Cultura e lingue classiche. Convegno di aggiornamento e di didattica. Roma, 1-2 novembre 1985 8821301346

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Cultura e lingue classiche. Convegno di aggiornamento e di didattica. Roma, 1-2 novembre 1985
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STUDI - TESTI - COMMENTI PATRISTICI

a cura della Facoltà di Lettere cristiane e classiche (Pontificium Institutum Altioris Latinitatis) della Pontificia Università Salesiana

CULTURA E LINGUE CLASSICHE Convegno di aggiornamento e di didattica Roma, 1-2 novembre 1985

a cura di

BIAGIO AMATA

LAS - ROM A

PRESENTAZIONE

Exploratum est prudenti cuique, nihil magis valere ad imbuendos iuvenes antiquitatis linguis quam praestantissimos praeceptores; qui scilicet et doctrinae possessione, et linguae, quam tradere debeant, scientia, et docendi arte scholis ita praesint, ut non solum frugiferas, verum edam eas discipulis delectabiles faciant, a quibus materies eadem sit olim in alios vulganda discipulos. Cum vera namque, tum honesta, et digna sapiente haec habenda est S. Ambrosii sententia: «Primus discendi ardor nobilitas est magistri» (De Virg. 2,2,7). PAULUS PP. VI

Sono raccolte in questi A tti del Convegno ‘‘Cultura e Lingue Classiche” quasi tutte le relazioni. Si è voluto mantenere, nella revisione per la pubblica­ zione, il tono discorsivo e direi familiare col quale sono state dette. Si è pure volutamente affrettata la pubblicazione per mantenere vivo l’entusiasmo e il clima di ricerca che ha caratterizzato le due giornate. Ringrazio il prof. J. Van Sickle, dell’Università di New York, per avere accettato di tenere, nonostante i tempi ristretti, la sua relazione sulla Didattica del Latino, corredandola con strumenti visivi di grande impegno e prestigio culturale, tecnico e professionale. Da queste pagine vada anche un commosso ricordo al prof. Vincenzo Tandoi, deceduto il 30.XII.1985, la cui esemplare ‘lezione’ è ancor viva nella memoria di tutti, e al prof. Domenico Devoto, dell’Università di Cagliari, tra­ gicamente caduto vittima di un incidente stradale mentre si apprestava a rag­ giungere la sede del Convegno. Roma, 31 gennaio 1986 Biagio AMATA

© Maggio 1986 by LAS - Libreria Ateneo Salesiano Piazza dell’Ateneo Salesiano, 1 - 00139 ROMA ISBN 88-213-0134-6

Tipolitografia “ Abilgraf"

Via Pietro Ottoboni 11 - 00159 Roma

SALUTO Roberto GIANNATELL1 Rettore dell’Università Pontificia Salesiana

Ho l’onore di rivolgere un saluto di benvenuto ai tanti amici qui convenu­ ti e dichiarare aperto il convegno “ Cultura e Lingue Classiche” promosso dal­ la Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche dell’Università Pontificia Salesiana, la quale, com’è noto, orienta la sua ricerca principalmente alla gioventù, fino a potersi definire “ Università per i giovani del nostro tempo” . Lo stesso Santo Padre Giovanni Paolo II, nella memorabile visita com­ piuta all’Università il 31 gennaio 1981, sottolineava il ruolo specifico che essa svolge nel concerto delle altre Università Pontificie romane: “ La caratteristica propria, affermava, è quella che fluisce dal carisma di San Giovanni Bosco, e cioè la promozione dell’uomo integrale, vale a dire la formazione intellettuale, morale e sociale della gioventù, operata alla luce del Vangelo” . Università rivolta ai giovani è dunque la Nostra, ma non senza lo spesso­ re dell’impegno culturale, non senza l’ancoraggio alle radici culturali della grande tradizione di umanità e di cristianesimo in cui siamo vitalmente inseriti. Il Convegno si pone appunto nel solco della mediazione culturale tra nuo­ va generazione e valori della classicità, e vuole essere un implicito riconosci­ mento allo studio paziente e metodico, che ricostruisce e interpreta le perenni testimonianze dello spirito, non per fine puramente storico, ma per farne sor­ gente di sicure svolte e acquisizioni di ‘più umanità’. Non si tratta di assecon­ dare nostalgici rimpianti o improbabili ritorni al passato, che più non ci ap­ partiene: le suggestioni anche inconsapevoli esercitate dai modelli classici sul­ l’attività di artisti e pensatori contemporanei, sulle strutture delle nostre forme di vivere e di pensare, sono acquisto perenne, e rivelano le sorgenti delle Civil­ tà del Vecchio Continente, che scopre così la sua matrice comune europea, al di sopra delle barriere e delle cortine. Il Convegno vuole porsi su un piano specificamente tecnico, ma non tec­ nicistico: questo ha distolto gran parte degli Italiani dalla frequentazione della classicità, riducendo il greco e il latino, per usare l’espressione di Dario Del Corno, a “ malintesi incubi scolastici” . Ma ciò non vuol dire assolutamente ri­ nunzia alla serietà scientifica e alla ricerca che invece deve caratterizzare ogni onesto docente. Lo studio della classicità deve avere tutte le caratteristiche di una disciplina esatta e rigorosa, altrimenti non potrebbe proporsi come educa­ tiva. Chiedere ai giovani tempo e fatica, sforzo intellettuale e costanza per ap­ prendere le radici della nostra Civiltà non significa mortificare qualcosa della

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Saluto

loro esistenza e della loro libertà, quanto proiettarli verso un grande futuro, da protagonisti. Rilanciare il valore storico e attuale del latino per l’etnia eu­ ropea (Romània) significa rendere più comprensibili i rapporti tra i popoli di questo continente e perpetuarne il messaggio di autentica pace e fratellanza. Concludendo, desidero rivolgere una parola di congratulazione per gli animatori e organizzatori del Convegno e di auspicio perché esso sia una gran­ de occasione di studio, di approfondimento e di rilancio delle lingue e lettera­ ture classiche nel nostro Paese, per la promozione dell’uomo integrale. Grazie!

PROBLEMI DI GRAMMATICA LATINA (fonetica, accento, pronuncia, aspetto verbale) Antonio TRAGLIA

1. Fonetica Una delle parti più trascurate nell’insegnamento della grammatica latina è la fonetica. E’ impresa difficile per esempio esigere dagli studenti, anche delle Università, una lettura del latino senza errori di accento. Ciò dipende in modo particolare dall’ignoranza della quantità delle sillabe (o meglio delle vocali del­ le sillabe), siano esse radicali o suffissali. Mentre per le vocali suffissali (che per altro non incidono sull’accento di una parola) dovrebbe provvedere la morfologia a far distinguere l’-fs del genitivo dei temi in consonante dall’-fa del dativo-ablativo plurale dei temi in -a e in -o (o anche l’-ά del nominativo singolare dall’-α dell’ablativo), per le sillabe radicali abbiamo più di un mezzo per distinguere la quantità delle vocali. Partendo dal dato a noi noto che gli antichi pronunciavano chiuse le vo­ cali lunghe, mentre pronunciavano aperte quelle brevi, e che in genere il tim­ bro vocalico del latino è passato press’ a poco inalterato nelle lingue romanze, naturalmente con qualche eccezione, non è difficile ricostruire la quantità ori­ ginaria delle vocali radicali latine. Per esempio noi abbiamo in latino due pa­ role apparentemente uguali: sOlum, neutro di sOlus (o anche avverbio) e sólum, ‘il suolo’. Io ho detto apparentemente uguali, perché la prima parola ha la vocale radicale lunga ed era pronunciata solum (con la vocale chiusa) e l’altra aveva la vocale breve ed era pronunciata sglum (con la vocale aperta). In italiano si ha rispettivamente sólo e suòlo (la vocale latina breve, aperta, dà sovente in italiano un dittongo aperto). Così noi continuiamo inconsciamente un fenomeno fonetico latino quan­ do diciamo viene al presente, ma vénne al passato remoto. In latino infatti la -e- di vénio è breve ed era pronunciata aperta, ma al perfetto, per un fatto apofonico, la vocale diviene lunga, vènit, con la -e- chiusa. Cosi ‘vedo’ e ‘vi­ di’ sono rispettivamente da video (con la -i- breve che era pronunciata aperta al punto da confinare col suono di una -e- chiusa: cf l’it. néve, fède, ecc.) e da vidi con una perfetta aderenza dell’italiano al latino. Ora, partendo da questo fatto è possibile in più di un caso stabilire la quantità della sillaba radi­ cale. Per es. lócus dà in italiano luògo, la -o- quindi è breve, e al contrario quella di sòl, it. sóle, sarà lunga. Cosi gli antichi avranno detto Róma, come diciamo noi, e non Róma, come siamo soliti pronunciare questo nome in lati-

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no. Gli è che codesta apertura delle vocali lunghe accentate deriva dalla pro­ nuncia propria del latino medievale. Ciò avviene soprattutto con le parole del linguaggio colto, e tale timbro vocalico è passato anche in italiano come eccezione alla regola generale. Cosi noi diciamo Santa Sède, non Santa Sède (la -e- di sèdes è lunga), austèro, se­ vèro e via di seguito, rimanendo talora il timbro esatto della vocale nella lin­ gua del popolo. Gli abitanti della città di San Severo dicono ancora San Sevè­ ro. Un posto a sé hanno i dittonghi ae ed au, quantitativamente lunghi, ma pronunciati aperti: da caecus è derivato l’it. cièco, da caelum l’it. cièlo, da causa Pit. cosa, come da pausa è derivato pòsa. Al contrario i dittonghi oi e ou erano pronunciati chiusi e così sono passati in italiano: il lat. poena ha dato l’it. péna, come da lux (< loux, gr. Xevxós : il dittongo eu passa in latino assai presto a ou) deriva il nostro luce. C’è poi un altro mezzo per individuare la quantità delle vocali radicali. Un fenomeno singolare del latino è rappresentato dall’alterazione delle vocali brevi in sillaba postonica (sulla causa del fatto diremo in seguito): così ago, ma exfgo; rego, ma corrìgo; iacio, ma conicio, mentre la vocale lunga, nelle stesse condizioni, rimane inalterata. Ora, dall’alterazione o meno, dallo scadi­ mento o meno della vocale interna in composizione, che è poi la vocale radi­ cale, possiamo assai spesso desumere la sua quantità. Un comportamento par­ ticolare presentano i dittonghi ai (ae) ed au (eu, come abbiamo detto, non so­ pravvive in latino, passando subito a ou, e quindi a u, mentre ei passa, dal II sec. a.C., a i come monottongo, senza subire altre modificazioni, e oi passa talora a / — cf gr. oìÒa, lat. vidi — , talaltra a oe o ad u). I dittonghi ai ed au, invece, in sillaba postonica modificano solo la prima vocale, che passa a e; conseguentemente il dittongo ai darà un’/ lunga, il dittongo au per il pas­ saggio di eu ad u, diventerà u. Così caedo, < caido, nel perfetto ha ceceidi, quindi cecidi, mentre occlaudo, passerà, attraverso *occleudo, a occludo. Ancora un terzo mezzo per individuare la quantità delle vocali è la loro trascrizione in greco. Così noi siamo certi che la -/'- di 7Tberius è breve, perché in greco è trascritto Te/3epios (cf lat. Tiberis, it. Tevere).2

2. Accento

La conoscenza della quantità della penultima sillaba di una parola di più di due sillabe è indispensabile in latino per la sua accentazione, essendo questa regolata dalla legge del trisillabismo, che ha il suo punto focale nella quantità della penultima sillaba. Com’è noto, se questa è lunga, l’accento tonico cade su di essa; se è breve, cade sulla terzultima, qualunque sia la quantità di que­ sta sillaba. Così viòla, così pérfidus, ma infldus. Nessuna parola in latino ha l’accento sull’ultima, se non è tronca, o - naturalmente - se non è un monosil-

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labo. E’ un fatto, questo, di un certo rilievo rispetto al greco, in cui l’accenta­ zione è regolata dalla quantità dell’ultima, non della penultima sillaba, e in cui è ammesso l’accento, sia grave sia circonflesso, sull’ultima sillaba. Nel lati­ no c’è come una ritrazione dell’accento dalla fine della parola, come avviene p.e. nell’eolico, fatto che va sotto il nome di baritonesi. E’ interessante notare che ciò si verifica anche in italiano (certamente un’eredità del latino), dove è evidente, anche se noi non ce ne accorgiamo, la tendenza alla baritonesi. Noi diciamo cognac e taxi mentre non c’è dubbio che si debba dire cògnàc e taxi', siamo soliti porre l’accento sulla penultima in cognomi che hanno l’accento originario sull’ultima. Ho accennato alla legge del trisillabismo; ma questa legge nella storia del­ la lingua latina cominciò a operare solo a partire da un certo momento. E’ noto che la spiegazione più diffusa, sebbene non da tutti accettata, della digradazione del vocalismo atono del tipo ago/exigo, facio/confido, su cui ci siamo fermati, è che questo fenomeno apofonico (un’apofonia del tutto lati­ na, da tener distinta dall’apofonia quantitativa e qualitativa d’origine indoeu­ ropea, di cui non manca qualche traccia in latino: es. tègo/tòga/tègula) sia dovuto all’uso di un accento intensivo protosillabico. Per l’intensità di questo accento a principio di parola si sarebbero indebolite tutte le vocali brevi suc­ cessive. E poiché sappiamo che protosillabico era l’accento etrusco, si è pensa­ to a uno dei non pochi influssi dell’etrusco sul latino. Ma poi per la resistenza delle vocali lunghe in sede postonica, dalla prima sillaba esso sarebbe passato sino alla terzultima e alla penultima. Ma la legge del trisillabismo, pur con qualche differenza rispetto al latino, era la legge dell’accento greco, e così si è pensato che in questo cambiamento dell’accento latino non poco potesse l’ac­ cento greco. Siamo nel campo delle ipotesi. A questo punto una domanda si affaccia spontanea: che cosa ne ha fatto il latino dell’eredità indoeuropea nel campo dell’accento? Fu mai in vigore in esso l’accento musicale, cioè l’accento inspiratorio, di contro a quello espira­ torio che sembra il solo presente nella storia della lingua latina? I pareri degli studiosi sono su questo problema quanto mai contrastanti. Di fronte alla scuola tedesca (ma si tratta di una distinzione eccessivamente generalizzata), che nega l’esistenza in latino dell’accento musicale, quello che mette in eviden­ za l’altezza di una nota espressa da una sillaba rispetto alla nota di un’altra sillaba, accento presente in altre lingue indoeuropee, la scuola francese sostie­ ne la possibilità di una compresenza dei due accenti, almeno in certi momenti della storia della lingua latina. I due accenti, quello che metteva in rilievo una sillaba rispetto a un’altra per l’altezza musicale, era indipendente da quello che metteva in evidenza un’intensità speciale, ma poi praticamente si sarebbero venuti in più di un ca­ so a produrre insieme. Così il Niedermann (un francese, nonostante il suo no­ me tedesco), l’autore di quell’aureo libretto che s’intitola Phonétique historique du latin, più volte ristampato. In una parola come maximus su ma- potè-

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va cadere sia l’accento di maggiore intensità sia quello di maggiore altezza ri­ spetto alle altre due sillabe. Diversamente, però, nella metrica latina, identica a quella greca, per cui il verso si fonda sull’opposizione tra i tempi forti e l’accento tonico, la cui coincidenza si verifica, sì, in più di un caso, ma è pu­ ramente occasionale e mai totale, anche se a un certo momento essa sembra cercata e voluta totalmente o quasi da parte di una tecnica più progredita, co­ me nell’esametro ciceroniano: Vos quoque signa videtis aquai dulcis alumnae (fr. 56,1 = T r.2) in cui accento ritmico e accento tonico vanno di pari passo in tutte le sedi. Sebbene si tratti di casi isolati, tuttavia si può dire che nella tec­ nica dell’età classica si tende a eliminare il più possibile l’opposizione fra i due accenti. Potrei ricordare l’esametro virgiliano: Incipe Mopse, prior si quos aut Phillidis ignes {Bue. 5,10). Ho citato a caso, ma gli esempi vergiliani in cui lo scarto fra i due accenti è minimo sono molti, e ciò specialmente nelle Bucoli­ che e‘nelle Georgiche, che sono opere di tecnica più raffinata. C’è però da dire in proposito che l’affermazione del Niedermann secondo cui dal principio del periodo letterario fino all’epoca imperiale l’accento latino fu essenzialmente musicale, è priva, à mio avviso, di documentazione storica. Né molto c’istruisce in proposito il linguaggio e la terminologia dei grammati­ ci latini, i quali assumendo termini e definizioni dai testi greci usano termini ed esprimono concetti che sono validi più per l’accento greco che per quello latino. Da una testimonianza di Aulo Gellio (13,26, ls) apprendiamo che Nigidio Figulo accentava Vàleri, anziché Voléri, il vocativo di Valerius, lasciando Voléri per il genitivo. Si è pensato che tale accentazione del vocativo di Vale­ rius risentisse dell’accento musicale, ancor vivo in questo caso, in cui si pote­ vano meglio rilevare le varie intonazioni del discorso. Ma a parte il fatto che Nigidio Figulo poteva dettare una norma suggeritagli dal suo esasperato ana­ logismo, norma che non sappiamo se sia stata mai seguita in pratica (Aulo Gellio la metteva in ridicolo) e a parte il fatto che altre spiegazioni possono darsi della regola enunciata da Nigidio Figulo, è difficile dedurne la prova di un’accentazione melodica del latino. Comunque il caso di Vàleri ha dato luo­ go in tempi recenti a una vivace discussione fra gli studiosi. Una conclusione accettabile, a mio parere, che concilierebbe le posizioni contrastanti della scuola francese e di quella tedesca è che il latino doveva ave­ re ancora in età classica (intendendo il termine con una certa larghezza) il sen­ so dell’accento cromatico o musicale e che l’accento intensivo non aveva anco­ ra del tutto sopraffatto quello melodico; il che avvenne solo più tardi, quando l’accento inspiratorio scomparve completamente e unico accento passò alle lin­ gue romanze quello espiratorio o dinamico o d’intensità. 3. Pronuncia Un altro punto di scottante attualità è quello della pronuncia del latino. E’ noto che noi Italiani siamo soliti seguire normalmente la pronuncia così

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detta romana, la pronuncia cioè che grosso modo era in vigore nei secoli IV-V dopo Cristo e che è quindi l’unica storicamente accertata, che perdurò fino a quando il volgare cominciò a soppiantare il latino come lingua dell’uso. Tale pronuncia rimase fra gli uomini di cultura, nelle scuole e nel latino della Chie­ sa, ma parallelamente sorsero le varie pronunce nazionali, specialmente quella francese, quella tedesca, quella spagnola e anche quella inglese, per cui il lati­ no veniva pronunciato (e viene ancora pronunciato) secondo le regole di cia­ scuna di queste lingue. E ciò si verificò anche nell’uso del latino nelle chiese locali, finché Pio X ordinò che fosse dovunque adottata la pronuncia romana. Di fronte alla varietà di queste pronunce, rimasta nelle scuole e nell’uso delle persone colte, si è cercato recentemente da parte dei dotti di stabilire una pronuncia standard, così detta scientifica o restituita. Ma invece di risolvere il problema di una pronuncia unitaria del latino si è verificato che alle già nume­ rose pronunce esistenti se n’è aggiunta un’altra. Perché? Ma perché il proble­ ma della pronuncia del latino è un problema storico, non è un problema prati­ co. In realtà si è cercato di fissare un certo modulo di pronuncia del latino chiudendolo entro angusti limiti della sua storia {grosso modo II-I sec. a.C.) con un criterio tutt’altro che scientifico, perché la lingua è un fenomeno in continua evoluzione e non si può fermare la storia della lingua richiudendola in un determinato periodo. Così è certo che quando noi diciamo le uariai di Cassiodoro (invece che le variaé) commettiamo un errore di prospettiva storica non meno grande di quello che coscientemente commettiamo dicendo Cicero anziché Kikero. Né è possibile adoprare una pronuncia per ogni scrittore o per ogni età, anche per le difficoltà pratiche (mi riferisco soprattutto alle esigenze della scuola, dove si legge il latino di tutte le età, compreso quello medievale e umanistico), e non è possibile leggere p.e. sant’Agostino con la stessa pronun­ cia con cui si dovrebbe leggere p.e. un passo di Cicerone. Secondariamente (forse bisognava dire prima di tutto) noi non siamo in grado di restituire la pronuncia di tutti i fonemi nella loro evoluzione storica. Sicché la così detta pronuncia scientifica o restituita è non solo artificiale, fino a diventare talora arbitraria, in quanto non tiene conto dello sviluppo storico della lingua e quindi anche della pronuncia, ma è anche incompleta, ferman­ dosi solo ad alcuni fatti sporadici della pronuncia di un ristretto periodo. In fondo, essa si riduce, poco più poco meno, a evitare la pronuncia spirante del gruppo ti seguito da vocale, la pronuncia palatale delle gutturali e la pronun­ cia chiusa dei dittonghi. Ma quest’ultimo è il punto più debole di tutta la pro­ nuncia scientifica, ché nella pronuncia aperta dei dittonghi ognuno segue le sue vie. Così Caesar da alcuni è pronunciato Kaèsar, da altri Kàesar, da altri ancora Kàisar. Ora è chiaro che la prima pronuncia è certamente errata, per­ ché nel pronunciare il dittongo aperto l’accento dovrebbe cadere sulla prima vocale; il terzo modo di pronunciare il dittongo -ae ci riporta oltre il II sec. a.C., prima dell’età classica, dato che già nel Senatus consultum de Baccanalibus, del principio del II sec. a.C., v’è oscillazione tra la forma più antica del

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dittongo, -ai-, e quella più recente, -ae. Lo stesso vale per gli altri dittonghi. Se si aggiunge poi l’intonazione propria di ciascun parlante, che rimane quella della sua nazionalità, è chiaro che nel leggere o nel parlare in latino in codesta maniera fra persone di diversa nazionalità si finisce per capire assai poco di quello che un altro dice, assai meno di quello che si capiva quando ognuno parlava secondo la propria pronuncia nazionale. Questo per quanto riguarda le persone di cultura e i consessi scientifici, se ancora ve ne sono in cui si par­ la latino. Ma la cosa diventa più seria quando si tenta e si pretende d’introdurre questa pronuncia nella nostra scuola. E’ per me insensato aumentare in modo tanto serio le difficoltà, per i nostri ragazzi, di uno studio già di per sé non certamente facile, e ciò proprio agli inizi di questo studio. A me pare che dal punto di vista didattico questo sia un errore grave. Senza dire, come abbiamo già avvertito, che nelle scuole medie, almeno italiane, lo studio del latino spa­ zia dalle origini all’età umanistica, e il periodo per il quale non è attuabile la così detta pronuncia scientifica è molto più ampio di quello in cui, al limite, essa sarebbe attuabile senza urtare troppo contro la storia. Ci si chiede allora se per noi Italiani, che pur abbiamo una tradizione da difendere, non sia più opportuno fermarci all’ultima pronuncia storicamente accertata e continuare a pronunciare il latino come per tanti secoli da noi si è fatto. Questo almeno nella scuola, ché partire da quello che è più vicino ai ragazzi, anche nella pro­ nuncia del latino, è da considerare una buona norma didattica. Con questo non si nega che nelle ultime classi, come all’Università, si possa far conoscere anche la pronuncia restituita, come è doveroso che la scuola avverta, quando ne capiti l’occasione, le differenze che sussistono fra la pronuncia che si usa e quella del tempo dei vari autori che si leggono. Ciò è talvolta indispensabile anche per l’esatta comprensione dei testi. Ci sono in Plauto certi giuochi di parole che non s’intendono se non si tiene presente la pronuncia del suo tem­ po, il che è ben diverso dal pretendere che sempre, tutto il latino venga pro­ nunciato come lo pronunciava Plauto. Nel Mercator (vv. 303 ss) si legge di un vecchio innamorato che scherzan­ do vuole manifestare la cosa a un suo amico dicendogli: “ Oggi ho cominciato ad andare a scuola e già conosco tre lettere” . “ Quali tre lettere?” Risponde il vecchio: “a, emme, o” . Ora, se noi non sapessimo che al tempo di Plauto il nome delle spiranti, delle liquide e delle nasali s’indicava col loro stesso suono, come le vocali, epperò emme si pronunciava m, ci sfuggirebbe qualche cosa dello scherzo: il suono delle tre lettere non dava a, emme, o, ma a m o . Così, leggendo la quinta satira oraziana del libro primo, quella del viaggio a Brindisi, poco ci dice il nome della maschera Cicirro (l’antenato di Pulcinella), se noi lo pro­ nunciamo secondo la pronuncia tradizionale, perché si tratta di una forma onomatopeica, kikirrus, che riproduce il chicchirichì del gallo, e i galli antichi avranno fatto, come i nostri, chicchirichì e non cicciricì. Analogamente il ver­

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bo vagio sarà stato in antico uaghio, perché i bambini antichi avranno vagito uàhl, come i nostri. Alla stessa maniera il nostro bell’avverbio gratis sta a di­ mostrare che la pronuncia spirante del ti seguito da vocale è recente (dalle te­ stimonianze epigrafiche possiano arguire che essa non era in uso prima del II sec. d.C.). Gratis infatti non è che il dativo-ablativo plurale di gratta, gratiae: favore, riconoscenza, usato avverbialmente già da Plauto e passato senza nes­ suna modificazione in italiano e in francese, quasi certamente attraverso un fi­ lone dotto (si veda l’aggettivo ‘gratisdato’, vivo nel sec. XIV), svoltosi attra­ verso il latino della Chiesa. Gli esempi del genere sono numerosi, ché - ripeto - il problema della pronuncia è un problema storico, non è un problema prati­ co, e di tutto codesto è doveroso informare gli alumni. Ma nulla di più di questo. 4. Aspetto verbale

E veniamo all’ultima parte: l’aspetto verbale. E’ un capitolo di non poca importanza anche della grammatica latina e della grammatica in generale, su cui vertono da qualche tempo l’attenzione e le discussioni degli studiosi e di cui - naturalmente - è raro che si faccia cenno, come invece dovrebbe farsi, nelle scuole medie superiori. Ma cosa significa aspetto? E’ un termine che traduce il russo vid, ma che rende male il concetto. Meglio i Tedeschi dicono ‘qualità dell’azione’. Si badi che non si tratta di una cosa nuova, perché già Varrone distingueva il verbum infectum dal verbum perfectum, cioè l’espressione verbale che indica un’azio­ ne incompiuta, da quella che indica un’azione compiuta. Se io dico ‘correvo’ voi mi vedete sempre correre senza arrivare mai, mentre se dico ‘giunsi’ voi vedete che l’azione espressa dal verbo è compiuta e si è arrestata a un certo punto. Sicché la prima azione, che è continuativa, può essere geometricamente indicata con una linea (azione continua), l’altra che trova a un certo momento il suo punto di arrivo, può essere indicata con un punto (azione puntuativa). Questa distinzione tra verbum infectum e verbum perfectum messa in evidenza da Varrone nel De lingua Latina non è una scoperta varroniana, ma egli la de­ sumeva dagli Stoici, che furono i primi grandi ricercatori e sistematori nel campo della grammatica intesa come espressione delle funzioni logiche del pensiero. Essi influirono non poco sulla scuola di Pergamo, rappresentata so­ prattutto da Cratete di Mallo, la quale fu in opposizione con la scuola ales­ sandrina, rappresentata dai grandi grammatici di Alessandria, fra cui soprat­ tutto Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia. Ora, gli Alessandrini si fermarono a studiare la proiezione temporale esterna dell’azione espressa dal verbo (presente, passato, futuro), gli Stoici si fermarono a studiare l’azione temporale interna allo stesso processo verbale. L’opposizione tra verbum infectum e verbum perfectum non è la sola op­ posizione aspettuale rilevabile: vi sono molti altri tipi, altre qualità di azione

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verbale. Se io dico ‘comincio a fare’ indicherò un’azione inceptiva o ingressi­ va, cioè, per quello che riguarda il tempo interno all’azione verbale, il mo­ mento d’inizio di un’azione. Se io dico ‘ho terminato di fare’, indico un’azio­ ne terminativa: due aspetti dell’azione che comincia o termina a un dato mo­ mento. Se invece dico ‘il fare’, indico un’azione acronica o extratemporale. In tutt’e tre i casi indicherò una diversa qualità dell’azione verbale. Ma per capi­ re l’importanza di queste distinzioni bisogna tener presente che il verbo antico aveva dei tipi morfologici diversi per esprimerle, mentre noi per esprimere i di­ versi aspetti del verbo dobbiamo in genere ricorrere a circonlocuzioni. Senonché l’esame del verbo secondo queste distinzioni non ebbe fortuna e sviluppo, e prevalse con Dionisio Trace (II-I sec. a.C.), l’autore della prima grammatica del mondo occidentale (Τέχνη -γραμματική), la distinzione dei tempi che collocano l’azione del verbo in una serie temporale esterna. Dionisio Trace, che pur era un conciliatore tra la grammatica stoico-pergamena e quel­ la alessandrina, nel suo manualetto, arrivatoci con molte aggiunte e inserzioni, ma di cui non si può negare l’autenticità sostanziale, non fa cenno dell’apetto verbale. Ma rimasero, come abbiamo visto anche in Varrone, tracce di questa analisi del verbo introdotta dagli Stoici: rimasero perché essa trovava corri­ spondenza nel verbo d’origine indoeuropea, in cui a particolari qualità dell’a­ zione rispondevano, come ho detto, particolari mezzi morfologici. Nei verbi più antichi, greci e latini, l’azione infettiva veniva espressa addirittura con un tema radicale diverso da quello con cui veniva espressa l’azione perfettiva. Così si spiega in greco φέρω, ma ηνε-γκον ed ένηνοχα; οραω, ma e&ov e olba, e in latino fero, ma al perfetto tuli. Il greco, più che il latino conserva diversi tipi morfologici per esprimere una diversa qualità dell’azione. L’opposizione tra imperfettività e perfettività dell’azione, secondo la di­ stinzione varroniana è quella più comune e di più vasta applicazione pratica. Ma, come ho detto, le nuances aspettuali che possono essere espresse dalle va­ rie forme verbali sono molteplici, e meglio rilevabili in greco che in latino. In greco si possono ancora cogliere tre tipi fondamentali di aspetto su temi tem­ porali e a volta anche radicali diversi. Essi derivano dalla duplice opposizione fra presente e aoristo e fra aoristo e perfetto. Così όρέχω, a differenza di eièov e di oìba, che indicano altri aspetti verbali, esprime l’azione durativa, cioè vi­ sta nel suo svolgersi, senza nessun accenno al suo compimento. In questo tipo rientra l’iterativo e il conativo (eiceidov ‘cercavo di persuadere’). L’azione ver­ bale considerata in sé, al di fuori della sua durata e del suo compimento (azio­ ne acronica) è invece espressa in greco con l’infinito aoristo («?e\w aireXdeìv, ‘voglio ritornare’; tò φα-yeìv, ‘il mangiare’). Con l’aoristo indicativo si espri­ me l’azione perfettiva: η.\dov, ‘giunsi’. Da notare però (sia detto come fra parantesi) che talvolta l’aspetto perfettivo è espresso anche col presente, e non solo nei casi di azione momentanea, come β-γβέρομαι, expergiscor, ‘mi desto’, ma anche in quelli di azione acronica, come ύέΚω. Ma in questo caso l’uso dell’aoristo è più frequente.

Problemi di grammatica latina

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Oltre a indicare l’azione acronica, l’aoristo può assumere un significato ingressivo o incoativo. Così έβασιΚ^υσί oltre che ‘regnò’, può anche significare ‘cominciò a regnare’, ‘salì al trono’ (cf Herod.2,2). Così l’imperativo imme­ diato si esprime in greco con l’imperativo aoristo: άνα-γνωϋi ‘leggi’, quasi: ‘comincia a leggere’. Alla stessa maniera l’aoristo può indicare l’azione termi­ nativa: πριν αν φά-γφ ‘prima che abbia finito di mangiare’. L’altra opposizione fra aoristo e perfetto determina, nel campo stesso del­ l’aspetto perfettivo da una parte e di quello imperfettivo dall’altra, una note­ vole caratterizzazione. Si legge in Euripide τβϋνασι oi davovres (Ale. 541). Andate a tradurre “ i morti sono morti” : tante grazie, lo sapevamo. Ma c’è una sfumatura in quel redvaai che è difficile rendere, ma non cogliere. Men­ tre davovres si riferisce al compimento dell’aciws moriendi, redvaai indica la condizione del soggetto in dipendenza dell’azione espressa dall’aoristo davovres. Si noti ancora in Mimn. (2,9s D2): “ Quando - egli dice - sarà finita la giovinezza, redvava t βέλτωνη βιo t o s " . Non dunque daveìv è meglio della vita, ma redvava i , non il morire, ma la condizione di chi è già morto: è me­ glio cioè il non esserci più. Il perfetto indica qui una condizione perdurante, una qualità determinata da un fatto avvenuto nel passato: indica qualche cosa che partecipa dell’azione perfettiva e imperfettiva a un tempo. Se l’azione du­ rativa può essere geometricamente rappresentata con una linea e quella perfet­ tiva con un punto, quella indicata dal perfetto, e che potremmo chiamare perfettuale, può essere rappresentata con un circolo. Che cosa c’è rimasto in latino di questi tre tipi di aspetto, ancora agevol­ mente apprezzabili in greco: imperfettivo (sia esso durativo, iterativo, conati­ vo), perfettivo (sia esso momentaneo, puntuativo, ingressivo, terminativo) e perfettuale? In latino il fenomeno dell’aspetto verbale non presenta un caratte­ re organico. Forse anziché di aspetto sarebbe più proprio parlare per il latino di nuances di aspetto, ché null’altro che questo ci è dato di poter cogliere in latino. Imperfettivi saranno da considerare, ove non sussistono determinazioni complementari capaci di trasformare l’aspetto del verbo, il presente, l’imper­ fetto e il futuro semplice, del tipo eo, curro, fugio, ecc. L’azione iterativa o frequentativa, che è un tipo aspettuale dell’azione durativa, è indicata con spe­ ciali formazioni deverbative, come agito, dictito, factito, ecc. La richezza di frequentativi che il latino presenta, soprattutto di fronte al greco, dimostra quanto fosse vivo nella lingua del Lazio tale tipo d’aspetto imperfettivo, al punto che non di rado invece del verbo primario è passato nel romanzo il suo frequentativo. Abbastanza usato è anche il presente e soprattutto l’imperfetto conativo; così impetro, ‘cerco di ottenere’; suadeo, cerco di persuadere; arcebat, ‘cerca­ va di tener lontano’. Anche l’azione extratemporale, espressa in greco dall’ao­ risto, può a volte riscontrarsi nel perfetto latino. L’oraziano collegisse iuvat (Carm. 1,1,4) è forse un ellenismo sintattico, ma tale costrutto si trova anche in documenti antichi, come nel Senatus consultum de Bacanalibus: ne quis Ba-

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canal habuise (habuisse) velet (vellet) o anche in Catone: ne quis emisse velit insciente domino (Agr. 5,4). L’azione ingressiva può essere espressa dai verbi incoativi ancora in qualche caso, anche quando ormai il suffisso -sco, presente anche in greco, aveva perduto il suo originario valore: così pallesco di fronte a palleo (in italiano ‘impallidire’ di fronte a ‘esser pallido’), conticesco, ‘faccio silenzio’. Ma può essere indicata anche col perfetto-aoristo (è noto che nel perfetto latino sono confluiti morfologicamente e semanticamente il perfetto e l’aoristo, che esso conserva tutti i valori e i significati dell’uno e dell’altro tempo). Così l’oraziano risii Apollo (Carm. 1,10,12) piuttosto che ‘Apollo ri­ se’, significherà ‘Apollo soppiò in una risata’. Ma accanto a questo tipo, già la forma fraseologica era in uso: chi non ricorda il virgiliano Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem? (Bue. 4,60). Anche l’azione terminativa può es­ sere talvolta espressa dal perfetto. Così il virgiliano Fuimus Troes, fu it Ilium et ingens/ gloria Teucrorum (Aen. 2,325s): ‘abbiamo finito di esistere’. Ma è innegabile che il latino espresse sovente i vari tipi di aspetto perfettivo ricor­ rendo ai composti: così facio e confido, copio e incipio, dormio e obdormio, ago e redigo. Così in Plauto (Amph. 697) paullisper mane/ dum edormiscat unum somnum: ‘finché finisca soltante di dormire’. Così ebibere ‘bere fino al­ l’ultima goccia’, ‘finire di bere’; perlego, ‘leggere fino in fondo’. In Virgilio (Aen. 4, 613): terris adnare, nel senso di ‘approdare’, cioè ‘nuotare fino alla fine’, espressione in cui è messo in rilievo il momento finale del processo. Alcune tracce del valore aspettuale del perfetto greco su cui ci siamo fer­ mati, è possibile vedere soprattutto nei quattro verbi così detti difettivi coepi, memini, novi, odi, che, come è a tutti noto, hanno valore di presente (coepi assunse poi quello di perfetto aoristo). Soprattutto sono da ricordare memini (gr. μίμνημοα) e novi (gr. ofòa), i quali mantengono più evidentemente il valo­ re dell’antico perfetto, che indica, come abbiamo rilevato, un fatto presente come consequenza di una causa verificatasi in passato. Così memini significa ‘ho rievocato alla mente’, quindi ‘ricordo’, ‘ho presente alla memoria’, e novi ‘ho conosciuto’, quindi ‘so’. Lo stesso valore di presente può assumere in lati­ no qualche altro perfetto, come chi dicesse advenì, col significato di adsum, ‘sono presente’, o profectus est col valore di abest, o accepimus, ‘abbiamo ap­ preso’, quindi ‘sappiamo’. Anche in questi casi il perfetto latino può indicare il perdurare di una condizione in dipendenza di un fatto compiuto, o anche il perdurare del risultato di esso. Come si vede, solo pochi resti di aspetto verbale morfologicamente espresso, senza ricorrere a perifrasi, è ancora possibile cogliere qua e là in lati­ no: grama e pur sicura testimonianza di un antico e vasto fenomeno verbale, poi superato in seguito al particolare evolversi della lingua dal ceppo origina­ rio, ma sostanzialmente continuato con quei nuovi e propri mezzi di cui fac­ ciamo uso anche noi, e con le inesauribili risorse espressive di ogni parlare, che assecondano le eterne esigenze del pensiero.

SINTASSI ARCAICA E SISTEMAZIONE SINTATTICA DELL’ETÀ CLASSICA Remo GIOMINI

Una quarantina di anni or sono scriveva il Marouzeau che l’evoluzione del fattore sintattico comporta necessariamente un’evoluzione stilistica: sono anch’io convinto che discutere di storia della sintassi senza introdurre e tratta­ re i problemi della evoluzione linguistica e soprattutto stilistica sia metodologi­ camente oggi una strada impercorribile. Gli esiti di questa mia ricerca, crono­ logicamente forse troppo ampia, condotta affrontando due secoli e mezzo (da Plauto a Livio all’incirca) di mutamenti ed assestamenti sintattici, di variazio­ ni di tonalità e dei mezzi espressivi della lingua intesa in senso generale come impegno stilistico sempre più accentuato, darebbero risultati parziali, se il pro­ blema fosse impostato soltanto, ad es., sull’origine e sullo sviluppo di determi­ nate congiunzioni-preposizioni in rapporto all’affermarsi di questa o quella proposizione; io credo invece che un esame del genere vada inquadrato in mo­ do globale e diacronico, individuando particolari funzioni e costrutti, procedi­ menti e formazioni singolari, da cui poter coerentemente rilevare e distinguere gli aspetti della lingua, della sintassi e dello stile di un’età o di un autore. La sintassi, insomma, si evolve parallelamente alle trasformazioni e agli arricchimenti linguistici e stilistici, non meno che ai contributi che hanno ap­ portato le nuove teorie e i nuovi orientamenti linguistico-grammaticali profes­ sati e diffusi in Roma dalle scuole di filosofia, in particolare dallo Stoicismo, tra il II e il I secolo a.C. Non c’è dubbio che il sistema paratattico costituisce l’elemento caratteriz­ zante e trainante del momento arcaico della lingua, anche perché ad esso sono strettamente congiunti numerosi aspetti che ora investono la sfera prettamente sintattica, ora coinvolgono quella linguistica (popolare e colloquiale) e stilisti­ ca, ora guidano a comprendere l’uso di alcuni elementi strutturali e compositi­ vi del periodo. Mi riferisco in special modo alla tecnica dello pseudo periodo ipotetico, già presente nelle Leggi delle XII Tavole, appunto definito nella for­ ma di ipotetico-paratattico (si in ius vocat, ito: 1,1) proprio per l’originaria ac­ cezione del si, disceso, parimenti all’avverbio con suffisso rafforzativo sic (seice), da un antico sei (= ‘così’), dunque da un avverbio: per cui la espressione ipotetica si istaec vera sunt, non metuo ( P lau to , Amph. 1105) configurerebbe propriamente un antico costrutto paratattico del tipo si (‘così) istaec vera sunt? non metuo. E ciò va riferito anche all’aspetto della possibilità che può essere collegato

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al congiuntivo cosiddetto obliquo o dell’eventualità: tanto più che fra le fun­ zioni di si-sic appare anche quella di rafforzare l’ottativo (cf Vero., Aeri. 8,560: O mihi praeteritos referat si Iuppiter annos; H orat., Serm. 2,6,8: O si singulus ille/ Proximus accedati Carni. 1,3,1: Sic te diva potens Cypri... regat... navis): né va dimenticato che questo costrutto muove con molta pro­ babilità da un arcaico formulario religioso e sacrale (cf Liv. 1,24,8: Sic ferito, ut ego hunc porcum hic hodie feriam), passato poi ad espressioni più comuni, come in Plauto (Bacch. 698): immo, si audias, quae dieta dixit (‘se tu volessi ascoltarmi’, ‘voglia tu ascoltarmi, quali parole ha detto!’), uno stadio interme­ dio tra paratassi e ipotassi, come in Terenzio (Phorm. 186): Loquarne? incendam. Taceam? instigem. Purgeni me? laterem lavem, che prelude nella sua forma asindetica e paratattica al più regolare, classico e meno colloquiale tipo ipotattico si loquar, incendam. Così anche il si te di ameni, parallelo all’ ita me te di ameni (P laut., Mil. 501 e 571), dimostra che si è un avverbio, quindi di tipo paratattico, non an­ cora esprimente un’ipotassi e perciò protasi di periodo ipotetico (cf Capi. 454: expedivi ex servirne filium, si ( = sic) dis placet). Dunque il periodo ipotetico nasce dalla giustapposizione di un ottativo-congiuntivo (si-sic) e di un con­ giuntivo eventuale (nel tipo della possibilità), come nel plautino si audias meas pugnas (‘se tu potessi ascoltare, conoscere le mie lotte’), fugias manibus de­ missis domum (Epid. 451), ove la pausa dopo pugnas e una particolare into­ nazione di voce (ottativa) distinguono il costrutto paratattico dall’ipotattico (cioè il vero periodo ipotetico di II tipo): pertanto Tipotattico deriva dal para­ tattico “ attraverso un processo intellettualistico che stringe le due proposizioni in un sintagma più compatto, oscurando il senso ottativo della protasi” (A. R onconi , Il Verbo Latino, Firenze 19592, p. 156). Parallelo al si, primitivamente avverbiale e paratattico, è anche quarnvis (‘quanto vuoi’, ‘quanto mai’), sia esso seguito da indicativo sia da congiunti­ vo, aspetti ambedue di un tipo concessivo indipendente (paratattico), come at­ testano per l’indicativo Plauto (Men. 518): quarnvis ridiculus est (‘è spiritoso quanto mai’); Catullo (12,4): quarnvis sordida res et invenustast; Orazio (Serm. 2,5,15): quarnvis periurus erit; per il congiuntivo Plauto (Bacch. 82): locus hic... quarnvis subito venias, semper liber est (di tipo potenziale). E’ da notare che nell’età arcaica fino a Cicerone (escluso) il quarnvis è le­ gato ad aggettivi o avverbi in forma di sintagma non necessariamente seguito da tamen, da Cicerone in poi esprime una proposizione (ipotassi) priva di ag­ gettivo o avverbio; inoltre sul piano di quamquam (accompagnato solo da ag­ gettivi) che desidera l’indicativo — ma non manca di esempi col congiuntivo parimenti a quarnvis — nel suo aspetto grammaticale indefinito e mobile (T er ., Hec. 634: quam velini', Rhet. Her. 3,19,32,: quam volet), regge il con­ giuntivo proprio per il punto di vista che esprime e per la sua indefinitezza, ma può essere seguito dall’indicativo, quando, banalizzandosi nel significato di ‘sebbene’, subirà l’influsso di quamquam, come confermano Cornelio Ne-

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potè (Milt. 2,3), Cicerone (Rab. Post. 4), Virgilio (Bue. 3,84 ed Aen. 5,542), Orazio (Serm. 1,3,129; Carm. 1,28,11 e 3,7,25; Epist. 1,14,6; A.P. 355 e 366), Livio (2,40,7), Quintiliano (8,6,73). Di questa paratassi arcaica sono ancora sicuri testimoni le formule augu­ rali, come novum vetus vinum bibo, novo veteri vino morbo medeor (F est. 110,218, L., s.v. Meditrinalia), ove si susseguono l’allitterazione, connaturata ai carmina primitivi, il poliptoto, Tossimoro, il parallelismo dei cola, la smeli­ si chiastica; le precationes di Catone (Agr. 134,2): Iupiter, te hoc fercto obmovendo bonas preces precor, uti sies volens propitius mihi liberisque meis domo familiaeque meae mactus hoc fercto e (Agr. 141,2): Mars pater, te precor quaesoque..., con la presenza dello strumentale hoc fercto obmovendo, della figura etimologica, della ripetizione pleonastica in asindeto volens propitius, dell’allitterazione, del costrutto bimembre, cui si aggiungono nella seconda preghiera ripetizioni sinonimiche (agrum, terram fundumque; prohibessis, defendas averruncesque) in asindeto, di costrutti asindetici con qualche accenno di ipotassi in dipendenza da precor quaesoque (uti siris, come uti sies nella precedente), di polisindeti espressi nell’unione di periodi ritmici mediante la congiunzione neque (così il N orden , Die antike Kunstprosa 1,156). Ad esse è strettamente congiunto l’uso della allitterazione, elemento es­ senziale (accessorio in età classica) nel sistema paratattico come mezzo di vigo­ ria espressiva (per dare un tono di solennità o di familiarità alla dizione e al concetto), talvolta in funzione descrittiva e drammatica, adatto al pathos, alla parodia, al sarcasmo; quello dell’anafora, talvolta anche in allitterazione e in forma asindetica e tricolica (P laut., Mil. 191: animum falsiloquum, falsificum, falsiiurum), e delle ripetizioni sinonimiche, anche in allitterazione con costrutti bimembri e trimembri (P laut., Bacch. 1088: stulti stolidi, fatui fungi, bardi blenni buccones, certamente accoppiate in tre serie per le diverse allitte­ razioni). A caratterizzare infine il sistema paratattico contribuisce l’uso dell’encliti­ ca -que, presente almeno fino a tutto il III secolo, poi soppiantata da et, il cui valore paratattico si evince soprattutto quando ha valore analizzante, a distin­ guere i vari elementi dell’intero periodo. A questo punto dovremmo trattare dell’uso del dum (‘frattanto’), sicura­ mente un avverbio in origine e quindi di valore paratattico, talvolta anche en­ clitico (P laut., Bacch. 794: manedum parumper), seguito dall’indicativo a spe­ cificare la simultaneità dell’azione e dell’espressione (mane dum narro, P laut ., Mil. 1404), mentre in età classica, trasformatosi in congiunzione, può assume­ re aspetti diversi (finali, consecutivi, concessivi) e reggere il congiuntivo ad ac­ centuare il legame ipotattico; dovremmo esaminare l’uso di cum (quom), quoniam, ubi, priusquam (antequam) e soprattutto di qui relativo, derivato da quis interrogativo e ambedue discesi dall’indefinito (come in F est . 166,30 L.: pecuniam quis nancitor, habeto: ‘qualcuno ha trovato del denaro, se lo tenga’ espressione paratattica, di cui sopravvive qualche esempio, come la correlazio­

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ne col pronome dimostrativo - prolessi del relativo - in X II Tab. 2,3: cui testimonium defuerit, is...): ma il discorso si dilungherebbe oltremodo. Vorrei piuttosto considerare alcuni aspetti della sintassi e conseguente­ mente della lingua e dello stile dell’età arcaica, ma non prima di aver posto nella dovuta evidenza, come ha fatto giustamente il Devoto (Storia delia Lin­ gua di Roma, Bologna 1944, p. 121), il fatto che già in età plautina sono pre­ senti le prime avvisaglie dello svincolo della forma paratattica e della libertà espressiva ottenuta mediante l’uso di costrutti preposizionali (P laut., Capi. 359: ad patrem vis nuntiari? mentre a 400: vis patri nuntiari?); perfino nelle Leggi delle X II Tavole affiorano atteggiamenti della forma ipotattica (5,4: si intestato moritur, cui suus heres nec exit). Per di più si arricchisce in Plauto il patrimonio delle congiunzioni subordinanti, specialmente quelle derivate dal pronome relativo (quod, quia, quamquam, quamvis, quom, quoniam), origi­ nariamente coordinate, e si regolamentano le categorie verbali nel periodo, ri­ spettando la successione e il rapporto temporale. Ma non v’è dubbio che la lingua dell’età arcaica, sostanzialmente paratat­ tica nell’architettura della frase e riproducsnte in spontanea reazione psicologi­ ca la visione diretta di un fatto, attenuando gli elementi della riflessione, si fonda sulle basi ben delineate della commedia plautina (testi dialogati), della prosa scientifica e dell’oratoria di Catone, del periodare solenne, veemente, ubertoso dei Gracchi, semplice ed esangue degli atticisti, breve e contratto di Licinio Crasso, impolito rude e ardente di Sulpicio Galba (ma di costoro la tradizione è stata avarissima, fuorché di C. Sempronio Gracco), della tecnica asciutta e descrittiva degli storici del II-I secolo a.C. (Calpurnio Pisone, Cl. Quadrigario), nonché sullo stile delle epistole, ed è in non piccola parte rap­ presentata, in rapporto ai generi trattati e specialmente al dialogo della com­ media tutto naturalezza e rapidità, da procedimenti linguistico-sintattici e stili­ stici di matrice popolare, da toni familiari e colloquiali, da semplicità d’e­ spressione, da strutture logiche non sempre controllate, quasi a sottolineare la tensione emozionale del sermo cotidianus. Scrive l’Arnaldi, inquadrando il sermo terenziano (Atene e Roma, 1938, p. 194), che la lingua nel suo primo affermarsi è “ ancora scabra in certi atteggiamenti e tonalità, con una sodezza sanamente e sostanzialmente paesana, che conserva il sapore delle parole nel loro primo, immediato valore intuitivo..., una sintassi a tratti libera e sciolta, in cui le norme mortificatrici, troppo rigide e troppo logiche sono ancora di là da venire e le congiunzioni non appesantiscono, ma colorano, sottolineano, rendono più varia e mossa la trama del discorso” . Caratterizzano questa lingua popolare e colloquiale una struttura non sempre coerente dei concetti, che sfocia talvolta in forme anacolutiche e in cambi di costrutto di particolare efficacia espressiva (P laut ., Mil. 140: Nam uno conclave concubinae quod dedit - Miles... in eo conclavi ego perfodi parietem; C alp . P is ., Ann, in G ell . 7,9,15, giudicati exiliter scriptos da Cic., Brut. 106: Hi contemnentes eum, adsurgere ei nemo voluit); l’uso assai fre­

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quente dell’asindeto, talvolta ripetuto (abi abi, aperite aperite) in aspetto ana­ forico (noli noli, C a t . frg. 173) e di giustapposizione paratattica, ad esprimere una tensione emozionale (P laut ., Mil. 420: adeamus appellemus; Bacch. 235: ibo...visam; Epid. 59: sed taceam optimum est), che può assumere valore con­ secutivo con implicita subordinazione (Bacch. 333: tantas divitias habet, nescit quid faciat auro)·, la prolessi del pronome di 2a persona, che in qualche occa­ sione si trasforma in variazione del costrutto e dell’aspetto sintattico (Poen. 659: tu, sei te di amant, agere tuam rem occasio est-, Truc. 840: eamus, tu, in ius); la ridondanza del superlativo e del doppio comparativo (Aul. 723: perditissimus ego sum omnium in terra; Capi. 644: nihil invenies magis hoc certo certius; Men. 55: magis maiores nugas); l’uso delle ellissi e della reticentia (espressioni proposte per allusione o per silentium, del tipo ita me hercules, se. iuvet); la presenza del pleonasmo come affermazione di una retorica popola­ reggiante (tipo ambo...duo, repente...subito, exire foras, omnibus universis); il prefisso nel composto verbale in sostituzione del radicale semplice, non solo ad intensificare il valore semantico, ma anche per dare vigore e colorito alla descrizione di un fatto o di uno stato d’animo (Mil. 970: ea demoritur te; e tutta la serie di composti come deamo, delacero, consilesco, condolesco, adformido, adlaudo, ecc., degli avverbi come derepente, desubito...); l’uso del­ l’intensivo invece del verbo originario, del diminutivo in tono patetico e fami­ liare, talvolta anche ironico (Stich. 228: vendo... cavillationes adsentantiunculas ac perieratiunculas parasiticas, con elegante chiasmo), che spesso investe la sfera del linguaggio erotico. Un esempio è nello Pseud., 64 ss, dove la forma asindetica e gli aspetti allitteranti (Nane nostis amores, mores consuetudines — iocus ludus sermo suavisaviatio —... teneris labellis molles morsiunculae — papillarum horridularum oppressiunculae — harunc voluptatum mi... atque tibi — distractio discidìum vastities venit) si accompagnano ad una serie di di­ minutivi e di stravaganti giochi di parole causati dalla paronomasia, inseriti in un impasto sintattico di tipo paratattico (si veda la ripresa dei soggetti non mediante la relativa, ma ricorrendo al pronome dimostrativo) a dir poco esila­ rante, con cambiamenti di soggetto e costruzioni ad sensum che lasciano facil­ mente trasparire, oltre alla nota allusivamente scherzosa, gli effetti comici, raggiunti mediante l’accumulazione di sinonimi in sofisticati costrutti tricolici (amores mores consuetudines; distractio discidium vastities) allitteranti e asin­ detici, la sequenza di parole in climax quantitativa ascendente (nostrorum orgiorum < palpitai > iunculae; papillarum horridularum oppressiunculae) o iso­ sillabica (distractio, disctdium, vastities vénft, con tutte le possibili soluzioni del giambo nel senario), la ricerca della rima e soprattutto un ritmo vario e scapricciato che evidenzia ancor più il particolare atteggiamento ironico di Pseudoio. La sintassi dunque, proprio in virtù del consolidato sistema della paratas­ si, si distingue particolarmente per alcuni usi poco ortodossi, ma di fresca ve­ na, a conferma di un influsso vigoroso della lingua parlata su quella scritta:

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così l’abbastanza attestata frequenza dell’indicativo nelle frasi interrogative (P laut ., Pers. 99: nescio quis loquitur; Mil. 36: scio iam quid vis dicere, quasi di derivazione paratattica: nescio. Quis loquitur?), che si alterna con il più classico congiuntivo (un bell’esempio in Most. 199: vides quae sim et quae antea fui); il periodo ipotetico di origine paratattica (Mere. 770: cras petito, dabitur; Amph. 847: abeo, si iubes); l’infinito, ora con valore storico descrittivo (Amph. 229: consonai terra... imperator utrimque Iovi vota suscipere; Trin. 836: circumstabant navem turbines venti, - imbres fluctusque atque procellae infensae frangere malum, - mere antemnas; cf anche C at ., Orai., frg.114 M.), frequente negli storici arcaisti (Sallustio), ora con valore oggettivo, caro a Plauto e Catone (P laut ., Cure. 670: hoc volo, meam rem agere; C at ., Orig. 2, frg. 34 P .2: Gallia duas res industriosissime persequitur, rem militarem et argute loqui, citato da C haris . 2, p. 263,2 B.), ora con valore finale (P laut., Bacch. 631: venerai aurum petere; T er ., Phorm. 102: eamus viseré), evitato nella prosa classica, ma rimasto nella lingua colloquiale, ora con valore iussivo (C at ., Agr. 156,7: addito oleum et salem..., infervefacito paulisper, postea inde iusculum frigidum sorbere). Parlerei invece di esitazioni e libertà sintattiche allorché la forma esclama­ tiva è espressa al nominativo (P laut., Asin. 601: gerrae!, Truc. 509: papae!; T er ., Phorm. 493: logi!) o all’accusativo (P laut ., Most. 1087: nugas!; Bacch. 1178: lepidum te!) o perfino al genitivo (Most. 912: Mercimoni lepidi!; Truc. 409: o mercis malae!), forse un grecismo (così il L òfstedt, Syntactica 2, 417), forse un genitivo di valore affettivo come nei verbi misereor, pudet più il geni­ tivo; quando la forma invocativa è espressa al nominativo (P laut ., Cas. 137: meus festus dies, meus pullus passer, di fronte al v. 134; mi animule; una traccia in Cic., Phil. 13,37: o conservandus civis); quando il supino attivo è adoperato al dativo, un dativo di destinazione, simile al sostantivo astratto in -tus della 4° declinazione con funzione verbale (P laut ., Bacch. 62: istaec lepi­ da sunt memoratui, con valore passivo; Cure. 578: linteum extersui, con valo­ re attivo - un uso limitato a Plauto, scomparso però in età successiva); quan­ do la preposizione ad perde il suo principale significato di direzione per assu­ mere quello di prossimità (P laut ., Capi. 49: ad suum maneat patrem), non ignoto a Cesare (B.G. 7,17,1: castris ad eam partem positis) e a Cicerone (A tt. 10,4,8: fu it ad me sane diu); quando nella lingua parlata (poi nella scritta), in dipendenza da verbi tipo scio, dico, gaudeo, commemoro, si adopera una su­ bordinata retta da quod (P laut., Asin. 52: scio iam filius quod amet meus istanc meretricem; E nn ., Se. 282 V2: non commemoro quod domui vim taurorurri), costrutto in disuso nell’età classica, ma ripreso da Petronio. Aggiungerei a questo quadro, circoscritto ad alcuni aspetti abnormi della sintassi arcaica, il particolare uso del participio presente in forma assoluta (P laut ., Men. 922: occidis fabulans; V arr ., R.r. 2, praef., 6: te empturientem adducunt pedes), affermatosi poi nel costrutto formulario dell’ablativo assolu­ to (me praesente, absente, un ablativo strumentale-sociativo); l’età arcaica non

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conosce l’uso del participio presente con l’accusativo o il dativo: qualche raro esempio in Varrone (R.r. 2, praef. 6: sumptibus multa poscentibus) e in Lu­ crezio (2,1: turbantibus aequora ventis), una novità sintattica e stilistica, che si fa più instistente in Sallustio per la sua stringatezza e drammaticità descrittiva, mentre Cicerone lo adopera largamente. Per quanto concerne i participi perfetti sostantivati costruiti assolutamen­ te in ablativo (tipo auspicato, merito, consulto, sortito, impetrato; aliquantisper pugnato ha Q uadr ., Hist. 60, 225 P 2.) occorre dire che sono propri della lingua arcaica (qua e là ripresi in età classica) con funzione di ablativo assolu­ to di maniera, derivati dalla lingua tecnica (sacrale, religiosa, giuridica, milita­ re, commerciale), talvolta dettati e imposti dall’uso quotidiano e dalla brevitas espressiva che ne rende facile e consuetudinario l’inserimento, al punto da ri­ durli ad avverbio (secreto, tuto, continuo, perpetuo, sero, precario). Qualche parola ancora sul problema dei neologismi, per cui il quadro è molto incompleto: da una parte Plauto scatena tutto il suo virtuosismo, tutta la sua padronanza dello strumento linguistico per infondere mediante il loro uso colore di verità alle situazioni più comiche e paradossali (è noto il giudizio di Varrone, Menipp. 399 B.: in sermonibus Plautus se. poscit polmoni), e sfoggia la sua sbrigliata forza creativa, la sua prepotente originalità di sottile osservatore ed interprete fedele e spregiudicato della vita quotidiana (i greci­ smi malacissare, purpurissare, moechissare ed una sfrenata espressività, come nelle scene del turpiloquio - turpi lucricupidus - nel Persa e nello Pseudolus), dall’altra Catone, in nome del mos maiorum e della gelosa custodia delle tra­ dizioni romane, si rifiuta di introdurre termini stranieri (anche se il suo impe­ gno retorico, forse unVl/s, inserito nel trattato A d Marcum filìum, potrebbe lasciare spazio alla presenza di termini tecnici); se Ennio e Pacuvio creano epi­ teti di stampo epico (è sufficiente ricordare la testimonianza di Varrone, L.L., 5,7 e 19), Lucrezio è conscio della povertà della lingua latina e innova median­ te il ricorso ai composti (pennipotens, squamigeri), lo stesso Varrone inserisce nel lessico delle Menippee forme come tolutilis (‘che trotta’), buxeirostri (‘del colore di bosso’), meandrata (‘che forma meandri’), anche se è incline a resti­ tuire in forma latina i termini grammaticali greci, mentre Cicerone ammette gli arcaismi e i neologismi (Orai. 211), ma invita ad operarli raramente e in casi di necessità (termini tecnici). Un’ultima osservazione resta da fare sulla compositio, direi anche sulla concinnitas, che proprio in conseguenza della forma paratattica è molto rudi­ mentale: i membra, i χωλά, procedono per parallelismo in struttura asindetica dicolica o tricolica, sia nominale che verbale, non raramente con ricercate climaces, allitterazioni e ripetizioni pleonastiche (P laut., Mil. 69: orant, ambiunt, exopsecrant; E nn ., Se. 92V2: o pater, o patria, o Priami domus; T er ., Eun. 593: iit, lavit rediit; C at ., Rhod. 163 M.: rebus secundis atque prolixis atque prosperis... superbiam atque ferociam augescere atque crescere), una tecnica questa che, accanto alla varietas e alla inconcinnitas, è bene attestata

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in Sallustio {Cadi. 14,2: impudicus adulter ganeo, manu ventre pene-, 59,5: ap­ pellai, hortatur, rogai) e sarà portata ai massimi vertici da Cicerone (ex. g. Verr. 4, 7 e 115; Marc. 8; Mur. 9; Mil. 10), il quale con malcelato tono dida­ scalico puntualizza {Orai. 205 s e 221) una serie di precetti concernenti il numerus, a significare che occorre un’arte consumata per realizzare siffatte strut­ ture ritmiche. Per sommi capi mi sforzerò di presentare un panorama della evoluzione sintattica, linguistica e stilistica attraverso un’indagine sui singoli scrittori, cir­ coscritta invero ai soli prosatori e per motivi di tempo a Catone, a Sallustio, a Cesare e a Livio. Da un passo del Brutus si ricava che la lingua e l’eloquenza di Catone ai tempi di Cicerone non aveva più assertori e ammiratori: Catonem vero quis nostrorum oratorum, qui quidem nane sunt, legit? aut quis novit omnino?... quis ilio gravior in laudando (il genus grave epidittico-dimostrativo), acerbior in vituperando? in sententiis argutior? (il genus medium, giudiziale) in docendo edisserendoque subtilior? (il genus tenue, deliberativo). Refertae sunt orationes... et verbis et rebus illustribus... omnes oratoriae virtutes in iis reperientur (Brut. 65). Per quanto concerne la lingua e lo stile di Catone l’Arpinate ammette che antiquior est huius sermo et quaedam horridiora verbo, ma subito dopo sem­ bra correggere il giudizio pesantemente punitivo, in verità conferma carenze di armonia e di ritmo, di struttura del periodo, di ipotassi in Catone: ita enim tum loquebantur. Id muta, quod tum ille non potuit, et adde numeros et, ut aptior sit oratio, ipsa verbo compone et quasi coagmenta... iam neminem antepones Catoni (Brut. 68); e poco più oltre lo stesso Cicerone, intervenendo nel problema molto importante e assai discusso circa i fondamenti della cultu­ ra greca in Catone, scrive: ornari orationem Graeci putant, si verborum immutationibus utantur, quos appellant τρόπους, et sententiarum orationisque formis, quae vocant σχήματα· non verisimile est quam sit in utroque genere et creber et distinctus Cato (Brut. 69; cf anche 293 e 298), giudizio confermato sostanzialmente da Gellio, un esperto in questioni arcaiche, il quale, riferendo­ si alla Pro Rhodiensibus, precisava: in tota ista Catonis oratione omnia disciplinarum rhetoricarum arma atque subsidia mota esse 6,3,52), anche se rico­ nosceva che alcune argomentazioni, potevano forse essere espresse distinctius numerosiusque, ma fortius atque vividius potuisse dici non videntur. .Di que­ sta cultura scientifico-letteraria, inquadrata appunto nell’aspetto retorico, e quindi di Catone come modello di stile per gli atticisti romani, per Sallustio, per Politone, è testimone lo stesso Quintiliano nel panorama dell’oratoria e della retorica greca e romana: Romanorum primus, quantum ego quidem scio, condidit aliqua in hanc materiam (se. artem rhetoricam) M. Cato (Inst. Orai. 3,1,19); sembra provato quindi l’influsso della retorica greca subito da Cato­ ne, se non altro per il colorito stilistico-retorico e per le tendenze stilisticoletterarie successive (così il N orden, o . c., p. 164 ss; il L eeman, Orationis ratio,

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Amsterdam 1963, tr. it. G.C. Giardina - R.Cuccioli Melloni, Bologna 1974, p. 51; il C alboli, M.Porci Catonis Orai, prò Rhodiensibus, Bologna 1978, p. 11 ss.; in opposizione al L eo, Gesch. d. ròm. Literatur 1, Berlin 1913, p. 286), per cui H. Jordan (M. Catonis quae extant, Lipsiae 1860, p. 80) ipotizzò un De rhetorica scritto da Catone, ma, secondo Calboli (o.c., p. 32 s.), non af­ fermatosi e ricordato solo per alcune sententiae - vir bonus dicendi peritus; rem tene, verbo sequentur —; quindi per i fondamenti etici e per i praecepta strutturali - operativi. Cardini della prosa di Catone sono la paratassi e l’asindeto; ma l’impron­ ta oratoria e solenne si segnala per l’uso anche anaforico di et, atque, -que, che evidenziano l’aspetto paratattico e danno ritmo e ordine ai vari cola del periodo (così il F rànkel, Leseproben aus Reden Ciceros und Cato, Roma 1968, p. 130, e H ofman-S zantyr, Latein. Syntax und Stilistik, Munchen 1965, p. 473 ss). Il sistema dei cola paralleli e cadenzati, già nel Senatusconsultum de Bacchanalibus, ha numerosi e sicuri riscontri, insieme a ripetizioni e sinonimie (frg. 58,6 ss M.: eane fieri bonis, bono genere gnatis, boni consultis? ubi societas? ubi fides maiorum?), interrogative retoriche (frg. 58,6-7; 165 M.), allit­ terazioni, anafore, tentativi di amplitudo (ridondanze, frg. 29,2: ventus auster, 163,2: rebus secundis atque prolixis atque prosperis, e costruzioni ad anello, frg. 164,1 ss. M.), e fra gli schemata verborum la paronomasia (frg. 46 M.), la praeteritio (frg. 173 M., secondo Front. 92,21 Van d. Out), il poliptoto (frgg. 58,6; 169,1-3 M.), la variatio (frg. 58,11 M.: quantum luctum, quantum gemitum, quid lacrimarum), l’omoteleuto (frg. 28,1 M.), l’epifora (frg. 59, 2-3 M.), l’antitesi (frg. 17,1-5 M.), la figura etimologica (frg. 28,1 M.), il chiasmo (frgg. 35 e 221), la traductio (frgg. 168 e 169) e molto incisive, per il tono drammatico che esprimono, le sequenze monosillabiche (quid id ad nos: frg. 169,3 M.): non infrequenti le clausole a fine di commata, di cola, di periodi, anche se sostanzialmente circoscritte a schemi di eretici, trochei e spondei, ti­ pici della tecnica asiana (al riguardo si vedano lo studio del P rimmer (Der prosarhytmus in Catos Reden, Festschr. K.Vretska, Heidelberg 1970, p. 174 ss, e da ultimo il contributo del T raglia, Osservazioni su Catone prosatore, Hommage à H. Bardon, Bruxelles 1985, p. 352 ss), che sembrano confermare l’in­ flusso della retorica greca in Catone, il quale ne avrebbe fatto uso come nota qualificante del suo stile e per una impronta di eleganza (Cic., Brut. 63), più che per un naturale ed istintivo processo di armonica struttura del periodo. La sintassi ha le sue particolarità: gli infiniti storici (frg. 114 M.: descendit de cantherio, inde staticulos dare, ridicularia fondere; Orig. 79 P 2.). l’uso dell’in­ terrogativa indiretta all’indicativo (frg. 164,11 M.: cogitate, quanto nos inter nos privatim cautius facimus) e dell’infinitiva priva di soggetto (frg. 166 M.), ambedue derivati tipici della lingua colloquiale, come il sintagma nemo homo (frg. 164,7 M.), e l’uso dei diminutivi (frg. 43 M.: pauculus, mediocriculus), frequentativi e incoativi (calliscerunt, frg. 192 M.), oltre a singolari costrutti

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quali mille passum (Orig. 26 P 2.), nomen est col genitivo (Orig. 71 P2), il comparativo espresso solo con quam nel 2° termine (frgg. 83 e 200 M.), il su­ pino attivo assoluto con verbi di movimento {Orig. 82 P2 : depugnatum ivit; 33: aquatum et lignatum videntur ire; anche frg. 40 M.), i passivi fitur (frg. 65 M.) e fiebantur (frg. 77 M.), nati forse dal valore passivo di fio, coepiam fu­ turo di coepi (frg. 250 M.). Catone infine non teme di creare nuove parole, resistendo così alla spinta della cultura straniera (imprestiti): di qui pisculentus {Orig. 97, P2.), veternosus (frg. I li M.), ridicularia (frg. 124 M.), pauculus (frg. 43 M.), penatores (‘addetti al cibo’, frg. 66 M.), siticines (‘cantori nei funerali’, frg. 223 M.). Aemulus Thucydidìs è definito Sallustio da Velleio Patercolo (2,36,2), un giudizio che sembra essere in linea con quanto dirà di Tucidide nei suoi Opuscula Dionigi di Alicarnasso {De Thuc. 24 e 52), soprattutto per l’uso del lin­ guaggio poetico con arcaismi e forme peregrine, della varietà e anormalità dei costrutti sintattici e stilistici, dell’asimmetria e della inconcinnitas, della brevi­ tà dei concetti (talvolta espressi con perplexae et intricatae sententiae), della èvapyetot e dell’asciuttezza espressiva. Frontone {Epist. 4,3) lo ricorda frequens sectator di Catone nello studium costante e non scevro di pericoli verbo industriosius quaerendi, mentre sulla sua ricerca affannosa e sulla troppo ac­ centuata scelta di vocaboli arcaici si sofferma severamente Svetonio {Gramm. 10: nimia priscorum verborum affectatio; 15,2 e Octav. 86; per cui si veda l’e­ pigramma adespoto riferito da Quintiliano 8,3,29), e delle circonlocuzioni poe­ tiche discute ampiamente Gellio (3,1,6), riportando, mediante l’intervento di un amico di Favorino, il giudizio alquanto inopportuno di Probo, che sottoli­ neava la presenza di perifrasi poetiche in Sallustio, lui subtilissimus brevitatis artifex. Alla brevitas sallustiana fanno riferimento concordemente quasi tutti i cri­ tici antichi, da Seneca {Epist. 114,17, che allude alle amputatae sententiae e al­ la obscura brevitas, mentre Seneca il Vecchio, Controv. 9,1,13, in fatto di bre­ vitas considera S. superiore a Tucidide), a Quintiliano (4,2,45; 10,1,32 e 102, dove è ricordata la sua immortalis velocitas), ad Apuleio {Apoi. 95, che la de­ finisce parsimonia, ‘sobrietà’). Ma è il fondamento arcaico, proprio perchè conferisce dignità e risonanza al discorso, l’elemento peculiare della lingua sal­ lustiana (di qui le riserve di Svetonio): da questa matrice derivano appunto la brevitas, una caratterizzazione di procedimenti stilistici quali la paratassi, l’a­ sindeto, il parallelismo dei periodi in sistema dicolico e tricolico, la gravitas, la ricerca di un lessico e di costrutti insoliti, mentre la varietas {Vinconcinnitas) è il risultato, come dice il Syme, di una pseudo-negligenza, anzi è una voluta raffinatezza (il Richter la classifica uno stile manierato), che serve a conferire robustezza e rapidità espressiva al periodo mediante il procedere spezzato e le continue antitesi. Questo fascino dell’antico si manifesta in modo specifico nella struttura del periodo, naturalmente, e nell’aspetto lessicale, oltreché nella singolarità di alcuni costrutti sintattici (l’ortografia non è argomento di questa

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relazione): sarà sufficiente al riguardo ricordare la presenza abbastanza co­ stante e in funzione di dignità e maestosità di linguaggio dei sostantivi termi­ nanti in -tudo {Iug. 2,4, e 7,4: claritudo-, Catil. 17,2: necessitudo) sull’esempio dei catoniani duritudo (frg. 75 M.; cf Geli. 17,2,19) e claritudo {Orig. 63 e 83 P2. anche Sisen ., frg. 49 P2.); di quelli uscenti in -mentum {hortamentum, inritamentum, cognomentum, dehonestamentum), un retaggio forse di C. Grac­ co, che adoperò decoramentum, inhonestamentum; di rarità lessicali, come torpedo {Epist. 2,8,7; Hist. Orai. Phil. 19 e Orai. Macr. 20 e 26; già in Cato­ ne, Carm. de mor. frg. 3) e prosapia {Iug. 85,10, già in P laut., Cure. 393, Mere. 634; C a t ., Orig. 29 P 2.); di sostantivi come cupido, lubido, in sostitu­ zione di astratti in -tas (presenti invero in C a t ., frg. 82 M.: tenuitatem et plebitatem), ovvero di aggettivi come carus (per caritas), clarus (per claritas, seb­ bene adoperi claritudo, come s’è detto), gravis, honestus ispirati a maggior concretezza e vigore; di aggettivi uscenti in -osus (sulle orme di C elio A ntipa ­ tico, frg. 5 P2 : bellosus, e di S empronio A sellione , frg. 10 P2 : facundiosus), come discordiosus {Iug. 66,2) usato per la prima volta, incuriosus, nemorosus {Hist. 1,120 Maur.: in valle virgulto nemorosaque), tumulosus che distinguono il Sallustio innovatore di vocaboli (cf G ell . 1,15,18), teso a conseguire uno stile più elevato e un impressionismo più marcato, anche attraverso l’uso dei prefissi; di sostantivi discesi da participi, come incultus, obtentus, transgressus e di aggettivi in -bundus, come furibundus {Catti. 31,9), vitabundus {Iug. 60,4 e Hist. 3,37 Maur.), praedabundus {Iug. 90,2), di stampo arcaico (cf C at., frg. 43: ridibundus), come riferisce Quintiliano (1,6,42), citando i catoniani tuburchinabundus (‘mangione’) e lurchinabundus (‘vorace’): un vocabolario tutto finalizzato alla ricerca del pathos, del colorismo, del vigore espressivo, come nei concetti fama vulgatur, conflare pecuniam, bona patria lacerare. Ta­ li riflessi arcaici si ripercuotono nell’uso ampio e vario delle figure retoriche: così anafore, asindeti, anastrofi, allitterazioni, chiasmi, poliptoti, climaces, antitesi, omoteleuti, paronomasie, sinonimie a coppie, forme anacolutiche, fi­ gure etimologiche, non esclusi i pleonasmi, di influsso colloquiale, in contra­ sto con la brevitas, ma certamente di ispirazione catoniana, ecc., si susseguo­ no in un movimento inquieto teso a rompere l’equilibrio classico in nome del­ la gravitas, della espressività, della concentrazione stilistica, scaturite dall’abruptum sermonis genus, dalle amputatae sententiae, da un affettato gusto per Vinconcinnitas. Questa emerge ripetutamente nei costrutti asimmetrici {alii -pars; alii - alii - multi; pars - reliqui; modo - interdum; ad urbem - Galliam vorsus)·, nel­ le alternanze dell'avverbio-sostantivo {recte atque ordine: Catil. 51,4), dei casi {neque per vim, neque insidiis: Iug. 7,1), del singolare - plurale, dei tempi del verbo; dei nessi invertiti {maria terraeque: Catil. 10; mari atque terra: Catil. 53 - ma terra marique: Catil. 13; ad occasum ab ortu solis: Catil. 36; militiae et domi: Hist. 1,1 Maur.); ma accanto si afferma la costruzione del periodo a cola paralleli con sistema dicolico, tricolico (il gorgiano) in strutture asindeti­ che di tipica derivazione arcaica, quasi una variatio alla variatio {Catil. 14,2:

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impudicus adulter ganeo, manu ventre pene: per cui cf C at ., frg. 196 M.; an­ che verbali, Catil. 59,5: appellai hortatur rogai). Un Sallustio dunque che, pur nella sua indiscussa brevitas, non è ieiunus, anzi nelle sue concisae sententiae ha un suo spessore linguistico, una sua densità espressiva; non è propriamente un atticista, come potrebbe indurre a credere il suo abruptum sermonis genus e l’esasperata, audace ricerca di uno stile rapido, asindetico, paratattico: forse risulta più vicino alla brevitas e al colore degli asiani (Leeman), ma da essi di­ stinto “ per la mancanza di scoperti artifici nelle figure, nelle metafore, nel rit­ mo” (L a P enna , Sallustio e la rivoluzione romana, Milano 1973, p. 375). E se talvolta il suo periodare si fa più solenne per l’uso della clausola at­ traverso combinazioni di spondei con dattili e anapesti (il doppio spondeo, ca­ ro a Catone e quindi un riflesso arcaico, il dattilo + spondeo, non ignota a C a t ., frg. 29,2 M.: florere videres e di impronta epica, lo spondeo + anape­ sto e l’inverso), questo può far pensare ad una reazione dello scrittore sabino contro la teoria del ritmo e della prosa metrica da poco definita da Cicerone nel De Oratore e nell’Orator. Ma forse tutto ciò è secondario di fronte alle diverse convinzioni dei due personaggi riguardo alla tecnica stilistica cui deve ispirarsi la storiografia: Ci­ cerone era fautore di uno stile fondato su un genus orationis fusum atque tractum cum lenitate quadam aequabiliter profluens (De Orai. 2,64), Sallustio amava lo stile pressus, ellittico, aspro, inquieto con la ben nota vetustà severa e un pò rude di impasto catoniano. Non è fattore predominante il ritmo in Sallustio, proprio per la sua impostazione culturale, letteraria, tecnica. Allo stesso modo il linguaggio di stampo poetico e quello del pathos (co­ me l’uso di incoativi e iterativi) è circoscritto a determinate tematiche e trova il suo riscontro nell’epica e nella tragedia arcaica, Ennio in particolare: così la rappresentazione di battaglie, la descrizione di luoghi, l’impressionismo ardito e drammatico nel focalizzare i moti delPanimo hanno un loro spazio, necessa­ rio, ma non primario; forse Sallustio, dice il La Penna, ha avvertito i notevoli pregi che allo stile poteva apportare il contrasto tra la rudezza della gravitas e la dignitas del colore poetico. La ‘disarticolazione’, Vinconcinnitas e per così dire la disarmonia sintatti­ ca di Sallustio si snoda in vari filoni. In primo piano la tendenza all’uso del­ l’indicativo paratattico nelle subordinate, siano esse temporali (ubi e postquam invece di cum) che relative e causali (quia, quod, quippe qui), in relazione alla obiettività dello scrittore nel narrare ciò che ha udito e visto di persona, essen­ do il congiuntivo un portato dell’analisi psicologica sempre più complessa e sottile; quindi il ricorso all’infinito descrittivo in costrutto asindetico e con funzione drammatica, a sottolineare il ritmo dell’azione o l’accentuarsi del pa­ thos. E’ ben documentato l’infinito con valore sostantivo (Catil. 20,4: idem velie atque idem nolle; Iug. 34,14: eadem cupere, eadem odisse, eadem metuere), il perfetto con valore di aoristo gnomico (Catil. 2,8; Iug. 17,6; Epist. 13,3), un retaggio del greco al pari di alcuni termini come toreuma (Catil.

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20,12), psallere (Catil. 25,2), pyraticus (Hist. 2,90 Maur.), di avverbi in fun­ zione attributiva (Hist. 3,1 Maur.: recens; Epist. Mithr. 14: circum), dell’ag­ gettivo neutro sostantivato (Catil. 51,12: in occulto·, Iug. 38,5: in incerto-, Hist. 1,5 Maur.: in deterius); il participio passato sostantivato (Hist. 3,74 Maur.: rapto vivere) il gerundivo con valore finale (Hist. 1,77,10 Maur.: legum et libertatis subvertendae) e l’uso di esse con l’avverbio (Catil. 21,1: abunde esse-, Hist. 2,112 Maur.: obviam esse), rifatto su modelli arcaici (C at ., Orig. 95 P 2 : impune est). Non diversamente riflessi arcaici sono l’ablativo di causa espresso con ex (Catil. 12,2: ex divitiis, già in C at ., Orig. 83 P2) o con ab (solo Iug. 31,2: corruptus ab ignavia), l’uso di per + accusativo in senso causale - modale e con valore di strumentale o di avverbio (Iug. 4,7: furtim et per latrocinio potius quam bonis artibus, già in C at ., frg. 17,3 M.; 173,7 M.; C laud. Q uadrig ., frg. 12 P 2 : per contemptum et superbiam; Sisen., frg. 116 P2), il dativo con valore finale (ludibrio esse, habere decori: anche con altri verbi, come Iug. 108,2: conloquio diem deligeret; Hist. 2,66 Maur.: instruere pugnae, raro ed arcaico, sopravvissuto solo nella lingua tecnica (X viri stlitibus iudicandis); l’accusativo retto da fruor, vescor, potior, l’uso del genitivo rela­ tivo, sempre posposto, specialmente con aggettivi (Catil. 51,4: lubidinem ani­ mi-, Hist. 1,148 Maur.: egregius militiae; 3,110 Maur.: dubius consili-, E nn ., Ann. 8: pietas animi-, S isen . frg. 50 P2); l’uso di advorsum (-sus) e penes + accusativo, il primo nel senso di ‘contro’, ‘in opposizione’ (Iug. 89: cibus ad­ vorsum famem est-, 101: paratus advorsum omnia, già in C at ., frg. 166 M.), il secondo col valore di ‘in potere di’ (Iug. 17: penes auctores, già in C laud. Q uadrigario , frg. 20: penes Samnites). La prosa di Cesare è molto distante da quella sallustiana: è infatti piena­ mente realizzato il principio linguistico dell’analogia, non soltanto per quanto concerne Vinauditum atque insolens verbum che va evitato sistematicamente tamquam scopulum (G ell . 1,10,4), ma anche dal punto di vista sintattico, sic­ ché arcaismi (Cesare scrive pater familiae: B.C. 2,44,1), neologismi, colloquia­ lismi debbono essere banditi, non meno che imprestiti ed esotismi, eccezione fatta per i termini tecnici e insostituibili riferiti alla guerra e al mare (come ephippium, ‘sella’: B.G. 4,2,4; salum, divenuto neutro per analogia di mare, nel senso di ‘mare agitato’: B.C. 3,28,4; malacia ‘mare calmo’: B.G. 3,15,3). In verità la sintassi di Cesare ha ben poco da proporre di diverso dall’aspetto limpido e regolare ormai definito: qualche particolarità si può individuare ad es. nell’uso e nelle funzioni del presente storico e nelle variazioni di tempi del discorso indiretto; nella scarsa utilizzazione delle proposizioni relative, causali, temporali sopraffatte dal numero elevato di oggettive, finali e consecutive; nel complemento di durata di un’azione espresso in ablativo (B.G. 1,26,5: tota nocte continenter ierunt)-, nell’uso di appropinquare col dativo. D’altra parte il suo periodare non rifiuta il ricorso ai verbi intensivi e a particolari scelte lessi­ cali, soprattutto finalizzate alla ricerca di espressività e del drammatico nelle

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descrizioni, la cui struttura, pur nel procedere uniforme e chiaro (cf Cic., Brut. 262), si fa rapida, vigorosa, concitata mediante l’asindetica e paratattica congiunzione dei cola (ex. gr. B.G. 7,90,2-7: imperai magnum numerum obsidum. Legiones in hiberna mittit..., per cui Q uintil . 10,1,114 dirà: tanta in eo vis est, id acumen, ea concitatio, ut illum eodem animo dixisse, quo bellavìt, appareat): in ciò è molto vicino a Sallustio, anche per l’uso di alcune figure come impegno espressivo, laddove l’occasione gliene offriva il destro (es. il di­ scorso diretto) per la tensione maggiore e per la grandiosità degli avvenimenti. Così sono abbastanza frequenti il chiasmo (B.G. 6,16,1-4), il parallelismo, l’a­ nafora, l’asindeto, il poliptoto, l’antitesi, l’omoteleuto, l’ironia (specie nel B.C.); si delineano all’interno della frase (anche nei frammenti del De Analo­ gia) chiari segnali del ritmo, con clausole molto evidenti (combinazioni di tro­ chei, spondei, eretici), emerge la tecnica compositiva del periodo mediante l’accostamento di frasi nella forma di cola crescentia (Leeman), con ambitus di dimensione sempre più ampia al fine di maggiore precisazione e chiarimen­ to (dirà Q uintil . 10,1,114: exornat...mira sermonis, cuius proprie studiosus fuit, elegantia). Proprio in prospettiva di questa elegantia, inquadrata nel suo naturale ornatus, nella sua imperatoria facultas, più che negli oratoria orna­ menta (cf Cic. Brut. 262: non va dimenticato che la sua opera ha il titolo di Commentario, ‘appunti’), il lessico di Cesare si avvale di particolari termini che egli dimostra di preferire al posto di altri: così usa diligere invece di ama­ re, flumen invece di amnis, timere invece di metuere, nudare o privare invece di orbare. Sulla linea di queste scelte si afferma etsi al posto di quamquam, li­ cei, etiamsi, quamvis (un solo es. in B.G. 4,2,5 e all’indicativo: quamvis pauci adire audent), quod di fronte a quia, itaque di fronte a igitur, causa + geniti­ vo invece di gratta, dum invece di donec. Nella chiarezza, nella limpidezza congiunte alla ubertas, vale a dire la co­ piosa ricchezza espressiva e stilistica, che Quintiliano (10,1,32) riconosceva a Livio, si riassume interamente l’aspetto della lingua del patavino (studiata am­ piamente da L. KOhnast, Dìe Hauptpunkte der livianischen Syntax, Berlin 1872 e ristampata da Olms nel 1973): una lingua che non rifiuta la nota arcai­ ca e poetica (messa in evidenza da molti critici, dal W òlfflin , Antiochus von Syracus und Coelius Antipater, Winterthur 1872, p. 85 ss, al F edeli, Quad. Storia 1976, p. 255 ss), mediante il frequente ricorso ai verbi intensivi, ai fi­ nali in -arunt e -ere dei perfetti, alla formula allitterante multi mortales (fin dal 1° libro: 9,8), a particolarità di lessico (dies status: 39,13,8 secondo le Leggi delle X II Tavole', satias 30,3,4; duellum, necessum est 39,5,9), a costrut­ ti e forme verbali (sanguinem pluit: 40,19,2; faxo: 6,35,9; adclarassis: 1,18,9; interpretatus con valore passivo: 23,11,4), di morfologia (i dativi: versu in 7,2,7 e fide in 5,13,5), a locuzioni (fusum fugatum: 33,25,9; clam furtim: 21,63,9; diem noctem: 42,54,3) e ai costrutti paratattici in forma asindetica (a 2, a 3, a 4, a 5, a 6 membri, talvolta accoppiati 2 + 2 ovvero 2 + 2 + 2) con precise finalità drammatiche e forse anche ideologiche, secondo i dettami au-

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gustei del ritorno ai prisci mores. Neppure la clausola è trascurata nei tipi del ditrocheo (5,51,3: dSsèrStùr), del dicretico (5,3,3,: rei publìcSS gratular), del trocheo + eretico o eretico + trocheo (care agli arcaici), del peone I + spon­ deo (cara a Cicerone), della chiusa esametrica (4,4,4: Tnstìtudntàr, 5,5,5: OppósùSrè, 28,29,8; cOnsùluSrunt: per cui si vedano gli studi di U llmann, Les clausules dans les discours de Saliuste, Tite-Live et Tacite, Symb. Osi., 1925, p. 65 ss; di A ili, The prose rhytm o f Sallust and Livy, Stockolm 1979, pp. 32-50 e 98-126; di D angel, La phrase oratoire chez Tite-Live, Paris 1982); riaffiora il genitivo relativo (incertus animi: 1,7,6; trepidi rerum: 7,11,4) e la costruzione ad sensum (nobilitas rem publicam deseruerunt: 26,12,8) di sallustiana memoria; si impone la preferenza molto marcata, come già negli arcaici e in Sallustio, per gli aggettivi in -bundus e -osus, alcuni dei quali coniati da Livio (concionabundus: 3,47,3.; cunctabundus: 6,7,2; mirabundus: 26,15,11; controversiosus: 3,72,5; saltuosus: 27,12,9; silvosus: 9,2,7; procellosus: 28,6,10) e l’uso di aggettivi derivati da participi (clupeatus: 44,41,2; galeatus: 44,39,3; parmatus: 4,38,3; argentatus: 9,40,3) e di sostantivate formazioni participiali (postulatus: 4,9,6; inceptus: 1, praef., 10; auctus: 21,31,12, già in Lucrezio; obtentus: 1,56,8, già in Sallustio; suspiratus: 30,15,3, già in Plauto). Caratteristiche sintattiche della frase liviana, che proiettano il Nostro ver­ so costanti più proprie dell’età imperiale, sono da riconoscere nel rapporto temporale tra reggente e sobordinata non sempre vigile e legato alle regole (uso del perfetto congiuntivo nelle consecutive in dipendenza da tempi passati; uso del participio passato + forent, capti forent: 25,19,11; uso dell’imperfetto congiuntivo in subordinate interrogative dipendenti da esse; uso di postquam + imperfetto o perfetto indicativo, ovvero + presente o perfetto congiuntivo, per influsso di priusquam, potiusquam), variazioni di tempi in rapporto ano­ malo, specie nelle descrizioni di situazioni, di fatti, di decisioni (cf 5,39,1, do­ ve da forme di perfetti si passa ad infiniti e quindi a presenti): tutto ciò in chiave di colorismo drammatico, con predominio della paratassi ad esprimere rapidità e vigore di risoluzioni (cf 10,1,1,: Soram atque Albam coloniae deductae. Albam...sex milia colonorum scripta...Arpinatibus...civitas data. Frusinates tertia parte agri damnati). Altre particolarità sono da riconoscere nel­ l’abituale ablativo di comparazione al posto di quam; nella varietà di costru­ zione della proposizione concessiva, ora con l’ablativo assoluto, ora con cum + il congiuntivo, ora con si, ora con dummodo, ora con quamvis, ora con quamquam + indicativo o congiuntivo: problemi questi discussi dal Mikkola nel suo lavoro (1957) sugli aspetti della concessiva in Livio; nel particolare uso assoluto di coepi col valore di ‘iniziare’ (coepit equestris pugna: 2,6,10 da con­ frontare con Sali., Iug. 44,4: silentium coepit) e il suo costrutto con l’infinito passivo (senatus consuli coepit: 2,29,6) invece di coeptus sum + infinito passi­ vo; nell’infinito retto da aggettivi, di influsso greco, come obstinatus (9,25,6), dignus (8,26,6, adoperato solo dai poeti), suetus (5,43,8), dubius (6,14,1, solo in poesia), paratus (34,60,6, già in Cesare: B.C. 1,9,5) e l’infinito soggettivo

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retto da tempus est, fides est, fas est, pretium est, Romanum est, ecc.: ma la sintassi dell’infinito, molto complessa in Livio, è stata ampiamente trattata nel prezioso lavoro del Kuhnast sui fondamenti della sintassi liviana, già citato. Resta da dire sull’uso delle figure retoriche in Livio, spesso ricorrenti in funzione di una maggiore caratterizzazione di personaggi e per evidenziare co­ strutti sintattici e aspetti linguistici. E’ naturale che Livio si avvalga di questi mezzi soprattutto nei discorsi diretti, dove l’abilità oratoria e tecnica dello scrittore ha la possibilità di emergere: così sono usati l’amplificazione in for­ ma di endiade (nutum numenque: 7,30,20; fuga pavorque: 29,28,6; restitantem et tergiversantem: 30,31,8, con iterativi), le sententiae (nei discorsi del li­ bro 30), le similitudini (28,27,11), le allitterazioni (molto frequenti: 28,29,1: a publico parricidio privata pietas, con antitesi parallelistica; 30,30,30, alla fine del discorso di Annibaie: pacis partae paeniteat e 30,31,9, alla fine del discor­ so di Scipione: pacem pati non potuistis), le anafore e i poliptoti (30,30,4, ma frequenti altrove), gli omoteleuti (30,30,5 e 10; 23,48,8), le antitesi (30,30,4 e 19), le figure etimologiche (7,30,20: adnuite nutum), le paranomasie (27,46,1: sine modo ac modestia-, 1,48,2: regis regni), gli isocoli (30,30,13-14), i chiasmi e i parallelismi (30,30,27: pacem suspectam esse Punicam fidem; 30,30,5: ceperim arma...signa contulerim, ma ben documentati altrove); per le figure di pensiero ricorderei la personificazione (Roma dat tura: 30,32,2), la metafora largamente rappresentata con aggettivi (28,28,11 : mecum expiratura res publica), con sostantivi (45,40,2: fructus metallorum), con verbi (27,17,4: res fluunt), la climax (28,28,9: fu d i fugavi expelli, sebbene non molto attestata), gli ossimori (30,30,18), la sineddoche (30,30,20: Martem belli), la metonimia, molto frequente, talvolta con colorito poetico (7,10,10: haurire ventrem)-, inol­ tre la litote, l’iperbole, l’ironia, l’ipallage che nel discorso di P. Scipione (28,27,1-29) hanno una parte rilevante (cf. R. U i.lmann, Études sur le style des discours de Tite Live, Oslo 1929). Nel loro insieme queste figure, che la mia indagine ha cercato di eviden­ ziare, desumendole come specimen dai discorsi di Annibaie e di Scipione nel 1.30, sono adoperate in piena ottemperanza con le norme dettate da Cicerone nel De Oratore (2,62) per la trattazione del genere storico: Videtisne quantum munus sit oratoris historia? haud scio an flumine orationis et varietale maxi­ mum; neque enim reperto usquam separatim instructam rheforum praeceptis: sita sunt enim ante oculos. Ma attraverso l’utilizzazione di tali mezzi tecnici è anticipata la posizione di Quintiliano sullo stile della historia (10,1,31: totumque opus ...a d memoriam posteritatis et ingenti famam componitur: ideoque et verbis remotioribus et liberioribus figuris narrandi taedium evitai). Così Li­ vio per alcuni aspetti sintattici, linguistici, stilistici rappresenta il momento di transizione e per così dire l’anello di congiunzione tra l’età classica e la prima età imperiale.

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Su II Tempo del 13 settembre 1985 (p. 1) è apparso un articolo dell’on. prof. Salvatore Valitutti, riguardante il rapporto di una commissione di 10 scienziati americani della Pennsilvania: “ In che modo l’educazione può svilup­ pare il potenziale dei giovani” . Su questo rapporto il Valitutti ha impostato il suo intervento, che reca il titolo: “ Educazione umanistica, e non corsie specia­ lizzate” . Non nascondo che ho raccolto con piacere le sue osservazioni: “ Il rap­ porto, che ha richiesto alcuni anni di indagini e di consultazioni, ha suscitato un certo malessere nel mondo scolastico e culturale americano, perchè le sue conclusioni sono in netto contrasto con le tendenze prevalse negli ultimi anni, ad avviare i giovani lungo corsie specializzate, con l’intento di creare uno stretto collegamento con il mondo del lavoro. Il rapporto dei dieci scienziati ha condannato questa tendenza, ritenendola controproducente, sia perchè pre­ maturi specializzati non sviluppano la capacità di valutare e padroneggiare le diverse e complesse situazioni, in cui si giuoca il futuro, sia perchè i tipi di oc­ cupazione tra gli uomini mutano rapidamente e incessantemente” . Giustamente nota il Valitutti che “ una corsia di studi specializzati è so­ vente una scommessa perdente sugli orientamenti del mercato del lavoro. Fra poco vi sarà probabilmente un enorme eccesso di offerte nel campo dei computers, mentre mancherà il personale pilota nei settori nuovi, che ancora non si intravvedono” . Il Valitutti sente che “ alla base di essa c’è una lucida visione della com­ plessità della odierna società, che richiede fantasia, agilità mentale e psicologi­ ca, ambientazione storica, spirito creativo, coraggio morale e intellettuale, cioè doti, che i giovani possono acquisire solo con una seria educazione umanisti­ ca. Perché è l’educazione umanistica che arricchisce il senso della scelta, il pa­ norama delle opzioni, la capacità di valutare i problemi secondo la qualità e non la quantità. E si fa osservare saggiamente che uno può imparare in tre mesi ad usare un computer, ma nessuno, o ben pochi, riuscirà a recuperare una cultura che non ha mai avuta” . Perciò ai giovani che vogliono impegnarsi nella formazione culturale e trovarne le motivazioni dobbiamo dire che “ si deve studiare la storia sotto pe­ na di non capire il presente ed essere ciechi al futuro; si deve studiare lingua e letteratura perchè è il patrimonio culturale, in cui un popolo ha le fonti della

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sua creatività, e perchè è sempre più importante comunicare in modo accura­ to, capire se stessi e farsi capire dagli altri; si deve studiare la filosofia, perchè senza la conoscenza dello sviluppo del pensiero, non si ha il senso di ciò che è più o meno importante e segna la capacità di sintesi e di analisi non si può di­ rigere bene nessun lavoro. Anche la scienza e la tecnologia si debbono acquisi­ re con spirito umanistico” . In questa obiettiva e precisa disamina degli orientamenti scolastici e cultu­ rali americani, secondo l’avveduto repporto della Commissione scientifica pennsilvanica, io trovo lo spunto e l’avvio al tema richiestomi in questa As­ semblea congressuale di cultura, circa “ lo studio della storia delle letterature classiche” , perchè sono proprio queste, da cui discendono i rivoli della cultura universale umanistica, che concorre fondamentalmente alla formazione della personalità umana. Argomento importante e grave, che mi costringerà nei limiti del tempo concessomi ad esporvi il mio punto di vista senza prolungarmi in problemati­ che assuete. Di queste una sarà più propriamente storica e scientifica, l’altra più pratica ed attuale.

1. La cultura umanistica

Si parla e si scrive tanto di cultura umanistica classica non solo su giorna­ li e riviste, ma anche su trattati specifici; non esito però a confessare che po­ che volte m’è dato di cogliere il punto focale delle sue origini e dei suoi svilup­ pi storici. Fare la storia delle letterature classiche significa ripercorrere il cam­ mino che l’Umanesimo ha fatto dal suo sorgere sino ai giorni nostri. Avviò la civiltà culturale del mondo antico, a partire da Omero, che R. Cantarella, mio caro amico e collega all’Università Cattolica di Milano, troppo presto scom­ parso alle nostre lettere, definisce con frase poetica “ la fulgida aurora della più splendida giornata vissuta dall’umanità” e aggiunge, a chiarimento del suo pensiero, una pagina, che merita in parte qui risentire: “ Dopo di lui la civiltà greca si dispiega trionfante, in una varietà di forme, che non ha confronti in tutta la storia: per tutte le manifestazioni del pensiero e della poesia e delle ar­ ti, del vivere sociale e della scienza. Anche l’accennarvi appena richiede un troppo lungo discorso. Ma si consideri che, in pochi secoli, l’umanità ha crea­ to cose, che aveva ignorato per millenni; che dai Greci parte l’impulso, che ha mosso la civiltà, per un processo dialettico di azioni e di reazioni in una dina­ mica che tutto ha trasformato; che oggi ancora, dopo decine di secoli, non è possibile ignorare nulla di quanto i Greci hanno sentito, scritto, pensato, co­ struito; che non vi è campo dello spirito, dove i Greci non abbiano creato con assoluta originalità, lasciando documenti che sono apparsi insuperabili ed esemplari per sempre. Tutto questo è già Omero” (Storia della letteratura gre­ ca, Milano 1962, p. 62). E noi possiamo dire che l’Umanesimo classico getta

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proprio con Omero le sue radici profonde, che diventeranno nei secoli l’albero gigante, che si chiamerà Paideia, Philantropia, Humanitas, e che Gelilo defini­ rà eruditio institutioque in bonas artes (2,2-3), nel suo significato più alto e se­ vero di formazione intellettuale e spirituale dell’individuo, perchè essa è con­ quista di tutto l’uomo, armonia di pensiero e di azione, sintesi di ideali etici, politici, artistici, filosofici e religiosi, vastità e universalità di concezioni uma­ ne e divine, che, al di sopra e al di là di ogni particolarismo etnico e naziona­ listico, tendono ad ingrandire le capacità intellettive del genere umano. Per questo motivo, chi si accinge ad entrare nello spirito delle letterature classiche, non può nè deve prescindere di approfondire, anche sotto l’aspetto puramente formale, la fortuna, che ha avuto la parola e il significato di hu­ manitas nella storia della cultura e della civiltà dei popoli, intesa, essa, come consapevolezza di una formazione integrale dell’uomo, che dà quella universalizzazione di concezioni morali, religiose e culturali, dove è senza dubbio, il vanto migliore della superiorità spirituale e culturale della personalità umana. In questo senso, circa una cinquantina di anni fa, W. Jaeger (Paideia. Die Formung des griechischen Menschen 1-3, Leipzig-Berlin 1934-1947) dedicò un ampio studio al posto che lo spirito greco occupa nella formazione dell’uo­ mo, tracciando con mano maestra nel suo sviluppo storico le tappe di quella virtù (arete) normativa ed umana, che alimentò le generazioni deìì’Ellade sa­ cra, e che fu un pò sempre alla radice del pensiero e dell’arte greca dai tempi più remoti dell’epos omerico. Riappare, sotto altra forma, la figurazione ome­ rica cantarelliana, citata. A parte l’eccessivo entusiasmo per quesVEllade sacra, che caratterizza quasi sempre la copiosa produzione dello Jaeger, non può negarsi che un’im­ postazione concreta del problema dell’ideale umanistico dei Greci, sotto i suoi diversi aspetti filosofici, pedagogici, politici, religiosi e sociali, porti a ritrova­ re i germi originari e gli sviluppi di quella paideia greca, che fermenta la lette­ ratura, alimentando i diversi generi letterari: la storia, la commedia, la trage­ dia, la filosofia, la poesia, l’arte, il pensiero e lo spirito nazionale e straniero: creando, insomma, quelle personalità plurivalenti, reclamate dalla Commissio­ ne americana, cui si è accennato all’inizio. E vale la pena di aggiungere che non si può conoscere bene la vita nelle sue molteplici sfaccettature culturali, ed ogni letteratura, antica e moderna, finisce per essere un copione di notizie più o meno stantio destinato a non creare interessi, se non si parte da questi assiomi essenziali, nei quali rientrano, non come corollario, ma come elementi sostanziali, la politica, la retorica, l’eloquenza, le scienze e la musica, che si muovono con proprie limpide fiamme in questa accensione umanistica del sa­ pere universale. Senza entrare nei singoli particolari dei generi letterari, e delle grandi fi­ gure che ne hanno illustrato il contenuto e l’arte, mi piace accennare alla grande epoca di Pericle, il quale pone a base dell’educazione politica dell’uo­ mo la forma plasmatrice del sapere, che rende l’uomo politico all’altezza delle

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sue virtù umane e direttoriali riuscendo ad orientare con la forza della persua­ sione in maniera decisiva la politica di Atene per una trentina di anni sia in tempo di pace che di guerra, e dando con il prestigio della sua elevata cultura uno sviluppo prodigioso artistico ed economico della civiltà greca; e, accanto, il grande movimento enciclopedico sofistico, platonico ed aristotelico, per cui la storia della cultura greca chiude il vecchio volto, e ne assume uno nuovo. Con i Sofisti l’uomo è posto al centro di tutte le cose, anzi la misura di tutte le cose, per ripeterla con Protagora, il cui ideale supremo di umanista sta so­ prattutto nell’educazione formale alla cultura nella consapevolezza della sva­ riata natura: 1’ειί \éyeiv, e non l’eJ πράττεiv è il loro motto programmatico intorno al quale e grammatica, e politica, e filosofia, e poesia ed arte e musica si armonizzano come altrettante forze integrative nella formazione dell’uomo. Da qui si alimenta l’idea occidentale della cultura. Non che tutto nel movi­ mento sofistico raggiunga un privilegio di primato, soprattutto per il suo in­ differentismo religioso e per il relativismo morale e gnoseologico-sociale, che valsero ad arrestare l’azione lievitatrice, che esso intendeva esercitare nella let­ teratura del mondo antico e nella educazione umanistica del tempo. Quel rin­ negare e porre in sottordine i valori etici e religiosi della vita, quel distaccare l’uomo dal concetto di collettività dello Stato, non poteva soddisfare appieno le esigenze di menti più profonde e meditative. Sarà con Platone ed Aristotele che la concezione umanistica greca, supe­ rando le avarie di quella sofistica, acquisterà consistenza e vigore, col ritorno ai valori etici e religiosi deìYareté, con quel difendere ed elaborare l’idea che la vera realtà dell’uomo sta nell’esercizio pratico e teorico della ragione, con quell’armonizzare le esigenze intellettuali, culturali ed etiche della vita, con il rompere i lacci di un troppo esacerbato individualismo, mediante la concezio­ ne di un Gemeinschaftgedanke, che attua l’unità armonica dell’uomo con la collettività, in cui vive. Con Platone ed Aristotele siamo al vertice del vero umanesimo greco, alla scoperta dell’uomo, come unità vivente di senso e di ragione, di spirito e di mente, aperta a tutte le investigazioni della vita. Né si può comprendere la let­ teratura greca, pur con le altre correnti filosofiche (stoicismo, epicureismo), nella varietà dei suoi generi letterari e nella magnificenza dei suoi contenuti e delle sue forme, se non si tengono presenti gli spiriti stimolanti umanistici, che l’hanno generata. E’ vero, né oso negarlo, che anche in questo meriggio di conquiste intel­ lettuali umane c’è ancora dell’astrattismo speculativo e del rigorismo dogmati­ co, appesantito dalle varie correnti dottrinarie del tempo, ma c’è ormai nei migliori tutto un fervore di studio nel dare alla cultura morbidezza e universa­ lità di spirito, soffio di elevazioni spirituali, flessibilità ed eticità di azione. Tendenze, queste, che si acuiscono e diventano norma e guida dell’ultimo grande umanesimo greco, che sfocia ed alimenta la Nuova Accademia, quella che prepara e tramanda al mondo la nuova cultura letteraria. I nobili sforzi di

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Panezio, di fronte al vecchio stoicismo di Zenone, quelli di Filone di Larissa prima, e poi quelli del suo grande discepolo, Antioco di Ascalona, di fronte all’esasperante scetticismo di Cameade, nonché le tendenze mistiche dell’inge­ gno più sottile del tempo, Posidonio, che, esplorando il divino e l’umano, e conciliando atteggiamenti stoici con l’idealismo platonico, getta le basi del nuovo umanesimo filosofico, che tende a ricondurre l’umanità alla comunione naturale con Dio: sono, codesti, i veri creatori della nuova Universalitas di idee nel piano della storia culturale, e della nuova concezione politica dell’uo­ mo e della società: il nuovo Weltgedanke del genio di Polibio. La via al sorgere della grande cultura classica romana è ormai aperta. C’è in Roma, in questo secondo secolo della Repubblica, un fervore di spiriti nuo­ vi, educati al culto delle lettere, nazionali e straniere. Superato il rigorismo antiellenico delle generazioni precedenti (ripensare a Catone), essi si erano posti alla scuola di grandi maestri greci. E’ un’accolta di spiriti eletti, romani ed ita­ lici, storici, pensatori e poeti, che si stringono attorno alla nobile figura del giovane Scipione l’Emiliano, vero genio della stirpe, uomo del pensiero e del­ l’azione, tempra autentica di soldato, di politico e di scrittore. Qui è Lelio, il Saggio, qui sono Lucilio e il punico Terenzio, qui Manio Manilio, Q. Mucio Scevola, Rutilio Rufo, Emilio Scauro, Q. Tuberone, ed altri, spiriti tutti finis­ simi e ricchi di profonda umanità, ornati di nobiltà, di severità e di saggezza, che, agli ideali letterari ed artistici, congiungono quelli della vita pubblica, del­ l’attività politica, intesa a potenziare il valore e il nome della patria, e a con­ sacrare ai secoli l’ormai conquistato concetto della missione civilizzatrice di Roma. E’ questa aristocrazia di spiriti e di intelletti, in uno col fascino della Roma vittoriosa, che suscita ed accende l’ammirazione degli ultimi grandi maestri dell’ellenismo, i quali, nel declino degli splendidi ideali della cultura patria, depongono nella nuova coscienza della giovane generazione romana i semi maturi della loro grande eredità culturale. Scipione e Lelio si erano già entusiasmati agli insegnamenti di Diogene stoico, di Critolao e di Cameade, i tre rappresentanti della Stoa, del Peripato e dell’Accademia, venuti a Roma come ambasciatori nel 155 a.C. Polibio, tut­ to fisso nello splendore delle glorie di Roma, e stoicamente persuaso della sua provvidenziale missione universale, mentre ne scruta profondamente l’anima e ne esalta l’ordinamento costituzionale, diventa l’educatore del genio politico dell’Emiliano, e, con lui, delle giovani generazioni romane. Panezio, scende a Roma - per ripeterla con Max Muhl (Die Antike Menschheitidee in ihrer geschichtlichen Entwichlung, Leipzig 1928, p. 61) dall’alto della sua speculazio­ ne, e piega ad orientamenti pratici ed etici la sua filosofia. Infonde all’etica degli Scipioni l’elevatezza platonica e la saggezza stoica, né indugia di additare in Roma vincitrice la grande città cosmica, dalle armonie umane e divine, va­ gheggiata dallo stoicismo. Ogni ideale di cultura speculativa astratta tende con lui ad innestarsi nelle reali necessità della vita romana, della convivenza socia­ le, e la tanto decantata saggezza stoica rimane una pura formalità di pensiero,

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se non mira ad identificarsi “ con l’accorto uomo di Stato, col reggitore di go­ verno, con l’eletto dell’ingegno e della cultura del circolo degli Scipioni” che sa fare del Romanus Yhomo humanus. Così gli eredi della sapienza greca fanno dono della loro cultura alla nuo­ va civiltà nascente, compiendo fra loro una felice fusione: tutti i complessi motivi artistici, storici, filosofici, etici, politici, religiosi, dalla precedente ela­ borati e sapientemente rifiniti, vengono ad alimentare la nuova. Ha fine la paideia greca e sorge Yhumanitas romana, di contenuto universale, e “ pure in­ confondibilmente romana, che attingendo succhi nuovi dall’altra, che l’ha pre­ ceduta, non coincide con nessuna astratta concezione ellenica, è pensiero con­ creto, è coscienza più che pensiero, della dignità e della personalità umana, della propria e dell’altrui, al di là delle frontiere della stirpe; è alta spiritualità, universalismo, sapienza, bellezza, armonia dell’uomo intero, humanitas, virtù operante, che si attua nella vita civile, politica, e letteraria, non fredda dottri­ na, ma elevamento morale” : sono parole del mio grande maestro, Gino Fu­ naioli, a Milano, uno dei più illustri studiosi dell’umanesimo romano. “ Otium e negotium - egli continua - eticismo e religiosità, intelligenza e volontà, forza, vigore, severità, grazia, squisitezza e nobiltà d’animo, affianco con le lettere e la cultura; è saggezza, equilibrio di sentimento e di azione, finezza di gusto, armonia di stile nell’arte e nella vita: è conquista dei valori superiori dello spi­ rito umano” (cf G. F unaioli, Studi di Letteratura Latina 1, Bologna 1946, p. 63 ss; merita ricordare anche E. B ignone, Storia della Letteratura Latina 1, Firenze 1942, p. 391 ss). E’ questo l’umanesimo perenne di Roma, il quale nasce nel circolo de­ gli Scipioni, a contatto della più elevata aristocrazia intellettuale del tempo, greca e romana, per lievitare tutta la letteratura romana prima, e poi quella mondiale.

2. Lo studio della letteratura latina

Ma qui, per capire bene gli sviluppi e gli spiriti della classicità romana, occorre premettere alcune riflessioni. La letteratura latina, essendo l’espressione della civiltà di un popolo, re­ ca, fin dal suo nascere, l’impronta di una sua originale spiritualità, che carat­ terizza le tappe del suo faticoso cammino. Essa è, all’inizio, una letteratura legata alle finalità etiche e pratiche della vita, alla realtà delle cose e agli interessi della comunità e dello stato; una let­ teratura quindi che non conosce ancora l’autonomia intellettuale, specialmente nel campo della poesia, la quale, ad eccezione di quella religiosa, veniva rite­ nuta un’esercitazione inutile, e quasi dannosa. Chiara è al riguardo l’afferma­ zione di Catone (presso G ellio 2,2,3), la quale è anche una testimonianza di

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costume: “Poeticae artis honos non erat: si quis in hac re studebat aut sese ad convivio applicabat ‘grassator’ vocabatur” . Il momento politico, inteso nell’autentico senso romano (applicazione, concentrazione di ogni iniziativa nella floridezza della res publica) dominava gli spiriti e le menti dei governanti e delle masse; su di esso gravitava la stessa estimazione pubblica. Basti pensare all’esempio mirabile di Menenio Agrippa, riferito da Dionigi di Alicarnasso (3,1-2). Esso rimane per la condotta politica un indice fulgido e meraviglioso dell’antico vir Romanus. D’altra parte, questa tendenza agli interessi etici e politici della vita conferì alla letteratura romana, alcune sue particolari caratteristiche, che rima­ sero fondamentali in tutto il suo sviluppo storico, fino all’età della decadenza. Ed anche quando con l’assorbimento della cultura greca, essa va diventando sempre più letteratura nazionale, avviandosi in pari tempo alla sua completa autonomia intellettuale, ed anche, nel meriggio delle sue splendide creazioni artistiche, anche allora essa conserva integri i suoi spiriti primitivi, i suoi ideali etici politici e sociali. Non è qui il caso di intrattenersi a ricordare quali siano queste prerogative che caratterizzano inconfondibilmente gli spiriti della let­ teratura romana, vale però la pena di fissare alcuni concetti, che potranno servirci di chiarimento del nostro assoluto e di quanto stiamo per dire al riguardo. Roma non ha mai conosciuto, ne tanto meno coltivato, neppure sotto gli influssi della filosofia razionalistica greca, un moralismo astratto, disimpe­ gnato dai principi etici della vita e delle responsabilità, morali e sociali. E’ questo un momento da tenersi presente, allorché si tratta di interpretare il contenuto essenziale e la sostanza animatrice di tutta la letteratura repubblica­ na e di molta parte di quella augustea. Anche nelle contrastanti lotte di classe, anche nelle antitesi tra auctoritas e libertas, negli scontri dei partiti e delle di­ verse correnti di opinioni pubbliche e private, che si verificavano soprattutto nell’ambito delle maggiori cerehie familiari, mai fu messo sotto giudizio il do­ vere assoluto di sentirsi anzitutto vir Romanus nella buona come nell’avversa fortuna. L’epica, la storia, e molta parte della lirica latina di questo periodo sono l’espressione adeguata del profondo sentimento civico romano, nel quale si innestano e trovano alimento i nobili ideali della virtus, della libertas, della iustitia, della dignitas e della gravitas, nonché della fides, della pax, deXYhonor e del priscus pudor; virtù, queste, ricche, tutte, di pathos civile e religioso; an­ zi sono esse, specialmente la iustitia e la libertas, che costituiscono il ‘codice morale’ del cittadino romano, e che lo spingono a sentire e ad agire secondo le più pure ed elevate esigenze di socialità umana e di ossequio religioso. Anche, la commedia e la tragedia, che pur nell’ossequio ai modelli greci appaiono quasi estranei a quei principi, non sanno rinunciare al compito che esse hanno nella formazione etica delle masse nell’ambito della società e dello Stato. Perchè è risaputo che il Teatro ieri, come oggi, è stato sempre la specu­ la, puntata sui costumi degli uomini e sulla vita della società, che vi trovano

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non solo diletto, ma anche insegnamento, come insegnamento vi trovavano i Romani di allora, che vedevano i vecchi eroi greci ricalcare le loro scene pro­ prio quando accese erano le lotte politiche ed accesi erano i contrasti tra liberi e schiavi, tra potenti e plebei. Allargandosi gli orizzonti della cultura, che va sempre più lievitandosi di fermenti greci, anche gli spiriti romani si aprono a nuove conquiste. La lingua si arricchisce e si perfeziona e diventa il vincolo più efficace ed universale del­ lo spirito unificatore di Roma, con la nota politica e moralista nella Satira di Lucilio: un’arguzia “ strettamente italica, drizzata a fini correttivi ed educativi contro una realtà, che offende il sentire, i gusti e la morale” (G. F unaioli, o.c., p. 21). E’ questo, senza dubbio, un mondo nuovo nella emancipata personalità umana, e su di esso si innestano profonde stratificazioni ideologiche, permeate dal fecondo dissidio tra individuo e società, tra Roma e il mondo, tra spirito e vita, tra coscienza e tradizione, tra religione e mistero, tra agnosticismo e cre­ denza, tra fede e pessimismo, tra frenetiche aspirazioni e desolati rimpianti, tra gioie e dolori, tra amore e morte. Siamo così al vertice del cammino della letteratura, al dominio del suo mondo interiore, da cui sboccia “l’io creato­ re”, quella intimità spirituale e, insieme, quella supremazia intellettuale, da cui nasce la vera humanitas Romana: quell’humanitas, che non ha riscontri nelle letterature di altri popoli, perchè essa non è solo conquista del mondo in­ teriore, penetrazione nelle zone dello spirito, armonia tra pensiero ed azione, tra contenuto e forma, ma anche affinamento di tutto l’uomo morale: quella che ha fatto del vir Romanus Yhomo humanus. Ed è anche vastità di dottrina, dominio del sapere, che mira a cercare “ il divino che è in noi” , a rivelare agli uomini chi essi siano, quali i fondamenti morali del loro pensiero e le giustifi­ cazioni etiche e di giustizia e libertà delle loro azioni. E’ stato ben detto che humanitas è tutto ciò che rende uomo l’uomo, per­ ché essa è il grado progredito dell’autocoscienza umana, in virtù della quale l’uomo si riconosce integralmente come uomo, cioè come essere dotato di pos­ sibilità peculiari particolarmente elevate ed al tempo stesso assume questo ri­ conoscimento come norma della sua condotta” (R. Rieks, Homo, humanus, humanitas, Munchen 1907, p. 21). Ho scritto altrove (B. R iposati, Varrone, e Cicerone, Maestri di Umanità, in: “ Annuario dell’Università Cattolica di Milano” , 1948, p. 101-121; ivi ab­ bondante bibliografia), e giova qui ripetere che essa, Vhumanitas, si annuncia “ già nelle prime distinte personalità della letteratura latina con Catone e con Appio Claudio Cieco, si concretizza nel circolo degli Scipioni, penetra nella cultura del tempo, si fa strada nella poesia, tocca il vertice con Virgilio, Catul­ lo, Orazio e gli Elegiaci, raggiunge l’apogeo con l’aristocrazia intellettuale di Varrone e Cicerone, si interiorizza e quasi si spiritualizza con Plinio, Seneca e Marco Aurelio, diventa caritas nella letteratura cristiana a partire da Tertullia­ no, Minucio Felice, Ambrogio, Agostino, Cassiodoro, sino a San Benedetto,

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Leone Magno e Isidoro di Siviglia. Nella mia Commemorazione Bimillenaria su Virgilio all’Istituto Lombardo di Milano ho avuto modo di entrare nel mondo umano e artistico di questi giganti della poesia e della prosa latina cri­ stiana. Così si scopre il nuovo volto della letteratura latina, che appunto per que­ sto a noi piace e sentiamo tanto vicina a noi. Ricca di vitalità perenne e di modernità di sentimenti, di saggezza, di spirito, di arte e di poesia; quando es­ sa cadde come espressione di civiltà col tramonto della stessa romanità, lasciò nella storia delle nostre letterature un tesoro prezioso da custodire e da arric­ chire di nuove conquiste spirituali: l’Umanesimo del mondo moderno. Ho voluto indugiarmi, forse più del conveniente, su questi concetti di ca­ rattere generale, non per pura compiacenza dottrinale, ma perchè essi ci devo­ no servire di luce e di guida nella soluzione d’alcuni problemi, che riguardano la nostra cultura attuale; uno dei primi è il quesito: Che valore ha oggi la cul­ tura classica, e quindi lo studio delle letterature antiche? Non è essa estranea alla formazione di una cultura storico-scientifica, rappresentando un ideale paternalistico di cultura, ormai superato? E’ questo un problema, che ha senza dubbio la sua complessità, e che esi­ ge perciò un discorso preciso senza atteggiamenti polemici o pregiudizi apolo­ getici, e che chiama a raccolta quanto siamo andati dicendo fin qui, in accor­ do col già riferito verdetto della Commissione culturale americana; e qui tro­ vasi già, nell’assennatezza di quegli eminenti scienziati, la risposta più convin­ cente ed adeguata. E’ certo, e storicamente provato, che oggi la cultura classica ha perso molto del suo mordente umanistico formativo, ed è scesa dall’alto piedistallo di dominio, che conservava saldamente dall’Umanesimo in poi, sino al primo nostro 900 nelle scuole e nella vita sociale. La scoperta di altre culture, ravvicinamento ad altre civiltà, da noi più remote di quella greca e latina, il progresso delle scienze sociologiche, antro­ pologiche, etnologiche e geografiche hanno creato in noi un interesse vivo di novità, e ci spingono alla ricerca dell’inesplorato e del primitivo, un po’ come i Romantici verso la “ poesia fanciulla” . Al che si aggiungono le sbalorditive conquiste delle scienze tecniche e fisiche, matematiche ed astrologiche, che ci hanno rivelato e continuano a rivelarci, un mondo nuovo, insospettato, oltre i confini del tempo e dello spazio. E ad esse fanno puntello le moderne escogitazioni filosofiche, che mirano a considerare l’uomo non più al centro del mondo come essere razionalizzan­ te, ma al centro della storia dell’umanità, come realizzatore della storia della prassi, intesa a subordinare ogni attività tecnica teorica e scientifica alle esi­ genze dell’attività pratica e del bisogno. Si generano così le corsie di studi specializzati, che (secondo l’icastica espressione del Valitutti) “ sono sovente una scommessa perdente sugli orienta­ menti del mercato del lavoro” ; e si profetizza, come dicemmo, un’enorme ec­

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cedenza di offerte nel campo dei computers, e carenza di personale pilota nei settori nuovi, che ancora non si intravedono. Nascono così le “ due culture” , che oggi si competono il dominio del mondo culturale e che hanno creato un pietoso conflitto tra “ l’umanesimo della scienza e della tecnica” e “ l’umanesimo delle lettere e delle arti” . Non sto qui a discutere (e del resto si è già scritto e detto tanto al riguar­ do, e si continuerà purtroppo ancora a dire ed a scrivere!) quale delle due cul­ ture, sia la più prestigiosa, quale sia destinata ad avere il sopravvento nella sto­ ria dell’umanità (cf anche C.P. Snow, Le due culture, tr. it. Milano 1960). Dirò solamente che l’errore che si commette oggi da parte dei “ conservatoristi” (umanisti) e da parte dei “ progressisti” (scienziati) è quello di giudica­ re unilateralmente il gravoso problema. C’è, infatti, chi, arroccato su posizioni intransigenti, vede nella cultura moderna, disancorata dai càrdini istituzionali della tradizione, un naufragio dei principi fondamentali della formazione umana, soffocata dai nebbiosi ap­ parati ideologici e dallo staripante tecnicismo della scienza di oggi; c’è, invece, chi si getta a corpo morto tra le braccia di questo “ nuovo umanesimo” , e ri­ fiutando il passato, ne fa sua l’ispirazione e la tecnica e lo predica come ban­ diera di conquista e di progresso della civiltà umana. Due eccessi da evitare. Nel mondo del sapere e delle realizzazioni dell’in­ gegno umano non ci sono barriere divisionali, tutt’al più inclinazioni, indirizzi diversi, che convergono però nell’unica realtà delle possibilità creative dell’uo­ mo. Comunque, se caratterizzazioni si vogliono fare, una cosa è certa: l’uma­ nesimo classico è quello che ha creato l’universalità della cultura, della poesia e dell’arte del mondo antico e moderno, e come tale rimarrà nella storia della cultura nei secoli; la sua voce potrà essere assopita, ma non soffocata. L’uma­ nesimo moderno, se così lo vogliamo chiamare, poggia, come si esprime il grande fisico Werner Heisenberg, sullo studio della natura, ne scopre i segreti, ne allarga i confini, arricchisce e nobilita i valori della cultura tradizionale, ri­ vela le capacità inventrici, anzi creatrici, dell’uomo, e gli dà la gioia di assapo­ rare la verità dell’aforisma sofistico:... “ l’uomo è la misura di se stesso” (W. H eisenberg, Fisica e Filosofia, tr. it. Milano 19633; cf H. P feiffer , Denken und Undenken, Bonn 1977). Perciò, un umanesimo completa l’altro, e tutti e due si danno la mano nel costruire il grande edificio del mondo del pensiero, tutti e due sono rivelazione delle ammirabili conquiste della intelligenza umana, che dalle cose terrene av­ via alla contemplazione di quelle celesti e ci strappa, commosso, il grido del Profeta: signatum est super nos lumen vultus tui, Domine (Ps. 4, 7). Questo è l’unico grande umanesimo, che sta nella scoperta dell’uomo e del mondo in tutte le loro dimensioni, e che vanta i suoi antesignani nelle più prestigiose personalità della storia: da Platone ad Aristotele, da Varrone a Ci­ cerone, da S. Agostino a Leone Magno, da Newton a Galileo.

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Che se poi, sotto lo stimolo e le suggestioni delle avanzate ideologie, l’u­ manesimo moderno dovesse romperla col passato, in quanto questo con le sue ammirabili conquiste di sapienza e di cultura, con i suoi nobili ideali di verità, di giustizia e di libertà rappresenta un ostacolo insormontabile per la forma­ zione dell’uomo “ nuovo” , di stampo marxista, allora si frantumerebbe e si annichilerebbe il vero concetto di umanesimo, si creerebbe una frattura incol­ mabile nella cultura universale, e nella cenere di questa rovina acquisterebbe valore l’assurda affermazione del Gramsci: “ col mondo greco e latino non ab­ biamo più a che fare; ...l’attività più spiccata moderna è quella economica, sia teorica che pratica, e quella scientifica; e di esse nulla continua il mondo ro­ mano” (A. G ramsci, Gli intellettuali e l ’organizzazione della Cultura, Torino 1955, p. 50; sull’argomento cf “Alma Mater”, 31/3, Milano 1977, pp. 39-52).

NUOVI ORIENTAMENTI METODOLOGICI NEGLI STUDI CLASSICI E NELLA DIDATTICA DELLE LINGUE E DELLE LETTERATURE CLASSICHE Corrado CALVANO

Premessa

La relazione intende offrire una rapida e sommaria panoramica di alcuni dei più recenti e discussi orientamenti nello studio del testo classico, una car­ rellata un po’ strabica, per altro, perché deve guardare con un occhio gli svi­ luppi in sede di elaborazione teorica e con l’altro i problemi concreti della pra­ tica quotidiana dell’insegnamento delle letterature classiche nelle nostre scuole, in cui tali sviluppi in qualche modo si riflettono. La funzione del mio discorso è dunque soltanto quella di additare alcuni temi di dibattito tra i partecipanti di questo convegno. Fortunatamente le pubblicazioni che illustrano nuovi ap­ procci al testo classico si stanno moltiplicando e vi è già ampia possibilità di documentare con ricca bibliografia quanto sono costretto qui ad indicare trop­ po frettolosamente.

1. La centralità del testo

Con l’opera La letteratura considerata nei suoi rapporti con le istituzioni sociali, M.me de Staèl, nel 1800, richiamò l’attenzione, com’è noto, sulla va­ riabilità nel tempo e nello spazio della nozione del Bello, e diede un forte im­ pulso a quel metodo storicistico che ha dominato la scena della critica lettera­ ria per tutto l’Ottocento e gran parte del Novecento. Infatti fin dagli inizi del secolo scorso gli studiosi concentrarono sempre più la loro attenzione sulle condizioni storiche in cui nasce l’opera letteraria. Si cominciò a spiegare tutto quanto era in un’opera attraverso fattori di ordine sociale, economico, politi­ co, talvolta anche climatico. Si cercò di fondare così una critica letteraria ‘scientifica’, cioè una critica dai giudizi obiettivi, dimostrabili e quindi accetta­ bili da tutti. Sorse, sotto l’influsso della teoria darwiniana, una sociologia let­ teraria basata spesso sul presupposto che, come le specie, pure i generi lettera­ ri nascono, crescono, raggiungono un punto di perfezione, declinano e muoio­ no. Si diffuse inoltre l’idea che fosse possibile risalire dall’opera in quanto ef­ fetto alla causa, cioè la realtà che aveva ispirato l’autore, ritenendo che anche lo scrittore più originale fosse un deposito delle generazioni anteriori, ed un collettore dei movimenti contemporanei. Partendo dal presupposto che vi fos-

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se un adeguamento tra l’uomo e la sua opera, la letteratura fu considerata co­ me uno specchio e l’opera poetica come un riflesso dell’ambiente fisico-sociale e della psicologia dello scrittore. Negli ultimi decenni dell’Ottocento la fondazione di una ‘scienza’ della letteratura trovò nuovo impulso nello sviluppo delle scienze sociali, che, sotto l’influsso del positivismo, dell’evoluzionismo e del pragmatismo, cercarono di acquisire una metodologia simile a quella delle scienze esatte e biologiche. Per molti anni però il pensiero idealistico cercò di ostacolare il cammino delle scienze sociali, avanzando obiezioni e riserve più o meno valide contro l’appli­ cazione di metodologie scientifico-sperimentali nel campo della psicologia umana e della vita sociale. L’area dell’estetica, dell’arte e della letteratura attrasse ben presto l’atten­ zione degli psicologi che cercarono di formulare in ipotesi di ricerca sperimen­ tale i grandi interrogativi sull’opera d’arte e sulla creatività degli artisti e dei poeti. E’ infatti del 1876 la pubblicazione dell’opera dello psicofisiologo G.T. F echner , Vorschule der Aesthetik, che può essere considerata come l’inaugu­ razione della moderna estetica sperimentale. Agli inizi del Novecento poi cominciarono a diffondersi le teorie psicana­ litiche, basate essenzialmente sul postulato di un’equivalenza tra fatto estetico ad espressione simbolica di pulsioni consce ed inconsce. Alcuni studiosi si inte­ ressarono della creazione delle forme estetiche, altri invece della loro fruizione da parte di un soggetto contemplante ma non creante (o tutt’al più ‘ri­ creante’). Gli scrittori, riflettendo sulla loro attività, comunque, furono i primi a contestare la validità degli approcci positivistici nello studio dell’opera poetica. Già nel 1869 infatti Flaubert si chiedeva quando i critici avrebbero smesso di essere storici per fondare invece una critica che si occupasse dell’opera in se stessa. Alcuni decenni più tardi, nel 1919, il poeta Valéry si faceva portavoce autorevole della protesta da parte degli scrittori nei confronto di una storia letteraria che cercava di spiegare la genesi e la struttura di un’opera poetica analizzando l’ambiente sociale del poeta, o delineandone i tratti psicologici ca­ ratteristici attraverso l’indagine biografica: “ Ammassate tutti i particolari che volete sulla vita di Racine, ma non ne trarrete mai l’arte di comporre versi. Tutta la critica è dominata da questo principio sorpassato: l’uomo è causa del­ l’opera, come il criminale agli occhi della legge è causa del crimine. Ne sono invece l’effetto'. Ma tale principio prammatico allevfà il giudice ed il critico: la biografia è più semplice dell’analisi” (P. V aléry, Note et digression, 1919; cit. da M. L éonard e N. L eroux, La critica letteraria: tra scienza e creazione fa n ­ tastica, in: M. D ufrenne e D . F ormaggio, Trattato di estetica 2, Milano 1981, p. 186). L’antinomia tra un approccio scientifico (‘nomotetico’) ed un approccio intuitivo (‘idiografico’) assunse un carattere particolare quando formalisti e strutturalisti separarono la forma (il significante) dal contenuto (il significato)

dell’opera, e sostennero che la funzione estetica propria della letteratura (la poeticità) fosse da ricercare nelle caratteristiche della forma, nelle strutture del significante. Il più noto dei sostenitori di questa tesi formalistica è rimasto R. Jakobson, secondo il quale la funzione poetica è caratterizzata, dal punto di vista linguistico, essenzialmente dall’orientarsi della lingua verso il messaggio per se stesso e non verso il mittente (come nella funzione ‘emotiva’) o verso il destinatario (come nella funzione ‘conativa’). Sotto l’influsso del formalismo letterario e dello strutturalismo linguisti­ co, si è venuto così costituendo in questi ultimi decenni un filone critico che si è staccato decisamente dalla ricerca storico-erudita centrata sulla biografia del­ l’autore e sulla scoperta delle eventuali tracce psicologiche lasciate da questi nell’opera, focalizzando l’obiettivo sul testo letterario considerato in se stesso. E’ talmente evidente questo orientamento negli studi letterari più recenti che C. Segre ha scritto all’inizio degli anni ’80: “ Una parte cospicua delle tenden­ ze critiche contemporanee può essere riportata ad un minimo comun denomi­ natore: il primato del testo” {Segni, sistemi e modelli culturali nell’interpreta­ zione del testo letterario, in: M. D ufrenne e D . F ormaggio, o . c., p. 157). Centralità o primato del testo significa che esso ha una sua struttura pre­ cipua, come un ‘macrosegno’ o un ‘ipersegno’, che porta ad un significato pu­ re peculiare, poiché il significato complessivo del testo non è soltanto la som­ ma dei significati di ogni singolo elemento significante che lo compone, ma è qualcosa di più e di diverso da essa, in quanto prodotto dalla selezione e dal­ l’integrazione reciproca dei singoli significati. E’ evidente però che, dal punto di vista metodologico, mentre lo studio del significante si presta bene per un approccio scientifico (nomotetico), l’analisi dei significati richiede operazioni mentali complesse e non approda quasi mai a risultati fissi, definitivi, incon­ trovertibili. Gli orientamenti teorici più recenti in campo letterario hanno dun­ que messo in evidenza a tal punto il polimorfismo del testo letterario, che molti studiosi sono caduti in un profondo scetticismo relativistico che propone continuamente letture nuove, senza riuscire a porre dei limiti all’arbitrio, o hanno assunto delle posizioni eclettiche, accogliendo qualsiasi tipo di approc­ cio che si presenti con un minimo di consistenza teorica ed esponendosi quindi al rischio continuo di conclusioni contrastanti ed incoerenti. Una volta stacca­ ta l’opera dal suo contesto storico e dalla personalità del suo autore, la com­ prensione del significato risulta infatti affidata all’intelligenza, al gusto ed al­ l’arbitrio del fruitore, che la interpreta liberamente secondo le sue esigenze e le caratteristiche della sua personalità e del suo ambiente socioculturale, perve­ nendo ad una valutazione estetica del tutto privata, incomunicabile ed inspie­ gabile agli altri. L’aspetto indiscutibilmente positivo di una metodologia di analisi dell’o­ pera letteraria che, invece di centrarsi sulla ricerca storico-erudita, si concentri sul testo è dato dal fatto di eliminare così molti rischi di affastellamento di erudizione non pertinente, e forse fuorviante nel momento interpretativo.

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Questo richiamo però alla concretezza del testo non deve condurre alla tesi che tutto quanto serva ad una corretta interpretazione dell’opera sia immanen­ te ad essa, alle parole di cui si compone. I significati nel linguaggio infatti la­ sciano molto spazio all’indeterminatezza. Sicuramente è un sano principio me­ todologico quello che conduce ad iniziare l’analisi di un’opera dalla sua strut­ tura linguistica, ma non è possibile fermarsi a questo primo stadio. Indubbia­ mente il critico ed il lettore in genere debbono osservare minuziosamente il contesto timbrico, articolatorio, ritmico e sintattico (anche transfrastico) del­ l’enunciato letterario, ma quando si entra nel campo della semantica è neces­ sario il ricorso ad elementi esterni al testo, che possano guidare e determinare la nostra interpretazione. Com’è ormai noto a tutti, il formalismo si è insinuato nella critica lettera­ ria contemporanea soprattutto attraverso le ricerche condotte dal 1914 in Rus­ sia dal Circolo Linguistico di Mosca e dalla Società per lo Studio del Linguag­ gio Poetico (Opojaz) di Pietroburgo. Gli studiosi russi riconobbero la ‘lettera­ rietà’ in una particolare manipolazione della lingua comune ed in un uso par­ ticolare delle risorse del linguaggio, indagarono i segreti della lingua poetica con i moderni procedimenti della linguistica, e quindi staccarono l’oggetto poetico dal suo autore, dal suo mondo socio-culturale, ed anche dalle risposte emozionali e psicologiche del lettore, per contemplarlo nella sua autonomia. E’ vero che non negarono i significati (che chiamarono ‘materiali’) ma li con­ siderarono in qualche modo come esterni alla letteratura in se stessa, come elementi fra gli altri dell’opera letteraria, e sostennero chiaramente che la pe­ culiarità del linguaggio poetico consiste nel fatto che esso non rinvia a realtà esterne, essendo la combinazione dei segni un’arte in sé e per sé e non un mez­ zo espressivo. Nella foga delle loro tesi estremistiche ed intransigenti, nell’av­ versione indomita ad ogni storicismo, sociologismo e psicologismo, agli inizi si mostrarono perfino indifferenti alle figure retoriche, al mondo della metafora e dell’imagine. A molti anni di distanza dalle polemiche, oggi, con un giudizio pacato che considera la funzione storica del movimento formalista in un dato mo­ mento dello sviluppo degli studi letterari, possiamo considerare il formalismo una ‘felix culpa’, sia per il richiamo alla concretezza del testo sia per lo stre­ nuo tentativo di molti studiosi di fondare una scienza letteraria autonoma. Purtroppo certe vicende storiche della Germania, della Francia e, in particola­ re, dell’Italia non hanno permesso alle dottrine formaliste di fornire tempesti­ vamente il loro contributo. Nella prima metà del nostro secolo infatti il ruolo guida in Italia è spettato alla critica crociana. Il ventennio che precedette la se­ conda guerra mondiale rappresentò per l’Italia un periodo di dannosa chiusu­ ra, di astinenza libraria, con l’esito di uno statico provincialismo entro cui le operazioni culturali si attuavano, salvo eccezioni benefiche, senza il lievito, la suggestione e l’influsso del pensiero più avanzato degli altri paesi (cf I Metodi critici in Italia, Roma 1975, a cura di M. Corti e C. Sorge) E’ avvenuto così

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che la critica formalistica russa degli anni Venti ha cominciato a stimolare la riflessione italiana circa quarant’anni dopo la sua fioritura. Per quanto poi riguarda più direttamente le letterature classiche, dobbiamo costatare che tale lasso di tempo è ancora più ampio, poiché soltanto dagli anni Settanta sono stati pubblicati studi con un accentuato carattere formalistico secondo la me­ todologia propriamente strutturalistica. Anche i primi formalisti, sbolliti i fervori polemici, a mano a mano che approfondirono le conseguenze delle loro tesi, ammisero sempre più l’esistenza e l’importanza di altre strutture che, oltre a quelle più propriamente formali, interessano la poeticità di un’opera letteraria. R. Jakobson, nei Saggi di lin­ guistica generale (Milano 1966) si è soffermato sul fenomeno, ad esempio, del­ la trasposizione di un romanzo in un film, ed ha osservato che “ il linguaggio ha molti caratteri in comune con qualche altro sistema di segni o anche con l’insieme di tali sistemi” (p. 182). Presentando nel 1964 una celebre raccolta di saggi (cf / formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, Torino 1968) T. Todorov ha osservato che “ l’accusa di ‘formalismo’ rivolta ai forma­ listi appare ingiustificata” (p. 20). J. Tynjanow nei suoi saggi (Il problema del linguaggio poetico, Milano 1968; Avanguardia e tradizione, Bari 1968; Sulla composizione dell’ ‘Evgenij Onegin’, in: “ Strumenti critici” 2, 1967, 163-182) ha analizzato l’opera letteraria anche in considerazione dei ‘materiali’, e ne ha studiato la struttura nei suoi rapporti con le altre serie culturali e sociali, ma certo non sulle orme del vecchio storicismo. Sotto l’influsso del formalismo e dello strutturalismo comunque si è con­ figurata progressivamente un’idea dell’opera letteraria come ‘sistema di livelli sovrapposti’. In tale concezione viene superata la vecchia questione dell’inscindibilità della forma dal contenuto, che non è altro se non la costatazione della funzionalità coerente e solidale, nel sistema strutturale di un’opera, dei vari li­ velli. 2. L’analisi del significante Nelle prospettive scientifiche più accreditate della linguistica contempora­ nea non si cerca più la formulazione definitiva della grammatica di una lin­ gua, ma piuttosto vengono proposti vari modelli per descrivere le medesime strutture. Infatti la grammatica viene considerata come una teoria scientifica che tenta di spiegare alcuni fenomeni della realtà, quelli propri di una lingua, dalla sua fonologia alle strutture semantiche. I tentativi degli antichi gramma­ tici vengono riformulati ed interpretati come modelli esplicativi scientifici, con aspetti positivi ed aspetti negativi, con coerenze ed incoerenze. Di solito le va­ rie teorie grammaticali vengono sottoposte ad un vaglio critico per verificarne la coerenza, l’adeguatezza osservativa e descrittiva, la sistematicità, il grado di formalizzazione, la semplicità, l’economia, la potenza esplicativa. Molti studiosi ritengono che la caratteristica principale dell’approccio del-

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la grammatica tradizionale sia il fatto di essere ‘nozionale’ in contrapposizione agli approcci moderni, che si presentano come ‘formali’. Nel suo studio del 1929, O. Jespersen {The philosophy o f grommar, Londra) infatti ha definito ‘nozionale’ la grammatica fondata sul presupposto che esistano delle categorie extralinguistiche, indipendenti dai fatti più o meno accidentali delle lingue esi­ stenti, universali quindi, su cui si deve basare la struttura teorica esplicativa dei singoli fenomeni delle lingue. Alcuni linguisti hanno assunto, di fronte alla grammatica tradizionale un atteggiamento critico tale da metterne in discussione gli stessi fondamenti, mentre hanno tentato di applicare alle lingue classiche le teorie linguistiche moderne. Una panoramica di tali tentativi è stata offerta da G. Proverbio nel­ la raccolta di saggi dal titolo significativo: La sfida linguistica. Lingue classi­ che e modelli grammaticali (Torino 1979). In essa da posizioni formali rigide, che rifiutano ogni considerazione del significato (modelli strutturali tassonomi­ ci) si passa a posizioni in cui la dominante formale-sintattica perde via via di assolutezza e di autonomia nei confronti dei problemi del significato (modelli sintattico-funzionali e modelli sintattico-generativi), fino a posizioni in cui la semantica riemerge ed assume un ruolo centrale nella sintassi (modelli semantico-generativi). In questi ultimi venti anni si è sviluppato un approccio linguistico che po­ ne come ambito proprio dell’indagine grammaticale non più la frase, ma il te­ sto intero. Le proposte più concrete per una ‘grammatica del testo’ sono ger­ mogliate dalla corrente linguistica generativo-trasformazionale, proprio come tentativi di sciogliere alcuni nodi della, teoria standard di N. Chomsky, e dei modelli proposti dai cosiddetti semanticisti. Fenomeni quali la coreferenza, la pronominalizzazione, la selezione degli articoli, l’ordine delle parole nell’enun­ ciato, il rapporto tra ‘topic’ e ‘comment’, l’intonazione, pongono infatti dei problemi insolubili se l’indagine linguistica non valica i limiti delle frasi per operare direttamente sui testi. Nel 1983 è stata pubblicata a Torino da G. Proverbio, L. Sciolla, E. To­ ledo la traduzione italiana della grammatica Roma antiqua di Felix Seitz col titolo: Fare latino. Si tratta di un manuale costruito interamente e coerente­ mente sul modello della ‘grammatica della dipendenza’ di L. T esniere, Esquisse d ’une syntaxe structurale, Parigi 1953; Élémentes de syntaxe structurale, Parigi 1959, con opportuni adattamenti ed integrazioni. Tale grammatica, col­ locandosi tra i modelli formali, esclude le definizioni ‘nozionali’ o sostanzialistiche delle categorie grammaticali, sostituendole con definizioni di carattere funzionale-sintattico. 3. L’analisi del significato

Nello studio stilistico spesso si parte dal concetto di ‘scarto’, presentando il testo in opposizione ad una norma costituita in generale dalla lingua stessa,

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che viene concepita come un serbatoio di possibilità nel quale lo scrittore ‘sce­ glie’ tale o talaltro effetto in funzione delle idee (contenuto) che vuole comu­ nicare. Tale scelta traduce un’intenzione e fonda quindi la nozione di fatto sti­ listico, come se lo scrittore potesse scegliere tra vari modi di esprimere lo stes­ so contenuto. Questa impostazione metodologica della stilistica viene però og­ gi un po’ contestata da chi si chiede in che senso il contenuto possa esistere indipendemente dalla forma. E’ evidente infatti che in questo tipo di concezione della stilistica si corre il rischio di perpetuare aspre questioni sulla dicotomia tra forma e senso. È possibile considerare le strutture linguistiche del testo so­ lo nel loro aspetto significante, quasi elementi bruti della lingua, prescindendo dal fatto che queste strutture sono implicate in operazioni di tipo semantico? Come giustamente osserva C. Segre (o.c., pp. 157-179) l’analisi delle strutture formali ha senso fino a quando ci fa comprendere quali sono i processi di co­ difica del testo e, in corrispondenza, quali debbano essere quelli di decodifica del messaggio. Dal punto di vista logico e psicologico, antecedente alla valutazione critico-estetica di un testo è la comprensione del suo significato. Mi sembra importante insistere su questo punto contro le accentuate tendenze della critica più avanzata verso il relativismo ed il soggettivismo. Malgrado le asserzioni misticheggianti in favore della sua specificità, il testo letterario infatti non ha di per sé un particolare statuto ontologico. Affinché abbia un minimo di obiettività la critica non può non fondarsi su una ricostruzione consapevole del significato testuale. Seguendo August Boeckh ed Eric D. Hirsch, possiamo accogliere una distinzione terminologica: l’oggetto dell’interpretazione è il ‘si­ gnificato’ del testo, mentre la critica si occupa della sua ‘significanza’. Questa, indubbiamente, cambia col tempo e con il succedersi dei vari orientamenti estetico-critici, con l’evoluzione del gusto letterario nella società. E’ quindi le­ gittimo ricercare nel testo classico quei valori estetici che rispondono ai nostri criteri. Rispetto all’ ‘interpretazione’ invece subentrano esigenze di ricostruzio­ ne scientifica di un’immagine del mondo antico quanto più fedele possibile. La fruizione estetica dell’opera classica può essere considerata in fin dei conti una questione di gusto e quindi privata. Soltanto la scuola obbliga a leg­ gere certi testi. Fuori di essa, ogni lettore sceglie gli autori che più rispondono al suo gusto e ai suoi interessi. Ciò che non si può sostenere è che il lettore co­ struisca in privato anche il significato del testo. Indubbiamente si possono avanzare spesso varie interpretazioni, ma con un diverso grado di probabilità e di accettabilità. Siamo infatti obbligati ad affidarci a esperti e a ricorrere a discipline specifiche. Nella celebre Teoria della letteratura (tr. it. Bologna 1958) di R. Wellek e A. Warren si legge: “ Sarà difficile negare che (nel significato testuale) vi è una sostanziale identità di ‘struttura’, che è rimasta la stessa attraverso le epo­ che. Tale struttura è tuttavia dinamica, muta nel corso di un processo storico passando attraverso le menti di lettori, critici ed artisti” (p. 306).

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Dal mio punto di vista questo ragionamento è contradittorio. E’ vero che, una volta compreso il testo con sufficiente consapevolezza critica, non si pos­ sono escludere altri significati e sono sempre aperte le strade per accrescere la significanza di un testo letterario, affidandosi ad un approccio di tipo ideogra­ fico diretto dalla fantasia, dalla creatività, dal gusto raffinato dei vari lettori. Ma il significato che si deve cercare innanzitutto, nonostante le differenze cul­ turali ed il progresso storico, è quello voluto dall’autore. Noi siamo certamen­ te tenuti, in quanto riceventi, a decodificare il messaggio sulla stessa base del codice dell’emittente, per raggiungere le stesse strutture mentali, gli stessi pro­ cessi psicologici che hanno condotto l’autore alla codifica del suo testo. Il testo letterario è un messaggio, e quindi ha un emittente (l’autore) ed un destinatario o ricevente (lettore, uditore, spettatore). Per comprendere il rapporto tra l’autore classico ed il suo diretto destinatario dobbiamo necessa­ riamente cercare di ricostruire un’immagine del mondo antico. Essa ci offre gli elementi necessari per comprendere il rapporto emittente/messaggio, cioè ci spiega molti aspetti della struttura e del contenuto del messaggio. Certo non è facile ricostruire tale immagine, ma le difficoltà non autorizzano a concentrar­ si sul messaggio con libertà o con senso di anarchia, a celebrare la totale auto­ nomia della lettura come creazione infinita a partire dal testo, trasformato in ‘pretesto’, per usare un noto gioco di parole della semiotica contemporanea. Poiché il testo classico è innanzitutto un messaggio rivolto ai contempora­ nei dello scrittore, nostro compito primario è quello di ricostruirci un’immagi­ ne di questo pubblico antico, della sua cultura, della sua mentalità, del suo gusto, della sua visione della vita, in modo da poter interpretare con la massi­ ma esattezza possibile il significato che l’autore ha dato al suo messaggio. In questo senso il testo classico è innanzitutto documento, attestazione di una co­ municazione letteraria avvenuta molti secoli fa. Ricostruire un’immagine della comunicazione letteraria nel mondo antico, ricercando i significati degli scrittori, significa persistere in un’impostazione storicistica e nel biografismo? Per rispondere con chiarezza a questo quesito dobbiamo precisare che il difetto di certi studi sulle letterature classiche non è stato quello di collocare gli autori nel loro ambiente storico, tracciandone del­ le panoramiche più o meno dettagliate, quanto piuttosto di accumulare spesso disordinatamente una massa enorme di notizie in gran parte non pertinenti per l’interpretazione della produzione letteraria di uno scrittore, con la conseguen­ za pratica di disperdere e confondere lettori e studenti nell’erudizione fine a se stessa, e di allontanarli quindi dalla lettura diretta e serena dei testi. Come è possibile però stabilire dei criteri in base ai quali valutare le varie implicazioni del testo? Certamente la ricerca sulle effettive intenzioni dell’au­ tore classico non è semplice. Ma forse non è nemmeno quella che vogliamo. Non ci interessa infatti tanto il mondo psicologico dell’autore, quanto quel si­ gnificato preciso che le sue parole acquistavano nel contesto sociale in cui egli scriveva. Compito dell’interprete-mediatore è quello di stabilire una specie di

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orizzonte entro il quale racchiudere tutte le interpretazioni effettivamente plausibili per le nostre conoscenze storiche e linguistiche. La stessa classifica­ zione del messaggio in un determinato genere letterario aiuta a circoscrivere questo orizzonte. Per operare correttamente l’interprete non deve far altro che familiariz­ zarsi con i significati tipici del mondo mentale ed empirico dell’autore del te­ sto. Il significato infatti non può essere interpretato soltanto in riferimento al­ la ‘langue’. Come ha sottolineato E. Cassirer nel primo volume della Phitosophie der symbolischen Formen (Berlino 1923), il significato verbale scaturisce dalla reciproca determinazione delle possibilità linguistiche pubbliche (la ‘lan­ gue’) e delle specificazioni soggettive di tali possibilità. Ogni teoria che cerchi di eliminare l’autore come specificatore di significato, asserendo che il signifi­ cato testuale è determinato in modo puramente oggettivo, va invece incontro al soggettivismo ed al relativismo. Non penso dunque che si possa accettare tranquillamente quanto scrive C. Segre: “ L’emittente non è l’arbitro dei signi­ ficati emessi, essendovi innanzitutto un arbitro ancora più alto, la struttura (del testo, della lingua e dei vari codici interessanti)” (o.c. p. 170). Proprio perché il testo risulta una struttura linguistica immessa in un sistema semiotico collettivo e vi possono essere delle interpretazioni ben diverse tra i vari desti­ natari, è necessario stabilire un criterio. In semiotica oggi si insiste molto sulla distinzione, proposta nel 1943 da L. H jelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio (Torino 1968), tra ‘de­ notazione’ e ‘connotazione’. La prima costituisce il nucleo significativo di una parola. La connotazione invece riguarda l’alone di suggestioni che circonda la parola, attraverso associazioni di idee, richiami ambientali, effetti fonici e così via. Un caso tipico di connotazione in letteratura si ha nel fonosimbolismo. Il ritmo del verso o della prosa, ad esempio, può articolare una specie di discor­ so implicito, integrativo, ma a volte anche antitetico a quello denotato. Men­ tre l’interpretazione dei significati denotati è condizionata quasi esclusivamen­ te dall’impiego esatto (da parte dell’emittente) e dall’esatta conoscenza (da parte del ricevente) della lingua del testo, è cioè di ordine prevalentemente filologico-linguistico, l’interpretazione dei significati connotati è un’operazione molto più complessa, che si presta ad intuizioni e divagazioni personali da parte del destinatario. Effettivamente i significati connotati di un testo posso­ no essere presenti a prescindere dalle intenzioni dell’emittente, o perché risal­ gono al suo inconscio (come propongono gli psicanalisti), o perché la struttu­ razione stessa del testo li ha prodotti per una sua logica interna, non intenzio­ nale, al di fuori della consapevolezza dell’autore. Si è quindi diffuso un certo scetticismo ermeneutico che mette in crisi l’i­ dea stessa di un’interpretazione valida, proponendo ciò che E.D. H irsch , Teo­ ria dell’interpretazione e critica letteraria (Bologna 1973), chiama ‘autonomi­ smo semantico’, cioè una considerazione del significato del testo come qualco­ sa di soggettivo e mutevole, indipendente dalla volontà dell’autore. Tale auto­

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nomismo viene difeso appoggiandosi ad uno strano psicologismo che implica l’incomunicabilità tra autore e lettore, e ad uno storicismo radicale che assolutizza la diversità tra le varie epoche e i vari ambiti socioculturali fino al punto da ritenerli come totalmente estranei l’uno all’altro. Mi sembra che il più luci­ do ed appassionato sostenitore dell'autonomismo semantico sia stato R. Barthes. Basta leggere questo brano di Critica e verità (Torino 1969, p. 7): Un opera è eterna’ non in quanto impone un senso unico ad uomini diversi, ma perché suggerisce sensi diversi ad un uomo unico, che parla sempre la stes­ sa lingua simbolica attraverso tempi multipli: l’opera propone, l’uomo dispo­ ne” . Si sostiene che l’obiettività del critico non ha di mira ‘il senso’, ma si esplica piuttosto nel proporre ‘alcuni’ sensi a partire da certe ipotesi, perché l’ambiguità è una proprietà intrinseca del testo poetico, essendo un messaggio centrato su se stesso, cioè che ha come referente se stesso. E’ vero che i testi poetici si presentano in qualche modo ‘ambigui’ e ‘vaghi’, ma la loro ambigui­ tà e la loro vaghezza non possono essere interpretate come indeterminatezza di significato. Il significato del testo poetico è determinato, ma è piuttosto complesso. Inizialmente può costituire la fonte di numerose interpretazioni, anche contra­ stanti, ma in seguito, attraverso un’attenta lettura ed una ricostruzione del contesto socioculturale e linguistico in cui è avvenuta la codifica del messag­ gio, si specificano le linee interpretative di fondo. Certamente il critico non potrà mai essere sicuro di aver compreso il messaggio che l’autore realmente intendeva trasmettere. Ma il suo compito è soltanto quello di spiegare perché una data lettura è più probabile di altre. Hirsch ha indicato quattro criteri a cui attenersi per stabilire qual’è l’interpretazione più probabile di un testo: 1) la legittimità: la lettura deve essere accettabile rispetto alle norme della ‘langue’;234 2) la corrispondenza: la lettura deve rendere conto di ogni componente linguistica del testo; 3) l’appropriatezza nel genere: il testo va interpretato alla luce delle convenzioni proprie del genere letterario in cui si colloca; 4) la plausibilità o coerenza: di fronte ad alternative, l’interprete deve scegliere la lettura che risponde meglio ai requisiti della coerenza. In sostanza, osserva Hirsch, il paradosso dell’interpretazione consiste nei fatto che, per essere oggettiva, essa deve far riferimento alla soggettività dello scrittore. La coerenza, ad esempio, deve essere valutata necessariamente ri­ spetto ad un contesto. Diventa quindi essenziale un’accurata ricostruzione, per quanto è possibile, della situazione soggettiva dell’autore, chiaramente nella misura in cui è rilevante per il testo. Il modo migliore, infatti, per dimostrare che una lettura è più plausibile e coerente di un’altra, consiste nel provare che un contesto è più probabile dell’altro. Il compito principale dell’interprete è

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quello di riprodurre in se stesso la ‘logica’ dell’autore, i suoi atteggiamenti, i suoi dati culturali, in una parola il suo mondo.

4. L’interpretazione del testo classico

L’interpretazione del testo classico dunque si pone oggi certamente come incontro problematico tra due società e due culture per molti aspetti diverse, ed è lecito porsi il problema della possibilità, per coloro che appartengono ad una cultura, di comprendere adeguatamente messaggi appartenenti ad un’altra molto diversa. Tuttavia, ripeto, poiché i sistemi di significazione sono istituiti all’interno di una cultura, e ne fanno parte integrante, una lettura che consi­ deri il testo in sé, mettendo tra parentesi o escludendo del tutto il contesto, è impossibile ed assurda. Il problema complesso dell’interpretazione e della valutazione di un testo antico si colloca effettivamente tra la difficoltà, da una parte, di assumere un’ottica che, per opere lontane nel tempo, non è più la nostra, e, dall’altra, le distorsioni prodotte dal trasferimento di un testo in una prospettiva che è sostanzialmente estranea ad esso. Ma, anche se, come si è già detto, nella cri­ tica letteraria in questi ultimi decenni si è evidenziata una chiara e decisa vo­ lontà di rifiutare le determinazioni di ordine storico, sociologico o di altro ge­ nere, che nell’Ottocento venivano poste a fondamento di uno studio ‘scientifi­ co’ (nomotetico) della letteratura, perché ritenute ‘esterne’, e quindi non perti­ nenti allo studio dell’opera poetica, è chiara invece, a mio avviso, la necessità per il lettore dell’opera classica di sintonizzarsi con il mondo classico. Occorre certamente superare il biografismo, quella focalizzazione esagerata e minuzio­ sa sulle vicende personali dell’autore, al fine di rapportare ad esse puntual­ mente alcuni aspetti della produzione letteraria. Ciò che, ad esempio, ci viene narrato sulla vita di Lucrezio o di Virgilio non deve affatto condizionare la lettura delle loro opere. Gran parte delle discussioni sulle modalità e sui tempi di composizione delle opere, nonché sui vari ripensamenti e rifacimenti, sono spesso poco pertinenti per un’interpretazione del testo. In questo senso mi sen­ to di condividere quanto ha scritto Segre (o.c. 163): “ Il continuo riferimento al testo è un’ancora sicura alla concretezza e perciò offre un argine contro va­ riazioni personali, divagazioni associative, impressionismo” . Occorre insomma un continuo riferimento all’ambiente socioculturale del­ lo scrittore, senza cadere in quel cumulo di dati storici che non hanno diretta relazione con l’opera, in quell’erudizione sovrabbondante che confonde il let­ tore dell’opera classica, e che costituisce spesso una nube di pregiudizi che of­ fusca la sua mente, compromettendo fin dall’inizio il suo atteggiamento nei confronti di un’opera. Pensate alle discussioni interminabili quanto oziose sul­ la unitarietà del poema di Lucrezio, determinate dal pregiudizio che una ‘insa­ na mens' non potesse concepire un’opera ben ordinata ed elaborata (cf G. Ir-

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mici F idanza , Ipotesi di analisi testuale: Lucrezio II, 308-332, in:“ Quaderni dell’AICC di Foggia” , 1982-3, II-III, Supplemento, pp. 46-71).

INFORMATICA E STUDI CLASSICI DIDATTICA E RICERCA FRA MITO E MEZZO John VAN SICKLE

Conclusioni Oggi stiamo cercando finalmente di attuare ciò che tanti studiosi ed edu­ catori avevano raccomandato molti secoli fa: stiamo semplificando lo studio della grammatica delle lingue classiche. Vogliamo che gli alunni non si disper­ dano nelle eccezioni e nelle distinzioni sottili e cavillose dei vecchi trattati. Au­ spichiamo però anche un rinnovamento dei testi di storia della letteratura, in modo che siano più semplici, che riportino soltanto quel materiale che è vera­ mente importante per un’interpretazione quanto più adeguata e fedele possibi­ le del messaggio degli antichi scrittori. In vari convegni di letteratura e di didattica si dibatte la questione del te­ sto, del manuale di storia della letteratura. Molti ritengono che esso apparten­ ga ad un’impostazione didattica ormai superata. Forse però non va considera­ to come superato il manuale in se stesso, quanto piuttosto si deve contestare quella pratica didattica che pone al centro dello studio la panoramica storica dei vari scrittori e i vari periodi, trascurando l’impatto diretto con i testi. E’ certamente necessario disporre di manuali aggiornati che, con continui riferi­ menti ai testi, descrivano la civiltà letteraria della Grecia e di Roma, aprendosi ad una pluralità di implicazioni di ordine sociologico ed antropologico, in mo­ do da non far perdere mai di vista la connessione tra letteratura e società. Insomma quando vogliamo studiare la letteratura dell’antica Roma non dobbiamo leggere soltanto i saggi storico-critici, ma concentrarci immediata­ mente sui testi, decifrare le strutture del significante con l’aiuto della linguisti­ ca, della stilistica e della retorica, interpretare il significato con l’aiuto di una critica che raccolga in sintesi apporti multiformi e pluridimensionali, per poi tornare al testo e gustarlo nella sua funzione estetica o assumerlo di volta in volta a documento di una cultura diversa dalla nostra, ma nella quale questa affonda delle salde radici.

La nuova area culturale che va formandosi sotto il segno dell’informatica viene spesso miticizzata se non addirittura demonizzata. Per riportarla a misu­ ra nostra, dovremo metterci le mani noi, per farci la propria esperienza. Solo il nostro impegno pratico potrà trasformare il mito in un mezzo, come è suc­ cesso in tempi non lontani anche per la scrittura e la stampa.1 Sul piano pratico, quindi, mi pare appropriato esodire, con la descrizione di un’esperienza in corso. Proprio nell’ambito dell’antico ateneo di Roma, “ La Sapienza” , nel nuovo Dipartimento di Filologia Greca e Latina, ci si ac­ cinge a provare alcuni possibili rapporti fra gli studi classici e l’informatica. La prova si articolerà in fasi successive e complementari:2 nella prima si avvie­ rà un’attività individuale in cui alcuni collaboratori cercheranno di impostare lo studio e la scrittura con il personal computer; poi nelle fasi successive si tenterà un collegamento fra il personal computer del dipartimento ed un nuo­ vo elaboratore al Centro Interdipartimentale di Calcolo Scientifico,3 in modo da attingere a un fondo di testi latini messo a disposizione dei ricercatori. At­ traverso l’elaboratore, si potrà anche scambiare messagi e scritti di ogni genere con colleghi in altri centri di ricerca via le reti nazionali ed internazionali: le note e le stesure, le trovate e pure le querelles voleranno da Roma a Bari a Bologna, Pisa, Milano, ma anche a Parigi o Tel Aviv, New York, Ann Arbor e Berkeley.4 Su questa prospettiva di ricerca torneremo alla fine. Prima però vorrei ri­ levare alcuni temi emersi dall’esperienza didattica degli ultimi anni. Tengo a premettere che in questo campo stiamo tutti agli inizi, tutti ancora in tiroci­ nio. Appena dieci anni sono trascorsi dalle prime vendite di microprocessori. Da allora è partita l’onda dei personal computer, questi strumenti fra l’insi­ dioso e l’affascinante che ognuno di noi ormai può pensare di collocare nel proprio studio, quando arriverà la combinazione giusta fra costo e prestazioni fra spirito pioneristico e bisogno. Un momento certamente storico per la cul­ tura umana: anche se tali momenti sono problematici assai per chi li deve vi­ vere, in bilico fra gestirli e subirli. Non a caso ho accennato al momento in cui compare la stampa e sconvolge i mezzi di comunicazione, con tutti i suoi effetti storico-culturali; solo che ora il passo avanza più che mai veloce, e gli effetti si ripercuotono più che mai immediati su una scala molto più vasta. Volendo dunque riflettere su alcuni aspetti dell’esperienza didattica di

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questi pochissimi anni, sarà utile forse in primo luogo ricordare che da tempo in America il latino è obbligatorio solo in alcuni corsi di perfezionamento o per alcuni dottorati di ricerca. Tuttavia nelle scuole di certe grandi città si è visto un lento ritorno del latino, adoperato ora come un mezzo di addestra­ mento linguistico e culturale (in questo senso, per esempio, si spiega il succes­ so del nostro nuovo “ Cornerstone Program” a Brooklyn College. Un’iniziati­ va che ha già avviato più di sessanta docenti all’insegnamento del latino e del­ la cultura di Roma nella quinta e sesta elementare a New York).5 Anche in molti licei, il latino torna nella rosa delle lingue non-inglesi richieste dalle mi­ gliori università come base per chi vorrà seguire gli studi superiori. Ma nono­ stante questi segni di rinascita, esiguo rimane il numero degli studenti che arri­ va all’università con buone conoscenze di latino e di greco.6 Sulle scuole dunque non si può contare per l’arrivo di nuove leve. Biso­ gna invece provvedere a livello universitario ad attirarle ed iniziarle. A questo scopo, per nostra fortuna, le strutture accademiche, almeno in teoria, offro­ no delle aperture forse maggiori che non le università del vecchio mondo. Du­ rante i quattro anni che portano alla prima laurea, i nostri studenti sono liberi di seguire un programma generale di studio, nell’area delle così dette arti libe­ rali, un programma inteso come formazione dell’individuo e del cittadino, non ancora come la sola specializzazione professionale.7 Ora, in questi anni della prima laurea, lo studente può scegliere di studiare anche la cultura classica, se viene attirato ed invogliato senza un impegno di fare poi la professoressa o il professore. Vi è quindi una specie di libero mercato disciplinare, che dà forse un dinamismo di fondo ai nostri studi, creando fra l’altro una certa rimonta dei posti di lavoro per i giovani classicisti e favorendo il rinnovamento nei modi di interpretare e presentare l’antica cultura.8 Nel quadro dunque di una situazione dinamica, si cerca la didattica capa­ ce di attirare lo studente e di addestrarlo in un modo accattivante ed efficien­ te: una grande virtù per l’appunto del computer. Nasce così il sogno, sull’oriz­ zonte quasi mitico, che il latino, estromesso dalla porta, possa rientrare per la finestra, cioè per lo schermo del computer. Fra le varie prove in corso, quella che io conosco più da vicino è stata eseguita a Brooklyn College. Alcuni colleghi hanno creato il programma Scio di esercizi nella grammatica latina: si analizzano le parole per identificare le loro forme grammaticali, ma si traducono anche le semplici frasi. Ciò che col­ pisce nella nostra esperienza, e che si è verificato anche in prove del program­ ma a Roma, Novedrate, Bari ed ora Vicenza, Genova, Torino e Urbino, è la capacità di un tale programma di stimolare un interessamento attivo e collabo­ rativo per la grammatica. La partecipazione è intensa e innesca un dibattito serrato sulle forme e le regole, cosa che non sempre si verifica nelle normali situazioni scolastiche. Questi esiti positivi vanno attribuiti inanzitutto alla solerzia e all’impegno didattico degli ideatori, che guidano l’impostazione del programma. Per la

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massima efficacia, il programma didattico va impostato in modo generativo,9 cioè il programma deve essere in grado di generare le forme grammaticali ap­ propriate per diversi contesti, attingendo ad una banca di desinenze, di radici o temi, ed utilizzando poi le regole che producono la combinazione giusta in ogni dato contesto. Non solo, ma il programma dovrà potere generare anche degli esempi continuamente varianti, e nel caso che un esempio proposto ven­ ga analizzato dallo studente erroneamente, il programma deve anche potere generare quella forma, in modo che la risposta erronea venga messa subito a confronto con l’originale. L’esperienza compiuta mostra che il computer senz’altro facilita la parte­ cipazione attiva degli allievi, sia nello studio individuale che nel lavoro colla­ borativo. Tipico è lo studio in piccoli gruppi, sempre molto comunicativi e vi­ vaci, ognuno intorno a un personal. Una visione della classe del futuro che già si può vedere in certe ore all’Università “ La Sapienza” , dove si è appena aperto un nuovo centro per l’applicazione della televisione e delle tecniche per l’istruzione a distanza, il cosiddetto CATTID. Nella dinamica del gruppo, la grammatica e la revisione critica dello scritto, questi soliti incubi dei giovani di oggi, assuefatti alla televisione, diventano ad un tratto interessanti. Sulla scia del video gioco si ravviva il lavoro dello scrittoio, si recupera il senso attivo dell’antico ludus. Allo stesso tempo il computer agevola l’individualizzazione dell’apprendi­ mento, permettendo, anzi stimolando, la ripetizione per chi ne ha bisogno, ma anche consentendo un progresso rapido a chi si trova in grado di correre di più. Ci si aprono poi nuove possibilità di integrare la grafica allo studio e al­ l’esempio per costruire modelli econometrici o architettonici. E sempre nel­ l’ambito della didattica, bisogna almeno accennare all’uso del computer per la ricerca di dati in biblioteca qualora uno studente deve documentare una tesina o una relazione approfondita. Oltre al valore dell’apparecchio singolo, va sottolineato il potenziale delle reti locali, le cosiddette LAN (cioè “ Locai Area Network” ). Nella classe, per esempio, una rete di computer permette all’insegnante di seguire il lavoro svol­ to dagli allievi, nei loro gruppi dislocati, e di intervenire su uno o tutti gli schermi della rete secondo l’opportunità. Questa tecnica è stata sperimentata a Brooklyn College dal linguista Terence Langendoen per insegnare la composi­ zione in inglese, per l’appunto una materia in crisi nei tempi attuali; i risultati sono stati estremamente positivi. Nelle strutture universitarie del futuro, che già vengono sperimentate in centri come MIT, Brown, Carnegie-Mellon e Wa­ terloo (Ontario), le aule computerizzate sembrano quindi destinate a moltipli­ carsi, mentre altre reti dovranno collegarsi e potenziare anche la ricerca: un argomento a cui torneremo in chiusura. L’enfasi finora, mi rendo conto, è caduta sul modo in cui il personal computer ci permette di guadagnare più alunni e magari ottenere di più da lo­ ro, potenziando la nostra presenza nonché la nostra presa. Evidentemente pe­

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rò non si conquistano questi vantaggi senza contropartite, cioè senza nuovi in­ vestimenti e partecipazione da parte di insegnanti e strutture accademiche. Non voglio dire che noi tutti dovremo affrontare la matematica o diventare programmatori, anche se alcuni scopriranno magari delle vocazioni inaspetta­ te. Soprattutto qui la pratica potrà scongiurare il mito. L’esperienza tuttavia ha già mostrato che l’uso del computer tende a sti­ molare nonché esigere certi comportamenti mentali, per esempio l’analisi mol­ to precisa e dettagliata di un problema, per definire con una logica ferrea, passo per passo, ciò che si voglia ottenere. Così il vanto della disciplina anali­ tica e logica, proprio la virtù tanto quotata dei nostri studi, viene puntualmen­ te emulata e sfidata dalla cultura dell’informatica, dalle esigenze tecniche del computer, con la sua inesorabile, anche se in un certo senso stolta, regolarità. Accettando la sfida di perfezionare la nostra disciplina, bisogna precisare che il computer non ci sostituisce ma ci può stimolare o anche sollevare da al­ cune funzioni meccaniche e ripetitive, così da permetterci di funzionare a un livello più elevato. Mi racconta un medico romano che la resa del suo reparto è stata trasformata da un computer. Un nuovo programma legge gli elettro­ cardiogrammi e li interpreta bene nel novanta per cento dei casi; invece va corretto nei casi eccezionali. Ora questa quasi concorrenza con la macchina solleva i medici dalla routine e li stimola a rendere delle diagnosi più fini ed accurate dove veramente occorrono: anzi la qualità del lavoro di alcuni opera­ tori, forse annoiati o svogliati dalla troppa ripetizione, si è notevolmente mi­ gliorata. Se il modello vale anche in altri campi, si può affermare che quanto più riusciamo ad analizzare alcune funzioni delle nostre discipline in modo da immetterle nella memoria elettronica, tanto più la memoria elettronica può tornare a stimolarci a mantenere e superare noi stessi magari in quei momenti molto umani in cui le nostre forze possono venire meno per ragioni del tutto contingenti. Né bisogna scansare un’esigenza per così dire esterna. Alcune discipline corrono il rischio di venire emarginate dalla scuola e dalla cultura, per ragioni quasi ideologiche in una società che cerca di definire nuovi valori. Per tali di­ scipline sarà non solo utile ma forse essenziale appropriarsi di un mezzo che si tende ad identificare, seppure mitologicamente, con il nuovo. Del resto, il computer è troppo utile per essere lasciato ai professori di matematica e fisica. Conviene ai classicisti correre in avanti e fare di esso il nuovo scudo se non il cavallo troiano. Dalla didattica, tornerei ora brevemente all’area della ricerca, dove il computer si inserisce a due livelli. Da un lato la potenza dei grandi elaboratori ha già esercitato il suo fascino: nel campo classico si è creato il thesaurus della lingua greca, raccogliendo più di sessanta milioni di parole greche. Un archi­ vio attualmnete disponibile su nastro elettronico,10 ma che fra poco si potrà comperare inciso da un raggio di luce laser su un dischetto non più grande di una diecina di centimetri di diametro, un dischetto che sarà poi leggibile con

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mezzi di costo anche contenuto, certamente raggiungibile per piccoli istituti ma anche per singoli studiosi. Sempre sul grande elaboratore esistono già alcu­ ne nutrite raccolte di testi latini,11 Su questa linea, a “ La Sapienza” , dicevo prima, si è appena stabilita una banca di latino, con tutto Livio, Cesare, Cor­ nelio Nepote, Virgilio, Lucrezio, dieci commedie di Plauto, ed altri. Ancora all’Università di Roma è stata ideata una banca dati delle iscrizioni latine di Roma, anche se finora sono mancati i finanziamenti per realizzare il piano,12 Spesso le nuove banche di dati vengono create da chi le vuole per uno scopo già definito. Si pensa nella prima istanza ad usi piuttosto convenzionali, per esempio la super-concordanza, con ricerca di parole chiavi o temi. Si arri­ va poi alle analisi stilistiche e metriche, frequenze di parole o stilemi, distribu­ zione fonica, lunghezza di paragrafi e frasi, tutta una serie di accertamenti sti­ listici, retorici e grammaticali. Allo stesso tempo, però, la disponibilità di tali fonti dà un diverso respiro al lavoro. Secondo un servizio recente del New York Times, la memorizazzione dei commentari talmudici tradizionali ha favorito una maggiore attenzione per alcuni commentatori extra-europei, spesso trascurati nelle ricerche abituali, ma chiamati puntualmente dalle ricerche globali del computer senza escluzione pregiudiziale. Un’attenzione simile si può ipotizzare anche in altri campi. Un processo di allargamento e di apertura dovrebbe verificarsi anche nei riguardi della bibliografia, che sarà sempre di più disponibile in memoria. Già le maggiori biblioteche americane stanno chiudendo gli schedari tradizionali con i bei cassetti di rovere, trasferendo tutto alla memoria elettronica,13 E la comunicazione istantanea globale tramite le reti di ricerca dovrà anche favori­ re il processo di apertura. Dal mondo degli elaboratori e grandi reti, torniamo in chiusura agli effet­ ti del personal computer sul lavoro individuale. Un esperimento in materia sta svolgendosi a Stanford University, dove 144 professori nell’area storico-umanistica sono stati dotati di personal computers. Il progetto si intitola TIRO, nel ricordo del liberto, l’aiutante indispen­ sabile delle imprese letterarie di Cicerone, che non fa dimenticare, tuttavia, il senso comune della parola, cioè uno di nuova leva, senza esperienza in batta­ glia o nel foro. Secondo il politologo Peter Lyman,14 che sta valutando i risul­ tati, il primo bilancio è positivo. Nei primi due anni solo un computer è stato dato in dietro. Allo stesso tempo, però, la maggior parte degli studiosi ha adoperato il nuovo mezzo in un modo piuttosto convenzionale, come una spe­ cie di macchina da scrivere più potente. Solo alcuni hanno cominciato ad esplorare la possibilità di creare lo schedario nella memoria, eliminando le sca­ tole delle schedine, spesso illegibili o introvabili al momento opportuno, e sempre impolverate. Per potenziare l’utilità del computer ai fini di studio e di scrittura, occor­ rono nuovi e più appropriati pacchi di software, cioè programmi che adattano la macchina alle esigenze pratiche e specializzate dell’utente. Fra le prestazioni

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si può citare per l’appunto lo schedario memorizzato che contiene i dati di ri­ cerca, poi il ricupero dei dati per documentare la scrittura, la rapida revisione dello scritto, con la possibilità di cercare e di cambiare globalmente, il con­ fronto di stesure e testi vari tramite molteplici finestre di lettura, e la sistema­ zione delle note, bibliografie ed indici. Una nota, per esempio, si può inserire quando e dove di vuole, e tutta la serie delle note viene rinumerata automati­ camente (cade così la nota infausta, la vecchia 15-bis). Il materiale per note e testo viene ricercato e trasferito dall’archivio memorizzato senza la necessità di ribatterlo, evitando il rischio di errori ed incoerenze. Anche gli alfabeti diversi dovranno essere visibili sullo schermo e stampabili senza particolari procedure. Avendo così enfatizzato il potenziamento del lavoro isolato, non vorrei chiudere senza ricordare che anche la ricerca può trarre beneficio dalla rete lo­ cale: si può costituire un gruppo di lavoro, in cui tutti scambiamo informazio­ ni; tutti possono accedere a banche centrali di dati, che vengono aggiornati dai singoli per l’uso del gruppo; per la stampa, poi, l’economia del gruppo permette l’acquisto di un apparecchio di alta qualità che può anche prestare funzioni editoriali per un intero gruppo, reparto o facoltà. Anzi, l’esperimento di Stanford, dotando tanti singoli professori di computer staccati, si potrebbe considerare quasi arretrato nei confronti dei piani per reti locali e lavoro di collaborazione con centri come MIT o Carnegie o Brown. L’impianto e le strutture per le reti, la cosiddetta computerizzazione distribuita, entrano ormai nel pensiero di chi vuol progettare l’università dell’avvenire. Sul piano prammatico dunque si promette un mezzo che merita l’associa­ zione con Tirone. Quali effetti, però, le note tironiane abbiano avuto sulla prassi letteraria del padrone, non dobbiamo stabilire in questa sede, così pure quali effetti infine questo nuovo mezzo potrà avere sulla nostra attività fra studio e cultura. Certo la stampa veniva sfruttata inizialmente per replicare il manoscritto. Solo col tempo e con l’esperienza, gradualmente, vennero fuori le nuove applicazioni ed implicazioni: una nuova cultura. Attualmente il mag­ gior numero dei docenti, come il gruppo sperimentale di Stanford, sta sfrut­ tando il computer nello studio e nella pubblicazione per potenziare i procedi­ menti abituali. Relativamente pochi ancora stanno spingendo oltre i modelli consueti verso nuovi traguardi culturali. Orbene, questo accenno agli orizzonti avvenieristici porta di nuovo alla dimensione mitica. E a questo punto ritengo opportuno porre fine al discorso formale per lasciare spazio al dialogo. Il dialogo si presta, a mio avviso, più di ogni altro genere, alla ricerca in comune che dovrà costruire questo nuovo futuro. Per di più, nelle vostre domande, come del resto già nelle mie osserva­ zioni, si rispecchiano i contorni del mito, di ciò che si teme e si spera e si in­ tende in nome dell’informatica.15

Informatica e studi classici

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NOTE 1 Vorrei ringraziare gli amici romani per avermi invitato a prendere parte a questo convegno. Tre anni fa ho avuto il privilegio di offrire un corso speciale all’Università di Roma “ La Sapienza” , durante le celebrazioni bimillenarie di Virgilio, lezioni che ora vengono pubblicate dagli Editori Laterza con il titolo P o e sia e p o te r e : il m ito Virgilio. 2 II prestito di un computer personale da parte dell’IBM sostiene l’esperimento.

3 Un computer IBM 4381. Nel frattempo il fondo di testi LATFVND è già disponi­ bile e viene utilizzato nella sede del CICS. 4 Ad esempio, un programma di ricerca del materiale memorizzato è stato fornito dal Centro di Calcolo della Brown University, Providence, RI, attraverso la rete BIT­ NET - EARNET. 5 L’autorevole National Endowment for thè Humanities ha incoraggiato l’iniziativa con due sovvenzioni. 6 Ecco i dati forniti dall’American Classical League, Miami University, Oxford, Ohio: Studenti di latino nelle scuole Nuovi docenti 1962 : 702.000 1965 : 464 1975 : 150.000 1985 : 39 1984 : 170.000 Offerte di lavoro (docenti) Domande 1984 : 186 69 1985 : 219 85 7 Anche se molti studenti oggi si sentono pressati da esigenze di lavoro, per cui ten­ dono a scegliere programmi di studio finalizzati a mete immediate. * Un risvolto meno lieto di questo dinamismo è il rischio che il corpo docente ven­ ga diminuito qualora non riesca ad attirare le nuove iscrizioni in numero sufficiente. 9 Un’esigenza enfatizzata anche nella rivista Zero zio sul futuro del computer nella scuola italiana.

Uno (ottobre 1985), in un servi­

10 Thesaurus Linguae Graecae: Prof. Theodore Brunner/University o f California/ Irvine CA 92717 USA. “ Ad esempio, in Italia, il repertorio dei grammatici latini, creato da Nino Marino­ ne dell’Università di Torino e depositato presso il Centro di linguistica computerizzata a Pisa, o il repertorio dell’Associazione Filologica Americana: A .P .A . Repository of Greek and Latin Texts/Stephen Waite/27 School Street/Hanover NH 03755 USA. 12 Si veda anche la banca dati Published Papyri: Kent Rigsby/Duke University/ Durham NC 27706 USA. 13 Un punto di collegamento per gli sviluppi in questo campo sarà dal 1985 una nuova pubblicazione dell’Office o f Scholarly Communication and Technology, dell’American Council o f Learned Societies: S ch o la rly C o m m u n ic a tio n /1717 Massachusetts Avenue N.W ./W ashington DC 20036. 14 “ Introducing 1985) 4-8.

Computers to Humanists” , S c h o la rly C o m m u n ic a tio n 1 (June

15 Per ulteriori riferimenti, si veda la rivista: C o m p u tin g a n d th è C la ss ic s/ Professor Joseph R. Tebben, editor/The Ohio State University/Newark OH 43055 USA.

IMPATTO CULTURALE TRA PAGANESIMO E CRISTIANESIMO Problematiche attuali sulla deellenizzazione Calogero RIGG1

Il tema affidatomi comprende due versanti: lo storico e il contemporaneo. Ma poiché la storia non potrebbe essere considerata che contemporanea, sarà possibile trattare i due argomenti come aspetti del medesimo tema. Può forse il καιρός νυν, mentre è proteso al futuro, non prendere coscienza di quel pas­ sato che pur porta in sé? Figli della cultura ellenica, mentre viviamo della sua eredità integratasi con quella cristiana, potremo impunemente rinnegare i prin­ cipi di libertà civile e morale della città terrena protesa verso quella celeste, sia che ci rivolgiamo come i Greci verso un mondo archetipale utopico, sia che come cristiani ci sentiamo proiettati verso Vέσχατον! Il momento storico che viviamo sente la nausea dei modelli estetici e raziona­ li, ma nel momento che ripudia la metafisica per immergersi in un’esistenza crea­ tiva, non può non sentirne i richiami fra travagli di un βίος επίπονος titanico o vittimistico, o tra i rischi di un βίος απολαυστικός proprio della civiltà dei consumi e della droga. Li avverte incosciamente quando rivive di fatto un mo­ mento epico, drammatico o lirico, in cui sono leaders nuovi eroi, martiri e santi della città terrena, salvatori benefici, quali quelli che altre volte vissero nei regni ellenistici ricchi di scienza e di tecnica, ma scettici nei confronti del mito che pur celebravano. Una riflessione sull’impatto culturale tra paganesimo e cristianesimo pri­ mitivo può servire a fare il punto sulla questione storico-filologica circa la continuità contenutistica e formale delle letterature greco-romane pagana e cri­ stiana nonostante le diversità politiche e religiose verificatesi col propagarsi del Messaggio rivoluzionario. Ma sembra ancora più utile per far luce sulla pro­ blematica attuale della teologia dialettica demitologizzante. A. Deellenizzare la letteratura e la teologia? 1. Ellenismo pagano e cristiano: unità linguistica e culturale, eredità e perennità Com’è noto, Ellenismo è un termine coniato dal Droysen tra il 1836 e il 1877 per designare il periodo storico che intercorre dalle spedizioni di Alessan­ dro Magno all’affermarsi della cultura romana nel mondo non greco. Sue ca­ ratteristiche l’individualismo e il cosmopolitismo, la preminenza delle scienze

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naturali, matematiche e astronomiche, meccaniche e biologiche o mediche, l’u­ nificazione secondo un sistema di acculturazione che permetteva gli influssi dell’Asia, dell’Egitto e della Siria, senza dare però spazio di affermazione alle lingue dei popoli ellenizzati. La lingua fu la κοινή su base attica, la filosofia platonicoaccademica e stoicoepicurea, la religiosità politeistica apollinea e dio­ nisiaca. Ne subiva l’influsso il giudaismo, benché resistesse nella fedeltà al monoteismo biblico; nella diaspora apprese la lingua e conobbe le dottrine fi­ losofiche e religiose dei pagani, ma restò saldo il credo. La Sapienza, scritta in greco da un giudeo, e la traduzione della Bibbia dai 72 interpreti secondo la leggenda volgarizzata dallo Ps. Aristea, l’opera storica di Giuseppe Flavio, e soprattutto quella catechetica, esegetica e giuridica di Filone d’Alessandria, so­ no espressioni dell’impatto tra rivelazione ebraica e cultura greca. Filone spie­ ga allegoricamente le leggende bibliche analoghe ai miti greci (Migr. 89; Conf. 2-3), e illumina le aporie bibliche alla luce dell’umanesimo greco, affermando il principio che sarà sostenuto dai Padri. La verità, unica per tutti, si trova in molte nozioni filosofiche (che derivano dal medesimo autore della verità bibli­ ca) quasi semi destinati a svilupparsi con la rivelazione; intanto esse servono per dimostrare la possibilità di raggiungere la certezza, il dovere di dominare le passioni, la validità della fede in Dio (Migr. 34-35), il diritto di allegorizzare passando dal senso letterale a quello etico-religioso come facevano gli stoici. Benché Gesù abbia affermato di insegnare una dottrina appresa direttamente dal Padre, gli Apostoli ne diffusero il messaggio per lo più in greco; la tradizione continuò persino in copto e in siriaco (Dionisio Trace), inculturandolo per osmosi naturale in una mentalità intellettualistica e persino in una re­ ligiosità teosofica. Afferma infatti il Bardy: “ La religione del Salvatore non è stata annun­ ziata ad anime interamente vuote, e neppure ha svuotato quelle che avevano il coraggio di accettarla” . L’Ellenismo diffondendo in una lingua comune a tut­ ti, con la paideia classica formatrice dell’uomo (e quindi dell’anima natural­ mente cristiana) l’idea di umanità (originariamente unica e deontologicamente unitaria), preparò, nonostante le reazioni, alla fede: in un Padre Pantocratore, creatore del cielo e della terra; in un Salvatore di cui il mondo decadente do­ mandava l’avvento; nello Spirito di Dio, fonte della vita universale e vincolo di unione tra tutte le membra del micro e macrocosmo. Ellenisti erano stati chiamati per la prima volta i Giudei della Diaspora (At 2,11; 6,1) di Alessandria e di Antiochia, di Pergamo e di Apamea e Laodicea, sempre fedeli al culto iahwistico. Secondo gli Atti degli Apostoli, furo­ no ellenisti i primi diaconi, alcuni che tentarono di uccidere Paolo e altri che costituirono la prima chiesa di Antiochia (At 9,29; 11,20). Insegnarono sui te­ sti di mitologia pagana i cristiani Origene, Anatolio, Malchione, Proeresio, Mario Vittorino, demitizzando come Rudolf Bultmann, che con Dibelius ha dato nuovo orientamento agli studi esegetici (formgeschichtliche Schule). Tertul­ liano condannò i maestri cristiani demitizzanti, che sucitavano tante discussio­

ni, ma la Chiesa finì con Faccettarli. Essi insegnarono a demitizzare, come gli Stoici, le gentiles fabulae. 2. Intelligenza contemporanea in sintonia con l’antica demitizzazione. Nel suo volume su II Cristianesimo primitivo, Bultmann ha messo in giu­ sto risalto l’eredità greca oltre il mito, nella visione precristiana del mondo e di se stessi: “ Già Anassagora, alla domanda sullo scopo per cui vivesse, aveva risposto: ‘per contemplare il sole, la luna e il cielo’, e aveva indicato come fi­ ne della vita la contemplazione e la libertà che ne deriva. E così secondo Ari­ stotele la perfetta ευδαιμ ονία consiste nella facoltà di contemplare. Al di sopra della vita del piacere e di quella dell’azione politica sta quella della contempla­ zione (βιο* απολαυστικό*, πολίτικο*, ΰεω ρητιχος) ... L’anima del mondo è armonia e la musica è l’ultima rivelazione dell’essere, della forza cosmica ori­ ginaria che tutto produce... La sua unità abbraccia dèi e uomini... Ciò che ve­ ramente è, per il pensiero greco è delimitato, concluso provvisto di forma” (p. 127). “ Non è la situazione concreta a mettere volta per volta davanti alla ri­ vendicazione, all’esigenza del bene che si tratta di sentire volta per volta di nuovo e che non può mai essere conosciuta in modo definitivo: al contrario l’immagine della vita è tracciata nell’ambito di una parte determinata nella condotta della vita (0ios, il βιολόγο* è l’attore!). Così appare opportuno in­ quadrare sistematicamente le diverse possibilità di vita in uno schema di possi­ bilità limitate. La condotta di vita del singolo interesserà allora per vedere fin dove essa corrisponde allo schema, lo rappresenti in maniera esemplare. Per­ ciò nel mondo greco non si è sviluppata la biografia in senso stretto e ancor meno l’autobiografia che sorge solo più tardi, nel corso dello sviluppo del cri­ stianesimo, con una nuova concezione dell’individuo e dei suoi rapporti col mondo. Dal punto di vista dell’ideale viene giudicata anche la concezione umana... La relazione fra Io e Tu troverà il suo significato nel fatto che tutti e due si spingono a vicenda al perfezionamento di se stessi (βρω*)... La cono­ scenza storica si sforza quindi di vedere nella storia l’identico, ciò che vale eternamente...” (pp. 130-131). L’estetica dell’imitazione trova nell’esistenzialismo del Bultmann una pro­ fonda intelligenza. Egli sottolinea che il presente (rapporto concreto dell’espe­ rienza di Dio e del mondo ideale) si proietta come imitazione realizzabile esi­ stenzialmente, partecipazione dell’attualità preordinata da Dio. Il particolare presuppone un mondo universale di cui quello esistenziale è fenomeno qualita­ tivamente simile nel susseguirsi delle situazioni. Socrate come Abramo realiz­ zano rispettivamente il tipo pagano e cristiano dell’infinito che si fa finito dia­ logante con esso come Io-Tu. In Bultmann come nel suo ispiratore Kierchegaard il Tu è Dio presente nella storia come Gesù Cristo, fonte di grazia e ve­ rità esemplare. Questo il fondamento metafisico dell’esegesi etica ed estetica: la possibilità di porci come libertà create dialoganti si attua evadendo dal nul­

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la, secondo modelli iconografici preconcetti, β ί ο ι , dinamicamente realizzanti il numinoso di cui il mito è l’ipostasi fantastica. Per Bultmann e per i moderni, alla dialettica della trascendenza bisogna opporre quella della fede, che ci apre alla coscienza dell’essere in sé (Jaspers) e della caducità (Heidegger), facendoci superare la crisi mediante una lisi quali­ ficata dalla speranza e dalla carità, profeticamente annunziate dal paganesimo ma dal cristianesimo realizzate come rapporto in atto che si sviluppa dallo sta­ dio estetico a quello teologico: incosciamente nell’artista e consapevolmente nel critico, il quale è philosophus additus artifici, in quanto illumina l’espe­ rienza fenomenologica di comunione (pegno e primizia di eternità: Marcel), purificandola dalle apparenze contingenti e “ metamorfosandola” (Sartre) in colui che è in sé e per sé. Anche la riflessione marxista cerca di elaborare i suoi modelli educativi demitizzando e demistificando, ma non negando né abolendo gli insegnamenti dei classici. Vuole sfuggire al carattere riduttivo di una visione monocorde di stampo materialista e meccanicistico, comportamentistico e psicologistico, né rinnega affatto il retroterra ideologico dei valori umanistici. Per questo si è tentata una sintesi di marxismo gramsciano e di attivismo deweyano, propo­ nendo un progetto di trasformazione della società che tenga conto delle istan­ ze contrapposte dell’uomo onnilaterale e dell’individuo unilaterale, delle esi­ genze tecniche e professionali ma anche dell’efficienza intellettuale teoretica e storica (Labriola), filosofica e pedagogica, economica ed etica. Ovviamente la critica marxista pone interrogativi alla concezione metafisica dell’individuo e della società; ma intanto recupera le dimensioni metafisiche affrontando i pro­ blemi epistemologici, e il mondo dei valori umanistici attraverso la ricerca epi­ stemologica storico-scientifica circa il simplex et unum frantumato dalle prece­ denti divisioni ideologiche e oggi in via di ricomposizione secondo le contem­ poranee istanze interdisciplinari, chiarificatrici dell’uomo.

“ rottura epistemologica” (Bachelard, Althusser, Foucault), se non di “ sovver­ timento di tutti gli antichi valori” (Nietzsche; cf Stirner, Marx, Sartre). La no­ vità fu relativa. Per conto nostro, sulla scia di Heidegger, vediamo piuttosto una continuità del pensiero greco nella civiltà moderna (cf Karl lòwith, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, Napoli 1966); né mancano oggi colo­ ro che come il De Vogel (The concepì o f personality in greek and Christian thought, Washington 1963) ritengono, e a ragione dimostrano, che il concetto di persona non è affatto assente nella storia della letteratura e della filosofia greca. Ma si tratta di differenza solo di quantità o anche di qualità? Col Kier­ kegaard pensiamo ad una “ infinita differenza qualitativa” , fondata sulla frat­ tura radicale che stabili un’irriducibile diversità tra la concezione di un Crea­ tore totalmente altro rispetto all’uomo posto come vertice e fine dell’universo, e la coscienza antica di un antropocentrismo secolare monisticamente identifi­ cato con Dio e col cosmo emanante da lui. Siamo sulla scia del pensiero antico, benché non possiamo minimizzare il grave svisamento dello stesso concetto rivelato (che si disse sottratto alla Bib­ bia) di un Dio “ artefice e padre di questo universo, di cui è difficile trovare le vestigia e impossibile indicare a parole la natura” (Timeo 28 c). La novità cri­ stiana in ciò è totale e particolarmente arricchente (cf per esempio, lo Ps. G iu­ stino, Cohortatio ad Graecos 38; C ipriano , Quod idolo 6). Si tratta tuttavia non tanto di una rivoluzione quanto di una evoluzione, perché la letteratura cristiana si pose come continuità di quella pagana, assumendone non solo le lingue rispettive ma anche i concetti e i termini con il dovuto spostamento di significato. Il linguaggio teologico dei primi secoli cristiani fu più sintetico, nei tempi successivi più analitico secondo VecclesiastiCus usus loquendi (B oezio, Contro Eut. 3,92-93).

3. L ’individualismo ellenistico: sviluppo del concetto di persona

1. Interpretazione ellenistica del mito storicizzante e dei miti antropologici (il mito infranto come storia contemporanea)

Lo spiritualismo di Dilthey e il materialismo di Marx riconoscono: i valo­ ri dell’Io-Tu, della persona in dialogo apollineo e dionisiaco che ha come sfondo drammatico la storia, superamento continuo di forme nel cosmo, ope­ ra di arte e di tecnica secondo la legge del divenire; gli ideali educativi di una π α ι δ ε ί α eudemonistica del giusto mezzo che forma l’uomo fabbro capace di compiere opere belle e buone, con saggezza (X o y a n x ó v ), forza ( ϋ υ μ oeiòes), temperanza ( ε π ι θ υ μ η τ ι κ ό ν ) , ma soprattutto con giustizia ( δ ι κ α ι ο σ ύ ν η ) che ar­ monizza in bella unità le facoltà noetiche e istintuali, in dialogo che “ realizza la comune ricerca di verità, e quindi la forma appropriata del rapporto fra Io e Tu” (B ultmann, o . c ., p. 131). Quanto alla definizione del concetto di persona, gestato e nato in cultura ellenica ed ellenistica, si può però giustamente parlare di novità cristiana e di

B. Come la novità cristiana assunse l’eredità pagana

Partendo da tale principio, crediamo che TEllenismo è quasi un cristiane­ simo anonimo che sviluppò la sua arcaica visione del micro e del macrocosmo. Diverso solo lo spirito delle res gestae e della historia rerum gestarum che ne ritma i tempi raccontati con gioia non solo per soddisfazione della curiositas. Simile soprattutto l’anelito alla ξήτησίί sfociante nell’eupeais e quindi nel­ lo κ τ ή μ α εις α ε ι . Quanto al resto, il Cristianesimo inculturandosi acculturò i momenti dell’uomo ideale κ α \ ο κ ό ι ^ α ϋ ο % : dinamicamente proteso nel dialogo (drammatico) serenamente alternante la gioia del raccontare con il fremito del­ l’antitesi (epica), catarticamente ripiegantesi nell’io obicttivato nel cosmo (liri­ camente, filosoficamente o scientificamente). Sulla scia della tradizione elleni­

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stica, il Cristianesimo assimilò, sublimandolo, il concetto di ιστορία come co­ noscenza politica delle res gestae, che non prescinde da un superiore interven­ to della πρόνοια divina; ma non credette razionalmente attingibile Dio e ogni sapere scientifico. Il primo impatto col realismo biblico aveva già ridimensionato Pottimismo classico, sottolineando le precedenti istanze scettiche sulle capacità del­ l’uomo: ancorandolo alla fede in un Dio creatore che restaurerà l’armonia del tutto nel momento escatologico dove non ci sarà un ritorno ma un rinnova­ mento, perchè il piano divino si proietta non nel passato ma nel futuro. Nac­ que così una concezione sacra della storia (tipologica), in cui l’uomo si agita ma Dio lo conduce secondo tappe che sono principalmente suoi interventi in prospettiva escatologica. La fede rinnovò il concetto di libertà al di dentro o al di là della πόλις, sviluppandone le istanze di interiorità in senso religioso e universale. Il Cristianesimo assunse l’eredità greca elaborando i principi stoici dell’al­ legoria, di cui Filone d’Alessandria aveva dato saggio traducendo l’audizione propria dell’Antico Testamento nella visione propria della tradizione greca, e interpretando la voce divina del Sinai come illuminazione (H. L eisegang , Der Heilige Geist l,215ss): “ Tu scoprirai che l’esame estremamente minuzioso del­ l’animale (senza difetto, per il sacrifizio) contiene un’allusione simbolica al dovere di correggere i tuoi costumi: la Legge non è stata data per animali privi di ragione, ma per esseri dotati di ragione e di intelligenza” (De spec. leg. 1,260). Il fatto che Abramo dovette abbandonare la sua terra e la casa di suo padre voleva dire che l’anima deve purificarsi della percezione sensibile; come egli in Caldea si diede alla contemplazione degli astri, l’uomo deve applicarsi all’interpretazione della natura; come egli si unì in matrimonio con Sara, così l’anima deve abbracciare la filosofia e la virtù; come egli d’altra parte aveva sposato Agar, così l’uomo deve sposare la cultura enciclopedica (cf De cong. erud. gr. 1-88; De Abr. 68-88; De Cher. 3-10; Leg. all. 3,244). I personaggi biblici vanno interpretati come incarnazione delle virtù o dei vizi, e di determi­ nati stati d’anima. La διδασκαλική αρετή che comporta un progresso nella co­ noscenza fino al raggiungimento della fede è personificata da Abramo; la φυσική,αρετή che è un dono naturale infuso da Dio nell’anima è invece perso­ nificata da Isacco; la ασκητική αρετή con cui l’uomo acquista il dominio delle passioni e l’indifferenza o rassegnazione di fronte alle difficoltà della vita è personificata da Giacobbe (De som. 1,167-172; De Abr. 52-59; De Ios. 1; De sobr. 65; De praem. et poeti. 27). Il pensiero filoniano ha assimilato questa nozione greca di kósmos, e l’ha trasmesso al cristianesimo. Il Τεχνίτης sovrano è anche spirito e sapienza in­ creata di cui la natura è ripiena. Il suo λό-γος mediatore tra Dio e il mondo, è fondamento dell’umana παιδεία che libera dalle passioni. Affiora in Filone il dualismo platonico o piuttosto medioplatonico che sarà quello cristiano. L’i­ deale non è per lui l’uomo greco, impegnato in un nobile comportamento se­

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condo virtù e giustizia, ma l’asceta e il mistico che per via della conoscenza e della pratica virtuosa giunge a distaccarsi dal corpo, cadavere cui l’anima è le­ gata (De migr. Abr. 120 s). Allora lo spirito umano può elevarsi fino alle sfere celesti muovendosi con esse in moto circolare, armonico e inaccessibile ai sen­ si, preso come da sobria ebbrezza coribantica (De op. mundi 69-71). La storia perde il suo significato e i personaggi storici soltanto acquistano il senso di virtù archetipali, cui si contrappongono i vizi rispettivi. Questa l’interpretazione morale degli antichi miti in cui si erano fusi culti ctonici residui della concezione matriarcale pregreca con culti apollinei propri della spiritualità luminosa indoeuropea: tutti chiamati a diventare numi tutela­ ri della πόλις fondata su Αι’κη e Νόμος, divennero ipostasi della libertà e del­ l’autorità, da quando Atena intervenne convocando e investendo l’Areopago del suo potere sovrano che avrebbe determinato con leggi umane scritte quelle divine non scritte. Il mito si era ormai infranto, e non si vedeva più in Zeus e nelle divi­ nità olimpiche il fondamento della legge e delle pena, della σωφροσύνη e della μετάνοια che riconduce dalla υβρις alla ευσεβεια mediante la νεμεσις. La pietà greca, proclamata dai poeti antichi, era scomparsa dacché dalla fede eschilea in Dio cui nessuna creatura può equipararsi (Agamennone), si era passati al dubbio euripideo in un Dio che può forse identificarsi con la Άνά-γκη (Alcesti), e il soggettivismo sofistico che poneva l’uomo come misura del cosmo si sostituì all’autorità della religione. Una volta infranto il mito degli dèi, nasceva il mito degli uomini, con tut­ ti i rischi dello scientismo e del progresso, dell’individualismo e del cosmopoli­ tismo. 2. L ’estetismo riflesso della paideia cristiana e umanistica. Il cristianesimo potè ereditare il concetto greco di bello divino partecipato alle sfere celesti e alle plaghe terrene dall’anima del mondo: finito e perfetto nel suo genere; di forma limitata eppure riflessa di είδη universali; di struttura ilemorfica metafisicamente ed eticamente fondata sulla μεσοτης che può rag­ giungere, mediante la παιδεία, la καλοκοτγαΰια. La buona educazione però consisteva nell’imitazione della natura e dei grandi classici, maestri di euritmia nelle parole e nell’eloquio, nella disposizione della mente e nella distinzione del vero e del buono, del bello e del turpe, dell’onesto e del disonesto. Quan­ do Giuliano nel 362 proibì ai cristiani di insegnare sui testi sacri della mitolo­ gia pagana (che essi dileggiavano ostentandone un’ammirazione letteraria e non morale o religiosa), dimostrò di rinnegare il processo di demitizzazione operato da tempo nell’esegesi: di Omero e di Esiodo; di Erodoto e di Tucidi­ de; di Isocrate e di Lisia, maestri universali e “ ministri delle Muse” (Ep. 61,423 a, p. 74 Bidez). Di fatto la letteratura del periodo imperiale, greca e la­ tina, non dimostrò la miopia storica dell’umanesimo rinnegante la continuità dell’ellenismo; dall’età arcaica a quella attica, dai tempi di Alessandro Magno

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e dei Diadochi a quelli della repubblica e dell’impero romano, dall’umanesimo basiliano a quello gregoriano. Si continuò a studiare sui testi classici, di cui si venerava la forma e si interpretava il contenuto allegorizzando; talora si cede­ va persino alla tentazione di goderne la bellezza (edonismo estetico) senza uti­ lizzarne i contenuti. Solo Erasmo distinse tra periodo aureo ed argenteo in let­ teratura e in arte, seguito da quegli umanisti che distinsero anche tra età del ferro e del piombo. Giustamente il Valla vide in S. Paolo un ellenista, avendo egli insegnato come Socrate che cosa sia pio ed empio, bello e brutto, giusto e ingiusto, mo­ derazione e stoltezza, valore e viltà, tirannide e governo degli uomini, cioè la xaXoxàyadia, con lui estendendo l’originaria accezione dal terreno politico­ sociale a quello etico-spirituale (S enofonte, Memorabili 1,2,7). Paolo infatti considerò, come Filone di Alessandria, la xaXoxayaàia come il bene maggio­ re e più prezioso che ci sia in natura (Viri. 117), sottolineandone con gli stoici il valore al di là della natura. Poiché, secondo il suo insegnamento, la xaXoxayaùia deve soprattutto adeguare il pensiero alla volontà di Dio (Epitteto 3,24,95), e non esiste nulla di bello che non venga da Dio e non sia divi­ no (Sacr. A. C. 63): Dio concede agli esseri particolari la loro propria sostan­ za, attingendo alla sorgente di bellezza che è lui stesso, né le cose del mondo potrebbero essere belle se non riproducessero l’archetipale bellezza increata, beata e incorruttibile (Cher. 86). In tal senso Filone affermò che Augusto ave­ va accresciuto la Grecia facendo molte Έλλάδίϊ (Leg. Gai. 147), che parlava­ no il greco, vivevano alla greca, pur senza seguirne l’idolatria: soltanto tardi identificarono elleno con idolatra. L’ideale ellenico della xaXoxayαϋία si arricchì al contatto con quello kerigmatico fondato sul sinergismo dell’ep'y'oj' umano xaXov βνωτιον τον Σωτηρος (1 Tim. 2,3), e dell’epYo»' divino che ne definisce e sostiene la bella confessione e il bell’agone per la sua gloria, χαΧη ‘ομoXoyi'a, o xaXòs ayàv, χαΧη μαρτυρία (2 Tim. 4,7; 1 Tim. 3,7). Dio è il protagonista con la sua provvidenza attiva benché misteriosa, sapientemente dirigendo le cose che sembrano casuali o causate da un’assurda Ate; i suoi collaboratori nell’opera della salvezza belli come lui in quanto restauratori dell’ordine (τάξις) e dell’ar­ monia (συμμβτρία) e dell’^ o s secondo giustizia e santità, virtù e onore: il pa­ store è χαΧός. Nella sua introduzione alle Epistole Pastorali, lo Julicher sem­ bra chiedersi perché il xaXós si incontri 24 volte, contro le 16 volte in cui pos­ siamo riscontrarlo nelle dieci lettere paoline; e risponde che i xaXa epya sono qui le opere che brillano per la misericordia ispirate dalla fede, xaXbt xa\ ωφβ\ιμα τοΊς ανϋρωτοις (Tit. 3,8), belle e utili agli uomini. Esse sono gradite al Signore e Salvatore nostro (1 Tim. 2,3) e perciò xaXbv ϋβμβΧιον βις το μίΧΧον, capitale splendido per il futuro (7 Tim. 6,19), in quanto il momento escatologico restituisce la dignità del progetto originario della creazione bella e buona (7 Tim. 4,4): è il linguaggio ellenistico stoico cristianizzato. L’influsso di Is. 53 che prediceva un Messia dall’aspetto spregevole e umi­

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liato, brutto e deformato, si fece sentire nelle mitologie degli apocrifi: Acta Thomae 45 (τη μορφή αυτόν τη δυσβιδβστατη); Oracula Sibyllina 8,256 s (ως βροτ'ος άμορφος); Celso 6,65 (σώμα μιχρόν xaì δυσβιδβς). Clemente Alessan­ drino, innamorato della saggezza greca che lesse nei libri sacri ispirati dal Cri­ sto φιΧάνόρωτος inchiodato sulla croce opos των αμαρτιών non ricusò la xoσμιχη σοφία (Paed. 3,12), e accettò in contrasto con Is. 53 l’interpretazione di coloro che affermavano: ο σωτηρ ημών υτβρβαΧΧβι τα σαν ανϋρωτινην φυσιν. ΚαΧός μίν... (Strom. 2,5,21,1)· Per lui, come per i Padri che assunsero una teoria teologica conforme allo spirito ellenico, il Signore non poteva essere che straordinamente bello, poiché la bellezza non potrebbe non essere un attributo dell’Uomo-Dio. Lo aveva insegnato Filone: “ Il Logos di Dio è superiore alla stessa bellezza, per sua natura e non perché ne venga adornato” . Lo aveva ripeturo Atenagora: “ Se il mondo da Dio creato è bello e riempie di ammira­ zione per la sua bellezza, tanto più lo deve essere il suo Artefice, la cui natura lo riempie του χαΧΧους του èxeivov (Suppl. 5,2; 16,1-2). 3. La kaiokagaihia cristiana come novità dell’umana comprensione Ovviamente si intese la bellezza come splendore di Dio che è spirito di amore e come tale δβσμος της ayawης του deov costitutivo dilla sua magnifi­ cenza, το μβyaXéΐov της χαΧΧονης αυτοί (7 Clem. 49,1 ss.), analogamente a quanto di Dio aveva detto Platone nel Simp. 197 c: “ Eros è anzitutto per sua natura bellissimo e perfetto... ordinatore degli dèi e degli uomini tutti, duce bellisimo e perfetto” . Mosè, tipo del Cristo, ne incarnò la bellezza: i Settanta lo dicono αστβίος, cioè modello di urbanità; Aquila rende il termine ebraico tob con àyadós] Simmaco lo traduce xaXos. Il termine αστβίος esprime un si­ gnificato politico-sociologico identificato ai tempi della traduzione della Bib­ bia con quello etico-spirituale: entrambe le accezioni già facevano parte essen­ ziali della ταιδβία platonica, formatrice di “ uomini fisicamente e spiritualmente educati ad un elevato tenore morale... unici veri uomini di stato” (cf Respub. 3,425 d; Gorg. 518 a-c), e della ταιδβία sofistica per cui Iseo conside­ rava la xaXoxayadia propria dei cittadini più a modo e ragguardevoli, βτιβιχβστατοι των τοΧιτων. Il termine βτιβίχβια, nel periodo ellenistico, assunse un significato opposto a quello di δίχη (intesa come stretta giustizia), in nome delle leggi non scritte ma immutabili della divinità; poiché la loro natura non è mortale come quella de­ gli uomini che le emanano ma sublime come quella dell’etere celeste. La tiran­ nide si ammanta di verità e di libertà; ma ημΐν ου φαινβσϋαι βΧβυϋβροις αλλά βΐναι αρμόξβι {Paed. 3,11: bis), poiché oltre la stretta giustizia e l’interpreta­ zione materiale della legge, v’è la μαχροϋνμια... φιΧανϋρωτια τοίς δβστοταις βνάρμοστος (ibid.). Secondo Clemente Alessandrino giustizia ed umanità, re­ gola ed eccezione, analogia e anomalia sarebbero state significate come inscin­ dibili della prescrizione biblica che per figura {aXXηyορών) diceva lecito il

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Calogero Riggi

mangiare di ogni quadrupede che abbia l’unghia bipartita, divisa da una fessu­ ra, e che rumina (Lev. 11,3): το διχηΧουν δικαιοσύνην εμφαίνει την ισοστάσιον μηρυκαξουσαν την οίκειαν δικαιοσύνην τροφήν. L’Alessandrino direttamente applica l’allegoria alla parola sentita e meditata, ma il precetto è ισοστάσιον, estensibile alla libertà esteriore e interiore, politica e civile. Egli poi cita con simpatia la protesta di Antigone contro la legge di Creonte: où Zevv ην o κηρυσσων in Strom. 4,15,270 (1-4), e torna a citare l’espressione dell’eroina ironizzando contro chi se ne serva a sproposito: τραΎΐκωτβρον in Strom. 5,13,382 (11-12). Uaequitas nasce come vincolo di amore che συνδεΐ gli uomi­ ni: τουs φιΧουν φιΧοιν, ττοΧειν ττοΧεσι, συμμαχούν συμμάχοιν', questa è la legge di natura, το yàp νόμιμον ανύρωττοιν εφυ (Fenicie 536-540; Strom. 5,5). Clemente nella grazia di Euripide coglie il fascino di questa verità: ò δ’άδικον Xoyov νόσων ev αυτω φάρμακων δεΊται σοφών (Fen. 471-472; Strom. 1,8). E’ il principio della purificazione estetica ed etica attraverso la compas­ sione e il terrore, proprio della catarsi tragica. L’Alessandrino demitizza le ττοΧΧαι μορφαι των δαιμόνιων (Alcesti , esodo ecc.) dei miti apollinei e dioni­ siaci, condannando ciò che è disarmonico (αμουσα- Alcesti, 760); benché non sia concesso comprendere il senso coperto dai riti misterici (ου ϋίμιν είδεναι, ακουσαι. Baccanti 470-476; Strom. 4,25), è possibile però ricorrere alla luce di Cristo - Apollo, che ha la chiave per aprire il riposto significato: βροτοΐνι στόμα νεμει σαφεστατον (Oreste 592; Protret. 7). Nel messaggio di Cristo -Apollo egli ascoltò soprattutto la proclamazione della libertà; più che dalle tragedie di Eschilo e di Sofocle, la desunse da quelle più umane di Euripide che la disse bene supremo κΧουσιωτατον τ αν των (αυτάρχεια'· Fenicie 554; Strom. 6,2). Con le stesse sue parole deprecò le assurdità del mito (Troadi 884-885), ma con il medesimo tono ne apprezzò il valore medicinale per la sal­ vezza, φαρμακον σωτεριαν (Fenicie 893, Strom. 7,11). Cristo si rivela agli umili. La σωκρατική διατριβή non guarda dall’alto ma parte solo dalla verità (υτερώεϊν, ακιδείν) per poter giudicare santamente (Oreste 594-596), e con umiltà insegna a tacere e a parlare a tempo opportuno: euri δ’όυ aiyr/ Χοχου/κρεισσων... (Oreste 638-639; Strom. 2,15).

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I rinascimenti sono stati piuttosto dei rinnovamenti creativi. Occorre un’o­ pera di sintesi aggiornata ai dati più recenti della ricerca storica e archeologica, fi­ lologica ed epigrafica, a cui anche noi abbiamo cercato di contribuire proponendo la rilettura di Rudolf Bultmann, e avvertendo la necessaria integrazione della sua visuale in quella più storicistica del Cullmann, senza nulla togliere alla demitizza­ zione costruttiva, nella fede obbedienziale a Dio e al suo Cristo sulla quale si co­ struisce la storia della salvezza.

STORIA DEGLI STUDI CLASSICI ITALIANI E LORO INDIRIZZI NEL ’900 Giovanni D’ANNA

Devo fare una premessa che è al tempo stesso una giustificazione: il tema che mi è stato affidato è immenso, il tempo a disposizione è ragionevolmente limitato. Nel Convegno internazionale sulla Filologia greca e latina nel XX se­ colo, svoltosi presso il C.N.R. nel settembre 1984, questo stesso tema fu divi­ so tra settore greco e settore latino, malgrado gli inconvenienti che ciò com­ portava, e affidato a due studiosi: Pietro Treves e Italo Lana. A questo convegno, che è un convegno di aggiornamento e di didattica, 10 intendo presentare la mia relazione con semplicità, vorrei dire con umiltà, senza pretendere di poter tracciare un quadro completo degli studi classici in Italia dagli inizi del secolo ad oggi, ma limitandomi a parlare di alcuni dei più eminenti studiosi. Il Treves e il Lana, forti, specie il primo, di ricordi persona­ li, puntarono la loro esposizione soprattutto sul passato, mentre io vorrei dare un certo spazio anche al presente, agli studiosi ancora vivi e operanti, agli in­ dirizzi attuali della filologia italiana. Senza voler essere esterofili, si deve riconoscere che nella seconda metà dell’Ottocento la Germania era assai più progredita dell’Italia negli studi filo­ logici. Intorno alla metà del secolo già operavano uomini della statura di F. Ritschl, di C.O. Muller, di Otto Jahn, cui seguirono, nella seconda metà del secolo, Otto Ribbeck, Johannes Vahlen, Teodoro Mommsen, Franz Bucheler, Hermann Usener, Adolf Kiessling, Georg Keibel, e, a cavallo dei due secoli, Wilhelm Kroll, Richard Heinze, Friedrich Leo, Eduard Norden, Ulrico von Wilamowitz, ecc. L’Italia era molto indietro, anche se la prima edizione del Virgilio del Medio Evo di Domenico Comparetti è quella pisana del 1872 (la seconda, fio­ rentina, è del 1895). L’opera del Comparetti apparve più come il frutto isolato di un ingegno individuale che come il risultato di un clima di studio raggiunto da un ambiente intero, anche se poi il Comparetti ebbe il merito di essere uno dei promotori della cosiddetta scuola fiorentina che sul finire del secolo segnò la nascita di una ricerca filologica italiana, degna di questo nome, e che ebbe 11 suo maggiore esponente nel grande Girolamo Vitelli. Il Comparetti fu grecista oltre che latinista ed anche comparatista. Di lui scrive il Rostagni (Gli studi di letteratura greca, in: AA.VV., Cinquant’anni di vita intellettuale italiana, Napoli 1950, pp. 396-97): “ Il C. si era formato da sé, senza scuola, per le naturali disposizioni del suo ingegno, in spontanea cor-

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rispondenza con ciò che di più vivo si agitava in fatto di filologia, nel contem­ poraneo spirito europeo. Durante la sua lunghissima vita (1835-1927) D. Comparetti ebbe a sentire il vario mutamento dei tempi: ma più per straniarsi (lui, già iniziatore e precursore!) dai nuovi indirizzi che non per collegarsi ad essi e partecipare ed evolversi. Infatti le sue opere veramente grandi e significative... appartengono ai primi decenni della sua attività, tra il ’60, Γ80 e il ’90 circa... Dopo d’allora, dall’ 80 o dal 90 al massimo, il Comparetti si limitò ad essere quasi esclusivamente epigrafista, archeologo, antiquario, rinunziando in ma­ niera impressionante alle vaste concezioni che avevano contraddistinto la pre­ cedente attività del suo ingegno e la forma della sua filologia, come se un’im­ provvisa sfiducia fosse entrata in lui per le idee, i problemi e gli scopi più al­ ti” . Il Pasquali, che nel 1927 fece la commemorazione del Comparetti (ripub­ blicata poi nelle Pagine stravaganti), non esprime un giudizio del genere, ma sottolinea l’importanza degli studi del Comparetti anche nella parte — se non proprio ultima — centrale della sua vita per i contributi che contengono e so­ prattutto per l’impulso che dettero a successivi ricercatori; leggiamone poche righe: “ Dall’80 in poi il C., messa da parte la letteratura... diviene epigrafista, prevalentemente epigrafista greco, e tale rimane, si può dire, fino alla morte” . Quest’attività il Pasquali definisce addirittura come “ gloriosa” e ne indica il momento più importante nell’edizione e nell’interpretazione della legge di Gortina, studio questo che fu poi proseguito da un grande scolaro del Compa­ retti, Federico Halbherr, a sua volta guida ed ispiratore di Margherita Guarducci. La diversità, per non dire le posizioni opposte, di giudizio sul Comparetti è indicativa delle due mentalità che si incontrarono e si scontrarono alla nasci­ ta della filologia italiana: quella rigidamente, severamente filologica della scuola fiorentina e pisana e quella di uno storicismo talvolta sconfinante nel decadentismo e nell’estetismo; ciò portò alla grande polemica contro la “ filo­ logia pura” , la quale ebbe nell’Irrazionale nella letteratura di Giuseppe Fraccaroli — Torino 1903; il Fraccaroli sarebbe morto nel 1918 — il suo libro di punta. Della scuola toscana, oltre al Vitelli sono da ricordare Pio Rajna, Pa­ squale Villari, ed anche Ermenegildo Pistelli. Il Vitelli, prima allievo e poi col­ lega del Comparetti (le sue date sono 1849-1935), negli ultimi decenni della sua lunga vita restrinse la sua attività alla papirologia, che coltivò con l’aiuto prezioso di Medea Norsa. Ho usato il termine “ restrinse” , non perchè sull’e­ voluzione del Comparetti io condivida il giudizio di Rostagni (al contrario!...), ma perchè Vitelli molto spesso considerò la lettura dei papiri come fine a se stessa, dedicandosi con uguale impegno a papiri letterari e documentari, senza curarsi sempre di connettere ad altri settori della scienza dell’antichità i risul­ tati raggiunti. Comunque il Vitelli è uno dei “ grandi” della filologia italiana, che sul fi­ nire dell’Ottocento, dava alcuni ottimi frutti: mi limiterò a ricordare (chieden­

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do venia qui e altrove di eventuali, forse inevitabili omissioni) il buon com­ mento del Giussani a tutto Lucrezio (1896-98), ancora oggi, se non erro, rima­ sto l’unico italiano; all’estero abbiamo avuto Ernout e Bailey; la pregevole edizione dei frammenti degli Annales di Ennio fatta nel 1900 dal Valmaggi (al­ l’estero sono uscite quelle di Vahlen e di Warmington, nelle quali però il com­ mento è assai scarno per l’impianto stesso dell’opera, e quelle della Steuart ed ora di O. Skutsch). Vanno anche ricordati i nomi di Enrico Cocchia e di Etto­ re Stampini, che fu direttore della Rivista di filologia e d ’istruzione classica, fondata nel 1872 da Giuseppe Muller e Domenico Pezzi, per il venticinquennio che va dal 1897 al 1922. A fianco di queste opere meritorie va però ricono­ sciuto che c’era ancora molta superficialità e banalità oppure un’insistenza esagerata e ripetitiva a trattare questioni singole, come ad es. i tentativi di ricostruzione minuziosa della vita di Catullo, sulla base dei cenni sparsi nei suoi carmi. Contro la filologia più severamente intesa si levò, come si è detto, la voce del Fraccaroli (“ il puro filologo il più della volte non è altro che un puro ci­ trullo” ), la quale, se fu salutare nel richiamo ad una realtà più complessa e composita di quella prospettata in alcune opere troppo rigidamente schemati­ che, nella rivendicazione della libertà dell’artista di fronte agli eccessi di un ra­ zionalismo intransigente, fu però manchevole sotto diversi aspetti ed oggi, nel tempo in cui gli orientamenti di certa filologia positivistica del primo novecen­ to sembrano definitivamente superati — diciamolo pure francamente — non riscuote più alcun credito. Nell’opera del Fraccaroli, infatti, è sbagliata la scel­ ta dell’irrazionale per difendere l’unitarietà dei poemi omerici. Al Fraccaroli rispose, tra gli altri, con molto vigore e, direi, con giusta severità Gaetano De Sanctis, Per la scienza dell’antichità, del 1909, di due anni posteriore al I voi. della Storia dei Romani. Ormai è χτήμα es aei che nei poemi omerici si sia verificata una stratifica­ zione di episodi, si colga una stratificazione linguistica, vi siano libri interi o lunghi brani inseriti posteriormente a quello che può considerarsi il momento a partire dal quale si può parlare di nascita dell’Iliade o dell’Odissea. Io per­ sonalmente ritengo che la massima concessione che possa farsi al principio unitario è l’ammissione dell’esistenza di un poeta — ad es. — dell’Iliade, che ideò la struttura del poema sull’ira di Achille e ne compose lui stesso soltanto alcune parti, rielaborando preminentemente materiale che già preesisteva; sen­ za dimenticare che brani quali il Catalogo delle navi, la Dolonea, tutto il fina­ le del poema sono aggiunte più tarde. Se il Fraccaroli avesse rivolto la sua analisi all’Eneide, il valore di alcune sue idee avrebbe potuto trovare un rico­ noscimento, almeno in parte, maggiore: l’esempio non è scelto a caso, perché del 1900 è II primitivo disegno dell’Eneide di Remigio Sabbadini, che è un’a­ nalisi viziata da una rigidità di procedimento veramente eccessiva. Ma da un punto di vista ideologico, l’errore più grave del Fraccaroli è l’assunzione del­ l’irrazionale a canone estetico, sul quale non credo che metta conto soffermar­

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si, data l’evidente insostenibilità di un principio del genere. Va segnalato piuttosto che, in connessione con la polemica del Fraccaroli contro la “ filologia pura” , fu agitato il problema della traduzione in versi dei poeti greci e latini. Siccome per il Fraccaroli e la sua scuola l’ideale era quello di “ cogliere il valore artistico della poesia antica” , la scelta delle traduzioni poetiche fu vista come il mezzo per raggiungere questo ideale: il Fraccaroli tradusse Pindaro ed Eschilo; questa attività fu continuata da Ettore Romagno­ li (1871-1938), del quale peraltro andrebbe ricordata anche un’attività filologi­ ca non disprezzabile, che gli meritò il plauso di Gennaro Perrotta nel fascicolo inaugurale della rivista Maia. Tuttavia il Romagnoli si dedicò prevalentamente all’attività di traduttore e di divulgatore, sulla quale desidero riportare il giu­ dizio assai aspro e severo del Rostagni (op. cit. p. 406): “ L’esempio da lui of­ ferto è stato pernicioso, perché ha più che mai propagato la moda delle cosid­ dette versioni poetiche... risuscitando il vecchio morbo dell’oziosità letteraria, per cui innumerevoli traduttori già nei secoli passati non arricchirono ma infe­ starono la nostra letteratura. E ciò deve qui dirsi in generale, non solo del tra­ durre in versi... sì anche di tutto quanto l’intendimento ‘divulgativo’ e... il di­ lettantismo estetico ed ‘estetizzante’... a cui di solito finiva per sboccare la ru­ morosa reazione antifilologica del Fraccaroli e del Romagnoli” . Se mi è lecito rompere un procedimento di ordine strettamente cronologi­ co e saltare ai giorni nostri, vorrei osservare che la contesa sulle traduzioni si è in gran parte placata: oggi si propende ad avere traduzioni col testo originario a fronte, fatte in buona prosa con cura delicatezza e del rigore scientifico: mi sia consentito citare due nomi; quello di Luca Canali, traduttore di Virgi­ lio, di Giovenale, di Lucano, di molti altri autori latini, e quello di Aurelio Privitera, autore dì una mirabile versione dell 'Odissea, che ha recentemen­ te avuto l’onore di una lettura a puntate sul terzo programma della radio ita­ liana. Buone traduzioni in genere si approntano anche per gli spettacoli del tea­ tro greco di Siracusa che, con scadenza biennale, ripropongono ogni volta due tragedie per le rappresentazioni: rigorosa verifica del testo prima di passare a tradurlo è stata fatta, ad esempio, dal collega Agostino Masaracchia per il Filottete di Sofocle l’anno scorso. (Purtroppo i piani editoriale di alcune collane divulgative ci presentano accanto a queste traduzioni benemerite, altre che so­ no sciatte, di pessimo gusto, per le quali non tanto andrebbe ripetuto il ram­ marico del Rostagni sullo spreco di energie impiegate nel tradurre anziché in altri campi, quanto andrebbe formulato un giudizio di estrema severità). Invece negli anni iniziali del Novecento il fatto di aver tradotto in prosa alcuni poeti greci attirò su Nicola Festa le ire del Fraccaroli. Il Festa — come ha ricordato Traglia nella bellissima commemorazione di lui tenuta a Matera nell’ottobre 1982 — era stato alunno del Pascoli al liceo di Matera; passato a Firenze divenne il migliore alunno del Vitelli e fu spinto anche dai ritrovamen­ ti del tempo ad occuparsi di papirologia, come il suo maestro; dopo

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1”' Μ η ν α ί ω ν πολιτεία di Aristotele (gennaio 1891), in quegli anni vennero alla luce, come è noto, i Mimiambi di Eroda e le odi di Bacchilide: proprio Bacchilide fu pubblicato dal Festa con la traduzione in prosa che provocò il risen­ timento del Fraccaroli, il quale gli negò il voto in due concorsi universitari, at­ tirandosi a sua volta polemiche ed aspre reazioni di Vitelli e di Pistelli. Il Fe­ sta ebbe comunque la sua rivalsa quando fu chiamato a Roma a succedere al Piccolomini anche per volere di Lugi Ceci, il latinista dell’ateneo romano che invece era stato avverso inflessibilmente al Pascoli. Tuttavia la Germania seguitava ad esercitare, negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale, un enorme fascino sui giovani ingegni italiani, an­ che perchè alcuni dei migliori filologi del tempo avevano rivendicato l’origina­ lità e la bellezza della letteratura latina: alludo al Leo, alludo alla Vergils epische Technik di R. Heinze che è del 1903. In Germania andarono a formarsi due dei migliori filologi romani, che produssero poi le loro maggiori opere do­ po la guerra: Gino Funaioli, del 1878, e Giorgio Pasquali del 1885 (se ne cele­ brerà il centenario della nascita ai primi di dicembre di quest’anno). Il Funaio­ li pubblicò nel 1907 i Grammaticae Romanae fragmenta per la collana di Teubner, che allora era assai meno aperta agli stranieri di quanto non sia oggi; il Pasquali studiò a Gottinga dal 1908 al 1915: entrambi affinano il loro metodo di ricerca che permette di farli considerare, insiema al De Sanctis, i nostri sommi maestri del periodo tra le due guerre. Infatti questi due grandi studiosi dettero il meglio della loro produzione tra il 1920, anno della pubblicazione delVOrazio lirico di Pasquali e il 1940: in questo periodo apparvero del Fu­ naioli Esegesi virgiliana antica, L ’oltretomba di Virgilio, le voci Sallustio e Svetonio nella Pauly-Wissowa; del Pasquali La preistoria della poesia latina, La storia della tradizione e critica del testo. Quando oggi noi diamo per scon­ tato che il classicista Orazio, colui che con VArs poetica fu il teorico del clas­ sicismo augusteo, deve molto al deprecato o ignorato ellenismo; quando par­ liamo come di concetti ormai acquisiti di codici recentiores non deteriores, di varianti d’autore, di tradizione aperta e di contaminazione orizzontale, di clas­ si di varianti non necessariamente identificabili con classi di codici (si pensi al­ la tradizione manoscritta di Orazio), noi siamo debitori di molto a Giorgio Pasquali. E non è vero che egli fu soltanto un arido filologo: alcune pagine dell’Orazio lirico aprono nuovi orizzonti anche alla critica estetica. Del Funaioli, oltre alle fondamentali opere citate, va ricordata la prolu­ sione milanese La letteratura latina nella cultura antica del 1927 che segue lo studio dell’Ussani: Originalità e caratteri della letteratura latina, 1920, e prece­ de le prolusioni del Castiglioni, Il problema dell’originalità latina, 1928, e del Rostagni, Genio greco e genio romano nella poesia, 1929. Come si vede in quegli anni il problema dell’originalità della letteratura latina ed il suo rappor­ to con la greca era molto sentito: ad esso il Funaioli dette un contributo fon­ damentale. Non più posizioni preconcette ed aprioristiche, non più giudizi glo­ bali sull’una e sull’altra letteratura, dimenticando che ogni letteratura è costi­

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tuita dall’apporto dei singoli (senza, per questo, arrivare alla posizione crocia­ na di negare una storia letteraria che non si riducesse ad un succedersi di sin­ goli profili, trascurando del tutto gli sfondi storico-culturali; due studiosi, pur seguaci, almeno parzialmente, delle idee crociane, il Rostagni e il Perrotta, di­ mostrarono nelle loro opere la possibilità di conciliare le due posizioni contra­ stanti), ma da un lato il riconoscimento di ciò che i Latini devono ai Greci — inutile negare che il Virgilio bucolico s’ispira a Teocrito — dall’altro la defini­ zione degli apporti personali e originali di ciascun poeta latino rispetto al suo modello greco. Questo grosso problema dei rapporti tra grecità e latinità era nato male per colpa del nazionalismo tedesco, che considerava la Germania quasi diretta discendente della Grecità e portava persino un grande studioso come Mommsen ad affermare che di tutta la poesia latina si salvava soltanto Catullo (come se questi non fosse debitore ai poeti greci forse più di altri), cui egli scherzosa­ mente accostava la canzonetta napoletana. Come ho accennato, una reazione salutare a questi pregiudizi era nata già in Germania col Leo e col Heinze. In Italia, nel dopoguerra, il fascismo fece una grande esaltazione della romanità, e, più o meno apertamente, cercò di abbassare il credito della grecità: sinto­ matica la soppressione di cattedre universitarie di storia antica fatta a favore di quella di storia romana. Purtroppo questo atteggiamento, una volta caduto il regime fascista, ha prodotto per reazione un odio tenace di partiti e di forze politiche progressiste contro il latino, che ha portato col tempo alla sua elimi­ nazione nella scuola media inferiore ed al progetto, che procede lentamente ma inesorabilmente, di riforma della scuola media superiore, che comporta di fatto la sparizione dal liceo del latino, del greco e persino della filosofia! Io non posso parlare delle attuali prospettive della filologia italiana senza denun­ ciare questo pericolo che incombe sui nostri studi. Proprio noi neolatini ci ac­ cingiamo a tagliare le radici della nostra civiltà, al contrario di quanto avvie­ ne, ad. es., in paesi anglosassoni. Né si risponda che lo studio del latino e del greco può cominciare all’università come quello dell’arabo e del cinese! Se gli studenti arriveranno negli atenei del tutto digiuni della conoscenza di lingue classiche, il loro tempo e le loro energie dovranno necessariamente essere spesi per apprendere i primi elementi di queste lingue, che invece, se già posseduti, permettono di dedicarsi alla lettura e al commento dei testi classici e all’appro­ fondimento dei problemi letterari. Chiedo scusa di questa parentesi in cui ho toccato un problema che sento profondamente, e del quale soffro, e torno alla breve storia della filologia ita­ liana. Il periodo tra le due guerre segnò un grande progresso negli studi classici: ai nomi già citati, sia pure fuggevolmente, di Ussani, Rostagni, Castiglioni, ol­ tre a De Sanctis, Pasquali, Funaioli, non posso non aggiungere tra i grecisti quelli di Gennaro Perrotta, finissimo interprete dei tragici, specie di Sofocle, di Saffo e di Pindaro, al quale inoltre va il merito di essere stato uno degli

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studiosi che compresero l’importanza e la bellezza della letteratura ellenistica e cominciarono ad occuparsi sistematicamente anche di questo periodo, fino ad allora considerato ingiustamente come una semplice appendice della grande ‘Letteratura greca’ che va da Omero alla fine del IV secolo; di Carlo Diano ed Ettore Bignone, studiosi anch’essi dei tragici, di vari poeti greci, e in partico­ lare della filosofia aristotelica ed epicurea; il Bignone, forse per il tramite del­ l’epicureismo, divenne studioso di Lucrezio e della latinità; più che filologo vero e proprio fu delicato e sensibile commentatore di testi Manara Valgimigli; studioso del diritto attico, Ugo Enrico Paoli. Sul versante latino, nel 1925-27 apparve la prima edizione della Storia della Letteratura latina di C. Marchesi, opera in cui furono mirabilmente fuse l’esigenza dell’inquadramento storico e dell’inquadramento culturale con il cri­ terio monografico, che è il solo a salvare la valutazione artistica dei singoli scrittori. L’importanza di quest’opera è anche nel fatto che essa precedette cronologicamente le storie letterarie del Perrotta e del Rostagni. Inoltre non saranno da dimenticare Carlo Pascal, autore di molti saggi e iniziatore del Corpus Scriptorum Latinorum Paravianum, oggi diretto molto meritoriamente da Italo Lana; Cesare Giarratano, di cui resta fondamentale il commento al romanzo di Apuleio; Massimo Lenchantin de Gubernatis, stu­ dioso di Livio Andronico e di Catullo e di Tacito; Giuseppe Albini, studioso di Virgilio. Nel 1930 s’inaugurò con l’elezione virgiliana del Sabbadini, la col­ lana nazionale dei testi latini a cura dell’Accademia dei Lincei. Negli anni che precedettero di poco ed in quelli che seguirono il secondo conflitto mondiale, il mondo letterario italiano fu scosso dalle due polemiche che il Croce ebbe col Pasquali e col Ronconi. Per l’importanza, ed anche per i limiti, degli apporti di Benedetto Croce allo studio delle letterature classiche, mi sia lecito rimandare alla lucida analisi del Paratore, Il Croce e le letterature classiche, del 1967. Col Pasquali il Croce si era scontrato nel 1916, addirittura vent’anni prima della polemica cui intendo riferirmi: questa scoppiò per la contrastante valutazione data da due filologi di stretta osservanza, il nostro Pasquali ed il tedesco Gunther Jachmann, su una scena deìl’Eunuchus di Te­ renzio. Donato, commentore assai autorevole, avverte che la scena tra Cherea e Antifone nel III atto della commedia, mancava in Menandro; poiché YEunuchus contamina due commedie menandree, l’Eunuco e il Colax, la scena dove­ va mancare in ambedue ed essere opera originale di Terenzio. Il Jachmann, apprezzando il valore artistico della scena, e giudicando Terenzio un semplice traduttore, incapace di produrre qualcosa di suo, negò fede alla testimonianza di Donato; il Pasquali gli obiettò che la scena non era bella e poteva essere terenziana (forse, più o meno inconsciamente, il Pasquali capì la forza della te­ stimonianza donatiana e giudicò la scena brutta proprio perchè non derivante da un modello greco). Il Croce lodò il “ gusto sicuro” del filologo tedesco, senza accorgersi che anche Jachmann ragionava con mentalità filologica come Pasquali. Il grande studioso abruzzese aveva torto, come ha acutamente illu­

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strato Paratore: nel caso particolare, nulla vieta di ammettere che Terenzio potesse scrivere una scena, poeticamente valida, senza appoggiarsi a un esem­ plare greco, tanto più che anche per la scena iniziale dell’Andria, Donato ci dà un’indicazione analoga della sua indipendenza da Menandro e, neanche a farlo apposta, anche lì i due modelli che il poeta latino contamina sono l’Andria e la Perinzia, ambedue di Menandro. Ma vi è di più: su un piano genera­ le, il Paratore ha rinfacciato al Croce una grave incoerenza. Infatti il Croce, pur avendo modificato alcune sue posizioni passando dall’Estetica alla Poesia, “ non ha mai rinnegato il principio che la poesia è forma, è tessuto d’imagini, è espressione... Più che mai quindi egli avrebbe dovuto avvertire l’opportunità di far suonare a confronto, come sapeva far lui, la compagine espressiva di un poeta latino e quella del corrispettivo modello greco per rivendicare l’autono­ mia, l’originalità del primo, partendo da ciò che per lui è il più geloso sacrario della creazione poetica, l’officina dell’immagine, dell’espressione” . Invece, co­ me si è detto, il Croce finì per connettere il giudizio estetico all’esistenza di un modello, postulata o negata secondo criteri della più rigida filologia, contrad­ dicendo in tal modo i suoi stessi principi. Il peggio è che due grandi filologi come Pasquali e Jachmann sbagliavano entrambi, pichè entrambi — lo dichiarassero o no — erano convinti dell’inca­ pacità di Terenzio a comporre qualcosa di valido senza il supporto di un mo­ dello greco. Come esempio dell’affinarsi della critica, dovuto, oltre che alle doti personali di un grande ingegno filologico, anche alla considerazione delle conquiste di una scuola, vorrei ricordare come Paratore (non a caso, alunno di Funaioli) dimostra le qualità di Terenzio dell’analisi del prologo dellMwdria; lì infatti il poeta indica i suoi modelli nell’Andria e nella Perinzia di Me­ nandro, commedie di uguale argomento, ma diverse oratione ac stilo (diversamente condotte nel dialogo ed elaborate nello stile), ed aggiunge di aver tra­ sferito dalla Perinzia ncll’Andria i motivi che le si adattavano e di averli usati come suoi. Un poeta dotato della sensibilità di cogliere differenze di tono e di stile in due commedie dello stesso autore e di uguale intreccio, e capace di trarre dalla seconda motivi che si adattavano meglio alla prima, rendendo uni­ tario il tono della propria commedia, doveva ben essere in grado di scrivere qualcosa di originale e di artisticamente valido! Anche nella polemica col Ronconi il Croce non fu felice. Il Ronconi ave­ va difeso la poeticità della satira oraziana, attirandosi per questo gli strali del filosofo, che avrà avuto mille ragioni a negare sul piano teorico della critica estetica la legittimità della classificazione della poesia in generi letterari; ma resta il fatto storico che gli antichi credettero in essi, ciascuno col suo inven­ tar, il suo linguaggio (in greco la sua coloritura dialettale), i suoi luoghi comu­ ni, le sue regole precise. Inoltre aveva perfettamente ragione il Ronconi ad obiettargli che, quando si afferma che solo la lirica è poesia e la satira non lo è, si procede anche nell’estetica moderna seguendo una distinzione per generi letterari.

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Nel secondo dopoguerra e poi negli anni successivi — ormai il secondo conflitto mondiale si è concluso da quarant’anni! — la filologia italiana ha avuto una notevole fioritura di opere e un grande fervore di nuove ricerche. Sono nate altre collane di classici latini e greci ad alto livello; quella della Nuova Italia, di cui ricordo — quasi a caso — alcuni titoli: il Naevius poeta di Marmorale, l’Apocoiocyntosis di Seneca di C.F. Russo, la favola di Amore e Piche di Paratore, il primo libro di Tucidide di Maddalena, i Mimiambi di Eroda di Puccioni. Di recente è nata la benemerita Lorenzo Valla in cui sono ripubblicati in testo critico, con pregevoli introduzioni e traduzioni moderne sia opere molto note, quali 1’Eneide, curata da Paratore, o Catullo e Tibullo 1-2, curate da Della Corte, o l’Odissea, curata da un’équipe di specialisti ita­ liani e stranieri, o la Poetica di Aristotele curata da C. Gallavotti, o Erodoto, di cui gli ultimi due libri sono stati pubblicati dal Masaracchia; a fianco di questi nella Lorenzo Valla sono apparse opere assai meno conosciute, oppure prive, fino ad oggi, di commenti completi di valore scientifico. Ricorderei in questo settore gli Inni omerici di Càssola; la Guerra giudaica di Flavio Giusep­ pe di G. Vitucci, il I libro di Pausania, l’Attica, a cura di D. Musti e L. Beschi, ecc. Ha ripreso da poco le pubblicazioni la Collana dei classici greci e latini del Nuovo Istituto Editoriale Italiano sotto la direzione di G. Tarditi. Altre collane hanno carattere tra scientifico e divulgativo. Alle vecchie riviste se ne sono affiancate molte nuove; tra le prime saran­ no da ricordare la Rivista di Filologia e d ’istruzione classica, che, dopo Rostagni e De Sanctis, è stata diretta da C. Gallavotti ed ora da Scevola Mariotti, il quale dopo essersi segnalato per una pregevole serie di studi sull’influenza del­ l’ellenismo nella latinità arcaica, ci dimostra ora che il filologo classico può avere interessi di filologia medioevale e umanistica, con ottimi risultati. Gli Studi italiani di filologia classica, hanno iniziato una nuova serie sotto la guida di U. Albini e M. Gigante, mentre Atene e Roma continua ad essere la voce dall’A.I.C.C., mantendendo sempre un livello altamente scientifico grazie alla direzione di V. Tandoi, F. Bornmann e F. Sartori. A Pavia conti­ nua ad uscire con regolarità ammirevole Athenaeum, diretta dal decano dei fi­ lologi italiani, Enrica Malcovati, ora affiancata dallo storico E. Gabba, che continua idealmente la tradizione pavese di altri cultori di questa disciplina (penso ovviamente a Plinio Fraccaro). Altra rivista “ prebellica” è Aevum, la pubblicazione dell’Università cattolica di Milano, che ci fa menzionare B. Ri­ posati e L. Alfonsi. Tra le numerose riviste nate nel dopoguerra vorrei qui ricordare Maia, la rivista fondata da G. Funaioli e G. Perrotta, ora diretta da due tra i maggiori filologi italiani, F. Della Corte ed A. La Penna. Il primo, formatosi alla scuo­ la del Rostagni, ma perfezionatosi in Germania, dove fu condiscepolo di K. Buchner, è un ingegno versatile, che si è occupato di numerosi autori latini: Plauto, Catone, Catullo, Varrone, Virgilio, Tibullo, Ovidio, Svetonio ecc. Il

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Della Corte è anche un notevole suscitatore di energie e grande organizzatore di lavoro: non a caso egli dirige VEnciclopedia virgiliana, di cui è apparso il primo volume, che permette di valutarne l’alto valore scientifico. Il La Penna è autore, oltre che di molti contributi di mole minore, di alcuni tra i saggi più meditati e di più ampio respiro di tutta la filologia italiana: mi limiterò a ri­ cordare Sallustio e la rivoluzione romana, Orazio e l’ideologia del principato, L ’integrazione difficile. Un profilo di Properzio. Per testimoniare il fervore di studi del nostro tempo, ricorderò altre rivi­ ste specializzate; dal Giornale italiano di filologia fondato dal Marmorale e di­ retto ora dal suo alunno Scivoletto, a Sileno e Orpheus; da Vichiana, diretta da A. Salvatore, dai Quaderni urbinati di B. Gentili alla recentissima (1978) Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici, diretta da G.B. Conte, al prezioso Bollettino di studi latini di F. Cupaiuolo che dà notizia con notevole anticipio saWAnnée philologique delle principali pubblicazioni riguardanti la letteratura latina. Mi permetterei anche di citare la sezione degli studi classici di Cultura e scuola, una pubblicazione di divulgazione e di aggiornamento che però assurge a valore scientifico grazie all’indirizzo datole da A. Traglia, stu­ dioso di problemi linguistici, commentatore preciso di classici latini e greci, editore di un testo difficilissimo quale il De lingua latina di Varrone, oltre che di Papinio Stazio. Ho lasciato per ultima la Rivista di cultura classica e medioevale, creata da E. Paratore per parlare di questo grande studioso. Impossibile definirne l’opera. Mi limito a ricordare che egli ha dato contributi nella letteratura ita­ liana, studiando Dante, Sannazaro, Alfieri, Manzoni, D’Annunzio, e nelle let­ terature europee. Nella latinità, il Paratore ha scritto opere fondamentali su alcune delle principali figure di questa letteratura: Plauto, Catullo, Lucrezio, Virgilio, Persio, Petronio, Seneca, Tacito, Apuleio ed altri. E’ autore della prima traduzione italiana completa delle tragedie di Seneca, oltre che di tutto il teatro plautino; si è occupato non solo dei poeti, ma anche dei loro antichi biografi e scoliasti (l’eredità funaioliana dell’Esegesi virgiliana antica), lavoro culminato nel grosso e fondamentale studio sul De poetis di Suetonio. Ele­ mento caratterizzante delle sue analisi è stato quello di aver cercato di rico­ struire, per alcune delle figure maggiori, l’evoluzione dell’ideologia e della tec­ nica compositiva: questo metodo gli ha permesso di penetrare più a fondo l’o­ pera di Plauto, di Virgilio, di Seneca tragediografo, di Tacito. Passando in rassegna le principali riviste filologiche, ho così avuto modo di indicare nei loro direttori i più qualificati studiosi italiani. Essi continuano l’opera di quei grandi maestri della generazione o delle generazioni precedenti, che sono andati via via scomparendo in questi quarant’anni, dalla fine della guerra ad oggi: Pasquali morì — prematuramente — nel 1952, De Sanctis e Marchesi scomparvero nel 1957, Funaioli nel 59, Rostagni nel 1961, Perrotta nel 62, Castiglioni nel 65, Arnaldi nel 1980, Ronconi nel 1982. A questi stu­ diosi che sono scomparsi al termine di una lunga operosità, aetate provecti,

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vorrei aggiungere in un commosso ricordo quelli che invece perirono immatu­ ramente, nel pieno delle loro ricerche: non posso elencarli tutti, ma mi sia consentito ricordare i due — a mio giudizio — più grandi: Marino Barchiesi, finissimo studioso di Nevio e del Fortleben dei classici nelle letterature moder­ ne, ed Elio Pasoli, di cui forse non si è compresa ancora tutta la grandezza, studioso — tra l’altro — di Orazio, di Persio, di Properzio. Malgrado queste, ed altre, perdite dolorose, possiamo dire non senza un po’ di legittimo orgoglio che la nostra filologia è molto progredita. Si è smes­ so di discutere su problemi che non meritano troppa considerazione e si è ac­ quisita la coscienza dell’indispensabile apporto che le varie discipline filologi­ che devono darsi a vicenda. Purtroppo si deve costatare con rammarico che spesso (non sempre, per la verità) gli stranieri seguitano ad ignorare i contri­ buti italiani. Si pensi, ad es., alla voce Virgilio redatta dal Buchner per la Pauly-Wissowa e poi ripubblicata in traduzione italiana dalla benemerita casa editrice Paideia, in cui gli apporti della bibliografia italiana sono citati in nu­ mero e con evidenza inferiore a quella che meriterebbero. Una rivincita, se posso usare questo termine, è stata presa dalla filologia italiana in occasione dei due maggiori congressi internazionali organizzati per il bimillenario della morte di Virgilio, nel 1981, a Mantova-Roma-Napoli ed a Brindisi-Taranto, nei quali gli italiani hanno dimostrato con le loro relazioni che il livello degli studi nel nostro paese non ha più nulla da invidiare a nessuno! Analoghe con­ siderazioni possono farsi per gli altri due grandi congressi internazionali orga­ nizzati per i bimillenari di Tibullo e di Properzio l’anno scorso e quest’anno. Obiettivamente possiamo dire che il livello raggiunto dai nostri studiosi è alto, in tutti i settori delle scienze filologiche. La nostra critica testuale da un lato produce ottime edizioni che non hanno nulla da invidiare alle famose col­ lane straniere di testi critici (Teubner, Oxford, Les Belles Lettres); dall’altro arriva ad acute puntualizzazioni teoriche: penso alla lucida e severa critica mossa dal Canfora al Maas; alla convicente confutazione della massiccia pre­ senza di interpolazioni nel testo di Petronio, fatta da M. Coccia contro K. Muller, ispirato dal Fraenkel; al lucido esame dei problemi del testo lucreziano (il testo sul quale culminò l’attività editoriale del Lachmann!) operato dal Pizzani; la lunga serie di contributi di altissimo valore metodico, fornita dal Tim­ panaro a proposito di una eventuale riedizione degli Annales di Ennio; i com­ menti ai testi vengono approntati con un’esigenza di completezza che li rende, almeno come impianto, definitivi: si pensi al monumentale commento di Pro­ perzio cui da anni lavora Paolo Fedeli. Anche gli studi metrici sono molto progrediti: nella piccola città di Urbino insegnano sia B. Gentili, degno conti­ nuatore per la metrica greca della grande scuola del Perrotta; per la parte lati­ na il Questa e la sua scuola hanno approfondito lo studio dei metri plautini e terenziani; da parte sua il Gentili ha analizzato il rapporto poeta/committente/pubblico, arrivando ad una migliore comprensione della poesia greca arcai­ ca; in questa problematica va segnalata anche l’opera di Luigi Enrico Rossi.

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Per quanto concerne la parte linguistica vorrei ricordare i nomi di A. Traina, di G. Calboli e di G. Proverbio per lo studio della lingua latina, con­ dotto sia nel modo tradizionale sia applicando le nuove metodologie. Vorrei anche compiacermi col collega R. Giomini per la bella relazione fatta in que­ sto Convegno sulla sintassi arcaica e la sistemazione sintattica dell’età classica. Lo studio della lingua greca, in questo secolo, oltre a segnare un notevole ap­ profondimento delle linee tradizionali di ricerca, è stato rivoluzionato dalla scoperta, fatta nel 1936 da Michael Ventris, che la lineare B è greco; il merito di questa scoperta e del suo approfondimento va in primo luogo agli inglesi (dopo il Ventris, John Chadwick); però in Italia più che altrove questo campo di studi è stato portato avanti: abbiamo un Istituto di studi micenei, fondato da C. Gallavotti, ora diretto da A. Sacconi, la quale, nel congresso C.N.R. del settembre 84, dette l’annuncio che tra il materiale raccolto da Evans a Cre­ ta e non ancora analizzato, si trovano ancora parecchie casse contenenti docu­ menti scritti in lineare B. Il computer si va affermando come strumento utile anche per le nostre ricerche umanistiche e filologiche: mi sia consentito di fa­ re, in questo settore, i nomi del piemontese Nino Marinone e del romano Tito Orlandi, ma non voglio tacere che per tutto questo anno accademico avremo la fortuna di avere a Roma il prof. John Van Sickle della New York Universi­ ty (che ha parlato ieri pomeriggio nel nostro congresso) che è una dei maggiori esperti in materia. Noi italiani abbiamo molti difetti — e siamo pronti a rico­ noscerli anche con zelo eccessivo! — ma abbiamo anche qualche pregio, ad es. la disponibilità a imparare dagli altri, cosa che gli stranieri non sempre mo­ strano nei nostri confronti, e perciò siamo molto lieti di giovarci dell’apporto e della competenza di Van Sickle. La letteratura cristiana antica — nella quale ha delle benemerenze da non tacere proprio l’istituzione religiosa che ci ospita (la Corona Patrum) — ha rag­ giunto in Italia un rigore scientifico forse mai toccato in precedenza, soprat­ tutto per merito di Manlio Simonetti, il quale inoltre dirige con Bruno Luiselli la rivista Romano-Barbarica, dedicata agli studi della tarda latinità, dell’alto Medioevo, dell’influsso della cultura classica sui popoli “ barbari” . Anche questo settore rientra, sia pure in senso lato, nella filologia classica ed è un settore in gran parte nuovo. Non si può non essere soddisfatti degli apporti dati dalle scienze che po­ tremmo definire sussidarie. Vorrei ricordare almeno l’epigrafia e nell’epigrafia almeno un nome, quello di Margherita Guarducci, che, dopo aver dedicato quasi tutta la sua vita all’epigrafia greca, si è rivolta ad altri campi, ottenendo risultati di estrema importanza: anzitutto l’identificazione delle ossa ritrovate sotto l’altare della Confessione nella Basilica Vaticana per quelle di S. Pietro e quindi — venendo a ricerche che riguardano più direttamente il nostro campo — la dimostrazione della falsità della famosa Fibula Praenestina, che direi si­ cura al 99%, e forse l’identificazione della casa di Properzio in Assisi. Un’al­ tra iscrizione molto importante è quella della laminetta dedicatoria a Castore e

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Polluce, rinvenuta a Lavinium (l’odierna Pratica di Mare) dal Castagnoli, gra­ zie alla quale si appura la presenza del culto dei Dioscuri nel Lazio fin dal VI sec. a.C. e inoltre la provenienza di tale culto non dall’Etruria, come tante volte si è supposto, ma direttamente dalle città greche dell’Italia Meridionale. Quasi a dare un segno della benevolenza della Ύυχη per la filologia, le scoperte papiracee continuano: tra i principali ritrovamenti del dopoguerra, vorrei segnalare quello di una intera commedia di Menandro, il Δύσκολο*, scoperto nel 1954 e pubblicato dal Martin in Svizzera nel 1958; nel 1978 in una sperduta località del deserto sudanese, nell’oasi di Qasr Ibrim, duecento miglia a sud di File, una missione archeologica inglese ha ritrovato un papiro contenente nove versi di Cornelio Gallo, purtroppo abbastanza malconci. Tut­ te e due le scoperte, anche se di differente entità, hanno suscitato un grande fervore di studi, nel quale il contributo degli italiani è stato rilevante. Ancor più recente (1982) la pubblicazione avvenuta in Spagna di un poemetto latino sul mito di Alcesti, di circa 120 esametri assai mutili, rinvenuto in un papiro di Barcellona del IV secolo, di cui ha dato notizia e, contestualmente, qualche contributo esegetico il nostro Tandoi. La filologia italiana appare pertanto viva e vitale. Auguriamoci sincera­ mente che pregiudizi assurdi, compromessi politici, malintesi di qualsiasi tipo, non vengano a colpirla proditoriamente proprio in un momento che sembre­ rebbe promettere una nuova, splendida fioritura.

FONDAMENTI DELLA RETORICA CLASSICA E CRISTIANA Antonio QUACQUARELLI

1. Nessun termine della cultura è divenuto equivoco come la parola reto­ rica. Il vocabolo non ha subito trasformazioni, sono invece cambiati i suoi contenuti di epoca in epoca. Anzi in una stessa epoca si sono avute varie acce­ zioni. Tuttavia la retorica ha una storia, come tutte le manifestazioni dello spirito umano, che procede di tappa in tappa su una linea di progresso all’infinito. In questo processo è lecito parlare di fondamenti? Credo di sì. I fonda­ menti della retorica classico-pagana hanno il loro sviluppo in quella cristiana. L’una poggia sull’altra, ma per proseguire attinge ad elementi nuovi. Dopo la retorica cristiana con i suoi cardini nei Cappadoci e in S. Agostino non si è avuta un’altra retorica che abbia segnato una svolta. Anche l’Umanesimo non ha tracciato una via nuova perchè ha ripreso i termini ciceroniani della verità come opinabile, abbandonando gli altri termini di Cicerone stesso della identi­ tà della parola con l’azione. E sono questi i termini che S. Agostino elabora fondando la sua costruzione retorica sulle risultanze classico-pagane insieme alle sue riflessioni scritturali. C’è in ogni uomo un’impronta di ragione (Rosmini parlava dell’idea del­ l’essere) che accoglie istanze a carattere generale che ora emergono ora si asso­ piscono secondo le spinte che inducono ad una vita spiritualizzata o ad una vi­ ta materiale. Sono gli atteggiamenti di vita pratica che manifestano i nostri ideali nei loro conflitti e nelle loro vittorie. Chi considera la vita pratica nel quotidiano come campo in cui si realizzano gli ideali umani non può mai scin­ dere la parola, espressione verace dei sentimenti che si radicano nell’anima, dalla vita stessa. Solo che essendo fluttuante il nostro spirito nelle scelte, la nostra parola risente d( tali incertezze e nasconde per motivi di opportunità il vero cui agognerebbe. Alla parola incerta, se non menzognera, seque un’azio­ ne che ad essa non può essere corrispondente. C’è inoltre che le parole non sono sempre adeguate ad esprimere quello che vogliono significare. E’ un rilie­ vo fatto da Origene che, in particolare, riferendosi al linguaggio biblico, preci­ sava che si hanno verità il cui significato non può essere reso dalle parole bensì da un concetto {De princ. 4,3,15 = H. C rouzel - M. S imonetti SC 268, 396-398). Secondo Basilio Magno la parola è l’espressione dell’anima e riceve un processo riduttivo dall’involucro della carne. Essa prima di essere proferita agisce nel cuore, perciò bisogna vigilare che la “ parola nascosta nel tuo cuore

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non diventi ingiusta” (Hom. Attende tibi ipsi 18,1 = Stig y R udberg, Stockholm-Uppsala 1962, p. 23). Il peccato prima che nella parola è nel pen­ siero (cf il mio contributo: Sull'omelia di S. Basilio “Attende tibi ipsi” in: “Basilio di Cesarea, la sua età, la sua opera e il basilianesimo in Sicilia”: Atti del congresso internazionale, Messina 3-6/XII/1979, Messina 1983, pp. 489501). Né le parole sono le sole ad esprimere le cose; altri elementi concorrono a rilevare l’atteggiamento interiore dell’individuo. Esse sono come il movimento degli occhi che scoprono l’animo di chi ti sta davanti. Ho dedicato la maggior parte della mia vita alle indagini sulla retorica; il centro dei miei interessi culturali. Questi studi non potevano non confrontarsi con l’insegnamento universitario. Nella scuola le ricerche acquistano una di­ mensione più vera per il dialogo che si stabilisce con gli allievi; si instaura un discorso continuo e la tematica si snoda da sè; le ricerche sono sottoposte ad una verifica spontanea, per la rispondenza delPanima altrui. Mi riferisco sia agli allievi che frequentano solo un corso di una anno accademico, sia a quelli che intrapendono una ricerca più approfondita nel campo patristico. Gli uni e gli altri, sia pure per ragioni diverse, sono uno stimolo e una remora: da una parte sollecitano a percorrere tutta la strada, e dall’altra a non azzardare salti precipitosi e a muoversi con cautela. 2. Agostino segna il punto di superamento della retorica cristiana su quel­ la classico-pagana perchè per primo pone all’attenzione della critica l’eloquio della Sacra Scrittura. Gli altri autori cristiani non volevano toccare la questio­ ne e se ne defilavano. Uno di questi è Lattanzio. A dire il vero S. Agostino non usa parlare di retorica pagana o di retorica cristiana, bensì di quella di ogni tempo e di ogni luogo. Egli getta le basi della teoria della retorica univer­ sale. Per lui c’è una retorica non differenziata, che racchiude anche i Sacri Te­ sti, nella quale le forme espressive sono un mezzo naturale che gli uomini usa­ no. Il suo sguardo parte dalle cose contingenti, che cadono sotti i nostri sensi, per allargarsi a più vasti orizzonti e collegare le relazioni col nostro spirito. Osserva che si hanno delle leggi come categorie che attraversano gli uomini, ai quali basta una piccola riflessione per avvertirle. Si prenda ad esempio l’anti­ tesi, lo schema che adorna la nostra elocuzione. Esso ha un fondamento natu­ rale perchè viene usato nelle lingue di tutte le genti; non risiede nelle parole, bensì nella eloquenza delle cose che si trovano in contrapposizione. Può varia­ re da una lingua all’altra la denominazione, ma il contenuto è sempre lo stes­ so. S. Agostino per ogni genus dicendi procede con chiarezza nel suo discorso (Civ. Dei 11,18 = B. D ombart - A. K alb CCL 48,337). Di tutto quanto concerne gli elementi costitutivi della retorica universale: le figure, l’euritmia, lo svolgersi dei cola e commata, i lumina orationis, i vari genera dicendi ed altro, ha trattato nel De doctrina Christiana. E’ il libro di S. Agostino che nello svolgimento della tesi dell’unità del contenuto-forma ha, per i valori dell’eloquio, la Sacra Scrittura come punto di riferimento, mai si­

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no allora avvertito dagli autori cristiani. E fornisce materia di riflessione ad altri autori cristiani del tardo antico. Per Cicerone, alle origini, retorica e filosofia erano una sola cosa in quanto il bene dicere non è separabile dal bene vivere. La filosofia punta alla conoscenza della nozioni più elevate mentre la retorica ne è l’applicazione nel­ la vita. Chi, secondo Cicerone, separò la filosofia dalla retorica è Socrate, il nemico giurato della retorica e della vita attiva (De orai. 3,15,57; 3,16,60-61). L’unione della teoria con la prassi era un’istanza che tutti auspicavano; una esigenza naturale dalla quale non si può mai prescindere. La rottura genera una crisi che si ripercuote nei rapporti sociali con una incomprensione i cui guasti non è facile immaginare. Cicerone aveva intuito un principio che nel corso della storia sarà sempre richiamato. Il Leeman nella sua Orationis ratio ha limitato la trattazione ai tre generi: eloquenza, storia e filosofia, e non ha potuto seguire il momento culminato in Cicerone per il rapporto filosofia e re­ torica; ha presentato le cose come frammentarie, e l’avverte egli stesso scriven­ do nell’epilogo che “ alcune parti di questo libro impressionano il lettore come disiecta membra” (A.D. L eeman, Orationis ratio. Teoria e pratica stilistica de­ gli oratori, storici e filosofi latini, Bologna 1963; versione italiana di D.C. Giardina e R. Cuccioli Melloni, p. 527). Occorreva molta strada per arrivare al principio agostiniano della retorica universale che poggia sulla naturalezza della parola rivelatrice di contenuti. Ci­ cerone non proseguì nell’intuizione dell’unità tra ratio e oratio e agganciò il problema della verità all’opinabile (R. Barilli, Poetica e retorica, Milano 1969, pp. 37 e 46). E’ l’inizio della strada che conduce al pragmatismo. Qui si innesta il mo­ vimento che prende l’abbrivo iniziale in Perelman. L’evidenza per lui è solo un grado di conoscenza ma non assoluta; l’importante nell’argomentazione non è che cosa l’oratore consideri vero e probante, ma l’opinione di coloro ai quali egli si rivolge (C. P erelman - L .O brechts - T yteca, Trattato dell'argo­ mentazione. La nuova retorica, versione italiana di C. Schick, M. Mayer, E. Barassi, Torino 1966, pp. 26-27). Gli studi sulla retorica nella concezione di Platone e di Aristotele sono as­ sai numerosi, tuttavia manca una ricerca di analisi aggiornata alle risultanze della critica più risolutiva. Per Platone la retorica si fonda sulla dialettica e suo scopo è di trasmette­ re i dati acquisiti dalla conoscenza. Guida le anime e mira alla definizione e alla chiarezza di ogni cosa. Per Aristotele se la dimostrazione è del metodo sil­ logistico, l’argomentazione, invece, è della retorica. La dimostrazione si serve ùe\Ventimema mentre l’argomentazione è un mezzo utile ma non indispensabi­ le. I moderni commentatori della retorica aristotelica avvicinano questo pro­ cesso alla odierna divulgazione (cf V. F lorescu, La retorica nel suo sviluppo storico, Bologna 1971, pp. 37-43, traduzione di P. Serra. Questo di Florescu è uno dei libri più chiari e precisi e di più ampio respiro che siano usciti sulla

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retorica nell’ultimo ventennio). Per Cirillo di Gerusalemme la mente concepi­ sce velocemente, la lingua, invece, ha bisogno di parole e di molti discorsi. Il pensiero stringe in un baleno la terra, il mare, i confini del mondo, ma quello che in un attimo stringe non può esprimere che in circonlocuzioni (Cat. 6, De uno Deo 2 = PG 33,540). Agostino prosegue il motivo origeniano. La parola umana non riesce a se­ guire la vivacità e la velocità del pensiero. Il più delle volte si preferisce tenere nel silenzio della mente quello che non vogliamo affidare al suono inadeguato delle parole: “ Magis nos delectat et tenet quod in silentio mente cernimus nec inde volumus avocari ad verborum longe disparem strepitum” (Cat. rud. 10,14,4 = J.B. B auer CCL 46,136). E’ il docere delectando di cui parla Lucrezio nel presentare le tesi del suo sistema nel De rerum natura (1,943-950). E’ una filosofia troppo dura e amara per chi non l’abbia penetrata e il popolo ne fugge lontano; perciò ha voluto esporre la sua dottrina nel melodioso canto pierio e quasi toccarla col dolce miele delle Muse. L’ideale del vir bonus della retorica antica, connaturale allo spirito di ogni tempo, si trasferisce, col cristianesimo, nel fedele. Come il retore doveva saper parlare ed agire bene, così il fedele doveva saper vivere conforme ai principi della parola evangelica. Il vir bonus dei retori è un saggio e tale deve essere il cristiano (cf il mio lavoro: La retorica antica al bivio: ‘A d Nigrinum ' e ‘A d Donatum’, Roma 1956, pp. 97-117). Il saggio, diceva Cicerone, è sempre presente a sé stesso e non compie al­ cuna azione della quale abbia poi a vergognarsi: nihil quod poenitere possit facere (Tusc. 5,81). Luciano di Samosata chiama il pentimento μετάνοια e lo personifica, pre­ sentandolo piangente, mentre in abito lugubre si gira a guardare la verità. I retori si esercitavano in diatribe, controversie e suasorie (De Calumn. 5), sulla sua natura, invece i cristiani videro nella μετάνοια battesimale l’inizio di un conflitto di ideali e di realtà senza fine, un sacramento che accompagna resi­ stenza terrena con una tensione continua. E’ la nuova visione che fa cambiare la concezione della storia, come grande avvenimento cui partecipa ogni uomo con le sue positività e le sue negatività; la storia considerata come progresso all’infinito. La città di Dio e la città di Satana sono avviluppate l’una all’altra nell’uomo, che liberamente può seguire l’una o l’altra. Alla libertà d’azione come scelta positiva, corrisponde la libertà della parola, quale espressione im­ mediata dell’anima. Alla persuasione nulla può aggiungere Yoratorium studium, come veniva chiamata l’assidua dedizione alle norme dell’arte retorica (Dial. orai. 8). La persuasione è generata dalla res che riproduce nell’uomo la verità ed egli come tale la esprime. L’intima persuasione del vero, come ebbe a dire Rosmini, è tale “ che l’agguaglia giammai la persuasione dell’errore” (Epist. ascet. 1, lett. 222, p. 431). La retorica pagana aveva dato il massimo delle sue risultane con gli auto­

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ri del II secolo d.C. I temi propri della filosofia furono potenziati dalla retori­ ca. E’ oggi difficile riconoscere gli elementi dell’una e dell’altra (come in Dio­ ne di Prusa e in Luciano di Samosata della cui conversione retorica ebbi ad occuparmi anni addietro). Si converge in un’etica a carattere universale in cui l’uomo sembra ritrovare se stesso: mancano però i fondamenti. I vari sistemi filosofici avevano dato etiche particolari, nei primi due secoli della nostra era; dopo, invece, si affermò l’istanza di un’etica transcendente: si spostavano per sempre i fondamenti, che, dalla filosofia, passavano alla nuova religione. In­ vero sono da approfondire i valori della retorica cristiana che si allargano e investono l’uomo nella sua figliolanza divina. Il Logos che si incarna, cioè, il Cristo, è la parola di Dio in un rapporto diretto con l’uomo. Il talento, ingenium, e la cultura acquisita e da acquisire, institutio et litterae (institutio è il termine più congeniale alle norme retoriche) s’infrangono rispetto al mysterium salutis (cf la mia ricerca: Inventio ed elocutio nella retorica cristiana an­ tica: Vet. Christ. 9, 1972, 191-218, ora in Retorica e iconologia, Bari 1982, pp. 31-58 = Quaderni di Vetera Christianorum 17; in particolare pp. 56-57). La tesi della naturalezza e della spontaneità della espressione umana, che presiede ai precetti della retorica, fu la grande conquista del pensiero cristiano antico ed in particolare di S. Agostino; si ha una retorica universale dalla qua­ le l’uomo non può prescindere e che non ubbidisce alle rigide norme dei suoi professori. Implicitamente fu pure ammesso dai pagani che non bastano le re­ gole per saper parlare. Cicerone più che alle norme retoriche attribuiva grande importanza all’esempio (De orai. 1,6; 23). Tale dinamica si rifletteva anche nei manuali scolastici, sino al secondo secolo della nostra era, quali il Dialogus de oratoribus, e il Sublime, per la loro forma più adatti all’ultimo grado dell’insegnamento retorico. Essi nulla hanno di straordinario e la loro forza è in quei principi a carattere universale che risiedono nella espressione umana. Certa critica, invece, è rimasta a cercare questioni peregrine e non ha penetra­ to gli elementi della precettistica spontanea e naturale (cf Retorica e iconolo­ gia, o.c., p. 56). Sin dall’età apostolica si hanno tipi di predicazione che si modellano sui destinatari. Quella diretta ai pagani ha come fine il Kerygma; quella tenuta nella scuola la catechesi; quella tenuta dal vescovo si presenta come omilia. L’aggettivo popularis, oltre a sottolineare la semplicità, indica il carattere pa­ storale del sermone indirizzato al popolo di Dio riunito in Chiesa (A.V. N azzaro, Esordio e chiusa delle omelie esameronali di Ambrogio: Augustinianum 14, 1974, 559-590). La lettura biblica aveva abituato i Padri della Chiesa, con lo sviluppo del­ le immagini, ad un linguaggio che nelle apparenze presenta alcuni motivi dei classici pagani, ma nella sostanza ne astrae. Esprime una realtà diversa di con­ cezioni e di vita interiore. La prosa d’arte dei Padri è molto particolare. Ad esempio il periodo di S. Colombano presenta una chiara divisione dei suoi membri che rende facile

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l’interpunzione, una vera crux delle edizioni critiche. Senza lunghe disquisizio­ ni con una semplice enunciazione di principi, scandita attravaerso schemi e clausole, cerca di raggiungere il lettore (cf il mio articolo La prosa d ’arte di S. Colombano: Vet. Christ. 3,1966, pp. 5-26, ora in Saggi Patristici, o.c., pp. 425-449). Il tentativo di seguire la quantità è sopraffatto dalla forza dell’ac­ cento, ma l’orecchio adusato avverte la musicalità di una tale scrittura. La prosa d’arte è vicina alla poesia. Senza di essa non si può comprendere la lin­ gua liturgica cristiana antica. Cassiodoro scorge nella Sacra Scrittura una leg­ ge ascosa che dall’interno regola armonicamente ogni proprietà di linguaggio. L’eloquenza divina, mai turbata dal contingente proprio della parola dell’uo­ mo, è fuori del tempo e dello spazio. Non rivolgendosi alle orecchie, ma al cuore degli uomini, acquista un particolare valore espressivo: “magna veritate, magna praescientiae firmitate cuncta diiudicans, auctoris sui veritate consistit” (C assiod., Exp. in Ps., Praef. 15 = M. A driaen CCL 97,19). S. Agostino, con una interrogativa, fa notare la dinamica delle parole nel­ la Sacra Scrittura: “Quid in divinis largius et uberius potuit divinitus provideri, quam ut eadem verbo pluribus intellegantur modis, quos alia non minus di­ vina faciant adprobari?” (Doct. christ. 3,27, 38 = 1. M artin CCL 32,100). Egli intende passare dallo schema al concetto che vi è contenuto, aprendosi all’infi­ nito dello spirito umano. In questo senso le parole non vengono assunte nel loro significato banale, ma nella dinamica delle imagini cui spingono. Il saba­ to non è il sabato come un giorno nel suo avvicendarsi, ma quello che può si­ gnificare (cf i miei Saggi Patristici: Retorica ed esegesi biblica, Bari 1971, pp. 173-174 = Quaderni di Vetera Christianorum 5). Da un pezzo non si usa più studiare l’essenza costitutiva della prosa d’ar­ te. Sono sfuggiti in questo modo alla critica molti elementi di giudizio che gli stessi autori del tardo antico reclamano. La quantità e l’accento per ogni tem­ po ed ogni luogo determinano il ritmo delle lingue. Infatti, la durata di una sillaba, la quantità e l’accento nella successione delle sillabe nella parola sono connaturali a tutte le lingue; vale a dire, sono una categoria del parlare uma­ no. Alle volte mancano i mezzi per poter rilevare il rapporto tra accento e quantità. S. Girolamo mentre riusciva a percepire la caduta degli accenti nelle parole che costituivano il verso nei salmi, non riusciva, invece, ad avvertire la quantità delle sillabe per poterle determinare (cf la mia ricerca: Retorica e li­ turgia antenicena, Roma 1960, p. 270). Si sa che con il canto si può far cadere l’accento dove si vuole e allungare le sillabe per la durata che si ritiene. Gli antichi retori parlando dell’impossibilità di rendere lunga una breve e vicever­ sa, dicevano che solamente in musica una lunga può diventare breve e una breve diventare lunga. L’indebolimento della quantità delle sillabe nelle lingue classiche è un fenomeno che si consuma lentamente. Già i poeti scenici latini, tragici e comici, sostituirono con una lunga irrazionale anche la seconda breve del digiambo, sciogliendola pure in due brevi. Infatti si ammise una lunga in ogni coppia di brevi contenute in ciascun tipo di verso giambico (G.B. P ighi, /

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ritmi e i metri della poesia latina, Brescia 1958, p. 79). Per il tardo-antico continuano ancora le parole finali delle proposizioni a regolare il ritmo del discorso. Dicendo proposizioni intendiamo quelle che si svolgono per cola e commata come dicevano gli antichi. In questo modo si viene ad avere come una composizione musicale e il termine di compositio, ri­ masto nel linguaggio musicale, lo sta ad indicare. Cassiodoro è per il tardo-antico un osservatore particolare. In possesso dei mezzi tecnici dell’espressione verbale persegue i contenuti scoprendo le più recondite profondità spirituali. Ma si blocca davanti alla Sacra Scrittura e più non procede. Per lui la Bibbia nella sua profondità usa un eloquio comune che può essere universalmente recepito; cela il senso recondito perchè si possa indagare nelle parole con molta cura in sintonia con lo Spirito divino che le ha dettate. Al dire di Cassiodoro la elocutio saecularis non è la elocutio biblica. I generi dell’elocuzione sino a quando risplendono nella Bibblia sono veri, certi e limpidi; se, invece, passano ad esprimere le cose degli uomini e le loro liti di­ ventano sbiaditi e forzati. Ci troviamo davanti ad un limite (cf la mia ricerca: Riflessioni di Cassiodoro sugli schemi della retorica attraverso i Salmi, che ap­ parirà in A tti della II Settimana di Studi su Cassiodoro del convegno interna­ zionale per il XIV centenario 583-1983, Cosenza-Squillace 19-24 settembre 1983). S. Agostino aveva superato la questione contenuto e forma, sapientia et eloquentia, affermando la loro identità. Non si può avere mai un contenuto diverso dalla sua forma e viceversa. Per lui, quando la sapienza esce dalla sua casa, l’eloquenza, come fedele ancella, subito la segue (Doctr. christ. 4,6,10; o.c., pp. 122-123). Il contenuto, cioè, trascina la forma che ad esso sempre si adegua. Egli preferisce essere criticato dai grammatici che essere frainteso (Enarrai. Ps. 36, serm. 3,6, = NBA 25,818). S. Agostino voleva farsi capire per essere utile con il suo insegnamento. Allo scopo diceva che se è possibile usare termini e costruzioni della lingua letteraria si usino pure, diversamente si prendano quelli dell’uso corrente. Bisogna trasmettere integralmente per essere integralmente ascoltati {Doctr. christ. 4,10,14; o.c., p. 133). Uelocutio è un tuttuno con le vibrazioni dell’anima. Il termine eloquio è sinonimo di compo­ sitio verborum, chiamata pure elocutio, la terza parte della retorica che viene dopo Yinventio e la dispositio. Se la materia delYinventio è la Sacra Scrittura, la dispositio non se ne può minimamente discostare, inducendo l’eloquio ad essere un elemento chiarificatore dell’anima (cf Riflessioni di Cassiodoro sugli schemi della retorica attraverso i Salmi, o.c.). 3. I Padri della Chiesa scrivevano per farsi intendere non da una cerchia ristretta di persone colte, ma da ambienti vasti e socialmente eterogenei. La loro lingua era quella dell’epoca, che tutti potevano comprendere. Con gli ele­ menti comuni al parlare di ogni tempo e di ogni luogo si propongono di co­ municare l’esperienza del messaggio cristiano. L’espressione verbale nella for­ ma più naturale usa i mezzi che furono e saranno di ogni giorno. Il mondo

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classico pagano aveva una lingua con le radici in Omero e Virgilio. I Padri della Chiesa, invece, una lingua con le radici nei Sacri Testi. Sono due mondi che parlano, per la loro paideia diversa, due lingue differenti. Ora gli studi hanno cominciato a chiarire che cosa abbiano potuto i Sacri Testi nello svilup­ po del linguaggio patristico. Per gli autori cristiani antichi la retorica fornisce gli elementi con cui porgereeapprofonchre ia Sacra Scrittura. Sono molti i modi e i ritmi cui la men­ te ubbidisce. Per Ireneo la fede cristiana è una sola. Non l’arricchisce nè chi ha molta capacita di eloquio, nè la improverisce chi ne ha poca (Adv Haer 1 10 2 = A R ousseau - L. D outreleau SC 264, 158-160). Infatti tra i capi delle chièse chi e buon dicitore non insegnerà una dottrina diversa, poiché nessuno è al di so­ pra del maestro (M t 10,24; Le 6,40) e chi è meno capace di parlare non potrà sminuire questa tradizione. Per gli antichi cristiani conta la coerenza di vita che trova la sua rispondenza nella parola. Il confronto tra le persone va fatto tutto sul valore delle azioni compiute. L’arte retorica, se non accompagnata da un profondo sentimento che si estrinseca nell’azione, è un semplice e vano 'S ° re 6 significat0