37 Cassiodoro, Variae, IX, 6. Per esempio, di Pasquale 2005, 62–63; Savino 2005, 228; Marano 2011, 204; Buffa 2013, 77. 38 Savino 2005, 227–228, nota 429.

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Il paesaggio del Sinus baianus tra abbandono e riutilizzo

Fig. 1.3. Baia, Parco archeologico delle Terme di Baia. “Settore della Sosandra”, Livello IV (Fotografia dell’autore).

Quella che, al contrario, non può essere evidenziata né dimostrata con i reperti disponibili è la continuità d’uso dei complessi baiani dal VII sec. d.C. in poi, aspetto che merita comunque una parentesi, pur uscendo dai limiti cronologici imposti da questa sede. Non è escluso che l’area sia stata abbandonata, complice anche l’attività vulcanica in età altomedievale, oltre ai rivolgimenti storici e le crisi economiche che interessarono questa parte dell’Italia, oppure che possa essersi generata una vistosa rarefazione della frequentazione del sito che non abbia fatto cancellare completamente la memoria dei luoghi e delle virtù curative delle loro acque. Quello che è certo è che il termalismo di Baia, basato ancora sullo sfruttamento delle proprietà terapeutiche delle sue acque e senza un ripristino della residenzialità di quanto restava delle ville antiche, è un trend che ritroviamo in piena età medievale. Nel De Balneis Puteolanis, un poemetto composto nel 1197 e dedicato molto probabilmente all’imperatore Enrico VI, attribuito a Pietro da Eboli (Petrus de Ebulo)39, si delineano resti ascrivibili senza ombra di dubbio alle strutture termali dell’area baiana, oltre che ricorrere a speculazioni medicoscientifiche e a vari rimedi popolari40. Quello che, però, va maggiormente considerato è il corredo all’opera di splendide miniature che si segnalano per una congerie di dati molto interessanti e che trovano, appunto, una precisa corrispondenza nell’archeologia di Baia: in esse, infatti,

i pazienti mostrano di godere dei benefici delle acque termali immergendosi in basse vasche e ricoverandosi in strutture mobili o piccoli ambienti da usare limitatamente al periodo di frequenza e alle operazioni relative (Fig. 1.4). Questo scenario trova un esatto e dettagliato riscontro nel landscape baiano, nei cui resti antichi sono ancora visibili e riferiti di certo a età medievale proprio le strutture descritte nelle miniature allegate al testo di Pietro da Eboli. Infatti, bassi bacini, tutti a pianta rettangolare e nella medesima opera incerta di materiale riutilizzato, sono reperibili e ben riconoscibili nella terrazza più bassa del “Settore della Sosandra” e negli ambienti a SO del “Settore di Mercurio” (Fig. 1.5), mentre sulle terrazze E e F dell’adiacente “Villa dell’Ambulatio” vengono ricavati piccoli ambienti nella stessa opera muraria (sempre di materiali raccogliticci) di certo relativi alle nuove pratiche termali felicemente descritte da Pietro da Eboli41. Dunque, uno sviluppo decisamente complesso quello che ha caratterizzato il landscape baiano che, come si è visto, si è dipanato quasi senza soluzione di continuità dall’età romana a quella medioevale (e che è continuato fino ai nostri giorni!). E tutto questo è avvenuto attraverso forme diverse che si sono determinate nel rapporto tra uomo e natura, le cui alterne vicende hanno lasciato ogni volta Per De Angelis d’Ossat (1977, 229) i livelli inferiori della villa appaiono costituire un grande settore termale (terrazza E con piccoli ambienti da bagno e terrazza F come luogo di riposo e massaggi).

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Delle Donne 2006, 513–514. 40 Maddalo 2003. 39

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Gioconda Di Luca

Fig. 1.4. Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Latin 8161, f. 8r. A: la Sella di Baia; B: rappresentazione dei bacini per i bagni termali (Rielaborazione di Delle Donne 2006).

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Il paesaggio del Sinus baianus tra abbandono e riutilizzo

Fig. 1.5. Baia, Parco archeologico delle Terme di Baia. “Settore di Mercurio”, Ambienti SO (Fotografia dell’autore).

Delle Donne, F. 2006 in Enciclopedia Federiciana, II, s.v. “Pietro da Eboli”, Roma, 511–514.

segni profondi che sempre si sono trasformati e fusi in modo quasi simbiotico e involontario, creando quei fenomeni peculiari a questa parte di Campania e che sono connaturati al fascino ancora originale del Sinus baianus.

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2 Reuse in the Ancient Architecture: a Contribution from Punic-Roman Site of Tharros (Sardinia)1. Melania Marano Università di Bologna ‘Alma Mater Studiorum’ The reusing of the building material in the ancient architecture is a practice widely attested in the sites with a continuity of life. This is the case of Tharros, situated on the mid-West coast of Sardinia, where many buildings were reused during a long period after the edification. For this reason, several reuse forms of the numerous stone blocks are attested in the constructions. Besides the unworked stone elements visible everywhere in the site, there are some blocks attributable to the specific classes that took on a new function in their last use phase compared with the original indented use. The analysis of these reuse forms has allowed to distinguish the changes occurred in the walls, rebuilding the wall stratigraphic sequences and defining whenever possible some fixed points in the history of the buildings and site as a whole. Il riuso del materiale da costruzione nell’architettura antica è una pratica ampiamente attestata nei siti con continuità di vita. È questo il caso di Tharros, situata lungo la costa centro-occidentale della Sardegna, dove il riuso degli edifici antichi è documentato per un lungo periodo tra l’edificazione e l’abbandono definitivo del sito. Per questa ragione, molte forme di riuso di numerosi blocchi in pietra sono attestate all’interno dei vari contesti. Oltre gli elementi lapidei non lavorati visibili ovunque nell’abitato, numerosi blocchi sono riconducibili a classi specifiche e hanno assunto una nuova funzione nella loro ultima fase di uso rispetto a quella originaria. L’analisi di queste forme di riuso ha permesso di distinguere i vari cambiamenti apportati agli apparati murari, ricostruendo le sequenze di stratigrafia muraria e definendo, quando possibile, alcuni punti fissi nella storia degli edifici in esame e dell’intero insediamento. Keywords: Punic-Roman Tharros; ancient architecture; reuse of building material; wall stratigraphy; Tharros punico-romana; architettura antica; riuso di materiale da costruzione; stratigrafia muraria The reusing of the building material is a practice widely documented in ancient sites with a continuity of life such as Tharros2, located on the mid-West coast of Sardinia (Fig. 2.1a). The urban area was identified between San Giovanni Hill and Oristano Gulf (Fig. 2.1b) and systematically excavated between 1956 and 1964 by Superintendent of Archaeological Superintendence of Cagliari, Gennaro Pesce3. After these excavation missions, this part of the site has continued to be objected of researches about public spaces4 and living quarter so far5. In the last years, the

fieldwork has led to identify a certain cultural continuity in the building choices between Punic and following Roman phases6, until the abandonment of the site happened around the year 1000 AD7. Therefore, several reuse forms of the building material are identifiable in the constructions: indeed, numerous stone blocks attesting at least a second use phase can be observed everywhere in the site. Among these, some elements show specific features that allow to distinguish their last function from their originally intended use. In some cases, the presence of these blocks into the wall stratigraphy allows to distinguish the restoration actions and determine the different use phases, in order to rebuild the chronology of the buildings whenever possible. Concerning this aspect, an example particularly significant is given by the building n. 588 (Figs 2.1c and 2.2a), in the central quarter: the wall stratigraphic sequence shows three different use phases at least9. The floor and

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1 I am grateful to Prof. A. C. Fariselli for her precious advice and suggestions during the course of the research on the living quarter of the site and on this specific topic. I wish also to thank the Superintendent Dr. M. Picciau, the previous Superintendents Arch. F. Martino and Dr. M. E. Minoja, and Dr. A. Usai of the Superintendence of Archaeology, Fine Arts and Landscape for the Metropolitan City of Cagliari and the provinces of Oristano and South Sardinia, for giving me the necessary permits for conducting the archaeological study in the living quarter of the site. 2 About the site, see Fariselli et alii 2017, 321–322; Fariselli 2018, 109–131. 3 Pesce 1966. 4 Tronchetti 1989; Morigi 1999, 159–178; Morigi 2004, 1193–1216; Floris 2014–2015, 39–79; Floris 2016, 47–64; Fariselli 2018, 109–131. 5 Marano 2014, 75–94; Fariselli et alii 2017, 327–329; Marano - Silani 2017, 282–286; Marano 2019a, 1–10; Marano 2020.

About the cultural persistence in Sardinia between Punic and Roman Age: Bondì 1990, 475–464; Bonetto 2006, 257–270. 7 With regard to the history of the site, Fariselli et alii 2017, 321. 8 Pesce 1966, 135. 9 Marano - Silani 2017, 284 and 286. 6

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Melania Marano

Fig. 2.1. Tharros on the Sardinia’s satellite picture (a: from Google Earth Pro, modified); aerial view (b: from Belfiori et alii 2019) and archaeological map of the ancient site (c: Pesce 1966).

the portion of the wall with two painted bands visible at the bottom of the south-western corner represent the earliest evidences. Subsequently, the floor was destroyed along the western and eastern sides, allowing to build the western wall consisting of sandstone blocks before and then the others made of sandstone and basaltic unworked elements10. With regard to worked blocks, some of them are attributable to clearly defined classes. Some elements are no longer visible in situ, but the historical records of the archaeological excavations attested their reuse: this is the case of the “Monumental Temple”, excavated between 1958 and 195911. At the time of the discovery, the temple showed several sandstone blocks, attributable to the use phase of the 4th-3rd century BC, reused into the base of two different vespai. The latter are referable to the following phase dated to 1st century BC-1st century AD12 (Fig. 2.2b). These blocks were dismantled during the excavations in order to bring to light the more ancient structures and now are placed in the area of the eastern adjacent road, partially no longer paved (Fig. 2.2c). Most of those reused into the base of the vespaio n. 1 (Fig. 2.2c) are attributable to the different types of the Egyptian gorge cornices, to an angular pillar and to two quadrangular capitals; in the vespaio n. 2 some stone blocks with a decoration in low-

Fig. 2.2. View of a room of the archaeological context n. 58 (a: Photo by the author); vespaio n. 1 of the “Monumental Temple” (b: Pesce 1961); stone elements no longer in situ reused into the bases of the vespai n. 1, (c: Pesce 1961) and n. 2 (d: Floris 2014-2015); stone elements readapted into the quadrilateral structure of the “third phase” of the temple (e-h: Pesce 1961).

relief showing uraei snakes were reused13 (Fig. 2.2d). The sacred building shows also some reused sandstone elements in situ into the quadrilateral structure erected at the base of the Punic temple ramp during the so-called “third phase”. It includes some sandstone blocks with a cornice, parts of half-columns, a Doric half-capital and a proto-Aeolian capital topped by an Egyptian gorge cornice, all originally referable to the previous use phase14 (Figs 2.2e-h). Concerning the other areas of the site, some basaltic thresholds are readapted in some private buildings, while others are placed into some walls as building material in a later age in the western living quarter. In addition, the direct analysis has hallowed to document frequent reuse forms of the columns’ parts, such as capitals and shafts. About the first ones, two sandstone Doric capitals are visible on both sides of the stone seat in the Baptistery

10 Marano - Silani 2017, 284 and 286. About the architectural analysis of the area, Marano 2020, 151–152. 11 About the archaeological research in the temple, Pesce 1961, 333–440. With regard to the recent researches on this sacred area, see Floris 2014– 2015, 39–79; Fariselli 2018, 110–118. About the laser scanning activity in the temple, Belfiori et alii 2019, 553–561. 12 See Pesce 1961, 368–375; Floris 2014–2015, 44–48.

Pesce 1961, 371–375; Nieddu 2008, 30–31 and 41–42; Floris 2014– 2015, 45. 14 Pesce 1961, 362–367, 403–405; Nieddu 2008, 31–32; Floris 2014– 2015, 44–45. 13

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Reuse in the Ancient Architecture 1122 (Figs 2.1c and 2.3f). In addition, the half of a fluted sandstone column fragment was placed into a wall situated West of the “Monumental Temple”, with the fluted surface facing the inside of the wall23 (Figs 2.3g-h). Added to these, there is also a sandstone base of a pillar, cut and readapted into a wall of the space n. 3 (Figs 2.1c and 2.3i), in the western quarter. The living quarter shows also other stone elements reused with a new function compared to the first use: some blocks with traces of plaster, placed into some pillars of the opus africanum technique and into some walls of the western quarter, are probably attributable to parts of architraves of previous dismantled buildings24 (Fig. 2.4a). In proximity of these, some sandstone elements with rectangular impressions were placed into the walls of the building n. 10 (Figs 2.1c and 2.4a-b). These impressions on the surfaces had to be likely functional for placing a clay or lead pipes for water25. The new function as building material is testified by the positioning of the blocks that would not allow the correct use for placing a pipe, considering that the impressions do not continue vertically on the other upper and lower blocks26 (Figs 2.4a-b). Between those, there is one with an impression in L-form on the upper surface, in which a corner element of a pipe had to be probably placed. After its first use, it was reused as building material in the archaeological context n. 1127 (Figs 2.1c and 2.4c). Moreover, in the same living quarter, a block with curving upper side has recognised between the numerous reused stone elements: this is located in a wall of the area n. 2 (Figs 2.1c and 2.4d), in proximity of the entrance to the archaeological area28. Considering its features, it is attributable to the krossai class discovered in the near area occupied by the ruins of the fortifications erected on the San Giovanni Hill29, dating back to a Punic building intervention with some structural renovations in later age30. Another stone element attributable to the same class was reused in the 4th blocks row of a terraced wall dated to the first half of the 3rd century BC and identified on the Su Murru Mannu Hill during the archaeological researches conducted since 198831 (Figs 2.5b). Another one is placed in proximity of some walls situated in the area in front of spaces nn. 1–4 (Fig. 2.1c), North-West of the Castellum aquae. Furthermore, some stone elements

Fig. 2.3. Two capitals readapted in the Baptistery (a: Salvi 1989); trachyte capital no longer in situ reused as point of water supply (b: Nieddu 2008); parts of the basaltic smooth shafts columns placed into the walls of the western living quarter (c: Marano 2020; d: Photo by the author); parts of the sandstone smooth shaft columns reused into a wall on the bagnarola cistern n. 3 in the area nn. 51-52 (e: Bultrini et alii 1996) and in the opus africanum technique in the building n. 11 (f: Photo by the author); part of a fluted shaft column readapted into a wall West of the “Monumental Temple” and its detail (g-h: Photos by the author); base of a pillar reused into a wall of the space n. 3 (i: Photo by the author).

(Fig. 2.3a), erected in the 6th century AD North of Baths n. 115. The capitals, dated to the 2nd-1st century BC, have changed their original function, being placed upside down and reused as bases of columns that had to support a square canopy16. Besides, there is a trachyte Doric capital (Fig. 2.3b) no longer in situ, now located in proximity of the Castellum aquae. Considered similar to other capitals attributed to the sacellum of the 1st century BC in the “Monumental Temple”17, it changed its original function, being readapted on a well as point of water supply in an unknown moment18. About the shafts columns, some basaltic and sandstone parts with smooth shaft are frequently reused in a later age in the horizontal and vertical position into the walls of the buildings nn. 2319 (Figs 2.1c and 2.3c), 3020 (Figs 2.1c and 2.3d), into a wall erected on the bagnarola cistern n. 3 in the spaces nn. 51–5221 (Figs 2.1c and 2.3e) and into a pillar of the opus africanum technique in the building n.

Marano 2020, 106 and note 39. About the opus africanum technique, Mezzolani 1996, 993–1000; Morigi 2006, 29–51. 23 Marano 2020, 137 note 187. 24 Marano 2020, 103, note 32. 25 About the finding of clay or lead pipes in the site, Pesce 1966, 108; Righini Cantelli 1981, 89; Bultrini et alii 1996, 119–120 and 123; Marano 2019b, 106–108; Marano 2020, 25, 59 (note 176), 73–74, 137–138, 145 (note 229), 216, 263 and 275. 26 Marano 2020, 103, note 32. In addition, an irregular pentagonal shaped block with a pyramid-shaped side was reused in the same room, into the wall North of the entrance point. 27 Marano 2020, 106. 28 Marano 2020, 95. 29 Marano 2020, 95. About the krossai discovered in the site, Vighi 1995, 75–79. 30 Concerning the fortifications on the San Giovanni Hill, Giorgetti 1995. About the Punic defensive systems in Sardinia, Díes Cusí 2008, 67–77. 31 Acquaro 1995, 524–528; Francisi 1995, 37–42; Francisi 1996, 35–37; Francisi 2000, 1309–1317; Fariselli 2018, 110. 22

Salvi 1989. Salvi 1989; Nieddu 2008, 26–27. 17 Nieddu 2008, 27 and 29. 18 Nieddu 2008, 29. About the water supply system of the site, Bultrini et alii 1996, 103–123; Di Gregorio - Matta 2002, 106–111 and 116–131; Marano 2019b, 87–118. Concerning the water supply systems in Punic and Roman Sardinia, see Cespa 2018b, 1–23; also Cespa 2018a. 19 Marano 2020, 115, note 72. 20 Pesce 1966, 117; Marano 2020, 118. 21 Bultrini et alii 1996, 112–113; Marano 2019b, 110–111; Marano 2020, 147. 15 16

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Melania Marano

Fig. 2.4. Walls of the building n. 10 in which some sandstone elements attributable to the parts of architraves dismantled from previous buildings and with rectangular and L-form impressions useful for placing the pipes for water are reused (a-c: Photos by the author); wall in the area n. 2 in which a sandstone element attributable to the krossai class is readapted (d: Photo by the author); sandstone blocks reused as steps in the house n. 10 (e: Marano 2020); basaltic elements readapted in a wall and on a well of the building n. 56 (f: Photos by the author; g: Marano 2019b); cistern n. 1 located in the central quarter (h: Marano 2019b).

reused in a passage point between two rooms35 (Fig. 2.4f), but also in correspondence of a well situated in the southeastern room. Indeed, a basaltic rectangular element was used as point of water supply on the well36 (Fig. 2.4g): it was most likely readapted for this purpose in its last use phase, considering its smaller dimension than upper opening of the well37. In addition to the stone elements, the reusing of the relevant parts of the walls from buildings partially dismantled is also attested in the site: it is the case of the bagnarola cistern n. 1, in the area n. 4038 at northwestern corner of the central quarter (Figs 2.1c and 2.4h). The northern side shows a restoration at the water supply well. This last is part of the first building project, but it shows a significant restoration in the upper part, consisting in the alternate rows of the sandstone blocks and clay

were also readapted in other parts of the buildings beyond those mentioned so far, placed into the walls: indeed, some sandstone blocks are used as steps into the house n. 10 (Figs 2.1c and 2.4e), permitting to access from the entrance room to other two in the inner part of the building32. Considering the structural features, these steps were probably added in a later moment than first building project, being originally most likely part of the near walls33. Besides, there are also the evidences in the building n. 56 (Fig. 2.1c), in the central quarter. The building, characterized from a quadripartite plan34, shows stone blocks reused not only in all the walls, among which a basaltic block with a rectangular central horizontal impression had to be maybe

Marano 2020, 98–99. About the reuse of blocks as steps, a basaltic element is readapted into a staircase in the central quarter (Fig. 2.2a), Marano 2020, 36 and note 117. 33 Marano 2020, 99. 34 Fariselli et alii 2017, 328–329. 32

Pesce 1966, 134. Pesce 1966, 134. 37 Marano 2019b, 103–104. 38 Pesce 1966, 128. 35 36

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Reuse in the Ancient Architecture tiles39. This is a part of a wall readapted on the cistern, in which a curved impression was created in the point of the water supply well40 (Fig. 2.4h). This action has moved upward the point of the water supply, maybe for its use from an upper floor. Considering the architectural features of the wall fragment, it comes probably from a building attesting the same building technique, such as Castellum aquae or Baths, located at North and East of the cistern. This restoration is particularly relevant to define the use phases of the basin, therefore still in use in the 3rd century AD at least41. Some evidences attesting similar reuse forms of the building material are also documented out of the central urban area, as on the San Marco Cape and Su Murru Mannu Hill. In the first case, in particular on the western side of the San Marco Cape, the archaeological evidences of the so-called “tempietto rustico” consist of the some fragments of the walls attributable to the last phase of the building, dating back to the 3rd-2nd century BC42. The edification of these structures, composed by sandstone pieces and basaltic elements, would appear to be the result of a recovery activity of the building materials taken from

more ancient constructions43. Finally, about the second case concerning the evidences situated on the Su Murru Mannu Hill, here some votive monuments were readapted in a rectangular basement44 (Fig. 2.5a). In addition, some stone elements were reused in the abovementioned terraced wall (Fig. 2.5b), besides the block attributed to the krossai class45. The blocks show some offsets, grooves for dovetail clamps and remains of the plaster with some inscriptions46 that reveal the sacred nature of the buildings in which they were originally in use, in a period preceding the first half of the 3rd century BC47. The examples presented here are very important for defining the structural changes made in the buildings in their whole life. Considering the problem for dating some areas in absolute way, the identification of these elements has contributed to distinguish some structural phases and rebuild the sequences of the wall stratigraphic units. This has allowed to establish some fixed points in the occupation history of each structure and comprehend the buildings and their changes occurred during the whole period of the use until the abandonment of the settlement. Bibliography Acquaro, E. 1975, “Tharros II. Lo scavo del 1975”, in RStFen, 3, 213–220. Acquaro, E. 1995, “Tharros, Cartagine di Sardegna”, in RendLinc, 6, 23–41. Belfiori, F. - Floris, S. - Marano, M. 2019, ““Sacra Tharrhica Project”: Preliminary Results of 3D Virtual Reconstruction of the Punic-Roman Sacred Areas of Tharros, Sardinia”, in Open Archaeology, 5, 553–562. Bondì, S. F. 1990, “La cultura punica nella Sardegna romana: un fenomeno di sopravvivenza?”, in A. Mastino (ed), L’Africa Romana. Atti del VII convegno di studio, Sassari, 15–17 dicembre 1989 (16, 1), Sassari, 457–464. Bonetto, J. 2006, “Persistenze e innovazioni nelle architetture della Sardegna ellenistica”, in M. Osanna M. Torelli (eds), Sicilia ellenistica, consuetudo italica. Alle origini dell’architettura ellenistica d’Occidente (Spoleto Complesso Monumentale di S. Nicolò, 5–7 novembre 2004), Roma, 257–270. Bultrini, G. - Mezzolani, A. - Morigi, A. 1996, “Tharros - XXIII. Approvvigionamento idrico a Tharros: le cisterne”, in RStFen, 24 suppl., 103–127. Cespa, S. 2018a, Nora. I sistemi di approvvigionamento idrico (Scavi di Nora, VII), Roma.

Fig. 2.5. Votive monuments reused in a basement on the Su Murru Mannu Hill, on the left side of the image (a: Fariselli 2018); stone elements reused in the terraced wall on the Su Murru Mannu Hill (b: Acquaro 1995).

Fariselli et alii 2016, 367–368. About the building, also Morigi 2003, 141–158. 44 Fariselli 2015, 47; also Acquaro 1975, 219–220; Moscati - Uberti 1985, 33, 127 and 129–135. 45 See supra. 46 Francisi 2000, 1309; Fariselli 2015, 47; Fariselli 2018, 110. About the inscriptions recognised on the blocks, see Fariselli 2019, 129–139 and previous bibliography. 47 Fariselli 2018, 110; Fariselli 2019, 133. 43

Bultrini et alii 1996, 110–111; Marano 2019b, 109–110. Marano 2019b, 109–110; Marano 2020, 139. 41 Marano 2019b, 110. 42 Fariselli et alii 2016, 367. 39 40

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3 For a New Reading and Interpretation of an Imperial Building Complex at the 16th Mile of the Via Appia. Giulia Moretti Cursi Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ The paper focuses on an area of the Ager Aricinus at the 16th mile of the Via Appia (next the ancient site of Ariccia), delimited to the west and north by the so-called temple of Diana. There are still preserved some structures from the mid-2nd century AD recorded in the 18th century sources and in the cartographic reproductions of the 19th-20th centuries. So far, their interpretation has gone through a plurality of hypotheses for which there is a need to undertake an analytical study in order to understand its function in antiquity and its impact in the landscape of modern age. The paper will take place in two phases: examination of the historical cartography to identify the ownership of the fund on which the structures insisted and realization of a graphic restitution of the plan, integrating what has been preserved and handed down from past documentation and proposing a building vector reconstruction (CAD). L’intervento è un focus su un’area dell’Ager Aricinus al XVI miglio della Via Appia nell’area urbana di Ariccia (tra la Via Appia e il centro abitato), delimitata a ovest e a nord dal cosiddetto tempio di Diana. Nella suddetta area, ora quasi interamente urbanizzata, sono ancora conservate alcune strutture della metà del II secolo d.C. per le quali si rintraccia un’ampia documentazione nelle fonti antiquarie del XVIII secolo e nelle riproduzioni cartografiche tra il XIX e il XX secolo. Finora la loro interpretazione è passata attraverso una pluralità d’ipotesi per le quali si avverte l’esigenza di intraprendere uno studio analitico al fine di comprenderne la funzione nell’antichità e l’impatto nel contesto paesaggistico di età moderna. Lo studio si svolgerà in due fasi: esame della cartografia storica per identificare la proprietà del fondo su cui insistono le strutture tramite la consultazione della Collezione I e II dei Catasti e delle Collezioni di disegni e mappe presso l’Archivio di Stato di Roma e la realizzazione di una restituzione grafica dei resti, integrando quanto conservato e quanto tramandato dalla documentazione del passato e proponendo una ricostruzione vettoriale (CAD) dell’edificio. Keywords: Ager Aricinus; Roman amphitheatres; historical cartography 1. Ager Aricinus: pre-existences and erudite narratives

The history of the research and excavations that affected the area is dense and rich in noteworthy elements that allow you to open a glimpse into the 18th century erudite panorama revealing its social dynamics and the cultural vehicles to which it was subjected. On the basis of an extensive antiquarian tradition of the area, already matured in the 16th century2 and made even more solid in

The topic of this paper stems from a specific desire for further study and critical reflection in order to understand and define the structural and functional characteristics of the building remains, within the Ager Aricinus, of the area located at the 16th mile of the Via Appia in the sector extending to the east of via delle Vignole, delimited to the west and north by the cell of the so-called temple of Diana. In particular, as regards the plan metric reconstruction and topographical studies on this area, I was able to find the existence of a certain fragmentation and incompleteness in the exposition of the diagnostic and structural characteristics of the aforementioned structures, together with a widespread reticence in the formulation of general hypotheses1.

2 Lefevre 1973, 82; Lucidi 1796, 228; Pontari 2011, 66. A further reference to the ruins and ancient buildings along the ancient Via Appia from Albano to Genzano is in the Commentari by Pio II Piccolomini (1462): “hinc pontifex Albam redit et sequenti die ad visendum lacum Nemorensem [...] sese contulit, Appia via profectus quae adhuc strata cernitur [...] Antiquae ruinae ad sinistram in monte mansere, sub quo reliquae veterum cernuntur aedificiorum, quas Bovillas [?] dicunt [...]”. Paschini 1933, 50; Bonomelli 1953, 155; Lefevre 1975, 82–83; Totaro 1984, 307–308. Finally, we know that the Neapolitan architect and painter Pirro Ligorio (1510–1583) also recorded the discovery, in the territory of Ariccia at the time of Cardinal Ippolito d’Este, of a “nobile statua di Esculapio sopra un piedistallo rotondo di bianco marmo”, of a marble friezed around with the inscription ‘M. Tarchetis M.A. Priscus - Eq. Romanus - Dianae Aricinae - Bonae Deae D.D.’ e di altre iscrizioni riguardanti Diana Aricina, il Collegium Lotorum e i Flamines Virbiales”. Pratilli - Strina 1745, 79. For a hypothesis on the location of

See Tavoletta IGM 150 (25 000) III SE. 1884, valle Ariccia (available at the Cartoteca Società Geografica Italiana, Rome).

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Giulia Moretti Cursi the 18th century by the influx of scholars related to Chigi family3, the figure of a local canon, Emanuele Lucidi4, acquires particular importance for being the author of the book Memorie dell’antichissimo municipio ora terra dell’Ariccia, published in 17965.

this location6. Particularly relevant for this area are the data obtained from the information displayed by Lucidi regarding the vineyard of Paolo Minimi7, which are strictly linked to the history of the excavations carried out by Despuig in 17918 (Fig. 3.1). This sector to the right of the Via Appia is particularly difficult as, according to Lucidi, in addition to the amphitheatre, the forum area was also found there. From an urbanistic point of view, the area in question was included in the expansion project of the primitive wall circuit of Ariccia, presumably made during the 3rd century BC, following the granting of Roman citizenship9, which defined a new phase of expansion of the city10, towards the more favourable side, thus including

This work collects, according to an erudite method, a great deal of information on the history of studies, on the physical geography and on the historical and literary sources of the city of Ariccia, many of which based on the direct vision of the relevant ancient remains and buildings. In the descriptions concerning ancient structures and monuments, some recurring descriptive features are evident: the indication of the ownership of the land mentioned and the description of the materials and/or objects found. However, despite an attempt to rationalize and critically select the information reported, the descriptions relating to the structures and excavations carried out appear almost always more summary than those concerning the discovery of objects and statues, both intact and fragmentary. Furthermore, topographical indications about the discovery of ancient objects and materials are commonly lacking in accuracy and show a character of local updating together with a colloquial register. Despite the absolute lack of graphic reproductions, his work remains fundamental for the knowledge of the antiquities of Ariccia and its territory, also in consideration of the fact that in numerous cases its descriptions remain the only evidence of monuments in large part destroyed or obliterated by the progress of contemporary constructions, as in the case of the structures covered by this contribution. The narrative technique used is that of the travel guides for which, following the route traced by the ancient via Appia, starting from the stretch near S. Maria della Stella, are illustrated the ancient structures still existing in the land on both sides of the road. In this regard, the indication of the name of the owner and the tenant of the land in which a discovery is reported are both fundamental, since often, through the brogliardo of the Gregorian Land Registry, it is possible to identify

Unfortunately, this was not possible in the case of Ariccia as the brogliardo containing the descriptions of the particles indicated in map 13 of the Gregorian Land Registry was never delivered to the State Archive of Rome at the time of the transfer made by the ufficio Tecnico Erariale in 1988. The transfer consisted of two organic “series” of cadastral documents (large scale maps in 1/2000-1/1000 and scaled down maps of 1/8000-1/4000), both as integral part of the archive of the General Presidency of the Census, established in 1816 as a technical office which collaborated between 1817 and 1838 in the creation of the Land Registry together with the corresponding government section. Zangheri, 1980, 61–63; Spagnuolo 1995, 5–96. 7 For a complete list of materials found in the vineyard, Lefevre 1973, 93– 94. For information on the statue of Silenus, now hosted in the Vatican Museums, Lefevre 1977, 90; Fea, 1792, 313; Fea 1832, 53; Fea 1833, 9; Pietrangeli, 1982, 64. 8 These excavations were conducted between 1789 and 1791 by two personalities from the cosmopolitan world of Rome: Antonio Despuig y Dameto, a native of Palma de Mallorca and the Hearer of the Sacred Rota for the Crown of Aragon; and Alessandro de Souza Holstein, count of Soufré and plenipotentiary minister of Portugal to the Holy See. For a topographical reconstruction of the excavations undertaken by Despuig between 1789 and 1791, see a 17th century map preserved in the Chigi Archive in which the tracing of the ditch leading the water from the emissary of the Lake Nemi is visible: so, it was possible to locate the Alberti vineyard (a location close to the Via Appia from which the explorations of the Majorcan cardinal had begun) and the Minini vineyard, for which see infra Archivio Chigi, inv. 24995. For further analysis on the archaeological campaigns moved by the cardinal’s scholarly interests: Moltesen 2003, 244–246; Pasqualini, 2003, 302; Bignamini - Sekul Hornsby 2010, 111; Cacciotti 2019, 355. 9 Liv., VIII, 13; Bloch - Guittard 1987, 33–35. On a possible historiographic interpretation of the passage, also: Toynbee 1965, 130–136; Sherwin-White 1973, 58–66; Humbert 1978, 176–195. In the passage of Livy, a reference is made firstly to the episode of 416 BC in which the Aricini, together with the inhabitants of Lavinio and Velletri, were attacked by Caio Menio near the Astura River and defeated. The conferral of citizenship is attributed by Livio to the year 338 BC when the Aricini, the Nomentani and the Pedani were granted the same rights as the Lanuvini. The debate on the civic rank received by the Lazio town is controversial because, if on the one hand, some authors (Cicero, Balb., 13, 3 and Phil., 3, 6, 15; Paul., 155; Val. Max., VIII, 2, 4; De Ponor 1889, 159; Lindsay 1913; Manni 1947, 18 and 27; Boulanger - Wuilleimier, 1959, 172–174; Cousin 1962, 259; Briscoe 1998, 510) inform us about the acquisition of a Roman civitas with full rights according to the formula of the municipium optimo iure, on the other hand, Lilli (2002, 41) affirms that it first became a civitas sine suffragio and, only after its inclusion in the Horatia tribe, a municipality with full powers. 10 The layout followed by these walls can be compared with some property limits marked on the map of the Gregorian cadaster of the early 19th century (ASR, Catasto Gregoriano, ant. Prov. Cromarca, Mappa n. 13) and with the measurements carried out by Lanciani (mss. 85/1, 167) and subsequently confirmed by Florescu (1925, 18, Tav. I). Otherwise, Canina (1854, tav. IX of the via Appia) assumes that the walls, after the straight stretch in which two apses were found in large cross-linked work, bend at the height of Via delle Vignole with an inclination of almost 45° towards the north-west - in Canina 1856, tav. LXII, the straight section in which the apses are located is reported, but not the one that folds. The walls follow a straight-line pattern, along the southern side, at a distance from the ancient Via Appia between 70 m (at the western end along the eastern side of the current Via di Mezzo) around 120 m (at the end east towards Via di Valle Ariccia, following a north-west/south6

the Aesculapius statue in the Pirro Ligorio’s project design for the villa of Cardinal Ippolito d’Este in Tivoli, Giannetti 2019, 50. 3 They took possession of the feud of Ariccia from the Savelli family in 1661, starting a complete renovation of the village. 4 He was born in Ariccia on 15th August 1734 from Paolo Lucidi and Maria Maddalena Malcelli. After completing his seminary studies and embracing the priesthood, he obtained in 1755 the appointment as canon of the “insigne Chiesa collegiata e parrochiale di S. Maria Assunta”, through the intercession of the pope Benedict XIV. In 1780 he obtained the position of archivist of Arriccia providing the administration of the baronial curia, including the deeds of local notaries and the acts of civil and criminal jurisdiction. He also held the position of governor of Ariccia. He died in Ariccia on 29th November 1798. Lefevre 1975, 149–154. 5 Despite the importance of the work for the study of the area of ​​Ariccia from a historical perspective, it is not unique from a literary point of view, but has several previous examples: Mattei 1711; Ricci 1787; Ranghiasci 1792. All these works are affected by the elements of innovation and historical reflection introduced by Ludovico Antonio Muratori, the director of the Archive and of the Ducal Library of Modena, who was the author of three important collections: Rerum Italicarum Scriptores (1723–1738), Antiquitates Medii Aevii (1738–1743) and Annali d’Italia (1744–1749). In all of these works the attention for the historical research was combined with a strong interest in economic and social factors.

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For a New Reading and Interpretation of an Imperial Building Complex at the 16th Mile of the Via Appia (Pl. 3) and “an amphitheatre with an oval shape”12 (Pl. 4). Continuing in Lucidi’s exposition, we find a scholarly excursus which he uses as a bibliographic support to carry out a comparative analysis between the aforementioned amphitheatre and the other known amphitheatres: the amphitheatre of Pola, the Colosseum and the “Arena” of Verona: “Se si fosse continuato lo scavo si sarebbero trovati forse altri monumenti, i quali avrebbero deciso, se questa fabbrica fosse veramente un anfiteatro, come io suppongo: ma lo scavo fu chiuso, con speranza però, che si sarebbe continuato. Da quanto però si è trovato, sembrami potersi dedurre, che questa fabbrica servisse ad uso di anfiteatro. Le misure veramente corrispondono più a quelle, che il marchese Maffei13 nel celebre suo Trattato degli anfiteatri dà all’anfiteatro di Pola, che a quelle del Colosseo e dell’arena Veronese; e ciò potrebbe per avventura far sospettare, che in vece di anfiteatro fosse teatro, come il lodato Maffei prova di quello di Pola; ma le misure non decidono. La forma piuttosto non circolare, ma ovale potrebbe caratterizzarlo più per anfiteatro, che per teatro, cui gli antichi davano comunemente la figura semicircolare perfetta, ed anche la circolare intera, come provò il Poleni14, comprendendo nel recinto l’orchestra, la scena e tutto ciò, che formava l’antico teatro. Ciò però comunemente ma non costantemente si costumava, come vuole il ch. Signor Milizia15” (from Lucidi, Memorie, 216).

Fig. 3.1. Vatican City, Vatican Library, Archivio Chigi, n. 24995, Ariccia map, XVII century. The red arrow indicates the Minini vineyard (Reworked from Lilli 2002).

An interesting question emerges from the interpretative analysis proposed by Lucidi: the shape of the Roman amphitheatres. Despite the existence of some theories in this regard, the degree of caution adopted by the acceptance of a building issue that cannot be resolved is evident from the observation of quantitative data only. The interpretation of these structures, while reporting apparently irrefutable diagnostic features, is controversial and has seen the alternation of different theories that I will explain below. In the itinerary compiled by Nibby in 181916 we find a similar mention of these structures at south-east of the temple and to the right of the Via Appia. While advancing a hypothesis regarding their chronology at the Julio-Claudian era as “ben fabricate”, Nibby does not provide any information about their possible functional interpretation. Other references concerning the same area are found in the graphic documentation created by Canina and Rosa17 in the second half of the 19th century. The first, in 1854, reports of the existence, on the opposite side of the Via Appia with respect to the fund attributed to the Azii, and below the walls, some remains in brick work attributed by him, for their good workmanship, to a “nobile edifizio”, but unfortunately “nulla può stabilirsi

the stretch of the ancient via Appia between the current via di Mezzo in the north-west and via di Valle Ariccia in the south-east. Following these urban renovations, the eastern sector of the upper city and the entire surface of that below it, are affected by a first zoning, which involves the construction of some buildings, with a view to more general adaptation to the new economic and social realities by virtue of the opening of new economic circuits between the upstream and downstream areas of the inhabited centre and the achievement of municipium status. This urban dynamic is known both from examples of conditioned urban centres (Arpino, Alatri, Ferentino, Artena, Venafro), and from those cities with almost irrelevant orography (Fondi, Privernum, Aquinum, Saepinum) to the construction of a road system and a redefinition of the forensic area11. 2. From historical cartography to data interpretation Dwelling on the numerical data previously exposed by Lucidi’s words, we obtain a topographical description of the rooms according to a quadripartite criterion in: a “large atrium or courtyard of magnificent building (...) with a square shape” (Pl. 1), “a room square” (Pl. 2), “a runner”

Lucidi 1796, 215. Maffei 1826, 306. 14 Poleni 1735, 43. 15 Milizia 1822, 44. 16 Nibby 1792–1839. 17 Some hints are also present in Nibby 1792–1839, 158; Canina 1854, 105–106, tav. IX della Via Appia; Canina 1856, tav. LXII; Lanciani CVatLat. 13045, 165r.; Lanciani mss. 85/1, 167; Rosa SAR, inv. 3286 cass. 9/2 cart. A dis. 638. Other brief indications in Coarelli, 1981, 96. 12 13

east orientation). The new area included in this second circuit covered an area of approximately 80,000 m2. At present, it is still possible to observe sections of walls on both sides (western and eastern), despite the agricultural processing of the land on which they insist. 11 Lilli 2002, 82; Morselli - Tortorici 1882, 39; Sommella - Migliorati 1988, 25 and 27.

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Giulia Moretti Cursi

Fig. 3.2. Ariccia. Ancient Building, BGR GDS inv. 5209 (left). Ancient building ASSAR inv. 3286 (right). (Rosa 1865).

sulla sua pertinenza e destinazione18”. As regards the graphic material linked to the figure of P. Rosa, we know that in a letter of the end of December 25, 1855 he provides detailed information on the works in the Lavinio19 area and on the sanctuary of Diana Nemorense. The two letters of 1856 deal - on 22 March - with the work on the publication of the temple of Diana Nemorense and the possibility of involving des Vergers in a great work, the other letter on November 14 - informs us of about the discovery of an inscription20. In the three letters of the following year, the speeches on Ariccia and the honorary monuments and inscriptions found here - 15 and 19 January - were taken up and enlarged, then there was a controversy against “un imbecille anonimo” in a step on the value of the maps. Among the drawings by Pietro Rosa preserved in the historical archive of the Special Superintendence for the Archaeological Heritage of Rome, three formats can be distinguished: cartographic drawings of the path of the valleys to better specify the topographical relief, a series of drawings with different forms of perspectives and different floor plans of ancient buildings, such as that of

Ariccia. The sketch of Ariccia which is found among the tissues of the Superintendence of Rome has some peculiar details. The walls are indicated with the help of different markers, some dark and others of a reddish-brown color, able to show the preserved and/or reconstructed parts. In a second drawing kept in Rimini, in the Drawings and Prints Cabinet of the Gambalunga Library21, the plan of the same building is accompanied by the linear perspective which on the one hand confirms the previous hypothesis, on the other it puts it in doubt22 (Fig. 3.2). The comparison between the two drawings clearly shows that Rosa indicates the parts preserved in black and the elements resulting from integration with the hatching. In addition to this, the reconstruction of the building is also different. At various points changes are seen, especially in the part of the vestibule, but also in the two niches of the facade, missing in the first drawing, and in the division of the room behind the central hall. If we consider the documentation offered by the walls, the second drawing is more precise than the first and reveals the contribution I would like to thank, here, Dr. M. Di Geronimo who allowed me to consult the entire series of drawings preserved in the Fondo des Vergers of the Gambalunga Library in Rimini relating to the correspondence exchanged between A. Noel des Vergers, Wilhelhm Henzen and Heinrich Brunn. For further information about their partnership, Blanck 2009, 298–301. 22 von Hesberg 2014, 367–368. 21

Canina 1856, 106. 19 Rosa 1856, 5–8; Rosa 1869, 86–193, tav. I. The report on the remains of Diana Nemorense’s temple was first sent to des Vergers to present it to the Institute of France. 20 Blanck 2009, 142–144. 18

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For a New Reading and Interpretation of an Imperial Building Complex at the 16th Mile of the Via Appia

Fig. 3.3. Ariccia, archaeological map (Reworked from Florescu 1925).

of a more updated graphic documentation by virtue of the execution of new reconnaissance campaigns. In Ms. Lanciani 85/1 preserved at BiASA23, Lanciani follows the topographical representation with a detailed list of the archaeological structures found inside the town of Arriccia and in the extra-walled territory. Within this list, under the heading AMPHITHEATRUM, it reports: “a Despuig effossum a. 1791. Vide quod disseret de eo

Lucidi pp. 104, 126, 214”. In the same place described by Lucidi and, more precisely, inside the runner that departs from the quadrangular environment in the outer corner of the atrium and continues up to the entrance in the second of the two major doors of the amphitheatre24, Florescu notes the existence of a corridor covered with earth and empty in the interior which, in the southern part, due to the natural slope of the ground, is buried for half up to about 0.50 m from the thrust of the vault and, for the other half, up to m. 1.5 in height of the side walls25 (Fig. 3.3).

23 They are five manuscripts, numbered from n. 84 at n. 88 bis and dated to the end of the 19th century (mostly autographed by Lanciani), forming the “Codex topographicus Urbis Romae ab aevo Constantiniano ad finem saeculi XVI. Composuit R. Lanciani” divided into two parts, the first concerning the city of Rome and the second the districtus Urbis.

24 25

21

Florescu 1925, 31–32. Florescu 1925, 33, tav. I n. 5.

Giulia Moretti Cursi According to his account, continuing north-west coming from south-east, in the already Laurenti garden you reach a point where the ground shows a greater height than in the rest of the city, detecting a conspicuous amount of fragments of masonry among the vine trunks, which he considered as the remains of a factory of considerable size and architectural grandeur. The entrance, at the time of Florescu, had been made possible through a hole made in the wall by the owner of the land in order to obtain a closet for garden tools. With respect to what has been said so far, it is not possible to deduce any certain hypothesis about a precise identification of the structures in question since none of them has survived today. However, Florescu himself, in addition to remembering the existence of a square environment with four semicircular compartments at the corners and a rectangular cistern, also notes the presence of the aforementioned corridor, citing a thermal destination26 as probable. We have therefore reached an interpretative stage of the solutions and data proposed during this exhibition. As we can see from the CAD plan based on the data provided by Lucidi, the structure is clearly comparable with that of a small amphitheatre with an overall capacity of around 1100 - 1200 spectators27 (Fig. 3.4). Unfortunately, none of the amphitheatres studied so far has characteristics that can be reconciled with the so-called Ariccia amphitheatre because they have much larger dimensions. Another critical issue on the planimetric reconstruction subject of this presentation was the attribution of the wall thickness of the proposed structures28. With regard to the shape proposed for the Ariccia amphitheatre, it was preferred to stick to an oval construction starting from the axis measurements, bearing in mind the age-old geometric questions about the exact definition of a geometric shape of the Roman amphitheatres29. Having reached the end of this paper it seems appropriate to consider that on the basis of the data collected and deduced from the observation of the historical cartography that the structures presented are compatible with the measurements of a small amphitheatre even though it was not possible to make more precise comparisons and reliefs of surviving materials.

Fig. 3.4. CAD reconstruction of the Ariccia building on the basis of data provided by Lucidi 1796 (by Moretti Cursi Santarelli).

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26 The elements on which this hypothesis is based are, on the one hand, the proximity to an important communication route (the Via Appia) and on the other, the presence, to the east, of the town of Ariccia. Sommella Migliorati 1988, 191–198; Lilli 2002, 77–78. 27 Studies on Roman amphitheatres are manifold. Here we will remember that of Golvin 1988 and Wilson Jones 1993, 391–394. Both these studies, in addition to constituting a milestone for the architectural reconstructions of the Roman amphitheatres, constitute real databases for the acquisition of quantitative numerical data about the internal and external dimensions of the architectural and structural elements. 28 An interesting fact is offered by reading the external portico of the Ludus Magnus connected to the Flavian amphitheatre through a similar corridor that started from the external corner of the masonry and which has a thickness of about 1.5 m for a three-storey elevation. Serra - Ten 2013, 207. 29 According to Salati 2014, 69, in the construction of the amphitheatres the Roman architects prefer the oval to the ellipse also in relation to proven planimetric data. Wilson Jones as part of his study (which concerns amphitheatres built in the imperial age such as: Pola, Verona, Roma, Pozzuoli, Nimes, Arles, Capua, Salona, Italica, El-Jem) has verified that in all the cases studied the cavea rings are perfectly concentric (in the Colosseum the gap is only 4 cm) and therefore the shape of the latter can only be an oval. Wilson Jones 1993, 398.

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Giulia Moretti Cursi Lunghezza

31,02 m. (141 palmi)

Larghezza

0,22 m. (129 palmi)

Distanza tra primo e secondo muro del “primo corridore”

1,98 m. (9 palmi)

Distanza tra primo e secondo 0,66 m. (3 palmi) muro del “secondo corridore”

Pl. 1. Lucidi, Memorie, 214. Lunghezza lato della stanza quadrata

2,64 m. (12 palmi)

Pl. 2. Lucidi, Memorie, 215. Distanza tra corridore e atrio

4,4 m. (20 palmi)

Distanza tra i due muri del corridore

3,52 m. (16 palmi)

Lunghezza del corridore

5,94 m (27 palmi)

Pl. 3. Lucidi, Memorie, 215. Larghezza I porta grande

2,86 m. (13 palmi)

Lunghezza anfiteatro

31,68 m (144 palmi)

Larghezza anfiteatro

24,64 m. (112 palmi)

Larghezza II porta grande

3,52 m. (16 palmi)

Distanza AB

0,88 m. (4 palmi)

Larghezza porta B

0,88 m. (4 palmi)

Distanza BC

9,02 m. (41 palmi)

Larghezza porta C

1,1 m. (5 palmi)

Distanza CD

9,9 m. (45 palmi)

Larghezza porta D

1,1 m. (5 palmi)

Pl. 4. Lucidi, Memorie, 215.

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4 Trasformazioni urbanistiche nella Sicilia centro-occidentale di età tardoellenistica e protoimperiale1. Riccardo Olivito Scuola IMT Alti Studi di Lucca The important acquisitions in numerous sites of north-western Sicily make this an extraordinary case to investigate a long-standing historiographical and archaeological issue: the one on the so-called Romanization and the consequences of the growing influence of Rome in many areas of the Mediterranean starting from the middle of the second century BC. Already affected by intense dynamics of interaction between different cultures and socio-political identities, the north-western sector of the island allows us to analyse how an area inspired by Greek and microAsiatic urban models influenced and was influenced by the contact with Rome. So, the paper aims at analysing the role that Sicily in general, and its north-western sector in particular, seem to have played in conveying architectural and planimetric solutions that had a strong impact on the architecture of Roman Latium from the 2nd century BC onwards, even independently of the micro-Asiatic models. At the same time, it will illustrate how, starting from the Augustan Age, an inverse dynamic (from Rome to Sicily) contributed to reshaping the urban nature of the very same Sicilian centres, leading to their increasing Romanization, from both an institutional and urban point of view. Le importanti acquisizioni in numerosi siti della Sicilia nord-occidentale configurano quest’ultima come uno straordinario campo d’indagine nel contesto di un’annosa querelle storiografica e archeologica: quella sulla cosiddetta romanizzazione e sulle conseguenze della crescente influenza romana in molte aree del Mediterraneo a partire dalla metà del II sec. a.C. Già interessato da profonde dinamiche di interazione tra culture e identità socio-politiche differenti, il settore NordOvest dell’isola consente di analizzare come un’area dai connotati urbanistici solidamente ispirati a modelli di chiaro stampo greco e microasiatico abbia influenzato e sia stata influenzata dal progressivo contatto con Roma. In questo senso, il contributo intende riflettere sul ruolo che la Sicilia in generale, e il suo settore nord-occidentale in particolare, sembrano aver giocato nel veicolare soluzioni architettoniche e planimetriche (disposizioni a terrazze, sfruttamento scenografico dei pendii naturali, ecc.) che incisero fortemente sull’architettura romano-laziale a partire dal II sec. a.C., anche indipendentemente dagli originari modelli microasiatici. Al tempo stesso, il contributo illustrerà come, a partire dall’età augustea, una dinamica inversa (dall’Urbe alla Sicilia) abbia contribuito a riplasmare il volto urbano di quegli stessi centri sicelioti, guidando verso una loro progressiva romanizzazione sia istituzionale che urbanistica. Keywords: Sicilia; architettura e urbanistica ellenistica; romanizzazione; Segesta; agorai; fora ancor più vero se ad entrare in gioco è l’annoso e non ancora totalmente esplorato dibattito sul tema della ‘romanizzazione’ dell’isola a partire dal II sec. a.C.3.

Chiunque1 si cimenti nell’arduo compito di tracciare un quadro di sintesi degli studi sull’urbanistica di età ellenistica e romano imperiale in Sicilia non avrà difficoltà a riscontrare una certa sproporzione tra il settore sudorientale e quello nord-occidentale dell’isola2. Ciò è

2015; Portale 2017) e il volume di S. De Vincenzo (2013) dedicato alle interazioni, anche in chiave architettonica, tra greci e punici nell’area dell’eparchia cartaginese in Sicilia. Per quanto riguarda l’età romana, ancora indispensabile è Wilson 1990. Lo stesso autore è più volte ritornato sul tema e qui si segnala solo Wilson 2013. Si rimanda invece al volume di L. Pfuntner (2019) per una più recente discussione delle trasformazioni urbane nella Sicilia di età romano-imperiale. Pur non esente da criticità, tale volume ha il merito di tracciare un aggiornato quadro d’insieme della situazione siciliana. 3 Come è noto, particolarmente complesso e discusso è il tema della ‘romanizzazione’, qui genericamente inteso come adattamento e acquisizione di consuetudini politiche, civiche, sociali, economiche e finanche urbanistiche e architettoniche da parte delle comunità che venivano progressivamente annesse all’interno della sfera di controllo di

1 Desidero ringraziare gli organizzatori del convegno Land Experience in Antiquity. Costruire. Ridefinire. Abitare (Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’, 15–17 maggio 2019) per aver accolto questo contributo negli atti risultati da una tre giorni estremamente proficua e stimolante. Un particolare ringraziamento va, inoltre, alla Dott.ssa Oriana Silia Cannistraci per i suoi consigli e suggerimenti sempre assai preziosi e graditi. 2 Oltre agli ancora fondamentali lavori di L. Campagna sull’architettura tardo ellenistica in Sicilia (Campagna 2006 e Campagna 2007) si vedano i contributi di E. C. Portale sulle dinamiche architettoniche e urbanistiche nella Sicilia del III sec. a.C. e sul ruolo cruciale di Siracusa (Portale

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Riccardo Olivito Certamente nell’analizzare le ragioni di una simile sproporzione non si potrà negare l’indiscutibile peso specifico giocato dalla presenza di una metropoli quale Siracusa4 e, in misura in parte minore, di Catania nel quadrante Sud-Est dell’isola. Solo in anni relativamente recenti, invece, la Sicilia nord-occidentale è stata coinvolta a pieno titolo nel dibattito tra gli studiosi. Ciononostante, si tratta di una tendenza ancora in parte viva e sorprendente, soprattutto nel caso degli studi architettonici e di urbanistica, se si considera che proprio questo settore dell’isola, già interessato da profonde dinamiche di interazione tra culture e identità sociopolitiche differenti (elimi, greci, punici), consente, attraverso i casi esemplificativi di Segesta, Solunto, Iaitas, Halaesa, di analizzare come un’area dai connotati urbanistici solidamente ispirati a modelli di chiaro stampo greco abbia influenzato e sia stata influenzata dal progressivo contatto con Roma. Pur nei limiti consentiti da questo contributo, dunque, si intende qui delineare il ruolo che la Sicilia nord-occidentale in particolare sembra aver giocato nel veicolare soluzioni architettoniche e planimetriche (ad esempio disposizioni a terrazze e sfruttamento scenografico dei pendii naturali) che incisero fortemente anche sull’architettura romano-laziale a partire dal II sec. a.C.5. Al tempo stesso, a partire dall’età augustea, e forse anche nei decenni immediatamente precedenti, una dinamica inversa (da Roma alla Sicilia) contribuì a riplasmare il volto urbano di quegli stessi centri sicelioti, guidando verso una loro progressiva ‘romanizzazione’, sia istituzionale che urbanistica. Nel tentativo di delineare questo complesso circuito di interazioni e influenze reciproche, attivo su una duplice direttrice (dalla Sicilia a Roma e viceversa) si utilizzerà il caso dell’agora/forum di Segesta (Figg. 4.1–2) come punto di osservazione privilegiato, richiamando di volta in volta gli altri centri precedentemente ricordati. Il contributo avrà in ultima analisi l’obiettivo di definire alcune tendenze che, pur non potendosi considerare universali, sembrano tuttavia predominanti in quest’area dell’isola.

nel corso del V sec. a.C., al punto da configurarsi come interlocutore principale di Atene nell’ambito della spedizione in Sicilia. Non può non stupire, dunque, l’assenza quasi totale di testimonianze archeologiche e monumentali riferibili alla Segesta di età classica e tardoclassica. La spiegazione di una simile assenza è stata a lungo ricercata nelle vicende che interessarono la città dopo l’assedio e la presunta distruzione da parte di Agatocle, il tiranno siracusano, nel 307/6 a.C. Tale ipotesi sembra, tuttavia, ormai da rigettare anche in considerazione di una revisione della documentazione letteraria7. Peraltro, le indagini archeologiche recenti non hanno evidenziato la presenza di indizi di una distruzione riferibile alla fine del IV sec. a.C. Ben più probabile, invece, è che la mancanza di chiare tracce della città di età classica vada imputata alle massicce e radicali attività di riorganizzazione urbanistica che interessarono Segesta, e soprattutto l’area della piazza, in età proto-ellenistica e soprattutto tardo-ellenistica. In questo momento, infatti, sia il sistema di viabilità interna che, soprattutto, l’apparato monumentale dell’agora videro un sostanziale cambiamento, destinato a segnare l’aspetto della città fino alla piena età imperiale ed all’abbandono della fine del II-inizi del III sec. d.C. Ciò che meglio si preserva sono i resti di edifici e strutture databili alla fine del II sec. a.C., che sembrano aver in parte ripreso, spesso in forme più ampie ed articolate, oltre che monumentali, edifici e complessi edificati già alla fine del IV-inizi del III sec. a.C. È il caso, ad esempio, del bouleuterion e di un adiacente edificio a peristilio, che sorgono sulla cosiddetta terrazza superiore della piazza cittadina. Mentre sulla destinazione funzionale, nonché sull’organizzazione planimetrica ed architettonica del primo dei due edifici non sussistono grossi dubbi, il secondo è stato a lungo, ed erroneamente, ritenuto un ginnasio. Più di recente è stato tuttavia possibile riesaminare la documentazione epigrafica ed archeologica relativa non solo alla sala del Consiglio ma anche al presunto ginnasio, stabilendo che i due monumenti dovettero verosimilmente costituire un unico complesso8.

La scelta di concentrarsi su Segesta si basa soprattutto sulla constatazione che quest’ultima, ed in particolare il settore della sua piazza pubblica, hanno negli ultimi anni apportato una straordinaria quantità di dati utili allo scopo di questo contributo6. Centro elimo occupato stabilmente fin dall’VIII-VII sec. a.C., è noto come la città di Segesta abbia vissuto momenti di grande potenza e importanza

In ambito siceliota, un parallelo è costituito dal più antico dei due bouleuteria di Iaitas9 (Fig. 4.3), che gli scavatori, non senza perplessità da parte di molti studiosi, hanno proposto di datare al IV sec. a.C. ma che molto più probabilmente risulta coevo all’edificio segestano e dunque databile alla fine del II sec. a.C.10. Anche in questo caso la cavea del bouleterion risulta iscritta all’interno di un edificio a pianta rettangolare, direttamente connesso ad un piccolo cortile a peristilio. Sia nel caso di Segesta che in quello di Iaitas le due strutture risultavano unificate in un unico complesso per mezzo di un portico. Nel caso di Iaitas, peraltro, è da notare come in una fase più tarda rispetto al primo impianto, all’interno

Roma. Lo stesso termine, che qui si è deciso di adoperare nell’accezione sopra delineata, è stato più volte messo in discussione e, soprattutto in anni recenti, esso è stato oggetto di dibattiti anche accesi. Non essendo qui possibile affrontare una discussione approfondita di tale questione, si rimanda alle ancora fondamentali considerazioni in Fentress - Alcock 2000; Keay - Terrenato 2001; Merrywather - Prag 2002. Per una disamina critica dell’uso di questo come di altri termini impiegati per segnalare cambiamenti culturali nelle comunità antiche, si veda anche Mattingly 2010, 22–42 e 203–245. Per la situazione siciliana Pfuntner 2019 (in particolare 191–206), con bibliografia precedente. 4 Portale 2017. 5 Su questo punto si vedano le recenti considerazioni in Rocco 2018. 6 Sono ormai numerosi i contributi dedicati all’agora/forum di Segesta. Per una sintesi Ampolo - Parra 2012 e, più di recente, Ampolo - Parra 2018 e Olivito 2017 [2018].

Bruno Sunseri 2000 (in particolare 9 e nota 25). Una revisione dei dati archeologici ed epigrafici relativi al presunto ginnasio segestano è in Cannistraci - Olivito 2018. 9 Per una descrizione degli edifici in questione si veda Isler 2012. 10 Su questo punto rimando alle considerazioni di Campagna 2006, 20–21 e, in risposta alle critiche dello studioso italiano, a Isler 2011. 7 8

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Trasformazioni urbanistiche nella Sicilia centro-occidentale di età tardoellenistica e protoimperiale

Fig. 4.1. Segesta. Planimetria generale dell’area dell’agora/forum (Rilievo di C. Cassanelli).

Fig. 4.2. Segesta. Modello ricostruttivo non texturizzato dell’agora (Rielaborazione di E. Taccola di Ampolo - Parra 2018).

del portico, addossato al muro del bouleuterion, sia stato aggiunto un basamento con modanature, solo parzialmente conservato. Una piccola scala di quattro gradini conduce alla parte sommitale del basamento. Alla modanatura superiore, molto frammentaria, appartiene un’iscrizione latina incompleta. Nel testo si menziona un personaggio di nome Gnaeus Hostilius, identificato dagli scavatori con un magistrato che avrebbe operato in Sicilia e che avrebbe fatto realizzare il basamento. Quest’ultimo sarebbe da

intendere come tribunal e di conseguenza costituirebbe un indizio evidente di una ormai ben definita presenza romana anche in termini di istituzioni politico-amministrative11. Sospendendo per un momento la valutazione del peso rivestito dalla possibile presenza di un tribunal nella stoa di Iatias, vorrei sottolineare come la combinazione di sala 11

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Isler 2012, 230.

Riccardo Olivito

Fig. 4.3. Planimetria (a) del complesso del bouleuterion/prytaneion sul lato Nord dell’agora di Iaitas; (b) planimetria generale dell’agora di Solunto e (c) planimetria generale dell’agora/forum di Halaesa (Rielaborazione di Isler 2012; Wolf 2012; Tigano 2012).

del consiglio ed edificio a peristilio non sia certamente invenzione siceliota. Il modello di riferimento, in questo caso, è senza dubbio quello del bouleuterion di Mileto12, dove la relazione tra le due strutture è così intrinseca da permettere di parlare di un singolo complesso architettonico13. Se a ciò si aggiunge il ruolo unificante giocato dal portico presente sia a Segesta che a Iaitas, non sarà difficile verificare le affinità planimetriche, e concettuali, con altri celebri esempi microasiatici, come ad esempio Priene14, o della Grecia propria, ad esempio Megalopolis15. Nei due casi testé citati gli scavatori hanno proposto l’identificazione funzionale dell’edificio a peristilio annesso al bouleuterion, rispettivamente con il prytaneion cittadino (a Priene) e gli archivi/archeia (a Megalopolis). Indipendentemente dall’accettazione di simili interpretazioni, peraltro problematiche, e dalla possibilità di estendere tali identificazioni ai casi di Segesta e Iaitas, non si potrà negare la diretta dipendenza architettonica e planimetrica dei due complessi sicelioti da modelli extra-isolani. Tornando a Segesta, l’impegno maggiore, dal punto di vista architettonico, fu profuso nell’area ad Est del complesso bouleuterion-peristilio. A seguito di imponenti attività di sbancamento, uno spazio di oltre 5000 m2 venne delimitato alla fine del II sec. a.C. da una monumentale stoa a doppio ordine (dorico al piano inferiore e ionico al piano superiore), con il lato Nord esteso in senso Est-Ovest per m 90 circa e due alae sui lati orientale ed occidentale estese per m 20 circa. Il portico segestano, così configurato, dovette fungere da modello per altri edifici sicelioti, tra i quali quelli di Solunto e Halaesa (Fig. 4.3). La possibilità di identificare nella stoa segestana il modello per i portici di Solunto16 e Halaesa17 deriva non solo dalla sua notevole monumentalità, essendo il portico di Segesta di gran lunga il più imponente ed esteso di quest’area dell’isola e uno dei più monumentali del Mediterraneo occidentale, ma

anche dalla cronologia della sua edificazione alla fine II sec. a.C., verosimilmente di poco precedente a quella degli altri esempi citati. A prescindere da tale dato cronologico, è qui interessante sottolineare come in tutti e tre i casi l’attenzione degli architetti sia stata posta in primo luogo sull’esigenza di raccordare i differenti terrazzi sui quali le rispettive piazze si articolavano. Nel caso di Solunto, ad esempio, il lato lungo della stoa consentiva di raccordare la terrazza su cui sorgevano il teatro ed il bouleuterion con quella della piazza vera e propria. E ad Halaesa un percorso viario che si sviluppava alle spalle del portico consentiva di raggiungere il terrazzo su cui sorgevano alcuni settori abitativi di particolare importanza e ricchezza. Ciò, ovviamente, non vuol dire che i tre edifici in questione siano del tutto simili. La differenza più evidente in tal senso è data dalla diversa articolazione interna dei portici. La stoa soluntina si caratterizza per la presenza di nove stanze o esedre, disposte lungo il lato lungo del portico. Tra esse spicca l’esedra più settentrionale, all’interno della quale è preservata una grande nicchia. Quest’ultima era destinata ad accogliere due statue corredate da due iscrizioni in caratteri alfabetici greci, che riferiscono della dedica a due amphipoloi, magistrati civili e religiosi di Zeus Olympios e di tutte le divinità, di nome Apollonios e Ariston, rispettivamente padre e figlio. Nelle iscrizioni sono inoltre indicati due sacerdoti (ierothytai)18. Ne deriva la possibilità di individuare nell’esedra la sede di questi alti magistrati e sacerdoti e di ricostruire per le stanze lungo il muro di fondo del portico soluntino una destinazione funzionale strettamente connessa con attività di tipo istituzionale e religioso. Quanto ad Halaesa, anche in questo caso il lato lungo della stoa risulta occupato da una serie di vani di forma rettangolare. Gli scavatori hanno ipotizzato che in età tardo-ellenistica tali ambienti fossero destinati ad accogliere piccole botteghe (oikoi) e che solo in età proto-imperiale si sia assistito ad un cambiamento nella loro funzione. Certamente, non può non colpire come proprio in età augustea il pavimento di tali vani venne arricchito con la posa in opera di lastre marmoree, con le quali anche le pareti vennero rivestite. In particolare, la presenza di alcune basi per statue e di un podio davanti ad una delle stanze ha portato Roger Wilson ad ipotizzare,

Sul ruolo di modello del bouleuterion milesio, Campagna 2006, 28. Sull’edificio microasiatico si rimanda a Emme 2013, 109–113, 345. 13 Sulla frequente combinazione tra portici e bouleuteria, Hamon 2005. 14 Per una recente disamina dell’agora di Priene si rimanda a Sielhorst 2015, 108–115, 266–271 (con bibliografia precedente). 15 Sull’agora di Megalopoli e sui suoi edifici ‘civici’, principalmente Lauter - Bufe - Lauter 2011, e, inoltre, Osanna 2003; Emme 2013, 89–92 e 340; Sielhorst 2015, 96–100 e 246–250. 16 Sull’agorà soluntina, Wolf 2013. 17 Per un inquadramento dell’agora di Halaesa, si rimanda a Tigano 2012. 12

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Wolf 2013, 43.

Trasformazioni urbanistiche nella Sicilia centro-occidentale di età tardoellenistica e protoimperiale credo correttamente, che in una di esse fosse collocata la sede dei seviri Augustales, ossia dei sei liberti incaricati del culto imperiale nella città19. Nel caso di Segesta, invece, le ricerche hanno dimostrato l’assenza di stanze lungo il lato Nord ed Ovest del portico. Al contrario, la scoperta di alcuni ambienti nell’ala orientale, e di tracce di arredi lignei in uno di essi, ha consentito di ipotizzare la presenza di uffici pubblici in questo punto del portico20. Tuttavia, ancora più che gli ambienti presenti nell’ala orientale della stoa segestana è la presenza di una serie di vani posti a quota inferiore, parzialmente seminterrati, a caratterizzare questo angolo della piazza cittadina. Infatti, oltre ai due ordini superiori già menzionati erano qui presenti alcuni ambienti posti ad una quota inferiore e dotati di ampie finestre e, probabilmente, anche di porte che si aprivano lungo il lato Sud. Proprio tale caratteristica potrebbe spiegare bene l’assenza di oikoi nelle restanti parti della stoa: ai vani di servizio e d’‘uso pubblico’ fu infatti destinata l’ala Est, con una netta distinzione funzionale rispetto agli altri lati della stoa. Quest’ultima caratteristica, è facile immaginarlo, ben si accorda con la presenza di un percorso pedonale o di un tracciato viario che doveva correre lungo il lato meridionale della piazza, ad una quota decisamente inferiore rispetto a quella del lastricato della piazza. Un ulteriore salto di quota, dunque, che ci pone davanti ad una piazza articolata su almeno tre terrazze (quella del bouleuterion, quella della piazza vera e propria, e quella del livello inferiore), connesse da percorsi viari, ingressi monumentali e, ovviamente, dalla stoa21. Ed ancora una volta, come nel caso del binomio bouleuterion-edificio a peristilio, ci troviamo davanti ad una caratteristica, quella dei portici posti su livelli altimetrici diversi, che ha i suoi modelli ispiratori in ambito microasiatico22.

simile uso di portici e percorsi viari al fine di connettere aree poste a quote diverse ha in Pergamo il principale esempio, una simile caratteristica richiama altresì le esperienze di alcuni dei santuari laziali, su tutti Praeneste e Tivoli, che proprio nella seconda metà del II sec. a.C. fecero del sapiente uso delle differenze altimetriche uno degli elementi chiave nella realizzazione di soluzioni fortemente scenografiche. Del resto, come sottolineato già da Giorgio Gullini in un magistrale studio sui santuari laziali27, casi come quelli del santuario della Fortuna Primigenia di Praeneste mostrano quanto, nella seconda metà del II sec. a.C. o meglio ancora negli ultimissimi anni del II sec. a.C., i possibili contatti con il mondo siceliota abbiano potuto rappresentare un elemento altrettanto importante di quello microasiatico28. Non si vuole con ciò istituire un confronto diretto tra la situazione di tali centri ellenizzati sicelioti e il quadro monumentale attestato in alcuni dei santuari di ambito centro-italico. Ritengo necessario, tuttavia, inserire casi quali quelli qui discussi in un più ampio dibattito che consideri le possibili, molteplici direttrici che nei decenni finali del II sec. a.C. paiono unire l’isola al mondo microasiatico e alla regione medio-italica, con Roma a fungere da punto di convergenza di esperienze pan-mediterranee. In tal senso, potrebbe non essere un caso che proprio in questo settore dell’isola alla fine del II sec. a.C. sia ben attestata la presenza di mercenari italici, nei quali già altri hanno proposto di identificare il veicolo attraverso il quale anche il dialogo architettonico tra centri sicelioti e peninsulari dovette svilupparsi precocemente29. Se il quadro finora prospettato per la tarda età ellenistica ci consente dunque di connotare la Sicilia centrooccidentale come un’area fortemente influenzata da soluzioni architettoniche ed urbanistiche di chiara impronta microasiatica, ed al tempo stesso come uno dei centri da cui tali soluzioni dovettero irradiarsi in direzione centro-italica, un fenomeno apparentemente inverso avvenne a partire dall’età proto-imperiale. È ancora una volta il caso segestano a consentirci di illustrare una tale dinamica, soprattutto nel settore posto immediatamente a Sud-Ovest dell’agora. Già alla fine del II sec. a.C. questo settore risultava caratterizzato dalla presenza di un colonnato. Data la sua limitata profondità, quest’ultimo sembra aver costituito una sorta di quinta scenica monumentale per coloro che giungevano nella piazza dal fondovalle attraverso la monumentale strada che conduceva al teatro cittadino, passando sotto forma di via tecta all’interno di un criptoportico che si sviluppa lungo il lato occidentale dell’agora30. La presenza stessa

Se si guarda al caso più complesso tra quelli sicelioti, ossia quello di Segesta, non potrà infatti non stabilirsi un confronto diretto con esempi quali la stoà Ovest dell’agorà superiore di Pergamo23, la stoa Sud di Assos24 e, soprattutto, con i cosiddetti market buildings di Aigai25 e Alinda26. È importante ricordare che questi esempi, e soprattutto l’edificio pergameno, sono cronologicamente anteriori a quelli sicelioti ed è facile ipotizzare che gli architetti attivi in Sicilia abbiano da essi tratto ispirazione. Se, tuttavia, un 19 Wilson 1990, 46–47; Wilson 2012, 254. Tale ipotesi è ripresa e accettata in Tigano 2012, 139. 20 Di particolare interesse è il rinvenimento di un grande ambiente (Ambiente I) posto all’angolo nord-orientale del portico. Lungo le pareti Nord, Est e Sud di tale vano è stato possibile individuare i chiari resti di elementi lignei carbonizzati che, seppure con grande prudenza, sono stati riferiti alla presenza di scaffali e mensole. Sulla base di simile identificazione si è, dunque, ipotizzato che l’Ambiente I possa aver funzionato da archivio o, comunque, da sede di magistrature civiche. Cannistraci - Perna 2012, 14. 21 Per una prima proposta di ricostruzione di tali sistemi terrazzati e della loro connessione alla viabilità interna Olivito 2017[2018]. 22 Rocco 2018, in particolare 49. Più in generale, sul peso dei modelli microasiatici nella creazione di un linguaggio condiviso su scala panmediterranea durante l’età ellenistica è ancora fondamentale Lauter 1986. 23 Sielhorst 2015, 137–144. 24 Sielhorst 2015, 216–219. 25 Sielhorst 2015, 279–280. 26 Sielhorst 2015, 281–282.

Gullini 1983. Gullini 1983, 22. Quanto alla cronologia del santuario prenestino, la proposta di una datazione agli ultimissimi anni del II sec. a.C. è stata avanzata da F. Coarelli (1987, 61–65) ed è ormai generalmente accettata. 29 Tigano 2012, 147, nota 63. 30 Peraltro, la presenza del criptoportico e della via tecta nell’agora di Segesta si configura, a mio modo di vedere, come un ulteriore possibile elemento di confronto con il mondo laziale e, in particolare, con il santuario di Ercole a Tivoli. In questo caso, come è noto, una via tecta si sviluppava al di sotto del piazzale sul quale sorgeva il santuario vero e proprio. Coarelli 1987, 87–88. 27 28

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Riccardo Olivito di tale colonnato stimolò, in età tardo-augustea o prototiberiana, la realizzazione di una struttura circolare, del diametro di circa 6 m. Le caratteristiche tipologiche di tale edificio, la sua combinazione planimetrica con il colonnato tardo-ellenistico, ora occupato da una serie di piccoli ambienti di pianta rettangolare, e soprattutto il rinvenimento, al di sopra del livello pavimentale, di abbondantissimi resti ossei animali recanti evidenti segni di macellazione, hanno consentito di interpretare la struttura circolare come una tholos macelli (Fig. 4.4), e di ipotizzare, dunque, la presenza di un mercato alimentare realizzato agli inizi del I sec. d.C. nell’area posta immediatamente all’esterno della piazza pubblica. La realizzazione di un macellum, d’altro canto, non può stupire: come da altri ben dimostrato, infatti, proprio la realizzazione di simili complessi nei centri urbani romani (o romanizzati) assume un peso di grande rilievo, anche ai fini della valutazione dello statuto giuridico e politico delle singole città31. Il macellum segestano non è peraltro un unicum sull’isola. Ben noto, e tra gli esempi più antichi di tale tipologia edilizia, è l’edificio di Morgantina, la cui costruzione, sulla base di recenti indagini, sembra ormai potersi datare entro la fine del primo quarto del II sec. a.C.32. Proprio per la sua cronologia alta, il caso di Morgantina, e del suo macellum, necessiterà in futuro di una più articolata discussione per ciò che concerne le vicende istituzionali che interessarono l’isola nei decenni successivi alla conclusione della Seconda Guerra Punica. A tale proposito mi piace ricordare come già Roland Martin, in un celebre articolo dal titolo Agora et Forum, avesse individuato proprio nel mercato di Morgantina uno degli esempi migliori per indagare le dinamiche di trasformazione e specializzazione che segnano il passaggio dall’agora di tipo greco al forum di impianto romano33. Quanto a Segesta, l’edificazione del macellum non rimase attività isolata. Essa va invece letta alla luce del più ampio e coerente progetto urbanistico che, nel corso dei primi decenni del I sec. d.C., coinvolse il settore sud-occidentale della piazza cittadina. In questo momento, infatti, immediatamente ad Est della strada, un piazzale di forma grossomodo triangolare venne realizzato, o comunque abbellito, attraverso la messa in opera di un lastricato lapideo. La funzione del piazzale dovette essere da un lato quella di regolarizzare il corso di uno dei principali canali di deflusso delle acque reflue provenienti dall’area agoraica, e dall’altro quella di monumentalizzare il principale accesso alla piazza. L’intero programma

edilizio venne finanziato da due personaggi di spicco della comunità Segestana di età augustea, i cui nomi (Onasus e Sopolis Marcii filii) vennero incisi sulle lastre di copertura della cloaca34. Il macellum e la cosiddetta piazza di Onasus e Sopolis a Segesta si configurano dunque come indizi evidenti della volontà da parte delle élites municipali di età romana di operare in un settore fino ad allora rimasto relativamente libero da edifici e strutture. Al contrario, la piazza vera e propria rimase sostanzialmente inalterata. E tuttavia, anche qui singoli elementi monumentali di chiara impronta italica contribuirono a trasformare l’agora in forum. È il caso del tempio su basso podio con un vano annesso, dedicato al culto degli Dei Forenses. Anche in questo caso, l’identificazione del culto è possibile grazie ad un’iscrizione incisa su uno dei gradini adiacenti al podio (ISegesta L1)35 (Fig. 4.5), che ricorda come il praefectus L. Caecilius Martiales Aretaius avesse ricollocato le statue degli dei forenses, adornando con esse il nuovo tempio. Questa iscrizione “rappresenta finora la prima testimonianza dell’adozione del latino in epigrafi di edifici pubblici”36, essendo cronologicamente inquadrabile nella seconda metà del I sec. a.C. Inoltre, come ben sottolineato da Ampolo, essa è particolarmente rilevante anche dal punto di vista linguistico, da un lato per l’evidente persistenza di un habitus linguistico greco a livello della scrittura (indiziato dalla confusione tra P latina e rho greco in Apetaius = Aretaius), dall’altro per lo sforzo di tradurre il ben noto greco θεοὶ ἀγοραῖοι nel finora non altrimenti attestato dei forenses37. Quanto alla carica rivestita da L. Caecilius Martiales Aretaius, permangono dubbi sulla sua reale natura, se essa sia cioè da identificare con quella di un praefectus ad acta (cioè nominato per compiere una specifica azione, e nel caso specifico il ricollocamento delle statue per adornare il tempio nel foro), oppure con un praefectus municipale38. Proprio l’istituzione del municipium di diritto latino potrebbe aver favorito l’adozione del latino in un testo di carattere evidentemente ufficiale, e ciò nonostante il greco fosse ancora, a Segesta, la “lingua con la quale committente ed esecutore del testo epigrafico avevano chiaramente più familiarità”39. I due esempi segestani, così come quelli dei probabili seviri Augustales di Halaesa, o del tribunal di Gnaeus Hostilius a Iaitas, dimostrano come alle élites locali o, in alcuni casi, a magistrati inviati direttamente da Roma venne delegato il compito di ‘aggiornare’ e rimodernare i centri urbani sicelioti secondo canoni più prettamente romani. Si può dunque concludere che casi come quelli fin

31 Su questo punto specifico, si veda in particolare Cristilli 2015. Per quanto riguarda il quadro siciliano e l’apparente scarsezza nel numero di macella attestati, si vedano le considerazioni di Pfuntner 2019, 193–194. Personalmente ritengo che il numero ridotto di simili edifici sull’isola sia primariamente da imputare a lacune nella documentazione. 32 Sharp 2015. 33 Martin 1972, 907–908. Più di recente S. C. Stone (2002) ha identificato nel macellum di Morgantina uno strumento amministrativo utilizzato da Roma al fine di pervenire a una stabilizzazione dell’isola in seguito alle rivolte servili. Indipendentemente da ciò, se la proposta di datazione del macellum di Morgantina alla metà del II sec. a.C. dovesse essere confermata, una nuova riflessione si imporrebbe relativamente alla nascita di tale tipologia monumentale e alle direttrici lungo le quali un edificio così fortemente caratterizzato in chiave funzionale si diffuse a partire dall’età tardo-ellenistica.

34 Le attività evergetiche di M. Onasus e M. Sopolis sono testimoniate da due iscrizioni latine frammentarie (ISegesta L5 e ISegesta L6), originariamente pertinenti a un unico esteso testo databile a età augustea. Per una disamina delle suddette iscrizioni si veda Ampolo - Erdas 2019, 117–124. Particolarmente importante ai fini di questo contributo è l’indicazione del termine forum in uno dei due testi (ISegesta L6), verosimilmente indicante il piazzale triangolare già menzionato, nonché l’ipotetica restituzione del termine ma[cellum] in uno dei frammenti di ISegesta L5. 35 Per il commento all’iscrizione si rimanda, in particolare, ad Ampolo Erdas 2019, 113–115. 36 Ampolo - Parra 2018, 216. 37 Ampolo - Erdas 2019, 114. 38 Il conferimento dello statuto di municipium di diritto latino a Segesta dovette avvenire dopo il 44 a.C. Ampolo - Erdas 2019, 111. 39 Ampolo - Parra 2018, 216.

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Trasformazioni urbanistiche nella Sicilia centro-occidentale di età tardoellenistica e protoimperiale

Fig. 4.4. Segesta. La tholos macelli con il portico sud-occidentale dell’agora, visti da Sud (Fotografia dell’autore).

Fig. 4.5. Segesta. Area dell’agora/forum: tempio degli Dei Forenses. L’iscrizione ISegesta L1 incisa sui gradini dell’edificio (rielaborazione di Ampolo - Parra 2018).

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Riccardo Olivito Caltanissetta (20–21 maggio 2006), Caltanissetta, 110–134.

qui rapidamente illustrati sono ormai da inserire a pieno diritto nel più ampio dibattito sulle trasformazioni che interessarono i centri urbani sicelioti, e non solo, a partire dalla metà e ancor di più dai decenni finali del II sec. a.C.

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Senza avere alcuna intenzione di suggerire un possibile modello di valore assoluto e, ancora meno, senza voler sottovalutare il ruolo cruciale giocato dal contatto diretto tra Roma e la Grecia propria, e tra Roma e l’Asia Minore, mi pare si possa comunque riconoscere come, ad una prima fase connotata dal forte impatto su Roma di modelli microasiatici, durante la quale la Sicilia centrooccidentale si configura come uno dei poli irradiatori, faccia seguito in età proto-imperiale un secondo processo, inverso, e forse più ampio. Ora, per volontà dell’autorità centrale, e ancora più frequentemente per un desiderio intrinseco alle stesse comunità locali, molti centri periferici si adeguarono a un nuovo concetto di piazza pubblica, spesso beneficiando dell’attività evergetica di membri dell’aristocrazia cittadina. In quest’ottica, la piazza segestana, così come quelle di Solunto, Halaesa, Iaitas e della stessa Morgantina, si configurano come una serie di straordinari casi di studio per investigare le articolate modalità attraverso le quali centri già ben strutturati dal punto di vista urbanistico e monumentale, oltre che istituzionale, si confrontarono con le nuove istanze originatesi dalla conquista romana.

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5 L’assetto topografico dell’Ager Labicanus: fonti antiche ed evidenze archeologiche nel territorio di Colonna. Matteo Pucci Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ The aim of this contribution is to analyse the topographical structure of the ager Labicanus, a territory that occupied the northern sector of the Alban Hills (Colli Albani), referring to the scientific literature and to the known and unknown archaeological evidence. The ancient sources show that the city of Labici, the centre of this ager, was an Alban colony conquered by the Roman army in 418 BC with the help of its allies and became a colony under Latin law. The city experienced a deep economic and demographic crisis since then, also undergoing a transformation in its own urban structure. It became a partially depopulated centre surrounded by some scattered rural settlements. There was a revival of Labici only in the 2nd century AD, when the statio Ad Quintanas was founded near the fifteenth mile of Via Labicana, by the site of the city. These transformations in the landscape occupation and their chronology can be proved thanks to the study of an archaeological evidence west of the city of Colonna (Rome). Questo contributo ha lo scopo di analizzare la topografia dell’ager Labicanus, nel settore nord dei Colli Albani, sulla base della letteratura scientifica e delle evidenze archeologiche edite e inedite. Nelle fonti antiche la città di Labici, a cui l’ager faceva riferimento, viene considerata una colonia albana, conquistata e distrutta dai Romani nel 418 a.C. per essere rifondata come colonia di diritto latino. La città visse da allora una profonda crisi economica e demografica, a cui seguirono alcune trasformazioni nell’assetto urbano. Labici divenne un centro parzialmente spopolato e circondato da insediamenti rurali sparsi. Una rinascita della città si ebbe solo nel II secolo d.C., quando fu fondata la statio Ad Quintanas nei pressi del quindicesimo miglio della Via Labicana. I cambiamenti nell’occupazione del paesaggio e la loro datazione si possono definire anche grazie allo studio di alcune evidenze archeologiche site a ovest rispetto all’attuale Colonna (Roma). Keywords: Ager Labicanus; Labici; Ad Quintanas; Colonna Quando1 Cicerone nel 54 a.C. si trovò a difendere Gneo Plancio dall’accusa di broglio elettorale mossagli da Marco Giovenzio Laterense, non esitò a deridere l’accusa facendo leva sull’infimo rango delle città di cui egli vantava l’amicizia: Labici, Gabii e Bovillae, sue sostenitrici, non potevano infatti fornirgli alcun sostegno, se a malapena riuscivano a trovare qualcuno da poter mandare in loro rappresentanza alle Feriae Latinae2. Tralasciando al momento il fenomeno di declino nelle ultime due città3, l’obiettivo di questo contributo sarà analizzare le dinamiche di crisi e ripresa a cui invece andò incontro la prima città menzionata da Cicerone, Labici, con l’intero suo ager, osservando come alcuni fenomeni

precisi possano aver cambiato l’assetto di quel territorio. Se le fonti sembrano darci un quadro piuttosto concorde sulle sue sorti, infatti, sarà comunque necessario vagliarle alla luce delle evidenze archeologiche note o emerse da studi e ricognizioni sul campo. Per prima cosa bisogna definire i limiti delle pertinenze della città. Si hanno alcune possibilità di definire il limite sud-orientale dell’ager grazie a un passo di Livio4. Egli, infatti, parlando della risalita di Annibale verso Roma dopo circa cinque anni dalla disfatta romana a Canne, afferma che il generale, partito da Capua, seguendo la via Latina abbia marciato verso nord toccando tutti i principali centri situati lungo la consolare per arrivare infine nell’ager Labicanus; quindi, passando per l’Algido, sarebbe arrivato a Tuscolo e di lì a Gabii (Fig. 5.1). Le parole di Livio sollevano dei problemi topografici: seguendo la Via Latina, infatti, Annibale non avrebbe mai potuto giungere a Labici e ai suoi territori, che a quanto sappiamo costeggiavano invece la Labicana. Anche supponendo che egli abbia abbandonato per un tratto la via Latina e si sia

In questo contributo si propone una lettura generale del territorio, concentrando però l’attenzione sull’area a ridosso del quindicesimo miglio della Via Labicana, dove sorgeva l’abitato e dove meglio si possono cogliere le dinamiche di occupazione e rioccupazione del territorio. Per un quadro generale Asbhy 1910, 125–281; Nibby 1837, 159–167; Tomassetti 1979, 459–510. Per la viabilità, anche Valenti 1998, 145–150. 2 Cicero, Planc., 23, 1–6. 3 In realtà, per Bovillae questo assetto si documenta alcuni secoli dopo. Spera 2018, 17–18. Gabii è considerata parzialmente disabitata anche da Dionigi di Alicarnasso (IV, 53). 1

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Livius, XXVI, 9.

Matteo Pucci opposta alle popolazioni di Volsci ed Equi, grazie anche alle sue mura ben costruite che le permisero di resistere ai nemici molto a lungo, cosa che invece non si verificò per alcune città contigue6. Seppur non influente come Aricia, Tusculum, Gabii e Lanuvium, di certo Labici si era anche ritagliata uno spazio non proprio trascurabile, se i Tuscolani se ne sentirono minacciati tanto da invocare l’aiuto dei Romani sul finire del V secolo a.C.7. Tutti gli indizi relativi alla frequentazione preromana del territorio labicano si hanno attorno all’attuale abitato di Colonna (Fig. 5.3), con una cintura necropolare che circondava la collina dell’odierno centro storico e il vicino colle della Pasolina. Proprio su quest’ultima altura si rinvennero tracce di capanne e una discreta quantità di materiale ceramico, che farebbero pensare a una zona abitata dal periodo IIA della fase laziale fino all’età arcaica8. Vi dovevano poi essere impianti rurali votati alla produzione agricola; uno di essi, infatti, è stato rinvenuto alle pendici sud-occidentali del centro storico di Colonna (Fig. 5.3): sorto sul finire del VII secolo a.C., esso era costituito da una serie di strutture con zoccoli in pietrame a secco e alzato in materiale deperibile9. La sua presenza ci indirizza chiaramente verso una possibile suddivisione di aree a diversa destinazione: se quella a sud dell’attuale via Frascati (Colonna) ha prevalentemente restituito necropoli, una fascia di territorio a ovest e a sud del centro storico doveva avere una vocazione agricola. L’abitato, invece, doveva collocarsi sulle colline di Colonna e della Pasolina: l’assenza di evidenze nell’area del centro storico di Colonna potrebbe essere solo dovuta alla loro obliterazione da parte del borgo medievale.

Fig. 5.1. Colli Albani, percorso di Annibale. Marcia lungo la via latina (linea nera); possibile deviazione verso Labici (tratteggio).

spinto più a nord, non potremmo comprendere poi come abbia fatto da Labici a giungere a Tuscolo passando per l’Algido, a meno che Livio non abbia taciuto un percorso a ritroso del condottiero da Labici alla via Latina prima di riprendere la marcia. A ben vedere, però, lo storico padovano non dice che Annibale sia arrivato a Labici, ma nelle sue campagne. Senza presupporre che il generale punico abbia lasciato la consolare che stava percorrendo, potremmo ritenere dunque che la tenuta di Mezzaselva, a lato della via Latina e contigua all’Algido, fosse ancora compresa nell’ager Labicanus: sarebbero quelle le terre di Labici che Annibale aveva attraversato. Quest’ultima lettura, se confermata, fornirebbe dunque una importante indicazione circa il limite dell’ager su questo versante. Mancano invece notizie riguardo agli altri confini (forse meno rigidi di come li intendiamo oggi): più volte viene ribadita dagli autori antichi la vicinitas di Labici a città note come Tusculum e Gabii o ancora non localizzate come Pedum e Bola, ma nulla si sa della loro distanza dal centro di nostro interesse. Il modello dei poligoni di Thyessen può dare un’idea delle diverse aree di pertinenza di questi centri, sebbene esso vada corretto sulla base della maggiore o minore importanza di Tusculum e Gabii, che senza dubbio dovevano estendersi molto a discapito di Labici, e alla luce della morfologia della zona. Questo modello corretto ci porta a ipotizzare che l’ager comprendesse il versante nord dei Monti Tuscolani (Monte Compatri), oltre alle terre di Colonna e San Cesareo. Se a nord confinava sicuramente con Gabii, a nord-est esso doveva avere invece come limite il sistema di profondi valloni che caratterizza questo comparto a ridosso del territorio comunale di Palestrina e Zagarolo (Fig. 5.2).

Si parla naturalmente della città latina, destinata a mutare totalmente assetto di lì a poco. Come anticipato, infatti, i Tuscolani si sentono minacciati dai Labicani per via di 6 Dionysius Halicarnassensis, VIII, 19. Durante le ricognizioni sul territorio si è cercato di individuare il luogo di una eventuale cinta muraria compatibile cronologicamente con il periodo di cui si parla. Alcune strutture in opera quadrata lungo Via del Romito (Monte Compatri), già presenti in Ashby 1902, 260–261, si sono però rivelate essere dei contenimenti per terrazze, mentre una terza struttura in Via delle Pedicatozze, poco più a valle, è realizzata in pietrame di forma irregolare, ma è verosimilmente una macera per un livellamento agricolo. 7 Livius, IV, 47. 8 Sulle necropoli e sulle tracce di insediamenti annesse, Angle et alii 2006 [2007], 233–243; De Angelis et alii 2010, 223–228; Ghini - Guidi 1984, 63–75. Altri ritrovamenti di età protostorica da Colonna sono registrati in Savignoni 1902, 115–117 e in Gierow 1966, 180, 247, 249, 263, 288, 294 e 426; per la Pasolina, infine, Bologna et alii 2003, 159–162. A questi ritrovamenti si aggiunga un raschiatoio preistorico rinvenuto nel contesto di cui si legge in nota 9. È il reperto più antico da Colonna (5000–1000 anni fa). Per ulteriori ritrovamenti di pregio si rimanda, invece, a Winckelmann 1784, 249 e Tomassetti 1903, 173. 9 Tale complesso e i materiali del contesto in tutte le sue fasi sono stati oggetti di uno studio, terminato e in attesa di discussione, condotto da parte dell’autore durante il corso di Dottorato in “Antichità Classiche e loro fortuna” presso l’Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’. La documentazione e i materiali studiati sono stati messi a disposizione, previa autorizzazione, dalla SABAP per l’Area Metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale. Desidero, pertanto, ringraziare i funzionari che hanno reso possibile tale studio i dott.ri M. Angle, D. F. Maras e G. Serio. Oltre a loro mi preme esprimere la mia gratitudine nei confronti del dott. R. Darelli e della dott.ssa D. Raiano. Un ringraziamento va, infine, al dott. G. Giacomelli e al dott. M. Panarello della SABAP per le Province di Frosinone, Latina e Rieti.

Possiamo a questo punto analizzare in maniera diacronica le tracce dell’occupazione del territorio. Tale area fu frequentata sin da tempi molto antichi, a giudicare dai ritrovamenti che l’hanno interessata. Ma quali sono le sorti di questo territorio? Perché si può parlare di una sua trasformazione profonda nel tempo? Per rispondere a tali domande dobbiamo partire dalle fonti antiche. Esse ci informano del fatto che la città di Labici fosse pienamente inserita nel nomen latinum5 e che fieramente si fosse Aurelius Victor, Origo, XVII, 6; Dionysius Halicarnassensis, V, 61; Eusebius, Chron., I, 46, 5 (= Diodorus Siculus, VII).

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L’assetto topografico dell’Ager Labicanus

Fig. 5.2. Area a N dei Colli Albani: a sinistra, suddivisione amministrativa; a destra, suddivisione amministrativa sulla base di fonti e geomorfologia.

Fig. 5.3. Colonna. Densità delle evidenze archeologiche nel territorio.

alcune loro scelte diplomatiche e chiamano come arbitri i Romani. La situazione si risolve in uno scontro in cui Labici cade nelle mani di Roma e dei suoi alleati e viene distrutta. È il 418 a.C. In maniera fin troppo dettagliata, e per questo forse non totalmente attendibile, Livio aggiunge

poi che dall’Urbe furono inviati 1500 cittadini per dedurre una colonia e che a ognuno di loro vennero assegnati due iugeri di terreno10. Vista la posizione di Labici, il numero 10

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Supra (nota 6).

Matteo Pucci dei coloni inviati e la sua antica appartenenza al nomen latinum, si è quasi certi che la colonia di cui Livio parla fosse proprio di diritto latino11.

di mezza costa. Qualunque fosse l’intento di un simile intervento, forse ascrivibile a una riqualificazione generale dell’area, gli effetti non furono duraturi: Plinio il Vecchio, infatti, nel I secolo d.C. nomina nella sua opera le città ancora esistenti nel Latium Vetus, ma in questa lista non inserisce la città di Labici, bensì qui ex agro labicano cognominantur18. Se da un lato la scelta di Plinio sembra confermare l’ipotesi di una città in rovina come l’aveva vista Strabone, dall’altro la menzione del suo ager ci fa capire che in realtà le sue campagne erano ancora frequentate. Non si ebbe quindi una scomparsa della città, ma una mutata occupazione del territorio: il centro antico (quello romano, si intende) era sicuramente ancora esistente, ridotto a un piccolo nucleo monumentale formato dalle costruzioni funzionali alla vita amministrativa del municipium, ma per il resto la popolazione si era dispersa nelle campagne, in villaggi rurali sorti accanto a vie, snodi o proprietà private.

Secondo le fonti, da allora prese avvio la lenta decadenza della città: già tre secoli e mezzo dopo la deduzione della colonia, infatti, Cicerone deride la povertà del centro laziale, come si è visto in apertura12 e, come se non bastasse, Strabone, descrivendo il tracciato della via Labicana, dapprima menziona la città tra gli antichi centri che ai suoi tempi erano ormai ridotti a villaggi o proprietà private, poi ne parla come di un abitato in rovina13. Dunque, dalla conquista romana alla decadenza nel I secolo a.C. si hanno quasi trecento anni in cui le fonti tacciono (se si eccettua la descrizione del passaggio di Annibale, di cui si è già discusso)14. Ancora una volta alcuni dati fondamentali ci possono venire dal complesso rurale sopra menzionato: esso non conosce cesure, ma solo alcune ristrutturazioni tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C., in un’epoca che nel territorio labicano è segnata proprio dalla conquista romana della città nel 418 a.C., che comunque non interrompe l’attività produttiva del complesso, e dall’invasione gallica che nel 360 a.C. minacciò direttamente Labici15. La conquista romana, dunque, non porta a grandi sconvolgimenti topografici16. Il complesso cessa di esistere solo verso la fine del III secolo a.C. Quest’ultimo dato cronologico potrebbe confermare anche per l’ager labicanus una crisi della piccola e media proprietà terriera a fronte di un’ascesa del latifondo a manodopera servile.

L’ennesima rivoluzione nell’occupazione del territorio si ha quando viene fondata una statio al quindicesimo miglio della via Labicana, nel medesimo punto in cui doveva sorgere la città di Labici secondo Strabone. Dunque, se dall’occupazione del territorio tipica di un normale centro abitato si era passati a un popolamento sparso, con questo luogo di sosta si va verso un terzo tipo di insediamento, quello incentrato su un asse viario e da esso strettamente dipendente. La statio Ad Quintanas esisteva sicuramente già nel II secolo d.C., essendo indirettamente presente su due epigrafi datate proprio a quel periodo, che menzionano rispettivamente una res publica e un ordo Labicanorum Quintanensium19. Tali occorrenze del termine Quintanensis non solo ci rendono certi dell’esistenza della statio nel momento in cui le epigrafi in questione furono dedicate, ma ci informano anche del fatto che data l’estrema vicinanza tra Labici e Ad Quintanas (e la vitalità che quest’ultima diede all’abitato), i due toponimi vennero associati a definire gli abitanti di quella che ormai era avvertita come una nuova comunità: Labicani perché insediati nelle terre di Labici, ma Quintanensi perché il centro di quell’ager, ormai, era Ad Quintanas. Inoltre, grazie alle medesime iscrizioni, comprendiamo che la città avesse ancora il titolo di municipium (è infatti definita res publica), con un senato locale e i suoi decurioni (ordo), oltre a cariche minori come quella dell’arcarius20. La statio, citata nel più tardo Itinerarium Antonini e nella Tabula Peutingeriana, sarà il motore di una nuova forza centripeta in grado di richiamare la popolazione dalle campagne circostanti,

L’area del complesso rurale sarà abbandonata da allora fino alla fine del I secolo a.C., quando una costruzione monumentale curvilinea la occuperà in parte, forse in virtù di un tentativo di monumentalizzazione del centro urbano (Fig. 5.4). La pianta molto particolare, con una struttura semicircolare inscritta all’interno di una parete semiellittica con raggiere di spinta alle spalle, farebbe pensare a un ninfeo, se non si avesse una assenza, almeno iniziale, di impianti idrici e una mancata impermeabilizzazione di pareti e fondo dell’edificio. Esclusa anche l’identificazione con un teatro17, si potrebbe far strada l’idea di una schola o di un semplice edificio scenografico, vista la posizione Bandelli 1997 [1999], 92–93; Petrucci 2000, 104–105. Nel I sec. a.C. sarebbe diventata un municipium (supra nota 1). 12 Supra nota 1. 13 Strabo, V, 3, 2 e 9. 14 Le evidenze (quasi esclusivamente ville) in questo periodo sono maggiormente concentrate lungo il versante settentrionale dei Monti Tuscolani nel territorio di Monte Compatri. Ashby 1902, tav. V. 15 Livius, VII, 11. 16 Tradizionalmente si ritiene che la città latina, posta su un’altura, sia stata rifondata nella medesima zona, seppur più a valle, dai Romani, secondo alcuni con uno spostamento dall’attuale Monte Compatri a Colonna (per ulteriore bibliografia Ashby 1902, 235). L’elevata concentrazione di strutture inedite databili dall’età repubblicana, rinvenute lungo l’attuale Via Frascati (Colonna), sembra confermare un tale trasferimento. Accettando tale assunto, tuttavia, bisognerebbe comunque ipotizzare che, essendo il complesso rurale rimasto produttivo oltre il 418 a.C., l’area a esso limitrofa non abbia perso la propria vocazione agricola e, soprattutto, che la conquista romana non abbia causato, almeno nel caso qui presentato, distruzioni radicali. 17 La pianta particolare semiellittica si riscontra solo in alcuni teatri gallici. Gros 2001, 294–298. 11

Plinius, Nat. Hist., III, 63–65. La prima iscrizione, oggi perduta, corrisponde a CIL XIV 2770 (= ILS 6217 = EDR 158268): si tratta di un’epigrafe funeraria dedicate a Partenio, arcarius della res publica (municipio) dei Labicani Quintanensi; la seconda, già letta da Ashby e Tomassetti (Ashby 1902, 257–258; Tomassetti 1900, 51), è oggi conservata presso il Museo Civico Tuscolano di Frascati (Roma), inv. 511466. La prima lettura completa e attendibile del testo originario (196 d.C.) e di quello successivo (299–304 d.C.), che più ci interessa in questa sede, è quella della dott.ssa Petrucci, in corso di stampa (scheda n. 511466, Catalogo del Museo Civico Tuscolano). 20 Un riferimento alla medesima figura, sicuramente di estrazione servile, si ha in un’iscrizione proveniente dall’antica Aricia (CIL XIV, 2156 = ILS 3255), il cui testo è molto simile a quello della nostra. 18 19

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L’assetto topografico dell’Ager Labicanus

Fig. 5.4. Colonna. Area a SO dell’abitato: edificio curvilineo e ipotesi di integrazione.

con il risultato di ricreare attorno a sé un abitato canonicamente inteso. Anche in questo caso è necessario verificare, ove possibile, se le evidenze archeologiche confermino in qualche modo questa lettura basata sulle fonti. Innanzitutto, la fondazione di Ad Quintanas segna il definitivo trasferimento a valle dell’abitato: i resti dell’edificio identificato con la statio, inediti e oggetto di uno scavo solo superficiale, sono ancora oggi visibili lungo via delle Marmorelle Nuova (Colonna; Fig. 5.3). Poco più a est, nel 1987, si rinvennero invece i resti di un impianto per la cottura di laterizi (Fig. 5.3), anch’esso inedito: dai

pochi dati ricavati grazie alla testimonianza del personale che partecipò alle indagini, si sa che in sede di scavo si rinvennero frammenti di sigillata italica riutilizzati nelle strutture delle fornaci: questo indizio ci porterebbe a datarle almeno a partire dal I secolo d.C. Potrebbero quindi essere sorte proprio quando nacque la statio, tra I e II secolo d.C. La datazione non precisa delle strutture non ci permette però di formulare ulteriori ipotesi, per cui non si può neanche escludere, vista l’estensione dell’impianto e la sua ubicazione nei pressi di Ad Quintanas, che si trattasse di parte delle fornaci gestite dal liberto Agatirso, 39

Matteo Pucci

Fig. 5.5. Colonna. Cortile, terme e costruzioni ipotetiche.

poi passate ad Adriano (i praedia Quintanensia)21. L’area cambiò dunque aspetto in maniera radicale e si urbanizzò tutta la valle sotto Colonna, amministrativamente divisa tra quest’ultima e Monte Compatri. Purtroppo, la moderna 21

espansione urbana impedisce di coglierne l’aspetto antico: i pochi dati che si ricavano da ricognizioni e scavi d’emergenza sono dunque un campione utile, ma difficile da rapportare al contesto generale. Premesso questo limite, si può comunque citare come testimonianza materiale il contesto menzionato più volte, che di fatto è

CIL XV,131.

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L’assetto topografico dell’Ager Labicanus Bibliografia

l’unico di cui si sia condotto uno studio completo. Dopo la monumentalizzazione di fine I secolo a.C., successiva al più antico impianto rurale, sul lotto si edificano strutture che obliterano quasi totalmente quelle precedenti. La struttura curvilinea è abbattuta per metà e sullo spazio ricavato si edifica un nuovo complesso costituito da un ampio cortile porticato, dietro il cui braccio settentrionale si aprivano vari ambienti (Fig. 5.5), e da un edificio termale solo in parte portato alla luce. Gli strati relativi alla preparazione di questa nuova costruzione si datano tra il II e il III secolo d.C. sulla base dello studio dei materiali (dato che viene confermato anche dai paramenti murari). Difficile dire quale fosse la funzione di questo nuovo impianto. Dopo un attento studio topografico e planimetrico si può scartare l’iniziale sua identificazione con una villa: le strutture superstiti, infatti, al di là della scarsa superficie indagata, sembrano far parte di un complesso compiuto in sé stesso, senza legami funzionali con strutture contigue. Una maggiore estensione delle indagini avrebbe dato senz’altro risposte circa la precisa destinazione pubblica o privata delle strutture. Allo stato attuale delle ricerche l’unico dato utile è quello relativo alle dimensioni dell’impianto balneare, che nell’area indagata si sviluppava su una superficie di circa 350 mq. Considerando che sul limite occidentale e meridionale (qui si notano degli accessi che davano su ambienti oggi obliterati dalla moderna viabilità) l’edificio proseguiva oltre la sezione di scavo, dobbiamo immaginarne un prolungamento su questi lati in maniera non precisabile. Ben noti sono invece i limiti settentrionale e orientale. Dunque, l’area di ingombro delle terme è da stimarsi in rialzo, anche se in misura verosimilmente limitata (le attuali conoscenze topografiche e lo studio delle curve di livello permettono di arrivare al massimo a un’area di 700 mq in maniera approssimativa). Alla luce delle esigue dimensioni, per le terme parrebbe preferibile una destinazione privata o legata ad un collegium22, mentre più difficile, vista la mancanza di elementi certi, sarebbe stabilirne la funzione pubblica legata al nuovo abitato di Ad Quintanas o alla stessa statio (distante solo160 metri in linea d’aria).

Angle, M. - Cerino, P. - Mancini, D. - Rolfo, M. F. 2006 [2007], “Neve aurum addito: la Necropoli della Chimera a Pian Quintino”, in Lazio e Sabina 4. Atti del convegno. Quarto incontro di studi sul Lazio e la Sabina, Roma 29–31 maggio 2006, Roma, 169–180. Ashby, T. 1902, “Classical topography of the Roman Campagna, I”, in BSR, I, 125–281. Bandelli, G. 1999, “Le comunità urbane. Agitazioni plebee e colonizzazione federale dal Foedus Cassianum alla guerra latina”, in E. Hermon (ed.), La question agraire à Rome: droit romain et société. Perceptions historiques et historiographiques. Atti del convegno, Québec, 29–31 ottobre 1997, Como, 91–98. Bologna, L. - Bozzato, S. - Rolfo, M. F. 2003, “Intervento archeologico in località ‘Pasolina’ (Colonna)”, in Lazio e Sabina 1. Atti del Convegno. Primo incontro di studi sul Lazio e la Sabina, Roma, 28–30 gennaio 2002, Roma, 159–162. De Angelis, A. - Altamura, F. - Monti, R. - Pancotti, A. 2010, “La necropoli romana in località Le Zite a Colonna”, in Lazio e Sabina 6. Atti del convegno. Sesto incontro di studi sul Lazio e la Sabina, Roma, 4–6 marzo 2009, Roma, 223–228. Diosono, F. 2011, “Il collegio dei lotores ed i balnea del santuario di Diana Nemorense”, in BStorArt, s. III, 6, 115–119. Ghini, G. - Guidi, A. 1984, “Colonna: nuove acquisizioni per l’Età del Ferro”, in Archeologia Laziale, 6, 63–75. Gierow, P. G. 1966, The Iron Age Culture of Latium, I, Lund. Gros, P. 2001, L’architecture romain: du début du IIIe siècle av. J.-C. à la fin du Haut-Empire, II, 2ed, Paris. Nibby, A. 1837, Analisi storico-topografico-antiquaria della Carta de’ dintorni di Roma, II, Roma. Pavolini, C. 2006, Ostia, 2ed, Roma-Bari.

La quantità di dati diminuisce notevolmente andando verso gli ultimi secoli dell’impero, quando il complesso edilizio costituito dalle terme e dal cortile subisce gli ultimi rimaneggiamenti (III/IV secolo d.C.) fino alla defunzionalizzazione finale, che non porta comunque all’abbandono delle strutture, al termine del IV secolo d.C. È solo dagli inizi del secolo successivo che si avvia la spoliazione di materiali di pregio (non ancora dei materiali da costruzione o di rivestimento), per arrivare poi al crollo dell’edificio attorno al VII secolo d.C. Seguirà poi l’occupazione del sito da parte di una necropoli della fine dell’VIII secolo d.C., indice questo di ulteriori, mutati assetti topografici che allo stato attuale delle conoscenze, purtroppo, risultano quasi totalmente illeggibili.

Petrucci, A. 2000, “Colonie romane e latine nel V e IV sec. a.C. I problemi”, in F. Serrao (ed.), Legge e società nella repubblica romana, II, Napoli, 1–178. Savignoni, L. 1902, “Colonna”, in NSc, s. 5, 26, 115–117. Spera, L. 2018, “Caratteri e sviluppi degli insediamenti”, in L. Spera - V. Fiocchi Nicolai (eds), Bovillae e il suo territorio nella tarda antichità e nell’alto medioevo. Le trasformazioni di un settore del Latium Vetus, Tivoli, 11–98. Tomassetti, G. 1900, “Colonna”, in NSc, s. 5, 24, 50–51. Tomassetti, G. 1903, “Della Campagna Romana; Vie Labicana e Prenestina”, in ArchStorRom, 26, 165–184. Tomassetti, G. 1979, “Via Labicana - Da Roma a Valmontone”, in La Campagna Romana antica, medievale e moderna (Vie Cassia e Clodia, Flaminia

Si veda, ad esempio, il caso del collegio dei lotores a Nemi, presso il santuario di Diana (Diosono 2011, 115–119). Un altro caso ben noto di collegium con terme annesse alla propria sede era quello dei cisiarii a Ostia (per una più approfondita bibliografia, Pavolini 2006, 55–56).

22

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Matteo Pucci e Tiberina, Labicana e Prenestina), III, 2ed. Firenze, 459–510. Valenti, M. 1998, “La viabilità”, in S. Pracchia - L. Petrassi - F. M. Cifarelli (eds), Elementi minori di un paesaggio archeologico. Una lettura dell’Alta Valle Latina, Roma, 145–150. Winckelmann, J. J. 1784, Storia delle arti del disegno presso gli antichi, III. (trad. C. Fea), Roma.

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6 Un’attestazione tardoantica fuori dall’antica agora di Argos: l’epigrafe del monastero dalle c.d. terme A (ICG 3413). Priscilla Ralli Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana - Scuola Archeologica Italiana di Atene The inscription ICG 3414 has been discovered during the investigations of the École Française d’Athènes (1954 and 1973) in the area of the so-called ‘thermal baths A’ at Argos. The inscription, dated to the 6th century AD, attests that a monastery belonging to an unknown church possessed a tomb. Since the discovery of the epigraph, the unknown monastery has been located in the ‘thermal bath A’ area. The relevance of the inscription derives from the lack of evidences related to monastic structures in Early-Christian Greece. Starting from the epigraphic text, the present article offers a reinterpretation of Argos Christian topography. L’epigrafe ICG 3414, scoperta nelle indagini dell’École Française d’Athènes (1954 e 1973) nella zona delle cosiddette ‘terme A’ ad Argos, attesta l’appartenenza di una tomba a un monastero dipendente da una chiesa ignota. Il documento, databile paleograficamente al VI secolo, ha suggerito la presenza di un’istituzione monastica nell’area, identificazione non supportata da maggiori evidenze archeologiche. La rilevanza del documento epigrafico di Argos risiede nella mancanza di attestazioni in Grecia, per il periodo paleocristiano, riferibili a edifici monastici. Il presente studio propone una nuova interpretazione dell’iscrizione basata su una rilettura della topografia cristiana di Argos. Keywords: Early-Christian Peloponnese; christian topography; urban transformation; material culture; Peloponneso tardoantico; topografia cristiana; trasformazione urbana; cultura materiale

1. La scoperta dell’epigrafe ICG 3413

- per via degli assi viari che si erano sviluppati intorno all’agora3 - e il suo spazio urbano sembrerebbe potersi circoscrivere tra la grande necropoli a sud-est della collina di Larissa e quella a sud della collina di Profitis Ilias4. Si trattava di una città di dimensioni non trascurabili, una delle più popolate nella Grecia classica5 e in tal senso è esemplificativo il teatro (Fig. 6.1) che, scavato nella roccia e posto un centinaio di metri a sud-est dell’agora, aveva un’orchestra dal diametro di 26 m e poteva accogliere fino 20.000 spettatori6. Il rilievo di Argos in età ellenistica è riscontrabile anche dal sistema fognario che giungeva, con ramificazioni, fino nell’agora7.

Nel corso delle indagini condotte ad Argos, tra l’ottobre e il novembre 1954, dall’École Française d’Athènes (EFA) (Figg. 6.1–2) fu messa in luce, nel sotterraneo est delle terme A, la porzione sinistra di un’iscrizione funeraria dal formulario subito riconosciuto come cristiano1. Lo specifico significato di essa si comprese, però, solo nel 1973 quando il proseguimento delle indagini dell’EFA ne scoprì, nel sotterraneo settentrionale delle stesse terme (Fig. 6.3), la parte destra. A seguito di questo secondo ritrovamento fu pubblicata la prima immagine completa dell’iscrizione, accompagnata da apparato critico, nel Bulletin de Correspondance Héllenique del 19742. L’epigrafe costituisce un rilevante tassello non solo per le fasi tardoantiche del complesso termale, ma anche per la più generale topografia della città argiva.

L’assetto della città ellenistica fu di fatto mantenuto anche nella successiva fase romana, momento in cui l’agglomerato urbano si estese a sud-est in direzione di Tirinto8 e a sud-ovest verso le attuali odos Messinias-

2. La città alle soglie della Tardantichità A tal proposito Plutarco vi descrive strade strette e tortuose. Plutarco, Pyrrh., XXXII, 1. 4 Per lo studio di undici sepolture ellenistiche e del loro corredo, Bruneau 1970, 452–512; più in generale, Oikonomou Laniadou 2003, 77. 5 Μέγα 1998, 316. 6 Μέγα 1998, 319 (con bibliografia). 7 Oikonomou Laniadou 2003, 77. 8 Μπανάκα Δημάκη et alii 1998, 327. 3

In accordo con le evidenze archeologiche, Argos ellenistica non sembra abbia avuto un impianto ortogonale 1 2

Bingen 1955, 329. Piérart 1974, 779–781.

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Priscilla Ralli

Fig. 6.1. L’impianto moderno di Argos con evidenziati i monumenti rappresentativi dell’antico centro monumentale e le aree funerarie paleocristiane.

3. La città tardoantica

Arkadias e odos Arkaia Voulis (Fig. 6.2)9. La continuità di vita dell’antica agora in età romana è testimoniata, per esempio, dagli interventi occorsi alla sala ipostila10 (Fig. 6.1), dall’aggiunta, nel II secolo, di una palestra al ginnasio, dalla trasformazione dell’odeion che, ormai nel terzo quarto del II secolo, appariva come una struttura in laterizi a pianta quadrata11. Due acquedotti, recentemente ricondotti ad Adriano, rifornivano la città e di quello settentrionale sono ancora visibili, sulla collina di Larissa, i resti del castellum aquae12. È il grande complesso termale - le c.d. terme A - l’edificio che ad oggi caratterizza maggiormente la fase romana di Argos (Fig. 6.1). Poste lungo il declivio che dolcemente degrada dalla collina di Larissa verso l’agora, le terme si sviluppavano in un’area di 85 x 44 m, connotando profondamente il paesaggio urbano: la grande aula voltata posta al termine nord-ovest, larga oltre 10,5 m, rappresenta ad oggi il più grande spazio coperto da volta a botte autoportante noto in Grecia13.

Le evidenze archeologiche informano che, ancora nel IV secolo, l’assetto romano di Argos era ancora in essere, come testimoniato dalla ripavimentazione delle arterie principali e di quelle secondarie14. La continuità di vita degli antichi luoghi emerge anche dalla realizzazione, tra la fine del III e il primissimo IV secolo, dei tratti dell’acquedotto meridionale che giungevano fino nel teatro e nell’odeion15 e di quelli, costruiti tra il IV e il V secolo, funzionali alla parte orientale dell’agora16. Anche il teatro e l’odeion furono oggetto di interventi nel IV secolo17 e sul finire dello stesso secolo18 la palestra, che nel corso del II secolo era stata installata nel ginnasio, fu trasformata in un sontuoso impianto termale privato, le c.d. terme B. La stoa occidentale del ginnasio, infatti, fu ingrandita al fine di alloggiarvi vasche e sale riscaldate19. A metà del IV secolo, inoltre, l’ingresso all’agora fu monumentalizzato con l’inserimento di due blocchi rettangolari (4,80 x 2,70 m) posti ai lati di un passaggio largo 3,20 m e pavimentato,

Oikonomou Laniadou 2003, 77. Struttura a pianta quadrata edificata (Vollgraff 1907, 177) attorno al 460 a.C., forse come sede della boulè, con fasi di crollo di metà IV sec. a.C. e interventi che confermerebbero la persistenza di una funzione pubblica ancora a quel tempo, nonostante la comprovata distruzione nel III sec. a.C. Piérart 1981, 902–904; Bommelaer - Des Curtils 1994, 30 e 45–46 11 Roux 1956, 377–378 e 391–392. 12 Vitti 2015, 201; Vitti 2018. 13 Aupert 1977; Oikonomou Laniado 2003, 7 (con bibliografia); Vitti 2008. 9

10

BCH, 1954, 164. Aupert 1990, 604; Piérart 2006, 711, nota 16. 16 Aupert 1990, 612. 17 Rizakis - Marchetti 1995, 462. 18 Datazione fissata dalle monete e dal rapporto con il portico dell’agora dove furono installate le terme. Piérart -Thalmann 1978, 684. 19 Piérart - Thalmann 1977, 675; Marchetti 1978, 783–784. 14 15

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Un’attestazione tardoantica fuori dall’antica agora di Argos

Fig. 6.2. Dettaglio dell’antico spazio monumentale di Argos.

Fig. 6.3. Planimetria delle ‘terme A’ e i luoghi di ritrovamento dei frammenti dell’epigrafe ICG 3413 (Rielaborazione di Βασιλειου 2016).

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Priscilla Ralli 5. L’epigrafe ICG 3413

seppur irregolarmente20. La già citata sala ipostila dell’agora, poi, fu oggetto di un sistematico smontaggio dall’ultimo quarto del IV secolo, quando i suoi materiali furono impiegati nel vicino tratto dell’acquedotto in uso fino al V secolo21. L’interruzione delle funzioni originarie della sala ipostila non esclude la destinazione pubblica del suo nuovo assetto strutturale, nel quale è evidente un ponderato reimpiego di pregiati materiali da costruzione antichi. Strati mescolati indicherebbero, dalla fine del IV secolo, un più generale mutamento nella frequentazione dell’agora, ormai defunzionalizzata, o almeno per la parte nord-occidentale in cui sono stati riconosciuti ampi strati di detriti; la presenza di una fontana con vasca larga 60 cm posta, in un momento imprecisato tra il II e il V secolo22, alla base dell’orchestra del teatro consentirebbe, infatti, di escludere il netto abbandono di quest’area. La vasca dell’orchestra potrebbe essere inserita nell’ambito dell’intervento di monumentalizzazione dell’ingresso dell’agora alla metà del IV secolo, quando l’antico spazio monumentale fu oggetto di un intervento di terrazzamento23.

I due frammenti (Fig. 6.4), individuati in diversi momenti e spazi delle terme28, fanno parte di una lastra marmorea, priva dell’angolo superiore sinistro, alta complessivamente 21,5 cm e spessa circa 3,3 cm; l’intera lunghezza corrisponde, secondo le analisi più recenti, intorno ai 49 cm29. Giunta in due frammenti, nella parte centrale dell’epigrafe si osserva una ridotta lacuna del testo che si può però colmare senza difficoltà. L’iscrizione è ben impaginata, il supporto marmoreo è stato infatti preparato con doppie linee guida e margini sui quattro i lati. Il ductus è regolare e non si riscontrano errori ortografici; le α sono rese con il tratto spezzato ed è presente il σ lunato, le lettere κ, ω ed ε sono rese quasi corsiveggianti. La croce finale presumibilmente doveva trovarsi anche all’inizio del testo. Le lettere sono incise in profondità e alcune di esse sembrano presentare delle terminazioni apicate. a          b [† κ]οιμητήρια διαφ[έροντα τῷ εὐαγεῖ μο]ναδίῳ τῆς ἐνταῦθα ἁγιωτάτης ἐκ[κλησίας - - - ]ντε · εἴ τις δὲ τολμήσῃ ταῦτα ἀνοῖξ[αι ἔξω τῶν μοναζόντ?]ων ἐν τῷ αὐτῷ εὐαγεῖ μοναδίῳ ἕ[ξει ἀπὸ τοῦ θεοῦ (?) τὴν] μερίδα αὐτοῦ μετὰ 5 τῶν λεγόντων ἆρον [ἆρον σταύρωσον αὐτ]όν †

4. Le evidenze paleocristiane di Argos Di Argos, attestata nella Tabula Peutingeriana e nel Synekdemos24, non è noto l’anno di istituzione della cattedra episcopale, che però era suffraganea della diocesi di Corinto. Le firme sinodali informano di cinque vescovi entro il VII sec. d.C.25, mentre il dato epigrafico riferisce dell’organizzazione del clero locale, qual è il caso del suddiacono Kyriacos, sepolto insieme alla moglie Anthousa nel cimitero nord della città tra il V e il VI secolo26. Ad oggi non è ancora stata identificata con certezza la sede episcopale che, secondo le proposte di Marcel Piérart e Jill Touchais, potrebbe essere stata installata nella grande basilica di odos MessiniasArkadias e poi, in seguito a un evento traumatico, spostata nella basilica di Alika (sul versante orientale della collina di Profitis Ilias, non lontana dal tempio di Apollo Pizio)27. L’articolata planimetria e l’alto livello delle produzioni scultoree individuate nelle due strutture sono stati gli elementi che hanno indotto gli studiosi a riconoscervi l’episcopio, sebbene senza ulteriori e più stringenti dati. D’altronde anche la topografia cristiana di Argos si basa su dati frammentari e non sempre coincidenti tra loro. Entro un simile contesto, l’iscrizione del monastero costituisce un elemento di rilievo nel valutare Argos paleocristiana.

Sepolcro appartenente [al sacro] monastero di questa santa chiesa --- Se qualcuno osa aprirlo [esclusi i monaci] di questo santo monastero, riceverà [da Dio] la parte di colui a cui dissero “Prendilo! [Prendilo! Crocifiggilo!]” Il testo, conforme al noto formulario funerario paleocristiano di Argos30, si distingue per il ricorso al termine plurale κοιμητήρια per indicare il sepolcro; simile soluzione trova riscontro in un’altra epigrafe di Argos (ICG 3418) e in una proveniente dal sito dell’antica Corinto (ICG 2651): in questi due esempi si registra, d’altronde, lo stesso incipit che prevede, dopo una croce e il termine κοιμητήρια, il verbo διαφέροντα. Al primo rigo -ναδίῳ è stato integrato con l’ausilio del termine μοναδίῳ presente al quarto rigo, soluzione, questa, unanimemente accettata; già nel primo studio critico dell’epigrafe, infatti, Marcel Piérart avanzò una simile 28 La prima pubblicazione del frammento sinistro è in Bingen 1955, 329; la scoperta della porzione destra è stata comunicata in Piérart 1974, 779–781 e in BEp, 1976, 465, n. 256, dove è stata considerata anche la parte ritrovata in precedenza. L’epigrafe nel suo insieme è stata inserita in appendice allo studio di Feissel - Philippides Braat 1985, 370, N. 116, e in: Suppl. Ep. Gr. 30, N. 369; Felle 2006, 254, N. 548; SupplEpGr, 53, n. 336; Βασιλείου 2016, 36. 29 Questo dato metrico è indicato nel catalogo del Museo bizantino di Argos, in cui è attualmente custodita ed esposta l’epigrafe, Βασιλείου 2016, 36. Al momento del ritrovamento del frammento sinistro (1954), non ne furono esplicitate le misure, né d’altronde furono indicate in occasione della scoperta della porzione destra, della quale, invece, fu segnalata la larghezza di 17 cm. Bingen 1955, 329; Piérart 1974, 779. 30 Per un rapido confronto, Oikonomou Laniado 2003, 51–57 (con bibliografia).

Croissant 1979, 788–793. 21 Feissel et alii 1976, 754; Pariente 1988, 708; Bommelaer - Des Curtils 1994, 59 e 60. 22 Cronologia emersa dallo studio dei resti ceramici rintracciati nella fontana. Pariente - Piteros 2006, 700–704. 23 Pariente - Piteros 2006, 700–704. 24 Avramea 1997, 172 e 173. 25 Periegene, Genetlio (il firmatario al Concilio di Efeso del 448), Onesimo (presente al Concilio di Calcedonia del 451 d.C.), Thales (tra i vescovi destinatari della lettera di Leone I del 458) e Giovanni (firmatario al VI Concilio Ecumenico di Costantinopoli del 680/681 d.C.). Fedalto 1988, 488. 26 ICG 3398. 27 Piérart - Touchais 1996, 89–90. 20

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Un’attestazione tardoantica fuori dall’antica agora di Argos

Fig. 6.4. L’epigrafe ICG 3413 (Rielaborazione di Βασιλειου 2016).

proposta confortato dal lemma μοναδικὸς31 introducendo, così, una dimensione monastica. Qualora il risarcimento delle due lettere iniziali, ἐκ, di un lemma mutilo posto al secondo rigo fosse effettivamente da integrare con il termine ἐκ[κλησίας, si riconoscerebbe il riferimento a τῆς ἐνταῦθα ἁγιωτάτης ἐκ[κλησίας, questa santissima chiesa; la possibilità di risalire alla dedicazione di detto luogo di culto è, però estremamente ardua. Il risarcimento della lacuna, al rigo tre, si basa sul già citato esempio di Argos ICG 3418, in cui si esplicita che solo alcune persone sono autorizzate all’apertura del sepolcro: se nel caso dell’epigrafe ICG 3418 solo gli eredi della famiglia possono aprire il sepolcro, in quella ora in esame potrebbero essere stati autorizzati ad aprire il sepolcro, invece, solo i monaci. La conclusione dell’epigrafe con un’ammonizione dagli echi giovannei32, ben nota in altri esempi peloponnesiaci33, assimila i violatori della tomba a chi volle la crocifissione di Gesù Cristo.

specifica34 che, comunque sia, dovrebbe attestarsi tra il V e il VII sec. d.C.35. 6. Il contesto di rinvenimento dell’epigrafe L’epigrafe ha indotto gli studiosi a collocare una perduta struttura monastica nello spazio delle terme36; simile ipotesi ha trovato sostegno nella scoperta, sempre nello spazio termale, di scultura erratica dichiaratamente cristiana37 e di una lastra frammentaria, probabilmente una mensa, in cui si invoca l’intercessione di un apostolo38. La mensa reca una croce equilatera a terminazioni patenti del tutto simile a quella presente in uno stampo da pane, con probabile funzione eucaristica, trovato negli anni ‘90 nell’agora39. Questi limitati, sebbene eloquenti, materiali rappresentano ad oggi gli unici indicatori circa la presenza cristiana nell’area cui però, fino ad ora, non hanno fatto riscontro delle evidenze architettoniche. Le indagini del 1974 nei settori AK AM 47 48 hanno escluso categoricamente la presenza di una struttura monastica laddove, invece, erano stati individuati i frammenti dell’epigrafe ICG 3413, ma identificarono i resti di una struttura termale privata pertinente a una residenza installata nella prima metà del IV secolo e progressivamente abbandonata nel VI

Se è certa, dunque, l’esplicita proprietà delle sepolture, da ricondursi plausibilmente proprio a un monastero magari afferente a una chiesa, dall’ignota dedicazione, secondo la già citata ipotesi di Piérart, non è noto chi dovette occupare la sepoltura e, ancora di più, entro che contesto (se specifico della comunità monastica o pubblico) essa si trovasse in origine. Circa la datazione poi, non tutti gli studiosi sono riusciti a individuare una cronologia

Tra cui Piérart 1974 e Felle 2006, 254, n. 548. Βασιλείου (2016, 36) sostiene la cronologia al V sec. d.C., mentre il ICG 3413 indica la datazione al VII sec. d.C. 36 Come, ad esempio, Oikonomou Laniado 2003, 21 o, più recentemente, Delouis 2015, 256. 37 Un’imposta, un capitello e una mensa rettangolare. Aupert 1978, 773. 38 ICG 3440. 39 Varalis 1994, 333 e 334. 34 35

Pierart 1974, interpretando l’epigrafe pubblicata in Bagatti 1955–1956, 243. 32 Gv 19, 15. 33 ICG 3411, ICG 3358 e ICG 3393 da Argos; ICG 2103 da Atene. Si veda, in proposito, Feissel 1980 (soprattutto 466, nota 60). 31

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Priscilla Ralli secolo40, secolo cui si ascrive la copiosa ceramica slava sintomatica di una continuità di vita. La successiva analisi dei reperti ceramici e vitrei individuati nello spazio ha indotto a fissare l’installazione del monastero nello spazio delle c.d. terme A prima del 585, anno in cui si collocato il distruttivo arrivo dei Goti ad Argos41. Questo elemento ben si adatterebbe con l’ultima fase delle terme ascritta al VI secolo, momento in cui la volta della grande aula, coperta da sottili archi laterizi, potrebbe essere crollata dopo i primi cedimenti della struttura dovuti alle sollecitazioni successive al sisma del 552; il terremoto potrebbe aver danneggiato anche il cervello della volta e il punto in cui erano stati alloggiati i setti di sostegno delle lastre in cementizio42. Certa, quindi, la continuità del settore sud-orientale subito fuori l’agora per via degli interventi occorsi in epoca tardoantica, non si può escludere un’istituzione cristiana nell’antico centro monumentale di Argos, sebbene non sia possibile quantificarla e collocarla nello spazio.

Oltre alla tipicità del formulario, però, non si comprende la necessità di ammonire i violatori di una sepoltura posta entro lo spazio monastico: la formula deprecatoria, infatti, potrebbe far uscire la tomba da un circoscritto spazio monastico per collocarla, invece, entro uno cimiteriale e cittadino, magari non lontano dalla chiesa e/o dal monastero stesso. I luoghi di sepoltura tardoantichi di Argos si concentrano nel comparto settentrionale e in quello meridionale della città47, ma non è da escludere che ve ne fossero degli altri, magari di ridotta estensione e/o posti nei vuoti delle maglie del tessuto urbano, già in via di trasformazione nel IV secolo. Se l’epigrafe ICG 3413 fosse stata originariamente in uso entro un’area funeraria pubblica e non lontana dalle terme, si potrebbe immaginarne la collocazione anche nelle poche sepolture individuate nel 1953 all’angolo nord-ovest del terreno di proprietà Bakaloiannis, sito tra la sala ipostila e le pendici della collina di Larissa; realizzate con lastre di poros, laterizi presumibilmente di reimpiego e malta, avevano umili oggetti di corredo e il capo degli inumati, collocati entro casse lignee, era rivolto verso est. Poiché questi elementi furono ricondotti a inumati di fede cristiana, fu ipotizzata, in quel luogo, la presenza di una perduta chiesa48. Indipendentemente dalla collocazione in quell’area di una chiesa, si tratta di un luogo ancora frequentato, come attestato da un’abitazione “tarda”, con vasca a nicchie in rivestimento marmoreo, sita nel limite sud-ovest dello stesso appezzamento, ma anche dalle tracce di un asse viario, forse di IV secolo, pavimentato con materiali di reimpiego e, poste un metro al di sotto di esso e direttamente sopra i livelli della città grecoellenistica, delle condutture fittili per l’adduzione idrica con le acque del fiume Erasinos49.

L’esistenza del monastero è dunque ipotizzata a partire da un’epigrafe frammentaria individuata in due punti differenti e quindi, evidentemente, almeno una delle due parti dovette essere fuori contesto. Si deve poi considerare come la presenza di sepolture in fase e all’interno di una chiesa sia un elemento inconsueto per le chiese paleocristiane del Peloponneso; gli esempi noti rimandano a sepolture di alto rango, comunque fuori lo spazio ecclesiastico43, o a chiese dalla chiara funzione cimiteriale44. Questo elemento si accorderebbe, almeno parzialmente, con i dati provenienti dalle già citate indagini del 1974 (vedi infra) che hanno escluso l’installazione del monastero nei sotterranei est e nord delle terme. Collocare, però, la struttura monastica nella generica area termale troverebbe supporto nella grande quantità di ampolle vitree (circa 600 frammenti per almeno 300 esemplari45) che, con l’accertata dismissione della funzione primaria delle terme sembrerebbe non avere ragion d’essere. Se, dunque, la sopravvivenza delle imponenti strutture termali fosse da ricondurre a una presenza religiosa46, così come ciò che la basilica di Santa Maria ad Martyres rappresentò per il Pantheon a Roma, si dovrebbe immaginare, oltre alla chiesa citata dall’epigrafe, uno spazio funerario in cui essa era stata messa in opera. La possibile vicinanza dello spazio dei vivi e di quello dei morti potrebbe così spiegare l’esplicitata dichiarazione di appartenenza a questo monastero, ἐν τῷ αὐτῷ εὐαγεῖ μοναδίῳ, e a questa santa chiesa, τῆς ἐνταῦθα ἁγιωτάτης ἐκ[κλησίας indicata nell’epigrafe.

Conclusioni Da questa breve disamina è emersa la già nota continuità dell’antico centro monumentale di Argos anche per l’età tardoantica. La presenza cristiana in quello spazio, al pari dell’intera topografia cristiana della città, è testimoniata da rilevanti evidenze, ancora oggetto di una lettura omogenea anche in relazione alla coincidenza degli spazi della moderna Argos con quelli dell’antica. Rimandando ad altra sede considerazioni circa la collocazione dell’episcopio, appare opportuno tornare nuovamente sulla cronologia che, a partire dai caratteri paleografici e dal formulario, ha indotto gli studiosi a collocare l’epigrafe ICG 3413 attorno al VI secolo50. Una cronologia così precoce per un’istituzione monastica, infatti, implica non poche difficoltà giacché, come osservato da Delouis, l’individuazione degli spazi del monachesimo in area balcanica e microasiatica prima del X secolo non sono di immediato riconoscimento come per l’architettura monastica medio e tardobizantina, con canoni codificati

Aupert 1975, 703. Aupert 1975, 703; Aupert 1989, 418. 42 Vitti 2008, 247. 43 Ci si riferisce alle tre sepolture, probabilmente vescovili, addossate all’esterno sud dell’abside della grande basilica di Lechaion a Corinto. Πάλλας 1958; Laskaris 2000, 54–55. 44 Come nel caso, sempre corinzio, della basilica c.d. ‘di San Codrato’. Στίκας 1961, 131–135; Στίκας 1962, 51; Laskaris 2000, 35–36. 45 Il frammento di coppa vitrea con inciso il nome cristiano Θεοδοτος, individuato in uno strato datato al V sec. d.C. in uno spazio mosaicato (Aupert 1975, 699), non è apparso dirimente ai fini della definizione del carattere del luogo. 46 Aupert 1980, 399, 405 e 456. 40 41

Μπανάκα Δημάκη et alii 1998, 334. BCH, 1954, 162–164. 49 BCH, 1954, 164; Aupert 1988, 710; Piérart 2006, 711. 50 Vedi supra. 47 48

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Un’attestazione tardoantica fuori dall’antica agora di Argos e ben riconoscibili51. Già nel 1929 Anastatios Orlandos nel trattare i monasteri di Grecia aveva fatto riferimento a strutture architettoniche medio e post-bizantine e, per mancanza di esempi seriori in quel territorio, aveva fatto ricorso ai numerosi monasteri egiziani e alle notizie delle fonti letterarie52.

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Le scarsissime informazioni sui monasteri paleocristiani in Grecia non consentono di escludere, comunque sia, che la fondazione citata in ICG 3413 possa essere stata inserita anche all’interno di uno spazio preesistente adattato all’uopo, sebbene le indagini condotte sui resti murari delle terme A non abbiano consentito il riconoscimento di tracce riconducibili a un’occupazione a vocazione monastica e/o chiesastica. La sopravvivenza in elevato della grande aula, però, potrebbe costituire un dato indiretto circa la continuità della struttura dove, comunque sia, sono stati messi in luce numerosi frammenti ceramici e forme di c.d. ceramica slava53. Auspicando in una futura rilettura del dato archeologico, e insieme architettonico, dei monumenti simbolo dell’antico spazio monumentale di Argos, più che della presenza del monastero nello spazio delle terme A, generalmente condivisa dagli studiosi, sarebbe opportuno volgere l’attenzione verso lo spazio funerario entro cui era originariamente in uso l’epigrafe ICG 3413; il ritrovamento di essa in differenti momenti e spazi delle terme, infatti, inducono a immaginare come almeno uno dei frammenti fosse stato, al momento della scoperta, fuori contesto. Collocare la lastra nel vicino cimitero sud, in quello non lontano in proprietà Papathanassiou o, ancora ipoteticamente, nelle contigue sepolture rilevate in proprietà Bakaloiannis, potrebbe costituire un elemento utile a delineare i caratteri, ancora poco noti, del monachesimo paleocristiano in Grecia.

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Delouis 2015, 251–274. Ορλάνδος 1999. 53 Da ultimo, Oikonomou Laniado 2003, 8–9 (con riferimenti precedenti). 51 52

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7 Dinamiche di trasformazione dei vici in Italia settentrionale tra III e VI secolo d.C. Una proposta metodologica. Eleonora Rossetti Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’ The analysis of the ancient rural landscape offers an important contribution to the knowledge of the political, cultural and social dynamics of the Roman Age. Since the early years of Romanization, the vicus has played, in different ways and times, the role of strategic centre for housing, communications and commercial traffic. This study is the result an ongoing PhD research and it is focused on the applied methodologies to the analysis of these settlements. Through the new data obtained from the study of historical cartography and ancient itineraries, it will be presented a new methodological proposal aimed at investigating the transformation and development dynamics of small towns in the rural areas of northern Italy, between the 3rd and 6th centuries AD. Lo studio del paesaggio rurale offre un contributo importante alla conoscenza delle dinamiche politiche, culturali e sociali di età romana. Sin dai primi anni della romanizzazione il vicus, in particolare, ha rivestito in maniera dinamica e in tempi diversi, il ruolo di sede abitativa, centro strategico per le comunicazioni e per i traffici commerciali. Il presente lavoro deriva da una ricerca dottorale in corso e intende soffermarsi sulle metodologie di analisi di questi insediamenti. Attraverso nuovi dati ottenuti dallo studio della cartografia storica e degli itinerari antichi, sarà presentato un nuovo approccio metodologico volto a indagare le trasformazioni e le dinamiche di sviluppo degli agglomerati secondari in Italia settentrionale tra III e VI sec. d.C. Keywords: rural settlement; Late Antiquity; methodological approach; ancient cartography; Northern Italy 1. I vici rurali tra età romana e Tarda Antichità. Un contributo per la ricostruzione del paesaggio antico

e infrastrutturali3. Il sito minore è “per sua natura più sensibile a registrare i mutamenti politico-sociali”4 e può essere un valido strumento per valutare alcuni fenomeni importanti, primo fra tutti il rapporto di continuità e/o rottura dell’organizzazione insediativa rurale tra età preromana e romana, durante il cosiddetto periodo della Romanizzazione così come tra Tarda Antichità e alto Medioevo. Per il primo periodo, fondamentali sono stati i risultati ottenuti dagli studi condotti negli anni Novanta del secolo scorso, i quali “hanno presentato una sostanziale continuità tra insediamento minore protostorico e romano”5, come bene evidenziato da Paola Maggi e Claudio Zaccaria nello studio presentato al convegno di Bliesbruck-Reinhem nel 19946, in controtendenza rispetto al modello generale elaborato negli anni Settanta e Ottanta. Quest’ultimo proponeva infatti un abbandono dei siti preromani di altura a favore di un’occupazione di insediamenti di fondovalle, con una rioccupazione dei primi solo dopo il III secolo d.C.7. Per la Tarda Antichità, e in particolare per il periodo tra III e VI secolo, il modello

Lo studio del paesaggio rurale offre un contributo importante alla conoscenza delle dinamiche politiche, culturali e sociali di età romana e tardoantica. Un filone di studi ancora poco esplorato è dedicato a quei centri denominati dalle fonti antiche con il termine vicus1, applicato a una tipologia insediativa rurale priva dello statuto giuridico di urbs e alternativa al popolamento sparso in ville e fattorie; al termine latino “vicus” si fa corrispondere la definizione di “sito minore” in italiano o di “agglomerato secondario”, secondo la traduzione di un diffuso termine francese2. Insediamenti definibili “minori” e “secondari” in rapporto al centro urbano da cui erano dipendenti, ma spesso “importanti”, come affermava Sara Santoro, in ragione delle capacità di sfruttamento delle risorse ambientali Si ricordano le fonti principali: Festo (502-508L.); Isidoro da Siviglia (Et., XV, 2–11) e Servio (Aen., 9605). Per un approfondimento sulla definizione di vicus nelle fonti si vedano i seguenti contributi: Letta 2005, 81–96; Todisco 2007, 96–115; Todisco 2011; Tarpin 2002; Tarpin 2014, 41–64. 2 Petit - Mangin 1994, 2; Morel 1994, 153–162. 1

Bianchi 2017, 15. Cavalieri 2017, 40. 5 Cavalieri 2017, 39. 6 Petit - Mangin 1994. 7 Mansuelli 1982, 31–34. 3 4

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Eleonora Rossetti da tener conto che in Italia Settentrionale le tracce archeologiche sono conservate meglio in media e alta pianura e in collina, diversamente da quanto evidenziato nella bassa pianura. Ne derivano una scarsa visibilità del dato archeologico ed un conseguente squilibrio dei dati. Per tali ragioni, diviene urgente un’“archeologia dell’abitato secondario”17 per i secoli della Tarda Antichità, che riprenda in esame i dati di scavo “apparentemente scarsi di materiali” con un approccio metodologico che includa la catalogazione sistematica dei dati archeologici in una logica multidisciplinare18.

proposto di generale continuità, “pur nell’adattamento ai tempi e alle mutate condizioni socio-politiche della città e della fine del modello per villas nelle campagne”8, appare univoco. Esso non è aderente né sufficiente a cogliere le dinamiche insediative intercorse in Italia Annonaria, spazio territoriale molto variegato dal punto di vista storico e ambientale e caratterizzato dal susseguirsi di fenomeni significativi in tempi e modalità diverse da area ad area9. Gli studi sul paesaggio tardoantico accentuano sempre più il maggiore carattere di fluidità e dinamicità delle organizzazioni territoriali, in risposta a un’esigenza locale ancor più spiccata rispetto all’età imperiale e ancora del tutto da cogliere nei suoi meccanismi specifici. In una tale organizzazione il vicus risulta dunque uno solo degli elementi da tenere in considerazione. Esso è ancora citato nelle fonti storiche tardoantiche, come Isidoro da Siviglia10, ma non ne si comprende l’esatto ruolo in rapporto ad altre realtà, in primis le villae11, le mansiones12, i santuari13 e le chiese rurali14. Non è chiaro se, per questo periodo, il termine latino ricalchi ancora la realtà insediativa precedente di età imperiale; quest’ultima era caratterizzata, in Italia, da spiccate funzioni di snodo commerciale e di sosta, dovute alla loro strategica posizione lungo le principali vie di comunicazione e dotata, in alcuni casi, di una parziale autonomia giurisdizionale. Né è chiaro se, e come, le strutture citate permangano o in che modalità si trasformino, in risposta alle esigenze del tessuto territoriale in cui si trova ogni singolo insediamento. Sono noti per l’età tardoantica casi di nuove fondazioni e cambi giuridici di status di alcuni insediamenti, da urbs a vicus e viceversa, elemento che conferma la dinamicità del momento storico e che complica l’identificazione archeologica della tipologia insediativa. Caratteristica che pare confermabile è però la natura fisica del termine latino vicus, che continua a indicare una realtà rurale tangibile e archeologicamente documentabile, diversamente dal pagus, distretto territoriale da sempre caratterizzato da confini entro cui uno o più vici sono compresi insieme alle altre forme insediative agrarie15. Da un punto di vista archeologico indagare un centro minore compatto e composito in Italia Settentrionale non appare un compito semplice. Ciò accade non solo per la natura stessa dell’insediamento, in profonda sinergia con il territorio e pertanto con forme strutturali estremamente variabili e talvolta di difficile definizione, ma soprattutto per la grande disomogeneità ed esiguità dei dati a disposizione; a questo si aggiungono il diverso grado di approfondimento e di qualità delle ricerche finora condotte16. Vi è inoltre

2. Una proposta metodologica La ricerca dottorale che sto conducendo presso la Sapienza Università di Roma sui vici in Italia settentrionale tra III e VI secolo d.C., si propone, facendo tesoro delle esperienze metodologiche pregresse, in particolare quelle di Paola Maggi, Claudio Zaccaria19, Sara Santoro20 e più recentemente, Marco Cavalieri21, di elaborare innanzitutto una buona base metodologica di indagine, atta allo studio di questi centri, cercando di riordinare i difformi dati disponibili. Tale approccio propone, in una prima fase, un conteggio dei siti attuato in base alle fonti e ai dati archeologici emersi nel territorio dell’Italia Settentrionale, con uno spettro ad ampio raggio, rimandando le operazioni di selezione alla fase di revisione critica dei dati raccolti. Le informazioni edite per ciascun sito individuato saranno così sistematizzate all’interno di una banca dati che permetta in prima istanza di valutare lo stato delle ricerche, territorio per territorio. Al contempo sarà possibile quantificare la potenzialità informative di questa forma insediativa nella Tarda Antichità. Sulla base di questa impostazione si è preliminarmente operato un conteggio nelle fonti itinerarie, sia picta che adnotata22, dei centri presenti in Italia Settentrionale nella Tarda Antichità. Dal computo dei nomi di luogo presenti nella sezione dedicata all’Italia Settentrionale nella Tabula Peutingeriana, il 46% può essere ascritto a realtà insediative non identificabili come città, e dunque ascrivibili come possibili centri minori. Si è poi scelto di confrontare il computo ottenuto dalla Tabula con quello dell’Anonimo Ravennate (Fig. 7.1) e degli Itinerari Antonino e Burdigalense (Fig. 7.2), eliminando dai conteggi ridondanze e sovrapposizioni. La Tabula e l’Anonimo Ravennate sono fonti comparabili poiché illustrano globalmente il territorio seppur operando selezioni: descrivono un areale geografico segnato dalla presenza di una variegata serie di percorsi viari; gli itinerari operano invece una severa selezione determinata dal fatto di essere imperniati su un solo percorso viario. In età tardoantica per l’Italia Settentrionale si contano su queste basi 145 insediamenti minori, dei quali:

Cavalieri 2017, 44. Sara Santoro evidenziava questa problematica non solo per la Tarda Antichità, ma anche per la fase della romanizzazione, affermando come molto spesso la continuità insediativa enunciata “non poggia su elementi concreti che indichino l’esistenza di un insediamento nucleato che abbia preceduto quello romano”. Santoro 2017, 196. 10 Isid., Et., XV, 2, 6–11. 11 Francovich - Hodges 2003; Brogiolo et alii 2005; Curina 2018, 117–126. 12 Corsi 2000, 172–173; Corsi 2016, 53–67. 13 Cavalieri 2012; Spanu 2008, 1029–1077. 14 Sannazzaro 1990; Fiocchi Nicolai - Gelichi 2001, 304–373. 15 Galsterer 1994, 54; Capogrossi Colognesi 2002a, 67 e 75; Todisco 2011, 37, nota 121. 16 Santoro 2017, 385; Sena Chiesa 2003, 205. 8 9

Cantino Wataghin et alii 2004, 88. Bianchi 2013, 15. 19 Maggi - Zaccaria 1994, 189–230; Maggi - Zaccaria 1999, 13–23. 20 Santoro Bianchi 1999; Santoro 2017a; Santoro 2017b. 21 Cavalieri 2017, 39–53. 22 Levi 1967, 19–22; Prontera 2003. 17 18

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Dinamiche di trasformazione dei vici in Italia settentrionale tra III e VI secolo d.C. Una proposta metodologica

Fig. 7.1. L’Italia Settentrionale tardoantica con i siti minori citati nella Tabula Peuntingeriana e nella Cosmografia dell’Anonimo Ravennate (Rielaborazione di David - Traversari - Melega 2014).

Fig. 7.2. L’Italia Settentrionale tardoantica con i siti minori citati negli itinerari Burdigalense e Antonino (Rielaborazione di David - Traversari - Melega 2014).

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Eleonora Rossetti – il 17,9% è presente solo nella Tabula Peutingeriana (26 siti) – il 14,5% solo nell’Itinerario Antonino (21 siti) – il 19,3% solo nell’Itinerario Burdigalense (28 siti) – il 17,9% è presente solo nella Cosmografia dell’Anonimo Ravennate (26 siti)

Tali trasformazioni sono operate inoltre attraverso cambiamenti solo parzialmente in discontinuità con l’organizzazione precedente, poiché pare esserci stata un’azione atta a riequilibrare l’assetto insediativo dei territori. Sebbene vi sia infatti una discreta percentuale di siti di antica fondazione che viene meno, il 65,5% viene sostituito da nuove fondazioni. È comunque da sottolineare che la valutazione, effettuata solo attraverso l’utilizzo delle fonti sopra elencate, non tiene conto della densità abitativa dei territori. Tale elemento, a forte connotazione locale, potrebbe tuttavia aiutare a delineare meglio le specificità dell’organizzazione territoriale tardoantica rispetto a quella imperiale, affinando così il dato ottenuto.

Dalla comparazione delle fonti risulta che: – il 4,8% degli insediamenti è presente sia nella Tabula Peutingeriana sia nell’Itinerario Antonino (7 siti); – il 12,4% è presente sia Tabula Peutingeriana sia nell’Anonimo Ravennate (18 siti); – il 0,7% è presente sia nell’Itinerario Antonino sia nell’Itinerario Burdigalense (1 sito); – l’1,4% è presente sia nella Tabula Peutingeriana sia nell’Itinerario Burdigalense (2 siti); – il 5,5% è presente sia nella Tabula Peutingeriana sia nell’Anonimo Ravennate sia nell’Itinerario Antonino (8 siti); – l’1,4% è presente sia nella Tabula Peutingeriana sia nell’Itinerario Antonino sia nell’Itinerario Burdigalense (2 siti); – il 2,8% è presente sia nell’Itinerario Antonino sia nell’Itinerario Burdigalense sia nell’Anonimo Ravennate (4 siti); – l’1,4% è presente in tutte e quattro le fonti (2 siti).

I dati suesposti sembrano collimare con il modello insediativo sviluppato in base ai dati archeologici da Gisella Cantino Wataghin. Guardando ai siti minori della Lombardia, la studiosa evidenziava come a una prima fase di prosperità nel IV sec. d.C., segnata dall’installazione di nuovi centri ed un incremento dell’abitato già esistente, sarebbe seguito nel V secolo l’attestarsi di fenomeni di “degrado” e di abbandono degli insediamenti. Tale processo favorì lo sviluppo di un “habitat disperso”, suggerito anche in Piemonte e in Valle d’Aosta dalle chiese battesimali, poste in posizione isolata rispetto al tessuto insediativo rurale23. In tale modello inoltre, i centri che presentavano continuità anche dopo il V secolo risultavano caratterizzati dall’installazione di edifici religiosi cristiani all’interno del tessuto insediativo o nelle immediate vicinanze24. Oltre a questo, va citato anche lo studio sulle dinamiche di trasformazione della campagna tra tarda età romana e alto Medioevo, indagate recentemente da Angelo Castrorao Barba. La ricerca, attraverso lo studio del fenomeno della rioccupazione, ha riguardato soprattutto le ville e in parte anche gli agglomerati secondari, su tutto il territorio italico. Lo studioso ha potuto fare un’interessante comparazione, che ha rivelato una maggiore percentuale di rioccupazione dei centri vicani (59,6 %) rispetto alle ville (49,2%) tra il V e VI sec. d.C. Per quanto riguarda invece l’attestazione di edifici di culto cristiano su siti romani preesistenti, nel caso degli agglomerati secondari questa è pari al 44,2 % sul totale, più bassa invece la percentuale di rioccupazione delle ville (34,6 %). Tale disparità potrebbe essere stata indizio di un’organizzazione ecclesiastica degli spazi rurali che prediligeva la nascita di luoghi di culto all’interno di proprietà di natura pubblica nell’ambito del paesaggio agreste, ma allo stesso tempo vicino ai principali nodi viari25. Fatto tesoro di questi dati e del modello sopra esposto, guardando più nello specifico il dato archeologico, si nota che di 145 insediamenti individuati nelle fonti cartografiche il 67,6% presenta un riscontro archeologico (98 siti) (Fig. 7.3). Sono però da aggiungere al conteggio sia i siti noti in base al dato epigrafico-topografico, sia tutti quei siti non citati nelle fonti, ma archeologicamente attestati e per i quali gli studiosi hanno ipotizzato uno

Sulla base della cronologia delle fonti prese in considerazione, si è provato a calcolare il numero dei centri di “antica fondazione”, ovvero la cui fondazione è probabilmente anteriore al V sec. d.C., e il numero di centri di “nuova fondazione”, ovvero sorti tra V e VII sec. d.C. Il primo calcolo è presumibilmente ottenibile sommando il numero dei siti presenti nella Tabula Peutingeriana e nell’Itinerario Antonino, dato che per la loro stesura furono utilizzati anche cartografie precedenti al IV secolo; il secondo è desumibile calcolando i siti nelle restanti due fonti, Itinerario Burdigalense e Anonimo Ravennate. Pertanto, su 145 siti presenti nelle fonti cartografiche ed itinerarie, il 63% può essere ascrivibile a centri di antica fondazione, mentre il 37% a centri di nuova fondazione. Prendendo in considerazione solo i siti di nuova fondazione si è provato a calcolare, sempre in base alle fonti, quanti abbiano avuto una continuità tra V e VIII secolo e quanti invece siano venuti meno dopo il V secolo d.C. Da questi dati risulta che il 42% dei siti di antica fondazione è ancora presente tra V e VII sec. d.C., mentre il 58% viene meno dopo il V secolo. Va tuttavia sottolineato che in questo calcolo rientrano anche quei siti che hanno subito un cambio di status giuridico, rispettivamente da civitas a insediamento minore, e viceversa, non percepibile dalla sola analisi delle fonti cartografiche e itinerarie. Nonostante ciò, il quadro insediativo che emerge da tali fonti per la Tarda Antichità pare comunque significativo, poiché pone in rilievo per questo periodo storico non una generalizzata crisi del territorio rurale, quanto piuttosto una riorganizzazione del territorio.

Cantino Wataghin 1994, 142. Brogiolo et alii 1999, 85–134. 25 Castrorao Barba 2016, 127. 23 24

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Dinamiche di trasformazione dei vici in Italia settentrionale tra III e VI secolo d.C. Una proposta metodologica

Fig. 7.3. L’Italia Settentrionale tardoantica con i siti minori citati negli itinerari e accertati archeologicamente (Rielaborazione di David - Traversari - Melega 2014).

sviluppo insediativo compatto e più ampio e articolato rispetto a una villa o una mansio, sebbene solo in via preliminare. In base ai criteri sopra esposti si andrebbero ad aggiungere altri 167 siti. Escludendo gli insediamenti noti solo in base alle fonti epigrafiche, come ad esempio la Tabula di Veleia26, e toponomastiche, prive di un riscontro archeologico, per ciascun sito si sta effettuando un’attenta revisione e riordino dei dati archeologici editi. Tale lavoro è finalizzato a documentare i tratti salienti delle tracce archeologiche, verificando quanti di essi presentino fasi insediative tra III e VI sec. d.C., così da completare il quadro quantitativo dei siti minori attestati archeologicamente in Italia Settentrionale durante il periodo della Tarda Antichità. Fatta una tale valutazione sarà così possibile effettuare la selezione dei centri minori da sottoporre a una più profonda revisione dei dati. La scelta ricadrà su quei siti appartenenti a un medesimo contesto territoriale dai confini giurisdizionali noti in base alle fonti storiche e topografiche, e aventi una medesima unità geomorfologica, oltre a un grado di approfondimento archeologico il più possibile omogeneo per le fasi comprese tra III e VI sec. d.C. Un tale lavoro permetterà, all’interno del quadro insediativo generale, di comparare e verificare il trend di sviluppo, trasformazione e fine dei siti campione sottoposti ad analisi. Si potrà così valutare quanto tali processi combacino o si allontanino dal modello generale dell’organizzazione del territorio nord-italico tardoantico 26

finora noto. Si auspica che in questo modo si possano inoltre intercettare specificità locali e/o si confermino elementi comuni dei siti minori in Italia Settentrionale nella Tarda Antichità, utili a determinare uno o più criteri distintivi di individuazione degli agglomerati secondari in base al dato archeologico. La ricerca così organizzata potrà infine essere l’occasione di una definizione tipologica di questi centri, non tanto su base strutturale quanto funzionale, ma realizzata in base ad alcuni elementi distintivi o qualificanti per ora gli agglomerati secondari: distanza da un asse stradale o fluviale, presenza di un’area necropolare, distanza da una chiesa rurale, distanza da una villa, distanza da una mansio, presenza di edifici pubblici a carattere religioso, presenza di un quartiere abitativo, presenza di un quartiere artigianale e commerciale, presenza di edifici da spettacolo, luoghi di riunione e per il pubblico mercato. Bibliografia Bianchi, M. 2017, “Sara Santoro e il suo approccio multidisciplinare allo studio dei siti minori”, in Atti del convegno dedicato a Sara Santoro, Udine, 15–24. Brogiolo, G. P. - Cantino Wataghin, G. - Gelichi S. 1999, “L’Italia settentrionale”, in Ph. Pergola (ed.), Alle origini della parrocchia rurale, Atti della giornata tematica dei seminari di Archeologia Cristiana: Roma, 19 marzo 1998, Città del Vaticano, 487–540.

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8 Progetto Survey Media Valle del Cedrino: il riutilizzo di epoca storica. Francesca Basso, Lorenzo Bonazzi, Dario Di Michele, Arianna Gaspari, Alessia Grandi, Smeralda Riggio, Camilla Simonini, Barbara Valdinoci Università di Bologna ‘Alma Mater Studiorum’ The aim of this paper is to present the work carried out so far by a group of graduates from the School of Specialization in Archaeological Heritage of the University of Bologna on the Middle Valley of the Cedrino River, between Oliena and Dorgali in Sardinia (in the province of Nuoro). It was possible, through a systematic survey of the area, to study in depth the dynamics of population in an area of great importance, a hinge between the east coast and the interior of Sardinia, and its development from prehistoric times to the modern age. After the Iron Age throughout Sardinia, and in particular in the surveyed area, the dominant trend seems to be the reuse of already existing structures, characterized by a remarkable continuity of life. The findings of Roman materials, such as fragments of Terra Sigillata and amphorae, allow to identify possible frequentations of the protohistoric structures during the Imperial Age until Late Antiquity. Questo contributo presenta alcuni risultati del progetto Media Valle del Cedrino, svolto da un gruppo di allievi della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Università di Bologna. Scopo del progetto era realizzare uno studio territoriale dell’altopiano del Gollei, situato tra i comuni di Oliena e Dorgali in provincia di Nuoro, nella Media Valle del fiume Cedrino. Attraverso una ricognizione sistematica dell’area, è stato possibile approfondire le dinamiche del popolamento in una zona di grandissima importanza, cerniera tra la costa orientale e l’interno della Sardegna, e il suo sviluppo dalla preistoria all’età moderna. In tutta la Sardegna, ma in particolare nell’area oggetto di studio, l’Età del Ferro è seguita da una fase in cui la tendenza dominante sembra essere quella del riutilizzo delle strutture preesistenti. I ritrovamenti di materiali romani, quali ad esempio frammenti di Terra Sigillata Africana e anfore, permettono di identificare possibili frequentazioni, datate dall’età Imperiale al periodo tardoantico, di alcune strutture protostoriche. Keywords: Sardegna; ricognizione; popolamento antico; riutilizzo Introduzione

1. Il Progetto Media Valle del Cedrino

Un fenomeno diffuso in Sardegna lungo tutta l’età storica è il riutilizzo di strutture di età pre-protostorica, quali domus de janas, tombe dei giganti, nuraghi e villaggi. Questo avviene anche nel territorio di Oliena e Dorgali (Nuoro), come confermato da studi precedenti27. Numerose sono le evidenze di una frequentazione in età romana dei nuraghi e dei villaggi come testimoniato, ad esempio, dai siti di Ruinas, Tiscali e Santa Ligustina28; sono segnalati ritrovamenti di materiali di età romana nei pressi di tombe dei giganti, come S’Ena e Thomes, databili a partire dall’epoca imperiale29. I dati emersi nel corso del progetto Media Valle del Cedrino convalidano questa tendenza alla rioccupazione e al riutilizzo.

Il progetto è stato ideato dagli allievi del corso 2016–2017 della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Università di Bologna. La proposta fu accolta favorevolmente dal direttore e dal Collegio dei docenti della Scuola, nonché sostenuta e supportata nella sua pianificazione, burocratica e pratica30. Il progetto iniziato nel 2017, visti i risultati, continuerà anche in futuro31. La scelta dell’Altopiano del Gollei e delle aree limitrofe, comprese tra i Comuni di Oliena (NU) e Dorgali (NU), è 30 Per questo è doveroso ringraziare l’allora direttore della Scuola prof. Nicolò Marchetti, il prof. Maurizio Cattani, che è stato il responsabile scientifico ed è tutt’ora il nostro riferimento per il proseguimento dello studio, e tutti coloro che hanno dato un loro contributo alla ricerca, in particolare, il Dott. Gianluigi Marras, funzionario di zona della Soprintendenza di Sassari e Nuoro, la Dott.ssa Maria Grazia Corrias, curatrice e responsabile dei servizi educativi per il Museo di Dorgali e, infine, il Dott. Demis Murgia. 31 Alberti et alii 2018, 77–78.

Delussu 2016; Desantis 1986; Maisola 2012, 2765. Maisola 2012, 2769–2772. 29 Farre 2017, 35–37. 27 28

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Basso, Bonazzi, Di Michele, Gaspari, Grandi, Riggio, Simonini & Valdinoci protostorico (Fig. 8.1). Il caso più antico riguarda le domus de janas, il cui riutilizzo si protrae ininterrottamente fino ai giorni nostri34. Sull’altopiano, di particolare interesse per l’ambito cronologico di pertinenza di questo contributo, risultano le domus de janas Su Cungiadu 2 e 4 (CA 8), scavate entrambe sulla sommità del monte Su Cungiadu, punto più elevato dell’altopiano. All’interno e all’esterno degli ipogei sono stati rinvenuti materiali di epoca storica; l’esatta natura di questa frequentazione non è ancora chiara al momento; tuttavia la presenza di interro e probabilmente del crollo della volta naturale, nella domus 2, fa ben sperare in vista di future indagini stratigrafiche. Appare chiaro come il monte Su Cungiadu sia stato un punto di gravitazione per il popolamento nelle diverse epoche, vista la sua posizione al centro di una depressione particolarmente fertile. Per quanto riguarda i nuraghi ricogniti, sull’altopiano è presente un solo nuraghe a corridoio, il cosiddetto nuraghe Predaru o Gollei (CA 25), e un nuraghe monotorre, denominato Poddinosa (CA 30). Nei pressi dell’altopiano sono stati indagati i nuraghi a tholos San Nicola (CA 11), Su Casteddu (CA 33) e Predu e Serra (CA 34). Sul Gollei sorgono tre nuraghi complessi: il nuraghe S’Ulumi (CA 12), il nuraghe Gonagosula (CA 14) e il nuraghe Gollei (CA 16), tutti eretti in basalto in posizioni strategiche. Nell’altopiano del Gollei, come è avvenuto in tutta la Sardegna, i nuraghi sono stati centri di gravitazione del popolamento caratterizzati da una lunga frequentazione: l’esempio principe è il vicino Nuraghe Mannu35. Diversamente da altre parti dell’isola, nell’area indagata le attività antropiche non hanno alterato o distrutto in modo considerevole i nuraghi; i danni presenti, apparentemente, sono dovuti esclusivamente al tempo. Tra i nuraghi indagati, cinque presentano tracce evidenti di frequentazione successiva all’età protostorica e verranno elencati di seguito. Il nuraghe San Nicola sorge su un basso rilievo a nord-est dell’altopiano; nell’area sono presenti resti di strutture rettilinee sfruttate almeno fino alla prima metà del Novecento. Le strutture risultano mal conservate e sono in parte coperte dalla fitta vegetazione. Sulla base dei materiali rinvenuti, gli edifici potrebbero essere databili all’epoca romano-imperiale con riutilizzi successivi per scopi probabilmente connessi a un prolungato sfruttamento pastorale. In particolare, si segnala nell’area il ritrovamento di 9 frammenti di sigillata (di cui due frammenti di orlo di coppa Lamboglia 1b., datati alla seconda metà del II sec. d.C.36), 98 frammenti di anfore, 86 frammenti di laterizi, 21 frammenti di tegole e 15 frammenti di coppi. Quantitativi simili, provenienti da raccolte di superficie, testimoniano un popolamento romano decisamente consistente. Il nuraghe Su Casteddu37 sorge sull’omonima collina; l’altura è composta da terreno argilloso e probabilmente è proprio a causa di questa sua particolarità che essa è stata intensamente frequentata

stata dettata dalla volontà di ricavare una visione d’insieme del popolamento nelle diverse fasi storiche. L’esperienza e la conoscenza della regione, derivanti dalle campagne di scavo nell’area del nuraghe Tanca Manna di Nuoro dirette dal Prof. Cattani e dal Dott. Demis Murgia, suggerivano che la Sardegna fosse particolarmente adatta allo scopo: un territorio con una ricchezza di testimonianze archeologiche unica e con problematiche storiche e archeologiche stimolanti, visto lo straordinario grado di conservazione di numerose strutture. Le metodologie utilizzate per la ricognizione e per la documentazione sono state scelte e, in buona parte, create ad hoc per questo progetto, ma sono state pensate in modo da poter essere applicate e utilizzate in qualsiasi ricognizione e su ogni territorio, creando così un sistema organico standardizzato ma allo stesso tempo flessibile. La scelta di mappare, dove possibile, attraverso un rilievo 3D le evidenze monumentali affioranti si ricollega alla volontà di utilizzare le moderne tecnologie, come la fotogrammetria 3D e l’uso di una total station, per raccogliere una documentazione completa da integrare con il posizionamento GPS dei rinvenimenti e il loro studio. Si è scelto di suddividere il territorio in maniera sistematica, precisa e pratica per il lavoro sul campo: per la ricognizione dell’Altopiano del Gollei questa operazione è stata agevolata dal fatto che fosse già presente una parcellizzazione fondiaria capillare, spesso immutata da secoli, riportata sulla Carta Tecnica Regionale. Il territorio è stato così suddiviso in 83 Unità di Osservazione32. Le schede di Unità di Osservazione (UO) sono state compilate direttamente sul campo, come anche le schede di Complesso Archeologico (CA), corrispondenti a concentrazioni archeologiche riferibili con certezza a categorie del popolamento antico, definibili per la presenza di strutture e/o per la particolare quantità dei materiali presenti. La compilazione delle schede è stata affiancata da un database in versione digitale compilabile tramite smartphone e tablet mediante l’applicazione Epicollect533. La raccolta dei materiali è stata pressoché totale; nel caso di una quantità elevata di particolari categorie di materiali, quali ad esempio tegole e laterizi, si è proceduto alla raccolta dei reperti più significativi e diagnostici. In laboratorio, il materiale è stato siglato, schedato, fotografato ed è stata prodotta una documentazione grafica dei frammenti diagnostici. Per la costruzione del database si è scelto di utilizzare il software multipiattaforma FileMaker, realizzando schede specifiche per ogni classe di materiale. Dai dati ricavati sul campo e dallo studio dei materiali sono stati identificati 36 Complessi Archeologici, suddivisi cronologicamente per epoche, dal Neolitico al Medioevo. 2. Il riutilizzo delle strutture tra il VII sec. a.C. e il V sec. d.C. Dei 36 CA individuati, 13 hanno restituito materiali di età romana e, di questi, 10 presentano un primo impianto

34 La Domus de Janas 4, scavata ai piedi del monte Su Cungiadu, è stata utilizzata come rimessa per materiali e attrezzi fino ai giorni nostri. 35 Scavi archeologici sembrano ricondurre a un arco cronologico compreso tra II sec. a.C. e VII sec. d.C. la frequentazione romana e tardo antica dell’area propria del nuraghe e del villaggio protostorico. 36 Bonifay 2004, 156. 37 Manunza 1995, 131–134; Taramelli 1993, 37, No. 9.

32 Con Unità di Osservazione (UO) si intende una divisione sistematica del territorio funzionale alla ricognizione dello stesso. 33 Epicollect5 è un’applicazione gratuita sviluppata dall’Imperial College London con cui è possibile raccogliere dati creando questionari e database che saranno salvati su un server gratuitamente e illimitatamente.

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Progetto Survey Media Valle del Cedrino

Fig. 8.1. Valle del Cedrino. Carta dei complessi archeologici con tracce di continuità (Rielaborazione di L. Bonazzi da Google Earth).

nei secoli. Nell’area sono evidenti diversi fronti di cava; i reperti ceramici dell’area sono databili a partire dalla protostoria fino ai giorni nostri, principalmente fino a qualche decennio fa, quando si sono interrotte le attività di cava. Intorno alla torre sono presenti diversi conci lavorati, di dimensioni inferiori rispetto a quelli della tholos, riferibili a strutture sconvolte di non facile datazione; come accennato, nell’area e lungo tutto il pendio sono presenti diversi reperti ceramici e si evidenzia una chiara frequentazione di epoca romana. Particolarmente interessanti risultano i materiali ceramici di età romana provenienti dall’interno della tholos, testimonianti una frequentazione della struttura oltre che delle aree limitrofe. I materiali si concentrano in una nicchia che sembra essere stata interessata da attività di scavo non meglio identificate; ciò che si nota sin dall’ingresso è la presenza all’esterno e all’interno della tholos di crolli antichi e di un notevole interro, come si nota nell’immagine (Fig. 8.2). Particolarmente interessante risulta la presenza di una sorta di malta, ben visibile tra i conci. Dall’area del Nuraghe Su Casteddu provengono 7 frammenti di anfore, 2 frammenti di sigillata, 13 frammenti di laterizi e 2 frammenti di coppi. Dal nuraghe monotorre Predu e Serra38, posto a nord-ovest dell’altopiano, provengono materiali di epoca romana; i crolli e la vegetazione che sorge attorno al monumento non 38

consentono una lettura complessiva, tuttavia la struttura si presenta in buono stato di conservazione e in una posizione dominante sulla piana alluvionale circostante. Il nuraghe S’Ulumu o Ulumi39 sorge su un’altura che domina un’area particolarmente fertile dell’altopiano, a controllo di un accesso nord-orientale al corso del fiume Cedrino. L’esatta planimetria non appare del tutto chiara a causa del crollo e della fitta vegetazione. Nell’area sono presenti strutture rettilinee, poco conservate, con dispersione di tegole, laterizi e ceramica, queste evidenze sono attribuibili a una frequentazione di epoca romana che andava a sovrapporsi a evidenze protostoriche. In particolare, sono stati raccolti 86 frammenti di laterizi, 2 tegole frammentarie e 5 frammenti di anfore. Il nuraghe complesso trilobato, costruito in basalto, noto genericamente come Gollei40, sorge sul margine sud-ovest dell’altopiano, in prossimità di una strada privata posta poco più a sud rispetto a una via di accesso antica all’altopiano. In una zona pianeggiante subito a sud della torre sono stati raccolti materiali databili genericamente all’epoca romana, di cui 1 frammento di tegola, 1 frammento di laterizio e 1 frammento di sigillata; a est vi sono resti di strutture sconvolte di non facile datazione da cui non provengono materiali. Come si nota Manunza 1995, 137–138; Moravetti 1980, 107–108; Taramelli 1929, 38, No. 13. 40 Taramelli 1933, 40, No. 23. 39

Salis 1999, 56–57.

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Basso, Bonazzi, Di Michele, Gaspari, Grandi, Riggio, Simonini & Valdinoci

Fig. 8.2. Valle del Cedrino. Nuraghe Su Casteddu: a sinistra, visione frontale dell’ingresso; a destra, visione frontale della nicchia a nord-ovest (Fotografie di L. Bonazzi).

della Sardegna43. La fonte sorge ai piedi dell’omonima collina in direzione nord-est e testimonia una continuità di vita protostorica almeno fino alle fasi conclusive dell’età del Bronzo e, a giudicare dai materiali rinvenuti, una frequentazione dell’area durante l’epoca romana, come già accennato parlando dell’omonimo nuraghe. L’area di Nastallai è interessante dal punto di vista della quantità di materiali rinvenuti durante la ricognizione. Considerando che le UO 11-12-13-14-72 presentano materiale successivo all’impianto del pozzo sono stati rinvenuti: 21 frammenti di sigillata (di cui sei frammenti di orli di coppe e scodelle datati tra il I e il III sec. d.C.) (Fig. 8.4.1-5); 70 frammenti di anfore, di cui un puntale di anfora africana, verosimilmente appartenente a una delle tre varianti dell’Africana I, datata tra la fine del II secolo d.C. e gli inizi del V secolo d.C.44 (Fig. 8.4.6), e un orlo di anfora italica tardo-repubblicana riconducibile al tipo Lamboglia 2 o Dressel 1A45 (Fig. 8.4.7); 50 frammenti di tegole; 18 frammenti di coppi e 116 frammenti di laterizi. Dalla UO 72 provengono inoltre

da questa veloce descrizione, questi nuraghi sorgono in posizione dominante su aree fertili e in punti di passaggio nevralgici. Non sorprende affatto pertanto che in epoca romana siano stati punti di gravitazione del popolamento venendo utilizzati per scopi che, in attesa di ulteriori indagini, possiamo solamente ipotizzare. 3. Il riutilizzo di areali connessi ai luoghi di approvvigionamento idrico Sono state individuate due aree con una grande dispersione di materiale nei pressi di due strutture monumentali connesse all’approvvigionamento idrico databili tra Bronzo Recente e primo Ferro. Tutto il materiale raccolto è successivo alla costruzione delle due strutture e testimonia una consistente frequentazione in epoca storica. Il pozzo di Nastallai (CA 26) è attualmente completamente interrato ed era già noto in bibliografia41. La fonte di S’Ulumi (CA 27) invece è una fonte nuragica (Fig. 8.3), anch’essa già edita42. Entrambe le strutture sono state identificate e datate sulla base dei confronti con altre strutture simili nel resto

Salis 2017; Usai 2008, 121. Bonifay 2004, 106, fig. 56.a2; Milanese 1993, 65, fig. 29.23; Panella 2001, 177–275; Zevi-Tchernia 1969, 575–579. 45 Menchelli-Picchi 2014, 6, fig. 3.23. 43 44

41 42

Manunza 1995, 136–137. Moravetti 1980, 107–108.

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Progetto Survey Media Valle del Cedrino

Fig. 8.3. Valle del Cedrino. Fonte di S’Ulumi (Fotografia di L. Bonazzi).

un frammento di fondo di scodella/piatto in sigillata africana D con decorazione a palmette datato alla fine del IV sec. V sec. d.C.46 (Fig. 8.4.8) e un frammento di lucerna di tipo Atlante X, datata al V secolo d.C.47 (Fig. 8.5). Da questo elenco si nota come la frequentazione dell’area sembri molto prolungata, con un’abbondanza di materiale in superficie soprattutto nell’area di San Pietro di Iloghe (CA 29). L’areale di Nastallai è interessante soprattutto poiché a nord-ovest del pozzo sono stati rinvenuti i resti della chiesa di S. Pietro di Iloghe48 e ciò metterebbe in luce una continuità di popolamento che dal Bronzo Recente, epoca dell’impianto del pozzo sacro, arriva fino all’età medievale. I conci del paramento esterno del rudere della

chiesa di Iloghe, particolarmente squadrati e simili a conci di strutture romane, non si possono escludere come frutto di riutilizzo; anche se al momento non si può avere la certezza a riguardo, tuttavia appare plausibile vista la sopracitata dispersione di materiale romano nell’area. 4. Il caso dei villaggi senza nuraghe Sono presenti due villaggi protostorici senza nuraghe ben conservati, nella parte del Gollei nel territorio comunale di Oliena. Sono databili tra il Bronzo Recente e la prima età del Ferro in base ai confronti con strutture simili49 e sorgono in aree pianeggianti leggermente sopraelevate in posizione dominante su ampie zone sfruttabili da un punto di vista sia agricolo che pastorale. Il villaggio CA

Carandini 1981, 127, tav LVII (b) 61; Hayes 1972, 230, fig. 38.4j. Alberti et alii. 2018, 133. 48 Seu-Romagna 1988, 15. 46 47

49

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Depalmas 2017, 101; Moravetti 1998, 73.

Basso, Bonazzi, Di Michele, Gaspari, Grandi, Riggio, Simonini & Valdinoci

Fig. 8.4. Valle del Cedrino. Tavola materiali romani (Elaborazione di L. Bonazzi e A. Grandi).

2, in località Orrighile, è il più grande con un’estensione di due ettari e mezzo circa e mantiene il migliore stato di conservazione. Per quanto riguarda la distribuzione delle strutture si notano: una zona centrale caratterizzata da una grande concentrazione divisa in due da un muro a secco che sembrerebbe insistere, almeno in parte, su un muraglione antico; un piccolo nucleo nella zona nord-orientale e una struttura isolata al margine nord del villaggio, con altre costruzioni, più o meno isolate, ai margini occidentali. Le strutture articolate individuate sono più di 25 (stima destinata a crescere vista la difficile lettura causata dalla fitta vegetazione e dagli estesi crolli). Si registra una relativa costanza dal punto di vista della forma e della tecnica costruttiva; le dimensioni variano: i diametri interni vanno dai 3 ai 6 m; gli spessori murari tra 1 e 1.40 m. Nella

Fig. 8.5. Valle del Cedrino. Frammento di lucerna (Fotografia di A. Gaspari).

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Progetto Survey Media Valle del Cedrino parte centrale dell’insediamento si trovano le strutture più grandi e imponenti, con diametri esterni tra i 7 e gli 8 m. Nella parte sud-est del villaggio si conservano agglomerati di strutture circolari, considerati come strutture singole al momento, che presentano uno straordinario grado di conservazione che in diversi casi supera i due metri di altezza, nonostante la presenza di estesi crolli che non consentono una chiara lettura della planimetria degli edifici che si presenta anche particolarmente articolata. Il secondo villaggio CA 10, in località Sas de Mattu, a Oliena, meno esteso (circa un ettaro e mezzo) presenta più di dieci strutture, con diametri interni rilevati che si attestano tra i 3 e i 5 m circa, elevati conservati fino a 1.60 m e spessori murari intorno a 1 m circa. La vegetazione risulta decisamente più fitta rispetto al primo villaggio e al momento non si riesce a comprendere del tutto lo sviluppo interno dell’abitato.

antica, vista la presenza di un frammento di orlo di anfora tipo Keay LVI B (n. 4), datato alla fine del V-metà del VI secolo d.C.50 e un frammento di orlo in ceramica comune decorato a stampiglie quadrangolari, datato sulla base dei confronti al VI-VII secolo d.C.51. Conclusioni e prospettive di ricerca Alla luce di questa breve disamina appare evidente come, nel periodo romano, il popolamento sull’altopiano del Gollei sia consistente ed esteso lungo tutto il periodo imperiale fino alla tarda antichità compresa. Al momento, l’entità dell’occupazione delle strutture pre-protostoriche non appare chiara, soprattutto la natura del riutilizzo delle domus de janas e dei villaggi. Tracce più consistenti provengono dai luoghi connessi all’acqua e soprattutto dai nuraghi, in particolare il San Nicola e il Su Casteddu, i quali dominano aree strategiche, fertili e ricche di risorse. In conclusione, ciò che traspare è un popolamento pluristratificato che va a concentrarsi nelle aree più fertili andando spesso a gravitare nei pressi di strutture di epoca protostorica, in particolare i nuraghi. Il prosieguo delle indagini porterà maggiore chiarezza all’interno delle dinamiche insediamentali della Media Valle del Cedrino, che si prefigura sempre di più come lo snodo centrale delle dinamiche storiche della Sardegna centro-orientale.

Il riutilizzo di queste aree è indiziato dalla presenza di ceramica e laterizi successivi all’epoca di impianto dei villaggi e risulta evidente fino all’epoca moderna. Nelle sue parti periferiche il villaggio grande ha subito degli spietramenti compiuti a mano; fortunatamente l’estensione e l’imponenza delle strutture e dei crolli delle stesse hanno scoraggiato ulteriori spietramenti nelle altre parti dell’abitato. Il villaggio piccolo risulta ben conservato e inglobato in un apprestamento pastorale ormai in disuso da decenni, caratterizzato da recinti e strutture pastorali e abitative di epoche differenti, tendenzialmente collocabili a partire dagli ultimi duecento anni, che non hanno particolarmente sconvolto l’abitato andandosi a disporre attorno a esso. Saggi di scavo potranno chiarire le fasi di impianto, di vita e di riutilizzo dell’insediamento.

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5. L’insediamento romano CA 24

Bonifay, M. 2004, Etudes sur la céramique romaine tardive d’Afrique. Oxford.

Il sito CA 24 costituisce un’eccezione in questo ambito poiché non sembrerebbe occupare l’area di un insediamento precedente. È da considerare però la sua vicinanza al villaggio protostorico CA 10, di cui si è detto in precedenza. Il sito è caratterizzato da diverse strutture a pianta rettangolare delle quali non è possibile stabilire al momento l’esatta pertinenza. L’area è a ridosso della fertile depressione vulcanica sorta attorno al monte Su Cungiadu. La parte meridionale del sito si presenta meno conservata con recinti e spietramenti realizzati con pietre squadrate attribuibili con certezza a strutture. Il grado di conservazione si presenta decisamente maggiore nella parte settentrionale, dove in alcuni casi è stato possibile ricostruire approssimativamente i perimetri. Si nota una notevole accuratezza nella realizzazione e messa in opera delle pietre lavorate, in particolare per i cantonali; le strutture rettilinee e la particolare squadratura dei conci ha fatto fin da subito proporre per il contesto una datazione all’epoca romana; conferma di questo orizzonte cronologico è arrivata dalla raccolta di materiali particolarmente datanti. Nell’area sono stati recuperati: 4 frammenti di terra sigillata, 6 frammenti di anfore, 27 frammenti di tegole, 11 frammenti di coppi e 25 frammenti di laterizi. Si ipotizza per l’insediamento una continuità di vita in epoca tardo-

Carandini, A. 1981 (ed), Atlante delle forme ceramiche, I, Roma. Delussu, F. 2009, “Nuraghe Mannu (Dorgali, Nu): scavi dell’abitato tardo-romano e altomedievale (campagne 2005–2006)”, in Fasti Online, 165, 1–13. Delussu, F. 2016, “Il riutilizzo dei Nuraghi in età romana nel territorio di Dorgali”, in Layers. Archeologia Territorio Contesti, 1, 128–144. Depalmas, A. 2017, “I villaggi”, in A. Moravetti - P. Melis - L. Foddai - E. Alba (eds), La Sardegna nuragica: storia e monumenti, Sassari, 101–113. Desantis, P. 1986, “Censimento archeologico nel territorio del comune di Oliena”, in Settimana dei Beni culturali, 1975–1985: 10 anni di attività nel territorio della Provincia di Nuoro, Nuoro, 39–40. Farre, C. 2017, “Il riutilizzo delle tombe dei giganti in età romana. Osservazioni preliminari su alcuni contesti 50 51

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Bonifay 2004, 135–137; Keay 1984, 295. Alberti et alii 2018, 136–137.

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9 Le trasformazioni del paesaggio urbano di Catania tra età romana e prima età bizantina: elementi di continuità e di rottura. Viviana Spinella Università degli Studi di Messina / Scuola Archeologica Italiana di Atene The purpose of this study is to analyse the transformations of Catania and its settlement between the Roman and the Middle Ages. Data coming from archaeological excavations carried out in the last thirty years help to identify the parameters to recognize elements of continuity and discontinuity in the urban landscape during this period. Between the 4th and the 5th century AD, the archaeological, literary and epigraphic sources attest the preservation of the imperial urban structure, which is also proved by through the restoration of public buildings and the construction of new ones. Starting from the 6th AD, and in particularly during the 7th century AD, we note an evident discontinuity in the modelling of the city. Deep transformations are documented: the first Christian constructions were built and some Roman public buildings were transformed and reused; at the same time street levels grew, the main infrastructures were dismissed and new necropolis were established intramoenia. Il presente contributo si propone di indagare il processo insediativo di Catania dalla tarda età romana all’altomedioevo. I dati emersi nel corso delle indagini archeologiche condotte nell’ultimo trentennio consentono di identificare una serie di parametri utili al riconoscimento degli elementi di continuità e di discontinuità del tessuto insediativo durante tale arco cronologico. Tra IV e V secolo d.C., i dati archeologici, le fonti letterarie ed epigrafiche sembrano documentare a Catania una tenuta degli assetti urbani di età imperiale, comprovata dalla manutenzione della città attraverso numerosi interventi di restauro agli edifici pubblici. È solo a partire dal VI secolo, e in particolare nel VII secolo, che si manifestano i primi segnali di cambiamento. Le trasformazioni più evidenti sono influenzate dalla cristianizzazione degli spazi, ma si rivelano anche tramite il mutamento funzionale ed il riuso di alcuni edifici romani, la crescita delle altimetrie dei piani d’uso e l’inurbamento delle sepolture. Keywords: Catania; Sicily; Sicilia; urban landscapes archaeology; archeologia dei paesaggi urbani; Late Antiquity; Tarda Antichità Introduzione

infrastrutture antiche, come gli acquedotti e i condotti fognari, all’inurbamento delle sepolture, al riadattamento e creazione ex-novo di sistemi difensivi3) - è rimasta a lungo esclusa la Sicilia, dove l’interesse verso tale tematica si è sviluppato in ritardo e lo stato degli studi è più frammentato e parziale4. Il ruolo marginale delle città siciliane all’interno del dibattito è stato spiegato come conseguenza dell’attardamento complessivo della ricerca medievistica in Sicilia, ma anche del peso della tradizione storiografica legata all’idea di una prevalente ruralizzazione del paesaggio dell’Isola, a discapito della dimensione urbana, a partire dall’età tardoantica5.

Il tema del passaggio dalla città classica a quella medievale e delle grandi trasformazioni che la fine del mondo antico ha determinato sull’organizzazione dei centri urbani ha goduto di grande rilevanza nel dibattito scientifico in Italia tra gli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso1. Da tale discussione - che ha riguardato soprattutto le città dell’Italia settentrionale, centrale e, in minor misura, quelle meridionali2, che ha portato a letture condivise nell’interpretazione dei fenomeni (dalle modalità insediative, ai mutamenti funzionali al riuso dei monumenti pubblici romani, alla cristianizzazione della città con la nascita dei primi luoghi di culto e la costruzione delle cattedrali, alla crescita delle altimetrie e dei piani d’uso, alla dismissione delle

La recente ripresa degli scavi in molti centri siciliani, tra cui Catania, ha ridimensionato questa visione, restituendo Gelichi 2009, 95–96. Per una riflessione sullo stato degli studi sulle città siciliane tra Antichità e Medioevo, con bibliografia di riferimento, Arcifa 2016. 5 Arcifa 2016, 31.

1 Per un’ampia rassegna bibliografica sulla tematica Brogiolo 2010; Brogiolo 2016. 2 Per un’analisi dello stato degli studi sulle città dell’Italia meridionale e per approfondimenti bibliografici, Volpe 2010.

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Viviana Spinella 434 del Consularis Siciliae Fl. Felice Eumazio, redatto in lingua greca, e rinvenuto nei pressi della Cattedrale, vengono ricordati i lavori di restauro nelle Thermai Achillianai14, probabilmente da riconoscere negli interventi di innalzamento dei livelli pavimentali, nel rifacimento dell’impianto idrico e nella trasformazione della sala centrale, individuati durante le indagini archeologiche e datati alla metà del V sec. d.C.15. Gli scavi condotti nelle terme della Rotonda (Fig. 9.1c), altro impianto termale pubblico, posto a nord del teatro e dell’odeum, nel cuore della città antica, testimoniano una continuità della funzione termale dell’edificio per tutto il V fino alle soglie del VI sec. d.C.16. Dell’impianto termale si conoscono una serie di ambienti disposti a sud e a est della grande aula a pianta centrale, detta Rotonda, caratterizzata da vasche contenute all’interno delle nicchie radiali, e alimentato dall’acqua proveniente da una grande cisterna posta a nord dell’edificio (Fig. 9.2). Che Catania abbia vissuto un rinnovato momento edilizio nel IV sec. d.C., sarebbe confermato dalla costruzione di un ulteriore impianto termale nel settore meridionale della città antica, ai margini dell’area portuale17. Si tratta delle terme dell’Indirizzo (Fig. 9.1d), composte da tredici vani voltati, a eccezione dell’aula ottagonale, il calidarium, coperta da una cupola18. Quanto all’edilizia domestica, i dati relativi alle domus messe in luce nel corso degli scavi dell’ex Reclusorio della Purità19 (Fig. 9.1e) e quelle dell’insula del Monastero dei Benedettini20 (Fig. 9.1f), collocate nella parte settentrionale della città antica, ancora in uso nel IV e V secolo, sembrano confermare la vocazione residenziale del settore urbano anche in età tardoantica, in continuità con tradizione insediativa della fase precedente. Quanto all’anfiteatro (Fig. 9.1g), i recenti scavi, condotti in un limitato settore dell’edificio (tra i fornici IX-X-XI), hanno documentato un uso improprio della struttura a partire dalla seconda metà del IV secolo d.C., quando è registrata l’istallazione di una vetreria e nuclei a destinazione abitativa tra i pilastri dell’ambulacro esterno21. A differenza del teatro, la mancata azione di manutenzione e il definitivo abbandono possono essere interpretati come conseguenza della crisi dei ludi gladiatori e degli spectacula nel Tardo Impero22. Il dato archeologico converge con quanto segnalato da Cassiodoro secondo cui, alla fine del V secolo, il re Teodorico concesse ai Catanesi, di riutilizzarlo come cava di materiale edilizio23. A differenza dei contesti urbani che testimoniano, tra IV e V secolo, un forte legame con la tradizione romana e pagana, è nelle aree di necropoli che, per la prima volta, emerge un elemento di forte novità: il fiorire della comunità cristiana24. I dati più significativi provengono dalla necropoli settentrionale individuata nell’area compresa tra

loro un’immagine vitale e di buona tenuta della dimensione urbana già a partire dal IV secolo d.C. Tali importanti acquisizioni consentono oggi di introdurre dei correttivi al quadro della Sicilia tardoimperiale - una provincia costellata non solo di stationes, fundi, villae e massae ma anche di città6 - e, soprattutto, di valutare positivamente persino quello dei periodi successivi. 1. Catania tra IV e V secolo d.C. I numerosi dati emersi nel corso delle ricerche archeologiche condotte nell’ultimo trentennio a Catania (Fig. 9.1) hanno fornito importanti parametri che permettono di seguire le varie tappe del processo insediato della città dalla tarda età romana alla prima età bizantina e di riconoscerne gli elementi di continuità e di rottura7. Tra IV e V secolo, le indagini archeologiche e le fonti letterarie ed epigrafiche sembrano documentare una forte continuità nelle modalità insediative e una effettiva tenuta degli assetti urbani classici. Le testimonianze tramandateci dalle fonti antiche ci restituiscono un quadro della città estremamente positivo. Catania, sul finire del IV secolo, non solo è definita ‘splendida’ nell’Expositio totius mundi et gentium8 - aggettivo che ricorre in alcune iscrizioni catanesi contemporanee all’opera9 - e ricordata per gli spettacoli circensi, ma viene collocata da Ausonio al sedicesimo posto, nell’Ordo urbium nobilium, nell’elenco delle più importanti città dell’Impero10, preceduta da Atene e seguita da Siracusa. All’immagine di floridezza restituita dalle fonti letterarie, si associa la documentazione epigrafica ed archeologica, che testimonia, tra IV e V secolo, una costante manutenzione dell’insediamento cittadino e cospicui interventi di ristrutturazione agli edifici pubblici. Azioni da parte di funzionari governativi sono ricordate in diverse iscrizioni di carattere pubblico. Famosa è l’epigrafe della metà del IV sec. d.C. che ricorda il recupero di un nymfeum da parte del consularis Flavius Arsinius11. Un altro documento epigrafico significativo è quello che menziona la ricollocazione della statua dei Fratres Pii, intorno alla metà del V secolo, da parte del consularis Merulus, in un edificio pubblico da riconoscere, con molta probabilità, nel teatro cittadino (Fig. 9.1a), luogo di rinvenimento della stessa epigrafe12. L’uso dell’edificio teatrale nella sua funzione originaria, ancora tra la fine del IV e il V secolo, troverebbe riscontro nei dati archeologici che attestano modifiche strutturali con la realizzazione di una cisterna, all’interno dell’ambulacro inferiore, e di sistemi di canalizzazione funzionali all’allagamento dell’orchestra per la messa in opera di spettacoli acquatici e naumachie13. Un’ampia ristrutturazione è documentata per le terme di Piazza Duomo (Fig. 9.1b). Nell’epigrafe contenente un editto del

IG XIV, 455; Manganaro 1958–1959, 24–30. Branciforti 2010, 230 (con bibliografia di riferimento). 16 Libertini 1953; Branciforti 2008b; Buda et alii 2015. 17 Branciforti 2013, 23. 18 Da ultimo Liuzzo et alii 2018 (con bibliografia di riferimento). 19 Branciforti 2010, 167–171 (con bibliografia di riferimento). 20 Branciforti, 136–162; da ultimo, Frasca 2015, 163–177 (con bibliografia di riferimento). 21 Beste et alii 2007, 608–611. 22 Privitera 2009, 61. Per approfondimenti sull’argomento, Ward-Perkins 1984, 92–118. 23 Cassiod., Variae, III, 49. 24 Privitera 2009, 58–59. 14 15

Sgarlata 2008, 159. Il presente lavoro si inserisce nell’ambito della ricerca di Dottorato in Scienze Storiche, Archeologiche, Filologiche svolta presso l’Università degli Studi di Messina, Dipartimento di Civiltà antiche e moderne. 8 Expositio totius mundi et gentium, LXV. 9 Si tratta delle epigrafi al Genio della città (CIL X 2, 7014) e al Ninfeo (CIL X 2, 7017). Per ulteriori approfondimenti, Molé Ventura 1996, 195. 10 Aus., Ordo nobilium urbium, 92–93. 11 CIL X, 2, 7017; Manganaro 1958–1959, 19–24. 12 Mazzarino 1956. 13 Wilson 1996, 162–163; da ultimo, Taormina 2015, 295–297 e 323–324. 6 7

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Le trasformazioni del paesaggio urbano di Catania tra età romana e prima età bizantina

Fig. 9.1. Carta archeologica di Catania (Rielaborazione di Tortorici 2016).

le vie Androne, Dottor Consoli e S. Euplio25 (Fig. 9.1h). Da tale settore proviene la famosa iscrizione commemorativa di Iulia Florentina, oggi al Louvre, morta a Hybla subito dopo aver ricevuto il battesimo ‘pro foribus martyrum christianorum’26. Il riferimento alla presenza delle spoglie

dei martiri ha permesso di interpretare gli edifici religiosi rinvenuti in via Dottor Consoli, all’interno della necropoli in uso dal II al VI sec. d.C., come parte di un’area sepolcrale fortemente caratterizzata dal culto martiriale27. Si tratta di un importante complesso religioso che viene connesso al culto di Agata28, costituito da una più antica trichora, datata al IV

Palermo-Soraci 201 (con bibliografia di riferimento). CIL X, 77112; Rizza 1964, 593–612; da ultimo, Soraci 2018, 23–30. Per la bibliografia relativa all’iscrizione, Soraci 2017, 238–259.

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Arcifa 2010b, 236. Arcifa 2010b, 236.

Viviana Spinella

Fig. 9.2. Catania. Terme della Rotonda. Pianta generale (Rielaborazione di Buda et alii 2015).

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Le trasformazioni del paesaggio urbano di Catania tra età romana e prima età bizantina

Fig. 9.3. Catania. Necropoli di Via Dottor Consoli. Pianta generale (Rielaborazione di Tortorici 2016).

sec. d.C., intorno alla quale si sviluppava l’ampio cimitero cristiano e da una più grande basilica del VI sec. d.C. (Fig. 9.3). Secondo la recente ricostruzione, l’articolazione architettonica dello spazio interno di quest’ultima, con l’altare posto al centro della navata, caratteristica peculiare delle chiese martiriali nordafricane29, sembrerebbe identificare l’edificio ‘come primitivo nucleo martiriale extra moenia della città cristiana’30.

netta discontinuità nel suo sviluppo. Di estremo interesse sono i dati emersi dagli scavi condotti all’interno del Monastero dei Benedettini, che permettono di analizzare i fenomeni evolutivi di un intero settore di abitato e trarre indicazioni sia sulle trasformazioni che riguardano l’edilizia residenziale sia sulle principali infrastrutture cittadine. Tra la seconda metà del V e la prima metà del VII sec. d.C., nei diversi settori di scavo, è documentato un capillare rialzamento dei livelli pavimentali al di sopra dei lastricati stradali di età imperiale31 (Fig. 9.4). Tali strati, costituiti principalmente da acciottolati, ricalcando i percorsi dell’impianto di età classica, attestano una continuità d’uso complessiva e il mantenimento, anche in età post-antica, dei percorsi originari32. In concomitanza con l’innalzamento delle quote delle strade si registra, intorno al VI sec. d.C., la dismissione dei sistemi di

2. Catania tra VI e VII secolo Se tra IV e V secolo i dati a nostra disposizione documentano una fase di tenuta degli assetti classici, è partire dal VI secolo, e maggiormente nel VII, che le indagini archeologiche segnalano i primi segni di disfacimento del tessuto urbano e il manifestarsi di una 29 30

Trapani 1999, 91. Arcifa 2010b, 236.

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Branciforti 2010, 157–161. Branciforti 2010, 159; Arcifa 2010b, 235.

Viviana Spinella

Fig. 9.4. Catania. Monastero dei Benedettini. Tratto dell’asse stradale N-S (Cardo I) ricoperto dai battuti di acciottolato e da una canaletta (Rielaborazione di Branciforti 2010).

Sul finire del V secolo i dati archeologici documentano la cessazione della funzione originaria del teatro, momento in cui viene collocata l’istallazione di recinti per animali direttamente a contatto con il piano dell’orchestra37. La grande quantità di ossa animali, con tagli netti tipici della macellazione, ritrovati nello strato di riempimento sul pavimento marmoreo, ha fatto supporre l’esistenza di attività di lavorazione all’interno dell’antico edificio ormai in disuso38. Il settore compreso tra l’orchestra e il palcoscenico risulterebbe abbandonato nella seconda metà del VII secolo d.C.39. Modifiche di carattere strutturale, forse legate a un’occupazione di tipo residenziale, sono documentate intorno al VI sec. d.C. nell’area a Est della paraskené, tramite la chiusura delle arcate di quest’ultima e l’inserimento di tramezzi murari40, nel settore esterno a S-E del teatro (nel cosiddetto ex cortile Torrisi)41 e nella cavea42. Di controversa interpretazione sono le strutture di

canalizzazione e smaltimento delle acque, testimoniata dagli interri rinvenuti all’interno delle condutture messe in luce al di sotto dei basolati33. Gli scavi hanno inoltre documentato, al di sopra di tali livellamenti, l’impianto di nuove costruzioni con il medesimo orientamento delle case di età romana34, la cui presenza lascerebbe supporre il mantenimento della connotazione residenziale del settore della collina di Montevergine in cui ricade il Monastero dei Benedettini anche nel corso del VI-VII sec. d.C. Un riuso con una diversa destinazione funzionale sarebbe attestato per il grande edificio dotato di criptoportico, forse di natura pubblica, rinvenuto in via dei Crociferi35 (Fig. 9.1i). Coperte da uno strato di crollo di VI secolo, sono state messe in luce una serie di strutture addossate alle murature più antiche che, reimpiegando come elementi costruttivi pezzi di decorazione architettonica o, addirittura, di statue, parcellizzavano gli spazi ormai defunzionalizzati in chiave presumibilmente residenziale36.

Branciforti 2010, 198. Branciforti 2010, 247. 39 Branciforti 2008a, 71. 40 Taormina 2015, 327–328. 41 Taormina 2015, 330–333. 42 Libertini 1953, 166. 37 38

Branciforti 2010, 157–159. Branciforti 2010, 161. 35 Branciforti 2010, 209–219; Bonacini 2015, 399–411. 36 Bonacini 2015, 410. 33 34

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Le trasformazioni del paesaggio urbano di Catania tra età romana e prima età bizantina

Fig. 9.5. Catania. Sant’Agata la Vetere. Pianta generale della necropoli di VII e VIII sec. d.C. (Rielaborazione di Arcifa 2010a).

VI-VII rinvenute nell’area esterna a N-E dell’edificio (nel cosiddetto ex cortile Liberti)43, realizzate a quote diverse sopra un basolato di II-III secolo d.C., che costituivano i margini di un ampio deposito formato da riempimenti, che hanno restituito moltissime monete del IV-V sec. d.C., forse riconducibili alla presenza di un deposito monetario di epoca tardoromana44. A partire dal VII secolo si assiste a una progressiva cristianizzazione della città che si manifesta soprattutto attraverso la creazione delle prime necropoli intra moenia. Se ancora nel VI secolo, le necropoli di via Dottor Consoli45, di Palazzo Tezzano46 e di

S. Caterina47, mostrano un’ubicazione ai limiti dello spazio urbano, tra VII e VIII secolo, con le tombe individuate nel cortile della chiesa di S. Agata la Vetere48 (Fig. 9.5), si afferma, anche a Catania, il fenomeno dell’inurbamento delle sepolture. La connotazione cristiana del nucleo cimiteriale sarebbe indicata dall’assenza del corredo e dalla modalità di giacitura, caratterizzata da scheletri in posizione supina, braccia incrociate sul petto o conserte49. La particolare collocazione dei defunti a stretto contatto con il muro, parte del recinto sepolcrale, potrebbe indiziare un preciso rituale di sepoltura ad sanctos50. La presenza

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Taormina 2015, 333– 342. Taormina 2015, 337–341. 45 Palermo-Soraci 201 (con bibliografia di riferimento). 46 Branciforti 2010, 222–223.

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Branciforti 2010, 225. Arcifa 2010 (con bibliografia di riferimento). 49 Arcifa 2010a, 357. 50 Arcifa et alii 2016, 59.

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Viviana Spinella per comprendere i mutamenti del tessuto insediato di Catania tra Antichità e Medioevo.

della necropoli all’interno del nucleo urbano, fortemente connotata in senso cristiano, inoltre, avrebbe suggerito una possibile relazione a un luogo di culto51, forse da individuare nell’edificio templare su podio individuato nelle immediate vicinanze nell’area della chiesa di S. Agata al Carcere52. Dalle indagini stratigrafiche ivi condotte, non sono emerse però evidenze archeologiche di età tardoantica e bizantina che facciano presupporre una eventuale riutilizzazione del tempio come chiesa53. Interessanti indicazioni sui cambiamenti che investono la città tra VI e VII secolo posso essere tratti dalla lettura delle vicende degli impianti termali. Le ricerche archeologiche condotte nel sito delle terme della Rotonda hanno permesso di collocare tra la fine del VI e gli inizi del VII sec. d.C. l’abbandono di alcuni ambienti dell’impianto termale, la conversione della Rotonda in chiesa (secondo l’esegesi tradizionale)54 o in un differente edificio legato al culto55, e la trasformazione architettonica e funzionale del settore settentrionale del complesso e del castellum aquae - tramite l’apertura di due accessi sulla parete meridionale della cisterna e la realizzazione di strutture annesse (scalinate e setti murari) sia all’interno che all’esterno di essa - in una struttura presumibilmente al servizio della stessa Rotonda56 (Fig. 9.2). Nonostante la dismissione della cisterna dalla sua funzione originaria, il rinvenimento di un condotto nell’angolo sud-occidentale della stessa - raccordata a una conduttura fittile che permetteva di deviare sul lato Ovest della grande vasca il flusso dell’acqua57 - potrebbe costituire un indizio della mancata cessazione del rifornimento idrico verso la Rotonda e, soprattutto, del funzionamento ancora in età bizantina del ramo dell’acquedotto (quello passante dall’odierna via dei Minoritelli), che in origine riforniva l’impianto termale di età romana. Interessanti novità sarebbero emerse dalle recenti ricerche condotte nelle terme dell’Indirizzo secondo le quali, ancora nel VII sec. d.C. - in mancanza di dati stratigrafici e stando agli esiti degli esami condotti tramite termoluminescenza su campioni di laterizi degli archi dei praefurnia58 - l’impianto termale sarebbe stato ancora attivo. Tale importante acquisizione consentirebbe non solo di ipotizzare la lunga durata della funzione originaria dell’edificio, quanto piuttosto di indiziare l’efficienza del sistema idrico urbano - o per lo meno quello che riforniva la città bassa - nel VII sec. d.C.

Per il IV e il V secolo è possibile individuare una fase di sostanziale tenuta degli assetti urbani in continuità con la tradizione romana, sia per quel che riguarda l’edilizia pubblica che quella privata. Solo nel VI, e con maggiore riscontro nel VII secolo, i dati archeologici permettono di individuare i primi segni di discontinuità con il passato: il riempimento dei condotti idrici e fognari, la crescita dei livelli stradali, lo spostamento intramoenia delle aree funerarie, la cristianizzazione della città e la trasformazione degli edifici romani, testimoniano l’avvio dei processi di trasformazione dei quadri urbani durante la prima età bizantina. I risultati delle ricerche condotte nei siti delle terme della Rotonda e dell’Indirizzo lascerebbero, tuttavia, supporre che tali cambiamenti, seppur ampiamente iniziati, non abbiamo compromesso del tutto la dimensione urbana di Catania, che, ancora nel VII secolo, doveva presentarsi strutturata e capace ancora di garantire la manutenzione di parte delle principali infrastrutture cittadine. L’ipotesi un continuato funzionamento dei rami dell’acquedotto che avrebbero dovuto rifornire, in età cosi avanzata, i due complessi, sicuramente di natura pubblica, non entrerebbe in conflitto con quanto registrato negli scavi del Monastero dei Benedettini, dove i condotti, dismessi nel VI secolo, erano funzionali originariamente all’approvvigionamento delle grandi domus romane, ormai abbandonate o in parte ridimensionate. Bibliografia Arcifa, L. 2009, “La città nel Medioevo: sviluppo urbano e dominio territoriale”, in L. Scalisi (ed.) Catania: L’identità urbana dall’Antichità al Settecento, Catania, 72–111. Arcifa, L. 2010a, “Da Agata al liotru: la costruzione dell’identità urbana nell’altomedioevo”, in M. G. Branciforti - V. La Rosa (eds), Tra lava e mare. Contributi all’archaiologhia di Catania, Atti del Convegno, Catania 22–23 novembre 2007, Catania, 355–386. Arcifa, L. 2010b, “Trasformazioni urbane e costruzione di una nuova identità: Catania nell’altomedioevo”, in G. Volpe - R. Giuliani (eds), Paesaggi e insediamenti urbani in Italia meridionale fra Tardoantico, materiali e problemi per un confronto, Atti del secondo seminario sul Tardantico e l’Alto Medioevo in Italia Meridionale, Foggia, Monte Sant’Angelo, 27– 28 maggio 2006, Bari, 233–251.

Conclusioni Dall’analisi diacronica appena condotta e dall’esame dei casi presentati appare evidente come siano i processi evolutivi che interessano soprattutto gli edifici e le infrastrutture legati all’acqua a offrirci le chiavi di lettura

Arcifa, L. 2016, “Per un nuovo approccio allo studio delle città siciliane nell’altomedioevo: Catania e Siracusa tra VIII e IX secolo”, in C. Giuffrida - M. Cassia (eds), Silenziose rivoluzioni a Sicilia dalla tarda antichità al primo Medioevo, Atti dell’Incontro di Studio, Catania-Piazza Armerina, 21–23 maggio 2015, Catania, 415–439.

Arcifa 2009, 75. Arcifa 2010b, 241; da ultimi, Arcifa et alii 2016. 53 Arcifa et alii 2016, 59. 54 Libertini 1953, 171. 55 Sulle diverse ipotesi interpretative sulla Rotonda, Guastella 2008, 75–76. 56 Buda et alii 2015, 561–567. 57 Buda et alii 2015, 524. 58 Gueli et alii 2018, 248–250. 51 52

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Le trasformazioni del paesaggio urbano di Catania tra età romana e prima età bizantina Guastella, C. 2008, “Ecclesia Sancta Maria de Rotunda, vicende e prime ricognizioni”, in M. G. Branciforti - C. Guastella (eds), Le Terme della Rotonda di Catania, a cura di, Palermo, 71–119.

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10 Adulis e il Corno d’Africa in età tardo antica. Cristianizzazione e paesaggio come elementi deterministici nella lunga durata. Gabriele Castiglia Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana di Roma The Horn of Africa has represented an extraordinary cultural and landscape palimpsest since ancient times, being located in limine between the Mediterranean area and the Indian Ocean, with the Red Sea acting as an intermediary. The archaeological researches in Adulis (in present day Eritrea) are revealing a series of multi-layered indicators, crucial for the codification of the metamorphoses which the area faced in the late antique centuries. Adulis, the main port of the Aksumite kingdom, represented a gateway to the sea for a kingdom that was almost completely perched on the Ethiopian plateau and became immediately the collector of commercial, cultural and religious experiences. A kicking factor was certainly represented by the impact of Christianity and the crucial economic role that Adulis played. Nevertheless, the landscape itself, in a very long evolutionary plot that leads until today, established itself as a characterizing and deterministic factor in the diversified morphogenesis which occurred in a ‘hinge’ area of the ancient world. Il Corno d’Africa rappresenta uno straordinario palinsesto culturale e paesaggistico sin dall’antichità, trovandosi in limine tra mondi assai distanti, come il Mediterraneo e l’Oceano Indiano, con il Mar Rosso a imporsi quale cruciale intermediario. Le ricerche archeologiche in corso nella città di Adulis (nell’attuale Eritrea) stanno mettendo in luce una serie di indicatori eterogenei, cruciali per la codificazione delle metamorfosi cui l’area andò incontro nella tarda antichità. Adulis, il principale porto del regno Aksumita, rappresentò la porta d’accesso al mare di un impero che era quasi completamente arroccato sull’altopiano etiope e divenne fin da subito il collettore di numerose ‘esperienze’ commerciali, culturali e religiose. Un momento epocale fu senza dubbio rappresentato dall’impatto del cristianesimo e dal fondamentale ruolo economico che svolse la stessa Adulis. Nonostante ciò, lo stesso paesaggio (nella più ampia accezione del termine) si impose quale fattore caratterizzante e deterministico per le diversificate evoluzioni che ebbero luogo in un’area cruciale del mondo antico e non solo. Keywords: Horn of Africa; Late Antiquity; Askumite Kingdom; Early Christianity; Historical Landscape 1. Premessa

relativamente poco conosciuto, quello della città di Adulis, nell’attuale Eritrea, congiuntamente al suo territorio, tentando di allargare il respiro al Corno d’Africa d’età tardo-antica. A partire dal 2018, infatti, il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana di Roma (d’ora in avanti PIAC) ha in carico un’importante missione di scavo e ricerca proprio ad Adulis, con particolare attenzione alle dinamiche di sviluppo del primo cristianesimo, congiuntamente ad altre istituzioni quali il Centro Ricerche sul Deserto Orientale di Varese (Ce.R.D.O.), L’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, L’Orientale di Napoli, il Politecnico di Milano e, infine, l’Università dell’Insubria di Varese. Il coordinamento scientifico della missione si deve ad Angelo Castiglioni e Serena Massa, mentre la direzione scientifica del PIAC fa capo a Philippe Pergola, con la direzione di scavo in carico a chi scrive.

Il concetto di Experiencing of the Landscape, oggetto di questo convegno, può essere interpretato e declinato secondo differenti punti di vista: può essere letto come una forma di gestione del paesaggio, una forma di adattamento allo stesso o, piuttosto, come tutto quell’insieme di fenomeni e concause che contribuirono a formarlo e definirlo. È ovvio che i paesaggi storici, lato sensu, siano dei palinsesti in continua metamorfosi, per cui difficilmente si potranno scattare delle istantanee cristallizzate ma, piuttosto, risulterà scientificamente più corretto tentare di delineare delle tendenze che però, per forza di cose, risulteranno sempre incomplete e parcellizzate. Il paesaggio, nella definizione più ampia che possiamo attribuirgli, offre l’opportunità di presentare un contesto 77

Gabriele Castiglia di uscita al e dal territorio di Aksum, vera e propria testa di ponte tra occidente e oriente.

In questa sede, dunque, si illustreranno in prima istanza, sinteticamente, il conteso di Adulis e di alcune delle più recenti acquisizioni archeologiche e topografiche, frutto delle ultime missioni del 2018 e 2019, per poi successivamente calare tali elementi nella più ampia cornice dell’Africa Orientale dal IV al VII secolo circa, con il paesaggio a imporsi quale fil rouge. Un paesaggio da intendersi quale elemento pluristratificato ed eterogeneo, convocando a sé elementi naturali e antropici, vero e proprio apparato di interventi e influenze reciproche tra queste due macro-sfere.

Sono del resto anche le fonti storiche a testimoniare tale ruolo, sin dal I sec. d.C. Il Periplus Maris Erythraei, opera anonima proprio di I sec., la menziona come “villaggio piuttosto grande” (κώμη σύμμετρος)3, mentre la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio la definisce come oppidum, ma soprattutto come maximum […] emporium Trogodytarum, etiam Aethiopum, certificandone dunque, fin da subito, la valenza commerciale ed economica4. A livello generale, però, le fonti sono quantitativamente piuttosto scarse, pur attestandosi su un importante livello informativo. A cavallo tra IV e V sec. d.C., Rufino di Concordia, nella sua Historia Ecclesiastica, faceva menzione del primo vescovo di Aksum, Frumenzio, che sarebbe stato elevato a tale incarico direttamente da Atanasio, patriarca di Alessandria d’Egitto5, mentre pochi anni dopo, probabilmente agli inizi del V, lo Pseudo-Cipriano, nel proprio trattatello De gentibus Indiae et Bragmanibus6 raccontava di come sarebbe stato accompagnato da un tal Mosè, vescovo degli Adulitani, presso “i segnacoli dell’India”7. Si segnala a margine come quest’ultimo aspetto sia molto curioso, dal momento che, sovente, gli autori antichi confondevano l’area etiopica proprio con l’India, aspetto quest’ultimo ancora da comprendere pienamente e invero piuttosto strano, dal momento che le due zone erano in costante e stretto rapporto commerciale8. Altra fonte preziosissima per noi è la Topographia Christiana di Cosma Indicopleuste, mercante e viaggiatore siriano che agli inizi del VI sec. visitò personalmente il regno aksumita e la stessa Adulis, descrivendole come ricche di vescovi, chiese, monaci ed esicasti9. Ultima fonte che vale la pena citare brevemente è il Martirio di Sant’Areta, databile probabilmente agli inizi del IX sec, d.C., in cui si descrive la morte del Santo avvenuta presso Naijran, nella Penisola Arabica, ove vengono citate Adulis e uno dei sui due approdi portuali, Gabazan10.

2. Adulis: il contesto e le fonti Adulis si trova nell’attuale Eritrea, nello specifico nella Northern Red Sea Region, a circa 50 km a sud della città di Massawa. Il sito archeologico insiste in un vassoio topografico dalla spiccata matrice desertica, a 33 m sul livello del mare (dalla cui linea di costa dista circa 6 km). Quest’area, insieme a buona parte del litorale eritreo, rappresenta di fatto l’unica lingua di terra in pianura di tutto lo Stato, dal momento che, spostandosi di pochissimi chilometri verso l’entroterra, a ovest, la morfologia del territorio cambia radicalmente, con un violento e repentino salto di quota che segna l’inizio dell’immenso altipiano eritreo-etiope, con vette che superano abbondantemente i 4000 m d’altezza. Da qui si dipanano alcuni corsi d’acqua che, però, risultano in secca per buona parte dell’anno, tra i quali il fiume Haddas, che lambisce Adulis lungo le propaggini meridionali. Da un punto di vista eminentemente geologico, l’area si caratterizza per la massiva presenza di giacimenti di scisti e basalti, denunciando la forte matrice vulcanica del territorio, che del resto si trova ai limiti della Dancalia che, come noto, è una delle regioni a più intensa attività eruttiva del pianeta, ponendosi all’incrocio di tre grandi placche tettoniche in continuo movimento. Da un punto di vista storico-amministrativo, Adulis faceva parte del grande regno Aksumita (la cui denominazione deriva dall’eponima capitale, Aksum, oggi in Etiopia), sviluppatosi tra il I e il VII sec. d.C. circa nei territori delle attuali Eritrea, Etiopia, Sudan, Egitto meridionale, Somalia, Djibouti, Yemen e parte dell’Arabia Saudita1 (Fig. 10.1). Non è evidentemente questa la sede per enucleare nel dettaglio la storia del regno - estremamente complessa e, a tratti, ancora frammentaria -sebbene sia importante sottolineare come esso avesse nella dorsale del Mar Rosso una delle principali fonti di sviluppo che garantiva un fondamentale ruolo “cerniera” tra il mondo mediterraneo e quello mediorientale, almeno sino alla penisola indiana2. In tale prospettiva, Adulis costituiva, evidentemente, per la propria posizione litoranea, uno dei più significativi gangli propulsori dell’economia del regno, auto-codificandosi come porta di accesso e, al contempo,

Casson 1989, 5. Plin., Nat., VI, 172 e 174. 5 Rufin., Hist., I-X (in Dattrino 1986): “Tum vero Atanasius […] attentius et propenisus Fruementii dicata gestaque considerans, in concilio sacerdotum ait. Et quem alium inveniemus virum talem, in quo sit spiritus Dei in ipso sicut in te, qui haec ita possit implere? Et tradito ei sacerdotio, redire eum cum Domini gratia, unde venerat, iubet”. Sulla conversione al cristianesimo in seno al regno aksumita resta fondamentale Petrides 1971. Si rimanda, inoltre, a Sergew 1972 (in particolare, 97–105); Munro-Hay 1988; Munro-Hay 1991, 206–209; Seland 2014. 6 Desantis 1992. 7 Rufin., Hist., I-X: “Tum vero Atanasius […] attentius et propenisus Fruementii dicata gestaque considerans, in concilio sacerdotum ait. Et quem alium inveniemus virum talem, in quo sit spiritus Dei in ipso sicut in te, qui haec ita possit implere? Et tradito ei sacerdotio, redire eum cum Domini gratia, unde venerat, iubet”. Sulla conversione al cristianesimo in seno al regno aksumita resta fondamentale Petrides 1971; si rimanda, inoltre, a Sergew 1972 (in particolare 97–105); Munro-Hay 1988; Munro-Hay 1991, 206–209; Seland 2014. Il testo riportato è commentato in Desantis 1992. 8 Sulla confusione tra India e area etiopica, si vedano Mayerson 1993 e Schneider 2004. B. Berg, in un articolo del 1974, identificava nella costa somala quello che nelle fonti era definito come promontorium indorum. Berg 1974. 9 Cosm. Ind., Topographia christiana, III, 179 (Wolska-Conus 1968– 1973): “Episcopi item, Christianique populi magno numero, martyres multi, monachi et hesychastae. Similiterque in Aethiopia, in Axumi et in universa circum regione”. 10 Mart. Arethas, XXX, 7 (in Detoraki 2007). 3 4

1 Non è questa la sede per sviscerare la complessa e articolata storia del regno aksumita, congiuntamente alle sue varie sotto-periodizzazioni, per cui si rimanda a Munro-Hay 1990; Munro-Hay 1991; Phillipson 1998; Fattovich 1999. 2 De Romanis 2006; Starkey et alii 2007.

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Adulis e il Corno d’Africa in età tardo antica

Fig. 10.1. I principali siti del regno aksumita (Rielaborazione di Google Earth).

3. Adulis: il dato archeologico

aule solitamente scandite in tre navate, a eccezione della cosiddetta chiesa orientale, al cui centro la presenza di otto pilastri disposti circolarmente lascia evincere, con pochi dubbi, la presenza di una cupola. Quest’ultima la chiesa orientale appunto - è oggi l’unica sicuramente dotata di battistero e, inoltre, l’unica ad avere indicatori cronologici precisi e assoluti: il rinvenimento di una trave carbonizzata ancora in situ, disposta a formare un gradino lavorato incassato tra gli stipiti dell’ingresso principale, infatti, ci ha consentito di effettuare analisi al carbonio 14 su tre differenti campioni, ognuno dei quali ha congiuntamente indirizzato verso una datazione di pieno VI secolo12. Del resto, tale indicazione cronologica collima molto bene anche con il modello architettonico che potremmo definire una sorta di crasi tra differenti aree di influenza, in prima istanza la zona siriaca e quella egiziana, in cui tali soluzioni iconografiche sono ampiamente ricorrenti (Fig. 10.3). Si farà solo un breve cenno alla chiesa settentrionale, dal momento che lo studio è in carico a Serena Massa dell’Università Cattolica di Milano13: essa rappresenta un importantissimo monumento nell’economia del sito, essendo quello di cui meglio si

Da un punto di vista archeologico sono note soprattutto le fasi più tarde della città, dal V sec. circa in avanti, sino al maturo VII-inizi dell’VIII11. Lo spazio urbano doveva estendersi per circa 40 ettari, come sembrano denunciare le emergenze certificabili da ricognizioni di superficie e da altre attività diagnostiche, sebbene non si conosca con certezza la presenza di mura difensive (Fig. 10.2). La relativamente scarsa continuità delle ricerche archeologiche nel sito, purtroppo, ci consente di avere una conoscenza della topografia del medesimo solo piuttosto puntiforme e non omogenea. Sono senza dubbio le chiese le emergenze a essere meglio note, a oggi tre in tutta Adulis. La loro architettura è estremamente peculiare, caratterizzata dalla presenza di imponenti podi a riseghe progressive, che facevano emergere notevolmente gli edifici cristiani dalla quota di frequentazione effettiva della città, e da una peculiare posa in opera, con paramenti in scisti e basalti finemente allettati con legante a matrice sabbiosa. Anche da un punto di vista eminentemente planimetrico, le tre chiese hanno numerosissime affinità, imponendosi tutte secondo un profilo esterno rettangolare che andava a descrivere un’abside semicircolare, sempre orientata, affiancata da παστοφορια posti al termine di 11

12 Le analisi sono state realizzate presso il Centro Universitario di Datazioni e Archeometria Milano - Bicocca, sotto la direzione di Francesco Maspero, che qui si ringrazia. 13 Per approfondimenti sulla chiesa settentrionale, Giostra Massa 2016; Massa 2017.

Zazzaro - Cocca Manzo 2014.

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Gabriele Castiglia

Fig. 10.2. Topografia del sito di Adulis (Rielaborazione di Giostra - Massa 2016).

Fig. 10.3. Adulis. La chiesa orientale. Gli interventi della seconda fase in grigio scuro (a destra).

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Adulis e il Corno d’Africa in età tardo antica conosce lo sviluppo delle murature in elevato. Anch’essa ricalca il programma planimetrico canonico dell’edilizia ecclesiale aksumita e, pur essendo la più piccola tra tutte le chiese adulitane, è forse quella che - godendo di uno scavo più esteso nelle parti esterne - rende meglio percepibile l’impatto topografico sul preesistente tessuto urbano. Essa, infatti, stando ai rapporti stratigrafici tra le murature, andò a inserirsi all’interno di un precedente quartiere densamente frequentato, come dimostra la fitta sequenza di strutture che intorno a essa si dipanano. Se, da un lato, la sua messa in opera indubbiamente sconvolse l’articolazione spaziale e funzionale dell’isolato, dall’altro sembrò garantirne anche tratti di continuità e nuovi equilibri, imponendosi quale nuovo fulcro dello stesso. I dati sicuramente più interessanti, però, provengono dalla cosiddetta chiesa centro-orientale, che il PIAC scava da due anni. Si tratta di un edificio già parzialmente messo in luce nel 1868 da una breve spedizione inglese e che era sostanzialmente scomparso fino alla nuova identificazione del 201814. Grazie ai dati emersi dall’ultimissima campagna di scavo del gennaio e febbraio 2019, possiamo ora affermare che tale edificio spicchi di gran lunga come la chiesa più grande fra le tre note in città15. Si tratta

infatti di una struttura lunga circa 30 m e larga quasi 20, ormai messa in luce per quasi tutta la propria estensione: il modello iconografico ricalca lo stilema canonico sin qui descritto, sebbene tale edificio spicchi per monumentalità, dimensioni e apparato decorativo (Fig. 10.4). Ci è stato infatti possibile intercettare crolli di grandissimo impatto visivo che denotano la presenza di un palinsesto architettonico imponente, così come, analogamente, la massiva presenza di marmi e alabastri, molti dei quali anche decorati, sigilla la presenza di un portato decorativo di grande impegno e ricchezza16. Il rinvenimento di una sepoltura tagliata direttamente in uno dei livelli di abbandono della chiesa, inoltre, ha recentissimamente aperto nuove prospettive di studio e analisi per quanto attiene le fasi finali di Adulis. Si tratta di un’inumazione realizzata in fossa terragna (probabilmente delimitata da lastre di scisto) di un individuo di sesso femminile, deposto in decubito laterale, con il viso rivolto a nord, in perfetta assialità con La Mecca17. Come noto, tale tipologia di inumazione -  con confronti ben codificati in tutto il bacino del Mediterraneo - è riconducibile a individui di fede islamica che appunto venivano sistematicamente deposti sul fianco con il viso rivolto verso la città santa.

Fig. 10.4. Adulis. La chiesa centro-orientale. Gli interventi della seconda fase in grigio scuro (a destra). Per l’apparato architettonico e le decorazioni marmoree si rimanda ai contributi di M. Pola e B. Maletić in Castiglia et alii 2020. 17 Per approfondimenti antropologici sulla sepoltura si rimanda al contributo di O. Larentis in Castiglia et alii 2020. 16

14 15

Munro-Hay 1989. Castiglia 2019a; Castiglia 2019b; Castiglia et alii 2020.

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Gabriele Castiglia elementi deterministici ai quali l’uomo deve adattarsi, influenzando dunque anche le ricadute materiali che sono specchio diretto dell’antropizzazione di una data area, ma dall’altro divengono essi stessi il risultato in continua trama evolutiva dell’azione umana. Seguendo pertanto questo approccio, io ritengo che il contesto adulitano rappresenti un’eccezionale enucleazione di tali interazioni. Si è fatto cenno alla massiccia presenza di conformazioni basaltiche e scistiche nell’area circostante Adulis e, al contempo, anche alla peculiarità identificativa e autorappresentativa delle architetture aksumite (Fig. 10.5). La specificità trasversale di queste soluzioni tecnologiche è, evidentemente, il risultato proprio di questo intimo dialogo in cui paesaggio e uomo vanno a plasmarsi mutevolmente. Lo sviluppo di determinate architetture è, dunque, imposto dalla terra, lato sensu, che proprio in tale ottica viene ad assumere un ruolo di imposizione deterministica. Al contempo, però, è l’essere umano che riesce a plasmare le risorse a proprio vantaggio e utilità, riuscendo addirittura a fare un passo successivo, declinandole secondo una volontà di rappresentazione di un potere codificato e rendendole, di fatto, ‘messaggio’. La presenza di questo tipo di architetture, però, potrebbe essere letta anche quale ulteriore indicatore, sebbene indiretto, di evoluzioni paesaggistiche nella lunga durata. Nella quasi totalità degli studi inerenti Adulis, infatti, si legge - in maniera talvolta apodittica ed eccessivamente asseverativa - come l’ambiente naturale di età tardantica non dovesse differire molto da quello attuale. Dunque, un contesto prettamente desertico, con scarsissime risorse idriche e, conseguentemente, vegetali, insomma un ambiente altamente ostile per l’uomo, quale in effetti oggi è. L’altissima raffinatezza esecutiva delle maestranze aksumite - ampiamente percepibile dalle letture dei paramenti murari - e l’imponenza di molti cantieri, soprattutto quelli legati agli edifici chiesastici, necessitavano inevitabilmente di elevati quantitativi di acqua e legname, a partire dal momento estrattivo effettuato in cava, passando per il trasporto, il taglio, la lavorazione e, infine, la messa in opera. Sembra pertanto assai improbabile che in un contesto in cui lo sfruttamento di risorse naturali locali era il principale motivo conduttore, si fosse ricorsi a un’importazione di legname e, soprattutto, di acqua, così imponente da garantire la messa in opera di un’intera città di ben quaranta ettari di estensione, durata per almeno sette-otto secoli. Bisogna forse, pertanto, cominciare a ragionare, per Adulis, secondo una prospettiva differente, che tenga conto di cambiamenti climatici che avrebbero avuto un’incisività ben più importante di quanto si sia pensato sinora nei cambiamenti dell’experiencing the landscape.

Si sottolinea come ad ora manchino ancora analisi al C14 che possano certificare una cronologia assoluta della sepoltura, per cui l’unico dato certo è solo di natura relativa e consente di attribuirla sicuramente a una fase successiva all’abbandono dell’edificio di culto. Sebbene una rondine non faccia primavera, questa evidenza (a cui sembrano aggiungersi altre inumazioni analoghe, ancora però tutte da verificare) potrebbe lanciare nuova luce sulle fasi post-aksumite di Adulis, a oggi del tutto ignote o quasi. La letteratura, infatti, sinora ha sempre inquadrato la fine di Adulis e del regno di Aksum nei decenni a cavallo tra VII e VIII sec., dedicando scarsa attenzione a quanto successo dopo, anche in virtù di dati archeologici in effetti molto scarsi. Considerando che sappiamo dalle fonti che l’espansionismo islamico portò alla conquista dell’arcipelago delle isole Dahalak, prospicienti Adulis, nel 702 d.C.18, è del tutto lecito immaginare che nel giro di poco tempo il controllo arabo si fosse esteso anche lungo il litorale e non si può escludere che a tale momento si possa ricondurre la messa in opera di quello che sembra delinearsi come un piccolo sepolcreto islamico (sebbene si ribadisca come sia fondamentale effettuare le analisi al C14). Inoltre, considerando le quote delle creste dei muri preservatesi e quelle del livello in cui le sepolture sono tagliate, appare evidente come nel momento in cui essere furono realizzate la chiesa dovesse essere ancora in parte visibile e, di fatto, percepibile, denotando, dunque, un tentativo che potremmo definire non soltanto di riappropriazione funzionale di uno spazio preesistente, ma anche concettuale. Facendo brevemente riferimento ad altri contesti aksumiti in cui la presenza cristiana risultò ben tangibile dal punto di vista materiale e monumentale, è possibile verificare come anche nei siti di Qohaito, Matara, Argula, Yeha e la stessa Aksum (solo per citarne alcuni) la trasversalità delle soluzioni architettoniche e topografiche per quanto attiene l’innesto di edifici chiesastici fosse costantemente iterata. Del resto, per quanto le differenze orografiche e geografiche fossero notevoli, tutti questi siti avevano nella dorsale Akusm-Adulis e viceversa un polmone vitale e attivo, un vero e proprio sistema di interscambi economici, religiosi e culturali che, del resto, secondo recenti calcoli, poteva essere percorso a dorso di cammello in soli sei giorni. 4. Adulis: il paesaggio, le risorse e la experiencing of the landscape La lettura evenemenziale dei dati qui presentati, seppur sinteticamente, può essere incorniciata, a mio modo di vedere, nell’ambito di un racconto paesaggistico sulla breve, media e lunga durata, in cui l’experiencing of the landscape diviene elemento cogente. Riallacciandomi a quanto brevemente accennato in apertura, è evidente che il paesaggio debba essere inteso come elemento che convoca a sé differenti stratificazioni, non solo naturali e, appunto, prettamente paesaggistiche, ma piuttosto (e soprattutto) antropiche. Il paesaggio e la terra (nella più ampia accezione del termine) divengono da un lato 18

Guardando inoltre ai momenti ‘ultimi’ della vita di Adulis, ancora una volta il paesaggio potrebbe essere una delle declinazioni possibili (certo, non l’unica) che andarono a comporre il mazzo delle cause e concause che portarono al nadir di questa città. Si è già detto di come la motivazione storica più plausibile per l’inizio del declino possa essere stato l’arrivo delle popolazioni islamiche che, però, da sola, non sembra essere sufficiente come spiegazione e si configura come lectio eccessivamente facilior e abusata,

Tedeschi 1969; Insoll 2001; Insoll 2003.

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Adulis e il Corno d’Africa in età tardo antica

Fig. 10.5. Affioramenti di basalto dai dintorni di Adulis (Fotografia dell’autore).

non solo per questo contesto, ma in generale per tutta l’area africana (compreso il Maghreb) e non solo. Con questo non voglio certo dire che la conquista araba non abbia avuto un peso, anzi, ma appare altamente poco plausibile che una potenza altamente avanzata e sviluppata come quella musulmana avesse deciso arbitrariamente di sacrificare per pura motivazione ideologica - un fondamentale snodo commerciale quale era Adulis, piuttosto che non riconvertirlo a propria utilità. Guardando agli studi geomorfologici recentemente effettuati da Christoph Mohrange ed équipe nell’area delle Galala Hills19 - che, come abbiamo detto, risultano con pochi dubbi ascrivibili all’identificazione dell’antico porto di Gabazan - e incrociandoli con la visione di fotografie satellitari e con semplicissime ricognizioni del litorale, appare del tutto evidente come l’area del porto sia stata interessata (e lo sia tuttora) da fenomeni di incipiente e progressivamente implacabile impaludamento. Tale processo potrebbe essere stato il risultato di una scelta locativa sin dall’inizio poco felice: se da un lato è vero che il grande golfo di Zula rappresentava un’enclave che poteva garantire una protezione naturale per uno o più approdi, dall’altro la sua stessa conformazione che lo rendeva (e lo rende ancora oggi) una sorta di bacino quasi lacustre, con scarsa circolazione di correnti, potrebbe aver determinato questo inesorabile avanzamento della linea costiera e il conseguente impaludamento del porto. Non mi sentirei dunque di escludere che uno degli elementi che concorsero al tramonto di Adulis possa essere stato imposto proprio dal paesaggio, un paesaggio che in questo caso è riuscito, nella longue durée, a prevalere sull’azione antropica20.

in un contesto ‘ambientalmente’ e socialmente complesso, che pure sin dai primordi della storia dell’uomo ha saputo evolversi sino a oggi. Bibliografia Butzer, K. W. 1981, “The Rise and Fall of Aksum, Ethiopia. A Geo-Archaeological Interpretation”, in American Antiquity, 46, 471–495. Casson, L. 1989, The Periplus Maris Erythraei. Text with introduction, translation and commentary, Princeton. Castiglia, G. 2019a, “In Adule, Aethiopum Urbs Maritima. L’impatto monumentale del Cristianesimo ad Adulis e nel Corno d’Africa in età tardo antica”, in AntTard, 26, 327–348. Castiglia, G. 2019b, “La cristianizzazione di Adulis (Eritrea) e del regno aksumita. Nuovi dati dal Corno d’Africa d’etá tardo antica”, in RendPontAcc, 91 (furthcoming). Castiglia, G. - Pergola, P. - Ciliberti, M. - Larentis, O. - Maletić, B. - Pola, M. 2020, “Nuove ricerche del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana ad Adulis (Eritrea) - Scavi 2018 e 2019”, in RACr, 96 (furthcoming). Dattrino, L. 1986, Rufino. Storia della chiesa, Roma. De Romanis, F. 2006, Cassia, cinnamomo, ossidiana: uomini e merci tra Oceano Indiano e Mediterraneo, Roma. Detoraki, M. 2007, Le martyre de saint Aréthas et de ses compagnons (traduction de J. Beaucamp, appendice sur les versions orientales par A. Binggeli), Paris.

Il mutuale dialogo uomo-terra-paesaggio, dunque, trova in Adulis e nel Corno d’Africa un palcoscenico eccezionale, 19 Carannante et alii 2015; ma anche Peacock - Blue 2008 (in particolare, 39–56). 20 Butzer 1981.

Desantis, G. 1992, Pseudo-Palladio. Le genti dell’India e i Brahmani, Roma. 83

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11 Settimio Severo: l’ultimo imperatore che cambiò il paesaggio di Roma? Maria Grazia Cinti Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ The buildings restored or rebuilt by Septimius Severus, currently known in Rome, are more than 50. The Severan building plan is concentrated especially in strategic areas, such the Palatine Hill, the Forum and the Campus Martius. This is not surprising for two main reasons: the fire of the 191 AD, which compromised numerous buildings, opening the way to the massive reconstruction of Severus, and the Ludi Saeculares of 204 AD, which was a once-in-a-lifetime opportunity to demonstrate the magnitude of Rome and of its emperor. In this study there will be considered not only the restored buildings and the new ones, but also some uncertain attribution, to have a complete knowledge of the information. This intense urban development and the inner stability Severus brought in Rom, earned him the epithet of “Restitutor Urbis”, which was never attributed to anyone before. Gli edifici restaurati o costruiti ex novo da Settimio Severo, attualmente noti a Roma, sono circa 50. Il programma edilizio severiano è concentrato specialmente in zone strategiche, come il Palatino, il Foro e il Campo Marzio e ciò non sorprende per due ragioni principali: l’incendio del 191 d.C., che aveva compromesso numerose strutture e che aveva aperto la strada alle massicce ricostruzioni di Severo, e i Ludi saeculares del 204 d.C., che furono un’opportunità unica per dimostrare la magnificenza di Roma e del suo imperatore. In questo studio saranno considerati non solo gli edifici restaurati e quelli di nuova costruzione, ma anche alcune attribuzioni incerte, al fine di avere una panoramica più ampia dell’intero programma edilizio severiano. Questo intenso sviluppo urbanistico e la stabilità interna che Severo riuscì a portare a Roma, gli valsero l’epiteto di “Restitutor Urbis”, che non era mai stato attribuito a nessuno prima di lui. Keywords: Settimio Severo; Septizodium; Castra nova; edilizia severiana; paesaggio urbano sino ai giorni nostri, ma conosciuto grazie alle vedute e ai disegni del ‘500 e del ‘700, è il Septizodium (Fig. 11.1) che rappresenta la massima espressione dell’esibizionismo del potere e dell’eclettismo artistico dell’imperatore. Questa struttura, voluta proprio da Severo e costruita nel 203 d.C.2, è stata interpretata come un grandioso ninfeo monumentale; a conferma di ciò, oltre alle fonti che si riferiscono al Septizodium come nympaheum3, fu rinvenuto un frammento di statua di una divinità fluviale, oggi conservata al Museo del Palatino4. Inoltre, è possibile che il ninfeo ospitasse le statue dell’imperatore e della sua famiglia5, forse raffigurati come divinità planetarie6. Durante gli scavi degli anni ’80 sono state trovate le fondazioni in cementizio di selce che hanno confermato

Il programma edilizio di Settimio Severo a Roma consta di circa 50 strutture, restaurate o costruite ex novo, che in poco tempo cambiarono il paesaggio della città. Tutti gli edifici furono inseriti con criterio nel panorama urbano e questo fa pensare a un piano di risistemazione ben concepito. Per comprendere in pieno la trasformazione urbanistica che Settimio Severo operò a Roma, è possibile dividere le strutture in tre categorie principali: nuove costruzioni, restauri e attribuzioni incerte. Gli interventi severiani furono talmente numerosi che nell’Historia Augusta si dice: “Romae omnes aedes publicas quae vitio temporum labebantur instauravit”1. Bisogna, tuttavia, evidenziare le ragioni principali che spinsero l’imperatore a intraprendere un così cospicuo lavoro di rinnovamento: l’incendio del 191 d.C., che aveva devastato buona parte dei luoghi centrali di Roma e che aprì la strada ai grandi rinnovamenti; la lontananza di Severo da Roma per lunghi periodi, che faceva sentire forte la sua presenza in città aprendo i cantieri; la celebrazione del ludi saeculares nel 204 d.C., che avrebbero portato grande visibilità sia a Roma che a lui stesso. Un esempio di edificio non pervenuto 1

D’Alessio ritiene che la struttura sia da datare al 202 d.C. e non al 203 d.C. D’Alessio et alii 2019, 95. 3 Amm. Marc., Res Gestae, XV, 7, 3. 4 Lusnia 2004, 522. 5 Hist. Aug., Sept. Sev., 24: “Cum Septizodium faceret, nihil aliud cogitavit quam ut ex Africa venientibus suum opus occurreret et, nisi absente o per[e] praefectum urbis medium simulacrum eius esset locatum, aditum Palatinis aedibus, id est regium atrium, ab ea parte facere voluisse perhibetur”. 6 Lusnia 2004, 525. 2

Hist. Aug., Sept. Sev., 23.

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Maria Grazia Cinti

Fig. 11.1. Pianta del Septizodium segnata con i ciottoli (Rielaborazione di Google Maps).

gennaio 1198, in cui fu eletto Innocenzo III10. Resistette in buone condizioni fino al 1588, quando Papa Sisto V decise di raderlo al suolo e riutilizzarne i materiali11. Il Septizodium, dunque, è un chiaro esempio delle volontà di Settimio Severo; l’impatto che avrebbe dovuto avere questa struttura, infatti, rientrava sicuramente nei piani dell’imperatore, che lì accanto aveva anche la sua residenza privata, la c.d. Domus Severiana, anch’essa concepita sul modello scenografico-teatrale del Septizodium12.

la pianta di questa struttura, nota anche da un frammento della Forma Urbis che reca l’iscrizione “SEPT(IZO) DIVM”7. Si è potuto, dunque, ricostruire una lunghezza intorno ai 90 m e un’altezza di circa 30 m, impostata su tre piani di grandezza decrescente verso l’alto, con tre esedre semicircolari, strutturalmente simile alla Biblioteca di Celso a Efeso o al Teatro di Sabratha. Lungo l’architrave del piano inferiore correva, su una sola riga, l’iscrizione8, anch’essa nota dai disegni dei secoli scorsi. Dopo la morte di Settimio Severo, il Septizodium fu usato per un breve periodo come tomba di Geta e successivamente cadde in stato di abbandono. Nel Medioevo era ancora conosciuto come Septemsolium, Septasolis o Septem Solia9 e nell’VIII sec. fu inglobato nella fortezza dei Frangipane; fu anche il luogo in cui si tenne il primo conclave della storia, l’8

Per quanto riguarda le costruzioni di cui sono rimaste evidenze archeologiche, la zona con gli interventi più estesi è il Laterano: Severo, infatti, nel suo programma di risistemazione dell’area, rasò le costruzioni precedenti e colmò i dislivelli creando una zona pianeggiante tramite un terrazzamento. Inoltre, in quest’epoca venne cambiato l’orientamento della zona, che fu anche divisa in due mediante una strada. La struttura che ebbe il maggior impatto in quest’area fu senza dubbio quella dei Castra Nova Equitum Singularium, cioè le caserme del corpo di guardia dell’imperatore. Costruiti nel periodo compreso

Carettoni et alii 1960, 67 e tav. XVII. CIL VI, 1032: “Imp(erator) Caes(ar) Divi M(arci) Antonini Pii Germ(anici) Sarm(atici) fil(ius), Divi Commodi frater, Divi Antonini Pii nep(os), Divi Hadriani pronep(os), Divi Traiani Parth(ici) abnep(os), Divi Nervae [adnep(os), L(ucius) Septimius Severus Pius Pertinax Aug(ustus) Arab(icus) Adiab(enicus) Parth(icus) max(imus), pont(ifex) max(imus), trib(unicia) pot(estate) XI, imp(erator) XI, co(n) s(ul) III, p(ater) p(atriae) et Imp(erator) Caes(ar) M(arcus) Aurelius Antoninus Pius Felix] A̲ u̲ g(ustus) trib(unicia) pot(estate) VI co(n)s(ul) fortunatissimus nobilissimusque [princeps ---]”. 9 Questi nomi sono stati rispettivamente riportati dai Mirabilia Urbis Romae, 8; dai Graphia Aurea Urbis Romae, 19; dal Tractatus de Rebus Antiquis et situ Urbis Romae, 167. 7 8

Bosqueti 1635. Le fontane oggi visibili tra Via del Quirinale e Via delle Quattro Fontane, per esempio, furono costruite grazie ai marmi del Settizodio. Per un approfondimento, Ferretti 2019. 12 D’Alessio et alii 2019, 96. 10 11

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Settimio Severo

Fig. 11.2. Pianta dei resti nella zona del Laterano con in grigio l’estensione dei Castra Nova Equitum Singularium (Rielaborazione di Liverani 2004).

tra il 193 e il 196 d.C. su una villa rustica più antica13, i Castra hanno le strutture principali in opera laterizia, mentre l’opera listata è ancora visibile nei tramezzi e nelle fondazioni, sia a vista che in cavo armato. Al piano terra, attualmente il più alto conservato, era un cortile rettangolare che dava accesso a diversi altri ambienti; in uno di questi, che poi, grazie ai rilievi, si è rivelato essere la postazione di comando vera e propria14, è stato trovato un capitello rovesciato con un’iscrizione dedicata agli imperatori

Settimio Severo e Caracalla15. L’insula trapezoidale (a sinistra nella Fig. 11.2), di epoca leggermente successiva ai Castra, poiché si appoggia ad alcune sue strutture, probabilmente corrispondeva a un valetudinarium16. Dopo la battaglia di Ponte Milvio gli equites singulares, essendo rimasti fedeli a Massenzio, furono sciolti da Costantino e sulle rovine dei Castra fu eretta la Basilica Salvatoris, la futura San Giovanni in Laterano17. Non lontano da queste caserme doveva esistere la c.d. Domus Laterani, che Settimio Severo forse donò all’amico Titus Sextius Lateranus18, comandante dell’esercito nel corso della spedizione contro i Parti del 195 d.C. e console nel 197 d.C. Il tutto potrebbe essere confermato da due fistulae

13 Il prof. G. Spinola (Musei Vaticani), che mi ha accompagnata all’interno degli scavi insieme alla Dr.ssa S. Francini, ritiene che i resti murari rinvenuti, ai quali si appoggiano alcune murature severiane, siano da riferire a una villa suburbana di prima epoca imperiale. Il prof. P. Liverani, ugualmente presente in quell’occasione, ritiene che si tratti piuttosto di due diverse domus con una cronologia compresa tra l’età flavia e la fine del II sec. d.C. Questa interpretazione risulta però dubbia, poiché questa era una zona suburbana diventata “Urbe” solo con la costruzione delle mura aureliane, alla fine del III sec. d.C. Questa villa, sempre secondo Spinola, avrebbe una prima fase di età augustea con rifacimenti in età adrianea che la trasformano in una residenza quasi assimilabile alle domus urbane: l’ultima fase, infatti, è quella di fine II sec. d.C., di cui sono ancora si conservano due ambienti affrescati. 14 I rilievi in questione sono quelli fatti dal Lateran Project (https://www. ncl.ac.uk/hca/projects/thelateranproject.html).

AE 1935, 156. Per un approfondimento, Spinola 2017. 17 Nell’area di scavo, e nello specifico in quelli che erano i sotterranei dei Castra, sono ancora visibili le tamponature costantiniane alle scale severiane. 18 Epitome de Caesaribus XX, 6: “In amicos inimicosque pariter vehemens, quippe qui Lateranum Cilonem Anullinum Bassum ceterosque alios ditaret, aedibus quoque memoratu dignis, quarum praecipuas videmus Parthorum quae dicuntur ac Laterani”. 15 16

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Maria Grazia Cinti Settimio Severo aveva posto la sua iscrizione sotto quella originaria senza intaccarla né renderla più grande, sia perché l’epigrafe flavia era più centrale rispetto a quella, più lunga, severiana e, quindi, i fori per le lettere non sarebbero arrivati a raggiungere la porzione di architrave sopravvissuta31. In questa parte del Foro non si hanno notizie di danni provocati dall’incendio del 191 d.C., e, dunque, è possibile che gli interventi fossero stati effettuati per i ludi saeculares o per problemi strutturali necessariamente da riparare. Da sottolineare anche il fatto che tra il 202 e il 203 d.C. altri due importanti eventi potrebbero aver condizionato le scelte di Severo: i decennalia e la celebrazione della victoria parthica maxima32. Altre strutture del foro furono interessate dagli interventi di Severo: i Rostri ricevettero in quest’epoca una fondazione più resistente e una sistemazione della parte interna della facciata33; anche l’Umbilicus Urbis Romae forse fu risistemato in questo periodo, ipoteticamente per la sua valenza simbolica. Nonostante il fatto che i bolli anepigrafi siano stati datati all’epoca tardo-severiana34, esistono notizie di un porticato di collegamento con i Rostri35 e quindi potrebbe essere stato effettuato da Settimio Severo un unico importante ripristino della zona. Sempre nel Foro, il tempio di Vesta venne restaurato in seguito all’incendio del 191 d.C. per volere di Giulia Domna; gli interventi consisterono nella costruzione di un basamento circolare e in altri lavori minori in tutto l’edificio. L’aspetto attuale del tempio è ancora quello di epoca severiana e lì accanto era l’aedes Vestae, per la quale si ha notizia di alcuni rifacimenti di questo periodo36, per esempio nella parte settentrionale della struttura. Una categoria di edifici poco studiati, poi, è quella la cui attribuzione appare incerta: in diverse fonti o studi precedenti, infatti, si datano all’epoca severiana alcuni monumenti di cui in realtà non è possibile risalire a una cronologia sicura. L’analisi di queste strutture risulta comunque interessante, poiché, raccogliendo le fonti scritte e i dati archeologici, spesso si può arrivare a un’ipotesi di datazione.

plumbee ritrovate nel 1595, che recano inscritto il nome del console19, ma di cui è ignota l’esatta provenienza20. Un’altra zona che per la sua vicinanza può essere inserita nel programma severiano di risistemazione della porzione sudorientale della città è quella degli Horti Spei Veteris, intorno all’odierna Santa Croce in Gerusalemme; di questo complesso facevano parte le Terme Eleniane, l’anfiteatro Castrense, il Circo Variano e il tempio di Eliogabalo21. Proprio nel cortile di Santa Croce è stata rinvenuta una fistula recante la datazione del 202 d.C.22, a testimonianza della prima fase severiana delle strutture qui emerse23. Diversi bolli laterizi24 e altri reperti25 trovati negli Horti, inoltre, confermerebbero l’originario impianto di Settimio Severo. La sistemazione più ampia di questa zona sarà effettuata da Costantino con la costruzione della Chiesa dedicata alle reliquie della croce di Gesù e della residenza per sua madre Elena. Severo non cambiò l’aspetto di Roma solo con nuove e imponenti costruzioni, ma anche con copiosi restauri, che non compresero mai l’obliterazione delle strutture precedenti. I restauri più intensivi e più importanti dal punto di vista politico-propagandistico si ebbero nel Foro romano, una zona fondamentale per ogni cittadino (Fig. 11.3): l’imperatore, infatti, mostrando il suo rispetto per i luoghi della tradizione storica, legittimava il suo potere e poneva le basi per il futuro riconoscimento di “Restitutor Urbis”. Una delle strutture che si può prendere a esempio è il tempio del divo Vespasiano, restaurato negli anni tra il 200 e il 203 d.C.26; gli interventi consisterono principalmente nell’abbassamento del fregio di epoca flavia e nella ripresa dell’iscrizione originaria in quella che Settimio Severo pose insieme al figlio Caracalla27. Alcuni studiosi28, tuttavia, hanno notato che nell’architrave non sono presenti segni di abrasione o di fori appartenenti a un’iscrizione precedente a quella severiana; è stato quindi proposto o che lo spazio di epoca flavia sarebbe stato lasciato vuoto29 oppure che il restauro avesse implicato un riassetto totale dell’architrave, cancellando la precedente epigrafe30. Quest’ultima ipotesi, tuttavia, risulterebbe dubbia sia perché in restauri come quello del Pantheon

Una delle strutture la cui attribuzione risulta ancora problematica è la c.d. Domus Cilonis, presumibilmente una casa che Settimio Severo donò all’amico Lucius Fabius Cilo, console nel 193 d.C. e nel 204 d.C. e praefectus urbi dal 202/203 d.C. al 211 d.C. Molte delle caratteristiche di questa residenza - pianta, estensione e sequenza cronologica - sono ignote a causa dell’impossibilità di effettuare scavi nella zona37. A conferma della presenza della domus di

CIL XV, 7536a: “Sexti Laterani”; CIL XV, 7536b: “Sextiorum/ Torquati et Laterani”. 20 Furono trovate “Prope Ecclesiam”, ma non è scritto nulla di più preciso. Colini 1944, 372–373. 21 La maggior parte degli studiosi è concorde nell’attribuzione di questi edifici agli Horti Spei Veteris. Si veda come esempio Lanciani 1897, 399–401. 22 CIL XV, 7364: “Imp(eratore) Caes(are) L(ucio) Sep(timio) Severo Pio Pertin(aci) Aug(usto) n(ostro) / III et Imp(eratore) M(arco) Aurelio Antonino Aug(usti) fil(io) co(n)s(ulibus)”. 23 Il tutto sarebbe ulteriormente confermato dal tipo di impianto termale che si diffuse maggiormente in tutto l’impero, tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C. Per un approfondimento, Palladino 1996. 24 CIL XV, 239, 324, 413 e 753. 25 Si segnala, in particolar modo, una dedica a Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, cioè CIL VI, 1048. L’iscrizione, oggi conservata ai Musei Capitolini, pur essendo datata tra il 212 e il 217 d.C. è ugualmente importante per la datazione della zona. Il testo riporta: “Iuliae Domnae/ Aug(ustae)/ matri Aug(ustorum) n(ostrorum)/ et castror(um)”. 26 De Angeli 1992, 163. 27 CIL VI, 938: “Divo Vespasiano Augusto S(enatus) p(opulus)q(ue) R(omanus). Imp(eratores) Caess. Severus et Antoninus Pii Felic(es) Augg. restituer(unt)”. 28 Ad esempio, Nardi 1987–1988, 71. 29 Gorrie 1997, 86. 30 Nardi 1987–1988, 71. 19

De Angeli 1992, 159–163. Palombi in D’Alessio - Panella - Rea 2019, 133. 33 LTUR IV, 216. 34 LTUR V, 95. 35 Si vedano LTUR V, 95 e Vaglieri 1903, 158. 36 Per un approfondimento Boise Van Deman 1909. 37 Parlando con il parroco responsabile della parrocchia di Santa Balbina e con alcuni custodi che lavorano all’Istituto Santa Margherita da anni, mi è stato riferito che il CNR eseguì dei rilevamenti nei sotterranei di questi edifici, ma che poi l’ingresso fu cementato per evitare le infiltrazioni di malintenzionati. Da quel momento non è più possibile accedere e, probabilmente, l’intera zona non sarà più aperta per ulteriori analisi o studi scientifici. Sul sito del CNR si legge che sono state effettuate ricerche geofisiche dall’Istituto per le tecnologie applicate ai beni culturali (ITABC), ma non vengono fornite ulteriori informazioni. http:// www.cnr.it/istituti/ProdottoDellaRicerca.html?cds=098&id=354522. 31 32

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Settimio Severo

Fig. 11.3. Indicazione degli interventi severiani nella zona centrale di Roma. Le due aree cerchiate indicano la zona di due possibili edifici severiani: l’area più a nord indica il luogo ove forse si trovava un teatro restaurato o costruito da Severo e la zona più a sud indica l’area di possibile localizzazione della Porticus Margaritaria (Rielaborazione di D’Alessio - Panella Rea 2019).

di Roma senza demolire nessun edificio precedente, ma ricostruendo le parti danneggiate o restaurando alcune porzioni secondo il gusto dell’epoca; addirittura, nel caso della domus Cilonis, probabilmente fu riutilizzata l’intera struttura senza apportare alcuna modifica significativa.

Cilone sotto l’attuale chiesa di Santa Balbina, sarebbe il fatto che i Cataloghi Regionari la menzionano come appartenente alla regione XII e un frammento della Forma Urbis38, oggi perduto, che riportava le lettere [---ILONIS], integrate con [(Domus C)ilonis]39. L’ipotesi più accreditata è che le strutture in opus mixtum ancora oggi visibili nel cortile interno possano appartenere ai privata Hadriani, anch’essi menzionati nei Cataloghi Regionari (Fig. 11.4); dopo che l’area divenne di demanio imperiale, la residenza sarebbe stata donata da Severo a Cilone40. Durante gli scavi degli anni ’80, a conferma di questo, sono stati rinvenuti frammenti ceramici e tratti di muratura databili alla fine del II secolo d.C.41, ma il reperto forse più importante è una fistula aquaria con l’iscrizione che reca il nome di “L. Fabio Cilone”42. Come si è visto dai precedenti esempi, è interessante notare che Settimio Severo ridefinì lo spazio

In questo quadro generale è utile citare la Forma Urbis, la grandiosa pianta creata da Settimio Severo, originariamente esposta su una parete del Templum Pacis; anche se ormai è noto che abbia utilizzato piante precedenti - di epoca flavia e addirittura augustea43 - e che quindi non sia da ritenersi come un’esatta “fotografia” della situazione all’epoca severiana, essa risulta un preziosissimo contributo per la conoscenza di edifici di cui altrimenti non avremmo notizia. Proprio nel Foro della Pace si ha notizia di danni causati dall’incendio del 191 d.C.44 che Severo riparò, probabilmente anche in vista dell’affissione

Frammento FUR 677. Carettoni et alii 1960, tav. LIX. Per questa interpretazione, Gatti 1959, 252. 40 LTUR IV, 164; ma anche Narducci - Taviani 2015. 41 Quinto - di Manzano 1984, 72. 42 Buccino 2015, 118. 38 39

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Muzzioli 2014, 112. Cass. Dio., LXXII, 24.1–3.

Maria Grazia Cinti

Fig. 11.4. Resti delle murature adrianee nel cortile interno di Santa Balbina (Fotografia dell’autore).

della Forma Urbis45. Le tracce principali degli interventi sono visibili nelle pareti sudorientale e nordoccidentale, dove la muratura conservata è flavia fino a circa 8,5 m dal suolo e severiana nella parte più alta. Rimaneggiamenti di quest’epoca sono visibili anche nelle pareti perimetrali in opera quadrata, oggi inglobate nella Chiesa dei SS. Cosma e Damiano, nella pavimentazione in opus sectile dell’aula di culto (Fig. 11.5) e nel podio, in cui venne raddoppiata la larghezza delle ali e furono inserite quattro piccole vasche marmoree, di cui ancora non è chiaro l’utilizzo46.

di associarsi ai grandi imperatori che lo precedettero Augusto, ad esempio, a cui egli notoriamente si ispira fanno di lui l’optimus princeps che si riscontra anche nelle legende delle monete47. Gli interventi severiani a Roma, naturalmente, furono numerosissimi. In questa sede si è deciso di analizzare solo alcune strutture significative che contribuirono a modificare l’intero paesaggio della città. Caracalla tentò di seguire le orme del padre ma non creò sconvolgimenti urbanistici tanto imponenti. Dopo l’epoca Severiana, non ci sarà più un imperatore che cambierà così radicalmente e in così breve tempo il volto della città, anche se diversi altri cercarono di lasciare il proprio segno; la ripresa urbanistica dopo i Severi si ebbe, infatti, con Diocleziano, che costruì le più grandi terme che Roma avesse mai avuto e che, insieme ai suoi successori, restaurò gli edifici del

In conclusione, Settimio Severo fu probabilmente l’ultimo imperatore che cambiò il paesaggio di Roma; come si è appena visto, i suoi interventi di restauro mirarono principalmente a riparare i danni dell’incendio commodiano, mentre le sue nuove costruzioni ebbero sempre un significato profondo, soprattutto politico. Egli non distrusse nessun edificio preesistente, ulteriore conferma del suo preciso intento di rinnovare Roma senza però sconvolgerla: il rispetto delle tradizioni e la volontà

Un esempio è il denario RIC 415/BMC 389, coniato nel 194–195 d.C. a Emesa, in cui al rovescio si vede Settimio Severo in sella a un cavallo mentre tiene una lancia in mano. La legenda - con un errore - riporta: “SPQR OPTIMO PBINCIPI”. In questo caso il riferimento all’optimus princeps per eccellenza, Traiano, sembrerebbe chiaro. Nelle coniazioni severiane si leggono molti altri attributi tipici di un imperatore che voleva infondere sicurezza nei propri cittadini; alcune legende recano infatti le parole “PACI AETERNAE” (RIC 118), “FVNDATOR PACIS” (RIC 160), “INDVLGENTIA AVGVSTI” (RIC 80), “MVNIFICENTIA AVGVSTI” (RIC 82), “SECVRITAS PVBLICA” (RIC 93), “AEQVITATI AVGVSTI” (RIC 122c), “FORTVNAE AVGVSTI” (RIC 126a).

47

La Forma Urbis venne incisa tra il 203 e il 211 d.C. in scala 1:246; misurava circa 18 m x 13 m e copriva una superficie di 235 m2; le lastre dovevano essere 151, disposte in 11 filari sovrapposti. Per un approfondimento, LTUR IV, 69. Alcuni studiosi individuano il motivo della costruzione della pianta marmorea nelle nuove leggi edilizie volute da Settimio Severo e Caracalla. LTUR I, s.v. “Coraria Septimiana”. 46 Meneghini-Rea e Coletta-Montella in D’Alessio - Panella - Rea 2019. 45

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Settimio Severo

Fig. 11.5. Planimetria del Templum Pacis e del tratto del vicus ad Carinas. In evidenza il podio e l’aula di culto (Rielaborazione di Fogagnolo - Rossi 2010).

Foro romano, danneggiati da un altro incendio, quello del 283 d.C. Costantino, infine, modificherà proprio il modo di concepire gli spazi e gli edifici, iniziando la costruzione delle grandi basiliche e avviando una sperimentazione architettonica mai vista prima. Settimio Severo, dunque, potrebbe essere l’ultimo che diede un nuovo volto all’intero paesaggio urbano, dalla zona sud a quella nord, senza menzionare gli enormi cambiamenti che apportò al di fuori dei confini della città; egli, inoltre, fu il primo a cui venne attribuito l’epiteto di “Restitutor Urbis”48

proprio per aver cambiato Roma, non solo dal punto di vista monumentale, ma anche perché, dopo un periodo di instabilità politica e socioeconomica, riuscì a riportare la pace e la tranquillità nella vita dei cittadini.

Riscontrabile, tra l’altro, anche in diverse coniazioni. A titolo di esempio, si vedano le monete RIC 167, 288 e 512a.

Boise Van Deman, E. 1909, The Atrium Vestae, Washington.

Bibliografia Benario, H. W. 1958, “Rome of the Severi”, in Latomus, 17, 712–722. Bloch, H. 1947, I bolli laterizi e la storia edilizia romana, Roma.

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Maria Grazia Cinti Buccino, L. 2015, “Le domus a Roma nel III secolo d.C.: proprietà, distribuzione topografica e arredi di lusso”, in E. La Rocca - C. Parisi Presicce - A. Lo Monaco (eds), L’Età dell’Angoscia: da Commodo a Diocleziano (180–305 d.C.), Roma, 116–125. Bosqueti, F. 1635, In epistolas Innocentii III, 2, Toulouse. Carettoni, G. et alii 1960, La pianta marmorea di Roma antica, Forma Urbis Romae, Roma. Colini, A. M. 1944, Storia e topografia del Celio nell’antichità, Città del Vaticano. D’Alessio, A. - Panella, C. - Rea, R. (eds) 2019, Roma Universalis: l’impero e la dinastia venuta dall’Africa, Roma. De Angeli, S. 1992, Templum Divi Vespasiani, Roma. Gatti, G. 1959, “Il rilevamento di Roma al tempo di Settimio Severo” in Universo, 39, 252–262. Gorrie, C. L. 1997, The building programme of Septimius Severus in the city of Rome, Vancouver. Lanciani, R. 1897, Ruins and excavations of Ancient Rome. Boston-New York. Lusnia, S. S. 2004, “Urban Planning and Sculptural Display in Severan Rome: Reconstructing the Septizodium and Its Role in Dynastic Politics”, in AJA, 108, 517–544. Muzzioli, M. P. 2014, “Sui mancati aggiornamenti nella pianta marmorea severiana”, in R. Coates-Stephens L. Cozza (eds), Scritti in onore di Lucos Cozza, Roma, 107–122. Nardi, R. 1987–1988. “Il tempio di Vespasiano: un palinsesto nella storia del Foro Romano”, in RendPontAcc, 60, 71–90. Narducci, R. - Taviani, M. 2015, “La sistematizzazione dei dati dell’Aventino. Prospettive di ricerca”, in ACalc (Suppl. VII), 2, 71–283. Palladino, S. 1996, “Le terme Eleniane a Roma”, in MEFRA, 108.2, 855–871. Quinto, R. - Di Manzano, P. 1981, “Regione XII, Area di Santa Balbina”, in BullCom, 89, 68–81. Rodriguez Almeida, E. 1981, Forma Urbis Marmorea. Aggiornamento Generale, Roma. Spinola, G. 2017, “Nuove ipotesi per l’area sotto la basilica lateranense: la villa suburbana e il possibile valetudinarium dei Castra Nova Equitum Singularium”, in BMonMusPont, 35, 61–93. Steinby, E. M. (ed.) 1993–2000, Lexicon Topographicum Urbis Romae, Roma. Vaglieri, D. 1903, “Gli scavi recenti nel Foro Romano”, in BullCom, 31, 3–239.

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12 Una possibile proprietà imperiale al IX miglio della via Appia antica. Andrea Corbascio Università degli Studi di ‘Roma Tre’ The study of the estate of the ‘Palombaro’ Maruffi is paradigmatic of the history of the road, the Via Appia Antica, along which is located, in several respects, one on all the historical continuity of these territories located in the suburbium of Rome that is seamless from antiquity to the present. The thesis presented here aims to recognize in the part of land known as ‘Palombaro’ Maruffi, extended between the VI and IX miles of the Via Appia Antica, a possible imperial property or anyway attributable to illustrious personalities of Roman society. An imperial mausoleum, three villae (richly decorated and equipped with luxurious environments), finely worked statues, precious marbles: these are the elements that suggest that in these spaces were very important homines and matronae. Lo studio della tenuta del ‘Palombaro’ Maruffi è paradigmatico della storia della via Appia Antica, lungo la quale è attestata, per diversi aspetti, la continuità storica di questi territori che si trovano nel Suburbio di Roma senza soluzione di continuità dall’antichità a oggi. In questo contributo è qui presentata l’ipotesi di riconoscere nella parte di campagna romana nota come ‘Palombaro’ Maruffi, estesa tra il VI e il IX miglio della Via Appia Antica, una possibile proprietà imperiale o, in ogni caso, attribuibile a personaggi illustri della società romana dell’epoca. Un mausoleo imperiale, tre ville riccamente decorate e dotate di lussuosi ambienti, statue finemente lavorate, marmi preziosi: questi gli elementi che suggeriscono che in questi spazi abitavano homines e matronae di alto livello sociale. Keywords: landscape; imperial property; collecting; history of archaeology 1. Il ‘Palombaro Maruffi’: cenni storici

citato tra i ventisette possedimenti dell’omonimo monastero situato sul monte Celio a Roma, e oggi non più presente2. Oltre al nome del fondo il documento epigrafico non fornisce altre informazioni, incrementate solo dalla successiva attestazione risalente all’anno 954, in occasione della permuta da parte della chiesa di S. Lorenzo fuori le mura in favore del Monastero di San Gregorio al Celio. Nel papiro contenente l’atto viene menzionato un “casale Palumbario posito foris portam

Il ‘Palombaro’ Maruffi è una tenuta che si trova nel suburbio orientale di Roma lungo la via Appia Antica, rispetto alla quale si estende sia a destra che a sinistra a partire dal VI miglio fino al IX (Fig. 12.1). La storia del ‘Palombaro’ Maruffi1, dal punto di vista documentale, comincia solo nel VII sec. d.C., quando nella c.d. “Iscrizione di S. Erasmo”, il fundus Palombarius viene

Fig. 12.1. Il ‘Palombaro’ Maruffi ripreso da immagine satellitare (Rielaborazione di Google Maps). 1

Per tutte le vicende storiche della tenuta, Corbascio 2017, 23–42.

2

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De Francesco 1998, 50.

Andrea Corbascio Appiam milliario quae pergit ad Albanum”3. Per i secoli successivi possediamo solamente notizie contenute in documenti conservati in archivi capitolini (Archivio di Stato di Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana dove sono confluiti gli archivi delle famiglie Barberini e Chigi, Archivio della Chiesa di Santa Maria Maggiore) che riguardano ‘anonimi’ affittuari ed enfiteuti occasionali della tenuta. La prima menzione ‘ufficiale’ si trova nel Catasto Alessandrino del 1660 in cui il cardinal Barberini figura come proprietario, ma tale è da intendersi solo in quanto Abbate Commendatario della Basilica di San Sebastiano, all’epoca effettiva proprietaria del terreno. Conferma in tal senso è l’autorizzazione a procedere agli scavi del 1771 richiesta dal Capitan Pier Luigi Maruffi, che nel 1775 sarebbe divenuto governatore di Marino4, al Cavalier Chigi, succeduto al Barberini nella carica ecclesiastica. Nel 1796 la stessa famiglia Maruffi stipulerà con la Reverenda Camera Apostolica il contratto di enfiteusi della durata di 99 anni a partire dalla generazione successiva a quella di Pier Luigi, che legherà il loro nome in maniera indissolubile al Palombaro fino a oggi5. Nel frattempo, nel 1828 la proprietà passa al Capitolo Liberiano di Santa Maria Maggiore6 e solo nel 19147 la proprietà diverrà dei Maruffi. Nel biennio 1925–1927, per gli interventi di bonifica voluti dal regime fascista, il ‘Palombaro’ venne diviso in tre frazioni8: I frazione o ‘Berretta del Prete’, che a est confinava con la Via Appia Antica e a ovest col nuovo aeroscalo di Ciampino; la II frazione o ‘Riserva Incontro l’osteria’, che si estendeva dalla parte dell’impianto aeroportuale a quella del comune di Marino; la III frazione o ‘Riserva del Casale’, posta in maniera speculare alla II, dalla quale la divide la Via Appia Antica. Oggi il ‘Palombaro’ non appartiene più alla famiglia Maruffi; solo una piccola porzione, dove è ubicato il Mausoleo di Gallieno, è posseduta da un ramo secondario della stessa.

nel 1979 segnala la presenza di un ninfeo accanto ai resti di quella che molto probabilmente era una villa, sorta in età repubblicana e ulteriormente sviluppatasi in quella imperiale. Nel terreno della II frazione, oltre a un magazzino che i Maruffi dovettero costruire come luogo di ricovero degli attrezzi, come disposto da contratto enfiteutico, pena la decadenza di validità dello stesso, vi è anche una seconda villa, dalla quale proviene molto materiale archeologico recuperato in occasione degli scavi del ‘90012. Nella III frazione ricade il monumento più importante, anch’esso con funzione sepolcrale, il c.d. ‘Mausoleo di Gallieno’ (Fig. 12.2) con annessa villa13. È identificato come la tomba dell’imperatore di III sec. d.C. da un’epitome di Aurelio Vittore, che segnala anche la presenza dell’imperatore Flavio Severo, tetrarca dal 305 al 307 d.C., e dall’Origo Costantini imperatoris, la prima degli Anneles Valesiani, dove è attestato un ‘gallieni monumento’, anche se all’ottavo miglio (mentre il nostro, trovandosi nella II frazione, è all’altezza del nono). 3. I ritrovamenti archeologici nel ‘Palombaro’ Maruffi tra XVIII e XX secolo Se la storia non fornisce indizi espliciti sulla proprietà dei terreni e le evidenze archeologiche lasciano solo prospettare una continuitas della presenza residenziale e sepolcrale di un certo livello (come attestano la presenza del ninfeo per una delle ville e il porfido che decorava l’interno del mausoleo)14, è il materiale archeologico rinvenuto a più riprese, non sempre documentabili15, a dare l’impressione che il livello sociale dei proprietari di questi edifici fosse alto. In questo senso un posto importante è da riservare alle due fistulae che provengono dalla I frazione16. Queste, entrate nella collezione del Museo Nazionale Romano nel 1927, recano iscrizioni differenti che potrebbero essere utili per l’individuazione del possibile proprietario: la prima su un lato indica in XXIX la portata in metri cubi d’acqua delle tubature e il nome T. FLAVI QUINTILI, sul lato opposto è ripetuto lo stesso nome; la seconda su un lato riporta HERMIA FECIT, sull’altro in XXXI è indicata la portata d’acqua.

2. Il paesaggio e monumenti in età romana Seguendo il numero progressivo assegnato alle unità, si prendono ora in considerazione quegli edifici che in epoca romana popolavano la zona e che oggi, per la maggior parte, non sono più visibili9.

Tito Flavio Quintilio non è un personaggio altrimenti noto. Le ricerche prosopografiche hanno permesso di individuare un Flavius Quintilius Eros Monaxius governatore della Caria tra il 355 e il 360 d.C., citato in un’iscrizione rinvenuta ad Afrodisia dove viene definito διασημότατος ήγεμών και ἀπὸ Κρητάρχων17. Lo status di governatore del Flavio Quintilio di IV sec. d.C. fa presupporre l’appartenenza della sua famiglia a ranghi elevati già nei secoli precedenti, andando a corroborare l’ipotesi di una proprietà di alto livello. Prima del IV sec. d.C. non sono noti altri Flavi Quintilii, anche se “potrebbe essere riferito

Nella I frazione sorge un monumento sepolcrale molto noto, la c.d. ‘Berretta del Prete’10, una costruzione la cui prima fase edilizia si data alla fine dell’impero, ma che continuò a essere utilizzato come spazio sacro anche in epoca medievale. Nei pressi della ‘Berretta’ il De Rossi11 Tomassetti 1979, 154. Per queste e altre notizie sulla famiglia Maruffi, Calcani 2014. 5 Archivio Maruffi, Cartella: «Origine e sviluppo ‘Palombaro’». 6 Archivio di Santa Maria Maggiore, Busta ‘Palombaro’, 412.01, «Carte Varie sec. XIX». 7 Archivio di Santa Maria Maggiore, Busta ‘Palombaro’, 412.05, «Istromenti». 8 Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Agricoltura, direzione generale miglioramenti fondiari, busta 504. 9 Lo studio a cui fare riferimento per tutte le evidenze archeologiche della zona è De Rossi 1979. 10 Gai 1986. 11 De Rossi 1979, 234–240, n. 200. 3 4

De Rossi 1979, 250–258, n. 220. De Rossi 1979, 246–250, n. 219. Una descrizione, seppur parziale, per via dell’assenza di dati ufficiali è anche in Johnson 2009, 42–48. Per la villa, De Rossi 1979, 250–258, n. 220. 14 Johnson 2009, 42. 15 Calcani 2015; Corbascio 2017, 43–120. 16 Corbascio 2017, 116. 17 Jones 1971, 608; Moser 2018, 223; Roueché 1989, n.19. 12 13

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Una possibile proprietà imperiale al IX miglio della via Appia antica

Fig. 12.2. Roma. Il Mausoleo di Gallieno. (http://www.parcoarcheologicoappiaantica.it/wp-content/uploads/2018/06/f-n-fondogfn-e111654-mausoleo-di-gallieno-da-originale-del-1892-1896-ca.jpg).

al breve regno di Quintillus, fratello di Claudio II il Gotico, con il quale si ponevano in linea diretta di successione i ‘secondi Flavi’, ovvero Costanzo Cloro e la sua stirpe”18. Esclusa è, invece, la possibilità di un collegamento tra questo Flavio Quintilio e i Quintili proprietari del latifondo su cui sorge la ben più famosa villa al V miglio della via Appia Antica. Un altro dei materiali che riconduce immediatamente a una possibile proprietà imperiale è anche quello su cui meno si sa, il busto di Gallieno conservato presso la collezione Merolli-Fata delle Assicurazioni Generali con sede nell’omonimo palazzo a Piazza Venezia a Roma. Già facente parte della collezione Merolli, da Matz e Duhn è indicato semplicemente come “Auf moderner Büsteein Kopf mit einem dem Nero verwandten Gesichtstypus”19. I Merolli ebbero in affitto il ‘Palombaro’ almeno in due diversi momenti, nel 1783 e nel 184520. Il primo a ridosso degli scavi Hamilton, il secondo in contemporanea con i primi scavi Maruffi che non portarono a ritrovamenti di importanza rilevante. La decorazione scultorea, emersa durante gli scavi Hamilton del XVIII secolo e quelli eseguiti dalla famiglia Maruffi

tra il 1925 e il 1927, contraddistingue almeno una delle tre ville come una residenza di alto rango. Già il Canina scriveva: “Di tutte altre statue poi, che si dicono rinvenute nel medesimo scavo, con evidentemente molti altri oggetti di decorazione in marmo, non se ne hanno alcune sicure notizie per potere determinare con qualche precisione il luogo in cui furono collocate: ma è probabile che sieno state trasportate in Inghilterra”21. È bene sottolineare, infatti, come in entrambe le occasioni le ricerche siano state effettuate senza alcuna impostazione di tipo metodologico in grado di restituire un preciso e puntuale contesto di ritrovamento, se non il riferimento generico alla prossimità delle strutture abitative. Questo vale per Hamilton, e in egual misura anche per Francesco Maruffi, che, però, da amatore dell’archeologia, nei suoi taccuini appunta almeno la frazione in cui sono stati svolti i lavori. Per questo motivo di alcune opere sappiamo indicare il giorno e l’anno della scoperta, mentre per quanto riguarda il luogo siamo limitati nella conoscenza alla sola frazione, senza alcuna ulteriore specifica. Dalla I frazione provengono le due fistulae già illustrate, che in una foto d’epoca compaiono vicino alla testa del filosofo Platone, anch’essa facente parte della collezione del Museo Nazionale Romano22. Il ritratto è una copia non di alto livello dell’originale, per via dell’eccessivo schiacciamento

Calcani 2017, 214. Matz - Duhn 1889, 496, n. 1828. Ringrazio per la segnalazione il dott. G. Scarpati, funzionario archeologo MiBACT - Parco Archeologico di Pompei, in qualità di responsabile dei contenuti scientifici e degli apparati didattici della mostra permanente ‘Radici del presente’ allestita nel Palazzo delle Generali a Roma. 20 Sui Merolli e il ‘Palombaro’, Corbascio 2017, 29–30 e 94. 18 19

21 22

95

Canina 1853, 187–189, n. 9. Belli Pasqua 1988, R8, 16–17.

Andrea Corbascio

Fig. 12.3. Statua di Athena Parthenos. A destra: il negativo della foto scattata da Francesco Maruffi nel 1927, (Sassone, Archivio di famiglia); a sinistra: la statua oggi al Museum of Art di Santa Barbara, California (Del Chiaro 1984).

sull’identificazione con la nostra26. Il ‘pezzo forte’ della II frazione è rappresentato senza dubbio dalla c.d. ‘Velata’27 (Fig. 12.4), una statua femminile ammantata trovata nel 1925 e che è diventata subito il fulcro della trattativa intrapresa dal Maruffi con la Soprintendenza, nella persona di Roberto Paribeni28. Oggi è parte della collezione del Museo Nazionale Romano ed è esposta nel Chiostro di Santa Maria degli Angeli alle Terme di Diocleziano. Da subito fu forte l’interesse su questa statua per entrambe le parti in causa: Paribeni, per avvalorarne l’acquisto, chiamò a perizia Emanuele Rizzo, e la fece vedere anche ad altri studiosi, mentre il Maruffi, grazie a quell’industria boccaccesca che contraddistingue tutta la famiglia, per aumentare il guadagno, trova il modo di farla pubblicare su un

del volto, che riproduceva le fattezze del filosofo ormai in età matura. Un’Athena Parthenos, copia dell’originale fidiaco di V sec. a.C., fu trovata nell’ottobre del 1927 (Fig. 12.3), ma la data del rinvenimento è nota grazie a una fonte orale, una tipologia che raramente possiamo utilizzare: l’ultima erede Maruffi, Margherita, che ancora risiede nella villa di famiglia a Sassone, dove sono ricoverati tutti i reperti archeologici che non hanno trovato posto in collezioni museali23, tra i tanti racconti di cui ci ha fatto dono, ama ricordare anche quello della scoperta ‘straordinaria’ della statua avvenuta lo stesso giorno della sua nascita. L’unica segnalazione ‘scientifica’ in merito alla statua è del 1979 e si deve al De Rossi che, però, la segnala dispersa24. È ora stata individuata nella collezione del Museum of Art di Santa Barbara, in California25. La provenienza non è indicata in modo chiaro ed è evidente un intervento di restauro che, tuttavia, non lascia dubbi

26 Le ricerche effettuate presso l’Ufficio Esportazioni di Roma non hanno portato, come ci si poteva attendere, al ritrovamento di alcuna licenza di esportazione (ringrazio in particolare la dott.sa F. Ritucci per aver permesso lo svolgimento della ricerca in ampia autonomia). Una segnalazione è stata, invece, depositata al Comando Tutela Patrimonio dei Carabinieri di Roma. 27 Calcani 2015; Calcani 2017; Corbascio 2017, 95–105. 28 Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Agricoltura, direzione generale miglioramenti fondiari, busta 504.

Nel 2008 è stata costituita la Fondazione Maruffi-Roma Tre attraverso la quale sono state intraprese attività di studio e ricerca inerenti ai Maruffi, esposte poi nella mostra fotografica ‘Villa Maruffi. Materiali e Studi’, Roma, Università degli Studi Roma Tre, 21–28 maggio 2019. 24 De Rossi 1979, 237. 25 Del Chiaro 1985, 22; Corbascio 2017, 99 e 116–118. 23

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Una possibile proprietà imperiale al IX miglio della via Appia antica

Fig. 12.4. Roma, Museo Nazionale Romano, statua c.d. “Velata” (Fotografia dell’autore).

magazine inglese, l’Illustrated London News, in un articolo a firma di Federico Halbherr, il maestro di Margherita Guarducci29. Nel corso della trattativa il venditore prova a ‘ricattare’ lo Stato sostenendo di aver già avviato i contatti per portare la statua all’estero, dove gli era stata garantita una valutazione maggiore. Una minaccia rimasta intentata per quanto riguarda la ‘Velata’, ma che forse ha avuto un suo seguito per quanto riguarda la sopra citata Athena Parthenos. Iconograficamente la scultura ripropone il modello della c.d. ‘Grande Ercolanese’, con il braccio destro piegato e portato verso il petto. La datazione alla seconda metà del II sec. d.C. (160–180 d.C., tra il principato di Marco Aurelio e quello di Commodo) trova giustificazione nella lavorazione dell’iride, termine post quem, e dall’acconciatura che rimanda a quelle allora in voga (in particolare quella adottata da Faustina dopo il 162 d.C. e dalla figlia Lucilia dopo il 178 d.C.30). La raffinatezza della lavorazione e la qualità del marmo hanno da subito indirizzato il riconoscimento verso un personaggio di alto rango31: il volto riproduce dei tratti realistici, ma nell’impossibilità di rintracciarne il nome, è stato riconosciuto nel suo gesto al contempo di grande pudore, dramma e

contenimento, una iconografia vicina a quella di Alcesti diffusa nei sarcofagi32. Oltre a un mosaico pavimentale33, oggi ospitato nella biglietteria delle Terme di Diocleziano, a un’erma acefala34, anch’essa entrata nel museo ma attualmente dispersa (forse è rimasta in loco nei terreni oggi di proprietà Monti), recante un’iscrizione che rimandava a un locus amoenus, e vario materiale di terracotta con iconografia per lo più a carattere apotropaico35, vi è un satiro, anch’esso in terracotta, frammentato in più punti36: è quest’ultimo l’unica testimonianza che possiamo definire ‘certa’ della vita della villa in un periodo antecedente al I sec. a.C. Per caratteristiche formali, infatti, il satiro, che doveva far parte di un gruppo frontonale, come denunciano i fori situati posteriormente e lateralmente, ha un mantello caprino sulle spalle ed è inquadrabile in una produzione di III-II sec. a.C. La III frazione, dove è presente il Mausoleo di Gallieno, ha restituito materiale archeologico molto vario per tipologia, meno per cronologia. I ritrovamenti qui effettuati sono frutto degli scavi Hamilton del 1771 e per questo la documentazione a riguardo è ancora più Calcani 2017, 215–219. Corbascio 2017, 113–115. 34 Corbascio 2017, 115–116. 35 Corbascio 2017, 126–127 e 132–137. 36 Corbascio 2017, 106–108 e 126–127. 32 33

Halberr 1927, 177. Calcani 2017, 214. 31 Maj 1953, n. 241. 29 30

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Andrea Corbascio scarna37. Siamo a conoscenza di queste scoperte, infatti, non attraverso diari di scavo, ma grazie al rapporto epistolare che Gavin Hamilton era solito intrattenere con i suoi intermediari e/o venditori inglesi38, da cui sappiamo che dal ‘Palombaro’ proviene l’Amazzone ferita oggi al Metropolitan Museum di New York39, copia dell’originale di Policleto. Un Hermes tipo ‘Andros’40, che Canova definì copia “più fine e più perfetta” di quella del giardino ottagono in Vaticano, già facente parte della collezione Lansdowne, oggi è al San Antonio Museum in Texas. Una statua ritratto dell’imperatore Marco Aurelio nello schema del principe ellenistico in nudità eroica, il cui volto è riferibile al terzo sottogruppo del secondo tipo ritrattistico come definito dalla tipologia redatta da Wagner41. Anch’essa acquistata dal primo conte di Shelburne William Petty, entrata nella collezione Lansdowne, oggi è al Santa Barbara Museum in California, nella stessa collezione di antichità che ospita l’Athena Parthenos. Un gruppo equestre non integro, di elevata qualità stilistica, privo della figura del cavaliere, è finito molto probabilmente in una collezione privata americana a seguito della vendita all’asta nel 1987 da parte di Christie’s42. Altre sculture trovate da Hamilton sono state vendute, invece, in Russia ed è probabile che siano confluite nella collezione dell’Ermitage, per quanto al momento non sono state trovate prove in tal senso. Per concludere la serie della scultura ideale, uno dei ritrovamenti più importanti è sicuramente il discobolo, copia dell’originale di Naukydes, conservato nelle collezioni Vaticane e voluta fortemente dal Visconti dopo un tentativo di occultamento da parte di Hamilton43. Infine, alcuni materiali sembrano essere tra loro tematicamente affini44: il busto di Serapide copia dell’opera di Briasside realizzata per la biblioteca di Alessandria45, attualmente nella sala rotonda dei Musei Vaticani; un ibis in rosso antico ospitato nella sala degli animali della stessa collezione46, uno dei soggetti che spesso si trova nel ‘corteo’ isiaco; due antefisse raffiguranti un combattimento tra pigmeo e ariete (unicum iconografico, attestato, forse, solo su uno specchio etrusco), una nei magazzini del Museo Nazionale Romano (Palazzo Massimo) e una, in stato frammentario, a Sassone47; una testa di fanciullo48; vari ex voto e lucerne. L’ingente presenza di materiali associabili più o meno direttamente al culto di Iside e Serapide lascerebbe pensare alla presenza di un luogo a esso dedicato. Solo eventuali indagini archeologiche potrebbero confermare o meno l’esistenza di questo spazio, ma quello che rimane fuori discussione è un gusto per l’esotico tanto di moda a

Roma dopo la battaglia di Azio in special modo tra le classi più agiate49: l’imponente e ben realizzato busto di Serapide e il lusso del marmo rosso usato per l’airone testimoniano ancora una volta il livello artisticamente elevato della ‘collezione’ della villa. Conclusioni Come osserva Maiuro nella sua ampia ricerca sulla proprietà imperiale “l’unico metodo per identificare una proprietà imperiale o poterne ipotizzare la presenza è quello indiziario”50. Non si è qui voluta affrontare la complessa questione dei terreni sui quali effettivamente si estendeva la proprietà e da quando questa parte di patrimonium appiae sia transitato da una proprietà privata (o demaniale) a quella ecclesiastica51. Può aiutare Coarelli che, trattando dei quattro mausolei tardoantichi a Roma, fa notare come “tutti i mausolei imperiali vengono a collocarsi in questa fascia e che ognuno di essi è in relazione a una proprietà imperiale”52. Un indizio, forte e concreto, è certamente la presenza del Mausoleo, sulla cui attribuzione a Gallieno da parte degli studiosi non ci sono dubbi. A questa prova princeps si associa la ricca decorazione scultorea delle tre ville collocate in terreni tra loro limitrofi e contigui, per i quali non si può escludere uno stesso proprietario. Si deve tener conto anche del fatto che molto probabilmente quanto ritrovato nel XVIII e nel XX secolo non corrisponde all’intero patrimonio artistico originario. I manufatti artistici sono a ogni modo sufficienti per far ipotizzare una proprietà di altissimo rango testimoniata dalla qualità elevata sia della realizzazione artistica come anche del materiale utilizzato, tra tutti il porfido, che sarebbe il sigillo di autenticità per la proprietà imperiale. Bibliografia Aglietti, S. - Rose, D. 2008, “La villa di Quinto Voconio Pollione: le vicende ottocentesche”, in L. Fraschetti - P. Attema (eds), Tra Alba Longa e Roma. Studi sul territorio di Ciampino, Ciampino, 79–208. Belli Pasqua, R. 1988, in A. Giuliano (ed.) Il Museo Nazionale Romano, Le sculture 9,1, Roma, 16–17. Bignamini, I. - Hornsby, C. 2010, Digging and dealing in Eighteenth-century Rome, London. Calcani, G. 2014, “Coltivare la storia: la famiglia Maruffi tra gestione fondiaria, raccolta di antichità e memorie”, in G. Calcani - M. C. Molinari (eds), Terre Antichità Memorie. La Raccolta Numismatica Maruffi, Roma, 13–60.

Fondamentale Bignamini - Hornsby 2010, 176–184. Cassidy 2011. 39 Corbascio 2017, 62–67. 40 Corbascio 2017, 69–70. 41 Corbascio 2017, 57–61. 42 Corbascio 2017, 71–73. La scultura è stata acquistata per £. 180.000, a cui si deve aggiungere il buyer’s premium corrispondente a circa il 20% dell’Hammer Price. 43 Corbascio 2017, 78–82. 44 Rocco 2012, 613–616. 45 Corbascio 2012, 82–84. 46 Corbascio 2017, 85–86. 47 Corbascio 2017, 108–112. 48 De Rossi 1979, 250–251, n.1. 37 38

Calcani, G. 2015, “La statua funeraria femminile e altre antichità dal “Palombaro Maruffi” al Museo Nazionale Romano,” in M. Micheli (ed.), Il restauro archeologico

Malaise 2007. Maiuro 2012, 159. 51 Marazzi 1990. 52 Coarelli 2016, 494. La ‘fascia’ a cui fa riferimento è quella del quadrante sud-est di Roma. 49 50

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Una possibile proprietà imperiale al IX miglio della via Appia antica in Italia dal 1860 al 1970, Atti della giornata di studi, Roma 21 marzo 2013, Roma, 139–155.

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13 Le strade e il paesaggio del potere nella provincia di Baetica. Un nuovo sguardo sulle pietre miliari e sull’epigrafia rurale. Sergio España-Chamorro Institut Ausonius (UMR 5607), CNRS-Universite Bordeaux-Montaigne In this paper, I analyse the road system of the Roman province of Hispania Ulterior Baetica. The main issue is to understand the landscapes of power through road epigraphy. Milestones provide an interesting opportunity to analyse the development of this aspect and the imperial propaganda out of the cities. It seeks to perform a quantitative and territorial analysis of these reviewed evidence placed into its geographical context in order to explore the incidence of emperors in the road policy. Such a procedure will enable me to propose a general development of the management and development of roads in Baetica. This interesting information reveals a diachronic process and the changes of preferential areas depending on the emperors and dynasties. In questo articolo si vuole analizzare il sistema stradale della provincia romana della Hispania Ulterior Baetica. Il proposito principale è capire i paesaggi del potere attraverso l’epigrafia stradale. Le pietre miliari offrono un’interessante opportunità per analizzare lo sviluppo di questo aspetto e la propaganda imperiale fuori dalle città. Si cercherà di effettuare un’analisi quantitativa e territoriale di queste evidenze, inserite nel loro contesto geografico, per esplorare l’incidenza degli imperatori nella politica stradale. Tale procedura ci permetterà di proporre uno sviluppo generale della gestione e del progresso delle strade nella Baetica, interessante informazione che rivela un processo diacronico e i processi di cambiamento di aree preferenziali secondo gli interessi degli imperatori e delle diverse dinastie. Keywords: Milestones; landscapes of power; Roman Baetica; Roman Hispania; Roman roads; miliari; paesaggi del potere; Baetica romana; Hispania romana; strade romane 1. La rete di trasporto nel sud della penisola iberica

La via principale della penisola iberica antecedente l’arrivo dei romani era la cosiddetta Όδός Ήράκλεια. Secondo

varie fonti letterarie, questo itinerario era considerato come il cammino mitico che Ercole intraprese tra Gades e Roma3 e che fu inoltre percorso da Annibale nel 218 a.C. Prima della conquista romana, altre fonti fanno riferimento all’esistenza di ulteriori strade, come ad esempio quella che collegava le città preromane (oppida) di Corduba (Córdoba), Astigi (Écija) e Carteia (San Roque). Durante la conquista, diverse altre fonti storiche - facendo tra l’altro riferimento alla precoce presenza di coloni italici (Italica-Hispalis)4 nella regione - indicano poi l’esistenza di ulteriori strade, quali ad esempio la via che attraversava la valle del Guadalquivír o ancora l’asse di comunicazione nord-sud conosciuto in seguito come ‘via dell’Argento’. Tutto questo si completa con le informazioni fornite dai miliari5 che mostrano lo sviluppo diacronico stradale

1 Gruppo di Ricerca “Arqueología Africana” (UCM-971713). La ricerca è stata condotta nell’ambito del progetto postdoc RoMAfrica (Idex Bordeaux 2018), e dei progetti spagnoli d’eccellenza “Carmina Latina Epigraphica como expresión de la identidad del mundo romano. Estudios interdisciplinarios” (MINECO Ref. PGC2018-095981-B-I00) e “Proyecto Identidades norteafricanas en transformación: etnias líbicobereberes y romanitas a través del imaginario funerario” (MINECO Ref. PID2019-107176GB-I00) 2 Kolb 2011–2012, 53.

Schmidt 2011, 71–86. Corzo Sánchez 1973; Solana Sainz 2000, 95. 5 Si possono trovare alcune note storiche in Timeo di Tauromenio (De mirab. Ausc. 85) che riferisce che la strada che parte dall’Italia verso gli Iberi è chiamato “via Herculea”, nota più tardi come “via Augusta” dopo la ridenominazione di epoca augustea. Nonostante ciò, è interessante notare come entrambe le vie Herculea/Heraclea e Augusta si riferiscono alla stessa strada. Anche Strabone (III.4.9) e Polibio (III, 39) ci forniscono alcune informazioni d’interesse storico a riguardo.

La1 politica viaria può essere considerata come una dei migliori esempi di strategia per l’apertura e la conquista di nuovi territori2. In questo senso, la rete di trasporto romana è stata uno degli strumenti fondamentali per il consolidamento dei nuovi territori annessi e per la diffusione dell’amministrazione territoriale e del modello di vita romano. Tuttavia, lo spazio dell’Hispania Ulterior non è stato sviluppato ex nihilo ma è stato elaborato a partire da una realtà viaria preesistente alla conquista romana.

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Sergio España-Chamorro un tratto preciso tra lo Ianus Augustus10 e la mansio Ad Aras. Questo ci permette di identificare tale area antica come lo spazio amministrativo del conventus Cordubensis11 (un tipo di suddivisione provinciale spiegata da Plinio12). 2. Un terzo delle iscrizioni (ventitré pietre miliari) sono state collocate sulla via che collegava le città di Astigi con Malaca (Málaga)13. Tuttavia, come si vedrà in seguito, la cronologia è diversa. 3. Soltanto dieci pietre miliari sono state collocate al di fuori di queste due strade, cinque delle quali si trovano su una strada secondaria che fu costruita da Adriano per collegare l’antica città di origine della sua famiglia, Italica (Santiponce), con il fiume Baetis (Guadalquivír)14.

della regione durante l’età imperiale. Questo nuovo schema viario si svilupperà insieme all’implementazione di una funzionale rete di trasporto fluviale e marittima6 che condizionerà la forma dell’amministrazione territoriale della regione. In questo senso, nel mio articolo intendo presentare lo sviluppo del paesaggio del potere nel mondo rurale dall’inizio dell’Impero nonché la sua evoluzione all’interno dell’epigrafia viaria. Innanzitutto, è importante sottolineare come l’inizio di questo tipo di epigrafia coincida con la riorganizzazione provinciale della penisola e con la divisione in due della provincia repubblicana dell’Hispania Ulterior7: la Baetica e la Lusitania. Ciò si verifica tra il 17 e il 13 a.C. ed è proprio in questo periodo che l’antico Όδός Ήράκλεια viene rinominato ‘via Augusta’; inoltre, proprio allora si riorganizzano i confini e le vie di comunicazione e si verifica un processo di cambiamento nella società provinciale visibile non solo nella cultura materiale, ma anche nella produzione epigrafica. Si tratta dello stesso momento storico in cui le pietre miliari cominciano a essere presenti nella regione e in cui si verificano altri processi quali la scomparsa di quasi tutte le lingue paleoispaniche, lo sviluppo dell’epigrafia funeraria romana e l’inizio dell’epigrafia bronzea8.

È inoltre possibile fare alcune considerazioni anche da un puto di vista diacronico (Figg. 13.1–3). Il I sec. d.C. è stato il secolo più attivo per quel che concerne l’elaborazione e il posizionamento di questo tipo di

2. Le pietre miliari betiche: una visione territoriale e diacronica dei paesaggi del potere La ‘via romana’ ideale è sicuramente incarnata dalla via Appia, una strada pavimentata contrassegnata a ogni miglio da pietre miliari. È questa la tesi di Nicolàs Bergier, così come esposta nella sua opera Histoire des grands chemins de l’Empire romain (1622, Parigi), che è considerata come il primo tentativo di classificazione delle strade romane. Tuttavia, il fatto di utilizzare un approccio macro-territoriale su un territorio provinciale ci fornisce tutt’un’altra immagine rispetto al ruolo delle pietre miliari al di fuori l’Italia. Il corpus betico non è molto ampio: troviamo soltanto settantanove iscrizioni tra il I e il IV sec. d.C. Se facciamo attenzione al posizionamento geografico delle pietre miliari9, possiamo analizzare lo scopo e l’interpretazione del paesaggio viario così come poteva apparire agli occhi di un viaggiatore antico:

Fig. 13.1. Numero dei miliari classificati per via e secolo.

1. Più del 50% di queste iscrizioni (quarantatré pietre miliari) sono state collocate lungo la via Augusta in 6 In questo senso, è importante sottolineare che nell’antichità il trasporto, sia marittimo che fluviale, era più rapido ed economico di quello terrestre. Sillières, 1990, 749–754; Melchor Gil 2008–2009, 165; Keay Earl 2006; Keay - Earl 2011. 7 Nessuna pietra miliare del periodo repubblicano è stata ritrovata nel territorio della Ulterior. Díaz Ariño 2015. Per i primi documenti EspañaChamorro 2020. 8 È possibile trovare precedenti come il bronzo di Lascuta; tuttavia, è soprattutto dopo Augusto che si iniziano a redigere documenti ufficiali quali, ad esempio, alcune leggi dell’epoca di Cesare che vengono rifatte in bronzo oppure come i decreti della Tabula Siarensis. 9 Questo articolo è un approccio generale della mia linea di ricerca da un punto di vista del paesaggio del potere. Per lo studio individuale delle pietre miliari e di vie specifiche: España-Chamorro 2017d; EspañaChamorro 2018a; España-Chamorro 2018b; España-Chamorro 2019b; España-Chamorro 2019c; sulle capita viarum, España-Chamorro 2017b.

Fig. 13.2. Percentuali dei miliari dell’Hispania per i secoli I-IV sec. d.C.

10 Per il suo ruolo nell’ideologia della propaganda imperiale, Sillières 1994, 305–331. 11 España-Chamorro 2017a. 12 Plinio, Nat. Hist., III. 13 España-Chamorro 2019b. 14 España-Chamorro 2017b.

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Le strade e il paesaggio del potere nella provincia di Baetica

Fig. 13.3. Numero dei miliari di ogni imperatore.

epigrafi. Il rinnovamento della rete di trasporto incontra allora la necessità di un nuovo sistema di amministrazione più adeguato al nuovo contesto15. Tale rinnovamento si verificherà sempre sotto Augusto, il quale sarà il primo imperatore a collocare delle pietre miliari all’interno dei confini di questo spazio provinciale16. Non solo, Augusto sarà anche l’imperatore che posizionerà il maggior numero di pietre miliari nella provincia. In effetti, con più di undici esemplari ritrovati, il suo impatto è paragonabile soltanto al periodo di Caracalla. Inoltre, sempre Augusto fa apporre sul ponte de Los Palacios y Villafranca (Siviglia) un’iscrizione monumentale che racconta la costruzione dello stesso. Come è già stato detto in precedenza, la zona preferenziale era quella del conventus iuridicus di Corduba, la quale costituiva anche la capitale provinciale. Allo stesso modo, altri imperatori della età giulio-claudia (Tiberio17, Caligola18, Claudio19 e Nerone20) continuarono la politica augustea, con la

sola eccezione di una pietra miliare di età neroniana che è stata ritrovata a Puerto de Santa Maria (Cadice), una popolazione installata a notevole distanza da Corduba, ma sempre lungo la via Augusta. Con la dinastia Flavia, la politica viaria cambia. In effetti, nessuna pietra miliare risalente a Tito e Vespasiano (l’imperatore che ha concesso lo ius Latii a tutta l’Hispania21) è mai stata ritrovata; quest’ultimo ha lasciato solo qualche piccola traccia nella rete viaria romana nella provincia ispanica, inserendo ad esempio una lastra all’interno di un ponte al fine di ripararlo22. Inoltre, i suoi interventi furono scarsi anche sulle strade di Roma e dell’Occidente romano23. L’unico imperatore della dinastia flavia che ci ha lasciato tracce di pietre miliari è Domiziano24. Ancora una volta vediamo una certa continuità nelle vicinanze di Corduba. Inoltre, tali pietre miliari hanno una caratteristica particolare: esse presentano, infatti, per la prima volta, iscrizioni contenenti l’aggettivo ‘militaris’ che informa i viaggiatori della tipologia della via Augusta militaris. L’ultima pietra miliare domizianea documentata nella provincia è l’unica di questo secolo a trovarsi al di fuori di quella via; quest’ultima è infatti situata all’inizio di un altro asse fondamentale: la via tra Astigi e Malaca, anche conosciuta come la via Domitiana Augusta25. Il II secolo d.C. presenta uno scarso numero di reperti di

Kolb 2011–2012, 62. CMB-I-1 = CIL II, 4701 = CIL II2/7, 65 n. 04, Cordova; CMB-I-2 = CIL II, 4702 = CIL II2/7, 65 n. 06, Cordova; CMB-I-3 = CIL II2/7, 65 n. 11 = HEp. 4, 300, Cordova; CMB-I-4 = CIL II, 4703 = CIL II2/7, 65 n. 12, 6 miglia a sudovest di Cordova; CMB-I-5 = CIL II, 4704 = CIL II2/7, 65, n. 15 = HEp. 4, 302, 10 miglia a sudovest di Cordova; CMB-I-6 = CIL II, 4705 = CIL II2/7, 65 n. 17, Cuesta del Espino (Cordova); CMB-I-7 = CIL II, 4706 = CIL II2/7, 65 n. 20, Mangonegro; CMB-I-8 = CIL II, 4707 = CIL II2/7, 66 n. 24 = HEp. 4, 294, Cordova; CMB-I-9 = CIL II, 4708 = CIL II2/7, 66 n. 25 = HEp. 4, 295, Cordova; CMB-I-10 = CIL II, 4709, 4710 = CIL II2/7, 66 n. 26 = HEp. 4, 296, Cordova; CMB-I-11 = CIL II, 4711 = CIL II2/7, 66 n. 27 = HEp. 4, 297, Cordova. 17 CMB-I-12 = CIL II, 4712 = CIL II2/7, 65 n. 05, Cordova; CMB-I-13 = CIL II, 4713 = CIL II2/7, 65 n. 18, 12 miglia a sud-ovest di Cordova; CMB-I-14 = AEp. 1912, 11, Cortijo de Villarejo, Cordova; CMB-I-15 = CIL II, 4714 = CIL II2/7, 66 n. 21, 16 miglia a sud-ovest di Cordova; CMB-I-16 = CIL II, 4715 = CIL II2/7, 66 n. 22, 17 16 miglia a sud-est di Cordova. 18 CMB-I-17 = CIL II, 6208 = CIL II2/7, 65 n. 02 = HEp. 4, 292, 4 16 miglia a sud-est di Cordova; CMB-I-18 = CIL II, 4717 = CIL II2/7, 65, n. 14 = HEp. 4, 301, 8 16 miglia a sud-ovest di Cordova; CMB-I-19 = CIL II, 4716 = ILS 193 = CIL II2/7, 66 n. 28, Cordova. 19 CMB-I-20 = CIL II, 4718 = CIL II2/7, 66 n. 29, Cordova. 20 CMB-I-21 = CIL II2/7, p 54 = AEp. 1986, 368 = HEp. 1, 277 Pedro Abad (Cordova); CMB-I-22 = CIL II2/7, 65 n. 9 = HEp. 5, 315, fra Cordova e Montoro; CMB-I-23 = CIL II, 4719 = CIL II2/7, 66 n. 23, Cordova; CMB-I-24 = CIL II, 4720 = CIL II2/7, 65, n. 7 = HEp. 4, 299, fra Cordova ed Écija; CMB-I-25 = CIL II, 4734 = ILS 227 Puerto de Santa Maria (Cadice). 15

16

Plin., Nat. Hist., III, 30: “Universae Hispaniae Vespasianus Imperator Augustus iactatum procellis rei publicae Latium tribuit”. 22 CIL II, 4697 = CIL II2/5, 1280, Ponte sul fiume Guadalmazan (La Carlota, Cordova). 23 A Roma sono state ritrovate solamente due pietre miliari fatte erigere da Vespasiano (CIL X, 6812 e 6817; una terza iscrizione, invece, accenna a una riparazione viaria nel suo tempo CIL VI, 931), dei termini che delimitavano la ripa del Tevere (CIL VI, 31546 e 31548), una di Tito (CIL VI, 942), ma nessuna di Domiziano (Andreu Pintado 2013, 36). D’altra parte, in Hispania esiste solamente una pietra miliare fatta redigere da Vespasiano nella Citerior (CIL II, 4814), ma 14 miliari di Tito, anche nella Citerior (Solana Sainz - Sagredo San Eustaquio 2008, 207–214; per quanto riguarda la parte occidentale della provincia, solo CIL XVII/1, 215, 250). 24 CMB-I-26 = CIL II2/5, 205 = AEp. 2002, 746 = AEp. 2004, 746 = HEp. 8, 344 = HEp. 12, 451 Antequera (Málaga); CMB-I-27 = CIL II2/5, 65, n. 10 = CIL II2/7, 65, n. 15, Cordova; CMB-I-28 = CIL II, 4721 / CIL II2/7, 66, n. 30, Cordova; CMB-I-29 = CIL II, 4722 / CIL II2/7, 66, n. 31; CMB-I-30 = CIL II, 4703, Cordova; CMB-I-31 = CIL II, 4723 = CIL II2/7, 65, n. 15 = HEp. 4, 302, Cordova. 25 Stylow - Atencia 2004; España-Chamorro 2019a. 21

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Sergio España-Chamorro

Fig. 13.4. Distribuzione dei miliari nel I sec. d.C. in Baetica: A. Miliari; B. Via romana; C. Capitale di conventus; D. Limite di conventus (Rielaborazione di Google Earth).

Fig. 13.5. Distribuzione dei miliari nel II sec. d.C. in Baetica: A. Miliari; B. Via romana; C. Capitale di conventus; D. Limite di conventus (Rielaborazione di Google Earth).

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Le strade e il paesaggio del potere nella provincia di Baetica

Fig. 13.6. Distribuzione dei miliari nel III sec. d.C. in Baetica: A. Miliari; B. Via romana; C. Capitale di conventus; D. Limite di conventus (Rielaborazione di Google Earth).

epigrafia viaria. In effetti, sono stati ritrovati solamente alcuni esemplari risalenti ai periodi storici di Nerva, Traiano e Adriano26 e nessun reperto risalente all’epoca degli Antonini. È al tempo di Adriano che risale il maggior numero di pietre miliari ritrovate in questo secolo: cinque appartengono a una nuova via che doveva collegare Italica con il fiume principale della provincia, il Baetis. La sesta ci informa nuovamente sull’attività di collocazione delle pietre miliari nella seconda più importante via della provincia, l’asse Astigi-Malaca. Dopo Adriano si registra un vuoto di quasi cento anni in cui non disponiamo di ulteriori riscontri di un tale tipo di epigrafia. Si tratta di una situazione quasi generalizzata che, però, dimostra l’interesse degli Antonini nello sviluppare ulteriormente e migliorare altre zone dell’Impero come la Gallia (ad esempio, come è possibile vedere nel volume del CIL XVII/2, sono state ritrovate quarantun pietre miliari risalenti all’epoca di Antonino Pio). Arriviamo così al

III sec. d.C. Caracalla27, dal canto suo, si farà carico di operare una ristrutturazione viaria - indiscutibilmente necessaria - non solo in Baetica, ma anche in tutta la penisola. L’interesse di quest’ultimo nella ristrutturazione del paesaggio del potere nella Baetica non sembra tuttavia scaturire da motivazioni personali28 in quanto Caracalla non è in alcun modo legato alla penisola, né esistono prove di suoi precedenti viaggi in Hispania. Dobbiamo, quindi, supporre che tale rinnovamento sia stato piuttosto spinto da motivazioni strategiche e funzionali. Sempre Caracalla continuò a interessarsi al secondo asse viario Astigi-Malaca. Quest’ultimo comincerà gradualmente a diventare sempre più importante o, almeno, così sembra emergere dalle prove epigrafiche che sono state raccolte. Questo fenomeno coincide, inoltre, con un aumento degli insediamenti rurali e, più concretamente, con l’incremento della costruzione di ville rustiche lungo tale itinerario. Tuttavia, la politica viaria della Baetica si sviluppa in modo diverso rispetto

Nerva: CMB-II-1 = CIL II, 4724 = CIL II2/7, 65, n. 15 = HEp. 4, 303 Cuesta de El Espino (Cordova); CMB-II-2 = CIL II2/5, 255 = HEp. 8, 257, de Puente Genil (Cordova); Traiano: CMB-II-3 = CIL II, 4733 = CIL II2/7, 66, n. 32 = HEp. 4, 298, Cordova; CMB-II-4 = CIL II, 4725 = CIL II2/7, 65, n. 13, a 16 miglia a sud-est di Cordova; CMB-II-5 = CIL II, 4687, Conil (Cádiz); CMB-II-6 = CIL II, 6207 / CIL II2/5, 093, Doña Mencía (Cordova); CMB-II-7 = CIL II, 4694 = CIL II2/5, 205, Antequera, Málaga; Adriano: CMB-II-8 = CILA 5, 1040, Guillena (Siviglia); CMBII-9 = CILA 3, 367, Santiponce (Siviglia); CMB-II-10 = HEp. 5, 708; HEp. 12, 615, Santiponce (Siviglia); CMB-II-11 = España-Chamorro 2017d, trovato a La Rinconada (Siviglia).

27 CMB-III-1 = CIL II, 4699 = CIL II2/7, 40 = HEp. 4, 315, Montoro (Cordova); CMB-III-2 = CIL II, 5066 = CIL II2/7, 53 = CILA 6, 74 = HEp. 5, 443, Espeluy (Jaén); CMB-III-3 = CIL II2/5, 341 = CILA 4, 691, Cañada de Don Francisco (Écija, Siviglia); CMB-III-4 = CIL II, 4729 = CIL II2/7, 65, n. 3 = HEp. 4, 293, Cordova; CMB-III-5 = CIL II, 4728 a/b = CIL II2/7, 66, n. 34, Cordova; CMB-III-6 = CIL II, 4726 = CIL II2/7, 66, n. 35, Cordova; CMB-III-7 = CIL II, 4727 = CIL II2/7, 66, n. 33, Cordova; CMB-III-8 = CIL II, 4689 = HEp. 4, 557, Málaga; CMB-III-9 = CIL II, 4690 = HEp. 4, 558, Málaga; CMB-III-10 = CIL II, 4730 = CIL II2/7, 65, n.1, Hacienda de las Quemadas (Cordova); CMB-III-11 = CIL II2/7, 66, n. 36, Cordova. 28 Cepas 1997, 80.

26

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Sergio España-Chamorro

Fig. 13.7. Distribuzione dei miliari nel IV sec. d.C. in Baetica: A. Miliari; B. Via romana; C. Capitale di conventus; D. Limite di conventus (Rielaborazione di Google Earth).

Il numero delle pietre miliari di questo secolo comincia gradualmente a diminuire32 fino a scomparire. Sono state ritrovate all’incirca tredici pietre miliari, con alcune di queste che presentano, tuttavia, diversi strati e, quindi, due diversi testi datati in epoche differenti. In questo secolo l’asse di trasporto in cui è stato collocato il maggior numero di pietre miliari è quello della via Astigi-Malaca, la quale, nei primi due secoli, sembrava di secondaria importanza. Questo riafferma il processo cominciato nel III sec. d.C. con il quale questa strada sembra gradualmente cominciare ad assumere un ruolo via via più importante

ad altri territori provinciali dell’occidente romano e non solo. Ad esempio, un maggior numero di pietre miliari, rispetto ai secoli precedenti, è stato ritrovato nelle provincie di Britannia, della Tripolitania, dell’Helvetia, dell’Asia Minor, della Narbonensis così come nell’area occidentale della Gallia Lugdunensis. Il caso più esemplificativo è quello della Pannonia, in cui le pietre miliari del III sec. d.C. sono dieci volte più numerose rispetto alle pietre miliari dei secoli precedenti29. Il IV sec. d.C. è un momento di grande cambiamento nella sfera amministrativa in quanto gli antichi conventus iuridici vengono trasformati in una nuova unità amministrativa chiamata diocesis30. Come per i conventus, non abbiamo molte informazioni rispetto al loro ruolo e al loro posizionamento geografico; nonostante ciò, questi ultimi sembrano grosso modo avere la stessa estensione territoriale31.

32 CMB-IV-1 = CIL II2/5, 334 = CILA 5, 1237 = HEp. 4, 684, tra Écija ed Estepa (Siviglia); CMB-IV-2 = CIL II, 1440 = CILA 5, 1159 = CIL II2/5, 266 = HEp. 8, 438, Lora de Estepa (Siviglia); CMB-IV-3 = CIL II2/5, 266 = CIL II, 1439 = ILS 630 = CILA 5, 1124 = HEp. 2, 627, Marinaleda (tra Écija ed Estepa, Siviglia); CMB-IV-4 = CIL II2/5, p 334 = CILA 4, 692 = AEp. 1974, 379 = AEp. 1990, 532 = HEp. 2, 626, tra Écija ed Estepa (Siviglia); CMB-IV-5 = CIL II, 2202 = CIL II2/7, 262, Cordova; CMBIV-6 = CIL II2/5, 194 = HEp. 1, 472, Fuente del Fresno in Villanueva del Trabuco, Archidiona (Malaga); CMB-IV-7 = CIL II2/5, 374 = CILA 4, 837 = HEp. 4, 769 = HEp. 5, 723, La Luisiana (fra Écija e Carmona, Siviglia); CMB-IV-8 = CIL II2/7, 181 = HEp. 1, 309, Villanueva del Rey (Cordova); CMB-IV-9 = CIL II2/5, 334 = CILA 4, 693, Fuentidueñas, Écija (Siviglia); CMB-IV-10 (vid. CMV-IV-15) = CIL II2/5, 266 = CILA 5, 1160 b = HEp. 4, 762, Lora de Estepa (Siviglia); CMB-IV-11 (vid. CMV-IV-13) = CILA 2, 270 = HEp. 4, 673, Cantillana (Siviglia); CMBIV-12 = CIL II, 4700 = CIL II2/7, 40, Montoro (Cordova); CMB-IV-13 (vid. CMV-IV-11) = CILA 2, 270 = HEp. 4, 673, Cantillana (Siviglia); CMB-IV-14 = CIL II2/5, p 334 = CILA 4, 693 b Fuentidueñas, Écija (Siviglia); CMB-IV-15 (CMV-IV-10) = CIL II2/5, 266 = CILA 5, 1160 a = HEp. 4, 762, Lora de Estepa (Siviglia); CMB-IV-16 = CIL II, 4692 = ILS 745, Cártama (Malaga).

Cepas 1997, 79 e note 85–91. Questi dati dei nuovi volumi del CIL forniscono i seguenti numeri: Citerior 197, Lusitania 32, Baetica 23, Gallia 234, Illyricum 305, Raetica et Noricum 115, Britannia 59. Questo è stato il periodo durante il quale si sono ritrovati più reperti nelle province occidentali, con l’unica eccezione della Lusitania e della Baetica. 30 Albertini 1923, 118–120. La mancanza dei dati non permette d’identificare con precisione quando i conventus scompaiono come unità amministrativa. Corrales Aguilar (1997, 425), seguendo Albertini (1923), ha proposto che i conventus sono stati sciolti con l’idea della riorganizzazione territoriale portata avanti da Diocleziano. 31 Solo un paio di studi (per esempio, Martínez Melón 2008, 115– 128) hanno potuto precisare qualche informazione relativa alla riorganizzazione dei precedenti conventus. 29

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Le strade e il paesaggio del potere nella provincia di Baetica España-Chamorro, S. 2017b, “Los capita viarum de la Baetica”, in AnCord, 28, 11–32.

rispetto all’antica via Augusta militaris, almeno per quel che concerne il paesaggio del potere.

España-Chamorro, S. 2017c, “El paisaje epigráfico viario de la via Augusta. Consideraciones de la jurisdicción de los conventus iuridici y la epigrafía miliaria”, in Florentia Iliberritana, 28, 35–55.

3. Le pietre miliari e la propaganda nella Baetica La pietra miliare ha un ruolo centrale per diffondere la propaganda imperiale all’interno del paesaggio rurale33. Nel caso specifico della Baetica, si è potuto vedere come lo spazio centrale di questa propaganda è costituito, e questo dal I al II sec. d.C., dai territori adiacenti alla capitale provinciale, in particolare Corduba. Durante questi secoli, le pietre miliari hanno al tempo stesso una funzione informativa - fornendo al viaggiatore antico informazioni relative al numero delle miglia - e una funzione onorifica, informando i viaggiatori degli ordini impartiti dall’imperatore regnante. Il III sec. d.C. è, infine, un momento di cambiamento: le iscrizioni non presentano più, infatti, il computo delle miglia, conservando invece la funzione essenzialmente onorifica. In questo periodo cominciano inoltre a comparire lungo l’asse stradale secondario che collega Astigi a Malaca, che si svilupperà gradualmente sempre più sino a diventare il principale circuito della propaganda viaria romana. Tale visione macrospaziale è utile per ottenere una idea più precisa e accurata dello sviluppo diacronico di questi processi di evoluzione territoriale e di collocazione delle pietre miliari. Queste pietre rivestono, inoltre, una grande importanza non solo da un punto di vista archeologico, ma anche, e soprattutto, da un punto di vista geografico. In questo senso, esse ci forniscono informazioni molto utili circa la realtà del paesaggio del potere al di fuori dal mondo urbano, permettendoci di cogliere meglio il collegamento fra questo e il mondo rurale.

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14 Il paesaggio fortificato: il caso della Sicilia di Agatocle tra propaganda e gestione del territorio. Davide Falco Politecnico di Bari The studies on urban architecture of the Hellenistic Age, show how Greek cities are characterized by scenic spaces and monumentality. Visibility was a true value, and fortifications had a basic role in showing strength and economic power, shaping the idea of the city enclosed in his walls, like it’s still perceivable in medieval cities. Hellenistic monarchies were based on wars and then promoted fortified architectures with a prominent semantic value, in which high visibility, magnitude, and spatial organization played a key role. The aim of this paper is to regard if these considerations are valid for some Greek cities in Sicily during the Agathokles Age. It seems that on the island, between the end of the 4th and the beginning of the 3rd century BC, the construction of massive defensive systems became propaganda of the sovereign’s presence on the whole territory: both in Syracuse, as in Selinunte and Agrigento, placed at the borders of the kingdom territories. Gli studi sull’architettura e l’urbanistica in età ellenistica mostrano un quadro eterogeneo nel quale, tuttavia, in molte città riescono a riconoscersi i caratteri di una ricercata composizione scenografica degli spazi, unita a una spiccata monumentalità. La visibilità della città si dimostra una condizione rilevante e le fortificazioni ebbero un ruolo centrale nel testimoniare la capacità bellica e il potere economico delle comunità civiche, dando corpo all’immagine simbolica della città racchiusa nelle sue mura che riusciva a esprimersi con una forza simbolica assimilabile a quanto ancora oggi noi riusciamo a percepire nella forma delle città medievali. Le monarchie ellenistiche, fondate sulla guerra, promossero architetture fortificate funzionali alla gestione militare dei territori, sulle quali si esprimeva con forza la retorica del potere monarchico. Queste architetture erano dotate di un forte valore semantico, espresso attraverso la visibilità, la grandezza e l’organizzazione spaziale che si dimostrano anche i caratteri chiave per la comprensione degli sviluppi poliorcetici e della tecnologia militare. In questo contributo si tenta di comprendere quanto queste considerazioni possano essere valide per alcune poleis in Sicilia, negli anni della monarchia esercitata da Agatocle. Nell’isola, tra la fine del IV e il III secolo a.C., è possibile interpretare la realizzazione di imponenti sistemi difensivi nell’ottica della propaganda reale espressa in tutto il territorio, a Siracusa così come a Selinunte e Agrigento, poste ai confini del regno. Keywords: fortificazioni ellenistiche; architettura militare; Sicilia; Agatocle; Siracusa; Selinunte; Agrigento Dalla fine del V sec. a.C., e in maniera più definita durante il IV e tutta l’età ellenistica, le pòleis assunsero caratteristiche differenti e svilupparono funzioni che segnano il passaggio da forme d’insediamento autarchico a sistemi urbani polifunzionali, spesso parte di regni dinastici o riuniti in federazioni sovrapoleiche a carattere militare1. Le città di quest’epoca sembrano potersi interpretare come organismi complessi, deputati ad assolvere funzioni di gestione economica delle risorse e difesa del territorio. Questo nuovo ruolo delle comunità cittadine si manifesta anche nella crescita architettonica e

nella monumentalità delle aree pubbliche e trova una cifra comune di espressione nella realizzazione di complesse scenografie urbane nelle quali la visione d’insieme si afferma come la caratteristica che più di altre gioca un ruolo primario nel formare l’immagine della città, carica di valori di propaganda e significati simbolici2. Alcuni di questi fenomeni sono riconoscibili nelle regioni governate dalla dinastia Ecatomnide che gestisce il potere sul modello espressivo consolidato della regalità orientale e che organizza un sistema centrale in grado di amministrare 2 Un quadro dello sviluppo urbano e dell’architettura nel IV sec. a.C., nel contesto di regni e federazioni, è in Lippolis - Rocco 2011, 286–314. Il tema dell’architettura e della pianificazione scenografica delle città occidentali sono oggetto di un recente convegno, i cui atti sono pubblicati in Livadiotti et alii 2018. Sul tema anche Caliò 2012.

Per una discussione sui modelli urbani e sulle relazioni tra gli aspetti sociali, funzionali e architettonici delle città greche in età arcaica e classica, Caliò 2012.

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Davide Falco

Fig. 14.1. Piante dei centri cittadini di a) Cnido; b) Kos; c) Rodi (Rielaborazione di Adam 1982 e Lippolis - Rocco 2011).

soprattutto, la forza militare - prerogativa della basileia - costituiscono un insieme d’ideali valorizzati attraverso l’urbanistica e l’architettura dei maggiori centri e diffusi tramite le immagini monetali: in questo sistema basato sulla visibilità e caratterizzato dall’onnipresenza della guerra6 le fortificazioni, in particolare, si caricano di un alto valore semantico che porterà all’identificazione della città come spazio costruito, finito e chiuso tra le sue mura7. Le mura sono il segno tangibile della presenza della città: elemento forte di caratterizzazione, in esse si materializza il senso d’indipendenza, sicurezza e autonomia della comunità, ma dalla solidità delle mura dipendono anche le risorse economiche della città che, privata della sua cinta muraria, sembra perdere concretezza e, di fatto, la sua identità politica8. Da un punto di vista teorico la centralità del dibattito riguardante la difesa della città può essere colto anche attraverso la lettura di fonti di diverso genere letterario, tuttavia, sulla base delle esperienze maturate, il pensiero greco sulla guerra si fece concetto autonomo di riflessione e fu oggetto di studio di carattere tecnico: dalla metà del IV fino al II sec. a.C. gli autori di trattati di arte militare come Enea Tattico e Filone di Bisanzio definiscono un modello empirico di città nella quale spazi pubblici, abitato e mura diventano elementi di una struttura complessa. La fortificazione e la sua forma vincolano l’aspetto e la disposizione degli spazi interni9

territori vasti, la cui presenza si fa tangibile anche - e soprattutto - attraverso l’attività edilizia3: la visibilità e l’organizzazione spaziale sono la cifra stilistica di una città di fondazione come Alicarnasso, ma peculiarità architettoniche assimilabili sono riscontrabili a Cnido e Priene, o nelle vicine Kos e Rodi (Fig. 14.1). Nella Grecia continentale, le dinamiche riscontrabili lungo la costa e nell’immediato retroterra mircoasiatico mostrano caratteristiche per alcuni versi assimilabili: nella prassi di gestione del territorio per la presenza di leghe a carattere militare; nella crescita monumentale delle architetture cittadine per l’influenza esercitata dall’Atene di Pericle e dal definitivo affermarsi della dinastia macedone, che utilizzò le città come palcoscenico della propaganda dinastica. Con le conquiste di Alessandro, il mondo greco dilatò i suoi confini, ponendosi in una nuova prospettiva di riferimento e scambio culturale con i territori raggiunti dal suo esercito: fu soprattutto per il tramite delle fondazioni più importanti derivate da quelle conquiste che l’immagine e il modello urbano della pòlis definitivamente incontrò la concezione orientale del potere dinastico, gestito dai rapporti sociali, dal controllo dell’esercito e dal possesso di risorse economiche non comuni alle esperienze di governo cittadino fino ad allora conosciute dalle esperienze politiche greche4. Con Alessandro si afferma la figura del dinasta, posto al centro di un sistema di potere che interviene in maniera diretta sulla forma delle città5. Il diritto di successione, l’esibizione della ricchezza e,

6 La definizione “ubiquitous war” si deve ad A. Chaniotis. Chaniotis 2005, 2. 7 A tal riguardo i riferimenti sono in Caliò 2012a e Caliò 2014. 8 Le funzioni attribuite all’architettura da U. Eco (2008, 202–206) aiutano a comprendere il significato semantico delle difese cittadine in una società, quella ellenistica, nella quale la guerra, combattuta in modo nuovo e con inusitata violenza direttamente sulle mura, caratterizzò la formazione e la sopravvivenza stessa di regni e leghe, determinando un nuovo modello culturale/interpretativo nel quale la fortificazione urbana denota una funzione e insieme un’ideologia della funzione. 9 L’inserimento di ampi spazi non edificati nel circuito murario ci informa di una percezione nuova e, se si vuole, anche allargata della città. Sulle fortificazioni in generale: Marsden 1969; Winter 1971; Garlan 1974; Lawrence 1979; Adam 1982.

Lo studio di I. Pimouguet-Pédarros sulle fortificazioni in Caria restituisce l’immagine di un paesaggio militarizzato, figurabile nelle imponenti cinte urbane e nell’incastellamento progressivo dei territori. Pimouguet Pédarros 2000. Sulle fortificazioni nell’area egea e sul ruolo delle monarchie, McNicoll 1997. 4 Carattere di eccezione avevano le esperienze di governo a carattere tirannico. Lippolis - Rocco 2011, 122–126. Nel mondo antico i modelli di pòlis non sono univoci: è possibile riconoscere nel sistema una comunità organizzata in virtù di leggi e usanze, tuttavia l’eterogeneità legislativa e i costumi sociali e religiosi rendono labili i tentativi di circoscrivere il perimetro semantico del termine. Caliò 2012, 32–37. 5 Si veda diffusamente Lippolis - Rocco 2011, 358–399. 3

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Il paesaggio fortificato

Fig. 14.2. a) Antiochia sull’Oronte, planimetria; b) Siracusa, indicazione del circuito murario (Rielaborazione di Lippolis Rocco 2011 e Adam 1982).

culturale che reinterpretando il topos della rivalità grecibarbari celebrava l’autonomia delle comunità civiche in un regno unitario, stringendole in un vincolo diretto con l’autorità centrale per mezzo di una fitta rete di relazioni in seno alle città stesse11. Gli indirizzi di questa politica mirata al livellamento delle città greche e indigene formalmente libere di fronte al basileus potrebbero aver avuto una conseguenza diretta nella ripresa dell’attività dell’edilizia pubblica in Sicilia, espressa nella realizzazione di teatri12, agorai e, soprattutto, fortificazioni: queste, tra le opere più rappresentative e necessarie al presidio dei territori del regno, soprattutto nelle zone limitanee, rappresentano la testimonianza concreta della volontà del sovrano di propagandare un messaggio comune, componendo il paesaggio attraverso le forme dell’architettura militare13. Si attribuiscono ad Agatocle sistemazioni e ammodernamenti sui sistemi fortificati di Siracusa, Selinunte, Gela, Eloro, Camarina, Leontini, Megara Iblea, Segesta e, forse in maniera significativa, anche ad Agrigento. Tra questi, gli esempi più importanti che consentono di percepire il ruolo delle fortificazioni come strumento di propaganda e marcatori del territorio sono certamente le fortificazioni di Siracusa e Selinunte, per l’imponenza dei resti e per i dati derivati dagli approfonditi studi dell’Istituto

anche in virtù delle mutate necessità tattiche, al fine di una migliore difesa che coinvolgeva le aree urbane, legando fortificazioni e abitato in un organismo composito come percepibile ad Antiochia sull’Oronte, o nella disposizione delle fortificazioni di Siracusa (Fig. 14.2). Per il loro valore tecnico e insieme sociale, i sistemi di difesa, dunque, si pongono tra le principali preoccupazioni dei dinasti ellenistici, i quali si dedicarono alla realizzazione di nuovi impianti o all’ammodernamento di quelli esistenti. In tal senso, come gli Ecatomnidi in Caria, in maniera analoga i Molossi d’Epiro nel III sec. a.C. e, soprattutto, durante il regno di Pirro operano sui loro territori fortificando città e insediamenti posti sulle principali vie di percorrenza regionali, ricorrendo a un sistema e a un paesaggio condiviso che organizza i centri urbani sulla base di un modello comune che diviene impronta inequivocabile della presenza del sovrano10. In questo quadro sommariamente delineato, l’esperienza della monarchia di Agatocle in Sicilia rappresenta un caso interessante per la parabola personale del monarca e per il contesto etnico e geografico nella quelle si esplicitò, seguendo nelle forme comportamentali ed espressive esempi più conosciuti in ambito mediterraneo. Tralasciando le vicende storiche, è tuttavia interessante verificare quanto la possibilità di Agatocle di dichiararsi monarca, imitando in questo Antigono Monoftalmo e Demetrio Poliorcete, derivasse dalle sue imprese militari, ma nell’isola la garanzia dell’unità, condizione necessaria per il mantenimento del potere, passò per una politica

Consolo Langher 1999; Consolo Langher 2000; De Vido 2014. Tra Timoleonte e Ierone II può ascriversi la prima generazione di edifici teatrali in Sicilia. In questi anni, per i quali le fonti (per esempio, Diodoro Siculo, 16, 83.1-3) testimoniano una fase di benessere, crescita demografica e fioritura urbanistica, i teatri, luoghi di riunione a uso politico, marcano fortemente lo spazio urbano esprimendo l’orgoglio cittadino insieme alle agorai, con cui erano spesso in stretto rapporto topografico. Il dibattito sull’architettura teatrale in Sicilia è ancora molto vivo, soprattutto in merito ai temi legati alle cronologie. Un recente inquadramento delle questioni relative ai teatri di Sicilia in età ellenistica in Camera 2017 e Caliò 2017a. 13 Consolo Langher 1999; Caliò 2017. 11

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Il fenomeno è visibile tra gli altri a Elea, Phanote, Dymokastro, Gitane, Byllis, Antigonea, città nelle quali la sistemazione degli impianti difensivi si accompagna a un incremento della monumentalità delle aree pubbliche, dimostrando ancora una volta la centralità dell’architettura quale portatrice attiva di un’ideologia politica. Caliò 2017.

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Fig. 14.3. Siracusa, Castello Eurialo. Prospetto occidentale e sezione est-ovest (Rielaborazione di Beste - Mertens 2015).

rimane un carattere distintivo che fa della capitale del regno un unicum tra le fortificazioni greche antiche. Il legame tra la regalità e il potere militare del dinasta siracusano contribuisce al consolidamento dell’identità delle città ed è sintomatico che i suoi sforzi vengano profusi con maggiore impegno sui confini dei territori contesi ai Cartaginesi. Di fatto, solo l’architettura difensiva di Selinunte, al confine più occidentale del regno, dal punto di vista tecnico e monumentale può essere accostata alle opere di Siracusa. Nell’impianto selinuntino la difesa è disposta in un complesso architettonico distinto dal muro di cinta e dalla porta vera e propria, secondo moderne concezioni poliorcetiche che spostano fisicamente la barriera fuori dalla città (Fig. 14.4). La ricostruzione dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma mostra la complessa struttura composta da un edificio maggiore a tre piani lungo circa m 73 e alto circa m 13. Una torre semicircolare chiudeva a Ovest il lungo edificio centrale, mentre una seconda torre proteggeva l’ingresso protendendosi verso Nord. Le due robuste torri ospitavano macchine d’artiglieria e grazie alla loro configurazione fornivano fuoco di copertura anche ai fianchi della fortificazione che lungo il lato orientale era protetta da avancorpi murari e altre torri. La disposizione delle strutture e le ricostruzioni proposte consentono di restituire l’immagine di un sistema di difesa scenografico nel quale le torri si distinguevano rispetto al massiccio fronte munito per via del colore bianco e lucido riservato agli elementi superiori15.

Archeologico Germanico di Roma. Il sistema difensivo di Siracusa rappresenta un complesso unico e un palinsesto stratigrafico che racchiude tutta l’esperienza poliorcetica greca dalla fine del V sec. a.C. alla conquista romana. La definizione dell’impianto e le prime moderne soluzioni si devono a Dionisio I, mentre sono opera di Agatocle il rafforzamento e l’adeguamento del sistema alle necessità tattiche dovute al progredire delle tecniche d’assedio. L’isola di Ortigia, nucleo originario della città e sede del palazzo di Dionisio, è fortificata con un sistema autonomo, mentre nell’insieme le lunghe mura e il Castello Eurialo si sviluppano molto lontano dalle aree abitate, racchiudendo un territorio ampio che vede nelle fortificazioni sull’altura dell’Epipole il fulcro della difesa complessiva della città. Alla fine del IV sec. a.C. la fortificazione subisce interventi e migliorie dovute ad Agatocle14 che provvide alla sistemazione del c.d. “Bastione delle cinque torri”, un’imponente belostasis la cui struttura è ricostruita come un fronte monumentale, lungo circa 32 m e alto 15 m, a due piani e una terrazza superiore. Davanti al bastione fu realizzato un proteichisma a punta di freccia e si provvide allo scavo del profondo fossato antistante (Fig. 14.3). Un secondo antemurale provvisto di torre fu disposto davanti al Tripylon che immetteva all’interno dell’area fortificata. La complessità del sistema difensivo sull’Epipole lo rende un elemento forte del paesaggio che sovrasta la città e ne caratterizza massivamente l’immagine: la fortezza militarizza il panorama di Siracusa e la sua monumentalità 14

Beste - Mertens 2015.

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Mertens 2003.

Il paesaggio fortificato

Fig. 14.4. a) Selinunte, pianta della città con indicazione del circuito murario; b) Selinunte, Porta Nord: modello ricostruttivo della porta in età agatoclea (Rielaborazione di Mertens 2003).

Ad Agrigento, la ricerca condotta negli ultimi anni dal DICAR - Politecnico di Bari con Università di Catania e in convenzione con l’Ente Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi ha consentito l’acquisizione di nuovi dati, la ridefinizione dell’impianto urbano nei pressi dell’area pubblica centrale e la scoperta del teatro. I nuovi indirizzi di ricerca sull’immagine della città tra il III e il I sec. a.C. e inseriscono Agrigento nella serie di scenografiche realizzazioni urbane che caratterizzano il Mediterraneo di età ellenistica16 e, in virtù di questa nuova consapevolezza, si è ritenuto opportuno procedere alla rilettura dell’impianto di fortificazione17. Lo studio condotto su Porta VI e Porta VII consente alcune osservazioni sugli elementi caratteristici di questi impianti cui si farà un brevissimo accenno. Il sistema di Porta VI consiste in uno sbarramento a difesa di una valletta percorsa sul fondo da una strada che immetteva nel tessuto urbano dell’antica città sul versante occidentale. Le strutture conservate non sono di semplice lettura per il sovrapporsi di più fasi e per la mancanza di un rilievo interpretativo che consenta una comprensione corretta delle evidenze (Fig. 14.5a). Sul lato nord-occidentale una struttura a gradoni, lunga quasi 30 m, ha funzione difensiva e di terrazzamento per il pianoro sovrastante, fornendo un’ampia e solida base per l’alloggiamento di artiglieria di difesa. L’accesso sembra configurarsi con un massiccio corpo centrale di forma rettangolare (lunghezza circa m 33; larghezza m 12,5) con accesso frontale protetto da uno sperone a gradoni che si collega alla cortina muraria che prosegue lungo il declivio occidentale di Poggio Meta, modesto rilievo che caratterizza nei pressi della porta. Un aiuto alla comprensione di Porta VI si riscontra nell’assetto di fine IV-inizio III sec. a.C. della

porta nord di Segesta, alla cui sistemazione potrebbe aver contribuito Agatocle in occasione della nuova definizione della città, da lui rinominata Dikaiopolis, operazione, questa, dal forte significato propagandistico18. L’esempio segestano si dimostra interessante nella disposizione degli elementi principali, nelle ragioni strategiche e negli esiti architettonici, poiché, fermo restando le monumentali realizzazioni di Selinunte e Siracusa, la medesima ratio e le prassi organizzative di questi sistemi sono ravvisabili qui come ad Agrigento. A Porta VII lo stato di conservazione delle strutture è assai scarso, ma il sistema nella sua interezza offre spunti interpretativi per le caratteristiche poliorcetiche. Il complesso si sviluppa su una serie di terrazzamenti che gestiscono a quote diverse l’area compresa tra le strutture a monte e un bastione avanzato, posto a circa 100 m dall’accesso della porta. Il sistema delle terrazze, disposte con orientamenti divergenti, risponde alla necessità tattiche di fiancheggiamento e tiro radente, secondo i principi della poliorcetica ellenistica espressi da Filone di Bisanzio19. Il bastione realizzato a valle, in opera isodoma, si conserva per una considerevole parte (altezza 7 m; lunghezza 15 m; larghezza massima 12,5 m, minima 9 m), ma non è al momento possibile ricostruire interamente la sua configurazione (Fig. 14.5b). Lo spalto non era opera isolata, come oggi appare, per la presenza rilevata da P. Marconi di una struttura muraria lunga circa 31 m che lo fiancheggiava20. Una soluzione interpretabile come belostasis provvista di muri laterali che trova confronto con il proteichisma realizzato da Agatocle sulla terrazza del Tripylon a Siracusa. In Sicilia, dunque, alcune soluzioni sembrano indicare la scelta di Agatocle nella predisposizione di sistemi pratici, economici e Bruno Sunseri 2000. Sconfienza 2003 (con bibliografia). 20 Marconi 1930, 31. 18

Caliò et alii 2017. 17 Falco 2018. 16

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Fig. 14.5. a) Agrigento, Porta VI. Vista da Ovest delle strutture al termine dello scavo (Rielaborazione della documentazione 2006 Ente Parco Valle dei Templi); b) Agrigento, Porta VII. Vista da Sud-Ovest dei resti del bastione (Fotografia di A. Fino).

funzionali alla difesa di quei territori che, conquistati ai Cartaginesi, divennero la base concreta della sua basileia. L’uso di terrazze a sostegno di terrapieni per macchine da guerra viste a Porta VI e Porta VII si riscontra in Sicilia proprio con Agatocle, ma si osserva anche in Magna Grecia e sulla costa orientale dell’Adriatico, fornendo ulteriori spunti alle interpretazioni che sostengono una koinè architettonica occidentale che accomuna Sicilia, Magna Grecia ed Epiro21. In questo panorama nel III

sec. a.C. si assiste alla maturazione di una progettazione degli spazi che associa all’architettura monumentale la valorizzazione dell’elemento naturale e le fortificazioni e in questo processo svolgono un ruolo attivo. Agrigento è un esempio di questa concezione degli spazi, con le possenti terrazze che valorizzano il complesso civile nei pressi del teatro e le imponenti difese di Porta VI e VII, la cui visibilità era valorizzata dal dialogo costante tra elemento artificiale e naturale che ancora trova eco nelle descrizioni di Polibio (9, 27. 3-6) e Virgilio (3, 703–704). La maestosa materializzazione della contrapposizione fra dentro e fuori si percepisce lungo il percorso del

Un quadro recente dei temi riguardanti l’architettura è in Caliò - des Courtils 2017.

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Il paesaggio fortificato Caliò, L. M. 2012, Asty. Studi sulla città greca, Roma.

costone roccioso che borda la città a Occidente: qui la mole del banco calcarenitico dal caratteristico colore ocra si poneva come naturale difesa, adeguatamente sfruttata e implementata con sistemi di terrazzamento artificiale che a Porta VII assommavano al notevole salto di quota l’altezza della cortina difensiva e il bastione avanzato per l’artiglieria di difesa.

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La nuova interpretazione del sistema fortificato di Agrigento trova la sua ragione nel contesto generale della città, inserita nel regno di Agatocle all’interno delle dinamiche del Mediterraneo ellenistico. Con l’assunzione del titolo regale le città greche con i centri siculi e sicani erano parte del regno di Agatocle e la sperimentazione e le soluzioni nel campo dell’architettura fortificata possono informarci della realizzazione di un sistema che si misura su ampia scala e che si esprime con monumentalità, visibilità e funzionalità adeguate alla gestione territoriale di un regno del quale si riconosce il modello nel citato caso della Caria e un esempio analogo nei territori fortificati d’Epiro. Qui, come si è accennato, la dinastia dei Molossi organizza il territorio e il controllo delle vie di comunicazione, strutturando una rete di punti fortificati e monumentalizzando i centri più importanti con iniziative che rispondono alle medesime esigenze, in una sorta di storytelling paesaggistico finalizzato alla creazione di un’immagine=identità, riscontrabile in forme assimilabili nella Sicilia di Agatocle. Le soluzioni tecniche, le scelte strategiche e le considerazioni sul generale sviluppo di sistemi analoghi concorrono a rafforzare l’impressione dei forti legami tra le due sponde dell’Adriatico, in quella koinè architettonica nella quale la Sicilia ellenistica gioca un ruolo da protagonista. Osservando la composizione di questi modelli di organizzazione statale della difesa, sembra potersi scorgere in Sicilia la diffusione di una struttura complessa di centri che organizzano la difesa del territorio a cominciare dalle città poste ai suoi confini: Agrigento, definitivamente annessa al regno di Agatocle dopo il 305/304 a.C., diveniva testa di ponte di quel regno e il suo sistema di fortificazione doveva contribuire fisicamente e ideologicamente - a restituire l’immagine e il modello espressivo di una città legata al suo sovrano.

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15 Scenografie territoriali: complessi forensi e costruzione del paesaggio nell’Hispania alto-imperiale. Alessandro Labriola Politecnico di Bari The early imperial urbanisation of the western provinces of the Roman Empire was accompanied by a deep functional and symbolic transformation of their landscape, in which a key role was played by the forums of the new towns. The preserved forums in the highly representative Spanish context shows a tendency to locate them on elevated spots. This feature marked a clear change from the tradition of republican urban planning, resulting in most cases in the establishment of a visual relationship between these complexes and the surrounding landscape. The visual impact of forums was enhanced by adjoining them to other monumental structures, thus making up impressive “urban scenographies”. Even if the models of these planning solutions can be found in the Roman official architecture and in the provincial capitals, their transposition to the Hispanic cities goes beyond the setting up of a “landscape of power” promoted by the imperial administration, acquiring new meanings as an instrument of self-representation of the local elites. L’urbanizzazione alto-imperiale delle Provincie Occidentali fu accompagnata da una profonda trasformazione funzionale e simbolica del loro paesaggio, nell’ambito della quale un ruolo di primo piano fu attribuito ai fori delle città di nuova fondazione. L’analisi dei complessi forensi noti nel rappresentativo contesto della Penisola Iberica rivela una tendenza generale a prediligere per la loro localizzazione punti prominenti della topografia urbana. Questa caratteristica si discosta nettamente dalla tradizione urbanistica repubblicana, e determinò nella maggior parte dei casi l’instaurazione di uno stretto rapporto visuale tra questi complessi e il paesaggio circostante. L’impatto visivo dei fori era spesso ulteriormente accentuato attraverso l’accostamento a essi di altre strutture monumentali quali gli edifici per spettacoli - andando così a costituire imponenti “scenografie urbane”. Anche se i modelli alla base di queste soluzioni progettuali possono essere individuati nell’architettura ufficiale di Roma e delle capitali provinciali, la loro applicazione nelle città della Hispania non si ridusse alla costruzione di un “paesaggio del potere” promosso dall’amministrazione imperiale, ma assunse nuovi significati legati all’autorappresentazione delle élites locali. Keywords: Roman urbanism; forum; landscape prominence; imperial cult; urbanistica romana; Hispania; foro; prominenza paesaggistica; culto imperiale serie di forze a esso interne, di tipo sociale, economico e culturale. Tuttavia, non è raro che a questo processo concorrano anche forze esterne, quali un’autorità politica capace di introdurre elementi simbolici che ribadiscano il controllo da essa esercitato sul territorio. La coesistenza di forze interne ed esterne caratterizza in maniera particolare le trasformazioni del paesaggio determinate dalla fondazione di un nuovo insediamento. In questi casi, l’urbanistica e l’architettura degli spazi pubblici assumono un ruolo fondamentale, rispecchiando non solo le esigenze funzionali della nuova comunità, ma anche l’ideologia e la volontà di autorappresentazione del potere centrale promotore della fondazione. La stretta interrelazione tra paesaggio, architettura e potere costituisce uno dei caratteri distintivi del processo di urbanizzazione su larga scala che interessò le Provincie Occidentali tra l’inizio del Principato e la fine del I sec. d.C. In questo arco temporale la stabilizzazione della situazione politica e la riorganizzazione augustea delle provincie -

Sin dalla sua comparsa nella cultura europea intorno alla metà del XVI secolo, il concetto di “paesaggio” si differenzia nettamente da quelli apparentemente analoghi di “natura” o “territorio”. Una determinata porzione della superficie terrestre può, infatti, costituire un paesaggio soltanto nel caso in cui sussista una dialettica tra la sua componente oggettiva - ovvero l’insieme degli elementi geografici e naturali in essa presenti - e un soggetto, inteso come individuo o comunità1. Ogni paesaggio va pertanto inteso come il risultato dell’azione umana, limitata al semplice atto dell’osservare2 o comprendente interventi antropici in grado di determinare una trasformazione fisica del territorio. Nella maggior parte dei casi la formazione di un paesaggio scaturisce dall’interazione tra l’ambiente naturale e una Avocat 1982, 334–335. Il legame tra visione umana e paesaggio è esplicito nella definizione di quest’ultimo nel Vocabolario Treccani, come “parte di territorio che si abbraccia con lo sguardo da un punto determinato”.

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Alessandro Labriola che presupponeva un ruolo centrale della civitas quale “structure cellulaire” alla base del sistema amministrativo, fiscale e sociale dell’impero3 - favorirono la fondazione di un gran numero di nuove città e l’attribuzione di una forma urbana a insediamenti esistenti4. Ciò ebbe un impatto particolarmente importante nelle aree che non avevano fatto parte della koiné culturale ellenistica e non erano state interessate - se non in maniera occasionale - dalla colonizzazione romano-repubblicana. La repentina diffusione della città di tipo mediterraneo in territori fino ad allora a essa completamente estranei fu resa possibile solo grazie al ricorso a forme e modelli esterni5, opportunamente adeguati alle esigenze locali e ai paradigmi ideologici imposti dal nuovo regime imperiale. Alcuni degli esiti di questo processo di trasferimento e adattamento di forme urbane sono ben leggibili nell’evoluzione tipologica dello spazio pubblico più emblematico della città romana, ovvero il Foro, tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’età imperiale. Interessanti risultati in tal senso possono scaturire dall’analisi del fenomeno nelle tre provincie romane della Hispania, ovvero in un contesto particolarmente rappresentativo in virtù della sua profonda e precoce “romanizzazione”6. I numerosi complessi forensi noti archeologicamente nella penisola iberica costituiscono, inoltre, un campione di indagine abbastanza ampio da consentire di individuare tendenze di carattere generale e trarre conclusioni estendibili anche ad altre provincie dell’Occidente romano.

afflusso di merci. Le attività di scambio commerciale costituivano, infatti, - accanto a quelle politiche e religiose - una delle principali componenti funzionali di questi spazi. L’edificazione di fori su terreni in pendenza, regolarizzati attraverso opere di sostruzione, rappresenta in questo contesto un’eccezione, limitata a quei casi in cui la topografia urbana non consentiva alternative10. L’analisi dei fori alto-imperiali nella Penisola Iberica rivela una situazione ben diversa: infatti, sui 44 complessi di identificazione certa o molto probabile a oggi noti, solo 7 vennero eretti in pianura, mentre i restanti 37 occuparono siti topograficamente prominenti (Fig. 15.1). Questa condizione non può ritenersi semplicemente una conseguenza della prevalenza nel contesto iberico di insediamenti impiantati su rilievi collinari, dal momento che nella maggior parte dei casi il foro emergeva anche rispetto al tessuto urbano circostante, occupando una posizione acropolica e rivolgendosi verso le principali direttrici di accesso alla città (Fig. 15.2). La costruzione dei fori in punti visivamente dominanti accomuna tanto le città sviluppatesi in continuità con oppida preromani quanto quelle fondate ex nihilo11 e sembrerebbe, pertanto, derivare da una scelta consapevole, piuttosto che costituire l’esito dell’adattamento a sistemi insediativi preesistenti. L’importanza attribuita dai pianificatori antichi alla prominenza visuale del complesso forense traspare anche dal notevole impegno costruttivo destinato alla regolarizzazione della complessa orografia dei siti scelti attraverso le sostruzioni e i terrazzamenti necessari alla definizione di una o più piattaforme artificiali, spesso con esiti altamente scenografici (Fig. 15.3). La localizzazione del foro aveva importanti ripercussioni non solo sulla sua articolazione architettonica, ma anche sul suo inserimento urbano, comportando l’accentuazione dell’autonomia del complesso rispetto agli assi viari circostanti, secondo una tendenza tipica dell’architettura forense di età imperiale12. Infatti, anche quando l’area forense ricadeva all’interno dei limiti determinati dalla maglia viaria, i salti di quota prodotti dai terrazzamenti necessari ad ammortizzare la pendenza del suolo finivano per costituire un ostacolo all’intercomunicazione diretta tra il piazzale e le strade circostanti, richiedendo la realizzazione di scalinate, rampe e porte di accesso. Questo allentamento dei legami con il tessuto urbano circostante procedette peraltro di pari passo con il progressivo allontanamento dal foro delle funzioni commerciali, dislocate lungo i principali assi viari13 o in strutture specializzate quali i macella14.

Lo studio dell’urbanismo romano è stato a lungo condizionato dal luogo comune secondo il quale tutte le nuove fondazioni dovessero necessariamente adottare uno schema planimetrico ortogonale, in cui il Foro occupava il centro geometrico dello spazio urbano, coincidente con l’incrocio tra il Cardo e il Decumano Massimo7. In realtà, la ricerca archeologica sulle colonie repubblicane nella penisola italica restituisce una maggiore varietà di soluzioni, con numerose deviazioni da questo schema teorico dettate dalla necessità di adattarsi ai condizionamenti determinati dall’orografia del sito e da assi viari preesistenti8. A prescindere dall’impianto urbano adottato, è comunque possibile riconoscere alcuni criteri ricorrenti alla base della localizzazione dei complessi forensi: nella maggior parte dei casi essi sorsero infatti in siti pianeggianti, in rapporto diretto con un asse viario principale - di solito coincidente con il tratto urbano di una strada di lunga percorrenza9. Queste caratteristiche sembrano trovare giustificazione nella necessità di ottimizzare l’accessibilità pedonale e carrabile dei fori, al fine di consentirvi un agevole

Etxebarria 2008, 79. Particolarmente significativo appare il caso di Clunia, per la cui fondazione in epoca tiberiana venne scelto - nonostante la sicurezza militare della regione e l’ampia disponibilità di terreni pianeggianti - un sito di altura, peraltro non coincidente con quello dell’oppidum preromano di Cluniaco. Camacho 2014, 6–7. 12 Martin 1972, 912–915. 13 Ad esempio, nelle tabernae disposte lungo il cosiddetto “decumano massimo” di Capara (Cerrillo 2014, 28–29), o in quelle ricavate sul fronte esterno delle sostruzioni dei fori di Tarraco (Mar et alii 2015, 255–258) e Contributa Iulia (Mateos et alii 2014, 116). 14 Sui macella noti in Hispania, si vedano: Torrecilla 2007a; Torrecilla 2007b; Morena et alii 2012, 29–37. Oltre alle attestazioni della tipologia citate in queste pubblicazioni, si segnalano gli edifici interpretabili come macella recentemente scavati ad Arucci/Turobriga (Bermejo - Campos 2009, 188) e Contributa Iulia (Mateos et alii 2009, 75–79). 10 11

Corbier 1991, 629–630. Mar 1997, 145. 5 Gros - Torelli 2007, 271–274. 6 Si veda a riguardo Torelli 1997, 99–100. Per una sintesi sui problemi legati al termine moderno di “romanizzazione”, Curchin 2004, 8–14. 7 Termini mutuati dalla tecnica agrimensoria romana, ma privi di attestazioni antiche in ambito urbanistico, Lackner 2008, 227–228, nota 111. 8 Lackner 2008, 227–231. 9 Etxebarria 2008, 41. 3 4

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Scenografie territoriali

Fig. 15.1. Principali complessi forensi noti nella penisola iberica, con indicazione della loro localizzazione topografica.

Fig. 15.2. Relazione topografica tra il foro di Termes (A) e il suo intorno paesaggistico. Vista da Sud (Fotografia dell’autore).

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Fig. 15.3. Sezioni ricostruttive dei fori di Sagunto, Bilbilis e Termes.

Le caratteristiche sopra descritte paiono indicare una profonda mutazione del significato della tipologia forense all’inizio del Principato: quella che nelle città dell’Italia repubblicana costituiva soprattutto la piazza principale della città sembra infatti assumere sempre più le connotazioni di un recinto chiuso, assimilabile al temenos di un santuario. Il parallelismo con l’architettura religiosa appare evidente anche nella tendenza a edificare i fori sui punti più elevati dello spazio urbano, identificabili con gli excelsissimi loci che secondo Vitruvio sarebbero da riservare ai Capitolia e ai templi dedicati alle divinità tutelari della città15. Studi recenti16 hanno contribuito a mettere in discussione il postulato secondo il quale la venerazione della Triade Capitolina aveva nelle fondazioni imperiali nelle provincie la stessa centralità attribuitagli nelle deduzioni di epoca repubblicana in Italia17, nelle quali la replica del principale culto ufficiale di Roma era fondamentale per ribadire il legame delle nuove città con la madrepatria. Le testimonianze archeologiche ed epigrafiche sembrano piuttosto evidenziare come già nel corso del principato di Augusto il ruolo poliadico e identitario precedentemente associato ai Capitolia fosse stato assunto in gran parte delle città - in Hispania e non solo18 - dal culto imperiale19, che trovava proprio nel foro una delle

sue sedi principali. A differenza di quanto riscontrabile in Italia e in altre provincie20, nella penisola iberica mancano attestazioni certe21 di templi forensi direttamente dedicati a un membro della famiglia imperiale. Tuttavia, in molti dei fori ispanici noti la celebrazione della casa regnante attraverso l’esposizione di imagines di membri della Domus Augusta permeava profondamente tutte le componenti del complesso, non limitandosi all’area sacra, ma interessando anche la basilica22, la curia23, gli ambienti affacciati sui portici perimetrali24 e il piazzale stesso25. Proprio in questo profondo legame tra culto imperiale e tipologia forense è, dunque, possibile individuare uno dei fattori alla base dell’evoluzione di quest’ultima verso forme e soluzioni tipiche dell’architettura sacra, tra le quali si annovera la prominenza topografica riscontrabile in molti dei complessi noti in Hispania. Un’ulteriore e non meno rilevante implicazione della costruzione di fori in siti elevati risiedeva nell’instaurazione 20 Si pensi ai templi forensi di Pola e Vienne (Hänlein Schäfer 1985, 17– 19, 149–56 e 244–46), alla Maison Carrée di Nimes (Amy - Gros 1979, 177–194) e al tempio di Roma e Augusto nel Foro Vecchio di Leptis Magna (Livadiotti - Rocco 2005, 230–235). 21 Ovvero supportate in maniera univoca dalle fonti. Ciononostante, sono molti i templi forensi per i quali è stata proposta un’attribuzione al culto imperiale, quali quelli di Barcino (Étienne 1958, 219), Augusta Emerita (Saquete - Álvarez 2007, 398–399) e Conimbriga (Alarcão - Étienne 1977, 28). 22 Gruppi dinastici erano esposti, per esempio, nelle basiliche di Segobriga (Noguera 2014, 1584) e Baelo Claudia (Álvarez et alii 2013, 69–70). 23 Si pensi alla figura imperiale velato capite che presiedeva la curia di Carthago Nova (Ruiz - Miquel 2003, 272–278). 24 Si vedano le tabernae 7, 8 e 9 del foro di Clunia. Palol - Guitart 2000, 70–79. 25 Come nel caso del gruppo scultoreo giulio-claudio nel piazzale del foro di Segobriga. Noguera 2014, 1582–1583.

Vitruvio, De architectura, 1, 7, 1. Crawley Quinn - Wilson 2013. 17 Sul culto capitolino nell’Italia repubblicana, Lackner 2008, 247–249. 18 Con la significativa eccezione dell’Africa, dove la grande diffusione di Capitolia tra l’età adrianea e severiana pare derivare dall’associazione nel contesto locale della figura imperiale a Giove Ottimo Massimo. Crawley Quinn - Wilson 2013, 150–167. 19 Sulla diffusione e le caratteristiche del culto imperiale si rimanda a Hänlein-Schäfer 1985 e Fishwick 2005. Per il contesto iberico, al classico Étienne 1958, vanno aggiunti i contributi contenuti più recenti in Nogales - González 2007. 15 16

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Scenografie territoriali

Fig. 15.4. Veduta da Nord dei principali edifici monumentali della città di Segobriga. A: foro, B: anfiteatro, C: teatro, D: torre ottagonale integrata nella cinta muraria (Fotografia dell’autore).

di rapporti visivi tra essi e una porzione di territorio che andava ben al di là dei limiti disegnati dalla cinta muraria, tramutando questi monumenti in landmark in grado di determinare una profonda trasformazione fisica del paesaggio. Il loro impatto risultava ulteriormente amplificato dall’effetto scenografico prodotto dalle sostruzioni, dalla sequenza dei terrazzamenti, nonché dall’eventuale accostamento con altri edifici altamente rappresentativi, primi fra tutti i teatri26. La contiguità tra foro e teatro - pur trovando una giustificazione pratica nel ruolo attribuito a entrambi come tappe delle processioni che animavano le festività dedicate al Princeps27 - appare spesso funzionale anche a rinforzare l’impatto visivo della città sul paesaggio, “mettendo in mostra” le componenti principali del suo apparato monumentale all’interno di una “scenografia urbana” rivolta verso punti significativi del territorio circostante. Questo sembra essere il caso di Bilbilis, dove teatro e foro - collegati da una serie di terrazze intermedie - componevano un unico complesso monumentale28 che dominava il passaggio della strada tra Augusta Emerita e Caesaraugusta. Ancora più significativo è il caso di Segobriga, le cui principali attrezzature pubbliche (foro, teatro, anfiteatro) furono concentrate in uno spazio limitato sul lato settentrionale della collina su cui sorgeva la città - verso il quale confluivano le maggiori vie di accesso - definendo così un fronte monumentale la cui

imponenza appare quasi spropositata rispetto all’effettiva importanza della città29 (Fig. 15.4). La definizione di una scenografia urbana proiettata verso il paesaggio attraverso l’accostamento di uno o più piazzali porticati e di un edificio per spettacoli caratterizza anche i cosiddetti “fori provinciali”30 eretti tra l’età tiberiana e quella flavia nelle capitali delle tre provincie ispaniche. In questo periodo Tarraco e Corduba/Colonia Patricia si dotarono di un complesso monumentale costituito da una sequenza di terrazze digradanti, delle quali la più alta era presieduta da un tempio collegato al culto imperiale. A valle, la composizione terminava con un circo, secondo un modello che sembra discendere dalla sistemazione augustea del tempio di Apollo Palatino e del suo temenos in relazione al Circo Massimo, e che trova riscontri anche in altri contesti provinciali31. Il “foro provinciale” di Tarraco si sviluppò progressivamente tra l’epoca giulio-claudia e quella flavia La predilezione di uno specifico punto di vista nella definizione di una scenografia monumentale trova un interessante parallelo a Munigua, dove non solo tutti i principali complessi pubblici vennero concentrati sul versante est della collina occupata dall’abitato, ma addirittura la cinta muraria venne completata solo nella sua porzione orientale, rimanendo aperta sul lato meno visibile dalle vie di accesso alla città. In questo modo essa perdeva qualsiasi utilità difensiva, rivelando la sua funzione puramente “scenografica”. Schattner 2000, 70–72. 30 La definizione di forum provinciae, assente nelle fonti antiche, costituisce un neologismo ampiamente utilizzato nella letteratura scientifica. Sulle problematiche legate all’uso di questo termine, Trimmlich 1993. 31 Gros 1996, 229–231. L’esistenza anche ad Augusta Emerita - ovvero nella terza capitale provinciale della Hispania - di un complesso di questo tipo può essere ipotizzata sulla base del rinvenimento nei pressi del circo di resti attribuibili a un piazzale porticato. Mateos - Pizzo 2012, 205. 29

I quali, insieme ai fori, costituivano - come suggerito da Tacito (Annales 4, 2) - un luogo privilegiato per tributare onori alle imagines imperiali. 27 Fishwick 2007. 28 Martín-Bueno - Sáenz 2016, 268. 26

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Fig. 15.5. Ricostruzione prospettica del paesaggio urbano di Corduba/Colonia Patricia. A: tempio di Calle Claudio Marcelo, B: circo, C: Forum Novum, D: foro della colonia.

attorno a un grande tempio costruito sul punto più alto della città, identificato32 con il celebre Tempio di Augusto, la cui costruzione fu autorizzata da Tiberio nel 15 d.C.33. Uno schema compositivo simile venne adottato a Corduba nel complesso cui apparteneva il tempio oggi visibile in Calle Claudio Marcelo, datato alla seconda metà del I sec. d.C. e anch’esso interpretato come un forum provinciae34. In questo caso è ancora più evidente l’attenzione a enfatizzare il rapporto tra il monumento e il suo intorno paesaggistico: il recinto sorge, infatti, accanto al principale accesso alla città, in corrispondenza dell’arrivo del tratto della via Augusta proveniente da Tarraco, risultando visibile da una grande distanza e rafforzando l’imago urbis dominata dal grande tempio del Forum Novum di epoca tiberiana (Fig. 15.5). Inoltre, l’area sacra sulla terrazza superiore fu edificata obliterando un tratto della cinta muraria e sovrapponendosi al limite del pomerium35, rivolgendo pertanto le spalle alla città e proiettandosi completamente verso il territorio limitrofo.

ricorrenza di soluzioni analoghe in un ampio contesto geografico può, infatti, essere letta come un indizio dell’esistenza di specifiche linee guida, elaborate a Roma e trasmesse attraverso l’exemplum dei grandi complessi realizzati nelle capitali provinciali con un coinvolgimento diretto del potere centrale, testimoniato dalle fonti letterarie - come nel caso di Tarraco - e dall’impiego massiccio di materiali provenienti da cave di proprietà imperiale, primo fra tutti il marmo lunense36. Tuttavia, è più difficile dimostrare un analogo coinvolgimento dell’amministrazione imperiale nella costruzione dei complessi forensi al di fuori delle capitali provinciali, nei quali l’impiego di materiali locali e le testimonianze epigrafiche rilevano piuttosto un ruolo fondamentale delle élites locali37. La trasformazione del paesaggio introdotta da questi monumenti - pur basandosi su modelli forniti da un’autorità politica dominante - appare, dunque, essere principalmente il risultato di forze interne ai territori interessati, testimoniando lo sforzo di singoli individui e comunità di esplicitare il proprio lealismo verso il nuovo sistema di potere e, soprattutto, di autorappresentare il proprio livello di ricchezza e dignitas attraverso la definizione di complesse scenografie territoriali, in cui mettere in mostra il foro e tutte le altre attrezzature pubbliche imprescindibili per qualsiasi insediamento che volesse ambire allo status di “città”38.

In conclusione, alcune delle caratteristiche dei complessi forensi realizzati in Hispania all’inizio del Principato rivelano una particolare attenzione alla ricerca di effetti scenografici in grado di enfatizzare il ruolo della città e dei suoi monumenti pubblici - primo fra tutti il foro come elemento conformatore del paesaggio. Questa tendenza sembrerebbe potersi inquadrare nell’ambito di un programma coerente di trasformazione territoriale, finalizzato alla definizione di un “paesaggio del potere” strettamente legato alla nuova ideologia imperiale. La

36 Sul ruolo della casa imperiale nella gestione delle cave di Luni e nell’esportazione del materiale impiegato nei grandi cantieri provinciali, Pensabene - Mar 2010, 293–294. 37 Si pensi, solo a titolo di esempio, all’iscrizione dedicatoria in litterae aureae inserita nella pavimentazione del foro di Ituci (Morena et alii, 160–161) o alle epigrafi che ricordano il finanziamento di vari edifici del foro di Munigua da parte di notabili locali (Hauschild 1986, 334). 38 Sui significati simbolici e identitari attribuiti a specifici tipi edilizi nella definizione dell’idea di città tipica della cultura romana, Zanker 2000.

Mar et alii 2015, 362–368. Tacito, Annales, 1, 78. 34 Murillo et alii 2003, 69. 35 Monterroso 2011, 86. 32 33

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16 Italica (Santiponce, Spain) as a Territorial Model: New Data about its Amphitheatre. José David Mendoza Álvarez University of Seville (RNM-162 group) José Manuel Serrano Álvarez University of Antioquia (Colombia) The amphitheatre of Italica (Santiponce, Spain) in particular and the city of Italica in general show themselves as models of Roman landscape transformation. We made a brief tour of Italica pointing out the most important landmarks of a city. We highlight the new contributions to the amphitheatre, thanks to our restitution in which we have distinguished an architectural element of separation between stands that we call ‘intermediate body’, important for the history of the building and resorted by Hadrian for the later amphitheatres. L’anfiteatro di Italica (Santiponce, in Spagna) in particolare e la stessa città in generale sono presentati qui come modelli di trasformazione del paesaggio romano. Abbiamo fatto un breve tour di Italica indicando i punti di riferimento più importanti di questa città, evidenziando, grazie alla nostra restituzione, un distintivo elemento architettonico di separazione tra tribune (il c.d. ‘corpo intermedio’), importante al fine di ricostruire la storia del monumento e perché sarà utilizzato da Adriano per i successivi anfiteatri. Keywords: Italica; Rome; Archaeology; Historiography; Hadrian Introduction

Scipio the African starting from the battles of Carthago Nova (Cartagena, Murcia) and Baecula (Bailén, Jaén), repelling the Carthaginians from 209 to 206 BC until to the direct conflict in Ilipa in 206 BC5. The scipionic Italica had an irregular configuration, with a network of roads adapted to the pre-Roman urban plan, even if in compliance with the standard Hippodamian urban plan of foundation of the Roman colonies6. The site was strategically located, controlling the river and land routes, Scipio having the commercial control of the river routes from the cove of the Guadalquivír (in fact, Italica was considered the first Roman colony in the Iberian Peninsula)7.

Italica (Santiponce, Spain), is located at the foot of the Aljarafe, a group of several hills modified over time, not only by the human factor, but also by the changes of the course of the Guadalquivír River1. Since the protohistoric age (the place has been inhabited since the 8th century BC) the urban landscape shows that it has entered an easily defended strategic enclave, controlling the land routes and the outlet to the sea from the paleoensenada of the Guadalquivír 2. The arrival of the Roans in the Iberian Peninsula during the Second Punic War affected the urban landscape even more, especially after the brilliant victory of Ilipa Magna in 206 BC which led to the installation of a Roman military camp next to the Turdetan village existing in this enclave3. a prelude to the future colony: clearly this is the prelude to the future colony which will be called Italica just for the Roman origin of the veterans of that battle4.

2. Italica promotion and boom Through customer ties, surrender pacts or appropriations for the right of conquest, the Romans controlled and modified the territory of the southern peninsula8, creating large cities located in strategic places of what will later be called Betica, such as, for example, Hispalis and Gades. Augustus granted Italica the civic rank of

1. Roman Interaction with the Italica landscape The Roman entry into the Iberian Peninsula is recorded in classical sources, focusing mainly on the strategies of

5 Polibius, III, 75; X, 38.7–39; L, 12; Titus Livius, XXI, 61; XXVIII, 2.13, 4, 13, 24; Frontinus, I, 3.5; Appianus, Iber., 35. 6 Blázquez 1988, 179; Keay 1997, 183–184. 7 Carriazo 1935, 27; Roldán 1987, 111. 8 Ventura 2008, 60.

Keay - Rodríguez Hidalgo 2010, 43. 2 García y Bellido 1960, 24. 3 Abascal - Espinosa 1989, 27. 4 Pellicer 1998, 146–153; Canto 1999, 148. 1

125

José David Mendoza Álvarez & José Manuel Serrano Álvarez 4. New contributions to the Italica amphitheatre

municipium, starting a new monumental urban project9. Later, at the time of Hadrian it became a full-fledged colony10, expanding to the north in the Hellenistic style typical of Hadrian’s construction11 with the wide streets and buildings, including the amphitheatre: in the new Hadrianic urban revision this was built at the exterior of the northern enlargement of the city (which also had a hellenistic layout), serving as a model for other cities of the Empire.

The amphitheatre is located north of the modern city of Santiponce, in the Hadrianic urban extension with an eastwest direction19. Its end of use and its abandonment would have been conditioned by the wider abandonment of the relative urban sector and by the prohibition of gladiatorial munera at the advent of Christianity, even if it is possible to frequent it up to the 5th century AD20. Its structure stands on two small hills and it is crossed by a large hydraulic engineering work channelling a small stream that led to the Guadalquivír River and protected it, emerging from the building full of mud and sediments. The historical texts have inspired to determine the novelties that we will propose here (Fig. 16.1), because they record the remains of the amphitheatre third body barely visible until the 19th century and definitively destroyed by the works of the Via de la Extremadura21. Since it became known to collect documentary sources on this monument, what was seen at that time today has been confused with the remains that still exist (Fig. 16.2), an error due to the type of collapse of the different levels that would conform aspects similar to those of today due to the mere action of gravity in large areas where the lower vaults and the main walls to the east and west of the building itself began to be dismantled, causing the collapse of the upper levels. However, starting from the 16th century an amphitheatre with many people was represented and thanks to the texts of R. Caro (1634), E. Flórez (1776) and the plans of M. Martí (1711) and the Military Historical Archive (AHM) gave some data to exactly reconstruct the amphitheatre22. Demetrio de los Ríos thought the building elevated from the levels of the arena itself, due to the large filling that existed both inside and out in his day, but it was rectified quickly by his nephew Rodrigo Amador de los Ríos when he pointed out that the north and south tribunae insisted on two small hills23. The digitization of the amphitheatre plans of the Demetrio de los Ríos (Fig. 16.1) made it possible to reconstruct the building by contrasting the details that the historical texts and their illustrations have provided us since the 16th century, establishing parallels such as the amphitheatres of Nimes or Cagliari among others24, considering that Hadrian (for the buildings built during his reign) used the Flavian Amphitheatre as a model, but in turn incorporating a new architectural element that we will call the ‘intermediate body of separation between the stands’. The peculiar engineering of the age of Hadrian leads us to look for architectural parallels in terms of substructures, terraces or arcaded staircases, in the Emperor’s villa at Tivoli25, ensuring that Italica amphitheatre is characterized by a perimetral staircase that crossed the interior of the building, configuring a peculiar façade (Fig.16.3) composed of three attic bodies

3. Problem of abandonment and continuity of the Italica amphitheatre Recent studies, repudiating the old idea of an Italica abandoned in the third century AD, have shown that the amphitheatre remained in use beyond this date: in fact, ceramics and traces of residential use were found as marks of a relocation of the inhabited spaces in the more marginal sectors of the city12. Moreover, the historiography collects milestones that demonstrate demographic continuity in Italica. In 583 Leovigildus, while fighting against Hermenegildus, rebuilt the city walls, dividing the Hadrianic urban extension into two parts at the point where the Traianeum was located13. Subsequently, during the Islamic invasion, we record the existence of a Christian community (responsible for today’s sacred relics) coexisting with a group of Muslims and settled in the Augustan part of Italica14. This Islamic community, in turn, gave birth to illustrious historians, whose names such as Hakam Ibn Isa Al-Baharani Al-Taliqui (965) and Muhammad Ibn Apd Al-Azim Al-Salih (better known as ‘Al-Taliqui’, who died in 940) denounced the origin from Italica15. During the Reconquest and the Repartimiento, the Monasterio de San Isidoro del Campo was established at the beginning of the 14th century on the place where the sacred relics were kept, so the whole area was controlled by the monks16. Later, between 1595 and 160217, the inhabitants of a village called Santiponce, located near the Guadalquivír River, asked the monastery to move their settlement on a hill so as not to be affected by the floods of the river and to grant them the remains: this obtained concession has allowed the uninterrupted use of the site up to the present day. In the reconstruction works the Italica wall remains were reused: in practice, all the Hadrian buildings were dismantled, leaving the amphitheatre very impoverished in its upper levels. Italica was therefore not abandoned, but maintained a small minimum core, calling the ruins ‘Talika’, ‘the fields of Talca’ or ‘Sevilla la Vieja’, until the name Italica was recovered in the 19th century18, causing a general confusion on the abandonment of the ancient city. Rodríguez Hidalgo - Keay 1995, 399. Aulus Gellius, Noct. Att., XVI, 13.4. 11 Morales Cara 2005, 455; Amela 2011, 31. 12 Román 2010, 289–314. 13 García y Bellido 1960. 14 Hübner 1869, 145; Chisvert 1987, 32; Luzón Nogué 2003, 49. 15 García y Bellido 1960, 61. 16 García y Bellido 1960, 21; Canto 1999, 151. 17 García y Bellido 1960, 64; Canto 1986, 48; Keay 1997, 183. 18 Gali Lassaletta1892, XXV-XXXVII. 9

10

De los Ríos 1916a, 381; Luzón Nogué 1976, 170; Chisvert 1987, 282; Roldán 1994, 213; Muñoz Garrido 2002, 246. 20 Bellido Márquez 2009, 36. 21 De los Ríos 1916b, 11; Beltrán Fortes - Rodríguez Hidalgo 2004, 30. 22 Mendoza 2017, 102. 23 De los Ríos 1916a, 383; De los Ríos 1916b, 11; Golvin 1988, 157. 24 Pala 2002, 22. 25 Benedetta 2000, 26–32. 19

126

Italica (Santiponce, Spain) as a Territorial Model

Fig. 16.1. Italica, Amphitheatre. Reconstructive hypothesis: the praecintio of the first tier (I); the inner annular gallery of the middle body (II); the access stairs between galleries (III); the outer annular gallery of the middle body (IV); the external perimeter staircase (V); the stairs leading to the intermediate body (VI); the intermediate body between cavities (VI); the annular galleries of the third body (VIII); the upper porch (IX).

in the east and west parts, where there would be five main entrances on the lower floor, and two more attic bodies in the north and south parts, where the building is partially founded on the hills and would include as many five entrances for symmetry needs. Regarding the third architectural body, we are in the presence of the openings and not real ‘entrances’, for a total of fourteen openings interspersed with closed porticoes that would play with daylight lighting. The east-west main facade have been conceived, in addition to the three orders of columns in

each row of arcades, as a porticoed facade on its lower floor, where the accesses are located: in fact, during the excavations of the facade at the beginning of the 20th century, some column drums and a Corinthian capital carved in all its faces and not attached to any pillar was found, which allow us to reconstruct a colonnade façade of access to the building lower floor26.

26

127

Mendoza 2017, 372.

José David Mendoza Álvarez & José Manuel Serrano Álvarez

Fig. 16.2. Drawings of the Italica amphitheatre by: 1) Wyngaerde (Reworked from Beltrán Fortes - Rodríguez Hidalgo 2004; Bellido 2009; Horses 2010a); 2) Braum and Hegenbergius (Reworked from Braum - Hegenbergius 1588); 3) Cuelvis (Reworked from Horses 2010a); 4) Pérez Bayer (Reworked from Salas 2004; Salas 2007; Bellido, 2009); 5) de Laborde (Reworked from Beltrán Fortes - Rodríguez Hidalgo, 2004); 6) Taylor (Reworked from Salas 2004; Salas 200; Salas 2009); 7) de Robert (Reworked from Canto 1999; Horses 2010a); and 8) Rivers (Reworked from Rivers 1862).

praecinctio. At this point, some archaeological traces, in addition to sources, that have allowed us to establish that the intermediate body maintains a double functionality: 1) the social separation to avoid disturbances (such as those in the Pompeii amphitheatre27), and 2) a more structural function, because the AHM plan shows in this building part some radial and annular vaulted galleries and numerous

As for the interior distribution (Fig. 16.3), we establish a series of annular and radial galleries and many other underground galleries that lead to the bestiary pit, where a total of ten animal cages rise to the arena sand. Then we find an elevated podium, the ima cavea with 8 rows of bleachers for the elite of the city, a first praecinctio, 16 vomitoria that give way to the half cavea, with 14 rows of bleachers for the knights, arranged in cunei with stairs for the distribution of spectators and a second

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128

Cabrero - Cordente 2011, 369.

Italica (Santiponce, Spain) as a Territorial Model

Fig. 16.3. Italica, Amphitheatre. Reconstructive model.

rooms supporting the thrust, the tensions and the rest of the weight of the upper floors of the building. The summa cavea with twenty rows of seats, a third praecintio giving access to the porticus in summa cavea and finally the

terrace from where the canopy would hosted would begin from the intermediate architectural body28. About the inner 28

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Mendoza 2017, 104–108.

José David Mendoza Álvarez & José Manuel Serrano Álvarez

Fig. 16.4. Italica, Amphitheatre. Reconstructive model: (a. top left) the new rooms and the gallery parallel to those under the podium and photographs of the hole for the endoscopic camera; (b. top right) the amphitheatre plans in the 18th century, by M. Martí, E. Flórez; (c. bottom left): restitution of the amphitheatre according to the AHM; (d. bottom right) restitution of the amphitheatre according to the author.

rooms (Fig. 16.4.1), we highlight the two centrals of the ends of the minor axis and next to them Demetrio de los Ríos located a parallel gallery to the one that passed under the podium whithout exit to the ima cavea: so, because he gave a series of rooms, their existence had justified for the use of the service. We demonstrated the existence of one of them, and by symmetry a total of eight (four are listed in each north and south sector), to which we can add that of the ends of the minor axis. Our contribution was made possible by a non-invasive method of work, such as the introduction of an endoscopic camera through the hole caused by the detachment of a brick. In this way we were able to photograph it to demonstrate the existence

of a room where it was believed there were niches29. As for the playful buildings, especially the amphitheatres, in the Hadrian’s age the common denominator is the intermediate body which we have determined as a novelty for the Italica amphitheatre with the double function of supporting the weight and the tensions of the whole building and the social division of the spectators. This block was filled between 15 and 18 meters from the arena level (Fig. 16.1), a fact verified by an exhaustive historiographical investigation30. 29 30

130

Mendoza 2017, 109–114. Mendoza 2017.

Italica (Santiponce, Spain) as a Territorial Model 5. Brief historiographical synthesis and final comments on the Italica amphitheatre

detail33, allowing us to define the height of its inner fill: in fact, arguing that Caro saw an oval building with 65 steps of diameter, we can consider that corresponding to the middle of the base of the current cavea, implying that the building he saw with podium and 20 rows of stands was the intermediate body and not at all the podium, so the third cavea or summa cavea, being the rest of the upper level or the attic destroyed and the lower levels buried (to being exhumed in the second half of the 19th century). A new data emerges from the plan and the elevation draw of the amphitheatre done first by M. Martí in 1711 and later by E. Flórez in 177634. These plans

The abandonment of the amphitheatre meant the clogging of the amphitheatre with more sediments inside than outside, in addition to being gradually dismantled. However, we have drawings showing the Roman building as it appeared during each time period, which has allowed our model reconstruction (Fig. 16.2), such as that in A. Van Den Wyngaerde (1567)31 or G. Braum text (1588)32. Already in the 17th century, Rodrigo Caro described it in great

Fig. 16.5. Italica, the Amphitheatre’s floors: 1) reconstructed first floor based on Golvín plan; 2) reconstructed second floor based on De los Ríos; 3) reconstructed ‘intermediate body’; 4) reconstructed third floor.

31 32

Luzón Nogué 1999, 25; Rodríguez Hidalgo 2010, 22. Rodríguez Hidalgo 2012a, 128; Rodríguez Hidalgo 2012b, 16.

33 34

131

Caro 1634, 110. Flórez 1776, 234–236.

José David Mendoza Álvarez & José Manuel Serrano Álvarez Bellido Márquez, T. 2009, “Panorama historiográfico del anfiteatro de Italica”, in Romula, 8, 33–64.

and drawings show about 15 rows of stands (Fig. 16.4.2 and 16.4.3), a fact that has allowed us to contrast it with the texts of R. Caro from 1634 and with the evidence in situ These plans and drawings show about 15 rows of stands (Fig. 16.4.2 and 16.4.3), a fact that has allowed us to contrast it with the texts of R. Caro from 1634 and with the evidence in situ. Recognizing it as the Roman building in which we have determined part of the structure of the intermediate body at the end of the remains of the half cavea, the Martí and Flórez draws, in addition to their modulation, should be considered as the representation of the intermediate body and of the summa cavea in the 18th century. We also found a new plan35, carried out by the military surveyors (Fig. 16.4.4) and collected in the AHM, allowing us to determine that the supposed podium referred to, which they represent their plant, must be considered the intermediate body that we determine, based on its modulation with respect to the base of the current cavea36. The profile in the AHM plan recontructs a building with 28 rows of stands, so that in our digitalization it allows to restore completely the upper levels. Pérez Bayer, visiting Italica ruins at the end of the 18th century with the artist Asencio Juliá, give us a new representation of the amphitheatre37. At the beginning of the 19th century we find the A. Laborde38, J. Taylor39 and D. Robert drawings40, so the Demetrio de los Ríos watercolour in the middle of the century too, gave us interesting clues regarding the intermediate body and the remains of the third upper body (Fig. 16.2).

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In conclusion, we have to point out that our reconstruction proposes a building highs 35.92 m from the arena level (compared to the 22.46 m proposed by D. de los Ríos41) with a spectator capacity estimated to 2782942. In this way, we can pointing out which plans correspond to each level, recognizing the first floor (although with tweaks that should be established in it) to the images of J.C. Golvín (1988) and J. Beltrán Fortes and J. M. Rodríguez Hidalgo (2004); the second floor would correspond to the one proposed by D. de los Ríos in 1862; the intermediate body would be recorded in the military surveyors plan of the 18th century in the AHM; and finally, about the third body, the M. Martí (1711) and E. Flórez (1776) plans (Fig. 16.5). We restored the building in 2017, proposing an attic architectural body in which the porticus in summa cavea would be established internally.

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133

17 Colonia Augusta Verona Gallieniana: Italia come paesaggio del potere attraverso l’epigrafia imperiale della domus Licinia Augusta (253–268 d.C.). David Serrano Ordozgoiti Universidad Complutense de Madrid This paper proposes a study based on data provided by the Latin epigraphy of Italy and the islands on one of the most important imperial families of the ‘Military anarchy Age’, namely the domus Licinia Augusta (253–268). The representative techniques of the emperors Valerian, Gallienus and their families, Salonina, Valerian the Younger and Saloninus, are analysed through the relative Italic and insular epigraphic corpus. In this way, we can study the most important types and areas as well as to identify two different chronological phases and to underline the importance of citizens in the imperial dedications of that period. Il seguente articolo si propone lo studio, a partire dai dati forniti dall’epigrafia latina italica e insulare, di una delle famiglie imperiali più importanti del periodo dell’anarchia militare, come è il caso della domus Licinia Augusta (253–268). Si esaminano, quindi, le tecniche rappresentative degli imperatori Valeriano, Gallieno e i loro familiari, Salonina, Valeriano il Giovane e Salonino, attraverso l’analisi statistica del loro corpus epigrafico italico e insulare. In questo modo si studiano tipi e aree più importanti oltre a individuare due fasi cronologiche diverse e sottolineare l’importanza delle ciuitates nelle dediche imperiali del periodo. Keywords: epigraphy; imperial self-representation; Valerian; Gallienus; Italy

La domus Licinia Augusta1 è rappresentata nelle provincie italiche al giorno d’oggi tramite ben 125 epigrafi diverse, provenienti dall’Italia2, Sicilia e Sardinia et Corsica. Risulta un numero assai elevato di testimonianze, ancora più alto dei 107 testimoni che troviamo nel Nord d’Africa, e molto di più dei 17 dell’Hispania o dei 21 dell’Oriente. Già soltanto questo dato ci fa vedere come l’impronta della famiglia imperiale di Valeriano e Gallieno sia stata molto più intensa qui, al centro del potere, che nelle provincie periferiche, dominate spesso dal caos delle turbolenze politiche3. Ci troviamo con 13 tipologie di base per questo ampio gruppo di iscrizioni (Fig. 17.1). La categoria più numerosa è quella delle basi di statue, con 40 casi o il 32% del totale, un supporto assai utile

e frequente per mostrare la vicinanza dell’immagine dell’imperatore e della sua famiglia alle comunità locali. La seguente categoria più numerosa è, sorprendentemente, quella delle placche con dediche o menzioni imperiali, con 38 esempi o il 30% del totale. Sono supporti in gran parte più piccoli e maneggevoli, di solito meno utilizzati, ma che in Italia diventano importanti per esprimere l’immagine della famiglia imperiale in modo efficace4. Assieme alla categoria delle basi di statue, rappresentano il 62% del totale delle dediche in Italia ed isole, quasi i 2/3 del totale, il che spiega il fortissimo legame che si crea tra la domus Licinia Augusta e le comunità che fanno le dediche, che ringraziano la famiglia imperiale per la sua generosità, dimostrando il loro indiscutibile sostegno e servizio in caso di necessità. Al contrario, una categoria sottorappresentata nella penisola italiana è quella dei miliari, con nove esempi, pari all’7% del totale, quasi tutti

1 Questo lavoro è finanziato dal Ministerio de Educación, Cultura y Deporte del Regno di Spagna, secondo la Risoluzione del 25 settembre 2017 del bando di concorso per contratti pre-dottorali per la formazione di docenti universitari del 22 dicembre 2016. 2 Incluse le XI regiones divise da Augusto nel 7 d.C. (Plinius, Nat. Hist., III, 46–50): Regio I Latium et Campania; Regio II Apulia et Calabria; Regio III Lucania et Bruttii; Regio IV Samnium; Regio V Picenum; Regio VI Umbria et ager Gallicus; Regio VII Etruria; Regio VIII Aemilia; Regio IX Liguria; Regio X Venetia et Histria; Regio XI Transpadana. Da ultimi: Tibiletti 1965, 25–29; Laurence 1999, 162–176. 3 Nelle Hispanie, ad esempio, dal 261 d.C. si fa notare la presenza dell’usurpatore Marcus Cassianius Latinius Postumus (PIR2 C466; PLRE 720 n. 2; CIL V 2, 328–330), mentre, a Oriente troviamo ben sette usurpatori diversi, fra i quali Macrianus Senior (260–261), Macrianus Iunior (260–261), Quietus (260–261), Ballista (261), Trebellianus (?), Odaenathus (262–267) e Zenobia (267–272). Kienast 1990, 223–230 e 239–244; Drinkwater 1987.

Le caratteristiche di questo tipo di sostegno probabilmente coincidevano con le esigenze delle comunità italiche della metà del III sec. d.C. Dimensioni più piccole e minor uso di pietra sono punti a favore di una maggiore diffusione nell’immagine dell’imperatore in questo formato. Tuttavia, va anche notato che le dediche erano generalmente meno accattivanti e più limitate dove l’immagine dell’imperatore in questione poteva essere in qualche modo messa in ombra dalla grandiosità di altri supporti, quali elementi architettonici o grandi fregi edilizi inscritti. Infine, è anche possibile che il riutilizzo di altre iscrizioni abbia avuto un ruolo importante in questa scelta preferenziale del mezzo.

4

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David Serrano Ordozgoiti

Fig. 17.1. Distribuzione dei tipi delle epigrafi italiche riferibili alla domus Licinia Augusta.

Licinia Augusta in Italia, un vuoto che viene sostituito da altre tipologie forse più versatili per veicolare i suoi messaggi. Il restante 18% circa del totale, quasi 1/5 delle iscrizioni, è collocato su supporti di varie dimensioni e finalità9. La varietà e la molteplicità dei supporti ci parla della diversità di portata rappresentativa: maggiore e più efficace in termini di altari, blocchi e bassorilievi, fatti per una continua esposizione pubblica, e molto più limitata o addirittura inesistente in altri supporti, spesso per uso privato o anche, alcuni di essi, come le fistulae, invisibili in condizioni normali. Per quanto riguarda la dispersione dei reperti nelle provincie italiche (Fig. 17.2), si può apprezzare come essi siano specialmente concentrati in due zone particolari. Dall’epicentro di Roma-Ostia, lungo le vie Amerina e Flaminia, verso nord, si distribuiscono tutta una serie di civitates in Etruria (VII) e in Umbria (VI), che conservano dediche e omaggi all’imperatore Gallieno e alla sua famiglia. Verso sud-est, invece, lungo le strade Appia e Latina fino a Nola, ci sono molte altre città con dediche alla casa imperiale. Altre due aree rilevanti, ma meno importanti per numero di reperti, sono pure significative per la domus Licinia Augusta. La prima è la parte settentrionale della penisola, la pianura padana, segnata qua e là da importanti città fortificate, come Verona, Tortona, Milano, Padova e Aquilea. L’altra area rilevante è l’isola di Sardegna, dove troviamo un gran numero di iscrizioni, per lo più miliari, che indicano una presenza

provenienti dalla Sardegna5. I legami con l’esercito, che si vedono in altre realtà epigrafiche contemporanee6, non spiegano qui lo scarso numero di miliari trovati, anche se è possibile che la loro assenza sia dovuta di più alla carenza di investimenti in infrastrutture stradali tra il 253 e il 268 che a un’improvvisa mancanza di fiducia delle unità militari sul territorio italico7. Anche il contributo epigrafico attraverso gli elementi architettonici è molto scarso, con soli cinque casi o il 4% del totale8, una percentuale estremamente bassa anche rispetto ad altre realtà geografiche contemporanee, il che spiegherebbe in parte il grande volume di iscrizioni su placche, che sostituiscono i costosissimi investimenti edilizi. Strade ed edifici pubblici occupano, quindi, un secondo posto nell’auto-rappresentazione della domus 5 In totale, fino a 8 miliari (89%) provengono da varie località sarde. Soltanto una miliario proviene da Padova: “Imp(erator) [Caes(ar) P(ublius) Lic(inius)]/ Egnati[us Gallienus]/ Pi[us] Fel(ix) Aug(ustus) [pont(ifex)]/ max(imus) t[r(ibunicia)] p(otestate) [III] / p(ater) p(atriae) co(n)s(ul) II p[roco(n)s(ul)]”. EDCS 5401262 = CIL V, 8009 = (Basso 1986, n. 66) = EDR 171412. 6 Come, per esempio, succede nelle provincie nordafricane. 7 L’Italia settentrionale mantiene una forte presenza militare e le città investono molto nelle infrastrutture difensive per far fronte alle aggressioni dei popoli barbari del nord, da un lato, e degli usurpatori della Gallia, dall’altro. 8 Fra i quali due architravi provenienti da Marino (EDCS 8900830 = (De Rossi 1979, n. 327) = AE 1979, 127 = EDR 77296) e Verona (EDCS 4202375 = CIL V, 3329 = ILS 544 = (Buonopane 2008, 125–36) = (Horster 2001, 340) = AE 1965, 113 = AE 2008, 264 = EDR 94052), una colonna originaria di Atina (EDCS 20400844 = CIL X, 5053 = (Mancini 2012, n. 104) = EDR 151565), la Porta Esquilina di Roma (EDCS 17600760 = CIL VI, 1106 = CIL XI, *279 = ILS 548 = AE 1992, 78 = EDR 110641), e, infine, una tegola dipinta trovata a Roma e datata nel 266 d.C. (EDCS 16000350 y 33000090 = AE 1935, 149 = ICUR VII, 20335 = (Carletti 2008, n. 20) = EDB 11693).

9 Fra i quali un altare (1%), quattro blocchi (3%), un bassorilievo (1%), tre tabulae patronatus (2%), un diploma militare (1%), un registro collegiale (1%), una fistula aquaria (1%), otto anfore (6%) e due frammenti (2%).

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Fig. 17.2. Mappa di dispersione delle epigrafi italiche riferibili alla domus Licinia Augusta (Rielaborazione di Google Earth).

consistente della famiglia imperiale, forse legata allo sviluppo delle infrastrutture stradali e ad altri miglioramenti necessari per le varie comunità dell’isola a metà del terzo secolo. Quasi la metà delle epigrafi totali (44%) proviene unicamente da Roma e Latium et Campania (I), che tra loro sommano fino a 55 esempi diversi. Se, inoltre, includiamo le testimonianze dell’Etruria (VII) (17 casi o il 14% del totale), superiamo di gran lunga questa barriera, con 72 epigrafi o il 58% del totale. Tutto ciò conferma come l’area centrale della penisola italiana, in particolare il suo versante tirrenico, risulti essere la zona dove l’immagine della domus Licinia Augusta si manifesta più intensamente in tutta Italia. Anche la Sardegna contribuisce con 13 casi (10%), diventando l’isola con più rappresentazione della famiglia imperiale in tutto il Mediterraneo occidentale.

anche analizzare. Uno di questi è senza dubbio la titolatura imperiale (Fig. 17.3). L’imperatore Valeriano si distingue per i titoli più legati alla tradizione repubblicana, come il Pontifex Maximus (13 casi, 9%), la Tribunicia Potestas (16 casi, 11%), il Consolato (19 casi, 13%) o il Proconsolato (sette casi, 5%), che insieme sommano più di 1/3 del totale dei titoli imperiali. Anche altri titoli più personali, come quello di Pater Patriae (13 casi, 9%), o altri più legati al terzo secolo, come quello di Dominus Noster (15 esempi, 10%), hanno un peso notevole nella sua epigrafia. Infine, nel suo titolo compaiono anche altri titoli molto più rari, come Restitutor publica saecuritas (un caso, 1%) o Conservator libertatis (un esempio, 1%). Gallieno, invece, si distingue per i titoli principali di Pius (27 esempi, 10%), Felix (24 casi, 9%), Invictus (19 casi, 7%) e Augustus (51 casi, 19%), che insieme costituiscono quasi la metà del totale dei titoli (esattamente il 45%). Inoltre, l’imperatore aggiunge al suo avere vari cognomina ex virtute, come Germanicus (12 casi, 4%),

Ma, al di là della distribuzione geografica, l’immagine epigrafica della domus Licinia Augusta in Italia si distingue per altri fattori, a livello di testo, che possiamo 137

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Fig. 17.3. Distribuzione dei titoli imperiali delle epigrafi di Valeriano (sinistra) e Gallieno (destra).

Parthicus (cinque esempi, 2%) e Persicus (un caso, 0%), oltre all’esistenza di altri titoli minori che cercano di esaltare le sue virtù come sovrano, come i titoli di Victor (due esempi, 1%), Princeps (tre casi, 1%) o Sanctus (un esempio, 0%). Infine, Gallieno presenta pure numerosi epiteti speciali, che danno un buon resoconto della varietà delle dediche e delle onorificenze ricevute dal monarca in Italia e confermano il suo speciale legame con le città e le élite della penisola italica. Tra questi epiteti troviamo quelli di Magnus (quattro casi, 1%), Rector Orbis (un caso, 0%), Dominus Terrarum (un caso, 0%), Redintegrator (un caso, 0%), Fortis (un caso, 0%), Indulgens (un esempio, 0%), Benignus (un caso, 0%), Clemens (due esempi, 1%), Exsuperans (un caso, 0%), Protector Imperii Romani (due esempi, 1%) o anche Defensor (un caso, 0%). Si nota, quindi, nella titolatura di Gallieno in Italia un maggiore enfasi sui titoli carismatici, come Pius, Felix o Invictus, da un lato, in linea con una maggiore volontà di sottolineare la devozione e le capacità personali dell’imperatore, sui titoli delle vittorie militari, come Germanicus o Parthicus, e anche sugli epiteti speciali, non presenti in altre provincie, che mettono in evidenza le virtù e le qualità del buon monarca, signore di tutto il mondo conosciuto, fermo difensore dei romani di fronte alle avversità e, allo stesso tempo, generoso e misericordioso verso i propri sudditi. Valeriano, invece, mostra una titolatura più vicina alla tradizione senatoria, con titoli come il pontificato massimo, il potere tribunizio, il consolato o, anche, il proconsolato. Per quanto riguarda, invece, i dedicanti delle epigrafi, apprezziamo come la maggioranza, quasi la metà di essi, sono civitates (57 esempi, 42%). Città come Roma, Ostia, Falerii Novi, Verona e altre di minore importanza si lanciano a sponsorizzare la famiglia imperiale, desiderosi di prebende e benefici, che consentivano loro di affrontare meglio i momenti più difficili della crisi. Sorprendentemente, il secondo gruppo che dedica più iscrizioni è quello privato, con 18

casi, pari al 13% del totale. Il loro numero è il doppio di quello dei militari (nove esempi, 7%) e più numeroso di quello dei politici (otto casi, 6%) e del personale religioso (un esempio, 1%). Sembra che, in Italia, gran parte delle dediche siano eseguite da privati di segno diverso, invece che da grandi comandanti dell’esercito o da posizioni importanti nell’amministrazione imperiale. Questa mobilitazione privata potrebbe essere uno dei segreti dell’elevato numero di iscrizioni che troviamo in relazione alla famiglia imperiale, che darebbe anche indizi sul suo potere e sulla sua portata nella penisola italica. Per quanto riguarda le dediche, come è logico, Gallieno rappresenta 1/4 del totale delle dediche (45 casi, 25%), mentre il padre è presente a malapena nel 9% del totale delle offerte, con soli 16 esempi, una differenza molto elevata tra i due augusti che esemplifica il poco apprezzamento di cui gode Valeriano nella penisola italica durante i sette anni del suo regno. Al contrario, abbiamo l’Augusta Salonina, che con 30 casi e il 16% del totale, gode di un’importanza molto elevata tra le élite italiche, forse in conseguenza di una possibile gestione degli affari dello Stato a Roma e dintorni grazie alla quasi costante assenza del marito Gallieno, spesso occupato nel limes occidentale, e del suocero Valeriano, spesso impegnato nei problemi del limes orientale10. Anche il resto dei membri della famiglia, cioè i figli della coppia imperiale, partecipano alla rappresentazione della famiglia imperiale con il 17% del totale delle iscrizioni: Valeriano il Giovane è rappresentato in 12 esempi (7%), mentre il fratello minore Salonino fa lo stesso in 18 casi (10%), superando, anche per importanza e prestigio, i numeri del nonno

L’ipotesi del governo nell’ombra di Salonina potrebbe anche spiegare la sua costante presenza in gruppi di offerte alla famiglia imperiale in varie civitates italiche, come a Falerii Novi, dove forse l’Augusta sovrintendeva e/o dirigeva le opere pubbliche dedicate alla maggiore gloria della domus Licinia.

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Fig. 17.4. Cronologia delle epigrafi italiche riferibili alla domus Licinia Augusta (in massimo numero di casi possibili per anno).

Valeriano11. Le varie divinità e le loro rappresentazioni assumono un certo rilievo anche nell’epigrafia della domus Licinia Augusta in Italia. Abbiamo un totale di nove esempi (7,2%) di epigrafi associati o correlati al potere imperiale. Una delle divinità più rappresentate è Iuppiter Optimus Maximus, che appare in 2 esempi (22%) provenienti da Roma, che dimostrano la supremazia del dio degli dei e la sua immediata identificazione con il potere. L’altro culto che viene in gran parte promosso è quello della Domus Divina, una forma di culto imperiale che potrebbe includere tutti i membri della Casa Imperiale (coniuge, liberis, genteque eius)12, e che compare qui in ben altri due esempi (22%). Anche altre divinità legate all’esercito e alla forza, come Mars ed Ercole, compaiono in un’occasione (11% ciascuna), mentre altre minori, come il Genius, Honos oppure la Fortuna Redux compaiono pure in un solo esempio ciascuna. Colpiscono, altrettanto, le assenze di altre presunte importanti divinità del pantheon romano dell’epoca13, come Apollo o Sol,

totalmente assenti dal registro epigrafico italico. Si conclude, infine, l’analisi dell’epigrafia italica della domus Licinia Augusta tramite lo studio diacronico delle iscrizioni superstiti14 (Fig. 17.4). Possiamo notare subito un apprezzabile divario nel numero di iscrizioni possibili fra due periodi diversi: nell’arco 253–260, da un lato, e nel periodo 261–268, dall’altro15. Nel governo comune Valeriano-Gallieno la media di epigrafi superstiti è di 48,75, con cime di 59–67 epigrafi negli anni 257–258. Questo alto numero di testimoni coincide in gran parte con l’introduzione nel governo pubblico dei figli di Gallieno, Valeriano il Giovane e Salonino16, prima come Principes Iuventutis e Nobilissimi Caesares17, e poi come Augusti18. Si crea, così, un’immagine dinastica, che si pubblicizza notevolmente in Italia. A partire della cattura di Valeriano19 e la morte dei primogeniti di Gallieno nel 258 e 260, la media di epigrafi scende a 36,5, con un piccolo periodo di 39–49 iscrizioni massimo fra il 264– 265, coincidendo con l’inizio in vita pubblica del figlio minore dell’imperatore, Mariniano, console suffectus nel 26820. Nel periodo autocratico di Gallieno, quindi, la propaganda epigrafica scende visibilmente rispetto al periodo iniziale e si intravede una relativa crisi nella maniera di rappresentarsi dell’intera famiglia in Italia

11 Interessantissima è, pure, l’unica dedicatoria che abbiamo della seconda moglie di Valeriano, Cornelia Gallonia, presente in una placca da Castelsardo (antica Tibula) in Sardinia: “[Pro sal(ute)] et redito et victo/[ria] Imp(eratoris) [C]a[es(aris) Pub]ḷị Licini/ [Valer]iani, Invic̣[ti Pii F]eli(cis)] / [---] et Gaio Marc(---) Fl(---) et/ [Cor]nelie Gallonie/ [Au]g(ustae), coniugi d(omini) n(ostri)/ [P(ubli) Va]leriani, ̣ Invịc ̣ti/ [Pii] Fe(licis) Aug(usti), totius/ [do]mus d(ivinae) eorum. / [Fo] r(tunae?) Redu/c(i).” EDCS 33600036 = SRD 978 = AE 2004, 673 = EDR 155184. Per la discussione: Zucca 2004, 347–370; Girotti 2004, 365–367. 12 La sua prima apparizione nel mondo romano avvenne in un altare dedicato a Tiberio da Nasium (Belgio) e datato all’inizio degli anni ‘30 del I sec. d.C.: “Tib(erio) Caesar[i Aug(usti)] / f(ilio) Augusto et pro / perpetua salute / divinae domus”. EDCS 10601598 = CIL XIII, 4635 = CAG 55, 412. Per una discussione completa del termine e delle sue implicazioni, Cesarano 2015; Fishwick 1987, II.1, 423–435; 2007, 293– 296; Sajkowski 2004, 369–382. 13 In proposito, De Blois 1976, 155–169; De Blois 1989, 77; De Blois 1994, 173–174; Grandvallet 2002, 32–33; De Blois 2006, 275–276; Manders 2012, 283–291; Geiger 2013, 238–245.

14 Per l’elaborazione della grafica si è tenuto in conto il massimo numero d’iscrizioni possibili in ciascun anno, ricordando che un buon numero di queste non è possibile datarle in un determinato anno, ma piuttosto in un arco cronologico più o meno ampio. 15 Da notare, pure, è che i due periodi sono equivalenti nel numero degli anni (otto ciascuno). 16 Per i dati biografici, PIR2, L183-4; RIC V, 1, 116–139; Kienast 1990, 220–222; Peachin 1990, 38–40; Geiger 2013, 78–79; Glas 2014, 63–74. 17 Valeriano il Giovane: 255–257 d.C.; Salonino: 258 d.C. 18 Valeriano il Giovane: 257–258 d.C.; Salonino: 258–260 d.C. 19 Per l’evento, Kienast 1990, 214; Glas 2014, 167–186 e 319–341. 20 Su Mariniano, PIR2, L198; PLRE, 559 n. 1; Kienast 1990, 222; Geiger 2013, 78–79; Glas 2014, 63–74.

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David Serrano Ordozgoiti De Blois, L. 1994, “Traditional Virtues and New Spiritual Qualities in Third Century Views of Empire, Emperorship and Practical Politics”, in Mnemosyne, 47, 2, 166–176.

ed isole; una crisi che, però, è molto più intensa nelle altre provincie dell’Impero21, sicuramente più lontane e abbandonate dal potere centrale. Abbreviazioni AE

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CAG

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CIL

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PIR2

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Si veda, ad esempio, il medesimo fenomeno nelle provincie africane, orientali o d’Hispania.

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Colonia Augusta Verona Gallieniana Tibiletti, G. 1965, “Le regioni augustee e le lingue dell’Italia antica”, in Storie locali dell’Italia romana, I, 25–29. Zucca, R. 2004, “Valeriano e la sua famiglia nell’epigrafia della Sardinia”, in M. G. Bertinelli Angeli - A. Donati (eds), Epigrafia di confine, confine dell’epigrafia. Atti del colloquio AIEGL-Borghesi 2003, 347–370, Faenza.

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18 La talassocrazia minoica al tempo dei Romani. Anna Smeragliuolo Perrotta Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ In the history of the Mediterranean, the power of Minos has extended from Crete to both the East and the West representing, throughout the time, different hegemonic forms and aspirations. While in the Homeric epic he impersonated the aspiration of Knossos inhabitants to be considered Greeks themselves and the most eminent among the Cretans, later he responded to the identity needs of the Greek aristocracies of Asia Minor, living on the borders with Caria, but were said to be originally from Crete: this is the background of ‘Carian’ Herodotus tales, in which the relationship between Minos and Carian people is represented as a pacific one. Then, in the 5th century, the propaganda needs of the Delian league will place the fleet, and not Minos, to rule the Aegean Sea. A new perception of the Aegean and Mediterranean seas, where the Hellenikè thalassa had been incorporated into the Roman mare nostrum, influenced the representation of Minos and the transmission of his mythic talassocracy to historians of the Roman Age. Nella storia del Mediterraneo, il potere di Minosse si è esteso da Creta sia verso oriente sia verso occidente, rappresentando, in epoche diverse, forme ed aspirazioni egemoniche differenti. Se nell’epica omerica Minosse personificò l’aspirazione di Cnosso ad essere considerata una città greca a tutti gli effetti e, nel contempo, la più importante dell’isola di Creta, nei secoli successivi passò a rispondere ai bisogni identitari delle aristocrazie greche dell’Asia Minore, che vivevano ai confini con la Caria ma si dicevano originarie di Creta: questo il background dei racconti del “cario” Erodoto, in cui i legami fra Minosse e le popolazioni carie sono presentati, invece, come pacifici. In seguito, le esigenze propagandistiche della lega delio-attica, nel V secolo a.C., collocheranno la sua flotta, e non Minosse, al comando dell’Egeo. Una nuova percezione dell’Egeo e del Mediterraneo, in cui l’Hellenikè thalassa è incorporata nel mare nostrum dei Romani, influenzerà poi la rappresentazione del re cnossio e, di conseguenza, la trasmissione agli storici di epoca romana del mito della talassocrazia. Keywords: Mediterraneo; Creta; Minosse; talassocrazie; Cnosso

Nella storia greca, l’esperienza umana del mare come elemento di unione fra continenti diversi, luogo di incontro e comunicazione fra popoli, appartenente indistintamente a tutti, cede ben presto il passo alla ‘ragion di stato’, per la prerogativa, altrettanto umana, di distinguerlo, nominarlo e, in definitiva, dominarlo. Non va trascurato che questo avvenne quasi sempre sotto stretta vigilanza di una sfera sacra e intellettuale che aveva elaborato e conosceva cosmogonie dove terra, acqua e cielo erano stati separati e attribuiti al controllo di princìpi cosmici, i cui tratti universali vivevano anche ‘incorporati’ e specificati in figure divine con caratteri più marcatamente poleici, durante i primi secoli dell’Età del Ferro. Ed è quasi a un dio che Erodoto attribuisce la precedenza nel dominio diretto dell’Egeo, prima di assegnarne il primato fra gli uomini a Policrate di Samo: infatti, nel suo terzo libro, lo storico di Alicarnasso specifica che il tiranno samio era stato preceduto almeno da Minosse di Cnosso nell’esercizio del controllo del mare, pur lasciando a intendere che le due figure non potevano considerarsi sullo stesso piano, essendo Policrate un uomo e Minosse, invece, il figlio di

Zeus1. Dopo Erodoto, fu Tucidide il maggiore responsabile del mito antico della talassocrazia minoica2. La relazione di causa-effetto, che Tucidide, per primo3, instaura fra lotta alla pirateria e talassocrazia, possedeva gli elementi necessari per essere ripresa secoli dopo a Roma, durante le campagne contro i pirati, che talvolta ebbero come scenario proprio le acque di Creta: l’ultima di quelle campagne fu guidata da Pompeo nel 67 a.C. e passò alla storia per aver reso ai Romani l’imperium maris (Fig. 18.1). Una nuova percezione dell’Egeo e del Mediterraneo, in cui l’Hellenikè thalassa era ormai stata inglobata nel mare nostrum dei Romani, non poteva non influenzare la rappresentazione del re di Cnosso e la trasmissione del mito della sua talassocrazia presso gli storici di epoca romana. Diodoro, come informa Eusebio4, redasse una Lista delle talassocrazie, la cui fonte originaria fu probabilmente Herodotus. 3, 122, 2. Thuc., 1, 4. 3 Nicolai 2001, 270. 4 Euseb., Chron. 1, 225 Schöne =106–107 Karst (=Diod. 7, 11). 1 2

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Anna Smeragliuolo Perrotta

Fig. 18.1. Venezia, Museo Archeologico. Rilievo da un sarcofago raffigurante una scena di battaglia fra navi. © 2020. Per gentile concessione di DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze.

uno suo contemporaneo, Castore di Rodi5. Effettivamente Castore era ricordato come l’autore di un trattato in due libri sulle talassocrazie6. La lista diodorea, comunque, non parte dai tempi remoti di Minosse: Diodoro sembra così effettuare una scelta coerente con l’obiettivo dichiarato di scrivere una storia universale a partire dai fatti di Troia, epoca cui risale, infatti, anche la prima talassocrazia da lui citata nella lista7. Il primo a proporre che Castore e Diodoro potessero aver dato spazio al tema talassocratico nelle proprie opere per collegarsi all’attualità della guerra di Pompeo contro i pirati è stato, agli inizi del secolo scorso, John L. Myres, che proponeva di far risalire il nucleo originario delle loro liste all’Atene periclea8. Tuttavia, l’esistenza, già nel V sec. a.C., di una o più liste di talassocrazie, che avrebbero ispirato le narrazioni di

Erodoto e Tucidide, per poi confluire, secoli dopo, nella tradizione diodorea, costituisce un’ipotesi verosimile ma indimostrabile, come osservato dal Momigliano9. Invece, possiamo essere alquanto certi che, così come nella Roma cesariana - e ancor di più in quella augustea dopo Azio -, anche nella Grecia della lega delio-attica sia stato vivo un dibattito sul dominio dei mari. È interessante che il sostantivo θαλασσοκρατία non compaia in nessun’opera prima dell’epoca romana: lo ritroviamo in Strabone per la prima volta (1, 3, 2); altrettanto rare e prive di connotati politici sono le attestazioni dell’aggettivo θαλασσοκράτωρ e del verbo θαλασσοκρατεῖν prima di Diodoro Siculo10. Pur senza far cominciare con Minosse la lista delle talassocrazie, Diodoro parla spesso del re di Cnosso e del suo dominio talassocratico nei libri precedenti al VII. Lo storico dichiara di usufrire di fonti cretesi

Miller 1971, 129. Suid. s.v. “Κάστωρ Ῥόδιος”. 7 Cordiano 2012, 43–44. 8 Myres 1906, 84–131. 5 6

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Momigliano 1944, 1–7. Bianco 2015, 97–110.

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La talassocrazia minoica al tempo dei Romani libro20. L’orientamento della Bibliotheca, se sia stato a favore di Cesare o di Pompeo, è ancora molto discusso, ma per il punto di vista con cui Diodoro descrive le imprese colonizzatrici nell’Egeo sarei portata a propendere per una simpatia verso Pompeo. Non sono gli eroi dei tempi moderni ad essere descritti come gli antichi, ma gli eroi del passato, nel nostro caso Minosse e Radamante, che vanno ad anticipare le gesta dei protagonisti del presente. Nella storia del Mediterraneo il potere di Minosse si era esteso da Creta verso Oriente ed Occidente per rappresentare in ogni tempo diverse forme e aspirazioni egemoniche: se nell’epica omerica impersonificò l’aspirazione dei Cnossî ad essere primi fra i Cretesi e greci fra i Greci21, nei secoli successivi rispose alle esigenze identitarie delle aristocrazie greche d’Asia minore che vivevano ai confini con la Caria ma si dicevano originarie di Creta22: questo il retroterra dei racconti del “cario” Erodoto, che presentò come pacifico il rapporto fra Minosse e i sudditi carî23. Le esigenze propagandistiche della lega delio-attica nel V secolo metteranno poi la flotta più che Minosse a dominare l’Egeo. Quando Arthur Evans iniziò gli scavi a Creta, in un’Europa dominata da grandi potenze marittime, le fonti di V sec. a. C. e le notizie di Diodoro vennero interpretate come la prova di una reale colonizzazione minoica, antica e nobile legittimazione del colonialismo europeo24. All’archeologia venne assegnato il compito di verificare sul campo la tradizione, per accumulare le prove di un sistema coloniale minoico esteso in tutto l’Egeo: ad oriente fino ai confini con la Caria, ad occidente oltre il Peloponneso, fino in Italia. Bisognerà aspettare il secondo dopoguerra, affinché una nuova visione critica ispiri l’archeologia egea a comprendere la reale influenza di Creta durante l’Età del Bronzo. E questa rappresenta davvero un’altra cosa rispetto al mito della talassocrazia minoica, un mito che riguarda meno Creta rispetto a quanto racconta, invece, di tutti gli abitanti del Mediterraneo, di ieri come di oggi.

(Epimenide, Dosiade, Sosicrate, Laostenida11), ma nella sua opera si evidenziano interferenze lagidi che avevano cronologicamente subordinato il figlio di Zeus a Sesostris nel dominio del Mediterraneo12: del resto il modello egemonico di Alessandro era stato quello dei grandi faraoni egiziani che lo avevano preceduto, non quello di Minosse13. Nel libro V, il ‘libro delle isole’, in cui Diodoro parla diffusamente di Minosse, lo storico dichiara, diversamente da Tucidide, che fu il fratello del re di Cnosso, Radamante, colui che punì i pirati dell’Egeo14. La talassocrazia minoica in Diodoro viene più strettamente collegata al discorso della fondazione di colonie cretesi nelle Cicladi e lungo le coste dell’Asia minore. Nonostante lo stato frammentario in cui ci è giunta la Bibliotheca, è possibile individuare il modello coloniale che Diodoro ha in mente mentre scrive, a patto che si prenda in esame un passo alla volta, senza pretendere di estendere il modello individuato nel singolo caso a tutta l’opera. In questa sede, si propone l’analisi del passaggio in cui è descritta Kárpathos, l’isola situata fra Creta a Rodi: ὴν δὲ Κάρπαθον πρῶτοι μὲν ᾤκησαν τῶν μετὰ Μίνω τινὲς συστρατευσαμένων, καθ’ ὃν χρόνον ἐθαλαττοκράτησε πρῶτος τῶν Ἑλλήνων· ὕστερον δὲ πολλαῖς γενεαῖς Ἴοκλος ὁ Δημολέοντος, Ἀργεῖος ὢν τὸ γένος, κατά τι λόγιον ἀποικίαν ἀπέστειλεν εἰς τὴν Κάρπαθον15. L’uso della voce verbale συστρατευσαμένων è pregnante: gli uomini di Minosse appaiono come dei veterani cui spetta la distribuzione di terre, dopo l’attività nell’esercito. Del resto, il problema del rapporto fra la terra e i soldati sembra un tema ricorrente nella Bibliotheca. Minosse, che Tucidide aveva definito οἰκιστὴς πρῶτος16, poteva essere considerato come qualcuno che, sebbene investito di un potere con caratteristiche diverse da quelle dei triumviri coloniae deducendae17, avesse in qualche modo anticipato e risolto un problema attuale: la distribuzione delle terre ai soldati. Un problema così pressante da spingere Pompeo verso Cesare che, divenuto console, secondo gli accordi previsti dal primo triumvirato, emanò leggi a favore dei veterani nel 59 a.C.18. Serena Bianchetti ha messo bene in evidenza come Diodoro, nei primi libri della sua opera, voglia costruire il Mediterraneo come il “theatre stage setting” dell’imperialismo romano19 e descrivere la mappa del mondo enfatizzando l’operazione civilizzatrice della conquista dei territori da parte di antichi re ed eroi, preparandosi a raccontare la conquista del mondo da parte di Roma nei libri successivi: in questo senso si deve interpretare anche la presenza di Minosse alla fine del V

Si spera, con questo breve intervento, di aver dato uno spunto ulteriore alla rilettura e interpretazione delle testimonianze su Creta minoica, in particolare del passo diodoreo proposto, che mi sembra giochi a favore dell’operazione di riabilitazione del lavoro sulle fonti da parte dello storico di Agirio, che sta avendo luogo in questi anni da parte di più ricercatori. Bibliografia Baurain, C. 1991, “Minos et la thalassocratie minoenne. Réflexions historiographiques sur la naissance d’un mythe”, in R. Laffineur - L. Basch (eds), Thalassa. L’Égée préhistorique et la mer (Aegaeum 7), Liège, 255–266. Bianchetti, S. 2018, “Ethno-geography as a key to interpreting historical leaders and their expansionist policies in Diodoros”, in L.I. Hau - A. Meeus - B.

Diod., 5, 80. Diod., 1, 61, 3, e 97, 5. 13 Federico 2004, 151–172. 14 Diod., 5, 79. 15 Diod. ,5, 54, 4. 16 Thuc., 1, 4. 17 Per la traduzione di “οἰκισταί con triumviri coloniae deducendae”, App., Civ., 1, 24. 18 Per il ruolo di Pompeo nell’opera diodorea, Westall 2018, 91–127. 19 Bianchetti 2018, 410. 11

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Diod., 5, 78–79. Hom., Il., 2, 645–52. Federico 2008, 22. 22 Ragone 1996, 915–921.c. 23 Herodotus, 1, 171. 24 Baurain 1991, 255–266. 20 21

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Anna Smeragliuolo Perrotta Sheridan (eds), Diodoros of Sicily. Historiographical Theory and Practice in the Bibliotheke, Leuven - Paris - Bristol, 407–427. Bianco, E. 2015, “Thalassokratia: un concetto molti nomi”, in Historika 5, 97–110. Cordiano, G. 2012, Diodoro Siculo. Biblioteca storica. Libri VI-VII-VIII. Commento storico, Milano. Federico, E. 2004, “Sesostris prima di Minosse. Talassocrazie mitiche e propaganda lagide nell’Egeo”, in StClOr, 50, 151–172. Federico, E. 2008, “Rethinking the Minoan Past”, in E. Federico (ed.), ΚΡΗΤΙΚΑΙ ΔΙΑΦΩΝΙΑΙ. Studi su Creta antica, Capri, 11–33. Miller, M. 1971, The Thalassocracies, Albany. Momigliano, A. 1944, “Sea-power in greek thought”, in Classical Review, 58, 1–7 = Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma, 1960, 57–67. Myres, J. L. 1906, “On the ‘List of thalassocracies’ in Eusebius”, in JHS, 26, 84–131. Nicolai, R. 2001, “Thucydides’ Archaeology between epic and oral traditions”, in N. Luraghi (ed.), The Historian’s Craft in the Age of Herodotus, Oxford, 263–285. Ragone, G. 1996, “La Ionia, l’Asia Minore, Cipro”, in S. Settis (ed.), I Greci, II. 1, Torino, 903–944. Westall, R. 2018, “In Praise of Pompeius: Re-reading the Bibliotheke Historike”, in L.I. Hau - A. Meeus - B. Sheridan (eds), Diodoros of Sicily. Historiographical Theory and Practice in the Bibliotheke, Leuven - Paris - Bristol, 91–127.

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19 Terrecotte architettoniche dalla Passoliera (Caulonia): nuovi spunti di riflessione. Greta Balzanelli Università degli Studi di Pisa / Scuola Archeologica Italiana di Atene This paper aims at presenting some recent results - part of my PhD Project entitled “Terrecotte architettoniche dalla Passoliera (Caulonia): vecchie acquisizioni e nuove proposte interpretative” - and at offering, in a wider frame, a reconsideration of the sacral landscape of the polis in the archaic period and the role of the suburban Sanctuary of the Passoliera into the chora of Kaulonia. Con questo contributo si propongono i risultati parziali di recenti ricerche - condotte nel corso del progetto di Dottorato dal titolo “Terrecotte architettoniche da Caulonia: analisi dei reperti e proposte di ricostruzione” - che hanno agevolato nuove interpretazioni sul materiale in questione, alla luce di una riconsiderazione del paesaggio sacro della polis in età arcaica e del ruolo della Passoliera nella chora cauloniate. Keywords: Terrecotte architettoniche; Architectural Terracottas; Caulonia; Kaulonía; Architettura Sacra; Magna Grecia; Archeologia Classica; Classical Archaeology; Archeologia della Magna Grecia; Topografia 1. Le aree sacre in età arcaica

mare, inoltre, di circa 200 elementi tra basi e rocchi di colonne ioniche e blocchi di cava grezzi o semi-lavorati, ha indotto gli studiosi a ritenere che nel tratto di costa oggi sommerso dalle acque - compreso tra l’Assi e Punta Stilo, vi fosse o il cantiere di un tempio ionico o un’area di lavorazione di elementi architettonici riferibili all’edilizia sacra1.

La sola area sacra individuata con certezza nella polis achea è quella del ben noto santuario di Punta Stilo. Sono stati, tuttavia, ipotizzati - a partire dagli scavi Orsi di inizio Novecento e in seguito alle indagini più recenti - altri due/tre luoghi a probabile carattere cultuale (Fig. 19.1). L’identificazione di questi è stata prevalentemente basata sul rinvenimento di materiale architettonico riferibile a edifici templari. Si tratta della collina del Faro, situata all’interno del circuito murario e del colle della Passoliera, luogo di culto suburbano. Il ritrovamento in

1.1. Il colle della Passoliera Nel 1916 durante i lavori per l’innesto di una vigna sul colle della Passoliera (Fig. 19.1) - situato, in linea d’aria, a circa 800 m a S/W della cinta muraria di Caulonia fu portato alla luce un consistente gruppo di terrecotte architettoniche rinvenuto all’interno di una fossa di scarico di 6 m x 7 m e profonda 2 m2. Le terrecotte rinvenute furono successivamente spartite tra i Musei di Reggio Calabria e Crotone, dove una parte di esse fu restaurata, rimontata ed esposta. Dei restanti frammenti scavati da Orsi - non utilizzati nell’allestimento museale - soltanto un numero minimo fu conservato nei magazzini del Museo di Reggio. La maggioranza, invece, fu stipata nella cosiddetta ‘intercapedine’, una zona rimasta inaccessibile fino ai lavori di risistemazione che hanno interessato il Museo a partire dal 2009. Le prime notizie riguardanti i reperti vennero preliminarmente edite unitamente ai disegni eseguiti da Rosario Carta - da P. Orsi, in Notizie degli Scavi di Antichità del 1922 e in Caulonia. II Memoria nel 1924.

Fig. 19.1. Pianta di Caulonia con evidenziate le aree sacre (Orsi 1924, in alto a sinistra; Iannelli 2011, in basso a destra).

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Per approfondimenti, da ultimo Medaglia 2002. Orsi 1924, 414.

Greta Balzanelli e, conseguentemente, di proporre una reinterpretazione dei dati e una nuova ipotesi ricostruttiva dei tetti. Come già anticipato, solo due delle cinque coperture costituiscono un sistema di rivestimento completo (B ed E); le restanti appartengono, invece, alla sola decorazione frontonale (A e C) o a quella laterale (D). Si è, tuttavia, ritenuta possibile l’associazione delle sime (A), delle lastre di rivestimento (C) e delle tegole di gronda (D), che ha portato all’individuazione di un solo sistema di copertura, questa volta completo (Fig. 19.3)7. Riassumendo, le terrecotte architettoniche della Passoliera sono state riaccorpate in tre sistemi di rivestimento completi. Il primo è quello costituito dal Tetto B - adesso chiamato Tetto I - datato alla metà del VI secolo a.C.; il secondo, datato tra il terzo e l’ultimo quarto del VI secolo a.C., è il Tetto II, derivato dall’associazione dei tetti A, C e D; l’ultimo, infine, è il Tetto E - adesso Tetto III - cronologicamente inquadrabile tra il 480 e il 470 a.C. (Fig. 19.3).

Nel 1995 F. Barello tornò sull’argomento nel volume Architettura greca a Caulonia. Edilizia monumentale e decorazione architettonica in una città della Magna Grecia. Parte di tale studio, infatti, fu dedicato al materiale rinvenuto alla Passoliera3, che l’autore suddivise in cinque diversi tetti - databili tra l’ultimo quarto del VI secolo e la metà del V secolo a.C. - e contrassegnati dalle lettere A, B, C, D e E/F (Fig. 19.2)4. Si tratta di due sistemi di rivestimento completi - composti da sime e cassette sia laterali che frontonali - (B ed E) e tre incompleti (A, C e D). Il Tetto A è costituito da sime frontonali a cavetto di tipo siceliota ed è datato tra il terzo e l’ultimo quarto del VI secolo a.C. Il Tetto B prevede, appunto, la decorazione sia dei laterali che del frontone dell’edificio ed è datato alla metà del VI secolo a.C. circa. Il Tetto C, datato tra il terzo e l’ultimo quarto del VI secolo a.C., si compone, invece, di lastre di rivestimento pertinenti al geison orizzontale del frontone. Il Tetto D conserva le tegole di gronda dei lati lunghi ed è anch’esso datato tra il terzo e l’ultimo quarto del VI secolo a.C. Il Tetto E, infine, è il più tardo - datato intorno al 480/470 a.C. circa - e si costituisce di sime e cassette, rampanti e laterali. Nel corso della ristrutturazione del Museo e dei depositi di Reggio furono recuperate circa 40 casse contenti materiali riferibili agli scavi condotti da P. Orsi a Caulonia: al Tempio di Punta Stilo e, in quantità superiore, al colle della Passoliera5. Lo studio e l’analisi autoptica dei 326 frammenti inediti6 - contenuti all’interno delle casse riferibili agli scavi orsiani sul colle - ha permesso, per la prima volta, di considerare il nucleo delle terrecotte architettoniche della Passoliera nella loro totalità

1.2. La collina del Faro Un paio di decenni prima - nel 1890 - P. Orsi iniziò, invece, le indagini in quella che riconobbe come - dopo secoli di errate congetture - l’antica Kaulonía. Fin dalla prima indagine di quello stesso anno l’archeologo ritenne che, sulla collina del Faro (Fig. 19.1), dovesse esservi un luogo di culto di età arcaica. I rinvenimenti a supporto di tale ipotesi furono vari, di carattere sia strutturale che materiale. Durante la costruzione del faro, infatti, fu demolita una vecchia torre di guardia che si impostava, in parte, su grossi massi calcarei a loro volta fondamenta di un antico edificio. Lungo le pendici orientali del colle, e sempre in favore della costruzione del suddetto faro, furono, inoltre, distrutte le robuste fondazioni di un terrazzamento antico8, non prima, tuttavia, che Orsi potesse vederle. Tali evidenze,

Fig. 19.2. I tetti A-E della Passoliera. 3 Barello 1995, 65–85. Lo studioso, tuttavia, ha potuto visionare soltanto una minima parte di tali frammenti, quelli appunto custoditi nei magazzini di Reggio Calabria. 4 P. Orsi aveva precedentemente diviso i fittili in sei tetti. I restauratori del Museo di Reggio e F. Barello, tuttavia, hanno ritenuto che i tetti E e F fossero pertinenti a un unico rivestimento. D’ora in avanti ci si riferirà a questo rivestimento in generale come ‘Tetto E’. 5 Le casse furono trasferite al Museo Archeologico di Monasterace Marina, in un momento di poco successivo all’arrivo delle terrecotte identificate e catalogate da F. Barello e già parte del nuovo allestimento museale. 6 Oggetto della mia ricerca dottorale, condotta presso l’Università degli Studi di Pisa.

Fig. 19.3. I tetti della Passoliera: (in alto) la vecchia suddivisione in cinque tetti A-E e (in basso) la nuova proposta ricostruttiva dei tre tetti I-III. La nuova copertura individuata - composta sul frontone di sime rampanti (Tetto A) e lastre a rivestimento del geison orizzontale (Tetto C) e sui lati lunghi di tegole di gronda (Tetto D) - viene denominata ‘Tetto II’. 8 Parte dei blocchi furono reimpiegati nella costruzione del faro. Orsi 1891, 61. 7

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Terrecotte architettoniche dalla Passoliera (Caulonia) unite al rinvenimento di coroplastica votiva e terrecotte architettoniche9, lo indussero a postulare la presenza, sulla sommità del declive, di un tempio o di un piccolo santuario. Le terrecotte architettoniche recuperate sono attribuibili a due diversi sistemi di copertura (Fig. 19.4): un tetto a ‘corna’ (datato alla prima metà del VI secolo a.C.)10 e un tetto di tipo siceliota (datato alla seconda metà del VI secolo a.C.)11. La prima metà del VI secolo a.C. nelle colonie di origine achee è caratterizzata, appunto, da un fenomeno di koinè culturale che si concretizza - in merito alle coperture fittili - con lo sviluppo dei cosiddetti ‘tetti achei’, qualificati grazie all’uso di antefisse ‘a corna’ (o meglio a bocciolo di fiore di loto dischiuso) e di elementi tratti dalla trabeazione dorica. A partire dalla metà del secolo si interrompe la produzione di tali rivestimenti e si diffondono, invece, quelli di tipo siceliota, rielaborati sul finire del secolo e nel corso di quello successivo in forme proprie e originali. Le misure, piuttosto rilevanti, delle lastre di entrambe le coperture ne lasciano supporre la pertinenza a un edificio monumentale. Sembra, dunque, plausibile che il tetto siceliota - più tardo - costituisse il restauro o il rifacimento della precedente copertura del tempio, il tetto acheo. Nei pressi della stessa collina Orsi rinvenne, inoltre, un paio di frammenti di antefisse gorgoniche tardo-arcaiche12 e un’antefissa pentagonale con delfino e delfiniere, datata al V secolo a.C.13. Riprendendo l’ipotesi del roveretano, dunque, è probabile che sulla

collina del Faro vi fosse un tempio principale14 - rivestito nella prima metà del VI secolo a.C. dal tetto di tipo acheo e nella seconda da quello siceliota - ed eventualmente uno o più edifici minori, sacelli o edicole, cui le antefisse dovevano appartenere. 1.3. Il santuario di Punta Stilo Il 18 maggio 1911 Paolo Orsi individuò il celebre tempio dorico di Punta Stilo (Fig. 19.1)15. Alla scoperta seguirono due campagne di scavo - nel 1912 e nel 1913 - nelle quali furono messi in luce lo stilobate del tempio, la grande scalinata a N e il cosiddetto muro d’argine. Nuove indagini furono condotte negli anni ‘60 - sotto la direzione del Soprintendente A. De Franciscis e nella persona di B. Chiartano - e ‘70 - per mano dell’ispettrice E. Tomasello - e, infine, sistematicamente a partire dal 1999 dalla Scuola Normale Superiore, cui si è affiancata, nel 2001, l’Università degli Studi di Pisa. Il tempio, datato intorno alla metà del V secolo a.C.16, è il primo edificio templare della città costruito interamente in pietra, con calcare locale e marmo pario per il tetto17. Si ritiene, tuttavia, che l’area di Punta Stilo fosse a destinazione sacra a partire almeno dal VII secolo a.C.18. Nel corso delle pluriennali indagini che hanno interessato l’area di Punta Stilo si sono rinvenute numerose terrecotte architettoniche, indice, non solo della presenza di tutta una serie di edifici minori, ma anche della maestria e della vitalità delle botteghe coroplaste cauloniati. I sistemi di rivestimento ricostruibili sono circa una decina e coprono un arco cronologico che va dall’inizio del VI alla metà del V secolo a.C.19. I più antichi tra questi sono i sette tetti di tipo acheo-coloniale - un tetto a ‘corna’, uno con elementi della trabeazione dorica, uno del tipo tetto 31 di Delfi, due del tipo tetti 38/39 di Olimpia e due del tipo tetti 37/40 di Olimpia - ai quali seguono almeno due tetti sicelioti e il tetto tardo-arcaico ritenuto pertinente al predecessore del tempio dorico20. L’ultimo è costituito, infine, dalle sime ad anthemion di età classica, riferibili per alcuni al rifacimento del tetto del predecessore del tempio - o, tutt’al più, al primo rivestimento di questo21 - secondo altri, invece, è considerato il rifacimento del tetto marmoreo del tempio22. Conclusioni La situazione delineata si prospetta la stessa per le tre aree sacre della città. Nella prima metà del VI secolo a.C., infatti, gli edifici dei santuari urbani (collina del

Fig. 19.4. I tetti della collina del Faro: (in alto) ricostruzione del tetto a ‘corna’ e (in basso) ricostruzione del tetto siceliota.

Non è noto il culto che doveva esservi praticato. P. Orsi, tuttavia, ipotizzò la dedica a un “Dio dei naviganti”, Poseidone o Apollo Delfinio. Orsi 1916, 779. 15 Orsi 1916, 828. 16 Seconda metà del V sec. a.C. in Barello 1995, 29; Mertens 2006, 416, nota 265. Prima metà del V sec. a.C. - tuttalpiù all’inizio del secondo quarto dello stesso secolo - in Orsi 1916, 874; Parra 2017a, XVI. 17 Barello 1995, 94–97; Mertens 2006, 416–418. 18 Parra 2017b, 4–5. 19 A questi si devono aggiungere il notevole complesso di antefisse gorgoniche cauloniati, alcune antefisse a palmetta e con soggetto mitologico, un gorgoneion di coppo di colmo, vari frammenti di acroteri e kalypteres hegemones e, infine, quattro frammenti di doccioni. 20 Orsi 1916, 862; Barello 1995, 31–36. 21 Barello 1995, 94–97; Mertens 2006, 416–418. 22 Giaccone 2011, 64. 14

Per l’elenco completo dei materiali ivi rinvenuti, Orsi 1891. I tetti ‘a corna’ - così chiamati dalla forma delle antefisse che li caratterizzano - sono peculiari delle colonie achee nella prima metà del VI sec. a.C. (Aversa 1996; Aversa 2012; Aversa 2019; Rescigno 2019). Di tale rivestimento si sono conservati tre frammenti di tegola frontonale con pseudo-antefisse e uno di antefissa. 11 Il rivestimento deriva dall’Isola sia per la forma della sima con cavetto e gocciolatoio tubolare che per i motivi della decorazione pittorica (meandro sul listello superiore; foglie a goccia, nere e rosse, sul cavetto; palmette rovesce a cinque foglie sul listello base). Di tale rivestimento si sono conservati tre frammenti di sima laterale e uno di piattello di gocciolatoio tubolare. 12 Barello 1995, 45, nota 281. 13 Orsi 1891, 64–65; Orsi 1916, 779. 9

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Greta Balzanelli Partendo dalla classificazione di F. De Polignac24, si ritiene che il santuario della Passoliera si configuri come santuario monumentale non urbano e, pertanto, contrapposto a quello monumentale urbano di Punta Stilo. Il carattere di “monumentalità” sarebbe ricavabile non solo dall’evoluzione che lo accomuna alle aree sacre della città, ma anche dal notevole impegno artistico e dalla qualità della manifattura che caratterizza le terrecotte del colle25. I luoghi di culto situati nella chora, infatti, costituivano una sorta di territorial marker attraverso i quali la polis esercitava influenza e controllo anche all’esterno delle proprie mura. Con la loro fondazione, inoltre, si prendeva possesso del territorio circostante26, creando o rafforzando l’identità comunitaria27. Intorno alla metà del VI sec. a.C. e nel corso del successivo, quindi, Caulonia appare come una città indipendente e sufficientemente prospera, in possesso dei mezzi utili, non solo alla progettazione e costruzione di un’area sacra extra-urbana, ma anche al suo mantenimento e rinnovamento.

Faro e Punta Stilo) sono accomunati dall’uso di sistemi di rivestimento di tipo acheo-coloniale (Figg. 19.4–5), in linea, oltretutto, con quel fenomeno di koinè culturale che unisce tutte le poleis achee d’Occidente. Questa fase iniziale non sembra però essere documentata nel santuario suburbano della Passoliera, dove il primo edificio e la sua copertura risalgono alla metà del VI secolo a.C. Superata, dunque, la vicinanza culturale tra le città achee, si sviluppano nuove tipologie di rivestimento, più vicine alle esperienze siceliote (associazione di sime a cavetto e cassette/lastra di rivestimento, sime ad anthemion, ecc.), che, tuttavia, vengono reinterpretate localmente. I primi tetti di tipo siceliota, a Caulonia, sono attestati dentro e fuori le mura: è il caso di alcuni tetti da Punta Stilo (Fig. 19.5), del secondo tetto della Collina del Faro (Fig. 19.4) e del tetto I della Passoliera (Fig. 19.2). Sul finire del VI secolo a.C. le sperimentazioni proseguono e si giunge, così, alla diffusione delle sime ad anthemion, inizialmente ancora legate alla tradizione siciliana del cavetto, poi evolute - nel corso del secolo successivo - nella ‘Calabrian type of sima’23. Sono di questo tipo le coperture del nuovo tempio costruito nel principale santuario della città (Fig. 19.5) - il tempio arcaico di Punta Stilo, predecessore del tempio dorico di V secolo a.C. - e il Tetto II della Passoliera, rifacimento del precedente Tetto I (Figg. 19.2–3). Intorno al 480/470 a.C., infine, quando in città si investe nella costruzione del primo edificio in pietra - il tempio dorico - alla Passoliera si rinnova la decorazione architettonica fittile della struttura templare, realizzando il Tetto III (Fig. 19.2). Sulla base di tali premesse si è, inoltre, cercato di trarre alcune ulteriori considerazioni.

Bibliografia Aversa, G. 1996, “Tetti “con elementi della trabeazione dorica””, in E. Lattanzi - M. T. Iannelli - S. Luppino - C. Sabbione - R. Spadea (eds), I Greci in Occidente. Santuari della Magna Grecia in Calabria, 259–260, Napoli. Aversa, G. 2012, Tetti achei. Terrecotte architettoniche di età arcaica in Magna Grecia, Paestum. Aversa, G. 2019, “Nuove considerazioni per una definizione dell’architettura arcaica degli Achei d’Occidente”, in E. Greco - A. Rizakis (eds), Gli Achei in Grecia e in Magna Grecia: nuove prospettive e nuove scoperte, Atti del Convegno Internazionale, Aighion, 12–13 dicembre 2016, ASAtene suppl., 3, 201–222. Barello, F. 1995, Architettura Greca a Caulonia. Edilizia monumentale e decorazione architettonica in una città della Magna Grecia, Firenze. De Juliis, E. M. 2001, Metaponto, Bari. De Polignac, F. 1984, La naissance de la cité grecque: cultes, espace et société, VIIIe-VIIe siècles avant J.-C., Paris. Giaccone, N. 2011, Le terrecotte architettoniche dal santuario di Punta Stilo a Kaulonia: genesi, problemi, sviluppi, (PhD Diss.) Università degli Studi di Pisa. Iannelli, M. T. 2011, “Caulonia, dalla fondazione al tramonto della città antica”, in L. Droulia - A. D. Rizakis (eds), L’Acaia e l’Italia meridionale. Contatti,

Fig. 19.5. I tetti di Punta Stilo. Dall’alto ricostruzione del tetto acheo-coloniale, del tetto siceliota e del tetto tardoarcaico ad anthemion.

24 De Polignac 1984. L’autore ha suddiviso, infatti, i santuari di Grecia e Magna Grecia in quattro tipi: 1) monumentali urbani; 2) monumentali non urbani; 3) non monumentali peri-urbani e 4) non monumentali del territorio. De Juliis 2001, 84. 25 P. Orsi definì i fittili senza alcuna esitazione come il complesso “più bello e sontuoso di quanti ci ha dato la Calabria”. Orsi 1922, 147. 26 Vallet 1968. 27 De Polignac 1984. Per un approfondimento sul ruolo dei santuari extraurbani del mondo greco d’Occidente e sul rapporto che intercorreva tra questi e la polis, da ultimo Sassu 2018, 129–137.

Shoe 1952, 11, con bibliografia di riferimento; da ultimo anche Barello 1995, 78, nota 485. Tale sima, ancora debitrice della tradizione siceliota, ma alla ricerca di forme originali che nel V sec. a.C. si standardizzeranno, si articola in un ovolo (o kyma reversa) e una fascia piana, entrambi inquadrati, in alto, da una taenia. Le sime laterali si differenziano per la sola presenza delle gronde leonine e le cassette di rivestimento, invece, sono caratterizzate da meandri, singoli o più spesso doppi.

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20 Il paesaggio ʻidillico-sacraleʼ nei ʻmythologische Prachtreliefsʼ. Mariella Cipriani Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ In the ʻmythologische Prachtreliefsʼ the ʻsacral-idyllicʼ landscape appears characterized by natural elements, which are deeply linked to religious buildings: there are trees with large knobby trunks, sparsely distributed leaves and fruits, showing off a symbolic connotation, surrounded by infulae, enriched by ex voto, that are more often put in ʻtemeneʼ, or close to holy buildings. The background is animated by the continuous presence of architectural structures, composed by: pillars; columns topped by craters; altars-bases; statues of gods; shrines; ʻsacred doorsʼ with epistyles; temples with a trabeation and pediment; ʻnaiskoiʼ, as the peculiar hypetral building with baytilos in the centre (on the Colonna relief with Hermaphrodite). In this way, the myth is in a timeless dimension, linked to the sphere of eternity. This paper focus on the landscape’s role in the ʻmythologische Prachtreliefsʼ in relation to the Roman-Campanian painting, that shows points in common with it, making a guess on how these canons were exchanged and spread. Nei ʻmythologische Prachtreliefsʼ il paesaggio appare caratterizzato dalla presenza di elementi naturali, che sono indissolubilmente legati alla presenza di edifici sacri. Alberi di varie specie, dal grosso fusto nodoso, con fronde più o meno rade e frutti, compaiono su quasi tutti i rilievi. Essi assumono una connotazione sacra, cinti da tenie, ornati da attributi o da ex voto, più spesso inseriti in ʻtemeneʼ, oppure vicini ad edifici sacri. Il paesaggio sacrale, che fa da sfondo, è animato dalla continua presenza di strutture architettoniche, costituite da pilastrini, colonne sormontate da crateri, altari-basamenti, statuette di divinità, sacelli, santuari, edicole, ʻporte sacreʼ con epistili, templi con trabeazione e decorazioni frontonali, e ʻnaiskoiʼ, tra cui spicca un peculiare edificio ipetrale con betilo al centro (lastra Colonna con Ermafrodito). Il mito appare, in questo modo, contestualizzato in una dimensione atemporale, ovvero di perenne eternità, qual è quella della sfera sacrale. Lo scopo del presente contributo è quello di indagare la funzione del paesaggio, in relazione alla pittura romano-campana, con cui esso manifesta innegabili punti di contatto, tentando di capire come tali motivi venissero veicolati e diffusi. Keywords: rilievi mitologici di lusso; mito; paesaggio; sfera idillico-sacrale; edifici sacri; strutture architettoniche; alberi sacri Con il nome di ʻmythologische Prachtreliefsʼ28 si vuole indicare una classe di materiali già piuttosto nota alla critica ottocentesca, ma sistematicamente studiata solo dalla fine del secolo scorso. Si tratta di una categoria che si presenta piuttosto coesa e omogenea, per caratteri, dimensioni, tipo di marmo, oltre che per le soluzioni stilistico-formali adottate, e soprattutto per le tematiche rappresentate. Gli esemplari, esigui di numero29 e quasi tutti di provenienza urbana, sono per lo più privi di contesto di rinvenimento, oppure riusati in edifici più tardi30. Essi sono confluiti in importanti collezioni d’antichità, legando così la propria sorte alle vicende

antiquarie di alcune tra le più illustri famiglie nobili romane, come Albani, Doria Pamphilj31, Colonna, Spada, Rondinini e Ludovisi, delle quali spesso le varie ʻserieʼ di rilievi conservano ancora il nome. Tali grandi manufatti, di notevole pregio e qualità artistica, misurano in media 150–170 cm di altezza e 100–120 cm di larghezza. Scolpiti per lo più verticalmente32, rappresentano complessi temi di argomento mitologico con uno o due personaggi, inseriti in un preciso contesto paesistico. Il paesaggio esplica una funzione essenziale nella definizione della specificità dei caratteri dei ʻmythologische Prachtreliefsʼ, rivestendo in essi un’importanza pari a quella dei protagonisti rappresentati sulla scena, in genere ambientata all’aperto. Lo spazio esterno appare ben caratterizzato dalla presenza di elementi naturali,

28 La definizione risale a Lehmann 1996. Tale classe di materiali è stata oggetto di studio della tesi di dottorato di ricerca della scrivente, XXXI ciclo, a.a. 2018–2019, in ʻAntichità classiche e loro fortuna. Archeologia, Filologia e Storiaʼ, presso l’Università degli Studi di Roma ʻTor Vergataʼ. 29 Al momento si conoscono circa venti esemplari integri, raggruppati dalla scrivente in diverse ʻserieʼ. 30 Di qui la difficoltà di un inquadramento cronologico, ipotizzabile solo sulla scorta di confronti stilistici e formali, tra l’età cesariana e adrianea.

Cipriani 2018, 163–181. Fanno eccezione i due rilievi recentemente ritrovati all’Ambasciata degli Stati Uniti di America a Roma (inv. NEPA 051821; inv. NEPA 051822). Cipriani 2020.

31 32

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Mariella Cipriani vegetali, minerali e animali, che appaiono spesso strettamente correlati a edifici sacri dalle fini modanature architettoniche. Alberi di varie specie, dal grosso fusto nodoso, secondo la convenzione figurativa di derivazione tardo-ellenistica, con fronde più o meno rade, rami, foglie e talora frutti resi dettagliatamente, compaiono su quasi tutti i rilievi. Fanno eccezione le due lastre del Museo Capitolino con Endimione dormiente33 e con Perseo che libera Andromeda34, che ne risultano prive, e i due rilievi della ʻserieʼ Rondinini35, in cui prevale piuttosto un’ambientazione palustre, tratteggiata dalla presenza di canne e giunchi, che ritorna anche nel rilievo di Palazzo Spada con Paride ed Enone36. Sullo sfondo degli otto pannelli di quest’ultima ʻserieʼ si alternano alberi di platani, dalla corteccia liscia e dal fogliame polilobato, e ulivi dalle tipiche foglie lanceolate. Nei tre rilievi della collezione Colonna sono, invece, raffigurate querce, dal tronco irregolare e dalle piccole ghiande ovali, mentre sui due rilievi Ludovisi sono prediletti pini, dal fogliame aghiforme. Quasi sempre queste piante si rivestono di sacralità: cinte da infulae fluttuanti, ornate da attributi o da ex voto, inserite in temene inaccessibili per i fedeli37, collocate in prossimità di luoghi di culto o davanti alle immagini della divinità, esse assumono un preciso significato simbolico (Fig. 20.1). In associazione a strutture architettoniche di edifici religiosi, gli alberi fungono da numina, intrisi di presenza divina. Spesso, infatti, disposti accanto a ʻporte sacreʼ, delimitano lo spazio consacrato agli dei, precluso ai mortali (Fig. 20.2). Tale paesaggio bucolico è spesso inserito in un contesto rupestre, dove la roccia compare come riempitivo, costituendo la base d’appoggio delle figure mitiche o la quinta scenografica in cui si svolge l’episodio. Prendono, inoltre, parte alla definizione del paesaggio innumerevoli animali ispirati al mondo reale: cani di varie razze (pastore, da caccia, levriero); un serpente, che sbuca dalla roccia del rilievo Rondinini con personificazione fluviale38; una piccola e variata mandria, composta di due mucche e un toro, del rilievo Spada con Paride ed Eros39 (Fig. 20.3).

Fig. 20.1. Roma, Palazzo Spada. Rilievo con Anfione e Zeto (Fotografia di H. Behrens, Neg. D-DAI-Rom-dig2006.1571).

grottesco ed espressivo Paniskos del rilievo Colonna con Olimpo che suona la syrinx43; il realistico Satiro di una delle due precedentemente nominate lastre Ludovisi44. Le composizioni mitologiche sono anche animate dalla presenza di esseri soprannaturali. Gli dei sono rappresentati per mezzo di immagini aniconiche, oppure da piccole statue di culto: Apollo˗Agyieus, Artemide cacciatrice, Dioniso˗Iacco, Eros, Hermes, Artemide˗Ecate manifestano qui la loro teofania. Personaggi secondari, estrapolati dal thiasos dionisiaco, come Satiri, Menadi, Satirischi, Pan e alcune personificazioni minori completano lo scenario mitico. Il paesaggio d’intonazione ʻidillico˗sacraleʼ è caratterizzato, inoltre, dall’inserimento di varie strutture architettoniche: pilastrini; colonne sormontate da vasi rituali; altari-basamenti ornati da ghirlande a sostegno di piccole statue di divinità; sacelli; santuari; edicole; ʻporte sacreʼ con epistili; templi dalla ricca trabeazione e fini decorazioni frontonali; naiskoi. Tra tutti questi esempi, spicca lo sfondo della lastra Colonna con Ermafrodito ed Eros45 (Fig. 20.4). Nello spazio sacro, delimitato da un recinto murario in opera isodomica, si erge un edificio

Sui ʻrilievi mitologici di lussoʼ abbondano anche le rappresentazioni di esseri mostruosi e fantastici, come il Ketos, lo spaventoso essere marino, ibrido di pesce e rettile, del suddetto rilievo capitolino con Perseo e Andromeda40; Pegaso, lo splendido cavallo alato del rilievo Spada con Bellerofonte41; l’enorme serpente di un altro rilievo, appartenente allo stesso ciclo, che, con le sue poderose spire, avvolge, fino alla morte per soffocamento, il corpo del piccolo Ofelte˗Archemoro42; il Roma, Museo Capitolino, inv. S 503. Cipriani 1996, 197–212. Roma, Museo Capitolino, inv. S 501. Lehmann 1996, 124–127, tavv. 37–38. 35 Roma, Palazzo Rondinini. Cipriani 2019, 183–191. 36 Roma, Palazzo Spada, inv. 407. Lehmann 1996, 78–85, tavv. 27–29; Cipriani 2019, 186, fig. 6. 37 Papini 2011, 204–206. 38 Vedi nota 8. 39 Roma, Palazzo Spada, inv. 409. Lehmann 1996, 72–77, tavv. 24–26. 40 Vedi nota 7. 41 Roma, Palazzo Spada, inv. 404. Lehmann 1996, 25–29, tavv. 5–8. 42 Roma, Palazzo Spada, inv. 408. Lehmann 1996, 57–63, tavv. 16–19. 33 34

43 Roma, Palazzo Colonna - Coffee House. Lehmann 1996, 117–120, tav. 34; Picozzi 2010, 283–286, n. 53 (M. E. Micheli). 44 Vedi nota 5. 45 Roma, Palazzo Colonna - Coffee House. Lehmann 1996, 102–110, tav. 32; Picozzi 2010, 269–274, n. 50 (M. E. Micheli).

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Il paesaggio ʻidillico-sacraleʼ nei ʻmythologische Prachtreliefsʼ

Fig. 20.2. Roma, Palazzo Spada. Rilievo con Adone (Fotografia di H. Behrens, Neg. D-DAI-Rom-dig2006.1545).

Fig. 20.3. Roma, Palazzo Spada. Rilievo con Paride ed Eros (Fotografia di H. Behrens, Neg. D-DAI-Rom-dig2006.1488).

dalla peculiare conformazione. Si tratta di un sacello ipetrale, a pianta circolare su due piani. La parete esterna è scandita sulla fronte da cinque semicolonne ioniche, tra gli intercolumni delle quali tagliano i muri quattro aperture rettangolari, sormontate da clipei. Al centro s’innalza un baitylos di forma conica, con terminazione a punta, al fusto del quale due fiaccole sono saldamente annodate. In posizione quasi centrale nel campo del rilievo compare, inoltre, un vecchio albero nodoso, dal tronco bendato e dalla corteccia ruvida, da cui si dipartono due rami più sottili, uno dei quali, desinente con giovani foglie di quercia e frutti ovoidali, è rivolto verso il sacello, quasi a volerlo proteggere. Lì vicino si eleva una colonna con capitello ionico, sul cui fusto è fissata una fiaccola disposta diagonalmente. Su di essa insiste un cratere dal corpo espanso, con alto coperchio appuntito, che tradisce nei dettagli la derivazione da un prototipo bronzeo: il recipiente presenta un’ansa verticale a volute e un manico orizzontale che si avvolge su se stesso; un piede piccolo; una decorazione con banda baccellata sulla spalla e una cornice a palmette sbalzate sul corpo. Il peculiare edificio, che ricorda per conformazione anulare e per la presenza centrale del betilo un monumento di Cirene46, anche sulla

base di confronti con altre immagini analoghe, potrebbe alludere al culto aniconico di Apollo˗Agyieus47.

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L’episodio mitico appare, in questo modo, contestualizzato in una dimensione atemporale, di perenne eternità, qual è quella della sfera sacra cui esso appartiene. Dunque, quello dei ʻrilievi mitologi di lussoʼ non è mai un paesaggio reale, in quanto i luoghi e gli edifici in essi esibiti, pur essendo ispirati alla realtà, non alludono concretamente ad essa, ma appaiono fissati entro un formulario di genere spesso ricorrente48. Schemi stilizzati ed elementi tipizzati si ripetono, infatti, poco variati, sulle diverse lastre, riproponendo motivi analoghi, fatta eccezione dell’ultimo esempio addotto. Le ambientazioni topografiche, con la rappresentazione dettagliata degli edifici sacri, come, ad esempio, i templi dorici, con la ricca decorazione frontonale e le raffinate modanature architettoniche, vagamente L’edificio ipetrale con betilo trova un preciso riscontro iconografico nel celebre ʻBauernreliefʼ conservato nella Gliptoteca di Monaco (inv. 455) e generalmente datato in età augustea. Hesberg 1986, 7–32, fig. 1; Fuchs 2002, 34–37, n. 8, fig. 11 (età claudia). Anche in ambito pittorico sono attestati betili inseriti in santuari agresti come simbolo aniconico di Apollo, la divinità prediletta da Augusto, come nelle pitture parietali di ʻII tipoʼ provenienti dal Palatino. La Rocca 2008a, 223–242; Hinterhöller˗Klein 2015, figg. 174–175. 48 La Rocca 2008b, 72. 47

Di Filippo et alii 1976, 109–156.

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Mariella Cipriani

Fig. 20.4. Roma, Coffee House di Palazzo Colonna. Dettaglio del rilievo con Ermafrodito ed Eros (Fotografia di P. C. Stueck, Neg. D-DAI-Rom-dig2006.1284).

del rilievo storico romano55. Il paesaggio esplica, in tale classe di manufatti, una funzione analoga a quella esercitata dal contesto ʻidillico-sacraleʼ nella pittura paesaggistica di provenienza romano-campana, con la quale presenta innegabile familiarità. Ritornano, infatti, i medesimi schemi tipologici, costruiti estrapolando dai vari paesaggi i loro elementi essenziali caratterizzanti, a tal punto che in alcuni casi si potrebbe pensare a dei veri e propri “prestiti” dalla pittura (Fig. 20.5)56.

riconducibili a quelli di Nemea e di Troia sulle due lastre Spada con la morte di Ofelte-Archemoro49 e con il ratto del Palladio50, sono prive di realismo, e gli edifici non sono sicuramente riconoscibili, in quanto esenti di caratteri così specifici, da poter essere, in qualche modo, riferiti a contesti reali51. Così, nei ʻrilievi mitologici di lussoʼ, le articolate e scenografiche costruzioni a due piani, rappresentate, per esempio, nel registro superiore del rilievo Spada con Paride ed Enone52, o i templi dorici sui rilievi della stessa “serie”, appena menzionati, non trovano alcun riscontro in architetture reali, se non una lontana parentela con soggetti analoghi, presenti nelle pitture parietali della tarda fase del c.d. ‘III stileʼ pompeiano53. Gli edifici, infatti, rivestono un ruolo simbolico, non funzionale e neppure, come è stato osservato in altri casi, “ideologico”54. Il contesto ideale serve qui unicamente come sfondo per le scene mitologiche e non costituisce affatto un paesaggio c.d. “di tipo architettonico”, come è stato definito quello

Per tanto, il paesaggio nei ʻmythologische Prachtreliefsʼ non è strutturato in maniera coerente e non è portatore di un univoco significato, in quanto tale. Anche qui, come in ambito pittorico, è significativa, invece, la varietas dei singoli caratteri tipici e ricorrenti, che lo compongono, articolati nei topia, citati da Plinio57 e da Vitruvio58, e soprattutto è fondamentale la figura umana, che non abbandona mai la scena e che costituisce il vero soggetto privilegiato della narrazione.

Vedi nota 15. Roma, Palazzo Spada, inv. 406. Lehmann 1996, 64–71, tavv. 20–23. 51 Differente è il caso dei c.d. ʻIkariosreliefsʼ, o delle ʻserieʼ della Triade apollinea. Questi rientrano nella categoria dei c.d. ʻrilievi paesisticiʼ, denominati ʻSchmuckreliefsʼ in Froning 1981. Polito 1994. 52 Vedi nota 9. 53 Hinterhöller˗Klein 2015, 264–281, figg. 315–316. 54 Leach 1988, 223, in riferimento ai pannelli mitologici del lato est dell’Ara Pacis. 49 50

Leach 1988, 261. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 9508. Bragantini - Sampaolo 2009, 224, n. 83. Sulle modalità di trasmissione delle iconografie nel mondo greco e romano e sui diversi media utilizzati per veicolare il repertorio figurativo, in generale Ghedini 1997, 824–837. 57 Plin., Nat., XXXV, 116–117. 58 Vitr., De Arch., VII, 5, 1–4. 55 56

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Il paesaggio ʻidillico-sacraleʼ nei ʻmythologische Prachtreliefsʼ

Fig. 20.5. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Pittura con paesaggio ʻidillico-sacraleʼ (Fotografia dell’autore).

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21 The Sanctuary and its Natural Environment. Silvanus as God of Boundaries in Pannonia. Tibor Grüll University of Pécs Silvanus is considered tutor finium by Horace, and the Corpus Agrimensorum also represents him as a god of boundaries. According to this latter text the properties had three kinds of boundary markers dedicated to Silvanus: S. domesticus protected the property itself; S. agrestis was ‘sacred to shepherds’; and S. orientalis ‘on whose border a sacred grove is placed from which two or more boundaries begin; so the grove itself constitutes a boundary between two or more properties’. In the epigraphs concerning this deity only the domesticus occurs. Cult of Silvanus in Pannonia flourished on the estates around the main cities and legionary camps in the Severan era. These properties were owned by veteran soldiers mostly of Italian origin. Both literary and archaeological evidence record that sacred groves often marked the borders of the estates. The Latin orientalis originates from the verb orior which in this context means the ‘starting point of two or more boundaries’. Considering that the centuriated lands fines often refer to limes-routes, it is plausible that Silvanus Quadruviae can be connected to the otherwise unknown S. orientalis, protector of the estates limites. It is a further question if there are any inscriptions dedicated to Silvanus which could serve as a boundary marker of the estates in Pannonia. Silvano fu considerato un tutor finium da Orazio e pure il Corpus Agrimensorum lo rappresentò come una divinità di confini. Secondo quest’ultimo testo le proprietà terriere erano segnalate da tre tipi di marcatori di confine dedicati a Silvano: Silvanus domesticus proteggeva la proprietà stessa; agrestis era “sacro ai pastori”; e, infine, orientalis, “sulla cui frontiera si colloca un boschetto sacro, da dove iniziano due o più confini; quindi lo stesso boschetto costituisce un confine tra due o più proprietà”. Nelle epigrafi che riguardano questa divinità si riscontra solamente la versione domestica. Nella Pannonia di età severiana il culto di Silvano fiorì nelle tenute intorno alle principali città, nonché ai campi legionari, che erano di proprietà di veterani per lo più di origine italiana. Si è dimostrato, da prove sia letterarie sia archeologiche, che i confini delle tenute erano spesso marcati da boschetti sacri. L’orientalis latino deriva dal verbo orior, che in questo contesto indica “il punto di partenza di due o più confini”. Considerando che i fines delle terre centuriate spesse volte coincidevano con le rotte sul limes, è plausibile che il ben noto Silvanus Quadruviae possa essere connesso al Silvanus orientalis, altrimenti sconosciuto, protettore dei limites delle proprietà. Resta aperta la questione se in Pannonia ci siano o meno iscrizioni dedicate a Silvano che potrebbero aver servito da marcatori dei confini delle tenute. Keywords: history of Roman religion; cult of Silvanus; cult of boundaries; Pannonia; Corpus Agrimensorum god of nature whose name derived from the Latin silva, i.e. “forest”1. This deity was quite popular among the Roman poets, especially in the age of Augustus2. Virgil in the Aeneid brought back the cult of Silvanus to the mythical Pelasgians and called him “god of the fields and the herds”3. Or we can quote Horace’s classic lines from the Epodes: “when autumn has lifted up in the

Research of the role of Silvanus in the pantheon of Roman Pannonia stretches far back into the past. Judging by the extant inscriptions Silvanus was the second most popular deity in Pannonia, preceded only by Jupiter, the arch god of Rome. Although there are still one or two unresolved questions concerning this cult, it has been clarified by now that Silvanus did not originate in the Celtic pantheon, rather it was brought to Pannonia by colonists and soldiers arriving from Italy. At the outset of this talk it is worth establishing a few facts about the cult of Silvanus explored by the researchers of Roman religion in the last century.

Servius, in Eclog., 10.26.1: “Silvanus deus est silvarum” (Silvanus is the god of the forests). 2 Fantham 2009. 3 Vergilius, Aen., 8, 600–602: “Silvano fama est veteres sacrasse Pelasgos,/ arvorum pecorisque deo, lucumque diemque,/ qui primi finis aliquando habuere Latinos” (The tale is that the ancient Pelasgians, who once held/ the Latin borders, dedicated this wood and a festive day/ to Silvanus, god of the fields and the herds. Translated by A. S. Kilne). 1

The Religionswissenschaft from the nineteenth century onwards has emphasized that Silvanus (Fig. 21.1) is the 159

Tibor Grüll his feet. The other iconographic type represents Silvanus as Pan, god of the wild, shepherds and flocks, nature, of mountain wilds, rustic music (represented with syrinx), and companion of the nymphs. He has the hindquarters, legs and horns of a goat, in the same manner as a faun or satyr. At this point I would like to emphasize that these two kinds of Silvani show two aspects of one and the same god: “Silvanus the gardener” represents nature tamed by human activity, while “Silvanus the goat-god” denotes a nature which is wild, indomitable, and unfathomable to humans. Eventually, these are the same nature showing its different faces5. Silvanus had many epithets on the ca. 1100 inscriptions dedicated to him in the Roman Empire. Silvanus frequently stands alone but often accompanied by such general attributives as Deus/Divus, Augustus, Sacer/ Sanctus, Magnus, Invictus, Custos, Salutaris, Restitutor, Conservator and many more besides. On the votive inscriptions Silvanus is associated with almost all gods of the Roman pantheon: Jupiter, Juno, Minerva, Saturnus, Apollo, Pluto, Neptunus, Mercurius, Bacchus, Sol, Luna, Bona Dea, Bonus Eventus, Fatum, Felicitas, Epona, Diana, Hercules etc.6. But Silvanus also had special, so to say “functional” epithets, among which the two most frequent are the Domesticus (“over the house”) and Silvestris/ Silvester (“over the forest”), and occasionally we find Herbarius (“over the herbs”); Messor (“over the harvest”); Saxanus (“over the quarries”); Quadriviae (“over the place where four roads meet”); Anticessor (“who takes the lead / goes ahead”); and Viator (“over the travelers”). The epithet Vilicus is only attested by conjectures and was refuted by Peter F. Dorcey7. It is quite clear that on the basis of these “functional epithets” Silvanus - as a protective god - was active in the sphere of human activities: dwelling, work in nature (agriculture, grazing, quarrying), and change of locality in nature (travel). At this point we have to proceed to the occurrence of Silvanus-inscriptions8. It is a wellknown fact that the cult of Silvanus-as far as we can judge by the number of inscriptions dedicated to him-was most popular in Italy (N=506), the subsequent provinces being Pannonia Superior (N=242); Dacia (N=117); Dalmatia (N=108); and Pannonia Inferior (N=104)9. No other province could even approach these numbers: for instance, in Gallia Narbonensis we find 76 votives to Silvanus10, but in the entire North Africa only 5811; in the three Hispaniae 4412; in the two Germaniae 2413; and in Britannia 3414. Yet a closer look might also be interesting. In Italy, Rome takes the prize with 253 inscriptions, and out of the eleven

Fig. 21.1. Rome, Museo Nazionale Romano, s.n. Silvanus (Photo by the author).

fields his head adorned with mellow fruits, how does he rejoice, while he gathers the grafted pears, and the grape that vies with the purple, with which he may recompense thee, O Priapus, and thee, father Sylvanus, guardian of his boundaries!”4 - to which we will turn back soon. By the second century AD two basic types of representations of Silvanus had become widespread in the Roman Empire from Britain to Africa. The “more civilized” Italian-type Silvanus is a simply dressed bearded man with a pruning knife, with fruits, with a tree branch, and a watchdog at

This pantheistic Silvanus is sometime really named as Pantheus. Fehér 2012; Stilp 2018 (http://archiv.ub.uni-heidelberg.de/propylaeumdok/4179/); North 2005. 6 An interesting list of gods associated with Silvanus from the time of Antoninus Pius: CIL VI 31149 = ILS 4833; CIL VI 31144. 7 Dorcey 1989. 8 Domaszewski 1902. 9 Dészpa 2012; Dzino 2013. 10 “It is obvious that Silvanus was not the Roman rusticorum deus, but an important chthonic deity in Gaul”, who was associated with the Gallic god Sucellus. Häussler 2012,152; also Toulec 1993. 11 Bel Faïda 2004. 12 Muñoz 1981. 13 Klauss 2014. 14 Henig 2003, 41–43 and 80–82. 5

4 Hor. Epod., 2.17–22: “vel cum decorum mitibus pomis caput/ Autumnus agris extulit,/ ut gaudet insitiva decerpens pira/ certantem et uvam purpurae,/ qua muneretur te, Priape, et te, pater/ Silvane, tutor finium”.

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The Sanctuary and its Natural Environment Augustan regions Latium and Campania (regio I) has 61, Venetia and Histria (regio X) has 57 inscriptions. But the distribution of Silvanus-inscriptions is equally interesting in the two Pannoniae, where the majority of epigraphic evidence (N=346) can be found after Italy. Dedications to Silvanus have been unearthed among the capital cities of Pannoniae situated along the Danube: Carnuntum (Petronell, Austria) of Pannonia Superior (N=78), and Aquincum (Óbuda, Hungary) of Pannonia Inferior (N=54)15. As Andreas Mócsy observed 50 years ago, “Although the cult itself is closely connected with agriculture, it was hardly practised in the country; most of the monuments come from the military settlements on the Danube”16. According to the former views Silvanus stood entirely separate from the public cult. He did not have a public temple, festival or holiday dedicated to him. He was never closely connected with public political and urban life, but remained in the care of the individual and the family. This view, which resembles the truth in broad outlines, needs to be supplemented. Silvanus is extremely popular among the poets of the Augustan “golden age” (Vergil, Horace, Ovid, Tibullus, and Propertius). Pliny informs us that in the Forum Romanum near the Temple of Saturnus there was an age-old statue of Silvanus (Plin. NH 15.xx.77). The Arch of Trajan at Beneventum (built between 114–117 AD) has richly sculpted decorations on its two main façades. At the sides it has two basrelief panels: on the outer sides the left-hand one, only partially preserved, depicted the homage of the divinities of the province’s countryside (Liber/Bacchus, Libera/ Ceres, Diana and Silvanus), and the one on the right the founding of provincial colonies. Some representatives of the old school Roman Religionswissenschaft ventured the opinion that these deities represented the province of Pannonia17. And a final observation: there is a fine marble relief depicting Antinous as Silvanus harvesting grapes. Antinous is wearing a pine wreath and the exomis, the Greek tunic fastened over the left shoulder only. He is accompanied by a hound and carries a pruning hook in his raised right hand. The maker’s name is inscribed on the altar in Greek: “Antonianos of Aphrodisias made this”. The relief was found in 1907 in the area of Torre del Padiglione, between Anzio and Lanuvio (today it can be seen at the Palazzo Massimo alle Terme). If Silvanus had been only a rustic god honored individually, Antinous - who was mourned officially throughout the Roman Empire - would have hardly been associated to him.

The majority of his worshippers were simple folk from lower social classes, including slaves and freedmen18. This is the very truth. According to Perinić in Dalmatia and Pannonia only 3% of the honestiores (senators, knights, decurions) participated in the cult of Silvanus. I would like to add just a few remarks to this: in Carnuntum 50% of the inscriptions (N=78) did not bear names, while in Aquincum it was only 11% (N=54). Judging by their names the majority of them were discharged soldiers and their family members (in Carnuntum the dedicants have triple names in 21%, double names in 50%, and single name in 29%; in Aquincum triple names in 11%, double names in 35%, single name in 18%). The dedicators very rarely designate their professions: from Aquincum we know of a priest (sacerdotalis), a lawyer (iuridicus), a moneychanger (nummularius) and a slave (servus). (Most of the peoples bearing a single name could have been slaves, and as it can be judged by the cognomina, many of the double and triple name holders were freedmen.) It can also be observed that only very few women participated in the cult of Silvanus (Carnuntum: 6 inscriptions [7,6%], Aquincum 6 inscriptions [11%])19. I shall now turn to the central point of my lecture. In the vast literature of Roman land-surveyors (Corpus Agrimensorum Romanorum) we can find a text which has never been thoroughly examined in the scholarly literature of the cult of Silvanus. The author of the paragraph containing only seven sentences - is Dolabella, a wellknown name in the literature of agrimensors. The text is as follows20: “Omnis possessio quare Silvanum colit? Quia primus in terram lapidem finalem posuit. Nam omnis possessio tres Silvanos habet. Unus dicitur domesticus, possessioni consecratus. Alter dicitur agrestis, pastoribus consecratus. Tertius dicitur orientalis, cui est in confinio Iucus positus, a quo inter duo pluresue fines oriuntur. Ideoque inter duo pluresue est et Iucus finis”21. At first, we hear of an alternative myth about the origin of boundaries. As we all know, the Roman god of boundaries and landmarks was called Terminus, who was celebrated by the festival of Terminalia throughout the Roman Empire22. In any event, according to Dolabella, who was active in Illyricum under the early years of Tiberius, Silvanus “was the first to establish a boundary stone in the ground”. Then, he describes three types of Silvanus sacred to landholdings (possessiones). The first one, called Domesticus is “sacred to the holding”

The social standing of the worshippers of Silvanus belongs properly to this question. Mócsy has already argued that Silvanus was not particularly important for the social elite. Senators and equites were not among his worshippers, and he was not included in the calendar of the state either.

Herrero 1985. Dorcey 1989a. 20 Ex libris Dolabellae (L 302.1) = Campbell 2000, 222, ll. 10–14. 21 “Why does every landholding worship Silvanus? Because he was the first to establish a boundary stone in the ground. Every holding has three Silvani. One is called domesticus, sacred to the holding; the second is called agrestis, sacred to shepherds; the third is called orientalis, in whose honour a grove was established on the common boundary, from which boundaries between two or more properties originated. So, the grove itself constitutes a boundary between two or more properties”. Translated by B. Campbell. 22 Piccaluga 1974. 18 19

15 For the sake of comparison, the four other important Pannonian towns: Brigetio (27), Scarbantia (8), Vindobona (6), and Savaria (5), Intercisa (4) have significantly fewer Silvanus-inscriptions. The basis of the given numbers: Perinić 2016, 97–123. 16 Mócsy 1974, 252. 17 Rotili 1972; Tomei 1974, 205–212; Simon - Gawlikowski 1981; Torelli 1997, 144–177.

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Tibor Grüll Civita Castellana, Etruria)31; S. Flaviorum (Roma)32; S. Naevianus (Roma)33; and a S. Nervinianus (Cures Sabini/ Passo Corese)34. These Silvani were most probably regarded as personal protectors of the landowners, and the properties bearing their names. Although Peter F. Dorcey is most probably right when denying the existence of a Vilicus epithet of Silvanus35, there is no question that Silvanus was extremely popular among the vilici, i.e. the estate managers36. The Roman countryside villa usually consisted of two main parts: the pars urbana (the main house which served both as a residence of the landowner and his family, and also as a farm management center), and the pars rustica to which the campus (field), ager (arable land), the hortus (garden), the silva (forest) could have been attached. Remarkably, almost every part of the property (possession) had a proper Silvanus. The domus was primarily protected by S. Domesticus, of course, but in Italy he was also known as S. Casanicus (Pietradefusi, regio II)37. The campus was awarded either by S. Campester (Geoagiu?, Dacia)38 or S. Agrestis (Roma)39. Agrestis could also be attached to the ager (i.e. arable land of the property), but here we also find S. Sator, i.e. “sower” (Ulmetum/Pantelimon, Moesia Inferior)40 and S. Messor, i.e. “reaper or harvester” (Danilo Gornje, Dalmatia)41. The saltus or silva can be clearly connected with the protection of S. Silvestris/Silverster, but we also find in Rome an S. Dendrophorus, i.e. “tree-bearer”42. The hortus was also an integral part of the property, and it was dedicated to S. Herbarius (Aquincum/Óbuda, Pannonia Inferior)43. Finally, we have reached the boundary of the property, which was dedicated - according to Dolabella - to the mysterious Silvanus Orientalis44. As I mentioned above, neither have we found as yet any boundary markers dedicated to Silvanus, nor do we know of any epithets reflecting his role as “protector of boundaries”, unless we count a richly decorated altar built in Rome by the senatorial family Papiria and dedicated with a bilingual inscription to Hercules Defensor and Silvanus Custos (Σιλβανῶ φύλακι)45. Notwithstanding, we have some lucky finds which probably hint at the connection with a Silvanus cult with protecting borders. In the ancient Cibalae (Vinkovci, Croatia) in 2007 a fragmentary altar dedicated as Silvanus Domesticus was excavated46. The altar was situated near the exterior wall of the house, that is, in the garden of the

(possessioni consecratus), or, literally, “dedicated/ consecrated to the holding”. The second one, called Agrestis is pastoribus consecratus, i.e. “dedicated/ consecrated to the shepherds”. (Some may think that “dedicated by the shepherds” would accord better with the context, but in that case the Latin text would be a pastoribus consecratus.) As we saw earlier, both epithets have been attested in epigraphic material. The more frequent is Silvanus Domesticus which adds up to 43% of the total number of Silvanus-inscriptions in Pannonia23; however, Silvanus Agrestis is very rarely attested in the inscriptions24. The most controversial - or rather mysterious - epithet of Silvanus is the Orientalis, which has no epigraphic evidence as yet. But let us read the text of Dolabella more closely: “the third is called orientalis, in whose honor a grove (lucus) was established on the common boundary (in confinio), from which boundaries between two or more properties originated (a quo… fines oriuntur). So, the grove itself constitutes a boundary between two or more properties” (ideoque inter duo pluresue est et Iucus finis). The text does not say anything about the forms of Silvani, but we are aware that these were altars and reliefs. To quote A. Mócsy again: “[Silvanus] as a god of decidedly private character is mostly worshipped on tiny altars in the house and on small reliefs, and often, too, on altars that do not state the name of the donor, since they were meant for domestic usage”. Really important observations, worth to keep in mind. Mócsy has also added: “The forms of the cult’s rites are purely Roman: altars for daily domestic worship and domestic sacrifices; small reliefs, also presumably for domestic shrines or for Lararia and so on”25. On the basis of our text I can imagine that Silvanus Orientalis was the name of the grove itself, which established the boundary between the properties. All the more, it could be an image carved to the tree(s), and votives could have been painted to wooden panels nailed to the trees as well26. It can also be observed that the majority of epithets known from inscriptions can also be connected to landholdings, especially the villae rusticae. All the more interesting is that - judging by epigraphic evidence - Silvanus was also connected to the landholders themselves: we are aware of Silvanus Valerianensis (Aequum Tuticum/Ariano Irpino)27; S. Cornelianus (Benevento)28; S. Staianus (Benevento)29; S. Curtianus (Monterochetta)30; S. Veturianus (Falerii/

CIL XI, 3082. CIL VI, 644 = ILS 3537, Kr. u. 149. 33 CIL VI, 645 = ILS 3468 = AE 1962, 294. 34 AE 1994, 560. 35 Dorcey 1989b. 36 CIL V 5548; VI, 586, 615, 619, 623, 666, 31010, 36786 and 36823; IX, 3421; X, 1409; XI, 6947; XIV, 17. 37 CIL IX, 2100 = ILS 3553. 38 AE 1967, 405. 39 CIL VI, 646 = ILS 3570. 40 AE 1922, 67. 41 CIL III, 9867; ILJug 1, 175. In both cases the epithet is attached to Silvanus Silvestris, which probably means that the harvest means vintage or fruit harvest. 42 CIL VI, 641 = ILS 3504. 43 CIL III, 3498 = ILS 3560 = TitAq, 1, 331. 44 Roos 1961. 45 CIL VI, 310 = IGUR 195. 46 Perinić Muratović - Vulić 2009. 31 32

Perinić 2016, 59. It is also true, however, that the epithet Domesticus adds up only 4% in Dalmatia. 24 CIL VI 646 = ILS 3570: “Silvanus Lar agrestis”. 25 Mócsy 1974, 252. 26 Literary sources mention pine dedicated to Silvanus (CIL VIII, 27764), cypress (Virgil, Georg., 1.20; Martianus Capella, 5.425), anise/fennel (Martianus Capella, 5.425), ash (CIL XII, 103), and the lily (Vergil, Eclog., 10.24). An interesting metrical inscription (Orelli I 1613) was dedicated by a man who crossed over the Alps and promised to Silvanus that if he comes back safely to Rome, he will dedicate thousand big trees to Silvanus (“ego iam dicabo mille magnas arbores”). 27 Camodeca 2017, 119–120. 28 AE 1925, 118. 29 CIL IX, 1552. 30 RAL 1976, 291 = AE 1981, 240. 23

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The Sanctuary and its Natural Environment house, and dated to the 2nd/3rd century AD. According to Ljubica Perinić and Hrvoje Vulić, “[t]he house in which the inscription was found was situated at the very edge of the town, near the western part of the fortification system, which in all probability served as a token of respect for his aspect of the guardian of the frontier (tutor finium), and together with the epithet Domesticus it is clear that the protection of the house proper was also within his domain”. We also know of a special epithet of Silvanus from Carnuntum: the Quadriviae47, which can be found on 56 altars found in 1892 in the Silvanus-shrine of the civilian town of Carnuntum48. The excavations in the socalled Tiergarten revealed two rooms adjacent to the street (Room A: 3,5 x 3,5; Room B: 9 x 3 m) the small altars dedicated to Silvanus, Silvanae, Quadriviae, Diana and the Dii Nocturni were found in this place. In another inscription from Carnuntum49 we find a dedication to Silvanab(us) et Quadribis Aug(ustis) in a restored wall (murus). We are also aware of two Silvanus epithets directly connected to travel: the Viator and the Anticessor50.

for the purpose of the sacrifices shall be gathered from the estate Gallicianus and from the adjacent reserve”52. We can learn from the text that there was a statue of Silvanus in the nature reserve or wildlife park (vivarium) - which also comprised a field and a forest - surrounded by small low pillars used as landmarks (cippi). The statute included requirements relating to the maintenance of public rights of way through a neighbouring estate called Quaesicianus, therefore we can imagine that this Silvanus was situated near the border of Phaon’s estate. Finally, I would like to make a concluding remark on the Silvanus phenomenon as “guardian of boundaries” - as Horace called him. It is well-known that in Dalmatia a number of rock-cut representations of Silvanus - usually in the shape of Pan - can be found. According to Ljubica Perinić they belonged to cave-shrines dedicated to Silvanus in the deep forests of remote rural areas53. Interestingly, no similar cave-shrines have been found yet in Pannonia. It would be interesting to know if these shrines could have denoted borders (e.g. borders of city territories, borders of private lands or forests etc.). We have one piece of evidence, however, that an image of Silvanus was placed on a boundary. The Baraque carrée is a 741 m high hill in the Central Vosges (7.1902 N, 48.5451 E). As early as the middle of the eighteenth century a huge rock-carved representation of Silvanus was identified near the oldestablished border of Alsace-Lorrain (Lotharingia). Some scholars say that it was situated on the boundary of the Roman provinces of Belgica and Germania54. From the Augustan poets and the Pannonian inscriptions it would seem that Silvanus was regarded as a god of properties, especially the boundaries of properties surrounded by untamed nature55. The Romans - judging by the literary texts - took the forests as symbols of the wild56, to which a civilized Roman preferred the populous cities (vis tu homines urbemque feris praeponere silvis, Hor., Sat., 2.6.92). This was the reason why Silvanus, god of indomitable, unruly nature, became guardian (Custos), preserver (Conservator), or even saviour (Salutaris) of the properties of men, especially in that province which was described as a forested, mountainous and marshy region by the Roman authors57. Pliny the Elder calls it “the acornproducing land of Pannonia, where the chain of the Alps gradually becomes less formidable” (inde glandifera Pannoniae, qua mitescentia Alpium iuga). According to Hyginus Gromaticus, who was active under Trajan, the lands of Pannonia were classified in five or six categories: first- and second-class arable land (arvum), meadow (pratum), acorn-bearing wood (silva glandifera), ordinary

At this point we have arrived at an interesting inscription, which is a document of the foundation of a collegium Silvani by a landholder L. Domitius Phaon under Domitian51. Phaon was the owner of four estates in regio III (Lucania et Bruttium): the fundus Iunianus, Lollianus, Percennianus and [S]tatuleianus. All dwellers, workers and their families were members of the collegium dedicated to Silvanus, and they inaugurated festivals five times a year in honour of Silvanus, the Rosalia and the Emperor. From our point of view, the most interesting part of the inscription is the description of the sacred place (locus) dedicated to Silvanus on one of the estates: “Further, the area (locus) - the field (ager) and the forest (silva) situated in the reserve (vivarium) and which is delimited by the border-stones (cippis) around the statue of Silvanus - is dedicated to Silvanus and the road which leads to the statue of Silvanus through the estate of Quaesicianus shall be accessible to everyone. The wood also, and the water used CIL III, 4441; Kremer 2014. CIL III, 11170 = 13448; 13454; 13460–13467; 13469–13477. The Historia Augusta mentions the temple of Silvanus on Aventine hill (Tac., Ann., 17, 1). Common types of sanctuaries of this god often mentioned on epigaphic sources were dedicated groves, along with aediculae, smaller sanctuaries (sacellum), porticoes and pools (Dorcey 1992, 92–93). Nenad Cambi (2000, 99–111) made a division for the province of Dalmatia on three types of sanctuaries: natural environment with a relief engraved in rock, caves and edicules. An important source of information which proves the existence of a built sanctuary of Silvanus are the inscriptions mentioning extensions, enlargements, construction of smaller sanctuaries and cubicules inside an existing temple or restoration of an existing sanctuary or temple. These inscriptions were found in Tifernum Tiberinum (CIL XI, 8079), Augusta Vindelicum (CIL III, 5797), Lambaesis (CIL VIII, 267), Philippi (CIL III, 633) and Salona (CIL III, 1958). The Pannonia inscriptions mention the restoration and the extension of the sanctuary in Cirpi (AE 1971, 323; Szőke 1971, 224), Carnuntum (CIL III, 4426) and Scarbantia (CIL III, 4243). Archaeologically attested sanctuaries or temples of Silvanus are rare and presumed on only three locations: Carnuntum, Sarmizegetusa and Gorsium. 49 CIL III, 4441. 50 Tóth 1980. Anticessor/Antecessor: Budaörs (CIL III, 10454 = AE 1982, 807 = RIU 1333) means “Anführer” as translated by Alföldy 2002, 272. 51 CIL X, 444. It is unclear that this Phaon was a descendant of the famous imperial freedman and confidant of the Roman Emperor Nero. Weaver 2005. 47 48

52 CIL X, 444 = InscrIt III/1 7 = ILS 3546 = AE 2005, 97b, Caposele (Lucania). Translation in Ascough et alii 2012, 193–194. 53 Lulić 2014; Perinić 2016, 40–45. 54 Schoepflin 1751, I, 487, Pl. XIII; Linckenheld 1932. 55 Troutier 2015. 56 Verg., Ecl., 5, 28: montesque feri silvaeque; Verg., Georg., 2, 471: “illic saltus ac lustra ferarum”; Verg., Ecl., 10, 52: “in silvis inter spelaea ferarum”; Verg., Aen., 7, 404: “talem inter silvas, inter deserta ferarum”; Ovid., Her., 4, 170: “silva perdendas praebat alta feras”; Ovid., Ibis, 535: “perque feros montes”. 57 Appian., 3, 4, 22; Herodian., 8, 1, 1; Pliny, NH, 3, 25,147.

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Tibor Grüll Fantham, E. 2009, Latin Poets and Italian Gods, Toronto.

wood (silva vulgaris), and pasture lands (pascuae)58. It is absolutely understandable if soldiers and settlers coming from Italy - the most civilized part of the Roman Empire were to choose the cult of Silvanus, known from the poets, to be their chief guardian deity. This very fact indicates the relative high quality of Romanization among the population of lower status in Pannonia. It is probably related to the phenomenon that the Roman she-wolf (lupa Romana) representations show significant concentration in the 1st-2nd century western Pannonia59, and that from the mid-second century AD onwards the Pannonian grave stelae were “flooded” with scenes drawn from classical mythology60.

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22 The Evolution of the Sacred Landscape of Early Olympia. András Patay-Horváth University Eötvös Loránd of Budapest The nature of the sanctuary calls for an explanation, but all the reasons proposed so far seem to be unsatisfactory. Early cult activity at the site is reflected by many tripod cauldrons and thousands of small bronze animal figurines, but the ritual practices which led to the accumulation of these votives has not been investigated in detail. Considering the characteristics of the bronze figurines, I suggest that they actually depict feral animals, which found an ideal living environment in the vicinity and shaped the sacral landscape of early Olympia. Based on literary evidences and comparisons with other contemporary shrines containing similar dedications, it is argued that it was the hunt of these animals that mainly attracted foreign aristocrats to the sanctuary and that excessive hunting caused the extinction of some animal species which was in turn was followed by a shift in the cult practice ultimately resulting in the genesis of the Olympic Games. La straordinarietà del santuario di Olimpia richiede chiaramente una spiegazione, dal momento che tutti i motivi proposti finora sembrano insoddisfacenti. Le prime attività cultuali nel sito sono documentate da molti tripodi e migliaia di piccole figurine bronzee di animali, ma le pratiche rituali che hanno portato all’accumulo non sono state studiate dettagliatamente. Considerando le peculiarità delle figurine in bronzo, suggerisco che in realtà raffigurino animali selvatici che trovarono un ambiente ideale nelle vicinanze, così da modellare il paesaggio sacrale della prima Olimpia. Sulla base di testimonianze letterarie e confronti con altri santuari contemporanei che hanno restituito simili dediche, si sostiene che fu la caccia di questi animali ad attrarre principalmente aristocratici stranieri nel santuario e che, divenuta poi eccessiva, causò anche l’estinzione di alcune specie, seguita a sua volta da un cambiamento nella pratica del culto fino alla genesi dei Giochi Olimpici. Keywords: Early Iron Age; votive practice; animals; Olympic Games We know relatively little about the natural environment of ancient sanctuaries, since ancient authors were not very interested in this topic and modern scholars have just started to study the environmental changes in historical times quite recently. I would like to take a major sanctuary, Olympia (Fig. 22.1), as an example to show that the natural environment can decisively shape cult activities and that vice versa, the sacred landscape may also cause considerable changes in the natural environment of the sanctuary. What I present is mainly speculation, but it is based on both literary and archaeological evidence and can perfectly explain cultic phenomena and the origins of the Olympic Games at the same time.

Surprisingly enough, the earliest votive offerings i.e. small votive figurines made of clay and bronze also indicate the paramount importance of hunting at Olympia. Several thousand figurines have been discovered in the ‘Black layer’, and one can hardly guess how many were actually dedicated. Some singular pieces and a few exceptional human figures apart, the bronze figurines represent two kinds of animals: horses and cattle2. The cattle are conventionally described and interpreted as domesticated bulls and cows3, but the position, the form and the size of their horns are strongly reminiscent of those of aurochs (Bos primigenius, Bojanus 1827): they are often inward-curving and the angle formed by the skull’s axis and the horns is less than 60 degrees4. In addition, they are much longer than those of domesticated cattle (Bos taurus). These features are not uniformly observable on all the figurines, but they occur very frequently and in all

It is perhaps appropriate to start with the literary sources. The region surrounding the sanctuary was celebrated over many centuries as a superb hunting ground (Xen., Anab., 5, 3, 8–11; Paus., 5, 6.6). We cannot know, of course, if this was practised earlier than well, but we can firmly state that the cult of Artemis was exceptionally important at Olympia and the goddess was venerated precisely as a goddess of the hunt1. 1

2 Heilmeyer gives the following statistics concerning the animal figurines: 53,84% Rinder, 45,21% Pferde. In absolute numbers: 1885 cattle and 1583 horses out of a total of 4042. Heilmeyer 1979, 196 and 275. 3 Heilmeyer 1972, 87–88; Morgan 1993, 22; Schürmann 1996, 219–220; Taita 2009, 378–379. 4 These are the characteristics enabling a distinction between the two species. van Vuure 2005, 120–135.

Weniger 1907, 96–114; Solima 2011, 127–139.

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András Patay-Horváth

Fig. 22.1. The natural environment of Olympia and the Alpheios River bank (Photo by the author).

identified periods and workshops5. They are not restricted to the bronze figurines, but are equally present in the clay figurines6 and can be thus seen as constant features which are definitely not to be regarded as personal, regional or chronological idiosyncrasies. The resemblance to anatomical reality strongly suggests that it is not a general artistic convention, but a realistic element of the otherwise schematically-rendered animals. After all, it is very likely that the horns, as the most important and distinctive parts of the animal, were modelled more carefully and were rendered realistically, while their bodies were treated more summarily. It is equally likely, given the mass production of the figurines, that some pieces were executed carelessly even in this respect. Two passages in Homer (Il. 12,22-23; Od. 16, 295–296) can be interpreted as evidence for the presence of wild cattle in Greece and a gloss in Hesychius (s.v. κατράγοντες) explaining a word as a special Laconian term for wild cattle shows that these animals were certainly present in the Peloponnese. In addition, the species may have found ideal conditions in the vicinity of Olympia and was likely to be extremely rare elsewhere in Greece7. A good parallel regarding the natural environment of the area surrounding Olympia can be found even today in the Rhône delta, where feral horses as well as feral cattle live together in the Camargue. It cannot be mere coincidence

that among the small animal figurines, there are practically only bovids and horses, both representing ca. 50% of the material. The bulls were certainly impressive in size and were presumably regarded as exclusive game animals. As their numbers were decreasing, the hunting of aurochs generally became a privilege of the aristocracy8. The sanctuary at Kato Syme on Crete offers a nice parallel and a corroboration for this idea, since the bull figurines there are similarly rendered and found in similarly great numbers, and it is quite clear that the sanctuary was frequented by hunters: they are clearly depicted as such on the bronze plaques dating from the early archaic period and written sources also attest that hunting was commonly practised on the island9. In general, animal figurines are not a dominant class of dedications in major Greek sanctuaries. Especially after the Geometric period, statuettes or statues of animals on their own are rare compared to human or divine figures. In contrast, while this is true for Olympia during later centuries, animal figurines are clearly the most abundant class of dedications at this site during the geometric period. And it is certainly true that depictions of animals are often found in great numbers in shrines frequented by hunters. Moreover, ethnographic observations made quite recently among Siberian peoples also furnish the underlying rationale: large number of wooden figures depicting fishes and animals were placed at sacred trees in order to effect the successful catch of the species10. A similar reason can

5 Heilmeyer 1979, nn. 90–91, 230–236, 246–247, 383–386, 390, 391, 412–416, 511, 513, 583, 585, 763, 767, 774, 778, 781, 783, 826, 827, 856, 857 and 881–889. 6 Heilmeyer 1972, 124–125 (“Typenübersicht”). 7 By the time of Herodotus (7, 126) it seems to have been extinct in all Greece, but was to be found in Macedonia and its horns were still imported to Hellas. Keller 2001, 53–60; Keller 1909, 341–343. For the distribution area and habitat of the aurochs, van Vuure 2005, 48–52 and 245–258.

van Vuure 2005, 55–64. Lebessi 1985; Langdon 2008, 89–94. 10 Karjalainen 1927, 5–6; Ivanov 1959. 8 9

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The Evolution of the Sacred Landscape of Early Olympia most probably account for the appearance of numerous animal figurines at Kato Syme and there can be little doubt that the same applies to the stone reliefs depicting various kinds of animals at Göbekli Tepe. This site was recently discovered and identified as the very first temple complex and even if archaeology cannot provide conclusive proof concerning the dedicators and the occasion for the dedication, the connection with hunting can hardly be denied11. It is therefore quite reasonable to assume that hunters were generally inclined to depict their most important or prestigious game animals and that these animal images were often gathered at sacred places or sanctuaries from the earliest periods in human history until quite recently. Here the general resemblance of the abundant animal figurines at Olympia to paleolithic cave art might be considered as well. Although the exact purpose and meaning of these well-known and magnificent paintings is far from clear, it is absolutely certain that those who produced them, were hunters and that the depicted animals were wild ones and were usually hunted. Nevertheless, the actual hunt is never depicted and wounded animals are also represented only sporadically. In general, the large number of animal depictions found at Olympia and Kato Syme may be compared to the large herds of animals covering the paleolithic caves and make the connection with hunting even more plausible. It is even interesting to note that the combination of bovids and horses is a constant feature of the prehistoric compositions, and that they always dominate the scenes similarly to the geometric bronze figurines of Olympia. Local variations in the depicted fauna, like those between Olympia and Kato Syme, were also observed, in some caves the horses being accompanied by aurochs, in others by bisons12. It is remarkable, however that ‘the species most abundant in the art are not those most abundant in contemporary faunal assemblages. This is true both at the global level - with reindeer and red deer dominating animal bone remains, whereas bison and horses appear most frequently in the art - and at the local level. In Cantabria, although both the most commonly depicted and the most commonly hunted taxa vary in different micro-regions, there is always an inverse relation between the two13. A similar situation is observed not only in the case of paleolithic cave art, but in widely different regions and periods (e.g. in Çatalhöyük) and seems to be true in general. The artistic representations are therefore not to be connected with the regular subsistence hunt, but with special occasions, which already come close to sport hunting. The two are not always easily separated from each other, since hunting in general is typically (and especially if large animals are concerned) much more complex than a mere subsistence strategy, and sport hunting often retains many of the features of subsistence hunting. It is therefore only natural that the aristocrats of early Greece who visited Olympia for the sake of sport hunting were eager to depict the animals similarly to their prehistoric predecessors. Thus, the

miniature bronze figurines can plausibly be interpreted in the context of hunting. The tripod cauldrons, also found in extravagant numbers in the sanctuary, were clearly used to prepare some kind of meat14 and it is reasonable to suppose that the meat originated from the hunted game animals. It seems therefore quite reasonable to assume that hunting and consuming wild or feral bulls represented one of the main attractions at Olympia15 and this suggests in turn that the cult of Artemis was the main cult practised here, since she is the potnia theron, the mistress of the wild animals par excellence. There are some other reasons supporting this hypothesis16, but in the present context it is perhaps enough to mention that the location of the sacred precinct far from human settlements and at the confluence of two rivers is also paralleled by another sanctuary of Artemis near Phigalia (Paus. 8.41.4–5). The hunting hypothesis outlined here can also offer an explanation for the cultic origins of the Olympic Games, which thus seem to have been celebrated originally in honour of Artemis. It is a matter of debate in itself, whether the first Games were sacred or secular in character and whether they became attached to sanctuaries only secondarily and mainly for practical reasons17. At any rate, the hypothesis of religious origins seems to fit the available evidence much better18, Herod., 1, 59. It is often assumed that the tripod cauldrons were merely votive objects meant for display and cannot have been used for any practical purpose. This assumption is supported simply by referring to the huge size of some of them, but it is quite misleading in my opinion. Even if it were true for the largest pieces, it should not be generalized for the majority with significantly smaller dimensions. In fact, the tripod cauldrons were originally used as cooking or water-heating vessels and it is quite reasonable to assume that the dedicated pieces were also used in this way (either before dedication or afterwards or both, most probably only in the sanctuary itself), since there are some clear signs of rubbing, i.e. cleaning them, which can only have become necessary because of their intensive usage over fire. 15 Horses, represented by ca. 50% of the geometric bronze figurines, must have played a similar role. Their large number is usually assumed to reflect horse-breeding, but they might equally depict feral horses as well. The Homeric epithet of the region, hippobotos, and in the famous story (Hom., Il., 11, 670–761) related by hippota Nestor do not necessarily imply horsebreeding, but show that the natural environment in Elis was well-suited for horses. Horse-breeding was apparently not practiced for a considerable time on a large scale in Elis: in addition to the almost complete lack of local winners in the hippic agons at Olympia, our sources do not mention hippeis or cavalry in Elis before the 4th century BC (Spence 1993, 7–8). This fact may be regarded as not especially significant since cavalry forces are practically unattested in the whole Peloponnese during the 6–5th centuries, but would be nonetheless quite hard to explain, if the numerous horse figurines had really resulted from horse-breeding practiced on an unusually large scale here. The scarcity of horses might explain, on the other, hand the curious habit (Herod., 4, 30; Paus., 5,5,2; Plut., Mor., 303b) of restrictions concerning mules in Elis: the few horses available had to be strictly protected and even though mules were needed (as they were much more useful for everyday purposes), they were bred only occasionally. For the presence of feral horses around Olympia there are admittedly no literary testimonia, but a good parallel regarding the natural environment of the area surrounding Olympia can be found in the Rhone delta, where feral horses as well as feral cattle live together in the Camargue. The horses were of course not hunted to be sacrificed and eaten (although this would have been also feasible after the extinction of feral cattle), but they were presumably captured to be tamed and used as high-prestige domesticated animals. As the horses were certainly removed from their original living environment, a ritual restitution was considered appropriate, similar to the dedication of figurines representing ordinary game animals. 16 Patay-Horváth 2015, App. IX. 17 Gardiner 1916–1918, 102–106; Ulf - Weiler 1980, 27–29. 18 Golden 1998, 12–17. Instone (2007, 75–77) agree in this respect, although very cautiously. More sceptical is Murray (2014, 313), but she does not go into details. 14

Schmidt 2006. Leroi-Gourhan 1964, 107–112; Leroi-Gourhan 1992, 370–372. 13 Russell 2012, 14. 11

12

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András Patay-Horváth race had its origins in a ritual chase connected with hunting and with the cult of the potnia theron23.

even if the exact identification of these origins seemed to be impossible so far. The oldest theory suggested that the games originated from funeral ceremonies, while the most widespread idea during the 20th century was that they were a test to select the best successor/ruler or a ritual contributing to maintain the energies of nature (vegetation magic/hieros gamos). Alternatively, it was argued that the games would have started from initiation ceremonies (rites de passage) involving entire age-groups of young men19. The most recent theory20 is based on an ancient hypothesis (Philostr., Gymn., 5) which is, however most probably an ancient fiction21 and can therefore not be used to reconstruct historical reality. It was always puzzling, that according to ancient sources the games would have originally consisted of only a single stadion race, because this event is not particularly exciting or spectacular. It certainly seems to strain the credulity that people living far away from the sanctuary would readily have agreed to undertake a long and troublesome journey only to attend an event which lasts some 30 seconds. Various scholars, referring to the complex games mentioned in Homeric epic, therefore assumed there to have been multiple contests22. The assumption of a number of other events taking place in addition to the stadion is actually a very attractive one, but there are also some serious objections against the hypothesis of early games in the Homeric fashion. It is hard to see why other contests, which were practised later and were even more popular than the stadion race would have been neglected in this way, and it is equally unclear why precisely the stadion race was selected as the most ancient game, if not for the simple reason that this was really the case, since running events are certainly not very important in the games described in epic. In addition, the Homeric parallels were noticed in antiquity as well and it would have been quite easy to adjust the history of the Olympic Games in this sense, but this apparently never occurred as a possibility and the primacy and exclusivity of the stadion race has never been questioned. This would be quite surprising, if the entire matter were mere fiction. So, it is reasonable to suppose that it was not only the stadion race which attracted visitors from far away, and it is equally likely that the other events, which are not recorded by the literary tradition, were not the same as those practised subsequently. Hunting as the earliest kind of sporting activity is therefore the best possible candidate to fill this gap and it only remains to be asked why precisely the short distance run was selected first or why this became the very first contest at the games. I suggest the following explanation: running was apparently closely related to hunting and the reason for this was most probably that the

Finally, the transition from the cult of Artemis to that of Zeus is likely to have happened in the following way. The rapid growth of votive dedications in the sanctuary during the 8th century BC24 was most probably due to the intensification of hunting and this process inevitably led to the extinction of the wild or feral cattle. Thus hunting of these special game animals, the core of the annual festivals held at the sanctuary, gradually disappeared and was finally abandoned altogether. On the other hand, ceremonies celebrating the successful hunt and originally carried out in order to appease the soul of the dead animal or the mistress of the animals after each successful hunt presumably attained greater importance as the hunt became increasingly difficult. Finally, as hunting became impossible, the ceremonies were transformed into running contests and by adding new athletic disciplines the games eventually developed into a replacement event for the aristocrats, who had previously visited the sanctuary to hunt. Following this change, there was of course no point in retaining the cult of the original deity and Artemis could be replaced by the most important god, Zeus Olympios who was credited to give victory in military contests (Hom., Il., 8.176-77; 13.347; 17.331) and therefore appropriate to decide the outcome of other kinds of agon, i.e. athletic events. The cult practice retained, almost naturally, some elements of the previous period and was adapted to an important change in the faunal environment, which was caused by the cult practice itself. This reconstruction of the cultic origins of the sanctuary and its games is certainly hypothetical and must remain, like previous theories concerning this problem, beyond definitive proof, but given the nature of the evidence, it cannot be otherwise. The best is only the probable. Any who raise complaint have an easy remedy: to offer something better, something coherent and constructive25. Bibliography Gardiner, E. N. 1916–1918, “The alleged Kingship of the Olympic Victor”, in BSA, 22, 85–106. Gardiner, E. N. 1925, Olympia: Its History and Remains, Oxford. Golden, M. 1998, Sport and Society in Ancient Greece, Cambridge. Heilmeyer, W-D. 1972, Frühe Olympische Tonfiguren, Berlin. Heilmeyer, W-D. 1979, Frühe Olympische Bronzefiguren. Die Tiervotive, Berlin.

All the theories are conveniently summarized and discussed by Ulf Weiler 1980. 20 Siewert 1992; Valavanis 2006. 21 Instone soberly compares other similar explanations given by the same author, which are equally and most obviously fictive. Instone 2007, 78. 22 Gardiner 1925, 87–88; Herrmann 1972, 80–81. Golden (1998, 39, 43–45) equally questions, for other reasons, that the stadion would have been originally the single contest and supposes that other disciplines, most importantly the chariot race, were introduced at an earlier date than traditionally assumed. This kind of reconstruction would suggest the games enjoyed an early and widespread popularity, which seems to be unlikely given the complete silence of the epic tradition. 19

23 The staphylodromia of the Karneia was a ritual chase of an animal, i.e. a ritualized hunt, and its many ethnographic parallels (collected already by Wide 1893, 76–77) suggest that a similar ritual was originally widespread and can be regarded as the forerunner of the stadion race. The striking similarities between the Karneia and the Olympic Games (timing, sacred truce, similar foundation myths, central role of a running event) clearly favour this idea and can most probably be explained by assuming some kind of common origins related to hunting. 24 Maass 1978, 228; Heilmeyer 1979, 21–23. 25 Syme 1971, 75.

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23 Myths and Rites of the Attic Pallene: A Sanctuary Between the Archaic Territories of Paralia and Pedion. Miriam Valdés Guía Universidad Complutense de Madrid The sanctuary of Athena Pallenis (located between Hymettus and Pentelicus) was probably constructed in the Archaic Age as a sacred ‘borderline’ between two regions of conflict in Attica, the archaic Paralia and the Pedion. The tales associated with this shrine suggest that it possessed a constructed identity as a ‘liminal’ place in the heart of the Athens chora, where a procession toward Athens probably took place. This rite emphasizes the role of the sanctuary as not only an important node of interaction, but, also, one of territorial integration in archaic and classical Attica. Pallene was the centre of an association that integrated several surrounding districts of the Athenian Mesogaia. The veneration there of Athena Pallenis - which recalls the epithet of “Pallas” as well as “Pallene” does with the homonymous region of Chalkidiki - echoes the myth of the gigantomachy in which Heracles, venerated near the sanctuary, also played a role important. Il santuario di Atena Pallenis (situato tra Imetto e Pentelico) fu probabilmente costruito durante l’Arcaismo come un sacro ‘confine’ tra due regioni in conflitto in Attica, l’arcaica Paralia e il Pedion. I racconti associati a questo santuario suggeriscono che possedesse un’identità costruita come luogo ‘liminale’ nel cuore della chora di Atene, dove probabilmente aveva luogo una processione verso Atene. Questo rito sottolinea il ruolo del santuario non solo come importante nodo di interazione e confronto, ma anche di integrazione territoriale nell’Atica arcaica e classica. Pallene era il centro di un’associazione che integrava diversi distretti circostanti della Mesogaia nel cuore del territorio ateniese. La venerazione di Atena Pallenis - che ricorda l’epiteto di ‘Pallade’ in un modo simile a quello che fa Pallene con l’omonima regione calcidica - fa eco al mito della gigantomachia in cui anche Eracle, essendo venerato in prossimità di questo santuario, ha avuto un ruolo importante. Keywords: Heracles and Athena in chariot; Peisistratos and Phye; Giants; Pallas and Pallantid; Attic topography; stasis 1. The League of Athena Pallenis: a shrine located between the archaic territories of Pedion and Paralia

in the myth about the division of Attica among the sons of Pandion, which has an archaic origin, according to Jacoby3. Because its location between Hymettus and Pentelicus (in the northern limit of the archaic Paralia), it is possible that the sanctuary became, in the context of the Athenian territorial configuration through the synoecism, a sacred “liminal” space between the Pedion and the archaic Paralia, including the Mesogaia in that period4. The sanctuary was the centre of an association that formed around the cult of Athena Pallenis and, also, would have included several demes. As with other ancient associations in Attica of a religious nature5, similar to the Tetrapolis,

In this paper I discuss on the sanctuary of Pallene, probably erected in the Archaic period as a ‘borderline’ between two regions in Attica: the Paralia (southern Attica) and the Pedion, which is the main plain around Athens. Dating back to the Geometric period and, also, located next to modern Stavros and Agia Paraskevi1, a strategic area between two mountains, the Pallene shrine likely became a reference in the territorial configuration of the three archaic regions of Attica (the asty/ Pedion, the Paralia and the Diacria [Fig. 23.1]). This is, of course, mentioned by sources on archaic stasis2, but it is also

Soph., Fr. 24 Pearson; sch. Ar., Lys., 58; sch. Ar., Vesp., 1223; Andron, FGrH 10 F 14; Philoch., FGrH 328 F 107 (Strabo, 9, 1, 6 392); Phot. s.v. πάραλοι and πεδίον; Etym. Magn. s.v. “Διακία”; Paus., 1, 5. 4; Rhodes 1981, 73; Kearns 1989, 115–116. Myth on a krater of 480–470 BC: Nat. Mus. Acr. 735; ARV2 259; U. Kron in LIMC VII, 1, 1994, 153, n. 1. Late seventh or early sixth century, Jacoby 1954, I, 430–431. 4 Thuc., 2, 55; Hopper 1961, 190; Kearns 1989, 116; Bultrighini 2013. 5 Parker 1996, 328–330; Ismard 2010, 211–213. 3

1 Steinhauer 2001, 83–84; Whitley et alii 2005–2006, 13; Valdés 2012, 157, 234 and 237–238. 2 Herod., 1, 59.3; Arist., Ath. Pol., 13, 4–5: Plut., Sol., 13; Sch. Ar., Vesp., 1223; Phot. s.v. πάραλοι; Diog. Laert., 1, 58. For the parties, Hopper 1961; Lavelle 2005 (only two parties); Valdés 2012, 229–239 (with more bibliography).

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Miriam Valdés Guía

Fig. 23.1. Three Archaic zones of Attica with Pallene (Reworked from Google Earth).

this association appears to have had an archaic origin. The main source regarding the association of Athena at Pallene is Athenaeus, who describes the role of the basileus, the election of archons and parasites, as well as the cult participation of elders and women married to their first husband or recently married6. There was also a priestess of Athena Pallenis7. The parasites selected a sacrificial victim “ἐκ  τῆς  βουκολίας” and collected a quantity of barley.

After sacrificing the victim to the goddess, the Athenians in the temple precinct were expected to feast “according to ancestral custom”8. The association was centrally controlled by the polis as well as the basileus who oversaw the appointment of the archontes, who lead the religious celebration. According to Athenaeus, the parasites were chosen by the demes of Pallene, Gargettos, and Pitthos, and probably, according to Schlaifer Acharnae (Fig. 23.2) although Lewis indicates that Athenaeus quotes only three names (Pallene, Gargettos, and Pitthos), and that Schlaifer

6 Poll., 3, 39 alludes to the protoposis as the one “married with someone ἐκ παρθηενίας” and, therefore, probably referring to a newly-wed woman or nymphe. 7 Ath., 6, 234 f-235 a. Also see Hesych. s.v. “Parthenou Pallenidos (priestess)”. Schlaifer 1943; Parker 1996, 330–331; Ismard 2010, 213– 215. For the temple, Harrison 2005; Shear 2016, 250–262 (esp. 258).

Ath., 6, 235 c (Crates, FGrH 362 F 7); Schlaifer 1943, 51–59. It seems that the ox for the sacrifice, akin to the grain, came from some property of Athena Pallenis: Schlaifer 1943, 52–53; Shear 2016, 259. 8

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Myths and Rites of the Attic Pallene

Fig. 23.2. Demes of Athena Pallenis association mentioned in the text (Reworked from Google Earth).

adds Acharnae - deme who Athenaeus quotes later when he alludes to the parasites of Apollo in this locality. Schlaifer points out that this law is from fifth century BC and it is probably elaborated from an earlier text9. An inscription of the fourth century (350 BC) mentions members of 9

the demes of Pallene, Acharnae, Gargettos and Paiania as archontes and it also lists a great number of demes of Attica for the parasites10 (Fig. 23.2). The association may 10 Stanton 1984, 292–298; SEG XXXIV, 157; also Stanton 1985, 259, pl. 23. For possible expansion and change of the archaic league in the 4th century BC, Parker 1996, 331 and Shear 2016, 259, n.114.

Schlaifer 1943, 42–44; Lewis 1963, 34; Parker 1996, 331.

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Miriam Valdés Guía war might correspond to localities of the archaic Mesogaia, which was coordinated around a sacral centre (viz. Pallene). Therefore, this tale may be a mythical reflection of the religious association with the archaic sanctuary of Athena Pallenis. Even if the stories about the Pallantids are not explicitly associated in the sources to the cult of Athena Pallenis, these figures might have been evoked in the cult or linked to it in some way - not only because of the etymology of Pallas and Pallene (“the place of Pallas”), but also because of the relationship of the goddess Pallas Athena with the Gigantomachy through the Pandion’s son, “Pallas”, who was known as a giant in Sophocles and Pallene was a place that evoked the homonymous area in Chalcidice where the giants were defeated.

have changed from the sixth (or even earlier) to the fifth century BC and, again, from the fifth to the fourth century BC. The involvement of the basileus seems to go back to the archaic period11. Perhaps Acharnae was included in the association within the sixth century (after Solon or after the Cleisthenic reforms) - that is, insofar as it is likely that the association would have originally involved (as the myth of the Pallantids suggests) the districts of the Mesogaia of the pre-Cleisthenic region of southern Paralia. Here, I shall explore the myths and rituals associated with the sanctuary that elucidate its role as a “liminal” space, a place of both conflict and integration connected with rites of passage for the young people of Athens. 2. Battle myths and ‘history’ in Pallene: Pallantids, Eurystheus, Peisistratos and Heracles

Besides the clash between the Pallantids and Theseus, Pallene was also where Eurystheus was buried. He had pursued the Heracleidae to Attica, with help from the sons of Theseus settled in Marathon, as Euripides relates16. And here Peisistratos was victorious in his third foray from Marathon against his political opponents17. This episode possessed an important symbolic value similar to that of the episode of Phye, in which it is theoretically Athena who legitimises Peisistratos’s tyranny18. It is possible that the image of the young woman dressed and armed as Athena in the Phye episode reflects a ritual of some sort, which is possibly associated with Pallene itself. The anecdote recalls a story by Polyaenus, who reports that the priestess of Athena in Pellene was the “tallest and most beautiful girl” (like Phye) and dressed as Athena “on the occasion of the goddess’s feast” fully armed, being able to make enemies flee19. Herodotus and Aristotle both locate the episode of Phye in Peisistratos’s second incursion, but Polyaenus (whose source could be Ephorus20) associates it with Pallene (that is, with the tyrant’s supposed third assault). This link with Pallene seems to be significant, so it could indicate a relationship between the mimesis of the Goddess in a pompe and this place of cult. A ritual of mimesis of the goddess in arms is a plausible rite, which has been documented in other places (such as Pellene), including Athens, in relation to priestess of Athena Polias as well as a rite relating to newly-wed women21. Herodotus indicates that the young Phye was equipped with the full panoply. Aristotle said she was robed as the goddess, and Polyaenus states that she was armed as Pallas (ὅπλοις Παλλαδικοῖς κεκοσμηνένην). According to Herodotus, the young woman was from Paiania - a deme near to Pallene in the Mesogaia - which, due to this proximity, was undoubtedly one of the districts that participated in the league of Athena Pallenis22. It is possible that lying

The main myth that suggests the role of Pallene as a liminal space and a borderline between the Pedion and the Paralia is that of the sons of Pallas (scion of Pandion). In the division of Attica, Pallas received the Paralia and his sons fought against Theseus, who was from the asty/ Pedion. The myth, in Plutarch’s Life of Theseus, may also have appeared earlier in the so-called Theseid from late sixth century BC12. The first probable representations of the Pallantids and Theseus seem to be from the end of the sixth century BC, even if the myth can be traced back to the end of the previous century according to Jacoby13. In Plutarch text, the Pallantids fight Theseus close to Pallene. The sons of Pallas, eponymous of Pallene (whose etymology is probably related to youth14), are helped by the demes of the Mesogaia (Sphettos, Gargettos, and Hagnous [Fig. 23.3]), where Leos eventually betrays the Pallantids to Theseus. Despite Jacoby claiming that “Pallene (which may certainly be assumed to be connected with Pallas) is lacking in the account of the war,” this is not completely true: because Plutarch continues to insist upon the fact that Leos’s betrayal of Hagnous was the reason “why the township of Pallene has no intermarriage with the township of Hagnous15”. There are no allusions to the enmity of Hagnous towards, for example, Gargettos or Sphettos but towards Pallene which may have been the original place of Pallas and the Pallantids as well as the focus of the rebellion. Accordingly, the towns involved in the mythical Schlaifer 1943, 43. Plut., Thes., 3, 5 and 13. This narration goes back at least to Philoch. FGrH 328 F 108. Jacoby 1954, I, 431–440 and II, 335–337. Theseid: Plut., Thes., 28, 1–2; Arist., Pol., 1451a, 19–20; Bernabé 1992, 105–107. Pallantids: Kearns 1981, 191. Leos of Hagnous in Solon’s axones: Steph. Byz., s.v. “Ἀγνοῦς”. 13 J. Neils in LIMC VII.1, 1994, 935, nn. 172 and 173, s.v. “Theseus”; U. Kron in LIMC VII.1, 1994, 152, n. 7, s.v. “Pallantidai”. Jacoby 1954, note 15. 14 Pallas, eponym of Pallene: U. Kron in LIMC VII, 1, 1994, 153. For the etymology of Pallas relating to youths (girls or boys), Chantraine 1968, 853, s.v. “Pallake”. The name “pallas” could be related to “pallein” (weapon-brandishing: Ps-Apollod. in POxy., 2260, II 2), but the connection with this verb might be a later construction. Pallene is probably formed by “Pallas” and the typical place-name suffix -ήνη (-άνα), whereby “the place of Pallas”: see Burkert 1985, 139. 15 Plut., Thes., 13.3 (Italics mine). Jacoby 1954, II, 337. For different versions, see Jacoby 1954, I, 431–434. This author believes that it is half a century earlier or more than the return of Peisistratos and his battle in Pallene. Jacoby 1954, II, 338. 11

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Burial: Eur., Heracl., 393–397, 848–849 and 1031; Wilkins 1990, 239– 339; Wilkins 1995. 17 Herod.,1, 62.3; Arist., Ath. Pol., 15, 3; Polyaenus, Strat., 1, 21.1; Androtion FGrH 324 F 35; Robertson 1992, 53–54. 18 Boardman 1972; Borghini 1984; Calabro 1984, 53–64; Slater 1984; Connor 1987; Sinos 1993; Blok 2000; Angiolillo 2009. 19 Polyaenus, Strat., 8, 59; Robertson 1996, 427–429. 20 Bianco 2010. 21 Paroemiogr., Suppl. I, 65; Burkert 1985, 101. 22 In fact, Paiania was one of the demes where archontes are chosen: see supra note 10. Polyaenus, Strat., 1, 21.1; Herod., 1, 60. Maiden from Phlya in Arist., Ath. Pol., 14, 4. 16

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Myths and Rites of the Attic Pallene

Fig. 23.3. Localities cited in the mythical war between Theseus and the Pallantids (Reworked from Google Earth).

of Pallene in the chora (the site of the tyrant’s victory) to the asty and then to the Acropolis, the other seat of Pallas23. In Attica, Pallene also evokes the homonymous peninsula of Pallene in Chalcidice24, just where Athena

behind this representation or mimesis of the goddess in a chariot was a ritual associated with Pallene and/or the Mesogaia region, in which young women participated. It could refer to participation in a procession such as that in which Peisistratos rode to Athens, according to the aetiological account. In this ‘historical’ episode on the tyrant, the pompe could have travelled from the sanctuary

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Pinney 1988. Boardman 1972, 66.

Miriam Valdés Guía by a woman and Iolaos too: Heracles stands in front of an altar with a burnt offering and behind there is Athena with the panoply (Fig. 23.4). Boardman31 considers that it is a sanctuary of Athena and links it with the Panathenaia, but, as already showed, it is also possible that it is the sanctuary of Athena Pallenis, as the presence of Iolaos could suggest. The rite involving a pompe from Pallene could be similar to a kallinikos komos evoking victory over the giants32: a young man (neos) representing Heracles (such as Iolaos) and a young woman imitating goddess Athena (the parthenos pallenidos33 of the sanctuary) ride triumphantly in chariots to the Athenian Acropolis. As a processional celebration of victory, Kallinikos also had a nuptial character34. Aristophanes alludes to the cry “τήνελλα καλλίνικος” (a victory song) maybe accompanied by cithara in Birds, referencing strictly to the gigantomachy myth in the context of the bridal courtship of Pisthetairos and Basileia35. Perhaps, the scene of Heracles with cithara in the below mentioned amphora refers to a ritual in Attica for a victory, nuptial song and dance36, in honour of Heracles after defeating the giants in Pallene. At Pallene or in its vicinity (Gargettos) near the Eurystheus’s tomb, there seems to have been a cult to Heracles37, which further supports the hypothesis of a ritual with young people playing Athena and Heracles. In the case of the episode of Phye, Peisistratus occupies the role of Heracles, which links very well with to the tyrant’s propaganda, depicting himself as a hero. The mention of Hebe and Zeus to Pallene in Euripides recalls the hero’s apotheosis and his ascent to Olympus and this theme has often depicted on the Greek vases too38. The hypothesis of a ritual chariot procession from Pallene to the Acropolis with “Athena” and “Heracles” is not only supported by the episode of Phye or the scene of Iolaos (Heracles’s companion and charioteer, whose youth is restored at Pallene) in the Heracleidae, but it is also supported by the story of Heracles defeating the giants on a chariot at Pallene: this ritual includes the culminating journey of Heracles, who, once again, ascended together Athena to Olympus with a chariot, the same as that he used to marry Hebe. The young men, riding hypothetically in chariots during the ritual, would be in the final stage of their initiation prior to marriage or, perhaps, recently married, and for this reason this ritual could resemble a wedding procession. Jenkins39

and Heracles defeated the giants, but essentially, the site is where the Doric hero overcame the giant Alcyoneus25. Besides, we should be aware that Heracles’s role during this century in Athens as heniochos of the goddess Athena in the representations26 and, also, as the symbol chosen by Peisistratos to legitimize himself. Heracles was a popular figure and his victory over the giants at Pallene would have echoes in Attica in relation to the homonymous area. It is reasonable to suppose that the victorious hero would come back to Athens from Pallene by a chariot with Athena, which has close parallels with the episode of Phye and Peisistratos. Moreover, in this case, the myth of the Gigantomachy, especially highlighted from the sixth century in Athens, has got a high local resonance because Pallas and the Pallantids are giants. Both the myth of the division of the territory among the sons of Pandion and that of the giants (Pallantids) appear together in the first literary source about them, that is a fragment by Sophocles27. 3. Kallinikos komos: the hero and the parthenos in chariot We cannot rule out the possibility, as Robertson suggests28, that the Pallene rites included a ritual chariot race between young boys (neoi) or, at least, an exhibition with chariots. This could be reflected in Euripides’s Heracleidae in the triumphant entry of rejuvenated Iolaos (who prays to Hebe and to Zeus) in the sanctuary of Athena at Pallene, who was chasing Eurystheus29. In addition, the Pallene celebrations may also have included the confrontation between young and old people as suggested by the figure of elder Iolaos and the participation by the elderly in the sanctuary rites described by Athenaeus. The probable connection between Heracles and Pallene, a site homonymous with the one at Chalcidice, as the location of victory over the giants and the fact that in Athenian iconography the hero is represented in this episode as being in a chariot, sometimes with Zeus or Athena30, could also suggest a ritual or a pompe with chariots at Pallene. It is interesting to consider the Gigantomachy scene on a black-figure amphora with Athena and Heracles into a chariot on one side and on the other one Heracles with a cithara followed Williams 1983, 132–136. Heracles in Pallene: Diod. Sic., 4, 15; Apollod., Bibl., 1, 6.1. Pallene was the other name for Phlegra (Aesch., Eum., 295; Eur., Ion., 988; Ar., Av., 823–825), the original place of the giants: Herod., 7, 123; Apollod., Bibl., 1, 6.1–2. Alcyoneus, in a lyric fragment: PMG fr.985b 13 Page. F. Vian - M. B. Moore in LIMC IV, 1, 1988, 191–192, s.v. “Gigantes”. For Heracles in Gigantomachy, F. Vian M.B. Moore in LIMC IV, 1, 1988, 191–270, s.v. “Gigantes”. 26 Boardman 1972; Boardman 1984; Ferrari 1994; Verbanck-Piérard 1995, 118–120; Shapiro 1990, 125. 27 See supra note 3. Pallas as a giant in: Apollodorus, Bibl., 1, 6.1-2; Cic., Nat. D., 3, 59. Father of the giants Boutes and Klytos: Ov., Met., 7, 500. Vian 1952, 198–200 and 266–278. Kearns (1989, 191) postulated a great antiquity for the giant Pallas. 28 Robertson 1996, 407–408. Vian also linked Pallene and the myth of Pallantids with ritual battles of young people there. Vian 1952, 274–278 (esp. 278). 29 Eur., Heracl., 843–845. 30 See, i.e., among others, the hydria inv. 3803 of the National Archaeological Museum of Florence, dated to 550–500 BC (Beazley archive 8102; F. Vian - M. B. Moore in LIMC IV, 1, 1988, 224, n. 239, Pl. 130, s.v. “Gigantes”), and the amphora inv. 381 of the Gregorian Etruscan Museum - Vatican Museums (ABV, 671; Beazley archive 306452; F. Vian - M. B. Moore in LIMC IV, 1, 1988, 219, n. 155, Pl. 124, s.v. “Gigantes”). 25

Boardman 1975, 11. After the battle against the giants, it is said that the hero joined the gods in a celebration and carried out the kallinikos komos - that is, the victorious procession accompanied by singing: Eur., HF, 179–180; Ath., 14, 618c; Ferrari 1994, 222. Kallinikos, in honour of Heracles in the Archilochus’s Hymn to Heracles: Pind., Ol., 9; sch. Ar., Av., 1764; CURFRAG. tlg-0232.138. 33 Eur., Heracl., 1031. 34 Lawler 1948, 257–259. 35 Ar., Av., 1763–1765. Gigantomachy: Ar., Av., 823–825. 36 Poll., 4, 100. 37 In Pallene: Luc., Dial. D., 7; in Gargettos: Steph. Byz., s.v. “Γαργηττός”; Strabo, 8, 377. Woodford 1971, 222–223. Also for a cult of Dionysos and Artemis Orthosia in Gargettos: Goette 1992–1998, 105–110 and 115. 38 Boardman 1972; Boardman 1975, 1; Boardman 1984 (inspired by the episode of Peisistratos and Phye); Ferrari 1994 (inspiring the episode of Phye). For apotheosis of Heracles: Verbanck-Piérard 1995, 118–120; Shapiro 1990, 125; Verbanck-Piérard 1987, 188–189. For Hebe: Laurens 1987. 39 Jenkins 1983. 31 32

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Myths and Rites of the Attic Pallene

Fig. 23.4. Tarquinia, Museo Nazionale Tarquiniese. Neck Amphora, inv. 679: A. Iolaos; B. woman; C. Heracles; D. Athena (Reworked from Beazley Archive 38).

Fig. 23.5. Paris, Cabinet des Médailles. So called ‘Hydria of Paris’, inv. 254: A. Athena; B. Apollo; C. Hermes (Reworked from Beazley Archive 301724).

highlights the parallelism between the scenes of Heracles’s apotheosis and those in which the nuptial chariot appears. This would shed light on a series of the Priam painter vases, analysed by Boardman40, on which Heracles appears in or next to a chariot with Athena, as if the goddess is his “bride”. However, for the record, we report that Hermes and Apollo with the lyre sometimes appear in the scenes (Fig. 23.5)41. One of these scenes in an the Ashmoleam Museum amphora bears the inscription “Herakleous kore”

(Fig. 23.6) and in a hydria simply “kore” (Fig. 23.7)42. The translation “daughter of Heracles” seems implausible43 according to Ferrari44, who associates it with what could be the start of a much longer hymn to Heracles. It might mean “Heracles’s girl or bride”45, and refer to a young girl Other similar vases are: black-figure hydria inv. 1721 in the Antikensammlungen of Munich (ABV 332.24; Beazley Archive 301802); Black-figure hydria Pregny, Baron E. de Rothschild (ABV 333.2; Beazley Archive 301809); Black-figure hydria inv. 68.14.1 in the Elvehjem Museum of Art of Madison (Beazley Archive 351082). For nuptial iconography linked to Heracles and Athena: see Verbanck-Piérard 1987, 189 and 194, with n. 84. 43 “Daughter of Herakles”: Beazley in CVA: Oxford Ahsmolean Museum, 2, 99–100, pls. (409,410,408) 8.5-6, 9.3, 7.9. However, Boardman notes that kore goes with Heracles in genitive and may refer to Phye: Boardman 1972, 64–65. 44 Ferrari 1994, 224–225. 45 Gardner 1893, 10, pl. 2. 42

Boardman 1972, 65. Hydria of Paris with Hermes proegetes and Apollo Citharoedus accompanying Heracles and Iolaos in chariot and Athena: fig. 5. See also Black-figure Hydria STG 30 in the National Archaeological Museum of Naples (ABV, 333.26; Beazley Archive 301804); Black-figure amphora B200 in the British Museum of London (ABV 330.3; Beazley Archive: 301781). For Heracles with the cithara, see fig. 4. 40 41

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Miriam Valdés Guía

Fig. 23.6. Oxford, Ashmolean Museum. Black-figure amphora, inv. V212: A. Heracles and Athena ; B. the inscription “Herakleous kore” (Reworked from Beazley Archive 301783).

Fig. 23.7. Naples, Museo Archeologico Nazionale. Black-figure hydria, inv. 81177: A. Heracles; B. the inscription “kore”; C. Athena (Reworked from Beazley Archive 301797).

another interesting hydria (Fig. 23.9) by the same painter in which Heracles is entering a building (a temple?), where a draped man is seated and sleeping and, according to Beazley, who may be the giant Alcyoneus47. The building could be the sanctuary of Athena Pallenis in Attic Pallene, just linked to the giants. In relation to this hypothesis, two more vessels - in this case depicting by Exekias - provide fodder for thought. One of them, a black-figure amphora, represents on face A Athena riding a chariot, Heracles, Apollo playing a cithara, Hermes and a man in chlamys (Fig. 23.10); on face B, there are robed men - one riding a chariot and some of whom are old - plus youths as well as a number of women, one holding a corset, which is rather intriguing and could evoke Phye48.

(parthenos such as Athena in Pallene and Phye) imitating the goddess and taking her place next to the young man (neos), who represents the hero, to start a triumphant and victorious march to Athens in a hypothetical procession. In the Ashmolean Museum armed Athena is on a chariot while an old man and a warrior harness it, and Heracles and a young man lead the horses. There is also a building with three Doric columns that could represent a temple. In the hydria with the “kores” inscription, Athena, once again, appears on a chariot with Heracles, an old man and Hermes. The role of this old men in the rites of the Pallenian sanctuary should not be forgotten. In another slightly different scene - in another Priam Painter hydria - Heracles stands before an armed Athena on the chariot. The hero is attacking a snake in a fountain house that is built on a rock where there is a girl with a hydria and a lion (Fig. 23.8). It is important to remember the reference to the sanctuary of Athena at Pallene as a sacred ‘rock’ or rocky hill (πάγος) in the Heracleidae46. There is yet 46

47 Athena is present with the panoply and also Hermes (seated on a block) and the chariot. Alcyoneus: see supra note 27. Pallene as the daughter of the giant Alcyoneus: Suda, s.v. “Παλλήνη” and s.v. “Ἀλκυονίδες ἡμέραι”. 48 I would like to thank Giulia Rocco for having brought the Exekias vase to my attention. Mackay 2010, 183–185. See also the black-figure amphora in London market, McAlpine (Beazley Archive 23051).

Rock: Harrison 2005, 121. Eur., Heracl., 849.

180

Myths and Rites of the Attic Pallene

Fig. 23.8. Boulogne-sur-Mer, Musée. Black-figure hydria, inv. 406.R3: A. Athena; B. Heracles; C. girl with a hydria and a lion (Reworked from Copyright Philippe Beurtheret).

Fig. 23.9. Civitavecchia, Museo Civico. Black-figure Hydria. Detail (Photo by the author).

181

Miriam Valdés Guía

Fig. 23.10. Orvieto, Museo Civico, Coll. Faina. Black-figure amphora, inv.187: A. Heracles and Athena; B. Apollo plying the cithara; C. man in chlamys; D. Hermes (Reworked from Beazley Archive 310393).

Conclusions

Bernabé, A. 1992, “El mito de Teseo en la poesía arcaica y clásica”, in R. Olmos (ed.), Aspectos sobre Teseo y la copa de Aison, Madrid, 97–118.

The sanctuary at Pallene, dating back to the Geometric period, was constructed during the Archaic Age as a liminal space halfway between the Pedion and the Mesogaia of archaic Paralia. Myths and stories arose around the site. These include stories concerning Eurystheus, who was pursued by Demophon and the Heracleidae and, in particular, the accounts of Pallas, the Pallantids and Theseus, which mythologised the theme of the conflicts during the unification that surfaced in the Archaic period. This shows that the site served as a border between different regions and that was used by the archaic Attic factions - that is, those from the Pedion, perhaps through Theseus, who defeats the mythical Pallantids and also Peisistratos, who achieves victory at Pallene in his third seizure of power. This clears his way to Athens and the Acropolis because, together with the episode of Phye - with whom he is united in Polyaenus - it is used by the tyrant to assert that he has the favour and support of Athena. There seems to have a procession from Pallene to the asty (to the Acropolis) as suggested by the episode of Phye and the other evidence analysed here. The pompe resembled a kallinikos komos, with nuptial connotations, with a young man (neos) representing Heracles - the winner of the giants in Pallene - and a parthenos robed and armed as the goddess Athena.

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184

24 La trasformazione del paesaggio agrario in età romana in un settore del Territorium Lyppiense. Paola Guacci Università del Salento From the Roman conquest of Salento (267–266 BC), the gradual Romanization of the Territorium Lyppiense (the land related to the ancient municipium of Lupiae-Lecce) has caused a radical change in the settlement and exploitation of the territory, according to specific infrastructural models that have left tangible signs in the modern agricultural landscape. This study will deepen this process by examining the results of a systematically territorial survey led in a sector close to the roman city of Lupiae. Settlements, centuriation and viability have dramatically shaped the rural landscape between the 2nd century BC and the 4th-6th century AD. This transformation was an enduring phenomenon that has ended in the late antiquity. The paper will also highlight the key role played by the topographical methodology (review of historical aerial imageries, cartography, toponymy, unpublished archaeological evidence) for the support of the ancient settlement analysis and of any landscape historical marks detection. Il graduale processo di romanizzazione che il Territorium Lyppiense, ovvero l’agro pertinente al municipium di Lupiae (Lecce), subisce a partire dalla conquista romana del Salento (267– 266 a.C.), ha avuto come risultato finale un radicale cambiamento nel popolamento e nello sfruttamento del territorio, secondo specifici modelli infrastrutturali che hanno lasciato segni tangibili e ancora oggi decifrabili nel paesaggio agrario moderno. Il lavoro qui proposto intende considerare, prendendo in esame gli esiti di un’indagine territoriale condotta sistematicamente in un settore a ridosso della città antica di Lupiae, i tre elementi attraverso cui è stato possibile ridefinire il paesaggio rurale tra il II sec. a.C. e il IV-VI sec. d.C.: insediamenti, centuriazione, viabilità. Il rinnovamento infrastrutturale che derivò dalla conquista romana del Salento fu un fenomeno duraturo ma transitorio, che trova il suo epilogo nell’età tardoantica che viene qui presentato come il termine ultimo della ricerca. Il contributo vuole mettere in rilievo, inoltre, il prezioso aiuto che gli strumenti di indagine a disposizione per questa ricerca (fotografia aerea storica, cartografia, toponomastica, evidenze archeologiche inedite), hanno offerto per lo studio del paesaggio storico abitato e per l’individuazione delle persistenze paesaggistiche. Keywords: Territorium Lyppiense; Salento romano; centuriazione; Via Traiana-calabra

Il Liber Coloniarum offre gli unici riferimenti al cosiddetto Territorium Lyppiense ovvero l’agro storicamente pertinente al municipium di Lupiae - Lecce, nella Penisola Salentina.Si tratta, com’è facile intuire, del riferimento alle assegnazioni viritane in iugera CC limitibus Graccanis, e quindi probabilmente imputabili alla Lex Sempronia Agraria (I, 211, 1–11 L), e di una successiva limitatio secundum constitutionem et legem Divi Vespasiani (II, 262,5-12 L), esclusivamente riferita ai noti provvedimenti di età vespasianea1. Una parte di questo Territorium, corrispondente al settore posto immediatamente a SE dell’antica Lupiae, è stata oggetto di una recente esplorazione sistematica che ha contribuito ad analizzare alcuni particolari fenomeni relativi

all’occupazione del territorio dall’età pre-protostorica fino all’età bassomedievale2. Particolare risalto viene data in questa sede all’analisi delle modalità insediative di età romana. Per tale ragione, prima di esaminare i casi di studio proposti nel presente contributo, sarà opportuno considerare i principali riferimenti che le fonti classiche rivolgono al Salento romano quali linee guida nella analisi storico-topografica. Partiamo, quindi, dai presupposti storici che, in primo luogo, fissano al 267–266 a.C. l’annessione romana del Salento. La disfatta di Taranto nel 272 a.C. porta alla conquista progressiva del Salento da parte dei Romani con i trionfi sui Sallentini nel 267 a.C. e sui Sallentini e Messapi del 267–266 a.C. (Fasti Trimph. Capit., II, 20), seguiti dalla deduzione della colonia latina di Brundisium (244–243 a.C.). Successivamente, nel corso

Compatangelo 1989; Compatangelo 1993; Chiocci - Pompilio 1997; Compatangelo 1998; Pompilio 2003.

1

2

185

Guacci 2020.

Paola Guacci del I sec. a.C., a conclusione verosimilmente del bellum sociale, si assiste all’adeguamento di Lupiae3 allo statuto municipale e alla sua ascrizione alla tribù Camilia: Lupiae figura tra i municipia menzionati da Plinio il Vecchio per la II Regio Hirpini, Calabria, Apulia et Salentini di istituzione augustea. Si data convenzionalmente a un periodo successivo, presumibilmente coincidente con gli anni di regno di Marco Aurelio (161–180 d.C.), la concessione dello statuto coloniario. A una ridefinizione degli assetti insediativi territoriali si riferiscono, invece, i già citati interventi di parcellizzazione dell’agro comunicati dal Liber. La limitatio salentina si presentava come una suddivisione di tipo regolare con centurie di 20 actus di lato, orientate secundum naturam loci (36° 50’ E), quindi perfettamente aderente all’andamento della linea di costa e alla geomorfologia del terreno. Uno sguardo alle fonti itinerarie, invece, consente di completare il quadro sull’uso del territorio in età romana recuperando le uniche nozioni riferibili al sistema viario salentino: la viabilità principale, diretta derivazione della rete di comunicazione di età messapica (Uggeri 1975), era assicurata da due percorsi paralitoranei4 noti come la via Sallentina (Strab. VI, 282; Itin. Anton. 115, 7; Itin. Burd. 609; Tab. Peut., VII, 1–2.), che costeggiava il litorale ionico, e la via Traiana-calabra, lungo il litorale adriatico (Liv., 36, 21, 5; Plin., Nat. Hist., 3, 101; Itin. Anton. 115, 7; Itin. Burd. 609; Tab. Peut., VII, 1–2), connessi a ulteriori percorsi interni5. Veniamo ora al territorio analizzato. L’area esaminata è compresa nel F. 214 I NO Vernole e si estende nel settore nordorientale della provincia di Lecce, immediatamente a SE del capoluogo e circa 5 km a O del litorale adriatico (Fig. 24.1). All’avvio dei lavori, questo vasto comprensorio risultava pressoché inesplorato: l’area era conosciuta per le attività di scavo sistematico condotte nel centro messapico di Cavallino6 e nella fattoria messapica e romana di località Pozzo Seccato (Acquarica di Lecce, Vernole)7 a questi dati si aggiungevano ben poche evidenze edite, perlopiù riferibili a monumenti megalitici (dolmen, menhir, specchie) noti da segnalazioni ottocentesche8. L’esplorazione sistematica effettuata nel territorio compreso nel F. 214 I NO ha consentito di implementare considerevolmente il numero delle evidenze inedite, stimate a circa l’82%. La conoscenza più capillare dell’area indagata ha permesso di elaborare alcune considerazioni sull’uso del territorio nelle varie fasi storiche. Per l’età romana, il punto di rottura è giocoforza rappresentato dal periodo successivo l’annessione della penisola salentina (267–266 a.C.). Sebbene il Salento proponeva per l’età messapica modelli insediativi già

ben strutturati9, la romanizzazione in area salentina non esitò a ridefinire gli assetti territoriali locali secondo un processo che terminò solo alla fine del I sec. a.C., con la conclusione della guerra sociale e la municipalizzazione delle antiche civitates sociorum. Per il territorio indagato, l’esame dei dati a disposizione consente di evidenziare questo elemento di rottura nel passaggio dall’età messapica, in cui l’uso del territorio è pressoché riferito al centro egemone di riferimento identificato in Cavallino, all’età romana in cui si assiste a un progressivo e costante incremento di siti rurali, che si sviluppano inizialmente lungo la viabilità principale ma che nelle fasi più tarde non esitano a occupare le zone più interne (Fig. 24.2). Si tratta, nella maggior parte dei casi, di contesti rurali di piccole e medie dimensioni documentati esclusivamente da aree di frammenti fittili e materiale edilizio di limitato pregio, che definiscono un livello economico piuttosto modesto. In altri casi, accanto agli insediamenti sparsi, è ben attestato il fenomeno dell’accentramento di insediamenti in determinate località, un fenomeno che sembra svilupparsi soprattutto in età tardoantica in associazione all’uso latifondiario del territorio. In altre parole, il popolamento romano di questo settore del territorium di Lupiae propone degli indiscutibili elementi di novità ravvisabili, non tanto nella maggiore consapevolezza che i Romani ebbero del territorio abitato (di cui erano egualmente consapevoli gli stessi Messapi), ma nell’attuare un modello più stabile ed efficace di gestione e sfruttamento del territorio. Per l’area indagata, i due casi di studio proposti vogliono mettere in risalto questi due principali aspetti dell’insediamento antropico ovvero lo “sfruttamento” e la “gestione” del territorio, analizzando soprattutto gli indizi sopravvissuti nel paesaggio agrario moderno. 1. Sfruttamento del territorio e persistenze centuriali in località Ossano di Cavallino Per il territorio salentino, una pluriennale ricerca condotta dal Laboratorio di Topografia Antica e Fotogrammetria dell’Università del Salento (LabTAF), ha consentito di ricostruire la maglia ipotetica di centuriazione. Il nuovo assetto catastale si basava su centurie di 20x20 actus di lato, il cui orientamento 36° 50’ E risulta del tutto coerente alla natura loci rappresentata, nel caso specifico, dalla linea di costa e dai modestissimi rilievi delle cosiddette Serre Salentine10. La sopravvivenza nel paesaggio rurale moderno dei limiti centuriali, sotto forma di strade e limiti di campo, ha fatto sì che per il caso salentino la traccia da sopravvivenza rappresenti la fonte primaria di conoscenza e di ricostruzione della limitatio antica. Per l’area indagata, lo studio aero-cartografico ha consentito di rilevare un buon numero di persistenze centuriali soprattutto in quelle aeree da sempre mantenute a coltura, dove non si è mai verificato un prolungato abbandono. Tra le evidenze più rilevanti, si segnalano quelle identificate tra località Ossano di Cavallino e il centro abitato di Galugnano. Qui lo schema centuriale

D’Andria 1999; Giardino et alii 2000. Gelsomino 1966; Uggeri 1978; Uggeri 1979; Ceraudo 2008; Ceraudo 2014. 5 Strabone riferisce dell’esistenza di un’arteria che collegava Otranto a Taranto passando per i centri interni di Rudiae, Cavallino, Oria (Strabone, VI, 281); ancora Livio informa sull’esistenza di due vie utilizzate per raggiungere la Puglia al tempo delle Guerre Sannitiche (Livio, IX, 2, 6); Plinio descrive il collegamento esistente tra il Capo di Leuca-VasteOtranto (Plinio, Naturalis Historia, III, 100). 6 D’Andria 2005. 7 D’Andria 1998; Notario 2002; Giannico 2017. 8 Valchera - Zampolini Faustini 1997. 3 4

9

AA.VV. 1989; AA.VV. 1990; Lamboley 1996. Chiocci - Pompilio 1997; Guaitoli 1997; Pompilio 2003.

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186

La trasformazione del paesaggio agrario in età romana in un settore del Territorium Lyppiense

Fig. 24.1. Penisola Salentina. Inquadramento geografico del F. 214 I NO Vernole (Rielaborazione di Google Earth).

Fig. 24.2. Carta di distribuzione delle evidenze note all’avvio dei lavori (a sinistra) e carte diacroniche relative all’età messapica (al centro) e (a destra) all’età romana.

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Paola Guacci

Fig. 24.3. Galugnano. Sopravvivenza del limite centuriale visibile su cartografia catastale del 1929, in alto a sinistra e su fotografia aerea del 1954, in alto a destra. In basso, è visibile un tratto dello stesso limite centuriale sopravvissuto in un moderno muro a secco (F214 1954 str.177 fotogr. 8628, archivio LabTAF).

si rintraccia, in primo luogo, nella sopravvivenza di un cardo di centuria che con il suo km 1,6 di lunghezza caratterizza questa porzione del paesaggio nei pressi di Galugnano (Fig. 24.3). Poco più a N, in località Ossano, l’analisi delle persistenze centuriali ha reso possibile la ricostruzione completa di due lati di una centuria e l’identificazione di altri limites secondari di centuria, sopravvissuti negli attuali confini campestri. Si tratta, nei casi più eclatanti, di persistenze centuriali intercettate per m 710, la cui funzione è oggi mantenuta da una strada interpoderale e da un moderno limite di campo. È noto che località Ossano ha avuto una forte vocazione agricola in tempi recenti: la zona infatti è dominata dall’omonima

masseria che, tra il XVI secolo e il XIX secolo, gestiva lo sfruttamento agricolo del territorio circostante, incentrato soprattutto sulla produzione olearia. Questa spiccata vocazione agricola, però, sembra essere stata alla base dell’occupazione romana e altomedievale del territorio. A seguito delle esplorazioni sistematiche è stato notato che l’area risultava già popolata a partire dal II secolo a.C. fino, senza soluzione di continuità, all’età bizantina per poi lasciare il posto alla nascita di un casale documentato solo a partire dal XIII secolo11 (Fig. 24.4). L’occupazione dell’area è indiscutibilmente vincolata allo sfruttamento 11

188

De Simone 1888, 64.

La trasformazione del paesaggio agrario in età romana in un settore del Territorium Lyppiense

Fig. 24.4. Loc. Ossano di Cavallino. Carta di distribuzione delle evidenze nei pressi di Masseria Ossano (a sinistra), con il posizionamento delle aree di frammenti fittili (campiture in grigio); delle tracce da fotografia aerea storica (A-B); degli assi centuriali in sopravvivenza e di altre evidenze edite. A destra, il fotogramma del 1947 con (A) l’indicazione delle tracce riferibili a strutture sepolte e (B) a un probabile limes intercisivo (sin., F.214 IGM 1947 str.14 fotogr. 41, per gentile concessione del dott. Claudio Martino; dex., Rielaborazione di Google Earth).

agricolo del territorio, vocazione questa che resterà inalterata dall’età romana fino all’età moderna: sono indizi di questa sopravvivenza della funzione insediativa le già ricordate persistenze centuriali e, soprattutto, il toponimo prediale Ossano, diretta derivazione dal gentilizio Ussius12. Una foto del 1947consente di completare il quadro. Si tratta di una immagine aerea scattata su Masseria Ossano, negli anni in cui non era stata ancora realizzata la SS. n. 16 Lecce-Maglie. L’immagine è piuttosto significativa perché rappresenta l’unico documento che consente di identificare alcune tracce di strutture sepolte, successivamente obliterate dalla costruzione della strada statale. Le tracce in questione, lineari e di color chiaro, hanno diverso orientamento essendo disposte alcune in direzione NO-SE e altre in direzione NE-SO; il loro orientamento e la loro fisionomia lasciano, dunque, supporre che esse si riferiscano a strutture murarie pertinenti a qualche edificio sorto nei pressi degli insediamenti rilevati a seguito delle ricognizioni. La foto storica propone, inoltre, un raro esempio per il Salento di traccia di limites intercisivo. È visibile, infatti, una traccia orientata NO-SE di m 160 di lunghezza, interpretabile come scolina interpoderale avente funzione di limite centuriale. La georeferenziazione del fotogramma sulla griglia di centuriazione ipotetica consente di rilevare che la traccia in questione dista circa m 355 dall’ipotetico asse principale di centuria, visibile a NE, classificandosi quindi come limites intermedio. In sintesi, il dato che emerge per località Ossano di Cavallino è esemplificativo di una modalità di abitare e sfruttare il territorio in età romana. La località, infatti, si connota come un’area occupata da un abitato raggruppato, ovvero da un agglomerato costituito da contesti rurali distinti ma contigui, il cui principale periodo di occupazione sembra essere fissato tra l’età imperiale e tardoantica. Il popolamento di questi 12

insediamenti è connesso all’uso agricolo del territorio centuriato, quest’ultimo ancora rintracciabile nel paesaggio rurale moderno. 2. La gestione del territorio attraverso l’infrastruttura viaria: la via Traiana-calabra I lavori di ricerca topografica condotti nel F. 214 I NO hanno consentito di definire maggiormente il quadro della viabilità passante per questo settore del Territorium Lyppiense. Tra gli assi viari ipotizzati, particolare risalto è stato dato alla ricostruzione della cosiddetta via Traianacalabra, ovvero il prolungamento in area salentina della via Traiana (109 d.C.), che permetteva il collegamento tra Brundisium - Lupiae - Hydruntum. Per il territorio indagato, la via Traiana-calabra è l’unica direttrice viaria menzionata dagli Itineraria romani che fissano a circa 50 m.p. la sua lunghezza complessiva. Lupiae aveva funzione di mansio intermedia lungo il percorso essendo posta a una distanza di 25 m.p. In uscita da Lupiae, la via avrebbe necessariamente transitato per l’area esaminata al fine di raggiungere il porto di Hydruntum. Alla ricostruzione tradizionale della via proposta da Giovanni Uggeri13, il quale la riconosce in un percorso interno raffigurato nell’Atlante Geografico del Regno di Napoli di Antonio Rizzi Zannoni14 (1789 - 1808), si affianca un’ipotesi alternativa che prospetta l’esistenza di un percorso non interno bensì paralitoraneo, funzionale al collegamento dei porti di Brindisi e Otranto15. Incoraggiano l’idea di una variante orientale (orientale rispetto al convenzionale percorso proposto da Uggeri), l’incrocio dei dati desunti dalla letteratura erudita e dalle fonti cartografiche, uniti Uggeri 1979. In particolare, è raffigurato un asse viario passante nei pressi dei centri abitati di Cavallino - Lizzanello - Castrì di Lecce - Caprarica che Gelsomino e Uggeri considerano sopravvivenza della via romana. 15 Guacci 2018. 13 14

Laporta 1988, 242.

189

Paola Guacci

Fig. 24.5. Il passaggio del via Traiana-calabra nel tratto Lupiae-Hydruntum (Guacci 2018).

tratto Lecce - Otranto, un solo asse viario, paralitoraneo, passante per i Laghi Alimini17. Lo studio topografico condotto nel F. 214 I NO, inoltre, ha consentito di porre l’accento su altri aspetti non meno interessanti che avvalorano maggiormente l’ipotesi del passaggio della via Traiana-calabra lungo un tragitto differente. In primo luogo, è emersa una maggiore coerenza della variante orientale della via Traiana-calabra con l’infrastruttura centuriale. In questa prospettiva, la via cercò per quanto possibile di utilizzare un’infrastruttura già esistente (quella centuriale appunto), correndo secundum naturam loci e quindi secondo la pendenza naturale del terreno. Questa coerenza alla limitatio romana contribuì a definire un percorso più lineare e regolare, tipico dei percorsi romani in area pianeggiante, differentemente dal tracciato descritto dall’Uggeri la cui traiettoria sembra svilupparsi in rapporto ai centri abitati moderni.

ai dati emersi dallo svolgimento delle ricognizioni di superficie (Fig. 24.5). Il letterato salentino Antonio De Ferraris detto il Galateo nel suo Liber De Situ Japigiae menziona per il tratto Lecce-Otranto una via Traiana (10, 1.5-6), ben nota dai locali (13, 3.1-4), che prima di arrivare ad Otranto attraversava l’istmo dei Laghi Alimini (10, 1.5-6); l’esistenza della via sarebbe indirettamente legata al viaggio di Gualtieri di Brienne che, sbarcato a Otranto dall’Oriente e percorrendo la via che portava a Lecce (presumibilmente la via Traiana-calabra), vide le rovine di Rocavecchia (10, 2.2-3). Al sito antico di Rocavecchia si lega per di più la scoperta di un miliario di età costantiniana (315–18 d.C.), rinvenuto alla metà del XIX secolo nei pressi del sito costiero,“che poi tagliato fu ridotto a uso di mortaio”16. Si tratta di un cippo oggi irreperibile, sul cui ritrovamento non si hanno notizie più circostanziate ma risulta abbastanza suggestivo che gli studiosi del periodo avessero ricondotto l’iscrizione alla via Traiana-calabra, presupponendo il passaggio della via attraverso un percorso paralitoraneo. Neanche la cartografia storica sembra contraddire i suggerimenti del Galateo: una coeva carta del XVI secolo riproduce, per il

Le altre considerazioni riguardano i dati recuperati sul campo: oltre al rinvenimento di tratti di carraia, in particolare quelli di località San Lorenzo di Vernole, la cui numerosità e fisionomia (solchi molto profondi) lasciano presupporre un uso continuo e prolungato della via, si fa riferimento alla cronologia degli insediamenti rilevati lungo il percorso. Sebbene anche lungo la Traianacalabra ipotizzata dall’Uggeri siano stati rilevati degli

Per l’integrazione del testo: “Imp(eratori) Caes(ari)| [Divi] Contant[ii]|filio, [Fla(vio) Val(erio)] [Constantino, pio |fel(ici),| invicto [Aug(usto), cons(uli)]|[(quartum), p(atri) p(atriae), proconsuli], [liberatori rei Romanae]”. Susini utilizza come esempio di riferimento il miliario di Mesagne (CIL IX, 6076). Susini 1962, 169; anche De Giorgi 1975, 261; Uggeri 1978, 115–136.

16

17

190

Silvestri 1986.

La trasformazione del paesaggio agrario in età romana in un settore del Territorium Lyppiense insediamenti rurali, è soltanto lungo la variante orientale che si intercettano siti rurali che a partire dal loro primo impianto, stimato grossomodo a partire dal I-II secolo d.C., restano in vita (con casi di frequente ampliamento o spostamento dell’area occupata o di accentramento di sito) fino all’età bizantina, con attestazioni anche per l’età normanna, secondo una diacronia insediativa che solo il passaggio di un’importante arteria avrebbe potuto generare. Questa diacronia si rileva anche per l’età normanna, con la distribuzione dei casalia di Bancie-Vanze, Vernulae-Vernole, Pisignani-Pisignano, Acquaricae-Acquarica, Segine-Acaya lungo l’antica via. Del resto le opere geografiche e la letteratura di viaggio di età medievale, quest’ultima connessa con il grande fenomeno del pellegrinaggio verso la Terra Santa18, testimoniano indirettamente la sopravvivenza dell’antica via publica ancora nel XII secolo19.

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18 In particolare, si fa riferimento ai movimenti da pellegrinaggio sulle vie Francigena e Francigena del Sud, quest’ultima coincidente grossomodo con la Traiana e Traiana-calabra, che consentivano di giungere in Puglia, da cui imbarcarsi per la Terra Santa. Trono 2014; Rescio 2015. 19 Tra i riferimenti al Salento medievale nella coeva letteratura di viaggio che presuppongono uno spostamento sulla Traiana-calabra figurano il viaggio di Filippo II Augusto di Francia (1191), l’Itinerario di Beniamino da Tudela (1159–1167) e l’Iter de Londinio in Terram Sanctam del monaco inglese Matthew Paris (1253). Leo Imperiale 2014, 152–153.

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25 Mysia and Gargara in Georgic 1: Learned Trip through Toponyms and Topical Places (Saturnalia, 5, 20). Florence Kesseler University of Franche-Comté (UBFC) This article deals with Saturnalia 5, chapter 20. At this moment of the symposium, Eustathius wants to explain a little of Virgil’s Georgic (1, 100–103) and to show the link between some places - Mysia and Gargara - and the theme of abundance. Virgil’s metaphorical language is actually a central point in the reflexion on Virgil. At the same time, fundamental pairs of opposites (nature/ culture, rural space/urban space, the Orient/the Occident) and different kinds of knowledge that are artfully mixed by the compilier bring their own dynamism to the commentary. Certainly, exegetical and aesthetical remarks about Virgil’s lines are of the greatest interest, but the experience offered by Macrobius, literary first, can be a way to deepen the complex notion of landscape. L’articolo esamina il capitolo 20 del V libro dei Saturnalia. Il passo narra l’episodio in cui Eustathius spiega tre versi tratti dalle Georgiche (I, 100–103) e mostra il legame tra alcuni luoghi - Mysia e Gargara - e il tema dell’abbondanza. Il linguaggio simbolico utilizzato è centrale in Virgilio e, allo stesso tempo, l’inserimento di alcune coppie di opposti nel commento come natura/cultura, spazio rurale/spazio urbano, l’Oriente/l’Occidente, rendono lo stesso estremamente stimolante. La testimonianza di Macrobio, oltre a offrire un’analisi erudita della poesia virgiliana, consente anche un’ampia riflessione sulla complessa nozione di paesaggio. Keywords: Macrobius; Saturnalia; Mysia; Gargara; abundance; landscape; symbol Introduction

(“Nec illos uersus relinquemus intactos qui sunt in primo Georgicon”):

In chapter 19 of Saturnalia 5, Eustathius talked about an opulent altar in Sicilia. It is well know that this province as well as Egypt was an important breadbasket for Rome: Cato the Elder regarded this island as a major granary for the Romans1 and Ausonius, several centuries later, ranked two Sicilian cities among the wealthiest areas2. In the following chapter, the themes of water and abundance remain, but the same speaker strongly links his literary concern - Virgil’s Greek sources - to some rich places of the Roman Empire, Mysia and Gargara in the north west part of Asia Minor, and to various types of knowledge. Moreover, this encyclopaedic manner is usual in book 5 and, of course, in the entire work. Even if this little part of the Saturnalia has sometimes a scientific look, due to physical remarks on water flows and soil properties, the compilier still focus on literary techniques and figurative sense that are in Virgilian poetry. Eustathius wants, indeed, to examine some models that Virgil uses in one of his masterpieces, showing again the erudition and the greatness of the Mantuan poet. Let’s see now the short passage from the Georgics which is chosen by the exegete. Eustathius situes approximately (lines 100–103 are concerned) and quotes it after a short introduction 1 2

“Humida solstitia atque hiemes orate serenas, agricolae: hiberno laetissima puluere farra, laetus ager: nullo tantum se Mysia cultu iactat, et ipsa suas mirantur Gargara messes”3. “Pray for damp solstices and calm winters, farmers: emmer grows best in the dust of winter, the fields are fertile. Mysia can make no such boast about its tillage nor Gargara itself so marvel at its harvests”. Macrobius aims to understand the link between toponyms - Mysia4, Gargara5 - and abundance, or rather fertile land. The theme which he revisits is hackneyed since archaic times, often linked to eulogistic oratory6, and very popular in Late Antiquity, judging by some mosaic patterns: thriving personifications7, cornucopiae8, etc. In addition, to back over a fashionable theme, he informs Kaster 2011, 448–449. This region is closed to the Gulf of Adramyttium and in south of Troad. For geographic data, Magie 2015, 35–36. 5 Gargara belong to Mount Ida, that is a Mysian mountain range. 6 See the extract in Merrills 2005, appendix C. 7 Maguire 1999, 245. 8 Balty 1995, 193–194. 3 4

Lévêque 1966. Tarpin 2015.

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Florence Kesseler his readers of Virgil’s borrowings by using pedagogic methods. He creates an orderly discourse, where different disciplines - topography, climatology, agriculture, lexicology, stylistics - are in harmony with each other. An overall view of chapter 20 makes appear a rigorous framework: Eustathius sets out four Virgil’s lines (1), next he brings up a riddle that is inside and that must be solved (quae sint ista Gargara quae Uergilius esse uoluit fertilitatis exemplar) before he defines the noun Gargara (2–3), next he enumerates Virgil’s Greek precursors about which he formulates, generally, a source and, sometimes, a personal opinion (4–16). Eventually, he makes a conclusion (17–18), reverting to the initial question. We will see that this well-structured speech shows the huge Macrobius’ culture, his attention to the details and the sense of belonging in a vast Romanized territory, but plenty of local specificities. So then, Macrobius looks into a poetic cliché (Gargara as concrete pictures of fertility) and underlines a certain perception of nature. But are the Virgil’s toponyms only an occasion to share knowledge and to complete the education9 of a young man10, including with an explanation of literary allusions and environmental factors, or does this Late Antique experiencing of the land establishes the complexity of the notion of landscape?

Fig. 25.1. Troad, The Mont Ida (Photo by the author).

est”)15, but if Virgilian Gargara must be understood in a way only, the speaker points out a matter of homonymy. This topic, with whom Aristotle16 dealt in several works, is a basic element of technical treatises in Late Antiquity, as Anneli Luhtala’s shows it by her detailed list17. It contributes to Virgil’s obscurity, and, on this criterion, Homer is praised in chapter 15 and seems to be better than Vergil, precisely because he tries to avoid any confusion when he mentions specific characters. So Macrobius gives some erudite explanations, as if the key was in intertextuality. In support of two Greek historians (Ephorus and Phileas) and a didactic poet (Aratus), he thinks that Virgilian Gargara are an urban area, under the top (“Vergilius non de summo monte sed de oppido loquitur”), which benefits from springs and rich soils of the mountain. Even if he creates a balance between the meanings, with a same number of quotations on both sides18, the second group seems to guide interpretation and be more credible, probably because of their rationality. Macrobius does not clearly explain his choice between the mount and top. However, he solves the problem and shows again that Virgil does not follow Homer all the time. So then Macrobius distinguishes plural form (Gargara) from the very sense, considering that the onomastics will improve the text comprehension. It does not do with metrical reasons or with a loan translation of a neutral Greek noun, neither does he with a poetic plural, since a lazy grammarian or an ignorant man would have been satisfied with this concept whose P. De Carvalho showed the fragility19. According to M. P. Cunningham, the late antique grammarians made lists of such poetic forms20. Is there a reaction of Macrobius against a current exegetic practice that he considers superficial or is just an embarrassment caused by a plural form, what still happens today21? At any rate, the qualitative value of the poetic plural was well

1. One place can hide another one Macrobius prefers the lexical questions and, especially, the proper nouns. We can see that right from the start: in book 1, chapter 6, he shows an interest in the toga praetexta (origin and use) and explains, for instance, how the term praetexta became a proper noun (Praetextatus)11. In the end of book 5, in one of the last chapters which make up a paradoxical unity because of their eclectic subjects, he ponders about some toponyms, which are in Virgil’s poetry and in diverse Greek authors. As a Neoplatonic philosopher, Macrobius promotes figurative language and, when he finds Virgilian metaphorical expressions, he cannot help telling the way they have to be understood. In an educational concern, he places Mysia and Gargara with precise indications and familiar names. He associates them with a district (Hellesponti prouincia) and with sacred Ida (Fig. 25.1) whose all cultured people know affiliated legends. First, Macrobius points out the polysemy of the term Gargara: it can denote a mount (“cacumen montis Idea”) and a town (oppidum) in the same the mountain range (“sub eodem monte”)12. Here is a first matter of interpretation, about a geographical location13. If Gargara “has two different meanings, referring to two different places”14 (“significatio nominis et loci duplex According to Quintilian, recognizing the linkage between name and identity is a main component of Roman grammatical learning (I. O. 1, 4). 10 Macrobius dedicates Saturnalia to his beloved son Eustathius. See ‘Introduction’. 11 Praetextatus is one of the characters. 12 That is corroborated by Pliny the Elder (H.N., 5.32.1). 13 About modern remarks about the ambiguity of place names in Vergilian poetry, Fletcher 2014, 43. 14 It is not an isolated case in the region: see Latmos. 9

Sat., 5, 20, 3. About this question, Shields 2003; Stette 2011. 17 Luhtala 2007, 130. 18 Homer and Epicharmus deal with the top. 19 De Carvalho 1970. 20 Cunningham 1949, 1–14. 21 About the ora of Scylla, Powell 2008, 101. 15 16

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Mysia and Gargara in Georgic 1 perceived by the Romans22 and its emphatic usage, in the four Virgil’s lines, is totally coherent. Soil fertility is a pleasure for the inhabitants, so then the style reflects their pride and joy. The rich harvests could guarantee durability, fame and wealth to Gargara. The place still existed in Late Antiquity23 and seemed to be quite important24. Furthermore, Macrobius, paying attention to a beautiful fertile land, shows how Roman Elite is attached to resort towns and places of relaxation. B. Cabouret establishes such an enthusiasm in Late Antiquity: the aristocracy of the Roman Orient was partial to nice rural residences25. However, despite numerous and precise information on Gargara, Macrobius doesn’t mention the existence of two towns, recorded by the archaeological excavations26 and by Stephanus of Byzantium, who mentions the toponym “Παλαιγάργαρος”27. Either Macrobius makes no distinctions between “Palaigargara” and the new town to avoid a possible mistake or he ignores the history evolution of the site - the Gargareans abandoned their house and reached a more favourable area, which was lower in the mountain in all probability - and he never went there. Gargara was fortified for a long time, especially because the nearby sea and the risks of robbery, even if always benefited from natural defences: the word oppidum28 fits with Gargara’s configuration, since it indicates technically an enclosed settlement, with barriers, habitations and crops29. The late antique scholars realized that onomastics was an important element of Virgil’s poetic art. Servius, a contemporary grammaticus and a young respected guest of Saturnalia, also takes an interest in toponym Gargara30. He clarifies it in support of several authors31, indicating in particular that Gargara is a city at the foot of Mount Ida in a fruitful area. The similarity between both texts is striking. From common elements, we may deduce that the one influences the other one. It is more likely, however, that Servius, as a great Virgil’s specialist, has been used by Macrobius32, but the independence of each work, strongly established by the critics, suggests imagining a common source. Perhaps, Macrobius borrowed scientific remarks from Serenus Sammonicus, also because he introduces him elsewhere in Saturnalia book 2 as a brilliant man (“vir saeculo suo doctus”). The differences between the Commentary’s abstract and chapter 20 back up this theory, but the sources of Macrobius is a challenging question. Finally, the representation of Macrobius’ area, is closed to the stereotype of a Roman fortified mountain town, with its steady water supply33, as we read in the land-surveyor’s

treatises. So, their influence - at least the influence of any technical geographical writing34- is conceivable. 2. Virgil’s mastery of words and literary topoi Macrobius picks up four Georgic’s lines due to their emblematic value and their visual dimension, exploring how an Anatolian Virgil’s space develops a suggestive power and mixes different stylistic ornaments: he puts this literary subject in the book 5 incipit, a real systematic introduction on the kinds of the style. As a grammaticus, he unveils rhetorical and poetic elements. The lyrical intensity springs from a charming Ida’s area, which is located in a generous nature and which reminds of Arcadia’s descriptions35. Many sources, not only literary texts, put attention to Hellenic features of the Mysia, like olive and wheat cultivation36. The compilier shows complexity and figurative meaning of Virgil’s poetry, making then it more accessible. He introduces himself as a sort of guide through his speaker: “Not only is the meaning here rather obscure and the expression a bit more tangled than usual for this poet, but the passage involves a question derived from Ancient Greece that deserves notice: what is what “Gargara itself” that Virgil held out as a model of fertility?”37. In parallel with an intertextuality study, he examines how Vergil transforms the reality, giving a sort of universality to a unique place. So, Gargara is chosen to stand for the idea of abundance, but in addition to Virgil, some authors willingly made Mysia’s, Bithynia’s or Cilicia’s towns (e.g., Calpe of Bithynia and Thebe of Cilicia) as symbol of Asiatic luxury. Regarding the elocutio, Macrobius emphasizes some rhetorical tools and, in fact, Mysia and Gargara are allegorical toponyms. The link between Gargara and the abundance is analogical and famous places are at the same time semantically extended and humanized. This situation evokes the antonomasia38, which is a common element of the Greek and Latin grammatic even in Late antiquity (Servius, Donatus, Charisius, Priscian, Isidorus). However, Macrobius does not use technical denominations (the antique figures had a loose terminology, as S. Leroy suggests39) about the Virgilian toponyms that obviously undergone a metonymic displacement. Maybe, he keeps one’s distance from book 4, where he was concentrated on the Virgil’s figures (types, utility, impacts...) and delivered a grave discourse: in book 5, Macrobius has yet a new perspective, since he mainly focuses on Virgil’s Greek sources and, even if he puts forward ideas about Virgilian naming practices, he does it with various knowledge, in a more dynamic fashion: for exemple, in chapter 18 Eustathius explains why the Achelous River was used in place of any water. So then, Virgil uses selected place names (Mysia, Gargara) to refer to a coterminous concept which exceeds their geographical specificity. In support to Alceus, Aristomenes

Touratier 1994, 86. On the Peutinger Table, we can see Gargara and neighboring town Antandros, below a sketch which depicts Ida: see https://leg8.fr/monderomain/table-de-peutinger. 24 Clarke 1888. 25 Cabouret 2013. 26 See Vergnaud 2012, 81. 27 Ethnica, § G 198.2. 28 Nevertheless, the word oppidum can be substituted for generic terms. Jourdan-Lombard 1972, 373–395. 29 Borne et alii 2011, 10. 30 See also Servius, ad Aen., 9.85. 31 Serenus Sammonicus to a great extent and historians Rubellius Blandus and Quadrigarius. 32 Türk 1963; Flamant 1977, 83–84. 33 Acolat 2005, 7–56. 22 23

Humphries 2007, 40. See Virgil’s Eclogues and their charming landscapes. 36 Ears of wheat on coins, for example. 37 Sat., 5, 20, 2. 38 Teachers used Cicero as a main example. 39 Leroy 2001. 34 35

195

Florence Kesseler and Aristophanes40, Macrobius shows the protean nature of proper noun Gargara, since it can become a quantifier (“a lot of ...”) and combine with another noun. In chapter 15, Macrobius points out such a creativity, but Homer is concerned (“et quotiens multam necem significare vult, “messem” hominum factam dicit”)41. Commenting this passage from First Georgic is a way to highlight a part of Virgil’s talent: lexical (re)creation and art of playing with special names. The Eustathius discourse on Virgilian link between names and identity - a territorial identity here reminds that border between the different types of nouns is porous and manifests the constant worry of philosophers about linguistics. Nevertheless, such symbols of abundance are not only in Virgilian poetry. We find this picture of the Golden Age42 - Saturnalia festival commemorates it and is the temporal setting of Saturnalia -in Ars amatoria43, but Ovid does not use exactly the same words (Gargara quot segetes) and puts Gargara in an erotic context, since he praises Rome for its numerous various women. In a later encomiastic passage, it is Pacatus turn to use archetypal names, especially Gargara. In Theodosian Panegyric (389 AD), he hopes that all world beauties among them Gargara - will bow before Spain, because Spain is Theodosius’ homeland44: “Sint, ut scribitur, Gargara prouentu laeta triticeo, Meuania memoretur armento, Campania censeatur monte Gaurano, Lydia praedicetur amne Pactolo, dum Hispaniae uni quidquid ubique laudatur assurgat” (4, 4–5)45. Macrobius may have known this discourse that was delivered in favour of a staunch catholic emperor. At any rate, this reuses manifest longevity of nice Gargara in literature and in collective mind. Macrobius exhibits Virgil’s performance, concerning one of his numerous representations of nature: the poet embellishes his ‘sensible and realistic’46 description with various poetic processes (amplificatio, variatio…), so that abundantia does not only concern landscape elements but also style47. Due to the intensity of his vivid description, he inevitably arouses admiration and pleasure. That’s also why Macrobius select such a passage, in which poetic eloquence and imaginative force serve a philosophy of the beauty.

in human prosperity. So then, the Mount Ida, as a water tower, is the principal cause of continuous profits and a security token. However, Virgil’s praise is not economic but aesthetic, so Macrobius points out Virgil’s rhetorical skills. It appears that the poet uses a figurative language, including natural personifications and hyperbolical expressions, and that he gets his material from a vast deep culture. When Eustathius talks among Symmachus’ guests during Saturnalia festival, Mysia belongs to the old Roman province of Asia, that Emperor Diocletian divided, and to the current Hellesponti provincia. Despite the amazing soil fertility, the dynamic commercial activity and the proximity with flourishing cities like Constantinople, there is in this area a certain instability, because the barbarian threat49 - the scholars mention especially Gothic menace50 - and the city is an important centre of strong pagan resistance to Christianization51. So, the choice of the land is all the more interesting. Bibliography Acolat, D. 2005, “Représenter le paysage antique. Des normes des arpenteurs romains aux témoignages épigraphiques (IIe-IXe siècle)”, in Histoire & Sociétés Rurales, 24, 7–56. Balty, J. 1995, Mosaïques antiques du Proche Orient: chronologie, iconographie, interprétation, Besançon. Batstone, W. 1997, “Virgilian didaxis: value and meaning in the Georgic”, in C. Martindale (ed.), The Cambridge Companion to Virgil, Cambridge, 125–144. Borne, D. - Scheibling, J. - Vieillard-Baron, H. 2011, Banlieues et périphéries. Des singularités françaises aux réalités mondiales, Paris. Cabouret, B. 2013, “Élites de l’Orient romain à la campagne dans l’Antiquité tardive”, in Topoi. OrientOccident, suppl. 12, 421–457. Cunningham, M. P. 1949, “Some Poetic Uses of the Singular and Plural of Substantives in Latin”, in Classical Philology, 44.1, 1–14. De Carvalho, P. 1970, Le “pluriel poétique” en latin, (PhD dissertation), Université de Bordeaux.

Conclusions Macrobius was recognized as a brilliant compilier, but also as a respected geographer still in the Middle Age48. A lot of remarks concerning the Mysia’s natural resources and physical properties of its distinctive mountain soil manifest his curiosity about environment. He highlights the role of ideal climatic conditions and of hydraulic agriculture

Flamant, J. 1977, Macrobe et le néo-platonisme latin: à la fin du IVe siècle, Leiden.

Sat., 5, 20, 12–13. Sat., 5, 15, 6. 42 “Nullo cultu” refers to the Golden Age. 43 Ars amatoria, 1, 55. 44 Friell - Williams 1998, 66–67. 45 Tournier 2016. Published online http://journals.openedition.org/ interferences/5830. 46 I borrow this expression from Batstone 1997, 140. 47 Landscape of chapter 20 echo Virgil’s style illustration, a various delightful nature, at the end of chapter 1 (Sat., 5, 1, 19). 48 Stahl 1942.

Humphries, M. 2007, “A new created world: classical geographical textes and Christian contexts”, in J. H. D. Scourfield (ed.), Texts and Culture in Late Antiquity: Inheritance, Authority, and Change, Swansea, 33–67.

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40 41

Zosimus, Historia Noua, 34. O’Hogan 2016, 36–37. 51 Piganiol 2018. 49 50

196

Mysia and Gargara in Georgic 1 millénaire av. J.-C. (Xe-VIe s.), (PhD dissertation) Université Michel de Montaigne- Bordeaux III.

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26 Tra Raetia e Venetia. Definizione e costruzione del paesaggio rurale a nord di Vicenza in epoca romana. Michele Matteazzi Università degli Studi di Trento / Institut Català d’Arqueologia Clàssica de Tarragona This paper focus on the high plain district located to the north of the city of Vicenza, delimited by the Prealpi Vicentine reliefs and defined by the Bacchiglione and Astico-Tésina Rivers. Its peculiar geomorphological conformation, that marks in a rather clear way the transition between plain and mountain, has favoured since ancient times its recognition as a borderland: first between the Veneti and Reti people and then the civitates of Vicetia, Verona, Tridentum and Feltria, passing through the medieval and modern age, becoming an important border district between the Republic of Venice and the German Empire and between the Kingdom of Italy and the AustroHungarian Empire. During the contemporary era, it is the official border between Veneto and Trentino-Alto Adige Regions. This paper aims to contribute to the study of the rural landscape of this borderland by identifying its ancient structuring and by reconstructing its possible evolution during Late Iron Age and Roman Age. Il presente studio focalizza un comprensorio di alta pianura a nord di Vicenza delimitato dai rilievi delle Prealpi Vicentine e definito dai fiumi Bacchiglione e Astico-Tésina. La sua particolare conformazione geomorfologica, che segna in modo piuttosto netto il passaggio tra pianura e ambiente montano, ha da sempre favorito una sua naturale identificazione quale vera e propria terra di confine: tra la popolazione dei Veneti e quella dei Reti prima, tra le civitates di Vicetia, Verona, Tridentum e Feltria poi, passando per l’epoca medievale e quindi moderna, quando costituì un importante distretto di confine tra Repubblica di Venezia e Impero germanico e tra Regno d’Italia e Impero Austro-Ungarico, fino alla contemporaneità, in cui si impone come limite regionale tra Veneto e Trentino-Alto Adige. Con questo paper si vuole allora contribuire alla storia del paesaggio rurale di questa terra di confine individuando le tracce delle sue antiche strutturazioni e cercando di ricostruirne l’evoluzione tra seconda età del ferro ed epoca romana. Keywords: Landscape Archaeology; archaeomorphology; road networks; Roman archaeology; ager Vicetinus 1. Il contesto geomorfologico

zona settentrionale, caratterizzata da quote maggiori e da sedimenti grossolani tipici dell’alta pianura, a una meridionale definita invece da sedimenti più fini tipici di una piana alluvionale. Per quanto riguarda il sistema idrografico, questo appare piuttosto complesso e trova nel fiume Bacchiglione, un corso d’acqua di risorgiva, il suo collettore principale. Alimentato dai torrenti Leogra, Timonchio, Igna e Orolo, esso scende a Vicenza per ricevere la confluenza dei fiumi Astichello e Retrone prima di dirigersi a sud-est verso Padova. Poco oltre il centro berico vi affluisce anche il fiume Tèsina che, originatosi come torrente Laverda alle falde meridionali del Monte Bertiaga, riceve all’altezza di Sandrigo il notevole apporto idrico del torrente Astico. Quest’ultimo deve peraltro essere considerato il principale agente idrografico del territorio, essendo la sua attività sedimentaria responsabile della formazione di gran parte del settore planiziale

Oggetto del presente studio è il territorio di alta pianura che si estende a nord della città di Vicenza e che appare delimitato, a ovest e a nord, dai rilievi prealpini dei Monti Lessini, delle Piccole Dolomiti Vicentine e dell’Altopiano dei Sette Comuni, a sud dai Colli Berici e, a est, dal corso dei fiumi Brenta e Ceresone (Fig. 26.1). Tra le varie caratteristiche geomorfologiche che definiscono questo particolare comprensorio, due sono quelle che vale la pena ricordare: la presenza, nel settore di nord-ovest, dei due sistemi vallivi dei torrenti Leogra e Astico che hanno svolto e svolgono tuttora un’importante funzione di collegamento tra area veneta e trentina, facilitando le comunicazioni tra la pianura vicentina, la Val d’Adige e la Valsugana; nel settore centrale, della fascia delle risorgive, che segna nettamente il passaggio da una 199

Michele Matteazzi

Fig. 26.1. Contestualizzazione geografica dell’area di studio (Rielaborazione di Google Earth).

a nord di Vicenza1. Per quanto oggi svolga un ruolo apparentemente secondario, infatti, la sua funzione era notevolmente diversa in epoca antica, quando il torrente scendeva da Montecchio Precalcino direttamente a Vicenza attraverso il terrazzo fluviale oggi ripreso dal 1

fiume Astichello e formava, poco prima del suo ingresso in città, un’ampia area palustre nota in epoca medievale con il nome di lacus Pusterlae2. Quindi, ormai in ambito urbano, univa le sue acque a quelle dei torrenti Leogra e Timonchio e del fiume Retrone proveniente dalla zona di

Mozzi 2008, 28.

2

200

Sottani 2012, 57. Di essa resta oggi ricordo nel toponimo “Laghetto”.

Tra Raetia e Venetia Sovizzo per dare vita a quel flumen Erétainos/Reteno che le fonti classiche associano al centro romano Vicetia3. Nel corso del XII secolo, a causa delle sempre più frequenti esondazioni che colpivano il centro cittadino - molto probabilmente innescatesi a seguito dell’instaurarsi, in epoca altomedievale, di un nuovo regime idrico che venne a privilegiare l’asta fluviale del Bacchiglione - l’Astico subì probabilmente una prima deviazione verso est per opera del Comune di Vicenza4; quindi nel 1507, con la costruzione del cosiddetto “murazzo scaligero” a Montecchio, venne fatto definitivamente defluire lungo il corso attuale5. La particolare conformazione geomorfologica della pianura, che nella parte nord-occidentale pare quasi cercare e trovare un varco tra i rilievi prealpini creando una distinzione piuttosto netta tra ambito planiziale e montano, ha senz’altro favorito nel corso del tempo un suo naturale riconoscimento come terra di confine: per lo più etnicoculturale durante la seconda età del Ferro, quando funse da area di frontiera tra la popolazione dei Veneti (che occupavano la pianura) e quella dei Raeti (insediati tra i rilievi prealpini); amministrativo in epoca romana, quando la gestione delle sue risorse dipendeva dai centri di Vicetia (Vicenza), Verona, Tridentum (Trento) e Feltria (Feltre); politico in epoca medievale e soprattutto moderna, quando divenne importante distretto di frontiera tra Repubblica di Venezia e Impero Germanico prima, e tra Regno d’Italia e Impero Austro-Ungarico fino al 1918; per poi ritornare a una funzione prevalentemente amministrativa imponendosi, più recentemente, come limite territoriale tra le Regioni di Veneto e Trentino-Alto Adige.

e della Val Leogra9, le cave di pietra di Piovene sfruttate certamente in epoca romana10 e le fonti d’acqua minerale di cui è ricca ancora la Val Leogra11, avrebbe permesso di assumere anche una forte valenza emporica. Durante la seconda età del Ferro, dovevano essere almeno tre i centri principali a suddividersi il controllo del territorio (Fig. 26.2): l’oppidum veneto di Vicenza in pianura e gli abitati retici di Santorso e di Rotzo nell’area prealpina, a controllo dei pascoli (e delle miniere) del Tretto, della Val Leogra, della Val d’Astico e dell’Altopiano di Asiago12. In questa fase, il ruolo di frontiera etnico-culturale giocato dal territorio è suggerito in modo particolare dall’intensa attività cultuale rilevabile, oltre che sul Summano, sui colli di Magrè e di Poleo (presso Schio), dove l’associazione di materiale retico e venetico lascia pensare all’esistenza di una sorta di santuari di frontiera frequentati contemporaneamente da entrambe le popolazioni13. Sembra inoltre ribadito dalla cosiddetta “stele di Isola Vicentina”, che venne eretta nel II sec. a.C. forse con la precisa volontà di segnalare il limite territoriale dell’ethnos dei Veneti14. Tale ruolo frontaliero permane, rafforzandosi anzi in senso soprattutto militare, con la sempre più massiccia presenza romana nella Venetia nel corso del II sec. a.C.: in questo momento la pianura altovicentina sembra infatti costituire una sorta di limes tra l’ormai romanizzato territorio dei Veneti e la Raetia, la cui sottomissione si completerà soltanto durante l’epoca augustea. In questo senso deve essere probabilmente letta la costruzione di un probabile castrum in località Cabrelle vicino Schio15 (Fig. 26.2) e la testimonianza del culto di Marte con dedica di militaria nel santuario del Summano16: evidenze che, assieme al ritrovamento di un tesoretto di dracme massaliote e vittoriati romani (seconda metà del II sec. a.C.) presso l’abitato retico di Colle Castellare a Caltrano17 e alle tracce di distruzione da incendio evidenti in alcuni villaggi retici d’altura, tra cui quello del Bostel di Rotzo18, testimoniano anche la molto probabile avanzata romana in area prealpina attraverso la valle dell’Astico verso la fine del II sec. a.C.19. A partire dall’epoca augustea, con la definitiva romanizzazione del territorio retico e la riorganizzazione amministrativo-territoriale della Cisalpina a seguito del suo inserimento nel territorium Italiae, il comprensorio altovicentino, pur preservando in qualche modo il suo ruolo confinario, perde la precedente funzione frontaliera assumendone una prevalentemente ammnistrativa: venne infatti molto probabilmente suddiviso tra gli agri di pertinenza delle civitates di Vicetia/Vicenza (pianura e parte dei primi rilievi montani), Verona (settore

2. Il contesto storico-archeologico Dal punto di vista storico-archeologico, un’area alquanto importante per il territorio è senz’altro la zona attorno al Monte Summano (Fig. 26.2), sulla cui sommità trovò sede, tra VI sec. a.C. e VI sec. d.C., un importante luogo di culto con funzioni oracolari. Il sito è stato oggetto di indagini archeologiche tra il 2008 e il 2010 da parte dell’allora Soprintendenza Archeologica del Veneto6, le quali hanno permesso di riconoscere in Ercole - nume tutelare di pastori, mercanti, cave e miniere7 - la divinità originaria a cui esso doveva essere intitolato: tale dedicazione potrebbe collegarsi alla pratica della pastorizia transumante e alla lavorazione della lana, attività che erano intensamente praticate nell’area altovicentina durante l’età del Ferro e, in parte, anche in epoca romana8. L’area sacra sarebbe inoltre sorta in un punto fondamentale per il controllo delle differenti direttrici naturali di transito che seguivano la Val d’Astico e la Val Leogra dirette verso la Val d’Adige e la Valsugana o salivano verso i pascoli dell’Altopiano dei Sette Comuni: una condizione che, ulteriormente esaltata dal fatto di trovarsi anche al centro di una zona economicamente assai rilevante e comprendente il bacino minerario del Tretto

Dove fin dall’antichità si estraevano argento, piombo, ferro, zinco e argille da ceramica. Vergani 2003, 35–52. 10 Buonopane 1987, 194. 11 Ghiotto 1997, 183. 12 Migliavacca 2012, 383–384. 13 Gamba 2012, 83–84. 14 Marinetti 2013. 15 Furlanetto - Rigoni 1987, 142–143. 16 Gamba 2012, 85–89. 17 CAVe 1990, 139–140, n. 52. 18 Bressan - Padovan 2011. 19 È possibile che tali eventi siano da ricollegare alle operazioni militari condotte nel 117 a.C. dal proconsole Q. Marcius Rex contro gli Stoni (o Stoeni), popolazione delle Alpi Tridentine che Plinio ricorda come capofila degli Euganei. Degrassi 1947, 560. 9

Matteazzi 2019, 3. Sottani 2012, 207. 5 Mozzi 2008, 28. 6 Gamba 2012. 7 Zenarolla 2008. 8 Ghiotto 2000. 3 4

201

Michele Matteazzi

Fig. 26.2. Il territorio nella seconda età del Ferro: insediamenti, corsi fluviali e probabili itinerari terrestri (Rielaborazione di Google Earth).

nordoccidentale), Tridentum/Trento (settore settentrionale) e Feltria/Feltra (settore nordorientale). In questa fase la pianura a nord di Vicenza inizia a essere intensamente popolata (Fig. 26.3) e interessata dalla presenza di una serie di importanti infrastrutture, tra cui particolarmente rilevanti sono l’acquedotto su arcate (I sec. d.C.) che approvvigionava d’acqua il municipium di Vicetia sfruttando le risorgive della zona di Motta di Costabissara20 e un manufatto idraulico, 20

noto localmente come “murazzo romano”, realizzato forse in epoca imperiale con la probabile funzione di argine di contenimento dell’area golenale dell’Astico al fine di impedirne le esondazioni nella zona tra Sarcedo e Montecchio21. A livello economico, piuttosto importante doveva essere la pratica della transumanza (per quanto archeologicamente poco documentata) e, soprattutto, l’attività di lavorazione della lana, come suggeriscono due

Gamba - Cerchiaro 2014.

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202

Ghiotto - Bonetto 2002.

Tra Raetia e Venetia

Fig. 26.3. Dislocazione dei siti di epoca romana nel territorio e tracce di probabili itinerari di origine antica identificate archeomorfologicamente all’interno della rete viaria attuale (Rielaborazione di Google Earth).

testi epigrafici da Vicenza e da Chiuppano menzionanti il collegio vicentino dei centonarii e la notizia secondo cui Palemone, grammatico vicentino famoso a Roma, apprese da giovane l’arte della tessitura22. In epoca basso-imperiale e, soprattutto, durante la Tarda Antichità si documenta invece una progressiva riduzione degli insediamenti, che mostrano di collocarsi prevalentemente in prossimità delle 22

principali direttrici terrestri e fluviali: lungo le quali, sul finire del VI sec. d.C., si insedieranno anche i Longobardi. 3. Metodologia d’indagine È quindi con l’obiettivo di cercare di meglio definire le dinamiche di occupazione che lo hanno caratterizzato tra la seconda età del Ferro e l’epoca tardoanticaaltomedievale, che si è affrontato lo studio del territorio

Buchi 1987, 150; Boscolo 2014.

203

Michele Matteazzi romane (circa 9 km) da Vicetia. Altri due itinerari seguono poi, a partire da Vicenza, l’antico corso dell’Astico (oggi in parte ripreso dall’Astichello), disponendosi su entrambi i lati del corso d’acqua e dimostrando, parimenti all’itinerario 1, di essere stati in uso almeno a partire dall’età del Ferro. L’itinerario in destra idrografica (3) si porta lungo l’attuale Strada Provinciale Marosticana a Vivaro, località dotata di un castrum che nel XIV sec. era posto apud viam quae vadit Vicentiam31, affiancando la sponda occidentale del lacus Pusterlae, dove nel 1321 è ricordata una strata magna per quam itur versum Vivarium e, nel 1356, una via per quam itur ad lacum32. Quindi per Dueville, dove venne a più riprese indagata una vasta necropoli longobarda33, si dirige verso Montecchio Precalcino; all’altezza del Colle Bastia, tuttavia, avviene uno sdoppiamento di tracciato: un tratto (3a) segue a stretto contatto il corso del fiume, affiancando il “murazzo romano” tra Montecchio e Sarcedo e continuando poi per Zugliano fino a Centrale, dove troviamo una corrispondenza con la via publica qui ricordata nel 131534; l’altro si dirige invece a nord-ovest per la località di Levà, il cui toponimo sembrerebbe richiamare la presenza di una via levata o strada su terrapieno di probabile antica origine35, per andare a ricollegarsi al tracciato 3a nella zona di Grumolo Pedemonte. I due tracciati riuniti proseguono quindi per Carrè, Piovene e Arsiero, inoltrandosi nella valle dell’Astico in direzione di Trento. L’itinerario in sinistra idrografica (4) risale invece per le zone di Cavazzale e Povolaro fino a Breganze, corrispondendo molto probabilmente alla strata magna que vadit de Vincentia Bregancias menzionata nel 127736. Quindi risale per Fara Vicentino, Lugo, Calvene, Caltrano e Cogollo del Cengio, andando a incontrare l’itinerario 3 poco a nord di Arsiero per proseguire poi congiuntamente con esso lungo la Val d’Astico. Nella zona centrale della pianura si segnalano altri due itinerari diretti da Vicenza verso nord. Uno di essi (5) si stacca dall’itinerario 3 a partire da contrà S. Francesco a Vicenza e, seguendo l’attuale tracciato di strada S. Antonino si porta a Caldogno. Quindi, per Marano Vicentino e l’area su cui insistono i resti del probabile castrum romano di Cabrelle raggiunge la zona di Santorso e del Monte Summano: in epoca medievale tale itinerario era noto come via marana, mentre in un documento del 1308 il tratto nella zona di Caldogno è suggestivamente definito viam veterem37. Il secondo (6) si origina invece a partire dal precedente all’altezza di Caldogno e, per Thiene, Carrè e Chiuppano, si porta a Caltrano, da dove è possibile risalire la Val Canaglia per raggiungere la sommità dell’Altopiano dei Sette Comuni a Treschè Conca. Altri due percorsi seguono anche il corso del fiume Tèsina in destra (7) e sinistra idrografica (8) diretti verso la zona di Mason: nei pressi di Quinto Vicentino entrambi incrociano l’itinerario 9 diretto a Treviso, mentre nei pressi di Bolzano Vicentino,

a nord di Vicenza, attuato secondo i principi teorici propri dell’Archeologia del Paesaggio e dell’archeomorfologia e seguendo una prassi metodologica ben definita23. Per quanto riguarda l’aspetto più pratico, lo studio è stato condotto sia a tavolino che direttamente sul campo. Nel primo caso, attraverso l’uso di fotografie aeree (storiche e contemporanee) e satellitari e di materiale cartografico storico (comprendente carte e mappe edite tra XVI e XX sec.), il tutto digitalizzato, georeferenziato e rielaborato in ambiente GIS. Sul campo, invece, effettuando uno specifico survey archeomorfologico, secondo le modalità messe a punto all’Institut Català d’Arqueologia Clàssica (ICAC) di Tarragona24. 4. Risultati dell’analisi archeomorfologica Lo studio archeomorfologico si è concentrato principalmente sull’analisi dell’attuale rete viaria del territorio, individuando una serie di itinerari di probabile antica origine che potremmo considerare gli assi fondamentali su cui si è generata ed evoluta la rete stessa (Fig. 26.3). Si tratta prevalentemente di direttrici che da Vicenza puntano, a nord-ovest, verso le valli dei torrenti Leogra e Astico e, a nord-est, verso la Valle del Brenta, ovvero in direzione dei principali corridoi naturali che favoriscono le comunicazioni con l’area trentina; altre seguono invece orientamenti E-O, fungendo sostanzialmente da collegamento tra le direttrici N-S. Tra le prime, una certa antichità è molto probabilmente da ascrivere all’itinerario 1, che da Vicenza segue i piedi dei Lessini per Costabissara, dove nel 1277 è ricordato come strata magna que vadit Maladum25. Quindi per Isola Vicentina, Malo e Pievebelvicino raggiunge Rovereto lungo la Val Leogra e la Vallarsa, trovando corrispondenza con la strata recuperanda menzionata in documenti scledensi del 126426. La sua antichità è indiziata dalla presenza, lungo tale percorso, di siti databili all’età del Ferro e all’età romana e, a Costabissara, di un insediamento rustico (I-VI sec. d.C.) forse interpretabile come mansio27. L’itinerario 2 collega invece Vicenza a Schio (corrispondente all’altomedievale castrum di Schledum) e alla Val Leogra, congiungendosi al precedente nella zona di Torrebelvicino. Esce da Vicenza lungo il tracciato oggi ripreso da corso Fogazzaro, affiancando i resti dell’acquedotto romano fino a Motta di Costabissara: di questo tratto, che corrisponde molto probabilmente alla via de murellis ricordata nel 129328, è stata messa in luce in diverse occasioni l’antica sede stradale glareata29. Da segnalare, inoltre, che l’itinerario affianca un probabile insediamento cultuale di epoca romana in località Brotton30 e attraversa la località di Sesto di Caldogno, toponimo che potrebbe essere derivato da un originale ad sextum lapidem e segnalare quindi un’antica località posta a VI miglia Matteazzi 2016. Matteazzi 2019, 19. 25 Sottani 2012, 103. 26 Ghiotto 1999, 177. 27 Bernardelli et alii 2012, 41–48. 28 Sottani 2012, nota 287. 29 CAVe 1992, 36, n. 20; Gamba 2012, 89; Gamba et alii 2012, 110. 30 CAVe 1992, 39, n. 35. 23

De Bon 1941, 54. Sottani 2012, 62. 33 Possenti 2001, 146. 34 De Bon 1941, 54. 35 Sulle vie levatae o in aggere, vedi Matteazzi 2013, 24–25. 36 Sottani 2012, 69. 37 Sottani 2012, 120.

24

31 32

204

Tra Raetia e Venetia dall’itinerario 8 si stacca l’itinerario 10 diretto a Marostica38. Tra le direttrici E-O, un itinerario (11) collega le zone di Schio, Santorso e Piovene e, quindi, gli itinerari per Rovereto e Trento, passando ai piedi delle Piccole Dolomiti. Un secondo (12), a partire da Malo, si dirige a nord-est per Breganze e Marostica fino a Bassano del Grappa e all’imbocco della valle del Brenta, dove incontra l’itinerario 13 che da Padova risale la pianura in destra Brenta diretto in Valsugana39: piuttosto certa è la sua corrispondenza con la via publica transitante per Breganze e Mason tra il 1262 e il 129440 e la via Marosticana et de Maxone menzionata nei Confines Culturarum di Vicenza del 127741. Infine, un itinerario (14) da Isola Vicentina si porta a Montecchio Precalcino passando per Novoledo di Villaverla, dove nel 1292 è ricordato come via publica42 e nel 1969 ne venne messa in luce l’antica sede stradale glareata43. È possibile che a Montecchio, dove è abbastanza probabile la sua corrispondenza con la via testimoniata nel 1296 in località Capo di Sotto44, la direttrice viaria attraversasse anticamente l’Astico, sfruttando la presenza di un guado attestato ancora in epoca medievale45, per raggiungere Sandrigo e andare a collegarsi, nei pressi di Camazzole, all’itinerario 15, in epoca romana seguito dal tracciato della via Postumia. L’analisi archeomorfologica ha permesso anche l’identificazione di alcune reti viarie di tipo ortogonale, diffuse su tutta l’area di studio ma seguenti orientamenti differenti. L’allineamento dei siti romani noti lungo o in prossimità di questi sistemi ortogonali, lo stesso orientamento mostrato dalle strutture murarie degli insediamenti romani archeologicamente noti, la loro estensione accanto alle evidenti deformazioni e cancellazioni causate dall’impostazione di reti radiali di epoca medievale e più recenti reti ortogonali di minore estensione, suggeriscono per almeno tre di esse una possibile origine antica, consentendo di riconoscerli come possibili esempi di centuriazione verosimilmente afferenti al municipium di Vicetia (Fig. 26.4). L’esistenza di una di tali limitationes (Fig. 26.4a), che si estende sull’intera pianura a nord-ovest di Vicenza e si definisce per kardines orientati N35°O, era già stata variamente ipotizzata in passato46 ed è stata confermata archeologicamente da recenti indagini a Caldogno, le quali suggeriscono anche per essa una datazione alla seconda metà del I sec. a.C.47. Sembra alquanto probabile che il disegno fosse costituito da centurie “canoniche” di 20x20 actus, con Kardo Maximus forse identificabile con l’itinerario 5 diretto a Santorso. Anche il secondo intervento è stato documentato archeologicamente a Caldogno48, dove si è anche documentato stratigraficamente il suo rapporto di posteriorità con il disegno precedente. Anche in questo

caso (Fig. 26.4b), la divisione agraria mostra di estendersi sull’intero areale compreso tra Astico e Lessini e presenta kardines disposti secondo un orientamento di circa N23°O, lo stesso seguito da alcuni insediamenti rustici e da alcuni degli assi viari che definivano l’area urbana di Vicetia. Alcuni degli itinerari identificati mostrano aver potuto funzionare, in parte o del tutto, come kardines e ducumani di tale intervento: tra questi, l’itinerario 3b come kardo e l’itinerario 14 da Isola Vicentina a Montecchio Precalcino, che potrebbe forse aver svolto l’importante ruolo di Decumanus Maximus. Riguardo al modulo impiegato, una delle ipotesi di lavoro suggerirebbe potersi trattare di una limitatio caratterizzata da centurie di 15 x 20 actus, evidenza che potrebbe collocarne la realizzazione in età augustea49. Infine, tracce relative a una terza grande divisione agraria, il cui orientamento mostra di essere stato seguito dalle strutture murarie riferibili alla seconda fase costruttiva dell’insediamento di Fosse50, si rilevano a livello archeomorfologico soprattutto nella parte orientale del nostro territorio51 (Fig. 26.4c). Tale disegno, che si definisce con kardines orientati N15°O e per centurie di 20 x 20 actus, mostra di interessare un ampio areale che si estende ben oltre l’agro vicentino, andando a caratterizzare anche la parte settentrionale delle province di Padova e Treviso52 e definendosi quindi come un grande intervento metaterritoriale. Cronologicamente, la sua stesura finale sembrerebbe potersi collocare intorno alla metà del I sec. d.C. 5. Evoluzione del paesaggio rurale tra la seconda età del Ferro e la Tarda Antichità Da quanto possiamo dedurre dallo studio archeomorfologico, una prima vera e propria definizione in senso strutturale del paesaggio rurale a nord di Vicenza sembra avvenire nel corso della seconda età del Ferro, con lo stabilizzarsi di alcune direttrici viarie impostate lungo il pedemonte lessineo e dolomitico, e le principali vallate che si aprono su di esso, ovvero Val Leogra, Val d’Astico e Val Brenta (Fig. 26.2): queste collegavano l’area di pianura controllata dal centro veneto di Vicenza, con quella prealpina, ricca di affioramenti metalliferi e di risorse agro-pastorali, legata alla cultura retica. Quindi in età romana prende forma e si struttura un più complesso progetto di strutturazione territoriale, caratterizzato dalla definizione di una serie di direttrici stradali strettamente legate all’attuazione di almeno tre distinti interventi di centuriazione inquadrabili, rispettivamente, intorno alla metà del I sec. a.C., in epoca augustea e intorno alla metà del I sec. d.C. Se il primo intervento si sarebbe fondamentalmente concentrato a ridefinire gli itinerari di origine protostorica creando una prima lottizzazione del territorio da assegnare agli abitanti di Vicetia e del territorio da essa controllato che nel 49 a.C. erano diventati cittadini romani, con il secondo, che

Su questi itinerari vedi, più nello specifico, Matteazzi 2020. Su questo itinerario, Bonetto 1997, 31–71. 40 De Bon 1941, 76–77. 41 Sottani 2012, 69. 42 Sottani 2012, 89. 43 CAVe 1992, 36, n. 16. 44 Benetti 1974, 34–36. 45 Sottani 2012, 71. 46 Tozzi 1987, 134–137; Furlanetto - Rigoni 1987, 139. 47 Rossignoli et alii 2016, 192–193. 48 Rossignoli et alii 2016, 193. 38 39

Matteazzi 2019, 115–116. Busana 2002, 302. 51 Sull’evidenza archeomorfologica di questa divisione agraria si discute anche in Matteazzi 2020. 52 Ericani - Lachin 2007. 49 50

205

Michele Matteazzi

Fig. 26.4. Ricostruzione degli itinerari di probabile origine romana individuati attraverso l’analisi archeomorfologica (Rielaborazione di Google Earth).

di Vicetia. Per quanto riguarda invece il terzo intervento di divisone agraria, esteso per lo più nella pianura a nord-est della città, esso sembra configurarsi come un grande disegno metaterritoriale che, impostato sull’asse della via Postumia, venne a coinvolgere i territori dei municipia di Vicetia, Patavium/Padova e Acelum/Asolo. Anche se è possibile che la costruzione originaria possa datarsi in età augustea se non prima53, sembra abbastanza certo che la sua definizione ultima sia avvenuta nella

potrebbe essere possibile collocare in epoca augustea o comunque primo-imperiale, si sarebbe invece messo in pratica un ben preciso programma politico attraverso il quale Augusto avrebbe ridefinito dal punto di vista amministrativo e strutturale i centri urbani della Cisalpina e gli agri da essi dipendenti. A questo programma andrebbe ascritta anche la costruzione dell’acquedotto e del “murazzo romano” come imponente arginatura del fiume Astico tra Sarcedo e Montecchio Precalcino, oltre che la riorganizzazione di gran parte della rete viaria e, molto probabilmente, la stessa ridefinizione urbanistica

53

206

Ericani - Lachin 2007, 11.

Tra Raetia e Venetia

Fig. 26.5. Tracce di possibili interventi di centuriazione di epoca romana emerse dallo studio archeomorfologico condotto sulla rete viaria del territorio (Rielaborazione di Google Earth).

seconda metà del I sec. d.C., come testimonia un cippo gromatico a base quadrata recuperato nell’alveo del fiume Brenta54. In questo senso, allora, potrebbe non essere del tutto sbagliato pensare a un intervento messo in atto in età flavia, momento storico che fu, come già quello augusteo, particolarmente attento al problema delle divisioni agrarie, soprattutto nella penisola italica55. La strutturazione definita in epoca romana sembra 54 55

permanere ancora in epoca tardoantica e altomedievale, come suggerisce la nascita di nuovi centri di potere (chiese, castelli e villaggi) in prossimità dei principali assi della rete viaria precedente: spesso questi insediamenti si inseriscono nella trama originaria modificando o anche cancellando i singoli assi ma, al contempo, ne preservano le linee generali trasformandoli nella struttura portante del territorio attorno a cui verranno ad assestarsi tutti gli interventi territoriali che caratterizzeranno le epoche successive fino alla contemporaneità.

Ericani - Lachin 2007, 101, n. 102. Chouquer - Favory 2001, 208–209.

207

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27 Linking Seascapes and Landscapes: the Case of Tarraco (Tarragona, Spain) during the Roman Empire. Maria del Carmen Moreno Escobar University of Southampton This paper explores the territories and landscape surrounding Tarraco (Tarragona, Spain) to bring together the agrarian and maritime realms in the town’s hinterland. Previous research focussed either on the territorial development of Tarraco hinterland or the specificities of its coastal areas, virtually separating scopes that were intimately connected. To overcome this artefact (generated by how earlier research was conducted), this paper will focus the development of both agrarian and maritime landscapes through time as means to identify their intertwined relationships. Relying on an integrated approach to the archaeological and geoarchaeological evidence and on the use of the Geographic Information Systems, this study will produce new insights into the territorial complexity of this area of Hispania and will shed light into the question of how agrarian landscapes engaged with maritime landscapes to form a continuum within the Mediterranean provinces of the Roman Empire. Questo lavoro esplora i territori e i paesaggi che circondano Tarraco (Tarragona, Spagna) per riunire gli ambiti agricolo e marittimo nello studio dell’entroterra della città. Precedenti ricerche si sono concentrate sullo sviluppo territoriale dell’entroterra di Tarraco o sulle specificità delle sue aree costiere, separando (nella pratica) ambiti che erano intimamente connessi. Per superare questo artefatto (generato da come sono state condotte le ricerche precedenti), questo lavoro studierà lo sviluppo dei paesaggi agricoli e marittimi nel tempo per identificare le loro relazioni intrecciate. Basandosi su un approccio integrato con le prove archeologiche e geoarcheologiche e sull’uso dei Geographic Information Systems, questo studio fornirà nuove interpretazioni sulla complessità territoriale di questa zona dell’Hispania e contribuirà a delucidare come i paesaggi agricoli si articolavano insieme ai paesaggi marittimi per costituire un continuum nelle province mediterranee dell’Impero romano. Keywords: territory; landscape; seascape; Roman empire; geographic information systems; territorio; paesaggio; paesaggio marittimo; impero romano; sistemi di informazione geografica

Introduction

to the fore of its research agenda, i.e. incorporating diverse perspectives (e.g. historical, archaeological, iconographic, legal, geoarchaeological, and spatial, amongst others) into the study of the ancient ports to enhance their understanding as complex and dynamic systems of interconnected ports. In this context, the Roman port-city of Tarraco represents an ideal case-study, due to its outstanding development in Antiquity and its long history of research. As such, it holds great potential for exploring the interrelation between the coastal areas (i.e. seascapes) and the hinterland of Tarraco (i.e. landscapes) in light of new theoretical and methodological frameworks. As part of the PortusLimen work, issues under exploration are the creation and development of Tarraco port system, its evolving internal organization, and the definition of the ways in which the port system’s development connected with and influenced the town’s hinterland. These questions place the research focus on the temporal evolution of the occupation and the changes in the patterns of mobility and visibility in the area and require the integrated and interdisciplinary

The community of Kesse/Tarraco grew from a regional centre in Northeast Iberia to becoming the capital of the Roman province Hispania Citerior Tarraconensis in less than 200 years (Fig. 27.1). This development relied on the strategic role of the city for the Roman Army in the wars in the Iberian Peninsula during the Republican period and transformed deeply the city and its surrounding territory. However, despite the general agreement on the importance of its port in this process, there remains aspects insufficiently explored, such as its organization and the existence of other ports in its vicinity that would have supported the new role of Tarraco in the Iberian context. The PortusLimen Project have consistently promoted in the last years the re-evaluation of the ports in the Roman Mediterranean by applying the concept of port system1 and by pushing the integrated analysis of the Roman ports 1

E.g. Carayon 2018.

209

Maria del Carmen Moreno Escobar

Fig. 27.1. Roman Tarraco in its regional context (Photo by the author).

1. Previous work in the ager Tarraconensis

analysis of the material evidence at the scale of entire landscapes. These conditions motivate the need of using Database Management Systems (DBMS) and Geographic Information Systems (GIS) as tools for structuring and analysing such large volume of information, combining archaeological analysis and spatial analysis to unravel past dynamics in the territory of the Roman Tarraco. This paper intends to analyse the occupation of the territory of Tarraco in connection with the development of its port system, specifically seeking to identify relationships between the coastal areas and the town’s hinterland as means to highlight the links between the organisation of landscapes and seascapes in the surroundings of Tarraco. As such, it presents the current work about Tarraco port system and territory, and contributes towards the definition of the future lines of research developed in the area within the PortusLimen project.

Tarraco presents clear advantages over other Roman towns and ports in the Mediterranean in the availability of abundant research generated around both the city and its territory in the last decades. The studies focussing on different aspects of its archaeological heritage (e.g. the architecture and urbanism of the town, the characteristics of the rural occupation and the impact of the Roman rule on the Tarraco countryside organization) have produced a highly diverse and vast corpus of archaeological data, scattered amongst multiple publications and archives. One of the first attempts to explore and analyse scientifically the organization of local countryside and the town-country relationships was the work developed in the late 1980s and early 1990s by Carreté, Keay 210

Linking Seascapes and Landscapes at improving the knowledge about the Tarraco port area and at defining the location of the coastline in Roman Age. Additionally, the author compiled and re-evaluated all the available information about archaeological sites in both sides of the Francolí River, so permitting to identify potential ports in the area and to define the temporal development of the Tarraco port system10. In this sense, the identification of shipwrecks and/or cargo dumps11 and of possible port areas in the region12 are not only increasing the available evidence of port activity beyond the town limits, but also supporting the existence of a port system connecting Tarraco and other secondary ports to increase the capacity of transport and movement of goods. This data may also support the hypothesis that not only Tarraco, but also the coastal areas were factors of dynamization of the town hinterland, as suggested by Carreté, Keay and Millett13. This hypothesis articulates the research on the territorial dimension of the Tarraco port system within the PortusLimen project, whose developments are presented below in this paper.

and Millett2. This project focussed primarily on the identification of the rural sites through a revision of old archaeological data and intensive field surveys, followed by the archaeological and topographical analysis of these rural sites across time. It offered interesting insights into the evolution of the countryside and the impact on the hinterland of the development of Tarraco as a provincial capital and had a long-lasting effect in the research in the area (e.g. in the design and implementation of field survey strategies in the Ager Tarraconensis Project)3. Despite some of its conclusions being contested by later research, such as the general continuity of settlement and intensity of occupation from the Iberian Age to the Late Roman Empire4, its methodological approaches and interpretations (e.g. the existence of different exchange networks in the area) remained interesting prompts for archaeological research in the area. The interest in the structure and organization of Tarraco hinterland was continued in the Project Ager Tarraconensis (PAT). In contrast with the 1980s project, PAT focused on the area to the west of the Francolí River, covering a wide range of topics (e.g. rural occupation, agricultural production, epigraphy, specific sites). Amongst its many contributions, this project has identified profound changes in the pattern of occupation of the ager Tarraconensis from Iberian to Republican times, interpreted as evidence of the forced dispersion of Iberian people across the plains and/or the settlement of the Roman veterans’ legions, amongst other possibilities5, but also in the visual structure of Tarraco hinterland from Iberian to Imperial times6. Another line of research explores the existence of centuriations in the town’s hinterland through the archaeomorphologic analysis and interpretation of cadastres, historical cartography and remote sensing imagery7. These studies explore the presence in the ager Tarraconensis of three centuriations around the city (Tarraco I, II and III) and one in Penedés (Tarraco IV), all of them with different dimensions, areas and orientation8. This topic has generated both abundant research and interesting hypotheses about the construction and configuration of these networks, although the difficulties in dating these territorial interventions continue complicating the evaluation of their impact on the structure and organization of the occupation of Tarraco hinterland across time. A recent research in Tarragona is starting to turn its attention to port infrastructure, albeit focussing mainly on the port of Tarraco9, thus addressing the need for understanding its organization as one of the keys to Tarraco’s prominence in Roman times. In this sense, the PortusLimen Project has developed several lines of research collaboration with the Catalan Institute of Classical Archaeology (ICAC in its Spanish acronym) in Tarragona to carry out geophysical surveys and geoarchaeological cores, aiming

2. Archaeological evidence and interpretations on Tarraco hinterland Previous research on Tarragona has generated a great amount of archaeological information susceptible of reuse and re-analysis within the context of the study of the area’s territorial development during Roman times. This information (scattered across multiple publications and archives) was compiled and integrated into a single resource (namely the DBMS associated to the GIS) to allow its re-evaluation and re-interpretation as basis for the identification and analysis of the relationships between the port system and the city’s territory. However, the different methodologies that generated this information (extensive and intensive surveys, excavations, geophysical surveys, etc. …) and the diverse intensity of archaeological exploration of Tarragona’s hinterland (amongst other factors) may introduce important biases into this (seemingly) uniform dataset. More significantly, this compilation gathered the sites identified by research in the last decades, but not all Roman sites that ever existed in the area. These conditions, albeit characteristic of any archaeological dataset, may arguably affect the validity of the historical interpretations extracted from its analysis. But, in explorations of historical dynamics at the scale of landscapes it is fundamental to consider and balance two factors: first, the archaeological data is rarely ideal and homogeneous; second, the need to maximise the use of pre-existing information. In this particular case, nonetheless, the examination of the data provides some hints about its value as historical document: in this sense, the high number and the diversity of the identified sites and their scattered distribution (Fig. 27.2a) seem to indicate that this dataset is partially representative

Carreté et alii 1995. Prevosti Monclús - Abela 2011. 4 E.g. Palet Martínez 2003. 5 López Vilar et alii 2011, 381–383. 6 Fiz Fernández 2011. 7 Palet Martínez 2003; Palet Martínez 2008; Palet Martínez et alii 2010. 8 Palet Martínez 2003. 9 Lasheras González -Terrado Ortuño 2018. 2 3

10 Preliminary interpretations were presented in Keay et alii 2016a; Keay et alii 2016b. 11 Pérez Martín 2007. 12 Gutiérrez García et alii 2019. 13 Carreté et alii 1995, 252–253.

211

Maria del Carmen Moreno Escobar of the ancient occupation of Tarraco hinterland. The 224 sites integrating this dataset illustrate the temporal and territorial development of the ager Tarraconensis between the second century BC and the third century AD (Fig. 27.2a). The information gathered ranges from the characterisation of the archaeological evidence collected at the site locations to previous archaeological interventions and interpretations, thus permitting to re-evaluate them to a common standard14 in light of more recent discoveries. Due to publication constraints, the analysis of this dataset will limit to its general characterisation in terms of chronology, typology and spatial distribution, leaving the detailed analysis of the site’s archaeological materials for a future publication. In general, most sites (177, 79 per cent) are known and characterized through the material evidence on surface collected in surveys (extensive, intensive and/or geophysical), whereas a minority of sites has been (at least) partially excavated (47, 21 per cent).

Attending to their spatial distribution (Fig. 27.2a), there seems to exist a stronger preference for lowlands to the west of the Francolí River than to the east. However, considering the total extension surveyed systematically in the 1980s15 and the 2000s16 in both areas (38 km2 in the east vs 31 km2 in the west) and the number of sites identified (34 vs 23, respectively), the eastern area offers a higher density of archaeological sites per km2 (0.89 vs 0.74, respectively). As such, the higher occupation of the western area would be a research artefact, possibly related to the different intensity of current occupation across both areas and the discovery of more sites through preventive archaeology. Attending to the temporality of the occupation, the classification of sites in broad periods indicates a higher intensity of occupation in Republican times (176 sites) (Fig. 27.2b) than in the early Imperial period (167 sites) (Fig. 27.2c), with a substantial decrease in the number of sites occupied in the late Imperial period

Fig. 27.2. A) Distribution of the archaeological sites identified in Tarraco’s hinterland over the reconstructed coastline in Antiquity; B) Site distribution in the Republican period; C) Site distribution in the early Imperial period; D) Site distribution in the late Imperial period (Photo by the author, using data from the PortusLimen GIS; DEM 5m resolution by the Cartographic and Geologic Institute of Cataluña; reconstructed coastline elaborated by the author based on PortusLimen GIS data and first edition of the National Topographic Map of Spain, MTN 1915–1960 CC-BY 4.0). 15 14

Jeneson 2013.

16

212

Carreté et alii 1995. Prevosti Monclús - Guitart i Duran 2011.

Linking Seascapes and Landscapes (62 sites) (Fig. 27.2d). Although this decrease could be partially explained by the latest period’s shorter time span (i.e. less than one century), it also highlights the transformation of the countryside in the third century AD. In this regard, the continuity indexes calculation17 allows for the quantification of these trends in occupation in 67.61 per cent of continuity between Republican and Early Imperial times, and in 34.73 per cent between the Early and Late Imperial Age, thus supporting the observations made by the previous studies18. Interestingly, it is possible to compare the first value (i.e. Republican to Early Imperial continuity) with the continuity indexes calculated for other areas in Hispania, particularly Western Sierra Morena and Lands of Antequera in the Ulterior Baetica province, with indexes defined in 61.9 per cent and 28.57 per cent respectively19. This comparison reflects the diversity in the forms and the timing that rural occupation developed in the different Hispanic regions in Roman times, with areas experiencing more or less profound transformations of their territorial structures at different periods and times. But, more interestingly for Tarraco, it shows the profound impact that the territorial organization in the Republican Age had on the structure of the city hinterland over the following centuries. Lastly, attending to the broad typological classification of sites according to the archaeological evidence available (i.e. materials and structures found in excavations and surveys) permits to characterize the trends in occupation in the area and its changes through time. In the first instance, the occupation of Tarragona comes mainly defined by the duality of sites identified as ‘Settlement’ and those whose typology could not be ascertained by the available evidence (‘Undefined’) (Fig. 27.3), This distribution of rural settlements across the countryside emphasizes the importance of the agricultural exploitation of Tarraco hinterland. However, the existence of figlinae (accounted in ‘Specialist economic activities’), and ‘Specifically Roman sites’, such as the castellum of Puigpelat20, are testimony of the diversity of the activities developed by these rural communities, whereas the (few) sites classified as ‘Port evidence’ attest the interest in the import and export of agricultural products and other goods. These traits, together with the identification of 33 high status settlements coexisting with sites with more limited archaeological evidence show the level of complexity of Tarraco community in Antiquity21. In terms of their temporal development, the classification in broad functional typologies shows again the continuity of the Republican trends of occupation into the early Imperial period, with a slight increase in the number of ‘Settlements’ and a decrease in ‘Undefined’ sites. Also, interestingly, the increase on the number of ‘Specific Roman’ sites may inform about the growing penetration of Roman cultural traits in Tarraco countryside. In any case, these trends of occupation are interrupted in the late Imperial period,

Fig. 27.3. Number of sites in Tarraco’s hinterland according to their broad typological classification and chronology.

characterized by a sudden fall of ‘Settlement’, ‘Undefined’ and ‘Specific Roman’ sites, whereas the stability of sites with ‘Port evidence’ may point at a certain continuity of the interest in the movement, transport and exchange of goods beyond the third century AD. 3. Archaeological evidence, analysis and interpretations on Tarraco port system As mentioned before, one of the hypotheses under exploration within the PortusLimen Project is the existence of other (secondary) ports beyond Tarraco that would have supported the new role of the town in the Iberian context by increasing Tarraco capacity of transport and movement of goods and people. The archaeological evidence available only identified two sites as ports (Tarraco, and Port Romá, Egipci Database, Record Number 7023). However, it would have been possible for other sites to develop port activities without having any port infrastructure, as illustrated by the concept of ‘opportunistic ports’22. In such formulation, both an adequate coastal accessibility and topography would have sufficed for sites to develop port activities, thus allowing to identify archaeological sites as possible ports based on their location (e.g. proximity to the sea). The potential for the application of this concept to the case of Tarraco finds obstacles in the profound transformations of the coastal areas (mainly due to the enlargement of the port of Tarragona in the twentieth century, amongst other processes) and the lack of extensive geoarchaeological surveys beyond the town, which prevent the informed reconstruction of the coastline’s development through time. However, it is still possible to formulate hypotheses and models of the coastline in Roman times building upon the combination of historical maps from the 1920s23 (before the enlargement of Tarragona’s port) and of interpretations of geoarchaeological cores carried out by PortusLimen in collaboration with ICAC in 2015. As such, the comparison of this model of the Roman coastline with the distribution of sites identified in Tarraco’s hinterland permitted the identification of 24 ‘Possible ports’ and

Moreno Escobar et alii 2020. Carreté et alii 1995; Palet 2003; López Vilar et alii 2011. 19 Moreno Escobar et alii 2020. 20 Díaz García 2009. 21 Even considering the problems of correlation between the evidence on surface and underground (e.g. Witcher 2012). 17 18

Leidwanger 2013. Specifically, the first edition of National Topographic Map (Instituto Geográfico Nacional de España, 1925).

22 23

213

Maria del Carmen Moreno Escobar

Fig. 27.4. Number of sites identified as attested ports, possible ports and no ports in the Tarraco’s hinterland.

the Roman Army in the multiple wars ensued in Hispania during the Republic Age. For a long time, the research focussed on the occupation and the territorial organisation of the city countryside, but more recent approaches are emphasizing the role of Tarraco as a port, exploring its internal organization and functioning in Antiquity as well as other port locations beyond the town. Combining the concept of opportunistic ports and a compilation and reevaluation of the archaeological information available for the town hinterland, this paper has proposed the existence and the temporal development of the Tarraco port system. This possibility has important implications for the territorial organisation of the Tarragona hinterland: first, the ports at Tarraco and Port Romá (Egipci Database, Record Number 7023) were not the only ones acting as nodes between terrestrial and maritime trade, opening the possibility that other (secondary) ports channelled the flow of goods between land and sea; second, it would support a decentralized structure of supply in the area25 where Roman villas and rural settlements were potentially located in areas easily accessible from and to these ports to facilitate the transport and trade of their agricultural surplus. More interestingly, the timing for the creation of the port system could not be casual: the existence of a unique port in the area (potentially two, in case Punta de la Cella had a port role) would have made controlling the transport and movement of goods more efficient than if more ports were active in the area at the time. In this sense, it is the transition of Tarraco towards a role more related to civilian aspects of power and administration that made possible the appearance of more potential ports, that would increase the transport and trade capacity not only of Tarraco, but of the whole region.

198 ‘No port’ sites, in addition to the two ‘Attested ports’ already known. Furthermore, the reclassification of sites according to the chronology of their material evidence allowed to define more precise periods of occupation, thus increasing the dataset’s interpretative potential by specifying the development of Tarraco port system in direct correlation with the occupation of the town hinterland from Republican times to the late third century AD. Figs 27.4 and 27.5 show the creation, the growth and the crisis of Tarraco port system: after a period where only Tarraco played a port role consistently (the possible port at Punta de la Cella ceased its activity in the first century BC), the creation of five potential ports meant the creation of Tarraco port system in the late first century BC (Fig. 27.5a), coinciding with the increase in the intensity of occupation of the ager Tarraconensis. The port system was fully developed by the early first century AD, whilst Tarraco hinterland reached its maximum intensity of occupation (94 sites) (Fig. 27.5b). Since then, the number of ‘No port’ sites identified decreases, arguably related to the process of concentration of the land property during Early Imperial times24. Finally, the third century AD saw the drastic fall in the number of sites across all categories, thus evidencing the profound reorganization of both territory and port system (Figs 27.5c and 27.5d). However, and in light of this data, the existence of a relationship between this process of concentration and the reorganization of the countryside remains open during the Late Empire. Conclusions The development of Kesse/Tarraco from a regional centre in Iberian times to the becoming the capital of the largest of the Roman provinces under Augustus is a historical process, wich relied on the strategic role of the town for 24

This work has opened new questions and venues of research, such as the level of integration of ports and potential

López Vilar et alii 2011.

25

214

Carreté et alii 1995, 279.

Linking Seascapes and Landscapes

Fig. 27.5. Distribution of attested ports, possible ports and no ports a) in the late 1th century BC; b) early 1th century AD; c) early 3rd century AD and d) late 3rd century AD (Photo by the author).

Carreté, J.-M. - Keay, S. - Millett, M. 1995, A Roman provincial capital and its hinterland: The survey of the territory of Tarragona, Ann Harbor.

ports within the system, and the relationships established between them and the villas and rural settlements in the town’s hinterland, which require explorations of the connections established between sites in terms of mobility and visibility. Furthermore, there remains the need to clarify the role of port ascribed to potential port sites, through a careful analysis of the evidence available in those and in their surroundings, and to explore the existence of diverse patterns of distribution of archaeological material that would evidence the activity of certain ports in specific areas. Answering these and other questions could offer us the key to understanding how the community of Tarraco successfully achieved both their enhanced connection with their surroundings and their integration into the Roman Empire.

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28 Urban Development and Land Use Connected to Municipalization: a Case Study in Central Apennine Italy. Chiara Blasetti Fantauzzi Georg-August-Universität Göttingen This article discusses the preliminary results of a study carried out in the area around Lake Fucino, which in part corresponds to the municipium Marruvium area. Besides the analysis of the published data, a field verification of the already known sites and a survey were carried out. This enabled the creation of phase maps of the territory from the age of Roman colonization to the age of municipalization. The study of geographical, historical and economic factors made it possible to clarify the reasons for the foundation of the municipium Marruvium on the eastern shore of Lake Fucino. It is the consequence of a change in the Roman settlement dynamics in the middle of the 1st century BC compared to the previous phase. Si presentano in questa sede i risultati preliminari di uno studio effettuato sul territorio intorno al lago del Fucino, corrispondente in parte al territorio del municipium di Marruvium. Il lavoro bibliografico è stato affiancato da una verifica sul campo dei siti analizzati e di una survey che ha permesso di produrre carte di fase del territorio dalla fase della colonizzazione romana a quella della municipalizzazione. Tali carte e lo studio di fattori geografici, storici e di natura economica, hanno permesso di chiarire i motivi per cui il municipium di Marruvium sia stato istituito sulla sponda orientale del lago del Fucino, conseguenza di un cambiamento delle dinamiche insediative romane alla metà del I sec. a.C. rispetto alla fase precedente. Keywords: Roman municipalization; urban development; Land use; Marruvium Apart from the Alba Fucens colony, it can be assumed that only Antinum, Marruvium and Anxa or Angitia were municipia4. Despite the consistency of the epigraphic, archaeological and historical data, the effects of the municipalization of the territory remains an open research question5. Regarding the archaeological data, it is possible to discuss how the cities and settlement patterns changed in pre-Roman times and, in particular, how the distribution of sites changed after the municipalization. In this context, it is of particular interest to study the sites that were raised to the status of municipia. These sites were most probably characterized by a high degree of urbanization, which according to recent studies would have been necessary to meet the standards of the Roman citizens6. In addition, the strategical and geographical situation also seem to have had an influence on the establishment of a municipium. The degree of urbanization, the role of the local elites and, above all, the sanctuaries and their importance played a decisive role as well. A detailed analysis of the municipia and their territory can clarify these aspects. Some

This contribution presents the preliminary conclusion of a topographic study of the Marsica area in Abruzzo, which coincides with the territory of the Roman municipium of Marruvium. Today, the area is a wide plain bounded by the mountain ranges of Vallelonga, Velino Sirente and Salviano and is mainly used for agriculture (Fig. 28.1). In ancient times the area was characterized by Lake Fucino, a large endorheic lake fed by the streams of the Giovenco river and other springs. Lake Fucino was first partially drained under Claudius, followed by a more extensive drainage under Trajan and Hadrian1. It was not completely drained, however, until the nineteenth century. From the fifth century BC, the area around Lake Fucino was populated by the Italic Marsi. After the foundation of the colony Alba Fucens in 303 BC and the destruction of the Aequi, Livy reports that the Marsi signed an alliance treaty with Rome2. After the Social War between 91 and 88 BC and the victory of the Romans against the allied Italic people, the Marsi were granted Roman citizenship. Pliny the Elder listed the following municipia, which were founded after the Social War: Marsorum Anxatini, Antinates, Fucentes Lucenses, Marruvini and Albensium Alba ad Fucinum lacum3.

Letta 1972, 129–130; Letta - D’Amato 1975, 287–300, for the different proposals; Letta 2001, 146–147. Alba Fucens: CIL IX, 3927; Antinum: CIL IX, 3842; Marruvium: CIL I2, 3209; Marsi Anxates: CIL IX, n. 3950. Bispham has worked on the municipia, listing only Alba Fucens for the territory of the Aequi and Marruvium as the only municipium in the territory of the Marsi, founded after the Social War. Bispham 2007, 464. 5 Grossi - Irti 2011. 6 Laffi 1972; Paci 2003; Bispham 2007. 4

Letta 2001, 148. Suet., Claud., 20,1; Tac., Ann., XII, 56; Plin., Nat. hist., XXXVI, 124; CIL IX, 3915. 2 Liv., IX 45, 18. 3 Plin., Nat. hist., III, 106; for the interpretative corrections by C. Letta see: Letta 1972, 128–131; Letta 2001, 146–147. 1

217

Chiara Blasetti Fantauzzi

Fig. 28.1. The region around Lake Fucino (Reworked from Google Earth).

founded colony. Italic settlements adjacent to the colony can be seen in the south and east of the area. Sacred contexts seem to be located exclusively in the southern parts of the Fucino area and along the Roveto valley. In the northern parts of the area only one sacred context is known so far, which is in Alba Fucens in the area of the Sanctuary of Hercules. Sacral structures are not documented in this period. Instead, mainly anatomical votive offerings typical of Etruscan-Italic votive contexts of central Italy, such as depictions of wombs, phalli and breasts, hands and feet, as well as votive animals, veiled heads and masks, can be found10. These are often accompanied by bronze figures, usually depicting Hercules with club and lion skin in an attacking posture11. The bronze figures of Hercules were common in northern central Italy and are probably related to trade, animal farming and pastoral contexts in general. A remarkably high concentration can be found in the Roveto Valley, along transhumance paths that were used to drive herds to Apulia12. East of Lake Fucino, where the material for this phase is less abundant, there is no significant evidence of sacred contexts. Around the middle of the second century BC, two sanctuaries were monumentalized according to late Republican models: the sanctuary in Luco dei Marsi, west of Lake Fucino, identified as Nemus Angitiae and named by Virgil in Aeneid as the central sanctuary of the Marsi (Fig. 28.3.1).

available data on the Fucino area are very detailed, while others are more superficial and sometimes of no value. It was therefore necessary to evaluate other sources such as epigraphic and archival material, the recalibration of the archaeological excavations accompanied by an autopsy of the material which was not always published, an on-site review of the sites mentioned in the publications, intensive field surveys of the area which led to the identification of new sites and the mapping of the archaeological remains of the municipium Marruvium7. The collected data were then transferred into a GIS system (ArcGIS) and a database (ArcGate software). Our research led to the identification of 156 sites throughout the area. Most of the sites that could be identified were agglomerations, sanctuaries, necropolises or single graves as well as farms and rural settlements. The results of this research are summarized below. In the third century BC there were no settlements around the colony of Latin right of Alba Fucens (Fig. 28.2). The Centuriatio possibly took place in the earliest phases of the colony, as the remains found in the villae and the orientation and alignment of the roads show8. As far as the location of the vici is concerned, it is not possible to make hypotheses about their position, as their existence is only attested by inscriptions9. The secondary agglomerations are located far away from the newly

Cairoli et alii 2001, 263–279. Villa 2011; Liberatore 2011; see also Ceccaroni 2011b. We are not dealing with isolated phenomena at Lake Fucino. These are documented in all of the interior Abruzzo. 12 Bonetto 1999.

7 I would like to thank Emanuela Ceccaroni for her permission to do research and conduct surveys in this area. 8 Borghesi 2010. 9 Letta - D’Amato 1975, n. 188: “Trouvée en 1878 au lac du Fucin” (Froehner); CIL IX, 3849: “Trovata vicino al lago Fucino” (Rossi).

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Urban Development and Land Use Connected to Municipalization

Fig. 28.2. The mid-3rd century BC settlement patterns: 1. La Giostra di Amplero; 2. Pescina/Rape Ciche.

municipium. The more intensive use of the resources of the territory in the period after the urbanization is significant in this respect. Due to the rural filling of the territory, the number of necropolises in republican and early imperial times increased significantly17. West of Lake Fucino many sacred contexts were abandoned. The sanctuaries of Angitia and Amplero are continuously frequented, even if only for a short time (Figs 28.4.5 and 28.4.6). In particular, another temple was built in Luco dei Marsi between the second half of the first century BC and the Augustan period. However, it was abandoned almost immediately after its construction18. The vici are also epigraphically attested in this period and were placed along the routes of transhumance to allow exchange and mobility19.

The second is located in Amplero, south of Lake Fucino (Fig. 28.3.2)13. Further epigraphic data from the end of the second to the beginning of the first century BC suggest the localization of other vici14. In contrast to the first phase, for which the sites were assumed on the basis of vague data, it becomes easier and more reliable to localize the vici of the second phase, especially in the southern part of the investigated area (Figs 28.3.3 and 28.3.5). The territory west and south of Lake Fucino is filled with villae during this period, indicating the wealth of the élite. A clear break in the settlement patterns can be observed in the first century BC (Fig. 28.4). The area east of Lake Fucino near the municipium Marruvium is intensively used by agriculture in this period. This is reflected by the numerous villae and rural settlements (Fig. 28.4.1213)15. The results of our investigation in the surroundings of Marruvium must be supplemented to these findings16. Although the results are preliminary, first considerations can be made, which should be revised and extended by further fieldwork and remote sensing analysis. With regard to the Roman phases, the occurrence of Italian sigillata indicates that a reordering of the territory took place after the Late Republican and Early Imperial periods. This could be an indication of changes in the settlement patterns of the territory in connection with the raising of Marruvium to a

As the results of the study clearly show, the settlements were urbanized in the course of municipalization. The most monumental phase of the colony of Alba Fucens seems to begin at the end of the second century BC and continues until the beginning of the first century BC20. In this period the Basilica, the Macellum and the Theatre were built. In addition, the city walls and the Sanctuary of Hercules were restructured in the first century BC and numerous tabernae were built. A large domus near the amphitheatre was built in the first century BC21. Until recently, Marruvium was little known, as the present town

13 Vergilius, Aen., VII, 755–760. Letta 1989, 19–23; Cairoli et alii 2001, 258–261. 14 CIL IX, 3813; Letta 2011. 15 Ercole 2011; Grossi - Irti 2011; Ceccaroni 2011a. 16 For the first survey results, Blasetti Fantauzzi 2016. Therefore, geophysical surveys are planned in this area as well.

Benelli - Rizzitelli 2010. Cairoli et alii 2001, 258–261. 19 CIL IX, 3856. Letta - D’Amato 1975, 136–139, n. 91ter. 20 Ceccaroni 2006; Di Cesare - Liberatore 2017. 21 Pesando 2010. 17 18

219

Chiara Blasetti Fantauzzi

Fig. 28.3. The mid-2nd century BC settlement patterns: 1. Luco dei Marsi; 2. La Giostra di Amplero; 3. Lecce dei Marsi; 4. Cerchio; 5. San Casto; 6. Ortucchio.

Fig. 28.4. The mid-1st century BC - 1st century AD settlement patterns: 1. Alba Fucens; 2. Marruvium; 3. Marsi Anxinates; 4. Antinum; 5. Angitia; 6. Amplero; 7. Cantone; 8. Pratovecchio (Celano); 9. Macerine; 10. Anime Sante; 11. Piani palentini; 12. Località Ruggero; 13. Sodime; 14. Porcareccia.

220

Urban Development and Land Use Connected to Municipalization

Fig. 28.5. The hypothesized boundaries of Marruvium (Reworked from Google Earth).

is densely populated. What was known, came mainly from a few emergency excavations. We catalogued the previously documented finds and mapped contexts with an RTK GPS to better understand the boundaries of the city centre, especially for the first century BC. These contexts included a domus dated between the first century BC and the fourth century AD, a Roman road without a clear chronology, a possible crossroads of the Via Valeria, and an amphitheatre from the Augustan period. Under the amphitheatre a smaller necropolis from the first phase of the municipium was discovered22. In addition, baths, tabernae, public buildings, the basilica and residential buildings were found under the modern houses of the village. These structures are no longer accessible, but were published cursory in the 1980s and seem to be from the first phase of the municipium23. During the survey an anomaly was mapped and later identified as wall structures covered by dense vegetation. The walls consist of irregular, smaller and larger stones. There is also a significant difference in height between the terraced area around the wall and the adjacent areas. Among other things, a fork of the Giovenco river extends in these areas, which was revealed in an analysis of aerial photographs. The structure is to be interpreted as an emplekton of the city wall. Other documented contexts are two tomb monuments west of the city from the first century BC, which are crucial for understanding the city limits. In summary, several preliminary hypotheses about the extent of the city in the first century BC can be postulated if the 22 23

data from the evacuations are accepted (Fig. 28.5). There are several topographical indicators: the extra-urban funerary monuments, the necropolis and the extra-urban amphitheatre, and the city walls that mark the south-eastern boundary of the city. The fork of the Giovenco river forms another natural border. Until now, it has not been possible to clarify the north-western boundary of the city, as the entire area is covered by modern buildings. However, an analysis of DEMs, soil maps and soil moisture conditions led to the identification of another fork in the Giovenco River, which may have been a natural boundary in the north. Accordingly, the city would have been framed by the two forks of the Giovenco to the north and south. If all the data is considered, it seems certain that a phase of urbanization in Marruvium can be assumed for the first century BC. Nevertheless, questions about the reasons and motives for raising certain places on Lake Fucino to the status of municipia have not yet been answered. Sanctuaries, as mentioned in the introduction, play a key role in the promotion of a place. This is also documented outside the central research area24. For example, Angitia/ Anxa became a municipium because it had a sanctuary. Furthermore, an initial urbanization was seen as a critical factor. Alba Fucens was chosen because it was already a Latin colony and had certain urban characteristics. Antinum was selected as municipium because the oldest vicus had already developed a form of proto-urbanization, as the polygonal stonework shows25. The site is one

Ceccaroni 2009, 26. Sommella - Tascio 1991.

24 25

221

Paci 2003. Letta 2009.

Chiara Blasetti Fantauzzi of many examples of proto-urbanized vici in strategic positions, which then became municipia. However, the case of Marruvium is different and it remains unclear why it was chosen as a municipium. Our new studies could not find any evidence of a phase before the foundation of the municipium. It may seem surprising that a municipium was founded ex nihilo, but the importance of the territory and its land use opportunities make this seem possible. The municipium was also able to use the lake and the only river in the area, exploiting the natural resources and the vast agricultural plains east of Lake Fucino. It is also necessary to consider the importance of the road network, as Marruvium is near Via Valeria and is connected to roads around the lake. Moreover, Marruvium is not the only municipium in central Italy that was founded ex nihilo26. Finally, a comparison of the phases of the sacred site of Angitia before and after the foundation of the municipium is important for understanding the settlement patterns in our research area. Angitia was the federal sanctuary of the Marsi, which slowly lost importance in Roman times, even though the site was one of the three municipia located on the lake. The municipium Marruvium, which is located on the opposite side of the lake, was the most important site in the area during this period, which radically changed the settlement patterns. The main interest of the Romans was the intensive exploitation of the resources of the area. Therefore, they tried to connect new areas to their road network. Marruvium fits well into this scheme, and the smaller sites of the area can be considered satellite settlements after the establishment of the municipium.

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29 Il faggio in Virgilio: elemento identitario nel paesaggio delle Bucoliche. Francesca Boldrer Università degli Studi di Macerata The contribution deals with the presence and value of a tree, the beech, in the landscape of Virgil’s Eclogues (I 1 and elsewhere), with attention to literary allusions and cultural references, as well as to botanical and topographical aspects. Virgil differs from Theocritus in his preference for this tree, which is both a realistic landmark and a symbol for Latin pastoral poetry. On the one hand, it is a typical plant of Italy and Central Europe (where ancient beech woods are now officially protected); on the other hand, it is the backdrop to happy or sad scenes of bucolic life, an example of consonance between man and nature, and almost a bulwark for the pastoral world and ‘ecosystem’, threatened by impending transformations. Il presente contributo riguarda la presenza e il valore di un albero, il faggio, nel paesaggio delle Ecloghe di Virgilio (I 1 e altrove), con attenzione alle allusioni letterarie e ai riferimenti culturali, nonché agli aspetti botanici e topografici. Virgilio differisce da Teocrito nella sua preferenza per questo albero che è sia un punto di riferimento realistico che un simbolo per la poesia pastorale latina: da un lato, si tratta di una pianta tipica dell’Italia e dell’Europa centrale (dove le antiche faggete sono ora ufficialmente protette); dall’altro, fa fa da sfondo a scene felici o tristi della vita bucolica, un esempio di consonanza tra uomo e natura e quasi un baluardo per il mondo pastorale e l’ecosistema minacciato da trasformazioni imminenti. Keywords: Vergil; eclogues/bucolics; beech; landscape; identity; Virgilio; bucoliche/egloghe; faggio; paesaggio; identità Il primo elemento del paesaggio virgiliano nominato nelle Bucoliche è una fagus, il faggio sotto cui Titiro trascorre un piacevole otium1 modulando canti silvestri, come afferma Melibeo (Buc., I, 1 s.):

appare puramente ornamentale né convenzionale, bensì, come si intende qui indagare, dotata fin dall’inizio della raccolta, sia dal punto di vista tecnico-botanico che letterario, di un particolare valore identitario per il paesaggio e la poesia bucolica virgiliana rispetto a quelli teocritei. Tale pianta risulta infatti emblematica sia dal punto di vista realistico che simbolico. Da una parte, il faggio è un punto di riferimento concreto, topografico, nello spazio agreste descritto dal poeta e una risorsa socialmente utile per varie attività (intarsio, scrittura); dall’altra, offre lo scenario, ora accogliente ora triste, per momenti lieti o dolorosi della vita dei pastori, in scene ricche di pathos. Anche l’aspetto esteriore dell’albero rispecchia le varie emozioni umane: frondoso e verde in situazioni positive, “spezzato” in quelle più drammatiche, segno di una minaccia incombente4. È quanto risulta dalle attestazioni del termine in cinque egloghe (I, II, III, V, IX), in cui il faggio è menzionato (spesso in passi iniziali) ora in primo piano accanto ai personaggi, ora sullo sfondo,

“Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui Musam meditaris avena”. La presenza di questa specie forestale (Fagus sylvatica L.) in rilievo in clausola nel primo verso - un incipit che funge da titolo per l’intera raccolta, come mostra la ripresa nel finale delle Georgiche (IV, 566) - rivela l’importanza attribuitale da Virgilio, confermata da altri passi delle Bucoliche. Si tratta di un albero tipico di aree italiche, specie settentrionali2, notevole per chioma e altezza (fino a 40 m.) e di molteplice uso nella vita in campagna (Fig. 29.1)3. La scelta di questo elemento naturalistico non Servio, ad Verg., Buc., I, 1 (4, 18 s. Th.): “inducitur pastor quidam iacens sub arbore securus et otiosus dare operam cantilenae”. 2 Schmidt 1897, 972 (rr. 17–21): “charakteristiche Bilder wie patulae sub tegmine fagi (Verg., Ecl., I 1) […] passen noch heute auf die Höhen von Norditalien”. 3 Trotignon 1997, 14: “il faggio è, con la quercia, la specie nobile delle foreste europee […] entrambi hanno avuto un ruolo molto importante nella vita contadina del passato”. Per usi attuali, ma già antichi: Ticli 2011, 175: “[il faggio] viene spesso usato a scopo ornamentale […], ha impiego in falegnameria […], è un ottimo combustibile. I frutti 1

sono utilizzati come mangime”; Schmidt 1897, 971 (r. 55) “beide [die Hainbuche und die Hopfenbuche] verwendet man zu Werzeugen und Geräten”. Sono attestati inoltre usi delle foglie come foraggio, del legno per intarsi e per la costruzione di strumenti musicali, dei frutti anche come condimento. Per l’uso della corteccia, vedi nota 67. 4 Aspetti realistici e ideali si intrecciano nelle Bucoliche; Maggiulli 1995, 66; Jenkins 1998, 198–199; Witek 2006, 113. Si veda nelle Georgiche l’episodio del senex Corycius, su cui Boldrer 2018b, 398 e 418–422.

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Francesca Boldrer

Fig. 29.1. G. Belloni, “Il faggio dei poeti (Sopra i monti di Erbezzo)”, olio su tela, 1889–1890, coll. privata (i contenuti della collezione online di artgate-cariplo.it sono disponibili secondo una licenza CC BY-SA).

da Menalca (Buc., III, 37–38: “pocula9 ponam/ fagina”) nella gara di canto con Dameta - orgoglioso a sua volta di averne due simili (v. 44: “et nobis idem Alcimedon duo pocula fecit”) -, che attestano l’uso artistico di tale legno per produrre oggetti intagliati10. Nelle Bucoliche colpisce il fatto che il faggio sia una pianta non teocritea, scelta dunque da Virgilio in modo da distinguere l’habitat dei suoi pastori da quello degli Idilli11, basandosi verosimilmente sulla realtà geografica e paesaggistica a lui nota. Si tratta della prima originale variatio rispetto al modello, che sorprende dopo l’apostrofe - all’inizio dello stesso verso - a Tityrus, nome usato da Teocrito (ma non così Melibeo)12. Questa compresenza di elementi teocritei e non, a breve distanza e in posizione incipitaria, evidenzia programmaticamente la duplice anima di Virgilio, grecoellenistica per il genere letterario, ma italica per le esperienze personali che vi confluiscono inducendo a scelte in parte autonome. Vi è in ogni caso, nel nome

talvolta con successiva focalizzazione (in Buc., IX, 9–10)5. Dopo la prima menzione dell’albero come fonte di ombra per Titiro in Buc. I, 16, esso compare in situazioni diverse: faggi caratterizzano rispettivamente il luogo preferito dall’infelice Coridone per rifugiarsi e lamentare il proprio vano amore (Buc., II, 3–4: “tantum inter densas, umbrosa cacumina, fagos/ adsidue veniebat”); altrove formano il boscoso nascondiglio presso cui l’invidioso Menalca spezza arco e frecce di Dafni per dispetto (Buc., III, 12–13: “aut hic ad veteres fagos cum Daphnidis arcum/ fregisti et calamos”); oppure forniscono la corteccia su cui Mopso incide i propri versi (Buc., V, 13– 14: “immo haec, in viridi nuper quae cortice fagi/ carmina descripsi et modulans alterna notavi”); e ancora, nelle parole di Licida, vecchi faggi segnano il confine dei pascoli cari ai pastori - prima sicuri, e ora confiscati -, attirando lo sguardo sulle loro cime spezzate, dovute forse a cause naturali o a danni esterni, ma interpretabili soprattutto come partecipazione della natura al dolore dei coloni espropriati7 (Buc., IX, 9–10: “usque ad aquam et veteres, iam fracta cacumina, fagos/ omnia carminibus vestrum servasse Menalcam [audieram]”). Inoltre nella III bucolica è usato l’aggettivo faginus, neologismo virgiliano8 che qualifica le coppe istoriate poste in palio

In Theocr., Id., I, 27–30 un capraio offre a Tirsi una coppa per il suo canto. Al plurale le coppe suggeriscono convivialità. 10 Il faggio compare in seguito anche nelle Georgiche per fini tecnicoagricoli in: I, 173 (per l’aratro); II, 71–72 (per l’innesto) e, con l’aggettivo corrispondente, in III, 172 “faginus axis” (per l’asse di un carro). 11 Nel I Idillio di Teocrito si nota la presenza di piante diverse: un pino (v. 1), tamerischi (v. 13), un olmo (v. 21). Altrove i pastori teocritei cantano sotto querce o pini (Id., VII, 88–89). 12 Il nome Tityrus ricorre in Theocr., Id., III e VII, ripreso da Virgilio in tredici occorrenze nelle Bucoliche. In Buc., I, 1 “corrisponde all’istanza di richiamare nell’esordio il genere-modello” (Cucchiarelli 2012, 136). Meliboeus, invece, non appartiene alla tradizione bucolica pre-virgiliana e compare in miti greci, ma al femminile (Clausen 1994, 39). 9

5 Secondo Maggiulli (1985, 457; 1995, 292) il faggio coesiste con il protagonista; per Witek (2006, 42) lo attornia lasciandolo al centro. 6 Culex, 141: “umbrosae manent fagus”. 7 Maggiulli 1985, 457; Maggiuli 1995, 62. 8 Diversamente da fagineus, attestato a partire da Catone (Agr., 21,5).

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Il faggio in Virgilio dell’albero, un gioco allusivo a Teocrito per l’omografia tra fagus e φηγός (dor. φαγός), una pianta diversa (per cui vedi infra). D’altra parte, nell’uso di fagus emerge piuttosto il legame di Virgilio con un autore latino, Catullo, a lui vicino per sensibilità e comune origine italica - in particolare cisalpina13 -, il primo ad aver introdotto il termine in poesia latina all’inizio di un elenco di alberi provenienti dalla valle tessala di Tempe, portati in dono dal dio-fiume Peneo per le nozze di Peleo e Teti14. Riguardo alla prosa, fagus compare nello stesso periodo in Varrone e Cesare15, confermandone la diffusione. Nelle Bucoliche il faggio compare in scene realistiche che mostrano una ricerca di verosimiglianza rispetto al proprio ambiente nella descrizione sia dei luoghi che dei personaggi (questi ultimi sempre umani, diversamente da Teocrito)16. In varie bucoliche affiora il mondo reale (soprattutto mantovano, pur con allusioni a quello arcadico, e Roma) con riferimenti a vicende contemporanee, come le guerre e la confisca di terre per i veterani17. Oggettiva è anche la descrizione dei pascoli, non sempre corrispondenti a un locus amoenus, bensì anche sassosi e paludosi18 - con probabile allusione al territorio attraversato (e allagato) dal Mincio (Buc., I, 47–48)19 -, benché comunque rimpianti da chi doveva partire. Altrettanto realistica e non casuale appare la presenza del faggio. In Virgilio l’albero assume diverse funzioni in base all’uso al singolare o al plurale. Nel primo caso si tratta di una fagus contraddistinta da un dettaglio (Buc., I, 1: “patula”; V, 13: “viridis”) funzionale al contesto o all’uso. In particolare, in Buc., I, 1 il faggio appare ampio grazie alla chioma, visibile da lontano20, forse isolato al centro (o al limite) di un pascolo. Peraltro, nello stesso passo si fa riferimento poco dopo anche in generale ai boschi, sia nel definire la musica di Titiro come silvestris (v. 2: “silvestrem... Musam”)21, sia nell’accenno alle silvae cui il pastore si rivolge cantando (v. 5: “formosam resonare doces Amaryllida silvas”). Risulta così la compresenza, su piani diversi, sia di un elemento naturale specifico, sia di uno sfondo generico,

che mostrano entrambi la molteplice importanza degli alberi nella poesia pastorale virgiliana (come ambiente, oggetto di canto e pubblico)22 - diversamente da quella teocritea23 -, al punto da esserne uno dei tratti caratterizzanti24. Quanto a Buc., V 13, si tratta di una pianta “verde” scelta per la corteccia (e presente, dunque, nel luogo) come supporto scrittorio per incidervi poesie, un uso ricercato che la nobilita. Al plurale, invece, Virgilio indica una silva compatta, un faggeto o meglio, se vetusta, una faggeta: la longevità di tale insieme di alberi è una qualità evidenziata più volte dal poeta con il nesso veteres fagi (in Buc., III, 12 e IX, 9)25, come poi da altri autori26, nonché riconosciuta e valorizzata anche ai giorni nostri. Lo dimostra il fatto che antiche faggete europee (tra cui numerose in Italia) hanno ottenuto dall’UNESCO l’inserimento nella lista del patrimonio mondiale naturale dell’umanità27. Inoltre, in Virgilio sembra instaurarsi una corrispondenza ‘biografica’ tra i pastori e i vecchi faggi, poiché anche i personaggi sono spesso anziani e legati ai luoghi da una lunga consuetudine: Titiro è senex (Buc., I, 46) e veteres sono gli abitanti costretti a partire (Buc., IX, 4: “veteres migrate coloni”). Forse anche la patula fagus di Buc. I, 1 ha un’età vetusta, data l’ampiezza di fronde che la contraddistingue e che presuppone una crescita notevole. Peraltro riguardo alla sua forma ‘ampia’ sono state avanzate varie interpretazioni, concrete e figurate, basate non solo su aspetti fisici, ma anche personificanti secondo un uso ricorrente in Virgilio con piante. Se l’attributo patulus può riferirsi realisticamente all’estensione dei rami e alla chioma folta, tipica del faggio28 - specie nella tipologia dotata di fogliame basso, detta “campestre”29 -, diversamente Servio nel suo commento sosteneva la derivazione dell’aggettivo da pateo, che indicherebbe un movimento di ‘espansione’ fisica naturale, e citava a confronto parti del corpo (narici, occhi) o oggetti (porte) che si aprono e si chiudono, suggerendo la vitalità dell’albero30. Se ne può dedurre, 22 Verg. Buc., II, 5: “[Corydon] montibus et silvis studio iactabat inani”; IV, 3: “si canimus silvas”; VI, 2: “nostra neque eribuit silvas habitare Thalea”; X, 8: “non canimus surdis, respondent omnia silvae”. Per tale legame con la poesia bucolica le silvae potrebbero fungere quasi da titolo delle Bucoliche. Jones 2011, 73. 23 Cucchiarelli 2012, ad Buc., I, 2 (“il paesaggio di Teocrito era, in proporzione, assai meno ‘silvestre’”). 24 Anche agrestis musa in Verg., Buc., VI, 8. 25 In condizioni favorevoli il faggio può vivere fino a 300 anni. Trotignon 1997, 15. 26 Sen., Phaedr., 510; Calp., Ecl., VII, 5; Pers., V, 59. 27 Si tratta del sito transnazionale delle “Foreste primordiali dei faggi dei Carpazi e di altre regioni d’Europa” scelto per il valore naturalistico, ecologico e simbolico, che comprende dal 2017 dieci faggete italiane (Foreste Casentinesi in Emilia Romagna; Parco Nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise; Parchi del Pollino e del Gargano; Monti Cimino e Raschio in prov. di Viterbo). Faggi secolari sono anche in Veneto (Parco delle Dolomiti Bellunesi; Parco della Lessinia) e Lombardia (Parco Regionale Grigna Settentrionale). Sul rinnovato ruolo del bosco, Corinto 1987, 139–140. 28 “Il tronco è diritto, con rami grossi ed espansi che determinano una chioma densa, ampia e globosa”. Ticli 2011, 174. 29 “Esistono anche dei faggi campestri, dai rami contorti, bassi e striscianti. Si trovano un po’ dappertutto in Europa, ma in pochi esemplari isolati”. Trotignon 1997, 14. 30 Serv., ad Verg. Buc., I, 1 (5, 2 Th.): “TU PATULAE patulum dicimus quod patet naturaliter, ut nares, arbor; patens vero est quod et aperitur et clauditur, ut ostium, oculi”.

Entrambe le rispettive città (Mantova e Verona) divennero colonie di diritto latino nel 90–89 a.C. (con la Lex Iulia de civitate e la Pompeia de Transpadanis) e poi municipi romani nel 49 a.C. (con la Lex Roscia, sostenuta da Cesare). 14 Catull., 64, 288–289: “[Penios] non vacuos; namque ille tulit radicitus altas/ fagos” (seguono allori, platani, pioppi e cipressi). Il nesso con l’aggettivo altus è ripreso in Verg., Georg., 1, 173: “caeditur […] altaque fagus”. 15 Varro, Ling., V, 152; Char., gramm., I, 130, 5 (165, 17 B.); Caes., B.G., V, 12, 5. 16 Così il ciclope Polifemo nell’idillio XI di Teocrito è sostituito da Virgilio con il pastore Coridone nella II bucolica. 17 Ad esempio, Buc., I, 20: “huic nostrae similem [Romam]; I, 70: impius haec tam culta novalia miles habebat; VII, 12–13: “hic [...] Mincius”; IX, 28: “Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae”. 18 Esenti, comunque, da malaria nella Cisalpina (Traina 1990, 67). Witek (2006, 111) ritiene invece che la I bucolica sia ambientata nei dintorni di Roma. 19 Verg., Buc., I, 47–48: “Et tibi magna satis [rura], quamvis lapis omnia nudus/ limosoque palus obducat pascua iunco”. Anche Buc., VII, 12–13. Fu questo, forse, il motivo per cui Titiro poté conservare la sua terra, ma si è altrimenti supposto che tale descrizione negativa sia un’iperbole; Coleman 1977; Clausen 1994, ad Verg., Buc., I, 47. 20 Maggiulli 1985, 457 (“è elemento di primo piano […] visivo”). 21 Nesso lucreziano (IV, 589: “fistula silvestrem ne cesset fundere musam”). 13

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Francesca Boldrer inoltre, considerando il legame con il precedente tegmen31 nel senso di “copertura, riparo” e il genere femminile di fagus, che Virgilio voglia creare qui l’immagine di una figura materna e protettrice (secondo alcuni anche nutrice)32 nei confronti del pastore Titiro, sul quale la pianta si estenderebbe con la sua ombra per sottrarlo al sole e forse ad altri pericoli. In una simile interpretazione allegorica Filargirio intendeva la fagus come riferita a un preciso protettore di Virgilio, Augusto33. D’altra parte, dal punto di vista botanico tale innovazione può ricondursi, come anticipato, a dati geografici e ambientali noti all’autore. La pianta, ora diffusa in quasi tutta Europa dalla Norvegia alla Sicilia (ma originaria di aree glaciali), risulta rara in Grecia34 (anche per i disboscamenti)35 mentre era ed è diffusa tuttora in Italia, in cui è la principale componente della foresta montana a latifoglie in boschi puri o misti36, soprattutto in area alpina oltre i 500/600 m. e appenninica oltre i 900 m., (o ad altitudini inferiori in condizioni favorevoli), aspetti che concordano con l’accenno virgiliano ai monti nel finale della I bucolica (I, 83: “cadunt altis de montibus umbrae”). Peraltro l’identificazione della pianta è stata oggetto di discussioni per interferenze con la φηγός (dor. φαγός), termine botanico con etimo comune a fagus ma con evoluzione semantica diversa. Il nome greco è presente già in Teocrito, ma per indicare la “quercia” (Quercus aegilops37) secondo l’interpretazione prevalente38, benché gli antichi ritengano talvolta i termini equivalenti39 e i linguisti divergano sulla priorità tra i due significati, complicati dalla varietà delle specie e della nomenclatura40. Secondo alcuni il senso originario del nome greco sarebbe quello di “faggio”, modificato in “quercia” per “substitution de référent” a causa della scarsa presenza della pianta in Grecia (dove per indicare il faggio si utilizzò ὀξύα)41; secondo altri il senso iniziale di “quercia” (legato a un’origine balcanica) passò a quello di “faggio” forse per analogia nei frutti42, entrambi commestibili43. Le due piante presentano infatti questa e altre somiglianze (per sovrapposizione e interferenze), come l’associazione a

Zeus, attestata per φηγός fin da Omero44 e riferita anche a fagus con simile valenza religiosa in Varrone45. Il termine greco può indicare anche la ghianda46, come in una delle due attestazioni in Teocrito che ne descrive la cottura (Id., IX, 20)47, mentre nel secondo passo vi è l’immagine di una pianta ombrosa (Id., XII, 8: “σκιερὴν δ’ὑπὸ φαγόν”) simile a quella virgiliana (Buc., I,1), ma in una scena naturalistica introdotta da Teocrito come similitudine48. Vi è peraltro chi ha supposto in quest’ultimo passo teocriteo il senso di “faggio”49, un’ipotesi non del tutto inverosimile considerando sia l’ambiente siculo di Teocrito, in cui (diversamente dalla Grecia) l’albero risulta presente, sia un possibile influsso italico. D’altra parte, potrebbe sorgere il dubbio che nella I bucolica Virgilio utilizzi fagus come grecismo anche semantico in omaggio a Teocrito, forse alludendo all’idillio VII, 8850 in cui il pastore Comata è disteso a intonare dolci arie sotto le querce (ὑπὸ δρυσίν). Tuttavia, nella stessa I bucolica virgiliana compaiono anche le querce, indicate con quercus (I, 17: “de caelo tactas memini praedicere quercus”). Virgilio sembra dunque scegliere la ‘propria’ pianta emblematica tra allusioni e autonomia. D’altra parte, per il topos di un colloquio all’aperto sotto un albero, come quello tra Titiro e Melibeo, egli sembra attingere anche ad altri autori, pur con diversa scelta arborea. È il caso del “Fedro” di Platone, in cui il dialogo tra il protagonista e Socrate avviene sotto un platano altissimo e ombroso (229a), un passo noto allo stesso Teocrito51 e riproposto in latino da Cicerone nel De oratore. Quest’ultimo costituiva un precedente autorevole a Roma sia sul piano oratorio che letterario: qui un personaggio, Scevola l’Augure, vedendo un platano, propone a Crasso di imitare la scena di Platone creando lo sfondo per il dialogo sul perfetto oratore, certamente noto a Virgilio52. A collegare questo passo ciceroniano all’incipit delle Bucoliche contribuisce - benché con piante diverse - l’uso del medesimo attributo (patulus) riferito ai rami dell’albero (de orat. I, 28): “cur non imitamur, Crasse, Socratem illum, qui est in Phaedro Platonis? Nam me haec tua platanus admonuit, quae non minus ad opacandum hunc locum patulis est diffusa ramis, quam illa, cuius umbram secutus est Socrates”. Sul piano paesaggistico, la preferenza virgiliana per il faggio fu favorita verosimilmente da fattori personali, ovvero dal desiderio di valorizzare ambienti boschivi e pastorali

Cic., Arat., 114–115: “foliorum tegmine [...] arbusta ornata”. Vedi sotto nota 58 per i frutti commestibili. 33 Philarg., ad Verg. Buc. I, 1 (rec. II): “FAGI allegorice Caesarem dicit, cuius adiutorium Virgilium texit”. 34 Abbe 1965, 81 (“the beech is rare in Greece”); Chantraine 20092, 1151 (“le hêtre, arbre de pays froid et humide, étant rare dans la majeure partie de la Gréce”). 35 Aumento demografico, guerre e costruzione di flotte esaurirono il legname locale, poi importato. Meiggs 1982, 433–435. Peraltro, negli Acarnesi Aristofane introduce un coro di carbonai, il cui carbone era ottenuto da querce, aceri e faggi. Thommen 2014, 39. 36 Associata a pini, tassi, frassini, aceri di monte, sorbi e carpini. Ticli 2011, 174. 37 Amigues 2006, 343 (anche Quercus macrolepis). In passato la φηγός è stata identificata anche con il castagno. Contra Schmidt 1897, 972 (rr. 8–10 e 43–49). 38 Gow 19522 ad l.: “it seems reasonably plain that it is neither beech nor chesnut, but a species of oak”. 39 Maltby 2010, 221 che cita Varro, ap. Char. Gramm., 165, 17 B: “fagus quas Graece φηγούς vocant”. 40 Theophr., HP, III, 3,1 e 8, 2. 41 Chantraine 20092, 1151; Schmidt 1897, 972 (r. 68) -973 (r. 11); ErnoutMeillet-André 1985, 213; contra Walde-Hofmann 19383, 446. 42 de Vaan 2008, 199. 43 Per uomini e soprattutto per animali, nel caso delle faggiole. Colum., VII, 9, 6. 31 32

44 Il., V, 693; VII, 60. Daremberg e Saglio ricordano le querce profetiche di Dodona e il culto di querce sacre a Roma. Daremberg - Saglio 1969, 356. 45 Varro, Ling., V, 152: “Fagutal a fago, unde etiam Iovis Fagutalis, quod ibi sacellum”. Plinio (Nat., XVI, 252) narra che nel bosco sacro presso il tempio di Diana a Tusculum sui colli Albani un faggio era venerato dal sacerdote, custode del tempio, come personificazione della dea. 46 Aristoph., Pax, 1137; Plat., R.P., 372c. 47 “Nel fuoco si arrostiscono le ghiande, quand’è inverno” (trad. di Vox 1997, qui e infra). 48 Theocr., Id., XII, 1–9: “Sei giunto, caro ragazzo […] e sono corso come un viandante sotto un’ombrosa quercia, quando il sole brucia”. 49 Rumpel 1961, 297. 50 Jones 2011, 29 (“perhaps we imagine the Greek oak”). 51 Hunter 2002, XV (“of particular importance for Theocritus is Plato’s Phaedrus”). 52 A Roma egli studiò retorica. Sul rapporto tra Cicerone e Virgilio, Boldrer 2019, 11–32.

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Il faggio in Virgilio familiari - forse ormai nel ricordo, dopo il trasferimento del poeta a Roma53 e la confisca delle terre - e caratteristici della terra natale dell’autore, la Gallia Cisalpina, una provincia geograficamente ancora marginale, ma che proprio in quegli anni stava integrandosi ufficialmente nell’Italia romana ed era assai vivace culturalmente54. Virgilio sembra trarne ora scenari degni dell’Arcadia nel desiderio di nobilitare attraverso la poesia il proprio territorio, e in generale quello italico, così come Teocrito aveva fatto con quello siceliota. Riguardo al particolare interesse virgiliano per gli alberi, inoltre, dalla biografia di Donato risulta un legame della famiglia di Virgilio con la silvicoltura, poiché si tramanda che il padre, dapprima umile bracciante, si arricchì poi con l’acquisto di boschi, oltre che con l’apicoltura55, benché non si possa escludere un autoschediasma. Si avverte in ogni caso il legame profondo di Virgilio con l’ambiente naturale silvestre diversamente da Teocrito, intellettuale e cittadino nonostante i temi campestri56. Nella volontà di ricreare l’habitat dei pastori italici, a cominciare dai faggi, Virgilio era forse consapevole del valore anche sociale e culturale di questa pianta che, dall’analisi della radice (*bhāgó-), risulta contenere fin da tempi remoti un elemento identitario per le comunità indoeuropee57. La sua diffusa presenza, longevità e versatilità in molti usi la rese fondamentale; inoltre, diversi commentatori tardoantichi ricordano il valore alimentare dei suoi frutti (simili, come accennato, alle ghiande, con cui sono talvolta identificati), avvalorato anche da un’etimologia legata al verbo ϕαγεῖν (“mangiare”)58, ritenuta peraltro non impossibile da parte degli studiosi moderni59. All’utilitas materiale Virgilio aggiunge anche aspetti sentimentali e psicologici che legano i faggi alla vita umana in varie circostanze e azioni liete o tristi, positive o negative, quali otium (in Buc. I), amori (I, II), dispetti (III) e sofferenza (II). Inoltre il poeta mostra come la pianta possa contribuire, grazie al suo legno, all’evoluzione artistica e culturale della comunità pastorale, favorendone la creatività, come mostrano due delle cinque occorrenze: come detto, il faggio offre la materia prima per intarsiare oggetti (III)60 e il supporto per scrivere carmi pastorali (V). Ne risulta un rapporto

armonioso e costruttivo tra uomo e natura che può ricordare l’analogo equilibrio descritto, non molto tempo prima, da Lucrezio nel V libro del De rerum natura sull’evoluzione e la civilizzazione umana, in particolare nel passo che illustra la teoria - acuta e verosimile dell’origine della musica dall’imitazione del vento tra le canne e del canto degli uccelli, con l’invenzione dei primi strumenti a fiato fatti di semplici elementi naturali (calami, cicutae)61. A ben vedere, la poesia bucolica virgiliana sembra illustrare gli sviluppi successivi, riprendendo da dove Lucrezio aveva lasciato con l’immagine di Titiro che compone e suona abilmente su una tenuis avena (Buc., I, 2). Significativa è inoltre in Virgilio la ricorrente immagine del faggio (e delle faggete) in relazione alla poesia - alla quale Lucrezio aveva riservato invece poco spazio nella sua rassegna di attività umane62-, come luogo ideale presso cui esprimere sentimenti ed esperienze, come amori sia felici (Buc., I, 35: “formosam... Amaryllida”) che infelici (II, 6: “o crudelis Alexi”; X), e altri temi (come la morte e apoteosi di Dafni in V, 20–22). Lucreziano sembra, d’altra parte, il riferimento ‘tecnico’ all’uso scrittorio della corteccia di faggio, sopra ricordato (Buc., V, 13: “in viridi... cortice fagi/ carmina descripsi”), un supporto primitivo ma verosimile63 e indicativo di una poesia vicina alla natura anche nei materiali. L’attributo viridis non è esortativo, bensì preciso nell’indicare il legno tenero di una pianta giovane, adatto alla scrittura come risulta da un’altra bucolica in cui Cornelio Gallo afferma di voler incidere i suoi amori “nelle selve” su tenerae arbores (Buc., X, 52– 54)64, e come spiega in seguito tecnicamente Plinio il Vecchio65 trattando del faggio e di altri alberi. Dalla corteccia, detta in latino anche liber66, era derivato del resto il senso di “libro”, specie poetico (come quello di Catullo67), cui Virgilio potrebbe alludere pensando alla propria stessa esperienza. In proposito, riguardo alla pianta in questione è da notare che la radice indoeuropea di fagus si è sviluppata in alcune lingue (specie in antico alto tedesco) dal senso di “faggio” appunto a quello di “libro”, nonché di “lettera dell’alfabeto”68. Infine, i faggi di Virgilio sembrano assumere anche un valore topografico, indicando punti di riferimento nel paesaggio bucolico. In particolare essi segnano, assieme ai ruscelli, i “confini” del mondo dei pastori in Buc., IX, 9 (“usque ad

Verosimilmente già intorno al 50 a.C. Della Corte 1991, 26. Numerosi furono, nel I sec. a.C., i poeti e scrittori latini di origine cisalpina. Della Corte 1991, 24–26. 55 Don., Vita Verg., 1 (Suet., Poet., 71 Rostagni): “Vergilius Maro Mantuanus parentibus modicis fuit ac praecipue patre, quem quidam opificem figulum, plures Magi cuiusdam viatoris initio mercennarium, mox ob industriam generum tradiderunt egregiae substantiae silvis coemendis et apibus curandis auxisse reculam”. 56 Elliger 1975, 318. 57 Chartraine 20092, 1151: “Sur *bhāgó- «hêtre» comme indice de l’habitat primitif des Indo-européens, v. la mise au point de Eilers et Mayhofer, Mitt. Anthropol. Gesellschat Wien 92, 1962, 61 sqq.”. 58 Serv., ad Verg. Buc., I, 1 (4, 23 Th.): “quod autem eum [Tityrum] sub fago dicit iacere, allegoria est honessima, quasi sub arbore glandifera, quae fuit victus causa: ante enim homines glandibus vescebantur, unde etiam fagus dicta est ἀπὸ τοῦ ϕαγεῖν. Hoc videtur dicere: iaces sub umbra fagi […] quibus aleris, sicut etiam glandibus alebantur ante mortals” ; Philarg., ad Buc. I, 1 (rec. II): “FAGI idest cuius arboris fructu antiqui vescebantur, quam Graeci fegon appellant”. 59 Chantraine 20092, 1151: “l’hypothése d’un lien entre le substantif *bhāgó- et le group i.-e. auquel appartient ϕαγεῖν […] ne se laisse ni démonstrer ni réfuter”; contra Walde-Hofmann 19383, 446. 60 Per l’uso di questo legno per coppe: Ov., Epist., V, 21; Ov., Fast., V, 552; Sen., Herc. O., 653. 53 54

Lucr., V, 1370–1411. Anche riguardo al rapporto con Alcmane, ad es., Boldrer 2016, 150. 62 Gli accenni in Lucr., V, 1444–5 e 1451 (carmina). 63 Servio, (ad l.): “ubi enim debuit magis rusticus scribere?”. La corteccia di faggio è liscia, lucida, grigio-argentea (Motti 2010, 98). Un esempio tuttora conservato (ma di età medievale) sono le iscrizioni novgorodiane su corteccia di betulla in lingua slava (secc. XI-XV). 64 Verg., Buc., X, 52–54: “Certum est in silvis […] malle pati tenerisque meos incidere amores/ arboribus”. 65 Plinio (Nat. Hist., XVI, 35) si ricorda, tra i molti usi (“cortex et fagi […] in magno usu agrestium”), quello degli esploratori che scrivevano messaggi ai loro comandanti su cortecce ‘fresche’ (“scribit in recenti ad duces explorator”). 66 Cato, Agr., XL, 2 (riguardo all’innesto): “capito tibi scissam salicem, ea stirpem praecisum circumligato, ne liber frangatur”; Verg., Buc., X, 67: “moriens […] liber aret”. 67 Catull., I, 1: “cui dono lepidum novum libellum”. Stok 2012, 19. 68 Ted. “Buche” (faggio), “Buch” (libro; ingl. “book”), “Buchstabe” (lettera). de Vaan 2008, 199. 61

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Francesca Boldrer aquam et veteres […] fagos”), un limite che li aveva separati e protetti finora da minacce esterne, come risulta dalle parole di Licida (Buc., IX, 7–10):

territoriale ed economico in modo sistematico nel I sec. a.C. con l’estensione della cittadinanza romana74. La trasformazione avvenne in modo generalmente razionale per sfruttare la fertilità e salubrità della zona75, ma a danno della tradizionale pastorizia locale76 che divenne marginale rispetto alla produzione agricola, alla mobilità e ai commerci. Testimone del cambiamento, il giovane Virgilio sembra impegnato nelle Bucoliche, per quanto possibile, a tutelare l’ambiente a lui caro con i suoi carmi - come il pastore Menalca di cui parla Licida in Buc., IX, 10 -, o almeno a mantenerne la memoria attraverso la propria celebrazione. Benché al v. 51 si avverta lo sconforto e il pericolo di oblio (“omnia fert aetas, animum quoque”), resta la speranza nella forza eternatrice della poesia, come suggerisce l’invito di Licida, quasi alla fine, a cantare vicino agli alberi “dove i contadini sfrondano il denso fogliame”, con un ulteriore riferimento al bosco come sfondo identitario (IX, 60–61):

“Certe equidem audieram, qua se subducere colles incipiunt mollique iugum demittere clivo usque ad aquam et veteres, iam fracta cacumina, fagos, omnia carminibus vestrum servasse Menalcam”. Anche in Buc. I poco dopo la menzione dell’ampio faggio (v. 1) Melibeo parla dei confini che deve abbandonare, quasi fosse giunto in quel punto all’estremità della campagna e della patria (v. 3: “nos patriae finis69 et dulcia linquimus arva”). Sembrano confermare tale uso tecnico i testi di agrimensura, che indicano non di rado gli alberi come elementi divisori tra i campi70. Inoltre, tuttora i toponimi attestano in molti luoghi montani la presenza di boschi e di alberi specifici poi divenuti nomi di paesi e di città nell’Italia settentrionale e altrove, come Faggeto Lario nel Comasco o Rovereto (da un querceto) in Trentino71. In proposito si potrebbe ipotizzare che anche l’espressione virgiliana ad veteres fagos, presente due volte nelle Bucoliche (III, 12 e IX, 9), corrisponda a un toponimo locale, simile a quelli attestati nell’Itinerarium Antonini, come Ad salices o Ad pinum72. Quanto al faggio che campeggia in Buc. I, potrebbe aver contrassegnato un luogo consueto di sosta (se non anch’esso un confine): in questa interpretazione Titiro risulta suonare sotto la chioma non di “un” generico ampio faggio, come spesso è inteso, bensì “dell’ampio faggio” (precisato dall’articolo determinativo nelle lingue moderne)73, intendendo l’espressione come un’indicazione precisa per pastori e lettori, che individua l’albero distinguendolo nel paesaggio ed è forse una reminiscenza geografica personale, efficace anche sul piano letterario. Se nell’incipit di Buc., I tale pianta caratterizza il dolce paesaggio naturale italico, diversamente all’inizio di Buc., IX compare ex abrupto una strada (v. 1: “quo via ducit, in urbem?”), che rivela un primo incisivo intervento umano - tipicamente romano - nel territorio pastorale e ne prefigura altri (canali, bonifiche, centuriazione). Ciò corrisponde realisticamente a quanto avvenne in Cisalpina, riorganizzata sul piano

“hic, ubi densas/ agricolae stringunt frondes, hic, Moeri, canamus”77. Attraverso il paesaggio descritto, e in particolare nella scelta originale e prioritaria del faggio nelle Bucoliche, si intrecciano elementi diversi di carattere letterario, culturale, botanico e topografico, tra variatio rispetto al modello ellenistico, riferimenti a precedenti latini e conoscenza del territorio italico e in particolare cisalpino per esperienza personale dell’autore. Nel mostrare le molteplici funzioni e l’importanza concreta e spirituale di singole piante e di intere faggete per la comunità pastorale, Virgilio manifesta un impegno e lancia un messaggio quasi ‘ecologico’, sensibilizzando i lettori con la sua musa silvestris riguardo a un patrimonio collettivo ricco di tradizione e fascino, ma sempre più minacciato. Benché il paesaggio pastorale sia stato in gran parte antropizzato, i faggi delle Bucoliche continuano a rappresentare, con altre piante virgiliane78, un mondo e un ecosistema non ancora perduto (e anzi tutelato ora a livello europeo), alla cui sopravvivenza anche Virgilio ha contribuito invitando implicitamente al rispetto delle risorse naturali e alla memoria del rapporto antico e vitale tra l’uomo e la natura79.

Il termine finis appartiene anche al linguaggio tecnico dei gromatici. Knütel 1992, 285–287. 70 Campbell 2000, 96, 16–18: “(De generibus controversiarum) quidam curant in extremis finibus fundorum suorum ponere per circuitum aliquod genus arborum, ut quidam pinos aut fraxinos, alii ulmos, alii cypressos […] ex quibus neve frondem neque lignum nequem cremium caedant”; 258, 22–23 (“Arcadius Augustus auctor, De terminibus et de lineis partium orientalium) nam et in limitibus pro terminibus plantavimus dactulum, amygdalas, et mala cotonea […] et ficum caprium in fine constituimus”. 71 A nord di Verona, in Lessinia, Bosco Chiesanuova, Roveré Veronese, Pian di Castagné, Erbezzo (con probabile etimo dal verdeggiare dell’herba), Cerro Veronese (con omonimi in varie regioni) dalla specie arborea Quercus cerris. 72 In Verg., Buc., III, 12 e IX, 9 altri toponimi (introdotti da ad), quali Ad fines, Ad duos pontes, Ad statuas, Ad septem aras, e con riferimento all’età, Veteribus, Vetus salina (e viceversa Ad novas). 73 Benché in latino l’assenza dell’articolo possa generare ambiguità per il lettore moderno, sembra prevalere in genere, in assenza di elementi indefiniti (disponibili in varie forme), l’implicita determinazione del nome.

Tale processo era iniziato già nel III-II sec. a.C. Marcone 1997, 148– 149. 75 Sui pregi del territorio, Polib., II, 14, 7 e 15, 1–4 (in part. in II, 15, 2 si parla di abbondanti ghiande prodotte dai “boschi”, intesi in genere solo come querceti, ma forse estesi anche ai faggi); Strab., V, 1, 4; Vitr., I, 4, 11–12. 76 Traina 1990, 67: “i romani finirono per integrare la Cisalpina nell’insieme della terra Italia […] creando l’esempio più riuscito di territorio romanizzato” e rispettando “l’equilibrio di acqua e terra”, anche se (ibid., 73) “i due principali tipi di sfruttamento del territorio [allevamento e agricoltura] si scontrarono”. 77 Questa scena di frondatio, intesa ora come semplice raccolta del fogliame per il foraggio, ora come metafora per l’approssimarsi della fine dell’opera (Cucchiarelli 2012 ad l.), può anche alludere alla riduzione di boschi e pascoli. 78 Altrove nelle Bucoliche (VII, 1) spicca, ad esempio, il leccio: “forte sub arguta consederat ilice Daphnis”. 79 Si tratta di un tema ricco di implicazioni filosofiche e dibattuto nel mondo antico anche tra gli scrittori di agricoltura, specie in Columella. Boldrer 2018a, 181–183. L’interesse per problemi ambientali è presente anche in altri autori antichi (come Tacito). Traina 1990, 64. 74

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30 Il Paesaggio come marcatore d’identità nel XII libro dei Geōgraphika di Strabone. Francesco Carriere Università di Genova The aim of this report is to propose some reflections about the role of landscape in the dialectic civilization - barbarism about two passages taken from the book 12 of Strabo’s Geōgraphika (12, 2, 7-9; 12, 12, 7, 1). After having drawn the methodological profile of the Geographer, we move on to the analysis and commentary of the passages mentioned above. L’articolo propone alcune riflessioni sul ruolo del paesaggio nella dialettica civiltà/barbarie in due passaggi dei Geōgraphika di Strabone (12, 2, 7 - 9; 12, 12, 7, 1). Evidenziati i tratti salienti del metodo del geografo, si propone l’analisi e il commento dei brani sopra menzionati. Keywords: Landscape; paesaggio e identità; geografia storica greca; storiografia greca; Strabone; Geographika Nel tentativo di impostare un discorso sul paesaggio antico, sembra utile prendere le mosse da quanto affermato da Giusto Traina, secondo il quale esistono almeno due livelli da distinguere nell’intuizione geografica degli antichi: “Vi è infatti un modello egemonico, legato alle esperienze politiche (…): ma vi sono anche le singole esperienze locali, con le relative tradizioni antropologiche generalmente estranee alla sfera della cultura scritta”1. Tenere presente la distinzione di questi due livelli è tanto più necessario nel caso di una comunicazione volta a proporre alcune riflessioni su due brani tratti dal libro 12 dei Geōgraphika di Strabone. Un libro, questo, in cui la consapevolezza della realtà antropica, che solo un greco d’Asia come Strabone poteva nutrire, si fa spazio tra le categorie della geografia alessandrina. Si tratterà, quindi, di delineare il profilo del metodo straboniano, per poi osservarne il funzionamento in due brani selezionati.

Christian Jacob ha osservato che ‘la carta di Eratostene è un risultato della geometria euclidea’2. In effetti, è posto al centro il calcolo delle distanze e la dimensione degli spazi: in una parola la misurazione dello spazio. A tale scopo, gli Elementi di Euclide dovettero risultare lo strumento più adatto. Strabone, nella sintesi delle varie posizioni circa i criteri da adottare nella rappresentazione dell’ecumene (2, 1; Fig. 30.1), assume una posizione diversa sia da quella assunta da Eratostene sia da quella del suo detrattore Ipparco. In 2, 1, 30, il Geografo osserva che la τομὴ κατὰ μέρος, di cui si servì Eratostene risponde alla necessità di descrivere l’intera ecumene. Al contrario, la divisione (τομὴ) κατὰ μέλος, dove le varie membra non sono altro che gli elementi costituivi del paesaggio, risulta necessaria quando bisogna trattare dettagliatamente (τὰ καθ’ ἕκαστα ἐπιόντας) le singole regioni. Soprattutto, è mediante gli elementi paesaggistici che il geografo, secondo Strabone, riesce a delimitare l’εὐπεριόριστον, la chiara delimitazione dei confini, che è uno dei temi principali, se non il principale, attorno a cui ruotano le sezioni di geografia storica dei Geōgraphika. Tuttavia, la definizione dei confini di un popolo non viene stabilita solo tramite gli elementi del paesaggio: è nel caso dei confini tra Misi e Frigi (12, 8, 3), quasi impossibile da stabilire a causa della mescolanza etnica (σύγχυσις τῶν ἐνταῦτα ἐθνῶν). L’interesse per gli etnonimi, per le lingue e il ricorso all’etimologia, sono motivati dalla necessità della definizione dell’identità degli ἔθνη, secondo una prassi consolidatasi ad Alessandria3. L’etnonimo, infatti, viene spesso ricondotto alla conformazione del paesaggio abitato da un popolo, come nel caso dell’etnonimo dei Misi: Strabone afferma che

Nel secondo libro dei Prolegomena (2, 1, 1), Strabone spiega in cosa consistette la διόρθωσις della carta dell’ecumene elaborata da Eratostene nel terzo libro della Geōgraphia. Eratostene divise la carta dell’ecumene in due parti, da occidente a oriente, con una retta parallela all’equatore. Questa retta partiva dalle Colonne d’Eracle, a occidente, per arrivare alle vette che delimitano il confine settentrionale dell’India, definendo una regione nord e una regione sud. Questo parallelo era intersecato perpendicolarmente da un’altra retta, il meridiano fondamentale, lungo il quale erano allineate Siene, Alessandria, Rodi e Bisanzio. Una volta divisa l’ecumene in quattro parti, si passò alla divisione di ciascuna di esse in altre parti (μέρη) chiamate, tecnicamente, σφραγῖδες (2, 1, 22). Riflettendo sull’operazione intellettuale di Eratostene, 1

Jacob 1993, 393–394; sulle rappresentazioni e descrizioni geografiche nell’antichità, Nicolet 1989, 62–69. 3 Sugli strumenti esegetici utilizzati da Strabone, Nicolai 2005. 2

Traina 1990, 47.

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Francesco Carriere

Fig. 30.1. Riproduzione dell’ecumene secondo Strabone (Fotografia libera da copyright).

molti - seguendo un etimo riferito da Xanto di Lidia e da Menecrate di Elea - sostengono che i Misi siano Lidi, dato che i Lidi chiamano così il faggio (“ὅτι τὴν ὀξύη οὕτως ὀνομάζουσιν οἱ Λυδοί”)4 e aggiunge che «ci sono molti faggi nella zona dell’Olimpo, dove dicono che erano esposti i prescelti per la decimazione». Un discorso più complesso rispetto a quello relativo alla prassi generale che Strabone segue nell’affrontare i problemi di geografia storica merita la dialettica civiltà/barbarie, tema di centrale importanza nei Geōgraphika, soprattutto nei libri 11 e 12. Qui l’influenza dell’hellēnismos, che distingueva nettamente popoli civili e popoli barbari, zone abitabili e zone inabitabili5, coesiste con la piena consapevolezza che Strabone aveva della complessità del mondo anatolico. In altre parole, se Strabone, nella descrizione delle aree periferiche rispetto al bacino del Mediterraneo, tende a ripercorrere i sentieri già battuti dall’etnografia alessandrina, lo stesso non può dirsi per il Caucaso e l’Asia Minore. Al fine di evidenziare meglio la bivalenza dell’atteggiamento dell’Amaseno in tal senso, sembra opportuno ripercorrere brevemente i capisaldi dell’orientamento di Strabone nella dialettica civiltà/barbarie. Alla divisione tra popoli civili e popoli barbari soggiace la tradizionale divisione delle zone terrestri in zone abitabili e zone inabitabili. In particolare, il globo terrestre risulta diviso in zone torride, glaciali e temperate. Tra queste, solo le zone temperate permettono uno stile di vita confortevole, motivo per cui una regione

dal clima temperato è abitabile, mentre una regione dal clima torrido o glaciale è inabitabile. Questo concetto è alla base del modello di divisione del globo in cinque zone climatiche elaborato da Posidonio, cui Strabone dichiara la propria adesione (2, 3, 1). Secondo la testimonianza di Strabone, che cita il contenuto del trattato di Posidonio Sull’Oceano, questa divisione era stata operata già da Parmenide6, poi da Aristotele7 e, infine da Polibio (2, 2, 2). Al di là della testimonianza di Strabone, è bene sottolineare che il rapporto di causa-effetto che intercorre tra le condizioni climatiche, lo stile di vita e il progresso delle comunità è diffuso a tal punto nella storiografia che, forse, non basterebbe un contributo intero per esaurirne la trattazione. Basti ricordare che esso è oggetto di un noto trattato ippocratico, Arie, acque e luoghi, che rappresenta, per così dire, la summa di una serie di principi, riguardanti il rapporto tra condizioni ambientali e le varie nature che distinguono gli ἔθνη, diffusi nella storiografia antica8. Data questa premessa, è facile dedurre che l’interesse del geografo antico fosse focalizzato sull’ecumene, sulla terra abitata. È proprio questo concetto che Strabone esprime in 2, 5, 18, affermando che la trattazione geografica deve essere rivolta alle regioni abitate dai popoli civilizzati. Aggiunge, poi, che le coste che si affacciano sul Mediterraneo godono di un clima temperato e, soprattutto, sono abitate da popoli e città ben governati. Ecco, quindi, che alla base della centralità del Mediterraneo nei

4

Questo etimo è registrato anche in Hesych. s.v. “μυσόν”. Sull’influenza dell’Accademia e della Stoà nel pensiero di Strabone: Aujac 1969; Dueck 2000, 62–68; Roseman 2005, 38–41.

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5

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D. K. 28 A 44a; D. K. 28 A 44. Arist., Met., 362a, 32. 8 Sull’etnografia antica e Strabone, Van der Vliet 1984, 44–47.

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Il Paesaggio come marcatore d’identità nel XII libro dei Geōgraphika di Strabone Geōgraphika, quale centro d’irradiazione della civiltà9, si trovano le ragioni di cui si è discusso nelle righe precedenti. Strabone, avendo ricevuto una formazione da intellettuale greco, tendeva a separare la costa (παραλία) dall’entroterra (μεσόγαια), opponendo le popolazioni stanziate lungo la costa (civilizzate) a quelle dell’entroterra (barbare)10. Derivati da condizioni ambientali favorevoli all’insediamento sono quegli elementi che Strabone invoca nella descrizione di popoli civilizzati o in grado di avviare un processo di civilizzazione: l’importanza del fattore geoclimatico (l’εὐδαιμονία, fertilità del territorio); l’εὐνομία (il buon governo che deriva dall’impiego di regimi politici di stampo greco-romano). In 5, 3, 8 Strabone presenta la ricchezza di Roma come il risultato dello sfruttamento delle risorse del territorio, della πρόνοια che è alla base dell’organizzazione della città. Con questa affermazione, Strabone introduce un altro elemento che contraddistingue i popoli civilizzati: la capacità di rendere il territorio il più possibile adatto alla sopravvivenza mediante la costruzione di opere pubbliche. Si giunge alla conclusione: «Se i Greci ritenevano di aver raggiunto il loro massimo scopo con la fondazione delle città, perché si erano occupati della loro bellezza, della sicurezza, dei porti e delle risorse naturali del paese, i Romani hanno pensato soprattutto a ciò che quelli avevano trascurato: a pavimentare le vie, a incanalare le acque, a costruire fogne che potessero evacuare nel Tevere tutti i rifiuti della città»11. Ricapitolando, vicinanza al mare, clima favorevole all’insediamento e all’agricoltura, πρόνοια, εὐνομία, sono i termini che più spesso s’incontrano quando ci si interroga su quale doveva essere la concezione di civiltà di un intellettuale come Strabone. Ma cosa accade quando la descrizione riguarda le regioni periferiche? Man mano che ci si allontana dalle coste del Mediterraneo le condizioni climatiche peggiorano e, di conseguenza, diminuisce il livello di progresso culturale ed economico raggiunto dalle realtà insediative in questione. Anzitutto, le popolazioni barbare vivono sulle alture, distanti dal mare, esposte a climi rigidi. Se non vivono sulle montagne, i popoli non civilizzati vivono da nomadi in zone inadatte all’insediamento a causa del clima o troppo rigido o troppo caldo12. Un caso esemplare è quello degli gli Etiopi, che vivono da nomadi in condizioni ambientali ostili (17, 1, 3: “καὶ μὴν οἵ γε Αἰθίοπες τὸ πλέον νομαδικῶς ζῶσι καὶ ἀπόρως διά τε τὴν λυπρότητα τῆς χώρας καὶ τὴν τῶν ἀέρων ἀσυμμετρίαν καὶ τὸν ἀφ’ ἡμῶν ἐκτοπισμόν”). In questo brano emerge un altro tratto tipico delle popolazioni barbare: l’ἐκτοπισμός, ossia la lontananza dal mare - e quindi l’impossibilità di contatti con gli altri ἔθνη - che pregiudica il progresso di una comunità. In generale, la condizione di isolamento rende impossibile sia l’arricchimento culturale ed economico di una comunità sia la fama della stessa presso gli altri popoli (1, 3, 4)13. Il paesaggio, quindi, è presentato quale condizione

preliminare per lo sviluppo politico delle comunità e, inevitabilmente, ne condiziona l’identità. Le popolazioni barbare sono tali perché vivono in territori inadatti all’insediamento; al contrario, i popoli che abitano le coste del Mediterraneo hanno alle spalle una lunga tradizione politica e culturale, sviluppatasi in virtù delle condizioni ambientali favorevoli. Questa tendenza a dividere assiologicamente la costa dall’entroterra s’interrompe nella descrizione del Caucaso e dell’Asia Minore, che interessa i libri 11 e 1214. Nella descrizione di quest’area è all’opera la doppia anima di Strabone, l’intellettuale greco discendente da una famiglia di notabili pontici, ma anche l’esperienza diretta del geografo al servizio di Roma15. Questi due elementi rendono difficoltosa, per non dire stridente, l’applicazione dei rigidi princìpi della geografia alessandrina nella trattazione di un contesto caratterizzato dalla complessa interazione tra diverse civiltà e culture (anatolica, greca, iranica e romana)16. Un’interazione, questa, intrinseca alla figura stessa di Mitridate17 protagonista, insieme a Romani e Parti, di una stagione di conquiste utili ad accrescere la conoscenza geografica dell’ecumene (1, 2, 1)18 che sono l’oggetto della descrizione di questi due libri. La complessità che interessa quest’area è restituita da un’affermazione in 11, 1, 4 in cui l’Amaseno argomenta che “ἐν τῷ τοσούτῳ πλάτει τοῦ ὄρους ἀπολαμβάνεταί τινα ἔθνη, τὰ μὲν ἀσημότερα τὰ δὲ καὶ παντελῶς γνώριμα” (= “sulle cime del Tauro abitano alcuni popoli, sia insignificanti che famosissimi”); si tratta degli abitanti della Partia, della Media, dell’Armenia, della Cappadocia e, in parte, di Cilici e Pisidi. Paradigmatico, da questo punto di vista, è anche il paragrafo che apre la descrizione dell’Iberia (11, 3, 1). Qui, Strabone afferma che l’Iberia, oltre a essere ben popolata (Ἰβηρία κατοικεῖται καλῶς) da città e insediamenti colonici, ospita edifici costruiti secondo i sani princìpi dell’architettura. Dunque, nell’ambito di questa relazione, si tratterà di proporre una riflessione sui brani relativi a due centri (Mazaka e Selge), in cui la vocazione ecumenica di Strabone, lascia spazio alla consapevolezza della complessità del contesto anatolico. La descrizione della Cappadocia presenta numerosi problemi circa la datazione delle informazioni che il Geografo riferisce. Strabone compendia in poche righe un secolo e mezzo di storia: nessuno dei sovrani Ariaratidi fondatori del regno cappadoce (250–100 a.C.) - compare nella descrizione della Cappadocia: Strabone sembra riferirsi a loro con un generico οἱ βασιλεῖς19. Al contrario, menziona la più recente deportazione dei Mazakenoi a Tigranokerta20. Mazaka viene presentata come inadatta Sulla descrizione dell’Asia Minore, Prontera 2000. Bowersock 2000, 25; sui viaggi di Strabone, Dueck 2000, 15–30; su Strabone e la cultura asiana, Desideri 2000. 16 Nicolai - Traina 2000, 28–29; Traina 2001, 214–217. 17 Iust., 38, 7, 1; App., Mith., 112; McGing 1986, 89–93 e 97–102. 18 Braund 2005, 221–229. 19 Sulla Cappadocia ellenistica, Panichi 2018. 20 App., Mith., 67. Con ogni probabilità Strabone affrontò con maggiore ricchezza di particolari questo argomento nei Commentarî Storici. Da Plutarco (Luc., 28.8 = FGrHist 91 F9) sappiamo che Strabone narrò la battaglia di Tigranokerta. Traina 2001, 150–154; Traina 2017, 94–95. 14 15

Janni 1996; sul Mediterraneo nei Geōgraphika, Clarke 2017, 51–54. Strabo 13, 1, 25; Traina 1990, 29; Nicolai -Traina 2000, 29–30. 11 Benché relativo a Roma, questo brano si adatta senza difficoltà alle modalità d’intervento di Roma. 12 Sulle popolazioni barbare nei Geōgraphika, Almagor 2005. 13 Van der Vliet 1984, 61–66. 9

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Francesco Carriere all’insediamento21 (12, 2, 7: “τὰ μὲν οὖν ἄλλα ἀφυῆ πρὸς συνοικισμὸν ἔχει πόλεως”): il territorio è privo d’acqua, di difese naturali ed è interessato da fenomeni vulcanici. Nel paragrafo ottavo si spiega che la presenza del fiume Nero (Μέλας) non è di alcuna utilità agli abitanti di Mazaka, «perché non scorre dall’alto (“οὐχ ὑπερδέξιον ἔχων τὸ ῥεῦμα”) e riversandosi in paludi e laghi, d’estate rovina l’aria intorno alla città». Dalla lettura del paragrafo settimo e dalla prima parte del paragrafo ottavo sembrano emergere i tratti comuni alle popolazioni barbare: nessun collegamento fluviale, né vicinanza alla costa (ἐκτοπισμός) e fenomeni vulcanici che determinano condizioni ambientali difficili22. Il quadro di Mazaka si fa più sfaccettato, però, nel momento in cui Strabone accenna alle risorse del territorio. Nel paragrafo ottavo si fa riferimento all’attività di produzione di pietra da costruzione (λατομεῖον) che, benché difficoltosa, rappresenta una risorsa importante per il territorio di Mazaka e, infine, nel nono si fa menziona la posizione centrale di Mazaka, rispetto ai vari centri ricchi di materie prime, e all’ordinamento legislativo di Caronda, che prevedeva l’istituto dei ‘cantori delle leggi’, paragonati ai giureconsulti di Roma. È molto difficile stabilire chi abbia introdotto a Mazaka le leggi di Caronda di Katane, leggendario legislatore di VI secolo a.C. I vari studiosi che si sono posti il problema hanno pensato ad Ariarate V23 (?-130 a.C.), fondatore dei centri di Tyana e Mazaka - le uniche due poleis della Cappadocia, stando a quanto dice Strabone (2,7) - e che promosse una politica mirata all’ellenizzazione delle aree occupate dal suo regno. In questo brano, dunque, il riferimento all’εὐνομία è ben evidente, così come è innegabile che, posta lungo il grande asse viario che da Efeso giungeva oltre l’Eufrate24 ed essendo ben collegata con molte località dell’entroterra pontico25, Mazaka era un importante crocevia di traffici commerciali, malgrado le difficoltà rappresentate dal clima ostile e dal paesaggio inospitale.

di Selge come «i più famosi tra i Pisidi» (“ἀξιολογώτατοι τῶν Πισιδῶν”). Nel caso di Selge, il contrasto con gli altri centri situati sulle vette del Tauro risulta più netto in virtù della menzione di altri popoli tra i Pisidi che abitano le montagne, divisi in tirannidi e dediti al brigantaggio (“Τῶν δ’ οὖν ὀρεινῶν οὓς εἶπον Πισιδῶν οἱ μὲν ἄλλοι κατὰ τυραννίδας μεμερισμένοι”). Strabone - a differenza di Polibio (5, 76, 11) che parla di συγγένεια tra abitanti di Selge e Lacedemoni - afferma che Selge fu fondata prima da Calcante e poi dai Lacedemoni26. In seguito rimasta indipendente grazie al governo conforme alla legge (“ἐκ τοῦ πολιτεύεσθαι νομίμως”), Strabone prosegue descrivendo il territorio della città, la cui natura è straordinaria (“θαυμαστὴ δ’ ἐστὶν ἡ φύσις”) al punto che si può coltivare la vite e l’olivo, tipiche colture mediterranee. Segue, poi un’affermazione circa l’inaccessibilità della città e del suo territorio. In questo caso, però, l’inaccessibilità non porta alle estreme conseguenze dell’ἐκτοπισμός, come nel caso degli Etiopi. Anzi, proprio in virtù della natura impervia del territorio (“διὰ δὲ τὴν ἐρυμνότητα”), gli abitanti di Selge sono stati sempre liberi. Per concludere, risulta riduttivo parlare di dati di riferimento positivi27, paradigma o categorie rigide28, che Strabone impiegherebbe nella valutazione del grado di sviluppo dei vari centri lontani dal bacino del Mediterraneo. Senz’altro, per un’intellettuale greco d’Asia come Strabone, la penetrazione della cultura poleica, così come della diaita greca, è un importante indicatore di civiltà. In tal senso, la tradizione che vuole Selge fondata dai Lacedemoni e la promulgazione delle leggi di Caronda a Mazaka, devono aver avuto un peso notevole nella valutazione, positiva, del livello culturale e politico di questi due centri dell’Asia Minore. Così come un ruolo notevole ha l’εὐδαιμονία, che è l’inevitabile conseguenza del buon governo29. Ma è soprattutto l’aver sperimentato in prima persona il mondo anatolico a rendere la descrizione più sfaccettata. I primi anni di vita di Strabone sono pressoché sconosciuti, ma il ramo materno della sua discendenza aveva accolto uomini dell’entourage di Mitridate30: questo aspetto biografico non può essere ignorato nell’esame dei libri 11 e 12. Insomma, sarebbe riduttivo pensare che Strabone filtrasse la realtà descritta attraverso una griglia di parametri prestabiliti. Piuttosto, si può pensare che egli recepisse sì concezioni classiche sulla natura dei popoli, ma tenesse presente la grande varietà delle realtà insediative, tanto più

La descrizione della Pisidia è quella di un territorio montuoso abitato da popoli nomadi che praticano il brigantaggio; la situazione migliora man mano che ci si avvicina alla costa. Infatti, tra Aspendos e Side, città della Panfilia, vivono i Pisidi che occupano terreni collinosi e tutti coltivati a olivo. Sebbene implicita, si può cogliere, anche in tal caso, la distinzione tra costa (παραλία) ed entroterra (μεσόγαια): più ci si avvicina al mare, più il clima e, di conseguenza, lo sviluppo economico e culturale sono elevati. Sin dall’inizio della descrizione della Pisidia (12 7, 1), Strabone si riferisce agli abitanti

Il legame tra Lacedemoni e abitanti di Selge è ben attestato nelle fonti epigrafiche e numismatiche; ISelge 6, 45 n. 293: “ὁ δῆμος ὁ Λακεδαιμονίων [ἐτείμησεν] τὸν [δῆμο]ν τὸν Σελγέ[ων]”; SNG Fr 2071. Su Selge, Magie 1950, 264–265. Per la discussione della testimonianza di Strabone e delle fonti epigrafiche e numismatiche, Arroyo Quince 2016, 52–56. 27 Così Trotta 2000, 191. 28 Così Foraboschi 2000, 143. 29 Ma è bene notare che il binomio εὐδαιμονία - εὐνομία non è limitato al solo bacino del Mediterraneo. Nei libri 11 e 12 è più frequente, ma talvolta Taxila - πòλις tra l’Indo e l’Hydaspes (Strab., XV 1, 28). 30 Le poche testimonianze sulla famiglia di Strabone si desumono da alcuni brani dei Geōgraphika: 10, 4, 10; 12, 3, 33. Sui primi anni di formazione di Strabone passati tra Amaseia e Nysa: Pothecary 1999, 699–701; Dueck 2000, 1–8; Lindsay 2005, 184–186. 26

21 Sulla formazione del nome “Mazaka” a partire dalla radice avestica maza (ampio) unita al suffisso sanscrito -aka Magie 1950, 1095. Sull’uso di fonti locali nella descrizione di Mazaka, Lebreton 2011. 22 Strab., 17, 1, 3 in cui gli Etiopi sono presentati come nomadi soggetti a un clima ostile all’insediamento (τὴν τῶν ἀέρων ἀσυμμετρίαν). 23 Mitchel 1993, 81–83. 24 Strabo, 14, 2, 29. 25 Magie 1950, 1264, n. 22; McGing 1986, 6–4. Testimonianza dell’importanza geopolitica di Mazaka è il fatto che Cesare (Bell. Alex., 66, 3) vi sostò per due giorni durante la campagna contro Farnace: “ibi rebus omnibus provinciae et finitimarum civitatium constitutis cupiditate proficiscendi ad bellum gerendum non diutius moratur magnisque itineribus per Cappadociam confectis biduum Mazacae commoratus”.

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Il Paesaggio come marcatore d’identità nel XII libro dei Geōgraphika di Strabone complessa nel contesto anatolico, come mostrano i casi di Sinope e di Amaseia31.

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Sinope (12, 3, 11) è una città ben munita grazie alla natura e alla previdenza dei suoi abitanti (“ἔστι δὲ καὶ φύσει καὶ προνοίᾳ κατεσκευασμένη καλῶς”). Sinope, infatti, è descritta come una πόλις retta da leggi proprie: dato, questo, che riconduce all’εὐνομία. Sul sito di Sinope: Doonan 2004; Barat 2011. Anche Amaseia è ben protetta grazie alla natura del luogo e alla previdenza degli amaseni (12, 3, 39). Sul sito di Amaseia, Dönmez 2014, 9–28; su Strabone e Amaseia, Lindsay 2005.

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31 Family and Political Power in the Landscape: the Villa of the Gens Volusia at Lucus Feroniae. Armando Cristilli Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ The article focuses on how the historical and ideological manifestations of Roman high society can shed light on the landscape through the Volusii Saturnini suburbanum at Lucus Feroniae (Rome). This residence, built in the 1st century BC by the Egnatii Maximi it was assigned to the pro-Augustan family of the Volusii Saturnini after the Triumviral proscription in 43–42 BC. The new owners, very active politically and part of the imperial court, applied a building intervention strategy to the villa, integrating the design project and the landscape. So, a reciprocal exchange was created between the suburbanum and the surrounding natural landscape, becoming very functional to the ideology of the Volusia gens. Questo studio si concentra sulle manifestazioni storiche e ideologiche dell’alta società romana nel paesaggio attraverso il caso della villa dei Volusii Saturnini a Lucus Feroniae (Roma). Questa residenza, costruita nel I secolo a.C. dagli Egnatii Maximi, fu assegnata alla famiglia filo-augustea dei Volusii Saturnini dopo la proscrizione dei Triumviri nel 43–42 a.C. I nuovi proprietari, molto attivi politicamente e parte della corte imperiale, applicarono alla villa egnaziana una strategia di intervento edilizio che consentiva di integrare il progetto architettonico e il paesaggio circostante. Si crea, così, una relazione di mutuo scambio tra il suburbanum e la natura circostante, divenendo assai funzionale all’ideologia autocelebrativa della gens Volusia. Keywords: Lucus Feroniae; villa; Volusii Saturnini; Egnatii; landscape; propaganda This paper1 is a focus on the interactions between the Roman ancient society and the landscape. The focus will be not strictly on how society influenced the landscape, but rather on how historical and ideological manifestations of Roman high society can shed light on the landscape through the Volusii Saturnini suburbanum at Lucus Feroniae: in fact, it is an interesting case study on the transformation of the landscape according not only to economic, but also to historical and ideological dynamics of the owners.

clearly showing the importance of the local landscape. We should, obviously, not rule out the possibility of the landscape itself suggesting the guidelines for the development of construction planning. This residence was built maybe in the 1st century BC by the powerful gens Egnatia Maxuma, a plebeian family of equestrian rank and Samnite origin, which became a Sullan senatorial family in 74 BC3. The most important family member may have been Gnaeus Egnatius, who held the praetura during the 2nd century BC and served as governor of Macedonia after its institution as a Roman province and built the well-known Via Egnatia from Durres and Fier in Albania to Thessaloniki and Bitola in Greece. In addition, a branch of the family probably lived in Capena in the 2nd century BC and mainly sponsored the next Feronia’s sanctuary and other kind of patronage in Lucus Feroniae4. So, it can easily understand the reason for the construction of its villa in the countryside around Lucus Feroniae. The mansion, replicating the Republican senatorial villas model in the fertile and very disputed Roman countryside by the estate market of the time, was configured as a rustic villa, a country residence equipped with productive installations and a luxurious

The villa2 (Fig. 31.1) is about 400 metres north-east from the Lucus Feroniae city centre on a volcanic low hill on the right bank of the Tiber River and it was linked to the colonia through a paved alley crossing the Via Campana (the connecting road to Rome). In particular, the hill looks is a natural terrace expanded and consolidated artificially to accommodate the large blocks of the villa. In this way, the hillside played a central role in the design of the villa, The present paper is inspired by my report read at the LAC Conference held in Newcastle in 2018 (entitled “Living in the villa. New data on the historical and ideological dynamics of the Volusii Saturnini suburbanum at Lucus Feroniae”), but it expands the reflection on some of the data that emerged with new considerations of a socio-political nature on the landscape of the Volusii Saturnini villa at Lucus Feroniae. 2 Actually the villa is located in the territory of Fiano Romano next to the border with Capena, just 20 kilometres north from Rome. On the building and its construction history, Moretti 1962; Moretti 1968; Sgubini Moretti 1998; Marzano 2007, 139–148. 1

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Cristilli 2020a (including added complete bibliography). Gazzetti 1992, 23; Gazzetti - Stanco 1997; Papi 2000, 67.

Armando Cristilli

Fig. 31.1. The archaeological site of Lucus Feroniae (Capena, Rome) and the Volusii Saturnini villa (Fiano Romano, Rome).

that suburbanum. On the same date or a short time later, the villa was assigned to the Roman Volusii Saturnini family, loyal supporter of the Octavian’s political rise and part of the novi homines ennobled during the Revolution6. The new owners felt the potential for self-representation about the villa landscape, because first they wanted to give their new mansion the possibility to be seen and admired by people, surely now more than ever. So, between the end of the 1st century BC and the early 1st century AD, the villa changed itself, charging with new ideological meanings: the Egnatian building became part of a larger development (Fig. 31.2), reflecting the modification of the specific production of the villa and the global economic transformation that was occurring in the whole Lazio landscape. In the Augustan age the great agricultural estates specialized their productions for the Capital city market. So, the cereal growing became the main activity for the estates in the middle Tiber Valley7.

residential part. At this moment, the villa was the focus of the production activities related to the fundus and the manufacturing compartments were interconnected with the private rooms of the owners. Some changes in the landscape around the building influenced the final unique shape and typical appearance of a luxury rural residence: in fact, the villa is based on crypto porticoes and containment walls to have a regular support, because of the sheer spur sloping towards the Tiber River. It is clear how much the landscape had influenced the choice of the place to build the mansion from the point of view of the ideology of the gens: the landscape of the suburbanum is a key strategy for improving the quality and strengthening the Egnatii identity and their sense of belonging to a specific social and cultural context. In the end, the building was defined by its outstanding visibility in the territory also from long distances. Unfortunately, the family was included in the Triumvirs’ proscription in 43–42 BC: so, the last male descendants (no further identifiers are provided) were put to death5 and their properties were confiscated, including

The major change in the villa was the large colonnaded courtyard with its relative sixteen rooms (maybe other

5 Appian (IV, 4.21) reports that two Egnatii killed during the triumviral proscriptions were father and son. Hinard and Wikander rightly suggest that the victims were the corrupt brother (maybe a monetalis) and a son. Hinard 1985, 465, nn. 52–53; Wikander 1990, 208–209 nn. 3–4. This hypothesis is possible, as well as that the victims were C. Egnatius, who in 74 was active as magistrate (proconsul?) in Asia Minor, and a son. It is also possible that they were related only to siblings, or not at all. It is also true that Hinard and Magnino, in discussing the identities of the Egnatian

proscripts, recognize the difficulty and, at this point, then uselessness, in trying to distinguish and order the various Egnatii of the late Republic. Hinard 1985, 465, nn. 52–53; Magnino 1998, 173. 6 Cristilli 2020a. 7 Patterson 2006, 62–64. In this regard, I would like remind you that the Volusii had the important role of supplying Rome with grain during the famine of 8–6 BC.

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Family and Political Power in the Landscape

Fig. 31.2. Fiano Romano. Volusii Saturnini villa. Plan (Cristilli 2020c).

a change in the management structure of the fundus, increasing the cereal crops and strengthening the production of wine and oil. In the time of the Volusii Saturnini the previous way to feel the landscape improves more actively the development of new idea of villa, in which the family self-glorification was much more basic than before: in fact, they applied a building intervention strategy which integrated the design project and the landscape, the real backbone of their new suburbanum. The landscape is in every sense the place where the villa can express its nature of ‘propaganda’ without delay. The building is inserted not too traumatically into the surrounding landscape, preserving the sinuous look of the hill and increasing its height and width, to emphasize its role played in the valley below. And in this architectural master plan we can record the syncretism between the anthropic action and the landscape: the attempt to keep the features of the hill unaltered (first its relevance in the middle Tiber Valley) creates a mutual exchange between the suburbanum and the natural surroundings, becoming very functional to the ideology of the gens Volusia. The final subject in this research is just the new northen peristyle, identified for a long time as slave quarters (Fig. 31.2). Marzano has pointed out that this is highly implausible: in fact, the marble statues and the mosaics in the room 41 (the sacrarium) and in the others one suggest that the area was not a slave barracks, but rather an inn offering hospitality to travellers, considering the importance of Lucus Feroniae

seven more on the damaged south side added to the NorthWest side of the Republican residential part), although the changes were very wider all over the place (Fig. 31.2). Among the other rooms, there were: a sumptuous sacrarium in the middle of the west side; a kitchen and a restroom in the north-western corner; a large hall and an aisle connected to the villa back door in the northern side. Moreover, the previous residential quarter was enlarged and redecorated. The last step was the restyling of the south side of the villa, at a lower altitude of 5 metres, where the crypto portico along the east side supported a garden at the time of the Egnatii: probably here there was a large terrace and on the eastern side the Volusii built a large porch with an elegant open gallery overlooked the Tiber Valley. This part of the villa also housed a wider spa and stalls and barns, heavy damaged by the construction of the highway in 1961. Furthermore, these operations enlarged the Egnatian building towards the Via Campana, redefining the surrounding landscape for a more spectacular view of the housing development both from the Tiber below and from the Via Campana. Of course, once again these changes transformed the local landscape, because the peristyle and its annexes needed walls, buttresses and supports to have a regular levelling and a sturdy counter slope: the Republican cistern in the south-west corner of the estate was used by these extension works. Therefore, the archaeological data confirm that this structural transformation seems also reflect directly 241

Armando Cristilli Minor in ‘Stuttgart type’ and Vibia Sabina10) together the two celebratory elogia showed that in that peristyle they marked the big moments in their political life and in their important role played in the history of the Roman Empire11. So, the villa together with its surrounding landscape, inside out, present itself as the real perfectly balanced memorial of the supremacy of the Volusii Saturnini. In conclusion, we understand how the archaeological data, supported by historical facts, allow us to reconstruct the events of one of the most important senatorial families of Rome in the period between the Augustan age and the beginning of the 2nd century AD: the mansion shows to develop its architectural plan and its marble decoration hand in hand with the celebratory ideology, so the transformations of the landscape were conditioned by the message of selfrepresentation of the owners. The landscape in turn, in according to the building, fulfilled the design concept in mind of the consul Lucius Volusius Saturninus (3 AD), the real guy who changed the destiny of the family, of his son and his all descendants. In this case with no doubt it is clear that the landscape and the family ideology were on the same breath, or we should say the landscape was the first important condition for the implementation of the building project, contributing to improve the ideological programme of the Volusii Saturnini until at least the

as a regional market8: the dimensions of the portico, the large number of nice rooms, the presence of the latrinae, the interior design and the wide access from the outside make us understand that the peristyle was frequented by many people, probably even high-level individuals. Here, the central sumptuous sacrarium is increasingly proving to be an influential self-affirmation of the householders. In this way, we have an alternative point of view on the meaning given by the Volusii Saturnini to their villa. The building architectural dilatation in the surrounding landscape shows to be been centralized just by the sacrarium with its beautiful marble decoration and the sophisticated mosaic floor, clearly visible from the atrium through the room 7 (Figs 31.2-3)9. Moreover, also the other portraits and fragmentary sculptures founded in the villa must have been probably hosted in the peristyle (or even in the inner garden) and displayed on the sides of the sacrarium to not hinder the free vision from the residential part: in this way the peristyle and its sacrarium were public spaces in the villa as well as the atrium. The sculptural furniture and its arrangement express the socio-cultural background of the owners, their ideology and what they think about themselves: in fact, it has become clear that the chronological sequence (from 38 to 106 AD) of the marble likenesses (Caligula; Nero in ‘Parma type’; Agrippina

Fig. 31.3. Fiano Romano. Volusii Saturnini villa. The Sacrarium (Photo by the author). 8 Marzano 2007, 139–144 and 179–182. The porch identification by De Franceschini (2005, 284) with a macellum is unacceptable. On the economic role of the Tiber Valley in the relationship with Rome, see also Diosono 2016, 128–130. 9 Cristilli 2020a.

10 With regards to the villa’s portraits, Cristilli 2018; Cristilli 2019; Cristilli 2020a; Cristilli 2020b; Cristilli 2020c. 11 Cristilli 2020a; Cristilli 2020b; Cristilli 2020c.

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Family and Political Power in the Landscape

Fig. 31.4. Fiano Romano. Volusii Saturnini villa. General view (Reworked from Google Maps).

villa”, in L. Berger et alii (eds), Luxuria. Ausstattung im privaten und öffentlichen Raum. Gedenksymposium für Prof. Dr. Wolfgang Wohlmayr, 1, Salzburg (forthcoming).

first quarter of the 2nd century AD (a possibility already recognized by the Egnatii, albeit in a less ostentatious way). At Lucus Feroniae the gens patrona wanted to mind an estate that celebrated the landscape without overpowering it and glorified his leadership: at the same time, the villa is an architectural artefact of high rank, a sophisticated company in an ancient property, a part of a splendid surrounding landscape, all together blending in a good social, cultural and economic mixture.

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244

32 Thessalian Landscapes and Ethnicity in Hellenistic Poetry: the Ethnic Catalogue of Rhianus’ Thessalica (frr. 26–38 Powell). Manolis Spanakis University of Cyprus In this paper I explore the re-construction of Thessalian landscapes through the Thesprotian and Thessalian ethnics in Rhianus’ lengthy ethnic catalogue of his Thessalica. First, I introduce Rhianus of Crete within the context of landscape in Hellenistic period as a writer of ethnographical poetry. Then, I briefly examine the Thessalic epic to better understand the literary context of Thessaly and, then, I explore the lengthy catalogue of the Thessalian ethne. Finally, I shall conclude that Rhianus actually deviated from the Homeric epics within his narrative of the Thessalian territories and tended to follow the scientific and ethnographical knowledge of his fellow Alexandrian scholars. In questo documento esploro la ricostruzione dei paesaggi tessalici attraverso l’etnia thesprotiana e tessalica nel lungo catalogo dei Thessalica di Rhianus. In primo luogo, presento la figura di Riano di Creta nel contesto del paesaggio nel periodo ellenistico come scrittore di poesia etnografica. Quindi, esaminerò brevemente l’epica tessalica per meglio comprendere il contesto letterario della Tessaglia e, quindi, esplorerò il lungo catalogo dell’etnia tessalica. Dimostrerò, infine, che Riano, in realtà, si discostò dall’epopea omerica nella sua narrazione dei territori della Tessaglia, seguendo di più le conoscenze scientifiche ed etnografiche dei suoi colleghi studiosi alessandrini. Keywords: ethnographical poetry; Thessaly; ethne; Rhianus of Crete; epic catalogues Introduction

Within this broad approach to the notion of landscapes, this chapter aims to examine the ethnographical works of the Hellenistic poet Rhianus of Crete, and especially his work Thessalica, in which the Cretan poet narrates a lengthy catalogue of Thessalian ethnics and territories. This work is transmitted to us in fragments. Rhianus’ many fragments were included in a special literary genre and contained many toponyms, ethnic names, local cults, and foundation-stories, and it belonged to a genre that, according to Meineke, included poems classifiable under the so-called carmina ethnographica5. We know almost nothing about Rhianus’ poems Achaica and Eliaca, while further fragments survived from the Thessalica and the Messeniaca6. As a result of this, it is hard even to speculate about either the structure or the mythological-historical context of Rhianus’ writing, or to present the patterns of ethnographical poetry in these works7. Rhianus’ epic fragments reveal that the mythical past alludes to the historical and religious present of the

The symbolic use of terrain is a creation of human culture, and it is owing to this that the notion of ‘landscape’ is born1. As an introduction to this volume’s subject of “Experiencing the Landscape in Antiquity”, I wish to present the definition of ‘landscape’ offered by Denis Cosgrove, who writes that “the external world [is] mediated through subjective human experience in a way that neither region nor area immediately suggest. Landscape is not merely the world we see; it is a construction, a composition of that world. Landscape is a way of seeing the world”2. Cosgrove’s definition of landscape was inspired by Henri Lefebvre, who showed so clearly that space is a human construct, and his ideas lie at the heart of the current “spatial turn” across many different disciplines3. Although the expression “spatial turn” is somewhat imprecise, it nevertheless serves to mark a distinct feature of modern scholarship: an explicit interest in the role of space, landscape, and territory (and their distinctions), in both the shaping of ancient and modern communities, and as subjects of investigation for those who wish to better understand those communities4.

Meineke 1843, 181. Spanakis 2018, 315–326, on evidence about the Achaica and the Eliaca. 7 Scholars included Rhianus among the historiographers of the ethnographical tradition due to the religious, cultural, and mythological references about territories in each of these poems (FGrHist IIIb, 87– 89). However, they noted a distinction between the historical and the ethnographical epos in the tradition of the narrative hexametric poetry: Pearson 1962, 418; Misgeld 1969, 116–121. Cameron (1995, 297–298) argues that the local epic treated an area from the mythical down to historical times, although “rarely in the writer’s own time”, also Ambühl 2010, 152. 5 6

McInerney - Sluiter 2016, 1. Cosgrove 1984, 13, for the definition of the term “landscape”. 3 Lefebvre 1991. 4 Mintzker 2009; Skempis and Ziogas 2014. On ‘space’ as a narratological category, see de Jong 2012; for a broad survey of the concept’s current utility, Williamson 2014. On ‘territory’, Elden 2013. 1 2

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Manolis Spanakis Thessaly was rich in mythical history, although “there is not any trace of ancient historical tradition” (Fig. 32.1)14. The historiography of this area harks back to the middle fifth century BC with Hellanicus of Lesbus and his Thettalica (FGrHist 601a). Even fewer traces are found between the fifth and the fourth century BC: a Θετταλῶν Πολιτεία is said to survive in prose by Critias (88 Β 31 Diels-Kranz), from which only one fragment has survived and a few quotations from the Κοινή Θετταλῶν Πολιτεία of Aristotle (60.502 Gigon). The local historiography is limited to the names of Philocrates (FGrHist 601) and Suidas (FGrHist 602), both of whom are dated in the fourth century BC15. It is speculated that Rhianus probably had on his mind this earlier literature along with the Herodotean references in his poem (Thess., fr. 46 P.), in order to write this lengthy poem in sixteen books.

Peloponnese and mainland Greece in the second half of the third century BC8. During this time the leading role of the polis in the Classical period has been replaced by federal systems (κοινά) and the balance of power and authority has also changed9. Sparta’s power had been reduced and federations, such as the Achaean League, played an important role in the struggle for power among the Hellenistic rulers10. Cuscuna (2006, 475–76) concludes that Rhianus’ references to the many Epirotic ethnics in the Thessalica combine in the same context older ethne (Thesprotian or Mollosian ethnics) with modern landscapes (Epirotic ethnics). What is more, the term “Thesprotian” is applied to most of the referred-to peoples, as well as to peoples located far away from Thesprotia, as far as Dodone, but who never reached the territory of the Parauaeoi11. At the same time, Rhianus inserted archaic allusions to fragments of more recent historical periods and mixed the archaic notion of Thesprotia, which was derived from the Homeric tradition, with the more recent Epirus. In this connection, the first whom we know to have narrated about Epirotic ethnics was Ephorus, and the political ideology of Epirus was developed when the Molossian koinon was transformed into the Epirotic koinon (Od. 14.314, 16.424)12.

The scholia from Apollonius Rhodius (3.1090b Wendel) transmit five hexameters from Rhianus’ Thessalica, which contain older names of Thessaly: “Πυρραίην ποτὲ τήν γε παλαιότεροι καλέεσκον Πύρρης Δευκαλίωνος ἀπ’ ἀρχαίης ἀλόχοιο. Αἱμονίην δ’ ἐξαῦτις ἀφ’ Αἵμονος, ὅν ῥα Πελασγός γείνατο φέρτατον υἱόν· ὁ δ’ αὖ τέκε Θεσσαλὸν Αἵμων, τοῦ δ’ ἄπο Θεσσαλίην λαοὶ μετεφημίξαντο”.    5

1. The Ethnographical Poem Thessalica Rhianus’ Thessalica was considered to be the most important composition of Hellenistic ethnographical epos and included at least sixteen books. From these books, twenty-six fragments were edited by Jacoby, and five papyrological fragments can now be added to them. Almost all the quotations were transmitted by Stephanus of Byzantium, along with a reference from the Homeric scholia (fr. 48 P.) and one reference from the scholia to Apollonius Rhodius’ Argonautica (fr. 62 P.)13. According to Cuscuna (2006, 448), this poem presents an ethnographical poem about a mythical-historical area which expanded from the west to the east coasts of the Ionian to the northern Aegean Sea. Furthermore, the variety of ethnic names and city names, along with the poem’s numerous instances of Homeric colouring, point to signs that are attested only to the Cretan poet, and their coincidence with more common naming values is ambivalent, although would provide a clearer mythical and historical environment.

“Once the ancients called it Pyrrhaiē from Pyrrhē, the ancient bride of Deucalion; later they called it Haimonie from Haimon, whom Pelasgos begot as his most noble son; and in turn Haimon begot Thessalos, and from this one the people changed the name in Thessaly”. (Thess. fr. 25 P.) 1 Πυρραίην Scal., Meineke : πύρραν δή ο. In this part of the poem Rhianus narrates that the older name of Pyrrhaea came from Pyrrhe, Deucalion’ wife; then the city was named Haemonia after Haemon, son of Pelasgus; and finally it was named Thessaly after Thessalus, son of Haemon (Strab. 9.5.23, Hesych. π 4456 Latte-Hansen). Μeineke (1843, 186), whose view is endorsed by Powell (1925, 13), suggested that these five hexameters could mark the proem of the Thessalica, and in particular that they could recall the proem of fr. 13 P. of the second book of the Achaica, although it is unknown whether these lines belong to the first or to another book of the Thessalica. This pattern is frequently attested in Rhianus’ ethnographical poetry (Apia, fr. 13; Amythaonia, fr. 24; Ethnestes, fr. 28; etc.), and the name Αἰμονία (-ίη) is widely used in Hellenistic poetry to define Thessaly and the residents with the ethnic name Αἰμονιῆες, respectively: compare, for instance, Call., Aet., fr.7.26 Pfeiffer = 7c.26 Harder, Ap. Rh., Arg., 2.504, 507, 690 and 3.109016. Ηollis (1992, 278–279) considered it to be a motif of the

8 Kralli 2017, on the historical reality of the Hellenistic Peloponnese; also Spanakis 2019, 195–206, on Rhianus’ narrative about the historical present and the mythical past of the Peloponnese and mainland Greece. 9 McInerney 2013, 466–479. 10 Walbank et alii 1984, 221–256. 11 Cabanes 2004, 13–29. 12 For the Homeric and Cyclic tradition of Thesprotia, see also Malkin 2004, 149–187. For the more recent Epirus, Paus., 1.6.8, 4.34.3 and 5.22.3; also Musti 1990, 283. For the sources of Ephorus and Theopompus, Breglia 2004, 321–363. 13 Lepore 1962, 110; Hammond 1967, 702. For a more recent view about reliability of Stephanus’ work, Whitehead 1994. Reliability on Stephanus of Byzantium is under question, although the following examination of the fragments seems sensible only whether we accept the reliability of Stephanus’ treatment of the ethnographical context and his ability to faithfully and clearly transfer Rhianus’ verses.

Wilamowitz 1893, 23. FGrHist IIIb, 673. 16 Mayer 1986, 49–50. 14 15

246

Thessalian Landscapes and Ethnicity in Hellenistic Poetry

Fig. 32.1. Cult and Koinon distribution in Hellenistic Thessaly (Reworked from Google Maps).

Hellenistic poetry to account for the evolution of citynames over time (metonomasia), not least since this theme is thoroughly explored by Callimachus (fr. 412 Pfeiffer). Strabo’s (9.5.23) reference to Rhianus is to be found within a group of literary sources which date back to Apollodorus the Athenian and his Neon Catalogon (FGrHist 244 F 164)17. In Stephanus’ entry on Αἰμονία (α 130 Billerbeck) it seems that Rhianus considered Haemon to be the son of Chlorus and not of Pelasgus, although this genealogy is not attested anywhere else, and this was probably a literary contamination with another genealogy18. The rare verb μεταφημίζω “call with a new name” is attested only here and in the astrologist Manethon, Apot. 2.136–7 Χηλαί θ’, ἃς καὶ δὴ μετεφήμισαν ἀνέρες ἱροί | καὶ Ζυγὸν ἐκλήϊσσαν. It can be generally assumed that Rhianus’ Thessalica combines elements from older Thessalian history along with traces of more recent historical contexts, although references to mythical elements, cult places, and mere city-names are both unstable and scarce in this epic poem. As a result of this they do not allow the reconstruction of a more clearly established narrative context. What is more, it is difficult to determine whether Rhianus’ historical and mythical narrative focuses on a single event or suggests a “journey” through time. Cuscuna (2006, 474–476) claims that a timeless extension of the Thessalian history could easily justify the length of the sixteen books of the Thessalica, in accordance with the length of other epic poems which focus on a single historical event, such as the Messeniaca (which numbered a total of six books). A “diachronic” historical evolution may also explain the geographical extension of the narrative to match it, since 17 18

it extended from the coast of the Ionian Sea to the North Aegean Sea. 1.1. The Thessalica Ethnic Catalogue (Books 4–7) Books 4–7 of Rhianus’ Thessalica include only references to ethnic names, and these peoples are inserted into these books, except for Tripolissioi, which is instead attested in the fifteenth book (fr. 43 P.). It had been assumed that the fourth book of Rhianus’ Thessalica narrated an extensive real catalogue of Epirotic and Thessalian peoples (frr. 26– 38 P.): in the fragments of this book, most ethne are defined as Thesprotians (Elinoi, Chaunoi19, Celethoi, Parauaeoi, Tripolissioi, and perhaps Cestrinoi and Omphalioi, Donettinoi, Genoaeoi, and in which Hypaelochioi are Molossians, Amymnoi and Arctanes are Epirotic, Syliones are defined as an ethnos of Chaonia, and finally Ethnestes are a Thessalian ethnos)20. The Ethnestes, who are transmitted in the fourth book of Rhianus’ Thessalica (and who are also attested in the fifth book), are included in the ethnic catalogue of ancient Thessalian peoples. Rhianus seems to be the only source for Stephanus’ entry (ε 16 Billerbeck), as well as the only testimony for the existence of this people. This ethnic took its name after Ethnestes, who was, according to myth, one of Neoptolemus’ sons (Roscher, Ι, 1390 s.n. Ethnestes). However, the catalogue of Neoptolemus’ sons by Andromache in the second book of Nostoi, which was composed by Lysimachus of Alexandria (FGrHist 328 F 10), records only four names: Troas, Pyrrhus, Molossus, and Aeacides. According to Hammond (1967, 532) the Ethnestes were located in the

Also FGrHist IIIb, 106. Saal 1831, 38.

19 20

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For Chaunoi, Krahe 1928, 158–160. Hammond 2000, 345–352, for the Epirotic and Macedonian ethnics.

Manolis Spanakis 58 Billerbeck), and the only source for their entry seems to be Rhianus.

eastern side of modern Pindos, or even further east of it, although Dacaris (1957, 93–94 and 100–101) located them in the South West of Thessaly, in Perrhaebia and Orestida21. The catalogue of the ancient Thessalian ethne in Rhianus’ fourth book also includes the Epirotic people of Arctanes. The Cretan poet is again the only source for this ethnic name, although a German people with the same name is also attested in the anonymous epigram FGE 141. Scholars have had difficulties in locating them: Hammond (1967, 532) considered that they were located in the territory of Ioannina, while Dacaris (1957, 90–100) located them in the western Istiaeotida between Gomphoi and Ithome. One may also note Cabanes 1976, 123, who concluded that it is difficult to know whether Arctanes belonged to the Molossians or whether they were under their control for a long time. In addition to this ethnos, Lysimachus of Alexandria transmitted in his Nostoi (FGrHist 328 F 10a) the fact that the Epirotica by Proxenus (FGrHist 703 F 2) and Acanthius Nicomedes (FGrHist 772 F 1) were his main sources for the ethnic of the Genoeoi. According to Lysimachus, this ethnic took its name from Genoas or Genoos (Roscher, Ι, 1625 s.n. Genoas), the son of Neoptolemus and Leonassa, daughter of Kleodaeus. It is a Molossian ethnos which Dacaris (1957, 93, 105–106) included among the Tymphaeoi, while Hammond omitted to give them an exact location22.

The Kestrinoi, Chaunoi, and the ‘proud’ Elinoi were all located at the coast from the North to the South including Bouthrotos and the river Acheron: “Κεστρῖνοι Χαῦνοί τε καὶ αὐχήεντες Ἐλινοί” “Kestrinoi, Chaunoi, and the proud Elinoi” (Thess. fr. 34 P.) Κεστρῖνοι Siebelis (apud Meineke [1843, 188] : κεστρηνοί RQPN | ἑλινοί R Stephanus of Byzantium only defines the ethnic names of Elinoi (ε 58 Billerbeck) and Chaunoi (or Chaonoi χ 33 Billerbeck), considering them to be Thesprotic ethne. Thucydides mentions Kestrine in his narrative about the war between Corinth and Corfu (1.46.4) and claims that the river Thyamis separated Kestrine from Thesprotia. According to Pausanias (1.11.1, 2.23.6), the name of this area could be derived from Kestrinus, son of Helenus. Most sources considered that Kestrine belonged to Chaonia, where the famous Κεστρινικοὶ βόες (Hesych. κ 2386 Latte) were located, while the integration of the area in Thesprotia was probably later than the fourth century BC24. The Chaones (or Chaunoi in Rhianus) were one of the most powerful people of Epirus along with the Molossians (Theop. FGrHist 115 F 382), and were wellknown to both Hecataeus (FGrHist 1 F 103–105) and Hellanicus (FGrHist 4 F 83). Ps. Scylax (28.2 Muller) mentions that they lived in villages (κατά κώμας) and one of the most marvelous aspects of this land was also attested in Callimachus’ Θαυμάτων συναγωγή (fr. 407 Pfeiffer), namely the transformation of their waters into salt. Stephanus emphasizes only the “proud” Elinoi and Chaunoi, which does not allow us to include explicitly Kestrinoi as a Thesprotic people. However, due to the narrow ordering of Rhianus’ ethnic catalogue, we consider it likely that they were Thesprotians. Elinoi were also a Thesprotic ethnos, as Rhianus mentions in the fourth book of the Thessalica. Elinia is the name of this area, a name which is also attested in a city of Sicily (Steph. Byz. ε 58 Billerbeck). Billerbeck recalled the city of Elina in Epirus, which is identified with modern Democastros25. According to Cabanes (1976, 124), the Thesprotic people mentioned by Stephanus become clear only if we speculate that Rhianus meant these Epirotic peoples to allude to the Homeric literary past, to which only the Thesprotians are mentioned from this area. Subsequently, we can conclude that Elinoi (like Chaunoi) were former Epirotic tribes who were unified under the term “Thesprotics” in the Homeric epics, although that does not mean that they were all Thesprotics26. Kelaethoi was a Thesprotic ethnos

Rhianus in his narrative of the fourth book of the Thessalica also included Donettinoi and Keraines, who are also difficult to locate: “αὐτὰρ Δωνεττῖνοι ἰδ’ ὀτρηροὶ Κεραῗνες”. “And then Donettinoi and the willing Ceraines”. (Thess. fr. 30 P.) Κεραῗνες Meineke: κεραΐνες S: κεραίνες RQPN, corr. C. F. W. Jacobs With regard to the latter, nothing has survived except for the fact that they were allies of Donettinoi and that they were well known for their swiftness, probably in battle (ὀτρηροὶ). The Donettinoi also reappear in the seventh book (fr. 38 P.), along with the Cares. Stephanus of Byzantium (δ 147 Billerbeck) considers them to be a Molossian ethnic, although we cannot claim the same thing for Keraines. What is more, if we examine the common suffix -ίνοι (e.g. Amantinoi, Elinoi, Kestrinoi) in the ethnic groups of the upper valley of Shkumbi (ancient Genusus) and the lake-basin of Lychnida (Parthinoi, Kalaekinoi, Pisantinoi), Donettinoi could refer to a similar “inland” people, and they were probably genuinely Illyrian23. On the other hand, we know absolutely nothing about the ethnic name Hypaelochioi, except the fact that they were a Molossian ethnic, according to Stephanus (ε Cabanes 1976, 125. Cabanes 1976, 125. 23 Hammond 1967, 703; Cuscuna 2006, 451, n. 10.

Cabanes 1976, 115. Inventory, Epirus: Elina, 340. 26 Franke 1955, 5, n. 8, on the term “Thesprotics”.

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Thessalian Landscapes and Ethnicity in Hellenistic Poetry near Thessaly which was otherwise known by the name Kelaetheis (Κελαιθεῖς) (Steph. Byz. κ 153 Billerbeck). According to Cabanes (1976, 124), it is generally accepted that the Kelaethoi were located in the western Istiaeotida. Hammond (1967, 532) located them in the territory of Metsovo (north-western), and Robert (1961, 371) examined this ethnos in relation to the inscription IG iv 617, of 323 BC, and the Delphic Theorodokia. Considering the list of the Delphic Theorodokia, Cabanes (1976, 123–124) concluded that the Kelaethoi belonged to the Molossian koinon of the fourth century BC and it was generally accepted that their community was located inside or near western Thessaly. The ethnic name Kelaethoi also appeared in Antoninus Liberallis (Metam. 4.6.3) in relation to the war of Heracles against the Epirotic ethnics of Kelaethoi, Chaonoi, and Thesprotians, in which the hero stole Geriones’ ox in his journey back through Epirus and Amvrakia.

(1909, 75) considered that it was the same city which was denoted under different names. Finally, in the fourth book of the Thessalica Rhianus also included the Syliones in his catalogue of the Epirotic ethnics. This is an ethnos of Chaonia according to Stephanus’ entry (σ 315 Billerbeck): “Συλίονες δ’ ἕσποντο ὁμοῦ” “Syliones followed at the same time” (Thess. fr. 32 P.) Συλείονες R | δ’ ἕσποντο ὁμοῦ Salmasius : θ’ ἕπονθ’ ὁμοῦ RQPN Cuscuna (2006, 453) claimed that this was the only ethnos that is declared in the sources as explicitly Chaonic. What is more, in the seventh book of the Thessalica Rhianus mentions twelve Cares, who had been conjectured to be mercenaries along with the Donettinoi28:

The Paravaeoi are defined as a Thesprotic ethnos in Stephanus of Byzantium (π 37 Billerbeck. They are said to have taken that name because they resided near the river Avon (Αὖον) (or Αόος in Strabo 7.7.8 or Αίας in Hecataeus FGrHist 1 F 102b or Aous in Livy 32.6.6):

“ἑπτὰ δὲ Δωνεττῖνοι, ἀτὰρ δυοκαίδεκα Κᾶρες”.

“σὺν δὲ Παραυαίους καὶ ἀμύμονας Ὀμφαλιῆας”.

“Seven Donettinoi, and then twelve Cares”.

“Along with Paravaeoi and the perfect Omphalieis”.

(Thess. fr. 38 P.)

(Thess. fr 31 P.)

δυοκαίδεκα Friedemann : ὄκτω καίδεκα S This ethnos was located in the gulf of Aulona, although later they were located in Chaonia. They should not be confused with the well-known people of the same name from Asia Minor29.

Παραυαίους Jacobs (vid. Meineke 1843, 187s): παραυαίοις Rpc (ex παραβαί-) QPN | Ὀμφαλιῆας Xylander : ἀμφαλιῆας QPN : ἀμφάλικας R In Rhianus’ ethnographical epos, they appeared as allies of Chaonoi in the campaign of 429/8 BC (Thuc. 2.80.6) with the king Oroidus, although in Proxenus (FGrHist703 F 6) they were included among the Epirotic ethnics. Paravaea was the boundary between Epirus and Macedonia, and a part of this area was probably to be found in Macedonia (Plut. Pyr. 6.4.3). Along with the Paravaeoi, Rhianus also mentions the blameless (ἀμύμονας) Omphalieis, a Thessalian ethnos according to Stephanus’ entry (o 70 Βillerbeck), and their city was called Ὀμφάλιον. However, Ptolemy (Geogr. 3.13.5) located Omphalion in Chaonia. Hammond (1967, 532) claimed that Omphalieis attracted Paravaeoi among the Molossian ethnics, and this is the main reason why they appear together in Rhianus’ hexameter verse. On the other hand, Dacaris (1957, 95– 98) concluded that this ethnic should be ascribed to a territory near Molossia and close to Paravaea, though in southern Chaonia. The ethnic name Ὄμφαλες has survived in a handwritten inscription of Dodone (SGDI 1347.6.11). Kirsten (1939, col. 397–398) made a distinction between the Epirotic Omphalion of Ptolemy and the Thessalian Omphalion in Dolopia, where it was the location of a temple of Omphale27. Wilamowitz in Euripides’ Hercules 27

The ethnic catalogue of the fourth, fifth, and seventh books of Rhianus’ Thessalica recalls older and well-known epic catalogues, such as Il. 2.494-760 Βοιωτῶν μὲν Πηνέλεως καὶ Λήϊτος ἦρχον … Οὗτοι ἄρ᾽ ἡγεμόνες Δαναῶν καὶ κοίρανοι ἦσαν, and the famous epic catalogue of the Achaean ships and cities that took part in the Trojan war30. Harder (2012, 35) claims that such fragments concern an acquisition of knowledge that, perhaps, is not accidental. The Hellenistic epic catalogues reveal the Alexandrian virtuosity through these allusions to variable literary forms on a metapoetic level, helping the reader to acquire a poetic image within the context of Ptolemaic literary-artistic patronage, which enabled poets to write rich scholarly poetry in response to a lengthy range of traditions. The functional relationship of Rhianus’ epic catalogue to this is not precisely clear, although it has been assumed that the account of these ethnics is connected with a period of strife between the Thessalian and the Epirotic peoples Meineke 1843, 189. Cuscuna 2006, 451. 30 For the Homeric catalogues, Page 1959; Giovannini 1969; Kirk 1985, 167–240; Sammons 2010; and for similar Hellenistic epic catalogues, see the catalogue of the Sicylian cities in Call., Aet., fr. 43 Harder. 28 29

Also Stählin 1924, 192.

249

Manolis Spanakis for example, to Apollonius Rhodius’ Argonautica. The narrator-ethnographer seems to identify distinct features of the ethnics he narrates in the Thessalian catalogue; thus, he describes the Molossian Ceraines ὀτρηρούς “fast”, Elinoi are called αὐχήεντες “proud”, “boastful” and the Omphalieis are called ἀμύμονας (“blameless”, a word playing with the Thessalian ethnic Άμυμνοι). Thanks to these fragments, we can observe the critical approach of Rhianus’ narrator, who probably used earlier narratives from (especially) Herodotus and the Ionian logographers, in order to compose his own narrative.

in order to set the boundaries at Pindos31. This historical event is closely related to the geographical territories of Pindos and some distant Thessalian territories, which were gradually conquered by ethnics prosecuted from the central territories, and who in the end succumbed to them32. Some peoples in Thessaly were striving for the establishment of a Thessalian unity, which later evolved into the Thessalian koinon. Rhianus commemorated the most crucial moments of this event for the construction of Thessalian identity and the maintenance of Thessalian autonomy. Itonia Athena also played an important role in this eventuality, and the different ethnic names of Thessaly actually “fortified” the ancient known Thessalian land and indicate the indigenous Thessalian ethnos33.

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Conclusions The above examination of Rhianus’ Thessalica clearly shows that one of the most prominent features of Rhianus’ epic poems, which distinguish them from the Homeric epics, is the great variety of scientific, ethnographical, and aetiological information provided by the narrator to his audience34. Scholars have suggested various purposes for this information. I suggest that we may read the nonHomeric connection of the narrative present with the mythical past, which takes place in Rhianus’ aetiological narrative, as marking a deviation from the Homeric epics35. We find the signs of the distant past preserved in Homer36, while it has been pointed out that the aetiological element provides a “sense of cultural continuation” for the Alexandrians37.

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Rhianus creates a narrator, who, as a result of his own research or that of his fellow grammarians, is equipped with a great variety of knowledge in his ethnographical and mythological epics. His journey to mainland Greece and Thessaly presents a variety of city names and peoples: for example, we learn about the famous catalogue of the Thessalian ethnics from the fourth to the seventh book of the Thessalica (frr. 26–38 P.). It is worth noting here that Rhianus is the only extant source for many of these names. What is more, the narrator frequently adopts the tone of an ethnographer, who notes with great interest the moral customs of peoples described in his works38. The longer extant fragments of Rhianus’ ethnographical poems depict events and historical narratives for each place as products of scientific research. Rhianus was either an eyewitness of his stories, or he acquired his information for them from sources which are unfortunately not attested due to the fragmentary nature of his works, in comparison,

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Lepore 1962, 111. 32 Hammond 1991, 183–192. 33 Cuscuna 2006, 477. 34 Goldhill 1991, 327–328. 35 Fusillo 1985, 137–142. 36 Fantuzzi - Hunter 2004, 91–93. 37 Zanker 1987, 120–124; also Stephens (2003, 171–195) argues that such aetiologies depict the relationship among the Greeks and the non-Greeks in North Africa and around Mediterranean. 38 These peoples are very different from the Greeks, while the narrator tells about the Libyan ethnics, also Stephens 2003, 175–176. 31

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33 Timeo e la tradizione letteraria sulla fonte Aretusa: la storia, il mito e il paesaggio. Ilaria Starnino Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ Timaeus was one of the sources for the description of a symbolic place such as the Arethousa spring, where the myth merges with historical tradition and geographical analysis. Located on the Ortigia island, overlooking the city of Syracuse, the source was considered to be connected to the Greek peninsula: in fact, it had its origins from the Alpheios River and its waters, crossed the sea of Sicily in an underground riverbed, find light on the island. Its description was probably inserted in the section of the timaic Stories dedicated to the foundation of the western Greek colonies, of which Syracuse must have had a large part. The analysis of the timaic fragments on the Arethousa source will allow us to outline a descriptive naturalistic profile in the perspective of the transmitting sources, heterogeneous by nature and vocation, by tracing those markers of collective identity which in the myth preserve their historical value. Timeo fu una delle fonti principali per la descrizione di un luogo simbolico come la fonte Aretusa, dove il mito si fonde con la tradizione storica e l’analisi geografica. Situata nell’isola di Ortigia, prospiciente la città di Siracusa, la sorgente era considerata come collegata alla penisola greca: dal fiume Alfeo essa traeva, infatti, le sue origini; le sue acque attraversavano il mare di Sicilia in un alveo sotterraneo, per poi trovare luce sull’isola. La sua descrizione si inseriva verosimilmente nella sezione delle Storie timaiche dedicata alla fondazione delle colonie greche d’occidente, di cui Siracusa dovette avere gran parte. L’analisi dei frammenti timaici sulla fonte Aretusa permetterà di delinearne un profilo descrittivo naturalistico nella prospettiva delle fonti tralatrici, eterogenee per natura e vocazione, rintracciando quegli elementi marcatori dell’identità collettiva che nel mito non hanno perso il proprio valore storico. Keywords: Timaeus; historical fragments; hellenistic historiography; ancient history; frammenti storici; storiografia ellenistica; storia antica; Aretusa; Siracusa “Sicanio praetenta sinu iacet insula contra Plemurium undosum, nomen dixere priores Ortygiam. Alpheum fama est hunc Elidis amnem occulta egisse vias subter mare: qui nunc ore, Arethusa, tuo siculis confunditur undis”.

o3 alla ninfa dalla quale prende il nome, l’Aretusa è uno sfogo della stessa falda freatica che alimenta anche il fiume Ciane, che scorre sul lato opposto dell’isola. L’acqua della fonte deriva dai monti Iblei, e proprio a ridosso del mare, lungo la costa occidentale dell’isola di Ortigia, emerge in superficie, formando una risorgiva4.

“Davanti al golfo sicanio giace un’isola, incontro all’ondoso Plenurio, di nome gli antichi la dissero Ortigia. L’Alfeo, raccontano, fiume dell’Elide, qui venne per vie sotto il mare segrete: ora qui sulla tua bocca, Aretusa, alle sicule onde si mesce”1.

Sulla questione della titolarità della fonte si innestano problemi di varia natura (dall’incertezza dei dati archeologici alla scarsezza di quelli fornitici dalle fonti letterarie sulle pratiche cultuali che vi si svolgevano). Per quanto riguarda, invece, il culto di Artemide sull’isola di Ortigia, si veda Pind., Pyth., II, 6–7; Nem., I, 2–3. Non è questo il luogo per dedicare un approfondimento al culto della dea in Sicilia, cui si accennerà anche più avanti, ma è importante ricordare con Strabone (Geog., VIII, 3, 12), come il titolo di Alpheionia fosse attestato e utilizzato assieme al suo allotropo Alpheiousa (λέγεται γὰρ ἀμφοτέρως) per la dea Artemide alla quale era stato dedicato il recinto sacro che si trovava distante otto stadi da Olimpia. Sul culto di Artemide in Sicilia sarà utile qui ricordare Martorana et alii 1996, 74–75 e 77 (in particolare 117–122 per il culto delle ninfe). 4 Frutto di sistemazioni ottocentesche, la fonte è tuttora uno dei monumenti-simbolo della città di Siracusa. Dopo essere stata inglobata nelle fortificazioni della città a opera di Carlo V, essa assunse l’aspetto attuale nel 1847, quando ormai delle mura di cinta restava solamente il belvedere soprastante. 3

È così che Virgilio (Aen., III, 692–696) descrive l’Aretusa, bacino d’acqua dolce situato nell’isola prospiciente la città di Siracusa, Ortigia2. Antica fonte dedicata ad Artemide e/ Trad. Calzecchi Onesti 1970. Successivamente a Ortigia, Virgilio menziona Camarina e Gela, per le quali sembra rifarsi alla letteratura sulle κτίσεις delle città siciliane con i rispettivi oracoli di fondazione (ciò non esclude dunque che possa aver letto Timeo o autori che ne dipendevano). Sulle fonti di Virgilio relative a questi versi si veda Parke 1941.

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Ilaria Starnino «C’è un’Ortigia nel mare nebbioso, sul bordo di Trinacria, dove dell’Alfeo la foce sgorga mescolandosi alle sorgenti di Aretusa dal bel corso».

La disponibilità di una sorgente d’acqua dolce fu, probabilmente, uno dei presupposti per lo stanziamento dei coloni greci sull’isola5, primo nucleo abitativo della città di Siracusa6. Infatti la fonte Aretusa è menzionata nell’oracolo delfico relativo alla fondazione di Siracusa da parte di Archia, leader della spedizione corinzia7, e riportato da Pausania in V 7, 38:

Per questo motivo, dunque, per il fatto cioè che l’acqua dell’Alfeo si mescola all’Aretusa, penso che sia derivata dal fiume anche la storia del suo amore”9. Senza soffermarsi sulla presunta autenticità dei versi oracolari, fortemente sostenuta da Parke e Wormell10, sebbene discussa in studi più recenti11, emerge da questo passo un’assoluta fiducia di Pausania nell’oracolo delfico: dal testo di quest’ultimo il Periegeta desume la veridicità della tradizione secondo la quale il fiume Alfeo (Fig. 33.1), che ha origine nel Peloponneso, scorrerebbe sotterraneo fino a Ortigia, di modo che il dato mitologico sia una risultante eziologica del dato geografico12. D’altronde già l’episodio della fondazione di Siracusa da parte di Archia conserva nella tradizione una natura anfibia13: nonostante risponda al modello tipologico della pratica ecistica, il racconto è impostato anche su uno schema mitico che, con Malkin, si può riassumere nella sequenza piaga (collera divina) - consultazione - esclusione dalla collettività (mediante la colonizzazione)14. Oltre i tre versi oracolari riportati dal Periegeta resta una citazione nel lessico Suda15, che consiste in un’elaborazione dei versi di risposta dell’oracolo alle richieste dei due ecisti, Archia e Miscello:

“Ταῦτα μὲν λόγου τοῦ ἐς Ἀλφειὸν † ἐς τὴν Ὀρτυγίαν †· τὸ δὲ διὰ τῆς θαλάσσης ἰόντα ἐνταῦθα ἀνακοινοῦσθαι τὸ ὕδωρ πρὸς τὴν πηγὴν οὐκ ἔστιν ὅπως ἀπιστήσω, τὸν θεὸν ἐπιστάμενος τὸν ἐν Δελφοῖς ὁμολογοῦντά σφισιν, ὃς Ἀρχίαν τὸν Κορίνθιον ἐς τὸνΣυρακουσῶν ἀποστέλλων οἰκισμὸν καὶ τάδε εἶπε τὰ ἔπη· «Ὀρτυγίη τις κεῖται ἐν ἠεροειδέι πόντῳ, Θρινακίης καθύπερθεν, ἵν᾽ Ἀλφειοῦ στόμα βλύζει. Μισγόμενον πηγαῖσιν ἐυρρείτης Ἀρεθούσης». Κατὰ τοῦτο οὖν, ὅτι τῇ Ἀρεθούσῃ τοῦ Ἀλφειοῦ τὸ ὕδωρ μίσγεται, καὶ τοῦ ἔρωτος τὴν φήμην τῷ ποταμῷ πείθομαι γενέσθαι”. “Questo per quanto riguarda il racconto di Alfeo a Ortigia; circa poi il fatto che, scorrendo attraverso il mare, lì mescoli la sua corrente alla fonte, non c’è motivo di non prestarvi fede dal momento che mi risulta che il dio di Delfi è d’accordo con loro, egli che inviando Archia il Corinzio a fondare Siracusa pronunciò anche questi versi:

“Χώρας καὶ πόλεως οἰκήτορα λαὸν ἔχοντες ἤλθετ’ ἐρησόμενοι Φοῖβον, τίνα γαῖαν ἵκησθε. Ἀλλ’ ἄγε δὴ φράζεσθ’ ἀγαθῶν πότερόν κεν ἕλοισθε, πλοῦτον ἔχειν κτεάνων ἢ τερπνοτάτην ὑγίειαν”.

Che la presenza di una fonte di acqua dolce a Ortigia sia stata determinante per lo stanziamento del drappello corinzio guidato da Archia nel 733 a.C. (datazione tucididea della fondazione di Siracusa), sembra evidente se si considerano le consuete dinamiche di ricognizione territoriale adoperate dai colonizzatori e l’importanza dell’approvvigionamento idrico per un insediamento (per es., Vitr., De Arch., VIII, 3, 27: “Nulla enim ex omnibus rebus tantas habere videtur ad usum necessitates quantas aqua […]”). Per una discussione sul tema si veda anche Collin Bouffier 1987, in particolare 670–672. 6 È Tucidide (Hist., VI, 3, 2), nel racconto di fondazione della città di Siracusa, a distinguere la città interna (“ἡ πόλις ἡ ἐντός ἐστιν”) dalla città esterna (“ἡ ἔξω”). 7 La fondazione ufficiale di Siracusa è da ascriversi all’anno 733 a.C., stando a quanto riporta Tucidide (Hist., VI, 3, 2,) il quale attinge la notizia verosimilmente da Antioco, mentre i calcoli adoperati da Filisto fanno risalire la data al 756 a.C., con un distacco temporale di circa un ventennio. Questa duplice datazione si nutre del sospetto relativo a una eventuale frequentazione greca di natura euboica nell’area fra il tavolato di Epipole e la penisola del Plemmirio, dove di fatto verrà fondata Siracusa, anteriore a quella corinzia. A conferma di ciò vengono chiamati in causa alcuni recenti ritrovamenti archeologici di frammenti euboici databili proprio all’VIII sec. a.C., come anche l’analisi della stessa ceramica siracusana, la quale assume quei tratti caratteristici delle produzioni euboico-calcidiche che fanno presupporre un contatto diretto con la manodopera locale. A ben vedere, residui dell’influsso ionico permangono anche nell’idronomastica e nella toponomastica (basti menzionare la stessa Ortigia, letteralmente “isola delle quaglie”). Per una riflessione più ampia e dettagliata sull’argomento si veda anche Braccesi - Millino 2000. 8 Solamente Pausania cita i tre versi dell’oracolo, mentre Diod., Bibl. Hist., V, 3, 5 (come si vedrà in seguito) sembra averli in mente nell’espressione ὑπό τε τῶν χρησμῶν all’interno del racconto relativo all’attribuzione ad Artemide dell’isola siracusana: “τὴν δ᾽ Ἄρτεμιν τὴν ἐν ταῖς Συρακούσαις νῆσον λαβεῖν παρὰ τῶν θεῶν τὴν ἀπ᾽ ἐκείνης Ὀρτυγίαν ὑπό τε τῶν χρησμῶν καὶ τῶν ἀνθρώπων ὀνομασθεῖσαν. Diversa è la citazione dei versi oracolari sui due ecisti, Archia e Miscello, riportati dal lessico Suda (cfr. n. 15). 5

“Dato che hai un popolo che abita il paese e la città, sei venuto a chiedere ad Apollo su quale terra andare. 9 La traduzione è di Maddoli, in Maddoli e Saladino 1995, 43, con lievi modifiche. 10 Parke - Wormell 1956, 68: “The oracle no doubt is still older; in fact, there is no reason for denying its claim to be authentic”. Inoltre, come gli stessi dichiarano, i tre versi farebbero parte di un componimento oracolare più lungo a noi non pervenuto (“Evidently this is only a small part of a much longer poem in which Archias was mentioned by name and told to found his city in the place described”). Per quanto riguarda l’apertura Ὀρτυγίη τις come variante rispetto al più consueto esti tis si veda Fontenrose 1987, 138, ma in particolare anche 172–174. Una riflessione che si allontana dalla dimostrazione dell’originalità dei versi oracolari è quella di MacLeod 1961, il quale si concentra piuttosto sulla natura orale dell’oracolo delfico nel rispetto della tradizione epica che vedeva la riproposizione di formule e immagini. 11 Un’interessante discussione sugli oracoli delfici, in particolare quelli di fondazione delle colonie greche, è in Suárez de la Torre 1994, 7–37: l’autore analizza, in costante confronto con le teorie esposte da L. E. Rossi (1981, 204–223), in termini di verosimiglianza i probabili criteri da utilizzare nell’analisi dei versi oracolari, per poterne discutere se non l’autenticità, quanto meno una possibile origine. 12 In Perieg., VII, 24, 3 Pausania difende la sua tesi con un’ulteriore prova: egli racconta come i sacerdoti di Soteria presso Engio inviassero dei pani ad Aretusa proprio attraverso percorsi sottomarini. 13 Il riferimento è in particolare ai passi di Plut., Mor., 772b-773b e Diod., Bibl. Hist., VIII, 10, 1–3: entrambi riportano la lezione della presunta colpevolezza di Archia nella morte di Atteone e il conseguente suicidio del padre, il che scatena l’ira di Poseidone e la scelta forzata di Archia di non far ritorno a Corinto e di imbarcarsi alla volta della Sicilia. 14 Malkin 1987, 41–43. 15 Suda, s.v. “Ἀρχίας” (poi ripetuto s.v. “Μύσκελλος”).

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Timeo e la tradizione letteraria sulla fonte Aretusa

Fig. 33.1. Firenze, Museo Nazionale del Bargello, rilievo raffigurante Alfeo e Aretusa in amore, anonimo fiorentino (https:// commons.wikimedia.org/wiki/File:Scultore_fiorentino,_alfeo_e_aretusa,_1561–62.JPG).

Ma vieni ora, dimmi quale vantaggio preferisci, avere una ricchezza di beni o salute più gradevole?”16.

proprie acque in superficie nella fonte di Ortigia, senza che queste siano contaminate nel loro percorso dalla salinità del mare. Sin dai tempi antichi erano note e ampiamente praticate le molte rotte commerciali fra Peloponneso e coste orientali della Sicilia, tanto che il mare che bagnava i lidi occidentali del Peloponneso veniva definito ‘siculo’17. Venivano così instaurati legami ideologici, religiosi e commerciali determinanti nella deduzione delle colonie greche, una pratica che trovava la sua più diretta e naturale giustificazione nella creazione di una tradizione mitica

Per spiegare la presenza di una fonte d’acqua dolce proprio a ridosso del mare, fu formulata in antico l’ipotesi secondo la quale l’Alfeo, fiume dell’Elide che costeggia Olimpia, scorrerebbe sotterraneo attraverso il mare e riverserebbe le 16 Sull’oracolo si sofferma anche Strab., Geog., VI, 2, 4: “Dicono che anche Archia, insieme a Miscello, si sia recato a Delfi: consultando l’oracolo, il dio domandò loro cosa preferissero tra la ricchezza e la salute; da una parte Archia scelse la ricchezza, mentre dall’altra Miscello scelse la salute: all’uno dunque assegnò di fondare Siracusa, all’altro Crotone”. Per contro è da notare come invece una fonte autorevole quale quella di Tucidide non menzioni affatto alcun tipo di oracolo. Thuc., Hist., VI, 3, 2.

17 Strab., Geog., VII, 2, 2: “ἔχουσι δὲ τῆς χερρονήσου ταύτης τὸ μὲν ἑσπέριον μέρος Ἠλεῖοι καὶ Μεσσήνιοι, κλυζόμενοι τῷ Σικελικῷ πελάγει”, ma anche Eratostene in Plin., Nat. Hist., III, 75; Polyb., Hist., I, 42, 4 e X 1, 2; anche Ov., Fasti, II, 93.

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Ilaria Starnino (come quella della fonte siracusana) che immaginiamo possa spiegarsi con la pratica, tutta greca, di appropriarsi di un daimon locale (epichorios), qui innescata e incentivata dal fatto, non ordinario, che proprio in riva al mare zampillasse una sorgente d’acqua non salata. Ora, la diversità delle versioni del mito nelle fonti18, presenta una polarità di base: solo alcune ammettono il corso sotterraneo del fiume Alfeo, le altre non lo contemplano affatto. In questo stemma traditionum si inserisce la voce di Timeo19, con la quale si mantiene feconda la promiscuità del livello mitologico e di quello storico20. I quattro frammenti timaici21 riguardanti la fonte, infatti, mostrano il peso dell’eziologia mitologica rispetto alla ricerca, o alla pretesa, di veridicità storica, o, se si vuole, quanto la prima fosse funzionale alla seconda. Non a caso una delle quattro fonti che trasmettono la citazione timaica è a carattere paradossografico: si tratta della Ἱστοριῶν παραδόξων συναγωγή erroneamente attribuita, secondo un recente studio di Musso22, ad Antigono di Caristo. Nella convincente ricostruzione dello studioso, quest’opera non è altro che una raccolta di excerpta da lavori diversi, assemblata probabilmente all’epoca di Costantino VII Porfirogenito (905–959). La raccolta consisteva di quattro parti, ed è verosimilmente l’ultima di esse, Mirabilia de aquis et de aliis rebus, derivata a sua volta dall’opera di Callimaco di Cirene, che ci trasmette la menzione di Timeo:

᾽Αλφειὸν ποταμὸν ἐμβληθεῖσαν ἐν ἐκείνῃ φανῆναι. Τοῦτο δ᾽ ἱστορεῖ καὶ Τίμαιος”23. “Così come dicono gli altri fa anche Pindaro, (dicendo) cioè che la sorgente Aretusa a Siracusa deriva (le sue acque) dal fiume Alfeo di Elide; e di conseguenza, durante i giochi olimpici, ogni volta che lavano nel fiume le interiora degli animali sacrificati, la fonte siciliana non è pura, ma scorre fangosa. Dice anche che una coppa gettata nel fiume Alfeo fu ritrovata in quell’acqua. Anche Timeo riferisce questa stessa storia”. Stando alla citazione, ancora altre fonti non meglio specificate avrebbero fatto riferimento al legame della sorgente Aretusa con il fiume Alfeo e queste, insieme a Pindaro e Timeo, avrebbero sostenuto come prove l’intorbidirsi dell’acqua e il ritrovamento di una coppa. In ciò che ci è pervenuto della produzione di Pindaro, non è possibile riscontrare un simile racconto24, per cui bisognerà ricorrere a Timeo, che resta pertanto l’unica fonte dalla quale poter ricavare la “dinamica della prova”. Il passo di Polibio, invece, si inserisce nel contesto di un veemente attacco polemico allo storico di Tauromenio: “Φησὶ τοιγαροῦν τὴν ᾽Αρέθουσαν κρήνην τὴν ἐν ταῖς Συρακούσσαις ἔχειν τὰς πηγὰς ἐκ τοῦ κατὰ Πελοπόννησον διά τε τῆς ᾽Αρκαδίας καὶ διὰ τῆς ᾽Ολυμπίας ῥέοντος ποταμοῦ [᾽Αλφειοῦ]· ἐκεῖνον γὰρ δύντα κατὰ γῆς τετρακισχιλίους σταδίους ὑπὸ τὸ Σικελικὸν ἐνεχθέντα πέλαγος ἀναδύνειν ἐν ταῖς Συρακούσσαις. Γενέσθαι δὲ τοῦτο δῆλον ἐκ τοῦ κατά τινα χρόνον οὐρανίων ὄμβρων ῥαγέντων κατὰ τὸν τῶν ᾽Ολυμπίων καιρόν, καὶ τοῦ ποταμοῦ τοὺς κατὰ τὸ τέμενος ἐπικλύσαντος τόπους, ὄνθου τε πλῆθος ἀναβλύζειν τὴν ᾽Αρέθουσαν ἐκ τῶν κατὰ τὴν πανήγυριν θυομένων βοῶν, καὶ φιάλην χρυσῆν ἀναβαλεῖν, ἣν ἐπιγνόντες εἶναι τῆς ἑορτῆς ἀνείλοντο25”.

“᾽Αρέθουσαν δὲ τὴν ἐν Συρακούσαις, ὥσπερ οἱ λοιποί φασιν καὶ Πίνδαρος, τὴν πηγὴν ἔχειν ἐκ τοῦ κατὰ τὴν ῎Ηλιδα ᾽Αλφειοῦ · διὸ καὶ ταῖς ᾽Ολυμπικαῖς ἡμέραις, ὅταν ἐν τῷ ποταμῷ ἀποπλύνωσιν τῶν θυμάτων τὰς κοιλίας, οὐ καθαρὰν εἶναι τὴν ἐν τῇ Σικελίᾳ κρήνην, ἀλλὰ ῥεῖν ὄνθῳ. Φησὶν δὲ καὶ φιάλην ποτ᾽ εἰς τὸν Il mito della fonte Aretusa trova una delle sue più alte espressioni letterarie nei versi delle Metamorfosi di Ovidio (Met., V, 572–641). Il poeta presenta la ninfa mentre sorge dalle acque della fonte, interrogata da Cerere sulla sua fuga. Inizia così la narrazione del mito per bocca di Aretusa, la quale ricorda il giorno in cui, stanca per una battuta di caccia e affaticata dal caldo, decise di rinfrescarsi nel fiume, ‘un corso d’acqua che fluiva senza gorghi e silenzioso’. Alfeo, innamoratosi di Aretusa, la rincorre, mentre la ninfa chiede la protezione di Diana. Trasformata dalla dea in acqua, riesce a inabissarsi fino a Ortigia, mentre Alfeo, riprese le sembianze di fiume, la segue sotto il mare. 19 Timeo (FGrHist 566) scrisse una storia della Sicilia in 38 libri, le Sikelikai Historiai secondo la notizia della Suda che lo dice nativo di Tauromenio, figlio di Andromaco e allievo di Filisco di Mileto. L’opera storica è parzialmente rintracciabile nei 164 frammenti e nelle 31 testimonianze presenti nei FGrHist di Felix Jacoby al numero 566. Aspramente criticato da Polibio, una delle sue fonti principali, Timeo risulta essere uno dei maggiori storici che la grecità d’Occidente abbia conosciuto. Il suo percorso fu profondamente segnato dalla tirannide di Agatocle, personaggio di spicco nella Siracusa di IV sec. a.C., per mano del quale Timeo sperimentò cinquant’anni d’esilio ad Atene. Poco si può desumere delle circostanze di stesura della sua opera storica: sappiamo di certo che la critica di Polibio era volta a demolire la pratica dell’indagine a tavolino adottata da Timeo. Eppure forte dovette essere la risonanza del suo lavoro: le sue fonti tralatrici attraversano secoli di storia. Su Timeo, in particolare: Brown 1958; Pearson 1987; Vattuone 1991; Baron 2013. 20 È lecito supporre che i versi oracolari riportati da Pausania derivassero direttamente o indirettamente da storici come Ippi di Reggio, Antioco o Filisto di Siracusa. Questi, insieme a Timeo, erano soliti iniziare le loro storie con un racconto di fondazione. 21 FGrHist 566, FF 41a-c e F 164. 22 Musso 2007. 18

“Egli dice, per esempio, che la fonte Aretusa, che si trova a Siracusa, prende le sue acque dal fiume (Alfeo) nel Peloponneso che scorre attraverso l’Arcadia e Olimpia; dice che questo fiume dopo essersi tuffato sotto terra aver percorso 4000 stadi sotto il mare siculo, riappare a Siracusa; ciò è dimostrato dal fatto che una volta, siccome era scoppiato un violento temporale durante i giochi Olimpici, e dal momento che il fiume aveva inondato la zona del santuario, la fonte Aretusa fece zampillare una quantità di residui di animali che 23 Pseudo-Antig., Historiae Mirabiles (Ἱστοριῶν παραδόξων συναγωγή), 140 = FGrHist 566 F41a. 24 L’unica menzione di Aretusa in Pindaro è in Pyth., III, 69 e nulla viene anche solamente accennato su di essa. Il ricorso del percorso sottomarino dell’Alfeo, invece è proprio in Nem., I, 1–4: “Ἄμπνευμα σεμνὸν Ἀλφεοῦ,/ κλεινᾶν Συρακοσσᾶν θάλος Ὀρτυγία,/ δέμνιον Ἀρτέμιδος,/ Δάλου κασιγˈνήτα”, in cui Ortigia ha anche l’interessante appellativo di ‘sorella di Delo’, a indicare la comune vocazione sacra ad Artemide. Non è da escludere che il poeta volesse in tal modo creare un legame ideale fra la città dei Dinomenidi e Olimpia, legittimando il ruolo politico e le azioni del tiranno Siracusano, in una cornice storica che vede Siracusa vittoriosa sui Cartaginesi e Atene vincitrice del barbaro persiano. 25 Polyb., Hist., XII, 4d, 5–7 = FGrHist 566 F41b.

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Timeo e la tradizione letteraria sulla fonte Aretusa proveniva dai buoi sacrificati durante i giochi, e anche che affiorò una coppa d’oro che riconobbero essere quella utilizzata durante la festività”.

sembra voler prendere le distanze da un racconto che ha dell’inverosimile, come egli stesso confesserà più avanti29. Il F 16430 che nella raccolta jacobiana contempla i capitoli 5–23 del libro V della Biblioteca Storica, fornisce un valido contro-esempio all’utilizzo di Timeo come una delle principali fonti per la mitologia a carattere eziologico, come si è potuto notare per gli autori citanti dei ff 41a-c. Se ne riporta qui un estratto, il cui antefatto riguarda la spartizione della regione fra Atena e Artemide: alla prima spettò la zona dell’Imera, dove le ninfe, per compiacere la dea, fecero sgorgare sorgenti d’acqua calda, mentre

Pur riproponendo una versione del tutto sovrapponibile alla precedente, lo storico di Megalopoli non menziona Pindaro come altra fonte su questa specifica tradizione. Nell’offensiva polibiana rientra la preoccupazione di Timeo riguardo la dimostrazione dell’aneddoto26, come se lo scopo del tauromenita fosse quello di dimostrare la storicità e la verosimiglianza di una simile narrazione leggendaria. L’associazione della versione timica a quella pindarica, assente in Polibio, viene riproposta da Strabone, nel capitolo del VI libro della Geografia riguardante Siracusa. Abbiamo già potuto verificare come Strabone narri la fondazione della città, e dalle origini prosegue così nella descrizione della colonia:

“Τὴν δ᾽ ῎Αρτεμιν τὴν ἐν ταῖς Συρακούσαις νῆσον λαβεῖν παρὰ τῶν θεῶν τὴν ἀπ᾽ ἐκείνης ᾽Ορτυγίαν ὑπό τε τῶν χρησμῶν καὶ τῶν ἀνθρώπων ὀνομασθεῖσαν. ὁμοίως δὲ καὶ κατὰ τὴν νῆσον ταύτην ἀνεῖναι τὰς Νύμφας ταύτας χαριζομένας τῇ ᾽Αρτέμιδι μεγίστην πηγὴν τὴν ὀνομαζομένην ᾽Αρέθουσαν. Ταύτην δ᾽ οὐ μόνον κατὰ τοὺς ἀρχαίους χρόνους ἔχειν μεγάλους καὶ πολλούς ἰχθύας, ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἡμετέραν ἡλικίαν διαμένειν συμβαίνει τούτους, ἱεροὺς ὄντας καὶ ἀθίκτους ἀνθρώποις· ἐξ ὧν πολλάκις τινῶν κατὰ τὰς πολεμικὰς περιστάσεις φαγόντων, παραδόξως ἐπεσήμηνε τὸ θεῖον, καὶ μεγάλαις συμφοραῖς περιέβαλε τοὺς τολμήσαντας προσενέγκασθαι περὶ ὧν ἀκριβῶς ἀναγράψομεν ἐν τοῖς οἰκείοις χρόνοις31”.

“Ἡ δ᾽᾽Ορτυγία συνάπτει γεφύραι πρὸς τὴν ἤπειρον †οὖσα†, κρήνην δ᾽ἔχει τὴν ᾽Αρέθουσαν, ἐξιεῖσαν ποταμὸν εὐθὺς εἰς τὴν θάλατταν. Μυθεύουσι δὲ τὸν ᾽Αλφειὸν εἶναι τοῦτον, ἀρχόμενον μὲν ἐκ τῆς Πελοποννήσου, διὰ δὲ τοῦ πελάγους ὑπὸ γῆς τὸ ῥεῖθρον ἔχοντα μέχρι πρὸς τὴν ᾽Αρέθουσαν, εἶτ᾽ ἐκδιδόντα ἐνθένδε πάλιν εἰς τὴν θάλατταν. Τεκμηριοῦνται δὲ τοιούτοις τισί· καὶ γὰρ φιάλην τινὰ ἐκπεσοῦσαν εἰς τὸν ποταμὸν ἐνόμισαν ἐν ᾽Ολυμπίαι δεῦρο ἀνενεχθῆναι εἰς τὴν κρήνην, καὶ θολοῦσθαι ἀπὸ τῶν ἐν ᾽Ολυμπίᾳ βουθυσιῶν· ὅ τε Πίνδαρος ἐπακολουθῶν τούτοις εἴρηκε τάδε «ἄνπνευμα σεμνὸν ᾽Αλφεοῦ, κλεινᾶν Συρακουσσᾶν θάλος, ᾽Ορτυγία». Συναποφαίνεται δὲ τῷ Πινδάρῳ ταὐτὰ καὶ Τίμαιος ὁ συγγραφεύς27”.

“Artemide, invece, ottenne dagli dei l’isola di Siracusa che porta il suo nome, e che è chiamata dagli oracoli e dagli uomini Ortigia. Qui le ninfe, similmente per compiacere la dea Artemide, fecero sgorgare una grande fonte che si chiama Aretusa. Questa fonte non solo nei tempi antichi ospitava grandi e numerosi pesci32, ma ne troviamo ancora ai nostri tempi, pesci che sono sacri e per questo intoccabili dagli uomini. In molte occasioni, quando certi uomini li hanno mangiati nei tempi difficili della guerra, la divinità ha mostrato un segno eclatante e ha inflitto grandi sofferenze a coloro che hanno osato prenderli per cibo. Di questi argomenti fornirò un resoconto dettagliato in relazione al periodo di tempo appropriato”.

“Ortigia è connessa alla terraferma attraverso un ponte, e ha la fonte Aretusa, che sbocca in un fiume e poi si riversa direttamente nel mare. Narrano che questo fiume fosse l’Alfeo, che nascendo dal Peloponneso scorrerebbe lungo il mare sotto terra fino ad arrivare ad Aretusa, per poi, di qui (dalla fonte), riversarsi di nuovo in mare. Le prove che adducono di ciò sono le seguenti: si è ritenuto infatti che una coppa fosse stata gettata nel fiume a Olimpia per poi da lì risalire a galla verso la fonte, e che questa fosse stata intorbidita a causa dei sacrifici dei buoi a Olimpia; Pindaro che segue questi racconti, dice queste cose: «o sacro luogo dove Alfeo respira di nuovo, Ortigia, germoglio della gloriosa Siracusa». Anche lo storico Timeo concorda con Pindaro su queste cose”.

Verrà facile notare come Diodoro qui ometta tutta la parte del mito relativa al fiume Alfeo, proprio quella, se vogliamo, caratterizzante la trasmissione del mito da parte non solo di Timeo, ma anche di tutta la letteratura posteriore, peraltro Diodoro dichiara di voler trattare di

Ancora una volta è ribadito il nesso Pindaro-Timeo, con la citazione ad litteram di Nem., I, 1–228, eppure Strabone

29 Strabone (Geog., VI, 2, 4 = FGrHist 566 F41c) afferma che accanto alla foce dell’Alfeo non vi è nessuna bocca che possa permettere al fiume di inabissarsi e che, dunque, il racconto παντάπασιν ἀμήχανόν ἐστι. 30 Jacoby inserisce il frammento (che contiene i capitoli 2–23 del V libro di Diodoro) nella sezione intitolata Anhang, sostenendo nel commento la presenza di materiale timaico nei relativi capitoli della Biblioteca Storica. FGrH 3b, Kommentar, 593. 31 Diod., Bibl. Hist., V, 3, 5–6. 32 I vari commentatori notano come le fonti che testimoniano la leggenda di Alfeo e Aretusa omettano il particolare dei numerosi pesci che abitavano la fonte e che erano consacrati alla dea, un particolare che è ricordato da Cic., Verr., II, 4, 118 e da Aelian., De Nat. Animal., VIII, 4. In realtà, anche Plutarco accenna a questo particolare (De Sollertia Animalium, 976) con l’episodio di Crasso, raccontato anche da Eliano.

26 Aneddoto che potrebbe risalire al VI sec. a.C. Se si accatta la versione attestata da uno scolio a Teocrito (Schol. ad Theocr., Id., I, 117) il racconto relativo alla phiale risalirebbe a Ibico di Reggio, dunque a una tradizione arcaica, di cui, però, Timeo sembra essere l’unico effettivo continuatore. 27 Strab., Geog., VI, 2, 4 = FGrHist 566 F41c. 28 Anche in Pyth., III, 68–71 (come accennato supra in nota 24) Pindaro fa riferimento all’Aretusa parlando del viaggio che il poeta è chiamato a fare attraverso il mare alla volta della Sicilia: “καί κεν ἐν ναυσὶν μόλον Ἰονίαν τάμνων θάλασσαν/ Ἀρέθοισαν ἐπὶ κράναν παρ᾽ Αἰτναῖον ξένον,/ ὃς Συρακόσσαισι νέμει βασιλεὺς/ πραῢς ἀστοῖς, οὐ φθονέων ἀγαθοῖς, ξείνοις δὲ θαυμαστὸς πατήρ”.

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Ilaria Starnino chiama Potamia. Altri: sede di Artemide: infatti presso l’Aretusa, che deriva le proprie acque dall’Alfeo, si trova una statua di Artemide: perciò dunque Pindaro le ha dato l’appellativo di Potamia”.

questo argomento in dettaglio «in relazione al periodo di tempo più opportuno». Nelle parti superstiti della Biblioteca Storica, però, l’Aretusa viene nominata solo una seconda volta, mentre alle citazioni dell’Alfeo non è mai accompagnata quella della fonte siciliana. Senza esasperare una presunta mancanza della fonte timaica alla base della narrazione di questa leggenda (che pure molti studiosi vedono come accoglimento da parte di Diodoro della lezione polibiana di critica al tauromenita), certo il passo contribuisce a sostenere gli interrogativi circa il reale utilizzo di Timeo nel V libro di Diodoro33, soprattutto considerando che poco dopo (V, 4, 1–2), l’autore della Biblioteca Storica riporta anche il racconto mitico relativo alla fonte Ciane34, alimentando un altro ramo della leggenda, diverso da quello di Alfeo e Aretusa.

Il secondo si determina proprio a livello paesaggistico: Siracusa, con i suoi due porti (il Porto Grande e il Lakkios38) riproduceva le fattezze della città madre Corinto, anch’essa istmica e perciò biportuale. Il primo a dichiarare tale somiglianza è Ovidio, che nelle Metamorfosi così descrive Siracusa: “et quo Bacchiadae, bimari gens orta Corintho, / inter inequales posuerunt moenia portus” (Ov., Met., V, 407–8). Che la ricerca e la predilezione di situazioni morfologiche simili a quelle della città di origine avesse da sempre spinto i greci a fondare le proprie colonie in luoghi dall’aspetto e potenzialità già conosciuti è cosa nota sin da Omero39. Una tale scelta sarà stata dettata in primo luogo dalle opportunità che istmi o stretti potevano offrire quali luoghi strategici e perciò preziosi soprattutto a fini commerciali, eppure è da considerare anche il fatto che, come nel caso di Siracusa, la scelta del luogo del primo insediamento e la riproposizione del culto della divinità greca (con annesso santuario e relativa statua40) corrisponda a quella certa tendenza da parte dei Greci a riprodurre i tratti paesaggistici del luogo di origine nel luogo di arrivo, e non solo a ricercarli. Un discorso affrontato da Musti41, il quale parla appunto di ‘processo imitativo della forma esteriore della madrepatria’, e nota come anche per Ovidio non sia casuale la ‘corrispondenza tra la bi-portualità di Siracusa e la bi-marità della madrepatria Corinto’42. Tali riflessioni portano alla considerazione dei Corinzi come veicolatori di culti, tendenze e tradizioni che si estrinsecavano nelle forme più concrete della riproposizione di edifici, opere strutturali ma anche nella ricerca di luoghi e riti che potessero somigliare a quelli della regione greca d’origine, e in quest’ottica la leggenda tramandata da Timeo, così come egli ce la propone, si mostra quale strumento per legittimare il legame tra l’Elide e Siracusa, tra il santuario di Olimpia e la nuova colonia corinzia, nel vincolo sempre operativo tra mito e storia.

Si potrebbe concludere che la pratica di Timeo (allo stato attuale unica fonte che tramanda tutti gli ipotetici indizi) di addurre prove e particolari descrittivi alla leggenda del fiume Alfeo e della fonte Aretusa possa essere espressione della necessità di rafforzare idealmente un legame fra colonia e madrepatria. A convalidare questa connessione concorrono due dati: il primo, più propriamente spirituale, si realizza in una certa osmosi cultuale che coinvolge Aretusa e Artemide35, alla quale si era precedentemente accennato36, così come gli scoli a Pindaro37 l’argomentano, commentandone l’epiclesi di Potamìa: “Ποταμίας ἕδος· τῆς Ἀλφειώας. φασὶ γάρ τινες Ἀλφειὸν ἐρασθέντα τῆς θεοῦ καὶ διώξαντα ἄχρι τῆς Ὀρτυγίας παύσασθαι. ὅθεν Ἀλφειώας Ἀρτέμιδος ἐκεῖ φασιν εἶναι ἱερὸν, ἣν νῦν ποταμίαν εἶπεν. ἄλλως· ἕδος Ἀρτέμιδος· ἵδρυται γὰρ ἄγαλμα Ἀρτέμιδος ἐπὶ τῇ Ἀρεθούσῃ, ἡ δὲ Ἀρέθουσα ἐξ Ἀλφειοῦ τοῦ ποταμοῦ δέχεται τὰ ῥεύματα· ποταμίαν οὖν [Ἄρτεμιν] αὐτὴν διὰ τοῦτο ὠνόμασεν”. “Sede di Potamia: di Alfea. Infatti alcuni dicono che Alfeo, innamoratosi della dea e avendola inseguita fino a Ortigia, si fermò in questo luogo. Per cui si dice che lì vi fosse un santuario di Artemide Alfea, che ora Pindaro

Bibliografia Baron, C. A. 2013, Timaeus of Tauromenium and Hellenistic Historiography, Cambridge.

33 Per Levi (1925) sarebbero “parti staccate dall’opera timaica” e non più il “completamento del racconto di un mitografo” come era accaduto nel IV libro: una riflessione sulla quale sarebbe bene soffermarsi e discutere. 34 Sempre nel V libro, Diodoro narra della vicenda di Core: questo racconto riguarda un’epoca anteriore all’insediamento greco nell’isola e si innesta in quello dell’arrivo di Eracle in Sicilia, in occasione del quale si ricorda come a Segesta le ninfe avessero fatto sorgere una fonte d’acqua per l’eroe. Così il parallelismo con Aretusa resta in sospeso. 35 A una celebrazione in onore della dea Diana (Artemide, appunto) fa cenno Livio (XXV, 23–25), raccontandoci che questa festa a Siracusa durava tre giorni. Non siamo in grado di stabilire con esattezza come si svolgesse il rito e con quale appellativo Artemide venisse invocata. Con molta probabilità anche Timeo descrisse i rituali siracusani. 36 Vedi supra nota 3. 37 Si tratta degli scolii relativi a Pyth., II, 12a, in cui Pindaro celebra Ortigia come ‘sede di Artemide Potamia’. Si vedano anche gli Schol. ad Pind., Nem., I, 3: “Si narra che Alfeo, innamoratosi di Artemide, l’abbia inseguita fino in Sicilia; qui, finito l’inseguimento, ebbe origine l’Aretusa. Per questo Artemide è detta anche Alfea, e anche a Olimpia Alfeo è posto accanto ad Artemide. E di Artemide Potamia [fluviale] alcuni hanno notizia da Pindaro a causa della passione di Alfeo per lei, altri la dicono Artemide Alfea perché l’Alfeo sfocia nei pressi dell’Artemision di Elide”.

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34 Un paesaggio ameno contro la guerra. Aristofane e l’idealizzazione della campagna attica. Stefano Ceccarelli Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’ By offering a complete analysis of the portrayal of rural landscape in Aristophanes’ comedies from 427 BC to 421 BC, this paper aims to study the idealization which the poet used to represent the countryside from Acharnians to Peace. The countryside appears as a place which the countrymen, forced to stay in Athens’ walls, struggle to go back to. Conversely, Athens is portrayed as a city of war and an unhealthy place to live in. The countryside is evoked on the scene as a place of Athenian memory where men had been living in peace for centuries. Consequently, the Athenian countryside represents peace while the city embodies the concept of war. Since peace with Sparta has not been reached yet, the scene of Aristophanes’ first comedies is the city. This is why the country landscape can only be evoked. The manner in which Aristophanes achieved representation is the literary traditional motif of laus vitae rusticae. Il presente lavoro intende fornire un’analisi della rappresentazione idealizzata del paesaggio della campagna attica nelle commedie di Aristofane messe in scena fra il 427 e il 421 a. C., in particolare dagli Acarnesi alla Pace. La campagna si mostra come un luogo verso cui i contadini attici, costretti a stare all’interno delle Lunghe Mura di Atene, vorrebbero tornare. Atene, all’opposto, è rappresentata come una città in guerra, un luogo insalubre dove vivere. Tale opposizione Atene-campagna si traduce nel fatto che la campagna è un luogo solamente evocato sulla scena e mai rappresentato, cioè un luogo della memoria dove i contadini hanno vissuto da secoli in pace e armonia. Dato che in questo periodo storico Atene è ancora in guerra con Sparta, la scena di queste prime commedie di Aristofane rappresenta la città; la campagna, dunque, è solo immaginata dagli spettatori. Naturalmente, per evocare tale paesaggio campestre Aristofane si è servito dei tradizionali motivi della laus vitae rusticae. Keywords: Aristophanes; Attic farmers; countryside; idealization Il monologo d’apertura degli Acarnesi, infatti, è affidato a Diceopoli e presenta lo sfogo di un ἄγροικος coattamente inurbato, che lamenta la lontananza dal suo podere e dal suo demo (Ach., 32–36)4:

Aristofane1 è poeta molto legato alla campagna attica e ai suoi abitanti, soprattutto i contadini2: ciò è visibile, in particolare, nella sua prima produzione (427–421 a. C.)3. Questo lavoro trae origine dai miei studi durante il Dottorato di Ricerca presso l’Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’ (Ceccarelli 2017–2018). Colgo l’occasione di ringraziare il mio maestro Albio Cesare Cassio, che da molti anni segue le mie ricerche, per aver letto queste pagine, fornendomi ottimi consigli. Così, pure, ringrazio l’amico Ugo Mondini per aver letto il lavoro e avermi fornito dotti spunti di riflessione; all’amico Krešimir Vuković devo un sostanziale aiuto in fase di correzione dell’abstract in inglese. Ringrazio, naturalmente, tutti gli organizzatori del convegno Land Experience in Antiquity. Costruire. Ridefinire. Abitare (Università di Roma ‘Tor Vergata’) per la loro gentile accoglienza e il proficuo clima di lavoro creato: il Prof. Fabio Stok, il Dr. Armando Cristilli e la Dr. Alessia Gonfloni. Ogni errore o svista presente in questo lavoro è, naturalmente, da imputare a me solo. Il testo di Aristofane è citato secondo l’edizione di Wilson 2007; le traduzioni aristofanee, ove diversamente indicato, sono di Mastromarco 1983. 2 Sui contadini aristofanei vedi ancora le pagine di Ehrenberg 1957, 103–133. 3 Seguendo la scansione cronologica proposta per questo periodo da Mastromarco (Mastromarco 1983, 45–59; Mastromarco 1994, 40–61), fra il 427 e il 421 a.C. Aristofane porta in scena i seguenti personaggi campagnoli: il Vecchio padre dei Banchettanti (427 a.C.: fr. 232 K.A.; Cassio 1977, 26); Diceopoli, Dercete e il Coro di Acarnesi negli omonimi Acarnesi (425 a.C.); Demo nei Cavalieri, caratterizzato come un ἄγροικος (424 a.C.: Ceccarelli 2017–2018, 18–19); l’anonimo 1

“ἀποβλέπων εἰς τὸν ἀγρὸν εἰρήνης ἐρῶν, στυγῶν μὲν ἄστυ τὸν δ ̓ ἐμὸν δῆμον ποθῶν, ὃς οὐδεπώποτ ̓ εἶπεν, “ἄνθρακας πρίω”, οὐκ “ὄξος” οὐκ “ἔλαιον”, οὐδ ̓ ᾔδει “πρίω”, ἀλλ ̓ αὐτὸς ἔφερε πάντα χὠ πρίων ἀπῆν”. “E rivolgo lo sguardo al mio podere; ho desidero di pace, sono disgustato dalla città e ho voglia del mio demo che non ha mai detto “compra i carboni”, “l’aceto”, “l’olio”, e non sapeva cosa significasse la parola “compra”, ma produceva tutto da sé, e quella parola… rasposa era al bando”. Protagonista e il Coro di γεωργοί dei perduti Contadini (424 a.C.: ancora Ceccarelli 2017–2018, 91); Strepsiade nelle Nuvole (423 a.C.); e, infine, Trigeo e il Coro di contadini della Pace (421 a.C.). Su tutto rimando a Ceccarelli 2017–2018, 4–43; anche Jones 2004, 192–207. 4 Pretagostini 1989, 85–86.

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Stefano Ceccarelli Il poeta fa qui leva sulla cultura demotica, fatta di stretti legami fra gli ἄγροικοι dei singoli villaggi dell’Attica. Il contadino, evidentemente scontento, rammenta con rammarico il fatto che ad Atene si deve acquistare tutto il necessario, anche i beni di prima necessità. Un contadino coattamente inurbato, difatti, non può coltivare il suo campo e, dunque, non può beneficiare di ciò che spontaneamente (v. 36: αὐτὸς ἔφερε πάντα) il suo amato podere potrebbe dargli, se curato e ben coltivato. Inoltre, sradicato dalla sua casa, dalla sua famiglia e dai suoi φίλοι, un contadino ha necessità di una certa liquidità in termini monetari per vivere ad Atene, cosa assai complicata dal fatto che la ricchezza di un ἄγροικος è nella sua terra, nella possibilità di barattare i suoi prodotti in cambio di altri con i suoi vicini etc. (v. 35: οὐδ ̓ ᾔδει “πρίω”). Insomma, Diceopoli5, come risulta evidente già da questi pochi versi, è tratteggiato con caratteristiche ben precise: è un πρεσβύτης, un contadino vecchio stampo, molto attaccato ai valori tradizionali, che odia i politici più giovani e intraprendenti e che, soprattutto, odia una guerra che percepisce come ingiusta (vv. 26–27: “εἰρήνη δ’ ὅπως/ ἔσται προτιμῶσ’ οὐδέν· ὦ πόλις πόλις”, ‘delle trattative di pace, invece, non si interessano affatto. O Città Città!’)6. Lo sfogo di Diceopoli, inoltre, si incarna in immagini di nostalgia di una campagna che ha dei tratti del tutto ideali; non è tanto un paesaggio utopico stricto sensu, come se ne trovano abbondantemente nella tradizione dell’archaia7, quanto piuttosto una raffigurazione fortemente idealizzata della reale campagna attica coeva ad Aristofane8. Mi preme qui sottolineare che, fin da Ach., 32–33 (“ἀποβλέπων εἰς τὸν ἀγρὸν εἰρήνης ἐρῶν,/ στυγῶν μὲν ἄστυ τὸν δ ̓ ἐμὸν δῆμον ποθῶν”), Aristofane connette inscindibilmente, nelle sue commedie, le figure dei campagnoli con l’odio per la guerra del Peloponneso, espresso (nella sua chiave - per così dire - positiva) nella loro nostalgia9 nei riguardi degli amati campi e dei loro demi (Fig. 34.1). È proprio questo sentimento nostalgico che ingenera in questi personaggi il meccanismo dell’idealizzazione della loro amata campagna; idealizzazione che letterariamente assume, da parte di Aristofane, il recupero di una ben chiara tradizione poetica di descrizione idillica della vita dei campi10.

Fig. 34.1. Londra, British Museum, inv. 1837,0609.42 (da Vulci). Nella scena un giovane nudo seduto con un bastone scuote i rami (a), mentre a terra due uomini barbati battono l’albero con lunghi bastoni o ractriai (b) e un giovane nudo (c) inginocchiato raccoglie le olive cadute in un cesto (Rielaborazione di McHugh 2019).

“ἐβαρύνοντο δὲ καὶ χαλεπῶς ἔφερον οἰκίας τε καταλείποντες καὶ ἱερὰ ἃ διὰ παντὸς ἦν αὐτοῖς ἐκ τῆς κατὰ τὸ ἀρχαῖον πολιτείας πάτρια, δίαιτάν τε μέλλοντες μεταβάλλειν καὶ οὐδὲν ἄλλο ἢ πόλιν τὴν αὑτοῦ ἀπολείπων ἕκαστος”. “Si affliggevano e malvolentieri sopportavano di abbandonare le loro case e i templi che erano sempre appartenuti a loro come eredità paterna fin dall’epoca della costituzione antica, e di dover cambiare il loro modo di vita: era proprio come se ciascuno lasciasse la propria città12”.

Aristofane attraverso Diceopoli porta sulla scena teatrale un atteggiamento psicologico ben diffuso tra quella parte della popolazione che risiedeva in campagna e che fu costretta a un coatto inurbamento a seguito della strategia di Sitzkrieg improntata da Pericle nei primi anni della Guerra del Peloponneso11. A stare a Tucidide (II, 16, 2), infatti, costoro:

Nei Cavalieri, infatti, Aristofane crea un contraltare all’immagine etica che aveva dato del paesaggio campestre negli Acarnesi e mostra Atene come un luogo distopico, perversamente dominato dai demagoghi e dai loro accoliti (come, ad esempio, i dicasti delle Vespe); un luogo dove i contadini, naturalmente, non possono che vivere male. Non è un caso, del resto, che il personaggio di Demo, allegoria dell’intero corpo civico ateniese, sia nettamente tratteggiato come un ἄγροικος13 e che il finale dei Cavalieri preveda proprio un’apoteosi di Demo abbigliato nel costume tradizionale di Atene antica. Qui Aristofane mostra chiaramente il collegamento fra un passato idealizzato e l’altrettanto rarefatta immagine di una campagna del pari resa luogo di dolci e positive

5 Sull’importanza del nome di Diceopoli, anche in relazione al suo antibellicismo, Kanavou 2011, 24–28. 6 Molto significativi, in tal senso, anche Ach., 509–512: “ἐγὼ δὲ μισῶ μὲν Λακεδαιμονίους σφόδρα,/ καὐτοῖς ὁ Ποσειδῶν οὑπὶ Ταινάρῳ θεὸς / σείσας ἅπασιν ἐμβάλοι τὰς οἰκίας· κἀμοὶ γάρ ἐστιν ἀμπέλια κεκομμένα”. 7 Si vedano i frammenti superstiti di opere come i Pluti di Cratino, le Bestie di Cratete o i Minatori e i Persiani di Ferecrate discussi, fra gli altri, in Pellegrino 2000 e Farioli 2001. 8 Cassio 1985, 31–33 e 144–145; Ceccarelli 2018, 88, n. 3. 9 Rossi 2003, 18. 10 Totaro 1999, 106–112. 11 Sui contadini inurbati durante la Guerra del Peloponneso, Pretagostini 1989.

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Trad. di Donini 1982, 311. Ceccarelli 2017–2018, 19.

Un paesaggio ameno contro la guerra memorie. Infatti, il Salsicciaio, ai vv. 1394–1395 invita Demo a godersi Tregua (personificazione di un seppur momentaneo accordo di pace con gli Spartani) in campagna: “νῦν οὖν ἐγώ σοι παραδίδωμ ̓ εἰς τοὺς ἀγροὺς/ αὐτὰς ἰέναι λαβόντα” (“ora te la affido: così puoi portartela in campagna”). Il Salsicciaio vuole ricongiungere Demo con il suo luogo d’elezione, la campagna, dopo averla pacificata e aver riportato, però, Demo stesso indietro in un tempo antico, dove si viveva saggiamente, dove c’era σωφροσύνη politica14 (e il Salsicciaio non manca di istruirlo per bene a Eq., 1356–1387).

campagna circostante18. Atene è un alveare/vespaio, caotico e spiacevole, una fucina di guerra, dove i demagoghi fanno il bello e il cattivo tempo; al contrario, il contado attico, svuotato della sua linfa vitale, i nerboruti ἄγροικοι, languisce e cade preda delle regolari incursioni spartane, che penetrano nel cuore del luogo più caro dei campagnoli, violando la loro amata terra. Probabilmente pochi mesi dopo la felice messa in scena dei Cavalieri, Aristofane concorse alle Grandi Dionisie del 424 a.C. con i perduti Contadini19, di cui rimangono una manciata di versi, sufficienti a farsi un’idea del largo utilizzo nel plot del paesaggio idealizzato della campagna attica. I Contadini, in tal senso, sono ben stati paragonati alla Pace, che delle commedie superstiti di Aristofane è quella in cui il poeta utilizza in maniera più estesa e pervasiva questo tema. Il fine di Aristofane è, naturalmente, anche quello di ravvivare la fantasia dei molti contadini assisi a teatro, rammentandogli (in una veste letterariamente sublimata) la loro amata terra20; ma più in generale, il poeta non può che giocare sull’immaginario, tradizionale nella cultura greca, di una πόλις che si gode beatamente le gioie della sua campagna circostante quando è in un periodo in cui regna la pace21. E il δῆμος ateniese, perlomeno in molte delle sue componenti, anelava fortemente alla pace: un bravo commediografo sa, del resto, come conquistare il proprio pubblico.

Se, dunque, il finale dei Cavalieri proietta Demo, prototipo di un ἄγροικος attico, nella sua dimensione naturale, la campagna, al contrario durante la commedia Demo stesso, e quindi soprattutto i contadini inurbati, vengono descritti come intrappolati in un’Atene distopica, una sorta di alveare/vespaio15 in cui sono vittime dello sfruttamento dei demagoghi, rappresentati, naturalmente, dall’odiato Cleone. Uno scenario poco attraente è quello descritto in Eq., 792–796: “καὶ πῶς σὺ φιλεῖς, ὃς τοῦτον ὁρῶν οἰκοῦντ ̓ ἐν ταῖς φιδάκναισι καὶ γυπαρίοις καὶ πυργιδίοις ἔτος ὄγδοον οὐκ ἐλεαίρεις, ἀλλὰ καθείρξας αὐτὸν βλίττεις; Ἀρχεπτολέμου δὲ φέροντος τὴν εἰρήνην ἐξεσκέδασας, τὰς πρεσβείας τ ̓ ἀπελαύνεις ἐκ τῆς πόλεως ῥαθαπυγίζων, αἳ τὰς σπονδὰς προκαλοῦνται”.

I Contadini - come dicevo - erano una commedia molto simile, nelle sue linee generali, alla Pace22. Protagonista doveva essere, come in altre commedie dello stesso periodo, un γεωργός che concorreva, assieme a un Coro di contadini, al raggiungimento della pace, fatto che corrispondeva, nel finale, al ritorno all’amata campagna. Ciò è perfettamente chiaro dal fr. 109 K.-A.23 “ἐξ ἄστεως νῦν εἰς ἀγρὸν χωρῶμεν, ὡς πάλαι δεῖ/ ἡμᾶς ἐκεῖ τῷ χαλκίῳ λελουμένους σχολάζειν” (“dalla città torniamocene, ora, in campagna: da tempo è bene/ che noi fra i campi, dopo un bel bagno riscaldato col catino di bronzo, oziamo”)24: chiunque pronunciasse questo distico (il Protagonista? Il Corifeo?) lo faceva come una sorta di implicita indicazione di regia, invitando il Coro a recarsi fuori dall’orchestra. Il pubblico doveva immaginare, infatti, che i contadini coreuti si dirigessero verso la loro campagna, edenicamente pacificata. Il fr. 112 K.-A., un saluto al fertile suolo dell’Attica da parte del Coro, attesta quanto Aristofane tenesse a che la campagna attica fosse più volte evocata, in questa commedia, come paesaggio

“Come puoi dire di amarlo? Proprio tu che da sette anni lo vedi abitare nelle botti, nei buchi, nelle torricciole e non ne hai pietà, ma lo tieni come in un alveare, sottraendogli il miele? E quando Archeptolemo fa offerte di pace, le disperdi al vento e, a calci in culo, cacci dalla città gli ambasciatori, che portano proposte di tregua”. Questi ἄγροικοι sono, inoltre, deboli, malnutriti, facile preda dell’oratoria trascinante, ma fallace, dei demagoghi (Eq., 801–809), che non hanno esitato a sfruttarli (in particolare, i contadini), come mette bene in luce Ermes in Pax, 632–64816. Nei Cavalieri - se letti retrospettivamente alla luce dell’analisi che Aristofane mette in bocca a Ermes nella Pace - si scorgono persino le colpe dei campagnoli, che si sono lasciati abbindolare, stipati come topi all’interno delle Lunghe Mura, con la promessa della gloria di una guerra vinta contro la potente Sparta17. I Cavalieri, insomma, tratteggiano come paesaggio antiideale Atene, opponendola ancor più marcatamente alla

Questa opposizione era già stata colta da Cassio 1985, 32. Come altri studiosi, anch’io sostengo la datazione al 424 a.C. dei Contadini. Ceccarelli 2017–18, 82–89. 20 È ben probabile che anche la massiccia presenza di ἄγροικοι in Atene, che avranno ben riempito gli spalti del teatro (Russo 1992, 368), avrà indotto Aristofane a scegliere di usarli come personaggi, in particolare, delle sue prime commedie. 21 Già nel XVIII libro dell’Iliade, infatti, immediatamente dopo la descrizione di una città sotto assedio (vv. 509–540), c’è quella delle gioie pacifiche della vita campestre (vv. 541–606). 22 Sui Contadini rimando in generale a Ceccarelli 2017–2018, 82–97. 23 Al v. 2 stampo λελουμένους, diversamente da Kassel - Austin PCG 3. 2, 81 che hanno, infra cruces, ἐν λουσαμένῳ (per le ragioni della correzione, Ceccarelli 2017–2018, 160–64). 24 Tutte le traduzioni dei frammenti dei Contadini sono le mie. 18 19

Tutta la trama dei Cavalieri, infatti, è basata sulla totale assenza di σωφροσύνη politica da parte dei demagoghi, i quali lottano per avvicendarsi al potere, corteggiando indegnamente Demo, cioè il popolo ateniese. Ceccarelli 2019, 316. 15 Su questo aspetto rimando a quanto da me argomentato in Ceccarelli 2017–2018, 20–21. 16 Sul discorso di Ermes in Pace, Cassio 1985, 87–103. 17 La retorica demagogica filo-bellicistica faceva risuonare le corde dell’orgoglio nazionalistico del «popolo minuto» ateniese. Cassio 1981, 87. 14

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Stefano Ceccarelli l’idea inscenata da Aristofane nella Pace era la traduzione scenica di un linguaggio perfettamente comprensibile per il popolo ateniese: come già nell’epica, nella poesia didascalica e nella lirica arcaica, infatti, immagini di abbondanza agricola, di nozze e danze erano tutti simboli di un prospero periodo di pace27.

pacificamente ideale: “ὦ πόλι φίλη Κέκροπος, αὐτοφυὲς Ἀττική, / χαῖρε λιπαρὸν δάπεδον, οὖθαρ ἀγαθῆς χθονός” (“O amata terra di Cecrope, Attica che ti sei generata da sola,/ ti saluto, suolo opulento, mammella di una terra straordinaria”). Come ho già avuto modo di argomentare25, sono dell’opinione che questo distico provenga da una sorta di sizigia epirrematica del tipo di Ach., 971–999, che doveva comparire a un certo punto della trama dei Contadini, un punto alquanto avanzato, a pace raggiunta; l’azione veniva momentaneamente sospesa, affinché il coro avesse il tempo di espandere i sentimenti di gioia per la possibilità di raggiungere nuovamente i propri campi, che vengono salutati con una certa enfasi. Un passo ancor più significativo è l’ode alla pace del fr. 111 K.-A., dove il Coro di contadini si augura, una volta raggiunta la pace, di poter tornare a lavorare la propria terra, recuperando il naturale ritmo che la vita dei campi impone e che la guerra ha barbaramente strappato ai veraci abitanti dei vari demi dell’Attica:

La ripresa di questo topos della cultura greca diventa fondante nella trama della Pace. Qui il contadino Trigeo28 riesce, con l’aiuto di un Coro che da panellenico diventa progressivamente solo attico e contadinesco29, a liberare la statua della dea Pace dalla grotta dove la teneva prigioniera Polemos, personificazione della guerra. Proprio quando la statua viene liberata da Trigeo e dal Coro, con l’essenziale aiuto di Ermes, Aristofane dà vita, nel corso del resto della commedia, a una serie di passaggi (assai suggestivi quelli lirici) in cui rielabora poeticamente le consuete immagini di godimento idillico della vita campestre30. Dopo un invito a ritornare ai campi a Pax, 569–57031, Trigeo, in una sezione lirica, esalta l’antica vita che i contadini conducevano sotto l’ala protettrice della dea Pace32; in un’antistrofe successiva, il Coro georgico risponde espandendo liricamente tale fantasia agreste, che si incarna qui essenzialmente nei piaceri del cibo33.

“Εἰρήνη βαθύπλουτε καὶ ζευγάριον βοεικόν εἰ γὰρ ἐμοὶ παυσαμένῳ τοῦ πολέμου γένοιτο σκάψαι τ’ ἀποκλάσαι τε καὶ λουσαμένῳ διελκύσαι τῆς τρυγὸς, ἄρτον λιπαρὸν καὶ ῥάφανον φέροντι” “O Pace immensamente ricca e… piccolo paio di buoi, magari, posta fine alla guerra, mi capitasse di zappare e di potare e anche, dopo un bel bagno, di bermi del mosto, portando con me un ricco pane e una pianta di cavolo”.

Il centro nevralgico dell’esaltazione lirica del paesaggio campestre nella Pace è la seconda parabasi (vv. 1127– 1190)34; qui Aristofane descrive le gioie frugali di una vita campagnola spaginata nelle differenti stagioni (Pax, 1140–1171), a creare una sensazione di ciclicità temporale che produce effetti rasserenanti35. Tale dimensione viene volutamente perturbata dalle immagini belliche del corrotto arruolamento degli ἄγροικοι come soldati, che si ritrovano alla mercé di tassiarchi imbelli e corrotti (Pax, 1172– 1191). Nella seconda parabasi, dunque, più che altrove, Aristofane gioca evidentemente sulla contrapposizione fra pace e guerra. Il poeta, infatti, sfrutta la dimensione idillica del pacifico paesaggio campestre, abitato da altrettanto

Pur giunti in una manciata di scarse citazioni, i Contadini mostrano chiaramente fino a che punto Aristofane fosse attento a evocare, all’interno di alcune sue commedie, la campagna attica intesa come paesaggio extra-scenico, costantemente richiamato all’immaginazione degli spettatori e, quindi, profondamente inserito nel corpo dell’opera. Il coronamento di questa estetica letteraria, volta a esaltare le bellezze del paesaggio campestre come ideale luogo di pace, avviene nella Pace. Più di ogni altra commedia nota di Aristofane, infatti, la Pace è una pièce d’occasion per celebrare, appunto, la cosiddetta ‘pace di Nicia’ (421 a.C.). Il popolo ateniese vedeva in questo evento politico, celebrato opportunamente durante le feste delle Grandi Dionisie, la risoluzione definitiva di una guerra per molti odiosa, in particolare per quei demoti attici che avevano dovuto abbandonare le proprie terre e che ora, finalmente, potevano fare ritorno a casa. Aristofane, dunque, non si fece sfuggire l’occasione di recuperare quei temi che aveva già esperito in commedie come gli Acarnesi e i Contadini e di rielaborarli nella Pace - e in una sua revisione, la Pace seconda26. Naturalmente,

con la dea Pace. Le due personificazioni (Pace e Agricoltura) rendono scenicamente chiarissimo il legame fra pace e abbondanza agricola. Sulla Pace seconda, recentemente anche Ceccarelli 2019, 305 e nota 53. 27 Martins de Jesus 2010; Ruffel 2017; Ceccarelli 2018, 89–90 e nota 8. 28 Sulle implicazioni simboliche del nome di Trigeo, Cassio 1985, 140. 29 Cassio 1985, 75–77; di recente anche McGlew 2001. 30 Queste immagini sono state analizzate da Moulton 1981, 92–101. 31 “ὥστ ̓ἔγωγ’ ἤδη’ πιθυμῶ καὐτὸς ἐλθεῖν εἰς ἀγρὸν / καὶ τριαινοῦν τῇ δικέλλῃ διὰ χρόνου τὸ γῄδιον”. 32 Pax, 571–581: “ἀλλ ̓ ἀναμνησθέντες, ὦνδρες,/ τῆς διαίτης τῆς παλαιᾶς,/ ἣν παρεῖχ ̓ αὕτη ποθ ̓ ἡμῖν,/ τῶν τε παλασίων ἐκείνων/ τῶν τε σύκων, τῶν τε μύρτων,/ τῆς τρυγός τε τῆς γλυκείας/ τῆς ἰωνιᾶς τε τῆς πρὸς / τῷ φρέατι τῶν τ ̓ ἐλαῶν/ ὧν ποθοῦμεν,/ ἀντὶ τούτων τήνδε νυνὶ/ τὴν θεὸν προσείπατε”. 33 Pax, 582–600: “χαῖρε χαῖρ ̓, ὡς ἀσμένοισιν ἦλθες ἡμῖν, ὦ φιλτάτη· / σῷ γὰρ ἐδάμην πόθῳ,/ δαιμόνια βουλόμενος/ εἰς ἀγρὸν ἀνερπύσαι/ / ἦσθα γὰρ μέγιστον ἡμῖν κέρδος ὦ ποθουμένη,/ πᾶσιν ὁπόσοι γεωργὸν βίον ἐτρίβομεν / καὶ γὰρ ὠφέλεις μόνη./ πολλὰ γὰρ ἐπάσχομεν/ πρίν ποτ ̓ ἐπὶ σοῦ γλυκέα/ κἀδάπανα καὶ φίλα./ τοῖς ἀγροίκοισιν γὰρ ἦσθα χῖδρα καὶ σωτηρία./ ὥστε σὲ τά τ ̓ ἀμπέλια/ καὶ τὰ νέα συκίδια/ τἄλλα θ ̓ ὁπόσ ̓ ἔστι φυτὰ/ προσγελάσεται λαβόντ ̓ ἄσμενα”. 34 Per un’analisi più estesa, Ceccarelli 2018, 87–90. 35 Solo per fare un esempio, l’estate (Pax, 1159–1171): “ἡνίκ᾽  ἂν  δ᾽  ἀχέτας/ ᾁδῃ  τὸν  ἡδὺν  νόμον,/ διασκοπῶν  ἥδομαι  / τὰς Λημυνίας ἀμπέλους,/ εἰ πεπαίνουσιν ἤδη - τὸ γὰρ φῖτυ πρῷον φύσει - τόν τε φήληχ᾽ ὁρῶν οἰδάνοντ᾽·/ εἶθ᾽ ὁπόταν ᾖ πέπων,/ ἐσθίω κἀπέχω/ χἄμα  φήμ᾽· ‘ὧραι  φίλαι·’  καὶ/ τοῦ  θύμου  τρίβων  κυκῶμαι·/ κᾆτα γίγνομαι παχὺ / τηνικαῦτα τοῦ θέρους”.

Ceccarelli 2017–2018, 168. La Pace seconda, di cui si hanno pochissimi frammenti (305–309 K.-A.: Pellegrino 2015, 192–195), potrebbe essere stata rappresentata, forse, non molto tempo dopo la sua prima versione, alle Lenee (Cassio 1985, 24). Estremamente interessante per il mio discorso è il fr. 305 K.A., in cui un personaggio, la personificazione di Agricoltura (Γεωργία), si definisce “τῆς πᾶσιν ἀνθρώποισιν Εἰρήνης φίλης/ πιστὴ τροφός, ταμία, συνεργός, ἐπίτροπος, / θυγατήρ, ἀδελφή”: in pratica un tutt’uno 25 26

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Un paesaggio ameno contro la guerra pacifici ἄγροικοι, per creare un seducente contraltare rispetto all’universo della guerra, visto esclusivamente nei suoi aspetti più negativi e ripugnanti. Aristofane esalta, dunque, un sentimento anti-bellicistico rivolto chiaramente contro la Guerra del Peloponneso, oramai vista come fonte di guadagno per guerrafondai demagoghi e senza scrupoli; una guerra condotta sulla pelle di persone oneste, soprattutto gli ἄγροικοι, che ne bramano ardentemente il termine. Recuperando immagini già adottate nei Cavalieri, Aristofane dipinge Atene come una πόλις degradata a fucina bellica, un luogo malsano da cui fuggire verso la salubrità dei campi: il commediografo rinverdisce, dunque, il tema della netta contrapposizione fra città e campagna (lo ‘στυγῶν μὲν ἄστυ’ di Ach., 33). Quest’ultima è, infatti, descritta come un luogo ideale, lontano e separato dalla polis, luogo dove i campagnoli sono costretti a rimanere fintantoché, appunto, qualcuno non si adoperi a riportare la pace e gli permetta di essere liberati, come avverrà, infatti, nel finale della Pace (vv. 1318–1331).

agli amati campi restaura, in un certo senso, una situazione storica appena precedente allo scoppio della Guerra del Peloponneso. Aristofane non ha fatto altro che lavorare su un materiale tradizionale e letterario (quello delle laudes vitae rusticae)39 per riadattarlo alla situazione contingente dei primi anni del conflitto peloponnesiaco (431–421 a.C.): ancora oggi le sue descrizioni della campagna attica sono fra le più belle che un poeta abbia mai dedicato a un paesaggio rurale40.

In conclusione, quindi, si può certamente affermare che Aristofane si serve, in particolare negli anni della sua prima produzione comica (425–421 a.C.), di un’immagine fortemente idealizzata della campagna36. Tale paesaggio ameno e pacifico risulta simbolico ed in netta contrapposizione con una πόλις, Atene, colta essenzialmente come epicentro e fucina di guerra, un luogo insalubre da cui fuggire per ritornare all’armonia edenica dei campi. La campagna aristofanea, dunque, simboleggia la pace, ma non è un luogo utopico37; al contrario, pur essendo descritta, in particolare, nei toni del ricordo e del rimpianto, quindi come una sorta di luogo della memoria, del tempo che fu, la campagna attica evocata da Aristofane è quella reale, che tutti gli Ateniesi e i demoti conoscevano assai bene. Semmai, si tratta di un’immagine rarefatta e idillica del paesaggio campestre precedente ai danni da questo subìti durante gli anni delle devastazioni spartane38. Ben chiara, dunque, è un’opposizione semantica fra un passato prebellico positivo e un presente colto nei suoi aspetti corrotti e negativi: al primo pertiene il ricordo dell’amata campagna, al secondo il vivere quotidiano nell’odiata città. Aristofane, inoltre, proprio per rimarcare il fatto che tale paesaggio campestre vive in questa dimensione della memoria, relega la campagna a sfondo sempre evocato sulla scena e mai agito sul palcoscenico: nessuna commedia aristofanesca, cioè, è ambientata in campagna. Ciò, infatti, mi pare che sia necessario per sottolineare proprio l’idealizzazione del paesaggio campestre, che deve essere evocato e, opportunamente, non vissuto dai personaggi sulla scena; pena, naturalmente, la ‘rottura’ della dimensione ideale ed edenica. La campagna, in quanto simbolo di pace, non deve essere scenica, ma extra-scenica; e la dialettica, questa sì inscenata, invece, è quella per cui i vari ἄγροικοι devono in qualche modo ritornare ai loro campi, una volta che abbiano raggiunto nuovamente la pace. Questo ritorno

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39 40

Sul rapporto fra Aristofane e la campagna, Saïd 2000. Non concordo, dunque, con Carrière 1979, 90. 38 Danni la cui portata, probabilmente, va un po’ ridimensionata. Hanson 1989, 111–127. 36 37

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35 Uomo e natura in equilibrio: riflessioni sui paesaggi ‘idillico-sacrali’ a partire da un nuovo affresco pompeiano. Constantin Kappe Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’ The following paper presents a recently discovered Third Style wall-painting from Pompeii. The landscape fresco came to light during the excavations at the Schola Armaturarum (III, 3, 6). The aim of this article is to describe the archaeological context, propose a dating of the painting and define its position in the development of landscape representations. Finally, some main characteristics of this artistic genre will be analysed. The central question is how the sacro-idyllic sceneries were created, whether it is possible to identify eventual ties with reality, on the one hand, and parameters, which can be described as idealizing or even utopian, on the other hand. Nel seguente articolo si presenta una pittura parietale in III stile recentemente scoperta a Pompei. L’affresco paesaggistico è venuto in luce negli scavi presso la Schola Armaturarum (III, 3, 6). L’obiettivo di questo elaborato è quello di descrivere il contesto archeologico, proporre una datazione per la pittura e collocarla nello sviluppo delle raffigurazioni paesaggistiche. Infine, saranno analizzati alcuni tratti caratteristici di questo genere artistico. L’indagine è incentrata sulla questione come i paesaggi idillico-sacrali sono stati creati e se è possibile individuare, da un lato, eventuali legami con la realtà, e dall’altro lato, parametri che possano essere considerati idealizzanti o utopici. Keywords: sacro-idyllic landscape painting; third pompeian style; Schola armaturarum; utopia; tree cult 1. La scoperta1

decoro parietale che lo Spinazzola descrive enfaticamente formarono la base dell’identificazione dell’edificio con la sede della milizia municipale. Nella Seconda Guerra Mondiale l’area subì grandi danni3. L’incursione aerea del 19 settembre del 1943 distrusse quasi tutta la fronte delle case III, 3, 3–5 e i muri interni della taberna n. 5, cioè stanze in immediata vicinanza del vano che qui ci interessa. Il bombardamento causò anche gravi danni presso la Schola Armaturarum4. Nell’anno successivo Amedeo Maiuri eseguì il restauro del monumento5. Com’è ben noto, la tragica storia dell’edificio continuò nel novembre del 2010 quando crollarono improvvisamente la copertura e gran parte delle murature a causa del dissesto idrogeologico. I restauri, avviati nel 2015, sono portati a termine nel gennaio del 2019 e l’edificio è diventato vero

La storia delle indagini archeologiche nell’area in cui è stato rinvenuto l’affresco che qui si presenta comincia con gli scavi di Vittorio Spinazzola e Matteo Della Corte. Tra gennaio e maggio del 1915 i due archeologi disseppellirono la facciata dell’insula III, 3 lungo Via dell’Abbondanza2. Tra gli edifici scoperti la struttura all’angolo sudest del quartiere (III, 3, 6), successivamente chiamata armamentarium o Schola Armamentarum (Fig. 35.1), suscitò in particolare l’interesse degli studiosi. Il grande salone aperto sulla strada e il carattere trionfale del suo 1 Rivolgo i miei cordiali ringraziamenti, da un lato, agli organizzatori del convegno - Prof. Fabio Stok, Dott. Armando Cristilli e Dott.ssa Alessia Gonfloni - per l’ammissione del mio contributo e l’infinita ospitalità, e, dall’altro lato, al Direttore generale del Parco Archeologico di Pompei Prof. Massimo Osanna, il quale mi ha affidato la pubblicazione dell’affresco. Ringrazio inoltre il direttore dei lavori Arch. Arianna Spinosa, il direttore operativo archeologico Dott.ssa Alberta Martellone e l’archeologo di cantiere Dott.ssa Pasqualina Buondonno che mi hanno fornito le rilevanti informazioni dello scavo. Vorrei porgere ringraziamenti anche alla Dott. ssa Grete Stefani, Dott. Alessandro Castaldo e Dott. Valentin Luckhardt. 2 Della Corte 1915, 279–283; Della Corte 1916, 30, fig. 1; Spinazzola 1916, 429–450; Della Corte 1924, 60–71, figg. 8–10; Aurigemma Spinazzola 1953, X, fig. I; XXVII, fig. XII; 135–147; Della Corte 1954, 293–296; De Vos 1991, 392–405; Mandolesi 2015; Mandolesi 2018. È interessante notare che il muro ovest dell’edificio è stato ritrovato in gravi condizioni dovute a scavi eseguiti in età non precisabile tra il 79 d.C. e le prime indagini moderne. Spinazzola 1916, 430 e 438.

Aurigemma - Spinazzola 1953, XIX-XX, fig. II; XXIII-XXVII, figg. XII-XIII; García y García 2006, 34 e 53–55, fig. 69; Picone 2011, 106– 108 e fig. 3; Picone 2018, 81 e 83. 4 La bomba distrusse una parte del lato ovest dell’edificio, i calchi in gesso dell’armadio in legno dorato, sulla parete di fronte all’ingresso, e della transenna lignea di chiusura, nonché uno dei famosi trofei dipinti sui pilastri all’ingresso del salone. È stata demolita anche la struttura protettiva costruita da Spinazzola. Un’altra bomba cadde a nord dell’edificio. 5 Aurigemma - Spinazzola 1953, XXVII-XXVIII, fig. XIV; García y García 2006, 55, fig. 70; Picone 2011, 111–112, 116–117 e 123, nota 57; Picone 2018, 81 e 89–91. 3

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Fig. 35.1. Pompei. Localizzazione dell’affresco presso la Schola Armaturarum (Rielaborazione di Avagliano 2018).

e proprio simbolo del rilancio6. Le attività degli ultimi anni hanno avuto un doppio obiettivo: consolidare la struttura e ricavare nuove informazioni archeologiche sul complesso. Gli scavi hanno portato alla luce alcuni annessi di servizio, solo parzialmente disseppelliti durante gli sterri del ‘900. Questi si trovano alle spalle della grande aula rappresentativa di epoca flavia7. A ridosso del perimetro occidentale esterno del grande annesso a nord del salone è stata messa in luce nel 2017–2018 parte di una stanza della domus III, 3, 4-5 (Figg. 35.1-2). Al muro appena menzionato è applicato l’affresco paesaggistico oggetto di questo studio (Figg. 35.2-4).

il decoro parietale è stato eseguito dopo il pavimento è evidente dagli strati superiori di intonaco che stanno sul cocciopesto. L’affresco presenta in superficie, inoltre, puntuali restauri antichi. Dal decoro pavimentale a forma di reticolo regolare e rete di rombi si può ricavare una prima decorazione della stanza in I stile e databile nel II secolo a.C.8, molto più antica - come sarà dimostrato - della pittura parietale oggi visibile. L’impostazione geometrica del pavimento rende probabile l’esistenza di un emblema centrale, ancora coperto dalle ceneri, con ornamento geometrico diverso da quelli laterali. La parte inferiore della parete è decorata con uno zoccolo nero opaco, suddiviso in tre rettangoli tramite sottili linee bianche. Il registro mediano, separato dallo zoccolo da una fascia orizzontale in colore celeste, richiama la tripartizione della zona inferiore. I margini laterali dell’edicola centrale sono segnati da colonne bianche del fusto sottile con esili ornamenti neri: doppie linee orizzontali e delicati elementi floreali. Segue verso l’interno una fascia verticale in verde chiaro. Una riquadratura in colore nero funge da cornice

2. Descrizione del contesto e dell’affresco Il vano in questione (Fig. 35.2) è adornato da un pavimento geometrico in cementizio a base fittile (cocciopesto) con tessere bianche. Un sistema decorativo pittorico ricopre sia una parte del setto murario ovest del complesso della Schola Armaturarum, sia il muro solo parzialmente scoperto che gli si addossa all’angolo nord della stanza. Quest’ultima parete è dotata di un’apertura regolare verso nordovest. Il muro lungo è dotato, inoltre, di una lesena in concordanza con il pavimento che proprio in questa parte presenta una fascia con ornato a rete di rombi. Che

8 Vassal 2006, 43, 48–50, 76–77 e 182–211. Un pavimento molto simile decora il suolo dell’ala (13) della Casa di Orione e appartiene alla fase originaria del vano prima dell’integrazione del famoso mosaico che ha dato nome alla domus. Osanna 2019, 93, 100–102, 112, 119–121 (figg. 15, 23 e 29) e 180–182 (fig. 1, tavola fuori testo; cap. 6, fig. 3). Tali pavimenti spesso caratterizzano tablina e alae, mentre la decorazione in III stile con affresco paesistico è tipico dei cubicula, cosa che sembra indicare un cambiamento della funzione della stanza. Per le varie fasi architettoniche si rimanda alla pubblicazione finale del complesso.

6 Stefani 2015–2016, 103; Mandolesi 2015; Mandolesi 2018; Osanna 2018, 105–108, fig. 15, 125–126, fig. 41; Osanna 2019, 351–384. 7 De Vos 1991, 392; Mandolesi 2015; Mandolesi 2018.

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Fig. 35.2. Pompei. Affresco presso la Schola Armaturarum. Il paesaggio idillico-sacrale. IMG_8153; 8165; 8193 (Rielaborazione dell’autore della fotografia di A. Spinosa, per gentile concessione del MiBACT - Parco Archeologico di Pompei).

persona più a destra estende le mani verso un altare. Ancora più a destra due bastoni sono appoggiati a un pilastro. Accanto a questa scena, sulla stessa quota, il campo visivo è occupato da vegetazione e formazioni rocciose. Al margine destro appare una massiva struttura architettonica in colore blu. L’area antistante è caratterizzata da linee di terreno che sembrano indicare la presenza di un ruscello. Meglio conservata è la zona sovrastante che si presenta come quinta per una serie di scene rituali. Al centro della composizione (Fig. 35.4.1) si vede un frequentatore del santuario: la testa leggermente abbassata verso sinistra e coperta da un cappello, regge il bastone avanti. A destra si erge, su una linea di terreno, un alto piedistallo che sorregge la statua di una dea (Fig. 35.4.2) in veste lunga con la sua mano destra abbassata e quella sinistra alzata. Davanti al basamento si segnala la presenza di un altare al quale sono addossati due bastoni o peda. In fondo è raffigurata una cerimonia rituale alla quale partecipano due persone dipinte in colore rosso orientate verso sinistra (Fig. 35.4, 35.3-4): entrambe indossano una lunga veste e il cappello dei viandanti. La prima figura è inchinata estendo le mani verso un altro altare. La seconda regge un lungo thyrsos adornato da bende.

interno per il quadro centrale. Quest’ultima è accentuata da una sottile linea ocra. Grandi pannelli in rosso violaceo affiancano l’edicola. Il registro superiore del decoro dipinto è stato interamente distrutto, ma forse ricostruibile nel futuro attraverso i frammenti intonacati negli strati di crollo. Il campo centrale, anch’esso dal modesto stato di conservazione, presenta una raffigurazione di un santuario campestre (60 cm x 60 cm) su sfondo bianco (Figg. 35.34). L’asse verticale della composizione è segnata da una colonna, rappresentata di tre quarti e coronata da un capitello che sorregge una statua di una figura maschile (o forse, in alternativa, un tripode), e da un enorme albero frondoso alle sue spalle. L’area antistante è occupata da un recinto, visto dall’alto, che è costituito da due muri a forma di ‘L’ eseguiti in colore bianco azzurrino. Il muro di fondo sembra nascondere la parte inferiore della colonna e il tronco dell’albero, ma la corrosione della superficie rende assai difficile la lettura della composizione. Gli angoli retrostanti della struttura architettonica sono decorati con hermai. A sinistra del recinto appare una figura femminile, dipinta in colore aureo-brunastro, che indossa un lungo chitone e regge due fiaccole nelle mani. Sembra che sia in compagnia di una seconda donna alle sue spalle, anch’essa reggente due torce. Più in basso si segnala la presenza di una linea rossa orizzontale che indica il terreno. In primo piano è raffigurato un quadrupede, probabilmente un ariete, in atto di bere o pascolare. Accanto all’animale appaiono due figure umane con cappelli dei viandanti. La

3. Datazione La tripartizione orizzontale e verticale del sistema decorativo, il colorito delle superficie e la limitata plasticità 269

Constantin Kappe

Fig. 35.3. Pompei. Affresco presso la Schola Armaturarum. Il paesaggio idillico-sacrale. IMG_8153; 8165; 8193 (Rielaborazione dell’autore della fotografia di A. Spinosa, per gentile concessione del MiBACT - Parco Archeologico di Pompei).

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Fig. 35.4. Pompei. Affresco presso la Schola Armaturarum. Il paesaggio idillico-sacrale. IMG_8153; 8165; 8193 (Rielaborazione dell’autore della fotografia di A. Spinosa, per gentile concessione del MiBACT - Parco Archeologico di Pompei).

degli elementi strutturali permette una attribuzione dell’opera al III stile9. Questa trova immediati confronti nei famosi affreschi del cubiculum (16) della Villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase10 e in quelli del cubiculum (12) dell’Officina del Garum (I, 12, 8) a Pompei11. Il paragone con la villa di Boscotrecase, datata intorno al 11 a.C. su base di criteri esterni12 permette anche di ancorare cronologicamente l’affresco in questione. Decorazioni parietali simili compaiono, comunque, fino alla fase finale del III stile13. Sebbene l’affresco nei pressi della Schola Armaturarum abbia elementi in comune con esempi del III stile iniziale, tra cui la suddivisione dello zoccolo nero14, gli ornamenti floreali calligrafici delle colonne15 suggeriscono una cronologia più bassa. Si propende, dunque, per una datazione nei primi tre decenni del I secolo d.C.

“paesaggi idillico-sacrali con santuario centrale”16, un Bildtypus che nasce nella fase finale del II stile e fiorisce nel III stile iniziale e medio. Caratteristico è il motivo centrale costituito da un monumento e un albero - soggetto ripreso dai grandi prospetti atmosferici delle Casa di Augusto e Livia -, ma visto da lontano e arricchito da scene di pastorizia e ritualità campestre. Tipico è lo sfondo bianco circostante che crea l’impressione di una spazialità indeterminata in forte contrasto con il sistema decorativo generale17. L’esempio per eccellenza di questa corrente sono i paesaggi della Villa di Boscotrecase18 con cui l’affresco della casa III, 3, 4–5 condivide, tra l’altro, la composizione grossomodo piramidale. Una differenza netta si constata nello spettro cromatico che è molto più limitato nel caso pompeiano. Più semplici sono anche le tecniche con cui creare profondità: mentre il capitello della colonna è rappresentato in una prospettiva dal basso19, lo spettatore guarda sul recinto antistante, i cui muri convergono solo in minima parte, da un punto di vista più in alto. Il risultato è un’impressione sinottica, ma tutt’altro che coerente. Questo effetto è intensificato dalle linee di terreno che coincidono con le ombre delle figure (in corrispondenza anche con l’entrata della luce

Nello stile della veduta paesaggistica si riscontra, invece, una chiara linea di continuità con le rappresentazioni del tardo I secolo a.C. Questa entra nella categoria dei 9 Bastet - De Vos 1979; Ehrhardt 1987; Von Blanckenhagen - Alexander 1990; Strocka 2014, 29–32; Dietrich 2017, 13–19. 10 Bastet - De Vos 1979, 8–9 e 45–47, cat. 22, fig. 6; Ehrhardt 1987, 4–5, 54–57; Von Blanckenhagen - Alexander 1990; Dietrich 2017. 11 Bastet - De Vos 1979, 44–45, cat. 21, tavv. 14–15, figg. 26–27; Ehrhardt 1987, 58–59, tav. 28; Nappo 1990, 760–761 e 771–781. 12 Hinterhöller 2007a, 47, nota 78. 13 Casa di Maius Castricius (VII, 16 Insula Occidentalis 17): Varriale 2006, 431–435. 14 Casa di Umbricius Scaurus II (VII, 16 Insula Occidentalis 12–14): Esposito 2006, 517, 540–541. 15 Casa degli amorini dorati (VI, 16, 17): Bastet - De Vos 1979, 80–81, tav. 42, fig. 74; Ehrhardt 1987, 66–69, tavv. 35, fig. 144, e 108, figg. 447–448 e 450.

Hinterhöller 2007a, 46–50, nota 77. La Rocca 2009, 42–44; Dietrich 2017. 18 Von Blanckenhagen - Alexander 1990, 2–5, 7–8, 12–27, 46–49 e 57, tavv. 24–25 e 30–33; Hinterhöller 2007a, 47–48; Kotsidou 2007, 17–19 e 22–23, figg. 6–7; Salvadori 2008, 38–40, fig. 13; Croisille 2010, 43–45, fig. 46, 59–60 e 94–95, fig. 117–119; Colpo - Salvo 2016, 40–41, fig. 7; Dietrich 2017; Bragantini - Sampaolo 2018, 213–221, cat. 78–81. 19 Un’impressione simile danno le colonne nei paesaggi del cubiculum E della Villa della Farnesina. Croisille 2010, 41, fig. 40, e 82–83, fig. 103. 16 17

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Fig. 35.5. Pompei, Officina del Garum (I, 12, 8), cubiculum (12), parete O. ICCD Gabinetto Fotografico Nazionale, Fondo GFN, inv. N035797 (per gentile concessione ICCD - MiBACT).

reale)20. La divisione dello spazio in due o tre piani che suggeriscono una profondità ariosa rappresenta una tecnica ‘tradizionale’ ed è attestata, ad esempio, nel Colombario di Villa Doria Pamphilj, databile negli anni 30–10 a.C.21. Qui ritroviamo, inoltre, alcuni dei tipici personaggi che spesso abbelliscono le scene campestri: l’offerente inchinata verso l’altare22 e la donna che regge due fiaccole23. Paralleli assai stretti si riscontrano nel linguaggio stilistico dei paesaggi della già menzionata Officina del Garum (I, 12, 8), databili nell’ultimo decennio del I secolo a.C. (Fig. 35.5)24: il recinto davanti alla colonna e l’albero, la prospettiva del

suo epistilio, lo stile impressionistico dei peregrini e delle statue. Tutti gli aspetti menzionati lasciano ipotizzare che l’affresco della casa III, 3, 4–5 e quelli dell’Officina del Garum siano stati realizzati a breve distanza temporale, forse dalla stessa officina, e su richiesta di una committenza dello stesso contesto sociale che aspirò ad adottare le mode delle case elitarie a seconda delle loro possibilità economiche. Nella stessa corrente artistica entra un pinax nel triclinium (4) della Casa I, 17, 2–325. 4. Interpretazione Quanto segue è una proposta di lettura dell’assieme mirante a giungere a un’interpretazione conclusiva dell’immagine. Il setting è immediatamente riconoscibile. Si tratta di un fanum26 situato sulle sponde di un piccolo fiume. La vetustas del luogo di

Su questo principio artistico: Bergmann 1992, 39; Hinterhöller 2011, 84–86, note 113–114; Dietrich 2017, 17. 21 Hinterhöller 2007b, 152–153, figg. 22–24; Fröhlich 2008; Fröhlich 2009. 22 Fröhlich 2008, 32–33, fig. 25. 23 Fröhlich 2008, 30, fig. 23. Anche Roma, Antiquarium Comunale: Mielsch 1976, 36–37, tav. C, fig. 1, e tav. X, fig. 2; Baldassare et alii 2002, 204–205. 24 Nappo 1990, 760–761 e 771–781; Hinterhöller 2007a, 51 e 66, fig. 22; Kotsidou 2007, 20–21, fig. 4. 20

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Sodo 1990, 1028–1029 e 1035, fig. 11. Hinterhöller 2007b, 148, nota 62.

Uomo e natura in equilibrio culto è indicata dall’albero. La grande colonna votiva, il recinto coronato da hermai e gli altari indicano la sacralità dell’area. Per capire chi sono gli dei ivi venerati è necessario esaminare l’iconografia delle due statue e dei frequentatori del sito. Per quanto riguarda il primo aspetto, la statua sulla colonna è difficilmente riconoscibile. Se le due pennellate verticali rappresentano gambe umane, possiamo concludere che si tratta di una divinità maschile. Se questi elementi dovessero appartenere invece a un tripode, si potrebbe pensare ad Apollo o Bacco come tutelare del santuario. Il piedistallo a destra, invece, sorregge la statua di una dea. In assenza di attributi riconoscibili un’identificazione è molto difficile27. L’atteggiamento ieratico non è sufficiente per proporre un’interpretazione al riguardo. Per quanto concerne i frequentatori del santuario, si nota innanzitutto che sia donne che uomini si recano al luogo di culto. Degna di menzione è la circostanza che tutti i protagonisti svolgono attività rituali. Una figura maschile porta un tirso ed è riconoscibile, dunque, come adepto del culto bacchico rurale28. La scena delle donne che reggono in alto delle fiaccole, da un lato, trova un preciso confronto in un affresco nell’Antiquarium Comunale di Roma29 dove il gesto dei fedeli corrisponde a quello di una statua maschile di fronte a loro, appartenente “alla cerchia dionisiaca”30. Dall’altro lato, le donne con fiaccole compaiono anche nelle scene di culto per divinità femminili, in particolare Diana-Ecate-Trivia31. Anche in questo caso si riscontra una certa somiglianza tra divinità e offerente in quanto le torce costituiscono i tipici attributi di quella dea32. Di conseguenza, le figure con fiaccole per sé non forniscono chiari indizi circa l’identificazione degli dei a cui è consacrato il santuario.

Per specificare il legame delle immagini con la realtà si dà ora una breve sintesi delle caratteristiche dei paesaggi idillico-sacrali. Questo genere artistico combina un ambiente topografico naturale con elementi antropici, innanzitutto architetture. Costitutiva del carattere dei paesaggi è la presenza di motivi che rimandano alla sfera religiosa e a quella bucolico-agreste33. Non si tratta di raffigurazioni di lembi di terra esistenti nella realtà, ma di composizioni in cui vari elementi di un ben definito repertorio iconografico venivano combinati34. L’ancoraggio nella realtà è costituito dalle generiche indicazioni

topografiche che permettono di riconoscervi santuari agresti che, per la popolazione paesana, dovevano avere anche in età imperiale una certa importanza. Il linguaggio artistico rende evidente, però, che il legame con la realtà si limita a pochi elementi estrapolati35. L’atmosfera delle raffigurazioni, che rispecchia il gusto della committenza, è fortemente coniata da una mentalità nostalgica idealizzante e percepibile, com’è ben noto, nella coeva poesia bucolica. Gli elementi ricorrenti e combinati secondo un gusto eclettico sono descritti dagli autori latini36. Il carattere stereotipato di questa corrente pittorica, comunque, non deve condurre a giudizi generici sui singoli affreschi. A seconda del gusto del committente, l’officina pittorica poteva accentuare un aspetto e delimitarne un altro. In seguito saranno presi in considerazione i parametri principali delle immagini - l’uomo, l’architettura, la natura - esaminando il loro rapporto con la realtà. Sebbene si tratti di un approccio analitico abbastanza rigido, l’indagine sarà utile a evidenziare la complessa stratificazione semantica delle raffigurazioni che non possono essere interpretate in rapporto a un’unica ‘realtà’, ma a ‘realtà molteplici’ (topografica, ambientale, sociale, storica, teologica, ecc…). Riguardo alla componente antropica, R. Ling constata che “the human element, whether in the form of figures or in that of buildings, is always an essential ingredient, even the dominant ingredient”37. Alcuni studiosi hanno specificato che le figure umane ricoprono un ruolo ‘attributivo’ piuttosto che ‘narrativo’. Si tratta di stereotipate stock figures38: viandanti, pastori, offerenti, ecc… Lo stile suggestivo dei loro gesti ha, però, una funzione importante in quanto apre l’orizzonte dello spettatore e attiva la sua immaginazione39. Le scene incuriosiscono, senza coinvolgere troppo, perché viste da lontano: chi guardava tali pitture era stimolato a riempire lo spazio mentale con i propri ‘experiencing the landscapes’, in un’ottica, però, fortemente condizionata dall’otium e dall’ideale bucolico: la felicità di una vita semplice e in armonia con gli dei. È stato dato risalto, ad esempio, alla circostanza che i pastori non svolgono mai lavori faticosi, in concordanza con la poesia idillica, nella quale la vita campestre è dedicata principalmente al canto40. Nelle figure delle offerenti, invece, sembra esprimersi il desiderio di attualizzare la pietas degli antenati per affermare la concordia con gli déi41. Nel paesaggio della casa III, 3, 4–5 questo concetto è preponderante: un unico quadrupede allude al mondo idillico, mentre le pratiche degli uomini rimandano esclusivamente alla sfera religiosa. Per quanto riguarda i

Nella mano destra è possibile immaginare diversi oggetti (sistrum, patera, kantharos, ecc…) dai quali dipenderebbe l’identificazione. Tra le statue femminili nei paesaggi idillico-sacrali prevalgono quelle di DianaEcate-Trivia e Iside-Fortuna. Hinterhöller 2007b, 136–137. 28 Pompei, VI, Insula Occidentalis, 41, ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (inv. 9258): Bragantini - Sampaolo 2018, 205, cat. 74. 29 Vedi supra nota 23. 30 Mielsch 1976, 36. 31 Fröhlich 2009, 395–396. 32 L’immagine di una dea con fiaccole compare in un affresco (oggi scomparso) della casa VII, 2, 18. Hinterhöller 2007b, 136–138, fig. 7. 33 Rostovzev 1911; Hinterhöller 2007a, 17–20. 34 Von Blanckenhagen - Alexander 1990, 10–12; Rouveret 2004, 340 e 343; Hinterhöller 2007a, 48; Hinterhöller 2007b, 150; Kotsidou 2007, 21 e 75; La Rocca 2009, 43–47; Hinterhöller 2011, 23.

Von Blanckenhagen - Alexander 1990, 25; Hinterhöller 2007b, 148– 150 e 158; Kotsidou 2007, 17; La Rocca 2009, 47; Hinterhöller 2011, 23–26 e 32; Colpo - Salvo 2016, 38. 36 Plin., Nat. Hist., 35, 116–117; Vitr., 7, 5, 2. 37 Ling 1991, 149. Anche Rostovtzeff 1911, 1–3; Peters 1963, 37–38; Bergmann 1992, 42; Hinterhöller 2007a; Hinterhöller 2007b; Kotsidou 2007, 9. 38 Bergmann 1992, 22 e 32; Hinterhöller 2007a, 35; Hinterhöller 2007b, 149; Kotsidou 2007, 20; Fröhlich 2008, 36; Hinterhöller 2011, 58; Dietrich 2017, 3. 39 Bergmann 1992, 21 e 32; Stähler 2002, 129; Rouveret 2004, 340. 40 von Hesberg 1986, 13 e 19–20; Stähler 2002, 130; Kotsidou 2007, 62– 63 e 78–79; Hinterhöller 2007a, 37, nota 52; Hinterhöller 2007b, 150; Fröhlich 2008, 28–29. 41 Hinterhöller 2007b, 144.

5. Il carattere dei paesaggi idillico-sacrale

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Constantin Kappe motivi bacchici nei paesaggi, R. Bielfeldt ha proposto di riconoscervi un’eco lontana della rivitalizzazione del culto di Liber in età tardo-augustea42. In quel caso si manifesterebbe, dunque, uno stimolo che ha origine nella ‘realtà rituale’. Per quanto riguarda l’iconografia dei luoghi di culto, si è già accennato al fatto che la topografia reale è rispecchiata nelle immagini in modo molto generico. L. Dall’Olio ha dimostrato le difficoltà di mettere in evidenza i precisi processi trasformativi che condussero alla creazione del repertorio architettonico delle rappresentazioni paesaggistiche43: analizzando il motivo della ‘porta sacra’, la studiosa ha identificato sia punti di riferimento nell’architettura reale che tradizioni iconografiche, ma la lontananza geografica e cronologica tra le testimonianze rende difficile comprendere in quale modo questo tipo di monumento sia stato tramandato. Sebbene non si possa parlare di citazioni vere e proprie, alcuni edifici nelle immagini trovano paralleli stretti nell’architettura reale. È questo il caso delle strutture a tre o quattro colonne con trabeazione inclinata44, per cui L. Dall’Olio rimanda alla tomba dei Curii ad Aquileia45. Siamo di fronte, quindi, a processi di estrapolazione e ricomposizione eclettica che mirano a creare una topografia ideale46, inglobando a volte anche componenti esotiche. Al ruolo della vegetazione nelle vedute paesistiche recentemente è stata dedicata, invece, più attenzione. La natura si manifesta innanzitutto nel monumentale albero che forma una coppia quasi canonica con un elemento architettonico (colonna, porta sacra, agyieus, ecc…)47. La lettura di questo motivo iconografico, però, riscontra una serie di difficoltà: risulta difficile, infatti, capire se si tratta di un singolo albero ‘sacro’ da interpretare letteralmente o se rappresenta, piuttosto, in maniera abbreviata il bosco ‘sacro’ (lucus, nemus, alsos)48. Nel primo caso si pone la domanda su quali connotazioni avrebbe richiamato l’albero nell’immaginazione dello spettatore: evocava il ricordo degli alberi ‘sacri’ reali menzionati dalle fonti letterarie e suggeriti dalle rare vestigia archeologiche49? O accenna, piuttosto, a quelli nei paesaggi dei poeti50? Per tornare alla questione precedente, anche la seconda ipotesi che riconosce nell’albero una distillazione iconografica del bosco ‘sacro’ ha una certa plausibilità: un argomento in favore di questa teoria si può riscontrare probabilmente nella circostanza che il bosco ‘sacro’ è menzionato tra i topia sia da Plinio (‘lucos, nemora’) che da Vitruvio (‘luci’)51. Oltre il rapporto tra le raffigurazioni e la ‘realtà topografica’, è interessante esaminare anche fino a che

punto la componente vegetale negli affreschi rappresenti una ‘realtà religiosa’ o ‘teologica’52. O. De Cazanove ha dimostrato che nella maggior parte delle raffigurazioni gli ex-voto si concentrano intorno all’architettura del luogo sacro e non intorno agli alberi53. Secondo lo studioso francese l’albero appartiene semplicemente al “décor sacré” del santuario54 ed è adornato solo in rari casi, in particolare quando mancano elementi architettonici. È importante, però, sottolineare che esistono anche immagini in cui l’albero è effettivamente adornato da oggetti votivi ed è associato ad architetture dalle forme elaborate55. M. Hinterhöller, invece, riconosce non solo negli ex-voto, ma anche nella recinzione dell’albero, un argomento per sostenere che quest’ultimo è esso stesso definito come oggetto di culto56. Secondo la studiosa tali immagini sono esiti di una reinterpretazione allegorica della religiosità degli antenati che sarebbero vissuti in armonia con i numina inerenti alla natura. Il fenomeno storico-mentale avrebbe ricevuto, inoltre, impulsi significativi dalle correnti filosofiche panteistiche. Quintessenza dello studio è senz’altro l’ipotesi di un’assimilazione tra la natura e il divino. Quest’ipotesi, infatti, spiega in maniera del tutto convincente il motivo dei rami che spesso si ergono tra i supporti verticali della ‘porta sacra’ come simbolo di un “cenno” divino. Sebbene non si possa parlare di un elemento narrativo, la presenza dei rami introduce nell’immagine una dimensione temporale57, un artificioso aspetto transitorio. Il rapporto tra la componente architettonica e quella effimera - l’albero - sembra alludere a una relazione di reciprocità tra uomini e déi, a un legame caratterizzato da theophilia58: da un lato, le eleganti architetture che racchiudono e monumentalizzano l’albero, testimoni della devozione, dall’altro lato, i rami che abbracciano le colonne votive o crescono tra le ‘porte sacre’59. La sintonia degli elementi suggerisce che la felicità dell’uomo dipenda direttamente dalla sua pietas. L’architettura consacrata nel passato e i sacrifici offerti nel presente affermano, così, la validità atemporale di questo principio.

Bielfeldt 2007, 367–368, nota 222. Dall’Olio 1989. 44 Affresco da Pompei, ora a Napoli, Museo Archeologico Nazionale (inv. 9488): Croisille 2010, 121–122, fig. 162; Roma, Villa della Farnesina, cubiculum B - Museo Nazionale Romano (inv. 1071): Kotsidou 2007, 474–478, fig. 27. 45 Dall’Olio 1989, 515, nota 11. L’inclinazione dei lati caratterizza anche il basamento del monumento funebre recentemente scoperto presso Porta Stabia. Osanna 2019, 233–272, tav. 8, fig. 6. 46 Hinterhöller 2011, 26. 47 Stähler 2002, 128–129. 48 Bergmann 1992, 23; De Cazanove 1993, 114. 49 Bergmann 1992, 32; Coarelli 1993; De Cazanove 1993, 121–122. 50 Verg., Ecl., 7, 10. 51 Vedi supra nota 36.

De Cazanove - Scheid 1993; Hinterhöller 2007b; Scheid 2015; Hunt 2016. 53 De Cazanove 1993. 54 De Cazanove 1993, 126. 55 Pompei, Casa I, 17, 2–3, triclinium (4): vedi supra nota 25. Sull’argomento anche: Bergmann 1992, 23; Hunt 2016, 273–274. 56 Hinterhöller 2007b, 159–165. Inoltre, Bergmann 1992, 23; Hunt 2016, 270–280. 57 von Hesberg 1986, 23 e 27; Bergmann 1992, 23; Kotsidou 2007, 18; Hunt 2016, 274–275. 58 Bergmann 1992, 23 e 28–30. 59 Entrambi gli elementi sono presenti in una delle rappresentazioni in stucco della Villa della Farnesina. Vedi supra nota 44. 60 Von Blanckenhagen - Alexander 1990, 25. 61 Hinterhöller 2007b, 151; Hinterhöller 2011, 26.

Conclusioni Le indagini hanno dimostrato che i paesaggi idillico-sacrali sono caratterizzati da un alto grado di idealizzazione. Ciò ha condotto gli studiosi a definirli “charming but untouchable, natural but unreal”60, oppure “Wunschbild” e “Traumland”61. La luce del sole estivo, la voluta sfocatura

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Uomo e natura in equilibrio della dimensione temporale e il fluttuare delle immagini in “uno spazio negato”62 sono aspetti che avvicinano queste raffigurazioni al concetto dell’utopia. Ciononostante, nei singoli motivi si possono talvolta riconoscere punti di tangenza con la realtà. Poiché tali legami si manifestano su differenti livelli semantici, è fondamentale, però, specificarne il carattere e l’intensità. La quintessenza delle rappresentazioni paesaggistiche sembra sussistere nel “Transzendieren des Tatsächlichen auf ein Ideal hin”63, un ideale che ha le sue origini nell’otium, in particolare nella contemplazione. Uno dei principi ideologici di questa corrente è l’armonia tra l’uomo e gli dèi. E la preponderanza di motivi religiosi nell’affresco qui presentato lascia ipotizzare che il proprietario della casa III, 3, 4–5 dovesse tenere in modo molto particolare a questo aspetto. Se futuri scavi dovessero portare alla luce l’altra parete del vano, saremmo in grado, forse, di comprendere ancora meglio le strategie decorative e la mentalità sottesa.

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36 Disassembling the Idyllic Image of the Roman Urban Landscape: Empty Spaces and Vacant Areas in Hispano-Roman Cities. Diego Romero Vera Universidad de Sevilla In this work we go into detail about the analysis of the empty spaces or vacant areas located in the interior of the Hispano-Roman cities. The purpose of the present paper is to provide an overview of this urban phenomenon that has not been addressed by the scientific community practically until now. We link this dynamic with the implementation of excessive urban planning projects. In questo lavoro vengono analizzate alcune caratteristiche relative agli spazi vuoti o liberi situati all’interno delle città ispanico-romane. Il fine è quello di fornire uno studio preliminare di questo fenomeno urbano che non è stato finora oggetto di studi sistematici e scientifici. La dinamica in oggetto sarà collegata chiaramente allo sviluppo di piani di urbanizzazione sproporzionati rispetto al dato territoriale. Keywords: empty spaces; urban planning; insulae; Roman urbanism; urban crisis; spazi vuoti; pianificazione urbana; insulae; urbanistica romana; crisi urbana Introduction

clear that in today’s cities, particularly from the last real state crisis, the unbuilt plots are plentiful. This plots can be defined as failed architectonic projects waiting to be constructed in the future. That usual phenomenon nowadays gives us cause for ask ourselves the following question: could same situation have taken place in the Antiquity? Did urban unbuilt plots in the Hispano-Roman cities exist? The common sense leads us to believe that these empty spaces really existed. However, this hypothesis must be demonstrated and we try to do it from the archaeological and epigraphical documentation. In this regard, it should be noted that the difficulty of identifying a space determined by the lack of architectural structures. Put simply, we are referring to plots of intra-urban land fully urbanized, namely: enclosed by the street and other infrastructure (pavements, porticoes, sewers, etc.) that might be constructed, destroyed and rebuilt. One important question: how we can detect these empty spaces in the archaeological record? Their identification comes from the absence of building structures or their traces. At the same time, these places are characterized by materials typical of surface level which provide an extensive chronology. This fact demonstrates that this space has been frequented but not built. Likewise, it would be possible to find layers of padding specific to foundational phases.

The existence of spaces not built on in the Roman cities is one of the aspects most interesting and lesser-known of the Roman urbanism. “Disassembling the Idyllic Image of the Roman Urban Landscape”, this is the title of this paper, and it is true, in our ideal image of a Roman city there is no place for the empty spaces, devoid of edifices and of the building action of humans. Also, in order to offer a simple and affordable reading of the Roman urbanism, at times we have fallen into the simplification and the conventionalism. We are referring, for instance, to the fixed and unchanged representation of the Roman cities which is usually offered. It is not necessary to say that the urban image of these cities was changing over the time. Moreover, many times we do not notice the economic and constructive effort which is required to create a city from scratch, ex novo as they say. Our concept of an ideal Roman city holds all from its planning until its finished and perfect image. Another issue that must be taken into account is that the current mindset influences the interpretation of the Roman urbanism that we carry out, let us not forget it, from the present. Our relationship with the urban space is determined by a kind of horror vacui. What do we feel about unbuilt plots? Usually, the existence of empty spaces, abandoned buildings or plots arouses us aversion. We relate these spaces to decadence and dirt and, in our view, they spoil the city. So much so that many councils have developed laws in order to these places devoid of shape and function. Ultimately, this means a fight against the urban discontinuity1. It seems 1

1. The documentary evidence The legal documentation available to analyse the distribution of the urban land is very scarce2. Its seems clear that the urban projects were not implemented to

García Vázquez 2011, 70–88.

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For further information on this aspect, Romero Vera 2016, 395–396.

Diego Romero Vera An unusual term: in her empty piece of land which reveals that this space was free of buildings9. So, it appears that we are facing to the only epigraphical manifestation about the existence of an unbuilt space in a Roman city.

fulfil the needs of the first inhabitants, on the contrary it was expected that the new city grew up and consolidated from a demographic point of view. Following this logic, it is legitimate to consider that there were reserved spaces within the urban core: that is to say, there were urbanizable land reserves to solve a foreseeable demand of habitable space in the future. On the other hand, we will talk about the information provided by the epigraphy. In some epigraphs commemorating the donation of public buildings appears the epigraphic formula solo publico. Namely, the benefactor built a public building, but the local government gave a plot of public property for this purpose3. Probably, these spaces were not constructed. Likewise, we have a letter from Pliny the Younger, quite interesting with regard to the study of the empty spaces. In the missive sent to Trajan, Pliny recounts that he wants to build a temple at his own expense in the city of Tifernium Tiberinum4. In this passage we can assume the existence of several empty spaces since the members of the local senate of Tifernium offer to Pliny the choose of any plot to build the temple. From which derives that there should exist more than one empty plot in that city. In general terms, the phenomenon of the urban discontinuity may seem strange although continues to be a quite rational event. We have to understand that the cities constitute living projects irrespective of their chronology or culture. It is only logical that reserve areas for the growth of the population were incorporated within the walls of the ancient cities. This circumstance has been analysed in some medieval cities of the Iberian Peninsula such as Sevilla or Murcia. In that way, within these walled enclosures has been identified spaces occupied by vegetable gardens or directly without apparent function. Precisely, their purpose should be related to an expected demographic growth carried out when the walls were built5. This situation has also been raised in relation to the Greek cities of Magna Graecia. There is a tendency to think that not all the intramural space was built. Probably, there were reserve areas aimed at accommodating new settlers (epoikoi) as well as to protect to the population scattered over the territory in the event of danger6.

2. The archaeological evidence But at this point, it is necessary to provide some hard evidence based on the archaeological record. For this purpose, we selected four colonies (Astigi, Carthago Nova, Augusta Emerita and Italica), an indigenous town subsequently converted into municipium flavium (Regina Turdulorum) and finally, a city of unknown legal rank although it was very important given its position as capital of one of the Citerior’s conventus (Bracara Augusta). With regard to Astigi (Écija), a colony founded by Augustus, it should be pointed out that the analysis of empty spaces is determined by the lack of direct testimonies about the walls. However, there is no doubt about the intramural location of the site excavated in Plaza de Santo Domingo, the heart of the Roman town, about 100 metres from the local forum. Here a lavish domus was documented, the so-called ‘House of the Nereids’, erected in the end of the first century AD10. But, what is fascinating is that this house was the first building of the plot, namely, this domus was built on a vacant plot11 (Fig. 36.1). In the house archaeological previous levels any kind of constructive activity was identified. However, a section of kardo was brought to light, it is proof that the plot was delimited by urban infrastructure12. So, in short, we are dealing with a peculiar case, an empty plot with an area of eighteen hundred square meters which took up half of an insula. This unbuilt plot did not get any construction until a century later of the date city foundation. Regarding to Carthago Nova (Cartagena), in the Augustan Age the city received an urbanization boost: in that time the city developed in relation to the limits of the republican settlement13 and its eastern edge was among the new intramural areas. But, what is really interesting is that an urban sector was not inhabited in a uniform way, but could have a dispersed hamlet14. This phenomenon of the existence of empty areas has been documented on the basis of two archaeological interventions, specifically those carried out in the surroundings of Plaza Jaime Bosch and Calle San Diego. In the first dig a street and the remains of a sewage canal at two points that are far from each other were discovered. Nevertheless, in that dig any Roman building was documented15. This scarce information is complemented by those offered by the archaeological intervention developed in Calle San Diego: here, on the late republican level a floor from imperial epoch made of soil and fragmented pottery was unearthed. Finally, the paved area was delimited by a wall and south of the wall

Finally, an epigraph from Spoleto, in central Italy, offers us valuable information to argue about our topic of study7. That inscription celebrates the dedication of a sacred forest, a lucus, and also an altar on the part of Renatia Maxima to Bona Dea, the Roman goddess of the fertility8. The text ends with the formula in vacuo suo to enhance the donation of the place where the sanctuary was located. Goffaux 2003, 234. Plin., Epist., 10, 8, 1–2: “Quod quidem ille mihi cum plenissimo testimonio indulserat; ego statim decurionibus scripseram, ut assignarent solum in quo templum pecunia mea exstruerem; illi in honorem operis ipsius electionem loci mihi obtulerant”. 5 Navarro Palazón - Jiménez Castillo 2007, 96–98. 6 Nenci 2006, 459–477; Tréziny 2012, 33–45. 7 CIL XI, 4767 (= ILS 3492): “[Lu]cus Bon(a)e de(a)e/ dedicatus ut liceat/ per masculos rem/undari permit(tente) Pom[peia(?)]/ com[magi] str(a) ara(m) posu[it]/ Ren(atia?) Maxim(a) ux{s}or Umbr[o]/nis p(rimi) p(ilaris) posit(a) in va[cuo]/ suo”. 8 Brouwer 1989, 99–101; Asdrubali Pentiti 2008, 213; Fernández Nieto 2010, 65–68. 3 4

9 Lewis - Short 1969, s.v. “vacuus, b” (“vacuum: an empty space, an open or vacant place”). 10 Paredes et alii 2006, 59–72. 11 Romero et alii 2009, 3208–3219. 12 Romero et alii, 2009, 3211–3213. 13 Ramallo 2003, 354. 14 Ramallo - Vizcaíno 2007, 495–497. 15 Martín et alii 2006, 283.

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Disassembling the Idyllic Image of the Roman Urban Landscape

Fig. 36.1. Écija (Sevilla). The site excavated in Plaza de Santo Domingo within the urban fabric of Astigi (Reworked from García-Dils 2010).

was documented a part of the street16. The archaeological evidence leads us to believe that we are facing to a true plot, a piece of land intended to be built and properly demarcated by a wall. In Augusta Emerita (Mérida) none unconstructed insula or part of it has been found. Only has been discovered small trips of land located between the wall and the street, just in the north-east zone of the colony. These spaces did not have any use, so they could be used as a “dead zone” or may have used as a perimeter walk17. In Italica (Santiponce, Sevilla) we found a quite interesting case. According to the information provided by the archaeological survey, it seems that the part of the city increased by Hadrian was not completely occupied by buildings. Geophysical surveys carried out in the four insulae located between the walls and the Major Baths documented only the sewers, but not buildings18. And, on the other hand, archaeological field works and surveys carried out between the castellum aquae and the Major Baths did also not provide proof of buildings in this area of the city, only the pipe coming from the castellum to supply water to the spa was detected (Fig. 36.2)19. In regard to Regina Turdulorum (Casas de Reina, Badajoz), the community abandoned the first settlement placed on a hill and the new Roman city was founded at the time of

Claudius20. In this period, the urban grid, planned for an ulterior increase, was built. And how do we know this? Simply, on the basis of the sewer system. In that time a limited network of streets was developed whose sewers finished in the natural stone. This precise point functioned as a supply connection, the sewers of the new streets must begin from that point. That streets were never built, since the city only growth along the decumanus maximus and in one division of the kardo maximus, that is to say, on the western side of the settlement. Thus, the urban space between the kardo minor and the Theatre was empty or practically deserted21. Finally, we must speak about Bracara Augusta (Braga) a city created from scratch in the Augustan Age. In the archaeological area of Campo das Carvalheiras it is recognized that the first structure that hosted the insula was a domus dated in the Flavian Age. Any architectonical structure has been found in the previous levels22. Therefore, the plot of this house was unoccupied for fifty years. 3. Final remarks To conclude, based on the exposed archaeological data, it is clear that there was an existence of unbuilt spaces within the cities that we have analysed. Furthermore, it is

Martín et alii 2006, 287. Bejarano 2002, 151; Bejarano 2007, 250. 18 Rodríguez Hidalgo et alii 1999, 91–93; Hidalgo 2003, 91–95. 19 Rodríguez Hidalgo 1997, 109; Pellicer 1982, 211. 16

Álvarez et alii 2004,14. Álvarez et alii 2004, 15–16 and 22–23. 22 Martins 1997–1998, 27; Martins - Delgado 1996, 123.

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Diego Romero Vera

Fig. 36.2. Santiponce (Sevilla). The unbuilt plots within the urban fabric of Italica (Reworked from Hidalgo 2003).

probable that this urban dynamic could affect other cities of Hispania and the Roman World at large. For instance, we know that this phenomenon took place in Nemausus (Nimes, France)23.

Bibliography

The topographical location of the plots devoid of any building is important aspect that should be stressed. These spaces were located at the end of the urban fabric, at the periphery of the city. In our opinion, the presence of empty spaces must be related to the implementation of town planning programs, especially in some cases as those of Italica and Regina Turdulorum. There is nothing new under the sun: the ancient Romans also carried out forward-looking general urban development plans. The new cities assumed pieces of land intended to a foreseeable population growth. In some cases, this forecast was fulfilled, an in other cases, this urban and population growth never occurred24. Little by little, the archaeological research is demonstrating that the Roman cities of Hispania did not have actually an image as idyllic as would be expected.

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37 Incipe mea tibia: il paesaggio sonoro delle Bucoliche. Benedetta D’Anghera Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ The contribution takes into account the Soundscape in Vergil’s Eclogues, focusing in particular on some passages of the eighth Eclogue, in order to explain the peculiar choice of the word tibia in the refrain (Ecl., 8, 21) of Damon’s song. The bucolic landscape described by Vergil is all pervaded by the Sound. The woodwinds mentioned as tibia, avena, fistula, stipula match with the shepherds’ chant, in order to convey sophisticated allegories, evoke mythological exempla, mark shepherd’s identities, as individuals and as community members. In this case, through the use of the word tibia - far from being a simple synonymous of the most common fistula, as some scholars argue - Vergil builds a bridge between the bucolic idyll and the reality, giving emphasis to the main themes of Damon’s chant: love and death. Il contributo prende in considerazione il paesaggio sonoro nelle Bucoliche virgiliane, concentrandosi in particolare sull’analisi di alcuni passi dell’ecloga ottava, al fine di comprendere il peculiare uso del termine tibia nel refrain del canto di Damone. Il paesaggio bucolico descritto da Virgilio si presenta infatti permeato dal suono. Strumenti a fiato, quali tibia, avena, fistula, stipula, accompagnano il canto dei pastori, veicolando sofisticate allegorie, evocando exempla dal mito, definendo le identità dei pastori, come individui e come membri di una comunità. Attraverso l’uso del termine tibia - che non rappresenta semplicemente un sinonimo del più comune fistula, come alcuni critici sostengono -, il poeta augusteo costruisce un ponte fra l’idillio bucolico e la realtà, conferendo particolare enfasi ai principali temi del canto di Damone: amore e morte. Keywords: Virgilio; ecloga ottava; paesaggio sonoro; musica antica; tibia; fistula; strumenti musicali; amore e morte Il paesaggio delle Bucoliche, che si configurò ben presto come topos letterario del locus amoenus, è stato da sempre indagato e descritto nella sua componente visiva1. Minore attenzione è stata invece dedicata dalla critica agli elementi “sonori” che di tale paesaggio fanno parte; ciò, forse, in conseguenza delle generali carenze che gravano sulla conoscenza della musica romana2. D’altronde, l’applicazione dell’espressione “paesaggio sonoro” a un testo letterario richiede alcune precisazioni. La definizione “paesaggio sonoro” (Soundscape) fu coniata infatti negli anni ’70 del Novecento da Raymond Murray Schafer per definire l’insieme degli eventi acustici che caratterizzano un dato ambiente: i suoni della natura, quelli degli animali, quelli prodotti dall’uomo3: “Tutti i suoni possono entrare a far parte del dominio della musica, giacché l’intero

universo è un’orchestra, che ha come musicisti tutti gli esseri capaci di emettere suoni”, scriveva lo studioso canadese4. Tuttavia, mentre l’indagine della fonosfera a noi contemporanea può essere condotta attraverso tecnologie elettroacustiche - nel cui utilizzo Schafer fu pioniere capaci di registrarla e riprodurla5, per poter analizzare il paesaggio sonoro di una creazione letteraria che di molto ci precede è necessario ricorrere alla parola scritta. Le Ecloghe virgiliane si presentano densamente popolate di suoni (il canto dei pastori accompagnato da strumenti musicali, a cui una natura orfica fa eco); si tratta, tuttavia, di voci inaudibili per il nostro orecchio, che possiamo cogliere solo attraverso il ragionamento e l’immaginazione, muovendo dal modo in cui esse sono registrate dal poeta nel verso. Scopo dell’esame del paesaggio sonoro delle Bucoliche non è tanto quello di esplorare la fonosfera degli antichi6 - sarebbe, infatti, azzardato ricostruirla limitandosi allo studio del testo virgiliano, in cui per altro il rapporto

1 Alla trattazione del tema, che non rientra negli scopi e nelle possibilità del presente contributo, è stato dedicato ampio spazio nella letteratura virgiliana. Utili indicazioni bibliografiche di partenza sono fornite da Serpa 1987, 921–26. 2 Eloquente in tal senso la sentenza con cui l’autorevole etnomusicologo Curt Sachs, nel fondamentale volume “La musica nel mondo antico”, conclude la sua brevissima - poco più di una pagina, a fronte delle 78 riservate alla musica in Grecia - trattazione inerente alla musica a Roma: “preferiamo tirare un velo su questa parte della storia della musica”. Sachs 1992, 270.  3 Raymond Murray Schafer fu pioniere del World Soundscape Project, progetto di ricerca internazionale sull’ambiente acustico naturale, i cui risultati confluirono nel fondamentale volume Schafer 1977.

La traduzione è di Nemesio Ala in Schafer 1985. Eredi del World Soundscape Project, promosso da Schafer, sono quelli curati dal World Forum for Acoustic Ecology, attualmente volti a indagare e riprodurre la fonosfera contemporanea. Il sito del progetto è disponibile al link https://www.wfae.net/. 6 Questo, invece, l’intento di Maurizio Bettini nel suo interessante lavoro di ricostruzione dell’universo sonoro del mondo antico, basato sull’analisi e sul confronto di un nutrito apparato di fonti letterarie. Bettini 2018. 4 5

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Benedetta D’Anghera 37.2) - soluzione che sottrae enfasi alla peculiare scelta virgiliana, generando per altro confusione sulla reale natura dello strumento. E se da un lato viene evidenziata una certa stranezza nell’uso del termine tibia in ambito bucolicopastorale, dall’altro se ne semplifica l’interpretazione, parlando di semplice uso sinonimico dell’espressione, come alternativa ai più comuni calami e fistula15. La fistula16, il flauto di Pan, è lo strumento pastorale per eccellenza; a essa Damone fa riferimento due volte nell’ottava ecloga, la prima attraverso l’uso sineddotico di calamos, in una descrizione “paesaggistica” che segue il primo ritornello e fornisce una spiegazione per l’epiteto menalios, con cui il cantore definisce i propri versi:

tra realismo e simbolismo è particolarmente complesso e dibattuto7 - ma piuttosto comprendere i significati che il poeta augusteo attribuisce al suono, interpretare le fini allegorie che le immagini musicali veicolano, introdursi nei luoghi in cui il paesaggio sonoro della narrazione e quello del verso si fondono, attraverso specifiche strategie retoriche, in un unico canto: la poesia bucolica di Virgilio8. Per ragioni di necessaria brevità, ci si soffermerà in questa sede su un passo dell’ottava ecloga9, in particolare su una “pennellata sonora” introdotta da Virgilio mediante una peculiare scelta lessicale. Questo il contesto: due pastori, Damone e Alfesibeo, si sfidano in una gara di canto (certantis), proponendo prima l’uno, poi l’altro il proprio carmen. Comincia Damone, che dà voce al lamento di un infelice amante - anonimo -, il quale esprime il proposito di togliersi la vita, dopo che la sua donna, Nisa, lo ha lasciato preferendogli Mopso. La struttura del canto è costituita da dieci “strofe”, intervallate da un ritornello reiterato dieci volte10, che recita:

“Incipe Maenalios mecum, mea tibia, versus. Menalus argutumque nemus pinusque loquentis semper habet, semper pastorum ille audit amores Panaque, qui primus calamos non passus inertis”17. Il Menalo è, infatti, un monte dell’Arcadia - identifica la nuova ambientazione virgiliana, sostituendo il βουκολικᾶς teocriteo18 - dotato di una natura animata, capace di intendere e ripetere il canto dei pastori, di partecipare alle gioie e ai dolori che essi esprimono attraverso musica e poesia. Il Menalo ha un bosco sonoro (argutum nemus) e pini che parlano (pinus loquentis). Possiede dunque la virtù di risonanza attribuita alle silvae nei primi, programmatici versi del poema (Verg., Ecl. 1, 5). Il Menalo è anche sede di Pan, colui che “per primo non lasciò mute le canne”. Il riferimento è qui al notissimo mito bucolico di Pan e Syrinx, con una sineddoche calamos indica la fistula, il flauto di Pan19: per sfuggire a Pan la ninfa Siringa chiede soccorso agli dei, ottenendo di essere trasformata in un canneto, in cui il passaggio del vento produce dolci suoni; Pan, allora, ne trae il flauto a più canne (la fistula) che diviene suo abituale compagno.

“incipe Maenalios mecum, mea tibia, versus”11. Il verso riprende evidentemente il ritornello che apre il canto di Tirsi nell’idillio I di Teocrito12, ma mentre questi si rivolge direttamente alle Muse, il cantore virgiliano indirizza la sua allocuzione alla tibia, che alle Muse rimanda metonimicamente. La tibia13 (Fig. 37.1) è uno strumento musicale non abitualmente associato alla poesia pastorale e che in questo ritornello dell’ottava ecloga fa la sua unica apparizione nelle Bucoliche - nessuna occorrenza del vocabolo si ha invece nelle Georgiche. Il termine viene comunemente tradotto con il generico “flauto”14 (Fig. 7 Winsor Leach approfondisce il rapporto fra realismo e simbolismo nelle Bucoliche in relazione agli elementi paesaggistici. Winsor Leach 1974. 8 Nei primi e programmatici versi del poema, dotati di finalità proemiale (Wright 1983), Virgilio affida proprio a un’immagine sonora (Ecl., 1, 2: “silvestrem tenui Musam meditaris avena”) l’espressione della propria adesione al genere bucolico e ai valori della finezza callimachea, introducendo altresì una rituale dichiarazione iniziale di modestia (Cucchiarelli - Traina 2007, 138–139, nota 2). Subito dopo, nei boschi (Ecl., 1, 5: “formosam resonare doces Amaryllida silvas”), il poeta fa risuonare all’unisono la voce del pastore, quella della natura che le fa eco, la propria. Cucchiarelli - Traina 2007, 140–141, nota 5. 9 L’edizione delle Bucoliche di riferimento per il presente contributo è quella con traduzione di Alfonso Traina, introduzione e commento di Andrea Cucchiarelli, che fornisce fra l’altro una bibliografia generale sull’ecloga ottava e su questioni specifiche a essa relative (Cucchiarelli Traina 2007, specialmente 408–409). 10 Sulla questione dell’eventuale interpolazione del v. 28a, la cui espunzione farebbe scendere a nove i ritornelli dell’ecloga ottava, si veda Cucchiarelli - Traina 2007, 405–406 e 438, nota 76. 11 Verg., Ecl., 8, 21: “Comincia con me, mia tibia, i versi menalii”. I passi delle Bucoliche sono tutti forniti nella traduzione di Alfonso Traina (Cucchiarelli - Traina 2007), modificata, tuttavia, nella resa del termine tibia - sempre originariamente tradotto con ‘flauto’ -, che ho preferito conservare nella forma latina che trovo più pregnante e atta a evidenziare la peculiare scelta lessicale virgiliana (cfr. infra). Ho operato la stessa scelta per tutte le occorrenze di tibia nei passi citati. 12 Theocr., Id., 1, 64. Cucchiarelli - Traina 2007, 417–418, nota 21. 13 Per una bibliografia sulla tibia, si veda McKinnon - Anderson 2001. Specifico e tecnico il contributo di Howard 1893 su questo strumento in ambito greco e latino. Sintetici riferimenti all’uso virgiliano della tibia in Anderson et alii 2001 e Marzi 1988. In Smith 1970 si approfondisce la questione degli strumenti musicali a fiato nella poesia pastorale virgiliana. 14 Così traduce anche Traina in Cucchiarelli - Traina 2007. Curt Sachs (1980, 156), nel trattare dell’aulós - corrispettivo greco della tibia - scriveva: “la consueta traduzione di aulós con “flauto” è sbagliata e fuorviante”.

Col suo nome proprio, la fistula è citata da Damone pochi versi dopo. Il pastore si rivolge all’amata Nisa, ormai sposa di Mopso: “O digno coniuncta viro, dum despicis omnis, dumque tibi est odio mea fistula dumque capellae hirsutumque supercilium promissaque barba”20. La fistula caratterizza qui il cantore come personaggio bucolico, al pari delle sue capre, delle sue sopracciglia 15 Così Cucchiarelli (Cucchiarelli - Traina 2007, 418), che ritiene la preferenza del termine tibia dovuta a “una qualche suggestione fonica”. Anche Smith 1970, 505. 16 Si tratta della syrinx greca, che tanto spazio rivestiva negli idilli teocritei. Spunti bibliografici di partenza sullo strumento sono forniti da McKinnon 2001. Smith (1970) ne parla nel contesto della poesia bucolica virgiliana. 17 Verg., Ecl., 8, 21–24: “Comincia con me, mia tibia, i versi menalii. Il Menalo ha sempre un bosco che canta e dei pini che parlano, è lui che ode sempre gli amori dei pastori e Pan che per primo non lasciò mute le canne”. 18 Theocr., Id., 1, 64. 19 A tale mito aveva già fatto riferimento nelle Bucoliche Coridone (Verg., Ecl., 2, 32). 20 Verg., Ecl., 8, 32–34: “O unita a un degno marito, mentre per tutti hai disprezzo, mentre ti sono in odio il mio flauto e le capre, le sopracciglia pelose e la barba non rasa”.

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Incipe mea tibia

Fig. 37.1. Chieti, Museo Archeologico Nazionale, Rilievo con evidenziati i suonatori di tibia a una cerimonia funebre, da Amiternum (Rielaborazione di Ghedini - Salvo 2017).

Fig. 37.2. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, affresco con Pan con flauto (fistula), da Pompei (Fotografia dell’autore).

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Benedetta D’Anghera suoni diversi. Per il ricorso a questo strumento, non propriamente bucolico, Virgilio poteva disporre di un autorevole precedente letterario: nel De rerum natura, infatti, in un luogo certamente noto al poeta augusteo, che lo cita quasi alla lettera nella prima ecloga (Ecl., 1, 2), la tibia fa la sua comparsa accanto alla fistula:

pelose, della sua barba non rasa. È, dunque, un elemento identitario. Nelle sue numerose altre occorrenze nelle Bucoliche, la fistula viene variamente evocata come simbolo della vita pastorale, come strumento suonato negli agoni, come oggetto votivo (Ecl., 7, 23–24), come dono che un pastore fa a un altro per designarlo come erede della propria arte (Ecl., 2, 38). Il termine non è usato in maniera generica, vaga, ma per indicare uno strumento ben preciso, di cui Virgilio specifica in più occasioni le caratteristiche, oltre a raccontarne la mitica invenzione da parte di Pan. La fistula è composta da sette canne di varia lunghezza, congiunte con la cera e con vari tipi di cordami usati come rinforzo.

“Sex etiam aut septem loca vidi reddere vocis, unam cum iaceres: ita colles collibus ipsi verba repulsantes iterabant dicta referri. Haec loca capripedes Satyros Nymphas que tenere finitimi fingunt et Faunos esse locuntur, quorum noctivago strepitu ludo que iocanti adfirmant volgo taciturna silentia rumpi chordarum que sonos fieri dulcis que querellas, tibia quas fundit digitis pulsata canentum, et genus agricolum late sentiscere, quom Pan pinea semiferi capitis velamina quassans unco saepe labro calamos percurrit hiantis, fistula silvestrem ne cesset fundere musam”26.

“est mihi disparibus septem compacta cicutis Fistula”21. “Pan primum calamos cera coniungere pluris Instituit”22. “Cantando tu illum? aut umquam tibi fistula cera iuncta fuit?”23.

Lucrezio sta qui parlando del fenomeno dell’eco: descrive il verificarsi di essa nei boschi abitati da ninfe, satiri, fauni, dove ‘si levano suoni di corde e dolci lamenti, che la tibia diffonde’ (“tibia quas fundit”), dove dimora anche Pan, che ‘col labbro adunco percorre le canne forate, perché la fistula non resti di spargere accordi silvani’. Il verso 585 (“tibia quas fundit digitis pulsata canentum”) è poi citato alla lettera nel libro successivo del De rerum natura, nel luogo in cui il poeta sta descrivendo come la natura abbia insegnato agli uomini il canto27. Esisteva dunque un precedente latino nell’uso ‘bucolico-pastorale’ della tibia. Tuttavia, nel refrain del canto di Damone nell’ecloga ottava, Virgilio sembra voler evocare attraverso la tibia significati peculiari, servendosi di questo strumento in funzione della propria poesia. Lo si comprende se si esamina il ruolo fondamentale che la tibia riveste nella realtà contemporanea al poeta augusteo, quella realtà che continuamente irrompe nell’idillio bucolico virgiliano. Già in età repubblicana, i suonatori professionisti di tibia erano radunati in una corporazione, il collegium tibicinum romanorum, la cui fondazione veniva ricondotta da Plutarco al re Numa28. Il suono della tibia accompagnava i principali momenti della vita pubblica e privata: sacrifici e processioni, simposi, giochi sportivi, spettacoli teatrali, riti funebri, cerimonie nuziali29. È

Tornando al passo dell’ecloga ottava in esame, si è già osservato che, mentre nella sua generale autorappresentazione come pastore il cantore di Damone cita fra i suoi attributi la fistula, nel ritornello della sua composizione lo stesso chiede a una tibia di iniziare con lui i versi menalii. Contrariamente a quanto ipotizzato da Cucchiarelli24, i due termini non sono sinonimi, giacché si riferiscono a strumenti diversi: la fistula (syrinx greca) è uno strumento mitico, tipicamente bucolico, che non sembra tuttavia trovare spazio nella prassi esecutiva strumentale del mondo romano; la tibia (l’aulòs greco), invece, pur legata alla dimensione mitologica come strumento tipicamente dionisiaco, scandisce altresì col suo suono i più importanti momenti della vita pubblica e privata dell’Urbe. Riguardo quest’ultima, il termine indicava in realtà strumenti di vario tipo - lo testimoniano le specifiche tibiae pares, tibiae impares, tibia berecyntia, tibia obliqua - ma alcune caratteristiche essenziali e generalmente valide sono così sintetizzabili: la tibia poteva essere semplice o doppia, cioè composta da una o due canne; era solitamente dotata di “ancia”25 e di fori sulle pareti che servivano ad allungare o accorciare la colonna d’aria immessa nel tubo e, dunque, a produrre 21 Verg., Ecl., 2, 36–37: “Ho un flauto composto di sette canne ineguali”. Ho sostituito - qui, come nelle successive occorrenze equivalenti l’originario ‘zampogna’ della traduzione di Traina con ‘flauto’, che mi sembra più pregnante, giacché col termine fistula Virgilio allude in modo specifico al flauto di Pan. 22 Verg., Ecl., 2, 32–33: “Pan per primo insegnò ad unire con la cera le canne”. 23 Verg., Ecl., 3, 25–26: “Tu lui nel canto? O hai mai avuto un flauto congiunto con la cera?”. Ho preferito in questo caso una traduzione più letterale rispetto a quella di Traina (Cucchiarelli - Traina 2007, 99) che propone: “Tu lui nel canto? O hai mai avuto una vera zampogna?”. 24 Vedi supra nota 15. 25 Più che al flauto, dunque, la tibia è paragonabile ai moderni clarinetto e oboe. La colonna d’aria non è prodotta soffiando direttamente nel tubo, ma fa vibrare una sottile lamina, l’‘ancia’ appunto. Per i riferimenti bibliografici sulla tibia, vedi supra nota 13.

Lucr., 4, 577–589: “Ho visto luoghi rimandare fino a sei o sette gridi, se uno ne gettavi: così i colli, rilanciando le parole ai colli, moltiplicavano il ripercuotersi degli echi. Di questi luoghi narrano i vicini, che vi abbiano dimora satiri capripedi e ninfe, e dicono che ci sono fauni, dal cui strepito vagante nella notte e dai giochi chiassosi giurano che son rotti spesso i taciturni silenzi; e si levano suoni di corde e dolci lamenti, che la tibia diffonde, tentato dalle dita dei suonatori; la gente campagnola ode da molto lontano, quando Pan, scuotendo i ramoscelli di pino che gli ombrano la testa ferina, spesso col labbro adunco percorre le canne forate, perché il flauto non resti di spargere accordi silvani”. La traduzione è in Fellin 1997, 295. Anche in questo caso ho modificato la resa dei termini tibia e fistula, originariamente tradotti con ‘flauto’ e ‘zampogna’. 27 Lucr., 5, 1385. 28 Plu., Num.,17, 3. McKinnon - Anderson 2001. 29 Plu., Num. 17, 3. McKinnon - Anderson 2001. 26

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Incipe mea tibia tibiaque et cantus, animi felicia laeti argumenta, sonant”36.

utile qui soffermarsi in particolare sugli ultimi due contesti - del rito funebre e della cerimonia nuziale -, quelli più strettamente legati al canto di Damone, evocati dal pastore già nei primi versi:

L’associazione forse più eloquente dello strumento in questione al rito nuziale è, però, quella presente nella Rhetorica ad Herennium. Nel contesto della trattazione delle exornationes verborum, l’autore fornisce la definizione dell’intellectio, la sineddoche, e nel presentare un esempio di questa, menziona la tibia:

“Nascere praeque diem veniens age, Lucifer, almum, coniugis indigno Nysae deceptus amore dum queror et divos, quamquam nil testibus illis profeci, extrema moriens tamen adloquor hora”30.

“intellectio est, cum res tota parua de parte cognoscitur aut de toto pars. De parte totum sic intellegitur: ‘Non illae te nuptiales tibiae eius matrimonii commonebant?’ Nam hic omnis sanctimonia nuptiarum uno signo tibiarum intellegitur”37.

È chiaro fin da subito che si tratta di un ‘lamento’ (queror), in cui amore e morte si intrecciano mediante il ricorso a temi e forme della poesia erotico-elegiaca31. Un’eloquente testimonianza circa l’associazione della tibia al rito funebre è offerta da Ovidio. Descrivendo nei Fasti le festività dei quinquatri minori, caratterizzate dall’esibizione di suonatori di flauto, il poeta narra origine e aneddoti legati alla corporazione dei tibicini. E specifica:

Le tibie sono a tal punto rappresentative della cerimonia nuziale da poter esser qui intese come parte simbolo del tutto ‘nozze’. Proprio le nozze costituiscono un tema centrale nei versi intonati da Damone nell’ottava ecloga. Nelle sue prime parole, il cantore piange il tradimento di Nisa, che definisce con l’espressione coniunx. Come scrive Cucchiarelli, “la scelta del sostantivo si spiega nella prospettiva dell’amante tradito, che percepisce come vero coniugium il proprio legame d’amore e vede nella fanciulla sottrattagli quella che poteva essere la sua legittima sposa”38. L’uso di questo epiteto anticipa il corposo ricorso a temi epitalamici che caratterizza la sezione centrale del canto di Damone. Così, il pastore descrive le nozze di Nisa con il suo nuovo amante Mopso:

“temporibus veterum tibicinis usus avorum magnus et in magno semper honore fuit: cantabat fanis, cantabat tibia ludis, cantabat maestis tibia funeribus”32. Ancora nei Tristia, Ovidio scrive: “Tibia funeribus convenit ista meis”33. Quanto al secondo contesto di riferimento, numerose sono le attestazioni letterarie del suono della tibia associato al canto d’amore e al corteggiamento34. Nello specifico contesto nuziale, però, lo strumento compare innanzitutto nelle Eroidi ovidiane. Abbandonata da Giasone, nella sua dolorosa epistola, così Medea descrive le nuove nozze dell’eroe:

“Mopse, novas incide faces: tibi ducitur uxor. Sparge, marite, nuces: tibi deserit Hesperus Oetam”39. Compaiono in questi versi riferimenti alla ritualità nuziale diffusa a Roma che introducono note di realismo nella situazione arcadico-pastorale40: si fa cenno a torce di pino tagliate appositamente per il corteo nuziale41, alla cerimonia della deductio (v. 29, “tibi ducitur uxor”), con cui la sposa viene condotta nella casa del marito, al gesto benaugurante di gettare noci a terra al momento dell’incontro tra gli sposi. C’è, infine, la menzione di Espero (“tibi deserit Hesperus Oetam”), astro tradizionalmente simbolo delle nozze. Sono questi temi tipici del genere dell’epitalamio, che il poeta augusteo continua a evocare nella parte centrale del carmen di Damone (vv. 32–51), col precipuo scopo di rovesciarli in

“Ut subito nostras Hymen cantatus ad aures venit, et accenso lampades igne micant, Tibia que effundit socialia carmina vobis”35. In un contesto nuziale, la tibia figura altresì nelle Metamorfosi, dove insieme alla cetra allieta il matrimonio di Peleo e Andromeda: “[…] taedas Hymenaeus Amorque praecutiunt, largis satiantur odoribus ignes, serta que dependent tectis, et ubique lyraeque

36 Ov., Met., 4, 761: “Imeneo e Amore agitano le fiaccole nuziali, sulle are si bruciano abbondanti odori, corone pendono dai tetti e ovunque risuonano le cetre, le tibie e i canti, prove sicure della letizia degli animi”. La traduzione è in Scivoletto 2000, 235. 37 Rhet., Her., 4, 33, 44: “La sineddoche è quando tutto l’oggetto si fa conoscere da una sua piccola parte, o la parte dal tutto. Dalla parte il tutto si comprende così: “Non ti avvertivano quelle tibie nuziali del suo matrimonio?” Qui infatti tutta la santità delle nozze si comprende dalla sola presenza delle tibie”. La traduzione è in Cancelli 1992, 538. Il traduttore mantiene invariato il termine tibie in italiano, scelta a mio avviso assai appropriata. 38 Così Cucchiarelli in Cucchiarelli - Traina 2007, 416–417, nota 18. Immediato il confronto con Verg., Aen., 4, 172. 39 Verg., Ecl., 8, 29–30: “Mopso, taglia alte torce: ti portano a casa la sposa. Spargi, marito, le noci: Espero per te lascia l’Eta”. 40 Coleman 1977, 235, nota 29. 41 Catull., 61, 77–78.

Verg., Ecl., 8, 17–20: “Nasci, e conduci con te, Espero, il giorno di vita, mentre piango il tradimento di Nisa, la sposa promessa, e agli dei, benché a nulla mi valse averli garanti, in punto di morte rivolgo le estreme parole”. 31 Cucchiarelli - Traina 2007, 417, nota 19. Su amore ed elegia nelle Bucoliche si veda Kenney 1983. 32 Ov., Fast., 6, 657–660: “All’epoca dei nostri antenati i suonatori di tibia erano assai richiesti e molto apprezzati: si suonava la tibia all’interno dei templi, la si suonava in occasione dei giochi, si suonava la tibia nei tristi cortei funebri”. La traduzione è in Stok 1999, 449–451. 33 Ov., Trist., 5, 1, 48: “Questa tibia si addice ai miei funerali”. La traduzione è a mia cura. 34 Si vedano, ad esempio: Prop., 2, 7, 12; Hor., Carm., 3, 7, 30. 35 Ov., Epist., 12, 139–141: “E, all’improvviso, un canto di Imeneo giunse alle mie orecchie: le fiaccole brillano con la fiamma accesa, la tibia diffonde per voi inni di nozze […]”. La traduzione è in Della Casa 1982, 333. 30

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Benedetta D’Anghera una sorta di “anti-epitalamio”42. Nei versi 37–41, il pastore rievoca il momento del primo incontro con Nisa quando, poco più che fanciullo, si innamorò di lei43:

della finzione letteraria divenisse paesaggio sonoro della realtà scenica. Ma questa è un’altra musica! Bibliografia

“saepibus in nostris parvam te roscida mala (dux ego vester eram) vidi cum matre legentem. alter ab undecimo tum me iam acceperat annus, iam fragilis poteram a terra contingere ramos: ut vidi, ut perii, ut me malus abstulit error”44.

Anderson, W. - Mathiesen, T. J. - Anderson, R. 2001 in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, s.v. “Virgil”, 26, London, 778–779. Bettini, M. 2018, Voci. Antropologia sonora del mondo antico, Roma.

La gioia che dovrebbe generalmente accompagnare il ricordo del primo incontro fra due sposi si fa qui nostalgico lamento: il cantore non è, infatti, un marito che racconta il suo innamoramento, ma un disperato amante tradito. E quando nei versi successivi tratta di Amore un ulteriore topos epitalamico -, il pastore non lo fa per celebrarne la bellezza, come si converrebbe durante un rito nuziale, ma per porne in risalto la crudeltà, definendolo saevus Amor, spietato amore. C’è, dunque, ben poco da festeggiare. Costruito come anti-epitalamio, il canto di Damone costituisce un’espressione non di gioia ma di lutto, un triste presagio di morte. Il proposito di suicidio, evocato già nei primi versi45 viene espressamente ribadito dal capraio al termine del suo canto:

Cancelli, F. 1992, Marco Tullio Cicerone, La Retorica a Gaio Erennio, Milano. Coleman, R. 1977, Vergil, Eclogues, Cambridge. Della Casa, A. 1982, Publio Ovidio Nasone, Amores, Heroides, Medicamina faciei, Ars amatoria, Remedia amoris (Opere), I, Torino. Fellin, A. 1997, Tito Lucrezio Caro, La Natura, Torino. Ghedini, F. - Salvo, G. 2017, “Parlare con il corpo: gesti scritti e gesti rappresentati”, in M. Corbier - G. Sauron (eds.),  Langages et communication: écrits, images, sons, Paris, 123–137. Howard, A. A. 1983, “The Αὐλός or Tibia”, in HarvStClPhil, 4, 1–60.

“praeceps aërii specula de montis in undas deferar; extremum hoc munus morientis habeto”46.

Kenney, E. J. 1983. “Vergil and the Elegiac Sensibility”, in IllinClSt, 8.1, 44–59.

Alla luce di quanto evidenziato finora, la menzione della tibia nel refrain del canto di Damone - unica occorrenza del termine nelle Bucoliche, come già sottolineato - non sembra esser casuale.

Marzi, G. 1988 in Enciclopedia Virgiliana, IV (PE-S), s.v. “Strumenti musicali”, Roma, 1039–1042. McKinnon, J. W. - Anderson R. 2001 in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, 25, s.v. “Tibia”, Londra, 461–462.

Lo strumento a fiato, che tanta importanza aveva a Roma nelle cerimonie nuziali e nei riti funebri, è qui impiegato da Virgilio proprio per enfatizzare, con una pennellata di realismo che irrompe nell’idillio bucolico, il binomio amore-morte. L’Arcade del carmen di Damone, nel cantare le ‘nuove’ nozze di Nisa e la propria ora fatale, si fa anche tibicen, suonatore di tibia. L’allitterazione della “m” che domina il refrain (“incipe maenalios, mecum, mea tibia versus”) sembra evocare nella parola scritta il suono nasale che è proprio di tale strumento. Il paesaggio sonoro del locus bucolico incontra così quello del verso. Considerata, in conclusione, l’ipotesi che le Bucoliche fossero recitate a teatro già all’epoca di Virgilio47, sarebbe interessante provare a ricostruire in che forma e con quali modalità esecutive la tibia di Damone prendesse vita durante la performance, come quindi il paesaggio sonoro

McKinnon, J. W. 2001 in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, 24, s.v. “Syrinx”, London, 867. Sachs, C. 1980, Storia degli strumenti musicali, (Edizione italiana a cura di P. Isotta e M. Papini; traduzione di M. Papini) Milano. Sachs, C. 1992, La musica nel mondo antico. Oriente e Occidente, (Traduzione di A. Mondolfi) Milano. Schafer, R. M. 1977, The Tuning of the World, New York. Schafer, R. M. 1985, Il paesaggio sonoro, (Traduzione di N. Ala) Milano. Scivoletto, N. 2000, Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi (Opere), III, Torino. Serpa, F. 1987 in Enciclopedia Virgiliana, s.v. “Paesaggio”, III (IO-PA), Roma, 921–926.

42 Così commenta Cucchiarelli in Cucchiarelli - Traina 2007, 407 e 415– 416, note 17–61. 43 È una ripresa puntuale di Theocr., Id., 2, 25–27. Cucchiarelli - Traina 2007, 423–424, note 37–38. 44 Verg., Ecl., 8, 37–41: “Dentro le nostre siepi, ancor piccola, con la tua mamma (io vi guidavo) ti vidi cogliere roride mele: allora già mi correva il dodicesimo anno, e già potevo da terra toccare i fragili rami. Ti vidi, e fui perso, e fui preda di folle passione”. 45 Verg., Ecl., 8, 20: “extrema moriens tamen adloquor hora” (in punto di morte rivolgo le estreme parole). 46 Verg., Ecl., 8, 59–60: “Mi getterò giù dalla vetta di un aereo monte nei flutti: sia questo il mio ultimo dono per te, la mia morte”. 47 L’ipotesi è sostenuta e riccamente argomentata in Kohn 2000.

Smith, Peter L. 1970, “Vergil’s Avena and the Pipes of Pastoral Poetry”, in TransActAmPhilAss, 101, 497–510. Stok, F. 1999, Publio Ovidio Nasone, Fasti e Frammenti (Opere), IV, Torino. Cucchiarelli, A. - Traina, A. 2007, Virgilio. Le Bucoliche, Roma. Winsor Leach, E. 1974, Vergil’s Eclogues. Landscapes of Experience, London. 288

38 Lingua Latina, suoni e silenzio nella relegatio di Ovidio. Rosa Mauro Università degli Studi della Basilicata This paper analyses the sounds in Ovid’s relegatio poems from a linguistic and stylistic point of view. Both Tristia and Epistulae ex Ponto primarily focus on visual perception: although lexical elements referring to the sounds of the place occur in lower numbers, they deserve attention too. The description of the exile’s soundscape begins with the marine storm occurred during the journey from Rome to Tomis. Then, I will investigate the real sounds of Scythia, by focusing on the contrast between its soundscape and Rome during the spring season. The (at least initial) incommunicability between Ovid and the indigenous peoples is another absolutely important sound element. The absence of a linguistic exchange is comparable to Tomis’ soundscape in winter, mostly characterized by silence or strident noises. Finally, an interesting suggestion could be provided by birds’ silence in Tomis or by their hoarse singing: this sonic behaviour could be interpreted as the equivalent of Ovid’s weak poetry. Questo contributo si occupa dell’analisi dei suoni nelle elegie ovidiane della relegatio da un punto di vista linguistico e stilistico. Tristia ed Epistulae ex Ponto forniscono una descrizione principalmente ‘visiva’ del paesaggio di Tomi, sottolineata da note coloristiche e dall’insistenza sull’uso di verbi come videre, aspicere. Sebbene gli elementi lessicali che rimandano alle ‘sonorità’ del luogo ricorrano in numero inferiore, essi tuttavia meritano un attento esame, secondo una prospettiva forse inedita. Il paesaggio sonoro delle elegie dal Ponto si apre con la rappresentazione della tempesta marina scoppiata durante il viaggio da Roma a Tomi. L’indagine si sposterà poi ai veri e propri suoni della Scizia, che si oppongono a quelli di Roma durante la stagione primaverile. Anche l’incomunicabilità (almeno iniziale) del poeta con le popolazioni autoctone è un altro elemento sonoro di assoluto rilievo. L’assenza di uno scambio linguistico è assimilabile alla resa sonora dell’inverno tomitano, caratterizzato dal silenzio o da rumori striduli. Infine, un’interessante suggestione potrebbe derivarci dal particolare degli uccelli di Tomi muti o che cantano emettendo versi rauchi: questo comportamento sonoro andrebbe forse interpretato come il corrispettivo del poetare fiacco di Ovidio. Keywords: Ovid; soundscape; Tristia; Epistulae ex Ponto; Tomis 1. I suoni della tempesta

Sul finire dell’ottobre dell’8 d.C. un decreto improvviso emanato dall’imperatore Augusto relegava Ovidio a Tomi (l’attuale Costanza), località sul Mar Nero posta in prossimità delle foci del Danubio (Fig. 38.1). Le raccolte di elegie in forma epistolare del periodo della relegatio, Tristia ed Epistulae ex Ponto, si concentrano principalmente sull’elemento visivo, fornendo del luogo una descrizione pittoresca, spesso impreziosita di note coloristiche. La massiccia presenza di verbi come video e adspicio1, utili per sottolineare il carattere di esperienza diretta, autoptica e reale del poeta, dal forte valore patetico, di primo acchito sembrano escludere una considerazione altrettanto attenta del paesaggio sonoro: l’analisi linguistica di alcuni versi ci dimostrerà che non è esattamente così.

I primi suoni identificabili concernono la descrizione del mare in tempesta, motivo ripreso più volte nei Tristia2, in particolare nelle elegie 2, 4 e 11 del I libro. In Trist., I, 2, 25 (“inter utrumque fremunt inmani murmure venti”) si fa riferimento allo spaventoso fragore dei venti che spirano fra il mare agitato e il cielo minaccioso. Murmur indica qui un rumore piuttosto intenso che, in unione con l’aggettivo inmanis, viene ulteriormente amplificato, fino alla resa sonora esplicita mediante la ripetizione dei fonemi /u/ e /r/ del verso3. Il termine murmur riappare in Trist., I, 11 (“quod facerem versus inter fera murmura ponti”, v. 7), con lo stesso significato di ‘fragore, rumore sordo’, ma cambia il referente, che è il mare, e l’aggettivo a cui si Chiaro è il valore metaforico della tempesta. Al riguardo si vedano almeno Videau-Delibes 1991, 71–90 e soprattutto Cucchiarelli 1997. 3 Osservazioni analoghe, a proposito di Trist., I, 2, 24–25, sono contenute in Luisi 2006, 87. 2

1 Trist., III, 10, 37, 39, 49 e 75. In Pont., I, 8 il poeta riesce a ‘vedere’ con gli occhi della mente perfino Roma.

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Fig. 38.1. Costanza (Romania), Piaţa Ovidiu. La statua di Ovidio (Fotografia dell’autore).

accompagna, ferus, vale a dire ‘violento, selvaggio’, epiteto particolarmente pregnante nella caratterizzazione della terra d’esilio e dei suoi abitanti. La descrizione della tempesta in Trist., I, 2 procede con l’enorme fragore che rimbomba dall’alto della volta celeste; le onde colpiscono le fiancate della nave con la stessa forza d’urto di una balestra che si schianta sulle mura di una cittadina assediata (vv. 46–48): “quantus ab aetherio personat axe fragor!/ nec levius tabulae laterum feriuntur ab undis,/ quam grave balistae moenia pulsat onus”. La sensazione

uditiva veicolata da fragor, insieme al paragone dei due versi successivi, attiva fin d’ora il fitto reticolo di rinvii intertestuali che interessa la tempesta di Ovidio e quella di Ceice, narrata nell’XI libro delle Metamorfosi. Al v. 485 il fragore del mare copre le voci dei naviganti, impedendogli la comunicazione; ai vv. 507–509 (“saepe dat ingentem fluctu latus icta fragorem/ nec levius pulsata sonat, quam ferreus olim/ cum laceras aries ballistave concutit arces”, torna il raffronto tra le armi d’assedio che cozzano e i flutti (per inciso, si noti la vicinanza dei verbi pulsata e sonat, 290

Lingua Latina, suoni e silenzio nella relegatio di Ovidio frigore concretas ungula pulsat equi; perque novos pontes subter labentibus undis ducunt Sarmatici barbara plaustra boves”.

l’uno - potremmo dire - conseguenza sonora dell’altro), con fragor riferito stavolta non a un indistinto boato del cielo ma al suono prodotto dalle onde che sferzano la nave. Anche lo stridore delle sartie di Trist., I, 4, 9 (“pinea texta sonant, pulsi stridore rudentes”)4 ha un preciso parallelo in Met., XI, 495 quippe sonant clamore viri, stridore rudentes, come Trist., I, 11, 19 (“nunc quoque contenti stridunt Aquilone rudentes”) riecheggia Met., XI, 474 (“portibus exierant, et moverat aura rudentes”), con la sostituzione, all’interno dell’emistichio, dell’esatta denominazione del vento, l’Aquilone, al più generico aura. Per riprodurre il colpo rumoroso prodotto dalle onde che si infrangono sul fianco della nave, è adoperato il verbo increpo (Trist., I, 4, 24: “increpuit quantis viribus unda latus”) che all’interno del corpus ovidiano si trova più spesso associato con la lira (per esempio, in Fast., VI, 812: “adnuit Alcides increpuitque lyram”) e viene reso nell’accezione di ‘risuonare’. Il mare in burrasca del viaggio verso Tomi, con i suoni che evoca, è certamente anche allusivo dei modelli topici omerico e virgiliano5; in misura maggiore è chiaro che Ovidio sta qui operando una retractatio, con la ripresa compendiata del motivo della tempesta su cui aveva già scritto nel suo poema epico-mitologico. Il Sulmonese ripropone lo stesso repertorio lessicale e simbolico di suoni, poche le varianti, dimostrando di avere della tempesta una percezione molto precisa, squisitamente letteraria, sia a livello visivo che a livello sonoro.

I suoni descritti e percepiti sono quelli degli zoccoli dei cavalli che calcano in corsa la lastra del fiume gelato; suono evocato ma non esplicitamente rappresentato in forma scritta - almeno in questa elegia7 - è il rumore dei plaustra trainati dai buoi sarmatici lungo il Danubioponte; suono appena percepibile e appena accennato è quello prodotto dalle acque che scorrono sotto la distesa di ghiaccio. Anche in questo passo affiora una presenza virgiliana (del resto è conclamato che Ovidio abbia tratto ispirazione da Virgilio per la rappresentazione della Scizia, la cui barbarie e rigidità climatica costituiscono tuttavia topos letterario fin da Erodoto8): rispetto alla descrizione contenuta in Georg., III, 360–362, quella ovidiana, attraverso l’impiego di un maggior numero di verbi (a fronte del solo sustinet di Virgilio), è capace di ricreare una scena incalzante e dinamica9. Pulsare figurava già tra i suoni della tempesta insieme a verberare, con cui condivide il significato di percuotere: le onde flagellano l’immagine degli déi collocata a poppa della nave in Trist., I, 4, 8. È attestato un usus specifico del verbo con strumenti musicali: segnalo almeno Fast., IV, 213, dove a essere percossi sono i cymbala, una sorta di tamburelli, oggi i moderni piatti metallici del gong, e i tympana, anch’essi appartenenti alla famiglia dei tamburi. L’azione del pulsare, dunque, genera un suono, che è ovviamente determinato dalla natura della superficie soggetta a percussione. Se non stupisce l’effetto acustico di una nave urtata dalle onde, o il suono prodotto da uno strumento musicale, si dovrà invece convenire sull’eccezionalità dell’immagine visiva e sonora di un cavallo che colpisce con i suoi zoccoli il Danubio ghiacciato. Le onde immobilizzate dal gelo non sono smosse neppure dagli ululati di Borea, il temuto vento proveniente dall’estremo settentrione. Con Trist., III, 10, 45 (“et quamvis Boreas iactatis insonet alis”) inauguriamo l’esame della nutrita serie di passi al cui interno la marca della sonorità è espressa mediante l’usus del verbo sono e dei suoi composti. Insono compare già in Met., VI, 695, dove a parlare è lo stesso Borea; ma il vento rimbomba (insonat) sul profondo Egeo anche in Aen., XII, 365–366. Risulta peraltro significativo constatare che insono è adoperato tanto per Borea, il vento che spira, quanto per strumenti che necessitano di un’emissione di fiato, più o meno potente, per produrre un suono, più o meno acuto, come la tuba e il calamus10. Un suono particolare, che potremmo supporre molto simile a un tintinnio, è invece quello che Ovidio descrive in Trist., III, 10, 21 (“saepe sonant moti glacie pendente capilli”) alle lunghe chiome dei Geti sono appesi ghiaccioli che risuonano a ogni loro movimento.

2. I suoni del Ponto Eusino Introduciamo, a questo punto, il vero e proprio paesaggio del Ponto Eusino, la barbara tellus che Augusto aveva scelto per la relegatio del poeta, determinata da un carmen (i tres libelli dell’Ars amatoria) e da un taciuto error. Il rigore del clima invernale e il timore della guerra sono la principale fonte di sofferenza per Ovidio: in Trist., III, 4b, 1–2 (“proxima sideribus tellus Erymanthidos Ursae/ me tenet, adstricto terra perusta gelu”), avverte il lettore di trovarsi in un luogo caratterizzato dal freddo estremo, un gelo talmente intenso da risultare ‘bruciante’, come evidenzia il nesso ossimorico. L’allitterazione del fonema /t/ al v. 2 credo riesca a riprodurre bene, anche sul piano uditivo, la condizione del poeta stretto in mezzo ai ghiacci, ghiacci che, come considereremo a breve, costituiscono una delle principali ‘impronte sonore’6 del paesaggio tomitano. Un’immagine suggestiva quanto incredibile che ci proviene dalle opere ovidiane dell’esilio si riferisce proprio al passaggio sull’Istro ghiacciato di intere armate a cavallo, mandrie di bestiame e carri pesanti (Trist., III, 10, 29–34): “… Hister congelat et tectis in mare serpit aquis; quaque rates ierant, pedibus nunc itur, et undas

Ma Trist., III, 10, 59: “stridentia plaustra”. Herod., IV, 28, 1; 31, 1. Spostandoci sul fronte latino, oltre a Georg., III, 349–383, anche Prop., III, 16, 13 e IV, 3, 47–48; Hor., Carm., III, 24, 9–10. L’inverno scitico descritto in Trist., III, 10 è stato oggetto di interessanti contributi, fra i quali: Besslich 1972; Evans 1975; Gahan 1978. 9 Besslich 1972. 10 Met., XI, 161–163. 7 8

La clausola sembra essere variazione del virgiliano stridorque rudentum in Aen., I, 87. 5 Mi riferisco, in particolare, alle rappresentazioni di tempeste dei libri III dell’Odissea e I, III e V dell’Eneide. 6 Per il concetto di ‘soundmark’, Schafer 1993. 4

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Rosa Mauro Roma in primavera è un autentico tripudio di suoni: cessate le chiassose battaglie del foro eloquente, si avvicendano i ludi (corse di cavalli, gare di scherma, giochi con la palla o con il cerchio), le rappresentazioni teatrali scatenano il tifo delle opposte fazioni12. La resa sonora di questi versi è favorita anzitutto dall’allusione ai fragorosi dibattiti dei fori (quello Romano, quello di Cesare e quello di Augusto) che tacevano durante la primavera; poi anche dal riferimento al gioco del trochus, dal termine greco τρόχος, una sorta di cerchio o ruota di ferro, ornata di piccoli anelli, che, spinta avanti con un bastoncino, produceva un forte rumore metallico; infine dall’espressione resonant terna theatra, inserita all’interno di un verso che si segnala per l’iterazione del fonema /t/ con effetto di amplificatio (si noti l’impiego dell’ennesimo composto di sono, attestato fin da Ennio e più comune di circumsono). Altrove Ovidio prova a ricostruire con l’immaginazione scene e suoni dei trionfi militari, a cui non può più assistere. In Trist., IV, 2, 47–54 il poeta descrive la cerimonia rituale per il trionfo di Tiberio sulla Germania del 17 d.C., precorrendo l’evento: riesce a percepire i suoni del corteo, l’applauso dei soldati e della folla, i canti a gran voce, il frastuono.

Pertinente è, ancora una volta, il raffronto con un passo virgiliano delle Georgiche, più nello specifico con il v. 366 del III libro (“stiriaque impexis induruit horrida barbis”), di cui il Sulmonese fornisce una rivisitazione in chiave peggiorativa, attraverso l’aggiunta di un effetto sonoro inedito e inusuale: il ghiacciolo descritto da Virgilio, infatti, semplicemente ‘s’induriva’ sulle barbe trasandate degli Sciti, è colto nella sua fissità, dunque non produce suono. Nel 9 d.C., quando Ovidio giunge a Tomi, l’autorità delle forze romane in buona parte della Scizia, regione minacciata da numerose incursioni di pericolose tribù, non è effettiva. Lo stato di guerra perenne in cui è costretto, suo malgrado, a vivere accresce nel poeta la percezione di trovarsi accerchiato da suoni ostili: la sensazione che prova è di essere circondato dal rumore delle armi degli invasori barbari. Tre passi, tutti presenti nei Tristia, insistono sullo stesso motivo: “arcus et arma sonant” (III, 14, 38); “hic ego, finitimis quamvis circumsoner armis” (IV, 10, 111); “nunc procul a patria Geticis circumsonor armis” (V, 3, 11). Nel primo caso è impiegato il semplice sono, mentre i libri IV e V propongono il passivo del composto circumsono. Verbo piuttosto raro nella lingua letteraria, assume spesso il significato di ‘circondare con suoni’, ‘riecheggiare’: come molti composti di sono può veicolare un’idea di inganno, di ostilità. Ovidio lo mutua dalla clausola virgiliana di Aen. VIII, 474 (“hinc Rutulus premit et murum circumsonat armis”), accentuando, attraverso la diatesi passiva, l’impressione di ‘suono subìto’; è riutilizzato per descrivere l’accerchiamento ‘linguistico’, di idiomi differenti dal greco e dal latino, in Trist., III, 14, 47 (“Threicio Scythicoque fere circumsonor ore”), verso che funge a sua volta da modello per Seneca, che in un passaggio della Consolatio ad Polybium denuncia di ritrovarsi circondato dal vocio inarticolato dei Corsi11.

“hos super in curru, Caesar, victore veheris purpureus populi rite per ora tui, quaque ibis, manibus circumplaudere tuorum, undique iactato flore tegente vias. tempora Phoebea lauro cingetur «Io» que miles «Io» magna voce «triumphe» canet. ipse sono plausuque simul fremituque calentes quadriiugos cernes saepe resistere equos”. Circumplaudere è neoformazione ovidiana, probabilmente forgiata sull’affine circumsono, e ha un’altra sola attestazione più tarda in Stat., Theb., X, 201. La iunctura manibus circumplaudere amplifica l’applauso tributato al trionfatore, ulteriormente accresciuto dalla ripresa del nesso sono plausuque e dall’aggiunta di fremitus al v. 53. Tornando al parallelo di Trist., III, 12 fra Roma e il territorio di Tomi durante la stagione primaverile, Ovidio non può fare altro che constatare - unica nota positiva - lo sciogliersi della neve, gli stagni, il mare e l’Istro finalmente liberi dal ghiaccio (vv. 27–30): “at mihi sentitur nix verno sole soluta,/ quaeque lacu durae non fodiantur aquae / nec mare concrescit glacie nec, ut ante, per Histrum/ stridula Sauromates plaustra bubulcus agit”13. Se in Trist., III, 10 la qualità del suono dei plaustra non era stato espresso ma semplicemente evocato, al v. 30 di questa elegia è presente un aggettivo che rende bene la sensazione uditiva prodotta dallo sfregamento delle ruote dei carri sulla superficie ghiacciata: stridulus. Derivato del verbo strido, che abbiamo incontrato riferito alle funi della nave sballottata dal mare in tempesta, nella sua forma grafica è già imitazione del suono che genera, alla maniera del

3. Roma vs. Tomi Ma quali erano i suoni che Ovidio aveva lasciato a Roma e a cui spesso ritorna con profonda nostalgia? Il contrasto di sonorità, la differenza di immagini tra la dolce e gioiosa primavera italica e il disadorno paesaggio del Ponto durante il disgelo, sono ricavabili dall’elegia 12 del III libro dei Tristia. Di particolare interesse risultano i vv. 17–24: “otia nunc istic, iunctisque ex ordine ludis cedunt verbosi garrula bella fori. usus equi nunc est, levibus nunc luditur armis, nunc pila, nunc celeri vertitur orbe trochus; nunc ubi perfusa est oleo labente iuventus, defessos artus Virgine tinguit aqua. scaena viget studiisque favor distantibus ardet, proque tribus resonant terna theatra foris”.

Sulla rappresentazione di Roma nelle opere esiliche, Walde 2005. Giordano - Mazzanti - Bonvicini 2005, 348. Gli autori evidenziano, ai versi 28–29, ‘la prevalenza di suoni duri e lo scontro di consonanti quasi a suggerire lo scricchiolio dei ghiacci che cedono’. In generale, l’edizione Garzanti si segnala per la particolare cura nell’analisi del fonosimbolismo delle elegie ovidiane. 12 13

Sen., ad Pol., 18, 9: “… et quam non facile Latina ei homini verba succurrant quem barbarorum inconditus et barbaris quoque humanioribus gravis fremitus circumsonat”. Degl’Innocenti Pierini 1980.

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Lingua Latina, suoni e silenzio nella relegatio di Ovidio humus”, scrive in Pont., III, 5, 56). Io credo che il raucus guttur17 degli uccelli di Tomi possa fornire almeno altre due letture metaforiche. In primis, si inserirebbe nella scia della tradizione letteraria, da Erodoto a Eschilo a Sofocle fino a Giuliano l’Apostata18, che fa corrispondere il gracchiare o i gridi di certi uccelli all’eloquio disarticolato e minaccioso dei barbari. D’altronde, la voce degli autoctoni è selvaggia, animalesca (Trist., V, 7, 17: “vox fera”; 12, 55: “omnia barbariae loca sunt vocisque ferinae”); barbaria e barbarus sono spesso riferiti dal poeta alla lingua degli Sciti e dei Geti e all’imbarbarimento del greco a contatto con queste sonorità (Trist., V, 2, 67–68: “nesciaque est vocis quod barbara lingua Latinae,/ Graecaque quod Getico victa loquela sono est”; 7, 51–52: “in paucis extant Graecae vestigia linguae, / haec quoque iam Getico barbara facta sono”). Non c’è nessuno a Tomi che sappia pronunciare una parola qualsiasi in latino; il timore del poeta è di mescolare Pontica verba a termini del suo idioma19. Confessa con vergogna che iniziano a mancargli le parole in Trist., III, 14, 45–46: “dicere saepe aliquid conanti - turpe fateri! - / verba mihi desunt dedidicique loqui”; la ripetizione della dentale nel secondo emistichio del v. 46 sembra quasi riprodurre un balbettio. Per tener vivo il ricordo della lingua ausonia e per far sì che la sua vox non diventi muta nei suoni della patria, come leggiamo al v. 62 di Trist., V, 7, Ovidio dialoga con se stesso, richiamando i termini ormai in disuso. In Trist., V, 12, 57–58 (“ipse mihi videor iam dedidicisse Latine:/ nam didici Getice Sarmaticeque loqui”) dichiara addirittura di aver disimparato il latino, a favore del getico e del sarmatico, e la stessa affermazione compare in Pont., III, 2, 40 (“nam didici Getice Sarmaticeque loqui”). Dichiarazioni estreme, certo, ma che nascondono in primo luogo l’aspirazione frustrata al rispetto della latinitas, a preservare cioè un linguaggio puro, non intaccato da solecismi e barbarismi, e poi forse anche l’insoddisfazione per l’esiguità della sua vena poetica, che lo induce spesso a giustificare i difetti delle opere esiliche con gli interlocutori. Collegato a questo discorso ci sarebbe l’altra possibile lettura metaforica del canto sgraziato degli uccelli di Tomi. Se noi moderni siamo portati ad assegnare i versi animali a una sfera sonora non linguistica e non evocativa, non così valeva per gli antichi, che ritenevano i loro suoni particolarmente carichi di significato. Gli uccelli erano considerati veri e propri maestri di canto per i poeti che, come scriveva Plutarco, traevano ispirazione da cigni e usignoli per comporre le loro migliori poesie e melodie20. Il comportamento sonoro dell’uccello del Ponto Eusino potrebbe forse essere assimilato al poetare di Ovidio relegato, un poetare querulo, fiacco, a tratti monotono per l’eccesso di servilismo, certamente non paragonabile alla produzione precedente (flebilis è il carme dell’esilio in Trist., V, 1, 5–621). Ovidio è muto quasi quanto gli uccelli del litorale getico, è l’esule-morto-silente che appartiene allo Stige-Istro, che, pur maledicendo la Musa, non

corrispondente greco τρίζω: un suono acuto, penetrante, sgradevole, come quello causato da un forte vento, da una freccia scagliata o dalla ruota di un carro, per l’appunto. Va detto inoltre che stridere può anche rimandare a emissioni vocali lugubri e sinistre: designa le voci delle ombre dei morti, delle strigae e delle striges14. 4. Il canto degli uccelli All’atmosfera festosa dell’Urbe animata dai ludi si unisce l’esuberanza della natura, con il canto melodioso degli uccelli che aggiunge un altro tassello importante all’esame della polarità dei due quadri paesaggistici e dei rispettivi suoni. L’uccello che a Roma annuncia il ritorno della primavera è loquax, sebbene inadatto a cantare (Trist., III, 12, 8 indocilique loquax gutture vernat avis), invece sul litorale getico i volatili non cinguettano, fatta eccezione che per alcuni, in boschi lontani, il cui suono è oltretutto reso rauco dalla salinità dell’acqua marina: (Pont., III, 1, 21–22) “non avis obloquitur, nisi silvis siqua remotis / aequoreas rauco gutture potat aquas”. Obloquor non presenta altre occorrenze nel corpus ovidiano, un dettaglio questo che, a mio avviso, aiuta a chiarire la valenza sonora che Ovidio attribuisce al verbo. I suoni della natura, come il canto degli uccelli, rientrerebbero nella categoria dei keynote sounds, suoni in secondo piano che non sempre sono percepiti consapevolmente dall’uomo15. Il valore di ‘suono posto in secondo piano’ viene espresso in maniera molto precisa proprio grazie all’impiego di obloquor, il cui primo significato è ‘parlare sopra qualcuno’, ‘interrompere’: a farla breve, il canto degli uccelli, ‘sfondo acustico’, non interrompe, non si interpone fra i ‘suoni in primo piano’, il vociare della gente, i signa tumultus (Trist., IV, 1, 75), ovvero tutti quei suoni uditi coscientemente. Potremmo arguire che, attraverso la scelta di obloquor, Ovidio dimostri già, di certo in modo inconsapevole, una concezione di questo elemento del paesaggio sonoro abbastanza in linea con gli studi moderni. Gli antichi ritenevano, inoltre, che le voci degli animali riproducessero sonorità ominose, di buono o di cattivo auspicio, che manifestavano i disegni della divinità16. Gli uccelli del Ponto, con il loro verso non dissimile dal gracchiare angoscioso e sgradevole di corvi o cornacchie, potrebbero essere considerati mal auguranti per il poeta, quasi l’infausto presagio della volontà, da parte del deus Augusto, di non alleggerire la pena della sua relegatio. Il suono stridulo dei carri nemici, la neve perenne, il canto soffocato di pochi uccelli, e ancora l’assenza di alberi e ombra che fanno da scenario al ludere dei pastori virgiliani (Trist., III, 10, 75), la mancanza della vite e dell’uva (Pont., I, 3, 51–52), e quindi degli iubila dei vendemmiatori (è possibile riprodurre il paesaggio sonoro tomitano anche in absentia di elementi sonori espliciti), forniscono una rappresentazione della Scizia decisamente antitetica alla raffigurazione classica del locus amoenus, avvicinandola al regno dei morti, simboleggiato dal fiume Stige, più volte menzionato da Ovidio (“a Styge nec longe Pontica distat

La iunctura ricorre, forse significativamente, in Met., II, 484. Per approfondimenti rimando a Bettini 2008. 19 Trist., III, 14, 49–50; V, 7, 53–54. Fra gli altri, sull’esperienza del bilinguismo di Ovidio a Tomi si sofferma Lozovan 1958. 20 Plut., soll. an., 973a. Ancora Bettini 2008, 56. 21 Affine il canto lacrimoso di Saffo in Heroid., 15, 7. 17 18

14 Fast., VI, 139–140: “est illis strigibus nomen; sed nominis huius / causa, quod horrendum stridere nocte solent”. 15 Così in Schafer 1993, 9–10. 16 Plin., Nat. Hist., 10, 33.

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Rosa Mauro Luisi, A. 2006, “Insidie e imprevisti di un viaggio imposto”, in G. Papponetti (ed.), Atti del Convegno Internazionale di Studi, Sulmona 13–15 giugno 2003, Sulmona, 77–113.

può tuttavia fare a meno di scrivere versi, i sostituti della sua voce: “exulis haec vox est; praebet mihi littera linguam, / et, si non liceat scribere, mutus ero” (Pont., II, 6, 3–4). Conclusioni

Roussel, D. 2017, “Ovide, le poète-oiseau”, in Paideia, 72, 313–329.

Questa indagine ci consegna almeno tre conclusioni: per prima cosa, diversamente da ciò che ci si poteva aspettare date le premesse, il paesaggio sonoro dell’esilio non è del tutto taciuto, anche se è evidente l’uso reiterato e un po’ generico di certi vocaboli (si pensi a sono o a pulso), come pure la rappresentazione stereotipata, topica, di taluni elementi della sonorità, specialmente quelli relativi alla tempesta marina; in secundis, sembra chiaro il carattere sonoro intrinseco di molti versi, proiezione del paesaggio udito, attraverso l’impiego consistente di figure di suono22; per ultimo, credo che di alcuni suoni del Ponto, come il canto degli uccelli, si possa dare una lettura simbolica e metapoetica23.

Schafer, R. M. 1993, The soundscape: our sonic environment and the tuning of the world, Rochester, Vt. Videau-Delibes, A. 1991, Les Tristes d’Ovide et l’élégie romaine. Une poetique de la rupture, Paris. Walde, Ch. 2005, “Die Stadt Rom in den Exilgedichten Ovids”, in Grazer Beiträge, 24, 155–174.

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‘These proceedings present a timely snapshot of the rich range of research that is being done on “classical” landscapes and demonstrate the possibilities for cross-disciplinary considerations of the theme.’ Dr Jane Rempel, University of Sheffield

This book represents research presented at the 1st International Conference on Classical Antiquities, held in Rome from 15th to 17th May, 2019 at the ‘Tor Vergata’ University. The conference focused on the ancient Mediterranean between the 6th century BC and the 7th century AD, stimulating dialogue across different disciplines - from ancient history to medieval literature and archaeology - producing innovative research, original methodologies, and comparative studies. Questo libro contiene i risultati del I Convegno Internazionale di Antichità Classiche, svoltosi a Roma il 15/17 maggio 2019 presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. L’obiettivo della conferenza è stato quello di stimolare un dialogo internazionale e interdisciplinare fra i vari settori dell’antichistica, al fine di confrontare fra loro dati e metodologie afferenti a discipline diverse. L’attenzione degli studiosi si è concentrata nel bacino del Mediterraneo Antico, in un arco cronologico compreso fra il VI sec. a.C. e il VII sec. d.C. 

Alessia Gonfloni holds a PhD in Greek Epigraphy from the ‘Tor Vergata’ University of Rome. She is currently working on the online project ‘Carmina Epigraphica Graeca – Supplementa’. Fabio Stok teaches Latin literature and classical culture and tradition at the ‘Tor Vergata’ University of Rome. His major field of research is classical antiquity, republican and imperial writers and the transmission of Latin classics. Contributors: Greta Balzanelli, Francesca Basso, Francesca Boldrer, Lorenzo Bonazzi, Francesco Carriere, Gabriele Castiglia, Stefano Ceccarelli, Maria Grazia Cinti, Mariella Cipriani, Andrea Corbascio, Armando Cristilli, Benedetta D’Anghera, Maria del Carmen Moreno Escobar, Gioconda Di Luca, Dario Di Michele, Sergio EspañaChamorro, Davide Falco, Chiara Blasetti Fantauzzi, Arianna Gaspari, Alessia Grandi, Tibor Grüll, Paola Guacci, Constantin Kappe, Florence Kesseler, Alessandro Labriola, Melania Marano, Michele Matteazzi, Rosa Mauro, José David Mendoza Álvarez, Giulia Moretti Cursi, Riccardo Olivito, András Patay-Horváth, Matteo Pucci, Priscilla Ralli, Smeralda Riggio, Diego Romero Vera, Eleonora Rossetti, José Manuel Serrano Álvarez, David Serrano Ordozgoiti, Camilla Simonini, Anna Smeragliuolo Perrotta, Manolis Spanakis, Viviana Spinella, Ilaria Starnino, Miriam Amparo Valdés Guía, Barbara Valdinoci

Experiencing the Landscape in Antiquity I Convegno Internazionale di Antichità – Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ Edited by

Armando Cristilli, Alessia Gonfloni, and Fabio Stok B A R I N T E R NAT I O NA L S E R I E S 3 0 1 5

2020 297mm HIGH

Armando Cristilli holds PhDs in Archaeology and Classical Antiquities from Rome and Naples and teaches as adjunct at the ‘Tor Vergata’ University of Rome. His research interests include Roman sculpture and architecture.

BAR  S3015  2020   CRISTILLI, GONFLONI & STOK (Eds)   Experiencing the Landscape in Antiquity

BAR INTERNATIONA L SE RIE S 3015

Printed in England

210 x 297mm_BAR Cristilli CPI 18mm ARTWORK.indd 2-3

2/12/20 4:16 PM